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Notizie 16-31 gennaio 2020


Digitalizzazione e sistema sanitario d'Israele. Un convegno al Noam

di Paolo Castellano

Il sistema sanitario d'Israele è avanzato ed efficiente. Nel corso degli anni è diventato un modello per altre nazioni straniere come gli Stati Uniti. Inoltre l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha riconosciuto l'eccellenza israeliana in questo campo. Però lo Stato d'Israele non si è fermato, continuando a progettare e a innovare. Per tale motivo, la ringiovanita associazione UDAI ha dedicato una serata ai sistemi socio sanitari presso il centro Noam. All'incontro sono intervenuti Luciano Bassani (vicepresidente UDAI), Beniamino Anselmi (imprenditore), Gabriele Albertini (presidente onorario), Michal Gur Aryeh (consigliere per gli affari politici e portavoce dell'ambasciata israeliana), Haim Coen (informatico e responsabile Natali) e Yossi Jan (ingegnere informatico HMO Maccabi Health Services). Ha introdotto e moderato l'appuntamento serale Enrico Mairov (presidente UDAI).
   «Bisogna dare una svolta alla nostra sanità e la soluzione arriva da Israele. Lì le cartelle cliniche sono digitalizzate ed esiste una monitorizzazione completa dei pazienti cronici. Ricordiamoci che siamo di fronte a un'emergenza sociale. Cresce il numero di anziani che sono sempre più abbandonati a loro stessi. L'idea dell'assistenza domiciliare può essere fondamentale. È possibile farlo con l'aiuto degli esperti israeliani», ha affermato Bassani, aprendo l'incontro.
   Poi è salito sul palco del Noam il neo-presidente onorario dell'UDAI ed ex-sindaco di Milano per due mandati Gabriele Albertini: «Sono felice del mio ruolo all'interno dell'associazione. Sono convinto che questo scambio porterà dei benefici ad entrambi i paesi». Ha quindi ripreso il microfono Mairov per sottolineare l'impegno della sua associazione nel creare una linea diretta con Israele con lo scopo di capire come affrontare le nuove sfide della contemporaneità. La sanità pubblica è sicuramente una delle prove più difficili da superare. «Come dice il Talmud, chi salva una vita salva il mondo intero. Nei prossimi anni cresceranno i pazienti cronici con un'età elevata. Andranno curati con le moderne tecniche mediche», ha aggiunto il presidente UDAI. Inoltre, ha salutato il nutrito pubblico la rappresentante d'Israele Michal Gur Aryeh che ha ringraziato l'Italia e il Consiglio regionale lombardo per aver approvato le norme contro l'antisemitismo e il movimento antisraeliano BDS. «Il 23 gennaio, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha detto che l'antisionismo equivale all'antisemitismo. Israele ringrazia lui e tutta l'Italia. Nonostante l'odio dei nemici, il nostro popolo ha sempre guardato al futuro. Oggi, come ieri, si presentano nuove sfide per Israele. In queste ore Donald Trump ha proposto il suo accordo per una Stato palestinese, tuttavia i palestinesi stanno conducendo una battaglia legale contro Israele nelle sedi internazionali come all'ONU. L'Iran invece sta per costruire la bomba nucleare e le sue milizie sono ovunque in Medio Oriente. A parte tutto, sappiamo che l'Italia ha un ruolo positivo nella promozione di un'agenda legata alla ricerca scientifica, accademica e industriale. Le nostre tecnologie mediche hanno un immediato impatto sulla vita delle persone. Vi lasceranno a bocca aperta», ha dichiarato Michal Gur Aryeh.
   I due esperti israeliani, che si sono poi avvicendati al microfono, hanno illustrato ai presenti i nuovi sistemi digitali della sanità israeliana. Haim Coen ha spiegato in particolare il funzionamento dei servizi di tele-medicina dell'azienda israeliana Natali. La società è nata nel 1991 e oggi è la principale azienda privata di servizi sanitari e di assistenza domiciliare in Israele. «Le nostre società hanno un problema con la popolazione più anziana, che è destinata a crescere in futuro. Chi si prenderà cura di loro? Abbiamo studiato dei meccanismi di assistenza digitale per curare i pazienti cronici nelle loro case, senza intasare i posti letto o i pronto soccorso degli ospedali», ha esclamato Coen. Natali offre infatti diversi servizi: il pulsante anti-panico, l'assistenza domiciliare agli anziani, telemedicina per la gestione delle malattie croniche e assistenza infermieristica. Grazie alle sue caratteristiche Natali oggi opera in diverse parti del mondo, compresa l'Italia.
   Altro esempio di eccellenza sanitaria è stato mostrato dall'ingegnere Yossi Jan. Al centro dell'azienda pubblica Maccabi si trova un sistema di medici indipendenti e a contratto che seguono gli iscritti ai sevizi di Maccabi. Chi lavora per questa azienda? Medici di base, consulenti in vari settori e specialisti in ampi settori della medicina moderna. Le filiali, gli ambulatori e le cliniche sono la colonna portante di questa azienda. Inoltre sono attive delle linee di emergenza a tutte le ore del giorno per fornire supporto anche ai pazienti più esigenti e con malattie croniche. Per usufruire dei servizi un utente paga un abbonamento mensile, consentendogli di aver accesso al sistema Maccabi. Il punto forte dell'azienda è la velocità della produzione delle diagnosi, dei referti e dell'apporto assistenziale grazie soprattutto a una piattaforma informatica che consente la raccolta di dati al fine di individuare le cure più efficaci per i propri clienti. «Oggi le persone non vanno più in ospedale se non per gravi casi. Siamo interessati all'accessibilità delle cure. Vogliamo che le persone possano essere visitate dai migliori medici senza spendere grandi cifre e senza lunghe attese. Per noi quello che conta è la qualità. Dobbiamo infatti ricordarci che al centro della sanità pubblica non ci sono i medici ma i pazienti», ha specificato Yossi Jan.

(Bet Magazine Mosaico, 31 gennaio 2020)


Fonte svela dettagli dell'incontro Putin-Netanyahu sull'accordo del secolo

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il presidente russo Vladimir Putin si sono incontrati per discutere del piano di pace per il Medio Oriente proposto da Donald Trump.
Il presidente russo Vladimir Putin e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu hanno parlato a lungo e in modo approfondito del piano di pace israelo-palestinese presentato dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, ha affermato una fonte della delegazione del primo ministro israeliano.
Netanyahu è arrivato a Mosca durante una breve visita di lavoro giovedì.
"C'è stata una discussione lunga, profonda e intensa sui dettagli dell "accordo del secolo" e del suo impatto sulla regione", ha detto la fonte.
"Inoltre, i leader hanno discusso dello sviluppo di eventi in Siria e del necessario coordinamento tra Israele e Russia", ha aggiunto la fonte.

 L'accordo del secolo
  Martedì a Washington, alla presenza di Netanyahu, Trump ha presentato un piano di pace noto come "affare del secolo" nel quale la Casa Bianca riconosce Gerusalemme come l'unica e indivisibile capitale d'Israele, rifiuta il problema fondamentale per i palestinesi del ritorno dei rifugiati palestinesi, apre la possibilità a Israele di annettere i territori palestinesi in Cisgiordania ed estende la sua sovranità alla Valle del Giordano, e propone anche la creazione di uno stato palestinese demilitarizzato senza controllo oltre i tuoi confini e lo spazio aereo.
Come futura capitale della Palestina, il piano propone il villaggio di Abu Dis nella periferia est di Gerusalemme, situato dietro una barriera di sicurezza. La parte economica del piano Trump prevede l'assegnazione di $ 50 miliardi alla Palestina in 10 anni, principalmente da parte dei paesi sponsor del Golfo Persico. Il tema di un ritorno ai confini del 1967 con "l'accordo del secolo" è stato completamente ignorato.
Il leader palestinese Mahmoud Abbas ha respinto il nuovo piano, dicendo che i palestinesi hanno insistito affinché il loro stato venga riconosciuto con i confini del 1967 con la sua capitale a Gerusalemme.

(Sputnik Italia, 31 gennaio 2020)


*


La «pax» israeliana ora piace anche a Putin

Dopo tre anni Mosca cambia idea. Netanyahu: "Oggi abbiamo un'altra occasione per parlare, vorrei sentire la sua opinione, vedere come possiamo raccogliere le forze per la pace".

di Yurii Colombo

MOSCA - Il Ieri il premier israeliano Benjamin Netanyahu è volato urgentemente a Mosca per affrontare con Vladimir Putin la questione dell' «Accordo del secolo» che dovrebbe portare alla pax israeliana in Palestina.
   La decisione del leader israeliano di recarsi al Cremlino è giunta dopo i segnali giunti negli ultimi giorni da parte della leadership russa di voler garantire il semaforo verde al proseguimento dell'iniziativa. Iniziativa che a Mosca per tre lunghi anni era sempre stata giudicata un diktat inaccettabile.
   Con una sterzata di 180 gradi il governo russo ha messo da parte tutte «le preoccupazioni per un esito che potrebbe far saltare in aria la regione, soprattutto visto che gli Stati uniti stanno facendo tutto unilateralmente», espresse non più di qualche settimana fa, per aprire moderatamente ma significativamente al piano di Donald Trump. «Signor Presidente, lei è il primo leader mondiale che incontro, dopo aver visitato Washington e aver annunciato "il piano Trump", Penso che oggi abbiamo un'altra occasione per parlare, vorrei sentire la sua opinione, vedere come possiamo raccogliere le forze per la pace e un'esistenza tranquilla», ha dichiarato Netanyahu incontrando Putin.
   Non solo un gesto di cortesia quello del leader israeliano ma una vera apertura di credito: se Mosca lascerà al loro destino i palestinesi, potrà avere un ruolo anche in quella fascia di Medio Oriente. Il presidente russo non si è lasciato sfuggir parola ma ha chiaramente inteso i vantaggi che potrebbero venire al suo paese se non ostacolerà the Deal of the Century. Per mezzo della guerra in Siria la Russia è tornata ad avere un ruolo nel mondo arabo e in Asia centrale, che era diventato negli anni Novanta puramente nominale. E «la possibilità di stare dentro al "grande gioco" piace a Putin anche se sa che dovrà giocare alle condizioni di Netanyahu», ha commentato ironico Kommersant.
   I palestinesi, la Siria e la stessa Turchia non prenderanno bene il tradimento di Putin, il quale però da tattico consumato ha colto le profonde divisioni nel mondo arabo su questa questione. A nessuno è sfuggito che alla presentazione dell' «accordo» alla Casa bianca erano presenti gli ambasciatori di Bahrain, Emirati arabi uniti e Oman. Ma sullo sfondo si agita anche dell'altro. In primo luogo il prendere corpo di quel «G5» formato dai paesi vincitori della Seconda guerra mondiale fortemente voluto da Putin per affrontare le crisi internazionali che senza gli Stati uniti non potrà mai vedere la luce.
   Inoltre Tel Aviv, in cambio di un atteggiamento benevolo della Russia sull'accordo prospettato da Washington, sarebbe disposta a investire capitali freschi in zone economiche speciali dell'Unione Eurosiatica: affari da miliardi di dollari per rinsanguare l'anemico mondo finanziario russo.

(il manifesto, 31 gennaio 2020)


Il premier israeliano a Mosca

Per illustrare a Putin il piano di pace per il Medio oriente

MOSCA, 30. Il primo ministro israeliano, Benyamin Netanyahu, è a Mosca per presentare personalmente al presidente russo, Vladimir Putin, il Piano di pace per il Medio oriente, messo a punto dall'amministrazione Trump e bocciato da tutte le componenti palestinesi.
   Il Piano è stato annunciato martedì scorso a Washington da Donald Trump insieme allo stesso Netanyahu.
   Dopo le critiche dei palestinesi, dell'Iran, della Giordania e della Lega araba, sono arrivate quelle della Turchia e di altri paesi. Si tratta di «un tentativo di legittimare l'occupazione israeliana e gli insediamenti» nei Territori palestinesi», ha scritto su Twitter il portavoce della presidenza turca, Fahrettin Altun, aggiungendo che il presidente Trump «sta cercando di dare Gerusalemme a Israele».
   Per il Libano, ha reso noto il ministero degli Esteri di Beirut, «l'approvazione del progetto da parte di Israele sta mettendo a rischio il processo di pace nella regione», mentre da Pechino la Cina ha fatto sapere che sta «studiando» il Piano, ribadendo che qualsiasi iniziativa deve basarsi sul «consenso internazionale».
   Anche l'Assemblea degli Ordinari cattolici di Terra Santa ha evidenziato in una nota contrarietà al piano di Trump, definendolo «unilaterale». «Pensiamo che nessuna proposta e nessuna prospettiva seria possa essere raggiunta senza l'accordo di due popoli, israeliano e palestinese», si legge nel documento. «Queste proposte - aggiunge la nota - devono essere basate sull'uguaglianza dei diritti e sulla dignità. E il Piano di pace che non contiene queste indicazioni è da considerarsi una iniziativa unilaterale».
   L'Unione europea ha ribadito di continuare a battersi per la soluzione dei due Stati. «L'Italia - hanno fatto sapere fonti della Farnesina - accoglie favorevolmente gli sforzi compiuti dagli Stati Uniti al fine di favorire il rilancio del processo di pace in Medio oriente». Tuttavia, prosegue il documento, «valuterà con molta attenzione i contenuti della proposta di Washington, in coordinamento con l'Unione europea e in linea con le rilevanti risoluzioni delle Nazioni Unite».
   Intanto, il segretario di stato americano, Mike Pompeo, ha invitato i palestinesi - schierati contro il progetto di Trump in modo compatto, Hamas compresa - «ad avanzare un loro piano, se pensano sia giusto fare così. Ma io so che Israele è pronta a sedersi a un tavolo sulla base della proposta avanzata dal presidente degli Stati Uniti».
   In Israele - dove le elezioni del 2 marzo prossimo si riflettono sulla vicenda - i giudizi sulla fattibilità del Piano seguono le differenti collocazioni politiche: con il centro sinistra perplesso e la destra completamente a favore, tranne la decisa opposizione, come quella del ministro della Difesa, Naftali Bennett, alla nascita di uno Stato palestinese, pur nelle limitazioni previste dal Piano stesso.
   Il Governo israeliano, forte dell'appoggio statunitense, appare determinato ad approvare martedì prossimo la procedura di estensione della sovranità israeliana agli insediamenti in Cisgiordania e sulla Valle del Giordano.
   E per esporre il proprio rifiuto al piano di Pace di Trump, il presidente palestinese, Mahmud Abbas, andrà entro quindici giorni al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Lo ha confermato l'ambasciatore palestinese all'Onu, Riyad Mansour. Nella stessa occasione, dovrebbe essere presentato un progetto di risoluzione al Consiglio di sicurezza, ha aggiunto il diplomatico, senza entrare nei dettagli.
   Prima di recarsi alle Nazioni Unite, Abbas parteciperà ad un summit della Lega araba, sabato prossimo, e ad un vertice dell'Unione africana, in programma all'inizio di febbraio.

(L'Osservatore Romano, 31 gennaio 2020)


Il business delle bandiere Usa e israeliane da incendiare

di Giordano Stabile

Nell'economia iraniana messa in ginocchio dalle sanzioni imposte da Donald Trump c'è un settore che tira, anzi è in pieno boom. Ed è quello delle bandiere americane. La domande è rimasta sempre forte, ed è esplosa dopo l'uccisione del generale dei Pasdaran Qassem Soleimani. Gran parte della produzione è concentrata in una fabbrica a Khomein, nei sobborghi meridionali di Teheran. Nei periodi di picco ha una capacità di 2000 bandiere statunitensi e israeliane al mese, con un consumo di 140 mila metri quadrati di tessuto all'anno. Altri stabilimenti minori contribuiscono a soddisfare le richieste, che includono anche le Union Jack, il vessillo britannico. Bandiere a stelle strisce e israeliane vengono regolarmente dipinte agli ingressi di scuole, università, edifici pubblici, per essere calpestate. Quelle in stoffa vengono invece bruciate alle manifestazioni pro-regime, che hanno assunto dimensioni colossali dopo il raid che ha eliminato Soleimani lo scorso 3 gennaio.
  Il disprezzo per i simboli del «Grande e Piccolo Satana» sono un obbligo. Anche se, dopo l'abbattimento del Boeing ucraino da parte dei Pasdaran, l'8 gennaio, molti studenti si sono rifiutati di passarci di sopra e le hanno aggirate.

 Il momento favorevole
  Il momento resta comunque favorevole al business, come ha sottolineato alla Reuters il proprietario della fabbrica Diba Parcham, Ghasem Ghanjani: «Non abbiamo problemi con il popolo americano o britannico - ha precisato - ma con i loro leader, con le politiche sbagliate che portano avanti. La gente in America e Israele sa che non ce l'abbiamo con loro quando bruciamo le bandiere, è soltanto un modo per protestare».
  Un pensiero condiviso dai suoi dipendenti: «Bruciare bandiere non è certo offensivo e vigliacco come l'assassinio del generale Soleimani».
  La Repubblica islamica è nata nel segno della sfida all'America, il grande alleato dello scià, e la rivoluzione è stata segnata dall'assalto all'ambasciata Usa, con 52 diplomatici e impiegati tenuti in ostaggio per un anno. Gli oltranzisti alimentano di continuo l'ostilità e hanno cercato di sfruttare al massimo l'indignazione per l'uccisione di Soleimani. Ma devono fronteggiare un malcontento sempre più forte, specie fra gli studenti. «Il nostro nemico non è l'America - cantavano nelle manifestazioni dopo l'abbattimento del Boeing - il nostro nemico è qui», cioè è il regime degli ayatollah.

(La Stampa, 31 gennaio 2020)


Shoah, ecco la piazza degli ebrei. «Con noi la città che non odia»

Lo strappo. La cerimonia a tre giorni da quella di De Magistris. Ebrei: «Qui non c'è odio».

Il messaggio dell'ambasciatore: «Si nega il ritorno del nostro popolo alla storia, e questo e antisemitismo» All'evento partecipa anche l'ex assessore alla cultura Daniele: «La pace unica, vera lotta possibile»

di Gennaro Di Biase

 La cerimonia
  Era strapiena ieri mattina, piazza Bovio, in occasione della cerimonia in memoria delle vittime napoletane della Shoah. Scolaresche in gran numero, poi Ordini professionali, rappresentanti istituzionali e cittadini curiosi e commossi. Oltre un migliaio di persone riunite per ricordare le nove vittime napoletane del nazifascismo. L'evento, organizzato a distanza di 72 ore dal Giorno della Memoria,ha avuto tra i protagonisti i rappresentanti della Comunità ebraica di Napoli che, in polemica verso le posizioni critiche espresse dall'assessore alla Cultura Eleonora De Majo nei confronti delle politiche dello Stato di Israele, avevano disertato l'evento organizzato da Palazzo San Giacomo il 27 (e lo stesso era successo per l'installazione delle pietre d'inciampo promossa dal Comune il 7 gennaio). «SI è trattato di una decisione combattuta - ha detto Lydia Schapirer, presidente della Comunità ebraica di Napoli - è naturale che sarebbe stato più bello celebrare questa giornata tutti insieme. Dal Comune non è arrivato nessun passo Indietro. Questa è l'unica certezza che abbiamo finora. Aspettiamo di vedere se un passo indietro arriverà, poi ne parleremo». A rimarcare l'attuale distanza di posizioni tra amministrazione comunale e Comunità ebraica, si aggiunge la missiva inviata alla Schapirer dall'ambasciatore di Israele in Italia, Dror Eydar, letta dal presidente della Federazione Italia-Israele Giuseppe Crimaldi: «È importante mettere in chiaro- scrive Eydar - che l'opposizione all'esistenza di uno Stato ebraico indipendente è anche antisemitismo». «A Napoli, accanto alla Comunità ebraica che celebrava l'Inaugurazione delle pietre d'Inciampo, è scesa la città che non odia» aggiunge Crimaldi.

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 L'evento
  Mai dimenticare l'orrore della Shoah: il ricordo dello sterminio e la memoria delle deportazioni indicano sia alle nuove sia alle vecchie generazioni quali strade non seguire. Su questo in piazza Bovio sono tutti d'accordo durante la cerimonia organizzata dalla Comunità ebraica di Napoli e dalla Federazione Italia-Israele per ricordare le nove vittime delle famiglie Molco, Procaccia e Pacifici, deportate ad Auschwitz il 30 gennaio di 76 anni fa. Appuntamento in piazza Bovio, ultima residenza delle vittime, nell'anniversario della deportazione: nel corso della cerimonia si è tenuta la funzione religiosa celebrata dal rabbino Ariel Finzi e sono stati letti alcuni passi del libro del giornalista e scrittore Nico Pìrozzl "Traditi - Una storia della Shoah napoletana" letti dall'attrice Cristina Donadio, accompagnata dalle note del violino di Angela Yael Amato. Seconda tappa in via Luciana Pacifici (Intitolata alla piccola napoletana morta sul treno per Auschwitz). I temi di divisione, però, non mancano: «Il diritto all'esistenza dello Stato di Israele non si può mettere in discussione - ha proseguito la Schapirer - così come il suo diritto a difendersi». Distensivo Bruno Pastogi, uno del parenti delle vittime della famiglia Molco: «Queste manifestazioni devono unire. Se continuiamo a dividerci avremo poco futuro. Sono onorato di partecipare a questa iniziativa, ringrazio il Comune, la Comunità ebraica e tutti i giovani che sono qui. Non bisogna sottovalutare il problema, spesso si pensa che questi episodi siano frutto di qualche stupido o sconsiderato, Invece dietro c'è un disegno politico ben più forte».

 La lettera
  «Ancora oggi l'antisemitismo torna a serpeggiare pericolosamente nel cuore dell'Europa e nel resto del mondo - prosegue il testo di Dror Eydar - spesso mal camuffato sotto le nuove spoglie dell'antisionismo». E ancora: «L'odio di oggi verso gli ebrei o verso Israele è un'avversione al ritorno del popolo ebraico alla storia e al ritorno degli ebrei a Sion. E questo è antisemitismo». A stemperare i toni dello scontro è Nino Daniele, ex assessore alla Cultura (sostituito a novembre dalla De Majo), presente ieri in piazza Bovio lontano da palco e microfoni. «Una bella manifestazione - commenta Daniele - in una data simbolica, quella della deportazione dei napoletani vittime della Shoah. Non voglio alimentare polemiche irrilevanti, questo è un giorno buono per Napoli. Essere contrari all'esistenza dello Stato di Israele è indice di sentimenti antisemiti. La sicurezza e l'esistenza dello Stato di Israele - conclude Daniele - sono coessenziali alla sicurezza e all'esistenza dello Stato palestinese. Lo sostengono tutti gli organismi Internazionali. La pace è l'unica vera lotta possibile all'antisemitismo».

(Il Mattino, 31 gennaio 2020)


Per il 15,6% degli italiani la Shoah non è esistita

In quindici anni la cifra è cresciuta del 13% Dureghello: «Serve una profonda riflessione»

di Alessandra Arachl

ROMA - Per un italiano su sei la Shoah non è mai esistita. È scritto nel rapporto Eurispes 2020, e a scorrere questi dati vengono i brividi, e non soltanto perché il 15,6 per cento degli italiani nega che la Shoah sia mai avvenuta ma anche perché poi c'è un altro 16,1 per cento di italiani che ammette sì, la Shoah c'è stata ma non è stata un fenomeno così importante.
   E' un dato inquietante, soprattutto perché in crescita. Nel 2004, infatti, il negazionismo riguardava il 2,7 per cento degli italiani, con una crescita quindi negli ultimi quindici anni di tredici punti percentuali. «Queste cifre sono la prova che le nostre percezioni e le nostre denunce trovano fondamento concreto nel nostro Paese», commenta Ruth Dureghello, presidente della comunità ebraica di Roma. E aggiunge: «La diffusione delle tesi negazioniste testimoniano l'urgenza di una profonda riflessione da parte dell'intera società civile - istituzioni e mondo della cultura in testa - sullo stato di salute della nostra società con particolare riferimento ai giovani».
   Il negazionismo degli italiani non guarda soltanto alle tragedie del passato. Secondo il rapporto dell'Eurispes c'è un altro fenomeno molto diffuso che riguarda i giorni nostri.
   Ben il 61,7 per cento degli intervistati dall'istituto, infatti, dichiara candidamente che i recenti episodi di antisemitismo sono casi isolati e non sono indice di un reale problema.
   Di più: il 37,2 per cento la butta sull'ironia, sostenendo che gli episodi attuali di antisemitismo altro non sono che «bravate che sono state messe in atto per provocazione o per scherzo».
   Ma non è finita. Nelle pagine dell'Eurispes si legge che un italiano su cinque rivaluta la figura di Benito Mussolini. Per il 19,8 per cento, infatti «Mussolini è stato un grande leader che ha solo commesso qualche sbaglio», omettendo - in linea con le altre affermazioni negazioniste contenute nel rapporto - che fu proprio Benito Mussolini che nel 1938 emanò le leggi razziali che condussero gli ebrei italiani nei campi di sterminio. «Sono dati allarmanti che non dobbiamo sottovalutare», dice Matteo Mauri, vice ministro dell'Interno del Pd, aggiungendo: «Il negazionismo sta continuando ad infangare la memoria di questa tragedia».
   E Vito Crimi, capo politico reggente del M5s, rincalza: «Il rapporto Eurispes ci consegna un dato inaccettabile. Il Paese e le istituzioni devono affrontare questa battaglia sotto un'unica bandiera: la cultura della memoria».

(Corriere della Sera, 31 gennaio 2020)


La denuncia di Rivlin

Il presidente israeliano al Bundestag tedesco mette in guardia contro il ritorno dell'antisemitismo.

Il Presidente israeliano, con in testa la kippà (che nella Knesset non porta), parla ai deputati tedeschi nel Bundestag
BERLINO, 30. Intervenendo ieri davanti al Bundestag tedesco, in occasione della commemorazione per il settantacinquesimo anniversario della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz, il presidente israeliano, Reuven Rivlin, ha espresso inquietudine e paura per il risorgere in Europa dei «demoni del passato» dell'antisemitismo.
   «Razzismo, nazionalismo e bellicismo non devono più accadere», ha detto Rivlin, in un discorso in ebraico, nel quale ha messo in guardia contro il ritorno in Europa di un passato di «estremo antisemitismo», xenofobia e nazionalismo.
   « Un antisemitismo laido ed estremo aleggia su tutta l'Europa, dall'estrema destra all'estrema sinistra», ha ricordato Rivlin, il secondo capo di Stato israeliano a parlare di fronte al Parlamento tedesco dopo Shimon Peres, nel 2010. «L'Europa è visitata dai demoni del passato» ha avvertito il presidente israeliano, puntando il dito sull'intero vecchio continente.
   Davanti ai deputati tedeschi, Rivlin ha voluto riconoscere pubblicamente lo sforzo esemplare della Germania nel farsi carico della sua responsabilità storica per lo sterminio di sei milioni di ebrei da parte dei nazisti. «I Governi tedeschi - ha detto - hanno investito in un modo senza precedenti nel ricordo e la memoria, nel contrasto alla negazione dell'Olocausto e l'educazione delle giovani generazioni».
   Il suo discorso era cominciato con la recitazione dell'Yizkor, una preghiera ebraica per i defunti, dal forte impatto emotivo e simbolico a Berlino, un tempo "capitale" del regime nazista.
   «Dobbiamo ergerci assieme contro il ritorno dei demoni del passato», ha dichiarato nel suo intervento il presidente tedesco, Frank-Walter Steinmeier. «Pensavamo che i vecchi demoni sarebbero scomparsi con il tempo. Ma non è così, i fantasmi maligni del passato tornano oggi sotto nuove spoglie», ha precisato il presidente della Germania.

(L'Osservatore Romano, 31 gennaio 2020)


La Comunità Ebraica: pietre d'inciampo inutili se persiste l'odlo per Israele

No alla «demonizzazione e isolamento di Israele» e alla «santificazione dei terroristi con monumenti e strade dedicate». L'impegno nella Memoria, per la presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni significa anche non fomentare l'odio per Israele. Intervenendo a un evento a La Sapienza di Roma, Di Segni si è soffermata sugli impegni che renderebbero davvero coerente lo sforzo di Memoria ed elaborazione delle gravi responsabilità che vi furono nello svolgersi dell'azione antisemita del regime fascista. Anche mettere pietre di inciampo «e poi demonizzare Israele» non va bene per Di Segni, che spiega: «Si fa Memoria della Shoah capendo che è ancora qui, che esiste l'antisemitismo e che va combattuto, passando da una memoria narrativa ad un approccio che prende atto della realtà che si vive pur con tutte le difficoltà di interpretarla. Si chiede scusa se si è in grado di comprendere le responsabilità per quanto fatto allora, ma anche per quanto va fatto oggi».

(Libero, 31 gennaio 2020)


Piano di pace, pressing saudita su Abu Mazen

Il mondo islamico si spacca sull'iniziativa Usa: Egitto e monarchie del Golfo appoggiano Trump, Iran e Turchia inaspriscono le posizioni anti-Israele.

di Giordano Stabile

I palestinesi si preparano per il venerdì della rabbia, il mondo islamico si spacca in due, mentre Benjamin Netanyahu va avanti con i progetti di annessione, anche se la prima votazione alla Knesset è slittata a martedì prossimo. Il piano di pace americano ha creato un'onda sismica destinata a resettare il Medio Oriente. È la politica della «realtà sul terreno» che ha seppellito i 25 anni del processo di Oslo e costringe tutti a ripensare le proprie strategie. A cominciare dalla dirigenza palestinese. La mobilitazione unitaria di Al-Fatah, Hamas e Jihad islamica promette un'escalation delle proteste e l'esercito israeliano ha inviato rinforzi nei Territori. Ma nessuno si fa molte illusioni. Le manifestazioni di mercoledì sono state modeste e nell'anno e mezzo seguito al riconoscimento di Gerusalemme capitale da parte di Trump né Ramallah né Gaza hanno trovato un modo efficace di contrastare la nuova politica statunitense.
  La riunione della Lega araba di domani al Cairo offrirà soprattutto sostegno morale. I Paesi musulmani sono attraversati da una spaccatura senza precedenti. Monarchie del Golfo ed Egitto appoggiano l'iniziativa americana, mentre il fronte della «resistenza» è rappresentato dall'Iran e i suoi alleati regionali, oltre a una Turchia su posizioni sempre più anti-israeliane. Pesa soprattutto la dichiarazione dell'Arabia Saudita, che ha ribadito il suo appoggio «agli sforzi del presidente Trump» e incoraggiato «negoziati diretti fra i palestinesi e Israele». Una richiesta fatta in prima persona dal principe Mohammed bin Salman in una telefonata ad Abu Mazen.

 Il fronte pro-negoziati
  Lo schieramento pro-America punta a smuovere il raiss e a riportarlo al tavolo delle trattative, dove il piano potrebbe essere emendato e reso più digeribile. Sulla stessa linea è l'Egitto, che ha subito sollecitato i palestinesi a «prendere in considerazione l'iniziativa americana» per arrivare «a uno Stato indipendente, nel rispetto del diritto internazionale». Il Cairo sarà fra i grandi beneficiari della parte economica del piano, 50 miliardi di investimenti in dieci anni. L'alleanza con Riad e Abu Dhabi gli ha permesso di risollevare l'economia disastrata dopo la primavera araba e riallargare la sua zona di influenza a Sudan e soprattutto Libia. Difficile che il presidente Al-Sisi voglia sacrificare questi vantaggi nel nome della «liberazione di Gerusalemme».
  Il richiamo alla Città Santa è invece sfruttato dal fronte opposto, guidato dall'Iran. La Guida suprema Ali Khamenei ha definito il piano Usa «satanico» e ha lanciato un appello ai musulmani per fermare la «giudeizzazione» di Gerusalemme, mentre il ministro degli Esteri Javad Zarif ha definito la proposta «la strada per l'inferno». Stessi concetti ribaditi dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan: «Gerusalemme è sacra per i musulmani», ha ammonito, mentre Trump «mira a legittimare l'occupazione israeliana». Al Parlamento turco tutti i partiti, curdi inclusi, hanno votato una risoluzione che rigetta l'iniziativa.
  La Knesset israeliana dovrà attendere invece ancora qualche giorno per trasformare in legge l'estensione della sovranità alla Valle del Giordano e agli insediamenti. Serve prima il parere legale del procuratore generale Mandelblit, ma pesa anche la prudenza di Washington, che ha invitato a creare un comitato congiunto di «valutazione». Per Netanyahu è vitale incassare il sì prima delle elezioni del 2 marzo ed è premuto dagli alleati di destra. L'ex ministro della Giustizia, Ayelet Shaked, si è detta sicura che «Mandelblit non bloccherà una mossa storica in Giudea e Samaria», mentre il ministro della Difesa Bennett ha messo in chiaro che il suo partito non «permetterà il riconoscimento di uno Stato palestinese: neanche un millimetro di terra agli arabi».

(La Stampa, 30 gennaio 2020)


Pace in Medioriente: la rivoluzione di Trump il sì di Netanyahu e le incertezze palestinesi

I paesi arabi moderati danno il via libera. E Abu Mazen frena le proteste

di Fiamma Nirenstein

Martedì alla Casa Bianca il presidente Trump e Benjamin Netanyahu hanno festeggiato una rivoluzione storica per l'idea di pace in Medio Oriente; da ieri, dopo l'entusiasmo, comincia il lavorio, il che fare, i dissensi. Una commissione congiunta studia quando e come debba essere realizzato l'accordo, la destra israeliana protesta e così parte della sinistra, ambedue sostengono che lo scopo dei due protagonisti sia elettorale; mentre per alcune ore è sembrato che l'annessione della Valle del Giordano dovesse essere immediata, adesso la prudenza rallenta le mosse di Israele.
   Netanyahu è volato con tutti i giornalisti a Mosca, certo per discutere con Putin la novità, ma anche a riprendere sul suo aereo la giovane Na'ama Issacharov che, oggi, dopo essere stata condannata a sette anni perché aveva in valigia 90 grammi di marjuana, sarà finalmente graziata. Per Bibi sarà dunque un ritorno coronato da due grandi successi, mentre, in questi giorni, dopo il suo rifiuto della immunità parlamentare, è stato ufficialmente incriminato.
   L'opposizione di Abu Mazen, urlata e amplificata dall'invito a Hamas e alla Jihad Islamica a Ramallah, sembra smorzata. Rallentano per ora i roghi di bandiere e di foto di Trump, sia perché alla fine può avvantaggiarsene solo Hamas, sia a causa dell'Arabia Saudita, Baharain, Emirati, Oman e a modo suo anche dell'Egitto, che hanno dichiarato rispetto e sostegno per il tentativo di pace. Forse anche alla Mukata si comincia a leggere meglio il progetto. Trump rivoluziona il concetto base delle trattative fallite: «pace in cambio di terra». La formula, dal 1948 fino a oggi, ha visto solo rifiuti, concessioni sempre più larghe, e, piuttosto continui rilanci terroristici, fino alla terribile Intifada e poi allo sgombero di Gaza nel 2005.
   Trump riconoscerà uno Stato Palestinese cui attribuisce il doppio dello spazio attuale, e a Gerusalemme Est capitale palestinese stabilirà l'ambasciata americana. Sancisce che nessuno sarà sgomberato dalla sua casa, né ebrei né palestinesi. I Territori non saranno destinati allo sgombero come stabiliscono i vecchi piani. Al primo posto, come del resto anche dice l'Onu, il riconoscimento della necessità della sicurezza israeliana, che vuol dire Valle del Giordano (e come, altrimenti, visto che divide dalla Giordania, e poi dalla Siria, dall'Iraq, fino all'Iran) e delle zone della West Bank della Giudea e della Samaria, a salvaguardia del corrugamento costale dove si trovano le città israeliane.
   Trump intende ricompensare l'annessione con la cessione di una zona agricola importante (gli abitanti ebrei sono in agitazione) del sud, e con la cessione del Triangolo di Wadi Ara, israeliano, anche se la maggioranza dei cittadini è palestinese. Infine 80 miliardi di dollari sono gli investimenti che potrebbero «lanciare» la nuova Palestina. Ma Trump chiede in modo tassativo di smontare la macchina terroristica con lo smantellamento di Hamas e un'unica autorità palestinese che lavori per costruire, finalmente, un vero stato. Al piano sta a cuore la sicurezza a Israele e anche il rifiuto dell'idea di origine sovietica che gli ebrei siano usurpatori di una terra altrui: non è così, essi sono indigeni tornati nella culla della loro storia. Questo dice il piano di Trump, e tutto questo avrebbe potuto essere detto dal 1948. Allora, cinque eserciti arabi assalirono Israele. Stavolta, i Paesi moderati non sembrano disposti a farlo. L'Iran è isolato nella condanna feroce.

(il Giornale, 30 gennaio 2020)


Il piano di Trump ha una lacuna: ai palestinesi non interessa un loro Stato

di Franco Londei

Ieri mattina ci siamo svegliati con l'annuncio del Piano di Trump per il Medio Oriente, il tanto atteso "piano del secolo".
  È un piano ardito e allo stesso tempo controverso, oggettivamente sbilanciato a favore di Israele ma che non manca di importanti aperture a favore della creazione di uno Stato Palestinese.
  I critici anti-israeliani (ma non solo) lo hanno subito bollato come "un favore elettorale a Netanyahu". C'è addirittura chi, come la Giordania, è arrivato a definirlo "una imboscata".
  In realtà il piano di Trump è geniale perché sgombera il campo da tutta una serie di problemi che fino ad oggi avevano impedito di raggiungere la tanto agognata soluzione a due Stati.
  Prima di tutto mette fine alla interminabile controversia su Gerusalemme. La città santa sarà tutta israeliana e i luoghi santi saranno aperti a tutte le religioni. Fino ad oggi gli ebrei non potevano andare sul Monte del Tempio.
  Accantona definitivamente l'assurda pretesa palestinese di voler trasformare in profughi qualche milione di palestinesi nati e residenti in altri paesi arabi, con l'altrettanto assurda pretesa di un fantomatico "diritto al ritorno" non previsto da nessuna legge internazionale.
  Mette i palestinesi nella condizione di creare veramente un proprio Stato indipendente con un budget di 50 miliardi di dollari dedicati allo sviluppo e alla modernizzazione della Palestina.
  Ed è qui che nasce il vero problema. Siamo sicuri che i palestinesi vogliano imbarcarsi in questa avventura della creazione di uno Stato Palestinese?
  No perché questo comporta tutta una serie di responsabilità e, soprattutto, comporta la fine delle montagne di benefici che questa situazione porta nelle tasche palestinesi, a partire dagli aiuti internazionali elargiti a fondo perduto e alla non trascurabile fine dello "status di vittime".
  Fino ad oggi i palestinesi sono vissuti sulle spalle degli altri, a partire da Israele che fornisce loro luce, telefonia, acqua, servizi sanitari e facilita il commercio dei pochi prodotti "made in Palestine". Per non parlare del fatto che basta che aprano bocca e la comunità internazionale li seppellisce di dollari, logicamente a fondo perduto.
  Parliamoci chiaramente, chi glielo fa fare ai palestinesi di imbarcarsi in una avventura che toglierà loro tutti questi benefici e li costringerà, finalmente, a muoversi in maniera indipendente e a lavorare?
  Se volevano veramente un loro Stato lo avrebbero potuto costruire da decenni, da quando gli venne offerto il 100% di quello che chiedevano.
  Quando gli venne restituita la Striscia di Gaza non gli venne reso un deserto come avevano trovato gli israeliani, gli venne restituita una terra fertilissima, ricca di acqua e terreni agricoli. Un paradiso che in pochi giorni distrussero trasformandolo nell'inferno che è oggi.
  Non si possono dimenticare questi fatti, non si possono mettere nell'angolo delle cose ininfluenti, perché il vero problema è questo. I palestinesi non vogliono creare uno Stato palestinese indipendente, tanto meno che viva in pace accanto a Israele.
  È questo il vero ostacolo che nessun piano di pace, per quanto fatto bene, potrà mai superare.
  I Presidenti USA che nel corso degli anni si sono susseguiti hanno cercato tutti di mettere fine alla annosa questione israelo-palestinese andando sempre a scontrarsi frontalmente con questo problema.
  E oggi non è diverso, pur ammettendo che il piano di Trump è differente da altri piani americani, ha una lacuna non indifferente: non ha fatto i conti con il fatto che ai palestinesi non interessa costruire un proprio Stato.
  Ieri gli analisti, quelli bravi e di ogni dove, si sono sperticati nello scrivere analisi critiche sul piano di Trump. Hanno tirato fuori di tutto, dalla questione di Gerusalemme fino al cosiddetto "diritto al ritorno" passando per il "furto di terra" perpetrato con gli insediamenti.
  Beh, tranquilli, sono discorsi validissimi per i salotti TV o per una cena tra antisemiti. La realtà vera è che non c'è nessunissima intenzione da parte palestinese di mettere fine al contenzioso con Israele perché farlo comporta l'unica cosa che i palestinesi non hanno mai voluto, checché ne dicano: la nascita di uno Stato palestinese e le conseguenti responsabilità.

(Rights Reporters, 30 gennaio 2020)


Ecco perché i palestinesi avrebbero rifiutato qualunque accordo proposto da Trump

Olp e Autorità Palestinese vivono ancora nel 1947 e non accettano nessun piano che non assecondi l'obiettivo di cancellare lo stato ebraico.

Il rifiuto a priori del nuovo piano di pace degli Stati Uniti da parte dell'Olp e dell'Autorità Palestinese non è una sorpresa per chiunque abbia familiarità con il loro approccio, che riflette quelle che sono le rivendicazioni costantemente espresse da Olp e Autorità Palestinese riguardo a qualsiasi possibile accordo di pace. Prese nel loro complesso, queste rivendicazioni comportano di fatto la demolizione di Israele come stato nazionale del popolo ebraico. L'esperienza dimostra che qualsiasi proposta di accordo che non soddisfi queste richieste, e il loro esito complessivo, sarà sempre respinta dai palestinesi.
L'accordo di pace israelo-palestinese originale venne firmato da Israele e Olp. L'Autorità Palestinese venne creata in applicazione dell'accordo del 1993, di un successivo accordo del 1994 e infine dell'accordo interinale del 1995. Questi accordi sono noti nel loro insieme come "Accordi di Oslo". In base a quegli accordi, una serie di questioni vennero demandate a futuri "negoziati sullo status definitivo". Erano: Gerusalemme, insediamenti, luoghi militari specifici, profughi palestinesi, frontiere, relazioni con l'estero....

(israele.net, 30 gennaio 2020)


Finlandia, atti vandalici contro la sinagoga di Turku

 
La Sinagoga di Turku deturpata nel Giorno della Memoria
Gli atti vandalici di stampo antisemita stanno facendo registrare un picco. Negli ultimi mesi, infatti, numerosi paesi in diversi continenti hanno avuto a che fare con l'odio contro gli ebrei. Dagli attacchi via social agli slogan scanditi nelle piazze, passando per profanazione di cimiteri ebraici e atti vandalici conto le sinagoghe.
Come accaduto in Finlandia, dove ignoti hanno realizzato dei segni di pittura rossa sulla facciata del tempio ebraico di Turku.
Un episodio che dà ulteriore prova dell'antisemitismo dilagante che si sta impossessando delle nostre città. Su quanto accaduto in Finlandia è intervenuto Marco Pasinato, cancelliere della diocesi di Helsinki che ha condannato la vicenda in maniera "chiara e inequivocabile":
"I cattolici nel nostro Paese sono profondamente preoccupati per gli atteggiamenti sempre più carichi di odio nei confronti della comunità ebraica in Finlandia e delle altre comunità religiose. Tali atti suscitano ansia e un senso di insicurezza tra tutti coloro che desiderano praticare la pace per il bene proprio e quello della società finlandese".
Pasinato, inoltre si è rivolto:
"a tutte le persone di buona volontà, che nella nostra esperienza sono la stragrande maggioranza dei finlandesi" invitando a lavorare "insieme con maggiore determinazione per costruire una società in cui le persone siano rispettate con uguali diritti, indipendentemente dalla loro religione o credo".
L'atto antisemita successo in Finlandia è accaduto in coincidenza con la Giornata della Memoria, che da una parte è stata rispettata con cerimonie in ricordo delle vittime della Shoah e dall'altra è divenuta strumento per attaccare gli ebrei e Israele.
Come detto, gli episodi antisemiti si sono sparsi e si stanno spargendo a macchia d'olio. Negarlo sarebbe come negare l'evidenza. E quando gli esseri umani negano l'evidenza accadono sempre cose spiacevoli e fuori controllo, di cui ci si accorge della gravità solo quando è troppo tardi.

(Progetto Dreyfus, 30 gennaio 2020)


Contro l'ipocrisia del Giorno della Memoria

di Michael Sfaradi

Ora che è finita la settimana della Memoria, con tutti gli eventi che l'hanno caratterizzata, vorrei, da nipote della Shoah, scrivere quello che penso a proposito di questa ricorrenza. Il Giorno della Memoria è stato istituito con la risoluzione 60/7 dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 1o novembre 2005 durante la 42a riunione plenaria. Si stabilì di celebrarlo ogni 27 gennaio perché proprio in quella data del 1945, le truppe dell'Armata Rossa entrarono nel campo di sterminio di Auschwitz.
  Detto in questo modo, e a prima vista, sembra tutto perfetto. Invece, basta scavare oltre il sottile strato di intonaco e si scoprono tanti, forse troppi, particolari che, almeno in linea teorica, dovrebbero essere rivisti. Ma che in pratica non lo saranno mai. Particolari che rimarranno per sempre a testimoniare che, la decisione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite oltre ad essere il minimo sindacale che il mondo doveva a tutte le vittime della Shoah e oltre a essere arrivata con cinquantotto anni di ritardo, nasconde nelle sue pieghe particolari che ai più potrebbero sembrare una questione di lana caprina, ma che per chi ancora sente sulla pelle e nell'anima il lutto di ciò che fu fatto al proprio popolo, assumono un'importanza superiore.
  La prima contestazione riguarda la data scelta. Israele, nazione degli ebrei, per onorare i propri morti non ha certo aspettato l'ONU e, fin dalla sua fondazione, ha ricordato le vittime della Shoah in una giornata particolare che si chiama Yom HaShoah (Giorno della Shoah). Questa triste ricorrenza cade ogni anno a dieci giorni esatti dalla festa di Indipendenza dello Stato di Israele, fra la fine di aprile e l'inizio di maggio secondo il calendario ebraico, e, oltre a ricordo delle vittime, questa distanza di dieci giorni fra i due eventi, è un monito a tenere presente che se allora Israele fosse esistita, tutto questo, forse, non sarebbe accaduto.
  Era così difficile adottare per il Giorno della Memoria la stessa data già in uso in Israele? No, non era difficile, ma a quanto pare per l'ONU era impossibile. Perché gli ebrei morti sono da ricordare e piangere, ma guai ad avvicinarli a quelli vivi, indipendenti, che si difendono da soli e che non sono più minoranza in casa altrui. Si è scelto Auschwitz come sinonimo di Shoah e la data per la sua celebrazione diventa il 27 gennaio giorno della sua liberazione. Ma Auschwitz non può passare alla memoria collettiva come sinonimo dello sterminio perché non era l'unico campo costruito a questo scopo. Per citare i più importanti bisogna ricordare anche Chełmno, Bełżec, Sobibór, Treblinka, Majdanek, Mauthausen e, questi erano solo i più tristemente famosi.
  Ce ne sono stati tanti altri dove si moriva per fame, per stenti o di fatica. Poi, per rimanere in Italia, è doveroso citare la Risiera di San Sabba. La data del 27 gennaio è legata ad Auschwitz, ma fu Majdanek il primo campo liberato di tutto il sistema concentrazionario nazista. L'Armata Rossa lo raggiunse del 22 luglio del 1944, circa sei mesi prima.
  Alla liberazione di Auschwitz seguirono quelle di Groß-Rosen (dai sovietici, 13 febbraio), Stutthof (dai sovietici, 9 maggio, ma era stato già evacuato da gennaio), Mittelbau-Dora e Buchenwald (dagli americani, 11 aprile), Bergen-Belsen (dagli inglesi, 15 aprile), Flossenbürg (dagli americani, 23 aprile), Sachsenhausen (dai sovietici, 22-23 aprile), Dachau (dagli americani, 29 aprile), Ravensbrück (dai sovietici, 30 aprile), Neuengamme (dagli inglesi, 2 maggio) e Mauthausen (dagli americani, 5 maggio 1945).
  La ricorrenza decisa per il 27 gennaio agli occhi di chi, come dicevo prima, sente ancora sulla pelle e nell'anima il lutto di ciò che fu fatto al proprio popolo, è uno schiaffo. Uno schiaffo anche a tutti coloro che dal 27 gennaio al 5 maggio del 1945, continuarono a morire in quei campi di sterminio, che non si fermarono nella loro opera di distruzione, fino all'arrivo delle truppe alleate. Uno schiaffo a loro, a coloro che internati in quei campi riuscirono a sopravvivere e alle famiglie che persero persone care. Se proprio non si voleva adottare la data scelta da Israele, non sia mai, un minimo di delicatezza sarebbe stata comunque obbligatoria.
  Il Giorno della Memoria è stato poi continuamente e sistematicamente sporcato da destra e da sinistra, in un ignobile ping pong di frasi ripetute da esponenti politici o rappresentanti di organizzazioni, che non hanno provato nessuna vergogna a paragonare ciò che accadde allora a quello che accade oggi nel contenzioso che c'è fra Israele e il mondo arabo, in particolare fra Israele e i palestinesi. Troppe volte in tutto il mondo, e in Europa in particolare, è stato ripetuto il concetto, ed è successo sia con esponenti della destra che della sinistra, che gli israeliani trattano i palestinesi come i nazisti trattavano gli ebrei. Si tratta di un falso assoluto, ma la ripetizione di concetti di questo tipo, proprio in un giorno come quello della memoria, è infame e tende ad insudiciare quello che, almeno nelle intenzioni, doveva essere un momento di riflessione.
  Invece, da quando è stata istituita, questa Giornata è strumentalizzata e usata come trampolino di lancio di nuove accuse, anche le più assurde, nei confronti di Israele, nei confronti dello Stato degli ebrei. In un cortocircuito che unisce gli antisemitismi di tutti i tipi in un'unica grande fogna il cui puzzo incomincia nei giorni precedenti la ricorrenza e continua, senza interruzione, per quasi tutto il resto dell'anno. Uno degli esempi più eclatanti del 2020, ma non è l'unico, non mancano mai, si è verificato durante il discorso del Presidente del Consiglio Comunale di Torino, Francesco Sicari che ha dichiarato, proprio durante la Giornata della Memoria, davanti alla sindaca Appendino che non ha battuto ciglio, frasi di accusa a Israele per crimini di guerra contro i palestinesi.
  Molti sono gli ebrei, me compreso, e scrivo solo a nome di chi la pensa come me, che sono dell'idea che se così deve essere è meglio annullarla questa ricorrenza. Noi ebrei non abbiamo bisogno che altri si sentano obbligati a commemorare i nostri morti, chi lo vuole fare sarà sempre benvenuto in tutti i musei che negli anni siamo riusciti a costruire in ogni angolo di mondo, musei dove oltre ai reperti viene conservata la memoria di ciò che la belva umana è stata capace di concepire. Noi ebrei non abbiamo bisogno di un giorno internazionale, perché il nostro giorno del ricordo lo abbiamo già: tutti i giorni dell'anno.
  Perché non c'è giorno che, almeno per un istante, il nostro pensiero non vada ad Auschwitz, Groß-Rosen, Stutthof, Mittelbau-Dora, Buchenwald, Bergen-Belsen, Flossenbürg , Sachsenhausen, Dachau, Ravensbrück, Neuengamme, Mauthausen e alla Risiera di San Sabba.
  Mentre il nostro giorno unitario del Ricordo cadrà sempre, secondo il calendario ebraico, a dieci giorni dalla festa dell'Indipendenza dello Stato di Israele che è ancora oggi, soprattutto oggi, l'unica vera polizza sulla vita alla quale ogni ebreo del mondo, non importa quale sia la sua cittadinanza, può aggrapparsi. Perché gli ebrei hanno seguito gli insegnamenti di Vladimir Evgen’evič Žabotinskij, il capofila del revisionismo sionista, che disse: "Ebrei imparate a sparare".
  Se ci vedesse oggi Vladimir Evgen’evič Žabotinskij sarebbe fiero di noi, perché non abbiamo solo imparato a sparare, ma anche a pilotare aerei, a far navigare le navi e, soprattutto, a non delegare a terzi la nostra difesa e sicurezza.

(Nicola Porro, 30 gennaio 2020)


Ambasciatore di Israele in visita a Savona

La mattina del 10 febbraio Palazzo Nervi riceverà, tra gli ospiti del Convegno "100 anni di Israele in Liguria'; l'Ambasciatore di Israele in Italia, Dror Eydar. L'evento è stato organizzato dalla Provincia di Savona in collaborazione con l'Associazione Italia Israele Savona con un programma che vedrà, tra gli interventi, la partecipazione del presidente della Provincia di Savona, Pierangelo Olivieri, del presidente dell'Associazione Italia Israele, Cristina Franco, del giornalista e scrittore Niram Ferretti, del consigliere della Regione Liguria, Angelo Vaccarezza promotore dell'ordine del giorno per l'adozione ufficiale della definizione operativa di antisemitismo sancita dall'Ihra.
   La Provincia di Savona d'intesa con la Regione Liguria sono da tempo impegnate in progettualità volte a rafforzare, progredire e promuovere l'educazione, la memoria e la ricerca sull'Olocausto, sostenendo, nelle sedi opportune, l'adozione ufficiale da parte dell'Italia della definizione operativa di antisemitismo sancita dall'Ihra, secondo quanto sollecitato nella Risoluzione con raccomandazioni del Parlamento Europeo sulla «Lotta contro l'antisemitismo». Sono sempre più numerosi gli episodi di antisemitismo nella vita pubblica, nei media, nelle scuole, nei luoghi di lavoro in Europa e nel resto del mondo, la lotta contro l'antisemitismo è un dovere per ogni società civile, la sua difesa un atto di giustizia.
   «La partecipazione dell'ambasciatore Dror Eydar al Convegno del prossimo 10 febbraio è un grande onore per la nostra Provincia, una presenza che apporta valore e importanza significando la tangibile condivisione e affermazione di un sentimento di fratellanza che unisce da sempre il Popolo Ebraico e le nostre Comunità», sottolinea il presidente Pierangelo Olivieri.
   «L’incontro con l'ambasciatore darà nuovo slancio a importanti progetti di collaborazione fra il territorio ligure e Israele, culturali, sociali ed economici, in ogni settore e la nostra Associazione Italia Israele di Savona è orgogliosa di portare il proprio contributo», osserva il presidente dell'Associazione Italia Israele, Cristina Franco, mentre Vaccarezza ricorda che «la Liguria è la prima Regione italiana ad aver approvato un ordine del giorno per chiedere l'adozione ufficiale da parte dell'Italia della definizione operativa di antisemitismo sancita dall'Alleanza Internazionale per la Memoria dell'Olocausto».

(il Giornale, 30 gennaio 2020)


Primo razzo da Gaza su Israele dopo il piano di Trump. Mazen: "All'Onu per dire no"

Il giorno dopo l'annuncio del piano di pace americano per il Medio Oriente, l'esercito israeliano annuncia che rafforzerà la sua presenza in Cisgiordania e nella zona della Striscia di Gaza. Già sono entrate in funzione, a Kissufim, le sirene che preannunciano il lancio di razzi.

 Israele rafforza l'esercito in Cisgiordania e a Gaza
  Un razzo lanciato dalla Striscia di Gaza su Israele è esploso in un'area disabitata senza causare danni o feriti. E' il primo razzo lanciato dalla Striscia dopo che il presidente Usa, Donald Trump, ha presentato il suo piano di pace. La Difesa israeliana ha aggiunto che poco prima del lancio le sirene hanno suonato nella zona di Kissufim, vicino alla Striscia di Gaza.
Il lancio ha un sapore dimostrativo e giunge dopo le parole del presidente dell'Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen: "Gerusalemme non è in vendita e i nostri diritti non si barattano. Andrò all'Onu a spiegare le ragioni del no dei palestinesi". Una netta presa di posizione alla quale si ispira anche la dichiarazione del presidente turco Erdogan: "Gerusalemme è sacra per i musulmani. Il piano di Donald Trump che mira a dare Gerusalemme a Israele è assolutamente inaccettabile".

 Israele rafforza l'esercito
  L'esercito israeliano ha annunciato questa sera che rafforzerà la sua presenza in Cisgiordania e vicino alla Striscia di Gaza con "truppe da combattimento", il giorno dopo l'annuncio del piano di pace americano per il Medio Oriente. "Dopo una valutazione della situazione, è stato deciso di rafforzare le nostre divisioni in Giudea e Samaria (nome dato dalle autorità israeliane alla Cisgiordania) e Gaza con ulteriori truppe da combattimento", ha detto l'esercito in una nota. L'esercito aveva già annunciato ieri, poche ore prima dell'annuncio del piano americano a Washington, lo spiegamento di rinforzi nella Valle del Giordano, area strategica che rappresenta circa il 30% della Cisgiordania.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu aveva promesso, poco prima delle elezioni di settembre, di annettere questa valle. Ora il piano americano sostiene in questo senso il progetto di Netanyahu e quindi l'annessione di questa lingua di terra da parte di Israele. Manifestazioni contro il piano americano, respinto in blocco dai leader palestinesi, hanno avuto luogo oggi in varie località della Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

 Tensione in Medio Oriente
  Il piano di pace Usa per il Medio Oriente ha scatenato la rabbia dei palestinesi e l'esultanza della destra israeliana che preme sul governo per attuare subito l'annessione della Valle del Giordano e delle colonie ebraiche in Cisgiordania. Nei Territori è stata indetta la "Giornata della rabbia" dopo che l'iniziativa dell'amministrazione Trump è riuscita a riunire, dopo anni, Hamas e Fatah, allineati nella lotta contro il cosiddetto "Accordo del Secolo". Per Saeb Erekat, storico negoziatore palestinese, Washington ha "fatto un copia e incolla del piano di Netanyahu e dei coloni".
Tutt'altro clima in Israele dove la destra è in festa per quello che viene visto come un via libera di fatto dato dall'amministrazione Trump all'annessione della Valle del Giordano e degli insediamenti ebraici in Cisgiordania e fa pressioni perché il governo di Benjamin Netanyahu lo metta in pratica subito, prima delle elezioni del prossimo 2 marzo.

 Lo Stato palestinese
  In realtà la destra israeliana non ha alcuna intenzione di veder nascere uno Stato palestinese, come previsto, seppure con grandi limitazioni, dallo stesso piano di Washington. "Non permetteremo che il governo israeliano riconosca uno Stato palestinese in nessuna circostanza, neanche un millimetro di terra agli arabi", ha messo in chiaro il ministro della Difesa, Naftali Bennett, seguito dal ministro dei Trasporti, Bezalel Smotrich, che ha ribadito la totale opposizione a "qualsiasi tipo di sovranita' araba sulla terra d'Israele". Oggi però il ministro del Turismo, Yariv levin, ha spiegato in un'intervista alla Radio militare che la questione non sarà discussa a giorni: un rinvio "tecnico" per preparare i documenti e per attendere l'opinione del procuratore generale, Avichai Mandelblit, sulla possibilità che un governo ad interim possa attuare iniziative di una simile portata.

 Israele senza leader
  Il rinvio a dopo le elezioni è invece la posizione del partito di centro "Blu e Bianco" che in una nota ha espresso sostegno al piano Usa, affermando che "è del tutto coerente con i principi di Stato e sicurezza adottati" dal partito. Il progetto "fornisce una base solida e praticabile per far avanzare un accordo di pace con i palestinesi, preservando allo stesso tempo gli accordi esistenti tra Israele, Giordania ed Egitto e consentendo la loro espansione ad altri Paesi della regione". Tuttavia, per attuarlo, ha sottolineato il partito centrista, Israele ha bisogno di "un governo forte e stabile, guidato da un individuo in grado di dedicare tutto il suo tempo e le sue energie per garantire la sicurezza del Paese e il suo futuro", un chiaro riferimento al suo leader Benny Gantz, e non da "un imputato che deve affrontare gravi accuse di corruzione", Netanyahu, incriminato formalmente ieri dal procuratore Avichai Mandelblit.

 I laburisti e l'accordo con i palestinesi
  Dal leader della sinistra laburista israeliana, Amir Peretz, è arrivato invece lo stop a qualsiasi ipotesi di passo unilaterale: "Determineremo il nostro destino tramite negoziati diretti con l'Autorità palestinese che si concluderanno con un accordo che metterà in sicurezza uno Stato ebraico e democratico all'interno di confini sicuri per le generazioni future". La corsa all'annessione della Valle del Giordano e delle colonie è in ogni caso fuori discussione per un governo ad interim, ha aggiunto Peretz, puntando il dito contro la mancanza di legittimità.

 Opposizione secca degli arabo-israeliani
  Condanna netta da parte dei parlamentari arabo-israeliani che vedono il piano come un passo verso l'instaurazione di un regime di apartheid; sotto accusa in particolare l'ipotesi che alcune città arabe nel nord di Israele possano finire sotto la giurisdizione di un futuro Stato palestinese in cambio di territori per lo Stato ebraico. Un'idea promossa anni fa dal leader ultra-nazionalista Avigdor Lieberman, "inevitabile punto finale dell'agenda razzista di Trump e Bibi (Netanyahu), un via libera per revocare la cittadinanza di centinaia di migliaia di cittadini arabi", ha sottolineato il leader della Joint List, Ayman Odeh.

(RaiNews, 29 gennaio 2020)


Il trattato per la Palestina e la verità storica

Una pace tra ebrei e palestinesi difficile da costruire

di Massimo Carpegna

Le linee generali del piano di pace per il Medio Oriente, che il presidente Trump ha presentato alla Casa Bianca insieme al premier israeliano Netanyahu, sono state: Israele conserva tutti gli insediamenti, Gerusalemme come capitale indivisa e il controllo della sicurezza nella regione. I palestinesi potranno costituire uno Stato sulle aree che già possiedono, più compensazioni che raddoppieranno il loro territorio complessivo e la capitale a Gerusalemme Est. «Una opportunità per entrambi, che consente a tutti di vincere» ha dichiarato il Presidente americano.

 Per i palestinesi è un accordo inaccettabile
  Sembrerebbe così, se non fosse che alla firma mancavano i rappresentanti della Palestina i quali hanno già dichiarato inaccettabile il documento e si rischia una terza "intifada". La questione di fondo è che lo Stato d'Israele non è gradito, per alcuni rappresenta la testa di ponte degli americani in quelle terre e tanti occidentali, che versano lacrime nella "Giornata della Memoria",, sono gli stessi che vedono i Sionisti quali intrusi prepotenti e despoti come se le parti si fossero invertite e ora fossero loro i nuovi nazisti. Occorre fare un po' di chiarezza sulla vicenda, appellandoci alla storia.

 La verità storica
  La narrazione è che i Sionisti abbiano rubato la terra ai palestinesi, ma ciò che è certo, e che nessuno può confutare, è l'esatto contrario: nel 637 i musulmani hanno invaso quella che era storicamente la terra sacra degli ebrei e successivamente anche dei cristiani, conquistandola con la forza e le guerre sante.
Nonostante le invasioni, gli ebrei sono l'unico popolo che è rimasto ininterrottamente nelle terre della Palestina, fin da quando vi giunse Mosè.

 La nascita dell'Islam
  Prima del VII secolo, gli arabi erano solo in regioni dell'Arabia Saudita; con la nascita dell'Islam sono state invase terre e annientate intere etnie e culture, dall'Oceano Atlantico all'Oceano Indiano al Pacifico. Tanto per fare un esempio, fino al 600 l'Egitto era uno dei Paesi a maggioranza cristiana con una popolazione totalmente diversa da quella araba e che parlava egiziano e non arabo. Oggi, gli ultimi discendenti di quell'antico popolo sono i "Cristiani Copti". Il termine latino "copto" deriva dal greco "còptos", che deriva dall'arabo "qubt", ovvero come inizialmente gli arabi definivano gli egiziani. Parliamo ora della Palestina.

 Durante il secolo scorso
  All'inizio del '900 in tutta la Palestina ci sono poche migliaia di abitanti, motivo per cui il motto del sionismo è "Un popolo senza terra per una terra senza un popolo". Quando gli ebrei di tutto il mondo sono emigrati in Palestina per avere finalmente un loro Stato e la possibilità di difendersi dalla persecuzione, quella terra deserta l'hanno legalmente acquistata a dei prezzi esorbitanti, fino a cento volte il valore reale. La maggioranza degli arabi erano nomadi e non possedevano nulla; i sionisti comprarono la terra attraverso regolari contratti stipulati con sceicchi e grandi latifondisti arabi. Tutto ciò è riassunto in un articolo del 16 settembre 1972 a firma Indro Montanelli per il "Corriere della Sera".

 L'analisi di Indro Montanelli
  "Che i profughi palestinesi siano delle povere vittime, non c'è dubbio. Ma lo sono degli Stati Arabi, non d'Israele. Quanto ai loro diritti sulla casa dei padri, non ne hanno nessuno perché i loro padri erano dei senzatetto. Il tetto apparteneva solo a una piccola categoria di sceicchi, che se lo vendettero allegramente e di loro propria scelta. Oggi, ubriacato da una propaganda di stampo razzista e nazionalsocialista, lo sciagurato fedain scarica su Israele l'odio che dovrebbe rivolgere contro coloro che lo mandarono allo sbaraglio. E il suo pietoso caso, in un modo o nell'altro, bisognerà pure risolverlo. Ma non ci si venga a dire che i responsabili di questa sua miseranda condizione sono gli «usurpatori» ebrei. Questo è storicamente, politicamente e giuridicamente falso."

 Non sempre vi è stato odio
  La Palestina, quindi, è stata venduta dagli arabi, prima ai sionisti e poi alla comunità internazionale, intascando fiumi di denaro per risarcire il loro "dolore" d'aver perso 20.000 chilometri quadrati di territorio. Ma questo odio viscerale tra le due fazioni è storia recente. Vi riporto le parole che Re Feisal al Hashemi, re dell'Iraq, scrisse a Londra nel 1919: «Quando gli Ebrei rientreranno in Palestina daremo loro un clamoroso benvenuto. Noi Arabi, tutti e a maggior ragione quelli colti, consideriamo con la più grande simpatia il movimento sionista. Lavoreremo insieme per un nuovo Medio Oriente, c'è abbastanza posto in Palestina per entrambi. Penso sinceramente che non possiamo non riuscire assieme.»

 Ma allora chi sono i palestinesi?
  I "palestinesi" in Palestina non c'erano. Quelli che oggi dichiarano d'essere "palestinesi", in verità sono nella maggioranza immigrati arabi provenienti dalla Giordania, dalla Siria, dall'Iraq, dall'Egitto e dall'Arabia Saudita. Ancora per fare un esempio, l'egiziano Arafat è nato e vissuto al Cairo fino alla maggiore età. La maggioranza degli arabi, che oggi reclamano la Palestina quale loro terra in esclusiva, ci sono arrivati dopo il 1916, dopo che gli inglesi la strapparono all'Impero Turco Ottomano. Tra gli anni '20 e '30, i sudditi della Regina avevano bisogno di braccianti e gli arabi si trasferirono in Palestina portati dagli inglesi del "Mandato Britanni" e per lavorare per loro.

 L'Impero Ottomano Turco
  Dal 1515 al 1916, e quindi per ben 400 anni, la Palestina è stata solo una misera regione dell'Impero Turco Ottomano, proprietà dei turchi, quindi, e non degli arabi. Fino al '700, Gaza era abitata interamente da cristiani ed ebrei. Nessuno nega che oggi esista un "popolo palestinese" che avrebbe diritto ad un suo Stato, ma occorre considerare, al di là della propaganda, che questo "popolo" si è costituito negli ultimi 66 anni e riguarda solo le recenti generazioni nate in Palestina da emigranti arabi provenienti da varie regioni arabe.

 La guerra contro Israele
  Quando nel 1948 è sorta Israele, il "popolo palestinese" non esisteva e mai è esistito uno Stato arabo-palestinese. Nel 1948 gli arabi dichiararono guerra ad Israele, invasero e occuparono fino al 1967 quelli che oggi sono chiamati "territori occupati". La Giordania si prese la Cisgiordania, affermando che era parte storica della Giordania; l'Egitto fece la stessa cosa con Gaza. Nessuno protestò perché gli arabi della Cisgiordania e quelli di Gaza si consideravano semplicemente musulmani, esattamente come gli altri. Ma nel 1967 Israele vinse la guerra e occupò quei territori per creare una più sicura fascia di difesa intorno al proprio Stato.

 La causa palestinese
  La sostanza è che dopo questa sconfitta nacque la "causa palestinese" per tenere vivo l'odio del mondo islamico contro Israele. La sinistra occidentale appoggiò una discutibile narrazione dei fatti, perché in quelle terre vedeva un avamposto dell'impero del male: quello americano. Questa è la verità storica. Il resto è conversazione.

(QuotidianPost.it, 29 gennaio 2020)


Trump: i palestinesi avranno il loro Stato. Gerusalemme indivisa capitale d'Israele

Il presidente illustra con Netanyahu il "piano del secolo”. Insediamenti congelati per 4 anni durante i negoziati.

«Non sono stato eletto per fare piccole cose o voltare le spalle ai grandi problemi. Oggi Israele compie un grande passo verso la pace». «È un giorno storico per Israele e uno dei più importanti nella mia vita. Niente mi distrae, come sempre lavoro per la sicurezza di Israele».

di Paolo Mastrolilli

Israele conserva tutti gli insediamenti, Gerusalemme come capitale indivisa, e il controllo della sicurezza nella regione. I palestinesi potranno costituire uno Stato sulle aree che già possiedono, più compensazioni che raddoppieranno il loro territorio complessivo, con la capitale a Gerusalemme Est. Sono le linee generali del piano di pace per il Medio Oriente che Trump ha presentato ieri alla Casa Bianca, insieme al premier israeliano Netanyahu. Il presidente lo ha definito «un'opportunità per entrambi, che consente a tutti di vincere», ma il leader di Ramallah Abu Mazen lo ha subito bocciato.
   In base al documento di 80 pagine, Israele conserverà tutti gli elementi fondamentali a cui teneva. Gli insediamenti costruiti nel corso degli anni in Cisgiordania diventeranno parte del suo territorio, e Gerusalemme resterà la capitale indivisa. Nessun luogo sacro cambierà gestione, e nessuno dovrà abbandonare la casa dove vive. Lo Stato ebraico però dovrà fare alcune concessioni territoriali, in particolare nell'area meridionale al confine con l'Egitto, che secondo la mappa disegnata dagli americani raddoppierà la zona sotto il controllo dei palestinesi. Inoltre si impegnerà a congelare i progetti di nuovi insediamenti per i prossimi quattro anni, allo scopo di non compromettere la possibilità di trovare un'intesa creando ulteriori conflitti sul terreno.
   I palestinesi non avranno un esercito, ma potranno costituire una forza di polizia. Per ottenere la sovranità dovranno rispettare alcune condizioni, come la rinuncia all'uso della violenza, la denuncia di gruppi come Hamas e la Jihad, e il rispetto dei diritti umani. L'applicazione di queste condizioni verrà verificata progressivamente nel corso dei prossimi quattro anni, e la possibilità di ottenere davvero uno Stato dipenderà dalla loro attuazione. Gerusalemme Est potrà diventare la capitale dello stato palestinese, dove gli Usa apriranno un'ambasciata. I territori della nuova nazione saranno tutti collegati con strade, ponti o tunnel, anche se non saranno geograficamente contigui. L'accesso alla spianata dei templi e alla moschea di al Aqsa sarà garantito a tutti i fedeli, e resterà sotto la gestione giordana.
   Sul piano economico, i palestinesi riceveranno aiuti per 50 miliardi di dollari, che secondo Trump rilanceranno la loro economia, dimezzando la povertà, raddoppiando o triplicando il prodotto interno lordo, e creando un milione di posti di lavoro. Rivolgendosi direttamente ad Abu Mazen, finora escluso dalla trattativa, Trump ha lanciato un appello: «Se accetterete questa opportunità gli Stati Uniti, e molti altri Paesi, saranno al vostro fianco per aiutarvi».
   Tanto il premier Netanyahu (che oggi a Mosca per discutere del piano con Putin), quanto il suo sfidante alle elezioni del 2 marzo Benny Gantz, si sono impegnati ad attuare il piano, anche se il leader del Partito Blu e Bianco non ha partecipato alla cerimonia e ha evitato di farsi vedere insieme al suo rivale.
   I palestinesi non erano presenti, ma la speranza degli Usa è che accettino il testo come base negoziale, spinti anche dall'Arabia e dagli altri paesi sunniti. Secondo il documento avranno quattro anni di tempo per considerare la proposta, riprendere la trattativa con Israele, e definire i dettagli del loro stato.

(La Stampa, 29 gennaio 2020)


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Il piano di pace per la Palestina: dagli Usa 50 miliardi di aiuti

di Daniel Mosseri

E' stato a lungo indicato come l'accordo del secolo ma il suo ideatore, il presidente degli Usa Donald Trump, lo ha chiamato "my vision". Una visione per la pace fra israeliani e palestinesi presentata in conferenza stampa a fianco del premier israeliano Benjamin Netanyahu. Trump ha sciolto subito i dubbi dei presenti: «Si tratta di una soluzione basata sul principio due popoli-due stati». «I palestinesi - ha premesso il capo della Casa Bianca - sono rimasti intrappolati in un circolo di povertà e violenza sfruttato da chi fomenta l'estremismo». II piano, ha poi aggiunto, prevede la continuità territoriale dello stato palestinese «che nascerà quando le condizioni da noi richieste saranno rispettate». Fra queste Trump ha elencato il taglio dei ponti con il terrorismo islamico e la fine della politica dell'Autorità palestinese che incita all'odio contro i cittadini israeliani.
   Israele esce più forte nella visione di Trump che gli ha riconosciuto la sovranità sulla Valle del Giordano, l'annessione di una serie di insediamenti in Giudea e Samaria e di «altre località». Nella visione è compresa anche la demilitarizzazione di Gaza e il mantenimento della sovranità israeliana sull'intera città di Gerusalemme - anche se poi Trump ha promesso l'apertura di un'ambasciata Usa presso il nuovo stato palestinese «a Gerusalemme est», più probabilmente in un sobborgo orientale della città santa.
   «Per Israele ho già fatto molto», ha detto ancora Trump, ricordando i principali passaggi della sua politica estera mediorientale, «e non sarebbe giusto se non facessi molto per i palestinesi». Così il presidente ha annunciato un «massiccio piano di investimenti da 50 miliardi di dollari» che permetterà la creazione di un milione di posti di lavoro, il dimezzamento della povertà fra i palestinesi, mentre il Pil «raddoppierà e triplicherà». «Se loro accetteranno questa visione - ha scandito Trump rivolto al presidente palestinese Mahmou Abbas - noi li aiuteremo passo dopo passo».
   Mentre Netanyahu ha salutato in Trump «il migliore amico mai avuto da Israele», il pubblico ha applaudito gli ambasciatori di Oman, Emirati Arabi Uniti e Bahrein, unica presenza araba alla presentazione del piano.

(Libero, 29 gennaio 2020)


Fronte comune Hamas-Abu Mazen: ''I nostri diritti non sono in vendita''

Il leader dell'Anp boccia il piano: cedere il 30% del nostro territorio è folle. L'Egitto invita invece a valutare la proposta. Primi scontri in Cisgiordania. E ora Ramallah teme l'isolamento dagli alleati che non vogliono un conflitto aperto. Le monarchie del Golfo propense ad accettare la proposta americana.

di Giordano Stabile

I palestinesi protestano, si appellano alla Lega araba, mentre il presidente Abu Mazen incoraggia i giovani a scendere nelle strade e a bruciare i ritratti di Donald Trump, dice che «risponderà schiaffo su schiaffo» ed è pronto ad accettare l'aiuto di Hamas. Ieri sera ci sono stati 13 feriti negli scontri in Cisgiordania ma la vera preoccupazione della dirigenza di Ramallah è l'isolamento. Le monarchie del Golfo sono propense ad accettare la proposta americana, anche se spingeranno per modifiche più generose nei confronti della controparte araba. I progetti di sviluppo per 50 miliardi annunciati l'anno scorso in Bahrein, la metà ai Territori, una grossa fetta alla Giordania, sono destinati a scavare altre spaccature nel fronte della «resistenza». Il raiss palestinese è pronto al «martirio sulle mura di Gerusalemme» ma i suoi fratelli arabi sono poco inclini a un nuovo conflitto, che avrebbe come prima conseguenza un colpo di freno all'economia. Soprattutto l'Egitto, che invita le parti a «valutare con attenzione la proposta», e gli Emirati, che elogiano la «seria iniziativa» americana, «un importante passo per arrivare a una pace duratura».
   Molto della scommessa di Trump e Benjamin Netanyahu si basa su queste considerazioni e la presenza degli ambasciatori di Bahrein, Emirati e Oman a Washington è un segnale. Pragmatismo contro il richiamo sacro della moschea di Al-Aqsa. Certo già sabato al Cairo i leader arabi si stringeranno attorno ad Abu Mazen e le fazioni palestinesi sono unite come non si vedeva da tempo. A Ramallah il presidente palestinese si è presentato con al fianco rappresentanti di Hamas e della Jihad islamica. Il raiss ha ribattuto a Trump che «Gerusalemme non è in vendita, i nostri diritti non sono in vendita, il tuo piano della cospirazione non passerà» e che «cedere il 30 per cento del nostro territorio è folle». Hamas ha ribadito che «Gerusalemme sarà sempre una terra per i palestinesi» e non è certo sufficiente la concessione del sobborgo di Abu Dis. Stessi toni dall'Hezbollah libanese, contro un piano che «vuole distruggere la Palestina» con la «complicità vergognosa» di alcuni Stati arabi, mentre la Turchia ricorda che «Gerusalemme è la nostra linea rossa».
   Più contenuto è il no della Giordania. Il ministro degli Esteri Ayrnan Safadi sottolinea che la soluzione è «uno Stato palestinese indipendente nei confini del 1967 e con Gerusalemme Est come capitale». E mette in guardia contro «azioni unilaterali di Israele», cioè l'annessione immediata della Valle del Giordano e degli insediamenti. La Giordania «si coordinerà» con gli altri Stati arabi per «una risposta comune». Sabato ci sarà una riunione di emergenza della Lega araba al Cairo. Re Abdullah sembrava essere ammorbidito e due giorni fa aveva dichiarato di «guardare al bicchiere mezzo pieno». Il sovrano hashemita è in una situazione delicata, con il 60 per cento dei suoi cittadini di origine palestinese. Per questo saranno molto importanti i primi passi sulla questione più delicata, l'estensione della sovranità israeliana alla Cisgiordania, anche se l'ambasciatore David Friedman ha già detto che «gli insediamenti potranno essere annessi in ogni momento» e Netanyahu ha annunciato una legge in questo senso già per domenica.
   Sono punti critici che creano qualche dubbio persino fra i sauditi. Mohammed bin Salman si è spinto molto avanti nell'appoggio al piano Usa, soprattutto sul fronte economico, ma esita di fronte all'idea di seppellire la prospettiva realistica di uno Stato palestinese. Ieri il ministro degli Esteri Faisal bin Farhan Al Saud ha fatto riferimento al Piano saudita, molto più generoso. Un segno di raffreddamento è il rifiuto di consentire l'ingresso nel Regno a cittadini israeliani, anche musulmani, dopo che Israele aveva dato il consenso ai viaggi per i pellegrinaggi. L'altro timore saudita è il ritiro dagli accordi di Oslo paventato da Abu Mazen e il suo braccio destro Saeb Ekerat. È una minaccia implicita di mettere termine alla collaborazione con le forze di sicurezza israeliana, il che ha impedito l'esplodere di una Terza intifada negli ultimi quindici anni. Ma ora il raiss potrebbe cambiare idea, anche se ostile per indole all'uso della violenza.

(La Stampa, 29 gennaio 2020)


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"C'è un clima d'odio. Ma ho trovato una solidarietà che riempie il cuore"

Maria Bigliani ha denunciato alla Digos le minacce antisemite. E ha deciso di non cancellare la scritta sul muro di casa, almeno per ora.

"Mi emoziono pensando a mia mamma e mi indigno per l'ignoranza che continua a resistere". "Primo Levi veniva a trovare mio padre e raccontava di essere triste per la scarsa memoria della Shoah".

di Irene Famà, Massimiliano Peggio

 
Maria Bigliani
«Quella scritta rimane lì. Almeno per ora. Deve esser un monito contro l'ignoranza». Maria Bigliani è battagliera. E ha deciso di non cancellare la frase antisemita - «crepa sporca ebrea» - che qualcuno le ha scritto con un pennarello scuro sul muro dell'androne di casa nel Giorno della Memoria.

- Perché ha deciso così?
  
«Quella scritta è la testimonianza di un gesto razzista. Di un sentimento che oggi non dovrebbe più esserci. E un gesto fatto con cattiveria e ignoranza. In una Giornata, quella della Memoria, che purtroppo ancora oggi divide».

- Lei percepisce un clima d'odio?
  
«Un clima d'odio c'è. E non solo in Italia. In altri paesi europei, i movimenti razzisti e antisemiti si sono manifestati in modo anche pericoloso».

- Crede che gli italiani si siano lasciati contagiare dal veleno del razzismo?
  
«In generale direi di no. Ma guardo questa scritta e penso che alcuni, forse, hanno ancora questo tipo di mentalità. In fondo la storia non cambia. Ci sono state le leggi razziali e oggi l'odio razziale ritorna - anche se non come un tempo - per ignoranza e cattiveria».

- È la prima volta che riceve insulti del genere?
  
«Nella mia vita di battute stupide e razziali ne ho subite tante, ma ho sempre risposto per le rime».

- Se potesse rintracciare l'autore della scritta, cosa gli direbbe?
  
«Che ha fatto un'azione inutile, che alimenta, oggi, nel 2020, l'onda di intolleranza. Ma non ho idea di chi possa essere stato».

- Ha partecipato al presidio antifascista organizzato in piazza Gran Madre. Si aspettava una tale solidarietà?
  
«Sinceramente no. È stata una solidarietà che mi ha sorpresa e mi ha riempito il cuore».

- Quella frase, ha spiegato alla Stampa, insulta lei e le sue radici. In particolare la memoria di sua madre, Ines Ghiron, ebrea, che durante la Seconda Guerra Mondiale fece la staffetta partigiana nell'Italia in balia dei nazisti. Chi era sua madre?
  
«Una donna coraggiosa e intelligente che visse una vita non comune. I miei nonni erano di Casale Monferrato e lei era nata ad Alessandria. Nel 1919 suo padre, che aveva un laboratorio di profumi, pensò bene di trasferirsi a Parigi. E grazie ai profumi ebbe molta fortuna. Poi nel 1934 la famiglia trasferì a Torino. Ebbe un primo marito che era di Roma. Lui, pur essendo finito nell'elenco delle persone destinate alle Fosse Ardeatine, riuscì a fuggire alla morte per caso. Mia madre si offrì a portare messaggi ai capi partigiani, viaggiando da Roma a Torino. Tutta la sua vita è stata raccolta in un diario pubblicato in poche copie in amicizia da Alberto Bolaffi che è un amico di famiglia».

- In questa situazione, cosa le consiglierebbe?
  
«Di denunciare. Ed è quello che ho fatto. Se mia mamma fosse qui sarebbe emozionata e le verrebbe da ricordare tutte le ingiustizie subite. Mi emoziono pensando a lei e mi indigno per l'ignoranza che resiste».

- L'ignoranza per la storia?
  
«Sì. Ricordo che Primo Levi, compagno di scuola di mio padre, quando veniva a trovarlo, diceva di essere triste e incredulo verso la scarsa conoscenza da parte della nuove generazione di quello che è stato l'Olocausto. Temeva che la Shoah venisse percepita come una favola, come una cosa non reale. Aveva paura che quel periodo crudelissimo venisse dimenticato. Ecco perché secondo me quella scritta non va ancora cancellata».

(La Stampa, 29 gennaio 2020)


Corridoi umanitari: la Comunità ebraica ospita una famiglia siriana

Anche l'Unione delle Comunità ebraiche italiane (Ucei) e la Comunità ebraica di Milano sostengono i corridoi umanitari. Ieri è giunta in Italia una famiglia di 7 persone (genitori con 4 bambini e un parente), siriani musulmani di Aleppo, che sarà ospitata in un appartamento. L'accoglienza è sostenuta appunto dall'Unione degli ebrei milanesi, che collaboreranno insieme alla Comunità di Sant'Egidio per l'inserimento nel capoluogo lombardo.
   La famiglia arrivata all'aeroporto di Fiumicino è originaria di Aleppo, città della convivenza tra religioni diverse che da 9 anni soffre la tragedia della guerra, e ha trascorso un periodo nei campi profughi in Libano; a Milano sarà ospitata in un appartamento nella zona sud della città. Sono ormai oltre 2.400 i profughi accolti con i corridoi umanitari in Italia, siriani in fuga dal conflitto e dal Corno d'Africa; il progetto è in corso anche in Francia, Belgio e Andorra. «Sono molti- ha spiegato Giorgio Mortara, vicepresidente Ucei - i passaggi della Torah in cui si fa riferimento all'obbligo di aiutare il prossimo, il forestiero. Il malessere di chi arriva da fuori è un punto sensibile per gli ebrei, sollecitati come siamo dalla nostra stessa esperienza storica. Su queste basi è nato l'impegno a sostegno delle comunità che attuano progetti a favore di migranti e rifugiati. L'iniziatìva è pensata quale ideale prosecuzione del lavoro svolto già da anni dalle comunità ebraiche di Firenze, Torino e Milano e di incentivare la nascita di nuove iniziative».
   Per il presidente della Comunità ebraica di Milano, Milo Hasbani, «siamo sempre pronti a metterci in gioco quando si tratta di aiutare attivamente il prossimo. Ringrazio la Comunità di Sant'Egidio per averci dato l'opportunità di sostenere una famiglia siriana con 4 bambini piccoli. Abbiamo coinvolto varie associazioni ebraiche, come il Bene Berith, l'Arne, la onlus Federica Sharon Biazzi e i movimenti giovanili della Comunità Hashomer Hatzair e Benè Akiva, tutti con grande bagaglio ed esperienze nel campo del volontariato. Spero che questo esempio possa essere seguito anche da altri».
   Si amplia così l'alleanza tra comunità di credenti che hanno realizzato il progetto promosso dal 2016 da Sant'Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e Tavola Valdese. Per Giorgio Del Zanna della Comunità di Sant'Egidio «occorre unire le forze per rispondere a una duplice crisi epocale, la guerra in Siria e l'incapacità europea di dare risposte adeguate all'immigrazione. In un clima segnato dalla logica dei muri e dell'antisemitismo crescente. Una risposta efficace è l'amicizia solidale di comunità di credenti che si uniscono per costruire ponti: è in questo spirito che ebrei e cristiani accolgono questa famiglia musulmana».
   E grazie ai corridoi umanitari dopodomani arriveranno a Roma dal Libano altri 86 profughi siriani, che saranno accolti da associazioni, parrocchie e comunità in diverse regioni italiane e subito avviati in un percorso di integrazione attraverso l'apprendimento della lingua per gli adulti, la scuola per i minori e l'inserimento lavorativo, una volta ottenuto lo status di rifugiato.

(Avvenire, 29 gennaio 2020)


Netanyahu ha ritirato la richiesta di immunità che aveva avanzato al Parlamento israeliano

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha ritirato la richiesta di immunità che aveva avanzato al Parlamento israeliano all'inizio di gennaio per evitare di finire a processo nei tre casi in cui era stato incriminato dal procuratore generale. Netanyahu lo ha annunciato con un comunicato sulla propria pagina Facebook, e ha motivato la sua decisione spiegando che a suo dire il Parlamento non avrebbe trattato il suo caso in maniera imparziale.
   Netanyahu era stato incriminato ufficialmente a novembre, ma il procedimento si era bloccato in attesa che il Parlamento esaminasse la sua richiesta di immunità. Diversi analisti israeliani ritenevano che la richiesta fosse soltanto un modo per guadagnare tempo in vista delle elezioni politiche del 2 marzo - in cui fra l'altro si rinnoverà il Parlamento, che potrebbe avere di nuovo una maggioranza favorevole a Netanyahu e spostare l'attenzione su altri temi durante la campagna elettorale. Nei giorni scorsi però lo speaker del Parlamento israeliano Yuli Edelstein, che fa parte dello stesso partito di Netanyahu, aveva accelerato un po' a sorpresa i tempi per la formazione della commissione che avrebbe valutato la richiesta del primo ministro, che avrebbe raggiunto una decisione definitiva proprio durante la campagna elettorale.
   Il procedimento contro Netanyahu riprenderà subito: le prime audizioni potrebbero tenersi prima del 2 marzo, diventando quasi sicuramente il tema principale della campagna. Il procuratore generale Avigdor Mandelblit avrebbe potuto posticipare il processo per non turbare la campagna elettorale, come aveva ipotizzato qualche commentatore; invece, poche ore dopo la decisione di Netanyahu, il processo nei suoi confronti è comparso fra i casi in esame dal Tribunale di Gerusalemme.
   Le vicende giudiziarie che coinvolgono Netanyahu sono tre. Nel primo caso, considerato il più grave e per cui Netanyahu è accusato di corruzione, il primo ministro israeliano avrebbe favorito l'azionista di maggioranza di Bezeq, la più grande società di telecomunicazioni di Israele, in cambio di una copertura mediatica favorevole su Walla news, un popolare sito di news israeliano legato a Bezeq. Nel secondo caso Netanyahu e sua moglie avrebbero ricevuto regali dal valore di centinaia di migliaia di dollari da un produttore di Hollywood, Arnon Milchan, e un miliardario australiano, James Pack, in cambio di agevolazioni fiscali. Nel terzo caso, invece, Netanyahu si sarebbe accordato con il proprietario del quotidiano Yedioth Ahronoth per indebolire un giornale rivale in cambio di un trattamento più favorevole da parte di Yedioth Ahronoth verso il governo.

(il Post, 28 gennaio 2020)



Risposta dell'Arabia Saudita al tentativo di far viaggiare israeliani nel regno

Il ministro degli Esteri dell'Arabia Saudita ha dichiarato che gli israeliani non sono i benvenuti nel Regno, nonostante il governo di Tel Aviv avesse espresso parere positivo e autorizzato i suoi cittadini a scegliere come destinazione turistica il paese del Najet.
Il principe Faisal Bin Farhan ha dichiarato ai media sauditi, come riportato dalla CNN, che "la nostra politica estera verso alcuni paesi non è cambiata, rispetto al passato, non abbiamo rapporti con lo stato di Israele e al momento i titolari di passaporto israeliano non possono visitare il Regno, sino a che non verrà raggiunto un accordo di pace tra palestinesi e israeliani."
Purtroppo, però, il principe Mohammad bin Salman non può dare certo molta credibilità a queste intenzioni, dopo aver dichiarato che i palestinesi dovrebbero lasciare perdere l'obbiettivo di avere Gerusalemme Est come capitale del loro stato.

(DailyMuslim, 28 gennaio 2020)


Rivlin a Berlino: grati alla Germania per l'impegno nella nostra sicurezza

                             Il presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier e il presidente israeliano Reuven Rivlin
                             visitano il liceo ebraico Moses Mendelssohn a Berlino

GERUSALEMME - Israele è grato alla Germania per l'impegno a favore della sua sicurezza. È quanto affermato dal presidente israeliano, Reuven Rivlin, durante l'incontro che ha avuto oggi a Berlino con il ministro della Difesa tedesco, la presidente dell'Unione cristiano-democratica (Cdu) Annegret Kramp-Karrenbauer. Come riferisce il quotidiano "Jerusalem Post", all'incontro erano presenti anche militari tedeschi e israeliani che si addestrano insieme nello Stato ebraico. In particolare, Rivlin ha dichiarato: "Siamo grati alla Germania per l'impegno a favore della sicurezza di Israele". Il presidente israeliano ha quindi ricordato che piloti della Luftwaffe si addestrano nello Stato ebraico. Inoltre, "paracadutisti israeliani collaborano con le loro controparti tedesche". A tal riguardo, Rivlin ha osservato: "Tale formazione comune è importante per assicurare che, ora e in futuro, siamo pronti a fronteggiare le minacce.

(Agenzia Nova, 28 gennaio 2020)


Danza israeliana a Vicenza, incontro e spettacolo

È in programma a Vicenza venerdì 31 gennaio 2020 alle 17.30, in Sala Stucchi di Palazzo Trissino (sede del Comune), un focus di approfondimento sulla danza contemporanea e la cultura israeliana, alla presenza di eminenti rappresentanti della comunità ebraica e della critica di danza italiana ed internazionale, In occasione dello spettacolo "Venezuela" della Batsheva Dance Company, su coreografia di Ohad Naharin, in programma nella stagione danza del Teatro Comunale di Vicenza.
   L'incontro, inserito nella programmazione della Giornata della Memoria, è promosso dall'Assessorato alla Cultura del Comune di Vicenza e dal Teatro Comunale di Vicenza; vedrà protagonisti, l'Assessore alla Cultura del Comune di Vicenza, Simona Siotto, Ora Brafman, critico di danza del Jerusalem Post, Paolo Navarro Dina, rappresentante della Comunità Ebraica di Venezia, Michèle Seguev, addetta culturale dell'Ambasciata d'Israele a Roma; moderatrice dell'incontro è Francesca Pedroni, critico di danza (Danza&Danza), autrice e regista.
   L'evento, aperto al pubblico, si propone di far conoscere le tendenze della danza contemporanea israeliana, disciplina che con la matrice vitalistica ed energica dei suoi più importanti coreografi, oltre che con la potenza evocativa delle loro creazioni (da Ohad Naharin, coreografo residente della Batsheva Dance Company a Roy Assaf, Sharon Eyal e Gay Behar, Rami Be'er, Yossi Berg, Noa Vertheim di Vertigo, Inbal Pinto & Avshalom Pollak Dance Company) si è affermata a livello mondiale, particolarmente negli ultimi anni, in modo forte e originale.
   Tra i motivi di questo significativo sviluppo un ruolo fondamentale ha la politica culturale del paese, che ha favorito la diffusione e la conoscenza di questo genere artistico, con scambi, incontri, piattaforme, sostenendo la disciplina in modo importante ed organico. Ma anche la tradizione culturale ebraica, con la sua particolare concezione della danza, e quindi la memoria storica a cui appartiene, ha contribuito ad affermare il genere coreutico come fortemente identitario della cultura israeliana contemporanea.

(Vicenza Più, 28 gennaio 2020)


Un nuovo volo collegherà l'Umbria a Israele: da Tel Aviv a Perugia

Un volo diretto da Israele all'Umbria. E' la novità che viene annunciata dall'agenzia di stampa Nova.
La compagnia aerea turca Corendon Airlines - si legge in un lancio dell'agenzia italiana - lancerà cinque nuove rotte da Tel Aviv verso Italia, Germania, Grecia e Bulgaria.
A partire dal 26 maggio, il vettore effettuerà un volo settimanale da Tel Aviv a Colonia e dal 27 maggio verso Norimberga, in Germania. Dal 25 maggio al 9 ottobre, Corendon Ailines effettuerà due voli a settimana da Tel Aviv a Corfù. Inoltre, dall'8 giugno all'inizio di ottobre, la compagnia turca collegherà Tel Aviv con Perugia, mentre da fine maggio a inizio ottobre ogni due settimane sarà effettuato un volo tra Tel Aviv e Sofia.
Corendon Airlines è operativa dal 2005. La sede operativa è nella città turistica di Antalya. Nel 2013 ha superato i 2 milioni di passeggeri. Con 22 aerei a disposizione (prevalentemente Boeing 737) copre 160 destinazioni.

(Corriere dell'Umbria, 28 gennaio 2020)


Territori a Israele e fondi ai palestinesi. Trump scommette sul piano di pace

Il leader Usa vede Netanyahu e Gantz alla Casa Bianca. Oggi l'annuncio. Abu Mazen minaccia di ritirarsi dagli accordi di Oslo.

di Paolo Mastrolilli

NEW YORK - «Io penso che alla fine lo vorranno. È molto buono per loro». Il presidente Trump ha professato così il suo ottimismo, sulla possibilità che i palestinesi accettino il piano di pace che sta per presentare, ricevendo ieri alla Casa Bianca il premier israeliano Netanyahu. Mohammad Shtayyeh, leader dell'esecutivo di Ramallah, ha però già risposto che la sua proposta «non costituisce una base per risolvere il conflitto», viola la legge internazionale e «viene da una parte che ha perso la sua credibilità come onesto mediatore. Noi la rigettiamo».
   Ieri mattina Trump ha ricevuto prima Netanyahu, e poi il generale Benny Gantz, suo avversario nella terza tornata delle elezioni israeliane, in programma il 2 marzo. Lo scopo era anticipare ad entrambi i contenuti del piano, ed ottenere il loro appoggio. Oggi il capo della Casa Bianca ha in programma una dichiarazione congiunta col premier, in cui dovrebbe annunciare alcuni dettagli.
   La prima parte della proposta, preparata dal genero del presidente Jared Kushner, era quella economica, presentata nel giugno scorso durante una conferenza nel Bahrain. Secondo questo progetto, i palestinesi riceverebbero un pacchetto di finanziamenti da 50 miliardi di dollari se firmassero l'intesa, ma il leader dell'Autorità Abu Mazen lo ha già bocciato. La seconda parte del piano, cioè quella politica, è pronta da tempo, ma la sua pubblicazione è stata rimandata a causa della crisi politica nello Stato ebraico. Secondo le indiscrezioni circolate finora, consentirebbe l'annessione degli insediamenti, e non darebbe ai palestinesi la possibilità di formare un loro esercito o negoziare accordi internazionali.
   Il negoziatore Saeb Erakat ha detto che se Netanyahu userà questo piano come copertura per cominciare l'annessione dei territori palestinesi, ciò porterà al ritiro dagli accordi di Oslo, perché «è un tentativo di distruggere la soluzione dei due Stati». Shtayyeh ha commentato che l'iniziativa di Trump ha solo lo scopo di «proteggere lui dall'impeachment, e Netanyahu dalla prigione», dato che oggi la Knesset voterà sulla sua richiesta di immunità dall'accusa di corruzione.
   Secondo Benny Avni, analista di Medio Oriente per il New York Post, «la rinnovata diplomazia mediorientale del presidente Trump probabilmente mancherà l'obiettivo di una pace istantanea tra israeliani e palestinesi, ma potrebbe aiutare a mettere fine alla paralisi politica che ha bloccato Israele per un anno». Secondo Avni, il capo della Casa Bianca ha invitato Netanyahu e Gantz a poco più di un mese dal voto per aiutare il premier a vincere le elezioni, o comunque per facilitare la formazione del governo di unità nazionale, nel caso in cui per la terza volta nessuno dei due candidati ottenesse la maggioranza necessaria per formare il governo. La volta scorsa Bibi aveva proposto di dividere a metà la legislatura, governando lui all'inizio per neutralizzare il processo per corruzione, e cedendo poi la guida a Benny.
   L'ex generale però aveva rifiutato, anche perché molti nel suo partito chiedono l'uscita di scena di Netanyahu come condizione per qualsiasi compromesso. Ora Gantz ha accettato l'invito alla Casa Bianca per mantenere buoni rapporti con Trump, ma si è rifiutato di apparire insieme al premier per non rafforzarlo e non dare l'impressione di essere pronto all'accordo. Il presidente però ha detto che alla fine i palestinesi accetteranno il suo piano, perché «è un'opportunità per la pace».

(La Stampa, 28 gennaio 2020)


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Netanyahu e Gantz alla Casa Bianca. Ma il «piano del secolo» parte nella diffidenza

Oggi la proposta di intesa con i palestinesi

di Davide Frattlnl

GERUSALEMME - Alla fine Benny Gantz ha capito di non poter rifiutare l'invito. Quello che è riuscito a ottenere dai consiglieri di Donald Trump è stato di poter sedersi con il presidente qualche ora prima del rivale Benjamin Netanyahu. Per evitare di ritrovarsi in secondo piano - nei colloqui e nelle foto ufficiali - lui aspirante premier contro il primo ministro in carica, almeno fino alle elezioni del 2 marzo.
   Trump ha voluto incontrare ieri i due leader israeliani per anticipare loro i dettagli di quello che chiama l'«accordo del secolo», l'intesa per chiudere con una stretta di mano il conflitto decennale tra israeliani e palestinesi. Il presidente annuncia di voler rendere pubblica l'iniziativa oggi, qualche fonte anonima ha lasciato trapelare gli elementi delineati dal genero Jared Kushner assieme ad Avi Berkowitz: a Israele verrebbe garantito il diritto di estendere la sovranità alle colonie e alla valle del Giordano, il futuro Stato palestinese sarebbe demilitarizzato.
   Gli analisti fanno notare che queste voci sono soprattutto israeliane e tendono a enfatizzare i vantaggi e i regali promessi da Trump. In realtà la bozza conterrebbe anche l'ipotesi di evacuare gli avamposti non autorizzati dallo Stato ebraico - abitati da almeno 10 mila israeliani -, la sovranità sulla valle del Giordano comporterebbe uno scambio di territori e soprattutto i palestinesi potrebbero dichiarare la capitale nei quartieri arabi di Gerusalemme: mentre la Città Vecchia e i luoghi sacri rimarrebbero sotto controllo israeliano, i giordani in cooperazione con i palestinesi continuerebbero a gestire la Spianata delle moschee.
Tutto questo se «l'accordo del secolo» avrà mai la possibilità di venire discusso in concreto. Mohammed Shtayeh, il primo ministro palestinese, continua a ripetere che «non costituisce la base per risolvere il conflitto», il presidente Abu Mazen si è rifiutato in questi giorni di parlare al telefono con Trump. Che pure ieri ha detto: «I palestinesi dovrebbero essere contenti, è una buona offerta per loro».
   Gli israeliani ne fanno per ora un uso di politica interna: Netanyahu ha voluto portare con sé i leader dei coloni a Washington, fra poco più di un mese ha bisogno dei loro voti. Gli assistenti di Gantz già commentano che il piano di Trump è molto vicino alla piattaforma elettorale dell'ex capo di Stato Maggiore. «Se davvero prevede la divisione di Gerusalemme - nota Nahum Barnea, prima firma di Yedioth Ahronoth, il quotidiano più venduto - sarebbe un problema per Netanyahu e la destra». Ma aggiunge: «Poco importa, perché in ogni caso le possibilità che questa intesa venga implementata sono vicine allo zero».

(Corriere della Sera, 28 gennaio 2020)


Rudy Barbier: «Che strano e che bello battere tutti»

 
 
Rudy Barbier pedala veloce ma chiede di parlare piano se no fatica a capire le nostre domande in inglese. Se continuerà a vincere come ha fatto nella tappa di apertura della Vuelta a San Juan gli converrà studiare le lingue straniere per farsi conoscere.
   Intanto il 27enne di Beauvais, comune dell'Oise nell'Alta Francia, si è messo in mostra lasciandosi alle spalle fior fior di velocisti. Professionista dal 2014, dopo due stagioni alla Ag2r La Mondiale, dall'anno scorso difende i colori della Israel Start-Up Nation, a cui ha regalato il primo successo da quando ha fatto il salto nel World Tour.
   «È incredibile, questa è la vittoria più importante che ho conquistato finora. Il parterre dei rivali è di altissimo livello, sono felicissimo e sorpreso. Qui in Argentina fa troppo caldo per me, non pensavo sarei stato così competitivo, arrivando da Parigi, dove abito e mi alleno ogni giorno, anche se in questo periodo il termometro segna dallo 0 ai 2o» racconta con un sorriso da guancia a guancia.
   Appassionato di auto veloci e moto da cross, con le quali si diverte con i suoi migliori amici, ha avuto occhio e gambe pronte, per beffare il "nostro" Belletti. «A 2 km dall'arrivo c'è stato un problema, a causa della caduta ho perso posizioni, i miei compagni mi hanno aspettato e mi hanno riportato nelle prime posizioni, sono stati impeccabili. Poi è stata questione di un attimo, ho trovato un ingorgo sulla sinistra allora mi sono buttato sulla destra, che strana sensazione superare tutti gli avversari. Per me e per tutta la squadra è un giorno speciale. Questo successo ripaga il lavoro di tutti. Da domani proveremo a difendere con la squadra questa bellissima maglia» prosegue dopo aver indossato il simbolo del primato.
   E per il futuro Rudy cosa sogna? «Ho un debole per le classiche, ma so che per le corse più importanti la squadra ha dei capitani designati per i quali giustamente io dovrò lavorare. Il Fiandre penso sia troppo duro per le mie caratteristiche, la mia corsa preferita è la Parigi-Roubaix, ma come detto al momento non è un mio obiettivo. Per quest'anno la mia ambizione è di vincere una tappa in un grande giro».

(TuttoBiciWeb, 27 gennaio 2020)


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Israele, la prima volta non si dimentica

Di Barbier il 1o successo del team ora World Tour: storia e curiosità di un'idea unica

di Ciro Scognamiglio

Rudy Barbier non è famoso come Dan Martin né sarà mai vincente quanto André Greipel, non era sul Poggio vicino a Nibali alla Sanremo 2018 come Krists Neilands e non ha un padre famoso come Rick Zabel, tutti suoi compagni di squadra. Rudy Barbier è francese di Beauvais (aeroporto-base per le compagnie low-cost che volano a Parigi), ha 27 anni, fa il professionista dal 2012 ed era decisamente uno dei corridori meno conosciuti della Israel Start Up Nation. Il successo allo sprint (2o Manuel Belletti) nella prima tappa della Vuelta San Juan, in Argentina, il quinto della carriera, non lo ha fatto certo diventare una celebrità ma gli ha permesso di scrivere un piccolo pezzo di storia ciclistica: è stata la prima vittoria, infatti, della Israel Start Up Nation dall'ingresso nel World Tour, la serie A delle biciclette. La gara argentina non fa parte del circuito, ma le stelle al via - Sagan, Gaviria, Alaphilippe, Evenepoel, Ganna ... - ne certificano l'importanza.

 Inizio
  Chiamiamola pure l'alba di Israele nel World Tour, nell'anno che vedrà per la prima volta una squadra del Paese al via del Tour de France. E che questa vittoria sia arrivata appena qualche ora prima dell'inizio della Giornata della Memoria, che ogni 27 gennaio ricorda nel mondo le vittime dell'Olocausto, appare quasi come un segno del destino: la squadra pedala (anche) nel nome di Gino Bartali, che salvò oltre 800 ebrei durante la seconda guerra mondiale. Mentre sulle ambizioni di restare in pianta stabile nell'elite, dopo avere acquisito a fine 2019 la licenza della Katusha, garantiscono pure le mosse recenti come l'annuncio della partnership tecnica con la Williams, team di Formula 1. Lo stesso che aveva già fatto il team Bahrain (con la McLaren) e soprattutto la Ineos di Froome, Bemal e Thomas, che ha siglato l'intesa con la Mercedes di Lewis Hamilton. Perché al vertice non si arriva in un giorno, ma attraverso una serie di passi nella direzione giusta. Altro esempio: la creazione, a Tel Aviv, del primo velodromo coperto del Medio Oriente, una gemma architettonica abilitata ad ospitare le competizioni internazionali.

 Mecenate
  Senza Sylvan Adams tutto questo non ci sarebbe mai stato. il filantropo ebreo-canadese, appassionato di biciclette, era emigrato in Israele nel 2016. Della squadra l'uomo d'affari Ron Baron e l'ex ciclista Ran Margaliot avevano cominciato a parlare già due anni prima, poi Adams ha dato l'impulso decisivo mettendo sul piatto anche 20 milioni di euro per la grande partenza del Giro d'Italia da Gerusalemme nel 2018, la prima in assoluto di un grande giro fuori dall'Europa che era stata uno straordinario successo. Il team allora si chiamava Israel Cycling Academy e aveva partecipato alla corsa della Gazzetta, e Guy Sagiv - uno dei 4 israeliani ancora in organico - era diventato il primo del suo Paese a terminare una grande corsa a tappe. Quest'estate, al Tour de France, la storia si arricchirà di un altro importante capitolo.

 Ambizioni
  Anche Davide Cimolai, chissà, potrebbe diventare un pioniere: a 30 anni, il velocista friulano è l'unico italiano del team (debutterà alla Valenciana, dal 5 al 9 febbraio) e insegue un successo di prestigio che coronerebbe una carriera di buon livello. E poi c'è il tedesco Nils Politt, 25 anni, capace l'anno scorso con la Katusha di sfiorare il colpo alla Roubaix: 2o dietro a Gilbert. Ora che difende i colori di Israele, migliorarsi significherebbe davvero scrivere la storia.

(La Gazzetta dello Sport, 28 gennaio 2020)


Scritta antisemita nell'androne di casa. ''Umiliata nel Giorno della Memoria''

La donna presenta denuncia alla Digos: "Lo faccio per sconfiggere l'ignoranza della Storia. Mia mamma ha fatto la staffetta partigiana, ha rischiato la vita per la libertà".

di Irene Famà, Massimiliano Peggio

 
TORINO - «Adesso me ne vado a casa, a rivedere Schindler's List. È un bellissimo film. Molti ignoranti dovrebbero guardarlo e trarne preziosi insegnamenti».
   Sciarpa rossa, un filo di rossetto sulle labbra, ieri sera uscendo dalla questura di Torino la signora Maria tratteneva a stento le lacrime. «Non immaginavo di subire questa umiliazione nel Giorno della Memoria». In mattinata, uscendo di casa, si è trovata davanti una scritta che le ha trafitto il cuore, le sue radici, i suoi affetti. «Crepa sporca ebrea». Scritto in stampatello con un pennarello scuro, su una parete dell'androne, ai piedi di un vecchio palazzo addossato alla precollina torinese. Lei ha fatto denuncia alla Digos. Non tanto per avere giustizia, quanto per «sconfiggere l'ignoranza». Così dice.
   Torino, ultima tappa dell'antisemitismo sfociato in concomitanza con il Giorno della Memoria. Altro che rispetto. Così è successo a Mondovì, a Brescia, a Giaveno, sempre in provincia di Torino, tra le colline della Resistenza. Scritte contro gli ebrei, contro i partigiani, contro chi è stato vittima dell'orrore nazifascista. «Questi episodi - dice - testimoniano la scarsa conoscenza per la storia. Ringrazio quelle scuole che istruiscono i ragazzi al senso del rispetto, che combattono il negazionismo», Le sue radici ebree, Maria le racconta così: «Sono orgogliosa di esserlo, non ho mai fatto mistero, non vedo perché avrei dovuto. Ma prima d'ora non ho mai avuto problemi. Mi ha fatto male al cuore».
   Per lei la Memoria è legata alla storia della mamma, staffetta partigiana. «È morta a 92 anni. Fino all'ultimo è stata lucidissima. A 87 ha scritto le sue memorie. Sono straordinarie, dovrebbero essere lette da tutti, soprattutto dai giovani che non conoscono la storia e le sofferenze della Seconda Guerra Mondiale. Mia madre, originaria di una antica famiglia ebrea, ha fatto la Resistenza, portava messaggi da Roma a Torino».
La denuncia è stata formalizzata negli uffici della Digos, quasi in concomitanza con l'inizio della fiaccolata per la Memoria, in programma ieri sera nel centro della città, dalla stazione di Porta Nuova all'ex carcere Le Nuove. «Quella scritta - osserva Maria - sa di vecchio. "Crepa sporca ebrea" sono termini che si usavano un tempo. Vuol dire che c'è un ritorno del rancore. Sono prese di posizione che preoccupano». C'è una spiegazione? «Forse la politica internazionale disorienta. Ma un conto è la politica, un altro è l'essere ebrei. Le persone non vanno mai confuse con la politica».
   Il presidente della comunità ebraica di Torino, Dario Disegni, riconduce questo episodio a «un clima di odio e di veleno». Dice: «Chi fa queste scritte, lo fa apposta ogni volta che si celebra la Giornata della Memoria».
Gli investigatori della Digos hanno acquisito le registrazioni di alcune telecamere di sicurezza installate in zona. Forse in uno di quei filmati ci potrebbe essere un indizio per risalire all'identità dell'autore.
   Ma dove ha trovato nutrimento l'odio che si è manifestato in quella scritta? Chi può esser stato? Può essere uno scherzo di pessimo gusto? «Non so. Non si gioca con la memoria, con le radici di chi ha subito la violenza nazifascista. Non riesco a immaginare quella persona che ha scritto una frase così vile. Penso solo a una persona ignorante. Come me, dovrebbe guardare Schindler's List. Quel film illumina le coscienze».

(La Stampa, 28 gennaio 2020)


Lo Stato islamico ci prova con Israele

Il gruppo annuncia attacchi diretti nella speranza di reclutare le masse

Ieri il portavoce dello Stato islamico ha diffuso un nuovo messaggio di quasi quaranta minuti e ha annunciato un cambio nelle priorità del gruppo. Ha detto che comincia una nuova era nella storia dello Stato islamico "per combattere gli ebrei e riprendersi quello che hanno rubato ai musulmani". Il portavoce ha chiesto ai gruppi in Sinai e in Siria di aggredire i settlement e i mercati degli ebrei e di "trasformarli in laboratori per sperimentare i vostri razzi chimici". Si dirà: ma non è ovvio che lo Stato islamico aggredisca Israele? Sì, certo, ma finora non gli aveva dato la priorità perché sosteneva che tutte le terre musulmane sono campi di battaglia uguali per il jihad, dall'Iraq all'Afghanistan all'Arabia Saudita alla Libia. L'ideologia alla base dello Stato islamico è transnazionale, universale, la creazione del Califfato non è ancorata a luoghi specifici ma in teoria si dovrebbe espandere ovunque. I gruppi che combattono guerre locali, come Hamas nella Striscia di Gaza, sono guardati con disprezzo. I veri combattenti sono quelli che partono da lontano per andare ad arruolarsi in un jihad in cui non c'entrano nulla. E tuttavia lo Stato islamico viene da anni di crisi militare e di vocazioni e quindi per rinverdire un po' la sua immagine ora chiama alla lotta diretta contro Israele - che ha sempre un suo appeal sulla massa. Colpire gli ebrei è un classico del reclutamento di fanatici che non delude mai, dev'essere stato il ragionamento breve del nuovo leader dello Stato islamico. Il gruppo ha molto bisogno di uomini considerato che negli ultimi tre anni il suo esercito è stato spazzato via e restano cellule che operano in clandestinità. Questo annuncio dovrebbe provare a colmare un po' il vuoto. E' stato fatto coincidere con l'arrivo di Benjamin Netanyahu e di Benny Gantz a Washington per annunciare assieme al presidente americano Donald Trump un piano di pace con i palestinesi- che a quanto si capisce non offre molte possibilità di successo. Israele per ora non ha sostenuto scontri diretti con lo Stato islamico ma ha fatto lavorare molto la sua intelligence - un numero importante di segnalazioni ai servizi occidentali su movimenti di terroristi e piani di attentati arrivano da lì.

(Il Foglio, 28 gennaio 2020)


La sfida di de Magistris: «Oggi chi è assente ha torto Noi rispettiamo tutti»

Il sindaco non raccoglie l'invito di Daniele: qui c'è la città antifascista. De Majo: costituire un anticorpo per evitare che tornino quegli orrori.

di Paolo Cuozzo

NAPOLI «Noi rispettiamo tutti ma oggi chi è assente ha torto». Parla così Luigi de Magistris, a margine della celebrazione per la Giornata della Memoria in via Luciana Pacifici, disertata dalla Comunità ebraica in polemica con l'assessore alla Cultura, Eleonora De Majo, per le sue posizioni sulle politiche dello Stato di Israele. Parole, quelle dell'ex pm, che quindi ignorano l'invito arrivatogli dall'ex assessore alla Cultura, Nino Daniele - sostituito in giunta proprio dalla De Majo -, che ha spiegato al sindaco come a suo avviso «basterebbe chiedere scusa» per certe posizioni finora espresse «per far rientrare la polemica». Un'esortazione, a quanto pare caduta nel vuoto, arrivata dall'ex assessore comunale che, invece, è tra gli invitati alla «controgiornata» della Memoria organizzata dalla Comunità ebraica, che si terrà sempre negli stessi luoghi, ma venerdì prossimo.
   Il primo cittadino, nel sottolineare di «non voler fare polemiche», ha evidenziato: «Oggi qui c'è tutta la città antifascista e antinazista che si riconosce nei valori della Costituzione quali la libertà, l'uguaglianza, la giustizia e la fratellanza. Bisogna evitare di costruire il rancore al contrario. Se ci sono dei problemi personali non era questa la giornata per manifestarli. Qui c'è la Napoli che si è schierata».
   Un fascio di rose è stato deposto anche in Piazza Bovio dove alcune settimane fa sono state sistemate nove pietre di inciampo in ricordo di chi qui viveva e fu deportato: altra occasione, quella, di attrito tra amministrazione cittadina e comunità ebraica. Anche in quel caso, si consumò uno strappo con la Comunità ebraica che non partecipò alla sistemazione delle pietre di inciampo sempre per la presenza dell'assessore De Majo. «Quest'amministrazione ha avuto il coraggio - ha aggiunto il sindaco - di intitolare questo luogo a una bimba vittima del nazismo e di cancellare la targa che qui ricordava Azzariti, presidente del Tribunale della Razza. Napoli è la Città delle Quattro Giornate, città che con una rivolta di popolo si liberò da sola e per prima dal nazifascismo. Questa città ha forti radici nei valori antifascisti e non prenderà mai la via della barbarie nazista e del collaborazionismo fascista ma le radici vanno innaffiate con la memoria altrimenti si rischia la narcotizzazione e l'indifferenza». «Senza una coscienza vigile - è stata la conclusione del sindaco - quello che è stato si può riproporre e purtroppo c'è chi alimenta e soffia su una sub cultura antisemita e contro il diverso».
   Alla cerimonia hanno partecipato i vertici delle autorità civili e militari, l'Anpi, l'Istituto campano per la Storia della Resistenza. «Oggi è una giornata significativa - ha sottolineato l'assessore De Majo - per tutta i cittadini europei che hanno a cuore l'Europa democratica e per tutti deve costituire un anticorpo affinché non si ripetano quegli orrori». Il presidente dell'Istituto campano per la Resistenza, Guido D'Agostino, ha sottolineato l'importanza dello studio della storia perché «non basta descrivere l'orrore ma bisogna capire perché è successo affinché non si ripeta». Medaglie d'onore alla memoria ai familiari di cittadini della provincia di Napoli, internati in Germania dal 1942 al 1945, sono state quindi consegnate nella sede della Prefettura di Napoli, presente il sindaco de Magistris e la presidente della Comunità ebraica, Lydia Schapirer. «Le nuove generazioni - ha detto il viceprefetto, Luca Rotondi - devono sapere e devono capire che cosa è successo anche a tanti loro coetanei che hanno pagato un prezzo inconcepibile». Le medaglie sono state consegnate ai familiari di Vincenzo Giordano, artiglierie dell'Esercito italiano deportato in un campo di concentramento in Prussia; di Armando Perrotta, soldato dell'Esercito italiano deportato in Germania; di Alessandro Reccia, arruolato nel 231 Brigata fanteria e deportato in un campo in Prussia; di Aldo Alone, in servizio alla Marina militare e deportato in un campo in Germania; di Michele Arcopinto, caporale maggiore dell'Esercito italiano deportato in Polonia; di Vincenzo Ambrasi, allievo cannoniere della Marina militare deportato in un campo in Germania e fucilato a seguito di un tentativo di fuga e sepolto in una fossa comune.
   Alla cerimonia hanno partecipato gli studenti dell'Istituto Socrate Mallardo di Marano che hanno eseguito brani musicali e letto alcuni passi tratti da «Se questo è un uomo» di Primo Levi. Mentre de Magistris - insieme all'assessore alla Scuola, Annamaria Palmieri, e il vicepresidente del Consiglio comunale, Fulvio Prezza - ha accolto al Comune gli studenti dell'Istituto Imbriani-De Liguori di Napoli che si sono cimentati nella simulazione di un Consiglio comunale: altra occasione, questa, per commemorare la giornata delle vittime della Shoah.

(Corriere del Mezzogiorno, 28 gennaio 2020)


Cari ebrei napoletani, avete torto! Ve l’ha detto il vostro sindaco. Che non ce l’ha con nessuno, neanche con voi. Ma cari ebrei, se vi ostinate a difendere Israele.... avete torto. Chiaro? M.C.


"Memoria, giovani raccolgano il testimone"

Giorno della memoria al Quirinale

Alberto Sed, Piero Terracina e Franco Schoenheit. I loro nomi sono stati più volte ricordati in occasione della cerimonia al Quirinale per il Giorno della Memoria. Sia il Capo dello Stato Sergio Mattarella sia la presidente UCEI Noemi Di Segni hanno infatti voluto ricordare i tre sopravvissuti alla Shoah, scomparsi negli scorsi mesi, che con le loro Testimonianze hanno trasmesso a migliaia di giovani il valore di una Memoria viva. "Come i pochi altri che sono tornati dai campi della morte, hanno testimoniato, in vita, il dovere doloroso della memoria. Hanno dimostrato che i nazisti potevano distruggere le loro vite e quelle dei loro cari, ma non sono riusciti a cancellare quanto c'era nel loro animo. - le parole del Presidente Mattarella - Desidero riferirmi a loro con un'espressione ebraica molto intensa, che si utilizza quando scompare una persona cara: 'Che il loro ricordo sia di benedizione'. Il loro ricordo, il ricordo delle sofferenze indicibili patite da una moltitudine di persone, impegna, ancor di più, a tramandare la memoria della Shoah; e a riflettere sulle sue origini e sulle sue devastanti conseguenze". Proprio alla trasmissione della Memoria era dedicato l'appuntamento al Quirinale - mandato in onda in diretta da Rai 1 - con la proiezione in apertura del filmato "Shoah: figli del dopo", realizzato da RaiStoria e una riflessione sul tema del medico e psichiatra Alberto Sonnino. Nel corso dell'iniziativa la musicista Ludovica Valori ha eseguito i brani musicali "A Zemer", "Oyfn Pripetchik" e "Hava Nagila". A intervenire, oltre la Presidente UCEI e il Capo dello Stato, il ministro dell'Istruzione, Lucia Azzolina; l'attrice Valentina Bellè che ha letto una poesia di Anna Segre e alcuni brani del testo di Helga Schneider; a portare la testimonianza di chi in modo diametralmente opposto è un figlio della Shoah, Rosanna Bauer, la cui madre Goti fu deportata ad Auschwitz, e Federica Wallbrecher, che in famiglia ebbe chi sposò l'ideologia nazista....

(moked, 27 gennaio 2020)



Shoah, il dolore e la fatica del ricordo in questo mondo che non aiuta Israele

La violenza contro gli ebrei non può essere compresa senza uno sforzo disumano. Non si può redimerla con belle parole di circostanza. In molti leggono «Il diario» della piccola Anna Frank, in pochi lo capiscono nel la sua atrocità.

di Fiamma Nirenstein

 
Fiamma Nirenstein
In che modo una bambina ebrea nata nel dopoguerra incontra la Shoah e impara a portarne memoria? Con fatica, con disgusto, con incredulità, ingenuamente. Si avvia verso un'indagine impervia: non c'è chi le insegnerà, le spiegherà, la consolerà. C'è il segreto della crudeltà umana che non si può, non si deve rivelare ai bambini, e il segreto della unicità della condizione ebraica. Nessuno vorrà rivelarle i due segreti, dovrà costruirsene da sola l'immagine. E ancora oggi la bambina di ieri è sola con queste due questioni, perché sia l'immensità dell'abisso che la sua indicibile unicità le sono proibiti. Questa proibizione è ciò che impedisce a colui che non ha questa duplice esperienza dentro di sé di essere un credibile alleato quando dichiarata never again. Mi dispiace, io non vi credo anche se vi apprezzo.
  La bambina è sola mentre si costruisce nella sua mente un mosaico inaspettato. L'ebreo è ancora solo mentre ricostruisce faticosamente la sua gioia di vivere. A Kishinev il 6 e il 7 aprile del 1903 i contadini russi attaccarono gli ebrei, li fecero a pezzi, donne e bambini; ci furono condanne ed esclamazioni. Due anni dopo un'altra orgia di mutilazioni e stupri investì la stessa cittadina della Bessarabia. Roosevelt era certo contrario alla strage degli ebrei: questo non gli impedì di trattare altezzosamente e respingere Jan Karsky, l'eroico cristiano polacco che andò a chiedergli in ginocchio, per averlo visitato personalmente, di bombardare il Ghetto di Varsavia e la ferrovia che portava ad Auschwitz.
  A casa nostra in Via Marconi a Firenze la Memoria, la Shoah e la persecuzione degli ebrei avevano due volti, anzi tre, e tutti misteriosi: il più quotidiano, quello di un ansioso riavvio del motore della vita fiorentina, della speranza domestica, del sorriso della mia nonna in cucina, della riabilitazione borghese della famiglia Lattes-Volterra, del lavoro caparbio e deciso della mia mamma ex partigiana e ora giornalista come fosse un proseguo della lotta. L' aspirazione a riprendere la vita dopo anni di fughe, di nascondigli, di Resistenza, di fame, paura, discriminazione, dopo la deportazione di tre giovani, bellissimi fratelli della mia nonna Rosina (due. Gastone e Angiolino. finiti a Buchenwald, e il terzo Beppino fucilato mentre tentava la fuga) rendeva indicibile l'orrore attraversato. La nonna infatti non lo diceva; ci narrava come in una fiaba a lieto fine di quando i fratelli e le sorelle coi coniugi e i figli e le figlie si erano nascosti tutti insieme, come pazzi, nella villa di Bellosguardo dello zio Gualtiero; e poi, fulminati dalla loro stessa temerarietà mista a terrore, si erano dispersi. Così tre di loro furono presi perché, nascosti in una soffitta il fumo di un'incauta sigaretta filtrò fra le travi, e i fascisti li trovarono così. Un biglietto affidato nelle mani di qualcuno alla stazione è stata l'ultima traccia. La nonna raccontava la fuga, la paura, la dispersione in episodi in cui c'erano case di preti buoni, il sarto del nonno che in piazza del Carmine aveva chiamato il cavalier Lattes dalla finestra perché si nascondesse a casa sua ...
  Israele fu subito la stessa cosa, lo sfondo realistico della vita ritrovata. Lo era anche per il babbo, che aveva voluto toccare la Shoah che aveva scampato quando era giovane sionista in Israele: adesso era tornato da un infinito, misterioso viaggio in Polonia, in pellegrinaggio a Baranow da cui provenivano suo padre, la matrigna, il fratello Moshe, 4 piccole sorellastre, tanti zii e cugini che seguitò a nominare e a chiamare specie negli ultimi anni della sua vita. Poi a Varsavia aveva raccolto i documenti per costruire i libri che al posto delle parole dette hanno costituito il suo pegno. Israele era la logica, evidente risposta alla Shoah e lui per amore in Italia, la praticava andando a trovare le due sorelle che nel primo sionismo socialista erano emigrate, finché lui era sbarcato in Italia con la Brigata e si era poi sposato a Firenze. Il suo messaggio sulla Shoah era un vento di tempesta, nero, striato di sangue, indicibile. Non era disposto a condividere il suo dolore, ma solo a chiedere coi libri che si capisse, finalmente, di cosa si stava parlando. Una volta, nella disapprovazione generale, a una conferenza stampa (era corrispondente del giornale israeliano Al Hamishmar) di papa Giovanni Paolo Il, lo apostrofò in polacco: «Come ha potuto tacere quando quella tribù selvaggia e spietata dava la caccia i bimbi negli orfanatrofi, ai vecchi e ai malati negli ospedali e nelle case di cura, agli handicappati, agli uomini e alle donne, alla gioventù di interi Paesi, per bruciarli vivi, per annegarli nei fiumi, per avvelenarli col gas, per seppellirli vivi in enormi fosse comuni?».
  Dunque, sin da piccola ho imparato sulla Shoah un paio di cose: la prima è che il popolo ebraico ha subito un male che richiede uno sforzo di comprensione disumano, unico; e poi, che in virtù della sua speciale storia lunga tre millenni di resistenza, il suo senso di vita e di ribellione è rimasto intatto come uno dei calici di cristallo che mia nonna aveva miracolosamente salvato da casa Volterra. Questo senso di vita miracolosamente trovò la sua unica realizzazione nel sogno di Israele: se prima e dopo la Shoah non ci fosse stata Israele, il popolo ebraico sarebbe morto di ferite e di dolore. Invece è fiorito in maniera sorprendente. Il dolore e l'unicità chiedono risposte miracolose, sacrifici pieni tuttavia di gioia costruttiva: non tutti hanno voglia di capirli.
  Sin da ragazzina la lettura del testo più classico per la gioventù, Anna Frank, mi ha lasciato oltre che molto affezionata ad Anna, piena di interrogativi e perplessa. La manipolazione del testo anche nelle sue riproduzioni teatrali aveva portato a una proiezione universalistica e persino positiva della storia e dello spirito di Anna, che alla fine ne esce disegnata più come una fanciulla presa dall'ansia adolescenziale e anche amorosa che dal tormento della reclusione in attesa della deportazione.
  Ma Anna la intuisce e prevede, spaventata e consapevole che si tratta della condanna a morte disegnata dai nazisti per tutti gli ebrei, e lo dice; ma nell'interpretazione volgare, essa viene disegnata soprattutto fiduciosa nella bontà umana, nella redenzione prossima ventura. Ma ai giovani che leggono il diario si dovrebbe invece spiegare la sofferenza di Anna, come fu scoperta e deportata, lei, sua madre e sua sorella insieme a milioni di innocenti; sono state uccise secondo un programma che alla fine l'ha trasportata con 3.659 donne insieme a sua sorella Margot, morta prima di lei e accanto a lei, fino a Bergen Belsen, fra incredibili sofferenze, mangiata dai pidocchi e dal tifo dopo le torture di Auschwitz. Questa è la Shoah, chi vuole coltivarne la memoria non deve cercarne un'inutile redenzione collettiva nella bontà umana. Non esiste. Ricordo che mi colpi molto anche il fatto che Se questo è un uomo fu all'inizio rifiutato dalla casa editrice Einaudi, selezionato da Natalia Ginsburg, perché ritenuto troppo specificamente ebraico, mentre il nazismo era il male universale e le sue vittime dovevano quindi incarnare, come il comunismo, una speranza universale di redenzione. Su questa scia si è costruita una cultura universalistica che fa dell'ebraismo un rappresentante del bene universale e dell'antisemitismo l'apoteosi di ogni cosiddetta (e dipende da dove la si guarda) cultura dell'odio. Ma chi pensa di difendere gli ebrei propugnando un fronte intersezionale anti oppressione, rifiutando di capire che oggi quando si dice sionismo si dice ebraismo, sbaglia fino ad allearsi di nuovo con un fronte antisemita.
  La redenzione del popolo ebraico è stata solitaria e misteriosa, specifica e straordinaria come la sua storia di sopravvivenza per 2000 anni fino al ritorno a casa. Gli ebrei già dal 1895, quando un giornalista di nome Theodor Herzl vide degradare il capitano Dreyfus solo perché era ebreo, concepirono l'idea della salvezza dall'antisemitismo tramite il ritorno allo Stato degli Ebrei, Israele. Nel 1975 la maggiore comunità delle nazioni, l'Onu, nata proprio per proteggere il mondo dagli orrori nazisti, dichiarando che «sionismo era uguale a razzismo» compì un inutile gratuito atto razzista e antisemita. Dopo la Shoah i sopravvissuti hanno preso la strada del loro Paese, Israele, l'unica patria a cui tornare dato che l'Europa era il deserto del tradimento: quei ragazzi scheletriti e ridotti in solitudine dalla Shoah hanno dovuto subito impugnare un vecchio fucile e affrontare l'assalto dei Paesi circostanti. Nessuno si mosse in loro aiuto. Oggi quando si legge che l'Ayatollah Khameini giura di nuovo la distruzione del «cancro» Israele, nessuno protesta.
  I politici di tanti Stati diversi che sono venuti nei giorni scorsi in visita in Israele per promuovere una nuova grande battaglia contro l'antisemitismo, se vogliono proporre una politica mondiale in cui never again non sia una pura espressione di conformismo universalista, devono sollevare ogni volta il problema dell'antisemitismo istituzionale, permesso o addirittura promosso. Le espressioni di antisemitismo corrente sono concrete, visibili e Israele non ha l'Europa accanto quando vi si oppone. Never again? Solo se gli ebrei si difenderanno, come ormai sanno fare, da soli.

(il Giornale, 27 gennaio 2020)


Berlino: stop antisemitismo o si rischia l'esodo ebraico

ll ministro degli Esteri Maas rievoca gli anni '30: «Chi non si sente a casa se ne va. Provvediamo»

di Andrea Cuomo

Il Ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas
C'è un rischio: che gli ebrei fuggano dalla Germania come nemmeno negli anni Trenta del secolo scorso quando poi qualcuno decise di risolvere le cose a modo suo. L'allarme arriva dal ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas, che in un intervento all'edizione domenicale dello Spiegel, il più importante periodico nazionale, ha esortato a fare maggiori sforzi contro l'antisemitismo non solo per una battaglia di civiltà, democrazia, tolleranza ma anche perché è già in corso un lento esodo degli ebrei dal Paese: «Non mi sorprende che quasi ogni secondo un ebreo abbia pensato di lasciare il Paese», scrive Maas, convinto che però questo stillicidio potrebbe prendere presto forme più robuste. «Dobbiamo prendere urgentemente contromisure in modo che tali pensieri non si trasformino in amara realtà e non si arrivi a un massiccio esodo di ebrei dalla Germania. Che la gente di religione ebraica non si senta più a casa qui è un vero incubo e una vergogna, a 75 anni dopo la liberazione di Auschwitz».
   Maas ritiene che l'antisemitismo sia divenuto moneta corrente in Germania, nel discorso politico e nella pratica quotidiana e non riesce a farsene una ragione. Racconta come esempio la storia di Max Primorozki, capo della comunità ebraica di Hall e, nell'ex Germania Est, ancora turbato dall'attentato contro la sinagoga locale da parte di un esaltato lo scorso 9 ottobre, una gragnuola di spari e molotov che per fortuna non fecero danni anche grazie al fatto che la porta dell'edificio tenne e impedì all'antisemita di fare irruzione nei locali dove si stava svolgendo una funzione religiosa. Primorozki - ricorda Maas - di recente ha detto che «Halle era casa sua» e questa «è una delle affermazioni più tristi che io abbia sentito fare da molto tempo. Le sue parole esprimono la totale disperazione per il fatto che l'antisemitismo è tornato a far parte della vita quotidiana degli ebrei in Germania». Il ministro degli Esteri tedesco propone nel suo intervento una serie di linee di intervento a livello europeo, che comprende un network per la lotta all'antisemitismo e per la lotta ai crimini d'odio e alle campagne di disinformazioni sul web, la disponibilità di ogni Paese membro Ue a istituire il reato di negazionismo dell'olocausto, con la creazione di una task farce globale specializzata, e infine programmi di educazione specifici rivolti agli studenti. Per restare sul pratico, Maas ha annunciato che, al fine di aumentare la protezione e la sicurezza delle comunità ebraiche, quando la Germania nel secondo semestre del 2020 avrà la presidenza di turno dell'Ue stanzierà 500mila euro in favore dell'Organizzazione e la Cooperazione in Europa.
   Un passo in avanti l'ha fatto ieri il governo olandese, che per la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale ha chiesto ufficialmente scusa nei confronti della comunità ebraica per le azioni dell'esecutivo dell'Aja all'epoca della Shoah. A farsi artefice di questo gesto storico il primo ministro Mark Rutte, che ha deposto una corona di fiori al Memoriale nazionale dell'Olocausto di Amsterdam. Non era mai accaduto prima che il governo olandese si scusasse per la persecuzione degli ebrei nei Paesi Bassi e la loro deportazione di massa nei campi di sterminio, che portò alla morte di 102mila ebrei sui circa 140mila che vivevano nel regno prima della guerra. «Mi scuso a nome del governo per le azioni del governo di allora, ora che gli ultimi sopravvissuti sono ancora tra noi», ha detto Rutte, alla vigilia del 75esimo anniversario della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz. Secondo Rutte, il governo olandese venne meno al suo dovere di «custode della giustizia e della sicurezza» e «troppi funzionari olandesi eseguirono gli ordini dell'occupante tedesco».

(il Giornale, 27 gennaio 2020)


Gli ebrei: in Italia siamo al sicuro. «Ma dal resto d'Europa fuggiamo»

Riccardo Pacifici promuove la convivenza: «Nessun attacco, questa è un'isola felice grazie al lavoro dell'intelligence».

di Giovanni Rossi

 
Riccardo Pacifici
- Pronto. Riccardo Pacifici? Qui è QN.
  
«Eccomi. Però lo sapete che non sono più il presidente della Comunità ebraica romana».

- Per la Giornata dalla Memoria la ascoltiamo lo stesso. Lei è notoriamente alternativo.
  
«La Giornata della Memoria è un'operazione di conoscenza e di semina contro l'ignoranza e l'indifferenza. Perché i malvagi nella storia sono sempre esistiti, ma sono gli indifferenti a consentirne l'affermazione».

- Come celebra il ricordo?
  
«In questo momento sono in visita al campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau alla guida di un gruppo di ottanta persone. Ho 56 anni e sono trent'anni che vengo qui dove morirono mio nonno, di cui porto il nome, e mia nonna Wanda, ognuno all'insaputa dell'altro».

- Racconti.
«Mio nonno fu catturato a Genova. Mia nonna a Firenze, venduta da un delatore agli squadristi della Banda Carità: si chiamavano proprio così. Per fortuna mio padre e suo cugino furono salvati dalle suore di Santa Marta e poi dalla Brigata ebraica».

- Come si esce dalla visita a un campo di sterminio?
  
«Diversi da come si è entrati. Necessariamente coinvolti. Anche i più distaccati alla fine 'sentono' l'unicità della tragedia».

- Magari da lì tutto assume un peso relativo. però scritte antisemite come quella a Mondovì sul portone della defunta deportata Lidia Beccarla Rolfi (peraltro neppure ebrea) quanto devono preoccuparci?
  
«Non sarò certo io a minimizzare, ma a costo di andare controcorrente trovo giusto dire che la situazione degli ebrei in Italia - e qui intendo il loro rapporto con lo Stato, le istituzioni, la società, le forze dell'ordine - è cambiato in meglio negli ultimi quarant'anni. E pure di molto».

- Faccia un esempio.
  
«Nel 1982, quando diedi la maturità, alla mia 'strizza' di 18enne sotto esame dovetti aggiungere l'ostilità della commissaria esterna - una prof siciliana - perché avevo chiesto di tutelare il mio shabbat. Fu molto astiosa. «È il primo ebreo che vedo», provò a giustificarsi».

- Oggi non succederebbe?
  
«No. Oggi gli ebrei sono totalmente rispettati e tutelati nel loro credo e nella loro identità. Possiamo uscire con la kippah in testa senza sentirci minacciati. Altrove non va certo così».

- In Germania e negli Usa monta Il suprematismo bianco.
  
«Purtroppo sì. Quando quel pazzo nazista ha assaltato la sinagoga di Halle riprendendosi sul web, la polizia ci ha messo mezz'ora ad arrivare. In Italia sarebbe andata diversamente».

- In Francia, nel 2019, 1.142 episodi di razzismo, 687 a carattere antlsemita.
  
«Infatti gli ebrei dalla Francia fuggono a Miami o in Israele perché non si sentono sicuri. Del resto è lo Stato a dire: non uscite con la kippah in testa, non fatevi riconoscere. I giovani ebrei sono bullizzati anche a scuola. Radicalismo islamico e antisemitismo si espandono. L'Italia al confronto è un'isola felice».

- Come lo spiega?
  
«Non è questione di governi. Più semplicemente l'Italia è da anni in prima linea a fare esercizio di memoria. In più, ha un'lntelligence straordinaria di cui tutti dobbiamo essere fieri».

- Nella sua percezione l'antlsemitlsmo nel nostro Paese è destinato a crescere o a restare episodico e sotto controllo?
  
«La guardia non va mai abbassata, ma al tempo stesso gli allarmi vanno dosati e la comunicazione orientata anche alla conoscenza di chi sono gli ebrei oggi. Siamo una comunità viva, non solo i custodi di una terribile parentesi della storia».

(Nazione-Carlino-Giorno, 27 gennaio 2020)


Il piano di Trump ristabilisce la verità storica sui palestinesi

di Maurizia De Groot Vos

Il Presidente Trump non poteva scegliere momento migliore per presentare al mondo il cosiddetto "accordo del secolo", il giorno dopo il 75esimo anniversario della liberazione di Auschwitz, la giornata della memoria che ricorda la Shoah.
   E si, perché c'è una linea diretta tra la Shoah e la nascita dello Stato di Israele, c'è una linea diretta tra la creazione dello Stato Ebraico e la ferrea volontà araba di continuare il lavoro degli assassini nazisti.
Sin dal giorno dopo la nascita dello Stato di Israele l'obiettivo principale degli arabi è stata la sua distruzione, una volontà che ha resistito per decenni, una volontà così forte che pur di ottenere l'annientamento del piccolo Stato Ebraico non si è fatta scrupolo né di attaccarlo con forze preponderanti, né, una volta sconfitti, di cercare di aggirare l'ostacolo inventandosi di sana pianta un popolo che non c'era e uno Stato mai esistito.
   Il 31 marzo 1977 il giornale olandese Trouw pubblicò un'intervista con un membro del comitato direttivo dell'OLP, Zuheir Muhsin, una intervista troppo in fretta dimenticata perché per una volta raccontava la verità.
Muhsin disse: «il popolo palestinese non esiste. La creazione di uno Stato Palestinese è solo un mezzo per continuare la nostra lotta contro lo Stato d'Israele per l'unità araba. In realtà non c'è differenza fra giordani, palestinesi, siriani e libanesi. Solo per ragioni politiche e strategiche oggi parliamo dell'esistenza di un popolo palestinese, visto che gli interessi arabi richiedono che venga creato un distinto "popolo palestinese" che si opponga al sionismo. Per motivi strategici, la Giordania, che è uno Stato sovrano con confini definiti, non può avanzare pretese su Haifa e Jaffa mentre, come palestinese, posso indubbiamente rivendicare Haifa, Jaffa, Beer- Sheva e Gerusalemme. Comunque, appena riconquisteremo tutta la Palestina, non aspetteremo neppure un minuto ad unire Palestina e Giordania».
Ebbene, questo popolo inventato di sana pianta per stessa ammissione araba, per oltre 70 anni ha impedito che in quell'area del Medio Oriente si instaurasse la pace, ha provocato guerre ovunque (anche in Paesi arabi come la Giordania e il Libano), ha scatenato due intifada sanguinosissime, ha effettuato attentati in tutto il mondo o ha ricattato interi Stati per non effettuarli
   Ha dilapidato fortune in denaro che sarebbero bastate a portare avanti progetti di sviluppo per tutta l'Africa per decenni, ha messo zizzania persino tra gli stessi arabi. Non ha mai accettato un processo di pace, anche quando gli davano proprio tutto quello che chiedevano.
   L'obiettivo non è mai stato creare uno stato palestinese che vivesse in pace accanto ad uno Stato Ebraico, l'obiettivo, quello vero, è sempre stato la distruzione totale di Israele. I cosiddetti "palestinesi" se lo sono pure scritto bello in grande nei loro statuti (che sia quello di Hamas o della OLP, poco cambia).
   Per oltre 70 anni il leitmotiv è sempre stato lo stesso, ripetuto in modo martellante: israeliani cattivi e usurpatori di terra, palestinesi buoni e vittime dei cattivi israeliani. Poco importava che a volere la pace non erano i palestinesi. Poco importava che i "buoni palestinesi" intendessero buttare a mare milioni di israeliani. Loro erano i buoni e gli israeliani i cattivi.
   Da domani tutto cambia. Finalmente l'America ha un Presidente (che può piacere o meno) che ristabilisce la verità storica, che finalmente pone i palestinesi nel loro giusto alveo, quello cioè di arabi giordani, egiziani, libanesi e siriani che per ragioni strategiche sono diventati palestinesi.
   Persino gli arabi hanno capito che non potevano più continuare con questa menzogna e di recente hanno preso le distanze dalla Autorità Palestinese in più di una occasione (a proposito, da ieri seppur con alcune limitazioni gli israeliani potranno andare persino in Arabia Saudita, impensabile fino a poco tempo fa).
   Il piano di pace americano non prevede la nascita di uno Stato Palestinese, sarà una "entità autonoma" e dovrà cedere su molti punti, a partire dal controllo della Valle del Giordano fino all'accettazione degli insediamenti. Non potranno avere un esercito né armi pesanti.
   Per decenni hanno rifiutato tutto, oggi dovranno digerire il piano di Trump perché non hanno più nemmeno gli stati arabi a sostenerli. O accettano quel piano oppure accettano la totale irrilevanza.
   E se ancora c'è qualcuno che sostiene i palestinesi (come l'Iran) solo per motivi anti-israeliani, non avrà vita facile nel farlo. Ormai il mondo arabo è maturo per accettare Israele e per capire la nocività palestinese.

(Rights Reporters, 27 gennaio 2020)


La memoria viva dell'Europa

Cacciati e uccisi dagli islamisti in Francia, non "graditi" in parte della Germania, costretti a chiudere le comunità a causa dei neonazisti in Svezia. Nel continente che deve loro tanto, ma che fu anche teatro della Shoah, hanno ancora un futuro gli ebrei?

di Giulio Meotti

 
Giulio Meotti
La prima comunità ebraica in Europa si è sciolta a causa delle minacce. Si tratta di Umeà, nella Svezia settentrionale, dissolta a causa di gruppi neonazisti e islamisti. "E' un duro colpo. Sono molto triste per questo, e ho anche pianto", ha detto Carinne Sjoberg, la politica liberale che ha presieduto la comunità ebraica fino alla dissoluzione. "In qualche modo, sembra che abbiamo perso". Samuel Sandler, un ingegnere aeronautico e capo della comunità ebraica di Versailles che ha perso il figlio e i nipoti nella strage di Tolosa, ha annunciato così agli amici la richiesta di registrazione della sinagoga nell'elenco dei monumenti nazionali: "La nostra comunità sarà scomparsa tra venti-trent'anni. Non voglio che la nostra sinagoga venga distrutta o, peggio, usata per scopi illegittimi". La città di Nizza è stata un paradiso per gli ebrei per quasi mille anni. Fino a quindici anni fa ospitava la quarta più grande comunità ebraica in Francia, con 20 mila membri. Ora questa comunità sta morendo, letteralmente. L'anno scorso, per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale, il Consistoire francese, organizzazione che fornisce servizi agli ebrei ortodossi, ha stimato che la popolazione ebraica di Nizza era scesa sotto i 3.000. La metà dei membri della comunità ebraica nella città di Grenoble, nella Francia sudorientale, è già partita a causa dell'antisemitismo, come ha rivelato il rabbino Nissim Sultan: "E' un fenomeno inquietante, iniziato circa 15 anni fa. Le persone che costituiscono il nucleo della nostra comunità se ne sono andate, comprese le giovani famiglie con bambini e pensionati". La comunità ebraica danese ha perso il 25 per cento dei membri registrati negli ultimi 15 anni, anche a causa dell'antisemitismo, ha detto il presidente Finn Schwarz: "Per i giovani che stanno riflettendo su come vivere le proprie vite, è naturalmente allettante scegliere di vivere in Israele o negli Stati Uniti, dove essere ebreo non è considerato qualcosa di negativo". In Germania, il rabbino Daniel Alter è stato picchiato per strada sotto gli occhi della figlia, dopo che un gruppo di giovani gli aveva chiesto: "Sei ebreo?". Figlio di un sopravvissuto alla Shoah, Alter è uno dei primi tre rabbini ordinati in Germania dal 1942, quando il Collegio di studi ebraici di Berlino fu distrutto dalla Gestapo. "Non portate la kippah in pubblico", ha detto agli ebrei il commissario del governo tedesco delegato alla lotta all'antisemitismo, Felix Klein. Un governo europeo per la prima volta ha invitato gli ebrei a diventare invisibili, a non portare i segni della cultura e della fede.
  La missione principale di Adolf Hitler era quella di rendere la Germania, e tutta l'Europa, judenrein, "senza ebrei". Nell'ottobre del 1941 persino il minuscolo Lussemburgo fu dichiarato judenrein. Il campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau fu costruito per liberare l'Europa dagli ebrei. Vi arrivarono da ogni parte del continente, dalla Grecia ai Pirenei. I nazisti stermineranno 15.000 ebrei al giorno. Ottant'anni dopo, la vita ebraica è di nuovo presente in Europa ed esistono cospicue comunità in Francia, in Inghilterra e in Germania. Eppure, quasi inesorabilmente, in Europa è come se si stesse realizzando con altri mezzi la visione nazista. E oggi ci si domanda se il futuro non sia di nuovo un"'Europa senza ebrei".
  "Gli ebrei non sono il motore della società europea né della cultura, che rimane sempre quella della maggioranza, ma ne sono un carburante, o meglio, sono come la nitroglicerina che potenzia il motore" ci spiega il rabbino capo di Trieste, Eliahu Alexander Meloni. "Ogni volta che gli ebrei sono espulsi si perde questo potenziamento e si perde dinamismo e iniziativa, con la conseguenza di una fase di declino o di stagnazione.
  Penso proprio che l'Europa senza ebrei entrerebbe per un lungo periodo in un declino culturale e scientifico. Non significa che, col tempo, non possa recuperare questo ritardo, ma il prezzo sarà molto alto e l'esito incerto. L'Europa perderebbe definitivamente il suo ruolo centrale nell'equilibrio mondiale. Rimango tuttavia certo che un'Europa senza ebrei non esisterà mai, anche se molto viene fatto oggi per scoraggiare la presenza ebraica. Assomiglia a una forma di autodistruzione".
  Il rischio di scomparire è molto forte, se non ineludibile, anche per gran parte delle comunità ebraiche in Italia. Milano, la seconda comunità nazionale, aveva 6.505 iscritti nel 1996, 6.162 nel 2007, 5.378 nel 2014, 5.277 nel 2016, 5.244 nel 2018 ... A Trieste, una delle culle dell'ebraismo italiano, oggi si contano appena 520 ebrei. Nel 1986 la comunità contava 720 iscritti. 800 circa gli ebrei di Torino, dove nel 1990 erano 1.240. Numeri simili ovunque, da Ferrara a Firenze.
  Trent'anni fa tutti gli ebrei francesi iscrivevano i propri figli nelle scuole pubbliche. Adesso lo fa soltanto un terzo. Lo spazio pubblico europeo - dalle strade alle scuole - sta diventando judenfrei. Senza ebrei. Ebrei uccisi per strada e in casa, ebrei accoltellati, ebrei che fuggono all'estero, ebrei che cambiano casa, ebrei protetti dall'esercito, ebrei che nascondono la propria identità, stelle di David bruciate in piazza, merci ebraiche marchiate, studenti ebrei aggrediti ... E' la triste realtà della nostra Europa nel 2020. Neveragain è diventato everagain. Ormai non passa giorno in Germania che non si registri un caso di antisemitismo. E' un bollettino di guerra. Già nel 2007, prima che iniziasse questa ondata di giudeofobia, lo storico Bernard Lewis disse che il futuro degli ebrei europei era "fosco". La Shoah aveva vaccinato l'Europa dal ritorno dell'odio antiebraico, ma gli effetti della vaccinazione stanno svanendo, se non sono svaniti del tutto. Ciò che una volta era impossibile adesso è di nuovo immaginabile. Se non spezzeremo più il pane con gli ebrei, se li tradiremo nuovamente come abbiamo fatto nel '900, sarà la morte della civiltà giudaico-cristiana e di quell'Occidente così come lo conosciamo, o conoscevamo. Oltre ai suoi significati storici concreti, questa psicosi antisemita di massa ha anche una vasta portata simbolica, che consiste nel mettere il mondo occidentale di fronte alle sue origini bibliche. E' un Occidente sommerso dall'odio di sé. Spesso è bastato un grande attacco antisemita per spingere una comunità ebraica a svuotarsi. Una sinagoga è stata bruciata a Trappes, nella banlieue francese. "Gli ebrei hanno quasi tutti lasciato la città", raccontano nel libro "La Communauté" due giornaliste del Monde, Ariane Chemin e Raphaèlle Bacqué. "Una dopo l'altra, le famiglie ebree di Trappes hanno lasciato la città per stabilirsi in altre più accoglienti. Una parte ha trovato rifugio a Montigny, l'altra a Maurepas, la cui sinagoga raccoglie, oltre a questi nuovi fedeli, parte delle pergamene strappate al fuoco. Il macellaio se n'è andato, come Ben Yedder, il fornaio. A Trappes non rimane più alcun ebreo". C'è ancora un futuro per gli ebrei in Francia? La domanda sarebbe stata quantomeno assurda solo pochi anni fa. Oggi non si fa altro che porsela. "Gli ebrei hanno un futuro in Europa, ma solo se i paesi europei in cui vivono si renderanno conto di quanto perderebbero per l'esodo della loro popolazione ebraica" ci spiega Elvira Groezinger, che è a capo della sezione tedesca degli Scholars for Peace in the Middle East, ed è nata in Polonia nel 1947 da sopravvissuti alla Shoah. "L'Europa senza ebrei diventerà un'area arretrata, la sua cultura declinerà, potrebbe ancora diventare un luogo di conflitti religiosi, terrore e guerre. L'Europa cesserà di essere un rifugio spirituale e un centro culturale del nostro mondo, diventando un'area arida con un grande passato ma senza presente o futuro. Spero che non sia già troppo tardi per evitare che ciò accada".
  Gli ebrei francesi se ne vanno o si stanno preparando a farlo. Sembrano ancora numeri grandi. Quasi mezzo milione di persone. Ma che ne sarà quando saranno scesi a 200.000? Nel 2001 il rabbino capo di Bruxelles, Albert Guigui, fu attaccato da un gruppo di giovani arabi. Lo insultarono, gli sputarono addosso e gli diedero un calcio in faccia. Da allora, Guigui non indossa la kippah in pubblico. Due anni dopo, il rabbino capo di Francia, Joseph Sitruk, disse agli ebrei di indossare un berretto anziché la kippah, per evitare di essere attaccati per strada. E Henri Markens, direttore generale dell'Organizzazione per l'educazione ebraica di Amsterdam, ha raccontato a proposito di una scuola superiore ebraica: "Ai nostri studenti diciamo di mettere un berretto sulla kippah. Le circostanze ad Amsterdam non ti lasciano altra scelta". E' stato condotto uno studio sulla piccola comunità ebraica della Norvegia. I giovani ebrei non rivelavano in pubblico la propria identità. Le città cardine della vita ebraica europea - Vienna, Berlino, Varsavia, Lublino, Riga, Kiev, Praga - hanno oggi popolazioni ebraiche che tutte assieme non superano quella di un medio sobborgo americano. Oggi l'Europa vanta soltanto tre grandi comunità ebraiche nelle sue venti città più importanti: Mosca, Londra e Parigi; il resto è tutto in America e in Israele. In una conversazione televisiva del 2013, lo storico Robert S. Wistrich, a capo del Centro internazionale di studi sull'antisemitismo del Centro Vidal Sassoon presso l'Università Ebraica di Gerusalemme, ha affermato che nell'attuale clima l'ebraismo europeo avrebbe avuto ancora 10-20 anni di vita. L'Europa forse non diventerà completamente judenrein nel prossimo futuro (ci sono ancora ebrei persino nella città indiana di Cochin: 26, per l'esattezza). Ma è a rischio il valore, la presenza, il futuro ebraico stesso in Europa. Da più parti si odono le stesse sirene di angoscia. "Ci stiamo lentamente avvicinando alla fine dell'ebraismo europeo", ha detto Dov Maimon, a capo del Jewish People Policy Institute in Israele. Ci sono 15.000 ebrei in Austria, ma di questi soltanto 8.140 si dichiarano tali. Metà sono diventati "invisibili". Sono persi. E il capo degli ebrei austriaci fa i nomi delle comunità che rischiano di scomparire dalle mappe geografiche: "Milano, Copenaghen, Vienna, Stoccolma, Praga, Bratislava, tutte queste sono in pericolo di estinguersi in vent'anni. Ci saranno ancora ebrei, ma non più comunità ebraiche funzionanti".
  Anche il rabbino capo di Bruxelles Guigui ha avvertito che "non c'è futuro per gli ebrei in Europa" dopo gli assalti terroristici del novembre 2015: "Le sinagoghe sono state chiuse, una cosa che non accadeva dalla Seconda guerra mondiale. Le persone stanno pregando da sole o tengono piccoli gruppi di preghiera in case private". Secondo Qui sont les Juifs de France?, realizzato sotto la direzione di Émeric Deutsch e uscito per il "Bulletin de l'Agence télégraphique", nel 1977 in Francia c'erano 700.000 ebrei. Oggi ce ne sono 456.000. In quarant'anni la comunità ebraica francese si è già quasi dimezzata. 150.000 ebrei francesi vivono oggi in Israele.
  "Nessuno può conoscere il futuro", ci racconta Danny Trom, sociologo francese autore del libro "La France sans les juifs". "Ci si può distaccare dalle grandi tendenze e supporre che queste continueranno; si può immaginare senza difficoltà che la situazione continuerà a deteriorarsi. Con l'arrivo degli ebrei francesi dall'Algeria e da altri paesi del Maghreb, la Francia è oggi l'unico paese d'Europa dove rimane una comunità ebraica nazionale numerosa. Adesso loro partono sempre di più. Assistiamo allora, forse, alla fine di un'epoca. La partenza degli ebrei della Francia significa la partenza di ciò che rimane degli ebrei d'Europa". Vi è poi un secondo aspetto. "Si è creduto, dopo la guerra, che lo sterminio degli ebrei fosse la garanzia che l'antisemitismo non potesse rinascere. E invece la Shoah è stata il punto di partenza per rilanciare, sotto una nuova forma, l'antisemitismo. In particolare presso una popolazione immigrata detta 'post-coloniale' che pensa che si parli troppo della Shoah".
  L'ebraismo francese potrebbe davvero sparire? "Gli ebrei di Francia sono quel che resta degli ebrei d'Europa- sostiene Trom-Dunque, se emigrano, sarà probabilmente la fine non solo degli ebrei di Francia, ma d'Europa. La Francia è stata il primo paese a emanciparli, sarà l'ultimo a espellerli, in parte per ostilità, in parte per indifferenza. Se sono spinti a partire, sarà l'ultima grande comunità ebraica dell'Europa continentale che sparirà". E che genere di Europa sarà senza gli ebrei? "Non si sa ciò che sarà l'Europa, sarà un'Europa amputata di una parte di sé, ma la Shoah l'ha forse già realizzata senza che ce ne rendiamo davvero conto", conclude Trom. "Comunque vada, si sa che la crisi mette gli ebrei sotto una pressione tale che la loro continuità in Europa sarà compromessa". Il presidente della comunità ebraica di Tolosa, Arié Bensemhoun, ha consigliato ai giovani ebrei di lasciare la città, dove, secondo lui, non possono più praticare apertamente la loro religione.
  "Incoraggio i più giovani a fare il loro aliyah o ad andare dove possono prosperare in un ebraismo aperto ed emancipato, senza vivere permanentemente nella paura di ciò che accadrà loro domani", ha detto Bensemhoun. La comunità ebraica di Tolosa contava 20.000 persone, più o meno quante l'attuale comunità ebraica in Italia. Oggi sono rimasti soltanto 10.000 ebrei. Un altro attentato e potrebbe essere la fine per una delle capitali dell'ebraismo francese. Il vicesindaco di Tolosa e unico ebreo del Consiglio comunale, Aviv Zonabend, ha detto che tutti gli ebrei europei dovrebbero celare la kippah e che "il futuro del popolo ebraico in Europa è senza speranza". Dopo che il leader degli ebrei tedeschi, Josef Schuster, ha consigliato di non indossare più la kippah in Germania, Zonabend ha detto: "Solo in Germania? Dobbiamo toglierla in tutta Europa". Sta già succedendo.
  Quale perdita sarà per l'Europa? "Non si vedrà più lo straordinario fermento creativo degli intellettuali ebrei d'Europa tra il 1850 e il 1940", ci spiega lo storico francese Georges Bensoussan. "L'effervescenza filosofica, letteraria, lo sviluppo della psicanalisi, la loro presenza nel mondo della pittura e della musica che ha irrigato la ricchezza culturale europea prima della Seconda guerra mondiale. Quel mondo è morto nel 1945, e ciò a cui si assiste oggi è l'ultima fase di questa sparizione. Ciò che resterà è un'Europa che decade nel multiculturalismo, cioè nella comunitarizzazione e nel rinchiudersi dentro le identità tribali, in particolare in seguito al peso demografico dell'islam che è, innanzitutto, ricordiamolo, una civiltà e un codice giuridico prima di essere 'religione' nel senso occidentale del termine. E che sarà chiamata a imporre la propria legge, passo dopo passo, a coloro che non ne fanno parte, come a coloro che vorrebbero distaccarsene. Per gli europei, la fine discreta della traccia ebraica è il simbolo che annuncia la fine di una cultura di dibattiti, di confronti d'idee, di tolleranza nel senso del XVII secolo, in breve di una libertà di spirito che aveva fatto la sua grandezza. La mutazione attuale, causata dalla demografia degli uni e dalla vigliaccheria degli altri, condurrà ben più che alla censura, a un'auto-censura che è già all'opera, con la paura che fa il suo lavoro (da Rushdie nel 1989 a Charlie Hebdo nel 2015). Infine, e questo è già iniziato, l'impoverimento intellettuale e il regresso della democrazia. Su questo piano, la famosa immagine dell'ebreo come 'canarino nella miniera' si giustifica più che mai: la partenza degli ebrei è in effetti un cattivo segnale per coloro che vedevano ancora nell'Europa la terra dei Lumi".
  Malmo, Copenaghen e Oslo sono tre grandi vetrine europee della globalizzazione: città moderne, culturalmente di sinistra, molto ricche e super ospitali per immigrati provenienti da ogni angolo del mondo. Eppure, stanno diventando città molto pericolose per gli ebrei. Il principale quotidiano norvegese ha scritto di aver paura che il paese stia perdendo i suoi ebrei. "La Norvegia rischia di diventare un paese senza una popolazione ebraica", recitava un editoriale dell'Aftenposten, invitando lo stato a fornire maggiore protezione agli ebrei. Il venti per cento delle due più grandi comunità (Oslo e Trondheim) se n'è andato nell'ultimo decennio. La comunità ebraica di Malmo potrebbe dissolversi entro il 2029, a meno che le circostanze attuali non cambino. Contava 2.500 ebrei negli anni 70, 842 nel 1999, 610 nel 2009 e 387 nel 2019. Di questo passo, tra dieci anni non ci saranno più ebrei. "La congregazione ebraica sparirà presto, se non viene fatto nulla in maniera drastica", si legge in una nota comunitaria.
  "Ad Aubervilliers, che era in pieno sviluppo, è rimasta solo la comunità Chabad della scuola Chné" ci spiega Sammy Ghozlan, un ex ufficiale della polizia francese che dall'aspetto ricorda l'attore Yves Montand. Ghozlan ha fondato il Bureau national de vigilance contre l'antisémitisme, la principale organizzazione che monitora l'antisemitismo in Francia. Oggi la sua casa è a Netanya, sulla costa israeliana. I frequenti bollettini di Ghozlan, gli attacchi nei parchi e nelle scuole, le sinagoghe incendiate, gli assalti alla metropolitana-hanno intasato le e-mail dei giornalisti del Monde, Figaro e Parisien e di migliaia di ebrei in tutto il mondo. Secondo lui, luglio 2014 è stato il punto di svolta, dopo anni di crescente violenza antisemita: "Non c'era dibattito nella nostra famiglia. Sapevamo tutti: è ora di andare. Andarsene è meglio che fuggire". "Ad Aulnay-sous-Bois la sinagoga ora è deserta ed è difficile raccogliere un minyan di dieci persone per il sabato" ci spiega Ghozlan. "Bondy aveva una bella sinagoga. Oggi i fedeli sono partiti a causa dell'insicurezza. Da allora, ci sono due cupole dorate sulla moschea situata al centro della piazza. Il sindaco è ostile a Israele, il consiglio ha votato risoluzioni per il boicottaggio di Israele. Quindi prima la sinagoga di Bondy che va a fuoco, poi quella di Trappes, poi le granate lanciate contro la scuola Sinai a Parigi. Le Bourget non ha mai avuto una sinagoga, i fedeli hanno pregato a Blanc-Mesnil, così come quelli di Dugny. A Clichy-sous-Bois c'era una sinagoga molto bella e una comunità in piena espansione, ma è morta dopo tre incendi dolosi. La sinagoga di Saint-Denis è ora chiusa. Quelle di Pierrefitte o di Stains stanno per chiudere a causa della mancanza di fedeli".
  Ad Amsterdam ovest c'è una sinagoga, Sjoel West. Ogni shabbat, 25-30 ebrei vengono a pregare. Non c'è nessuna stella o nome di David sulla facciata, e ha un indirizzo segreto. Tutti gli ebrei che vengono coprono la kippah con un cappello. Non vogliono essere riconoscibili. L'ex eurocommissario sotto Romano Prodi, Frits Bolkestein, ha scioccato l'Olanda con queste parole: "Gli ebrei non hanno futuro qui e dovrebbero emigrare negli Stati Uniti o in Israele". "Il mio primo giorno ad Amsterdam, quando mi sono svegliato e ho guardato fuori dalla finestra, ho visto un grande edificio grigio e anonimo dall'altra parte della strada" spiega il giornalista israeliano Michael Freund. "Non c'erano segni identificativi, niente a indicare quale fosse la sua funzione. Ma poi ho notato un gruppo di bambini in un piccolo parco giochi, sotto gli occhi vigili di un poliziotto pesantemente armato. Ho capito subito che doveva essere la scuola ebraica, perché quale altro tipo di istituto educativo avrebbe dovuto nascondere la sua affiliazione?".
  Sopravvissuta ad Auschwitz e nello stesso trasporto di Anne Frank, docente all'università della città, Bloeme Evers-Emden ha detto a figli e nipoti di lasciare il paese e che una sola direzione si offriva loro: Israele. "I problemi non toccheranno me fintanto che sarò viva, ma consiglio fortemente ai miei figli di andarsene dall'Olanda". Se anche tutti gli ebrei lasciassero l'Olanda, la società olandese continuerebbe a funzionare senza problemi. E non sarebbe una sorpresa. Durante la Seconda guerra mondiale la scomparsa di 140.000 ebrei olandesi, di cui l'80 per cento sterminato dai nazisti, non causò alcuno choc nazionale. Ancora oggi, l'Olanda fatica ad ammettere le proprie colpe.
  "Alla fine degli anni 80 c'erano 80.000 ebrei in Germania e si parlava dell'ultimo che doveva spegnere la luce", ci spiega Cnaan Liphshiz, corrispondente dall'Europa per la Jewish Telegraphic Agency, nato in Israele e oggi residente ad Amsterdam. "Oggi in Germania ce ne sono molti di più. Dobbiamo dunque essere prudenti sul futuro. Ma anche onesti. E in paesi come Svezia, Belgio e Olanda le comunità ebraiche non hanno futuro. In Svezia si parla di chiudere la comunità di Malmo entro dieci anni. Non era mai successo dalla Seconda guerra mondiale. In Danimarca la comunità ebraica sta scomparendo, niente kippah per strada, numeri molto piccoli. In Norvegia c'è una comunità quasi inesistente, ottocento persone in tutto il paese. Dal Belgio è in corso una forte migrazione verso Israele. Ho un parente in Belgio e mi parla di numeri sempre più ridotti a ogni seder, la cena della Pasqua. In Olanda non abbiamo livelli di terrore come in Belgio, ma la comunità ebraica ha fatto sapere che metà dei membri non circoncide i propri figli".
  "Chiunque si preoccupi del futuro dell'Occidente dovrebbe chiedersi: 'Gli ebrei dovrebbero avere un futuro in Europa? E siamo pronti a combattere per quel futuro e i valori che gli ebrei rappresentano?'", ci spiega la giornalista ed esponente della comunità ebraica svedese Annika Hernroth-Rothstein. Nell'agosto del 2013, Annika fu vittima insieme al figlio di cinque anni di uno sgradevole episodio di antisemitismo, e da allora il figlio non indossa più la sua kippah in pubblico. "Gli ebrei sono a volte definiti come i canarini nella miniera di carbone della civiltà occidentale, ma dopo aver visto quello che ho visto negli ultimi anni aggiungerei che la diaspora ebraica è l'ultima linea di difesa contro un mondo senza valori. Il canarino connota l'inazione, semplicemente reagendo agli eventi che lo circondano, ma gli ebrei di tutto il mondo sono tutt'altro che passivi; stanno combattendo per preservare migliaia di anni di valori e di fede, muovendosi costantemente controcorrente, e questi meritano di essere protetti".
  Nell'arco di un anno, due sinagoghe sono state messe in vendita nel Comune di Schaerbeek a Bruxelles. Secondo il Concistoro ebraico del Belgio, quasi nessun ebreo vive più nel distretto della Gare du Nord. "Non ci sono quasi più ebrei in questo quartiere", dice Michel Laub, fondatore del Museo della deportazione a Malines. "Eppure, questa parte di Schaerbeek vicino alla Gare du Nord era un tempo un importante quartiere ebraico". Quando in una scuola secondaria di Bruxelles, a Laeken, Sarah non si è più presentata, non ci sono state manifestazioni o petizioni per conoscere i motivi della sua assenza, all'inizio di settembre 2014. Era l'ultima allieva ebrea dell'Atheneum Emile Bockstael. La scuola pubblica belga non può più garantire la "convivenza" tra le sue mura. L'Atheneum Emile Bockstael oggi è judenfrei, non ci sono più alunni ebrei.
  Per il 2050, Jonathan Sacks, già rabbino capo del Regno Unito e uno dei grandi maestri globali dell'ebraismo, prevede due scenari. Uno è molto fosco: "L'anno è il 2050. Gli ebrei hanno lasciato l'Europa. E' diventato così pericoloso indossare segni di ebraicità o esprimere sostegno a Israele in pubblico che gli ebrei hanno deciso di andarsene tranquillamente. A cento anni dall'Olocausto, l'Europa è judenrein. Negli Stati Uniti l'unico gruppo significativo sono gli ultra-ortodossi. Al di fuori dell'ortodossia, i tassi di disaffiliazione sono così alti che il resto dell'ebraismo diventa le nuove dieci tribù perdute. In Israele, una popolazione assediata si aggrappa cupamente alla vita. L'Iran, avendo vinto il suo confronto con l'Occidente, ha usato la sua nuova ricchezza e legittimità per accerchiare Israele con gruppi terroristici armati fino ai denti, il suo arsenale nucleare è una minaccia serissima contro ogni reazione decisiva. Molti israeliani se ne sono andati sapendo di poter trovare arance e sole anche in Florida e in California. Non puoi far crescere i bambini all'ombra della paura".
  Poi c'è lo scenario ottimistico tratteggiato da Sacks: "L'anno è il 2050. Gli ebrei in Europa stanno prosperando. Gli europei si sono finalmente resi conto che la minaccia dell'islam radicale non era solo rivolta agli ebrei e Israele, ma era contro la libertà stessa. Hanno agito, e ora gli ebrei si sentono al sicuro. Negli Stati Uniti, la vita ebraica è in aumento, i leader hanno deciso di sovvenzionare l'educazione ebraica e investire seriamente nella continuità ebraica. Israele, nel frattempo, avendo stretto alleanze strategiche con l'Egitto e l'Arabia Saudita di fronte a un Iran dotato del nucleare e all'islamismo apocalittico, ha finalmente trovato in Medio Oriente la propria accettazione de facto, se non la legittimità de jure".
  E' il grande bivio esistenziale cui si trova di fronte non soltanto l'ebraismo, ma anche l'Europa. Tutti i segnali indicano oggi che si va verso lo scenario più cupo di Sacks, tranne che per Israele, che continua a prosperare. Non abbiamo altro tempo per impedire questa catastrofe di civiltà che sarebbe la sempre più evidente "scomparsa" della comunità ebraica europea.

(Il Foglio, 27 gennaio 2020)


Giornata della Memoria

Pubblichiamo volentieri una poesia inviataci da una sorella in fede per questa occasione.
    Su quel treno... solo andata
    Un forte abbraccio a te caro papà
    che non hai potuto tornare a casa dal lavoro
    e prenderti cura della tua famiglia...
    Un forte abbraccio a te esile mamma
    che non hai potuto cantare la ninna-nanna
    al tuo bambino e rimboccargli le coperte...
    Un tenero bacio a te dolce bimbo
    che non hai potuto vivere la tua fanciullezza
    perché qualcuno prepotentemente
    te l'ha rubata...
    Un forte abbraccio a voi cari nonni
    che siete stati privati del calore della vostra casa
    e dell'affetto dei vostri nipotini...
    Un forte abbraccio a te Israele
    che non hai dimenticato il gas, il fuoco
    e la cenere dei tuoi figli, ma li hai riscattati
    dando loro un posto e un nome nella loro terra!
    Lode e gloria a te Signore
    perché sani tutte le ferite,
    consoli col tuo amore
    e con la forza della tua potenza doni il futuro!
    Carmela Palma
(Notizie su Israele, 26 gennaio 2020)


Tolto il divieto. Gli israeliani potranno andare in Arabia Saudita

Per la prima volta, Israele autorizza viaggi dei suoi cittadini in Arabia saudita. A firmare l'ordine, riferiscono i media israeliani, è stato il ministro dell'Interno Aryeh Deri, in coordinamento con il ministero degli Esteri e i servizi di sicurezza. I viaggi in Arabia saudita saranno permessi per motivi religiosi in occasione del pellegrinaggio alla Mecca, un'opportunità rivolta agli arabo israeliani di religione musulmana. Finora i pellegrini con passaporto israeliano ricorrevano ali' escamotage di usare documenti temporanei emessi dalla Giordania. Saranno possibili anche viaggi d'affari, ma il richiedente dovrà dimostrare di aver già organizzato la visita con le autorità saudite. L'ordine parlava di un tempo massimo di 9 giorni, ma un funzionario ha poi chiarito che i permessi potranno arrivare ad un massimo di 90 giorni, scrive Times of Israel. La legge israeliana vieta i viaggi nei paesi arabi, a meno di un'apposita autorizzazione del ministero dell'Interno. Israele e Arabia Saudita non intrattengono relazioni diplomatiche, tuttavia i rapporti sono progressivamente diventati più calorosi, anche in nome del comune interesse a contrastare la minaccia iraniana. Vi sono stati viaggi di uomini d'affari, ma sono stati mantenuti riservati. Non è chiaro fino a che punto l'ordine israeliano aprirà veramente ai viaggi in Arabia Saudita. Riad vieta l'ingresso ai cittadini israeliani e non ha fatto nessun annuncio in proposito. R.C.

(Il Tempo, 27 gennaio 2020)


Propaganda antisemita, sempre lei: l'espulsione degli Ebrei dalla Sicilia

di Daniele Monteleone

 
Dettaglio ingrandito di un'antica mappa del quartiere ebraico della Giudecca a Palermo
Nel corso del XV secolo, a Palermo, esisteva una folta e attiva comunità ebraica che viveva nell'integrazione e in prosperità. L'Isola siciliana, documenti alla mano, fino ad allora non conobbe eclatanti episodi di antisemitismo al contrario del resto dell'Occidente e questo ne fa un'affascinante eccezione di accoglienza e convivenza pacifica. Qui solo un dominio di affermazione eminentemente cattolica poté mettere in atto una vasta persecuzione contro gli Ebrei, un popolo che in Sicilia, e soprattutto a Palermo, ha messo radici profonde lasciando tracce altrettanto importanti.
  Gli Ebrei abitano Palermo fin dal X secolo (e alcune fonti risalgono fino all'età romana). Lungo il corso del torrente Kemonia, a nord del Cassaro e a sud della Kalsa, fra i rioni Meschita e Guzzetta si sviluppava il "ghetto" ebraico - anche se è improprio definirlo così per l'accezione odierna, poiché si trattava di un quartiere vasto e ben collegato al resto della città - al quale si accedeva tramite una porta di ferro comunicante col centralissimo quartiere del Cassaro. La sinagoga, il centro fondamentale della cultura religiosa ebrea, si trovava dove oggi campeggia il complesso del convento di San Nicolò da Tolentino, oggi adibito soprattutto ad archivio comunale. A riprova di questo dato storico, su un pilastro della chiesa si trova incisa l'iscrizione: «Il restaurato edificio una volta fu mare, poi triste palude, quindi orto e tempietto, finalmente, con passar degli anni, da sinagoga divenne piccola cappella di S. Maria del Popolo».
  Nel XV secolo la giudecca palermitana si presentava come una serie di abitazioni a più piani, aggiunti di volta in volta per gestire l'aumento dei componenti della comunità, un po' come è successo per il ghetto ebraico di Venezia qualche secolo più tardi. Gli ebrei palermitani erano una comunità piuttosto autonoma. Avevano infatti propri magistrati, scuole ed ospedali esclusivi, e una "Corte Rabbinica" creata ad hoc. La libertà di cui godevano li aiutò a raggiungere negli anni un grado di agiatezza non indifferente. Gran parte degli appartenenti alla comunità ebrea erano artigiani, pescatori e mercanti di stoffe e pietre. Il cimitero si trovava dove oggi ha inizio Corso dei Mille e l'ospedale si trovava nelle vicinanze di via Divisi, adiacente alla sinagoga. Fu proprio la presenza di tale struttura a influenzare la denominazione della zona, chiamata infatti "dell'Ospedaletto".
  Fino all'arrivo degli Aragonesi, gli ebrei siciliani vivevano pacificamente e senza discriminazioni con la maggioranza cristiana. È proprio fino all'arrivo degli spagnoli nel XIV che non si trovano testimonianze a proposito di eclatanti atti antigiudaici. Un'eccezione rispetto all'Occidente di allora, attraversato da diverse persecuzioni. Furono i francescani e i domenicani ad attuare per primi una propaganda denigratoria nei confronti degli ebrei, spingendo le masse dei fedeli a diffidare da questa comunità e ad allontanarsi da «coloro che hanno ucciso Dio». Fu così che l'antigiudaismo cominciò a manifestarsi in alcune zone della Sicilia. Non passò molto e i patriziati locali nascenti trovarono il pretesto per assecondare l'intolleranza religiosa e la persecuzione invocata dalla Chiesa cattolica. Esempio di quegli anni di violenza antisemita resta l'eccidio di Modica del 1474: un groviglio di urla, minacce e colpi mortali nel cuore della cittadina siciliana che lasciò sulle strade un numero imprecisato di vittime fra i 300 e i 600, compresi donne e bambini.
  Il 31 marzo 1492 re Ferdinando II d'Aragona promulgò l'editto di Granada che prevedeva l'espulsione degli Ebrei dal regno di Spagna e, dunque, anche dalla Sicilia. Entro il 31 luglio dello stesso anno avrebbero dovuto allontanarsi tutti i giudei dall'Isola, pena la morte. Gli ebrei siciliani vennero accusati di proselitismo e usura, accuse chiaramente infondate e basate su una campagna diffamatoria sistematica. Come infedeli erano sottoposti a una dura tassazione, tanto da contribuire in maniera sostanziosa al bilancio regio spagnolo. Per questo motivo i viceré siciliani tentarono di scoraggiare l'attuazione dell'espulsione degli ebrei in quanto si sarebbe rivelato un danno consistente all'economia isolana.
Secondo le stime più accreditate, dei 35 mila ebrei che vivevano nell'Isola, solo 9 mila decisero di rimanere ma cambiando il proprio credo (almeno pubblicamente). L'opzione di conversione al cattolicesimo, stabilita come ultima possibilità di tolleranza da parte delle autorità spagnole, concesse agli ebrei la possibilità di restare in Sicilia. Questi erano stati disponibili ad accogliere il ricatto della conversione per sfuggire all'esilio, ma si erano mostrati lo stesso sospettosi e diffidenti. Non si accontentarono della parola dei vescovi e vollero una risposta "dall'alto". La promulgazione della lettera di re Ferdinando del maggio 1492 rassicurava tutti: a chi si convertiva cristiano il re cattolico, insieme a un trattamento benevolo, garantiva anche la sicurezza della persona e dei beni. Come previsto l'espulsione si rivelò un clamoroso boomerang per la "città tutto porto" che si ritrovò ben più povera economicamente e culturalmente. Era ben lontano il sentimento cristiano della pietà e della tolleranza.
  La storia dei profughi ebrei siciliani è storia di un'integrazione fallita. È una storia che racconta una sopravvivenza ottenuta solo a spese della propria identità particolare, attraverso un processo accelerato di acculturazione mirato a cancellare in breve tempo i segni fisici e biologici di una diversità acquisita in quasi millecinquecento anni trascorsi in Sicilia. Una storia di persecuzione e propaganda, come tutte quelle basate su pregiudizi e azioni punitive di massa, basata sullo stesso ritornello umano della pretesa di superiorità di una categoria socio-culturale nei confronti di un'altra.

(Eco Internazionale, 26 gennaio 2020)



Ricordare la Shoah significa vigilare sull'antisemitismo

di Ugo Volli

Domani è la giornata della memoria, il settantacinquesimo anniversario della caduta dei cancelli di Auschwitz. La ricorrenza è stata celebrata con grande solennità a Gerusalemme alla presenza di una sessantina di capi di stato e di governo, fra cui Putin, Macron, il presidente tedesco e il nostro Mattarella: una riunione che ha anche il senso di riconoscere che lo Stato di Israele è oggi la difesa sicura contro l'antisemitismo. Ciò non significa affatto che la costituzione dello stato sia stata concessa come risarcimento della Shoà, come pretendono gli antisionisti: la decisione della Società delle Nazioni (l'Onu del tempo) che istituiva il mandato britannico allo scopo di "favorire l'insediamento ebraico" e di "costituire una sede nazionale (a national home) per il popolo ebraico" precede di una dozzina d'anni la presa del potere dei nazisti. La ragione dell'insediamento ebraico in Terra di Israele risale ai tempi biblici e non è mai venuta meno da 35 secoli. L'esilio imposto dai romani a buona parte del popolo ha impedito però per un tempo lunghissimo agli ebrei di sottrarsi alle persecuzioni, non solo quelle naziste, ma anche quelle sanguinose dell'Europa cristiana, durate almeno mille anni, e a quelle altrettanto lunghe e dolorose del mondo musulmano. Ricordare la Shoà, il grande massacro compiuto negli stati di tutta Europa su cittadini come gli altri solo perché ebrei, oggi per l'Europa vuol dire vigilare contro l'antisemitismo che rinasce e non solo nell'estrema destra, ma anche a sinistra e fra gli immigrati musulmani. Agli ebrei richiede di sapere che possono essere sicuri solo contando su se stessi e anche per questo hanno bisogno di uno stato loro che li difenda.

(Shalom, 26 gennaio 2020)



«Io, militare in Israele: respiravo cultura, mai odio»

Intervista alla Presidente delle Comunità ebraiche. Di Segni: non ho ricevuto offese ma dialogare è difficile, qui l'antisemitismo cresce

di Paolo Conti

 
Noemi Di Segni
Noemi Die Segni, 50 anni, doppia laurea in Economia e commercio e in Giurisprudenza, una specializzazione in Diritto ed economia della Comunità europea, guida dal luglio 2016 l'Unione delle Comunità ebraiche italiane: 25.000 iscritti. Di fatto, rappresenta tutti gli ebrei italiani di fronte alle istituzioni del nostro Paese. Bionda, occhi azzurri, raffinata ed elegante, sorridente, sempre molto pacata, mai un tono di voce inutilmente alto. Ha una doppia nazionalità: italiana e israeliana perché è nata a Gerusalemme il 24 febbraio 1969 da una famiglia ebrea di origine romana e torinese, ha tre figli, da poco è nonna. E sposata da 27 anni.

- Il primo ricordo di Noemi Di Segni bambina a Gerusalemme.
  «La fluidità con cui si passava da una parte all'altra della città, a bordo dell'autobus numero 4. Dai quartieri ultraortodossi a quelli di origine araba attraversando il centro dove si svolgono mille attività. Ecco, mi viene in mente proprio il concetto di fluidità, in una città che è molto più piccola della rappresentazione mediatica. Così come è diversa la realtà che si vive lì: c'è un racconto diffuso di luogo pericoloso, attraversato dalla paura che non corrisponde minimamente alla verità».

- La fluidità, la convivenza. Un simbolo forte.
  «Certo, lo sento anche oggi nel mio lavoro istituzionale. E' possibile la coabitazione tra diverse famiglie e origini ebraiche accanto ad altre realtà. A Gerusalemme ci si sfiora, tutti diversi, in vicoli larghi mezzo metro ... Un insegnamento importante, significativo: si può convivere mantenendo la propria identità nello stesso luogo, anche se molto stretto. Senza colpirsi. Senza aggredirsi».

- La sua famiglia registra un continuo via-vai tra Italia e Israele dal 1945. Lei è nata a Gerusalemme. Si è sempre sentita italiana?
  «Sempre. Al cento per cento. In casa era tutto italiano: lingua, cibo, libri, dischi. Insomma, cultura. Come è tipico in Israele: chi è figlio di immigrati, mantiene le proprie peculiarità C'è una sommatoria di tante diversità, è la ricchezza di Israele. Alle Elementari ogni anno si organizzava una serata ispirata alla diversità delle nostre provenienze nelle musiche e nei cibi: francese, americana, marocchina, persiana Ovviamente italiana».

- Lei ha svolto anche il servizio militare per due anni.
  «Sì, nel gruppo dell'Intelligence. Un insostituibile allenamento culturale. Non all'odio verso un nemico. Una parola che non ho mai, dico mai, sentito in due anni. C'era sempre il concetto di difesa, di tutela. Impressiona pensare che Israele affidi le sorti della propria difesa ai giovanissimi. Succede anche oggi. Quando vedo certi ragazzi in giro, più o meno sfaccendati, penso a quelli che in Israele oggi, a 18 anni, sono al mio posto di allora».

- Ma dove si sente «a casa»?
  «Ho sempre vissuto, e vivo, una situazione di schizofrenia. Perché sono inevitabilmente attraversata dalle due dimensioni: Italia e Israele, dove ora sono i miei tre figli. Io vivo qui, ho un grande impegno personale nel lavoro e nell'Unione delle Comunità ebraiche. Ma non nascondo il senso di colpa di non essere in Israele. Per anni non mi sono iscritta a nessuna Comunità italiana per la precarietà che avvertivo, perché pensavo "l'anno prossimo a Gerusalemme". Poi mi sono iscritta alla Comunità ebraica romana, per passione culturale ma anche per una scelta di rispetto, coerenza e senso di dover contribuire alla Comunità all'interno della quale vivevo».

- Ma perché tornò in Italia alla fine del 1989?
  «Per amore. Conobbi mio marito in un campeggio estivo in Italia organizzato per i giovani. E decisi di trasferirmi a Roma con lui».

- In cosa si sente israeliana?
  «In un certo stile di vita, nella facilità di aprire la casa, di ospitare. O di educare i figli. C'è una minore riservatezza complessiva rispetto al modello italiano. Per tornare al concetto iniziale, c'è più fluidità».

- Una sua paura?
  «Ho una sola angoscia. Se dovessi morire, ora o tra cinquant'anni, non sopporterei l'idea di essere sepolta qui per sempre, lontana da Gerusalemme».

- Lei guida gli ebrei italiani. Una realtà complessa.
  «Complessa, antichissima e vivissima di tradizioni e beni culturali. Girando per il nostro Paese ci si rende conto di quanto l'ebraismo italiano sia variegato rispetto ad altri ebraismi. E sia poco conosciuto. Un vero peccato. Io avverto l'orgoglio di rappresentare una catena di generazioni secolari che appartengono insieme all'ebraismo e all'Italia».

- Si è «ebrei italiani» o «italiani ebrei»?
  «Secondo me ebrei italiani. La componente dell'identità ebraica può essere molto forte o blanda ma alla fine la fiammella interiore è quella ebraica. Poi per tutto il resto si è italiani, nel costume, nella lingua, nelle tradizioni di famiglia. Ed è per questo che gli ebrei del nostro Paese vedono nell'Italia la propria Patria, con orgoglio, un legame fortissimo».

- Lei porta un nome biblico importante, Noemi. Una storia segnata dal dolore ma anche dalla capacità di legare le generazioni. Le pesa?
  «Non nascondo che quel nome può rappresentare un fardello importante riferito al racconto biblico e so di essere esigente e faticosa. Ma la radice di Noemi porta, in ebraico, anche al concetto di piacevolezza. Ecco, vorrei essere percepita nel mio modo di essere con questo significato».

- Ha mai avuto attacchi personali, o episodi di discriminazione legata all'antisemitismo?
  «No, per la verità non ho ricevuto particolari offese personali, né ho dovuto accettare limitazioni di alcun genere. Ho avuto, questo sì, spesso difficoltà a confrontarmi con persone che non riescono a ragionare, ed esprimono pregiudizi o generalizzazioni. Un fenomeno molto frequente».

- Parliamo di antisemitismo in Italia e lasciamo da parte numeri, statistiche. Che percezione ha del fenomeno? È stabile, in crescita, sta diminuendo?
  «Secondo me è in crescita. So che esiste una quota di antisemitismo legata alla crescita dell'estremismo e al terrorismo islamico, sempre più diffuso e pericoloso, e che individua come obiettivi di odio e di morte non solo gli ebrei. Poi c'è un antisemitismo crescente di gruppi di destra strutturati e che si richiamano al fascismo, forse al neonazismo, comunque all'estremismo. Li vediamo e li percepiamo sempre di più. Magari non abbiamo un contatto diretto con loro ma vivono nei nostri stessi spazi quotidiani, organizzano cerimonie e manifestazioni. Io non vado certo a Predappio ma le immagini che arrivano da lì impressionano e preoccupano. Soprattutto perché sono giovani. Si riferiscono a modelli fascisti di cui nemmeno conoscono bene le radici storiche e cosa riecheggiano. La rilevanza del fenomeno sta nel fatto che poi dilaga sulla rete con una modalità fatta di rapidi slogan, di semplificazioni. Inviti agli ebrei a sparire, ad andarsene, a tornare nei forni. Sono forme che emergono e fanno del male. E che crescono, appunto sulla rete. Poi c'è il vasto tema dell'anti-israelianismo, che si traduce anche in un odio contro gli ebrei italiani, identificati come rappresentanti di Israele in Italia. Un antisemitismo che passa per Israele e torna in Italia. Lo si vede ovunque in tante forme di boicottaggi: all'università, nei supermercati, nei festival, nelle fiere dei libri ... ».

- Tema attualissimo: la parità tra uomo e donna. Lei è presidente dell'Unione delle comunità. Suo marito è impegnato nel commercio di preziosi. A casa vostra c'è mai stato un ordine di priorità?
  «No, mai. Un problema che non è mai stato all'ordine del giorno. Mai una discussione. Forse il mio doppio impegno, professionale personale e istituzionale, genera sacrifici nel tempo dedicato alla famiglia che richiede una richiesta di infinita pazienza agli altri familiari ... ».

- Domanda molto ebraica: l'anno prossimo a Gerusalemme?

«Forse sì. L'anno prossimo a Gerusalemme. Forse, finalmente».

(Corriere della Sera, 26 gennaio 2020)


La comunità ebraica di Napoli contro de Magistris. «E' nemico di Israele»

La responsabile napoletana Lydia Schapirer diserterà la cerimonia organizzata nel Giorno della memoria: «Giunta ostaggio di pregiudizi»

di Salvatore Dama

La Comunità ebraica di Napoli ha deciso di non aderire alla cerimonia indetta dal Comune di Napoli per il giorno del ricordo e di organizzare una propria iniziativa. Si tratta di una polemica che va avanti da quasi un mese. Cioè da quando ha rifiutato il precedente invito alla cerimonia di installazione, in piazza Bovio, delle nove pietre d'inciampo in memoria delle vittime napoletane dell'Olocausto. Perché? La Comunità ebraica non ha perdonato al sindaco Luigi de Magistris la nomina del nuovo assessore alla Cultura e al Turismo, Eleonora de Majo, «nota per il suo attivismo anti israeliano» e che «ha espresso giudizi tanto superficiali quanto offensivi per quegli ebrei che, sia a Napoli che in tutta la diaspora e in Israele, sono stati testimoni del più grande progetto di genocidio che mente umana abbia mai concepito».
   Queste le motivazioni messe in fila in una lettera al Mattino, inviata alcune settimane fa.
   D'altronde lo stesso de Magistris non è considerato un sindaco amico. «Nel corso degli anni ha fatto molti strappi istituzionali nei confronti della nostra Comunità e degli Ebrei in generale», spiega la presidente della Comunità, Lydia Schapirer, in un'intervista al Denaro. «Ha dato la cittadinanza onoraria ad Abu Mazen e, quando gli abbiamo chiesto, per ovvia simmetria istituzionale, di attribuire la stessa onorificenza anche ad una alta personalità israeliana, all'epoca noi indicammo Shimon Perez, non ci ha neanche risposto. Nella complessa vicenda medio-orientale ha sempre mostrato una pregiudiziale e asimmetrica visione anti-israeliana». L'ultimo affronto, ribadisce Schapirer, è la nomina della De Majo, «esponente dei centri sociali, a tutti nota per le sue ripetute prese di posizione antisioniste e antisemite».
   Accuse alle quali nei giorni scorsi l'assessore ha replicato: «Mi spiace sinceramente per chi ha scelto questa importante celebrazione come ennesima occasione di polemica ma Napoli ricorderà le vittime della Shoah nel rispetto della storia antifascista nella quale ognuno di noi si riconosce orgogliosamente». Quanto alle sue posizioni anti-Israele, De Majo precisa: «Nel rispetto delle scelte insindacabili di ognuno, ritengo questa sovrapposizione pericolosa e profondamente disonesta intellettualmente. Criticare, anche aspramente, la politica di uno Stato non ha nulla a che fare con i rigurgiti di odio ed intolleranza che pure stanno tornando sempre più forti e violenti nella nostra società. L'antisemitismo esiste, è vero, ma bisognerebbe cercarlo dove cresce rigoglioso, vale a dire nelle sedi dei gruppi di estrema destra di cui sempre meno e con sempre meno convinzione si chiede la chiusura».
   Parole che non sono servite a riconciliare. Anzi. La Comunità ebraica di Napoli ha già disertato la cerimonia dello scorso 7 gennaio e rispedirà al mittente tutti gli inviti alle manifestazioni «che vedranno la presenza della signora Eleonora de Majo». Gli ebrei di Napoli, fanno sapere sempre dalle colonne del Mattino, «ricorderanno Luciana e Loris Pacifici, Milena Modigliani, Iole Benedetti, Oreste Sergio Molco, Amedeo, Aldo, Elda e Paolo Procaccia il prossimo 30 gennaio, alle ore 10 a piazza Bovio e alle 11 in via Luciana Pacifici, in occasione del 66esimo anniversario della loro deportazione ad Auschwitz. Lo faranno assieme ai tantissimi napoletani che rifiutano la facile retorica e con essa tutte le forme di strumentalizzazione, convinti che rispettare gli ebrei vivi e le loro istituzioni sia il modo migliore per ricordare quelli risucchiati nel vortice della Shoah».

(Libero, 26 gennaio 2020)


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L'appello di Nino Daniele: «Il sindaco faccia un passo verso la comunità ebraica»

Il Giorno della memoria disertato: «Una frattura che va sanata»

di Ottavio Lucarelli

Nino Daniele
NAPOLI «Faccio appello al sindaco Luigi de Magistris. Prenda un'iniziativa per ricomporre in queste ore il rapporto tra Comune di Napoli, Comunità ebraica e mondo dell'ebraismo in generale. Lo dico con tutta umiltà, sarebbe un gesto molto importante soprattutto in questo momento».
Nino Daniele, ex assessore comunale alla Cultura, lancia un segnale diretto al sindaco per ricostruire un rapporto che lui stesso ha alimentato positivamente per anni interrotto con la nomina di Eleonora De Majo, che recentemente ha preso il suo posto a Palazzo San Giacomo e che è stata subito criticata dalla Comunità ebraica per alcune sue frasi discriminatorie che hanno motivato una brusca interruzione delle relazioni. La Comunità ebraica celebrerà la Giornata il 30 gennaio (Daniele sarà presente) e diserterà gli appuntamenti del Comune domani.

- Lei Daniele, come ex assessore, vede rovinato il suo lavoro ma crede che ci siano davvero margini per ricomporre tutto rapidamente?
  «Eleonora De Majo ha spiegato che si tratta di frasi che risalgono ad alcuni anni fa. Frasi (riportate dalla stampa di equazione tra sionismo e nazismo e contro gli ebrei) in cui lei stessa ha affermato di non credere più, nel senso che non rappresentano le sue convinzioni attuali. Non vorrei apparire paternalistico o dare l'idea di fare la lezione a qualcuno; cosa che infastidisce in primo luogo me stesso. Ma chiedere scusa e riaffermare con nettezza che, ora, quelle parole le si considera un errore sarebbe un gesto semplice, da interpretare come elemento non di debolezza ma di forza morale ed istituzionale».

- Qual è il suo giudizio sullo Stato di Israele?
  «L'esistenza dello Stato di Israele e la sua sicurezza non possono mai essere messi in discussione. E' inammissibile moralmente e politicamente. Sono coessenziali alla pace e al diritto del popolo palestinese ad avere il suo Stato. Confondere Stato e governi è inaccettabile».

- Cosa dovrebbe fare, precisamente, Luigi de Magistris?
  «Il sindaco dovrebbe svolgere come in altri momenti il suo ruolo di rappresentante di tutte le comunità che compongono la vita cittadina. Cogliere questa occasione per rilanciare la visione di una città e di una istituzione comunale con una grande apertura. Come abbiamo fatto in passato quando la comunità si riteneva esclusa e considerava chiuse le porte di Palazzo San Giacomo ed ostile la Giunta. Un gesto personale di chiarezza e di incontro. Un gesto che riaprirebbe una fondamentale relazione in un momento storico in cui il razzismo e l'antisemitismo sono tra i sintomi più terribili dei tempi oscuri e di grande regressione che stiamo vivendo».

- Napoli antisemita è contro la storia della nostra città?
  «Napoli non può che essere in prima fila in questa cruciale lotta ideale e culturale per la civiltà. Questo è il momento per essere più che mai uniti e per ritrovarsi in nome di valori irrinunciabili, perciò bisogna compiere ogni sforzo».

- Lei è stato invitato a titolo personale il 30 gennaio alle celebrazioni organizzate dalla Comunità ebraica ?
  «Sono stato invitato alle due iniziative e interverrò sul tema della memoria. Mi ha fatto molto piacere proseguire in questo modo un rapporto avviato con una persona eccezionale per cultura e umanità come il rav Scialom Bahbout. Ricordo quando in sala giunta di Palazzo San Giacomo gli abbiamo conferito l'onorificenza di Cittadino benemerito per la cultura a Napoli. In quell'occasione ci fu una lectio magistralis a due voci tra lui e Ferdinando Imposimato. Un evento interculturale di grande significato. In un'altra occasione abbiamo anche ospitato la cerimonia della Hanukkah (festa della Comunità ebraica in cui si accende la Menorah) nel cortile del Maschio Angioino. Davvero un segno forte e credo con pochi eguali. Abbiamo organizzato con Suzana Glavas le giornate della memoria. Le tante visite ai cimiteri ebraici nei giorni di Vivi nel ricordo. Fino a questa ultima Estate a Napoli in cui nel cortile del Maschio Angioino campeggiava il grande striscione con il versetto del Talmud chi salva una vita salva il mondo intero. Insomma, c'è un lavoro avviato da anni che va recuperato e portato avanti».

- Ora è tutto interrotto?
  «Sì, e personalmente soffro per questa situazione che si è determinata. Bisogna riavviare un rapporto costruttivo con la comunità ebraica che è una componente essenziale della vita cittadina. Questa incomprensione, questa distanza si avvertono a Napoli e fuori di Napoli come un problema».

(Corriere del Mezzogiorno, 26 gennaio 2020)


Perché l'antisemitismo è una lunga storia

Le origini di un sentimento pericoloso che continua ad attraversare la società. L'autrice è una rabbina francese. Il saggio è stato un caso editoriale

di Susanna Nirenstein

Perché non sono amati? Perché gli si rìmprovera di non essere come gli altri, di incarnare una estraneità irriducibile e minacciosa, dice Delphine Horvilleur, una delle tre rabbine del Movimento ebraico liberale di Francia (più noto per il nome - Conservative - che ha nel mondo anglosassone dove Horvilleur ha studiato), 47 anni, riccioli neri e occhi penetranti, un tempo giornalista a France 2. Dopo i tanti attentati che hanno colpito i correligionari in Europa e soprattutto nel suo paese, come lei ricorda - le recenti uccisioni delle anziane Mireille Knoll e Sarah Halimi per mano di vicini di casa musulmani, il massacro all Hyper Cacher nel 2015, e quello alla scuola a Tolosa del 2012, l'assassinio di Ilan Halimi nel 2006 torturato a morte da un gruppo di giovani islamici, oltre alle innumerevoli aggressioni, intimidazioni individuali e profanazioni di tombe con simboli nazisti - Horvilleur ha deciso di prendere la parola in modo originale e speciale col saggio Riflessioni sulla questione antisemita.
  Originale perché esplora come l'odio contro gli ebrei può essere interpretato a partire dai testi sacri e da quelli rabbinici. Speciale perché esordisce sottolineando quanto l'antisemitismo non sia uguale alla xenofobia e al razzismo: gli argomenti che porta sulla differenza tra questa e altre forme d'odio non sono quelli storici (che la persecuzione sia solo in questo caso millenaria, che sia stata tradotta in un'azione di genocidio e tutt'ora venga minacciata in questo senso dall'Iran) ma di osservazione psicologica: il razzismo, argomenta, esprime avversione all'altro per ciò che questi non ha (lo stesso colore della pelle, la stessa cultura), il suo "non come me" si configura per il razzista come un "meno di me", e di lì a considerarlo inferiore è un attimo. Per contro, suggerisce, l'ebreo è odiato per quel che ha: lo si accusa di possedere ciò che spetta a noi, potere, denaro, privilegi, e anche del suo contrario, d'essere un rivoluzionario, di camuffarsi o di essere troppo appariscente, di essere minaccia al sistema e anche la sua incarnazìone, di volersi assimilare o di volere essere uno Stato altrove, lo si immagina detentore di un surplus di cui priva gli altri, divenendo un elemento di disturbo che devia e intossica il bene comune al punto da interrompere quella totalità a cui le società, soprattutto in crisi, aspirano: l'ebreo eccede, a cominciare dalla sua indistruttibilità (si ostina a non sparire, anzi si ripresenta con uno Stato minuscolo ma giudicato, ricorda Horvilleur secondo un sondaggio della Commissione Europea del 2003 "la minaccia più grave alla pace del mondo", più dell'Iran, dell'Iraq, della Corea del Nord ... forse perché romperebbe l'integrità del mondo arabo che senza di esso sarebbe serena e magicamente riconciliata?, sottolinea ironica.
  Persino il dolore dell'ebreo è indistruttibile, pensa l'antisemita sovrastato dal primato della sofferenza post-Shoah e incapace di perdonargli il male che gli si è fatto: il passato di oppresso o discriminato che dovrebbe funzionare come una sottrazione, un "meno di me", diventa paradossalmente un "più di me", un vantaggio in questa gara di vittimismi identitari minoritari degli ultìmi decenni - compreso il femminismo che gli viene invidiato (interessante l'ultimo capitolo "L'ecceSion ebraica" dedicato a quest'aspetto e a certa sinistra che associa gli ebrei ai dominatori anche quando la loro sicurezza è minacciata, mentre tra tutte le minoranze etniche nega solo agli ebrei la rivendicazione di una sovranità territoriale).
Delphine Horvilleur spazia a tutto campo. I capitoli di indagine dei testi sacri sono innovativi, perché pensa all'origine del fenomeno, partendo dall'identità del primo ebreo, Abramo, colui che compie una rottura, lasciando il mondo in cui è nato a seguito della chiamata divina, passando dal debole Isacco, dalla zoppìa di Giacobbe e dalla sua lotta con l'angelo, al travaglio dell'uscita dall'Egitto, alla balbuzie di Mosè (tutti manchevoli e difformi questi eroi della Bibbia) per giungere al Libro di Ester, dove il cattivo Aman trama parlando col re Assuero lo sterminio del popolo ebraico esiliato, un popolo "disseminato ma distinto tra i popoli di tutte le provincie ... con leggi diverse da quelle di tutti i tuoi popoli": una descrizione senza tempo di quelle che sono le accuse rivolte contro gli ebrei lungo tutta la Storia. L'indagine non finisce qui, attraversa il nemico per eccellenza, Amalec, e poi Esaù, il rifiuto del proselitismo che lascia le altre religioni incredule e sospettose verso un'appartenenza esclusiva, il Talmud e i passi in cui descrive i Romani, gli oppressori che hanno distrutto l'antìco regno di Israele, e poi ancora cosa hanno detto Sartre o Derrida della questione. Degli antisemiti esce un'immagine livida di rancore, invidia, gelosia, degli ebrei scaturisce un'identità forte, determinata, eppure così inafferrabile agli occhi degli altri.

(la Repubblica, 26 gennaio 2020)


Non si volta una pagina senza prima averla letta

«Anche i tedeschi temevano la reazione del Papa. E invece il Papa tacque. Nemmeno una parola» «Anche Primo Levi per anni è stato considerato solo un testimone, nonostante fosse un grande scrittore»

di Andrea Di Consoli

 
Lia Levi
Lia Levi, classe 1930, scrittrice, giornalista per trent'anni del periodico mensile di cultura ebraica "Shalom", dal 1943 al termine della guerra fu tenuta nascosta insieme alle sorelle nel collegio romano delle Suore di San Giuseppe di Chambéry. E quindi è a tutti gli effetti una sopravvissuta. Da anni aiuta a tenere viva la memoria della Shoah non solo attraverso i suoi libri, ma anche con incontri, dibattiti, interventi sui giornali e in televisione.

- Dottoressa Levi, in Italia è radicata una convinzione: che lo sterminio degli ebrei fu un crimine esclusivamente tedesco. È come se noi italiani non c'entrassimo nulla. Come interpreta questo stato di fatto, che è allo stesso tempo una rimozione e una distorsione?
  «Lei sta stoccando un punto centrale di quello che vado dicendo da anni. Anche perché come persona io sono stata vittima delle leggi razziali, e fortunatamente appartengo alla categoria degli scampati, dei sopravvissuti. Gli scampati sono quelli che si sono trovati sì in quel terribile punto delle geografia e della storia, ma che in un modo o nell'altro ce l'hanno fatta. Ho iniziato a scrivere di questa memoria negli anni '90, quando non si parlava quasi più delle leggi razziali, o addirittura venivano negate. Non aver affrontato questa pagina, perché l'Italia l'ha messa tutta in conto ai tedeschi, è stato un modo per non prendere coscienza della propria storia. Non aver voluto guardare in faccia la realtà è stato un atto di grande immaturità da parte della politica. Gli italiani hanno voltato una pagina senza averla letta. Non ci sono solo i lager e i forni crematori, che sono quasi irraccontabili per atrocità, ma anche le leggi razziali, che non sono state una piccola cosa, poiché hanno contribuito in maniera determinante alla Shoah.»

- L'opinione media diffusa è che le leggi razziali promulgate nel 1938 non espressero un vero sentimento antisemita degli italiani, ma che furono una sorta di concessione politica all'alleato tedesco.
  «Non sono una storica, ma anche gli storici concordano nel dire che le leggi razziali sono state un percorso autonomo del fascismo, compimento di una campagna razziale iniziata contro l'Africa. ''La difesa della razza", la famigerata rivista razzista del regime, conduceva in parallelo campagne sia contro gli ebrei che contro gli africani. Parlo anche per esperienza personale. In Germania la maggioranza dei tedeschi fu contro gli ebrei, gli italiani invece rimasero freddi, non reagirono. C'erano sì imprecazioni e insulti contro gli ebrei da parte dei fascisti, ma in generale la popolazione non ha reagito. Eppure non ha nemmeno protestato. Ecco, gli italiani non hanno protestato, contro le leggi razziali.»

- Come ricorda, cosa pensa, cosa prova se ripensa al suono della lingua tedesca nella Roma occupata dai nazisti?
  «Io ero una bambina, e nelle leggi razziali ci sono cresciuta dentro. E devo dire che sono state molto più dure di quanto si vada dicendo, perché noi ebrei eravamo dei non-cittadini, cittadini senza diritti. Quindi sono state molto dure, ma non comportavano l'eliminazione degli ebrei. Il terrore è scoppiato con l'arrivo dei tedeschi. Anche lì però, siccome l'ottimismo fa parte dell'istinto di conservazione, noi ebrei speravamo che l'Italia fosse al riparo, perché in Italia c'era il Papa, e poi c'era stata la richiesta dell'oro, e molti ebrei ci avevano creduto. Invece è stato orrendo. Nella Roma sotto il tallone tedesco era tutto "verboten", tutto vietato. Io ero nascosta in un collegio di suore, ero un po' appartata, ero piccola, e quindi grandi accenti tedeschi non ne ho sentiti, ma l'orrore a Roma si respirava in ogni angolo.»

- Com'è stato all'indomani della guerra il suo rapporto con i tedeschi e con la Germania?
  «Avendo fatto per trent'anni la rivista "Shalom", ho avuto modo di conoscere molti giornalisti tedeschi, che venivano anche in redazione. Erano tormentati, lacerarti, si mettevano a piangere. Ci dicevano: "Se non ci volete, cacciateci pure, potete farlo, non ci offendiamo". Questo dolore dei tedeschi io l'ho sentito molto forte, e tutto questo mentre l'Italia non faceva i conti con il proprio passato. Sono stata più volte a Berlino, e devo dire che Berlino è una città che chiede scusa. Ci sono musei, monumenti, luoghi della memoria. È una città, ripeto, che ha chiesto scusa. In Italia non ha mai chiesto scusa nessuno. Il Vaticano sì, lo ha fatto, ma perché l'Italia non ha chiesto scusa per le leggi razziali? La risposta che mi è stata data da alcuni politici è questa: la Costituzione italiana recita che l'Italia è fondata sull'antifascismo, e questo chiude la discussione. Ma le leggi razziali sono un'altra cosa. Ha sbloccato un po' la situazione il Presidente della Repubblica Mattarella, che per la prima volta ha parlato esplicitamente delle leggi razziali. Ma le scuse dell'Italia non sono ancora giunte.»

- Complessivamente come giudica il comportamento della Chiesa cattolica durante la Shoah?
  «Dividerei il problema in due. La reazione della Chiesa per salvare gli ebrei è stata molto forte. E non è stata spontanea come si dice, ma organizzata, da Assisi a Genova a Roma. Non sono state iniziative dei singoli conventi. Nel collegio dove stavamo noi per esempio le suore venivano e ci dicevano magari che bisognava aumentare le precauzione, perché così aveva informato il Vaticano. Diverso è il discorso sul silenzio del Papa. Anche perché è stato molto grave, questo silenzio. Prima della retata del 16 ottobre del 1943 Berlino aveva avvertito l'ambasciatore a Roma dell'intenzione della retata, e l'ambasciatore a Roma aveva risposto che temeva una reazione del Vaticano. Anche i tedeschi temevano una reazione del Papa. E invece il Papa tacque. Nemmeno una parola.»

- Nel collegio dove si trovava arrivarono gli echi della retata nel ghetto ebraico di Roma?
  «Altroché. Da subito. Dal giorno dopo è cominciata ad arrivare gente disperata, bambine, gente che era riuscita a scappare o che voleva mettersi in salvo. Quindi l'eco è arrivata subito. E da quel momento è cambiato tutto.»

- Lei porta un cognome impegnativo. Posso chiederle che idea si è fatta del suicidio di Primo Levi?
  «Guardi, io ho parlato anche con la sorella di Primo Levi. La cosa più sciocca che hanno detto è che si è suicidato perché nessuno lo stava più ad ascoltare. Non è vero. I suoi libri erano tradotti in tutto il mondo. Da quello che ho capito io, Primo Levi si è tolto la vita a causa di una fortissima depressione.»

- Quanto è stato duro per i sopravvissuti il suo suicidio? Quanto ha pesato?
  «È stato bruttissimo. Perché per un attimo ha tolto la speranza. Ma non c'è altra spiegazione: a uccidere Primo Levi è stata una fortissima depressione.»

- E ora? Ora che i testimoni non ci saranno più cosa accadrà?
  «La funzione dei testimoni è insostituibile. Lo sa bene chiunque ne abbia ascoltato uno. Gli anni passano, e i testimoni saranno sempre di meno. La trasmissione però avverrà attraverso la creatività letteraria. Non basta la testimonianza, ci vuole la forza della letteratura. Primo Levi ha detto che vale più il diario di Anna Frank che testimonianze rimaste nell'ombra. Con la creatività il messaggio passa con una forza straordinaria, perché la testimonianza da sola non basta. Quando non ci saranno più i testimoni diretti ci sarà la letteratura a tenere viva la memoria della Shoah.»

- Capita anche a lei ciò che capitava a Primo Levi, ovvero di essere approcciata soprattutto come testimone anziché come scrittrice? Le pesa questa "condanna"?
  «Certo, un po' sì. Mi fanno sempre domande storiche, anche se io non sono una storica. Quando presento i miei libri si parla sempre di storia, ma io vorrei anche parlare dei miei personaggi, delle mie storie. Ma è un peso che porto consapevole dell'importanza che ha tenere viva la memoria della Shoah. Del resto anche Primo Levi per anni è stato considerato solo un testimone, nonostante fosse un grande scrittore.»

(il Quotidiano, 26 gennaio 2020)



Abiterò in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio. Essi conosceranno che io sono l'Eterno, il loro Dio, che li ho fatti uscire dal paese d'Egitto per abitare in mezzo a loro. Io sono l'Eterno, il loro Dio.

Dal libro dell’Esodo, cap. 29


*

La Parola è stata fatta carne ed ha abitato per un tempo fra di noi, piena di grazia e di verità.

Dal Vangelo di Giovanni, cap. 1


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Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il primo cielo e la prima terra erano passati, e il mare non c'era più. E io, Giovanni, vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, che scendeva dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. E udii una gran voce dal cielo, che diceva: «Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini! Ed egli abiterà con loro; e essi saranno suo popolo e Dio stesso sarà con loro e sarà il loro Dio».

Dal libro dell’Apocalisse, cap. 21

 


Il piano di pace Usa verrà annunciato in concomitanza con le udienze per l'immunità Netanyahu

GERUSALEMME - L'anteprima del piano di pace per il Medio Oriente ideato dalla Casa Bianca sarà illustrato martedì, 28 gennaio, giornata in cui il parlamento israeliano, la Knesset, voterà per la creazione di una commissione incaricata di esaminare la richiesta di immunità da parte del premier Benjamin Netanyahu. Parte della stampa israeliana oggi si concentra sul parallelismo delle figure di Netanyahu e del presidente statunitense Donald Trump. Così come l'inquilino della Casa Bianca si trovava a Davos quando è iniziata l'audizione per l'impeachment, anche Netanyahu sarà a Washington nel giorno in cui la Knesset discuterà se accordargli l'immunità in relazioni ai casi di presunta corruzione.
   Entrambe le audizioni, evidenzia oggi il quotidiano israeliano "Jerusalem Post", avvengono nel pieno della campagna elettorale. Il prossimo 2 marzo, infatti, i cittadini israeliani ritorneranno alle urne per la terza volta in meno di dodici mesi e dovranno scegliere ancora una volta tra i due "vincitori" delle precedenti tornate elettorali: il generale in congedo Benny Gantz (leader del partito Blu e Bianco, Kahol Lavan) e Netanyahu. Secondo quanto riferisce oggi "The Times of Israel", Gantz starebbe valutando l'ipotesi di non recarsi a Washington e sabato, 25 gennaio, interverrà su questo tema.
   Oggi il leader di Yisrael Beytenu, Avigdor Liberman, falco della politica israeliana, ha criticato la tempistica dell'annuncio dell'anteprima del piano di pace. "Non ho dubbi che il programma del piano di pace che il presidente Usa vuole presentare includerà pochi elementi positivi", ha affermato. Tuttavia, secondo Liberman, la presentazione del piano avrà un impatto sulle elezioni. "Presentare il piano cinque settimane prima del voto, esattamente nel giorno in cui si aprirà il dibattito sull'immunità a Netanyahu, eviterà una discussione approfondita dell'iniziativa politica", ha aggiunto, sottolineando che "non sarebbe crollato il mondo se il piano fosse stato posticipato al 3 marzo". Il vicepresidente Usa, Mike Pence, ieri, 23 gennaio, ha confermato da Gerusalemme che Netanyahu sarà a Washington.

(Agenzia Nova, 25 gennaio 2020)


La scritta in tedesco «Qui ebrei» sulla casa dell'ex deportata

Mondovì, sfregio contro la staffetta partigiana Lidia Rolfi. Condanna unanime, indagano i pm

di Andrea Pasqualetto

 
MONDOVÌ - Da Mondovì fu costretta ad andarsene e a Mondovì, cittadina medievale adagiata fra le Langhe e le Alpi, nei mesi bui della prigionia promise a se stessa di tornare: «Voglio vivere per ricordare, per mangiare, per vestirmi, per darmi il rossetto e per gridare a tutti che sulla terra esiste l'inferno». Lidia Rolfi, staffetta partigiana, prigioniera politica e a lungo insegnante in questa terra piemontese di resistenza, riuscì nell'intento e così testimoniò al mondo l'inferno di Ravensbrück, il campo di concentramento tedesco dove fu deportata il 3o giugno del 1944.
   Succede che oggi, 76 anni dopo, nei giorni dedicati alla memoria dell'Olocausto, siano tornati anche i simboli antisemiti: «Juden Hier», qui ci sono gli ebrei, e la stella di David.
   È successo nella notte fra giovedì e venerdì scorsi proprio a casa di Lidia Rolfi, mancata nel 1996, dove oggi vive il figlio Aldo. Qualcuno ha imbrattato la porta d'ingresso mentre tutti dormivano. Se n'è accorta la compagna di Aldo alle sette del mattino, mentre andava di corsa al lavoro. Ha visto la scritta, l'ha fotografata e gliel'ha inviata su WhatsApp. Lui ha aperto il cellulare un paio d'ore dopo e da lì è iniziata una giornata convulsa. Carabinieri, Digos, sopralluoghi, testimonianze. La Procura ha aperto subito un fascicolo. «Stiamo indagando per propaganda e istigazione a delinquere per motivi di odio razziale, 604 bis, e lo stiamo facendo senza escludere nulla», ha detto con una certa prudenza il procuratore di Cuneo, Onelio Dodero.
   Al momento non ci sono indagati. Ma l'episodio è stato preso in seria considerazione dagli inquirenti, che da queste parti non ricordano precedenti. «Mai avuto a che fare con gruppi estremisti di destra», dicono alla Digos. E stato naturalmente prelevato un campione della vernice nera della scritta perché venga analizzato e si stanno controllando le telecamere della zona.
   Va anche detto che i responsabili del gesto un errore l'anno commesso: la famiglia Rolfi non è infatti ebrea. E un simbolo della resistenza, questo sì. Alla staffetta partigiana Lidia sono intitolate una scuola primaria e una via, la stessa dove si trova la casa presa di mira. «Mondovì non è un città razzista ed episodi di questo genere non ce ne sono mai stati, solo una svastica al cimitero tanti anni fa», spiega il sindaco Paolo Adriano che parla di «fatto gravissimo».
   Lui non crede alla ragazzata, piuttosto a un clima generale che sta alimentando rigurgiti di antisemitismo. Il pestaggio e le scritte di Roma contro Anna Frank, lo sfregio al Giardino dei giusti di Milano, le minacce alla senatrice a vita Liliana Segre.
   In vista della Giornata della memoria, il settimanale locale Provincia Granda ha dato ampio spazio a Lidia Rolfi, ospitando un intervento del figlio e alcune vecchie interviste della madre, che sui lager ha scritto molto e un libro su tutti: «Le donne di Ravensbrück: testimonianze di deportate politiche italiane». «La violenza non è morta l'8 maggio del 1945, non è morta all'apertura dei lager, la violenza continua», ricordava oltre trent'anni fa con un refrain che oggi risuona come un triste presagio.
   Ieri è stata naturalmente una giornata di reazioni sdegnate. A partire da quella dello storico e docente universitario Bruno Maida, assiduo frequentatore di casa Rolfi: «Ho attraversato questa porta mille volte. Ci abitava la mia amica Lidia. È uno dei molti segnali che ci dovrebbero fare alzare la voce per ricordare a tutti che essere antifascisti è il primo dovere della memoria». Unanime la condanna del mondo politico. «Ecco dove porta la cultura dell'odio», è stata la sintesi di Nicola Zingaretti. «Sono ebrea anch'io», hanno scritto in un post-it incollato sulla buca delle lettere di casa Rolfi.

(Corriere della Sera, 25 gennaio 2020)


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Sfregio nei giorni della memoria. I responsabili dovranno pagare

di Fiamma Nirenstein

Scritte, parole, segni. Nella notte fra il 9 e il 10 dicembre del 1936, la Notte dei Cristalli che dette il via all'eliminazione sistematica nazifascista del popolo ebraico, la notte in cui arsero i beni e le case ebraiche, la parola Juden fu scritta, scarabocchiata, bestemmiata su muri e vetrine e porte. Cominciava il rogo di sei milioni di persone, fra cui un milione e mezzo di bambini. Una scritta non è solo due parole in fila: è un'arma mortale disegnata sul muro, sulla porta, sui social media che sono la maggiore di tutte le superfici sfregiabili con parole offensive destinate a diventare armi.
   Così alla vigilia della Giornata della Memoria è orribile vedere quelle due parole nere di odio, in tedesco, con lo scarabocchio di una stella di David, il Magen David che gli ebrei portarono cucito addosso come un marchio di condanna a morte. Esso oggi, finalmente, campeggia glorioso sulla bandiera Israeliana. Si, disgusta lo scarabocchio nerastro sulla porta di casa di Aldo Rolfi, il figlio di Lidia Beccaria Rolfi partigiana deportata a Ravensbruck nel 1944, vomitato là di notte da un perfido demente dopo che Rolfi è intervenuto su un giornale locale per ricordare la madre, per altro deportata politica. Ma è in tedesco: chi l'ha scritta sa che la Germania era cosparsa di cartelli e segnali che dicevano da ristoranti, negozi alberghi, scuole:Juden sind hier unerwünscht. Gli ebrei qui non sono desiderati. Sa che negozi e sinagoghe furono sfasciati dopo essere stati segnati.
   Qui a essere presa di mira è una casa, il luogo di riposo e rifugio di ogni essere umano. Dopo la Notte dei Cristalli furono letteralmente decine di migliaia le case degli ebrei prese di mira, le squadre antisemite entravano e sfasciavano mobili, quadri, vasellame, sventravano cuscini e coperte. A Rostock e a Mannheim i nazisti distrussero praticamente tutte le case ebraiche, ovunque le case nella Grande Germania inclusa l'Austria furono attaccate per perseguitare gli ebrei e renderli miseri viandanti prima di deportarli. Le irruzioni nelle case venivano accompagnate da stupri e uccisioni. Le case, il rifugio di ogni essere umano, furono attaccate e prese di mira una a una proprio perché Juden hier, qui c'è un ebreo. I responsabili di questo gesto devono pagare o si intacca la promessa solenne fatta ieri da quaranta capi di Stato, compreso Mattarella: mai più.
   L'antisemitismo è un crimine che ha fatto troppe vittime anche in Europa, l'IHRA che il governo italiano come molti altri governi nel mondo ha accettato definisce l'antisemitismo nei suoi vari aspetti e adesso deve diventare una carta dei doveri. È l'ora di affrontare l'antisemitismo ovunque: nelle tane dei nazifascisti, come anche nelle sempre obliterate molteplici espressioni di antisemitismo genocida in Iran e nel mondo islamico in generale. Ogni Paese deve dire a chi odia gli ebrei: «Si, un ebreo è qui. Juden hier, e ne siamo orgogliosi».

(il Giornale, 25 gennaio 2020)


L'antisemitismo colpisce l'Europa, non solo gli ebrei

Nel Vecchio Continente sono sempre meno: oggi ne restano poco più di sei milioni. Un libro di Giulio Meotti

di Elena Loewenthal

In Israele vige un'ossessione per i numeri. Nulla a che fare con equazioni complesse o numeri astronomici: il conto è quello del censimento.
   Un popolo vissuto per millenni sul filo dell'estinzione ha bisogno di sapere che esiste anche nella quantità. Qualche anno fa, il censimento si è meritato titoli cubitali in prima pagina, di quelli che si usano solo per le grandi catastrofi, gli eventi epocali nel bene e nel male: allora la popolazione ebraica aveva, seppure di poco - qualche migliaia di anime - superato i 6 milioni. «Abbiamo sconfitto la Shoah!», dicevano più o meno così tutti i giornali, registrando un'emozione collettiva profonda, quasi indescrivibile.
   In L'Europa senza ebrei, l'ultimo libro di Giulio Meotti in uscita per Lindau (pp.174, € 16), il giornalista offre un quadro devastante della presenza ebraica in Europa. Dalla Francia ai Paesi Scandinavi, dall'Olanda all'Italia, il lettore trova qui sostanzialmente due cose: per un verso l'inarrestabile calo della popolazione ebraica, per l'altro una lunga serie di episodi di violento antisemitismo.
   È vero, i numeri dell'ebraismo europeo sono in drastico calo. Gli ebrei sono sempre meno: in Italia davvero pochissimi, un'inezia nel panorama demografico, neanche 24.000 in tutto lo Stivale, isole comprese. Ma sono tante, e complesse, le ragioni di questa esiguità, tanto italiana quanto europea. Matrimoni misti, assimilazione, e certo anche l'emigrazione verso Israele, magari sulla spinta della paura - come è accaduto in Francia all'indomani dei terribili attentati, da Charlie Hebdo al Bataclan.
   È dunque molto vero il quadro che descrive Meotti: gli ebrei sono sempre meno. Ma, al di là dell'allarme, si tratta forse di confidare nelle risorse di sopravvivenza-demografica, culturale, storica - che il popolo d'Israele ha sempre saputo mobilitare. Esiste infatti una specie di indecifrabile alchimia, o forse di fede tenace, che accompagna da sempre il corpo a corpo degli ebrei con la storia, con le innumerevoli avversità, con l'ostinazione del pregiudizio. Soprattutto con quella condizione esistenziale anomala che è stata, ed è tuttora la Diaspora.
   E poi c'è la questione dell'antisemitismo: davvero più all'ordine del giorno che mai, dal secondo dopoguerra. Ma l'antisemitismo è, più che degli ebrei, una questione dell'Europa, dei conti con la storia recente ancora in gran parte da fare. Per questo è necessario vigilare con tanta fermezza quanto equilibrio, senza mettere in gioco i valori della libertà e della responsabilità. L'antisemitismo è il vero «tradimento dell'Occidente», come dice il sottotitolo del libro: il fatto che in Francia e altrove si possa ancora essere assassinati per il semplice fatto di essere ebrei, il fatto che in Germania e altrove sia diventato rischioso andare in giro per le strade con una kippah sulla testa dimostra che l'Occidente ha tradito e continua a tradire sé stesso. Ha un che di assurdo, l'antisemitismo oggi. Eppure è reale, tangibile. Meotti ne enumera una preoccupante serie di casi, nel passato più recente. Perché davvero gli ebrei sono i canarini nella miniera di carbone, i primi a subire le mortifere esalazioni di metano e monossido di carbonio. Poi, però, tocca agli altri. Perché, oltre a essere un dis-valore di per sé, il pregiudizio antiebraico è immancabilmente un campanello d'allarme, l'innesco di una catena della violenza, fisica o verbale che sia.
   Che fare? Difficile somministrare ricette preconfezionate. Ma forse il primo passo è proprio quello della consapevolezza: capire che l'antisemitismo non riguarda tanto gli ebrei e quel loro destino funambolico che fino ad ora l'ha avuta vinta sulla storia, a dispetto di tutto, quanto l'Europa. Con le sue tragedie passate e presenti, i suoi valori, la sua memoria e le sue amnesie, la sua determinazione ad affrontare il futuro.

(La Stampa, 25 gennaio 2020)


Giornata della memoria, la Comunità ebraica diserta le celebrazioni promosse dal Comune

Restano sotto accusa le posizioni dell'assessora De Majo sullo Stato di Israele. La presidente Schapirer: "Il 27 siamo in prefettura per le medaglie agli internati". De Luca lunedì in sinagoga. Il 30 con il rabbino Finzi cerimonia alle "pietre d'inciampo" in piazza Bovio.

di Paolo De Luca

NAPOLI - Commemorazioni, incontri, proiezioni, medaglie al merito. Il 27 gennaio torna il Giorno della Memoria, ricorrenza istituita dall'Onu dedicata alle vittime della Shoah. A Napoli si prevedono numerose iniziative, istituzionali e non. Con una nota dolente: la Comunità ebraica non parteciperà a nessuno degli appuntamenti organizzati dal Comune. Il motivo è legato alla polemica con l'assessora comunale alla cultura Eleonora De Majo, accusata di aver espresso in passato posizioni contrarie allo Stato di Israele. De Majo aveva criticato su Facebook le politiche di Netanyahu definendo il suo governo "un manipolo di assassini" e aggiungendo che "sionismo è nazismo". Affermazioni che, come ha più volte ribadito l'assessora, non hanno nulla a che vedere con l'antisemitismo. Lydia Schapirer conferma la totale assenza della Comunità ebraica partenopea (di cui è presidente) alle commemorazioni organizzate da Palazzo San Giacomo lunedì. «Non possiamo accettare le parole di De Majo - dice Schapirer - che, tra l'altro, non si è mai scusata». In particolare, la presidente sottolinea quanto «la nostra decisione non ha nulla a che vedere con la politica: non avremmo contestato le sue affermazioni se avessero soltanto riguardato la sfera politica. L'assessora si è scagliata, invece, contro il popolo di Israele, definendolo "accecato dall'odio, negazionista e traditore". Paragonare poi Netanyahu a Hitler è inaccettabile». La Comunità che lunedì accoglierà in sinagoga (a via Cappella vecchia) una visita del governatore Vincenzo De Luca, organizza i suoi appuntamenti per la memoria giovedì 30. Non sarà una "contromanifestazione", ma un ricordo dell'anniversario del 1944, quando da Milano partì un convoglio per Auschwitz: a bordo c'erano 600 deportati ebrei, tra cui tre famiglie napoletane. Nessuna sarebbe tornata a casa. Si comincerà alle 10,45 a piazza Bovio, accanto alle nove pietre d'inciampo installate all'inizio del mese coi nomi delle vittime partenopee dell'Olocausto. Ci sarà il rabbino Maskil Ariel Finzi, che reciterà una preghiera composta da Rav Samuel Hirsch Margulies. Alle 11 ci si sposterà per una commemorazione a via Luciana Pacifici. Tra i partecipanti, Nino Daniele, ex assessore alla Cultura. Le iniziative del Comune, avviate già ieri a piazza Forcella, oggi alle 16,45 prevedono al Tan (Teatro area nord) "Il mare nero dell'indifferenza", letture da Liliana Segre a cura di Giuseppe Civati.
   Lunedì 27 alle 10,30, in ricordo di Luciana Pacifici (nella strada a lei intitolata), il sindaco de Magistris e l'assessora De Majo deporranno una corona. Alle 11, poi, nell'androne della Camera di Commercio a piazza Bovio, si terrà "La banalità del male", in collaborazione con l'Istituto Campano della storia della Resistenza e con l'Anpi. Alle 12 de Magistris sarà anche in Prefettura: il viceprefetto vicario Luca Rotondi conferirà le medaglie d'onore alla memoria dei familiari di sei cittadini della provincia di Napoli, internati in Germania dal 1942 al 1945. Gli eventi saranno preceduti alle 9,30 con l'iniziativa del liceo Umberto (piazza Amendola), a cui parteciperà anche il sottosegretario all'Istruzione Giuseppe De Cristofaro. Stessa ora al Teatro Totò (via Cavara) dove la fondazione Valenzi presenterà il progetto #CriticaMente contro la propaganda xenofoba. Seguirà proiezione del film "#AnneFrank. Vite parallele" per 500 studenti.

(la Repubblica - Napoli, 25 gennaio 2020)



Dagli Usa alla Russia, da Israele" alla Cina: la cyber-war è già in corso

di Mauro Masi

Secondo alcuni media israeliani lo scorso maggio il mondo ha assistito al primo caso di reazione con metodi «classici» a un attacco di cyber-war. Israele avrebbe reagito a un'offensiva cyber di Hamas con un contrattacco missilistico volto a distruggere il quartier generale informatico del movimento palestinese. Si tratta di un tipico esempio di guerra asimmetrica perché combina «soft e hard power»; tema quest'ultimo di scottante attualità nel contesto venutosi a creare dopo l'eliminazione del generale iraniano Suleimani. Tutte le guerre in realtà sono asimmetriche negli obiettivi, nelle strategie e nei mezzi (così Carlo Jean in un suo saggio del 2018). Lo sono da sempre; le uniche novità oggi sono la rilevanza assunta dal cyber-spazio e l'utilizzo di Internet e social media nella disinformazione, nella sovversione e attacco per indebolire la coesione degli Stati e quella delle alleanze con efficacia e capacità prima sconosciute. Tutto ciò viene definito info-war, variante della cyber-war.
   Nel bel libro lntelligence Economica (Rubbettino, 2011) ancora Jean assieme a Paolo Savona danno della cyber-war una brillante descrizione: «La cyber-war è estremamente dinamica, rapida e imprevedibile. Annulla il valore della distanza, del tempo, delle frontiere. Rende possibili sorprese strategiche molto più di quanto esse siano possibili con gli strumenti hard. Può consentire a piccoli gruppi o individui singoli collegatì in Rete di esprimere una grande potenza e di provocare danni disastrosi». Le Nazioni oggi egemoni hanno da tempo capito l'aria che tira e si stanno comportando di conseguenza: negli Usa già l'Amministrazione Obama aveva creato l'Office of Cyber Security, dal quale si è sviluppato l'Office for Strategie Influence, ufficio che lavora costantemente su Rete e social utilizzando come consulenti anche alcuni dei più sofisticati hacker americani. Negli Usa di cyber-war si occupa anche l'ufficio per la Cybersecurity and Infrastrutture Security Agency oggi diretto da Chris Krebs, uno dei maggiori esperti mondiali del settore. Cina e soprattutto Russia non sono da meno; sono ormai all'ordine del giorno in Occidente le polemiche sulle ondate di fake-news che sarebbero generate da migliaia di account russi direttamente o indirettamente connessi con istituzioni pubbliche; mentre qualche tempo fa il New York Times rivelò l'esistenza di un centro da cui partivano mega-attacchi informatici, un palazzone di 12 piani alla periferia di Shanghai quartier generale dell'Unità 61398 dell'Esercito di Liberazione Popolare, dove lavoravano «centinaia o anche migliaia di tecnici con connessioni in fibra ottica al altissima velocità di tipo militare fomite da China Mobile». Quindi la info-war o la ciber-war sono già ampiamente in corso e ci si sta accorgendo quanto sia difficile la difesa dalle aggressioni cibernetiche, che peraltro si dimostrano tanto più devastanti quanto più si rivolgono a Nazioni tecnologicamente evolute. Hanno effetti minori quando sì rivolgono a Paesi più arretrati, come ha dimostrato l'incapacità degli Usa di piegare la Corea del Nord utilizzando attacchi cibernetici.

(Milano Finanza, 25 gennaio 2020)



Alle radici dell'antisemitismo

Riccardo Calimani: quando la paura monta nella società, le persone vacillano. Nell'ultimo saggio lo studioso ripercorre la nascita della grande tragedia del secolo scorso.

di Fabio Bozzato

Il 27 gennaio saranno passati 75 anni dall'apertura dei cancelli del campo di Auschwitz-Birkenau. Il Giorno della Memoria chiede a tutti di fare i conti con l'immagine che i soldati russi si sono trovati di fronte, la verità della Shoah spalancata assieme a quei cancelli. Ma ci permette anche di alzare lo sguardo dietro a quell'immagine, per capire quanto sia stata incubata una vera impresa dell'odio dentro la società europea. A questo proposito ci viene in aiuto un libro, appena uscito, di Riccardo Calimani, La Grande Vienna ebraica (Bollati Boringhieri, pagg.230 ). Ingegnere e filosofo della scienza, Calimani è uno degli intellettuali veneziani più conosciuti, che è riuscito a scandagliare la storia dell'ebraismo in decine di volumi. Tra i tanti incarichi ricoperti, è stato anche presidente del MEIS, il Museo nazionale dell'ebraismo italiano e della Shoah di Ferrara. La grande Vienna ebraica nasce all'interno di un precedente lavoro, Destini e avventure dell'intellettuale ebreo (Mondadori, 1996). Il libro si dimostra uno strumento utile per leggere proprio quel giro di secoli: il fervore del dibattito, un discorso pubblico così inquinato di livore e antisemitismo, le nevrosi e il cinismo dell'epoca, avrebbero trascinato tutti nell'incendio degli anni '30 e '40.

- Che cosa significa oggi ripercorrere quella storia fino alla tragedia della Shoah?
  «Ricordare quella pagina è un obbligo morale. Questo è indiscutibile. Ma ricordare e basta rischia in qualche maniera di fossilizzare la memoria. Dobbiamo usare quei ricordi per saper vivere il presente e avere un monito per il futuro. Sappiamo che quando la paura monta nella società, le persone vacillano. E se si producono situazioni estreme, si può arrivare alla tragedia».

- Come successe nella Vienna del suo libro, a cavallo tra i secoli.
  «Vienna all'epoca era una "Gioiosa Apocalisse", per dirla con Hermann Broch. O il "laboratorio sperimentale della fine del mondo", per usare le parole di Karl Kraus, Entrambi si riferivano a un incontenibile ribollire di tensioni, di idee, di pulsioni che facevano di Vienna un crocevia unico, soprattutto di intellettuali. Vienna era la capitale di un enorme impero, che teneva insieme popoli, lingue, credi e tradizioni diverse».

- Questo organismo riusciva a resistere a tutte le tensioni?
  «L'Impero austro-ungarico, più che un retaggio del passato, era un prodotto del modernismo. Qualcosa di originale che riusciva contenere e a governare le cose più diverse. La stessa capitale era uno splendore nervoso, conseguenza di una grande instabilità sotterranea, di un mondo che cambiava».

- E la comunità ebraica aveva un ruolo da protagonista?
  «Una borghesia vivace, ancorata alle professioni e soprattutto alle attività di studio, come da tradizione ebraica. Tra il 1880 e il 1938, a Vienna metà dei medici e degli avvocati erano ebrei. Nel 1900 un quarto degli studenti di diritto e metà di quelli a medicina avevano una famiglia ebraica. Nei licei erano il 30% e in alcuni quartieri, come il Leopoldstadt, arrivavano al 75%».

- Eppure era un sistema disseminato di ostacoli antisemiti.
  «Per entrare in magistratura o a insegnare nelle università, la porta era sbarrata. E in questo caso, la conversione era l'unico modo: nel 1920 metà dei magistrati viennesi era di origine ebraica, ma battezzati e cattolici. Buona parte dell'intellettualità ebraica, di convinzioni liberali, premeva per tagliare con le tradizioni e procedere velocemente all'assimilazione. Sarà questo un terreno di inquietudine, sia di conflitto tra gli stessi intellettuali che di drammi personali, basti pensare alla figura geniale e controversa di Karl Kraus».

- Quanto di quel fermento arrivava nelle province dell'impero, ad esempio in Trentino e in Alto Adige?
  «Molto poco. Le comunità erano piccole, se paragonate a provincie come la Galizia, i cui paesi rurali avevano anche 1'80% di ebrei. Eppure qui il discorso antiebraico è stato profondo e sopravviveva la vicenda antica di San Simonino di Trento, un bambino scomparso il giovedì santo del 1475 e di cui furono brutalmente accusati gli ebrei del posto. San Simonino sarà ricordato fino al 1965 nel Martirologio cristiano come "fanciullo trucidato crudelmente dai Giudei"».

- Quando si consuma allora il salto di qualità dell'antisemitismo?
  «L'affare Dreyfus in Francia ha avuto un'influenza enorme, perché avveniva nella patria dei diritti. A Vienna il vero cambio è stata l'elezione a sindaco di Karl Lueger nel 1895, a capo del Partito cristiano-sociale, apertamente antisemita e razzista. L'antisemitismo, già sdoganato nel discorso pubblico, a quel punto guidava un'istituzione, mentre lo Stato non riusciva e non voleva reagire. Poi tutto corse veloce, fino al crollo dell'Impero con la Prima Guerra mondiale e la deriva politica degli anni '20 e '30. Un passato che è una lezione anche per oggi».

(Corriere del Trentino, 25 gennaio 2020)


Il mandolinista israeliano Avi Avital in tournée in Italia

BOLOGNA - Il mandolinista israeliano Avi Avital, uno dei più autorevoli interpreti di questo strumento, sarà in Italia nei prossimi giorni per una breve tournée che debutta il 27 gennaio all'Auditorium Manzoni di Bologna ospite del cartellone di Musica Insieme. Accompagnato dagli Archi di Santa Cecilia, formazione costituita dalle prime parti dell'orchestra romana guidata da Luigi Piovano, Avital eseguirà i Concerti RV 93 e RV 425 di Antonio Vivaldi, due brani composti appositamente per questo organico, e il Concerto Italiano di Bach trascritto per mandolino e archi da Antonio Piovano, il padre di Luigi. Nella seconda parte della serata Piovano proporrà le opere di due delle figure più importanti del Novecento italiano, Nino Rota e Ottorino Respighi. Del primo verrà eseguita la terza suite delle Antiche arie e danze per liuto, del secondo il Concerto per archi. Questo programma verrà replicato il 2 febbraio al Teatro Manzoni di Pistoia. Il 30 gennaio, invece, Avi Avital sarà ospite dei Concerti dell'Orchestra Rai di Torino dove eseguirà in prima assoluta il Concerto per mandolino e orchestra di Giovanni Sollima e il Concerto per mandolino e orchestra d'archi di Avner Dorman, due partiture che contribuiranno a mostrare il carisma esplosivo e lo straordinario virtuosismo di questo strumentista che ha portato all'attenzione delle più prestigiose istituzioni musicali le infinite possibilità espressive del suo strumento.

(ANSAmed, 24 gennaio 2020)


Shoah, il ricordo dei leader in Israele: tenere alta la guardia sull'antisemitismo

Il vice-presidente Usa Pence mette nel mirino l'Iran. E Netanyahu rincara la dose. Oggi la Casa Bianca potrebbe presentare il piano di pace: il premier uscente e lo sfidante Gantz nei prossimi giorni a Washington

di Fiammetta Martegani

GERUSALEMME - Questa cerimonia è un richiamo a tutto il mondo affinché non si abbassi mai la guardia contro l'antisemitismo e contro il fascismo». Sono accorate le parole del presidente Sergio Mattarella che ieri, a Gerusalemme, ha avuto un incontro bilaterale con l'omologo israeliano Reuven Rivlin per poi partecipare, insieme a una quarantina di capi di Stato e di governo, al "Forum internazionale sull' antisemitismo" che si è svolto allo Yad Vashem, il Memoriale per la Shoah, in occasione del 75esimo anniversario della liberazione di Auschwitz.
   «È importante che tutto questo avvenga a Gerusalemme», ha sottolineato il presidente nel faccia a faccia con Rivlin. «Eravamo entrambi già al mondo quando ci sono stati quegli orrori - ha detto Mattarella -, e siamo particolarmente sensibili e vigilanti, perché abbiamo percepito fin da bambini l'orrore di quel periodo». Una memoria da consegnare alle nuove generazioni. Anche per questo il presidente ha voluto porre l'accento sul valore della testimonianza della senatrice Liliana Segre, che ha definito «un patrimonio prezioso» dell'Italia». E Rivlin ha espresso profondo apprezzamento per la decisione della senatrice di istituire una commissione parlamentare per combattere l'antisemitismo e l'odio. Anche a livello europeo la sensibilità sta crescendo. «La Shoah è stata una tragedia europea - hanno dichiarato i vertici di Bruxelles -. Ricordare la Shoah non è fine a se stesso. È il fondamento di un'Europa che mette l'umanità al suo centro, proteggendola attraverso la legge, la democrazia e i diritti fondamentali».
   Tra i leader europei presenti allo Yad Vashem c'era il presidente tedesco Frank Walter Steinmeier, che, alternando inglese ed ebraico, ha espresso gratitudine a Israele e al mondo ebraico per la fiducia riposta nella nuova Germania: «Il peggiore crimine nella storia dell'umanità è stato commesso da miei connazionali - ha detto Steinmeier-. Vorrei poter affermare che noi tedeschi abbiamo imparato dalla storia una volta per tutte. Ma non posso farlo, perché l'odio si sta diffondendo». Anche Stati Uniti e Russia si sono stretti nella lotta all'antisemitismo. Il presidente Vladimir Putin ha avvertito che «la disgregazione di fronte alle minacce può portare a conseguenze spaventose» e ha proposto un summit con i leader dei Paesi del Consiglio di sicurezza dell'Onu «per la ricerca di risposte collettive alle sfide e alle minacce moderne». Il vice-presidente americano Mike Pence ha invece ricordato l'importanza di fronteggiare l'antisemitismo sollecitando, in particolare, una reazione contro l'Iran, «uno Stato che foraggia l'antisemitismo, nega la Shoah e minaccia di cancellare Israele dalle mappe». Parole raccolte con gratitudine dal premier israeliano Benjamin Netanyahu, che ha insistito: «Ottant'anni fa il mondo ci ha girato le spalle. Da allora il popolo ebraico ha appreso dalla Shoah. Oggi dobbiamo difenderci, in particolare dal regime iraniano, il più antisemita del mondo».
   Il vice-presidente Pence ieri ha incontrato sia il premier uscente Netanyahu, che il suo sfidante, l'ex generale Benny Gantz. I due leader sono stati invitati settimana prossima a Washington per essere aggiornati sulla Road map di Trump, che oggi ne dovrebbe anticipare le linee. Il «piano di pace del secolo» prevedrebbe la sovranità israeliana sulla valle del Giordano e sugli insediamenti dell"'Area C" in Cisgiordania. In cambio, il riconoscimento di uno Stato palestinese «smilitarizzato» nella restante Cisgiordania più Gaza. L'Autorità nazionale palestinese ha già respinto il piano ancora prima di conoscerne il contenuto.

(Avvenire, 24 gennaio 2020)


Israele, 40 capi di Stato contro l'antisemitismo. E Trump «offre» la pace

I potenti a Gerusalemme. Washington invita Bibi e Gantz: presto il piano per il Medioriente. Scintille Russia-Polonia sulle responsabilità nell'invasione nazista.

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Mentre intorno alla fiamma eterna accesa nella hall del Museo dell'Olocausto a Gerusalemme ieri per tutta la giornata quaranta presidenti, re, primi ministri hanno portato il loro tributo alla Memoria della Shoah promettendo di combattere l'antisemitismo, si preparava un altro drammatico annuncio. Mike Pence, vice presidente degli Stati Uniti e Benjamin Netanyahu, appena conclusa la grande conferenza hanno fatto sapere al mondo che la settimana prossima negli Stati Uniti si presenterà il famoso «Piano del Secolo». Esso, nelle intenzioni di Trump, dovrebbe portare la tanto desiderata pace fra Israele e palestinesi. Netanyahu, per sottolinearne la serietà, ha subito esteso l'invito al suo antagonista Benny Gantz, capo del partito «Blu e Bianco». Jared Kushner, incaricato per il Medio Oriente e genero di Trump, avrebbe dovuto essere qui per l'annuncio, ma il maltempo ha impedito al suo aereo di decollare. Secondo indiscrezioni, il piano prevede che i palestinesi ottengano lo Stato se riconosceranno lo Stato Ebraico; il controllo su Gerusalemme sarebbe israeliano e l'area C verrebbe annessa. I palestinesi riceverebbero grandi incentivi, ma lo Stato sarebbe demilitarizzato.
  In queste ore si passa così da due giorni di emozione legata al passato, ricordando la Shoah insieme a leader di tutto il mondo, a un periodo di discussione sul futuro. A Gerusalemme ieri molte parole di pace sono state dette, ciascuno ha portato un tributo al popolo ebraico nel 75esimo anniversario della liberazione di Auschwitz insieme alla promessa di combattere l'antisemitismo. Anche il presidente italiano Mattarella ha portato la sua testimonianza dell'impegno italiano: «Non abbasseremo la guardia contro l'antisemitismo» ha promesso durante il suo incontro col presidente Rivlin. Tutti i leader nella capitale di Israele, anche se ciascuno con le sue idee dichiarate, filtrate, suggerite nei discorsi, hanno tuttavia insieme formato un ideale scudo di difesa del popolo ebraico nella sua principale affermazione contemporanea, lo Stato Ebraico, Israele.
  Vladimir Putin, Mike Pence, Emmanuel Macron, il principe Charles d'Inghilterra, il presidente tedesco Frank Walter Steinmeier hanno offerto, dopo il presidente israeliano Reuven Rivlin e il primo ministro Benjamin Netanyahu e prima dei sopravvissuti, un prisma di sentimenti e interpretazioni con tuttavia un elemento in comune: una sincera commozione mista all'incredulo orrore di ciò che ha subito il popolo ebraico. Questo sentimento a un certo momento dei discorsi ha afferrato persino il glaciale Vladimir Putin quando ha raccontato lo spettacolo di orrore che i valorosi soldati russi videro dispiegato entrando ad Auschwitz; ha incrinato un attimo il flusso giovanile di Macron quando ha parlato dei bambini nei Campi; il british english del principe Carlo quando ha ricordato con orgoglio sua nonna Alice, riconosciuta fra i 27mila «righteous of the nations» per aver nascosto le prede dello sterminio, gli ebrei; l'ispirazione sincera di Pence quando ha ricordato che dal 1948 gli Stati Uniti sono rimasti accanto al popolo ebraico nei suoi momenti di lotta di sopravvivenza. E certo l'emozione era la chiave del discorso di Steinmeier che, dichiarando il proprio popolo colpevole del peggiore crimine della storia umana e denunciando il peso di questo fardello, ha recitato in ebraico la benedizione di «sheechyanu» che si dice quando finalmente la stagione torna a fiorire, si festeggia un evento nuovo e fortunato. Come essere tutti i leader insieme a Gerusalemme e giurare di combattere l'antisemitismo.
  Le parole di Bibi Netanyahu hanno avuto accenti di allarme e di determinazione diretta di fronte alle minacce di sterminio continue dell'Iran. Netanyahu chiede l'impegno internazionale contro questo antisemitismo genocida. E aggiunge che gli ebrei al tempo della Shoah non avevano rifugio, difesa, forza. Oggi con Israele gli ebrei non permetteranno una nuova Shoah. Non è stata una giornata priva di punti interrogativi. Putin, desiderato e controverso, ha inaugurato un monumento al valore dei soldati caduti a San Pietroburgo nella guerra contro i nazisti, e intanto infuria la sua polemica storica per cui il presidente polacco Andrzej Duda ha cancellato la sua visita. Le accuse (immemori del patto Molotov-Ribbentrop) formulate da Putin attribuiscono alla Polonia delle responsabilità nell'invasione nazista. Ancora, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky mentre Putin dichiarava che alcuni Paesi occupati furono più crudeli dei nazisti, lasciava le sedie della sua delegazione a quei sopravvissuti che non erano invitati. Ma Putin ha anche portato un'attesissima riposta positiva sul destino di Na'ama Issacharov, la ragazza condannata a 7 anni di carcere per pochi grammi di marijuana. «Andrà tutto bene» ha detto, criptico, a fianco di Netanyahu e la mamma di Na'ama. È stata ricordata da molti la definizione «IHRA» recentemente adottata anche dall'Italia: vi si riconosce che l' antisemitismo è anche antisionismo. Ma nessuno ha affrontato il nuovo antisemitismo se non dicendo che esso è padre di tutti i razzismi, e quindi va combattuto insieme. L'antisemitismo islamico, non c'era. L'importanza dell'incontro non è concettuale né programmatica: è nella presenza di tanti personaggi di primo piano in Israele. Questo, resterà.

(il Giornale, 24 gennaio 2020)


Putin all'inaugurazione del Memoriale dedicato all'assedio di Leningrado

Gerusalemme, 23 gennaio 2020
CREMLINO, 23 gennaio 2020 - A Gerusalemme, Vladimir Putin e Benjamin Netanyahu hanno inaugurato il Memoriale dedicato agli abitanti e ai difensori dell'assedio di Leningrado. Alla cerimonia hanno partecipato anche il presidente d'Israele Reuven Rivlin, il sindaco di Gerusalemme Moshe Lion e governatore di San Pietroburgo Aleksandr Beglov. Creazione congiunta di architetti di San Pietroburgo e israeliani, il monumento è stato eretto al Sacher Park nel centro di Gerusalemme. Una capsula con terreno proveniente dal Cimitero commemorativo di Piskarjovskoe, di San Pietroburgo, il più grande cimitero delle vittime della Seconda guerra mondiale, fu posta nelle fondamenta del memoriale. L'idea del memoriale è stata proposta dai veterani di guerra, dai sopravvissuti all'assedio e dai connazionali che vivono in Israele, ed è stata sostenuta da associazioni ebraiche di Russia e Israele.

Discorso alla cerimonia per inaugurare il monumento
Presidente della Russia Vladimir Putin:
    «Cari veterani di guerra, Signor Presidente, Signor Primo Ministro e coniuge, Signor Sindaco e coniuge, amici,
       È un grande onore per me partecipare a questa cerimonia tenutasi per dedicare un monumento agli eroici difensori e residenti di Leningrado. Inauguriamo questo monumento prima delle cerimonie che hanno un significato speciale per i nostri Paesi e nazioni. Uno dei momenti più drammatici ed eroici della storia della Seconda Guerra Mondiale si concluse il 27 gennaio 1944: l'assedio di Leningrado fu infine tolto. Esattamente un anno fa, i miei colleghi ne avevano già parlato qui, il 27 gennaio 1945, l'Armata Rossa liberò i prigionieri di uno dei più grandi campi di sterminio nazisti, Auschwitz. Oggi è la Giornata internazionale della memoria dell'Olocausto. Ci sono molti esempi noti nella storia di incredibile resistenza, sacrificio e orribili tragedie umane. Ma è impossibile paragonare l'assedio di Leningrado e l'Olocausto a qualsiasi altra cosa.
       La sacra memoria del martirio e il coraggio di milioni di persone, perdite incommensurabili, privazioni ed eroismo e la nostra giusta rabbia comune per ciò che i nazisti fecero viene trasmessa da una generazione all'altra. Tutto il mondo sa dell'assedio di Leningrado e dei villaggi vicini e del coraggio senza pari dei loro residenti e difensori. Ma alcun documento, storia o diario può descrivere ciò che la gente visse in quel momento. I miei colleghi ne hanno appena parlato. Per me queste non sono semplici parole, lo so non per sentito dire ma da quello che i miei genitori mi dissero perché mio padre difese la sua città natale al fronte, e mia madre era nella città assediata con un bambino morto nell'inverno 1942 e sepolto al Cimitero commemorativo di Piskarjovskoe a San Pietroburgo tra centinaia di migliaia di altri residenti.
       Il piano del nemico era assolutamente cinico: condannare a morte gli abitanti della città per fame e, citando un ordine nazista, "raderla a suolo con continui bombardamenti". Tuttavia, il nemico non poté eseguire tale ordine stampato nei documenti. Gli abitanti di Leningrado, persone di diverse origini etniche, non si arresero. Non si risparmiarono né al fronte dove continuarono i combattimenti incessanti, né in fabbrica producendo continuamente munizioni e materiale richiesti dal fronte. Ho solo menzionato materiale e munizioni. Non lo sapevo, ma mentre guardavo i documenti, diversi giorni fa, ho scoperto un fatto che mi ha scioccato. Durante l'assedio, i residenti di Leningrado donarono 144 tonnellate di sangue per il fronte nonostante la situazione in cui si trovavano. Privi di cibo, luce e riscaldamento, continuarono a lavorare negli ospedali e ad interessarsi di arte, scienza ed istruzione e, sacrificando se stessi, salvarono la grande città per le future generazioni. L'invincibile Leningrado divenne una vera leggenda, mentre la grandiosità della forza mentale dei suoi abitanti e la loro fiducia nella vittoria fu l'apice della dignità umana.
       Il monumento che abbiamo inaugurato oggi è un simbolo della nostra profonda memoria comune. L'idea di crearlo è di membri devoti del pubblico israeliano, veterani di guerra e nostri compatrioti, ed è stato creato col sostegno delle autorità di San Pietroburgo e Gerusalemme, con finanziamenti di benefattori di entrambi i Paesi. Vorrei notare con gratitudine e apprezzamento che Israele attribuisce un'importanza speciale alla preservazione della verità sul contributo decisivo dell'Unione Sovietica nella vittoria sul nazismo. Il popolo qui, come in Russia, è preoccupato, allarmato e oltraggiato dai tentativi di negare l'Olocausto, rivedere i risultati della Seconda Guerra Mondiale e ripulire assassini e criminali.
       Questo è il secondo monumento che abbiamo inaugurato congiuntamente sul suolo israeliano negli ultimi anni (come ha appena accennato il Primo Ministro). Il primo monumento fu eretto nella città di Netanya ed immortala la memoria dell'eroismo di ufficiali e uomini dell'Armata Rossa. Un atteggiamento onesto e assolutamente rispettoso nei confronti dei soldati sovietici trovava riflesso nelle mostre del memoriale Yad Vashem sulle vittime dell'Olocausto degli ebrei europei. Teniamo anche a cuore il nome del monumento inaugurato oggi. Ogni anno, il 22 giugno, il giorno in cui iniziò la Grande Guerra Patriottica, l'attività del Memoriale inizia in Russia alle quattro del mattino, con persone in tutte le città e i villaggi che accendono candele in segno di lutto per chi morì in quella terribile guerra. San Pietroburgo, già Leningrado, è dove questa tradizione è nata, nel 2009. Ora c'è anche una candela memoriale in Israele, dove vivono 1300 sopravvissuti all'assedio di Leningrado, i loro discendenti e amici e dove il popolo venera i suoi eroi e ricorda i morti. Qui, come in Russia, il popolo comprende l'importanza delle lezioni della Seconda Guerra Mondiale e non permette al mondo di dimenticare ciò che egoismo nazionale, disunione e connivenza sotto qualsiasi forma di sciovinismo, antisemitismo e russofobia possono portare. Il nostro dovere comune è di trasmettere questa conoscenza alle generazioni future, ai pronipoti dei vincitori, mentre gli trasmette il ricordo riconoscente di chi gli ha donato la libertà e dimostrato, a costo della vita, il perdurante valore della pace e della giustizia.
       In conclusione, vorrei dire solo qualche altra parola. Un monumento è un'ottima cosa; rimarrà qui per molto tempo, si spera per secoli. Può essere inaugurato in diversi modi. Ma il modo in cui l'avete fatto oggi… Grazie.»
(Aurora, 23 gennaio 2020 - trad. Alessandro Lattanzio)


Mattarella a Rivlin: 'Vigilare contro antisemitismo e fascismo'

Il Presidente a Rivlin: non abbassare mai la guardia

GERUSALEMME - "La cerimonia di oggi sarà un richiamo a tutto il mondo perché non si abbassi mai la guardia, l'attenzione e la vigilanza contro l'antisemitismo e contro la violenza e contro il fascismo". Lo ha detto il presidente Sergio Mattarella nell'incontro di oggi con il presidente Reuven Rivlin a poche ore del Forum internazionale sull'antisemitismo e la Shoah a Yad Vashem a Gerusalemme. "La presenza così ampia di capi di Stato e di governo che si raccolgono per lo stesso motivo è del tutto inconsueta ed è importante che avvenga a Gerusalemme", ha aggiunto.

(ANSA, 23 gennaio 2020)


Il fascista Ghisleni contro gli ebrei

Lettera a "il Giornale"

Dal quotidiano Bergamo repubblicana del 30 novembre 1943:
    «Ebbene signori è ora di finirla con gli ebrei ... La guerra l'hanno scatenata loro. Loro l'hanno voluta così come è detto nei Protocolli dei Savi di Sion (e a chi non li ha letti consigliamo di prenderne visione). Sono sempre stati i nostri nemici e ancor più lo sono oggi con la costituzione della Repubblica Sociale. E che aspettiamo a trattarli come tali? Aspettiamo forse che dopo aver nascosti e murati i loro tesori se la svignino nella ospitale Svizzera e da là continuino la loro nefanda campagna contro di noi? Basta con le parole. I fatti vogliamo, per il bene di tutti, per la salvezza della Patria».
Autore delle deliranti frasi, Alessandro Ghisleni, sottotenente della Guardia Nazionale Repubblicana. Di lui si ricorda una retata all'Istituto Palazzolo nel maggio 1944 dopo che una spia aveva rivelato la presenza di alcuni ebrei, nascosti in quella casa di cura da un parroco. Sei persone furono arrestate: i tre fratelli Vittorio, Mario e Guido Nacamulli, Gustavo Corrado Coen Pirani, Oscar Tollentini e Giuseppe Weinstein. I tre fratelli vennero incarcerati a Milano, poi al campo di concentramento di Bolzano e infine deportati ad Auschwitz. Vittorio morì nel gennaio 1945, mentre Mario e Guido, trasferiti a Buchenwald, morirono due mesi dopo. Oscar Tollentini morì in prigione a Milano nell'agosto 1944. Gustavo Corrado Coen Pirani venne deportato ad Auschwitz e ucciso all'arrivo, il 28 ottobre 1944. Giuseppe Weinstein avrebbe potuto salvarsi grazie al parroco che l'aveva fatto fuggire. Ma il sacerdote era stato arrestato in sua vece e, saputolo, Giuseppe si consegnò alle guardie, ottenendo il rilascio del prete. Deportato ad Auschwitz, venne ucciso all'arrivo, il 28 ottobre 1944. Ghisleni fu processato e condannato a guerra finita, ma la sentenza fu annullata in Cassazione. Emigrò in Sud America dove morì nel 1966 a 64 anni.
Elisa Bellini, Bergamo  

(il Giornale, 24 gennaio 2020)


Svelato parte del piano di pace di Trump per Israele e Palestina

Il no dei palestinesi. Martedì Netanyahu e Gantz alla Casa Bianca

Riconoscimento della sovranità israeliana sulla Valle del Giordano e sugli insediamenti nell'Area C della Cisgiordania, quella, in base agli Accordi di Oslo, già sotto controllo da parte dello Stato ebraico. In cambio, riconoscimento a tempo debito da parte degli Usa di uno Stato palestinese "smilitarizzato" che includerebbe il resto del territorio della stessa zona C, oltre le attuali Aree A e B, più Gaza. Questi i punti principali, secondo varie fonti citate anche dai media, del piano di pace del presidente Trump che dovrebbe essere reso noto, a parere di alcuni, entro il 2 marzo.Ovvero prima delle elezioni politiche in Israele.
   Il Piano è stato respinto in toto da Ramallah dalla dirigenza palestinese. "Insistiamo - ha detto Nabil Abu Rudeina, portavoce di Abu Mazen - per la fine dell' occupazione israeliana e per la costituzione di uno Stato palestinese lungo le linee del 1967, con capitale a Gerusalemme est". "Che Israele e Usa - ha concluso - non valichino linee rosse". Nell''Accordo del Secolo' messo a punto da Trump insieme al consigliere Jared Kushner ed altri (definito dai media di Israele "la migliore offerta mai fatta"), sarebbe previsto il riconoscimento da parte palestinese di Gerusalemme come capitale di Israele e di Israele come Stato ebraico. Per quanto riguarda la smilitarizzazione dello Stato palestinese, questa comporterebbe anche la Striscia di Gaza e quindi di Hamas.

(Agenzia Nova, 23 gennaio 2020)


Quando furono espulsi studenti e docenti ebrei, la pagina nera dell'Università di Palermo

Il 26 e 27 gennaio nell'Ateneo del Capoluogo incontri e rappresentazioni teatrali. L'allora rettore Maggiore, teorico del razzismo, parlava di "profilassi nazionale"

PALERMO - Era dura la vita degli studenti ebrei stranieri che studiavano nell'Università di Palermo durante il fascismo negli anni delle persecuzioni razziali. Alcuni furono espulsi, altri tentarono di sfuggire alle persecuzioni, almeno tre furono uccisi tra eccidi e campi di sterminio. Quella pagina di storia e di orrori viene ora riaperta dalla stessa Università che ha ritrovato negli archivi carte, documenti, libretti, schede, relazioni.
   Le tracce di vite bruciate finiranno in una mostra e saranno ricordate in una lapide, due momenti delle iniziative promosse dall'Ateneo per la Giornata della memoria. Il 26 e 27 gennaio incontri, rappresentazioni teatrali, conferenze daranno vita a un calendario di eventi presentato dal rettore Fabrizio Micari.
   L'Università di Palermo fu un caposaldo del razzismo. Con le leggi del 1938 cinque professori, tra cui il premio Nobel per la fisica Emilio Segrè, vennero cacciati. Lo annunciava con grande compiacimento l'allora rettore Giuseppe Maggiore, teorico del razzismo, nella relazione per l'apertura dell'anno accademico 1938-39. Nella "grande ora che passa", diceva, "l'Università non può essere apolitica" e le misure antisemitiche "non rappresentano una persecuzione, ma attuano una campagna di energica profilassi nazionale".
   Tra il 1923 e il 1938 erano 60 gli ebrei stranieri che studiavano a Palermo. La gran parte veniva dalla Polonia e dalla Romania e seguiva i corsi di medicina. Quasi tutti si laurearono ma per tre il destino fu fatale. Josef Lewsztein, fuggito da Palermo, venne catturato e ucciso nell'eccidio di Forlì (il suo caso ricostruito da Alessandro Hoffmann è diventato un testo teatrale che sarà messo in scena il 27 gennaio). Chiaia Chasis, diventata medico, morì in un lager nazista. La sua famiglia venne sterminata, solo il fratello pure laureato a Palermo si salvò. Un altro medico ebreo polacco, Ignazio Fruchter, morì in un campo di sterminio.
   "Ma di molti altri si sono perse le tracce", ha detto Alessandro Hoffman che con altri due docenti, Matteo Di Figlia e Mario Varvaro, il 27 gennaio interverrà a un seminario. Sul tema delle persecuzioni razziali anche il museo Salinas ospiterà un'altra mostra.

(QdS, 24 gennaio 2020)



Ecco perché Macron a Gerusalemme si è comportato come Chirac

Il presidente della Repubblica francese ha rimproverato l'agente di sicurezza israeliano che ha provato a entrare nella basilica di Sant'Anna, da secoli territorio francese in Israele. Come il suo predecessore nel 1996 ha voluto mandare un messaggio: rappresento la Francia e la città è anche nostra.

Dal suo arrivo sulla scena politica francese, ben prima di diventare presidente, Emmanuel Macron si è fatto notare per un'attenzione ai simboli fuori dal comune. Li capisce e li coltiva, li sfrutta a suo vantaggio, fanno parte della sua comunicazione, che è studiata in modo maniacale da lui in prima persona. In molti casi il confine tra messaggio genuino e recita ipocrita è sottilissimo, a volte non esiste, perché ciò che conta è il risultato, duplice: occupare i media nel breve termine, fissare un'immagine significativa, di cui tutti si ricorderanno, nel lungo. Appena arrivato in Israele per la sua prima visita ufficiale in Terra Santa, il presidente francese ha scelto di rompere il protocollo allungando oltre misura la sua passeggiata nella Città Vecchia, visitando la spianata delle Moschee, il muro del Pianto, la chiesa del Santo Sepolcro: «La sua agenda è esplosa», ha scritto il Monde, che ha inviato due giornalisti a seguire il viaggio di Macron. Il presidente ha ripetuto, insomma, il percorso che nel 1996 fece il suo predecessore Jacques Chirac, impegnato in un giro simbolico che comunicava un messaggio preciso e un po' arrogante: rappresento la Francia, a Gerusalemme vado dove voglio perché la città non è soltanto vostra.
   Un ottimo modo per far innervosire gli agenti di sicurezza israeliani, incaricati di seguire un capo di Stato straniero in un ambiente molto particolare, dove ogni gesto è politico e come tale può essere frainteso, strumentalizzato, estremizzato. E infatti Chirac, che si voleva grande amico degli Stati arabi nella regione e della causa palestinese, approfittò dell'insistenza della polizia israeliana, che voleva limitare i suoi contatti con i commercianti arabi della regione, per mostrare a tutti la sua risolutezza: «What do you want? Me to go back to my plane and go back to France» urlò. Un'immagine storica, che Macron conosce benissimo. Nel 2017 a Taormina, impressionato dal dispositivo di sicurezza che lo accompagnava per le strade della città vecchia, il presidente francese cominciò a scherzare con gli agenti italiani: «You want me to take my plane», disse ridendo.
   Così la scena che segue è telecomandata, scritta dal Macron sceneggiatore della sua presidenza. Il francese si dirige verso la basilica di Sant'Anna, uno dei quattro edifici di proprietà della République in Terra Santa, impossibile da non notare, visto che sul campanile svetta il tricolore. Visita prevista, che segue l'impegno di istituire un fondo di aiuto alle scuole cristiane in Medio Oriente, dove 400.000 bambini imparano il francese. A Sant'Anna è uso che entri soltanto la delegazione francese: questione di sovranità nazionale in un luogo dove la sovranità è un concetto sfumato e sensibile. Ed ecco che, forse per avventatezza, forse per provocazione, forse per strafottenza, un agente israeliano prova a introdursi nella basilica insieme a Macron, che sbotta: «Non mi piace quello che sta facendo davanti a me, esca! Rispetti le regole che sono in vigore da secoli, non sono io che le cambierò: qui siamo in Francia, tutti conoscono la regola!». Un'altra citazione di Chirac, protagonista di un episodio molto simile ma non ripreso dalle telecamere. Sempre nel 1996 l'allora presidente francese rifiutò di entrare nella basilica con i soldati israeliani: «Non voglio gente armata in territorio francese, non entrerò finché non se ne andranno». La ebbe vinta.
   Un buon modo per Macron di parlare al mondo arabo, che infatti ha molto apprezzato la sua visita, l'ha accolto nei luoghi santi dell'islam, ha rilanciato il video sui social media. Un riequilibrio rispetto a una dichiarazione molto significativa data davanti a Benjamin Netanyahu, primo ministro israeliano, con cui ha avuto un incontro bilaterale al mattino: «L'antisionismo è una forma di antisemitismo» aveva detto il presidente. Cristiani, ebrei e musulmani. Macron parla a tutti.
   Titolo facile sulla stampa francese: «Macron fait du Chirac à Jérusalem»

(LINKIESTA, 23 gennaio 2020)


L'Intesa privilegiata Putin-Netanyahu protagonista del forum sulla Shoah

Iniziano a Gerusalemme le celebrazioni per i 75 anni dalla liberazione di Auschwitz. Israele rende omaggio alle vittime dell'assedio nazista di Leningrado.

di Giordano Stabile

Vladimir Putin si è ritagliato un ruolo speciale al Quinto forum mondiale sull'Olocausto allo Yad Vashem. Fra i 41 capi di Stato partecipanti è quello che ha ricevuto le maggiori attenzioni da parte di Benjamin Netanyahu. Prima di tutto l'inaugurazione, oggi stesso, di un monumento alla vittime dell'assedio di Leningrado, attuale San Pietroburgo e città natale del presidente russo. Putin ha accostato i morti per inedia nella terribile battaglia alle sofferenze degli ebrei e adesso Netanyahu lo accontenta nella Gerusalemme che ricorda la Shoah. Il secondo regalo sarà la restituzione alla Russia del Cortile di Alessandro, un complesso nel cuore della Città Vecchia, accanto al Santo Sepolcro, che doveva diventare il consolato dell'Impero zarista e poi è passato di mano in mano dopo la rivoluzione bolscevica. Per Putin sarà la conferma del suo ruolo di «difensore dei cristiani d'Oriente», che affianca a quello di «difensore degli ebrei», più volte rivendicato.
   Sono ambizioni che non considera incompatibili, anzi. Il Forum si celebra in concomitanza del 75esimo anniversario della liberazione di Auschwitz da parte dell'Armata Rossa. Putin farà un «discorso storico» per rivendicare il primato della Russia nella lotta contro i nazisti e a difesa degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale. Ha sottolineato più volte il ruolo dell'esercito di Stalin nel «dissanguare» la macchina di morte hitleriana, e come 4,5 dei 6 milioni di soldati tedeschi uccisi in combattimento sono caduti sul fronte orientale. Un contributo che passa sotto traccia in Europa ma riconosciuto da Israele, tanto che lo Stato ebraico ospita l'unica parata militare fuori dalla Russia per la vittoria del 9 maggio sulla Germania nazista.
   Il leader russo è però andato oltre. Su queste basi ha forgiato un legame personale con Netanyahu, capace di superare divergenze strategiche abissali, come l'appoggio a Bashara-Assad in Siria. E qui a pesare sono soprattutto il milione di ebrei russofoni in Israele, un elettore su otto, e il ruolo della comunità ebraica in Russia, che ha importanti agganci al Cremlino. Non a caso il mega evento al Museo dell'Olocausto è stato organizzato da Moshe Kantor, un miliardario russo di origini ebraiche, oligarca così vicino allo «Zar» da essere chiamato «l'uomo di Putin», nonché presidente dell'European Jewish Congress. Kantor è riuscito persino a escludere la Polonia dalle celebrazioni, un altro favore a Mosca, con una manovra agevolata dalle polemiche sulla legge che proibisce di accusare Varsavia di collaborazione nello sterminio degli ebrei.
   Il presidente polacco Andrzej Duda ha reagito con un'altra celebrazione nella capitale polacca, ma Putin adesso conta sull'appoggio dello Stato ebraico per imporre la sua narrazione, a detrimento di Polonia e Ucraina. La luna di miele dovrebbe essere completata dal rilascio di Naama Issachar, giovane pizzicata in Russia con una modesta quantità di hashish e divenuta pedina di scambio fra i due Paesi. Un viaggio trionfale, neppure intaccato dalle aperture ai palestinesi e il rifiuto di riconoscere la sovranità israeliana sul Golan, come ha fatto Donald Trump. E che contrasta con le tensioni che ieri hanno accompagnato Emmanuel Macron. Il leader francese a un certo punto ha cacciato gli agenti israeliani che volevano accompagnarlo nella chiesa di Saint-Anne, in quanto territorio della République a Gerusalemme.

(La Stampa, 23 gennaio 2020)


Putin ospite principale al 5o Forum sull'Olocausto in Israele

Il leader russo ha incontrato il premier israeliano Netanyahu, il presidente Reuven Rivlin e il Patriarca di Gerusalemme Teofilo III.

 
Il presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, è volato in queste ore a Gerusalemme dove ha preso parte alla quinta edizione del Forum sull'Olocausto "Ricordiamo l'Olocausto, lottiamo contro l'antisemitismo" in qualità di ospite principale.
Nel corso della sua visita il leader russo ha incontrato il premier israeliano Benjamin Netanyahu, insieme al quale ha partecipato alla cerimonia di inaugurazione del monumento dedicato agli eroi dell'Assedio di Leningrado.
"Lavoriamo alacremente e in maniera regolare con il primo ministro e ci eravamo messi d'accordo da molto tempo su questa visita in Israele; sono sicuro che vada tutto a vantaggio delle nostre relazioni bilaterali. E, ovviamente, oggi abbiamo il grande compito di ricordare le vittime dell'Olocausto", sono state le dichiarazioni di Putin, il quale ha poi ringraziato Netanyahu e la sua consorte per "l'invito e l'ospitalità", consegnando un colorito bouquet floreale a quest'ultima.
In seguito Putin è stato ricevuto dal Patriarca di Gerusalemme e della Palestina Teofilo III e dal presidente israeliano Reuven Rivlin.
Con quest'ultimo il leader russo ha discusso l'indubbio valore della tragedia dell'Olocausto tanto per Israele quanto per la Russia:
"Per quanto riguarda la tragedia dell'Olocausto, il 40% dei morti e delle persone che hanno subito tortura erano ebrei provenienti dall'Unione Sovietica", ha spiegato Putin.
Inizialmente la visita di Putin sarebbe dovuta durare due giorni, ma la situazione legata alla formazione del nuovo esecutivo russo ha cambiato i piani del capo dello stato, che già oggi rientrerà in patria.

(Sputnik Italia, 23 gennaio 2020)


Riportate Naama a casa: il caso della ragazza detenuta in Russia scuote Israele

L'israeliana Naama Issachar, accusata di traffico di stupefacenti, partecipa all’udienza d’appello presso il tribunale regionale di Mosca il 19 dicembre 2019
Ventisei anni, israelo-americana, Naama Issachar è da nove mesi detenuta nelle prigioni russe. La sua colpa è quella di essere stata trovata in possesso di 9 grammi di hashish all'aeroporto di Mosca dove si era fermata per uno scalo tecnico il suo volo proveniente dall'India.
Un gesto avventato che le è costato una condanna a sette anni e mezzo di carcere. Nel suo caso le autorità russe non hanno mostrato alcuna indulgenza e la condanna è apparsa da subito molto severa e volutamente esemplare. Una durezza, quella russa, che, secondo Haaretz, potrebbe essere giustificata dal caso dell'hacker russo Aleksey Burkov, arrestato in Israele e poi estradato negli Stati Uniti con l'accusa di frode.
Pare, stando a quanto riportato dal quotidiano israeliano, che le autorità russe avessero fatto pressioni per uno scambio di detenuti. Ma le così non sono andate così e, oggi, il caso di Naama scuote le autorità israeliane a causa della risonanza mediatica sempre più forte e del sostegno polare alla liberazione di Naama. Nelle strade e nelle piazze spuntano ogni giorno cartelli con la scritta "Bring Naama Home", e questo sta diventando un problema per il premier Netanyahu in vista delle elezioni del 2 marzo.
Per questo sarà decisivo l'incontro tra Bibi e Putin che si troveranno faccia a faccia in Israele nelle prossime ore in occasione del Forum sull'Olocausto e l'antisemitismo.

(JoiMag, 23 gennaio 2020)


Leader mondiali a Gerusalemme. Una lezione all'antisemitismo

In 46 nella città santa blindata e Macron litiga con i poliziotti. Assente in polemica il presidente polacco.

Grazia in arrivo
Lo zar vede la madre di Na'ma, detenuta in Russia per pochi grammi di droga
Una cena da Rivlin
Anche Mattarella tra i capi di Stato che oggi saranno al museo della Shoah

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Come in una favola, i principi giungono a Gerusalemme uno a uno da ieri portando un dono importante come l'oro, l'incenso e la mirra: la memoria. Cosa c'è di più volatile e insieme di più indispensabile quando si parla del popolo ebraico, e quindi di Israele: non è un caso che tanto sforzo, tanti soldi, tanta perversa tenacia si stata messa dai nemici di Israele nel cancellare col cosiddetto «negazionismo» la memoria di ciò che è indimenticabile, ovvero il tentativo di omicidio di un popolo intero e la sua strage, con i bambini, e che questo sia andato in parallelo alla violenza antisemita. Adesso, nel 75o anniversario della liberazione di Auschwitz sono atterrate in Israele 46 delegazioni per partecipare al 5o forum mondiale sulla Shoah: un omaggio indubitabile allo Stato di Israele e anche un grido di allarme collettivo rispetto all'incredibile, inaspettata crescita di parole, gesti, delitti antisemiti. Ieri sera con una cena a casa del presidente della Repubblica Reuven Rivlin è iniziata la Conferenza che continua oggi al bellissimo museo della Shoah.
   Pence, Putin, Macron, il principe Carlo, il presidente Mattarella, il presidente tedesco, australiano, austriaco, l'elenco è interminabile, l'aeeoporto è intasato, le strade di Gerusalemme bloccate e alle stelle lo stato di tensione di fronte alla responsabilità di ospitare il doppio dei dignitari che già fioccarono in Israele per il funerale di Rabin e poi di Shimon Peres.
   Portare a buon fine la conferenza significa contenere l'ego di ognuno dei protagonisti in favore di una significativa presa di posizione contro gli odierni antisemiti a destra, a sinistra, nel mondo musulmano. Non è facile: ognuno dei leader, oltre alla sua solidarietà, porta con sé pretese e richieste, in ognuno dei Paesi rappresentati ci sono stati orribili episodi di antisemitismo, ognuno ha la sua interpretazione della natura dell'odierno antisemitismo. Però, tutti sono venuti in Israele. Il lavorio diplomatico di ciascuno affronta il compito di combattere un antisemitismo che sempre di più si mostra come odio antisraeliano, e però quello di conservare un tono benevolo verso i palestinesi. Ma si sa, Gerusalemme è mistica e astratta, facile soggiacere di fronte alle mura crociate, alla propria lettura della carta geografica e della storia del rapporto di ciascuno con gli ebrei. Molti si interrogano sulla visita di Putin che si sente un po' il principe dell'evento perché furono i soldati russi a entrare per primi ad Auschwitz. È nelle sue mani, in prigione una povera ragazza israeliana, Na'ama Issacharov, condannata da Mosca a sette anni perché aveva in valigia qualche grammo di marijuana. Netanyahu lo prega di graziarla, stamattina lo zar incontrerà la madre di Na'ama. Infine perché le sue pretese storiche sono quelle di dimenticare completamente il patto Molotov- Ribbentrov e anzi, di addossare ai polacchi la responsabilità dell'aggressione tedesca all'Europa. Così il presidente polacco Duda, che aveva chiesto di parlare ed è stato respinto, ha cancellato.
   La serata che ha aperto la conferenza sotto il patrocinio del miliardario russo Kantor, presidente dell'European Jewish Congress, è stata intensa e affettuosa. Chi ha invece infuocato il pomeriggio con toni aspri e arroganti è il presidente Macron: in visita alla chiesa francese di Sant' Anna in Città Vecchia, ha reagito alla protezione considerata invadente dei servizi israeliani cacciandoli con accenti padronali scaturiti, sembrava, dal profondo del cuore, sbattendo via le povere guardie israeliane dalla sua strada, mentre andava alla sua chiesa, sul suo territorio. Questa scena è stata la copia identica di quella di cui fu protagonista 24 anni fa Jacques Chirac: stessa chiesa, stesso rischio attentati, stesse circostanza, Chirac inveì contro le guardie israeliane e le cacciò. Totalmente dimentico di essere in Israele; anzi infastidito dalla circostanza.

(il Giornale, 23 gennaio 2020)


Le minacce a Israele e la forza indicibile di mia madre

Il candidato premier: «La diplomazia non basta più».

di Benny Gantz

Malka Gantz, morta nel 2009 a 81 anni, era la madre di Benny ed era originaria di Mezokovàcshàza in Ungheria. A 17 anni fu rinchiusa nel campo di concentramento di Bergen-Belsen dove vide il padre ucciso davanti ai suoi occhi. Sopravvissuta all'Olocausto, con il marito fondò un moshav, ossia una colonia agricola, non lontano da Ashdod, in Israele.
Settantacinque anni fa mia madre, Malka Gantz, mosse quelli che dovevano essere i suoi ultimi passi.
Costretta assieme a centinaia di altri prigionieri a varcare i cancelli del campo di concentramento di Bergen-Belsen, si avviò verso una marcia della morte che non concedeva scampo a nessuno. Ma lei miracolosamente si salvò.
Aveva appena 17 anni, uno scheletro umano che pesava 28 chili. Suo padre - mio nonno - incapace di reggere il passo, venne freddato a bruciapelo. Il suo assassinio fu solo una delle terribili perdite che mia madre ebbe a patire, man mano che le persone a lei più care cadevano vittima di una malvagità demoniaca che non si era mai vista fino ad allora.
In più occasioni ho avuto modo di visitare i campi di sterminio nazisti e ogni volta chiudo gli occhi e ripenso alla mia storia, alla storia del mio popolo. Spesso mi ritrovo a immaginare mia madre intrappolata in quell'inferno e rifletto sulla sua sopravvivenza, le indicibili umiliazioni che dovette sopportare nel corpo e nell'anima, le torture che le venivano inflitte senza sosta. Ma ricordo anche la sua incredibile risolutezza e quella misteriosa forza d'animo che la aiutarono a sopravvivere.
   L'Olocausto non ha eguali nella storia dell'umanità. Resta profondamente separato, quasi «un pianeta a sé», nelle parole dello scrittore ebreo e superstite Yehiel De-Nur, conosciuto anche come KaTsetnik (ovvero prigioniero di un campo di concentramento). De-Nur descrisse Auschwitz durante il processo a Eichmann: «Gli abitanti di questo pianeta non avevano un nome. Non avevano genitori né figli. Non indossavano abiti come facciamo noi qui. Non vivevano e non morivano secondo le leggi di questo mondo». Tuttavia con il passar degli anni De-Nur cambiò idea: «Auschwitz non era un altro pianeta. Auschwitz non è stato creato dal diavolo né da Dio. È stato creato da un uomo. Hitler non era il diavolo, ma un essere umano».
   Gli orrori dell'Olocausto però non apparvero dal nulla. Furono il risultato naturale di anni e anni di propaganda velenosa, concepita proprio per soffiare sulle braci dell'odio. La diffusione sistematica dell'ideologia fascista ebbe l'effetto di offuscare la sensibilità collettiva e da ultimo trasformò la Germania da culla della cultura in esecutore dei peggiori crimini mai commessi contro l'umanità. La democrazia nelle mani di un dittatore assetato di potere altro non fu che uno strumento di manipolazione. Lo Stato di Israele sarà perennemente grato alle potenze alleate e all'Armata rossa per il ruolo svolto nell'estirpare il male assoluto del nazismo.
   Quei tempi bui sono ormai alle nostre spalle, ma non significa che siamo diventati immuni agli effetti dei discorsi intrisi d'odio. La nascita dei nazionalismi, la xenofobia e le spinte globali verso l'isolazionismo, facilitate dal modo in cui i sentimenti di avversione si diffondono tramite le moderne tecnologie, rendono la nostra epoca particolarmente fragile nella battaglia contro l'odio e in particolare contro le attuali manifestazioni dell'antisemitismo. I dati sono preoccupanti. Un sondaggio condotto dall'Anti-Defamation League rivela che un cittadino europeo su quattro nutre convinzioni antisemite. Come figlio di sopravvissuti dell'Olocausto, come ebreo e come umanista, tutto questo mi affligge profondamente.
   L'antisemitismo rappresenta una minaccia al tessuto umano e democratico della società europea: la lotta contro di esso costituisce un baluardo per l'Europa stessa, oltre che una misura per proteggere le comunità ebraiche locali. Spetta ai governanti del mondo libero avviare iniziative coraggiose per assicurare che l'umanità intera non dimentichi mai quanto possa diventare angosciante e funesto questo mondo. Spetta a tutti noi dare un vero significato alle parole «Mai più», tramite azioni precise e dirette a estirpare l'odio.
   Il Giorno della Memoria, che si celebra in tutto il mondo per ricordare il 75o anniversario della liberazione di Auschwitz, non è solo un modo per ristabilire un contatto con il passato. Il ricordo dell'Olocausto ci costringe a guardare al nostro presente e al futuro. Dobbiamo ammettere che siamo di fronte non solo al dilagare dell'antisemitismo, ma anche a un crescente odio verso la collettività ebraica, attraverso innumerevoli tentativi di delegittimazione dello Stato di Israele. Nella sua manifestazione più estrema questo nuovo odio verso gli ebrei e il disegno di insidiare l'esistenza di Israele nascondono la volontà di annientare il popolo ebraico. Sin dai primi giorni di vita di Israele, i Paesi confinanti hanno tentato di distruggerci. La nostra potenza militare e la nostra fiducia in noi stessi hanno scongiurato il disastro e ci hanno portato alla vittoria. Da allora siamo stati pronti a tendere la mano in segno di pace verso quei nostri vicini che ne riconoscono il valore.
   Ma non tutti i nostri detrattori hanno saputo accettare la nostra esistenza. Il regime iraniano lavora febbrilmente per accelerare la creazione di mezzi che mirano a distruggere Israele. La banale negazione dell'Olocausto non basta più ai leader iraniani. Se dovessero raggiungere il loro obiettivo, non solo il Medio Oriente e Israele, ma nessun luogo al mondo sarà più sicuro. Purtroppo, anche i diritti del popolo iraniano vengono tragicamente calpestati: i cristiani e altre minoranze sono perseguitati, le donne lapidate, manifestanti e oppositori politici imprigionati, mentre gli omosessuali vengono messi a morte nelle pubbliche piazze.
   Essendo profondamente avvezzo agli orrori della guerra, sarò sempre a favore della diplomazia rispetto all'intervento militare. Occorre però ammettere che tutti gli sforzi diplomatici per risolvere la crisi iraniana sono caduti nel vuoto. Nel giro di un solo anno l'Iran sarà in grado di arricchire l'uranio e dopo altri due o tre arriverà alla produzione di armi nucleari. Non intendo dire che bisogna abbandonare la diplomazia, quanto piuttosto che la diplomazia, da sola, non basta più.
   L'Iran non avrà mai armi nucleari. Come ex capo di Stato Maggiore sono al corrente dei piani operativi e posso affermare che Israele ha la volontà e la capacità per impedirlo. Anche se il prezzo da pagare sarà altissimo. Per evitare l'intervento militare, i leader mondiali dovranno formare un fronte compatto. I capi di Stato europei dovranno riconoscere il regime iraniano per quello che è: una minaccia a Israele e all'intera regione, un pericolo imminente per gli interessi strategici dell'Europa. L'Iran punta a distruggere Israele anche perché simbolo del mondo libero. Proprio come la leadership mondiale venne chiamata alle armi durante gli anni più bui della nostra Storia, anche oggi non è consentito sottrarci alle nostre responsabilità. Voglio elogiare il presidente Trump per aver agito con risolutezza nel far pressione sul regime iraniano. E voglio elogiare i leader europei per aver deciso di avviare il meccanismo di risoluzione delle controversie riguardo l'accordo sul nucleare.
   L'antisemitismo durante i tempi funesti dell'Olocausto mirava a eliminare completamente gli ebrei europei per il semplice fatto di essere ebrei. Quel desiderio alligna ancora oggi sotto forme diverse, ma non permetteremo che si trasformi in realtà. Sotto la mia guida, giuro che Israele resterà il Paese più forte di questa regione, rifugio per gli ebrei di tutto il mondo e faro di libertà e democrazia.
   E quando avremo assolto al nostro compito potremo tutti godere dei frutti della pace. I benefici derivanti dagli ottimi rapporti che verranno a instaurarsi tra i Paesi del Medio Oriente, l'Europa e il mondo intero sicuramente sapranno ricompensarci dei sacrifici sopportati lungo il cammino. Non siamo ancora arrivati, ma ci arriveremo insieme. Forti, determinati e con la giustizia dalla nostra parte.

(Corriere della Sera, 23 gennaio 2020 - trad. Rita Baldassarre)


Antisemitismo: il 70% degli ebrei francesi ha subito almeno un episodio antisemita

di Ilaria Myr

Un terzo dei francesi (34%) di fede o cultura ebraica oggi dichiara di sentirsi regolarmente minacciato a causa della propria appartenenza religiosa. Questo è il risultato allarmante di uno studio Ifop per la Fondazione del think tank per l'innovazione politica (Fondapol) e per l'American Jewish Committee (AJC), presentato lunedì 20 gennaio da Le Parisien e riportato da Le Figaro. L'indagine ha intervistato 505 ebrei e 1.027 non ebrei sulle loro percezioni ed esperienze di antisemitismo in Francia. Le statistiche pubblicate nel febbraio 2019 hanno mostrato che gli incidenti antisemitici erano aumentati del 74% rispetto all'anno precedente.
  Una paura legata a un contesto molto reale di rinascita di atti di natura antisemita in Francia. Secondo il rapporto del Ministero dell'Interno del 2019, "il numero di atti di natura antisemita è aumentato nettamente nel 2018. 541 fatti sono stati segnalati (nel 2018) contro 311 nel 2017, con un incremento del 74%."All'inizio di dicembre, un centinaio di tombe sono state profanate in un cimitero ebraico alsaziano. Il 5 gennaio, questa volta è stato saccheggiato il cimitero ebraico di Bayonne (Pirenei Atlantici), per ragioni ancora misteriose.

 Antisemitismo nelle scuole
  Lo studio Ifop rivela anche che sette ebrei francesi su dieci affermano di essere già stati vittime di un atto antisemita. Quasi due terzi (64%) riferiscono di aver subito almeno un attacco verbale (beffa o insulti) e quasi un quarto (23%) di assalto fisico (schiaffi, colpi, spintoni). Questi assalti si svolgono più spesso in strada. Il 55% afferma di essere stato insultato o minacciato per strada e il 59% ha dichiarato di essere stato aggredito fisicamente per strada.
  Ancora più allarmante, il secondo posto "di predilezione" per l'esercizio della violenza antisemita si trova all'interno degli istituti scolastici. Il 54% degli intervistati che affermano di essere vittime di un attacco verbale erano a scuola o durante attività extracurriculari. L'ambiente professionale non fa eccezione agli atti antisemiti: il 46% degli intervistati dichiara di essere stato vittima di violenza verbale lì.

 18-24 anni in prima linea
  Un altro fatto preoccupante di questo barometro: i più giovani sembrano essere i più preoccupati. Pertanto, il 43% degli ebrei francesi di età inferiore ai 35 anni confessa di sentirsi minacciato nella loro vita quotidiana. I 18-24enni sembrano essere particolarmente esposti ad atti antisemiti: l'84% dichiara di aver subito "un atto antisemita", il 79% una "aggressione verbale" e il 39% una "aggressione fisica".

 L'islamismo e l'estrema sinistra tra le cause citate
  Le cause invocate per spiegare la rinascita dell'antisemitismo in Francia sono molteplici. A questo proposito, gli ebrei di Francia non hanno la stessa opinione di tutti i francesi. Pertanto, il "grande pubblico" - secondo l'espressione usata nello studio Ifop - ritiene che il pregiudizio contro gli ebrei sia la principale causa dell'antisemitismo in Francia (58%), prima dell'islamismo (36 %). D'altra parte, il 45% degli ebrei in Francia cita l'islamismo e il 42% i pregiudizi.
  Anche gli ebrei in Francia collocano idee di estrema destra (26%) e idee di estrema sinistra (23%) allo stesso livello di una delle cause dell'antisemitismo. Su questo punto, la loro opinione differisce da quella del grande pubblico, che cita idee di estrema destra (30%) molto più di quelle dell'estrema sinistra (9%).

 Strategie di invisibilità
  Di fronte a questo sentimento di minaccia, gli ebrei di Francia ricorrono quindi a quelle che lo studio chiama "strategie di invisibilità" per proteggersi. Pertanto, il 43% evita certe strade o quartieri, il 37% rinuncia a mostrare simboli di appartenenza religiosa (come la mezuzah) e 33 % per rinunciare a presunti segni di abbigliamento come il kippah.
  Attraverso questo sondaggio, anche gli ebrei in Francia stanno inviando un messaggio di avvertimento alle istituzioni pubbliche. In effetti, non è a loro che si rivolgono quando si sentono in pericolo ma, nella stragrande maggioranza (77%), verso le associazioni (CRIF) e la polizia (60 %), prima che al Capo dello Stato (47%) e al governo (41%).
L'unico punto positivo evidenziato dallo studio: il "grande pubblico" (73%) e gli ebrei di Francia (72%) concordano abbastanza ampiamente nel dire che l'antisemitismo riguarda la società nel suo insieme.

 Il commento dello studioso: "Gli ebrei vivono in una paura esistenziale"
  "Non conduciamo la stessa vita quando non siamo ebrei": lo ha dichiarato il prof. Dominique Reynié, che insegna al prestigioso Institute for Political Studies (Sciences Po) di Parigi, in un'intervista all'emittente nazionale RTL, commentando la ricerca.
  Durante la sua intervista televisiva, Reynié ha commentato di aver recentemente incontrato una donna ebrea di 22 anni che gli aveva detto che il fine settimana precedente, suo padre aveva trascorso due ore a ripulire i graffiti antisemiti che erano stati spruzzati sul pianerottolo fuori dall'appartamento della famiglia . "Non sono ebreo, non mi trovo di fronte a questo", riflette Reynié. "Non abbiamo affatto la stessa vita, loro vivono in una paura esistenziale".
  Un commento anche su Internet, "dove si incontrano tutte le forme e le fonti di antisemitismo" e sui jilets jaunes, che Reynié vede coinvolti nella diffusione dell'antisemitismo. "Nell'espressione della collera dei gilet jaunes c'è antisemitismo, espresso con tag, insulti, inserito in una più ampia collera sociale che aveva le sue ragioni anche legittime per molti".
  A 75 anni dalla liberazione di Auschwitz, in un Paese che ha conosciuto la deportazione, la situazione è molto grave per gli ebrei, che vivono in una paura esistenziale. "L'aspetto positivo è che anche i non ebrei si stanno rendendo conto di questa crescita allarmante e chiedono che si faccia qualcosa per fermarla. Chi ci governa dovrebbe muoversi".

(Bet Magazine Mosaico, 23 gennaio 2020)


Se l'Autorità Palestinese indottrina all'odio contro gli ebrei per "difendere l'umanità"

Servono a poco le commemorazioni internazionali se non sono in grado di vedere e contrastare il pervasivo antisemitismo palestinese di matrice nazista

La celebrazione, questa settimana, della Giornata Internazionale della Memoria della Shoà deve tradursi sia in una commemorazione del passato che in un faro per il futuro. Se le vittime vengono ricordate e i sopravvissuti onorati ma il mondo non ne trae gli insegnamenti che devono essere appresi, allora non si fa che lasciare aperta la strada al ripetersi dei peggiori orrori della storia. Una delle lezioni fondamentali della Shoà è che il mondo deve essere sempre pronto a svelare e respingere ogni forma di demonizzazione che porta a giustificare l'omicidio, sia contro ebrei che qualsiasi altro gruppo.
Uno dei grandi fallimenti della comunità internazionale sta nel suo atteggiamento tollerante verso la sistematica demonizzazione degli ebrei attuata dall'Autorità Palestinese. Oggi fra i palestinesi l'antisemitismo è endemico. Secondo un sondaggio ADL Global 100 di pochi anni fa, gli arabi palestinesi sono il gruppo umano più antisemita del mondo. Il 93% dei palestinesi reputa "probabilmente veri" almeno 6 degli 11 stereotipi negativi testati: più dell'Iraq (92%) e dello Yemen (88%). Si va da "gli ebrei hanno troppo potere nel mondo degli affari" (91%) a "gli ebrei pensano di essere migliori degli altri" (72%), a "gli ebrei esercitano un controllo eccessivo sulle questioni globali" (88%)....

(israele.net, 23 gennaio 2020)


Torino - Elena Loewenthal è il nuovo direttore del Circolo dei lettori

La notizia era attesa da qualche giorno ed è arrivata nella tarda serata del 22 gennaio: Elena Loewenthal sarà il nuovo direttore della Fondazione Circolo dei lettori di Torino. Un nome emerso a seguito delle candidature e dei colloqui seguiti al bando, e infine scelto dal Consiglio di Gestione dell'Ente.
   «Sono felice di iniziare questa nuova avventura - ha dichiarato Loewenthal - il Circolo dei lettori è una realtà unica, cui guardo da sempre con un insieme di stupore e ammirazione. Lavorerò con passione e impegno per una continuità vincente».
   Una selezione che Giulio Biino, presidente del Circolo dei lettori, commenta così: «Sono convinto che non si potesse fare scelta migliore e sono, allo stesso tempo, felice di iniziare un rapporto di collaborazione con lei. Sono certo che questo percorso insieme sarà proficuo sul piano professionale e arricchente sul piano umano. Ringrazio per l'impegno e la professionalità dimostrata la Commissione di Valutazione e gli altri membri del Consiglio di Gestione».
   Elena Loewenthal è nata a Torino nel 1960, lavora da molti anni sui testi della tradizione ebraica e traduce letteratura d'Israele. Scrive di saggistica e narrativa. Collabora come editorialista a La Stampa e a Tuttolibri. Insegna presso lo IUSS (Istituto Universitario di Studi Superiori) di Pavia. Ha pubblicato fra il resto: Lo strappo nell'anima. Una storia vera (Frassinelli) e L'ebraismo spiegato ai miei figli (Bompiani); Attese (romanzo - Bompiani 2005, finalista al Premio Strega), Eva e le altre. Letture bibliche al femminile (Bompiani 2007); Conta le stelle, se puoi (romanzo, Einaudi 2008, premio Campiello Selezione della Giuria, premio Roma 2009); Tel Aviv. La città che non vuole invecchiare (Feltrinelli 2009); Una giornata al Monte dei Pegni (Einaudi, Premio Chiara 2011); La Lenta Nevicata dei Giorni (Einaudi, Premio Pavese 2014 e premio Francesco Peradotto, Unione Industriale, 2014). Nel 2014 ha pubblicato: Contro il giorno della Memoria (add editore). Nel 2015 è uscito presso Bompiani Lo specchio coperto. Diario di un lutto. Nel marzo del 2019 sono usciti Nessuno ritorna a Baghdad (Bompiani) e Dieci, un saggio sui comandamenti (Einaudi).
   Nel 2015-2017 è stata addetto culturale presso l'Ambasciata d'Italia in Israele.

(mentelocale, 23 gennaio 2020)


Un amore al tempo della Shoah

di Alessandro Zaccuri

Icuka, la minore dei Weisz, fu l'unica a non tornare da Auschwitz. Aveva dodici anni e morì appena arrivata nel lager, nella primavera del 1944. Gli altri, invece, sopravvissero. Ce la fece Vilmos, il padre, e ce la fece il giovane Suti, che una volta liberato decise di lasciare l'Europa per rinascere nel nuovo Stato di Israele con il nome di Yitzhak Livnat. Anche le ragazze ce la fecero: Aliz, la primogenita, e la bellissima Hedy, che quando già covava la persecuzione si era fidanzata con Tibor Schroeder, un giovane ingegnere appartenente a una delle famiglie più in vista di Nagyszollos, in Transcarpazia. Cristiano lui, ebrea lei, con la Storia che fa di tutto per separarli e alla fine ci riesce, anche se non nel modo che più ci aspetterebbe. Una materia che sembrerebbe romanzesca, ma che incontriamo in un libro che non è affatto un romanzo: una complessa cronaca familiare, semmai, composta con scrupolo e partecipazione da una parente di Tibor, la regista canadese Susan M. Papp. In Emarginati. Una storia d'amore (Giuntina, traduzione di Vittoria Dentella, pagine 336, euro 18,00) la vicenda di Hedy e Tibor viene collocata sullo sfondo più ampio della regione - nota appunto come Transcarpazia oppure Karpatalja - al confine tra Slovacchia e Ungheria: Nagyszollos, in particolare, ha preso oggi il nome di Vinogradiv e si trova in Ucraina.
   La volatilità geopolitica ha un ruolo importante negli eventi ripercorsi da Papp. Ancor prima dell'avvento del nazismo, infatti, l"'emarginazione" è una costante per gli abitanti di una zona contesa fra più stati. I cittadini di Nagyszollos sono di cultura e tradizione ungherese e questo li espone al sospetto delle autorità quando, al termine del primo conflitto mondiale, il territorio su cui risiedono viene annesso alla Cecoslovacchia. Ed è anche per effetto di questa parziale assuefazione che all'interno della comunità ebraica locale sono inizialmente sottovalutate le informazioni relative allo sterminio.
   Neppure il moltiplicarsi degli ebrei in fuga dalla Slovacchia (Nagyszollos, nel frattempo, è nuovamente tornata all'Ungheria) riesce ad abbattere un sistema di difese psicologiche nel quale la speranza tende a confondersi con la rassegnazione: l'amore tra il giovane imprenditore Tibor e la sua segretaria Hedy nasce nel clima sospeso che precede la salita al potere delle Croci Frecciate capeggiate dal famigerato Ferenc Szalasi. In pochi mesi di governo, la formazione nazionalsocialista si renderà responsabile della deportazione di decine di migliaia di ebrei. Quando Hedy viene confinata nel ghetto di Nagyszollos, Tibor fa di tutto per organizzarne la fuga, fino a scontrarsi con un evento imprevedibile e fatale, che costituisce l'epicentro emotivo dell'intero racconto. A guerra finita, poi, si verificherà un ulteriore rovesciamento, per cui lo stesso Tibor e il fratello Bela verranno ingiustamente - e addirittura irrazionalmente - accusati di collaborazionismo con i nazisti.
   La conclusione della vicenda è proiettata in Canada, il Paese che all'epoca accolse un cospicuo numero di profughi ungheresi e di sopravvissuti alla Shoah. Compresa Hedy, appunto, e non escluso Tibor. Le loro vite si sfiorano ancora una volta, senza riuscire a intrecciarsi.

(Avvenire, 23 gennaio 2020)


75o della liberazione di Auschwitz, 49 delegazioni in Israele

49 delegazioni saranno in Israele il 22 e il 23 gennaio per il 75esimo anniversario della liberazione di Auschwitz. Sarà il più grande evento politico dalla nascita dello Stato ebraico, escludendo i funerali di Yitzhak Rabin e di Shimon Peres.
Evento che si terrà nella capitale Gerusalemme, che sarà teatro di incontri politici che vedranno protagonisti, fra gli altri, il presidente francese Emmanuel Macron, il presidente russo Vladimir Putin, il vicepresidente Usa Mike Pence, il presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier, quello austriaco Alexander Van der Bellen e il principe Carlo d'Inghilterra.
Menzione particolare per la delegazione italiana. Il 23 gennaio, infatti, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, rappresenterà il nostro paese al quinto Forum mondiale sull'Olocausto che si svolgerà al museo Yad Vashem a Gerusalemme.
Il forum "Ricordare l'Olocausto: combattere l'antisemitismo", è organizzato dalla World Holocaust Forum Foundation, sotto il cappello del presidente dello Stato di Israele, Reuven Rivlin. Il premier Benjamin Netanyahu ha annunciato che avrà incontri con tutti i capi di stato e i presidenti, anche sui temi che riguardano Iran e Siria.
L'importanza delle due giorni sarà caratterizzata anche dal coinvolgimento della parte palestinese. Presente in Israele, infatti, ci sarà anche l'inviato speciale di Donald Trump Jared Kushner, detentore del lungamente atteso Piano di Pace tra israeliani e palestinesi e dell'incontro che il presidente Putin avrà col suo omologo dell'Anp Abu Mazen giovedì 23 a Betlemme, dove visiterà anche la Basilica della Natività.
Un evento significativo per il ricordo delle vittime dello sterminio nazista e non solo, a cui però va aggiunta una nota negativa: l'assenza del presidente polacco Andrzej Duda, che si è rifiutato di partecipare perché "gli organizzatori non avevano pianificato di dargli la parola".
Come può il politico polacco pretendere di parlare in un evento sulla Shoah dopo le polemiche degli ultimi anni e del tentativo del governo polacco di rivisitare la storia dei campi di sterminio?

(Progetto Dreyfus, 22 gennaio 2020)


*


Mattarella è arrivato in Israele. Subito a Gerusalemme

Domani al Museo di Yad Vashem il Forum internazionale su Shoah e antisemitismo

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella è atterrato all'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv per poi proseguire per Gerusalemme dove si tratterrà fino a domani. Questa sera Mattarella parteciperà alla cena nella residenza del presidente israeliano Reuven Rivlin in onore dei capi di stato che partecipano alle cerimonie per il 75/o anniversario della liberazione di Auschwitz. Domani in giornata Mattarella prenderà parte al Museo di Yad Vashem a Gerusalemme al Forum internazionale sulla Shoah e l'antisemitismo.
Prima di andare a Yad Vashem per il Forum intitolato 'Ricordare la Shoah, combattere l'antisemitismo', Mattarella domani mattina avrà due incontri bilaterali. Il primo con il presidente israeliano Rivlin e il secondo con il presidente sloveno Borut Pahor. Il presidente Mattarella è arrivato in Israele da una missione in Qatar, dove accompagnato da vari imprenditori italiani, ha incontrato l'emiro Tamim bin Hamad al-Thani.

(ANSA, 22 gennaio 2020)


Hezbollah nella blacklist. Il pressing Usa su Ue

Dopo Regno Unito e alcuni Paesi del Sud America, Washington preme su Bruxelles. Il governo italiano ne discuterà con il vicepresidente Pence, atteso a Roma venerdì. Missione Unifil nel mirino Usa

di Ferruccio Michelin

Com'era prevedibile, il Libano è diventato uno dei fronti più caldi dello scontro tra Stati Uniti e Iran dopo l'uccisione del generale pasdaran Qassem Soleimani. E quando si parla del Paese dei cedri si pensa subito a Hezbollah, l'organizzazione sostenuta dal regime sciita di Teheran e considerata da diversi Paesi (come Stati Uniti, Israele e Canada) e organizzazioni internazionali (Lega araba e Consiglio di cooperazione del Golfo) un gruppo terroristico.
   Proprio nelle ore in cui a Beirut nasceva un nuovo governo - filo Hezbollah e senza i partiti tradizionalmente vicini all'Occidente -, gli Stati Uniti e i loro alleati in giro per il mondo decidevano di aumentare la pressione sul gruppo finanziato dal regime degli ayatollah.
   Venerdì è toccato a un Paese dell'Europa: il Tesoro britannico ha congelato tutti gli asset di Hezbollah inserendo nella sua blacklist l'intera organizzazione. Lunedì è stato il turno del Sud America. In particolare dell'Argentina, che ha ricevuto gli elogi del segretario di Stato degli Stati Uniti, Mike Pompeo, in visita nella capitale, per aver prorogato il congelamento degli attivi dell'organizzazione. Come ricorda l'Agenzia Nova, il contrasto al movimento sciita è stato tra i temi al centro della terza conferenza ministeriale emisferica sulla lotta al terrorismo, tenuta lunedì a Bogotà, in Colombia.
   "Paraguay, Brasile e Perù hanno arrestato agenti di Hezbollah negli ultimi anni per terrorismo, riciclaggio di denaro e altre accuse. Argentina e Paraguay hanno sanzionato Hezbollah e altri gruppi terroristici nell'ultimo anno, mentre Honduras e Guatemala hanno dichiarato l'intenzione di designare Hezbollah nella lista delle organizzazioni terroristiche. Apprezziamo questi progressi e incoraggiamo gli altri Paesi a seguire questi esempi", si legge in una nota del Dipartimento di Stato americano diffusa alla vigilia della conferenza.
   Le congratulazioni con i Paesi sudamericani sono arrivate anche dal premier israeliano Benjamin Netanyahu e dal ministro degli Esteri israeliano Israel Katz. A evidenziare, come scrivevamo alcuni giorni fa, come il caso Soleimani abbia rafforzato il legame tra Washington e Gerusalemme grazie soprattutto al lavoro del segretario Pompeo, la figura dell'amministrazione Trump più attiva verso lo Stato ebraico.
   Ora, secondo Washington, tocca all'Unione europea, che considera soltanto l'ala militare di Hezbollah un'organizzazione terroristica. In queste ore, quindi, Richard Grenell, ambasciatore statunitense in Germania ma che spesso si occupa di questioni europee, è a Bruxelles per discutere il tema al Parlamento europeo. È stato uno dei registi dell'operazione che ha portato, un mese fa, il Parlamento tedesco a chiedere al governo di imporre il divieto totale alle attività di Hezbollah, militari e politiche, e di farsi promotore di una simile misura anche a livello europeo.
   Infatti, l'Unione europea ha nella sua blacklist soltanto il ramo armato dell'organizzazione. È tempo, dice Washington, che tale distinguo non sia più fatto, come ha scritto l'ambasciatore Grenell oggi in un editoriale su Politico. Per il diplomatico "Hezbollah lavora per il regime iraniano, non per i libanesi" e "una designazione europea di Hezbollah è necessaria per chiudere la vasta rete europea di reclutamento e raccolta fondi di cui ha bisogno per sopravvivere".
   In tutto questo, l'Italia? In Libano siamo presenti con i nostri uomini: un migliaio, dispiegati nella missione Unifil delle Nazioni Unite, stanziati nella zona Sud del Paese controllata proprio dagli sciiti di Hezbollah. Come ha spiegato il generale Bertolini alcuni giorni fa a Formiche.net, "se dovesse esserci un inasprimento della situazione con azioni di Hezbollah (che ha già promesso di punire i killer di Soleimani, ndr) contro Israele, da molti ritenuto il mandante occulto di ciò che è successo, i nostri si troverebbero in situazione critica".
   E visto che il vicepresidente statunitense Mike Pence parlerà anche di cooperazione militare quando venerdì a Roma incontrerà il governo italiano, è probabile che la questione libanese sia al centro dei colloqui. Washington da tempo chiede di riveder il mandato di Unifil per agire contro Hezbollah mentre attende la valutazione della missione che il segretario generale Onu, Antonio Guterres, dovrà presentare entro il 1o giugno.
   La speranza Usa è che anche l'Italia voglia fare la sua parte nella lotta al terrorismo in Libano. Ma per farlo serve superare quell'impasse sulla designazione di Hezbollah come organizzazione terroristica che a fine 2018 aveva causato un scontro nel governo Conte I, quello gialloverde, tra i due vicepremier di allora, Matteo Salvini (che da Gerusalemme, dopo un giro in elicottero sul confine con il Libano, aveva bollato il gruppo come "terroristi") e Luigi Di Maio (che si unì al ministero della Difesa, che spiegò come le dichiarazioni del leader leghista "mettono in evidente difficoltà i nostri uomini").

(Formiche.net, 22 gennaio 2020)



Il ragazzo ebreo che si salvò confondendosi tra i nazifascisti

La straordinaria storia di Peppino Nemni, morto a 97 anni: lo protesse un nobile romano.

Accolto come un figlio in casa del barone Parrilli, frequentata dai Mussolini, dai Ciano e dai generali tedeschi Per non tradirsi si adattò a mangiare anche i cibi proibiti, come salame e aragosta

di Ariela Piattelli

 
Ariela Piattelli
ROMA - Un ragazzo ebreo nascosto con una falsa identità a casa di un barone nella Roma occupata dai nazisti. Segue le trame di un thriller ad alta tensione la storia vera e inedita di Giuseppe «Peppino» Nemni, morto a Roma a 97 anni. Una vicenda rocambolesca con due protagonisti, Peppino e il barone Luigi Parrilli, e ancora altri personaggi: i gerarchi nazisti, gli uomini del fascismo, dai Mussolini ai Ciano e così via. Giuseppe era nato a Tripoli nel '23, suo padre Raffaello era un industriale molto importante, amico di Cesare Balbo e Mussolini.

 Da Tripoli a Roma
  Nemni ha dieci anni quando il padre lo manda a studiare in Italia. La sua avventura s'inizia però all'età di vent'anni, nel settembre del '43, quando i tedeschi occupano l'Italia: già cacciato dalla Careggi di Firenze in seguito alle leggi razziali, Peppino si trova solo a Forte dei Marmi. «Scappavano tutti, non solo gli ebrei. Ero disperato, così presi un treno per Firenze», ha ricordato Nemni nella sua testimonianza. Arrivato alla stazione di Firenze trova una scena apocalittica e le SS con le mitragliatrici: «Prendevano i giovani per mandarli a lavorare in Germania, gli ebrei li avrebbero mandati nei campi di sterminio».
Con un documento su cui è scritto «Di razza ebraica», grazie a un facchino riesce a mettersi in salvo e a riprendere il suo viaggio per Roma, dove avviene l'incontro con i Parrilli. Arriva senza un soldo in tasca, l'unica meta possibile è il «Massimo D'Azeglio», l'albergo dove Peppino accompagnava spesso suo padre. «Chiesi aiuto, mi diedero subito una stanza spiegandomi che lì c'erano i tedeschi, e nessuno mi avrebbe cercato. Lì trovai nuovi amici, prima tra tutti Elvira "Pupa" Parrilli». Pupa è la nipote del barone Parrilli. Con la madre, la baronessa Corallina, aveva una camera al Massimo d'Azeglio. « Tra ragazzi facevamo un po' di "social life" nel nostro salotto. Sapevamo che Peppino era ebreo, e mio zio lo prese sotto la sua ala. Noi poi ci trasferimmo in una casa in via Bellini», racconta Pupa.

 L'incontro con il barone
  Il barone Parrilli era un uomo d'affari, vicino al fascismo, viveva come i nobili di una volta, attorniato da persone importanti. Cavaliere dell'Ordine di Malta e ben introdotto in Vaticano, era sposato con Luisa Poss, figlia del senatore fascista Alessandro Poss. Il barone è stato uno dei protagonisti dell'operazione «Sunrise», che aveva l'obiettivo di far sedere attorno allo stesso tavolo i tedeschi e gli Alleati per arrivare alla resa tedesca. Parrilli conosceva i generali e i comandanti della Gestapo, tra cui il famigerato Herbert Kappler, che mise in atto la deportazione degli ebrei di Roma, e il generale delle SS Karl Wolff. Peppino i gerarchi nazisti se li ritroverà nel salotto di casa Parrilli. Il barone quando incontra Nemni al Massimo D'Azeglio decide di nasconderlo nella casa in via Bellini. «Non ho mai capito perché decise di nascondermi», diceva Nemni. «Forse conosceva mio padre e sapeva che era un uomo importante».

 La razzia del ghetto di Roma
  «La villa della baronessa era di un lusso sfrenato. Di sera arrivavano i Ciano, i Mussolini, i generali tedeschi, che ignoravano la mia identità». Il barone gli aveva dato dei documenti falsi: «Ero per tutti il nipote, Giuseppe Tagliaferri. I tedeschi venivano sempre in divisa. Mi chiamavano Peppino». Nemni in segreto aveva sempre cercato di mantenere una certa osservanza dell'ebraismo. E un cibo proibito scatena uno dei momenti più tesi della storia. «Un giorno a pranzo servirono l'aragosta. Wolff si rivolse alla baronessa dicendo "con questa fame che c'è in giro, se la dai a un ebreo non la mangia". Questo mi spinse a mangiarla. Non parlavano mai degli ebrei, capitò solo quella volta».
È dopo qualche giorno che Nemni si trova ad assistere al rastrellamento del ghetto di Roma. «Mi nominarono capitano dell'Unione Nazionale Protezione Aerea. Andavo con una macchina a controllare il coprifuoco. La mattina della razzia del ghetto, il 16 ottobre, ero lì e vidi le deportazioni, caricare gli ebrei romani sui camion. Non potevo fare nulla, ricordo le urla, chi tentava di scappare, i tedeschi che buttavano i bambini con violenza dentro i camion. E li ho visti andar via».

 Verso la salvezza
  Nemni a Roma conosce anche il giovane Vittorio Gassman: «Diventammo amici, uscivamo con le ragazze. In seguito ci ritrovammo a Milano». Poi il barone decide che è troppo pericoloso restare a Roma e manda Peppino da sua moglie nella villa di Pegli. «Per la contessa ero come un figlio. Una notte ci fu un'incursione aerea e navale, scappai per la paura. Lei mi ritrovò e abbracciandomi disse: "Anche se ti avessero preso ti avrei salvato, perché nessuno può toccarti". Solo dopo ho capito cosa voleva dire». Dopo pochi giorni il barone vuole Peppino a Milano: «A Tortona mi fermarono i fascisti di Osvaldo Valenti, pensavano che fossi una spia. Quando mi misero in fila con altri uomini per giustiziarmi, mi salvò una telefonata». Con il barone, Peppino va a Stresa, dove cena con alcuni nazisti, «ricordai le parole di Wolff e mangiai per la prima volta il salame. Non volevo insospettirli. A mezzanotte a Baveno il barone mi mise su una barca. Navigammo verso Locarno, dove ci accolse il sindaco. Finalmente ero in salvo».
Peppino non incontrerà mai più il barone. Ma quando la contessa Poss viene arrestata dagli americani, Parrilli contatta Nemni: «Mi chiese di far scrivere a mio padre una lettera agli Alleati per spiegare che sua moglie mi aveva salvato la vita. Lo feci, con piacere. E lei si salvò. Pensai poi che Parrilli fosse un informatore degli americani infiltrato nell'esercito tedesco. Mentre la contessa Poss forse lo era dei tedeschi. È una storia di intrecci, un vero e proprio thriller».

(La Stampa, 22 gennaio 2020)


Sì alla mozione Senna: stop ai boicottatori di Israele

Nel Consiglio Regionale della Lombardia

di Alberto Giannoni

Sì alla difesa di Israele, senza «se e senza ma». La scelta di campo è fatta e ora è anche codificata nero su bianco in un documento che potrebbe fare molta strada, a partire dalle Zone milanesi.
   La Lega di Matteo Salvini fa del rapporto privilegiato con Israele una pietra angolare del suo profilo. E ieri, a Milano, il Carroccio ha piazzato un mattone pesante nella costruzione di questa nuova identità. In Consiglio regionale è stata approvata a larga maggioranza la mozione sull' antisemitismo presentata da Gianmarco Senna, salviniano «doc» e capolista milanese della Lega. La mozione-Senna parte dalla definizione di antisemitismo messa a punto dall'IHRA (l'Internatìonal Holocaust Remembrance Alliance), che contempla anche l'odio nei confronti dello Stato ebraico. Nella parte finale, nel dispositivo, il testo esprime una «forte condanna» nei confronti della delegittimazione di Israele, e chiede - al governo - due cose: la prima - che appare ormai acquisita - è una «definizione chiara» di antisemitismo che comprenda anche legittimità e sovranità di Israele; l'altra è l'esclusione dai finanziamenti pubblici delle realtà aderenti alla campagna Bds (amata in una certa sinistra) che promuove improbabili boicottaggi, disinvestimenti e assurde «sanzioni» anti-Israele. Della mozione leghista, in Consiglio si parla da giorni. E martedì scorso si era profilata anche la possibilità di un'intesa col Pd, attraversato - nel gruppo regionale e nel partito - da sentimenti confusi e contrastanti sul tema Medio Oriente. Alla rigidità del capogruppo Fabio Pizzul si è affiancata l'iniziativa di Carmela Rozza. La consigliera pd anche ieri ha proposto una possibile mediazione. Ha certamente criticato: «Manca la parola razzismo e la presa di distanze dalle forze di estrema destra», ma ha anche ammesso con forza che esiste un antisemitismo di sinistra: «Nefandezze» di estremisti, «facinorosi, delinquenti e fascisti di sinistra» (riferimento alle aggressioni patite il 25 aprile dalla Brigata ebraica). Rozza ha tentato di emendare la mozione Senna, ma l'accordo è sfumato: si è votato per parti separate. La premessa è passata con il «sì» di tutti tranne che dei 5 Stelle, impegnati in un discorso «pacifista». Il primo impegno, su Israele, è stato condiviso da tutti mentre il secondo - sul Bds - è stato approvato col sì del centrodestra, il no dei grillini e il Pd non ha partecipato al voto. Respinta la mozione Pd, debole anche rispetto alla linea votata dal Parlamento italiano. A favore di entrambe il radicale Michele Usuelli. Orgogliosamente filo-israeliano Mauro Piazza di Fi, mentre Viviana Beccalossi ha ricordato il feroce antisemitismo di Stalin.
   Il sottosegretario Alan Rizzi ha parlato di una mozione «molto coraggiosa» e il presidente Attilio Fontana - dopo aver inaugurato la mostra sulla Brigata ebraica aperta ieri (fino al 14 febbraio) in Consiglio - ha ribadito che «la condanna verso ogni forma di antisemitismo va sostenuta con forza e convinzione, senza "se e senza ma"».

(il Giornale - Milano, 22 gennaio 2020)



Loewenthal: la Memoria? Ripartiamo da Carlo Levi

«Per il 27 gennaio sarebbe utile leggere il testo delle leggi razziali in classe e soprattutto riscoprire l'esempio del grande intellettuale ebreo torinese» «La Giornata non va intesa come omaggio agli ebrei. Troppo comodo. Occorre invece farne proprio il senso, capire che ci riguarda tutti»

di Alessandro Chetta

Elena Loewenthal
Da Elena Loewenthal, scrittrice, tre modeste proposte sul Giorno della Memoria. Necessarie e richieste perché la retorica rischia di svuotarne il senso e la scomparsa dei sopravvissuti alla Shoah di privarla di testimoni (come ha ribadito su queste pagine il presidente della comunità ebraica Dario Disegni). E dunque le tre proposte: «Evitare a ogni costo che la giornata suoni come "omaggio agli ebrei" dei lager»; «educare i ragazzi non a capire l'incomprensibilità dell'Olocausto ma a farne proprio il monito»; «ritornare a Carlo Levi, figura trascurata, vetta di intelligenza militante». Questi i punti focali della chiacchierata con l'autrice di «Contro il Giorno della Memoria» (2014 ).
«Beh, quel titolo va interpretato bene, soprattutto oggi».

- In che modo?
  «Non polemizzo certo col Giorno della Memoria. Dico solo che non riguarda gli ebrei ma tutti noi, come cittadini».

- C'è il pericolo che il 27 gennaio possa scolorire agli occhi degli italiani come accade con il 25 aprile?
  «Discorso complesso: quando ero alle medie si festeggiava la Liberazione senza polemica alcuna, contrariamente a oggi. Adesso sembra ci sia più attenzione per il Giorno Memoria e ciò accade solo perché spesso viene intesa quale celebrazione di ebrei scomparsi. E' più comodo. Molto meno comodo e più responsabile sarebbe invece riconoscere che tale ricorrenza ci riguarda in quanto esseri umani. Il 25 aprile è sotto attacco da un quarto di secolo; è diventato una palestra dell'antisemitismo. Quando si impedisce alla brigata ebraica di partecipare ai cortei è puro antisemitismo».

- L'antisemitismo in Italia cresce, secondo un recente sondaggio.
  «Bisogna stare attenti a ragionare per etichette senza andare in profondità. Se mi danno dell'ebrea non lo vivo come un insulto, è un dato di fatto. Ma la stessa invettiva si fa pesante se lanciata in zone franche come lo sport. Le maglie con Anna Frank e i cori degli stadi mi preoccupano».

- Ripartire dalle scuole, dicono tutti. Ma come?
  «Trovando chiavi interpretative che vadano oltre il 27 gennaio. Credo, ad esempio, che sia importante leggere le leggi razziali in classe: la loro secchezza e piattezza giuridica per contrasto ne evidenzia meglio l'assurdità».

- I millenials sono meno attenti?
  «Non è questo. I ragazzi vanno posti di fronte alle sfide, e la sfida più grande è riflettere senza pensare di poter capire la Shoah. Non si può capire la ragione di uno che prende il fucile e gioca al tiro al piattello con i neonati strappati alle madri ebree. Bisogna rassegnarsi a non comprendere. Gli studenti e gli insegnanti invece trovano più comodo capire. Una docente mi disse che sul treno che portava lei e la sua classe in visita ad Auschwitz si ruppe il riscaldamento: "Ho capito il gelo che si provava ... ". Occorre evitare questo tipo di superficialità. Io sono figlia di due sopravvissuti e so benissimo che non capirò mai ciò che sentono. Quando osservo mia madre guardare un film sui lager non saprò mai qual è il suo vero sentimento. Lo sforzo è rassegnarsi dando un senso al ricordo. E nello stesso tempo non tentare di comprendere bensì fare proprio, senza accontentarsi di dire 'oggi faccio una gentilezza agli ebrei'».

- Nei cinema c'è «Jojo Rabbit», parodia di Hitler. L'ironia, che con i social non è più eccezione ma regola, aiuta o riporta di continuo la sua figura al centro?
  «Fare ironia su Hitler e Mussolini...uhm ... terreno difficile. Il web ha forti capacità di distorsione. C'è un'estasi da libertà di espressione però manca spirito critico».

- I sopravvissuti ai campi di sterminio stanno morendo.
  «Sì. Ma la verità della finzione narrativa per necessità sostituirà le loro voci. La scrittura ma anche tanti film possono aiutare a condividere emotivamente».

- Cosa sta leggendo nel mese dedicato alla Memoria?
  «La biografia di Carlo Levi, Un torinese del Sud. Quando lei mi ha chiamato ero a pagina 69. Accanto naturalmente alla lezione di Primo Levi riscoprire anche quella di Carlo, che tra l'altro fu amico di famiglia. Ecco: sarebbe opportuno ricordarne l'opera nel Giorno della memoria».

(Corriere Torino, 22 gennaio 2020)


A Verona nasce via Almirante. Segre: «Incompatibile con me»

La senatrice a vita e la cittadinanza onoraria. Il sindaco: «Dibattiti strumentali»

di Martina Zambon e Lillo Aldegheri

VERONA - Non c'è pace per la senatrice a vita Liliana Segre. E alla donna che ha fatto di sé un memento delicato ma tenace sulla tragedia della Shoah la «collezione di cittadinanze onorarie» fiorite in mezza Italia negli ultimi mesi è risultata essere spesso fonte di imbarazzo. L'ultima polemica arriva da Verona. Nella città dell'amore il veleno scorre a fiumi. Colpa di un tempismo quanto meno infelice. Da un lato l'amministrazione comunale di centrodestra conferisce alla senatrice sopravvissuta ai lager nazisti la cittadinanza onoraria, dall'altro persevera nel voler intitolare una via cittadina a Giorgio Almirante, leader del Msi e icona della destra italiana. La reazione di Liliana Segre germoglia dall'ironia («Una via Almirante a Verona? Davvero? Oh, povera strada ... ») per poi sbocciare in una presa di posizione franca: «Mi chiedo se sia lo stesso Comune, quello di Verona, a concedere a me la cittadinanza onoraria e poi a intitolare una via ad Almirante: si mettano d'accordo! Le due scelte sono di fatto incompatibili, per storia, per etica e per logica». Segre mette l'amministrazione di Palazzo Barbieri davanti a un bivio: «La città di Verona, democraticamente, faccia una scelta e decida ciò che vuole, ma non può fare due scelte che sono antitetiche l'una all'altra». La città che meno di un anno fa faceva notizia ospitando il Congresso delle famiglie tradizionali deve scegliere da che parte stare. Ma il sindaco Federico Sboarina contrattacca: «L'Amministrazione la sua scelta l'ha già fatta, conferendo la cittadinanza onoraria a Liliana Segre e votando la mozione per una via a Giorgio Almirante: non vedo cosa ci sia di anomalo». Amarezza autentica nelle parole del primo cittadino che lamenta una sovraeccitazione collettiva sulle vicende scaligere: «Come spesso accade con le cose che riguardano Verona, si accendono purtroppo dibattiti strumentali, che non aiutano il percorso di pacificazione».
   Agli antipodi la visione dello scrittore e storico Riccardo Calimani, una delle voci più potenti della comunità ebraica veneziana e nazionale: «Verona è sempre stata una città particolare. Detto questo, condivido in pieno la posizione di Liliana Segre, coerente e dignitosa. Aggiungo un elemento su Almirante: fu segretario di redazione del quindicinale "La difesa della razza", una rivista squallida che fomentava l'odio». Sulla stessa scia l'ex presidente della Comunità ebraica veronese Bruno Carmi: «Stride davvero pensare che Verona, città medaglia d'oro della Resistenza, intitoli una sua via a Giorgio Almirante».
   La destra veronese insorge compatta in difesa di «via Almirante». Il presidente del consiglio comunale, Ciro Maschio (autore della proposta d'intitolazione) dice: «Sembra che qualcuno abbia ancora nostalgia della guerra fredda». Diversa la posizione dell'assessore regionale Elena Donazzan (Fdl): «Segre è una donna straordinaria che ha dato lezioni di vita a chi voleva. Almirante ha sempre parlato di riconciliazione nazionale vivendo con onore la sua scelta. Hanno un grande denominatore comune: la pacificazione». Il Pd invece attacca con la deputata scaligera Alessia Rotta: che parla di «vergognoso doppiogiochismo». E il M5s veneto accusa l'amministrazione di «coccolare nostalgici fascisti».

(Corriere della Sera, 22 gennaio 2020)


Inconvenienti di una strumentalizzazione che non avrebbe dovuto né cominciare né essere accettata. Da nessuna parte. M.C.


Gli F-16 sott'acqua svelano un problema nelle forze armate israeliane

Paolo Mauri

 
Un F-16 sott'acqua nell'hangar
Le recenti inondazioni che hanno colpito il Medio Oriente hanno messo in luce una problematica nella gestione delle emergenze da parte della difesa civile di Israele. Una problematica che coinvolge direttamente le Idf (Israel Defense Forces), le Forze Armate di Tel Aviv, non solo a livello della capacità di far fronte a eventi catastrofici, ma anche per quanto riguarda la fiducia dello stesso personale nei riguardi dei vertici militari.
  Le forti piogge che hanno imperversato su Israele e che hanno avuto il loro acme nella settimana tra il 6 e il 12 gennaio hanno causato violente inondazioni che hanno provocato sette morti e un numero imprecisato di sfollati. Questi violenti eventi atmosferici hanno anche colpito installazioni militari: la base aerea di Hatzor, nella parte centro occidentale del Paese, ha visto l'allagamento degli hangar dove stazionavano gli F-16C e D dell'aeronautica di Tel Aviv e sappiamo che almeno otto velivoli sono rimasti sott'acqua causandone il ritiro temporaneo dal servizio.
  La serie improvvisa di eventi atmosferici intensi, benché largamente prevista, ha colto un po' di sorpresa il sistema israeliano di difesa civile, gestito dai militari, che è praticamente collassato a fronte dell'altissimo numero di richieste di interventi di soccorso.
  Nella regione di Nahariya, ad esempio, è entrata in azione la 91esima divisione per recuperare dozzine di persone intrappolate dalla furia delle acque e per due giorni interi i militari ed i mezzi dell'unità comandata dal generale Shlomi Binder sono stati occupati in questa attività straordinaria.

 Un problema di gestione delle emergenze (non solo civili)
  Secondo quanto riferiscono gli stessi media israeliani, la popolazione ha lamentato il ritardo nell'arrivo dei soccorsi e la causa è da imputare al collasso del sistema di ricezione delle emergenze che, progettato per gestire un massimo di cento richieste in breve tempo, si è trovato a far fronte a più di 2mila chiamate di soccorso in un arco temporale di un'ora e mezza circa.
  A quanto sembra il sistema della difesa civile di Israele è sotto osservazione da almeno due decadi nelle quali è stato individuato proprio nella capacità di intervento di alcune sue componenti, nel caso specifico i vigili del fuoco, l'anello debole dell'intero strumento. Per ovviare a questa debolezza, Tel Aviv impiega quindi l'esercito, ma questa scelta porta con sé delle problematiche non indifferenti in caso di un conflitto.
  L'attuale situazione di instabilità nell'area mediorientale preoccupa i vertici delle Idf che avvisano che, sebbene una guerra sia poco probabile, è comunque un'eventualità da non sottovalutare, pertanto le unità militari che vengono utilizzate da Israele per soccorrere la popolazione civile durante i disastri naturali o durante un possibile attacco missilistico di larga scala sarebbero impegnate altrove per contrastare l'attività del nemico.
  In tempo di guerra, ad esempio, la 91esima divisione sarebbe in prima linea per contrastare gli attacchi di Hezbollah, che includerebbero raid di commando suicidi oltre al massiccio impiego di razzi a corto raggio tipo Katyusha contro obiettivi civili e militari situati lungo la frontiera nord del Paese.
  Pertanto la stretta dipendenza della difesa civile sulle capacità delle forze armate, che in tempo di pace è assolutamente ovvia e scontata, diventerebbe un problema in tempo di guerra proprio perché queste sarebbero impegnate in compiti più urgenti, lasciando così la popolazione civile nella mani del già citato "anello debole" che è collassato davanti alle numerose richieste di interventi di soccorso durante le recenti inondazioni.
  In Israele, pertanto, ci si chiede come funzionerebbe il sistema di emergenza in caso di guerra, specialmente se un attacco missilistico non viene preannunciato in tempi ragionevoli dall'intelligence, se è risultato inefficace davanti a un evento climatico estremo, che pure era stato ampiamente previsto.

 I soldati non si fidano dei vertici militari
  Quanto accaduto alla base aerea di Hatzor, con otto F-16 "fuori combattimento", ha aperto una frattura tra i vertici militari e il personale per una questione legata a esigenze di propaganda.
  Il comando delle Idf ha infatti rilasciato le prime informazioni sui danni alla base dopo tre giorni, pubblicando le immagini dopo quattro, per comprensibili motivazioni legate alla propaganda in un periodo dove le tensioni internazionali con l'Iran e gli altri avversari regionali sono ai massimi livelli.
  Questo ha causato direttamente un non necessario ritardo nella gestione della crisi e la stessa valutazione dei danni ufficiale, palesemente non corrispondente alla realtà, ha aumentato il senso di sfiducia degli equipaggi e del personale verso il comando.
  In passato ci sono stati altri episodi di allagamenti: nel 1992 sempre nella base di Hatzor era stato necessario spostare i velivoli dagli hangar seminterrati e, sempre nello stesso anno, altre misure simili sono state effettuate in altri aeroporti militari come quello di Tel Nof. Allora però, a differenza di oggi, e forse proprio per la tempestività dell'ammissione della portata delle inondazioni, i comandanti locali hanno avuto modo di agire con tempestività.
  Per quanto riguarda le stime dei danni, le previsioni del comando, dettate da necessità propagandistiche come dicevamo, sono più che ottimistiche: il portavoce delle Idf, il generale Norkin, ha infatti detto che i velivoli torneranno in servizio in pochi giorni, ma la realtà è diversa e tra i militari serpeggia il malcontento per questo atteggiamento che sembra voler sottovalutarne l'entità.
  La portate delle inondazioni è stata tale da causare danni e breve e lungo termine ai motori, al carrello e ai sistemi elettronici dei velivoli, pertanto il loro rientro in servizio richiederà riparazioni e test ripetuti che molto difficilmente saranno completati in pochi giorni.
  Sembra quindi, secondo le stesse fonti israeliane, che gli equipaggi e il personale pretendano che i comandanti siano più attenti a come la forza aerea venga vista dall'interno piuttosto che dal pubblico, perché un simile annuncio ha minato la credibilità del sistema agli occhi degli stessi.

(Inside Over, 21 gennaio 2020)



Zarif minaccia: pronti a uscire dal Trattato sul nucleare

di Giordano Stabile

 
Javad Zarif
L'Iran alza ancora di una tacca il livello del scontro e minaccia di abbandonare il Trattato di non proliferazione nucleare se i Paesi europei si rivolgeranno al Consiglio di sicurezza dell'Onu per metterlo sotto accusa riguardo le violazioni dell'intesa del 2015. Sono due accordi diversi. Il primo è il fondamento dello sforzo della comunità internazionale per arrivare a un mondo senza atomiche. Soltanto un Paese lo ha ripudiato dopo averlo firmato, ed è la Corea del Nord, uscita nel gennaio del 2003 per lanciarsi nella corsa verso la Bomba. Oggi Pyongyang possiede una ventina di testate, oltre a missili balistici, ed è diventata un modello agli occhi dell'ala oltranzista del regime. I pasdaran sono convinti che una volta in possesso della deterrenza nucleare la Repubblica islamica diventerà intoccabile.
   Il fronte riformista guidato dal presidente Hassan Rohani è di diverso parere ed è convinto che gli Stati Uniti possono tollerare una Corea del Nord nucleare ma non un Iran dotato di armi di distruzione di massa. Rohani ha puntato tutte le sue carte su un'intesa, raggiunta nel 2015 con Barack Obama. Contava, con la fine delle sanzioni, di rilanciare l'economia, aprire il Paese al mondo, soddisfare i bisogni materiali e intellettuali dei giovani e della borghesia urbana, la sua base elettorale. L'offensiva di Donald Trump, deciso a strappare un accordo più stringente con la "massima pressione" economica, lo ha messo con le spalle al muro. II presidente iraniano ha sperato per un anno e mezzo che l'Europa potesse offrire una via per aggirare le sanzioni statunitensi. Allo stesso tempo ha dovuto cedere alle esigenze degli oltranzisti e ha ricominciato ad arricchire l'uranio a livelli proibiti.
   La scorsa settimana Gran Bretagna, Francia e Germania hanno denunciato le violazioni e a questo punto l'Onu potrebbe a sua volta reintrodurre sanzioni, la mazzata finale. Il ministro degli Esteri Javad Zarif, punta di lancia del fronte riformista, ha reagito ieri con toni duri, inusuali per il personaggio: «Se gli europei si rivolgono al Consiglio di sicurezza - ha minacciato - usciremo dal Trattata di non proliferazione». L'intera dirigenza della Repubblica islamica vede ormai poche vie d'uscita. L'economia si avvicina al collasso. Nell'anno fiscale 2018-2019 il Pil è sceso del 4,6 per cento, quest'anno calerà del 7,2 per cento. Un terzo delle riserve valutarie è andato in fumo. Di questo passo nel 2023 rimarranno solo 20 miliardi di dollari. E per la prima volta in vent'anni la bilancia commerciale è in deficit, perché l'export di petrolio è sceso da 2,8 milioni di barili a 400 mila.

(La Stampa, 21 gennaio 2020)


Atomica iraniana: prevenire un nuovo olocausto. Il dilemma di Israele

di Maurizia De Groot Vos

Fonti qualificate della intelligence israeliana sono certe che entro la fine del 2020 l'Iran avrà abbastanza uranio altamente arricchito per costruire un singolo ordigno atomico.
Tuttavia le stesse fonti affermano che Teheran non avrebbe ancora la capacità tecnologica per miniaturizzare una testata atomica e poterla lanciare con uno dei tanti missili balistici di cui è in possesso.
Una accelerazione si potrebbe avere se gli iraniani usassero tecnologia nord-coreana come hanno già fatto in passato per costruire i loro missili, in particolare il Musudan, il Khorramshahr, l'Emad e lo Shahab-3, tutti in grado di colpire Israele e di montare testate atomiche.
Questa possibilità apre un dilemma di non poco conto. In una intervista sulla rete TBN il Premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha detto che per evitare un nuovo olocausto ebraico l'Iran deve essere fermato prima che raggiunga l'atomica.
«Auschwitz ci ha insegnato che le cose brutte vanno fermate prima che diventino troppo grosse per essere fermate» ha detto Netanyahu.
«Già adesso l'Iran non è un pericolo così piccolo ma penso che potrebbe diventare un grandissimo pericolo se arrivasse ad avere l'atomica» ha poi continuato il Premier Israeliano.
Il succo del discorso è quindi che l'Iran deve essere fermato adesso. Non tra un anno, non tra sei mesi ma adesso.
Ma come fare per fermarlo? Un bombardamento sulle centrali atomiche iraniane, con tutte le difficoltà logistiche del caso, sembra l'unica soluzione a breve termine anche se con molta probabilità non fermerebbe del tutto il programma nucleare iraniano, ma lo rallenterebbe sicuramente.
Il problema è che una azione del genere, tutt'altro che improbabile, scatenerebbe su Israele una pioggia di missili mai vista prima, uno scenario da incubo ben descritto dall'ex ambasciatore israeliano negli Stati Uniti, Michael Oren.
Israele rallenterebbe sicuramente la corsa all'atomica iraniana, ma si ritroverebbe sotto attacco multiplo nel giro di poche ore.
Uno dei piani presentati a Netanyahu prevede un attacco preventivo volto a "indebolire" i proxy iraniani (soprattutto Hezbollah) poche ore prima di colpire le centrali iraniane o addirittura in contemporanea. Ma la fattibilità del piano appare piuttosto ardua. Bisognerebbe colpire obiettivi multipli in Libano, Siria e nella Striscia di Gaza con un rischio elevatissimo di fare vittime civili.
E poi c'è un altro problema. Gli americani, almeno fino alle elezioni presidenziali del 3 novembre 2020, non sembrano intenzionati ad una escalation con l'Iran, cosa che invece avverrebbe nel caso di un conflitto tra Teheran e Gerusalemme.
Cosa comporta questo? Comporta che con molta probabilità il Presidente Trump cercherà di impedire un attacco israeliano alle centrali atomiche iraniane prima della sua possibile rielezione. E non è un problema da nulla. Difficilmente Netanyahu (o chi per lui) ordinerà un attacco all'Iran senza un chiaro avallo americano. Un avallo che al momento sembra essere escluso.
Ora si può capire meglio qual'è il dilemma della dirigenza israeliana. Aspettare novembre con il rischio che gli iraniani possano far detonare la loro prima atomica o addirittura - con l'aiuto nordcoreano - riuscire a miniaturizzare una testata nucleare, oppure agire subito ma senza l'avallo americano?
I tempi forniti dall'intelligence israeliana vengono giudicati attendibili anche se con una possibilità di errore, in più e in meno, pari al 10%. Ciò significa che l'Iran potrebbe avere abbastanza uranio altamente arricchito già da novembre o, nella migliore delle ipotesi, a Gennaio.
A forza di aspettare e di rinviare siamo arrivati al margine della "linea rossa" e ora ci troviamo seriamente tra l'incudine e il martello.
Nei giorni in cui a Gerusalemme politici di tutto il mondo commemorano l'olocausto ebraico perpetrato dai nazisti, Israele si trova di fronte a una seria e credibile minaccia di un nuovo olocausto. E questa volta vorrebbe prevenirlo.

(Rights Reporters, 21 gennaio 2020)


Un caccia F-35 di Israele rivela accidentalmente la sua posizione su un impianto nucleare

Un caccia stealth F-35 dell'aeronautica israeliana si è rivelato sui radar di localizzazione di aerei civili internazionali mentre sorvolava il Centro di ricerca nucleare di Shimon Peres nel Negev, secondo quanto riferito da Ynet lunedì sera.
Secondo la fonte, l'aereo si è rivelato ad un'altitudine di 31.000 piedi sopra l'impianto nucleare quando il pilota ha acceso un transponder non crittografato, rendendo visibile il più recente aereo da combattimento israeliano nei radar di volo civili.
Gli aerei militari utilizzano i codici "Squawk" per comunicare informazioni durante lo svolgimento di operazioni militari, con i tre codici principali 7500, che significa dirottamento; 7600 che significa errore di trasmissione; e 7700, che significa emergenza. Secondo quanto riferito, il velivolo esposto ha trasmesso il codice Squawk 7600, che significa errore di trasmissione.
L'unità del portavoce dell'IDF ha commentato l'incidente, dicendo che "durante un volo di addestramento di routine in un'area di addestramento nel sud, è stato scoperto un malfunzionamento nel transponder dell'aereo.
"Per comunicare con gli altri aeromobili che partecipano all'addestramento, il pilota ha attivato il sistema di rilevamento dell'aeromobile in modo che l'altro velivolo fosse in grado di riconoscerlo senza comunicare con il pilota", ha detto l'unità.
L'IDF ha aggiunto che "il sistema di localizzazione è gestito a discrezione del pilota e l'incidente non è stato un evento eccezionale".
Secondo Ynet, un incidente simile si è verificato nel 2018, quando un caccia da combattimento IAF si è esposto sui radar civili che sorvolavano la costa di Israele verso la Siria. All'epoca si credeva che l'esposizione fosse intenzionale e avesse lo scopo di inviare un messaggio agli Hezbollah del Libano.
L'IAF ha condotto un esercitazione militare questa settimana all'aeroporto internazionale di Ramon, nella valle di Timna, nel deserto israeliano di Arava meridionale. All'esercizio hanno partecipato anche quattro airlifter Ilyushin Il-76 dell'aeronautica russa.
Secondo l'IDF, "l'esercitazione è stata pianificata in anticipo come parte del programma di esercitazione militare 2020, che aveva lo scopo di preservare la prontezza della forza e la sua efficienza".

(l'AntiDiplomatico, 21 gennaio 2020)


L'ultimo della Brigata ebraica

Piero Cividalli
Ha grinta da vendere, Piero Cividalli, nato nel 1926, ultimo sopravvissuto di quella Brigata ebraica che venne in Italia in aiuto agli alleati che liberavano l'Italia dai nazisti. Oggi alle 13, col suo bastone, con le mostrine militari di un tempo, con un vecchio album di fotografie dell'epoca sarà a Palazzo Pirelli, nel corso della pausa dei lavori del Consiglio regionale, per inaugurare la mostra promossa dalla Regione in collaborazione con il Museo della Brigata Ebraica e con l'Associazione Figli della Shoah.

- A 94 anni le costerà un bel po' di fatica sobbarcarsi un viaggio in aereo per venire a Milano, non è cosi?
  «Sono venuto in Italia da Tel Aviv, anche se ho 94 anni ed effettivamente sono un po' stanco. Ma sento la necessità di farlo per testimoniare quel che il fascismo ha portato, quel che ha distrutto. Gli italiani non studiano abbastanza la loro storia, stanno diventando indifferenti verso il fascismo che li ha portati a quella rovina che ho visto io nel '45, quando sono venuto con la Brigata ebraica Oggi la storia sembra tornare indietro e pochi lo sanno».

- Ogni anno a Milano, il 25 aprile gli ebrei sfilano dietro alle bandiere della Brigata ebraica e ci sono gruppetti di manifestanti che fischiano e lanciano insulti. Lei è l'ultimo ebreo italiano rimasto a poter raccontare che cosa era quella formazione di giovani pieni di ideali.
  «Io dovetti scappare con la mia famiglia a 12 anni da Firenze per sfuggire alle persecuzioni razziali. Nel 1944, a 18 anni, mi arruolai nell'esercito britannico, in una brigata di soldati ebrei., anche se avrei potuto continuare a vivere tranquillo nel kibbutz, lontano migliaia di chilometri dalle bombe e dal fronte di battaglia».

- Perché?
  «Io non mi sono arruolato come filo israeliano anche perché Israele non esisteva: mi sono arruolato come antifascista. Nel '37 erano stati assassinati in Francia i fratelli Rosselli che erano molto amici della mia famiglia e io da bambino ero rimasto sconvolto da questo assassinio. Appena sono cresciuto, ho deciso di seguire il loro esempio e sono diventato anche io antifascista. Sentivo di voler combattere contro questi regimi del male che seminavano sangue e distruzione».

- Com'era l'Italia quando lei arrivò, mentre i nazisti fuggivano e gli alleati risalivano verso nord, per sfondare la Linea gotica?
  «Ero sbarcato a Taranto nel luglio del '45 - dice sfogliando l'album delle sue preziose foto d'epoca in bianco e nero -. Ho trovato la mia Italia distrutta, corrotta, misera, affamata, irriconoscibile. Non funzionava niente, il Paese era distrutto, i ponti abbattuti, treni si fermavano ogni chilometro. Ovunque solo macerie e lutti. A questo aveva portato il fascismo e oggi nessuno se ne ricorda».

- Da Tel Aviv segue le notizie italiane?
  «Ho sentito quel che succede a Liliana Segre, trovo vergognoso che lei debba avere la scorta e che ci sia chi la insulta. Come è vergognoso che Alessandra Mussolini parli di suo nonno come ne parla, Lui che è stato una vergogna e una rovina per gli italiani. Io sono nato nel 1926, sono anziano, ma non mi stancherò mai di ripetere questa storia, perché gli italiani non devono avere la memoria corta».

- Cividalli, lei è anziano, ha vissuto intensamente e ha visto tante volte la morte in faccia. Ma non ha paura oggi in Israele?
  «Quando hai combattuto come ho fatto io, quando hai visto i compagni morire davanti a te e al posto tuo, per puro caso, non hai più paura di niente, tanto meno di vivere in un posto come la nostra terra d'Israele ancora divisa e contesa».

(la Repubblica, 21 gennaio 2020)


Antisemitismo, la ricetta Ihra e la cultura della convivenza

di Barbara Pontecorvo e Emanuele Calò

Un importante sondaggio sull'antisemitismo in Italia, realizzato da Euromedia Research per Solomon-Osservatorio sulle Discriminazioni, ha rivelato una recrudescenza del fenomeno. che colpisce prevalentemente I cittadini tra i 25 e i 64 anni. La buona notizia è che gli under 25 sembrano più consapevoli dei pericoli di questo male e desiderosi di combatterlo. In questi tempi è affiorata la percezione di un ritorno dell'antisemitismo in Italia. La nascita e la crescita dei social network hanno moltiplicato e perfino conferito un'aura di legittimità alle «fake news», oppure hanno consentito di estrapolare determinate notizie vere dal contesto, rendendole prive di senso, ma nondimeno passibili di diventare fonte di pregiudizi e di intolleranza. Fortunatamente esiste un prezioso strumento che può aiutare a proteggere la società civile tutta da messaggi di odio: la definizione lhra.
L'lhra (lnternational Holocaust Remembrance Alliance) ha elaborato nel 2016 una definizione operativa di antisemitismo, che, senza sfiorare la legittima libertà d'espressione o il diritto di critica, investe tutte le forme di demonizzazione, comprese quelle riguardanti lo Stato d'Israele, di cui si metta in forse non la politica dei governi, bensì il diritto all'esistenza. La definizione lhra provvede ad enumerare alcuni esempi, che riguardano l'incitamento, il sostegno o la giustificazione dell'uccisione o della violenza contro gli ebrei nel nome di un'ideologia radicale o di una visione estremista della religione. Si ascrivono all'antisemitismo le tesi diffamatorie sul potere degli ebrei come collettività; parimenti, si include nell'antisemitismo la negazione dell'Olocausto, così come l'accusa ai cittadini ebrei di essere più leali a Israele che agli interessi della loro nazione. Poiché la definizione lhra non è vincolante, ma si pone sul piano culturale anziché su quello della repressione, essa compie un passo avanti nella civile convivenza. Per questo, il 5 Ottobre 2018 la Camera dei Deputati italiana ha invitato il Governo ad adottare la definizione lhra di antisemitismo, già fatta propria dal Parlamento europeo il 10 giugno 2017. Nel frattempo, tale definizione è stata adottata da numerosi Stati nel mondo ed in Europa, da ultimo dalla Francia. L'approccio di questa definizione, ha il pregio di non essere normativa, ma di porsi sul solo piano culturale, tendendo ad evitare che il ricorso ad espedienti linguistici consenta di celare la natura discriminatoria dell'«hate speech». Grazie a questo prezioso strumento gli Stati potranno combattere i fenomeni del nuovo antisemitismo e non cedere a derive pericolose che rievocano le tragedie del passato. Educare, dibattere, conoscere ed imparare anche dalla storia è il modo migliore per instaurare un linguaggio dove la civile convivenza ed il rispetto siano d'esempio ad una società troppo spesso divisa, che avrebbe bisogno di valori comuni nei quali riconoscersi.

(BUONENOTIZIE - Corriere della Sera, 21 gennaio 2020)


Pietre della memoria a Napoli, cerimonia degli ebrei senza il Comune

Il 30 gennaio in piazza Bovio la comunità ebraica invita l'ex assessore Nino Daniele ed esclude Eleonora de Majo

di Antonio Menna

 
La comunità ebraica napoletana, dopo aver disertato per protesta contro la presenza dell'assessore alla Cultura Eleonora de Majo la cerimonia ufficiale del Comune del 4 gennaio scorso, avrà il suo momento di commemorazione delle pietre di inciampo di piazza Bovio in onore di 9 vittime napoletane della Shoah. Sarà il prossimo 30 gennaio, 76esimo anniversario della partenza del treno da Milano verso Auschwitz su cui furono deportati anche gli appartenenti alla famiglia Procaccia, ebrei che da Napoli tentarono la fuga quando cominciarono i bombardamenti alleati correndo verso nord e trovando invece, proprio nella Toscana che gli aveva dato i natali, la delazione e i rastrellamenti nazifascisti. La comunità ebraica napoletana si ritroverà prima in piazza Bovio, davanti al palazzo dove abitavano Amedeo Procaccia, Iole Benedetti, Elda Procaccia, Loris e Luciana Pacifici, Sergio Oreste Molco, Milena Modigliani, Aldo e Paolo Procaccia, e dove sono state installate le «Stolpersteine» (sanpietrini con placca di ottone con i nomi e le date di nascita), in loro onore, e poi poco distante, in via Luciana Pacifici, la più piccola del gruppo, pochi mesi di vita e caricata sul treno della morte. Quella stessa strada che era intitolata a Gaetano Azzariti (presidente del Tribunale della razza e firmatario del Manifesto della razza, poi fino al 1961 presidente della Corte costituzionale) e fu trasformata pochi anni fa in un simbolo della memoria cittadina sulla Shoah.

 Lo strappo
  Alla doppia cerimonia del prossimo 30 gennaio non è ovviamente invitata l'assessore de Majo, a cui viene imputata la colpa di aver espresso in passato idee molto dure nei confronti dello Stato di Israele, ma è invitato Nino Daniele, ex assessore alla Cultura e al Turismo, sostituito in giunta dalla stessa de Majo, e promotore durante la sua gestione dell'iniziativa delle pietre di inciampo. È stato proprio con lui, infatti, che il giornalista Alfredo Cafasso Vitale, nel luglio 2017, con l'artista tedesco Gunther Demnig (che ha collocato 75mila pietre di inciampo in 22 Paesi del mondo, in memoria di vittime della Shoah a cui volevano sottrarre proprio l'identità), hanno cominciato il percorso burocratico per arrivare a questa prima installazione napoletana. In piazza Bovio, alle ore 10.45, interverranno Daniele Coppin, responsabile della comunicazione della Comunità ebraica di Napoli, Lydia Schapirer, presidente della Comunità ebraica di Napoli, Sandro Temin (consigliere Ucei), Miriam Rebhun, presidente della sezione di Napoli Adei-Wizo, Giuseppe Crimaldi, presidente nazionale della Federazione delle Associazioni Italia-Israele, Nico Pirozzi, storico della Shoah, Ugo Foà, testimone degli eventi, Irio Milla, nipote di Luciana Pacifici, Maskil Ariel Finzi, rabbino della Comunità ebraica di Napoli che leggerà una preghiera di Rav Samuel Hirsch Margulies. Il violino di Angela Yael Amato accompagnerà l'intonazione del «Kaddish». Ci sarà anche un messaggio dell'ambasciatore di Israele in Italia. Un'ora dopo Pirozzi, con l'ex assessore Daniele, si sposterà in via Luciana Pacifici, dove sarà ricordata la più piccola delle vittime napoletane della Shoah.

(Il Mattino, 21 gennaio 2020)


Ebrei come i profughi di oggi?

Tolti i mobili dell'epoca per far spazio a dei pannelli

di Roberto Giardina

BERLINO - Quando amici italiani vengono a Berlino, li conduco a visitare la villa che fu di Friedrich Minoux, sul Wannsee. Una gita al lago attraverso quartieri che i turisti di solito ignorano. Un posto idilliaco. Dalle ampie vetrate, anche in inverno, si scorgono le barche a vela, e poi si può pranzare in un'osteria quasi sull'acqua. Qui, esattamente 78 anni fa, il 20 gennaio del 1942 si tenne la Wannsee Konferenz, indetta da Adolf Eichmann per organizzare in modo più efficiente l'eliminazione di 11 milioni di ebrei in Europa. Li uccidevano già, ma con spreco di uomini e mezzi. La villa è diventata un museo, dopo la riunificazione, è sempre visitabile, e l'ingresso è gratuito.
   Hanno girato due bei film sulla conferenza. In uno del 2001, Kenneth Branagh impersona Heydrich e Stanley Tucci Eichmann, bravi benché per nulla somiglianti ai personaggi da loro interpretati. Uno dei partecipanti chiede: a chi apparteneva la villa? Si sente puzza di ebrei. Ma Minoux non lo era. Figlio di un sarto, orfano a 15 anni, divenne miliardario durante la grande inflazione, non fu un fan di Hitler né un oppositore, ma non volle contribuire al partito neanche con un marco. Heydrich si volle impossessare della sua villa, e lo fece condannare per imbrogli che avrebbe compiuto con le sue imprese. Vero o no, poco importa. La conferenza durò appena 90 minuti, la durata di un film, tanto era tutto deciso.
   Alcune sale della villa quest'estate erano chiuse per allestire la nuova mostra permanente inaugurata proprio ieri. Ma ha suscitato aspre critiche subito dopo la prima visita riservata alla stampa, giovedì scorso. Le scelte compiute dal direttore del museo, Hans-Chistian Jasch sono sembrate a molti discutibili, a cominciare dal fatto che sono stati eliminati molti mobili originali e le sale sono occupate da enormi pannelli. Un peccato perché il salone della conferenza era stato conservato così com'era quel giorno del '42. È sparito anche il lungo tavolo intorno a cui si trovarono seduti i partecipanti.
   Chi entra nella villa sente subito un rumore ormai sconosciuto ai giovani, il ticchettio di una macchina da scrivere che batte il documento della soluzione finale. La visita si riduce alla visione di filmati, di foto accompagnate dalla voce dei sopravvissuti. Ma invece di venire fino alla villa, basterebbe comprarsi un cd. La documentazione era già presente nella vecchia installazione, più autentica e meno tecnologica. Le buone intenzioni sono spesso disastrose.
   Ha fatto discutere soprattutto la sezione denominata Partizipationsstation, in cui si vuole stabilire un confronto tra oggi e il passato. Su un touchscreen appare il cartello Juden unerwünscht, ebrei indesiderati, il divieto di accesso allo stabilimento balneare sul Wannsee, sempre esistente, che si scorge sull'altra sponda del lago. Il confronto è con il divieto in molte piscine per i musulmani, imposto dall'estate del 2016. Le due situazioni non sono affatto simili. Anche l'ultima estate, in diverse piscine si è dovuto ricorrere alla presenza di poliziotti per controllare i giovani profughi. I bagnini erano insufficienti. Gli incidenti e le risse sono stati frequenti. I ragazzi arabi infastidiscono le donne, e reagiscono con violenza se vengono rimproverati o espulsi.
   Nell'autobiografia Mein Leben, la mia vita, pubblicata in Italia da Sellerio, il principe dei critici tedeschi, l'ebreo Marcel Reich-Ranicki (1920-2013), di origine polacca, ricorda come da ragazzo riuscisse nonostante il divieto a intrufolarsi nello stabilimento del Wannsee insieme con la sua ragazza Teofila, che sposò proprio nel '42, l'anno della conferenza tenuta sulla riva opposta. Non credo che il giovane Marcel insidiasse le bagnanti né fosse un cliente manesco. Come si fa a paragonare la discriminazione nazista nella Berlino degli anni Trenta, l'inizio di una persecuzione che si sarebbe conclusa con i campi di sterminio, con un divieto che cerca di preservare l'ordine in una piscina?
   Il direttore Hans-Christian Jasch, 47 anni, uno storico del diritto, ha fatto marcia indietro, e ammette che si è trattato di un errore. Quel paragone è stato eliminato. Una decisione lodevole. Ma è un peccato che le nuove installazioni abbiano compromesso l'atmosfera della villa di Herr Minoux che, incarcerato per cinque anni da Heydich, morì nel '45. La bellezza del luogo, il roseto amato dal padrone di casa, il panorama, i mobili costosi e borghesi, creavano un contrasto intollerabile con l'orrore deciso intorno a un tavolo da un gruppo di partecipanti a cui si offriva cognac francese e caffè a volontà.

(ItaliaOggi, 21 gennaio 2020)


La scuola inuguale di un bambino ebreo

Lettera a “il Giornale”

L'articolo «La scuola inuguale è un sacrilegio» apparso alcuni giorni fa sulla nella prima pagina de il Giornale ha richiamato alla memoria i tempi della mia scuola elementare. I miei genitori, ebrei non osservanti, mi fecero battezzare nel 1938, appena apparse le leggi razziali. Avevo 3 anni, tuttavia dopo due anni non potei essere iscritto alla prima classe delle elementari in una scuola statale, venni accettato in quella privata delle Suore Marcelline. Anche a Masone, dove la famiglia era sfollata dopo i primi bombardamenti su Genova, non potei frequentare la scuola elementare statale, ma fui costretto a prendere lezioni private dalla bravissima maestra Macciò. Mi fu consentito sostenere un esame ( credo in 3a elementare) nella scuola statale, ma fui relegato nell'ultimo banco, lontano dagli altri bambini, non so se perché privatista o per via della mia razza. Così, per ragioni diverse, fu «inuguale» anche la mia scuola.
Ugo Avigdor, Genova

(il Giornale, 21 gennaio 2020)


Il parlamento Giordano vota per fermare le importazioni di gas da Israele

di Alice Mattei

E' stata una mossa le cui ripercussioni si sentiranno a lungo, in Medio Oriente, quella del parlamento giordano. L'assemblea ha approvato un progetto di legge che vieta le importazioni di gas israeliano. Il problema però è che la nuova legge non si limita a bloccare le importazioni future, ma anche quelle presenti. E dunque sospende (o proverà a sospendere) un accordo di fornitura stretto con Israele nel 2016 e del valore di circa 10 miliardi di dollari. L'accordo è sempre stato inviso alla popolazione giordana, in parte formata da palestinesi , contrari al "gas del nemico" che, tra l'alto ne contestava la legittimità, perché la fornitura non era stata decisa dal parlamento. Ora però la sospensione dell'accordo commerciale potrebbe avere pesanti conseguenze politiche e militari nella zona.

(Business Insider Italia, 20 gennaio 2020)


Pietre d'Inciampo, la Comunità Ebraica di Napoli si smarca dal Comune

La presidente Di Segni: Inaccettabile il comportamento di de Magistris

di Paolo Pantani

La Comunità Ebraica di Napoli si smarca dal Comune sulla questione della cerimonia delle Pietre d'Inciampo, una commemorazione dei cittadini deportati nei campi di sterminio nazisti che si svolge a Napoli e in tante altre città d'Europa. La presidente della Comunità, Lydia Schapirer, rivela al Denaro perché si è deciso di non aderire alla cerimonia indetta dal Comune di Napoli e di organizzare, per il 30 gennaio prossimo, una propria iniziativa.

- Dottoressa, che cosa sta succedendo tra la vostra Comunità e il Comune di Napoli, al punto tale che voi state organizzando una seconda cerimonia per le prime pietre di inciampo deposte a Napoli e non avete partecipato a quella organizzata dall'assessore de Majo?
  Purtroppo è una questione abbastanza inveterata. Il sindaco de Magistris, nel corso degli anni ha fatto molti strappi istituzionali nei confronti della nostra Comunità e degli Ebrei in generale. Ha dato la cittadinanza onoraria ad Abu Mazen, e, quando gli abbiamo chiesto, per ovvia simmetria istituzionale, di attribuire la stessa onorificenza anche ad una alta personalità israeliana (all'epoca noi indicammo Shimon Peres) non ci ha neanche risposto. Nella complessa vicenda medio-orientale ha sempre mostrato una pregiudiziale e asimmetrica visione anti-israeliana, avallando persino posizioni estreme di B.D.S. (Boicottaggio Disinvestimento Sanzioni ), proponenti il blocco commerciale dei prodotti israeliani, e, specialmente, ha recentemente sostituito Nino Daniele, ottimo assessore alla cultura che aveva sempre avuto un' atteggiamento equilibrato nei confronti della Comunità Ebraica con Eleonora de Majo, esponente dei centri sociali, a tutti nota per le sue ripetute prese di posizione antisioniste e antisemite.

- Eleonora de Majo: ma non ritiene, sinceramente, di esagerare un po' nei suoi confronti, visto che lei, una volta diventata assessore non solo ha subito dichiarato che " l'antisemitismo non può neanche esistere nel suo Dna..", ha proposto la cittadinanza onoraria a Liliana Segre, e ha organizzato la cerimonia della posa in opera delle prime pietre di inciampo a Napoli? Iniziativa alla quale voi non avete neanche partecipato.
Luigi de Magistris e Eleonora de Majo      
La signora de Majo già nel 2015 dichiarava pubblicamente "abbiamo sempre detto che sionismo è nazismo e che i metodi utilizzati dagli israeliani contro i palestinesi ricordano quelli che negli anni '40 portarono alla morte di 4 milioni di ebrei…" per poi finire definendo gli Ebrei "porci, accecati dall'odio, negazionisti e traditori finanche della vostra stessa tragedia…" Capirà che quando si propone così, una equivalenza fra nazismo e sionismo, immancabilmente si scade in un assurdo antisemitismo pregiudiziale della peggiore specie. Antisemitismo in mala fede di chi non conosce la storia e vuole solo interpretarla ai fini di una propria malata ideologia. Le pietre di inciampo sono simboli di grande significato, che possono stimolare alla riflessione e produrre cultura storica basata su memoria viva, ma la loro plateale strumentalizzazione, risulta unicamente offensiva.

- Quindi per voi quale può essere il punto di discriminazione tra delle critiche allo Stato di Israele e dei veri e propri atti di antisemitismo ?
  Sappiamo bene che gli atti ostili contro gli ebrei seguono in parallelo gli eventi in Medio Oriente e che una delle tante forme del "nuovo antisemitismo" trae origine dalle accuse ad Israele per la questione palestinese. Ma il problema è che oggi siamo sempre più spesso non più di fronte a delle legittime critiche alla politica di Israele, ma assistiamo ad un vero e proprio scivolamento verso i cliché antisemiti del passato, con una chiara prevaricazione dei confini del giusto quando viene difesa la causa dei diritti umani solo dei palestinesi, quando dagli "Ebrei" si passa all'"Ebreo", quando si rispolverano miti e menzogne come quello del "capitale ebraico" riproponendoli artatamente come "causa" della politica di Israele. In effetti il perimetro e i confini dell'antisemitismo sono stati molto specificamente definiti dall'IHRA (Alleanza Internazionale per la Memoria dell'Olocausto) e tali definizioni sono state già adottate da 35 Stati, nonché, pochi giorni fa, anche dal Governo Italiano. Già nel 1988 un Documento del Pontificio Consiglio per la Giustizia e la Pace dichiarava che "... l'antisionismo ... serve talvolta come uno schermo per l'antisemitismo, alimentandolo e portando ad esso" e Papa Francesco ha recentemente indicato come "l'antisionismo possa diventare una delle più pervicaci cause dell'antisemitismo dei nostri giorni". Così, accanto all'antisemitismo "classico" di matrice di "destra" razzista si sta diffondendo sempre più quello "terzomondista ed anti-imperialista" ritenuto più "presentabile" rispetto all'antisemitismo che ha portato alla Shoah, e in questo modo, più la memoria del passato impallidisce, più si tenta di separare la continuità storica tra Shoah e Stato di Israele che viene artatamente fatto passare, con un cortocircuito storico, come una entità singola, avulsa dal contesto circostante.

- Quindi lei dice che esistono svariate forme di antisemitismo che andrebbero singolarmente analizzate ed affrontate. Quale di queste ritiene che sia la più pervicace e pericolosa?
  L'antisemitismo, con i suoi oltre duemila anni di storia, è diventato un vero e proprio "luogo" dell'inconscio collettivo dell'umanità nel quale però si gioca realmente la nostra possibilità/capacità di apertura all'altro e alle differenze, piuttosto che la chiusura nel pregiudizio e nell'intolleranza. Comprenderà pertanto come non abbia senso definire una forma di antisemitismo "più pericolosa" di un'altra, perché, alla base, rimane sempre l'Ebreo, il "Nemico Innocente" quello che deve subire le conseguenze di quelle zone d'ombra dell'inconscio collettivo nelle quali si annida un coacervo di miti e menzogne. Per combattere l'antisemitismo, si deve innanzitutto combattere ogni forma di odio, tenendo fermamente presente che nessun essere umano può essere avulso dalla sua specifica "storia" soggettiva e dai suoi tratti di comune umanità, per essere categorizzato e ridotto a "simbolo" o a "oggetto".

- Che significato hanno per voi le pietre d'inciampo, e come intendete celebrare la loro posa per la prima volta nella nostra città?
  Come già le ho detto le pietre di inciampo sono simboli di grande importanza e, attraverso di esse noi vogliamo onorare la memoria dei nomi delle vittime innocenti che rappresentano, tenendo sempre presente che "una persona viene dimenticata soltanto quando viene dimenticato il suo nome" come dice il Talmud. A noi non interessa che qualcuno cerchi di "compensare" la diffusione dell'antisemitismo di fondo con un filosemitismo di facciata, partecipando alla posa di qualche pietra di inciampo. Non conta l'omaggio una tantum, più o meno sentito, del quale, un attimo dopo ci si è già dimenticati. Ci interessa invece la politica culturale della memoria e del rispetto, e per questo il prossimo 30 gennaio organizzeremo una "nostra" cerimonia nella quale cercheremo di riportare alla luce le figure delle povere vittime, nella loro individuale umanità, così violentemente rapita e annullata, cercando di condividerle con tutta la nostra Comunità, strettamente unita ad ampie porzioni della Società Civile e di Giovani della nostra città, che ci hanno sentitamente chiesto di unirsi a noi.

(il Denaro, 20 gennaio 2020)


Charlotte Salomon, la pittrice ebrea che dipinse l'Olocausto e morì ad Auschwitz

Charlotte Salomon - Autoritratto, 1940
Il 10 ottobre del 1943, a causa di una delazione, Charlotte Salomon fu caricata su un treno dai nazisti e deportata ad Auschwitz, nel campo di concentramento e sterminio luogo simbolo dell'Olocausto del popolo ebraico. Stava per scappare lontano con suo marito, Alexander Nagler, portava in grembo un bambino. Purtroppo morì il giorno del suo arrivo ad Auschwitz, in una camera a gas. Aveva soltanto 26 anni. Era un'artista, i suoi 769 quadri realizzati con la tecnica "gouache" si rifacevano chiaramente ai colori e alle ambientazioni di Van Gogh, Chagall e Munch. Queste opere, in cui Charlotte aveva raccontato la sua vita, dall'infanzia al suicidio della madre, l'ascesa del nazismo in Germania, il potere di Adolf Hitler, l'internamento del padre e la costrizione a lasciare Berlino, in quanto ebrea.
   Le sue opere, che furono messe in salvo dal dottor Georges Moridis, a cui Charlotte Salomon affidò il "corpus" dei suoi quadri prima di partire per l'esilio, sono realizzate esclusivamente con tre colori (rosso, blu e giallo) e sono accompagnate da commenti scritti in terza persona. Oggi quell'enorme patrimonio di opere d'arte si trovano allo "Joods Historisch Museum" di Amsterdam, dove sono arrivate dopo la guerra e il salvataggio della memoria di Charlotte ad opere di Moridis, che le consegnò nelle mani dell'americana Ottilie Moore, che a sua volta lo restituì alla famiglia Salomon.
   Così il cerchio della vita della giovane Charlotte si è chiuso. Prima di fuggire, fece in tempo a raccogliere le sue opere e a metterle nelle mani del suo dottore, che la stava curando da una forte depressione. Malattia che colpiva statisticamente molti ebrei e non solo dalla persecuzione nazista, ma dal clima che da fine Ottocento in poi si era diffuso in tutta Europa di antisemitismo. Per sfuggire al dramma familiare e alla ininterrotta catena di suicidi, aveva deciso di "guarire" attraverso l'arte. Ce la fece. Come ci dimostrano oggi quei dipinti. Purtroppo per lei non riuscì a sopravvivere all'Olocausto e al campo di sterminio di Auschwitz.

(fanpage.it, 20 gennaio 2020)


Salvini guarda a Israele. «L'antisemitismo è colpa degli immigrati islamici»

«Proporrò Gerusalemme capitale». L'ira dei musulmani: «Così alimenta un clima d'odio»

di Pasquale Napolitano

La svolta trumpiana di Matteo Salvini arriva in un'intervista all'edizione online di Israel Hayom: «Quando sarò premier, l'Italia riconoscerà Gerusalemme come capitale».
   Il leader del Carroccio rompe gli indugi. Annuncio che ricalca le scelte in politica estera del presidente Usa Donald Trump. Il leader della Lega si schiera a favore di Israele, della politica di Benjamin Netanyahu e della lotta all'antisemitismo. Già in passato l'ex ministro dell'Interno si era espresso cautamente a favore dello spostamento dell'ambasciata italiana da Tel Aviv a Gerusalemme. Ma ora, senza la prigione dell'alleato grillino, la posizione è più chiara. Senza esitazioni.
   Nell'intervista, Salvini rassicura il governo d'Israele che la Lega non ha legami con organizzazioni politiche come Casapound, Forza Nuova e Fiamma definite dal giornale antisemite: «Alle elezioni questi partiti si presentano contro di noi e questo dimostra che noi non abbiamo legami con loro».
Una presa di posizione netta, che libera il campo da equivoci e sospetti. Ma l'attacco più duro, il leader del Carroccio lo riserva alle istituzioni europee: «Ho trascorso nove anni nel Parlamento europeo e vi posso dire che le istituzioni europee, per non parlare di quelle Onu, non sono amiche di Israele». Il leader della Lega chiede all'Unione Europea di vietare le attività del movimento Bds, che propugna il boicottaggio di Israele. E poi un appello alla mobilitazione: «Dobbiamo iniziare a lavorare nelle scuole, tra i giovani. Non ci dobbiamo concentrare sulle istituzioni europee ma sulle nuove generazioni. Quelli che vogliono cancellare lo Stato di Israele devono sapere che noi siamo loro nemici. Israele è un alleato, questo deve essere insegnato in scuole ed università».
   Un'intervista che indica una rotta chiara in politica estera del leader del Carroccio. Anche in prospettiva di un impegno al governo. Salvini affonda il colpo rispondendo a una domanda sul risorgere dell'antisemitismo in Europa - di cui si discuterà a Gerusalemme il 22 e 23 gennaio prossimi in occasione del 75o anniversario della liberazione di Auschwitz: «A mio avviso questo ha a che vedere con il rafforzamento negli ultimi anni dell'estremismo e del fanatismo islamico. La presenza massiccia in Europa di migranti provenienti da paesi musulmani, compresi molti fanatici che ottengono totale sostegno da alcuni intellettuali, porta alla diffusione dell'antisemitismo, anche in Italia. È molto importante sottolineare che certi elementi nel mondo accademico e nei media sono mobilitati contro Israele ed alimentano odio verso Israele per giustificare l' antisemitismo».
   L'ex ministro dell'Interno non si limita all'attacco. Ma cita casi specifici: «C'è un antisemitismo dell'estrema destra e dell'estrema sinistra. Pensiamo a Jeremy Corbyn o ad attivisti della sinistra in Germania che non vogliono essere come i nazisti eppure si trovano a boicottare prodotti israeliani».
Parole che scatenano la dura reazione della Comunità del Mondo Arabo in Italia (Co-mai), della Confederazione internazionale laica interreligiosa (Cili-Italia): «I musulmani e arabi italiani hanno messo la faccia sempre contro l' antisemitismo», e poi dell'Ucoi: «Queste dichiarazioni gettano le basi per il crescente clima di odio e islamofobia». E contro Salvini si schiera anche il deputato di Leu Stefano Fassina: «Ancora una volta, come per l'assassino di Soleimani in Iraq, Salvini sacrifica l'interesse nazionale dell'Italia per ri-accreditarsi con Trump. E questi sarebbero i sovranisti…».

(il Giornale, 20 gennaio 2020)


L'odio non è solo di destra. Matteo ha detto una verità

di Fiamma Nirenstein

Chi ha il diritto, il privilegio, di poter combattere l'antisemitismo che è riapparso, ripugnante, in tutto il mondo? Nei giorni prossimi a Gerusalemme si apre una conferenza mai vista prima, in cui da Netanyahu a Putin a Mattarella a Macron tutti si consulteranno su come battere questo fenomeno. Sembra ovvio, logico: la memoria della Shoah, lo stupore indignato di chi 70 anni dopo assiste a una crescita verticale di odio contro il popolo ebraico, l'aggressione contro le persone, i simboli, i luoghi di culto, contro la sua legittimità ad esistere, unisce. In realtà l'unità su come combattere questa battaglia è un serissimo problema. Ogni guerra richiede un'analisi e quindi una strategia accurata, e qui invece esse sono tante e spesso inconciliabili.
   Da una parte infatti c'è una dimensione utopistica, quello che in inglese si chiama un wishful thinking: essa vede la lotta tutta volta verso destra, il luogo essenziale, classico, dove l'antisemitismo deve essere storicamente collocato nel secolo scorso, l'era della Shoah. Il nazifascismo è indubitabilmente l'autore e il responsabile del maggiore fra i genocidi, più di sei milioni di persone innocenti e fra di loro un milione e mezzo di bambini. È così, e forse ancora la destra responsabile non ha fatto sufficientemente ammenda, e anzi alcuni suoi gruppi insistono su quel ceppo ideologico e sono orridi e degni di ogni punizione. Di certo, la parte suprematista bianca contemporanea ricorda la pretesa razzista che predicava la riduzione in schiavitù di chi non apparteneva al ceppo ariano bianco.
   Contemporaneo a quel ceppo ce n'è un altro colossale a sua volta quello che nasce col comunismo, diventa prosecuzione capillare al tempo di Stalin, si trasforma a piacere in accuse di complicità coi crimini del capitalismo, dell'imperialismo e oggi, molto diffuso, si posa in forma rimodernata sull'odio contro Israele. Corbyn ne è l'ultimo portatore, in larga compagnia. Poi c'è un terzo tipo di antisemitismo, quello citato da Matteo Salvini (in realtà ha parlato di tutti i tipi di antisemitismo condannandoli in massa senza nessuna remora): quello importato dalle migrazioni musulmane in Europa. In genere viene obliterato perché dispiace, ma è stato verificato senza remissione sin dal 2002 dalla commissione dell'Ue sul Razzismo che fu incaricata da Romano Prodi: i risultati però erano imbarazzanti e il Financial Times la riesumò da un cassetto. Da allora sono state fatte centinaia di ricerche sull'argomento, e tutte dimostrano la stessa cosa: che gran parte dei musulmani immigrati sono antisemiti (lungi da noi farne un dato fisso): in Belgio secondo un'analisi dell'Adl del 2015 lo era il 68% contro il 21 (e non è poco) dei cittadini di altra origine, in Francia 49 a 17, in Germania 56 a 16, in Inghilterra 57 a 12. Altre analisi dicono che il loro antisemitismo è antisionismo, ma chi conosce il discorso pubblico sugli ebrei nell'islamismo, sa che i termini sono sovrapposti. Inoltre gli attentati terroristici che hanno preso gli ebrei di mira in Europa sono stati compiuti da islamici che poi li hanno rivendicati in nome di un'ideologia jihadista, come Mohammed Merah quando ha ucciso a Tolosa tre bambini e il loro maestro che entravano a scuola, e così tutti gli altri. Merah ha detto che ammazzava i bambini ebrei come gli israeliani ammazzavano quelli palestinesi. Per chi immagina che si possa essere filoebrei e antisionisti, ovvero negare al solo popolo ebraico il diritto all'autodeterminazione, il consiglio è di attenersi alle famose tre D di Nathan Sharansky, per identificare la critica legittima e l'antisemitismo. Antisemitismo è «Delegittimare» lo Stato d'Israele con le menzogne che ormai a quintali gli si sono accumulati addosso (stato di apartheid, genocidio dei palestinesi, uso della Shoah), «Demonizzazione» (una fra le tante?, che l'esercito uccide i giovani palestinesi per impossessarsi dei loro organi e venderli) doppio standard (cioè, condannare i cosiddetti «Territori occupati» e ignorare quelli occupati da Turchia, Cina, Marocco e così via). Nella polemica stranamente gran parte del mondo ebraico e dei suoi amici rinunciano all'evidente unicità dell'antisemitismo: si parla molto della sua intersezione con la cosiddetta «politica dell'odio». Cioè, chi combatte gli antisemiti deve essere parte del grande schieramento «intersezionale» contro l'oppressione, deve militare in parecchi altri campi, per i confini aperti, nel campo anticolonialista (ma è finito da tempo), femminista (non c'entra però), paladino delle teorie di gender (anche questo ha poco a che fare) ... scivolando alla fine su terreni incerti, dove si incontra la violenza, il terrorismo, la cultura del politically correct che ti suggerisce di negare la unicità della persecuzione degli ebrei e forse alla fine anche quella della Shoah. Chi scrive ha da sempre un forte impegno liberal nel campo del femminismo, dell'uguaglianza, dei diritti dei gay. Ma l'antisemitismo ha una sua dimensione unica, il popolo ebraico lo si accusa di tutto e del suo contrario, l'unico di cui si è scientificamente progettata l'eliminazione, l'unico che da millenni abbia subito persecuzioni e se ne sia rialzato grazie alla sua forza spirituale da cui nasce il pensiero moderno fino alla democrazia, l'unico che riponga il suo futuro in uno Stato democratico e capace di difendersi. Unico è il Popolo ebraico, e unico l'antisemitismo.

(il Giornale, 20 gennaio 2020)


"Il ruolo di Israele nell'assedio all'Occidente"

La serata a Torino con Maurizio Molinari

TORINO - Nell'assedio all'Occidente da parte di Cina, Russia, Iran e Turchia qual è il ruolo di Israele? Durante la presentazione alla «Fondazione Camis De Fonseca» del libro di Maurizio Molinari «Assedio all'Occidente», il direttore de La Stampa - in dialogo con il presidente dell'associazione Italia Israele Dario Peirone - ha messo a fuoco anche la posizione dello stato israeliano. Con una sala gremita e i libri in vendita esauriti. «È una posizione molto originale. Perché se l'Occidente è assediato da due rivali globali, la Russia e la Cina, e due rivali regionali, l'Iran e la Turchia, Israele oggi ha rapporti privilegiati con i primi ed è invece un acerrimo avversario dei secondi», ha spiegato Molinari.
   «Per rendere tutto ancora più complicato bisogna tenere presente che la Russia e la Cina tendono a usare l'Iran e la Turchia contro gli Stati Uniti, da sempre legati a Israele - ha aggiunto il direttore de La Stampa -. Quindi Israele si trova in una situazione apparentemente paradossale dove deve duellare con le sfide temibili e formidabili di Iran e Turchia, quando invece è un interlocutore privilegiato delle due potenze che la sostengono. Questo ci dice quanto è complesso il nuovo scenario internazionale nel ventunesimo secolo». Di fronte a questo assedio all'Occidente la posizione di Israele è quindi di fatto una posizione di confine e di molte sfide ancora aperte.

(The World News, 19 gennaio 2020)


La sfida di Ayman Odeh: "Cambiare Israele portando gli arabi al governo"

Parla il leader della Joint List, la Lista araba unita che con 13 seggi è diventata terza forza alla Knesset, il Parlamento israeliano

di Umberto De Giovannangeli

 
Aymen Odeh
La rivista Time lo ha inserito tra i 100 astri nascenti della politica a livello mondiale. Di certo, oggi è uno dei leader politici più carismatici nel panorama politico israeliano. Ayman Odeh, 45 anni, leader della Joint List, la Lista araba unita, pensa in grande. E in questa intervista esclusiva concessa a Globalist, svela il suo sogno che vuole trasformare in realtà: "Cambiare la storia d'Israele, portando gli arabi israeliani al governo". Nelle elezioni del 17 settembre 2019, la Joint List ha ottenuto 13 seggi, terza forza alla Knesset, il Parlamento israeliano. I sondaggi per le elezioni del 2 marzo, danno La Lista araba unita in crescita, con una previsione di 15 seggi. "Una cosa è certa - dice Odeh - gli arabi israeliani (il 20,9% su una popolazione, secondo il recentissimo aggiornamento dell'Ufficio Centrale di statistica di 8.907.000, il 74% ebrei, ndr) hanno conquistato uno spazio centrale nella vita politica d'Israele. Non siamo più una riserva indiana, chiunque intenda governare il paese deve fare i conti con noi. Siamo diventati l'ossessione di Netanyahu e della destra più integralista. Per noi è una medaglia".

- Benjamin Netanyahu, il primo ministro più longevo nella storia d'Israele?
  "Lui vorrebbe che fosse così, ma noi faremo di tutto per non cadere nella trappola. Netanyahu tiene in ostaggio Israele, anteponendo i propri interessi personali a quelli del Paese. E' arrivato a istigare la piazza contro un inesistente golpe, perché il procuratore generale d'Israele, peraltro nominato dallo stesso Netanyahu, ha 'osato' incriminarlo per gravi reati di corruzione. Il vero golpista è lui, Benjamin Netanyahu, un uomo che pretende di essere al di sopra della legge".

- Come intende essere in campo la Joint List?
  "Con l'orgoglio della nostra identità, con la forza delle nostre idee. Per tanto, troppo tempo, la discriminazione verso gli arabi israeliani è stata trasversale ai partiti israeliani. Variavano i toni, ma non la sostanza: la nostra era un'esclusione pregiudiziale. Ora non è più così. Nessuno ci ha regalato niente. Abbiamo combattuto perché le problematiche che riguardano una comunità che rappresenta oltre il venti per cento della popolazione d'Israele entrassero nell'agenda politica di chi ha l'ambizione di governare".

- Il riferimento è al leader di Kahol Lavan (Blu Bianco), l'ex capo di stato maggiore di Tsahal, Benny Gantz. Lei lo ha indicato come premier nelle consultazioni che aveva avviato il capo dello Stato israeliano, Reuven Rivlin, dopo il voto del 17 settembre. Vale anche per il futuro?
  "Dipenderà dalle sue scelte. Di certo, dovrà conquistare il nostro sostegno. Gantz ha dimostrato di avere capacità di ascolto e ha convenuto che le questioni che noi abbiamo posto sul tavolo devono essere affrontate e portate a soluzione Per quanto ci riguarda, restiamo fedeli ai valori di pace e uguaglianza e, come sempre, accogliamo con favore l'isteria del Likud. Il voto degli arabi israeliani, con la loro massiccia partecipazione elettorale, è risultato decisivo per sconfiggere Netanyahu e il peggiore governo della storia d'Israele, dominato da una destra razzista, nemica di una pace giusta con i palestinesi. Per noi è un motivo d'orgoglio essere attaccati da questi fanatici".

- Ad attaccare la Joint List non è solo Netanyahu, ma anche il leader di Yisrael Beiteinu, Avigdor Lieberman, che ha definito l'alleanza dei partiti arabi israeliani una "quinta colonna", aggiungendo che questa definizione non va messa tra virgolette, ma intesa letteralmente.
  "Quinta colonna di chi? Dei palestinesi, che la destra oltranzista vorrebbe spazzare via dalla West Bank, come se milioni di persone potessero essere cancellate con un tratto di penna o deportate in massa verso dove peraltro… Una pace giusta e duratura con i palestinesi, fondata sulla soluzione a due Stati, non è una concessione che Israele fa sulla base di un astratto principio di giustizia e legalità internazionale, tanto meno un cedimento ai "terroristi". Riconoscere il diritto del popolo palestinese a vivere in uno Stato indipendente a fianco dello Stato d'Israele, è un investimento sul futuro che Israele fa per se stesso. Non esistono scorciatoie militari per dare soluzione al conflitto israelo-palestinese, l'unica via praticabile è quella del dialogo, del negoziato, del compromesso. Se questo per qualcuno vuol dire essere una "quinta colonna", allora sì, lo siamo. Siamo la "quinta colonna" di una pace tra pari. Noi vogliamo vivere in un luogo pacifico basato sulla fine dell'occupazione, sulla creazione di uno Stato palestinese accanto allo Stato di Israele, sulla vera uguaglianza, a livello civile e nazionale, sulla giustizia sociale e sicuramente sulla democrazia per tutti. Un'aspirazione che non potrà mai essere realizzata se al governo ci saranno ancora Netanyahu e le destre razziste".

- Gantz ha accusato Netanyahu di "sfascismo" per aver portato Israele alle terze elezioni anticipate...
  "Il terrore di Netanyahu si chiama incriminazione per reati gravi come frode e corruzione. Egli pretende di essere al di sopra della legge, e continua ogni giorno, con dichiarazioni irresponsabili come quelle del ministro della Giustizia, ad attaccare frontalmente la magistratura, la polizia. Quello che Netanyahu pretende è l'impunità, che nella sua testa otterrebbe se fosse confermato primo ministro. Un politico che tiene in ostaggio un Paese non può candidarsi a guidarlo. C'è bisogno di una discontinuità netta col passato. L'uscita di scena di Netanyahu è importante ma non basta per imprimere una svolta radicale nel governo d'Israele. Noi arabi israeliani non vogliamo essere tollerati, ma considerati cittadini d''Israele a tutti gli effetti, né più né meno degli ebrei israeliani. È questa la sfida che lanciamo. Ed è una sfida che investe l'essenza stessa della democrazia e dell'idea di nazione. A votarci, il 17 settembre, non sono stati solo gli arabi israeliani, ma tanti ebrei israeliani che condividono la nostra idea di democrazia, che si battono perché lo Stato d'Israele sia, a tutti gli effetti e su ogni piano, lo Stato degli Israeliani, ebrei e arabi. È la rivendicazione di un diritto di cittadinanza che supera le appartenenze comunitarie. Un governo che lavorasse per questo, sarebbe davvero un governo del cambiamento".

- Un governo che potrebbe contare sui voti della Joint List?
  "Non farlo sarebbe difficile da spiegare".

- Lei parla di svolta. Questo deve riguardare anche il processo di pace con i vostri "fratelli" palestinesi? A Ramallah come a Gaza non si fanno grandi illusioni.
  "Israele potrà ambire ad essere un Paese normale solo quando raggiungerà una pace giusta e duratura con i Palestinesi. Una pace fondata sulla soluzione a due Stati. Fuori da questa prospettiva, c'è solo il perpetuarsi dello status quo. Una pace giusta con i Palestinesi è un investimento sul futuro. Perché non sarà con la forza che costruiremo un futuro di pace, né portando avanti la colonizzazione dei Territori palestinesi. Le risorse economiche che le destre hanno utilizzato per ampliare gli insediamenti vanno destinate all'istruzione, al sostegno delle fasce più deboli della società, a creare opportunità di lavoro per i giovani. Un Israele più giusto non si costruisce con più colonie".

- Haaretz, il quotidiano progressista israeliano, la candida come il vero leader in pectore della sinistra israeliana...
  "Ne sono onorato, non per me ma perché vuol dire che pensare ad un arabo israeliano come un possibile leader della sinistra israeliana, è già di per sé un segno importante di cambiamento, culturale, prim'ancora che politico. Una cosa è certa: il mio impegno va alla costruzione di un movimento ebraico-arabo progressista, che ridefinisca l'idea stessa di identità nazionale ,non più legata ad una appartenenza etnico-religiosa che istituzionalizzi cittadini di serie A, gli ebrei, e di serie B, gli arabi israeliani. Per farlo c'è bisogno di una battaglia culturale che accompagni e rafforzi l'azione politica. Perché si tratta di riscrivere la storia d'Israele, ridefinire l'idea stessa di cittadinanza, combattere una deriva etnocratica alimentata dalle destre. Non si tratta solo di cambiare governo. Si tratta di cambiare mentalità. E questo, ne sono consapevole, è un impegno di una vita".

- Verrà un giorno in cui Israele potrà accettare un primo ministro non ebreo?
  "Lo spero, e non solo da arabo israeliano. Perché quel giorno sarebbe la consacrazione di una democrazia compiuta, l'alba di un nuovo Israele".

(globalist, 19 gennaio 2020)


Ieri Trotsky, oggi Soros. I bersagli degli antisemiti

Il mito del «bolscevismo giudaico» di cui parla Paul Hanebrink era totalmente falso e ha prodotto orrori senza fine. Adesso lo ha sostituito lo spauracchio del «cosmopolitismo» agitato in Ungheria e in Polonia, ma a volte anche nel nostro Paese.

di Federico Argentieri

Negli ultimi decenni dell'Ottocento, la condizione degli ebrei d'Europa era diversificata: emancipati e leali sudditi in Italia, incastonati nel mosaico etno-linguistico-religioso austro-ungarico, vittime di endemici linciaggi nell'impero zarista, protagonisti ma bersagli di crescente ostilità in Francia e Germania. Mentre ne emigravano a migliaia dalla Russia, soprattutto verso le Americhe, nella parte magiara dell'impero asburgico erano elevati al rango di «sudditi di fede mosaica», cambiavano i loro cognomi biblico-ashkenaziti in ungheresi ed erano protagonisti indiscussi della vita economica e culturale, senza che questo generasse troppa ostilità.
   Ciò avveniva perché gli ungheresi erano appena al di sopra del 50 per cento della popolazione del regno e rischiavano ogni anno di perdere la risicata maggioranza assoluta con potenziali conseguenze negative sull'assetto politico: pertanto, agli ebrei era stata offerta un'alleanza, in base alla quale diventavano ungheresi a tutti gli effetti, il che permetteva di mantenere una lieve supremazia demografica che era il pretesto per una politica fortemente discriminatoria verso le altre nazionalità. Esempio assai famoso-di questa-alleanza fu il signor Josòf Löwinger, che cambiò il suo cognome in Lukàcs, ma che soprattutto fu insignito del rango di barone, entrando così a fare parte della nobiltà ed acquisendo proprietà terriere, fatto inaudito in Europa orientale. Il figlio Cyorgy però respinse quello che riteneva un compromesso umiliante e divenne radicale, poi forse il più influente pensatore marxista del XX secolo.
   Questa importante premessa, ancorché abbastanza nota, manca del tutto nel libro Uno spettro si aggira per l'Europa (Einaudi) di Paul Hanebrink, che pure ha studiato a fondo il periodo e ha dimestichezza con le vicende ungheresi: eppure sarebbe stata necessaria per comprendere appieno la vicenda che descrive, ossia la nascita del mito del «bolscevismo giudaico». Prima della Grande guerra molti ebrei avevano aderito al socialismo, ma nella grande maggioranza - dall'austriaco Bauer al tedesco Bernstein passando per i nostri Mandolfo e Treves, nonché i menscevichi russi, incluso Trotsky divenuto bolscevico solo nel 1917 - erano moderati e riformisti, ostili al radicalismo di Lenin. Purtroppo nessuno ha mai intrapreso una semplice ma sistematica ricerca empirica che risponda alle domande: che percentuale della popolazione ebraica di ogni Paese divenne socialista? E di questi, quanti furono i moderati e quanti i radicali? Ma soprattutto, quale percentuale degli ebrei rimase estranea od ostile al socialismo?
   Sulla base di molti dati conosciuti, le risposte sono inequivocabili e distruggono sul nascere la leggenda del bolscevismo come creatura ebraica, con tutto il corredo di idiozia superstiziosa che lo ha accompagnato. Eppure, il mito nacque e prosperò per alcuni decenni: la sua esistenza può essere però limitata al mezzo secolo che separa la presa del potere leninista in Russia dalla purga antisemita del marzo 1968 nella Polonia comunista.
   Il libro di Hanebrink è diseguale: detto della mancata premessa, il problema centrale della Grande guerra in Europa orientale è certamente colto nella sua complessità, caratterizzata dal tentativo caotico di affermare Stati-nazione al posto degli imperi, su territori multietnici, con la guerra civile russa che si sovrapponeva gradualmente al conflitto e gli ebrei sballottati e perseguitati da tutte le fazioni in quanto accusati di slealtà: verso lo zar e verso i bolscevichi, verso l'Ucraina e la Polonia, l'Ungheria e la Romania. La presa del potere da parte dei comunisti di Béla Kun in Ungheria nel 1919 e il suo contributo decisivo al mito è descritta bene, con tutto il corredo di spaventose leggende e falsità antisemite che l'accompagnò, a cominciare dal famigerato pamphlet Quand Israel est roi dei fratelli Tharaud, cui seguì la feroce e piuttosto indiscriminata repressione dell'ammiraglio Horthy. Nella trattazione del periodo tra le due guerre però Hanebrink omette fatti fondamentali, come ad esempio il ruolo dei dirigenti staliniani, in particolare di Kaganovic, nell'alimentare il mito dello sterminio degli ucraini per fame (Holodomor) come vendetta ebraica per i tormenti e le persecuzioni precedenti.
   Dopo la Seconda guerra mondiale e la Shoah saranno i comunisti stessi a reprimere gli ebrei «sovversivi» in Urss e Cecoslovacchia (1952) e in Polonia (1968). Finito il comunismo, Orbàn in Ungheria e i suoi colleghi sovranisti polacchi sostituiranno il bolscevismo di Béla Kun e Trotsky con il cosmopolitismo multietnico del finanziere George Soros, percepito come ugualmente dannoso nei confronti dell'identità nazionale per il suo appoggio alle frontiere aperte e all'immigrazione. Si tratta di una deriva inquietante, bene illustrata da Stefano Bottoni nel suo libro Orbàn (Salerno Editrice), che trova riflessi anche nel nostro Paese, dove Greta viene derisa e Soros qualificato con il significativo epiteto di «usuraio».

(Corriere della Sera, 19 gennaio 2020)


Goldkorn: 'L'antisemitismo si vince educando i giovani'

di Michela Bompani

C'è un colpevole quando qualcosa non funziona: esiste da sempre. Ed è la figura dell'ebreo: che non è l'ebreo, ma la sua figura Se uno è di sinistra, o democratico, deve battersi perché non ci siano discriminazioni Non discriminare è l'Abc della democrazia liberale

«La democrazia e la libertà non aboliscono l'antisemitismo, ma l'educazione dei giovani all'uguaglianza delle diversità impedisce che si arrivi alla discriminazione. Perché non discriminare èl'Abc della democrazia liberale», Wlodek Goldkorn, giornalista, storico, saggista e scrittore sarà a Genova, nel Salone del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale per la conferenza "Contro l'Antisemitismo", insieme alla filosofa Donatella Di Cesare , nell'ambito delle iniziative del "Giorno della Memoria", curate dal Centro Primo Levi in collaborazione con Palazzo Ducale. Goldkorn, ha pubblicato per Feltrinelli"Il bambino nella neve" (2016) e, recentemente, "L'asino del Messia" (2019) che a marzo presenterà a Palazzo Ducale, per il Centro culturale Primo Levi.

- Che forme ha, oggi, l'antisemitismo?

  «Siamo sulla soglia di un mondo nuovo, dove la politica non ha ancora gli strumenti per agire. In tempi di crisi riaffiora periodicamente l'antisemitismo perché risponde al bisogno di semplificazione. E ha la forma di risposte semplici a domande complesse, generate da una crisi di una serie di nessi causa-effetto perché sta morendo un mondo»

- Quale?

  «Il mondo Otto-Novecentesco che non esiste più. Quello dell'assoluta fede nel progresso, dell'idea illuminista che tutto è spiegabile, che il futuro ci sarà, sarà migliore e sarà basato sullo sviluppo e sul sapere. Siamo entrati in un nuovo mondo, con Cina e India, per cui la memoria europea e occidentale non è più centrale».

- Dove stiamo andando?

  «Siamo in un tempo in cui, con una serie di operazioni finanziarie, puoi costruire in pochi anni patrimoni che una volta si costruivano in generazioni di imprenditori. E in cui i politici dicono di avere soluzioni, ma non le hanno, perché si trovano in un mondo che non conoscono».

- Nel passaggio, riaffiorano processi discriminatori?

  «Si trova un colpevole quando qualcosa non funziona. Ed è la figura dell'ebreo .L'antisemitismo è il principale dei razzismi, perché è storico. A 75 anni dalla fine della Seconda Guerra mondiale la memoria si affievolisce, la memoria, si sa, vive per tre generazioni. Questo apre al ritorno dell'antisemitismo e, più complessivamente, dei pregiudizi. E il padre di tutti i pregiudizi è l'antisemitismo».

- Perché le democrazie europee, oggi, sembrano non avere sufficienti anticorpi contro l'antisemitismo?

  «La democrazia e la libertà non aboliscono l'antisemitismo perché ha radici antiche quanto la civiltà occidentale. Non penso neppure che tutti gli antisemitismi si traducano, poi, in discriminazione vera. L'antidoto più efficace è quello che può sembrane banale: l'educazione dei giovani al concetto che gli esseri umani sono uguali». L'antisemitismo è diventato ñ Italia anche una questione politica. «Se uno è di sinistra, o democratico, o anche democratico liberale deve battersi perché non ci siano discriminazioni. Questa è una questione politica. Non discriminare è l'Abc della democrazia liberale». Eppure la Shoah è studiata, ricordata: non basta? «La Shoah è diventata tema centrale solo recentemente, dalla fine anni Settanta del Novecento, prima con serie tv e poi una stagione di ricerche storiche rigorose, con cui si sono superate le grandi narrazioni e si è scandagliato ogni dettaglio. La Shoah è stata ancorata alla Storia. Non esiste in tutto l'Occidente un periodo indagato così tanto come la Shoah: paradossalmente, però, è sempre meno percepita dalle persone».

- Cosa accadrà?

  «Non so che forme avrà l'antisemitismo nel futuro. Di certo non siamo negli anni Trenta del Novecento, non ci sono movimenti di massa che dicono che bisogna mettere gli ebrei fuori dal contesto civile. Per ora è un epifenomeno che affiora».

- «L'asino del Messia" racconta il suo ritorno da Varsavia a Gerusalemme e la discrasia tra la sua vita immaginata e quella reale. Assomiglia a quella dei migranti che arrivano qui.

  «È cosi, Mi è costato tantissimo, questo libro. Ed è la storia di come la ricerca di un'identità comporti, anche, il tradimento».

(la Repubblica Genova, 19 gennaio 2020)



Antisemitismo, le radici profonde di un male oscuro

di Peppino Ortoleva

L'emergere di correnti e discorsi antisemiti, nei social network, negli stadi, e anche in sedi pubbliche e politiche, deve suscitare allarme ma non dovrebbe destare stupore. È forte la tendenza a classificare l'odio contro gli ebrei come una sorta di cancro, un male oscuro irrazionale e imprevedibile. In alcuni dei maggiori musei storici tedeschi, l'antisemitismo viene confinato al solo periodo tra il 1933 e il 1945, come se fosse una conseguenza del nazismo e non una delle cause del suo affermarsi, come se la Germania ne fosse del tutto guarita con la fine della guerra. In Italia, un luogo comune tuttora ampiamente condiviso vede le leggi razziali del 1938 come una sorta di adeguamento di Mussolini alla politica dell'alleato tedesco, norme subite dal popolo italiano ma mai realmente condivise. Oggi, qualcuno lega le ondate di antisemitismo attuali soprattutto all'ostilità verso lo stato di Israele, facendone così un fenomeno soprattutto "di sinistra", comunque marginale nell'opinione pubblica.
   Sono tutte, semplicemente, rappresentazioni sbagliate. L'odio contro gli ebrei ha radice profonde, e antiche, in tutta Europa, non solo in quell'area orientale del continente dove ha con i pogrom una sua atroce tradizione di violenza. Anche nel nostro paese: il fatto che in Italia più che altrove tanti abbiano cercato anche correndo seri rischi di proteggere dalla persecuzione nazista ebrei amici o sconosciuti non cancella il consenso che le leggi razziali avevano riscosso pochi anni prima. Quando l'antisemitismo diventa particolarmente evidente e visibile trae linfa da un fondo di pregiudizi, rancori, dicerie che non sono mai venuti a mancare. Il fatto che abbia raggiunto la sua espressione più mostruosa nelle dittature nazi-fasciste ci spinge a identificarlo con la "destra", ma fin dall'Ottocento esiste anche un antisemitismo "di sinistra". E non si tratta di una sorta di follia immotivata, può rispondere come una caricatura di spiegazione a domande che non trovano altre risposte: del resto è una delle più antiche, se non la più antica, delle "teorie della cospirazione" che hanno visto negli ultimi venti-trent'anni una straordinaria diffusione.
   Certo, la Chiesa cattolica ha preso con coraggio una posizione di dialogo e apertura verso gli ebrei soprattutto con il Concilio Vaticano II, ma l'antisemitismo cristiano è ben più antico, ha attraversato i secoli mescolando le accuse "storiche" contro il popolo che avrebbe assassinato Cristo con quelle immaginarie contro gli ebrei che ucciderebbero i bambini cristiani per usare il loro sangue nei propri riti. Non stiamo parlando dei cosiddetti secoli bui dell'alto Medio Evo: è nel pieno del rinascimento (1475) che un gruppo di ebrei di Trento venne accusato di un omicidio del genere, e storie di questo tipo hanno continuato a circolare fino al Novecento. E nel 1492 anno della scoperta dell'America che gli ebrei vennero cacciati da tutti i possedimenti spagnoli inclusa la nostra Italia meridionale. È nel 1517, in una delle città più avanzate culturalmente e anche economicamente e tecnicamente del mondo, Venezia, che nacque il primo Ghetto, destinato a separare i "giudei" dal resto della città, e a tenerli rinchiusi nelle ore notturne: una parola, ghetto, appunto, che avrebbe accompagnato fino alla Shoah tutte le politiche di segregazione degli ebrei.
   E comunque, non va dimenticato che tuttora la condanna dell'antisemitismo è uno degli aspetti del concilio più avversate dalle correnti cosiddette tradizionaliste del cattolicesimo, quelle scismatiche che portano il nome del vescovo Lefebvre come quelle che restano (e pesano) nell'alveo della chiesa. Così come continuano a circolare in tante forme le leggende di una cospirazione giudaica per il dominio del mondo: che portino il nome di Rotschild o quello di Soros, o ancora che vedano nello stato di Israele il nemico "imperialista" dei popoli oppressi, non solo del medio oriente.
   Si dice da tempo che l'odio contro i "diversi" e le minoranze risponderebbe alla ricerca di un capro espiatorio, di creature deboli su cui scaricare l'ansietà per un futuro incerto e a cui imputare le sofferenze dei periodi di carestia nei tempi più antichi o di crisi economica in quelli moderni. Come spesso accade è una spiegazione che contiene elementi di verità ma è troppo semplice: di tante minoranze a cui si potrebbe addossare questo ruolo, perché proprio gli ebrei? Perché sempre gli ebrei? Forse anche perché l'antisemitismo sembra contenere qualche spiegazione assurdamente credibile per i mali di oggi: tutto andrebbe bene se non ci fosse una finanza rapace e improduttiva, che vive letteralmente succhiando il sangue del lavoro altrui; e gli ebrei sono trattati da secoli come il simbolo di quella finanza, più per un'inerte ripetizione di vecchi luoghi comuni che per qualsiasi realtà di fatto. Il fatto che siano stati le vittime del crimine più terribile della storia, per la grande maggioranza di noi è motivo di maggiore attenzione e rispetto; per tanti, per troppi è invece un motivo di odio in più, quasi li si accusasse di "usare" per i propri fini la loro tragedia. Per combattere l'antisemitismo come altri pregiudizi non basta esprimere la propria indignazione, bisogna capire, e cercarne le radici anche quando sono molto più vicine a noi di quanto vorremmo.

(Il Secolo XIX, 19 gennaio 2020)



Teologia del successo e teologia del sogno

di Marcello Cicchese

Il nocciolo del problema sta nel modo in cui si intende la presenza del cristiano nel mondo. Come deve vivere il cristiano? Deve contestare con la sua vita i valori e i canoni di giudizio della società che lo circonda, o deve invece entrare in concorrenza con i suoi simili, far vedere che il cristiano è capace di superarli in tutto: in sapienza, benessere, felicità? Qual è la parola che esprime meglio la presenza del cristiano nel mondo: diversità o superiorità? Il cristiano è un uomo che deve aspettarsi di essere compatito o invidiato? Se faccio carriera e riesco ad avere un buono stipendio, se i miei affari vanno bene e accumulo soldi, devo essere compiaciuto o preoccupato? In poche parole: l'etica del cristiano è un'etica di contestazione o un'etica di successo?
  E' fuor di dubbio che nel Vecchio Testamento la benedizione di Dio si manifestava in modo molto concreto e tangibile: i patriarchi sperimentavano su di loro la benefica mano dell'Eterno in termini di terre, buoi e pecore. E certamente non può che far riflettere la differenza tra la morte di Abramo che, come dice la Bibbia, «spirò in prospera vecchiezza, attempato e sazio di giorni» (Genesi 25.8) e la morte di Gesù, che terminò la sua vita terrena inchiodato a un legno gridando: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Marco 15.34).

 La morte di Gesù
  La soluzione del problema sta quindi nella morte di Gesù. Che cosa fu la croce di Gesù: sconfitta o successo? Per i farisei che stazionavano ai piedi della croce la situazione era chiarissima: Gesù aveva detto di essere Figlio di Dio. Bene! Alcuni ci credevano, altri no: bastava aspettare e vedere quello che avrebbe fatto Dio. Dio non può certo permettere che il suo Figlio venga trattato in quel modo. Con la morte di Gesù si era dimostrato in modo inoppugnabile che l'uomo appeso al legno era un impostore. Il dubbio era dissipato, il contrasto con il gruppo galileo era finito, la questione teologica era definitivamente chiarita.
  Ma per noi cristiani, che cos'è la morte di Gesù? Una sconfitta a cui Dio pose rimedio con la risurrezione? O un successo che Dio coronò con la risurrezione?
  Paragoniamo la morte di Gesù con quella di un altro uomo, un protagonista dei nostri tempi: Salvator Aliende. La differenza fondamentale tra le due morti è questa: Allende ha perso, Gesù ha vinto.
  Allende ha perso perché non è riuscito a fare fino in fondo la sua volontà. Infatti è morto con il fucile in mano. Anche se la sua causa era più giusta di quella dei suoi avversari, resta il fatto che ha trovato dei fucili che sparavano meglio del suo. La sua volontà è stata quindi spezzata, stroncata: e questo è il segno della sua disfatta.
  Gesù invece ha vinto perché ha fatto fino in fondo la sua volontà. Da nessun racconto dei vangeli si può dedurre che gli uomini siano riusciti a far fare a Gesù qualcosa che non voleva. Prima di morire Gesù non dice: «Tutto è finito», ma «E' compiuto». L'opera che Gesù voleva fare sulla terra ha trovato quindi il suo compimento perfetto nella sua morte in croce. Ma che cosa voleva Gesù? Gesù voleva, come uomo, amare gli altri uomini «fino alla fine», riconciliandoli con Dio restando in comunione con il suo Padre celeste. E proprio questo Egli ha fatto: nessuno è riuscito a distogliere Gesù da questo proposito, né gli uomini né i demoni. L'odio degli uomini e l'ira dei demoni si sono abbattuti con violenza sempre maggiore su di Lui, ma nessuno ha potuto sentire sulla sua bocca una parola di imprecazione o di vendetta; nessuno l'ha visto scappare o nascondersi o tentare di imbrogliare le carte. Gesù non ha opposto resistenza, non è fuggito, non ha maledetto. Gesù ha pregato il Padre per i suoi uccisori, e quindi è perfettamente riuscito nel suo proposito di rimanere in comunione con Dio e con gli uomini.
  Gesù ha vinto, e ha fatto conoscere agli uomini che la verità fondamentale di tutta la realtà è questa: I'amore vince e l'odio perde. Sempre.

 Ma ci vogliono occhi adatti
  Il Padre celeste, che è amore, riconosce in Gesù che muore nella dimensione dell'amore il suo autentico Figlio e lo risuscita dai morti, dando inizio a quella nuova creazione che ha in Cristo il suo primogenito.
  La risurrezione è dunque il segno concreto della vittoria ottenuta da Gesù sulla croce. Ma il punto è questo: chi è in grado di riconoscere questa vittoria? Prima della sua risurrezione nessuno ha saputo vedere nella croce di Gesù la vittoria di Dio. Molti di coloro che hanno visto morire Gesù non l'hanno potuto vedere nemmeno dopo, perché non hanno incontrato Gesù risuscitato e non si sono aperti all'azione dello Spirito Santo disceso fra gli uomini.
  Gesù ha vinto, ma coloro che lo hanno ucciso non hanno riconosciuto la loro sconfitta, anche se hanno dovuto subirne le conseguenze. Gesù non è tornato da Pilato e dai farisei nella sua gloria vittoriosa. Gesù è andato soltanto dai suoi discepoli, cioè da coloro che avrebbero dovuto partecipare alla sua vittoria seguendo sulla terra le sue orme, in comunione con lo Spirito che avrebbe mandato.
  Il cristiano dunque è un uomo di successo, perché partecipa alla vittoria di Gesù. La benedizione che riposa su di lui è reale come la risurrezione di Gesù. Ma è vano sperare che il mondo riconosca questo successo e lo ratifichi. La benedizione di Dio su coloro che Gesù ha chiamato «i suoi fratelli», è reale, più reale di qualsiasi realtà che appaia ai nostri occhi, ma è di natura tale che soltanto coloro che ne sono partecipi sono in grado di riconoscerla pienamente. Per tutti gli altri resta velata, problematica: vedono qualcosa, ma non riescono a spiegarselo. In certi momenti il loro amico cristiano ha proprio l'aspetto di un povero tapino; in altri invece, quando tante persone intorno a lui nuotano nella disperazione, lo rivedono ancora lì a ringraziare il suo Dio non si sa bene di che. Ma l'apostolo Paolo l'aveva detto:
    «Se il nostro vangelo è ancora velato, è velato per quelli che sono sulla via della perdizione, per gli increduli, ai quali il dio di questo secolo ha accecato le menti, affinché non risplenda loro la luce del vangelo della gloria di Cristo, che è l'immagine di Dio» (2 Corinzi 4.34).
Si capisce allora perché la cosiddetta «teologia del successo» non convince. Secondo questa teologia, che sembra fatta su misura per il nostro opulento mondo occidentale, il cristiano dovrebbe provocare a gelosia gli increduli con l'esposizione della prosperità della sua vita, abbondante di salute, soldi e prestigio. E' una visione del vangelo che vorrebbe essere realistica e invece è fin troppo superficiale e poco realistica, perché sa vedere le benedizioni di Dio soltanto nel luccicare delle apparenze di questo mondo. I teologi del successo si sarebbero certamente affiancati a quegli avversari di Paolo che non potevano accettare che un povero cane bastonato come l'apostolo avesse la sfacciataggine di andare in giro a proclamare un messaggio di gloria e di vittoria. Paolo risponde ribadendo che il suo «successo» è legato alla sua partecipazione alla vittoria di Gesù sulla croce:
    «Noi siamo tribolati in ogni maniera, ma non ridotti all'estremo; perplessi, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; atterrati, ma non uccisi; portiamo sempre nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale» (2 Corinzi 4.8-10).
Il successo del cristiano si fonda dunque sulla risurrezione di Gesù dai morti. Ma proprio per questo la morte deve operare in lui, affinché la vita di Gesù risuscitato si manifesti nel suo corpo. La morte operante la vedono tutti, mentre la vita di Gesù risorto la vedono soltanto quelli che sono pronti a ravvedersi e a mettere la loro fiducia in Cristo.
  Ma se bisogna dire «no» alla teologia del successo, bisogna anche dire «no» a quella che si potrebbe chiamare la «teologia del sogno». Secondo questa visione della fede gli uomini migliori sarebbero i sognatori, gli utopisti, i generosi che si lasciano attrarre da un ideale di giustizia e di fraternità. E anche se inevitabilmente perdono, perché sopraffatti da quelli che hanno «la ragione della forza, ma non la forza della ragione», la loro vita resta un esempio, un simbolo, un segnale indicatore di un mondo migliore che per ora non c'è, ma che alcuni hanno almeno la grandezza d'animo di saper sognare.
  Se la teologia del successo è cristianesimo pervertito, la teologia del sogno è umanesimo cristianizzato. Il vangelo è un'altra cosa. Il vangelo non è sogno. Da nessuna parte del Nuovo Testamento si invitano i cristiani a sognare. Il vangelo è la buona notizia di una realtà che Dio porta sulla terra. È la realtà di Dio nascosta e velata anche ai generosi di questo mondo, che è più bella dei nostri sogni più belli. Il cristiano è una persona realista, perché conta su Dio. In mezzo alla malvagità, alla sofferenza e alla morte, il cristiano annuncia e vive fin d'ora una realtà di pace, armonia e gioia che ha il suo fondamento nella risurrezione di Gesù. La benedizione che Dio gli elargisce non consiste nel tenerlo sempre lontano dal male, ma nel renderlo partecipe della vittoria di Gesù sul male. La vita cristiana non è il sogno di un mondo futuro in cui si immagina che il male sia assente, ma è il cammino nel mondo presente in cui si sa che il male di oggi è fin da ora vinto.
  Perché Gesù è risuscitato.

(Estratto da un articolo della rivista “Certezze”, novembre 1987)

 


Hamas lancia palloncini con esplosivo contro Ashdod

Un'altra forte minaccia per Israele, oltre ai razzi lanciati dalle milizie di Hamas, è costituita da una serie di palloncini colorati riempiti di elio per oltrepassare la linea di confine tra Gaza e il sud del paese con la Stella di David, ai quali viene agganciato dell'esplosivo.
Anche questa mattina, così come nel pomeriggio di ieri, le cellule terroristiche legate al gruppo E'yad Abdel Aal, hanno continuato a lanciare questi palloncini contro la città di Ashdod.
Molti di questi palloncini contenenti degli ordigni rudimentali, rimangono inesplosi e sono molto pericolosi soprattutto per i bambini, attirati dai colori vivaci dei palloni. Per questo motivo l'Idf (le forze di difesa israeliane) invitano la popolazione del sud di Israele a comunicare immediatamente l'eventuale presenza di questi palloni e di non avvinarsi per alcun motivo prima dell'arrivo degli artificieri.
Israele intanto continua nei raid di ritorsione contro questi attacchi al proprio territorio.

(LiberoReporter, 18 gennaio 2020)


Il coraggioso lottatore che si fece beffe di Mussolini.

di Adam Smulevich

Nacmias raffigurato assieme alla prima pagina della Gazzetta che celebrava la sua impresa  
"Vincitore assoluto è stato Maurizio Nacmias, non ancora ventenne, militante nelle file dell'Ottantasettesimo Vigili del Fuoco di Trieste dal luglio dello scorso anno. L'allievo dell'azzurro Guido Furlani nella finalissima si è preso il lusso, pur appartenendo alla categoria pesi minimi, di schierare il bolognese Giannantoni che godeva di un vantaggio di peso di ben dieci chilogrammi. Il vincitore è arrivato al primato assoluto dopo sei vittorie consecutive superando con bravura e velocemente i suoi avversari…"
   È il 18 gennaio del 1943 quando la Gazzetta dello sport, in evidenza sulla sua prima pagina, celebra l'impresa di un giovane ebreo che, appena poche ore prima, si è imposto in un ambito torneo di lotta greco-romana: il trofeo Raicevich. Per effetto delle Leggi razziste, ormai in vigore da anni, non potrebbe gareggiare, rappresentare i vigili del fuoco e certamente non essere esaltato su carta "ariana". Banale negligenza in fase di controllo? Complicità coraggiosa da parte di qualcuno che, tra gli organizzatori, finse di non essere al corrente della sua identità. La domanda resta aperta, ma la vicenda resta peculiare. L'ex campione, recentemente scomparso, l'ha svelata nell'estate del 2013 al direttore di Pagine Ebraiche Guido Vitale, in una intervista che dal giornale dell'ebraismo italiano era poi arrivata proprio sulle pagine rosa del più importante quotidiano sportivo nazionale.
   Diciotto settembre del 1938, Mussolini da Piazza Unità d'Italia proclama: "L'ebraismo mondiale è stato durante sedici anni, malgrado la nostra politica, un nemico irreconciliabile del fascismo". La folla triestina risponde eccitata. Maurizio c'era.
   "Ho sentito benissimo le sue minacce, ma allora Mussolini non mi aveva fatto paura. Ero giovane, forte, spavaldo. Temerario come tutti i ragazzi della mia età. E - diceva Nacmias - avevo un'innata fiducia nel futuro". Che per quelli come lui le cose iniziassero a mettersi male se ne rese però conto quasi subito: l'impatto devastante con la realtà avvenne, come per altre migliaia di ragazzi, sui banchi di scuola. "I miei compagni di classe all'Istituto tecnico che frequentavo non sapevano dove voltare lo sguardo per evitare di salutarmi. Solo poche settimane dopo è venuto il bidello a dirmi di prendere la mia roba e di tornare a casa. Sono rimasto da un momento all'altro senza far niente ...".
   Vuoto che però ha presto colmato con l'attività agonistica: "Prima dell'arrivo di Mussolini a Trieste avevo conosciuto per caso uno sportivo straordinario, Albino Vidali, che gestiva lo stabilimento balneare di Punta Sottile, là dove oggi cade il confine fra l'Italia e la Slovenia. Mi ha notato durante l'estate e mi ha portato nella palestra dove allenava alla lotta. Tutto è cominciato così quasi per caso". Dopo i primi successi diventa vigile del fuoco volontario ed entra nella squadra dei lottatori. Incredibilmente, l'equivoco dura per anni. Solo un sospetto sorge al momento della consegna del suddetto trofeo Raicevich. I giudici si interrogano infatti sull'origine del suo cognome. Nacmias però se la cava così: "Ho detto loro con la massima faccia tosta che a Trieste è normale avere nomi strani, che è una città cosmopolita. Ci hanno creduto e hanno smesso di fare domande. Il giorno dopo la Gazzetta riportava la notizia della mia vittoria, il mio nome stava nel titolo. Con una mossa avevo atterrato un peso massimo".
   Iniziano poi tempi ancor più duri. Violenze subite, ma anche un insopprimibile desiderio di libertà che lo porta a distinguersi nelle file della Resistenza. A Firenze, dove approda da Trieste, cambia identità, assiste ai bombardamenti e con l'esperienza di vigile riesce a domare le fiamme che minacciano il suo appartamento di via Solferino e l'adiacente Teatro Comunale. Entra poi a far parte della brigata Ponte Buggianese intitolata all'anarchico Silvano Fedi, fino all'incontro con la Quinta armata e con il generale Mark Wayne Clark.
   Dopo un periodo trascorso in Toscana, dove si laurea campione nazionale, Nacmias torna a casa. L'impatto è drammatico: "La situazione era ancora disastrosa. I pochi sopravvissuti erano stati depredati di tutto. Ricominciare una vita normale non era facile e non ce l'avremmo fatta senza l'aiuto della Comunità ebraica, che ci ha assistiti come poteva", Poi la vita, finalmente, ritrova il suo corso.
   L'ultima grande passione una barca a vela ormeggiata non lontano dalla piazza dove nel '38 fu costretto ad ascoltare le invettive di Mussolini. Questo, attraverso Pagine Ebraiche, fu il suo messaggio ai giovani: "Bisogna guardare avanti. senza avere paura. Nessun orizzonte può spiegarlo più chiaramente di quello che si ammira da qui. Basta ricordarsi di non volgere la spalle al mare, come abbiamo fatto noi in quel giorno di tanti anni fa ".

(Pagine Ebraiche, gennaio 2020)



Buon passo del governo contro l'antisemitismo

L'esecutivo accoglie la definizione Ihra e isola gli estremisti (anche del M5s)

il governo italiano, con un provvedimento approvato ieri dal Consiglio dei ministri, ha accolto la definizione dell'Alleanza internazionale per la memoria dell'Olocausto (Ihra), in coerenza con una risoluzione del Parlamento europeo del giugno 2017 e con una scelta già fatta da molti altri paesi europei. Si tratta di un atto concreto e importante con cui il nostro paese sceglie di adottare una definizione comune di ciò che rappresenta l'antisemitismo. Noemi Di Segni, presidente delle Comunità ebraiche italiane, ha detto che "l'Italia va a colmare un vuoto significativo allineandosi a quanto fatto da Germania, Francia, Regno Unito e altri paesi sulla base delle diverse risoluzioni europee". Anche l'ambasciatore d'Israele in Italia, Dror Eydar, ha espresso soddisfazione, dicendo: "All'odio contro gli ebrei in quanto tali si aggiunge oggi una nuova forma che si manifesta con la negazione dell'esistenza dello stato nazionale per il popolo ebraico in Israele. L'Italia compie così un grande passo nella lotta contro l'antisemitismo, vecchio e nuovo". L'Ihra mette all'indice una serie di manifestazioni dell'antisemitismo contemporaneo: l'incitamento, il sostegno o la giustificazione dell'uccisione o della violenza contro gli ebrei; il negazionismo; accusare dei cittadini ebrei di essere più leali a Israele, o a supposte priorità degli ebrei in tutto il mondo, che agli interessi della loro nazione; sostenere tesi mendaci, disumanizzanti, demonizzanti o stereotipate sugli ebrei in quanto tali o sul potere degli ebrei come collettività; negare al popolo ebraico il proprio diritto all'autodeterminazione, cioè sostenere che l'esistenza d'Israele è un atto di razzismo; oppure ritenere gli ebrei collettivamente responsabili per le azioni d'Israele. Non è un testo legalmente vincolante, ma è un quadro giuridico, morale e politico indispensabile per combattere una piovra planetaria dai molti tentacoli, rossi, neri e verdi, ognuno teso a stringersi al collo del popolo ebraico. E il fatto che anche un partito come il M5s, che in passato ha trescato con l'antisemitismo, lo abbia accettato non può che farci dire solo una cosa: ben fatto.

(Il Foglio, 18 gennaio 2020)


Israele ora corre su tutte le piste. Il team di ciclismo sgomma in F1

La Israe] Start-Up Nation è entrata anche nel Circus delle quattro ruote affiancando con la sigla "ISN" la Williams Racing team: Roy Nissany sarà il terzo pilota.

di Pier Augusto Stagi

 
Roy Nissany
Dalle due alle quattro ruote, Israele va a tutta velocità. Dopo aver fatto il proprio ingresso nella massima serie del ciclismo (World Tour) cinque anni fa con un team professionistico, la Israel Start-Up Nation è entrata anche nella F1 affiancando con la sigla "ISN" la Williams Racing team. Sarà infatti Roy Nissany il nuovo terzo pilota e collaudatore per la Williams in questo 2020. L'annuncio è stato dato giovedì scorso a Tel Aviv in una conferenza stampa al Centro Peres per la Pace a cui ha partecipato anche la presidente del Gruppo Williams, Claire Williams. Nissany, 25 anni, figlio di Chanoch Nissany, imprenditore che nel 2005 partecipò con la Minardi ad una sessione delle prove libere del Gp d'Ungheria grazie soprattutto alla sua notorietà in quel Paese, ha firmato con la Casa inglese come "test driver ufficiale" e parteciperà a tre sessioni di prove libere nel corso della stagione.
Anche dietro a questo progetto "motoristico" c'è Sylvan Adams, miliardario canadese di origini israeliane, che partendo da zero in tre anni ha saputo portare il Giro d'Italia in Israele e da quest'anno la sua squadra è entrata a far parte del World Tour. «La sola idea di avere un pilota nello sport più esclusivo del mondo e di poter vedere la nostra bandiera su una monoposto di F1 mi onora enormemente - ha detto Adams - . Consideriamo questo un punto di partenza, per il resto v'invito a non perderci di vista». Nissany, un passato nel campionato World Series, poi la Formula 2 nel 2018, guiderà anche in una delle due giornate di test conclusivi ad Abu Dhabi, oltre all'attività prevista al simulatore in fabbrica. «Sono entusiasta di diventare tester Williams, si tratta anche di un traguardo per il motorsport in Israele. Quando per la prima volta ho provato ad Abu Dhabi lo scorso dicembre mi sono sentito immediatamente a mio agio in macchina e parte del team. L' esperienza che farò quest'anno, immergendomi nell'ambiente Williams, si dimostrerà di enorme valore e non vedo l'ora di iniziare a lavorare, in pista e fuori», spiega il ragazzo israeliano che come predecessori nel ruolo di "test driver" in Williams ha avuto leggende come Ayrton Senna, Alain Prost, Keke Rosberg e Damon Hill. La Williams, che da anni è alla ricerca di riscatto, può chiaramente tirare un sospiro di sollievo per l'aiuto finanziario che arriverà da Sylvan Adams, ma come avvenuto per il Giro d'Italia, non è da escludersi che all'orizzonte ci possa essere la creazione di un nuovo Gran premio, in un Paese dove fino a pochi anni fa le gare automobilistiche erano assolutamente vietate. Singolare la "motorizzazione" che il ciclismo sta vivendo proprio in questa stagione. Non ci riferiamo alla possibilità di ricorrere alla pedalata assistita o un motorino nascosto, ma a questo sempre più stretto legame con team di F1. Come già avviene tra Mercedes e Ineos, la formazione di Chris Froome e di Egan Bernal e tra il team Bahrain e la McLaren, adesso arriva anche la Israel Start-Up Nation che ha scelto di stringere i propri rapporti di sponsorizzazione con il team Williams, con il quale la formazione di Sylvan Adams intraprenderà anche una collaborazione tecnica atta a seguire lo studio e lo sviluppo di nuovi materiali in campo ciclistico. Dalla biomeccanica (la posizione in sella), alla realizzazione di accessori sempre più performanti (scarpe, ruote, caschi e body da crono), tutti elementi di studio, soprattutto in chiave olimpica: Tokio è all'orizzonte, meglio arrivarci preparati. Nel ciclismo, ormai, solo l'improvvisazione è bandita.

(Avvenire, 18 gennaio 2020)


Khamenei sfida la protesta. «Voi amici degli americani»

Iran, duro discorso dell'ayatollah: sostegno ai Pasdaran nonostante il Boeing abbattuto. La folla urla: «Morte agli Usa». E il presidente Rohani lascia la moschea a cerimonia in corso.

di Siavush Randjbar-Daemi

ROMA - A otto anni di distanza dall'ultima apparizione dedicata al tema delle rivolte arabe, la Guida suprema Ali Khamenei ha condotto ieri la preghiera del venerdì di Teheran, difendendo a spada tratta l'operato dei Pasdaran e accusando i manifestanti che sono riapparsi sulle strade e le piazze di molte città iraniane negli ultimi giorni di essere «manipolati» dai media all'estero in lingua persiana finanziati dai governi occidentali e saudita. Khamenei ha quindi deciso di arroccarsi sul furore nei confronti di Washington, accusata dell'uccisione «codarda e terroristica» di Soleimani e ha rivendicato l'attacco missilistico contro la base Aio al-Assad come atto che ha leso la «grandezza» degli Usa.

 Omaggio a Soleimani
  La prima preghiera del venerdì condotta da Khamenei sin dai febbraio 2012 si è svolta nella cornice inconsueta del Mosalla, il centro di preghiera intitolato all'ayatollah Khomeini nella parte settentrionale della capitale. Diverse migliaia di persone hanno affollato il vasto salone interno, tappezzato di poster raffiguranti Ghassern Soleimani e il suo braccio destro iracheno Abumahdi AI-Muhandis, e l'area verde limitrofa in una coreografia suggestiva messa a punto con cura. Khamenei ha dedicato il primo dei due sermoni che compongono la preghiera del venerdì a un brano dal Corano dedicato alla resistenza contro le ingiustizie, andando quindi al sodo nel secondo, in cui ha fatto il punto della situazione di questo tormentato inizio di 2020. Dopo aver ricordato con orgoglio Soleimani, definito come il massimo comandante nella lotta contro il terrorismo di Daesh, la Guida suprema ha affermato che il corpo Quds d'elite - componente delle Guardie della rivoluzione islamica - continuerà la sua «lotta senza confìnì». Interrotto a più riprese dal coro «morte all'America, morte all'Inghilterra, morte a Israele», Khamenei ha definito «maligna» l'Inghilterra e ha proseguito sostenendo come i «pagliacci americani» - un accenno esplicito a Trump e Mike Pompeo - stiano esprimendo «con infamia» la propria solidarietà con il popolo iraniano durante le proteste in corso. Khamenei ha quindi scelto di non soffermarsi sui motivi delle dure contestazioni dei giorni scorsi e di quelle causate dal caro-benzina di due mesi fa, ma ha messo in dubbio il patriottismo di chi negli ultimi tempi ha scandito l'ormai celeberrimo slogan «né per Gaza, né per il Libano, sacrificherò la mia vita solamente per l'Iran». Il leader ha invece reso omaggio alle vaste folle che hanno riempito le strade di diverse città iraniane durante i complessi funerali per Soleimani, prendendone spunto per escludere qualsiasi negoziato con gli Usa ma dicendosi disposto a considerare trattative «con altre nazioni», pur rimarcando di essere privo di fiducia nei confronti dei paesi europei. L'Iran deve uscire dalle limitazioni imposte dalle sanzioni, secondo Khamenei, con un'economia che faccia a meno dell'attuale dipendenza sul petrolio.

 Dolore per le vittime
  La Guida suprema non ha inoltre addossato alcuna responsabilità sui Pasdaran per l'abbattimento del Boeing, tema che ha affrontato dopo circa 45 minuti di sermone. Si è limitato a ripetere il proprio dolore e sconforto per la morte dei passeggeri senza però soffermarsi sulle cause del disastro. Nella sua rara apparizione alla preghiera del venerdì, Khamenei ha fatto quindi il punto sulla situazione con un lessico da repertorio e ha rincuorato i suoi fedelissimi senza proporre spunti concreti per la risoluzione delle crisi in corso, in particolar modo i rapporti tesi con l'Occidente e la difficile congiuntura politico-economica interna. Khamenei ha quindi consegnato al resto del sistema politico, presente nelle prima file del Mosalla, il difficile compito di trovare un modo per stemperare l'attuale malcontento popolare all'insegna di una resistenza autarchica nei confronti degli Stati Uniti.
  Seduto in prima fila c'era pure il presidente Hasan Rohani, che a sorpresa è andato via a cerimonia in corso, prima della preghiera conclusiva.

(Il Messaggero, 18 gennaio 2020)


Trump a Khamenei: "Stia molto attento con le parole"

"Dovrebbe stare molto attento con le parole". Così il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha risposto alla guida suprema iraniana, l'ayatollah Ali Khamenei, che durante il sermone del venerdì, per la prima volta in otto anni guidato da lui, ha definito Trump "un pagliaccio". "Il cosiddetto 'leader supremo' iraniano, che in fondo non è così supremo - ha scritto il presidente su Twitter - ha detto alcune cose orribili su Stati Uniti ed Europa. La loro economia sta crollando, il loro popolo sta soffrendo, dovrebbe stare molto attento con le parole".
E poi, in un tweet successivo, Trump ha ribadito che "il popolo nobile dell'Iran, che ama l'America, merita un governo che sia più interessato ad aiutarlo a realizzare i suoi sogni piuttosto che a ucciderlo perché chiede rispetto".
"Invece di condurre l'Iran alla rovina, i suoi leader dovrebbero abbandonare il terrore e rendere l'Iran di nuovo grande" ha esortato il presidente, parafrasando il suo 'Make America Great Again!".

(Adnkronos, 18 gennaio 2020)


Londra rimette al bando Hezbollah

di Tommaso dal Passo

 
Il ministero delle Finanze britannico ha dichiarato di aver inserito l'intero movimento Hezbollah del Libano nella lista dei gruppi terroristici soggetti al congelamento dei beni. In precedenza il Ministero aveva preso di mira solo l'ala militare dell'organizzazione sciita, ma ora ha elencato l'intero gruppo dopo che il governo lo aveva designato come organizzazione terroristica lo scorso marzo.
Stando ad Arab News, il cambiamento richiede a qualsiasi individuo o istituzione in Gran Bretagna con conti o servizi finanziari collegati ad Hezbollah di sospenderli o di rischiare di essere incriminato. «Lo stesso Hezbollah ha pubblicamente negato la distinzione tra la sua ala militare e quella politica», ha detto il Tesoro britannico in una notizia apparsa sul suo sito web, il 17 gennaio.
«Il gruppo nel suo complesso è considerato come coinvolto nel terrorismo ed è stato definito come organizzazione terroristica nel Regno Unito nel marzo 2019», ha aggiunto. «Questo elenco comprende l'ala militare, il Consiglio del Jihad e tutte le unità che vi fanno capo, compresa l'Organizzazione per la sicurezza esterna».
La Gran Bretagna attualmente ha messo al bando 75 organizzazioni terroristiche internazionali in base alla legislazione sul terrorismo approvata nel 2000.
Hezbollah è un movimento militante sciita fondato nel 1982 durante la guerra civile libanese dalle Guardie rivoluzionarie iraniane.
Quando prese prigionieri nel 2006 due soldati israeliani riuscì a scatenare una guerra di 34 giorni in cui 1200 persone sono state uccise. Il gruppo è considerato come una componente chiave della strategia della Repubblica Islamica d'Iran nella sua politica di espansione e di controllo regionale, diretto e indiretto.
La mossa della Gran Bretagna si colloca in un momento di forte tensione in Medio Oriente, dopo che gli Stati Uniti hanno ucciso il generale iraniano Qassem Soleimani in un attacco aereo all'inizio di questo mese. Teheran ha reagito sparando una raffica di missili contro le truppe statunitensi di stanza nelle basi militari irachene.

(agc, 18 gennaio 2020)


La grande strategia del Medio Oriente

Da un secolo Israele è costretta a difendere i suoi cittadini, mentre i paesi arabi tentano di distruggere lo stato ebraico. E l'occidente guarda.

di Ugo Volli

E' stato Edward Luttwark, per quel che ne so, a coniare la nozione di "grande strategia", che nei casi da lui studiati e cioè l'impero romano e poi quello bizantino, erano linee di azione politico-militare che restavano costanti per molti secoli, senza che le personalità degli imperatori, via via regnanti, potessero modificarle. Qualcosa di simile, fatte le debite proporzioni, accade anche per il conflitto mediorientale, in particolare per quanto riguarda l'azione prima dell'Yishuv (l'insediamento ebraico che dura dall'inizio del secolo scorso fino al 1948) e poi dello Stato di Israele. Si può parlare di una grande strategia ebraica e poi israeliana, ormai ben più che secolare; e anche di una grande strategia araba che la contrasta.
   La strategia ebraica parte dalla necessità, chiarissima già da Herzl e dai suoi contemporanei, di ottenere e difendere a tutti i costi un insediamento in terra di Israele, come sola possibile condizione per mantenere in vita, culturalmente ma anche demograficamente il popolo ebraico, la cui sopravvivenza è stata minacciata dalle persecuzioni e soprattutto dal genocidio, ma di recente anche dall'emorragia dell'assimilazione. Avere un territorio (per Herzl non era neppure importante che fosse uno stato indipendente, fu solo con la bruttissima esperienza del mandato britannico che si capì come questa fosse una necessità primaria), in cui parlare la propria lingua (rinata per merito di Ben Jehuda), sviluppare liberamente i costumi tradizionali ma anche la creatività culturale, economica e scientifica, era questione di vita o di morte. Da questa consapevolezza e dal fatto che il sionismo nasce in Europa, deriva la necessità di ottenere per lo stato l'approvazione internazionale e innanzitutto quello delle nazioni che furono definite occidentali. È una linea d'azione che continua, anche se ormai è chiaro a tutti che il vecchio antisemitismo si traduce in Europa e anche negli Usa, a destra e anche a sinistra dello schieramento politico, in rifiuto di accettare il diritto degli ebrei a un loro stato, secondo linee che, magari inconsapevolmente, continuano la vecchia condanna cristiana degli ebrei all'erranza. Da questa linea conseguono due conseguenze: da un lato una politica della legalità, interna e esterna; dall'altro una discontinuità con l'ambito geografico circostante, che ha attizzato la vecchia ostilità antiebraica del mondo musulmano. La legalità interna vuol dire democrazia, riconoscimento della proprietà privata delle terre da dissodare, regola della legge puntigliosamente affermata anche nei confronti dei nemici politici. La legalità esterna vuol dire cercare il riconoscimento nei fori e nelle organizzazioni internazionali, anche se essi sono tendenzialmente ostili.
   Da queste linee politiche, seguono strategia di insediamento e di difesa. Israele è nata dalla creazione di villaggi e città su terre comprate legalmente; essi erano per lo più isolati e poco popolosi rispetto alla popolazione circostante ostile: ben presto si riconobbe la necessità di difenderli dall'aggressività araba. La strategia di questi insediamenti e poi dell'Yishuv e infine dello stato, che condividevano isolamento e condizione di minorità demografica, fu sempre difensiva. Si trattava di stabilire dei punti forti, di collegarli in perimetri ben difesi, di prevedere e respingere gli attacchi, eventualmente di prevenirli colpendo le concentrazioni di truppe e di armi. In generale, salvo isolati episodi bellici, Israele non ha mai puntato a conquistare spazi occupati dagli arabi, non ha mai condotto una politica imperialista, spesso ha ceduto territori caduti sotto il suo controllo, per garantirsi spiegamenti difendibili o per non danneggiare le proprie relazioni internazionali. Anche gli insediamenti nei territori contesi, oggetto di diffusa polemica, sono stati sempre motivati dal ritorno ad antiche abitazioni, distrutte di recente dagli arabi (è il caso di Hebron, del Gush Etzion, della città vecchia di Gerusalemme) o da necessità difensive, come nella Valle del Giordano, sul Golan, sui crinali di Giudea e Samaria. Israele ha sempre saputo di dover convivere con le centinaia di milioni di musulmani che lo circondano da ogni parte, esclusa la costa del Mediterraneo, e ha vincolato la propria tattica a questa necessità strategica, cercando accordi e moderando le conseguenze territoriali delle proprie vittorie. Un'altra conseguenza di questa grande strategia è il tentativo di trovare alleanze dietro le linee degli attaccanti: una volta con la Persia e la Turchia, quando erano filo-occidentali: oggi con gli stati sunniti, che temono la sovversione iraniana e della Fratellanza Musulmana.
   Al contrario, il mondo arabo e in generale musulmano ha tenuto nei confronti di Israele una strategia offensiva ed eliminazionista. Gli arabi e in genere i musulmani credono davvero di poter eliminare Israele, se non oggi sul medio o lungo termine. Pensano che per farlo sia necessaria la "lotta armata", che si tratti di spedizioni militari o di terrorismo. Questo significa cercare di entrare nei luoghi dove gli ebrei vivono e di sterminarli, o almeno di procurar loro tali danni e lutti da indurli a fuggire altrove. Tutto ciò deriva da un calcolo demografico, dato che gli arabi sono cinquanta volte più numerosi degli abitanti di Israele, da una abitudine culturale millenaria alla guerra per bande, dal disprezzo che il Corano attribuisce agli ebrei. Sul piano militare, la strategia dell'attacco frontale allo stato ebraico è stata abbandonata dai principali paesi arabi quasi cinquant'anni fa, ma mai davvero rinnegata nella propaganda, tant'è vero che essa è ancora adottata dai movimenti terroristi e sottoscritta dalla maggioranza delle opinioni della "piazza araba" come mostrano i sondaggi; del resto essa ispira nei fatti ma soprattutto giustifica ideologicamente la strategia imperialista iraniana oggi attivissima.
   Vi è dunque un'asimmetria di comportamento e di pianificazione, oltre che di retorica, nel conflitto mediorientale, che dura da cent'anni e passa. La sua manifestazione concreta si modifica a seconda dei rapporti di forza, ma le linee principali restano quelle: Israele che difende la propria esistenza con lucidità e coraggio, usando la propria superiorità morale e tecnologica; intorno gli assedianti che provano a travolgerlo quando pensano di avere un vantaggio sufficiente; più in là un mondo che assiste badando ai propri interessi in questa regione centrale: il vecchio imperialismo britannico filoarabo, oggi in parte (e di nuovo inconsapevolmente) imitato dal neo-colonialismo europeo; lo scontro fra Russia (già URSS) e USA che ha portato a schieramenti opposti nel conflitto. Coloro che pensano "generosamente" che un'iniziativa politica o una stretta di mano possano cambiare questa realtà sono destinati a essere duramente delusi, come è accaduto agli israeliani che avevano pensato agli accordi di Oslo o allo sgombero di Gaza come promesse di pace. Le grandi linee strategiche che ho delineato mostrano che la fine dell'assedio di Israele potrà avvenire solo quando gli assedianti e non i difensori rinunceranno alla guerra e lo faranno non solo con accordi segreti e necessariamente provvisori, ma apertamente, spiegando ai propri popoli il diritto degli ebrei al loro stato.

(Shalom, nov/dic 2019)


Ecco i piani dell'intelligence israeliana dopo la crisi Usa-Iran

di Davide Bartoccini

Israele sta considerando la possibilità di intensificare i suoi sforzi militari contro gli alleati dell'Iran. Secondo i funzionari dell'intelligence è "impossibile fornire una previsione precisa" degli sviluppi a causa del repentino scorrere degli eventi. Ma per gli strateghi israeliani, il momento di escalation generale fa sì che occorra una certa fermezza dell'approfittare della situazione.
   L'uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani ha senza dubbio scosso profondamente gli equilibri, ma la probabilità che qualcuno voglia muovere una guerra contro Israele rimane bassa. Secondo i vertici dell'Aman, la divisione responsabile della raccolta e dell'analisi delle informazioni di carattere militare delle Israel defence forces, il rischio di una guerra rimane basso. Ma questo non inficia la possibilità (abbastanza elevata) che preveda la possibilità che una serie di attacchi reciproci possa portare ad un'escalation regionale. Gli analisti dell'intelligence militare hanno ammesso, come riporta Hareetz, che dato il "ritmo degli eventi nella regione", e la particolare "velocità" con cui si verificano, è estremamente difficile fare delle previsioni affidabili. Un'escalation, come quella a cui abbiamo assistito nelle scorse settimane, potrebbe scatenarsi da un momento all'altro, sia per un'eliminazione non annunciata che per una rappresaglia non "misurata" come è stato per le basi Usa in Iraq. Si possono identificare "tendenze generali", dicono gli esperti, ma è difficile stendere un quadro preciso della situazione.
   A confermare questa mancanza di affidabilità nel valutare le proiezioni sugli scenari futuri, sono state portate ad esempio le previsioni riguardanti le forti sanzioni economiche volute dagli Stati Uniti, che si sono dimostrate inefficaci se si tiene conto del loro obiettivo: ovvero spingere l'Iran al collasso economico Siria e Iran per costringere i governi di Teheran e Damasco a riconsiderare le loro posizioni. L'intensificazione delle sanzioni imposte lo scorso maggio nei confronti dell'Iran ha provocato, al contrario, una serie di attacchi rivolti principalmente all'industria petrolifera degli stati del Golfo, scatenando un effetto a catena che ha portato a numerosi incidenti e al rischio di un'escalation nello stretto di Hormuz nella quale Teheran si è dimostrata estremamente risoluta.
   Per quanto riguarda la recente eliminazione del generale iraniano Soleimani, l'analisi di quella che è stata definita come "un'onda d'urto" ancora in via di propagazione può essere considerata come l'evento più significativo nella regione degli ultimi tempi. Un "colpo" che dovrebbe avere un impatto importante sulla regione, e che porrà la leadership iraniana di fronte a un bivio: alzare il tiro sul piano della violazioni dell'accordo sul nucleare - accelerando il ritmo di arricchimento dell'uranio e producendo la sua prima bomba nucleare - oppure risedersi al tavolo dei negoziati con Washington, forte di aver eliminato forse la personalità più influente dell'Iran dopo gli ayatollah e il presidente Hassan Rouhani. Anche l'Iran, secondo gli israeliani, avrebbe qualche potere negoziale in più dopo la dimostrazione di forza dell'operazione di vendetta "Soleimani martire", ma anche nella recente "guerra delle petroliere".
   Teheran potrebbe anche continuare a portare avanti il progetto ereditato dal comandante della Forza Quds di "consolidare l'asse sciita della regione", istituendo basi militari in Siria, contrabbandando armi avanzate in Libano, e rischiando di innescare un conflitto diretto con Israele - che continua, in maniera più o meno ufficiosa, a colpire obiettivi militari di Hezbollah e di altre milizie sciite filo-iraniane in tutta la regione con raid chirurgici. Per l'intelligence militare israeliana il principale fattore destabilizzante non sarebbe infatti il progetto nucleare iraniano - che va comunque monitorato -, ma l'eredità lasciata in Siria da Soleimani che, nonostante tutto, non sarebbe stato in grado di raggiungere il principale dei suoi obiettivi prima della sua morte: dotare Hezbollah di missili di precisione da impiegare contro Israele, né di fornire attraverso la linea di contrabbando bersagliata dai raid israeliani, i componenti per iniziare a produrle.
   Sul fronte palestinese le conclusioni sono che Hamas "non vuole una guerra". Al contrario vorrebbe trovare la strada per mantenere un lungo cessate il fuoco che gli permetterebbe di migliorare la situazione interna alla Striscia di Gaza - mostrandosi deciso a portare avanti la sua operazione per contrastare il jihadismo e le fazioni facinorose attive nella striscia: che rappresentando in questo momento la principale minaccia per innescare un'escalation con Israele. Permane invece l'avvertimento "strategico" sul rischio di uno scoppio di violenza in Cisgiordania, che potrebbe avvenire in seguito alla successione del presidente Mahmoud Abbas.
   La valutazione degli strateghi di Tel Aviv non mostra quindi un approccio significativamente diverso rispetto a quello degli ultimi due anni. Ciò che si evince dalle conclusioni profilate dall'Aman è che non bisogna abbassare la guardia, anzi, gli sforzi per colpire le milizie sciite in Medio Oriente andrebbero intensificati. Nello stato attuale delle cose, il consiglio dell'intelligence è quello di "approfittare" di un'opportunità che sembrerebbe essersi creata da questa fase di transizione per accelerare il ritmo degli attacchi contro l'Iran e i suoi alleati. L'esortazione al governo israeliano - ancora vittima dell'impasse politico che ha congelato la Knesset - sarebbe dunque quella di cogliere questa opportunità. Nonostante sia stato affermato che sia Hezbollah che l'Iran - sotto pressione interna ed esterna - risponderebbero militarmente laddove subissero ulteriori perdite.

(Inside Over, 17 gennaio 2020)



Rohani all'Occidente: ''Arricchiamo l'uranio oltre il limite posto dal trattato"

Gli ayatollah ufficializzano l'addio all'accordo del 2015 Accuse all'Europa: si è fatta bullizzare dagli Usa.

di Giordano Stabile

L'Iran accusa l'Europa di essersi fatta «bullizzare» da Donald Trump e minaccia «non resteremo con le mani in mano, abbiamo più uranio arricchito» di prima del Trattato siglato nel2015. Il duello fra la Repubblica islamica e gli Stati Uniti si è allargato anche agli alleati europei firmatari dell'intesa. Nel mirino c'è soprattutto la Gran Bretagna guidata da Boris Johnson, la più allineata alle posizioni di Trump e colpevole anche di aver sostenuto le proteste con il suo ambasciatore Rob Macaire, minacciato di esser «fatto a pezzi» da un ayatollah oltranzista. La decisione di innescare il paragrafo sulle «dispute» da parte di Londra, Parigi e Berlino è stata una doccia fredda per la dirigenza iraniana, che contava sulle divisioni fra le due sponde dell'Atlantico per resistere alla «massima pressione» americana.
   Rohani ha spiegato che «quando loro», cioè gli altri firmatari dell'accordo, «hanno ridotto i loro impegni, non siamo stati seduti, abbiamo ridotto anche noi i nostri impegni e oggi possiamo arricchire più uranio di prima del 2015». Rohani ha precisato che «l'attuale situazione non mi piace, non è facile, ma dobbiamo essere consapevoli che oggi politica, sicurezza ed economia sono connessi». Il riferimento è a un articolo del Washington Post che rivela come Trump abbia minacciato gli alleati europei con dazi del 25% sul settore automobilistico se non avessero accusato l'Iran, in maniera ufficiale, di aver violato il Trattato sul nucleare.
   Il ministro degli Esteri Javad Zarif ha commentato subito su Twitter che i Paesi europei si sono fatti «bullizzare» nella speranza di evitare i dazi ma che non funzionerà: «Vi ricordate i bulli alle superiori - ha scritto -, se cedi li fai diventare ancora più aggressivi». Le rivelazioni del Wapo sono state confermate dal ministro della Difesa tedesco, Annegret Kramp-Karrenbauer: «Questa espressione o minaccia, qualunque cosa la vogliamo definire, esiste», ha spiegato prima di partire per Erbil, in Iraq, per colloqui sulla presenza delle truppe tedesche, 300 uomini, nel Paese. L'altro fronte aperto è infatti quello iracheno. Dopo il raid del 3 gennaio su una base che ospita 1500 soldati americani, Teheran è passata alle pressioni politiche e ha mobilitato le milizie sciite alleate per «espellere» le forze statunitensi.
   Sempre Rohani ha spiegato che «la risposta militare» per l'uccisione di Qassem Soleimani, «è stata data» ma adesso tocca ai Paesi della regione spingere al ritiro l'America. Il leader iraniano ha anche avvertito che non soltanto i soldati americani ma anche quelli europei «sono esposti a rischi» in questa situazione. E' un offensiva a tutto campo che si intreccia anche con la vicenda del Boeing ucraino abbattuto all'alba di quello stesso 3 gennaio, e che ha scatenato nuove proteste di massa. Ieri i Paesi coinvolti nel disastro, Canada, Ucraina, Gran Bretagna, Svezia, si sono riuniti a Londra per un'azione comune nelle indagini e nella richiesta di risarcimenti. Ma «l'ingerenza» non piace agli oltranzisti. L'ayatollah di Mashhad, Ahmad Alamolhoda, ha minacciato l'ambasciatore britannico Rob Macaire, davanti a un gruppo di fedeli e sostenuto che «va fatto a pezzi», in quanto limitarsi a espellerlo sarebbe un «atto di gentilezza nei suoi confronti».

(La Stampa, 17 gennaio 2020)


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Iran, Khamenei: "Americani codardi, uccidere Soleimani è stato l'inizio della loro fine"

La guida suprema parla al sermone del venerdì dopo otto anni: «Con il raid un colpo alla loro immagine».

di Giordano Stabile

 
La guida suprema Ali Khamenei è tornata a parlare al sermone del venerdì dopo otto anni. E' un momento cruciale per la Repubblica islamica, che si appresta a festeggiare il suo 41esimo compleanno in un clima nero, di tensioni, proteste di massa, e di lutto per il disastro del Boeing ucraino abbattuto l'8 gennaio. Khamenei è arrivato alla moschea Imam Khomeini preceduto da decine di migliaia di persone, che hanno diligentemente calpestato le bandiere americane poste all'ingresso. La tv hanno mostrato immagini riprese da droni della lunga colonna che si dirigeva verso la moschea al centro di Teheran. Poi Khamenei si è affacciato sul grande minbar per la predica del venerdì.

 La risposta "dell'asse della resistenza"
  Ha cominciato il suo sermone con un elogio di Qassem Soleimani, ucciso dagli americani il 3 gennaio, e definito "eroe della lotta al terrorismo". Quel giorno è stato "il giorno di Dio", ha spiegato, perché con quell'uccisione hanno segnato l'inizio della loro fine, del loro "stato di grazia", e il raid dell'8 gennaio sulla base Ayn al-Asad "lo ha dimostrato".
  L'uccisione di Soleimani è stata un "atto codardo" da parte degli americani, che non hanno osato "affrontarlo in battaglia". Erano molti anni che gli Usa attaccavano l'asse della resistenza, dalla Siria all'Afghanistan, ma quel raid, ha insistito Khamenei, ha colpito "il loro stato di grazia", cioè la loro intangibilità e la loro "immagine" di potenza invincibile.

 Pasdaran "organizzazione umanitaria"
  Poi Khamenei ha affrontato le contestazioni piazza. Quelli che dicono "non per il Libano, non per Gaza, voglio dare la mia vita per l'Iran", sono stati "ingannati", ha replicato: "Soleimani sì che ha dato la sua vita per l'Iran". Il riferimento era a un slogan delle manifestazioni dello scorso autunno e di questi giorni che hanno preso di mira i Pasdaran e le loro operazioni all'estero, che drenano risorse da un'economia già impoverita dalle sanzioni americane. I Guardiani delle rivoluzione hanno anche partecipato alla repressione dello scorso 15 novembre, con centinaia di persone uccise ma, ha replicato Khameini, "sono una organizzazione umanitaria, con valori umani" che cerca di aiutare le popolazioni oppresse nei Paesi vicini.

 No a colloqui sul nucleare, proteste "manipolate"
  La guida suprema ha anche accusato i manifestanti di essere "manipolati dalla potenze straniere" che vogliono approfittare del disastro del Boeing ucraino per mettere in secondo piano l'uccisione di Soleimani e la risposta dell'Iran. Khamenei ha anche chiuso la porta a ogni futuro negoziato sul nucleare e ha accusato Donald Trump di essere un "clown" e gli Stati Uniti una "potenza arrogante" e "terrorista".

(La Stampa, 17 gennaio 2020, ore 11)


Kibbutz, il denaro nell'Eden socialista

Addio alla purezza dei padri, spunta il privato

Un tempo le case non avevano la cucina perché i pasti erano in comune Erano luoghi di formazione. Pure Boris Johnson ha fatto il volontario qui

di Meir Ouziel

Meir Ouziel
I kibbutz, villaggi basati sul principio dell'uguaglianza dei loro membri, sono un esperimento sociale israeliano che ha pochi uguali al mondo.
   Il primo, Dgania, fu fondato nel 1910 sulle rive del lago di Tiberiade. Da allora sono passati più di cento anni e sono sorti molti kibbutz in tutto Israele. Che cosa è successo, dopo circa quattro generazioni, a questo particolare tipo di insediamento in cui tutto era in comune e i residenti percepivano la medesima retribuzione? Come vivono nel 2020 i pronipoti dei suoi fondatori?
   Innanzi tutto occorre sapere che i kibbutz sono villaggi agricoli. Israele, nei primi anni della sua esistenza, doveva preoccuparsi di fornire il cibo ai suoi abitanti e furono queste comunità, con le loro coltivazioni, a provvedere al sostentamento della popolazione. Lavorare la terra era inoltre un'attività che aveva una valenza ideologica, quasi religiosa. In quegli anni i kibbutz erano il caposaldo di Israele e la fondazione di ogni nuovo insediamento collettivistico, soprattutto nelle zone di confine con i paesi arabi, era un evento significativo, di grande valore.
   Io sono cresciuto in uno di quei villaggi, Netzer Sereni, e da bambino, per me, era come stare in un paradiso. Lì, in quella realtà, il denaro non esisteva. Si usciva di casa la mattina, di solito per faticare nei campi, ma nessuno percepiva uno stipendio. Si ricevevano nuovi indumenti due o tre volte all'anno, si avevano gli stessi vestiti e le stesse scarpe. Tutti vivevano secondo la regola: «Ognuno fa ciò che può e riceve ciò di cui ha bisogno». I pasti venivano consumati in una grande mensa al centro del kibbutz e a me piaceva molto quel raduno di centinaia di persone. L'intera comunità aveva modo di incontrarsi. Una volta alla settimana i tavoli venivano spostati di lato per permettere la proiezione di un film e in quella sala enorme si teneva anche la riunione settimanale dei membri in cui, mediante votazione, si prendevano decisioni su questioni all'ordine del giorno. Avevamo a disposizione una certa somma per poter assistere a spettacoli teatrali o a concerti in città. E molti di quegli spettacoli arrivavano anche nei kibbutz.
   Le case per gli adulti, costruite dalla comunità, erano piccole, modeste, comprendevano un soggiorno e una camera da letto, ed erano tutte arredate nello stesso stile spartano. Non avevano una cucina vera e propria in quanto, per l'appunto, i pasti venivano serviti alla mensa. Noi bambini vivevamo invece in edifici a noi riservati, in base al principio che i figli appartenevano a tutti e il nucleo familiare passava in secondo piano. A partire dall'età scolastica lavoravamo ogni giorno nei campi e nei frutteti per un paio d'ore, e durante le vacanze anche più al ungo.
   Questa mia descrizione dà un'immagine idilliaca e utopistica di una società di stampo comunista, improntata sul principio di una totale uguaglianza. Va però precisato che gli esseri umani, probabilmente, sono per loro natura individualisti e quindi, per esempio, se l'assemblea del kibbutz non avesse approvato la richiesta di un giovane di frequentare l'università, costui avrebbe provato un sentimento di amarezza e si sarebbe chiesto se quello era il prezzo da pagare per vivere in una società in cui l'individuo dipendeva dagli altri. Chi non si adattava a tale vita poteva però lasciare il kibbutz, che era una società fondamentalmente libera, di persone indipendenti. Ed è questa la grande differenza tra questi insediamenti e altri regimi di stampo comunista.
   Tra i cambiamenti avvenuti nei kibbutz negli ultimi decenni il più considerevole da un punto di vista ideologico è quello della privatizzazione. Questo significa che ogni membro è responsabile della propria fonte di reddito. Alcune persone lavorano all'interno della comunità - nei campi di cotone, nelle piantagioni di frutta, o nelle fabbriche - e ricevono una retribuzione in base alla mansione che svolgono.
   Chi invece ha un'occupazione al di fuori della comunità versa lo stipendio al kibbutz e riceve una somma di denaro proporzionata al proprio guadagno. Un altro cambiamento, non meno drammatico, è che ora ai membri del kibbutz è consentito decidere cosa fare con i propri soldi. Non è necessaria l'autorizzazione dell'assemblea per acquistare, per esempio, una bicicletta ai figli. Una cosa del genere - possedere una bicicletta, o magari una stufetta elettrica - era impensabile nelle comunità di una volta.
   I kibbutz dei primi tempi erano luoghi di assoluta e dogmatica uguaglianza che esercitavano un fascino particolare. Molti giovani da tutto il mondo, anche dall'Italia, arrivavano per lavorarci come volontari e vivevano per alcuni mesi in quella che sembrava essere una società ideale. Anche il nuovo primo ministro britannico Boris Johnson è stato volontario nel kibbutz Kfar Hanassì, in Galilea, nel 1984. L'idealismo è stato ora sostituito da uno stile di vita in cui non esiste più un'uguaglianza assoluta. Si è trattato di un processo lungo, complesso e anche doloroso per alcuni membri del kibbutz e non è facile comprenderne tutti i dettagli, anche perché, nelle comunità moderne, esistono grandi differenze nella suddivisione del reddito e della proprietà.
   In futuro i kibbutz si allontaneranno ancora di più dal sogno dei padri fondatori di creare un «uomo nuovo» che non attribuisce importanza al denaro e aspira alla completa uguaglianza tra le persone?

(La Stampa, 17 gennaio 2020)


Con Israele e contro l'antisemitismo. La metamorfosi moderata di Salvini

Il leghista: Gerusalemme capitale dello Stato ebraico. E nega di alimentare l'intolleranza.

L'ambasciatore Dror: l'odio verso gli ebrei indica il declino delle società Respinti gli accostamenti con CasaPound e Forza Nuova

di Amedeo La Mattina

 
ROMA - Il contesto (Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani) e la presenza della presidente del Senato Elisabetta Casellati ha reso solenne il convegno sulle «nuove forme dell'antisemitismo» promosso da Matteo Salvini. Così lo ha voluto il leader della Lega nella sua versione in «grisaglia». Profilo istituzionale perché chi ambisce a fare il premier deve apparire moderato, accreditarsi negli ambienti diplomatici, e internazionali che contano. E' la strategia maquillage di Giorgetti. Basta con le felpe, si guardi in alto e Salvini ormai da tempo ha puntato su Gerusalemme da quando, lo scorso anno, è stato accolto dal premier israeliano Benjamin Netanyahu con tutti gli onori. In quell'occasione l'ex ministro dell'Interno aveva sostenuto che la Città Santa dovrà essere la capitale di Israele. E lo ha ripetuto ieri, come ha sempre detto il presidente americano Donald Trump. Un costante riallineamento a Washington e un conseguente allontanamento da Mosca. Barra dritta su alcuni concetti ripetuti come un mantra: «L'antisemitismo di certa destra tradizionalista e di certa sinistra è nostro nemico. Abbiamo il dovere di combattere chi dice che gli ebrei siano i nazisti di oggi: c'è chi lo pensa nel mondo islamico ma anche in certi mondi in Europa. Una Ue che nega le radici giudaico cristiane ed etichetta i prodotti israeliani, una Onu che nel 2018 dedica alla condanna di Israele 18 risoluzioni e neanche una a Iran e Turchia è un problema».
   Il tema del convegno è di grande attualità. In Europa e negli Stati Uniti si moltiplicano atti violenti contro ebrei, ritorna in alcune parti dell'opinione pubblica un sentimento antisemita. Dore Gold, presidente della Jerusalem Center for Pubblic Affairs, ha fatto notare che ciò avviene «nel cuore dell'Occidente» e non avviene in altre parti del mondo: «Questo fa capire che combattere l'antisemitismo significa combattere in difesa della nostra civilizzazione». Ma nel Vecchio Continente, ha aggiunto Gold, si nota un indebolimento dei governi di pari passo al rafforzamento delle idee antisemite, alimentate dall' «alleanza rosso-verde». È una certa sinistra che attacca lo Stato di Israele, difende i palestinesi alleata con l'islam politico che nega il diritto di Israele a esistere. Ma è proprio lo Stato di Israele, ha precisato l'ambasciatore in Italia Eydar Dror, «la polizza assicurativa di tutti gli ebrei del mondo: grazie a esso possono andare a testa alta in tutto il mondo e in caso di necessità tornare a casa. L'antisemitismo è una cartina al tornasole: indica il declino della società e ne prevede il crollo». È in questa chiave che la presidente Casellati ha parlato della necessità di preservare «una società forte della propria identità, che ripudia l'intolleranza e il razzismo». Sono temi tornati di attualità, secondo Casellari, anche a causa di una globalizzazione esasperata che tende a sacrificare le nostre tradizioni e radici culturali, Ma sono temi che chiamano in ballo Salvini e un pezzo del suo elettorato che viene dalla destra anche estrema.
   Il leader leghista rifiuta accostamenti con CasaPound e Forza Nuova. Nega di alimentare intolleranza e razzismo. «Accuse assurde», ha precisato. Aggiungendo che il contrasto all'immigrazione, la difesa dei confini non c'entra nulla con l'intolleranza, il razzismo, la Shoah. Salvini ha detto di essere dispiaciuto che «qualcuno non sia venuto» al convegno. Chiaro il rifermento alla senatrice a vita Liliana Segre che non ha accettato di partecipare. «Lei ha tanto da insegnare, Carola Rackete no», ha scandito l'ex ministro. Carola dunque presa a simbolo di quella sinistra antisionista e antisemita. Ma alla prova verrà messa la sinistra di casa nostra: Salvini chiede che presto il Parlamento voti sul documento dell'Ihra (Intemational holocaust remembrance alliance nrd) che identifica l'antisemitismo oggi.

(La Stampa, 17 gennaio 2020)


Liliana Segre comunque ha fatto bene a non andare al convegno. Le strumentalizzazioni sono state già troppe. M.C.


Perché gli ebrei sionisti odiano i palestinesi? Risposta di sinistra

Gli ebrei sionisti odiano i palestinesi perché considerati un ostacolo tra loro e la salvezza, fornita da uno Stato che trae legittimità dalla Bibbia. Quindi li disumanizzano, rafforzando l'apartheid. [...]
Israele trae la sua legittimità dalla Bibbia, anche per gli ebrei atei, i palestinesi dalla loro storia. Gli ebrei sionisti pensano che vivere in Israele significhi che "Dio lo vuole". Lo Stato d'Israele sarebbe, dicono, la loro unica salvezza dall'antisemitismo, che nascerebbe ovunque, "da sempre", prima della storia. Ma continuerà anche dopo la storia? Odiano i palestinesi perché sono l'ostacolo tra loro e la salvezza fomita loro da uno Stato, quindi disumanizzano i palestinesi che sono chiamati "arabi", per disconoscere il loro legame con la loro terra. I sionisti dicono che se condividessero lo Stato con i loro nemici, non sarebbero più sicuri perché il "loro" Stato potrebbe essere usato contro di loro. Una visione strumentale, pessimista dell'uomo, della storia, della politica, della cultura. Ma possono i palestinesi essere ottimisti? Odiano i sionisti (non gli ebrei, i sionisti) perché hanno tolto loro la terra, la loro identità, la loro dignità, uno Stato. Hanno perso tutto e nonostante ciò, Netanyahu e il suo partito, il Likud, vogliono estrometterli totalmente.

(Estratto da una rivista online dichiaratamente di sinistra, 17 gennaio 2020)


Questo dovrebbe far capire che oggi l’antisemitismo “serio”, quello che non si attarda a soppesare cangianti manifestazioni di odio epidermico ma punta dritto al nodo, si trova nell’arcipelago delle isole di sinistra, che pur partendo da premesse diverse confermano ogni volta di più di aver individuato il vero bersaglio e il loro comune compito: colpire, colpire, colpire lo Stato d’Israele. M.C.


Al via la terza campagna elettorale (in meno di dodici mesi)

Trenta le liste registrate per le elezioni israeliane di marzo (compresa quella dei Pirati), ma la partita si giocherà fra gli stessi partiti della volta scorsa.

in totale sono 30 le liste politiche che si sono registrate in Israele entro la scadenza di mercoledì sera, per partecipare il prossimo 2 marzo all'elezione della 23esima Knesset. Trenta erano le liste registrate anche alle scorse elezioni del 17 settembre, mentre a quelle precedenti del 9 aprile 2019 si erano iscritte 39 liste, il numero più alto nella storia delle votazioni israeliane. Nel 2015 si erano candidate 25 liste.
Le formazioni di testa non sono sostanzialmente variate dallo scorso settembre, salvo per la fusione fra Laburisti-Gesher e Meretz, lo storico partito della sinistra sionista, e la scomparsa di Campo Democratico (HaMaḥaneh HaDemokrati). Nel frattempo, si registra la presenza di un certo numero di nuovi arrivati, mentre escono di scena alcuni partiti che alle ultime elezioni non erano riusciti a superare la soglia minima d'ingresso (3,25%)....

(israele.net, 17 gennaio 2020)


EastMed, la guerra è sul monopolio energetico

di Antonio Di Dio

 
La scoperta di idrocarburi nel Mediterraneo orientale ha ridisegnato la mappa energetica ed è stata al centro dei colloqui tra Israele, Grecia e Cipro, avviati da ormai un anno, durante il summit (il sesto) trilaterale di Gerusalemme (con la presenza degli Usa) del 20 marzo 2019.
   Il 2 gennaio è stato siglato l'accordo tra Israele, Cipro e Grecia per il progetto Eastmed. Il progetto risale al 2013, quando la Grecia beneficiò di fondi europei per finanziare i lavori preliminari e il costo totale si aggira intorno ai 6 miliardi di euro.
   EastMed sarà realizzato da Igi Poseidon, società di diritto greco partecipata in modo paritetico da Depa s.a. e da Edison International. Trasporterà in Europa del gas estratto dai giacimenti israeliani e ciprioti nel Levante. Il punto di partenza sarà a circa 170 chilometri dalla costa meridionale di Cipro. Da qui si snoderà nei fondali del Mediterraneo fino al territorio cipriota, poi passerà per Creta, prima di raggiungere la terraferma per poi arrivare a Otranto.
   In Italia, EastMed dovrà dunque approdare in Puglia, così come il Tap, nella zona di Otranto. Ciò ha scatenato già parecchi malumori e proteste di associazioni ambientaliste italiane, per gli espropri dei terreni interessati e i calcoli sull'impatto ambientale dell'opera.
   Il gasdotto si svilupperà per circa 2.000 chilometri, dal Medio Oriente al Sud Europa, e potrà trasportare almeno 11 miliardi di metri cubi di gas all'anno, cambiando in maniera significativa gli scenari energetici nel Mediterraneo, una regione dove si assiste a nuove dinamiche anche nei rapporti tra Grecia, Turchia e Israele, sulla scia della scoperta di nuovi giacimenti di idrocarburi.
   A partire dal 2009, Israele, Egitto e Cipro hanno iniziato a studiare i fondali del bacino del Levante: quello che ne è scaturito è una ricchezza stimabile in riserve per 3,5 trilioni di metri cubi di gas e 1,7 miliardi di barili di petrolio. Una ricchezza immensa che ha scatenato la corsa all'accaparramento da parte dei Paesi rivieraschi. E che aiuta a capire anche molte dinamiche politiche degli ultimi anni, fra le quali il riacutizzarsi dello scontro fra Cipro e Turchia. In questo quadro rientrano le trivellazioni della Turchia al largo di Cipro, il cui governo greco-cipriota non è riconosciuto da Ankara ed è per questo che si è abbattuta su Ankara la scure delle sanzioni europee.
   Con l'intesa firmata il 2 gennaio si può dire che l'Europa sia entrata di fatto in pista. L'obiettivo dell'Unione Europea e degli Stati Uniti è quello di ridurre la dipendenza energetica dalla Russia: EastMed non piace infatti al governo di Mosca proprio perché la Russia teme l'attenuazione in modo significativo della dipendenza europea dalle proprie riserve. Attore imprescindibile nel mercato del gas, Mosca è legata in questo settore a doppio filo con la Turchia e al nuovo gasdotto TurkStream, frutto dell'accordo tra i due paesi ed appena inaugurato lo scorso 8 gennaio.
   La coincidenza temporale dei due accordi, EastMed da un lato e TurkStream dall'altro, fa capire il peso geopolitico della partita energetica. Infatti, nonostante gli sforzi dell'Europa per diversificare le fonti energetiche, molti Paesi europei sono ancora dipendenti dal gas russo. Con il nuovo gasdotto TurkStream questa dipendenza non verrà meno.
   La ciliegina sulla torta per il Cremlino è rappresentata dal fatto che il nuovo gasdotto non transiterà in Ucraina, con la quale la Russia è in conflitto dal 2014. La Turchia nel frattempo è diventata un importante hub del gas nella regione.
   Dal Mar Nero il gas russo giungerà invece in Europa attraverso condotti già esistenti o in costruzione, passando per Serbia, Bulgaria, Slovacchia e Austria. Le forniture di gas attraverso TurkStream, secondo Putin, sono di grande importanza non solo per l'economia turca e la regione del Mar Nero, ma avrebbero anche un impatto positivo sullo sviluppo di molti Paesi dell'Europa Meridionale. Lungo 910 km, TurkStream avrà una capacità di oltre 31 miliardi di metri cubi all'anno di gas naturale, che verranno trasportati da due linee parallele. Il gas sarà destinato a Turchia e Europa, e suddiviso in base al bisogno dei rispettivi mercati.
   Se da un lato Ankara procede con le trivellazioni al largo di Cipro e raggiunge intese sempre più strette col governo di Tripoli, la Grecia ha sferrato una pesante offensiva diplomatica nei confronti della Turchia: all'indomani dell'accordo siglato il 2 gennaio, il premier greco ha finalizzato i dettagli tecnici di EastMed portando il dossier fino a Washington.
   La Turchia non ne vuole sapere di rimanere in disparte ed è evidente quale sia il suo interesse: in Libia c'è un'area ricca di petrolio. Se da un lato Israele, Cipro e Grecia hanno appena stipulato l'accordo per il gasdotto Eastmed, Erdogan ha inoltre firmato un accordo con la Libia sui confini marittimi, che mira a creare una zona economica esclusiva a danno di Grecia e Cipro. Turchia e Libia hanno poi dei legami storici molto antichi: la Libia faceva parte dell'Impero ottomano fino alla guerra italo-turca del 1911-12.
   La Turchia ha l'interesse strategico a sviluppare una politica mediterranea che possa competere con quella europea; c'è da considerare il calcolo puramente economico, con la Libia che offre enormi prospettive in termini di sviluppo infrastrutturale e in ottica di ricostruzione. La Turchia ha anche l'ovvio interesse di vendere armi al cosiddetto Governo di Accordo Nazionale (GNA), mentre in Cirenaica arriveranno presto, direttamente da Mosca, radar e missili russi. Missili offensivi ipersonici e balistici, oltre a sistemi di difesa aerea russi, col chiaro intento di rendere la regione sempre più un protettorato russo e con l'ipotetica installazione di una futura base russa a Bengasi, vicino alla Sicilia.
   Un altro scenario da monitorare in questa partita energetica e militare, per l'Italia e per la Sicilia in particolare, che rischia di diventare una frontiera del confronto militare tra Russia e Nato.

(Eco Internazionale, 16 gennaio 2020)



Basket - Eurolega, l'Olimpia Milano cade a casa del Maccabi Tel Aviv 69-63

I biancorossi lottano ma alla fine incassano la settima sconfitta esterna in Europa

di Michele Gazzetti

In uno dei templi del basket europeo, lo Yad-Eliyahu di Tel Aviv, l'Olimpia lotta ma alla fine s'inchina 69-63 al Maccabi di uno straripante Wilbekin (22 punti) e incassa la settima sconfitta esterna di fila in Eurolega. Nedovic garantisce la fiammata iniziale con 6 punti e un assist nei primi 3 possessi e costringe i padroni di casa ad inseguire per tutto il primo tempo.
   I biancorossi giocano con discreta intensità, ricevono iniezioni di energia da Biligha (4 stoppate), Cinciarini e Della Valle che con 7 punti a cavallo della prima pausa timbra il massimo vantaggio sul 16-25. Dorsey riporta in carreggiata i suoi ma l'attacco israeliano non riesce mai a decollare fino alla pausa lunga. Milano costringe gli avversari a un pessimo 12/34 su azione ma è avanti solo di uno al 20' perché tira malissimo con i piedi dentro l'arco (6/17). La ripresa diventa subito il regno di Wilbekin che stappa offensivamente la partita e impreziosisce un parziale di 14-4 con cui il Maccabi prova ad intimidire l'Armani.
   A quel punto si mette in moto la coppia Sykes-Roll che organizza la resistenza e, nonostante un finale di 3o quarto ricco di palle perse, gli ospiti riescono a rimanere in scia (52-48 al 30'). Nell'ultimo periodo Milano fatica ancora a segnare, sbaglia anche canestri apparentemente semplici con Rodriguez (8 punti con 3/11 su azione) ma rimane a contatto perché fa brillare il talento di Sykes, il topscorer biancorosso con 11 punti.
   L'ex Avellino griffa la tripla della speranza (66-63 a 2'43'' dalla sirena) ma da quel momento in poi l'Olimpia non segna più e lascia scivolare via il match. Rodriguez, Scola e Micov chiudono con 7/24 al tiro ed è impensabile poter passare su un campo così difficile con queste percentuali dei 3 migliori giocatori. Il Maccabi tocca quota 11 successi consecutivi in casa contro l'Armani e ringrazia la consistenza di Hunter, autore di una doppia da 14 punti e 14 rimbalzi.

(Corriere della Sera, 16 gennaio 2020)



Anche Israele entra nel Circus Formula 1, c'è un pilota per la pace

Collaudatore Williams, Nissany è il primo del suo Paese. Che dopo calcio e ciclismo cerca visibilità tra i motori.

"La F1 non è un sogno, sono sempre stato convinto di arrivarci e ho dedicato la mia vita a questo obiettivo" "Non è il numero 41 che ho scelto a farmi andare veloce, sono io che devo far vincere il numero" Claire Wiliams: "Roy è un pilota intelligente, di talento, e sa comunicare con gli ingegneri"

di Stefano Mancini

Un'operazione commerciale, una sfida sportiva, una missione di pace. L'ingaggio di Roy Nissany come collaudatore della Williams ha tanti significati e ognuno può trovarci il suo. Nissany, 25 anni, è il primo pilota israeliano della Formula 1. Nel 2020 correrà le prove libere nel venerdì durante tre Gp (Francia, Canada più un terzo da definire) e i test di fine stagione riservati ai debuttanti, oltre a guidare al simulatore. «È un momento storico per il mio Paese, voglio essere di esempio», dice. Rispetto ai suoi colleghi, ci risparmia la storia del sogno che si realizza: «Sono sempre stato convinto di arrivare in Formula 1 e ho dedicato la mia vita a questo obiettivo. No, non si tratta di sogno».

 Al volante in tre Gran premi
  Per la cerimonia di presentazione, la Williams ha scelto il Centro per la pace e l'innovazione intitolato a Shimon Peres. Il palcoscenico oggi è dei figli, quello dell'ex presidente e premio Nobel per la pace, Chemi, che nomina sua ambasciatrice Claire Williams, erede del fondatore Frank con il ruolo di team principal. Non è una missione facile quella di Nissany, da nessun punto di vista. L'anno scorso è stato per la maggior parte del tempo a riposo dopo essersi fratturato il polso in mountain bike, quindi non ha accumulato i punti per la superlicenza: dovrà guadagnarseli nel campionato di F2. Secondo ostacolo: la Williams ha chiuso all'ultimo posto la stagione 2019: nessuno chiederà a un debuttante di fare il fenomeno, né lui sarà in grado di mettersi in particolare evidenza. Claire Williams è comunque ottimista: «Ha talento, è intelligente e sa comunicare con gli ingegneri».

 La spinta del magnate Adams
  Che c'entra la pace? «In dicembre Royha già guidato nei test di fine stagione ad Abu Dhabi, negli Emirati. Se avessimo proposto una cosa del genere cinque anni fa ci avrebbero presi per pazzi». Chi parla è Sylvan Adams, lo sponsor dell'operazione, che prevede una promozione a titolare entro il 2021 per il suo ragazzo, e a seguire uno scontro diretto con Lewis Hamilton. Per tre fine settimana di gara, sulla monoposto inglese sarà applicato il logo della squadra di ciclismo Start-up Nation. La passione di Adams per la bici precede quella per le auto da corsa. Adams, per dire, è colui che versò 19 milioni di euro nelle casse del Giro d'Italia per ospitarne le prime tre tappe del 2018, con partenza da Gerusalemme. Il suo corridore preferito è Gino Bartali, per i successi e per quanto fece per salvare gli ebrei durante la guerra. Dopo l'esperienza italiana, Adams ha iscritto la sua squadra al Tour e già lavora a un altro progetto: portare anche la corsa a tappe francese in Terrasanta. «Ma gli organizzatori sono un po' snob — spiega arricciando il naso -. Hanno mandato un loro emissario a fare la spia al Giro e hanno visto quale successo è stato. Noi abbiamo avanzato la proposta, ora tocca a loro decidere». Due mesi fa, Tel Aviv ha ospitato anche il grande calcio: l'amichevole tra Argentina e Uruguay. Adams voleva mettere Messi e Suarez uno contro l'altro. «Altro che amichevole, dovevate vederli come giocavano. Hanno pareggiato 2 a 2, e così alla fine ha vinto Israele».

 Già in pista negli Emirati
  Nissany non è soltanto l'ennesima bandierina della F1, che tra Gran premi, piloti e team rappresenta 28 Paesi di quattro continenti (soltanto l'Africa non c'è). È una presenza ingombrante nella geopolitica del Circus, che nella sua espansione recente ha messo in calendario il Medio Oriente, dal Bahrein agli Emirati. Mostrare immagini di Israele tra chi non lo conosce e diffondere il messaggio che è un luogo tranquillo è l'obiettivo del magnate di origini canadesi. Il linguaggio delle emozioni contro quello delle parole, costruire ponti invece che muri. La Formula 1 offre una platea da 350 milioni di spettatori a gara. Ma proprio durante la cerimonia al Peres Center le breaking news dei siti di informazione israeliani hanno riportato di un attacco palestinese, quattro colpi di mortaio sparati da Gaza, senza feriti. La seconda notizia sui siti web arriva dalla Giordania, che critica le proposte di Tel Aviv sulla questione palestinese. La pace resta un processo lungo. Buona fortuna Nissany.

(La Stampa, 16 gennaio 2020)


Israele e la F.1: la presenza c'è stata, ma invlslblle

Tecnologie mllltarl vendute al team. In segreto, la Ferrari a Gerusalemme

TEL AVIV - L'unico vero cortocircuito tra la Formula 1 e Israele ci fu poco più di cinque anni fa, nell'ottobre del 2014, quando la Ferrari intervenne al Jerusalem Formula Road Show esibendosi appena al di fuori delle mura della città vecchia. Nulla prima, nulla dopo. Quel giorno, cinquantamila persone impazzite per il rombo del V8 tutto aspirato, cuore di quella F60 che Giancarlo Fisichella conduceva sulle strade di Gerusalemme, dopo averla guidata nella seconda parte del Mondiale 2009 per sostituire Felipe Massa, fermo dopo l'incidente e l'operazione alla testa subita in Ungheria.
   Nella città santa delle tre religioni monoteistiche era felicissimo quel giorno lo sponsor Kaspersky il quale - occhio - non era un finanziatore passato di lì per caso: partner di Maranello dal 2010 (e dal 2013 responsabile della sicurezza informatica del Cavallino), Kaspersky Lab ha più volte collaborato con l'Unità 8200, il dipartimento di cybersicurezza militare e civile più avanzato nel mondo, che opera a nord di Tel Aviv e tutto ascolta con grandi orecchie elettroniche dal deserto del Negev.
   Per il resto Israele non è mai comparsa nei radar della Formula 1. Ma non viceversa: alcune squadre del Mondiale si sono servite in passato di tecnologia israeliana, attraverso emissari rimasti sempre invisibili nei paddock. La ragione è chiara: la tecnologia di avanguardia (è successo anche a internet) è sempre stata di derivazione militare e ha sempre mosso tantissimo denaro, due ottime ragioni per muoversi in segretezza. E' successo ai tempi del berillio nei motori Mercedes alla fine degli anni Novanta (poi nel 2000 metalli con quelle caratteristiche furono vietati dalla FIA), ma anche quando c'è stato da acquistare leghe speciali inedite o sistemi radio di criptazione/decriptazione.
   Una di queste realtà era la Elbit Systems, gigante dei sistemi elettronici di difesa con sede ad Haifa, che forniva due squadre di vertice proprio nel 2004, quando nel calendario della Formula 1 entrò il Bahrain, che vieta l'ingresso nel Paese a chi presenta un passaporto in cui figuri la stella di David, anche solo attraverso un timbro di passaggio alla frontiera.
   Piloti di livello, zero: unico precedente conosciuto il test di Chanoch Nìssany; nel 2004 privatamente su una Jordan e poi sulla Minardi nel GP Ungheria del 2005. Ma quarantadue anni suonati erano troppi per poter sognare, o forse no: Mr Nissany senior ricomincia a farlo oggi, attraverso suo figlio Roy.

(Corriere dello Sport, 16 gennaio 2020)


Ce l'hanno con noi?

Articolo comparso su una rivista online dell’ebraismo laico italiano. NsI

di Anna Segre

Perché ci odiano? Manuel Disegni sul numero scorso di Ha Keillah ci ha messo in guardia da questa domanda con argomentazioni assolutamente stringenti. Cercare una caratteristica peculiare comune a tutti gli ebrei, sia pure positiva, che spieghi l'antisemitismo significa fare il gioco degli antisemiti.
  Eppure è una trappola in cui cadiamo spesso: ci odiano perché siamo colti, ci odiano perché amiamo lo studio, ci odiano perché siamo anticonformisti, ci odiano perché combattiamo tutte le idolatrie, ci odiano perché siamo così, ci odiano perché siamo cosà.
  Peraltro, sarà poi vero che gli ebrei nel corso della storia sono stati odiati/perseguitati/discriminati più di altri gruppi che si trovavano in condizioni analoghe? È mai esistita nella storia dell'umanità una religione o etnia che sia vissuta per secoli come minoranza in un luogo senza essere prima o poi perseguitata o per lo meno malvista? Sospetto di no. Il fatto è che noi ebrei siamo stati odiati e perseguitati molto, e da molti popoli diversi; ma questo ovviamente accade perché esistiamo da millenni e siamo stati presenti in molti luoghi e contesti storici diversi. Molti popoli sono stati odiati solo per periodi brevi, al termine dei quali sono stati completamente annientati, o costretti a forza ad assimilarsi alla cultura egemone. Insomma, hanno smesso di essere odiati perché hanno smesso di esistere. Non mi sembra un grande vantaggio.
  Dunque la specificità degli ebrei sta nella durata?
  Però a questo punto sarebbe opportuno porre un altro problema: quanto c'è di vero in questa immagine di un popolo che attraversa i secoli e i continenti rimanendo sempre fedele a se stesso e sostanzialmente sempre uguale? Possiamo davvero affermare che noi siamo proprio quegli stessi ebrei di 3500 anni fa più di quanto un greco di oggi possa legittimamente sentirsi appartenente allo stesso popolo di Ulisse e di Pericle? O più di quanto un peruviano si senta inca, un messicano si senta azteco, un rumeno si senta discendente dei Daci (ricordo alcuni anni fa un allievo rumeno sinceramente indignato contro Traiano e i Romani che "hanno rubato il nostro oro!"), un italiano di oggi (compresi noi ebrei italiani) si senta il legittimo erede di Giulio Cesare, di Virgilio, di Dante o di Giotto?
  La risposta a questa domanda non è affatto scontata. Cos'abbiamo davvero in comune con gli abitanti di Eretz Israel di tremila anni fa? Il modo di vestire? I cibi? O forse la lingua? Ma quanti ebrei della diaspora oggi parlano ebraico? O lo parlano in modo sufficiente a fare qualcosa di più che ordinare un falafel (che peraltro è un cibo palestinese, che non ha niente a che fare con la tradizione ebraica)? E quanto l'ebraico di oggi somiglia a quello di allora, con la tet e la tav che avevano due pronunce diverse, per non parlare della alef, della he e della ain?
  Be', si dirà, abbiamo in comune la religione, le tradizioni, i riti; celebriamo le stesse feste nelle stesse date, digiuniamo a Kippur, ci asteniamo dai cibi lievitati a Pesach, ecc. Non è un miracolo? Sì, ma vale la pena di ricordare che allora celebrare Pesach significava andare a fare sacrifici al Tempio di Gerusalemme, osservare lo Shabbat non voleva dire usare la plata e il timer, la poligamia era non solo legittima ma normale. Senza contare che molti ebrei di oggi non osservano affatto le mitzvot. D'accordo, abbiamo in comune i principi etici: ama il tuo prossimo come te stesso, non seguire la maggioranza per fare il male, chi uccide un uomo uccide un mondo, chi salva la vita di un uomo è come se avesse salvato il mondo intero, ecc. Ma quale tra le grandi religioni di oggi non fa propri questi principi? Anzi, ciascuna ritiene di esserne la sola autentica depositaria e custode.
  Insomma, viene il sospetto che il nostro orgoglio di esistere ancora mentre gli altri popoli antichi sono scomparsi possa essere più un'autorappresentazione che una realtà oggettiva.
  Quindi forse la domanda corretta da fare non dovrebbe essere "Perché gli ebrei nel corso della storia sono stati sempre odiati?" e neppure "Perché gli ebrei esistono da millenni mentre gli altri popoli antichi hanno cessato di esistere?" ma "Perché esiste un gruppo di persone che per millenni si è sempre autorappresentato come popolo - e così è stato visto quasi sempre dagli altri - pur vivendo quasi sempre come minoranza in luoghi e contesti diversissimi tra loro?"
  Non credo sia facile dare una risposta razionale a questa domanda. Ma è poi davvero una domanda corretta? Siamo proprio sicuri che nessun altro popolo o gruppo di persone al mondo si autorappresenti in questo modo, vantando una continuità di millenni che viene dimostrata esaltando le somiglianze e glissando sulle differenze?
  Finora ho cercato di ragionare in termini razionali. Ma quanto siamo capaci di essere razionali quando è in gioco la nostra identità? Io, lo confesso, quasi per nulla. C'è una parte di me che in fondo non crede neppure a mezza parola di quanto ho scritto finora. C'è una parte di me che ad ogni Pesach si considera personalmente uscita dall'Egitto, convinta che "in ogni generazione si levano contro di noi per distruggerci", che pensa con orgoglio e divertita compassione a Orazio che derideva l'osservanza dello Shabbat mentre si augurava di essere letto "finché il pontefice salirà con la vergine silenziosa al Campidoglio" (per sua fortuna gli è andata meglio di così), che si sente investita della missione di convincere l'umanità ad abbandonare ogni forma di idolatria.
  E quanto è facile trovare spiegazioni razionali per questa irrazionalità! Quanto è facile trovare dati oggettivi che la sostengono! Non è forse sconcertante la somiglianza tra il discorso di Hamman nella Meghillat Ester e quello che Tacito scrive sugli ebrei nelle Historiae? Non è straordinaria la persistenza dell'antisemitismo anche in paesi senza ebrei? Non è incredibile la quantità di ebrei tra i rivoluzionari, gli innovatori, i creatori di nuove teorie? Non è eccezionale la percentuale di Premi Nobel ebrei?
  D'altra parte, in quanto italiani non siamo forse orgogliosi dei ponti e degli acquedotti romani che resistono ancora qua e là per l'Europa, il Nord Africa e il Medio Oriente? Non è forse vero che nessun altro popolo ha prodotto così tante opere d'arte (e in tante epoche diverse) come gli italiani? Non è forse vero che le città italiane sono le più belle del mondo? Non è forse vero che la cucina italiana è la più diffusa e apprezzata?
  Il nostro orgoglio di italiani forse ci aiuta a relativizzare il nostro orgoglio di ebrei (e viceversa). Perché i casi sono due: o abbiamo avuto l'incredibile fortuna di appartenere ai due popoli più eccezionali di tutti (inutile dire che la mia parte irrazionale mi dice che è proprio così che stanno le cose), oppure dobbiamo ammettere che questa convinzione di eccellenza è probabilmente comune a tutte le culture e a tutti i gruppi umani. Ognuno ha le proprie ragioni di orgoglio, secondo i propri criteri, e per fortuna le possibili motivazioni per essere fieri sono innumerevoli e ce n'è per tutti.
  La convinzione di appartenere a un gruppo eccezionale per qualche ragione - e magari odiato proprio per questo - a mio parere, se presa nelle giuste dosi, non è dannosa, anzi, genera un utile senso di responsabilità. Però credo che dovremmo imparare a tenere nella nostra testa ben distinti il piano della storia e quello della leggenda, il piano delle convinzioni razionali e quello delle autopercezioni simboliche. Le confusioni tra realtà e mito sono pericolose se non altro perché legittimano le confusioni altrui. Se cerchiamo di spiegare razionalmente la nostra presunta superiorità secondo alcuni criteri non possiamo poi lamentarci se qualcun altro, sulla base di altri criteri, proclama la propria; se ci sentiamo in diritto di interpretare la storia ebraica secondo categorie teologiche, non abbiamo poi più argomenti contro chi fa altrettanto con la propria storia. Se noi ebrei cerchiamo di spiegare razionalmente che siamo diversi ed eccezionali non abbiamo poi più armi contro chi ci considera diversi ed eccezionalmente pericolosi.

(HaKeilah, dicembre 2019)



Si direbbe che l’autrice, al fine di conservare e difendere la propria identità ebraica, rivendichi una sorta di “diritto all’irrazionalità”. "Lasciateci sognare in pace - sembra dire l’autrice - che fastidio vi diamo? Ciascuno ha i suoi sogni preferiti, e non è il caso di mettersi a difendere i propri a spada tratta, perché se no anche gli altri tirano fuori le loro spade. E la pace va a farsi benedire. E noi, in fondo, come tutti, vogliamo soltanto vivere in pace". Ma è tutto qui l’ebraismo? M.C.


Modella non può sfilare a Parigi perché è israeliana

Gli organizzatori si giustificano: chi paga è libanese

di Daniel Mosseri

 
Arbel Kynan
Una mano aperta con scritto "Stop this story!". E partita in queste ore sui social una nuova campagna contro l'antisemitismo. È stata lanciata da Moshe Kantor, presidente dello European Jewish Congress e ha raccolto l'appoggio fra gli altri del presidente israeliano Reuven Rivlin, dell'attrice britannica Vanessa Kirby (la principessa Margaret nella popolare serie "Tue Crown" su Netflix), e del cestista Nba Omri Casspi.
   L'iniziativa, la prima del suo genere a utilizzare su Instagram gli effetti della realtà aumentata, è stata pensata in vista del Quinto forum mondiale sull'Olocausto in programma a Gerusalemme il prossimo 23 gennaio. In quella data, 45 capi di stato e di governo si incontreranno presso lo Yad Vashem, il Memoriale della Shoah, per ricordare il 75esimo anniversario della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz. E poiché il ricordo non basta, i 45 leader globali cercheranno nuove strade per combattere il pregiudizio antiebraico. Anche la supermodella israeliana Bar Refaeli si è attivata online per combattere l'antisemitismo.
   Meno fortuna, invece, ha avuto la sua collega e connazionale Arbel Kynan che dell'odio per lo stato ebraico è rimasta vittima. È stata la stessa mannequin a raccontarlo su Instagram. «Qualche giorno fa sono arrivata a Parigi per essere fotografata per un'azienda di moda molto rinomata che partecipa anche alla settimana della Haute Couture. Prima del mio arrivo a Parigi mi hanno detto che sarebbero stati felici di avermi alla sfilata». Tutto bene, dunque? No. Allo shooting le è stato chiesto da dove venisse, «Da Tel Avìv», ha risposto la bella Arbel. Giorni dopo ha ricevuto una mail dal suo agente: «Il cliente è libanese e non vuole modelle israeliane».
   Un no secco come succede spesso anche nel campo dello sport, con tanti saluti alla campagna contro il razzismo e l'antisemitismo. Un atteggiamento in linea con l'imminente ondata di ipocrisia legata ad Auschwitz da parte di chi piangerà gli ebrei morti continuando a odiare quelli vivi.

(Libero, 16 gennaio 2020)


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