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Notizie 16-31 gennaio 2023


Terrore in Israele

“Vogliono ucciderci da sempre, ma ora in più c’è l’Iran”. Parla il generale Kuperwasser

di Giulio Meotti

Yossi Kuperwasser
ROMA - “Stavolta è diversa, dura di più ed è molto più pericolosa delle precedenti ondate terroristiche, va avanti almeno da un anno ed è più profonda, anche perché non abbiamo visto azioni da parte dell’Autorità palestinese per contenere il terrorismo. Significa che non vogliono fermarlo. E che noi israeliani dobbiamo entrare in luoghi come Jenin e Nablus”. Parla così al Foglio Yossi Kuperwasser, ex generale dell’Idf, direttore generale del ministero degli Esteri israeliano e dell’unità di ricerca dell’intelligence militare di Gerusalemme. Si parla dell’ondata di attentati che ha sconvolto Israele negli ultimi giorni, la strage davanti alla sinagoga, il tentativo di uccidere un padre e un figlio e i tanti attentati falliti in questi giorni, all’ingresso della colonia di Kedumim, a Hebron e al raccordo Almog, vicino a Gerico. Il governo di Benjamin Netanyahu ha appena dislocato due battaglioni dell’esercito in più nei Territori, annunciato regole più facili per portare armi e la demolizione delle case dei terroristi che era stata interrotta per anni. C’è paura nel paese di un ritorno ai giorni bui dell’Intifada. Alcuni dipendenti dell’asilo Kochav Yam di Herzliya, città costiera, hanno condiviso parole di gioia sui social in seguito al massacro della sinagoga di venerdì sera, lodando il terrorista. “Realisticamente i terroristi palestinesi non vogliono niente, ma vogliono uccidere più ebrei possibili e cacciarci da quella che chiamano ‘Palestina’, e vogliono l’attenzione della comunità internazionale perché la questione palestinese era scesa nelle notizie” ci dice Kuperwasser. “Anche gli americani avevano perso interesse. I terroristi pensano che il terrore li riporterà al centro dell’attenzione”. Il dominio di Abu Mazen, mai passato da elezioni, è ventennale e l’Autorità palestinese appare sclerotizzata, eppure da Gerusalemme non si vedono alternative al ritorno allo stato precedente: quando Israele governava sui milioni di palestinesi della Cisgiordania. “Non è questione di far collassare l’Autorità Palestinese, ma che smettano di pagare i salari dei terroristi, che sia corrotta e che non gli interessi del benessere dei palestinesi. Il mondo arabo non ha più interesse nei palestinesi e non vuole rimanere ostaggio della causa palestinese. Il governo Netanyahu non vuole che collassi l’Autorità palestinese, ma neanche rafforzarla”. Non è chiaro quanto il sentimento di convivenza sia davvero evoluto da Oslo in avanti nella popolazione palestinese. “Molti palestinesi, direi vicini alla maggioranza, non vogliono che gli ebrei vivano qui, sono stati educati a pensare che Israele sia la cosa peggiore mai capitata e se leggi la loro stampa in arabo è tutto su quanto terribile sia Israele. Cosa possiamo aspettarci? Molti sono vittime del lavaggio del cervello da parte della propaganda contro Israele. Sin da piccoli imparano ad ammirare i terroristi, i loro nomi sono ovunque dalle scuole alle strade”.
  Il Jihad islamico palestinese è stato fondato nel 1981 identificandosi con la Rivoluzione islamica in Iran. Il comando del Jihad islamico ha sede in Siria e tiene incontri regolari con la leadership iraniana. Le guardie rivoluzionarie iraniane forniscono tra i cento e i centocinquanta milioni di dollari al Jihad palestinese. Qassem Suleimani, il defunto comandante della Forza al Quds iraniane, viaggiava attraverso la regione per fornire milioni di dollari e armi al Jihad attraverso vari canali, in particolare l’Egitto.
  “C’è un legame fra l’Iran e i terroristi palestinesi” ci dice Kuperwasser. “Il Jihad islamico a Jenin per esempio è diventato dominante e lì abbiamo dovuto compiere appena adesso un raid antiterrorismo come non se ne vedevano da anni. E gli iraniani sostengono Hamas a Gaza, danno loro soldi per missili, tunnel, vogliono che si armino fino ai denti. L’Iran sta finanziando la lotta armata anche all’interno di Fatah”. Cosa aspettarsi? “Ci sarà più scontro fra Israele e i palestinesi, più attacchi terroristici e più risposta da parte d’Israele”.
  Ieri il ministro israeliano della Difesa, l’ex generale Yoav Gallant, ha detto: “I terroristi finiranno davanti a una corte o al cimitero”.

Il Foglio, 31 gennaio 2023)

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La fiducia tra israeliani e palestinesi è ai minimi storici

di Pierre Haski

Poco prima dell’ultima escalation di violenza tra israeliani e palestinesi un sondaggio d’opinione condotto all’interno dei due popoli ha fornito una delle chiavi di lettura per comprendere la nuova tragedia che si svolge davanti ai nostri occhi. Si tratta di un’indagine congiunta intitolata “Palestine-Israel pulse” e realizzata da due centri di ricerca (uno israeliano e l’altro palestinese) che da anni rivolgono regolarmente le stesse domande su entrambi i fronti.
  Il risultato è disastroso: non solo il sostegno per la soluzione dei due stati è ai minimi storici degli ultimi vent’anni, ma ormai una parte significativa dell’opinione pubblica, in entrambi i contesti, privilegia una soluzione “non democratica”, ovvero quella di un solo stato controllato dall’uno o dall’altro popolo.
  Questa evoluzione riflette il pessimismo assoluto in merito alle possibilità di vedere un giorno realizzata l’opzione dei due stati (cosa che purtroppo corrisponde alla realtà) ma anche l’accettazione sempre più diffusa dell’impossibilità di vivere senza dominare l’altro e dunque l’assenza di prospettive di pace.

- La perdita della speranza
  “Il sostegno per un sistema non democratico ha superato per la prima volta quello nei confronti della soluzione dei due stati”, ha commentato Daliah Scheindlin, responsabile del sondaggio da parte israeliana per il Programma internazionale di mediazione e risoluzione dei conflitti dell’università di Tel Aviv. Il suo collega palestinese Khalil Shikaki, direttore del Centro palestinese di ricerca politica e d’opinione di Ramallah, ha sottolineato come diventi “sempre più difficile trovare un sostegno per la pace”.
  Queste dichiarazioni sono state rilasciate il 24 gennaio durante una conferenza stampa congiunta di cui si è occupato il quotidiano israeliano Haaretz. Da allora il bilancio delle vittime è stato di una ventina di morti su entrambi i fronti.
  Lo studio evidenzia inoltre il sostegno accordato da una consistente minoranza da entrambe le parti alla violenza come metodo di azione
  Sul versante palestinese si registra ancora un lieve vantaggio per la soluzione dei due stati rispetto a quella di un unico stato dominato dai palestinesi, il 33 per cento contro 30 per cento. Da parte israeliana, invece, lo studio evidenzia una netta separazione tra l’opinione della maggioranza ebraica e quella della minoranza araba: per quanto riguarda gli ebrei le percentuali sono invertite, con il 37 per cento favorevole a un unico stato dominato dagli israeliani e un 34 per cento schierato per la soluzione dei due stati. Solo gli arabi israeliani, che rappresentano il 20 per cento della popolazione di Israele, restano favorevoli in massa (60 per cento) alla soluzione dei due stati. Secondo lo studio, solo un quarto dell’opinione pubblica è favorevole a un unico stato democratico in cui tutti i cittadini abbiano gli stessi diritti.
  Il deterioramento rispetto agli studi precedenti certifica la perdita della speranza e l’assenza di qualsiasi prospettiva di negoziato e di coabitazione pacifica. Questo lungo processo va avanti dal fallimento degli accordi di Oslo firmati nel settembre del 1993, esattamente trent’anni fa. Quell’intesa avrebbe dovuto portare alla nascita di due entità separate capaci di vivere fianco a fianco.

- Evoluzione inquietante
  Le difficoltà di attuazione degli accordi di Oslo hanno rapidamente minato la fiducia della popolazione, ma il colpo di grazia è arrivato soprattutto dall’opposizione feroce degli estremisti di entrambe le parti: da un lato Hamas, che ha portato a termine attentati sanguinari negli anni novanta; dall’altro gli estremisti religiosi ebrei come Baruch Goldstein, autore del massacro di Hebron del 1994, e soprattutto Yigal Amir, che nel 1995 ha assassinato il primo ministro Yitzhak Rabin. Sono loro ad aver vinto, uccidendo l’idea della pace.
  Lo studio evidenzia inoltre il sostegno accordato da una consistente minoranza da entrambe le parti alla violenza come metodo di azione. Anche in questo caso si tratta di un’evoluzione inquietante rispetto alla storia, confermata dall’ingranaggio fatale che vediamo all’opera ormai da mesi, e non solo negli ultimi giorni. Nel 2022 sono stati uccisi 150 palestinesi. Il primo mese del 2023 è stato particolarmente tragico: 27 morti palestinesi e sette morti israeliani. Il ciclo di sangue e vendetta è stato rilanciato.
  Circostanza aggravante, in Israele e nei territori palestinesi non esiste più una forza capace di invertire il corso degli eventi. Nello stato ebraico si è insediato da un mese un governo di cui fanno parte esponenti di estrema destra che sognano l’apocalisse (nel senso biblico del termine) perché la considerano un mezzo per espellere una parte dei palestinesi e annettere i loro territori. Il ministro della sicurezza Itamar Ben Gvir vive nella colonia ebraica di Kyriat Arba, alle porte della città palestinese di Hebron, a sud di Gerusalemme. È da lì che partì Baruch Goldstein per assassinare i fedeli musulmani raccolti in preghiera nel febbraio del 1994. La tomba di Goldstein, situata nella colonia, oggi è oggetto di culto. Sul fronte opposto l’Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen, totalmente inerme e priva di legittimità, cede il passo a gruppi della società civile che in alcuni casi hanno scelto una lotta armata senza speranze.
  La comunità internazionale (espressione desueta che da tempo ha perso qualsiasi significato in questa parte del mondo) non ha più alcun impatto su questa situazione. L’immobilità davanti alla tragica impasse in Israele e Palestina fa parte delle critiche rivolte dalle opinioni pubbliche dei paesi del sud agli occidentali nel momento in cui questi ultimi chiedono di difendere il diritto internazionale in Ucraina. Le risoluzioni dell’Onu sulla Palestina sono restate lettera morta negli ultimi cinque decenni. Tutti ormai distolgono lo sguardo, a cominciare dai paesi arabi firmatari degli accordi di Abramo.
  Da dove arriverà il sussulto che eviterà il tracollo di una terra che ha già vissuto fin troppe tragedie? Chi potrà infondere un po’ di speranza in due popoli che non vedono più altra prospettiva se non quella della violenza? Oggi è impossibile dirlo. Il meccanismo dello scontro sembra difficile da arginare, ed è facile prevedere che se non ci saranno cambiamenti radicali il prossimo studio “ Palestine-Israel pulse” mostrerà una riduzione ulteriore del desiderio di coabitazione e un aumento della volontà di dominazione esclusiva.
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(da L'Obs, trad. Andrea Sparacino)

(Internazionale, 31 gennaio 2023)

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Israele riempie il Mar di Galilea, rifornendo la Giordania lungo la strada

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TIBERIAS (Israele) – Quando le paratoie sono aperte, il flusso d’acqua irrompe in un letto di fiume asciutto e si precipita a nord del lago biblico di Israele fino alle rive del Mare di Galilea, che era stato perso a causa della siccità e della siccità . popolazione che cresce attorno ad esso.
  L’acqua è fresca, di alta qualità, costosa. Recuperato dal Mar Mediterraneo e trasportato in tutto il paese, dove attende un ordine per rifornire il lago se si restringe di nuovo.
  Questa nuova rete consentirà inoltre a Israele di raddoppiare la quantità di acqua che vende alla vicina Giordania nell’ambito di un accordo idroelettrico più ampio, che è stato raggiunto attraverso un rapporto funzionante, anche se spesso irregolare.
  Il Mare di Galilea, sul quale i cristiani credono che Gesù abbia camminato, è il principale bacino idrico di Israele e una grande attrazione turistica. Alberghi e campeggi fiancheggiano il perimetro circondato da montagne lussureggianti. Alimenta il fiume Giordano, che scorre a sud nel Mar Morto.
  Dopo un’ondata di caldo o una pioggia battente, i livelli dei laghi fanno notizia a livello nazionale. Nell’ultimo decennio, gli allarmi hanno suonato regolarmente dopo siccità prolungate e litorali in ritirata.
  Così Israele ha costruito una catena di impianti di desalinizzazione sulla sua costa mediterranea, mettendola nell’improbabile posizione di avere un surplus di acqua, un punto luminoso in una regione arida estremamente vulnerabile ai cambiamenti climatici.
  “Qualsiasi altra acqua che (le piante) producono, saremo in grado di portare con questo sistema nazionale di falde acquifere a nord e al Mare di Galilea”, ha detto Yoav Barkay, che guida la compagnia di bandiera presso la compagnia statale Mekorot. .
  Si fermò vicino al bacino di raccolta sopra il lago in un fine gennaio secco e soleggiato che sembrava più primavera che inverno.
  “In questo ambiente di cambiamento climatico, non sai cosa aspettarti l’anno prossimo e quello successivo”, ha detto. “Non dipendiamo più dalla pioggia per il nostro approvvigionamento idrico”.

• ACQUA E PACE
  Ha detto che il sistema di riempimento potrebbe essere utilizzato più spesso man mano che aumentano le esportazioni di acqua verso la Giordania. Secondo Mekorot, questo può aumentare il livello del lago di mezzo metro ogni anno.

(MATAIJA, 31 gennaio 2023)

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Il dramma di quegli ebrei così italiani, ma braccati. Pagine di diario

di Giampiero Mughini

Nella settimana segnata dalla ricorrenza del Giorno della Memoria (27 gennaio) la senatrice a vita Liliana Segre – una delle persone più discrete della nostra attuale scena pubblica – ha avanzato il sospetto che a furia di parlare di persecuzione degli ebrei qualcuno in Italia si stufi. Non dimentichiamoci che gli ebrei sono stati quantitativamente poca cosa nell’Italia del Novecento, 45 mila su una popolazione vicina ai 50 milioni di abitanti. Se pensate che nella Romania dell’epoca gli ebrei erano 750 mila su 18 milioni di abitanti, capirete la differenza. In Italia non è mai esistito un problema ebraico, non ce n’erano i presupposti e seppure quello romano fosse il più antico ghetto d’Europa. Tanto più caddero del tutto inaspettate per la gran parte degli stessi fascisti (figuriamoci per quelli che erano assieme fascisti ed ebrei) le leggi razziali del novembre 1938. Da cui scaturì un antisemitismo italico cialtronesco, il cui esponente più vistoso fu il prete più tardi spretato Giovanni Preziosi (nato in provincia di Avellino nel 1881), il quale nel 1920 si era dichiarato convinto della verità di quanto raccontato nel libro Protocolli dei Savi anziani di Sion (l’inenarrabile porcata artefatta a cavallo tra Ottocento e Novecento dalla polizia zarista) e dunque dell’esistenza di un complotto ebraico mondiale. Di quel libro curò la prima edizione italiana, nel 1921, le cui vendite furono miserevoli sino al 1937. Dopo le leggi razziali del 1938 Preziosi divenne l’interlocutore privilegiato dei tedeschi. Finché, a guerra ormai conclusa, lui e sua moglie non si buttarono giù da una finestra dell’appartamento milanese in cui erano andati a vivere ai tempi di Salò.
  E pur tuttavia, altro che la noia temuta dalla senatrice Segre, non può non risultare sconvolgente quello che accade nell’Italia successiva alle leggi razziali. Tutto d’un botto per uno studente ebreo che andava a scuola e che d’ora in poi non ci poteva andare più o magari si sentiva chiedere dalla sua professoressa di andare in fondo all’aula per non contaminare gli studenti “ariani”, per un negoziante ebreo che aveva le sue vetrine su strada e che rischiava di vedersele sconquassare, per un editore ebreo che ci teneva alla sua identità (Angelo Fortunato Formiggini morto suicida il caso più clamoroso), per un funzionario di stato che dall’oggi all’indomani perdeva il suo stipendio, per una famiglia di ebrei anziani che non potevano più dar lavoro alla fidatissima governante “ariana” che da anni li accudiva, da un giorno all’altro fu l’inferno. Una famiglia ebrea che allora abitava a pochi metri dalla mia attuale casa romana, da un giorno all’altro si affacciò al balcone e vide che la famiglia attigua alla loro aveva messo in bella mostra un cartello che dava addosso agli ebrei.
  Una testimonianza drammaticissima e giorno per giorno di quei mesi e di quegli anni sta in un libro pubblicato nel 1946 che credo pochi conoscano e che ho potuto comprare fortunosamente, Caccia all’uomo. Pagine di diario 1938-1944 di Luciano Morpurgo. Nato a Spalato da antica famiglia ebraica nel 1886, uno che è stato fra i più importanti fotografi italiani tra le due guerre e di cui è immane il fondo fotografico custodito in varie istituzioni culturali italiane. Leggendario è il suo reportage fotografico del 1927 da una Palestina alla quale stava cambiando volto l’afflusso di ebrei europei che vi si rifugiavano numerosi. Nel 1938 Morpurgo aveva appena pubblicato un libro per l’infanzia, Quando ero fanciullo, che dopo le leggi razziali i librai si rifiutavano di esporre. Ancora un anno dopo, Benedetto Croce che quel libro lo aveva letto gli scrive così: “Vorrei sperare (ma sarà troppo candida speranza, data la tristitia dei tempi) che la fortuna con la quale fu meritatamente accolto, ancora in qualche modo gli continui”. Morpurgo avvia in quei giorni il suo diario le cui pagine lui cela accuratamente nel rifugiarsi da una casa all’altra, da una località all’altra e questo fino all’arrivo degli Alleati a Roma nel giugno 1944. I primi mesi dopo l’avvento delle leggi razziali Morpurgo non se ne dà pace, insiste nel partecipare a un incontro di editori malgrado gli avessero raccomandato di non farlo, li affronta uno a uno – e mi immagino i volti e gli sguardi di quegli italiani che avevano perduto ogni dignità nell’assecondare i dettati di un governo divenuto osceno – e da italiano della Dalmazia invia a Mussolini una lettera in cui gli comunica il suo stupore che quanti “sentono il doppio orgoglio d’essere italiani e d’essere ebrei” siano “differenziati” dai loro fratelli italiani nonché il suo dolore per il fatto che siano stati chiusi i Comitati di soccorso agli ebrei espulsi dalla Germania. Il Duce era il tipo che le leggeva queste lettere. E difatti a Morpurgo arrivò una risposta del segretario particolare di Mussolini in cui gli si diceva che la lettera era stata inviata per competenza al ministero dell’Interno. Non solo: i comitati per l’accoglienza ai profughi ebrei vennero riaperti.
  Morpurgo ebbe fortuna dal 1938 al 1940. Nessun tedesco gli arrivò addosso, lui sopravvisse. Per ciascun ebreo italiano la linea divisoria tra la morte e la sopravvivenza era divenuta sottilissima. Alla sera del 15 ottobre 1943 due adolescenti ebrei romani di nome Mieli rimasero a dormire dai loro cugini, i Sabatello, che abitavano a quaranta metri di distanza. Quella notte dai Sabatello padre e madre non dormirono invece cinque dei loro otto figli. Alla mattina successiva i nazi arrivarono poco dopo le cinque del mattino e presero i genitori Sabatello, i tre figli, i due cuginetti rimasti a dormire al 240 di viale Trastevere anziché tornarsene al 246 di viale Trastevere, dove i nazi quella mattina invece non andarono. Nessuno di loro sopravvisse alla retata. Il caso salvò gli altri cinque Sabatello.

Il Foglio, 31 gennaio 2023)

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Correre per ricordare?

di Pietro Di Muccio de Quattro

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A pagina 7 del Corriere della Sera di lunedì 30 gennaio 2023 sono stato attratto da una foto a colori. Ritrae “il presidente del Senato Ignazio La Russa, 75 anni, ieri alla Run for Mem”, così recita la didascalia. Il titolo precisa che “La Russa corre per la Memoria e per Israele”. E l’articoletto aggiunge: “Contro l’antisemitismo e l’antisionismo per la vita e l’esistenza d’Israele. Ignazio La Russa ha spiegato così la sua presenza ieri a Milano nella VI edizione di Run for Mem, corsa per la Memoria voluta dall’Unione delle Comunità ebraiche italiane”. Forse, senza la partecipazione del sorridente e vigoroso La Russa, l’edizione nazionale del Corriere della Sera non avrebbe riportato la notizia della corsa, che ignoravo, sebbene sia al sesto appuntamento.
  Adesso che ho conosciuto la manifestazione, nominata indulgendo all’anglicismo così di moda e già sol per questo stridente con la cosa, lo scopo, il patrocinatore (per i quali dico ciò con deferenza e sommissione), non mi sento di astenermi dal giudicarla inappropriata. Per difesa preventiva da improbabili ma possibili accuse intuibili, devo abbandonarmi ad una personale confidenza, a riguardo.
  Ero ragazzo nel Dopoguerra. Nel mio paesello la Chiesa era quasi tutto. Io vi ero stato educato. Le feste patronali, le cerimonie nuziali, le comunioni, i funerali, le prediche dei Passionisti in preparazione della Pasqua, il precetto pasquale, le messe cantate con l’incenso sparso dai turiboli oscillanti. Ancora lo fiuto chiudendo gli occhi sessant’anni dopo.
  Vi risuonava dagli altari, agli ebrei, l’accusa del Deicidio. Nel silenzio della mia piccola coscienza appena dilavata dalla confessione, la terribile accusa rimbombava. L’assurdità di uomini che uccidevano un Dio! Adolescente, nondimeno già ragionavo filosoficamente. Se gli ebrei avevano ucciso un ebreo, non avevano forse fatto la volontà di Dio? Se nessuno ne avesse messo a morte il Figlio, il Cristianesimo sarebbe svanito. Sicché gli ebrei mi parevano all’epoca i benefattori della Chiesa che Paolo aveva costruito sul Risorto. Ne trassi, per paradosso, la più fervida simpatia per gli ebrei. Dopo la Shoah, l’affezione dell’adolescenza per gli ebrei divenne pure solidarietà politica per lo Stato di Israele, che considero anche il risarcimento per il Male tuttavia non risarcibile.
  Dunque, posso confessarlo tranquillo. Run for Mem non è di mio gusto. Per il Ricordo, bisogna attivare la memoria, non le gambe.

(l'Opinione, 31 gennaio 2023)

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Perché l’ondata terrorista in Israele si è aggravata

di Ugo Volli

• Gli attentati e le reazioni
  E’ stato il più grave attentato da parecchio tempo: sabato sera a Neve Yaakov, un sobborgo di Gerusalemme, un terrorista palestinese ha ucciso sette persone all’ingresso della sinagoga dove andavano a pregare; poche ore dopo alla “città di Davide”, sempre a Gerusalemme, un altro terrorista, di appena 13 anni, ha ferito gravemente un padre e un figlio ebrei. Successivamente vi sono stati altri attentati per fortuna sventati in tutto il territorio di Israele, dal Golan a Gerico, dal Monte Hebron al Kfar Tapuah vicino ad Ariel. Dagli stati occidentali e in particolare dall’Italia, ma anche da paesi arabi come gli Emirati, la Giordania, perfino l’Arabia sono arrivate numerose dichiarazioni di solidarietà a Israele; al contrario tutte le fazioni palestiniste hanno manifestato gioia e esultanza per gli omicidi: un sentimento, va detto, che è stato vistosamente condiviso, con danze e canti, fuochi d’artificio, offerte pubbliche di dolci ai passanti, sfilate in cui si ostentavano le armi in tutti i centri dove la popolazione araba è numerosa, perfino in alcuni sobborghi di Gerusalemme. E' un atteggiamento che conferma l’impossibilità di un progetto di pace con questi leader (e forse anche con questo pubblico, profondamente imbevuto di odio). Bisogna notare inoltre che ha fatto scandalo la presenza di bandiere palestinesi alle manifestazioni dell’opposizione di sinistra contro il governo israeliano, sabato sera a Tel Aviv e a Haifa. Uno dei problemi di Israele è che in certi ambienti l’odio contro Netanyahu sembra più importante della condanna del terrorismo.

• Perché le stragi
  L’orrore e la deplorazione per la strage sono ovvie e istintive; ma c’è bisogno anche di capirne le cause e analizzarne le dinamiche. La prima cosa da notare è che questi attentati rispondono a una pura logica terrorista, non strategica. Non sono stati colpiti obiettivi economici o militari e neppure simbolici. Gli assassinati non erano combattenti né politici. I terroristi hanno sparato a gente qualunque, che non conoscevano, di cui ignoravano i ruoli, solo perché ebrei: una logica analoga alle stragi naziste. Non possono certo sperare in questo modo di indebolire la forza di Israele, e neppure di terrorizzare la sua popolazione che resiste alle carneficine arabe da ben prima della fondazione dello stato ebraico. In altri termini, non vi è un progetto razionale che finalizzi questi orribili attentati (e la anche morte assai probabile di chi li compie) al progetto strategico dei palestinisti, cioè la distruzione dello Stato di Israele e l’instaurazione al suo posto di un regime islamista o nazionalista. Essi sono in primo luogo espressione di un odio antisemita violentissimo che si vede anche nella gioia selvaggia dei sostenitori del terrorismo. Ma vi è certamente di più, vi sono progetti politici e personali più limitati ma altrettanto velenosi.

• L’interesse personale
  Una prima ragione è biecamente personale. L’autorità palestinese spende più di mezzo miliardo di euro l’anno, circa il 15 % del suo bilancio, per pagare stipendi ai terroristi condannati e alle famiglie dei defunti. Un condannato per omicidio prende almeno 3000 euro al mese di stipendio o lo lascia in eredità alla famiglia se cade durante il suo crimine. Da quelle parti sono somme rilevanti, che fanno del terrorismo la carriera meglio pagata dello “stato di Palestina”. Inoltre il nome dei terroristi viene celebrato e ogni problema economico o giudiziario perdonato. E’ una forte e abbietta motivazione per l’assassinio di innocenti - e una altrettanto grave responsabilità dell’Autorità Palestinese.

• La concorrenza fra i gruppi
  Una seconda ragione è la competizione per la successione a Mohamed Abbas. Il “presidente” palestinese (eletto diciotto anni fa per un mandato di quattro anni, mai più confermato o esposto alle elezioni) ha 87 anni, cattiva salute e pochissima popolarità. Non ha eredi designati: la sua uscita dal gioco politico è questione di anni, forse di mesi. Alla sua morte o rinuncia il sistema dell’Autorità Palestinese rischia di esplodere. Il terrorismo, con la popolarità che ne consegue, sarà fra le ragioni determinanti della selezione del successore: non nel senso che gli assassini attuali abbiano la possibilità di una carriera politica, anche perché di solito muoiono negli attentati, ma chi li manda o gestisce la fazione che li manda sì. Dato che la comunità internazionale non sanziona seriamente le organizzazioni palestiniste per il terrorismo, ma guarda di fatto con indulgenza ai loro crimini e appena può li aiuta a violare la legge israeliana, la competizione fra le fazioni si gioca sull’estremismo verbale, e sulla capacità pratica di uccidere gli ebrei.

• Gli accordi di Abramo
  Una ragione più generale è questa. Negli ultimi anni la situazione medio-orientale si è evoluta verso la marginalizzazione della questione palestinese. Il problema è oggi per tutti gli stati della regione l’imperialismo iraniano e la passività degli Usa nei suoi confronti, che fa di Israele il solo ostacolo all’egemonia degli ayatollah. L’Autorità Palestinese e Hamas fanno il possibile per riportare il calendario al momento in cui erano loro al centro della politica della regione. E il terrorismo è la via più semplice per ottenerlo.

• Il nuovo governo
  Vi è infine, soprattutto da parte della stampa americana ed europea, la tendenza a mettere in relazione questi attentati con la svolta politica israeliana, che ha portato a un governo che si propone di gestire in maniera più dura i rapporti con l’Autorità Palestinese. I fatti dimostrano che il nesso non esiste. La crescita dell’ondata terrorista è iniziata la primavera scorsa. Si sono create nel territorio amministrato dall’Autorità Palestinese e con la sua complicità delle sacche urbane (per esempio Jenin e Nablus) dove comandano i terroristi, che spesso sono anche agenti di polizia dell’Autorità. Le forze di sicurezza israeliane sono costrette a frequenti e difficili incursioni per contrastare il radicamento terrorista e catturare i ricercati più pericolosi, affrontando una resistenza armata e organizzata, Così è stato mercoledì scorso, quando c’è stata una vera e propria battaglia a Jenin, in cui hanno perso la vita una decina di terroristi. Dunque l’azione del governo attuale non c’entra. E’ possibile però che la maggiore decisione nella lotta al terrorismo, le sanzioni più dure nei confronti di complici e familiari degli attentatori (che spesso si identificano), il maggior sostegno delle forze dell’ordine alle comunità sotto attacco, che sono state annunciate da Netanyahu dopo gli attentati, possano contribuire a smorzare l’offensiva terrorista. Ma non si può essere sicuri che ciò accada e potrebbe essere necessario un’operazione massiccia nelle basi terroriste, come avvenne vent’anni fa.

(Shalom, 30 gennaio 2023)

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La guerra è dannosa, facciamo come Israele

La guerra fa male sia all’Ucraina sia a noi. Se anche dovesse vincere, Kiev uscirà dal conflitto del tutto devastata. Quanto all'Italia, rinunciare alle materie prime russe è folle. Invece di vagheggiare improbabili golpe a Mosca, dovremmo badare ai nostri interessi, come fa Israele. E promuovere il negoziato.

di Silvana De Mari

In parole povere: la guerra migliore è quella che non hai fatto. Non esiste uomo folle al punto da preferire la guerra alla pace; in pace i figli seppelliscono i padri, in guerra sono invece i padri a seppellire i figli, scrive Erodoto in tempi in cui i morti si limitavano ai campi di battaglia. Adesso grazie ai bombardamenti l'obbligo di dipartita si è esteso anche ai civili, le città sono ridotte in rovine, come i ponti e le ferrovie. La guerra quindi nessuno la vuole mai. Tutti sono costretti alla guerra per la colpa di qualcun altro. Il lupo che vuol mangiarsi l'agnello trova sempre una solida scusa per spiegare che non è colpa sua. Persino il Vaticano invaso dallo Stato italiano e il Belgio periodicamente invaso dai tedeschi sono stati accusati di essere responsabili della guerra.
  Il popolo non vuole la guerra, mai, ma la guerra è imposta dalle élite per motivi economici e di potere mentre si racconta che è fatta per una qualche forma di irrinunciabile etica, qualcosa che sul momento pare indispensabile e giusto e che dieci anni dopo si dimostra per quel che era: puro distillato di spazzatura. Questo vale per la prima guerra mondiale, per la guerra del Vietnam, per l'Iraq (esattamente perché abbiamo bombardato Bagdad?), per la Serbia (esattamente perché abbiamo bombardato Belgrado?), per la Libia (esattamente perché abbiamo destabilizzato Tripoli?). Anche Attila doveva essere assolutamente certo che la ragione fosse dalla parte sua e che malvagi fossero gli altri, quelli che fuggirono da Aquileia per portare i figli e i polli in salvo fondando Venezia.
  A questo si aggiunge un altro spigoloso particolare. Non è detto che l'alternativa a una ossuta pace sia una paffuta vittoria. Potrebbe anche essere una dannata sconfitta. Quando l'impero austroungarico dichiarò guerra alla Serbia, cominciando la prima guerra mondiale, era assolutamente certo che avrebbe vinto la guerra. Quando lo zar Nicola dichiarò guerra all'impero austroungarico per proteggere la Serbia era assolutamente certo che avrebbe vinto la guerra. Quando Guglielmo dichiarò guerra alla Russia per proteggere l'impero austroungarico era assolutamente certo che avrebbe vinto la guerra. Alla fine queste tre nazioni sono state travolte, i loro regnanti hanno fatto una fine disastrosa, ammazzati con la famiglia sterminata o in esilio, dopo aver inviato milioni di uomini a morire. Riassunto: nessuno vuole fare la guerra, ma le guerre scoppiano perché qualcuno le vuole. In tutte le guerre i belligeranti affermano la assoluta malvagità del nemico. Tutti sono convinti di vincere. Esistono alcune guerre giuste, quelle puramente difensive, e alcuni nemici francamente atroci, ma in linea di massima possiamo affermare che molte guerre scoppiano per motivi che sul momento sembrano irrinunciabili, per l'azione coordinata dai media, e che dieci anni dopo risultano atrocemente ridicoli. E quindi evidente che esistono poteri sovranazionali e transnazionali che vogliono le guerre.

• COMPROMESSO POSSIBILE
  E ora arriviamo al punto: la folle e criminale guerra in Ucraina. Sorvoliamo sul trattato di Minsk, sul massacro di Odessa, su un'armata ufficialmente nazista che massacra le popolazioni russofone del Donbass, regione che è sempre stata russa e che è russa. Sorvoliamo sui missili che il brillante e democratico governo di Kiev, dopo aver sciolto i partiti dissidenti, e trattato i dissidenti con notevole antipatia, ha tirato per anni sul Donbass. Sorvoliamo sul fatto che ci sono molte persone che ritengono che le ragioni della Russia siano più giuste di quelle dell'Ucraina e continuiamo a ignorare le loro voci. Limitiamoci ad analizzare la magra pace cui stiamo rinunciando per una pingue vittoria che sarà invece una tragica sconfitta. L'accusa alla Russia di voler invadere l'Europa o anche solo l'Ucraina è poco credibile. Se fosse vera, la strategia militare sarebbe stata diversa: bombardamento a tappeto della capitale e delle città più importanti e immediata distruzione di ponti e vie di comunicazione, come e stato fatto per l'Iraq dagli statunitensi. La magra pace non voleva dire vedere l'Ucraina invasa. La magra pace voleva dire che l'Ucraina rinunciasse alle regioni del Donbass ol-
  tre che alla Crimea in maniera definitiva. È una proposta su cui ci si sarebbe potuti accordare.
  La grassa vittoria, sempre che arrivi, presuppone la distruzione dell'Ucraina, il massacro economico dell'Europa e in particolare dell'Italia, a favore degli Stati Uniti. Le piazze di Mosca e San Pietroburgo sono in questo momento magnifiche di alberi e luci di Natale, l'Ucraina è distrutta, buia e gelida e ad ogni giorno è più distrutta, buia e gelida. Nell'inverosimile ipotesi che l'Ucraina vinca la guerra, sarà una nazione distrutta e soprattutto tragicamente indebitata.

• PRESTITI E REGALI
  Sia gli Usa che la Germania invieranno i loro carri armati, rispettivamente Abrams e Leopard, più moderni e aggressivi di quelli che finora i russi hanno mostrato. Sia gli Abrams che i Leopard devono essere green e devono sparare proiettili che esplodono senza produzione di C02, visto che né Greta né altri terroristi climatici hanno detto qualcosa.
  C'è una fondamentale differenza tra i due tipi di invii: quelli americani sono un prestito che dovrà essere saldato, quelli tedeschi sono un dono. La legge degli affitti e prestiti, in inglese Lend Lease Act fu la misura legislativa che permise agli Stati Uniti di fornire a Regno Unito, Unione Sovietica, Francia, Cina e altri alleati grandi quantità di materiali bellici esigendo il pagamento solo dopo la seconda guerra mondiale. Questo permise di aggirare le leggi di neutralità. Alla fine della guerra Regno Unito e Unione Sovietica, che erano state aiutate in maniera imponente, hanno dovuto restituire fino all'ultimo centesimo. Questa è la causa della povertà in cui i loro popoli hanno dovuto vivere per molti anni dopo la guerra. Il Lend Lease Act è stato riattivato durante l'amministrazione Biden nell'aprile del 2022 per fornire materiale bellico. L'Ucraina massacrata dalla guerra, dovrà rimborsare fino all'ultimo centesimo ogni singolo proiettile e ogni singolo bullone di carro armato riducendo il suo popolo alla fame.
  Da un punto di vista di sopravvivenza quotidiana sarebbe meglio essere invasi dalla Russia. Avremmo di nuovo carri armati tedeschi contro carri armati russi. L'ultima volta non è finita bene.
  Sia la nostra Ursula che l'americano Joe sono assolutamente certi della vittoria. Le uniche certezze sono in realtà morti, distruzione, miseria ed escalation. La miseria sta aumentando in maniera esponenziale nel terzo mondo, insieme con i danni alla nutrizione. La miseria aumenta in Europa. Indipendentemente da chi ha ragione e chi ha torto, non abbiamo mai firmato un modulo di adozione per il mondo o per l'Ucraina, l'Italia deve badare ai suoi interessi. L'Italia non ha materie prime. Rompere le relazioni con la Russia sarà una catastrofe. Della parola Nato la A sta per alleanza. Si tratta della A di alleanza non della S di servo o della Z di zerbino. Israele è fortemente impegnato nell'atlantismo ma si guarda bene dallo schierarsi con l'Ucraina perché sarebbe contro i suoi interessi economici. Lo stesso discorso vale per Ungheria e Bulgaria. Questo è il momento che il governo italiano rivendichi il suo potere di alleato: un alleato deve anche avere la forza di sconsigliare una scelta sbagliata. Questo è il momento che l'Italia riconquisti il suo ruolo di mediatore di pace.
  Un'ultima osservazione. Veramente Ursula e Joe pensano di poter prendere Mosca? E evidente che per vittoria intendevano un'altra cosa: un colpo di Stato con una primavera colorata che mettesse al posto di Putin un qualche giovincello serenamente malleabile. Il colpo non è riuscito. La Russia è sempre più forte e sta scalzando il dollaro. Quelli che si sono riuniti a Davos sono morti viventi. Quelli forti sono quelli che hanno le materie prime e loro si riuniscono a San Pietroburgo. L'alternativa a una scheletrica pace è una devastante grassa sconfitta. Per il bene dell'Ucraina e dell'Italia smettiamo di mandare anche un solo bullone e anche un solo euro e combattiamo per la pace.

(La Verità, 30 gennaio 2023)
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Ugo Mattei: Gli Usa temono l'amicizia tra Germania e Russia


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Le speciali operazioni di Israele

di Gustavo Ottolenghi

Una delle imprese più interessanti compiute dal “ MOSSAD” (Istituto per l’intelligence e i Servizi speciali) di Israele fu quella effettuata in più riprese tra il 1984 e il 1991 per portare a salvamento in Israele gli “ebrei neri” dell’Etiopia che erano confinati nei campi profughi del Sudan.

• Uno scambio tra uomini e bombe
  L’impresa si svolse attraverso cinque operazioni successive che permisero la liberazione di oltre 20.000 di questi ebrei, noti come “ Falasha”, “ 0lim” o “ Beta Israel”, Casa di Israele. Per comprenderne la motivazione, occorre ricordare il contesto storico nel quale esse ebbero a verificarsi. In Etiopia, dal 1930 era al potere l’ Imperatore Hailé Selassié, che venne deposto nel 1974 a seguito di una rivolta popolare. Questa era stata sostenuta da militari dell’esercito ma soprattutto da componenti del “Derg” (“Consiglio”) di ispirazione marxista-leninista. Nel 1977 ne divenne Presidente il capo del Derg, Mariam Menghistu, che instaurò nel Paese un violento regime dittatoriale (“Terrore rosso”) caratterizzato da una feroce repressione dei suoi oppositori, ebrei compresi. Il Governo di Israele in quella circostanza riuscì a ottenere da Menghistu, nel 1981, clemenza per il suo popolo e il permesso del suo trasferimento nel Sudan in compenso di una fornitura di armi che servivano all’Etiopia impegnata al momento in una guerra contro la Somalia per il possesso della regione dell’ Ogaden.

• Il trasferimento dei Fratelli
  All’epoca vivevano in Etiopia circa 25.000 “falashà”, 5.000 dei quali passarono in Sudan e vennero confinati in campi profughi di Gerdaef e di Cassala nel sud del Paese. E’ da questi campi che, nel 1982, ebbe inizio la prima operazione per il trasferimento di quei “falasha” in Israele che ebbe nome in codice “ BROTHERS” (fratelli). In precedenza e in previsione della necessità di dover provvedere al trasferimento di quegli ebrei in Israele, nel 1980 il “Mossad” aveva affittato nel villaggio di Arous nel sud del Sudan un vecchio albergo dismesso, affacciato sul Mar Rosso e l’aveva trasformato in un Hotel di lusso chiamandolo “ Red Sea Diving Hotel” per ospiti danarosi.

• Veloci, efficienti e silenziosi
  Di giorno nell’hotel si svolgevano attività ludico sportive per i clienti e, di notte, vi giungevano, in camion coperti, i “falashà” provenienti dai campi profughi. Di qui essi erano portati a un punto di imbarco sulla costa, con la motivazione di esercitazioni di clienti alla pesca notturna. Imbarcati su gommoni della Flottiglia di incursori della Marina militare israeliana “Shayetet 13” giunti in loco nascostamente,i “falashà” erano portati all’aeroporto di Port Sudan  da dove partivano per Israele con aerei C 130 della Compagnia aerea israeliana EL AL che vi facevano scalo regolare. Complessivamente l’0perazione “Brothers” riuscì a portare in patria 2.100 “falashà” con 11 voli.

• In collaborazione con gli USA
  La seconda operazione di evacuazione di “ Beta Israel” etiopici dal Sudan verso Israele (nome in codice “MOSES” (“Mitza Moshe”) si svolse tra il novembre 1984 e il gennaio 1985. In quegli anni una tremenda carestia aveva colpito l’Etiopia, così che 9.000 “falashà” locali cercarono riparo nel vicino Sudan che li accolse confinandoli in campi profughi. Gli stati arabi chiesero subito al Governo sudanese di respingere i “Beta Israel” dal suo territorio. Per questo motivo il “Mossad”, prese contatto con l’Ambasciata U.S.A. a Khartoum (capitale del Sudan) e con una Compagnia aerea belga (T.E.A. Trans European Airways) che aveva voli diretti settimanali Bruxelles/ Khartoum. Questi voli erano stati istituiti nel 1980 per consentire agli arabi dell’Europa di raggiungere facilmente la Mecca per i loro pellegrinaggi. Furono 8.000 i “falashà” che lasciarono i campi profughi col tacito permesso del Governo sudanese e, giunti nella capitale, vennero nottetempo imbarcati a scaglioni su un aereo Boeing 737 della T .E.A. che, in 4 settimane, con 30 voli successivi, li portò in Israele con scalo intermedio a Bruxelles.

• Hercules in the night
  La terza operazione evacuativa (nome convenzionale “JOSHUA” Giosuè o “SHEBA” Saba) venne condotta a termine dagli israeliani in una sola notte, il 22 agosto 1985. Entro le ore 22 sei aerei da trasporto Hercules 190 della I.A.F. (Israeli Air Force) atterrarono in stretta successione all’aeroporto sudanese Al Qadarif ove erano stati fatti segretamente confluire nei giorni precedenti i 1.000 “falashà” etiopici che non era stato possibile far partire con l’operazione “MOSES”. Tutti i sei aerei decollarono rapidamente uno dopo l’altro entro le ore 06 del giorno successivo e giunsero tutti all’aeroporto israeliano di Ovda, 60 km a nord di Eilat entro le ore 15.00.

• Una sorpresa per tutti
  Restavano in Etiopia ancora 14.500 “olim” ed essi vennero prelevati nel 1991 con una quarta operazione nominata convenzionalmente “SOLOMON” (Salomone). Questa ebbe luogo in considerazione della situazione politica che era venuta a determinarsi all’epoca in Etiopia. Nel mese di maggio di quell’anno, il Presidente Mobutu era stato esautorato da una rivolta sostenuta da ribelli eritrei che avevano preso il potere nello Stato. Nel timore che gli eritrei si rifacessero contro i “falashà” ancora presenti in Etiopia, per l’aiuto che il Governo israeliano aveva fornito a Mobutu nel 1981, il Mossad si attivò per evacuarli. Nella sera del 24 maggio 24 aerei C 130 della I.A.F. e 10 aerei cargo della EL AL, atterrarono uno dopo l’altro all’aeroporto di Bole ad Addis Abeba (capitale dell’Etiopia) sorprendendo le Autorità etiopiche che non intervennero. Nel giro di 36 ore questi aerei imbarcarono tutti i “falashà” che, nei giorni precedenti, erano stati fatti confluire discretamente nelle vicinanze dell’aeroporto, e li portarono a quello Sde Dov di Tel Aviv entro le ore 15 del giorno successivo. Fu una operazione eccezionale. In un certo momento della notte fra il 24 e il 25 maggio si trovarono in volo contemporaneamente 28 aerei che si incrociarono in rotte di andata e ritorno da e per i due aeroporti. Durante questi voli , a bordo di due aerei si verificarono anche due parti.

• Nulla è lasciato al caso
  Nel mese di dicembre 2020 una nuova Operazione (denominata “TZUR ISRAEL”, ”La roccia di Israele) completò le precedenti portando in Israele dall’Etiopia i famigliari dei “falashà” che già vi erano giunti. Questa operazione venne supportata ufficialmente dal Governo israeliano tramite la Ministra dell’immigrazione e dell’integrazione Pnina Tanara-Shata e l’Agenzia ebraica (Direttore Doron Almoy) previ accordi non ufficiali con il Governo di Addis Abeba. Il 10 dicembre 2020 un aereo Boeing 727 della Compagnia aerea Ethiopian Airlines partì dall’aeroporto etiopico di Gondar ove si erano radunati 2.000 “falashà olim” e ne portò 220 a quello di Sde Dov di Tel Aviv. Da quel giorno il Boeing compì altri nove voli Gondar/Tel Aviv e ritorno portando tutti i restanti “olim” in Israele entro il 6 marzo dell’anno successivo. L’Operazione “TZUR” si concluse il 13 marzo 2921 allorché, con un unico volo Gondar/Tel Aviv di un Boeing 727 della Ethiopian Aerlines vennero portati dalla Etiopia in Israele gli ultimi 300“falashà olim” etiopici.

(L'Incontro, 30 gennaio 2023)

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Marocco: Mohammed VI e il patrimonio ebraico

In un convegno a Casablanca si è discusso del ruolo del Re e leader religioso del Marocco nella conservazione e promozione del patrimonio culturale e religioso giudeo-marocchino.

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Si è svolta il 29 gennaio a Casablanca una conferenza per discutere del ruolo del re Mohammed VI del Marocco nella conservazione e promozione del patrimonio culturale e religioso giudeo-marocchino.
  L’evento rientra nell’ambito delle attività promosse in occasione della Giornata internazionale per la memoria delle vittime dell’Olocausto.
  I partecipanti hanno salutato il ruolo principale del re, in qualità di Amir Al Mouminine, nella diffusione dei valori della pace, della tolleranza e del dialogo interreligioso.
  Si è parlato anche degli sforzi del Sovrano per preservare il patrimonio culturale e religioso della comunità ebraica marocchina e per rafforzarne l’influenza.
  I partecipanti hanno elogiato la visione reale e gli sforzi compiuti per l’ammodernamento istituzionale delle strutture per la gestione degli affari quotidiani dei membri della comunità ebraica, sottolineando che la visione illuminata del sovrano ha permesso di rafforzare i legami dei marocchini di fede ebraica stabilitisi all’estero con la madrepatria.
  Durante l’evento, organizzato all’interno della Sinagoga Beth El, i partecipanti hanno ricordato le azioni dei defunti Sovrani marocchini, in particolare di Mohammed V e Hassan II, per la difesa e la protezione degli ebrei marocchini contro la barbarie dei nazisti durante la colonizzazione francese.
  La commemorazione è stata organizzata dall’Associazione Mimouna, dal Consiglio delle comunità ebraiche del Marocco, CCIM, e dal Centro informazioni delle Nazioni Unite a Rabat.
  Il Presidente dell’associazione, El Mehdi Boudra, ha sottolineato gli sforzi del compianto Sua Maestà Mohammed V per la protezione degli ebrei marocchini contro l’oppressione sotto il regime di Vichy.
  Mohammed VI perpetua la fiaccola di Suo nonno, Mohammed V e di Suo padre, Hassan II, assicurando la salvaguardia del patrimonio giudaico-marocchino, attraverso molteplici azioni di riabilitazione e riqualificazione luoghi di culto, santuari, quartieri e cimiteri.
  Queste iniziative reali suscitano l’ammirazione della comunità internazionale, mirano a promuovere la componente ebraica dell’identità nazionale, fanno del Marocco una terra di convivenza religiosa e di convivenza in armonia e pace.
  In un momento in cui il mondo è oggi in preda alle convulsioni, al comunitarismo e al ritiro identitario, il Regno, si sforza di abbracciare l’universalismo, sostenendo l’interreligione, nonché i valori della convivenza e dell’alterità.
  Per questo il re ha istituito tre istituzioni volte a consacrare la parte ebraica come componente della ricca cultura marocchina dei suoi molteplici affluenti.
  Il Consiglio Nazionale della Comunità Ebraica Marocchina, gestione degli affari per salvaguardare il patrimonio e l’influenza culturale e religiosa dell’ebraismo e dei suoi autentici valori marocchini con i comitati regionali; la Commissione degli ebrei marocchini all’estero, che consolida i legami degli ebrei marocchini stabiliti all’estero con il loro Paese di origine; e The Moroccan Judaism Foundation, promuovere e custodire il patrimonio immateriale giudeo-marocchino.
  L’approccio di Mohammed VI contraddistingue il Marocco. In questi tempi di dubbio e ritiro, offre un po’ più di discernimento quando sale il clamore dell’esclusione e gli amalgami più caricaturali che si moltiplicano alimentando una cultura del rifiuto e della negazione del sapere vivere insieme.
  Da parte sua, il Segretario Generale della CCIM, Serge Berdugo ha ricordato gli sforzi colossali del defunto Sovrano Mohammed V e che si oppose alle mire del regime di Vichy quando il Regno era sotto l’occupazione francese e spagnola.
  Berdugo ha richiamato alla memoria le sofferenze subite da marocchini, musulmani ed ebrei, durante il periodo della colonizzazione e ha aggiunto che il Palazzo Reale, nonostante tutte le pressioni cui era sottoposto, assicurava la difesa dei diritti dei marocchini, di tutte le fedi insieme e per la tutela della loro proprietà.
  Questa conferenza è stata contrassegnata dalla presenza del Ministro dell’Istruzione nazionale, della scuola materna e dello sport, Chakib Benmoussa, del Presidente della Fondazione dei musei nazionali (FNM), Mehdi Qotbi.

(expartibus, 30 gennaio 2023)

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Reazioni avverse alle vaccinazioni. "Questi sono gli invisibili del Covid"

La Spezia - Piena la sala del cinema Palmaria al Canaletto per la proiezione del documentario di Paolo Cassina. Chiamati a partecipare tutti i sindaci, i vertici dell’Asl e degli Ordini medici. Ma nessuno ha risposto all’invito.

di Marco Magi

L’emergenza sanitaria preoccupa ancora molto un gruppo di cittadini, che si è fatto promotore di un evento, andato in scena sabato al cinema Palmaria. È stato soprattutto un incontro a tema sulle vaccinazione anticovid, che ha radunato nella sala del Canaletto quasi 500 persone.
  È stato proiettato il documentario ‘Invisibili’ di Paolo Cassina, nato dalla collaborazione fra la casa di produzione Playmastermovie e il Comitato Ascoltami, che riunisce persone colpite da reazione avversa grave a vaccinazione anticovid. "E che chiedono ascolto dalla società e dalle istituzioni, oltre a cure adeguate da parte del Sistema sanitario nazionale", affermano gli organizzatori dell’appuntamento. A seguire dibattito con interventi di specialisti del settore medico e legale per proporre riscontri ai quesiti della cittadinanza, che si interroga sulla sicurezza di questa vaccinazione.
  "L’invito ad intervenire all’incontro è stato rivolto a tutti i sindaci della nostra provincia della Spezia – proseguono i promotori –, all’Asl 5, con una comunicazione inviata al direttore generale, al responsabile del Dipartimento di prevenzione - struttura complessa igiene e sanità pubblica, ed al responsabile della Farmacovigilanza dell’Asl 5. Inoltre a tutti i presidenti degli Ordini medici. L’unico a partecipare è stato quello dei chimici".
  È stato poi dato spazio alle esperienze dirette di persone presenti in sala. "Hanno raccontato la propria dolorosa testimonianza di reazione avversa, con i conseguenti pesanti danni sulla propria salute. E sono stati momenti di grande commozione". Infine le relazioni dei medici chirurghi Barbara Balanzoni, Franco Giovannini e Gianpaolo Pisano, oltre al magistrato Alessandra Chiavegatti e a Massimiliano Marchi di Lucca Consapevole.
   "La sala ha 400 posti a sedere e molti sono rimasti in piedi – spiegano i promotori – Tanti, però, hanno potuto assistere all’incontro tramite la diretta YouTube, tutt’ora disponibile online. I relatori hanno richiamato l’importanza di una ritrovata collaborazione tra cittadini, istituzioni locali e sanitarie, gruppi di ricerca indipendenti per avviare un percorso mirato al miglioramento delle attuali prassi. Lo spirito è quello del progredire delle conoscenze, su una pratica che è nuova e dunque richiede le dovute verifiche, con l’assunzione delle responsabilità da parte delle istituzioni nei confronti delle persone che incorrono in danni alla salute".

(La Nazione, 30 gennaio 2023)

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Il pugno duro di Netanyahu dopo gli attentati a Gerusalemme

Giro di vite del premier in risposta ai recenti attacchi: nuove misure per cancellare welfare e benefici sanitari per le famiglie dei terroristi. Domani arriva Blinken.

di Gaia Vendettuoli

AGI - Israele annuncia misure per revocare alcuni diritti delle "famiglie dei terroristi" palestinesi in risposta degli attacchi a Gerusalemme che nelle ultime 24 ore hanno fatto sette morti e cinque feriti, di cui due gravi.    
  Il gabinetto di sicurezza convocato d'urgenza dal primo ministro, Benjamin Netanyahu (che poche ore prima aveva annunciato una risposta "forte, rapida e precisa") ha anche deciso di porre i sigilli alle case dei due autori dell'attentato a Gerusalemme est prima che siano rase al suolo. 
  E sarà cancellato ogni tipo di welfare e beneficio sanitario alle famiglie di tutti coloro che sono coinvolti negli assalti. Inoltre il Consiglio dei ministri esaminerà un disegno di legge volto a revocare "le carte d'identità israeliane" sempre dei familiari dei terroristi.
  Le misure annunciate sono in linea con le proposte dei partner politici di estrema destra di Netanyahu, che gli hanno permesso di tornare al potere alla fine di dicembre. È probabile che si applichino ai palestinesi con nazionalità israeliana (arabi israeliani) e a quelli con status di residenti nell'annessa Gerusalemme est.     
  Sarà poi accelerato e semplificato per i cittadini israeliani il processo per ottenere i permessi di porto d'armi. "Quando i civili hanno armi, possono difendersi", ha detto ai giornalisti il ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, fuori da un ospedale di Gerusalemme. Le forze israeliane sono state poste in massima allerta e l'esercito ha annunciato che rafforzerà il numero delle truppe in Cisgiordania, mentre dall'estero si sono moltiplicate le richieste di distensione.
  Il gabinetto di sicurezza ha anche concordato "passi per rafforzare gli insediamenti che saranno presentati questa settimana", senza fornire ulteriori dettagli. Gli insediamenti israeliani nei territori palestinesi occupati sono considerati illegali dalle Nazioni Unite, che continuano a chiederne la fine.
  L'attacco alla sinagoga di venerdì, uno dei più letali a Gerusalemme da anni, è stato compiuto da un palestinese di 21 anni residente a Gerusalemme est. Qualche ora dopo, un ragazzo palestinese di 13 anni ha sparato e ferito un padre e un figlio a Gerusalemme est. Gli assalti sono avvenuti dopo che nove palestinesi sono stati uccisi giovedì in quella che Israele ha descritto come un'operazione di "antiterrorismo" nel campo profughi di Jenin. È stato uno dei più letali raid dell'esercito israeliano in Cisgiordania dalla seconda intifada del 2000-2005.    
  Il Segretario di Stato americano, Antony Blinken, è atteso a Gerusalemme e a Ramallah lunedì e martedì per discutere le misure per cercare di riportare la situazione alla normalità.
  L'attacco di venerdì vicino a una sinagoga, che ha coinciso con la Giornata internazionale della memoria dell'Olocausto, ha suscitato indignazione in Europa e negli Stati Uniti e la condanna di diversi governi arabi che hanno legami con Israele, tra cui Giordania, Egitto ed Emirati Arabi Uniti. 
  Dopo aver definito l'attacco "particolarmente aberrante", il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, si è detto "profondamente preoccupato per l'attuale escalation di violenza". Ma l'Autorità palestinese guidata dal presidente Mahmud Abbas si è astenuta dal condannare gli attacchi, insistendo nel dire che Israele è "pienamente responsabile della pericolosa escalation" in corso. 
   Israele ha detto che l'obiettivo erano gli agenti della Jihad islamica. Che ha reagito insieme ad Hamas con il successivo lancio di diversi razzi contro il territorio israeliano. La maggior parte dei razzi è stata intercettata dalle difese aeree israeliane. I militari hanno risposto con attacchi contro obiettivi di Hamas a Gaza. Non sono state segnalate vittime da entrambe le parti, ma i gruppi armati di Gaza hanno promesso ulteriori azioni.

(AGI, 29 gennaio 2023)

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Droni colpiscono il cuore dell’Iran. Dettagli e aggiornamenti

Almeno una struttura militare iraniana è stata colpita da un attacco con piccoli droni armati. Si parla anche di altri raid in diverse zone della Repubblica islamica. La provincia di Isfahan, oltre al deposito di munizioni, ospita interessanti strutture legate al programma nucleare, dunque sembrano chiare le motivazioni. Con una complessità: l'Azerbaigian.

di Emanuele Rossi 

Una forte esplosione in un impianto militare a Isfahan, nel centro dell’Iran, è stata causata da un attacco di droni, secondo le informazioni fornite dalla base stessa — che si trova lungo la Imam Khomeini Expressway, una delle autostrade centrali del Paese. L’attacco “non riuscito”, riferiscono i media statali iraniani, citando il ministero della Difesa.
  “Uno [dei droni] è stato colpito dalla […] difesa aerea e gli altri due sono stati catturati dai sistemi di dissuasione e sono esplosi. Fortunatamente, questo attacco non ha causato alcuna perdita di vite umane e ha provocato danni minori al tetto di un edificio”, ha dichiarato il reparto logistico del ministero in una nota diffusa per primo tramite l’agenzia di stampa statale IRNA. Teheran ha successivamente definito le armi usate Micro Aerial Vehicles.
  A giudicare dai tanti video circolati sui social network durante la notte, le informazioni diffuse da Teheran tendono a minimizzare. D’altronde la propaganda della Repubblica islamica oscilla a piacimento tra il vittimismo (per avere l’alibi e replicare a presunte azioni da parte dei propri nemici) e il ridimensionamento (per non sembrare vulnerabile).
  Secondo le informazioni raccolte da Formiche.net, quello a Isfahan non è stato l’unico impianto militare colpito. Ci sono stati un’altra dozzina di attacchi simili in varie parti del Paese, che avrebbero colpito basi delle forze armate e del Corpo dei Guardiani della Rivoluzione (la divisione militare teocratica nota come Pasdaran). Tabriz nel nord, Azar Sahr, nell’Azerbaigian orientale, Dezful nel Kuzhestan, la base Nozeh di Hamadan nel centro, a sud di Teheran.
  Si tratta di informazioni raccolte tra l’opposizione, non ci sono conferme ufficiali. Se fosse reale questa serie di attacchi, allora significherebbe che la Repubblica islamica è finita sotto un’operazione coordinata che questa volta ha colpito vari edifici della Difesa di importanza minore (anche questo sarà da verificare). Ma che la prossima volta potrebbe anche avere come bersaglio le strutture del programma nucleare. Oppure quelle della catena di produzione dei droni che l’Iran fornisce alla Russia per spingere la propria offensiva in Ucraina.
  Su chi sia il mandante si possono fare solo congetture. Ma è chiaro che il pensiero scivola rapidamente su Israele — dove in questi giorni è in visita il capo della Cia, per altro. L’azione condotta con droni esplosivi (o piccoli droni armati) dimostra la vulnerabilità iraniana: i velivoli, per gittata, potrebbero essere stati guidati dall’interno del Paese. E non sarebbe la prima volta che squadre di infiltrati vengono messe in azioni.
  A luglio, l’Iran ha dichiarato di aver arrestato una squadra di sabotatori composta da militanti curdi che lavoravano per Israele e che progettavano di far saltare in aria un centro “sensibile” dell’industria della difesa a Isfahan. Un segmento trasmesso dalla TV di Stato iraniana lo scorso ottobre mostrava presunte confessioni di presunti membri del Komala, un partito di opposizione curdo esiliato dall’Iran e ora residente in Iraq, che avevano pianificato di colpire un impianto aerospaziale militare a Isfahan dopo essere stati addestrati dai servizi segreti israeliani del Mossad. Nessun commento da Gerusalemme, chiaramente, mentre è noto che i media iraniani hanno spesso alterato la verità anche attraverso documenti — come le confessioni — artefatti.
  L’operazione di questa notte ha avuto un modus operandi simile a quello del giugno 2021 che ha attaccato la struttura TESA Karaj — e in quell’occasione è appurato che i droni partirono dal suolo iraniano (Teheran accusa più o meno formalmente Israele e Stati Uniti di organizzare queste operazioni).
  La provincia di Isfahan, oltre al deposito di munizioni colpito, ospita interessanti strutture legate al programma nucleare iraniano: nel 2022, l’Iran ha informato l’agenzia per il nucleare dell’Onu che intendeva produrre tubi e soffietti del rotore delle centrifughe in una nuova sede a Esfahan in seguito all’attacco al complesso TESA Karaj. Inoltre nella grande base aerea di Kashan, sempre nell’area, gli iraniani starebbero addestrando alcuni dei miliziani sciiti usati come proxy nella regione sull’uso dei droni. Un addestramento del genere lo hanno ricevuto anche alcuni reparti delle forze armate russe.
  Il governo teocratico iraniano si trova ad affrontare sfide sia all’interno che all’estero, mentre il suo programma nucleare arricchisce rapidamente l’uranio, avvicinandosi più che mai a livelli di qualità per le armi, dopo il fallimento dell’accordo Jcpoa con le potenze mondiali. Le proteste nazionali hanno inoltre scosso il Paese dopo la morte a settembre di Mahsa Aminie, una donna curdo-iraniana detenuta dalla polizia morale del Paese. Il rial è crollato a nuovi minimi rispetto al dollaro americano. La Repubblica islamica è in una fase di particolare criticità.
  Israele è sospettato di aver lanciato una serie di attacchi contro l’Iran, tra cui uno nell’aprile 2021 contro l’impianto nucleare sotterraneo di Natanz, che ne ha danneggiato le centrifughe. Nel 2020, l’Iran ha incolpato Israele con un attacco sofisticato che ha ucciso lo scienziato ritenuto il responsabile nucleare militare.
  Nel frattempo, rimane alta anche la tensione con il vicino Azerbaigian — alleato di Israele — dopo che un uomo armato ha attaccato l’ambasciata del Paese nella capitale iraniana, uccidendo il capo della sicurezza e ferendone altri due. Ci sono immagini che mostrano l’assalitore superare senza ostacoli il pass presieduto da una guardia iraniana all’ingresso dell’edificio diplomatico.
  Secondo alcune informazioni raccolte da Al Arabiya, nell’operazione – indirizzata verso siti di produzione dell’industria militare iraniana – sarebbero coinvolti gli Stati Uniti e un altro Paese alleato, ma non Israele. Non è chiaro quanto queste informazioni siano attendibili (e perché siano state diffuse). Funzionari americani hanno smentito informalmente coinvolgimenti di “forze militari” statunitensi in quanto accaduto (nota: la Cia, che potrebbe aver organizzato l’attacco, non è una “forza militare”). Secondo altre informazioni raccolte dal Wall Street Journal tramite fonti americane, l’attacco sarebbe stato condotto da Israele.
  Al di là delle informazioni che escono sulla stampa, parte della infowar sulla vicenda, è comunque chiaro che sia Washington che Gerusalemme hanno piani di attacco contro l’Iran (forse in parte testati anche durante la grande esercitazione “Juniper Oak”). Di questi piani non si conosce quasi niente, essendo coperti da ovvia segretezza massima. Tuttavia, è possibile che attività preventive, o dimostrative, come quelle di questa notte siano parte di un programma operativo – anche semplicemente per convincere Teheran che è realmente nel mirino e che un attacco avrebbe capacità di penetrazione profonda.

(Formiche.net, 29 gennaio 2023)

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Il contributo degli albanesi per salvare gli ebrei rievocato a Portocannone

Relatrici a Portocannone
PORTOCANNONE. La comunità arbereshe di Portocannone ha inteso rievocare una serie di eventi, tuttora poco conosciuti ai più, per cui si sono distinti lo Stato Albanese ed il suo Popolo tutto, di religione prevalentemente musulmana, durante la Seconda Guerra Mondiale: gesta eroiche che hanno consentito di iscrivere l’Albania nell’elenco dei Giusti fra le Nazioni. A mettere in rilievo quanto avvenuto è stata l’assessore alla Cultura, Valentina Flocco. «Abbiamo celebrato la Giornata della Memoria insieme alle nostre amiche Emanuela Frate, Fernanda Pugliese e Anna Maria Ragno. Emanuela ha moderato e anche arricchito l’incontro con riflessioni sul messaggio di grande civiltà di cui ha dato prova il Popolo albanese durante la Seconda Guerra Mondiale.
  Alla presenza del sindaco Francesco Gallo e dei consiglieri, si è parlato di memoria come male assoluto, inferno in terra, negazione dell’umanesimo ma anche Memoria del Bene, atti e fatti per i quali si è distinto il Popolo Albanese tutto durante il periodo delle Leggi razziali. Dal 1939 al 1945 l’Albania, come è notorio, era un protettorato Italiano, ebbene le istituzioni albanesi, al pari dei ruoli italiani, hanno accolto e protetto gli ebrei arrivati da tutt’Europa, come fossero loro concittadini, rifiutandosi sempre di consegnare le liste degli Ebrei ai nazisti. Abbiamo quindi ricordato la Shoah ma abbiamo anche compiuto per certi versi una preziosa operazione storiografica, recuperando dalle pieghe della Storia un pezzo di vita vissuta, abbiamo guardato la Storia con prospettiva dal basso considerando quanto quegli atteggiamenti così diffusi in Albania fossero non comuni nel panorama europeo dell’epoca - anzi assolutamente isolati: l’Albania di fatto divenne per il popolo ebraico un porto franco, in cui ricevette asilo e protezione in nome della Besa” la “promessa d’onore”.
  Con Fernanda abbiamo allora approfondito la natura e l’essenza del Kanun, il codice degli Albanesi e con Anna Maria abbiamo analizzato, punto per punto, le regole del codice che scandivano la vita di quel Popolo semplice ma ricchissimo di valori. Fatti, questi, tutti quasi sconosciuti sino al crollo del regime comunista, in Albania totalitario e totalizzante, per cui - ma solo allora - tutto ciò che era altro anziché essere rispettato fu represso e respinto. Alla fine della appassionata conversazione - l’evento è stato partecipatissimo - con Anna Maria abbiamo assistito alla proiezione del docufilm “The Albanian Code” diretto da Yael Katzir, in cui sono state raccolte alcune testimonianze dei “ritorni” in Albania di alcuni “fratelli ebrei” sopravvissuti allo sterminio grazie all’amicizia e l’ospitalità del popolo albanese, che li ha nascosti, nutriti e confortati durante il loro periodo più buio». 

(Termolionline, 29 gennaio 2023)

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Il ricatto dell’oro di Roma e l’illusione di salvarsi

Dalle ricevute alle storie. una nuova ricostruzione in un libro

di Ariela Piattelli

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Un ricatto, un’estorsione, una tragica beffa. Così è rimasta nella memoria degli ebrei romani la storia dei 50 chili d’oro, estorti dai nazisti nel settembre del ’43 in cambio di una presunta salvezza. Una vicenda che non fu soltanto l’antefatto, il prologo di ciò che avvenne dopo, la razzia nell’alba plumbea del 16 ottobre quando iniziarono le deportazioni nazifasciste. Vi è molto di più nella richiesta criminale e intimidatoria dell’oro, nelle ore di raccolta disperata, nell’illusione di essere salvi, nella dissoluzione della speranza che consegnò gli ebrei romani al buio della Storia. A raccontare i fatti con una nuova prospettiva, il volume fresco di stampa “Il ricatto dell’oro – cronaca di un’estorsione”, a cura di Yael Calò e Lia Toaff, che ricostruisce la cronaca degli eventi partendo dalle ricevute consegnate dalla comunità di Roma a chi diede l’oro e conservate al Museo Ebraico di Roma. Una fonte di informazioni finora inesplorata che adesso illumina un nuovo percorso di conoscenza.
  Le curatrici libro, con il contributo di Claudio Procaccia, che ha svolto il lavoro statistico sulle matrici, partono dallo studio delle ricevute per arrivare alle storie dei singoli. In una vera e propria investigazione, Calò e Toaff connettono gli oggetti alle persone che hanno dato l’oro con la disperata illusione di salvarsi e di salvare. Lo studio delle matrici ha infatti permesso, assieme alle testimonianze raccolte, di ricostruire i profili di coloro che donarono e il ruolo che alcune personalità ebbero in questa storia: dal geografo Roberto Almagià, geografo ed esploratore, all’Ammiraglio Augusto Capon, padre di Laura Fermi, al celebre Romolo Balzani, cantante e attore che non ebreo donò il suo anello d’oro. C’è l’orefice Angelo Anticoli che saggiava l’oro seguendo minuto per minuto la vana corsa contro il tempo. E anche un ragazzo di 14 anni, Giacomo Moscati, che volle contribuire alla raccolta con un anellino ricevuto per il suo Bar Mitzvà. Nomi, numeri e appunti rivelano che oltre il 90% di coloro che diedero l’oro appartenevano alla comunità ebraica che si ritrovava unita costretta a vivere un evento senza precedenti.
  Ogni singola ricevuta rappresenta un mondo. Le storie e i profili ricostruiti ci raccontano la fotografia degli ebrei nella Roma occupata alle soglie del 16 ottobre 1943. “Io ho visto nel piccolo della mia famiglia tutto quello che stava succedendo contemporaneamente in tutta la comunità di Roma”, racconta nella sua testimonianza Enrico Modigliani sulle ore concitate della raccolta. Ciò che seguì è ampliamente studiato, ricostruito e sviscerato da numerosi storici. Adesso il libro getta nuova luce sulla storia perché riesce a immortalare le persone in questi tragici momenti, tanto da immaginare la madre e la nonna di Enrico Modigliani mentre mettevano assieme l’oro che avevano in casa, il dolore di separarsi da ricordi che gli oggetti preziosi rappresentavano, il tutto per rincorrere una vana speranza.

(Shalom, 29 gennaio 2023)

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Il tentativo di sabotare gli accordi di Abramo. Gli attentati visti da Malan

Il senatore di Fratelli d’Italia: “Il fatto grave è che questi attentanti avvengono proprio nel momento in cui paesi musulmani stringono accordi con Israele. Da parte dei palestinesi, o meglio di alcuni di loro, c’è la volontà di fermare il processo virtuoso che i patti di Abramo hanno innescato. E l’intenzione di negare l’esistenza stessa dello Stato d’Israele”.

di Federico Di Bisceglie

Gerusalemme ripiomba nel terrore. Gli spari all’ingresso della sinagoga, le vittime, nel momento più sacro: Shabbat. Nel giorno in cui si ricorda lo sterminio nazista. La vendetta per il raid a Jenin arriva “in uno dei quartieri popolato dai cosiddetti ortodossi, che sono esentati dal servizio militare. Questa è barbarie. Così come è barbarie l’attentato alla parte più antica della città legata indissolubilmente alla storia ebraica: questi atti mirano alla negazione del diritto all’esistenza stessa di Israele”. Il senatore di Fratelli d’Italia, Lucio Malan non usa mezzi termini e condanna fermamente “gli orribili attentati terroristici ai danni degli ebrei”.

- Malan, questi attentati rinfocolano l’irrisolta questione del conflitto israelo-palestinese. Perché l’ha colpita la scelta dei “luoghi” scelti dagli attentatori?
  Perché oltre all’attentato in sé, c’è una volontà dispregiativa: calpestare l’identità ebraica e tentare di negare la legittimità dello stato Ebraico di esistere. Gli attentatori davanti alla sinagoga non hanno colpito, in un conflitto a fuoco, soldati ebrei. Hanno colpito ebrei civili in quanto ebrei. E questo è gravissimo.

- Una reazione all’operazione condotta dagli israeliani a Jenin. 
  Qualsiasi Stato, sapendo di avere cellule terroristiche “in casa”, avrebbe operato come ha fatto Israele. Le basi jihadiste devono essere neutralizzate. Ne va dell’incolumità di tutti.

- Lei che sviluppi prevede anche alla luce della volontà di allargare gli accordi di Abramo?
  Questo è un punto nevralgico. Il fatto grave è che questi attentanti avvengono proprio nel momento in cui paesi musulmani stringono accordi con Israele. Da parte dei palestinesi, o meglio di alcuni di loro, c’è la volontà di fermare il processo virtuoso che i patti di Abramo hanno innescato.

- Che vantaggio potrebbero trarne?
  Boicottare la prospettiva di pace, che è poi la reale finalità degli accordi di Abramo. Più il conflitto è caldo sul terreno, più è possibile fare un’azione dissuasoria rispetto ad altri paesi che eventualmente potrebbero aderire agli accordi di Abramo. 

- L’Italia che ruolo gioca in questa partita complessa?
  Da sempre il nostro Paese sostiene l’unica democrazia presente in Medioriente. Oggi, a maggior ragione, questo Governo mantiene questa posizione con grande credibilità. Il grosso problema è rappresentato dalle tante risoluzioni ostili a Israele votate in seno alle Nazioni Unite. Ecco, anche in quella sede l’Italia deve essere solidale e sostenere lo stato ebraico. Non solo. Occorre vigilare sulla destinazione dei fondi che vengono erogati per la cooperazione ai palestinesi: va evitato che questi finanziamenti sostengano le organizzazioni terroristiche. Non si devono finanziare progetti per scuole palestinesi che adottano testi scolastici in cui si sostiene la jihad. O la distruzione dello Stato d’Israele o, peggio, si considerano gli ebrei alla stregua delle bestie.

- Come sono i rapporti fra Netanyahu e Giorgia Meloni?
  Sono ottimi, fra l’altro la nostra premier è stata fra le prime a congratularsi con Bibi nel momento della rielezione. Penso che i rapporti, che già ripeto sono forti, si consolideranno sempre di più. Questo governo Netanyahu è destinato a durare, come quello di Meloni, per cui ci sono ottimi presupposti.

(Formiche.net, 28 gennaio 2023)

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L'Iran rafforza la sua presenza in America Latina

Il regime iraniano, pur utilizzando l'America Latina come rifugio, ha rafforzato la sua presenza lì, incrementando anche il numero delle sue cellule terroristiche. Mentre in Iran proseguono le proteste, i funzionari del regime sono in procinto di ottenere passaporti e asilo dai Paesi dell'America Latina, in particolare dal Venezuela. Nella foto: il presidente venezuelano Nicolás Maduro incontra la Guida Suprema dell'Iran, l'Ayatollah Ali Khamenei, il 22 ottobre 2016, a Teheran.

di Majid Rafizadeh

Una delle minacce pericolose per la pace e la sicurezza nazionale degli Stati Uniti è che il regime iraniano, pur utilizzando l'America Latina come rifugio, ha rafforzato la sua presenza lì, incrementando anche il numero delle sue cellule terroristiche.
  Mentre in Iran proseguono le proteste, i funzionari del regime iraniano sono in procinto di ottenere passaporti e asilo dai Paesi latino-americani, in particolare dal Venezuela, alle porte degli Stati Uniti.

Secondo un recente reportage:

    "Fonti diplomatiche occidentali hanno detto a Iran International che la Repubblica islamica ha avviato negoziati con i suoi alleati venezuelani per assicurarsi che offrano asilo ai funzionari del regime e alle loro famiglie se la situazione dovesse peggiorare e se aumentasse la possibilità di un cambio di regime (...) una delegazione di quattro funzionari di alto grado del regime si è recata in Venezuela a metà ottobre per avviare delle negoziazioni finalizzate a garantire che il governo di Caracas conceda asilo agli alti funzionari e alle loro famiglie nel caso in cui si verificasse 'lo spiacevole inconveniente'".

Secondo una fonte dell'Aeroporto Internazionale di Teheran-Imam Khomeini, ogni giorno partono dall'Iran tre voli alla volta del Venezuela, con "una cospicua quantità di merci".

    "Inizialmente, io e i miei colleghi pensavamo che si trattasse di dipendenti dell'ambasciata, anche se abbiamo notato che le loro targhe automobilistiche non appartenevano a nessuna ambasciata. Non sappiamo cosa stiano trasferendo e se stiano lasciando il Paese con tutti i bagagli o no. E questo perché non ci permettono di esaminare da vicino. Sappiamo solo che nelle scorse settimane, giornalmente ci sono stati tre o quattro voli per il Venezuela".

I Paesi dell'America Latina sono luoghi opportuni per le operazioni segrete dell'intelligence iraniana, specialmente quelle dirette contro gli Stati Uniti. Un reportage della CNN del 2017 affermava:

    "Un documento riservato dell'intelligence ottenuto dalla CNN collega il nuovo vicepresidente venezuelano Tareck El Aissami a 173 passaporti e documenti d'identità venezuelani che sono stati rilasciati a individui mediorientali, tra cui persone collegate al gruppo terroristico Hezbollah".

Questi passaporti potrebbero essere utilizzati per viaggiare in Nord America o in Europa.
Nathan Sales, ex coordinatore per l'antiterrorismo presso il Dipartimento di Stato americano, ha dichiarato:

    "Siamo preoccupati che [il presidente del Venezuela] Maduro abbia esteso la concessione di un rifugio sicuro a un certo numero di gruppi terroristici (...) [inclusi] sostenitori e simpatizzanti di Hezbollah".

Il piano del regime iraniano per ampliare l'influenza e la presenza in America Latina risale alla metà degli anni Ottanta, sotto la prima Guida Suprema della Repubblica islamica, l'Ayatollah Ruhollah Khomeini, come parte del principio fondamentale dei mullah al potere di esportare la loro rivoluzione estremista in altri Paesi. Come >affermò Khomeini:

    "Noi esporteremo la nostra rivoluzione nel mondo intero. Finché il grido 'Non c'è dio all'infuori di Dio' non riecheggerà in tutto il mondo, la lotta continuerà".

La missione chiave del regime è persino contemplata dall'attuale Costituzione iraniana:

    "La Costituzione fornisce la base necessaria per garantire la continuazione della rivoluzione in patria e all'estero. In particolare, nello sviluppo delle relazioni internazionali, la Costituzione si adopererà con altri movimenti popolari e islamici per spianare la strada alla formazione di un'unica comunità mondiale".

Per diffondere la sua propaganda islamista, il regime iraniano ha creato Hispan TV, un'emittente televisiva in lingua spagnola. In America Latina, le cellule terroristiche iraniane, sono aumentate. La Al Mustafa International University e Hezbollah, l'emissario terrorista iraniano, hanno avuto un ruolo chiave nell'ampliare la presenza nella regione. Secondo [l'organizzazione no-profit, N.d.T.] "United Against Nuclear Iran" (UANI), la Al-Mustafa International University ha il compito di "formare la prossima generazione di religiosi sciiti, di studiosi di religione e di missionari stranieri dell'Iran...

    "Si stima che Al-Mustafa abbia attualmente 40 mila studenti stranieri iscritti, circa la metà dei quali studia nei campus in Iran. Molti laureati della Al-Mustafa [University] sono selezionati dal regime iraniano per fondare centri religiosi e culturali nei loro Paesi d'origine, dove possono quindi reclutare studenti e inculcare la lealtà alla rivoluzione islamica tra le popolazioni locali".

E UANI aggiunge:

    "Al-Mustafa ha ramificazioni nei Paesi europei, in particolare spicca l'Islamic College di Londra. Laureati di Al-Mustafa come il religioso [islamico] italiano Abbas Di Palma hanno continuato a formare centri culturali iraniani nei loro Paesi d'origine, ad esempio, l'Imam Mahdi Center a Roma. Al-Mustafa ha anche inviato laureati libanesi come missionari in America Latina, dove cercano di fare breccia nelle comunità di espatriati e fare proselitismo tra le popolazioni autoctone".

Le prove presentate alle udienze hanno collegato Teheran agli attentati dinamitardi compiuti a Buenos Aires contro l'ambasciata israeliana, nel 1992, e contro un centro della comunità ebraica, nel 1994.
  Mentre l'amministrazione Biden continua a compiacere il regime iraniano, definito dal Dipartimento di Stato americano il "peggior sponsor statale del terrorismo al mondo", i mullah iraniani stanno creando la loro unica "umma" (nazione) alle porte degli Stati Uniti: l'America Latina. La conquista dell'America Latina da parte del regime iraniano, con la creazione di cellule terroristiche, l'accesso ai passaporti latinoamericani, l'aumento del numero di imam e di militanti iraniani in America Latina, il crescente reclutamento di estremisti, è una potenziale minaccia esistenziale per gli Stati Uniti.
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Majid Rafizadeh, accademico di Harvard, politologo e uomo d'affari, è anche membro del consiglio consultivo della Harvard International Review, una pubblicazione ufficiale della Harvard University, e presidente del Consiglio internazionale americano sul Medio Oriente. È autore di molti libri sull'Islam e sulla politica estera statunitense.

(Gatestone Institute, 28 gennaio 2023 - trad. di Angelita La Spada)

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La salvezza presente e personale

di Erich Sauer

  Colui che nega la certezza della salvezza rigetta la fede. (Lutero)
  Non che io l'abbia già ottenuto. (Paolo)

La redenzione di Cristo è allo stesso tempo presente e futura.
Mediante la fede, l'individuo possiede una salvezza presente, gratuita e completa, ma non può sperimentarla che attraverso i più evidenti e drammatici ostacoli.

I. UNA SALVEZZA PRESENTE, GRATUITA, COMPLETA
   L'apostolo Paolo illustra la sua esperienza con Cristo con colori sempre nuovi. La descrive con cinque immagini prese tutte dal campo giuridico, dove egli si trova particolarmente a suo agio. Essa è per lui: perdono, redenzione, giustificazione, riconciliazione e adozione. Queste cinque figure non sono per lui delle astratte concezioni teologiche, ma espressioni della vita legislativa del mondo greco-romano di allora. In modo particolare le quattro seguenti:

  Aphesie, condono dei debiti = perdono
  Apolytrosis, riscatto= redenzione;
  Dikaiosis, assoluzione= giustificazione;
  Huiotneeia, accettazione come figlio = adozione.

Lungi dall'apostolo ogni "dogmatica teorica"! Egli è molto più uomo di preghiera, testimone e profeta che dotto esegeta o teologo filosofico.

  1. Nel perdono, il peccatore davanti a Dio è come un debitore a cui si condona il debito (Ef. 1:7; 4:32; Vedi Matt. 18:21-35).
  2. Nel perdono dei peccati, egli è davanti a Dio come uno schiavo che riceve la libertà, poiché il riscatto è stato pagato (Rom. 6:18-22; Gal. 3:13).
  3. Nella giustificazione, sta davanti a Dio come l'accusato che viene dichiarato giusto (Rom. 8:33).
  4. Nella riconciliazione, egli sta dinanzi a Dio come il "nemico" con cui si è firmata la "pace" (2 Cor. 5:20).
  5. Nell'adozione, egli sta davanti a Dio come uno straniero (lo schiavo) che riceve la dignità di figlio (Ef. 1:5).
Ciascuno di questi cinque aspetti essenziali svela un altro lato della stessa esperienza di salvezza.

  1. Il perdono si riferisce al frutto, alle opere individuali della nostra vita: i peccati (Ef. 1:7; vedi Rom. 3 e 4).
  2. La redenzione concerne la radice, la nostra intera condizione di vita: la schiavitù del peccato (Rom. 6:18-22; e capitoli 5 a 8).
  3. La giustificazione è l'insieme del perdono e della redenzione: l'assoluzione dalla colpevolezza dei peccati (Rom. 3:23-24), cioè il perdono e la dichiarazione di libertà nei confronti del potere del peccato, vale a dire: emancipazione (Rom. 6:7-10).
  4. La rinconciliazione (Rom. 5:10) concerne la volontà e rinnova l'intelligenza. Essa è la realizzazione della pace, l'abolizione dell'inimicizia.
  5. L'adozione è al di sopra di tutto perché essa concerne la nostra posizione e ci conferisce la dignità divina (Rom. 8:17).

Cosi tutto è compiuto e in regola! Peccato e peccati, radice e frutti, colpevolezza e potere del peccato, condizione e posizione del cuore, tutto fu portato da Cristo alla croce e "nessuno è più santo del peccatore che ha ricevuto la sua grazia" (Zinzendorf). Eppure benché ogni cosa sia già avvenuta, tutto, salvo la giustificazione, deve ancora avvenire. Fino al ritorno di Cristo il credente deve realmente affrontare dei grandi ostacoli.

II. GLI OSTACOLI
    Nel credente, vi è un continuo conflitto che oppone futuro e presente, posizioni e condizioni, opera di Dio e opera personale, cielo e terra, eternità e tempo, spirito e corpo.

1. Futuro e presente
  Noi abbiamo la redenzione (Ef. 1:7; Col. 1:14) e aspettiamo la redenzione (Rom. 8:23, vedi anche Ef. 1:14; 4:30).
  Noi abbiamo la vita eterna (Giov. 3:36) e dobbiamo afferrare la vita eterna (1 Tim. 6:12).
  Noi siamo figli di Dio (Rom. 8:14) e aspettiamo l'adozione (Rom. 8:23).
  Noi siamo già nel regno (Col. 1 :13; Ebr. 12:22) e dobbiamo entrare in questo regno (Atti 14:22), che è la nostra eredità, (Ef. 5:5; 1 Tes. 2:12).
  Dio "ci ha glorificati" (Rom. 8:30) e ci "glorificherà" (Rom. 8:17).
  Questa è la tensione fra il presente e il futuro, l'essere e il divenire, fra l'avere e il non avere ancora. "La fede introduce la pienezza dell'avvenire nella povertà del presente". Cristo, la primizia (1 Cor. 15:20), dà ai suoi, già oggi, il dono delle sue primizie (Rom. 8:23). In Cristo, la nuova era è già presente in modo vivente e tuttavia l'antica non se ne è ancora andata.
  Tutto ciò che abbiamo, noi l'aspettiamo; tutto ciò che aspettiamo, l'abbiamo già. Siamo salvati in speranza (Rom. 8:24). Il centro di gravità è nel passato, il Golgota; la vetta è ancora nel futuro cioè alla manifestazione della gloria. Ma è il futuro il contenuto del Nuovo Testamento. Lo sguardo in avanti verso la meta è il battito vitale di tutta la salvezza e di ogni santificazione.
  L'lddio fedele che è al di sopra dei tempi, ci garantisce il futuro come già il presente, perfino come se fosse già avvenuto nel passato: "egli ci ha glorificati" (Rom. 8:30), ed è Cristo che personifica allo stesso tempo sia la promessa che l'adempimento.
  Su questa base abbiamo il concetto neotestamentario della futura manifestazione di tutte le cose (Col. 3:4; Rom. 8:19). Solo cose preesistenti possono essere manifestate o svelate. Così noi possediamo già tutte le cose, benché il godimento non sia che parziale. Fino alla redenzione del corpo, noi aspettiamo la maggiore età (Rom. 8:23) e il nostro capitale è investito e riservato nei cieli (1 Piet. 1:4; 2 Tim. 1 :29; Col. 1:5). Ciò che possediamo già è una prova del fatto che il capitale ci appartiene; le possessioni presenti sono le caparre dei beni a venire, le primizie della messe (Rom. 8:23; Ef. 1:14; 2 Cor. 1:22; 5:5).
  Per ora è proprio la certezza dell"adesso" che stabilisce il grande contrasto del "non ancora". La grandezza del nostro presente ci induce a guardare più lontano, all'ancora più grande domani. E il nostro grande desiderio è un godimento benedetto, e mentre ci saziamo cresce la nostra fame (Filip. 3:12; Matt. 5:6).

2. Posizione e condizione
  Noi siamo morti (Col. 3:3; Gal. 2:19-20; 5:24; Rom. 6:6) e dobbiamo mettere a morte le nostre membra (Col. 3:5).
  Noi siamo degli uomini nuovi (Col. 3:10; Ef. 4:24; 2 Cor. 5:17) e tuttavia dobbiamo essere rinnovati (Ef. 4:23).
  Noi siamo luce (1 Tes. 5:5) e dovremmo brillare come delle luci (Ef. 5:9; Matt. 5:16).
  Noi siamo i santi di Dio (Col. 3:12; Ef. 1:1) e dobbiamo essere santificati (1 Tes. 5:23; Ebr. 12:14; 2 Cor. 7:1).
  Noi siamo perfetti (Filip. 3:15; Col. 2:10) e tuttavia tendiamo alla perfezione (Filip. 3:12).
  Cristo abita in noi (Col. 1:27) e tuttavia dovrebbe abitare in noi (Ef.3:17).
Questa è la tensione che oppone posizione e condizione, dignità e dovere, realtà e realizzazione, posizione nella grazia ed esperienza. Il miserabile strappato alla sua stamberga è posto fra i principi e poi è esortato a condursi come un principe (Ef. 4:1).
  La posizione impone dei doveri (1 Piet. 1:17). Il nobile deve comportarsi da nobile. E' qui che appare un'altra tensione, quella che oppone la carne allo spirito (Gal. 5:17), il vecchio uomo e l'uomo nuovo (Rom. 6:6,11), e interviene l'opera costante della fede che è la santificazione. Proprio in questo, esperimentiamo continuamente un altro contrasto, vale a dire:

3. Opera di Dio e opera personale
  E' Dio che opera ogni cosa, tuttavia anche noi siamo operanti. Tutto è dono e tuttavia questo implica il nostro sforzo (2 Piet. 1:3; 1 Tes. 4:11; Col. 4:12; Luca 13:24; 2 Tim. 2:15; Ebr. 4:11). La santità è pienamente opera sua (1 Tes. 5:23; 1 Cor. 6:11), ma anche interamente opera mia (Ebr. 12:14; 1 Giov. 3:3), essa è senza riserve un'offerta e un ordine, un dono e un dovere.
  Sia nella elezione dei redenti, avanti i secoli (Ef. 1:4-5; 2 Piet. 1:10); che nella santificazione degli eletti nel corso dei secoli (Giov. 17:17; 2 Cor. 7:1), quanto nella glorificazione dei santificati alla fine dei secoli (Giov. 16:33; 17:24; 2 Tim. 2:5), rimane valevole questo armonioso contrasto: "Compite la vostra salvezza con timore e tremore; poiché Iddio è quel che opera in voi il volere e l'operare, per la sua benevolenza" (Filip. 2:12-13).
  Ogni tentativo umano di spiegazione è in questo caso completamente fuori luogo. Persino in Romani 8:29 e in 1 Pietro 1:1-2 il problema rimane senza soluzione definitiva. La libertà della volontà umana (Matt. 23:37; Apoc. 22:17) viene affermata in alcuni casi, mentre altri testi sembrano sottolineare la sua mancanza di libertà (Rom. 9:11,15,16,18; 11:5,7; Atti 13:48). Queste sono due linee parallele che si incontreranno solamente nell'infinito. La fede accetta questo contrasto senza spiegarlo. Riconoscere che esso esiste è sufficiente. E' il contrasto fra la scelta divina di grazia e la responsabilità dell'uomo, fra la mancanza di libertà e la libertà della volontà della creatura, fra la grazia e la ricompensa (Rom. 4:2-6; 1 Cor. 3:14; 4:5; Col. 3:24; 2 Cor. 5:10). L'altro contrasto è fra:

4. Cielo e terra
  Cristo è stato innalzato nel cielo (Ef. 1:20; 4:10; Ebr. 7:26; 8:1). Tuttavia, egli dimora in noi sulla terra (Ef. 3:17; Gal. 2:10).1  Il cristiano vive sulla terra (Giov. 17:11,15; Filip. 2:15) eppure, egli è seduto con Cristo nei luoghi celesti (Ef. 2:6; 1:3; Ebr. 12:22; Filip. 3:20). 2
  Il legame tra il cielo e la terra è lo Spirito. Lo Spirito scese dall'alto, dal "Cristo sopra noi", dal cielo alla terra (Atti 2:33); e lo Spirito come "Cristo in noi" ci conduce dal basso verso l'alto, dalla terra al cielo (Col. 1:27; 2 Cor. 3:17-18). La base di tutto è il contrasto fra:

5. Eternità e tempo
  L'eternità non è solamente un tempo senza fine. Essa è differente (non solamente in rapporto alla durata, ma anche quanto al suo contenuto) da tutto ciò che è temporale nella sua essenza stessa. Bisogna guardarsi bene dall'introdurre l'idea del tempo all'interno dell'idea dell'eternità. "Noi non arriveremo mai all'idea dell'eternità semplicemente mediante un'addizione del tempo". La vita eterna è una vita senza fine (cfr. Matt. 5:46; Giov. 8:51), ma nello stesso tempo più di immortalità, essa è la vita divina.
  Fin da ora la fede sperimenta l'Iddio eterno all'interno dei limiti del tempo. Ogni comunione con Dio, in particolare la preghiera, è una partecipazione alla vita di Dio. Per mezzo di essa, in mezzo al tempo, in seno a ciò che varia e vacilla, l'uomo si trova già nell'atemporale, nutrito di ciò che è immutabile e permanente.
  Questo è il significato delle Scritture quando insegnano che il credente "ha" già la vita eterna. Essa non comincia dopo la morte, ma fin da oggi, sulla terra "colui che crede al Figlio, ha la vita eterna" (Giov. 3:36,16; cfr. 17:3; 1 Giov. 3:14; 5:12).

6. Spirito e corpo
  Tutto questo avviene all'interno dei limiti del tempo. Noi siamo "in Cristo" tuttavia ancora "nel mondo" (Giov. 17:11); noi siamo "nello Spirito" (Rom. 8:9) e tuttavia ancora "in questo corpo" (2 Cor. 5:6). Siamo allo stesso tempo liberati dalla morte e tenuti a morire (2 Cor. 4:11,16). Quale debole organo è l'anima nostra! Quale fragile tenda è il nostro corpo! (2 Cor. 5:1,4). Quale contrasto fra lo Spirito di Dio e l'uomo, fra la potenza e la debolezza (2 Cor. 12:9), fra il contenuto e il vaso! Noi portiamo il nostro tesoro in vasi di terra (2 Cor. 4:7).
  Siamo dunque allo stesso tempo pronti e in attesa, in riposo e in corsa, (Ebr. 4:3,10; Filip. 3:12), liberi benché costretti, cantiamo vittoria sebbene stiamo gemendo (Rom. 8:31-39; 2 Cor. 5:4; Rom. 8:23). Siamo morenti ed ecco viviamo; attristati eppur tuttavia sempre gioiosi; poveri ma arricchenti molti; non avendo nulla eppur tuttavia possedendo ogni cosa (2 Cor. 6: 9-10). Il nostro sguardo si volge in alto, verso l'Eterno come a colui che è sopra alla storia, in avanti verso le cose eterne in quanto scopo della storia; vi è un "ora" e un "ben presto", un possesso e un’attesa, un oggi e un domani, una fede e una speranza (1 Piet. 1:21), una doppia esperienza radicata nell'amore eterno.
  Finalmente, il giorno viene in cui sparirà ogni contrasto e ogni ostacolo. Con il ritorno di Cristo ogni costrizione sarà abolita. La tensione fondamentale dell'età presente viene prodotta dal fatto che il regno di Satana è manifesto e il regno di Dio è ancora nascosto nonostante la vittoria del Golgota. Ma con l'apparizione di Cristo tutto questo sarà risolto. Allora verranno, con la sua apparizione (Col. 3:4):

  • la rivelazione del corpo spirituale;
  • la promozione della chiesa dal tempo all'eternità;
  • la trasfigurazione del presente nel futuro;
  • il pieno accordo fra la nostra condizione e la nostra posizione;
  • il perfezionamento della nostra opera umana mediante la sua opera divina;
  • la nostra elevazione lungi dalla terra fin nel mondo celeste.
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1. Vi è una polarità mistico-trascendentale fra la trascendenza e l'immanenza di Cristo. Questo avviene nelle 164 volte in cui Paolo usa l'espressione "in Cristo", come pure nelle 19 volte in cui usa l'espressione "nello Spirito", e nell'uso del "genitivo mistico", come per esempio in: pace di Cristo (Col.3:15), benedizione di Cristo (Rom. 15:29), fede di Cristo (Rom. 3:22), amore di Cristo (2 Cor. 5:14), ubbidienza di Cristo (2 Cor. 10:5), circoncisione dì Cristo (Col. 2:11); ecc...
2. L'espressione "nei luoghi celesti" (gr. en tois epouraniois) si trova solamente nell'epistola agli Efesini ove l'apostolo Paolo la usa cinque volte con il significato di luogo, cosa dimostrata soprattutto in Efesini 1:20 (cfr. Efes. 2:6, 3:10; 6:12). Il cristiano ha fatto non solo l'esperienza della crocifissione con Cristo (Gal. 2:19) e della risurrezione con Iui (Col. 3:1) ma anche dell'ascensione con Cristo nel cielo mediante lo Spirito (Ef. 2:6).


(Notizie su Israele, 29 gennaio 2023)


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Nuovo attacco a Gerusalemme: due feriti, fermato un 13enne

Continuano gli attacchi di palestinesi ai civili nella città di David mentre è in corso la festività di Shabbat. La polizia ha arrestato 42 persone per l'attacco di ieri sera davanti alla sinagoga che ha causato sette morti. Hamas: "Atto eroico".

di Antonella Alba

Sarebbe stato un 13enne palestinese di Gerusalemme Est ad aprire il fuoco e a ferire questa mattina due israeliani al sito archeologico Città di David, a Gerusalemme. Lo ha riferito la polizia, precisando che il ragazzino è stato a sua volta raggiunto da colpi di arma da fuoco esplosi da civili armati. Rimasto ferito, è ora in stato di fermo. I due israeliani feriti, padre e figlio, rispettivamente di 22 e 45 anni, versano in condizioni serie, ma stabili. Lo riferisce la radio militare.  
  Il nuovo attacco avviene 14 ore dopo quello avvenuto presso la sinagoga di Neve Yaakov alle pendici delle mura della città vecchia nel rione a popolazione mista di Silwan dove a presidio del luogo c'è un ingente numero di membri delle forze di sicurezza israeliane.
  La zona, a Est di Gerusalemme, è popolata da ebrei ultra ortodossi che in questi giorni osservano la festività di Al -Shabbat. Sul posto è arrivato anche il premier israeliano Benjamin Netanyahu col ministro Ben Gvir. "Israele agirà con determinazione e compostezza, invito il pubblico a non farsi giustizia da solo” ha detto il premier.
  Da ieri la polizia sta rastrellando tutti i quartieri di Gerusalemme e nella notte ha fermato almeno 42 persone associate all'attentato terroristico di ieri sera davanti alla sinagoga di Gerusalemme.
  Un uomo, identificato come Khaire Alkam, palestinese di 21 anni, ha fatto fuoco con una pistola uccidendo 7 civili israeliani. Anche lui residente a Gerusalemme Est, è stato ucciso dalla polizia dopo un breve inseguimento. Lo riporta questa mattina il sito di Ynet. 
  "A seguito di una valutazione delle Forze di difesa israeliane, è stato deciso di rafforzare la divisione di Giudea e Samaria (Cisgiordania) con un ulteriore battaglione", hanno detto i militari israeliani.  Gli arrestati della notte sono tutti residenti del quartiere di A-Tur, a Gerusalemme est, tra loro ci sono membri della famiglia dell'attentatore, tra cui vi sarebbero anche i genitori del killer.
  L'esercito e la polizia, in conseguenza di questi attacchi, hanno elevato lo stato di allerta in tutto il paese, con ulteriori spiegamenti di forze in Cisgiordania ed il presidio di luoghi pubblici in Israele. 
  Fra le vittime civili di ieri davanti alla sinagoga c'è anche una coppia di sposi, ebrei ortodossi: Eli (48 anni) e Natalie (45) Mizrahi. Il padre di Eli ha riferito alla televisione che i due erano nel loro appartamento quando hanno sentito i primi spari e che "si sono lanciati in strada per soccorrere i feriti e non hanno notato il terrorista che era fermo accanto ad una automobile in sosta. Questi ha sparato loro a bruciapelo, uccidendoli sul posto". In base alla ortodossia ebraica, i loro funerali dovrebbero avere luogo al termine del riposo sabbatico, nella nottata di oggi. 
  Una ''azione eroica" che rappresenta ''una conferma" di come continuerà ''la resistenza in tutti i territori occupati" Così il portavoce del movimento islamico palestinese di Hamas, Hasem Kassem, ha elogiato l'attacco condotto questa mattina da un palestinese di 13 anni nella zona archeologica di Silwan, a Gerusalemme, nel quale sono rimaste ferite due persone. ''L'azione eroica a Silwan è la conferma che la resistenza continuerà in tutti i territori occupati ed è una risposta ai crimini commessi dall'occupante contro il nostro popolo nei luoghi sacri", ha detto Kassem. 
  Anche il movimento islamico libanese di Hezbollah ha lodato l'attacco sferrato davanti alla sinagoga. "Hezbollah elogia l'eroica operazione di martirio portata avanti dal combattente martire Khaire Alkam nella Gerusalemme occupata", si legge in una nota.
  L'esplosione di violenza, considerata tra le più gravi dell'ultimo periodo, rappresenta una prima sfida per il nuovo governo israeliano, dominato da ultranazionalisti che hanno spinto per una linea dura contro i palestinesi, e getta un'ombra sulla visita del Segretario di Stato americano Antony Blinken, in visita nella regione da domani. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha affermato di aver deciso "azioni immediate" e che questa sera, dopo la fine di Sabbath, convocherà il gabinetto di sicurezza per discutere un'ulteriore risposta.  
  Il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, si è detto "profondamente sconvolto" dagli attentati "tremendi" perpetrati a Gerusalemme Est in un messaggio sul suo account Twitter. "Ci sono stati morti e feriti nel cuore di Israele", ha scritto. "I miei pensieri sono rivolti alle vittime e alle loro famiglie, la Germania è al fianco di Israele".  
  Un minuto di silenzio, in memoria delle vittime dell'attentato terroristico di Gerusalemme, aprirà stasera la protesta anti governo di Benyamin Netanyahu lungo la via Kaplan a Tel Aviv. Lo hanno deciso gli organizzatori della manifestazione confermando, per le 19 di stasera (ora locale), l'appuntamento che la settimana scorsa ha visto la partecipazione di 130mila persone. "L'attacco omicida di Gerusalemme spezza il cuore", hanno detto aggiungendo di "condividere il dolore delle famiglie degli uccisi" e augurando " la guarigione dei feriti".

(RaiNews, 28 gennaio 2023)


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Arresti a Gerusalemme dopo l'attentato alla Sinagoga

In Israele almeno 42 persone sono state arrestate dalla polizia in seguito all'attentato terroristico di ieri sera all'uscita da una sinagoga di Gerusalemme dopo lo shabbat . Sono tutti residenti del quartiere di a-Tur, a Gerusalemme est. Fermati anche membri della famiglia dell'attentatore che è stato ucciso dopo l'attacco. Elevato lo stato di allerta in tutto il Paese, con ulteriori spiegamenti di forze in Cisgiordania.
  Hamas ha affermato che si è trattato di una "vendetta per i morti di Jenin", in relazione ai 9 palestinesi uccisi in uno scontro a fuoco divampato con i miliziani dopo un'operazione antiterrorismo dell'esercito israeliano in un campo profughi. Festeggiamenti sono andati in scena in diverse città palestinesi dopo la notizia dell'attentato alla sinagoga

(Il Sole 24 Ore, 28 gennaio 2023)

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I figli della fede

Sempre più fertile e religioso: Israele è la grande eccezione occidentale. Lo stato ebraico sta rapidamente cambiando faccia

di Giulio Meotti

Israele si è definito come "il più religioso dei paesi industrializzati e avanzati", ha il pil olandese ma un fervore mediorientale Un parlamentare della maggioranza ha otto (1) figli e un membro dell'opposizione, inclusi i partiti arabi, appena tre.
Gli ortodossi sono già oggi un quarto di tutti gli alunni delle scuole. Nel 2050, un ebreo israeliano su tre vestirà di nero Ufficiali e comandanti della brigata Golani sono per la maggior parte ebrei religiosi, come il nuovo capo di stato maggiore

In tutto l’occidente, dall’America alla vecchia Europa, da anni stanno crollando due pilastri che reggono da sempre le civiltà: fede e fertilità, credere in qualcosa piuttosto che in niente e fare un numero sufficiente di bambini per tenere in piedi la società.
   C’è un solo paese “occidentale” secondo tutti gli indici democratici, culturali, sociali, civili ed economici, che da anni va in controtendenza: Israele. La fede è sempre più preminente e la fertilità sta conoscendo una crescita superiore persino ai paesi islamici. Un cambiamento epocale.
  Israele si qualifica come “paese industrializzato”. Il suo pil pro capite è di 55.359 dollari, ovvero sta tra l’Austria (52.062) e i Paesi Bassi (56.298). La sua popolazione di 9,6 milioni è uguale a Ungheria, Portogallo, Grecia o Svezia.
  Nel 2020, le donne ebree israeliane ultraortodosse avevano una media di 6,64 figli, le donne “religiose” una media di 3,92 e le donne laiche una media di 1,96, che è comunque quasi il doppio dell’Italia. Sebbene la cifra di 1,96 per le donne israeliane laiche sia significativamente più alta di quella di qualsiasi altro paese industrializzato, non è comunque troppo lontana dall’1,6 di altri paesi occidentali. Le religiose israeliane hanno un tasso di fertilità molto più alto rispetto alle donne laiche in Israele o alle donne laiche in altri paesi. Allo stesso tempo, la maternità non impedisce alle donne israeliane di essere insegnanti, avvocatesse, architette, professoresse, programmatrici di computer e imprenditrici; il tasso di partecipazione delle donne ebree alla forza lavoro è superiore alla media Ocse.
  Ciò che apprendiamo dall’eccezione israeliana, in breve, è che Israele è un’eccezione meno di quanto sembri. Gli israeliani come popolo non hanno più figli perché sono israeliani; gli israeliani religiosi hanno più figli perché sono religiosi e più profondo è il loro impegno religioso, più è probabile che abbiano figli. Ciò che rende Israele un’eccezione è il fatto che ha una percentuale di persone religiose sempre più alta rispetto ad altri paesi e che questa aumenta ogni anno di più.
  Israele è stata definita “la più religiosa tra le nazioni ad alto reddito”. Il 98 per cento degli ebrei israeliani fissa una mezuzah sulla porta (una piccola scatola contenente versetti biblici scritti a mano) come un tempo si faceva nelle nostre case con il crocifisso; il 92 per cento dei bambini maschi è circonciso (in Europa occidentale non ci si battezza quasi più) e, cosa più importante, il 70 per cento mantiene le leggi alimentari ebraiche a casa (nessuno o quasi digiuna più durante la Quaresima). Metà delle piccole comunità ebraiche europee scompariranno invece a causa dell’assimilazione entro una generazione. “I dati attuali mostrano che i matrimoni misti e l’assimilazione nella diaspora ebraica hanno raggiunto il massimo”, ha appena detto Ariel Musicant, presidente del Congresso ebraico europeo. “I matrimoni misti sono al 50 per cento in Europa e al 75 per cento negli Stati Uniti. Se questa tendenza continua, gran parte della diaspora ebraica scomparirà entro una o due generazioni. In altre parole, il 50 per cento delle piccole comunità ebraiche scomparirà nei prossimi 30-50 anni”.
  Sondaggi dopo sondaggi condotti in Israele mostrano che il termine “hiloni”, o ebreo laico, ha perso gran parte del suo significato. Sebbene la maggioranza degli israeliani usi ancora quel termine per descrivere sé stessi, è diventato una descrizione sociologica per coloro che mandano i propri figli nelle scuole pubbliche tradizionali e non votano per uno dei partiti religiosi. Un sondaggio Guttman ha scoperto che l’80 per cento degli ebrei che vivono in Israele crede in Dio e il 65 per cento che sia l’autore della Torah e dei comandamenti. Un dato che va messo a confronto con il 17 per cento nel Regno Unito e il 41 in Italia. Israele sta cambiando pelle. Oggi è ampiamente riconosciuto che il gruppo che ha fatto di più per impedire la secolarizzazione del popolo ebraico in Israele sono stati gli ebrei sefarditi e mizrahi arrivati dal Nord Africa e dal medio oriente. Per quanto l’establishment laico sionista dell’epoca ci provasse, non è stato in grado di convincere questi immigrati ad accettare l’agenda culturale socialista. “La società israeliana oggi è una società conservatrice e orientata alla famiglia”, afferma il professor Shahar Lifshitz dell’Università di Bar-Ilan.
  L’ebraicità di Israele si è sviluppata in un ambiente di non separazione tra religione e stato. La religione ebraica e la vita pubblica in Israele sono intrecciate. La religione penetra in aree che non sono di evidente interesse religioso. E qui si crea uno scontro.
  Anche se spesso considerato europeo, Israele è culturalmente, anche se non economicamente o nell’istruzione, più mediorientale di quanto non sia compreso dagli osservatori esterni. In contrasto con la diaspora, che è dominata da ebrei ashkenaziti originari dell’Europa, metà degli israeliani sono mizrahi da paesi come Yemen, Iraq, Iran, Marocco, Tunisia, Egitto. Matti Friedman sostiene che questo oggi è il “vero” Israele: “Israele fa parte del continuum del giudaismo nel mondo musulmano, insieme ai resti dell’ebraismo europeo”. In quanto tale, il paese “non poggia sul secolarismo. Poggia su un fondamento dell’identità ebraica. I nuovi israeliani sono più conservatori che liberali, orgogliosi della loro eredità, di orientamento nazionalista e trovano qualsiasi cosa che sa di socialismo di stato ripugnante”.
  Per capire come cambi il paese basta guardare il governo. Il nuovo ministro degli Affari di Gerusalemme, Meir Porush, ha dodici figli. Il ministro delle Missioni nazionali, Orit Strock, ne ha undici. Il ministro dell’Edilizia ne ha dieci, il ministro degli Interni Itamar Ben Gvir ne ha nove, il ministro delle Finanze Bezalel Smootrich e il ministro dell’Immigrazione Ofir Sofer ne hanno sette ciascuno e il ministro del Patrimonio Amichai Eliyahu ne ha sei. La leader del Labour, Merav Michael, ne ha uno. I 64 membri della coalizione di Netanyahu hanno 313 figli. I 56 membri dell’opposizione ne hanno solo 170, poco più di metà. In media, un parlamentare della maggioranza ha otto (1) bambini e un membro dell’opposizione, inclusi i partiti arabi, appena tre. Da soli, quattro membri della Knesset (Yitzhak Goldknopf, Meir Porush, Israel Eichler e Yacov Tesler) insieme hanno 46 figli. Al contrario, i 24 membri della Knesset di Yesh Atid (il partito di Yair Lapid) hanno in tutto 59 bambini. Da solo, l’ex giornalista Eichler ha quattordici figli.
  Gli ebrei religiosi (“Dati”) sono il dieci per cento di tutti gli adulti israeliani e quelli che si definiscono tradizionali (“Masorti”) il 23 per cento. Mentre il 56 per cento degli ebrei “dati” si colloca nella destra politica, haredim e masorti hanno la stessa probabilità di collocarsi a destra o al centro. La maggior parte degli ebrei laici – il 62 per cento – si identifica come centrista. Soltanto l’otto per cento ormai si definisce di sinistra.
  La rapida crescita della popolazione ultraortodossa di Israele ha profonde conseguenze per il resto della società, in particolare per il delicato rapporto raggiunto tra religione e laicità. Inoltre, elettori e politici ultraortodossi sono sempre più alleati con partiti di un altro gruppo demografico religioso la cui influenza sta crescendo: i nazionalisti ortodossi.
  Nel 2015, l’allora presidente Reuven Rivlin ha tenuto un famoso discorso in cui ha definito Israele una società di “quattro tribù”. Ci sono gli ebrei laici o moderatamente religiosi, che hanno costituito la stragrande maggioranza dei fondatori del paese e fino a oggi costituito la maggior parte della sua élite politica, economica e culturale. Sebbene le stime varino, la metà della popolazione ebraica di Israele si considera laica e il 19 per cento è marginalmente osservante. Poi c’è il gruppo solitamente chiamato “religioso nazionale” o “sionista religioso”. Questi israeliani combinano l’ebraismo ortodosso con l’impegno per il sionismo politico e ora costituiscono il nucleo del movimento dei coloni. Corrispondono al venti per cento della popolazione ebraica di Israele. Un terzo gruppo è chiamato Haredim, timorati, o ultraortodossi. A differenza di altri ebrei ortodossi, che sono integrati nei quartieri e nei luoghi di lavoro tradizionali, molti Haredi cercano di separarsi in una certa misura dalla società laica. In origine, non sostenevano la creazione di Israele, che credevano dovesse avvenire solo attraverso il Messia. Oggi, le comunità Haredi sono tutte politicamente associate a partiti di destra e sono sempre più integrate nella società. Il quarto gruppo menzionato da Rivlin è quello degli arabi israeliani.
  Nel corso del tempo, c’è stato uno spostamento della popolazione tra i quattro settori. Quando Rivlin pronunciò il suo discorso, per la prima volta la maggior parte degli alunni di prima elementare non era stata ammessa alle scuole ebraiche laiche, ma a uno degli altri tre sistemi. La popolazione ultraortodossa sta crescendo rapidamente. Le famiglie ortodosse hanno una media di sette figli, rispetto ai soli tre nella popolazione generale e neanche due tra gli ebrei laici. Secondo un recente studio dell’Israel Democracy Institute, il settore ultraortodosso costituisce il 13,5 per cento della popolazione israeliana e salirà al 16 per cento entro la fine del decennio, con ulteriori incrementi attesi. Gli ortodossi costituiscono già oggi un quarto di tutti gli alunni ebrei nelle scuole israeliane. Nel 2050, un ebreo israeliano su tre vestirà di nero.
  La seconda “tribù” in più rapida crescita in Israele, in base al tasso di natalità – con famiglie di quattro figli, in media – è quella dei religiosi nazionali. Nella Cisgiordania contesa, i palestinesi hanno tre figli, gli ebrei ne hanno cinque e gli ebrei ultraortodossi quasi otto.
  Basta pensare che il capo dell’opposizione a Netanyahu prima di lasciare la politica, Naftali Bennett, è stato il primo premier d’Israele a indossare una kippah, il copricapo dei religiosi. Padre di quattro figli, il nuovo capo di stato maggiore Herzi Halevi ha una laurea in Filosofia e vive nell’insediamento di Kfar HaOranim. Il padre di Halevi è un discendente del rabbino Abraham Isaac Kook, il fondatore del sionismo religioso. E’ cresciuto in una famiglia religiosa e ha studiato in scuole religiose. La percentuale di ufficiali religiosi nell’esercito è passata dal 2,5 per cento nel 1990 al 30 per cento di oggi. “I sionisti religiosi hanno in gran parte preso il fuoco ideologico del movimento laico dei kibbutz, che ha costruito fattorie collettive socialiste nei primi anni dello stato” scrive l’Economist. “Ora sono i ragazzi delle yeshiva (seminari ebraici) che cercano di coltivare la terra e diventare ufficiali dell’esercito.
  Gli ebrei nazional-religiosi, che rappresentano il dieci per cento della popolazione, costituiscono il 40 per cento degli ufficiali di fanteria. La maggior parte dei comandanti della brigata Golani sono ebrei religiosi.
  Chiunque visiti Israele vedrà un paese diverso da vent’anni fa: meno occidentale e più orientale, con una grande minoranza soprattutto di giovani che vorrebbero vivere come a Londra o ad Amsterdam. Per dirla con Haaretz, “Israele è l’unico paese al mondo dove gli uomini pregano più delle donne”. In mezzo secolo, la metà di tutti i bambini israeliani proverranno da famiglie ultraortodosse. E pensare che fino a quarant’anni fa le comunità ultraortodosse vivevano autosegregate ai bordi della società e uscivano dal loro isolamento solo per compiere rapide sortite. Lo stato sionista era visto da loro come un’entità di carattere blasfemo in quanto i testi sacri insegnano che solo Dio stabilisce quando potrà essere creato il Regno. Oggi sono ministri, dominano gli scranni della Knesset, li trovi nell’esercito, in tutti i posti di lavoro, riempiono le strade.
  Vittorio Dan Segre sognava per Israele un destino simile alla Svizzera. Shimon Peres voleva farne la Hong Kong del medio oriente. Non sarà nulla di tutto questo, piuttosto sarà un paese sempre più nazionalista e post-liberale in senso occidentale, un misto di Sparta, shtetl e start-up. Non c’è mai stato nulla di simile nella storia ebraica.

Il Foglio, 28 gennaio 2023)
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Per contrasto, per la prima volta nella storia di Israele, il presidente della Knesset è un omosessuale dichiarato. E gli ebrei hiloni della diaspora se ne vantano.. M.C.
(1) Se 34 parlamentari hanno in tutto 313 figli, la media per parlamentare non è otto, ma 4,9.

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Per Hitler la droga era "cosa da ebrei", ma i nazisti ne abusavano sistematicamente

Come ogni regime, quello nazista professava una rigorosa politica contro l'uso di droghe ma, di fatto i nazisti -dagli ufficiali, ai soldati semplici, al loro Führer- furono trai i più grandi consumatori di metanfetamine e oppiacei.

di Antonella Soldo

La propaganda del Terzo Reich si scagliava contro le droghe come minaccia alla forza e alla purezza del popolo tedesco. Le sanzioni per reati legati alla droga vennero innalzate e la repressione su consumatori e spacciatori divenne più severa. Il Dipartimento della Salute pubblica del Reich promosse numerose campagne contro l'uso di droghe, in particolare contro oppiacei, cocaina e cannabis. Per Hitler la droga è “cosa da ebrei”. I tossicodipendenti vengono rinchiusi in campi di concentramento, oppure uccisi con iniezioni letali.
  Nonostante questa narrazione e queste azioni di facciata, il regime nazista utilizzava alcune droghe per scopi non medici, come la metanfetamina, che veniva somministrata ai soldati per aumentare le loro prestazioni e ai prigionieri dei campi di concentramento per farli lavorare di più. O per fare esperimenti su di loro.
  Alcuni anni fa è stato pubblicato il libro di uno storico tedesco, Norman Ohler, che vale la pena ricordare. In Italia è stato pubblicato nel 2018 da Rizzoli con il titolo “Tossici. L'arma segreta del Reich. La droga nella Germania nazista”. Nel volume, con una selezione di carte private e di documentazione clinica, lo storico ricostruisce  come accadde che ampie fasce della popolazione tedesca, il partito nazista e la Wehrmacht (le forze armate naziste), finirono con l’usare e abusare di una serie di stimolanti e narcotici. Soprattutto di metanfetamina, sotto forma di una pillola chiamata Pervitin. Prodotta negli stabilimenti Temmler di Berlino il Pervitin è una droga che mantiene perfettamente svegli “nel corpo e nella mente” per ore e ore. È stata realizzata da Fritz Hauschild, un medico che era rimasto colpito dagli effetti delle benzedrine sugli atleti americani arrivati a Berlino nel 1936, per le Olimpiadi di Hitler. Il Pervitin si diffonde rapidamente». Lo prendono sportivi, cantanti, studenti sotto esame. La fabbrica di Pervitin inventa addirittura il cioccolatino che contiene il farmaco. Nelle taverne di Berlino si canta uno stornello che fa così: «noi berlinesi ripieghiamo sulla cocaina e sulla morfina, noi sniffiamo e ci buchiamo».
  Nel settembre 1939, il direttore dell’Istituto di fisiologia delle forze armate, Otto Ranke testò il farmaco su 90 studenti universitari e concluse che Pervitin poteva aiutare la Wehrmacht a vincere la guerra. Così venne testato su larga scala durante l’invasione della Polonia, e usato anche nell’invasione della Francia, guidata dal generale Erwin Rommel, che non ha problemi a distribuirlo ai suoi soldati visto che usa il Pervitin personalmente. «Tutti sono freschi, allegri” si legge nei resoconti dal fronte. Il farmaco circolò con successo anche nei quadri della Wermacht e nell’establishment vicino a Hitler, il quale a sua volta ne divenne dipendente. È il medico personale del Führer, Theodor Morell, a riportare nelle cartelle cliniche di aver somministrato a Hitler di tutto: metanfetamine, steroidi e altre sostanze circa 800 volte in 3-4 anni. Insomma, da una parte il mito del corpo sano, specchio di una nazione integra e incorrotta, dall’altra una realtà fatta di abuso e dipendenza. Non c’è di che stupirsi: c’è sempre un grande fondo di ipocrisia nei regimi e nella loro lotta alla droga. Ieri, come oggi.

(L'HuffPost, 28 gennaio 2023)

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“Il ricatto dell’oro” presentato al Museo ebraico di Roma

di Sarah Tagliacozzo

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Un pubblico interessato e curioso ha assistito alla presentazione del volume “Il ricatto dell’oro. Cronaca di un’estorsione 26-28 settembre 1943”(Palombi editore), curato da Yael Calò e Lia Toaff. All’incontro al Museo Ebraico di Roma hanno partecipato, oltre alle curatrici del volume, il Direttore del Dipartimento per i Beni e le Attività Culturali della Comunità Ebraica di Roma Claudio Procaccia e Ruth Dureghello, Presidente della Comunità Ebraica di Roma; a moderare Ariela Piattelli, giornalista e Direttore di Shalom.
  «È un progetto ambizioso di ricerca» ha commentato Dureghello secondo cui «la volontà di realizzare e proporre questo libro proprio oggi ed in questo contesto è per dare un segnale. Non ci interessano molto le commemorazioni. Siamo alla ricerca dei contenuti. Non vogliamo essere ricordati come vittime».
  Il volume, che ha anche una traduzione in inglese, è dedicato alla vicenda che ha travolto la comunità ebraica italiana nel settembre del 1943 quando, durante l’occupazione nazista, Herbert Kappler, Maggiore delle SS e della Polizia segreta a Roma, ordinò agli ebrei di consegnare 50 chili d’oro entro 36 ore, minacciando, in caso contrario, la deportazione di 200 membri della comunità. Gli avvenimenti drammatici e concitati che seguirono l’ordine di Kappler sono in parte ricostruibili dalle ricevute rilasciate a chi consegnava l’oro. Le matrici con indicati nomi e quantitativi consegnati sono oggi al Museo Ebraico di Roma.
  «Quello di Yael Calò e di Lia Toaff è un volume importante perché, partendo dallo studio delle ricevute e dalle testimonianze, ricostruisce le ore concitate della raccolta, le storie di chi diede l’oro e la fotografia della Comunità Ebraica di allora. Un volume che ci restituisce un’immagine della vicenda dei 50 chili d’oro con una nuova prospettiva storica» così ha commentato Piattelli, Direttore di Shalom.
  Quando i vertici della comunità ebraica decisero di iniziare la raccolta, si rivolsero subito agli orefici correligionari come Angelo Anticoli, la cui storia è ricostruita nel libro. Calò ha raccontato che «Angelo svuotò il suo negozio e dette via tutto quello che aveva. Era molto preoccupato che non si facesse in tempo a raccogliere tutto l’oro richiesto, tanto che la sera a casa chiese alla moglie se per caso avessero ancora qualcosa lì, così la moglie gli diede la sua fede. Angelo, l’orefice, era presente anche durante la raccolta dell’oro per accertarsi che fosse vero, inoltre lo batteva per non consegnarlo ai tedeschi in buone condizioni. Angelo ha anche accompagnato il Presidente della Comunità di Roma Ugo Foà ed il Presidente delle Comunità Israelitiche Italiane Dante Almansi a Via Tasso per consegnare l’oro richiesto. Si salvò dalla retata del 16 ottobre ma fu successivamente arrestato e deportato a Fossoli. Morì ad Aushwitz».
  «Dalle 1800 matrici si possono in parte ricostruire le vicende di quel giorno, soprattutto i molti (circa 2000) nomi di chi era in fila, ebrei, ma anche romani non ebrei. Tra questi vi era anche il noto cantautore Romolo Balzani che «sembra che avesse ricevuto un anello d’oro da un ebreo che era andato a vederlo ad un suo spettacolo, e il giorno della raccolta dell’oro lo portò nella sala del consiglio della comunità cantando “per me l’oro non conta, conta er core”» ha spiegato Lia Toaff.
  Le curatrici del volume hanno anche affrontato il tema dell’aiuto richiesto al Vaticano. Lia Toaff ha raccontato al pubblico che «il Rabbino capo Zolli era andato in Vaticano a chiedere aiuto. Il Vaticano non disse che avrebbe aiutato dando ciò che mancava, ma che avrebbero potuto prestare fino a 15 kg, da restituire entro 4 anni dalla fine delle ostilità. Alla fine non ce ne fu bisogno».
  La raccolta si chiuse il 28 settembre alle 16. Fu raccolto tutto l’oro richiesto e anche qualche centinaia di grammi di più. «L’oro fu consegnato da Almansi, Foà e dall’orefice. Foà chiese alla questura una scorta, sia per motivi di sicurezza sia come testimonianza dell’avvenuta consegna. Pensavano infatti di non ricevere alcuna ricevuta. Ottenuta la scorta, furono quindi accompagnati a Via Tasso dove però non trovarono Kappler, ma il capitano Shulz. Fu forse una scelta deliberatamente umiliante. Shulz provò ad ingannare gli ebrei: l’oro fu pesato su una bilancia da 5 kg, ma si fecero solo 9 pesate. Sembrava così che non fosse stato raccolto tutto l’oro richiesto e fu necessario richiedere di ripesare l’oro una seconda volta» ha spiegato Calò.
  Il volume, ricco di aneddoti, ricostruisce le vicende di quella giornata restituendo l’immagine delle numerose persone in fila nella sala del Consiglio della Comunità Ebraica di Roma per consegnare anche solo 1 grammo d’oro nella speranza di salvarsi dalla violenza nazista che, purtroppo, non tardò a manifestarsi con la retata del 16 ottobre del 1943, meno di un mese dopo la raccolta dell’oro richiesto.

(Shalom, 27 gennaio 2023)

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Israele, notte di tensione dopo il raid a Jenin: attacchi aerei a Gaza per rispondere al lancio di razzi

Le sirene di allarme per il prossimo arrivo dei razzi erano risuonate nella città costiera di Ascalon, e nei kibbutz di Zikim e Karmia

Israele ha lanciato attacchi aerei sulla Striscia di Gaza dopo il lancio di razzi dall'enclave palestinese, 'risposta' al raid israeliano di Jenin in Cisgiordania.
  "L'Idf (Israel defence forces) sta attualmente colpendo nella striscia di Gaza", si legge in un comunicato dell'Esercito. Fonti della sicurezza nella Gaza controllata dagli islamisti di Hamas hanno riferito che ci sono stati 15 attacchi contro siti locali, senza feriti.
  Due razzi erano stati lanciati dalla Striscia di Gaza verso il sud di Israele poco prima della mezzanotte locale. Subito intercettati e abbattuti dal sistema di difesa aerea Iron Dome.
  Le sirene di allarme per il prossimo arrivo dei razzi erano risuonate nella città costiera di Ascalon, e nei kibbutz di Zikim e Karmia. Secondo quanto riporta la stampa israeliana, non sono stati riportati danni o feriti.

(la Repubblica, 27 gennaio 2023)

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Il Senato commemora la Shoah. La Russa: "Ogni giorno dell'anno sia il giorno della memoria"

La Russa ha poi invitato a commemorare anche le leggi razziali: "E' necessario ricordare anche il 17 novembre e la drammaticità delle legge razziali con un'apposita norma, un'apposita legge, e forse il Senato potrebbe pensarci", ha detto.

"Il Senato è stato e sarà sempre in prima linea per diffondere il significato del Giorno della Memoria. Tutti abbiamo il dovere di non dimenticare e di far conoscere soprattutto alle generazioni più giovani il dramma e le atrocità che subirono gli ebrei, a partire dall'infamia delle leggi razziali italiane".
  Le parole sono quelle pronunciate da Ignazio La Russa durante la commemorazione del Giorno della Memoria a palazzo Madama che, quest'anno, si è voluta celebrare in forma ancora più solenne.     
  "E' compito di tutti, - ha aggiunto il presidente - a cominciare dalle più alte Istituzioni, tramandare il ricordo affinché in futuro non si ripetano mai più simili tragedie. Il modo migliore è quello della memoria, senza la memoria non c'è mai la certezza che non vi sia la ripetizione di gesti odiosi. E' necessario guardare al presente e al futuro con la doverosa attenzione verso ogni forma di razzismo e di antisemitismo che non può e non deve mai più trovare cittadinanza in nessuna parte del mondo e, per quanto ci riguarda, nella nostra Patria".

Ogni forma di razzismo e di antisemitismo non può e non deve mai più trovare cittadinanza in nessuna parte del mondo e, per quanto ci riguarda, nella nostra Patria".
Il presidente del Senato ha poi invitato a non soffermarsi, in questa giornata, solo sull'aspetto della solennità: "Vorremmo che il Giorno della Memoria entrasse nella quotidianità, nelle scuole, nel cuore dei giovani, perché ogni giorno dell'anno sia il giorno della memoria", ha detto in Aula. Spazio anche a una riflessione sulle leggi razziali: "E' necessario ricordare anche il 17 novembre e la drammaticità delle legge razziali con un'apposita norma, un'apposita legge, e forse il Senato potrebbe pensarci", ha aggiunto il presidente La Russa.
  A palazzo Madama è stata ricevuta una delegazione della Comunità ebraica da lui invitata e composta, tra gli altri, dalla Presidente delle Comunità ebraiche Italiane, Noemi Di Segni, dalla Presidente della Comunità ebraica di Roma, Ruth Dureghello, dal Presidente della Comunità ebraica di Milano, Walker Meghnagi e dall'Ambasciatore d'Israele in Italia e a San Marino, Alon Bar.
  Il presidente La Russa ha preferito non presenziare all'incontro, a Palazzo Giustiniani, tra Sami  Modiano, sopravvissuto ai campi di concentramento di Auschwitz, e un gruppo di studenti del liceo Morgagni di Roma. “Ho preferito non  esserci, per non dare neanche il minimo accenno di politicizzazione di un tema che deve appartenere a tutti", ha dichiarato. "Ringrazio Modiano di essere  venuto”, ha poi aggiunto La Russa ricordando anche la "testimonianza importantissima" di  Liliana Segre, assente in Aula perché a Milano e il ruolo, sempre “in prima linea”, del Presidente Mattarella.

(RaiNews, 27 gennaio 2023)


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Giorno della Memoria, il Senato riceve delegazione ebraica

di Ilaria Ester Ramazzotti

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“Ogni giorno dell’anno sia il giorno della memoria”, “è necessario ricordare anche il 17 novembre e la drammaticità delle legge razziali”. Queste le parole del presidente del Senato Ignazio La Russa che giovedì 26 gennaio in occasione delle celebrazioni per il Giorno della Memoria, ha ricevuto il Sala Pannini a Palazzo Madama a Roma una delegazione delle Comunità ebraiche composta, tra gli altri, dalla presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni, dalla presidente della Comunità Ebraica di Roma, Ruth Dureghello, dal presidente della Comunità Ebraica di Milano, Walker Meghnagi e dall’ambasciatore d’Israele in Italia e a San Marino Alon Bar.
  Alla celebrazione solenne poi svoltasi in Aula, La Russa ha dichiarato che: “Il Senato è stato e sarà sempre in prima linea per diffondere il significato del Giorno della Memoria. Tutti abbiamo il dovere di non dimenticare e di far conoscere soprattutto alle generazioni più giovani il dramma e le atrocità che subirono gli ebrei, a partire dall’infamia delle leggi razziali italiane”. “È compito di tutti, a cominciare dalle più alte Istituzioni, tramandare il ricordo affinché in futuro non si ripetano mai più simili tragedie – ha proseguito il presidente del Senato -. Il modo migliore è quello della memoria, senza la memoria non c’è mai la certezza che non vi sia la ripetizione di gesti odiosi. È necessario guardare al presente e al futuro con la doverosa attenzione verso ogni forma di razzismo e di antisemitismo che non può e non deve mai più trovare cittadinanza in nessuna parte del mondo e, per quanto ci riguarda, nella nostra Patria”. “Vorremmo che il Giorno della Memoria entrasse nella quotidianità, nelle scuole, nel cuore dei giovani, perché ogni giorno dell’anno sia il Giorno della Memoria”, ha poi sottolineato, riproponendo l’idea di istituire una apposita giornata di ricordo e riflessione sul dramma delle leggi razziali del 1938: “È necessario ricordare anche il 17 novembre e la drammaticità delle legge razziali con un’apposita norma, un’apposita legge, e forse il Senato potrebbe pensarci”. Sono in seguito intervenuti in Aula i senatori Biancofiore, De Cristofaro, Musolino, Fregolent, Craxi, Barbara Floridia, Marti, Malpezzi, Malan.
Sami Modiano: “Fino a quando avrò forza e vita trasmetterò ai ragazzi quello che è stato. Ho fiducia e speranza in chi verrà dopo di noi”.
Fra le iniziative proposte dal Senato a favore della conoscenza, dello studio e della riflessione sulla Shoah, sull’antisemitismo, sul razzismo, è stata pubblicata sul sito istituzionale di Palazzo Madama, nella speciale pagina dedicata al Giorno della Memoria, una serie di scritti e video di testimonianza. In apertura, il video del dialogo con Sami Modiano, dal titolo La lacrima di un sopravvissuto, registrato venerdì 20 gennaio quando il testimone della Shoah ha incontrato un gruppo di studenti del Liceo scientifico Morgagni di Roma. “Mi ricordo qualche giorno prima del 27 gennaio: ho dovuto fare la ‘marcia della morte’ – ha spiegato Sami Modiano ai ragazzi intervenuti all’incontro -. Ero un ragazzo di 14 anni. Ero distrutto, agonizzavo. Però qualcuno ha voluto che rimanessi in vita. Sono caduto durante ‘la marcia della morte’, ma non ho ricevuto il colpo di grazia. Per quale motivo? Non lo so. Perché l’ordine preciso era di dare il colpo di grazia, perché nessuno doveva testimoniare ai russi. E poi, come ho detto sempre, sono uscito vivo ma sono uscito vivo chiedendomi il perché. E, grazie a Dio, dopo tanti anni, ho capito che dovevo essere un testimone per raccontare quello che è stato. Vi ringrazio di essere venuti, anche voi sarete dei testimoni”.
  “Sono un sopravvissuto alla deportazione, avevo 14 anni quando sono stato mandato a Birkenau. Ho perso tutti quanti della mia famiglia ma in realtà ho perso in tutto 2000 persone, ossia quelle che facevano parte della piccola comunità ebraica di Rodi, da cui io provengo. Io rappresento ancora questa comunità – ha sottolineato commosso Sami Modiano -. Fino a quando avrò forza e vita trasmetterò ai ragazzi quello che è stato. Ho fiducia e speranza in chi verrà dopo di noi”.
  Sempre sul sito del Senato è pubblicato un filmato realizzato per il Giorno della Memoria del 2018 in collaborazione con bambini e ragazzi della Scuola Ebraica di Roma, con lettura di brani scelti per trasmettere la memoria dell’Olocausto da parte di studenti di tutta Italia in visita a Palazzo Madama, oltre a uno speciale SenatoTV sul rastrellamento del Ghetto di Roma, con la testimonianza di Mario Mieli, i racconti dei giovani in visita al Senato e l’intervista alla presidente della Comunità ebraica di Roma, Ruth Dureghello. Si possono inoltre vedere un’intervista a Primo Levi del 1983, a cura di Rai Teche, in cui lo scrittore ricorda la tragica esperienza nel lager nazista di Auschwitz, e il documentario Rai ‘Liliana Segre ricorda’ del 10 settembre 2021, in cui la senatrice a vita Segre narra i giorni della Shoah e i suoi interventi in Aula.

(Bet Magazine Mosaico, 27 gennaio 2023)

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Nel Giorno della Memoria

Da un'affezionata amica di Israele riceviamo anche quest'anno una sua poesia in occasione di questo particolare giorno. Grazie.

Come neve

    La mia vita è danzata nell’aria.
    Come mille ballerine, i fiocchi di neve
    fluttuano nel vento gelido,
    si posano grevemente su questi prati grigi 
    carichi di fango ed orrore.
    Oh! Dolce tepore di casa,
    Fragrante profumo di pane,
    sguardi d’amore e
    risa di bimbi festosi!
    Tutto hanno rubato…
    La mia vita danza nell’aria
    come i fiocchi di neve…
    Il freddo dell’inverno,
    il fumo nero intenso,
    questo è il mio presente.
    Vedo, negli occhi intorno a me
    un futuro che non c’è.
    Certo diventerò ossa, ossa secche… ma
    rassegnazione mai!
    C’è promessa di un futuro per il mio popolo Israele:
    Ezechiele 37:4-6
    “Egli mi disse: - Profetizza su queste ossa,
    e di’ loro: - Ossa secche, ascoltate la parola del Signore!
    Così dice Dio, il Signore, a queste ossa:
    - Ecco, io faccio entrare in voi lo spirito e voi rivivrete; metterò su di voi dei muscoli,
    farò nascere su di voi della carne,
    vi coprirò di pelle,
    metterò in voi lo spirito e rivivrete;
    e conoscerete che io sono il Signore!”

Lunga vita a Israele!!!

Carmela Palma

(Notizie su Israele, 27 gennaio 2023)

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Russia, il rabbino capo a Putin: "Fare di tutto per la pace"

L'incontro del presidente con Berel Lazar e Aleksandr Barada in occasione della Giornata della Memoria. Nessun delegato russo presente alle commemorazioni della liberazione di Auschwitz da parte dell'Armata Rossa

di Rosalba Castelletti

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MOSCA - Alla vigilia delle commemorazioni della liberazione del campo nazista di Auschwitz per la prima volta senza rappresentanti dei "liberatori russi", il presidente russo Vladimir Putin ha incontrato a Mosca il rabbino capo della Federazione russa Berel Lazar e il presidente della Federazione delle comunità ebraiche della Russia Aleksandr Barada.
  "Siamo pronti a fare tutto il necessario per trovare soluzioni pacifiche", ha detto Lazar, alludendo al conflitto in Ucraina. "Il nostro desiderio è che tutti i bambini vivano in fratellanza, comprensione reciproca e amicizia in modo che le persone si rispettino a vicenda".
  Citando il Talmud, Lazar ha ricordato che “chiunque salvi una sola vita per le Scritture ha salvato il mondo intero” e ribadito ancora una volta la disponibilità della comunità ebraica, non solo russa, di adoperarsi per la pace.
  "Forse la nostra gente capisce più di chiunque altro cos'è la sofferenza, quindi siamo pronti a fare di tutto affinché ci sia davvero solo pace nel mondo e le persone vivano una vita buona”, ha concluso.
  Il presidente Putin, dal canto suo, seduto a distanza a un tavolone di marmo, ha definito le "vittime dell'Olocausto" "eroi della resistenza". "Questo è il nostro dolore comune", ha aggiunto ricordando che "di tutti gli ebrei sterminati dai nazisti, la maggioranza erano cittadini dell'Unione Sovietica".
  Ha ribadito poi di essere "categoricamente contrario alla consegna all'oblio di crimini di questo tipo, che non hanno termini di prescrizione" e ha sostenuto che la Russia "sta perseguendo una politica tale in modo che nulla di simile nella storia dell'umanità accada mai più".
  Il leader del Cremlino si è infine detto sicuro del fatto che Israele vede "l'importanza" del "ruolo dell'Armata Rossa nella vittoria sul nazismo, sul fascismo".
  L'incontro, hanno notato i media israeliani, è avvenuto dopo la destituzione di Aleksej Pavlov, assistente segretario del Consiglio di sicurezza presieduto da Putin, che aveva paragonato il movimento chassidico Chabad-Lubavitch - di cui fa parte Lazar - a un culto suprematista, destando le critiche degli esponenti ebraici.
  Lo scorso settembre, al termine di una Conferenza d’emergenza dei rabbini delle comunità ebraiche russe, i rappresentanti dei 165mila ebrei che vivono nella Federazione avevano preso l'impegno a continuare a servire le loro comunità. “Potrebbe sembrare che affrontiamo enormi sfide geopolitiche ed economiche, ma non dobbiamo rinunciare ai nostri doveri”, aveva detto Barada.

• Le commemorazioni ad Auschwitz senza la Russia
  Oggi intanto si svolgono le commemorazioni che segnano il 78° anniversario della liberazione delcampo di sterminio nazista di Auschwitz-Birkenau da parte dell'Armata Rossa. Ma "alla luce dell'aggressione contro un'Ucraina libera e indipendente, i rappresentanti della Federazione Russa non sono stati invitati", ha detto Piotr Sawicki, portavoce del museo. Finora, un rappresentante russo aveva sempre partecipato alle cerimonie.
  "Spero che le cose cambino in futuro, ma abbiamo ancora molta strada da fare", ha commentato il direttore del museo, Piotr Cywinski. "La Russia avrà bisogno di un tempo estremamente lungo e di un'introspezione molto profonda dopo questo conflitto per tornare nei salotti del mondo civilizzato".

(la Repubblica, 27 gennaio 2023)

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«Il presidente ucraino al Festival fa un gran bene, basta vedere chi non lo vuole per esserne sicuri»

Questo è il titolo di un articolo del Foglio di oggi. Non lo riportiamo per intero e non indichiamo il nome dell'autore, ma ci limitiamo a commentare alcuni estratti. Chi è interessato può leggerlo per intero sul giornale. Il risalto in colore è aggiunto. NsI

Da sinistra urlano Vauro, Beppe Grillo, Moni Ovadia, Dibba e perfino Luigi de Magistris. Da destra strillano Nicola Porro e Mario Giordano. Gli opposti isterismi, insomma. Manca solo una dichiarazione contro di Giuseppe Conte per avere la matematica certezza che è giusto essere pro: pro l’ospitata di Volodymyr Zelensky a Sanremo.

    Dunque anche un giornale "intellettuale" come Il Foglio usa come argomento decisivo a sostegno di una tesi la squalifica definitiva di chi sostiene il contrario. E' una tecnica oggi molto usata, soprattutto dai grandi giornali popolari. Per essere certi dell'importanza della vaccinazione, basta osservare i no-vax; per essere sicuri che la guerra contro i Russi è giusta, basta guardare chi sono i  filoputiniani. Dopo di che si passa a descrivere le ingenuità, le manie, gli "isterismi" dei meschini che si oppongono all'unica, indiscutibile verità  a tutti nota  ma scioccamente respinta da chi non ha le capacità per accoglierla.

Invece avere Zelensky a Sanremo fa bene innanzitutto a Sanremo, visto che le sue precedenti ospitate spettacolari, in tutti i sensi, si erano verificate ai Golden Globe, a Cannes e a Venezia, eventi decisamente più global e glam, e insomma certifica che il festivalone è meno irrilevante di quanto siamo abituati a pensare. Semmai c’è da rimpiangere che Sanremo in Russia non lo guardino più, a differenza dei bei tempi di Al Bano e di Toto Cutugno e dei Ricchi e Poveri, ultimi eroi di una passione russa per la musica italiana che risale addirittura a Cimarosa (musica magari un po’ migliore, volendo); però in ogni caso provvederebbe la censura del grande uomo di Stato e di governo a impedire ai sudditi di ascoltare il Nemiso. Ma poi Zelensky che si materializza su Rai 1 fa bene anche a chi la guarda.

    Secondo la tesi ufficiale gli ucraini hanno ragione in tutto e i russi hanno torto in tutto. Dunque Zelensky, che è il capo degli ucraini, non può che dire e fare cose giuste. Anche apparire al Festival di Sanremo. E di questa apparizione bisogna dire che "fa bene anche a chi la guarda". Insomma, l'apparizione di Zelensky a Sanremo è miracolosa come quella della Madonna a Medjugorje.

Nell’ottundimento collettivo di cinque interminabili serate di fiori e ritornelli e begli applausi, in questa bolla d’incoscienza che fluttua nel cielo sempre più blu dell’ottimismo coatto, nel migliore dei mondi possibili come sono tutti quelli che sospendono la realtà, ricorda a tutti che, mentre ci balocchiamo con sorrisi e canzoni, nel nostro continente c’è un dittatore criminale che sta cercando di asservire un popolo libero, che per restarlo combatte con un eroismo che suscita l’ammirazione di tutte le persone perbene.

    Che un giornale "intellettuale" come il Foglio, per indicare una realtà complessa e di tale portata come quella di questa guerra, ne faccia una presentazione talmente acritica e semplicistica,  con l'uso di espressioni banali come "dittatore criminale", "popolo libero" "eroismo", "ammirazione", "persone per bene", è una cosa che delude e intristisce.

Tutti a definire Zelensky, in tono spregiativo, “un attore”, “un comico”, addirittura “un clown”: però al momento dell’invasione ha rifiutato un comodo esilio, ed è restato lì a combattere con la sua gente, sangue, sudore e lacrime invece di Beverly Hills. Il precedente di un attore che ha vinto la terza guerra mondiale senza nemmeno doverla combattere dimostra che non bisogna prendere sottogamba la gente di spettacolo che fa politica. Si chiamava Ronald Reagan. Peccato solo che Zelensky, stando a quel che annuncia la Rai, non parlerà dal vivo ma registrato e soltanto per due minuti, nella serata terminale dell’11 febbraio, tra la fine della gara e l’annuncio di chi l’ha vinta. “Zelensky? Non so come canta, ho altre preferenze”, ironizza Salvini. Beh, non canta male, anche se è meglio come ballerino, basta fare un salto su YouTube. Ma l’importante, per la sua performance sanremese, è che le canti chiarissime.

    Contrastare con argomenti ragionati un simile modo di parlare sarebbe inutile: l'autore si sente anche lui un artista, un po' come Zelensky, quindi la tesi ufficiale non deve essere razionalmente argomentata, ma recitata, cantata. Sembra che anche chi scrive su giornali come il Foglio  si sia adattato a rimanere entro limiti impercettibilmente assegnati quando una tesi ufficiale si libra nell'aria: il giornalista deve mostrare la sua originale capacità letteraria soltanto nel riuscire a dire in forma originale quello che dicono tutti. Nulla di più. Sviamesti non sono ammessi. Tra le varie forme consentite, c'è anche quella irrisoria, canzonatoria, apparentemente spregiudicata, ma in realtà allineata in tutto e per tutto. Conformismo. Purtroppo anche un giornale come il Foglio sembra aver preso questa piega.  M.C.

(Notizie su Israele, 27 gennaio 2023)

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Olocausto: Herzog, Europa non sarebbe ciò che è senza ebrei

"Mettere in dubbio il diritto all'esistenza del popolo ebraico sullo Stato-nazione non è diplomazia legittima! È antisemitismo nel vero senso della parola e deve essere completamente sradicato", ha sostenuto il presidente israeliano Isaac Herzog davanti al Parlamento europeo.

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"La spregevole 'soluzione finale' dei nazisti ha cercato di strappare la carne e il sangue dell'Europa. Perché proprio come l'umanità non sarebbe ciò che è senza l'Europa, l'Europa non potrebbe essere ciò che è senza gli ebrei".
  Lo ha affermato presidente israeliano Isaac Herzog durante il suo discorso alla plenaria del Parlamento europeo in occasione della Giornata internazionale della memoria dell'Olocausto.
  "Qualcuno può immaginare un'Europa senza le teorie di Sigmund Freud, senza il genio di Albert Einstein o Emmy Noether? Esiste un'Europa senza gli echi del pensiero di Karl Marx? Come si può concepire la filosofia europea senza Baruch Spinoza o Henri Bergson, o lo spirito della cultura europea privato di Amedeo Modigliani e Franz Kafka?", ha continuato Herzog durante il suo discorso in aula.
  "Quando stiamo insieme, qui, nel cuore pulsante dell'Unione europea, comprendiamo bene la missione della memoria che tutti condividiamo. Ma nei luoghi della memoria in cui ci rechiamo in pellegrinaggio, dobbiamo ricordare non solo l'Olocausto e la distruzione, ma anche la sacra alleanza forgiata in questo orribile disastro e santificare la memoria delle vittime", ha sottolineato il presidente.
  "In questa plenaria desidero sottolineare la linea sottile tra la critica allo Stato di Israele e la negazione dell'esistenza dello Stato di Israele. Ovviamente va bene criticarci e va bene non essere d'accordo con noi. Il nostro paese è aperto alle critiche come tutti i membri della famiglia delle nazioni. Mettere in dubbio però il diritto all'esistenza del popolo ebraico sullo Stato-nazione non è diplomazia legittima! È antisemitismo nel vero senso della parola e deve essere completamente sradicato", ha sostenuto Herzog.
  "Gli ultimi rapporti indicano nuovi record di odio, l'antisemitismo continua ad assumere nuove sembianze, e questa volta è attivo anche su piattaforme virtuali - è alimentato da esse e vi mette radici, prosperando, diffondendo veleno. Su Internet, l'antisemitismo virale si sta diffondendo a un ritmo record, con un semplice clic", ha spiegato il presidente israeliano.
  "La distanza tra un video virale e un'aggressione fisica non esiste più, la distanza tra un post su Facebook e l'abbattimento di lapidi in un cimitero è più breve di quanto si possa pensare. I tweet di uno squilibrato possono uccidere. Possono davvero", ha concluso Herzog.
  Da parte sua la presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola durante il suo discorso ha ribadito: "ripeto quello che ho detto alla Knesset (parlamento israeliano, ndr): essere antisemiti significa essere antieuropei".
  "Dobbiamo parlare perché, nonostante decenni di sforzi, l'antisemitismo esiste ancora. L'odio trova ancora troppe voci che lo scusano. Troppe famiglie in Europa e nel mondo vivono con le valigie pronte davanti alla porta. Non possiamo permettere a nessuno di trovare conforto nell'ignoranza", ha spiegato la Metsola.
  "La nostra prima donna presidente, Simone Veil, era lei stessa una sopravvissuta, cresciuta per cambiare il volto dell'Europa, e la sua eredità è presente in queste sale e palazzi. Ha capito che 'la neutralità aiuta solo l'oppressore'. E il Parlamento europeo si schiererà sempre da una parte: dalla parte del rispetto, dalla parte della dignità umana, dalla parte dell'uguaglianza, dalla parte della speranza", ha concluso.
  Dopo che i deputati avranno osservato un minuto di silenzio Herzog e la Metsola hanno inaugurato il Memoriale dell'Olocausto "Il Rifugiato" di Felix Nussbaum, pittore tedesco di origine ebraica, davanti alla sala plenaria del Parlamento.

(swissinfo.ch, 26 gennaio 2023)
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Il discorso integrale in seduta plenaria

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Un israeliano su cinque vive in povertà

di Giuseppe Caffulli

Un senzatetto assopito ai margini di una via di Gerusalemme nel dicembre 2021
Nel 2021, anche a causa della crisi del Covid-19, quasi 2 milioni di israeliani si sono ritrovati poveri. Lo evidenziano dati recenti dell'Istituto di previdenza sociale dello Stato ebraico.
  «Il rapporto sulla povertà in Israele diffuso dall’Istituto di previdenza sociale israeliano evidenzia il ritorno dell’economia israeliana sul sentiero della crescita rispetto alla crisi del Coronavirus. Mentre nel 2020 il Prodotto interno loro era diminuito dell’1,9 per cento, nel 2021 è cresciuto dell’8,3, che è il tasso di crescita più alto registrato rispetto ad altri Paesi sviluppati. Il tasso di disoccupazione è diminuito in modo significativo e c’è stato un aumento dei salari reali». L’incipit del comunicato stampa, pubblicato nel sito dell’organismo governativo, parrebbe disegnare una situazione paradisiaca. In realtà, leggendo solo poche righe più sotto, il quadro si fa decisamente più complicato: secondo i dati 2021 in Israele i poveri sono stimati in un milione e 950mila – tra loro 853mila minori e 212mila pensionati. In sostanza vive in povertà il 20 per cento della popolazione israeliana. Oltre il 26 per cento delle famiglie non è in grado di coprire le spese mensili, oltre il 10 per cento ha rinunciato alle cure mediche, poco meno del 7 ai farmaci e il 5 per cento ad un pasto caldo per difficoltà economiche.
  La ragione dell’aumento della povertà può essere attribuita a molti fattori. Gli ebrei ultraortodossi e la minoranza araba tendono ad avere famiglie più numerose, hanno spesso redditi più bassi e meno accesso all’istruzione. I lavori più remunerativi sono concentrati nell’area centrale d’Israele, dove è più costoso vivere. I trasporti pubblici sono un problema e ha più opportunità di lavoro chi ha un’auto propria.  Gli stipendi nel settore pubblico, che è tra quelli che impiegano il maggior numero di persone, sono bassi e non vengono aggiornati da anni.

• Le promesse del premier
  Il nuovo governo di Benjamin Netanyahu, che si è insediato a inizio anno, ha promesso nel corso della campagna elettorale di abbassare il costo della vita, che tra i più alti al mondo. Difficile però che qualsiasi ricetta economica riesca, nel breve periodo, a comprimere l’aumento dei prezzi e ad alzare i salari. In più la pandemia di Covid-19 – come in altre parte del mondo – ha contribuito ad allargare la forbice tra ricchi e poveri. L’inflazione in costante aumento erode infine il potere di acquisto e sempre più israeliani sono spinti nella povertà.
  Figure di primo piano, come il professor John Gal del Centro Taub per gli Studi di politica sociale, un istituto indipendente di ricerca in campo economico, spiega che non esistono grandi ricette nell’immediato, se non aumentare le tasse a coloro i quali percepiscono redditi alti, e nel contempo varare una serie di sussidi e misure di sostegno al reddito per le fasce più povere della popolazione. Nessuna delle due opzioni sembra però, finora, alle viste.

• 500 ricconi
  Per avere un’idea del divario economico in Israele, basta leggere le classifiche di Forbes. Tra i 500 più ricchi del Paese, ben 385 sono multimiliardari. Tra i 100 superricchi individuati nel 2022 (attivi nei più svariati settori, dal turismo alle attività estrattive, dalle telecomunicazioni all’edilizia, dalla farmaceutica ai media) figura anche Roman Abramovich (il magnate russo-israeliano già patron della squadra calcistica del Chelsea, attivo attualmente nel settore dell’acciaio) ma solo al quinto posto, dietro a meno noti «Paperon de’ Paperoni».
  Il paradosso è sempre dietro l’angolo: i ricchi israeliani possiedono un’enorme quantità di proprietà immobiliari, mentre la maggior parte della popolazione lotta per pagare il mutuo o non può permettersi di acquistare la prima casa.
  Quello dei prezzi alle stelle di affitti e case è infatti uno dei più gravi problemi che attanaglia le famiglie e le giovani generazioni israeliane. Ecco perché il rapporto, alla fine, conclude con parole di saggezza: «Dobbiamo cambiare profondamente la società israeliana e renderla non solo una potenza economica, tecnologica e militare, ma anche una superpotenza della giustizia sociale».

(TerraSanta.net, 26 gennaio 2023)

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Un terzo dei sopravvissuti alla Shoah vive sotto la soglia di povertà

di Luca Spizzichino

Nell’ultimo anno sono morti 15.123 sopravvissuti alla Shoah in Israele, portando il numero totale di chi vive nello Stato Ebraico a circa 192.000. Un terzo di questi vivono al di sotto della soglia di povertà. Questi sono i dati allarmanti che emergono dalle statistiche pubblicate dall'Autorità per i diritti dei sopravvissuti alla Shoah, dipartimento governativo che si occupa della loro assistenza, alla vigilia del Giorno della Memoria. Statistiche comuni anche in altre parti del mondo, come gli Stati Uniti.
  Secondo i dati, oltre il 21% dei sopravvissuti ha superato i 90 anni e circa 1.100 hanno più di 100 anni. I numeri mostrano inoltre che il 60% dei sopravvissuti in Israele sono donne, con un'età media di 85,9 anni. "I numeri parlano da soli", ha detto il viceministro Uri Maklev. "Rimangono decine di migliaia di sopravvissuti e l'Autorità per i diritti dei sopravvissuti alla Shoah fa ogni sforzo per fornire il miglior servizio”. "Continueremo a vedere come agire per ulteriori miglioramenti e per ottimizzare il servizio fornito ai sopravvissuti a tali atrocità", ha aggiunto. L’ente infatti distribuisce oltre 4 miliardi di shekel in sovvenzioni ogni anno a circa 59.000 israeliani sopravvissuti alla Shoah, ciascuno dei quali può richiedere fino a 6.000 shekel al mese.
  Tuttavia uno su tre vive al di sotto della soglia di povertà, nonostante l'assistenza governativa. Infatti il periodo di alta inflazione e l’aumento del costo della vita in Israele hanno accentuato un quadro che già nel 2019 era allarmante. Infatti quattro anni fa, secondo Aviv for Holocaust Survivors, un'organizzazione che lavora per informare i sopravvissuti sui loro diritti e li aiuta a districarsi nel processo burocratico, circa 50.000 sopravvissuti in Israele vivevano una bassa qualità della vita. Una situazione simile la vivono quelli negli Stati Uniti. Secondo l’ultima ricerca fatta nel 2018 dall’associazione The Blue Card Foundation, ente di beneficenza che aiuta i sopravvissuti che vivono negli States, un terzo degli 80.000 sopravvissuti alla Shoah vivevano in povertà. Una percentuale che con il Covid-19 e l’inflazione attuale si è accentuata.
  Per far fronte a questa fotografia estremamente preoccupante di coloro che hanno vissuto sulla loro pelle gli orrori della Shoah, diverse associazioni stanno donando milioni di dollari per far fronte a questa vera e propria emergenza. Come nel caso del Center on Holocaust Survivor Care e l'Institute on Aging and Trauma della Federazione Ebraica del Nord America, che hanno sovvenzionato dozzine di agenzie, ebraiche e non, che forniscono servizi sociali a decine di migliaia di sopravvissuti, con oltre 5,5 milioni di dollari in due anni. Questa iniziativa, che si chiama Holocaust Survivor Care, è stata lanciata nel 2015. Fin dall'inizio, le Federazioni ebraiche americane hanno fornito assistenza a circa 35.000 sopravvissuti.

(Shalom, 26 gennaio 2023)

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Adesivi di Hitler con maglia della Roma imbrattano i quartieri della Capitale

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Triste risveglio per la Capitale che ieri ha iniziato un nuovo giorno con l’immagine di Adolf Hitler con indosso la maglia della Roma, apposta su un adesivo.
  Adesivo che ha imbrattato le saracinesche e i segnali stradali di diverse zone: piazza Vescovio, il quartiere Trieste, Montesacro, Talenti, e Tufello.
  Un oltraggio per una città intera, che ha visto il sindaco Roberto Gualtieri indignarsi su Twitter:
  “Una vera infamia gli adesivi raffiguranti Hitler con la maglia della #Roma apparsi oggi in città, uno sfregio inaccettabile a pochi giorni dalla Giornata della Memoria. Ci siamo attivati per la loro immediata rimozione. Vergogna per gli autori”.
  Secondo le prime indiscrezioni gli autori del gesto sono da ricercare nella parte di estrema destra della tifoseria giallorossa, quella per intenderci che ha fatto comparire nella Curva Sud dell’Olimpico la bandiera “Roma Marcia Ancora”, scritta apparsa lo scorso maggio sugli spalti dello stadio di Tirana in occasione della finale di Conference League tra la squadra di Mourinho e il Feyenoord.
  Episodi simili non sono nuovi. Già nel 2017 infatti tifosi della Lazio attaccarono sui vetri dello stadio Olimpico adesivi che raffiguravano Anna Frank con la maglia della Roma.
  Tifosi della Lazio (in parte) che anche in questa stagione si sono macchiati di cori antisemiti. Ma come detto in un precedente articolo, l’odio antiebraico e il razzismo nel suo complesso non sono fenomeni da circoscrivere al solo ambiente delle tifoserie di calcio.
  Tifosi della Lazio e tifosi della Roma. I nostalgici del nazifascismo non hanno colore calcistico. Sono persone che strumentalizzano il calcio per lanciare messaggi e sentirsi importanti.
  Perché qualcuno ha voluto che il mondo del tifo calcistico diventasse un luogo quasi impunito o almeno affetto da punizioni assai lievi.
  È inutile guardare oltre le Alpi cercando soluzioni adottate da altri paesi per risolvere il problema.
  È utile, invece, chiedersi se veramente il problema si voglia risolvere oppure se a qualcuno fa comodo recintare il razzismo all’interno del mondo calcio.

(Progetto Dreyfus, 26 gennaio 2023)

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L'impronta della mano dell'antica Gerusalemme confonde gli esperti israeliani

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GERUSALEMME – Gli archeologi israeliani hanno detto mercoledì che stanno cercando di svelare il significato di un’impronta di una mano scoperta di recente scolpita nel muro di pietra di un antico fossato nella Città Vecchia di Gerusalemme.
  Un’impronta che potrebbe essere stata fatta come un “fratello” è stata trovata in un fossato millenario scoperto durante l’allargamento della strada vicino alla Porta di Erode nella Gerusalemme est annessa da Israele, ha detto l’Autorità israeliana per le antichità.
  Il massiccio fossato è stato scavato nella roccia tutt’intorno alla città vecchia, raggiungendo i 10 metri (33 piedi) attraverso una profondità da due a sette metri e, a differenza di quelli tipici europei, non era pieno d’acqua.
  Secondo l’IAA, i crociati impiegarono cinque settimane nel 1099 per attraversarlo e violare le mura e le difese della città.
  Sebbene la funzione del fossato fosse chiara, il significato della mano era difficile da capire.
  “È un mistero, abbiamo cercato di risolverlo”, ha detto in una nota il direttore degli scavi dell’IAA Zubair Adaw.
  Gli archeologi dell’IAA non erano sicuri di chi avesse scolpito la mano nella roccia o del suo significato.
  Il fossato e il braccio sono stati poi coperti per consentire il proseguimento dei lavori infrastrutturali sotto le mura che oggi circondano la città, costruite nel XVI secolo da Solimano il Magnifico.

(MATAIJA, 25 gennaio 2023)

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Olocausto: Bruxelles, domani cerimonia al Parlamento europeo con il presidente israeliano Isaac Herzog

Giovedì 26 gennaio, alle ore 10.30, il presidente israeliano Isaac Herzog si esprimerà nell’aula del Parlamento europeo a Bruxelles in occasione della Giornata internazionale di commemorazione in memoria delle vittime dell’Olocausto. La presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola aprirà la seduta solenne con un discorso introduttivo. Al termine del discorso del presidente Herzog, i deputati osserveranno un minuto di silenzio. La cerimonia si concluderà con l’esecuzione musicale di “Kaddish” di Maurice Ravel, eseguita da Chen Halevi al clarinetto e Jenő Lisztes al cimbalom.
  Al termine della cerimonia, alle 11.45 circa, i presidenti Metsola e Herzog inaugureranno il Memoriale dell’Olocausto “Il rifugiato” di Felix Nussbaum di fronte alla Plenaria del Parlamento. La Giornata internazionale di commemorazione in memoria delle vittime dell’Olocausto viene celebrata il 27 gennaio ed è stata istituita nel 2005 dalle Nazioni Unite per ricordare l’Olocausto e il 60° anniversario della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau. Quest’anno ricorrono anche i 75 anni dalla fondazione dello Stato di Israele.

(SIR, 25 gennaio 2023)

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Razzia casa per casa agli ebrei di Torino. L’orrore della Shoah nella porta accanto

di Federica Cravero

Lunghi elenchi scritti a mano o battuti a macchina: case, terreni, mobili, stoviglie, quadri, argenteria, macchinari aziendali o lettini per bambini requisiti in forza delle leggi razziali e puntualmente registrati dai periti della banca. Accanto il prezzo. Di qualche oggetto c'è anche la foto. Di altri ci sono le testimonianze dei proprietari che li rivendicano dopo la guerra. Sono atti formali, burocratici, ma che dicono molto della vita e della sorte delle famiglie ebraiche che li possedevano. E a volte tutto quello che oggi si sa di loro è in quelle carte.
  Sono passati ottant'anni da quando nel 1943, con la Repubblica di Salò e l'occupazione nazista, il governo fascista decise l'inasprimento della campagna persecutoria contro gli ebrei con il saccheggio di tutti i loro beni. Da un giorno all'altro quello che possedevano non era più loro: sequestrato, messo a disposizione delle milizie, dato ad "ariani". Una razzia di cui venne tenuta nota in maniera minuziosa con un "Registro dei beni ebraici sequestrati" a Torino: un doloroso elenco di vie, numeri civici, nomi e cognomi, che disegnano la mappa del saccheggio che avvenne in città. Mazzini 2, Mazzini 10, Marconi 33, Maria Vittoria 27, Madama Cristina 6, Madama Cristina 10... Riaprire quel registro oggi è una ferita che torna a sanguinare.
  Non c'è angolo di Torino che non abbia visto gli ebrei chiudere i negozi da un giorno all'altro, spegnere le apparecchiature delle ditte, andarsene di casa. Qualcuno per emigrare, qualcun altro deportato. E fa impressione oggi rileggere quegli indirizzi dove la vita è ricominciata, dove ci sono nuovi negozi, nuovi inquilini e nuove attività. Davanti ad alcuni portoni sono state poste " pietre d'inciampo" per ricordare le vittime dell'Olocausto. In altri casi gli ebrei sono riusciti a tornare a casa, dopo la Liberazione: ma anche delle loro vicissitudini va conservata la memoria.
  Con questa missione è iniziata da parte degli studiosi l'analisi dei fascicoli conservati nell'Archivio di Stato di Torino e di quelli della Fondazione 1563 per l'Arte e la Cultura della Compagnia di San Paolo, che proprio grazie alla fredda minuzia con cui erano state compilate quelle carte sono riusciti a ricostruire le storie di diverse famiglie ebraiche. In particolare sono emerse le vicende di Leone Sinigaglia, Luisa Coen Porto e della ditta Fratelli Levi Montalcini, che verranno raccontate da Erika Salassa, Irene Scalco e Piera Levi Montalcini nell'incontro "Dalle carte alle vite", in programma venerdì alle 17 all'Archivio di Stato, in piazza Castello, e in streaming sulla pagina Facebook della Fondazione 1563 nell'ambito degli appuntamenti per il Giorno della memoria.
  "La mia famiglia aveva una ditta di tessuti in corso Re Umberto 10 - racconta Piera Levi Montalcini - Mi ricordo bene l'ingresso, il bancone, il montacarichi " . È una storia, questa, che si intreccia con la vita del premio Nobel Rita Levi Montalcini, emigrata per sfuggire alla persecuzione. Dietro al bancone a vendere tessuti c'erano la mamma, il papà, la zia, i cugini, che dovettero faticare per riprendere quello che era loro. " La burocrazia ha complicato le cose, ha fatto perdere tempo e vita a persone già private dei loro diritti. Questa è una ripercussione della Shoah di cui si parla poco " , ricorda Piera Levi Montalcini, che ha messo a disposizione le carte conservate in casa " nella speranza di riuscire un giorno a realizzare il progetto di un archivio di famiglia".
  Un anno fa è iniziata all'Archivio di Stato la schedatura di migliaia di mazzi che compongono il fondo " Danni di guerra dell'Intendenza di finanza", che riporta i danneggiamenti dei bombardamenti e le perdite dovute al conflitto. "Intrecciando informazioni contenute nei vari fondi - spiega l'archivista Erika Cristina - si ottengono particolari molto toccanti dal punto di vista emotivo e anche molto utili per ricostruire le traversie delle famiglie ebraiche durante e dopo la guerra".
  Una grande mole di dati arriva per esempio dal " Servizio gestioni Egeli" dell'Istituto bancario San Paolo, a cui era stato ordinato di acquisire, gestire e vendere gli immobili confiscati agli ebrei in Piemonte e Liguria, e ciò che c'era dentro: la panchetta con schienale portata via dall'Orfanotrofio israelitico di via Orto Botanico, il fornelletto a gas preso a Celestina Foà in via del Carmine 2 o la sedia viennese di Maria Levi in via Biancamano 3. La banalità del male, come scriveva Hannah Arendt. " Il tema della privazione emerge in maniera forte da questi documenti - commenta Elisabetta Ballaira, direttrice della Fondazione 1563 - e riguarda anche chi riuscì a tornare alle proprie abitazioni dopo il sequestro: magari non trovò più gli stessi mobili o nel frattempo aveva perso il proprio lavoro".
  Qualcosa di simile accadde a Luisa Coen-Porto. "La sottoscritta, proprietaria di un alloggio al primo piano nobile dello stabile di via Venti Settembre 5, a quest'Ufficio che voglia procedere alla riconsegna a sue mani dell'alloggio stesso, a seguito dell'abrogazione delle leggi razziali " , firmò la donna, dopo la Liberazione, il 17 settembre 1945.
  Ne aveva già viste tante in quell'epoca. Il marito professore di medicina all'università di Torino aveva perso la cattedra e nel 1941 era morto. Lei aveva dovuto lasciare la casa all'angolo con via San Quintino. La portinaia aveva presenziato all'esproprio dell'appartamento, dato in affitto a una " donna di razza ariana " . Una storia cruda ma relativamente fortunata quella di Luisa Coen- Porto, che era poi rientrata a casa. Dai carteggi emergono situazioni complesse, che non bastò un decennio per sciogliere. E alcuni non tornarono più a casa. Come Leone Sinigaglia, compositore che legò il suo nome alla trascrizione di oltre 500 canti popolari piemontesi, morto per un attacco di cuore mentre stavano per arrestarlo. Non tornò mai più nella sua villa di Cavoretto ma ci entrò poco dopo il perito della banca, che la descrisse con la minuzia di una fotografia. Censì uno per uno gli alberi, poi il pianoforte, il violino con una corda spezzata e poco altro. La casa era stata svuotata per trasformarla in un riparo per gli sfollati dei bombardamenti. Le masserizie del musicista vennero spartite tra chi aveva perso tutto: "Nicolino Grato: 1 camicia, 1 flanella lana, 3 cuscini, 1 tazzone da latte, 2 piatti...".  

(la Repubblica - Torino, 25 gennaio 2023)

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Religiosi, laici e delusi dalla sinistra: il popolo di Netanyahu che ridisegna Israele

I sostenitori del primo ministro sono una coalizione composta da tasselli della società che in momenti diversi hanno abbandonato il fronte progressista, dalle fasce economicamente più deboli a intellettuali e professionisti.

di Meir Ouziel

TEL AVIV - Le proteste di piazza contro il nuovo governo israeliano pongono l'interrogativo su chi ci sia dall'altra parte, ovvero su chi sostenga Benjamin Netanyahu e gli abbia consentito di tornare, a sorpresa, alla guida del governo. In genere si tende a pensare che si tratti di israeliani che vivono fuori Tel Aviv e appartengono a famiglie originarie della diaspora nei Paesi arabi. Ma incontrando da vicino questi elettori ci si accorge che si tratta in realtà di una coalizione composta da tasselli della società che in momenti diversi hanno abbandonato la sinistra che contribuì a creare lo Stato ebraico nel 1948: a cominciare dalle fasce economicamente più deboli per finire con intellettuali e professionisti.
  Ad appartenere al primo gruppo è Moti Luzon, che ha vissuto la maggior parte della sua vita a Kiryat Shmona, una cittadina nel nord d'Israele, a ridosso del confine con il Libano. Lì, su 11.257 elettori nelle ultime elezioni, il Likud di Netanyahu ha ottenuto ben il 50% dei suffragi, e se consideriamo anche i partiti alleati con il Likud, insieme arrivano al 75%. Sul suo profilo Facebook, Luzon si descrive come "una persona semplice". Ha 67 anni, è andato in pensione pochi mesi fa. Sposato, con due figli. I suoi genitori sono arrivati in Israele dalla Tunisia quando aveva sei mesi. È cresciuto a Kiryat Shmona e dopo il servizio militare è andato a studiare a Haifa, al Technion - uno dei politecnici più prestigiosi al mondo - programmazione informatica, quando ancora il mondo dei computer era solo agli albori, per poi lavorare per Rafael, un'industria israeliana nel settore della difesa. Luzon non è osservante ma ha scritto un libro sull'ebraismo per spiegare l'argomento a suo figlio, "Il mio pozzo". "Non indosso la kippah, ma apprezzo la cultura ebraica", dice. Sua moglie vota come lui, mentre i ragazzi sono più liberal. Pur essendo iscritto al Likud, non è un attivista, né ricopre una posizione nella sezione locale del partito. Solo una volta in vita mia sono andato a incontrare Bibi - dice - quando è venuto a tenere un discorso a Kiryat Bialik", vicino a Haifa.
  I partiti socialisti hanno governato in Israele senza interruzione fino al 1977. Si proclamavano rappresentanti della classe operaia, dei più deboli, senza però includere nei propri ranghi esponenti di queste fasce sociali. Si tratta di partiti che oggi sono quasi completamente scomparsi. Ma è interessante notare come, se le fasce più deboli ora costituiscono la spina dorsale del Likud, anche molte personalità di spicco, tra accademici e professionisti che votavano a sinistra, oggi sostengono Bibi. 
  Fra loro c'è Kinneret Barashi. Suo padre venne ucciso durante la guerra dello Yom Kippur nel 1973, poco prima che lei nascesse. Kinneret è il nome ebraico del Lago di Tiberiade, dove il padre cadde in combattimento. Kinneret è cresciuta e a Gerusalemme, ha prestato servizio militare come tutte le ragazze israeliane e poi ha studiato giurisprudenza. L'apice della sua carriera di penalista l'ha raggiunto quando nel 2006, da giovane avvocata, rappresentò una ex dipendente della residenza del Presidente dello Stato di allora, Moshe Katzav, che lo accusava di stupro. Divenne improvvisamente l'avvocato più famoso del Paese, i suoi riccioli voluminosi e la sua passione erano presenti nelle tv di ogni casa israeliana. Katzav fu poi condannato e incarcerato, e a Kinneret venne affidato un programma di attualità politica in tv. Divenne un volto popolare. Fu identificata come una donna di sinistra, anche se già allora - mi racconta davanti a una tazza di caffè - "ogni volta che dicevo qualcosa di positivo su Netanyahu, il direttore della rete si assicurava che arrivasse un reclamo e così venivo richiamata all'ordine". 
  "Il cambio nelle mie posizioni politiche - spiega - è avvenuto all'interno dei tribunali. Sono passata da una sinistra che odiava Netanyahu a sostenerlo proprio mentre seguivo i processi che lo vedono imputato. Leggendo le carte sono arrivata alla conclusione che è una delle persone più oneste della politica israeliana. Non muove un bicchiere senza avere una consulenza legale". La sua famiglia ha radici a Gerusalemme, pur vivendo oggi a Tel Aviv. I suoi nonni, anche loro nati a Gerusalemme, erano combattenti dell'Irgun, la formazione clandestina di resistenza anti-britannica, identificata con la destra di Menachem Begin. Negli ultimi anni ha dato vita a un progetto mediatico rivoluzionario online: una trasmissione di approfondimento, in diretta, dei processi a Netanyahu. In Israele è proibito filmare e registrare all'interno dei tribunali, ma nell'aula i giornalisti possono presenziare e riassumere live i dibattimenti. Il team che ha messo in piedi, fatto di giuristi di alto livello, spiega i fatti in diretta su internet. Kinneret, che oggi ha 48 anni, è madre single di una bambina di otto anni. Racconta che la gente le scrive sui social ogni sorta di insulti: "Prego che sua figlia rimanga orfana", "Bisogna portarle via la bambina": tutti utenti con nomi e foto che lei puntualmente archivia in una cartella piena di insulti.
  Nonostante i duri attacchi, Kinneret continua a trasmettere e a commentare i processi a Netanyahu, sostenendo, insieme agli altri giuristi, che tutti i capi di imputazione siano stati orchestrati a tavolino e che ciò dimostra la politicizzazione del sistema giudiziario contro Netanyahu. Kinneret è una delle figure che più hanno influenzato gli israeliani a votare Likud e a permettere a Netanyahu di formare il governo attuale.
  Volti come Luzon e Barashi sintetizzano la varietà dei sostenitori di Bibi. La sua coalizione include partiti religiosi diversi tra loro, i cui elettori propendono per un governo a guida Netanyahu perché ritengono che preserverà il carattere ebraico dello Stato. Ma il Likud ha sempre avuto elettori provenienti da ogni settore della società, compresi laici e liberal. Ze'ev Jabotinsky, il fondatore di quello che in seguito divenne il Likud, è noto per il sostegno ai diritti individuali, basato sul principio "ogni individuo è un re". Fra coloro che sono passati a sostenerlo ci sono anche Irit Linur, scrittrice e giornalista, un tempo icona della sinistra, Talia Einhorn, nota esperta di diritto internazionale, e Gadi Taub, intellettuale di riferimento sul tema dell'ostilità a Netanyahu nel mondo dell'accademia. Dietro alla nuova stagione politica israeliana ci sono le loro storie, oltre a quelle di centinaia di migliaia di elettori delle periferie, appartenenti alle classi socio economiche meno abbienti che i partiti di sinistra hanno lasciato alla destra. 

(la Repubblica, 25 gennaio 2023)

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Israele, contro la riforma giudiziaria anche la Banca d’Israele e le università

di Ilaria Myr

Non si placano in Israele le polemiche sulla riforma giudiziaria che il nuovo governo capeggiato da Nethanyahu vuole mettere in atto. Oltre alle migliaia di persone che da tre settimane manifestano a Tel Aviv e in altre città del Paese, e ai politici dell’opposizione, a fare sentire la propria voce ora sono anche esponenti del mondo della cultura e dell’economia, nonché lo stesso presidente israeliano Isaac Herzog, che ha espresso forte preoccupazione per la frattura che si è creata nel paese.

• La preoccupazione della Banca d’Israele
  Come riporta il sito Walla, martedì 24 gennaio il governatore della Banca d’Israele Prof. Amir Yaron ha messo in guardia il primo ministro Benjamin Netanyahu contro la prevista riforma giudiziaria durante un incontro, in cui il governatore ha avvertito Netanyahu di danneggiare il punteggio di credito di Israele a causa della riforma giudiziaria. “Il mondo sta seguendo con preoccupazione gli sviluppi che potrebbero allontanare le aziende internazionali dall’investire nel Paese”, ha affermato.
  Yaron ha fatto riferimento alle sfide che l’economia israeliana deve affrontare, sia a livello locale che internazionale. Ha anche chiarito al primo ministro le varie questioni emerse nel contesto israeliano nelle discussioni avute con gli alti funzionari dell’economia globale, nonché con gli alti funzionari delle società di rating nelle ultime settimane. Inoltre, ha presentato una strategia elaborata dalla Banca di Israele che include raccomandazioni per le politiche economiche in diversi ambiti.

• Le università: “Con la riforma rischiamo la fuga di cervelli”
  Anche il mondo accademico è insorto contro la riforma. Lunedì 23 gennaio i capi delle università israeliane hanno avvertito che le proposte porteranno a “danni mortali” alle istituzioni educative del Paese.
  “Questo rischia di manifestarsi come una fuga di cervelli e nel fatto che i membri della facoltà esiteranno a unirsi ai nostri ranghi; che studenti, ricercatori, studenti post-dottorato e colleghi internazionali non vengano in Israele; che il nostro accesso ai fondi di ricerca internazionali sarà limitato; che le industrie straniere si ritireranno dalla cooperazione con il mondo accademico israeliano; e saremo esclusi dalla comunità internazionale della ricerca e dell’istruzione“, ha scritto il Comitato dei capi di università. L’organizzazione comprende i capi dell’Università Ebraica di Gerusalemme, dell’Università di Tel Aviv, dell’Università di Haifa, dell’Università Ben-Gurion del Negev, dell’Università Bar-Ilan, dell’Istituto Weizmann, del Technion, dell’Università Ariel e della Open University (che detiene l’osservatore status.) È presieduto dal Prof. Arie Zaban, il presidente di Bar-Ilan. I firmatari hanno esortato il governo a non affrettarsi ad apportare enormi cambiamenti al sistema giudiziario senza un’ampia discussione pubblica sulle conseguenze sulla sicurezza, economiche e sociali di tali alterazioni. “Chiediamo al governo e alla Knesset di proteggere i valori fondamentali della Dichiarazione di Indipendenza, in particolare, di proteggere i diritti delle minoranze e la dignità di ogni essere umano”, hanno scritto gli accademici.

• Herzog: “Siamo sull’orlo di una lotta interna che potrebbe consumarci”
  La drammatica riforma, se fatta rapidamente senza negoziazioni, suscita opposizione e profonde preoccupazioni tra il pubblico”: è quanto ha affermato il presidente israeliano Isaac Herzog rivolgendosi alla conferenza sull’educazione di Ashmoret a Tel Aviv. Nel suo discorso, Herzog ha avvertito che Israele è sulla buona strada per farsi a pezzi, tra la radicale riorganizzazione del sistema giudiziario pianificata dal governo e la crescente opposizione pubblica, e ha esortato la leadership del paese a evitare il confronto e ad impegnarsi invece in un dialogo paziente e in un dibattito costruttivo.
  “I fondamenti democratici di Israele, compreso il sistema giudiziario, i diritti umani e le libertà, sono sacri e dobbiamo proteggerli insieme ai valori espressi nella Dichiarazione di Indipendenza”, ha detto -. Vedo le parti preparate e pronte lungo tutto il fronte per uno scontro a tutto campo sul carattere dello Stato di Israele, e temo che siamo sull’orlo di una lotta interna che potrebbe consumarci tutti”, ha detto Herzog.
  Herzog ha lanciato un appello ai leader israeliani affinché “si mostrino responsabili. “L’assenza di dialogo ci sta lacerando dall’interno, e ve lo dico forte e chiaro: questa polveriera sta per esplodere. Questa è un’emergenza”.
  Da settimane però Herzog è criticato da molti per quella che definiscono ‘inerzia‘ nei confronti della grave situazione, tanto che sabato 22 migliaia di manifestanti sono scesi in piazza davanti alla residenza del presidente a Gerusalemme.

(Bet Magazine Mosaico, 25 gennaio 2023)

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La legge deve essere applicata allo stesso modo per ebrei e arabi

L’insediamento abusivo arabo beduino di Khan al-Ahmar deve essere demolito per ordine della Corte Suprema, e l’UE la smetta di interferire in violazione delle leggi israeliane e internazionali

di Danny Danon

Khan al-Ahmar
Non c’è alcun dubbio che l’insediamento beduino di Khan al-Ahmar, alla periferia est di Gerusalemme, è illegale. I suoi residenti hanno eretto abusivamente delle strutture abitative su un terreno demaniale israeliano senza permesso e nella piena consapevolezza di commettere una illegalità.
  Hanno intrapreso questa attività illecita grazie al finanziamento illegale e al sostegno dell’Unione Europea, di vari singoli paesi europei e di alcune organizzazioni internazionali. Questa interferenza eversiva di enti internazionali negli affari interni di Israele è vergognosa ed esige una immediata spiegazione. Si tratta di soggetti internazionali attivamente impegnati a violare la legge israeliana, la sovranità israeliana e il diritto internazionale.
  La cosa è stata resa esplicita in un documento “confidenziale” dell’Unione Europea trapelato alla fine dello scorso anno intitolato “Programma europeo di sviluppo congiunto per l’area C”. Il documento mostra fino a che punto l’Unione Europea è disposta a spingersi nel promuovere e favoreggiare attività insediative illegali in un paese straniero. Il documento afferma che, nonostante il carattere illegale di tali costruzioni, l’Unione Europea “proteggerà i diritti” dei palestinesi che vivono nell’Area C controllata da Israele, fornirà assistenza legale e, in ultima analisi, darà il suo aiuto per la creazione di un territorio che sia governato dall’Autorità Palestinese (in violazione degli Accordi di Oslo sottoscritti come garante dalla stessa Unione Europea ndr).
  A parte le costruzioni illegali e le violazioni del diritto israeliano e internazionale, insediamenti abusivi come Khan al-Ahmar, eretti nella totale inosservanza di ogni pianificazione urbanistica, danneggiano siti del patrimonio locale, devastano il paesaggio naturale e mettono a repentaglio l’incolumità dei loro stessi residenti. Di più. Questi insediamenti illegali fanno parte di un programma più ampio che mira a delegittimare le storiche rivendicazioni che Israele ha tutto il diritto di portare al tavolo del futuro negoziato.
  Nonostante varie sentenza della Corte Suprema sul caso, l’ultima nel 2018, la demolizione dell’insediamento illegale di Khan al-Ahmar è stata rinviata anno dopo anno per oltre un decennio. I residenti abusivi su quel terreno hanno avuto più di dieci anni per portare il loro caso in tribunale, ma ogni volta la corte ha stabilito che le loro costruzioni illegali devono essere rimosse. Tuttavia, spronati da partner internazionali illeciti e dalle pressioni dell’Autorità Palestinese, i residenti di Khan al-Ahmar hanno sempre rifiutato ogni ragionevole offerta di reinsediamento e alloggio alternativo.
  Ma così come viene prontamente eseguito l’ordine di demolizione degli avamposti ebraici non autorizzati – il recentissimo sgombero di Or Haim è avvenuto letteralmente poche ore dopo l’emissione dell’ordine – lo stesso dovrebbe avvenire nei confronti di insediamenti arabi illegali come Khan al-Ahmar. L’autorità e le sentenze della Corte Suprema vanno sempre rispettate. La legge non può essere applicata in modo selettivo. La legge è legge, e deve essere applicata a tutti i cittadini, ebrei e arabi allo stesso modo.
  Mercoledì primo febbraio 2023 lo Stato è tenuto a dare una risposta alla Corte Suprema, specificando quali sono i suoi programmi per la demolizione delle strutture illegali. È ora di agire. Il comportamento illegale non va mai assecondato. L’insediamento abusivo di Khan al-Ahmar deve essere sgomberato e demolito.

(israele.net, 25 gennaio 2023)

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Il «Wall Street Journal» accusa: sui vaccini ci hanno ingannato

Attacco del prestigioso quotidiano ai due colossi per i preparati anti Omicron 4 e 5: «Mancano dati su efficacia e sicurezza». Accuse pesanti anche alle autorità sanitarie: «Campagna fuorviante, ma non batterono ciglio»

di Maddalena Loy

Se è vero, come diceva Agatha Christie, che un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza e tre indizi sono una prova, il terzo articolo di denuncia contro i vaccini anti Covid del Wall Street Journal è ormai la prova che uno dei più autorevoli quotidiani al mondo ha deciso, sebbene con un po' in ritardo, di demolire con il lanciafiamme la narrazione ultra-vax di Pfizer, Moderna, Fda e Cdc. Merito di Allysia Finley, membro del comitato editoriale del Wsj, che ha pubblicato un articolo dall'inequivocabile titolo «L'ingannevole campagna dei vaccini bivalenti» in cui l'editorialista critica Fda e Cdc per aver compiuto «il passo senza precedenti di ordinare ai produttori di vaccini di produrli e raccomandarli senza dati a sostegno della loro sicurezza o efficacia», concludendo l'editoriale con un pesante richiamo: «Abbiamo bisogno di persone oneste nella sanità pubblica».
  Finley non usa perifrasi per attaccare Pfizer e Moderna, sottolineando che nei bivalenti ci sono diversi problemi scientifici, a cominciare dall'evidenza che il virus muta molto più velocemente dei vaccini. E pensare che chi faceva quest'obiezione, soltanto pochi mesi fa, era additato come no vax, anche se le aziende produttrici sapevano bene che l'obiezione era corretta.
  Non a caso, al World Economic Forum di Davos Albert Bourla, ad di Pfizer, ha dichiarato che la nuova sfida consisterà nel «realizzare vaccini in 100 giorni», comprimendo drasticamente i tempi tecnici delle autorizzazioni.
  Tornando al Wall Street Journal, Finley cita due studi del New England Journal of Medicine, che dimostrano che i richiami (o booster) bivalenti aumentano gli anticorpi contro le varianti Omicron BA.4 e BA.5, ma non significativamente più dei richiami originali. Ergo, ammesso che proteggano efficacemente dalla malattia, non lo fanno meglio rispetto a come avrebbero dovuto farlo i precedenti richiami.
  Il che è un'ulteriore conferma che l'operazione «vaccino bivalente» somiglia tanto a una campagna marketing, in cui i creativi disegnano il nuovo look e il packaging, ma il prodotto è sempre lo stesso. A proposito di creativi: Pfizer ha arruolato nientemeno che Martha Stewart, famosissima conduttrice e donna di spettacolo americana, proprio per il nuovo, suggestivo spot sui vaccini bivalenti.
  L'ambientazione è quella di Kill Bill: Martha in una cucina affila la sua katana per decapitare l'«ospite indesiderato», che sarebbe il virus, ma che in realtà qualcuno insinua rappresenti un invitato non vaccinato. Le polemiche, anche per la musica e il format - più adatti a pubblicizzare un formidabile shampoo anticalvizie che non un vaccino contro la peste del secolo - si sono sprecate. Il Wall Street Journal ha cavalcato le sempre più frequenti contestazioni contro le aziende farmaceutiche e le istituzioni sanitarie, denunciando che la comunicazione ufficiale sui vaccini bivalenti è stata ingannevole. «Pfìzer e Moderna, nei loro comunicati stampa di novembre, sostenevano che i loro booster producevano "una risposta alle varianti BA.4 e BA.5 da quattro a sei volte superiore a quella dei booster originali", ma i risultati degli studi - scrive Finley- hanno negato queste stime: le affermazioni delle due aziende farmaceutiche sono fuorvianti».
  E allora, perché sono stati autorizzati? «Le autorità sanitarie pubbliche (Fda e Cdc, ndr) di fronte a queste affermazioni fuorvianti - spiega Finley - non hanno fatto una piega. Non hanno voluto aspettare, e ora sappiamo perché»: lo studio pubblicato dai Cdc a novembre {quindi, dopo l'autorizzazione, ndr) non dava esiti positivi; la massima efficacia registrata contro l'infezione era solo dal 22% al 43%.
  L'ultima frecciata del WSJ è diretta al commissario Fda Robert Califf, che l’11 gennaio ha twittato che i vaccini sono stati «associati» a una significativa riduzione dei ricoveri e dei decessi: «Dovrebbe sapere - scrive Finley - che la correlazione non prova la causalità».
  Se questo è il terzo articolo del Wall Street Journal estremamente critico contro i vaccini, non bisogna dimenticare gli altri due, sempre a firma di Allysia Finley, pubblicati in questi mesi. Il primo, a luglio, ha criticato le motivazioni che hanno spinto Fda a estendere l'autorizzazione dei vaccini anti Covid anche ai neonati.
  «Lo standard Fda per l'approvazione dei vaccini nei sani, e soprattutto nei bambini, dovrebbe essere più elevato. Ma Fda ha notevolmente abbassato i suoi standard per approvarli. Perché? La decisione è solo politica e non scientifica». Nell'articolo del primo gennaio 2023, invece, Finley ha confermato una delle teorie definite «complottiste» da virostar e affini, ossia che i vaccini stanno alimentando nuove varianti del Covid,
  L'onda lunga del Wall Street Journai è approdata anche sulle tv americane: non c'è giorno che un deputato non denunci sui maggiori canali (Fox, Cnbc ma anche Cnn) l'operato di Fauci, e nel frattempo Moderna ha annunciato che i vaccini d'ora in poi costeranno 130 dollari a dose, indirettamente pagati dai contribuenti americani con le loro tasse.

(La Verità, 25 gennaio 2023)

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Barcellona vuole rompere lo storico gemellaggio con Tel Aviv

Il comune di Barcellona potrebbe rompere il gemellaggio con Tel Aviv “per ragioni derivanti dal conflitto” israelo-palestinese. A promuovere la fine del rapporto tra le due città è stata proprio la sindaca spagnola Ada Colau. Nel dicembre scorso David Bondia, “difensore civico” della città di Barcellona, ha esortato il Consiglio comunale a interrompere il legame di “amicizia e cooperazione” con Tel Aviv perché secondo lui:
  “Questo gemellaggio non ha tenuto conto del cambiamento di circostanze intervenuto dopo la sua conclusione, non garantisce l’impegno per i diritti umani e non promuove relazioni internazionali che promuovono la giustizia globale … In questo accordo è stato concordato lo scambio di esperienze e conoscenze sulla gestione municipale, lo sviluppo di iniziative culturali, collaborazione sociale e progetti di cooperazione per migliorare le condizioni di vita della popolazione di Gaza”.
  L’iniziativa, che si intitola “Barcellona con l’apartheid, no” ha raccolto circa 4.300 firme, sufficienti per discutere la questione nella plenaria municipale.
  Questa storia è molto più grave di quello che si potrebbe credere a prima vista.
  Il voto nel comune di Barcellona è previsto per il 27 gennaio, Giornata della Memoria, in cui si commemorano le vittime della Shoah. Coincidenze?
  Il voto potrebbe sancire la fine di un gemellaggio nato nel 1998 sulla scia degli Accordi di Oslo. Interromperlo “per ragioni derivanti dal conflitto” starebbe a significare che Israele non abbia rispettato i patti norvegesi.
  Gemellaggio che non riguardava esclusivamente Barcellona e Tel Aviv, ma anche Gaza, ed era stato ideato da M. Roni Milo, allora sindaco della Città Bianca, dopo un incontro con Yasser Arafat.
  A Bondia andrebbe ricordato che se le condizioni di vita dei palestinesi di Gaza non sono buone, il dito va puntato contro chi gestisce la Striscia, ovvero Hamas, gruppo terroristico che pare scomparire ogni volta che si parla di conflitto israelo-palestinese.
  A Bondia, inoltre, andrebbe chiesto se gli israeliani possano vivere a Gaza e cosa succederebbe loro se finissero nelle mani di Hamas.
  Ma se il cuore è antisemita, difficilmente le azioni possono essere diverse.

(Progetto Dreyfus, 23 gennaio 2023)

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Giorno della Memoria: quando i nazisti si divertivano con il gioco da tavolo "Via gli ebrei"

            Zeige Geschick im Würferspiel                    Tenta la sorte nel gioco dei dadi!
            damit Du sammelst der Juden viel!             per raccogliere molto degli ebrei!
In vista del Giorno internazionale della Memoria, l’Università di Tel Aviv metterà in mostra il gioco da tavola nazista "Juden Raus" (Via gli ebrei) che venne diffuso in Germania verso la fine degli anni '30 ad uso per i bambini. Le regole - la copia mostrata dalla "Wiener Library for the Study of the Nazi Era and the Holocaust" dell’Università è una delle poche rimaste - assegnano ai giocatori il compito di raccogliere rapidamente sei «cappelli da ebreo» dalle aree residenziali e commerciali ebraiche della città e portarli in uno dei punti di raccolta decentrati. Il primo giocatore a farlo vince la partita.
  Una delle didascalie sulla lavagna recita: "Auf nach Palästina!» (Vai in Palestina). Secondo gli esperti dell’Universitàil gioco fu prodotto in Germania da una oscura azienda dal nome "Guenther and Co." alla fine del 1938 e con ogni probabilità dopo i pogrom antiebraici della Notte dei Cristalli del novembre dello stesso anno. Nonostante il chiaro antisemitismo del gioco e che sembra non abbia avuto grande successo, il partito nazista - ha avvertito l'Università - non sembrò per nulla soddisfatto del suo contenuto visto, come spiegava un articolo della rivista settimanale delle SS, che presentava come «un gioco di probabilità» quella che invece era una metodica e pianificata politica di pulizia degli ebrei tedeschi da parte del governo.

(Gazzetta del Sud, 24 gennaio 2023)

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ChatGpt, l’intelligenza artificiale che tra dubbi, timori ed entusiasmi insidia Google

E in Israele nasce una start up concorrente

di Marina Gersony

È il tema del giorno, una head topic come si direbbe oggi. Tutti ne parlano, molti esultano e altrettanti si preoccupano. Stiamo parlando del programma ChatGpt, ultima frontiera dell’hi-tech di cui i media negli ultimi mesi si occupano sempre di più fra dubbi, timori ed entusiasmi.
  Come si legge  in un editoriale su Repubblica intitolato La sfida dell’Intelligenza artificiale a firma di Maurizio Molinari, «Il Dipartimento dell’Istruzione di New York la mette al bando ma Microsoft la finanzia, per Bloomberg segna l’inizio di una rivoluzione nei costumi ma il New York Times la considera “un pericolo per la democrazia”».
  Prima di entrare più nei dettagli vediamo di cosa si tratta per chi si avvicina per la prima volta a questo programma rivoluzionario in campo informatico che vede contrapporsi pareri apocalittici e pareri ottimisti; un’innovazione già operativa in campo artistico, culturale, sociale ed economico, soprattutto all’estero, che sta iniziando a prendere piede anche in Italia: ChatGpt, acronimo per “Chat Generative Pretrained Transformer”, è di fatto solo l’inizio di un futuro che cambierà completamente le nostre vite e quelle delle prossime generazioni e che dimostra gli impressionanti passi fatti nel campo dell’intelligenza artificiale di largo consumo.
  Ma cos’è per esattezza ChatGPT? Trattasi di un chatbot, termine che definisce un programma informatico capace di interagire con l’utente. Lanciato nel novembre 2022 da OpenAI, organizzazione di ricerca non a scopo di lucro con l’obiettivo di promuovere e sviluppare un’intelligenza artificiale amichevole e mirata a beneficiare l’umanità intera, ChatGPT è un modello linguistico basato sul deep learning, che consente a chiunque di creare – con una semplice domanda – qualsiasi tipo di contenuto intellettuale che va da un articolo a una traduzione, a una tesi universitaria, a un testo artistico, scientifico, tecnico, poetico, storico e così via.
  ChatGPT – da quanto si legge nelle “istruzioni per l’uso” – è  in grado insomma di generare testi simili a quelli prodotti da un essere umano su un’ampia gamma di argomenti, interagendo e rispondendo in modo più o meno dettagliato alle domande di follow-up, ammettendo i propri errori, contestando le premesse errate e rifiutando richieste inappropriate o scopi nocivi (disinformazione, istruzioni su come fabbricare una bomba, bullismo online eccetera) in un work in progress costante dove gli stessi utenti possono contribuire al perfezionamento dei contenuti e innescare un circuito virtuoso di collaborazione.
  Il creatore di OpenAI (la cui prima versione di Open AI viene rilasciata nel 2016) e di ChatGPT, è un giovane ebreo visionario e geniale di nome Samuel H. Altman. Nato il 22 aprile 1985 a Chicago e cresciuto a Saint Louis (Missouri), Samuel è stato studente di computer science e matematica, blogger, ricercatore e attualmente imprenditore, investitore, programmatore, nonché CEO di OpenAI ed ex presidente di Y Combinator. La sua biografia, ricca di cariche e successi, parla da sola: appassionato di informatica fin da piccolo, ha ricevuto in dono dalla sua famiglia il suo primo computer alla tenera età di 8 anni, un Macintosh di quelli in commercio nel 1992. Dopo gli studi presso la prestigiosa Stanford University e l’avviamento di un laboratorio di ricerca, ha ricevuto nientemeno che una laurea honoris causa dall’Università di Waterloo. Il resto è storia. Tra i primi a supportare e finanziare i progetti di ricerca di questo brillante giovane, figurano in primis Elon Musk, che insieme a lui ha fondato nel 2015 OpenAI, senza contare gli ingenti finanziamenti ricevuti da Microsoft che nel 2019 ha supportato i progetti di ricerca di Open AI con oltre un miliardo di dollari.
  Ma come funziona ChatGPT in termini concreti? Abbiamo fatto una ricerca sul sito di OpenAI, dove i navigatori interessati possono fare una prova di conversazione vera o immaginarie su ChatGPT.  Dopo vari tentativi siamo riusciti a connetterci e ad accedere con le nostre credenziali a ChatGPT, ma una nota ci ha avvertito che i sistemi sono stati presi d’assalto e di riprovare. Pare infatti che più di un milione di persone si siano registrate al servizio ancora in demo per poter usufruire del programma. Abbiamo insistito fino a quando ci è apparsa una schermata con le istruzioni d’uso, i limiti, i divieti da rispettare e qualche esempio su come porre le domande. Ne abbiamo formulate un paio a cui non abbiamo ricevuto risposta fino a quando ne abbiamo posta una in modo semplice e chiaro, requisito fondamentale per avere risposte coerenti che attualmente richiedono tuttavia ancora alcune modifiche o correzioni.
  A proposito, proprio in questi giorni, il Jerusalem Post pubblica un articolo che parla di una startup israeliana, AI21, di intelligenza artificiale, destinata a dare il via a un importante punto di svolta per l’istruzione e il mondo accademico essendo in grado di fare ciò che il suo concorrente ChatGPT, a loro avviso, non è in grado, ossia scrivere saggi e citare effettivamente le fonti reali. Scrive a sua volta Ynetnews, che due mesi dopo che OpenAI ha entusiasmato il mondo con ChatGPT, un’azienda israeliana ha introdotto a sua volta AI21, uno strumento basato sull’intelligenza artificiale ma con una svolta: Spices, una nuova funzionalità basata sullo strumento di scrittura AI Wordtune, che consente agli utenti di abbellire la loro scrittura in inglese con frasi generate al computer basate su uno specifico modello linguistico.
  Infine, un’altra domanda che si pone, è se ChatGPT possa davvero costituire  una minaccia per Google. Dopo che Microsoft ha annunciato la volontà di integrare il chatbot di OpenAI nei suoi prodotti – come si legge su macitynet.it – la società di Mountain View ha risposto con il nuovo software sviluppato da DeepMind, la società di intelligenza artificiale che fa capo alla casa madre Alphabet.  Lo scorso mese Larry Page e Sergey Brin, i fondatori di Google che dal 2019 non sono più presenti in modo permanente in azienda ma hanno delegato tutto al CEO Sundar Pichai, si sono incontrati più volte con i dirigenti dell’azienda per discutere di strategie future in un periodo di crisi per tutto il settore (Big G ha confermato il licenziamento di 12000 persone) ma anche per discutere di intelligenza artificiale e del pericolo che deriva da strumenti come ChatGPT per il principale business di Big G: le ricerche, attività che potrebbe essere resa inutile da IA in grado di scavalcare i motori di ricerca. Lo riferisce il New York Times spiegando che fonte di preoccupazione sono chatbot sempre più complete, intelligenze artificiali che rappresentano una minaccia per Google che basa gran parte della sua attività sulle ricerche, e che hanno fatto scattare un «allarme rosso» a Mountain View, il segnale dell’avvicinarsi di un pericolo per il business sul quale da anni Google domina incontrastata. Ma questa è un’altra storia…
  In attesa che l’intelligenza artificiale – grazie alle più sofisticate e innovative applicazioni – si sviluppi e si perfezioni ulteriormente, non mancano i commenti entusiastici per queste ultime novità informatiche che presentano luci e ombre: se da un lato vi è il timore che possano togliere lavoro ad artisti, programmatori, creativi e lavoratori in generale e che portino sempre di più le persone ad affidarsi a “cervelli esterni” usando meno i propri (vedi capacità di sviluppo critico degli studenti); d’altro canto i sostenitori parlano di un sapere democratico che contribuirà sempre di più all’evoluzione e al progresso dell’umanità.

(Bet Magazine Mosaico, 24 gennaio 2023)

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Ariel Muzicant: “Il 50% delle piccole comunità ebraiche scomparirà nei prossimi 30-50 anni”

di Ilaria Ester Ramazzotti

Ariel Muzicant
“I dati attuali mostrano che i matrimoni misti e l’assimilazione nella diaspora ebraica hanno raggiunto il massimo. Se questa tendenza continuerà, gran parte della diaspora ebraica scomparirà entro una o due generazioni. In altre parole, il 50% delle piccole comunità ebraiche scomparirà nei prossimi 30-50 anni”. Lo ha detto lo scorso 16 gennaio Ariel Muzican, presidente del Congresso ebraico europeo, nel corso di un convegno organizzato a Gerusalemme dalla divisione Europa e dalla divisione diaspora e religioni del ministero degli Esteri israeliano, che ha ospitato circa 40 rappresentanti di comunità ebraiche provenienti da 28 Paesi. Lo ha riportato il Jerusalem Post.
  Il ministro degli Esteri Eli Cohen, intervenuto al convegno, ha detto ai partecipanti che “il rapporto con le comunità ebraiche è uno dei pilastri del lavoro delle missioni del ministero degli Esteri nel mondo. Siamo felici di ospitare i capi delle comunità e delle organizzazioni ebraiche dei Paesi europei presso il ministero degli Esteri a Gerusalemme e non vediamo l’ora di sentire da voi le sfide che devono affrontare i nostri fratelli e sorelle nella diaspora”.
  In occasione dell’evento i partecipanti hanno discusso temi rilevanti per la vita ebraica nella diaspora, come l’antisemitismo, l’incitamento all’odio su Internet, la legislazione che limita la vita ebraica, le aspettative per la prossima generazione, i cambiamenti in atto in Medio Oriente e il rapporto tra lo Stato di Israele e le comunità ebraiche in Europa.
  “Per 125 anni, la diaspora ha costruito e sostenuto lo Stato di Israele – ha sottolineato a proposito Ariel Muzicant -. Anche se ciò deve continuare, abbiamo bisogno di un importante cambiamento di paradigma”. Il presidente del Congresso ebraico europeo ha poi chiesto alle istituzioni israeliane ed ebraiche di “aumentare sostanzialmente i loro investimenti per gli ebrei della diaspora”, principalmente in tre modi.
  Per quanto riguarda l’istruzione, Muzicant ha affermato che “abbiamo bisogno di scuole ebraiche, scuole domenicali, materiale didattico e insegnanti. Dobbiamo avere più del 70% dei bambini nelle scuole ebraiche e istruire insegnanti ebrei delle comunità europee in Israele”. La seconda questione che ha sollevato riguarda la necessità di “portare il maggior numero possibile di ebrei in Israele” e di “aumentare e riavviare programmi come Birthright Israel, Masa Israel e Limmud”. Terzo punto, la necessità che i governi “incrementino o creino programmi per portare la cultura, la tradizione e la religione ebraica a tutti i settori della popolazione ebraica al di fuori di Israele”.
  “I matrimoni misti sono al 50% in Europa e al 75% negli Stati Uniti” – ha specificato Muzicant -. L’assimilazione è il più grande nemico del popolo ebraico oggi. Non possiamo continuare a costruire la vita ebraica esclusivamente sull’antisemitismo e sul ricordo della Shoah. Se vogliamo promuovere la vita ebraica al di fuori di Israele, dobbiamo aumentare il raggio d’azione e portare la conoscenza ebraica al maggior numero possibile di ebrei”.

(Bet Magazine Mosaico, 24 gennaio 2023)

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“Tre minuti” e un tragico destino

di Francesca Nocerino

Solo pochi giorni. Altri pochi giorni di oblio tra antichi cimeli dimenticati, e nulla sarebbe rimasto dei pochi sbiaditi fotogrammi di questo family movie su cui la storica Bianca Stigler ha ricostruito un raro percorso di memoria. Si tratta di “Tre minuti”, il titolo del documentario ma anche la durata di un documento storico ritrovato in Florida da un signore, Glenn Kurtz nel fondo di un vecchio armadio dei genitori. Il film amatoriale fu girato nel 1938 dal nonno di Glenn, David, nella città polacca di Nasielsk, abitata prevalentemente da ebrei. Con la sua kodak 16 mm fiammante era tornato in vacanza in Europa, nella terra che aveva lasciato anni prima per emigrare negli States. Su quelle telecamere voleva fissare probabilmente immagini, sensazioni… scampoli del suo passato in Polonia. Attimi di nostalgia per le strade su cui non aveva più camminato, per gli amici con cui non aveva più giocato, o per i sapori che, da emigrante, non aveva più gustato… Lo fece, ma soprattutto affidò al futuro i volti, i sorrisi, insomma la vita quotidiana di una comunità che sarebbe stata travolta e distrutta dal furore nazista. E di certo la sua storia sarebbe stata consegnata al silenzio, non fosse stato per la 16 mm di David Kurtz.
  Ritratti preziosi e unici a cui Bianca Stigler, nel suo documentario cerca di restituire l’identità perduta. Come alla bambina con il cappottino rosso confusa tra la folla, che sembra una citazione da Spielberg, ma è assolutamente reale, perché quello è l’unico colore che tra i fotogrammi consumati resiste all’offesa del tempo. E poi alle tante persone che dopo la preghiera del sabato, escono dalla Sinagoga destinata dopo poco alla distruzione. E persino ad un giovane volto, allegro e incuriosito dall’obiettivo che spunta all’apertura delle porte di legno di quel tempio, con l’intarsio del leone di Giuda. Con minuziosa analitica attenzione il filmino amatoriale viene sviscerato in ogni particolare. L’insegna di un negozio come il balcone di un palazzo. Visi di donne e di uomini. Attenti e indifferenti. E grazie alla testimonianza di Maurice Chandler, un sopravvissuto fortuitamente ritrovato, tanti dei bimbi festanti raccolti attorno al filmmaker improvvisato ritrovano il loro nome, la scuola frequentata e la rispettiva collocazione sociale, l’età, il carattere, l’attitudine di ciascuno ad aderire alle regole di comportamento dettate dagli anziani. All’epoca era uno di loro, racconta Chandler, un fortunato, tra quei sorrisi che arrivano dal passato e che furono ingoiati dalla Shoah. Un documentario che è lavoro di ricostruzione storica e afflato di umano rispetto.
  La vita, per quei “tre minuti”, sembra riprendere a Nasielsk, come fosse una vittoria sull’oblio. Una forza che arriva da lontano a rivendicare la sua preminenza sulla furia distruttrice. Il primato della memoria sulla rimozione.

(Shalom, 24 gennaio 2023)

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Intervista a David Meghnagi: “Cosa ci dice Israele? Dopo secoli la caccia è finita”

di Umberto De Giovannangeli

Più che una intervista, è un affascinante viaggio storico, culturale, psicologico, politico, nell’ebraismo. Un viaggio che investe i rapporti tra la sinistra e la diaspora ebraica, la sinistra e Israele. Un viaggio che Il Riformista fa con David Meghnagi, già Vicepresidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane (Ucei) e delegato per l’Italia presso la Conferenza dell’Osce contro l’antisemitismo. Tra i suoi libri, ricordiamo Ricomporre l’infranto. L’esperienza dei sopravvissuti alla Shoah (Marsilio, 2005); Le sfide di Israele. Lo Stato ponte tra Occidente e Oriente (Marsilio, 2010); Il padre e la legge. Freud e l’ebraismo (Marsilio, 2010); Libia ebraica. Memoria e identità, testi e immagini (Feltrinelli, 2020).

- La sinistra, Israele, il mondo ebraico. Un rapporto complicato, in alcuni momenti storici drammatico. In questo contesto, cosa rappresenta Israele?
  Israele è il prodotto della storia ebraica. Una storia millenaria. Lo Stato d’Israele è il risultato di un movimento di liberazione di esseri umani da una oppressione che è andata avanti nel corso dei millenni sia nel mondo cristiano, in modo atroce in alcuni momenti, sia nel mondo islamico, in altri. E poi la tragedia del ‘900. Uno dei grandi errori che ha fatto la sinistra, alla fine dell’800, è stato quello di non comprendere le aspirazioni nazionali ebraiche che si fanno movimento, a partire dall’est e dal cuore dell’Europa, soprattutto dopo l’affaire Dreyfus. Ciò che continua a non essere compreso pienamente è il processo dialettico che riguarda il rapporto tra il mondo ebraico e Israele. Buona parte del popolo ebraico, più del 50%, vive oggi in Israele, perché ormai è questa la geografia dell’ebraismo. Una geografia che è profondamente cambiata dopo la Seconda guerra mondiale, nel senso che Israele prima non esisteva, in quell’area lì, nell’800, vivevano poche decine di migliaia di persone. Con l’avvento del nazismo in Germania e del fascismo in Italia e con la Seconda guerra mondiale, i grandi polmoni dell’ebraismo sono spariti, distrutti, sterminati. L’ebraismo dell’Europa occidentale è largamente sparito. Esiste l’ebraismo americano come contraltare a quello israeliano. Con la geografia è cambiato completamente anche il dibattito politico e culturale sui rapporti tra ebraismo e Israele. Dibattito falsato da una percezione che risale ad una epoca diversa, quella di fine ‘800 in cui c’erano 18 milioni di ebrei nel mondo, di essi ne sono scomparsi 6 milioni nell’immane tragedia della Shoah. Gli ebrei che vivono in altri paesi che non siano Israele, a quei paesi appartengono, dal punto di vista della cittadinanza, della cultura. Oggi viviamo un’epoca in cui le pluri-appartenenze sono riconosciute, declinate, ma curiosamente vengono messe in discussione ogni qualvolta si parla di ebrei.

- Una “strana” peculiarità…
  Di cui faremmo volentieri a meno. Nessuno si pone una domanda di fronte alla pluri-appartenenza, per esempio, di un immigrato proveniente dai Balcani o dal mondo arabo o altro, che ha una doppia cittadinanza. Mentre nei confronti dell’ebreo, proprio per una storia di lungo periodo legata all’antisemitismo, questo meccanismo scatta sempre e c’è l’accusa, implicita, di una doppia appartenenza. In realtà, gli ebrei italiani sono italiani, hanno un profondo legame con Israele. Un legame differenziato, alcuni sono identificati di più, altri di meno. Fatto sta che agli occhi di gran parte dell’ebraismo, oggi, l’esistenza di Israele sta a significare simbolicamente una cosa…

- Quale, professor Meghnagi?
  Che la stagione della caccia è finita. Questo è ciò che Israele dice al mondo oggi. Ma il messaggio ancora più profondo è che l’esistenza di Israele oggi costituisce un arricchimento del mondo intero.

- Perché?
  Perché è una realtà culturale nuova che è emersa. Una realtà che nel Medio Oriente ha realizzato uno Stato democratico, con tutte le contraddizioni che ci sono in quell’area lì. E ha restituito ossa a un ebraismo che altrimenti sarebbe precipitato in un lutto senza fine. Se Israele fosse stato annientato, cancellato dai paesi arabi con la guerra del ’48-‘49, secondo me la melanconia e il lutto sarebbero penetrati profondamente nell’anima ebraica, perché gli ebrei erano usciti dallo sterminio, non dimentichiamolo mai. La distruzione di Israele avrebbe causato un lutto senza fine.

- Il Presidente emerito Giorgio Napolitano ebbe a dire che l’antisionismo è forma moderna dell’antisemitismo. È ancora così?
  Purtroppo sì. Napolitano fece per la prima volta quell’affermazione in un dibattito che io avevo contribuito a realizzare. Io ho lavorato a lungo con Napolitano, con Fassino, pur non appartenendo al loro partito. Da senza tessera, ho lavorato negli anni ’80 per gettare un ponte per la sinistra italiana e quella israeliana. Quando misi in piedi il Comitato accademico europeo contro l’antisemitismo, intorno al 2000, il Presidente Napolitano ribadì in pubblico questa espressione, che aveva affermato anche in Tv durante un dibattito in cui ero presente e partecipe. Esordì dicendo che sionismo non è una brutta parola. Purtroppo, però, l’antisionismo e l’antisemitismo permane ancora oggi e per tanti motivi…

- Quali quelli più pervasivi?
  Anzitutto va detto che dal punto di vista etimologico si tratta di due fenomeni profondamente diversi. Nel senso che l’antisionismo di fine ‘800 è presente anche all’interno del mondo ebraico. Nel senso che ci sono settori dell’ebraismo religioso che sono stati profondamente ostili al sionismo. Si pensi che nel 1935 addirittura si tenne un convegno che definiva il sionismo come un pericolo per il giudaismo, all’interno di settori dell’ortodossia, così come all’interno della sinistra marxista ebraica ma anche del Bund (l’Unione generale dei lavoratori ebrei di Russia, Polonia e Lituania, ndr) che proponeva nell’Est Europa l’emancipazione culturale e non politica all’interno di un atteggiamento di ostilità verso una opzione di tipo nazionale. Ma è un dibattito vecchio, legato alla fine dell’800, alle scelte che dividevano il mondo ebraico rispetto al futuro ed anche ad una incapacità della sinistra nel suo insieme, un fenomeno questo di lungo periodo, di accettare l’idea che gli ebrei potessero declinare una loro identità nazionale distinta.

- Perché questa negazione?
  Per il semplice motivo che nella cultura dell’universalismo politico della sinistra confluiva tutta una tradizione che nella peggiore delle ipotesi guardava all’ebraismo in senso negativo, si pensi alla polemica di Marx con Bauer. Marx contesta Bauer ma fa suoi i pregiudizi antiebraici anche se li storicizza. Nella migliore delle ipotesi, c’è una svalutazione dell’ebraismo come tale e tutto viene ridotto al diritto degli ebrei all’emancipazione sul piano individuale. Basti pensare, ad esempio, al dibattito nell’Assemblea nazionale francese in cui si affida tutto agli ebrei come individui, niente come nazione. Questo fa parte della declinazione dell’emancipazione, così è stata vista dagli Stati nazionali europei tra il ‘700 e la fine dell’800. La prospettiva cambia un po’ in paesi come la Gran Bretagna e anche negli Stati Uniti dove c’è una concezione dei rapporti interreligiosi diversa e dove c’è un fenomeno evangelico che all’epoca si affermava nei settori della sinistra e non in quelli della destra come avviene oggi, per esempio negli Usa, che guardava con simpatia al ritorno degli ebrei nella Terra promessa come premessa del ritorno di Cristo in terra. Una visione religiosa profondamente diversa da quella cattolica. Nella peggiore delle ipotesi, l’ebraismo come tale veniva demonizzato. Così il cerchio si chiudeva: la destra demonizzava l’ebraismo come tale e la sinistra accettava il diritto degli ebrei all’emancipazione ma non il diritto a declinare la propria identità nazionale. E questo anche perché nei movimenti escatologici e rivoluzionari la prospettiva era del superamento dell’identità nazionale per costruire il socialismo mondiale e associare l’”uomo nuovo”. Questo era il mito dominante nei movimenti rivoluzionari. E siccome gli ebrei apparivano come coloro i quali si erano distanziati di più dall’identità nazionale perché non avevano uno Stato da millenni, loro dovevano sacrificarsi per primi. Basta leggere Kautsky nel suo scritto del 1914 intitolato Rasse und judentum. Uno scritto molto interessante perché utilizza la parola “razza” e lui era il massimo esponente del Partito socialdemocratico tedesco e della socialdemocrazia europea. In quel libro, Kautsky affermava, come aveva fatto anche Lenin, che gli ebrei erano un fattore rivoluzionario nella società ma l’ebraismo era un fattore reazionario. Questa dialettica all’interno del dibattito della sinistra europea si è conservata successivamente come traccia anamnestica. Non dimentichiamo che i primi movimenti socialisti, parlo dei Falastini o di Proudhon, erano antisemiti in maniera esplicita ed aperta. L’odio di Proudhon per gli ebrei era forse superato solo da quello verso le donne. Anche Fourier era antisemita. Il fatto che a un certo momento la sinistra diventi consapevole del pericolo rappresentato dall’antisemitismo è determinato da un lungo processo e da una aspra battaglia all’interno del movimento operaio. E questo avviene soprattutto con l’affaire Dreyfus. All’inizio i socialisti guardano alla vicenda di Dreyfus come uno scontro interno alla borghesia ma piano piano si rendono conto che in pericolo è la democrazia, le conquiste della Repubblica. La sinistra combatte l’antisemitismo non perché ama gli ebrei o non perché riconosce il loro diritto ad una identità nazionale distinta ma semplicemente perché emerge questa consapevolezza. Basta vedere il dibattito nel partito socialdemocratico russo fino al ’17. Nel 1903, quando si fondò il Partito, si riuniscono delegati menscevichi e bolscevichi, che ancora non si chiamavano tali, e gli esponenti del Bund. Ebbene, la prima cosa che fanno è di cacciare via quelli del Bund. E il Bund non era sionista, ma rivendicava il diritto degli ebrei all’autonomia culturale, dopo peraltro i pogrom che c’erano stati a Kishinev. I pogrom che si erano scatenati a partire dal 1880-81 hanno portato all’emigrazione di massa di oltre 1 milione di ebrei dai paesi dell’Est Europa. Dopo l’espulsione del Bund, Plekhanov, il grande leader e filosofo della socialdemocrazia russa e del Partito bolscevico, accusa il Bund di essere dei “sionisti col mal di mare”. È molto interessante questa affermazione, perché la dice lunga sulla percezione che si aveva.
  Dopo aver cacciato via il Bund, menscevichi e bolscevichi si scontrano tra di loro per l’organizzazione del partito. Anche lì, da una scissione si passa ad un’altra. Il seme dell’intolleranza sta alla radice della percezione del problema.
  Le faccio un altro esempio significativo. Facendo parte di un impero multinazionale come era l’impero austroungarico, i marxisti ungarici, che erano tra i più avanzati su questo piano, elaborarono una idea dell’autonomia delle nazionalità all’interno dell’impero austroungarico, diversa, ad esempio, da quella del marxismo russo e del marxismo tedesco. Guarda caso, però, proprio agli ebrei veniva negato il diritto all’autonomia nazionale e culturale. È interessante, perché era l’unica nazionalità dell’impero austroungarico che non aveva un diritto nello specifico, in una realtà imperiale in cui vivevano oltre 5milioni di ebrei dell’Est Europa, che erano una vera e propria nazionalità, con una lingua, con una cultura elaborata nel corso dei secoli, non solo religiosa ma anche laica.
  In quel periodo c’è stata una grande letteratura yiddish, a quei tempi sconosciuta ma che oggi noi conosciamo. Una letteratura splendida, ma sparita nel corso del tempo.

- E dopo cosa avviene, professor Meghnagi?
  Avviene che con la Guerra fredda l’Urss fa una scelta di segno opposto. Una scelta di realpolitik, geopolitica. L’Unione Sovietica voleva affrettare il crollo dell’impero britannico e il modo migliore per penetrare in quella regione era di accelerare il processo di abbandono del Regno Unito di quelle zone lì. Ecco allora che i sovietici permettono ai partigiani ebrei che avevano combattuto in Cecoslovacchia, in Polonia etc., di emigrare verso Israele, adottando una politica diversa nei confronti deli ebrei che vivono in Unione Sovietica.

- Il nostro “viaggio” arriva ai giorni nostri. Le chiedo: che rapporto la sinistra dovrebbe avere oggi con Israele?
  Il processo è triplice, non duplice. Da una parte, avere sempre la consapevolezza che ebrei e Israele non sono lo stesso termine, che si tratta di realtà legate alla pluri-appartenenza, per cui gli ebrei italiani sono cittadini italiani e non possono essere giudicati per le loro posizioni verso Israele, così come nessuno si sognerebbe di criticare un italiano per le sue posizioni sui conflitti in Sudamerica o in altre parti del mondo. Si può dissentire sul piano ideologico o culturale ma questo non porterebbe mai a individuare un sottogruppo come un qualcosa percepito come estraneo all’appartenenza culturale e nazionale più ampia. Perché lì siamo di fronte ad una forma chiara ed esplicita di antisemitismo, comunque mascherato o declinato. Dall’altra parte, per la sinistra italiana ed europea si tratta di accettare la realtà di Israele….

- E qual è questa realtà?
  Quella di un paese, una nazione, con le sue contraddizioni che però non può essere giudicata secondo parametri che non si applicherebbero mai per giudicare uno Stato. Nel senso che la politica è il regno di Edipo, e non il regno di Abramo. Il regno della guerra. E la politica è alta politica quando invece nel conflitto tra umani all’interno di un paese riesce a creare delle regole che permettano di gestire il conflitto. E sul piano internazionale, vale lo stesso discorso: come creare delle regole delle regole. E lo sviluppo del diritto internazionale finalizzato a questo anche se purtroppo viene spesso utilizzato strumentalmente. La politica ha questa, o per meglio dire, avrebbe questa finalità: regolare i conflitti per evitare le guerre, per scongiurare passi senza ritorno. Due guerre mondiali purtroppo non sono state sufficienti, ma avrebbero dovuto far capire, soprattutto con le tecnologie attuali, che i conflitti vanno gestiti, regolati, evitando la loro polarizzazione. Il vero problema di tutta la sinistra, ma per altri versi il discorso vale anche per le forze di centro o di destra, è che nei confronti di Israele non si possono adottare due pesi e due misure. Non puoi giudicare la politica di uno Stato su basi puramente etiche e sulla pretesa di principi etici assoluti come non lo faresti con altri.
  Le faccio un esempio: il movimento di boicottaggio delle Università israeliane. È una delle cose più scellerate pensate e messe in pratica. Persone magari in buona fede che partecipano senza rendersene conto ad una forma di antisemitismo. Se io domani non potrò cooperare con i colleghi israeliani, dopo domani sarò accusato per il solo fatto di mantenere dei rapporti. Le stesse persone non si sognerebbero mai di operare nello stesso modo nei confronti della Cina, dell’Iran e di altri paesi che hanno ben altre responsabilità sul piano internazionale. Tutto questo è molto sospetto. Quello che auspico, e per cui mi batto, non è tanto dare indicazioni sulle cose da fare, ma di avere una maggiore consapevolezza, di curare di più il linguaggio, di rivisitare la storia. Io partecipai al primo viaggio internazionale del Pds, che fu in Israele. E io lo commentai, in un intervento pubblico, come la riscoperta da parte della sinistra del valore dello Statuto albertino. Ho voluto collegarlo alla storia dell’emancipazione degli ebrei in Italia. Per vent’anni e oltre quella che era la forma maggioritaria della sinistra italiana, non i socialisti che hanno avuto una deriva successivamente ma che sono stati invece importanti nei rapporti con Israele, scoprì un paese che non conosceva per niente. Mi trovai, in quell’occasione, durante un incontro con degli scrittori israeliani, a interloquire con persone che nel sentire la parola Bank Leumi, una delle principali banche israeliane, pensavano che si stesse parlando della West Bank…C’erano giornalisti della Terza rete della Rai che non avevano mai fatto visita allo Yad Vashem. E vivevano lì da anni, come corrispondenti. Questo per significare che la “scoperta” di Israele da parte della sinistra italiana non può ancora dirsi pienamente compiuta.

(Il Riformista, 18 gennaio 2023)

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Il ministro dell’Interno e della Salute israeliano Arye Dery è stato infine rimosso dal suo incarico

Come aveva chiesto la Corte suprema di Israele

Domenica il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato la rimozione di Arye Dery dal suo incarico di ministro dell’Interno e della Salute. Dery, leader del partito ultraortodosso Shas, era stato processato per evasione fiscale l’anno scorso e aveva patteggiato, con sospensione della pena: per questo contro la sua nomina si era espressa la Corte suprema israeliana, chiedendone proprio la rimozione. Inizialmente non era chiaro se Netanyahu avesse intenzione di rispettare la decisione della Corte suprema, poi domenica è arrivata la conferma.
  Dery è uno stretto alleato di Netanyahu e il suo partito è il secondo più importante della coalizione di governo, che si è insediato a fine dicembre ed è il più di destra della storia di Israele. Dati i suoi precedenti penali, secondo la legge israeliana Dery non avrebbe potuto essere nominato ministro, ma prima che la Corte Suprema si esprimesse il governo aveva modificato la legge esistente appositamente per rendere la sua nomina legittima. La Corte suprema aveva comunque contestato la nomina basandosi sul fatto che Dery era stato recidivo (era stato condannato una prima volta nel 1999 per corruzione e frode); inoltre durante il patteggiamento dell’anno scorso si era impegnato a lasciare il suo incarico di parlamentare.
  Netanyahu ha detto di aver deciso di rimuovere Dery dai propri incarichi con «grande dolore e molta difficoltà» e di essere intenzionato a trovare tutte le vie legali affinché il suo alleato possa continuare a collaborare con il governo.

(il Post, 23 gennaio 2023)

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"La passeggiata con il rabbino Di Segni? una lezione di vita"

Fiamma Satta parla di “a spasso con te” nel quartiere ebraico.

di Michelle Zarfati

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Oggi, 23 Gennaio, su Rai3 va in onda una puntata davvero speciale di “A spasso con te” la rubrica di Fiamma Satta all’interno di GEO il programma pomeridiano di Rai Cultura, con la regia di Olivella Foresta. Protagonista della passeggiata Riccardo Di Segni, Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma. Un percorso commovente e ricco di emozioni che regala agli spettatori il racconto della secolare Comunità Ebraica romana. Il Rabbino Capo di Roma spinge la sedia a rotelle della giornalista in una passeggiata che diventa un vero e proprio viaggio nella storia e nelle tradizioni degli ebrei romani.
  Un percorso fatto di sofferenza e resilienza dalla quale traspare tutta la vitalità e la voglia di rinascita degli ebrei romani. Dall’accoglienza al Tempio maggiore, passando per il Museo ebraico il vero e proprio scrigno del patrimonio storico artistico della Comunità la passeggiata si conclude nelle vie strette dell’ex Ghetto di Roma luogo intriso di tradizione. “Essere accompagnata dal rabbino capo Riccardo Di Segni in luoghi tanto carichi di sofferenza ma ora così vibranti di vita, essere accolta da lui nel Tempio Maggiore, visitare con lui il Museo Ebraico ascoltando le sue spiegazioni sul significato dello Shabbat, sulla storia degli ebrei romani e sul loro repentino passaggio dalla massima integrazione allo sterminio è stato per me un onore assoluto e una indimenticabile lezione di vita” ha detto a Shalom Fiamma Satta.
  Via Reginella e il dramma della razzia del 16 ottobre 1943, il Portico D’Ottavia simbolo di una Comunità orgogliosamente romana da sempre, ma anche Via Catalana crocevia di una comunità ancora vibrante, sono i luoghi in cui si dipana questa passeggiata. Non manca la storia personale e famigliare, che il Rabbino Capo ha condiviso nel corso della passeggiata, ma anche le regole dell’ebraismo e in particolare il significato profondo dello Shabbat che unisce da sempre gli ebrei. I luoghi suggestivi e ricchi di storia fanno da sfondo ad un dialogo ricco di magia e capace di insegnare ad abbattere le barriere legate agli stereotipi in uno scambio culturale che tocca le corde dell’anima.

(Shalom, 23 gennaio 2023)

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Covid, Elon Musk: “Dopo il vaccino mi sembrava di morire. A mio cugino è andata peggio

Elon Musk confessa di essere stato molto male dopo il booster del vaccino anti Covid-19 e racconta la terribile esperienza del cugino con la miocardite

di Peppe Caridi 

Elon Musk, rispondendo ad un sondaggio di Rasmussen sugli effetti collaterali dei vaccini Covid-19, ha scritto: “col booster mi sono sentito morire“. Musk ha poi aggiunto che suo cugino è stato ricoverato per miocardite. E’ la prima volta che Musk confessa di aver fatto il vaccino, pur essendo sempre stato contrario ad ogni tipo di obbligo. In passato si era espresso in modo molto scettico nei confronti delle vaccinazioni, e non ha vaccinato i suoi figli.
  Secondo i risultati del sondaggio, il 7% di coloro che si sono vaccinati ha avuto “pesanti effetti avversi“, una cifra che corrisponde a 12 milioni di persone rispetto al numero di risposte al sondaggio. Invece soltanto il 56% dei vaccinati ha risposto di non aver avuto effetti collaterali.

(MeteoWeb, 23 gennaio 2023)

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Whispered in Gaza: testimonianze palestinesi sulla repressione di Hamas

di Giovanni Panzeri

“…Ogni volta che c’è una guerra si appropriano di soldi e aiuti, mentre noi soffriamo. Si nascondono nei loro bunker mentre noi ne sopportiamo direttamente il peso. Poi ci dicono che è una vittoria, ma dov’è la vittoria se la maggior parte degli edifici di Gaza è distrutta? Se la maggior parte, o anche una buona parte, dei gazawi non ha più un lavoro o una casa?..”
  Questo e molto altro si chiedono le voci che emergono dalla prima parte di “Whispered in Gaza”, una serie di video-testimonianze realizzate dal Center for Peace Communications di New York e pubblicate dal The Times of Israel a partire da Lunedì 16 Gennaio, mentre da oggi 23 gennaio è online la seconda parte.
  La serie consiste in 25 testimonianze di cittadini gazawi che, protetti dalla distorsione vocale e dal fatto che è una serie animata, denunciano diversi aspetti dell’amministrazione di Hamas: dalla repressione politica a quella dei costumi, dalla semplice corruzione allo sfruttamento di guerre e aiuti umanitari per profitto personale.
Come riportato nello stesso articolo del Times of Israel i casi di corruzione e repressione dell’amministrazione di Gaza sui propri cittadini o altri palestinesi sono già stati oggetto di studio e denunce da parte di diverse organizzazioni non governative internazionali nel corso degli anni.
  Tra questi figurano il report di Amnesty International su omicidi, rapimenti e torture da parte di Hamas durante il conflitto del 2014 e lo studio sulla repressione del dissenso pubblicato da Human’s Rights Watch nel 2018.
  Ma le testimonianze di “Whispered in Gaza” emergono in particolare perché permettono ai palestinesi di parlare senza filtri e rischi di ripercussione, facendo intravedere agli spettatori anche solo uno scorcio di quella che dev’essere la vita quotidiana di migliaia di gazawi al di fuori delle tempeste mediatiche legate esclusivamente ai periodi di conflitto.
  I video denunciano come Hamas, dopo aver preso il controllo di Gaza nel 2007, si è imposto, in più di un senso,  come una presenza sempre più stringente sulla vita dei palestinesi.
“…i muri sono coperti di foto e slogan, e storie della leadership di Hamas. Sembra di essere in una zona di guerra. È una città questa, o una caserma?” si chiede uno dei testimoni mentre ‘Mariam’, una danzatrice di dabke, che ricorda come Hamas ha minacciato la sua famiglia per costringerla a smettere di danzare e limitarsi a studiare il Corano.
  ‘Basma’ invece, iscritta al gruppo rivale Fatah, è stata per questo costretta a chiudere la propria farmacia.
  Le testimonianze cercano anche di sottolineare come i metodi di Hamas e i danni provocati dal conflitto sembrano aver eroso la fiducia di almeno parte dei gazawi nell’organizzazione e nella sua capacità di portare avanti la causa palestinese.
  Come affermato da uno dei testimoni: “Abbiamo bisogno di una soluzione più umana. La Palestina è la nostra causa, ed è una causa giusta. Ma ciò non vuol dire che bisogna continuare a mandare Palestinesi al massacro, ancora e ancora, senza nessun risultato”.

(Bet Magazine Mosaico, 23 gennaio 2023)

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La riforma della giustizia in Israele: ecco alcune opinioni

di Luca Spizzichino

L'annuncio del ministro della Giustizia israeliano Yariv Levin di proporre una riforma della Corte Suprema volta a riequilibrare i poteri dello Stato ha aperto una crisi politica che sta inasprendo gli animi giorno dopo giorno. Per il terzo fine settimana di seguito centinaia di migliaia di israeliani si sono riversati nelle piazze per protestare contro questa riforma, considerata da molti, in particolare nell’opposizione, come “una minaccia alla democrazia”. Ma è davvero così? Diversi opinionisti si sono espressi a riguardo, ecco cosa pensano.
  "La democrazia di Israele non è in pericolo", ha dichiarato Alan Dershowitz, uno degli avvocati più importanti degli Stati Uniti e sostenitore di lunga data dello Stato d’Israele. "Le riforme sono progettate per migliorare la democrazia", tuttavia "ciò che è in pericolo sono le libertà civili, i diritti delle minoranze", ha spiegato aggiungendo come Israele possa diventare più vulnerabile alle critiche straniere se la sua Corte Suprema sarà indebolita.
  "Penso che indebolirà l'Iron Dome legale di Israele", ha continuato Dershowitz. "Penso che la Corte Suprema di Israele sia stata un fattore molto importante nel motivo per cui la Corte penale internazionale non ha giurisdizione su Israele. Penso che renderà le cose molto più difficili per persone come me, che cercano di difendere Israele davanti al tribunale internazionale dell'opinione pubblica, per difenderli efficacemente, sarebbe quindi una tragedia vedere la Corte Suprema indebolita", ha detto.
  Un’idea quella di Dershowitz che però non convince del tutto, in particolare l’esperto di diritto internazionale del Kohelet Policy Forum di Gerusalemme, il professor Eugene Kontorovich.
  Secondo il professore infatti l’attuale struttura giudiziaria non ha impedito le diverse indagini della Corte Penale Internazionale contro lo Stato Ebraico. "L'assertività della magistratura israeliana non ha impedito alla Corte Penale Internazionale di condannarla nel 2004. Il presunto rispetto internazionale per la Corte Suprema non ha fatto nulla per impedire di riconoscere illegalmente e assurdamente uno "Stato di Palestina" in tutta la Cisgiordania, compresa Gerusalemme", ha affermato il professor Eugene Kontorovich.
  Anche il parlamentare israeliano del Likud ed ex ambasciatore all’ONU Danny Danon in un’intervista al Jerusalem Post ha parlato della necessità di cambiare. Tuttavia le riforme non dovrebbero essere approvate frettolosamente dalla Knesset, ma anzi dovrebbero essere attuate con il maggior consenso possibile. “Il processo è importante. Deve essere ordinato e consentire il dialogo, perché più lo facciamo aperto e ordinato, più a lungo sopravviverà.- ha sostenuto Danon - Se lo facciamo in fretta, un futuro governo userà la sua maggioranza per annullarlo”. "Credo che nel dialogo scopriremo che ci sono molte cose su cui siamo d'accordo. Quindi dico, concentriamoci prima su ciò su cui siamo d'accordo, mettiamoli da parte e solo dopo arriviamo alle differenze". Un messaggio di moderazione quello lanciato dal parlamentare in un periodo in cui le due fazioni, quelle della maggioranza e dell’opposizione, si stanno scontrando aspramente.
  Della stessa idea anche Alex Safian, direttore associato del Committee for Accuracy in Middle East Reporting in America (CAMERA), che in un lungo articolo sulla riforma Levin, ha dimostrato come sia profondamente sbagliato attaccare l’attuale governo, ma che persino diverse voci provenienti dall’area progressista israeliana da anni propongono riforme della giustizia. Secondo Safian “la riforma giudiziaria è una questione controversa in Israele e nella Diaspora, il che sottolinea perché dovrebbe essere discussa in modo razionale e sobrio, senza accuse iperboliche e potenzialmente pericolose che segnerebbero la fine della democrazia israeliana” e in linea con quanto espresso da Danon, citando inoltre la professoressa di diritto dell’Università Ebraica, “i grandi cambiamenti dovrebbero far parte di un pacchetto di accordi, con dare e avere e basati su un ampio consenso”.

(Shalom, 22 gennaio 2023)

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Il tribunale di Cristo

di Erich Sauer

Il ritorno di Cristo è la ''beata speranza" della chiesa (Tito 2:13).
Tuttavia non è solamente connesso ai privilegi celesti, ma anche a un santo confronto che la Bibbia chiama "tribunale di Cristo" (2 Cor. 5:10). Come il rapimento è un ristoro per il cuore, così questo "tribunale" deve essere uno stimolo per la coscienza.
A questo riguardo, la Bibbia ci svela sette fatti determinanti:
Il momento - il "giorno di Cristo" (1 Cor. 1:8).
Il giudice - Cristo stesso (2 Tim. 4:8).
Le persone giudicate - "noi tutti" (2 Cor. 5:10).
La severità del giudizio - il suo fuoco (1 Cor. 3:13).
Il criterio - la nostra fedeltà (1 Cor. 4:1-5).
Il risultato - la ricompensa o la perdita di essa (1 Cor. 3:14-15).
La meta - la gloria (1 Piet. 5:4).

1. IL MOMENTO.
E' il "giorno di Cristo" (sei volte nel Nuovo Testamento: (1 Cor. 1:8; 5:5; 2 Cor. 1:14; Filip. 1:6,10; 2:16), "quel giorno" (2 Tim. 4:8), "alla sua venuta" (parousia 1Giov. 2:28), ciò che, secondo la testimonianza di tutto il Nuovo Testamento, designa il tempo che precede lo stabilimento del regno visibile o regno millenniale. Dobbiamo perciò distinguere il "tribunale di Cristo" (gr. bema, dal "gran trono bianco" (gr. thronos) che sarà innalzato solo dopo il regno di gloria e, dopo la distruzione del vecchio mondo (Apoc. 20:11 ).
  Ma esso dovrà essere altresì distinto dal giudizio che avrà luogo all'inizio del regno millenniale (Matt. 25:31-46; Apoc. 20:4). Perché dopo il ritorno di Cristo saranno giudicate le nazioni allora esistenti. L"'ultimo giorno" include così tre giudizi che devono essere distinti nel tempo:

  1. Il giudizio sulla chiesa, cioè dei rapiti; al "tribunale di Cristo" prima del regno millenniale.
  2. Il giudizio sulle nazioni, cioè su quelle che saranno allora viventi: al "trono della sua gloria", all'inizio del regno millenniale.
  3. Il giudizio generale, cioè dei morti (Apoc. 20:12), al "gran trono bianco", dopo il regno millenniale.

2. IL GIUDICE.
E' Cristo stesso, "il Signore, il giusto giudice" (2 Tim. 4:8). Il Padre ha rimesso ogni giudizio al Figlio (Giov. 5:22). Il tribunale di Cristo (2 Cor. 5:10) è perciò, allo stesso tempo, il tribunale di Dio (Rom. 14:10).

3. LE PERSONE GIUDICATE.
Sono tutti i riscatti viventi o già morti al momento della sua venuta (2 Cor. 5:6-10), "tutti noi" suoi figliuoli (2 Cor. 5:10; Rom. 14:10). Colui che crede nel Figliuolo è libero, nei confronti del giudizio finale e della condanna (Giov. 5:24; Ebr. 10:14,17), non vi è infatti "alcuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù" (Rom. 8:1). Anche per i credenti, però, vi è un "giorno di giudizio" (1 Giov. 4:17) che metterà in luce il grado di fedeltà (1 Cor. 4:2-5), la parte di ricompensa degli uni (1 Cor. 3:14; Col. 3:24) e la perdita degli altri (1 Cor. 3:15; 2 Giov. 8). Non si tratta qui di salvezza o perdizione, ma della misura della ricompensa della grazia.

4. LA SEVERITÀ DEL GIUDIZIO.
"Il Signore giudicherà il suo popolo" (Ebr. 10:30). Sarà il "fuoco" a rivelare l'opera di ciascuno (1 Cor. 3:13). In stretto legame con il tribunale di Cristo, l'apostolo Paolo parla con ragione del "timor del Signore" (2 Cor. 5:10-11) perché, per molti apporterà "danno" e "perdita". Parecchi saranno "coperti di vergogna alla sua venuta" e vedranno tutta l'opera della loro vita "consumata" (1 Cor. 3:13-15; 2 Giov. 8; 1 Giov. 2:28). Saranno salvati, ma come attraverso il fuoco, come qualcuno che sfugge a un incendio salvando appena la sua vita (vedi Amos 4:11; Gen. 19:16,29, come Lot).
  Quale sarà la nostra parte? 2 Corinzi 5:10 ci dice che ci sarà dato non solo secondo le nostre buone opere, ma anche secondo le nostre cattive opere. "Noi" (cioè i membri della chiesa) dovremo tutti trovarci davanti al tribunale di Cristo, affinché ciascuno riceva secondo ciò che egli avrà fatto per mezzo del corpo, sia bene, sia male. In Colossesi 3:24-25, l'apostolo, parlando delle ricompense future in rapporto con la vita giornaliera dei membri della chiesa, si esprime cosi: colui che agisce ingiustamente riceverà secondo la sua ingiustizia, e senza riguardi personali (cfr. Luca 19:24; 12:45-48). Non lasciamo che la spada dello Spirito perda la sua affilatura (Ebr. 4:12). Trovarsi davanti al tribunale di Cristo è una cosa molto più seria di quel che pensiamo generalmente. La menzione di un "guadagno" o di una "perdita" è impotente da sola a far pienamente giustizia, a mostrare tutta la serietà di questo aspetto dell'insegnamento neotestamentario. E' vero che noi non possiamo capire come si combineranno, in quel giorno, la gloria e la solennità di questo avvenimento. Queste realtà appartengono già a ciò che è eterno, perciò inaccessibili alle percezioni e sentimenti presenti. Se le Scritture ci dipingono con tanta serietà il tribunale davanti al quale dovremo comparire, è per imprimere in noi in maniera profonda, la coscienza della necessità di una santità e di una fedeltà pratica, di un servizio compiuto nella rinuncia. Benché la salvezza e la sua efficacia siano delle certezze assolute, questa esortazione resta attuale: "Compite la vostra salvezza con timore e tremore" (Filip. 2:12).

5. IL CRITERIO.
Sarà il grado di fedeltà (1 Cor. 4:1-5). Saranno considerati la nostra vita intera, le nostre opere secondo le possibilità date a ciascuno, ciò che saremo stati ma anche ciò che avremmo potuto diventare, i nostri atti ma anche le nostre omissioni (Giac. 4:17). Sarà considerato l'operaio piuttosto che l'opera, il valore più che il numero delle opere, ciò che ci saremo sforzati di raggiungere più di quel che sarà stato raggiunto. Dei nostri possessi, conteranno solo quelli che avremo messo al suo servizio; delle nostre disposizioni, conterà solamente l'amore disinteressato; delle nostre opere, quelle che ci costano di più saranno quelle considerate meglio. Dei nostri peccati, egli non giudicherà di nuovo quelli che noi avremo già giudicato (1 Cor. 11:31), e coprirà quelli che avevamo palesato (1 Giov. 1:9; Ebr. 8:12); ma svelerà ciò che avremo nascosto (Luca 12:12). E in ogni cosa, egli terrà conto degli elementi interiori, degli impulsi e dei motivi più segreti (1 Cor. 4:5; 1 Sam. 16:7; Ebr. 4:13; Sal 139).

6. GLI EFFETTI.
Il Signore è un "giusto giudice" (2 Tim. 4:8) in modo che ciascuno riceverà la sua giusta retribuzione. Colui che avrà costruito con legno, fieno o stoppia, vedrà la sua opera consumata; quelli che avranno costruito con oro, argento e pietrepreziose, vedranno invece la loro opera sussistere (1 Cor. 3:12-15). Quelli che avranno servito fedelmente saranno grandi nel regno dei cieli (Matt. 5:19; 25:21; Luca 19:17). Quelli che avranno seminato secondo la carne raccoglieranno dalle loro opere, la corruzione (Gal. 6:7-8). Quelli che sono puri, irreprensibili (Filip. 1:10; 1 Cor. 1:8), riporteranno il premio (Filip. 3:14); altri saranno disapprovati (1 Cor. 9:27) e perderanno la ricompensa (1 Cor. 3:15; 2 Tim. 2:5; 2 Giov. 8). Alcuni avranno confidanza nel giorno del giudizio (1 Giov. 4:17); altri saranno coperti di vergogna (1 Giov. 2:28).
  Ciascuno riceverà ciò che gli è dovuto (Ebr. 6:10; 1 Cor. 4:5; 2 Tim. 4:8), senza considerazioni o riguardi personali (1 Piet. 1:17; 2 Cor. 5:10; Col. 3:24-25). La salvezza dipende dalla fede, la ricompensa è il frutto della fedeltà. Come figliuoli, noi riceviamo la sua vita; come servitori, la sua ricompensa. "Ecco, io vengo tosto e la retribuzione è con me" (Apoc. 22:12).
  Infine, tutti i credenti saranno salvati e brilleranno (sebbene in gradi diversi) risplendenti di splendore e di gloria (1 Cor. 15:40-42). Vi saranno dei vasi stretti, altri larghi, ma tutti saranno pieni. Cosi la misura sarà la stessa per tutti: la pienezza. Vi saranno dei gradi e delle tappe nella gloria (Matt. 25:14-24), ma nessuna differenza nella beatitudine (Matt. 20:1-16).
La corona è riservata:

  1. ai guerrieri vittoriosi, e sarà la corona di giustizia (2 Tim. 4:8);
  2. a quelli che corrono nello stadio, e sarà una corona incorruttibile (1 Cor. 9:25-27);
  3. ai fedeli fino alla morte, e sarà la corona della vita (Apoc. 2:10; Giac. 1:12);
  4. agli operai disinteressati, e sarà la corona d'onore (1 Tes. 2:19; Filip. 4:1);
  5. ai modelli del gregge, e sarà la corona della gloria (1 Piet. 5:3-4).

7. LO SCOPO DEL GIUDIZIO È LA GLORIA.
"Poi udii come la voce di una gran moltitudìne, come il suono di molte acque, come il rumore di forti tuoni, che diceva: Alleluia! Poiché il Signore Iddio nostro, l'Onnipotente ha preso a regnare. Rallegriamoci e giubiliamo e diamo a lui la gloria, poiché son giunte le nozze dell'Agnello, e la sua sposa si è preparata ... beati quelli che sono invitati alla cena delle nozze dell' Agnello" (Apoc. 19:6-9).
  Infatti il grande giorno è venuto in cui Dio ha giudicato l'esercito dei grandi in alto e i re della terra (Is. 24:21) e in cui gli è piaciuto di dare il regno al "piccolo gregge" (Luca 12:32). Io vidi dei troni, e a quelli che vi si sedettero fu dato il potere di giudicare (Apoc. 20:4). "I santi dell'Altissimo riceveranno il regno" (Dan. 7:18-22; Apoc. 1:6; 5:10). E coloro che al tribunale di Cristo erano stati giudicati diventeranno i giudici del mondo. Essi saranno l'aristocrazia regnante nell'eterno regno celeste. E poiché essi formano "un solo corpo" (1 Cor. 12:12-13; Ef. 2:16), l'individuo non sarà glorificato prima della comunità (1 Tes. 4:15). Nell'insieme essi riceveranno la loro porzione della "sorte dei santi nella luce" (Col. 1:12), insieme essi sono un regno di sacerdoti e re (Apoc. 1:6; 5:10). Sul piano della storia, la comunità è più che l'individuo. Per questa ragione questi non può essere reso perfetto che mediante una vita di comunione con la comunità resa perfetta.
  Di qui l'attesa di quelli che dormono (Ebr. 11:40; Apoc. 6:10-11): l'anima infatti, non si riveste del corpo della gloria immediatamente dopo la morte (1 Cor. 15:23; Apoc. 6:9; Ebr. 12:23).  I morti in Cristo e quelli che vivranno saranno "cambiati" e "rivestiti" tutti insieme al momento del rapimento (2 Cor. 5:2-4; 1 Tes. 4:15). Poiché lo scopo finale non è solo la salvezza dell'individuo, ma la glorificazione dell'organismo tutto intero, non le sole benedizioni individuali ma il "regno di Dio" (Matt. 6:10).
  Oggi, lo stato cosmico universale di Dio è sotto il governo dei principi angelici delle diverse regioni (vedi Dan. 10:13,20). Domani saranno i santi glorificati che regneranno sull'universo intero con Cristo come capo (Apoc. 22:5; Ebr. 2:5). Non sapete voi che i santi giudicheranno il mondo ... non sapete voi che giudicheremo gli angeli?" (1 Cor. 6:2-3). "Colui che vince, lo farò sedere con me sul trono" (Apoc. 3:21). "Beati quei servitori che il padrone, arrivando, troverà vigilanti! In verità io vi dico che egli si cingerà, li farà mettere a tavola e passerà a servirli" (Luca 12:37).
  "Questa è la promessa più grande della Bibbia" (J.A. Bengel).





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Netanyahu va alla “guerra suprema”. E spacca in due Israele

di Giulio Meotti

ROMA - Tenevano cartelli che ritraevano il ministro della Giustizia israeliano, Yariv Levin, come un nazista e chiamavano il governo Netanyahu “il Sesto Reich”. Michal Shir, del partito Yesh Atid guidato da Yair Lapid, ha chiesto che “le strade vengano incendiate”.
  L’ex vice capo di stato maggiore Yair Golan ha chiesto un’insurrezione civile. L’ex capo di stato maggiore e ministro della Difesa, Moshe Ya’alon, ha chiesto ai poliziotti di disobbedire agli ordini. Il clima in Israele non è mai stato tanto teso. Al centro c’è la riforma voluta dal nuovo governo di Benjamin Netanyahu: con un voto, il Parlamento potrebbe ribaltare una sentenza della Corte suprema. E la Corte ha risposto, pronunciandosi contro la nomina a ministro di Aryeh Deri a causa delle sue condanne per corruzione ed evasione fiscale. La Corte ha definito “irragionevole” e quindi da bocciare la nomina a ministro dell’Interno del leader del partito ortodosso Shas, fido alleato di Bibi. Un pronunciamento che rischia di fare traballare l’esecutivo. Ma forse anche di accelerare l’intenzione della maggioranza di limitare il peso della Corte e spostare l’equilibrio dei poteri in favore del ramo legislativo.
  All’attacco della sentenza i due controversi leader del sionismo religioso – entrambi ministri – Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich. “Un’assise che non viene eletta – ha detto Ben Gvir – non è interessata a compromessi e anela a un potere illimitato su quanti sono stati eletti”. “Non è possibile in uno stato democratico che dieci giudici decidano al posto della maggioranza chi possa fare il ministro”, ha denunciato Smotrich. Mai il paese è stato così spaccato in due, fra chi denuncia il “golpe di Bibi” e chi il “golpe delle élite”.
  Caroline Glick, seguitissima columnist israeliana, scrive che la Corte non protegge i diritti delle minoranze di per sé. “Solo delle minoranze associate alla sinistra. Da quando Aharon Barak (ex capo della Corte) ha messo in atto la sua rivoluzione giudiziaria la Corte ha protetto i terroristi palestinesi. Invece le minoranze del blocco di destra – classe operaia, israeliani di Giudea e Samaria, ortodossi – non ricevono sostegno dai giudici.
  Oggi è la prima volta che i Barak (Ehud e Aharon) affrontano la prospettiva che la democrazia sia ripristinata nel paese”. Dall’altro lato chi, come Yossi Klein Halevi, intellettuale centrista di Gerusalemme, sull’Atlantic scrive che “la democrazia israeliana è messa in pericolo da Netanyahu”. Intanto su Deri, cui ora Bibi dovrà trovare qualcosa da fare, arrivava la sentenza della Corte, compreso il voto del primo giudice islamico, Khaled Kabub.
  Sarà “apartheid”, ma ancora è abbastanza democratica.

Il Foglio, 21 gennaio 2023)

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Una battaglia per la verità: Gerusalemme, il Monte del Tempio e l'invenzione arabo-islamica di una Storia fasulla

di Ugo Volli

Nella storia del popolo ebraico la battaglia per la verità, contro le diffamazioni dell'antigiudaismo e dell'antisemitismo, è una costante. Per secoli si è dovuto spiegare che i Romani e non gli ebrei avevano ucciso Gesù; che la Torà proibisce di nutrirsi di sangue in ogni forma, oltre che naturalmente di ammazzare gli innocenti, e che dunque la narrazione di bambini cristiani uccisi per impastare con il loro sangue il pane azzimo era una calunnia senza senso; che gli ebrei non avvelenavano i pozzi, non diffondevano le epidemie, non rovinavano economicamente i popoli presso cui lavoravano; che la Torà non era una legge crudele contrapposta alla misericordia dei Vangeli, eccetera eccetera. Ma, in una forma o nell'altra queste menzogne circolano ancora oggi.
  C'è però una menzogna speciale di recente invenzione che riguarda la Terra di Israele e in particolare Gerusalemme. Gli ebrei non avrebbero nulla a che fare con la città santa e con la regione che la circonda. Sarebbero più o meno tutti discendenti di Khazari, la popolazione turcofona abitante nel basso corso del Volga che si convertì all'ebraismo fra l'ottavo e il decimo secolo dell'Era Comune; oppure le località di cui parla la Torà sarebbero situate altrove, per esempio nella penisola arabica. Oppure gli ebrei avrebbero deformato la Torà per attribuirsi una storia non loro. La regione fra il Giordano e il Mar Mediterraneo sarebbe da sempre "palestinese", e infatti gli attuali palestinesi non discenderebbero dagli arabi invasori nell'ottavo secolo della nostra era ma sarebbero eredi cananei o dei loro predecessori nella preistoria, come ripetono spesso i dirigenti dell'Autorità Palestinese. Ma soprattutto Gerusalemme sarebbe sempre stata islamica, anche secoli e millenni prima di Maometto. Abramo sarebbe stato un musulmano devoto, fondatore della moschea cui gli ebrei danno erroneamente il nome di Santuario di Gerusalemme, e così Davide, Salomone, i profeti. Non vi sarebbero mai stati ebrei a Gerusalemme, a Hebron, a Betlemme, in tutto il territorio della "Palestina". Che della loro presenza narrino non solo la Bibbia, ma storici greci e romani, documenti archeologici di tutte le culture della regione e naturalmente anche i Vangeli cristiani, non importa. Come insegnava Goebbels, basta ripetere a lungo una menzogna e prima o poi qualcuno ci crederà, specialmente se ne ha interesse. E dunque Onu, Unesco, stati arabi, propagandisti musulmani riprendono regolarmente questa nuova calunnia. Per questa ragione è prezioso un libro appena pubblicato da Guerini. Esso esamina accuratamente le fonti islamiche e mostra come a partire dal Corano e fino a tempi recenti era pacifico nell'Islam che la Terra di Israele, inclusa Gerusalemme, fosse la sede storica del popolo ebraico, che aveva il diritto di tornarvi. Solo in un momento molto tardo, corrispondente alla nascita del sionismo, questa verità storica è stata nascosta per ragioni politiche e sostituita da fantasiose narrazioni che servono a occultare il legame fra ebraismo e Israele, islamizzando ossessivamente tutto ciò che riguarda il Tempio, la città di Gerusalemme e Israele. È una lettura utile a chi vuole comprendere i meccanismi dell'"invenzione della tradizione" (per citare un'espressione dello storico britannico Eric Hobsbawm) e indispensabile per chi deve combattere l'ennesima battaglia per la verità della storia ebraica.

(Bollettino della Comunità Ebraica di Milano, gennaio 2023)

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Palestinese ucciso dopo un tentato accoltellamento nella Cisgiordania settentrionale

Secondo quanto riferito da “The Times of Israel”, le Forze di difesa israeliane (Idf) hanno dichiarato che l'uomo palestinese, dopo essere entrato in auto nell’avamposto di Sde Ephraim, nei pressi di Kafr Ni'ma, ha cercato di accoltellare un israeliano.

Un uomo palestinese di 42 anni, Tariq Odeh Youssef Maali, è stato ucciso, questa mattina, dopo quello che è stato definito da Israele un tentato accoltellamento presso un insediamento nella Cisgiordania settentrionale. Secondo quanto riferito da “The Times of Israel”, le Forze di difesa israeliane (Idf) hanno dichiarato che l’uomo palestinese, dopo essere entrato in auto nell’avamposto di Sde Ephraim, nei pressi di Kafr Ni’ma, cittadina palestinese situata tra Ramallah e il governatorato di Al Bireh, ha cercato di accoltellare un israeliano. L’aggressore è stato successivamente ucciso.
  In particolare, i filmati delle telecamere di sorveglianza hanno mostrato il presunto aggressore palestinese mentre correva dietro a un uomo israeliano, il quale si è voltato e gli ha sparato uccidendolo. Ad aver identificato la vittima è stato il ministero della Salute palestinese, secondo quanto riferito dall’agenzia di stampa “Wafa”. Come spiega “The Times of Israel”, l’avamposto di Sde Ephraim è stato “stabilito illegalmente” su una collina che faceva parte del vicino villaggio palestinese di Ras Karkar, noto anche come Risan. Anche in passato gli israeliani si sono più volte scontrati con i palestinesi locali.

(Agenzia Nova, 21 gennaio 2023)

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L’UCEI, la Meloni e il fascismo: confusione di ruoli

di Alberto Heimler

Capisco il fastidio di molti di noi per il largo consenso che in Italia ha avuto un partito alcuni dei cui esponenti hanno militato (e alcuni dei cui elettori militano) in formazioni fasciste o neofasciste. Tuttavia non è compito dell'UCEI dar voce acriticamente a questo scontento. lnfatti l'UCEI non è un partito politico, ma un'associazione volta a sostenere le comunità ebraiche in Italia, religiosamente, finanziariamente, organizzativamente e politicamente. Pertanto il fatto che la Presidente Meloni dica che le leggi razziali del 1938 sono state un'ignominia è addirittura più del necessario. A noi ebrei dovrebbe bastare che lei venga in Comunità partecipando alle nostre feste, che il suo Governo sostenga il pluralismo religioso e che l’8 per mille non venga ridotto. Di che altro ci interessiamo come UCEI e, nel caso, con quale mandato? L'MSI era un partito politico italiano ammesso in Parlamento e pertanto non in contrasto con il divieto di ricostituzione del partito fascista. L'UCEI ne dà una lettura diversa anche se veritiera. Ma allora perché negli anni Cinquanta, Sessanta o Settanta non si è cercata una sponda per dichiararlo fuori legge? Forse è stato fatto, ma certo non con successo. Oggi, siccome l'incostituzionalità dell'MSI non è stata riconosciuta, se ne può benissimo ricordare la fondazione. Dà fastidio, concordo, ma non è illegittimo, né anti ebraico né anti repubblicano. Più in generale, perché la Presidente Meloni (che tra l'altro è presidente dei conservatori europei, non certo un raggruppamento di partiti fascisti dovrebbe dissociarsi dal fascismo, un'epoca che lei non ha vissuto e le cui politiche tiranniche il suo partito, Fratelli d'Italia, non ha promosso né oggi promuove? Se mai questa dissociazione fosse stata necessaria, essa andava chiesta anni fa e non certo dall'UCEI. Adesso è tardi.
  Su un altro tema, questo sollevato da Rav Bahbout, concordo: che sarebbe stato meglio per l'Italia rimanere neutrale nella seconda guerra mondiale. Tuttavia se vogliamo mantenere un certo rigore storico occorre anche ricordare che l'Italia è entrata in guerra per vincerla (e velocemente), non per perderla!. Ma mi domando ancora. Tutto questo cosa c'entra con l'ebraismo?
  Insomma, vedo una enorme confusione di ruoli. In particolare, le posizioni prese pubblicamente dall'UCEI e che richiedono alla Presidente Meloni di dissociarsi dal fascismo sarebbero state legittime solo se in appoggio ad analoghe richieste provenienti dalla più ampia società italiana. Così isolate, proiettano l'UCEI in uno spazio non suo.

(Pagine Ebraiche, gennaio 2023)
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Organismi rappresentativi di realtà religiose come l’UCEI (Unione delle Comunità Ebraiche Italiane), ma anche, per fare soltanto un esempio non casuale, la FCEI (Federazione delle Chiese Evangeliche Italiane), tendono facilmente a “debordare”. I bordi forse non saranno sempre ben definiti, ma sarebbe bene che chi sta al timone ispezioni attentamente i bordi consultandosi più spesso con chi sta a bordo. M.C.

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Il direttore della CIA incontra segretamente Zelensky

I due hanno discusso su quelle che - secondo la CIA - saranno le prossime mosse di Putin. Preoccupazione sulla continuazione del supporto di Washington a Kiev

Il direttore della CIA William Burns la scorsa settimana ha compiuto un viaggio tenuto segreto in Ucraina per incontrare il presidente Volodymyr Zelensky e informarlo sulle prossime mosse della Russia nell’ambito della sua invasione. Lo ha dichiarato un funzionario statunitense alla Reuters.
  “Il direttore Burns si è recato a Kiev, dove ha incontrato le controparti dell’intelligence ucraina e il presidente Zelensky e ha rafforzato il nostro continuo sostegno all’Ucraina e alla sua difesa contro l’aggressione russa”, ha detto il funzionario, parlando a condizione di anonimato.
  Il funzionario non ha voluto precisare quando si è svolto l’incontro segreto, ma il Washington Post, che ha riportato per primo l’incontro, ha detto che è avvenuto alla fine della scorsa settimana.
  Oltre a discutere le informazioni di Burns sui prossimi piani militari della Russia, secondo il giornale, il capo della CIA ha anche avvertito il leader ucraino che a un certo punto l’assistenza statunitense sarebbe stata più difficile da ottenere.
  Zelensky e i suoi alti funzionari dell’intelligence hanno discusso su quanto tempo l’Ucraina possa aspettarsi che l’assistenza degli Stati Uniti e dell’Occidente continui dopo che i repubblicani hanno conquistato una stretta maggioranza alla Camera nelle elezioni di midterm di novembre, ha riferito il Washington Post.
  L’attuale presidente della Camera Kevin McCarthy (R-Calif.) ha avvertito che i repubblicani non scriveranno un “assegno in bianco” per l’Ucraina ora che controllano la camera bassa del Congresso.
  Il leader ucraino e i suoi assistenti sono usciti dall’incontro con l’impressione che il sostegno degli Stati Uniti a Kyiv sia rimasto comunque forte, secondo il quotidiano.
  Burns ha ripetutamente informato Zelensky da quando la Russia ha invaso l’Ucraina il 24 febbraio 2022, trasmettendo informazioni sui piani e le intenzioni belliche del Cremlino.
  Il mese scorso, il direttore della CIA ha dichiarato a “The PBS NewsHour” che gli analisti dell’agenzia avevano previsto “una riduzione del ritmo e dei combattimenti tra i due eserciti con l’arrivo dell’inverno”.
  “Non sottovaluto nemmeno per un attimo gli oneri e le sfide che questa guerra pone agli ucraini in primo luogo, ma anche a tutti noi che sosteniamo l’Ucraina”, ha dichiarato Burns, ex ambasciatore statunitense a Mosca. “Ma dal punto di vista strategico, credo che per molti versi la guerra di Putin sia stata finora un fallimento per la Russia”.
  L’amministrazione Biden ha annunciato giovedì un nuovo pacchetto di assistenza militare per l’Ucraina del valore massimo di 2,5 miliardi di dollari, tra cui centinaia di veicoli blindati e supporto alla difesa aerea ucraina.
  Durante il suo viaggio a Washington a dicembre, Zelensky ha dichiarato al Congresso che gli aiuti all’Ucraina sono un investimento nella democrazia, non un’elemosina, e ha fatto pressioni per continuare a sostenerli.

(Rights Reporter, 21 gennaio 2023)
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"“Non sottovaluto nemmeno per un attimo gli oneri e le sfide che questa guerra pone agli ucraini", ha detto il direttore della CIA a Zelensky", però ... Il resto non si sa. Avrebbe potuto dire: però tenete duro perché presto finirà. Ma non si sa se l'ha detto. A proposito, ma che c'entra la CIA? M.C.

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Lezioni di Torah, nell’ora più buia

Da oggi nelle librerie, tradotto da Giuntina, “Nuovi responsi di Torà dagli anni dell’ira” di Kalonymus Shapira. Il lascito alle nuove generazioni del grande studioso e chassid assassinato nella Shoah. Shapira nacque in Polonia, nel 1889. Quando a Varsavia venne istituito il ghetto, non abbandonò i suoi discepoli ma continuò a guidarli spiritualmente e ad aiutarli dal punto di vista materiale. Deportato nel 1943 nel campo di lavoro di Trawniki, il 3 novembre fu fucilato assieme a tanti altri compagni. Si sono conservate però le sue omelie, contenute in questo volume a cura di Daniela Leoni e Luigi Cattani.
  “Leggere queste omelie – spiega Leoni – trascina il lettore in un mondo in cui l’uomo non è sconfitto, non è abbruttito né dissolto. Le parole di Shapira sono capaci di dare la vita perché non esprimono disperazione, non descrivono le brutalità, la malvagità e la disumanità del nazismo, ma testimoniano una certezza che anche l’uomo di oggi ha bisogno di sentire confermata: Dio è ancora colui che ha in mano il corso della storia”.
  Leggendo le lezioni di questo grande chassid – lezioni che comprendono tutta la sapienza ebraica, citando Talmud, Midrash, Rashi Qabbalà – si percepisce l’incredibile forza spirituale di un uomo che non smise mai di insegnare ai suoi studenti, nemmeno nel Ghetto di Varsavia, uno tzaddik che non ha mai perso la fede nella Torà e nel suo Dio e non ha mai cessato di interrogare il testo biblico per trovarvi quelle nuove interpretazioni luminose capaci di opporsi alle tenebre della storia riportando fiducia e speranza nelle anime provate degli ebrei durante il tempo più duro della Shoah.


30 agosto 1941
Kalonymus Shapira
Tu sarai integro con il Signore tuo Dio (Dt 18,13). Quando un uomo si trova nell’angustia ma conserva ancora il suo spirito, all’udire un buon annuncio vi presta fede con gioia. Così non è se egli è stato a tal punto battuto e castigato da essere spezzato e ridotto in polvere per l’angustia e la miseria. Allora, anche se con la sua mente presta fede e sa che per lui verrà il bene, comunque non è più un uomo che sappia gioire: non c’è più nessuno allora che si lasci rafforzare nella sua fede. Una cosa simile a questa io l’ho già vista! Infatti: “Essi non ascoltarono Mosè” – sebbene credessero in lui – “e ciò avvenne per l’oppressione dello spirito e per la dura schiavitù (Es 6,9) “. Così, non vi era più nessuno allora che si lasciasse rafforzare o che volgesse il cuore a quella buona notizia. Ora, in mezzo a tutte queste angustie che vediamo arrivare, se tutti sapessero che subito – domani! – saranno salvati, allora una grande parte di loro, anche di quelli che hanno perso la speranza, di nuovo sarebbe in grado di lasciarsi rafforzare. Ma questo è il problema: essi non vedono la fine posta alla tenebra. Molti non trovano niente per rafforzarsi e – il Cielo ce ne scampi! – perdono la speranza, mentre si abbatte il loro spirito. Questo è il senso di tu sarai integro con il Signore tuo Dio: «Perfino se sei spezzato e ridotto in polvere, in ogni modo tu dovrai essere integro con il Signore tuo Dio! Infatti, tu sai che il Signore tuo Dio è con te nell’angustia. Perciò, “non investigare il futuro” dicendo: Io non vedo la fine posta alla tenebra! Ma qualunque cosa ti accada, tu accoglila “con integrità”: allora tu sarai con il Signore e diverrai la sua parte» (Rashi su Dt 18,13). In virtù di ciò, ovviamente, la tua salvezza diverrà prossima, conforme a quanto chiese Mosè nostro maestro: “Ma essi sono il tuo popolo, la tua eredità (Dt 9,29)”.
Kalonymus Shapira


(moked, 20 gennaio 2023)

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Lo scontro fra maggioranza parlamentare e Corte Suprema si aggrava in Israele

di Ugo Volli

• La riforma della giustizia
  Lo Stato di Israele è entrato in una crisi politico-istituzionale grave, di cui non si vede al momento la via d’uscita. Questa crisi ha una premessa, la scelta della nuova maggioranza di governo di realizzare le promesse elettorali di un riequilibrio fra i poteri dello stato. Una decina di giorni fa il ministro della giustizia Yariv Levin ha annunciato un progetto di legge per limitare a una maggioranza qualificata la possibilità della Corte Suprema di annullare le leggi approvate dalla Knesset (il Parlamento israeliano), per permettere a questo con una nuova votazione di superare eventuali abrogazioni, per rivedere i modi di nomina dei giudici eliminando l’attuale sistema, che è molto simile a una cooptazione. Infine essa richiede alla Corte, per l’abrogazione di atti parlamentari, di non far ricorso a ragioni generiche come l’”irragionevolezza” ma di mostrare che essi violino qualcuna delle “leggi fondamentali” che in parte svolgono in Israele il ruolo di una costituzione che non è mai stata stabilita.

• La risposta della Corte
  La presidente della Corte, Esther Hayut, ha reagito a questo progetto con un durissimo discorso televisivo, in cui accusava la riforma Levin di “non essere un piano per sistemare i problemi del sistema della giustizia, ma per distruggerlo”, usando toni molto simili a quelli di una grande manifestazione antigovernativa che si è svolta sabato sera a Tel Aviv. Ma la risposta più dura è stata in una sentenza emessa lunedì dalla Corte, con una larga maggioranza. In questa decisione, che rispondeva alla petizione di una associazione “per il buongoverno”, La Corte ha dichiarato che il ministro della Sanità e dell’Interno Aryeh Deri non può mantenere questi posti ministeriali.

• Il caso Deri
  La ragione è che Deri, diventando ministro, non avrebbe mantenuto l’impegno a non ricoprire ruoli pubblici e a dimettersi dalla Knesset preso durante la scorsa legislatura, che aveva preso due anni fa per chiudere un procedimento per elusione fiscale cui era stato sottoposto per aver intestato al fratello i profitti di una vendita immobiliare. Deri in effetti si era dimesso allora dalla Knesset, ma poi era stato rieletto nelle ultime votazioni, senza che la sua candidatura fosse bocciata dalla Commissione elettorale centrale, che ha competenza su questi problemi. Nel diritto israeliano esiste una norma che proibisce la nomina a ministro di chi sia stato condannato per reati “disonorevoli” (Kalon). Il tribunale del procedimento fiscale non aveva sentenziato se la sua colpa lo fosse, rinviando la decisione alla Commissione. Fra le prime leggi del nuovo parlamento se n’è approvata una che stabilisce che per reati fiscali come quelli contestati a Deri non vi è “disonore” e quindi non c’è bisogno di ricorrere alla Commissione. Si è resa dunque esplicita una volontà politica e legislativa della Knesset di ammettere Deri fra i ministri. La Corte, richiamando anche dei precedenti di Deri (condannato vent’anni fa per frode e abuso di potere) ha sentenziato che la nomina è “gravemente irragionevole” e ha imposto che essa venga annullata, aprendo un conflitto evidente con la maggioranza di governo.

• Le conseguenze politiche
  In effetti Deri è il leader incontrastato di Shaas, il partito religioso sefardita che è il quarto alla Knesset con 11 seggi su 120. E’ dunque necessario alla maggioranza di Netanyahu, che è di 64 seggi. Deri ha anche dichiarato che considera la sentenza della Corte ingiusta e persecutoria nei suoi confronti, affermando di non volersi dimettere. Qualcuno dei suoi sostenitori ha dichiarato che se Deri non è più ministro, non vi sarà più governo. La legge israeliana dà al primo ministro la possibilità di licenziare i ministri, ma Netanyahu non vuole certo farlo contro la volontà di Deri, per trovarsi così in minoranza. D’altro canto non può rifiutarsi di farlo, perché in questo caso sarebbe accusato di “disprezzo della corte” che nel regime giuridico israeliano è un reato, e anche perché nel paese si aprirebbe un grave rischio di anarchia. Dopo la sentenza però Netanyahu è andato subito a casa di Deri a porgergli la sua solidarietà, e nello stesso senso si sono espressi i più autorevoli esponenti della maggioranza.

• Le soluzioni possibili
  Escluso il rifiuto di obbedire alla sentenza, sono emerse diverse possibilità. Una è quella di dare a Deri il titolo di “primo ministro alternativo” (come Lapid era per Bennett nell’ultima legislatura o Gantz per Netanyahu due anni fa), perché esso sta fuori dalla legge sul “disonore”. Ma è una via giuridicamente complessa, che richiederebbe daccapo la nomina di un nuovo governo. E anche politicamente è costosa, perché Netanyahu si è impegnato in campagna elettorale a non creare di nuovo una duplicità a capo del governo. La seconda è quella di nominare Deri presidente della Knesset, conservando il controllo di Shaas sui ministeri. La terza è quella di approvare una norma che escluda gli effetti della sentenza, il che non sarà semplice. Anche in questi casi però la Corte potrebbe essere chiamata a intervenire ed esercitare di nuovo la sua autorità sul cuore della politica, la costituzione del governo. Non si sa che cosa Netanyahu deciderà. Ma certamente la prova di forza della Corte Suprema deve averlo convinto che è urgente raddrizzare l’equilibrio fra le scelte popolari (e il parlamento che ne deriva) e una classe giudiziaria che non si basa sulla legittimazione democratica ma sulla cooptazione e pretende di avere l’ultima parola su tutti i problemi politici. E’ molto probabile che lo scontro fra politica e giudici (che non è un caso unico di Israele, c’è anche in paesi come l’Italia) non finisca qui.

(Shalom, 20 gennaio 2023)

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USA, il pregiudizio è diffuso

Una nuova indagine dell'AntiDefamation League spiega come una buona fetta di americani creda ai più classici stereotipi antisemiti.

Nel 2013 il Pew Research Center, autorevole centro studi che analizza i fenomeni sociali negli Usa, convoca una dozzina di esperti di ebraismo americano. L’obiettivo è costruire attorno a questo argomento un sondaggio e agli esperti si chiede quali siano le priorità e le aree su cui concentrare l'indagine. La replica condivisa, quando si tocca il punto antisemitismo, è che sia ai minimi storici negli Stati Uniti e che, pur da trattare, non rappresenti un tema urgente. Dieci anni dopo il giudizio si è completamente capovolto. "Ci hanno detto che l'antisemitismo è un problema molto urgente e che dobbiamo dedicare molta attenzione alla sua comprensione" ha spiegato al Washington Post Alan Cooperman, direttore delle ricerche sulle religioni del Pew. A certificarlo anche un nuovo sondaggio dell'.Anti-Defamation League - ong ebraica che si occupa di contrasto all'odio antisemita - che mostra quanto siano diffusi i pregiudizi contro ebrei negli Stati Uniti. Più di tre quarti degli americani (85 per cento) risulta credere a almeno uno stereotipo antiebraico, rispetto al 61 per cento rilevato nel 2019. Il 20 crede a sei o più stereotipi antisemiti, un numero significativamente superiore all’11 rilevato dall'ADL nel 2019.
  Agli intervistati è stato chiesto di valutare la veridicità di quattordici affermazioni che fanno riferimento a classici pregiudizi antisemiti. Ad esempio si chiede se gli ebrei "hanno troppo controllo e influenza a Wall Street"; siano così scaltri che gli altri non hanno la possibilità di competere"; se "sono più fedeli a Israele che all'America”. Il sondaggio ha rilevato che circa sette americani su dieci credono che gli ebrei siano più uniti degli altri americani e che più di un terzo pensa che non condividano i loro valori e "amino essere a capo delle cose". Circa uno su cinque ritiene che abbiano troppo potere negli Stati Uniti, che non si preoccupino di ciò che accade agli altri e siano più disposti degli altri americani a ricorrere a "pratiche losche per ottenere ciò che vogliono". Quattro su dieci credono alla teoria cospirazionista della doppia lealtà, per cui gli ebrei sarebbero più fedeli a Israele che agli Usa. Per Matt Williams, vicepresidente del Centro per la ricerca sull'antisemitismo dell’ADL, questi dati dicono che "l'antisemitismo nella sua classica forma fascista sta emergendo di nuovo nella società americana". Il paese ha già registrato atti di estrema violenza antisemita in questi anni e il timore è che, in questo clima, l'orizzonte sia ancora più fosco.

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"Antisemitismo nei campus, agire e fare la differenza"

"Innumerevoli famiglie ebraiche hanno accolto i loro figli a casa dall'università in questo periodo di vacanze, offrendo a decine di migliaia di persone un rifugio da quello che è diventato un comportamento terribilmente normale nei loro campus americani: l'antisemitismo. Non è un segreto che l'odio per gli ebrei sia esploso online e nelle strade negli ultimi anni. Ma si è radicato anche nei nostri campus universitari, facendo sentire innumerevoli studenti non graditi e non sicuri”. A scriverlo, in un editoriale pubblicato all'inizio del 2023 sulle pagine del New York Post, il presidente del Congresso ebraico Mondiale Ronald Lauder. Un'analisi preoccupata di quanto accade nelle università Usa, dove continuano a crescere gli episodi di antisemitismo.
  Dall'apparizione sui muri di scritte come "uccidete gli ebrei", al racconto di alcuni studenti di come debbano nascondere le proprie collanine con la stella di David, simbolo ebraico tra i più significativi, per paura di subire attacchi.
  Nei campus universitari, sottolinea Lauder, l'ong Anti-Defamation League ha registrato nel 2021 un numero record di attacchi e insulti contro studenti ebrei. "Questi episodi non sono solo volgarità sporadiche, ma dei segni di un odio istituzionale nei confronti degli ebrei - afferma il presidente del Congresso ebraico mondiale -. Gli studenti della Tufts University, della University of Southern California e della UCLA hanno cercato di impedire l'elezione di laureati ebrei nel governo studentesco e in taluni casi ne hanno richiesto la rimozione. A Wellesley il giornale studentesco ha pubblicato un editoriale a sostegno del 'Mapping Project', un database di organizzazioni e personalità ebraiche. Nove organizzazioni di Berkeley Law hanno vietato ai sionisti di parlare ai loro eventi nel campus. Quando si è scoperto che questi nove gruppi avevano uno statuto con all'interno un pensiero antisemita, altri cinque gruppi hanno adottato le stesse regole".
  Secondo Lauder il problema è che anche tra dirigenti delle università e docenti ci sarebbe un sostegno più o meno esplicito a queste azioni. "Alla Yale Law School - prosegue - un formatore sulla diversità ha spiegato che gli episodi di antisemitismo segnalati all'FBI 'erano gonfiati'. A Stanford un programma per la diversità e l'inclusione ha cercato di sostenere che l'antisemitismo dovrebbe essere escluso dal proprio programma a causa del potere ebraico all'interno dei campus. Anche la City University of New York non è immune a orribili scandali di antisemitismo. Alla CUNY Law School il governo studentesco ha recentemente approvato una risoluzione che vieta Hillel e altri club ebraici tradizionali. La scuola ha scelto un oratore che ha chiesto di sradicare lo Stato di Israele. Altrove un gruppo di studenti della CUNY si è impegnato a creare programmi con l'obiettivo di criticare gli ebrei".
  Per Lauder questo clima richiamerebbe quello delle università tedesche degli anni Trenta del secolo scorso: "Nel 1933 la leadership nazista approvò una legge per il ripristino del servizio civile professionale, che rimuoveva dai loro incarichi i funzionari pubblici ebrei che non avevano combattuto nella Prima Guerra Mondiale, tra cui 1.200 professori universitari. Questo aprì le porte all'antisemitismo nei campus, comprese le azioni guidate dagli studenti. Nello stesso anno, gli studenti guidarono un boicottaggio di massa delle lezioni della facoltà ebraica, presero d'assalto la casa di una confraternita ebraica a Heidelberg e occuparono edifici universitari a Francoforte, negando l'ingresso ai loro colleghi ebrei. A Baden gli studenti presentarono un reclamo al Ministero dell'Istruzione locale, sostenendo che gli studenti ebrei stavano occupando i posti migliori nelle aule. Ben presto i funzionari nazisti emisero un decreto secondo il quale solo i 'gentili' potevano sedersi nella prima fila di un'aula".
  Nelle azioni di oggi nei campus universitari Usa Lauder rivede le stesse inquietanti atmosfere: "Assistiamo all'eco di queste azioni nei campus universitari americani, ed è per questo che i leader delle università di tutto il Paese devono immediatamente prendere provvedimenti per garantire che gli orrori del passato non si ripetano. La leadership può fare la differenza. I funzionari possono togliere i finanziamenti, il sostegno e gli spazi alle organizzazioni che promuovono l' antisemitismo e possono destinare le risorse alle linee di segnalazione dei crimini d'odio, alla formazione e alle verifiche".
  Secondo Lauder ci sarebbero alcuni esempi virtuosi da seguire, anche nel sistema universitario:
    "Ad Austin gli amministratori dell'Università del Texas hanno ritirato il loro sostegno al governo studentesco e hanno vietato l’uso del nome e dell'immagine dell'università. Hanno risposto - con la dovuta serietà - a una risoluzione che prendeva di mira gli studenti ebrei. La Colorado State ha fatto del sostegno agli studenti ebrei una priorità a livello presidenziale, con l'ex direttrice Joyce McConnell che ha creato una Task Force per l'inclusione degli ebrei e la prevenzione dell'antisemitismo. Obiettivo: sviluppare un piano concreto per rendere la CSU un campus a misura di ebreo".
Si tratta, scrive il presidente del Congresso ebraico mondiale, di esempi di leadership coraggiosa. Conclude Lauder:
    "L'antisemitismo non deve essere un problema da affrontare con rimpianti a posteriori e dolorosi comunicati stampa. I funzionari possono intraprendere azioni preventive e fare di più per affrontare l'odio per gli ebrei prima che diventi istituzionalmente accettabile. Mentre gli studenti tornano a scuola, il mio proposito per l'anno nuovo è di assicurarmi che i nostri dirigenti universitari si sveglino dalla paura e dalla preoccupazione dei loro studenti ebrei e si impegnino a fare qualcosa al riguardo".
(Pagine Ebraiche, gennaio 2023)

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Ucraina, parla il comandante del gruppo Azov nel Donbass: “I russi sono troppi per noi, ci servono le armi occidentali”

Intervista al 31enne "Rollo": "I nemici non hanno tattica, mandano i loro al macello. Ma hanno un netto vantaggio di uomini e mezzi".

 di Daniele Raineri

KIEV - Dopo mesi di resistenza i soldati ucraini si sono ritirati dalla piccola città mineraria di Soledar, nel Donbass, davanti all'avanzata delle truppe russe. Era da sette mesi che non succedeva. La caduta di Soledar rende più facile alle forze russe il tentativo di accerchiare Bakhmut, un punto strategico con le sue strade e i suoi guadi. Vuol dire che la Russia, dopo una sequenza di sconfitte umilianti, è pronta a perdere risorse enormi per conquistare pochi chilometri nel Donbass. Ne abbiamo parlato in una località del Donbass che per ragioni di sicurezza non possiamo rivelare con il comandante del gruppo Azov che sta combattendo su quel fronte. Non fornisce il suo vero nome ma soltanto quello di battaglia, "Rollo", ha 31 anni e chiede di non essere descritto fisicamente. 

- Quanto era importante Soledar per difendere Bakhmut?
  "La caduta di Soledar è un problema, ma non è una catastrofe. Ci sono ancora vie aperte per portare rifornimenti e far funzionare la logistica a Bakhmut".

- Nella vostra unità ci sono anche combattenti reduci dall'assedio dell'acciaieria Azovstal di Mariupol?
  "Sì, ma non sono nel Donbass perché stanno ancora recuperando dopo il periodo di prigionia in mano ai russi". 

- Quanti uomini avete perso? E quante perdite avete inflitto ai russi? 
  "Sui nostri morti non ti darò un numero esatto. E se contiamo anche i feriti e gli uomini sotto shock per i bombardamenti di artiglieria siamo attorno a cento. Per quanto riguarda le perdite che abbiamo inflitto ai russi: in un giorno e mezzo di combattimento, prima che portassero via i cadaveri li abbiamo contati con un drone ed erano settantatré. Le tattiche della Federazione russa non sono cambiate dai tempi dell'Unione Sovietica, fanno andare avanti la carne da cannone, usano battaglioni di detenuti. Non hanno tattiche, in pratica mandano i soldati al macello, non usano nemmeno mezzi militari di supporto".

- Perché l'esercito ucraino ha lasciato Soledar ai russi?
  "Il vantaggio totale del nemico in tutto. Il loro numero di soldati, di artiglieria e di mezzi non è paragonabile al nostro. Per riuscire a fermarli e ad avanzare abbiamo bisogno di aiuto dai nostri partner occidentali: mezzi pesanti, artiglieria, carri armati e munizioni, nelle loro versioni più avanzate. Se combattiamo contro la Federazione russa con le loro stesse armi, non possiamo vincere perché loro ne hanno di più e hanno più soldati. L'unica chance di vincere viene dall'aiuto dell'Occidente e dalle armi moderne. Abbiamo bisogno di un vantaggio tecnologico sui nostri nemici".

- Come finisce questa guerra?
  "Come si è fatto nel 1945 in Germania e Giappone. Con la completa denazificazione della Russia. Quel paese deve purificarsi, liberarsi dei suoi fantasmi imperiali e diventare davvero una Federazione. È necessario rompere completamente il macchinario imperialista altrimenti tutto si ripeterà di nuovo e la comunità internazionale dovrà riunirsi di nuovo e fare di nuovo quello che sta facendo adesso. Se non lo fai adesso, sarà una lotta che prenderà molte altre generazioni".

- I capi di governo nell'Europa occidentale, in Italia, Francia e Germania, secondo te la vedono in questo modo?
  "Eventi epocali stanno accadendo, del tipo a che arrivano soltanto ogni cento anni e molta gente non lo comprende. Non guardano al futuro in modo strategico. Molti paesi dipendono dalle relazioni economiche e di commercio con la Federazione russa e hanno paura di cambiare la situazione. Non erano pronti, vivevano già in quella che Francis Fukuyama chiamava "la fine della storia". Ma la storia non era finita".

- Come combatte Azov a Bakhmut?
  "Molti uomini sentono di dover essere all'altezza della battaglia di Mariupol. Una nostra unità era circondata, ha sfondato l'accerchiamento di notte, un soldato era ferito a un polmone e non riusciva a camminare, si è fatto dare le granate dagli altri, ha aspettato i russi, ha gridato "mi arrendo" e invece si è fatto esplodere in mezzo a loro". 

(la Repubblica, 20 gennaio 2023)


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L'Ucraina diventerà la Stalingrado degli Stati Uniti?

di Marcello Cicchese

«L'ordine internazionale non è un'evoluzione, è un'imposizione. È il dominio di una visione sulle altre. E l'unica visione che possiamo accettare è quella di un mondo dominato dagli Stati Uniti d'America. E questa visione va imposta. Non bisogna vergognarsi di dire che va imposta anche con la forza, se necessario».
  E' l'opinione di un noto politologo neocon americano. L'importante è chiedersi se e in quale misura un pensiero simile, anche espresso in modo diverso e con varie precisazioni, sia diffuso nella popolazione americana e, soprattutto, costituisca il sottofondo di decisioni politiche USA di importanza mondiale.
  Il comandante del gruppo Azov nel Donbass dell'articolo precedente paragona la Russia di oggi alla Germania nazista di ieri, e dichiara che secondo lui la guerra di Ucraina e Usa contro la Russia potrà finire soltanto "come si è fatto nel 1945 in Germania e Giappone", cioè "con la completa denazificazione della Russia". A cui naturalmente per analogia dovrà seguire la frantumazione della Federazione russa in parti da affidare alla gestione dei vincitori.
  Nell'analogia la Russia attuale sarebbe la Germania nazista e la guerra contro Putin sarebbe quella contro Hitler: si tratterebbe dunque di combattere il tentativo di estensione dell'imperialismo russo, come si fece contro quello nazista.
  Se si fanno paragoni di questo tipo, se ne possono fare anche altri.
  Si può cominciare col dire che l'imperialismo attualmente più forte e determinato è quello statunitense. Dopo la caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda gli USA hanno pensato che era loro dovere estendere la loro democrazia e il loro american way of life a tutto il pianeta, da pensare come un globale mercato costituente il loro Lebensraum, lo spazio vitale mercantile da gestire naturalmente con le regole imposte da chi ha per posizione il compito e il dovere di farlo, cioè loro.
  La Russia, residuo di ciò che rimaneva dell'ex impero sovietico, avrebbe dovuto essere accerchiata, addomesticata e gradualmente assorbita nel Lebensraum americano.
  L'opera di accerchiamento è avvenuta in parte con imprese militari (Medioriente, Balcani), ma in massima parte con sermoni moraleggianti (democrazia, libertà), invadenze politiche e ricatti commerciali verso "paesi amici". E se per la parte militare ha dovuto aumentare il suo patrimonio di armi, per le altre parti ha dovuto aumentare il suo patrimonio di menzogna. Ed è proprio in questo che gli Usa sono all'avanguardia: nell'uso altamente scientifico e sofisticato non tanto delle menzogne in sé, ma della preparazione del popolo ad accoglierle così come sono state confezionate appositamente per loro. E anche in questo possono trovare precursori nella Germania nazista: Joseph Goebbels e Adolf Hitler stesso.
  A un certo punto hanno trovato una resistenza, inaspettata in quella forma, nella Russia di Vladimir Putin. Ed è scoppiata la guerra. Una guerra che poteva essere come tante altre, ma quella no. Quella doveva essere una guerra santa, una guerra del bene contro il male. Tutti dunque sono stati invitati ad esporsi, a dichiararsi: sei con noi, il bene americano, o con loro, il male russo?
  Il mantenimento non più necessario della Nato, il braccio armato degli Stati Uniti, e la sua continua espansione in aree una volta soggette alla Federazione sovietica, assumono il significato e il valore di una voluta estensione di territorio.
  Non entro qui nella discussione sulle responsabilità ultime di chi ha provocato la guerra; dico soltanto che se ai russi si può addebitare la responsabilità di averla militarmente cominciata, agli americani si può addebitare di non volerla finire (e i motivi che li obbligano a far questo).
  Gli Stati Uniti adesso si sono impantanati nell'Ucraina, come i tedeschi a suo tempo a Stalingrado. Dall'articolo precedente si potrebbero trarre significative analogie, ma una soprattutto è bene sottolineare. Anche quando era evidente che i tedeschi non avrebbero più potuto resistere, Hitler non diede mai l'ordine della ritirata o della resa e lasciò che centinaia di migliaia di tedeschi e loro alleati fossero massacrati, perché il cedimento in quel punto avrebbe danneggiato l'andamento della guerra in altre parti. Stanno facendo qualcosa di simile gli USA in Ucraina? Serve al proseguimento della guerra americana che gli ucraini resistano fino allo stremo ai bombardamenti russi? E' per questo continuano a costringere paesi "alleati" a inviare armi a Kiev ben sapendo che più armi si danno agli ucraini per sparare ai russi più colpi loro ricevono indietro, e più uomini muoiono e più case ucraine sono distrutte da quei colpi? E' morale tutto questo?
  Con la sconfitta di Stalingrado si manifestò l'inizio di quello che diventerà il crollo definitivo delle aspirazioni imperiali della Germania. Ci vorranno degli anni, ma è possibile che dopo la sconfitta della "battaglia di Kiev" (perché tale dovrà essere definita dagli americani la guerra ucraina se la Russia non ne uscirà definitivamente sconfitta e ridimensionata), diventerà manifesto l'inizio inarrestabile del declino USA sulla scena mondiale, con tutto quello che può significare per l'Occidente che vi si riconosce.
  Qualcuno avrà notato che, come per i vaccini, anche nella questione ucraina, "gira che t'arigira", spunta fuori ancora il nome di Israele. Non è un caso: si tratta di questioni di ordine mondiale. Gli americani chiedono a tutti di mandare armi agli ucraini. Anche agli israeliani lo chiedono, ma non sembra che questi ne abbiano molta voglia. Traccheggiano. E fanno bene. Perché dovrebbero fare la scelta che vogliono gli USA?
  Osservando le cose dal punto di vista delle profezie bibliche, l'America non ha futuro politico. Nella Bibbia ovviamente non se ne parla. Mentre si parla di paesi dell'Est, come Russia e Iran (Persia). Questo non significa invitare Israele a mettersi in buoni rapporti con queste nazioni, ma di non legarsi a un paese senza futuro profetico come l'America quando si propone di far sparire dalla scena politica un paese presente nelle profezie come la Russia. Dall'Est verranno a Israele attacchi tremendi, ma arriveranno perché questi paesi, a differenza dell'America, ci saranno ancora ed avranno importanza.
  E sarà anche contro di loro che si manifesterà la vittoria del Messia sulla terra e la sua sovranità su Israele e sulle nazioni.

(Notizie su Israele, 20 gennaio 2023)

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Gli Stati Uniti spediscono silenziosamente munizioni all’Ucraina da enormi scorte in Israele

Un nuovo rapporto afferma che gli Stati Uniti stanno inviando silenziosamente centinaia di migliaia di proiettili di artiglieria in Ucraina dalle scorte di emergenza americane in Israele.

Il New York Times, citando funzionari statunitensi e israeliani, ha riferito oggi che il Pentagono sta attingendo all’enorme scorta, che fornisce armi e munizioni per l’esercito americano da utilizzare nei conflitti in Medio Oriente, per aiutare a soddisfare il bisogno dell’Ucraina di proiettili di artiglieria nella guerra contro la Russia.
  Washington e Tel Aviv hanno concordato di spedire circa 300.000 proiettili in Ucraina, afferma il rapporto, aggiungendo che metà dei proiettili destinati a Kiev sono già stati spediti in Europa e alla fine saranno consegnati attraverso la Polonia.
  Secondo il giornale, i funzionari statunitensi hanno agito dietro le quinte per raccogliere abbastanza proiettili per mantenere l’Ucraina sufficientemente rifornita nel 2023, poiché Kiev sta esaurendo le munizioni per le proprie armi dell’era sovietica.
  Gli Stati Uniti hanno consegnato o promesso poco più di 1 milione di proiettili da 155 millimetri a Kiev, ha detto un funzionario americano al Times, poiché l’artiglieria è diventata fondamentale nella guerra in Ucraina.
  I funzionari statunitensi hanno sollevato per la prima volta la possibilità di rifornire l’Ucraina dalle scorte in Israele lo scorso anno, suscitando preoccupazioni a Tel Aviv su come la Russia avrebbe reagito. Benny Gantz, all’epoca ministro degli affari militari israeliano, discusse la richiesta con il gabinetto. L’allora primo ministro israeliano Yair Lapid ha approvato la mossa dopo i colloqui con il gabinetto e i funzionari della sicurezza, afferma il rapporto.
  Funzionari israeliani hanno detto al Times che Tel Aviv aveva accettato che gli Stati Uniti usassero le proprie forniture, ma non aveva cambiato la sua posizione contro la fornitura di armi letali all’Ucraina.
  Israele ha cercato di rimanere neutrale sulla guerra della Russia contro l’Ucraina, affermando che non prenderà in considerazione l’invio di armi offensive o tecnologia difensiva avanzata a Kiev, ma tenterà di trovare attrezzature che possano essere donate senza innescare una crisi con Mosca.
  Tuttavia, Israele ha presto spinto a unirsi ai paesi occidentali nel condannare la Russia e nell’accusare Mosca di aver commesso presunti crimini di guerra, nonostante il fatto che le due parti fossero in buoni rapporti.
  Nell’aprile dello scorso anno, la Russia ha minacciato Israele di misure di ritorsione se Tel Aviv avesse fornito all’Ucraina attrezzature e aiuti militari.
  Le scorte di munizioni militari statunitensi in Israele risalgono alla guerra arabo-israeliana del 1973, quando gli Stati Uniti consegnarono armi per rifornire le forze israeliane
  A Israele è inoltre consentito avere accesso diretto alle scorte “in situazioni di emergenza” e le armi potrebbero essere trasferite attraverso canali di vendita militare estera notevolmente semplificati.
  L’esistenza delle scorte era stata precedentemente riconosciuta, sebbene non fosse ampiamente nota. Il Times è stato il primo a riferire che veniva utilizzato per rifornire l’Ucraina.
  La Russia ha lanciato quella che definisce “un’operazione militare speciale” contro l’Ucraina alla fine di febbraio per la minaccia percepita dell’adesione del paese alla NATO.
  Da allora, gli Stati Uniti e gli altri alleati dell’Ucraina hanno inviato a Kiev armi per un valore di decine di miliardi di dollari, inclusi sistemi missilistici, droni, veicoli blindati, carri armati e sistemi di comunicazione. I paesi occidentali hanno anche imposto una serie di sanzioni economiche a Mosca.

(Stella d'Italia News, 19 gennaio 2023)


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L’artiglieria Usa per l’Ucraina passa da Israele. Scenari per Bibi

Gli Stati Uniti useranno scorte in comune con Israele per rifornire l’Ucraina. Munizioni di artiglieria arriveranno a Kiev, che ne ha bisogno. Cosa significa per i rapporti tra Gerusalemme e Mosca?

di Emanuele Rossi e Gabriele Carrer

Secondo un articolo informato del New York Times, frutto del lavoro di cinque giornalisti, il Pentagono sta attingendo a una vasta ma poco conosciuta scorta di munizioni americane in Israele per aiutare a soddisfare il disperato bisogno dell’Ucraina di proiettili di artiglieria davanti all’invasione della Russia di Vladimir Putin. Funzionari americani e israeliani hanno fornito le informazioni, aprendo a una serie di considerazioni a proposito del ruolo che Israele vuole svolgere sull’invasione russa.
  La scorta a cui si fa riferimento è quella che ha fornito armi e munizioni ai soldati americani impegnati sui fronti mediorientali. Su di esse c’è un accordo tra Israele e Stati Uniti per consentire al primo di accedere a quelle riserve in caso di emergenza. Ora che il conflitto ucraino è diventato una guerra guidata dall’artiglieria – come dimostra anche la discussione in corso sull’assistenza europea e sui carri armati a Kiev – quelle provviste diventano importanti.
  L’Ucraina ha esaurito le munizioni per le sue armi (d’era sovietica) ed è passata in gran parte a sparare con artiglieria e proiettili donati dagli Stati Uniti e da altri alleati occidentali. Nei prossimi mesi, sulla base dell’arrivo di nuove forniture, Kiev potrebbe essere in grado di preparare controffensive importanti davanti alle quali indurre Mosca a un sostanziale arretramento – determinante per il procedere eventuale dei negoziati.
  In questo quadro, e considerato il ruolo che l’artiglieria ha nell’attuale fase del conflitto, le munizioni che arriveranno dai magazzini israeliani potrebbero permettere all’Ucraina di tenere più a lungo il fronte e gli Stati Uniti intendono attingere a ogni riserva – come già fatto con forniture passate dalla Corea del Sud – pur di garantire agli uomini del presidente ucraino Volodymyr Zelensky tutta la potenza di fuoco necessaria. Per questo obiettivo chiedono l’appoggio di un alleato cruciale come Gerusalemme.
  Se da un lato le informazioni del New York Times raccontano della determinazione statunitense, dall’altra parlano di come Israele stia cercando di gestire al meglio le sue attività all’interno del conflitto. Israele ha costantemente rifiutato di fornire armi all’Ucraina per paura di danneggiare le relazioni con Mosca. Si tratta di un rapporto di interesse per lo Stato ebraico: Israele conduce dal 2013 raid aerei all’interno della Siria per bloccare il passaggio di armi con cui i Pasdaran riforniscono gruppi armati come Hezbollah o quelli palestinesi. Per farlo, deve passare dai cieli di Damasco, che sono controllati dai russi, i quali chiudono (chiudevano, chiuderanno ancora?) più di un occhio nonostante i raid israeliani si dirigano verso alleati del Cremlino.
  Ora il nuovo governo di Benjamin Netanyahu – politico con relazioni dirette e personali con Vladimir Putin – cambia parzialmente rotta? Il nuovo esecutivo ha ereditato una politica di maggior vicinanza all’Ucraina guidata dagli ex primi ministri Naftali Bennett (a cui Putin arrivò a chiedere scusa per le esternazioni antisemite del suo ministro degli Esteri Sergej Lavrov) e Yair Lapid (ministro degli Esteri oltre che premier ad interim). Axios ha rivelato che secondo le valutazione di difesa e intelligence israeliane, la Russia non vedrebbe questa recente mossa come un cambiamento di politica da parte di Israele, perché non si tratta di munizioni israeliane. Ma forse la notizia – diffusa da uno dei quotidiani più importanti degli Stati Uniti – potrebbe evitare che, come auspicato dal ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen, si parli “di meno in pubblico” di Ucraina in Israele. Un’ipotesi temuta a Washington e percepita come un possibile passo indietro rispetto a quanto fatto da Lapid, che certo poteva contare su maggiore sintonia con l’amministrazione Biden rispetto a Netanyahu.

(Formiche.net, 19 gennaio 2023)

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La Corte suprema boccia la nomina a ministro di un alleato chiave per Netanyahu

Secondo i supremi giudici il leader di Shas Aryeh Deri, condannato per frode e tangenti, deve dimettersi dal dicastero degli Interni e della Sanità. La maggioranza fa quadrato annunciando battaglia. Il partito parla di “sentenza politica”. Un nuovo fronte di scontro con la magistratura dopo la presentazione della controversa riforma della giustizia. 

GERUSALEMME - In Israele si è aperto un nuovo fronte di scontro fra governo e magistratura, in una fase di profonde tensioni fra poteri istituzionali e proteste di piazza attorno alla controversa riforma della giustizia, fra le priorità del nuovo esecutivo. Ieri la Corte suprema ha stabilito che la nomina a ministro di Aryeh Deri, leader del partito ultra-ortodosso Shas, è “estremamente irragionevole” per le condanne pendenti a suo carico, fra cui una recente per frode fiscale con pena sospesa. Secondo i giudici, l’esecutivo dovrebbe spingerlo alle dimissioni e nominare un sostituto, ipotesi già bocciata dallo stesso Deri e dal primo ministro Benjamin Netanyahu che lo considera alleato chiave all’interno della coalizione. 
  Commentando la decisione, il ministro della Giustizia Yariv Levin parla di scelta “assurda”. I colleghi del partito Shas la definiscono una “sentenza politica” per indebolire il governo in una fase di tensione fra organi dello Stato. A proclamare il verdetto, emesso ieri, è stata la presidente della Corte suprema che ha deciso con una maggioranza schiacciante di 10 voti favorevoli e un solo contrario. Deri, ha sottolineato il magistrato, “è stato condannato tre volte” e “ha violato il dovere di servire” il Paese e i cittadini “in modo leale”. 
  Nel suo intervento a seguito della sentenza la presidente della Corte suprema non ha risparmiato critiche allo stesso Netanyahu, il quale avrebbe dovuto considerare “il grave accumulo di reati” pendenti sul leader di Shas prima di assegnargli ministeri chiave come Interni e Sanità. In questo modo, ha concluso la giudice citata da Haaretz, “danneggia l’immagine e la reputazione dell’intero sistema giudiziario del Paese” ed è contro “i principi di condotta ispirati a etica e legalità”.
  Ora la palla passa a Netanyahu, che dovrà accogliere - o no, come appare più probabile - la scelta dei giudici, che hanno evidenziato anche la forzatura fatta il mese scorso alla Knesset, dove è avvenuta una modifica alla legge che aveva permesso la nomina. Il leader di Shas è una colonna portante del governo, di cui lo stesso premier - anch’egli a processo per corruzione - non può fare a meno. Nel 1999 Deri è stato condannato a tre anni per frode e tangenti ed è stato rilasciato dopo 22 mesi, tornando in Parlamento nel 2013. Nel gennaio scorso ha patteggiato, sempre per corruzione, una condanna sospesa a un anno e una multa di oltre 50mila euro. 
  In una nota il partito Shas ha confermato che non intende fare parte della coalizione di governo senza la presenza del suo capo fra i ministri. Una dichiarazione congiunta dei capi di maggioranza annuncia battaglia “con ogni mezzo consentito dalla legge e senza ulteriori perdite di tempo” per riparare “una ingiustizia”. Di tenore ben diverso il commento del leader dell’opposizione Yair Lapid, che mette in guardia il governo da evidenti violazioni della legge e del rischio di “una crisi costituzionale senza precedenti” se Deri non verrà cacciato. “Un governo che non rispetta la legge - ha detto l’ex premier - è un governo fuorilegge. E non può arrogarsi il diritto di chiedere ai cittadini di rispettare il diritto”. 

(AsiaNews, 19 gennaio 2023)

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Shoah, diventa un film la storia dell’ultima cartolina della piccola Elena Colombo prima di Auschwitz

La storia della bambina ebrea italiana uccisa a dieci anni in un cortometraggio che andrà in onda il 27 gennaio

di Andrea Romano

"Cara Bianca, devo darti una notizia meravigliosa. Oggi mi hanno annunciato che finalmente potrò raggiungere i miei genitori! Andrò anch'io nel campo tedesco dove lavorano e così li potrò rivedere e stare con loro. Non c'è bisogno che tu mandi pacchi, non preoccuparti più per me. Sono tanto felice! Parto domani per la Germania".
  Elena Colombo aveva poco più di dieci anni quando scrisse queste righe, le ultime. Era il 4 aprile 1944. Il giorno dopo sarebbe stata fatta salire sul carro bestiame che l'avrebbe condotta da Fossoli ad Auschwitz. Quella di Elena è una tragedia unica tra i "bambini della Shoah", per riprendere il titolo del libro di Bruno Maida sull'infanzia ebraica italiana travolta dallo sterminio.
  L'unico caso documentato di bambina che affrontò da sola, senza parenti o genitori, il calvario dell'arresto, della deportazione e dell'assassinio nei campi di sterminio. Una storia che è arrivata fino a noi anche grazie alle carte di Bianca Bellasio - dapprima adolescente compagna di giochi della piccola, poi giovanissima staffetta partigiana e destinataria di quella sua ultima cartolina - e ad altri documenti inediti su cui il giornalista e saggista Fabrizio Rondolino, discendente della stessa famiglia di Elena, sta scrivendo un libro di ricerca di prossima pubblicazione per Giuntina.
  Prima di quell'aprile 1944 la vicenda dei Colombo era stata simile a quella di tante altre famiglie ebraiche italiane. Il papà Sandro, fervente monarchico come gran parte degli ebrei piemontesi, che a vent'anni aveva partecipato alla Grande Guerra e perso un fratello di poco più grande nei combattimenti sull'Altopiano di Asiago. La mamma Vanda figlia di un negoziante di tessuti.
  Elena è la loro unica figlia. Le foto arrivate fino a noi la ritraggono con i genitori o con altri parenti al mare in Liguria, in gita a Bardonecchia e a Clavière, sugli sci a Cogne. L'agiata normalità di una famiglia della media borghesia nella Torino degli anni Trenta, su cui si abbattono dapprima le Leggi razziali di Mussolini - che privano della scuola Elena così come tutti i bambini ebrei italiani - e poi l'arrivo del terrore nazista e repubblichino a Torino.
  Nel settembre 1943 la famiglia Colombo si nasconde a Forno Canavese, probabilmente sotto la protezione del cappellano della frazione Milani. Un rifugio che durerà poco. L'8 dicembre vengono sorpresi dal rastrellamento tedesco, che avrebbe portato alla battaglia di Monte Soglio e alla tortura e alla fucilazione pubblica di diciotto partigiani. Qui si dividono per sempre le strade di Elena e dei genitori. Sandro e Vanda sono arrestati, trasferiti a Torino e Milano e poi deportati in febbraio ad Auschwitz: la madre viene subito assassinata con il gas a Birkenau, il padre sopravvive poco più di due mesi a Monowitz (dove era internato anche Primo Levi).
  Al momento dell'arresto la madre della piccola Elena era riuscita ad affidarla ad una famiglia amica, i De Munari, con cui in passato avevano condiviso gite e vacanze. Il tentativo di salvare la figlia, la paura di non rivederla più, la fiducia nell'abbraccio protettivo di chi era risparmiato dalla rete a strascico dello sterminio ebraico: la scelta di Vanda Colombo regala solo qualche settimana di illusione ad Elena, a cui raccontano che i genitori erano stati inviati a lavorare in Germania. A inizio marzo i nazifascisti si ricordano di quella piccola ebrea.
  "Una mattina si presentarono le SS tedesche accompagnate da italiani con l'ordine di prelevamento e di trasferimento in Germania. Lei diceva che in fondo era contenta perché così avrebbe raggiunto i suoi genitori". Così Valentino De Munari, il piccolo della famiglia che aveva accolto Elena, ha ricostruito quel giorno. La prelevano per portarla dapprima a Torino e poi al campo di Fossoli, infliggendole l'ultimo inganno: partire per la Germania, raggiungere i genitori e riunire finalmente tutta la famiglia. Elena scrive quella cartolina entusiasta alla compagna di giochi e sale sul treno.
  Cinque giorni e cinque notti in un carro bestiame, da sola, pane secco e un po' d'acqua, un po' di paglia per i bisogni. All'arrivo ad Auschwitz, il 10 aprile 1944, subito il gas. Il padre e la madre erano già stati assassinati, a poche centinaia di metri da lei, forse ancora convinti che quella loro unica figlia sarebbe rimasta lontana e al riparo dalla macchina della Shoah.
  Alla vita e alla morte della piccola Elena è dedicato il cortometraggio La cartolina di Elena, realizzato da Stand by me in collaborazione con Rai Kids, che andrà in onda il 27 gennaio su RaiTre e RaiGulp. Un'anteprima per le scuole di Roma si terrà venerdì 20 gennaio al cinema Farnese con una presentazione di Ruth Dureghello, presidente della Comunità Ebraica romana.

(la Repubblica, 19 gennaio 2023)

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La Shoah alla scuola primaria, il manuale che ci spiega come affrontarla

Ne parliamo con Matteo Corradini, ebraista e scrittore.

di Fabio Gervasio

Gennaio è il mese della Memoria, del ricordo della Shoah, lo sterminio di milioni di ebrei, ed è importante ricordare, perché sia da monito a tutti affinché tragedie come questa non accadano più. Ne abbiamo parlato con il dottor Matteo Corradini, ebraista e scrittore, premio Anderson 2018, dal 2003 svolge ricerche sul ghetto di Terezìn recuperando storie, oggetti, strumenti musicali ed è tra i fondatori del Terezìn Composers Institut di Praga, autore del libro “Tu sei Memoria” edito dalla Erickson.

- Dottor Corradini, la Shoah ha rappresentato la parte finale di un percorso che prevedeva lo sterminio del popolo ebraico, la soluzione finale. Lei parla di allargare lo sguardo per comprendere meglio questo tragitto fatto di odio, propaganda, violenza e politica razzista. Ci aiuta a capire meglio?
  L’immaginario della Shoah, ai nostri occhi, è l’immaginario che ci hanno trasmesso tanti libri e film cinematografici fatto di campi di sterminio, filo spinato, muri di cemento, camere a gas e forni crematori. È un immaginario cupo fatto esclusivamente di angoscia e di grande violenza. L’immaginario della Shoah è questo e ci dobbiamo fare i conti, soprattutto quando abbiamo a che fare con i bambini ai quali vogliamo proporre un percorso sulla Memoria e con i quali vogliamo fare Memoria. Per tutti quelli che vogliono fare Memoria con bambini di una certa età, penso in particolare a quelli della primaria, si pone il problema di come raccontare questo genere di passato, che è un passato violento e angosciante, a bambini così piccoli, di 9-10 anni. Allargare lo sguardo ci libera e aiuta tutti noi, non solamente i ragazzini più piccoli, ad inquadrare la Shoah nell’ottica giusta, ovvero che la Shoah non è stato soltanto campo di sterminio, che rappresenta il termine violento e doloroso di un percorso che è stato compiuto dai nazisti, e dai fascisti in Italia. Se noi conosciamo questo percorso comprendiamo meglio le camere a gas, o meglio le inquadriamo all’interno di un percorso di violenza, comprendiamo meglio l’antisemitismo e soprattutto una buona parte di questo percorso riusciamo a percorrerlo anche con i bambini. Penso, ad esempio, alle questioni delle discriminazioni, del razzismo, dei ghetti, che sono tutte questioni che riusciamo ad affrontare anche con ragazzi più piccoli, con i quali non affronteremmo la questione dei campi di sterminio.

- Il suo libro è un percorso di didattica della Memoria rivolto alla scuola primaria. Perché questa scelta di avviare un percorso così precoce rivolgendosi ai bambini?
  Ci sono tanti insegnanti che con grande desiderio, passione e dedizione provano ogni anno a interpretare la parola Memoria, ma spesso mancano gli strumenti per provare a fare Memoria con delle linee guida didattiche, sensate e di approfondimento che li aiuti nel loro lavoro. Questo libro prova ad inserirsi lì, si colloca là dove c’è questo desiderio di non far passare il tema della memoria, ed in particolare il giorno della Memoria, senza che lasci un segno in noi e nei nostri ragazzi. L’idea è proprio questa, quella di costruire un manuale che sia in parte un saggio sulla didattica della Memoria, ma che proponga anche eventi, attività e pratiche. Sono proposte 20 attività che si possono realizzare all’interno della scuola primaria. Alcune di queste, adattate, possono funzionare anche nella scuola secondaria di primo grado, ma quello sarà magari il tema di un secondo volume.

- Come è strutturato il percorso che lei propone?
  Il percorso è strutturato in cinque fasi. La prima fase, che per certi versi considero molto importante e sicuramente necessaria, è costruita sulla cultura ebraica, che è poco conosciuta in Italia. Abbiamo delle lacune molto grandi per quello che riguarda l’identità ebraica, la cultura ebraica e la presenza degli Ebrei in Italia. Non conoscere la storia degli Ebrei in Italia credo sia piuttosto grave, perché significa non conoscere una parte importante della storia italiana. È piuttosto grave non conoscere la storia dei Maori, per capirci, ma i Maori non fanno parte della storia d’Italia, mentre gli Ebrei sono italiani, sono una parte importante dell’Italia e sono anche i nostri vicini di casa, non conoscerli credo sia davvero una mancanza. Non conoscerli quando si vuole fare un percorso della Memoria è una doppia mancanza, perché degli Ebrei, all’interno di un percorso sulla Shoah, spesso conosciamo soltanto la fine, una fine non decisa da loro, che non c’entra con il loro destino, una fine decisa da altri uomini. Quindi conoscere gli Ebrei significa intraprendere un piccolo percorso sulla cultura, sulle tradizioni, su alcuni aspetti della vita degli Ebrei in Italia, questo è il primo passaggio del libro. Dal secondo al quinto passaggio sono tutti dedicati cronologicamente a ciò che avvenne nella Shoah. Il secondo passaggio all’antisemitismo e ai pregiudizi, il terzo le prime deportazioni di Ebrei e l’età dei ghetti, ma anche i primi tentativi di salvezza degli Ebrei, i giusti tra le nazioni, i Kindertrasport. Il quarto passaggio è dedicato espressamente allo sterminio, ossia i campi di sterminio veri e propri. Il quinto passaggio è dedicato al dopo, come raccontiamo la Shoah, come incontriamo un testimone, come raccontiamo ciò che è avvenuto, come prepariamo il giorno della Memoria. Voglio segnalare che di tutti questi passaggi ci sono attività nel libro, ci sono proposte ben strutturate e spiegate, tranne che nel passaggio quattro. In questo passaggio non propongo attività perché credo sia un passaggio, quello dello sterminio, da affrontare successivamente, ovvero nella scuola secondaria di primo grado. Alla primaria questo è un passaggio al di fuori della sensibilità dei bambini, al di fuori della loro mentalità e della loro crescita media, e quindi credo sia un passaggio esclusivamente scioccante e lo shock non è educativo nella maggior parte dei casi, soprattutto in questo caso.

- Da quello che ci ha appena detto possiamo fare una riflessione, ovvero che la soluzione finale, lo sterminio degli ebrei, è un qualcosa di pensato e voluto, che rappresenta l’atto finale di vari tentativi adoperati nel tempo per raggiungere questo obiettivo, come possono essere stati l’adozione dei gaswagen o l’idea di deportare gli ebrei in Madagascar. Se il tema dello sterminio è un tema da affrontare dalla scuola secondaria di primo grado in poi, altri argomenti come le leggi razziali, che hanno separato i bambini a scuola, possono essere adottati come punto di partenza per avviare il ragionamento su questo argomento. C’è un passaggio su questo aspetto?
  Questo è un passaggio presente nel libro. Si lavora sia nella seconda che nella terza tappa su queste tematiche, ovvero la tematica del pregiudizio e della discriminazione, e c’è un’attività espressamente sulle leggi razziali. Le leggi raziali in Italia sono state tristemente importanti. Fare Memoria della Shoah non significa trovare dei colpevoli altrove, come a volte capita, e in Italia siamo piuttosto bravi in questo, ma è interrogarci anche sulla nostra responsabilità come italiani. Nessuno di noi era nato quando sono state redatte le leggi razziali, per cui non dobbiamo prenderci colpe del passato, ma ci possiamo prendere responsabilità sul passato, e di sicuro una responsabilità è quella di ricordare che il regime fascista non ha partecipato passivamente alla deportazione degli ebrei, ma è stato un attore principale dello sterminio di questo popolo.

- L’antisemitismo è un retaggio che persiste soprattutto in determinati ambiti, come nel recente caso di un coro razzista intonato dalla tifoseria di una squadra di calcio della serie A. Perché, nonostante tutto quello che è successo e che si fa per ricordare, persiste questa mentalità?
  Questa sua domanda, che è molto interessante e molto profonda, è stata approfondita da Valentina Pisanty in un saggio che si intitola “I guardiani della Memoria”, nel quale l’autrice si pone esattamente questa questione. Noi che ci impegniamo così tanto, tutto questo sforzo che è stato fatto negli ultimi 20/25 anni intorno al giorno della Memoria e a queste tematiche, ha prodotto qualcosa? Ossia ha limitato l’antisemitismo e ha “creato” una generazione di persone più consapevoli che l’antisemitismo è male? Il dubbio è questo, perché i casi di antisemitismo segnalati in Europa sono in aumento, non un aumento strepitoso, ossia non è una curva di crescita troppo vertiginosa, ma sono in aumento, e questo è preoccupante, anche in nome di tutto quello che è stato fatto. Si potrebbe dire che se non avessimo fatto nulla questi casi sarebbero in un aumento strepitoso. Il dubbio che viene da porsi è che non sarà che la sovraesposizione dei temi della Memoria generi in realtà repulsione, fastidio? Non potremo mai avere la controprova, dovremmo, per ipotesi, sperimentare 20 anni senza parlare mai di Shoah e vedere che cosa succede, ma non potremmo mai farla questa controprova. Dal mio punto di vista ciò che è stato fatto finora, pur nel manierismo di tante manifestazioni e nel pressapochismo di certe forme di Memoria, credo abbia contribuito a creare una consapevolezza diffusa. In questa consapevolezza diffusa naturalmente c’è spazio davvero per tutto, anche per le problematiche. Vedo positivamente lo sforzo che è stato fatto negli ultimi 20 anni, di sicuro i casi di antisemitismo ci pongono grandi problemi, grandi questioni e soprattutto ci chiedono di agire continuamente in un modo diverso dal punto di vista educativo, noi possiamo lavorare da quel punto. Si può lavorare anche dal punto di vista giudiziario, della sicurezza pubblica, che sono altri punti di vista ma nei quali personalmente non opero. Io opero nella divulgazione, nella consapevolezza e nella responsabilità, è uno sforzo che tentiamo di portare avanti anche con i tanti insegnanti.

(Orizzontescuola.it, 19 gennaio 2023)

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Coldiretti - Prandini incontra il nuovo Ambasciatore di Israele

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ROMA – Il Presidente della Coldiretti, Ettore Prandini, ha incontrato il nuovo Ambasciatore di Israele in Italia, Alon Bar. Il vertice si è svolto a Palazzo Rospigliosi, sede della Coldiretti, a Roma alla presenza del Segretario generale della Coldiretti Vincenzo Gesmundo, del Consigliere delegato di Filiera Italia Luigi Scordamaglia, del Vice ambasciatore Alon Simhayoff e di Raphael Singer e Guenda Esposito, rispettivamente responsabile ed assistente del Dipartimento Affari Economici dell’Ambasciata.
  Nel corso dell’incontro si è discusso dell’opportunità di creare sinergie nell’agroalimentare, portando avanti una ricerca comune per sviluppare una innovazione rispettosa dell’ambiente e delle tradizioni. Il Presidente Prandini e il neo ambasciatore Bar hanno inoltre ribadito il legame di amicizia e collaborazione che da sempre accomuna i due Paesi.

(Agen Food, 18 gennaio 2023)

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Troppe armi da dare all'Ucraina: gli Usa ricorrono alle scorte in Israele e Corea

di Federico Giuliani

Tra le armi consegnate all'Ucraina, gli Stati Uniti starebbero inviando a Kiev anche munizioni immagazzinate in Corea del Sud e Israele. L'arsenale utilizzato sarebbe quello accumulato da Washington per i conflitti in Medio Oriente e per difendere Seul dalle minacce cinesi e nordcoreane. Secondo quanto riportato dal New York Times, il Pentagono ha intenzione di soddisfare appieno il disperato bisogno del governo ucraino di poter contare su proiettili di artiglieria da utilizzare nel testa a testa con la Russia.

• Nuove armi per l'Ucraina
  La guerra in Ucraina si è ormai trasformata in una guerra di logoramento guidata dall'artiglieria. Sul campo vengono lanciati migliaia di proiettili ogni giorno e Kiev, dopo aver esaurito le munizioni per le sue armi dell'era sovietica, è passata a impiegare per lo più armamenti ricevuti dagli Stati Uniti e da altri alleati occidentali.
  È in un contesto del genere, dunque, che Washington avrebbe deciso di attingere alla sua vasta ma poco conosciuta scorta di munizioni in Israele per sopperire ai bisogni dell'alleato ucraino. Detto altrimenti, la decisione d'emergenza è stata presa perché i produttori americani non riescono a tenere testa alle richieste di armamenti arrivate da Kiev.

• Forniture da Israele e Corea del Sud
  Da dove provengono le munizioni in questione? Israele, come detto, ma anche Corea del Sud. Migliaia di proiettili sono stati immagazzinati e inviati a Kiev. Per quanto riguarda Israele, Israele, Tel Aviv si è costantemente rifiutata di fornire armi all'Ucraina per paura di danneggiare le relazioni con Mosca, e in un primo momento avrebbe espresso non poca preoccupazione per la mossa statunitense. In ogni caso, circa la metà dei 300 mila proiettili destinati a Kiev sarebbe già stata spedita in Europa e alla fine dovrebbe essere consegnata attraverso la Polonia.
  Gli Stati Uniti avrebbero finora inviato, o si sarebbero impegnati a inviare, all'Ucraina poco più di un milione di proiettili da 155 millimetri. Una parte considerevole (meno della metà) proverrebbe dalle scorte in Israele e Corea del Sud, ha spiegato al NYT un alto funzionario statunitense.
  "Con la linea del fronte per lo più stazionaria, l'artiglieria è diventata l'arma da combattimento più importante", ha affermato Mark F. Cancian, ex stratega delle armi della Casa Bianca, in un'analisi per il Center for Strategic and International Studies di Washington.

• L'importanza dell'artiglieria
  L'esercito ucraino userebbe circa 90 mila colpi di artiglieria al mese, circa il doppio della velocità con cui vengono fabbricati dagli Stati Uniti e dai Paesi europei messi insieme. Ed è per questo che Washington avrebbe quindi scelto di ricorrere alle sue scorte dislocate tra Israele e Corea del Sud.
  I funzionari del Pentagono devono tuttavia garantire che, anche mentre armano l'Ucraina, le scorte americane non scendano a livelli troppo bassi. Secondo due alti funzionari israeliani, gli Stati Uniti avrebbero promesso a Israele di rifornire ciò che preleveranno dai magazzini israeliani e che invieranno immediatamente munizioni in caso di grave emergenza.
  Altri funzionari israeliani hanno fatto notare che Israele non ha cambiato la sua politica di non fornire all'Ucraina armi letali, e che il Paese ha aderito alla decisione americana di utilizzare le proprie munizioni come riteneva opportuno.

(il Giornale, 18 gennaio 2023)
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Dunque per la loro guerra contro la Russia gli Stati Uniti sguarniscono di armi Israele per inviarle in Ucraina, ma promettono che "invieranno immediatamente munizioni in caso di grave emergenza". Si comincia a vedere che gli Usa sono per Israele come l'Egitto dei tempi biblici: "un sostegno di canna rotta che entra nella mano di colui che vi si appoggia e gliela fora" (Isaia 36:6).

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Israele: sviluppato un sensore che consente ai robot di riconoscere gli odori

I ricercatori della Tel Aviv University hanno sviluppato un sensore, da installare sui robot, in grado di inviare segnali elettrici in risposta agli odori, consentendo così a questi di riconoscerli.
  Attraverso un algoritmo di apprendimento automatico ideato dai ricercatori israeliani i robot saranno in grado di identificare gli odori a un livello di sensibilità 10.000 volte superiore a quello dei dispositivi elettronici attualmente in uso. La sfida di questi biosensori sta nel collegare un organo sensoriale, come il naso, a un sistema elettronico che sappia decodificare i segnali elettrici ricevuti dai recettori.
  Lo studio è stato condotto dalla dottoranda Neta Shvil, il Dr. Ben Maoz, il professor Amir Ayali e Yossi Yovel. Tutti e tre provengono dalla Sagol School of Neuroscience della Tel Aviv Univesity. Il Dr. Maoz inoltre insegna alla Fleischman Faculty of Engineering, mentre il professor Ayali e il professor Yovel fanno anche parte della School of Zoology.
  Proprio quest’ultimo ha spiegato come funziona questo innovativo sensore biologico che potrà essere utilizzato in futuro per identificare esplosivi, droghe, malattie e altro ancora.
  “Abbiamo collegato il sensore biologico e gli abbiamo lasciato annusare odori diversi mentre misuravamo l'attività elettrica indotta da ciascun odore. Il sistema ci ha permesso di rilevare ogni odore a livello dell'organo sensoriale primario di un insetto” ha spiegato. “Nella seconda fase, abbiamo utilizzato l'apprendimento automatico per creare una "biblioteca" di odori” ha aggiunto.
  "Le tecnologie create dall'uomo non possono ancora competere con milioni di anni di evoluzione", hanno spiegato Maoz e Ayali. Un settore in cui siamo particolarmente in ritardo rispetto al mondo animale è quello della percezione olfattiva. "Un esempio è quello dell’aeroporto, dove passiamo attraverso un magnetometro che costa milioni di dollari e può rilevare se stiamo trasportando dispositivi metallici, ma quando vogliono controllare se un passeggero sta contrabbandando droga, viene chiamato un cane per annusare il sospetto e i suoi bagagli” hanno sottolineato.
  "La natura è molto più avanzata di noi, quindi dovremmo usarla", ha concluso Maoz. “La creazione di un robot con un naso biologico potrebbe aiutarci a preservare la vita umana e identificare i criminali in un modo che oggi non è possibile. Alcuni animali sanno come rilevare le malattie; altri possono percepire i terremoti. Non ci sono limiti in questa ricerca”. I ricercatori hanno in programma di dotare il robot di una capacità di navigazione che gli consenta di localizzare la fonte dell'odore e, successivamente, la sua identità.
  I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista Biosensor and Bioelectronics con il titolo "The Locust Antenna as an odor discriminator".

(Shalom, 18 gennaio 2023)

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Domenica 29 gennaio a Milano la sesta edizione della Corsa per la Memoria

Domenica 29 gennaio a Milano la sesta edizione della Corsa per la Memoria. Due i percorsi: una corsa di 12 km e una “passeggiata della Memoria” di 4,8 km.Testimonial: Shaul Ladany e Alberto Cova.

Domenica 29 gennaio 2023 si terrà a Milano la sesta edizione della Run for Mem, la corsa non competitiva per la Memoria organizzata dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane insieme alla Comunità ebraica milanese. 
  Dal Memoriale della Shoah cittadino all’ex hotel Regina sede dei nazisti, dalle pietre d’inciampo disseminate nel manto stradale alla sinagoga di via della Guastalla centro della vita ebraica di ieri e di oggi.
  Un percorso breve e un percorso lungo (rispettivamente di 4,8 e 12 chilometri) permetteranno di far crescere la consapevolezza dei partecipanti sul significato di alcuni luoghi chiave della città “Medaglia d’Oro della Resistenza” e simbolo della vittoria contro il nazifascismo. Una possibilità aperta a tutti: atleti, famiglie, semplici camminatori.
  “L’idea è di affermare la vita, che continua nonostante tutti i tentativi, perpetrati nel corso dei secoli, di sterminare gli ebrei, così come altre popolazioni, con genocidi e massacri. La vita continua e la forza di vivere, a volte di sopravvivere, va trasmessa con convinzione, avendo il coraggio di raccontare quanto accaduto affinché non si ripeta mai più. Lo faremo con la partecipazione di tutta la cittadinanza, attraverso un percorso nel quale incroceremo la storia; correndo assieme trasmetteremo questo forte messaggio di vita”, dichiarano UCEI e Comunità ebraica di Milano nel dare appuntamento al 29 gennaio.
  Testimonial della Run for Mem il marciatore israeliano Shaul Ladany, sopravvissuto bambino alla deportazione in campo di sterminio e poi alla strage perpetrata dai terroristi palestinesi ai Giochi di Monaco del 1972. Al suo fianco l’ex mezzofondista Alberto Cova, campione olimpico dei 10000 metri piani a Los Angeles ’84.
  L’ente per il supporto tecnico della Run for Mem è Stramilano. Hanno dato finora il loro patrocinio all’evento: Comune di Milano, UGEI, Sochnut, CDEC e CONI. L’iniziativa è realizzata con il contributo di World Jewish Congress ed European Jewish Congress, con il supporto di Associazione Medica Ebraica e CRI. 
  È possibile partecipare alla corsa iscrivendosi gratuitamente sul sito www.ucei.it/runformem.

(Bet Magazine Mosaico, 18 gennaio 2023)

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Daniel Pipes illustra in che modo Israele può vincere il conflitto palestinese

Questa intervista di Seth J. Frantzman con Daniel Pipes è apparsa originariamente sul Jerusalem Post e quindi sul Middle East Forum. 

Con l'insediamento del nuovo governo israeliano, il Paese si trova di fronte a un bivio. Dopo un anno e mezzo di governo radicato nel centro-Sinistra, è salita al potere una coalizione di Destra guidata da Benjamin Netanyahu.
  Netanyahu ha guidato Israele in passato, pertanto, il Paese potrebbe finire per perseguire le stesse politiche adottate in passato. Tuttavia, c'è anche la possibilità per Israele di compiere nuovi passi che cambierebbero la sua traiettoria a lungo termine e anche quella dei palestinesi.
  A tal fine, lo storico americano Daniel Pipes, presidente del Middle East Forum sin dalla sua fondazione nel 1994, sta lavorando a un libro sul conflitto israelo-palestinese. Di recente, Pipes si è recato in Israele per incontrare figure chiave e anche per discutere la sua visione della vittoria di Israele nell'attuale conflitto.

- Per quale motivo si trova a Gerusalemme?
  Sei mesi fa ho incontrato un editore che mi ha suggerito di scrivere un libro sulla fine del conflitto israelo-palestinese. Come avrei potuto rifiutare? Ho iniziato a scriverlo a fine settembre e spero di ultimarlo entro l'anno. Attualmente, sono in Israele per chiedere a una serie di persone quali sono i punti di vista israeliani su questo argomento.

- Qual è il suo punto di vista?
  Penso che una giusta risoluzione del conflitto comporti che i palestinesi perdano la speranza. Solo quando essi rinunceranno al loro obiettivo bellico di eliminare Israele, il conflitto avrà fine. Israele deve vincere e i palestinesi devono perdere.
  Questa tesi può sorprendere perché contraddice puntualmente il presupposto degli Accordi di Oslo che promuove non la vittoria, ma un'idea di speranza e di compromesso palestinese che teorizza che i bei appartamenti, le auto di ultimo modello, le scuole prestigiose e un'eccellente assistenza medica conferirebbero prosperità ai palestinesi, de-radicalizzandoli e rendendoli veri partner di pace.
  Ma, quasi trent'anni dopo, tutti i sondaggi e le innumerevoli prove aneddotiche indicano che la maggior parte dei palestinesi continua ad accarezzare l'idea di eliminare lo Stato ebraico. Quell'obiettivo va contrastato facendoglielo abbandonare, e non infondendo speranza. Ciò calza uno schema generale, secondo cui le guerre cercano di togliere ogni speranza al nemico.

- Ma il processo di Oslo non è defunto da tempo?
  Sì, gli Accordi di Oslo sono stati screditati e quasi dimenticati, esecrati tanto dai palestinesi quanto dagli israeliani. Nonostante ciò, il suo obiettivo principale di arricchire i palestinesi rimane molto vivo. Ad esempio, il piano Trump intitolato "Dalla pace alla prosperità" offre ai palestinesi 50 miliardi di dollari in cambio del fatto che lascino in pace Israele. Ho appena incontrato Avigdor Liberman e anche lui ha detto di voler "rimpiazzare il jihad con la prosperità" e trasformare Gaza nella "Singapore del Medio Oriente". Lo stesso approccio si estende anche agli Stati arabi, come dimostrato dalla recente firma da parte di Israele di un generoso accordo sulla definizione dei confini marittimi con il Libano.

- Cosa c'è di sbagliato?
  La generosità verso i nemici è contraria alla storia e al buon senso. Storicamente, i nemici si sono assediati e si sono fatti morire di fame a vicenda, impedendo i rifornimenti di cibo, di acqua e di beni materiali: questa tattica prosegue ancor oggi con la rottura dei rapporti economici con la Corea del Nord, la Russia e con altri Stati canaglia. Il buon senso lo conferma, perché una rissa a scuola continua fino a quando una parte non si arrende. L'approccio tradizionale alla guerra cerca ragionevolmente di sconfiggere il nemico, e non di coccolarlo.

- Ma Israele non aveva già sconfitto i suoi nemici nella Guerra dei Sei Giorni del 1967?
  Alcuni di loro, sì. Quella straordinaria vittoria sul campo di battaglia, forse la più grande mai registrata nella storia umana, mozzò il fiato ai Paesi arabi, che subito dopo deposero in gran parte le armi con Israele. Ma mentre gli Stati arabi si ritiravano, i palestinesi presero il loro posto. Sebbene i palestinesi siano oggettivamente molto più deboli di quegli Stati, privi di forza militare o economica, si sono dimostrati molto più decisi nel raggiungere i propri scopi; per loro, eliminare Israele è una questione di identità.

- In cosa consiste la guerra palestinese contro Israele?
  Questa guerra inizia con la politica del rifiuto, il rifiuto palestinese di accettare tutto ciò che riguarda l'Ebraismo, gli ebrei, il sionismo o Israele in Eretz Israel. Questa ideologia è nata un secolo fa con il leader palestinese Amin al-Husseini. Sebbene la politica del rifiuto si sia evoluta ed in qualche modo si sia frammentata, permane il consenso palestinese e la tensione dominante della politica palestinese. L'Autorità Palestinese e Hamas hanno tattiche e risorse umane differenti, ma condividono il loro obiettivo, che è quello di eliminare lo Stato ebraico. Questo spiega l'inefficacia delle numerose concessioni israeliane.
  Attualmente, la politica del rifiuto ha due fronti: il violento campo di battaglia fatto di attentati condotti con veicoli lanciati sulla folla, di accoltellamenti, di sparatorie e di attentati dinamitardi, e il campo di battaglia politico costituito dalla delegittimazione attraverso l'istruzione, il lobbismo e il Movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS).
  L'analista strategico israeliano Efraim Inbar, il quale si è esclusivamente focalizzato sulla violenza, definisce i palestinesi un "fastidio strategico". Ma questa definizione ignora l'ampio sostegno a loro offerto, soprattutto fra i musulmani e la Sinistra. Si pensi all'Iran, alla Turchia, a Jeremy Corbyn, a Bernie Sanders e all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite. La delegittimazione è pericolosa e crescente ed è di questo problema che cercherò di parlare.

- Quali sono le differenze tra l'ostilità musulmana e quella della Sinistra?
  Mentre l'ostilità musulmana verso Israele si oppone prettamente all'esistenza stessa di uno Stato ebraico, l'ostilità della Sinistra è basata in modo molto più restrittivo sulla Cisgiordania, su Gaza e su Gerusalemme. Ciò che conta di più per la Sinistra sono le condizioni degli abitanti di queste tre regioni geografiche e non questioni come la corsa al nucleare dell'Iran, i rapporti fra askenaziti e sefarditi, il prezzo del formaggio fresco o lo status dei cittadini musulmani di Israele. Puntualmente, sono più importanti la Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme. La grande macchina pubblicitaria palestinese ha trasformato un problema globalmente minore in una questione estremamente importante.
  Israele fa fronte a una serie esclusiva di minacce che possono essere suddivise in sei tipi: armi di distruzione di massa, guerra convenzionale, conflitto a bassa intensità (o terrorismo), demografia, economia e delegittimazione. Sorprendentemente, Israele ha eliminato efficacemente le quattro minacce intermedie che ho menzionato, ma deve ancora affrontare il pericolo delle armi di distruzione di massa e della delegittimazione. La delegittimazione – e pertanto, i palestinesi – minaccia Israele non meno della proliferazione nucleare iraniana.

- Come dovrebbe rispondere Israele alla delegittimazione?
  Rendendola prioritaria quanto lo è violenza, riconoscendo che la politica del rifiuto non svanirà da sola, ma deve essere superata. Negli ultimi trent'anni, i governi israeliani hanno clamorosamente fallito. Dal 1993 al 2000 hanno attuato una politica di appeasement all'insegna del "vi daremo ciò che volete e voi ve ne starete tranquilli". Poi è seguita, dal 2000 al 2007, una politica ancora più rovinosa dei ritiri unilaterali. Dopo di che, e fino ai giorni nostri, è arrivata la politica della non-politica, che consiste nel limitarsi a spegnere gli incendi. Attualmente, non c'è altro obiettivo che "falciare l'erba" o sperare di rimandare il combattimento per qualche anno. Questo, ovviamente, non basta.
  La politica corretta è quella di convincere gli abitanti della Cisgiordania, di Gaza e i residenti musulmani di Gerusalemme che Israele è forte e permanente, che hanno perso e dovrebbero rinunciare alla guerra contro Israele. L'obiettivo è sempre quello di costringerli ad abbandonare l'idea di eliminare lo Stato ebraico di Israele.
  Una volta che i palestinesi accetteranno questa realtà, anche loro ne guadagneranno, forse anche più degli israeliani. Liberatisi dalla loro ossessione irredentista, possono sfuggire \ di povertà e oppressione in cui versano per costruire il loro sistema politico, la loro economia, la società e la cultura.

- Le due parti non possono prosperare senza essere sconfitte, come nel caso dell'Irlanda del Nord?
  È completamente diverso, perché in Irlanda del Nord tutti sono cittadini britannici. Un governo democratico non può sconfiggere la propria popolazione. Parallelamente, Israele non può sconfiggere i suoi cittadini musulmani.

- I palestinesi non sono stati in gran parte sconfitti nella Seconda Intifada?
  Sì, è vero, Israele ha tenuto sotto controllo quell'ondata di violenza. Ma farlo non ha portato a una sensazione di sconfitta, ma soltanto a un cambio di tattica. Yasser Arafat fece affidamento sulla violenza per abbattere il morale degli israeliani, per indurli a emigrare e a porre fine agli investimenti stranieri; Mahmoud Abbas non ha posto fine alla violenza quando è salito al potere nel 2004, ma ha focalizzato l'attenzione sulla delegittimazione internazionale di Israele, si rammenti la sua riprovevole affermazione fatta in Germania sul fatto che i palestinesi abbiano subito "50 olocausti". Questa campagna sta andando bene, diffondendo l'antisionismo.

- Tutti i palestinesi condividono la politica del rifiuto di Amin al-Husseini?
  No. Sebbene tale politica abbia dominato per un secolo, circa un quinto dei palestinesi in tutto quel periodo si è opposto e ha fornito a Israele una serie di servizi. In Army of Shadows: Palestinian Collaboration with Zionism, 1917–1948, Hillel Cohen mostra l'importanza cruciale dell'aiuto offerto dai palestinesi all'Yishuv (la comunità ebraica in Eretz Israel prima della fondazione dello Stato di Israele): fornivano manodopera, commerciavano, vendevano terra, vendevano armi, consegnavano beni statali, fornivano informazioni sulle forze nemiche, diffondevano voci e dissensi, convincevano altri palestinesi ad arrendersi, combattevano i nemici dell'Yishuv e operavano persino dietro le linee nemiche. Cohen non lo dice, ma io sì: Israele non sarebbe nato senza l'aiuto dei palestinesi collaborativi. Ma erano e sono tuttora una minoranza, sono sempre stati e sono tuttora minacciati.

- Che ne pensa del nuovo governo: il primo ministro entrante Netanyahu non crede nella forza?
  Sì, ci crede, ma la forza non è sinonimo di vittoria. Gli ho parlato della vittoria di Israele e si è detto favorevole, senza però adottare l'idea. Lo capisco: Israele è oggetto di critiche costanti; se si ottenesse la vittoria di Israele sorgerebbero più problemi a breve termine. Pertanto, è più facile temporeggiare e continuare con lo status quo impiegando le forze di sicurezza per mantenere la calma, dispiegandole più come una forza di polizia che come una forza militare. La polizia non aspira alla vittoria, ma alla calma, non mira a distruggere proprietà né a causare danni alle persone.

- E gli altri membri del nuovo governo?
  Sto imparando a conoscere i nuovi uomini di potere. A mio avviso, il loro obiettivo non è vincere, ma la loro attenzione è rivolta a due idee terribili: Bezalel Smotrich vuole annettere l'intera Cisgiordania e Itamar Ben-Gvir vuole espellere la sua popolazione palestinese.
  L'annessione significa aggiungere un paio di milioni di cittadini palestinesi di Israele o mantenerli in una posizione subordinata, due ricette per il disastro. L'impulso kahanista di espellere i palestinesi non solo non risolve nulla, ma crea molti nuovi problemi. Gli espulsi sono maggiormente dediti alla distruzione di Israele. La rabbia infuria in seno a Israele, fra gli ebrei della diaspora e nel mondo esterno in generale. Non si vince una guerra annettendo o spostando i nemici. Si vince imponendo loro la propria volontà.

- Lei accetta la soluzione dei due Stati?
  Sì, questa è la soluzione meno cattiva a lungo termine. Ma sottolineo a lungo termine. Può accadere soltanto dopo che i palestinesi avranno rinunciato alla loro guerra contro Israele, dopo un lungo periodo in cui gli ebrei che vivono a Hebron non affronteranno più pericoli di quelli che devono affrontare i musulmani che vivono a Nazareth; e quando Israele è solo un altro membro delle Nazioni Unite. Finché non arriverà quel giorno fausto ma lontano, preferirei che la Giordania governasse la Cisgiordania e l'Egitto Gaza.

- Gli Accordi di Abramo e l'attenzione sull'Ucraina e sulla Cina cambiano le cose?
  Non proprio. Gli Accordi di Abramo sono formidabili, sia di per sé sia perché hanno indotto Netanyahu nel 2020 ad abbandonare il suo piano di annettere parti della Cisgiordania. L'Ucraina e la Cina abbassano i riflettori sul conflitto israelo-palestinese, il che è comunque una buona cosa. Ma le fiorenti relazioni di Israele con gli Emirati Arabi Uniti e altri Stati difficilmente sminuiscono la campagna palestinese di delegittimazione. Ed ogni volta che l'Autorità Palestinese o Hamas vogliono tornare sotto i riflettori, lo faranno immediatamente.

- Israele in che modo dovrebbe gestire l'attenzione internazionale?
  Riconoscendola come un dato di fatto e trovando il modo per affrontarla. Quando Hamas decide di lanciare missili su Israele, sa che verrà colpito militarmente, ma che otterrà il sostegno politico internazionale. Allo stesso modo, Israele sa che verrà colpito a livello internazionale, quindi dovrebbe approfittare della crisi per inviare un messaggio molto forte alla popolazione di Gaza che ha perso la guerra. In definitiva, la copertura mediatica conta meno della vittoria sul campo.

- In pratica, come vince Israele?
  Preferisco porre la vittoria di Israele come obiettivo politico, senza entrare nei dettagli strategici e tattici. Innanzitutto, è prematuro entrare nello specifico. In secondo luogo, approfondire questi argomenti distoglie l'attenzione dall'intento di stabilire l'obiettivo politico.
  Detto questo, Israele ha una straordinaria serie di leve grazie alla sua forza di gran lunga superiore a quella palestinese, e non solo militare ed economica. Un esempio creativo: il principe ereditario saudita Mohammad bin Salman probabilmente vorrebbe aggiungere al-Aqsa alla sua collezione di luoghi sacri dell'Islam, specialmente in un momento in cui Teheran sfida il controllo saudita della Mecca e di Medina. Perché Israele non avvia negoziati con Riad su questo argomento, offrendo il fiore all'occhiello dell'Autorità Palestinese in cambio di piene relazioni diplomatiche e di un cambiamento nello status quo sul Monte del Tempio?

- Israele può sconfiggere Hamas senza rioccupare Gaza?
  Torno a ripetere che preferisco non discutere di strategie e tattiche ma, come mi si chiede, eccone una: Israele dichiara che un solo attacco missilistico da Gaza comporta la chiusura del confine di un giorno; pertanto, acqua, cibo, farmaci o carburante non possono arrivare a Gaza. Il lancio di due missili comporterà la chiusura di due giorni e così via. Garantisco che questo migliorerebbe rapidamente il comportamento di Hamas.

- Israele deve sconfiggere anche i sostenitori di Sinistra dei palestinesi?
  Ovviamente, no. Inoltre, sarebbe impossibile. Ma non è nemmeno necessario, perché sono semplici seguaci. Immagini che i palestinesi riconoscano la loro sconfitta e accettino davvero lo Stato ebraico: questo toglierebbe il terreno da sotto i piedi all'antisionismo di Sinistra. È difficile mantenere una posizione più cattolica di quella del Papa. Israele è fortunato che il suo principale nemico sia così piccolo e così debole.

- Con il passare del tempo, i palestinesi accetteranno sempre più Israele?
  L'ex ministro Yuval Steinitz mi ha appena detto che il 75 per cento dei palestinesi è arrivato ad accettare l'esistenza dello Stato di Israele e vive una vita normale, ma io ne dubito. Un recente sondaggio condotto dal Palestinian Center for Policy and Survey Research ha rilevato che il "72 per cento dell'opinione pubblica (l'84 per cento nella Striscia di Gaza e il 65 per cento in Cisgiordania) afferma di essere favorevole alla formazione di gruppi armati come "Lion's Den" che non prendono ordini dall'AP e non fanno parte dei servizi di sicurezza dell'Autorità Palestinese; il 22 per cento è contrario". Sì, c'è una calma generale. Nell'albergo dove ci incontriamo, il Dan Jerusalem Hotel, sul Monte Scopus, il personale palestinese svolge tranquillamente il proprio lavoro e non accoltella nessuno. Ma in tempo di crisi, ad esempio, nel caso di un attacco missilistico di Hamas, eviterei di soggiornare in questo albergo o nella maggior parte degli altri hotel di Gerusalemme.

- La precedente leadership israeliana sembra accettare l'idea di Micah Goodman di "ridurre il conflitto", anche lei?
  No. Lo vedo solo come uno dei tanti tentativi fatti finora per perfezionare il difficile lavoro di ottenere la vittoria. Tra le idee precedenti figuravano l'espulsione dei palestinesi con la forza o deliberatamente, lo schema secondo il quale la Giordania è la Palestina, la costruzione di nuovi muri di recinzione, la creazione di una nuova leadership palestinese, la richiesta di una buona governance, l'attuazione della Road Map, il finanziamento di un Piano Marshall, l'imposizione di un'amministrazione fiduciaria, l'istituzione di forze di sicurezza congiunte, la divisione del Monte del Tempio [in spazi separati per ebrei e musulmani, N.d.T.], la locazione di terreni, il ritiro unilaterale e così via. Niente di tutto questo ha funzionato e niente funzionerà. La sconfitta e la vittoria rimangono imperative.

- La caduta della Repubblica islamica dell'Iran aiuterebbe?
  Sì, il cambio di regime in Iran avrebbe ampie implicazioni per il Medio Oriente, ma non tanto per la guerra palestinese contro Israele. Il crollo politico dei mullah non porrà fine alla convinzione dei palestinesi che la politica del rifiuto funziona, che prevarrà la "rivoluzione fino alla vittoria", che possono eliminare lo Stato ebraico. Israele non può delegare la vittoria.

(Gatestone Institute, 22 dicembre 2022 - trad. di Angelita La Spada)

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Ebrei in Polonia: la fragilità della memoria

Gli ebrei hanno vissuto in Polonia per circa mille anni: in questo paese hanno definito una parte essenziale non solo della cultura ebraica orientale ma anche della storia polacca. Eppure quella tra polacchi ed ebrei resta una memoria contesa.

di Lorenzo Ferrazzano

Fuggendo dall’Europa occidentale a causa delle persecuzioni, attraversando una foresta, ad Est, alcuni ebrei sentirono gli uccelli cantare una melodia che sembrava dire “Pol-in”. “Resta qui”, in ebraico. Così si fermarono. Questo racconto proviene dalla “Leggenda della foresta”, con cui è stata narrata l’origine dell’insediamento ebraico nella terra di Mieszko I. “Polin”, resta qui: è anche il nome con cui gli ebrei chiamano la Polonia.
  Da quel momento, per più di un millennio, il rapporto tra ebrei e polacchi è stato allo stesso tempo pacifico e violento, una storia di tolleranza e odio, di libertà e persecuzione. Qui gli ebrei hanno potuto far fiorire la loro cultura, vivere in autonomia e lavorare. Qui hanno potuto trasmettere la loro lingua, lo yiddish, di generazione in generazione, aprire scuole, costruire e frequentare le sinagoghe.
  E tuttavia, in questa stessa terra, gli ebrei sono stati accusati di aver provocato epidemie e malattie, hanno subito persecuzioni in tempi di crisi, ritrovandosi vittime della violenza dei soldati e della brutalità dei pogrom, sono stati esclusi da numerosi mestieri, costretti, come gli animali nei recinti, a vivere nei ghetti.

• L’oblio e la memoria per gli ebrei
  «Che cos’era la memoria» scrive Wlodek Goldkorn, «se non una variazione dell’oblio?». Si riferiva al dolore del ricordo all’indomani di Auschwitz, quando «il vuoto del presente» sembrava dover essere riempito da una memoria che non era altro che «rimozione del ricordo: per sfuggire ai sensi di colpa e per darsi una ragione per proseguire la vita in un paese e su una terra altrimenti irriconoscibili».
  Quando fu messa fine a quella tragedia indescrivibile che è stata l’Olocausto, dei 3,5 milioni di ebrei che abitavano in Polonia ne rimasero soltanto 300 mila. I sopravvissuti si trovarono di fronte alla scelta di restare o emigrare. Ma come restare, se la loro presenza secolare era stata spazzata via in pochi anni, se non erano rimasti padri né madri né amici?
  Alcuni polacchi, durante le deportazioni degli ebrei, avevano occupato le abitazioni dei loro vecchi vicini di casa, si erano impossessati dei beni che ai morti non servivano più. E che non sarebbero stati restituiti neanche quando i deportati non erano niente affatto morti e tornavano indietro, sopravvissuti allo sterminio.
  Altri ebrei si convinsero a lasciare la Polonia dopo che la scomparsa di un bambino, poi tornato a casa, provocò un pogrom a Kielce nel 1946. Fu l’ennesimo momento di non ritorno: i polacchi uccisero i loro vicini ebrei. Lo avevano già fatto a Jedwabne cinque anni prima. Di mezzo, la Shoah. Nel 1968 Gomułka “invitò” i pochissimi rimasti ad andare via. Perché allora restare in Polonia? Gli ebrei partirono, portando con sé la loro memoria.

• L’oblio e la memoria per i polacchi
  La Polonia uscì in macerie dalla guerra. La riva sinistra della sua capitale, Varsavia, fu rasa al suolo in seguito all’insurrezione del 1944. Sulla riva destra, invece, i sovietici assistettero alla distruzione della città prima di sferrare l’attacco finale contro la Wermacht, mettendo poi radici in Polonia.
  Durante la guerra il paese aveva subito un’altra spartizione, dopo quelle tra Russia, Prussia e Austria che provocarono la sua sparizione geografica tra il 1772 e il 1918. La lingua e la religione ne impedirono la scomparsa culturale. All’indomani della guerra, in seguito alle ridefinizioni dei confini, alla deportazione delle minoranze nazionali e allo sterminio degli ebrei, il cattolicesimo restò l’unica fede professata in un paese ormai etnicamente omogeneo.
  Da questo momento, un polacco sarebbe stato certamente un cattolico. Ora non restava che curare le ferite: la strage di Katyń, i massacri della Volinia, la liquidazione dell’intelligencija, la perdita di Vilnius e di Leopoli e quella di milioni di esseri umani. Bisognava ricostruire il paese, orientandosi tra le nuove coordinate politiche d’Europa.

• La politica della storia
  La memoria collettiva polacca è una memoria nazionale, fatta di miti e omissioni come tutte le memorie nazionali. Essa è soprattutto la memoria della popolazione polacca e cattolica, dove resta poco spazio per tutti gli altri, tra cui gli ebrei.
  Gli studiosi che si occupano di questo tema, come Ireneusz Krzemiński e David Ostolski hanno parlato di “rivalità del dolore” e di “intrusione” della tragedia ebraica in quella polacca: niente e nessuno può ridimensionare le sofferenze dei polacchi, morti a milioni durante l’occupazione nazista.
  Tale mitologia della storia, basata sul martirio e l’eroismo del popolo polacco, è stata favorita dal partito nazionalista e conservatore PiS. Esso incoraggia, attraverso la sua influenza sull’Instytut Pamięci Narodowej, una visione semplificata e stereotipata del passato che non ammette sfumature e in cui non esistono zone grigie.
  Questo atteggiamento ha provocato la diffusione in Polonia di un clima sfavorevole alla ricerca storica. Negli ultimi anni sono state varate (poi emendate) leggi liberticide. Gli storici che hanno pubblicato libri sul comportamento a dir poco controverso assunto da alcuni polacchi durante la guerra sono stati in alcuni casi vittime di campagne denigratorie, di processi in tribunale e addirittura di minacce di morte. Una situazione, questa, che non rende giustizia alla memoria dei tantissimi polacchi che rischiarono la vita per salvare gli ebrei dalle deportazioni.

• Perché accade?
  Gli studiosi si sono chiesti quale atteggiamento bisognerebbe assumere nei confronti dei drammi collettivi della storia. La risposta va in direzione contraria rispetto a ciò che accade oggi in Polonia (e non solo), dove tragedie che non hanno frontiere chiare vengono nazionalizzate. Dovrebbero, invece, sostengono Levy e Szneider, diventare parte di una memoria universale e cosmopolita, in cui ognuno vi partecipa con i suoi meriti e le sue colpe. Ognuno custode del passato contro ogni politicizzazione della storia.
  «Mi chiedi quale sia per me la cosa più importante» ha detto Marek Edelman, membro del Bund e uno degli insorti del ghetto di Varsavia nel 1943. «La più importante di tutte le cose è stare qui, in Polonia, a vegliare sulle tombe del mio popolo. E credo di essere stato un buon guardiano».

(East Journal, 20 dicembre 2022)

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La riforma di Israele

Fra leciti timori per le minoranze e attivismo giudiziario, la scelta di Bibi.

Israele non ha una Costituzione scritta, quindi le sentenze del suo finora potentissimo “Bagatz”, la Corte suprema, sono state una sorta di Carta costituzionale. Il nuovo governo di Benjamin Netanyahu col ministro della Giustizia Yariv Levin ha annunciato una riforma che consentirebbe di fatto al Parlamento di annullare una decisione della Corte con un voto a maggioranza semplice, aumentando il potere dei funzionari eletti sui tribunali. I critici evocano la Corte costituzionale polacca e il caso ungherese, con la stretta degli esecutivi di Visegrád sulle rispettive corti più alte. La gente è scesa per strada a Tel Aviv e l’ex presidente della Corte suprema Aharon Barak ha definito Levin un “criminale”.
  Da anni la destra è mobilitata contro quello che negli anni 90 Barak considerava il necessario “attivismo legale” in base al quale le corti assumevano il potere di rovesciare leggi approvate dalla Knesset (come nel caso delle politiche di sicurezza e antiterrorismo nei Territori palestinesi). E intanto cresceva la controreazione politica israeliana, che parlava di “golpe giudiziario”.
  In questa prospettiva, è importante che la coalizione di governo riconosca il fatto che queste riforme giudiziarie sono estremamente rilevanti e delicate, per qualcuno possono modificare il carattere dello stato di Israele e l’equilibrio tra i diversi poteri dello stato. Non sarà facile trovare quell’equilibrio, fra il diritto della maggioranza eletta a governare, del popolo a essere rappresentato e delle minoranze, della società civile e dei giudici di portare istanze che a suon di plebisciti non si farebbero mai sentire. Ma è anche la forza d’Israele, essere l’unica democrazia da Casablanca a Mumbai. E non è poco.

Il Foglio, 17 gennaio 2023)

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Un sondaggio in Israele ha mostrato che il livello di fiducia degli israeliani nel governo è sceso al minimo negli ultimi anni.

di Hamin Michael

L'indice annuale della democrazia israeliana dell'Israel Democracy Institute (IDI) rivela profonde - e in molti casi crescenti - divisioni nella società israeliana. Inoltre, sono emerse prove di un calo del livello di fiducia nelle istituzioni statali, prove di insoddisfazione per la situazione attuale e pessimismo per il futuro. Ci sono già più israeliani che non si fidano delle autorità di loro.
  Dopo aver ricevuto il rapporto, il presidente Yitzhak Herzog si è detto "profondamente turbato" da alcune delle sue valutazioni, tra cui il calo dei livelli di identificazione e solidarietà con lo Stato e le sue istituzioni.
Si tratta di numeri sgradevoli che si sovrappongono ad altre sezioni del rapporto e riflettono tensioni interne al Paese. In altre parole, la nostra coesione si sta indebolendo e dobbiamo fare di tutto per ripristinarla.
ha detto il presidente di Israele.
  Mentre il nuovo governo di destra israeliano e la sua magistratura affrontano un piano controverso per limitare la capacità della corte di agire come deterrente per il legislatore, l'IDI ha riportato un livello stabile di sostegno al potere della Corte Suprema di ribaltare le leggi approvate dalla Knesset.
  Il sondaggio ha mostrato che il 57% degli israeliani ha sostenuto un tribunale con tali poteri, rispetto al 56% di un anno fa e al 53% nel 2010, l'unica volta in cui l'IDI ha incluso la questione nel suo caso di studio.
  Questo cambiamento si è rivelato essere in gran parte il risultato del crescente sostegno degli arabi. Il sondaggio afferma che il sostegno ebraico al potere del tribunale di ribaltare le leggi è rimasto stabile dal 2010 al 51-53%. Tuttavia, tra gli arabi, è passato dal 61% nel 2010 al 74% nel 2021 e poi all'87% nel 2022.
  Inoltre, il rapporto afferma che il livello di fiducia nella Corte Suprema continua a diminuire in quasi tutti i gruppi, ad eccezione degli ebrei di sinistra. Tra tutti gli ebrei israeliani, solo il 41% ha dichiarato di fidarsi del tribunale e il 40% degli arabi. Entrambi i dati sono inferiori alla media del periodo dal 2003 al 2022.
  Tra la comunità araba, che ha dovuto combattere un'ondata di criminalità, la fiducia nella polizia è scesa al 13%, rispetto al 60% circa di dieci anni fa.
  Lo studio, che ha intervistato 1092 ebrei israeliani a maggio e giugno, per lo più online, e 219 arabi israeliani per telefono (con alcuni elementi raccolti anche a ottobre), ha rilevato che il 49% degli ebrei israeliani concorda sul fatto che gli ebrei dovrebbero avere più diritti in Israele rispetto ai non-ebrei. Comprensibilmente, i cittadini israeliani di origine araba sono contrari a questo approccio. 
  La percentuale di israeliani ottimisti sul futuro è scesa al 49% dal 63% dell'anno precedente, l'IDI più basso registrato in cinque sondaggi dal 2012.

(Top War, 17 gennaio 2023)

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Il Muro del Pianto (Kotel) e il Monte del Tempio

Un caro amico di "Notizie su Israele" ci manda direttamente da Gerusalemme un suo contributo su un tema oggi discusso in Israele. Lo ringraziamo di cuore della collaborazione.

di Fulvio Canetti

Agli alunni israeliani viene insegnato che il Kotel (Muro del Pianto) è il sito più sacro dell'ebraismo. Nadav Perry un commentatore TV ha contestato questo insegnamento, sostenendo che il sito più sacro dell'ebraismo è in realtà il Monte del Tempio luogo che gli arabi chiamano "la spianata della Moschea". "Chi parla del Kotel - ha aggiunto Perry - come del nostro luogo più sacro, sbaglia, ma lo fa perché così è stato educato nelle scuole laiche e anche in quelle religiose (haredì)". Molti ebrei vedono questo insegnamento come una "capitolazione" alla narrativa islamica, secondo cui gli ebrei non hanno alcuna storia sul Monte del Tempio.
  E' necessario puntualizzare che solo negli ultimi 100 anni gli arabi hanno cooptato per la città di Gerusalemme (Al Qods) in quanto nei secoli passati le loro preghiere erano rivolte verso la Mecca. Nel 1967 con la guerra lampo, in cui Israele ottenne una vittoria miracolosa sulle armate arabe, la bandiera israeliana sventolò sul Monte del Tempio, innalzata dal capitano Ezra Orni. Moshè Dayan, generale vincitore del conflitto armato, diede l'ordine perentorio di ammainare suddetta bandiera e fu l'inizio della acquiescenza israeliana alle continue richieste da parte musulmana nel limitare la libertà di culto degli ebrei sul sito sacro.
  La strategia dello "Status quo" è stata utilizzata dal Comitato del Waqf arabo, presieduto dallo sceicco Azzam Al-Khatib, nel limitare questa libertà per appropriarsi del luogo sacro come dei padroni di casa. Vi sono però delle eccezioni, come il professore Omer Salem dell'Università Al-Azhar del Cairo, che contrasta questa appropriazione indebita nei suoi scritti. Lo studioso suddetto ha affermato che un "giorno" i musulmani avrebbero restituito il Monte del Tempio agli ebrei di loro spontanea volontà. "Gli ebrei - ha aggiunto - otterranno il loro luogo sacro, ma la cessione deve avvenire gradualmente. I musulmani accetteranno di rimuovere la Moschea, ivi presente, purché l'iniziativa parta da loro stessi. Se gli ebrei provano a farlo con la forza, ci sarà un grande spargimento di sangue. E quando avverrà la rimozione della Moschea, questo sarà un dono di Allah, che trasformerà i cuori dei musulmani".
  Yeudah Glik, dirigente israeliano di Beyadenu, ha espresso in altri termini la stessa opinione: "Intere generazioni ebraiche sono state educate dai nostri Rabbini con una narrativa storica distorta, voltando le spalle alla verità. E' giunto il tempo di affermare la Verità, in cui Israele deve respingere la crescente capitolazione ebraica, riaffermando la sua sovranità sul Monte del Tempio, un sito conquistato ma non ancora liberato.

(Notizie su Israele, 17 gennaio 2023)

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Scoperte in una soffitta le foto inedite della rivolta del ghetto di Varsavia

Nel silenzio di una soffitta in Polonia sono state scoperte fotografie inedite scattate segretamente durante la rivolta del ghetto di Varsavia. Lo rivelano alcuni giornali internazionali. Gli scatti inediti ritraggono i nazisti che reprimono brutalmente la rivolta avvenuta nell’aprile del ’43 e arrivano a pochi giorni dalla scoperta dal “POLIN”, il museo di storia degli ebrei polacchi.
  Le foto, scattate di nascosto da Zvigniev Grzywaczewskii, un vigile del fuoco polacco che fu incaricato di spegnare gli incendi nel ghetto, sono state trovate dal figlio nella soffitta della vecchia casa del padre. Grzywaczewskii scattò molte fotografie della rivolta e ha poi nascosto i negativi nella sua casa in alcune scatole. Alcune immagini sono state contrabbandate per poi essere acquisite dall'Holocaust Memorial Museum di Washington. Gli altri negativi sono stati ritrovati solo recentemente, quando il figlio di Grzywaczewski li ha scoperti nella sua soffitta...

(Shalom, 17 gennaio 2023)
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Cosa significa la parola “midrash”?

di Giorgio Berruto

Midrash significa racconto, storiella, invenzione senza pretese di verità? Non proprio, o almeno non soltanto se si guarda alla storia della parola e della radice da cui viene formata. Una storia che affonda nei testi della civiltà ebraica antica, raccolti nel canone biblico secoli dopo la composizione e quasi sempre dopo una sequenza di numerose redazioni, e nella letteratura rabbinica di età tardoantica di cui il Talmud rappresenta il principale monumento.
  Midrash deriva dalla radice di tre lettere d-r-sh, che compare in molti luoghi del Tanakh innanzitutto nella forma verbale darash la quale assume nei diversi contesti diversi significati. Nella maggioranza dei casi – ma non in tutti – l’oggetto che introduce è la Torà oppure Dio: d-r-sh la Torà oppure d-r-sh Dio, dunque.

  1. “Cercare”, “ricercare”. Per esempio nel libro del profeta Isaia: “Cercate (dirshu) nel libro del Signore e invocate” (34,16); oppure nel Deuteronomio: “Soltanto nel luogo che il Signore vostro Dio sceglierà […] là, nella sua residenza, lo ricercherete (tidreshu) e andrete” (12,5).
  2. “Domandare a”, “chiedere lumi a”, “consultare”. In 2 Re il re Achasià ferito ordina ai suoi messaggeri: “Andate e consultate (dirshu) Baal Zevuv, divinità di Ekron, per sapere se guarirò” (1,2).
  3. Da “consultare” deriva il significato di “invocare” (riferito tipicamente a Dio oppure a altre divinità), presente in molti libri biblici e in numerosi passi. In Genesi, quando Rebecca incinta sente muovere dentro di sé i due feti che si urtano come se fossero già in lotta prima di nascere “andò e invocò (lidrosh) il Signore” (25,22) – ma l’edizione Disegni in uso presso molte comunità ebraiche italiane rende “andò a consultare il Signore”. Riferendo al popolo di Israele le parole divine il profeta Amos esclama: “Invocate (dirshu) il Signore e vivrete, affinché non invada come fuoco la casa di Giuseppe” (5,6).
  4. “Indagare”, con cui il termine penetra nel territorio del diritto. “Indagare” è infatti l’azione del giudice che, istruendo un processo, raccoglie prove e testimonianze. Nel Deuteronomio viene trattato il caso di chi invita i concittadini ad adorare dèi stranieri: “Tu indagherai (darashta)”, dice Mosè, “farai un’inchiesta e interrogherai per bene” e, se risulta vero, passerai a fil di spada tutti gli abitanti, i loro animali e distruggerai la città (13,15). Isaia predice l’avvento di un re-giudice che “indaga (doresh) il diritto e affretta l’avvento della giustizia” (16,5).
  5. “Esigere”, un significato antico presente per esempio in Genesi nella benedizione divina su Noè e la sua discendenza: di coloro che si ciberanno di carne strappata a un animale vivo – cosa che costituisce divieto – “esigerò (’edrosh) il loro sangue, la loro vita” (9,5). Ezechiele, riportando le parole di Dio sull’unico luogo di culto ammesso, il Tempio di Gerusalemme, spiega che “là esigerò (’edrosh) le vostre offerte, i doni delle vostre primizie e tutto ciò che mi consacrerete” (20,40). Da questo significato deriva l’espressione darosh shalom, “ricercare la pace”, “invocare la (altrui) completezza” e di conseguenza “salutare”, compendiata solitamente nella semplice e universalmente nota formula di saluto shalom. L’uso è comune anche nell’ebraico moderno, per esempio nello slogan politico ‘am chazak doresh shalom, “un popolo forte esige (chiede con forza) la pace”, diffusissimo nella Israele degli anni novanta del Novecento che sembrava prossima a un accordo di pace con gli arabi palestinesi e che compare anche nella popolare Canzone degli sticker del gruppo Dag Nachash.
  6. Dal significato di “ricercare” deriva quello di “studiare”, attestato in libri biblici di composizione tarda, cioè non solo redatti nella forma definitiva ma anche pensati in età ellenistica. Qohelet afferma: “Ho messo il mio cuore (luogo del ragionamento e del pensiero nell’antropologia biblica) a studiare (lidrosh) e investigare con sapienza tutto ciò che accade sotto il cielo” (1,13). Un passo del libro di Ezra riporta che “Ezra si era applicato a studiare (lidrosh) la legge (Torà) del Signore e a praticarla e a insegnare in Israele le leggi e il diritto” (7,10). Come vedremo a breve, questo significato rivestirà grande importanza nell’età del Talmud.

Oltre alle tante occorrenze del verbo darash, in due passi del Tanakh compare già il sostantivo corrispondente midrash. Entrambi si trovano in un libro relativamente recente come 2 Cronache, cosa che indica chiaramente la derivazione di midrash da darash e non viceversa. Al termine del racconto del sanguinoso regno di Avià, monarca di Giuda, il cronista aggiunge: “Gli altri fatti della vita di Avià, il suo procedere e il suo agire si trovano scritti nel midrash del profeta Iddo” (13,22). In modo simile più avanti a proposito del re Yoash: “Le notizie riguardanti i suoi figli, le molte profezie contro di lui e le riparazioni della casa di Dio sono scritte del midrash dei Re” (24,27). “Gli altri fatti di X… si trovano nel libro/discorso di Y” è una formula stereotipa impiegata molte volte nei Re e nelle Cronache, questi però sono i soli casi in cui occorre il termine midrash invece dei più usuali sefer o divrè (“libro”, “discorso”). A prima vista sembra evidente che il significato sia lo stesso, cioè un documento scritto, anche se alcuni studiosi come Günther Stemberger non escludono che già in questi luoghi midrash possa indicare uno “scritto esegetico”, un “commento”. D’altra parte non è facile addurre ragioni contro l’intuitiva coincidenza tra il midrash dei Re e il libro (sefer) dei Re ripetutamente citato altrove. Per completare il quadro, la versione greca dei Settanta traduce con le parole biblion (libro) e graphè (scrittura), la recenziore Vulgata latina con liber (libro).
  Nei rotoli trovati nelle grotte di Qumran, datati tra il moked secolo a.e.v e il I e.v., compare midrash nel significato di “studio” e “insegnamento” – anche nell’espressione midrash haTorà, “studio/insegnamento della Torà”; darash in quello di “ricercare” e “interpretare”. Qumran dunque accerta questi usi del sostantivo e del verbo secoli prima della letteratura rabbinica, la quale però arriverà a fondere in un tutt’uno i significati di indagine, interpretazione e studio. Nella Mishnà e nel Talmud midrash è innanzitutto “ricerca”, “studio” – quindi molto vicino o anche sinonimo di talmud – e viene contrapposto a maasè, che individua l’agire concreto. Nei Pirkè Avot, per esempio, rabbi Shimon ben rabban Gamliel sostiene che “non lo studio (midrash) è la cosa più importante, ma l’azione (maasè)”. Oppure significa “interpretazione”, “esegesi”, come nella formula zè midrash darash, “presentò questa interpretazione”. Nella maggior parte dei casi tuttavia midrash viene riferito a uno studio e un’interpretazione specifici, cioè della Torà. Di conseguenza la scuola, in cui si studia la Torà e poi – a livello avanzato successivamente al bar mitzvà – la legge orale e le interpretazioni, è chiamata bet midrash . Per inciso l’equivalente arabo, madrassa, deriva dalla medesima radice e ha significato analogo.
  La contrapposizione tra senso letterale (peshat) e un senso nascosto o metaforico (derash) non appartiene all’età del Talmud ma all’esegesi medievale, è dunque successiva di alcuni secoli. Nei secoli della Mishnà e del Talmud, invece, è già pienamente adottato un duplice uso del sostantivo midrash, “il quale indica tanto il processo dell’indagine, della ricerca, quanto il suo risultato” (Amos Luzzatto, Leggere il Midrash. Le interpretazioni ebraiche della Bibbia, Morcelliana). Indica quindi, in altre parole, sia una modalità di approccio ai testi sia una serie di opere scritte che restituiscono quell’interrogazione rivolta ai testi – si ricordi il significato già biblico di darash come “esigere”, “chiedere con forza”, “mettere alle strette”. Nel primo senso il midrash si avvale di specifiche tecniche, regole, o forse più propriamente modalità ermeneutiche. Nel secondo è un genere letterario presente per lunghi tratti nel Talmud (soprattutto babilonese) e in decine di raccolte esegetiche di tipo normativo o omiletico (le più antiche soprattutto di area palestinese).

(JoiMag, 17 gennaio 2023)

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Salonicco, due atti di antisemitismo in pochi giorni

Episodi di antisemitismo a Salonicco, in Grecia. In quella che fino al secondo conflitto mondiale era la grande comunità ebraica del paese, in due settimane si sono verificati due atti vandalici contro simboli ebraici.
  Lo denuncia il Consiglio israelitico di Grecia (KIS), che in un comunicato ha parlato sia della profanazione della targa del Memoriale della Shoah presso l’Università Aristotele della città, deturpata alla fine di dicembre scorso e sia la nuova targa che commemora la deportazione degli ebrei di Salonicco nei campi di sterminio di Auschwitz-Birkenau, deposta nella nuova stazione ferroviaria.
“Vandali antisemiti girano indisturbati e offuscano ogni sforzo per preservare la memoria della Shoah a Salonicco. Si tratta del secondo attacco antisemita in pochi giorni, dopo la profanazione della targa”.
In entrambi i luoghi sono comparsi croci celtiche e simboli fascisti.
  Il Consiglio israelitico ha chiesto alle autorità competenti di stringere in tempi per arrestare i responsabili:
“Tollerare l’antisemitismo significa tollerare il neonazismo e la distruzione dei valori di una società democratica, perché l’antisemitismo inizia con azioni contro gli ebrei, ma non si ferma agli ebrei”.
Il Memoriale della Shoah presso l’Università Aristotele è tutt’altro che nuovo ad atti vandalici.
  Il monumento, infatti, che è stato installato nel 2014 e che presenta una menorah in metallo e un Maghen David (Stella di David) posizionata leggermente di traverso per simboleggiare la distruzione dell’antica comunità, venne vandalizzato due volte nel 2018 e una nel 2019.
  Deturpare un simbolo non ne cancella la memoria. Anzi, (ri)afferma, semmai ce ne fosse bisogno, che l’antisemitismo è vivo e vegeto, a prescindere dalla matrice (che per gli episodi di Salonicco non possono che essere di estrema destra).
  Perché quello che dovrebbe essere passato non lo è, perché l’odio contro gli ebrei è sempre presente nelle società. E i fatti di Salonicco lo confermano.

(Progetto Dreyfus, 15 gennaio 2023)

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La morte del Cristianesimo a Betlemme

Perché la persecuzione dei cristiani a Betlemme e in altre aree geografiche controllate dall'Autorità palestinese viene denunciata così poco, se non addirittura sottovalutata? Secondo il giornalista Khaled Abu Toameh, "gli attacchi dei musulmani ai cristiani vengono spesso ignorati dalla comunità internazionale e dai media, che sembrano far sentire la propria voce solo quando riescono a trovare il modo di incolpare Israele. 

di Raymond Ibrahim

Dopo aver notato che "c'è stato un significativo aumento degli attacchi di matrice religiosa da parte dei musulmani palestinesi contro i cristiani a Betlemme", un articolo del 21 novembre riporta questi esempi:
  Poco più di due settimane fa, un uomo musulmano è stato accusato di aver molestato delle giovani donne cristiane nella Chiesa greco-ortodossa degli Antenati, a Beit Sahour, nei pressi della città di Betlemme. Poco dopo, la chiesa è stata attaccata da una grande folla di uomini palestinesi che hanno lanciato pietre contro l'edificio mentre i fedeli si nascondevano terrorizzati all'interno e molti di loro sono rimasti feriti nell'attacco.
  L'Autorità Palestinese, responsabile della sicurezza nell'area, non ha fatto nulla.
  A ottobre, uomini armati non identificati hanno sparato contro il Bethlehem Hotel di proprietà cristiana, dopo che un video postato sui social media mostrava [sul palco della sala conferenze dell'albergo] le sagome di cartone di una stella di David e di una Menorah...
  Non ci sono stati arresti in relazione alla sparatoria.
  Probabilmente lo shock più grande per la comunità è arrivato ad aprile, in seguito all'arresto del pastore evangelico palestinese Johnny Shahwan da parte delle forze di sicurezza dell'Autorità Palestinese con l'accusa di 'promuovere la normalizzazione' delle relazioni con Israele...

    "A gennaio, un gruppo numeroso di uomini mascherati, armati di bastoni e sbarre di ferro ha aggredito i fratelli cristiani Daoud e Daher Nassar mentre questi erano impegnati a lavorare il loro terreno, nei pressi di Betlemme. I tribunali palestinesi si sono adoperati per confiscare la fattoria, di proprietà della famiglia fin dai tempi dell'Impero ottomano".

Secondo il rabbino Pesach Wolicki, direttore del Center for Jewish-Christian Understanding and Cooperation, la persecuzione dei cristiani palestinesi è un problema di lunga data:

    "Purtroppo, questi recenti attacchi contro le chiese non sono una novità. I cristiani vengono attaccati a Betlemme da moltissimi anni. Ci sono stati attentati dinamitardi. Le aggressioni fisiche contro i cristiani sono quasi costanti. Avvengono con regolarità, sempre da quando l'Autorità Palestinese ha assunto il potere".

Secondo Kamal Tarazi, un cristiano fuggito nel 2007 dalla Striscia di Gaza controllata da Hamas, "nel momento in cui [Hamas] ha preso il controllo [di Gaza], ha iniziato a perseguitarci, rovinando le nostre chiese e costringendo i cristiani a convertirsi all'Islam". Prima di fuggire, Tarazi ha cercato di resistere alla conquista islamista e ha esortato musulmani e cristiani a unirsi contro Hamas. Di conseguenza, "sono stato incarcerato diverse volte", ha affermato Tarazi. "Sapete cos'è una prigione di Hamas? È pura tortura."
  Le cifre confermano che i cristiani che vivono sotto l'Autorità Palestinese (AP) subiscono continui maltrattamenti che i musulmani non subiscono. Nel 1947, i cristiani costituivano l'85 per cento della popolazione di Betlemme, antica roccaforte cristiana. Nel 2016, i cristiani erano soltanto il 16 per cento della popolazione.
  In una società in cui i cristiani arabi non hanno né voce né protezione, non è una sorpresa che se ne vadano", ha osservato Justus Reid Weiner, un avvocato che conosce la regione.

    "La persecuzione sistematica degli arabi cristiani che vivono nelle aree palestinesi è stata accolta con un silenzio pressoché totale da parte della comunità internazionale, degli attivisti per i diritti umani, dei media e delle ONG".

I media internazionali non riportano mai gli episodi di persecuzione. Un arabo cristiano residente a Betlemme dietro anonimato ha rilevato che tutti i casi più recenti sopra elencati sono stati sottovalutati anche all'interno dello stesso Israele, per poi aggiungere:

    "Non occorre tacere quanto accade, al fine di sensibilizzare il mondo ebraico e quello cristiano sulla situazione in atto a Betlemme. Ci sono episodi che si verificano costantemente, che si tratti di vicini in contrasto, o di persone nelle strade, o persino di organizzazioni e chiese. La maggior parte delle volte, la comunità musulmana sovrasta la minoranza, che è la comunità cristiana".

Per quale motivo la persecuzione dei cristiani a Betlemme e in altre aree geografiche controllate dall'Autorità palestinese viene denunciata così poco, se non addirittura sottovalutata? Sicuramente non perché subiscono meno persecuzioni dei loro correligionari in tutto il mondo musulmano, dove avviene la maggior parte della persecuzione mondiale dei cristiani.
  "Gli attacchi dei musulmani ai cristiani vengono spesso ignorati dalla comunità internazionale e dai media, che sembrano far sentire la propria voce solo quando riescono a trovare il modo di incolpare Israele", ha scritto il giornalista musulmano Khaled Abu Toameh.

    "Un'altra situazione preoccupante è data dal fatto che i leader della comunità cristiana in Cisgiordania sono riluttanti a ritenere responsabili degli attacchi l'Autorità Palestinese e i loro vicini musulmani. Hanno paura di ritorsioni e preferiscono attenersi alla linea ufficiale di ritenere Israele l'unico responsabile della sofferenza della minoranza cristiana."

Open Doors, un'organizzazione per i diritti umani che monitora le persecuzioni dei cristiani, denuncia che i cristiani palestinesi subiscono un "elevato" livello di persecuzione:

    "Purtroppo, chi si converte al Cristianesimo dall'Islam affronta la peggiore delle persecuzioni contro i cristiani ed è difficile per loro frequentare in sicurezza le chiese esistenti. In Cisgiordania sono minacciati e messi sotto forte pressione, a Gaza la loro situazione è così pericolosa che vivono la loro fede cristiana nella massima segretezza. (...) L'influenza dell'ideologia islamica radicale è in aumento e le chiese storiche devono essere diplomatiche nel loro approccio nei confronti dei musulmani".

La situazione particolate dei cristiani palestinesi, i quali vivono in un'arena politicamente contesa dove "l'immagine pubblica" e le opinioni sono fondamentali, spiega altresì la mancanza di sensibilizzazione. Un articolo di Edy Cohen documenta altri casi di persecuzione dei cristiani. Tali episodi si sono verificati consecutivamente prima della pubblicazione del reportage e nessuno di essi è stato riportato dai cosiddetti "media mainstream".

  • 25 aprile: "I residenti terrorizzati del villaggio cristiano di Jifna, nei pressi di Ramallah (...) sono stati attaccati da uomini armati musulmani (...) dopo che una donna del villaggio ha presentato una denuncia alla polizia che il figlio di un importante leader di Fatah aveva aggredito la sua famiglia. In risposta, decine di uomini armati di Fatah si sono riversati nel villaggio, hanno sparato centinaia di colpi di arma da fuoco in aria, hanno lanciato molotov urlando imprecazioni e causato gravi danni alla proprietà pubblica. È stato un miracolo che non ci siano stati morti o feriti".
  • 13 maggio: "Vandali hanno fatto irruzione in una chiesa della comunità maronita nel centro di Betlemme, l'hanno profanata e hanno rubato attrezzature costose appartenenti alla chiesa, comprese le telecamere di sicurezza. (...) Questa è la sesta volta che la chiesa maronita di Betlemme ha subito atti vandalici e furti, tra cui un incendio doloso nel 2015 che ha causato ingenti danni e ha costretto l'edificio a rimanere chiuso per un lungo periodo".
  • 16 maggio: "[È] stata la volta della chiesa anglicana nel villaggio di Aboud, a ovest di Ramallah. I vandali hanno sfondato la recinzione, rotto le finestre della chiesa e vi hanno fatto irruzione. L'hanno profanata, cercato oggetti di valore e hanno rubato una grande quantità di attrezzature."

Questi attacchi, avvenuti nel corso di tre settimane, calzano lo stesso modello di abusi che i cristiani subiscono abitualmente in altre regioni a maggioranza musulmana. Se la profanazione e il saccheggio delle chiese sono frequenti, lo sono anche le rivolte della folla contro le minoranze cristiane, le quali tendono ad essere trattate come dhimmi, ossia "cittadini" di seconda classe sotto il dominio islamico che dovrebbero essere grati di ricevere qualsiasi tipo di tolleranza. Quando i cristiani hanno osato difendere i loro diritti, come accaduto il 25 aprile, "i rivoltosi nel villaggio di Jifna, hanno chiesto ai residenti [cristiani] di pagare la jizya, una tassa individuale che nel corso della storia è stata imposta alle minoranze non musulmane sotto il dominio islamico. Le vittime più recenti della jizya sono state le comunità cristiane dell'Iraq e della Siria sotto il dominio dell'Isis".
  Peggio ancora, come spesso accade quando le minoranze cristiane vengono attaccate nelle nazioni a maggioranza musulmana, "nonostante le grida di aiuto dei residenti [cristiani] [a Jifna], la polizia dell'AP non è intervenuta durante le ore di caos. Non ha arrestato alcun sospetto". Allo stesso modo, nei due attacchi alla chiesa, "nessun sospetto è stato arrestato".
  Sebbene i cristiani palestinesi subiscano lo stesso tipo di persecuzioni inflitte ai loro correligionari in altri Paesi musulmani, tra cui attacchi alle chiese, rapimenti e conversioni forzate, la persecuzione dei cristiani palestinesi "non ha ricevuto alcuna copertura nei media palestinesi. In effetti", prosegue Cohen, "in molti casi è stato imposto un totale obbligo di silenzio".

    "L'unica cosa che interessa all'AP è che episodi di questo tipo non trapelino ai media. Fatah esercita regolarmente forti pressioni sui cristiani affinché non denuncino gli atti di violenza e di vandalismo di cui sono frequentemente vittime, in quanto tale pubblicità potrebbe danneggiare l'immagine dell'Autorità Palestinese come attore capace di proteggere la vita e la proprietà della minoranza cristiana sotto il suo governo. Men che meno l'AP vuole essere dipinta come un'entità radicale che perseguita le minoranze religiose. Tale immagine potrebbe avere ripercussioni negative per i massicci aiuti internazionali, e in particolar modo europei, che l'Autorità Palestinese riceve".

La principale fonte di guadagno dell'AP e dei suoi sostenitori, soprattutto nei media, consiste nel ritrarre in genere i palestinesi come vittime di ingiuste aggressioni e di discriminazioni da parte di Israele. Questa narrazione sarebbe compromessa se la comunità internazionale venisse a sapere che sono i musulmani palestinesi a perseguitare i loro connazionali cristiani, esclusivamente per motivi religiosi. Potrebbe essere difficile provare simpatia per un popolo dichiaratamente oppresso quando ci si rende conto che sono essi stessi a opprimere le minoranze intorno a loro, solo per fanatismo religioso.
  Poiché sono così sensibili a questa potenziale difficoltà, "i funzionari dell'AP esercitano pressioni sui cristiani locali affinché non denuncino tali episodi, che minacciano di smascherare l'Autorità Palestinese mostrandola come un altro regime mediorientale legato a un'ideologia islamica radicale", conclude Cohen.
  Anche alcuni cristiani palestinesi sono complici. Mitri Rehab, un accademico palestinese e pastore luterano che vive a Betlemme, afferma nel suo recente libro, The Politics of Persecution, che qualunque persecuzione i cristiani possano subire in Medio Oriente non ha nulla a che fare con l'Islam, ma solo con le azioni occidentali o israeliane. Nel suo tentativo di incolpare tutto il resto, offre persino una sezione nel suo libro dedicata al "cambiamento climatico [che] avrà un impatto sulla comunità cristiana".
  Infine, l'Autorità Palestinese non si limita a sopprimere le notizie di persecuzione contro i cristiani, ma pubblicizza attivamente un'immagine falsa. Nonostante il rapido calo del numero dei cristiani a Betlemme, "il fatto che l'AP continui ad assicurarsi che ci sia un sindaco cristiano a Betlemme è solo una facciata", afferma il rabbino Wolicki.

    "È una farsa utilizzata per convincere il mondo che Betlemme, culla del Cristianesimo, è ancora una città cristiana. Non lo è. È musulmana a tutti gli effetti".

Questo Natale è importante ricordare che, a causa delle continue ma taciute persecuzioni, il Cristianesimo sta per scomparire nel luogo della sua nascita, che è Betlemme, teatro della Natività. È un silenzio che conferisce alla canzone natalizia "Silent Night", un significato minaccioso. "La persecuzione", afferma il report più recente, "minaccia l'esistenza della più antica comunità cristiana del mondo".
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Raymond Ibrahim, autore di , Defenders of the West: The Christian Heroes Who Stood Against Islam, is a Distinguished Senior Fellow presso il Gatestone Institute, è Shillman Fellow del David Horowitz Freedom Center e Judith Friedman Rosen Writing Fellow del Middle East Forum.

(Gatestone Institute, 15 gennaio 2023 - trad. di Angelita La Spada)

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La stampa italiana di fronte al caso Dreyfus in un libro

di Ugo Volli

Il primo grande trauma per gli ebrei dell’Europa moderna avvenne quarant’anni prima dell’inizio della Shoà e non in Germania ma in Francia: fu il caso Dreyfus, l’accusa e la condanna a un ufficiale ebreo che essendo riuscito ad arrivare nella “stanza dei bottoni” del nazionalismo francese, lo Stato Maggiore dell’Esercito, fu accusato a torto e condannato viziosamente per un episodio di spionaggio di cui era realmente colpevole un altro ufficiale, nobile e ricco di relazioni importanti. Come capita in questi casi, ancor più che per l’errore giudiziario in se stesso, e per l’antisemitismo che l’aveva reso passibile e plausibile agli occhi del mondo politico e militare, lo scandalo crebbe per la difesa ostinata e disonesta che ne fecero i responsabili dell’esercito, con inchieste interne manipolate e scorrette, processi in cui il vertice militare si sforzò in ogni modo di occultare l’imbroglio che era stato commesso ai danni di Dreyfus, solidarietà politiche viziose.
  Anche chi intervenne a difendere l’ufficiale innocente, come fece Emile Zola, fu a sua volta processato e condannato. Tutto ciò non era solo motivato dalla difesa corporativa della casta militare, ma soprattutto dell’odio per gli ebrei emancipati già da un secolo prima con la Rivoluzione Francese e apparentemente ben integrati nella società liberale. Fu un lungo trauma: la storia iniziò nel 1894 con l’arresto e il primo processo di Dreyfus, condannato alla degradazione e alla deportazione all’Isola del Diavolo che avvenne nel 1895. Poi, quando emersero le falsità dell’accusa ci fu un secondo processo svolto a Rennes in Normandia nel 1899 e concluso con una condanna molto addolcita, ma pur sempre condanna; nel frattempo, nel 1897 era uscito il “J’accuse” di Zola, condannato nel 1898. Solo nel 1906, dopo che le gerarchie politiche e militari che avevano cercato di usare “l’ebreo” come capro espiatorio erano state sostituite e ed era stato individuato il vero colpevole del tradimento (il maggiore Ferdinand Walsin Esterhazy) ed erano emerse le complicità diffuse nello Stato Maggiore e nel governo, fino alla Presidenza della Repubblica, Dreyfus fu pienamente riabilitato.
  Dato che la Francia in quel momento era al centro della cultura e dell’economia europea, il caso Dreyfus non fu solo il più grande scandalo politico della Terza Repubblica Francese, ma anche un evento internazionale di primaria importanza. Come è noto, il più autorevole giornale viennese del tempo, la Neue Freie Presse, incaricò il più brillante dei suoi corrispondenti di seguire il processo. Era Theodor Herzl, che rimase così colpito dall’ingiustizia patita da Dreyfus e dall’evidenza conseguente dell’impossibilità per gli ebrei di integrarsi nelle società liberali europee, da dedicare anima e corpo alla costruzione del movimento sionista. Il congresso di fondazione di Berna seguì di soli tre anni il primo processo Dreyfus.
  Ma la vicenda fu seguita con grande attenzione e altrettanto notevole polarizzazione anche in Italia. Ce lo racconta con sguardo analitico e grande lucidità politica un libro di Enrico Serventi Longhi, docente di storia contemporanea presso l’Università di Roma Tre, che porta un titolo molto significativo: “Il dramma di un'epoca. L'affaire Dreyfus e il giornalismo italiano di fine Ottocento” (casa Editrice Viella). Serventi Longhi studia le corrispondenze dei numerosi giornalisti mandati dalla stampa italiana a seguire il caso Dreyfus, e in particolare il secondo processo celebrato a Rennes nel 1897, e fa vedere come il loro atteggiamento sullo scandalo dipendesse sì dalle convinzioni personali, ma soprattutto dallo schieramento ideologico delle loro testate. I giornali nazionalisti, per esempio, che per ragioni di politica generale erano antifrancesi, di solito si schierarono fra i sostenitori dell’innocenza di Dreyfus; i liberali erano invece francofili e stentavano a riconoscere che vi fosse stata una deformazione così profonda dei meccanismi giudiziari e amministrativi in un paese che ammiravano; i cattolici risentivano da un lato dell’atteggiamento antisemita che li portava a considerare verosimile il tradimento di un membro del popolo che secondo una polemica assai vivace in quel momento, aveva già “tradito Dio”; dall’altro però erano molto diffidenti nei confronti di una Francia repubblicana, laica e diffusamente massonica. Leggere le belle analisi di Serventi Longhi ci permette non solo di seguire dal punto di vista dei giornalisti del tempo il processo Dreyfus, ma anche di vedere dei meccanismi di condizionamento della stampa che ritroviamo poco cambiati nella loro sostanza ancora oggi.

(Shalom, 16 gennaio 2023)

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La strada di Simone Veil, sopravvissuta all’orrore

di Nathan Greppi

Simone Veil, La ragazza con il numero 78651,
a cura di Alberto Cavaglion,
traduzione di Daniela Di Lisio,
Sonda, pp. 160, 14,90 euro.
Quando, nel marzo 1944, quella ragazza sedicenne venne arrestata per poi essere deportata nel campo di concentramento di Auschwitz, i suoi aguzzini avranno pensato che per lei fosse la fine. Invece, la più grande sconfitta di coloro che avrebbero voluto mandarla a morire nelle camere a gas è stato il suo riscatto. Questo perché Simone Veil (1927 – 2017), non solo riuscì a sopravvivere agli orrori dei lager, ma in più nel dopoguerra divenne una figura importante in Francia: Ministro della Salute negli anni ’70, per le sue battaglie a favore dell’aborto venne considerata paladina per i diritti delle donne, tanto che dal 1979 al 1982 fu la prima donna Presidente del Parlamento Europeo.
  La Veil ha raccontato la sua infanzia e adolescenza nel diario La ragazza con il numero 78651, pubblicato in origine nel 2007 e recentemente tradotto in italiano, in un’edizione curata dallo storico Alberto Cavaglion.
  Si parte dai suoi primi anni a Nizza, sua città natale, in una famiglia ebraica laica e benestante. Nonostante alcuni episodi di antisemitismo a scuola, per il resto appare come un’infanzia felice, quando erano ancora in pochi a percepire la minaccia rappresentata dall’ascesa del nazismo in Germania. E anche dopo lo scoppio della guerra, ci vollero mesi prima che a Nizza cominciassero a rendersi conto della gravità della situazione.
  Molto trattato, nel diario, è il suo rapporto con le radici ebraiche: essendo cresciuta in una famiglia laica, da un lato non fu mai osservante, dall’altro però rivendicò sempre con orgoglio le sue radici e la sua identità. Non mancano poi i riferimenti agli italiani: quando la Costa Azzurra era occupata dalle truppe italiane, i nostri connazionali ebbero un atteggiamento molto più benevolo nei confronti dei profughi ebrei rispetto ai collaborazionisti francesi sotto il regime di Vichy.
  Un altro aspetto importante riguarda come l’autrice si ritrovò a rielaborare il trauma dei campi di concentramento una volta tornata in Francia. Tutti coloro che le stavano intorno, parenti e amici compresi, non volevano ascoltare ciò che lei aveva bisogno di raccontare per non tenersi tutto dentro. Da qui, parte una riflessione sul valore della memoria.
  La storia di Simone Veil ci ricorda che, anche nei momenti più difficili, non bisogna mai arrendersi, e come anche quando ci ritroviamo immersi nell’oscurità dobbiamo sempre cercare quel piccolo spiraglio di luce chiamato “speranza”.

(Bet Magazine Mosaico, 16 gennaio 2023)

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Adesso evitiamo di cadere nella pandemia della paura

Dopo il Covid c'è chi pensa che mascherine e isolamento siano le armi con cui combattere ogni virus influenzale, a cominciare dai bambini. Un medico spiega perché è sbagliato.

di Piero Vietti

Adesso che il Covid sembra essere una minaccia ridimensionata, c’è chi tira le fila di due anni in cui il lavoro di medici, infermieri e ricercatori è stato fondamentale, ma nei quali alcune decisioni politiche hanno prodotto molti danni collaterali. Lockdown prolungati, chiusura delle scuole, obblighi e divieti sproporzionati imposti per decreto, clima di caccia alle streghe e censura nei confronti di chi avanzava dubbi su alcune misure, allarmismo continuo hanno provocato conseguenze psicologiche, economiche e sociali anche gravi in tutto il mondo. Basti questo dato, citato qualche giorno fa dal Wall Street Journal:

    Il Covid-19 è mortale, ma lo sono stati anche i passi draconiani compiuti per mitigarlo. Durante i primi due anni di pandemia, i “decessi in eccesso” – il bilancio delle vittime al di sopra del trend storico – hanno superato nettamente il numero di decessi attribuiti al Covid. […] Cosa sono le morti in eccesso non Covid? Durante la pandemia, i decessi per incidenti, overdose, alcolismo e omicidio sono aumentati vertiginosamente, così come i decessi per ipertensione, malattie cardiache e diabete. […] Sapendo che la risposta alla pandemia avrebbe comportato un’interruzione totale della vita ordinaria, la comunità della sanità pubblica avrebbe dovuto monitorare attivamente i suoi effetti sui milioni di americani che sapevamo soffrivano di tossicodipendenza, diabete e molte altre condizioni di salute potenzialmente letali. Non è mai troppo presto per riconoscere e iniziare ad alleviare i danni collaterali delle politiche Covid».
• Dalla pandemia alla “triplodemia”
  Ma c’è una conseguenza più sottile che il Covid e le politiche per contrastarlo hanno lasciato in tanti, una pandemia che non ha a che fare con un virus, ma con la paura. Ne parla su The Free Press Vinay Prasad, medico e professore alla University of California San Francisco, registrando come negli Stati Uniti stiano aumentando gli allarmi per l’ultimo “assalto virale” di questi mesi: «È stata chiamata “triplodemia”, una combinazione di Covid-19, influenza e virus respiratorio sinciziale (RSV), additato come colpevole di alti tassi di malattia e un eccesso di ricoveri, soprattutto tra i bambini. Il messaggio è chiaro: temete i virus respiratori invernali e prendete tutte le precauzioni possibili. È ora di rimettersi ancora una volta le mascherine, evitare la folla e socializzare all’aperto, se possibile».
  Questi i suggerimenti degli esperti americani (ma vale anche per l’Italia), pronti a rispolverare pavlovianamente le misure adottate nella fase critica della pandemia. Eppure, scrive Prasad, prove scientifiche e dati «contraddicono la narrazione dei media e di molti funzionari della sanità pubblica». Le precauzioni raccomandate, infatti, sono scientifiche tanto quanto «bruciare un bastoncino d’incenso o indossare aglio per allontanare i vampiri». La “trilpodemia” si affronta vivendo quella che prima del Covid chiamavamo vita normale, spiega il professore: «insistere su precauzioni infinite di fronte all’inevitabile esposizione ai germi non è solo fuorviante dal punto di vista medico, ma minaccia anche di stigmatizzare le interazioni umane più banali».

• L’influenza non è peggio degli altri anni
  Media ed esperti insistono nell’invitare i bambini a indossare le mascherine a scuola (e ci sono istituti in cui questo avviene di nuovo) ripetendo che soltanto questo «aiuterà a mantenere i nostri bambini al sicuro in classe con i loro coetanei». Il fatto è che, dice Prasad, la “triplodemia” probabilmente neppure esiste, non è possibile evitare i virus respiratori e non ci sono prove che precauzioni prolungate ritardino l’inevitabile.
  I dati raccolti finora dicono che la stagione influenzale non è peggiore di quella di altri anni, e semmai il problema sono gli ospedali a corto di personale e la mancanza di letti pediatrici. «Negli ultimi due decenni, come ha spiegato il Washington Post, c’è stato un forte calo dei letti pediatrici a livello nazionale. Insomma, dovremmo avere meno paura dell’RSV e più preoccupati per la nostra ridotta capacità di gestire le malattie virali di routine anno dopo anno».

• È «naturale e salutare» esporre i bambini ai virus
  In secondo luogo, spiega il breve saggio su The Free Press, «non è possibile evitare i virus respiratori. Con misure estreme e draconiane, l’esposizione ai virus respiratori può essere ritardata, ma non può mai essere evitata. Gli esseri umani devono respirare ogni minuto di ogni giorno. E, poiché gli esseri umani sono creature sociali, la maggior parte di quel respiro sarà naturalmente molto vicino ad altri esseri umani». Come ogni genitore sa, a un certo punto i bambini si ammalano, e «questo non ha nulla a che fare con un sistema immunitario più compromesso», dice la dott.ssa Danuta Skowronski del British Columbia Center for Disease Control.
  Sembra superfluo sottolinearlo, ma «è naturale, salutare e necessario che i bambini piccoli siano esposti a molti virus. Affinché i bambini possano sviluppare l’immunità ai patogeni comuni, affinché possano sviluppare un sistema immunitario normalmente funzionante, devono avere tale esposizione, che a volte li farà ammalare».
Non solo, aggiunge Prasad:

    Non ci sono prove che gli interventi presunti per fermare Covid-19, influenza e RSV aiuteranno. Prima del Covid-19, le prove a sostegno dell’utilità delle mascherine erano scarse. Sono stato coautore di uno studio sul tema condotto prima dell’avvento del Covid-19, per verificare se le mascherine avessero interrotto la trasmissione di virus respiratori. In quattordici casi su sedici le prove dimostravano che le mascherine erano inefficaci. In altre parole, gli studi pre-Covid dicevano chiaramente che raccomandare le mascherine per le persone normali era inutile. […] Ancora peggio, mancano del tutto le prove del fatto che fare indossare le mascherine ai i bambini piccoli serva a evitare di ammalarsi di Covid-19, influenza e RSV».

• L’utilità delle mascherine ai bambini durante la pandemia? Poca
  Prasad cita due studi internazionali che dimostrano come bambini con le mascherine si ammalavano di Covid nelle stesse percentuali dei loro coetanei che non le indossavano. Non solo, anche dando per sicuro che le mascherine impediscano il contagio, farle indossare a chi è guarito dal Covid (in America 9 bambini su 10, si stima) significa preservarli da una nuova infezione che per loro sarebbe meno grave della comune influenza o persino di alcuni virus del raffreddore.
  «Il Covid-19 ha sconvolto tutti gli aspetti della vita», osserva il professore. «Ha sconvolto l’immigrazione, i viaggi, gli affari, l’istruzione, le pratiche religiose, la vita familiare e la società stessa. Alcune di queste interruzioni hanno interferito con la diffusione di virus respiratori come RSV e influenza. Il fatto che il Covid-19 abbia continuato a diffondersi nonostante tutto questo è una testimonianza di quanto sia contagioso, soprattutto in una popolazione che all’epoca non aveva sostanzialmente alcuna immunità preesistente. Ora che le sospensioni di attività come quelle appena citate non ci sono più, altri virus sono inevitabilmente tornati. Gli ospedali dovrebbero prepararsi a questo».
  Pensare di affrontare in futuro qualunque virus con mascherine a scuola (e sappiamo quanti danni hanno fatto soprattutto ai più piccoli) e suggerendo alle persone di evitare la folla e i luoghi chiusi per paura di ammalarsi, non può reggere. «A tre anni dall’inizio della pandemia ci troviamo di fronte a una domanda cruciale: come vogliamo vivere il resto della nostra vita? Come la maggior parte degli americani e come medico, la mia risposta è clamorosa: normalmente». Passare dalla pandemia di Covid alla pandemia di paura non può essere la soluzione.

(Tempi, gennaio 2023)

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La stella del Medio Oriente che non ha mai brillato

di Mario Bocchio

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Nel 1970, il manager del West Ham United, Ron Greenwood, che inseguiva il concetto del gioco totale, tornò dal Messico con quella che pensava fosse una carta vincente. Era interessato a ingaggiare il capitano e fuoriclasse di Israele, Mordechai Spiegler. Il suo fascino per i talenti d’oltremare ha preceduto di circa otto anni la tendenza della fine degli anni ’70, che ha guadagnato nuove gambe grazie all’audace acquisizione di Ardiles e Villa da parte del Tottenham.
  Ma il 1970 era un periodo diverso. Israele era un argomento che non si adattava a molte persone e la Gran Bretagna era ancora un luogo piuttosto insulare. Spiegler è stato ostacolato dalla burocrazia e per un giocatore maturo con un chilometraggio limitato rimanente nella sua carriera, c’erano troppi ostacoli.
  Spiegler era stato messo in evidenza come uno da tenere d’occhio nella Coppa del Mondo in Messico, anche se Israele, nella sua unica apparizione nelle fasi finali, era considerato modesto ed era sempre alla ricerca della sua giusta collocazione. Il paese ha sempre avuto problemi a trovare una sede adeguata per la sua squadra di calcio: nel 1970 si è qualificato via Asia, ma ha anche trascorso del tempo nella sezione Oceania e oggi si trova in Europa. Le nazioni arabe si sono spesso rifiutate di giocare con Israele e nel 1970 la Corea del Nord si ritirò piuttosto che affrontarlo sul campo di calcio.
  Spiegler è nato a Sochi, in Unione Sovietica, nell’agosto del 1944,  poi la sua famiglia ha cercato rifugio in Israele. Sochi ha svolto un ruolo chiave nella Seconda guerra mondiale, fungendo da enorme ospedale per l’esercito russo sul fronte orientale. Oltre mezzo milione di soldati erano assistiti nei 111 ospedali e la città è stata insignita dell’Ordine della Guerra Patriottica nel 1980. Molte persone hanno viaggiato in varie direzioni nel mondo dalla città negli anni del dopoguerra.
  La famiglia Spiegler si trasferì a Netanya nella pianura di Sharon in Israele quando Mordechai era un ragazzino. La città è stata chiamata così in onore di Nathan Straus del grande magazzino di New York, Macy’s. Posizionata a circa chilometri da Tel Aviv, è diventata la settima città più grande di Israele. Spiegler è entrato a far parte del club locale, il Maccabi Netanya nel 1963, iniziando un lungo rapporto con la squadra della sua città adottiva.
  Spiegler si è fatto un nome sul palcoscenico più importante, giocando nella Coppa d’Asia per Israele nel 1964. Israele è stata la nazione ospitante delle finali a quattro squadre: India, Corea del Sud e Hong Kong erano le altre. Spiegler, l’unico giocatore di Netanya in squadra, ha segnato due gol nelle sue tre partite ed è diventato capocannoniere a pari merito. Israele in precedenza era arrivato secondo sia nel 1956 che nel 1960.
  La squadra israeliana era composta principalmente da colletti blu e coscritti dell’esercito ed era in qualche modo isolata dal resto del mondo. Spiegler ha ricordato alcuni anni dopo: “Abbiamo sentito molto parlare di calcio nel mondo, ma non avevamo una vera connessione, potevamo sentirlo solo alla radio. Il gioco era popolare, ma sapevamo che c’erano questioni più importanti. Giocare a calcio non era una professione”. In effetti, Spiegler era un dilettante con il Netanya, perché lavorava. Ha descritto il successo della Coppa d’Asia del 1964 come “un momento di felicità, di gloriosa celebrazione, un momento che porteremo con noi per sempre”.
  Spiegler ha segnato il gol della vittoria nella prima partita di Coppa d’Asia di Israele contro Hong Kong, una vittoria per 1-0 a Ramat Gan. Ha segnato di nuovo a Jaffa, tre giorni dopo quando l’India è stata battuta 2-0. Alla fine, gli israeliani hanno vinto 2-1 contro la Corea del Sud a Ramat Gan alzando il trofeo.
  Ha spesso affermato che il trionfo di Israele nella Coppa d’Asia è stato il catalizzatore di ulteriori successi, inclusa la qualificazione per la Coppa del Mondo del 1970. Nel frattempo, Israele ha avuto successo alle Olimpiadi del 1968, raggiungendo i quarti di finale. Spiegler ha segnato un gol nelle sue quattro partite.
  Ron Greenwood ha visto Spiegler per la prima volta nel settembre 1968 quando il centrocampista ha segnato quattro volte regalando a Israele il successo sugli Stati Uniti per 4-0 a Philadelphia. Gli Stati Uniti erano allenati da Phil Woosnam  che proveniva dal West Ham e che ha raccomandato Spiegler al suo ex club.
  Quando arrivò il 1970, Spiegler si era costruito una certa reputazione in Israele e, sempre più, all’estero. Era stato giocatore israeliano dell’anno nel 1968, 1969 e 1970 (e di nuovo nel 1971) ed era stato capocannoniere del campionato nazionale nel 1965-‘66, 1966-‘68 e nel 1968-‘69. Era corteggiato da diversi club professionistici, in particolare il Nantes in Francia e il Borussia Mönchengladbach in Germania. Israele si era qualificato eliminando la Nuova Zelanda e l’Australia – la Corea del Nord si era rifiutata di affrontare gli israeliani – con Spiegler che ha segnato il gol fondamentale nella gara di ritorno a Sydney.
  Israele doveva essere tenuto separato dal Marocco nel sorteggio per le finali, ma era considerato una delle squadre più deboli, quindi era improbabile che facesse molti progressi. Spiegler era ritenuto l’unico giocatore decente di Israele, quindi quando è stato colpito da un mal di stomaco a Puebla, c’è stato un certo panico nel gruppo. Spiegler è stato sostenuto da una serie di iniezioni ed è stato dichiarato abbastanza in forma per giocare nella partita di apertura contro l’Uruguay.
  Isrqele ha perso 2-0: “Loro erano più bravi di noi, ma siamo stati sconfitti perché non sapevamo nulla del loro modo di giocare. La federazione israeliana non aveva i soldi per mandare qualcuno a visionarli”, ha detto Spiegler. Sono andati meglio contro la Svezia e dopo essere passati in svantaggio al 53 ‘, Spiegler ha colpito con un sinistro da più di venticinquemetri alle spalle di Sven-Gunnar Larson. Nella loro ultima partita, hanno ottenuto un incredibile pareggio a reti inviolate contro l’Italia, ma non è stato sufficiente per passare alla fase successiva. Il girone, che si era giocato a Puebla e Toluca, aveva visto appena sei gol in sei partite, era stato il girone meno interessante del Mondiale 1970.
  Ma Spiegler e i suoi colleghi avevano difeso bene la bandiera e la loro ricompensa fu una vacanza ad Acupulco. Tornò a casa per aiutare il suo club nel campionato israeliano 1970-‘71, ma non prima di recarsi in Inghilterra su invito di Greenwood.
  Greenwood aveva visto abbastanza dell’elegante centrocampista, che era “snello nella corporatura” e “pulito nel suo lavoro”. La Coppa del Mondo aveva dimostrato che era un giocatore abile contro cui era difficile giocare. Il West Ham aveva perso Martin Peters pochi mesi prima, anche se avevano l’emergente Trevor Brooking nei loro ranghi, insieme ad artisti del calibro di Geoff Hurst, Jimmy Greaves e Bobby Moore.
  Se c’erano punti interrogativi, riguardavano la sua mancanza di ritmo e resistenza. Dopotutto, era un giocatore dilettante la cui esposizione al calcio di alto livello era limitata. Se il West Ham lo avesse ingaggiato, avrebbe dovuto essere a condizioni amatoriali per almeno due anni, dopodiché avrebbe completato la sua maturazione professionale. Lo stesso Spiegler era felice di trovare un lavoro al di fuori del calcio e giocare part-time.
  Il West Ham lo ha schierato in tre partite pre-campionato, la prima a Portsmouth, dove ha segnato un gol. Nella sua seconda apparizione ha giocato mezza partita prima di essere sostituito contro il Bristol City. Il suo terzo e ultimo run-out è stato come sostituto di Brooking nel match contro l’Orient.
  C’erano una serie di problemi da risolvere se Spiegler voleva diventare un giocatore del West Ham. In primo luogo, la federazione israeliana avrebbe dovuto approvare il trasferimento, quindi avrebbe avuto bisogno di un permesso di lavoro e anche il comitato direttivo della Football League avrebbe dovuto approvare il trasferimento. Alla fine, gli ostacoli hanno scoraggiato il West Ham, o forse non erano convinti al cento per cento? Lo stesso Spiegler desiderava trasferirsi in Inghilterra. “Voglio giocare nella Football League perché è la migliore”, ha insistito.
  L’affare sembrava essersi raffreddato per “ragioni tecniche”, ma è stato rivitalizzato circa dodici mesi dopo. Con Spiegler che averva 27 anni, ci si è resi conto che se aveva intenzione di fare una grande mossa, doveva accadere prima piuttosto che dopo. Il Nantes incombeva sullo sfondo con una presunta offerta di 30.000 sterline. Spiegler è volato a Londra per il testimonial di Geoff Hurst, ma Tommy Docherty, responsabile dell’International XI che ha affrontato il West Ham per la partita di beneficenza, lo ha fatto giocare solo come sostituto, nonostante la presenza della tv israeliana alla partita.
  Se Spiegler fosse riuscito a trasferirsi a Londra, la FA israeliana parlava di imporre una squalifica di un anno, che per un giocatore della sua età sarebbe stata letale. Nonostante avesse dichiarato pubblicamente il suo rispetto per Greenwood e il West Ham, ammise anche che l’offerta del Nantes era stata una “grande tentazione”. C’era la sensazione di fondo che Spiegler avesse protetto l’offerta sin dalla sua prima sessione di allenamento con gli Hammers nel 1970.
  Si trasferì in Francia nel 1972 con il Paris FC prima di passare al Paris St. Germain e poi ai New York Cosmos, dove giocò insieme a un altro veterano della Coppa del Mondo del 1970, Pelé. È poi diventato un allenatore.
  In Israele, Spiegler è ancora considerato il loro più grande giocatore di sempre. Un portavoce della Israeli Football League lo ha descritto come un “fantastico modello”. “Il modo in cui si esprimeva nei media era sempre con un occhiolino e un sorriso… aveva una visione che andava oltre il gioco, uno dei più grandi giocatori israeliani, che andava più lontano e influenzava di più”.
  È stato un peccato che il pubblico inglese non sia mai riuscito a vederlo, tutto ciò che possiamo fare è dare un’occhiata a quel gol meraviglioso nella Coppa del Mondo del 1970. Mordechai Spiegler, o per usare il suo soprannome, “Motale”, avrebbe potuto essere una star se solo la burocrazia e la politica non si fossero intromesse.

(Il nobile calcio, 16 gennaio 2023)

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