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Notizie 16-30 giugno 2015
Le 7 innovazioni di Israele in campo agricolo, ecologico e scientifico
di Matteo Carriero
Israele si dimostra stato molto attivo sul fronte dell'innovazione, come testimonia anche il padiglione israeliano all'Expo2015 di Milano, incentrato sulle innovazioni sul fronte dell'agricoltura. Ecco una lista di 7 importanti innovazioni o scoperte recenti provenienti dallo stato mediorientale.
Dalle innovazioni per l'agricoltura di Israele presentate all'Expo2015 all'inalatore per la cannabis terapeutica, dalle nuove strategie contro la desertificazione alle funivie urbane, ecco una lista di 7 importanti innovazioni provenienti da Israele.
1. Il trasporto urbano tra funivie ed energie rinnovabili
Per le città di Tel Aviv e Gerusalemme sono in cantiere due grandi progetti di trasporto urbano: a Tel Aviv una funivia urbana alimentata a energia solare in grado di attraversare la città alla velocità di 240 km orari, basandosi sulla combinazione di diverse fonti di energia tra cui quella solare; a Gerusalemme una funivia in grado di collegare il centro storico ad altre aree alleggerendo il traffico e mirando al contempo a preservare il valore storico-culturale degli edifici.
2. Israele, innovazioni in campo medico: l'inalatore Syqe per la cannabis terapeutica
Da Israele giungono innovazioni anche sul fronte della medicina. Tra le novità segnaliamo l'inalatore Syqe per l'assunzione e la somministrazione di cannabis terapeutica, uno strumento giudicato in termini estremamente positivi sul Journal of Pain & Palliative Care Pharmacotherapy per la sua efficacia, facilità e sicurezza, e permette un perfetto dosaggio per chi necessita di questo genere di terapie contro il dolore.
3. Innovazioni israeliana per l'agricoltura: dai campi verticali all'irrigazione a goccia
Le innovazioni per l'agricoltura di Israele sono al centro del padiglione dello stato all'Expo2015 di Milano: la possibilità di coltivazioni verticali per l'ottimizzazione dell'uso dell'acqua e il risparmio in termini di suolo, l'irrigazione a goccia, il progetto della foresta KKL-JNF che coniuga banche dei semi, nursery botaniche e cura del territorio. Tutto questo e altro ancora è esposto ed approfondito nel padiglione israeliano dell'esposizione universale.
4. Auto elettriche, da Israele la batteria che si ricarica in 5 minuti
La startup israeliana Storedot ha realizzato un sistema di ricarica per le auto elettriche che non solo è velocissimo, ma che permette in 5 minuti appena di garantire alla vettura elettrica fino a 480 km di autonomia, il tutto grazie a dei contenitori di cellulare nucleari denominati nanodots che provengono peraltro da materiale organico, e hanno costi di produzione molto contenuti.
5. Israele, la app per il monitoraggio dell'inquinamento atmosferico in ogni momento
Molto interessante è poi l'applicazione, creata da esperti israeliani, denominata BreezoMeter: si tratta di uno strumento che permette di reperire rapidamente e in ogni momento dei dati sull'inquinamento atmosferico e la qualità dell'aria non solo in una certa città, ma anche in una specifica strada.
6. Israele, le strategie e le innovazioni contro la desertificazione
Data la collocazione del proprio territorio in Israele il problema della desertificazione è particolarmente sentito: dallo stato giungono continuamente innovazioni per combattere il problema, dalla macrogestione del territorio alle nuove strategie sul campo, come per esempio la creazione di terrapieni con materiali naturali al fine di convogliare le acque piovane. Un sunto delle novità e delle scoperte israeliane sul problema sono state al centro di una recente e importante conferenza sulla desertificazione nel padiglione israeliano all'Expo.
7. Scienza, da Israele un nuovo metodo per determinare la lunghezza del giorno su Saturno
Chiudiamo la nostra lista con una scoperta scientifica: esperti israeliani hanno infatti elaborato un nuovo metodo per stabilire la durata del giorno di Saturno. Il metodo risulta innovativo per via del nuovo sistema di ottimizzazione statistica basato su una gran mole di fattori, messo a punto dal team del dottor Helled dell'università di Tel Aviv.
(Ecologiae.com, 30 giugno 2015)
Bloomberg News racconta al mondo Bertinelli
L'occasione è l'avvio della produzione di Parmigiano Kosher.
Dalle colline parmensi alla conquista del mondo, grazie al Parmigiano Reggiano Kosher: l'azienda agricola Bertinelli, che nell'ottobre scorso ha avviato la conversione della produzione del Re dei Formaggi nel rispetto della normativa ebraica nota come kasherut, è diventata oggetto di un servizio tv e di un articolo di approfondimento da parte di Bloomberg News, il gruppo con sede a New York che è leader globale nel mercato dei dati finanziari.
Nei giorni scorsi Bloomberg ha veicolato il servizio tv relativo all'azienda agricola Bertinelli in 170 Paesi: oltre 300.000 gli abbonati al servizio che ne sono stati destinatari. Il taglio è economico: il fatturato mondiale del mercato Kosher è stimato in 150 miliardi di dollari e soltanto negli Usa i prodotti Kosher rappresentano il 28% degli alimenti venduti nei supermercati. Oltre la metà dei consumatori (56%) è composta da non ebrei bensì da persone che hanno sposato la filosofia alimentare vegetariana o con particolari intolleranze o allergie alimentari, che associano ai prodotti Kosher le idee di qualità e salubrità.
L'agricola guidata da Nicola Bertinelli può vantare la certificazione Kosher per la produzione di formaggio Parmigiano Reggiano DOP da parte di OK Kosher Certification, mentre la certificazione da parte di OU - The Orthodox Union è in fase di ratifica: si tratta dei due più importanti enti al mondo in questo campo. Le prospettive di business sul mercato mondiale sono rosee: non a caso, le prime 5.000 forme di Parmigiano Reggiano Kosher sono già state tutte vendute sulla carta.
(ParmaDaily, 30 giugno 2015)
Negli Usa si parla più spagnolo che in Spagna
Il numero degli ebrei nel mondo è tornato ai livelli di prima dell'Olocausto
WASHINGTON - Vasti mutamenti demografici attraversano il pianeta. Negli Stati Uniti la popolazione che parla spagnolo è più numerosa di quella della Spagna. Mentre il numero degli ebrei nel mondo è tornato ai livelli di prima dell'Olocausto. Le nuove cifre emergono da studi pubblicati in questi giorni in Europa e Israele.
In America 41 milioni di abitanti parlano spagnolo come prima lingua mentre 11,6 milioni sono bilingui: spagnolo e inglese. Prevedibilmente sono gli stati del sud e del sud-ovest a fare la parte del leone: New Mexico, Texas, California e Arizona hanno la maggior concentrazione di ispano-parlanti.
Solo il Messico con 121 milioni batte gli Stati Uniti, rivela lo studio pubblicato dal prestigioso Istituto Cervantes. Seguono Colombia (48 milioni) e Spagna (46 milioni).
Tra le fonti citate nel rapporto "El Espanol, una lengua viva" c'è l'Ufficio americano del Censimento secondo cui gli Usa avranno 138 milioni di abitanti che parlano spagnolo entro il 2050: quasi un terzo dell'intero numero di cittadini a quel punto. Nel mondo oggi sono 559 milioni le persone che parlano la lingua di Cervantes, per 470 milioni dei quali lo spagnolo è la prima lingua.
Il secondo studio è stato pubblicato dal Jewish People Policy Institute di Israele: gli ebrei nel mondo sono saliti a 16,6 milioni, un totale non visto dagli anni Trenta e dai tentativi dei Nazisti di sterminare il popolo ebraico uccidendo oltre sei milioni di ebrei.
"C'è un valore simbolico nel fatto che gli ebrei sono tornati a livelli precedenti quella orribile distruzione", ha detto il premier israeliano Benjamin Netanyahu dopo che il suo governo ha revisionato il rapporto.
Dopo la Shoah la popolazione ebraica è aumentata progressivamente, con il maggior balzo in avanti, dell'8 per cento, negli ultimi dieci anni. La maggioranza degli ebrei risiede in Israele (6,1 milioni) e negli Stati Uniti (5,7 milioni), e poi a seguire in Francia, Canada e Gran Bretagna, con poco meno di mezzo milione a testa.
A provocare l'aumento demografico sono stati gli ebrei ortodossi che seguono il comandamento biblico del "crescete e moltiplicatevi". Israele ha già il più alto tasso di crescita demografica di un paese sviluppato nel mondo con tre bambini per famiglia che salgono a una media di 6,5 nelle famiglie ortodosse.
(tio.ch, 30 giugno 2015)
Torino: un ebreo sionista di 105 anni racconta la sua vita straordinaria
di Emanuel Segre Amar
Nei giorni 11 e 12 giugno il Gruppo Sionistico Piemontese, insieme alla Comunità Ebraica di Torino, ha ospitato un personaggio davvero speciale: Georges Loinger, classe 1910 (il 29 agosto compirà 105 anni). Il Centro sociale di piazzetta Primo Levi era strapieno, con un pubblico solo in parte appartenente alla Comunità, e l'indomani la sala mensa della scuola era nuovamente piena di allievi della scuola che hanno scelto di tornare sui banchi nel primo giorno delle loro vacanze per ascoltare, dalla viva voce di Georges Loinger, delle parole che, di sicuro, ricorderanno per sempre.
Della Prima Guerra Mondiale Loinger ricorda, soprattutto, la lunga assenza del padre, partito militare. Quando iniziò gli studi di ingegneria, il padre lo convinse a studiare quanto necessario alla cura ed all'esercizio del corpo umano, il che gli sarebbe servito sia per insegnarlo a sua volta ai giovani, che sempre sarebbero stati al centro della sua attenzione, sia per mantenere quel controllo di se stesso che gli avrebbe permesso di compiere le tante azioni che lo avrebbero reso famoso, in Francia come in Israele.
Quando Hitler non era ancora stato eletto cancelliere, Loinger va ad ascoltare una conferenza del dr. Joseph Weill che, presentando il Mein Kampf, scritto da "un certo Hitler", invita tutti gli astanti a leggerlo perché "quanto vi è scritto, questo uomo lo farà". Fu proprio grazie a Weill se nacque in Francia quel movimento ebraico di resistenza ai tedeschi del quale fece parte Loinger; egli, essendo un francese alsaziano, aveva il vantaggio di essere bilingue, il che lo avrebbe poi salvato in molte circostanze.
Allo scoppio della guerra Loinger viene arruolato, ma l'esercito francese si dimostra ben presto incapace di resistere alle truppe tedesche, meglio organizzate ed animate dalla voglia di vendicare la sconfitta della Prima Guerra Mondiale. Tutto il suo battaglione viene fatto prigioniero e portato in un campo di concentramento dove Georges teme per la propria vita, memore delle minacce di Hitler nei confronti degli ebrei. È a questo punto che mette a frutto il proprio sangue freddo che lo aiuterà, per tutta la vita, ad affrontare i maggiori pericoli uscendone sempre indenne. Sfruttando la perfetta conoscenza del francese e del tedesco, da buon alsaziano, si fa assegnare agli uffici del campo dove deve tradurre documenti.
A questo punto riceve una lettera dalla adorata moglie Flore che gli fa sapere di essere impegnata, in un castello della famiglia Rothschild, ad aiutare 123 bambini ebrei tedeschi, soli e profughi dalla Germania. Georges non indugia quindi e decide di scappare dal campo per andare ad aiutare la moglie. A piedi attraversa mezza Germania e, giunto al confine francese, pensa di attraversarlo la notte di Natale quando, come aveva previsto, l'attenzione dei militari tedeschi sarebbe stata minore. Sotto una forte nevicata attraversa a nuoto (fu sempre un perfetto nuotatore) anche il fiume Doubs e si ritrova quindi nella "sua" Francia dove riuscirà a muoversi quasi tranquillo grazie ad un documento di ex combattente. Su questo non sta scritta la sua appartenenza alla "razza ebraica", ma il nome del padre, Salomon, rappresentava comunque un pericoloso indizio.
Tutto il movimento di resistenza ebraica, sempre in collegamento con quella francese, si darà da fare per raccogliere molte centinaia di bambini ebrei soli e bisognosi di tutto. Spesso vengono affidati a famiglie che vivono nelle campagne, che, talvolta gratuitamente, talaltra chiedendo aiuti economici (che l'organizzazione ebraica faceva arrivare dagli Stati Uniti) li protessero in qualche modo.
Più difficile fu prestare aiuto ai piccoli di famiglie religiose, che chiedevano di rispettare le regole della kasheruth, le norme alimentari ebraiche, per rispetto verso gli insegnamenti dei loro genitori. Georges pensò quindi di farli espatriare in Svizzera, dove le Comunità ebraiche potevano continuare la propria vita in sostanziale tranquillità. E decise di sfruttare il fatto che le truppe italiane, che occupavano il Sud Est della Francia, si dimostravano piuttosto bendisposte verso gli ebrei nascosti; egli riuscirà a diventare amico di alcuni militari, e, in particolare, di un capitano che, conoscendo perfettamente la sua vera attività, fece in modo che nessuno lo ostacolasse. Quando poi le truppe italiane ricevettero l'ordine di ritirarsi, questo capitano gli comunicò personalmente che, da quel momento, avrebbe dovuto trovare altre soluzioni per continuare la sua opera.
Consapevole dell'importanza che Georges Loinger avrebbe dato a questa parte della sua conferenza, il presidente del Gruppo Sionistico Piemontese, Segre Amar, aveva invitato il generale dei Carabinieri Micale, comandante delle Regioni Piemonte e Valle d'Aosta, che è stato salutato con forti applausi da parte del pubblico presente.
Negli anni Georges ebbe modo di conoscere tanti passatori che prendevano per mano queste centinaia di bambini e, dietro compenso, li facevano entrare in Svizzera attraverso i rari varchi rimasti senza militari tedeschi. Strazianti erano i distacchi di questi bambini quando dovevano lasciare Georges, nel quale avevano fiducia piena, per andare verso l'ignoto con persone sconosciute. Alcuni di questi bambini, in alcuni casi già nonni, gli tributeranno grandi onori a Yad Vashem e poi a Washington (nel 1995).
Georges farà attraversare la frontiera con la Svizzera anche alla moglie e ai due figli di 7 anni e 18 mesi, ed in questo caso l'incontro pericoloso con un militare tedesco e col suo cane lo obbligò a inventare nuovi stratagemmi per salvare la situazione. Loinger si dice tuttavia convinto che questo militare abbia voluto permettergli di salvare la sua famiglia. Georges non espatriò e preferì continuare la sua opera di salvataggi fino alla fine della guerra, quando ritroverà la sua famiglia.
Fu a questo punto che, da Israele, dove le sue gesta erano conosciute, gli giunse l'ordine di collaborare nella trasformazione della nave Exodus, che venne sottoposta a lavori per poter imbarcare 4500 sopravvissuti dei campi (al posto dei 4/500 posti per i quali era stata costruita). Georges coi suoi amici farà sostituire anche i motori per poter navigare più velocemente delle navi da guerra inglesi che volevano impedirle di giungere a Haifa. Georges racconta come procurò anche tutti i veicoli necessari per portare i 4500 passeggeri fino al porto di Sète, e, come sempre, lo dice con semplicità, senza far osservare la difficoltà di una simile opera, al termine della guerra.
Nel 1959 con un suo amico carissimo, il prete gesuita Michel Riquet, ex prigioniero nei campi tedeschi, dove venne anche torturato, da sempre amico degli ebrei, organizzerà il primo congresso eucaristico del dopoguerra, a Barcellona; porteranno i delegati francesi e tedeschi, insieme, su una nave israeliana da lui stesso organizzata per l'occasione, e consegnerà una antica Bibbia al sindaco di Barcellona come dono inviato dalla città di Gerusalemme. Fu quella la prima "cosa" ebraica ad approdare in Spagna dopo la cacciata del 1492!
Nell'incontro con gli allievi della scuola ebraica Georges Loinger, dopo aver raccontato gli episodi salienti dei salvataggi di bambini da lui compiuti, ha dialogato a lungo con i piccoli, rispondendo anche alle loro numerose domande. "Dove trova questo coraggio?" gli è stato chiesto: "il est préférable de rire que de pleurer" (è meglio ridere che piangere).
Queste sono forse le parole che, più di tutte, descrivono questo fantastico personaggio che, ogni mattina, ancora oggi alla sua età, dedica 45 minuti ad una ginnastica studiata da lui stesso per attivare tutti i muscoli del corpo, e che presto si ripromette di descrivere in un nuovo libro.
(Progetto Dreyfus, giugno 2015)
Il secondo giorno in Israele
di Anna Carbich
Si parte di buon'ora verso il Mar Morto. Di colpo il paesaggio cambia e ci troviamo nel deserto di Giuda. Ma non è sempre deserto, vediamo coltivazioni di palme e altro, niente ferma i coltivatori israeliani!
Prima sosta. Fiume Giordano, sito battesimale di Giovanni Battista. Chi si aspettava un fiume ampio, con acqua limpida, forse è rimasto deluso, perché ci siamo trovati presso un canale con acqua densa, con un canneto ai lati, ma siamo stati subito ricompensati da uno spettacolo insolito. E' infatti giunto un folto gruppo di etiopi cristiani, accompagnati da una suora bianca e un sacerdote, che si sono apprestati a immergersi nelle acque del Giordano indossando tutti una veste bianca. E' stata un'immagine molto suggestiva.
Si prosegue in questo paesaggio pieno di luce, verso Qumran.
Altro nome pieno di significato. Chi non ha sentito parlare dei famosi rotoli e del loro ritrovamento fortuito? Ma trovarsi qui, su questo bastione in mezzo al deserto apparentemente inospitale, con questa luce, e pensare al povero pastore che fece questa scoperta così importante poco più di sessant'anni fa, è davvero una grande emozione. Apprendiamo che qui viveva una comunità, si può dire di monaci, di asceti, che si definivano Figli della Luce, certamente di scribi, che avevano una loro regola, dei loro riti, cui si attenevano scrupolosamente. Fiumi di parole sono stati scritti sui rotoli di Qumran, anche in rete si possono trovare tutte le informazioni possibili, quindi non mi dilungherò oltre. Ricordo solo l'emozione di Sarah nell'osservare uno scritto ritrovato, il suo piacere nel leggere e capire un testo biblico scritto più di duemila anni fa, ancora oggi perfettamente comprensibile!
Sito spettacolare, panorama mozzafiato, come ci ricordano le tante foto scattate.
A Gerusalemme potremo osservare i manoscritti originali nel museo creato appositamente per loro, detto il Tempio del Libro.
Ancora un tratto nel deserto e nuova tappa, questa volta a Masada.
Altro nome leggendario ed evocativo che tutti abbiamo in mente. Masada è una cittadina, fortificata da Erode il Grande, arroccata su un promontorio roccioso nella Giudea sud-orientale. Difficilissima da raggiungere e pressoché inespugnabile - noi ci siamo arrivati in funivia - era circondata da mura alte cinque metri lungo un perimetro di un chilometro e mezzo, con una quarantina di torri alte più di venti metri. La cittadina era dotata di terme con caldaia centrale, magazzini sotterranei e ampie cisterne per la raccolta dell'acqua che le avrebbero garantito una lunga autonomia in caso di assedio. Nel 66 fu conquistata da un migliaio di Sicarii - fazione estremista del partito ebraico degli Zeloti - che vi si insediarono con donne e bambini.
La fortezza divenne nota per l'assedio dell'esercito romano durante la prima guerra giudaica e per la sua tragica conclusione. Lo storico Giuseppe Flavio infatti racconta che, nell'anno 74, quando i soldati romani vi entrarono senza trovare resistenza, davanti ai loro occhi trovarono solo una orrenda ecatombe: il suicidio collettivo della comunità ebraica dei Sicarii che aveva resistito al potere di Roma anche dopo la caduta di Gerusalemme e la distruzione del Secondo Tempio. Masada è divenuto uno dei miti fondatori del moderno stato di Israele, un po' come il nostro Guglielmo Tell. Infatti sulla collina di Masada per anni i soldati d'Israele hanno prestato il solenne giuramento che recitava così: «Noi rimarremo uomini liberi, Masada non cadrà più». Non sono pochi tuttavia gli studiosi che mettono in dubbio l'assoluta attendibilità del racconto di Giuseppe Flavio. Vorrei però ricordare che non è il solo esempio di un suicidio collettivo di ebrei che si conosca, anche se la religione ebraica lo condanna. Nel 1190 a York, in Inghilterra, vi fu un grande incendio. Qualcuno accusò l'ebreo Baruch di averlo provocato e la folla si scatenò contro di lui e la sua famiglia uccidendoli e saccheggiando le loro proprietà. Gli altri ebrei della comunità si rifugiarono nella torre Clifford, dove rimasero in trappola per alcuni giorni, sempre circondati dalla folla inferocita, finché non scoppiò un incendio anche lì. Alla fine molti si tolsero la vita dopo aver ucciso essi stessi i loro famigliari. Molto triste.
Dopo tanta storia, l'ultima tappa della giornata, molto più rilassante, l'agognato bagno nel Mar Morto! Quattro signore del gruppo che esibiscono una forma di body art con fango locale sono state ritratte in una memorabile foto.. Ma è proprio vero che si galleggia! E' come fare un bagno di bellezza. Come ci vantavamo della morbidezza della pelle dopo la nostra immersione!
(Lideale, 30 giugno 2015)
Su quella croce
Dall'ora sesta si fecero tenebre per tutto il paese, fino all'ora nona. E verso l'ora nona, Gesù gridò con gran voce: «Elì, Elì, lamà sabactanì?» cioè: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» Alcuni degli astanti, udito questo, dicevano: «Costui chiama Elia». E subito uno di loro corse a prendere una spugna; e inzuppatala d'aceto, la pose in cima ad una canna e gli diede da bere. Ma gli altri dicevano: «Lascia, vediamo se Elia viene a salvarlo». E Gesù, dopo aver di nuovo gridato con gran voce, rese lo spirito.
dal Vangelo di Matteo, cap. 27
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Israele crea uno special team per attaccare l'Iran (che non si sa mai)
di Emanuele Rossi
PERUGIA - Doveva essere oggi 30 giugno la deadline per il deal sul nucleare iraniano, ma la data è stata prorogata, spostata per l'ennesima volta, nell'ottica di un negoziato difficilissimo che con ogni probabilità sta attraversando la fase più complicata nonostante l'intesa generica trovata con l'accordo quadro siglato ad aprile. Ci sono aspetti che sembrano ancora fermi al momento in cui la trattativa è iniziata, cioè 18 mesi fa. Come saranno gestite le ispezioni internazionali? Teheran permetterà la presenza degli osservatori nelle proprie centrali? Che tempi di sviluppo dovranno avere le infrastrutture nucleari iraniane? E poi c'è il grande tema, quello sollevato da Alan Kuperman sul New York Times: l'allungamento del tempo di breakout, cioè quello necessario all'Iran per produrre uranio arricchito a livello militare - adesso è di due/tre mesi, lo spegnimento di diverse centrifughe dovrebbe portarlo fino a un anno, ma successivamente nuovi sviluppi dell'industria nucleare iraniana potrebbero farlo anche scendere a una settimana.
Tutti gli attori istituzionali al tavolo negoziale, si dicono, per lo meno a parole, fiduciosi sulla possibilità di trovare a breve un'intesa (posizioni ufficiali, che spesso si scontrano con le rivelazioni ai media di anonimi funzionari che seguono i colloqui o con le letture degli analisti). Tra questi, una specie di convitato di pietra è Israele: la Repubblica Islamica è nemica esistenziale dello stato ebraico (l'affermazione può avere anche l'opposta direzionalità), per questo Tel Aviv
non partecipa ai negoziati, anzi, non perde occasione per delegittimarli e descriverli come il massimo dei mali possibili in questo momento.
Teheran è considerata dagli israeliani una minaccia incombente, e in questo trova ragione quanto rivelato dal sito di informazione in lingua ebraica Walla!, secondo cui il capo di stato maggiore di IDF (l'esercito israeliano), Gadi Eizenkot, ha messo il suo vice, Yair Golan, a capo di una squadra che dovrà studiare un piano di attacco militare da utilizzare contro l'Iran.
Sui giornali israeliani più vicini alle istanze della Difesa, da tempo si legge della necessità che la Knesset non tagli i bilanci militari, perché la possibile firma dell'accordo sul nucleare iraniano, significherebbe il caos nella regione mediorientale, e potrebbe richiedere un impegno armato contro Teheran. In realtà l'opzione di un attacco alle centrali nucleari iraniane è in pianificazione da oltre 15 anni, spostando puntualmente i bilanci soprattutto dell'Aviazione, perché l'opzione di una serie di attacchi aerei è considerata la più percorribile a tutt'oggi. Due mesi fa tutti i membri degli squadroni di F16 israeliani, hanno tenuto un'esercitazione in Grecia: l'addestramento riguardava operazioni rapide notturne in un teatro operativo sconosciuto. Testimonianza che si trattava di un training mirato, è lo schieramento a terra di sistemi missilistici avanzati tipo gli S-300, che la Russia ha in consegna per l'Iran.
Il clima che si respira negli ambienti più tosti di Tel Aviv
è semplicemente riassumibile: l'Iran sta bluffando. Mente sullo stop al progresso nucleare militare, mente sul numero dei reattori, mente sull'intero programma. A questo si aggiunge il timore che il sollevamento delle sanzioni internazionali possa arricchire le casse degli ayatollah di soldi che poi potrebbero finire per alimentare gruppi terroristici filo-iraniani e nemici di Israele (Hezbollah e Hamas, in pratica).
La preoccupazione del "nemico-Iran" sta accomunando le visioni strategiche di alcuni Paesi dell'area mediorientale che in precedenza non avevano rapporti diplomatici così cordiali. Un paio di settimane fa, due alti funzionari del governo saudita e di quello israeliano hanno tenuto un incontro comune (dove hanno parlato di una strategia per contrastare Teheran) in un think tank di Washington.La scorsa settimana Haaretz parlava di colloqui distensivi tra Turchia e Israele avvenuti in segreto a Roma. I due Paesi una volta erano alleati, ma i rapporti si sono interrotti dopo che nel 2010 un commando di incursori dell'unità speciale israeliana "Shayetet 13", nell'ambito dell'operazione militare "Brezza Marina", aveva assaltato la nave turca "MV Mavi Marmara" appartenente alla Freedom Flotillia per Gaza, mentre cercava di forzare il blocco navale portando aiuti umanitari nella Striscia. Negli scontri sul ponte della nave, nove attivisti rimasero uccisi e decine feriti, mentre sono stati feriti (due in gravi condizioni) anche diversi militari.
La condanna da parte di Ankara dell'assalto, aveva aperto la crisi diplomatica tra i due Paesi con l'espulsione dell'ambasciatore israeliano. Ora si parla di un risarcimento che Israele pagherà alle famiglie delle vittime, come richiesto dalla Turchia. La possibilità della soluzione arriva due settimane dopo che l'AKP, il partito del presidente Recep Tayyip Erdogan, non nuovo ad uscite antisioniste, ha perso la maggioranza in parlamento, ma non solo.
Negli anni attorno al 2010, la Turchia, in piena spinta economica e di crescita, era diventata il fulcro della geopolitica regionale ed era riuscita in parte ad offuscare l'influenza iraniana in Siria, Libano, Palestina e Iraq. A quei tempi, facendo leva su quella nuova centralità, Ankara, membro Nato ma non nuova a posizioni estremamente ambigue, si era esposta a difesa del programma nucleare iraniano e proposta nel ruolo di mediazione con Teheran - arrivò pure a votare contro le sanzioni chieste dall'America al Consiglio di Sicurezza dell'Onu. Ora la Turchia è stata completamente estromessa dai negoziati del 5+1 (USA, Cina, Russia, Francia, Inghilterra, Germania) che hanno portato avanti quest'anno e mezzo di colloqui con l'Iran; in più in questo momento, il possibile accordo si basa su equilibri geopolitici completamente rovesciati. La Turchia non gode più di quella propulsione, e all'opposto l'Iran, con il ruolo svolto nella lotta al Califfato praticamente al fianco della Coalizione internazionale in Iraq e Siria, e con l'influenza pesante di cui gode a Baghdad e Damasco (e Beirut e Sana'a), si trova in una posizione di assoluto favore. Gli errori di Ankara nella gestione delle Primavere arabe, l'ambiguità nei confronti delle posizioni radicali incarnate dai gruppi jihadisti sunniti, hanno spostato l'influenza mediorientale che aveva la Turchia, verso l'Iran.
Erdogan sa che dovrà ricostruirsi una posizione, e gioca al solito la carta dell'ambiguità. Se non si schiera contro Teheran, non vuole nemmeno mettersi contro i nemici di Teheran, e lascia lo spazio politico a una riconciliazione con Israele.
(formiche.net, 30 giugno 2015)
Ginevra, 29 giugno 2015 - Manifestazione pro-Israele
di Ivan Basana
In un'assolata giornata di fine giugno centinaia sostenitori di Israele provenienti da varie parti dell'Europa si sono ritrovati a Ginevra a manifestare in occasione della riunione della commissione "Schabas".
L'occasione era importante perché proprio a Ginevra alla "Place des Nations" di fronte alla sede del Consiglio per i diritti umani dell'ONU si doveva manifestare contro le conclusioni di una commissione che sta accusando l'esercito israeliano di crimini contro l'umanità durante la guerra con Hamas dell'agosto 2014: oltre alle varie contraddizioni si sono riscontrate falsità, conclusioni di parte e vere menzogne.
La piazza, di notevoli dimensioni, poteva considerarsi, a seconda dei punti di vista mezza piena o mezza vuota. Fonti locali danno notizia di un migliaio di partecipanti. Più realisticamente saremo stati in 6-700 persone più un centinaio di ginevrini che si fermavano incuriositi.
Probabilmente le aspettative degli organizzatori erano per un numero più consistente, ma a mio avviso è importante sottolineare la forte motivazione, determinazione, compostezza e unità dei manifestanti.
Un fatto che mi ha lasciato perplesso è stata la sparuta presenza di rappresentanti delle comunità ebraiche, infatti non saranno stati più del 10%, conclusione che ho condiviso con Amar Segre e con Eyal Mizrachi, solerte ed entusiasta organizzatore della manifestazione, nonché presidente di ADI (Amici d'Israele).
Ottimo il supporto logistico dell'Ambasciata d'Israele in Italia che ci ha fornito cartelli e striscioni in abbondanza finalizzati ad una coreografia quanto mai incisiva ed efficace.
L'aspetto positivo è stata la rappresentanza italiana che è stata del 50% dei presenti e in gran parte cristiani evangelici.
Sventolavano comunque bandiere di molte nazioni europee, Francia, Germania, Svizzera, Olanda, Ungheria, Finlandia, Austria, Slovacchia oltre al Canada e Filippine.
Un autobus è arrivato dall'Ungheria con una cinquantina di membri della "Faith Church" di Budapest, una congregazione fortemente a favore di Israele con oltre 70.000 membri.
Ma l'associazione più rappresentata è stata EDIPI (Evangelici d'Italia per Israele) con oltre 70 partecipanti.
Il presidente di EDIPI, past. Ivan Basana, ha consegnato agli organizzatori e ai relatori Gregory Lafitte, dell'European Coalition For Israel, e all'On. Giuliano Ferrara, che ha chiuso la riunione con un veemente discorso a favore di Israele, le recenti pubblicazione EDIPI, "Questa terra è la mia terra" e "Fatti e Misfatti".
Musica ebraica e l'Hatikva, l'inno nazionale di Israele, hanno fatto da chiusura alla manifestazione.
(EDIPI, 30 giugno 2015)
"Avete sbagliato rotta, probabilmente intendevate portare aiuti in Siria"
La lettera del primo ministro israeliano agli attivisti della "flottiglia" intercettata dalla Marina prima che forzasse il blocco navale sulla striscia di Gaza controllata da Hamas.
Un portavoce delle Forze di Difesa israeliane ha confermato che lunedì notte la Marina israeliana ha intercettato l'imbarcazione battente bandiera svedese "Marianne av Göteborg" che si proponeva di violare il blocco navale imposto, in conformità al diritto internazionale, alla striscia di Gaza controllata dall'organizzazione terroristica Hamas. Le unità israeliane hanno preso il controllo dell'imbarcazione senza colpo ferire, dopo che i passeggeri avevano ripetutamente respinto gli inviti a cambiare rotta. Il battello, a bordo del quale c'erano 18 attivisti anti-israeliani tra cui l'ex presidente tunisino Moncef Marzouki e il parlamentare arabo-israeliano Basel Ghattas, è stato poi scortato verso il porto israeliano di Ashdod dove il carico di aiuti potrà essere sbarcato, controllato e trasferito a Gaza. Gli organizzatori della flottiglia hanno comunicato che le altre tre imbarcazioni hanno invertito la rotta dirigendosi verso i porti di partenza, senza spiegare il motivo. "Questa flottiglia non è altro che una manifestazione di ipocrisia, che serve solo ad aiutare Hamas ignorando tutte le atrocità che vengono perpetrate in Medio Oriente", ha dichiarato lunedì il primo ministro Benjamin Netanyahu....
(israele.net, 30 giugno 2015)
Gli Usa non hanno presentato a Israele un piano di sicurezza per il ritiro dalla Cisgiordania
GERUSALEMME - Non vi è alcun piano statunitense che risponda alle esigenze di sicurezza della regione nell'eventualità di un ritiro israeliano dalla Cisgiordania: è quanto ha dichiarato il ministro della Difesa israeliano, Moshe Ya'alon, come riporta un'analisi del "Jerusalem Post".
Il presidente Usa Barack Obama, in un'intervista all'inizio di questo mese, aveva riferito di aver inviato alcuni dei migliori consiglieri militari in Israele durante i negoziati guidati dal segretario di Stato John Kerry nel 2013-2014. L'ex inviato degli Stati Uniti in Medio Oriente, Martin Indyk, nel 2014 subito dopo la rottura dei negoziati, aveva ribadito le difficoltà alla base del dialogo fra israeliani e palestinesi. "Abbiamo svolto un lavoro senza precedenti per determinare per soddisfare le esigenze di sicurezza di Israele, nel contesto di una soluzione a due Stati", aveva ribadito Allen.
Ma Ya'alon, in un incontro con i giornalisti nel suo ufficio di Tel Aviv in questi giorni ha ribadito che la parte del piano elaborata dagli Usa non era sufficiente a soddisfare i requisiti di sicurezza di Israele."Non c'è nessun piano di sicurezza degli Stati Uniti", ha infine concluso Ya'alon.
(Agenzia Nova, 30 giugno 2015)
Dal Welfare al Califfato. Così l'Isis usa lo stato sociale per il jihad
Secondo documenti di intelligence trapelati, trenta jihadisti danesi hanno fatto incetta di assegni di disoccupazione per un totale di 51 mila euro. Mentre in medio oriente tagliavano teste agli "infedeli".
di Giulio Meotti
ROMA - Il terrorista francese che venerdì scorso ha decapitato il datore di lavoro viveva in una casa popolare. I fratelli Kouachi, che hanno decimato la redazione di Charlie Hebdo, beneficiavano di un appartamento con targa all'ingresso dell'Unione europea. La famiglia di Jihadi John, il boia dei giornalisti occidentali a Raqqa, prende 40 mila sterline all'anno di sussidi e dal 1996, quando è immigrata nel Regno Unito, è costata ai contribuenti britannici oltre 400 mila sterline (il municipio di Westminster continua a pagare ogni settimana 450 sterline per l'affitto dell'appartamento in cui viveva la famiglia di Jihadi John, al secolo Mohammed Emwazi). E' la guerra santa coi soldi dei contribuenti europei. Dal Welfare state al Califfato. Ora su questo scandalo getta luce un rapporto del Gatestone Institute. Secondo documenti di intelligence trapelati, trenta jihadisti danesi hanno fatto incetta di assegni di disoccupazione per un totale di 51 mila euro mentre tagliavano teste per conto dello Stato islamico in Siria. La famiglia di Omar Abdel Hamid el Hussein, il terrorista danese responsabile dell'attacco terroristico a Copenaghen nel febbraio scorso, in cui morirono due persone, da vent'anni riceve assegni dall'assistenza sociale danese. In Austria la polizia ha arrestato tredici jihadisti che utilizzavano i sussidi sociali per finanziare i loro viaggi della morte in Siria. C'è anche chi beneficiava dell'indennità per congedo di paternità (Väterkarenz).
In Belgio, trenta jihadisti accedevano ai loro conti bancari, prelevando denaro dalle banche turche, appena oltre il confine con la Siria. Malika El Aroud, la pasionaria della guerra santa in Europa, la vedova del kamikaze che su ordine di Osama bin Laden uccise il leader afghano Ahmed Shah Massoud alla vigilia degli attentati dell'11 settembre 2001, ogni mese riceve settecento euro dal generoso welfare belga. Il Regno Unito è maestro su questo fronte. L'imam inglese Anjem Choudary, che fomenta il jihad a Londra, ha esortato i fedeli a lasciare il lavoro e a chiedere l'indennità di disoccupazione per pianificare la guerra santa contro gli infedeli. Lo stesso Choudary ha a lungo incassato 25 mila sterline l'anno di benefit sociali. Da anni i predicatori che aizzano le masse a distruggere la democrazia inglese godono dei fondi del welfare britannico. L'imam Abu Qatada ha persino ottenuto un'assistenza legale di 390 mila sterline per evitare di essere espulso in Giordania (alla fine è stato cacciato dal Regno Unito). Omar Bakri ha ottenuto benefit sociali per 300 mila sterline prima di essere espulso in Libano. Campava non male con i vari sussidi concessi da quello stato britannico che considerava il suo principale nemico anche Parvez Khan, condannato all'ergastolo nel 2008 per la progettata decapitazione di un soldato britannico. Riceveva complessivamente 1.696 sterline al mese. L'indottrinamento dei figli avveniva in salotto, nell'appartamento del quartiere di Birmingham dove la famiglia Khan viveva. Il figlio, se faceva degli errori nella recitazione di passi del Corano, veniva percosso col bastone.
"Questi parassiti terroristi"
In Germania, un'analisi dei 450 musulmani tedeschi che combattono in Siria rileva che il venti per cento di loro riceve sussidi dallo stato tedesco, tanto da spingere il ministro dell'Interno della Baviera, Joachim Hermann, a dichiarare: "Non dovevamo arrivare a questo. Il denaro dei contribuenti non avrebbe mai dovuto finanziare direttamente o indirettamente il terrorismo islamista. I sussidi di questi parassiti terroristi dovevano essere eliminati subito. Non lavorare e diffondere il terrore a spese dello stato tedesco non è solo estremamente pericoloso, è anche la peggiore provocazione e infamia".
In Svezia, l'agenzia governativa del lavoro, la Arbetsförmedlingen, ha dovuto abbandonare il programma pilota che in teoria avrebbe dovuto aiutare gli immigrati a trovare lavoro. Alcuni dipendenti musulmani dell'agenzia dirottavano parte dei fondi verso i jihadisti impegnati con lo Stato islamico. La città svedese di Orebro ha appena approvato un programma ambizioso: reinserimento sociale per chi decide di tornare da Siria e Iraq. Uccidi un "infedele" e troverai lavoro. Invano è caduto l'appello di Zulmay Afzeli, columnist di fede islamica per il giornale Svenska Dagbladet, il quale aveva denunciato che "metà dei fedeli della mia moschea di Stoccolma sono partiti per la Siria".
Nei Paesi Bassi, un jihadista di nome Khalid Abdurahman è apparso in un video truculento dello Stato islamico a Raqqa, mentre posa accovacciato di fronte a cinque teste che aveva appena mozzato. Come rivela il quotidiano olandese Volkskrant, i servizi sociali dell'Aia lo avevano dichiarato "non idoneo al lavoro" e gli avevano anche pagato i farmaci per il trattamento della claustrofobia e della schizofrenia. Khalid è originario di Almere, la città più giovane d'Olanda, salutata dagli architetti del welfare olandese come "il test del futuro del multiculturalismo". Da lì sono partiti in tanti per andare a decapitare "infedeli" in medio oriente.
(Il Foglio, 30 giugno 2015)
Orange: raggiunto un accordo con l'israeliano Partner sulla licenza del marchio
di Valeria Panigada
L'operatore francese Orange ha raggiunto con l'israeliano Partner Communications un accordo che ridefinirà alcuni aspetti del loro rapporto. In particolare l'accordo permetterà al gruppo francese di riprendere il controllo del suo marchio nei prossimi 24 mesi in Israele, mettendo così fine alla recente disputa tra i due. Secondo i termini dell'accordo, Partner, attualmente conosciuto in Israele sotto il marchio di Orange grazie a una licenza d'uso, dovrà cambiare nome e da parte sua Orange gli dovrà versare 90 milioni di euro. A inizio giugno si erano sollevate forti polemiche in scia alla volontà del gruppo transalpino di riprendere il controllo del suo marchio in Israele. Questa volontà infatti veniva letta a livello politico come una intenzione a lasciare il Paese e boicottarlo.
(FinanzaOnline, 30 giugno 2015)
In Egitto si discute su una tregua tra Hamas e Israele
IL CAIRO - Hamas avrebbe già ottenuto il via libera delle autorità israeliane per la realizzazione di un porto galleggiante al largo delle coste di Gaza, i cui lavori partirebbero subito dopo la firma dell'accordo e che sarà controllato da un organismo internazionale. Lo scalo che deve accogliere le navi cariche di merci potrebbe essere controllato dalle forze della Nato, di cui la Turchia è uno dei paesi membri. Se da un lato lo Stato di Israele ha accettato l'ipotesi di un porto galleggiante sembra sia stato fortemente contrario all'ipotesi di ripristinare l'aeroporto di Gaza. Fonti israeliane sostengono che in questa fase sia Hamas a desiderare più di tutti la tregua. In questi mesi sarebbero avvenuti diversi incontri fra i leader di Hamas e diversi diplomatici occidentali che hanno portato a definire i dettagli della tregua.
(Agenzia Nova, 29 giugno 2015)
"Basta pregiudizi contro Israele, all'Onu chiediamo imparzialità"
La manifestazione internazionale a Ginevra
di Francesca Matalon
"La sfida più grande e priorità più importante per noi è che il Consiglio per i Diritti umani sia equo nel giudizio di tutti i suoi membri, altrimenti perde la sua efficacia e dunque la sua ragione di esistere" ha dichiarato nelle scorse ore a Ginevra Robert Singer, direttore del World Jewish Congress. Al suo fianco decine di istituzioni e organizzazioni ebraiche, riunitesi oggi nella città svizzera per protestare contro il trattamento riservato a Israele dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite (Unhrc). Una protesta indetta in concomitanza con la presentazione proprio a Ginevra, sede dell'Unhrc, del rapporto stilato da una commissione Onu sul conflitto esploso lo scorso anno a Gaza tra Israele e Hamas. Nel rapporto (pubblicato lo scorso 22 giugno), duramente contestato dal governo di Gerusalemme, si accusa sia l'esercito israeliano sia i terroristi di Hamas di "crimini di guerra" e violazioni del diritto internazionale. "Vogliamo chiarire alle Nazioni Unite che applicare due pesi e due misure nel giudicare Israele, dipingendolo falsamente come un violatore seriale dei diritti umani o anche solo mettendo uno Stato democratico nella medesima categoria di Hamas e di altre organizzazioni terroristiche non solo è ingiusto, ma danneggia gravemente anche la reputazione dell'Onu e la salvaguardia dei diritti umani stessi". L'appello di Singer, a nome del World Jewish Congress, organizzazione che ha promosso la manifestazione odierna, nata per sottolineare il pregiudizio dimostrato sino ad oggi dal Consiglio per i diritti umani dell'Onu nei confronti di Israele: basti pensare che dalla sua creazione (nel 2006), il 35 per cento dei rapporti discussi in seo al Consiglio erano legati a Israele.
Alla manifestazione indetta dal World Jewish Congress hanno aderito tra gli altri, riunendosi nella Place des Nations, anche l'associazione Amici d'Israele, le Comunità ebraiche di Milano e Torino, e poi lo European Jewish Congress, l'American Jewish Committee, il B'nai B'rith International, il Conseil Représentatif des Institutions juives de France, la European Union of Jewish Students e la World Union of Jewish Students.
L'inchiesta dell'Onu è stata portata avanti da una commissione presieduta da Mary McGowan Davis, ex giudice della Corte Suprema di New York, che ha redatto il controverso rapporto insieme al consulente legale senegalese Doudou Diène. Mc Gowan Davis ha sostituito il canadese William Schabas costretto alle dimissioni lo scorso marzo dopo che era emersala notizia di una sua precedente consulenza legale a pagamento in favore dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Un conflitto di interessi denunciato da Israele che ha costretto il giudice canadese a fare un passo indietro.
Nel rapporto viene analizzata la situazione della Striscia di Gaza dopo il conflitto. "L'entità della devastazione e della sofferenza umana a Gaza non ha precedenti e avrà un impatto sulle generazioni a venire", ha dichiarato McGowan Davis, che ha sottolineato anche la minaccia costante di cui sono stati vittima i civili israeliani con gli attacchi compiuti dai terroristi di Hamas e delle altre fazioni islamiste. La presidente ha esortato la comunità internazionale ad agire sulla base delle conclusioni della relazione, in primo luogo sostenendo un'indagine da parte della Corte penale internazionale dell'Aia sullo stato dei territori palestinesi.
Tra le cifre fornite dal rapporto, si calcola che Hamas abbia lanciato più di 4800 razzi e più di 1700 colpi di mortaio, uccidendo sei civili israeliani e ferendone 1600. Sarebbero invece 1462 i civili palestinesi uccisi dalle Forze di difesa israeliane durante le ostilità, un terzo dei quali bambini.
Uno dei punti più controversi dell'inchiesta è legata alla denuncia da parte della Commissione dei raid aerei compiuti dalle forze armate israeliane durante il conflitto, azioni mirate a distruggere Hamas e precedute da un intenso sistema di avvisi alla popolazione civile palestinese per garantirne l'incolumità. "Il fatto che Israele non abbia rivisto le sue pratiche negli attacchi aerei, - l'accusa formulata all'interno del rapporto - anche dopo che i loro effetti devastanti per la popolazione civile sono diventati chiari, solleva la questione se questo fosse parte di una politica più ampia che è stata quanto meno tacitamente approvata dai più alti vertici del governo". La commissione ha quindi espresso preoccupazione per le armi usate nell'offensiva israeliana, che sebbene non illegali avrebbero messo in pericolo molti civili oltre che i combattenti armati, e criticato anche gli avvertimenti dati da Tsahal agli abitanti di Gaza prima dei raid aerei, affermando che essi "condannavano chiunque fosse rimasto nella zona come persona coinvolta nella guerra" e che "tale politica ha portato a una maggiore probabilità di ferire civili".
Per quanto riguarda l'aggressione palestinese, si sottolinea nel rapporto lo stato di ansia percepita tra la popolazione israeliana durante l'Operazione Margine protettivo, a causa della costante minaccia causata dal lancio indiscriminato di missili da parte di Hamas e delle altre fazioni islamiste della Striscia. L'indagine fa poi riferimento ai tunnel sotterranei costruiti dai terroristi per oltrepassare il confine, introdursi in territorio israeliano e colpire la popolazione.
Il governo israeliano, che ha rifiutato di cooperare con l'inchiesta dell'Unhrc, considerato troppo di parte, ha fortemente criticato il rapporto, in particolare in relazione al paragone dei gruppi terroristici palestinesi con l'esercito israeliano. "Israele non ha commesso crimini di guerra, ma si è difesa da quelli commessi da organizzazioni terroristiche", ha precisato il primo ministro Benjamin Netanyahu, che ha anche definito la relazione "illegittima nel suo concepimento, inadeguata nella sua esecuzione e immorale nella sua conclusione".
Le stesse critiche sono emerse dalle reazioni dei leader delle maggiori istituzioni ebraiche. "La commissione istituita dall'Onu è nata nel torto, con il supporto e l'approvazione da parte delle Nazioni che commettono più violazioni dei diritti umani al mondo, assegnata a una persona in conflitto di interessi, e incapace di nominare un esperto militare per un'indagine che riguarda azioni militari e le regole della guerra", ha sottolineato il presidente dello European Jewish Congress Moshe Kantor. "Per questa e altre innumerevoli e chiare ragioni - ha continuato - il rapporto è innegabilmente di parte, indifendibile, e privo di ogni credibilità". Concorde il direttore dell'American Jewish Committee David Harris, che ha evidenziato come "la vera occupazione di Gaza sia quella da parte di Hamas".
"L'indagine sull'Operazione Margine Protettivo è solo l'ultimo esempio di una lunga serie di calunnie contro Israele da parte del Consiglio per i Diritti Umani della Nazioni Unite, che rafforza un già radicato pregiudizio ed erode ulteriormente la credibilità della reazione internazionale alle gravi violazioni dei diritti umani commesse in tutto il mondo", il commento di Abraham H. Foxman, direttore della Anti-Defamation League, allineato con quello di molti altri enti.
Mentre sembrano non avere intenzione di prendere la parola direttamente nella discussione dell'Unhrc di lunedì, i diplomatici israeliani contano sull'appoggio di Stati Uniti e paesi europei per bocciare la relazione con il loro voto contrario o con l'astensione.
(moked, 29 giugno 2015)
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La strutturale ambiguità della Chiesa Cattolica Romana
Sidney Hook ha osservato una volta: «In ogni situazione drammatica è possibile predire il comportamento della Chiesa cattolica con una certa sicurezza, piuttosto in base ad una valutazione dei suoi interessi concreti in quanto organizzazione politica, che non in base a quanto viene stabilito dai suoi dogmi eterni.» Facendo un altro passo avanti, possiamo dire che questi dogmi sono sufficientemente fiessibili ed ambigui per poter essere adattati a tutta una serie di situazioni politiche diverse, dalla democrazia alla dittatura totalitaria. Questa ambiguità si spiega in parte col fatto che tutta la dottrina politica del cattolicesimo si fonda su basi teologiche e metafisiche profondamente astratte, ma spesso si tratta proprio di un sistema voluto, utile per permettere alla Chiesa di adattarsi a situazioni differenti.
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A questa citazione aggiungiamo, a conferma della tesi esposta, uno stralcio di un articolo di "Notizie su Israele" del maggio 2006, scritto in occasione della visita di papa Ratzinger ad Auschwitz. Ci scusiamo dell'autocitazione, ma in certi casi può essere utile per sottolineare la confluenza di interpretazioni sorte in ambienti diversi.
L'intima natura della CCR (Chiesa Cattolica Romana) è di essere veramente "cattolica", cioè universale, inglobante il tutto. La CCR può tollerare e sopportare quasi ogni cosa, ma non di essere emarginata, considerata irrilevante. Se si osserva la sua storia, si riconoscerà facilmente che la sua preoccupazione è sempre stata quella di mantenere o riconquistare il centro del mondo, perché questo considera essere il posto che le spetta di diritto. Le parole usate dai papi nelle loro allocuzioni devono dunque essere adeguate al raggiungimento di questo obiettivo "cattolico", universale: cioè devono contenere un po' di tutto. Tutte le corde del discorso devono essere toccate, quale in modo più forte, quale in modo più debole, in modo che le diversità di interpretazione possano essere spiegate come valutazioni diverse dell'intensità di vibrazione di tale o tal altra corda, e il continuo dibattito dei commentatori possa da una parte mantenere vivo l'interesse per la fonte delle dichiarazioni e dall'altra impedire che si attribuisca alla CCR una posizione troppo netta e precisa, con fastidiose richieste di coerenza, difficili da soddisfare. E questo è avvenuto anche in occasione della visita papale ad Auschwitz. Parole ambigue il primo giorno, pezze correttive qualche giorno dopo, naturalmente senza mai smentire nulla, conformemente al principio che un dogma, anche se imbarazzante, non si sconfessa mai: se necessario se ne aggiunge un altro e si fa scendere nella penombra il primo, mantenendone comunque la validità e tenendolo buono per un'altra occasione. Non si deve dimenticare che è parte integrante della dottrina cattolica il dogma dell'infallibilità papale. E anche se la si considera limitata ai casi in cui il papa parla "ex cathedra Petri", questo conferma che nell'autocoscienza cattolica la Cattedra di San Pietro è fonte di purissima verità. Come potrebbe allora il soglio pontificio non essere al centro dell'attenzione del mondo? Come potrebbero esserci avvenimenti di importanza mondiale che non inducano gli uomini a volgere i loro sguardi verso colui che siede al centro dell'umanità per chiedersi: che penserà? che dirà? che farà? Nel tentativo di capire, interpretare, commentare parole che cambiano continuamente di tonalità secondo il mutare delle stagioni, gli uomini saranno obbligati a correre sempre dietro al papa, senza naturalmente sperare mai di poterlo raggiungere, né tanto meno di poterlo in qualche modo influenzare.
Per quanto riguarda il rapporto della CCR con Israele e con il popolo ebraico in generale, gli amici ebrei che hanno illusioni ecumeniche farebbero bene a ricredersi. I laici "illuminati", ebrei e non ebrei, purtroppo si rifiutano di prendere in seria considerazione questioni "teologiche" e ritengono che gli atteggiamenti pragmatici siano i soli realistici. Ma non è vero, il pragmatismo può essere addirittura fatale nei rapporti con la CCR e con l'Islam, la cui stessa esistenza è di natura intimamente teologica. Ed è una teologia che li pone entrambi in una contrapposizione strutturale e vitale con Israele. Non è una questione di atteggiamento, ma di identità. Una reale, fondamentale modifica su questo tema significherebbe per loro l'annientamento di sé. E non sembra proprio che una simile autodissoluzione stia per avvenire.
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Gli islamici accolgono con favore l'accordo tra Palestina e Santa Sede
RIAD - Il segretario generale dell'Organizzazione per la cooperazione islamica, (Oic), Iyad Ameen Madani, ha accolto con favore l'accordo globale firmato tra l'Autorità nazionale palestinese e la Santa Sede. Secondo quanto si legge in un comunicato dell'Oic, Madani ha detto che "l'accordo è un modello di cooperazione e di dialogo costruttivo, e rappresenta un forte messaggio di sostegno per i diritti del popolo palestinese sulla base della soluzione dei due Stati". Il segretario generale ha aggiunto che l'intesa "rafforzerà la convivenza pacifica e costruirà ponti tra le diverse culture, civiltà e religioni".
(Agenzia Nova, 29 giugno 2015)
Si conferma che in fatto di antiebraismo Santa Sede e islam sono in piena sintonia e possono avere lo stesso linguaggio (ipocrita). M.C.
Netanyahu annuncia la costruzione di una barriera sul confine giordano
GERUSALEMME - Il consiglio di difesa del governo israeliano ha approvato la costruzione di una Barriera di sicurezza lungo il confine con la Giordania. Lo ha reso noto l'ufficio del premier Benyamin Netanyahu secondo cui in questa fase è prevista la costruzione di un tratto di 30 chilometri, a nord di Eilat, a protezione della zona dove viene realizzato l'aeroporto di Timna.
In un comunicato l'ufficio del premier precisa che la barriera sarà costruita totalmente in territorio israeliano e afferma che non pregiudica gli interessi nazionali giordani. La Giordania, aggiunge il comunicato, è stata tempestivamente informata di questo progetto.
L'ufficio di Netanyahu rileva che questa nuova barriera di sicurezza va così ad aggiungersi a quella costruita lungo il confine con l'Egitto (per impedire l'ingresso di migranti africani) e a quella rinnovata sul Golan per migliorare la protezione dai gruppi armati attivi in Siria.(
(ANSAmed, 29 giugno 2015)
Obama studia un piano per rilanciare il dialogo fra Israele e palestinesi
Ma prima la Casa Bianca vuole l'intesa con l'Iran
di Paolo Mastrolilli
NEW YORK - Il presidente Obama non ha rinunciato a far fare la pace tra israeliani e palestinesi, nonostante tutte le emergenze mediorientali che deve affrontare, dal negoziato nucleare con l'Iran all'Isis, e nonostante i contrasti avuti col premier Netanyahu. A confermarlo sono i suoi stessi collaboratori, come Mike Yaffe, a cui il capo della Casa Bianca ha chiesto di presentargli una serie di proposte per rilanciare la trattativa, dopo la conclusione del negoziato con Teheran. Al momento sul tavolo ci sono quattro idee, che «La Stampa» è in grado di rivelare.
La strategia
L'amministrazione ha ben presente l'emergenza Isis, ma in questo momento la politica estera americana ruota soprattutto intorno all'accordo nucleare con l'Iran, che non servirebbe solo a disinnescare la sua minaccia atomica. Se infatti Teheran accettasse di interpretare un nuovo ruolo responsabile nella regione, potrebbe diventare la chiave per risolvere il conflitto in corso fra sciiti e sunniti, aprendo un dialogo con l'Arabia che tornerebbe utile anche per fermare il Califfato. In questo quadro molti analisti ritengono che la pace fra israeliani e palestinesi, inseguita inutilmente dal segretario di Stato Kerry durante i primi due anni del suo mandato, sia quasi irrilevante. Il Presidente però continua a coltivare l'ambizione di favorirla, perché sarebbe un risultato storico, e aiuterebbe comunque a stabilizzare il Medio Oriente. Perciò ha chiesto ai suoi collaboratori più stretti al Consiglio per la Sicurezza Nazionale e al dipartimento di Stato di elaborare proposte per salvare la «soluzione dei due Stati», da lanciare dopo la trattativa nucleare con l'Iran. Il dossier è in mano all'inviato speciale Frank Lowenstein e appunto a Mike Yaffe, che hanno cominciato ad allertare le diplomazie dei Paesi alleati.
Le quattro ipotesi
Il dibattito è in una fase molto preliminare, ma al momento le ipotesi allo studio sono soprattutto quattro. Prima, una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, che incoraggi la ripresa del negoziato di pace sulla base di punti fermi condivisi anche dagli Usa, dando però garanzie sull'identità ebraica di Israele e sul futuro di Gerusalemme. Seconda, una dichiarazione del Quartetto, che poi verrebbe fatta propria dal Palazzo di Vetro come «road map» per le trattative. Terza, la pubblicazione degli «Obama Parameters», ossia i parametri considerati equi da Washington per rilanciare il dialogo, prima che i dati di fatto sul terreno rendano impossibile la creazione di due Stati. La pubblicazione di questi parametri sarebbe seguita da un invito delle parti alla Casa Bianca e poi un round negoziale, sul modello del tentativo fatto e fallito da Clinton alla fine del suo secondo mandato. Quarta, una pressione coordinata della comunità internazionale sulle parti, affinché riprendano le trattative dirette nella regione. Quando il dibattito interno sarà completato, e la pratica iraniana chiusa in qualche maniera, le proposte saranno definite e presentate al presidente. Lo stesso Kerry ha continuato a lavorarci, anche quando era in ospedale a Boston con la gamba rotta. L'amministrazione non si fa illusioni, e ha letto il recente discorso di Netanyahu alla Herzliya Conference come la volontà di seppellire la soluzione dei due Stati. Washington però non vede alternative, anche per salvare Israele dall'isolamento, e non ha rinunciato a riaprire la trattativa.
(La Stampa, 29 giugno 2015)
Una grande soluzione, una soluzione definitiva della questione israeliana è stata presentata da Obama direttamente in
televisione.
E ora mi raccomando: tutti in coro a dire che l'islam, con il terrorismo, non c'entra nulla
Ci sono due modi diversi per osservare e commentare l'orrore e il terrore seminati venerdì scorso in Francia, in Tunisia, in Kuwait, in Somalia dallo Stato islamico durante il primo venerdì di preghiera del Ramadan
di Claudio Cerasa
In fondo è semplice e dipende tutto dall'aggettivo. Ci sono due modi diversi per osservare e commentare l'orrore e il terrore seminati venerdì scorso in Francia, in Tunisia, in Kuwait, in Somalia dallo Stato islamico durante il primo venerdì di preghiera del Ramadan. Il primo modo è quello di condannare il terrorismo, di professare grandi attestati di vicinanza e di solidarietà nei confronti dei paesi colpiti, di inviare commoventi telegrammi a mezzo stampa e di utilizzare il proprio account Twitter per invocare la pace nel mondo e condannare in modo neutro gli attentati terroristici, provando a concentrarsi più sulla prima parte del problema (il terrorismo) che sulla seconda (l'islam), ed evitando che un eccesso di aggettivi possa essere letto come una volontà di offendere l'islam e di alimentare l'islamofobia (ciao Michele Serra).
E così, lo avete visto, le stragi diventano semplicemente "attacchi terroristici". Il secondo modo è quello di spazzolare via la patina furbetta del politicamente corretto, di chiamare le cose con il loro nome e di non nascondere quella che è la parola che tutti in questi casi provano a mettere sotto il cuscino: l'islam, signora mia. Noi siamo per la seconda scuola, siamo per la scuola di chiamare le cose con il loro nome, di riconoscere che il problema del terrorismo islamico non è solo un problema legato ad alcuni pazzi squilibrati che si fanno saltare in aria, che attaccano le moschee sciite, che fucilano turisti sulla spiaggia, che immergono nell'acido gli ostaggi, che fanno sfilare con le tutine arancioni i loro prigionieri.
Il nemico, il nostro nemico, non è solo il terrorismo in quanto tale ma è anche l'idea di cui il terrorismo è il prodotto. E quell'idea, purtroppo, è legata a una precisa interpretazione dell'islam. Esiste infatti un islam che in alcuni casi può essere considerato moderato - è il caso del Re di Giordania, è il caso del presidente Sisi, è il caso del Marocco e della Tunisia (che anche per questo, la Tunisia, simbolo di emancipazione e di libertà nel mondo islamico, è finita sotto assedio ed è bombardata da mesi da attentati provocati da terroristi islamici, e la strage sulle spiagge arriva poco dopo la strage al museo del Bardo). Ma è un islam minoritario, non a caso sotto attacco, che in troppi casi è costretto a osservare un islam anche di governo che rinuncia a prendere le distanze dagli islamisti, rinuncia a scendere in piazza per manifestare contro l'integralismo, lasciando ai re di Giordania e a pochi altri il compito di condannare il fondamentalismo. Per questo, anche per questo, non si può far finta di niente e fischiettare di fronte al problema che esiste all'origine del terrorismo islamico. Ed è sciocco, come scrive magnificamente Ayaan Hirsi Ali nel suo ultimo libro (Eretica), insistere sul fatto che le azioni violente degli islamisti radicali possano essere separate dagli ideali religiosi che li ispirano. "Dobbiamo - scrive Hirsi Ali - riconoscere che tali azioni sono mosse da un'ideologia politica, un'ideologia insita nello stesso Islam e nel suo libro sacro, come pure nella vita e negli insegnamenti del profeta Maometto. Quando si afferma che l'Islam non è una religione di pace non si vuole dire che sia il credo islamico a rendere i musulmani violenti. E' ovvio che non è così: ci sono milioni di musulmani pacifici nel mondo. Quello che si intende è che l'appello alla violenza e la sua giustificazione sono esplicitamente presenti nei testi sacri dell'islam. E questa violenza autorizzata dalla teologia è lì per essere innescata da un certo numero di infrazioni tra cui l'apostasia, l'adulterio, la blasfemia e persino concetti difficili da definire come la minaccia all'onore della famiglia o dell'islam stesso".
La visione politica e totalitaria dell'Islam non è una visione univoca ma è una visione che ha un suo peso importante nel mondo islamico, e non è soltanto una scheggia impazzita ma è un pezzo di quel mondo che ha un suo peso numerico non indifferente (Ed Husain del Council on Foreign Relations sostiene che i musulmani della Medina che vogliono imporre la sharia anche ai miscredenti sono circa il tre per cento musulmani, ed essendo nel mondo i musulmani 1,6 miliardi il tre per cento significa che si parla di circa 48 milioni). Dunque, prego, accomodatevi. Continuate a dire che non c'entra nulla. Che il problema sono soltanto i pazzi squilibrati. Che il reato di blasfemia è un peccato punito con la morte solo dai tagliagole dello Stato Islamico. Continuate a ignorare che in Pakistan ogni affermazione critica nei confronti dell'Islam viene bollata come blasfemia e punita con la morte e che in Arabia Saudita chiese e sinagoghe sono considerate fuori legge. Continuate a far finta che non esista (copyright Carlo Panella) un grande scisma nel mondo islamico che si trova alla radice della violenza di oggi. E continuate pure a perdervi nei dettagli e a dire "siamo tutti Charlie" solo quando fanno fuori i giornalisti e i vignettisti di Charlie per poi ripetere che "offendere il sacro è comunque grave" e una "reazione" in alcuni ci può stare.
Spiace ma questo non è il tempo di difendere chi vuole reagire ma è il tempo di dire che ciò che è sacro è altro, ed è la libertà d'espressione, la libertà di critica. E che oggi, questa libertà d'espressione, e questa libertà di critica, in un certo senso va difesa più della stessa libertà di reazione. E' il momento di dire che, se si vuole evitare che i trucidati dai terroristi islamici non siano morti invano, bisogna far nostre, destra e sinistra, centro, cristiani, ebrei, musulmani, le parole sacrosante messe insieme dopo il 17 gennaio in Francia dal premier Manuel Valls. Chiamiamo le cose con il loro nome. Non generalizziamo ma usiamo l'aggettivo. E non copriamoci gli occhi. Il terrorismo islamico è un problema che riguarda anche l'islam. Ed è anche per questo che bisogna mettere le cose in chiaro. E ricordare, per esempio, che chi in queste ore gioca con la parola "islamofobia" usa la stessa arma utilizzata dagli apologeti dell'islamismo per mettere a tacere i loro critici.
In fondo dipende tutto dall'aggettivo. E dipende tutto dal voler considerare quello che succede nel mondo, con il terrorismo, senza chiudere gli occhi e senza mettere la testa sotto la sabbia. L'islam purtroppo c'entra, e prima o poi anche i Michele Serra dovranno farsene una ragione.
(Il Foglio, 29 giugno 2015)
Il primo giorno in Israele
di Anna Carbich
Ormai non ci speravamo più. Si era sempre detto che per andare in Israele ci voleva un viaggio speciale, con accompagnatori speciali. Così quando Giancarlo ha proposto questo viaggio ci siamo detti, perché no? Se non ora quando? Se lo organizzano loro sarà senz'altro bello e interessante.
E così è stato.
Non è facile ora raccontare le impressioni, le sensazioni, le emozioni provate durante questa settimana così intensa, ma ci proverò, seguendo il percorso effettuato.
Siamo partiti giovedì11 da Malpensa, con volo El Al, dopo aver incontrato i compagni e la ideatrice del viaggio, Sarah, con i quali si è stabilita subito una corrente di forte simpatia.
A Tel Aviv siamo stati accolti da Ornat, la guida che ci ha accompagnati per l'intero tour, instancabile ed efficiente, che, mentre percorrevamo la strada che porta a Gerusalemme, ha cominciato a raccontarci la storia della nascita dello Stato di Israele a partire dal 1948. Ecco che le vicende lette in Exodus o in Gerusalemme, Gerusalemme di Dominique Lapierre, uscivano dai film e dai libri per ritornare nella loro vera ambientazione. Ornat ha persino intonato i canti ispirati a quei momenti così drammatici. Ci indica anche i nomi di alcune località che oltrepassiamo, come Emmaus!
L'arrivo a Gerusalemme, almeno per chi come me non c'era mai stato, è stato emozionante. La luce del tramonto dava un colore dorato alle case bianche in mezzo al verde degli alberi e sotto un cielo terso. L'aria leggera e pulita, la temperatura ideale. Da una parte una sensazione di déjà-vu, dall'altra una forte emozione, indescrivibile: ma come sono davvero qui, in mezzo alla Storia
Che uno creda o no, Gerusalemme è una città spirituale, cosa che forse non le ha sempre portato fortuna
E proprio su Gerusalemme e sulla sua importanza per il popolo di Israele ci ha parlato la sera stessa il professor Alexander Rofé, insigne biblista, che ci ha regalato le sue dotte considerazioni in perfetto toscano. Non solo, sempre fra una citazione biblica e un'altra, ma con grande semplicità e chiarezza, ci ha spiegato come nella religione ebraica la preghiera è arrivata a sostituire il sacrificio umano. Affascinante.
Eravamo stanchi, ma Ornat, abituata ad insegnare ai bambini, ci ha fissato la sveglia per le sette del giorno dopo con partenza dall'albergo alle otto e trenta.
Per fortuna il clima era ideale, asciutto, gradevole, non troppo caldo.
Venerdì 12 giugno. Gerusalemme Sacra. Siamo tutti a bocca aperta ad ammirare il panorama dal monte degli Ulivi. Sotto di noi l'immenso cimitero ebraico, di un bianco accecante, con le tombe tutte uguali su cui si posano dei sassolini, secondo l'antico uso ebraico. Varie le spiegazioni sentite al riguardo, una dice che i sassi servivano a sostenere le tombe, un'altra dice che in assenza di fiori nel deserto si metteva una pietra, di certo non si sa, ma è comunque un atto di amore. Cominciamo a scendere, passiamo dalla
cappella Dominus Flevit, arriviamo ai Getsemani. Grande emozione. Il giardino con ulivi millenari - testimoni del tempo? - è ben curato. Arriviamo alla Chiesa di tutte le Nazioni. Il nome della chiesa ricorda il contributo di numerosi paesi alla sua costruzione, avvenuta tra il 1919 ed il 1924 ad opera dell'architetto italiano Antonio Barluzzi. La chiesa è conosciuta anche come chiesa dell'agonia in riferimento alla notte che Gesù vi trascorse alla vigilia del suo arresto. Ma è successo davvero tutto qui?
Proseguiamo risalendo verso il Monte Sion, dove ci troviamo nelle strette vie del quartiere musulmano. Un cartello ci dice che siamo nella Via Dolorosa, V stazione! Camminiamo controcorrente con grande attenzione per non essere travolti da una fiumana di uomini arabi che si stanno recando verso la spianata delle Moschee alla funzione del venerdì.
Noi non ci andremo, meglio evitarlo in una giornata festiva. Vediamo anche molti giovani militari, ragazzi e ragazze, che si preparano a fare il turno di guardia proprio in quei luoghi. Meglio prevenire che reprimere.
Dopo tante emozioni ci meritiamo un po' di riposo e un buon pranzo. Hummus naturalmente, il migliore di Gerusalemme in un ristorantino arabo che Sarah conosce. Certo, Sarah non è sono una persona dotta e saggia, è anche una buongustaia, sempre alla ricerca delle specialità più tipiche, ogni cibo ha una storia, il cibo è un fatto culturale, richiede amore. Così ogni tanto, durante il viaggio ecco che ci farà gustare un frutto, un dolce, uno stuzzichino, ognuno con la sua storia. Grazie Sarah!
Ottimo l'hummus, ottima la birra locale, così come la Limonana, bevanda rinfrescante a base di limone e menta, ma si sa lì i sapori sono speciali.. Se qualcuno gradisce la ricetta: eccola.
Continuiamo la visita passando dal quartiere ebraico, visitando le Quattro Sinagoghe Spagnole restituite al culto dopo la loro liberazione nel 1967, incontriamo tanti abitanti con l'abbigliamento tipico e tanti, tanti bambini. Percorriamo l'antico Cardo che separa i quartieri ebraico e arabo da quelli armeno e cristiano.
Arriviamo al Santo Sepolcro! Sembra impossibile, è qui! Avevo sentito parlare delle dispute fra ortodossi, cattolici e armeni all'interno della chiesa e ne ho avuta conferma. Severissimo infatti il pope a guardia del sito più sacro per i cristiani, che regola il traffico dei pellegrini commossi senza alcuna pietà!
Gli ortodossi, vuoi per vicinanza, vuoi per tradizione - visto che fu Sant'Elena, la madre di Costantino, a lanciare il culto dei luoghi santi - sono molto presenti in Terra Santa, seguiti dai francescani. Anche i protestanti e i nuovi culti cristiani, soprattutto americani, sono molto attivi in Israele, anche se non nei siti più antichi.
Ma la giornata è lungi dall'essere conclusa. Poco lontano dal Santo Sepolcro si trova il luogo più sacro per l'ebraismo, il Muro del Pianto. Imponenti anche qui le misure di sicurezza. Commoventi anche qui le manifestazioni di fede. Ebrei ortodossi ed ultra ortodossi abbigliati con i tradizionali soprabiti e cappelli neri, alcuni con i copricapo di pelliccia, secondo il costume dell' Europa orientale del 18o secolo, i bambini e le signore vestite per la festa. Il venerdì sera infatti inizia lo Shabbat, la festa settimanale.
E per la sera di Shabbat siamo invitati da una famiglia ortodossa a condividere con loro la cena. Troviamo una tavola apparecchiata con cura, i padroni di casa che ci accolgono con grande calore come se fossimo amici di lunga data. Con molta pazienza ci spiegano i rituali, che comprendono preghiere, parecchi canti e molti brindisi, tutto all'insegna della vita e della riconoscenza. C'è un momento di imbarazzo quando i padroni di casa, con grande pragmatismo, ci invitano a presentarci e dire qualcosa di noi. In realtà è stato il momento che ha favorito la conoscenza reciproca e il nascere di un cameratismo fra i vari membri del gruppo che andrà consolidandosi lungo tutto il viaggio. Benedizione dello Shabbat? Forse.
Cibo e bevande ottime e abbondanti, ma a un certo momento si deve andare perché gli interruttori si spegneranno automaticamente. E' Shabbat e i più osservanti non possono nemmeno premere un interruttore. Infatti anche in albergo non capivo come mai l'ascensore si fermasse da solo ad ogni piano, come un accelerato. Anacronismi? Mah..
(L'ideale, 29 giugno 2015)
Dopo le stragi Isis cosa chiedono i filopalestinesi? «Sanzioni a Israele»
di Alberto Giannoni
I fondamentalisti seminano morte e terrore sulle due sponde del Mediterraneo. Sarebbe lecito aspettarsi una reazione (o una riflessione) su questo. Non dai cosiddetti filopalestinesi. Il giorno dopo le decine di morti fra la Tunisia, il Medioriente e l'Europa, loro vanno in piazza sì, ma per chiedere di boicottare e sanzionare Israele.
Accade a Milano, dove sabato sera, in via dei Mercanti, era ben visibile uno striscione dedicato appunto al «boicottaggio di Israele», con la sigla del Bds, una campagna internazionale che punta proprio alle sanzioni contro Tel Aviv.
Durissimo il commento dell'associazione Amici di Israele. «È l'ennesimo atto di odio contro il popolo di Israele e la sua democrazia - dice il segretario Davide Romano - Boicottano un Paese democratico e non dicono una parola contro l'Isis o le sanguinose dittature mediorientali. Non dicono nulla contro Hamas che vieta la libertà di stampa, di religione e di voto. Non sono pacifisti, ma amici delle dittature». «Sono come i comunisti negli anni Cinquanta attaccavano sempre gli Usa e non vedevano i gulag sovietici - aggiunge Romano - Sono muti sostenitori di dittature come Hamas che da 10 anni non fa votare i palestinesi. Mai una manifestazione per il diritto dei palestinesi al voto libero e democratico. In questo momento servono donne e uomini che calmino gli animi, non gente che aizza odio contro l'unico stato mediorientale che fa votare gli arabi».
(il Giornale, 29 giugno 2015)
Oltremare - Generazioni
di Daniela Fubini, Tel Aviv
Il passare delle generazioni è di solito una espressione astratta. A meno che uno non si trovi per un'ora nel riquadro colorato pieno di fiori con intorno la bianchissima piazza rettangolare formata dall'Habima e dall'Auditorium, in centro a Tel Aviv. In centro alla mia Tel Aviv, se non altro. Come ogni città, oguno ha la sua.
Arrivando in una sera di inizio d'estate, alla fine di un giugno per niente appiccicaticcio e afoso, La spianata è occupata in maggioranza da bambini saltellanti e ovviamente a piedi nudi, che si appendono ai piccoli alberelli piantati pochi anni fa, quasi fatti su misura per loro, corrono o gattonano sui passaggi in legno fra le aiuole curatissime e dai colori così forti da dare un piccolo giramento di testa.
La luce del tramonto esalta il colore di ogni triangolo fiorito che compone il giardino, contro il bianco assoluto della piazza e dei palazzi intorno. La musica classica o jazz diffusa dagli altoparlanti mimetizzati nei gradini intorno al giardino, su cui ci si siede, aggiungerebbe un tocco di perfetta poesia, se non fosse che il brulicare di umanità e bambini la copre del tutto. Ma ecco che il passaggio delle generazioni avviene, sotto i nostri occhi.
Nel giro di un quarto d'ora, gradualmente scompaiono bambini, cani e genitori, e compaiono i nonni. Che devono essere quelli non di 'turno babysitter', se girano liberamente per la città.
Prima decine, poi centinaia di coppiette e gruppi di tre o quattro, mediamente eleganti per essere Israele, capelli brizzolati o bianchi, sembrano un club cui si acceda solo dopo aver compiuto 65 anni. Attraversano la piazza per entrare all'Auditorium o a teatro, si raccolgono in gruppetti, emanano una serenità che gli abitanti precedenti della piazza non conoscono ancora.
Se gli spettacoli costassero un po' meno, forse questo radicale cambiamento di popolazione non avverrebbe, e i teatri sarebbero più pieni e multigenerazionali. Ma in questo, Tel Aviv è una città occidentale come tante altre.
(moked, 29 giugno 2015)
Israele blocca una nave della 'Freedom flotilla'. Netanyahu: "Ipocrisia e bugie"
La nave svedese "Gothenburg Marianne" fa parte della "Freedom Flotilla III", un convoglio di quattro navi che trasportano attivisti filo-palestinesi che cercano di infrangere il blocco a Gaza.
GERUSALEMME - Le forze israeliane hanno intercettato senza usare la forza una nave di attivisti filo-palestinesi che cercava di rompere il blocco su Gaza. La nave è stata scortata verso un porto israeliano, ha confermato l'esercito. "In accordo al diritto internazionale, la marina israeliana ha ripetutamente chiesto alla nave di cambiare rotta", si legge in un comunicato.
"Dopo il suo rifiuto, la marina ha intercettato la nave in acque internazionali per evitare che rompesse il blocco della Striscia di Gaza", è stato aggiunto.
Un portavoce militare ha confermato che la nave svedese "Gothenburg Marianne" fa parte della "Freedom Flotilla III", un convoglio di quattro navi che trasportano attivisti filo-palestinesi che cercano di infrangere il blocco a Gaza. Tra gli attivisti coinvolti anche il deputato arabo israeliano Bassel Ghattas e l'ex presidente tunisino Moncef Marzouki.
Nel momento il cui la Marianne è stata intercettata, i passeggeri hanno ricevuto una lettera di benvenuto dai militari israeliani e dal presidente Benjamin Netanyahu. La lettera inizia in questo modo: «Forse avete sbagliato strada, volevate andare in Siria dove il regime di Assad massacra da anni migliaia di suoi cittadini con la cooperazione del regime iraniano». Una ulteriore nota specifica che l'intervento dell'esercito israeliano "è avvenuto in acque internazionali, nel rispetto della legge internazionale e con l'avallo di un ufficio del Segretario Generale dell'ONU", specificando che "Israele non applica alcun blocco economico a Gaza perché ogni giorno vi entrano 800 camion di merci", e che i controlli marini sono necessari per evitare "traffici di armi verso i terroristi di Hamas come quelli scoperti nelle scorse settimane".
"Da parte della Flottilla non c'è altro che uno sfoggio di ipocrisia e di bugie che giovano solo all'organizzazione terroristica di Hamas e che peraltro ignorano tutti gli orrori della nostra regione" ha affermato il premier israeliano Benyamin Netanyahu.
(FONTI: Quotidiano.net, info Oggi, 29 giugno 2015)
A Troina la mostra fotografica Robert Capa in Italia 1943-44
In esposizione dal 4 luglio al 13 settembre gli scatti in bianco e nero del famoso foto-reporter di guerra sullo sbarco in Sicilia.
di Domenico Maria Ardizzone
Il Comune di Troina, in provincia di Enna, ospiterà dal prossimo 4 luglio al 13 settembre 2015, una grande retrospettiva dedicata al celebre foto-reporter di guerra Robert Capa (1913-1954), considerato il padre del fotogiornalismo moderno. L'iniziativa del Comune di Troina è in collaborazione con la Fratelli Alinari Fondazione per la Storia della Fotografia e il Museo Nazionale Ungherese di Budapest. La mostra denominata "Robert Capa in Italia. 1943-1944" passa in rassegna tutte le principali esperienze che hanno caratterizzano il lavoro del fotografo ungherese (poi naturalizzato statunitense): gli anni parigini, la Guerra civile spagnola (dove conosce la foto-reporter tedesca Gerda Taro che diventa la sua compagna, ma qualche mese dopo muore schiacciata da un carro armato), quella fra Cina e Giappone, la Seconda guerra mondiale con lo sbarco in Normandia, la Russia del secondo dopoguerra, la nascita dello Stato di Israele e, infine, il conflitto in Indocina, dove Capa morirà nel 1954 calpestando una mina.
Significativo, dal punto di vista storico, il reportage di Robert Capa sulla nascita di Israele. Per conto dell'Unites Jewish Appeal, Capa ha realizzato il documentario di 26 minuti "The Journey", dedicato ai sopravvissuti della Shoah che, emigrati in Israele, divengono cittadini israeliani. Grazie alla collaborazione con lo Steven Spielberg Jewish Film Archive e con la Cineteca del Friuli, lo straordinario documento consente la conoscenza di quei drammatici momenti. La mostra fotografica racconta, in circa 80 scatti in bianco e nero, il passaggio delle truppe in Italia, dalla Sicilia a Anzio, transitando per Troina. Sono scene di guerre e di solidarietà tra soldati e civili, consegnate per sempre alla storia, attraverso le inquadrature di uno dei più grandi fotografi di tutti i tempi e padre indiscusso del fotogiornalismo mondiale. L'attività professionale di Capa ebbe inizio proprio a Troina, quando tra il 31 luglio e il 6 agosto del 1943, dopo lo sbarco degli alleati in Sicilia, la cittadina ennese divenne teatro di una cruenta battaglia tra la resistenza di un nucleo di tedeschi arroccati in paese e un gruppo di soldati americani che avanzavano verso Messina. Troina venne ridotta in macerie e la sua popolazione fu decimata, perirono oltre centro civili tra anziani, donne e bambini.
Il servizio giornalistico di Capa sulla battaglia di Troina, venne pubblicato nell'agosto del 1943 sulla celebre rivista americana "Life" e gli valse l'inizio di un intenso rapporto di collaborazione che da lì a poco lo consacrò come il più grande fotoreporter di tutti i tempi. A memoria di quei tragici giorni e per "gli eroici slanci di umana solidarietà verso quanti avevano bisogno d'aiuto" il Comune di Troina ottenne la Medaglia d'oro al valor civile conferita nel 2007 dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Una parte significativa degli scatti che verranno esposti, che per la comunità troinese rappresentano motivo di orgoglio e di appartenenza civica, ritraggono scorci della città in macerie e documentano proprio la resa dei tedeschi e la fuga dei civili troinesi nel tentativo di sottrarsi ai bombardamenti.
(Paese Italia, 29 giugno 2015)
Un rapporto superficiale, poco professionale, avulso dalla realtà
"Qualunque israeliano ragionevole penserà che è meglio controllare un'altra nazione piuttosto che ritirarsi, essere attaccati e poi essere anche condannati".
Mary McGowan Davis presenta ufficialmente lunedì al Coniglio Onu per i diritti umani il rapporto della sua Commissione sulla guerra della scorsa estate fra Israele e Hamas nella striscia di Gaza. Si prevede che il Consiglio, composto dai rappresentanti di 47 paesi dominati da una maggioranza automatica anti-israeliana, approverà le conclusioni del rapporto. Il Ministero degli esteri israeliano sta cercando di raccogliere contro il rapporto quella che viene definita una "maggioranza morale" composta dalla maggior parte dei paesi democratici, a partire dagli Stati Uniti e dai paesi europei. Nel frattempo, una cinquantina di organizzazioni da vari paesi del mondo (Italia compresa) hanno in programma di tenere lunedì a Ginevra una manifestazione contro il rapporto della Commissione McGowan Davis. In particolare, l'istituto di ricerca "NGO Monitor" e il gruppo "UN Watch" stanno organizzando un gruppo di esperti che lunedì, mentre il Consiglio è riunito a Ginevra, analizzi il rapporto sotto il profilo militare, del diritto internazionale e delle reti del terrorismo mondiale....
(israele.net, 29 giugno 2015)
La violenza medievale con mezzi moderni. E agli islamici piace
Il 29 giugno 2014 al Baghdadi proclamava il Califfato In 12 mesi ha ingrandito il suo territorio del 30 per cento.
di Carlo Panella
Per mettere a fuoco quello che è successo nell'ultimo anno, da quando il Califfato fu proclamato il 29 giugno 2014, è indispensabile andare al 2011, quando in Siria scoppiò non una «primavera» ma una vera e propria rivoluzione popolare. Circa diecimila militari siriani allora disertarono e si schierarono a difesa delle proteste di centinaia di migliaia di siriani poveri, ma nessuno li sostenne dall' esterno. Obama rifiutò i consigli di Hillary Clinton di fornire munizioni e autoblindo ai soldati disertori (tutti laici), che nell'arco di due anni furono via via sostituiti dagli jihadisti nella difesa della popolazione siriana povera ribelle.
Sconfitta iniziale
Erano questi militanti di al Qaeda, comandati da Abu Bakr al Baghdadi, che erano stati costretti a fuggire dall'Iraq perché sconfitti dal surge del generale Usa Petraeus che, col voto contrario di Obama, aveva portato le tribù sunnite irachene a combatterli. Nel processo rivoluzionario siriano si formò un nuovo tipo di jihadista e si definì una grande differenza tra i miliziani di al Qaeda e quelli dell'Isis. I qaidisti sono militanti di una organizzazione clandestina, i miliziani dell'Isis invece si sono formati in una leva di massa, sono dei «partigiani», che hanno difeso le loro famiglie, i loro quartieri, dagli scherani di Assad, che hanno garantito armi alla mano il pane e l'acqua ai sobborghi in rivolta di Aleppo, Homs, Hama e Damasco. Sanno maneggiare il consenso popolare, insomma. Terribile, la loro ideologia barbara, ma legata alla tradizione wahabita, con l'applicazione della stessa sharia medioevale applicata da secoli dai sunniti in Mesopotamia e in Arabia Saudita.
Conquistata il 6 marzo 2013 Raqqa, città siriana di un milione di abitanti, Abu Bakr al Baghdadi, leader indiscusso dell'Isis, rompe definitivamente con al Qaeda, nega la leadership di Ayman al Zawahiri, il successore di Osama bin Laden, e intesse strettissimi rapporti con le tribù irachene sunnite, certe, non a torto, che la politica di Bagdad punta a «eliminare la presenza araba dall'Iraq a favore di un dominio iraniano e sciita». Nella primavera del 2014 l'Isis, che continua a espandersi in Siria, conduce così una travolgente offensiva in Iraq e conquista Mosul, in Iraq, città di due milioni di abitanti, sgominando un esercito iracheno inetto, che gli consegna immensi arsenali di armi. Su questa base, che è politica, di consenso popolare, e militare, al Baghdadi il 29 giugno 2014 si proclama Califfo. Lo sterminio degli sciiti, dei cristiani e degli yazidi, la schiavitù delle loro donne e bambine è il barbaro segno del suo messaggio. La sua straordinaria e atroce abilità è saper riproporre nella modernità, fare accettare a una parte della umma musulmana, il modello della città terrena fondata da Maometto alla Medina dal 622 al 632 Dc. Compresa quella ferocia che allora era di tutti, degli islamici e dei cristiani, degli asiatici e degli europei. E il suo Califfato nero piace, fa proseliti. Così come piacciono in parte della umma, le orribili scene degli sgozzamenti degli «infedeli». Dal Pakistan dei Talebani, alla Nigeria dei Boko Haram, decine di gruppi jihadisti proclamano la loro fedeltà al nuovo Califfo
Fantozziani
Contro di lui, Obama ha costruito nel settembre 2014 una Coalizione Internazionale, di cui fa parte anche l'Italia. Che ha fallito: il Califfato ha aumentato negli ultimi 12 mesi del 30% il suo territorio, ha conquistato in Siria Idlib e Palmira e in Iraq Ramadi. Si è radicato in Libia, a Sirte, nel Sinai e persino a Gaza. E quando il Califfo ordina di «punire gli infedeli durante il Ramadan», viene ubbidito da Lione, a Sousse, a Kuwait city e in Somalia. La ragione del fallimento della Coalizione di Obama è presto detta: si basa su presupposti sbagliati. La sua guerra aerea è fantozziana: il 75% dei suoi aerei torna alla base senza aver scaricato le bombe: nessuno da terra sa indicare ai piloti gli obiettivi. La guerra sul terreno secondo Obama, dovrebbe essere condotta dai curdi, che però possono solo difendersi, e poco più e dall'esercito iracheno. Ma i militari di Baghdad non combattono, non si presentano neanche le reclute previste dal comando Usa, perché i suoi vertici sono corrotti, incapaci. Perché i soldati sunniti rifiutano di combattere contro le loro tribù che appoggiano al Baghdadi. Così, contro il Califfato, in Iraq combattono solo le milizie sciite e i Pasdaran iraniani. Che sono feroci contro la popolazione civile sunnita come i miliziani dell'Isis. Così la controffensiva della Coalizione di Obama in Iraq è impantanata, mentre in Siria il regime di Assad è sull'orlo del crollo, sotto i colpi congiunti del Califfato e di al Qaida. E questa aurea di invincibilità, sommata ai fallimenti della Coalizione di Obama, si sparge nella umma ovunque, anche in Europa, facendo nuovi proseliti, che si esprimono come chiede al Baghdadi. Con le stragi.
(Libero, 28 giugno 2015)
«Non avete capito il terrorismo»
L'allarme dell'ambasciatore d'Israele.
di Fausto Carioti
Dal 2012 Naor Gilon è l'ambasciatore d'Israele in Italia. È sempre attento a pesare le parole quando gli si chiede di emettere giudizi sull'efficacia delle politiche europee dinanzi al terrorismo islamico. Però è preoccupato per quello che vede accadere in Europa: spera che il vecchio continente si svegli dal torpore e capisca l'entità di una minaccia che in Israele conoscono bene da molto tempo.
- Sempre più ebrei europei si stanno trasferendo in Israele. È la mancanza di sicurezza il motivo principale della fuga dall'Europa verso la terra dei padri?
«E una combinazione di fattori. L'economia di Israele sta andando benissimo e le opportunità, soprattutto per i giovani e specie nei settori più avanzati, sono ottime. E poi, certo, c'è il fattore sicurezza: in molti Paesi europei gli ebrei non possono camminare per le strade indossando la kippah o altri simboli, perché vengono aggrediti. Lo vediamo accadere in Belgio, in Francia... Israele è lo Stato degli ebrei, lì ci sentiamo sicuri».
- Quale è il prezzo che Israele paga per la propria sicurezza?
«Dalla fine del 1800 gli ebrei e le loro terre sono stati sempre sotto attacco. E quando fu proclamato lo stato d'Israele dovemmo combattere per la nostra indipendenza sin dal primo giorno. Io sono nato 51 anni fa in una realtà che non era diversa da quella attuale: ogni israeliano, uomo o donna, doveva svolgere il servizio militare. Fa parte dell'ordine delle cose che ognuno dia il proprio aiuto per difendere unità, identità e libertà.
- La sicurezza ha anche un prezzo economico.
«Israele investe per la propria sicurezza il 6-7% del proprio Pil, gli Stati Uniti investono il 5%, i Paesi europei, in media, investono l'1,5%. L'Europa deve investire di più per proteggersi, le risorse vanno trovate».
- L'impressione è che Israele creda che l'Europa stia dormendo davanti alla minaccia del terrorismo islamico. È cosi?
«Non voglio dare voti all'Europa. So che in alcuni Stati europei, in Italia meno che altrove, ci sono grandi comunità di immigrati che disprezzano i Paesi che li ospitano e si rifiutano di accettare il capitalismo, il liberalismo e la società aperta. In alcune moschee si predica l'odio. Credo che una situazione nella quale i tuoi stessi cittadini attaccano le tue istituzioni sia inaccettabile. Altra questione che le democrazie europee devono affrontare riguarda l'intercettazione delle comunicazioni su Internet. La Rete è un posto meraviglioso per i terroristi: consente loro di cooperare, imparare gli uni dagli altri, fare reclutamento. Occorre trovare un punto d'equilibrio tra il desiderio di privacy e il bisogno di sicurezza. Il terzo fattore su cui l'Europa deve fare una riflessione è quello delle relazioni internazionali».
- II nervo scoperto di Israele.
«I terroristi sanno come funziona il sistema delle relazioni internazionali e stanno cercando di usarlo a loro vantaggio per abbassare la capacità di autodifesa delle democrazie. Il Consiglio Onu per i Diritti umani, che nei giorni scorsi ha pubblicato un rapporto contro Israele, sta affrontando Israele più duramente di quanto faccia il resto del mondo messo insieme, inclusi Iran e Iraq. La maggioranza dei Paesi membri delle Nazioni Unite e di questo Consiglio non sono democrazie, e stanno cercando di impedire a Israele di difendersi la prossima volta che dalla striscia di Gaza partiranno i missili. Noi democrazie invece dobbiamo restare unite e mantenere la nostra capacità di difenderci insieme, perché se non ci riusciamo vinceranno loro».
- Cosa ha da imparare l'Europa da Israele in termini di sicurezza?
«In Israele viviamo in una situazione molto diversa dalla vostra, ma credo che la prima cosa che l'Europa deve fare è capire che il terrorismo rappresenta una minaccia per la sua stessa esistenza, invece di vivere in un mondo politicamente corretto e dire sempre "non possiamo fare questo, non possiamo fare quello". Dovete trovare una vostra strada per combattere il terrorismo, così come Israele ha trovato la propria. L'Unione europea sarà decisiva, perché dal punto di vista degli spostamenti interni siete davvero una cosa sola: si entra in uno Stato e ci si può muovere liberamente, senza barriere, verso tutti gli altri, e così possono fare anche i terroristi. Quindi gli Stati europei non possono permettersi di ignorare un problema finché non si presenta sul loro territorio, sperando che a risolverlo siano gli altri. Dovete essere molto uniti in questa lotta, e molto forti».
(Libero, 28 giugno 2015)
Perché non vogliamo vedere il messaggio degi assassini e rimandiamo ogni strategia
di Pierluigi Battista
Le gesta sanguinose della guerra santa scatenata dai fondamentalisti jihadisti sconvolgono i governi e lasciano sgomenta e frastomata l'opinione pubblica. Non è solo la paura che ammutolisce. È l'ostinata volontà di non riconoscere la guerra per quello che è: una guerra, appunto. Che richiede strategie di contenimento e di controffensive, impegni militari, chiarezza politica, alleanze, mobilitazione culturale, studio, investimenti onerosi. Siamo lì invece a chiederci come ha detto il primo ministro francese Valls quando avverrà il prossimo attacco. Ci chiediamo se abbiamo qualche colpa per gli attentati che insanguinano con regolarità l'Europa e le democrazie come quella tunisina. Se i vignettisti massacrati di Charlie Hebdo se la siano cercata, se sia sufficiente togliere dalla Tate Gallery i quadri con Maometto raffigurato per placare la rabbia dei fanatici, se un po' di auto-censura possa attutire i colpi, se si debba arretrare un po' sulla libertà di espressione per evitare «offese» e non urtare la suscettibilità di chi depone una testa mozzata davanti a una fabbrica per trasmettere il suo messaggio di terrore. Non vogliamo leggerlo, questo messaggio. Facciamo finta di non capire cosa ci vogliano dire gli assassini con i vessilli neri quando trucidano turisti nei musei o sulle spiagge della Tunisia, fedeli sciiti in una moschea del Kuwait, ragazze e bambini in Nigeria, ebrei in un supermercato di Parigi, nelle sale danesi dove si tengono convegni sulla libertà di satira. Cerchiamo di mantenere le distanze. Speriamo con tutte le nostre forze che le immagini delle vittime decapitate, annegate in una gabbia, fatte a pezzi con l'esplosivo attaccato al collo non siano messaggi rivolti a noi. Cerchiamo di tenerle lontane. Speriamo che siano solo un incubo. Ma non vogliamo risvegliarci. Non vogliamo capire. Facciamo scorrere qualche lacrima di indignazione. Ma rimandiamo all'infinito il momento della decisione.
Per questo siamo così paralizzati e impotenti. Per questo i fondamentalisti sono così sfrontati. A Kobane si combatte una battaglia di civiltà: se la perdiamo è una trincea decisiva che salta. Ma i governi e l'opinione pubblica non vogliono capire che Kobane è Lione e Tunisi, Parigi, Roma, Londra. Lasciamo i curdi praticamente soli. Riduciamo al minimo il sostegno dovuto. Come se la difesa fosse un lavoro sporco, o addirittura un residuo di arroganza imperialista. Ma così non resta che attendere il prossimo bagno di sangue. Per indignarci. E rannicchiarci nella paura.
(Corriere della Sera, 28 giugno 2015)
Il disastroso accordo con l'Iran spiegato dagli alleati di Obama
L'intesa con Teheran sembra sempre di più un modo per tamponare o ritardare problemi di fondo molto più grandi.
di Mattia Ferraresi
NEW YORK - Il Washington Institute for Near East Policy è un rispettato think tank della capitale che si occupa della politica americana in medio oriente, e nella sua squadra di esperti conta molti ex funzionari della sicurezza, senza distinzione di appartenenza politica. Mercoledì l'istituto ha recapitato alla Casa Bianca e al dipartimento di stato una lettera aperta estremamente critica sugli obiettivi dell'Amministrazione nei negoziati nucleari con l'Iran, che si avvicinano alla scadenza di martedì prossimo. Fra i firmatari spiccano i nomi di cinque ex funzionari dell'Amministrazione Obama, affiancati da un gruppo di falchi dell'Amministrazione Bush, fra i quali c'è anche il generale David Petraeus. "Molti di noi avrebbero preferito un accordo più forte", recita il testo, ricordando ciò che ormai dovrebbe essere chiaro anche agli osservatori più distratti: "L'accordo non impedirà all'Iran di ottenere armi nucleari. Non impone lo smantellamento delle infrastrutture per l'arricchimento. Le ridurrà soltanto per i prossimi dieci o quindici anni. E impone al regime trasparenza e ispezioni con lo scopo di dissuaderlo dalla produzione della Bomba". Inoltre, l'accordo "non costituisce una vera strategia verso l'Iran", perché "non cita il sostegno iraniano a organizzazioni terroristiche, i suoi interventi in Iraq, Siria, Libano e Yemen, il suo arsenale missilistico o l'oppressione del suo stesso popolo".
E', insomma, un accordo in tono minore che ambisce al più a tamponare o ritardare una parte del problema che l'Iran costituisce per l'America e per l'occidente. Il dettaglio più importante di questa lettera, pubblicata per alimentare il dibattito e suonare alcuni campanelli d'allarme in vista della scadenza dei negoziati, martedì, è che non si limita a esprimere una posizione diversa da quella della Casa Bianca. Sostiene piuttosto che l'accordo così come si sta delineando non passa nemmeno gli standard fissati dal governo stesso per qualificare un "buon accordo". Quindi invita il presidente e il segretario di stato a "non trattare la scadenza del 30 giugno come 'inviolabile' e a rimanere al tavolo delle trattative fino a quando non sarà raggiunto un buon accordo". Che significa un accordo che impone ispezioni severe anche oltre il periodo di inattività nucleare stabilito, che minaccia ritorsioni militari in caso di violazioni, un accordo che non lascia svanire istantaneamente il sistema di sanzioni alla firma e impone un rigido meccanismo di reintroduzione qualora i patti non vengano rispettati. Un accordo, insomma, che impedisca all'Iran di arrivare alla Bomba, non che chiede gentilmente agli ayatollah di ritardare le operazioni nucleari. Trovare un compromesso per liberarsi delle sanzioni è innanzitutto nell'interesse dell'Iran, dice la lettera, dunque Washington dovrebbe avere fra le mani la leva vantaggiosa per portare la controparte ad accettare le sue condizioni.
Negli ultimi mesi l'Amministrazione Obama ha dato però l'impressione di essere estremamente ansiosa di arrivare a un deal da esibire come trofeo politico, concedendo così spazio di manovra all'interlocutore. Non soltanto la straegia va corretta, suggeriscono gli esperti, ma anche la tattica va migliorata, evitando di essere in balìa delle intemperanze e delle ciclotimie tipiche del regime. Giusto l'altro giorno l'ayatollah Khamenei ha detto che non permetterà a nessun ispettore straniero di visitare i siti militari, condizione che invece appariva implicita nel preaccordo firmato ad aprile. La presenza fra i firmatari dell'appello di alcuni ex consiglieri di Obama e di esperti di sicurezza affiliati al Partito democratico, fra cui il negoziatore Dennis Ross, rende il documento particolarmente spinoso per la Casa Bianca, che non può declassare la ragionata contestazione a protesta di falchi neoconservatori, quelli che s'appiglierebbero a qualunque scusa per screditare Obama. E fra i critici di questo negoziato con ragioni simili a quelle esposte dal think tank si potrebbe nascondere anche Hillary, che ha iniziato i dialoghi con l'Iran da segretario di stato salvo poi trovarsi a disagio quando ha visto come il governo li ha impostati.
(Il Foglio, 28 giugno 2015)
I giorni vengono....
«Ecco, i giorni vengono», dice l'Eterno, «nei quali susciterò a Davide un germoglio giusto, che regnerà da re, prospererà, ed eserciterà il giudizio e la giustizia nel paese. Nei suoi giorni Giuda sarà salvato e Israele dimorerà al sicuro. Questo sarà il nome con cui sarà chiamato: "L'Eterno nostra giustizia". Perciò «ecco, i giorni vengono», dice l'Eterno, «nei quali non si dirà più: "Per l'Eterno vivente che ha fatto uscire i figli d'Israele dal paese d'Egitto", ma: "Per l'Eterno vivente che ha fatto uscire e ha ricondotto la progenie della casa d'Israele dal paese del nord e da tutti i paesi dove io li avevo dispersi"; ed essi dimoreranno nella loro terra».
Geremia 23:5-8
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Il calendario delle festività ebraiche
Dalla Pasqua al Simchàt Torà, tutte le date per il 2016
Sulla Gazzetta Ufficiale n. 132 del 10 giugno 2015 è stato pubblicato il calendario delle festività religiose ebraiche per l'anno 2016, ai sensi della legge 8 marzo 1989 n. 101 recante norme per la regolazione dei rapporti tra lo Stato Italiano e l'Unione delle Comunità Ebraiche italiane sulla base dell'intesa stipulata il 27 febbraio 1987.
Tale provvedimento, si applica al personale dipendente da pubbliche amministrazioni, da enti pubblici e privati nonché allo svolgimento di prove di concorso e di esami scolastici.
Ecco le date per il prossimo anno.
- Venerdi 22 aprile, Vigilia di Pesach (Pasqua);
- sabato 23 e domenica 24 aprile, Pesach (Pasqua);
- venerdi 29 e sabato 30 aprile, Pesach (Pasqua);
- domenica 12 e lunedi 13 giugno, Shavuoth (Pentecoste);
- domenica 14 agosto, digiugno del 9 di Av;
- lunedi 3 e martedi 4 ottobre, Rosh Hashanà (Capodanno);
- martedi 11 ottobre, Vigilia Kippur (Digiuno di espiazione);
- mercoledi 12 ottobre, Kippur (Digiuno di espiazione);
- lunedi 17 e martedi 18 ottobre, Sukkot (Festa delle Capanne);
- domenica 23 e lunedi 24 ottobre, Sukkot (Festa delle Capanne);
- martcdi 25 ottobre, Simchàt Torà (Festa della legge).
(estense.com, 28 giugno 2015)
Il linguaggio dei simboli e il pericolo indifferenza sui profughi
I simboli, il ricordo, l'esperienza hanno una grande forza in questa terribile vicenda umana
di Fabrizio Ravelli
C'è il linguaggio di una sedicente concretezza, a proposito dei profughi che a migliaia approdano fra noi, quello di chi dice: ma io che cosa c'entro con tutto questo? È la domanda di chi, aggrappandosi a un presunto senso comune, all'argomento del poco spazio a disposizione, a un inesistente decoro pubblico, a un fantomatico rischio per la salute e la sicurezza, tenta di legalizzare e motivare l'indifferenza. Quindi non la volgarità infame di chi preferirebbe affogarli, o li paragona a topi, ma la "razionale" resistenza di chi proprio non vuole vedere i profughi e tanto meno farsene carico. Ma c'è poi un linguaggio dei simboli, del ricordo, dell'esperienza, che in questa terribile vicenda dei profughi ha una sua grande forza, e non andrebbe trascurato. Per esempio: non c'è bisogno di andare alla stazione Centrale per vedere degli eritrei sradicati dalla loro terra. Basta visitare al nuovo bellissimo Mudec la mostra "Mondi a Milano", sulle esposizioni internazionali che nella nostra città si tennero fra il 1874 e i1 1940. Quella inaugurata il 28 aprile del 1906 fu grandiosa: 205 padiglioni suddivisi fra il parco Sempione e l'area dove nel 1923 sarebbe stata costruita la Fiera. Le due zone erano collegate da una teleferica elettrica, l'area raggiungeva i 100 ettari, le nazioni partecipanti erano 40 e 35 mila gli espositori, i visitatori furono 10 milioni. Una delle principali attrazioni era il Villaggio Eritreo. Una grande costruzione in stile simi-africano era animata da decine di eritrei in veste di figuranti.
C'erano tende, asini e dromedari, bufali e leoni. Donne velate, uomini in costumi tribali, alcuni dei quali armati di lance, bambini seminudi ma non troppo. Erano tutti deportati dal loro Paese, per essere mostrati come animali in uno zoo alla curiosità degli occidentali. L'Eritrea, dopo cinque anni di guerra italiana d'aggressione, era stata nel 1890 dichiarata prima colonia africana del Regno d'Italia. La curiosità dei visitatori all'esposizione del 1906 era quindi nutrita da una voglia di pittoresco ed esotico, ma anche dal senso di superiorità dei conquistatori nei confronti dei "selvaggi".
Oggi l'aspirazione all'indifferenza verso gli eritrei che, in transito verso il Nord Europa, affollano la Centrale e i centri di assistenza, non ha più bisogno nemmeno di quella losca curiosità da giardino zoologico. E infatti non ci si vuole chiedere perché queste persone fuggono dal loro Paese, correndo enormi rischi anche della propria vita. Non vogliamo sapere che razza di sanguinaria dittatura poliziesca governa l'Eritrea, e che interessi commerciali o industriali italiani restino in piedi con quel Paese. Si sa però - se è vero quel che ha scritto il quotidiano inglese Guardian settimana scorsa - che alcuni paesi dell'Unione europea, fra i quali l'Italia, avrebbero avviato contatti con il governo eritreo per ottenere dal dittatore Isaias Afewerki un rafforzamento dei controlli sulle frontiere, in modo da avere meno profughi eritrei qui fra i piedi.
Ma il linguaggio dei simboli, nella nostra questione profughi, è forte anche in altri luoghi. Il Memoriale Binario 21, quello di via Ferrante Aporti dove si ricorda la deportazione degli ebrei che di lì partivano su vagoni piombati verso i campi di sterminio, ha aperto i suoi spazi a una trentina di donne e bambini eritrei. Sono state sistemate delle brande, e Roberto Jarach, vicepresidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane, trasportava tinozze e detersivi perché le donne potessero fare il bucato. Il dramma di questa gente sradicata fa risuonare negli ebrei italiani antichi ricordi personali e familiari di deportazione, e non li lascia indifferenti.
Liliana Segre, che ha 85 anni e ne aveva 14 quando proprio qui dal binario 21 venne trasportata ad Auschwitz-Birkenau, in un incontro al Memoriale raccontava che gli scafisti le ricordano i "passatori", quegli italiani che a carissimo prezzo portavano oltre confine verso la Svizzera gli ebrei come lei e suo padre, spesso in realtà vendendoli poi ai nazisti e ai fascisti. Nel 1943 i Segre (Liliana, suo padre e due cugini ) vennero respinti dai gendarmi svizzeri, e il giorno dopo lei venne arrestata. È stata proprio Liliana Segre a volere la grande scritta che campeggia all'ingresso del Memoriale: INDIFFERENZA. Scolpita a ricordare qual è la vera grande colpa che dobbiamo respingere.
(la Repubblica - Milano, 28 giugno 2015)
Il Kaiser e la umma
Nasce nella Germania guglielmina dell'Ottocento l'alleanza tra il nazismo e il mondo islamico (in chiave anti ebraica).
di Antonio Donno
Quando, il 28 novembre 1941, il Gran Mufti di Gerusalemme, al Hajj Muhammad Amin Husseini, incontrò Hitler, di fatto veniva a conclusione un lungo itinerario di avvicinamento della Germania al mondo islamico. In quell'occasione, fu sancita l'amicizia tra le due parti che condividevano comuni nemici: gli inglesi, gli ebrei e i comunisti. In realtà, Hitler non fu mai un antisemita nel vero senso della parola, ma un nemico giurato degli ebrei e dell'ebraismo, accusati di essere il male della terra e meritevoli di essere sterminati. Idea che era condivisa in tutto e per tutto dal leader islamico. Poiché gli arabi sono semiti, la Germania nazista, in modo riluttante, accettò l'alleanza degli islamisti radicali, pur di giungere all'agognato esito storico di cancellare gli ebrei dalla faccia della terra. Hitler disse a Husseini che la Germania stava provvedendo a ripulire l'intera Europa dagli ebrei e gli promise che l'ora della liberazione del mondo arabo dagli ebrei e dai suoi protettori, gli inglesi, sarebbe presto venuta. Nel suo diario, Hussein scriverà: "Gli ebrei hanno torturato i loro profeti innocenti, ucciso Giovanni Battista e rifiutato Gesù; essi corrompono la morale in ogni paese, distruggono tutte le religioni e simpatizzano con la Russia (comunista). Rubano la proprietà altrui; danno denaro a usura, e distorcono la preghiera dei profeti". Hajj Amin Husseini divenne, così, "il più importante Quisling arabo nelle mani della Germania", secondo il grande storico ebreo Efraim Karsh.
L'alleanza del mondo islamico mediorientale con la Germania non fu, tuttavia, un prodotto esclusivo della politica filo-islamica di Hitler. Hitler portò a compimento una strategia che mirava alla fusione di tendenze
Volk tedesco e umma islamica condividevano la concezione della supremazia del concetto di stirpe e di sangue su ogni altro aspetto della vita comunitaria e, soprattut- to, del proprio destino di dominare il mondo.
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politiche, religiose e culturali intese a creare un'interazione tra l'ideologia nazista e i fondamenti dell'islamismo. In particolare, Volk tedesco e umma islamica condividevano la concezione della supremazia del concetto di stirpe e di sangue su ogni altro aspetto della vita comunitaria e, soprattutto, del proprio destino di dominare il mondo. Le origini dell'incontro tra questi due mondi sono da far risalire agli ultimi decenni dell'Ottocento. Tutto nacque dal contrasto tra Bismarck e il Kaiser Guglielmo II sul ruolo che avrebbe dovuto assumere la Germania nell'arena internazionale. Il Kaiser intendeva competere con la Gran Bretagna e la Francia, in considerazione del fatto che la Germania svolgeva una funzione importante nell'economia europea e che era ormai tempo di proiettarla tra le potenze imperialiste dominanti. Non così la pensava Bismarck, convinto che la forza della Germania dovesse essere prevalentemente economica. Tre erano i motivi principali di questo suo convincimento. In primo luogo, quello che preoccupava maggiormente Bismarck era la posizione geopolitica del suo paese. La Germania era nel cuore dell'Europa, circondata da Francia, Russia e Gran Bretagna. Un attacco da tre fronti sarebbe stato esiziale. Al tempo del nazismo, invece, gli strateghi tedeschi ribaltarono le convinzioni di Bismarck: la potenza espansiva della Germania nazista si sarebbe avvantaggiata della sua collocazione geopolitica nel cuore del continente per sferrare un attacco sia a est, contro la Russia. sia a ovest. contro la Francia, per poi regolare i conti con il vero nemico di Berlino, la liberale Gran Bretagna. In secondo luogo, la Germania, secondo Bismarck, avrebbe dovuto avere amichevoli rapporti con le tre potenze per evitare che si coalizzassero ai suoi danni. Infine, quando si avverò l'unificazione della Germania nel 1871, le tre potenze possedevano già grandi imperi e perciò usufruivano di un vantaggio politico e militare indiscusso, tale da rendere un'eventuale politica imperialistica della Germania molto problematica. Uscito di scena Bismarck, per le ragioni ora dette, il Kaiser e i suoi generali videro nel medio oriente ottomano l'area geopolitica in cui agire; due viaggi di Guglielmo nel 1889 e nel 1898 lo convinsero che egli avrebbe potuto essere la reincarnazione di Alessandro il Grande. Perché la Germania scelse il medio oriente e quali sarebbero stati i suoi alleati in questo grande progetto imperialistico? La risposta alla prima domanda è più semplice. Benché la regione fosse nelle mire di Francia, Russia e Gran Bretagna (soprattutto quest'ultima non voleva che si verificassero intromissioni nella linea ideale che univa il Mediterraneo orientale all'India, per non parlare del suo protettorato sull'Egitto), proprio per questo motivo la Germania poteva offrire alla Sublime Porta una solida alleanza per tenere a bada le tre potenze. La debolezza ormai evidente dell'Impero ottomano faceva sperare Berlino nella possibilità di essere il protettore interessato dell'integrità ottomana. L'artefice di questa politica di grande respiro fu Max von Oppenheim, discendente di una famiglia di banchieri ebrei convertitasi al Cristianesimo. La sua presenza in varie situazioni del medio oriente divenne costante e la Sublime Porta si mostrò sempre più aperta alle proposte di Oppenheim, anche perché la mancanza di colonie da parte tedesca rappresentava un biglietto da visita gradito agli ottomani. I resoconti di Oppenheim inviati a Berlino erano ottimistici e ciò rafforzò la convinzione del Kaiser di poter portare la Germania a competere con le grandi potenze imperialistiche nella spartizione e nel controllo del sistema politico internazionale. Secondo Oppenheim, la Germania doveva essere in grado di organizzare le masse islamiche, di eccitare "il fanatismo musulmano che confina con la follia" contro i suoi nemici, che erano anche i nemici della Germania. L'alleanza con l'Impero ottomano aveva un risvolto ben più importante. Istanbul esprimeva una visione panislamica in opposizione ai movimenti nazionalistici presenti in varie parti dell'impero, movimenti che avevano reso indipendente la sezione sud-orientale dell'Europa cristiana (Grecia, Serbia, Bulgaria e Romania), e che minacciavano di disintegrare il resto. La Germania condivideva questa visione integralista
Berlino era dell'avviso che in caso di guerra il sultano dovesse dichia- rare una jihad contro i nemici della Germania, una jihad di enormi dimensioni contro i britannici in India, i francesi nel Nord Africa e i russi nell'Asia centrale.
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dell'Islam, perché permetteva a Istanbul di resistere ai progetti di disintegrazione favoriti dalle altre potenze. Di più: Berlino era dell'avviso che in caso di guerra il sultano dovesse dichiarare una jihad contro i nemici della Germania, una jihad di enormi dimensioni contro i britannici in India, i francesi nel Nord Africa e i russi nell'Asia centrale, anche se molti tra i consiglieri del Kaiser dubitavano della capacità ottomana di reggere il confronto; anzi, temevano che questo scontro avrebbe portato alla disintegrazione dell'Impero ottomano e alla fine del progetto imperialistico tedesco. Di conseguenza, con il sostegno ideologico tedesco, l'Impero ottomano, negli ultimi anni dell'Ottocento, si oppose alle richieste di armeni ed ebrei, questi ultimi identificati politicamente con i socialdemocratici tedeschi, avversari della politica del Kaiser. La Germania si pose come il protettore dell'unità islamica dell'Impero ottomano, mentre armeni ed ebrei chiesero il sostegno della Gran Bretagna. Il pan-islamismo divenne sempre più il fondamento ideologico della Sublime Porta, e ciò portò a un esclusivismo religioso foriero delle peggiori persecuzioni successive. Da questo punto di vista, Volk tedesco e umma islamica finirono per condividere una politica di persecuzione e sterminio delle minoranze per mantenere l'unità ideologica e politica e, nel caso tedesco, etnica. In questo modo, il movimento islamista si preparava alla jihad contro gli ebrei. Nello stesso tempo, erano state gettate le fondamenta della persecuzione dei nazisti nei confronti degli ebrei. Ma le origini di tutto questo avevano radici lontane, nella riunificazione dello stato tedesco e nella sua politica imperialistica. Il Kaiser si proclamò amico di tutti i musulmani del mondo e si prefisse lo scopo di sostenere il fervore islamico per la creazione di un nuovo Saladino contro i nemici dell'Islam, e naturalmente anche della Germania. Ben presto, come vedremo, furono gli ebrei a rappresentare il nemico numero uno di tedeschi e degli islamisti. L'antisemitismo europeo di fine Ottocento e l'odio islamico nei confronti degli ebrei furono un potente collante per la politica tedesca e ottomana. Per tutti i primi anni del Novecento, fino alla Grande guerra, il pan-islamismo ottomano acquisì una visione del mondo esterno sempre più aggressiva, in questo sostenuto dall'ideologia nazista sulla superiorità della razza ariana. Pan-islamismo e teutonismo, benché nei fatti inconciliabili, avevano uno scopo politico-militare comune, lo scontro con le altre potenze, e, dal punto di vista ideologico, condividevano il concetto della purezza della stirpe, per i tedeschi, e della superiorità dell'Islam universale, per i pan-islamisti. Due concezioni totalitarie, accomunate dall'idea che gli ebrei fossero i loro nemici mortali. Una sintesi assai efficace dell'odio tedesco verso gli ebrei ci è stata fornita, nel 1894, dal grande storico tedesco Theodor Mommsen: l'antisemitismo era da lui attribuito "all'invidia, agli istinti più abietti, all'odio selvaggio per la cultura, la libertà, l'umanità". In sostanza, il rinato nazionalismo tedesco stava dando vita al culto dello stato, cui erano estranee le minoranze e in particolare quella ebraica, considerata la più minacciosa per la solidità dello stato, fondato sul Volk teutonico. Sul piano sociale, si verificò un fatto decisivo: "I cristiani cominciarono ad accorgersi del loro ritardo sociale e cercarono di entrare a far parte della nuova classe media", scrive Gotz Aly, trovando però il posto occupato dagli ebrei, più consapevoli del valore della cultura per l'ascesa sociale. Di qui, l'incancrenirsi dell'antisemitismo tedesco. Nell'Impero ottomano, l'antisemitismo s'intensificò con l'ascesa al potere dei Giovani Turchi nel 1908. Essi tesero a modernizzare l'Impero alla stessa stregua della Germania; il Kaiser li considerò
La svolta dei Giovani Turchi era indirizzata a eliminare dall'Impero le minoranze non islamiche, in particolare gli ebrei, ora rappresen- tati dal movimento sionista, un movimento sempre più forte a livello politico e numerico, tendente a favorire il ritorno degli ebrei nella loro antica patria, Eretz Israel, e a fondarvi un nuovo stato ebraico.
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erroneamente i nuovi islamisti, invece che nazionalisti di tipo europeo, ma questo errore non intaccò l'alleanza tra le due parti, anche perché la maggior parte dei Giovani Turchi era stata addestrata dai tedeschi. Tuttavia, non è inesatto dire che la svolta dei Giovani Turchi era indirizzata a eliminare dall'Impero le minoranze non islamiche, in particolare gli ebrei, ora rappresentati dal movimento sionista, un movimento sempre più forte a livello politico e numerico, tendente a favorire il ritorno degli ebrei nella loro antica patria, Eretz Israel, e a fondarvi un nuovo stato ebraico. Da questo punto di vista, l'Islam dei Giovani Turchi non poteva permettere che accadesse un fatto giudicato inconcepibile per la purezza religiosa dell'Impero. In definitiva, benché i Giovani Turchi scimmiottassero il nazionalismo di marca europea, in realtà era un Islam sempre più radicale a contraddistinguere la loro azione politica. La fine della Grande guerra, con la sconfitta della Germania e la dissoluzione dell'Impero ottomano, la Dichiarazione Balfour del 1917, la crescita del peso politico del sionismo a livello internazionale, l'irrobustirsi della comunità sionista in Palestina, resero sempre più sanguinari quei settori dell'islamismo presente in Palestina. Furono questi gli anni in cui emerse la figura di al Hajj Muhammad Amin Husseini, che si pose a capo di una fazione il cui obiettivo era l'eliminazione della comunità sionista di Palestina con tutti i mezzi disponibili. Quando il nazismo prese il potere in Germania, la vecchia alleanza tra la Germania del Kaiser e l'Impero ottomano, distrutta dagli esiti della Grande guerra, riprese vigore grazie al progetto hitleriano. Così, le rivolte arabe contro gli ebrei negli anni 30 furono caldeggiate e sostenute dal nazismo e l'ideologia razziale del Terzo Reich impregnò il pensiero degli islamisti nemici degli ebrei. In realtà, la penetrazione del razzismo e dell'antisemitismo nazista nel mondo islamico non incontrò mai ostacoli insuperabili; anzi, il "Mein Kampf", tradotto in arabo, ebbe una grande accoglienza e diffusione presso i musulmani di ogni parte del mondo. Al Hajj Muhammad Amin Husseini divenne di casa a Berlino e le vittorie naziste nei primi tempi della Seconda guerra furono accolte con grande entusiasmo dagli islamisti. Husseini, in una circostanza, ringraziò Hitler "di aver con tanto impeto sostenuto la causa della Palestina in discorsi infuocati", una Palestina liberata dagli ebrei, ovviamente. Ma avrebbe dovuto anche ringraziare i predecessori di Hitler, che avevano aperto la strada ai suoi disegni di sterminio degli ebrei di Palestina.
(Il Foglio, 27 giugno 2015)
Da Soussa a Bali. Perché il jihad si scatena contro gli "hotel del vizio"
Sono target ideologici, simboli della cultura occidentale e "dell'idolatria", frequentati da ebrei e infedeli.
di Giulio Meotti
Il terrorismo negli anni Settanta e Ottanta sceglieva le infrastrutture dell'"imperialismo", oleodotti e aerei di linea. Oggi il jihad punta agli alberghi di lusso, come quelli di Soussa, in Tunisia, o l'Hotel Sheraton, colpito un mese fa dallo Stato islamico a Baghdad. E' stato Stratfor, organizzazione americana che fornisce consulenza per la sicurezza, a spiegare cosa sta succedendo: "Ci sono stati 30 attentati contro gli hotel negli otto anni precedenti l'11 settembre. Negli otto anni successivi all'11 settembre, ci sono stati 62 attacchi contro gli hotel". Nel 2002, a Bali, in Indonesia, al Qaida fece strage di turisti occidentali: duecento morti. L'islamismo aveva in odio l'"isola dei sorrisi", enclave hindu in un paese musulmano, con le spiagge mozzafiato piene di turiste in bikini. Nel 2005 è la volta di Sharm el Sheikh, minuscolo villaggio trasformato da Hosni Mubarak in attrazione globale. A Netanya, in Israele, un kamikaze uccise trenta israeliani al Park Hotel. Era la sera della Pasqua ebraica.
La catena Marriott è stata devastata nel crollo delle Twin Towers e verrà dilaniata nuovamente otto anni dopo a Islamabad, in Pakistan. I terroristi lo chiamavano "covo di decadenza occidentale", con la piscina per le donne straniere e il bar nel seminterrato dove veniva servito alcol. In macerie l'Hilton a Taba, lo Sheraton di Karachi e a Nairobi l'hotel Norfolk degli israeliani. 57 i morti al Radisson Hotel di Amman, frequentato da diplomatici e cittadini stranieri, "politeisti" secondo Abu Musab al Zarqawi. A Mumbai, nel 2008, muoiono trenta turisti occidentali al Taj Mahal.
In un rapporto, intitolato "Il terrore contro gli hotel", gli analisti di Stratfor spiegano che gli alberghi sono, a differenza di autobus o altri obiettivi civili, prima di tutto target ideologici: "Gli hotel sono tra i simboli più importanti della cultura occidentale. I jihadisti vedono gli attacchi agli hotel in linea con l'ingiunzione coranica di vietare il vizio e promuovere la virtù. E' l'attacco a una élite corrotta che gode a spese della maggioranza impoverita. Gli hotel sono luoghi in cui uomini e donne si mescolano liberamente, e gli ospiti possono consumare alcol, ballare e fare sesso". Proprio l'immagine che nel 1948 ispirò Sayyid Qutb, l'intellettuale egiziano padrino del moderno jihad. Scelgono gli alberghi di lusso perché sono frequentati da ebrei, infedeli occidentali, musulmani ordinari, uomini d'affari. Sono il simbolo dell'"idolatria". I terroristi hanno poi scoperto che un attacco a una struttura a 5 stelle genera il panico e attrae i media, una manna per il reclutamento. Causano gravi danni alla psiche collettiva di un paese. "Questi hotel sono avamposti fortificati di una cultura straniera", ha scritto Jason Burke, studioso di al Qaida. "Rappresentano la ricchezza, l'occidentalizzazione e la corruzione morale contro cui combattono i militanti islamici".
Il terrorista inglese Omar Khyam ha confessato di aver abbracciato la guerra santa dopo aver visto uno spettacolo in un nightclub. E a Bali, quella notte, i terroristi non colpirono soltanto un resort di lusso. Ma anche il nightclub Sari. Come nel romanzo "Piattaforma" di Michel Houellebecq. Ieri la replica sulle spiagge tunisine. Una catarsi terroristica da realizzare nella confortevole promiscuità drogata di piacere.
(Il Foglio, 27 giugno 2015)
Eurabia ha allevato i suoi carnefici
Cambiare i musulmani è impossibile. I nostri governi hanno sbagliato con l'islam già 40 anni fa, è arrivato il tempo di proteggersi.
di Bat Ye'Or
Gli orribili attentati di ieri in Tunisia, Kuwait e Francia sono nell'ordine del sistema jihadista inaugurato dall'Olp contro Israele e i cristiani libanesi. Mi meraviglio che i capi dei governi e le popolazioni europee si stupiscano. Non sono stati a scuola? Non conoscono la loro storia? Sono più di tredici secoli che esiste il jihadismo. La Sicilia e il Sud dell'Italia, la Penisola iberica (la Spagna e il Portogallo), il centro dell'Europa (Balcani, Bisanzio, la Grecia) sono stati conquistati dal jihadismo nello stesso modo che vediamo oggi. Gli europei non hanno esperti in grado di informarli sulle attuali dichiarazioni dei capi jihadist, dei loro giuristi e teologi che ci spiegano e ci parlano del jihad?
Chi ha messo l'Europa in questo stato quasi indifendibile?
Chi ha dissimulato il terrorismo jihadista contro Israele, dicendo invece che Israele minacciava la pace
Come si può lottare contro il jiha- dismo se le chiese e i governi lo finanziano contro Israele con milioni di euro? Non solo l'Unione Europea paga da trent'anni la campagna di odio jihadista contro Israele, ma l'ha giustificata moralmente.
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del mondo? Come si può lottare contro il jihadismo se le chiese e i governi lo finanziano contro Israele con milioni di euro? Non solo l'Unione Europea paga da trent'anni la campagna di odio jihadista contro Israele, ma l'ha giustificata moralmente. Ammazzare i civili ebrei era giusto, delegittimarli nel loro Paese per sostenere il jihad e rinforzarlo contro Israele era lavorare alla pace.
Chi ha aperto tutte le frontiere per mischiare le popolazioni del Sud musulmano con quelle europee?
Chi, per creare la civilizzazione mediterranea euro-araba e creare la riconciliazione cristiano-musulmana, ha creato una ideologia di bugie, di negazione della verità, di autismo fondata sulla sostituzione di Israele con la Palestina, facendo dell'Europa un continente fragile, confuso e vulnerabile? Se il ministro degli Esteri francese Laurent Fabius continuerà a correre come una gallina senza testa per distruggere Israele, sperando così di proteggere la Francia dal jihadismo, non ci riuscirà.
Non è in nostro potere di cambiare l'islam. Avremmo potuto farlo quarant'anni fa, aiutando i musulmani aperti alla modernità, che erano numerosi. Ma oggi, dopo decenni di servizi mercenari e vili al jihad, mi sembra impossibile. I musulmani che per ottant'anni hanno chiamato al jihad contro gli israeliani, i cristiani ed altri, ora hanno il jihad in casa loro, e devono risolvere i loro problemi.
Adesso è arrivato il tempo per gli europei di pensare a proteggersi. II problema è sapere se i capi di Stato che sono responsabili di questa situazione, che l'hanno creata, possono trovare una strategia diversa. Che non sia quella di sostenere il jihad contro Israele e di lavorare per una più grande islamizzazione dell'Europa.
(Libero, 27 giugno 2015)
Strage di Bologna: «Era seria la pista palestinese»
Archiviata la querela del terrorista Kram contro Priore.
di Gabriele Paradisi
Strage di Bologna: la pista palestinese è basata su una «seria e attendibile piattaforma storiografica». Queste le pesanti parole del gip di Roma Pierluigi Balestrieri che ha archiviato la querela per diffamazione dell'ex terrorista tedesco Thomas Kram contro il giudice Rosario Priore. Questi, nel 2013, aveva rilasciato un'intervista all'Huffington Post in cui, sulla base di documenti della Stasi e della magistratura tedesca, aveva definito Kram, membro del gruppo Carlos ed esperto di esplosivi. Kram, a Bologna il 2 agosto 1980, nel 2011 era stato iscritto dalla procura felsinea nel registro degli indagati, nell'ambito del fascicolo, aperto nel 2005, sulla cosiddetta pista palestinese, secondo la quale, la strage sarebbe stata una ritorsione del Fplp - che per molte azioni ingaggiava il gruppo Carlos - per la rottura dell'accordo segreto con il governo italiano, accordo noto anche come «lodo Moro», avvenuta dopo il sequestro a Ortona (novembre 1979) di due missili Sam-7 Strela e l'arresto di Abu Anzeh Saleh, responsabile del Fplp in Italia. Il «lodo» sarebbe stato un patto non scritto che da un lato risparmiava il nostro Paese dal terrorismo palestinese, dall'altro garantiva impunità ai commando che usavano l'Italia come transito e deposito di armi.
Nel luglio 2014, la procura bolognese, ha chiesto l'archiviazione del fascicolo sulla pista palestinese, accolta poi dal gip nel febbraio 2015. I procuratori bolognesi Enrico Cieri e Roberto Alfonso, pur ammettendo che la presenza di Kram a Bologna il giorno della strage costituiva un «grumo residuo di sospetto», l'hanno ritenuto insufficiente «alla formulazione dell'accusa di partecipazione alla strage». Uno dei cardini della richiesta di archiviazione è l'inesistenza del «lodo». Per i magistrati c'erano stati al più «meccanismi vari» - di cui scrisse Moro dalla prigionia brigatista - ossia espedienti grazie ai quali venivano liberati i palestinesi arrestati o condannati in Italia. Chi avrà ragione tra il gip bolognese che ha archiviato la pista palestinese e il gip romano che l'ha ritenuta invece basata su di una «seria e attendibile piattaforma storiografica»?
In contemporanea con l'ordinanza di Balestrieri, quasi a suffragarne l'impianto, è stato reso noto un documento dei nostri servizi segreti, datato 18 febbraio 1978, parzialmente sconosciuto, il quale sembra attestare in modo preciso l'esistenza del «lodo». Il 17 giugno scorso, nel corso di un'audizione alla nuova Commissione Moro, lo storico Marco Clementi ha letto integralmente tale documento. Nella parte inedita, un interlocutore del Fplp, comunica che il gruppo di Habbash «opererà in attuazione confermati impegni miranti escludere il nostro Paese da piani terroristici in genere». Si tratta di una delle più chiare formulazioni del «lodo», anche perché questa attestazione proviene dall'interno del Fplp, la stessa organizzazione palestinese che rivendicherà la proprietà dei missili di Ortona, chiedendone la restituzione al governo italiano oltre alla scarcerazione di Saleh. Il Sismi aveva occultato quella parte del documento in sintonia con le direttive dei governi italiani.
Nel 1984, quando la magistratura interrogherà il colonnello Stefano Giovannone sulla scomparsa in Libano il 2 settembre 1980 dei giornalisti Italo Toni e Graziella De Palo, il capocentro del Sismi a Beirut, solleverà il segreto di Stato e il governo Craxi confermerà che i rapporti dello Stato italiano con le organizzazioni palestinesi dovevano essere tutelati al massimo livello. Scaduto quel segreto, il 28 agosto 2014, le carte sono ancora blindate e inaccessibili. La nuova Commissione Moro le ha acquisite, ma le ha immediatamente classificate come «segrete», perpetuando di fatto, con un segreto funzionale, quello che sta diventando un segreto di Stato infinito, il vero nodo occulto e inconfessabile della storia della prima Repubblica. In quelle carte c'è forse la prova dell'esistenza del «lodo Moro»? Perché i magistrati bolognesi non hanno atteso di leggerle?
(Il Tempo, 27 giugno 2015)
"Nuova" sigla jihadista minaccia i cristiani di Gerusalemme
GERUSALEMME - Alcuni volantini contenenti minacce ai cristiani di Gerusalemme e firmati da un'organizzazione finora sconosciuta che si definisce "Stato Islamico in Palestina" - con la palese intenzione di evidenziare la propria affiliazione o contiguità allo Stato Islamico - sono stati rinvenuti nella serata di giovedì 25 giugno in alcuni quartieri arabi della parte orientale della Città Santa. Secondo quanto riportato dai media israeliani, nei volantini - su cui compare anche i logo dello Stato Islamico - i cristiani di Gerusalemme vengono minacciati di morte se non lasceranno la città prima del 18 luglio, giorno in cui cade quest'anno la festa dell'Eid al Fitr, a chiusura del mese santo del Ramadan. Nel messaggio - che contiene minacce anche contro il Presidente dell'Autorità palestinese Mahmud Abbas - i cristiani vengono definiti "agenti d'Israele".
Il messaggio intimidatorio contenuto nei volantini ha provocato immediate reazioni di Michel Sabbah, Patriarca emerito di Gerusalemme dei Latini, e dell'Arcivescovo Theodosios di Sebastia, del Patriarcato greco-ortodosso di Gerusalemme. "Non si sa chi ha distribuito i volantini" dichiara all'Agenzia Fides p. Raed Abusahliah, Direttore generale di Caritas Jerusalem "e francamente non sentiamo su di noi la pressione di questi gruppi di invasati. Ma certo l'episodio ha sparso preoccupazione tra una parte dei cristiani. Alcuni di loro si chiedono: come è possibile che questi pazzi siano arrivati fin qui?" Padre Raed fa notare che "le reazioni dei musulmani sono arrivate prima di quelle dei cristiani: tanti leader musulmani hanno condannato le minacce dei volantini e hanno detto che saranno i primi a difendere i loro fratelli cristiani, se succede qualcosa. Mentre molti fedeli cristiani hanno detto che non lasceranno mai la terra di Cristo, dove sono nati, davanti a nessuna minaccia".
Il Direttore di Caritas Jerusalem fa anche notare che "queste sigle e questi gruppi possono essere appoggiati e infiltrati da forze che agiscono nell'ombra, come si vede anche in quello che sta accadendo in Iraq e in Siria. Magari adesso c'è chi vuole far vedere che i cristiani sono fragili e hanno bisogno di qualche forma di 'protezione', evidentemente non disinteressata".
(Agenzia Fides, 27 giugno 2015)
In Ghetto apre il nuovo ristorante ebraico
Il rabbino: "Porteremo a Venezia i veri sapori della nostra cucina tradizionale". Tra gli invitati anche il papà della bimba di 8 mesi cacciata da un altro ristorante perché aveva il formaggio grana nella pappa.
di Nadia De Lazzari
VENEZIA, 26 giugno - Oggi è stato inaugurato in Campo del Ghetto Nuovo il ristorante ebraico Kosher Ghimel Garden. Il rabbino capo Scialom Bahbout ha detto: «Nella tavolavsi condividono esperienze diverse. La caratteristica di questo locale è che porterà tutto il mondo ebraico a tavola».
I gestori sono Bruno Santi e Sylvie Menasche: «La cucina di questo ristorante è come Venezia, uno snodo di civiltà e di culture internazionali».
Tra i presenti un invitato speciale: Antonello Scarpa di Noale, papà di Ester. Alla piccina di 8 mesi, al vicino ristorante Gam Gam, era stato vietato di mangiare la sua pappa perché tra gli ingredienti vi era un po' di grana.
(la Nuova Venezia, 26 giugno 2015)\
La vera strategia dei palestinesi
di Khaled Abu Toameh (*)
Tutto fa pensare che i palestinesi stiano progettando di intensificare i loro sforzi per costringere Israele a soddisfare le loro richieste. Ma non essendo essi compatti, lavorano su due fronti per raggiungere il loro obiettivo. Un fronte, guidato dall'Autorità palestinese (Ap), ritiene che, con l'aiuto della comunità internazionale, Israele sarà costretto a ritirarsi ai confini antecedenti al 1967, che includono Gerusalemme Est, e ad accettare il "diritto al ritorno" per milioni di profughi e di loro discendenti alle loro case di origine all'interno di Israele. Un secondo fronte, rappresentato da Hamas, dalla Jihad islamica e da altri gruppi terroristici, continua a rifiutare ogni forma di compromesso e a insistere sul fatto che l'unica soluzione consiste nell'eliminare Israele.
A differenza della prima, questa compagine ritiene che i negoziati diretti o indiretti con il "nemico sionista" siano una perdita di tempo e che il terrorismo sia l'unico mezzo che permette ai palestinesi di raggiungere il loro scopo. Le due fazioni palestinesi, l'Ap e Hamas, si fanno guerra dal 2007, quando la seconda assunse il pieno controllo della Striscia di Gaza e costrinse l'Autorità palestinese a fuggire in Cisgiordania. Ma mentre si combattono a vicenda, esse lavorano separatamente per sopraffare Israele.
Il 19 giugno, un gruppo affiliato a Hamas ha rivendicato la responsabilità dell'attacco in cui ha perso la vita Danny Gonen, un 25enne che si era recato in Cisgiordania. Hamas, la Jihad islamica e i gruppi palestinesi si sono affrettati a "salutare" l'uccisione del giovane israeliano che non era un "colono", ma risiedeva a Lod, nei pressi dell'aeroporto Ben Gurion.
In due dichiarazioni separate, questi gruppi terroristici hanno spiegato che l'attacco è stato perpetrato nell'ambito dei tentativi palestinesi di "preservare la resistenza" contro Israele in Cisgiordania. Essi hanno detto che attentati del genere sono "mezzi legittimi" per ottenere i diritti palestinesi e realizzare le loro aspirazioni. Questi gruppi hanno dichiarato apertamente che il loro vero obiettivo non è quello di "liberare" la Cisgiordania, ma di cancellare Israele dalla faccia della terra. Come uno di loro ha asserito, "continueremo a sostenere ogni azione di resistenza in terra di Palestina fino a quando non sarà liberata, dal mare (Mediterraneo) al fiume (Giordano), e purificata da tutti gli usurpatori sionisti".
Ore dopo l'attacco in Cisgiordania, un alto dirigente di Hamas, Musa Abu Marzouk, ha ripetuto che il suo movimento sta cercando di rimpiazzare Israele con uno stato islamista: "Hamas vuole uno stato non solo nella Striscia di Gaza, ma in tutta la Palestina; noi non rinunceremo alle nostre armi e continueremo a combattere per liberare la nostra terra". I commenti di Marzouk confutano quanto asserito da alcuni media arabi e occidentali secondo i quali Hamas si sta orientando verso il pragmatismo e la moderazione, e che ora è disposto, per la prima volta, a riconoscere il diritto di Israele a esistere. Molti in Occidente spesso non riescono a comprendere la vera posizione del movimento islamista perché non seguono ciò che esso dice in arabo - al proprio popolo. In arabo, Hamas non fa mistero del suo invito a distruggere Israele. E questo messaggio viene spesso ripetuto in inglese e in altre lingue.
Se il movimento islamista e i suoi alleatisi si adoperano per distruggere Israele attraverso il terrorismo, l'Autorità palestinese sembra più determinata che mai a intensificare la sua campagna volta a delegittimare e isolare lo Stato ebraico con l'aiuto di vari attori internazionali, come il movimento anti-israeliano per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS). Ad alcuni alti funzionari palestinesi piace descrivere questa campagna come una "guerra diplomatica" contro Israele. Essi sostengono che questa guerra ha finora dimostrato di essere molto più "efficace" del lancio di razzi e degli attacchi suicidi. "Quando lanciamo razzi contro lo Stato ebraico, non raccogliamo consensi", ha spiegato un dirigente. "Ma tutti nella comunità internazionale ora sostengono i nostri sforzi diplomatici. Ecco perché riteniamo che ciò che sta facendo Hamas in questo momento è dannoso per gli interessi palestinesi".
Poco prima che il giovane israeliano fosse ferito a morte in Cisgiordania, il capo negoziatore palestinese Saeb Erekat aveva rivelato il suo piano di chiamare a raccolta il mondo intero contro Israele in modo da costringerlo a sottostare alle richieste dell'Ap, soprattutto a ritirarsi ai confini antecedenti al 1967. Il piano di Erekat esorta a lavorare in stretta collaborazione con i paesi dell'Unione Europea e i membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, e ad aumentare la pressione su Israele affinché esso accetti le richieste palestinesi. Il piano prevede anche l'ipotesi di raccogliere il consenso internazionale necessario per riconoscere uno Stato palestinese e preparargli il terreno per unirsi e aderire alle organizzazioni e alle convenzioni internazionali.
Inoltre, Erekat avverte sulle conseguenze di approvare qualsiasi risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'Onu che includa il riconoscimento di Israele come Stato ebraico o che offra concessioni al "diritto al ritorno" dei profughi. Egli ribadisce la bocciatura da parte dell'Ap dell'idea di scambi di terra tra il futuro Stato palestinese e Israele. Oltre a ciò, Erekat sottolinea la sua opposizione all'ipotesi di creare uno Stato palestinese smilitarizzato e afferma di non voler rinunciare a nessuna parte di Gerusalemme. L'attuale strategia dell'Autorità palestinese consiste nel negoziare con la comunità internazionale e non con Israele, circa il raggiungimento della pace in Medio Oriente. L'Ap sa che non otterrà da Israele tutto ciò che chiede. Ecco perché i leader palestinesi hanno scelto di negoziare con Francia, Gran Bretagna, Svezia e Stati Uniti. I palestinesi sperano che questi paesi daranno loro quello che Israele non può e non è disposto a offrire al tavolo dei negoziati.
Anche se Israele volesse rinunciare a tutti i territori conquistati nel 1967, la realtà dei fatti non glielo consente. Dal 1967, arabi ed ebrei hanno creato una serie di "fatti compiuti" irreversibili, come la costruzione di decine di migliaia di abitazioni per gli arabi e per gli ebrei. Un ritiro completo significherebbe che decine di migliaia di ebrei e arabi perderebbero le loro case in Cisgiordania e a Gerusalemme. L'obiettivo ultimo dell'Ap è costringere lo Stato ebraico a piegarsi. Per l'Autorità palestinese, mobilitare la comunità internazionale e l'Europa significa punire e indebolire Israele e non fare pace con esso. La fazione di Mahmoud Abbas vuole vedere Israele svilito, isolato e trasformato in uno stato canaglia. Vuole che gli israeliani siano trascinati davanti alla Corte penale internazionale ed espulsi dal maggior numero di organizzazioni internazionali.
Parlando con gli alti funzionari dell'Autorità palestinese si ha l'impressione che il loro vero obiettivo sia quello di vedere Israele sconfitto. La loro strategia non consiste più nella soluzione dei due Stati ma nell'infliggere dolore e sofferenza agli israeliani. Consiste nel volersi vendicare dello Stato ebraico anziché vivere in uno Stato al fianco di esso. La cosiddetta "guerra diplomatica" condotta dall'Autorità palestinese contro Israele agevola in molti modi Hamas. Accusando costantemente lo Stato ebraico di "crimini di guerra" e "atrocità", l'Ap aiuta il movimento islamista a giustificare i propri attacchi terroristici contro gli israeliani. La campagna avviata dall'Autorità palestinese contro Israele contribuisce anche a raccogliere consensi e a comprendere gli attacchi terroristici di Hamas.
Ma è anche vero il contrario. Il terrorismo di Hamas agevola la campagna contro Israele condotta dall'Ap in seno alla comunità internazionale. Ogni attacco terroristico offre all'Autorità palestinese l'opportunità di sottolineare la necessità "urgente" di costringere Israele a sottostare alle richieste palestinesi, come un modo per "contenere i radicali". È così che Hamas e l'Ap, pur rimanendo acerrimi nemici, si completano a vicenda nello svolgimento dei rispettivi ruoli contro Israele. E sono in molti quelli che nella comunità internazionale sembrano aiutare queste due fazioni palestinesi nel loro tentativo di indebolire e distruggere Israele.
(*) Gatestone Institute
(L'Opinione, 25 giugno 2015 - trad. Angelita La Spada)
Oltre mille persone danno il benvenuto alla Sinagoga di Pisa restaurata
PISA - Sono state oltre mille le persone, pisane e non solo, che domenica 21 hanno voluto dare il benvenuto alla Sinagoga restaurata: al mattino gli iscritti della Comunità Ebraica di Via Palestro e le Autorità, al pomeriggio moltissime famiglie. Una giornata di festa che - dopo 8 anni e un recupero complesso e accurato - ha restituito alla città non solo un luogo di culto ma anche un bene artistico e monumentale. Una festa per preparare la quale hanno lavorato per mesi il Comitato presieduto dal Rabbino di Pisa Luciano Caro e formato da Maurizio Gabbrielli, Andrea Gottfried, Paolo Piantanida, Arsenio Veicsteinas, Anna Deutsch Gottfried e Giacomo Schinasi (Segretario e Amministratore della Comunità). "E' nostro desiderio ringraziare tutti coloro che sono intervenuti e hanno scelto, in una calda domenica estiva, di festeggiare la Sinagoga, partecipando alla cerimonia del mattino e alle visite guidate del pomeriggio. Per tutti noi è stata una gioia e una sorpresa.
Ma vogliamo dire grazie anche ai relatori che nel corso della cerimonia di inaugurazione hanno portato il proprio saluto: ognuno di loro ha avuto un ruolo importante nel difficile e lungo recupero del Complesso Sinagogale. Nel corso degli otto anni che ci hanno condotto fino ad oggi si sono interessati, hanno contribuito secondo le proprie competenze, hanno anche semplicemente segnalato gli strumenti e le strade da percorrere per raggiungere questo importante obiettivo". "A rendere possibile la riapertura - dopo i danni al tetto del settembre 2007 che hanno portato poi al restauro complessivo - è stata una squadra di enti sovvenzionatori che hanno creduto nel nostro progetto di restauro: Arcus spa, Mibac con la Legge 175 per il recupero del Patrimonio Ebraico, Fondazione Pisa e Fondazione Cassa di Risparmio di San Miniato". "A loro va un ringraziamento particolare poiché senza il loro aiuto concreto la Comunità non avrebbe potuto riaprire le porte della Sinagoga. Ciascuno di essi è intervenuto al momento giusto ed è stato per noi fondamentale per non interrompere questa complessa opera. "Le oltre mille persone che domenica scorsa sono venute a trovarci confermano quanto la Sinagoga di via Palestro sia un gioiello pisano e parte integrante della città come la Comunità Ebraica pisana lo è stata in questi mille anni di storia e lo sarà ancora di più d'ora in poi".
(gonews.it, 26 giugno 2015)
L'altra vita degli immigrati israeliani
di Marco Percoco
Qualche giorno fa ero ad Ann Arbor, in Michigan, a discutere di trasporti e mobilità sostenibile in un congresso che ha chiamato a raccolta una cinquantina di studiosi da tutto il mondo.
E' l'epoca dei big data e dei calcolatori virtuali ed in questo gli israeliani sono dei maestri indiscussi che ormai popolano le conferenze scientifiche di mezzo mondo. Anche questa volta mi sono trovato dunque a discutere con dei matematici israeliani, ma non di modelli che spiegano i flussi di traffico, ma per curiosare nelle loro vite.
Israele è una nazione di profughi ed ognuno dei suoi cittadini porta con sè una storia avventurosa di migrazioni secolari, persecuzioni, tante lingue parlate e poi dimenticte.
Questa volta ho avuto la fortuna di conoscere un matematico della Tel Aviv University, emigrato dagli Urali in Israele 25 anni fa perchè (così ha detto): "Nessuno riusciva a pronunciare il mio nome". Un modo elegante e forse anche simpatico per dirmi che soffriva per l'antisemitismo.
Sono curioso di sapere come fosse la vita negli Urali durante l'era sovietica ed Itzhak mi ha risposto "Non ricordo molto, era un'altra vita. I miei figli sono nati a cresciuti laggiù (in URSS, n.d.r.), ma non rimpiangiamo nulla. Israele ci ha adottati e lì abbiamo realizzato i nostri sogni".
Queste poche parole contengono tutto lo spirito avventuriero dei profughi, attitudini da premiare, soprattutto in un paese come il nostro che sembra aver smarrito da tempo la spina dorsale.
(Vita, 25 giugno 2015)
Al di là degli standard morali più esigenti
In quale democrazia al mondo l'opinione pubblica permetterebbe al proprio governo di spingersi fino a questo punto?
E' possibile vincere una guerra asimmetrica contro organizzazioni come Hamas? Quando i terroristi di Hamas - o terroristi di altre organizzazioni che operano nella striscia di Gaza - lanciano razzi indiscriminatamente sui civili israeliani e poi si nascondono dietro i civili palestinesi, Israele si trova di fronte a un terribile dilemma morale.
Se reagisce, e provoca la morte di non combattenti palestinesi, non solo rischia di perdere la "battaglia per i cuori e le menti" dei suoi stessi cittadini, compresi i soldati che costituiscono un fedele spaccato della società israeliana, ma si espone alle accuse di crimini di guerra da parte della comunità internazionale. Questo è esattamente ciò che ci si aspetta che accada quando la Commissione d'inchiesta del Consiglio Onu per i diritti umani sull'operazione anti-Hamas Margine Protettivo della scorsa estate presenterà il suo rapporto alla Corte Penale internazionale....
(israele.net, 25 giugno 2015)
Firma Santa Sede-Palestina: la Civiltà Cattolica, verso l'accordo globale
Verrà sottoscritto domani [oggi per chi legge, ndr] in Vaticano l'Accordo globale, elaborato sull'Accordo di base siglato il 15 febbraio 2000, tra Santa Sede e Stato di Palestina. Ad inquadrare gli eventi recenti nella prospettiva storica dello sviluppo della posizione della Chiesa Cattolica sul conflitto israelo-palestinese, che segue attentamente da decenni, è sull'ultimo numero de "La Civiltà Cattolica" p. David Neuhaus. "Fu il Concilio Vaticano II a inaugurare una nuova era di dialogo con gli ebrei, con la Dichiarazione Nostra aetate", ma il documento "non faceva riferimento alle realtà politiche contemporanee in Terra Santa". Il primo papa ad affermare che "i palestinesi erano un popolo, piuttosto che un semplice gruppo di rifugiati", sostiene p. Neuhaus, è nel 1975 Paolo VI. Nel 1987 Giovanni Paolo II nomina per la prima volta un arabo palestinese patriarca latino di Gerusalemme. Si tratta di Michel Sabbah, che diventa "una voce schietta, all'interno della Chiesa, nel proclamare le ingiustizie che il suo popolo aveva sofferto per la continua occupazione". Nello stesso anno Giovanni Paolo II riceve in udienza privata Yasser Arafat, capo dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp). Nei primi anni Novanta l'inizio del processo di pace tra israeliani e palestinesi fa sì che la Santa Sede stabilisca relazioni sia con lo Stato di Israele (1993), sia con l'Olp (1994).
L'Accordo fondamentale tra Santa Sede e Stato di Israele (1993) sottolinea "il nuovo rapporto tra la Chiesa e il popolo ebraico", fa notare Neuhuas, ma chiarisce che la Chiesa non accetta "alcuna interpretazione religiosa riguardo alle pretese territoriali". Nel febbraio 2000, prima dell'inizio, in settembre, della seconda Intifada, viene firmato un accordo di base da Santa Sede e Olp, che richiama "a una pacifica soluzione del conflitto palestinese-israeliano". P. Neuhaus definisce "pionieristica" la visita di Giovanni Paolo II in Terra Santa nel 2000 a Yad Vashem e al campo profughi palestinese di Aida, e ricorda l'auspicio di Benedetto XVI, nel corso della sua visita del 2009: "La 'soluzione di due Stati' diventi realtà e non rimanga un sogno", ribadito da Francesco (maggio 2014) al presidente palestinese Abbas e, poche ore dopo, ai leader israeliani. L'Accordo globale siglato domani, afferma p. Neuhaus, "riguarda la vita e l'attività della Chiesa Cattolica nel territorio della Palestina", come spiega monsignor Antoine Camilleri, sottosegretario per i rapporti con gli Stati della Santa Sede e capo della delegazione vaticana, in un'intervista all'Osservatore Romano citata dal gesuita. "Questo - conclude p. Neuhaus - potrebbe davvero essere il momento per far rivivere le parole che papa Francesco ha pronunciato quando ha ospitato i presidenti Peres e Abbas in Vaticano, nella Pentecoste del 2014".
SIR ServiInformazione Religiosa, 25 giugno 2015
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Una istituzione religiosa mondiale che pensa prima di tutto alla sua sopravvivenza
di Marcello Cicchese
Chi sa leggere il vaticanese e fa i dovuti collegamenti alla storia e ai fatti politici più recenti, non potrà che vedere confermato in questo comunicato, che oggi ha visto il suo adempimento nell'accordo siglato tra Vaticano e Palestina, l'atteggiamento fondamentalmente e inevitabilmente ostile della Chiesa Cattolica verso lo Stato d'Israele. Bisogna dire "inevitabilmente" perché non è una questione di sentimenti più o meno benevoli di qualche papa verso "gli ebrei", ma della posizione politica che una struttura come quella vaticana, che pretende di essere moralmente universale e super partes, è indotta fatalmente ad occupare nel quadro della politica internazionale. E' - letteralmente - una questione di sopravvivenza, se si intende per sopravvivenza il mantenimento del posto e dell'influenza che la "Santa Sede" vuole esercitare, anzi pretende di avere il diritto di esercitare, su tutto il mondo.
Questo posto di rilievo mondiale è messo in forse ogni volta che scoppiano conflitti drammatici nel mondo, ed è per questo, molto più che per le sofferenze degli uomini, che il Vaticano parla così volentieri di pace, promuove la pace, difende la pace, perché una volta che il conflitto è in corso si pone per lei il serio problema di che cosa dire e non dire, prima ancora di che cosa fare e non fare. E regolarmente avviene che fa quello che è più conveniente alla sopravvivenza della "Santa Sede", e dice quello che sembra più adatto a conservare l'immagine di "amante della pace". Il risultato è un cumulo di disgustose ipocrisie in cui si fa un uso indegno del nome di Dio. Se c'è una cosa in cui l'istituzione mondiale religiosa della Chiesa Cattolica ha indubbiamente un primato temporale e occupa una posizione di maestro rispetto all'istituzione mondiale laica delle Nazioni Unite è l'uso sistematico della menzogna e dell'ipocrisia nell'esercizio della politica.
Si parla ancora oggi della posizione di Pio XII nei confronti del nazismo, e si cerca di stabilire in quale misura il papa ha difeso oppure no gli ebrei. Ma sulla base di quali parametri morali si fanno queste valutazioni? Nel libro di Guenter Lewy "I nazisti e la Chiesa", ristampato qualche anno fa, c'è un paragrafo che ha come titolo: "Pio XII: il dilemma della neutralità". Dopo aver esaminato, con mano leggera e senza infierire, i vari contorcimenti della Santa Sede per dire qualcosa di pubblico sull'invasione tedesca della Polonia, Lewy conclude:
D'altra parte, che cosa doveva fare il papa? In ultima analisi, analizzando tutti i fatti arriviamo alla conclusione che la sua posizione rifletteva non tanto una mancanza di coraggio personale e un'incapacità di difendere la causa della giustizia, quanto le esigenze obiettive di un'istituzione che per quasi 2000 anni aveva attribuito alla propria sopravvivenza - necessaria per la salvezza delle anime dei fedeli - maggiore importanza che alle esigenze morali del proprio credo.
E più avanti l'autore aggiunge:
Nel dicembre 1939, il sommo pontefice pubblicava una lettera pastorale rivolta ai cappellani militari delle forze armate delle nazioni in guerra chiedendo loro di avere piena fiducia nei rispettivi vescovi castrensi. Pio XII dichiarava che la guerra doveva essere considerata una manifestazione della Provvidenza divina e della volontà di un padre celeste il quale sempre volgeva il male nel bene. Il papa chiedeva ai cappellani in quanto «guerrieri che combattono sotto le bandiere della patria, di combattere anche per la Chiesa».
Il bravo cattolico deve fare anzitutto gli interessi della Chiesa, deve combattere per la Chiesa, e se questo deve farlo un semplice fedele, figuriamoci se può non farlo il papa. E Pio XII lha fatto. Se si accetta, anche solo per dialogare, lautocoscienza della Chiesa Cattolica e del suo papa, bisogna dire che Pio XII ha fatto bene a fare quello che ha fatto, cioè a non scomunicare Hitler e a non protestare pubblicamente contro le stragi degli ebrei. E lattuale papa Francesco fa bene a riconoscere lo Stato di Palestina e a dichiarare che la Chiesa non accetta "alcuna interpretazione religiosa riguardo alle pretese territoriali", cioè a dire che gli ebrei non hanno alcun titolo biblico sulla città di Gerusalemme e sulla terra dIsraele. Il riferimento a Dio non compete agli ebrei, dice il papa. E se lo dice il papa, la questione è chiusa.
No, non è di quello che dice o fa il papa che bisogna occuparsi, ma di quello che è o vuole essere il papato. Questo è un argomento teologico, che proprio per questo oggi ha unimportanza politica determinante.
Dialogare con il papa è una cosa che lo rafforza. Il papa lo sa molto bene, ed è per questo che cerca il dialogo con tutti. Lultimo dialogo in ordine di tempo è quello con i Valdesi, tutti contenti di ricevere un papa che dopo qualche secolo chiede loro perdono. E resta il papa. Con qualche scheletro in meno nellarmadio e un po di libertà di parola in più. Nel 1532, con lassemblea di Chanforan, i Valdesi aderirono alla Riforma protestante, scaturita comè noto dalla protesta di Martin Lutero. Parlando del papato Lutero disse: Altri hanno combattuto il costume, io combatto la dottrina, arrivando addirittura a dire che il papato, (non il papa, si badi) è lanticristo. Oggi, certo, sono altri tempi. Ma sono migliori?
Conclusione. La Chiesa Cattolica, con il papa alla sua testa, ha il compito di combattere per la sua sopravvivenza: questo è il suo dovere e il suo interesse. Gli ebrei, da sempre, Israele, da qualche decennio, non rientrano nei suoi interessi. Anzi, li intralciano. Il papa potrà e dovrà cercare di dissimularlo in molte occasioni, ma la realtà di fondo resta questa.
(Notizie su Israele, 26 giugno 2015)
Deserti verdi, pizza e Nobel
La lezione (allegra) di Israele sui ponti per costruire la pace
di Paolo Foschini
Pizza e premi Nobel, trampolieri e security, musica per ballare e irrigazioni a goccia per trasformare il deserto in campi, tra passerelle per collezionisti di cravatte e ponti «per costruire la pace»: in Medioriente e nel mondo. È stata una festa e allo stesso tempo una specie di auspicio quella con cui Israele ha celebrato ieri il suo National Day all'Expo. «Il tema di questa Expo e cioè il cibo per tutti - ha detto il viceministro degli Esteri, Tzipi Hotoveli - contiene già in sé il tema della pace» e bisogna «lavorare insieme per migliorare la distribuzione delle risorse». In settembre, ha anticipato, all'Expo verrà anche il presidente Reuven Rivlin.
Il padiglione del suo Paese, con quei 70 metri di «muro» di piante vive che lo rendono inconfondibile esempio dei «Fields of Tomorrow» scelti come tema, anche ieri era aperto a chiunque e - a differenza di molti altri padiglioni in occasione dei rispettivi National Day - senza bisogno di alcun accredito. Ma il dispiegamento di sicurezza, per quanto educato e discreto, era impossibile non notarlo. «Ringrazio l'Italia per aver inventato la pizza di cui sono una grande fan», ha detto Tzipi. All'alzabandiera, accanto all'ambasciatore israeliano Naor Gilon, l'ex sindaco Letizia Moratti che ha parlato di «una giornata particolarmente significativa» rendendo onore non solo alla «scienza» posseduta da Israele ma alla «sua volontà di condividerla in progetti di cooperazione». «La vostra lotta alla desertificazione - ha aggiunto Brumo Pasquino per Expo - è un modello per tutto il mondo e del resto non è un caso che 20 premi Nobel dell'ultimo mezzo secolo siano israeliani».
«In effetti due terzi del nostro territorio sono deserto - ha ricordato il viceministro - e fin dall'inizio il nostro primo premier disse che la sfida principale era quella di usare la tecnologia applicata all'acqua per ottenere un territorio fertile. Oggi Paesi come l'India e il Brasile stanno imparando da nostre tecnologie cose come !'irrigazione a goccia, la desalinizzazione e la lotta allo spreco dell'acqua. Abbiamo troppe persone che non hanno da mangiare e un'altra parte del mondo che ha troppo da mangiare. Dobbiamo bilanciare». Dopodiché, visita di rito a Palazzo Italia con pranzo e firma del Libro d'Onore.
Per !'intera giornata e fino a notte intanto la festa d'Israele è andata avanti con tutto e di più: dalla marching band del Cirde of Drummers and Horns lungo il decumano ai danzatori acrobati della compagnia Sheketak, con doppio concerto della cantante Ester Rada. Finale disco per tutti.
(Corriere della Sera, 26 giugno 2015)
Israele-Palestina: perde fiducia la soluzione dei due stati
Lo rivela un sondaggio condotto dal Centro per le ricerche e statistiche di Ramallah in collaborazione con l'Università di Gerusalemme.
La soluzione dei due stati per risolvere la questione Israele-Palestina non sembra riscuotere più tanto successo tra le popolazioni. A rivelarlo è uno studio condotto tra il 2 e il 14 giugno scorso dal Centro palestinese per le ricerche politiche e statistiche di Ramallah, in collaborazione con l'Università di Gerusalemme.
Dal sondaggio è emerso che il 52% dei 1200 palestinesi intervistati sostiene l'iniziativa araba di pace e il 44% si è detto contrario. Dal fronte israeliano su 802 cittadini coinvolti nello studio, il 21% crede sia positiva la soluzione dei due stati mentre il 68% non lo ritiene un piano adeguato. Sempre tra gli israeliani il 38% è favorevole allo smantellamento della maggior parte delle colonie in Cisgiordania come parte di un accordo di pace con i palestinesi, mentre il 54% è contrario.
Nel giorno in cui la Palestina presenta alla Corte penale Internazionale un documento di denuncia per i presunti crimini di guerra commessi da Israele, lo studio dell'Università di Gerusalemme e del Centro per le politiche e statistiche di Ramallah rivela altri interessanti dettagli. Il 56% degli israeliani teme che un arabo possa far loro del male, laddove è il 79% dei palestinesi a sentirsi minacciato dai vicini israeliani. Qaunto a un ritorno ai negoziati dopo la recente vittoria di Netanyahu alle ultime elezioni, il 6% dei cittadini dello Stato ebraico e il 27% dei palestinesi crede che questo avverrà presto, mentre il 43% dei primi e il 20% dei secondi ritiene che le parti in questione non torneranno a negoziare ma al contrario si verificheranno scontri armati.
(In Terris, 25 giugno 2015)
Il crimine più imperdonabile nel mondo musulmano
di Uzay Bulut
La violenza e l'intolleranza avvolgono il mondo musulmano. Chi commette atti barbarici - come massacrare i cristiani, gli ebrei, i musulmani e gli indù - sostiene di farlo per difendere la legge islamica della sharia dalla "blasfemia", dall'apostasia e dai "miscredenti". Questi estremisti islamici si fanno quotidianamente giustizia da soli, uccidendo chiunque voglia pensare liberamente o in modo diverso. Ogni giorno, gli arresti, i processi, le fustigazioni, le torture e le uccisioni di giornalisti, poeti, studenti e attivisti per i diritti umani sono ormai una pratica consueta.
Nel 2013, un professore pakistano di inglese, Junaid Hafeez, fu arrestato e imprigionato per blasfemia, dopo che uno studente affiliato al partito fondamentalista islamico Jamaat-i-Islami lo accusò di aver offeso su Facebook il profeta Maometto, fondatore dell'Islam. Il suo primo avvocato, Chaudhry Mudassar, lasciò il caso a giugno del 2013 dopo aver ricevuto una miriade di minacce di morte. Il suo secondo legale, Rashid Rehman, fu ucciso nel suo ufficio di fronte ai colleghi, il 7 maggio 2014. Il suo attuale difensore, Shahbaz Gurmani, è stato oggetto di minacce di morte, alcuni sconosciuti hanno sparato alcuni colpi d'arma da fuoco davanti alla sua abitazione e ha ricevuto una lettera da parte dello Stato islamico (Isis) che lo avvertiva di abbandonare il caso, altrimenti sarebbe stato decapitato. Junaid Hafeez è ancora in carcere.
Il 28 dicembre 2014, la scrittrice egiziana Fatima Maoot è finita in tribunale con l'accusa di "oltraggio" all'Islam. Il suo "crimine" è stato quello di aver scritto sulla sua pagina Facebook alcuni commenti che criticavano la macellazione degli animali durante l'Eid al-Adha, la festa islamica del sacrificio. "Non sarò sconfitta, anche se sono in carcere", ha detto alla Reuters la Naoot. "Il perdente sarà il movimento culturale". Fatima Naoot è una giornalista e una poetessa dall'occhio critico. Ella ha il coraggio di alzare la voce contro le ingiustizie che avvengono in seno alla sua società - caratteristiche, a quanto pare, troppo minacciose per molti musulmani.
L'art. 98 (f) del Codice penale egiziano vieta ai cittadini di "ridicolizzare o offendere pesantemente le religioni e di incitare alla lotta settaria". In Egitto, però, la legge sembra funzionare solo contro i seguaci di religioni diverse dall'Islam sunnita. Secondo il rapporto annuale del 2014 redatto dalla Commissione degli Stati Uniti sulla libertà religiosa internazionale, "La maggior parte delle accuse prende di mira intrattenitori, personaggi di spicco e giornalisti musulmani sunniti. Tuttavia, la maggioranza di coloro che sono condannati dai tribunali per blasfemia è composta da cristiani, musulmani sciiti e atei, per lo più sottoposti a processi truccati. Circa il 40 per cento degli accusati è cristiano, una percentuale elevata se paragonata alla popolazione cristiana che costituisce pressappoco il 10-15 per cento della popolazione del paese".
Un religioso musulmano, Hussein Ya'qoub, nel 2009 disse: "Gli ebrei sono nemici dei musulmani a prescindere dall'occupazione della Palestina. Dovete credermi, li combatteremo, li sconfiggeremo e li annienteremo fino a quando non rimarrà un solo ebreo sulla faccia della terra". Un altro religioso musulmano, Salah Sultan, in un discorso trasmesso dalla televisione di Hamas nel 2012, disse di incontrare ovunque gente "assetata di sangue degli ebrei" e che "Israele usa le ragazze malate di Aids per sedurre i giovani egiziani e infettarli". Parole pronunciate senza preoccuparsi di verificarne la veridicità, il che è solo un altro esempio di odio gratuito verso gli ebrei.
Nessuno di questi predicatori è ancora finito sotto processo per istigazione al genocidio, mentre Fatima Naoot viene processata per aver criticato la macellazione degli animali durante l'Eid al-Adha. Il 30 agosto 2014, un fotografo iraniano, Soheil Arabi, 30 anni, è stato condannato da un tribunale penale di Teheran a morte per impiccagione per aver "offeso il profeta dell'Islam" (Sabbo al-Nabbi) su Facebook. Il 24 novembre 2014, la Corte suprema iraniana ha confermato la condanna a morte. Nel 2014, Raif Badawi, 31 anni, un blogger saudita e ideatore di un sito web finalizzato a promuovere un dibattito sulla religione e la politica, è stato condannato a 10 anni di carcere, 1.000 frustate e al pagamento di una multa da 1 milione di riyal (circa 267.000 dollari) per aver "propagandato il pensiero liberale" e "offeso l'Islam". Badawi ha ricevuto le prime 50 frustate il 9 gennaio 2015, davanti a una moschea dopo le preghiere del mattino, "circondato da una folla in delirio che gridava incessantemente 'Allahu Akbar' (Iddio è il più grande)" durante la fustigazione. La sentenza è stata confermata la settimana scorsa dalla Corte suprema saudita e l'unica e possibile sospensione della pena ora sarebbe la grazia concessa da re Salman.
Per la legge islamica della sharia, avere una mente aperta è il crimine più imperdonabile nel mondo musulmano. Essere imprigionati, torturati o condannati a morte per averne una è anche il motivo per cui c'è un divario di secoli che separa i paesi musulmani dall'Occidente nell'ambito della liberazione umana. Per Euripide, "la mancanza di libertà di espressione è schiavitù"; per molti paesi musulmani, la libertà di pensiero è sinonimo di morte. Coloro che hanno il coraggio di cercare di abolire questa "schiavitù" nel mondo musulmano sono costretti a pagare un prezzo enorme. La giovane Premio Nobel Malala Yousefzai è stata colpita alla testa da un colpo di pistola perché voleva ricevere un'istruzione. Gli avvocati che rappresentano le persone che tentano di abolire questa "schiavitù" o sono accusate di altri reati - anche falsi - vengono uccisi.
Si possono far saltare in aria i bambini a scuola; investire deliberatamente persone innocenti in nome del jihad; massacrare la gente riunita in preghiera e poi distribuire dolci per celebrare la "vittoria"; svilire le donne in molti modi - ad esempio chi prende quattro mogli, le picchia e poi divorzia da loro viene elogiato da molti musulmani per essere un "eroe", un "martire" o un "vero musulmano". Queste convinzioni non hanno nulla a che fare con l'Occidente né con qualsiasi tipo di intervento occidentale. Non sono gli europei, gli Stati Uniti o lo Stato di Israele che diffondono tra i musulmani queste leggi coercitive basate sulla sharia contro l'apostasia e la blasfemia. I regimi musulmani che non conoscono affatto cosa sia la libertà - e la loro sistematica criminalizzazione della libertà di espressione; la soppressione dell'istruzione e della creatività, e le infinite lotte intertribali - sono il vero motivo per cui la gente è rimasta ferma al VII secolo.
L'avanzata dell'Isis in Iraq e Siria; il raggio d'azione dell'Iran che si è esteso in altri quattro paesi (Iraq, Siria Libano e Yemen) mentre gli Stati Uniti indietreggiano da tre di essi (Libia, Yemen e Iraq) e l'indifferenza mostrata da gran parte del mondo musulmano di fronte a questa nuova catastrofe, tutto sta indicare che non c'è ancora molto da sperare in un cambiamento positivo nel mondo musulmano. Ogni appello visionario ad avviare una riforma dell'Islam lanciato dal presidente egiziano, Abdel Fattah al-Sisi, non è stato accolto pubblicamente da un solo leader occidentale. A parte i paladini della libertà come Hafeez, Naoot, Arabi e Badawi, la situazione sembra essere sempre più scoraggiante giorno dopo giorno. Un opuscolo diffuso dall'Isis risponde a 27 domande come ad esempio: "Tutte le donne miscredenti possono essere fatte prigioniere?" e "È lecito fare sesso con una schiava che non ha raggiunto la pubertà?" L'opuscolo approva anche la schiavitù, gli stupri (perpetrati anche su bambine), le percosse inflitte per raggiungere una gratificazione [darb al-tashaffi] e la tortura [darb al-ta'dheeb].
Un'ideologia che incoraggia i suoi seguaci a prendere parte a sommosse letali, a incendiare ambasciate e uccidere la gente a causa delle vignette satiriche, ma che non si mostra particolarmente addolorata per le bambine vendute e stuprate, molto probabilmente non ha molto da dare al progresso della civiltà. Un'ideologia che tratta le donne come fossero una proprietà, che uccide o imprigiona gli intellettuali e che condanna un blogger a 1.000 frustrate e a 10 anni di carcere - se sopravvivrà - non ha alcun diritto di dare la colpa all'Occidente o a chiunque altro.
(L'Opinione, 26 giugno 2015)
Israele riceverà la versione potenziata dell'F-35
di Franco Iacch
Lockheed Martin sarebbe al lavoro per soddisfare una particolare esigenza del Ministero della Difesa israeliano: estendere il raggio d'azione dell'F-35 di almeno il 30%. La notizia è stata ripresa dal sito specializzato Israel Defense.
La richiesta sarebbe stata formulata ufficialmente durante il 'Paris Air Show', cui ha partecipato una delegazione di alti rappresentanti della Lockheed Martin.
Come è noto, una squadra della IAF è attualmente a Fort Worth, in Texas, per l'integrazione sul velivolo, in preparazione dell'arrivo del primo F-35 israeliano previsto per la fine del 2016.
"L'F-35 israeliano, così come avvenuto per l'F-15 e l'F16, sarà un caccia diverso da quelli che Lockheed Martin consegnerà ai partner del programma JSF. Sara senza dubbio caratterizzato da sistemi avanzati e, tra questi, un maggiore raggio d'azione".
La IAF avrebbe proposto serbatoi supplementari specifici. Significa che gli israeliani, vogliono qualcosa di più di un semplice serbatoio standard. L'integrazione non dovrà inficiare il profilo del caccia e le sue caratteristiche stealth. Israele potrebbe essere interessata ad estendere il raggio d'azione dello JSF per ridurre i rifornimenti in volo nelle missioni a lungo raggio. Da rilevare che in passato Lockheed Martin ha prodotto una versione speciale del caccia F-16, proprio con serbatoi supplementari, per le forze aeree israeliane.
Ma perché Israele vuole un F-35 con maggiore raggio d'azione?
"L'attuale raggio d'azione di un F-35 è di circa 1150 km. Se l'F-35 israeliano incrementasse del 30% il suo 'flight range' potrebbe colpire obiettivi iraniani. Tuttavia, anche con questa maggiore capacità, il caccia avrebbe sempre necessità di un rifornimento in volo, considerando che gli obiettivi iraniani si trovano ad una distanza minima di almeno 1000 km".
Ad ogni modo, il divario tra F-35 di seria A e di serie B, continua a farsi sempre più evidente. Se è vero da un lato che l'F-35 riceverà tutte le integrazioni fino al 2040, dall'altro già dal 2020 saranno disponibili importanti modifiche (come un nuovo motore, avionica di sistema e radar più potente) che potranno essere acquistate a discrezione dei paesi che decideranno di mantenerlo al passo con i tempi.
L'affare da 2,82 miliardi di dollari, compresa anche la manutenzione dei velivoli e la formazione del personale, è stato siglato lo scorso febbraio dopo essere stato approvato da un comitato ministeriale il primo dicembre scorso. Esso prevede l'acquisto di quattordici caccia stealth e la possibilità di comprarne altri 17. E' la prosecuzione di un accordo siglato nel 2010 per l'acquisto di diciannove F-35.
I primi due caccia arriveranno in Israele per la fine del 2016. Il primo squadrone composto da diciannove F-35 sarà operativo nell'Isralian Air Force ad inizio 2019, mentre è stata già confermata la volontà di acquistare un secondo lotto per la creazione di un secondo squadrone.
L'F-35 è tecnologicamente più avanzato rispetto all' F-16I (la 'I' sta per Israele) ed è considerato uno dei più potenti caccia in produzione. Il velivolo della Lockheed Martin, diventerà il primo aereo stealth in forza all'IAF. Così come avviene per ogni aereo che entra in linea con l'aviazione israeliana (prassi comune anche negli Usa, in Russia, in Cina, in Giappone, in Svezia, in Germani, ma purtroppo non Italia), anche l'F-35 sarà ribattezzato. "Ha-Adir" (Il Grande), sarà il nome di battaglia dell'F-35 di Israele.
L'F-35 - continuano dall'IAF - è per certi versi una versione moderna dell'F-16. E' stato costruito come un piccolo aereo monomotore. "Ha-Adir" è estremamente efficace per la sua versatilità in quanto può svolgere qualsiasi tipo di missione: supporto aereo ravvicinato e dogfight in primis oltre alla capacità di ingaggiare il nemico oltre il raggio visivo.
Ma perché Israele ha puntato sull'F-35?
Per due motivi principali: la tecnologia stealth e l'avionica. La tecnologia stealth consente al velivolo di volare praticamente inosservato. Per molti anni, la tecnologia stealth è stata ritenuta troppo costosa per essere implementata sui piccoli aerei, motivo per cui fu utilizzata solo sui bombardieri più grandi e costosi come il B-2, il B-1 e l' F-117. Il recente sviluppo dell'F-35 consente l'incorporazione delle caratteristiche stealth ad un prezzo contenuto.
L'F-35, infine, è stato progettato per essere equipaggiato i con migliori sistemi elettronici di bordo al mondo. Essi saranno parte integrante del velivolo e non come dotazione supplementare così come avviene per altri caccia.
Gli F-35 acquistati
Il Comitato Ministeriale per gli Appalti Pubblici della Difesa di Israele lo scorso primo dicembre ha approvato l'acquisto di quattordici nuovi F-35 rispetto ai trentuno previsti dall'Air Force. Non si tratterebbe di un ripensamento, ma di una proroga rimandata al 2017. Dopo ulteriori consultazioni ed un voto supplementare della Commissione, si valuterà l'acquisto degli altri diciassette caccia.
I quattordici F-35 si aggiungono ai diciannove già acquistati per formare due squadriglie stealth. I primi diciannove F-35 sono costati complessivamente, anche grazie ad aiuti militari ottenuti da Israele, 2,75 miliardi di dollari.
Israele, entro il 2021, conta di avere in linea cinquanta F-35. La base aerea di Nevatim, nel Negev, sarà la casa degli F-35.
La "I" sul nostro caccia sta per Israele
Dieci anni fa, l'aviazione israeliana ha introdotto la lettera "I" sul famoso F-16 Falcon, divenuto l'F-16I. Conosciuto anche come 'Sufa' (Tempesta in ebraico), il velivolo è stato costruito negli Stati Uniti, ma pesantemente modificato con sistemi avanzati progettati e costruiti in Israele.
Ma cosa c'è di così speciale nell' F-16 israeliano?
In effetti, esistono migliaia di F-16 in quasi ogni forza aerea occidentale. L'F-16I 'Sufa' tuttavia, è molto diverso. Intanto la 'I' sta per Israele. Il caccia è stato pesantemente modificato per adattarsi alle specifiche esigenze dell'Israel Air Force. L'F-16I è equipaggiato con sistema di armi all'avanguardia, un radar appositamente costruito e una tecnologia implementata nel casco che consente al pilota di inquadrare il nemico con "il semplice sguardo".
'Sufa' Conformal Fuel Tanks (CFT) - i serbatoi sono realizzati dalle "Israel Aircraft Industries" e aumentano la capacità del carburante interno del velivolo del 50%.
AGP-68(V)X Radar - Il radar ad apertura sintetica (SAR), permette il tracciamento di bersagli terrestri con qualsiasi condizione meteo. Il radar consente il targeting automatico, risparmiando così tempo prezioso.
Helmet Mounted Cueing System - Sul casco dei piloti e dei navigatori sono proiettate varie informazioni come altezza, velocità ed equipaggiamento. Il casco è collegato al sistema di mira e consente al pilota di inquadrare e lanciare un missile su un bersaglio nemico usando solo la vista.
Dorsal spine Avionics Compartment - Parte dei sistemi avanzati sono stati installati secondo le specifiche della IAF. L'F-16I è dotato di sistemi di guerra elettronica avanzati sviluppati in Israele.
Comunicazione satellitare - L'F-16I incorpora due nuovi dispositivi di comunicazione prodotti da Elta e Rafael, tra cui una radio UHF con nuovi metodi di codifica e capacità di relè a lunga distanza.
(Difesa Online, 25 giugno 2015)
Israele-Palestina: perde fiducia la soluzione dei due stati
Lo rivela un sondaggio condotto dal Centro per le ricerche e statistiche di Ramallah in collaborazione con l'Università di Gerusalemme.
La soluzione dei due stati per risolvere la questione Israele-Palestina non sembra riscuotere più tanto successo tra le popolazioni. A rivelarlo è uno studio condotto tra il 2 e il 14 giugno scorso dal Centro palestinese per le ricerche politiche e statistiche di Ramallah, in collaborazione con l'Università di Gerusalemme.
Dal sondaggio è emerso che il 52% dei 1200 palestinesi intervistati sostiene l'iniziativa araba di pace e il 44% si è detto contrario. Dal fronte israeliano su 802 cittadini coinvolti nello studio, il 21% crede sia positiva la soluzione dei due stati mentre il 68% non lo ritiene un piano adeguato. Sempre tra gli israeliani il 38% è favorevole allo smantellamento della maggior parte delle colonie in Cisgiordania come parte di un accordo di pace con i palestinesi, mentre il 54% è contrario.
Nel giorno in cui la Palestina presenta alla Corte penale Internazionale un documento di denuncia per i presunti crimini di guerra commessi da Israele, lo studio dell'Università di Gerusalemme e del Centro per le politiche e statistiche di Ramallah rivela altri interessanti dettagli. Il 56% degli israeliani teme che un arabo possa far loro del male, laddove è il 79% dei palestinesi a sentirsi minacciato dai vicini israeliani. Qaunto a un ritorno ai negoziati dopo la recente vittoria di Netanyahu alle ultime elezioni, il 6% dei cittadini dello Stato ebraico e il 27% dei palestinesi crede che questo avverrà presto, mentre il 43% dei primi e il 20% dei secondi ritiene che le parti in questione non torneranno a negoziare ma al contrario si verificheranno scontri armati.
(In Terris, 25 giugno 2015)
Netanyahu incontra il leader dei drusi: "Resteremo fuori dell'anarchia regionale"
GERUSALEMME - Israele intende rimanere "al di fuori dell'anarchia" che circonda il paese: lo ha detto il primo ministro Benjamin Netanyahu a un gruppo di leader drusi. L'incontro arriva in seguito all'attacco di martedì scorso di un gruppo di drusi a un'ambulanza dell'esercito israeliano nel villaggio di Hurfeish nel nord d'Israele. La polizia ha arrestato ieri nove persone della comunità drusa sospettate di aver condotto i due attacchi contro l'ambulanza dell'esercito israeliano con a bordo due miliziani siriani feriti. Cinque persone sono state arrestate nel villaggio di Majdal Shams, teatro nei giorni scorsi dell'assalto che è costato la vita uno dei ribelli siriani morto dopo un linciaggio, mentre il commilitone è rimasto gravemente ferito.
(Agenzia Nova, 25 giugno 2015)
Israele: grazie Italia per la pizza
Il viceministro degli Affari Esteri di Israele, Tzipi Hotovely, apre a Expo la Giornata Nazionale Israeliana
MILANO - "Io sono una grande fan della pizza, e colgo l'occasione per ringraziare l'Italia: non c'è posto migliore al mondo dell'Italia per cominciare a nutrire il pianeta": questo il messaggio che il viceministro degli Esteri di Israele, Tzipi Hotovely, ha portato a Expo in occasione della Giornata Nazionale israeliana.
"Per Israele, nutrire il pianeta è sempre stato uno dei temi fondamentali, fin dagli anni Cinquanta, e l'innovazione è sempre stata per noi alla base dello sviluppo" ha ricordato la viceministro, ricordando che "da sempre" gli ingegneri israeliani sono al lavoro per mettere a punto sistemi contro la desertificazione. "Siamo leader nel mondo in fatto di scienza applicata all'irrigazione - ha sottolineato - e ci piace ricordarlo qui a Expo, in Italia, che è il nostro secondo partner commerciale al mondo". "Expo è bellissima - ha aggiunto - ed è bellissimo il tema che la caratterizza. Non dimentichiamo che nel tema del cibo è implicito il tema della pace".
Nel suo saluto, il commissario generale di Expo, Bruno Pasquino, ha ricordato che il padiglione di Israele "è tra i più significativi di tutta l'Esposizione, perché va al cuore del tema 'nutrire il pianeta' e nello stesso tempo esprime la volontà di condividere con il mondo la sua conoscenza. Non è un caso se Israele sia considerato 'il granaio della conoscenza'.
Ricordo solo che negli ultimi cinquant'anni ben 20 premi Nobel sono israeliani". "La vostra lotta contro la desertificazione - ha aggiunto - è un esempio per il mondo. E la vostra collocazione vicino a Palazzo Italia è altrettanto significativa".
Alla cerimonia dell'alzabandiera, insieme all'ambasciatore di Israele in Italia, Naor Gilon, ha presenziato anche l'ex sindaco di Milano, Letizia Moratti. "Oggi per me è una giornata particolarmente significativa - ha detto -. Come lo è per Expo.
Israele non porta solo la sua scienza in agricoltura e nell'irrigazione. Porta anche la sua volontà di condividerla in progetti di cooperazione".
(ANSA, 25 giugno 2015)
Crisi idrica: la Banca Mondiale chiede aiuto a Israele
La Banca Mondiale ha firmato un accordo con Israele per quanto riguarda le tecnologie legate all'acqua. L'istituzione internazionale vuole che Israele condivida il suo know how con i paesi in via di sviluppo.
Per svolgere questa missione, Israele riceverà 500,000 dollari. Esperti israeliani si recheranno nelle aree problematiche per presentare le tecnologie per lottare contro gli sprechi d'acqua e per incoraggiare il riciclaggio. Israele inoltre riceverà delegazioni straniere curiose di conoscere i nuovi sviluppi su desalinizzazione, filtrazione dell'acqua e irrigazione a goccia.
La Direttrice per l'acqua presso la Banca Mondiale, Jennifer Sara, ha sottolineato:
Le pratiche innovative di Israele sono riconosciute in tutto il mondo e rispondono senza dubbio alle esigenze di molti clienti che si rivolgono alla Banca Mondiale.
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Nonostante fosse un paese arido, Israele ha saputo reagire alla penuria d'acqua. Oggi la maggior parte dell'acqua proviene dalla dissalazione (1o impianto al mondo è ad Ashkelon), dalla filtrazione o dal riciclaggio delle acque reflue. L'irrigazione a goccia, inventata da Israele, riduce drasticamente (90%) la quantità di acqua utilizzata limitando la pratica di irrigazione a esigenze molto specifiche.
CropX è riuscita ad ottenere 9 milioni di dollari. Si tratta di una startup israeliana che permette a tutti gli agricoltori di conoscere esattamente i bisogni delle colture grazie ad una app per smartphone che aiuta ad evitare lo spreco di acqua.
(SiliconWadi, 25 giugno 2015)
"Israele non è pronta a suicidarsi. I benpensanti si oppongano al boicottaggio"
"L'accordo voluto dall'America non solo non blocca la via dell'Iran alla bomba atomica, ma ne facilita la costruzione".
di Giulio Meotti
ROMA - "Israele è sempre pronta al dialogo, ma non è pronta né a suicidarsi né a cedere ai diktat internazionali". E' questo il messaggio che l'ambasciatore israeliano a Roma, Naor Gilon, consegna all'Europa, mentre numerosi tentacoli si stringono alla gola dello stato ebraico. Come il movimento a tre lettere al centro dell'agenda del governo israeliano di Benjamin Netanyahu: "Bds". Ovvero "Boycott, Divestment and Sanctions". Da quando partì in Inghilterra, nel 2002, il boicottaggio di Israele ha fatto passi da gigante coinvolgendo cooperative, fondi pensione e fondi sovrani, case editrici, corsi universitari, sindacati, chiese, ong. L'ultimo caso è quello della Orange, la compagnia telefonica francese. Ma Gilon non vuole ingigantire il fenomeno.
"Il Bds è un movimento anti-israeliano e in parte antisemita spinto dall'odio verso Israele", dice l'ambasciatore al Foglio. "Il suo obiettivo non è risolvere alcun conflitto in medio oriente, ma delegittimare gli israeliani. Il fenomeno è serio, ma va detto che l'influenza reale del Bds è limitata: Israele ha un'economia stabile, prospera e cresce, ha uno sviluppo e una ricerca tra le più alte al mondo, e queste iniziative del Bds, nonostante il problema di principio, non riescono a colpire l'economia israeliana. Il Bds è costituito da gruppi marginali che non valutano i vantaggi concreti della cooperazione palestinese con Israele e non vogliono capire che Israele è l'avamposto della democrazia occidentale in medio oriente. E' importante dire, inoltre, che Israele non è un ragazzo povero che chiede l'elemosina. I rapporti economici, culturali e scientifici con Israele hanno un grande valore per i paesi europei e la tecnologia israeliana è necessaria a tanti nel mondo".
Nonostante la sensazione di accerchiamento, Gerusalemme non diventerà un paria fra le nazioni: "Non esiste un isolamento internazionale, è un'invenzione del Bds che vuole presentare Israele come una entità isolata. E' sufficiente vedere la lista dei visitatori in Israele in queste settimane: i ministri degli Affari Esteri d'Italia, Germania, Francia, l'Alto Commissario Europeo Federica Mogherini, il Presidente di Cipro e, a breve, il Presidente del Consiglio italiano e il Presidente dell'India".
Il Bds è però un ponte che l'occidente getta verso l'irredentismo arabo-islamico. "E' importante sapere che i paesi arabi-musulmani sfruttano la maggioranza automatica in ogni organizzazione internazionale per promuovere risoluzioni antisraeliane. Il recente, ridicolo report del Consiglio dei diritti umani dell'Onu, che paragona l'organizzazione terroristica Hamas e la democrazia che lo combatte, è un esempio pratico di come 'lavora' questa maggioranza automatica. Ogni benpensante deve condannare l'idea del boicottaggio economico e culturale che mira solo a colpire la pace".
Ma è un ponte verso un'Europa cieca alla minaccia islamista che proviene da migliaia di cittadini europei che vanno a combattere per lo Stato islamico. "Non è un segreto che ci siano degli elementi con aspirazioni politiche che sfruttano in modo cinico l'islam e la frustrazione di alcuni giovani musulmani, che vivono in Europa e che promuovono i loro obiettivi terroristici. La propaganda della violenza, del terrorismo e della delegittimazione fa parte del loro sistema educativo. Come la distruzione delle altre religioni. Ormai da molti anni Israele è molto attenta al sistema educativo di Hamas e dell'Autorità palestinese che, promovendo l'odio verso Israele, fa crescere un'altra generazione pronta alla violenza".
"L'Europa fomenta l'oltranzismo palestinese"
I palestinesi rinunceranno all'oltranzismo, alla strategia di isolamento di Israele alle Nazioni Unite e torneranno ai colloqui con Israele? "Per raggiungere qualsiasi accordo tra Israele e i palestinesi, questi ultimi devono tornare alla trattativa senza pre-condizioni. Abu Mazen invece ha deciso di lanciare una campagna internazionale contro Israele. In questo modo riesce a ottenere vantaggi simbolici, ma non concreti, che non avvicinano alla costituzione di uno stato palestinese. Purtroppo l'Europa sostiene i palestinesi a non ritornare al tavolo delle trattative, premiandoli".
Ci avviciniamo alla firma del deal sul nucleare iraniano. "La questione dell'Iran per noi è la priorità e siamo convinti che debba esserlo per il mondo intero. Oltre alla loro intenzione di ottenere la potenza nucleare, alla quale non rinunciano neanche con la firma di questo accordo, l'Iran destabilizza il medio oriente, dallo Yemen al Sudan, dall'Iraq al Libano e alla Siria; non possiamo ignorare la combinazione fra capacità nucleari e un regime che parla continuamente di distruggere Israele. L'accordo voluto dagli Stati Uniti non blocca la via dell'Iran alla bomba, anzi ne facilita la costruzione. Inoltre, l'accordo aumenterà il rischio della proliferazione nucleare e potrebbe innescare una corsa agli armamenti degli stati sunniti. L'accordo alimenterebbe sicuramente l'economia iraniana, ma l'Iran non userà il flusso monetario per il benessere dei suoi cittadini, bensì lo userà per la diffusione del terrore in tutto il mondo. Un accordo basato su questi presupposti minaccia non solo la sopravvivenza d'Israele, ma mette in pericolo la stabilità del mondo intero".
(Il Foglio, 25 giugno 2015)
L'islamico salva-ebrei era falso
Nel supermercato attaccato da Coulibaly. I sopravvissuti: non ci ha aiutati il magazziniere. Governo e media l'hanno santificato.
di Mauro Zanon
PARIGI - Vi dice qualcosa il nome Lassana Bathily? Forse ora no, dato che non se ne parla più nei giornali, né francesi, né italiani. Eppure a gennaio, subito dopo l'attacco terroristico al supermercato kosher Hyper Cacher di Porte de Vincennes, il suo nome era onnipresente nei titoli pomposi della stampa progressista. Le Monde dava il la celebrando «Lassana Bathily, l'eroe della presa di ostaggi di Vincennes, presto naturalizzato francese», L'Humanité si metteva in scia con un sentimentalistico «L'ex sans-papiers divenuto un eroe». Sul versante italiano, Repubblica non aspettava altro per titolare «La Francia celebra i suoi "musulmani eroi"». E tra quegli «eroi», c'era appunto Lassana Bathily, commesso di ventiquattro anni, musulmano e originario del Mali, che al momento dell'irruzione di Amedy Coulibaly si trovava all'interno del supermercato e che secondo la versione diffusa allora dai media e certificata dal governo socialista avrebbe salvato dall'attacco del terrorista islamista un gruppo di sei persone, tra cui un neonato, rinchiudendoli in una cella frigorifera, prima di fuggire all'esterno grazie a un montacarichi e raccontare agli agenti di polizia la situazione.
La favola
Una storia bellissima cui dedicare paginate e servizi televisivi a ripetizione, un'impresa eroica da raccontare ai posteri e da incidere nei manuali di storia. Peccato però che si trattasse soltanto di una favola ricamata in maniera certosina dal sistema politico-mediatico per essere data in pasto ai sessantasei milioni di francesi e a tutti coloro che in quei giorni così sconvolgenti dal punto di vista emotivo seguivano con ansia i fatti di Parigi. Libération ha riunito per un'intervista alcuni degli ostaggi di quel drammatico 9 gennaio, e dalle loro testimonianze è emersa prepotentemente una realtà molto meno hollywoodiana e spettacolarizzata di quella cucinata e servita dai media francesi e da Hollande ai loro concittadini e al resto del mondo (soltanto il sito Fdesouche.com ha evidenziato a dovere la clamorosa discrepanza tra le versione dei media e del governo e quella degli ostaggi dell'Hyper Cacher).
Lassana Bathily, che si trovava nel seminterrato del supermercato quando Amedy Coulibaly fece irruzione, avrebbe soltanto proposto agli ostaggi di salire con lui nel montacarichi, come racconta Jean - Luc, uno degli ostaggi interrogati da Libération. Ma «il rischio era troppo elevato», «la morte sarebbe stata certa», perché «il montacarichi avrebbe fatto troppo rumore e non c'era posto per tutti», ha spiegato Jean-Luc, Decisero dunque di rifiutare, Lassana fuggì da solo all'interno del montacarichi, e loro si rinchiusero nella cella frigorifera. Yohann, un altro sopravvissuto, ha raccontato di aver staccato lui i fili della cella frigorifera, al fine di poter entrare e nascondersi con gli altri nella speranza di salvarsi.
Ma il colpo finale alla grande montatura politico-mediatica è quello inflitto da Sandra, madre 42enne: «I media e i politici hanno voluto abbellire la storia, aggiungendo che (Lassana, ndr) ci avrebbe fatto scendere, nascosti, etc. Non è vero, ma non è colpa di Lassana. In quel momento, la Francia aveva bisogno di un eroe».
Impostori
Un «eroe della dìversìté», maliano, musulmano, sans-papiers, naturalizzato francese sotto gli occhi delle telecamere nella sala ricevimenti del ministero dell'Interno, una «storia repubblicana» da rifilare alla grande massa plaudente e assopita dei «le suis Charlie» per alimentare la retorica del «pas d'amalgame» tra islamisti e musulmani moderati. Il sito di opinioni liberali Boulevard Voltaire, tra i pochissimi a denunciare l'impostura del falso eroe dell'Hyper Cacher, si è chiesto: «Un governo che mente, che strumentalizza un sans-papiers, come lo dovremmo definire?». Lasciamo a voi la risposta.
(Libero, 25 giugno 2015)
"Basta divisioni, la mia Comunità risorsa per Roma"
Parla Ruth Dureghello, il nuovo presidente degli ebrei capitolini.
Stasera finalmente mi concedo un gelato. e scoppia a ridere Ruth Dureghello, al termine della sua prima giornata da presidente della Comunità ebraica. Sarò qui per quattro anni. spiega. Oltre non potrà ricandidarsi, perché questo è il suo terzo mandato da consigliere.
- Intanto però è la prima donna alla guida della comunità ebraica in duemila anni.
«Non esageriamo. Il Codice di Daniel Da Pisa che disegnava la Comunità com'è oggi risale al Cinquecento Ma poi non conta il genere, qui siamo una squadra: eletti, non eletti, madri di famiglia. Anche per questo non mi spaventa il nuovo ruolo».
- È stata nelle due giunte precedenti guidate da Riccardo Pacifici. In cosa vorrebbe che fosse diversa quella che varerà?
Il rabbino capo Di Segni ieri (martedì, ndr) in Consiglio ha richiamato tutti alla dialettica superiore, che serve per crescere, a confrontarsi per crescere. Ora è il momento di lavorare tutti assieme».
- Di lei Pacifici dice "è meno tenera di me con gli avversari".
«Riccardo è passato anche stamattina a trovarmi, e gli chiederò consigli. Ci conosciamo da quando avevo 15 anni. Lui è stato capace di dialogare con tutti, e in questo siamo uguali. Poi lui ha un confronto con gli avversari, io ho solo interlocutori. Ma alla fine faccio come dico io» (e ride ancora, ndr).
- È presidente in un momento particolare: Mafia Capitale, il sindaco che rischia di cadere, il Papa che dice "Roma ha bisogno di una rinascita morale e spirituale".
«La giustizia deve fare il suo corso. La rinascita morale e spirituale è positiva sempre, per migliorarsi. E sulla politica, bisogna fare un passo indietro: la Comunità deve occuparsi dei suoi iscritti, dei giovani, delle scuole. Non di politica».
- E anche II quartiere ebraico sta cambiando ed è pedonalizzato per la sicurezza.
«C'è un progetto per qualificare il quartiere con il coinvolgimento degli esercenti, che ringrazio. E un valore aggiunto per la città, ed è quanto vorremmo essere noi per il territorio e per Roma».
- Andrebbe in visita alla Grande Moschea?
Magari! Vado da chiunque mi inviti nel reciproco rispetto e cortesia».
(la Repubblica - Roma, 25 giugno 2015)
Expo - Premio 'TrendIsraele2015', cravatte giovani per Israele
Vince Giovanni Campagnaro, di Bassano del Grappa
MILANO - "Come mi sento? Tre metri sopra il cielo". Così Giovanni Campagnaro, studente dell'Istituto di Moda e Design di Vicenza, ha commentato la sua vittoria, per il premio 'TrendIsrael2015', organizzato dall'Ambasciata e dal Ministero del Turismo israeliani in occasione di Expo. "Mi sono ispirato alle opere d'arte di Menashe Kadishman, un artista israeliano scomparso un mese fa - ha spiegato Giovanni -, in particolare ai 'Tre dischi' e alla testa dell'ariete del 'Sacrificio di Isacco' di Tel Aviv'. Ho scelto immagini piccole che diano omogeneità alla cravatta, giocando con le tonalità di colori: una più forte per il pattern e una di fondo, per dare eleganza e sobrietà". Al concorso hanno partecipato 34 giovani stilisti, chiamati a raccontare lo spirito israeliano con una cravatta; 10 di loro sono arrivati in finale (con 12 cravatte), ma è stato Giovanni, 27 anni, di Bassano del Grappa, a vincere il primo premio, aggiudicandosi un viaggio a Tel Aviv di tre giorni, più la produzione della cravatta da parte del Ministero del Turismo e dell'Ambasciata israeliana.
(ANSA, 25 giugno 2015)
l Giardino dei Giusti un'agorà del dialogo
di Gabriele Nissim
In questi anni, assieme a Gariwo e ai sindaci di Milano, ho creato il Giardino dei Giusti, un' istituzione che con il tempo è diventata un riferimento a livello europeo e internazionale. Partendo dall'esempio di Milano infatti il parlamento di Strasburgo, su richiesta di Gariwo, ha votato una mozione nel 2012 che istituisce la Giornata europea dei Giusti. A Praga, Varsavia, Kigali, Yerevan, Sarajevo e in tante città d'Italia le amministrazioni hanno preso come punto di riferimento la nostra esperienza e il Giardino al Monte Stella è diventato un luogo celebrato in tutto il mondo.
Purtroppo chiunque oggi passeggiasse lungo il viale dei Giusti si accorgerebbe che il Giardino non è così bello e armonioso come viene dipinto da coloro i quali si oppongono al nostro progetto di riqualificazione: cippi in mezzo alle erbacce, stele modesta e arrugginita, manifestazioni per i Giusti che in inverno si svolgono nel fango. Se poi si chiedesse ai milanesi, compresi gli stessi abitanti del quartiere, dove si trova il Giardino andando alla Montagnetta, nessuno saprebbe rispondere perché fino a ora la sua identità è anonima e asfittica. II progetto dell'architetto Valabrega, che non prevede un muro di recinzione alto 10 metri, rispecchia la nostra esperienza di 12 anni al Monte Stella e le esigenze degli insegnanti e degli studenti che ogni anno visitano il Giardino. La cifra di questo luogo non è l'arredo urbano, come può essere un campo di fiori o un giardino botanico, ma molto di più. II Giardino ha un valore educativo: richiamare i giovani (e tutti gli indifferenti) alla prevenzione di qualunque forma di violenza e genocidio.
Come esiste al Monte Stella il campo di atletica, dove migliaia di giovani si ritrovano assieme per il gusto dell'allenamento fisico, così il nuovo Giardino è stato concepito per essere una struttura di incontro dei giovani per il gusto della discussione morale. Per questo proponiamo una sorta di Agorà greca, dove gli studenti, in presenza degli alberi per i Giusti, possono confrontarsi con i loro insegnanti sul significato del Bene e del Male. Fino a oggi mai si era concepito un Giardino dei Giusti che li rendesse protagonisti in questo modo. Non un luogo di lezione calata dall'alto, ma di dialogo, perché dai tempi di Socrate il pensiero degli uomini non nasce dal nulla, ma dal confronto ininterrotto con gli altri e con se stessi.
Ed è proprio la strada del dialogo con le istituzioni quella che abbiamo percorso in questi mesi, a partire dalle discussioni sulla fattibilità del progetto con il Settore verde del Comune; abbiamo mostrato i disegni in una conferenza stampa a Palazzo Marino e li abbiamo esposti al Monte Stella il 6 marzo scorso; abbiamo recepito le ragioni dei comitati e apportato molti cambiamenti, abbassando i muri, sostituendo il portale dell'ingresso, modificando l'area delle macerie. Abbiamo sempre ascoltato, nello spirito del nostro lavoro sui Giusti.
(la Repubblica - Milano, 25 giugno 2015)
Un dispositivo radio israeliano assicura di scavalcare qualsiasi password
Le storie di spie e sicurezza sono sempre molto affascinanti. In questo periodo storico, dove l'informatica svolge un ruolo essenziale, abbiamo tutti questo timore che di fronte a qualsiasi protezione dei dati, con sistemi di cifrature che richiedono milioni di anni per essere distrutti, ci sia sempre qualcuno in possesso di un macchinario magico in grado di scavalcare qualsiasi protezione.
E in effetti è così. L'università di Tel Aviv, in Israele, ha realizzato un dispositivo radio in grado, almeno secondo le loro ricerche, di trovare qualsiasi password. Fortunatamente per usarlo bisogna essere nelle vicinanze del computer da scardinare. Se ve ne state a casa, per esempio, difficilmente funzionerà.
Per riuscirci utilizza un tracciato radio in grado di comprendere le frequenze usate dal computer per alcune operazioni. Visto che i software mettono in moto dell'hardware, il dispositivo riesce a comprendere che tipo di operazione si sta effettuando. Se si inserisce una password, visto che il sistema di cifratura emette la propria onda radio, arriva l'apposito segnale che trova, nello stesso momento, le frequenze di ciascuna lettera digitata.
Nel mostrare il dispositivo l'università lo ha appoggiato ad una pita, un pane greco simile alla piadina. È per simboleggiare che qualche spia potrebbe nasconderlo al bar. Mentre voi usate il computer prendendo un caffè, la spia riceve i segnali e li registra.
In via generale a nessuno interessa la vostra password di Facebook, quindi siete al sicuro. Credo che a tremare dovrebbero essere solo i grandi industriali e capi di Stato.
(melamorsicata.it, 25 giugno 2015
Quando Voltaire accusava gli ebrei di cannibalismo religioso
Un inedito italiano
di Maurizio Schoepflin
Sfido chiunque a non provare un pizzico di morbosa curiosità dinanzi a un volume recante il titolo Gli ebrei mangiavano carne umana? E come la preparavano? (il melangolo, pp. 64, euro 6,00).
Se poi aggiungiamo che l'autore di questo breve scritto, pubblicato anonimo sotto forma di lettera, risponde al nome di Voltaire, che dei provocatori è stato il principe, il cerchio si chiude alla perfezione, e al lettore non rimane che pregustare (è proprio il caso di dirlo!) il momento in cui avrà sotto gli occhi le poche paginette voltairiane, precedute, in questa prima edizione italiana, da un'illuminante Introduzione di Antonio Gurrado.
Diciamo subito che, per quanto sorprendente possa apparire, i veri bersagli di Voltaire non sono né l'antropofagia né gli ebrei. Riguardo alla prima, egli non manifesta certo approvazione, ma si dimostra consapevole della sua diffusione presso svariati popoli nelle epoche più diverse. Nei confronti degli ebrei Voltaire non nutre una particolare simpatia - qualcuno sostiene che all'origine di tale avversione ci fosse l'insuccesso a cui andarono incontro alcune spericolate speculazioni gestite da banchieri ebrei per conto del Nostro -, ma non appare condizionato da incrollabili e ingiustificati pregiudizi. Qual è dunque lo scopo di questo piccolo testo risalente al 1764? Lo scopo è quello che ha dominato l'intero pensiero voltairiano: combattere una battaglia senza quartiere contro la fede religiosa, qualunque essa sia, da lui considerata pura superstizione e fonte di infiniti mali. Annota Gurrado: «Nei testi di Voltaire l'antropofagia appare coessenziale ai sacrifici umani, che sono il grado più efferato della persecuzione e che sono quindi la conseguenza estrema dell' intolleranza», inevitabile effetto della religione. Dunque, a giudizio del celebre intellettuale illuminista, gli ebrei, al pari di numerose altre genti, sono stati antropofagi perché hanno aderito a una fede religiosa; e a tale proposito egli propone interpretazioni sicuramente azzardate di brani biblici che sembrerebbero giustificare tale sua convinzione. Ma, allorché gli ebrei da persecutori diventano perseguitati, a causa di motivi religiosi, ecco che si sono trasformati in vittime, finendo col venire a loro volta mangiati dai loro nemici.
Il succo dell'argomentare voltairiano è pertanto il seguente: dove c'è la religione c'è il cannibalismo; cancellata la religione, sarà cancellato il cannibalismo. Condotta sul filo dell'ironia con la consueta abilità , l'operetta si chiude con queste paradossali parole: «Uno uccide due o trecentomila uomini, e tutti lo trovano un bene; uno si mangia un cosacco, e si mettono tutti a strillare».
(Libero, 25 giugno 2015)
Turchia-Israele: ministro turco conferma i colloqui per un riavvicinamento diplomatico
ANKARA - Il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, durante un incontro con l'Associazione dei fotogiornalisti turchi (Tfmd) ha confermato la ripresa del dialogo con Israele per ripristinare normali rapporti diplomatici tra le parti. Il ministro ha tuttavia minimizzato la portata delle sue dichiarazioni sottolineando che è normale parlare con un altro paese per poter avere delle relazioni diplomatiche, riferendo anche che il 22 giugno il sottosegretario agli Esteri turco, Feridun Sinirlioglu, ha incontrato a Roma Dore Gold, direttore generale del ministero degli Esteri israeliano. Il colloquio si è svolto in segreto. "La palla è ora nel campo di Israele", ha detto Cavusoglu ricordando che Ankara sta aspettando che vengano accolte le sue richieste: la revoca dell'embargo su Gaza e il risarcimento ai familiari delle vittime dell'attacco alla nave Mavi Marmara avvenuto il 31 maggio 2010. In quell'occasione morirono nove turchi mentre altri rimasero feriti dopo l'attacco di un commando israeliano, un episodio che ha causato un peggioramento nei rapporti tra i due paesi che decisero di ritirare reciprocamente gli ambasciatori.
(Agenzia Nova, 24 giugno 2015)
Ultraortodossi nell'high tech
Sono l'11% della popolazione. Saranno il 25% entro il 2050.
di Simonetta Scarane
In Israele, la «Silicon Wadi», roccaforte dell'industria tecnologica, attira sempre più «haredim» gli ebrei ultraortodossi perché offre a questa comunità di fondamentalisti, non troppo amata e con poche disponibilità economiche, una vera occasione di inserimento economico e sociale.
Uno di questi è l'haredi Michael Mashian, 45 anni, dedito agli studi talmudici, sposato e padre di cinque figli. Si è stabilito a Bnei Brak, una città a est di Tel Aviv, fortezza degli haredim («i timorosi di Dio») dove a gennaio, in pieno centro, è stato aperto l'incubatore «Haredi High-tech Forum» con 21 imprese debuttanti. Mashian, insieme a Aur Saraf , 26 anni, ha creato la start-up EnglishOn. L'idea è trasformare siti web già esistenti in una piattaforma per apprendere la lingua inglese. Mashian è bilingue perché ha trascorso la sua giovinezza negli Stati Uniti. E proprio questa esperienza l'ha spinto nella sua iniziativa imprenditoriale, convinto che la conoscenza dell'inglese sia una chiave per la propria riuscita mentre questa lingua straniera non viene insegnata, o molto poco, nelle scuole ultraortodosse. Se consoliderà il suo successo, l'avventura di EnglishOn diventerà l'emblema di un fenomeno in piena espansione: l'irruzione di ebrei ultraortodossi nella «Silicon Wadi» israeliana. Sempre più le stars delle imprese tecnologiche locali si entusiasmano per questa nuova tendenza. L'high tech israeliano offre una risposta a una delle più grandi scommesse che oggi si trova a dover affrontare Israele: l'inserimento sociale e economico degli ultraortodossi. Una comunità che attualmente è l'11% della popolazione israeliana, destinata a crescere fino a diventarne il 25% entro il 2050. Più della metà degli uomini haredi non lavora, avendo scelto una esistenza «separata» da quella degli altri concittadini, consacrata allo studio dei testi sacri, che li esenta, ad esempio, dal fare il servizio militare obbligatorio. Così le loro finanze sono piuttosto impoverite. Ma è in atto un lento cambiamento, dal momento che tra i giovani sono in molti a non voler vivere nella povertà e a desiderare di inserirsi nel mondo del lavoro e delle istituzioni accademiche. Sono 10 mila gli haredim che nel 2014 hanno seguito un corso di studi superiori, facendo registrare una crescita del 500% in cinque anni, secondo il rapporto redatto da Reuven Gal, dell'istituto di ricerca Samuel Neaman connesso con l'università di Technion. L'attrazione per la tecnologia è la manifestazione più eclatante di questa trasformazione.
Per molto tempo i rabbini hanno moltiplicato gli anatemi contro internet accusato di inquinare la morale e i costumi. Oggi, anziché continuare a condannare il fenomeno, i leader religiosi scelgono di ignorarlo. Un atteggiamento interpretato come una sorta di approvazione silenziosa, considerando anche che all'incirca il 70% delle famiglie haredim hanno un computer con la connessione a internet. E così, segno di un cambiamento epocale, si stanno moltiplicando le strutture dedicate ad accompagnare gli imprenditori in kippah, come la start-up EnglishOn, o Kama-Tech, specializzata nella creazione di video online creata cinque anni fa, da un giovane appartenente all'aristocrazia ultraortodossa, Moshe Friedman, nipote figlio del grande rabbino di Gerusalemme, Yossef Haim Sonnenfeld, uno dei fondatori dell'ultraortodossia. Inizialmente scettici, oggi anche Google, Microsoft e Cisco impiegano 120 haredim su 1.800 dipendenti israeliani. Anche centinaia di donne ultraortodosse lavorano in queste imprese di alta tecnologia, con orari flessibili per occuparsi dei propri figli e osservando le indicazioni dei rabbini.
(ItaliaOggi, 24 giugno 2015)
Il "Consiglio dei tiranni" dell'Onu processa Israele. E arriva la Corte dell'Aia
27 membri su 45 sono "non democratici". Il ruolo di Bensouda, giudice islamica ostile a Gerusalemme.
di Giulio Meotti
ROMA - Cos'hanno in comune Algeria, Bangladesh, Cina, Congo, Costa d'Avorio, Cuba, Etiopia, Gabon, Indonesia, Kazakistan, Kenia, Maldive, Marocco, Nigeria, Pakistan, Qatar, Russia, Arabia Saudita, Sierra Leone, Emirati Arabi, Venezuela e Vietnam? Una poltrona in prima fila al Consiglio dei diritti umani dell'Onu sulle rive del lago di Ginevra. Sono loro, dittature o "stati parzialmente liberi", forti di una maggioranza di 27 membri su 45, ad aver dato mandato alla commissione di Mary McGowan Davis di accusare Israele di "crimini di guerra". Il rapporto imputa all'esercito israeliano l'"uso sproporzionato della forza" e suggerisce un'indagine della Corte dell'Aia. Il ministro israeliano Naftali Bennett martedì ha detto che "il rapporto ha il sangue sulle mani, perché acconsente all'uccisione degli ebrei", stabilendo una simmetria legale e morale fra Israele e i terroristi. Il Consiglio dei diritti umani è diventato un tribunale di dittatori. Nel 2004, 13 stati su 53 erano "non liberi" o "parzialmente liberi" secondo l'organizzazione non governativa Freedom House. Nel 2011 erano a 21. Oggi sono 27. Intanto, il presidente sudanese Omar Bashir, che i crimini di guerra nel Darfur li ha commessi davvero, si fa beffe dell'Aia e gira indisturbato nonostante il mandato di cattura. Un po' di numeri per spiegare "l'ossessione" di cui parlava martedì il premier israeliano, Benjamin Netanyahu. Come denuncia la ong UN Watch, "il 70 per cento delle critiche specifiche del Consiglio dei diritti umani è contro Israele, un terzo delle condanne sono dirette a Israele e tre delle cinque sessioni speciali del Consiglio sono state dedicate a Israele".
Il rapporto Davis avvicina i capi israeliani alla Corte dell'Aia. Perché a giudizio non c'è soltanto il fuoco di artiglieria a Shujaiyeh che ha colpito i civili palestinesi, le bombe dei piloti che hanno fatto esplodere le abitazioni a più piani a Gaza o i soldati che hanno sparato a tutto quello che si muoveva durante il "Venerdì nero" di Rafah. Sotto accusa sono le decisioni prese da Netanyahu, dal ministro della Difesa Moshe Ya'alon, dal capo di stato maggiore Benny Gantz e dal capo dell'aviazione Amir Eshel. Israele ha già risposto al rapporto dell'Onu con uno suo di 275 pagine che accusa Hamas di aver deliberatamente collocato le proprie attività militari nelle aree civili. Rivela anche che non una sola decisione militare israeliana venne presa senza la luce verde degli avvocati. "Se un legale riteneva che non fosse un bersaglio legale, il comandante non era in grado di lanciare l'attacco". E' il ruolo della "Dabla", l'unità giuridica dell'esercito che per la prima volta in un conflitto ha avuto un ruolo fondamentale.
Ora diventa decisivo il procuratore dell'Aia, Fatou Bensouda, giudice di fede islamica del Gambia. Ha preso il posto di Louis Ocampo, diventato famoso per le photo opportunity a Davos al fianco di Angelina Jolie e Richard Branson. E come scrive sul Wall Street Journal l'ex attorney general degli Stati Uniti, Michael Mukasey, "il procuratore capo Bensouda è ostile a Israele e agli Stati Uniti". A dicembre, Bensouda ha rivelato che sta "valutando le prove" sulle tecniche di interrogatorio usate dagli americani in Afghanistan. E nel corso di una conferenza in Marocco, Bensouda ha appena detto che "crimini di guerra" sono stati commessi da Israele sulla Mavi Marmara, un'imbarcazione della cosiddetta "flottiglia". Bensouda ha aperto un'inchiesta preliminare sugli insediamenti israeliani in Cisgiordania, che per il magistrato dell'Aia costituirebbero "crimine di guerra".
John Rosenthal, sulla Policy Review, ha scritto che la Corte "rappresenta la negazione dei principi classici del diritto internazionale delle Nazioni Unite. E' un tribunale canaglia". Perfetta dunque per incriminare Israele.
(Il Foglio, 24 giugno 2015)
«Io, giovane israeliano, soffro per i manifesti antisemiti»
«Nel luogo in cui lavoro mi capita di trovare la stella di Davide abbinata alla svastica. Altre volte, passeggiando per città, vedo manifesti che inneggiano all'odio verso Israele». È la testimonianza di un giovane israeliano che vive a Trieste. Per lui, che viene da una terra dilaniata da una guerra decennale, vedere il modo in cui si tratta il tema del Medio oriente da noi può essere un'esperienza sconvolgente: «Ho visto addirittura dei manifesti abusivi che perfino per contestare l'Expo si richiamavano all'odio verso Israele, "reo" di avere un padiglione all'esposizione universale».
Studente e lavoratore, il ragazzo presenta un punto di vista che tocca un punto dolente in una città nella cui storia rientra l'unico campo di sterminio in territorio italiano: «Quello che mi preme di sottolineare è che si inizia con la propaganda ma poi si può arrivare alla violenza. Se si incita all'odio quando Israele si difende, c'è il rischio che si ripercuota sulla comunità ebraica di qui, che con la guerra non ha nulla a che fare».
Il giovane si è rivolto alla stampa dopo diversi anni di permanenza in Italia, esasperato dalla sensazione che nessuno cerchi veramente di capire a fondo le contraddizioni insite nel conflitto mediorientale, e si finisca troppo spesso per scaricare su Israele tutte le responsabilità di quello che là avviene: «Io non penso che l'Italia sia un paese razzista - spiega -, però molte volte ho l'impressione che si parli senza essersi informati. Ed è un peccato quando pochi sporcano il nome di tanti».
L'appello del giovane ai suoi concittadini a Trieste è a mantenere alta la guardia: «Quando compaiono manifesti antisemiti mi piacerebbe che chi ne è incaricato li togliesse. Una volta l'ho fatto io con le mie mani nel sottopasso della stazione, ma vorrei davvero che questa fosse una città in cui non c'è spazio per la propaganda antisemita».
(Il Piccolo, 23 giugno 2015)
"L'Iran probabilmente mentirà in caso di un accordo sul nucleare"
E' quanto sostiene l'esperto francese Bruno Tertrais
"Il regime iraniano probabilmente mentirà quando firmerà un accordo con le potenze mondiali per contenere il suo programma nucleare in cambio della revoca delle sanzioni internazionali", ha detto l'illustre esperto francese sulla proliferazione nucleare Bruno Tertrais.
Il Dr. Bruno Tertrais, illustre ricercatore alla Fondazione Francese per le Ricerche Strategiche (FRS), ha fatto questa dichiarazione ad una conferenza della Fondazione per gli Studi Mediorientali a Parigi il 12 Giugno. Tra i relatori c'erano anche il Dr. Olli Heinonen, ex-vice Direttore Generale dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (AIEA), l'ex-direttore della CIA James Woolsey, l'ex-Direttore delle Pubbliche Relazioni della Casa Bianca Linda Chavez e Alireza Jafazardeh, vice-Direttore dell'Ufficio di Rappresentanza del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana (CNRI) negli Stati Uniti.
"Ammesso che ci sarà un accordo finale, 35 anni del comportamento degli iraniani in passato ci dimostrano che è altamente probabile che l'Iran cercherà di mettere alla prova e di ingannare la comunità internazionale", ha detto Tertrais, aggiungendo che lui non crede che nel prossimo giro di negoziati internazionali con Tehran si raggiungerà "un buon accordo".
"Anche ammesso che ci sarà un accordo finale e se si ammette che questo accordo verrà rispettato fedelmente dall'Iran, lascerà l'Iran con una significativa capacità di breakout come un "threshold state" (uno stato che ha la capacità di utilizzare armi nucleari - n.d.t.).
Tertrais ha fornito una lucida valutazione dell'accordo preliminare raggiunto ad Aprile a Losanna dal regime iraniano e gli stati del P5+1:
"Se guardiamo quello che è stato realmente concordato, è solo mezza pagina. E' la dichiarazione congiunta UE-Iran. Tutto il resto è ancora vago. Ricordate che i negoziatori, almeno sulla carta, hanno accettato un principio fondamentale, cioè che niente è concordato finché tutto non è concordato. Ciò significa che persino sulle questioni che la Casa Bianca ha pubblicizzato come grandi successi gli iraniani possono ancora dire 'no, no, no, noi non abbiamo concordato niente. Niente e concordato finché tutto non è concordato'. Perciò vediamo la dichiarazione congiunta UE-Iran, l'unico accordo esistente finora e che si è rimasti con una dichiarazione di principi molto vaga".
Tertrais ha anche discusso su ciò che è stato ottenuto dopo un decennio di negoziati. Invece di bloccare la marcia del regime iraniano verso la bomba "i P5+1, dopo 10-12 anni avranno reso l'Iran un legittimo temporeggiatore nucleare".
Ha inoltre precisato che i possibili aspetti militari del programma del regime "non rientrano in questi negoziati. Fanno parte di una diversa linea di negoziati".
"Le potenze mondiali li stanno spazzando sotto il tappeto e questo è un problema".
"Questo accordo", ha detto "porterà ad un regime più radicale. Se non ci sarà un accordo il 30 Giugno, dovremo proprio dirgli addio", ha proposto Tertrais.
I P5+1, Gran Bretagna, Cina, Francia, Russia, Stati Uniti e Germania, sperano di concludere un accordo con il regime iraniano il 30 Giugno che limiti le attività nucleari di Tehran in cambio di un alleggerimento delle sanzioni.
Il Majlis (il parlamento) del regime iraniano, domenica ha votato per vietare agli ispettori internazionali sul nucleare di avere accesso ai siti militari e agli scienziati iraniani come parte di qualunque futuro accordo con le potenze mondiali sul suo programma nucleare.
(Consiglio della Resistenza Iraniana, 23 giugno 2015)
«Lavorare per l'unità della comunità». Coalizione per la presidenza Dureghello
24 voti favorevoli su 27 per formalizzare la presidenza della capolista «Per Israele» uscita dalle urne a un soffio dal premio di maggioranza (44,05% dei votanti su 45%).
di Manuela Pelati
ROMA - Si era fermata a un soffio dal 45 per cento e non aveva preso il premio di maggioranza, ma Ruth Dureghello con la formalizzazione dell'incarico per la presidenza della comunità ebraica, ha riscosso 24 voti favorevoli su 27 (2 schede bianche e 1 consigliere assente). E la nuova presidente, la prima donna della storia, dopo i sette anni di Riccardo Pacifici, potrà essere alla guida di una grande coalizione. Nei prossimi giorni si decideranno le nomine di giunta con gli assessori e si deciderà anche il portavoce della comunità.
«Unità della comunità»
«Ringrazio gli altri capilista che hanno deciso di lavorare per l'unità della nostra comunità» ha commentato Dureghello che con la lista «Per Israele» alle elezioni di domenica 15 giugno aveva staccato di 20 punti la seconda lista «Israele siamo noi» guidata da Fiamma Nirenstein, raggiungendo il 44,05% dei votanti. Alle urne su 10.885 aventi diritto ha votato il 36,2% degli elettori in dieci seggi dislocati in tutta la città.
Le liste e le preferenze
I seggi erano stati assegnati in questo modo: dodici alla lista «Per Israele», sei alla «Menorah» guidata da Maurizio Tagliacozzo (che raccoglie l'eredità di «Hazak» di centro sinistra), sei a «Israele siamo noi» guidata dall'ex parlamentare del Pdl, Fiamma Nirestein e, infine, tre alla lista di sole donne «Binah» guidata da Claudia Fellus con Simona Nacamulli, Eva Ruth Calmieri, Silvia Mosseri e Sabrina Coen.
«Lavoriamo per i nostri figli»
Ruth Dureghello, sposata, due figli, 48 anni, una laurea in Giurisprudenza e per due mandati assessore alla Scuola durante i sette anni di Pacifici, è cresciuta nell'ambiente comunitario. «Dedicarsi alla Comunità significa lavorare per il nostro futuro, dunque per i nostri figli e nipoti e i figli di questi ultimi» è la sintesi del suo pensiero. La sua squadra, cha ha presentato 26 candidati tra i quali Gadiel Gaj Taché (fratello del piccolo Stefano, ucciso nell'attentato alla Sinagoga del 1982), ha sottolineato che «Roma ha un ruolo centrale per l'ebraismo di tutto il mondo». Gli obiettivi della nuova presidente sono i problemi sociali, le famiglie e il miglioramento della scuola, perché diventi un'eccellenza nel mondo dell'istruzione. Riccardo Pacifici continuerà ad avere un ruolo importante: «Monitorerò la condizioni di protezione delle comunità ebraiche europee e vigilerò su tutti i fenomeni di antisemitismo, in stretto coordinamento sia con il World Jews Congress che con le autorità di Israele. Incontrerò capi di Stato e di governo, prenderò contatto con le forze dell'ordine e i servizi dei diversi Paesi», ha ricordato l'ex presidente della Comunità ebraica.
(Corriere della Sera - Roma, 23 giugno 2015)
EDIPI alla manifestazione pro-Israele di Ginevra
29 giugno
a Ginevra
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Evangelici d'Italia per Israele si sta mobilitando per partecipare in massa alla manifestazione pro-Israele che si terrà il 29 giugno alla Piazza delle Nazioni di Ginevra davanti alla sede del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. Da Milano partiranno in 25 accompagnati dal presidente EDIPI, past. Ivan Basana, mentre da Torino saranno circa 50 accompagnati dal past. Egidio Ventura; si uniranno con altri rappresentanti delle comunità ebraiche e dell'associazione ADI (Amici d'Israele). La protesta avrà l'obbiettivo di evidenziare le contraddizioni sulle conclusioni della comissione chiamata ad esprimersi sui presunti "crimini" commessi dall'esercito israeliano nell'agosto 2016 per la guerra con Hamas. Si tratta non solo di contraddizioni ma di vere falsità.
ANTEFATTO
Commissione "Schabas" (leggi Sciàbas)
È una commissione istituita dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, con sede a Ginevra, ed è chiamata così dal nome della persona a cui era stata affidata la conduzione della commissione: il giurista canadese William Schabas.
La Commissione aveva già tutte le premesse per diventare una nuova "Commissione Goldstone" (la commissione che "indagò" sui "crimini" commessi da Israele durante l'operazione a Gaza "Piombo Fuso" a cavallo fra 2008 e 2009).
Questa commissione, invece, è stata incaricata di "indagare" sui "crimini" commessi da Israele durante l'operazione a Gaza "Margine di Protezione" dell'estate 2014. Una commissione creata ad hoc su pressione della solita maggioranza automatica anti-israeliana al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, con delle tesi e dei verdetti già scritti e precostituiti, in cerca solo di legittimazione internazionale sotto la veste di "report" di una commissione d'inchiesta.
Solo che Goldstone aspettò molto tempo dopo l'uscita del rapporto da lui firmato, per "disconoscerlo" e ammettere che non era stato obiettivo e neutrale. Schabas, invece, si è dimesso ancora prima di iniziare, lo scorso febbraio, per delle accuse di parzialità (a sfavore di Israele, ovviamente) nei suoi confronti, dopo le notizie emerse su alcune sue passate consulenze (quindi a pagamento) per conto dell'OLP!
Lo Stato d'Israele ha deciso di non partecipare ai lavori della Commissione, proprio per la sua palese parzialità e per le sue conclusioni già precostituite; di contro ha condotto nei mesi scorsi indagini e inchieste interne autonome, pubblicando, alla fine, risultati e conclusioni che portano alla luce i veri crimini commessi invece da Hamas.
Ovviamente, la Commissione d'inchiesta dell'ONU è andata avanti lo stesso, anche senza Schabas, e adesso, a fine mese, sarà presentato il suo rapporto finale, a Ginevra, alla sede del Consiglio per i diritti umani dell'ONU.
INIZIATIVA
Si sta organizzando una manifestazione di sostegno a favore di Israele, per quel giorno, il 29 giugno prossimo, davanti alla sede del Consiglio per i diritti umani dell'ONU a Ginevra.
Vari gruppi si stanno organizzando già localmente, in Svizzera, e si sta verificando la possibilità di organizzare anche dei gruppi di sostenitori provenienti dalle regioni limitrofe di Francia e Italia.
Vi saranno due punti di partenza per l'Italia: Torino e Milano.
La manifestazione è prevista a Ginevra per le ore 11.00 in tarda mattinata.
La partenza da Milano e Torino, in pullman, è prevista intorno alle ore 6:00 di mattina (7:00 per Torino).
Il rientro in Italia è previsto in giornata stessa, dopo la conclusione della manifestazione.
Per informazioni:
info@edipi.net
3475788106
(Edipi, 23 giugno 2015)
David Grossman visita a Expo il padiglione di Israele
MILANO - Lo scrittore israeliano David Grossman ha visitato a Expo il padiglione di Israele. Grossman, autore di romanzi di successo internazionale, da "Vedi alla voce Amore" al suo ultimo "Caduto fuori dal tempo", ha aperto a Milano la rassegna culturale "La Milanesiana", dove è stato premiato con la Rosa d'Oro per le sue opere. Ha colto l'occasione per visitare Expo, ospite del padiglione di Israele.
Ha contemplato in particolare il 'campo verticale', la parte del padiglione dove Israele - facendo ricorso a una tecnologia d'avanguardia denominata "irrigazione a goccia", brevettata in Israele - ha realizzato una parete vivente. Si tratta di un esempio di "Vertical Planting", tecnica innovativa che consente di far crescere coltivazioni anche in zone desertiche, su superfici verticali. Nel caso specifico di Expo, il campo verticale è seminato a grano, mais e riso. "E' bene ricordare le cose belle, buone e creative che Israele offre al mondo" ha commentato Grossman.
(ANSA, 23 giugno 2015)
Expo - Israele: per il National Day ci sarà una festa travolgente
di Luciano Clerico
MILANO - Israele si appresta a celebrare il suo National Day a Expo nel segno della vitalità, della gioia, della festa più sfrenata, "nello spirito di Israele e in omaggio al popolo di Expo". E' quanto prevede il programma messo a punto dal Padiglione per il 25 giugno, giorno del "suo" National Day: dopo il momento istituzionale dell'alzabandiera, al quale parteciperà in rappresentanza del Governo il vice ministro degli Affari Esteri, Tzipi Hotovely, dopo i discorsi ufficiali sui rapporti di amicizia che legano Italia e Israele, dopo la doverosa fase diplomatica, scatterà la festa.
"Sarà travolgente, divertente, prorompente, in stile squisitamente israeliano - spiega il commissario del Padiglione, Elazar Cohen -. Vogliamo coinvolgere tutto il popolo di Expo, per una festa ininterrotta che durerà fino a notte". La festa comincerà fin dal mattino, lungo il Decumano, dove sfileranno gli ottoni e le percussioni dei Circle of Drummers and Horns. Sono un ensemble di percussionisti e musicisti che si esibiscono in tutto il mondo per portare messaggi di pace e allegria. "Il ritmo israeliano è come un battito che parte da Gerusalemme per unire uomini e donne di ogni parte del mondo - spiegano -. Il nostro progetto è un'opera di armonia congiunta per portare un messaggio universale di speranza e allegria".
Con loro, al Padiglione, anche l'energia degli Sheketak, compagnia di musicisti, ballerini e acrobati che si esibisce in tutto il mondo con coreografie scenografiche che interagiscono con il pubblico. Per il National Day coinvolti djset e street artists per tutti i visitatori, e giocolieri per i più piccoli. La festa culminerà con la cantante israeliana Ester Rada, raffinata interprete di un genere musicale capace di esprimere funk-soul contemporaneo in chiave world music, che accoglie sia le sonorità della sua terra d'origine, l'Etiopia, sia quelle della sua casa in Israele.
Ma la festa non finirà con Ester Rada, la cui esibizione durerà circa un'ora. Subito dopo il Decumano si trasformerà in una discoteca a cielo aperto, all'altezza dei migliori club di Tel Aviv. "Nel nostro National Day siamo lieti di portare a Expo un programma aperto che coinvolga il pubblico dall'apertura a fine giornata. Gli artisti israeliani che si alternano tra il decumano e il padiglione rappresentano al meglio lo spirito del nostro Paese: giovane, intraprendente, curioso e in grado di trasformare la creatività in un'energia ottimista e aperta sul futuro. Un giorno di festa che rispecchia anche l'identità del padiglione".
Nel frattempo il padiglione ha ricevuto una visita eccellente, quella dello scrittore David Grossman. Il quale si è detto particolarmente colpito dalla realizzazione del giadino verticale, la parete seminata a grano, riso e mais che il padiglione ha realizzato appositamente per Expo: "E' bene ricordare le cose belle, buone e creative che Israele offre al mondo" ha commentato.
(ANSA, 23 giugno 2015)
Vueling, nuovi voli da Firenze verso Israele
Il vettore lowcost spagnolo vola questa estate da Firenze verso la città israeliana di Tel Aviv.
Il vettore Vueling ha annunciato per il prossimo 4 luglio l'avvio dei collegamenti tra il capoluogo toscano e Tel Aviv, operativo una volta alla settimana, nel giorno di sabato. Denominata "la città che non dorme mai", Tel Aviv è il principale centro urbano d'Israele e, grazie alla sue spiagge e alla sua vivace vita notturna, è una delle più rinomate destinazioni turistiche del Medio Oriente.
(liligo.it, 23 giugno 2015)
Due medici israeliani a Forlì per imparare la tecnica Osas
di Tiziana Rambelli
FORLÌ - Due giovani medici israeliani specializzati in otorinolaringoiatria sono stati ospiti, in questi giorni, dell'Unità Operativa di Otorinolaringoiatria di Forlì, diretta dal dottor Claudio Vicini, per apprendere le tecniche di chirurgia OSAS (Obstructive Sleep Apnea Syndrome, apnea ostruttiva del sonno), per cui l'ospedale forlivese è diventato un riferimento.
Il dottor Gideon Bachar e Yaniv Hamzany dell'ospedale pubblico universitario "Rabin Medical Center" di Tel Aviv (Israele) hanno un'importante esperienza come chirurghi testa - collo nel settore oncologico e sono venuti dal dottor Vicini proprio per assistere ad un intervento OSAS con la tecnica sviluppata dal dottor Vicini e dalla sua équipe nel trattamento dell'apnea ostruttiva del sonno.
"A Tel Aviv, che ha un bacino di circa tre milioni di persone, utilizziamo il robot Da Vinci per l'otorinolaringoiatria come a Forlì - ha spiegato il dottor Gideon Bachar - Nel nostro ospedale, in tre anni e mezzo di attività, abbiamo trattato con la robotica circa 25 casi oncologici e 50 tirodeictomie".
Il Rabin Medical Center (RMC) è una delle strutture mediche pubbliche tra le più importanti in Israele.Fin dalla sua istituzione è servita da modello per nuovi standard di trattamento medico ed è stato un leader nell'uso delle nuove tecnologie, pur mantenendo i più elevati standard di assistenza medica e infermieristica . Gli istituti e i dipartimenti di RMC sono rinomati per la loro ricerca scientifica, lo sviluppo tecnologico e le scoperte mediche. Affiliato con la Tel Aviv University Sackler School of Medicine, RMC collabora con alcuni tra i più grandi e più stimati centri medici a livello mondiale.
"La sindrome delle apnee ostruttive nel sonno, nota anche come OSAS - spiega il dottor Claudio Vicini - è un sotto-tipo della "sindrome delle apnee nel sonno", caratterizzata da ripetuti episodi di completa e/o parziale e/o prolungata ostruzione delle vie aeree superiori durante il sonno, normalmente associati a una riduzione della saturazione di ossigeno nel sangue. In Israele l'OSAS ha un'incidenza del 3-6% su tutta la popolazione, percentuale condivisa con tutti i Paesi Occidentali".
(Forlì24ore, 22 giugno 2015)
Netanyahu: "Nessuno puo' farsi la legge da solo"
Il premier israeliano assicura che gli autori del linciaggio sul Golan verranno presi.
"Troveremo gli autori del linciaggio e li assicureremo alla giustizia". Queste le parole del premier israeliano Benyamin Netanyahu riferendosi ai fatti accaduti ieri sul Golan, dove drusi del luogo hanno attaccato un'ambulanza dell'esercito e linciato un ribelle siriano ferendo al tempo stesso due soldati. "Siamo uno Stato di diritto e - ha aggiunto il premier - non vogliamo far parte dell'anarchia che dilaga intorno a noi".
La rabbia dei drusi israeliani, angosciati per la sorte dei loro fratelli in Siria minacciati dall'avanzata jihadista, si è scatenata ieri sera sulle alture del Golan, contro un'ambulanza militare israeliana che trasportava due combattenti siriani feriti nella vicina guerra civile, uccidendone uno e lasciando in gravissime condizioni l'altro. Netanyahu già subito dopo l'attacco ha detto che non permetterà a "nessuno di farsi la legge da solo e di ostacolare i militare di Israele che compiono il loro dovere", invitando i drusi ad "afire subito per calmare la tensione".
Il "dovere" a cui si riferisce nel caso specifico Netanyahu, è il servizio di soccorso dei feriti nel conglitto siriano compiuto da diversi mesi dai militari israeliani al confine, cioè dal Golan. È proprio nella zona di confine, dove vive il grosso della comunità drusa - che serve regolarmente nell'esercito a fianco degli ebrei e ha parlamentari nella Knesset - che nella sera si è scatenata la rabbia: l'attacco con pietre e altre armi nel villaggio druso di Majdan Shams, dal quale si vede il territorio siriano, contro un'ambulanza militare, quando si è diffusa la voce che trasportava dei miliziani feriti. Uno dei miliziani è morto per percosse, l'altro è stato trasportato in gravissime condizioni in un ospedale militare. Leggermente ferito l'equipaggio. Poche ore prima un analogo tentativo aveva preso di mira un'ambulanza nel villaggio di Hurfeish.
(In Terris, 23 giugno 2015)
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I discepoli sulla via di Emmaus
Ed ecco, in quello stesso giorno due di loro se ne andavano a un villaggio di nome Emmaus, distante da Gerusalemme sessanta stadi; e discorrevano tra loro di tutte le cose che erano accadute. Ed avvenne che mentre parlavano e discutevano insieme, Gesù stesso si avvicinò e cominciò a camminare con loro. Ma i loro occhi erano impediti così da non riconoscerlo. Ed egli domandò loro: Che discorsi sono questi che tenete fra voi cammin facendo? Ed essi si fermarono tutti mesti. E uno dei due, di nome Cleopa, rispondendo, gli disse: Tu solo, tra i forestieri, stando in Gerusalemme, non hai saputo le cose che vi sono accadute in questi giorni? Egli disse loro: Quali? Ed essi gli risposero: Il fatto di Gesù Nazareno, che era un profeta potente in opere e in parole dinanzi a Dio e a tutto il popolo; e come i capi sacerdoti e i nostri magistrati l'hanno fatto condannare a morte e l'hanno crocifisso. Or noi speravamo che fosse lui che avrebbe riscattato Israele; invece, con tutto ciò, ecco il terzo giorno da quando sono accadute queste cose. Vero è che certe donne tra di noi ci hanno fatto stupire; essendo andate la mattina di buon'ora al sepolcro e non avendo trovato il corpo di lui, sono venute a dirci d'aver avuto anche una visione di angeli, i quali dicono che è vivo. Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro, e hanno trovato la cosa così come avevano detto le donne; ma lui non l'hanno visto. Gesù allora disse loro: O insensati e tardi di cuore a credere a tutte le cose che i profeti hanno detto! Non doveva forse il Cristo soffrire queste cose ed entrare poi nella sua gloria? E cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture le cose che lo concernevano.
dal Vangelo di Luca, cap. 24
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Trasformazioni sociali e culturali, risorse naturali e biotecnologie
Si è concluso a Gerusalemme il convegno "Trasformazioni sociali e culturali, risorse naturali e biotecnologie" organizzato dal Centro Ricerche di Psicologia Politica e Geopolitica dell'Università Europea di Roma (CRIPPEG) insieme al Pontificio Istituto Notre Dame di Gerusalemme e all'Università Ebraica di Gerusalemme. Padre Pierbattista Pizzaballa, Custode di Terra Santa, ha aperto il dibattito dichiarando che "la ricerca scientifica deve essere orientata al servizio della diffusione dei beni comuni come l'acqua e l'energia e che tale ricerca non possa essere svincolata dal messaggio dell'enciclica pontificia Laudato sì che indica come unica soluzione per risolvere i conflitti internazionali la socializzazione di questi fondamentali beni creati per il bene e il servizio dell'uomo". Il professor Paolo Sorbi, dell'Università Europea di Roma, ha sottolineato come "tali interventi che premono per la loro urgenza sono di dimensioni colossali. Riguardano, come dice Papa Francesco nella sua Enciclica, Laudato sì, le dinamiche dei beni comuni. Questi interventi non possono che unire in azioni pubbliche governi e grandi aziende multinazionali dell'agroalimentare e di forniture internazionali di risorse idriche. Questo è l'attuale livello del 'realismo' culturale e politico se comprendiamo l'urgenza dell'appello dei poveri che ci sta raggiungendo come vero urlo di pace e giustizia". Toccando il tema demografico il professor Sergio Della Pergola, dell'Università Ebraica di Gerusalemme, ha fatto notare come fin dalla sua indipendenza, lo Stato di Israele è stato caratterizzato da una straordinaria crescita demografica - un moltiplicatore di circa dieci volte la sua popolazione iniziale. Ciò è in gran parte avvenuto attraverso l'immigrazione intensa e piuttosto eterogenea di ebrei da un gran numero di paesi di tutto il mondo, a sua volta caratterizzata da una vasta gamma di sviluppo e di modernizzazione. Il professor Michele Mezza, dell'Università Europea di Roma, che ha toccato gli intrecci tra le problematiche dell'acqua e dell'energia con le nuove tecnologie si è focalizzato sugli aspetti tecnici e la governance dell'acqua. "L'ottimizzazione e l'efficienza dipendono anche dall'uso di gestione della logistica e dal controllo dei flussi delle tecnologie e delle metodologie di assistenza nei processi decisionali. Gli operatori e i decisori usano molto raramente queste tecnologie che possono portare a ritorni economici molto elevati, oltre a migliorare l'efficienza delle reti idriche" ha chiarito il professore. In conclusione dei lavori, Maria Medici, del CRIPPEG, ha affermato come "il principio della condivisione, alla luce delle tragedie che soprattutto il Sud del mondo sta vivendo, appare non più procrastinabile".
(Pianeta Universitario, 23 giugno 2015)
Israele parificato ad Hamas: il solito strabismo dell'Onu
La commissione accusa Gerusalemme e i terroristi di crimini di guerra. Ma le motivazioni sono politiche. Fissazione Onu: fra il 2006 e il 2013 Israele è stato condannato 45 volte.
di Fiamma Nirenstein
Che l'Onu, e ancor più il suo Consiglio per i Diritti umani (Unhrc) condanni Israele è talmente ovvio: è come la notizia del cane che morde un uomo. La «fissazione», come ha detto Netanyahu, è evidente dalle percentuali abnormi: fra il 2006 e il 2013 è stata condannata 45 volte, lo stesso numero di tutti gli altri 192 membri stati tutti insieme. Ma stavolta l'Onu ha cercato di fare il furbo e di offrire in pasto all'opinione pubblica anche l'uomo che morde un cane: la notizia infatti è che (ambedue secondo l'Unhrc) Israele e Hamas, l'organizzazione terroristica padrone di Gaza, «possono aver commesso crimini di guerra» durante il conflitto dell'estate scorsa: questa è la conclusione cui giunge un rapporto di 50 pagine che mette sullo stesso piano un Paese democratico con un esercito dal codice morale inflessibile, e un'organizzazione terrorista che usa le cinture esplosive e uccide i «collaborazionisti» per strada col colpo alla nuca, e che prevede lo sterminio degli ebrei nella sua Carta. Il Consiglio per i Diritti Umani, anche quando si chiamava Commissione, ha sempre preferito i peccati eventuali di Israele a qualsiasi altra violazione, tanto che non gliene importa quasi niente di quello che accade in Siria, in Arabia Saudita, in Cina... Stavolta ci risiamo, anche se nella relazione si nota un po' di cautela, dopo che il precedente relatore William Shabas è stato estromesso a causa di un suo rapporto, anche economico, con i palestinesi, e dopo che il precedente rapporto Goldstone del 2009 sull'operazione Cast Lead è stato smentito da Goldstone stesso: dopo aver bistrattato Israele scrisse sul Washington Post che non aveva avuto le fonti giuste. Oggi si condanna il fatto che Israele abbia colpito strutture civili, secondo il rapporto, ingiustificatamente: si chiede a Israele come mai abbia deciso di colpire quegli edifici e si disprezzano i suoi allarmi preventivi alla popolazione, perché, dice il rapporto, non consentivano abbastanza tempo per l'evacuazione. Nel rapporto si parla di 742 perdite di civili e si accusa Israele di «non avere rivisto la tecnica degli attacchi aerei dopo averne constatato gli effetti sui civili». Cosa avrebbe dovuto fare lo Stato Ebraico per fermare i missili che seguitavano a cadere sugli israliani non si dice. Hamas invece ha, dice il rapporto, «indiscriminatamente preso di mira civili israeliani» e causato «grande scompiglio» a chi cercava di raggiungere i rifugi in pochi secondi. Davvero poca roba in confrono all'intenzione genocida di Hamas.
Mai si vide analisi più sconclusionata e incurante delle leggi che in un certo senso obbligano un Paese a difendere la propria popolazione civile. Non a caso Hamas si è dichiarata soddisfatta del rapporto. Chi è più obnu- bilato di chi si permette di ignorare oggi che la guerra asimmetrica che conducono le guerriglie islamiste come Hamas, fa un uso di civili talmente largo e cinico da rendere impossibile distinguere le strutture civili da quelle che costituiscono legamente un obiettivo di guerra? A tutti era ben noto che il maggiore ospedale di Gaza era usato come sede dello stato maggiore di Hamas (e tuttavia è stato risparmiato), che nelle scuole dell'Unrwa Hamas teneva armi e uomini, e che ogni casa, ogni strada, erano usati per nascondere rampe di lancio o imboccature dei tunnel per gli attacchi terroristi. La guerra contro Hamas è stata una guerra che Israele ha cercato di evitare in tutti i modi; che ha prevenuto un massacro di israeliani tramite i tunnel, un progetto miliardario finanziato dal Qtar e dall'Iran; e se Israele ha potuto utilizzare Iron Dome per proteggere la sua gente da una pioggia di missili che cercavano donne e bambini, forse è dispiaciuto a qualcuno. Distinguere i morti civili da quelli militari in una guerra in cui la maggior parte dei combattenti non indossa una divisa, e costringe i più a diventare scudi umani è infine una pretesa che si è già dimostrata irrealistica nelle indagini precendete. Ma al Consiglio per i diritti umani interessava affiancare Israele a Hamas in un giudizio che soddisfi chi non distingue fra democrazia e dittatura, fra difesa e aggressione, chi sbaglia i terroristi per combattenti della libertà. E sono tanti.
(il Giornale, 23 giugno 2015)
Un rapporto strabico, incompleto, prevenuto
Le conclusioni della Commissione d'indagine del Consiglio Onu per i diritti umani sulla guerra a Gaza sono a tratti di una dabbenaggine persino imbarazzante.
"Israele sta studiando il rapporto della Commissione d'inchiesta del Consiglio Onu dei diritti umani. Sin d'ora, tuttavia, si possono fare alcune osservazioni sul funzionamento della Commissione in generale". Lo afferma un comunicato diffuso lunedì dal portavoce del Ministero degli esteri israeliano, che prosegue: "E' ben noto che l'intero processo che ha portato alla produzione di questo rapporto era sin dall'origine politicamente motivato e moralmente sbagliato. Israele, così come prende seriamente in considerazione ogni denuncia indipendentemente dalla sua origine, studierà attentamente anche questo rapporto. Prendiamo nota tuttavia del fatto che gli autori stessi del rapporto ammettono di non disporre di molte informazioni rilevanti. Ed è comunque deplorevole che il rapporto non riesca a vedere la profonda differenza che esiste fra il comportamento etico tenuto dalle Forze di Difesa israeliane durante l'operazione Margine Protettivo e quello terroristico delle organizzazioni che hanno dovuto affrontare"....
(israele.net, 23 giugno 2015)
I profughi ospiti al Binario 21 dove si ricorda la Shoah
Ieri sera i primi arrivi. Jarach: "Non potevamo girarci dall'altra parte". Trenta letti vicini al vagone blindato È il luogo più accessibile per chi arriva con il treno. Cento i nuovi migranti accolti dai centri.
MILANO - I primi ospiti sono eritrei. Le brandine le avevano montate la mattina i responsabili del Memoriale della Shoah e di Sant'Egidio. E la prima notte è stata una sperimentazione sul campo del primo centro d'accoglienza nel luogo più evocativo e carico di memoria della stazione Centrale, il punto da dove partirono i convogli diretti ai campi di concentramento carichi di migliaia di ebrei milanesi. I profughi di oggi, gli africani che scappano dalla dittatura e i siriani in fuga dalla guerra, sicuramente non sanno nulla dell'Olocausto, né di che cosa successe al Binario 21, anche se a venti metri dal punto dove sono state sistemate 35 brandine della Protezione civile, c'è uno dei vagoni blindati che servì per il trasporto di ebrei condannati al martirio. Nessuno proverà a spiegarglielo fra i volontari della comunità di Sant'Egidio che, assieme a quelli della chiesa anglicana e di quella romena, gestiranno praticamente l'accoglienza, distribuendo anche cibo fornito da un'organizzazione della comunità ebraica che già si occupa dei poveri in via Forze Armate.
«Viviamo ogni giorno all'ombra della scritta "indifferenza" che abbiamo voluto mettere qui all'ingresso del Memoriale - spiega Roberto Jarach, vicepresidente della Fondazione - . Quando abbiamo capito che c'era l'opportunità di fare qualcosa per aiutare questa gente in mezzo a questa tragedia, ci siamo detti "ecco la nostra missione, non possiamo voltare la testa dall'altra parte". Qui c'è un popolo in fuga che ha visto soppresso i suoi diritti civili e umani. Noi non possiamo chiudere gli occhi». Una missione che viene intrapresa con fiducia, anche se Jarach confessa che «per due notti non ci ho dormito», perché in fondo il Memoriale è un luogo con una sua sacralità, oltre che uno spazio progettato da architetti e pensato non certo come un dormitorio. «Ma noi ci siamo sentiti di proporre quest'idea, ci occupiamo di eritrei a Porta Venezia già da diverso tempo e abbiamo pensato che potevamo fare un passo in più, offrendo anche ospitalità, in un luogo carico di storia come questo, soprattutto a chi arriva tardi e finirebbe a dormire in piazza Duca d'Aosta non trovando posto nei centri del Comune». Accanto a sant'Egidio, anche un'associazione medica della comunità ebraica che collaborerà con la Asl per il controllo medico degli ospiti. Tutte persone che probabilmente si fermeranno poco al Binario 21 anche a Milano, perché la meta del viaggio è il nord Europa. Anche di questo si parlerà oggi nel dibattito "Il peccato dell'indifferenza. L'Europa e i perseguitati di oggi e di ieri", al Memoriale della Shoa (ore 16, largo Safra 1- via Ferrante Aporti ) con Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz, il sociologo Luigi Manconi, i giornalisti Ferruccio De Bortoli (presidente del Memoriale ) e Gad Lerner, Seble Woldeghiorghis, funzionaria del Comune, nata in Eritrea ma trapiantata in Italia. Intanto anche il Comune fra un mese potrebbe avere i primi posti letto vicino alla stazione, in fondo a via Sammartini, dove una volta c'era Fratel Ettore, e dove adesso le Fs stanno ristrutturando uno spazio per l'aiuto ai profughi. Che continuano ad arrivare: ieri altri 100, con 900 posti occupati nei dormitori pubblici.
(la Repubblica, 23 giugno 2015)
A Roma prove di disgelo tra Israele e Turchia
Ieri un incontro tra i direttori degli Esteri dei due Paesi
ROMA - Prove "italiane" di disgelo tra Israele e Turchia: secondo i media turchi, i colloqui per un accordo di riconciliazione tra i due Paesi ai ferri corti da anni sono ripresi con un incontro segreto a Roma tra il direttore generale del ministero degli Esteri dello Stato ebraico, Dore Gold, e la controparte turca, Feridun Sinirlioglu, che in precedenza è stato ambasciatore in Israele.
L'incontro ha avuto luogo ieri, scrivono sia il quotidiano Haaretz che il sito di notizie Ynetnews: secondo quest'ultimo, Gold, appena nominato, è volato a Roma all'insaputa del consigliere per la sicurezza nazionale Yossi Cohen, responsabile dei colloqui tra Israele e la Turchia. E il nuovo direttore generale, viene precisato, non ha reso nota in anticipo la sua missione neppure a Joseph Ciechanover, il precedente emissario del premier Netanyahu per la Turchia.
In base alle indiscrezioni, all'inviato israeliano sarebbe stato chiesto di valutare la possibilità di porre fine alla crisi bilaterale, una ricognizione diplomatica lanciata alla luce del nuovo panorama politico che si configura in Turchia dopo le elezioni legislative. Il dicastero israeliano ha confermato la missione romana del suo alto funzionario, ma ha declinato ogni richiesta di commentare i contenuti del contatto.
I rapporti tra Turchia ed Israele si sono pesantemente deteriorati in seguito all'attacco israeliano contro una imbarcazione - la Mavi Marmara, battezzata dagli attivisti "Freedom Flotilla" - che tentava di portare aiuti a Gaza, sfidando il blocco navale imposto dallo Stato ebraico: il blitz israeliano provocò la morte di 10 cittadini turchi, e il ferimento di altri 50.
Gli Stati Uniti hanno fatto forti pressioni per il rilancio del dialogo tra i due Paesi, e una prima svolta in tal senso c'è stata due anni fa, quando il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha presentato le scuse ad Ankara per la strage al largo di Gaza. Ma il gelo a livello diplomatico è sostanzialmente continuato.
(askanews, 23 giugno 2015)
Parole semitiche
Gli autori che scrissero il Nuovo Testamento in greco talora hanno fatto uso di alcune parole semitiche. Poiché le versioni latine hanno mantenuto la forma straniera, queste parole sono entrate anche nella nostra lingua. Basti ricordare termini come «alleluia», «osanna», «amen», e altre la cui forma primitiva è spesso molto difficile da restituire, perché in Palestina si usavano due lingue, l'ebraica e l'aramaica, la prima lingua della cultura e della liturgia, la seconda lingua corrente, e queste, essendo molto simili, si mescolavano fra di loro disordinatamente. Perché gli evangelisti hanno preferito le forme semitiche? È chiaro che alcune parole avevano un significato talmente specifico che la loro interpretazione in una lingua straniera poteva risultare dannosa per il pieno significato. Si prenda ad esempio il termine «rabbi», che è un titolo onorifico con cui i Giudei salutavano un uomo di grande cultura e autorevolezza. Gesù ammonisce i suoi discepoli dal desiderare di essere chiamati «rabbi» e neppure padri o maestri, dal che risulta che la parola alle orecchie dei Giudei suonava diversa da padre o da maestro. Nel Vangelo si legge anche «rabboni», termine più familiare e affettuoso usato da Maria di Magdala quando aveva visto Gesù presso il sepolcro e non credeva ai suoi occhi: «Maria voltandosi gli dice: Rabboni». Quanto sia tenero e pieno d'affetto questo modo di rivolgersi lo comprendiamo solo se teniamo conto del valore specifico della parola semitica. Tanto autorevoli e solenni sono talora le parole di Gesù, che deve essere sembrato inevitabile riportarle alla lettera. Così le ultime parole di Gesù in croce sono riferite in lingua semitica, ma si legga anche come viene narrato il miracolo della resurrezione della figlia di Giairo. Tanto grande era stato il miracolo e da tale stupore erano stati presi quelli che vi avevano assistito, che è parso opportuno a Marco riportare le parole originali. Ma nel Vangelo si legge così: «Talitha cumi, che significa "Fanciulla, io ti dico, alzati!»». Le parole «talitha cumi» sono chiaramente da interpretare come «Ragazza, àlzati», ma l'autore del Vangelo ha aggiunto le parole interpolate «io te lo dico», come se la semplice traduzione dei singoli termini non fosse sufficiente ad esprimere la suprema autorità e potenza dell'ordine con cui Gesù aveva richiamato alla vita la ragazza.
(Avvenire, 23 giugno 2015)
Perché il capo della Cia ha fatto una visita discreta in Israele
Un incontro al vertice per far accettare a Gerusalemme due clausole imposte dall'Iran all'accordo atomico.
di Daniele Raineri
ROMA - Domenica il Parlamento iraniano ha approvato la bozza di una legge che impedirà agli ispettori internazionali l'accesso alle basi militari - anche se fosse previsto dall'accordo sul nucleare con gli Stati Uniti e con altri cinque paesi occidentali (il cosiddetto 5+1). La legge, se passerà, ha il potenziale per far fallire all'ultimo momento i negoziati per uno storico patto sul programma militare iraniano tra Teheran e i 5+1, che dovrebbe essere raggiunto dopo mille difficoltà entro il 30 giugno - mancano pochi giorni - e che prevede la dismissione del programma in cambio della fine delle sanzioni internazionali.
Come dice il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, un accordo nucleare che escludesse le ispezioni ai siti militari "è inutile". Il Wall Street Journal scrive che quella legge "potrebbe diventare un ostacolo sulla strada dell'accordo, perché le sei potenze che stanno negoziando con l'Iran difficilmente accetteranno un divieto totale contro le ispezioni ai siti militari".
Domenica un funzionario americano del dipartimento di stato ha detto che "Non raggiungeremo l'accordo senza le ispezioni. Tutte la parti coinvolte nel negoziato sanno bene cosa è necessario per arrivare all'accordo finale, incluse la possibilità di accesso e la trasparenza". Anche il direttore dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica (Aiea), Yukio Amano, ha detto in un'intervista al Monde che le ispezioni ai siti nucleari sono una parte essenziale di un qualsiasi accordo e sono una routine normale per i 120 paesi che aderiscono al protocollo: "Se abbiamo un dubbio o riscontriamo irregolarità, possiamo chiedere di accedere, per esempio, a un sito non dichiarato, e questo include anche le basi militari".
La bozza di legge approvata domenica a Teheran non fa che ratificare la posizione già espressa a metà maggio dalla Guida Suprema, l'Ayatollah Ali Khamenei, che ha escluso - oltre alla possibilità per gli ispettori stranieri di entrare nelle basi militari - anche quella di interrogare scienziati iraniani. Dopo Khamenei, che è l'autorità suprema su ogni questione di stato in Iran, anche il ministro della Difesa, il generale Hossein Delghan, e il portavoce della Organizzazione atomica iraniana, Behrouz Kamalvandi, hanno ribadito il concetto e hanno respinto l'idea di ispettori stranieri dentro le basi.
L'America e altri paesi occidentali sospettano da tempo che l'Iran stia usando alcuni siti militari come centri di ricerca nucleare e come siti per i test. Parchin, una base vicino alla capitale Teheran, è considerata uno dei luoghi dove si provano i missili capaci di portare una testata atomica. L'Iran ha chiuso il complesso alle ispezioni internazionali a partire dal 2004.
La legge approvata (come bozza) domenica doveva essere in teoria una risposta alla legge americana che concede al Congresso un periodo di tempo di trenta giorni per esaminare le condizioni dell'accordo nucleare definitivo con l'Iran. Ma quella iraniana funziona alla rovescia: il Parlamento cede il potere di esaminare il patto e consegna l'ultima parola al Consiglio supremo della Sicurezza nazionale, un organo guidato da Khamenei - di cui si è spiegata qui sopra la posizione ufficiale. Inoltre la bozza chiede che le sanzioni internazionali cessino per intero e subito a partire dal primo giorno, senza progressione.
Lo speaker del Parlamento iraniano, Ali Larjani, sottolinea come questa cessione di potere sia naturale e che il Consiglio supremo è comandato dalla Guida suprema e che "noi (il Parlamento) non dovremmo legare le mani al leader. Qualsiasi decisione egli prenda, noi dobbiamo obbedire".
Tre settimane fa, il direttore della Cia, John Brennan, è volato in Israele per un incontro - non dichiarato ai media - con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e con alcuni capi dell'apparato nazionale di sicurezza: il direttore del Mossad, Tamir Pardo, il capo dell'intelligence militare, il generale Herzi Halevi, e il consigliere per la Sicurezza nazionale, Yossi Cohen. Secondo un report scritto dal Memri, un istituto israeliano che si occupa di media e sicurezza, lo scopo di Brennan era spiegare agli interlocutori che il patto atomico funzionerà anche secondo le clausole imposte all'ultimo da Khamenei, quindi anche senza ispezioni internazionali e senza interrogatori degli scienziati iraniani. Il direttore della Cia - sempre secondo il Memri - aveva il compito di convincere gli israeliani che l'intelligence farà con i suoi mezzi il lavoro di sorveglianza e controllo che non potranno fare gli ispettori dentro i siti sospetti, e che le indagini ufficialmente in corso da parte dell'Aiea in Iran possono essere chiuse.
Il lunedì dopo (l'8 giugno) è arrivato in Israele anche il capo di stato maggiore americano, Martin Dempsey, per incontrare (anche lui) Netanyahu, il capo di stato maggiore Gadi Eisenkot e il ministro della Difesa Moshe Ya'alon. Entrambe le visite, secondo il quotidiano Yedioth Ahronot, erano in programma "da tempo", ma non è sfuggita la vicinanza con il termine di scadenza del 30 giugno.
La scommessa totale di Obama
Il governo di Israele ha una posizione assai critica nei confronti di questo accordo nucleare e sostiene che l'Iran arriverà lo stesso, grazie a un programma clandestino, ad avere l'arma atomica - e che a quel punto imporre di nuovo sanzioni sarà inutile. Inoltre teme che l'annullamento delle sanzioni internazionali porterà a una accresciuta disponibilità di denaro per Teheran, che sarà prontamente reinvestita nel rafforzare altri nemici di Israele, come epr esempio Hezbollah in Libano. L'Amministrazione Obama invece guarda all'accordo con gli iraniani come a una svolta storica, il momento che imprimerà il nome di Obama sul futuro del medio oriente, in nome del quale si possono sacrificare altri pezzi di politica estera.
Questa differenza di vedute ha già portato i rapporti tra i due paesi al minimo storico di cordialità, e sta cambiando i rapporti nella regione - per esempio si insiste su una riconciliazione discreta che starebbe avvenendo tra Israele e paesi del Golfo, che in teoria non hanno nemmeno relazioni diplomatiche.
(Il Foglio, 23 giugno 2015)
Israele inventa il "Bloomberg" dell'immobiliare
Una startup israeliana, la CrediFi Corporation, tenta di offrire lo stesso servizio del colosso statunitense Bloomberg, ma dedicato al settore immobiliare. Bloomberg è servizio mondiale di news, che comprende agenzia di stampa, TV, internet, radio e pubblicazioni editoriali. CrediFi vuole essere un fornitore globale di dati e analisi di alta qualità del settore immobiliare.
Tra le molte ragioni che possono spiegare le crisi del settore del 2007-2008, ce ne è uno che spessa ritorna: la scarsità di informazioni disponibili. La mancanza di trasparenza nel settore immobiliare ha portato alla formazione della bolla immobiliare, diventata fonte di crisi globale. Molti operatori del settore non hanno avuto accesso alle informazioni sulle proprietà in cui il rischio di investimento è stato effettivamente molto alto.
Ely Razin, fondatore e CEO di CrediFi, ha dichiarato:
Il settore commerciale dell'immobiliare è sopraffatto da un debito costantemente rifinanziato. I suoi mercati finanziari mancano totalmente di dati e analisi che permettono di investire e di seguire le transazioni in modo più intelligente.
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Oggi possiamo trovare frammenti di informazioni sulle proprietà individuali o leasing, ma nessuna piattaforma riunisce tutte queste informazioni e propone un'analisi. L'idea di questa startup è quella di consentire alle parti interessate di avere una visione chiara e precisa sulle varie opportunità di investimento. Per realizzare questo grande progetto, CrediFi aggiorna continuamente un database sugli immobili, prestiti offerti, compratori e venditori, andando ad analizzare tutti i prodotti finanziari.
Ma più che di un fornitore di informazioni grezze, gli esperti CrediFi analizzano questi dati ed emettono delle note per le agenzie di rating. Il monitoraggio continuo permette all'utente di reagire in tempo reale ai cambiamenti del mercato. Moltissimi proprietari di fondi di investimento e banche hanno già iniziato ad utilizzare CrediFi. Con sede a Mod'in (nel centro di Israele) e a New York, la startup ha recentemente raccolto circa 8 milioni di dollari in poco tempo.
(SiliconWadi, 22 giugno 2015)
La furia dei drusi: ucciso un ferito siriano su un'ambulanza
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