Inizio - Attualità
Presentazione
Approfondimenti
Notizie archiviate
Notiziari 2001-2011
Selezione in PDF
Articoli vari
Testimonianze
Riflessioni
Testi audio
Libri
Questionario
Scrivici
Notizie 16-31 gennaio 2024


Alla Knesset la sopravvissuta piange il nipote rapito da Hamas

ITA Airways ripristina il Roma-Tel Aviv

FOTO
Davanti alla Commissione della Knesset per i sopravvissuti alla Shoah, Bella Haim racconta il suo 7 ottobre. Ai presenti fa sentire il messaggio vocale del nipote, Yotam, mentre si trova nascosto nel kibbutz Kfar Aza. “Ciao nonna. Sono un po’ preoccupato, ci sono dei terroristi nel kibbutz, ma mi sto prendendo cura di me. Anche tu devi fare attenzione, possono arrivare ovunque”. È l’ultimo messaggio prima del rapimento di Yotam, che sarà poi ucciso a Gaza. “Non credevo che la tua storia sarebbe finita così, bellissimo ragazzo dai capelli rossi e dall’animo buono”. Un dolore indescrivibile, spiega la nonna, scampata alla Shoah, che ha risvegliato traumi del passato. “Sono sopravvissuta e ho combattuto per vivere. Pensavo di aver trovato la pace e di essere felice”, afferma con tristezza Bella. “Ti avevo promesso un mondo nuovo e migliore. Non siamo riusciti a mantenere la promessa. Sto ancora piangendo. Ancora una volta sono stata messa alla prova e cerco di scegliere la vita”.
   Altri sopravvissuti alla Shoah hanno testimoniato l’orrore del 7 ottobre. “Non pensavamo di rivivere un trauma così atroce in Israele”, commenta Simcha Zohar, nonno di Omer Neutra, tra i 135 ostaggi ancora in mano a Hamas. L’accordo per il possibile rilascio dei rapiti è al centro dei negoziati tra Gerusalemme e i terroristi di Gaza. Gli Stati Uniti hanno espresso ottimismo, ma per il momento nulla si è concretizzato. Secondo il Washington Post uno dei termini discussi è il ritiro dall’area centrale di Gaza dell’esercito per sei settimane. Intanto sul terreno le operazioni militari continuano. Nel sud della Striscia sono in corso gli scontri più duri. Nei combattimenti tre soldati sono morti, portando a 223 il numero dei caduti dall’inizio della missione via terra nell’enclave controllata da Hamas. La polizia ha anche reso noto che Ran Gvili, che si pensava fosse tra gli ostaggi, è stato ucciso il 7 ottobre e la sua salma è stata presa dai terroristi.
   Il conflitto è arrivato al suo 117esimo giorno e la fine, sottolineano da Gerusalemme, è ancora lontana. L’operazione militare ha portato a una significativa diminuzione dei razzi contro Israele e anche per questo ITA Airways ha annunciato che riavvierà i voli per Tel Aviv, interrotti con l’aggressione di Hamas. Dal 1° marzo saranno ripristinati gradualmente i collegamenti tra Roma Fiumicino e Tel Aviv Ben Gurion, inizialmente con tre frequenze settimanali (martedì, giovedì, domenica), che verranno incrementate nel corso dell’estate, compatibilmente con l’evoluzione dello scenario geopolitico.

(moked, 31 gennaio 2024)

........................................................


Antisemitismo, impennata nel mondo dall’inizio della guerra a Gaza

LONDRA – Dall’inizio della guerra di Gaza, gli episodi di antisemitismo nel mondo sono aumentati del 235 per cento. La risposta militare di Israele all’aggressione di Hamas del 7 ottobre scorso ha provocato un aumento senza precedenti degli attacchi verbali e fisici contro gli ebrei in Europa, negli Stati Uniti e nel resto del pianeta. È quanto afferma il rapporto annuale pubblicato a Gerusalemme dal ministero della Diaspora in associazione con l’Organizzazione Sionista Mondiale e con l’Agenzia Ebraica, riportato stamane dal Jerusalem Post. Una conferma statistica del messaggio d’allarme pronunciato a Milano nei giorni scorsi dalla senatrice Liliana Segre nelle manifestazioni per il Giorno della Memoria, la ricorrenza internazionale celebrata ogni anno per commemorare le vittime dell’Olocausto.
   Tra ottobre 2023 e il gennaio 2024, secondo il rapporto gli episodi di antisemitismo a livello mondiale si sono moltiplicati per sei rispetto al periodo gennaio-settembre dello scorso anno, ovvero un aumento del 235 per cento. Geograficamente, negli ultimi quattro mesi il Paese con il maggior numero di incidenti di questo tipo è stato l’America, dove se ne sono verificati il 43 per cento, seguita dall’Europa con il 35 per cento. Il rapporto indica anche che in tutto il mondo nel corso del 2023 gli attacchi antisemiti di natura violenta sono aumentati del 33 per cento rispetto all’anno precedente.
   Secondo i dati raccolti dallo studio, il 48 per cento di questi attacchi, ovvero quasi la metà, sono stati in relazione diretta con l’Operazione Spade di Acciaio, come è stata chiamata dal governo di Benjamin Netanyahu la risposta al massacro del 7 ottobre commesso da Hamas nel sud di Israele. Di questi episodi di antisemitismo violento, il 46 per cento sono avvenuti negli Usa, il 16 per cento nel Regno Unito, il 9 per cento in Germania, il 6 per cento in Francia e in Canada, il 2,5 per cento in Australia. Nel periodo della guerra in corso a Gaza, afferma il rapporto, rispetto alla prima parte dell’anno in Francia gli episodi di antisemitismo di qualunque genere, verbale e fisico, sono aumentati del 1.000 per cento, in Canada dell’800 per cento, in America del 337 per cento e in Germania del 320.
   “Questi ultimi mesi sono stati un periodo come nessun altro”, commenta il ministro della Diaspora Amichai Chikli. “L’odio verso Israele nel mondo è il più forte che ci sia stato” dalla fondazione dello Stato ebraico nel 1948 e verso gli ebrei “dagli anni Trenta del secolo scorso”. Continua il ministro israeliano: “In tutto l’Occidente, oggi gli ebrei non si sentono al sicuro. Gli ebrei che parlano ebraico in metropolitana nelle capitali d’Europa rischiano di venire picchiati. Gli ebrei che esibiscono la bandiera di Israele rischiano la vita”.

(la Repubblica, 31 gennaio 2024)

........................................................


Amore fino alla morte

"Fin dove arriva il tuo amore per Israele?". E’ una domanda che i genitori del soldato caduto Urijah Bayer hanno posto ai loro amici cristiani in Germania. In un ricevimento a Gerusalemme, il padre racconta la storia della famiglia.

Gideon Bayer parla ai giornalisti stranieri della morte di suo figlio
GERUSALEMME - In occasione di un ricevimento organizzato dall'Ufficio Stampa del Primo Ministro (GPO) presso il Museo degli Amici di Sion, il tedesco Gideon Bayer ha parlato della morte di suo figlio. Il 14 dicembre, Urijah Bayer è stato gravemente ferito nella Striscia di Gaza. È morto tre giorni dopo per le ferite riportate.
  Lunedì, Bayer ha raccontato ai giornalisti stranieri a Gerusalemme le sue esperienze delle ultime settimane. Di recente era stato in Germania con la moglie Nelli e aveva fatto lo Shiva, il periodo di lutto di sette giorni consueto nella tradizione ebraica. Lì hanno sperimentato molta solidarietà. "Ma come spesso accade qui in Israele, anche in Germania ci hanno chiesto perché nostro figlio avesse prestato servizio nell'esercito israeliano".
  Molti anni fa, i genitori di Bayer hanno fondato in Galilea una Casa di cura per i sopravvissuti all'Olocausto . È gestita dall'organizzazione umanitaria cristiana Zedakah. Urijah e i suoi quattro fratelli sono nati e cresciuti in Israele.
  Quando i razzi di Hezbollah volavano durante la Seconda guerra del Libano nel 2006, i bambini passavano spesso il tempo nei bunker. Lì sentivano che i soldati israeliani li stavano proteggendo. Quando la nostra figlia maggiore è diventata maggiorenne", racconta Bayer, "ci ha detto: "Allora i soldati israeliani si prendevano cura di noi. Oggi voglio prendermi cura degli israeliani". Ha completato il servizio militare di base e anche i suoi fratelli si sono arruolati. Anche se sono cristiani e non sono nemmeno cittadini israeliani.
  Ai giornalisti presenti Bayer ha detto: “Ai nostri amici cristiani ho risposto come è consuetudine in Israele: con una domanda. Ho chiesto loro: "Fin dove arriva il vostro amore per il popolo di Israele?".
  L'amore di Urija non conosceva limiti. Non tutti devono arruolarsi nell'esercito israeliano, ha detto Bayer. “Ma penso che come cristiani credenti dobbiamo farci la domanda: "Fino a che punto arriva il mio amore per il popolo di Israele?"".

(Israelnetz, 31 gennaio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

........................................................


Negoziati a oltranza sulla tregua

Lo Stato ebraico: «Abbiamo avviato l’allagamento dei tunnel di Hamas

TEL AVIV - La proposta dei mediatori è sul tavolo delle parti e si continua a trattare. Ma le priorità di Hamas e Israele per concludere l'accordo sono ad ora opposte. Per questo gli Usa rafforzano il pressing, con il segretario di Stato Antony Blinken che sabato arriverà in Israele per la sesta visita dall'inizio della guerra.
   Hamas ha fatto sapere di aver ricevuto lo schema d'intesa e che una sua delegazione sarà da oggi a Parigi per discuterla. Ma il suo leader Ismail Hanìyeh ha tracciato la cornice entro la quale si muoverà la risposta della fazione.
   «La priorità - ha spiegato - è fermare l'aggressione a Gaza e il completo ritiro delle forze di occupazione dalla Striscia. Siamo aperti a discutere qualsiasi iniziativa o idea seria e pratica», a condizione che porti ad una «cessazione completa» della guerra.
   Un accordo, ha proseguito Haniyeh, che garantisca il ritorno a casa delle persone «costrette a sfollar dall'occupazione, la revoca dell'assedio e la realìzzazione di un serio processo di scambio di prigionieri».
   Sulla stessa lunghezza d'onda il capo della Jihad islamica di Gaza che ha in mano ostaggi israeliani.
   L'organizzazione, ha sottolineato Ziad al-Nakhala, non negozierà accordi sui rapiti se non ci sarà un «cessate il fuoco globale e un ritiro delle forze israeliane d Gaza», secondo alcune indiscrezioni fatte trapelare da Hamas, la bozza di accordo prevede tre fasi con il rilascio di ostaggi e detenuti palestinesi. Nella prima fase sarebbero liberati donne, bambini e anziani israeliani; nella seconda tutti i soldati dello Stato ebraico; nella terza ci sarebbe la restituzione dei cadaveri. Le parti metterebbero fine alla guerra (Hamas si è detto disponibile a farlo anche «per gradi») nel corso delle tre fasi. La stessa fonte ha spiegato che non è stato ancora deciso invece il numero dei detenuti palestinesi che Israele dovrebbe rilasciare. Fonti arabe parlano dell'inizio del mese di Ramadan, l'11 marzo, come una data possibile per la fine dei combattimenti. «Non ritireremo l’esercito da Gaza e non libereremo migliaia di detenuti palestinesi, niente di tutto questo accadrà», ha però avvertito il premier israeliano Benjamin Netanyahu dopo l'altolà arrivatogli dalla destra radicale presente nel suo governo.
   Un'intesa con Hamas sarebbe «irresponsabile», ha tuonato infatti il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir, che ha minacciato «la spaccatura del governo. Al 116esimo giorno di guerra, l'Idf sta colpendo sempre di più a Khan Yunis, nel sud della Striscia: in particolare sono state centrate le postazioni di Hamas da cui lunedì è partita una salva di razzi verso Tel Aviv.
   L'esercito ha poi annunciato che è già stato avviato l'inizio dell'allagamento sistematico di tunnel di Hamas. «Abbiamo raggiunto - ha spiegato - la capacità operativa che ritenevamo necessaria. L'incanalamento dell'acqua avviene già nei siti ritenuti idonei». Questo genere di operazioni, secondo l'esercito, rappresenta una svolta di ingegneria e di tecnologia «significativa» nella sfida rappresentata dalle strutture sotterranee di Hamas. A Gaza, la Mezzaluna Rossa di Khan Yunis ha denunciato che i soldati israeliani «hanno preso d'assalto il cortile anteriore dell'edificio dell'organizzazione e dell'ospedale Al-Amal» della città.
   I morti nella Striscia - secondo il ministero della Sanità di Hamas, che non distingue tra civili e miliziani - sono arrivati a 26.751, con 65.636 feriti.

(ANSA, 31 gennaio 2024)

........................................................


Oggi antisemitismo e antisionismo sono facce della stessa medaglia. Per il dopo Gaza servirebbe una coalizione internazionale"

Il vicepresidente dell'Herzl Institute di Gerusalemme, Ofir Haivry è stato ospite ad Asti dell'Associazione Italia e Israele. Con lui abbiamo parlato della situazione nello stato ebraico dopo gli attacchi del 7 ottobre

di Alessandro Franco

C'era una nutrita presenza delle forze dell'ordine, ieri pomeriggio davanti al ristorante Francese di Asti, sede dell'incontro, organizzato dall'Associazione Italia Israele, con Ofir Haivry, vicepresidente dell'Herzl Institute di Gerusalemme.
  Segno questo che la tensione che in queste settimane si manifesta in molte nazioni fa capolino anche nel nostro piccolo angolo di mondo. Da una parte una guerra atroce, che ha fatto fino ad ora più di ventiseimila morti, tra cui tantissimi bambini, dall'altra gli attacchi spietati di Hamas del 7 ottobre scorso. In mezzo, le tante manifestazioni, molte pro Palestina, che si tengono incessantemente in queste settimane. Se molte sono pacifiche, altre, purtroppo, hanno dato il via ad una drammatica spirale di odio e feroce critica verso lo Stato di Israele. Che in molti caso sono sfociati in atti di vero e proprio antisemitismo.
  A presentare l'ospite, già componente del Consiglio per l'Alta educazione dello Stato di Israele e della commissione bilaterale tra Italia e Israele per la cooperazione accademica, il presidente dell'Associazione Italia Israele Luigi Florio e il presidente del Rotary Maurizio Mela (Haivry in serata è stato protagonista di una conviviale del club ndr). 
  "Il professore viene spesso in visita in Italia toccando diverse città italiane  - ha spiegato Florio - questa volta, i drammatici eventi che si stanno susseguendo dal 7 ottobre hanno portato Haivry da noi a spiegare come è la vera realtà dei fatti nella società israeliana". 

- Professor Haivry, si parla di Israele come un regime di Apartheid. La tocca questa accusa?
  E' una negazione prima di tutto storica e logica. L'apartheid è un regime che appartiene ad un altro stato, il Sudafrica, e ad un altro tempo. Pensare di applicarlo oggi allo stato di Israele è assurdo. La società israeliana è basata su criteri di equità e di uguale accesso alle cariche pubbliche ed elettive in ogni settore della società: abbiamo giudici arabi, cristiani e maroniti. Così come nell'ambito accademico: nel Consiglio in cui facevo parte c'erano appartenenti di diverse etnie e religioni. Anzi, se in alcuni ambiti una determinata fetta della società e sottodimensionata, si provvede a ristabilire l'equilibrio. E' apartheid questa?

- A proposito di Sudafrica, vi ha trascinato alla corte dell'Aia con l'accusa di genocidio. 
  Non esistono i presupposti. Genocidio vuol dire andare in un villaggio, prendere tutta la popolazione con determinate caratteristiche ed eliminarla. Non è quello che sta facendo Israele, che vuole solo creare le condizioni di sicurezza affinché i profughi israeliani, attualmente circa 250mila sfollati all'interno del paese, possano tornare al sicuro all'interno delle loro case. Se c'è qualcuno che inneggia al genocidio, del popolo ebraico, quella è Hamas. "From the river to the sea": dal fiume Giordano al mar Mediterraneo non deve più esistere un ebreo. Questo è il canto di Hamas, questo fanno intonare ai bambini.  

- Non c'è dubbio che la forza militare di Israele si imponga a Gaza. Ma dopo?
  Guardi, per trattare la pace bisogna trovarsi di fronte ad uno stato. Ma ad oggi, tra i vicini di Israele, solo due nazioni hanno governi in grado di prendere decisioni: Egitto e Giordania, con cui Israele ha normalizzato i rapporti e altre aperture diplomatiche potrebbero arrivare con gli accordi di Abramo (che interesserebbero l'Arabia Saudita ndr). Ma oggi i vicini di Israele sono stati falliti, in mano a milizie che controllano parti di paese e spesso con società in preda al caos. Il Libano non controlla il paese, ma una serie di milizie di cui Hezbollah è la più importante e prende ordini da Teheran. Idem per la Siria o per lo Yemen. Sono  stati con cui non è possibile avere un dialogo, se vogliamo sono molto più vicini al vostro concetto di mafia. Sono milizie non riconosciute, che non si possono neanche accusare e trascinare davanti alla corte dell'Aia. Per quello Israele sta portando avanti una politica militare di sicurezza che spinga queste bande in là dai propri confini. Per il dopo Gaza, io auspico, se mai sarà possibile, una soluzione che veda una forza di coalizione internazionale che amministri la striscia, con alla guida stati arabi moderati, come l'Egitto. 

(La Voce di Asti, 31 gennaio 2024)

........................................................


Biden ostacola gli sforzi bellici di Israele

Biden sta "ostacolando in qualche modo lo sforzo bellico con il suo desiderio di costringere Israele a impegnarsi in quello che lui chiama 'combattimento a bassa intensità'... Questo è il tipo di messaggio che l'America sta inviando a Israele", ha detto David Friedman in un'intervista con Yonit Levi di Channel 12. "Penso che abbia davvero fatto delle affermazioni inappropriate.
  "Penso che abbia fatto commenti inappropriati. Ha parlato di bombardamenti indiscriminati perpetrati da Israele, che ritengo una vera e propria menzogna. Penso che continui a parlare della necessità di imporre una soluzione a due Stati, cosa che ritengo inappropriata in questo momento".
  In un post del 12 ottobre su X, Friedman si era detto "profondamente grato" per il sostegno di Biden dopo il brutale massacro di 1.200 persone, per lo più civili, perpetrato da Hamas nella regione nord-occidentale del Negev in Israele.
  "Nell'ebraismo c'è l'obbligo di mostrare 'Hakarat Hatov' - di ringraziare coloro che compiono buone azioni. Sebbene io sia molto critico nei confronti dell'amministrazione Biden, il sostegno morale, tattico, diplomatico e militare che ha dato a Israele negli ultimi giorni è stato straordinario", ha twittato all'epoca.
  "Ho l'impressione che l'impegno del Presidente stia scemando mentre Biden cerca di conciliare i suoi diversi interessi politici", ha dichiarato Friedman a Channel 12 lunedì.
  Friedman ha servito per quattro anni sotto l'amministrazione Trump, che ha intrapreso una serie di azioni accolte con favore da Israele e dai suoi sostenitori, tra cui il ritiro dall'accordo nucleare con l'Iran del 2015.
  "Tutte queste attività risalgono a un Iran forte", ha detto Friedman, riferendosi agli attacchi di Hamas e Hezbollah. "Quando abbiamo lasciato l'incarico, l'Iran era debole e penso che se fossimo ancora in carica, l'Iran sarebbe ancora debole".
  "Nei quattro anni in cui sono stato ambasciatore, ci sono stati attacchi da parte di Hamas - in nessun momento gli Stati Uniti hanno ammanettato Israele o limitato la sua capacità di risposta", ha aggiunto.
  La Casa Bianca guidata da Biden starebbe esplorando la possibilità di utilizzare le spedizioni di armi a Israele per fare pressione sul Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu affinché riduca la guerra contro Hamas e permetta l'ingresso di maggiori aiuti umanitari a Gaza, ha riferito domenica NBC News.
  Su indicazione della Casa Bianca, il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti sta esaminando le armi richieste da Gerusalemme che potrebbero essere utilizzate come leva, hanno riferito funzionari attuali e precedenti.
  Le armi in discussione includono proiettili d'artiglieria da 155 mm e kit di guida per bombe JDAM (Joint Direct Attack Munitions), che consentono alle forze israeliane di colpire con precisione i terroristi ed evitare inutili vittime civili a Gaza, ha aggiunto la NBC.
  John Kirby, coordinatore per le comunicazioni strategiche presso il Consiglio di sicurezza nazionale degli Stati Uniti, è sembrato smentire la notizia più tardi, domenica, dicendo ai giornalisti: "Non c'è stato alcun cambiamento nella nostra politica".
  L'8 gennaio, il portavoce dell'IDF, il contrammiraglio Daniel Hagari, ha dichiarato al New York Times che Israele è passato a una nuova e meno intensa fase della sua guerra contro Hamas, cedendo alle ripetute richieste di Washington. Hagari ha dichiarato che l'offensiva israeliana aveva già iniziato la transizione verso una campagna che avrebbe comportato un minor numero di truppe di terra e di attacchi aerei.
  Esattamente una settimana dopo, il ministro della Difesa Yoav Galant ha convocato una conferenza stampa per annunciare l'imminente fine dei pesanti combattimenti nel nord e nel sud della Striscia di Gaza. "La manovra intensiva
  La fase di manovra intensiva nel nord della Striscia di Gaza è terminata e presto terminerà anche nel sud", ha spiegato Galant.

(Israel Heute, 31 gennaio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

........................................................


"Israele cambia marcia: tunnel allagati a Gaza e blitz in ospedale travestiti da medici"

Nuova strategia anche per venire incontro alle richieste del tribunale dell’Aja. A Jenin un commando ha eliminato tre jihadisti con uno spettacolare raid

di Maurizio Stefanini

Militari israeliani travestiti da medici e pazienti arabe uccidono tre esponenti palestinesi in un ospedale a Jenin, in Cisgiordania; i tunnel a Hamas inondati con acqua marina. Il tribunale dell’Aja ha riconosciuto che Israele ha diritto alla difesa militare, se previene la possibilità di una escalation genocidaria verso la popolazione civile; Israele fa capire sia ai tribunale che ad Hamas che allora è pronta a modificare il suo modo di operare, così da non offrire ai terroristi alcun quartiere.
   I media israeliani e quelli palestinesi riferiscono che l'operazione israeliana all'ospedale Ibn Sina è durata solo 10 minuti: i militari sono entrati nella struttura alle 5h30 del mattino locali (le 6h30 in Italia) travestiti da medici, infermieri e donne palestinesi, si sono diretti verso un nascondiglio al terzo piano e hanno ucciso i tre utilizzando pistole dotate di silenziatore prima di fuggire incolumi dall'edificio. In una dichiarazione congiunta, l'esercito, la sicurezza interna e la polizia israeliana hanno affermato che nell'operazione a Jenin «sono stati uccisi tre terroristi» che si nascondevano nell'ospedale locale, indicando che il primo era «Mohammed Jalamneh, un terrorista di Hamas» 27enne che «progettava un attacco ispirato al 7 ottobre». Secondo l’Idf, ha armato altri jihadisti per un attacco a fuoco ed è stato ferito in precedenza mentre avanzava durante un attacco con un'autobomba. Gli altri due sono - secondo la stessa fonte - Mohammed Ghazawi «un operativo dei Battaglioni Jenin» e suo fratello «Basel Ghazawi, della Jihad islamica».
   L’uno avrebbe partecipato «a varie attività terroristiche, tra cui sparare contro le forze dell'IDF nella zona». L’altro era un miliziano «coinvolto in attività terroristiche» a Jenin dove viveva.
   Un video diffuso sul web e ripreso dai media israeliani, mostra alcuni del commando dell'Idf apparentemente travestiti anche da dottori o da donne palestinesi. Le forze speciali israeliane sono entrate nell'ospedale a Jenin «individualmente: uno era vestito da donna, l'altro da persona anziana, uno da staff del luogo mentre un altro ancora aveva in mano un seggiolino da bambino». Lo ha detto ad Haaretz una fonte medica del nosocomio che era presente all'operazione dei gruppi speciali israeliani. «Dopo che si sono riuniti al terzo piano, sono andati nella stanza dove c'erano i tre, hanno sparato loro a bruciapelo e se ne sono andati», ha aggiunto spiegando che in quello stesso reparto c'erano altre 10 persone e nessuno di loro è stato ferito.
   Secondo la stessa fonte il video circolato sui social mostra la fine dei fatti, quando i tre hanno lasciato l'ospedale; inoltre, nessuno dell'ospedale si è accorto dell'ingresso delle forze speciali nel complesso medico.

• EVITATE NUOVE STRAGI
  Per lungo tempo secondo l’Idf, «i sospetti si sono nascosti negli ospedali e li hanno usati come base per programmare attività terroristiche e condurre attacchi terroristici, nella convinzione che lo sfruttamento degli ospedali servisse loro come protezione contro le attività di controterrorismo della sicurezza israeliana. Questo è un altro cinico esempio dell'uso delle aree civili e degli ospedali come rifugi e scudi umani da parte delle organizzazioni terroristiche». «È un crimine vile che non sarà senza risposta», ha commentato Hamas su Telegram, dicendo di «piangere i martiri» uccisi dall'esercito israeliano mentre si nascondevano in ospedale a Jenin.
   Secondo Hamas «le forze della resistenza, che hanno giurato di combattere l'occupazione fino alla sua espulsione, non sono intimidite dagli omicidi o dai crimini del nemico». Le forze armate israeliane hanno inoltre confermato di aver allagato dei tunnel nella Striscia di Gaza nel tentativo di distruggerli. La notizia era già circolata sulla stampa ma non c'era mai stata una conferma ufficiale. L'Idf ha precisato che l'acqua di mare è stata pompata solo in alcuni tunnel adatti, senza compromettere le acque sotterranee.
   Dal punto di vista politico, intanto, Netanyahu è tornato a ribadire che Israele non lascerà Gaza né libererà terroristi. «Non rimuoveremo le forze israeliane dalla Striscia di Gaza e non rilasceremo migliaia di terroristi» ha detto agli studenti dell’accademia pre-militare Bnei David a Eli.
   E che Israele manterrà il controllo militare della Striscia di Gaza dopo la fine della guerra, sul modello attualmente in atto in Cisgiordania, lo ha detto anche il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, ai membri della commissione Esteri e Difesa della Knesset

Libero, 31 gennaio 2024)

........................................................




........................................................


La UNRWA è un abominio creato per nuocere a Israele

Tutti i perché di una agenzia ONU creata apposta per nuocere alla pace, i numeri e il paragone con la UNHCR

di Maurizia De Groot Vos

UNRWA, ovvero Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel vicino oriente, un nome che dice tutto e non dice niente.
  Tecnicamente la UNRWA dovrebbe fare per i palestinesi e solo per i palestinesi quello che fa la UNHCR per tutto il reso del mondo, ma con alcune differenza non da poco.
  Analizziamo queste differenze. Innanzi tutto lo scopo e l’ampiezza del mandato. La UNHCR è l’agenzia delle Nazioni Unite specializzata nella gestione dei rifugiati; fornisce loro protezione internazionale ed assistenza materiale, e persegue soluzioni durevoli per la loro drammatica condizione. Opera in 130 paesi assiste circa 60 milioni di persone con poco più di 17.800 dipendenti e ha un budget di 9,1 miliardi di dollari.
  La UNRWA è un’agenzia di soccorso, sviluppo, istruzione, assistenza sanitaria, servizi sociali e aiuti di emergenza a oltre cinque milioni di rifugiati palestinesi che vivono in Giordania, Libano, Siria, Cisgiordania e Striscia di Gaza. Per fare questo può disporre di oltre 13.000 dipendenti e un budget di oltre 1,23 miliardi di dollari. Fate voi le debite proporzioni.

• Un po’ di storia per capire meglio
  Quando nel 1948 nacque lo Stato di Israele circa 800.000 ebrei vennero cacciati dai Paesi arabi dove vivevano da generazioni e furono costretti a reinsediarsi da altre parti. Come ogni profugo del mondo si adattarono e ripresero in mano la loro vita. Così non fu per gli arabi che volontariamente se ne andarono da Israele, circa 700.000 che al contrario degli ebrei dopo oltre 70 anni vivono ancora alle spalle della comunità internazionale senza pensare minimamente di dover crearsi una propria vita e un proprio futuro.
  Il peccato originale è stata la creazione della UNRWA (United Nations Relief and Works Agency) una agenzia ONU dedicata esclusivamente ai palestinesi che, al contrario della sua sorella UNHCR (United Nations High Commissioner for Refugees) invece che lavorare per ridurre il numero dei profughi lavora per aumentarli ogni giorno dato che, in violazione di ogni norma del Diritto Internazionale, permette di tramandare lo status di rifugiato di padre in figlio. Il risultato è stato la lievitazione artificiosa del numero dei profughi palestinesi da appena 700.000 a oltre cinque milioni. Mentre la UNHCR lavora ogni giorno per i profughi nel rispetto del Diritto Internazionale promuovendo la risoluzione dei loro problemi, la UNRWA lavora ogni giorno per crearne di nuovi. E’ un ciclo vizioso che sta creando un problema insormontabile per qualsiasi soluzione al conflitto arabo-israeliano.
  E’ quindi palese che la creazione della UNRWA e che la conseguente decisione del tutto illegale di trasmettere lo status di rifugiato di padre in figlio facendo artificiosamente aumentare a dismisura i numeri, è solo il punto iniziale di una strategia volta alla creazione di un popolo inesistente, quello palestinese, che di fatto sta bloccando ogni proposta di soluzione del conflitto arabo-israeliano.
  Ora, questa cosa l’hanno capita prima gli arabi degli occidentali tanto che ormai da tempo i paesi arabi hanno diminuito o addirittura azzerato gli aiuti alla UNRWA consapevoli che è un pozzo senza fine il quale cresce a dismisura ogni anno e che di fatto è il più grosso ostacolo alla normalizzazione tra Israele e Paesi arabi.

(Rights Reporter, 30 gennaio 2024)


*


L'UNRWA contribuisce alla guerra per la distruzione di Israele

La rivelazione dei legami tra l'Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione e Hamas è solo una piccola parte del problema. Il vero problema è lo scopo dell'istituzione, che è sempre stato quello di perpetuare il conflitto.

Non entreremo nei dettagli della controversia che ha fatto notizia lo scorso fine settimana quando è stato rivelato che 12 membri del personale dell'Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l'Occupazione dei Rifugiati Palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA) avevano preso parte ai pogrom di Hamas nel sud di Israele il 7 ottobre. Il New York Times ne ha dato notizia e molti dei governi che finanziano principalmente l'UNRWA, compresi gli Stati Uniti, che sono il principale donatore con 422 milioni di dollari nel 2023, hanno da allora espresso vari gradi di preoccupazione o di indignazione.
   Nessuno che conosca l'UNRWA può fingere di essere sorpreso dagli eventi. L'affermazione di alcuni apologeti, secondo cui le persone coinvolte negli attacchi terroristici sarebbero solo una piccola minoranza dei 13.000 dipendenti, non va presa sul serio. Come ha riportato successivamente il Wall Street Journal, si stima che il 10% del personale dell'UNRWA sia membro attivo di Hamas o della Jihad islamica palestinese o abbia legami con loro.
   È noto da anni che le strutture dell'UNRWA, comprese le scuole e altri luoghi che dovrebbero servire a scopi caritatevoli, sono state usate impropriamente da Hamas o come depositi di armi o per sostenere i terroristi. I programmi educativi dell'UNRWA sono altrettanto negativi di quelli di Hamas o dell'Autorità Palestinese quando si tratta di inculcare l'odio verso Israele e gli ebrei nei giovani palestinesi. La fondazione dell'UNRWA nel 1949, le sue attività e le infrastrutture che ha costruito da allora sono state concepite per perpetuare il conflitto con Israele. Dimenticate la filantropia o, come tutte le altre organizzazioni di rifugiati del mondo, l'insediamento dei rifugiati di guerra in un luogo sicuro dove poter ricominciare.
   Detto questo, il fatto che alcuni membri del personale dell'UNRWA siano stati coinvolti negli attacchi del 7 ottobre, compreso il coinvolgimento diretto in rapimenti e omicidi di massa, è un pensiero sconvolgente.
   Purtroppo, lo è anche gran parte della discussione sulla responsabilità dell'UNRWA.

• UN'ORGANIZZAZIONE ONU SENZA RESPONSABILITÀ
  Con orrore degli odiatori di Israele, come la deputata Alexandria Ocasio-Cortez (D-N.Y.), l'amministrazione Biden ha annunciato che avrebbe interrotto i finanziamenti all'UNRWA. A un'analisi più attenta, tuttavia, si scopre che gli Stati Uniti continueranno a erogare i fondi già promessi, ma sospenderanno i finanziamenti solo per i nuovi progetti. Lo stesso vale per Germania e Canada e per alcuni altri Paesi donatori. Il governo olandese ha cancellato tutti i finanziamenti, ma altri Paesi, come l'Irlanda, la Spagna e la Turchia, si rifiutano di intervenire per responsabilizzare l'UNRWA.
   Se il passato è indicativo del futuro, anche coloro che si sono espressi sulla questione, come gli Stati Uniti, alla fine riprenderanno, anche se in sordina, a finanziare completamente l'UNRWA. Nell'ambito della sua politica di ritenere i palestinesi e coloro che li sostengono responsabili del loro sostegno al terrorismo e del loro rifiuto della pace, l'ex presidente Donald Trump ha tagliato tutti i legami con l'UNRWA e i suoi finanziamenti nel 2018. Quando Joe Biden è entrato in carica nel 2021, uno dei suoi primi atti è stato quello di invertire la rotta e riprendere i finanziamenti. Biden e il suo team di politica estera sono sostenitori incrollabili delle Nazioni Unite e di tutte le loro attività, nonostante siano state a lungo un rifugio per l'antisemitismo.
   Anche i funzionari governativi che affermano più chiaramente il diritto di Israele all'autodifesa - come John Kirby, direttore delle comunicazioni del Consiglio di Sicurezza Nazionale, che denuncia Hamas e sostiene l'obiettivo della sua eliminazione - difendono l'UNRWA. Kirby ha detto che l'UNRWA sta facendo "un lavoro straordinario" e salva vite umane. Sorprendentemente, ha persino elogiato l'organizzazione per la sua volontà di indagare sul problema.
   È impossibile immaginare i palestinesi di Gaza senza l'UNRWA. Come è stato negli ultimi 75 anni, è la principale organizzazione di soccorso per una popolazione che dipende dalla comunità internazionale per tutto, compreso il lavoro. In quanto tale, può presentarsi al mondo come l'epitome della filantropia, fornendo cibo a un numero enorme di persone bisognose.
   Pertanto, qualsiasi tentativo di indagare sulle sue attività e di penalizzarla per i suoi stretti legami con i terroristi viene sempre respinto sottolineando il suo buon lavoro e l'idea che milioni di persone morirebbero di fame se venisse chiusa.
   Anche se l'UNRWA fosse colta in flagrante mentre stocca razzi da lanciare contro Israele, o anche se i suoi dipendenti fossero attivamente coinvolti nel più grande omicidio di massa di ebrei dopo l'Olocausto, la probabilità che l'organizzazione madre o i vari Paesi che hanno speso miliardi di dollari delle tasse dei loro cittadini per finanziare l'UNRWA facciano qualcosa di diverso dallo schiaffeggiarla è estremamente bassa.
   Come per le altre azioni intraprese da Trump per ignorare i consigli dell'establishment della politica estera e degli "esperti", anche sull'UNRWA aveva ragione. L'unica speranza teorica di pace tra Israele e i palestinesi deve iniziare con l'abolizione delle istituzioni che non solo sostengono e danno lavoro ai terroristi, ma perseguono anche il futile obiettivo di distruggere l'unico Stato ebraico al mondo. L'UNRWA non deve essere solo alleggerita finanziariamente. Deve essere abolita.

• UN MONDO PIENO DI RIFUGIATI
  L'esistenza dell'UNRWA è una conseguenza del modo in cui la comunità internazionale ha impedito una soluzione al conflitto.
   Quando l'UNRWA fu fondata dalle Nazioni Unite nel 1949, la condizione dei rifugiati era uno dei problemi più urgenti del mondo. Fino a 60 milioni di persone erano state sfollate dall'Europa durante e subito dopo la Seconda guerra mondiale.
   Tra loro c'erano ebrei sopravvissuti all'Olocausto e desiderosi di emigrare in Israele o in Occidente, oltre a milioni di altre persone che erano state sradicate per un motivo o per l'altro. Tra questi c'erano anche tedeschi etnici, espulsi dalle loro case in tutta l'Europa orientale, comprese aree tradizionalmente tedesche come la Prussia orientale. Mentre l'Europa si adeguava ai nuovi confini, in gran parte su richiesta dell'Unione Sovietica, molte persone furono trasferite con la forza e invitate a stabilirsi in luoghi dove la loro etnia era ben accetta. Coloro che si opposero non furono sostenuti dalla comunità internazionale. Furono violentemente repressi, imprigionati e dimenticati.
   L'Europa non era l'unica regione con una crisi di rifugiati. Quando la Gran Bretagna abbandonò il suo dominio sull'India, il subcontinente fu diviso in due nazioni separate: un'India prevalentemente indù e un Pakistan musulmano. Quando queste linee furono tracciate sulla mappa, 14 milioni di persone si trovarono dalla parte sbagliata dei nuovi confini e divennero rifugiati. Più di un milione di persone morirono in esplosioni di violenza a sfondo etnico e religioso, mentre vaste popolazioni cercavano una nuova casa.

• RIFUGIATI ARABI ED EBREI
   Contemporaneamente alla catastrofe della spartizione dell'India, emerse il problema dei rifugiati causato dal ritiro della Gran Bretagna da un altro dei suoi ex possedimenti, la Palestina mandataria. Le Nazioni Unite votarono a favore della divisione della Palestina in due Stati: uno per gli ebrei e uno per gli arabi, con Gerusalemme come enclave internazionale. Mentre gli ebrei accettarono il piano di spartizione, gli arabi lo rifiutarono. I principali arabi palestinesi, come il Mufti di Gerusalemme, Haj Amin Al-Husseini, filo-nazionalista, dichiararono guerra agli ebrei. Gli Stati arabi confinanti li appoggiarono e attaccarono il neonato Stato di Israele il primo giorno della sua esistenza, nel maggio 1948.
   Oltre al fallimento della guerra araba per distruggere Israele, i combattimenti spinsero centinaia di migliaia di arabi a fuggire dal territorio dell'ex Mandato. Una piccola minoranza fu espulsa dagli israeliani durante i feroci combattimenti in alcune aree. Tuttavia, la maggior parte lasciò il Paese per paura di ciò che sarebbe accaduto loro se fossero caduti sotto il dominio ebraico (e nell'aspettativa che avrebbero preso l'intero Paese se gli ebrei fossero stati "gettati in mare"). Questo era principalmente il risultato di proiezioni, poiché in molti casi gli ebrei che erano stati catturati dai loro nemici venivano massacrati. Ma era anche il risultato della propaganda della parte araba durante i combattimenti, che mirava a demonizzare i nemici e a rafforzare la volontà di combattere degli arabi palestinesi.
   Nello stesso periodo in cui circa 700.000 arabi divennero profughi, circa 800.000 ebrei fuggirono o furono costretti a lasciare le loro case nel mondo arabo e musulmano, dove avevano vissuto per secoli. Gli atteggiamenti molto diversi di queste due popolazioni dicono tutto quello che c'è da sapere sui successivi 75 anni di conflitto arabo-israeliano.
   I rifugiati ebrei furono reinsediati nell'ambito di uno sforzo filantropico su larga scala finanziato da ebrei di tutto il mondo. La maggior parte di questi rifugiati si recò in Israele, dove incontrarono difficoltà in quello che allora era un Paese molto povero e in difficoltà. Oggi i loro discendenti costituiscono circa la metà della popolazione ebraica e hanno dato un enorme contributo alla difesa del Paese e alla sua ascesa a Stato moderno. Altri hanno trovato una nuova casa negli Stati Uniti e in altre parti del mondo.
   A differenza di tutti gli altri gruppi di rifugiati, gli arabi palestinesi non sono stati reinsediati. Sono stati tenuti in campi in tutto il Medio Oriente, con la più grande concentrazione nella Striscia di Gaza, controllata dall'Egitto dal 1949 al 1967. È stato impedito loro di trovare una nuova casa nei Paesi arabi e musulmani dove parlavano la stessa lingua e avevano una cultura comune. Non è stato nemmeno permesso loro di costruirsi una nuova vita altrove.
   Sono stati invece tenuti sul posto, in attesa del giorno in cui sarebbero potuti tornare "a casa" nei loro vecchi villaggi in quello che oggi è Israele. I loro leader e il resto del mondo arabo erano contrari al loro reinsediamento e fecero di tutto per impedirlo.
   E l'organizzazione che ha favorito questa politica per generazioni non è stata altro che l'UNRWA.
   È importante sapere che all'epoca in cui sono sorti tutti questi problemi di rifugiati, le Nazioni Unite hanno istituito due organizzazioni per i rifugiati. Una, l'UNRWA, si occupa solo dei palestinesi. L'altra, l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), è responsabile di tutti gli altri rifugiati del mondo.
   L'UNHCR ha le sue debolezze, ma il suo compito è quello di aiutare i rifugiati, non solo fornendo loro aiuti d'emergenza quando sono sfollati a causa di guerre o altre calamità, ma anche aiutandoli a reinsediarsi in luoghi sicuri. Il suo obiettivo è garantire che i loro problemi siano risolti e che i loro figli possano iniziare una nuova vita invece di continuare a vivere nei campi.
   L'UNRWA, invece, esiste solo per garantire che i rifugiati palestinesi non vengano mai reinsediati. Per questo motivo, quasi tutte le persone etichettate come rifugiati palestinesi sono discendenti di persone fuggite dalla guerra iniziata dal mondo arabo nel 1948. Diverse generazioni sono nate nei campi, ma a differenza del trattamento riservato ad altri gruppi di popolazione, a tutti loro viene riconosciuto lo stesso status dei rifugiati originari del 1948.
   Una politica umana e ragionevole avrebbe portato alla loro integrazione negli altri gruppi di popolazione. Ma non è questo il compito dell'UNRWA. L'UNRWA gestisce l'ultimo stato sociale, dove le generazioni sono tenute a dipendere dalle elemosine. Peggio ancora, i suoi programmi e le sue politiche incoraggiano i palestinesi a credere che un giorno Israele cesserà di esistere e loro potranno tornare dove vivevano i loro nonni e bisnonni tre quarti di secolo fa. Sebbene sostenga di essere una forza umanitaria, incoraggia i suoi protetti a guardare al giorno in cui l'obiettivo genocida di Hamas - l'omicidio di massa dei sette milioni di ebrei di Israele - sarà raggiunto.
   Non sorprende quindi che l'UNRWA sia piena di sostenitori di Hamas e che tra il suo personale vi siano persone che partecipano alle atrocità terroristiche. E che molti degli aiuti che riceve dal mondo aiutino Hamas a continuare a funzionare. L'UNRWA sta permettendo che proprio le persone che i suoi donatori credono di aiutare vengano usate come scudi umani in una guerra cinica e inutile.
   Non perdiamo quindi tempo a discutere sui dettagli della complicità dell'UNRWA con il 7 ottobre o con altri atti di terrorismo. L'unica discussione da fare riguarda l'abolizione dell'UNRWA e la sua sostituzione con una vera agenzia per i rifugiati. Il mondo ha bisogno di un'agenzia di questo tipo che sia in grado di dare ai palestinesi una nuova casa, invece di tenerli in miseria e in attesa di un nuovo Olocausto degli ebrei che, secondo loro, risolverà magicamente i loro problemi.

(Israel Heute, 30 gennaio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

........................................................


I video agghiaccianti dei bimbi arabi che dicono di volere uccidere ebrei

di Amedeo Ardenza

Mais Jingilani avrà otto anni, le trecce che le incorniciano il volto e i denti un po' in disordine tipici della sua età. Mais frequenta una scuola dell'Unrwa a Shuafat, sobborgo di Gerusalemme est. È una bambina piccola ma ha le idee chiare: «Dobbiamo fare la guerra agli ebrei e fargli vedere che noi siamo più forti».
  Ne è convinta anche una sua amichetta, il cui nome non compare nel video. Lei, più paffutella, non ha le trecce ai lati del viso ma i capelli intrecciati dietro alla testa: «Il popolo ama la Palestina ed è pronto a morire per la Palestina. lo voglio andare in guerra». Parole che stridono con l'età e l'aspetto di chi le proferisce ma le bambine confermano i loro proclami in mezzo alla classe, senza pudore. Sono, insomma, molto bene indottrinate. Le due ragazzine appaiano all'inizio di un video che circola sul social X nel profilo di Imam for Peace, un religioso islamico schierato contro l'estremismo musulmano. Dopo di loro parla Atif Sharha, preadolescente palestinese dai capelli cortissimi, anche lui della scuola Unrwa di Shuafat. «A scuola ci insegnano che (la moschea di) Al-Aqsa e tutta la Palestina sono nostre». Della moschea parla anche Abed El-Rahman Yarmur, studente della scuola Unrwa di Qalandia, fra Gerusalemme e Ramallah: «Gli ebrei mentono dicendo che il loro tempio è sotto la moschea, ma non c'è mai stato un tempio lì"» Anche Abed è bene indottrinato dagli insegnanti dell'Unrwa, l'agenzia dell'Onu dedicata all'assistenza ai rifugiati palestinesi e solo a loro. Tutti gli altri profughi del mondo possono farsi aiutare dall'Unhcr, l'Alto commissariato delle Nazioni Unite a loro dedicato. Per i palestinesi c'è invece un'agenzia ad hoc, naturalmente molto meglio finanziata dell'Unhcr, ma questa palese ingiustizia non interessa a nessuno.
   Fondata nel '49 l'Unrwa vive sulla pelle della diaspora palestinese: se questa cresce, cresce anche l'agenzia. Poco importa se il mandato ufficiale dell'Unrwa prevede di aiutare i propri assistiti ad autodeterminarsi: oggi questo braccio assistenziale dell'Onu conta ben 709 scuole fra Giordania, Libano, Siria, Gaza e Cisgiordania. Istituti dove si insegna a leggere, scrivere, far di conto e odiare gli ebrei, il tutto a spese del Palazzo di Vetro e dei paesi contributori.
   Sarebbe già abbastanza brutto se fra i banchi si insegnasse a odiare Israele ma i video messi in rete da Imam for Peace sono molto chiari. Nessuno degli intervistati pronuncia mai il nome dello stato ebraico, tutti invece annunciano la loro intenzione di uccidere almeno uno Jahud, un ebreo. Solo uno, Nur Taha, anche lui studente Unrwa a Qalandia, cappuccio in testa da ragazzino ribelle, si sbilancia e spiega: «Ci insegnano che i sionisti sono i nostri nemici e che dobbiamo combatterli». Samir Jabari è più grande dei bambini sentiti fin qua. Giovane uomo, sguardo più consapevole, Samir racconta: «Ci insegnano che gli ebrei sono terroristi». Impostato il tema non resta che lo svolgimento: e il video si chiude con una carrellata di imberbi che si candidano chi ad accoltellare gli ebrei, chi a investirli con l’auto. Poi suona la campanella.

Libero, 30 gennaio 2024)

........................................................


L’intelligence israeliana sostiene che il 10% dei lavoratori dell’UNRWA a Gaza ha legami con i gruppi terroristici

Secondo un nuovo rapporto, l’intelligence israeliana ritiene che circa il 10% di tutti i dipendenti dell’UNRWA a Gaza abbiano legami con organizzazioni terroristiche, oltre ad almeno 12 dipendenti che sarebbero coinvolti nell’attacco terroristico del 7 ottobre nel sud di Israele.
Il Wall Street Journal ha dichiarato lunedì che le informazioni condivise da Gerusalemme con gli Stati Uniti indicano che dei circa 12.000 dipendenti gazani dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, circa 1.200 hanno legami con Hamas o con la Jihad islamica palestinese. Il rapporto affermava inoltre che circa il 50% dei dipendenti dell’agenzia ONU a Gaza ha almeno un parente stretto legato ai gruppi terroristici.
L’Associated Press ha dichiarato di aver visto un documento israeliano in cui si affermava che almeno 190 lavoratori dell’UNRWA erano essi stessi operatori di Hamas o della Jihad islamica, senza fornire prove. Non è chiaro se si tratti dello stesso documento. Le ultime accuse hanno spinto l’UNRWA ad annunciare venerdì di aver licenziato diversi dipendenti per le accuse non specificate. Nonostante questa mossa, dopo l’annuncio molti donatori, tra cui Stati Uniti, Germania, Gran Bretagna, Italia, Australia e Finlandia, hanno sospeso i finanziamenti all’agenzia in attesa di un’indagine.
Un dossier fornito lunedì al Wall Street Journal dal governo statunitense esamina il coinvolgimento di dipendenti dell’UNRWA nell’attacco terroristico del 7 ottobre, quando migliaia di terroristi guidati da Hamas hanno fatto irruzione in Israele da Gaza, massacrando circa 1.200 persone e sequestrando 253 ostaggi.
Secondo il dossier, un consulente scolastico dell’UNRWA di Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza, è sospettato di aver collaborato con il figlio per rapire una donna in Israele, mentre un assistente sociale della città centrale di Gaza, Nuseirat, è stato accusato di aver aiutato a portare a Gaza un soldato israeliano morto.
Un terzo dipendente dell’UNRWA, secondo il New York Times, avrebbe preso parte “al massacro in un kibbutz in cui sono morte 97 persone” – a quanto pare il kibbutz Be’eri, che è stato devastato il 7 ottobre nell’attacco guidato da Hamas. Un altro lavoratore sarebbe stato rintracciato sul luogo del festival musicale Supernova, vicino a Re’im, dove sono state massacrate 360 persone, mentre altri hanno coordinato la logistica e procurato armi prima del 7 ottobre.
Secondo l’agenzia di stampa Reuters, due dei presunti operativi di Hamas citati nel dossier sono descritti come “eliminati”, essendo stati uccisi dalle forze israeliane. Un dodicesimo palestinese, di cui vengono forniti il nome e la foto, si dice che non appartenga a nessuna fazione e che si sia infiltrato in Israele il 7 ottobre in modo indipendente, mentre le masse si sono unite ai terroristi che hanno fatto irruzione nelle comunità israeliane.
Nella lista dei 12 uomini figurano anche un insegnante dell’UNRWA accusato di essersi armato con un razzo anticarro, un altro insegnante accusato di aver filmato un ostaggio e il direttore di un negozio in una scuola dell’UNRWA accusato di aver aperto una sala da guerra per la Jihad islamica.
Parlando con il Wall Street Journal, un alto funzionario del governo israeliano ha dichiarato: “Il problema dell’UNRWA non sono solo alcune mele marce coinvolte nel massacro del 7 ottobre. L’istituzione nel suo complesso è un rifugio per l’ideologia radicale di Hamas”.
Le accuse contro l’UNRWA sono le ultime di una lunga serie di denunce israeliane sull’agenzia delle Nazioni Unite, come il fatto che permetta l’insegnamento di incitamenti anti-israeliani nelle sue centinaia di scuole e che parte del suo personale collabori con Hamas. L’amministrazione Trump ha sospeso i finanziamenti all’agenzia nel 2018, ma il presidente degli Stati Uniti Joe Biden li ha ripristinati.
I sostenitori dell’agenzia hanno affermato che le accuse contro di essa mirano a sminuire l’annosa questione dei rifugiati e hanno definito il taglio dei finanziamenti una punizione collettiva.
La settimana scorsa, il commissario generale dell’UNRWA Philippe Lazzarini ha dichiarato che avrebbe nominato un ente indipendente per esaminare le accuse – sia “ciò che è vero o falso” sia “ciò che è politicamente motivato”. Ha anche detto che le accuse stanno danneggiando le operazioni dell’agenzia, già sotto pressione per la crisi umanitaria causata dalla guerra.
L’UNRWA opera in 58 campi profughi in Giordania, Libano, Siria, Cisgiordania e Striscia di Gaza. A differenza della maggior parte dei rifugiati di guerra nel mondo, l’agenzia riconosce come rifugiati i discendenti di coloro che sono stati sfollati nel 1948 durante la guerra d’indipendenza di Israele, indipendentemente dalle loro condizioni. I critici sostengono che ciò abbia favorito e incoraggiato una cultura pluridecennale di dipendenza e vittimismo tra i palestinesi.
Lunedì, un portavoce dell’agenzia ha dichiarato che se i finanziamenti non saranno ripristinati, non sarà in grado di continuare le operazioni a Gaza e in tutta la regione oltre la fine di febbraio. La Germania ha risposto che l’UNRWA non è l’unica fonte di aiuti umanitari per i palestinesi e che possono essere esplorate altre strade.
Il ministero della Sanità di Gaza, gestito da Hamas, ha dichiarato che più di 26.000 persone sono state uccise dall’inizio della guerra a Gaza, anche se queste cifre non possono essere verificate in modo indipendente e si ritiene che includano sia i civili che i membri di Hamas uccisi a Gaza, anche come conseguenza del lancio di razzi da parte dei gruppi terroristici.
L’IDF afferma di aver ucciso oltre 9.000 terroristi a Gaza, oltre a circa 1.000 terroristi all’interno di Israele il 7 ottobre.
Le Nazioni Unite stimano che più dell’85% dei 2,3 milioni di abitanti di Gaza siano stati sfollati a causa dell’intensa operazione di terra e dei bombardamenti aerei condotti da Israele, che ha giurato di sradicare Hamas da Gaza e porre fine al suo dominio durato 16 anni. Con l’avanzare della guerra, che ha costretto i civili a spostarsi sempre più a sud, le persone sono diventate sempre più dipendenti dagli aiuti umanitari forniti dall’UNRWA e molte altre hanno dovuto costruire le loro nuove case all’interno di rifugi gestiti dall’agenzia ONU.

(Israele360, 30 gennaio 2024)

........................................................


La lotta che conta veramente è quella sul campo di battaglia

Intervista a Daniel Pipes

di Niram Ferretti

A Daniel Pipes, presidente del Middle East Forum, tra i maggiori esperti internazionali di Medio Oriente, ospite abituale de L’Informale, abbiamo chiesto, dopo quasi quattro mesi di guerra, il punto sulla situazione in corso.

- In che modo, secondo lei, Israele  dovrebbe condurre la sua guerra contro Hamas?
  Spero che il governo israeliano si concentri su due questioni chiave, la distruzione del potere di Hamas e l’istituzione di un nuovo regime dignitoso composto da gazawi che possano governare Gaza sotto supervisione israeliana. Più brevemente: vinci la guerra e vinci la pace. Tutto il resto – politica interna, ostaggi, il traffico marittimo – conta meno.

- Liberare gli ostaggi e rovesciare Hamas sembrano essere obiettivi reciprocamente incompatibili. È d’accordo?
  Sì, del tutto incompatibili. Questa contraddizione evidenzia il sentimentalismo della politica israeliana, la morbidezza sotto il guscio duro. I nemici di Israele lo capiscono e quindi si concentrano sulla cattura dei suoi cittadini per poi scambiarli. Jonathan Pollard esagera quando chiede di “imprigionare, per metterli a tacere, alcuni membri delle famiglie degli ostaggi” se le loro richieste interferiscono con lo sforzo bellico, ma simpatizzo con la sua frustrazione. Vorrei che il governo israeliano presentasse la sconfitta di Hamas come il modo migliore per ottenere il ritorno degli ostaggi.

- Un rapporto recente afferma che dopo 114 giorni di guerra, l’80% dei tunnel di Hamas sono ancora intatti. Ciò implica che l’IDF ha bisogno di molto tempo per poterli distruggerli tutti. Che implicazioni ne trae?
  Noti il contrasto tra il 1967 e il 2023-24. Nel primo caso, una rapida vittoria israeliana sul campo di battaglia significò la ritirata egiziana e il pieno controllo di Gaza nel giro di poche ore; nella seconda bisogna contendersi ogni metro, e questo richiede mesi. Gli israeliani possono incolpare solo se stessi per avere lasciato Gaza nel 2005 e per avere permesso a Hamas di radicarsi come ha saputo fare. La longevità di questo conflitto danneggia la deterrenza di Israele e incoraggia i suoi oppositori. L’unico conforto dal punto di vista di Israele è che il 7 ottobre e le conseguenze che ne sono derivate hanno risvegliato il paese in merito al fallimento del suo sistema di sicurezza, incrementando le possibilità di poterlo migliorare.

- Nell’intervista da lei data a L’Informale alla fine di novembre 2023 lei ha affermato che l’esito più probabile della guerra in corso sarà per Israele un “mezzo fallimento”.  È  tuttora di questa opinione?
  Sì. La guerra ha ispirato interpretazioni molto diverse; si noti in particolare la visione ottimistica di Shay Shabtai. Tuttavia la previsione del “mezzo fallimento”, mi sembra corretta se si considera l’intera situazione, compreso Hezbollah, gli Houthi, la Turchia, l’Iran, la sinistra globale e oltre. Le ripercussioni di questo conflitto sono arrivate più lontano di quanto immaginassi, dalla presidenza dell’Università di Harvard al prezzo delle materie prime.

- Caroline Glick ha scritto che “Per una  intera generazione il rifiuto del concetto stesso di vittoria è stato il Santo Graal dello Stato Maggiore [di Israele]”. In che misura ha ragione?
  Caroline è abile con le parole. Questo punto di vista è al centro del mio prossimo libroIsrael Victory: How Zionists Win Acceptance and Palestines Get Liberated, ma lo direi in modo meno forte. Evitare la vittoria non è il Santo Graal dello Stato Maggiore, ma la postura difensiva che ha introiettato. Può essere modificata.

- La Glick, Efraim Karsh, Mordechai Kedar e Martin Sherman concordano tutti sul fatto che la soluzione dei due Stati è pericolosa e defunta. È d’accordo?
  Niente affatto. Considero uno Stato palestinese quasi inevitabile nel lungo periodo. Pertanto stanno combattendo una battaglia di retroguardia senza speranza. Invece di opporsi alla soluzione dei due Stati, li invito a unirsi a me nel garantire che essa abbia luogo solo dopo che i palestinesi avranno dimostrato, in modo prolungato e coerente, di accettare lo Stato ebraico di Israele – in altre parole, una volta che gli israeliani saranno stati convinti della sconfitta dei palestinesi. Naturalmente, è un esito lontano generazioni. Mettiamo l’esito in sospeso fino ad allora.

- Se Israele non distruggerà Hamas, Hamas rivendicherà la vittoria, e si presenterà come il principale leader antisionista, il che incoraggerà Hezbollah e l’Iran, portando a un’altra guerra. Anche lei è di questa idea?
  Sì, nella misura in cui Hamas sarà in grado di rivendicare plausibilmente il successo, ciò aumenterà la fiducia degli islamisti e comporterà ulteriori problemi per Israele. È da notare che Hamas ha già rivendicato la vittoria: il Wall Street Journal riporta che Yahya Sinwar, la mente del massacro del 7 ottobre, “ha detto ai mediatori che Hamas ha sostanzialmente vinto la guerra”. Ciò non sorprende, poiché i leader i leader arabi lo fanno abitualmente, indipendentemente dal risultato effettivo.

- L’Amministrazione Biden mette in guardia Israele dalla morte di civili, gli chiede di fornire aiuti e cerca di limitare le sue azioni in Libano. Per Israele non è giunto il momento di diventare più autonomo dagli Stati Uniti?
  Naturalmente gli israeliani vorrebbero liberarsi dal peso delle pressioni americane, ma il legame USA-Israele è il rapporto familiare per eccellenza della politica internazionale e tale resterà. Gli americani interferiscono nella politica israeliana, gli israeliani interferiscono nella politica statunitense. Questa realtà di lunga data presenta aspetti positivi e negativi per entrambe le parti. Devono accettarlo, lavorarci sopra, trarne il meglio.

- Quanta importanza attribuisce alla decisione della Corte Internazionale di Giustizia secondo cui Israele deve “adottare ogni misura in suo potere per prevenire di commettere tutti gli atti” in grado di causare gravi danni fisici o mentali o uccidere i palestinesi”?
  Questa sentenza è l’ennesima tappa di un vasto scontro tra le forze pro e anti-Israele, ciascuna delle quali cerca di portare l’opinione pubblica dalla propria parte. Ma ritengo sopravvalutata l’importanza di questa battaglia. In tutto il mondo, la maggior parte delle persone che hanno a cuore la politica internazionale hanno ormai deciso la loro posizione rispetto a Israele e ai palestinesi, quindi il bacino degli indecisi diventa di giorno in giorno più piccolo. Pertanto non penso che una decisione come quella della Corte Internazionale di Giustizia – o il voto 100-0 del Senato degli Stati Uniti per mostrare solidarietà nei confronti di Israele – abbia molta importanza. La lotta sul campo di battaglia conta molto più delle risposte internazionali riguardo ad essa.

(L'informale, 30 gennaio 2024)

........................................................


“Dobbiamo credere che la nostra storia abbia un lieto fine”

Le parole di una madre in lutto

di Michelle Zarfati

“Dobbiamo credere che la nostra storia abbia un lieto fine”: queste le parole di Sarit Zussman, madre di Ben, recentemente caduto in battaglia a Gaza. La donna ha deciso di rilasciare un’intervista ad Arutz Sheva durante un incontro avvenuto nel Kibbutz Be’eri, durante il quale ha condiviso tutto il suo dolore ma anche la sua voglia di combattere e sperare che la guerra presto finirà.
   All’evento hanno partecipato le famiglie di coloro che sono stati uccisi nel massacro di Hamas, i parenti dei soldati caduti in guerra e le famiglie degli ostaggi ancora nelle mani dei terroristi.
   “Proprio nel luogo in cui si sono verificati eventi così terribili, dobbiamo crescere e far germogliare qualcosa di nuovo, anche se Israele sta ancora combattendo questa guerra. In questo momento – ha detto la donna – dobbiamo andare avanti e vivere”. Parole di speranza e di forza anche e soprattutto per le famiglie dei soldati e degli ostaggi che aspettano presto il ritorno dei propri figli a casa.
   “Il nostro amore per la vita ci costringe a scegliere il bene e fermare il male ed il Trattato di Bereshit fa parte di questo processo, scegliendo il bene, scegliendo una diversa via, e un diverso livello di rispetto reciproco, si può raggiungere il vero senso dell’ebraismo” ha detto la donna durante l’incontro nel kibbutz avvenuto anche per presentare il trattato di Bereshit.
   Durante il funerale di suo figlio Zussman ha espresso piena fiducia nella vittoria israeliana. La donna ha sottolineato poi il divario tra la brama di morte del nemico e la voglia di vivere del popolo ebraico. “Dobbiamo credere in noi stessi e nel nostro giusto percorso, nella speranza di vincere, costruiremo e prospereremo. La nostra storia avrà un lieto fine. Sono sicura che Ben sia felice, e che sia qui con me” ha concluso la donna.

(Shalom, 30 gennaio 2024)

........................................................


Reinsediare Gaza ed espellere i palestinesi. Ecco il piano dell’estrema destra israeliana

Davanti a un pubblico appassionato di migliaia di attivisti di destra, 12 ministri del governo e 15 legislatori della coalizione si sono impegnati domenica sera a ricostruire gli insediamenti ebraici di Israele nel cuore della Striscia di Gaza e a incoraggiare l’emigrazione della popolazione palestinese dopo la fine della guerra con Hamas.
Parlando in un’atmosfera carnevalesca al Centro Congressi Internazionale di Gerusalemme, il Ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, leader del partito ultranazionalista Sionismo Religioso, ha esaltato le virtù della creazione di nuovi insediamenti, dichiarando: “Se Dio vuole, ci insedieremo e saremo vittoriosi”.
Il Ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir, leader del partito di estrema destra Otzma Yehudit, ha detto al Primo Ministro Benjamin Netanyahu e al pubblico che è “tempo di tornare a casa a Gush Katif”, il nome del blocco di insediamenti israeliani a Gaza che è stato evacuato con il disimpegno del 2005.
Smotrich e Ben Gvir, insieme a sei deputati della coalizione, hanno firmato quello che è stato definito il “Patto della Vittoria e del Rinnovamento dell’Insediamento”, che impegna i firmatari a “far crescere gli insediamenti ebraici pieni di vita” nella Striscia di Gaza.
Insieme a loro, anche il ministro delle Comunicazioni Shlomo Karhi del partito Likud di Netanyahu ha chiesto di costruire insediamenti a Gaza e di “incoraggiare l’emigrazione volontaria”.
Ma Karhi si è spinto oltre i suoi colleghi ministri, affermando che la guerra imposta a Israele dal gruppo terroristico di Hamas significa che i civili di Gaza possono ora essere costretti a dire di voler lasciare il territorio.
Allo stesso modo, uno striscione della folla diceva: “Solo un trasferimento [dei palestinesi da Gaza] porterà la pace”.
I filmati della conferenza hanno suscitato reazioni sui social media, con i critici che hanno notato che i ministri del governo e della coalizione ballavano allegramente mentre infuriava una guerra, decine di migliaia di israeliani erano sfollati, i soldati venivano uccisi quasi ogni giorno e 136 ostaggi erano ancora trattenuti dai terroristi a Gaza.
Netanyahu stesso non ha partecipato alla conferenza e ha dichiarato sabato sera di essere contrario al reinsediamento a Gaza e che questa non è una politica accettata dal governo.
Interrogato sulla questione nel corso di una conferenza stampa televisiva, il premier ha dichiarato che i legislatori e i ministri hanno il diritto di esprimere la propria opinione, ma che la politica israeliana sul dopoguerra a Gaza è stata stabilita dall’intero gabinetto di sicurezza, l’organo autorizzato a prendere tali decisioni, e che non è stata presa alcuna decisione di reinsediare Gaza. La sua opposizione alla ripresa degli insediamenti ebraici a Gaza “non è cambiata”, ha dichiarato.
La conferenza di domenica sera è stata organizzata dal gruppo di attivisti dell’insediamento Nachala e dal Consiglio regionale della Samaria in Cisgiordania e dal suo capo Yossi Dagan.
Lo scopo esplicito dell’evento è stato quello di lanciare un grido d’appello al pubblico e al governo per approfittare della guerra in corso e della situazione in cui le Forze di Difesa Israeliane hanno affermato il controllo su ampie parti della Striscia di Gaza, e iniziare a costruire nuovamente insediamenti ebraici nell’enclave costiera.
Israele ha smantellato i suoi 21 insediamenti nella Striscia di Gaza, costringendo i loro 8.000 residenti ad andarsene, quando si è ritirato unilateralmente da Gaza nel 2005, tornando alle linee pre-1967. Hamas ha spodestato violentemente la fazione Fatah dell’AP e ha preso il potere a Gaza nel 2007, spingendo Israele e l’Egitto a imporre un blocco per limitare la capacità del gruppo terroristico di armarsi.
Il ministro dell’Edilizia e degli Alloggi Yitzhak Goldknopf, capo del partito ultraortodosso United Torah Judaism, ha partecipato e ha chiesto la ricostruzione degli insediamenti ebraici a Gaza, così come i numerosi leader dei coloni che hanno organizzato l’evento.
Ben Gvir, come molti altri oratori, ha sostenuto che l’evacuazione degli insediamenti nel Disimpegno del 2005 ha provocato il terrorismo e il lancio di razzi dal territorio contro i cittadini israeliani, culminando nei massacri del 7 ottobre in cui migliaia di terroristi di Hamas hanno invaso Israele, uccidendo circa 1.200 persone e portando 253 ostaggi nella Striscia.
“Parte della correzione dell’errore, del riconoscimento del peccato della concezione che ci ha portato al 7 ottobre e all’espulsione dei coloni da Gaza nel 2005, è il ritorno a casa… Stiamo tornando a casa, a Gush Katif e alla Samaria settentrionale”, ha detto Ben Gvir, riferendosi anche a quattro insediamenti nel nord della Cisgiordania, anch’essi evacuati nel 2005 nell’ambito del Disimpegno.
Appoggiando l’idea di far lasciare Gaza ai palestinesi, il ministro della linea dura ha aggiunto: “Dobbiamo tornare a casa, governare il territorio e sì, anche offrire una soluzione morale e logica al problema umanitario: incoraggiare l’emigrazione e [approvare una] legge sulla pena di morte [per i condannati per terrorismo]”.
E ha incalzato Netanyahu, dicendogli che è “compito di una leadership coraggiosa prendere decisioni coraggiose”.
Nonostante sia un ministro, Ben Gvir ha criticato quasi quotidianamente le politiche di guerra del governo, lamentando di essere stato messo da parte. Tuttavia, ha dichiarato che per il momento non ha intenzione di far cadere il governo.
Smotrich è stato un po’ più cauto di Ben Gvir e nel suo discorso non ha chiesto esplicitamente la costruzione di insediamenti a Gaza, anche se ha lasciato intendere di essere a favore di questa strada.
Ha detto che Israele potrebbe “ancora una volta fuggire dal terrorismo” oppure “insediare la terra, controllarla, combattere il terrorismo e portare sicurezza all’intero Stato di Israele”.
“Senza insediamenti, non c’è sicurezza. E senza sicurezza ai confini di Israele, non c’è sicurezza in nessuna parte di Israele”.
Ha concluso il ministro delle Finanze: “Se Dio vuole, insieme saremo vittoriosi, se Dio vuole, insieme ci sistemeremo e saremo vittoriosi”.
Karhi ha fatto commenti simili: “Dobbiamo insediare Gaza, con forze di sicurezza e coloni che avvolgano d’amore loro e questa terra”.
E in quella che è sembrata una tacita approvazione dell’esercizio di pressioni sui residenti palestinesi di Gaza per lasciare il territorio, ha detto: “Abbiamo l’obbligo di agire, per il nostro bene e anche per quello di quei presunti civili non coinvolti, per [provocare] l’emigrazione volontaria – anche se questa guerra, che ci è stata imposta, trasforma questa migrazione volontaria in una situazione di ‘Coercizione finché non dice: ‘Voglio farlo'” – citando un principio della legge ebraica secondo il quale qualcuno può essere costretto ad adempiere a determinati obblighi religiosi mediante pressioni fisiche o di altro tipo.
Gli organizzatori hanno dichiarato che alla conferenza hanno partecipato in totale dodici ministri del gabinetto e altri 15 deputati della coalizione. I ministri del Likud che hanno partecipato all’evento sono stati Karhi, Miki Zohar, Haim Katz, Idit Silman, May Golan e Amichai Chikli. Hanno partecipato anche i ministri dell’Otzma Yehudit Ben Gvir, Yitzhak Wasserlauf e Amichai Eliyahu, oltre a Smotrich e Orit Strock del Sionismo religioso e Goldknopf dell’UTJ.
Era presente l’intera fazione Otzma Yehudit della Knesset, mentre erano presenti anche leader religiosi di estrema destra, tra cui l’influente Rabbi Dov Lior.
La folla era composta per la maggior parte dalla comunità sionista religiosa, con centinaia di giovani e molte famiglie, compresi i bambini piccoli, che hanno partecipato alla conferenza.
Nachala ha creato sei gruppi di insediamento composti da 400 famiglie di tutto il Paese che, in teoria, sarebbero disposte a fondare sei nuovi insediamenti a Gaza se il governo lo permettesse.
L’organizzazione ha tracciato una mappa dei luoghi in cui verrebbero costruiti questi insediamenti, che includono siti all’interno delle aree urbane della città palestinese di Khan Younis e nel cuore di Gaza City.
Parlando durante la conferenza, anche la presidente di Nachala e attivista veterana dei coloni Daniella Weiss ha appoggiato l’idea di far lasciare il territorio ai gazesi.
“Milioni di rifugiati di guerra vanno da un Paese all’altro in tutto il mondo”, ha dichiarato, chiedendo perché “solo i mostri che sono cresciuti a Gaza e hanno trasformato questa bellissima parte della terra in una terra fantasma – solo loro dovrebbero essere collegati ad essa? Loro, in particolare, non possono trasferirsi da una terra che hanno trasformato in un inferno e da dove minacciano di distruggere Israele?
“Solo il popolo di Israele colonizzerà l’intera Striscia di Gaza e governerà l’intera Striscia di Gaza”, ha concluso.

(Rights Reporter, 29 gennaio 2024)
____________________

I benpensanti liberal che in Israele si compiacciono ogni tanto di fare pensose riflessioni su certi modi "carnevaleschi" di fare politica dell'estrema destra israeliana, non potranno negare che il 7 ottobre è un frutto maturo del seme terrorista che gli "amanti della pace" hanno piantato in Gaza nel 2005, quando è stata imposta l'evacuazione degli insediamenti ebraici. Chi è che ha permesso la costruzione di quella roccaforte sotterranea che è stata creata al solo scopo di distruggere Israele? Chi è stato consenziente? Chi si assume la responsabilità di dire: abbiamo fatto il più colossale e stupido errore politico che si poteva fare per agevolare il compito ai nostri nemici?
Da "Notizie su Israele" abbiamo scelto alcuni articoli del passato che forse riletti oggi possono far riflettere.


APRILE 2005 

Intervista con una colona di Gush Katif

Il mensile in lingua tedesca edito a Gerusalemme, "Israel Heute", nel suo numero di aprile pubblica un'intervista con Rachel Saberstein (64 anni, madre di 3 figli e nonna di 9 nipoti), una residente nel blocco di insediamenti di Gush Katif, nella striscia di Gaza.

- Shalom, signora Saberstein! Lei vive qui con suo marito, Moshe, a Neve Dekalim, nel blocco di insediamenti di Gush Katif. Da quando vive qui? E come si sente in questi giorni, sapendo dell'imminente sgombero della striscia di Gaza?
  Siamo arrivati a Gush Katif nel 1997, dopo essere immigrati dagli USA in Israele nel 1968. Siamo venuti qui per motivi ideologici e per di più con il pieno sostegno del governo israeliano. Ma dal 2000 qui si vive sotto il fuoco continuo dei terroristi palestinesi. Nonostante questo, abbiamo tenuto duro. E adesso chi ci caccia è proprio il governo israeliano, cosa che ai terroristi finora non è riuscita...

- Che cosa pensa del piano di ritiro di Ariel Sharon?
  Nessuno ci ha chiesto niente! Ed era stato proprio Ariel Sharon ad assicurarci che noi siamo la spina dorsale della nazione, eroi che combattiamo al fronte più avanzato, e che Gush Katif e Tel Aviv sono una stessa cosa. Fino a che, nell'ottobre scorso, alla radio sentiamo dire il contrario: che mettiamo in pericolo il paese. Personalmente, sono sconvolta nel vedere con quanta facilità si possano cacciare degli ebrei dalla loro terra ebraica, in spregio ad ogni convinzione che Israele sia la patria degli ebrei. C'è ancora qualche speranza per gli ebrei nel mondo?

- Crede ancora che qualcosa possa arrestare il ritiro in luglio?
  Qui abbiamo vissuto ogni giorno con molti miracoli. Nei quattro anni e mezzo di intifada sono morti in tutto tre lavoratori esterni, due soldati e un colono, e questo sotto la continua grandine dei razzi. Avrebbero potuto essere centinaia! Se Dio avesse voluto cacciarci via di qui, avrebbe avuto abbastanza possibilità. Io continuo a credere che Dio troverà una via per farci uscire da questa situazione.

- Come reagirà allo sgombero? Con la violenza?
  Noi dimostreremo, ma la violenza verrà dalle unità dell'esercito e della polizia. Hanno ricevuto per questo la necessaria autorizzazione. Zippi Livni ha perfino emanato una legge a questo scopo, con la quale sarà facilitato l'arresto dei dimostranti e i bambini potranno essere strappati ai loro genitori senza che ci si possa opporre. La fine di ogni democrazia!

- Distruggeranno la sua casa, come è avvenuto nel 1978 a Yamit, nel Sinai?
  No, le nostre case saranno messe a disposizione dei leader di Hamas e delle autorità palestinesi come residenze invernali. I profughi palestinesi continueranno ad essere tenuti nei lager come capri espiatori. Le nostre sinagoghe saranno riciclate in moschee e le scuole in luoghi di addestramento per aspiranti terroristi. Quanto ai cimiteri, i parenti dovranno prelevare le ossa dei loro morti e riseppellirli, cosa che secondo le leggi ebraiche halacha richiederà altri sette giorni di cordoglio Shiva. Dove e quando questo avverrà, fino ad ora non lo sa nessuno.

- Lei ritiene che la striscia di Gaza sia parte della Terra promessa?
  E' una striscia di terra promessa da Dio alla tribù di Giuda. Questo è stato sempre un luogo di presenza ebraica. La storia di Sansone si è svolta qui, le zimrot per lo Shabbat di Israele Najjora sono state redatte qui. Dopo la distruzione del secondo Tempio molti ebrei sono venuti nella striscia di Gaza, e nel 1492, sotto l'inquisizione spagnola, è stata il punto di ritrovo di molti ebrei in fuga.

- Lei sa già come andrà a finire?
  No, qui nessuno lo sa. Non abbiamo un'altra residenza, non abbiamo case né posti di lavoro. Gli agricoltori del posto hanno fatto contratti per anni con l'Unione Europea, con importi anche di milioni di euro, e adesso non potranno mantenerli, cosa che alla fine danneggerà anche l'economia israeliana. Posso aggiungere anche un'altra cosa? I bambini di Gush Katif si incontrano una volta alla settimana con un Rabbi su un grande spiazzo erboso e pregano i salmi. Se qualcuno gli chiede perché lo fanno, rispondono: "Preghiamo Dio che il signor Sharon non ci cacci dalle nostre case." Preghi anche lei per noi, che sia ebreo o no, affinché a nessun ebreo sia fatta una cosa simile!"

Molte grazie per questa intervista, signora Saberstein.

(Israel Heute, aprile 2005)

*

Né religioso, né stupido

di Daniel Hulkower

Non sono un ebreo religioso. In America, i miei venerdì sera li passavo con gli amici e i miei sabati li passavo sulla moto (se vivi a Brooklyn, New York, e hai visto una moto rossa guidata da uno con un elmetto rosso con su scritto in ebraico "È proibito dargli uno stato" - quello ero io). In Israele per me non è molto diverso; sono laico e molto fiero di essere ebreo. Sono un acceso sionista, e un fiero sostenitore della Giudea, Samaria e Gaza (infatti, sono stato a Gush Qatif due volte, e mi sto organizzando per andarci di nuovo durante il tour organizzato da Arutz 7).
    Il fatto che sono laico in un certo senso mi distingue dai miei partner della destra Sionista. Il ragionamento che sta alla base del mio appoggio agli insediamenti non è tanto religioso quanto politico. Riconosco la stupidità quando la vedo, e dare terra ai terroristi in cambio di un piano di humm "pace" è una buona definizione di stupido. So benissimo che dare territorio in cambio di pace non può funzionare e non funzionerà. Mi sono documentato abbastanza e fatto un sacco di ricerca, e ho scoperto che il concetto di territori in cambio di pace è un imbroglio della sinistra, che non garantisce nulla tranne sempre più terrorismo e una maggiore distruzione del nostro stato.
    Di recente ho visto a Haifa un cartellone che proclamava: "22 Morti. Lasciamo Gaza Adesso!" 22 soldati che muoiono per la loro patria e questo di colpo vuol dire che ritirarsi dalla Striscia di Gaza di sicuro preverrà la morte di altri? La contraddizione qui, naturalmente, è che se i soldati combattono il terrorismo distruggendo tunnel per il contrabbando d'armi, impedire la caduta di piú missili sulle cittadine Israeliane e frenare il libero movimento di terroristi, dovremmo ritirarli? Se lo facciamo, la sola conclusione logica è che queste cose continueranno ad accadere, ma non ci sarà piú nessuno per fermarle. Se l'Esercito Israeliano sarà quindi costretto a rientrare a Gaza, significherà che ancor piú soldati saranno uccisi e tutto il "disimpegno" sarà stato vano.
    La gente oggi si lamenta che si spendono soldi per proteggere quei territori, ma costerà lo stesso [se non di piú] quando dovremo ritornarci. Allora, perché ritirarsi tanto per cominciare? Per di più, con il recente aumento del terrorismo di oltre il 330% - con missili che cadono su Gush Qatif, rompendo quindi gli accordi di Sharem el Sheikh - perché prendersi la briga di andarsene? Il punto è che ritirarsi da Gaza viene fatto perché i palestinesi siano in grado di rimettersi in linea, ma non possono.
    In nessun modo riuscirò a capire perché la gente (specialmente non osservanti come me) credano che i palestinesi meritino la nostra fiducia come partner della pace. Dimentichiamoci per un attimo che Gaza è terra ebraica sin dall'antichità, e guardiamo al fatto che non c'è alcuna prova che i palestinesi abbiano mai dimostrato di meritare uno stato. Non riesco a capire perché questo fatto non salta agli occhi di più gente. Con l'aumento del terrorismo, sia dentro sia fuori la Linea Verde, con odio anti-israeliano che cuoce quotidianamente in tutta Gaza e la Cisgiordania, perché non c'è abbastanza gente che capisce che i palestinesi non sono nostri amici e partner nella pace"??? Anche quando i sostenitori del piano di "disimpegno" ci portano il loro trito argomento che "ci sono soldati che muoiono", perché non gli passa per la testa di esaminare la ragione per cui ciò succede? Non è perché ci sono 8000 ebrei che vivono in case col tetto a tegole e fanno fiorire il deserto, ma perché i palestinesi vogliono eliminarci. C'è chi chiama quelli di sinistra "confusi" o "malaccorti", ma, mi spiace gente, non c'è bisogno di essere un bambino prodigio per capire chi sono i tuoi nemici.
    Ebbene, per coloro in Giudea, Samaria e Gaza che credono che la maggior parte dei gruppi di sinistra sono fatti di non osservanti, e che tutti i non osservanti siano di sinistra, sappiate che ci sono molti proprio come me e i miei amici. Noi sosteniamo voi e la vostra battaglia. Se ce ne fosse bisogno, non ci penserei due volte a venire a Gaza e battermi al vostro fianco.

(Arutz-Sheva, 20 aprile 2005)

*

MAGGIO 2005

I coloni di Gush Katif andranno via «senza sparare»

«Se davvero succederà, se dovremo partire, la cosa più importante é che restiamo insieme, tutta la nostra comunità, a costo di vivere nelle tende»: all'ombra delle palme di Gadid, una delle colonie del sud di Gaza, Ariel Porath, 50 anni, barba brizzolata, si fa violenza per parlare del "dopo", di quando il "ritiro" annunciato dal governo israeliano sarà stato consumato. 
   La maggior parte dei circa 8.000 coloni dell'area del Gush Katif, che comprende 18 dei 21 insediamenti della Striscia, preferirebbe fare come se il 15, il 16 o il 17 agosto non dovessero arrivare migliaia di poliziotti e di soldati, incaricati di portarli via di peso, per trasferirli ancora non sanno dove, in Israele. 
   Ebreo francese Porath è arrivato qui da Strasburgo 20 anni fa. Allora lo stato ebraico incoraggiava gli ebrei della diaspora desiderosi di tornare sul suolo del Grande Israele a trasferirsi nelle colonie. Molti francesi sono così arrivati al Gush Katif. Porath ha creato una sua azienda agricola, che oggi produce milioni di germogli di verdura ogni settimana. «E ora vogliono mandarci via in qualche settimana» tuona.
   Religioso moderato come la maggior parte degli altri coloni del Gush Katif, Porath rifiuta la violenza, e dice di non credere che alla fine dovrà andarsene. E se i soldati verranno comunque, a metà agosto, «non spareremo!», assicura: «siamo agricoltori, amiamo la terra e la vita». Ma la battaglia con Ariel Sharon, dopo innumerevoli scontri in parlamento, nel teatro della politica, nello stesso partito del premier, il Likud, a molti sembra ormai persa. E anche se tutti o quasi dicono che non si muoveranno fino all'ultimo minuto, il pensiero e l'angoscia del "dopo", attanaglia tutti. 
   Un progetto del premier, quello di ricreare una comunità simile, con la maggior parte dei coloni evacuati, a Nitzanim, una splendida riserva naturale di dune a 40 km più a nord, in territorio israeliano, sta mano a mano conquistando simpatie. Perché il posto assomiglia molto al Gush Katif e anche, forse soprattutto, perché la comunità rimarrebbe intatta.

(Corriere.com, 25 maggio 2005)

*

GIUGNO 2005

Palestinesi contro il ritiro da Gaza

Un redattore di "Israel Heute" ha parlato con alcuni lavoratori palestinesi in Gush Katif sul piano di sgombero israeliano

Non sono soltanto i coloni ebrei di Gush Katif a temere il ritiro israeliano dalla striscia di Gasa, ma anche i loro lavoratori palestinesi. Più di 3.000 palestinesi che lavorano ogni giorno nelle piantagioni israeliane pregano Allah di impedire a tutti i costi il piano di ritiro di Ariel Sharon. «Se gli ebrei lasciano la striscia di Gaza, io perdo il mio posto di lavoro», dice a "Israel Heute" Dscherbil (34 anni) di Chan Yunis, nel sud della striscia di Gaza. «Da più di 12 anni lavoro nelle piantagioni israeliane, dirigo più di 30 operai. Dal mio datore di lavoro israeliano ricevo 20 euro al giorno, tre volte di più di quello che riceverei da un datore di lavoro palestinese in Gaza.» Dschebril e i suoi colleghi di lavoro ci comunicano quanto è depresso lo stato d'animo tra i lavoratori palestinesi alla vigilia dello sgombero.
   Molti di loro lavorano già da molti anni negli insediamenti ebraici che dovranno essere evacuati nei prossimi due mesi. «Quando i coloni ebraici perderanno le loro case, noi perderemo il nostro posto di lavoro», ci confida Mohammed (30 anni), che abita non lontano dal suo amico e collega di lavoro Dschebril. «Sono cresciuto in queste piantagioni e non posso immaginarmi una vita senza il mio lavoro. In Gaza non c'è lavoro e se veramente le case e le piantagioni non verranno distrutte dopo il ritiro, è garantito che noi non riceveremo niente. Andrà a finire tutto sotto le grinfie della direzione dell'OLP», spiega Mohammed.
   Mohammed, Dschebril, Adel e altri palestinesi che da anni possono testimoniare di una pacifica collaborazione con i coloni ebrei, hanno perso fiducia nella direzione palestinese e israeliana. Contro il fatto che la direzione palestinese è corrotta, non possono farci niente. Della situazione di crisi in cui si trova oggi la popolazione palestinese, attribuiscono tutti la responsabilità a Israele. «Se Israele non avesse fatto accordi con il defunto Rais, Führer Yasser Arafat, la nostra sofferenza non sarebbe stata così grande», dichiara Adel, che ha lavorato quasi 20 anni nell'agricoltura ebraica in Gush Katif. «Ebrei e arabi possono vivere insieme; ci ricordiamo tutti degli anni '70 e '80, fino allo scoppio della prima intifada nel 1987. La direzione OLP di Tunisi ci succhia il sangue e la popolazione è delusa di lei.»
   Poiché la direzione dell'OLP è così corrotta, il popolo cerca un rifugio alternativo e per la frustrazione cade nelle spire di Hamas. «Invece di parlare con il popolo, avete trattato con un uomo di nome Arafat che ha mandato tutto in rovina», dice Dschebril. «Oggi l'OLP paga fino a 200 euro se si vota lui e non Hamas. Ma adesso nessuno si fida più dell'OLP. Dove sono tutti i soldi che la direzione dell'OLP ha ricevuto negli ultimi 10 anni da USA, Europa, Giappone e Cina per lo sviluppo dell'Autonomia? E' sparito tutto nelle casse dell'OLP a Tel Aviv.»
   Per i lavoratori agricoli palestinesi nella enklave ebraica Gush Katif soltanto un miracolo può impedire l'evacuazione degli insediamenti ebraici. «Non appena i miei datori di lavoro ebrei saranno evacuati, i miei figli ed io mangeremo la polvere», dice Mohammed, che incolpa Ariel Sharon per il furto del suo lavoro e del suo stipendio mensile. Di una cosa sono sicuri tutti e tre i palestinesi: il piano di ritiro di Sharon non cambierà in meglio la vita dalla parte israeliana e da quella palestinese. Adesso i coloni e i palestinesi sperano in un miracolo, perché tutti dipendono dal successo dell'agricoltura in Gush Katif, nella striscia di Gaza. «Ci completiamo a vicenda, il mio datore di lavoro ebreo ha bisogno di me nella sua piantagione e io ho bisogno di lui nella striscia di Gaza», ci dichiara Adel sorridendo, ma con voce triste. A.S.

(giugno 2005)

*

LUGLIO 2005

L'indispensabile unità...

di Guy Senbel

Questa settimana hanno avuto inizio le prime operazioni di una certa importanza concernenti il piano di disimpegno.
   Purtroppo, gli scontri tra ebrei, che tanto temevamo, si sono verificati. Grazie ai suoi corrispondenti, "Guysen" ha ricoperto quasi tutti gli avvenimenti drammatici di questi ultimi giorni, relativi al ritiro da Gush Katif. La raccolta di tutte queste informazioni non ha fatto che allarmare ancora di più, se era il caso, il nostro comitato di redazione.
   Mercoledì 29 giugno eravamo in quattro sul posto: tre giornalisti dell'agenzia e Arié Lévy, il coordinatore di "Hatzalah-Yoch" e di "Soccorritori senza Frontiere", oltre che un partecipante occasionale per conto di "Guysen".
   Due missioni ci aspettavano. Arié ed io, complici da sempre, dovevamo valutare le necessità in termini di soccorso se la situazione in Gush Katif fosse degenerata. I nostri due confratelli dovevano occuparsi invece dell'eventuale evacuazione della casa che gli ebrei avevano occupata dopo che Tsahal aveva distrutto alcune abitazioni edificate sulla spiagga di "Shirat Hayam", località situata sul litorale di Gush Katif.
   Sapevamo che era impossibile per il governo lasciare questa casa palestinese nelle mani degli oppositori al piano di ritiro.
   Presentivamo che mercoledì sera sarebbe stato il giorno ritenuto propizio dai servizi di sicurezza per tentare di sloggiare gli "squatters".
   Le nostre previsioni si sono rivelate esatte. Per tutta la giornata ci sono stati brevi scontri tra gli oppositori al piano di ritiro, i palestinesi che occupavano una casa vicina, e i servizi di sicurezza che tentavano di mantenere l'ordine.

• La vita qualche volta è piena di paradossi.
  Come si conviene, Arié Levy aveva il suo kit di soccorso in macchina. Durante la giornata ha curato un ufficiale ferito alla testa, due giornalisti, di cui uno di "Guysen", dei manifestanti, e anche sé stesso, con il mio aiuto, perché aveva ricevuto un sasso sulla mano.
   Ha cercato soprattutto di soccorrere un palestinese, di cui non si sa ancora che cosa stesse a fare lì, e che ha corso il rischio di essere linciato. 
   Qualche eccitato ha cercato di impedire ad Arié di intervenire, ma ci vuol altro per impedirgli di salvare una vita, quale che sia.
   Con nostro grande sgomento, Arié ha dovuto rassegnarsi a rimanere a distanza dal ferito perché un soldato si era messo vicino a quest'ultimo al fine di proteggerlo da ogni tentativo di linciaggio. Per fortuna, quel palestinese è stato portato via molto velocemente da Tsahal. Ormai è fuori pericolo.
   Qui devo ricordare che questo editoriale è redatto senza alcun partito preso. Nella nostra redazione sono rappresentate quasi tutte le componenti della società israeliana e tutte le opinioni pro e contra il piano di disimpegno.
   Resta il fatto che tutto il mondo, e in particolare i nostri nemici, perché bisogna pure dire pane al pane e vino al vino, è stato testimone del fatto che degli ebrei si sono reciprocamente maltrattati.

• Che vergogna!
  Siamo stati testimoni di scene strazianti, ma anche incredibili. Dei soldati molto commossi usavano la loro forza contenendo la loro violenza. Da parte dei manifestanti israeliani segnaliamo delle invettive, qualche volta degli insulti, ma nessuna aggressione fisica contro i soldati.
   I poliziotti ci andavano dentro un po' più forte. Tuttavia, anche lì, nonostante che le immagini televisive mostrino una certa brutalità, se quei poliziotti non si fossero contenuti, il conto delle vittime della giornata di mercoledì avrebbe potuto essere di decine di morti. Ci sono stati dei feriti, ma la maggior parte di questi sono dovuti al lancio di pietre da parte dei palestinesi.
   Il giorno dopo è toccato all'hotel "Maoz Yam" ad essere evacuato. Di nuovo, le stesse scene strazianti ma nessun ferito: non c'erano palestinesi...

• La nazione è in pericolo!
  Oggi in Gush Katif sono rimasti soltanto gli abitanti d'origine, che non hanno niente a che vedere con gli "evacuati" sopra menzionati. 
   In grandissima maggioranza sono dei "legalitari", anche se molti di loro non capiscono per quali motivi devono lasciare tutto.
   Su di loro gravano tutti i fantasmi malsani e i pregiudizi infondati che gli hanno affibbiato le "opinioni pubbliche" di quasi tutte le nazioni. Gli "sporchi coloni", come si compiacciono di definirli i media corrotti, di sporco hanno soltanto i loro vestiti e le loro mani dopo una giornata di lavoro spossante nelle serre e nei campi.
   Non è con loro che gli amanti di sangue e di violenza potranno estinguere la loro sete. Anche questo, abbiamo il dovere di gridarlo, alto e forte. Tutti i paesi e la diaspora non devono dimenticarlo.
   Il governo ha preso una decisione. Buona o cattiva che sia, bisogna accettarla nel reciproco rispetto.
   Ma è anche necessario che coloro che sono a favore del piano di disimpegno abbiano compassione per coloro che stanno per lasciare alle spalle un intero lembo della loro vita. Non devono dimenticare che il più grande degli indennizzi non rimpiazzerà mai i ricordi, le sofferenze, ma anche le gioie, che i loro fratelli di Gush Katif devono abbandonare.
   Chi è fra di noi, ebreo di una qualsiasi nazione, che non ha provato le angosce dell'esodo, subito se non da lui stesso almeno dai suoi genitori o dai suoi nonni? Loro, che impropriamente sono stati chiamati "dei coloni", stanno per subire un esodo interiore, probabilmente il più terribile di tutti, affettivamente parlando.
   Non dobbiamo mai dimenticare che alle nostre porte, i nostri nemici, i nostri detrattori, i nostri "cari" antisemiti di ogni risma non aspettano altro che di vederci uccidere fra di noi per poterci finire meglio.
   Israele è un'"immensa" piccolissima nazione. Dobbiamo saperla conservare e questo passa attraverso l'unità, anche se questa ha un gusto d'amarezza.

(Guysen Israël News, 1 luglio 2005) 

*

Lettera ai soldati e ai poliziotti dell'espulsione da Gaza

di Rachel Chajbi

Caro soldato/poliziotto, 

In questa lettera non troverai ideologia. È un appello completamente personale, direttamente da me al tuo cuore.
Mi chiamo Rachele, sono nata 25 anni fa a Yamit [una comunità ebraica nel Sinai che fu distrutta e il terreno dato all'Egitto nel quadro degli Accordi di Camp David] e sin dall'espulsione di Yamit ho vissuto a Gush Qatif.
Vivo qui con mio marito, le mie due figlie, i mie genitori, i miei fratelli e sorelle e mia nonna - quattro generazioni che vivono felicemente insieme nel posto che amano così tanto.
Mi rivolgo a te pregandoti di considerare la missione che ti si chiede di compiere.
Chiudi gli occhi e immagina il seguente scenario: bussi alla porta di casa della famiglia Shalva a Newe Deqalim, presenti loro l'ordine di espulsione e cominci a eseguire l'ordine.

• Cominciamo con l'espulsione della prima generazione.
   Mia nonna, Nonna Penina (Perla), ha 92 anni, è una sopravvissuta alla Shoà, una che arrivò in Israele in una barca illegale, ma le fu negato l'ingresso e fu sbattuta fuori, a Cipro. Persino dopo essere arrivata in Israele ha avuto moltissime difficoltà. Questa è casa sua, e non ne ha un'altra da diciassette anni.
Questa espulsione non è davvero difficile. È una donnina fragile che non pesa molto, e naturalmente non ha la forza di resistere. Ma perché ti si riempiono gli occhi di lacrime quando gli occhi di Penina esprimono chiaramente che questa non è la prima volta che la sbattono fuori da casa sua? Nel passato fu sbattuta fuori di casa un'altra volta - direzione Auschwitz.
Nonna Perla è nell'autobus. L'espulsione della prima generazione si è svolta con successo.

• Ora torniamo alla casa, alla seconda generazione.  
I miei genitori, mio padre Moshè (il figlio di nonna Perla) e mia mamma Esti, non oppongono nessuna resistenza, ma i loro occhi sono pieni di lacrime che raccontano la loro storia. Moshè ed Esti sono stati sbattuti fuori dalla loro casa a Yamit 23 anni fa. Quando bussarono alla loro porta e li misero su un autobus coi loro quattro figli, il più vecchio di tre anni e mezzo e il più giovane che aveva solo qualche settimana di vita, promisero loro che l'autobus li avrebbe portati a Beer Sheva e che lì si sarebbero occupati di loro.
Con uno zaino a tracolla in cui c'era un ricambio per ogni bambino e qualche pannolino di stoffa, mamma e papà erano proprio dei profughi in tutti i sensi. Era ovvio che se fossero arrivati a casa dei loro genitori in quello stato, l'associazione di idee di quei sopravvissuti all'olocausto sarebbe stata un fardello troppo gravoso da sopportare e quindi non si fecero vedere.
Dopo aver atteso quattro ore sui marciapiedi della Stazione Autobus di Beer Sheva, mio padre si rivolse alla polizia. Anche lì non trovò nessun aiuto. Dopo un'attesa durata molte ore, un buon ebreo passò di là e dopo aver ricevuto risposta negativa alla domanda se avessero un posto in cui dormire, li invitò a casa sua a Gane' Tal.
In quei giorni vivevamo nel foyer della casa di quella famiglia, fino a che non trovammo un alloggiamento temporaneo nella comunità di Qatif. Fino a che la nostra casa fu costruita a Newè Deqalim, i miei genitori fecero ogni sforzo possibile per riorganizzarsi una nuova vita. Mio padre aprì con le sue mani un'azienda [agricola] a Newè Deqalim e la vita tornò alla normalità, o così sembrava...
Anche Moshe ed Esti sono quasi sull'autobus, quando ti ricordi di colpo che in verità non hai nessuna risposta alla domanda sospesa nell'aria tra voi due: "E adesso dove [andremo]? E poi? Che cosa accadrà adesso?"
Adesso, anch'essi sono sull'autobus e l'espulsione della seconda generazione è stata completata con successo.

• Questa volta, con passo meno leggero, ritorni per continuare con la terza generazione. 
Undici dei miei dodici fratelli e sorelle vivono a Newè Deqalim, da Ori 26 anni, a Tifereth, la più giovane, che ha appena finito la prima elementare. Adesso la missione sembra un po' più difficile. Andare avanti e indietro verso l'autobus nel caldo pesantissimo è difficile, ma è ancora più difficile sopportare gli sguardi dei bambini, pieni di paura quando ti vedono - perché hanno sempre creduto che tu sia lì per proteggerli e farli sentire sicuri. Adesso li stai strappando via dalla loro casa, in cui sono nati e cresciuti.
Gli undici bambini sono stati messi sull'autobus e anche le spose e i due novelli sposi si sono aggiunti alla famiglia da poco. L'espulsione della terza generazione è terminata con successo come le altre.
Adesso ritorni alla casa, mentre il pianto e le urla dall'autobus echeggiano nelle tue orecchie, le tue gambe obbediscono a stento ai tuoi comandi. Solo la quarta generazione rimane da espellere - e questa è veramente un gioco da bambini. Due bambine piccole, Morià, di quattro anni e mezzo e Efrat, di due anni e mezzo, le mie figlie. Che cosa può essere così difficile nel prendere due bambine?
Le sollevi entrambe, insieme, senza sforzo, e le trasporti verso l'autobus, quando all'improvviso, Morià dice in lacrime: "Ma io voglio casa mia!" e di colpo ti rendi conto che quando avrai finito con la quarta generazione, avrai cancellato la vita normale di un'intera famiglia. Quando rifletterai sulle mie bambine nelle tue mani, penserai alla prossima generazione, penserai ai tuoi bambini, o ai bambini che avrai in futuro. Di colpo sei preso dalla paura quando pensi a ciò che dirai ai tuoi bambini quando ti chiederanno come hai servito lo Stato - Sarai capace di dir loro che sei fiero del servizio fatto allo Stato?
Pensa, te ne prego!
No, in realtà non devi disobbedire agli ordini.
Se ricevessi l'ordine di sollevare un camion che pesa un sacco di tonnellate, non dovresti disobbedire agli ordini - semplicemente non avresti abbastanza forza da compiere la missione.
Anche l'anima ha i suoi limiti!
Mi rivolgo alla tua anima, al cuore di quel soldato e ufficiale che giurò di proteggere lo Stato d'Israele.
Pensa, ti prego!

(italianhonestreporting@yahoogroups.com, 27 luglio 2005)


*

Dolorose concessioni in nome della pace

La pace, obiettivo fondamentale della tradizione ebraica, è da sempre l’obiettivo politico esplicito dello Stato di Israele. Israele ha cercato a lungo di arrivare alla pace con i suoi vicini arabi e in particolare con i palestinesi. La grande sfida nel fare la pace risiede nel fatto che si tratta di un processo che si auspica non si concluda semplicemente con la cessazione delle ostilità tra ex nemici, bensì con l’inizio di un nuovo rapporto di coesistenza. L’obiettivo ultimo di Israele è stabilire relazioni di buon vicinato con il futuro stato palestinese.
Sullo sfondo di più di quattro anni di stragi terroristiche, Israele ha avviato il suo piano di disimpegno dalla striscia di Gaza e parte della Cisgiordania settentrionale allo scopo sia di migliorare la propria sicurezza, sia di rimettere in moto il processo di pace con i palestinesi. Affinché abbia la possibilità di funzionare, il piano richiede un considerevole sacrificio da parte di circa 1.700 famiglie, per un totale di circa 8.000 persone, che dovranno lasciare le case e le attività che si erano costruite nell’arco di vari decenni.
Nell’immediato, sono questi israeliani delle colonie che dovranno pagare gran parte del prezzo per la pace. Erano stati incoraggiati dai precedenti governi israeliani ad insediarsi su terre aride e trascurate per trasformarle in case, giardini e fattorie con lo stesso spirito pionieristico che a suo tempo contribuì a creare le basi dello Stato di Israele. Ora viene chiesto loro di abbandonare queste realizzazioni in nome di un bene più grande.
Molti di loro, arrivati nella striscia di Gaza come giovani coppie, devono ora affrontare il trauma di lasciare le proprie case insieme a figli e nipoti per i quali la striscia di Gaza è stata terra natale e unico luogo di residenza in tutta la loro vita.
Ecco a che cosa gli israeliani stanno rinunciando in nome della pace. Complessivamente lo sgombero dei 25 villaggi ebraici israeliani dalla striscia di Gaza e di parte della Cisgiordania settentrionale significa che:

  • devono essere chiusi 42 centri assistenziali day-care, 36 asili, sette scuole elementari e tre scuole superiori;
  • 5.000 scolari devono inserirsi in altre scuole;
  • devono essere smantellate 38 sinagoghe;
  • 166 aziende agricole israeliane devono essere chiuse, con la perdita di posti di lavoro anche per 5.000 palestinesi;
  • 48 sepolture del cimitero ebraico di Gush Katif devono essere riesumate e trasferite in Israele, comprese quelle di sei abitanti uccisi da terroristi.

"Come si può vedere – conclude il ministero degli esteri israeliano – Israele sostiene con i fatti i propri impegni verbali ed è pronto a pagare un prezzo doloroso in nome della pace”.

(MFA, 28 luglio 2005)


(Notizie su Israele, 29 gennaio 2024)

........................................................


Israele aveva già denunciato il coinvolgimento dell’UNRWA ma non era stato ascoltato

Nuovi dettagli scioccanti nel rapporto del New York Times  Rapimenti e massacri perpetrati dai dipendenti UNRWA. L’Austria si unisce al blocco di fondi
È di oggi, lunedì 29 gennaio 2024,  la notizia che l’Austria si unisce a una lista crescente di Paesi, tra cui Stati Uniti, Italia, Germania, Canada, Regno Unito, Finlandia, Australia e Paesi Bassi che hanno annunciato la sospensione dei finanziamenti all’UNRWA. Questa decisione segue l’esempio di Francia e Giappone, che ieri hanno preso la stessa misura. Il motivo di questa mossa è l’attesa di un’indagine approfondita sulle accuse secondo cui dipendenti dell’UNRWA sarebbero coinvolti nell’attacco di Hamas contro Israele del 7 ottobre.
L’Austria, come riportano  i media odierni, ha donato circa 8 milioni di dollari nel 2022, diventando così il 22esimo maggiore finanziatore dell’agenzia per i rifugiati palestinesi. «Chiediamo all’UNRWA e alle Nazioni Unite di condurre un’indagine ampia, rapida e completa sulle accuse», ha affermato il ministero degli Esteri austriaco in una nota.
Intanto emergono nuovi dettagli sempre più inquietanti sui dipendenti dell’UNRWA accusati di aver contribuito al raid di Hamas. Un importante rapporto pubblicato domenica scorsa, attribuito al New York Times e riassunto dal Times of Israel e da Channel 13, rivela che i 12 lavoratori dell’UNRWA, saliti alla ribalta in questi giorni, sono stati licenziati in seguito alle accuse pesantissime di rapimento di israeliani, trasporto di munizioni e coinvolgimento nell’attacco di Hamas.
Il documento afferma che un consulente scolastico dell’UNRWA di Khan Younis, nel sud di Gaza, è accusato di aver collaborato con suo figlio per rapire una donna israeliana. Un assistente sociale di Nuseirat, nel centro di Gaza, è invece accusato di aver contribuito al trasporto del corpo di un soldato israeliano morto a Gaza, distribuendo munizioni e coordinando i veicoli durante l’attacco.
Il rapporto dettaglia e conferma che sette degli accusati erano insegnanti nelle scuole dell’UNRWA, mentre gli altri tre ricoprivano ruoli diversi come impiegato, assistente sociale e magazziniere. Secondo il dossier, 10 dei lavoratori sono membri di Hamas, mentre uno appartiene alla Jihad islamica palestinese.
Le accuse sono basate su raccolte di Intelligence israeliana, che ha rintracciato telefoni, monitorato telefonate e letto messaggi di testo. Sei persone sono state coinvolte direttamente, e altre hanno discusso del loro coinvolgimento nell’attacco. Il governo degli Stati Uniti, pur non potendo verificare i dettagli o le identità degli accusati, ha sospeso i finanziamenti reputando le accuse sufficientemente credibili.
Il canale israeliano Channel 13 ha riferito che due ostaggi israeliani, rilasciati da Gaza, avevano testimoniato di essere stati tenuti prigionieri dagli operatori dell’UNRWA.
Nel frattempo, fonti diplomatiche hanno riferito al quotidiano Israel Hayom che Gerusalemme aveva informazioni sui lavoratori dell’UNRWA da settimane, ma le aveva trattenute pubblicamente per preservare l’organismo, considerato essenziale nel contesto di Gaza. Il giornale afferma inoltre che non è chiaro il motivo per cui l’UNWRA abbia improvvisamente annunciato l’indagine sui suoi lavoratori e ipotizzava che ciò fosse dovuto al fatto che sarebbe stato esposto pubblicamente in una prossima udienza del Congresso degli Stati Uniti.
Sempre oggi, il quotidiano Israel Hayom ha rivelato che «lavorare per l’UNRWA è molto redditizio. I dipendenti dell’agenzia hanno diritto all’istruzione, alla Sanità, alle cure odontoiatriche, alla distribuzione di cibo e ai servizi sociali gratuiti. Queste condizioni favorevoli hanno indotto molti terroristi di Hamas a registrarsi come dipendenti dell’Agenzia. Questa doppia affiliazione, con Hamas e UNRWA, consente ai terroristi dell’organizzazione di utilizzare liberamente le infrastrutture dell’Agenzia per altri scopi che sono stati scoperti innumerevoli volte durante le operazioni antiterrorismo dell’IDF nella Striscia».

(Bet Magazine Mosaico, 29 gennaio 2024)

........................................................


Gli annunci sulla tregua per i rapiti

di Ugo Volli

• La smentita di Israele
  Il governo israeliano ha smentito ieri l’indiscrezione pubblicata sabato dal New York Times e largamente ripresa dalla stampa internazionale e anche da quella italiana, secondo cui sarebbero stati compiuti progressi significativi su un accordo per la liberazione dei rapiti. Secondo le fonti governative israeliane, la notizia “potrebbe riflettere un pio desiderio da parte degli americani, o il tentativo di creare l’apparenza di un accordo. Vorremmo che fosse vero, ma purtroppo non lo è”. Israele – scrive il quotidiano Yedioth Ahronoth – non è a conoscenza di alcuna ammorbidimento nella posizione di Hamas, che continua a insistere su una cessazione delle ostilità come condizione per un accordo.

• La bozza dell’accordo
  Secondo quel che aveva scritto il NYT, citando dei “negoziatori guidati dagli Stati Uniti” una bozza di accordo già scritta e quindi vicina all’approvazione finale, che doveva essere raggiunta in colloqui da tenersi a Parigi, avrebbe previsto il rilascio graduale degli oltre cento rapiti detenuti da Hamas in cambio di uno stop dell’offensiva militare israeliana per circa due mesi. Nella bozza si ipotizzava una prima fase con un cessate il fuoco di 30 giorni, durante la quale Hamas avrebbe rilasciato prima le donne, gli anziani e i feriti. Nel frattempo, le parti avrebbero dovuto concordare una seconda tregua, sempre di 30 giorni, per consentire anche il rilascio degli uomini e dei militari israeliani. La bozza, inoltre, avrebbe inclusa anche un potenziamento dell’assistenza umanitaria alla popolazione civile nella Striscia di Gaza, mentre sarebbe rimasto da stabilire il numero di palestinesi, attualmente detenuti nelle prigioni israeliane, che dovevano venir rilasciati. C’è stato in effetti un incontro a Parigi, con il capo della Cia, del Mossad e il primo ministro del Qatar. Ma, secondo un comunicato dell’ufficio del primo ministro di Israele “Rimangono ancora notevoli differenze di vedute sulle quali le parti continueranno a discutere questa settimana in ulteriori incontri reciproci.”

• Perché l’accordo è impossibile oggi
  Lo schema di un accordo di tregua presentato come imminente e poi smentito è ricorrente in questa guerra. La ragione è che né Israele né i terroristi sono davvero disponibili ad arrivare a un punto di accordo. Hamas assiste alla distruzione progressiva della sua potenza militare, sa di non poterla contrastare e di avere a suo disposizione solo due carte: i rapiti e l’appoggio internazionale, vuoi dei nemici espliciti di Israele, vuoi di “pacifisti” che si interessano delle sofferenze del popolo di Gaza, che peraltro ai terroristi non interessano affatto. Dunque è disponibile solo a un accordo che interrompa del tutto la guerra, assicurandogli (secondo l’ultima richiesta addirittura con garanzie internazionali) la continuazione del dominio di Gaza e magari anche dell’Autorità Palestinese, magari sotto le vesti di un governo di unità. Israele, circondato da potenze ostili, minacciato di ripetizioni del pogrom del 7 ottobre “fino alla sua distruzione”, non può fermare l’offensiva a Gaza se non garantisce la sicurezza a lungo termine dei suoi cittadini, il che può avvenire solo con la distruzione totale di Hamas. E’ difficile da dire, ma sta nella logica delle cose: sarebbe suicida per Israele pagare la salvezza dei rapiti dando a Hamas la possibilità di riarmarsi e compiere nuovi rapimenti e nuove stragi.

• La ragione degli annunci di tregua
  Perché dunque questo schema ripetuto? Si tratta di tentativi di influire sulla posizione internazionale di Israele, attribuendogli la responsabilità dello stallo, o addirittura di agire nella politica interna israeliana, costruendo appoggi alle forze che vogliono far cadere il governo di Netanyahu, che rimane il più deciso a proporsi la distruzione completa di Hamas. E’ chiaro che vi è una volontà politica e in parte elettorale dell’amministrazione americana di far concludere la guerra di Gaza. Oltre alle “notizie” su improbabili accordi, sono circolate anche minacce di sospendere o ritardare i rifornimenti di munizioni, se Israele non “rallenterà” la sua azione a Gaza. E’ difficile stabilire se l’amministrazione Biden comprenda di premere per una soluzione che mettere in pericolo il futuro di Israele e cinicamente non ci faccia caso, o se davvero si illuda al mito di una pace possibile con una Autorità Palestinese “rivificata”, nonostante la sua vocazione storica alla distruzione di Israele, confermata anche in questi giorni.

(Shalom, 29 gennaio 2024)

........................................................


Mihael, 25 anni, l'autore del cartello pro Israele da una finestra di Milano

Bergamasco, fondatore di una startup a Dublino, ha sfidato i manifestanti non autorizzati per la Palestina: «C'è chi mi ha chiesto di fare il sindaco e chi mi ha dato dell'infame sionista. Rivendico la mia idea, Hamas è un'organizzazione terroristica, questi cortei non vogliono la pace».

di Matteo Castagnoli

FOTO
«Con quel cartello ho espresso un pensiero che dovrebbe essere universale, e cioè criticare un’organizzazione terroristica. Ossia Hamas. È chiaro chi sia l’aggressore e chi, invece, l’aggredito. Se avessi voluto provocare i manifestanti, avrei scritto altro». Se si bussa alla porta di casa di Mihael Melnic, 25 anni, lui risponde con un socievole «Chi è?». Sembra abituato. Almeno lo sembra dopo sabato pomeriggio, quando quell’appartamento, o meglio quella finestra del soggiorno di una tipica casa di ringhiera affacciata su via Padova, a Milano, è quella su cui si sono concentrate le attenzioni dei manifestanti pro Palestina, delle forze dell’ordine e dei giornalisti. È bastato un cartello di quattro fogli legati con dello scotch. Sopra Mihael, bergamasco d’origini e fondatore di una start up con base a Dublino, ha scritto altrettante parole con un eyeliner nero. «Era l’unica cosa che avevo in casa. Continuavo a rifare la punta». Un improvvisato, dunque, «Free Gaza from Hamas» esibito durante la manifestazione non autorizzata a Milano per la Palestina nel Giorno della Memoria. Dalla strada cori, provocazioni: «Scendi». Dall’alto un ragazzo che dice: «Rivendico un'idea».

- Sapeva di questa manifestazione non autorizzata?
  «No».

- Quindi il cartello non era programmato?
  «Assolutamente no. Stavo tornando a casa da Dublino. Zaino in spalla. Sono passato in mezzo alla folla. Poi dalla finestra ho visto la polizia che bloccava i manifestanti, era il Giorno della Memoria: ho sommato le cose. Ma è a quel punto che ho sentito il bisogno di protestare, pensando tra l’altro da subito alle conseguenze».

- Cioè?
  «Tra le conseguenza possibili, c’era sicuramente il rischio di rivalse personali. Siamo comunque in un quartiere sensibile a certi temi. Ma per me non è concepibile pensare alla violenza come soluzione. In nessun modo. Non è stato un gesto inconsapevole, scellerato o sprezzante. Tutt’altro».

- Infatti dalla strada alcuni manifestanti la sfidavano. Dicevano di scendere se ne avesse avuto il coraggio.
  «Sentivo, sentivo. Mi hanno indirizzato il classico coro “Scemo, scemo”. Addirittura dall’altro lato del cordone di polizia e carabinieri alcune persone pro Palestina in un primo momento mi hanno applaudito perché hanno visto solo due parole “Free Gaza..”. Poi hanno cambiato idea».

- È venuta a cercarla la polizia?
  «Sì, ero ancora alla finestra quando ho sentito bussare forte alla porta. Cercavano di aprirla. Ho avuto paura perché ho pensato fosse qualche manifestante. Ho chiamato il 112, pensi un po’, chiedendo aiuto. Poi mi hanno spiegato che era la polizia in borghese»

- Cosa le hanno detto?
  «Mi hanno chiesto di consegnare il cartello, che ho tenuto perché mio. Mi hanno identificato, e ho raccontato loro chi fossi. Alla fine abbiamo parlato quasi un quarto d’ora, ognuno spiegando le proprie ragioni. Un dialogo cordiale e civile. Come ho detto anche a loro, mi spiace se con quel gesto ho complicato il loro lavoro di ordine pubblico ma non ho fatto nulla di illegale».

- Com’è proseguito il pomeriggio?
  «Non mi sono più affacciato. La sera sono uscito con amici e il mattino dopo mi sono svegliato con la mia faccia in un post del ministro Salvini. È strano. Ma la sovraesposizione non è un problema, per me che sono un ragazzo della generazione Z».

- Ha letto i commenti sui social?
  «Sì, vanno dall’”eroe nazionale”, al “sindaco di Milano” fino all’”infame sionista”. Sorrido».

- Ha mai partecipato a cortei o manifestazioni di piazza?
  «No. Perlomeno non di questo tipo. Difendo comunque le mie idee. In questa guerra tra Israele, che ho tra l’altro visitato più volte, e Hamas le responsabilità dal 7 ottobre sono chiare. Hamas è un’organizzazione terroristica, come ho già detto, e il mio intento era criticarla. In quelle manifestazioni di piazza si sentono cori del tipo “Israele fascista, stato terrorista” che non condividerò mai. Questo aldilà del background culturale e politico di ognuno di noi. Questi cortei non vogliono la pace».

- Lo rifarebbe?
  «Ma certo che sì, rivendico un pensiero. Anche se va detto che questi gesti rischiano di perdere valore se ripetuti. Quindi una volta va bene, di più forse no». 

(Corriere della Sera, 28 gennaio 2024)

........................................................


Viaggio nell’inferno di Khan Yunis: “Hamas ci spara dalle scuole, sbucano e fuggono. Li uccideremo tutti”

A caccia dei tunnel con i soldati israeliani nella città del Sud della Striscia. Della gente di Gaza neanche l’ombra, quartieri residenziali rasi al suolo

di Fabiana Magrì

KHAN YUNIS (striscia di Gaza) - Spazzati come le nuvole dalle raffiche di vento, la polvere e i rumori dei combattimenti in corso nei vicoli stretti dei campi profughi di Khan Yunis arrivano fino al cortile della scuola, alla periferia orientale della città dove ci troviamo. Alle sventagliate delle mitragliatrici segue il boato del missile lanciato dal “chopper”. A Ovest, prima della linea dell’orizzonte sul mare, si alzano colonne di fumo nero. In un attimo, a un chilometro e mezzo di distanza, l’aria si fa nebbia sabbiosa e solleva residui di materiale bruciato, mentre l’elicottero israeliano è già rientrato alla base. Gli edifici della scuola elementare «sono stati usati dai terroristi per spararci addosso e attaccarci», dice a La Stampa il tenente colonnello Anshi dell’unità di riserva paracadutisti della 55esima brigata, nella 98esima Divisione “Ha-Esh” (“Formazione di Fuoco”). Dalle aule dell’istituto le brigate Al Qassam hanno ingaggiato una battaglia ravvicinata con i soldati israeliani. C’era anche Anshi. Un proiettile nemico gli ha perforato il braccio sinistro, da parte a parte. Oggi la scuola è un punto di appoggio logistico per Tsahal. Il pallone di cuoio al centro del cortile - usato evidentemente come campo da calcio oltre che come parcheggio per i tank - lascia intendere che il battaglione di paracadutisti sente di avere la situazione totalmente sotto controllo.
  La porta di accesso per le truppe israeliane che operano a Khan Yunis è la breccia stessa creata da Hamas il 7 ottobre del 2023 nella barriera high tech eretta da Israele per separare e proteggere il territorio dello Stato ebraico da quello palestinese. Una sorta di contrappasso, come tendono a sottolineare i militari che venerdì ci hanno accompagnato nella Striscia - dove non si può entrare se non scortati - insieme con altre quattro testate di stampa internazionale.
  A poche centinaia di metri da quel confine, ancora oggi, emergono nuovi sbocchi di tunnel. Quello su cui ci affacciamo è stato individuato appena due settimane e mezzo fa dalle forze di sorveglianza. In un campo dove non dovrebbe esserci nulla, hanno notato «una pattuglia di combattimento con 15 soldati» e hanno iniziato a indagare. All’interno del pozzo c’era una scala che scendeva in profondità. Era sporca di fango. «Evidentemente qualcuno l’aveva usata dopo le recenti piogge, quando eravamo già qui. È un’ottima posizione per sbucare fuori da sottoterra con un lanciarazzi, sparare sui carri armati e i veicoli che passano a soli 100 metri, quindi tornare indietro e fuggire verso Gaza». Il genio militare l’ha neutralizzato tra giovedì e venerdì, cioè la sera prima di mostrarlo ai giornalisti. Sul terreno c’erano ancora abbondanti tracce, in forma di schiuma solidificata, dell’esplosivo liquido utilizzato. Sembra incredibile ma dopo oltre tre mesi di operazioni militari israeliane nella Striscia, partite da Nord e scese fino a Gaza City, poi proseguite nella regione di Khan Yunis dopo la tregua di fine novembre, la portata della rete dei tunnel di Hamas, con le sue 5 mila gallerie individuate finora - dicono - è ancora capace di stupirli. Centinaia di chilometri di cemento. Un’altra Gaza, tutta sotterranea, costruita a suon di miliardi.
  Generose sovvenzioni del Qatar ad Hamas, che qui comanda dal 2007, su cui il premier israeliano Benjamin Netanyahu non ha interferito.
  Tsahal continua a studiare ogni tunnel. Li bonifica per spianare la strada ai suoi professionisti affinché possano raccogliere tutte le informazioni utili, applicando robotica e diverse tecnologie (su cui non possono scendere nei dettagli), sfruttando l’intelligence, le valutazioni basate sulle immagini e i dati che emergono dagli interrogatori dei militanti di Hamas catturati durante l’avanzata. Al termine delle indagini li distruggono, in modo che non possano essere più utilizzati.
  A fare la scoperta di questa galleria sono stati due riservisti, un avvocato e un imprenditore immobiliare, di 55 e 66 anni. Un’età in cui la maggior parte dei soldati si accontenta di essere considerato veterano di guerra. Loro dicono: «Non potevamo restare a casa. Siamo qui per i nostri figli e le nostre famiglie». Cercare gli ostaggi israeliani non è la loro missione. E non saprebbero dire se il tunnel appena rinvenuto possa essere stato usato per trasportarne qualcuno nelle profondità di Gaza. «Ma - dicono - siamo certi che sia stato utilizzato il 7 ottobre dalle migliaia di terroristi per avvicinarsi il più possibile alla barriera e sferrare l’assalto massiccio ai kibbutzim».
  Khan Younis è il più grande governatorato della Striscia. La sua superficie copre 108 dei 365 chilometri quadrati dell’enclave costiera. Solo qui risiedevano 430 mila persone, di cui i 90 mila nel campo profughi già conducevano una vita ben sotto la soglia di povertà. La loro evacuazione verso Rafah è un evento dalla portata drammatica, che esercita pressioni le cui ricadute diventeranno chiare nei giorni a venire.
  Spostandosi tra la barriera e la scuola, il convoglio delle jeep militari attraversa al-Qarara, dove di civili palestinesi non ce nemmeno l’ombra. All’inizio di dicembre, lungo queste strade e tra gli edifici, si sono consumati violenti scontri a fuoco tra le forze dell’esercito israeliano e gli uomini di Hamas. «È una guerra porta a porta. Ovunque incontriamo il nemico faccia a faccia, vinciamo noi», sostiene il colonnello Anshi. Ma ammette che «quando i terroristi si avvicinano in abiti civili, usano le case, le scuole, le moschee e gli ospedali per attaccare, è lì che riescono a coglierci di sorpresa».
  Le forze israeliane avrebbero neutralizzato tra il 48 e il 60 per cento delle brigate al-Qassam. Il Jerusalem Post ha stimato che le percentuali corrispondono a 9mila miliziani su un bacino di 30-40 mila uomini di Hamas. I morti palestinesi dall’inizio dell’offensiva di terra israeliana - stime del gruppo islamico che non distingue tra civili e miliziani - sono oltre 26 mila.
  Dell’elegante quartiere residenziale che doveva essere, resta ben poco. L’esercito, spiega Anshi strada facendo, rade al suolo ogni edificio in cui rilevi presenza di attività terroristiche o collegamento con esse. Che siano depositi di armi, lanciatori di razzi, imbocchi di tunnel o documenti. Le villette di al-Qarara lasciate in piedi sono poche isole tra le macerie. È il risultato dell’«approccio sistematico» utilizzato da Tsahal. «Area per area, zona per zona. Ovunque arriviamo - spiega il colonnello Anshi - smantelliamo le capacità dei terroristi, uccidiamo i militanti, facciamo saltare in aria le loro infrastrutture. Quando abbiamo finito, passiamo alla zona successiva». Quanto tempo pensi che ci vorrà ancora, gli chiediamo. «Tutto quello necessario», risponde. Poi aggiunge: «Questo è un hub del terrore che è stato costruito in oltre un decennio. Ci vorrà molto tempo per smantellarlo». Il riservista ha 55 anni. Ha partecipato a operazioni militari precedenti. «Ma questa - dice - non è paragonabile a niente che sia stato fatto prima».
  In due mesi, cioè dalla ripresa del conflitto dopo la breve tregua di fine novembre tra Hamas e Israele, la città simbolo del potere dei jihadisti, è stata completamente accerchiata. A Khan Younis è nato Yahya Sinwar, il capo dei capi di Hamas. «Gli stiamo addosso”» dice il colonnello. Ma la caccia all’uomo non ha ancora raggiunto il suo obiettivo più importante.
  Al termine della spedizione, si torna indietro sulle jeep che battono strade senza più nome, rese carrabili ai soli fini militari. Si passa di nuovo attraverso la breccia nella barriera e dopo appena cinque chilometri, attraverso campi e serre di banani, si arriva a Ein Hashlosha, il kibbutz così chiamato in memoria dei tre membri fondatori uccisi durante la guerra arabo-israeliana del 1948. Nel massacro dello shabbat di inizio ottobre, le vittime nelle comunità agricole intorno alla Striscia sono state 1200. E 240 i rapiti. Meno della metà sono stati rilasciati. 136 restano ancora in mano ad Hamas. Una ventina di loro sono già cadaveri. Il soldato di scorta a bordo del veicolo, sulla strada del ritorno, è malinconico. Canta tra sé e sé «Ulai» («Forse») del cantautore Aviv Geffen: «E se vedi una ragazza con gli occhi da cerbiatta, dille che la sto ancora cercando».

(La Stampa, 28 gennaio 2024)

........................................................


Ottolenghi: il 7 ottobre ha dato la stura a odio e pregiudizio

Il 7 ottobre avrebbe aperto un vero e proprio “vaso di pandora” di odio e pregiudizi. A proporre la metafora è stato Guido Ottolenghi, imprenditore e presidente del Museo ebraico di Bologna, durante una conferenza alla Biblioteca comunale dell’Archiginnasio sullo stato dell’antisemitismo. Da quel giorno la prospettiva della Memoria è mutata, ha spiegato Ottolenghi, secondo il quale non potremmo rinnovare il ricordo del nazifascismo e delle sue responsabilità “senza pensare che dominava la società con violenza e ingiustizia, ma soprattutto riunendo gli animi contro un nemico immaginario e usando l’educazione irregimentata fino dalla più tenera infanzia per indottrinare alla violenza e alla deumanizzazione”. Che è poi “quello che fa Hamas”, che da vent’anni domina Gaza “senza interferenze” e nel tempo ha beneficiato di “fiumi di fondi europei e di altri paesi”, mentre “le scuole finanziate dall’Onu insegnano l’odio per gli ebrei”. All’esterno dell’edificio un gruppo di antagonisti ha contestato l’iniziativa, brandendo un cartello in cui si leggeva: “Il nuovo genocidio è in Palestina”. Un’altra distorsione della Memoria, l’ennesima. “Un campanello d’allarme che suona ormai da 100 giorni”, ha denunciato il presidente della Comunità ebraica Daniele De Paz, nel lanciare un appello all’uso delle parole “con la massima consapevolezza”, specie quando si evocano certi fatti. Il 7 ottobre “ha cambiato il mondo”, ha evidenziato. Eppure in tante piazze si sono uditi slogan antisemiti, compiendo così “uno sfregio alla memoria” delle vittime della Shoah.

(moked, 28 gennaio 2024)

........................................................


Lo scandalo dell’UNRWA: i dipendenti ONU collaborazionisti del 7 ottobre

di Ugo Volli

• I dipendenti dell’Onu che hanno partecipato al massacro
  La notizia è allo stesso tempo clamorosa e prevedibile: Israele ha fornito le prove del coinvolgimento di un certo numero di funzionari di un’agenzia dell’Onu (l’Unrwa, United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East) nella programmazione e nell’esecuzione del massacro del 7 ottobre. Sono prove così consistenti da obbligare l’agenzia ad annunciare immediatamente di aver licenziato le persone in questione e da far sì che alcuni stati (finora gli Usa, il Canada, l’Australia, la Finlandia, la Gran Bretagna, l’Olanda e per fortuna anche l’Italia) abbiano sospeso i finanziamenti largamente concessi dalla comunità internazionale all’agenzia. Il quartier generale delle Nazioni Unite ha definito le accuse “orribili e molto gravi”, riferisce il New York Times. Questo è l’aspetto clamoroso: che dipendenti dell’Onu siano coinvolti in crimini di omicidio, stupro, rapimento di massa.

• Che cos’è l’Unrwa
  L’Onu ha due agenzie dei rifugiati: una si chiama Unhcr (United Nations High Commissioner for Refugees ) e si occupa dei rifugiati di tutto il mondo, ha circa 20 mila dipendenti e cerca di integrare le persona di cui ha cura nelle società in cui sono rifugiate, cioè di superare la loro condizione di rifugiati; l’altra è l’Unrwa, che si occupa solo ed esclusivamente dei palestinesi, ha 30 mila dipendenti, di cui 13.000 residenti a Gaza. Solo 300 sono funzionari internazionali, tutti gli altri sono arabi locali; il suo obiettivo dichiarato non è di integrare i suoi assistiti, non di superare la condizione di rifugiati ma al contrario di tenerli in una condizione di estraneità e di ostilità a Israele per conservarne “l’identità nazionale”. Per questa ragione la sua definizione di “rifugiati palestinesi”, a differenza di quella generale dell’Unhcr, non comprende solamente coloro che sono personalmente fuggiti dalla guerra, ma anche i loro discendenti senza limiti di generazioni, anche quelli che vivono da decenni in altri paesi, che ne hanno ottenuto la cittadinanza e vi si sono integrati economicamente e socialmente. Essa agisce in sostanza come un braccio dell’amministrazione palestinese, in particolare di Hamas, aderendo alla sua ideologia.

• La contiguità con Hamas
  I libri di testo adottati nelle sue scuole sono condensati di antisemitismo, spesso i saggi finali delle classi mettono in scena atti di terrorismo contro israeliani o sono costituiti da prove di addestramento militare. Alcuni rapiti del 7 ottobre hanno denunciato dopo la liberazione di essere stati tenuti prigionieri in case dei suoi dipendenti. Israele ha più volte pubblicato foto di armi trovate a Gaza in borse con il logo dell’Unrwa e dell’uso di sacchi marchiati dall’agenzia nella costruzione di tunnel d’attacco. Mine sotterranee e depositi di armi erano stati scoperti nelle scuole e negli ospedali dell’organizzazione, nelle elezioni sindacali dei dipendenti hanno sempre vinto liste legate a Hamas. Ma tali prove non avevano convinto finora i finanziatori della fondatezza dell’accusa di “sostegno al terrorismo”. Questa volta Israele ha presentato alle Nazioni Unite accuse basate sulle testimonianze dei terroristi catturati: dodici partecipanti al massacro del 7 ottobre, presi prigionieri durante le operazioni ha Gaza hanno ammesso di lavorare per l’UNRWA e avevano i documenti relativi. Era una complicità prevedibile per chiunque guardasse senza pregiudizi l’attività dell’Unrwa.

• Le richieste israeliane
  Israele ora chiede che la leadership dell’Unrwa venga licenziata, che l’organizzazione sia sostituita con un’”agenzia dedicata alla vera pace e allo sviluppo”, come ha detto sabato sera il ministro degli Esteri Israel Katz. Elogiando le decisioni di diversi paesi di smettere di finanziare l’Unrwa, ha aggiunto: “Chiedo che più nazioni aderiscano: i legami dell’UNRWA con Hamas, che forniscono rifugio ai terroristi e perpetuano il suo dominio, sono innegabili”.

(Shalom, 28 gennaio 2024)


*


Tutti sapevano della UNRWA ma adesso cadono dalle nuvole

Noi ne avevamo chiesto la chiusura nel 2016, invece è rimasta la copertura dei peggiori traffici di Hamas e della Autorità Palestinese

di Maurizia De Groot Vos

Tutti sapevano che la UNRWA, l’agenzia ONU studiata apposta per i palestinesi, era un’arma potentissima nelle mani di Hamas e di Fatah.
Noi ne avevamo chiesto la chiusura nel 2016 adducendo queste motivazioni e queste altre dando il via a una campagna che nei mesi successivi ha portato alla luce come nelle scuole della UNRWA si insegnasse ai bambini a odiare gli ebrei addirittura adottando libri di testo antisemiti dove si arrivava a glorificare Hitler.
Tutti sapevano che la UNRWA era il bancomat di Hamas e della Autorità Palestinese. I primi controllavano il 100% degli aiuti umanitari e del denaro che attraverso la UNRWA arrivava a Gaza, i secondi controllano ancora aiuti e denaro che arrivano a questa finta agenzia dell’ONU che è riuscita nel tempo, unico caso al mondo, a moltiplicare i rifugiati palestinesi invece di diminuirli come succede con la UNHCR.
Tutti sapevano che Hamas nascondeva le armi nei depositi della UNRWA, che i tunnel del terrore partivano e arrivavano sotto le sedi ONU, così come sotto gli ospedali.
Oltre 30.000 dipendenti, il 99% palestinesi, la UNRWA (Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi di Palestina nel Vicino Oriente) è il più importante centro di occupazione palestinese.
Alcune cose da notare che dovrebbero dar da pensare. Solo nella Striscia di Gaza i dipendenti della UNRWA sono oltre 12.000 ai quali si aggiungono circa mille ONG, più o meno lo stesso numero di Organizzazioni non Governative che operano in Congo. Fate voi le proporzioni.
Miliardi di dollari in aiuti umanitari affluiti nella Striscia di Gaza, decine di migliaia di operatori del settore umanitario come non ce ne sono da nessuna parte per un territorio così piccolo, e ancora non hanno un acquedotto decente o un decente sistema per le acque reflue.
E c’è chi ha il coraggio di dire che la popolazione non c’entra niente con Hamas. No, la popolazione di Gaza è Hamas Il 7 ottobre distribuivano i dolcetti per le strade di Gaza e festeggiavano gli “eroici stupratori” al loro ritorno. Li accoglievano nei solidi rifugi della UNRWA dove probabilmente nascondevano anche gli ostaggi.
Tutti sapevano, dal Segretario Generale dell’ONU fino all’ultimo pecoraio di Gaza. E adesso, colti in fallo, cadono dalle nuvole?

(Rights Reporter, 28 gennaio 2024)

........................................................


Netanyahu alla stampa: "Molti nel mondo non hanno imparato nulla dalla Shoah"

Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha tenuto una conferenza stampa sabato sera in cui ha iniziato ricordando i soldati caduti negli scontri con i terroristi di Hamas nella Striscia di Gaza. Ha sottolineato ancora una volta gli obiettivi di questa guerra, ricordando che si era impegnato a eliminare Hamas, a riportare tutti gli ostaggi e a far sì che Gaza non fosse più una minaccia per Israele.
   Ha aggiunto: "Non dimenticheremo mai gli orrori commessi il 7 ottobre". Ha poi affermato che Israele è già riuscito a riportare a casa 110 ostaggi e che ha il dovere di liberare tutti coloro che sono ancora trattenuti dall'organizzazione terroristica, sottolineando che gli sforzi a tal fine sono in corso 24 ore su 24.
   Ha aggiunto: "Non dimenticheremo mai le atrocità perpetrate dai mostri di Hamas contro i nostri figli, e quindi non c'è altra strada che la vittoria assoluta. Abbiamo l'obbligo di vincere e vinceremo!
   Netanyahu ha anche fatto riferimento alla decisione della Corte internazionale di giustizia dell'Aia. Ha dichiarato: "Oggi è la Giornata internazionale dedicata alla memoria delle vittime della Shoah. Non c'è niente di più assurdo che vedere, alla vigilia della commemorazione della Shoah, persone che vengono all'Aia per lanciare contro di noi false accuse di 'genocidio'. E in nome di chi sono venuti? In nome di Hamas, i nuovi nazisti!
   Netanyahu ha poi mostrato il libro "Mein Kampf" trovato a Gaza e ha dichiarato: "I nostri combattenti lo hanno trovato nelle case dei civili della Striscia di Gaza. Hanno trovato letteratura antisemita e nazista. Questo è ciò che loro (i gazesi) stanno insegnando ai loro figli. Una volta eliminato Hamas da Gaza, non ci sarà più nessuno che inciterà questi bambini a distruggere Israele e il popolo ebraico nel suo complesso.
   In nome dei nuovi nazisti", ha aggiunto, "il Sudafrica è venuto all'Aia. La stessa volontà di discutere questa accusa dimostra che molti nel mondo non hanno imparato nulla dalla Shoah. Lo Stato ebraico è stato creato per fornire una forza protettiva al popolo ebraico".
   Netanyahu ha poi ribadito: "Abbiamo imparato le lezioni della Shoah, la più importante delle quali è che dobbiamo garantire la nostra sicurezza con le nostre forze. Nessuno lo farà per noi, quindi di fronte all'entità del dolore che proviamo, dobbiamo rimanere forti e determinati e rispondere con la guerra a coloro che vogliono distruggerci". Lo Stato di Israele è nato dalle ceneri della Shoah per fornire una forza protettiva al popolo ebraico e Israele, come ogni altro Stato sovrano, rivendica il proprio diritto a difendersi e nessuno ci impedirà di farlo".
   Ha poi sottolineato che la guerra di Israele è totalmente giustificata e che il suo esercito è un modello di moralità. "Questa guerra ci è stata imposta da un nemico odioso che proclama apertamente la sua intenzione di uccidere tutti gli ebrei".

(LPH INFO, 27 gennaio 2024)

........................................................


«Keren» una parola profetica per il Messia (7)

«Keren» nella redenzione e nella speranza del Messia.

di Gabriele Monacis

Se consideriamo i contesti in cui troviamo la parola keren nella Bibbia, riconosciamo che si tratta di un'espressione profetica della vita e dell'opera del Messia. Incontriamo keren nel contesto del sacrificio, ad esempio negli altari del santuario su cui veniva versato il sangue dei sacrifici. Lo vediamo anche nelle storie dei re d'Israele, dove uomini come Davide e Salomone venivano unti con olio da un corno dell’unzione. Infine, lo troviamo in un contesto di vittoria, quando Israele iniziò a conquistare la Terra Promessa. I corni suonarono, le mura di Gerico caddero e Israele riportò una grande vittoria sui suoi nemici.
   Si può forse paragonare la parola keren a una moneta con l'immagine di un re.  Da un lato della moneta vediamo il Messia-Re sofferente che dà la sua vita in sacrificio per la redenzione del suo popolo; dall'altro lato vediamo  lui (e con lui il suo popolo) che ha la vittoria sui suoi nemici. Entrambi i lati della medaglia appartengono alla vita e all'opera di Gesù Cristo, il Re dei re, il nostro Salvatore.
   Chiunque crede nella potenza del sacrificio di Gesù riceve la redenzione dai propri peccati, la forza al posto della debolezza, la vita al posto della morte. E non solo, i credenti in Gesù Cristo possono essere certi che verrà il giorno in cui la sua vittoria sul peccato e sulla morte sarà anche la loro vittoria: nel grande giorno della risurrezione, quando coloro che stanno dalla parte del Cristo vincitore saranno trasformati per sempre, mentre i nemici di Dio rimarranno sotto il giudizio e nella morte.
   All'inizio del primo libro dei Re, leggiamo un'altra storia di giudizio contro i nemici dell’Unto. Quando Adonia, un figlio del re Davide, si rese conto che suo padre si stava indebolendo e presto sarebbe morto, decise di diventare lui stesso il nuovo re. Davide invecevoleva che fosse Salomone a succedergli sul trono d'Israele e mandò Zadok a ungerlo come re. Quando Adonia lo seppe, ebbe paura. E se fosse stato dichiarato nemico del re ed eliminato? “E Adonia ebbe paura di Salomone, si alzò, andò e afferrò i corni dell'altare" (1 Re 1:50). Per Adonia c'era un solo posto dove poteva essere al sicuro, dove il giudizio del re non poteva raggiungerlo: i corni dell'altare degli olocausti. Lo stesso fece in seguito anche Joab (1 Re 2:28). La parola ebraica per "corni” in entrambi gli episodi in 1 Re è keren.
   Adonia e Joab sono esempi di nemici di Dio: coloro che non si inchinano davanti all'unto che Dio ha scelto come re del suo popolo su questa terra. Allora l'unto era Salomone, oggi l'unto di Dio è il Signore Gesù Cristo. E come per Adonia e Joab, oggi c'è un solo luogo sicuro dove coloro che non si sono ancora inchinati davanti a Dio possono trovare la redenzione e la vita, e non il giudizio e la morte: i corni dell'altare, il luogo dove il Messia Gesù ha sacrificato la sua vita per coloro che sono sotto il giudizio di morte di Dio a causa della loro vita peccaminosa, e che tuttavia vorrebbero sinceramente essere redenti.
   Alla fine di questo articolo, vogliamo considerare anche un altro passo biblico che ha a che fare con la parola keren. Esso rafforza la nostra speranza riguardo al popolo d'Israele, che un giorno arriverà a credere in Gesù come il Messia di Dio promesso nell'Antico Testamento.
   In Esodo 34 leggiamo che quando Mosè  scese dal Monte Sinai, dove Dio gli aveva parlato, il suo volto era risplendente. La parola ebraica per “risplendere” o "brillare", karan (קרן), ha la stessa radice della parola keren ("corno"). La Bibbia dice che da quel momento in poi, quando Mosè si trovava in mezzo al popolo, si copriva il volto con un velo, affinché il suo splendore non spaventasse nessuno. Ma quando entrava nel santuario per parlare con Dio, si toglieva il velo.
   In 2 Corinzi 3:7-16, Paolo paragona l'incredulità del popolo d'Israele del suo tempo con lo stato dei loro antenati sul Monte Sinai e scrive: Ma le loro menti furono indurite; infatti, sino al giorno d'oggi, quando leggono l'antico patto, lo stesso velo rimane senza essere rimosso, perché è in Cristo che esso è abolito. Ma fino a oggi, quando si legge Mosè, un velo rimane steso sul loro cuore; però, quando si saranno convertiti al Signore, il velo sarà rimosso” (vv. 14-16).
   Quando chiediamo a Dio l'adempimento di tutto ciò che Egli ha promesso, confidiamo in Lui con tutto il cuore, perché Egli è fedele e mantiene la sua parola.

(7. fine)

(Nachrichten aus Israel – Oktober 2022)



........................................................


Di destra, di sinistra e islamista: le tre vie dell’antisemitismo che non muore mai

Nel giorno della Memoria non dobbiamo soprattutto dimenticare i pregiudizi che ancora oggi danno vita all'antisemitismo.

di Guido Salvini

Certamente questo 27 gennaio, giorno della Memoria e del ricordo della Shoah è diverso da tutti quanti l’hanno preceduto. È presente, non solo memoria. Infatti il 7 ottobre è avvenuto il più grande ed efferato sterminio di ebrei dopo il genocidio nazista.
   È più che mai una giornata importante perché, mentre sembra stingersi il senso di orrore per le atrocità del 7 ottobre, molte città a europee e americane sono state percorse da cortei con la bandiera la palestinese, in realtà manifestazioni filo- Hamas, e non altrettanta solidarietà si stringe intorno a Israele. Sembra che sia stato Israele a iniziare una guerra che in realtà non ha voluto ma è stata costretta a condurre se vuole sopravvivere. Intanto sono più che mai attive le tre forme di antisemitismo contro cui la giornata della Memoria dovrebbe essere un argine.
   C’è lo storico antisemitismo di estrema destra, abitato da tratti psicotici. Mi è capitato di parlare con uno di loro, io per principio non rifiuto il dialogo con nessuno, e ho avuto la risposta che gli ebrei complottano per dominare il mondo e corrompere le razze “pure”. L’interlocutore non era capace di dire di più. In alcune loro pubblicazioni si legge addirittura che la maggior parte degli ebrei non sarebbe stata gassata nei campi di sterminio ma avrebbe approfittato della guerra per trasferirsi e far perdere le proprie tracce negli USA e in altri paesi grazie alla loro ricchezza. Come a dire che il padre e i nonni di Liliana Segre non sarebbero morti ad Auschwitz ma avrebbero vissuto a lungo, sotto altro nome, una vita di agi in Florida o in California.
   Poi c’è l’antisemitismo di estrema sinistra secondo cui Israele è solo un avamposto dell’imperialismo americano e come tale da combattere. In quel mondo sono sempre più flebili i tentativi di distinguere antisionismo da antisemitismo, oggi di fatto inseparabili. I “rivoluzionari” di sinistra volutamente ignorano quanto un paese così piccolo ha dato al mondo nel campo delle scienze, agricoltura e medicina soprattutto, della cultura, l’accettabile giustizia sociale che ha raggiunto pur in uno stato di guerra permanente, l’alta percentuale di donne istruite e i diritti civili, politici e religiosi di cui, circondato da un deserto di teocrazie, godono i suoi cittadini ebrei e non ebrei. Evitano di ricordare che negli accordi del 1948 erano previsti due Stati ma i dirigenti palestinesi e i paesi arabi hanno rifiutato il loro e attaccato il neonato Israele da ogni lato, uscendone però sconfitti. Quello che ne è seguito è stato in parte sicuramente ingiusto per la popolazione palestinese ma, come insegna la storia, le guerre volute e perse hanno le loro conseguenze.
   E ovviamente c’è l’antisemitismo islamico, che si impara a scuola nei paesi arabi sin dalla prima elementare e che oggi è più aggressivo che mai. Non bisogna infatti dimenticare che il movimento palestinese, era, sino a 20, anni fa un movimento sostanzialmente laico. Oggi Hamas che vi predomina è una articolazione della Jihad mondiale il cui obiettivo non è tanto uno Stato quanto uccidere più ebrei possibile e farli scomparire per sempre “dal Giordano al mare”. Le sue tecniche e i suoi obiettivi non sono affatto dissimili da quelli dell’ISIS e di Al Qaeda e dal resto della galassia jihadista. Impressiona che a più di tre mesi dall’inizio della risposta di Israele, dura ma inevitabile se vuole avere un futuro come Stato, Hamas sia stata colpita ma sia in ancora in grado pienamente di operare con i suoi razzi e le sue trappole micidiali. Giorno dopo giorno si è scoperto che il sottosuolo di Gaza, una striscia di terra di soli 40 chilometri, è percorso da una rete di tunnel e cunicoli lunga più di 500 chilometri, degna di un film di fantascienza, difficilmente espugnabile, una base terroristica costruita sotto un intero paese.
   Gli uomini di Hamas non hanno il coraggio di combattere in campo aperto. Colpiscono saltando fuori da questi buchi come cavallette, tenendo vigliaccamente i civili sulle spalle. Proprio nel giorno della Memoria impressiona anche quanto sia fragile la conoscenza tanto del passato quanto del presente. Da un recente sondaggio condotto tra studenti anche universitari è emerso che una percentuale significativa ritiene che lo stato di Israele sia nato “dopo gli americani hanno invaso la Palestina” e la maggioranza pensa che gli Ebrei nel mondo siano due miliardi ( sic, sono15 milioni in realtà, come sappiamo) e che Israele sia grande come l’Italia ( in realtà è poco più grande del Lazio). Ebrei e Israele sarebbero quindi una specie di gigante Golia da cui gli arabi si dovrebbero difendere. Queste assurdità dimostrano quanto poco si insegni a scuola e come siano diffusi i pregiudizi antisemiti. In generale, e non solo per contrastare l’antisemitismo, si dovrebbe dedicare un po’ di ore sin dalle scuole medie a studiare non solo la storia antica ma almeno qualcosa della storia del ‘ 900, compreso l’Olocausto, anche per togliere un po’ di spazio alle cialtronerie che invadono internet e i social. Intanto in questo giorno un augurio e un messaggio di speranza deve arrivare ai familiari degli ostaggi, immaginando che per vie traverse, magari in sogno, sia sentito anche dai prigionieri.

(Domani, 27 gennaio 2024)

........................................................


La Giornata della Memoria e il 7 ottobre

di Niram Ferretti

Come ha scritto qui Antonio Cardellicchio, “La Giornata della Memoria ufficiale, istituzionalizzata, quella delle buone intenzioni, che sta diventando più oblio che memoria, quella delle autorità pubbliche e degli studenti precettati, con generosi testimoni ebrei invitati, è fallita”.
È fallita pedagogicamente, è fallita culturalmente, e si tratta di un fallimento che non riguarda solo l’Europa ma anche gli Stati Uniti, che interpella dunque l’Occidente, ciò che siamo oggi.
Le manifestazioni eclatanti di antisemitismo che sono seguite all’operazione militare di Israele a Gaza dopo il maggiore eccidio di ebrei dalla fine della Seconda guerra mondiale ai giorni nostri, dimostrano che gli unici ebrei su cui è legittimo il compianto prolungato sono quelli lontani nel tempo e causati dal nazismo, considerato, con totale parzialità, come il male assoluto del Novecento. Gli altri ebrei, nella fattispecie gli ebrei israeliani, possono essere massacrati nei modi più barbari e atroci senza che questo susciti esecrazione mondiale se non per un periodo limitato, ovvero quello previo alla reazione di Israele, perché, subito dopo di essa, la loro morte viene immediatamente ridimensionata da quella delle vittime civili palestinesi, o addirittura, con i cadaveri stuprati e decapitati da Hamas ancora caldi, ci si appresta a contestualizzarla come conseguenza delle politiche “segregazioniste” e “omicide” di Israele, come effetto dell'”occupazione”.
La nazificazione degli ebrei israeliani, perverso prodotto della propaganda sovietica iniziata negli anni Sessanta, la demonizzazione dello Stato ebraico, rappresentato come l’ultimo e più feroce avamposto del colonialismo europeo, anche questa una creazione della propaganda russa, e la parallela totemizzazione degli arabi, nella fattispecie dei palestinesi nel ruolo fisso delle vittime, ha fatto sì, da almeno quattro decenni, che tra gli ebrei uccisi dai nazisti ottanta anni fa e quelli uccisi da Hamas oggi, e prima di Hamas dall’OLP e dalle varie sigle terroristiche orbitanti nella sua galassia, si creasse una cesura radicale.
La cesura, appunto, non è di oggi, si è sedimentata progressivamente e non è cessata certo quando l’Unione Sovietica è crollata negli anni ’90.
Il legame strutturale tra propaganda nazista e antigiudaismo islamico che è stato messo accuratamente in mostra da diversi studiosi, tra cui, Matthias Küntzel  quindi il legame di continuità tra la volontà eliminazionista nazista e quella islamica rappresentata da Hamas, non si è mai imposto, anzi si è fatto in modo di occultarlo o minimizzarlo, eppure bastava leggere a fondo lo Statuto di Hamas del 1988 per rendersi conto di quanto questo documento violentemente antisemita contenesse una esplicita volontà omicida nei confronti di ogni ebreo israeliano.
Sarebbe ora, dopo il 7 ottobre, nel momento stesso in cui si commemorano gli ebrei genocidiati nella Shoah, di allargare il perimetro del discorso e indicare come quell’apice industrializzato dell’assassinio degli ebrei su larga scala, sia stato un momento dentro una lunga storia di cui il 7 ottobre rappresenta ancora il proseguimento. 
L’ultimo libro di Ugo Volli, La Shoà e le sue radici. Un percorso didattico è, in questo senso, un limpido strumento per sottrarre il Giorno della Memoria alla sua imbalsamazione, da una retorica che lo congela nel tempo isolando la terribile tragedia che ha rappresentato da ogni legame con l’attualità, intento politicamente e culturalmente strumentale, atto ad occultare la matrice nazi-islamica del conflitto israelo-palestinese per ridurne la portata a una disputa meramente territoriale.
Gli ebrei uccisi dai carnefici di Hitler e quelli uccisi dai carnefici di Hamas sono stati uccisi in quanto ebrei, sono stati uccisi perché costretti dentro una ben precisa demonologia che prevedeva e prevede la loro estinzione, a livello planetario nel primo caso, a livello regionale nel secondo.
Ricordare il passato, dunque, non può essere disgiunto dalla necessità di legarlo alla crudezza del presente nella consapevolezza lucida che la lotta all’antisemitismo e alla sua declinazione omicida non solo non è mai finita ma è, drammaticamente, ancora in corso.

(L'informale, 27 gennaio 2024)
____________________

La giornata della memoria è fallita. Esibire la sofferenza degli ebrei non è servito. C'è chi propone di accentuare la crudeltà di chi li ha fatti soffrire, ma anche questo non servirebbe, perché in ogni caso sarebbe applicato il principio: la ferocia dei carnefici è la prova più evidente della malvagità delle vittime. M.C.

........................................................


“Quanto vorrei poter dire che gli ebrei non sono soli”

“Se ti sei mai chiesto cosa avresti fatto nella Germania degli anni ’30, ebbene è quello che stai facendo adesso”.

di Fred Maroun

Il 7 ottobre il mondo è totalmente cambiato, per il popolo ebraico. Ho visto soffrire ciascuno dei miei amici ebrei, e il dolore non se ne va. Hanno subìto il peggior attacco contro di loro dai tempi della Shoà, e ciò che lo rende ancora più doloroso è che il sostegno che hanno ricevuto dal mondo non è stato molto migliore di quello ricevuto durante la Shoà.
Vedendo questo immenso dolore rinnovato ogni giorno dal 7 ottobre, vorrei poter dire ai miei amici ebrei che non sono soli. Ma non riesco a dirlo, perché in gran parte sarebbe una frase vuota.
Gli ebrei hanno alcuni veri amici, in questo momento difficile. Ma questi amici sono molto meno numerosi di coloro che li condannano, li demonizzano oppure che usano parole di sostegno solo per aggirarli e avanzare subito richieste che non possono essere soddisfatte senza lasciare che gli assassini la facciano franca, liberi di aggredire ancora e di nuovo in futuro.
Ma nonostante il modo in cui vengono demonizzati e bistrattati, gli ebrei stanno combattendo una guerra necessaria nel modo più etico possibile. Nessun altro, nelle stesse condizioni, lo avrebbe fatto in modo così etico. Eppure il mondo non lo vuole ammettere. Israele avrebbe potuto benissimo eliminare Hamas in modo molto più rapido e sbrigativo se non si fosse preoccupato di tutelare i civili. E’ cosa risaputa, ma raramente viene riconosciuta al di fuori di Israele.
Nella loro immoralità, i nemici di Israele dispongono di un’arma impossibile da debellare: l’uso di civili palestinesi e ostaggi israeliani come scudi umani. È un’arma che Israele non utilizzerebbe mai. Eppure il suo uso esteso da parte dei terroristi palestinesi viene visto dal mondo come un motivo per demonizzare Israele, non come un motivo per attribuirne la colpa ai terroristi palestinesi. Il mondo lamenta lo sfollamento e la morte di civili palestinesi senza quasi mai riconoscere che ciò avviene solo e unicamente perché i terroristi usano spudoratamente ed esplicitamente i civili come scudi umani.
8 dicembre 2023: manifestazione per la liberazione degli ostaggi, davanti alla residenza newyorkese di António Guterres, Segretario generale delle Nazioni Unite
L’unico risultato accettabile di questa guerra è la distruzione di Hamas e rimettere la sicurezza nelle mani di Israele. Abbiamo imparato dal passato che qualsiasi risultato diverso riporterebbe Gaza alla stessa situazione che ha condotto al 7 ottobre.
Ma mentre gli ostaggi soffrono e vengono tormentati nei tunnel di Hamas, non è alle viste un esito chiaro. Anche il governo israeliano parla di parecchi altri mesi di guerra, e c’è la tragica consapevolezza che gli ostaggi rimasti potrebbero non essere mai rilasciati vivi.
Come per aggiungere sale alla ferita anche il più caro amico di Israele, gli Stati Uniti, nel momento peggiore possibile si mette a parlare di dare uno stato ai palestinesi. Sono discorsi estremamente ingenui e inutili, poiché i palestinesi non hanno mai voluto uno stato a meno che non comportasse la distruzione dello stato ebraico. Ma questi discorsi premiano i terroristi, poiché vengono letti come una critica a Israele.
Questa guerra, scaturita da un massacro che per disumanità fa a gara con la Shoà, ha riportato a galla tutto l’antisemitismo dell’epoca della Shoà, tutti i doppi standard, tutte le menzogne e le calunnie del sangue antiebraiche.
Eppure, nonostante tutto ciò, gli ebrei non sono indifesi. Erano impotenti durante la Shoà, ma non lo sono adesso. Hanno un esercito formidabile e rifiutano il ruolo di vittime inermi. Le manipolazioni di Hamas non hanno avuto il successo sperato. Gli Stati Uniti hanno garantito un sostegno fondamentale, sia militarmente che diplomaticamente. Anche il mondo arabo, nel suo modo ipocrita, sostiene tacitamente la guerra contro Hamas.
Questa guerra è difficile, straziante e complessa, ma non è senza speranza. Israele e gli ebrei torneranno a vedere giorni migliori. E ricorderanno coloro che sono stati al loro fianco, perché in questo momento conta davvero.
Una frase che ho sentito subito dopo il 7 ottobre, e poi molte altre volte, è questa: “Se ti sei mai chiesto cosa avresti fatto nella Germania degli anni ’30, ebbene è quello che stai facendo adesso”. Nessuna frase rappresenta meglio la sfida cui devono rispondere oggi coloro che dichiarano di opporsi all’antisemitismo.
Se, da non ebreo, ritieni di comportarti in modo corretto nei confronti del popolo ebraico, questo è il momento di dimostrarlo. Se pensi che avresti preso posizione contro la Shoà quando veniva perpetrata dai nazisti, allora prendi posizione contro Hamas e sostieni gli sforzi di Israele per fermarla.
Non si può cancellare il dolore che provano gli ebrei per il 7 ottobre, ma si può sostenere Israele nel garantire che non si ripetano più simili orrori in futuro. Questo non è il momento di tacere.
--
Da: Times of Israel, 22.1.24

(israelnet.it, 26 gennaio 2024)

........................................................


«Carissimo Israele...»

Una cara sorella in fede che ci segue da anni e con cui siamo spiritualmente e affettivamente in sintonia su ciò che riguarda Israele, ci invia, come in altre occasioni, un suo componimento in cui vuol esprimere, con parole semplici e sincere, il suo desiderio di "consolare Israele", secondo le parole del profeta Isaia: Consolate, consolate il mio popolo.
    Lettera a ISRAELE
    Carissimo Israele,
    tutti i giorni il mio pensiero va te,
    i miei occhi guardano e il mio cuore
    anela a vederti ancora!
    Tutto di te mi affascina e
    tutto di te mi delizia…
    Respirare l’aria del mare a Tel Aviv,
    quella soave a Gerusalemme
    e quella calda del deserto!
    Ma questo è un ricordo…
    Ora che sei stato squarciato nei tuoi figli
    dai demoni terroristi,
    potrò rivederti come allora?
    La gioia, l’esultanza e l’amore per la vita che
    traspariva, c’è ancora?
    Certo, l’unità e la determinazione nell’affrontare le difficoltà le percepisco in te,
    come pure la certezza di andare avanti
    nel distruggere il male!
    Le ferite sono profonde e il dolore è immenso,
    da sempre affronti persecuzioni, guerre,
    pogrom e genocidi
    ma da sempre ti rialzi e le ossa secche di
    Ezechiele hanno carne e sangue!
    Voglio consolarti, così com’è scritto
    nel libro di Isaia!
    Ti sono vicino e ti guardo sempre con amore
    con gli occhi del mio cuore!
    Io sono sempre con te e per te
    senza se e senza ma e…
    vedo i tuoi nemici eternamente sconfitti!
    Tu vivi!
    Con amore
    Carmela Palma
(Notizie su Israele, 27 gennaio 2024)

........................................................




........................................................


"Sospesi i fondi". La mossa dell'Italia contro l'agenzia Onu per i palestinesi

di Federico Giuliani 

Il dossier Unrwa è sempre più scottante. Nelle ultime ore si sono accesi i riflettori sull'organizzazione delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, accusata di un presunto coinvolgimento di alcuni suoi membri negli attacchi terroristici del 7 ottobre in Israele. L'Unione europea ha chiesto immediati chiarimenti e approfondite spiegazioni in merito ad una vicenda che, se confermata, sarebbe clamorosa, mentre gli Stati Uniti hanno già fatto un passo in avanti sospendendo ogni finanziamento all’agenzia in attesa che sia fatta luce sulla vicenda. A Washington si è adesso accodata anche l'Italia decidendo di fare altrettanto.

• LA DECISIONE DELL'ITALIA SULL'UNRWA
  L'annuncio è arrivato direttamente dal ministro degli Esteri, Antonio Tajani. "Il governo italiano ha sospeso finanziamenti Unrwa dopo l'atroce attacco di Hamas contro Israele del 7 ottobre. Paesi Alleati hanno recentemente preso stessa decisione. Siamo impegnati nell'assistenza umanitaria alla popolazione palestinese, tutelando la sicurezza di Israele", ha scritto il ministro su X.
  L'Italia, quindi, ha preso una chiara posizione sull'Unrwa, visto che l'agenzia è attualmente al centro delle polemiche dopo le accuse secondo cui dodici suoi dipendenti potrebbero essere stati coinvolti nell'attacco di Hamas del 7 ottobre.

• UNA POSIZIONE CONDIVISA
  Ci sono altri Paesi e governi che hanno sospeso i finanziamenti all'agenzia dell'Onu, come Stati Uniti, Canada e Australia. Nello specifico, gli Usa si sono detti "estremamente preoccupati" per quanto emerso mentre Il dipartimento di Stato, ha riferito il portavoce Matthew Miller, "ha temporaneamente sospeso i finanziamenti aggiuntivi all’Unrwa mentre esaminiamo queste accuse e le misure che le Nazioni Unite stanno adottando per affrontarle".
  Sulla stessa lunghezza d'onda le autorità canadesi. Il ministro dello Sviluppo internazionale, Ahmed Hussen, è stato chiaro: "Il Canada prende molto sul serio questi report e sta collaborando strettamente con l'Unrwa e altri donatori su questa questione", ha fatto sapere il ministro in una nota, dopo aver contattato direttamente Philippe Lazzarini, commissario generale dell'Agenzia.
  "Le accuse di coinvolgimento del personale dell'Unrwa negli esecrabili attacchi terroristici del 7 ottobre sono profondamente preoccupanti. L'Australia accoglie con favore la rapida risposta dell'Unrwa e si impegnerà a fondo nelle indagini. Stiamo parlando con i partner e sospenderemo temporaneamente l'erogazione dei recenti finanziamenti", ha infine annunciato in una nota il ministro degli Esteri dell'Australia Penny Wong.

• LA POSIZIONE DI ISRAELE
  Dal canto suo Israele cercherà di impedire all'Unrwa di operare a Gaza dopo la guerra. Lo ha affermato il ministro degli Esteri, Israel Katz, alla luce delle accuse di coinvolgimento nell'attacco di Hamas del 7 ottobre rivolte dallo Stato ebraico nei confronti di diversi operatori dell'agenzia. Su questo punto, Israele cercherà di raccogliere il sostegno di Usa, Ue e degli altri principali donatori dell'agenzia, ha aggiunto lo stesso Katz.

(il Giornale, 27 gennaio 2024)

........................................................


Sui social gli ebrei non esistono più, l’ipocrisia ci rende antisemiti

di Assia Neumann Dayan*

Per gli ebrei si è spesso usata l’immagine del canarino nella miniera: se c’era una perdita di gas il canarino moriva e il minatore scappava. Bene, il canarino è morto. C’è un motivo per cui c’è scritto “indifferenza” al Binario 21: che il canarino fosse morto non interessava a nessuno. Purtroppo, il canarino continua a essere morto. Stiamo assistendo al totale fallimento dell’istruzione scolastica, al risultato di decenni di Giornata della Memoria messa lì come santino vuoto per vedersi un film di Spielberg al posto dell’ora di algebra, a insegnanti che scrivono penose letterine su quanto loro non dormano la notte pensando a oggi. Gli ebrei non esistono più: gli ebrei sono diventati suprematisti bianchi colonizzatori, e se gli ebrei non esistono più, non esiste nemmeno l’antisemitismo. Questo è il risultato di decenni di cultura woke, universitaria, antioccidentale, fatta con quattro caroselli su Instagram e il mondo se l’è bevuta perché era più facile che studiare. Questo è un problema di ipocrisia più che di antisemitismo. I più scaltri iniziano ogni frase con: criticare il governo di Israele non è antisemitismo. Ma va? Nessuno lo ha mai detto, e di sicuro non lo hanno detto gli israeliani che per un anno sono scesi in piazza ogni settimana contro il Governo, non lo hanno detto i parenti degli ostaggi che hanno fatto irruzione alla Knesset, non lo hanno detto i cittadini che hanno piantato le tende fuori dalla casa di Netanyahu. Poi ti dicono che non ce l’hanno con gli ebrei, ma con gli israeliani: cara grazia, troppo buoni. Non si capisce per quale motivo per i palestinesi valga il concetto che non siano tutti Hamas, mentre per gli israeliani questa cosa non vale, son tutti colpevoli di genocidio, assassini, dediti alla pulizia etnica. Il canarino continua ad essere morto. Gli e le influencer hanno creato la sequenza per la Giornata della Memoria: mancata candidatura agli Oscar di Margot Robbie, foto di gatti, carosello sull’IDF che secondo loro piazzano scatolette esplosive a forma di cibo per i palestinesi, sponsorizzazione di prodotti che rendono i capelli lucenti, meme spiritoso, infografica sul genocidio. Non mi è ancora chiaro come gente che fino al 6 ottobre parlava solo di peli e capelli in due giorni sia diventata esperta di geopolitica del Medioriente e docente di storia degli Houti che sono un po’ pirati e un po’ signori, ma credo che questo sia quello che succede a occuparsi troppo della propria faccia. Ci sono quelli che ti vendono la shopper per supportare Gaza, un profilo che si chiama “Ceasefire Meow!” fatto solo di gattini con la kefiah avvolti nella bandiera palestinese, quelli che commentano La Shoah con “e allora Gaza?”. Gwyneth Paltrow ha scritto su Instagram che “lo stupro non è resistenza né lotta per la libertà”. I commenti: apologia di genocidio, questo non è mai successo, entità sionista a Hollywood. C’è da dire che una frase di una riga è più di quello che ha detto il movimento del Metoo in merito agli stupri in tre mesi. È piuttosto difficile capire il confine tra malafede e antisemitismo, perché si corre il rischio che a furia di gridare all’antisemitismo per ogni cosa non si riconosca quello vero. E infatti il canarino è ancora lì, morto. La domanda che dovremmo, ma non vorremmo, farci è: cosa succede quando scopriamo che i buoni non sono buoni? Non lo so, ma di sicuro lo leggeremo sui libri di storia dei nostri figli.
---
* Figlia di Moshe Dayan

(La Stampa, 27 gennaio 2024)
____________________

Riportiamo di seguito un articolo della stessa Dayan comparso su "La Stampa" un mese fa.


*


Io, israeliana, vi dico esistiamo, esisteremo

La vita dei palestinesi vale tanto quanto quella degli israeliani, negare il 7 ottobre è errato, sbaglia chi equipara i civili a terroristi che hanno commesso crimini pari a quelli dei nazisti

di Assia Neumann Dayan

In questi mesi ho provato vergogna. Ho provato vergogna per il mio cognome, per il posto da dove viene la mia famiglia che è Israele, per aver pensato che far licenziare le persone che strappavano i manifesti con gli ostaggi fosse giusto, per aver pensato che il silenzio del nuovo transfemminismo sugli stupri commessi da Hamas fosse la cosa più crudele e imbecille che potessi immaginare, per aver pensato che la risposta di Israele al 7 ottobre fosse proporzionata e per aver pensato che le Nazioni Unite e l’Unrwa non fossero interlocutori credibili.
  Io non lo so perché le persone pensano che questa non sia una guerra, che è fatta come sono fatte tutte le guerre. Si è sempre preteso da Israele un livello morale che non ha senso: Israele non è speciale, non è innocente, non è migliore degli altri, ma Israele esiste e continuerà a esistere nonostante i social non siano d’accordo, nonostante Hamas, nonostante l’Iran, nonostante Netanyahu, nonostante l’antisemitismo, scusate volevo dire l’antisionismo. La vita dei civili palestinesi vale tanto quanto quella dei civili israeliani: direi che è un concetto alla portata di tutti. È altresì vero che la rimozione di quello che è successo il 7 ottobre ha fatto in modo che la vita degli israeliani sembrasse valere un po’ di meno. Perché il 7 ottobre è stato rimosso? Perché vedere gli israeliani come vittime farebbe saltare lo storytelling dominante. Che poi non è nemmeno vero, negare il 7 ottobre fa solo sembrare più imbecilli e meno affidabili.
  Ci sono uomini, donne e bambini chiusi da due mesi sottoterra: se Hamas li libera, i bombardamenti finiscono. Non sarebbe più semplice chiedere ai terroristi di liberare gli ostaggi con la stessa solerzia con cui si chiede a Israele il cessate il fuoco, invece che mettersi a buttare vernice sui Carrefour? Non ci sentiremmo tutti più al sicuro, palestinesi compresi, se un’organizzazione terroristica venisse annientata? È che è difficile trattare in un mondo che si regge sull’applauso. Se Israele ha violato il diritto internazionale, se la sua non è una risposta proporzionata, Israele ne risponderà davanti a un tribunale e non nel salotto dei debunker da divano. Si parla di settant’anni di pulizia etnica, ma la gente era distratta e se ne è in larga parte accorta solo il 7 ottobre 2023 di questo genocidio, quando sono stati sterminati 1400 civili israeliani e rapite più di 200 persone: sarà un esperimento di psicologia inversa. I più volenterosi ci tengono a dire che gli israeliani e Netanyahu sono due cose diverse, esattamente come lo sono i civili palestinesi e Hamas.
  Peccato che non condannare Hamas significa semplicemente che per te palestinesi e terroristi sono la stessa cosa, peccato che dire di boicottare aziende, non andare a eventi culturali con artisti israeliani, dire che non ci sono stati stupri perché Hamas ammazza i neonati ma lo stupro per carità, rimuovere i manifesti con gli ostaggi vuol dire che secondo te i cittadini israeliani sono complici. Da quelli che dicono che Hamas è stato legittimamente eletto vorrei capire la misura del margine di libertà che una persona ha con una pistola puntata alla tempia.
  I civili hanno festeggiato il 7 ottobre? Sì. Potevano fare diversamente? Non siamo tutti eroi. Io non so nemmeno perché persone che gridano “buttare la chiave” a ogni femminicidio o stupro nel caso di Israele abbiano bisogno di: vedere i video delle violenze sessuali, che le vittime vengano visitate da medici terzi perché quelli israeliani sono bugiardi sionisti e vogliono almeno tre indagini indipendenti di organi internazionali. O meglio, lo so, e non è antisemitismo.
  È perché la causa palestinese è diventata il modo che le persone usano per sentirsi accettati. Ho visto il mondo scendere in piazza per la Palestina a poche ore dal massacro del 7 ottobre senza dire una parola su Hamas, ho visto le rettrici delle migliori università del mondo balbettare che la libertà di dire che gli ebrei devono crepare «dipende dal contesto», ho letto che Israele ruba gli organi ai palestinesi, ho aspettato due mesi prima che Guterres scrivesse un piccolo tweet dove si diceva un pochino preoccupato per gli stupri con diversi «però» a seguire, ho visto le fotografie di donne ebree fatte a pezzi commentate con l’emoticon della faccina che ride.
  Poi è successa una cosa. Ho visto un documentario su Spielberg in cui raccontava che da ragazzo odiava essere ebreo perché veniva emarginato e si vergognava. Ha dovuto fare un film, un film che non riusciva a montare perché ogni volta che entrava in sala si metteva a piangere, per non provare più vergogna. Guardandolo ho pensato che non avevo ancora visto nessun fotomontaggio con la bambina dal cappotto rosso che indossa la kefiah: non vorrei dare idee, ma negli ultimi mesi abbiamo potuto apprezzare Anna Frank con la kefiah, Mosè con la kefiah, Gesù Cristo che in realtà era palestinese e quindi aveva la kefiah sulla croce, ma non la bambina con il cappotto rosso, credo più che altro per studi di cinema lacunosi.
  Sono arrivata quindi alla conclusione che mi ero vergognata per le cose sbagliate. Nessuno che strappa un manifesto dovrebbe poter lavorare, se la risposta al 7 ottobre è proporzionata non lo stabilisce internet, l’Iran presiede il Forum sociale del Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani, ma forse effettivamente peggio del silenzio delle femministe sugli stupri non c’è niente. È stato pubblicato sul New York Times un articolo sugli stupri commessi da Hamas, articolo che è il risultato di un’indagine durata due mesi incrociando testimoni oculari, dati GPS, referti medici, video, foto, tutto, articolo scritto da un premio Pulitzer. I commenti all’articolo sono: propaganda sionista, dove sono i video, quanto vi pagano. Hamas è credibile, il New York Times no.
  Che cos’è credibile? Quello che vogliamo che lo sia. Una testimone oculare del Nova Festival ha raccontato «di aver visto un’altra donna fatta a pezzi. Mentre un terrorista la violentava, un altro le ha mutilato il seno con un taglierino. Uno di loro continuava a stuprarla e gli altri si tiravano il suo seno, l’hanno lanciato fino a quando è caduto a terra. Sapir ha detto che gli uomini poi hanno mutilato anche il viso di quella giovane, poi sparita ai suoi occhi. Più o meno nello stesso momento, ha assistito allo stupro di altre tre donne, e ha visto i terroristi portarsi via le teste mozzate di altre tre ancora».
  Qual è risposta proporzionata a questo? Anche i nazisti lo facevano, coi cani al posto del taglierino. Yuval Noah Harari ha detto una cosa: «Se devi scegliere tra la giustizia e la pace, scegli la pace». La storia si basa sul compromesso, non sulla giustizia. Non è il migliore dei mondi possibili, ma è l’unico che abbiamo.

(La Stampa, 31 dicembre 2023)

........................................................


Inchiesta del Jerusalem Post sui finanziamenti del Sudafrica ad Hamas

Aviva Sigel, 64 anni, è un’insegnante sudafricana di scuola materna rapita da Hamas nel massacro del 7 ottobre.
Il Sudafrica dovrebbe indignarsi, dovrebbe combattere per far tornare a casa la sua cittadina, dovrebbe gridare al mondo che Aviva è una civile che nulla ha a che fare con la questione tra Israele e gli arabo-palestinesi.
Dovrebbe, ma non lo fa. Anzi. Perché nelle stanze dei bottoni di Città del Capo, Pretoria e Bloemfontein si è pensato bene di accusare Israele alla Corte internazionale di Giustizia dell’Aja accusandolo di genocidio.
Anziché occuparsi dei problemi interni, il Sudafrica ha sentito il bisogno di attaccare lo Stato ebraico per la sistematica distruzione di una popolazione arabo-palestinese, che non c’è né nella forma, né nella sostanza.
Non c’è per un motivo semplice. Gli ebrei d’Europa vennero decimati dopo lo sterminio nazista nello spazio di pochi anni. Gli arabo-palestinesi sono aumentati negli ultimi decenni nonostante un (non) genocidio da parte di Israele. 
Ma si sa l’antisemitismo è quel particolare cortocircuito dove la logica lascia spazio a quella cecità volontaria, che non aiuta in nessun modo il popolo arabo-palestinese ma rafforza solo il terrorismo.
Una voglia di colpire Israele da parte del Sudafrica, che ha sempre destato sospetti. Sospetti che potrebbero esser stati svelati dal Jerusalem Post, che in un’indagine ha fatto emergere un ingente finanziamento ad Hamas che passa proprio per il paese situato nell’estrema punta meridionale del continente africano.
Enti di beneficenza, campagne di crowdfunding, fondazioni opache e banche compiacenti, elargirebbero fiumi di denaro che ufficialmente sarebbero destinati a migliorare le condizioni di vita dei cittadini di Gaza, ma che in realtà finiscono nelle casse dei macellai di Hamas, che così eluderebbero i controlli internazionali.
L’anello di congiunzione di questi giri sarebbe la Fondazione Al-Quds, conosciuta anche come Istituto Internazionale Al-Quds o QII, fondata a Beirut nel 2001 da membri di Hamas per raccogliere fondi per l’organizzazione sotto forma di beneficenza.
Nel 2012 venne sanzionata dagli Usa per “essere controllata da Hamas e agire per suo conto” e messa fuori legge da Israele nel 2009.
Affiliata ai Fratelli Musulmani è guidata dallo sceicco Hamid bin Abdullah Al-Ahmar, faccendiere yemenita basato in Turchia e figura di spicco del partito Al-Islah, la ramificazione dei Fratelli Musulmani nello Yemen.
Al-Quds continua ad operare a livello internazionale, in barba a tutte le sanzioni. Tra le filiali in giro per il mondo, la più attiva sarebbe proprio quella che opera in Sudafrica, la “Al-Quds Foundation SA”, il cui direttore dal 2019 è lo sceicco Ebrahim Gabriels, già presidente del MJC, il Consiglio giudiziario musulmano del Sudafrica. Fonti di intelligence la indicano tra le oltre 50 organizzazioni di beneficenza che raccolgono denaro per conto di Hamas.
Hamas che continua a seminare terrore, ma riesce lo stesso a riscuotere appoggi e successo sotto quel cappello mondiale che si chiama antisemitismo.  

(Progetto Dreyfus, 26 gennaio 2024)

........................................................


Nuovi velivoli ed elicotteri da combattimento per Israele

di Aurelio Giansiracusa

FOTO 1
FOTO 2
FOTO 3
Le trattative tra Israele e Stati Uniti per la fornitura di un lotto di nuovi cacciabombardieri Boeing F-15EX, ulteriori Lockheed Martin F-35I “Adir” ed elicotteri da combattimento Boeing AH-64E Apache sono giunte ad un punto di svolta con la visita di lavoro a Washington del Direttore Generale del Ministero della Difesa, Maggiore Generale (in pensione) Eyal Zamir, durante la quale ha incontrato alti funzionari del Ministero della Difesa e del Dipartimento di Stato e alti dirigenti di Boeing e Lockheed Martin.
   In occasione di questa visita Zamir ha incontrato il consigliere senior del Segretario di Stato Derek Shula, il sottosegretario alla Difesa per le acquisizioni William LaPlante, il sottosegretario alla Difesa per la politica Sasha Baker, il sottosegretario di Stato per il controllo degli armamenti e la sicurezza internazionale Bonnie Jenkins, capo della cooperazione in materia di difesa Agenzia (DSCA) Jim Hirsch ed altri alti funzionari.
   La visita istituzionale è stata pianificata nell’ambito della stretta cooperazione in materia di sicurezza tra Israele e Stati Uniti dallo scoppio della guerra avvenuto lo scorso 8 ottobre 2023.
   Il Direttore Generale Zamir ha discusso con i colleghi statunitensi dell’ulteriore approvvigionamento di armamenti in preparazione allo sviluppo di scenari di combattimento e, nel corso dei colloqui, ha trattato gli argomenti relativi i piani di rafforzamento delle IDF, che includono l’acquisizione di piattaforme e capacità avanzate, per preservare la superiorità e la prontezza delle Forze Armate di Israele per qualsiasi scenario.
   Ciò rientra nel trarre lezioni dalla guerra e applicarle ai piani di equipaggiamento. Il CEO Zamir ha discusso con alti funzionari del Governo di Washington anche della situazione dei combattimenti in corso nella Striscia di Gaza e contro Hezbollah nel nord del Paese al confine con il Libano.

• I piani di rafforzamento dell’Aeronautica Israeliana
  Nell’ambito del piano di rafforzamento rientrano i programmi relativi l’acquisto dei caccia bombardieri F-15EX, F-35I “Adir” ed elicotteri da combattimento AH-64E.
   Per quanto riguarda gli F-15EX le trattative tra Israele e Stati Uniti vertono su un lotto di 25 Eagle II, necessario a formare un gruppo di velivoli per la superiorità aerea e l’attacco in profondità che prenderebbero il posto degli anziani F-15 “Baz 2000” andando ad integrare la linea di F-15I “Ra’am”. A tal fine, pare che il Ministero della Difesa Israeliano abbia sondato e sollecitato l’omologo statunitense ad accelerare le consegne all’Aeronautica di Tel Aviv di questi caccia bombardieri, anche a discapito del crono programma in atto che prevede la fornitura della prima ventina di esemplari di produzione all’USAF per le esigenze dell’Air National Guard.
   Meno complicata è la trattativa sugli F-35I “Adir” che è già impostata da tempo; infatti, nel giugno del 2023 il Governo di Washington ha approvato la vendita ad Israele di un ulteriore lotto di 25 Lightning II che porterà il totale a 75 di questi velivoli impiegati più volte in combattimento dall’Aeronautica di Tel Aviv.
   Infine, Israele ha chiesto agli Stati Uniti la disponibilità a vendere od a cedere un lotto di 12 elicotteri da combattimento AH-64E, la versione più recente del Apache. Non è chiaro se gli Apache richiesti siano esemplari da produrre ex novo od elicotteri AH-64D dell’US Army aggiornati allo standard E da Boeing.
   Attualmente, l’Aeronautica Israeliana ha in servizio una ventina di AH-64D “Saraph” ed un certo numero di più anziani AH-64A+ “Peten”, questi ultimi ormai prossimi ad essere ritirati dal servizio attivo per sopraggiunti

(Ares Osservatorio Difesa, 26 gennaio 2024)

........................................................


Corte Aia alza cartellino giallo per Israele e riceve i complimenti di Hamas

Nessun ordine di cessare l’azione militare a Gaza, ma la richiesta di prendere tutte le misure necessarie per prevenire un genocidio nell’enclave palestinese. La Corte internazionale di giustizia dell’Aia si è pronunciata oggi su una parte del caso costruito dal Sudafrica contro Israele. Caso in cui Pretoria accusa Gerusalemme di genocidio a Gaza. In primo luogo la Corte ha dichiarato di avere giurisdizione sul caso, disattendendo la richiesta israeliana di respingere l’iniziativa sudafricana. Poi la presidente del tribunale, la giudice Joan E. Donoghue, ha letto una serie di ingiunzioni a Israele, tra cui non figura quella su cui più ha insistito il Sudafrica: l’ordine di immediato cessate il fuoco a Gaza. Su 17 giudici, 15 hanno invece ordinato al governo israeliano e a Tsahal di astenersi da qualsiasi atto che possa configurare una violazione della Convenzione sul genocidio, siglata dallo stato ebraico. Inoltre hanno chiesto di prendere provvedimenti per prevenire e punire l’incitamento al genocidio contro i palestinesi e di adottare misure per fornire “l’assistenza urgente e necessaria per affrontare le difficili condizioni di vita a Gaza”. La presidente Donoghue ha aggiunto che al momento lei e i colleghi non sono tenuti “ad accertare se si siano verificate violazioni degli obblighi di Israele ai sensi della Convenzione sul genocidio”. Questo avverrà in una fase successiva del processo.
   Secondo il primo ministro Benjamin Netanyahu la Corte ha “giustamente respinto la richiesta oltraggiosa di negare” a Israele il diritto all’autodifesa, non ordinando il cessate il fuoco. “L’impegno di Israele nei confronti del diritto internazionale è incrollabile. Altrettanto incrollabile è il nostro sacro impegno a continuare a difendere il nostro Paese e il nostro popolo”, ha dichiarato Netanyahu. “L’affermazione che Israele stia commettendo un genocidio contro i palestinesi non è solo falsa, ma è oltraggiosa”, ha aggiunto, condannando la scelta del tribunale di procedere con un processo che durerà ancora anni. “La volontà della Corte di discuterne – ha commentato il premier – è una vergogna che non sarà cancellata per generazioni”. Il giudice Aharon Barak, rappresentante di Israele presso la Cig in questo procedimento, ha votato contro tutte le disposizioni tranne una.
   Quella per cui lo stato ebraico deve garantire la fornitura di servizi di base e di aiuti umanitari alla Striscia. Israele non ha bisogno “di ricevere lezioni di moralità“, ha affermato il ministro della Difesa Yoav Gallant. Alcune sue parole sono state citate dalla presidente Donoghue per giustificare l’intervento della Corte. “Chi cerca giustizia non la troverà sulle sedie di pelle delle aule dei tribunali dell’Aia, ma nei tunnel di Hamas a Gaza, dove sono detenuti 136 ostaggi e dove si nascondono coloro che hanno ucciso i nostri figli”, ha attaccato Gallant. A complimentarsi con la Corte per le decisioni odierne è stato invece un rappresentante di Hamas. Sami Abu Zuhri, alto funzionario del gruppo terroristico, ha definito le ingiunzioni “un importante sviluppo che contribuisce a isolare l’occupazione e a smascherare i suoi crimini a Gaza”.
   Anche il Sudafrica ha accolto positivamente le notizie dall’Aia. Fuori dal tribunale, la ministra delle relazioni internazionali Naledi Pandor si è spinta a sostenere che “se si legge l’ordine, è implicito che debba esserci un cessate il fuoco”.

(moked, 26 gennaio 2024)

........................................................


Napoli, rabbino denuncia: “Ebrei minacciati per indossare kippah”

Cesare Moscati a margine delle celebrazioni del Giorno della Memoria: "Ci sono persone che temono per loro stesse"

L’allarme del rabbino capo della Comunità ebraica di Napoli, Cesare Moscati, sull’aumento dei casi di antisemitismo. “A Napoli alcuni ebrei sono stati minacciati verbalmente, per fortuna non fisicamente. Portare dei simboli ebraici come per esempio la kippah o la stella di David purtroppo è diventato un pericolo“, ha detto Moscati a margine delle celebrazioni per il Giorno della Memoria delle vittime dell’Olocausto. Il religioso ha citato “atti di antisemitismo” subiti “da alcuni ebrei della comunità ebraica” nonché “le scritte con le quali, con la scusa di essere solidali con la Palestina, si attacca non solo Israele ma gli ebrei in generale”.

• “Ci sono persone che temono per loro stesse”
  Moscati ha rivolto un ringraziamento “alle forze dell’ordine” spiegando che “anche nella Sinagoga è stata raddoppiata la vigilanza, e questo permette ai fedeli che vogliono andare a pregare o a riunirsi per varie conferenze di essere un po’ più tranquilli, anche se ci sono alcune persone che temono per loro stesse, quindi si sono un po’ allontanate da queste manifestazioni ebraiche per paura, esattamente come si è vissuto negli anni del nazismo e del fascismo“. Secondo Moscati “la memoria è una questione fondamentale, bisogna ricordare per non dimenticare, soprattutto in questo periodo in cui gli atti di antisemitismo sono diventati esponenziali sotto ogni punto di vista, in Israele, in Italia, purtroppo a Napoli. Bisogna quindi ricordare quello che è stato per non dimenticare e perché ciò non avvenga più”.

(LaPresse, 26 gennaio 2024)

........................................................


Shoah, facciamoci tutti un esame di coscienza

Testo dell’orazione che Elena Loewenthal pronuncerà oggi nella Sala Consiliare del Comune di Torino

di Elena Loewenthal

La memoria non è un valore assoluto. È, anzi, materia fragile quanto mai altra, terribilmente esposta all’arbitrio.
L’imperativo della memoria - zekhor - compare nella Bibbia ebraica soltanto una manciata di volte. Il vero gesto della fede ebraica è l’ascolto, più che il ricordo.
La Bibbia sa che è arduo, se non impossibile, imporre la memoria. La storia è fissata nel rituale del tempo circolare, quello che si ripete da sé, sempre uguale a se stesso. Ma la memoria collettiva non è mai fine a se stessa, non è mai pura e semplice ricorrenza: essa diventa uno strumento sociale e culturale di taglio diverso a seconda delle circostanze, degli obiettivi che si prefigge chi la costruisce. E lo stesso può dirsi del suo contrario: anche l’oblio non è mai soltanto dimenticanza, ma “strategia”. Se tanto la memoria quanto l’oblio fossero solo se stessi, sarebbero impulsi del tutto incontrollabili, al di là di ogni volontà o impegno.
Oggigiorno la memoria è diventata un imperativo morale. Ricordare è bene. Dimenticare è male. Ricordare è diventato sinonimo di “conoscere” e “sapere”. E tutto invece è più difficile, complesso, fitto di contraddizioni: la memoria è non di rado un cammino accidentato, una sfida che mai vorremmo cogliere.
Così è quella storia cui oggi torniamo: un abisso nero che respinge ogni possibilità di comprensione e condivisione. Quel che è accaduto durante la Shoah non si può spiegare e in fondo nemmeno raccontare. Ciò che ne sappiamo non è che la zona grigia, l’immenso cono d’ombra che circonda tutto quel male inconcepibile. Non bisogna illudersi di poter scendere a patti con quella storia, pensare di incastonarla in un cammino umano magari incoerente e travagliato ma pur sempre tale, in cui riconoscersi di generazione in generazione. In un certo senso, la Shoah sta fuori della storia perché sfugge ad ogni sua logica, per quanto crudele.
Essa sta più che mai fuori dalla mia, di storia. Da quella di mio padre, che a diciassette anni decise di salire in montagna a combattere i tedeschi perché non aveva altra scelta. Da quella di mio nipote Leon, che si è affacciato al mondo un mese fa a Torino e non a Tel Aviv, in terra d’Israele, perché un bambino non dovrebbe mai venire al mondo sotto una raffica di missili, dentro una guerra.
La Shoah appartiene invece all’Europa, sta dentro il suo passato. Un passato terribilmente scomodo, intollerabile, impossibile da accettare ma che è necessario ricordare, a condizione che la memoria non sia pura rievocazione o rituale gesto di omaggio alle vittime ma, al contrario, rinnovata “appropriazione” di quella storia.
Essa è infatti la storia di tutti gli europei, di chi la progettò e la mise in atto. Di chi vide e fece finta di nulla. Della rete ferroviaria di tutto il continente, su cui per anni i convogli partivano pieni di esseri umani e tornavano vuoti. Di chi rischiò la vita per salvare anche una vita soltanto. Potrà sembrare assurdo, ma come ebrea non posso identificarmi in questa storia. La respingo. La Shoah non mi appartiene perché è per definizione il rifiuto stesso della memoria ebraica: aspirava infatti a creare un’Europa judenfrei, un presente e un futuro senza ebrei. Durante la guerra a Praga i nazisti raccolsero migliaia di oggetti rubati a case, sinagoghe, persone, con l’obiettivo di creare un museo della razza estinta, di lì a pochi anni. Pochi mesi. Dunque il Giorno della Memoria non è la rievocazione di un passato in cui io possa identificarmi bensì del tentativo di negare qualunque presente e qualunque futuro al popolo ebraico. Di fare della sua storia un sottile strato geologico sepolto nel cuore della montagna, un cumulo di cenere buona per concimare i campi, come accadde tutt’intorno ad Auschwitz.
Di anno in anno, il giorno della memoria ci pone di fronte all’orrore dello sterminio. Per lasciarsi interrogare, il rituale della memoria deve fare i conti con la complessità, non adagiarsi sulla comoda convinzione che basti ripetere e accumulare per trasformare il passato in lezione morale, in scuola di civiltà. Nella ufficialità della ricorrenza deve trovare spazio anche una riflessione critica che sia esame di coscienza per ciascuno di noi («come mi sarei comportato io, in quelle circostanze? Avrei tradito, aiutato, subìto, lottato?»), ed esercizio di una responsabilità morale che non dia nulla per scontato, che mai consideri ineluttabile quanto è accaduto. Definirlo “il male assoluto” è un tributo al dolore delle vittime, il riconoscimento di un’ingiustizia inaudita. Ma la Shoah non è assoluta, non era necessaria. È stato un terribile incidente della storia, che poteva non succedere. Doveva non succedere.
Ricordare quanto è accaduto è giusto. Ma sarebbe non meno giusto tentare un esercizio critico - e anche emotivo, profondamente emotivo: quello di provare a immaginare come sarebbe stato il mondo, se non fosse successo quello che è successo.

(La Stampa, 26 gennaio 2024)
____________________

“L’imperativo della memoria - zekhor - compare nella Bibbia ebraica soltanto una manciata di volte. Il vero gesto della fede ebraica è l’ascolto, più che il ricordo”, dichiara l’autrice. E’ sorprendente che queste parole provengano da fonte ebraica. Lo Shabbat, su cui si fonda la continuità del popolo ebraico, non costituisce forse la sottomissione a un fondamentale “imperativo della memoria”?

    «Ricòrdati che sei stato schiavo nel paese d’Egitto e che il Signore, il tuo Dio, ti ha fatto uscire di là con mano potente e con braccio steso; perciò il Signore, il tuo Dio, ti ordina di osservare il giorno del riposo» (Deuteronomio 5:15).
    «Ricòrdati del giorno del riposo per santificarlo» (Esodo 20:8).
    «Ricordate questo giorno, nel quale siete usciti dall’Egitto, dalla casa di schiavitù; perché il Signore vi ha fatti uscire di là, con mano potente; non si mangi pane lievitato» (Esodo 13:3).

La radice zakhar comunque compare nella Bibbia ebraica più di duecento volte, e quindi non si può proprio dire che il concetto di ricordo sia estraneo all’ebraismo.
Ma ricordo di che cosa? Il punto fondamentale è questo. Se lo Shabbat può essere assunto come primordiale “imperativo della memoria” riguardante il popolo ebraico, qual è l’oggetto da ricordare? La libertà ottenuta, direbbero forse i liberal ebrei. O forse lo direbbero con altre parole, ma l’importante è che non compaia il nome di Dio. Non per rispetto verso la persona nominata, ma per disinteresse. O dubbi sulla sua esistenza. O per il rischio, nel caso dovesse esistere, di doversi sottomettere a una volontà diversa dalla propria.
La Shoah, tornata all’attenzione dopo il 7 ottobre, impone di fare riferimento a Dio. I modi di farlo sono tanti e in maggioranza saranno probabilmente sbagliati, ma quelli che non vi fanno riferimento, come nel caso del precedente articolo in cui si dice che la Shoah non è stato altro che  “un terribile incidente della storia”, sono sicuramente sbagliati. M.C.

........................................................


Alla Libreria Nazionale di Israele la storia degli ebrei yemeniti con una collezione di manoscritti

di Roberto Zadik

FOTO 1
FOTO 2
La millenaria storia dell’ebraismo yemenita è una delle meno raccontate e, nella scena musicale israeliana, varie popstar di questa origine, dalle cantanti Noa e Ofra Haza al carismatico Zohar Argov, hanno dato un sostanziale contributo.
Ora lo scomparso mondo ebraico dello Yemen “rivive” nella nuova collezione acquisita dalla Libreria Nazionale di Israele, per mezzo di una imponente donazione privata. I principali donatori dell’ingente quantitativo di materiali sono stati i discendenti di Yehuda Levi Nahum, scomparso nel 1998. È stato un personaggio incredibile che ha passato gran parte della sua vita non solo ad acquistare tutti quei testi ma a studiarli, analizzandoli meticolosamente.
   Si tratta di circa sessantamila tra documenti, frammenti, volumi, alcuni dei quali sono traduzioni nel dialetto ebraico yemenita delle opere del Maimonide, redatte dal grande rabbino seicentesco yemenita Yihya Saleh mentre altri sono preziosi documenti matrimoniali.
   Come ha evidenziato Chaim Neria, curatore della collezione di Judaica della libreria “È una collezione fondamentale che arricchirà molto la ricerca culturale nei prossimi anni”. D’accordo con lui David Selis ricercatore della Yeshiva university  specializzato in storia ebraica culturale moderna che, interpellato dal JTA, ha definito  questo nuovo archivio come “la più vasta collezione di manoscritti ebraici dagli inizi del Ventesimo secolo”.
   La notizia è ancora più rilevante a causa della perdita in passato di molti materiali,  migliaia di testi e oggetti, che sono stati confiscati alla comunità yemenita durante e dopo la loro fuga dal Paese e l’inizio della nuova vita in Israele. Un articolo del Jewish Telegraphic agency, firmato dal giornalista Asaf Elia Shalev, mette in luce la strana coincidenza che questi manoscritti sono stati donati alla Libreria proprio nell’anniversario della morte, secondo il  calendario ebraico, del grande poeta yemenita Shalom Shabazi autore di “Im Nin Alu” diventata uno dei successi della cantante Ofra Haza.
   La raccolta del materiale si contraddistingue per la sua importanza storica. Essa è cominciata a Sana’a, capitale yemenita,  in cui quando era adolescente e proveniente da una famiglia molto povera, Nahum iniziò la sua audace ricerca. Mantenendosi come venditore di vestiti e dolciumi, il giovane decise di intraprendere un viaggio fino alla Terra Promessa per acquistare i testi sacri e portarli a casa.
   Un’avventura degna dei migliori film epici iniziata nel 1929 molto prima dell’immigrazione di massa degli ebrei yemeniti. Con coraggiosa determinazione egli attraversò su un asino il tratto di strada dalla sua città natale a Aden dove vendette il suo animale per pagarsi un viaggio in nave fino a Port Said in Egitto per poi prendere un treno diretto a Gerusalemme e stabilirsi a Tel Aviv.
   Il suo intento era conservare l’eredità ebraica yemenita ad ogni costo, portando alla luce il patrimonio culturale delle sue radici a dispetto dei pregiudizi e degli stereotipi. Nel frattempo aveva trovato lavoro come macellaio e passava il suo tempo libero collezionando quei manoscritti. Sopportò molte prove e grande solitudine visto che i suoi genitori arrivarono solo nel 1949 con l’operazione Tappeto Magico che portò in Israele la maggioranza degli ebrei yemeniti. Recandosi nei centri per immigrati riuscì a raccogliere quindicimila documenti e iniziando ad ammassare i volumi a casa sua a Holon, ospitando studiosi e autorità politiche. Fra i suoi visitatori il presidente Zalman Shazar e lo storico Yitzhak Ben Zvi. Fu una impresa incredibile e molti importanti articoli della collezione sono poi stati catalogati e digitalizzati durante gli anni. Attualmente la libreria sta  aspettando che molti altri testi vengano analizzati dai ricercatori per completare la collezione che diventerà sempre più imponente e prestigiosa per futuri lavori di studio e approfondimento.

(Bet Magazine Mosaico, 26 gennaio 2024)

........................................................


Parashà di Beshallàkh: Le dieci cantiche

di Donato Grosser

Dopo che la cavalleria e l’esercito degli egiziani affondò nel mare e gli israeliti si sentirono finalmente per sempre liberi, “Allora cantò (az yashìr) Moshè con i figli d’Israele questa cantica in onore del Signore” (Shemòt, 15:1). I commentatori spiegano per quale motivo nella Torà è scritto “yashìr”, al futuro, che significa “canterà” invece di “shar”, al passato, che significa “cantò”.
Rashì (Troyes, 1040-1105) spiega che quando Moshè vide il miracolo ebbe l’ispirazione di cantare. E aggiunge che il tempo futuro venne usato in altre occasioni quando un miracolo ispirò un personaggio della nostra storia. In questa occasione il cuore disse a Moshè “dovrai cantare” e così fece. Questo è il motivo per cui viene usato il futuro.
Nel Midràsh Mekhiltà viene posta la domanda: “È vero che vi fu solo una cantica? Non ve ne furono almeno dieci? La prima fu già cantata in Egitto durante la sera del primo Pèsach, alla vigilia dell’uscita dal paese. Così disse il profeta Yesha’yà (30:29): “Allora intonerete un canto, come la notte quando si celebra una festa”.
La seconda cantica fu quella di questa parashà, che venne cantata vicino al Mar Rosso.
Il terzo canto fu quello per la fonte d’acqua citata in Bemidbàr (21,17:19): “Allora Israele cantò questa cantica: sorgi o fonte. Celebratela. La fonte che scavarono i principi…”.
La quarta cantica fu quella di Moshè nella parashà di Haazìnu, dove è scritto: “E quando Moshè terminò la scrittura di questa cantica”(Devarìm, 31:24).
La quinta cantica fu quella di Yehoshua’ (10:12) dove è scritto: “Allora Yehoshua’ parlò all’Eterno, il giorno che l’Eterno diede gli Emorei in mano ai figli d’Israele, e disse in presenza d’Israele: Sole, fermati su Gabaon, e tu, luna, sulla valle d’Aialon!”. I commentatori spiegano dove sia la cantica. R. David Kimchi (Narbona, 1160-1235) commenta che la cantica seguì la preghiera di Yehoshua’ di fermare il sole. Il testo della cantica non è però citato.
La sesta cantica è quella della profetessa Devorà dopo la vittoria di Baràk contro l’esercito dei cananei: “In quel giorno, Devorà cantò questa cantica con Baràk, figlio di Avino’am (Shofetìm, 5:1).
La settima cantica fu quella di re Davide: “Davide rivolse all’Eterno le parole di questa cantica quando l’Eterno lo salvò da tutti i suoi nemici e da Shaùl (II, Shemuèl, 22:1-2).Egli disse: ‘L’Eterno è la mia rocca, la mia fortezza, il mio liberatore…”.
L’ottavo canto è quello che disse re Salomone quando completò la costruzione del Bet ha-Mikdàsh: “Un salmo, un cantico per l’inaugurazione del Bet ha-Mikdàsh. Di Davide” (Salmi, 30:1). Nel midràsh viene osservato che non fu Davide che lo costruì. Salomone lo costruì, È infatti scritto: Salomone costruì il Bet ha-Mikdàsh (I Re, 6:1). Il midràsh stesso spiega che la costruzione venne attribuita a Davide perché ci mise l’anima.
La nona cantica ebbe luogo durante il regno del re Yehoshafàt. Così è scritto (II, Cronache, 20:21): “E dopo aver tenuto consiglio col popolo, stabilì dei cantori che, vestiti in santa magnificenza, cantassero le lodi dell’Eterno, e camminando alla testa dell’esercito, dicessero: Celebrate l’Eterno, perché la sua benevolenza dura in perpetuo!”.
Il decimo cantico è riservato al futuro, come è scritto (Isaia, 42:10): “Cantate all’Eterno un cantico nuovo, cantate le sue lodi alle estremità della terra…”.
Il midràsh conclude dicendo che tutte le cantiche al femminile sono chiamate “Shirà”. Così come la femmina subisce le pene del parto, a tutte le redenzioni del passato seguì asservimento. Invece la redenzione futura è al maschile “Shir”. A questo cantico non seguirà alcun asservimento.

(Shalom, 26 gennaio 2024)
____________________

Parashà della settimana: Beshalach (Fece partire)

........................................................


Riservisti dell'IDF arrabbiati per il ritiro dalla Striscia di Gaza

Molti temono che Israele stia ancora una volta permettendo a Washington di determinare la sua politica di guerra e che Hamas di conseguenza sopravviva.

di Ryan Jones

I riservisti israeliani non vogliono tornare a casa prima che il lavoro sia finito. Altrimenti, le loro famiglie non saranno mai al sicuro
GERUSALEMME -Il 7 ottobre ha risvegliato in Israele uno spirito combattivo che non si vedeva dai tempi della guerra dello Yom Kippur. Non è facile per una parte così ampia della popolazione abbandonare tutto, lasciare le proprie famiglie e andare in guerra. E molti hanno pagato il prezzo più alto sui campi di battaglia di Gaza, lasciandosi alle spalle centinaia di famiglie in lutto e distrutte.
Eppure molti riservisti delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) sono arrabbiati perché vengono congedati per tornare a casa prima che il lavoro sia finito. Se Hamas non sarà sconfitto, una tragedia ancora peggiore attende le loro famiglie e l'intero Paese nel prossimo futuro.
La vittoria è stata promessa, e loro sono determinati a rimanere nel fango e nella melma di Gaza, sanguinando e morendo finché la minaccia di Hamas non sarà più presente.
Qualsiasi cosa di meno sarebbe una vittoria per Hamas e garantirebbe virtualmente il prossimo grande attacco terroristico.
"Lo spirito di lotta qui è ancora molto alto. Ci siamo riuniti sotto la bandiera e rimaniamo fedeli alla missione", ha detto un ufficiale della riserva di nome Uri a Channel 12, quando gli è stato chiesto se il lungo dispiegamento a Gaza avesse avuto un impatto sugli uomini, specialmente su quelli che hanno dovuto lasciare mogli, figli e lavori.
"Questa è una delle guerre più giuste nella storia dello Stato di Israele. È chiaro a tutti noi cosa stiamo facendo qui e perché siamo qui", ha continuato Uri.
Hadar, un'addetta alle comunicazioni sul campo di battaglia, ha detto che l'unica cosa a cui pensa è suo figlio, Gefen. Per il resto, è completamente concentrata sulla missione. "Gefen, ti voglio bene. Siamo qui fuori a proteggerti".
Per quanto tempo siete disposti a rimanere qui, hanno chiesto i giornalisti a un gruppo di riservisti. "Per tutto il tempo necessario", hanno gridato tutti senza mezzi termini.
"Siamo qui per tutto il tempo necessario per assicurarci che il 7 ottobre non si ripeta mai più", ha sottolineato il sottufficiale Elyakim Brenner. "E chiediamo a voi [i media] di portare la nostra voce ai nostri politici per influenzarli, per far loro sapere che siamo qui finché la missione non sarà compiuta".
Il sergente Noam ha fatto eco all'appello del suo compagno: "Siamo pieni di coraggio. Siamo pieni di spirito combattivo. Possiamo portare a termine la missione. Vogliamo che tutti voi sentiate la nostra voce. Sappiamo che la gente si sveglia ogni mattina e sente gli ultimi nomi [dei soldati caduti]. Ma non sente la nostra voce, una voce di coraggio, una voce di azione. E vogliamo che quella voce [dal fronte interno] torni a noi".
Nei giorni scorsi, alcuni riservisti frustrati per il loro licenziamento hanno lasciato Gaza con striscioni sulle loro jeep: "Siamo stati licenziati senza aver sconfitto [il nemico]".
Alludendo al Primo Ministro Benjamin Netanyahu, la lettera ebraica lamed è stata cambiata in "lehachria" ["sconfitta"] in un carattere simile a quello del logo del partito Likud.
Il Ministro della Difesa Yoav Galant ha annunciato la scorsa settimana che la fase di intensi combattimenti nella Striscia di Gaza era terminata e che Israele sarebbe passato ad attacchi meno intensi e mirati contro alcuni obiettivi di Hamas, apparentemente in risposta alle richieste americane.
Un numero crescente di riservisti ritiene che Israele stia ancora una volta permettendo a Washington di determinare la sua politica di guerra e si stia ritirando molto prima che Hamas sia effettivamente sconfitto.

(Israel Heute, 25 gennaio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

........................................................


Così i vertici di Hamas si nascondono dalle forze israeliane 

Secondo il quotidiano arabo «Asharq al Aswat», i principali leader di Hamas comunicano attraverso i corrieri, ai quali affidano messaggi scritti, Usando lo stesso metodo di Osama bin Laden.

di Guido Olimpio

I vecchi metodi sono spesso i migliori. Lo dicono le spie, lo confermano coloro che vivono in clandestinità, dai grandi latitanti agli esponenti di fazioni armate. E tra questi ci sono i vertici di Hamas: secondo il quotidiano arabo «Asharq al Aswat» i principali leader comunicano attraverso i corrieri ai quali affidano messaggi scritti.
  Nascosti a Gaza i responsabili del movimento sono diventati il principale bersaglio delle forze israeliane, cercati con la ricognizione elettronica, i droni, gli informatori, le offerte di taglie. Ma fino ad oggi sono riusciti a sottrarsi alla cattura con regole di sicurezza strette, buoni rifugi nei tunnel (così dicono), cautela. Le gallerie sono dotate di linee telefoniche fisse, aggiornate nel corso degli anni dai tecnici palestinesi, una rete che ha subito qualche danno ma è rimasta comunque attiva. In alcune occasioni i militanti si sono serviti di apparati criptati, però il metodo preferito è quello di ordini portati a mano da uomini di fiducia. Un metodo impiegato per restare «collegati» ai comandanti delle Brigate impegnate nelle varie aree della Striscia e, poi, con la dirigenza in esilio, impegnata sul fronte diplomatico.
   L’avanzata dell’esercito israeliano, unita ai bombardamenti intesi, ha creato qualche problema. In alcune occasioni – hanno scritto i media – la catena di comunicazione si è interrotta, specie con i mujaheddin schierati a nord. Altre difficoltà sono emerse nel mantenere il «filo» tra Yahya Sinwar e i suoi colleghi all’estero. Sono stati i mediatori qatarini a sostenere che per ottenere una risposta era necessario aspettare anche 48 ore. Un ritardo imposto dalle operazioni belliche a Gaza e dalla scelta del numero uno di evitare il ricorso al telefono. Sono ricostruzioni attendibili ma che possono anche fare parte della «nebbia di guerra», una cortina per confondere.
   Un modus operandi analogo venne adottato da Osama bin Laden, rimasto in «silenzio radio» per anni. Quando gli americani lanciarono un grande rastrellamento nella regione di Tora Bora, al confine tra Afghanistan e Pakistan, si disse che il capo di al Qaeda avesse consegnato il suo satellitare ad un mujahed marocchino, la «lepre» che doveva farsi inseguire dai «battitori», un depistaggio elettronico. Poi, una volta stabilitosi nella cittadina pachistana di Abbottabad il terrorista ha mantenuto un’estrema prudenza, scrivendo testi e documenti poi consegnati ad un paio di messaggeri.

(Corriere della Sera, 25 gennaio 2024)

........................................................


Il Sudafrica e i finanziamenti ad Hamas. L’inchiesta del Jerusalem Post

di Sarah Tagliacozzo

Proprio il Sudafrica, il Paese che ha messo Israele sul banco degli imputati della Corte internazionale di Giustizia dell’Aja accusandolo di genocidio, si troverebbe coinvolto con il terrorismo di Hamas. Il Jerusalem Post, infatti, ha fatto emergere una rete di organizzazioni che operano in Sudafrica finanziando le attività del gruppo terroristico di Hamas nascondendosi dietro ad attività di beneficenza.
Il Jerusalem Post ha condotto un’inchiesta che mette in luce l’esistenza di una rete di organizzazioni sudafricane coinvolte nel finanziamento delle attività di Hamas attraverso la Fondazione Internazionale Al-Quds.
La Fondazione è stata fondata da alcuni esponenti di Hamas nel 2001 a Beirut, in Libano, per raccogliere fondi per l’organizzazione terroristica. Il gruppo è stato messo fuori legge da Israele e sanzionato dagli Stati Uniti nel 2012 poiché controllato da Hamas. Le sanzioni hanno incluso il congelamento di tutti i beni della Fondazione che potevano rientrare sotto la giurisdizione statunitense e, come sottolineato dal Jerusalem Post, è stato anche vietato ai cittadini USA di poter effettuare transazioni di qualsiasi genere con la Fondazione stessa. Al-Quds ha conti correnti presso alcune delle principali banche sudafricane e ha raccolto fondi con la scusa di attività di beneficenza per i bisognosi a Gaza.
Secondo quanto evidenziato dal Jerusalem Post, il Dipartimento del Tesoro statunitense ha messo in luce che la fondazione è gestita da esponenti di Hamas che sono membri delle commissioni amministrative e del board dell’organizzazione internazionale.
Il quotidiano israeliano sottolinea che la Fondazione fa parte del network delle organizzazioni affiliate ai Fratelli Musulmani ed è stata recentemente presieduta dallo sceicco sunnita Yusuf Al-Qaradawi, noto per aver appoggiato attentati suicidi.
Nonostante le sanzioni, la Fondazione continua ad operare a livello internazionale. L’inchiesta del Jerusalem Post indica l’esistenza di 13 filiali in giro per il mondo. In particolare, in Sudafrica è operativa la “Al-Quds Foundation SA” che non nasconde la sua affiliazione alla Fondazione che fa base in Libano. Dal 2019 il direttore sudafricano è lo Sceicco Ebrahim Gabriels, già presidente del MJC, il Consiglio giudiziario musulmano del Sudafrica, che secondo fonti di intelligence e antiterrorismo, rientra nell’ambito di oltre 50 organizzazioni di beneficenza che operano internazionalmente per raccogliere fondi per il gruppo terroristico di Hamas.
Nell’inchiesta del quotidiano israeliano emerge che Gabriels aveva incontrato nel 2017 una delegazione politica di Hamas e nel 2011 il leader del gruppo terroristico Ismail Haniyeh durante un viaggio a Gaza. Gabriels ha anche visitato Israele dove ha incontrato Raed Salah nel 2008, leader di uno dei rami del Movimento islamico.
Il Jerusalem Post evidenzia che alcune fonti abbiano fatto emergere l’esistenza di alcuni problemi con il conto corrente della Fondazione presso la Absa bank e che, per accettare fondi esteri, la fondazione abbia usufruito di un conto corrente intestato ad un altro gruppo, la Fondazione Baitul Maqdis. Il quotidiano israeliano sottolinea che si tratta di una “copertura organizzativa”. Un modus operandi attestato anche in un poster dell’autunno del 2023 sul quale sono stati indicati i dati bancari per le donazioni alla Fondazione Al-Quds SA. Dati che indicano chiaramente il ricorso ad un conto corrente bancario di Standard Bank, intestato a Baitul Maqdis, sulla quale vi sono poche informazioni.
Baitul Maqadis non compare online se non in una pagina Facebook quasi inattiva che diffonde teorie complottiste e antisemite. Baitul Maqadis ha un conto corrente oltre che presso la Standard Bank, anche presso la Nedbank, e secondo quanto emerso nell’inchiesta del Jerusalem Post, quest’ultimo conto corrente sarebbe stato utilizzato per il trasferimento di fondi esteri alla Al-Quds Foundation del Sudafrica. Nedbank non ha potuto confermare al Jerusalem Post se Baitul Maqdis sia un cliente della banca per motivi di privacy.
Una fonte ha rivelato al quotidiano israeliano che lo sceicco Hamid al-Ahmar sarebbe responsabile per le transazioni dal Sudafrica al Libano. Lo sceicco avrebbe stretti rapporti con il gruppo di Hamas secondo quanto messo in luce dal Jerusalem Post, tanto da congratularsi con Hamas per la sua vittoria a Gaza e da aver donato un milione di dollari alla Palestinian-Yemeni company per l’occasione.
Il Jerusalem Post conclude indicando che “la Fondazione Maqdis Baitul fornisce una copertura alla Fondazione Al-Quds per i tentativi di trasferimento dei fondi a Hamas attraverso i loro conti presso Standard Bank e NedBank”.

(Shalom, 25 gennaio 2024)

........................................................


Il corteo filo-Hamas nel Giorno della Memoria

di Dimitri Buffa

Dovevamo vedere pure questa: il corteo pro-Palestina – in pratica filo-Hamas – a Roma nel Giorno della Memoria. Cioè sabato 27 gennaio 2024. Uno scempio condito nel manifesto (a sinistra) con una frase arbitrariamente presa da Primo Levi: “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche la nostra”.
Una frase che si attaglierebbe perfettamente a una manifestazione a favore delle neglette e subito dimenticate 1200 vittime dei kibbutz israeliani al confine di Gaza e della festa rave, nonché ai rapiti tutti ebrei dello scorso 7 ottobre. E che invece verrà usata con ulteriore implicito e forse inconscio disprezzo per insultare il Giorno della Memoria a Roma da parte dei partecipanti, o di buona parte di essi, a questa manifestazione organizzata da alcune associazioni di sedicenti studenti e di cittadini palestinesi residenti in Italia. Manifestazione che verrà probabilmente fagocitata anche dai locali centri sociali romani dell’ultra sinistra e persino da qualche nostalgico dell’anti sionismo-semitismo dell’ultra destra che non si riconosce nella linea di Giorgia Meloni di appoggio “senza sé e senza ma” allo Stato di Israele. Poi non mancheranno i grillini del terzo tipo e chissà se non ci farà un salto pure qualche personaggio para-mediatico alla Di Battista. Di sicuro il tutto provocherà un bel casino sia di ordine pubblico sia di immagine.
Ancora una volta assisteremo alla farsa di buona parte della sinistra pro-Palestina che dirà di piangere commuovendosi per gli ebrei morti nella Shoà – paragonandoli possibilmente ai palestinesi di Gaza.
Mentre tutti i conformisti dell’antisemitismo di moda oggi, quello della traslazione, esterneranno le loro antipatie e il proprio inconfessabile odio per quegli ebrei oggi vivi. Che si ostinano a rimanere vivi.
Infine, se vi chiedete cosa sarebbe questa “traslazione” dell’odio anti-ebraico, la risposta grosso modo è questa: al primo livello esiste l’odio anti-ebraico duro e puro che però pochissimi, a meno che non siano esponenti di movimenti terroristici islamisti, sunniti o sciiti, osano esternare. Un minimo di vergogna legata al ricordo del nazismo esiste. Poi si passa al livello numero due: l’antisemitismo si trasforma, si trasla, in odio contro lo Stato di Israele e, qualcuno azzarda, anche del puro diritto dello stesso di esistere e soprattutto di difendersi dagli attacchi armati, da dovunque provengano.
Se vogliamo, questo antisemitismo usa anche furbescamente la figura retorica della sineddoche: una parte per il tutto. Dico che odio il Governo Nethanyahu per non dire che mi stanno sul c... gli ebrei in genere.
Infine, il livello tre: non siamo contro gli ebrei, non siamo contro Israele, però quel Benjamin Netanyahu – o chi pro tempore conduce una guerra di difesa, a suo tempo dissero le stesse cose per Ariel Sharon – è il degno erede dei nazisti. E quindi i nipotini di quelli che negli anni Quaranta come il muftì di Gerusalemme, e zio di Arafat, venivano ricevuti da Adolf Hitler nel Nido dell’Aquila e progettavano di avvelenare l’acquedotto di Gerusalemme – lo chiesero a Mussolini e lui di fatto tergiversando rifiutò – oggi possono manifestare contro Israele il giorno in cui si commemora la Shoà usando nel manifesto propagandistico il su citato pensiero di Primo Levi.
E chi scrive, a sua volta citando e parafrasando il suo libro più noto potrebbe dire: “Se questi sono uomini...”.

(l'Opinione, 25 gennaio 2024)

........................................................


Per una Giornata della Memoria rinnovata alla luce del presente

dii Antonio Cardellicchio

La Giornata della Memoria ufficiale, istituzionalizzata, quella delle buone intenzioni, che sta diventando più oblio che memoria, quella delle autorità pubbliche e degli studenti precettati, con generosi testimoni ebrei invitati, è fallita.
Ancora peggio. Vedete a che punto estremo paradossale siamo arrivati: il quotidiano più anti-israeliano e filo-palestinese, il comunista Il Manifesto, ha dovuto riconoscere che il Giorno della Memoria, soprattutto oggi, viene “usato come una clava contro gli Ebrei” (lo rileva Paolo Mieli sull’editoriale del Corriere della Sera, 22 gennaio).
Ogni limite viene superato, siamo a rischio che la Giornata della Memoria diventi anti-ebraica.
Nell’UCEI si è discusso anche della possibile sospensione della partecipazione ebraica al 27 gennaio di quest’anno. Alcuni sopravvissuti della Shoah, molto anziani, rapiti da Hamas o che hanno avuto familiari massacrati il 7 ottobre 2023, hanno detto esterrefatti che i carnefici dei kibbutz, per grado e forma di pratica genocida, sono stati peggiori degli aguzzini della Shoah.
Si poteva credere, magari con una forte ingenuità, che dopo tante Giornate della Memoria, pubblicazioni, film, didattica specifica, testimonianze dirette, rivolte di coscienza, sensi di colpa, che almeno dopo il 7 ottobre l’antisemitismo potesse conoscere una riduzione. Credere almeno che il negazionismo del 7 ottobre non fosse così immediato, come invece è stato. Lo è stato, insieme a una espansione di antisemitismo fanatico di massa, che ha rivendicato il genocidio degli ebrei nella loro patria, la cancellazione di Israele dalla faccia della terra. Costoro urlano irati che bisogna completare l’opera antiebraica di Hitler.
Questo da parte non solo dei soliti estremisti, ma dal cuore stesso del politicamente corretto, dalla maschera progressista, in un combinato di feccia troglodita e di élites intellettuali, prigioniere di una cultura dell’odio mortale.
Il mondo civile è precipitato in un abisso infernale, il mondo barbaro ha temporaneamente trionfato.
Più si evidenzia la disumanità dell’orrore del 7 ottobre – dai bambini arrostiti nei forni, alla militarizzazione dello stupro sistematico, fino alla vendita delle teste mozzate – più infuria la piazza che approva e glorifica Hamas. Nella mente dei mostri si tratta di eroi della liberazione, di lotta degli oppressi contro gli oppressori.
L’inferno è pieno di mostri, non è vuoto come dice qualcuno molto in alto.
Il terrorismo apocalittico dell’imperialismo islamico, con tutta la sua continuità con i totalitarismi antecedenti – nazifascismo e comunismo – e la sua novità di estremizzazione di una disumanità mortifera e illimitata, si auto-rappresenta come combattimento di liberazione, riceve un’incredibile credulità, diventa la punta di lancia di una costellazione dittatoriale totalitaria – Iran, Russia, Cina, Corea del Nord, Turchia.
Immersi in questa realtà feroce, proclamano il doppio negazionismo del 7 ottobre e della Shoah storica.
Che dire nel presente Giorno della Memoria? Forse il silenzio sarebbe più eloquente di ogni parola. Il Talmud ci dice che il silenzio è la siepe dei saggi.
Ma le urla di odio e di morte degli aguzzini, i terroristi dipinti come vittime innocenti, i pogrom mediatici sugli ebrei vendicativi e infanticidi che ingannano una massa enorme di persone, ci inducono a riprendere la parola.
Per contribuire ad aprire un varco nel muro corazzato di una costruzione ideologica, che prima uccide gli ebrei con la parola per poi uccidere i loro corpi con una ferocia legittimata.
Del resto, ricordiamo che la Giornata della Memoria non è un’istituzione ebraica ma è una creazione dell’Assemblea Generale dell’ONU e poi di altre istituzioni, costruita per ridurre il senso di colpa per la complicità e l’indifferenza che hanno favorito la “Soluzione Finale”. Dove di solito vengono invitati ebrei relatori o testimoni.
La memoria ebraica ha invece la sua propria Giornata della Memoria nello Yom HaShoah, che si svolge senza parole, senza discorsi, con tutto il popolo di Israele che si blocca per un momento in meditazione e in memoria, e il suono delle sirene simboleggia il dolore infinito dei martiri. A questa giornata fanno seguito lo Yom HaZikaron, che unisce la memoria dei sei milioni di martiri della Shoah con tutti i caduti delle diverse guerre di indipendenza. Segue lo Yom HaAtzamaut, festa dell’indipendenza di Israele.
Oggi la realtà è ribaltata con l’ideologia della sostituzione: palestinesi nuovi ebrei, Ebrei nuovi nazisti.
Così tutto diventa lecito e meritorio. Così come la Chiesa cattolica pre-conciliare si autoproclamava “Israele celeste” e condannava l’Israele terrestre deicida, come il sistema hitleriano voleva liberare il mondo dal male del complotto ebraico mondiale, come il sistema comunista voleva la morte dei sionisti.
E i filo-terroristi di oggi riprendono tutti questi motivi – cattolici, nazifascisti e comunisti – e li infondono nella pianificazione islamica dell’annullamento dell’esistenza di Israele, e della caccia aggressiva e mortale agli ebrei nel mondo.
Un esempio fra i tanti. A Vicenza guerriglia urbana a caccia di ebrei, da parte dei centri sociali antagonisti, squadristi fascisti rossi, all’assalto di una fiera dell’oro per la presenza di tre espositori israeliani. Soggetti ufficialmente ospitati in un edificio del Comune.
Lia Levi, scrittrice ebrea e testimone della Shoah, ha scritto una pagina intitolata “Voi non meritate il nostro dolore”, dove denuncia il crollo delle aspettative e illusioni del Giorno della Memoria istituzionalizzato, che avrebbe dovuto ridurre l’antisemitismo e ora è travolto da un nuovo antisemitismo ancora più scatenato.
“Ci avete chiamati, ci avete accolto con calore nelle nostre scuole. (…)
Ci avete chiesto frastornati: ‘ma perché non vi siete difesi?’ (…) Com’è possibile che sia successo ancora una volta? 16 ottobre 1943, retata degli ebrei italiani, e poi 7 ottobre in Israele. (..) Ora ci siamo difesi, e voi avete cominciato – o ricominciato – a odiarci. (…) Come è successo che di colpo il male del mondo sia rappresentato solo dall’israeliano, in modo più spicciativo, dall’ebreo?”
Oggi, nel quartiere ebraico di Roma, è apparso uno striscione contro l’ipocrisia di chi piange gli ebrei morti e condanna gli ebrei vivi, con questa amara e significativa scritta: “ Anche il 27 gennaio preferiamo le vostre condanne alle vostre condoglianze”.
Ugo Volli, ebreo illustre, docente universitario di fama che, tra l’altro, ha scritto due libri esemplari sulla Shoah (“Mai Più! Usi e abusi della memoria”, Sonda, e “La Shoà e le sue radici”, Marcianum Press) ci ammonisce che l’intero universo totalitario porta la responsabilità dello sterminio degli ebrei. In una conversazione a più voci (“La Lettura”, inserto del Corriere, 21 gennaio) scrive:
“Il patto Molotov-Ribbentrop fu un passaggio determinante per la distruzione degli ebrei. Pochi giorni dopo, la Germania invase la Polonia e cominciò lo sterminio. La memoria del 23 agosto (il patto) mette in crisi una certa idea del 27 gennaio: visto che a liberare Auschwitz fu l’Armata Rossa. Si oscura così il fatto che il regime sovietico aveva ereditato i pregiudizi antisemiti dell’impero zarista, e che fino alla morte di Stalin, e anche oltre, ci furono persecuzioni contro gli ebrei.”
“In Europa si creò una vasta complicità contro la democrazia, comprendente anche molti intellettuali, che alimentò i totalitarismi e favorì l’avvio dello sterminio. C’è una versione dei fatti, riferita al 27 gennaio, che rappresenta i sovietici nella veste dei liberatori, mentre il 23 agosto smaschera la loro precedente collusione con il Terzo Reich.”
Volli mostra che la Shoah, con tutta la sua unicità, si inserisce in un lungo continuum antisemita che la precede e la segue. C’è “la profondità storica millenaria costituita dall’antigiudaismo cristiano. Per una decina di secoli rimase perlopiù a livello verbale, sia pure con discorsi violentissimi contro gli ebrei, come quelli di san Giovanni Crisostomo e sant’Ambrogio. Poi, a partire dall’epoca delle Crociate, ci fu una continua persecuzione violenta, diffusa in tutta Europa, con centinaia di migliaia di vittime. Si diceva che gli ebrei rapinavano e uccidevano i bambini cristiani per impastare con il loro sangue il pane pasquale. E i pregiudizi contro il popolo di Israele fecero presa anche su filosofi illuministi come Voltaire e Kant. Si resero così possibili i presupposti culturali che resero possibile la Shoà. E che indussero tante persone comuni, componenti della cosiddetta ‘zona grigia’, a rimanere indifferenti di fronte all’espulsione, all’esproprio e infine alla deportazione di compagni di scuola, colleghi d’ufficio, vicini di casa solo perché ebrei.”
“Se nell’opinione pubblica tanti arrivano a credere che Israele uccida deliberatamente i bambini palestinesi, è perché dietro queste convinzioni c’è una millenaria predicazione d‘odio. La Shoah è unica, come tutti gli eventi storici, ma non isolata. È un episodio orribile dalle radici antiche che non sono state ancora recise. Come riemergono i legami tra i lager e i gulag, tra i due totalitarismi gemelli.” Scrive Volli: “Quando penso al leader del PCI Palmiro Togliatti, che al ministero della Giustizia prende come capo di gabinetto Gaetano Azzariti, ex presidente del tribunale della razza, mi viene da concludere che ad accomunare i due totalitarismi non sia l’ossessione del complotto, ma l’odio per la democrazia.”
Che un paese come Israele, aggredito, invaso e assediato da tutti i lati, minacciato di cancellazione, sia e resti una iperdemocrazia, nella quale si discute in modo libero e aperto di tutto e di tutti, è un miracolo. Giudicato una debolezza dai terroristi, è invece un’energia morale e una forza dinamica che dà e darà i suoi frutti.
Il 27 gennaio può trovare un suo nuovo senso, contro l’imbalsamazione e la retorica vittimaria, se lega l’unicità della Shoah alla lunga millenaria storia dell’antisemitismo in tutte le sue forme, e assume la difesa di Israele a pieno titolo nei suoi compiti.
Una giornata di memoria vivente per far comprendere che l’antisemitismo-antisionismo è la frontiera di tutti i totalitarismi, e la libera esistenza ebraica è il baluardo della libertà e della democrazia nel mondo.

(L'informale, 25 gennaio 2024)

........................................................


C’è memoria e memoria

di Rav Riccardo Di Segni

Riccardo Disegni
La strage di 7 ottobre (che dovremmo imparare a chiamare con la data ebraica di Shemini‘atzèret e Simchàt Torà) con tutte le reazioni che ci sono state ha posto un serio interrogativo sul significato e sui rischi dell’imminente giorno della memoria del 27 gennaio 2024. Per avere qualche strumento in più in questa discussione è bene chiarire i termini e ricordare qualche dato dal punto di vista ebraico. La giornata del 27 gennaio è un’istituzione relativamente recente, decisa dal parlamento italiano in analogia con decisioni analoghe in altri paesi. Serve a ricordare la Shoah. Grazie a un notevole e benemerito impegno istituzionale e mediatico ha avuto un grande impatto sull’opinione pubblica, ha fatto conoscere e commuovere. D’altra parte, alcuni suoi difetti e rischi sono stati ampiamente analizzati (overdose, assuefazione, rigetto, banalizzazione, ecc.). E molto spesso, anche noi, travolti dalle emozioni e dalle manifestazioni di simpatia non ci siamo accorti dei rischi per noi.
   La Shoah ha creato nei sopravvissuti e nei loro discendenti un enorme trauma. Tra le tante conseguenze, la necessità di conservare la memoria e di ritrovare un equilibrio. Le risposte personali e collettive sono state estremamente variate. E con il passare del tempo si è assistito a un continuo riadattamento delle risposte. Ciò che avveniva negli anni ’50 non è comparabile con i fenomeni degli anni ’80 e tantomeno con oggi. In questo arcobaleno mutante di risposte, va notato che la memoria della Shoah ha assunto per molti ebrei un ruolo identitario prevalente, se non sostitutivo di altri modelli, che fossero storici, nazionali, sociali o religiosi. Nell’intensità dei fenomeni, nella loro ripetitività diventata rituale, nella reazione emozionale che determinano, si possono scorgere i segni di una sorta di religione alternativa, la religione della Shoah, che come ogni religione istituzionale ha i suoi tempi, luoghi, testi sacri, riti e sacerdoti addetti, che si vanno aggiungendo e consolidando nel tempo. Il 27 gennaio è diventato il giorno sacro di questa religione.
   In questo processo di rielaborazione c’è stata una ricostruzione in chiave del tutto diversa del tema della memoria, rispetto a come è stato vissuto dalla tradizione, ma anche dall’esperienza storica del popolo ebraico.
   Nell’ebraismo la memoria ha un ruolo fondamentale. Ma bisogna vedere chi è che ricorda, che cosa ricorda e a quale scopo ricorda. Chi ricorda: non siamo solo noi ebrei o noi esseri umani che ricordiamo. Un giorno dell’anno nel nostro calendario, proprio il primo dell’anno, Rosh hashanà, è chiamato Yom hazikkaron, il giorno della memoria. Ma chi ricorda in quel giorno non siamo noi, ma Hashem al quale si chiede di ricordarci benevolmente, come sue creature. Poi c’è la memoria che dobbiamo tenere noi, e che riguarda eventi fondanti, lieti e tristi. Nel qiddush del venerdì sera dichiariamo di fare lo shabbat:
   1. come zikkaron la ma’ase bereshit, ricordo della creazione,
   2. come zekher litziat Mitzraim, ricordo dell’uscita dall’Egitto, l’evento lieto e drammatico che ci ha fatto nascere come popolo libero e che non è solo il tema fondante di Pesach; insieme questi due ricordi sono il pilastro della nostra fede religiosa: ricordare e testimoniare a noi stessi e al mondo che Hashem è il creatore del mondo e che interviene nella storia.
   Poi c’è il ricordo delle cose tristi finite bene, come a Chanukkà e Purim, in cui facciamo festa per celebrare la nostra liberazione. E infine il ricordo delle cose tristi e rimaste tali, per cui abbiamo una serie di riti come i digiuni in date stabilite. Che devono essere quelle e non altre perché non si può trasformare la vita in un lutto perenne. E qui il ricordo non è fine a se stesso e di semplice autoflagellazione, serve a riflettere sulle nostre responsabilità e a programmare tempi migliori basati sulla teshuvà. E poi c’è un’altra mitzwà specifica di memoria: “ricorda cosa ti ha fatto Amaleq” (Devarim. 24:9). Amaleq è il nome di un nipote di Esav e del popolo da lui discendente, che mosse un attacco proditorio agli ebrei indifesi usciti dall’Egitto, e che in altre occasioni si presentò come nemico irriducibile di Israele. La Torà ordina di ricordarsi di cosa ci ha fatto Amaleq e subito dopo ordina di cancellare il ricordo di Amaleq. Sono due cose in apparente contraddizione che si risolvono spiegando che bisogna ricordarsi di distruggere fisicamente Amaleq. Nei millenni di storia questo precetto è stato stemperato: non sappiamo chi sia Amaleq oggi, non sappiamo chi abbia il diritto/dovere di distruggerlo (il re d’Israele, il popolo, il singolo?): ma è evidente che è un modo di fare memoria ben diverso da quello che comunemente si intende per memoria nel pacifismo imperante.
   Tutto questo dimostra come, con tutto il rispetto per il 27 gennaio, il tema della memoria sia vissuto nella nostra tradizione in modi ben differenti e che il 27 gennaio non è esattamente una nostra ricorrenza. E spero che quello che potrebbe succedere questo anno in quel giorno non ce lo dimostri con spiacevole evidenza. Ed è un fatto che, appunto, dobbiamo ricordare bene.

(Shalom, 25 gennaio 2024)
____________________

Se capisco bene, Rav Disegni ci vuol dire che il 27 gennaio ci deve ricordare non solo la sofferenza che ha subito Israele nel passato, ma anche il giudizio che ricadrà su Amalek nel futuro. Israele è attualizzato in ogni tempo dagli ebrei, Amalek dagli antisemiti di tutti i tipi e di tutte le stagioni. M.C.

........................................................


La nuova spinta dell’IDF nella parte occidentale di Khan Yunis

Le forze israeliane della 98esima Divisione hanno continuato l’accerchiamento dei terroristi di Hamas nella città di Gaza meridionale di Khan Yunis, ha dichiarato l’IDF mercoledì mattina.
L’IDF ha dichiarato anche che le sue forze hanno intensificato le operazioni contro Hamas nel sud, uccidendo diverse cellule terroristiche con cecchini, carri armati e fuoco aereo, mentre le forze di terra sono aiutate dai jet da combattimento dell’aviazione israeliana.
A Khan Yunis, i soldati hanno effettuato raid mirati contro obiettivi terroristici nella zona, colpendo una cellula terroristica che progettava di effettuare fuoco anticarro contro le truppe israeliane.
Un’altra cellula terroristica armata, così come una cellula che si era nascosta e aveva tentato di tendere un’imboscata alle forze israeliane, sono state eliminate in attacchi aerei diretti dalle truppe a terra.
Martedì, l’IDF ha continuato la sua nuova spinta a livello di divisione nella parte occidentale di Khan Yunis, iniziata lunedì, mantenendo i combattimenti più intensi dall’inizio di dicembre. Tra lunedì e martedì, oltre 100 terroristi di Hamas sono già stati uccisi in battaglie organizzate più grandi del solito, con circa 50 combattenti di Hamas uccisi lunedì e un numero simile martedì.
L’IDF ha definito Khan Yunis occidentale il cuore delle operazioni di Hamas a Gaza, comprese le aree in cui sono cresciuti i suoi due principali leader, Yahya Sinwar e Muhammad Deif.
Nell’area centrale di Gaza, la Brigata Yiftach dell’IDF ha localizzato e identificato un osservatore armato che raccoglieva informazioni e pianificava un attacco alle forze israeliane vicine. È stato bersagliato dal fuoco dell’artiglieria.

(Rights Reporter, 24 gennaio 2024)

........................................................


La strage dei soldati israeliani. Hamas: no alla tregua di 2 mesi

Il giorno più nero dal 7 ottobre: 21 militari uccisi in un agguato appena fuori Gaza. Netanyahu e Gallant: "La guerra non si ferma". Ipotesi Usa: pausa umanitaria

di Fiamma Nirenstein

Israele ha subìto l'incidente più mortale dall'inizio della guerra, con 24 uccisi di cui 21 in un'esplosione causata da due missili da spalla che hanno colpito le grandi cariche di tritolo che hanno in parte ferito direttamente, in parte causato il crollo di due edifici che hanno travolto i soldati dell'unità 261. Due sono invece stati uccisi nel loro tank. È stato travolto dallo scoppio un grande gruppo, formato da riservisti, figli, padri, mariti. Il più giovane era Nicolas Berger di 22 anni, di Gerusalemme, il più vecchio Shay Biton Hayun di 40 anni, di Zicron Yaakov, vicino a Haifa.
   L'elenco degli uccisi è una tragica carta geografica di tutta Israele, da Tel Aviv (Cedrick Garin 23 anni) a Elkana Yehuda Sfez, 25 anni, in Cisgiordania. Piange tutta Israele da Pardes Hanna-Karkur, un'elegante cittadina residenziale al centro, a Rosh Haayn, all'estremo Nord, ad Alon Shvut, in Cisgiordania. Guardando una mappa si vede che la vita del Paese piccolo e comunitario è crivellata ovunque dalla strage dei 219 soldati uccisi in una delle più difficili guerre mai combattute, dalle migliaia di feriti e mutilati causati dal lunghissimo combattimento sopra e sotto terra, in un terreno organizzato da Hamas non per la vita della gente, ma per essere la fortezza di una delle organizzazioni terroriste più forti e organizzate del mondo. L'origine degli uccisi, disegna una mappa esatta: laici e religiosi, con radici nei Paese arabi e negli Usa, molti in servizio dal primo giorno di guerra, quasi tutti con bambini piccoli, un lavoro nell'hi tech, nella scienza, comandanti e soldati semplici, determinati a combattere fino in fondo una guerra di necessità.
   Ieri i soldati sul campo pregavano la folla israeliana di non scoraggiarsi e di restare uniti dietro lo sforzo attuale, a Khan Yunis, di scovare e sconfiggere Sinwar. Questo è lo spirito del momento. Alla strage di ieri Israele cerca di rispondere con l'arma della resilienza che l'ha sempre salvata durante guerre impossibili come quella del '73 o la seconda Intifada, e che l'ha guidata in imprese come quella di Entebbe. Netanyahu, Gantz e Gallant si sono presentati tutti insieme solo per testimoniare sofferenza e impegno a combattere fino in fondo. Il capo di Stato maggiore Herzi Halevi ha fatto lo stesso. I concetti sono identici: combattiamo una guerra indispensabile, Gaza deve essere sgomberata da Hamas perché Israele possa vivere, indaghiamo l'accaduto perché non si ripeta. Meno che mai, nonostante bruci l'impegno verso i rapiti, si sente parlare di cessare dalla guerra. Nessuno, né a destra né a sinistra avanza questa prospettiva.
   Il disegno di Netanyahu per uno scambio con due mesi di intervallo e lo scambio di prigionieri palestinesi (ora si parla anche di quelli della Nukba) con tutti gli ostaggi, pare sia stato rifiutato da Hamas. Ma tutto può cambiare: Hamas festeggia il colpo inferto, ma sottovaluta il contraccolpo. L'esercito, all'attacco nel Sud, ha quasi interamente circondato Khan Yunis, combatte più deciso, lo scopo è una sconfitta sia simbolica che pratica della patria e della centrale operativa di Sinwar. Non si dice, ma il sottinteso è sempre qualche speranza di raggiungerlo, e di salvare i rapiti. Se si guarda dove è accaduto il disastro, la cartina mostra un luogo di confine a millimetri dai kibbutz della strage, Be'eri, Kfar Aza, Kissufim, accanto dall'area di Re'im dove furono sterminati i giovani di Nova. I soldati creavano sul terreno di confine una zona vuota, visibile da ogni parte, così che da dentro Gaza non sia di nuovo possibile entrare e uccidere.
   Mentre Israele promette di continuare la battaglia, si insiste da parte americana di nuovo per una «pausa umanitaria» e cinque Paesi arabi si stanno occupando di cercare un impegno saudita che spinga avanti la soluzione palestinese. Possibile: ma prima di tutto, da Gerusalemme si vede un Paese innanzitutto deciso a non abbandonare la necessità primaria della guerra: distruggere Hamas.

(il Giornale, 24 gennaio 2024)

........................................................


Angelica, dal Testaccio a Sasa, sul confine fra Libano e Israele: “Io e mio marito restiamo qui a difendere la nostra casa”
Siamo con voi!


Sposata da più di 40 anni con un israeliano. Coltiva un frutteto, ma anche quello è stato bombardato. «Qui il pericolo non è rappresentato solo da Hezbollah; ci sono anche Hamas e la Jihad islamica, non ci facciamo mancare nulla».

di Francesco Semprini

Angelica, il marito Yehuda e il loro amico Igor di nazionalità ucraina
Tra loro, appunto, Angelica Edna Calò, ebrea romana originaria del quartiere Testaccio, e il marito Yehuda Livne conosciuto a Sasa dove vivono assieme uniti in matrimonio da oltre quattro decenni.
«Di questi tempi 42 anni fa ero sulla nave che mi portava da Bari in Israele, sono cresciuta in un movimento giovanile sionistico pacifista, laico e di sinistra, ma al contempo a dodici anni sono entrata a far parte del collegio rabbinico di Roma - ha raccontato a La Stampa -. Ho maturato quindi una doppia educazione comprendendo le diverse visioni, e ho vissuto a cavallo di due culture, quelle italiana e israeliana». A venti anni lascia la sua terra natale per vivere secondo gli ideali comunitari del kibbutz. «Ho preso la nave e sono venuta in Israele con un gruppo di ragazzi, la maggior parte di loro sono tornati in Italia, io sono rimasta - ricorda -. Siamo arrivati subito qui perché il movimento giovanile a cui appartenevo era per la ricostruzione di Israele».
Yehuda è il capo della sicurezza del kibbutz di Sasa
Sasa vuol dire la punta più alta della spiga, simboleggia la posizione privilegiata in altezza della comunità che si erge a circa mille metri sul livello del mare, ma è anche un richiamo alle origini del posto. Si tratta infatti di un insediamento antichissimo del Secondo secolo avanti Cristo dove sono state identificate testimonianze della presenza di una comunità ebraica, come il bagno rituale, il forno per le azzime e una sinagoga.
È qui che Angelica conosce Yehuda, lui era una guida nello stesso movimento giovanile e assieme organizzavano attività per i ragazzi: «Così è iniziata la nostra storia d’amore e i nostri quattro figli. Abbiamo portato la nostra ironia romana in Israele e durante le feste ebraiche tutti ormai cantano in giudaico romanesco».
Nel 2001, col marito, ingegnere meccanico responsabile di una società di formazione professionale nel settore dei metalli ma con un passato nelle forze armate con cui ha partecipato alla guerra in Libano negli anni Ottanta, Angelica fonda Beresheet La Shalom, il Teatro dell’Arcobaleno, un laboratorio composto da giovani israeliani, palestinesi e giordani che portano anche in giro per il mondo le loro rappresentazioni.
Nel 2018 sono stati ricevuti da Papa Francesco al Vaticano.
Bombardamenti israeliani su postazioni nel sud del Libano
C’è poi il frutteto, novanta ettari a ridosso del confine: «Ogni mattina andiamo lì per raccogliere mele e kiwi, la cui vendita è la nostra unica fonte di sostentamento». Mele gialle come quelle con cui veniamo omaggiati da Igor, un omone di nazionalità ucraina che vive da anni con la sua famiglia di sei persone nella comunità. È tra l’esigua minoranza di persone che sono rimaste a Sasa dopo il 7 ottobre, giorno degli attacchi terroristici di Hamas e dell’inizio della guerra a Gaza con le inevitabili ricadute ai confini settentrionali.
Angelica, il marito e un’altra cinquantina di persone, fra cui quattro italiani – Cesare, Luciano, Maurizio e Yehuda - hanno scelto di rimanere per portare avanti l’economia della comunità e proteggere la propria terra. «Abbiamo quattro figli maschi tre – Yotam, Kfir e Or – sono stati richiamati dall’Idf e immediatamente dispiegati in punti non meglio precisati della Striscia di Gaza, perché due sono ufficiali e uno appartiene al personale paramedico militare. Di quel giorno Angelica ricorda le parole dei ragazzi: «Se piangi ci indebolisci, andiamo a difendere la nostra casa».
Anche il marito di Angelica è stato mobilitato in virtù del suo passato ed ora è capo della sicurezza del Kibbutz continuando a portare avanti la sua attività imprenditoriale.
La comunità è diventata anche un hub per i soldati che tornano a rotazione dal fronte e si fermano per riposare alcuni giorni, mentre dal kibbutz partono i pullman che portano al fronte il cibo cucinato nella grande mensa comunitaria dove ancora lavorano fianco a fianco arabi, ebrei cristiani e drusi.
Lo sforzo è esorcizzare la paura tentando di continuare a vivere come prima, ma il sibilo dei colpi di artiglieria e le scie di razzi e missili ricordano con cadenza sempre più frequente che il Paese è in guerra e che il nemico è letteralmente a un tiro di schioppo.
Il 18 novembre sono arrivate quattro bordate sul frutteto che hanno guastato il sistema di irrigazione, ma tutto sommato è andata bene perché a rimetterci poteva esserci qualche abitante di Sasa impegnato nella raccolta. «Oltre al fatto che da Metulla a Sakura i miliziani provano a entrare nei nostri territori e questa è una cosa che accadeva anche prima -. dice Angelica spiegando che il pericolo non è rappresentato solo da Hezbollah - Qui c'è anche Hamas e la Jihad islamica, non ci facciamo mancare nulla».
È questa la nuova vita di chi resta nella trentina di kibbutz, moshav (fattorie) e villaggi della Galilea settentrionale. Sono ebrei, musulmani, drusi, cristiani e circassi che hanno rifiutato l’invito dell’esercito israeliano di evacuare le zone che dall’8 ottobre sono sotto il fuoco incrociato dell'ala militare del Partito di Dio e Tsahal, le Forze armate israeliane.
La capacità dell’alleato dell’Iran di colpire Israele si estende lungo tutta la fascia di terra che dalla costa del Mediterraneo arriva fino alla valle dello Yarmuk, al confine con la Giordania. Per tutta risposta l’Idf sta ammassando da circa due mesi un quantitativo importante di uomini e mezzi meccanizzati e corazzati a ridosso del confine in vista, forse, di un’incursione a terra. Angelica e Yehuda per quasi tre mesi hanno minimizzato i rischi puntualmente sollevati dai figli.
«Noi ci preoccupiamo per loro che sono a Tel Aviv perché temiamo che gli arrivi un missile e loro per noi, ci facevano una pressione enorme dicendo ‘noi abbiamo un minuto mezzo per andare nei bunker voi solo sette secondi quindi anche se siete in salone non fate in tempo per arrivare nella stanza blindata».
Parole profetiche perché con l’inizio del nuovo anno e l’intensificarsi del fuoco incrociato la coppia di veterani di Sasa ha dovuto trasferirsi in una casa più riparata e lasciare la loro storica abitazione. «Hamas ci ha trascinato in una tragedia fatta di odio che non appartiene alla nostra cultura - dice Angelica che però non rinuncia a pensare a un futuro di pace ma, ben inteso, dopo la liberazione degli ostaggi e l’estirpazione di Hamas e degli altri terroristi».
«Ancora oggi - chiosa -, nonostante tutto, le famiglie arabe che sono ancora qui vengono ad aiutarci con il raccolto. A dimostrazione che la convivenza pacifica fra razze e religioni funziona anche in balia dei venti di guerra».

(La Stampa, 23 gennaio 2024)

........................................................


Shoah e Medio Oriente, Mosseri: “Trasformare gli ebrei da vittime a carnefici, parallelismi inaccettabili” 

LIVORNO – In occasione della Giornata della Memoria, il presidente della comunità ebraica di Livorno, Vittorio Mosseri, condivide il suo stato d’animo amareggiato e triste. Rivolgendosi alla comunità, Mosseri sottolinea la difficoltà di commemorare i sei milioni di ebrei vittime dell’Olocausto, specialmente quando alcuni negano l’opportunità di ricordare e altri, in modo inopportuno, traggono paralleli inaccettabili con gli eventi in corso in Medio Oriente.
Attraverso le sue parole, Mosseri invita alla riflessione sulla persistenza dell’antisemitismo e dell’odio razziale, evidenziando il cambiamento nella vita degli ebrei dopo il 7 ottobre.
Nelle sue dichiarazioni, Mosseri esprime preoccupazione per una nuova ondata di antisemitismo, sollevando domande cruciali sulla trasmissione della memoria e la necessità di connetterla ai valori, alla vita e alla giustizia. In questo articolo, esploreremo il suo pensiero e la sua chiamata all’azione in un momento cruciale di ricordo e consapevolezza.
Queste le parole del presidente della Comunità Ebraica Vittorio Mosseri:

“Lo stato d’animo in questa Giornata della Memoria non è certo felice, ma devo dire è ancora più amareggiato e più triste di quanto uno possa essere pensando a 6 milioni di ebrei passati nei camini. E’ difficile perché, quando alcuni comuni pensano che; sia inopportuno ricordare 6 milioni di ebrei, quando pensano che sia inopportuno posizionare pietre di inciampo.. facendo dei parallelismi con quello che sta succedendo in medio oriente.
Questi parallelismi sono inaccettabili ed inopportuni perchè oggi noi stiamo ricordando 6 milioni di persone che sono morte. Trasformare però gli ebrei da vittime a carnefici è il sogno di tutti gli antisemiti perché gli da un motivo in più per darci addosso e continuare a fare quello che hanno fatto i nazisti qualche decennio fa.
La giornata della Memoria è stata istituita perché ci invitasse alla riflessione, almeno una volta all’anno, sulle conseguenze del pregiudizio e dell’ odio.
Abbiamo avuto oltre un ventennio di cerimonie, incontri nelle scuole, testimoni diretti dell’orrore e tutto questo avrebbe dovuto fornire alla società civile di riconoscere i sintomi dell’antisemitismo e dell’odio razziale nella speranza che potessero anche combatterlo. Invece dopo il 7 ottobre per gli ebrei nel mondo è cambiata la vita. Di nuovo insicurezza, timori nel palesare la nostra identità; i nostri luoghi di culto presidiati dalle forze dell’ordine e le nostre scuole blindate.
Questo non ce lo aspettavamo,  dopo i 20 anni e più delle giornate della memoria e dopo aver passato quello che abbiamo subito durante la seconda guerra mondiale. No questo è un affronto che non potevamo e non possiamo accettare.
Stiamo vivendo una nuova ondata di antisemitismo che ci porta a riflettere e a porre delle domande, una su tutte; dove abbiamo sbagliato nella trasmissione della memoria?
Decenni di lavoro per spiegarla, per rompere il muro delle indifferenze per aprire squarci di responsabilizzazione e consapevolezza, perché i nostri sforzi per tramandare correttamente la memoria  non sono riusciti ad arginare lo sfogo di odio contro gli ebrei?
A mio modo di vedere uno degli errori commessi è stato quello di isolare la Shoah da un più ampio contesto storico. Ci siamo limitati a parlare di quanto accaduto agli ebrei dal 33 al 45 senza aprire una conoscenza di base sulla storia e sulla cultura ebraica.
Gli ebrei sono sempre stati trattati e visti come vittime, come le pecore destinate al sacrificio enfatizzando i numeri e non i nomi e le loro storie.
Ci si è più concentrati più sulle vittime che sui carnefici creando una narrazione che metteva al centro il sacrificio umano piuttosto che; coloro che lo avevano progettato e quasi portato a termine l’eliminazione scientifica e sistematica di un intero popolo.
Si è continuato a parlare dell’ebreo vittima senza mettere l’accento sulla loro capacità di resilienza, sulle loro storie di vita e sulla loro resistenza; una resistenza senza armi, resistenza che si esprimeva attraverso la voglia di nascondersi, di aiutare un amico, di salvare una famiglia dalla furia nazista. Tra gli ebrei europei che hanno vissuto quegli anni c’era vita, c’erano ancora quei valori comportamenti ed etici da salvaguardare e da difendere, non c’era rassegnazione al tremendo destino.

(LIVORNOPRESS, 24 gennaio 2024)

........................................................


«L’odio per gli ebrei è vivo a Gaza e qui»

di Alon Bar
Ambasciatore di Israele in Italia

Alon Bar
Cari amici, in questa Giornata internazionale della memoria dell’Olocausto, il mondo intero si raccoglie per onorare la memoria delle vittime, che furono brutalmente assassinate dai nazisti e dai loro collaboratori, durante il capitolo più oscuro della storia moderna.
   Oggi riflettiamo sulle lezioni cruciali che la storia ci insegna. Purtroppo negli ultimi mesi, a partire dal massacro compiuto da Hamas il 7 ottobre scorso e dalla situazione di guerra che ne è scaturita, abbiamo assistito a una terrificante ondata di antisemitismo in tutto il mondo, e anche qui, in Italia.
   Slogan, graffiti, cori, minacce, intimidazioni e, purtroppo, anche attacchi violenti, contro gli ebrei e contro gli israeliani, sono diventati una nuova tendenza. A quanto pare, l’antisemitismo non è solo un’ombra del passato, ma persiste nel corso della storia. È un fenomeno che continua a manifestarsi in forme insidiose nel mondo contemporaneo, anche oggi, proprio mentre parliamo, nelle strade, nei media e online.
   La Shoah ha dimostrato che l’ideologia radicale e la terminologia estrema portano a una violenza disumana e mortale. È quindi nostro dovere comune, nostro impegno morale, combattere questa piaga e promuovere la tolleranza, la comprensione e il rispetto reciproco.
   Alcune persone che sostengono di promuovere i diritti umani e la pace, promuovono invece l’odio contro Israele e contro gli ebrei.
   Utilizzano termini come omicidio, crimine contro l’umanità e genocidio, allo scopo di demonizzare Israele. Vogliono utilizzare gli stessi strumenti creati al fine di prevenire un altro Olocausto, per negare a Israele il diritto di difendersi. Questa terminologia estrema e gli sforzi per creare false equazioni tra Israele e i nazisti sono di per sé una forma di antisemitismo.
   I 6 milioni di vittime ebree annientate nella Shoah, e milioni di altre vittime, meritano non solo di essere ricordati. Meritano che noi, tutti noi, facciamo tutto ciò che è in nostro potere, per evitare che tale crudeltà si ripeta. Le parole importanti di questa giornata, “Mai più”, non rimangano solo retorica, ma inducano ad una seria riflessione e ad azioni conseguenti.
   In questo momento di commemorazione e riflessione, auspico che possiamo unirci come comunità globale, per affrontare le ingiustizie, creare un futuro migliore e pacifico, libero dall’odio e dal terrore, e promuovere la comprensione reciproca. Solo attraverso una forte chiarezza morale e un fermo impegno comune, onoreremo la memoria delle vittime dell’Olocausto.
   In questa Giornata della Memoria dobbiamo ricordare al mondo che a Gaza sono ancora tenute in ostaggio 136 persone. Tra loro ci sono anche i sopravvissuti all’Olocausto e discendenti dei sopravvissuti. Per oltre 100 giorni, i nostri cuori sono con loro. Dobbiamo riportarli a casa.

Libero, 24 gennaio 2024)

........................................................


Guerra per il predominio: intervista a Mordechai Kedar

Mordechai_Kedar è uno dei più autorevoli commentatori politici israeliani. Studioso e conferenziere noto a livello internazionale, Kedar conosce profondamente la cultura araba e islamica. La conoscenza dell’arabo gli consente di avere un accesso diretto e privilegiato alle fonti e ai documenti che la maggioranza dei suoi colleghi possono leggere solo in traduzione. Emanuel Segre Amar lo ha incontrato per L’Informale in Israele.

- Vorrei partire dal 7 ottobre 2023 e chiederle come è inquadrabile storicamente un simile episodio.
  Quello che è accaduto il 7 ottobre ha diversi precedenti nel passato. Numerosi massacri contro gli ebrei si sono già verificati, il Farhud a Baghdad nel 1941 è l’episodio più vicino a quello del 7 ottobre, per non parlare dei massacri del passato avvenuti in Europa nel contesto del mondo islamico, o qui quello di Hebron del 1938. Sotto il profilo storico quello che è accaduto non è nulla di inedito. La novità assoluta è l’aspetto mediatico dell’evento, non c’era Telegram nel 1941 per potere esibire al mondo gli avvenimenti, in modo da amplificarli. Ovviamente c’è anche l’aspetto delle proporzioni del massacro, a Baghdad le vittime furono duecento, a Hebron furono settanta, qui in Israele sono state milleduecento. Le incitazioni omicide, “Uccidete gli ebrei!” sono le medesime, le abbiamo già ascoltate nel 1938 a Hebron, le stesse che vennero urlate a Baghdad. Non va dimenticato soprattutto il precedente istituito da Maometto nei confronti dei Banu Qurayshi, la tribù ebraica che viveva a Medina e venne massacrata nel 627. Fu Maometto stesso a decapitare i capi della tribù, gli altri vennero sgozzati e decapitati uno ad uno.

- Si può forse dire che una delle differenze più rilevanti con il passato è che il cosiddetto popolo della domenica, cioè i cristiani, nonostante le persecuzioni che hanno subito costantemente nel mondo islamico e che ancora subiscono, non abbiano la piena consapevolezza che l’odio antiebraico è l’altra faccia dell’odio anticristiano.
  I massacri degli ebrei sono stati una costante della storia anche nell’Europa cristiana. L’atteggiamento nei confronti degli ebrei, sia nel mondo islamico, sia in quello cristiano è stato sostanzialmente il medesimo. Si è sempre guardato all’ebreo come all’altro, come a colui che aderisce a una religione che dovrebbe essere abolita, come al capro espiatorio prediletto, e questo vale sia per l’attitudine nei suoi confronti da parte orientale sia da parte occidentale. Oggi, con la copiosa immigrazione dall’Oriente verso l’occidente, assistiamo all’incontro di due tradizioni culturali che hanno entrambe coltivato per secoli l’avversione per l’ebreo e che hanno entrambe coltivato lo stereotipo dell’ebreo vittima, dell’ebreo soccombente, dell’ebreo assassinato, dunque rifiutano l’immagine dell’ebreo che combatte, che lotta per la propria sopravvivenza e questa modalità rinnovata dell’ebreo, dell’ebreo israeliano nella fattispecie, fomenta ulteriormente l’odio. In modo particolare in ambito islamico, l’ebreo è stato stereotipato per secoli come colui che conduceva una vita sottomessa, una vita povera. Era un essere privo di sostegno, abbandonato a se stesso, al proprio destino miserevole. Secondo questa tradizione un ebreo non ha alcun diritto a uno Stato, a un esercito, a qualsiasi tipo di forza che gli consenta di potersi difendere. Da settantacinque anni gli ebrei hanno uno Stato, hanno un esercito, possono difendersi e combattere, e questo, per la mentalità islamica è intollerabile.

- Il 7 ottobre è stato rapidamente dimenticato, si è passati velocemente persino al negazionismo, concentrandosi soprattutto sulla reazione israeliana a Gaza. 
  È necessario negare, perché negando si toglie di mezzo la ratio che giustifica la reazione israeliana. Se si nega ciò che è accaduto il 7 di ottobre si priva Israele della legittimità dell’operazione militare a Gaza. Si è subito cercato di negare l’aspetto bestiale delle atrocità perpetrate da Hamas a Gaza, e il primo a negarle, nonostante i filmati e le testimonianze è stato Hamas stesso. Hamas e l’ISIS sono nutrite della stessa identica matrice, hanno come riferimento fondante il Corano e gli hadit, ma mentre c’era un consenso unanime relativamente alla necessità di sconfiggere l’ISIS non c’è relativamente alla necessità israeliana di sconfiggere Hamas. Va aggiunto che l’ISIS non prendeva di mira soprattutto gli ebrei ma era contro l’Occidente in quanto tale quindi la comunità internazionale si è coalizzata per sconfiggerlo, mentre finora Hamas agisce solo contro gli ebrei e dunque si nota una differenza fondamentale. Dov’è il consenso unanime, dove è l’appoggio mondiale dietro la necessità di sconfiggere Hamas?

- Da tempo lei sostiene l’impraticabilità di uno Stato palestinese. Recentemente ha suggerito che la popolazione di Gaza possa trasferirsi in Qatar. 
  Attualmente ci sono più di sette milioni di siriani sparsi tra l’Europa, la Turchia, il Libano, in Giordania e in altri paesi, e per la comunità internazionale non ci sono particolari problemi, è una situazione accettata, ma appena in Israele si ragiona sull’immigrazione di un solo palestinese, immediatamente la reazione è di indignazione. Perché? Quale è la differenza tra il salvare dalla miseria i siriani e fare la stessa cosa con i palestinesi che vivono a Gaza? La maggioranza degli abitanti di Gaza se ne vuole andare a causa della distruzione, a causa delle guerre, perché non ne possono più di come si è trasformata Gaza da quando Hamas ha preso il potere nel 2007. Se ne vorrebbero andare ma la comunità internazionale non lo permette. Va bene se si tratta dei siriani o degli iracheni o di chiunque altro, ma non è possibile se si tratta dei palestinesi che si trovano nella situazione in cui si trovano per colpa di Hamas. Quale è la differenza tra un siriano, un iracheno e un palestinese? Sono arabi, sono musulmani. La risposta è semplice, perché se venissero trasferiti due milioni di palestinesi la cosiddetta causa palestinese collasserebbe e naturalmente si vuole tenere viva la causa palestinese in modo da potere distruggere Israele. È la ragione per la quale l’Europa rifiuta questa soluzione, che si permetta loro di andare in Qatar.

- In Qatar?
  Esattamente. Il Qatar ha strutture dormitorio costruite appositamente per la Coppa del Mondo che adesso sono vuote e che potrebbero ospitare agevolmente migliaia di rifugiati palestinesi provenienti da Gaza. Hanno numerose strutture alberghiere adatte allo scopo, e con l’enorme mole di denaro di cui dispongono, altre ne potrebbero costruire. Hanno migliaia di lavoratori stranieri nel paese. Che si permetta ai palestinesi di potere farne parte, perché devono lavorare in Israele con l’intento di distruggerlo? Perché non farli vivere là dove sono amati? Il Qatar gli dà già miliardi di dollari, continui a sostenerli direttamente lì. Sotto il profilo tecnico potrebbero risolvere il problema nel giro di una settimana. Hanno una flotta area di 269 aerei. Ognuno ha una capienza di trecento passeggeri. Se si dividono due milioni di persone per 269 aerei, si ottengono approssimativamente settemila e cinquecento persone, il che significa 25 voli, per la durata di due ore e mezza. È una operazione che si potrebbe concludere nel giro di cinque giorni, sei giorni.

- Ma una soluzione del genere non risolverebbe il problema di quei palestinesi in Cisgiordania che sostengono Hamas. 
  Il problema è soprattutto rappresentato da chi li governa. L’Autorità Palestinese odia Israele non meno di Hamas. Prenda come esempio la sciarpa di Hamas dell’organizzazione studentesca dell’Università di Birzeit che le mostro. Visitai l’università e me la regalarono. Osservi. Su di essa c’è il simbolo che rappresenta l’intera mappa di Israele da cui esso è assente. L’OLP ha una sciarpa diversa con la bandiera dell’organizzazione e anche in essa c’è la stessa rappresentazione della Palestina dal fiume al mare. Quindi quale è la differenza? La mappa è la stessa mappa. Dovremmo sostituire Hamas con loro? L’ideologia è la medesima. L’OLP ha due organizzazioni terroriste in attività, una è Tanzim Fatah e l’altra è la brigata dei Martiri di Al Aqsa che sono pagate dall’OLP e dirette dall’Autorità Palestinese. Le famiglie che hanno avuto tra i loro membri dei terroristi di queste organizzazioni i quali sono morti vengono pagate mensilmente, mentre quelli che sono vivi ma si trovano incarcerati ricevono direttamente un pagamento mensile. L’Autorità Palestinese paga i terroristi che hanno come obiettivo quello di ucciderci. L’Europa e gli Stati Uniti supportano una organizzazione che finanzia terroristi che hanno come programma quello di uccidere gli ebrei.

- Nel 2015 dopo la strage del Bataclan, Abu Mazen venne invitato a Parigi come leader dell’Autorità Palestinese  a sfilare contro il terrorismo jihadista.  
  La strage del Bataclan fu organizzata dall’ISIS, allora considerato il male assoluto mentre per gli europei l’Autorità Palestinese rappresenta una organizzazione moderata anche se ha le sue organizzazioni terroristiche e finanzia dei killer. Di cosa hanno bisogno  gli europei e gli americani per convincersi che l’Autorità Palestinese è un’organizzazione terroristica, che abbia uno Stato con un suo esercito? Supportare il venire in essere di uno Stato palestinese significa supportare la nascita di uno Stato antisemita come quello che si è già realizzato a Gaza. Si tratterebbe di un pericolo per la stessa esistenza di Israele a causa della posizione in cui sarebbe situato, sulle colline della Giudea e Samaria, quindi sostanzialmente in grado di colpire qualsiasi bersaglio, a Tel Aviv, a Herzliya, a Haifa. Uno Stato palestinese è, per Israele, una minaccia esistenziale.

- Se uno Stato palestinese non può essere la soluzione, quale può essere un modello alternativo che consenta ai palestinesi una loro autonomia? 
  Il modello alternativo è quello degli Emirati arabi del Golfo. Si tratta di stabilire entità cittadine palestinesi fondate sui nuclei tribali familiari. Il Kuwait è fondato su una famiglia, Al Sabah, il Qatar sulla famiglia Al Tahani, il Dubai sulla famiglia Al Maktoum, Abu Dhabi sulla famiglia Al Nahyan. Sono clan, e quando uno Stato si basa su un clan in genere è uno Stato pacifico e sviluppato. Questa è la struttura che dovremmo implementare nella parte araba di Hebron per i cinque clan che si trovano lì, e allo stesso modo per il clan di Gerico, di Ramallah, di Tulkarm, di Nablus, di Jenin, facendo sì che Israele permanga nelle aree rurali, cioè quelle aree che ci sono state assegnate dalla Lega delle Nazioni alla Conferenza di San Remo nel 1920. In questo modo si costituirebbe nelle città una struttura analoga a quella degli Emirati con città autonome. Questo è l’unico paradigma che funziona in Medio Oriente, perché quando si agglomerano gruppi disomogenei, sunniti con sciiti, clan diversi, si va verso il disastro, come in Siria, in Iraq, in Libano, nello Yemen, in Sudan, dove gli Stati sono conglomerati disomogenei. In Medio Oriente solo una società omogenea può produrre uno Stato funzionante. Se non si applica al Medio Oriente il modello societario che è in armonia con la sua specificità culturale, con l’assetto mentale e di priorità che è specifico a questa regione e che non è né quello europeo né quello americano, si va verso il fallimento, come è stato un fallimento il Libano. Il Libano fu concepito per essere una sorta di Svizzera mediorientale, la sua prima Costituzione venne ricalcata su quella elvetica, ma non poteva funzionare, perché qui la cultura è diversa, perché qui l’Islam è dominante. Non si può scaricare come fosse il programma di un computer in un contesto culturale che le è alieno come quello arabo-islamico, un modello culturale che è in contrasto con i suoi parametri. Noi crediamo nella società aperta, nella libertà di opinione e di espressione, loro no, credono nella religione. Noi israeliani che viviamo qui in Medio Oriente nella terra dei nostri avi, siamo come un bastione del mondo occidentale, se cadiamo noi, la prossima a seguirci sarà l’Europa e l’oceano Atlantico non è abbastanza vasto per potere preservare l’America da una sorte analoga.

- Da quello che dice sembrerebbe che il 7 ottobre sia un episodio nel contesto più ampio di una opposizione radicale di mondi e mentalità.
  Di fatto quello che stiamo vivendo è uno scontro di culture e di civiltà. Hamas, come l’ISIS rappresenta il Settimo secolo. Il loro statuto è impregnato dal Corano, esso è la fonte principale del loro modo di pensare e del loro modus operandi, noi viviamo nel mondo moderno, nel Ventunesimo secolo. Quella in corso è una guerra tra il Settimo secolo, rappresentato da Hamas e dai suoi sostenitori, come il Qatar e l’Iran e il Ventunesimo secolo rappresentato da Israele, di cui Israele è parte integrante. Loro rappresentano la cultura del deserto in cui l’imperativo è quello di uccidere per sopravvivere, noi rappresentiamo la cultura del vivi e lascia vivere che è la base per la convivenza pacifica, per l’instaurarsi della pace. Ma loro non vogliono lasciarci in pace perché siamo ebrei e quindi, secondo la mentalità islamica, non abbiamo diritto a un nostro Stato, non abbiamo diritto alla sovranità. Per la dottrina islamica gli ebrei e i cristiani devono vivere come dhimmi, come sottoposti e sottomessi, ne consegue che Israele non può avere alcun diritto all’esistenza ne può avere legittimità una religione che, come quella ebraica e, in questo senso, quella cristiana, è considerata superata in quanto superata dall’Islam. Tutta la regione sulla quale sorge Israele è considerata terra islamica come ogni altra regione che una volta si è trovata sotto il dominio islamico, la Sicilia, la penisola iberica, larghe parte dei Balcani, fino a Vienna, dove i musulmani vennero sconfitti nel 1683. Quindi, in questa prospettiva, Israele non ha nessuna, assolutamente nessuna legittimità esistenziale. L’occupazione per i musulmani non inizia nel 1967, ma molto prima, già a partire dal 1948. Per loro si tratta di una guerra eterna, non può esaurirsi in una generazione. Allah, è scritto, è con coloro che hanno pazienza.

- Quali sono dunque le prospettive per la pace?
  Se il nemico è sufficientemente forte, è capace di applicare una deterrenza efficace, i musulmani gli concederanno una pace temporanea che durerà fin tanto che egli sarà forte e pericoloso, come fece Maometto a Hudibiya, quando siglò la pace con i meccani che sarebbe dovuta durare quasi dieci anni e che egli violò appena si rese conto che potevano essere attaccati. Ciò significa che se Israele riuscirà a mantenere intatta la sua capacità di deterrenza, la sua invincibilità in modo permanente allora la tregua momentanea sarà di fatto permanente. Nel Medio Oriente funziona così, non è possibile ottenere una pace permanente dal principio perché noi ebrei rappresentiamo l’altro, una cultura diversa, perché siamo occidentali, siamo visti come stranieri, un corpo estraneo, che loro non vogliono sia qui. D’altronde, il rigetto dell’altro è analogo anche nelle enclave che hanno stabilito in Europa. Il multiculturalismo è un concetto che non gli appartiene, in cui non credono.

- Il 7 ottobre secondo lei è stato uno spartiacque per quanto riguarda il modo di intendere le cose qui in Israele?
  Ritengo di sì, e in diversi ambiti. La società avrà altre priorità. Dopo quello che è successo molti di coloro che sostenevano l’ipotesi di uno Stato palestinese non lo faranno più. Nessuno poteva immaginare che una eventualità del genere potesse verificarsi. Lo stesso sistema politico israeliano dovrà riqualificarsi nei mesi a venire, insieme al sistema educativo. Dovremo essere molto più realisti e molto meno sognatori a proposito del “nuovo” Medio Oriente, così come lo immaginava Shimon Peres. Non esiste alcun nuovo Medio Oriente, il Medio Oriente è un luogo molto problematico così come lo abbiamo conosciuto nei decenni. Il Medio Oriente, al di là di utopiche proiezioni, delle cosiddette primavere arabe, è rimasto una regione violenta, religiosa, islamica, tribale, è rimasto fondamentalmente lo stesso di settantacinque anni fa quando venimmo attaccati per essere distrutti all’urlo, “Massacrate gli ebrei!”, lo stesso incitamento che si è ascoltato in bocca ai carnefici di Hamas.

(L'informale, 24 gennaio 2024)

........................................................


Da Tel Aviv arriva il pomodoro che non spreca acqua

I ricercatori dell’Università di Tel Aviv hanno sviluppato dei pomodori che richiedono l’uso di meno acqua. Questo senza comprometterne la resa, la qualità o il gusto. Una scoperta definita dal sito ynet “rivoluzionaria”, in particolare in un momento in cui, con il cambiamento climatico, la scarsità d’acqua rappresenta un problema globale.
   I ricercatori della Scuola di scienze vegetali di Tel Aviv sono intervenuti sulla traspirazione della pianta. In questo processo, l’umidità è trasportata dalle radici agli stomi, piccoli pori sulla faccia inferiore delle foglie, dove si trasforma in vapore e viene rilasciata nell’atmosfera. Gli stomi, che si aprono e si chiudono, regolano dunque il bilancio idrico della pianta. In condizioni di siccità, la pianta li chiude, riducendo la perdita di acqua. Gli scienziati israeliani sono intervenuti in questo passaggio, attraverso una modifica genetica. “Abbiamo scoperto che quando compromettiamo l’attività delle proteine ROP9 rendendole inattive, causiamo una chiusura parziale degli stomi, soprattutto a mezzogiorno, quando il tasso di perdita d’acqua dalle piante è più alto a causa della traspirazione ”, ha spiegato Shaul Yalovsky, capo del laboratorio in cui è stato condotto l’esperimento.
   La modifica, riporta ynet, ha permesso alle piante di pomodoro “di assorbire una quantità sufficiente di bicarbonato anche a mezzogiorno, quando gli stomi sono più chiusi, impedendo una diminuzione della fotosintesi. I risultati suggeriscono che, puntando su specifici fattori genetici, è possibile creare colture che mantengono l’efficienza nell’uso dell’acqua senza compromettere la crescita e la produttività”. Una scoperta che, aggiunge Yalovsky, “apre nuove possibilità per migliorare la resilienza delle colture alla scarsità d’acqua, garantendo un’agricoltura sostenibile di fronte ai cambiamenti climatici”.

(moked, 24 gennaio 2024)

........................................................


Ventuno riservisti israeliani uccisi dai terroristi a Gaza

di Ugo Volli

• IL TERRIBILE INCIDENTE
FOTO
Ventuno militari israeliani della riserva, appartenenti alla fanteria, al genio e ai carristi sono caduti assieme, nello stesso scontro, ieri nel tardo pomeriggio. È il più terribile incidente e la più grave perdita delle Forze armate israeliane dopo la strage del 7 ottobre. I soldati facevano parte di un gruppo incaricato di minare un edificio a circa 600 metri all’interno del confine di Gaza, con l’obiettivo di ripulire una zona cuscinetto per evitare nuove infiltrazioni. Mentre erano all’interno dell’edificio intenti a porre le mine per abbatterlo, scortati da un carro armato che stazionava all’esterno, da un tunnel nelle vicinanze è uscito senza essere visto un gruppo di terroristi che portavano razzi anticarro a spalla (in gergo sono chiamati RPG). Essi hanno colpito da poca distanza il carro armato con un colpo che ha provocato la morte di due soldati del suo equipaggio. Altri due colpi sono stati sparati contro la casa dove era il gruppo incaricato del lavoro di distruzione dell’edificio. Le mine che i soldati stavano montando e collegando fra loro sono esplose per effetto dell’impatto dei razzi, travolgendoli tutti e uccidendone altri diciannove. I terroristi si sono dileguati.

• LA TATTICA DEI TERRORISTI
  La dinamica è quella tipica della guerra asimmetrica che Hamas sta conducendo contro le forze armate di Israele: nascondersi, non farsi vedere; restare in attesa sotto la protezione di qualche edificio o di qualcuno degli oltre 1.500 pozzi che conducono in superficie dalla rete delle gallerie d’attacco predisposta dall’organizzazione terrorista; spostarsi in gruppetti di due o tre uomini dall’uno all’altro di questi rifugi, sul suolo o per mezzo dei tunnel sia per sfuggire agli attacchi israeliani sia per portarsi a tiro delle truppe; colpire con le armi che vi sono depositate e che terroristi normalmente non portano prima dell’uso per non farsi identificare e farsi scambiare per civili; piazzare delle bombe sulla strada dei militari israeliani o sparare loro addosso; fuggire di nuovo. È una tattica di grande efficacia, che permette ai gruppetti terroristi di affrontare forze superiori e di restare operativi nonostante le perdite che subiscono quando sono visti e affrontati dalle truppe. Le forze armate israeliane cercano di rispondere: usando i droni per ispezionare i dintorni; mobilitando l’artiglieria e anche l’aviazione per distruggere i rifugi dei terroristi o minandoli; facendo saltare i pozzi di uscita dalla rete sotterranea che individuano. I carri armati sono anche difesi da sistemi di difesa contro gli RPG: sia da corazzature assai spesse e pesanti, che però i razzi moderni come i Kornet russi riescono a penetrare, sia da contromisure elettroniche attive, come piccoli razzi sparati automaticamente contro la minaccia in arrivo, quando il sistema del carro la rileva.

• IL LUTTO
  Ma qualche volta questi sistemi di difesa non bastano e allora i soldati periscono. Quello di ieri è il caso più grave. L’incidente porta il totale dei caduti in combattimento delle forze armate israeliane in questa guerra a 221. Contando i militari uccisi dai terroristi durante la strage del 7 ottobre, i militari israeliani morti finora assommano a 556. Tutta Israele oggi è in lutto per questi giovani riservisti caduti per la difesa della patria. I loro nomi non vengono rivelati prima che ciascuna famiglia sia stata informata. Il loro sacrificio non è stato inutile, in una guerra che difende l’esistenza stessa dello Stato di Israele. Che il loro ricordo sia di benedizione e che aiuti la società a comprendere l’esigenza di concordia per reggere a una prova così difficile.

(Shalom, 23 gennaio 2024)

........................................................


La necessità di andare fino in fondo e il rischio cedimento

“Questa è una guerra che determinerà il futuro di Israele per i decenni a venire” ha dichiarato stamattina Yoav Gallant, ministro della Difesa.
Si tratta infatti di una guerra esistenziale non meno delle maggiori guerre combattute da Israele, non perché Israele rischi la distruzione per mano di Hamas, ma perché qualora l’obbiettivo dichiarato di smantellare la struttura militare di Hamas a Gaza, fallisse, il nemico principale dello Stato ebraico, l’Iran e il suo proxy libanese Hezbollah avrebbero la prova certificata della sua debolezza.
Se Hamas non venisse smantellato potrebbe vantare di avere sconfitto un esercito ben più potente del suo in virtù della sua capacità di resistenza. A quel punto si presenterebbe con una legittimità piena come la principale forza jihadista regionale e quella più titolata a rappresentare la “causa palestinese” relegando la già screditata Autorità Palestinese a una completa irrilevanza. L’Iran incasserebbe immediatamente il considerevole vantaggio
In questa prospettiva la proposta che sembra essere stata avanzata da Israele a Hamas di una pausa nei combattimenti prolungata per due mesi in cambio del rilascio di un altro numero di ostaggi tra quelli ancora detenuti nella Striscia insieme allo scambio di prigionieri palestinesi, si palesa come un cedimento che avrebbe gravi ripercussioni sul raggiungimento dell’obiettivo militare prefissato.
Lo stesso Gallant ha più volte affermato che solo la costante pressione militare può indurre Hamas a cedere gli ostaggi. Avanzare questa proposta quando il grosso della milizia jihadista è ancora intatto a sud e il raggiungimento dell’obbiettivo militare è lontano dall’essere raggiunto può solo essere un vantaggio per Hamas.
Un cessate il fuoco lungo due mesi renderebbe la ripresa dei combattimenti problematica indebolendo inevitabilmente la determinazione di sconfiggere il nemico e conducendo Israele al fallimento dell’operazione militare.

(L'informale, 23 gennaio 2024)
____________________

Dunque per il Ministro della Difesa Gallant si tratta di una guerra esistenziale: Israele difende la sua esistenza. Il mondo occidentale invece, con a capo gli USA, difende la sua libertà, che vede minacciata dal tirannico Iran. Potrebbe essere allora che come l'Iran sfrutta Gaza per i suoi scopi tirannici, disinteressandosi del tutto della sorte reale dei gazani, così l'America sfrutti Israele per i suoi scopi democratici, disinteressandosi del tutto (o quasi) della sorte reale degli israeliani. E potrebbe anche essere che pur di salvare la preziosa libertà del mondo liberal, i think tank americani comincino a pensare che il male minore per il libero e democratico Occidente sia dare in pasto al barbaro e tirannico Oriente il boccone indigesto dell'ingovernabile Israele. Che ne dice Israele? Ci sta pensando. Essere o non essere (democratici)? Questo è il problema. M.C.

........................................................


Ostaggi: nel giorno più brutto, voci di un accordo con Hamas

Nel giorno più brutto per Israele dall’inizio della guerra con la perdita di 21 soldati, emerge la notizia che Gerusalemme avrebbe offerto una pausa dei combattimenti di due mesi in cambio del rilascio di tutti gli ostaggi. Tuttavia, ha rifiutato di accettare la richiesta di Hamas di porre completamente fine alla guerra.
La proposta di accordo in più fasi è passata attraverso i mediatori del Qatar e dell’Egitto, secondo quanto riferito da fonti israeliane. La proposta era stata approvata dal gabinetto di guerra israeliano 10 giorni fa e i parametri della nuova proposta sono diversi e più orientati al futuro rispetto alle precedenti proposte israeliane, che erano state respinte da Hamas.
Secondo la proposta, tutti gli ostaggi vivi saranno restituiti. Anche i corpi degli ostaggi morti saranno rilasciati in diverse fasi. La prima fase prevede il rilascio di donne, uomini di età superiore ai 60 anni e ostaggi in condizioni mediche critiche.
Le fasi successive includeranno il rilascio delle donne soldato, degli uomini sotto i 60 anni che non sono soldati, dei soldati israeliani maschi e dei corpi degli ostaggi. L’accordo prevede anche che Israele e Hamas si accordino in anticipo sul numero di prigionieri palestinesi da rilasciare per ogni ostaggio israeliano in ciascuna categoria.
Dall’altro lato, Israele ridistribuirebbe le proprie truppe in modo che alcune vengano spostate fuori dai principali centri abitati dell’enclave. Ciò consentirebbe un graduale ritorno dei civili palestinesi a Gaza City e nella Striscia di Gaza settentrionale.
Tuttavia, i funzionari israeliani hanno affermato che la proposta chiarisce che Israele non accetterà di porre fine alla guerra e non accetterà di rilasciare tutti i 6.000 prigionieri palestinesi dalle carceri israeliane. Tuttavia, sono pronti a rilasciare un numero significativo di prigionieri palestinesi se Hamas accetta l’offerta.
Nel frattempo, come detto, le Forze di Difesa israeliane hanno subito la più grande perdita di vite umane dall’inizio della guerra, dopo che lunedì 21 soldati sono morti durante i combattimenti nel sud di Gaza. 
In una dichiarazione televisiva di martedì, il portavoce delle Forze di Difesa Israeliane (IDF), il contrammiraglio Daniel Hagari, ha dichiarato che due edifici sono crollati sui soldati dopo essere stati colpiti da un RPG durante un’operazione militare.

(Rights Reporter, 23 gennaio 2024)

........................................................


Il prezzo della pace

Il dilemma di Israele è lo stesso da cent’anni: i vantaggi economici bastano per ottenere sicurezza e convivenza?

di Yasha Reibman

Tra le tante colpe, Benjamin Netanyahu viene accusato di aver consentito in questi anni il regolare arrivo di valigie piene di soldi portate da funzionari del Qatar per Hamas, di essersi illuso di poter comprare la tranquillità e di aver invece favorito la costruzione dei tunnel del terrore. Il dilemma del movimento sionista prima e di Israele dopo, da cent’anni è in fondo sempre lo stesso. Come poter vivere in pace e sicurezza in medio oriente. Gli arabi accetteranno l’esistenza di Israele in virtù dei vantaggi economici e umani conseguenti alla pace oppure la pace sarà possibile soltanto con la forza dimostrando loro che non possono distruggere Israele? Prima ancora della nascita dello stato ebraico, con il diffondersi del sionismo nei territori dell’est Europa e in Russia permeati da ideali socialisti e comunisti, con la decisione del sesto congresso sionista di rifiutare l’ipotesi britannica di costituire una patria ebraica in Uganda nel 1903 e anche a fronte del pogrom antiebraico del 1929 a Hebron e della rivolta araba degli anni Trenta, il dubbio fu sempre questo. La componente del sionismo influenzata dalle interpretazioni marxiste riteneva che operai e lavoratori ebrei e arabi si sarebbero dovuti unire contro il comune avversario, il capitalismo, individuato da un lato nel colonialismo inglese e dall’altro nei latifondisti arabi (che sfruttavano i lavoratori arabi e che vendevano a caro prezzo i propri terreni al Fondo nazionale ebraico, il Keren Kayemet le Israel). I sionisti revisionisti, fautori del liberalismo in economia e guidati da Zeev Jabotinsky, proponevano invece la dottrina del “muro di ferro”: solo la piena dimostrazione di forza militare avrebbe fatto desistere il mondo arabo, il cui nazionalismo si era manifestato come reazione al sionismo, dal sogno di buttare gli ebrei a mare. I revisionisti accusavano i socialisti di ingenuità e arroganza, di ridurre tutto a questioni economiche e di non riconoscere i sentimenti arabi: “Gli arabi non svenderanno il proprio orgoglio nazionale e religioso per quattro soldi”. Nel 1947 a Londra, il segretario della Lega araba, Azzam Pasha, disse ad Abba Eban, primo ambasciatore di Israele alle Nazioni Unite e successivamente ministro degli Esteri, che non vi era disonore ad accettare qualcosa se si viene costretti dalla forza, ma che spontaneamente gli arabi non avrebbero accettato l’esistenza di uno stato ebraico.
  Dai sionisti marxisti nasceranno vari partiti della sinistra israeliana, dai revisionisti prenderanno il via i diversi
Le due visioni della componente del sionismo influenzata dal marxismo e quella revisionista
movimenti che finiranno per confluire nel Likud di Menachem Begin, Itzhak Shamir e oggi del premier Netanyahu. La divisione non è tuttavia così netta. David Ben Gurion – pur formatosi in ambito marxista, leader del governo e del partito di sinistra egemone per decenni – per realismo fece di fatto propria l’impostazione revisionista riguardo alla pace col mondo arabo, perseguendo la necessità di una superiorità militare, proponendo allo stesso tempo una proficua convivenza per tutta la regione. Così nel 1948, nella Dichiarazione di Indipendenza, “nel mezzo dell’attacco” che in quelle stesse ore le veniva sferrato, Israele tendeva la “mano di pace e di buon vicinato a tutti gli stati vicini e ai loro popoli” e faceva “loro appello affinché stabilissero legami di collaborazione” e si dichiarava “pronto a compiere la sua parte in uno sforzo comune per il progresso del medio oriente intero”.
  Con la guerra dei Sei giorni nel giugno 1967 e l’improvvisa conquista di enormi territori, le Nazioni Unite su proposta israeliana introdussero nell’arena il concetto di “territori in cambio di pace”, la via di un compromesso territoriale col mondo arabo per arrivare a un accordo. La leadership israeliana riteneva di aver oramai dimostrato una superiorità bellica (dottrina del muro di ferro) e di poter convincere finalmente gli arabi che la pace avrebbe portato dei vantaggi, questa volta anche in termini territoriali. Il mondo arabo rifiutò. Nel 1964 era nata l’Olp e nel settembre 1967 a Kartoum la Lega araba pronunciò i famosi tre “no”, no alla pace con Israele, no a trattative con Israele, no a riconoscere Israele. L’approccio territoriale, sposato infine anche dalla destra israeliana giunta al governo in seguito alla guerra del Kippur, portò invece alla pace con l’Egitto nel 1979 in cambio della restituzione della penisola del Sinai. Con i palestinesi, la “finestra di opportunità’ – come fu definita dall’ex capo di stato maggiore e primo ministro laburista Ytzhak Rabin – si manifestò dopo la caduta del muro di Berlino e la crisi dell’Unione sovietica (le guerre contro Israele erano state combattute dagli stati arabi con armi di fabbricazione sovietica) e dopo l’indebolimento dell’Olp provocato anche dall’aver preso le parti di Saddam Hussein, invasore del Kuwait nella prima guerra del Golfo. Nel 1991 si svolse la conferenza di Madrid (il governo israeliano era allora guidato dalla destra di Shamir) e due anni dopo si raggiunsero gli accordi di Oslo firmati dai leader della sinistra israeliana, Rabin e Shimon Peres, e dal leader palestinese, Yasser Arafat, che sancirono la nascita dell’Autorità nazionale palestinese. Un processo che continuò anche sotto il primo governo Netanyahu con il ritiro da Hebron e l’ulteriore passaggio di territori sotto controllo palestinese con il vertice di Wye Plantation. Ma l’apice di questo tentativo si raggiunse nel 2000 a Camp David, dove il nuovo primo ministro israeliano, il laburista Ehud Barak, offrì un accordo di pace complessivo ad Arafat, che rifiutò senza nemmeno provare a rilanciare. Al rientro, scendendo dall’aereo, il leader palestinese mostrò le dita a V in segno di vittoria e la firma che pose fu quella sul rilascio dei detenuti palestinesi accusati di terrorismo. “Milioni di martiri marceranno su Gerusalemme”. tuonò in quei giorni inneggiando alla jihad dal suo quartier generale a Ramallah. Da lì a poco, sfruttando la scusa della passeggiata a Gerusalemme sulla spianata delle moschee (e del Tempio ebraico) da parte del leader dell’opposizione Ariel Sharon, scoppiò la seconda Intifada, quella dei terroristi kamikaze.
  Eppure i negoziati proseguirono, Israele accettò i “Parametri” di Bill Clinton, Arafat li rifiutò e un’ulteriore proposta
Tutte le volte che si è aperta e chiusa la "finestra di opportunità"per la pace e l'occasione di oggi
di pace fu reiterata pochi mesi dopo sul Mar Rosso a Taba da Barak e fu di nuovo respinta. E venne riformulata nuovamente nel 2007 ad Annapolis e di nuovo nel 2008 dal primo ministro israeliano Ehud Olmert al nuovo presidente dell’Anp, Abu Mazen. Nel 2009, nel discorso di Bar Ilan, il primo ministro Netanyahu accettò l’ipotesi dello stato palestinese e nel 2014 il documento coi princìpi per un accordo proposto dall’Amministrazione americana del presidente Barack Obama tramite il segretario di Stato John Kerry. Israeliani e americani ottennero solo rifiuti. I leader palestinesi non erano disposti a firmare un accordo di pace che implicasse un compromesso, la nascita dello stato palestinese con la rinuncia al diritto al ritorno dei discendenti dei profughi palestinesi del 1948 dentro ai confini israeliani (nelle proposte di pace, Israele era disposta a dare il diritto al rientro nel futuro stato palestinese, ma non dentro i propri confini, se non in numero limitato, poiché questo avrebbe comportato, accanto alla nascita di uno stato palestinese a Gaza e in Cisgiordania, la trasformazione della stessa Israele in uno stato a maggioranza araba).
  L’accusa di aver svenduto la terra dell’islam era un rischio che Arafat prima e Abu Mazen dopo non volevano o potevano più correre. La finestra si era chiusa. Il dilemma in fondo era lo stesso dei primi del Novecento: i palestinesi erano disposti ad avere i vantaggi della pace rinunciando al proprio orgoglio di ottenere tutto oppure la pace poteva essere conquistata solo tramite la forza col riconoscimento della impossibilità di distruggere Israele? I fondamentalisti di Hamas (giunto nel frattempo al potere a Gaza dopo il ritiro unilaterale israeliano), Hezbollah e Iran hanno mantenuto vivo il sogno di poter eliminare l’onta dell’esistenza di Israele. Gli scontri con Hamas hanno comportato successive operazioni belliche, terribili nella loro devastazione, l’ultima delle quali, nel 2021, si concluse con un accordo mediato tra Egitto, Qatar e Israele che, come emerse nelle settimane successive, comportava l’invio di soldi dal Qatar a Gaza e questo fu festeggiato da tutti i media internazionali come un positivo “passo avanti per allentare le tensioni”, come lo definì per esempio l’Osservatore Romano. In questo accordo, riemergeva l’idea vecchia di cento anni secondo cui la tranquillità e la pace potevano essere comprate con benefici economici. In questi giorni, Israele – pur tra tensioni interne al gabinetto di guerra relative a pause del conflitto per ottenere la liberazione degli ostaggi e a toni da campagna elettorale – sta perseguendo l’altra opzione, infliggere una sconfitta militare completa, questa volta nei confronti di Hamas. Se riuscirà, la finestra di opportunità per la pace potrà riaprirsi.

Il Foglio, 23 gennaio 2024)

........................................................


Difendersi o scomparire. Per lo storico Bensoussan, Israele non ha alternative

di Georges Bensoussan

"Il fatto che non si possa sradicare un’ideologia come quella di Hamas con le armi non significa che non ci si debba difendere da essa con le armi", dice a Le Figaro il noto storico francese

"La popolarità di Hamas tra la popolazione palestinese di Gaza mi sembra opinabile quando diversi segnali mostrano innanzitutto una popolazione terrorizzata, una parte della quale sussurra il suo odio, come l’anziana donna che dichiara alla telecamera che ‘tutto va nei tunnel sotterranei’ (sic), rubato dagli uomini di Hamas, o l’anziano che si nasconde a metà il volto dicendo ‘Dio maledica Hamas’” dice a Le Figaro lo storico francese Georges Bensoussan, tra i massimi esperti della storia dell’antisemitismo, autore del saggio “Les Territoires perdus de la République”, di recente ha pubblicato “Les Origines du conflit israélo-arabe, 1870-1950”.
  “Che Hamas sia popolare altrove, lì dove l’odio per lo stato ebraico agisce come un afrodisiaco (sic), come disse una volta un sovrano marocchino, è cosa certa, dal momento che ha tenuto sotto scacco Israele il 7 ottobre. Ma cosa dovrebbero fare gli israeliani? Non reagire, con il rischio di rendere Hamas ancora più popolare, quando vedono in questa organizzazione una minaccia esistenziale? Lo dimostra l’articolo 18 della carta di Hamas (2017), secondo cui ‘i seguenti elementi sono considerati nulli e privi di validità: la Dichiarazione Balfour, il documento del mandato britannico, la risoluzione delle Nazioni unite sulla spartizione della Palestina e tutte le risoluzioni e le misure derivate o collegate ad essi. La creazione di ‘Israele’ è totalmente illegale e contravviene ai diritti inalienabili del popolo palestinese e va contro la sua volontà e quella della umma’. Nessuna guerra di Israele era durata così a lungo, il che significa anzitutto che non si tratta di una guerra di devastazione indiscriminata, nel qual caso sarebbe bastata una settimana, ma di una guerra mirata con aerei, fanteria e mezzi corazzati israeliani che avanzano passo dopo passo per smantellare una gigantesca infrastruttura di tunnel che sboccano nel cuore di scuole e ospedali, ma anche di case più banali dove tutto è messo sotto chiave, fino al più modesto divano, per ritardare la distruzione di oltre 800 km di tunnel sepolti fino a 60 metri di profondità, una città sotto la città, cablata, elettrificata, dotata di un sistema di aria condizionata e rifornita di enormi riserve di armi e cibo. Una macchina da guerra costruita negli ultimi sedici anni con miliardi di dollari provenienti dal Qatar, dall’Unrwa (Onu) e dalle nostre tasse attraverso l’Unione europea”.
  C’è una differenza nel modo in cui israeliani e occidentali percepiscono il conflitto. "L’evidente differenza di percezione è dovuta principalmente a un filtraggio delle informazioni basato su presupposti cognitivi e ideologici. È il caso, ad esempio, di alcuni media pubblici francesi che evidenziano fatti insignificanti nella realtà israeliana, ma che rafforzano la loro visione, spesso alimentata da uno schema colonialista europeo, che proiettano su situazioni radicalmente diverse. Agli ascoltatori francesi verrà detto che meno di dieci giovani israeliani si sono rifiutati di prestare servizio (su 350.000 mobilitati). Al contrario, le migliaia di israeliani che sono tornati dall’estero per arruolarsi senza essere stati richiamati sono stati a malapena menzionati, anche se riflettevano un consenso nazionale che era l’unico modo per spiegare l’assenso della popolazione a questa lunga guerra. In secondo luogo, si rimane colpiti dalla mancanza di comprensione del passato ebraico nelle terre arabo-musulmane, che porta a trascurare il ruolo centrale della dhimma nel perpetuare questo conflitto, come evidenzia l’articolo 31 della carta di Hamas, che afferma che ‘all’ombra dell’islam, i seguaci delle tre religioni, islamica, cristiana ed ebraica, possono coesistere in sicurezza e fiducia’. In parole povere, un progetto per far rivivere la dhimma”.
  La popolazione israeliana continua a sostenere la guerra nonostante gli ostaggi, le perdite militari e le conseguenze economiche. “Perché la popolazione israeliana vede Hamas come una minaccia esistenziale. Questa organizzazione non ha i mezzi per distruggere lo stato ebraico, ma sta sviluppando una retorica di massacri di massa che è sfociata in un’esplosione di violenza il 7 ottobre 2023. Ciò ha fatto rivivere lo spettro dello sterminio, alimentato da un ‘rifiuto arabo’ apparentemente insormontabile. Ma senza ricorrere alla memoria della Shoah, gli israeliani sanno per esperienza (a questo proposito, il 7 ottobre è suonato come un ritorno alla realtà) ciò che significa questo desiderio di cancellarli dalla faccia della terra. Fin dalle crudeli uccisioni del 1929 e dall’assassinio dei civili ebrei nel 1948, come ha scritto Amos Oz in ‘Una storia di amore e di tenebra’: ‘Ogni città ebraica caduta in mano agli arabi durante la guerra d’indipendenza è stata cancellata dalla mappa senza eccezione (...). Nei territori conquistati, gli arabi attuarono una pulizia etnica molto più radicale di quanto fecero gli ebrei nello stesso periodo. (...) Sulla riva occidentale del Giordano e nella Striscia di Gaza (...) non era rimasto un solo ebreo. I loro villaggi erano stati spazzati via, le sinagoghe e i cimiteri distrutti’. Quando riducono la lunga storia del conflitto alla tragedia della Nakba, gli occidentali ignorano questa coscienza nazionale israeliana”.
  Gli israeliani non hanno mai preteso di sradicare l’ideologia di Hamas, “vogliono solo spezzare una minaccia immediata, consapevoli che questa ideologia sopravvivrà alla sconfitta militare di Hamas. Ma il fatto che non si possa sradicare un’ideologia con le armi non significa che non ci si debba difendere da essa con le armi. In assenza di prospettive di pace, come dimostrato dalla mobilitazione dell’’opinione arabo-musulmana’ il 7 ottobre quando lo Stato ebraico aveva appena incassato i colpi che tutti conosciamo, a meno che non scelgano di scomparire, quale altra scelta rimane agli israeliani se non quella di combattere con le armi. Tanto più che sanno che al minimo segno di indebolimento, un nuovo 7 ottobre, su scala più ampia, questa volta forse su scala nazionale, potrebbe mettere fine alla loro esistenza”.

Il Foglio, 23 gennaio 2024)

........................................................


Un kibbutz al decimo piano

Tra i residenti di Reim, che sognano il ritorno. I ricordi visti dalla nuova vita verticale, a Tel Aviv

di Fabiana Magrì

Il disorientamento è quasi tangibile, mentre fissano la porta dell’ascensore. Non è stata una decisione facile, per i 435 residenti di Reim, lasciare provvisoriamente la dimensione orizzontale dei viali e dei prati del kibbutz per una nuova vita in verticale in un condominio di Tel Aviv. All’inizio erano tutti contrari a una scelta che sembrava infliggere il colpo di grazia alla comunità violata e distrutta il 7 ottobre del 2023 dall’invasione di Hamas. Ma quando è stato chiaro che un ritorno a Reim non era all’orizzonte, il kibbutz ha messo al voto il trasferimento a Tel Aviv e oltre il 95 per cento dei membri ha deciso di imbarcarsi insieme nell’avventura urbana. Vero è che se esiste una città in Israele che è stata capace di conservare lo spirito comunitario, è proprio la micrometropoli del Mediterraneo orientale. Lo si deve al sindaco Ron Huldai, ex membro dell’omonimo kibbutz Hulda da cui il padre prese il cognome, alla guida di Tel Aviv ininterrottamente dal 1998. Negli ultimi quattro mesi il comune ha assorbito circa 20mila sfollati dal sud e dal nord di Israele. Oggi ne restano oltre 9mila. L’accoglienza include forme di sostegno medico e psicologico e attività per il tempo libero, la cultura e lo sport. Ma anche logistico, dai permessi di parcheggio alle tariffe ridotte per i residenti su vari servizi che si ottengono attraverso la app “My Digital”. Circa 3mila studenti sono stati integrati nelle scuole della città. “Questa è solo un’immigrazione temporanea – ha spiegato il sindaco Huldai – ma a tutti i membri del kibbutz ho detto: ‘Non siete ospiti, siete residenti. E riceverete tutti i diritti, il sostegno e l’assistenza che i cittadini ricevono sia regolarmente sia in caso di emergenza’. Faremo di tutto per ripristinare un po’ di fiducia nelle istituzioni pubbliche, oltre alla sensazione che c’è ancora del buono in questo mondo”.
  “Un’accoglienza commovente. Una luce in questa terribile oscurità. Fortunatamente ci sono persone
Tel Aviv è l'unica città che ha conservato lo spirito comunitario: Huldai, il suo sindaco, viene da un kibbuz
che trovano terapeutico fare del bene”, racconta al Foglio Zohar Mizrahi, mentre prepara una tisana allo zenzero nel suo nuovo appartamento al decimo piano, nel quartiere Florentin. E racconta divertita che è già nato un nuovo gruppo whatsapp per i locali e gli sfollati insieme, che si chiama FloReim (da Florentin + Reim). Una cordata di solidarietà composta da operatori privati capeggiati dai “Bnei Reim” (i figli di Reim, cioè quelli che nel kibbutz ci sono nati ma poi la vita ha portato a fare altre scelte) ha messo insieme un gruppo di aziende, investitori e donatori che si sono presi a cuore la comunità. Ne fa parte anche l’Unione dei lavoratori della Banca Discount. “Ci tengo a menzionarli – dice la donna mentre, seduta sul divano, si perde a guardare il plumbeo cielo invernale dall’inedita prospettiva del decimo piano – perché non è stata la banca a dare i soldi ma il sindacato dei lavoratori. Sono state le persone a mettere mano al portafogli e non è qualcosa che si possa dare per scontato”.
  Individuati due condomini gemelli in costruzione, i cui appartamenti non erano ancora stati venduti, li hanno completamente arredati e per un anno pagheranno gli affitti e le spese, con la possibilità di una proroga. “E’ un po’ come nel vecchio kibbutz, dove tutti avevano gli stessi mobili”, sorride Mizrahi cercando di far combaciare i pezzi del mosaico della sua vita precedente con quella di adesso. Poi si fa cupa: “Ho decine di numeri nel cellulare a cui nessuno risponderà più. Ma finché ci saranno persone in ostaggio, non potremo davvero piangere i morti. E’ come continuare a masticare senza riuscisse a mandar giù”, spiega. E’ ancora presto per dire quanto durerà questa soluzione provvisoria. “Abbiamo una fantasia che in estate torneremo a casa, quando i ragazzi finiranno l’anno scolastico”, dice. Zohar ha 51 anni. Suo marito Enav, nato a Reim 54 anni fa, è un agricoltore. Insieme hanno tre figli. Shahar (23), ha lavorato per un anno nell’asilo del kibbutz ma non ha ancora deciso cosa farà dopo. Suf compirà 20 anni a febbraio. Ha un autismo ad alto funzionamento e studia in un programma speciale per ragazzi come lui. Adi, la più giovane, frequenta il secondo anno delle superiori. Del 7 ottobre Zohar parla come di uno “tsunami”. A Reim la squadra armata della sicurezza è riuscita a respingere i terroristi con l’aiuto dagli agenti di polizia di Ofakim e di varie unità dell’esercito. La battaglia peggiore è avvenuta nel quartiere dei giovani adulti. Il kibbutz ha perso cinque membri assassinati nelle loro case, due “Bnei Reim” uccisi altrove e tre lavoratori tailandesi. “Uno dei nostri giovani è andato ad avvisarli, a dire loro di fuggire, ma non hanno voluto. Credevano – spiega Mizrahi – che essendo stranieri, nessuno li avrebbe toccati. Invece alcuni sono stati rapiti e altri uccisi, semplicemente perché non c’era più spazio per loro sul camion che li portava via”. Eppure, nella devastazione del massacro del sabato nero di ottobre, ci si ritrova a dire che quelli di Reim sono stati “fortunati”. “Nel senso che da noi – spiega la donna – abbiamo saputo da subito i nomi di tutti quelli assassinati o rapiti. I cadaveri non sono stati mutilati o le persone bruciate vive”.
  Tutti gli abitanti della “Otef Aza” – la cintura di terreni, kibbutzim e moshavim più vicini alla
In passato pensavo alla povera gente di Gaza sotto le bombe, ora ho perso l'empatia, è la cosa più triste, dice Zohar
Striscia – sono concordi nel dire che una delle cose che sono state più gravemente ferite, quel sabato, è stata la fiducia. Nello stato, nel governo, nell’esercito, nei palestinesi della Striscia. Molti di loro erano pacifisti, volontari che andavano al confine per accompagnare i gazawi negli ospedali israeliani a ricevere cure. Sbagliavano? “Non credo”, risponde Mizrahi, che si definisce di sinistra, liberale e socialista ed è convinta che a lottare per i diritti degli altri non si sbagli mai. Ma “quel giorno – dice – l’attacco di Hamas ha dimostrato che non abbiamo davvero nessuno con cui parlare dall’altra parte. Sono sicura che tra loro ci sono persone innocenti, che non volevano tutto questo o non ne hanno preso parte. Ma la maggior parte di loro l’ha fatto”. Durante ogni escalation, Zohar pensava ai bambini indifesi a Gaza, alla gente senza riparo. “Devo confessarti una cosa: quell’empatia, l’ho persa. E in un certo senso, è la cosa più triste per me, perché senza quella non mi rimane più nulla”. Cosa resta, chiediamo a Zohar prima di lasciarla alla nuova routine da appartamento e da città, della fiducia nell’esercito? “E’ una domanda difficile, perché l’esercito siamo noi. Mio padre era un generale. Io sono stata miluim, riservista. Ci sono cresciuta dentro Tsahal e parlarne male è quasi come imprecare. Eppure capisco che dovremo lavorare molto per ricomporre la completa fiducia nel nostro esercito”. Da assistente sociale, dice anche di aspettarsi che il momento più duro sarà il ritorno a Reim: “E’ allora che l’assenza delle persone sarà più dolorosa”. Ma si sente di azzardare una previsione. Che la maggior parte della comunità tornerà al kibbutz. “E penso addirittura che più persone si uniranno a noi. Non so da dove prendo questo ottimismo, ma penso che sarà così”.

Il Foglio, 23 gennaio 2024)

........................................................


Memoria: è ora di fare “sciopero”? Dopo il 7 ottobre c’è chi lo chiede

Giorno della Memoria 2024. Come parlare di Shoah il prossimo 27 gennaio? Come evitare l’ipocrisia di chi piange gli ebrei morti ma non difende quelli vivi? Siamo davanti a un corto circuito: la società occidentale non riesce più a pensare a israeliani e ebrei come vittime perché li considera “occupanti e oppressori”. Studenti che non vogliono più parlare di Shoah il 27 gennaio quanto di Gaza, professori smarriti, università in subbuglio. Come continuare dunque a fare Memoria? La parola a storici e esperti.

di Ilaria Myr

FOTO
“Never again is now!”, “Mai più è ora!”. Questo lo slogan che all’indomani del 7 ottobre è subito circolato nel mondo ebraico. Un grido di rabbia, un invito sofferto a ridare senso e valore a quel “mai più” usato e abusato quando si parla di Shoah. Non a caso, davanti alle immagini atroci – documentate dagli stessi terroristi, esattamente come facevano anche i nazisti (con strumenti ovviamente diversi) – delle esecuzioni commesse casa per casa dai terroristi di Hamas, davanti a tutto ciò a molti sono venute in mente le immagini delle uccisioni degli ebrei da parte delle Einsaztgruppen, le retate naziste nelle case, i pogrom nell’Europa orientale. Come se non bastasse, alle voci odiose di chi già l’8 ottobre giubilava per l’attacco a Israele o giustificava l’attentato con un altrettanto inaccettabile “sì, ma…, sì però l’occupazione israeliana…” – si aggiunge la violenza verbale di alcuni licei e università italiane di oggi. E che dire degli slogan antisemiti gridati nelle piazze pro-Pal, e dei molti attacchi contro gli ebrei in tutto il mondo, con picchi mai raggiunti prima? Soprattutto, si è assistito a una ripugnante equiparazione fra nazismo e Israele, in cui gli ebrei, “vittime” per eccellenza, diventano oggi i carnefici.
  Per non parlare poi dell’indifferenza e del silenzio colpevole di media e istituzioni – prime fra tutte le organizzazioni femministe di fronte agli stupri sulle donne! – così come della freddezza dimostrata da amici e conoscenti e narrata con amarezza sui social da molti ebrei. Un clima di indifferenza che ha richiamato quegli anni Trenta del XX secolo, da cui scaturì la Shoah. Da qui la sofferenza della società civile israeliana e del mondo ebraico, quel dire a denti stretti “Mai più è ora!”, Ah sì? Non doveva più accadere? E invece è accaduto di nuovo”.

• UN ANTISEMITISMO MAI SOPITO
  «Il 7 ottobre ci siamo ritrovati a vivere un’esperienza molto simile alla Shoah: più piccola nelle dimensioni, ma per certi aspetti anche più crudele e innovativa nei livelli di perversione raggiunti dai terroristi di Hamas, che nella sua carta costitutiva si riferisce chiaramente a un progetto genocida. E l’ondata di odio che ci sommerge in tutto il mondo dimostra che siamo tornati alle stesse violenze anche fisiche, allo stesso spirito genocidario, che vuole nessun ebreo ‘dal fiume al mare’ e nessuno Stato di Israele. Tutto ciò ci fa credere che il messaggio della Shoah non solo non sia stato recepito, ma anche l’illusione del mai più, del ‘never again’ e che non ci sia stato un vero processo di riflessione sulle fasi orrende della Shoah nella società civile occidentale. C’eravamo illusi e adesso ci siamo svegliati».
  Non usa mezzi termini Sergio Della Pergola, professore emerito all’Università Ebraica di Gerusalemme, demografo e studioso di storia ebraica contemporanea, consulente del governo israeliano, di Yad Vashem e dell’Istituto Centrale di Statistica di Israele: la memoria della Shoah non ha “vaccinato” dal commettere atrocità simili, come invece per decenni si è creduto. Questo perché, nel caso degli ebrei, esiste un fenomeno tutt’altro che semplice, l’antisemitismo, che, come ha dimostrato Della Pergola in suoi numerosi studi, ha diverse facce inseparabili fra loro: contro le persone e la comunità, come negazione della Shoah e come negazione al diritto di uno Stato degli ebrei. «L’illusione, purtroppo diffusa, che l’odio contro Israele sia diverso dagli altri è falsa empiricamente e illusoria teoricamente – spiega Della Pergola -. Il sentimento antisemita, che è sempre esistito, con i fatti del 7 ottobre è riemerso di nuovo in tutta la sua violenza. Ma attenzione: come emerge da uno studio dell’Istituto Cattaneo sul pregiudizio antiebraico negli atenei italiani, esso non si è espresso solo con l’offensiva israeliana a Gaza, ma già dall’indomani dell’attacco di Hamas. La solidarietà a Israele e l’empatia che ci si sarebbe aspettati subito dopo gli attacchi non solo non ci sono state, ma sono state anzi sostituite da un aumento incredibile degli atti antisemiti. Quindi, il sentimento bestiale e viscerale antiisraeliano antisemita non ha nulla a che fare con i fatti, ma è endemico, e quindi non estirpabile».
  Come quindi tornare a parlare di Memoria il 27 gennaio? Come non farsi irritare dall’ipocrisia e dalla retorica del “mai più” quando abbiamo visto quel 7 ottobre che tanti incubi e traumi ha risvegliato? Insomma, come non farsi travolgere dall’orticaria quando i palinsesti tv offriranno i film sui lager nazisti o i dibattiti sulla Seconda guerra e la Shoah? Come ripensare le politiche della Memoria? Dovremmo “scioperare”, affermano semi-seri e provocatoriamente in molti, lasciare che a gestire il Giorno della Memoria 2024 siano gli altri, i non-ebrei. Del resto, anche Gadi Luzzatto Voghera, direttore della Fondazione CDEC parla di un odio antiebraico mai sopito, che si manifesta quando si presentano determinate condizioni. «Il 7 ottobre ha gettato in confusione tutto il mondo occidentale abituato a percepire l’israeliano come il “cattivo”, l’aggressore. Com’è possibile allora che con il 7 ottobre l’immagine dell’israeliano si sia ribaltata diventando quella di una vittima? Un corto circuito che ha mandato in tilt il pregiudizio anti-israeliano e che ha creato, come reazione, un deflagrare ulteriore dell’antisemitismo. E se la retorica main stream trasmette l’immagine dell’israeliano oppressore che “ammazza” i bambini palestinesi, come è possibile che questi diventi improvvisamente oppresso? Una confusione che ha creato una breccia dalla quale è scaturito tutto il sommerso antigiudaico che la società occidentale ha nella pancia, e cioè l’antisemitismo che, come diciamo da anni, è sempre esistito nel mondo occidentale e ciclicamente viene fuori per esprimere sentimenti di pancia e irrazionali».

• QUALCOSA È ANDATO STORTO
  Ma allora che cosa non ha funzionato nella trasmissione della memoria della Shoah? «Alla società italiana non è mai stato chiaro il nesso fra la memoria della Shoah e la realtà contemporanea, così come non è mai stata chiara né interessante l’essenza stessa dello Stato di Israele, la sua vita, storia e articolazione – continua Luzzatto Voghera -. Dal canto nostro, come mondo ebraico abbiamo sbagliato ad adagiarci sull’idea di essere le vittime, cosa che è molto consolatoria, ma non spiega niente. E poi ci siamo basati in maniera eccessiva e colpevole, facendone un uso distorto, dei sopravvissuti, non lavorando abbastanza su quello che raccontano e non riuscendo a portare la società italiana a un vero esame di coscienza e di responsabilità per quello che fu commesso allora». Insomma quel famoso “mea culpa” per il fascismo, le Leggi razziali e la persecuzione che in Italia, a differenza che in Germania, non è mai veramente avvenuto. Inoltre, aggiunge lo storico Claudio Vercelli, «l’avere trasformato la Shoah in una metonimia assoluta del male ha innescato una sorta di rincorsa vittimistica da parte di altri gruppi: se il genocidio è la tragedia del Novecento per eccellenza, allora il potere accostare la propria condizione a quella degli ebrei offre una maggiore credibilità alla propria causa. La competizione per lo status di “vittima” rende inoltre insensato il rimando al ‘mai più!’, che rischia di trasformarsi in un imperativo vuoto, smentito dai fatti quotidiani».
  Il problema tuttavia è che il Giorno della Memoria è stato vissuto finora nell’immaginario collettivo come “la festa degli ebrei”. «Gli ebrei non dovrebbero partecipare alle celebrazioni del 27 gennaio, che è un giorno in cui gli Stati europei dovrebbero pentirsi di quello che hanno fatto durante la Shoah – commenta Della Pergola -. Noi abbiamo già il nostro giorno in cui ricordiamo i nostri morti, che è Yom Ha Shoah, non abbiamo bisogno di essere presenti il 27 gennaio. Invece veniamo invitati e partecipiamo. Ma, come emerge chiaramente oggi, è profondamente sbagliato». Che fare quindi? Disertare il 27 gennaio? Sottrarsi a eventi e incontri?

• SCIOPERARE IL 27 GENNAIO?
  
Del resto è sotto gli occhi di tutti quanto negli anni il Giorno della memoria sia diventato una celebrazione sempre più retorica e meno focalizzata sui contenuti, spesso annacquata da altri argomenti, che nulla hanno a che vedere con la Shoah e le violenze del nazifascismo. A poche settimane dal 27 gennaio, ci troviamo dunque davanti al dilemma: come procedere?
  «Il mondo ebraico non dovrebbe partecipare – commenta tranchant Della Pergola, lanciando una provocazione -: dobbiamo fare capire che la decenza morale è finita, che siamo indignati da chi piange gli ebrei morti ma non difende quelli vivi. Dobbiamo scioperare, per mostrare la nostra protesta nei confronti del fallimento completo di questa iniziativa che era in origine illuminante ed encomiabile, ma i cui risultati vanno purtroppo in direzione differente. E per ribadire che se oggi si colpisce Israele, si colpiscono anche quegli stessi ebrei che il 27 gennaio tutti piangono».
  Non è invece d’accordo con la provocazione di Della Pergola il direttore del CDEC. «L’unica arma che abbiamo è continuare a parlare di Memoria – è convinto Luzzatto Voghera -. Se noi scioperiamo adesso sulla Memoria concordiamo con l’amara considerazione di Liliana Segre: che dopo di lei non ne parlerà nessuno e che tutto è stato vano. In questi anni è stato fatto un grandissimo lavoro che ha cambiato culturalmente la percezione della Shoah in questo Paese: certo con errori, ma comunque oggi le giovani generazioni sanno di cosa si parla. Gli ebrei in Italia sono troppo pochi: abbiamo quindi il dovere di presidiare con il nostro lavoro un terreno che se no rischia di essere preda di negazionismi inaccettabili. Per questo sono nati negli anni istituti – il CDEC, il Memoriale della Shoah, il Meis di Ferrara – che hanno questo compito». Il problema però non è tanto cosa fare quest’anno, ma i prossimi. «Sarebbe sicuramente una provocazione necessaria, ma temo che il problema si riproporrebbe negli anni successivi. Se ci rifiutiamo quest’anno di partecipare, come potremo poi riprendere nel 2025? – si chiede preoccupata Daniela Dana, presidente dell’Associazione Figli della Shoah –. Saremmo in grave difficoltà e rischieremmo di perdere tutto il lavoro fatto in vent’anni per fare conoscere quello che è stata la Shoah».

• LE SFIDE PER LA DIDATTICA DELLA SHOAH
  Gli interrogativi su cosa fare quest’anno per il Giorno della Memoria arrivano però anche dal mondo didattico, che chiede agli enti che se ne occupano come affrontare l’argomento dopo il 7 ottobre e lo scoppio della guerra a Gaza. «Fra gli insegnanti c’è una grande sensazione di smarrimento – spiega la presidente dell’Associazione Figli della Shoah, che da anni fornisce al corpo docente corsi e strumenti per affrontare la didattica della Shoah -. Molti ci hanno chiesto consigli su che tipo di attività proporre, dopo che alcuni alunni hanno detto loro: “Prof quest’anno non si sogni di parlare di Shoah, parliamo di Gaza”. Ma questo è terribile perché lo sterminio degli ebrei, che ha determinate coordinate storiche e geografiche, non dovrebbe avere nulla a che fare con la guerra in corso, che è certo terribile ma che è qualcosa di molto diverso. Se il Giorno della memoria ha funzionato fino al 6 ottobre, perché dal 7 ottobre è tutto cambiato? Perché nell’unico giorno in cui, per legge dello Stato, si ricorda la Shoah si deve parlare del conflitto israelo-palestinese, che invece si può affrontare negli altri 364 giorni dell’anno? È come se venissimo defraudati della nostra memoria, e della riflessione sulle responsabilità di chi perpetuò quello sterminio». Siamo davanti a un corto circuito, che porta molti a utilizzare la parola “genocidio”, che indica la Shoah, per parlare di quello che avviene a Gaza, e a vedere nelle “vittime” di ieri, gli ebrei, i carnefici di oggi. Un ribaltamento che fa comodo a molti, onde cancellare sensi di colpa e passate vergogne.
  Davanti alla constatazione che i mezzi usati fino a oggi non funzionano più, c’è bisogno di nuove modalità didattiche, che tengano conto dell’impatto che hanno i social media nella vita dei ragazzi e della viralità che hanno i discorsi di odio su queste piattaforme. «Abbiamo ricominciato a portare nelle scuole corsi sull’ebraismo e identità ebraica e soprattutto gli interventi sulla piramide dell’odio, con cui si parla di Shoah, ma si affrontano anche le dinamiche dell’hate speech, che è oggi un’emergenza fra i giovani: tanto che la richiesta dalle scuole è stata enorme. Questo ci deve aprire gli occhi su quanto sia importante sostenere gli insegnanti che desiderano trattare il tema della Shoah in classe, ma anche su quanto sia urgente avere anche altri strumenti più vicini al mondo dei giovani e alla realtà».
  «Si tratta di lavorare sulla metodologia della didattica della Shoah, cercando di distinguere le vicende trascorse da quelle presenti -aggiunge lo storico Claudio Vercelli –. Altrimenti, il rischio non solo di una sovrapposizione ma anche di un ribaltamento dei ruoli (dove le vittime di allora diventano i “carnefici” di oggi) è immediatamente dietro l’angolo, quanto meno nel giudizio di senso comune».
  Occorre spostare quindi il focus e puntare di più sulle radici della Shoah? Puntare sulla genesi dell’antisemitismo e sul perché del suo persistere invece che concentrarsi solo sui lager e le deportazioni? La didattica della Shoah deve riposizionarsi? Forse sì, dicono gli esperti.

• 7 OTTOBRE E SHOAH IN ISRAELE
  Un discorso speculare viene fatto anche in Israele, dove all’indomani del 7 ottobre la gente ha cominciato a usare un linguaggio connesso alla Shoah per descrivere quello che è successo mentre molti ragazzi hanno iniziato a dire “quest’anno non faremo il viaggio della memoria in Polonia, ma al kibbutz Beeri”. Oppure, davanti alle foto esposte allo Yad Vashem dei massacri delle Einsatzgruppen, il commento è stato: “è proprio quello che è successo a Nir Oz”. Un risveglio dei traumi del passato. «Questi sentimenti, se da un lato del tutto comprensibili, ci portano a riflettere su come si possa parlare di Shoah qui in Israele – racconta a Bet Magazine Rocco Giansante, responsabile Italian Desk allo Yad Vashem -. Ma ci interroghiamo anche su come farlo in un contesto internazionale, dove gli episodi antisemiti si sono moltiplicati enormemente, e l’equazione israeliani = nazisti e palestinesi = nuovi ebrei è di pubblico dominio. Stiamo quindi creando dei materiali che supportino i docenti nella trasmissione dei fatti storici. Per gli Stati fuori da Israele, poi, è importante parlare anche del periodo subito dopo la guerra, con la creazione dello Stato di Israele, in modo da smontare le convinzioni che esso sia una forma di colonialismo e che non abbia alcun legame storico con questa terra».

• RITORNARE ALLA STORIA
  In un contesto in cui cresce l’antisemitismo, dove complottismo e manipolazione sono all’ordine del giorno in fatto di ebrei, il ritorno alla Storia e alla conoscenza è quindi lo strumento che chi si occupa di didattica della Shoah deve fornire al mondo scolastico per fare fronte alle nuove sfide poste dal 7 ottobre.
  «Il modo in cui si è fatto memoria della Shoà negli ultimi anni è stato spesso rituale e generico, perché astorico – dice convinto Ugo Volli, saggista -: si è parlato del genocidio degli ebrei di Europa come se fosse stato un atto isolato e non la conseguenza di un orientamento millenario delle Chiese, dell’Islam, perfino del mondo laico illuminista e poi marxista che si è espresso in propaganda incessante contro gli ebrei, legislazioni discriminatorie e spesso in stragi minori alla Shoah solo per il numero delle vittime, non per volontà genocida. Bisogna cambiare questa narrazione “eccezionale”, bisogna smettere di presentare l’antisemitismo come una specie di razzismo, bisogna recuperare la profondità storica dell’odio verso gli ebrei, e spiegare perché esso oggi alberghi ancora nelle menti di molti, paradossalmente soprattutto dei “progressisti”.»
  Ed è qui che deve intervenire il mondo scolastico. «La scuola è il luogo per eccellenza in cui si formano le menti, in cui si dovrebbe imparare a capire la complessità della realtà ed è lì che si deve lavorare per fornire consapevolezza e non, invece, dibattiti politici o relativizzazioni pseudostoriche – aggiunge Daniela Dana -. Per questo è fondamentale proteggere il Giorno della Memoria». Per fare in modo così che questo mai più non sia una parola vuota, ma un lemma di rinascita per tutto l’Occidente.

(Bet Magazine Mosaico, 23 gennaio 2024)

........................................................


Netanyahu rifiuta le condizioni di Hamas per il rilascio degli ostaggi

Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha respinto domenica le condizioni poste da Hamas per il rilascio degli ostaggi ancora detenuti a Gaza, tra cui la fine della guerra e il ritiro delle forze israeliane dalla Striscia. Accettare queste condizioni e lasciare Hamas al suo posto a Gaza sarebbe “un colpo mortale per la sicurezza di Israele”, ha dichiarato.
“Solo una vittoria totale garantirà l’eliminazione di Hamas e la restituzione di tutti i nostri ostaggi”, ha dichiarato Netanyahu in un comunicato, aggiungendo di aver sottolineato questa posizione in una telefonata con il presidente Biden durante il fine settimana.
La promessa di continuare a combattere è arrivata mentre il bilancio delle vittime nella Striscia avrebbe superato i 25.000 morti, secondo dati non verificati forniti da Hamas.
Netanyahu ha anche ribadito la sua opposizione a uno Stato palestinese, mettendosi in contrasto con l’amministrazione Biden, e ha affermato che Gaza deve essere smilitarizzata e rimanere sotto il “pieno controllo di sicurezza” di Israele dopo la guerra.
La sua dichiarazione è arrivata mentre il Wall Street Journal ha riportato che gli Stati Uniti, il Qatar e l’Egitto stanno facendo pressione su Israele e Hamas affinché accettino un accordo che preveda il rilascio di tutti gli ostaggi prima dell’eventuale ritiro delle truppe israeliane da Gaza e della cessazione dei combattimenti, citando diplomatici coinvolti nella mediazione dei colloqui.
Hamas ha rilasciato più di 100 ostaggi a novembre in un accordo negoziato dal Qatar, in cambio di una pausa di sette giorni nei combattimenti e del rilascio di più di 200 palestinesi dalle carceri israeliane. Si ritiene che un numero simile di ostaggi sia ancora prigioniero a Gaza.
La scorsa settimana, il Qatar e la Francia hanno mediato un accordo tra Israele e Hamas per la consegna di farmaci salvavita agli ostaggi israeliani, che prevedeva il trasferimento di medicinali ai civili nelle aree più vulnerabili di Gaza.

(Rights Reporter, 22 gennaio 2024)

........................................................


Perché adesso non è possibile uno stato palestinese

di Ugo Volli

• UNA CAMPAGNA CONTRO ISRAELE
  I giornali italiani (e quelli di mezzo mondo), negli ultimi giorni quando parlano di Israele sono pieni di articoli che sostengono come per risolvere finalmente il conflitto basterebbe istituire i “due stati” e che Israele, o personalmente il suo primo ministro Netanyahu sarebbero responsabili di “dire di no”. I personaggi citati a sostegno della soluzione dei due stati sono i più autorevoli, da Biden al segretario dell’ONU Guterres, peraltro non nuovo a dichiarazioni antisraeliane. Si tratta evidentemente di una campagna di stampa organizzata. Circolano molte notizie false o bizzarre, come quella secondo cui Biden avrebbe offerto a Netanyahu la smilitarizzazione del futuro Stato di Palestina. Peccato che tale smilitarizzazione era già uno dei cardini degli accordi di Oslo, firmati alla Casa Bianca da Peres e Arafat 13 Settembre 1993: all’art. VIII si consentiva all’Autorità Palestinese l’istituzione di una “forza di polizia” “al fine di garantire l’ordine pubblico e la sicurezza interna dei palestinesi”, “mentre Israele manterrà la responsabilità per la difesa contro le minacce esterne, nonché la responsabilità per la sicurezza complessiva degli israeliani, allo scopo di garantire loro sicurezza interna e ordine pubblico.” Si è visto ben presto quanto sia stata efficace questa divisione di compiti. Una bizzarria ancora più grande sta nel piano saudita/egiziano, che propone l’affidamento di Gaza a un “governo palestinese di unità nazionale”, formato da Fatah e Hamas. In sostanza Israele avrebbe combattuto Hamas per ottenere di metterlo anche al governo dell’AP.

• UNO STATO
  La ragione per cui Israele non può accettare uno stato palestinese è semplice. Secondo la definizione classica di Georg Jellinek (1851-1911) uno stato è costituito da tre elementi: un territorio, un popolo, un’autorità suprema in grado di governarli. In questo senso Gaza fino al 7 ottobre era uno stato, l’Autorità Palestinese no, perché il controllo del territorio era condiviso con l’esercito israeliano. Questa è la ragione per cui nonostante i molti tentativi, e un’indubbia buona volontà da parte loro, i terroristi non sono riusciti a far partire un 7 ottobre da Giudea e Samaria, mentre da Gaza sì. Quello con l’AP è un condominio tutt’altro che ideale, l’incitamento continuo e l’immunità, anzi l’esaltazione e la retribuzione assicurata ai terroristi hanno causato in 30 anni decine di migliaia di attentati e molte centinaia di vittime. Ma con operazioni molto impegnative, come per esempio quella del 2002 e quella attuale, Israele è riuscito a impedire nei territori dell’AP concentrazioni di uomini e di armi come quelle di Gaza. Se ci fosse uno stato palestinese, ogni operazione antiterrorismo sarebbe un casus belli.

• FIDARSI DELL’AP?
  Ma Biden, Gutierres e l’estrema sinistra israeliana dicono che lo stato palestinese si ha da fare: perché bisogna avere il coraggio di fidarsi dell’AP; perché i palestinesi hanno diritto a uno stato e perché questa è la condizione per ottenere accordi di pace con i paesi vicini come l’Arabia Saudita. Sono argomenti che non tengono. L’AP è un regime dittatoriale, governato senza parlamento da un presidente eletto nel 2005 per un mandato di 4 anni, estremamente corrotto, e che sostiene i terroristi. Non vi è stato nessuno nell’AP che abbia condannato la strage del 7 ottobre; molti invece l’hanno approvata e si sono proposti di riprodurla. Quanto al diritto allo stato, non a tutte le popolazioni esso è concesso: non ai curdi, non agli uiguri, neppure ai catalani e agli scozzesi nella democratica Europa. La statualità è poi condizionata dall’accettazione di confini condivisi e dal riconoscimento dei diritti degli stati vicini, che se no hanno tutte le regioni per impedirla. L’AP ha sempre rifiutato tutte le proposte di accordo sui confini e non ha mai voluto riconoscere Israele per quel che è, lo stato della nazione ebraica. Quanto agli accordi, è chiaro che di fronte all’aggressività dell’Iran, ha molte più possibilità di farlo un’Israele vincitrice che una sconfitta. E la fine della guerra a Gaza senza la distruzione completa di Hamas, nel Libano senza l’arretramento di Hezbollah, e in particolare il riconoscimento di uno stato palestinese vero e proprio, dove Israele non potesse reprimere il terrorismo, sarebbero il segno chiaro di una sconfitta.

(Shalom, 22 gennaio 2024)

........................................................


La vittoria nella guerra sfuma

In questi giorni c'è un enorme divario tra parole e sentimenti

di Aviel Schneider

Soldati israeliani visitano la scena del massacro al festival musicale Nova di Re'im, 14 gen 2024
I ministri del governo predicano la guerra fino alla vittoria, ma il popolo sente e vede qualcosa di completamente diverso. Il popolo, i soldati e i riservisti vedono meno la gloriosa vittoria di cui il governo vaneggia. Al contrario, il ritmo dei combattimenti israeliani nella Striscia di Gaza è rallentato notevolmente e i riservisti saranno ritirati entro la fine di gennaio. Ma l'obiettivo è ben lungi dall'essere raggiunto. Il regime di Hamas non è stato schiacciato e 136 ostaggi sono ancora nascosti da qualche parte nei tunnel sotterranei. Tutti sanno che il governo israeliano sta frenando i piani operativi dell'esercito israeliano nella Striscia di Gaza, e questo frustra la gente. Sì, l'America sta con il fiato sul collo di Israele e chiede un cambio di rotta nella guerra. Dal punto di vista americano, le cose non possono andare avanti così. E dal punto di vista di Israele, la vittoria nella guerra è sfumata. E questo non è uno scherzo.
Ma questo non impedisce al capo del governo israeliano di promettere al suo popolo la vittoria. "Non ci fermeremo finché non avremo distrutto le capacità terroristiche di Hamas", ha detto Benjamin Netanyahu una settimana fa alle famiglie evacuate intorno alla Striscia di Gaza. Per la prima volta, Netanyahu  formula l'obiettivo in modo diverso. Non più la distruzione di Hamas, ma la distruzione delle sue capacità terroristiche. Questa è una differenza. Bibi e il suo governo stanno anche iniziando a capire che Israele probabilmente non sarà in grado di distruggere Hamas come collettivo, ma solo le sue capacità. Cioè, la leadership o parti della leadership rimarranno in vita perché Israele non sarà in grado di sradicare l'ideologia fanatica di Hamas dalle menti dei palestinesi.
La decisione è nelle mani del governo e del gabinetto di guerra. Entrambi devono decidere come le forze armate israeliane devono procedere nella Striscia di Gaza. Il continuo dire “Vinceremo. Insieme vinceremo. Combatteremo fino a distruggere Hamas" sono diventate parole vuote nelle ultime settimane. La sensazione generale tra la gente è che non vinceremo la guerra come volevamo e come ci era stato promesso dal governo. Il ministro del Gabinetto di Guerra, Gadi Eisenkot, ha spiegato a TV Channel 12 che Hamas non può essere e non sarà distrutto da Israele. "È un obiettivo irrealistico", ha sottolineato Eisenkot, il cui figlio Gal è stato ucciso in azione nella Striscia di Gaza poche settimane fa. Alti ufficiali dell'IDF hanno fatto commenti simili al New York Times americano: "Non è possibile distruggere Hamas e allo stesso tempo ottenere il rilascio degli ostaggi". Secondo il rapporto, nell'esercito c'è frustrazione per il rallentamento del ritmo dei combattimenti e della strategia politica per affrontare la Striscia di Gaza. C'è una crescente consapevolezza che gli ostaggi possono essere liberati solo attraverso misure politiche.
Ogni israeliano nel Paese sa quello hanno detto i quattro ufficiali al giornale americano. Da mesi discutiamo sul fatto che è praticamente impossibile distruggere Hamas e condurre un'operazione per liberare gli ostaggi. I soldati sono totalmente frustrati perché il governo li sta frenando. Questi sono i loro sentimenti, che siano giusti o sbagliati non conta. Questo è ciò che sentiamo dai nostri figli e amici nell'esercito. Al momento, tutto sembra essere in stallo. Tutti parlano e sognano la vittoria, ma non c'è niente da fare. Anche se sono solo sensazioni, hanno un peso nella società israeliana.
Soldati israeliani vicino alla barriera di confine con la Striscia di Gaza, nel sud di Israele, il 14 gen 2024
Per questo  gli ufficiali hanno chiesto alla leadership del popolo di esprimersi. 130 comandanti e ufficiali della riserva, dai tenenti generali ai generali, che hanno preso parte alla guerra nella Striscia di Gaza o vi sono attivamente coinvolti, hanno firmato l'altro ieri una lettera insolita. La lettera è indirizzata ai membri del gabinetto di guerra e al capo dello Stato Maggiore, Herzi Halevi. I firmatari chiedono che il ritorno di circa un milione di palestinesi sfollati dalla Striscia di Gaza meridionale alle loro case nella Striscia di Gaza settentrionale continui ad essere impedito finché i 136 israeliani rapiti dai terroristi di Hamas non saranno rilasciati. "Negli ultimi giorni, l'esercito israeliano ha iniziato a ritirare lentamente le brigate di riserva, e una domanda ci viene subito in mente: Abbiamo portato a termine la nostra missione in modo equo e in che modo i successi sul campo di battaglia possono ora essere tradotti in successi a livello strategico? Purtroppo, la risposta ovvia è che l'IDF e il governo israeliano non sono in grado di tradurre le vittorie ottenute in una vittoria chiara e schiacciante a livello sistemico e strategico", si legge nella lettera.
Secondo un recente sondaggio del movimento Reservists Until Victory, il 92% degli ebrei in Israele sostiene pienamente "la distruzione dell'organizzazione terroristica di Hamas e la continuazione della guerra fino al completo controllo della Striscia di Gaza". I riservisti hanno montato una tenda di protesta davanti alla Knesset a Gerusalemme e chiedono che la guerra sia combattuta fino alla fine. Il sondaggio è stato condotto dall'Istituto Mano Geva e pubblicato dal giornale religioso Makor Rishon. Alla domanda "Lo Stato di Israele dovrebbe prendere decisioni sul futuro della Striscia di Gaza in modo indipendente e senza interferenze esterne?", il 73% ha risposto in modo affermativo. Il restante 23% insiste sull'interferenza degli Stati Uniti.
L'opinione è divisa sulla questione di quello che dovrebbe accadere alla Striscia di Gaza dopo la guerra: il 29,5% degli intervistati è favorevole al controllo civile e militare dell'intera Striscia di Gaza da parte di Israele, compresi i nuovi insediamenti ebraici. Il 26% è favorevole al controllo completo della sicurezza da parte dell'IDF sotto un'amministrazione civile palestinese. Il 23% sostiene che il controllo della Striscia di Gaza dovrebbe essere affidato a mani internazionali. Inoltre, il 71% appoggia la proposta di incoraggiare l'emigrazione volontaria di massa dei palestinesi dalla Striscia di Gaza. La maggioranza della popolazione israeliana ha perso fiducia nei palestinesi.
Palestinesi sul luogo di un attacco aereo israeliano a Rafah, 26 dic 2023
Nella lettera, gli ufficiali chiedono al gabinetto di guerra che "l'esercito interrompa l'evacuazione dei palestinesi dalla città di Gaza e smetta di consentire le operazioni umanitarie. La fornitura e il funzionamento di ospedali a Gaza non dovrebbero essere permessi, né il ritorno dei rifugiati palestinesi "finché i rapiti israeliani non saranno riportati a casa". I comandanti hanno esaminato il diritto internazionale, che consente l'assedio di alcune aree a condizione che agli abitanti siano concessi corridoi di fuga.
"È moralmente, militarmente e politicamente corretto e conforme al diritto internazionale. Dichiariamo con voce chiara e forte: 'Non torneremo finché non avremo vinto'. Abbiamo la possibilità di cambiare radicalmente la realtà. Assumete la guida del popolo ed evitate le lotte e la disunione. Restate uniti contro il nemico e finiamo il resto in guerra".
Il popolo vuole combattere e non conosco nessuno che non lo voglia - forse solo i miei amici della sinistra radicale che vedono tutto al contrario e appartengono alla piccola frangia del Paese.
Genitori di soldati israeliani schierati nella Striscia di Gaza e attivisti protestano contro i camion che trasportano aiuti umanitari nella Striscia di Gaza vicino al valico di frontiera di Kerem Shalom, nel sud di Israele, 9 gen 2024
La gente vuole tutto o niente. Se Hamas a sud e Hezbollah a nord non saranno sconfitti, le famiglie evacuate non torneranno nelle pericolose zone di confine. Il Paese si trova in una situazione rischiosa, perché senza una strategia di deterrenza, Israele ha poche possibilità di vivere in pace, e tutti nel Paese lo capiscono. E non mi sembra - al momento - che Israele possa recuperare la sua strategia di deterrenza quest'anno. Quello che io e molti altri temiamo è che le truppe israeliane siano di nuovo bloccate nella Striscia di Gaza, come lo sono state quando sono rimaste bloccate nel sud del Libano per 18 anni fino all'estate del 2000. Questo è un male, anzi un grande male. Israele deve vincere la guerra con un knockout, non c'è altro da fare. Rimane solo un breve periodo di calma senza sicurezza.
Il governo deve prendere decisioni coraggiose ed egoistiche, che servano principalmente a Israele e non ai suoi nemici - e questo non è facile. Qualsiasi altra cosa non ha senso a lungo termine, non porta né pace, né sicurezza, né stabilità. Non si può parlare di pace. E questo, il popolo lo sente.

(Israel Heute, 22 gennaio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

........................................................


L’affare Dreyfus dei nostri tempi. Il “J’accuse” di Manuel Valls sull’indagine Onu contro Israele

L’ex primo ministro francese accusa le Nazioni Unite di mancanza di imparzialità e di complicità con Hamas, condannando l’iniziativa del Sud Africa alla Corte dell’Aia.

di Manuel Valls

FOTO
L’Aia, 11 gennaio. La folla è in delirio. Kefiah palestinesi al collo degli uomini, presenti in grande maggioranza, canti e salti fanno danzare le bandiere sopra le teste, tutti galvanizzati all’idea di una ben curiosa vittoria. A pochi metri, l’atmosfera è di cordoglio. Le bandiere israeliane si muovono lentamente, come coloro che le portano. Le facce sono tristi, molti hanno con sé le foto di un ostaggio. È l’ora del dolore, dopo il 7 ottobre.
Il giorno prima, Jean-Luc Mélenchon si rallegrava su X di essere stato invitato a questo evento. Ci si chiede in quale veste, ma lui sarà “presente per la pace”, nel campo della celebrazione di quello che per qualcuno è il processo del secolo. È una “scelta”, dice, “che rifiuta la legge del più forte, del più armato, o le ingiunzioni di teorie mortifere come quella dello scontro di civiltà o della guerra del bene contro il male”. Insomma, una scelta politica.
Tra i due muri, di fronte ai manifestanti, si erge la Corte internazionale di giustizia (CIJ), di fronte alla quale il Sudafrica ha trascinato in giudizio Israele con l’accusa di genocidio ai danni dei Palestinesi di Gaza, inscrivendola in una “Nabka (esodo forzato, ndt) che continua da sessant’anni a questa parte”. Se l’indecenza politica ha imperversato tra i paesi del mondo negli ultimi mesi, essa trova finalmente il suo apogeo nel principale organo giuridico delle Nazioni unite. Il processo del secolo, lo chiamano, o l’affare Dreyfus dei nostri tempi.
“Poiché essi hanno osato, oserò anch’io”. Centoventi anni dopo, è arrivato il mio turno di dire tutta La verità.

La verità, prima di tutto, sul processo e le accuse menzognere contro Israele.
Perché l’arringa sudafricana è patetica. Con un montaggio di video trovati sui social e frasi choc apparse sulla stampa e in rete, gli avvocati si dànno il cambio, ripetendo un solo e unico messaggio: nei bombardamenti sulla Striscia di Gaza, Israele ha per unico obiettivo quello di distruggere il “sottogruppo” dei Palestinesi di Gaza.
Idea particolarmente seducente per gli antisionisti che favoleggiano di Israele dipingendolo come il grande tiranno del Medio Oriente. Ma che dicono delle 1200 persone assassinate con l’odio più selvaggio, smembrate, violate, decapitate, bruciate? Dei più di 7.550 feriti e dei 139 ostaggi, 19 corpi dei quali rinvenuti dopo il massacro del 7 ottobre 2023, senza contare i 110 liberati e traumatizzati per il resto della loro vita? E delle salve di razzi incessantemente lanciati da Hamas? Che cosa dicono, del buon senso e della legittima difesa? Il mito, nutrito dalle menzogne sudafricane, di un paese assetato di sangue palestinese, è un’oltraggiosa bugia. Le accuse di genocidio appaiono del resto ben fragili, applicate all’unico stato democratico del Medio Oriente. Sarebbe un disonore non ricordare i considerevoli sforzi fatti da Israele per proteggere i civili in questa guerra, malgrado gli sforzi di Hamas per trattenerli e farne scudi umani. Sarebbe un disonore non ricordare che per uno stato che persegue l’eliminazione dei palestinesi da Gaza, curare i bambini gazawi e i terroristi negli ospedali israeliani sarebbe controproducente. Sarebbe un disonore non ricordare che uno stato genocidario non accoglierebbe decine di migliaia di Palestinesi di Gaza e della Cisgiordania per lavorare allo scopo finale di creare le condizioni per favorire la loro sparizione. Di fronte a tutto ciò, è un disonore, per un paese terzo, insistere nell’accusare Israele di atti genocidi.

La verità, in secondo luogo, su una classe politica intrisa di odio antisemita guidata da un’insaziabile avidità elettorale.
Per una parte della classe politica europea e internazionale, nessun abominio commesso da Hamas sulla popolazione di Gaza e sugli Israeliani, il 7 ottobre in particolare, è stato sufficiente. Con Jean-Luc Mélenchon e Jaremy Corbyn in testa, peraltro invitati eccellenti, non si sa a quale titolo, del processo della CIJ all’Aia, né gli abusi, né la presa di ostaggi, né le uccisioni, né le decapitazioni, né gli smembramenti, né gli stupri sono sufficienti per qualificare Hamas come terrorista. Un’ulteriore vergogna che si aggiunge alle rispettive, lunghe liste di dichiarazioni infamanti, antisemite e incitanti all’odio dei due vecchi politici. Un vero naufragio per la sinistra francese e britannica, che non hanno più nessun credito nella difesa dei valori umani universali. La loro visione manichea del potere e delle minoranze le priva di ogni lucidità, mentre trovano legittimità alla barbarie, e le rende complici di atti e di crimini che dovrebbero scardinare le loro più profonde convinzioni, se ancora esistono. Questa sinistra nauseabonda ha accettato di svendere le sue fragili convinzioni per il presunto nuovo proletariato che si è proposta di conquistare: la grande massa di immigrati e di musulmani, e al diavolo la difesa delle classi popolari e dei lavoratori, che non sono più abbastanza vittime per essere ancora attraenti.

La verità, infine, su questa “guerra del bene contro il male”.
“Il martirio è senza alcun dubbio il più grande segreto del nostro successo. Il tuo avversario cerca (sempre) di ucciderti, a meno che per te non sia importante perdere la vita ma conti solo raggiungere il tuo obiettivo, e allora perde ogni controllo su di te”. È su queste parole di Naim Qassem, numero due di Hezbollah, rivelate in un documentario di France 2, che si cristallizza questa guerra, che non è del bene contro il male, ma una guerra di valori. Da Hamas a Hezbollah, dall’Isis all’insieme dei gruppi terroristi islamisti contemporanei, l’obiettivo è lo stesso: annientare l’Occidente e guidare un jihad mondiale. L’urgenza, per Hamas, Hezbollah, per gli Houti e per l’Iran che sta dietro di loro, è farla finita con l’“entità sionista”, da essi chiamata anche “piccolo Satana”, e soprattutto porre fine alla minaccia americana (“il grande Satana”).
Capire ciò che oggi accade in Medio Oriente significa capire le sfide che dovremo superare domani. La barbarie e la disumanità delle azioni che si sono espresse il 7 ottobre hanno dato a noi tutti una lezione sui nemici, gli islamisti e il terrorismo, che gli Israeliani si trovano a combattere. I nostri, in Francia e in Europa, non sono stati e non sono così diversi.
In questa guerra della vita contro la morte, a essere considerati genocidari non sono né i bombardamenti israeliani né le dichiarazioni dei dirigenti, ma l’esistenza stessa dello Stato d’Israele, considerato genocida di per sé. Da troppo tempo la bandiera palestinese non è più brandita con dolore per piangere la perdita di civili. No, da troppo tempo la bandiera palestinese è brandita con rabbia feroce, come simbolo politico di una guerra condotta oggi contro gli ebrei e Israele e domani contro le democrazie e l’Occidente. È quest’odio viscerale dei valori incarnati dagli ebrei e da Israele che unisce, senza nessun’altra apparente coerenza, terroristi, Stati sovrani e dirigenti politici. Questa “guerra del bene contro il male”, come la chiama Jean-Luc Mélenchon, non è altro che una guerra di valori tra due mondi, un instancabile ripetersi della storia, è la caduta a precipizio in un’era che avremmo preferito dimenticare.
Per i motivi sopra esposti,

  • Io accuso i terroristi di Hamas di atti genocidari contro la popolazione palestinese a Gaza e precisamente di uccisioni e torture sugli omosessuali e sugli oppositori politici; di gravi attentati all’integrità fisica e mentale dei Gazawi, quando utilizzano la popolazione, donne e bambini, come scudi umani, così come le scuole, le università, gli ospedali e le ambulanze a fini terroristici; di sottomissione intenzionale dei Gazawi a condizioni di esistenza che comportano la loro parziale distruzione, stornando gli aiuti internazionali a favore di sviluppo di armamenti e di finanziamento del terrorismo, confiscando gli aiuti umanitari ai civili e tenendo in ostaggio la popolazione nonostante i preavvisi israeliani di bombardamento; di misure che pregiudicano le nascite, privando le donne palestinesi di Gaza di cure di qualità, negli ospedali largamente usati come depositi di armi.
  • Io accuso Hamas di attacchi incessanti, tesi a minacciare la sicurezza territoriale israeliana, e di crimini di guerra e presa di ostaggi che hanno condotto lo Stato di Israele ad avviare una risposta militare di legittima difesa.
  • Io accuso Hamas di essere il solo responsabile della drammatica situazione dei Palestinesi a Gaza, fin dalla sua presa di potere nella Striscia, e della guerra che vi è condotta da Israele.
  • Io accuso Hamas, Hezbollah, gli Houti e l’Iran di intenzioni genocide contro la comunità ebraica, Israele, gli Stati Uniti e le nazioni occidentali
  • Io accuso il Sudafrica e i suoi sostenitori di farsi portavoce di Hamas e della sua propaganda di fronte alle più alte istanze mondiali. Io li accuso di colpevole silenzio quando era necessario condannare la Siria, l’Afghanistan, lo Yemen, il Sudan, l’Iraq e l’Iran per genocidio contro le loro popolazioni e per crimini di guerra.
  • Io accuso il Sudafrica e i suoi sostenitori di rifiutarsi di prevenire e punire i propositi genocidari rivendicati direttamente e pubblicamente contro Israele.
  • Io accuso il Sudafrica e i suoi sostenitori di tacere sui massacri del 7 ottobre, che essi non considerano nel quadro della risposta israeliana
  • Io accuso il Sudafrica e i suoi sostenitori, per le ragioni sopra esposte, di portare di fronte alla Corte internazionale di Giustizia una causa infondata, politicamente motivata dal rifiuto del diritto dello Stato di Israele di esistere e di godere di una salda sicurezza territoriale.
  • Io accuso Jean-Luc Mélenchon e Jeremy Corbyn di essere gli intermediari politici dell’antisionismo propugnato da Hamas, rifiutando di riconoscere l’organizzazione come terrorista e attribuendogli attività di resistenza.
  • Io accuso l’Onu di mancanza di imparzialità nei confronti di Israele, fatta oggetto di diciassette risoluzioni di condanna nel 2020 contro sette per il resto del mondo (delle quali una contro l’Iran e una contro la Siria).
  • Io accuso l’Onu di un’incomprensibile cecità, fino all’8 gennaio 2024, di fronte agli stupri e alle mutilazioni sessuali inflitti il 7 ottobre 2023 in Israele.
  • Io accuso l’Onu di mancanza di obiettività di fronte alle informazioni diffuse da Hamas, concernenti le morti e gli attacchi attribuiti agli Israeliani. La penosa eco data dall’Onu alle false informazioni di Hamas sull’Ospedale Al-Shifa avrebbe dovuto metterci sull’avviso.
  • Io accuso l’UNRWA di complicità con i terroristi di Hamas a danno della popolazione civile. Condanno con la più grande fermezza il dirottamento da parte di Hamas dei fondi europei e internazionali verso il finanziamento di libri scolastici antisemiti, di armi e di infrastrutture belliche e il controllo del gruppo terrorista sul razionamento alimentare.

A più di cento giorni dal più grande pogrom subito da Israele e dal tentativo genocidario che si è trovato a combattere, io condanno l’indegna chiamata di Israele a rispondere all’accusa di atti genocidari, e porto il mio sostegno alla democrazia israeliana in questa insopportabile guerra politica di cui essa è bersaglio. Mi unisco agli israeliani che piangono i loro morti e condivido il loro terrore nel sapere che nel momento in cui Israele è giudicato per genocidio, 120 Israeliani sono ancora ostaggi dei gruppi terroristi nella Striscia di Gaza, vittime delle sevizie di cui quei gruppi sappiamo essere capaci.
Mi aspetto da parte della Francia lo stesso impegno della Germania a fianco degli Israeliani, un impegno chiaro e totale, e una condanna inequivocabile dell’iniziativa del Sudafrica.

(Linkiesta, 22 gennaio 2024)

........................................................


Gli studenti italiani ad Auschwitz-Birkenau. Elon Musk visita il campo

Ha recitato l’Yizkor, la preghiera in memoria dei defunti, il rabbino capo di Modena Beniamino Goldstein davanti a uno dei crematori del campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Rav Goldstein, insieme al ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara e alla presidente dell’Ucei Noemi Di Segni, sta accompagnando un gruppo di scolaresche italiane in un viaggio della memoria. I ragazzi hanno acceso delle candele e depositato dei sassolini in memoria delle persone assassinate ad Auschwitz.
Il gruppo del viaggio della Memoria, nel famigerato campo di sterminio non lontano da Cracovia, ha incontrato Elon Musk, capo di Tesla e del social media X, in Polonia per una visita di due giorni. L’invito a Musk è iniziativa della European Jewish Association (Eja) e arriva a mesi di distanza dalle polemiche che hanno investito il magnate sudafricano, fortemente criticato per aver rilanciato su X una teoria complottista antisemita. Questa sera Musk parteciperà a una cena organizzata dall’Eja, a cui sono stati invitati il ministro Valditara, il vicepresidente Ucei Milo Hasbani e il presidente della Fondazione Memoriale delle Shoah di Milano Roberto Jarach.

(moked, 22 gennaio 2024)

........................................................


Terrorismo e jihadismo, quali rischi per l’Italia? Intervista a Sandro Menichelli

di Nathan Greppi

Dopo i massacri del 7 ottobre e lo scoppio della guerra tra Israele e Hamas le comunità ebraiche italiane, già attente alla propria sicurezza, si sono messe ancora più in stato di allerta per proteggere i propri membri, tenendo conto del rischio di attentati terroristici.
  A questo punto, vale la pena di chiedersi quanto è alto questo rischio, considerando sia i livelli di antisemitismo in crescita, sia il fatto che comunque l’Italia non ha avuto negli ultimi anni attentati di matrice jihadista, diversamente dalla Francia e da altri paesi in Europa.
  Ne abbiamo parlato con il già funzionario di pubblica sicurezza Sandro Menichelli, che dagli anni ’90 ad oggi ha ricoperto diversi incarichi amministrativi presso il Ministero dell’Interno, la Presidenza del Consiglio dei Ministri e la Rappresentanza Permanente d’Italia all’Unione Europea, occupandosi di sicurezza e controterrorismo. Ha scritto tre saggi di politica e storia contemporanea.

- Nel suo libro Galassia islamica (Intermedia, 2019) ha raccontato le varie sfaccettature di questo mondo. In che cosa si differenzia l’Islam italiano da quello di altri Paesi?
  Rispetto ad altre realtà europee, la differenza risiede innanzitutto nella genesi: non avendo noi un passato coloniale marcato come lo ebbero francesi e britannici, da noi l’Islam è giunto in tempi relativamente più recenti. Rispetto ai Paesi arabi, invece, lì sono più vicini alle loro tradizioni; mentre da noi, volenti o nolenti, sono costretti per ovvie ragioni ad adattarsi al tessuto sociale e normativo che abbiamo qui.

- Rispetto ad altri Paesi europei, l’Italia non ha avuto attentati jihadisti. Come lavora la nostra intelligence su questo fronte?
  Innanzitutto, dobbiamo allargare il perimetro valutativo: l’azione sul territorio non è fatta solo dai servizi di intelligence, ma anche e soprattutto da Carabinieri, Guardia di Finanza e Polizia di Stato. Questo perché oltre ad avere competenze generali, sono più radicati sul territorio. Vi è tutto un apparato che si occupa della prevenzione e, qualora si rivelasse necessario, della repressione dei rischi.
  Perché da noi non si sono verificati attentati? Perché noi, forti dell’esperienza maturata negli anni ’70, ai tempi del terrorismo politico sia rosso che nero, abbiamo sviluppato una coscienza e una sensibilità verso il tema del terrorismo che altre realtà nazionali non hanno maturato.
  Ciò fa sì che da noi esiste un sistema per cui tutte le informazioni a disposizione su una potenziale minaccia terroristica vengono portate a conoscenza di tutte le forze di polizia e dei servizi segreti, e scambiate all’interno di un comitato di analisi strategica antiterrorismo, che fa capo al Dipartimento della pubblica sicurezza. Una realtà, questa, che fa capo al Ministero dell’Interno, dove obbligatoriamente vengono poste a fattor comune tutte le informazioni raccolte sul terreno. Dopodiché, una volta fatta l’analisi di cui vengono condivisi i risultati, si sceglie chi deve operare (polizia, Carabinieri, ecc.), anche per evitare una sovrapposizione degli sforzi.
  Un altro elemento importante che ci ha sempre aiutati molto nel prevenire attentati sul territorio nazionale, è che abbiamo una legislazione antiterrorismo molto efficace. Questa permette di enucleare dei soggetti che, con il loro comportamento, posso risultare pericolosi per la sicurezza pubblica, ed essere espulsi con un decreto del Ministro dell’Interno senza dover prima necessariamente passare attraverso il vaglio dell’autorità giudiziaria.

- Dopo i fatti del 7 ottobre in Israele, come è cambiata la situazione in Italia per quanto riguarda il rischio di attentati?
  Le vicende in atto in Medio Oriente sono all’ordine del giorno, e determinano il massimo stato di allerta da parte delle autorità competenti. Il tutto però avviene in un quadro dove il livello di attenzione era già molto alto; agli occhi di chi vorrebbe fare attentati, noi facciamo sempre parte dell’Occidente. In più, sul nostro territorio nazionale abbiamo la Chiesa Cattolica, un potenziale bersaglio per chi è ideologicamente affine al radicalismo islamico.

- Negli stessi giorni dei massacri in Israele, ricorreva l’anniversario dell’attentato alla Sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982. Nel prossimo futuro, ritiene che i luoghi ebraici rischino di essere presi di mira?
  Le realtà ebraiche, adesso come in passato e come sarà in futuro, sono sempre state oggetto di possibili attentati. Per questo, saremmo degli stolti ad abbassare la guardia; tali realtà sono purtroppo oggetto dell’attenzione perversa da parte di frange islamiste radicali, e continueranno ad esserlo. Sta a noi, pur senza allarmismi, mantenere alto il livello di attenzione. Non solo come forze di polizia, ma anche al livello di tutta la cittadinanza.

(Bet Magazine Mosaico, 22 gennaio 2024)

........................................................




........................................................


I medici d'emergenza che salvano vite in Israele

di Luciano Bassani

Ogni giorno, dice Angela Polacco, storica guida turistica in Israele, si piangono le ragazze e i ragazzi che muoiono in battaglia, vite spezzate, sogni e speranze infrante, giovani in gamba proiettati nel futuro fermati per sempre nel viaggio della loro vita. Alla televisione israeliana, poco in quelle fuori da Israele, continua Angela Polacco, ogni giorno vengono trasmesse interviste e ricordi di questi giovani per mantenerne viva la memoria. Ogni giorno sono anche trasmesse le tristi statistiche di questo duro conflitto e purtroppo anche la straziante conta dei morti.
   La percentuale di mortalità per gli israeliani in questa guerra è del 6.7%, la più bassa registrata in tutte le guerre in cui l'esercito è stato coinvolto, senza dubbio, la minore tra tutti gli altri conflitti in corso nel mondo. Comunque dolorosissima. Pochi sanno però che in questa guerra sono arruolati oltre 5.000 medici, ogni unità combattente ha a disposizione un team medico e paramedico che nel giro di qualche secondo, dopo uno scontro con feriti, interviene tempestivamente fornendo presidi medico/chirurgici all'avanguardia e forniture di sangue di gruppi anche rari per immediate trasfusioni. Tutti sanno che queste pratiche salvavita abbassano drasticamente il tasso di mortalità. Magen David Adom, consorella in Israele della Croce rossa-Mezzaluna rossa in seno alla Croce rossa internazionale, è una delle organizzazioni sanitarie di emergenza/urgenza migliori al mondo, da sempre attiva sia in Israele che nei paesi bisognosi colpiti da terremoti (Turchia, Nepal) o da altri disastri naturali (Haiti, Indonesia, Giappone). Magen David Adom ha sempre onorato i principi della Croce Rossa Internazionale e ora assiste incredula al totale disinteresse della propria «casa madre» per la salute e le condizioni degli ostaggi civili di Hamas.
   Oggi, grazie a Magen David Adom, nel giro di pochi minuti i feriti, anche gravissimi e nel mezzo degli scontri a fuoco, sono elitrasportati nei reparti di medicina d'urgenza dei vari ospedali in Israele, che via video e radio vengono immediatamente allestiti per gli interventi chirurgici. Purtroppo la situazione di conflitto continuo (guerre e soprattutto terrorismo) rende Israele paese all'avanguardia nella medicina d'emergenza e questa eccellenza viene condivisa con tutto il mondo tramite seminari, corsi e lezioni universitarie tenute sia in Israele che nel mondo compreso il nostro paese. Credo che mai come in questi anni di guerre e attentati le figure sanitarie in Israele hanno dato prova di essere in grado di salvare sempre più vite anche al costo di perdere la propria. Solo dal 7ottobre sono caduti nell'esercizio del proprio dovere 16 tra medici e paramedici di Magen David Adom. Sempre ligi ai sette principi fondanti della Croce rossa internazionale, essi rappresentano tutto quello che lega noi medici al giuramento prestato prima d'intraprendere la nostra missione.

(La Verità, 21 gennaio 2024)

........................................................


La nostra forza sta nella nostra unità: come sostenere Israele in tempi di guerra

di Sofia Tranchina

FOTO 1
Con la guerra che imperversa da tre mesi, e che minaccia di dilungarsi e di allargarsi al fronte Nord, Israele si è trovata ad affrontare un improvviso e radicale cambiamento interno.
Con oltre 200mila sfollati da 105 comunità vicine ai confini con la Striscia di Gaza e con il Libano, e altri 23mila sfollati dalla città settentrionale di Kiryat Shmona, lo Stato ebraico si trova a dover far posto alle famiglie sradicate dalla propria routine, dalla propria casa e dal proprio lavoro, costrette a vivere in alberghi sovraffollati ora travolti dal caos.
Le evacuazioni non sono l’unico movimento interno a sconvolgere il Paese in guerra, costretto a mobilitare migliaia di riservisti, distogliendoli dal proprio lavoro e causando uno stallo economico che pesa sulle famiglie dei soldati e inficia lo sviluppo di diversi settori.
Con un apporto di reclute impegnate nella difesa nettamente superiore a quello usuale, si è verificata un’improvvisa carenza di fornimenti necessari a sostenere lo sforzo umano. Ciò è evidente nelle mense delle basi militari, in cui il cibo sfama a fatica i nuovi arrivati, e nei magazzini in cui mancano elmi, vesti antiproiettile, e attrezzatura tattica per tutti.
FOTO 2
Inoltre, i componenti delle famiglie che rimangono a casa hanno bisogno di aiuti nelle mansioni quotidiane e nella cura dei bambini.
Infine, la repentina partenza in massa dei lavoratori stranieri, insieme allo sfollamento delle comunità di confine, ha trascinato nell’incuria le aziende agricole che sostengono il settore alimentare locale, trovatesi improvvisamente senza manodopera.
Buona parte del raccolto di quest’anno sta marcendo sugli alberi e il rischio è che i danni si protraggano nel tempo causando una carestia.
Per questo, migliaia di volontari sono arrivati da tutto il mondo, nonostante i rischi, con il solo desiderio di aiutare a superare l’instabilità e la crisi. Si sono create così numerose iniziative (autonome e statali) per raccogliere i volontari e smistarli.
«
FOTO 3
Dopo il 7 ottobre avevo bisogno di fare qualcosa», racconta Sharon Anvar, ebrea italiana di origini persiane. «Sono cresciuta in un paesino italiano senza ebrei, lontana dalla comunità e lontana da Israele. Ma quando  il programma di volontariato Onward di Birthright (Taglit) mi ha riportata lì, ho sentito di essere tornata a casa».
Birthright dà la possibilità a giovani ebrei di tutto il mondo di unirsi alle attività di smistamento di materie prime, di raccolta di prodotti agricoli, e di preparazione dei pasti per l’esercito.
«In Israele ritrovo le mie radici e, in un certo senso, ritrovo me stessa. Il 7 ottobre ho sentito che casa mia era in pericolo, come se fosse stato violato il mio posto sicuro, e ho sentito il bisogno di aiutare le persone che erano lì. L’esperienza di volontariato è stata fortissima sotto tanti punti di vista: ho vissuto Israele, parlando con le persone del posto, con i soldati ricoverati in ospedale, e con un ostaggio liberato (Mia Shem).
Nonostante sia un momento tragico per il Paese, stando lì si sente la sua vitalità, il suo desiderio di continuare ad essere. È un’energia che dà forza a tutti quelli che si fanno coinvolgere».
Per aiutare i soldati a sostenere il peso della guerra, cinque amici (Tzahi, Alex, Moran, Sefi and Eyal) – aiutati da 2mila volontari – si sono mobilitati per costruire e mantenere il complesso di ristoro di Gilat Junction (a metà strada tra Ber Sheeva e il confine con Gaza).
Si fanno chiamare The A Team (צוות לעניין) e ogni giorno ricevono tra i 25mila e i 30mila soldati: hanno fatto pavimentare la zona, installato docce calde e lavanderie funzionanti, e procurano alle truppe equipaggiamento da combattimento, abiti tattici, sacchi a pelo, libri, biancheria intima e vestiti nuovi.
FOTO 4
«Forniamo ciò che manca, nutriamo e ci prendiamo cura del morale e dei bisogni delle truppe», raccontano i fondatori: lì, i soldati che rientrano da Gaza possono mangiare cibo fresco e nutriente, riposarsi, e ricevere trattamenti terapeutici, dalla fisioterapia ai bagni ghiacciati. «La nostra forza è nella nostra unità».
Grazie ai fondi ricevuti, gli aiuti che riescono a procurare sono sempre maggiori, «ma ogni donazione è preziosa», spiega Michal Kollinger.
«Venire qui è come tornare a casa. Dopo giorni sul campo, questo posto mi dà energia. Non sapete quanto questo aiuti: sentiamo l’abbraccio commovente della nazione che ci supporta», racconta la soldatessa N.Z.
Tra le iniziative che organizzano anche alloggio e spostamenti, Make A Soldier Smile permette di viaggiare attraverso Israele installando cucine “pop-up” in diverse basi militari, in cui preparare e servire pasti freschi. È un programma riconosciuto e approvato dallo Stato e opera sotto il comando dell’Unità di Volontariato dell’IDF. Offre esperienze da 1 a 6 giorni, con la possibilità di pernottare presso il centro di addestramento di una base militare vicino a Gerusalemme.
Thank Israeli Soldiers permette invece di organizzare feste di compleanno o matrimoni in basi militari, offrendo pasti festivi per risollevare il morale delle truppe.
FOTO 5
Sempre in ambito militare, l’IDF mette a disposizione il programma Sar-El, con cui dare un contributo alla sicurezza dello Stato lavorando direttamente in caserma, fianco a fianco con i soldati, in ruoli di supporto logistico e civile non legati al combattimento (imballaggio di forniture mediche, riparazione di macchinari, controllo delle attrezzature, e manutenzione della base).
Il programma può durare da 1 a 3 settimane, pernottando in caserma dalla domenica al giovedì, mentre i fine settimana vengono trascorsi fuori dalla base.
Chi cerca maggiore flessibilità di giorni e orari può contribuire alle iniziative che non richiedono continuità: Osim Sameach porta i volontari a visitare i feriti (civili o militari) negli ospedali, con dolci e bevande; One Family permette di aiutare le vittime del terrorismo, con donazioni e aiuti diretti, e raccoglie volontari che visitino i feriti, aiutino nel trasporto o che propongano workshop; Ohr Meir & Bracha cerca mentori per i figli di vittime del terrorismo: «serve qualcuno che li porti a fare una gita, li aiuti con i compiti o semplicemente “ci sia” per loro».
Per sostenere le famiglie evacuate, attualmente costrette a soggiornare in alberghi lontani dalle proprie case distrutte dal terrorismo e dalla propria routine, si può anche contattare uno dei referenti elencati qui; per offrire attività ricreative interattive, quali gruppi di discussione, serate di poesia, o lezioni di yoga, è disponibile questo form.
FOTO 6
Per i volontari interessati al settore agricolo, Leket Israel organizza il raccolto nei campi di Rishon Lezion, e lo smistamento e il confezionamento degli alimenti nel loro centro logistico di Gan Haim, per la distribuzione ai partner no-profit.
Altre aziende, kibbutzim e moshavim bisognosi di aiuti sono elencati qui.
Il Jewish National Fund USA organizza tutti i mercoledì, per 70€, il trasporto da e per Gerusalemme e un pranzo kasher, dando la possibilità di aiutare nei campi per una giornata, di collaborare con HaShomer HaChadash nelle fattorie, e di trascorrere del tempo con gli sfollati.
Anche One Heart offre la possibilità di fare volontariato in zone rurali, oltre che di aiutare le famiglie dei soldati e le famiglie colpite dalla guerra nelle mansioni quotidiane.
Da sgomberare e pulire i miklatim (rifugi antiaerei), a consegnare cibo agli anziani bisognosi con l’organizzazione Adopt-A-Safta, oltre alle iniziative indipendenti del gruppo Facebook Swords of Iron, le opportunità per fare la differenza non mancano.

(Bet Magazine Mosaico, 21 gennaio 2024)

........................................................


Netanyahu e le sabbie mobili

di Niram Ferretti

Il post Netanyahu è, nei desiderata dell’Amministrazione Biden, lo scenario ideale per apparecchiare lo screditato e implausibile paradigma dello Stato palestinese, dopo che, per sedici anni, ne è sorto uno in miniatura a Gaza, con, come conseguenza ultima della sua ragione d’essere, il 7 ottobre 2023.
  Fin dalla vittoria di Netanyahu, un anno fa, la Casa Bianca iniziò subito a palesare il proprio scontento per l’esito delle urne, così lontano dall’orizzonte progressista, bollando il nuovo esecutivo come un governo clericale ed estremista.
  Joe Biden, “l’amico americano” tenne a debita distanza Netanyahu fino quando non fu costretto dagli eventi a recarsi in Israele dopo il peggiore eccidio di ebrei dalla Seconda guerra mondiale ad oggi. Prima, ingerendo come mai negli affari interni di uno Stato sovrano, Biden aveva fatto intendere chiaramente che a Washington la riforma della giustizia del nuovo governo non piaceva affatto. Ora si tratta di palesare il proprio scontento per la determinazione con la quale Netanyahu ha rigettato l’idea di una Gaza dopo Hamas governata dalla cleptocrazia filoterrorista di Fatah e soprattutto l’idea che uno Stato palestinese possa in qualche modo essere la formula giusta per placare l’odio viscerale che la parte più consistente della popolazione palestinese dei cosiddetti territori occupati nutre per Israele e non quello che sarebbe, un ulteriore trampolino di lancio per azioni terroristiche su scala maggiore.
  L’opera di delegittimazione di Netanyahu è già cominciata, lo si considera un leader superato e si guarda oltre, ci hanno già pensato due ammiraglie della stampa liberal, il Washington Post e il New York Times a indicare l’aria che tira. Soprattutto il primo sostenendo che Netanyahu, come Nerone, gradirebbe incendiare il Libano per restare in sella.
  Netanyahu è coriaceo, venderà cara la pelle, ma il fatto è che si trova stretto in una morsa a tenaglia. Da una parte c’è l’Amministrazione Biden che tramite Antony Blinken continua a esercitare fortissime pressioni sul gabinetto di guerra per condizionare l’operazione militare a Gaza affinché essa possa creare il minore impatto possibile oltreoceano e non erodere ulteriormente il già scarso consenso elettorale di cui gode Biden in vista delle prossime presidenziali, e ciò significa in termini concreti costringere Israele a incrementare gli aiuti umanitari a Gaza e a operazioni militari a intensità bassa, dall’altra c’è lo stesso apparato militare israeliano, il medesimo che ha mostrato la sua palese inadeguatezza nel prevenire il 7 ottobre, all’interno del quale operano da anni oppositori di Netanyahu per i quali la priorità non è più o forse non è mai stata lo smantellamento della struttura operativa di Hamas.
  In questo senso sono emblematiche le dichiarazioni recenti di Gadi Eisenkot, ex Capo di Stato Maggiore, e oggi soggetto politico, il quale ha affermato che l’obbiettivo di smantellare Hamas all’interno della Striscia non è fattibile e auspicando elezioni anticipate a guerra in corso, due affermazioni che di fatto consegnano a Hamas il vantaggio che spera di ottenere.
  Dopo tre mesi di guerra, è palese che l’operazione militare israeliana a Gaza si trova al momento in una fase di assestamento. La sconfitta di Hamas è ancora lontana e solo una continua e serrata determinazione a perseguirla può portare al risultato sperato, mentre intorno a questo obiettivo il risucchio delle sabbie mobili si sta intensificando.

(L'informale, 21 gennaio 2024)

........................................................


Presentazione del libro “I lunghi giorni della Artic Sea” di Michael Sfaradi

Mercoledì 24 gennaio, alle ore 20

«Il 23 luglio 2009 la Arctic Sea, nave cargo battente bandiera maltese, salpa dal porto finlandese di Pietarsaari con un carico di assi di abete destinato in Algeria. Ma cosa c’era nelle stive? Tratto da un fatto di cronaca realmente accaduto fra il luglio e l’agosto del 2009, questo romanzo, basato su informazioni in possesso dell’autore che come giornalista seguì il caso, racconta i retroscena della vicenda e come, ipoteticamente, le cose sarebbero potute andare. In quei giorni girava forte il sospetto che, oltre al carico di legno finlandese, la Arctic Sea trasportasse anche sistemi missilistici russi S300 e N55 destinati all’Iran. Ancora oggi in molti sono pronti a giurare che dietro la sparizione della Arctic Sea ci fosse stata la lunga mano del MOSSAD, i servizi segreti israeliani, che agirono per bloccare la possibilità che l’Iran si dotasse di sistemi missilistici che avrebbero impedito a Israele di agire militarmente per fermare la minaccia che si nasconde dietro al nucleare iraniano.»

(Notizie su Israele, 21 gennaio 2024)

........................................................


Proteste contro il padiglione di Israele a Vicenzaoro: 10 agenti feriti

Condanna dal mondo della politica e della società civile

di Luca Spizzichino

Scene di guerriglia a pochi passi da Vicenzaoro, fiera di oreficeria e gioielleria. Un gruppo dei centri sociali del Nord Est ha tentato di sfondare il cordone di sicurezza sul retro della Fiera dell’Oro per raggiungere gli stand dello Stato ebraico.
   Ieri, mentre si stava svolgendo un corteo pro-Palestina, una parte, composta da circa 700 persone, ha deviato rispetto al percorso autorizzato dalla prefettura e ha sfondato un cancello per cercare di raggiungere la fiera. La polizia ha risposto con una carica di alleggerimento. Sono cinque gli antagonisti denunciati e undici gli agenti feriti negli scontri. Secondo le forze dell’ordine i manifestanti hanno utilizzato “artifizi modificati e contenenti schegge metalliche, che dimostrano una chiara volontà di fare più male possibile”. La Digos ha acquisito i filmati e non si escludono altre denunce nei prossimi giorni.
   Il presidente della Comunità Ebraica di Roma Victor Fadlun ha condannato l’accaduto, segnalando come sia stata “una pericolosa degenerazione della protesta pro-Palestina a Vicenza”. “Ha gettato la maschera e si è trasformata da finto corteo pacifista in pura violenza antisemita, contenuta con professionalità dalle forze dell’ordine” ha dichiarato Fadlun che ha espresso “gratitudine alle forze dell’ordine, in particolare alla Polizia di Stato, e vicinanza e solidarietà agli agenti feriti”. “Non vogliamo neanche immaginare che cosa sarebbe successo se il corteo fosse riuscito a sfondare le barriere e raggiungere il Padiglione Israele a Vicenzaoro. Faccio appello alle forze politiche perché condannino senza se e senza ma, in modo unanime, il pericoloso ritorno di un antisemitismo che sembrava sconfitto dalla storia e nella coscienza dell’opinione pubblica” ha aggiunto.

• Ferme condanne sono arrivate anche dal mondo della politica e della società civile.
  “La condanna per questi atti di violenza e antisemitismo deve essere netta e unanime. – ha detto in una nota il presidente del Senato, Ignazio La Russa. – Nessuna tolleranza è ammissibile. A Israele e agli agenti di polizia rimasti feriti giunga la vicinanza mia personale e del Senato della Repubblica”.
   “Quel che è accaduto questa mattina a Vicenza indica quanti danni stiano producendo la criminalizzazione di Israele e la diffusione di pulsioni antisemite e antiebraiche verso cui è colpevole e inescusabile ogni forma di passività”. Lo ha scritto su X Piero Fassino, deputato del Partito Democratico. Filippo Sensi, senatore del Pd, ha sottolineato come “l’antisemitismo violento sta rialzando la testa”. “Mancano pochi giorni al 27 gennaio, ci stiamo arrivando nel modo peggiore. A furia di guardare e stare zitti, poi finisce così. Guai alla politica che deve avere coraggio per difendere i suoi cittadini dall’odio, dall’intolleranza” si legge nel suo post.
   “L’antisemitismo nel mondo sta degenerando” ha scritto in un tweet Alessandro Bertoldi, presidente di Alleanza per Israele. “Pensiamo a cosa sarebbe potuto succedere oggi alla Fiera di Vicenza se non fossero intervenute tempestivamente le forze dell’ordine”.
   Dura anche la condanna arrivata da Stefano Parisi, presidente dell’Associazione SetteOttobre’, nata dopo gli attacchi di Hamas in Israele. “C’è una marea montante di odio contro gli ebrei e contro l’occidente che deve essere fermata senza ambiguità e opportunismi” ha affermato.

(Shalom, 21 gennaio 2024)

........................................................


Serie tv e film made in Israele boicottati dai colossi online

di Cesare Lanza

Israele come la Russia. Dopo lo scellerato boicottaggio della cultura russa degli ultimi due anni, prepariamoci ad assistere alla censura di quella israeliana. In anni di cancel culture, non mi sorprende più niente. Soprattutto se di mezzo ci sono colossi globali che (più che a far valere un principio) sono attenti alle reazioni del popolo dei social. Business is business. 
   A causa della guerra in corso a Gaza, Apple e Netflix stanno sospendendo la produzione e la distribuzione di tutti i film e le serie tv targate Tel Aviv. A partire da Fauda, fiction israeliana ma con un cast misto (eseguita anche in tutto il mondo arabo), che racconta le drammatiche vicende che coinvolgono le truppe d'élite israeliane in territorio palestinese. Uno dei casi televisivi delle ultime stagioni, che ha ricevuto apprezzamenti internazionali per aver scelto una prospettiva non scontata, quella di rappresentare in maniera realistica le due parti coinvolte nel conflitto, dando risalto alle violenze a cui vengono sottoposti i palestinesi nelle zone di occupazione israeliana. «Apple ci ha chiesto di interrompere la stesura della sceneggiatura perché la nuova realtà sta causando incertezza sui contenuti» ha detto la produttrice Shula Spiegel, «rischiamo di finire come la Russia». Da anni Israele ci ha abituati a film e serie tv di grande qualità. Penso a Homeland o In Treatment, la mia preferita, di cui abbiamo apprezzato anche la versione italiana, con Sergio Castellitto. Ora, invece, le produzioni israeliane già acquistate, di ogni genere, sono ferme sullo scaffale, persino la commedia Through Fire and Water, di cui Netflix ha sospeso la programmazione.

(La Verità, 21 gennaio 2024)

........................................................


«Keren» una parola profetica per il Messia (6)

«Keren» nella conquista di Gerico. Il Messia dà la vittoria sul giudizio.

di Gabriele Monacis

Come abbiamo visto negli articoli precedenti, la parola keren compare in vari contesti biblici, ad esempio nel contesto del sacrificio o come simbolo della potenza che Dio dà a una persona che chiede il suo aiuto. Nell'ultimo articolo abbiamo imparato a conoscere il corno dell'unzione, il cui olio veniva usato per ungere la testa di un futuro re. 
   In un versetto della Bibbia, il termine keren è usato per descrivere uno strumento musicale, precisamente nel libro di Giosuè, quando il popolo di Israele conquistò Gerico dopo essere entrato nella terra della promessa. Gerico era una città pesantemente fortificata, "chiusa e sbarrata ai figli di Israele, in modo che nessuno potesse entrare o uscire" (Giosuè 6,1). La frase ci ricorda la situazione in cui si trovavano gli Israeliti in Egitto circa quarant'anni prima. Allora, come schiavi, non avevano potuto lasciare il Paese. A Gerico è successo il contrario: gli israeliti erano i conquistatori stranieri e la città si era recintata. Ma come in Egitto, anche a Gerico Dio aprì miracolosamente la strada a Israele. 
   Anche se fu Dio stesso a far crollare le mura di Gerico, pretese che il suo popolo facesse la sua parte e fosse obbediente. Dio disse a Giosuè esattamente quello che gli israeliti dovevano fare per vedere le imponenti mura della città crollare davanti ai loro occhi. Per sei giorni, tutti i guerrieri dovettero marciare intorno alla città, con sette sacerdoti che portavano sette corni davanti all'Arca dell'Alleanza. 
   Nel versetto 4, Dio dice a Giosuè: "Il settimo giorno marcerete intorno alla città per sette volte e i sacerdoti suoneranno i corni dello shofar". Lo shofar (tradotto con "tromba" nelle Bibbie italiane) è uno strumento a fiato che viene usato ancora oggi nella liturgia ebraica, per esempio a Rosh ha-Shanah, il capodanno ebraico. 
   Nel versetto 5 Dio continua : "E quando il corno d'ariete sarà suonato a distesa e voi sentirete il suono del corno, tutto il popolo emetterà un grande grido. Le mura della città crolleranno e il popolo salirà, ognuno dritto davanti a sé”. La parola ebraica per "corno d'ariete" qui è keren. È chiaro dal contesto che si intende lo stesso strumento musicale del versetto 4 con la parola shofar  che si riferisce ai corni. Per i nostri scopi, è molto importante notare che la parola keren appare solo una volta nella Bibbia in questo contesto. 
   Negli articoli di questa serie si affronta la questione di come la Bibbia usa la parola keren in modo profetico per annunciare il Messia. I contesti esaminati finora presentano la regalità del Messia, ma soprattutto la sua vita di debolezza, sacrificio e morte. Il contesto di Giosuè 6 è completamente diverso. Qui il popolo d'Israele sperimenta una vittoria trionfale sui suoi nemici; Dio consegna nelle sue mani la città di Gerico. Questa situazione è un'immagine della vittoria che il Messia avrebbe ottenuto sui suoi nemici dopo aver dato la sua vita in sacrificio. Ed Egli condivide questa vittoria con tutti coloro che sono vittoriosi insieme a Lui perché hanno messo la loro vita nelle sue mani. 
   Ma quando guardiamo ai nemici di Israele, non vediamo solo la sconfitta, ma anche il giudizio e la maledizione. In Giosuè 6:26, Giosuè dice: "Maledetto sia davanti al Signore l'uomo che si alzerà a ricostruire questa città di Gerico!". Questo è il destino di tutti i nemici di Dio, che sono simbolicamente come Gerico. Ma la grazia di Dio è così grande che raggiunge anche i peccatori che gli sono ostili. Nella grande storia della distruzione di Gerico, troviamo la storia di Rahab, cittadina di Gerico, e della sua famiglia, che non morirono perché Giosuè permise loro di vivere: "Ed ella abitò in Israele fino ad oggi, perché nascose i messaggeri che Giosuè aveva mandato a spiare Gerico" (v. 25). 
   I corni che i sacerdoti suonarono in quel giorno di trionfo su Gerico possono essere intesi come un'immagine di nostro Signore Gesù Cristo. Da dove provengono i corni dello shofar? Un animale maestoso con le corna doveva essere ucciso e morire affinché le sue corna potessero servire come strumenti musicali nel giorno della vittoria. Così il nostro Signore doveva morire come sacrificio affinché Dio potesse risuscitarlo e dargli la vittoria sui suoi nemici nel giorno trionfale della sua risurrezione.

(6. continua)

(Nachrichten aus Israel – September 2022)



........................................................


Israele: importante operazione antiterrorismo in Cisgiordania

I soldati di riserva dell’IDF, la Polizia di Frontiera e lo Shin Bet, tutti sotto il comando della Brigata Territoriale Menashe, hanno localizzato oltre 400 esplosivi nella città cisgiordana di Tulkarm, secondo un aggiornamento di venerdì sera.
   Gli esplosivi scoperti erano collocati sotto le strade per danneggiare le forze israeliane. 27 armi e molte attrezzature militari sono state confiscate durante l’operazione. Inoltre, le forze israeliane hanno distrutto cinque laboratori di fabbricazione di cariche e quattro posti di osservazione.
   Circa 1.000 edifici sono stati perquisiti e centinaia di sospetti sono stati interrogati dalle forze israeliane. Complessivamente, sono stati arrestati 37 ricercati in città, alcuni dei quali erano membri di alto livello che operavano nelle infrastrutture del terrore a Tulkarm.
   Altri quattro terroristi, che avevano lanciato esplosivi contro i soldati israeliani, sono stati eliminati da un aereo diretto dall’Unità 636 dell’IDF.
   Un riservista dell’IDF è stato ferito dalle forze terroristiche. I soldati del battaglione del riservista hanno raggiunto i terroristi nel corso dell’operazione, eliminandoli e arrestandone alcuni. Sui terroristi arrestati sono state trovate armi e munizioni.

(Rights Reporter, 20 gennaio 2024)

........................................................


I prof. di Hamas

Dentro al canale telegram degli insegnanti dell’Unrwa lodano i terroristi

di Micol Flammini

ROMA - Il ruolo dell’Unrwa a Gaza sarebbe dovuto essere quello di assistere, soccorrere, aiutare lo sviluppo dei palestinesi nel territorio della Striscia, ma anche in Giordania, Libano, Siria e Cisgiordania. L’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi ha rivestito dal 1948 un ruolo importante, vitale, di speranza. E avrebbe potuto contribuire in modo fattivo al futuro dei palestinesi. Dentro alla Striscia di Gaza, alcuni dipendenti dell’Unrwa sono stati anche soggetti a minacce da parte di Hamas, altri invece sarebbero stati compiacenti con i terroristi che, da quando sono arrivati al potere, hanno impoverito gli abitanti e imposto un regime mortale anche per molti palestinesi.
   L’organizzazione non governativa Un Watch da anni monitora l’operato delle agenzie delle Nazioni Unite e da qualche tempo, in seguito a una segnalazione, ha iniziato a raccogliere informazioni su un canale telegram privato chiamato UNRWA_EDU, in cui degli insegnanti dell’Agenzia si scambiano notizie e materiale relativi al lavoro e lodano le azioni di Hamas. Il Foglio ha contattato Unrwa per avere conferma dell’appartenenza degli insegnanti all’Agenzia, ma per il momento non abbiamo ottenuto una risposta. Nella chat ci sono trecentomila messaggi, Un Watch si è concentrata su alcuni, raccogliendo circa venti prove che ritiene schiaccianti. Nella chat si parla di corsi di formazione, di materiale da usare durante le lezioni, di colleghi e, fra i tremila insegnanti del gruppo, alcuni hanno espresso il loro favore per il massacro che Hamas ha compiuto nei kibbutz israeliani il 7 ottobre. Luis Cohn Pelaez, ricercatore dell’Un Watch, ha spiegato al Foglio le evidenze che mostrano la vicinanza di alcuni insegnanti con i terroristi. Fra gli amministratori del gruppo c’è Safaa Mohammed al Najjar, viene da Rafah, su Telegram condivide informazioni sul lavoro dell’Unrwa e il 7 ottobre pubblicava video dei terroristi intenti a uccidere, torturare, rapire israeliani – i post sono stati cancellati, ma Un Watch ha fatto in tempo a raccogliere le prove. Un Watch aveva iniziato a diffondere la prima segnalazione sugli insegnanti dell’Unrwa, sul materiale scelto per l’insegnamento che mostrava un intento di indottrinamento, sulla loro vicinanza a Hamas, già nel 2017, ricevendo dalle Nazioni Unite sempre la stessa risposta: “Ci hanno detto che si tratta di accuse senza prove e hanno accusato la nostra organizzazione, cercando di infangarne la reputazione – racconta Cohn Pelaez – ma noi abbiamo già pubblicato numerosi rapporti, con prove. Dicono sempre che indagheranno e verificheranno, ma non abbiamo mai visto un processo aperto e trasparente. Dal nostro punto di vista, la risposta è sempre inadeguata, di solito rispondono che non possono provare che si tratti di loro insegnanti. Noi abbiamo condiviso tutti i dati, in modo che i funzionari delle Nazioni Unite potessero esaminarli da soli, abbiamo fornito numeri di contratto, con allegato i messaggi di questi insegnanti e i loro post sui social”. Uno dei corsi di formazione di cui si parla nella chat UNRWA_EDU riguarda proprio l’utilizzo delle piattaforme social e la necessità di dimostrarsi neutrali. “Su questi insegnanti non c’è un controllo”, e alcuni membri dell’Unrwa hanno detto di non sapere chi si trovi nel gruppo. Il 7 ottobre, secondo alcuni screenshot di Un Watch, tra questi docenti sono stati diffusi veri messaggi di ammirazione e contentezza: un insegnante ha scritto che nei kibbutz era stato compiuto “qualcosa al di sopra delle aspettative”, un altro ha condiviso con i compagni in chat un messaggio difficile da fraintendere “Oh, quanto odio gli ebrei”. All’interno del gruppo vengono condivisi anche materiali interni dell’Unrwa, quindi difficile pensare che non abbiano nulla a che vedere con le Nazioni Unite, come si sono sentiti spesso rispondere da Un Watch.
   La complicata missione dell’Unrwa dentro alla Striscia di Gaza è fallita e stando a questi messaggi, un’agenzia delle Nazioni Unite avrebbe contribuito a esacerbare l’odio, a radicalizzare, a perpetuare la crisi, dando a Hamas una sponda anche all’interno delle scuole, quindi creando dei bacini da cui attingere a futuri membri del gruppo o persone compiacenti con le azioni terroristiche. La missione dell’Agenzia sarebbe dovuta essere l’opposto: portare sviluppo e non irrigidire il conflitto. Dall’inizio della guerra, gli Stati Uniti sono stati molto chiari nel dire che bisogna avere un piano pronto per il dopo per consentire una ricostruzione rapida della Striscia e l’istituzione di un governo serio che assicuri, questa volta davvero, la crescita economica e sociale dentro Gaza. Di questa ricostruzione, l’Unrwa, così come la stiamo conoscendo, non può fare parte.

Il Foglio, 20 gennaio 2024)

........................................................


Israele, ucciso importante leader della Jihad islamica palestinese

Il vice capo dell’informazione dell’organizzazione palestinese della Jihad islamica Wael Makin Abdallah Abu-Fanounah è stato preso di mira e ucciso dall’IDF in un attacco aereo giovedì, ha annunciato l’esercito venerdì in una dichiarazione congiunta con il Servizio di sicurezza israeliano (Shin Bet).
   Fanounah era stato originariamente arrestato in Israele il 12 dicembre 1989 ed era stato condannato a tre ergastoli per le sue attività terroristiche, ma era stato rilasciato nel 2011 nell’ambito dell’accordo con il prigioniero Gilad Schalit.
   Fanounah ha poi ricoperto il ruolo di vice di Khalil al-Hayya, il comandante della Striscia di Gaza settentrionale della Jihad islamica palestinese. Dal 2017, prima di assumere il ruolo di vice capo della rete informativa dell’organizzazione, Fanounah è stato responsabile della produzione di video del terrore relativi ad attacchi missilistici sul territorio israeliano e della creazione e diffusione di documentazione di prigionieri israeliani come parte della guerra psicologica condotta dai gruppi terroristici di Gaza contro i residenti israeliani.

(Rights Reporter, 20 gennaio 2024)

........................................................


Il dissenso con gli Usa e i suoi riflessi politici

di Ugo Volli

• La difficile unità
  Quando c’è una guerra dura e difficile come quella che Israele è stato costretto ad affrontare a causa dello spaventoso attacco di Hamas e degli assalti minori ma comunque consistenti provenienti da Libano, Siria, Territori dell’Autorità Palestinese, Yemen, si vorrebbe sempre la massima unità delle forze politiche interne e anche una condivisione degli obiettivi da parte degli alleati. In realtà questa concordia è rara, perché le scelte sono difficili e dolorose e purtroppo le cose non vanno esattamente in questa maniera neppure oggi in Israele. Da un lato le opinioni politiche all’interno del paese erano divise come non mai prima del 7 ottobre e tutti sanno che alla fine della guerra il conflitto si ripresenterà forse anche più aspro. E gli Usa, principale alleato di Israele, hanno fatto molto in questi mesi per aiutare lo Stato ebraico, ma non condividono le scelte strategiche del suo governo.

• Le richieste americane
  Cominciamo da qui: la stampa israeliana dice che i segnali di tensione tra Stati Uniti e Israele continuano a crescere, con indiscrezioni che suggeriscono che il presidente degli Stati Uniti Joe Biden sta “esaurendo” la pazienza con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. I due, a quanto pare, non si parlano da parecchio tempo. Ci sono stati ostentati contatti del Segretario di Stato Blinken con avversari interni del governo (Lapid) e con stati che ostentano inimicizia con Israele come la Turchia. I punti principali di dissenso sono questi: gli Usa vogliono che Israele ridimensioni le operazioni di guerra a Gaza molto più velocemente di quel che sta accadendo. Vogliono molti più rifornimenti per Gaza, esigono una tabella di marcia precisa della de-escalation, lavorano perché ci sia uno scambio fra liberazione dei rapiti e cessate il fuoco, che non va avanti soprattutto per il rifiuto di Hamas. Non credono che Israele possa concludere la guerra distruggendo completamente Hamas e ottenendo per questa via la liberazione dei rapiti. Vogliono che Israele prenda impegni per far amministrare Gaza all’Autorità Palestinese “riformata” (non si capisce da chi e in che modo). Non vogliono l’intensificazione della guerra al nord, che sarebbe necessaria per allontanare il pericolo di Hezbollah, potenzialmente assai più grave di quello di Hamas. Vogliono che Israele dia all’Autorità Palestinese tutti i fondi previsti, anche se essa poi li gira a Hamas o li destina agli stipendi per i terroristi incarcerati o alle famiglie di quelli uccisi in azioni di terrorismo. Vogliono che il conflitto si risolva in fretta, secondo i tempi delle elezioni americane.

• La posizione di Netanyahu
  Netanyahu ha rifiutato questi termini. Ha detto che la guerra sarà lunga, forse anche fino al 2025, che si concluderà solo con la distruzione di Hamas, che gli ostaggi saranno liberati aumentando la pressione sui terroristi, che il dopoguerra si deciderà alla fine ma senza la partecipazione dell’Autorità Palestinese al governo di Gaza, che, se le azioni diplomatiche non obbligheranno Hezbollah a ritirare le sue truppe alla distanza stabilita dalla risoluzione Onu, bisognerà provvedere con la forza. Alcune di queste sue dichiarazioni sono state fatte proprie dal ministro della Difesa Gallant, dal Capo di Stato Maggiore Halevi, dal ministro di Gabinetto Gantz.

• Le dichiarazioni di Eisenkot
  Ieri però è uscito un discorso molto polemico del vice di Gantz, l’ex capo di stato maggiore e ora ministro Gadi Eisenkot, che sulla linea americana ha chiesto nuove elezioni per rinnovare la leadership (cioè defenestrare Netanyahu), ha negato che una operazione simile a Entebbe per salvare gli ostaggi a Gaza possa avvenire, ha aggiunto che “chiunque parli di sconfitta assoluta [di Hamas] non sta dicendo la verità [… perché] oggi, la situazione nella Striscia di Gaza è tale che gli obiettivi della guerra non sono ancora stati raggiunti”. Eisenkot ha detto infine che l’11 ottobre Israele era sul punto di colpire Hezbollah, ma lui e Gantz sono riusciti a convincere il Gabinetto di guerra a desistere. “Avremmo portato in guerra l’intero asse di Siria, Iraq, Iran e la guerra con Hamas, che ci ha causato i maggiori danni dall’istituzione dello stato, sarebbe diventata un’arena secondaria”. Un errore, ha lasciato intendere, che non andrebbe fatto neanche ora. È un dissenso molto radicale, che potrebbe preludere a un’ uscita dal governo, dove però forse potrebbe entrare Lieberman, che chiede invece una guerra più dura. La politica israeliana non cessa di riservare sorprese.

(Shalom, 19 gennaio 2024)

........................................................


Avanti a testa alta

di Angelica Calò Livnè

Sì, lo so.
Non sono l’unica in Israele che detiene il primato del buco nello stomaco, che gira col suo corpo senza pelle, che si guarda intorno mentre cammina sulla strada di casa. Non sono l’unica che si sveglia di notte e rimugina sul 16 ottobre 1943, sulla strage delle Fosse Ardeatine, che fa il paragone con l’11 settembre e cerca di cancellare dalla mente le immagini del 7 ottobre. Non sono l’unica che si strugge per i soldati di Tsahal che combattono da tre mesi, per gli ostaggi rannicchiati in un angolo buio in qualche tunnel senza cibo né cure, per i civili palestinesi che non riescono a capire chi è il vero orco cattivo, per i 200 mila sfollati senza casa, per i bambini che, da 100 e più giorni, non vedono i genitori che sono arruolati nell’esercito, che non vanno a scuola e che, anche se ci prodighiamo con mille sforzi per mantenere uno straccio di routine, capiscono che qualcosa di tragico sta accadendo a loro e a tutti coloro che li circondano. Io non sono niente di speciale, dico a me stessa. Questo mal di testa ce l’hanno tutti. La rabbia, il senso di impotenza, gli interrogativi ce l’hanno tutti. Il missile e l’attentato potrebbero coglierci in ogni momento in qualunque punto di Israele e del mondo ebraico. Siamo tutti prigionieri in questa enorme voragine dove giungono e ribollono grida e invettive da ogni angolo della terra, siamo qui in un ripugnante rigurgito antisemita in piena, in un marasma camuffato da lotta per la resistenza. La nostra saggia Golda diceva: La pace arriverà quando gli arabi ameranno i loro figli più di quanto odiano noi. Sarà molto, molto difficile per noi perdonarli per averci costretto a uccidere i loro figli.
Gridano Israele criminale, invocano alla nostra distruzione, incitano all’odio. Ma noi abbiamo ben altro a cui pensare: dobbiamo mandare avanti un intero paese, mantenerlo vivo e pensare a come risolvere i problemi come il lavoro, il mutuo, il rincaro dei prezzi, le migliaia di persone in depressione; e non possiamo fermarci per la nausea che ci causa chi non sa distinguere tra il bene e il male, tra stupro e violenza, tra odio puro e demolizione di rampe di lancio
Quindi non resta che respirare profondamente, alzare lo sguardo e continuare ad andare avanti. Eroicamente. Da soli come sempre.

(moked, 18 gennaio 2024)

........................................................


Criticato il voto del parlamento sudafricano per tagliare i legami con Israele

di Cristiano Volpi

Il più grande partito di opposizione in Sudafrica e il principale organismo rappresentativo ebraico hanno criticato la decisione del parlamento di interrompere le relazioni diplomatiche con Israele. La maggioranza dei parlamentari ha votato a favore della chiusura dell’ambasciata israeliana a Pretoria a causa delle azioni israeliane a Gaza.
  Durante una sessione accesa nel parlamento sudafricano martedì, tutti i membri dell’African National Congress al governo – che ha una lunga storia di solidarietà con i palestinesi – hanno votato a favore della rottura delle relazioni con Israele. Molti indossavano sciarpe palestinesi e hanno intonato canzoni dopo che la mozione – originariamente presentata dal partito di opposizione radicale Economic Freedom Fighters – è stata approvata.
   Il voto non ha valore vincolante, ma spetta ora al governo decidere se agire in base alla mozione. Il portavoce del presidente Cyril Ramaphosa, Vincent Magwenya, ha letto una dichiarazione. “Il presidente prende atto e apprezza l’orientamento del parlamento sulle nostre relazioni diplomatiche con Israele, in particolare per quanto riguarda lo status dell’ambasciata israeliana in Sudafrica”, ha detto Magwenya. “Il presidente e il gabinetto sono impegnati sulla questione, che rimane responsabilità dell’esecutivo nazionale”.
   Nella giornata del voto, Ramaphosa ha presieduto una riunione virtuale dei leader del gruppo BRICS dei paesi in via di sviluppo – che include Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – sulla situazione in Medio Oriente, dove gli ufficiali sanitari di Gaza sostengono che almeno 11.000 persone siano state uccise dalle operazioni militari israeliane.
   Durante la riunione del BRICS, il presidente cinese Xi Jinping ha descritto le azioni israeliane come “punizione collettiva” delle persone a Gaza, mentre Ramaphosa è andato ancora oltre. “Il volontario rifiuto di medicine, carburante, cibo e acqua ai residenti di Gaza equivale a un genocidio”, ha detto Ramaphosa.
   La principale opposizione sudafricana, Democratic Alliance, ha votato contro la mozione. Emma Powell, responsabile ombra per le relazioni internazionali e la cooperazione, ha avvertito che la rottura delle relazioni lascerebbe migliaia di sudafricani in Israele senza accesso a servizi consolari di emergenza e influirebbe sull’ufficio rappresentativo del Sudafrica a Ramallah. “L’ANC ha reso i nostri cittadini completamente intrappolati, senza possibilità di accedere all’assistenza diplomatica del loro governo”, ha detto Powell.
   L’ambasciata israeliana a Pretoria non era disponibile per commentare. L’ambasciatore di Israele è stato richiamato in Israele per consultazioni prima del voto parlamentare.
   Tuttavia, Mary Kluk, vicepresidente del South African Jewish Board of Deputies, un’organizzazione umbrellas rappresentante la considerevole comunità ebraica del paese, ha deplorato la decisione del parlamento. “Questo voto non aveva nulla a che fare con la pace, ed è stato confermato per me quando stavo guardando in televisione, il canto di ‘Dal Fiume al Mare’, una chiara chiamata alla distruzione dello stato ebraico”, ha detto Kluk.
   Di recente, il Sudafrica ha segnalato Israele alla Corte Penale Internazionale per presunti crimini di guerra a Gaza.
   Israele sostiene di agire in legittima difesa dopo che uomini armati del gruppo militante Hamas hanno ucciso circa 1.200 persone il 7 ottobre nell’attacco più mortale mai perpetrato contro civili israeliani nella storia dello Stato di Israele.

(africa24.it, 15 gennaio 2024)

........................................................


I civili di Gaza non sono innocenti

Se esiste una responsabilità collettiva per i crimini, allora questo è vero nel caso del 7 ottobre

di Tobias Huch

Tobias Huch
Nella percezione pubblica si fa una distinzione tra i "civili" di Gaza e l'organizzazione terroristica Hamas: quest'ultima viene presentata come la fonte dell'odio fanatico, come l'unico colpevole dei barbari attacchi contro il "land-grabber" Israele, mentre la "gente di Gaza" è un abitante pacifico che deve espiare ingiustamente i crimini dei terroristi e che è tanto impotente contro le bombe di Israele quanto in balia dei suoi governanti di Hamas. Si tratta di un pensiero in bianco e nero che difficilmente potrebbe essere più sbagliato.
   Sono stati i civili di Gaza a lavorare nei kibbutzim per un lungo periodo di tempo, apparentemente facendo amicizia con gli amanti della pace di queste piccole comunità, ma spiando i loro ospiti e datori di lavoro ebrei per conto di Hamas e quindi portandoli alla morte.

• Ostacoli alla sicurezza e gli obiettivi "più gratificanti
  Grazie a loro, gli attentatori sapevano esattamente come superare gli ostacoli alla sicurezza e quali fossero gli obiettivi "più remunerativi". La "gente di Gaza" aveva fatto in modo che i terroristi di Hamas sapessero come muoversi nei kibbutzim, così come gli stessi residenti.
   È anche un fatto che il 7 ottobre i civili di Gaza hanno ucciso, stuprato, torturato e rapito insieme ai terroristi. Ed è stato anche il "popolo di Gaza" ad esultare e festeggiare mentre venivano distribuiti dolci, proprio come nella Sonnenallee di Berlino nello stesso periodo. Molti civili hanno partecipato felicemente ai crimini di guerra. Non si possono negare le innumerevoli registrazioni video in cui gli ostaggi torturati vengono derisi, insultati e i corpi nudi di giovani israeliani vengono profanati.
   Secondo un sondaggio, circa due terzi dei residenti di Gaza hanno appoggiato i crimini del 7 ottobre. Si tratta di una cifra allarmante, che dimostra l'enorme sostegno di cui Hamas gode tra la popolazione. Se esiste una responsabilità collettiva per i crimini, allora questa si applica alla popolazione di Gaza. Questa è l'amara verità.

(Jüdische Allgemeine, 19 gennaio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

........................................................


Sei studenti ebrei denunciano Harvard per antisemitismo

di David Fiorentini

L’università di Harvard è stata citata in giudizio da sei studenti ebrei per accuse di discriminazione di matrice antisemita, in particolare per l’applicazione parziale e arbitraria delle sue politiche antidiscriminatorie, ignorando le richieste di protezione e supporto presentate dagli studenti ebrei.
   La denuncia di quasi 80 pagine, presentata presso il Tribunale distrettuale degli Stati Uniti a Boston, afferma che la “indifferenza deliberata” di Harvard favorisca l’antisemitismo, contravvenendo al Titolo VI del Civil Rights Act del 1964, il quale proibisce la discriminazione sulla base di razza, colore o origine nazionale da parte delle istituzioni che ricevono finanziamenti federali.
   Kestenbaum, uno dei querelanti, in un’intervista al The Crimson, ha affermato che “sebbene l’antisemitismo a Harvard non sia iniziato il 7 ottobre”, dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, è “schizzato alle stelle”, non lasciando altra via d’azione se non quella legale.
   Negli scorsi mesi, il noto ateneo americano ha dato spazio a numerose iniziative controverse e a volte anche violente che hanno portato all’esasperazione gli studenti di fede ebraica, costantemente tormentati per la loro vicinanza a Israele. Diversi gruppi studenteschi, tra cui Harvard BDS, Harvard Out of Occupied Palestine, la Harvard Islamic Society e l’Harvard Undergraduate Palestine Solidarity Committee, hanno diramato dichiarazioni molto problematiche, tra cui la più grave di aver definito Israele “interamente responsabile degli attacchi del 7 ottobre”.
   La denuncia richiede anche che l’università rifiuti e/o restituisca le donazioni “condizionate all’assunzione o promozione di professori che sostengono l’antisemitismo o all’inclusione di corsi o programmi di studio antisemiti”.
   In tale contesto, si collocano anche le recenti dimissioni della rettrice Gay, finita nell’occhio del ciclone durante un’udienza congressuale a Washington DC, dopo aver affermato che la condanna di episodi di antisemitismo “dipende dal contesto”. Ufficialmente l’allontanamento di Gay è dovuto a delle accuse concomitanti di plagio, tuttavia, il profilo della leadership universitaria è un ulteriore riflesso della criticità della situazione in campus.

(Bet Magazine Mosaico, 19 gennaio 2024)

........................................................


Voi non meritate il nostro dolore

“Come è successo che di colpo il male del mondo sia rappresentato solo dall’israeliano, dall’ebreo?”. Anticipazione del prossimo numero di Shalom Magazine dedicato alla memoria.

di Lia Levi

Lia Levi
Ci avete chiamati. Ci avete accolti con calore nelle vostre scuole. O anche in sale istituzionali dove abbiamo incontrato partecipi cittadini.
Avrete capito che sto alludendo a me ma, naturalmente, anche ai tanti ebrei della mia generazione che hanno scelto di testimoniare.
Ci avete chiesto frastornati “ma perché non vi siete difesi?”. Ci avete chiesto indignati “Come è possibile che il nostro pianeta abbia permesso questa strage?”. Gli abitanti dei paesi contigui sapevano, dicevate. Sapevano di quella colossale industria della morte ad un passo da casa loro. Potevano provare a gridarlo forte.
Ammirevoli docenti hanno diviso con noi lo sforzo di far percepire tracce di quel racconto che non si può raccontare. Validi sindaci di numerose città hanno organizzato per voi viaggi nei campi dello Sterminio. Molti ragazzi ne sono usciti sconvolti, qualcuno non riusciva più a destreggiarsi in mezzo a quel tumulto di emozioni.
Sia chiaro però. Non era la trasmissione della sofferenza che volevamo riversare su voi. Ci mancherebbe! Era solo un invito a mettere in moto la conoscenza, quella che, se funziona, si trasforma in coscienza.
È appena capitata l’occasione di parlarvi del 16 Ottobre (1943) data simbolo della retata di ebrei italiani per mano degli invasori tedeschi.
Sono passati ottanta anni da quel sabato nero.
E ora?
Come è possibile? Come è possibile che sia successo ancora una volta? Un altro ottobre del tutto simile a “quell’ottobre lì”.
Di nuovo porte ebraiche abbattute con violenza. E con la stessa mirata violenza strage di giovani in festa, di neonati al calore delle loro madri, di bambini e giocattoli, di anziani all’insegna di una aggrovigliata saggezza, di donne braccate come prede.
“L’irraccontabile” è riuscito a riproporsi. Non ci avremmo mai creduto.
E cosa ha risposto l’opinione pubblica? Intendo dire molti tra quelli che ci domandavano “perché non vi siete difesi?”.
Ora ci siamo difesi e voi avete incominciato (o ricominciato) a odiarci.
Un attimo di raccapriccio appena appresa la notizia, questo sì, ma proprio un attimo.
Subito dopo, ecco riaffiorare i “però”, e i “ma”, “insomma è Israele il vero colpevole di quanto è accaduto. Israele che non ha mai voluto prendere atto dei diritti del popolo palestinese”.
Ho detto “subito dopo” non per caso. Va ricordato che questa presa di distanza è cominciata ben prima che lo Stato ebraico desse inizio all’attacco di risposta nella striscia di Gaza. La guerra è sempre terribile e nessuno di noi, ebrei o non ebrei, riesce ad emergere dall’angoscia di fronte alle tragiche immagini di civili innocenti martoriati che scorrono davanti ai nostri occhi. Ma questa condivisione dovrebbe trovare riscontro anche dall’altra parte. Come è successo che di colpo il male del mondo sia rappresentato solo dall’israeliano o, in modo più spicciativo, dall’ebreo?
Ma come mai i predoni del 7 ottobre 2023 si vantavano al telefono con un “mamma! Ho ucciso 30 ebrei”. Ebrei, non Israeliani. La cosiddetta giustificazione politica ha mostrato il suo vero volto. Si tratta solo del classico antico odio antisemita.
Su questi particolari però l’opinione pubblica preferisce non soffermarsi. Non ci ha messo molto tempo a far sua la vecchia-nuova variante.
Un altro chiarimento però. Non è andata così per tutti. Le menti pensanti, coloro che formano il loro giudizio basandosi sulla conoscenza, su studi specifici, sulla difesa dei valori democratici, hanno fatto sentire in gran numero la loro voce.
Per quello che mi riguarda personalmente posso affermare, senza aver inforcato i classici occhiali rosa, che nella mia cerchia nessuno ha pensato di schierarsi coi nemici dello Stato ebraico. Ne vedevano gli errori politici, questo sì, ma anche noi ebrei li vediamo e ci ragioniamo sopra.
Io parlavo di “opinione pubblica” riferendomi alle ondate che hanno invaso le piazze, le scuole, le Università, là dove si gridava “sono con Hamas” senza pensare (o forse sì) che con una piccola frase stavi aderendo al “morte agli Ebrei” unico vero obiettivo della Hamas-militanza.
Ed ecco di conseguenza gli israeliani e gli ebrei respinti dalle fiaccolate, dalla Marcia della Pace, dal manifestare contro la violenza sulle donne, mentre la Rettrice di una Università americana di fronte al quesito: “invocare il genocidio degli ebrei viola le nostre regole di condotta?” sceglie di rispondere “dipende dal contesto”.
Ma allora l’attenzione che ci avevate dedicato nelle vostre aule non era autentica. Ha fatto così presto a volar via!
È volata via per correre a far parte di quel paradiso progressista (così l’ha chiamato lo scrittore israeliano Etgar Keret) dove scatta dall’alto una specie di parola d’ordine. È là che si fanno scelte tra Stati buoni e Stati malvagi. Va da sé che Israele rientra nella seconda categoria.
È per questo che mi sento di dirvi: VOI NON MERITATE IL NOSTRO DOLORE.
Il dolore è sacro. Il dolore ha bisogno di grande rispetto. Chiunque non lo percepisce nel suo senso profondo, profana e immiserisce anche la tua sofferenza. Un mi dispiace e via non ci aiuta, anzi.
Su come rapportarci quest’anno con le celebrazioni del Giorno della Memoria si sta molto discutendo in ambienti ebraici. Non è facile individuare la posizione giusta. L’ebraismo è una religione di studi, di dubbi, domande e discussioni. Il dogma non esiste. Ognuno farà la sua scelta giusta o sbagliata.
Per quello che mi riguarda sono assillata dai dubbi.
È vero: ho appena espresso quel voi non meritate il nostro dolore e quindi la mia risposta dovrebbe essere di conseguenza.
Invece no. Il pessimismo è un lusso che l’ebraismo non si può permettere ha scritto un Nobel della letteratura.
Non è solo questo. Nelle scuole che comunque ci attendono i ragazzi ascolteranno quello che, nei nostri limiti, cercheremo ancora di trasmettere. Forse qualcosa gli resterà dentro.
Parafrasando il celebre “chi salva una vita salva il mondo” mi viene da immaginare che chi contribuisce a salvare una coscienza potrà salvare il pensare del mondo.

(Shalom, 14 gennaio 2024)

........................................................


Lettere al direttore ispirano i nostri coraggiosi soldati

La redazione di “Israel Heute” ha ricevuto centinaia di lettere destinate ai soldati. La scorsa settimana, alcune sono state consegnate ai nostri soldati a Gaza.

di Michael Selutin

I soldati sono felici del sostegno dall'estero. Foto: Rami Levi
Saluti dal carro armato. Foto: Rami Levi
"Grazie mille a Israel Heute, mi avete toccato il cuore", ha detto uno dei soldati a Rami. "Grazie ai nostri amici all'estero", ha detto un altro soldato. "Vi vogliamo bene!"
VIDEO
Soprattutto in tempo di guerra, noi israeliani abbiamo la sensazione di essere soli contro il mondo, e nel conflitto attuale questa sensazione è ancora più forte che mai. L'ONU, la Corte internazionale di giustizia, vari Paesi e celebrità sembrano aver cospirato contro lo Stato ebraico.
È bene ricordare che all'estero ci sono persone che non solo sono dalla nostra parte, ma addirittura pregano per noi. I soldati di un'unità corazzata nella Striscia di Gaza lo hanno sentito la scorsa settimana quando abbiamo inviato loro alcune lettere che i lettori di Israel Heute avevano scritto per loro.
Il nostro collega Rami Levi, che dallo scoppio della guerra guida grandi veicoli blindati da trasporto in tutto il Paese, ha consegnato 50 lettere a un'unità di combattimento di stanza nella Striscia di Gaza. In precedenza avevamo tradotto in ebraico alcune e-mail dei nostri lettori dal tedesco, dall'inglese e dall'olandese e le avevamo stampate. Devo ammettere che sono stato molto toccato dall'amore e dal sostegno dei mittenti durante questo lavoro, ma per i soldati questo sentimento è stato molto più forte.
I nostri soldati a Gaza sanno bene che non combattono solo per il loro Paese e le loro famiglie, ma anche per il Dio di Israele e contro il male che minaccia il mondo intero. Tuttavia, dopo aver letto le lettere, ora capiscono anche che non sono soli. Il sostegno dei lettori di Israel Heute ha toccato profondamente i soldati. Soprattutto, sono felici del fatto che quasi tutte le lettere menzionano che si prega per loro.
50 soldati hanno ora una lettera di un sostenitore all'estero, che darà loro forza anche nei momenti difficili. Tuttavia, abbiamo ricevuto centinaia di lettere da tutto il mondo che non abbiamo ancora consegnato. Stiamo aspettando che Rami passi di nuovo dalla nostra redazione a Gerusalemme e porti con sé alcune lettere per i nostri coraggiosi soldati insieme ai suoi carri armati.

(Israel Heute, 19 gennaio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

........................................................


La chiarezza necessaria

di Niram Ferretti

Con nettezza e incisività, il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, ha detto quello che doveva essere detto e che finora non era stato detto in merito a come la Chiesa stia gestendo con comunicati, dichiarazioni e azioni l’attuale guerra tra Israele e Hamas.
Lo ha fatto all’Università pontificia Gregoriana, il principale ateneo dei gesuiti a Roma, in occasione della trentacinquesima giornata di dialogo tra cattolici ed ebrei.
Dall’equiparazione fatta da Monsignor Ravasi tra Israele e Lamech, dalla kefiah indossata da Monsignor Pizzaballa a Gerusalemme nel corso della Messa natalizia, dalla riproposizione da parte del vescovo di Anversa degli ebrei in chiave blut und boden, questo è solo un piccolo campionario di quanto si è ascoltato e letto recentemente in ambito cattolico.
Di Segni ha parlato di “teologia regredita”, perché di questo effettivamente si tratta, di un passo indietro, della riproposizione di stereotipi preconciliari, di idee derivate da quella teologia di ispirazione marcionita che dalla dichiarazione Nostra Aetate in poi la Chiesa ha respinto insieme all’accusa di deicidio e alla teologia della sostituzione.
Di Segni ha anche sottolineato come non sia possibile confondere le categorie morali, non rendersi conto che il male non è rappresentato da Israele che si difende ma da Hamas.
Chiunque non abbia infatti smarrito le più elementari categorie morali è in grado di intendere che il male è Hamas e che Israele sta combattendo contro questo male.
Il male è chi, il 7 ottobre 2023, è entrato in Israele, uccidendo, mutilando, stuprando, decapitando e portandosi appresso come trofei macabri da vendere, le teste dei decapitati, non Israele che si difende e ha come scopo quello di distruggere a Gaza la struttura operativa che ha reso possibile questo orrore.
Purtroppo oggi, a partire dai suoi vertici, la Chiesa ha smarrito il senso chiaro della posta in gioco e la nettezza delle distinzioni, introiettando la vittimologia palestinese e, cosa ancora più grave per il dialogo ebraico-cristiano, riattivando categorie di pensiero radicate da quell’antigiudaismo ecclesiastico che troppo ottimisticamente si era creduto fossero state ormai consegnate al macero della storia.

(L'informale, 19 gennaio 2024)
____________________

Il "dialogo ebraico-cristiano" è sempre stato viziato dal fatto che per "cristiano" gli ebrei italiani hanno sempre voluto intendere il cattolicesimo istituzionale. Il disagio ora viene fuori perché il reale confronto avrebbe dovuto avere come titolo "Il confronto Israele-Vaticano", e in questa forma il "dialogo" sarebbe stato subito molto più difficile. Di Segni ha parlato di "teologia regredita", ma nel caso del pensiero papale si tratta di "teologia applicata". M.C.

........................................................


Parashà di Bo: ‘Am Israel Chai'

di Donato Grosser

La prima mitzvà per il popolo d’Israele appare in questa parashà dove è scritto: “l’Eterno parlò a Moshè e ad Aharon nel paese d’Egitto, dicendo: Questo mese sarà per voi il primo dei mesi: sarà per voi il primo dei mesi dell’anno” (Shemòt, 12: 1-2). ​
    Rashì (Troyes, 1040-1105) commenta che il Signore mostrò a Moshè la luna nuova dicendogli che il capo mese cade quando la luna si rinnova.
    ​R. Joseph Pacifici (Firenze, 1928-2021, Modiin Illit) in Hearòt ve- He’aròt (p.73) scrive che la luna non vive di luce propria: una faccia è volta verso il sole dal quale riceve la luce. Se la parte illuminata della luna è rivolta verso la terra, diciamo che è luna piena. Se la parte oscura della luna è rivolta verso la terra, non la vediamo del tutto. Alla vigilia del capo mese la parte oscura della luna è rivolta verso la terra. Nel capo mese vediamo la luna nuova […]. Il popolo d’Israele è come la luna che si rinnova. Non come le nazioni del mondo che quando vengono colpite spariscono dall’orizzonte. I popolo d’Israele sa come rinnovarsi nonostante tutte i colpi che riceve. Nella nostra generazione vi è stata una Shoà fisica e spirituale. Con tutto ciò continuiamo a rinnovarci e a diventare più forti.
    ​R. Hershel Schachter (Scranton, 1941) in Insights and Attitudes (p. 91) scrive che nell’ultimo versetto della haftarà di questa parashà, il navì (profeta) Yirmeyàhu (Geremia, 46:28) parla dell’ascesa e della caduta di tutte le civiltà eccetto “il mio servo Ya’akòv”. Il popolo d’Israele è eterno. Nel Midràsh (Tanchumà Vayetzè, 2) i maestri commentano il sogno nel quale Ya’akòv vide angeli che salivano e che scendevano su una scala. Gli angeli del sogno rappresentano gli angeli che guidano le varie nazioni del mondo. Ogni nazione avrà un suo ciclo naturale di ascesa e di caduta. Il popolo d’Israele è un’eccezione. Anche il navì Malakhì (Malachia, 3:6) profetizza che “Io sono il Signore e non cambio, e voi, figli di Ya’akòv non avete cessato di esistere”.
    ​I Maestri nel trattato talmudico Bavà Batrà (116b) affermano che non solo è inconcepibile che l’intero popolo d’Israele sparisca, ma la cosa vale anche per una delle dodici tribù. (E Rabbenu Gershòm nel trattato ‘Arakhìn (32b) scrive che abbiamo una tradizione che il popolo d’Israele in ogni epoca non ha mai meno di seicentomila uomini).
    ​R. Schachter afferma che Maimonide (Cordova, 1138-1204) nel Sèfer ha-MItzvòt (prescrittive 153) aggiunge un interessante commento a queste profezie. Il Signore non ha solo promesso che ci saranno sempre degli individui che sopravvivranno a qualunque distruzione, ma che anche la collettività d’Israele (kelàl Israel) sopravvivrà. Il Maimonide intende dire che ci sarà sempre un minimo di un minyàn di dieci ebrei in Eretz Israel. Se si potesse immaginare l’esistenza di milioni di ebrei nella Diaspora ma nessuno in Eretz Israel, significherebbe che Israele ha cessato di esistere come collettività. Questo perché gli ebrei della Diaspora sono considerati solo individui. Solo quelli che abitano in Eretz Israel sono considerati “collettività”.
    ​Il Maimonide aggiunge (ibid.) che questo è anche il motivo per cui il Bet Din, tribunale, autorizzato a stabilire il capo mese deve riunirsi in Eretz Israel. Questo Bet Din agisce in quanto rappresentante della collettività d’Israele; la stessa collettività che ricevette l’incarico di stabilire il capi mese (come scritto nelle nostra parashà).

(Shalom, 19 gennaio 2024)
____________________

Parashà della settimana: Bo (Vai)

........................................................


Le forze di Israele: uccisi 40 membri di Hamas a Khan Younis

Proseguono gli scontri anche nel nord

Le unità delle Forze di difesa israeliane (Idf) operative nell’area di Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza, hanno ucciso circa 40 presunti membri del movimento islamista palestinese Hamas nelle ultime 24 ore. Lo hanno reso noto le stesse Idf su X (ex Twitter), secondo cui, a Khan Younis, la settima Brigata corazzata ha colpito “quattro uomini armati di Hamas che si stavano avvicinando alle truppe”, mentre i militari dell’unità militare speciale Egoz hanno sequestrato alcune armi nella casa di un membro di Hamas.
  Nel frattempo, nel nord di Gaza, i riservisti della quinta Brigata hanno ucciso “due uomini armati” mentre tentavano di “tendere un’imboscata” ai militari israeliani. Diversi altri combattenti di Hamas sarebbero stati uccisi in attacchi aerei nel nord della Striscia. Nella stessa area, i riservisti della Brigata Yiftah hanno individuato e diretto un attacco aereo contro alcuni presunti membri del movimento palestinese della Jihad islamica che “stavano preparando un’auto con materiali esplosivi”.
  Nell’attacco, anche l’auto è stata colpita, provocando “una grande esplosione secondaria”, hanno aggiunto le Idf. Infine, nel quartiere Sabra di Gaza City, i riservisti della 179esima Brigata corazzata avrebbero trovato un deposito di mine anticarro, lanciarazzi Rpg e altre attrezzature militari.

(Agenzia Nova, 18 gennaio 2024)

........................................................


Una divisione israeliana esce da Gaza

di Ugo Volli

• IL RITIRO DELLA GOLANI
FOTO
In maniera ordinata, tranquilla e senza troppa pubblicità, Israele ha ritirato nei giorni scorsi un’intera divisione da Gaza, circa 20mila combattenti. Non si tratta di riservisti. Ne fanno parte alcuni dei migliori reparti di carri armati e del genio e la maggior parte della mitica brigata Golani. È una decisione importante, anche se il senso non ne è chiarissimo. Il portavoce dell’esercito ha parlato della necessità di concedere turni di riposo ai soldati che sono al fronte da quasi tre mesi e di aggiornare il loro addestramento. È stata data anche pubblicità alle immagini di un altro reparto ritirato già qualche giorno fa, mentre si addestrava sotto gli occhi del Capo di Stato Maggiore a un’operazione di terra in Libano, che avrebbe caratteristiche assai diverse da quelle di Gaza, sia per la configurazione aspra e montagnosa del terreno, con valli strette che rendono difficile la manovra dei carri e anche degli elicotteri, sia per la maggiore probabilità di scontri frontali con le milizie di Hezbollah, meglio armate e addestrate di quelle di Hamas. Dunque il ritiro da Gaza potrebbe preludere a un incremento della guerra al nord, motivato sia dalla persistenza di attacchi dei terroristi, sia dalla necessità di eliminare la loro potenza militare e obbligarli a rispettare la delibera 1701 dell’Onu, approvata nel 2006 dopo la fine della seconda guerra del Libano, che li obbliga a non avvicinarsi al confine con Israele a meno di una ventina di chilometri. Ciò è necessario per permettere agli abitanti dell’Alta Galilea di tornare a casa e di riprendere una vita normale.

• LE DICHIARAZIONI DI GALLANT
  Una seconda e non incompatibile spiegazione sta in una dichiarazione del ministro della Difesa Yoav Gallant, che risale a lunedì. “La fase intensa di manovre nel nord della Striscia di Gaza è terminata, e anche nel sud finirà presto. Circa tre mesi fa abbiamo specificato le fasi di attuazione e chiarito che la fase di manovra intensiva sarebbe durata circa tre mesi. Nel nord della Striscia di Gaza, questa fase si è conclusa”, ha detto il ministro della Difesa, che ha segnalato poi l’imminente fine delle operazioni pesanti di combattimento nella parte meridionale di Gaza. Tuttavia, anzitutto, Hamas continua a sparare i suoi missili contro Israele (cinquanta negli ultimi tre giorni); inoltre, vi sono ancora numerose segnalazioni di combattimenti in varie località della Striscia e anche di zone in cui Hamas agisce ancora come il potere sovrano sul territorio: ciò consente all’organizzazione terroristica di prelevare i soccorsi umanitari che arrivano tramite il valico di Kerem Shalom o di imporre tasse su di esse, riuscendo a porre esose condizioni per la fornitura di medicinali ai rapiti che è accaduta ieri per la prima volta, dopo una complessa mediazione fra Egitto, Qatar e Usa, richiedendo che le siano consegnati una quantità di medicinali pari a 50 volte quelli destinati ai sequestrati. Ieri Hamas si è anche presa il lusso di una dichiarazione in cui rifiuta esplicitamente l’obiettivo politico dei due stati, sostenuto da Europa e Usa, per riaffermare il progetto della distruzione totale di Israele.

• LA CONTINUAZIONE DELLA GUERRA
  Anche le ultime dichiarazioni dell’ufficio di Netanyahu sembrano escludere che il ritiro costituisca l’anticamera del cessate il fuoco, come alcuni vorrebbero: “Gli obiettivi della guerra sono ben noti: primo fra tutti l’eliminazione di Hamas, il rilascio dei nostri ostaggi e la sicurezza che Gaza non rappresenterà mai una minaccia per Israele. Il primo ministro Netanyahu non intende scendere a compromessi su questi obiettivi e insiste affinché siano pienamente raggiunti”, ha affermato l’ufficio del primo ministro. In un discorso, Netanyahu si è spinto a prevedere che la guerra durerà ancora nel 2025. Che cosa spiega allora il ritiro di alcune truppe da Gaza? Da un lato vi è un cambio di tattica, la scelta di agire per missioni veloci e non tenendo soldati impegnati a occupare staticamente il territorio. Dall’altro bisogna leggervi una cessione alle pressioni americane, che per ideologia ma anche per ragioni elettorali interne vogliono assolutamente poter dire che hanno ottenuto una de-escalation dell’azione militare di Israele. Certamente questa pressione rende più complicata l’azione bellica. Ma è difficile dal di fuori giudicare l’equilibrio stabilito dal gabinetto di guerra israeliano fra la volontà di un alleato essenziale come gli Usa e le necessita della guerra.

(Shalom, 18 gennaio 2024)

........................................................


100 giorni di guerra: 500 soldati e 60 ufficiali IDF sono caduti per la difesa di Israele

Israele, dopo tre mesi di guerra ora le autorità pubblicano i nomi dei cinquecentoventinove soldati morti finora e dei sessanta ufficiali uccisi negli scontri coi terroristi di Hamas 

di Roberto Zadik

Da quel terribile 7 ottobre, Israele sta attraversando uno dei suoi momenti più duri di sempre e, per la prima volta, l’esercito israeliano ha pubblicato la lista dei nomi degli oltre cinquecento soldati morti nella Guerra a Gaza e dei sessanta ufficiali di polizia uccisi negli scontri coi terroristi di Hamas.
   Un bilancio decisamente pesante, specie si si considerano le dimensioni assai ridotte del Paese e l’età decisamente prematura dei caduti, quasi tutti sotto i cinquant’anni.
   A fornire l’elenco completo delle vittime, le forze di Difesa Israeliane dell’IDF in un articolo pubblicato recentemente sul Times of Israel e firmato da Emanuel Fabian. Uccisi nelle situazioni più disparate, primi fra tutti i sanguinosi scontri sul confine della Striscia di Gaza con oltre centonovantatré morti durante l’offensiva terrestre quando le truppe militari sono penetrate  nel territorio e nei nascondigli dei miliziani di Hamas.
   Nell’elenco compaiono, oltre ai militari anche gli ufficiali di polizia, circa cinquantasette uccisi negli scontri sempre al confine con Gaza, un ufficiale ucciso in un attentato a Gerusalemme e due colleghi periti nei combattimenti nella zona del West Bank. Stando alle stime complessive del Times of Israel e dell’Idf, circa milleduecento persone sarebbero decedute in un solo giorno che nessuno potrà mai dimenticare, quel 7 ottobre, quando i terroristi si sono infiltrati in kibbutz e villaggi, compiendo ogni tipo di efferatezze, scatenandosi contro e civili nelle loro case e contro le postazioni militari, colpendo chiunque capitasse a tiro lungo le strade, mentre da Gaza partivano migliaia di missili a lunga gittata.
   Per non parlare dei rapimenti di duecentoquaranta civili e soldati trascinati a forza a Gaza, dei soldati e dei riservisti che sono stati uccisi negli attacchi messi a segno dagli Hezbollah e dalle spietate milizie della Jihad al confine col Libano. Il dettagliato elenco comprende anche i soldati uccisi accidentalmente dal cosiddetto “fuoco amico”  e una serie di militari morti in incidenti collegati ai combattimenti.
   Successivamente l’articolo è passato alla compilazione dei nomi, accompagnati dalle età e da una succinta biografia. Fra i soldati morti ci sono giovani colonnelli come Jonathan Steinberg, quarantaduenne e comandante delle Brigate Nahal ucciso la mattina del 7 ottobre dai terroristi, il colonnello Roy Levy, quarantaquattro anni, a capo dell’Unità detta “Fantasma” del gruppo Shavei Tzion, ucciso assieme al suo esercito nel Kibbutz di Re’im mentre come ha specificato la nota dell’esercito “guidava coraggiosamente la sua squadra cercando di salvare i cittadini assaliti nelle loro case dai terroristi. Negli scontri sono morti anche dieci terroristi”.
   Nel lungo e doloroso elenco vari soldati morti per difendere Kibbutzim e aree densamente popolate, come il Colonnello Asaf Hamami, che a soli quarantun anni è stato ucciso nel Kibbutz di Nirim e il suo corpo preso da Hamas e ritrovato nella Striscia di Gaza. Fra i militari più giovani, ventenni come il Maggiore Roei Meldasi, ucciso a soli ventitré anni e comandante del tredicesimo Battaglione della Brigata Golani, il suo collega e coetaneo Moshe Avram Bar On comandante della stessa Brigata. Poco più che ventenni sono morti anche vari Capitani dell’esercito, come il ventiduenne Beni Wais di Haifa comandante della Brigata Armored e il suo coetaneo Oshri Moshe Butzhak comandante della Brigata Nahal.
   Molto diversificati per età, dai venti ai cinquanta, con alcuni riservisti sessantenni; per grado militare, dai Colonnelli ai Sergenti ai Capitani.
   Si tratta di un bilancio molto pesante e ancora provvisorio di questo lungo e difficile conflitto che si sta consumando con Hamas e non solo. L’articolo ha pubblicato i nomi degli ufficiali di polizia  che, come ha specificato l’esercito, “hanno resistito come i soldati con fermezza nella battaglia contro il nemico”. Fra questi i Comandante Yitzhak Buzukashvili della stazione di Segev Shalom, il Comandante Jayar Davidov della stazione di Rahat e il Sovrintendente Moshe El Shlomo ufficiale dell’unità antiterrorismo Yamam.

(Bet Magazine Mosaico, 18 gennaio 2024)

........................................................


Pomodori di guerra nel deserto

In una missione in Israele, un gruppo tedesco contribuisce ad alleviare l'emergenza agricola. Vivono particolari incontri con gli israeliani.

di Norina Welteke*

Volontari tedeschi in azione
Ore 5.30, la sveglia suona senza sosta. Qui in Israele non sono abituata ad alzarmi quando è ancora buio. Ma l'autobus non ci aspetta. Parte dalla piazza centrale di Nitzana alle 6 in punto per portare noi volontari ai nostri posti di lavoro. Ci si alza, si indossano i vestiti sporchi del giorno prima, ci si rinfresca nello scarno bagno. La mattina nel deserto è ancora fredda, ma presto cambierà con il sole e il lavoro nell'aria calda e umida della serra.
Sono con un gruppo di giovani adulti di Mühle Weingarten e.V., un centro di preghiera, discepolato e missione della Germania meridionale. Il personale e alcuni studenti della loro scuola di discepolato si sono recati in Israele per servire concretamente il Paese e il suo popolo in questo momento difficile.
Dopo l'attacco terroristico a Israele del 7 ottobre 2023 e il successivo scoppio della guerra tra Israele e Hamas, è stata dichiarata l'emergenza agricola in tutto il Paese. La maggior parte della forza lavoro precedente è stata arruolata nell'esercito o ha lasciato il Paese.

• IL GRUPPO DEL MULINO WEINGARTEN
  Dall'inizio della guerra, io stesso ho partecipato più volte a missioni di volontariato per fare la mia parte a favore della comunità israeliana gravemente colpita e ferita. Dall'11 al 15 dicembre, in concomitanza con la settimana di Hanukkah, mi sono unita a questo gruppo del Mulino Weingarten, il cui leader Stefan Lepp era anche lui presente.
In risposta alla guerra in Israele e all'aumento dell'antisemitismo nelle strade della Germania, lui e il suo gruppo hanno deciso di inviare un segnale chiaro e di prendere una posizione concreta a fianco di Israele. "Il nostro obiettivo è quello di dare un volto all'affermata solidarietà della politica tedesca e di cercare e mantenere i contatti con gli ebrei e gli israeliani, soprattutto in questi tempi", afferma Stefan Lepp.

Il gruppo del Mulino Weingarten
Siamo arrivati nel villaggio vicino al confine egiziano a mezzanotte di domenica e siamo partiti presto lunedì mattina. Abbiamo lavorato duramente prima di rilassarci nel pomeriggio: Abbiamo piantato 16.000 piantine di coriandolo, ripulito i campi di menta, preparato i campi di cetrioli per le nuove piante e investito due intere giornate di lavoro nella potatura di 8.000 piante di pomodoro.

• VISITA ALL'EQUIPAGGIO DI UN CARRO ARMATO FEMMINILE
  Un pomeriggio, un carro armato è apparso improvvisamente sulla collina fuori dal villaggio, nelle immediate vicinanze del nostro alloggio. Senza ulteriori indugi, abbiamo portato dei biscotti natalizi all'equipaggio del carro armato, tutte donne, e abbiamo chiacchierato con le soldatesse. Sono rimaste piacevolmente sorprese dalla nostra breve visita. La presenza militare fa parte della vita quotidiana in Israele.
Entrambi gli agricoltori con cui abbiamo lavorato durante il periodo sono stati commossi e grati per il lavoro svolto. Alla fine, uno di loro ci ha portato nel deserto, ci ha servito del tè in stile beduino e ci ha spiegato come la gente del posto si diverte tra le dune di sabbia. Quando gli abbiamo cantato "Quanto è grande il nostro Dio" per salutarci, ha dovuto asciugarsi qualche lacrima dietro gli occhiali da sole.

• INCONTRO SPECIALE DI SHABBAT
  Un altro incontro speciale è stata la celebrazione dello Shabbat di venerdì sera con una famiglia di ebrei ortodossi di Gerusalemme. Dopo una certa distanza e stranezza iniziale, tutti i partecipanti hanno riferito di conversazioni estremamente calorose e profonde.
Sabato e domenica, Ralph Lewinson, un sopravvissuto al massacro nel Kibbutz Be'eri, ci ha fatto visitare la Città Vecchia di Gerusalemme e i luoghi centrali del Mar di Galilea. I suoi racconti delle esperienze vissute il 7 ottobre sono stati toccanti, il suo aggrapparsi alla vita e la sua speranza per la ricostruzione della comunità profondamente commoventi.
Il gruppo del Mulino Weingarten si è recato in Israele per servire il popolo. Sono tornati con il cuore pieno di incontri speciali e di impressioni stimolanti. In seguito, ho sentito dire dalla maggior parte di loro che avrebbero voluto rimanere in Terra Santa o tornare subito. Sono venuti per portare benedizione e hanno ricevuto loro stessi la benedizione.
In futuro, l'associazione Mulino Weingarten vorrebbe continuare a fornire sostegno nelle aree di crisi e di catastrofe dove c'è bisogno di intervenire.
------------
* Norina Welteke ha 24 anni ed è cresciuta a Berlino. Vive a Gerusalemme dal settembre 2023 e sta studiando per un master in Studi sui conflitti all'Università Ebraica. Lavora come rappresentante politico dell'Alleanza evangelica in Germania.

(Israelnetz, 18 gennaio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

........................................................


“Shoah e genocidio a Gaza”, iniziativa choc dell’Anpi

Le edizioni online di diverse testate giornalistiche hanno scritto di una bufera che si è abbattuta sull’Anpi per l’iniziativa che paragona la Shoah a quello che sta succedendo a Gaza.
Bufera ci pare un termine assai edulcorato per quella che in realtà è una vergogna. Paragonare le modalità di attacco naziste con quelle di difesa israeliane è quanto di più aberrante si possa fare.
Non è così per l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia che per il 27 gennaio, giornata della Memoria, ha organizzato un incontro al circolo di Antella, frazione del comune di Bagno a Ripoli, nella città metropolitana di Firenze, dal titolo:

    “Mai più: ottanta anni fa lo sterminio del popolo ebraico da parte dei nazisti. Oggi il genocidio del popolo palestinese da parte dello stato di Israele”.

Tra gli organizzatori c’è la sezione ripolese Anpi insieme ad AssoPace Palestina e tra gli interventi sono previsti quelli di Izzedin Elzir e di Bilal Murar, rispettivamente imam di Firenze ed esponente della comunità palestinese di Firenze e Toscana.
Nel volantino è scritto:

    “La giornata della Memoria accomuna due tragedie disumane che offendono e feriscono la coscienza di ogni individuo”.

Disumano è fare paragoni tra la Shoah e Gaza. Disumano è mascherare il proprio antisemitismo con una parvenza di finta posizione per la pace.
Hamas è un’organizzazione terroristica, formata da assassini, macellai e stupratori, Israele una democrazia imperfetta, come tutte le democrazie del mondo.
La Comunità Ebraica di Firenze ha espresso “sconcerto”:

    “Dispiace dover ricordare a chi dovrebbe per proprio statuto avere a cuore la memoria della barbarie fascista, che il ventisette di gennaio è una legge dello Stato istituita proprio per riflettere sui crimini del fascismo italiano e la complicità con il nazismo”.

Sulla stessa lunghezza d’onda Marco Carrai, console onorario di Israele per Toscana, Emilia Romagna e Lombardia, che in una nota ha dichiarato:

    “Leggo con stupore e sconcerto che il 27 gennaio, giornata della memoria che ricorda l’Olocausto del popolo ebraico scientemente programmato e realizzato da Hitler e i suoi alleati, al circolo Crc Antella (alle porte di Firenze) si organizzi una manifestazione alla presenza dell’Imam di Firenze in cui si accosta la guerra contro Hamas alla Shoah. Il rammarico si fa ancora più pesante leggendo che uno degli organizzatori è la sezione locale dell’Anpi. Vorrei ricordare che mentre la brigata ebraica era al fianco della resistenza italiana nella lotta all’antifascismo il Gran Muftì di Gerusalemme era alleato di Hitler in Palestina e persecutore degli ebrei. Solo come memoria storica visto che di questo stiamo parlando. Spero che tutte le istituzioni prendano una netta e chiara posizione contro questo ulteriore sfregio alla memoria e al popolo ebraico”.

Cos’altro aggiungere?

(Progetto Dreyfus, 17 gennaio 2024)

........................................................


Il compleanno di Kfir nelle mani di Hamas

Domani l'ostaggio più piccolo dei terroristi compirà un anno. Nel terrore e senza mamma e papà.

di Fiamma Nirenstein

FOTO
La creaturina «gingi», come si definisce in ebraico una persona coi capelli rossi, è ormai Israel stessa, tutti sognano Kfir Bibas e suo fratello Ariel ogni soldato sogna di salvarli in fondo a una galleria oscura, ogni manifestazione ne inalbera i bei ritratti. Il 18 gennaio Kfir, il fagottino che non vede la luce del sole da 103 giorni, avrà un anno. Tre mesi fa le sue foto e i film che abbiamo visto tutti ormai, in tutte le parti del mondo, sembravano disegnare l'infanzia più felice del mondo: Kfir ha un sorriso più largo della sua faccia rosea, più largo della vita, qui gioca insieme a suo fratello di quattro anni Ariel, là lo baciano la mamma Shiri e il papà Yarden, due giovani di 32 e 34 anni.
   Il 7 di ottobre i due bambini, due cuccioli di leone, mentre piovono senza sosta i missili, secondo il testo che la mamma manda sul telefonino alla sorella, capiscono cosa sta accadendo, sono agitati, incontenibili; i terroristi sono entrati nel loro kibbutz, Nir Oz. Dopo aver scritto alle 9,45 «Sono entrati» e «Vi amo» alla famiglia, la prossima notizia e anche l'ultima di Shiri sarà il volto disperato, lo sguardo incredulo e terrorizzato della giovane donna mentre i terroristi la trascinano via e lei tiene ambedue i bambini stretti, invano. Tutta la famiglia è stata rapita. Yarden si rivedrà in fotografia e in un filmino, sanguinate dalla testa.
   Israele è in agonia per i Bibas ma soprattutto per quel bambino meraviglioso e per suo fratello, i piccoli che hanno dovuto incontrare l'inferno, l'odio di cui non avevano idea, lo sfregio fisico che ora li tieni chiusi al buio da 103 giorni che li affama, li asseta, li perseguita: senza saperlo essi sono il fiore all'occhiello di Hamas, l'Oscar all'antisemitismo mondiale, il Nobel della crudeltà e dell'orrore. Questo Hamas vuole: usare il meglio per ottenere il peggio, distruggere la vita per ottenere la guerra e la morte del nemico e la propria. L'incertezza per cui Israele si ostina a ritenere vivi i bambini anche se Hamas li ha dichiarati morti, aggiunge una tensione intollerabile alla guerra psicologica che Sinwar sa inventare usando la sofferenza degli ostaggi, come si è visto anche dai film di questi giorni, per ridurre il mondo intero in ginocchio a chiedere pietà per gli innocenti e piegarsi alla sua volontà. L'ambasciatore all'Onu di Israele, Gilad Erdan, si è presentato davanti all'Assemblea Generale con una torta su cui era rappresentato il viso di Kfir e gli ha dedicato il suo augurio: «Spero che l'anno prossimo celebrerai il tuo compleanno circondato dall'amore della tua famiglia. Questa torta è per te, tu sei la ragione per cui Israele combatte notte e giorno». La voce che tre membri della famiglia fosse stata uccisa ha cominciato a circolare la notte in cui su un'auto della Croce Rossa partirono gli scambi che hanno riportato cento ostaggi lasciandone 136 nelle mani di Hamas: i fratellini con la madre non erano fra le persone liberate. I bambini più sorridenti, più piccoli, non sono mai tornati. Intanto Yarden è stato sottoposto alla tortura, filmata e mostrata al pubblico, di un annuncio sulla morte di tutta la sua famiglia. Ma l'unica cosa che si riesca a immaginare al momento e in cui si spera è che i Bibas, siano finiti nelle mani della Jihad Islamica o di qualche altro gruppo dentro Gaza, come peraltro altri sette bambini e ragazzini esclusi dallo scambio, e che siano finiti nella confusione per la custodia dei prigionieri in qualche cunicolo.
   Israele non perde la speranza che nell'impossibile discussione sugli scambi si accenda una luce. Ma ha ragione Erdan: è mai possibile che in tutto ciò la voce dell'Onu non si sia ancora mai udita? «È mai possibile che invece di ricevere amore e calore Kfir sia circondato da pura malvagità? Che la pena di un infante sia dimenticata dall'Onu? Questa creatura celebra il suo compleanno in prigionia». La torta di Kfir è rimasta in vista all'Onu, finché gli addetti alle pulizie non se la porteranno via. Questa è l'Onu, che non ha mai condannato Hamas se non chiedendo un cessate il fuoco che gli consentirebbe di sopravvivere.

(il Giornale, 17 gennaio 2024)

........................................................


L'intricato labirinto dei tunnel di Hamas

Il New York Times spiega la guerra sotterranea di Israele

di Luca Spizzichino

Secondo alti funzionari della difesa israeliana, intervistati dal New York Times e rimasti anonimi, la precedente stima fatta sulla rete dei tunnel del terrore di Hamas è sbagliata. Infatti, alla luce delle scoperte fatte durante la campagna di terra dall’esercito israeliano, la “metropolitana” dell’organizzazione terroristica palestinese non è di 400 chilometri, ma bensì compresa tra i 560 e i 700 chilometri. Nella sola zona di Khan Younis, per esempio, secondo l’intelligence, ci sono circa 160 chilometri di tunnel. Inoltre i militari credono che ci siano oltre 5.700 pozzi sparsi nella Striscia di Gaza.
   Queste sono le nuove e preoccupanti stime rese pubbliche da un’inchiesta del quotidiano americano, che ha fatto luce su uno dei principali obiettivi strategici dell’IDF, insieme alla ricerca dei leader di Hamas: la distruzione dei tunnel. Infatti, come spiegato da Daphné Richemond-Barak, esperto della Reichman University in Israele, “se vuoi distruggere la leadership e l’arsenale di Hamas, devi distruggere i tunnel”. Uno dei funzionari intervistati ha spiegato che potrebbero volerci anni per neutralizzare l’immensa rete di tunnel sotto Gaza.
   L’esercito israeliano ha affermato di aver trovato due tipi di tunnel finora: quelli utilizzati dai comandanti e gli altri utilizzati da chi combatte. I primi sono più profondi e progettati per consentire ai leader di Hamas di rimanere al loro interno per lunghi periodi di tempo e sono più confortevoli. Gli altri invece sono più spartani e spesso meno profondi.
   Prima della guerra l’IDF impiegava circa un anno per localizzare un tunnel, ma da quando è iniziata l’operazione di terra, i soldati hanno scoperto moltissime informazioni sulla rete sotterranea di Gaza, in particolare dai computer utilizzati dai terroristi di Hamas incaricati della costruzione del tunnel. Alcuni di questi documenti si sono rivelati fondamentali, come nel caso degli elenchi delle famiglie che “ospitavano” gli ingressi per i tunnel nelle loro case, oppure la mappa scoperta a Beit Hanoun, una città nel nord di Gaza, che è stata usata per trovare e distruggere i tunnel. Un soldato, che ha chiesto di rimanere anonimo per ragioni di sicurezza, ha detto di aver supervisionato la distruzione di almeno 50 tunnel in quella zona. “Erano tutti dotati di trappole esplosive”, ha detto. Il soldato, un ufficiale del genio militare, ha affermato inoltre che la sua unità ha trovato bombe nascoste nei muri e un enorme ordigno esplosivo cablato per essere attivato a distanza. Se fosse esploso, avrebbe ucciso chiunque si trovasse nel tunnel e direttamente all’esterno, ha aggiunto.
   Hamas ha migliorato la sua capacità di nascondere i tunnel, secondo uno degli alti funzionari israeliano, ma l’IDF ha ormai scoperto il modus operandi dei terroristi. Ogni qualvolta che l’esercito bonifica una scuola, un ospedale o una moschea, i soldati sanno già che sotto di loro può esserci sistema di tunnel sotterranei. Una volta scoperto però, distruggere i tunnel non è affatto semplice, perché è necessario prima mapparli, successivamente controllare se ci siano ostaggi all’interno e infine far sì che vengano resi inutilizzabili una volta per tutte.

(Shalom, 17 gennaio 2024)

........................................................


La Maratona di Gerusalemme al via l’8 marzo

FOTO
Nel presentare la Maratona di Gerusalemme, la cui prima edizione si è svolta nel 2011, l’allora sindaco Nir Barkat disse che “parafrasando il titolo di un celebre libro di David Grossman la cui trama si intreccia tra le strade e i paesaggi di Gerusalemme, posso senz’altro affermare che questa è una città con cui correre”.
   Da allora, fatta eccezione per la primavera del 2020 con l’inevitabile annullamento della gara per via della pandemia da coronavirus, la maratona si è sempre corsa ed è così cresciuta sulla scena internazionale, con molte migliaia di podisti al via da tutto il mondo (Italia compresa). Salvo ripensamenti dell’ultim’ora, l’edizione numero 13 si correrà il prossimo 8 marzo.
   “La forza di una società si misura dalla sua capacità di continuare la vita quotidiana” anche di fronte a sfide immense come quelle con cui si sta confrontando Israele, ha dichiarato l’attuale sindaco Moshe Lion. Una maratona resiliente e dedicata “ai nostri eroici soldati”, ha aggiunto il successore di Barkat. Non a caso l’iscrizione sarà gratuita per i soldati, le forze di sicurezza, i team di soccorso – riservisti inclusi – che hanno combattuto o che sono oggi impegnati a Gaza. Con la speranza che “pace, sicurezza e serenità tornino in fretta nel nostro amato paese”. Negli anni la Maratona di Gerusalemme è stata lo sfondo di imprese che hanno talvolta oltrepassato i confini dello sport. Come nel marzo del 2022, quando a vincere la gara femminile fu l’atleta ucraina Valentyna Veretska, la cui abitazione era stata distrutta pochi giorni prima dai missili russi. “Io sono un’atleta e voglio continuare a esserlo. Non darò a chi ci odia il gusto di privarmi del mio sogno”, fu il suo commento oltre la linea del traguardo. Incontrando alla vigilia Pagine Ebraiche, aveva assicurato: “Siamo gente che non si arrende e io sono qui per dimostrarlo”. Chissà che anche la corsa del 2024 non regali altre storie di coraggio e tenacia.

(moked, 17 gennaio 2024)

........................................................


Allarme AIEA: l’Iran arricchisce l’uranio a un livello altissimo

di Darya Nasifi

Il capo della AIEA, l’agenzia internazionale per l’energia atomica, massimo organismo mondiale di controllo e monitoraggio nucleare, ha dichiarato che l’Iran sta “andando avanti al galoppo” con il suo programma di arricchimento dell’uranio, affermando che continua a porre ostacoli alle ispezioni.
“L’Iran è l’unico Stato non dotato di armi nucleari che sta arricchendo l’uranio a un livello molto, molto alto, molto vicino al grado di armamento”, ha dichiarato Rafael Grossi, capo della AIEA..
“Non sto dicendo che hanno un’arma nucleare, sto dicendo che è una cosa delicata. E quando si fa questo… si rispettano le regole”, ha detto.
L’ultimo rapporto dell’AIEA ha rilevato che l’Iran ha aumentato il ritmo di produzione di uranio ad alta qualità, invertendo un rallentamento iniziato a metà del 2023.
Grossi ha detto che la spinta dell’Iran verso l’uranio di alta qualità arriva in un momento di grande tensione in Asia occidentale, con la guerra a Gaza e l’odio globale verso il regime israeliano e i suoi alleati.
Grossi ha detto che il dialogo rimane aperto con l’Iran, che ha sempre dichiarato che il suo programma è per uso civile.
“Un’istantanea mostra un programma che sta galoppando, procedendo con obiettivi ambiziosi. Non abbiamo nulla contro questo. Ma diciamo che la visibilità dell’ispettorato internazionale, l’AIEA, deve essere commisurata a queste attività”, ha aggiunto.
Grossi ha accusato l’Iran di ostacolare le ispezioni, ma il mese scorso ha dichiarato che il monitoraggio delle strutture nucleari iraniane continua nonostante la cancellazione della licenza degli ispettori di questo organismo internazionale.

(Rights Reporter, 17 gennaio 2024)

........................................................


Qualcuno aiuti Paolo Mieli

Niente da fare, Paolo Mieli continua imperterrito con i suoi strafalcioni. Qualcuno lo aiuti se può, lui che tra i giornalisti italiani (oltretutto l’unico con una buona formazione storica), è tra i meno avversi allo Stato ebraico.
   Anche oggi [16 gen], sul Corriere della Sera, nel suo editoriale Dietro le accuse a Israele, a proposito dell’accusa di genocidio da parte dal Sudafrica, scrive riferendosi alla nascita dello Stato ebraico:
   “In quei giorni di «settantasei anni fa» (secondo le disposizioni Onu del novembre 1947) sarebbe dovuto nascere — assieme a quello israeliano — uno Stato palestinese. Ma i Paesi arabi circostanti aggredirono lo Stato di Ben Gurion dando origine a una guerra che durò un anno. Al termine della quale, Israele tenne per una porzione delle terre da cui era partito l’attacco”.
   La Risoluzione 181 del 23 novembre 1947 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite propose un piano di spartizione dei territori che il Mandato per la Palestina del 1923 aveva assegnato a Israele, ovvero i territori a occidente del Giordano, dunque la cosiddetta Cisgiordania e Gaza. Una proposta che era dunque in palese conflitto legale con il dispositivo stesso del Mandato, l’unico documento vincolante per il diritto internazionale, ma questo, Paolo Mieli non lo sa, come non sa che l’ONU non ha nelle sue prerogative la facoltà di fare nascere gli Stati.
   Ma ciò che scrive contiene anche un palese anacronismo. Non poteva nascere alcuno Stato “palestinese” nel 1947, per il semplice motivo che all’epoca, gli arabi presenti sul territorio erano “palestinesi” esattamente quanto lo erano gli ebrei, avendo il termine unicamente un significato toponomastico che perse a metà anni Sessanta, quando, per mere ragioni ideologiche, venne creato il “popolo palestinese”.
   Al termine della guerra Israele tenne per ciò che gli spettava di diritto secondo il dispositivo del Mandato, ma venne espropriato, a causa dell’aggressione che subì, di ciò che secondo il dispositivo era nelle sue prerogative, ovvero la Cisgiordania e Gaza, rispettivamente occupate illegalmente da Giordania ed Egitto fino al 1967 quando, a seguito di una ennesima guerra di aggressione, Israele vinse e li recuperò.
   A parziale discolpa di Mieli si deve dire che relativamente a questi errori grossolani gode di una vasta compagnia, ma questo non lo esime da continuare a reiterarli.

(L'informale, 16 gennaio 2024)

........................................................


«Il KKL è Israele: non smetteremo mai di impegnarci»

Riportiamo l’editoriale dell’ultimo numero di "Karnenu", periodico di KKL Italia.

di Liri Eitan Drai

Non è facile trovare le parole adatte per introdurre questo numero di Karnenu, il primo pubblicato dopo gli eventi del 7 ottobre.
Sulle atrocità avvenute, sulle terribili dimostrazioni di crudeltà, sulle perdite intollerabili e sull'ignoranza diffusa nel mondo sotto forma di un crescente antisemitismo, è già stato scritto moltissimo. Non ho da aggiungere parole utili a confortare il nostro popolo di fronte alla tragedia che ci ha colpiti.
Per me, israeliana, vivere un evento del genere fuori dal mio Paese è un'esperienza lacerante.
La mia vita quotidiana qui in Italia, rispetto a quella dei miei amici in Israele, all'apparenza non è cambiata, ma oscilla fra sensi di colpa, preoccupazione, momenti di sollievo e nuovi sensi di colpa. Paura, rabbia e, più di tutto, nostalgia. Nostalgia per la Israele che tanto amo, che è la mia casa, il passato, il futuro.
   Quello che, nonostante tutto, mi ha dato forza, è stato il poter agire immediatamente. Alzarmi ogni mattina e darmi da fare per il mio Paese. Noi tutti, staff del KKL Italia, ci siamo arruolati come i soldati riservisti. Fin dal primo momento ci siamo buttati nel lavoro anima e corpo, giorno e notte, per fornire a Israele dall'Italia tutto il supporto possibile in momenti tanto difficili, per rappresentare un sostegno concreto.
   Non ci siamo tirati indietro di fronte a nessun compito, non abbiamo rifiutato nessuna iniziativa e non abbiamo avuto paura di lavorare sodo. Abbiamo partecipato a eventi emozionanti in molte comunità italiane, abbiamo collaborato con altre organizzazioni locali per rasserenare famiglie israeliane tornate in Italia, e con lo stesso spirito abbiamo avuto il privilegio di "adottare" Holit, un piccolo kibbutz che ha subito gravi perdite. Holit è entrato nel nostro cuore, continueremo a impegnarci per restituire ai suoi abitanti un barlume di speranza e tanta luce. Lo consideriamo un mandato di vitale importanza, una vera missione. Abbiamo provato emozione per ogni donazione ricevuta, grande o piccola che fosse, abbiamo sentito il vostro abbraccio, abbiamo sentito l'amore che lega il popolo di Israele. Abbiamo percepito la solidarietà che ci unisce e ne siamo fieri.
   Più forte di tutto è stata la meraviglia e lo stupore per il modo in cui il KKL Israele si è attivato di fronte alla tragedia, mosso da un imperativo semplice: prestare aiuto, ovunque fosse possibile.Ancor prima dell’intervento degli enti ufficiali, ancor prima che lo Stato capisse cosa fare, il KKL era già in moto. Da quel momento non ci siamo più fermati. Osservo e ammiro quello che la nostra organizzazione è capace di fare, l'unità, la fede, la determinazione, lo zelo, la creatività. Sempre presente per Israele, per i suoi cittadini, perché tutti possano avere una vita migliore. Affinché vada tutto bene. Non abbiamo altro Paese e lo dobbiamo preservare.
   Desidero ringraziarvi: per ogni pensiero che avete dedicato a Israele, per ogni cartello che avete appeso, per ogni post condiviso, per ogni risposta che avete scelto di dare a domande complesse quando ne avete avuto occasione, per le donazioni già arrivate e che di sicuro continueranno ad arrivare.
   In questo numero abbiamo scelto di condividere con voi qualche raggio di luce. Abbiamo scelto di concentrarci sulle storie positive, che regalano un sorriso, ispirano, dimostrano una solidarietà toccante e quanto bene si può fare anche nei tempi più bui.
   Nell'augurarvi una piacevole lettura vi invito a contattarci e a condividere con noi qualsiasi idea o iniziativa abbiate in mente in favore di Israele. Sono certa che insieme continueremo a fare miracoli per il nostro Paese, un Paese la cui esistenza stessa è un miracolo.

(KKL Italia, 17 gennaio 2024)

........................................................


Il problema del corridoio Filadelfi

di Ugo Volli

• IL RITMO DELLA GUERRA
  La guerra prosegue col suo ritmo lento, segnato da mille episodi che da vicino sono altamente drammatici perché comportano rischi di morte e distruzione, missioni difficili e faticose conquiste; ma da lontano appaiono quasi ripetitivi, senza grandi avanzate, manovre, battaglie campali. La ragione è che quasi più che a una guerra normale la campagna di Gaza assomiglia a una gigantesca operazione di polizia, con decine di migliaia di assassini, violentatori, rapitori attestati su uno spazio grande come la città di Roma, sparsi in mezzo a una popolazione più o meno delle stesse dimensioni della nostra capitale, che per la maggior parte è complice o succube dei criminali. I terroristi sono poi nascosti quasi in ogni casa, in ogni scuola o ospedale e nei numerosissimi e intricati tunnel che ne perforano il sottosuolo. Quel che accade sono solo occasionalmente vere battaglie, più spesso sono cacce all’uomo in cui le forze armate devono continuamente badare a non farsi prendere alle spalle, a non cadere negli agguati dei criminali. Si tratta poi di individuare le armi nelle case e negli edifici pubblici, di scoprire gli ingressi delle gallerie, di minarle e farle saltare. L’avanzata comunque procede, con l’attenzione di non disperdere le truppe, di non perdere la superiorità numerica in nessuna circostanza, di non lasciare isolato nessun combattente per evitare che sia sopraffatto, ucciso o rapito. E naturalmente bisogna cercare di trovare i rapiti, di non confonderli coi nemici che li usano come scudi umani. Inoltre non bisogna causare sofferenze inutili ai civili.

• LA RESPONSABILITÀ DI SHARON
Il “corridoio Filadelfi”
L’esercito israeliano è ora però in vista di un risultato strategico importante, che ha un grande senso operativo e implica però grandi problemi politici. Si tratta della conquista del confine con l’Egitto, il cosiddetto “corridoio Filadelfi” (il nome ebraico della città americana di Philadelphia), che è lungo 14 chilometri da ovest a est, cioè dal mare al valico di Kerem Shalom, che è il punto più meridionale della frontiera di Israele con Gaza, e largo un centinaio di metri. Nel 2005 il primo ministro Ariel Sharon decise di cedere Gaza all’Autorità Palestinese, che se la fece presto espugnare con le armi da Hamas; esattamente la mossa che ora l’amministrazione Biden vorrebbe far ripetere a Israele. Fu un grave errore, come oggi sappiamo, una fra le premesse lontane del 7 ottobre.

• I TUNNEL SOTTO IL CORRIDOIO
  I vertici militari chiesero invano vent’anni fa a Sharon di mantenere il controllo del corridoio, ma anch’esso fu ceduto: non all’Autorità Palestinese bensì all’Egitto. Il problema è che attraverso questo corridoio, o meglio nelle molte gallerie scavate sotto di esso, è passato il contrabbando di uomini, di materiali e soprattutto di armi che ha permesso a Hamas di trasformare Gaza in una fortezza difficilissima da espugnare. L’Egitto ha favorito questo contrabbando sotto la presidenza Morsi; Al Sissi ha cercato di chiuderlo, ma esso esiste ancora, le gallerie sotto il corridoio sono quelle che i capi terroristi intendono usare per sfuggire all’assedio israeliano, magari portandosi dietro i rapiti come scudi umani. In questi stessi cunicoli continuano a passare i rifornimenti militari che permettono ai terroristi di resistere. “Se questa breccia non sarà chiusa, ha detto Netanyahu, sconfiggere Hamas non basterà, perché essa gli permetterà di ricostituire le sue forza”. Ora Israele ha chiesto all’Egitto di riavere indietro il controllo del Filadelfi, ricevendo risposte negative. Ormai l’Egitto lo considera territorio nazionale. È stata respinta anche la proposta di un pattugliamento comune. Israele deve quindi conquistare il lato settentrionale del corridoio, quello al di qua della barriera costruita dall’Egitto, eliminarne le costruzioni per una profondità di qualche centinaio di metri, per lavorare poi alla distruzione delle gallerie sotterranee. È una conquista difficile, anche perché bisogna far attenzione a non sconfinare. Ma è la condizione per poter finalmente avere la certezza di liquidare del tutto la potenza militare di Hamas a Gaza.

(Shalom, 16 gennaio 2024)

........................................................


Guerra Hamas-Israele; cosa accadrà nei prossimi 100 giorni a Gaza e non solo

Sono passati 100 giorni dall'attacco di Hamas e la situazione sembra complicarsi sempre più

di Luciano Tirinnanzi

Dopo cento giorni di guerra in Terra Santa, per molti media e nondimeno numerosi governi a qualunque titolo coinvolti, è tempo di bilanci. Certo, giova a tutti ricordare che, dall’attacco dello scorso 7 ottobre i morti israeliani tra i civili sono stati 1.200, 12 mila i feriti, e 136 gli ostaggi ancora in mano ad Hamas. Così come è bene sapere che sono 24 mila i morti civili tra le fila palestinesi, di cui quasi mille in Cisgiordania, e che 1,9 sono i milioni di sfollati dalla Striscia di Gaza, dove gli edifici danneggiati corrispondono a circa il 50% del totale pre guerra.
   Si potrebbe andare avanti a lungo nel freddo calcolo delle statistiche. Ma ben più importante oggi è sapere, o provare a capire, non tanto cosa sia accaduto – è o dovrebbe essere già chiaro a tutti – piuttosto quel che accadrà nei cento giorni a venire, e oltre ancora. Già, perché se da un lato è certamente vero che la guerra prosegue a oltranza, dall’altro esiste un’agenda diplomatica che il governo di Gerusalemme da un lato e la regia internazionale filo-palestinese dall’altro, perseguono congiuntamente all’esito della guerra.
   Dopo settant’anni di problematica coesistenza, Israele e Palestina restano indiscutibilmente due attori centrali nel Grande Gioco del Medio Oriente, e tuttavia non si possono ancora definire Paesi del tutto compiuti. I tre elementi che costituiscono e definiscono ogni Stato del mondo, infatti, sono: il territorio; il popolo che lo abita; la sovranità esercitata su di esso dal governo.
   Ora, la Palestina è notoriamente la grande incompiuta, non essendo ancora neanche uno Stato riconosciuto né geograficamente delineato; al contrario Israele lo è, ma coabita con questo rompicapo territoriale che non ha mai consentito un accordo chiaro e definitivo sui rispettivi confini. Inoltre, la sua politica espansiva in Cisgiordania non consente ancora di delimitare a uno spazio chiaro e circoscritto la propria sovranità politica e territoriale.
   Stante la diffidenza tra le parti ad accordarsi per la soluzione «due popoli, due Stati», tale situazione d’indeterminatezza ha portato nei decenni a continui stravolgimenti e guerre più o meno prolungate, che non staremo qui a ripercorrere. Così anche ogni tentativo di accordo è naufragato per molteplici ragioni: ultimi in ordine di tempo gli Accordi di Oslo, che alla prova dei fatti sono rimasti sulla carta, mentre gli attuali Accordi di Abramo sono tra le ragioni che hanno portato a questo ennesimo conflitto.

• I POSSIBILI PIANI PER IL FUTURO
  I piani per il futuro di questa terra, dunque, non possono prescindere da alcuni elementi che si sono stratificati nel tempo, proprio come per le antiche mura di Gerusalemme o i fabbricati sui quali sorge la contestatissima moschea di Al Aqsa.
  Primo. Se gli obiettivi finali di Israele non sono ancora ben definiti, di certo i funzionari israeliani si sono posti come traguardo minimo e imprescindibile di eliminare ogni traccia di Hamas: non solo dal punto di vista tattico, ma anche della capacità di governo militare o giurisdizionale sopra Gaza. Ciò significa che gli obiettivi a breve termine di Gerusalemme «sono definiti in modo tale da suggerire che Israele avrà una presenza di sicurezza continua a Gaza. Quindi non si tratta di progettare come sarà governata Gaza quando gli israeliani si ritireranno, perché non stanno parlando di ritirarsi», come suggerisce Nathan Brown, senior fellow del Carnegie Endowment for International Peace.
   È difficile in effetti immaginare uno scenario a cento giorni in cui l’esercito israeliano non mantenga una presenza sul terreno per impedire che le ultime vestigia di Hamas si ricostituiscano. Dunque, l’Idf verosimilmente continuerà a supervisionare la sicurezza e la vita civile nella Striscia sino a che non sarà possibile trasferire ad altro ente, sia esso l’Onu o una nuova istituzione palestinese, le attività governative.
   A lungo termine, non pochi esperti indicano come via possibile una coalizione di Stati arabi - potenzialmente gli stessi firmatari degli Accordi di Abramo, con cui Israele ritiene di poter lavorare, ovvero Israele, Emirati Arabi, Bahrain, Stati Uniti, Marocco e Sudan - che potrebbero fare la funzione di una forza garante e provvisoria per riempire il vuoto di sicurezza e di governance a Gaza, con il sostegno di Unione Europea e Nazioni Unite. Questo dipenderà molto dal ruolo dell’Arabia Saudita e del Qatar, prim’attori regionali, e in second’ordine di Egitto, Turchia, Giordania e Iran. «Vedo soldati egiziani, giordani e sauditi con la comunità internazionale che controllano la regione durante una fase provvisoria, e un’enorme quantità di denaro che arriverà dagli Emirati e dai sauditi per ricostruire», ha dichiarato in proposito Ami Ayalon, ex capo dello Shin Bet.
   Secondo. Il futuro di Gaza passa inevitabilmente per la monumentale sfida della ricostruzione, il cui costo si aggira per il momento intorno al miliardo e mezzo di dollari. Ospedali, abitazioni, infrastrutture, sorgenti energetiche, impianti di depurazione dell’acqua: l’ente che, tra le altre cose, sovrintenderà a tutto ciò – e che dovrà gestire le donazioni evitando che finiscano in un gorgo di corruzione e distrazione del denaro, o peggio per finanziare la guerriglia – avrà un’importante voce in capitolo.
   Ma questo ente avrà anche la responsabilità della sicurezza? Questo è uno dei principali nodi su cui si dipanerà la road map per il futuro di Gaza. Già in passato i soldi donati ad Hamas sono stati usati per fabbricare armi e scavare tunnel anziché per la popolazione palestinese, e parimenti le restrizioni israeliane sulle importazioni hanno reso impossibile risollevare le sorti di Gaza City e dintorni.
   Terzo. Il futuro governo politico della Striscia. Messa fuori gioco Hamas dagli israeliani, il candidato più ovvio per riempire il vuoto sarebbe l’Autorità Palestinese (AP), che gestisce già la Cisgiordania: creata sulla scia del processo di pace di Oslo a metà degli anni Novanta, AP non ha però saputo capitalizzare la fiducia riposta nell’organizzazione, e difatti i palestinesi di Gaza gli hanno voltato le spalle, preferendogli Hamas. Inoltre, i leader di AP non vogliono «essere visti come se arrivassero su un carro armato israeliano e s’impadronissero della Striscia di Gaza», come ha ben sottolineato Zaha Hassan, borsista del Carnegie Endowment for International Peace. Senza contare che l’Autorità palestinese non tiene elezioni presidenziali dal 2005, quando fu eletto per la prima volta Mahmoud Abbas, oggi 87enne plenipotenziario.
   La stragrande maggioranza dei palestinesi considera la leadership di AP e in particolar modo il suo capo corrotti e inefficienti, anche in ragione del fatto che da allora i coloni israeliani hanno continuato a espandersi con nuovi insediamenti in Cisgiordania. Abbas sarebbe forse disposto a raggiungere un’unità politica con Hamas (anche se diversi tentativi di dialogo in tal senso sono falliti nel corso degli anni), ma una sorta di «governo di unità nazionale» non sarebbe mai accettato da Israele, anche se gli Stati Uniti sognano ancora la soluzione a due Stati e un’entità palestinese unificata. Come scrive in proposito da mesi il Middle East Institute, però, «la politica non è una cosa che si può progettare dall’esterno». Dunque, in un bagno di realismo anzitutto Abbas si dovrebbe dimettere, e poi si potrebbe tentare la via di un governo unitario o espressione della sola AP.

• CONCLUSIONI
  Ciò che è certo è che la guerra è destinata a proseguire, almeno fintanto che gli iraniani continueranno ad armare gli Houthi nel Golfo, gli Hezbollah in Libano e le soldataglie varie in Siria. L’accerchiamento progressivo di Israele, infatti, ha portato Gerusalemme a considerare ormai questo conflitto come l’unica – e ultima – possibilità per riaffermare la propria esistenza nella regione. Perciò, il governo (non solo Bibi Netanyahu, ma l’intero gruppo dirigente) è deciso ad andare sino in fondo. Come a dire, ciò che la politica internazionale non riesce a ottenere, sarà raggiunto con la forza. Il 2024, in conclusione, difficilmente sarà l’anno della soluzione per Gaza. Di certo, non prima di conoscere il pensiero in merito del nuovo presidente degli Stati Uniti. Anche se, in fondo, la soluzione per questa terra martoriata è in mano soltanto ai suoi abitanti.

(Panorama, 15 gennaio 2024)

........................................................


Israeliani: non ci potrà essere uno "Stato palestinese" dopo il 7 ottobre

Il sondaggio mostra che il 74% degli israeliani rifiuta uno Stato palestinese in Giudea e Samaria e il 76% sostiene il trasferimento volontario dei palestinesi.

Membri di un gruppo di lavoro presentano una relazione intitolata "Wake-up Call from Gaza" alla conferenza "Nation, Land & Sovereignty" dell'undici gennaio 2024
Ci sono molte lezioni da imparare dall'invasione del sud di Israele da parte di Hamas il 7 ottobre 2023, ma soprattutto che uno Stato palestinese non deve mai più essere stabilito nella terra di Israele.
È questa la conclusione della conferenza "Nation, Land & Sovereignty", che si è svolta giovedì a Gerusalemme con il motto: "Wake-up call from Gaza: The end of the two-state paradigm".
Molti avevano già sostenuto che i risultati disastrosi del "disimpegno" da Gaza fossero sufficienti a porre fine alla fantasia di una soluzione a due Stati che portasse alla pace. Nel 2005, Israele ha ritirato completamente tutti i civili e le truppe ebraiche dalla Striscia di Gaza, in accordo con le richieste arabe, lasciando la costa dell'enclave interamente sotto il controllo palestinese.
Solo un anno dopo, la Striscia di Gaza è stata conquistata da Hamas ed è diventata il principale santuario terroristico del mondo. Negli anni successivi, Hamas non solo ha compiuto regolari attacchi regalitolari contro Israele, ma nella Striscia di Gaza ha anche costruito una forza armata a tutti gli effetti che aveva un solo obiettivo: distruggere Israele.
Questo è stato il risultato del tentativo di dare ai palestinesi un territorio che potessero amministrare da soli.
La lezione allora non è stata imparata. Gli organizzatori della conferenza di ieri sperano che venga imparata ora.
"Chiunque sostenga la soluzione dei due Stati sostiene la distruzione di Israele. Punto e basta", ha detto Nadia Matar. Il suo gruppo, il Movimento per la Sovranità, che ha co-fondato con l'attivista degli insediamenti Yehudit Katsover 10 anni fa, ha co-sponsorizzato la conferenza con il Consiglio di Yesha.
"Se si sostiene il paradigma dei due Stati, significa che si crede in uno Stato palestinese che espellerà gli ebrei, costruirà un esercito di terroristi e attaccherà Tel Aviv per gettarci in mare. Alcuni lo sostengono consapevolmente, altri ingenuamente”, ha continuato.

• LA DESTRA AVEVA RAGIONE
  Secondo un sondaggio presentato alla conferenza, il 74% degli israeliani si oppone alla creazione di uno Stato palestinese in Giudea e Samaria e il 76% è favorevole al reinsediamento volontario dei palestinesi.
Il sondaggio ha anche rilevato che gli elettori di centro-sinistra si sono chiaramente schierati con quelle che un tempo erano considerate opinioni di destra, con il 61% degli elettori di Yesh Atid che sostengono il trasferimento volontario.
Un panel moderato da Alex Traiman, capo dell'ufficio JNS di Gerusalemme, ha discusso i vari pregiudizi che hanno portato alla tragedia.
“Quelli di destra avevano ragione", ha detto a Traiman il membro della Knesset Dan Illouz del partito Likud. "Nel corso degli anni, c'è stata questa strategia sbagliata secondo la quale era giusto che i nostri nemici espandessero il loro potere ma non lo usassero. È stato ridicolo".
Si è discusso anche della risposta internazionale alla guerra, comprese le udienze sul "genocidio" in corso presso la Corte penale internazionale dell'Aia, nonché della richiesta dell'amministrazione Biden di consegnare la Striscia di Gaza all'Autorità palestinese - una proposta che è stata accolta con fischi dal pubblico.
Mark Zell, presidente di Republicans Overseas, ha chiesto l'immediata espansione della produzione israeliana di armi a livello locale, in modo che Israele non dipenda più da un altro Paese per l'approvvigionamento di materiale bellico.
In un'altra tavola rotonda, intitolata "No a uno Stato palestinese, sì alla sovranità", Yishai Fleischer, portavoce internazionale della comunità ebraica di Hebron, ha affermato che a Israele le cose andrebbero bene se solo smettesse di fare "cose stupide".
E tra queste ha nominato: "permettere ai nemici di costruire tunnel sotto il proprio naso", "dare soldi all'Autorità Palestinese", "nutrire il nemico mentre si è in guerra con lui" e "permettere che a Gerusalemme si vendano cimeli con una mappa di Gerusalemme e la parola 'Palestina' sotto".
"Prima di avere la sovranità sulla terra, abbiamo bisogno della sovranità sulla mente", ha concordato Dror Eydar, ex ambasciatore israeliano in Italia.

(Israel Heute, 16 gennaio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

........................................................


L’ultima adunata pro-Hamas a Londra dimostra che l’odio anti-ebraico è ormai fuori controllo

Dopo gli appelli “dal fiume al mare” e “con qualunque mezzo”, ecco il comiziante palestinese che proclama “dobbiamo normalizzare i massacri”.

di Micah Halpern

Alla manifestazione pro-Hamas e anti-Israele tenutasi sabato scorso a Londra è stato toccato un nuovo livello di quello che si può solo definire un mix di cose insensate e incredibili. Si tratta di manifestazioni che sono ormai quasi all’ordine del giorno, ma questa di Londra segna un ulteriore punto di svolta.
Arringando la folla, l’attivista Mohammed el Kurd, un palestinese di Gerusalemme est scrittore e poeta, ha affermato: “Verrà il nostro momento ma non dobbiamo accontentarci, verrà il nostro momento ma dobbiamo normalizzare i massacri come status quo”.
L’ho sentito con le mie orecchie. Ho visto il video. Poi l’ho guardato di nuovo per essere sicuro d’aver davvero sentito quello che mi pareva d’aver sentito: “…dobbiamo normalizzare i massacri”.
El Kurd predicava ai già convinti. Aveva la folla in palmo di mano. Da uomo di lettere, sa imbastire un crescendo. Ha iniziato adagio: “Questo è un momento di trasformazione. Ci sono stati 30.000 martiri [sic]. Questo è il nostro momento per trasformare il mondo… Dobbiamo rigettare il sionismo in tutte le nostre istituzioni, perché essere antirazzisti significa essere anti-sionisti [sic]”.
Poi è andato avanti: “Non contiene moltitudini, non contiene doppi significati, non è romantico. Il sionismo è apartheid, è genocidio, è omicidio, è un’ideologia razzista radicata nell’espansione dei coloni e nella dominazione razziale e dobbiamo sradicarla dal mondo. Dobbiamo de-sionistizzare perché il sionismo è un culto della morte [sic]”.
A quel punto l’affondo, il proclama, la chiamata alle armi: “Dobbiamo normalizzare i massacri come status quo”.
Il 7 ottobre ha stravolto il mondo. Il male ha sopravanzato il bene, lo ha assorbito. Prima del 7 ottobre, le persone riflessive e ragionevoli non avrebbero mai nemmeno pensato queste cose. Oggi fin troppi abbracciano volentieri queste idee.
Presentato in quel contesto e preceduto da quelle parole, l’appello a “normalizzare i massacri” non può essere interpretato altrimenti se non come un appello a uccidere sempre più ebrei innocenti. Eppure ci sono persone ragionevoli che ascoltano questo messaggio e lo condividono. Persino i classici antisemiti del passato avrebbero avuto qualche difficoltà con una tale esplicita affermazione. Ecco come è stato stravolto il nostro mondo.
Anche altri appelli per la distruzione di Israele sono ormai diventati moneta corrente. E’ già stato detto molto sullo slogan, o meglio sullo sfogo “dal fiume al mare”: un appello a cancellare Israele dalla carta geografica, un’altra licenza per massacrare gli ebrei, ucciderli in massa, stuprarli, bruciarli, decapitarli, prenderli in ostaggio. E stando agli slogan, la loro intenzione è di farlo davvero. Un scritta frequente sugli striscioni recita “Liberare la Palestina con qualsiasi mezzo”. Ora sappiamo cosa significa realmente “qualsiasi mezzo”.
Persone ragionevoli direbbero che questo non è accettabile. Ragionevole significa di giudizio, sensato, giusto, appropriato, opportuno, corretto. Questi appelli sono l’esatto opposto di ciò che è ragionevole. E quasi nessuno li denuncia.
Persone ragionevoli sarebbero solidali con la terribile condizione degli ostaggi. Invece c’è un sacco di gente in tutto il mondo che strappa i manifestini coi volti degli ostaggi.
Davanti alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia sono comparsi cartelli a sostegno dell’accusa del Sud Africa secondo cui Israele starebbe perpetrando un genocidio. Proclamano: “Per la pace globale, Israele deve essere distrutto” e “Non riconosco il diritto di Israele ad esistere”. Ma scritte come “riportateli a casa” sono considerate offensive.
Non mancano manifesti semplicemente folli. Uno dei partecipanti a una recente adunata filo-Hamas a Londra accusava America e Israele d’aver compiuto la carneficina del 7 ottobre per “impossessarsi del petrolio iraniano”.
L’odio verso gli ebrei è dilagato fino ai livelli più assurdi. … Da Londra all’Aia a New York e altrove, ci confrontiamo con un mondo che richiama i giorni più tetri e lugubri di non molto tempo fa della storia ebraica. L’odio verso gli ebrei è andato fuori controllo e sta penetrando in profondità.
Ma non prevarrà. Anche questa volta il male non trionferà.
---
(da Jerusalem Post, 15.1.24)

(israele.net, 16 gennaio 2024)


*


Che strana sinistra in Italia: relativista e non binaria, stende tappeti rossi a chi inneggia ai massacri jihadisti

"Normalizziamo i massacri". Così l'oratore pro Hamas bandito in Germania, in Italia adulato dall'agit-prop progressista che rilascia patenti antifasciste: giornali, tv, case editrici, festival

di Giulio Meotti

Alla grande manifestazione pro-Hamas a Londra di domenica c’è stato l’ennesimo punto di svolta nella follia woke.
Ha preso la parola Mohammed el Kurd, un palestinese di Gerusalemme Est, scrittore e poeta, che alla folla islamica e occidentale adorante ha detto: “Il nostro giorno arriverà, ma dobbiamo normalizzare i massacri come status quo”. Ho visto la clip. Poi l'ho rivista per essere sicuro di aver sentito bene.
El Kurd predicava ai convertiti. Aveva la folla in palmo di mano nel Londonistan. Ha ragione l’Evening Standard, “c’è qualcosa di marcio nella nostra democrazia”. Londra ha vietato l’ingresso a Geert Wilders, il politico olandese protetto da una unità dell’esercito, e a Robert Spencer, il fondatore di Jihad Watch. Ma gli imam estremisti sono liberi di fomentare la “guerra santa” all’Occidente e i parlamentari sono uccisi fin dentro le chiese.
Il 7 ottobre ha sconvolto il mondo, almeno per qualche ora e per qualche giorno. Poi il male ha surclassato il bene. Prima del pogrom di 1.200 ebrei israeliani in una mattinata di autunno, le persone ragionevoli non lo avrebbero mai nemmeno pensato o permesso che Londra si trasformasse in Teheran. Ma oggi in un Occidente islamizzato e ammorbato dal relativismo nichilista non si ha più vergogna di dirlo.
Siamo persino al tifo pro Houthi della sinistra occidentale. I nostri sedicenti “progressisti” hanno iniziato a urlare slogan pro-Houthi sui social (il leader di Black Lives Matter Shaun King è persino riuscito a farsi chiudere l’account X). I manifestanti filo-palestinesi hanno deciso di riempire l’aria di New York con un nuovo canto pro-Houthi: “Yemen, Yemen, rendici orgogliosi! Fai girare un'altra nave!”. Slogan pro-Houthi anche a Londra.
L’opportunismo e la degenerazione di pezzi importanti della sinistra occidentale non conoscono limiti. Dopo aver passato gli ultimi tre mesi a scusare i maniaci di Hamas, la sinistra culturale e di Twitter ha aggiunto un nuovo gruppo di pazzi islamici al proprio pantheon antioccidentale.
El Kurd intanto è molto benvoluto in Italia.
Scrive per la rivista Internazionale, una specie di birignao global woke dalla tiratura significativa. Pubblica per Fandango, la casa editrice di Domenico Procacci che piace alla gente che piace. Viene incensato dal Corriere della Sera e dal Fatto Quotidiano. Presenta il suo libro assieme a Christian Raimo, lo scrittore che assegna patenti di antifascismo. Viene invitato dal Festival Internazionale di Ferrara alla Fondazione Feltrinelli, blasonati centri di potere culturali di sinistra. E ovviamente dalla trasmissione Propaganda Live, il cabaret ideologico de La7 di Zoro e Makkox.
In pratica, tutto l’agit-prop progressista italiano per uno che invoca i “massacri” del 7 ottobre. O il massacro che nelle stesse ore colpiva la cittadina centrale israeliana di Raanana (morti e feriti sotto le auto palestinesi che asfaltavano passanti) e le villette israeliane affacciate davanti al Libano, una donna e suo figlio ammazzati dai missili di Hezbollah?
Il Goethe Institute in Germania ha messo alla porta el Kurd, come le università americane, non certo parche di oratori pro Hamas. Perché in Italia gli abbiamo steso tappeti rossi? Perché, dai tempi del comunismo, siamo il paese più ideologicamente corrotto e prono alla violenza culturale.
Hamas sono i nostri partigiani e non hanno massacrato i civili israeliani”. Sono alcune delle affermazioni fatte ai microfoni su La7 da Mohammad Hannoun, presidente della onlus Abspp (Associazione benefica di solidarietà con il popolo palestinese), da anni accusata di raccogliere fondi per finanziare Hamas. Ma più che le parole di Hannoun (immortalato in passato anche con il leader di Hamas, Ismail Haniyeh), a sorprendere è il mondo politico italiano che ha contribuito a dargli visibilità e credibilità. Nel 2018 fu la volta della conferenza dei palestinesi d’Europa, organizzata a Milano con la partecipazione di Marco Furfaro, deputato e membro della segreteria nazionale del Pd. Da programma risultava tra i partecipanti anche l’allora europarlamentare Elly Schlein, oggi segretaria del Pd. Nel 2019 l’allora capogruppo grillino della commissione Esteri, Gianluca Ferrara, incontrò Hannoun, che passò poi da Matteo Orfini (Pd), Stefano Fassina (Sinistra italiana), Laura Boldrini e Nicola Fratoianni. Così l’uomo accusato di agire in Italia per conto di Hamas è riuscito a fare il suo ingresso nelle istituzioni italiane.
Ricordate Tariq Ramadan, l’islamista svizzero che chiedeva una “moratoria” delle lapidazioni e inquisito per numerosi stupri? Invitato a tenere conferenze all’Università di Aosta, all’Istituto universitario europeo di Firenze, al Festival della Letteratura di Mantova, a una manifestazione culturale a Udine, dalla città di Torino, da Massimo D’Alema con cui scrisse articoli a quattro mani sul quotidiano belga Le Soir, venne tradotto da Einaudi (da Maometto a Islam e libertà) e accolto dal Comune di Roma in un evento voluto da Walter Veltroni. Main sponsor: Telecom Italia…
L’Italia è sempre stato il ventre molle dei più infidi fomentatori islamici. Con il woke ora va anche peggio. Vecchi e nuovi marxisti hanno trovato una scusa per togliersi la maschera.

(Newsletter di Giulio Meotti, 16 gennaio 2024)

........................................................


Come gli ayatollah trovano soldi per Hamas, gli Houthi e Hezbollah

di Renato Caputo (*)

La Repubblica Islamica dell’Iran spende ogni anno centinaia di milioni di dollari per sostenere i movimenti estremisti in Medio Oriente. Il regime, soggetto alle sanzioni più dure, non lesina aiuti alle sue succursali del terrore. Il denaro che poi finisce nelle mani di Hezbollah o Hamas viene guadagnato da Teheran con la vendita di petrolio e caviale nero, prelevato dai conti delle società di “riciclaggio” controllate dal Governo, sottratto ai suoi stessi cittadini sotto forma di tasse sempre crescenti, e persino ricevuto dalla Russia in cambio dell’aiuto nell’uccisione degli ucraini. “Non abbiamo mai nascosto che l’intero budget di Hezbollah, tutte le nostre entrate e uscite, tutto ciò che mangiamo e beviamo, tutte le armi e tutti i missili provengono dalla Repubblica islamica dell’Iran”, ha affermato nel 2016 il capo degli Hezbollah libanesi, Sheikh Hassan Nasrullah. È difficile stimare esattamente quanto Hezbollah riceva da Teheran. Tutto questo denaro è nell’ombra e gli analisti devono operare attraverso dati indiretti e fughe di notizie.
  La cifra più comunemente accreditata è di circa 700 milioni di dollari all’anno. Altri cento milioni di dollari circa vengono ricevuti da gruppi palestinesi – Hamas, Jihad islamica e altri. Poi ci sono gli Houthi dello Yemen, diversi gruppi armati sciiti in Iraq e una serie di altri destinatari degli aiuti militari iraniani sparsi in tutto il Medio Oriente. Cioè, l’Iran spende circa un miliardo di dollari all’anno per tutta questa confraternita. Una cifra davvero impressionante per l’Iran, considerando che il budget militare reale (e non calcolato al tasso di cambio ufficiale della Banca centrale iraniana) della Repubblica Islamica nel 2022 non ha raggiunto i 7 miliardi di dollari. L’Iran ha da tempo serie difficoltà a riempire il proprio bilancio, nonostante le riserve petrolifere e l’esportazione in costante crescita di prodotti esotici: caviale nero e carne beluga. L’economia dello Stato sta soffrendo molto a causa delle sanzioni occidentali. Teheran è privata dell’opportunità di attrarre investimenti occidentali nel settore del petrolio e del gas, nello sviluppo della sua flotta mercantile e persino nel suo sistema bancario.
  A causa di queste sanzioni il rial iraniano si è costantemente deprezzato rispetto al dollaro. Di conseguenza, il budget in termini reali diventa sempre meno imponente di anno in anno. Pertanto, prima che gli Usa inasprissero nuovamente le sanzioni, solo il bilancio della difesa dello Stato Islamico superava i 21 miliardi di dollari, mentre ora in Iran tali cifre sono un lontano ricordo. Anche l’attuale bilancio militare, tre volte più piccolo, costringe l’apparato statale ad adottare misure estremamente impopolari, come l’aumento delle tasse sulle automobili e sugli immobili e il rifiuto di indicizzare gli stipendi per i dipendenti delle aziende statali o delle industrie statali. E non ci si aspetta che la situazione migliori nel prossimo futuro. Gli Stati Uniti hanno incluso l’Iran nella lista degli stati sponsor del terrorismo, cosa che di fatto esclude Teheran dal campo economico legale. La logica impone che in una situazione di crisi economica permanente, con un’inflazione record e continue proteste da parte degli iraniani stanchi della povertà, il Governo dovrebbe riconsiderare sia le sue relazioni con il mondo esterno sia le sue spese. Ma questo non è il caso del regime al potere degli ayatollah.
  La loro priorità è la rivoluzione islamica globale, e quindi gli uomini barbuti di Hamas, in cui Teheran vede uno dei principali strumenti di questa rivoluzione, continueranno a ricevere i loro milioni anche quando i comuni iraniani moriranno di fame. Per finanziare i suoi protetti, l’Iran ha costruito un intero sistema di strutture relativamente legali, semi-legali e completamente illegali che, indipendentemente da ciò che accade al bilancio statale, guadagnano denaro e lo trasferiscono agli alleati per procura del regime. Alcune di queste strutture esistono da diversi decenni, mentre altre sono apparse di recente. Tra queste ultime figurano società fittizie che vendono prodotti iraniani sanzionati, che vengono aperte in massa negli Emirati Arabi Uniti (Eau). La legislazione economica piuttosto liberale degli Eau consente all’Iran di registrare, attraverso prestanome, aziende che vendono beni sanzionati, come i prodotti chimici. Si tratta in sostanza di centri di “riciclaggio” per la legalizzazione del denaro illecito destinato agli ayatollah. In pochi mesi del 2022-2023, gli Stati Uniti hanno registrato l’arrivo di almeno 160 milioni di dollari nei conti di queste società.
  Non tutte sono legate all’Iran, c’è anche chi opera nell’interesse di altri Paesi canaglia, come la Russia, ma la maggior parte delle società di comodo hanno tutte come beneficiario Teheran. Gli iraniani hanno anche ricevuto decine di milioni di dollari dalla vendita alla Russia dei droni Shahed kamikaze, che i russi utilizzano per attaccare le città ucraine e distruggere le infrastrutture civili dell’Ucraina. Il denaro per i droni viene consegnato a Teheran da Mosca in contanti tramite aerei. Solo un volo di questo tipo nell’agosto 2022 ha portato dalla Russia circa 140 milioni di euro. Questo denaro viene utilizzato, tra l’altro, per finanziare il terrorismo internazionale, per questo il Governo americano offre una ricompensa significativa a chiunque fornisca informazioni in grado di porre fine a questo commercio. È importante notare che l’Iran agisce attraverso il Corpo delle Guardie rivoluzionarie islamiche, una formazione d’élite delle forze armate del Paese che è direttamente subordinata all’Ayatollah supremo Khamenei. Come suggerisce il nome della formazione, il Corpo dei guardiani è stato creato per proteggere e diffondere le idee della Rivoluzione Islamica. Ed è responsabile, questa formazione, di stabilire contatti con gruppi stranieri. A questo scopo, all’interno del Corpo opera la cosiddetta Forza Quds, una formazione direttamente responsabile della cooperazione logistica con gli estremisti stranieri.
  Il Governo degli Stati Uniti ha persino identificato gli ufficiali della Forza Quds che consegnano denaro e armi a Hezbollah, Hamas e gruppi simili. Il denaro viene portato in contanti e oro, trasferito sui conti aperti in banche del Medio Oriente e, successivamente, inviato ai portafogli crittografici. Il Corpo dei guardiani riceve denaro per questo sia dal bilancio della difesa sia da altre fonti. La formazione d’élite dell’esercito iraniano possiede in tutto o in parte aziende coinvolte nell’edilizia, nel trasporto merci, nella produzione di petrolio e in una serie di altri settori. Solo una di queste società, Khatam al-Anbiya, impiega fino a 170mila persone e riceve miliardi di dollari per soddisfare gli ordini di costruzione del Governo. Dollari che vanno a scopi militari, ma non vengono inseriti nel bilancio ufficiale della difesa. In generale, anche a fronte di un deficit di bilancio in costante aumento e di riduzioni forzate delle spese militari, l’Iran ha ancora molte fonti di reddito, dalle quali può facilmente sostenere interi eserciti per procura in tutto il Medio Oriente. E questi stessi eserciti per procura stanno lentamente imparando a gestire i milioni che vengono loro inviati ogni anno da Teheran. Così, nel 2022, gli americani hanno scoperto un’intera rete di società finanziarie di comodo strettamente collegate che agivano nell’interesse di Hamas. L’importo totale dei fondi gestiti dall’impero finanziario clandestino di Hamas ha superato i 500 milioni di dollari..
---
(*) Docente universitario di Diritto internazionale e normative sulla sicurezza

(l'Opinione, 16 gennaio 2024)

........................................................


Notizie archiviate



Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse liberamente, citando la fonte.