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Notizie 1-15 giugno 2017


Abu Mazen oscura siti di Hamas

GAZA - L'AP (Autorità Palestinese), secondo fonti giornalistiche a Gaza, ha iniziato oggi ad oscurare in Cisgiordania alcuni siti web legati a Hamas e a Mohammad Dahlan, un ex dirigente di al-Fatah ora residente all'estero dopo essere entrato in aperto conflitto con il presidente Abu Mazen (Mahmoud Abbas). Fra i siti colpiti, secondo queste fonti, vi sono Falastin al-Youm, Shehab News e il Palestinian Information Center, tutti vicini a Hamas, nonchè Amal e Firas News, vicini a Dahlan. Questo provvedimento giunge mentre da settimane Abu Mazen accresce gradualmente la propria pressione sull'esecutivo di Hamas a Gaza per costringerlo a cedergli il controllo della Striscia da cui al-Fatah fu espulso con la forza dieci anni fa.

(ANSAmed, 15 giugno 2017)


*


Presto Hamas fuori legge?

A dieci anni dal colpo di mano con cui Hamas ha espugnato il potere a Gaza, il presidente dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) Abu Mazen potrebbe dichiarare la Striscia «distretto ribelle» e mettere lo stesso Hamas fuori legge.
In tal caso i suoi beni nei territori in questione sarebbero congelati e i suoi dirigenti rischierebbero l'arresto. Lo scrive il quotidiano Israel ha-Yom sulla base di indiscrezioni raccolte da un imprecisato dirigente palestinese.
Nelle ultime settimane Abu Mazen ha adottato una serie di misure di disimpegno dalla Striscia di Gaza e ieri l'agenzia di stampa ufficiale palestinese Wafa ha pubblicato un attacco molto duro nei confronti dei dirigenti di Hamas. Israele, secondo il quotidiano Israel ha-Yom, avrebbe suggerito comunque al presidente dell'anp di non far precipitare la situazione e di procedere ancora con provvedimenti misurati.

(tio.ch, 15 giugno 2017)


Antisemitismo, è allarme sul web

La ricercatrice: i linguaggi nei forum sono offensivi e violenti

di Giovanna Sciacchitano

MILANO - In calo gli atti di violenza fisica, grazie a maggiore controllo sociale e sicurezza, ma aumento preoccupante delle espressioni antisemite sul web. Questo quanto emerge dal "Rapporto sull'antisemitismo in Italia nel 2016", elaborato dall'Osservatorio della Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec) e presentato ieri nel Palazzo del Comune a Milano dal direttore Gadi Luzzatto Voghera. Sono stati segnalati 130 episodi di offese, minacce, vandalismo e diffamazione. «L'Italia è ancora un'oasi felice rispetto a Gran Bretagna e Francia, che hanno registrato rispettivamente 800 e 900 casi», ha evidenziato Betti Guetta, redattrice dello studio con Stefano Gatti. Lamberto Bertolè, presidente del Consiglio Comunale, ha sottolineato come per combattere questa piaga sia necessario cominciare dai banchi di scuola: «I ragazzi non conoscono simboli e linguaggio, per questo ci può essere il rischio della banalizzazione del male». Sulla stessa linea Diana De Marchi, consigliera alle Pari Opportunità, che ha parlato di «mancanza di consapevolezza nei più giovani». Grazie a una collaborazione con l'Università di Milano verrà avviato un sondaggio sui linguaggi antiebraici nella società contemporanea.
   Purtroppo le espressioni di antisemitismo su Internet sono in crescita, come dimostra il linguaggio nei forum online: offensivo, brutale e violento. Aumentano i profili e i gruppi antisemiti su Facebook. Gli estremisti, sia di destra che di sinistra, sono i più attivi. Nel 2016 sono stati individuati 300 profili antisemiti in cui si nega o si minimizza la Shoah. «Non si tratta di quattro ignoranti - dichiara allarmata Guetta -. Sono coinvolte anche persone istruite». Il punto è che questo materiale disgustoso continua ad essere pubblicato o messo in rete senza conseguenze. Fra l'altro risulta difficile monitorare le piattaforme dei social media e sono pochi i mezzi legali per far fronte agli insulti e agli stereotipi diffusi in rete. Esistono anche negozi online che vendono materiale antisemita. Questi siti web sono registrati all'estero e le piattaforme sotto la legislazione americana. Inoltre, i siti oscurati risultano comunque consultabili. Per Giorgio Mortara, vice presidente dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane, i social network diffondono teorie pericolose con figure politiche di spicco. Si nota che, in concomitanza con eventi del calendario ebraico o con anniversari di eventi storici rilevanti per le comunità ebraiche, come la giornata della Memoria, gruppi di estremisti di destra organizzino manifestazioni antisemite. Purtroppo gli stereotipi contro gli ebrei continuano ad essere una realtà nei discorsi privati e pubblici. Talvolta anche nei media. Per non parlare delle espressioni razziste e antisemitiche negli stadi e sono numerosi gli interventi di boicottaggio verso Israele.
   
(Avvenire, 15 giugno 2017)


Basket - Simone Pianigiani vince il campionato israeliano.

Le congratulazioni del presidente Petrucci.

L'ex ct azzurro Simone Pianigiani vince il campionato israeliano alla guida dell'Hapoel Gerusalemme che a Tel Aviv ha battuto il Maccabi Haifa 83-76 nella finale delle Final Four.
A Simone Pianigiani i complimenti e le congratulazioni del presidente Giovanni Petrucci.

(Italia Basketball, 15 giugno 2017)


Non fingiamo che il vespaio qatariota non riguardi anche l'Italia

L'Arabia vuole tagliare i finanziamenti che arrivano ai Fratelli Musulmani. In Medio Oriente ma non solo. Basti pensare all'Ucoi (vicina alla Fratellanza), che l'anno scorso da Doha ha incassato 25 milioni.

di Carlo Panella

Può far sorrider pensare che i ricchi e viziati abitanti di Doha, che godono del più alto reddito pro capite del mondo, rischiano in questi giorni di soffrire la fame e la sete. Ma così è: il blocco totale sui cieli e sui mari imposto da Arabia Saudita e altri quattro Paesi, Egitto incluso, ha riflessi drammatici persino sulla quotidianità dei qatarini. È la prima volta in assoluto che una crisi politica tra Paesi arabi confinanti assume caratteristiche così devastanti e serie. Siamo abituati magari a guerre inter arabe (a iosa) ma non a bracci di ferro così acuti sul terreno politico, soprattutto tra Paesi privi di tensioni etniche o religiose quali sono Arabia Saudita e Qatar.

 Gaza contro Ramallah
  Due elementi fanno capire la drammaticità di questa crisi e i suoi possibili esiti devastanti. Il primo riguarda Abu Mazen, che cavalca la posizione egizio-saudita per chiedere a Israele di tagliare ulteriormente le forniture di luce a Gaza, governata da quella Hamas che del Qatar è il più fedele alleato (con Hezbollah) sul Mediterraneo. Dunque, Gaza, col pieno accordo di Abu Mazen, rischia ora la crisi umanitaria a testimonianza di quei feroci rapporti tra palestinesi che sono la vera e principale causa della non soluzione della crisi palestino-israeliana. Questo i media non lo rilevano mai ma è semplice capire che nessun accordo con Israele sarà mai possibile sino a quando Gaza e Ramallah sono in guerra fredda tra di loro e arrivano a questi giochi bassi di ostruzione.
  Il secondo elemento che fa comprendere quali gravi possibilità di escalation si prospettino nella crisi qatariota sono le aperte accuse che Ali Jafari, comandante supremo dei pasdaran iraniani, ha lanciato contro Riad: «Disponiamo di prove che sfortunatamente dimostrano come l'Arabia Saudita abbia sostenuto i terroristi e chiesto loro di condurre operazioni in Iran». Dunque, secondo la più alta autorità politico-militare dell'Iran, gli attentati della settimana scorsa a Teheran «sono stati organizzati e voluti da Riad». Accusa devastante, speculare a quella che Riad rivolge e Teheran, che dà il segno della crisi qatariota che è deflagrata appunto a seguito del versamento di 1 miliardo di dollari (in apparenza per riscattare 26 membri della corte saudita sequestrati in Iraq) dal Qatar alle milizie sciite filo iraniane e a Hezbollah. Accuse reciproche di finanziare e manovrare il terrorismo che possono preludere a ulteriori e gravi provvedimenti ed escalation.

 Massicci sforzi di mediazione
  D'altronde, la gravità della crisi qatariota traspare anche dalla mobilitazione di Paesi arabi (e della Turchia) che si offrono di mediare. Tra questi, non solo l'Oman e il Kuwait, ma persino il lontanissimo e democratico Marocco, che è giunto a inviare aiuti alimentari a Doha. Il tutto, non va dimenticato, riguarda anche l'Italia perché la pietra dello scandalo per l'Arabia Saudita non sono solo i rapporti della corte qatariota con l'Iran, le milizie sciite e Hezbollah, ma anche i suoi enormi e indispensabili finanziamenti ai Fratelli Musulmani e ad Hamas. Ed è proprio questo l'obiettivo a cui mira di fatto questo embargo, visto che la condivisione dello stesso, immenso bacino metanifero obbliga Doha ad avere ottimi rapporti con Teheran: portare quantomeno l'emiro del Qatar al Thani a sospendere gli aiuti ai Fratelli Musulmani in Egitto, in Siria, in Iraq e anche in Europa, Italia inclusa (25 sono i milioni di dollari versati dal Qatar l'anno scorso all'Ucoii, vicina ai Fratelli Musulmani). Un braccio di ferro feroce dagli sviluppi imprevedibili.

(Lettera43, 15 giugno 2017)


In Germania si condanna l'antisemitismo, basta che non riguardi Israele

Un docufilm censurato poi messo in rete dalla Bild

di Daniel Mosseri

BERLINO - Mentre dalla lontana Argentina invitava a "combattere l'antisemitismo ovunque esso sia", la cancelleria tedesca Angela Merkel non poteva immaginare quale bufera sullo stesso tema si stesse scatenando a casa. E' stata la Bild, una volta ancora, a fare notizia. Per 24 ore il sito ufficiale del tabloid piu letto in Germania ha messo a disposizione dei suoi lettori un link a "Auserwählt und ausgegrenzt - Der Hass auf Juden" (Eletti ed esclusi - L'odio per gli ebrei), un docufilm sui mille volti dell'ostilità antiebraica voluto da due canali televisivi: il tedesco Wdr e il francotedesco Arte. Il quotidiano non ha però inteso omaggiare i due canali tv. Al contrario, Bild ha messo alla berlina l'ipocrisia di chi dapprima ha voluto farsi bello quale araldo mediatico della lotta al pregiudizio, salvo poi cambiare idea quando si e reso conto che il film parlava di Israele. E che lo faceva, con grande orrore degli editor televisivi, senza dirne peste e corna secondo i dettami della vulgata che da Ramallah passa da Bruxelles e arriva al Palazzo di Vetro.
   Il docufilm di Joachim Schroeder e Sophie Hafner ricorda invece che l'antisemitismo non è monopolio di qualche imbecille con la testa rasata, e che i germi dell'odio hanno contagiato luoghi e situazioni al di sopra di ogni sospetto. Un esempio su tutti: il lungometraggio si apre con il discorso pronunciato il 23 giugno del 2016 dal presidente dell'Autorità palestinese Mahmoud Abbas al Parlamento europeo. "Solo una settimana fa", enunciava l'erede politico di Yasser Arafat, "un gruppo di rabbini ha chiesto al governo israeliano di avvelenare le acque dei palestinesi per sterminarli".
   Parole pericolose, false e molto vecchie: nella stessa Strasburgo che oggi ospita l'Europarlamento, il 14 febbraio del 1349 mille ebrei furono arsi vivi con l'accusa di avvelenare i pozzi per diffondere la peste nera. Uno dei tanti episodi di storia medievale, evidentemente ignorati dall'Alto rappresentante per la politica estera dell'Ue Federica Mogherini, e dall'ex presidente del Parlamento europeo - oggi candidato socialdemocratico alla cancelliera tedesca - Martin Schulz, che invece a Mahmoud Abbas tributarono una standing ovation.
   La pellicola procede cosi, prendendo di mira ora l'antisemitismo dei giovani di origine maghrebina nella banlieue di Parigi che chiedono la fine dello Stato ebraico, ora i programmi per l'infanzia trasmessi dalla tv di stato palestinese in cui a bambini si chiede: "Cosa vuoi fare da grande?", "l'ingegnere, così faro saltare in aria tanti ebrei". Parole che uccidono davvero, se si pensa al caso del 24enne francese Ilan Halimi rapito, torturato e lasciato morire da un gruppo di coetanei alle porte di Parigi nel 2006 solo perché ebreo.
   Nel film ce n'è per tutti: anche per un gruppo di anziane volontarie tedesche di Brot für die Welt, associazione benefica di estrazione evangelica, attive a favore dei palestinesi ed esperte di "apartheid israeliano". Davanti alle telecamere, una di loro ripropone il trito paragone fra le vittime dei campi di sterminio nazista e i palestinesi di oggi. E si commuove, spostando gli occhiali per asciugare le lacrime. Le ong menzionate nel film sono centinaia, molte delle quali sovvenzionate anche dalle chiese, a loro volta direttamente finanziate dai contribuenti tedeschi attraverso le onerose Kirchensteuer, tasse che in Germania le principali comunità religiose esigono direttamente dal contribuente, senza mediazione statale.
   Il focus del film su Israele e sul conflitto israelo-palestinese è proprio l'argomento che Wdr e Arte hanno usato per negarne la messa in onda. Eppure lo stesso (strabico) Parlamento europeo ha appena invitato gli stati Ue ad adottare la definizione di antisemitismo messa a punto dalla International Holocaust Remembrance Alliance: il documento definisce "pregiudizio antiebraico" tanto l'accusa agli ebrei di avvelenare i pozzi, quanto il paragone fra governanti israeliani e gerarchi nazisti. "E' da gennaio che chiediamo la messa in onda", spiega al Foglio Deidre Berger, direttrice dell'American Jewish Committee di Berlino. "I dati esposti sono accurati e se nel film è stata data troppa attenzione a Israele, gli editor avrebbero potuto tagliarlo". Il prodotto non ha invece rispecchiato le attese dei committenti, pronti a condannare l'antisemitismo degli estremisti ma non a diffondere un documentario favorevole a Israele. "Il fatto che non l'abbiano trasmesso ci dice di più sui pregiudizi dei grandi canali tv di quanto non faccia l'intero film sull'antisemitismo", conclude Berger.

(Il Foglio, 15 giugno 2017)


Gioca Israele, gioca

Nel parco giochi della Città Santa si trovano bimbi con kippah., capelli velati, copri- capi vari, tutte le sfumature della popolazione Gli autisti dei bus sono capaci di portarti a casa a fine turno, se sei finito sulla linea sbagliata Nelle città arabe le infra- strutture per famiglie quasi non esistono: perché i terreni sono in gran parte privati e perché mancano i fondi

di Rossella Tercatin

 
Gerusalemme - Teddy Park
 
Gerusalemme - Teddy Park
 
Famiglia israeliana
Nei giorni d'estate, l'incontro tra le pietre bianche di Gerusalemme e il sole mediorientale sprigiona un effetto abbagliante, a metà fra un riflettore acceso in una galleria di specchi e la vista della tua migliore amica in abito da sposa. Tuttavia, anche se i suoi massi più famosi sono le eterne rocce che stanno nel chilometro quadrato scarso della Città Vecchia dove case e luoghi sacri si affollano in egual misura, per assaggiarne la realtà oltre le cartoline sarebbe opportuno fermarsi appena fuori dalle mura ottomane. Qui è stato infatti inaugurato nel 2013 il Teddy Park, diventato per molti la spiaggia di Gerusalemme, con uno spiazzo dove ogni due ore zampilla una giostra di 256 fontane: per la gioia di bambini sguazzanti accompagnati da papà e mamme con kippah (il tipico copricapo ebraico maschile), capelli scoperti, velati, foulardati, parruccati o cappellati in tutte le sfumature di ciò che si può trovare sulle teste della variegata popolazione israeliana.
  Con una media di 3,1, Israele è il paese Ocse con il numero più elevato di figli per donna. Per strada, il contrasto con l'Italia (1,4) non potrebbe essere più abissale: bambini, carrozzine e pancioni sono dappertutto, così come i parchi giochi, un osservatorio unico per scoprire un Paese che sprigiona vita complicata, ma considera le nuove generazioni una priorità.

   «Tesoro vieni, è ora di tornare a casa!. Il richiamo dei genitori di tutto il mondo risuona anche nella piccola area giochi su Rothschild Boulevard, cuore della Tel Aviv più esclusiva. Noa, fiera mamma locale dagli occhi azzurri e i capelli neri, richiama la sua Alma, sette anni e look principesco con vestitino rosa antico e riccioli leggeri raccolti in uno chignon che si arrampica per l'ennesima volta sullo scivolo. Nel 2011, le tende piantate sullo sciccoso viale alberato, dove i veicoli corrono sulle corsie laterali mentre il giardino in mezzo vibra di caffè, biciclette e cultura, conquistavano i titoli dei giornali. Quell'anno furono centinaia di migliaia le persone in piazza contro il carovita, mentre si scopriva che l'economia israeliana ruggiva ma le sue classi medie e povere tagliate fuori dalla bolla dell'high tech iniziavano a soffrire. «Ricordo bene le proteste, c'era la sensazione che tante cose potessero cambiare. Non è che poi siano cambiate granché» ammette Noa.
  In effetti i costi degli appartamenti sono alle stelle, e non solo sull'elitaria Rothschild. Secondo l'Economist, tra il 2006 e il 2016 Israele è stata seconda soltanto a Hong Kong, nel mondo, per tasso di crescita dei prezzi degli immobili: l'82%, in termini reali. E così, nonostante l'economia abbia segnato lo scorso anno un +4% e la disoccupazione viaggi sotto il 4,5, sono in molti a rimanere indietro.

   Per scoprire la faccia della città che fatica basta spostarsi in un altro parco giochi solo un paio di chilometri più a sud, all'ombra della Stazione centrale degli autobus di Tel Aviv, zona malfamata e piena di migranti africani arrivati a piedi dall'Egitto. Qui gli edifici sono squallidi, ingentiliti soltanto dalla luce della primavera, mentre a seconda della direzione del vento il profumo nell'aria cambia dalla fragranza dei fiori fucsia e arancio all'immondizia umidamente decotta dalla calura. Tuttavia, mentre su prati e panchine in molti bivaccano, il Lewinsky Park offre anche tutto quello che un bambino può desiderare, oltre a una felice biblioteca-giardino all'aperto con migliaia di volumi in 16 lingue per lettori di tutte le età, attività ricreative e di formazione. Se i parchi giochi rappresentano gli occhi penetranti di una Israele giovane e immaginifica che non smette di guardare avanti, è proprio dal grande edificio degradato della stazione che si può partire per esplorare qualcuna delle rughe di una nazione alla vigilia del suo settantesimo compleanno. Urbani e interurbani, gli autobus in Israele sono stati il tradizionale mezzo di trasporto per eccellenza in uno Stato che, anche per tragiche ragioni memoriali, non ha amato e sviluppato i treni a sufficienza e dove le auto per molto tempo sono rimaste un bene di lusso; ma oggi le strade sono le più congestionate dell'Ocse, solo il 10% degli spostamenti viene effettuato usando i mezzi pubblici, mentre le autorità stanno cercando in ritardo di correre ai ripari con nuovi investimenti infrastrutturali.

   A dare il nome alla Egged, la prima e più grande cooperativa di mezzi pubblici del Paese che incarna ancora l'impronta del sogno socialista dei suoi fondatori, è stato nel 1933 il pioniere della poesia ebraica Haym Nachman Bialik (la parola richiama il concetto di unificazione). Da allora gli autobus hanno portato i soldati al fronte nelle guerre che si sono susseguite un decennio dopo l'altro, sono diventati bersaglio della crudeltà terrorista, sono stati tra i protagonisti della transizione dell'economia nazionale verso un sistema più capitalista, con i loro autisti caparbi (qualcuno direbbe aggressivi), insofferenti nelle minuzie ma capaci di portarti a casa a fine turno se sei finito sulla Linea sbagliata, in un concentrato di israelianità pura.

   E' in autobus che vado a sud e raggiungo Sderot, 25mila abitanti, divenuta tristemente celebre nel mondo come bersaglio facile per le migliaia di razzi lanciati da Hamas, l'organizzazione terroristica che dal 2007 ha preso il controllo della Striscia di Gaza, a un solo chilometro di distanza. «Vivere qui vuol dire imparare a tenere testa alle difficoltà», mi racconta Rinat nel parco giochi divenuto uno dei simboli della città per via di un bruco gigante di cemento cavo che funge allo stesso tempo da giostra e da rifugio antirazzo. I suoi bimbi, Ulavi, Neriah e Arhel, conoscono bene il significato delle sirene che lasciano solo nove secondi per arrivare ai bunker. Eppure la giovane madre si dice contenta di vivere in questa cittadina che, quando l'allarme non suona, è a metà tra il ridente e il sonnacchioso, dove le scuole sono ottime e la vita poco costosa» e nei parchi giochi i rifugi, presenti per legge anche in tutti gli edifici, sono decorati con personaggi dei cartoni animati. Più critico è l'atteggiamento di Maisam, residente di Tira: città del cosiddetto "Triangolo", una zona qualche decina di chilometri a nord cli Tel Aviv con un'alta concentrazione di centri arabo-israeliani.
  «Nelle città arabe le infrastrutture pubbliche per famiglie praticamente non esistono: sia perché i terreni sono quasi tutti di proprietà privata, sia perché mancano i fondi, e il governo non se ne occupa abbastanza», dice, portandomi in giro per una Tira semideserta in omaggio al venerdì di Ramadan su una Bmw dai sedili rossi fiammanti quanto la sua personalità vulcanica, che il digiuno in ossequio al mese sacro dell'Islam non scalfisce affatto.
  Nonostante tutto, almeno un classico parco giochi con scivoli, altalene e gabbia di corda per arrampicarsi lo troviamo anche qui prima di andare a trovare Diana, che per le sue bimbe di tre anni e cinque mesi, Bissan e Carrnel, non si accontenta. «A Tira non ci sono caffè adatti alle famiglie. Cosi stiamo lavorando per aprirne uno, con un'area gioco, libri e anche uno spazio per le attività culturali».

   Se Maisam e Diana raccontano la ricerca di una vita normale in un Paese che definiscono il loro ma verso cui esprimono sentimenti difficili, fatti delle complessità che caratterizzano il rapporto tra Israele e i suoi cittadini arabi, a descrivere quella che a suo parere è la normalità unica di un'altra delle sue città «per quanto riguarda un po' tutto, dal clima al conflitto», è Nir, che incontro con il figlio di nove anni Doron nello stupendo Parco Hecht sul mare di Haifa. «Ammetto che di solito è mia moglie ad accompagnarlo, ma oggi è giornata di mezza vacanza e così sono potuto venire io" sottolinea mentre in compagnia di diversi papà fa volare Doron su un'altalena rotonda.

   Al tramonto, a sostituire i bambini nei parchi del Paese da nord a sud sono giovani coppie di innamorati o aspiranti tali. Il Teddy Park di Gerusalemme, con le sue fontane che si trasformano in uno spettacolo di romantica magia grazie a giochi di luce e musica di sottofondo, è ancora una volta un'isola d'incanto. D'altronde, per mettere al mondo tutti quei pargoli, da qualche parte bisogna pur cominciare. Forse il segreto sta proprio nel fascino dei parchi giochi. Negli autobus, ve lo garantisco, no.

(Corriere della Sera 7, 15 giugno 2017)


L'ONU è alla ricerca di medici israeliani

Il capo del dipartimento medico delle Nazioni Unite, il Dott. Gillian Farmer, arriverà prossimamente in Israele con una delegazione del suo dipartimento per condurre un seminario speciale di reclutamento di medici israeliani.
La mossa è stata promossa dall'Ambasciatore di Israele presso le Nazioni Unite Danny Danon, il quale ha sottolineato che Israele è visto come il luogo ideale da cui partire per assumere medici per le attività delle Nazioni Unite in tutto il mondo. La necessità di integrare i medici ha orientato la ricerca verso Israele, la cui sicurezza, le capacità di soccorso e le forze mediche sono una fonte unica di professionisti con un'elevata esperienza nel settore.
L'obiettivo principale dell'organizzazione è quella di integrare medici con esperienza operativa, che permetterà loro di integrarsi nelle posizioni di rilievo.
I medici interessati nella posizione dovranno avere almeno cinque anni di esperienza e la capacità di lavorare in inglese o in francese. Le aree di competenza per le quali le donne sono benvenute, includono traumatologia, medicina di famiglia, pediatria e psichiatria.
Danon ha accolto favorevolmente la decisione delle Nazioni Unite di assumere medici israeliani e ha commentato, secondo Ynetnews:
Il capitale umano di Israele è il segreto del suo successo e le donne israeliane sono in prima linea. L'ONU capisce i vantaggi dei medici israeliani e siamo orgogliosi che scelga Israele come target per i suoi nuovi dipendenti.
(SiliconWadi, 15 giugno 2017)


Chi c'era alla Fiera della sicurezza di Tel Aviv

Dove si impara a combattere davvero il terrorismo

di Jonathan Pacifici

Nelle stesse ore in cui Londra faceva il bilancio degli ultimi attacchi del terrorismo islamico, generali, politici e businessman di tutto il mondo affollano i padiglioni della fiera di Tel Aviv. Sono venuti per l'Isdef 2017, una delle principali esposizioni di Difesa e Homeland Security che si è aperta lo scorso 6 giugno. Massiccia la presenza delle delegazioni asiatiche, tra tutte un folto gruppo di alti ufficiali dell'Esercito popolare di Liberazione cinese guidato con grande dimestichezza dal personale dell'ambasciata cinese. L'India, che si prepara a un ulteriore rafforzamento dei rapporti con Israele con la visita del premier Narendra Modi all'inizio di luglio e la firma di una fornitura di missili per Esercito e Marina da 2.6 miliardi da parte di lai e Refael, ha occupato un'intera area della fiera con una presenza record di 55 aziende. E poi l'Africa, tanta Africa. Mentre il premier Netanyahu rientrava da Monrovia - dove nel corso del Summit Economie Community of West African States (Ecowas) aveva incontrato undici capi di stato e di governo - per ricevere il premier etiope a Gerusalemme, le delegazioni del continente nero esaminavano con attenzione le ultime novità nella guerra al terrore. Presente in fiera anche una vecchia conoscenza italiana, l'ex campione del Milan George Weah, oggi senatore e candidato alla presidenza della Liberia.
   Tra i padiglioni più gettonati quello dell'Unità antiterrorismo della polizia israeliana, dove i robot antibomba hanno stupito gli ospiti con le loro dimostrazioni. Si tratta di unità americane e tedesche con software completamente modificato dalle unità informatiche israeliane. Il loro braccio meccanico può raccogliere fino a cinque campioni e iniziare l'analisi senza intervento umano: capacità estremamente efficaci contro i rischi batteriologici o radioattivi.
   Molto apprezzate anche le varie tecnologie legate al mondo dei droni, dai software di cybersecurity che ne impediscono il dirottamento alle unità di "contro aerea" che fanno esattamente l'opposto. E poi control rooms per video e cyber sorveglianza, reti cellulari per situazioni di emergenza e anche il padiglione del Magen David Adom (la stella di David Rossa, l'equivalente della Croce Rossa) che presentava quelle tecnologie e protocolli di intervento che sono universalmente riconosciute come un'eccellenza. "Per noi l'obiettivo", spiegava alla radio l'ex comandante della Polizia di Tel Aviv, David Tzur, "è concludere la risposta all'attacco terroristico entro i 60 secondi". E' proprio dopo la conclusione dell'evento che parte la vera battaglia, occuparsi dei feriti nel minor tempo e nel miglior modo possibile. E la misura dell'attenzione che Israele dà alla condivisione della propria esperienza con il resto del mondo è fornita anche dalla folta presenza ministeriale. In poche ore si sono avvicendati tra i padiglioni il ministro dell'Intelligence e dei Trasporti Israel Katz, il viceministro della Difesa Ben Dahan, il ministro della Tecnologia della Scienza e dello Spazio Ofir Akunis e la ministra delle Pari opportunità Gila Gamliel. Una scelta strategica ben chiara: condividere metodologie e tecnologie nella speranza di poter condividere presto anche una chiara politica contro l'asse del terrore.

(Il Foglio, 15 giugno 2017)


David Grossman è il primo israeliano a vincere il Man Booker Prize

“Applausi a scena vuota” di David Grossman si è aggiudicato il “Man Booker International”, il prestigioso riconoscimento che per la prima volta premia uno scrittore di lingua ebraica. Grossman dividerà il premio di 50mila sterline con la sua traduttrice verso l’inglese Jessica Cohen.

 
David Grossman riceve il premio "Man Booker International" con la traduttrice Jessica Cohen
Lo scrittore israeliano David Grossman ha vinto il prestigioso premio "Man Booker International" con il romanzo "A horse walks into a Bar". È la prima volta che uno scrittore israeliano ottiene il prestigioso premio letterario dedicato alla narrativa tradotta in lingua inglese nel Regno Unito. Come prevede il regolamento,Grossman dividerà equamente il premio di 50mila sterline (56mila euro) con Jessica Cohen, che ha tradotto il libro dall’ebraico all’inglese, e che aveva già lavorato con lui per "To the End of the Land" ("A un cerbiatto somiglia il mio amore"). Cohen è nata in Inghilterra, cresciuta in Israele e ora vive a Denver, in Colorado, ed è la traduttrice di altri importanti autori come Etgar Keret, Rutu Modan, Dorit Rabinyan. In Italia il libro è stato pubblicato nel 2014 da Mondadori con il titolo "Applausi a scena vuota", nella traduzione di Alessandra Shomroni.
Grossman, uno dei più importanti scrittori israeliani, tradotto in 36 lingue, è il primo autore israeliano a vincere il "Man Booker Internazional". Ha vinto il riconoscimento assegnato la notte scorsa a Londra battendo in finale il suo amico - altro israeliano famoso - Amos Oz che concorreva con "Giuda". L'autore di "A horse walks into a bar" ha dichiarato:
    È un grande onore per la nostra lingua, l'ebraico, che è molto insulare. Dopo essere stata un idioma dormiente per qualcosa come 1800 anni, oggi è un fenomeno che in 120 anni si sia rivitalizzato e sia diventato una lingua di tutti i giorni.
Gli altri finalisti del premio erano l’argentina Samanta Schweblin con il suo romanzo d’esordio "Fever Dream",il francese Mathias Enard con "Compass", il norvegese Roy Jacobsencon "The Unseen" e la danese con "Mirror, Shoulder, Signal". Il premio è stato annunciato e consegnato ieri sera al Victoria & Albert Museum di Londra.

(fanpage, 15 giugno 2017)


Abu Mazen: il bankomat di Hamas

In una dichiarazione diffusa mercoledì in occasione del decimo anniversario del golpe con cui Hamas prese il potere nella striscia di Gaza, l'Autorità Palestinese ha definito l'avvento al potere di Hamas come "la seconda nakba che ha colpito il nostro popolo" e ha accusato Hamas d'aver "trasformato la striscia di Gaza in un inferno intollerabile". L'uso del termine "nakba" in un contesto diverso da quello della guerra d'indipendenza d'Israele del '48 è del tutto eccezionale nella pubblicistica araba e palestinese. Già in passato Abu Mazen aveva chiesto a Hamas di cedere il controllo su Gaza in cambio dei servizi che l'Autorità Palestinese fornisce ai residenti, una richiesta che Hamas ha sempre respinto. In conversazioni private citate da varie fonti, Abu Mazen ha spiegato: "Non sono più disposto a fare il bancomat di Hamas a Gaza senza contropartite. Se vogliono i nostri servizi, devono lasciarci il controllo. Se non lo fanno, allora si arrangino da soli". Nella dichiarazione di mercoledì, l'Autorità Palestinese accusa anche Hamas di saccheggiare attrezzature mediche trasferite dall'Autorità Palestinese agli ospedali della striscia di Gaza per dirottarle verso cliniche private appartenenti all'organizzazione usate da capi civili e militari di Hamas a spese dei cittadini comuni di Gaza.

(israele.net, 15 giugno 2017)


Il Qatar e la Striscia di Gaza

di Lorenzo Vita

Per molti anni, il Qatar ha rappresentato un soggetto finanziatore e alleato dell'organizzazione palestinese che guida i territori della Striscia di Gaza: Hamas. Il ruolo di Doha è stato fondamentale nel dare supporto economico, politico e anche logistico a Hamas, tanto che il precedente leader, Khaled Mashaal, è stato per anni ospite dell'emiro del Qatar e con lui il cosiddetto politburo dell'organizzazione. Non deve quindi sorprendere che la guerra, per ora soltanto economica e diplomatica, fra il blocco dei Paesi sunniti e l'emirato di Doha abbia un impatto rilevante anche sui territori palestinesi. La Palestina, e i suoi delicati equilibri con Israele e le varie parti del mondo arabo e islamico in generale, rappresenta uno dei campi da gioco in cui si sviluppa la complessa sfida per la leadership del mondo mediorientale.
  Negli ultimi giorni, il leader dell'autorità palestinese, Abu Abbas, ha chiesto al Consiglio di Sicurezza di tagliare i rifornimenti di elettricità a tutta la Striscia di Gaza al fine di condurre Hamas a più miti consigli e di riconoscere pienamente la leadership dell'Autorità palestinese in tutti i territori. Abu Abbas ha iniziato con il taglio del 40% alla fornitura elettrica, che comporta per il popolo della Striscia la possibilità di avere luce elettrica regolare soltanto per poche ore al giorno. Una scelta dettata da una situazione difficile all'interno della Palestina, ma soprattutto, evidentemente, dalla crisi internazionale con i Paesi arabi. Con il blocco economico al Qatar, Hamas non ha più quelle fonti di finanziamento che Doha aveva garantito per molto tempo. Il fiume di denaro che arrivava dai fondi qatarioti permetteva ad Hamas di mantenere il controllo sulla Striscia di Gaza e perso come interlocutore e rivale del governo palestinese di Abu Abbas. Chiuso il fiume di denaro proveniente dal Golfo Persico, Hamas si è ritrovata improvvisamente senza un appoggio politico fondamentale all'interno del mondo arabo, e il governo palestinese ha pensato di trarne immediato giovamento.
  L'ordine delle monarchie del Golfo e dei loro alleati nei confronti del Qatar è stato chiarissimo: bloccare ogni finanziamento al terrorismo internazionale, a Hamas e alla Fratellanza Musulmana ed espellere tutti i gli affiliati al terrorismo islamico. Il messaggio a Doha è arrivato forte e chiaro, ma ha un risvolto negativo per la stabilità della stessa Palestina, tanto da aver destato allarme in tutti i Paesi coinvolti dalla guerra israelo-palestinese: espellere i dissidenti e gli affiliati delle organizzazioni accusate di terrorismo islamico significa inviare questi stessi personaggi nei luoghi dove le organizzazioni terroristiche sono più forti. Il rischio è che gli espulsi torneranno in massa nella Striscia di Gaza, portando, metaforicamente ma anche finanziariamente, il Qatar in Palestina.
  L'Egitto, uno dei Paesi del cosiddetto blocco sunnita, ha subito compreso il rischio di questa decisione imposta dall'Arabia Saudita e dai suoi alleati al Qatar. In contemporanea con il blocco imposto a Doha, l'esercito egiziano ha chiuso ogni accesso alla Striscia di Gaza e imposto controlli a tappeto su tutto in confine. Per scongiurare il rischio di un'escalation di tensione tra Hamas e governo egiziano, il governo del Cairo ha deciso di incontrare Hamas per imporre all'organizzazione palestinese l'ultimatum di cessare ogni collaborazione con il fronte islamista del Sinai e consegnare tutti gli affiliati ai Fratelli Musulmani. Hamas ha tentato di giungere a un compromesso, ma l'Egitto non ha sentito ragioni. Al contrario, il fatto che Abbas abbia chiesto la diminuzione della fornitura di energia elettrica subito dopo l'incontro e che l'Egitto abbia offerto l'aumento della distribuzione di corrente elettrica in cambio della consegna da parte di Hamas di alcuni sospetti di terrorismo, dimostra quanto abbia influito nello scacchiere palestinese la volontà di Al Sisi.
  Mentre i Paesi del Golfo hanno optato per questa decisione di sradicare Hamas e i Fratelli Musulmani dai loro territori, Israele, dal canto suo, non sembra convinto di questo cambiamento politico dentro la Striscia di Gaza. Il motivo è semplice: Hamas, per quanto nemico giurato di Israele, è molto conosciuto da Tel Aviv. Sono decenni che lo Stato di Israele e Hamas si combattono e, per certi versi, l'organizzazione palestinese è stata anche un freno alla forza politica dello Stato di Palestina per giungere a una territorialità tangibile. Israele più che temere Hamas, nella sua situazione attuale, teme il futuro della Striscia di Gaza qualora l'organizzazione uscisse con le ossa rotte da questa campagna anti-qatariota. Le alternative credibili sono o un'esplosione di focolai di tensione in tutto i territori occupati, o una presa di forza di frange legate allo Stato Islamico, oppure un rafforzamento dell'autorità palestinese e del concetto di Stato di Palestina, oppure, quarta possibilità, remota, che gruppi palestinesi legati in qualche modo a Hamas si avvicinino all'Iran e ad Hezbollah per il controllo della Striscia di Gaza, anche con il placet del Qatar stesso. In ogni caso, per Israele non sarebbero notizie molto positive. La fine di Hamas può rappresentare una vittoria di Israele soltanto se lo stesso Stato ebraico ne è autore, altrimenti, in casi alternativi, rischia di essere l'origine di mali ancora peggiori per la politica israeliana in Palestina.

(Gli occhi della guerra, 15 giugno 2017)


Pedagogia in Israele

di Angelica Edna Calo Livne

Anche nel campo educativo Israele vuole essere considerato tra i Paesi innovatori. Il Ministero dell'educazione dà grande spazio alle scuole che sviluppano metodi e programmi che consolidano e migliorano le potenzialità degli allievi. A un convegno, che si è svolto nel complesso pedagogico di Bne' Dror, vicino a Natania, hanno partecipato 180 istituti pedagogici dall'età prescolastica al liceo. Oltre al Ministro dell'educazione Naftali Bennett, hanno visitato i numerosi stands più di 1000 insegnanti, educatori e dirigenti scolastici che potranno introdurre nei loro programmi didattici, le nuove idee presentate a seconda delle proprie esigenze. La scuola elementare Sultan El Atrash del Villaggio Hurfesh, dove sono consulente pedagogica, ha presentato il progetto "Una scuola sul palcoscenico" che attraverso l'inserimento del teatro e delle arti nell'insegnamento delle varie materie scolastiche, si prefigge di consolidare l'espressione verbale, sociale e fisica degli allievi e affrontare i problemi di violenza e bullismo. Tra le attività proposte insegnamento della lingua straniera attraverso dialoghi teatrali e musicali, monologhi su personaggi che hanno risvegliato l'interesse personale dell'allievo, relazioni su un argomento particolare in forma di breve conferenza come il famoso TED e studio della propria tradizione attraverso i cinque sensi con sapori, suoni, profumi e colori. La scuola di Hurfesh, come le altre che hanno presentato strategie innovative, diverrà un centro di studi e di ispirazione per gli insegnanti e gli allievi di tutta Israele di ogni cultura e, si auspica, per il resto del mondo, come si è verificato negli ultimi anni con la Finlandia. Come è scritto nel secondo capitolo del libro di Isaia: "Ki miZion teze' Tora' - Perche' da Sion verrà l'insegnamento". E speriamo di essere sempre d'esempio!

(moked, 14 giugno 2017)


Al via in Israele il gasdotto più lungo del mondo

«Finalmente diventiamo protagonisti nel settore del gas naturale». Lo ha detto il ministro delle infrastrutture, dell' energia e delle risorse idriche israeliano, Yuval Steinitz, commentando il primo via libera a Eastmed, il più lungo e profondo gasdotto sottomarino del mondo che, entro il 2025, porterà in Italia il gas naturale dai giacimenti recentemente scoperti da Israele, attraverso Cipro e Grecia.
Eastmed, ha aggiunto Steinitz, è «il nostro progetto più ambizioso. Appena un anno e mezzo fa in tanti dicevano che era solo una fantasia, un sogno. Ma oggi possiamo affermare che sarà una realtà». A seguito di questa iniziativa, ha aggiunto, «Italia e Israele possono fare di più insieme, soprattutto in ambito industriale».
   La fattibilità del progetto per il gasdotto è attualmente allo studio di un team congiunto di israeliani, italiani, ciprioti e greci che entro la fine del 2017 dovrebbero dare il via alla realizzazione. A quel punto entreranno in scena i privati, ha spiegato il ministro Steinitz, aggiungendo che sono stati già raccolti «segnali di interesse da parte di vari paesi e banche internazionali». Sul fronte dei costi, la cifra stimata è compresa tra i 6 e i 7 miliardi di dollari, ma secondo gli esperti potrebbe essere superiore.
   Mercoledì il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, è atteso a Salonicco per un incontro con i protagonisti di Eastmed. Per Israele quella sul gas naturale rappresenta una vera e propria rivoluzione considerando che fino al 1999 era del tutto privo di risorse naturali. Una rivoluzione che, nelle intenzioni dei promotori, sarà energetica, ma anche ambientale.

(L'Osservatore Romano, 14 giugno 2017)


I palestinesi smettono di pagare le famiglie degli attentatori suicidi

 
Rex Tillerson
ROMA - I leader dell'Autorità nazionale palestinese hanno accettato di smettere di retribuire le famiglie degli autori di attentati suicidi. L'ha indicato il segretario di Stato Usa Rex Tillerson.
Questi pagamenti, destinati a risarcire le famiglie delle persone uccise mentre conducevano attentati contro gli israeliani, sono uno degli ostacoli al processo di pace in Medio Oriente.
I palestinesi "hanno modificato la loro politica, io sono stato informato del fatto che hanno cambiato questa politica", ha detto Tillerson in un'audizione presso il Senato.
Il presidente Usa Donald Trump ha annunciato di voler riavviare i negoziati di pace e ha esortato Israele a limitare la costruzione di colonie nei territori occupati.
Tillerson ha precisato davanti alla Commissione relazioni internazionali del Senato che Washington ha insistito presso il presidente palestinese Mahmud Abbas sul problema dei pagamenti alle famiglie degli attentatori suicidi. Questo tema "è stato evocato direttamente quando il presidente Abbas ha effettuato la sua visita con una delegazione a Washington", ha proseguito il capo della diplomazia Usa.

(askanews, 14 giugno 2017)


Hamas «al buio», così può iniziare la fine dei terroristi

di Fiamma Nirenstein

Bombe, missili, cannoni, terroristi suicidi sempre pronti all'azione: e tuttavia, mentre seguita a mostrare i denti e promette disastri internazionali, Hamas sembra essere fra le prime vittime della grande rivoluzione mediorentale-trumpiana che ha visto l'asse ormai detta della stabilità mettere fuori legge il capofila del campo della fratellanza Musulmana, legato a quello iraniano: il Qatar. Lo sfondo è questo: Hamas potrebbe perdere le tante differenti forme di supporto politico, finanziario, logistico che il Qatar gli fornisce su base miliardaria, finanziando, dopo le varie guerre, grandi programmi di ricostruzione. Inoltre ospita lo stato maggiore di Hamas, col suo fino a ieri famoso capo supremo, ferocissimo leader Khaled Mashaal. I miliardi tuttavia sono andati presumibilmente a finire in gran parte nelle tasche della lotta armata contro Israele, nella costruzione di tunnel, nell'acquisto di armi. I due milioni di sudditi di Hamas vivono una situazione di crisi umanitaria cronica, la loro leadership sembra avere come unico scopo quello di uccidere gli ebrei, e non il benessere della sua gente. Hamas è un membro molto attivo della Fratellanza Musulmana, di cui il Qatar è il pater familias e la Turchia l'alma mater. Adesso la situazione si è molto complicata: i soldi potrebbero fermarsi, il Qatar subisce il grande blocco dei denari, dei voli, del cibo, dell'acqua, da parte dei paesi moderati aiutati dall'America, e con lui i suoi protegèe terroristi, fra cui Hamas.
   Due giorni or sono il consiglio di sicurezza israeliano è stato praticamente costretto su richiesta di Abu Mazen, presidente dell'Autorità Palestinese, a diminuire la quantità di elettricità fornita a Gaza. La Striscia avrà elettricità solo due o tre ore al giorno. Una situazione drammatica che può creare problemi agli ospedali, alle strutture di drenaggio, a quelle per la desalinizzazione. La AP ha deciso di bloccare il 40% del budget finora dedicato a Gaza, e non paga più l'elettricità che Israele produce, inducendolo a ridurre le forniture. Forse Israele si sarebbe sacrificato per il suo migliore amico, ma Hamas è il suo peggior nemico, anche se Israele è molto preoccupato della possibilità di un acuirsi della crisi umanitaria con le sue conseguenze violente: Israele rifornisce Gaza di ogni bene. Il rischio è che la popolazione si rivolti contro il governo, e il consenso venga recuperato nell'odio e nel sangue contro Israele.
   Perché Abu Mazen agisce ora? La spinta politica è evidente. È il «campo della stabilità» cui Abu Mazen vuole appartenere, pena l'isolamento da parte dei paesi arabi sunniti e degli americani, i re dei contributi ai palestinesi. Abu Mazen non vede l'ora di assegnare un colpo a Hamas che gli contende l'egemonia del mondo palestinese, aggregandosi alla jihad nel suo scontro con l'Occidente. Abu Mazen vuole durare, e perpetuare le sue strategie di rifiuto di Israele e di esaltazione della jihad e Hamas assedia il suo potere.
   Un altro deplorevole incidente ha funestato Hamas: sotto due scuole costruite dall'Unrwa, l'Agenzia per i profughi palestinesi, è stato scoperto un tunnel usato come passaggio in Israele dai terroristi per compiere stragi di civili. Un portavoce dell organizzazione, Christopher Gunness ha condannato l'uso cinico delle scuole. L'Unrwa, l'unica organizzazione creata dall'Onu per un solo gruppo di profughi, quelli palestìnesi, è anche l'unica che invece di curarne l'integrazione in modo da diminuirne il numero, li aiuta a moltiplicarsi: ha stabilito per statuto che anche i figli e i figli dei figli sono profughi, così da tenerli rinchiusi in campi profughi e facendone da circa 700mila cinque milioni. L'insegnamento è orientato contro Israele, gli episodi che legano le strutture alla proliferazione del terrore sono molti, e l'aria che si respira nelle scuole adornate di murales coi ritratti degli «shahid» è inequivoca. L'Unrwa è una struttura che - come ha detto il Primo Ministro Israeliano - andrebbe chiusa, e Hamas non si perita, a spese dei bambini, di usare persino quella. Dalla sua parte quindi si può trovare solo chi sostiene il terrorismo, ma il momento storico ne sta mettendo in discussione la sorte. È tutto il campo del terrore a essere scosso, e anche Hamas trema.

(il Giornale, 14 giugno 2017)


La «Dichiarazione Balfour» non fu un miracolo

di Renzo Fracalossi *

A una lettura superficiale delle cronologie, sembra che l'anno scorso sia stato segnato da una miriade di anniversari, ma il 2017 non pare essere da meno. Si tratta infatti dell'anno in cui ricorre, ad esempio, il centenario della sconfitta di Caporetto e della Rivoluzione russa; il bicentenario del debutto di Chopin come compositore all'età di sette anni; il trecentesimo dell'eruzione del Vesuvio, il quattrocentesimo anniversario dell'Università di Sassari e via dicendo. In questo vasto mare di anniversari, ieri Paolo Mieli, con l'acutezza di sempre, ha ricordato sul Corriere della Sera il centesimo anniversario della cosiddetta «Dichiarazione Balfour» del 2 novembre 1917- È una data di straordinaria importanza non solo per il mondo ebraico e israeliano, ma anche per l'intera Europa. La Dichiarazione Balfour rappresenta infatti il primo mattone fondativo dello Stato d'Israele, dunque vale la pena fare qualche accenno, nella consapevolezza che a molti quell'atto politico di così assoluta straordinarietà risulta ancora poco noto.
   «Dear Lord Rotschild, ( ... ) His Majesty's Governement view with favour the establishment in Palestine of a national home for the Jewish people ... » è l'essenza di una breve lettera del ministro degli Esteri di Sua Maestà, Arthur Balfour, indirizzata a lord Walter Rotschild, con la quale si sottolinea appunto lo «sguardo di favore» dell'impero britannico verso l'ipotesi di creazione di «un focolare nazionale ebraico in Palestina», condividendo così e di fatto alcune aspirazioni del sionismo verso la progressiva edificazione di uno Stato nazionale ebraico sull'antica terra dei Padri. La trattativa riservata fra il mondo ebraico e il governo di Sua Maestà, che porta alla stesura di quel testo da parte del Foreign Office, nasce da valutazioni politiche maturate si nel tempo e viene condotta, non tanto da Lord Rotschild, peraltro riconosciuto rappresentante della comunità ebraica inglese, quanto piuttosto da un professore di chimica dell'Università di Manchester, ebreo russo e sionista, che risponde al nome di Chaim Weizmann, già noto alle cronache e alla gratitudine inglese per la scoperta di un processo di fermentazione del granturco dal quale trarre l'acetone, elemento essenziale alla produzione di un nuovo esplosivo noto come cordite.
   È con Weizmann che Balfour ha una serie di colloqui miranti a definire il futuro di quel «focolare nazionale» che già dal 1827 ha preso piede con la fondazione di un quartiere ebraico a Gerusalemme a opera di lord Moses Montefiore e poi, durante il XIX secolo, con l'acquisto di terra e il progressivo insediamento di famiglie e piccole comunità nell'arido territorio desertico della Palestina, secondo le indicazioni del movimento sionista e del suo fondatore Theodor Herzl.
Le circostanze esatte che portano la Gran Bretagna, in piena guerra mondiale, a redigere quella lettera non si conoscono, perché probabilmente non sono ascrivibili a un unico e definito motivo, ma alla complessità dello scacchiere politico sul quale manovra il governo britannico, anche guardando alle prospettive del dopoguerra e alla concorrenza francese nel dominio del Medio Oriente. Quell'atto non è insomma un miracolo imprevisto, bensì il frutto di una lunga tradizione inglese che, fin dalla seconda metà dell'Ottocento, sostiene la possibilità di un ritorno degli ebrei d'Europa nell'antica terra di Sion, sia per motivi religiosi e filosofici, sia per ragioni più legate all'espansionismo imperialista britannico e alla volontà, da un lato, di indebolire l'impero ottomano il cui declino è scritto ormai nell'ordine naturale delle cose e, dall'altro, di poter proteggere e controllare la nuova via di comunicazione con l'estremo oriente rappresentata dal nuovo Canale di Suez.
   Tale insieme di valutazioni dà però avvio a un processo di sostanziale trasformazione della geopolitica mediorientale che porterà, oltre trent'anni dopo, alla nascita dello Stato di Israele e al suo rafforzamento definitivo attraverso la «Guerra dei sei giorni», della quale quest'anno cade il cinquantesimo anniversario.
* Autore e registra teatrale, presidente Club Armonia

(Corriere del Trentino, 14 giugno 2017)


Zapateristi e islamisti assieme per ridare ad Allah la cattedrale di Cordoba

La sinistra romanticizza il Califfato e demonizza la Reconquista

di Giulio Meotti

 
Cattedrale di Cordoba, esterno
 
Cattedrale di Cordoba, interno
ROMA - La sua storia è nota. Basilica visigota dedicata a san Vincenzo nel 550, occupata nel 714 dai musulmani che la distrussero per farne la Grande moschea di Cordoba durante il regno del califfo Abd al Rahman I, riportata al culto cattolico da re Ferdinando III nel 1523. E' la grande cattedrale di Cordoba, la mezquita, uno dei siti più importanti della cristianità occidentale. Adesso una alleanza di laicisti e islamisti cerca di riportare la chiesa al culto islamico.
   "La sinistra spagnola agogna la deconquista", titola il Wall Street Journal, giocando sulla parola reconquista con cui la Spagna fu sottratta all'islam. "La Grande Moschea di Cordoba": così la chiama l'Unesco. E almeno esteriormente a ragione: è un capolavoro dell'architettura mora. Ma questa "moschea" da novecento anni è una cattedrale cristiana, tanto che oggi soltanto la messa e le confessioni cattoliche vengono officiate al suo interno.
   "I titoli discordanti che accolgono i turisti sono il risultato di più di duecento anni di antagonismo verso la chiesa cattolica da parte degli intellettuali spagnoli di sinistra", scrive il Journal. "Hanno usato l'architettura della cattedrale essenzialmente per decristianizzare in nome del ritorno alle sue radici islamiche. Questa campagna laicistica è iniziata all'inizio del XIX secolo ma ha guadagnato forza negli ultimi vent'anni. La recente immigrazione in Spagna ha portato nuovi musulmani che chiedono di adorare nella loro 'Grande Moschea'''.
   350 mila persone hanno firmato una petizione che invoca l'esproprio dell'edificio. Poi il governo socialista dell'Andalusia ha accusato la chiesa cattolica di "nascondere" la vera storia del monumento. A marzo, il consiglio comunale di Cordoba ha redatto un documento accusando la diocesi di non essere la legittima proprietaria. Isabel Ambrosia, delegata socialista della giunta dell'Andalusia per Cordoba, aveva "commissionato uno studio giuridico per sapere se è nel potere della giunta reclamare che la Cattedrale diventi proprietà pubblica". La delegata ha anche firmato una petizione che chiedeva
   l'esproprio della cattedrale alla chiesa. "La consacrazione religiosa non è la via per acquisire una proprietà", si legge. I veri proprietari sono "tutti i cittadini del mondo al di là di popolo, nazionale, razza e cultura". A pochi chilometri dalla cattedrale non a caso Roger Garaudy, intellettuale francese comunista convertito all'islam, creò il suo Centro islamico internazionale. Un gruppo di musulmani provenienti dall'Austria nel 2010 cercò di pregare secondo il rito islamico all'interno della Cattedrale. Un blitz finito in un arresto.
   Per raccogliere il sostegno dei cattolici americani, il vescovo di Cordoba, Demetrio Fernandez Gonzàlez, è appena andato all'Hudson Institute di Washington. Lì ha spiegato che la legge dell'Andalusia permetterebbe l'esproprio della cattedrale se una corte stabilisse che la chiesa cattolica non è riuscita a preservare l'edificio. Non così irrealistico.
   "E' diventato di moda a sinistra romanticizzare il passato islamico della Spagna", continua il Journal. "I cattolici del Reconquista sono considerati come fanatici, mentre il Califfato è presentato come un paradiso di tolleranza e di apprendimento in cui ebrei e cristiani convivevano felicemente. Barack Obama ha citato l'Andalusia come esempio della 'orgogliosa tradizione di tolleranza' dell'islam durante il suo discorso del 2009 al Cairo". Nel frattempo, la popolazione islamica spagnola è quasi raddoppiata, a 1,9 milioni da un milione nel 2007.
   Ora la domanda sulla bocca di tutti è: "Chi c'è dietro?". Chi finanzia la campagna per riportare all'islam la grande cattedrale? Tutti, scrive l'Abc, rispondono allo stesso modo: il Qatar. Sarebbe l'emirato a sostenere la campagna delle organizzazioni islamiche per convertire ad Allah dopo novecento anni la grande chiesa di Cordoba.
   L'oriente è pieno di chiese trasformate in moschee, la Omayyade di Damasco, la Ibn Tulun del Cairo e la cattedrale di Santa Sofia a Istanbul. Gli zapateristi spagnoli vorrebbero far fare la stessa fine alla cattedrale di Cordoba. Ma lo chiamerebbero "dialogo fra le civiltà".

(Il Foglio, 14 giugno 2017)


Caro Meotti

Lettera al Foglio

Caro Meotti, in un articolo pubblicato sul Foglio del 13 giugno, intitolato "Umanitaristi impazziti", accusi Amnesty International di "boicottaggio selettivo" nei confronti di Israele. Amnesty International non ha svolto ricerche sul valore dell'importazione di prodotti provenienti da altri territori occupati da te citati (Tibet, Cipro nord, Sahara occidentale ecc.). Ciò che sappiamo è che quella dei prodotti provenienti dagli insediamenti israeliani nei territori palestinesi occupati vale centinaia di milioni di dollari ogni anno: secondo dati del ministero dell'Economia d'Israele, il valore delle esportazioni verso l'Unione europea è di 200-300 milioni di dollari l'anno. Se, per il diritto internazionale umanitario, gli insediamenti israeliani sono illegali, allora il vantaggio economico realizzato dalle imprese e dalle aziende che lì producono e commerciano va fermato. Amnesty International non sta invitando i consumatori ad aderire a campagne di boicottaggio. Chiede agli stati di rispettare i loro obblighi di diritto internazionale e vietare l'importazione di prodotti provenienti dagli insediamenti illegali. Un caro saluto.
                                                                                                Riccardo Noury
                                                                                                Portavoce Amnesty International Italia



Gentile Noury, prendiamo atto che Amnesty International riconosce di aver lanciato un boicottaggio delle merci israeliane. Sulla "illegalità" degli insediamenti israeliani c'è una discussione che va avanti dal 1967 e che non si risolve certo con un voto dell'Onu, organismo prezioso troppo spesso sequestrato da regimi corrotti e da dittature e che ha dimostrato di avere una terribile pregiudiziale antisraeliana. Ma anche se accettassimo il vostro legalismo sulla vicenda, sorprende che Amnesty International, una ong che ha a cuore democrazia e diritti umani, prenda di mira soltanto uno stato con questa sua campagna di boicottaggio. L'unico stato ebraico del mondo e l'unica democrazia di tutto il medio oriente. In questo modo avete deciso di rafforzare coloro che conducono la campagna per la messa al bando di Israele, il cui obiettivo è cancellare quello stato dalla carta geografica e non certo promuovere la pace. In un momento in cui, dall'Egitto all'Iran, i paesi del medio oriente calpestano ogni diritto umano, Amnesty dovrebbe avere a cuore, e non boicottare, Israele. Questo avrebbe voluto il vostro fondatore, Peter Benenson.
                                                                                                                                      Giulio Meotti

(Il Foglio, 14 giugno 2017)



Israele: a Tel Aviv la storia degli ebrei libici in Italia

A Beit Hatfutsot il racconto del successo di un'integrazione

 
Beit Hatfutsot, Tel Aviv
TEL AVIV - La storia dell'arrivo in Italia degli ebrei libici, profughi forzati dal loro paese dopo la guerra dei Sei Giorni del 1967 vinta da Israele, è stata protagonista ieri sera a Tel Aviv al Museo del popolo ebraico 'Hatfutsot'. A raccontare agli israeliani le vicende di una comunità di 3mila 'migranti' (su circa 6mila complessivi) che in questi 50 anni ha arricchito la cultura e la società italiane sono stati Hamos Guetta, consigliere dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane (Ucei) e la giornalista israeliana Sivan Rahav Meir con un intervento iniziale della direttrice del Museo Liora Shani. "Un salto nel tempo attraverso le immagini, le musiche e le storie di queste persone che - ha detto Guetta - intrapresero il viaggio, costrette a lasciare la Libia in pochi giorni e senza poter portare con sé quasi nulla".
"Facciamo parte - ha sottolineato - di circa 700mila ebrei cacciati dai paesi arabi dalla nascita di Israele in poi e dispersi in molti paesi, compreso lo stato ebraico". Ma il racconto ha messo in luce anche gli sforzi, la tenacia, i sacrifici che hanno permesso alla "comunità di ricostruirsi un presente e un futuro nell'accogliente Italia". Un "successo" che, anche grazie all'aiuto della Comunità ebraica italiana, ha portato nel corso del tempo a creare, secondo alcune stime, circa "50mila posti di lavoro". Nell'apporto che gli ebrei di Libia in questi anni hanno dato all'economia e alla cultura italiana ci sono nomi di spicco: da Victor Massiah di Ubi Banca, all'impresario David Zard o al produttore cinematografico Roberto Haggiag o al cantante Herbert Pagani, per citarne solo alcuni. Un'integrazione modello che - è stato detto - potrebbe essere punto di riferimento per altre comunità in questi tempi di migranti.
Per festeggiare il 50/o anniversario della presenza degli ebrei di Libia in Italia - ricordato nei giorni scorsi dal Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, dall'Ucei e dalla Comunità ebraica romana in una cerimonia al Tempio Maggiore della capitale - è in programma una grande manifestazione organizzata dall'Ucei il 28 giugno al 'Teatro di Roma'.

(ANSAmed, 14 giugno 2017)


L'antisemitismo viaggia in Rete e si diffonde anche dagli e-book

Il rapporto sull'antisemitismo del Centro di documentazione ebraica, presentato oggi a Milano, segnala almeno settanta titoli che circolano indisturbati nei circuiti ufficiali degli e-book.

di Paolo Colonnello

MILANO - Come al solito, alla fine sono le parole a pesare come pietre. E a tenere viva la fiamma dell'antisemitismo nel nostro Paese: ogni giorno canali di distribuzione importanti come Amazon o Ibs diffondono via Internet antisemitismo a piene mani con la vendita di libri che vengono recensiti come se si trattasse di tomi qualsiasi, mentre veicolano l'odio verso gli ebrei.
   E poi, ecco il quotidiano che mette in vendita il Mein Kampf di Hitler senza sentire il bisogno di fare almeno un'edizione critica; il politico che fa riferimento al complottismo delle lobby ebraiche; i gruppi di tifosi che sfoggiano slogan razzisti e antisemiti. Per non parlare del linguaggio che passa sui social, dei gruppi nazisti e fascisti nati su Fb, delle parole che viaggiano su Twitter. Insomma, guardando il rapporto sull'antisemitismo in Italia nel 2016, che questa mattina verrà presentato a Milano dal Centro di documentazione ebraica diretto da Gadi Luzzato Voghera a Palazzo Marino, emerge un quadro per niente tranquillizzante.
   La fotografia di un Paese che se da una parte ha aumentato la sicurezza nei confronti dei centri ebraici, facendo diminuire drasticamente gli atti di violenza, dall'altra culturalmente sembra scivolare sempre più nell'indifferenza per l'uso di termini e parole che esprimono invece grande aggressività e coltivano una rinascita dell'antisemitismo assai preoccupante: negazione e minimizzazione della Shoah sono sempre più frequenti e manifesti senza che vi siano mezzi legali importanti per contrastarli.
   «Nel corso della nostra ricerca - spiega Luzzato - ci siamo scontrati con dinamiche malate: si spende per andare nelle scuole a parlare di Shoah e poi si lascia che la vendita di paccottiglia antisemita circoli tranquillamente». Per esempio, la vendita dei libri. Sono almeno una settantina i titoli che circolano indisturbati nei circuiti ufficiali degli e-book. Opere di teorici del nazifascismo, di apologetica cattolica preconciliare, antisionista e cospirativista. Queste le sigle editoriali più aggressive: Edizioni Ar, Anteo Edizioni, Effepi, Thule Italia Editrice, Effedieffe, Ritter, Settimo Sigillo, Edizioni Radio Spada, e via dicendo. Di queste, 19 sono riconducibili alla destra radicale, 3 alla corrente di New age (millenarismo progressista), 1 alla sinistra estrema.
   Ma il rapporto ha monitorato anche il linguaggio dei politici scoprendo per esempio che l'antisionismo venato di cospirativismo è presente nel lessico di esponenti del M5S così come dell'ex parlamentare Massimo D'Alema che «nel corso del 2016 ha più volte definito Matteo Renzi agente del Mossad».

(La Stampa, 14 giugno 2017)


Medioriente, Italia e Israele: il bilancio delle relazioni

di Domenico Letizia

 
Dan Haezrachy, vice capo missione dell'Ambasciata d'Israele
Negli ultimi mesi sono state innumerevoli le problematiche e le notizie provenienti da Israele e dalla zona mediorientale. Dallo sciopero della fame dei detenuti palestinesi, alla giornata culturale tra Italia e Israele e alle prospettive future, analizziamo le notizie di questi ultimi mesi con Dan Haezrachy, vice capo missione dell'Ambasciata d'Israele a Roma.

- Sono numerosi i detenuti palestinesi che hanno dichiarato qualche tempo fa lo sciopero della fame (da poco concluso), chiedendo che venissero migliorate le condizioni della loro detenzione. L'agenzia di stato israeliana che si occupa di gestire le carceri ha diffuso un video molto discusso che riguarda Marwan Barghouti, uno dei più popolari e ambiziosi politici palestinesi, mangiare dei biscotti e uno snack, nonostante l'esteso sciopero della fame. Oggi che lo sciopero è concluso, possiamo approfondire quanto è accaduto e quali sono le notizie non veritiere diffuse in quei giorni?
  Lo sciopero della fame dei detenuti palestinesi aveva ben poco a che vedere con la questione dei diritti umani - Israele rispetta pienamente tutte le normative internazionali previste in merito - e molto con la guerra interna al mondo palestinese per la successione ad Abu Mazen. Non è un caso che, lo stesso Abu Mazen, ha sostenuto pochissimo questo sciopero e solo perché costretto, Si tratta di una guerra che vede anche i detenuti palestinesi in Israele protagonisti, considerando che - purtroppo - l'Anp paga loro un lauto stipendio mensile, favorendo cosi la perpetuazione del culto della violenza e del terrore. Dispiace che questi prigionieri palestinesi siano stati descritti da alcuni, anche in Occidente, come "prigionieri politici". La verità è che si tratta di criminali responsabili di efferati atti di terrorismo e mai pentiti. In primis Marwan Barghouti, che nelle carceri israeliane ha addirittura preso un PhD e che è stato condannato a 5 ergastoli per la morte di almeno 13 civili innocenti. Crimini di cui non si è mai pentito e che ha ammesso. La lettera che Barghouti è riuscito a far pubblicare sul New York Times, è piena di falsità, che sono state smentite dalle autorità israeliane con i numeri. A quei pochi parlamentari italiani che ci hanno chiesto delucidazioni in merito o hanno difeso la posizione dei prigionieri palestinesi, abbiamo chiaramente detto che la pace sarà raggiunta quando i soldi che l'Anp versa ai terroristi nelle carceri israeliane, verranno investiti nella crescita per la popolazione palestinese. Allora forse riusciremo ad interrompere quella spirale di odio che oggi blocca ogni dialogo di pace.

- Recentemente l'Organizzazione palestinese Al Fatah ha "premiato" il noto terrorista Karim Younes inserendolo nella lista del Comitato Centrale dell'Organizzazione. Karim e Maher Younes sono stati condannati a 40 anni di detenzione ciascuno per il sequestro e assassinio di una persona. Cosa pensa dell'atteggiamento e del comportamento di Al Fatah in tale occasione?
  Guardi, quello che lei mi sta dicendo non mi sorprende affatto. Piuttosto, mi chiedo come tutto questo possa accadere senza alcuna condanna internazionale. Mi chiedo quindi come si possa pretendere di convincere gli israeliani della genuinità della volontà di pace dei palestinesi, quando costantemente i palestinesi elogiano terroristi responsabili di aver ucciso israeliani. Solamente in questi giorni, l'Anp ha dedicato un centro educativo per le ragazze alla terrorista Dalal Mughrabi, responsabile di aver ammazzato 32 israeliani, di cui 12 bambini (il più piccolo aveva solo 2 anni). Una scelta che ha costretto persino la Norvegia e l'Onu a rivedere i fondi donati per il centro educativo. Ancora: come possiamo credere alle buone intenzioni di pace dei palestinesi, se i loro leader dicono alcune cose in inglese o in ebraico, e poi le smentiscono (o sono costretti a farlo), in arabo? Pensi al caso di Jibril Rajoub, importante esponente dell'Olp: intervistato dalla tivù israeliana ha detto di riconoscere che il Muro del Pianto dovrà rimanere sempre sotto la sovranità israeliana. Poco dopo, nonostante il video parli chiaro, è stato costretto a fare marcia indietro e sul suo Facebook ha persino parlato di complotto israeliano nei suoi confronti. Come possiamo davvero sederci al tavolo delle trattative, sapendo che l'accordo che andremo a firmare verrà rispettato?

- Magnifico l'evento organizzato per la Festa della Repubblica del 2 giugno promossa dall'Ambasciata italiana in Israele. Ospite dell'ambasciata italiana a Tel Aviv, il Presidente d'Israele Reuven Rivlin che ha sottolineato il valore storico di questa data. "Le relazioni tra il popolo italiano e quello d'Israele risalgono a centinaia di anni fa e negli ultimi anni si sono rafforzate. Proprio il mese scorso l'Italia ha dimostrato che la sua non è un'amicizia solo a parole ma anche nei fatti votando contro la vergognosa risoluzione dell'Unesco su Gerusalemme". Approfondiamo tale rapporto?
  Assolutamente lodevole quanto organizzato dall'Ambasciata Italiana in Israele, per la festa del 2 giugno. Io credo in questi eventi, hanno mostrato quanto sia forte il legame tra Italia e Israele. Non solo Rivlin ha elogiato il Governo italiano e la sua coraggiosa posizione contro la mozione Unesco su Gerusalemme, ma diversi eventi culturali sono stati organizzati e hanno visto un'ampia partecipazione degli israeliani, da sempre amanti dell'Italia. Il Comune di Tel Aviv, addirittura, ha illuminato parte del suo edificio con i colori della bandiera italiana! Mi permetta anche di aggiungere che, questi successi, sono anche il risultato dell'ottimo lavoro fatto dall'Ambasciatore italiano Francesco Maria Talò, che tra pochi mesi concluderà il suo mandato. A lui e al suo staff, vanno davvero i nostri sinceri apprezzamenti e complimenti.

- Eccellenza, tra qualche mese si conclude la sua esperienza come vice capo missione dell'Ambasciata d'Israele a Roma. Può descriverci il lavoro di questi anni, le preoccupazioni e le prospettive?
  Non so se riesco a descrivere quanto fatto in cinque anni, in poche righe. In primis mi faccia dire che sono onorato di aver servito come diplomatico israeliano in Italia, un Paese che ho amato moltissimo e che porterò sempre nel cuore. In questi anni, Italia e Israele hanno raggiunto accordi importantissimi, in ogni ambito di cooperazione, a cominciare da settori come la sicurezza, gli scambi accademici e culturali e la promozione del turismo bilaterale. Non solo: grazie all'iniziativa del Presidente Bernardo, in Italia è nata la più grande associazione di amicizia parlamentare Italia-Israele, esistente in Europa (oltre 200 membri). Oggi, come Lei sa, Italia e Israele discutono di accordi in settori strategici come quello del gas, che sicuramente rafforzeranno ulteriormente il rapporto tra Roma e Gerusalemme. Per parte mia, come suddetto, una volta tornato in Israele continuerò ad impegnarmi perché quanto raggiunto sinora non solo venga mantenuto, ma ampliato. Considero l'Italia un po' come la mia seconda casa e non dimenticherò mai quanto mi è stato donato da questo straordinario Paese. So che quello che abbiamo fatto in questi anni è una goccia nell'oceano ma, come diceva Madre Teresa, "se non lo facessimo l'oceano avrebbe una goccia in meno".

(L'Opinione, 13 giugno 2017)


Moshe Kahlon, la sua lotta per il potere d'acquisto degli israeliani

L'atipico ministro delle finanze difende la sua politica.

 
Moshe Kahlon, Ministro delle Finanze di Israele
Moshe Kahlon ha questa particolarità, atipica per un ministro delle Finanze, di essere imbattibile sul prezzo della vita quotidiana. In carica dal maggio 2015, si è posto come priorità di migliorare il potere d'acquisto degli israeliani. Una volontà che è conforme al suo percorso di vita personale - proviene da una famiglia di sette figli, di un ambiente molto modesto. «E' più facile capire quando si è vissuta una situazione di sopravvivenza", ha detto il ministro - la cui carriera politica è anch'essa singolare - nel corso della visita a Parigi, la scorsa settimana, per la riunione ministeriale dell'OCSE. Ex Vice Ministro del Likud, partito di destra, Moshe Kahlon si dimise nel 2013 per creare il suo partito di centro chiamato Kulanu, che in ebraico significa "tutti insieme".
  Ha negoziato il suo sostegno al governo di coalizione di Benjamin Netanyahu dietro la promessa di far passare le sue riforme della spesa e limitare l'aumento del budget per la sicurezza, un argomento molto delicato in Israele, grazie a una gestione ottimizzata del credito. Questo budget ormai è stabilito su base di cinque anni non su base annuale, e l'aumento, che era del 5% e l'8% in media, oggi è inferiore al 3%. "E' la prima volta nella storia del paese che la spesa sociale - istruzione, sanità ... - supera il budget per la sicurezza", si rallegra.
  Tuttavia il ministro, che sostiene "l'economia di libero mercato con principi sociali", conta soprattutto sulla crescita per migliorare la vita degli israeliani. Questo richiede misure favorevoli alle imprese, un calo dell'imposta sulle società - 26,5% nel 2015 al 23% nel 2018 - più incentivi per gli investimenti, in particolare in alta tecnologia, e meno regolamentazione. Il ministro, che si era espresso in un precedente mandato sull'apertura alla concorrenza dei telecom, continua su questa strada. Ha ridotto le tasse di importazione e aumentato le quote su molti prodotti alimentari e di abbigliamento, cosa che ha fatto cadere i prezzi, dal 30% al 40% per il pesce e il 70% per i pomodori. Questo gli ha procurato diversi mesi di mobilitazione dei produttori locali, che hanno ricevuto un risarcimento. "Di questo profittano soprattutto le classi più basse della società", sottolinea Moshe Kahlon.
  Lo scorso anno i consumi privati sono stati uno dei motori della crescita, che ha raggiunto il 4%. "Questo è dovuto sia alla bassa inflazione (0,7% in aprile), al tasso di occupazione molto elevato, 77%, e a un tasso di disoccupazione molto basso, al 3,5%", spiega Seltem Iyigun, economista di assicurazione del credito Coface. Israele è una delle economie di maggior successo del Vicino e Medio Oriente, aggiunge l'esperto, mettendo in evidenza "l'amministrazione solida e la forza dell'export, composto per il 50% di prodotti ad alto valore aggiunto." Rovescio della medaglia: il rischio di attirare troppo flusso di capitali, contribuendo così all'apprezzamento della valuta. Lo shekel ha preso il 9% rispetto al dollaro dall'inizio dell'anno. "Questo è un handicap per gli esportatori", riconosce il ministro.

 Sotto-impiego degli Haredlm
  Nella sua tabella di marcia adesso deve affrontare due debolezze ricorrenti, citate dall'OCSE e dal FMI: mancanza di produttività e tasso di povertà e disuguaglianza molto alto. Questo richiede più istruzione, formazione, investimenti in R&D. La sfida sta anche nell'aumentare il tasso d'occupazione delle donne arabe e degli uomini ultra-ortodossi, la popolazione haredlm, di cui solo il 52% lavora (contro l'80% per l'insieme degli israeliani). "Beneficiano di corsi specifici all'università, riservati agli uomini, e a loro vengono forniti dei computer", spiega il ministro. Le sue prerogative vanno oltre la sfera della finanza: non esita a occuparsi di istruzione, di trasporti e di alloggio per ridurre i prezzi degli immobili, che sono saliti alle stelle negli ultimi anni a causa della speculazione. Un programma degno di un primo ministro, mentre la sua ambizione, si schermisce, si limita alle finanze. ahlon

(Le Figaro, 13 giugno 2017 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


Umanitaristi impazziti contro Israele

Amnesty boicotta lo stato ebraico, l'Onu paragona Ramallah a Dachau e per l'Oms è peggio del Venezuela della malaria.

di Giulio Meotti

ROMA - Va da sé che Amnesty International non abbia chiesto di boicottare l'occupazione dell'Indonesia a Timor Est o a Papua, della Turchia a Cipro, della Russia in Georgia e Crimea, del Marocco nel Sahara occidentale e della Cina in Tibet. C'è un solo stato di cui Amnesty invoca il boicottaggio selettivo: lo stato ebraico. E quale occasione migliore dei festeggiamenti d'Israele per i cinquant'anni dalla guerra del 1967 per invocare la messa al bando delle sue merci? Così Amnesty, benemerita ong premio Nobel per la Pace, ha appena chiesto di boicottare le merci israeliane post 1967. Kate Allen, a capo di Amnesty in Inghilterra, ha detto che la Gran Bretagna e gli altri paesi europei hanno "il dovere legale e morale di introdurre la messa al bando dei beni prodotti negli insediamenti israeliani". Dura la replica del Board of Deputies della comunità ebraica inglese, che ha condannato Amnesty per aver "ignorato gli accoltellamenti, gli attacchi con le auto e gli attacchi con armi da fuoco" commessi dai palestinesi. Marie van der Zyl, vicepresidente dell'organizzazione ebraica, ha detto che "Amnesty si deve ricordare che i diritti umani sono universali e si applicano anche agli israeliani".
  Ma la faziosità non annebbia la mente degli umanitaristi soltanto sul Tamigi. Sulle rive del lago di Ginevra, il Consiglio dei diritti umani dell'Onu ha appena accusato Israele di aver trasformato Ramallah, capitale dell'Autonomia palestinese, in un campo di concentramento. Zeid Ra'ad al Hussein, a capo di quel consiglio delle Nazioni Unite, ha appena detto durante la sessione generale, guarda caso dedicata a Israele: "Sono cresciuto non lontano dal campo profughi palestinese di al Baqa'a. Ho lavorato nel campo profughi di al Wihdat. Sono stato ad Auschwitz-Birkenau, ho visitato Dachau e ho visto Buchenwald…". Hussein è andato avanti paragonando la "sofferenza palestinese" alla Shoah.
  Nelle stesse ore, all'Organizzazione mondiale della Sanità, un'altra agenzia dell'Onu, i peggiori dittatori della terra si riunivano per redigere un rapporto che accusava Israele di violare i diritti sanitari dei palestinesi. C'erano tutti, da Cuba alla Cina, ma anche Siria, Sudan e Zimbabwe. Ma c'era soprattutto il Venezuela, che ha condannato Israele per "i gravi problemi causati dall'accesso all'acqua, dalla crisi economica e dalla disoccupazione che rendono difficili le situazioni sanitarie nel territorio palestinese occupato e nel Golan siriano" (dove Israele cura pure i ribelli islamisti). "Nel mondo reale, la Siria sgancia bombe sui suoi ospedali; all'Onu, la Siria sponsorizza risoluzioni contro Israele", ha detto il direttore di UN Watch, Hillel Neuer. L'agenzia dell'Onu per la sanità ha consentito che Israele venisse condannato da un paese, il Venezuela, in cui la malaria è di nuovo emergenza nazionale, i malati di mente sono abbandonati per strada e i bambini stanno morendo a un ritmo superiore che in Siria. Già, la Siria. Sempre buona, specie per incolpare Israele. Così Pierre Krähenbühl, il capo dell'agenzia dell'Onu per i palestinesi, la Unrwa, ha diffuso una campagna di raccolta fondi usando l'immagine di una bimba fra le macerie. Peccato che la foto non sia stata scattata a Gaza, ma a Damasco. Poche ore dopo, a completare il ciclo dell'ipocrisia umanitarista, venivano scoperti due tunnel, usati da Hamas per infiltrarsi in Israele, che partivano da due scuole delle Nazioni Unite.
  Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha colto l'occasione per chiedere la chiusura dell'Unrwa. Si liberebbero risorse spese per perpetuare all'infinito lo status di profughi dei palestinesi e che potrebbero essere impiegate per aiutare profughi ben più recenti, molti dei quali musulmani vittime di islamisti in Siria, Iraq, Afghanistan, Somalia, Sudan e Nigeria. Ma c'è da dubitare che nel prossimo futuro verranno organizzate nelle città europee delle "Settimane contro l'Apartheid ad Aleppo".

(Il Foglio, 13 giugno 2017)


Nyt: "Hacker Israeliani violano cellula dell'Isis: esplosivi come batterie laptop"

Le informazioni hanno indotto gli Usa a vietare i laptop sui voli dal Medio Oriente.

di Milena Castigli

Le informazioni che hanno indotto gli Usa a vietare i laptop sui voli dal Medio Oriente arrivavano da hacker dei servizi di sicurezza israeliani. Lo rivela il The New York Times (Nyt) specificando come gli esperti di sicurezza informatica fossero riusciti a penetrare in una piccola cellula di artificieri dell'Isis.

 La pista israeliana
  Il quotidiano statunitense era stato il primo a "fiutare" che la fonte di intelligence fosse israeliana già lo scorso marzo. Questa volta ha però aggiunto ulteriori indizi che potrebbero mettere in difficoltà il presidente Usa Donald Trump e i rapporti degli States con l'alleato in Medio Oriente.
  Secondo il Nyt, "Cyber operatori israeliani di alto livello sono penetrati in una piccola cellula" di artificieri dell'Isis in Siria ed è grazie a loro che gli Usa hanno saputo che il Califfato stava lavorando su esplosivi "che somigliavano a delle batterie di laptop. L'informazione era così precisa che gli Usa hanno potuto capire come funzionava l'innesco", scrive il Nyt, citando due alti dirigenti dell'amministrazione Usa.

 Le informazioni alla Russia
  Questa circostanza "faceva parte dell'informazione classificata che il presidente Donald Trump è accusato di aver rivelato" al ministro degli esteri russo Serghiei Lavrov e all'ambasciatore di Mosca Serghiei Kisliav nello studio Ovale.
  In quella occasione, Trump aveva assicurato di non aver mai menzionato la fonte dell'informazione e rivendicato al contempo il suo "diritto assoluto" di passare al Cremlino informazioni utili a combattere il terrorismo.
  "Come presidente - aveva twittato - volevo condividere con la Russia (in un incontro alla Casa Bianca programmato pubblicamente), cosa che ho il diritto assoluto di fare, fatti relativi al terrorismo e alla sicurezza del volo aereo. Ragioni umanitarie, inoltre voglio che la Russia rafforzi notevolmente la sua lotta contro l'Isis e il terrorismo". "Fatti", spiega il Messaggero, tirati in ballo senza mai confermare che si trattava di una notizia classificata fornita da un governo alleato. Dal canto suo, Israele non ha gradito le esternazioni anche per il timore di compromettere i propri agenti e le loro eventuali talpe nel Califfato

 Divieto esteso a 71 scali?
  Anche Gran Bretagna e Canada hanno adottato le stesse misure di Washington: ad oggi, gli Usa hanno imposto il divieto dei laptop sui voli da otto Paesi islamici dell'Africa settentrionale e del Medio Oriente, ma l'amministrazione Trump sta valutando di estenderlo a 71 scali, compresi quelli europei.

(In Terris, 13 giugno 2017)


L'ambiguità di Balfour

Nel 1917 Londra avallò i disegni sionisti anche in base a pregiudizi antisemiti.

di Paolo Mieli

James Arthur Balfour
Singolare accoppiata di ricorrenze per la storia di Israele. Quest'anno non cadono solo i cinquant'anni dalla guerra dei Sei giorni (giugno 1967), ma anche i cento dalla Dichiarazione Balfour (novembre 1917). In più saranno anche centonovanta anni dal primo viaggio in Palestina di Moses Montefiore (1827) che avrebbe poi fondato un importante quartiere ebraico a Gerusalemme; centoventi anni dal congresso di Basilea (29-31 agosto 1897) che segnò la nascita del sionismo politico di Theodor Herzl e i settanta dalla risoluzione 181 delle Nazioni Unite (1947) che rese possibile la fondazione di uno Stato ebraico in Palestina.
In Storia dei sionismi. Lo Stato degli ebrei da Herzl a oggi, che sta per essere pubblicato da Carocci, Arturo Marzano ricorda che il congresso di Basilea inizialmente avrebbe dovuto tenersi a Monaco ma dovette essere spostato per l'ostilità dei leader della comunità israelitica bavarese che ritenevano inesistente la «questione ebraica» (quantomeno nell'Europa centro occidentale) e non volevano offrire «argomenti» all'antisemitismo tedesco. Furono molte le comunità ebraiche a rifiutare l'invito a Basilea, tra le quali quella britannica. Ma Herzl considerò comunque quella «partenza» felice e iniziò a discutere con tutti gli interlocutori disponibili circa la realizzazione del suo sogno. Con il ministro delle colonie britannico, Joseph Chamberlain, trattò sull'ipotesi di Cipro — scartata dagli inglesi perché per loro troppo importante come base strategica al centro del Mediterraneo — su El Arish (costa mediterranea della penisola del Sinai) e su un'area di circa tredicimila chilometri quadrati in Kenya. Su quest'ultima idea, definita per una bizzarria «proposta ugandese» si giunse quasi ad un accordo. Che Herzl sottopose al sesto congresso sionista (1903, ancora una volta a Basilea) non riuscendo però a persuadere la delegazione russa. Ma Herzl non si diede per vinto e riuscì a convincere il 62,4 per cento dei delegati a pronunciarsi positivamente. Era fatta: lo Stato di Israele sarebbe nato — con l'accordo di Londra — in Kenia. Di lì a pochi mesi, però, nel 1904 Herzl, all'età di soli quarantaquattro anni, morì e l'opzione «ugandese» fu rimessa in discussione.
  Nel 1905 al settimo congresso di Basilea i sionisti optarono definitivamente per la Palestina dove non avevano mai smesso di comprare terre. Quasi nessuno si pose in modo approfondito il problema di cosa ne sarebbe stato degli arabi che già abitavano in quella regione. Con l'eccezione di Asher Ginzberg, Hillel Zeitlin, e Yitzhak Epstein il quale nel 1907 diede alle stampe l'articolo Una questione nascosta, in cui scrisse: «Abbiamo dimenticato un piccolo particolare, nel nostro amato Paese c'è un'intera nazione che lì ha vissuto per secoli e mai s'è sognata di abbandonarlo… Stiamo commettendo un enorme sbaglio psicologico nei confronti di un popolo grande, determinato e possessivo». Lo scalpore provocato dallo scritto di Epstein fu notevole, ma l'acquisto di terre palestinesi da parte dei sionisti proseguì. Anzi, si incrementò.
  Centoventi anni fa, un mese prima che a Basilea nascesse il sionismo politico, a Vilnius era stata creata la Lega generale dei lavoratori ebrei di Lituania, Russia, Polonia, nota come Bund. Attenta è l'analisi di Marzano dell'antisionismo del Bund, il cui slogan era «nazione senza Stato». Il Bund si batteva per un'autonomia culturale che gli ebrei avrebbero dovuto realizzare nei Paesi in cui vivevano mettendo l'accento su un'identità che si sarebbe espressa facendo leva sulla loro lingua, lo yiddish. Altra forte opposizione al sionismo fu quella dell'ebraismo ortodosso: i loro rabbini, scrive Marzano, sostenevano che poiché la diaspora rappresentava la punizione di Dio per i peccati del popolo ebraico, soltanto Dio avrebbe potuto porvi rimedio permettendo il ritorno a Sion. Gli ortodossi diedero vita ad un'organizzazione, Agudat Yisrael, presente in moltissime comunità con l'obiettivo di «condurre una ferma lotta contro il sionismo» con «espulsioni dalle sinagoghe, denunce alle autorità, ostracismo».
  Nel frattempo la guida del movimento sionista da Herzl era passata dapprima a David Wolffsohn, poi a Otto Warburg. La loro sede principale era stata trasferita da Vienna a Colonia e successivamente a Berlino. Ma, osserva Marzano, «se la sede si spostava all'interno della Germania, dimostrando come la nomenclatura sionista fosse vincolata a tale Paese, le nuove leve dell'Organizzazione si trovavano in Gran Bretagna; qui infatti si era stabilito Chaim Weizmann, presto raggiunto da Nahum Sokolow». E fu Weizmann che, a Londra, portò a termine l'impresa. Lord Arthur James Balfour aveva già incontrato Weizmann, nel 1906. Balfour, che nel 1906 era premier britannico, chiese a Weizmann perché mai gli ebrei avessero rifiutato la «proposta ugandese». Weizmann rispose che qualsiasi «deviazione dalla Palestina sarebbe stata una forma di idolatria» e aggiunse: «Se Mosè avesse preso parte al sesto congresso sionista che decise di adottare la risoluzione a favore dell'Uganda, avrebbe certamente rotto le Tavole della Legge una seconda volta». Poi domandò al primo ministro: «Supponga che io le offrissi Parigi al posto di Londra, lei accetterebbe?». «Ma dottor Weizmann», fu la risposta, «noi abbiamo già Londra». Al che quest'ultimo puntualizzò: «È vero … Ma quando noi avevamo Gerusalemme, Londra era una palude».
 
Donne sioniste impegnate nel lavoro dei campi in un kibbutz
  Trascorsero undici anni e Balfour, stavolta nei panni di ministro degli Esteri in piena Prima guerra mondiale, riprese la discussione con un altro rappresentante del mondo ebraico, Lord Lionel Walter Rothschild, presidente della Federazione sionistica britannica. Era dal 1845 che Edward L. Mitford, un capo dell'amministrazione coloniale inglese, aveva proposto il «ristabilimento della nazione ebraica in Palestina come Stato protetto sotto la guardia della Gran Bretagna». Più che gli ebrei a Mitford interessava il controllo delle vie di comunicazione e di quelle commerciali. Così come al colonnello George Gawler, governatore dell'Australia.
  Nel 1853, il colonnello Charles Henry Churchill, console britannico a Damasco, sottolineò «l'importanza per la strategia britannica del Mediterraneo Orientale e l'utilità di un'alleanza con gli ebrei». Churchill sostenne che la Palestina avrebbe dovuto essere «o inglese o uno Stato indipendente in mano agli ebrei». Solo così gli interessi britannici avrebbero potuto essere tutelati al meglio. Churchill, mette in rilievo Marzano, «fu dunque in qualche modo il primo a teorizzare la nascita di uno Stato ebraico, anticipando di quasi cinquant'anni il sionismo politico».
  L'apertura, nel 1869, del canale di Suez (alla cui realizzazione Londra si era opposta) rese ancor più rilevanti per la Gran Bretagna l'Egitto — che lo era già — e la Palestina, fino a quel momento relativamente trascurata. Nel 1876 la gestione egiziana del canale andò in bancarotta e fu la Banca Rothschild a prestare al governo inglese (guidato da Benjamin Disraeli, un ebreo sefardita convertito al cristianesimo) i soldi — quattro milioni di sterline, una cifra enorme — per acquistare il 44 per cento delle azioni della Compagnia del Canale. Ed ecco che nel 1917 un importante membro di quella stessa famiglia Rothschild torna a sedersi al cospetto di un rappresentante del governo inglese.
  La discussione nel 1917 fu lunga e complicata. Ma fruttuosa E si concluse il 2 novembre, allorché Balfour rilasciò a Rothschild una dichiarazione che impegnava Londra nella realizzazione del sogno sionista. La formula usata in questa dichiarazione fu quella dell'auspicio della «creazione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico». I sionisti avrebbero preferito il termine «ricostruzione» (al posto di «creazione»). E avrebbero voluto che si dicesse «del focolare nazionale» e non «di un focolare nazionale». Ma gli inglesi — che ritenevano di aver concesso fin troppo — furono irremovibili.
  Gli arabi nel testo della Dichiarazione non venivano nominati (pur rappresentando all'epoca, fa notare Marzano, il 92per cento della popolazione locale). Furono soltanto ritenuti titolari di diritti «civili» e «religiosi», ma non «nazionali» come invece era per gli ebrei. Sicché il Mandato britannico sulla Palestina — approvato dal Consiglio della Società delle Nazioni il 24 luglio 1922 — incorporando la dichiarazione Balfour, nei fatti fu impegnato a sostenere la costruzione di una sede nazionale per la minoranza ebraica in Palestina, anche se nella doverosa difesa dei diritti della maggioranza araba. Tra le ipotesi su quale fosse il reale obiettivo della dichiarazione, Marzano cita quella di spingere la comunità sionista russa a mobilitarsi per evitare che il loro Paese si ritirasse dalla guerra; quella per cui Londra mirava a ottenere l'appoggio della comunità ebraica statunitense cosicché gli Usa partecipassero al conflitto con maggior decisione; quella per cui il governo inglese avrebbe anticipato quello tedesco il quale avrebbe potuto, con un impegno analogo, attirare le simpatie del movimento sionista e ricevere dalla propria comunità israelitica un appoggio per la prosecuzione dell'impegno bellico.
  Va osservato che le motivazioni ufficiali circa l'opportunità di sottoscrivere un tale impegno contenevano considerazioni che oggi saremmo portati a considerare politicamente scorrette. Lloyd George disse che riteneva opportuno «stipulare un contratto» con gli ebrei per via della loro «vasta influenza». Il diplomatico inglese Mark Sykes, che assieme al suo omologo francese Georges Picot già nel 1916 aveva firmato l'accordo segreto che conteneva la mappa dei futuri Stati mediorientali, sosteneva in pubblico che, se «l'ebraismo influente» si fosse schierato contro l'Inghilterra, non ci sarebbe stata alcuna possibilità di vincere il conflitto. Secondo lo storico Eugene Rogan la Dichiarazione Balfour fu il prodotto di «considerazioni di un tempo di guerra» infarcite di una certa dose di inconsapevole antisemitismo. A cominciare dall'idea che i sionisti parlassero per conto della «potenza politica ed economica di una diaspora ebraica compatta».
  In ogni caso il cognome Balfour da quel momento è tornato assai spesso sui media. Recentemente, in una lettera al «New York Times» il conte Roderick Balfour, erede diretto del ministro che nel 1917 firmò la Dichiarazione, ha acceso una polemica sostenendo che «la crescente incapacità d'Israele di affrontare la condizione dei palestinesi, nonché l'espansione degli insediamenti ebraici in territorio arabo sono i principali fattori di crescita dell'antisemitismo in tutto il mondo». Proprio così: «in tutto il mondo». Gli ha risposto il celeberrimo avvocato liberal Alan Dershowitz, dicendosi convinto che «chi odia gli ebrei "in tutto il mondo" perché non condivide la politica di Israele, sarebbe pronto a odiare gli ebrei comunque, in base a ogni altro possibile pretesto». Dershowitz si è poi domandato perché non ci sia mai stata un'esplosione di sentimenti anticinesi «in tutto il mondo» a causa dell'occupazione cinese del Tibet. «Se gli ebrei sono l'unico gruppo che soffre a causa delle controversie politiche di un governo, quello israeliano», è stata la sua conclusione, «la responsabilità ricade tutta sugli antisemiti e non sullo Stato nazionale del popolo ebraico». Ed è anche questa una parte della lunga eredità di Balfour.

(Corriere della Sera, 13 giugno 2017)


Ebrea defenestrata da un islamico a Parigi, "si dica la verità"

Appello su "Le Figaro" di 17 intellettuali francesi, tra cui Finkielkraut, Onfray e Badinter, sul caso di Sarah Halimi, uccisa lo scorso aprile.

Sarah Halimi
PARIGI - Ora intorno al caso di Sarah Halimi si muovono intellettuali del calibro di Alain Finkielkraut, Michel Onfray, Jacques Julliard, Élisabeth Badinter e altri tredici nomi della cultura francese, tutti firmatari su "Le Figaro" di un appello affinché le autorità "dicano il vero", o quantomeno facciano definitiva chiarezza, sull'assassinio di Sarah, commesso a Parigi nella notte tra il 3 e il 4 aprile scorso. Un fatto di sangue che è ancora rovente per diversi aspetti.
   Sarah Halimi aveva 65 anni ed era di religione ebraica. Dottoressa in pensione, madre di tre figli, abitava in rue de Vaucouleurs, nel quartiere di Belleville, undicesimo arrondissement. Quella notte di primavera, verso le cinque, scoppiò un violento litigio in casa del suo vicino K.T., 27.enne di origini africane, musulmano, già conosciuto come "delinquente plurimo" dalle forze dell'ordine. Secondo la ricostruzione di quelle ore convulse, i vicini riuscirono a chiudere l'uomo - in piena escandescenza - in una stanza dell'edificio, ma lui scavalcò il balcone al terzo piano e si introdusse nell'appartamento di Sarah. Scoppiò un altro diverbio, sul posto giunse la Polizia, vennero chiamati rinforzi per far fronte al giovane che urlava frasi in arabo e che gli agenti temevano fosse un terrorista. Ma prima ancora dell'arrivo delle pattuglie di supporto, K.T. aveva già accoltellato Sarah e al grido di "Allah Akbar" l'aveva gettata dalla finestra ancora viva, sebbene la donna avesse più volte implorato pietà. K.T. è stato poi arrestato.
   Sia sui media francesi sia su quelli internazionali se n'è parlato pochissimo.
   Il venerdì immediatamente successivo il procuratore della Repubblica François Molins ricevette, dietro loro richiesta, diversi rappresentanti della comunità ebraica: il gran rabbino Haim Korsia, il presidente del Concistoro Joel Mergui, il presidente del Fondo sociale ebraico Ariel Goldman e il direttore del Crif (l'organizzazione ombrello delle istituzioni ebraiche francesi) Robert Ejnès. Dopo l'incontro, questi pubblicarono un comunicato stampa in cui si leggeva che "secondo i primi elementi dell'inchiesta e sulla base delle prime testimonianze, niente permette di definire il carattere antisemita del gesto e niente permette di escluderlo". Venne poi organizzata una "marcia bianca" che ebbe luogo il 9 aprile davanti alla casa di Sarah: in circa mille persone, molti ebrei, cantarono "La marsigliese"; si recitò un kaddish; era presente anche lo storico Georges Bensoussan. In seguito, la vicenda passò sotto uno strano silenzio che è andato avanti fino a pochi giorni fa.
   Eppure per il figlio di Sarah, fin dall'inizio, non vi sono stati dubbi: "Mia madre è morta perché ebrea. Si deve fare conoscere la verità". L'assassino, di fatto, era conosciuto nel palazzo, insieme alla sua famiglia, per un protervo antisemitismo.
   Paiono pensarla così pure i diciassette intellettuali firmatari dell'appello su "Le Figaro": "La donna di 65 anni - scrivono - pensionata e madre di tre figli è stata torturata e uccisa in piena campagna elettorale. Colpevole solo di essere ebrea è stata defenestrata al grido di Allah Akhbar".
   Stessa posizione è stata espressa dalla filosofa Alexandra Laignel Lavastine in una lettera al ministro dell'Interno Gerard Collomb, pubblicata sempre nei giorni scorsi dal "Times of Israel": "Qui in Francia viviamo in un clima di estrema decadenza con comici come Dieudonné che ha paragonato gli ebrei ai cani, facendo ridere il pubblico. La violenza viene dall'Islam e si è trasformata in giudeo-fobia con una situazione paradossale sottolineata anche dall'avvocato della famiglia Halimi: se l'assassino di Sarah fosse stato biondo con gli occhi azzurri, tutti sarebbero scesi in piazza, diversamente da quanto sta avvenendo in un silenzio imbarazzante, visto che è di origine islamica. L'assassino è stato arrestato mentre recitava le sure del Corano e chiamando la vittima "Satana" mentre Sarah giaceva inerte sull'asfalto".
   Nel difficile clima francese degli ultimi anni il caso di Sarah - giuridico, politico, civile e mediatico - è ancora del tutto aperto.

(Corriere del Ticino, 12 giugno 2017)


Il Ministro israeliano Steinitz: ora siamo protagonisti nel settore del gas naturale

 
Il Ministro israeliano Yuval Steinitz
GERUSALEMME - Israele è diventato finalmente un importante attore nel settore gasiero e il progetto del gasdotto East-Med (che dovrebbe collegare i giacimenti offshore israeliani e ciprioti con Italia e Grecia) contribuirà sia allo sviluppo energetico del paese e della regione che alla riduzione dell'inquinamento. Lo afferma il ministro dell'Energia e delle Risorse idriche israeliano, Yuval Steinitz, nel corso di un incontro con i giornalisti italiani, avvenuto oggi a Gerusalemme, presso la sede del dicastero. Il ministro si dice convinto che le recenti scoperte di gas naturale nel Mediterraneo contribuiranno a rafforzare la posizione di Israele anche attraverso la cooperazione con gli altri paesi interessati, in particolare l'Italia. Steinitz rimarca come le risorse attuali israeliane, derivanti dal giacimento Leviathan, siano pari a circa 350 miliardi di metri cubi e che quindi Israele sta discutendo su più tavoli per lo sviluppo di gasdotti per l'esportazione di gas. "Abbiamo raggiunto un accordo per l'export verso la Giordania, stiamo valutando eventuali progetti verso la Turchia e l'Egitto, nonostante la scoperta da parte di quest'ultimo (paese) del giacimento di Zohr. Ma in assoluto il progetto più ambizioso resta l'East-Med", dichiara il ministro.
  Steinitz sottolinea che il gasdotto East-Med sarà lungo circa 2.200 chilometri e profondo 3,5 chilometri e porterà il gas israeliano verso Cipro e poi in Grecia e Italia. Per quanto riguarda i costi stimati per il progetto saranno di circa 6-7 miliardi di dollari, anche se secondo Steinitz il prezzo finale arriverà a circa 10 miliardi. Il ministro rimarca poi come Israele e Cipro possano assumere un ruolo di primo piano nel settore energetico, considerando che il gasdotto East-Med passerà in un'area molto più sicura rispetto, per esempio, alle infrastrutture che attraversano le acque libiche. Steinitz afferma inoltre che, per differenziare i progetti, sarebbe meglio costruire diversi gasdotti: "Oltre a quello che porterà gas naturale in Italia, stiamo discutendo con la Turchia per esportare gas anche in quella direzione". L'infrastruttura "non passerà attraverso le acque territoriali cipriote, ma soltanto in parti della Zona economica esclusiva di Cipro, quindi non dovrebbero esserci problemi particolari", spiega ancora il ministro.
  In merito allo sviluppo dell'East-Med, Steinitz rimarca come l'Italia, partner storico e affidabile di Israele, "potrà giocare un ruolo prioritario, contribuendo a rafforzare le già ottime relazioni bilaterali e commerciali". Il ministro israeliano afferma, inoltre, che il gasdotto East-Med, oltre a garantire una fonte di gas sicura e stabile, contribuisce anche a ridurre l'inquinamento atmosferico. "Il progetto ha una duplice importanza: aumenta l'export di gas naturale e promuove energia pulita", dichiara Steinitz, che condanna poi la decisione del presidente statunitense Donald Trump di mettere in discussione gli accordi di Parigi sul clima.
  "Noi non condividiamo la decisione. Il nostro obiettivo è lo sviluppo di energie pulite", afferma il ministro commentando la decisione degli Usa. Secondo Steinitz lo sfruttamento di gas naturale è il modo migliore per contribuire a rafforzare l'economia e a ridurre l'inquinamento. Steinitz parla infine dell'importanza delle energie rinnovabili. "In Israele stiamo portando avanti progetti in particolare nel solare. Per ora la priorità resta lo sfruttamento del gas naturale, poi ci concentreremo sullo sviluppo delle rinnovabili", aggiunge il ministro israeliano, secondo cui un ruolo importante sarà giocato dalle start-up. "Ci sono gruppi che stanno già lavorando in questo senso attraverso lo studio di progetti per migliorare il settore", afferma Steinitz, che sottolinea la grande potenzialità delle start-up israeliane, con Israele che rappresenta uno dei primi paesi al mondo per innovazione e sviluppo.

(Agenzia Nova, 12 giugno 2017)


Gli ebrei di confine di Alessandro Piperno

Nel panorama degli emergenti scrittori italiani, un posto di rilievo va senza dubbio ad Alessandro Piperno, Premio Viareggio prima e Strega poi, attualmente docente di letteratura francese a Tor Vergata. Perché pubblicare un articolo a lui dedicato su Hatikwà? Perché Piperno non ha di ebraico solo il cognome, ma ha costruito la sua carriera intorno a una sorta di mito ebraico, sempre ricorrente nei suoi romanzi; ma più che di ebraismo, racconta di ebrei, romani di origine ma cittadini del mondo nello svilupparsi della trama, nel flusso della quale sono protagoniste più generazioni. Spregiudicati imprenditori, medici di successo, bocconiani in carriera o sionisti convinti, è ampio lo spettro dei suoi personaggi, che richiamando più realtà provengono però da una matrice comune.
   Non si parla solo di ebrei, anzi, i vari intrecci romantici portano alla nascita dei così detti figli di matrimonio "misto", spesso le voci narranti del romanzo; e se lo straniero interno, come è stato spesso l'ebreo nelle società europee, è quell'individuo che vive in una realtà diversa ma limitrofa alla maggioranza, che dire dei figli dell'incontro? Di chi nasce ai bordi del confine fra comunità e fuori? Lo sguardo disincantato e romanzato allo stesso tempo di Piperno riesce a dipingere la duplice prospettiva del confine. Scava nei mutui stereotipi, dipinge l'ebreo e il non ebreo, le aspettative e le credenze reciproche e l'effetto sugli altri. Uno specchio imparziale, che aiuta a comprendere sia noi sia l'altro. Emblematica la scena in cui il giovane protagonista di "Con le peggiori intenzioni" al funerale del nonno si propone come decimo uomo per la cerimonia rituale e viene respinto in quanto non "alachicamente" ebreo. Con tale gesto è respinto anche il suo orgoglio ebraico, ed emerge alla coscienza la sua maledizione, che è allo stesso tempo la sua benedizione.
   Ebreo fra i gentili e gentile fra gli ebrei. Il prezzo da pagare è un amaro senso di esclusione, ma in cambio, la sottrazione a qualsiasi retorica di parte e un'intellettualmente onesta visione del mondo. Interessante notare il retroscena che accompagna i suoi romanzi: un drastico tracollo finanziario, un amore non ricambiato o uno scandalo che manda in rovina la vita privata e professionale dei protagonisti. E non farò spoiler a possibili interessati: il dramma accompagna il lettore dall'inizio alla fine dei suoi libri, è un sottofondo che a momenti alterni riemerge nello svilupparsi della trama.
   E' questa inarrestabile decadenza, economica e morale, il vero protagonista. I personaggi sono solo le forme che assume. Vittime di un destino inevitabile. Non a caso Piperno è un esperto del decadentismo francese, autore di opere quali "Proust antiebreo" (2000) e "Sulle tracce di Baudelaire e Sartre" (2007); E ritengo sia proprio questa la bellezza estetica dei suoi romanzi: la capacità di trasmettere il dramma del decadentismo francese attraverso i contorni intimi e familiari nei quali gli ebrei italiani si possono in qualche modo riconoscere

(Hatikwà, 12 giugno 2017)


Romania, graffiti anti-semiti su una sinagoga di Cluj

"L'Olocausto non è mai accaduto". La protesta della comunità ebraica

 
CLUJ - Graffiti anti-semiti e una frase che nega l'Olocausto sono stati scoperti sulla facciata della sinagoga romena di Cluj, nota come Tempio memoriale dei deportati, da membri della comunità ebraica che hanno denunciato l'accaduto.
"Si tratta della profanazione di un monumento storico, abbiamo avvisato la polizia, la gendarmeria e il sindaco", ha dichiarato il presidente della comunità ebraica di Cluj, Robert Schwartz. Il graffito rappresenta la stella di Davide cancellata da una croce e un messaggio scritto in inglese "L'Olocausto non è mai accaduto".
La sinagoga è stata creata in ricordo degli oltre 130.000 ebrei della Transilvania del Nord deportati nel campo di concentramento di Auschwitz nel maggio 1944, tra cui circa 17mila provenienti da Cluj e dalle città vicine.

(askanews, 12 giugno 2017)


Il 70% degli italiani che vanno in Israele sono viaggiatori indipendenti

di Dorina Macchi

Israele piace ai viaggiatori indipendenti, abituati a muoversi in libertà e autonomia. E il mercato italiano conferma questo trend. "Il 70% dei viaggiatori italiani che visita Israele è orientato verso un turismo FIT, Fully Independent Traveller - spiega Avital Kotzer Adari, direttore generale per l'Italia dell'ufficio nazionale israeliano del turismo -: un trend facilmente spiegabile vista la moltitudine di esperienze facili da organizzare, i collegamenti ben organizzati all'interno del Paese e la sicurezza della meta. Il mercato italiano è di grande importanza per Israele e l'attrazione che la nostra terra esercita sugli italiani si riconferma forte e in continua crescita".
Basti pensare che ad aprile 2017 i turisti italiani in Israele sono stati 10.200: il +47% in più rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. In totale, il primo quadrimestre del 2017 ha registrato quota 30.700 gli italiani in arrivo in Israele, in crescita del +34% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente.

(Webitmag, 12 giugno 2017)


Scusate se Israele ha vinto nel 1967

Ma l'alternativa era una sola: l'annientamento

Da Yedioth Ahronoth (2/6)

Ero bambino, scolaro alle elementari. Ricordo perfettamente la paura, tanta paura. Non c'erano rifugi nella casa in cui vivevo. Era chiaro che ci sarebbero stati bombardamenti, quindi avevamo scavato delle buche nel cortile. Ogni tanto qualcuno si ricorda delle tonanti minacce di distruzione che giungevano dal Cairo. In realtà, le cose erano molto più gravi. Sia la Lega Araba che i capi di tutti gli stati confinanti annunciavano in modo inequivocabile che il loro piano prevedeva il nostro annientamento. Ripeto: annientamento".
Così scrive Ben Dror-Yemini ricordando la guerra del 1967, di cui si celebra in questi giorni il cinquantesimo anniversario e di cui si discutono ancora le conseguenze, da diverse prospettive.
   "Una cosa, quindi, non si deve mai dimenticare", sottolinea il giornalista: "L'unica alternativa alla vittoria sarebbe stata l'annientamento. Dunque, scusate se abbiamo vinto: giacché un'occupazione senza annientamento è comunque preferibile a un annientamento senza occupazione. Gli stati arabi non avevano mai accettato nemmeno per un attimo l'esistenza dello stato di Israele. Non c'era 'l'occupazione' dal 1949 al 1967, eppure uno stato palestinese non venne istituito: perché i capi del mondo arabo non volevano affatto un altro stato. Volevano Israele. E non nascondevano per nulla le loro intenzioni. Nove giorni prima dello scoppio della guerra, Nasser afferma: 'I popoli arabi vogliono combattere. Il nostro obiettivo principale è la distruzione dello stato di Israele'. Passano due giorni e il presidente iracheno Abdul Rahman Arif si unisce al coro di minacce: 'Questa è la nostra occasione. Il nostro obiettivo è chiaro: spazzare via Israele dalla carta geografica'. Due giorni prima dello scoppio della guerra, il fondatore e capo dell'Olp, Ahmad Shukieri, dichiara: 'Chi sopravvivrà rimarrà in Palestina, ma a mio parere non rimarrà vivo nessuno'. C'è ancora qualcuno che pensa seriamente che si trattasse solo di vuoti proclami? Qualcuno pensa che la loro intenzione fosse quella di instaurare un'occupazione illuminata?"
   I fatti, sottolinea Dror-Yemini nel suo articolo sul quotidiano israeliano. "Questi sono i fatti. Ma coloro che riscrivono la storia stanno prevalendo. Il dibattito politico sul controllo israeliano dei territori ha creato una situazione in cui le opinioni politiche di oggi alterano lo studio dei fatti di allora. Il dibattito politico è certamente legittimo e importante. Ma non si può riscrivere la storia per giustificare le posizioni politiche di oggi. E' vero il contrario: i fatti dovrebbero influenzare le opinioni politiche. E i fatti sono chiari e semplici: i capi degli stati arabi non si accontentarono affatto di vuoti proclami sull'auspicato annientamento di Israele. L'annientamento lo prepararono, diedero ordini operativi e fecero di tutto per scatenarlo".

(Il Foglio, 12 giugno 2017)


Qatar: manifestazione di solidarietà a Gaza per il predicatore di "Al Jazeera" Qaradawi

DOHA - Alcune decine di religiosi islamici palestinesi hanno partecipato ieri ad un'iniziativa di solidarietà nei confronti dello sceicco Yusuf Qaradawi, presidente dell'Unione mondiale degli ulema musulmani e predicatore televisivo di "al Jazeera". I manifestanti hanno condannato la scelta di Arabia Saudita, Emirati, Bahrein e Egitto di inserire il suo nome nella lista dei terroristi. La manifestazione che si è tenuta ieri a Gaza aveva per titolo: "Qaradawi professore degli ulema'" ed ha visto la partecipazione dei membri palestinesi dell'Unione mondiale degli ulema islamici, legata ai Fratelli musulmani e ad Hamas.

(Agenzia Nova, 12 giugno 2017)


Eurobasket, ecco la lista dei 'magnifici 21' di Israele

Il coach Eldestein ha diramato la lista dei convocati di Israele che sarà avversario dell'Italia a Tel Aviv ai prossimi campionati europei.

di Andrea Indovino

L'allenatore della squadra nazionale israeliana Erez Eldestein ed i suoi assistenti Dan Shamir e Alon Stein hanno selezionato 21 giocatori che prenderanno parte al prossimo campionato europeo di basket, il quale prenderà il via il 31 Agosto, e vedrà la partecipazione di 24 selezioni. E' la 39^ edizione della manifestazione continentale riguardante la palla a spicchi.
Come annunciato dalla federazione di basket israeliana, la squadra, dopo aver preso quindi forma in seguito alle convocazioni, si ritroverà nelle prossime settimane per iniziare la preparazione, e poi sosterrà la prima amichevole contro la Romania a fine luglio, per poi trasferirsi in Russia, esattamente a San Pietroburgo, per giocare contro la Russia e la Finlandia in un torneo già organizzato ed a cui l'Israele è stato gentilmente invitato. La compagine israeliana è inserita nello stesso raggruppamento dell'Italia, quello B, insieme alla Lituania, alla Georgia, all'Ucraina e alla Germania. Le gare si disputeranno proprio in territorio israeliano, ovvero a Tel Aviv, alla Menora Mivtachim Arena.
Elenco completo dei convocati

(Vavel, 12 giugno 2017)




Tel Aviv, in duecentomila per il Pride

La più grande manifestazione LGBT mai organizzata in medio oriente

Hanno fatto il giro del mondo le immagini di venerdì scorso a Tel Aviv dove duecentomila persone hanno sfilato per l'annuale manifestazione dedicata al mondo LGBTQ. Un appuntamento definito dal Comune della città bianca - che da anni ne è promotore - come il "più grande mai organizzato in Medio Oriente". Il tema della sfilata di quest'anno era la bisessualità.
Come ricorda il Washington Post, nel resto del Medio Oriente, "le relazioni omosessuali e lesbiche sono principalmente un tabù" e in paesi come l'Iran sono punibili con la morte. Il quotidiano americano sottolinea come in Israele "i gay servono apertamente nell'esercito e nella Knesset" e la situazione sia ben lontana da quella dei Paesi vicini.
Secondo un sondaggio dell'organizzazione Hiddush (margine d'errore è del 4,5 per cento), che si occupa di pluralismo religioso, il 79 per cento degli ebrei israeliani sostiene il diritto per le coppie dello stesso sesso di sposarsi. Lo scorso anno il dato si attestava al 76 per cento mentre nel 2009 ad essere favorevoli erano il 53 per cento degli intervistati.

(moked, 11 giugno 2017)


E di tutto questo Israele si vanta. Una grande festa è avvenuta in Israele in questi giorni, come i culti resi in antico a divinità pagane che hanno a che fare col sesso. In tante cose Israele si trova in prima posizione, purtroppo è primo anche in questo. E' un cupo segno profetico. Non sappiamo di quanto, ma si sta avvicinando il tempo dell'«angoscia di Giacobbe», un tempo di giudizio che vedrà Israele in prima posizione. Come in tante altre cose. M.C.
    Non avrai con un uomo relazioni carnali come si hanno con una donna: è cosa abominevole (Levitico 18:22).
    Se uno ha con un uomo relazioni carnali come si hanno con una donna, ambedue hanno commesso cosa abominevole; dovranno esser messi a morte; il loro sangue ricadrà su loro (Levitico 20:13).
    "Per questo Dio li ha abbandonati all'impurità, secondo i desideri dei loro cuori, in modo da disonorare fra di loro i loro corpi; essi, che hanno mutato la verità di Dio in menzogna e hanno adorato e servito la creatura invece del Creatore, che è benedetto in eterno. Amen. Perciò Dio li ha abbandonati a passioni infami: infatti le loro donne hanno cambiato l'uso naturale in quello che è contro natura; similmente anche gli uomini, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono infiammati nella loro libidine gli uni per gli altri commettendo uomini con uomini atti infami, ricevendo in loro stessi la meritata ricompensa del proprio traviamento" (Romani 1:24-27).

Microsoft, acquisti israeliani per la cyber-sicurezza

Redmond acquisisce una società specializzata in automazione per migliorare l'offerta sicurezza ai clienti corporate, un'operazione che riafferma la volontà dell'azienda di investire nel settore.

di Alfonso Maruccia

ROMA - Microsoft ha ufficialmente annunciato l'acquisizione di Hexadite, security enterprise di origine israeliana la cui tecnologia andrà ora a migliorare le soluzioni di sicurezza che Redmond offre alla clientela commerciale che ha adottato il nuovo sistema operativo Windows 10.
Al momento non sono stati resi noti i termini economici dell'acquisizione, anche se nel recente passato le fonti di informazione israeliane avevano parlato di un'operazione dal valore stimato di 100 milioni di dollari. Per una società, è bene sottolinearlo, nata appena tre anni fa.
Hexadite è specializzata in prodotti pensati per automatizzare la risposta delle aziende agli incidenti informatici, un tipo di tecnologia che Microsoft è interessata a implementare prima di tutto nei meccanismi di protezione avanzata di Windows Defender (Windows Defender Advanced Threat Protection o WDATP) disponibili ai clienti commerciali di Windows 10.
WDATP è un sistema utile a identificare, indagare e contrastare incidenti di sicurezza di alto profilo come ransomware o attacchi basati sull'abuso di falle 0-day, un meccanismo che fa dell'automazione uno dei punti di forza e che con l'arrivo di Hexadite potrà contare su nuovi algoritmi di intelligenza artificiale potenzialmente in grado di velocizzare e rendere più efficace il contrasto agli attacchi.
La tecnologia della IA israeliana entrerà ora a far parte del portafoglio dei prodotti di sicurezza a disposizione di Microsoft, ma a Redmond non hanno intenzione di fermarsi qui e progettano di investire più di 1 miliardo di dollari in sicurezza all'anno. La IA è al centro dei pensieri di Microsoft, così come l'acquisizione di start-up promettenti in grado di apportare miglioramenti oggettivi alle soluzioni della corporation.

(Punto Informatico, 9 giugno 2017)


Ricco palestinese dona denaro all'ospedale di Haifa

HAIFA - Un importante e ricco uomo palestinese membro di rilievo della Autorità Nazionale Palestinese, il cui nome non è stato però reso noto, ha donato migliaia di shekels al Rambam Hospital di Haifa dopo aver scoperto come in Israele vengono curati i malati palestinesi provenienti dalla Cisgiordania e da Gaza.
«Dopo che mi è stato diagnosticato un cancro sono stato ricoverato presso il Rambam Hospital e li ho visto come bambini, donne e uomini palestinesi sofferenti vengono curati e ne sono rimasto impressionato» ha detto l'alto esponente della ANP a Yedioth Ahronoth. «Bambini palestinesi, israeliani, siriani e di altri paesi ricevono trattamenti altamente professionali per curare malattie gravissime, bambini bisognosi di tutto che qui ricevono le cure di cui hanno bisogno senza distinzione di qualsiasi genere. Sono rimasto profondamente colpito» ha detto ancora il ricco palestinese al quotidiano israeliano «così ho deciso di contribuire sia per ragioni umanitarie che per aiutare questo simbolo di solidarietà che esalta la collaborazione tra israeliani e palestinesi» ha poi concluso l'importante membro della ANP....

(Right Reporters, 12 giugno 2017)


Netanyahu: da Hamas altro crimine di guerra

Dopo la scoperta di un tunnel sotto due scuole Unrwa

Il premier Benyamin Netanyahu ha attaccato Hamas dopo la scoperta - denunciata dall'Unrwa, agenzia dei profughi dell'Onu - di un tunnel sotto due scuole elementari a Gaza. "Negli ultimi giorni - ha detto Netanyahu - è stato scoperto un tunnel di Hamas sotto due scuole di Gaza.
Hamas si serve dei bambini di queste scuole come scudi umani e questo è il nemico che noi combattiamo da molti anni. Un nemico - ha aggiunto - che si macchia di un doppio crimine di guerra: da un lato, attacca intenzionalmente civili innocenti e, dall'altro, si nasconde dietro bambini". Su caso l'ambasciatore israeliano all'Onu Danny Danon ha presentato un atto di accusa al Consiglio di Sicurezza. Netanhyahu ha anche chiesto che l'Unrwa sia "smantellata" e ne ha parlato con l'ambasciatore Usa all'Onu Nikky Haley in visita in Israele.

(ANSA, 11 giugno 2017)


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"Basta prepotenze contro Israele". E spuntano nuovi tunnel di Hamas

È il momento di chiudere l'Unrwa, l'agenzia della Nazioni Unite dedicata alla questioni dei rifugiati palestinesi. È quanto ha chiesto il Primo ministro Benjamin Netanyahu all'ambasciatrice Usa all'Onu Nikki Haley nel corso della recente visita della diplomatica americana in Israele e nei territori palestinesi. "Le ho detto che è il momento di riconsiderare l'esistenza dell'agenzia", ha affermato Netanyahu nel corso della riunione domenicale del suo governo. Una proposta rafforzata dalla recente scoperta di un tunnel - uno di quelli usati dai terroristi di Hamas per attaccare Israele - sotto due sue scuole elementari a Gaza proprio dell'Unrwa. L'agenzia dell'Onu ha denunciato il fatto ma l'esecutivo guidato da Netanyahu ha ribadito la mancanza di fiducia in un ente considerato di parte. Secondo il Premier, l'Unrwa nel corso del tempo ha fatto propaganda contro Israele mentre non ha fatto nulla per migliorare la situazione dei rifugiati palestinesi. "Dalla Seconda guerra mondiale ci sono stati e tutt'ora ci sono milioni di rifugiati che fanno riferimento all'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati mentre solo per i palestinesi è stata creata un'agenzia separata", ha dichiarato Netanyahu, che ha chiesto al direttore del ministero degli Esteri israeliano Yuval Rotem di presentare una denuncia ufficiale al Consiglio delle Nazioni Unite e fatto appello all'ambasciatrice Usa Haley perché questa diversità di gestione finisca. Haley nella sua visita, come già in passato, ha ribadito la sua posizione a favore di Israele sul piano internazionale: "se c'è qualcosa che non sopporto sono i bulli e le Nazioni Unite si sono comportate da bullo contro Israele perché fino ad ora gli è stato permesso", la presa di posizione dell'ambasciatrice che nel suo viaggio in Israele ha visitato anche il confine con la Striscia di Gaza, venendo accompagnata in uno dei tunnel scavati dai terroristi di Hamas per colpire civili e soldati israeliani.

(moked, 11 giugno 2017)


La storia che l'islam dimentica

Grande assente
Quella storia, disgraziatamente, sembra essere ancora oggi la grande assente nell'opinione pubblica islamica
La schiavitù
I negrieri islamici, arabi e berberi praticarono la schiavitù per sei secoli in più rispetto a europei e americani

di Ernesto Galli della Loggia

 
Dietro il terrorismo islamista è facile scorgere un vasto retroterra di opinione pubblica mussulmana - presente anche in Europa - che certamente condanna le imprese dei terroristi ma che oscuramente ne subisce una certa fascinazione perché, magari inconsapevolmente, ne condivide alla fine un sentimento di fondo: cioè una radicata avversione antioccidentale. La quale si alimenta a propria volta di un sentimento diffusissimo in tutto il mondo islamico: il vittimismo. L'idea che mentre quel mondo sarebbe stato oggetto da sempre di gravi soprusi da parte dell'Occidente, il suo passato, invece, sarebbe totalmente privo di macchie. L'atmosfera culturale dominante in Europa e negli Stati Uniti negli ultimi decenni, intrisa di un desiderio di espiazione per i nostri, veri o presunti, peccati storici, ha indubbiamente favorito la diffusione di tale sentimento pronto a volgersi in risentimento.
  Ma tutto questo ha ben poco a che fare con la storia, con la storia reale che si sforza di accertare e di raccontare i fatti per quello che sono effettivamente stati. Quella storia che però, disgraziatamente, sembra essere ancora oggi la grande assente nell'opinione pubblica islamica. Con il risultato che la non conoscenza del passato favorisce ogni mitizzazione, accredita una visione del mondo in bianco e nero, e contribuisce non poco a distorcere gravemente il significato di quanto accade attualmente, producendo per l'appunto vittimismo e pericolosi desideri di rivalsa.
  A fare giustizia di molte leggende storiche su due aspetti centrali del passato islamico sono utilissimi due libri (oltre agli smartphone per fortuna esistono ancora i libri). Il primo, recentissimo, è di Georges Bensoussan, «Les juifs du monde arabe» (Odile Jacob, 2017) dedicato, come dice il titolo, alla vita delle comunità ebraiche nell'islam arabo. Il mito di cui qui si tratta è quello — prediletto in special modo da tutta l'opinione progressista occidentale ma costruito paradossalmente dal sionismo tedesco dell'Ottocento — della presunta felice convivenza che avrebbe caratterizzato in generale l'esistenza degli ebrei in tutto il mondo arabo. Fintanto che — così vuole il mito — a spezzare l'incantesimo e a rendere invivibili per gli ebrei i Paesi islamici sarebbe intervenuta la nascita abusiva dello Stato di Israele. Senza la cui presenza, perciò, l'eden avrebbe potuto tranquillamente continuare a esistere.
  Si dà invece il caso che la realtà, tranne in casi rarissimi, sia stata sempre ben diversa. Le pagine del libro forniscono a questo proposito una vasta documentazione circa il miserabile stato di inferiorità, di forzata ignoranza, in cui per secoli nel mondo islamico gli ebrei furono costretti, in virtù di un pregiudizio religioso antigiudaico ben più vasto e pervasivo di quello diffuso nel mondo cristiano. Per essere tollerati gli ebrei erano costretti, oltre che a pagare una tassa speciale, ad accettare una condizione di paria, ad esempio subendo quotidianamente da parte di chiunque (anche di un bambino islamico incontrato per strada) una serie di angherie, di violenze e di oltraggi mortificanti senza potersi permettere, pena la vita, il minimo gesto di reazione. Si è trattato per secoli dell'applicazione di una vera e propria tecnica di degradazione sociale tendente, suggerisce l'autore, a una sorta di animalizzazione deumanizzante della figura dell'ebreo.
  Le cose mutarono solo con le conquiste coloniali europee e con la presenza mandataria anglo-francese nell'ex impero ottomano dopo il 1918. Gli ebrei allora — grazie anche ai loro legami con i correligionari in Europa — furono pronti a cogliere l'occasione e a iniziare un percorso di emancipazione culturale ed economica nei vari Paesi arabi, che gli attirò tuttavia una ancor più aggressiva ostilità da parte delle élite e delle popolazioni islamiche. Sicché dalla fine dell'Ottocento al 1945 in tutto il Maghreb e il Medio Oriente aggressioni, disordini, autentici pogrom, non si contarono, a stento contenute dalle potenze coloniali, e con l'ovvia appendice di derive filofasciste e filonaziste. Assai spesso, alla sua origine il moderno nazionalismo arabo-islamico si è nutrito profondamente proprio di questo antisemitismo militante mischiato con l'antioccidentalismo. Quando lo Stato d'Israele, si noti bene, era ancora al di là da venire.
  Sempre circa l'immagine idilliaca della civiltà islamica che dalle nostre parti ancora piace a molti costruirsi — con conseguente autoflagellazione della civiltà occidentale — bisognerebbe poi che i nostri manuali scolastici si decidessero per esempio a dire qualcosa a proposito della tratta degli schiavi che i negrieri islamici, arabi e berberi, praticarono dall'ottavo al sedicesimo secolo (dunque per almeno cinque, sei secoli in più rispetto ai negrieri europei e americani — di questi ultimi non pochi armatori ebrei di Charleston e di Newport — delle cui imprese, invece, quei manuali parlano a ragione molto diffusamente). Nell'attesa si può ricorrere alle trecento e passa pagine di uno storico della Sorbona, Jacques Heers («Les négriers en terre d'islam»).
  Coadiuvati anch'essi — come più tardi i trafficanti euro-americani — dall'indispensabile collaborazione dei capi neri degli Stati dell'Africa sub sahariana — sovente veri e propri Stati predatori dei propri stessi abitanti —, i negrieri islamici della penisola arabica e della riva sud del Mediterraneo si diedero per un lunghissimo tempo al commercio quando non all'organizzazione in prima persona di razzie sistematiche, ogni volta di migliaia e migliaia di schiavi, dal Sudan al Senegal, al Mali, al Niger: non mancando d'invocare in molte occasioni il pretesto della conversione e della guerra santa. Fin dall'inizio dell'islam Gedda, Medina, la Mecca, e in seguito Algeri e Tunisi, furono grandi mercati di esseri umani catturati non solo in Africa ma anche per esempio tra i Bulgari e in tutti i Balcani. Alla metà del '500 i «bagni» di Algeri erano affollati pressoché esclusivamente di schiavi cristiani, bambini compresi, cui era spesso riservato il triste destino della castrazione. Mercanti islamici arrivarono a trafficare schiavi neri fino in Cina e in India.
  Come si vede, è abbastanza evidente che se oggi volessimo davvero impegnarci in una battaglia culturale per favorire la nascita di un Islam «moderato», è da qui, da una ricognizione del passato, e quindi da libri di storia come quelli che ho citato, che si dovrebbe cominciare. Dal momento che è solo grazie alla conoscenza dei fatti che si può evitare di credere alle menzogne e di farne lo strumento autoconsolatorio di una propria immaginaria innocenza a confronto della malvagità altrui.

(Corriere della Sera, 11 giugno 2017)


Israele e Palestina per trattative di pace?

Si torna a parlare di un possibile incontro a tre, il prossimo mese a Washington, tra il presidente americano Donald Trump, il premier Benyamin Netanyahu e il presidente palestinese Abu Mazen per rilanciare le trattative di pace. Il ministro della difesa israeliano Avigdor Lieberman ha sottolineato che " negli ultimi sette anni mai come ora si è stati vicini ad un accordo".
   La notizia dell'incontro è stata riferita da Canale 20 della tv ma per ora non è stata confermata dall'ufficio di Netanyahu. A fare da sfondo alla novità c'è anche la dichiarazione di Muhammad Mustafa, alto esponente di Ramallah, secondo il quale i palestinesi sono disponibili a non porre come precondizione del riavvio negoziale il congelamento degli insediamenti ebraici. "Questa volta non abbiamo fatto delle colonie - ha detto alla Bloomberg, ripresa dai media israeliani - il tema in anticipo. Pensiamo che sia meglio per tutti noi dare alla nuova amministrazione (Usa) una possibilità di successo".
   "Non siamo mai stati così vicini ad un accordo", ha detto Lieberman a Canale 2, aggiungendo subito dopo di sperare che Israele "tragga profitti da questa possibilità". Secondo il ministro della difesa la possibilità di un nuovo accordo è dovuta sia a Trump sia al nuovo chiarimento tra gli stati arabi che il problema "non è Israele". "Se arriva qualcuno e mette sul tavolo un accordo con tutte le nazioni arabe moderate che includa l'apertura di ambasciate, di affari commerciali e voli diretti , questo - ha spiegato - guadagnerebbe la maggioranza alla Knesset".
   Di un possibile incontro a tre si era già parlato alla vigilia della visita di Trump nella regione, ma l'appuntamento non fu poi confermato e il presidente Usa ha visto separatamente sia Abu Mazen sia Netanyahu. La disponibilità palestinese a non mettere precondizioni - in questo caso il congelamento delle costruzioni ebraiche in Cisgiordania - alla ripresa del negoziato, potrebbe portare, secondo i media, ad una svolta nello stallo delle trattative.

(TiOggi, 10 giugno 2017)


Elena Loewenthal ai Giardini pubblici di Cagliari

di Manuela Arca

 
Elena Loewenthal
CAGLIARI, 10 giugno - Figlia di genitori sopravvissuti alla Shoah, scrittrice ed esperta di ebraismo, dal 2015 addetta culturale all'ambasciata italiana di Israele, Elena Loewenthal (Torino 1960) è autrice di un pamphlet dal titolo provocatorio: "Contro il giorno della memoria" (Add editore). Ospite del festival Leggendo Metropolitano (stasera, 18.30, ai Giardini pubblici di Cagliari) spiegherà le ragioni di una disapprovazione inattesa e polemica.

- Perché contesta la ricorrenza del 27 gennaio e la modalità con cui viene vissuta in Italia?
  "La Shoah è di tutti fuorché degli ebrei. Loro non vi hanno partecipato, hanno solo messo i morti. La storia dello sterminio è invece europea. La ricorrenza avrebbe senso se i Paesi che sono stati complici o testimoni indifferenti di quanto accaduto (i treni carichi di uomini viaggiavano sulla rete ferroviaria europea e si fermavano nelle sue stazioni), riconoscessero quella pagina della storia come propria. Non invoco il senso di colpa, ma la consapevolezza. Avrebbe senso, per esempio, se gli italiani dichiarassero l'orrore delle leggi razziali. Invece è accaduto che, attraverso un processo progressivo di dismissione la Giornata della memoria si sia trasformata da ricorrenza dell'Europa a ricorrenza in cui l'Europa rende omaggio agli ebrei. Di più: capita che - in coincidenza con l'appuntamento - si registrino sui social montate di antisemitismo".

- Quando ha avvertito il sentimento di rifiuto che è all'origine del pamphlet?
  "Ho inizialmente sostenuto l'istituzione della Giornata della memoria. Ho poi scoperto, di anno in anno, invitata nelle scuole a parlare dell'Olocausto, un senso di disagio profondo. Ho provato a ragionare sulle cause, a interrogarmi. Il libro è la risposta. Una provocazione per aiutare me stessa a capire. Sono figlia di genitori che hanno attraversato la Shoah: mio padre è fuggito sulle montagne e si è fatto partigiano, mia madre è stata nascosta per scampare alla persecuzione, una parte della famiglia è stata deportata. Vivo quotidianamente la memoria dello sterminio. Le menti e i cuori di chi è sopravvissuto, ma anche di chi come me è nato dopo, ne sono stati intaccati in maniera profonda e insanabile. Personalmente mi piacerebbe dimenticare, annegare il ricordo nell'oblio. La Shoah non è parte della mia identità. L'identità ebraica è positiva. E invece l'Olocausto è diventato una tara, un orrore che si dà per ineluttabile".

- Mentre ineluttabile non è.
  "Non doveva accadere e poteva non succedere. Ho scritto un romanzo dieci anni fa. S'intitola "Conta le stelle se puoi". Ricostruisco la storia di una famiglia ebraica piemontese, rimuovendo la Shoah. Faccio morire Mussolini e quindi cancello le leggi razziali. È un atto di giustizia che ho voluto rendere ai miei avi".

- Quando è stata investita della dolorosa memoria familiare?
  "Sono nata negli anni '60. Ho vissuto un'infanzia ovattata e positiva, solare, piena di futuro. Non ricordo se si parlasse, non posso neanche dire ci sia stato un momento folgorante e quando abbia iniziato a indagare su chi fossi. La certezza che ho maturato, io che sono così vicina a quella storia, che non potremo mai capire cosa hanno provato coloro che erano condannati allo sterminio, che non riusciremo mai a porci nei panni di un bambino ebreo. Dobbiamo smettere di illuderci di capire".

- Attribuisce la stessa vacua ritualità ai viaggi nei luoghi dell'orrore?
  "Non so rendere una risposta categorica. Se una gita ad Auschwitz manda il cuore in gola a uno soltanto dei ragazzini della comitiva, serve. La partecipazione emotiva è strumento di comprensione. Non si trascuri o subordini tuttavia, la funzione delle parole della memoria al valore rappresentativo dei luoghi. Ci si misuri con "Se questo è un uomo" di Primo Levi! Si legge poco, invece. E spesso si danno agli studenti surrogati della lettura: la gita, il monumento, il rito, il concerto. L'unico concerto della memoria possibile è quello che si celebra in Israele nel giorno dell'anniversario della rivolta degli ebrei del Ghetto di Varsavia. Il momento culminante sono due minuti filati di sirena. Un'esperienza inenarrabile che trafigge e taglia in due".

(L'Unione Sarda, 10 giugno 2017)


Il BDS in Italia: una minaccia reale o tanto rumore per nulla?

Nel Belpaese è "meno peggio" che nel resto d'Europa, ma l'ostilità antisraeliana si confronta con una placida indifferenza che non aiuta né la difesa di Israele, né la verità della Storia

di Nathan Greppi

La strategia è antica: prima ti demonizzo, poi ti distruggo simbolicamente e infine ti uccido. Come? Con un sistema subdolo e apparentemente innocuo, che oggi mira a indebolire Israele su tutti i fronti - economico, culturale, sociale - isolandolo e depotenziandolo fino a farlo sparire come Stato: questo è il boicottaggio economico messo in atto dal movimento BDS (Boycott, Disinvestment, Sanction) in tutto il mondo, in nome di una pretesa "difesa dei diritti dei palestinesi calpestati dal mostro sionista", ma di fatto nella convinzione che Israele sia una minaccia per la stabilità del Medio Oriente e che non abbia diritto di esistere. L'obiettivo, insomma, è estendere al mondo intero l'ostilità che i Paesi arabi hanno sempre avuto nei confronti dello Stato ebraico.
 
  In Italia, è il 2016 l'anno in cui il BDS inizia a uscire allo scoperto a livello nazionale: ciò in seguito a un appello firmato da 351 professori per sospendere tutte le collaborazioni con il Technion di Haifa, accusato di "collaborare alla ricerca militare e allo sviluppo delle armi usate dall'esercito israeliano contro la popolazione palestinese". Dei 351 firmatari, 50 provengono dall'Università di Torino, 27 dall'Orientale di Napoli, 20 dall'Università di Bologna e 14 dall'Università di Cagliari. Ed è proprio Torino che, da allora, è diventata a tutti gli effetti la capitale italiana del BDS, finendo al centro di numerosi fatti di cronaca. Uno degli ultimi ha visto coinvolta una ricercatrice del dipartimento di economia, Daria Bertazzi, che ha rifiutato un contratto di ricerca in quanto coinvolgeva l'Università di Tel Aviv. Tuttavia, come racconta Ugo Volli, docente di semiologia a Torino, tali eventi raccolgono una percentuale scarsissima di studenti e docenti: «A Torino le mie posizioni sono note, eppure non ho mai avuto problemi personali neanche nel 2008 con la Fiera del Libro, quando io e una mia collega abbiamo volantinato contro il boicottaggio - dichiara al Bollettino - .
  Qui noi ebrei stiamo molto meglio che in Francia o in Scandinavia. A Torino più di metà delle firme contro il Technion sono di pensionati, su un totale di 1500 professori attivi». Anche in questi primi mesi del 2017 non sono mancati gli episodi legati al BDS. A fine febbraio solo la protesta dell'Uceì e della comunità ebraica di Roma ha impedito che un convegno intitolato "Gaza: rompiamo l'assedio" si tenesse in Campidoglio, mentre a metà marzo non è bastata la rabbia della Comunità di Napoli a fermare un'iniziativa del BDS nella sala consiliare.
  Ma facciamo un passo indietro: il BDS è stato fondato a Ramallah il 6 aprile 2004 dal qatariota con cittadinanza palestinese Omar Barghouti. Laureato in filosofia all'Università di Tel Aviv e residente ad Akko con la moglie arabo-israeliana (grazie alla quale ha avuto la cittadinanza israeliana), Barghouti ha sempre accusato Israele di praticare l'apartheid e di violare le leggi internazionali. Un personaggio ambiguo, che di recente è stato arrestato - e poi rilasciato su cauzione - dalla polizia israeliana per avere nascosto al fisco 700.000 dollari guadagnati tra il 2007 e il 2017 con la sua National Computing Resources, società che commercia e affitta bancomat. Dati interessanti sul BDS sono contenuti nella relazione annuale stilata per conto dell'UCEI da Stefano Gatti e Betti Guetta del CDEC: tema, l'antisemitismo in Italia. Ad esempio, si apprende che tra i portavoce globali del movimento vi sono note personalità del mondo dello spettacolo (Ken Loach, Mike Leìgh,
  Roger Waters, Brian Eno, Danny Glover), intellettuali (Alice Walker, Arundathy Roy, Michael Ondaatje, Rashid Khalidi) e alcuni premi Nobel (Desmond Tutu, Rigoberta Menchu, Mairead Corrigan), tutti vicini alla sinistra radicale.
  Negli anni, il movimento "boicottaggio, disinvestimento, sanzioni" ha attuato numerose campagne intimidatorie sfociate talvolta in minacce e vandalismi, per spingere al boicottaggio di associazioni, aziende e singoli individui bollati come "sionisti". A causa di tali eventi, molti studiosi hanno riconosciuto il BDS come portatore di una nuova forma di antisemitismo, specie durante il 5o Global Forum for Combating Antisemitism (svoltosi a Gerusalemme dal 12 al 14 maggio 2015). Per non parlare della Israeli Apartheid Week, la settimana di eventi di boicottaggio e (dis)informazione su Israele e la sua politica con i palestinesi.

 Il BDS qui da noi
  Sino a oggi, nel nostro Paese, il movimento BDS è stato promosso soprattutto da singoli accademici e attivisti (Angelo D'Orsi, Vittorio Agnoletto, Luisa Morgantini, Domenico Losurdo, Gianni Vattimo, Piero Bevilacqua, Piergiorgio Odifreddi), organizzazioni islamiche e antisioniste (Ucoii, ISM, Forum Palestina, Palestina Rossa) e gruppi cattolici come Pax Christi. Tra i partiti politici invece è sostenuto solo da Rifondazione Comunista e da singoli membri del Movimento 5 Stelle e di Sinistra Ecologia Libertà, prima dello scioglimento.
  Tuttavia, mentre nel mondo accademico anglosassone tale movimento gode di un'ampia diffusione, esso non ha, almeno per ora, una presenza veramente significativa in Italia; anzi, secondo numerose testimonianze, molte delle nostre università stanno andando nella direzione opposta. «L'Ateneo di Trento non sostiene il BDS, anzi è nel trend opposto - racconta Massimo Giuliani, che vi insegna Pensiero Ebraico dal 2002, e che in questi anni non ha mai visto manifestazioni anti-israeliane nel suo ateneo-. La Facoltà di Giurisprudenza accoglie spesso professori israeliani; inoltre, in autunno abbiamo presentato il Progetto Talmud assieme a rav Gianfranco Di Segni e l'aula era piena». Ugualmente ottimista è Alberto Cavaglion dell'Università di Firenze, il quale afferma che, a parte una tensione latente nei dipartimenti di Orientalistica, non vi è una minaccia seria: «Il baricentro della situazione non è più Gaza, oggi sono la Siria e i migranti».
  «Nelle tre università romane non c'è spazio per il BDS - afferma Myriam Silvera, che insegna Storia degli Ebrei alla Sapienza -, A Roma 2 esiste il Centro Romano per gli Studi sull'Ebraismo, a Roma 3 il Master per la Didattica della Shoah. La Sapienza con il suo rettore ha più volte manifestato interesse per gli ebrei e Israele». Del resto, proprio il rettore di Tor Vergata, Giuseppe Novelli, in quanto genetista ha collaborato all'identificazione delle vittime delle Fosse Ardeatine e ha spesso invitato medici e accademici israeliani. Nel mondo dello spettacolo italiano la situazione è ancora più favorevole: le pressioni del movimento su musicisti italiani ad esempio il trombettista Paolo Fresu, che ha partecipato all'Israel Festival di Gerusalemme nel maggio 2014, ed Eros Ramazzotti che si è esibito in Israele nell'aprile 2016 -, non hanno mai attecchito.
  Un altro caso legato al mondo della musica italiana riguarda il rapper Fedez, che nel maggio 2016 venne contestato per essere stato protagonista, assieme a J-Ax, di un evento organizzato dall'azienda informatica HP, accusata da alcuni attivisti di "fornire la tecnologia per l'occupazione israeliana".
  Detto ciò, in questi anni non sono però mancati anche nel nostro Paese episodi di boicottaggio di Israele fuori dal mondo accademico e legati al BDS. Il primo risale al 2008, quando la Fiera del Libro di Torino scelse di avere come ospiti d'onore alcuni scrittori israeliani per i sessant'anni dalla nascita dello Stato ebraico. Tra gli intellettuali che osteggiarono l'evento vi furono i già citati D'Orsi e Vattimo - che dichiarò provocatoriamente di aver rivalutato i Protocolli dei Savi di Sion -, oltre al controverso filosofo svizzero Tariq Ramadan. Alla fine, però, il boicottaggio è caduto nel vuoto. «Il vero ospite d'onore è dunque la libera cultura d'Israele, perché sulla cultura, e non su altro, si misura l'onore di un Paese. [ ... ] - scrissero Ernesto Ferrero e Rolando Picchioni, Direttore e Presidente della Fiera del libro, in una Lettera aperta a Tariq Ramadan-. Ci sfugge il nesso tra politica e cultura, quando è così rozzamente delineato. Le ragioni della letteratura e quelle della politica sono sempre state profondamente diverse e spesso radicalmente opposte». Tra coloro che invece si opposero ai boicottaggi vi furono l'allora sindaco di Torino, Piero Fassino, e il co-fondatore della Fiera, Angelo Pezzana. Ed è proprio Pezzana che, nove anni dopo, circa la situazione italiana rispetto ad altri Paesi dice che «non è più positiva, ma è soltanto meno negativa. E anche se in Italia il BDS ha molti meno sostenitori che all'estero, qui chi è contro Israele non trova un'opposizione da parte di altri. Il risultato? Una maggioranza silenziosa indifferente, come avvenne anche nel caso dei paesi astenutisi per le mozioni dell'UNESCO».

 Le contestazioni a Milano
  Neanche Milano si è rivelata immune a questa ondata di fango: nel 2011, quando venne allestito il padiglione Unexpected Israel in Piazza Duomo, un gruppo di agitatori minacciò di impedire l'evento, anche a costo di "mettere a fuoco la città". Fortunatamente, tali minacce si rivelarono un bluff. Mentre durante una conferenza con lo scrittore David Grossman tenutasi al Teatro Elfo Puccini l'anno seguente, un gruppo di manifestanti anti- israeliani salì sul palco definendo gli ebrei "assassini" e "nazisti".
  Dal luglio 2014, però, anno dell'Operazione Margine Protettivo a Gaza, le attività del BDS sono aumentate in modo considerevole. Nello stesso periodo a Torino vennero promosse nuove manifestazioni palesemente antisemite, con l'apposizione di volantini davanti ai negozi gestiti da membri della Comunità ebraica locale. Nel 2015, invece, il leader ufficiale del BDS Omar Barghouti è stato invitato a parlare all'Università Roma
  Tre, all'Università di Torino e all'Università di Bologna, con il sostegno di numerose associazioni studentesche e sezioni del BDS locali. Un anno dopo, ha rilasciato un'intervista a Il Fatto Quotidiano dove ha continuato a dipingere Israele come un paese razzista; fortunatamente, per lo stesso articolo venne intervistato anche il filosofo Giulio Giorello, che al contrario ha duramente criticato l'idea di isolare le università israeliane.
  Forse a chi sostiene il BDS non è chiaro che il boicottaggio colpisce prima di tutto i palestinesi, allontanando la possibilità di uno Stato. Ma, soprattutto, come sostiene anche l'ex rabbino capo del Commonwealth, Rav Jonathan Sacks, in un bellissimo video sul pericolo BDS (Youtube) - "un movimento che si batte per i diritti di una parte negandoli a un'altra, opposta, è destinato a fallire".

(Bollettino della Comunità Ebraica di Milano, maggio 2017)


Media arabi: Hamas uccide la gente di Gaza lentamente

Non si era mai visto sui media arabi un attacco così diretto ad Hamas accusato di essere peggio di ISIS che almeno «uccide la gente velocemente» mentre i terroristi palestinesi «uccidono la gente di Gaza lentamente».
A far partire la durissima critica ad Hamas è stato il giornale saudita Okaz, poi ripreso da molti media arabi, il quale ieri ha scritto che «le azioni di Hamas sono un tradimento verso i palestinesi» evidenziando come Hamas invece di pensare al bene della gente di Gaza, ormai ridotta allo stremo, abbia speso 120 milioni di dollari per costruire i tunnel del terrore. «Mentre ISIS uccide la gente velocemente Hamas la uccide lentamente» scrive il giornale saudita....

(Right Reporters, 10 giugno 2017)


Roma - Il quartiere africano culla degli ebrei sfuggiti dalla guerra dei sei giorni

ROMA - Tra il bus 80 che sfreccia per le popolose strade del quartiere e il traffico frenetico della Capitale che si concentra nelle ore di punta tra Viale Libia e Viale Etiopia a Roma la storia perde sempre più la propria importanza restando adombrata dalla polvere dello smog e non consentendo ai cittadini di conoscere le origini del quartiere in cui sono nati e in cui hanno stabilito le proprie attività commerciali. Roma, si sa, è una città ricca di culture, strabordante di storie, molte sono le comunità che vi vivono e che convivono da secoli, una di queste è la comunità ebraica presente in tutte le zone dell'Urbe.
   Gli ebrei sono presenti a Roma da più di duemila anni e le prime testimonianze risalgono addirittura al II secolo avanti l'Era Volgare. Nel mosaico storico di migrazioni capitoline, particolare menzione merita il quartiere africano romano, al nord del centro, il quale cinquanta anni fa con lo scoppio della guerra dei sei giorni, 5 giugno del 1967, fu scelto come meta ideale da tutti gli ebrei di Libia costretti a fuggire dalla furia del conflitto.
   Già nel giugno del 1967 piazza Bologna, incastonata nel Quartiere Africano e oggi epicentro della vita studentesca e universitaria romana, era affollatissima. Tutti gli ebrei che arrivavano in città lì trovavano un familiare, un contatto, un indirizzo, un'ancora di salvezza per una nuova vita. Atterrati da Tripoli, i profughi ebrei libici scappati dal nemico arabo e nuovamente in fuga a seguito delle persecuzioni e delle violenze antisemite degli anni '30 e '40 del secolo, arrivarono in seimila. Molti di loro si servirono di Roma per riprendere il viaggio verso Israele, gli altri, circa tremila, si stabilirono nella Città Eterna allargando le proprie famiglie e conservando le tradizioni ebraiche fino ad oggi.
   Subito nel quartiere, diventato polo ebraico romano assieme all'area del Vecchio Ghetto tristemente segnata dal rastrellamento dell'ottobre 1943, nacquero quattro sinagoghe di rito tripolino, e pian piano brulicarono ristoranti caratteristici, negozi, macellerie kasher, che ancora oggi vivono in armonia. La prima sinagoga di rito tripolino fu allestita all'indomani dell'arrivo in via Garfagnana. Anche una vecchia sala cinematografica dismessa fu trasformata nella sinagoga Beth El, che adesso ospita fino a settecento fedeli a funzione.

(Il Faro di Roma, 9 giugno 2017)


Tunnel sotto le scuole elementari, scontro fra Onu e Hamas a Gaza

Un tunnel al confine tra la striscia di Gaza e Israele


di Giordano Stabile

L'agenzia Onu per i rifugiati (UNRWA) ha scoperto un tunnel di Hamas sotto un complesso scolastico. La galleria, a tre metri di profondità, passava sotto la scuola elementare maschile di Maghazi, alla periferia della cittadina di Deir al-Balah, e la collegava alla scuola media. Poi proseguiva in due direzioni, verso il vicino campo rifugiati e verso la barriera di sicurezza fra Israele e Gaza.

 Forte condanna
  I tunnel sono stati trovati durante lavori di ampiamento nel periodo delle vacanze. L'agenzia ha condannato «nei più forti termini possibile» la costruzione di questi tunnel: «E' inaccettabile mettere a rischio in questo modo gli studenti e il personale scolastico». L'Onu ha chiesto ad Hamas di «desistere da ogni attività di questo tipo, in quanto compromettono la capacità del personale dell'Onu di fornire assistenza ai rifugiati palestinesi in sicurezza». Anche l'ambasciatore israeliano all'Onu, Danny Danon, ha espresso la sua preoccupazione: «L'Onu deve agire immediatamente per assicurare che quelle strutture e istituzioni non sia usate per nascondere infrastrutture terroristiche». Hamas ha respinto le accuse. Il portavoce Fawzi Barhoum ha condannato a sua volta «le insinuazione dell'Unrwa» e ha detto che l'organizzazione ha chiarito la questione con «altri gruppi militanti» e che non ci sono «lavori legati alla resistenza» nella zona.

 Arma strategica
  I tunnel sono «l'arma strategica» di Hamas. Nella l'ultima offensiva dell'esercito israeliano all'interno della Striscia, nel 2014, sono stati usati massicciamente sia a scopo difensivo che per portare attacchi fin dentro il territorio di Israele. Anche le scuole vennero usate per nascondere armi, munizioni e postazioni per il lancio di razzi e alcune vennero colpite nei raid dell'aviazione. L'Onu si trovò così nel mezzo del conflitto, da qui la preoccupazione che la nuova rete di tunnel colleghi anche le scuole, che si ritroverebbero in prima linea.

(La Stampa, 10 giugno 2017)


Dan Bahat. "L'avventura nel Tempio di Erode tra pietre giganti da 600 tonnellate"

L'archeologo israeliano è il massimo conoscitore della storia antica di Gerusalemme

di Ariela Piattelli

Sotto la Cupola della Roccia c'era il sancta sanctorum del Tempio di Salomone Esiste una grotta dove i visitatori credono di non vedere nulla, ma è una tomba cananea Ci sono luoghi dove spiritualità e storia confluiscono, come il Santo Sepolcro

Dan Bahat, l'archeologo israeliano considerato il massimo esperto di Gerusalemme, tiene sempre in tasca dei piccoli fogli bianchi rettangolari, dove, mentre spiega la complessa storia della Città Santa, abbozza diverse piantine, passando dal primo Tempio di Re Salomone al secondo di Erode, dall'epoca crociata ai tempi di Solimano, e su cui ricuce una storia plurimillenaria. Per lui, che ha scavato nei siti archeologici più importanti d'Israele, come nella fortezza di Masada e nel tunnel sulla base del Muro del Pianto, e che è stato per lunghi anni l'archeologo ufficiale di Gerusalemme, la città non ha segreti.
Ora, a 79 anni, insegna in varie università e, anche se non scava più, quando c'è odore di scoperta o di reperto da riportare alla luce, lo chiamano in continuazione per un consulto, come adesso che si scava attorno ad un piccolo teatro romano, un Odeon, rinvenuto vicino al Muro Occidentale.

SCHEDA
Dan Bahat è nato in Polonia nel 1938.
Si laurea in Storia e Archeologia all'Università ebraica di Gerusalemme nel '64. È uno dei maggiori archeologi d'Israele.

Ieri
Tra le e sue missioni, quella a Masada, dove ha scoperto le iscrizioni con i nomi degli ultimi 11 soldati rimasti nella fortezza

Oggi
Insegna Storia e Archeologia all'Università di Lugano ed è autore dell'«Atlante di Gerusalemme»
- Professore, lei ha scritto «L'Atlante di Gerusalemme» e ha recentemente pubblicato un libro sul tunnel e la storia del Muro del Pianto. Come ha iniziato a studiare la Città Santa?
  «Pensi che all'università ho studiato l'età del ferro e quella del bronzo. Ho iniziato ad occuparmi di Gerusalemme nel '64, tre anni prima della Guerra dei Sei Giorni e della riunificazione. Il mio professore, Avi Yonah, fece il plastico della città (oggi al Museo d'Israele) ai tempi del secondo tempio di Erode. Gli chiesi come fosse possibile essere aderenti alla storia, visto che a noi israeliani era proibito l'accesso nella Città Vecchia. Lui mi spiegò che aveva studiato Giuseppe Flavio e l'archeologia classica e che per ricostruire le case dei ricchi si era ispirato alle dimore di Pompei della stessa epoca. Lì capii che è la storia che dice all'archeologia che cosa c'è a Gerusalemme. Alcuni archeologi sostengono che l'archeologia è la perla delle materie umanistiche e, invece, è serva della storia. Da quel momento decisi di dedicarmi alla storia della città e mi specializzai nell'epoca crociata».

- Quale è il suo metodo per comprendere la complessità di Gerusalemme?
  «Vede, io sono stato il primo a capire che questa città rappresenta un mondo a sé. Per capire la complessità di Gerusalemme dobbiamo calarci in essa come con uno zoom per attraversare tutti gli strati della storia e dei popoli che l'hanno cambiata in continuazione. Oggi molti vogliono semplificarla per comprenderla, ma la storia e l'archeologia parlano chiaro. È uno studio talmente profondo che deve essere indipendente. Gerusalemme racchiude tutti i periodi e la sua storia aiuta a conoscere le altre».

- Agli occhi dell'archeologia i percorsi spirituali della città coincidono con i luoghi della storia?
  «Solo a volte: faccio due esempi. Tutti parlano di un primo e un secondo tempio, ma i templi che si sono alternati lungo i secoli sono quattro. Oppure, io ho scoperto la vera storia della Via Dolorosa e delle processioni. Nell'epoca crociata, dal 1099, si iniziò a fare le processioni due volte all'anno, nella domenica delle palme e il 14 settembre, la Giornata della Croce. Era un percorso rettilineo, che prendeva il via dalla Porta Dorata, che sta al muro orientale, e conduceva direttamente al Santo Sepolcro, senza stazioni. La porta veniva aperta esclusivamente in queste due occasioni. La vicenda delle 14 stazioni arriva dopo».

- E come arriva?
  «Nel 1187 Saladino conquista Gerusalemme e proibisce ad ebrei e cristiani di salire sulla spianata e, quindi, il percorso della Via Dolorosa è stato cambiato. L'idea dei pellegrini e dei crociati era diversa. Poi ci sono dei luoghi dove la spiritualità e la storia confluiscono. Penso al Santo Sepolcro, luogo in cui veramente Gesù fu sepolto».

- Quali sono le scoperte che l'hanno sorpresa di più?
  «Nel tunnel trovai pietre del tempio di Erode di 600 tonnellate. Le pietre più grandi che hanno trovato mai nel Paese. Ha idea quanti camion bisogna riempire per arrivare a tale cifra? Ciò rivela la genialità di chi costruiva all'epoca. Non avrei mai immaginato di trovare una cosa del genere».

- A che cosa sta lavorando adesso?
  «Proprio in questi giorni sto completando un libro sulla spianata del Tempio, "La montagna della casa di Dio". È, come tutti sanno, una storia complessa, in cui si sovrappongono durante i secoli luoghi sacri alle diverse religioni. L'esempio più lampante è la cupola della Roccia, il santuario islamico, riconvertito in chiesa dai crociati, che hanno tagliato e inciso la roccia. Sotto la cupola dorata, originariamente, c'era il sancta sanctorum, il santuario del Tempio di Salomone e alcuni pensano che non sia vero, ma io ne sono assolutamente certo. Poi sotto la roccia c'è una grotta, dove i visitatori credono di non vedere nulla. Noi archeologi, invece, ci vediamo una tomba cananea di una persona molto importante, vissuta 500 anni prima di Abramo. È qui che Gerusalemme inizia ad essere un luogo santo. Quella collina era un cimitero cananeo di persone molto importanti».

- Se voi avete potuto scavare soltanto attorno alla spianata, come avete fatto a capire che cosa c'era sotto al monte del tempio?
  «Nel 1867, esattamente un secolo prima della Guerra dei Sei Giorni, un archeologo inglese, Charles Warren, arrivò a Gerusalemme con una lettera della regina Vittoria, che chiedeva al sultano turco di poter scavare e lui acconsentì. Fino ad oggi, lui, che scavò dei pozzi per tutta la spianata, è l'unico che ha fatto una mappatura naturale delle rocce di Gerusalemme, spiegandone la forma. Al centro della sua mappa c'è il Monte Moriah, dove nella Bibbia ha luogo il sacrificio di Isacco ed è li che inizia la storia di Gerusalemme».

(La Stampa, 10 giugno 2017)


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Per le strade d'Israele, inseguendo Dan Bahat

«Orrribile!» sentivamo dire con foga e inusuale frequenza dalla nostra eccezionale guida, l'archeologo di fama mondiale Dan Bahat, che per dodici anni è stato l'archeologo ufficiale di Gerusalemme e adesso guidava il nostro piccolo gruppo alla scoperta dei tesori d'Israele. Le erre che sentivamo erano proprio tre, e anche qualcuna di più, pronunciate con la corretta dizione della resh ebraica. E' incredibile il numero delle cose che Dan trovava orribili: dallo scempio che le autorità arabe fanno dei resti archeologici del secondo Tempio, al puzzo di sudore degli intabarrati ebrei ortodossi il cui corpo, secondo lui, vede l'acqua soltanto nei bagni rituali che precedono lo Shabbat; dalle nefandezze storiche di un criminale come Arafat, al goffo modo di abbigliarsi delle grasse turiste russe.
Ma all'aggettivo negativo si contrapponeva sempre, in continua alternanza, un altro positivo: «Bellissimo!» E le cose di cui Dan cercava di farci capire la bellezza erano davvero tante: un mosaico di cui forse noi vedevamo soltanto che era incompleto e rovinato, i resti di un'antica costruzione di cui ci sforzavamo di capire l'importanza, e tante, tante altre cose che ci presentava e spiegava con abbondanza di particolari e di entusiasmo....

(Notizie su Israele, 17 maggio 2012)



Quelli che sperano nell'Eterno
I giovani s'affaticano e si stancano;
i più forti vacillano e cadono,
ma quelli che sperano nell'Eterno
acquistano nuove forze,
s'alzano a volo come aquile;
corrono e non si stancano,
camminano e non s'affaticano.
Isaia 40:30-31   

 


Ecco i veri motivi degli ultimi subbugli nel Medio Oriente

di Umberto Minopoli

All'origine di tutto c'è la pax americana post-Bush che ha scatenato la guerra civile islamica. Gli americani, nella fretta di uscire dalla guerra del Golfo, hanno acconsentito a un equilibrio che avvantaggiava l'Iran: nei fatti regalando agli sciiti l'Irak (da sempre il baluardo che attenuava le mire di potenza regionale dei parsi iraniani). La mossa Usa di Obama ha scatenato tutti i processi che hanno portato all'incendio del Medio Oriente.
   L'uscita degli Usa e il regalo fatto agli sciiti ha portato all'inferno. L'Iran ha pensato di sfruttare l'inconsistenza di Obama con 4 mosse: il patto con la Russia (anche per completare il suo programma nucleare); l'alleanza con la Siria (in funzione antagonista a tutti i Paesi sunniti, Egitto compreso) e il completamento di un fronte sciita nella Regione in stretto legame con la Russia; l'appoggio alle cause irredentiste (terroristiche) sciite nel mondo delle monarchie arabe; l'intesa col Qatar (che è anche il maggior sponsor dell'Isis) in funzione anti Arabia Saudita.
   Il corollario di questa strategia egemonica dell'Iran era la bomba atomica (cui Obama ha, sorprendentemente, acconsentito) e una esasperata e isterica campagna antisraeliana degli ayatollah. Che però - attenzione - era anche la copertura ideologica del secondo vero obiettivo dell'Iran (dopo Israele): distruggere l'Arabia Saudita.
   Come ha fatto Obama a non pensare al drammatico incendio che l'appeasement con l'Iran sul nucleare, lo squilibrio a favore dell'Iran (iniziato con l'abbandono americano dell'Iraq), l'immobilismo Usa in Siria avrebbero, letteralmente, fatto impazzire l'Arabia, i sunniti moderati e Israele?
   Insomma un gran casino quello fatto da Obama. Ora l'Isis apre il fronte Iran. La guerra civile araba rischia di portare alla guerra totale. Ma gli Usa di Obama non sono privi di responsabilità: hanno alimentato la guerra sciiti-sunniti invece di spegnerla. Come? Consentendo che l'Iran mettesse paura a tutti nella regione!

(formiche.net, 10 giugno 2017)


Tabula rasa

Sarà pure una "squadra di riserve", ma il Califfato ha inghiottito civiltà millenarie. E dopo il suo crollo ci lascerà un medio oriente più islamico.

di Giulio Meotti

Ha raccolto 30 mila fedeli da tutto il mondo, atterrito l'Europa e sgominato l'esercito iracheno, su cui gli Usa hanno investito 25 miliardi. Ha ucciso 10 mila yazidi e svuotato la piana di Ninive dei suoi abitanti cristiani. "Una cultura che non tornerà mai più". Mitterrand inaugurò al Louvre la mostra "Da Khorsabad a Parigi". L'Isis ha raso al suolo la prima, grande capitale assira Secondo Paul Veyne, l'Isis ha distrutto Palmira perché era un'attrazione per gli occidentali. Poi ha continuato il lavoro in Europa

Nel 1986 Federico Zeri scrisse sulla New York Review of Books: "Delle quattro grandi metropoli del mondo romano (Roma, Cartagine, Alessandria, Antiochia) soltanto la prima appartiene ancora all'occidente; di Antiochia, dei suoi famosi monumenti, non resta che qualche pavimento e mosaico, di Alessandria (celebre per la sua Biblioteca, per il suo Faro, una delle Sette Meraviglie del mondo, per le sue strade lunghe e diritte) qualche rottame indica il suo incomparabile splendore; e dell'immensa Cartagine i miseri resti dell'Anfiteatro, paragonabile al Colosseo, provocano, nel visitatore, un vero e proprio trauma. L'islam ha cancellato tutto".
  Qualcosa di simile potrà e dovrà essere scritto dopo il crollo dello Stato islamico.
  Il Califfato si sta sgretolando, anche se troppo lentamente. Sono passati due anni e mezzo, infatti, da quando la Francia di Hollande promise, dopo le stragi di Parigi: "Bombarderemo Raqqa". E' probabile che prima o poi il Califfato venga ridotto a una énclave e che il suo capo, il califfo Abu Bakr al Baghdadi, venga dronato dagli Stati Uniti. Ma se lo Stato islamico sta "perdendo" fra Mosul e Raqqa, non si può negare che abbia "vinto" su molti fronti.
  Lo Stato islamico avrà lasciato dietro di sé una infrastruttura del terrore senza precedenti (ha ucciso 277 europei solo in Europa in due anni). L'Europa occidentale è sotto assedio: nel 2017 c'è stato un attentato riuscito o tentato ogni nove giorni da parte degli affiliati allo Stato islamico. Il Califfato è stato un richiamo senza precedenti per la umma, la comunità mondiale dei fedeli islamici: dalle 27 alle 30 mila persone in tutto il mondo hanno lasciato le proprie case per combattere sotto la bandiera nera del califfo, e fra questi ci sono seimila europei. E non c'è soltanto chi è partito. Un sondaggio 1cm parla di un francese su sei che simpatizza per l'Isis. Il 16 per cento dei musulmani di Francia. La percentuale sale al 27 per cento fra i giovani di diciotto-ventiquattro anni. Nel Regno Unito, un musulmano su cinque si dice favorevole all'Isis e si sale a uno su quattro fra i 18 e i 34 anni. In undici paesi islamici, una media del 14 per cento giudica con favore lo Stato islamico. Un bacino di consensi di 63 milioni di cittadini musulmani nel mondo schierati con la pratica e l'ideologia dell'Isis.
  L'Isis ha reso il male virale. Il mondo rimaneva a guardare, esterreffatto, mentre l'Isis sdoganava le esecuzioni pubbliche degli ostaggi occidentali, i massacri delle truppe nemiche, la creazione di mercati delle donne a scopo di schiavitù sessuale, la lapidazione a morte dei gay e delle adultere, il ripristino della pena tramite crocifissione, i roghi umani, diffusi nel mondo attraverso diffusi video ad alta definizione e riviste online. In poche settimane, lo Stato islamico ha cancellato lo storico confine coloniale di Sykes-Picot, ha conquistato mezza Siria, lambito la periferia di Baghdad e scacciato con la coda fra le gambe l'esercito iracheno, nella cui formazione gli Stati Uniti avevano investito 25 miliardi di dollari.
  Niente male per quello che Barack Obama aveva definito un "jv team", una squadra di riserve. Ma l'Isis lascia soprattutto un'ampia eredità di distruzione culturale e di vite devastante, che si estende da Aleppo a Ramadi. L'Isis ha avuto successo nel realizzare una grande tabula rasa, una specie di anno zero musulmano. E' questa la grande novità dello Stato islamico. Dopo la sua caduta, il Califfato avrà reso il medio oriente sempre più islamico, non soltanto nel paesaggio, ma anche nella demografia.
  L'Isis ha spazzato via intere comunità che non torneranno mai più. Molti villaggi e città di yazidi all'interno della sua orbita sono destinati a rimanere permanentemente vuoti a causa della macellazione e della scomparsa dei sopravvissuti. I jihadisti sono riusciti a distruggere l'antica comunità cristiana di Mosul. E il vero livello del genocidio inflitto agli yazìdi forse non verrà mai davvero quantificato. Un nuovo studio pubblicato sulla rivista Plos Medicine ha concluso che circa 9.900 membri della minoranza etnica e religiosa sono stati uccisi in pochi giorni nell'agosto 2014. 3.100 sono stati uccisi, mentre il resto è morto per fame, disidratazione o lesioni durante l'assedio dell'Isis sul Monte Sinjar. I ricercatori hanno stimato che 6.800 altri yazidi sono stati rapiti, con oltre un terzo che ancora manca all'appello. Ovunque è passato, come a Bashiqa, l'Isis ha raso al suolo tutti i luoghi di culto yazidi.
  Un grande tempio yazida è in costruzione in un piccolo villaggio armeno, ad Aknalich, vicino a Yerevan, la capitale armena. Sarà il più grande tempio yazida del mondo ed è finanziato da Mirza Sloian, un imprenditore yazida che vive a Mosca. L'esilio è il prezzo pagato dagli yazidi.
  "Il cristianesimo in Iraq è finito", ha detto il mese scorso Canon Andrew White, vicario anglicano di Baghdad. Come ha detto Louis Sako, a capo della più grande congregazione cattolica irachena, "questo non era mai successo nella storia cristiana e islamica. Neppure Gengis Khan arrivò a tanto". Secondo un nuovo rapporto di Open Doors, a tre anni dal giorno in cui lo Stato islamico ha assunto il controllo della città irachena di Mosul, fino all'80 per cento della popolazione cristiana dell'Iraq e della Siria è emigrata. L'Isis è riuscito per la prima volta in duemila anni a non far celebrare la comunione cristiana a Ninive.
  "Una cultura non ci sarà più", ha affermato Amal Marogy, ricercatrice irachena, a una conferenza all'Hudson Institute. Mentre le infrastrutture, come la diga di Mosul, possono e saranno riprese dalle mani dell'Isis, "lo sradicamento della presenza cristiana" in Iraq significa "la fine di una civiltà pacifica" che "era lì da millenni". I jihadisti nei giorni scorsi si sono accaniti sulle statue e i manufatti di epoca romana provenienti dal sito archeologico siriano di al Salhiye, conosciuto come Dura Europos, un'antica città della Mespotamia, un importante centro economico e commerciale, grazie alla vicinanza con il fiume Eufrate e alla sua posizione privilegiata che la vedeva collocata lungo la Via della Seta. La città, nota come "la Pompei del deserto", conteneva la più antica chiesa del mondo, nonché una sinagoga. Gli esperti hanno utilizzato immagini satellitari per contare 3.750 fori lasciati dagli islamisti.
  L'Isis ha devastato le più note capitali della Mesopotamia antica, da Nimrud ad Hatra (ma evidentemente manca un nuovo Federico Zeri a constatarne il decesso). "Questa distruzione è senza precedenti nella storia recente", ha appena dichiarato Marina Gabriel dell'American Schools of Oriental Research Cultura! Heritage Initiatives, un istituto che segue la distruzione nelle aree detenute dell'Isis. Alla fine di aprile, le forze irachene hanno ripreso l'antica città di Hatra, scoprendo i danni da parte del Califfato. Nuove immagini satellitari di siti archeologici intorno alla città irachena del centro di Mosul hanno rivelato una distruzione senza uguali.
  La ziggurat di Nimrud, costruita quasi 2,900 anni fa, è stata livellata dallo Stato islamico. Quando l'archeologo Austen Henry Layard la rinvenne, quella ziggurat fu considerata "la più spettacolare struttura sacra conosciuta dall'antica Mesopotamia".
  I terroristi dell'Isis hanno devastato la Mosul Public Library, dove 10 mila manoscritti sarebbero stati dati alle fiamme o rubati. Hanno lasciato intatti soltanto i testi islamici. "I libri che promuovono l'infedeltà e invocano la disobbedienza a Allah saranno bruciati", avevano riferito ai residenti. E' stato il più grande "libricidio" della storia recente.
  L'Isis è riuscito a fare tabula rasa della storia ebraica di Mosul, bombardando le tombe di Giona, Seth e Daniele, i profeti della Bibbia. Il Califfato ha distrutto la prima città assira, Khorsabad, la capitale di Sargon IL Nel 1993, a duecento anni esatti dalla creazione del museo parigino del Louvre, il presidente francese François Mitterrand inaugurò l'ala Richelieu del museo con una grande mostra sugli Assiri, dal titolo "Da Khorsabad a Parigi". L'Isis ha pensato bene di raderla al suolo.
  Ma la devastazione più grande resta a Palmira, il più grande gioiello archeologico del medio oriente. Per capire cosa l'Isis ha distrutto in quel tesoro culturale basta guardare "L'eredità dell'antica Palmira", una nuova mostra digitale sul sito Internet getty.edu e organizzata da Frances Terpak. Palmira delenda est. Nuove immagini sconvolgenti hanno rivelato come lo Stato islamico ha eliminato migliaia di anni di storia siriana, cancellando i tesori antichi del paese. Mentre i militanti disperati vengono espulsi dalle città, dai villaggi e dalle città in cui hanno governato, i terroristi hanno assicurato che i nuovi occupanti non trovino nulla. Il tempio di Bal è stato distrutto. Era la struttura di duemila anni dedicata al dio fenico, fatta saltare in aria con la dinamite. La replica dell'Arco di Palmira, distrutto dall'Isis a Palmira, in Siria, adesso è a New York. Ci siamo accontentati di farne una copia in cartapesta anziché andare a salvare l'originale. Un altro pezzo di architettura persa per sempre è il Leone di al-Lat, una statua di calcare che era stata coperta da sacchi di sabbia per cercare di proteggerla dal combattimento, ma non ha impedito ai terroristi di trovarla e farla a pezzi. Nel gennaio di quest'anno, il museo d'arte tradizionale Ajakbach è stato distrutto dall'Isis. L'Unesco era andato in missione per salvare quello che rimaneva dall'edificio, ma il viaggio di tre giorni è stato inutile. Gli islamisti avevano ridotto tutto in macerie. Anche la grande moschea di Al Sultania è stata ridotta in macerie.
  Mentre l'Isis travolgeva tutto sul suo cammino, in Europa si pensava che fosse una storia che non ci riguardava, confinata in un esotico turistico. Ma gli islamisti stavano già pensando di ripetere in occidente un programma che avevano rodato così bene a oriente.
  Scrive il professor Paul Veyne nel suo libro su Palmira: "Perché, nell'agosto del 2015, l'Isis ha avuto bisogno di far saltare in aria e distruggere il tempio di Baalshamin? Perché era un tempio dove i pagani prima dell'Islam venivano ad adorare idoli mendaci? No, perché quel monumento è stato venerato dagli occidentali contemporanei, la cui cultura comprende un amore per i 'monumenti storici' e una grande curiosità per le credenze di altre persone. E gli islamisti vogliono dimostrare che i musulmani hanno una cultura diversa dalla nostra, una cultura che è unica secondo loro. Hanno sparato a quel tempio a Palmyra e hanno saccheggiato diversi siti archeologici nel vicino oriente per dimostrare che sono diversi da noi e che non rispettano quelli che ammirano la cultura occidentale".
  Per questo, dopo Palmyra, gli uomini del Califfato hanno colpito in occidente musei ebraici, parlamenti, caffè, fabbriche, spiagge, treni, centri sociali, metrò, aeroporti, poliziotti, festival musicali, teatri, ristoranti, arene sportive, chiese, mercati di Natale, centri commerciali, supermercati. Fino all'assalto al London Bridge. I servi del califfo sembrano aver preso più seriamente di noi i simboli della cultura occidentale. Che vogliono trasformare, dopo la piana di Ninive, in una terra desolata.

(Il Foglio, 10 giugno 2017)


Ex soldatessa, israeliana. La Wonder Wolllan dei record d'incassi supereroina (e censurata)

Dal Libano all'Algeria, bloccato il film con Gal Gadot.

di Sara Gandolfi

Gal Gadot
È il film del momento. Nel primo fine settimana di proiezione, ha incassato oltre 100 milioni di dollari al box office americano e altri 123 nel resto del mondo. Qualcuno già preannuncia una o più candidature all'Oscar e perfino all'Onu si sfregano le mani: Wonder Woman, alias Diana Prince, la principessa amazzone dai superpoteri, è ambasciatrice onoraria per i diritti delle donne e delle ragazze. Eppure l'eroina creata nel 1941 dal femminista William Marston rischia di scatenare un'imprevista crisi diplomatica.
   L'ultima Wonder Woman è bella, audace, sarà un modello per le ragazze d'ultima generazione come Lynda Carter lo fu per le loro nonne e mamme. Ma la Superdonna contemporanea non piace al mondo arabo perché non è soltanto una donna, è israeliana. O almeno lo è l'attrice che la interpreta, Gal Gadot (già vista in Batman v Superman: Dawn of Justice). Ex miss Israele a 18 anni, un nonno sopravvissuto ad Auschwitz, per due anni ha prestato servizio (obbligatorio) per le forze armate di Gerusalemme - «lì impari disciplina e rispetto» - e non ha mai fatto mistero delle sue posizioni sioniste. Dieci anni fa partecipò perfino a un servizio fotografico per le forze armate israeliane, dal titolo «le soldatesse più sexy del mondo».
   In contemporanea all'uscita del film diretto da Patty Jenkins è scattata così la campagna di boicottaggio in Libano, con l'avvallo del ministro dell'Economia Raed Koury. I detrattori della bella Gal ricordano il messaggio che postò su facebook tre anni fa, durante l'operazione israeliana Margine Protettivo contro la Striscia di Gaza: «Il mio amore e le mie preghiere vanno ai ragazzi e alle ragazze che stanno rischiando la vita per proteggere la nazione dagli attacchi orrendi di Hamas, i cui miliziani si nascondono come vigliacchi dietro a donne e bambini», scriveva. Al Libano, che è formalmente in guerra con Israele e da tempo boicotta i suoi prodotti, si è unita la moderata Giordania, che firmò invece l'accordo di pace nel 1994, e la Tunisia. La commissione per le comunicazioni di Amman sta «verificando» la pellicola per decidere se i contenuti sono «adeguati», ha riferito il sito di notizie israeliano Ynet. In Tunisia, il ministro della Cultura ha invece fermato la «premìère» dopo una protesta del partito nazionalista Movimento del popolo. Wonder Woman è stato tolto anche dal cartellone del festival Nuits du Cinéma in Algeria. Il ministero della Cultura aveva già emesso la licenza d'importazione del film ma di giorno in giorno aumentano le firme della petizione online «Non! Pas en Algérie» (non in Algeria).
   La censura è forse anche un modo per gettare acqua sul fuoco ed evitare che l'ex soldatessa israeliana diventata eroina globale riaccenda rancori mai sopiti, e spinte estremiste. In realtà, non è la prima volta che un film viene bandito nei Paesi arabi. Nel 1959, la Lega araba bloccò la versione originale di Ben Hur a causa della protagonista, l'israeliana Haya Harareet, e l'anno dopo Siria ed Egitto bandirono Exodus e tutti i film di Paul Newman per il sostegno dell'attore alla causa sionista. Per la stessa ragione, Amman vietò i film di Danny Kaye ed Elizabeth Taylor.
   Alla Warner Bros, produttrice del film, non si scompongono, fedeli alla regola dello showbiz «basta che se ne parli». Gli israeliani gongolano: «Il film non è un trionfo solo per le donne ma anche per gli ebrei», ha scritto il Jewish Joumal. Chissà se era davvero questo il messaggio che aveva in mente lo psicologo William Marston, ideatore di Wonder Woman. D'altra parte, molti supereroi - Superman, Capitan America, Batman, Spider Man, Hulk, i Fantastic Four, Ironman, gli X-Men, Thor e gli Avengers - furono creati da disegnatori ebrei che, respinti negli anni 30 dai giornali proprio perché ebrei, cercarono di sbarcare il lunario con i fumetti.

(Corriere della Sera, 10 giugno 2017)


Sulla lista nera del terrorismo chi finanzia le nostre moschee

Da un predicatore estremista e da un fondo del Qatar 25 milioni di euro per creare in Italia 33 centri islamici. Pubblicato l'elenco dei jihadisti.

di Fausto Biloslavo

Il predicatore radicale che considera la democrazia un'«eresia», più volte ospite in Italia e il grande fondo caritatevole del Qatar, che ha finanziato con 25 milioni di dollari la nascita di 33 centri islamici nel nostro Paese, sono finiti nella lista nera del terrore annunciata da quattro Paesi arabi. Egitto, Arabia Saudita, Bahrain ed Emirati Arabi Uniti hanno bollato 59 individui e 12 organizzazioni legati al Qatar come finanziatori o amici del terrorismo jihadista. La predica arriva pure dai sauditi, che non sono senza peccato nell'appoggio agli estremisti islamici. La mossa fa parte dell'offensiva diplomatica ed economica per isolare il Qatar. Nella lista nera compaiono 26 egiziani, 18 cittadini del Qatar e 5 libici legati in gran parte ai Fratelli musulmani e a formazioni estremiste. Nonostante le pesanti accuse, in parte fondate, il ministro degli Esteri del Qatar, Mohammed bin Abdulrahman al Thani, è stato ricevuto ieri a Bruxelles dall'Alto rappresentante dell'Unione europea Federica Mogherini.
   Il legame della lista nera con l'Italia riguarda Wagdi Ghoneim, un predicatore egiziano condannato a morte il 30 in Egitto. Ospite di Doha da tempo, fin dagli anni novanta veniva considerato dal consolato americano ad Alessandria, sua città natale, come «un anticristiano, che ammonisce i musulmani a non vestire ali' occidentale o ascoltare musica e chiede di evitare di stringere la mano a chi non è islamico». Ghoneim ha definito gli ebrei «scimmie e maiali». Stati Uniti, Canada, Regno Unito e Svizzera l'hanno messo al bando. Secondo il Foreign office «giustifica o glorifica la violenza ed aizza a compiere atti terroristici». Nonostante la sua «biografia» è stato invitato in Italia con tutti gli onori dall'Unione delle comunità islamiche (Ucoii).
   Un altro predicatore controverso messo al bando dai paesi arabi anti Qatar è Yusuf Qaradawi. In passato aveva definito l'Olocausto «una punizione divina».
   Nella lista nera delle organizzazioni, che avrebbero finanziato il terrorismo, spicca la Fondazione caritatevole del Qatar, che ha lanciato il programma internazionale Gaith (pioggia) per la realizzazione di moschee in Europa. In Italia sono stati stanziati 25 milioni di euro per aprire o finanziare 33 centri islamici da Bergamo ad Olbia fra gli applausi dell'Ucoii,
   E in Qatar abbiamo 4 militari italiani nella grande base Usa di Al Udeid per le operazioni in Iraq e Afghanistan. Al momento non ci sono restrizioni Onu o Ue per vendere armi. Doha ha fatto acquisti nel campo navale con Fincantieri per sette navi militari, entro il 2024, dal valore di 3,8 miliardi. Mbda Italia ha firmato un contratto di 1 miliardo di euro per i missili della flotta.
   La lista nera punta anche contro la Libia inserendo personaggi del calibro di Sadiq al Ghariani, ex mufti di Tripoli, il noto Abdel Hakim Belhadj, jihadista convertito alla politica con il partito Watan e Ismail al Salabi, capo della milizia islamica estremista di Bengasi. I soldi per finanziare i libici filo Qatar arrivano dalla Tunisia. Il colonnello Salem Ali Jarboui, addetto militare a Tunisi, avrebbe trasferito 8 miliardi di dollari dalla Qatar National Bank alla filiale della Banque de l'Habitat a Tataouine, nella regione meridionale tunisina al confine con la Libia. Per poi far arrivare il denaro oltre confine.
   Gran parte dei dirigenti del movimento palestinese Hamas hanno già lasciato Doha e il leader, Saleh al Arouri, ricercato per terrorismo da Israele, sarebbe in Libano.
   Il Qatar ha respinto la lista del terrore parlando di «accuse infondate». Fra i personaggi messi al bando dai quattro paesi arabi figura anche l'ex ministro dell'Interno e membro della famiglia reale Abdullah bin Khalid Al Thani.

(il Giornale, 10 giugno 2017)


Volontariato in Israele

 
Da oggi, Israele potrà essere scelta come meta dai giovani tra i 18 e i 28 anni desiderosi di fare un'esperienza di volontariato all'estero.

Due i progetti selezionati per il bando 2017, al quale l'onlus italiana SPES - Centro di servizio per il volontariato del Lazio ha partecipato a seguito della sottoscrizione dell'accordo di cooperazione con l'Israel Volunteer Association:
  1. Coral (Osservatorio Marino): il progetto, per il quale saranno selezionati 4 volontari, si svolge presso l'Osservatorio Marino di Eilat (Sud Israele).
  2. Merkaz Horim (La casa dei nonni): il progetto, per il quale saranno selezionati 10 volontari, si svolge nei centri di assistenza per anziani di Akko, Naharyia e Gesher HaZiv (Nord d'Israele).
Il Servizio Civile si svolgerà per un periodo di 10 mesi in Israele e per un periodo di 2 mesi - il periodo della formazione iniziale e quello conclusivo della valorizzazione dell'esperienza - in Italia. La partenza per Israele è prevista per l'autunno.

Possono candidarsi i giovani:
  • tra i 18 e i 28 anni non superati;
  • cittadini italiani;
  • cittadini degli altri Paesi dell'Unione europea;
  • cittadini non comunitari regolarmente soggiornanti.
Non possono presentare domanda i giovani che:
  • abbiano già prestato servizio civile nazionale, oppure abbiano interrotto il servizio prima della scadenza prevista, o che alla data di pubblicazione del presente bando siano impegnati nella realizzazione di progetti di servizio civile nazionale sensi della legge n. 64 del 2001, ovvero per l'attuazione del Programma europeo Garanzia Giovani;
  • abbiano in corso con l'ente che realizza il progetto rapporti di lavoro o di collaborazione retribuita a qualunque titolo, ovvero che abbiano avuto tali rapporti nell'anno precedente di durata superiore a tre mesi.
È possibile candidarsi ad un solo progetto e per una sola sede di attuazione entro il 26 giugno alle ore 14.00.

La domanda deve essere presentata secondo una delle seguenti modalità:
  1. inviata a mezzo raccomandata A/R all'indirizzo delle sedi SPES (deve pervenire entro le ore 14.00: NON fa fede il timbro postale).
  2. Con Posta Elettronica Certificata (PEC) alla mail spes.protocollo@pec.workmail.it avendo cura di allegare tutta la documentazione in formato PDF.
  3. Consegnata a mano presso le sedi SPES.
Per maggiori informazioni (compenso, volo, pratiche consolari) è possibile contattare Ksenija Fonovic:

- telefono: 06.44702178
- email: europa@spes.lazio.it

PDF

(Ambasciata d'Israele in Italia, 6 giugno 2017)


Dirigenti di Hamas lasciano il Qatar

AMMAN - Buona parte dei dirigenti del movimento islamico palestinese di Hamas, che risiedeva da lungo tempo in Qatar, ha effettivamente lasciato Doha per spostarsi altrove a causa delle pressioni esercitate dai paesi del Golfo sfociata nella crisi che ha portato alla rottura delle relazioni diplomatiche con alcuni di essi. A rivelarlo è una fonte palestinese citata dal quotidiano giordano "al Ghad". Secondo questa fonte "Doha ha effettivamente chiesto ai leader di Hamas di lasciare il paese e in molti se ne sono andati volontariamente per togliere il governo dall'imbarazzo, disposti a spostare la sede dell'ufficio politico altrove per aiutare il paese a risolvere questa crisi". Si ritiene che i dirigenti di Hamas possano stabilirsi in Malesia, in Turchia o in Libano oppure ritornare nella Striscia di Gaza e unificare l'ufficio politico anche se il movimento sta rafforzando anche i suoi legami con l'Iran.

(Agenzia Nova, 9 giugno 2017)


Nel nome dell'agritech Israele rafforza l'intesa 4.0 con Torino

Presentati i prototipi nati con l 'Innovation Center

di Fabrizio Assandri

 
32o piano del grattacielo di Intesa Sanpaolo
Sono l'agritech, la tecnologia applicata all'agricoltura, e l'industria portuale i due settori più promettenti di interscambio tra Italia e Israele. Lo sostiene un rapporto della Fondazione Studi Ricerche sul Mezzogiorno, presentato ieri al 32o piano del grattacielo di Intesa Sanpaolo, nell'Innovation center della banca. Il commercio tra i due Paesi vale 3,7 miliardi di dollari, il 73 per cento riguarda esportazioni dall'Italia, che quindi è decisamente favorita in questo scambio. E, secondo le previsioni, le esportazioni italiane in Israele aumenteranno del 12 per cento nel 2018.

 Economia e tecnologia
  Quello dei rapporti tra i due Paesi è un tema che vede Torino molto attiva. E non è un caso se all'incontro, al quale era presente Ofer Sachs, ambasciatore d'Israele in Italia, accolto dal responsabile dell'Innovation center Maurizio Montagnese e dal presidente di Intesa Gian Maria Gros-Pietro, ci fossero anche esponenti del Politecnico, della Camera di Commercio, della Compagnia di Sanpaolo. Proprio al grattacielo, in questi anni, Intesa ha siglato importanti accordi, con la Camera di Commercio israeliana, con la banca Leumi, con il centro di innovazione The Fior di Tel Aviv. Scambi economici, ma anche di tecnologie. D'altra parte Israele è una sorta di Silicon Valley per le startup: Torino arranca, le sue startup sono ancora poche e la rete è poco sviluppata nonostante gli incubatori.

 I due prototipi
  E ieri, all'incontro, sono stati presentati due prototipi messi a punto da startup israeliane in collaborazione con l'Innovation Center. Si tratta di Secur touch, che sta sviluppando un sistema di riconoscimento facciale e con l'impronta digitale per accedere ai servizi bancari: il Pin diventerà archeologia? L'altro prototipo è della startup Dove, e si occupa di effettuare pagamenti con gli ultrasuoni, usati per far passare la comunicazione da un apparecchio elettronico come ad esempio uno smartphone all'altro.

 L'agricoltura e il cibo
  L'innovazione a tutti i livelli passa anche dall'agricoltura e dal cibo: settori chiave per l'Italia e tanto più per la nostra regione con le sue eccellenze di prodotti. Ebbene, per la ricerca in questo particolare settore, Israele ha speso l'anno scorso 100 milioni di dollari, il 13 per cento del totale dei suoi investimenti totali in ricerca. Nell'incontro è stato presentato anche un caso-studio di collaborazione «virtuosa», quella tra un'azienda del vicentino e una multinazionale israeliana che ha portato a mettere a punto un sistema per mantenere fresco l'hummus fuori dal frigo. L'altro tema di collegamento tra i due Paesi e l'economia portuale, dal traffico dei container ai grandi operatori del settore, che comprende anche la logistica.

 Gli altri settori
  Il rapporto Fondazione Studi Ricerche sul Mezzogiorno segnala anche alcuni settori meno forti, ora, ma di sicuro promettenti di collaborazione tra Italia e Israele, in cui anche la nostra regione può fare la sua parte. Si tratta dei dispositivi medici, della tecnologia cyber e finanziaria, e della manifattura cosiddetta smart, intelligente, dotata di sensori e intelligenza artificiale.

(La Stampa, 9 giugno 2017)


A Berlino anche gli ebrei temono l'islam

di Vito Punzi

Le elezioni tedesche si avvicinano e il dibattito su identità culturale e integrazione è pieno di contrasti. Il tema centrale, già individuato dalla sociologa turcotedesca Nekla Kelek, è il riconoscimento o meno dei valori della Repubblica Federale. Già dieci anni fa con l'istituzione di una Conferenza sull'Islam promossa dal ministero dell'Interno, Kelek auspicava che si aprisse un dibattito nella comunità islamica più grande, quella turca, su diritti delle donne, educazione laica dei figli e indipendenza economica dalla Turchia. Da allora, come documenta il libro Inside Islam di Constantine Schreiber, la volontà d'integrazione non è cresciuta. Appelli quotidiani al non riconoscimento del sistema di valori occidentali, da un lato, dall'altro occupazione di posizioni di potere.
   Recente la decisione del governo tra Cdu merkeliana e Verdi dell'Assia (il Land di Francoforte) di ammettere l'Unione TurcoIslamica per la promozione della
religione nel Comitato di controllo della tv pubblica del Land con altre associazioni e chiese. Solo che in contemporanea, l'Unione, assai legata alla Turchia, è stata "premiata" con il Big brother award per l'attività di spionaggio che compirebbe attraverso gli imam da lei controllati (in Germania le realtà che gestisce, tra moschee e centri culturali, sono circa 900).
   Niente scontro di civiltà, dunque? Si è alzato un grido d'allarme anche dalla comunità ebraica. Sostenuto da rabbini e personalità di spicco, Elio Adler, fondatore in occasione delle elezioni di WerteInitiative, ha stilato un manifesto dove ricorda la «cultura egemone» tedesca «liberale e democratica», i cui valori che «hanno determinato la Costituzione, le tradizioni e le consuetudini» sono «ebraico-cristiani» e corrono il pericolo del «crescente influsso di quelle associazioni e unioni islamiche che vogliono dare una dimensione politica alla religione, o le cui posizioni non sono conciliabili con la Costituzione».

(Libero, 9 giugno 2017)


Cultura, natura e itinerari religiosi. Israele attira i turisti italiani

Grazie alla sua storia, alla sua cultura, ma anche a bellezze naturali invidiabili e ad una struttura ricettiva in crescita Israele sta attraendo sempre più visitatori, molti dei quali italiani di tutte le età.

 
Israele è una destinazione dal cuore pulsante. La vitalità della gente, la ricchezza della sua storia, gli itinerari religiosi, i mercati brulicanti di gente, le spiagge e il deserto: tutto invita alla scoperta di questo Paese, perfetto per gli amanti del turismo indipendente, i cui ingredienti sono la facilità degli spostamenti, i contatti con le persone del luogo e l'alloggio presso strutture comode e easy, quali gli ostelli.
  Ilh - Israel Hostels è una rete di oltre 30 ostelli indipendenti in tutta Israele, dal Mar Rosso nel Sud, alle alture del Golan nel Nord. Ilh offre un'ampia gamma di sistemazioni per ogni budget. La meta si presta ad essere scoperta da un turismo giovane e dinamico, e gli ostelli sono comodi, centrali, economici eppure dotati di WiFi e in linea con gli standard internazionali di pulizia e qualità dei servizi. In due parole: budget-wise e trendy. Inoltre, danno un supporto concreto all'economia locale e favoriscono le relazioni con altri viaggiatori alla scoperta del Paese.
  Ai vantaggi logistici e di servizio, va affiancato il valore aggiunto di molti aspetti sociali dell'ostello: il coinvolgimento dei comuni che li ospitano e come si combinano ai progetti locali per offrire un'esperienza di ospitalità unica per i singoli viaggiatori, come ad esempio escursioni di trekking, programmi di volontourism e molteplici interazioni con membri attivi all'interno delle comunità locali.
  «Il 70% dei viaggiatori italiani che visita Israele - spiega il direttore generale per l'Italia dell'ufficio nazionale israeliano del turismo, Avital Kotzer Adari - è orientato verso un turismo Fit - Fully Independent Traveller: un trend facilmente spiegabile vista la moltitudine di esperienze facili da organizzare, i collegamenti ben organizzati all'interno del Paese e la sicurezza della meta. Il mercato italiano è di grande importanza per Israele e l'attrazione che la nostra terra esercita sugli italiani si riconferma forte e in continua crescita».
  Basti pensare che ad aprile 2017 i turisti italiani in Israele sono stati 10.200: il +47% in più rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. In totale, il primo quadrimestre del 2017 (gennaio - aprile) ha registrato quota 30.700 gli italiani in arrivo in Israele, in crescita del +34% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.
  «Israele è una destinazione unica, permette di sperimentare tutti gli aspetti di un viaggio: è possibile scoprirla con un itinerario dedicato allo spirito, o allo sport, oppure ancora alla movida, alla scoperta della natura. Il nostro Paese è una meta a cui il mercato italiano regala grandi soddisfazioni con arrivi in crescita e fermento del sistema turistico che la sostiene con nuovi voli e programmazioni in espansione. Un sistema come Ilh consente di vivere Israele in modo libero e a contatto diretto con la popolazione: siamo certi che grazie al network il segmento di viaggiatori Fit interessati ad Israele espanderà ulteriormente la sua crescita e sosterrà il dinamismo del Paese».
  Ori Gonen, coordinatore del network Ilh, è a disposizione per maggiori informazioni per illustrare la realtà degli ostelli in Israele che dispongono non soltanto di camerate con letti a castello come nelle strutture più "classiche" appartenenti alla categoria, ma anche di mini-appartamenti adatti a famiglie o giovani coppie; aree comuni dove socializzare interne o esterne, perfino di rooftop; possibilità di organizzare escursioni in bici, nel deserto o nelle caverne; e tanto altro ancora.

(Italia a Tavola, 9 giugno 2017)


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Gerusalemme brilla con il Festival delle Luci

L'evento da non perdere per l'estate 2017 è il Festival delle Luci di Gerusalemme dal 28 giugno al 6 luglio: ecco tutti i dettagli.

Gerusalemme insieme a Roma è definita "la Città Eterna" ed è uno dei luoghi da vedere almeno una volta nella vita. Oltre agli itinerari religiosi, la capitale israeliana è un vero tesoro di arte, cultura e tradizioni tutte da scoprire: per questo ancora oggi è una delle mete da non perdere per i viaggi estivi. In particolare dal 28 giugno al 6 luglio si terrà il Festival delle Luci, un evento di grande interesse artistico e culturale che animerà la città antica per una settimana intera.
   Durante tutta la notte i vicoli del centro storico della città saranno caratterizzati da concerti e rappresentazioni artistiche, create grazie a dei meravigliosi giochi di luce. Sarà utilizzata la tecnica del trompe-l'oeil che darà la possibilità di interagire con figure e simboli tridimensionali. Il percorso si snoda nel cuore della città e interessa i principali palazzi e monumenti come la Torre di David, il quartiere cristiano, quello ebraico e anche quello armeno. L'evento è perfetto per le famiglie e i bambini che rimangono ogni anno incantati davanti alla bellezza e alla magia di questi incredibili giochi di luce. Anche gli adulti ne rimangono affascinati, passeggiando per le vie di Gerusalemme alla scoperta dei quartieri più caratteristici della città.
   Il Festival delle Luci attira ogni anno migliaia di visitatori ed è giunto alla sua nona edizione con un successo senza precedenti. Le soste da non perdere quest'anno sono la Porta di Damasco su cui verrà proiettato l'Albero della Vita, le Fontane d'Acqua, il Circo del Cardo Romano con le 5 sculture realizzate in cartone ondulato. Inoltre ci sono anche le mura esterne della Città Vecchia su cui verranno proiettate le Luci del Nord ricreando l'Aurora Boreale e l'area pedonale di Yoel Moshe Solomon Street in cui saranno allestite palle di luce a LED. Durante la settimana dell'evento sono previsti anche diversi spettacoli tra cui Pyromania presso il Quartiere Armeno, con balli, musica e ovviamente le immancabili luci del festival. Per chi non ha ancora visitato la capitale israeliana, questo è sicuramente il periodo migliore, in cui poter scattare fotografie uniche e ammirare una Gerusalemme del tutto inedita.

(Si Viaggia, 9 giugno 2017)


Una colomba della pace per Sandro e Luisa

Due nuovi Giusti tra le Nazioni

È stata consegnata ieri, nel corso di una cerimonia alla sinagoga di Firenze, la medaglia di Giusti fra le Nazioni da parte dello Yad Vashem, il sacrario dell'Olocausto di Gerusalemme, alla memoria di Sandro e Luisa Materassi La consegna al figlio Mario, già docente di Storia della letteratura degli Stati Uniti all'Università di Firenze, è avvenuta alla presenza di Valentina Supino, discendente della famiglia salvata dai coniugi Materassi, della vicepresidente della comunità ebraica fiorentina, del presidente del Consiglio regionale Eugenio Giani e dei funzionari dell'ambasciata d'Israele a Roma. Durante la cerimonia l'artista pistoiese Vincenzo Cangiamila ha donato al giardino della comunità una colomba di marmo, in simbolo di pace.

(Corriere Fiorentino, 9 giugno 2017)


Quell'esodo dalla Libia 'invisibile' e 'silenzioso'

L'arrivo degli ebrei dai paesi arabi ha cambiato Israele ma ha anche rafforzato l'ebraismo italiano. Lo spiega David Meghnagi.

di Daniele Toscano

 
La storia degli ebrei di Libia rientra nel processo migratorio che nel XX secolo ha interessato tutti gli ebrei del mondo arabo. Un fenomeno che ha molteplici sfaccettature e che offre numerosi spunti di riflessione. David Meghnagi, professore all'Università di Roma Tre, con le sue dichiarazioni a Shalom ha cercato di richiamare l'attenzione su alcuni punti nodali.
    "Nel celebrare i 50 anni degli ebrei di Libia a Roma bisogna mettere a fuoco tre aspetti distinti. Anzitutto, questa storia permette una lettura più equilibrata della storia della decolonizzazione, del nazionalismo arabo e di conseguenza del conflitto arabo-israeliano: questo esodo, "invisibile" e "silenzioso", fu declinato dagli ebrei in fuga dalla Libia come una liberazione, un riscatto da una condizione di asservimento. Segue una riflessione generale su cosa ha significato l'arrivo degli ebrei del mondo arabo in Israele. C'è poi il terzo aspetto, relativo alle trasformazioni demografiche e culturali dell'ebraismo italiano negli ultimi decenni: i vari flussi migratori hanno determinato profondi cambiamenti e hanno prodotto una rivitalizzazione dopo fasi storiche difficili. Questo anniversario può dunque costituire l'occasione per un ripensamento generale dei cambiamenti intervenuti nel dopoguerra".
Gli ebrei dei paesi arabi sono stati perseguitati nelle loro terre d'origine e sono stati costretti alla fuga. Il dolore dell'esilio però è stato trasformato in esodo e, in particolare per i libici, ha significato resurrezione, riscatto, permettendo loro di sopportare anche condizioni di vita particolarmente difficili. Ma la storia degli ebrei libici riguarda solo gli ebrei di Roma o tutta Italia?
    "L'intero ebraismo italiano è coinvolto, a prescindere dall'arrivo dei libici dopo il giugno 1967. Durante la dominazione italiana (1912-1943), la comunità ebraica libica è stata parte integrante dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane, anche se in una condizione subalterna. Poi, naturalmente, le vicende del 1967 hanno influito sulla composizione specifica della comunità ebraica milanese e soprattutto su quella romana".
Nonostante dunque "giuridicamente" gli ebrei libici fossero già legati a quelli italiani, la convivenza ha generato una condizione inedita.
    "L'impatto è stato sostanzialmente positivo. Grazie alla loro vitalità e al loro legame con le tradizioni, i libici hanno immesso nella realtà romana qualcosa che prima sopiva. Hanno poi introdotto un notevole dinamismo: avevano infatti una grande capacità imprenditoriale, ampia cultura e conoscenza delle lingue. Ovviamente non sono mancati inevitabili problemi di integrazione, legati alle difficoltà di far coesistere due culture diverse o a semplici questioni concorrenziali. All'interno di questo processo molto positivo, un aspetto problematico è emerso dall'atteggiamento delle istituzioni ebraiche, non sempre pronte a inserire un rabbino o altre figure di riferimento all'interno delle strutture dei nuovi immigrati, considerati più un elemento di passaggio che strutturale".
Gli ebrei libici sono così diventati un elemento del mondo ebraico italiano e non solo. Chi sono dunque oggi i giovani tripolini?
    "Le nuove generazioni sono molto colte e fortemente integrate sia nell'ebraismo italiano che nella realtà italiana; sono ragazzi legati alla tradizione e all'identità tripolina, ma quando vanno in Israele si percepiscono come romani. Non rinunciano alla loro specifica storia, ma allo stesso tempo hanno sviluppato un profondo legame con l'attualità".
Un doppio filo che sembra continuare a sopravvivere.
    "Uno dei canti più noti della tradizione ebraica romana, Bar Yohai, che risuona in ogni occasione festiva, è stato composto a Tripoli da Rabbì Shimon Labì, un autorevole cabbalista, autore di un commento importante sullo Zohar", spiega ancora Meghnagi. "Arrivò a Roma secoli prima rispetto al giugno 1967, per diventare emblema di un legame profondo tra le diverse comunità ebraiche del Mediterraneo. Forse alcune combinazioni non si verificano totalmente per caso: molti ebrei tripolini, infatti, oggi a Roma vivono nel cosiddetto quartiere africano, tra via Tripoli, viale Libia, via Tripolitania. Come se una parte del mondo si fosse fermata, pur continuando ad andare avanti".
(Shalom, maggio 2017)


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Ogni festa aveva il suo minhag

L'intero calendario ebraico era caratterizzato da molti usi e tradizioni che anticipavano o accompagnavano tutte le festività religiose, allegre o tristi. Lo racconta Pino Arbib.

di Joelle Sara Habib

 
 
Sono molte le usanze tripoline legate alle feste, a cominciare dall'inizio dell'anno, con le selichot, che si svolgevano durante la notte da un mese prima di Rosh hashanà. "A Tripoli erano molto sentite, e tutti vi partecipavano, o almeno contribuivano in qualche modo, ad esempio portando caffè, o biscotti. D'altronde era impossibile perderle, c'era sempre qualcuno incaricato di girare per le case a svegliare e chiamare", racconta Pino Arbib, responsabile all'interno dell'Ufficio rabbinico delle attività cultuali e kasherut. "Era surreale - ricorda - andare la notte a piedi attraversando la città semideserta per arrivare al Sal ekbira - il tempio maggiore".
   A Rosh hashanà il tashlich si eseguiva sul lungomare, e tutti andavano al tempio indossando vestiti nuovi, e i bambini, rispettando la tradizione, muniti di caramelle e datteri. Durante i dieci giorni tra il Capodanno e Kippur, particolare cura era dedicata alle kapparot: "il capofamiglia comprava polli bianchi per gli uomini e galline bianche per le donne; si tenevano in casa per qualche giorno, ed era poi lo shochet stesso a passare per macellarle. Attuata la cerimonia i polli venivano dati agli indigenti, e qualcuno mangiato al grande pranzo del giorno della vigilia, insieme ai cibi particolari serviti solo in questa occasione, come il cus-cus con ceci e melograno". Era usanza la sera prima di Kippur anche fare una grande festa, che durava fino all'alba per andare poi tutti insieme alle selichot, mentre il giorno stesso si passava prevalentemente al tempio, alla presenza di grandi e piccoli, religiosi e non, raggiungendo l'apice del sentimento con i coinvolgenti piutim di Neilà.
   Solo il capofamiglia accendeva la hannukià durante la festa delle luci, ed erano frequenti le recite dei bambini organizzate dai Talmud Torà. "Purim era tutta una gioia di dolci. Per questa occasione le due pasticcerie che si facevano concorrenza preparavano dei blocchi enormi di un impasto simile torrone, ma di vari colori, e di solito se ne comprava un assortimento". Per questa festa grandi e bambini costruivano i loro rashanim fatti a ventaglio, e molto competitiva era la gara tra i vari templi per chi facesse la raganella più bella e grande, con quella del sal ekbira addirittura "impossibile da tenere in mano".
   Le famiglie si riunivano e l'ospitalità era la regola la sera del seder di Pesach, che, recitato in ebraico e poi tradotto e commentato in arabo, durava fino a notte inoltrata. 'A che ora avete finito ieri sera' era la prima domanda che ci si sentiva rivolgere l'indomani al tempio, ricorda Arbib, e le matzot venivano cotte di giorno in giorno - negli ultimi anni in aggiunta a quelle comprate prima della festa dalla Francia - attaccando l'impasto tipo pita sulla parete del particolare forno, "simile a un bidone all'interno del quale veniva acceso un fuoco", che la maggior parte delle famiglie aveva in casa. Dopo l'uscita del moed, l'atmosfera festiva continuava ancora per un'altra sera, con la mimuna, quando una pagnotta con un uovo dentro veniva mangiata da ogni componente, per ricordare la dipartita di Rabbì Moshè ben Maimon, secondo una tradizione avvenuta durante Pesach.
   A Shavuot caratterizzante era il tikkun della prima notte, "andavamo la sera portandoci dietro il caffè per tutto il tempio", e c'era l'usanza di fare dei biscotti o roschette dolci di varie forme correlate alla festa, come ad esempio a forma di tavole della legge, scala (di Giacobbe), Magen David, 12 quadratini/palline (come le tribù) e tante altre. Di questi biscotti si faceva una collana per ogni bambino, che era così incuriosito dai simboli che ancora non conosceva, e portato a chiedere spiegazioni".
   Grande attenzione era d'altronde dedicata ai più piccoli in tutte le festività, e simpatiche iniziative erano messe in atto per farli interessare. Le sukkot in ogni casa - alle quali si iniziava a lavorare appena terminato Kippur - erano talvolta due, la regolare, e 'quella dei piccoli', a misura di bambino; e durante l'ultimo giorno di Pesach, "si svolgeva 'il pranzo dei bambini', nel quale essi cucinavano insieme a genitori utilizzando piccoli tegami, e preparando pietanze, tutte in piccolo a dimensione bambino".
   Per quanto riguarda le feste 'minori', prettamente simbolico era Tubishvat, quando non si faceva un vero e proprio seder ma una carrellata di tantissimi frutti; mentre molto sentite erano la Birchat ailanot - "con l'intera famiglia in ghingheri che si recava a recitarla in campagna"; Pesach Shenì - anche hillula - anniversario di morte di Rabbì Meir Baal Hanes, per cui si accendevano lumi; e Lag baomer, quando si andava a festeggiare al tempio di Djerba e si portava avanti un rituale per le donne che ancora non avevano figli.
   Rosh chodesh kislev era tradizionalmente la festa delle donne, ed un altro capomese particolare era quello di Nissan, quando, ricordando l'inaugurazione del Mishkan, iniziata in questa data, si celebra la 'sera della Bsisa', nella quale un particolare impasto - che simboleggia le fondamenta e dà il nome alla cerimonia, da 'basis' - base - viene girato con le chiavi di casa in segno di buon augurio. Nel composto - formato da vari tipi di cereali tostati e macinati, zucchero, ed eventualmente confetti e datteri - vengono inoltre solitamente introdotte fede e gioielli, e la cerimonia è stata simbolicamente allargata alla vigilia degli eventi che rappresentano la base della vita famigliare, come matrimoni e nascite.

(Shalom, maggio 2017)


Gentiloni, la visita in sinagoga per abbracciare gli ebrei di Libia

ROMA - "C'è una sensibilità alta delle comunità ebraiche sul tema dell'immigrazione, dell'accoglienza, dello sforzo enorme che l'Italia sta compiendo nonostante le difficoltà, le polemiche, i pericoli, per non chiudere le porte a chi scappa dalla guerra e cerca asilo. Le comunità lo capiscono perché lo hanno vissuto sulla loro pelle".
È uno dei messaggi più significativi che il Primo Ministro Paolo Gentiloni ha voluto lasciare in occasione della sua visita al Tempio Maggiore di Roma per i 50 anni dall'arrivo degli ebrei di Libia in Italia. Migrazioni di ieri e di oggi, le nuove sfide e complessità, lo straordinario apporto offerto da questo nucleo non solo alla vita ebraica ma alla società italiana nel suo insieme.
È stata una giornata importante, quella di ieri. Una giornata segnata da molteplici emozioni, apertasi con la proiezione di alcune testimonianze raccolte dal sito Memorie Ebraiche e conclusasi con l'omaggio a due storiche figure di questa realtà: Sion Burbea e Shalom Tesciuba....

(moked, 7 giugno 2017)


Riad, Doha e Teheran. Così Trump ha sfidato il triangolo del terrore

Lo stop al Qatar uno schiaffo a gruppi jihadisti Ma l'attentato alimenta il caos in tutta l'area. In Siria la Guardia Rivoluzionaria fiancheggia Assad nella lotta al Califfato.

di Fiamma Nirenstein

L' Iran oltre che ferito è stupefatto: la durezza estrema delle Guardie Rivoluzionarie, la severità terribile degli Ayatollah, e nemmeno lo spirito di Khomeini dalla tomba colpita anch'essa dall'attacco di ieri niente hanno potuto contro il grande attacco simbolico, sprezzante attacco terroristico al parlamento di Teheran. Gli uomini dell'Isis sono riusciti a salire fino al quarto e al quinto piano vestiti da donna e con i mitra: le loro urla in arabo classico che spiegavano urlando il perché dell'attacco, contro le grida di spavento in parsi accompagnavano addirittura un video autoprodotto «live», in cui si impossessano sparando di stanze e corridoi, mentre gli impiegati cercavano di scappare disperati. L'attacco sunnita contro l'Iran sciita si è probabilmente servito di emissari interni: l'Iran è sciita solo all'80 per cento, gli altri sono sunniti, balusci, curdi che odiano il regime. L'Isis è parte del nuovo gioco: l'Iran fiancheggia Assad con determinazione e vasto dispiegamento di mezzi e di forze della Guardia Rivoluzionaria per batterlo, rifornisce i suoi scherani Hezbollah, la Russia comanda con le armi, la presenza, i droni e i bombardamenti. L'unico Paese che ha subito dichiarato il suo cordoglio per l'attentato è stata la Russia e dopo il Pakistan; la Francia si è accodata, ma gli altri Paesi occidentali sono stati brevi e scarsi. L'Iran combatte per un assassino genocida, viola tutti i diritti umani, è in odore di nucleare ed è uno dei principali sponsor del terrorismo. Aveva persino un accordo con Al qaeda che l'ha preservato da attacchi, lo stesso fino ad oggi con Hamas benché ambedue siano sunniti.
  L'attacco si inserisce in un quadro e in una prospettiva caotica: quella di un Medio Oriente rivoluzionato dall'incontro di Trump con 25 stati arabi in cui si è dichiarato una comune guerra al terrorismo, intendendo con questo non soltanto il terrorismo dell'Isis, ma anche l'instabilità indotta dall'imperialismo iraniano, le mire della Fratellanza Musulmana, che è poi la grande madre ideologica per cui il Qatar spende i suoi fondi miliardari. Non a caso il governo di Trump sta pianificando la messa all'indice delle organizzazioni terroriste sia Hamas che gli hezbollah che la Fratellanza che anche la Guardia Rivoluzionaria iraniana.
  Dall'Iran e anche da parte dei suoi amici siriani si è levata un'accusa a misteriosi mandanti subito identificati come i sauditi, gli americani, Israele. L'Iran qui indica, al di là dell'Isis, le sue vere difficoltà, e pericolosamente punta il dito contro il suo nemico storico sunnita. Dopo questo attentato, pur perpetrato dall'Isis, la parte sunnita e quella sciita entrano in un conflitto ancora più diretto che potrebbe portare persino a una guerra. L'Isis: è in difficoltà, l'ultimo attacco a Raqqa lo testimonia, e quindi la sua impossibilità di un contrattacco sul terreno la porta a cercarlo sia nelle capitali occidentali, contro il nemico ideologico, sia in Iran che combatte contro i suoi uomini. L'Iran dunque reagirà, impiegherà sempre più forza contro l'Isis, ma altrettanto faranno i suoi nemici. La storia quindi qui continua. Ma soprattutto continua sul grande palcoscenico mediorentale: con lo stop al Qatar di lunedì scorso, oltre alla Fratellanza Musulmana prendono una sventola storica anche l'Iran, tutte le milizie shiite, Hamas, i Hezbollah, basta pensare che il Qatar aveva appena consegnato un miliardo di dollari a queste forze e anche al succedaneo di Al Qaeda Tahr al Shan poche settimane or sono a causa di un ricatto familiare. Adesso le forze della stabilità cioè Egitto, Arabia Saudita, Giordania, Golfo, e anche Israele sono molto più forti, mentre l'Iran perde su tutti i fronti. Se vuole rimettersi in pista adesso deve fare fuoco e fiamme, uccidere, punire, espandersi. Come è sua abitudine. Ci si può aspettare che lo faccia.

(il Giornale, 8 giugno 2017)


Israele sul London Bridge

"Imparate da noi: non ci sono pasti gratis contro il terrorismo islamico". Parlano i generali di Gerusalemme.

di Giulio Meotti

"La prima deterrenza è dire ai terroristi islamici: 'Non vincerete, non imporrete la vostra sharia'" (Yossi Kupenemsser) "Non sconfiggi il terrore senza far pagare un prezzo anche agli innocenti, ma dovete saperlo minimizzare" (Yaakov Amidror)


Yaakov Amidror
ROMA - Da due giorni, sui principali ponti di Londra sono apparsi dei grandi blocchi di cemento. Waterloo, Lambeth, Westminster, London Bridge ... Ovunque la stessa scena, anche a Roma, in Via della Conciliazione. Cubi immensi a protezione dei pedoni dagli attentati con le auto, come i due che hanno seminato morte e panico nella capitale britannica. I ponti sul Tamigi fanno dunque la conoscenza di una invenzione israeliana nella sua guerra al terrorismo islamico. Dalle auto lanciate sui passanti all'accoltellamento dei civili, lo stato ebraico è stato un laboratorio per tutte quelle forme di terrorismo che da due anni stanno insanguinando l'Europa (52 morti nel 2017, con un attentato riuscito o tentato ogni nove giorni). Era il 2008, anche allora il mese sacro di Ramadan, quando il primo veicolo palestinese si lanciò sulla folla a Gerusalemme. Da allora, la capitale d'Israele ha speso mezzo milione di dollari per erigere questi blocchi di cemento presso trecento stazioni di autobus e tram. Due giorni fa, la premier britannica Theresa May ha tenuto un tipico discorso "israeliano", quando ha detto che sulla lotta al terrorismo è pronta a fare piazza pulita di certe leggi sulla tutela dei "diritti umani". In Israele la sua incarnazione più celebre è la cosiddetta "detenzione amministrativa". Si rifà alle leggi del mandato britannico, consente di arrestare senza far conoscere all'interessato l'imputazione, e di rilasciarlo dopo un certo periodo di tempo, sempre senza informarlo delle ragioni per cui è stato imprigionato. E' considerato il principale strumento di antiterrorismo.
  "Abbiamo confrontato terrorismo e radicalismo islamico da decenni", dice al Foglio Yossi Kuperwasser, già direttore del ministero degli Affari strategici e capo ricercatore della sezione intelligence dell'esercito israeliano dal 2001 al 2006, gli anni della Seconda Intifada. "Ma prima delle barriere fisiche a protezione dei civili negli aeroporti, nelle strade, nelle aree pedonali, nei bus, nei centri commerciali, l'Europa deve identificare il nemico, come ha fatto Israele. E' una questione di mentalità, che l'Europa ancora non ha. L'islam radicale vuole cambiare l'equilibrio mondiale e distruggere la cultura occidentale. Theresa May ha detto che vuole emulare il modello israeliano. Per fare questo, l'Europa deve abbandonare l'appeasement. L'Europa deve adottare la detenzione amministrativa nel caso di pericolo imminente. Ma la prima deterrenza è quella dell'occidente che crede in se stesso, nella propria cultura, e che a questa gente dice: 'Non vincerete, non vivremo sotto la sharia'. Rendete illegali i gruppi islamisti e continuate la guerra all'Isis in Siria e Iraq, dovete tenerli occupati lì". Gli attacchi terroristici in Europa stanno già spingendo la Nato ad aumentare la collaborazione con Israele (fino a oggi pesava il veto della Turchia di Erdogan). Il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, dovrebbe visitare Israele nei prossimi mesi e incontrare il primo ministro Benjamin Netanyahu e i vertici della Difesa. Israele è stato il primo paese ad affrontare il terrorismo suicida nelle sue strade, molto prima che a New York o Manchester. Israele è stato anche il primo paese i cui passeggeri delle linee aeree commerciali sono stati presi in ostaggio. Il Pentagono ha copiato le tattiche israeliane utilizzate durante l'Intifada per adattarle alla guerriglia urbana islamista in Iraq e in Afghanistan.
  "Dovete cambiare il sistema legale, consentire la raccolta di informazioni e il suo uso migliore", dice al Foglio Yaakov Amidror, il generale dell'esercito israeliano ex capo del National Security Council, il potente organismo del governo che fornisce le linee per la politica di sicurezza. "In Europa il profiling è vietato, questo deve cambiare". All'aeroporto internazionale Ben Gurion di Tel Aviv, il più sicuro al mondo, tutti i passeggeri in attesa di effettuare il check-in vengono interrogati da agenti di sicurezza che fanno domande, scoprendone nervosismo o dichiarazioni incoerenti. Se le risposte suscitano sospetti, il passeggero è scelto per ulteriori screening che possono comportare ore di interrogatorio e una ricerca minuziosa nei suoi bagagli. "Dovete poter violare la privacy e smettere di trattare il terrorista come un criminale", continua al Foglio Amidror. "In Israele la detenzione amministrativa è decisiva. L'Europa deve essere forte e sacrificare alcuni diritti umani per sconfiggere il terrorismo. Non ci sono pasti gratis. Noi in Israele abbiamo minimizzato il danno, passando da 150 morti nel 2002 a 15 morti all'anno oggi di media.Non c'è modo di combattere il terrorismo senza far pagare un prezzo agli innocenti. Quel prezzo deve essere il più possibile contenuto. Inoltre, dovete impegnarvi contro l'Isis all'estero, in Siria, Iraq, bombardarli. E' importante prima di tutto moralmente, mostrare loro che gli state dando la caccia". In questo momento, sui cieli dell'Afghanistan, i paesi membri della Nato stanno impiegando droni di produzione israeliana per combattere contro i talebani e lo Stato islamico. Chissà che l'esperienza e il valore di Israele non possano aiutare anche a prevenire il crollo del London Bridge, dove furono le prime guarnigioni romane, si recitavano i lavori di Shakespeare e che, nell'immaginazione di tante generazioni, ha incarnato il ponte della civiltà occidentale.

(Il Foglio, 8 giugno 2017)


Occhio, l'islam sta per esplodere

Sunniti contro sciiti. La prova di forza del Califfato fa godere Riad. Ma gli ayatollah accusano gli americani. L'Isis fa due attentati a Teheran. E l'Arabia ringrazia.

di Carlo Panella

Gli attentati di Teheran sono una straordinaria prova di forza politica e militare dell'Isis, a dimostrazione che le sconfitte sul terreno a Raqqa e a Mosul moltiplicano la forza di penetrazione della sua iniziativa terrorista. Portare a termine un attentato a quanto di più sacro rappresenta la rivoluzione sciita iraniana, il santuario che custodisce il corpo di Khomeni, è difficile, al limite dell'impossibile. Equivale ad attentare al mausoleo di Lenin nella Mosca di Josef Stalin. Penetrare con un commando in armi dentro il super difeso Parlamento iraniano equivale alla capacità di assaltare la sede del Nsdap, il partito nazista, nella Berlino di Adolf Hitler. Checché ne dicano gli analisti buonisti dell'Occidente, l'Iran non è per nulla un paese libero. Teheran vive sotto la morsa di una sorveglianza poliziesca a più strati: polizia, Bassiji, Pasdaran e Servizi Segreti. Pure, i due attentati non sono spontaneisti, come gli ultimi in Europa. Sono stati preceduti da una lunga, minuziosa preparazione; da sopralluoghi per eludere le imponenti misure di sicurezza dei siti colpiti. Hanno comportato riunioni, reperimento e spostamenti continui di armi ed esplosivi e definizione in clandestinità di minuziosi piani d'azione. Soprattutto, sono stati portati a termine non da iraniani, da chi vive da anni nella città, perché nulla è la capacità di attrazione dell'Isis wahabita nei confronti degli iraniani sciiti.
   Gli autori dei due attentati sono palesemente o stranieri (pakistani, afghani, iracheni) o appartengono alla minoranza araba delle regioni iraniane del Belucistan e del Khuzestan, o - con minore probabilità - sono curdi iraniani.
   Pure, questo lavoro ciclopico è stato sviluppato nella piena clandestinità in una città che pullula di spie ed informatori, perché capillare è la rete di delazione che da 38 anni gli ayatollah hanno steso in tutti i quartieri, in tutte le case e in tutte le famiglie di Teheran.
   Il colpo politico e materiale al prestigio e alla sicumera del regime iraniano è stato quindi enorme: ha fallito nel difendere i più alti simboli della Repubblica islamica: il mausoleo, il corpo del "padre della rivoluzione" dell'Imam, dell'ayatollah Khomeini e la sede del Parlamento.
   Non è poi un caso che i parlamentari iraniani assediati dai jhadisti- terroristi abbiano urlato: «Morte agli Usa! Morte ai loro servi dell'Arabia Saudita!» Non sfugge a nessuno infatti che a Riad, se si potesse bere, si brinderebbe a questa umiliazione inflitta agli ayatollah.
   Questo attentato si colloca infatti in pieno nel clima di escalation parossistica che da mesi contrassegna il conflitto eterno tra i sunniti wahabiti del Golfo e la Teheran sciita. Gli ayatollah, infatti - ampiamente coadiuvati dalle follie di Barack Obama - ormai controllano e sono egemonici su un' area enorme che va dalle rive del mediterraneo (Siria e Libia) ai confini dell'Afghanistan. Ma addirittura stanno creando un corridoio diretto che collega l'Iran con Hezbollah libanese (che ha avuto 2500 morti e 7.000 feriti nella guerra civile siriana), attraverso il quale fanno passare armi e finanziamenti, una minaccia che è la "maggiore preoccupazione strategica" di Israele.
   A fronte di questo espansionismo dei rivoluzionari sciiti iraniani, i paesi sunniti, Egitto e Arabia Saudita in primis, non possono che reagire come stanno facendo (vedi Qatar), profittando della svolta mediorientale di Donald Trump che ha capovolto la strategia di Obama considerando, a ragione, l'Iran prima causa del terrorismo.
   La grande, immensa novità degli attentati di Teheran è data dunque dalla dimostrata capacità dell'Isis di inserirsi in questa escalation tra mondo sunnita e Iran e di colpire al più alto livelli i massimi simboli della rivoluzione sciita.
   Chi pensava che la perdita imminente di Raqqa e Mosul comporti solo un incremento degli attentati in Europa sbaglia. Nonostante queste sconfitte, con un doppio colpo magistrale, l'Isis ha dimostrato di sapersi introdurre in pieno in queste contraddizioni. Traendone il massimo profitto e favorendo l'arrivo di una nuova leva di adepti.

(Libero, 8 giugno 2017)


La lezione di Ola, l'infermiera israeliana che in ospedale allatta una bimba palestinese

Ola Ostrovsky-Zak è un'infermiera israeliana che lavora all'ospedale di Hebron. Quando sono arrivati i feriti di una famiglia palestinese coinvolta in un brutto incidente stradale si è offerta per allattare il piccolo Yaman che per ore ha rifiutato il biberon. "Ora ho un figlio palestinese".

di Giulio Cavalli

 
Si chiama Ola Ostrovsky-Zak, ha 34 anni e tre figli, due cui uno piccolissimo, ed è infermiera all'ospedale di Hebron, Cisgiordania. La sua famiglia, ebrea, si è trasferita in Israele da due generazioni. Venerdì sera era di turno quando in ospedale sono arrivati i feriti di un brutto incidente stradale: una famiglia palestinese con il padre che morirà poco dopo il suo arrivo, la madre con un grave trauma cranico in terapia intensiva e il loro piccolo figlio, rimasto illeso.
   Yaman, bambino, rimane in sala d'attesa insieme alle due zie che sono accorse. Non ha nulla. Piange: per sette ore non ha mangiato nulla e ha rifiutato i biberon.
   "La zia mi ha raccontato che Yaman è sempre stato allattato solo al seno della madre fin dalla nascita - racconta l'infermiera -. Non ha mai bevuto dal biberon. Hanno chiesto se qualcuno avesse potuto allattarlo e le ho detto che avrei potuto farlo io. Sono rimaste sorprese. Non riuscivano a credere che una madre ebrea potesse accettare di allattare un bambino palestinese. Mi hanno portato in braccio, mi hanno baciato, non smettevano mai di abbracciarmi."
   "Eppure - dice Ola Ostrovsky-Zak - sono sicura che tutti i miei amici al mio posto avrebbero fatto lo stesso". La foto (pubblicata dal profilo social dell'ospedale Hadassah) ha fatto già il giro del mondo. Le zie di Yaman hanno raccontato che nella tradizione islamica una donna che allatta almeno cinque volte un bambino diventa la sua "seconda madre". "Sono rimasta molto colpita - racconta sempre Ola -. Ora posso dire che ho un figlio palestinese".
   Prima della fine del turno l'ospedale ha pubblicato un annuncio sul gruppo Facebook Leche League (di madri che allattano) per chiedere la disponibilità a qualche madre volontaria e hanno risposto in migliaia. Donne arabe, ebree, israeliane, palestinesi. Senza differenza.
   "Ogni madre l'avrebbe fatto" recita la didascalia alla foto diffusa dall'ospedale. Ogni madre. Davvero.

(fanpage, 7 giugno 2017)


Scoperta la strada su cui camminava Gesù per andare al Monte del Tempio

Importanti scoperte archeologiche a Gerusalemme: le prove della distruzione del Tempio da parte dei romani e la strada su cui camminava Gesù per recarsi nel sacro edificio.

di Paolo Vites

Il Monte del Tempio è quella parte di Gerusalemme nota oggi come la spianata delle moschee, uno dei luoghi religiosi più contesi al mondo per l'importanza che riveste per cristiani, ma soprattutto ebrei e musulmani. E' la zona dove sorgeva il Tempio ebraico, distrutto e ricostruito più volte nel corso dei secoli per poi essere definitivamente distrutto dai romani nel 70 dopo Cristo. Era qui che Gesù quando era a Gerusalemme veniva a pregare e predicare, compreso il famoso episodio della cacciata dei mercanti.
   In questi giorni le autorità archeologiche israeliane hanno annunciato l'ennesima scoperta straordinaria di questa città, che continua a rilasciare prove di quanto si legge nell'Antico e nel Nuovo testamento. In particolare gli archeologi si dicono convinti di aver trovato le prove della distruzione di Gerusalemme e del Tempio nel 70 dopo Cristo, quando i romani soffocarono nel sangue la ribellione degli ebrei dopo anni di assedio. Sono infatti state trovate punte di frecce e palle di pietra, usate dai romani lanciandole con le catapulte.
   Ma non solo: gli archeologi hanno scoperto anche un tratto di strada risalente allo stesso periodo storico che dalle porte di Gerusalemme passando vicino alla piscina di Siloe arriva al Tempio: la strada, dicono, che Gesù ha percorso innumerevoli volte per recarsi al Tempio. La costruzione della strada risalirebbe a poco dopo Erode, quindi sarebbe stata fatta su iniziativa del governatore Ponzio Pilato. La porzione del percorso scoperto è lunga circa cento metri e larga 7 e mezzo, composta da larghe pietre tipiche di come i romani costruivano le strade. I lavori degli archeologi continueranno per altri cinque anni, nei quali si spera di fare altre scoperte importanti, riaprendo la strada ai turisti e ai pellegrini.

(ilsussidiario.net, 7 giugno 2017)


Ministro degli Esteri saudita: il Qatar deve recidere i legami con Hamas

RIAD - Il movimento islamico palestinese Hamas si è detto dispiaciuto per le accuse lanciate dall'Arabia Saudita nei suoi confronti. In una nota il gruppo palestinese sostiene di non comprendere le dichiarazioni del ministro degli Esteri saudita, Adel al Jubeir, rilasciate nel suo viaggio in Francia in quanto "Riad ha sempre sostenuto la causa palestinese". Le parole di Al Jubeir secondo Hamas "contrastano con il sentimento comune degli arabi che vedono in noi un movimento di resistenza legittima all'occupante israeliano che è il nemico principale della nazione araba e islamica". Per Hamas "Israele approfitterà di queste dichiarazioni di al Jubeir per compiere altri crimini e violazioni nei confronti del nostro popolo e di Gerusalemme". Al termine del suo viaggio in Francia, il capo della diplomazia di Riad ha spiegato ai giornalisti che "l'obiettivo della rottura delle relazioni con Doha non è quello di danneggiare il Qatar, ma di imporle una scelta". Doha è stata anche accusata di essere al fianco dell'Iran e di sostener i ribelli sciiti Houthi dello Yemen contro cui stanno combattendo le autorità saudite.

(Agenzia Nova, 7 giugno 2017)


Firenze - Lizzie Doron in Sinagoga chiude la prima edizione del "Balabrunch con l'autore"

Lizzie Doron
E' considerata una delle voci femminili più interessanti del panorama letterario israeliano. Lizzie Doron sarà la protagonista dell'ultimo appuntamento con il "Balabrunch con l'autore" in programma domenica 11 giugno a Firenze (ore 11,15 - Sinagoga Via Farini, 11). Il "Balabrunch con l'autore" è la rassegna culturale ideata dalla Comunità ebraica di Firenze in collaborazione con Siena, Pisa, Pistoia e Livorno per promuovere incontri con autori ebrei di fama internazionale all'insegna della convivialità.
Tra cultura e gusto Dopo aver dedicato molte opere alla memoria della Shoah e al ruolo delle generazioni successive ("Perché non sei venuta prima della guerra", "L'inizio di qualcosa di bello"), Doron è in queste settimane in libreria con il nuovo volume edito da Giuntina, "Cinecittà", dove racconta la storia di un'amicizia forse impossibile con un film-maker palestinese. Di questo e di tanto altro si parlerà nell'appuntamento di domenica, incontro conviviale per meglio conoscere la scrittrice israeliana, il suo mondo e il suo vissuto, degustando ottimi piatti della tradizione culinaria ebraica preparati da Michele Hagen e dallo chef Jean Michel Carasso (costo brunch 10 euro). Sarà così possibile degustare hummus, insalata di barba rossa e arance, peperoni grigliati con olive e pomodoro, carote al cumino, zaaluk di melanzane, sfungato di patate e melanzane, brik farciti al tonno, couscous, bidaoui alle verdure miste, dolce di matzoth banane e fragole e frutta fresca.
Aperitivo a Pistoia Per tutto il giorno, inoltre, sono in programma visite guidate in Sinagoga (alle ore 14, ingresso a prezzo ridotto 5 euro).Dopo l'appuntamento fiorentino, Lizzie Doron sarà lunedì 12 giugno a Pistoia per un aperitivo al Museo Marino Marini (ore 19,30). Per info e prenotazioni: tel 0552346654 - 055245252 sinagoga.firenze@coopculture.it - sandra@firenzebraica.it

(agenziaimpress, 7 giugno 2017)


Israele e BDS. Dalla parte (questa volta) di Thom Yorke contro Roger Waters

di Davide Mura

Roger Waters, ex-leader dei Pink Floyd, un po' sopravvalutato e mitizzato, soprattutto dai fan, di cui io stesso faccio parte, anche se con uno spirito un po' più critico nei confronti delle doti artistiche del bassista. Roger Waters, il quale, da qualche tempo si spende in una folle campagna contro Israele e in favore dei palestinesi (BDS e Artists for Palestine UK); campagna che, puntualmente, accusa Israele di segregare i palestinesi. Roba da Pallywood, che naturalmente è portata avanti e propagandata da una buona parte dei media, degli artisti e dei politici liberal e progressisti, soprattutto in Europa, terra nella quale - ormai è assodato - la forte presenza islamica ha fatto perdere la bussola della storia a qualcuno.
   Thom Yorke, d'altro canto, oltre a non entusiasmarmi musicalmente, ha idee parecchie distanti dalle mie. Del resto, è un divo del rock in odore di radical chiccherismo né più né meno di Roger Waters. Non a caso, in polemica proprio con Waters, afferma candidamente che le divisioni e non il dialogo producono i Netanyahu, le May e i Trump. Roba da far venire i capelli bianchi e da far cadere i santissimi. Ma tant'è… Essere artisti, del resto, oggi pare richiedere necessariamente la fede liberal, mondialista e propal. E Yorke sembra non fare eccezione alla regola.
   Detto ciò, è comunque indubbio che, al di là delle discutibili idee politiche, costui comunque abbia avuto l'assennatezza di dire NO all'invito di Waters e di altri quarantanove artisti (quelli del Artists for Palestine UK) di annullare il concerto a Tel Aviv, per protestare contro - dicevo - la "segregazione" dei "poveri" palestinesi. Le ragioni le ho già anticipate: dire NO, crea divisioni e impedisce il dialogo. Dunque, i Radiohead (di cui Yorke è leader), suoneranno comunque in terra israeliana. Decisione che ha infastidito il buon Waters, che si lagna del fatto che Yorke non ha voluto parlare con lui.
   Che dire? Diamo atto di questo inaspettato "coraggio", benché le ragioni di Yorke sanno tanto di un colpo al cerchio e uno alla botte, con una legittima attenzione al portafogli. Ma di questi tempi, pretendere di più è davvero impossibile. Così se sarà pure vero - come dice Roger Waters - che molti artisti, in USA, non hanno il coraggio di esprimere la loro posizione anti-israeliana per paura di essere additati come antisemiti, è probabilmente vero che la stragrande maggioranza degli artisti di tutto il mondo non si esprime in merito, forse perché non condivide una battaglia ideologica, basata su un castello di colossali balle, soprattutto storiche e geografiche.

(Il Petulante, 7 giugno 2017)


Wonder Woman: programmazione del film sospesa in Tunisia

Variety riporta che la programmazione nei cinema della Tunisia di Wonder Woman è stata sospesa, in seguito a una causa legale intentata nella giornata di lunedì dalla associazione dei giovani avvocati tunisini, la quale ha affermato che l'attrice Gal Gadot, protagonista della pellicola è una "campionessa del sionismo". Il tribunale di Tunisi ha quindi deciso di fermare la programmazione del film, in attesa di esaminare e decidere sulla causa legale.
L'adattamento cinematografico sull'eroina DC Comics aveva conosciuto un fatto simile la settimana scorsa in Libano, in seguito alla richiesta di vietare il film perché l'attrice Gal Gadot è di nazionalità israeliana, oltre al fatto di avere servito nell'esercito di Tel Aviv in passato.
Problemi sono stati segnalati anche in Algeria, dove Wonder Woman avrebbe dovuto aprire la seconda edizione della rassegna Nuits du Cinema, festival organizzato durante il mese del Ramadan. In questo caso però non è chiaro se la Gadot fosse il problema, e gli organizzatori hanno dichiarato che sono solamente sorti inconvenienti amministrativi inerenti i diritti, senza chiarire nello specifico.
In Algeria nei giorni scorsi è partita una petizione per boicottare il film, che nei prossimi giorni dovrebbe uscire in Marocco, Egitto ed Emirati Arabi.

(Lo spazio bianco, 7 giugno 2017)


"Islamisti più forti degli angeli di Manchester"

Parla Nazir-Ali: ''Non sappiamo perché la civiltà è attaccata"

di Giulio Meotti

 
Michael Nazir-Ali
ROMA - 23 mila islamici radicali in Inghilterra, 15 mila in Francia, 19 mila in Belgio (metà solo a Molenbeek) e 10 mila in Germania. Sono i numeri nelle Terror watch list ufficiali dei quattro paesi europei più colpiti dal terrorismo islamico. Un esercito di 66 mila islamisti sul suolo europeo. Il primo a denunciare che nei fortini del multiculturalismo britannico stava crescendo un'armata di fanatici antioccidentali fu un vescovo anglicano, Michael Nazir-Ali, il più giovane della storia della chiesa d'Inghilterra. Nel 2002, quando Tony Blair fu chiamato a scegliere il successore di Lord Carey alla guida della Church of England, Nazir-Ali era il grande favorito. Ma lo spettro della crisi interna alla chiesa inglese, con i suoi settanta milioni di fedeli, spinse Downing Street a preferire i toni più morbidi del gallese Rowan Williams.
   Figlio di un musulmano convertito al cristianesimo, il vescovo Nazir-Ali ha conosciuto il doppio fuoco del fondamentalismo islamico, prima da pastore nel "paese dei puri", il Pakistan, che condanna a morte Asia Bibi, e poi in Inghilterra, dove il vescovo gira con la scorta, da quando gli islamisti lo minacciarono di morte. "La ghettizzazione e la segregazione delle comunità islamiche in tutta Europa ha dato l'opportunità all'estremismo islamico di radicalizzarsi nelle moschee, nelle scuole e nelle prigioni", dice al Foglio il vescovo Nazir-Ali. "Theresa May ha riconosciuto questo, ma quando lo dissi io mi risero in faccia. Dissi che c'erano le 'no-go zones', e mi biasimarono. La Henry Jackson Society ha condotto un sondaggio secondo cui la stragrande maggioranza dei terroristi viene dai ghetti. Il multiculturalismo è una delle rovine del nostro tempo. Ma assieme al ghetto, c'è l'internazionalismo dell'islam radicale. In Pakistan, in Siria, in Inghilterra, ovunque è lo stesso problema, l'estremismo islamico. Sono appena tornato dal Kenya e anche lì hanno lo stesso problema. Non è sufficiente rimuovere il materiale su internet, si deve eliminare la contronarrativa nelle madrasse, nelle moschee, nelle università".
   Gli inglesi dicono di rispondere al terrore con i "British values". "Carry on è solo un wishful thinking, è il rifiuto di prendere in considerazione i motivi per cui la civiltà è attaccata e chi la attacca. Gli islamisti pensano che la vittoria ultima sia dell'islam e che chiunque si metta sulla loro strada debba essere attaccato. La democrazia non è sufficiente in sé, come è successo in Europa negli anni Trenta. Si parla della 'rule of law', ma anche questa non basta. Dicono 'tolerance', ma questa ha portato ai problemi che vediamo oggi. Poi 'respect', ma puoi rispettare le persone anche criticando la loro fede. I media hanno una grande responsabilità in tutto questo, perché decidono cosa è 'accettabile'. Il jihad è un dovere fisico o culturale nell'islam. Devono aprire il mondo alla propagazione dell'islam. Pensano che l'occidente esporti la sua decadenza nei paesi islamici. Nei loro ghetti inglesi non consentono alcol, droga, pantaloni corti e così via. Odiano tutto ciò che non è musulmano, non soltanto l'occidente, ma anche gli yazidi, gli hindù, gli ebrei, gli alawiti"
   Nazir-Ali ritiene che il secolarismo militante abbia molte colpe. "Il secolarismo ha reso le persone ignoranti su come la religione motiva le persone. Così si cerca sempre la motivazione economica, sociale. Ma l'odio, che vi piaccia o no, è spesso religioso. Il secolarismo ha rimosso una comune narrativa della giudeo-cristianità dall'Inghilterra per cui non ci sono più terreni fertili per la cultura. In questa totale perdita di significato ci sono solo i cliché e siamo tutti angeli come nel concerto di Manchester, ma angeli senza Dio. E' una cultura superstiziosa laica di massa".
   E' pessimista nel breve termine, Nazir-Ali. "Stiamo perdendo la guerra: c'è un flusso impressionante di rifugiati in Europa senza alcun controllo, imam radicali proliferano creando una sottocultura antioccidentale, leggi discriminanti aumentano nei paesi islamici, assieme alla persecuzione dei cristiani. Da cristiano sono speranzoso. Ma se l'Europa occidentale non riscopre se stessa, come ha detto il rabbino Jonathan Sacks, allora l'Europa cadrà nella barbarie. Papa Benedetto XVI aveva capito tutto. Ci sono due movimenti contemporanei che si incontrano qui: il rifiuto dell'Europa di capire cosa abbia creato una società liberale e la sfida dell'islam radicale. Il secolarismo non è sufficiente: i musulmani non riconoscono uguaglianza, libertà di coscienza e di espressione. L'islamismo è una ideologia spirituale e morale e, contro di essa, il secolarismo militante non potrà mai vincere".

(Il Foglio, 7 giugno 2017)


Il Congresso USA dichiara Gerusalemme "Capitale indivisa di Israele"

Meno di una settimana dopo che il presidente americano Donald Trump aveva firmato un atto di rinuncia presidenziale che impedisce lo spostamento dell'ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv a Gerusalemme, lunedì, 50o anniversario dell'occupazione israeliana dei Territori Palestinesi, il Senato americano ha approvato un decreto che dichiara Gerusalemme "la capitale indivisa di Israele".
Il decreto, non vincolante, presentato dal leader di minoranza del senato Chuck Schumer, è stato approvato con un ampio sostegno bipartisan con un voto di 90-0, secondo quanto riportato dal Jerusalem Post.
Secondo il Jerusalem Post, il senato ha approvato la risoluzione per esprimere il proprio sostegno al "Jerusalem Embassy Act" del 1995, che prevede il trasferimento dell'ambasciata statunitense a Gerusalemme. Trump aveva firmato una rinuncia presidenziale per impedire l'attuazione della legge, la scorsa settimana, seguendo le orme di ogni Presidente degli Stati Uniti dall'introduzione dell'atto. [...]

(Fonte: Infopal, 7 giugno 2017)


Università di Tel Aviv: una luce fluorescente per rilevare il cancro

 
Un team di ricercatori guidato dal Prof. Doron Shabat della Facoltà di Chimica dell'Università di Tel Aviv, ha progettato una sonda luminosa di 3000 volte più potente delle sonde esistenti, per rilevare e misurare l'attività delle cellule caratteristiche del cancro.
Lo studio, condotto in collaborazione con il Dott. Christoph Bauer dell'Università di Ginevra, è stato recentemente pubblicato sulla rivista ACS Central Science.
I bastoncini utilizzati come fonte di luce di emergenza si basano sul fenomeno della chemiluminescenza, una produzione di luce in risposta ad una reazione chimica. Ma questo processo può essere utilizzato anche per diagnosticare una malattia.
Queste le parole del Prof. Shabat:
La chemiluminescenza è considerato uno dei metodi più sensibili utilizzati nella diagnostica. Abbiamo sviluppato un metodo per creare composti altamente efficaci che emettono luce al contatto con una proteina o con un prodotto chimico specifico e possono essere utilizzati tra l'altro come sonde molecolari per rilevare le cellule tumorali.
I ricercatori hanno scoperto che l'impostazione della struttura elettronica dei sensori aumenta la loro fluorescenza. Il nuovo meccanismo ha prodotto una sonda chemiluminescente di 3000 volte più luminosa delle sonde esistenti, resistente all'acqua e adatta alla rilevazione e la misurazione delle attività cellulari, evidenziando alcune malattie come ad esempio il cancro.
Continua il Prof. Shabat:
Abbiamo sviluppato una nuova e particolarmente potente metodologia che ci permette di creare dei sensori altamente efficaci per il rilevamento, la visualizzazione e l'analisi di varie attività cellulari.
Attualmente i ricercatori stanno esplorando dei modi per amplificare la chemiluminescenza per applicarla al settore dell'imaging medico e rilevare così una più ampia gamma di malattie e salvare vite umane.
La ricerca dell'Università di Tel Aviv è stata in parte finanziata dalla Fondazione israeliana per la scienza, la Fondazione binazionale israelo-americana delle scienze, la Fondazione israelo-tedesca e l'Israel national Initiative Nanotechnology Initiative.

(SiliconWadi, 7 giugno 2017)


Arabia saudita: il Qatar smetta di finanziare Hamas e la Fratellanza Musulmana

Il Qatar smetta di finanziare Hamas e la Fratellanza Musulmana che stanno minando la stabilità di Palestina ed Egitto impedendo qualsiasi soluzione di pace nella regione.

A pronunciare queste parole è stato il Ministro degli Esteri saudita, Adel al-Jubeir, durante un colloquio con i giornalisti avvenuto ieri a Parigi. La stampa chiedeva a Adel al-Jubeir di fare il punto della situazione in merito alla gravissima crisi diplomatica scoppiata tra diversi Paesi del Golfo e il Qatar, crisi esplosa a seguito delle accuse mosse in particolare dall'Arabia Saudita verso il piccolo ma potente emirato in merito al suo sostegno al terrorismo.
«Il Qatar deve smettere di sostenere Hamas» ha ripetuto il Ministro degli Esteri saudita «quando è troppo è troppo» ha poi aggiunto con riferimento al fatto che il sostegno del Qatar ad Hamas mina l'Autorità Nazionale Palestinese (ANP) è mette a rischio qualsiasi tentativo di accordo con Israele....

(Right Reporters, 7 giugno 2017)


Due mostri sacri del rock se le «suonano» su Israele

Thom Yorke (Radiohead) si nega a Roger Waters: «Nessun boicottaggio»

di Alvise Losi

Esistono i muri fisici. E poi esistono i muri mentali. E non è detto che i primi siano più efficaci dei secondi nel loro intento di dividere. Anzi. A dame l'ennesima dimostrazione è l'ultima lite rock avvenuta tra Thom Yorke dei Radiohead e Roger Waters, ex bassista dei Pink Floyd. Praticamente due giganti del rock britannico di epoche diverse. Il tutto nasce qualche mese fa quando i Radiohead (a Firenze il 14 giugno e a Milano il 16 giugno) annunciano per il 19 luglio a Tel Aviv il loro primo concerto in Israele dal 2005. Apriti cielo. O acque del Mar Rosso. Perché vista la fama di artisti impegnati che circonda la band inglese, da sempre attenta a temi civili e ambientali, alcuni loro colleghi si sono scagliati contro la decisione, invitandoli ad annullare il concerto e ad aderire alla campagna BDS (Boicottaggio Disinvestimento Sanzioni) contro Israele. Stato colpevole secondo questo movimento di compiere un atto di colonizzazione, occupazione e apartheid nei confronti del popolo palestinese.
   Uno dei più tenaci sostenitori di questa campagna è appunto Waters, che proprio contro i muri ha costruito la seconda parte della sua carriera dopo la pubblicazione con i Pink Floyd nel 1979 del concept album The Wall, tornato in grande auge (il disco, ma anche Waters) in occasione dell'elezione a presidente degli Stati Uniti di Donald Trump, che proprio sul muro al confine con il Messico aveva costruito mezza campagna elettorale. Il coro di Another Brick In the Wall, recita «Non abbiamo bisogno di educazione, non abbiamo bisogno di essere sorvegliati». Più o meno quello che, dopo mesi di silenzio, ha voluto rispondere Yorke all'ex Pink Floyd. «C'è una enorme quantità di persone che non è d'accordo con il movimento BDS, inclusi noi», ha dichiarato in un'intervista all'edizione americana di Rolling Stone. «Non sono d' accordo con l'idea di un embargo culturale. È profondamente desolante che invece di parlare direttamente con noi, abbiano deciso di buttarci merda addosso pubblicamente. È profondamente irrispettoso avere la presunzione che noi siamo disinformati o che siamo tanto ritardati da non prendere decisioni autonomamente. Tra l'altro Jonny Greenwood (chitarrista dei Radiohead, ndr) ha amici sia palestinesi sia israeliani e sua moglie è una ebrea araba (la famiglia del padre è di origine irachena e la madre è egiziana, ndr). Ora potete immaginare quanto sia offensivo questo atteggiamento nei nostri confronti?»,
   In tutta risposta Waters ha accusato Yorke di aver mentito, dicendo di aver tentato ben due volte di contattarlo via mail e di averne ricevuto solo risposte arrabbiate. Waters nella chiusura del suo intervento ha anche citato il «Restiamo umani» di Vittorio Arrigoni, il giornalista e attivista italiano morto a Gaza nel 2011.
   Il paradosso in tutta questa diatriba è che un tema «di sinistra» come il boicottaggio di Israele sia stato usato contro un gruppo come i Radiohead, di certo non conservatore visto l'appoggio di Yorke a Jeremy Corbyn alle elezioni britanniche di domani. «È uno spreco di energie che potrebbero essere usate in modo più costruttivo», ha accusato Yorke in riferimento a Waters. «Non è un modo di incoraggiare il dialogo o la comprensione. Come puoi pensare di fare dei progressi se crei divisione? Sai cosa puoi ottenere? Gente come Theresa May, Benjamin Netanyahu, Donald Trump. Ecco cosa ottieni. E loro sì che sono divisivi».

(Libero, 7 giugno 2017)


Il grande cuore d'Israele

di Yossy Raav

Ostrowski-Zak e il bambino
L'ospedale Hadassah Ein Kerem
Una piccola grande storia. E' la storia di un bambino palestinese scampato per miracolo ad uno spaventoso incidente frontale mortale avvenuto sulla statale 60 in Cisgiordania. Il padre è morto sul colpo, niente da fare per lui. La madre, che non indossava la cintura di protezione, si è vista catapultata contro il vetro ferendosi gravemente la testa. Illeso, come detto, per le incredibili vicende della vita, il bambino di appena nove mesi.
Ma trasportato all'ospedale Hadassah Ein Kerem di Gerusalemme, quando si è tentato di dar da mangiare al piccolo ci si è trovati davanti all'improvviso rifiuto del biberon. Non c'è stato niente da fare.
Ecco allora che a risolvere la situazione (ne ha dato notizia YnetNews) ci ha pensato una infermiera dell'ospedale Ostrowski-Zak che senza pensarci due volte ha allattato il bambino per cinque volte nella giornata. Poi l'infermiera ha lanciato un appello su una pagina Facebook specializzata per poter organizzare dei turni quando lei non era in ospedale al lavoro. Nell'arco di due ore ha ricevuto moltissime risposte di donne disposte a recarsi nell'ospedale, persino dalla lontana Haifa, per aiutare a nutrire il bambino fino a quando non verrà dimesso. Il grande cuore d'Israele

(Italia Israele Today, 6 giugno 2017)


Possibili nuove relazioni tra Israele e Stati musulmani sunniti

Accomunati dalla lotta al terrorismo

GERUSALEMME - La recente tensione diplomatica tra Qatar e l'asse composto da Arabia Saudita, Bahrein ed Egitto potrebbe essere un'occasione per dare un nuovo assetto agli equilibri mediorientali. Nel futuro quadro di relazioni che sembra delinearsi, sotto l'influenza dalla recente prima visita all'estero del presidente Usa Donald Trump prima a Riad e poi a Tel Aviv, Israele potrebbe assumere un ruolo "diverso". Secondo quanto dichiarato ad "Agenzia Nova" dall'ambasciatore israeliano in Italia Ofer Sachs, "il mondo musulmano moderato non vede più Israele come grande nemico della stabilità in Medio Oriente". Il diplomatico ha inoltre osservato che "è pensabile, anche se non nell'immediato, che l'isolamento di Doha possa influenzare positivamente le relazioni tra Israele e gli stati musulmani sunniti". Ad intravedere un impatto positivo per lo Stato ebraico della crisi con Doha anche il ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman, che ieri, l'ha definita una "grande opportunità" per unire le forze con i paesi vicini e combattere il terrorismo. "Anche gli Stati arabi hanno compreso che il rischio nella regione non è Israele, ma piuttosto il terrorismo. Questa è un'opportunità per collaborare", ha affermato Lieberman.

(Agenzia Nova, 6 giugno 2017)


2 giugno: spiaggia di Tel Aviv con il tricolore e Raiz

'Musica on the beach' chiude le iniziative per la Festa della Repubblica

di Massimo Lomonaco

 
TEL AVIV - La spiaggia di Tel Aviv è stata ravvivata ieri sera dal tricolore in un'inedita, e riuscita, manifestazione che ha chiuso le iniziative in Israele per la Festa della Repubblica del 2 giugno promosse dall'ambasciata italiana. Decine di persone, tra cui il sindaco della città Ron Huldai, hanno assistito ad uno spettacolo - organizzato dall'Istituto italiano di cultura diretto da Massimo Sarti - che ha fatto della musica italiana la protagonista della serata all'insegna dello slogan 'Musica on the beach'. Sul palco - attrezzato in una delle spiagge più rinomate, quella di 'Lala Land' - le arie classiche del melodramma italiano si sono alternate a quelle del jazz e del pop. 'Guest star' è stato Raiz, voce degli Almamegretta (accompagnato da Giuseppe De Trizio alla chitarra, e da Adolfo La Volpe, chitarra e oud), che ha spaziato dal folk, al soul, al reggae, alternando dialetto napoletano ed ebraico in un mix di brani di grande fascino. Tra tutte, 'Jerusalem', dedicata - ha detto Raiz che in Israele è di casa - "alla coesistenza, alla felicità e alla pace". Ma anche 'Ma hu oseh', cover in ebraico di 'Maruzzella', un classico della canzone napoletana.
   In un omaggio a Fabrizio De Andrè, Raiz, in italiano, e il cantante Roy Rieck, in ebraico, hanno poi interpretato 'Amore che vieni amore che vai'. Prima di loro, grazie ai soprani Hila Baggio, Mirella Gradinaru, Anastasia Klevan, Shiri Hershkovitz e al pianista Ethan Schmeisser, le arie da alcune opere di Rossini, Donizetti, Puccini e Verdi che hanno riproposto il meglio della lirica italiana, peraltro molto seguita in Israele.
   "Una serata di grande festa. E' stato molto emozionante immergersi nel tramonto di Tel Aviv, colorato - ha detto Sarti - dalle note della nostra grande musica".
   Per l'ambasciatore italiano Francesco Maria Talò, intervenuto in apertura, 'Musica on the beach' è stata un modo nuovo di portare la cultura italiana al pubblico israeliano in una delle sue componenti maggiori e ha ricordato gli stretti legami tra i due paesi, testimoniati dalla presenza, durante la Festa in residenza, del presidente israeliano Reuven Rivlin. E proprio nella cornice del lungomare della città, Talò ha ribadito l'importanza della lotta per la difesa dell'ambiente in un momento in cui a livello internazionale il fronte comune si e' incrinato con la recente decisione Usa. "L'Italia - ha detto - crede nella scienza". Non a caso il tema è stato l'altro perno delle iniziative messe a punto per la Festa del 2 giugno che hanno visto nel programma 5 conferenze scientifiche. Nel loro ambito c'e' stata la presenza di geologi e vulcanologi, tra cui i presidenti italiano e israeliano dei rispettivi Istituti di geofisica e vulcanologia. "Un'occasione unica - ha fatto presente l'addetto scientifico Stefano Boccaletti - per lo scambio di 'best practice' nella gestione di terremoti, compresa la visita fatta dai delegati alla faglia geologica del Mar Morto per osservare le tecniche israeliane nella previsioni dei sismi". Infine una conferenza dedicata al programma Erasmus per portare più studenti israeliani in Europa e un'altra incentrata sulle tecnologie del cibo per sostenibilità e sicurezza alimentare con la direttrice di Eataly e aziende italiane a colloquio con la controparte israeliana.

(ANSAmed, 6 giugno 2017)


Washington sta valutando il ritiro dal Consiglio dei diritti umani dell'Onu

Gli Stati Uniti stanno prendendo in considerazione di ritirarsi dal Consiglio Onu sui diritti umani, a cui contestano una posizione "parziale" su Israele. Lo ha annunciato l'ambasciatrice statunitense alle Nazioni Unite, Nikki Haley, dichiarando che Washington sta "osservando con attenzione" il suo ruolo nel Consiglio dei diritti umani. E' stato "difficile accettare" il fatto che siano state approvate cinque risoluzioni contro Israele, alleato americano, ma nessuna sul Venezuela, ha spiegato l'ambasciatrice.

(Adnkronos, 6 giugno 2017)


Italia-Israele - Sachs: migliorare l’interscambio commerciale ampliando i settori business

ROMA - L'interscambio commerciale tra Italia ed Israele può migliorare, affrontando la sfida di ampliare i settori di attività. Lo ha detto l'ambasciatore israeliano in Italia, Ofer Sachs, in occasione dell'evento sulle opportunità di business fra Italia e Israele "Focus Israele - Start up e high-tech nation", che si è svolto oggi a Roma per presentare Italy/Israel Greenmed Summit 2017, che si terrà a Tel Aviv il 13-14 settembre prossimi. "Israele e Italia hanno relazioni intime nei settori della difesa, della cultura, ma quando si parla di commercio, penso si possa fare meglio", ha affermato il diplomatico. Pur riconoscendo il valore "sopra l'immaginazione" della cooperazione accademica, Sachs evidenzia come il potenziale non viene sfruttato per trasformarlo in business. Un altro aspetto per migliorare le relazioni commerciali fra i due paesi è "ampliare i settori", che attualmente sono quelli tradizionali, ricorda il diplomatico. A fronte di un interscambio commerciale tra Italia ed Israele di circa 3 miliardi di dollari, i settori rimangono "tradizionali", con l'Italia che esporta prodotti automobilistici, di moda e cibo, mentre lo Stato ebraico esporta prodotti dei settori farmaceutico e chimico. I settori "nuovi" in cui, secondo il diplomatico, si può procedere più velocemente sono i dispositivi medici; la smart manufacturing; l'agricoltura, ed il cyber (tecnologia finanziaria e infrastrutture critiche).

(Agenzia Nova, 6 giugno 2017)


1967, l'Italia offre un approdo agli ebrei fuggiti dalla Libia

Dopo la guerra dei Sei Giorni le comunità furono perseguitate Molti morirono, altri furono espulsi. Il successo dell'integrazione.

di Ariela Piattelli

 
Quarantaquattro anni dopo
David Gerbi, esule dalla Libia nel 1967, è tornato nel 2011 a visitare la sinagoga di Dar Bish a Tripoli. All’indomani dei tumulti per la guerra dei Sei Giorni, Gheddafi espulse i superstiti della comunità (38 mila persone) dalla Libia e confiscò i loro averi. Molte sinagoghe furono distrutte.

ROMA - Ai profughi diceva «Intanto avete salva la vita, adesso dovete ricominciare». Quando entrò la prima volta nel campo profughi di Santa Maria Capua Vetere gli andarono incontro disperati per conoscere il destino dei loro cari, per chiedergli aiuto. Lo chiamavano «Berto», Alberto Fellus, era un leader già dai tempi di Tripoli, e guidò, assieme ad altri personaggi, la rinascita della sua comunità in Italia. Era fuggito dalla Libia nel giugno del '67, quando con lo scoppio della Guerra del Sei Giorni la furia degli arabi si scagliò contro gli ebrei: molti furono uccisi, altri riuscirono a prendere la fuga e ad arrivare in Italia.
Berto a Tripoli era rappresentante e distributore di prodotti alimentari. Viveva nel quartiere internazionale, parlava le lingue, era un punto di riferimento per la comunità. Arrivò all'aeroporto di Roma dopo una fuga rocambolesca con la moglie Iris e le tre figlie, Claudia, Jacqueline e Gabriella. «La situazione precipitò improvvisamente - ricorda Iris - ci svegliammo una mattina al grido di "Jihad, Jihad" nelle strade. La furia e la violenza contro gli ebrei furono spaventose, e la polizia libica non riuscì a placarle. Restammo in casa e con l'aiuto di un amico fuggimmo. Non tutti furono fortunati come noi, da Tripoli e Bengasi molti fuggirono, ma nei villaggi della Libia gli ebrei vennero quasi sterminati. Arrivammo a Roma da profughi, avevamo perso tutto. Berto non si scoraggiò e di li iniziò la nostra rinascita». Andarono a vivere in una casa, cinque in una stanza, vicino alla stazione Termini. Quello fu il destino dei più fortunati: grazie al sostegno di amici e famigliari arrivati prima, alcuni ebrei libici trovarono un appoggio.

 A Capua
  Gli altri finirono nei campi profughi di Capua e Latina. «Io ero una bambina, non posso dimenticare in che condizioni vivevano quelle persone - ricorda Claudia -. Andavo nel campo profughi di Capua con papà ogni giorno. C'era un'enorme tenda che ospitava i profughi. Lui faceva l'inventario delle esigenze. Ricordo i racconti, i rimpianti, la disperazione, il vissuto dello sradicamento. Avevano perso tutto, e pensavano alla sopravvivenza dei loro figli. Ricevevano il superfluo, ma non il necessario. Era una situazione paradossale. Papà gli spiegava che la fine era un nuovo inizio». All'arrivo in Italia, Berto assieme ad altre guide della comunità libica, costituirono il Comitato Assistenza Ebrei di Libia, per cercare di organizzare l'accoglienza, dialogare con le Istituzioni e con la Comunità Ebraica di Roma, guidata dal Rabbino Capo Elio Toaff, che si adoperò per far fronte all'emergenza. Nella corrispondenza, che le figlie di Berto conservano, il Comitato lamenta un mancato censimento di profughi ebrei libici nei campi, e che questi, malgrado ricevessero cibo, non potevano nutrirsene, visto che rispettavano le regole alimentari dell'ebraismo. «Mio padre costituì una sorta di mutuo soccorso - continua Claudia -. Chi aveva dava». Era l'antica tradizione di chi nelle sinagoghe in Libia faceva le raccolte per i più bisognosi. «Ma l'aiuto non era mai fine a se stesso: ricordo che papà diede dei soldi ad un ragazzo per sposarsi, per un nuovo inizio. Era un concetto costruttivo di assistenza. Si voleva l'aiuto per ripartire, per riscattarsi. Chi aveva già costruito aiutava l'altro. E Berto, insieme ad altri, era il ponte tra due mondi, tra chi era arrivato e chi arrivava».

 Ripartire
  Ripartire dal campo profughi era la missione più difficile. Linda Hassan aveva 32 anni quando è giunta al campo profughi di Capua: «Sono arrivata con quattro figli, l'ultimo aveva 7 mesi. Mio marito Leone intanto andò a Roma a cercare fortuna - racconta-. Non sapevamo cosa ci aspettasse, il campo era immenso, c'erano pochissime persone, la maggior parte dalla Jugoslavia. Era una desolazione completa. E io non avevo nulla da dare ai miei figli. L'acqua era sporca, uno dei miei figli si ammalò. Ci davano un litro di caffè e pochi pesci fritti come fossimo cani. Restavo sveglia tutta la notte, per vegliare sui bambini. Era un inferno. Non abbiamo avuto nessuna assistenza, ma pensavamo che malgrado tutto, i pogrom, le sofferenze, la fuga, eravamo vivi». Anche Linda, uscita dal campo profughi, ricominciò a vivere: «Io a Tripoli non ho mai lavorato, a Roma iniziai a fare dei lavoretti, ci rimboccammo le maniche. Noi ebrei di Libia abbiamo una caratteristica, siamo orgogliosi, teniamo alla nostra dignità. Quando non avevamo possibilità economiche a Roma, compravo vestiti da pochi soldi, e li rendevo prodotti di boutique»

 Salvi per miracolo.
  Rafael Bedusa, 74 anni, arrivava da Bengasi al campo di Capua, dove restò per un mese con i cinque fratelli e i suoi genitori: «A Bengasi eravamo circa 200 ebrei - racconta Rafael -. Il 5 giugno fummo portati in prigione, in modo cautelativo, per evitare che fossimo linciati nelle rivolte. Non potevamo sentire le notizie dalla radio, ascoltavamo solo le fonti arabe che dichiaravano di aver distrutto Israele, e così credevamo. Eravamo disperati. Alla fine ci caricarono sugli aerei e arrivati in Italia ci mandarono al campo profughi. Eravamo salvi per miracolo, trovarci al sicuro era un altro miracolo. Io aiutavo al centralino telefonico. Alla mensa ci davano cibo che non potevamo mangiare, così le donne si organizzarono per cucinare. A me piaceva giocare a calcio, e organizzavo partite. Era un modo per sopravvivere. Un giorno incontrai per caso una persona che avevo aiutato in passato e mi diede del denaro per iniziare, presi la mia famiglia e la portai via da li. Così iniziò la nostra avventura».

(La Stampa, 6 giugno 2017)


"I jihadisti sono come i nazisti. Nessuna pietà sul piano militare"

Il filosofo Levy: hanno solo aggiunto l'elemento religioso. Basta con le giustificazioni di natura psicologica o sociologica.

di Bernard-Henri Levy

Non sono pazzi e neppure dei poveri emarginati, seguono e applicano un'ideologia precisa Va incoraggiata la maggioran-za dei musulmani a esprimere il netto rifiuto del jihadismo Sostenere che non hanno nulla a che fare con l'Islam
è uno sbaglio gravissimo

 
Bernard-Henri Levy
«C'è un filo diretto che collega i terroristi di oggi al nazionalsocialismo di ieri. Se non seguiamo questa spiegazione politica del fenomeno, e non la sommiamo a quella religiosa, non riusciremo mai a capirlo e sconfiggerlo».
Il filosofo francese Bernard-Henri Levy passeggia nei corridoi del global forum dell'American Jewish Committe, mentre fa queste riflessioni. A cui aggiunge anche una dura critica del presidente Trump: «Quello che sta facendo soddisfa la strategia dell'Isis e lo aiuta a colpire».

- Come giudica gli attacchi di Manchester e Londra?
  «Il terrorismo è insieme un fenomeno politico e religioso. Sul piano politico, questi gruppi sono nazionalsocialisti. Sono l'ultima "perla" prodotta dall'ostrica del nazismo. C'è un filo conduttore che li lega a quell'epoca. Se lo segui, la storia del terrorismo di oggi ci riporta all'inizio degli Anni Trenta, quando la rivoluzione del nazionalsocialismo si affermò prima in Europa, e poi si propagò in tutto il mondo, raggiungendo anche i Paesi arabi. La Fratellanza Musulmana nacque proprio in quel periodo, come una versione araba del nazionalsocialismo. Oggi Hamas, Hezbollah, e i Fratelli musulmani sono gli eredi di questi inizi. A ciò si è unito poi l'elemento religioso».

- Come?
  «La componente religiosa del terrorismo è più complessa da spiegare, ma ha a che fare con l'islam. La maggioranza dei musulmani rifiuta questa visione oscura della propria fede, così come le letture traviate del Corano, però sarebbe un errore negare l'importanza del fattore religioso. Sostenere che il terrorismo non ha nulla a che fare con l'islam è lo sbaglio peggiore che possiamo commettere».

- E allora perché Trump sbaglia a volere il bando dei musulmani dagli Stati Uniti?
  «Adesso ci arriviamo. Prima però bisogna fare un'altra precisazione fondamentale per capire il fenomeno del terrorismo».

- Quale?
  «Dobbiamo smetterla di interpretarlo con le categorie psicologiche e sociologiche. I terroristi non sono dei pazzi o dei lunatici, e non sono neppure dei poveri emarginati. Sono persone intelligenti che seguono e applicano una ideologia ben precisa».

- Perché questa distinzione è importante?
  «Perché il problema del terrorismo non è che cosa non funziona nei nostri Paesi, o nelle nostre città, ma l'ideologia sbagliata che motiva i suoi militanti».

- Perché dunque boccia la reazione di Trump?
  «Come sempre manca il punto. Alimenta la propaganda dell'Isis, le fornisce i target, e soddisfa la sua strategia. Se vedi quello che è successo a Londra come una ragione per rilanciare il bando dei musulmani, significa che non hai capito nulla. La strategia di Isis è provocare la guerra civile, trascinando il maggior numero possibile di musulmani nel campo jihadista. Tutto quello che sta facendo Trump, con il bando e con la sua analisi sbagliata del fenomeno, li aiuta a realizzare questo obiettivo».

- In Gran Bretagna, ma anche in Francia, Belgio, Germania, il problema oggi sono i terroristi nati o cresciuti in questi paesi. Come va affrontato?
  «È una strada lunga, una grande battaglia. Non c'è una soluzione semplice, non basta premere un bottone. Devi essere implacabile politicamente; senza pietà sul piano militare, della sicurezza e della polizia; inflessibile sul tema della ideologia. Niente scuse, niente giustificazioni di natura psicologia o sociologia. Nello stesso tempo, però, devi incoraggiare la maggioranza dei musulmani ad esprimere con forza il rifiuto del jihadismo».

- In Italia abbiamo un'emergenza legata alle migrazioni.
  «Altro errore cruciale da evitare. Il problema del terrorismo non sono le migrazioni. Quasi tutti i terroristi sono nati e cresciuti nei Paesi che colpiscono, non vengono da Siria, Iraq o Libia. L'errore fondamentale di Trump è collegare le due cose: migrazioni e terrorismo. In queste circostanze dobbiamo agire tutti con sangue freddo, saggezza e buona conoscenza delle cose. La cattiva conoscenza è la madre delle cattive reazioni e delle cattive strategie».

- Lei cosa suggerisce di fare?
  «Porre bene la questione. Dobbiamo chiedere ai nostri amici musulmani di accettare il fatto che il problema nasce dalla lettura sbagliata del Corano, e dall'eredità nazionalsocialista, affrontando l'emergenza sul piano religioso e politico».

(La Stampa, 6 giugno 2017)


Rassegnati a vivere nella paura come in Israele

di Michele Partipilo

Nella notte di sangue consumatasi sabato fra Londra e Torino il terrorismo islamico ha mostrato due aspetti importanti. È riuscito a colpire a Londra, città superblindata dopo gli ultimi attentati, eppure ancora molto vulnerabile. I sette morti del London Bridge sono la conferma di un fenomeno ormai evidente: i Paesi più colpiti dagli attentati jihadisti sono anche quelli che da più tempo ospitano numerose e radicate comunità islamiche.
   A colpire in Gran Bretagna, in Franci\a, in Belgio o in Germania sono prevalentemente giovani con nazionalità europea, immigrati di seconda o terza generazione, che hanno studiato in Occidente, che parlano perfettamente la lingua del Paese che li ospita, che vestono come qualunque altro giovane europeo. Questo significa da un lato che è assai difficile individuarli come possibili terroristi e dall'altro che possono contare su una rete di complici, amici, luoghi, rapporti che facilitano le loro folli azioni.
   Ma se dal piano strategico passiamo a quello politico si arriva a una constatazione ancora più grave: in troppi casi l'integrazione si è rivelata impossibile, ovvero il fallimento della società multietnica se c'è di mezzo una interpretazione radicale della religione islamica. È doloroso doverlo ammettere e cozza contro la nostra concezione di società aperta, ma molti immigrati musulmani continuano a sentirsi «ospiti» nel paese che li ha accolti e dove magari hanno scelto loro di andare per trovare lavoro, benessere, salute. Nonostante gli anni trascorsi su suolo europeo, la frequentazione di scuole occidentali, l'adeguamento a moderate forme di consumismo, restano corpi isolati della società. Cioè non sentono di appartenere alla nazione che quasi sempre ha concesso loro, insieme a tutti gli altri diritti, anche la cittadinanza.
   Questa constatazione mette purtroppo in crisi l'idea di accoglienza che in questi decenni, seppure a fatica, si è affermata nelle coscienze della stragrande maggioranza dei cittadini europei. Bisogna prendere atto che un'interpretazione radicale della religione islamica porta sempre con sé quella sottomissione che deve essere ottenuta con ogni mezzo. Ed ecco allora che gli obiettivi dei terroristi non sono solo i luoghi dove è più facile colpire e dove c'è maggiore probabilità di mietere vittime, ma sono anche luoghi simbolici dello stile di vita «dissoluto» dell'Occidente: i bar, gli stadi, i teatri, le feste. Ecco perché il concerto dell'altra sera a Manchester, ancorché irriguardoso nei confronti delle sette vittime di Londra, è stato una risposta dal fortissimo valore simbolico: la musica che unisce, rende solidali e dà forza contro la visione dello spettacolo come modello di perdizione.
   E veniamo alla tragedia - speriamo soltanto sfiorata - di Torino. Al netto delle eventuali responsabilità di chi ha organizzato l'evento senza prevedere adeguate misure di sicurezza (vie di fuga, divieto di vendita e consumo di alcolici, presenza di ambulanze, eccetera) è stato empiricamente dimostrato come la logica del terrorismo islamico ci abbia già sottomessi. Ora sappiamo che basta urlare «sono un kamikaze», oppure «adesso mi faccio esplodere» o cose di questo genere e il panico prende il sopravvento. Il fuggi fuggi, con conseguenze imprevedibili, è assicurato. Non è necessario avere esplosivi, coltelli o fucili, basta un urlo per compiere un attentato.
   La logica del terrorismo è proprio questa: far vivere la gente in una situazione di perenne insicurezza, farle avvertire in continuo la sensazione di essere minacciata, di essere sotto tiro. Un'esperienza vissuta in Italia negli anni del brigatismo, ma anche in Germania con gli estremisti della Raf o in Irlanda nella sanguinosa guerra (di religione) fra cattolici e protestanti.
   Però il terrore, nonostante le tante vittime - sempre obiettivi prescelti e mai colpiti a caso - non assunse mai quella dimensione globale che oggi percepiamo nel profondo. Senza accorgercene stiamo modificando il nostro stile di vita e stiamo accettando forti limitazioni alle nostre libertà. Dai controlli sempre più minuziosi e snervanti negli aeroporti e nelle stazioni, all'esclusione di certi luoghi dai nostri viaggi. Per non parlare dello spionaggio di cui siamo vittime inconsapevoli attraverso il web. Con l'aumentare degli attentati stanno aumentando anche le nostre rinunce: è assai probabile che, per esempio, possa essere introdotto un divieto di portare tablet o computer con sé in aereo. Non solo, ma per qualsiasi manifestazione che preveda un certo afflusso di pubblico è ormai d'obbligo prevedere rigorose misure di sicurezza e controlli di polizia: dal festival del cinema alla festa patronale, dalla sagra cittadina al concerto di qualche star è necessario allestire minuziosi interventi di prevenzione.
   Su questo tema si apre un interrogativo, forse fino a oggi un po' sottovalutato: quanto costa, in termini meramente economici e non politici o psicologici, la macchina della sicurezza? Quando leggiamo sui giornali di migliaia di uomini e sofisticati strumenti per vigilare su questa o quella manifestazione, non ci chiediamo il loro prezzo e a quali altri capitoli ogni governo toglie per impinguare il capitolo sicurezza. Con effetti anche sul piano politico, come dimostrano le polemiche inglesi sul conto della premier May che, quando era ministro, attuò una serie di tagli (in Italia si chiama spending review) nei confronti della polizia.
   Dalla notte di sabato bisogna allora imparare che il terrorismo non può essere più considerato come un male episodico e che riguarda solo gli «altri». L'idea del terrore ci sta sottomettendo e dobbiamo imparare a combatterla per la sua devastante capacità di penetrazione e imprevedibilità, rassegnandoci a conviverci a lungo, come da decenni accade in Israele.

(La Gazzetta del Mezzogiorno, 6 giugno 2017)


I terroristi islamici hanno un’ideologia violenta; noi occidentali abbiamo un’ideologia depravata. Noi vediamo loro come belve feroci; loro vedono noi come carcami putrescenti. Non riusciremo mai a integrarli, non riusciremo mai a convincerli della nostra superiorità. Perché non c’è. Sono due diverse espressioni della morte: l’una in forma di violenza, l’altra in forma di corruzione. Chissà se dopo il vanto e la paura non arrivi anche il momento della riflessione. M.C.


Arabia contro Qatar. Scontro fra canaglie

Riad accusa l'emirato di pagare gli jihadisti (da che pulpito ...). Imbarazzo in Italia dove Doha controlla hotel e case di moda.

di Carlo Panella

La decisione di Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Yemen di rompere le relazioni diplomatiche con il Qatar accusato da questi Stati, esplicitamente, di «appoggiare organizzazioni terroristiche» mette in grave imbarazzo non solo l'Ucoii, una delle organizzazioni islamiche italiane, ma anche il ministero dell'Interno e soprattutto il ministero della Giustizia. L'anno scorso una Charity del Qatar infatti, ha versato ben 25 milioni di euro all'Ucoii per finanziarne le attività e per costruire moschee in Italia. Finanziamento ammesso da Ezzedir Ezzine, il presidente dell'Ucoii, che si trova ora nella scomoda posizione di essere finanziato da un Qatar, accusato di «finanziare i terroristi».
   Accusa peraltro assolutamente veritiera e fondata perché è noto e di dominio universale che il Qatar fornisce un appoggio finanziario e politico pieno sia ad Hamas che ad Hezbollah libanese. Ezzedir Ezzine sostiene la risibile tesi che i 25 milioni ricevuti dall'Ucoii non sono da attribuire allo Stato del Qatar ma a una Charity, una struttura privata. Ma anche i sassi sanno che in Qatar, Paese non democratico, non si muove foglia, anche nelle Charity islamiche, se non sotto diretto controllo e disposizioni dello Stato e della famiglia regnante degli al Thani. L'imbarazzo per il Viminale e via Arenula per queste accuse di finanziare il terrorismo rivolte al Qatar da 5 Paesi arabi stretti alleati dell'Italia deriva dal fatto che questi ministeri considerano, per ragioni poco chiare e probabilmente per una ben strana non conoscenza dei fatti, l'Ucoii finanziata del Qatar, un interlocutore assolutamente privilegiato nelle relazioni con l'islam in Italia.
   Il ministero della Giustizia ha addirittura firmato con l'Ucoii un protocollo di intesa per l'assistenza spirituale nelle prigioni italiane. Decisione sbagliata e avventurosa, tanto che Libero ha saputo da una fonte indiscutibile che i Servizi Segreti italiani sono dovuti intervenire in extremis per depennare dalla lista degli Imam dell'Ucoii che avranno libero accesso nelle carceri italiane, alcuni nominativi, gravati da pesanti sospetti di estremismo religioso se non di fiancheggiamento morale del jihadismo. Al Viminale invece, il Comitato per l'islam in Italia è egemonizzato da alcuni professori, a partire dal presidente Paolo Naso, che apertamente appoggiano la sciagurata scelta di privilegiare l'Ucoii filo qatariota nel percorso per stipulare una Intesa con la Repubblica italiana, a scapito di altre organizzazioni musulmane, come la Confederazione Islamica, non solo rappresentative otto volte tanto delle moschee italiane, ma soprattutto di piena affidabilità sotto tutti i profili (finanziamenti inclusi). È ora auspicabile che le ragioni gravissime della rottura totale tra i Paesi del Golfo e il Qatar, inducano sia il ministero della Giustizia guidato da Marco Minniti, che quello della giustizia guidato da Andrea Orlando a rivedere le aperture di credito all'Ucoii.
   Tornando al contesto arabo, la gravità delle misure prese (espulsione entro 15 giorni dei cittadini qatarioti, blocco delle frontiere, embargo sui voli aerei ecc ... ) fa pensare a una manovra dai toni drammatici per imporre al Qatar o una rapida svolta nei suoi rapporti con Hamas ed Hezbollah - ma soprattutto nella sua semi alleanza con l'Iran - o addirittura un cambio nella guida del Paese. La solidità economica del Qatar e le sue partecipazioni azionarie in mezzo mondo, Italia inclusa, rendono difficile che le pressioni economiche abbiano successo. Ma nel contesto attuale, la gravissima accusa di finanziare il terrorismo crea un grave problema al Qatar nelle sue relazioni internazionali. Non è sicuramente un caso che queste accuse - che vengono da un Paese, l'Arabia Saudita, che di sostegno a gruppi armati ne sa qualcosa - siano state elevate a pochi giorni dalla visita di Trump in Arabia.

(Libero, 6 giugno 2017)


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Qatar isolato: Arabia Saudita, Emirati e Bahrein lo scaricano. "Sostiene il terrorismo"

Interrotte le relazioni diplomatiche. Etihad, Emirates e FlyDubai sospendono i voli. Doha: "Rottura ingiustificata"

ROMA - Qatar nel mirino per la lotta al terrore. Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi e Bahrain hanno tagliato i rapporti diplomatici col Doha, accusandolo di sostenere i "gruppi terroristici", oltre ad al-Qaida, l'Isis e i Fratelli Musulmani. Hanno annunciato inoltre la chiusura del traffico aereo e marittimo verso il piccolo ma ricchissimo emirato. La rottura dei rapporti diplomatici segue di appena 15 giorni la visita a Riad del presidente americano, Donald Trump che ha chiesto ai Paesi musulmani di agire in maniera decisiva contro l'estremismo religioso. Il Qatar, nazione ricca di gas, ospiterà i Mondiali di calcio del 2022, è stato anche escluso dalla coalizione militare araba che combatte i ribelli filo-iraniani in Yemen. A seguito dell'annuncio dei quattro paesi arabi, anche il governo riconosciuto internazionalmente dello Yemen, guidato dal presidente Abd Rabbo Mansur Hadi, ha annunciato la rottura dei rapporti diplomatici con il Qatar. Rottura "ingiustificata", è la prima reazione del Qatar nei confronti dei suoi vicini, accusandoli di voler mettere sotto la loro tutela il piccolo emirato.

 "Finanziano i terroristi"
  L'agenzia di stampa saudita Spa ha detto che Riad ha chiuso i collegamenti terrestri, aerei e marittimi con l'emirato. E citando fonti locali, ha spiegato che è per "proteggere la sua sicurezza nazionale dai pericoli del terrorismo e dell'estremismo": "L'Arabia saudita ha preso questa misura decisiva in ragione di una serie di abusi delle autorità di Doha nel corso di tutti questi ultimi anni...per incitare alla disobbedienza e mettere a rischio la sua sovranità". Anche l'Egitto ha chiuso il suo spazio aereo a tutti i mezzi aerei del Qatar. Gli Emirati Arabi Uniti hanno dato 48 ore di tempo ai diplomatici qatarini per lasciare il Paese. Abu Dhabi accusa Doha di "sostenere e finanziare" il "terrorismo, l'estremismo e le organizzazioni settarie". L'agenzia di Stato del Bahrein ha detto che il Paese taglia i rapporti con il Qatar perché Doha "mette a rischio la stabilità del Bahrein e si intromette nei suoi affari" interni. L'accusa che arriva dallo Yemen è quella di sostenere i ribelli sciiti Houthi, vicini all'Iran. Il governo di Hadi, vicino a Riad, ha sede nella città meridionale di Aden. La capitale yemenita Sanaa è invece occupata dagli Houthi da quasi tre anni.

 Sospesi voli
  Con l'annuncio dei Paesi arabi arriva anche quello delle compagnie aeree. Etihad Airways, degli Emirati Arabi Uniti, ha annunciato la sospensione dei suoi voli con destinazione e origine Qatar. La misura sarà in vigore a partire da martedì e "fino a nuovo ordine", ha precisato la compagnia. Anche la compagnia aerea Emirates, dopo la Etihad, ha comunicato che da questa mattina sospenderà i suo voli verso il Qatar. Poco dopo si unisce anche FlyDubai: il provvedimento, ha detto un responsabile della compagnia al quotidiano Khaleej Times degli Emirati arabi uniti, diventerà esecutivo domani fino ad ulteriori decisioni.

 La posizione di israele
  Il ministro della difesa israeliano Avigdor Lieberman ha definito uno sviluppo positivo la rottura delle relazioni diplomatiche degli Stati del Golfo con il Qatar aggiungendo che questa apre "opportunità nella lotta al terrorismo". Stati - ha spiegato Lieberman alla Knesset - che hanno rotto le relazioni "non a causa di Israele, non a causa degli ebrei o del sionismo ma piuttosto per la paura del terrorismo".
Al tempo stesso Lieberman ha sottolineato che i tentativi di legare la riconciliazione di Israele con gli stati arabi moderati alla questione dello stato palestinese "sono uno sbaglio". Il ministro della difesa ha poi detto che Israele era stato informato del recente accordo militare tra Usa e Arabia Saudita prima "che questo venisse reso noto al grande pubblico" e che "compito di Israele non è quello di prevenire tali accordi ma di preservare la superiorità qualitativa dello stato ebraico".

(Quotidiano.net, 5 giugno 2017)


La presidente del Friuli Venezia Giulia visita la comunità ebraica di Trieste

 
La Sinagoga di Trieste
 
Debora Serracchiani, Presidente della Regione Fiuli Venezia Giulia
TRIESTE - "La comunità ebraica di Trieste ha un ruolo rilevante non solo per la città ma tutta la regione, come punto di riferimento storico, culturale, religioso e come componente incancellabile della nostra identità collettiva". Lo ha affermato oggi la presidente del Friuli Venezia Giulia, nel corso di una visita alla Sinagoga e ai locali della Comunità ebraica del capoluogo regionale.
   Ad accogliere Debora Serracchiani sono stati il presidente della Comunità, Alessandro Salonichio, il rabbino capo Alexander Meloni, e una delegazione composta, tra gli altri, dai responsabili della scuola ebraica, Nathan Israel, dell'amministrazione, Davide Belleli, e dei beni culturali, Livio Vasieri.
   Al centro dell'incontro, che è avvenuto a dieci anni dalla precedente visita fatta dall'allora presidente Riccardo Illy, il mantenimento delle tradizioni e della cultura ebraica, la necessità della conservazione della memoria della Shoah ma anche il recupero del vasto patrimonio bibliografico e le necessità della scuola ebraica di Trieste.
   La Comunità di Trieste è una delle quattro in Italia (oltre a Milano, Torino e Roma) a gestire un istituto che offre a un centinaio di bambini (non solo di religione ebraica) i servizi di scuola primaria parificata (la "Marco Tedeschi" con 57 alunni), ma anche di nido d'infanzia e di scuola materna (la "I. S. Morpurgo"). Come ha spiegato Salonichio, si tratta di un'attività che "siamo fieri di portare avanti, perché crediamo che rappresenti l'unico modo per darci un futuro. Vogliamo migliorare ulteriormente il livello educativo dell'istituto perché, pur essendo piccolo, è attrattivo, come dimostra la crescita nelle iscrizioni degli ultimi anni. Per riuscirci è però necessario uno sforzo organizzativo ed economico rilevante".
   "E' importante - ha confermato Serracchiani - che la Comunità continui ad avere una scuola ebraica, che tenga alti i livelli della formazione e accompagni lo sviluppo di tutti i bambini che la frequentano. Per la Regione è significativo poter collaborare a migliorare e offrire sempre più servizi e possibilità ai nostri ragazzi e alle loro famiglie". La presidente ha quindi annunciato di voler portare la scuola ebraica all'attenzione del ministro dell'Istruzione e ha segnalato le opportunità offerte dai 'progetti speciali' sostenuti dalla Regione nell'ambito della formazione.
   Nel ribadire il "ruolo rilevante della Comunità ebraica a Trieste e in Friuli Venezia Giulia", la presidente ha sottolineato che essa "è molto dinamica, ha solide relazioni con le istituzioni, ma soprattutto è aperta al dialogo e al confronto con le altre religioni". Una caratteristica positiva evidenziata anche dal rabbino Meloni: "dobbiamo impegnarci affinché la Comunità sia sempre più integrata nel tessuto sociale e contribuisca ad arricchirlo sotto tutti i punti di vista, pur continuando a mantenere una propria identità".
   Durante l'illustrazione dell'archivio e della biblioteca, che comprende documenti risalenti al 1700 scampati alle devastazioni durante l'occupazione nazista e bisognosi di catalogazione e restauro, Serracchiani ha invitato a verificare la possibilità di una collaborazione con l'Istituto per il Patrimonio culturale. In questa circostanza è stata anche ricordata la figura dell'ex presidente della Comunità, nonché assessore comunale di Trieste alla Cultura, Andrea Mariani, scomparso a soli 50 anni nel 2013.
   Nel corso della visita alla Sinagoga, il responsabile dei beni culturali della Comunità, Livio Vasieri, ha spiegato che "è una delle più grandi d'Europa, inaugurata nel 1912 per rispondere alle necessità di culto di una Comunità fiorente, che avrebbe raggiunto l'acme nel 1938 con quasi seimila componenti. L'edificio, progettato dagli architetti Ruggero e Arduino Berlam, ha uno stile definito genericamente 'siriaco', che però accoglie caratteristiche proprie delle chiese cristiane, presentando navate, rosoni e cupole. Per realizzarlo sono state usate tecniche e materiali all'avanguardia per l'epoca, come il cemento armato, e con la cupola tocca i 38 metri". Vasieri ha infine indicato la presenza di un organo, molto usato all'inizio del Novecento.

(Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, 5 giugno 2017)


Rivlin: "Festa della Repubblica, grazie Italia per un'amicizia vera"

"Sono passati 71 anni da quando l'Italia ha realizzato il sogno di vivere in una Repubblica democratica. Ed è un sogno che vale la pena celebrare". Ospite dell'ambasciata italiana a Tel Aviv, il Presidente d'Israele Reuven Rivlin ha sottolineato, in occasione della Festa della Repubblica, il valore storico di questa data. "Le relazioni tra il popolo italiano e quello d'Israele risalgono a centinaia di anni fa e negli ultimi anni si sono rafforzate - ha dichiarato Rivlin - Proprio il mese scorso l'Italia ha dimostrato che la sua non è un'amicizia solo a parole ma anche nei fatti votando contro la vergognosa risoluzione dell'Unesco su Gerusalemme". Il Presidente d'Israele ha inoltre ricordato il contributo dato dalla Brigata Ebraica - i cinquemila volontari ebrei partiti dalla Palestina mandataria per combattere i nazifascisti in Europa - alla Liberazione dell'Italia, e quindi alla nascita della Repubblica. Rivlin ha detto di essere "orgoglioso e onorato del riconoscimento dato dalla Camera dei Deputati al ruolo della Brigata Ebraica", facendo riferimento alla legge in discussione in Parlamento volta a conferire al gruppo di combattenti-volontari la medaglia d'oro al valore militare per la Resistenza. Un provvedimento che ha come primi firmatari i parlamentari Lia Quartapelle ed Emanuele Fiano e che attende ora il via libera del Senato.
Altro punto toccato nel suo discorso dal Presidente, che ha accolto l'invito dell'ambasciatore italiano Francesco Talò, la questione del riconoscimento di Gerusalemme come Capitale d'Israele. "Crediamo che sia arrivato il momento per i nostri amici, Italia inclusa, - ha detto Rivlin - di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele. Possiamo discuterne i confini ma siamo tutti d'accordo che Gerusalemme è e resterà la capitale di questo Stato. È tempo di tradurre questa verità in un fatto".
L'ambasciatore Talò, la cui missione in Israele è giunta al termine e il cui testimone verrà preso da Gianluigi Benedetti, ha sottolineato l'amicizia sempre più stretta tra i due paesi, richiamando poi il principio ebraico del Tikkun Olam, riparare il mondo: "Possiamo tutti essere protagonisti di questa azione di Tikkun Olam che unisce la politica e la cultura. - ha affermato l'ambasciatore - Possiamo farlo in Israele e in Italia, terre con antiche radici comuni e quindi un grande futuro comune". d.r.

(moked, 5 giugno 2017)


Corbyn, Hamas e la lotta al terrorismo jihadista

di Lorenza Formicola

"Incidenti brutali e scioccanti", così Jeremy Corbyn, il candidato premier laburista che i sondaggi guardano favorevolmente nella corsa verso le elezioni inglesi dell'8 giugno, ha commentato l'attentato di sabato notte a Londra. Nessun riferimento al terrorismo di matrice islamica nelle parole di un leader di uno dei due grandi partiti politici del Regno Unito. Ma chi è Jeremy Corbyn e che rapporto ha con il mondo arabo e islamico? I tabloid chiamano Corbyn la "primula rossa", un laburista tanto, troppo a sinistra che da 35 anni milita nelle fila dei "black banchers", i peones del parlamento britannico. Classe '49 è vegano e astemio in un paese dove birra e whiskey sono un credo, odia le auto e gira in bici, si vanta di indossare magliette di "2 euro", e detesta mangiare al ristorante. Della serie un primo ministro che farà la gioia della industria automobilista inglese, del mondo della moda e di quello del turismo e dell'agroalimentare.
 
Jeremy Corbyn
   Ha un debole per Hamas e per i chavisti venezuelani. E anche qui è difficile intuire da che prospettiva noti il modello (per entrambi) oltre la ricetta di un disastro: uno come Maduro ha fatto della capacità di comprare il poco che c'è in giro un mestiere. Ma soprattutto Corbyn non sopporta Israele, sebbene non sia il solo da quelle parti, anzi: è perfettamente allineato con l'establishment radical chic della sinistra inglese.
   Qualche giorno fa il Sunday Times ha ricordato che Corbyn nel 2014 mentre era in viaggio in Tunisia depose una corona di fiori sulla tomba di Atef Bseiso, funzionario dell'Olp e capo dell'intelligence palestinese negli anni Settanta, considerato una delle menti della strage di Monaco, quando i terroristi palestinesi uccisero gli atleti israeliani alle Olimpiadi del 1972. Ma non c'è solo il Sunday Times: la "primula rossa" nel luglio 2011 è stato relatore di una conferenza pro-Palestina organizzata da George Galloway in Libano. Con lui c'era Leila Khaled, la terrorista leader del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina divenuta celebre per aver partecipato al dirottamento di un aereo che da Roma doveva atterrare a Tel Aviv nel 1969. Agli annali è rimasta la foto che immortalava la donna mentre brandisce un AK-47, l'altrettanto celebre fucile d'assalto sovietico; del resto la Khaled è stata la prima esponente del gentil sesso a rendersi protagonista di un'azione terroristica di questo tipo.
   Corbyn finanzia il Palestinian Relief and Development Fund, ong che a sua volta ha contribuito a realizzare il "Festival palestinese per l'infanzia e l'istruzione" nella Striscia di Gaza. E che è diventato famoso per la recita con bambini che simulano l'uccisione di soldati israeliani con coltelli e mitragliatrici giocattolo. Nel 2009 Corbyn disse di voler ospitare con "piacere e onore" nel Parlamento inglese "i nostri amici da Hezbollah", il Partito di Dio libanese inserito nelle liste dell'antiterrorismo Usa e vicino all'Iran. "Ho anche invitato gli amici di Hamas", aggiunse Corbyn per non farsi mancare niente. L'anno scorso, se ne uscì anche con un'altra dichiarazione da mettere i brividi spiegando che gli ebrei hanno "maggiori responsabilità per le azioni di Israele" di quelle "che hanno i musulmani per Isis". Ancora: Corbyn ha preso parte agli incontri organizzati dal cospirazionista Paul Eisen, ideatore del blog "La mia vita come negazionista dell'Olocausto". Ha definito lo sceicco Raed Salah, leader di un gruppo islamico fuorilegge in Israele (e condannato per incitamento alla violenza e al razzismo) come un "onorato cittadino", la cui "voce è degna di essere ascoltata", invitandolo poi per un rinfresco alla Camera dei comuni. E in passato ha anche collaborato con Press Tv, network vicino all'Iran e sotto il diretto controllo della guida spirituale della rivoluzione khomeinista, Ali Khamenei.
   Lo scorso anno una piccola polemica ha sfiorato Corbyn quando alcuni colleghi di partito gli hanno rimproverato di aver preso le distanze con estremo ritardo dalle dichiarazioni di un veterano dei Labour e suo stretto collaboratore, Gerald Kaufman, che in occasione di un evento pro-palestinese, con disprezzo, accusò il partito conservatore inglese di essere pagato dagli ebrei. E' questo il candidato della sinistra inglese che la stampa internazionale celebra come nuova speranza per la Gran Bretagna e che, con malcelato entusiasmo, è osannato dai giornaloni a caccia di sondaggisti spregiudicati.
   Ecco, detto questo, e ricordando che organizzazioni come Hamas sono pezzi della internazionale del terrore jihadista, viene da chiedersi che tipo di governo aspetta gli inglesi se a vincere le elezioni fosse Corbyn. "Come risposta all'attacco, come a Manchester, tutte le comunità dovrebbero unirsi", ha detto Corbyn commentando la strage sul London Bridge dell'altra sera. Certo nel "Londonistan", nelle enormi periferie metropolitane inglesi e francesi dove l'islam ha creato vere e proprie enclave, staterelli dentro lo stato dove c'è un sistema giudiziario parallelo fondato sulla sharia, zone di divieto di transito per la polizia, piscine separate per sesso, non sembra esserci tutta questa voglia di unirsi alle altre comunità. Ma questo Corbyn finge di non capirlo.

(l'Occidentale, 5 giugno 2017)


La consapevolezza del pericolo serve per prevenire molti rischi

Dureghello: in Israele ai bimbi si insegna a notare tutto

di Clarida Salvatori

 
Ruth Dureghello
«Gli attentati come quello di Londra o una tragedia da panico incontrollato come quella di Torino ci fanno capire che serve, ora più che mai, una vera e propria educazione per poter gestire il terrore e controllare la sovreccitazione che ne deriva». A parlare è Ruth Dureghello, che da due anni guida la Comunità ebraica di Roma. «In Paesi come Israele questa cultura esiste già. Viene insegnato già da bambini ad aver occhi ovunque, a guardarsi intorno e a guardarsi gli uni con gli altri al fine di evitare pericoli».

- Esiste dunque una specie di modello in questo ambito?
  «Sì esistono i modelli ma la cosa importante è maturare il giusto atteggiamento verso il terrore. Per prima cosa occorre capire a chi questo terrorismo fa capo e solo dopo occorre predisporre tutti gli strumenti giusti nei cittadini per combatterlo».

- Ed è quello che ha fatto la comunità ebraica di Roma attuando un sistema di controllo fatto «dall'interno»?
  «L'impegno civico e il volontariato possono arginare ed aiutare a non guardare solo avanti a sé, a cogliere segnali che sono chiaramente riconoscibili, ma la sicurezza vera la garantiscono le forze dell'ordine e il loro impegno costante nel vigilare».

- Ma nell'ottica di una maggiore sicurezza qual è l'elemento che, secondo lei, fa la differenza?
  «La consapevolezza di essere in pericolo. Se la comunità ebraica si adopera per prevenire una situazione di pericolo non lo fa solo perché gli ebrei che pregano in Sinagoga possono essere attaccati dai palestinesi...».

- Cosa deve cambiare nella mentalità della gente?
  «Si deve essere consapevoli che tragedie come Londra o Parigi possono succedere a tutti e che il problema non è sempre di qualcun altro. Ma ci può riguardare in prima persona. Oggi stiamo vivendo una situazione diversa. Le colpe sono di chi abbassa la guardia. Di chi strizza gli occhi alle convinzioni estremiste. Di chi vede una valigia sospetta e non riesce a riconoscere il segnale di pericolo».

- E Roma come può fare? Questa in fondo è una città nella quale è capitato anche che chi ha visto una donna picchiata in metropolitana o uccisa in strada si sia girato dall'altra parte con totale indifferenza.
  «La nostra è una città complessa e complicata che deve farci i conti, con l'indifferenza. Ma nel singolo individuo deve maturare la coscienza civile e civica».

- Ma in una situazione di pericolo improvviso qualcuno avrebbe il coraggio di reagire? Di gettarsi su un attentatore per fermarlo? O tutti penserebbero a scappare e basta?
  «Il terrore è questo, ti colpisce all'improvviso, non ti dà modo di pensare. Roma è in grado di reagire e io ci credo. Ma il tir che si scatena contro la folla è solo l'ultimo atto della follia. La prevenzione va fatta prima, con tutti i tasselli».

(Corriere della Sera - Roma, 5 giugno 2017)


Intelligence e zero pietà per i complici, così Gerusalemme sa come difendersi

di Marco Ventura

Parla il sindaco della capitale israeliana: da noi meno rischi che non nelle città europee Considerare un attentato come un'emer- genza militare è proprio quello che vogliono gli aggressori

 
Il sindaco di Gerusalemme, Nir Barkat
ROMA - Deve suonare strana alle orecchie del sindaco di Gerusalemme, Nir Barkat, la comunicazione della polizia metropolitana di Londra «Run, Hide, Tell», che consiste, in caso di attentato, nel «correre verso un posto sicuro invece di arrendersi o negoziare, nascondersi e barricarsi ovunque sia possibile e silenziare il cellulare, e chiamare il 999, la polizia, appena sicuro farlo». Dice Barkat che una delle chiavi della pronta reazione degli abitanti di Gerusalemme agli attentati è il fatto che «mentre in tutto il mondo vedi la gente scappare via, noi corriamo verso il luogo in cui avviene l'attacco per neutralizzare i terroristi».

- Come fate ad addestrare la popolazione?
  «Questo senso di responsabilità, prendersi cura degli altri, è un sentimento molto forte in Israele, soprattutto a Gerusalemme, e deriva dal servizio militare. Assumersi rischi per salvare altri, fa parte di quel coraggio che per noi è stato necessario nella creazione di Israele. Non avevamo altro modo per difenderci da un numero enormemente superiore di nemici che ci circondavano».

- Non sarà solo per questo che Gerusalemme è sicura.
  «Gerusalemme è più sicura di Londra o Parigi. La bellezza e unicità della mia città è questa convivenza di musulmani ed ebrei, e di ebrei secolari e ortodossi. Gerusalemme ha dentro di sé tutti i conflitti e se venissero meno significherebbe che qualcosa ci è venuto a mancare. Abbiamo raggiunto un compromesso sociale che permette a ciascuno di vivere in pace la propria religione o ideologia. Status quo significa per noi riuscire a convivere tutti sotto lo stesso tetto».

- Che suggerimenti può dare a noi europei?
  «La sicurezza è il frutto di una combinazione di elementi. A Gerusalemme, su 900mila residenti gli arabi sono 300mila, oltre un terzo. In maggioranza sono persone perbene, che vogliono una vita pacifica, un'istruzione valida per i figli, buoni servizi sanitari. Ma tra di loro ci sono pure i cattivi che fanno ricorso alla violenza. E che Gerusalemme ha la migliore polizia e i migliori servizi del mondo. Intercettiamo i cattivi prima che facciano le cose malvagie. Lavoriamo insieme alla maggioranza dei buoni, contro i cattivi. Abbiamo una difesa civile alla quale contribuiamo tutti. La nostra filosofia è semplice: esser buoni coi buoni e molto cattivi coi cattivi».

- Quando c'è un attentato in Israele, la normalità torna presto. Com'è possibile?
  «Noi siamo veloci. In pochi minuti l'emergenza è finita. La nostra chiave è quella di riprendere molto rapidamente a vivere. In mezz'ora o un'ora la polizia fa la bonifica dei posti e si torna alla quotidianità più presto che si può».

- Non come da noi?
  «Sono stato in Europa e purtroppo da voi non è così. I terroristi e i cattivi non devono influenzare la nostra vita, non vogliamo farci terrorizzare né dover cambiare i nostri programmi per loro. Inoltre, noi perseguiamo in ogni modo quelli che li hanno aiutati. La rete di complici deve sapere che pagherà un prezzo altissimo per questo supporto, per tutto ciò che fanno. La nostra idea è che chi aiuta, chi fornisce un'arma, è cattivo quanto chi uccide. Questa nostra aggressività verso i cattivi ci rende dieci volte più sicuri che in una grande città europea o americana».

- In Gran Bretagna e in tutta Europa intervengono le forze speciali armate, come gli specialisti SAS "Blue Thunder" (Tuono Blu) che si calano dagli elicotteri a Londra. Voi usate la polizia, non l'esercito. Perché?
  «Questo è fondamentale. Noi diciamo ai terroristi: non cercate di cambiare il modo in cui viviamo. Quando c'è un attacco terroristico non vogliamo pensare di trovarci di fronte a un'emergenza particolare. Considerare e trattare un attentato come un'emergenza militare invece che un fatto di ordine pubblico è esattamente quello che vogliono i terroristi».

- Poi usate la tecnologia. E così?
  «Sì, siamo più bravi degli altri anche qui per un retaggio militare. Io sono un imprenditore high-tech e la mia start-up l'abbiamo creata in quattro nel 1988: io e mio fratello che stava con me nell'esercito, uno dei migliori decifratori dell'Intelligence e l'inventore del software delle videocamere che spiano oltre le linee nemiche dagli elicotteri. Ecco, l'eccellenza per noi è questione di vita o di morte».

(Il Messaggero, 5 giugno 2017)


Terrorismo, si invoca il modello israeliano ma l'Europa non sarebbe pronta

Svanita l'onda emotiva, gli europei ritorneranno a guardare il modello anti-terrorismo di Israele come esagerato e lesivo per la loro libertà.

Franco Iacch

Adottare il modello israeliano per combattere il terrorismo. Così come avviene dopo ogni tragedia, si ritorna a pensare ai protocolli di sicurezza attivi in Israele per contrastare la nuova ondata di terrore che sta colpendo le metropoli d'Europa. Ma quanto potrebbe essere davvero imponibile il modello israeliano? gli europei sarebbero pronti?

 L'approccio israeliano al terrorismo
  Per molti israeliani, le immagini raccapriccianti di un camion che falcia la folla indifesa, è una visione drammaticamente familiare. Una delle tattiche palestinesi per colpire gli ebrei è proprio quella della car intifada: mezzi lanciati a tutta velocità sui civili. Una tecnica poi ottimizzata e diretta contro le fermate degli autobus, adesso corazzate con mura in cemento armato. L'Europa conosce oggi la paura di convivere con il terrorismo, ma in Israele questo avviene da decenni: dai dirottamenti degli anni '70, ai kamikaze del 2000 fino alle cellule solitarie. Il problema è che in Israele, l'approccio contro tali minacce è nettamente diverso da quello propinato in Europa. Sul fronte esterno, l'intero paese è costruito per combattere, resistere e vincere delle guerre lampo, non di certo un conflitto di logoramento. Sul fronte interno i cittadini hanno acconsentito a quello che in Europa verrebbe visto come un ossessivo ed intrusivo livello di sicurezza. La popolazione ad esempio: è stata abituata a convivere con il terrorismo, entrato a far parte della routine quotidiana. Chiunque sia mai stato in Israele, sa che i principali luoghi di ritrovo come le strutture pubbliche sono sorvegliate da personale armato e metal detector nei punti di accesso. I controlli individuali sono la norma. Centri commerciali, cinema, locali notturni, ristoranti e palestre aggiungono un supplemento nel ticket per sovvenzionare il personale armato all'entrata. Centinaia di soldati sono sempre dispiegati per proteggere i mezzi di trasporto pubblico a Gerusalemme. Non è raro, in Israele, la vista di mezzi corazzati, carri armati compresi, a protezione dei perimetri durante le principali manifestazioni pubbliche. Gli aeroporti sono sempre in stato di allerta con delle misure di sicurezza che in Europa sarebbero viste come eccezionali o esagerate.

 La sicurezza in un aeroporto X
  Negli aeroporti sono solitamente indicate tre zone. Quella destinate alle attività di volo, con aerei e strutture logistiche, rientrano nella zona definita airside. Per raggiungere quest'ultima bisogna superare i perimetri della zona landside, strutture di terra all'interno dell'aeroporto. Le landside hanno il compito di filtrare i passeggeri nelle zone definite sterili. Le tre micro-aree, rientrano nella macro area che corrisponde all'aeroporto intesa come struttura principale. La altre aree, come il parcheggio della zona arrivi o partenze, solitamente non sono schermate. In alcuni casi è presente una rete di telecamere, ma le difese proattive sono solitamente collocate soltanto nelle micro aree. La vulnerabilità delle aree di arrivo e partenza è un dato di fatto, ma non è l'unico problema alla sicurezza. Il principale ostacolo è intercettare la minaccia prima che possa raggiungere i terminal, anche se una volta raggiunto l'aeroporto potrebbe essere troppo tardi per fermare un attacco. Si pone, quindi, il dilemma del tipo di sistema di protezione (e le sue pertinenze), che dovrebbe essere adottato sia per intercettare preventivamente una minaccia che per contrastarla una volta attivata. Procedure che andrebbero gestite in modo non prevedibile, ottimizzando le tecniche di analisi comportamentale. Posto che l'attentato non è geno-specifico, si dovrebbero attuare delle analisi comportamentali indicative di una particolare atteggiamento, sintomo predittivo di un'azione dannosa. Questo da solo non servirebbe se non venisse inserito in una combinazione di misure a più livelli. Non avrebbe alcun senso, infatti, potenziare i controlli ad un parcheggio di un aeroporto (che diventerebbero di riflesso bersagli) e non creare dei punti di controllo nelle aree pubbliche per i terminal, come i treni ad esempio, ed unità cinofile schierate in svariati punti. Il primo nemico dei terroristi è proprio il cane addestrato: sia per le sue capacità olfattive che per le loro reazioni non prevedibili. Un liquido non è una minaccia. La persona è la minaccia.

 Aeroporto di Tel Aviv Ben Gurion
  Tutti i veicoli in entrata sono controllati con un sensore di peso, raggi x e scansione, mentre le guardie armate scambiano qualche parola con gli occupanti per valutare umore ed intenzioni protetti a distanza dai cecchini. Le unità cinofile sono ovunque. Squadre armate pattugliano l'intero perimetro esterno con sistemi ridondanti di videosorveglianza occultati. Nell'asset Counter-IED svariati robot. Se qualcuno entra con atteggiamento sospetto, viene subito avvicinato ed impegnato in una conversazione. I passeggeri in partenza scambiano qualche parola con il personale di sicurezza altamente qualificato prima di arrivare al banco del check-in. Si applicano i protocolli in base alla profilazione razziale con supporto (occultato) digitale. Tutti i bagagli in stiva passano da una camera di pressione per attivare eventuali dispositivi esplosivi. L'aeroporto di Ben Gurion non appalta la propria sicurezza a società private: il personale specializzato proviene esclusivamente dall'esercito. La sicurezza dei passeggeri è concepita come una serie di cerchi concentrici. Le recinzioni intorno al perimetro dell'aeroporto sono pattugliati da soldati e monitorati con telecamere e sistemi radar. Nessuna difesa è infallibile, ma i protocolli di Ben Gurion si dimostrano estremamente efficaci nel prevenire gli attacchi terroristici.

 L'antiterrorismo israeliano
  L'Intelligence israeliana è ritenuta la migliore al mondo con tattiche in continua evoluzione e con tecniche di sorveglianza aggressive. Se il modello per la raccolta di informazioni dello Shin Bet venisse applicato in Europa, probabilmente si parlerebbe di attentato alla libertà civile. Tuttavia bisogna ricordare che il comportamento degli israeliani è stato sugli attentati subiti. Fin dalla scuola elementare, ai bambini viene spiegato che ogni pacco sospetto potrebbe essere una bomba e va immediatamente segnalato. E' una formazione specifica che mira a strutturare un pensiero ed un atteggiamento inconscio basato sul concetto dell'attacco imminente e della difesa proattiva. Si forma nell'individuo una maggiore conoscenza tattica dell'ambiente. La gente chiama la polizia ogni volta che vede un pacchetto incustodito, soprattutto nelle stazioni di aeroporti, autobus e treni. Il controllo dei servizi di sicurezza è totale, comprese le conversazioni telefoniche, poiché è concepito per anticipare la minaccia: i soldati per strada rappresentano soltanto l'ultima linea di difesa. Il coinvolgimento e la cooperazione del popolo israeliano sono la chiave dell'approccio del paese nella lotta al terrorismo, mentre il governo continua a motivare la società civile, invogliandola alla vita e garantendo che ogni azione nemica non resterà impunita.
  E' il famoso concetto del "ritornare a vivere in quattro ore" anche dopo aver subito un terribile attentato (è concepito sulla detonazione di un ordigno su un autobus). Da decenni Israele affronta minacce stratificate, con modus operandi in continua evoluzione. La strategia anti-terrorismo di Israele si è dovuta adeguare permanentemente adottando un approccio basato sulla difesa, l'anticipazione e la rapidità della reazione. Ma il successo del modello israeliano (in percentuale il paese più sicuro al mondo), è la società civile. Ogni giovane israeliano dovrà servirà per tre anni (due per le donne) il proprio paese indossando una divisa, consolidando il processo di consapevolezza e resilienza. Le minacce attualmente presenti in Occidente, sono quasi del tutto svanite in Israele che oggi se ne trova ad affrontare altre per quella eterna lotta tra spada e scudo.
  Oggi si ritorna a parlare di modello israeliano per combattere il terrorismo. Quasi certamente, svanita l'onda emotiva, gli europei ritorneranno a guardare il modello anti-terrorismo di Israele come esagerato e lesivo per la loro libertà.

(il Giornale, 5 giugno 2017)


Togo-Israele - Alterco tra guardie del corpo fa saltare l’incontro tra Netanyahu e Gnassingbé

LOMÉ - È saltato a causa di "un alterco tra le guardie del corpo" l'incontro in programma sabato scorso tra il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, e il presidente del Togo, Faure Gnassibgé, a Monrovia, in Liberia. Lo riporta il quotidiano di Tel Aviv "Times of Israel", secondo cui alla base del rinvio della riunione ci sarebbe stato un vero e proprio "scontro fisico" tra i bodyguard dei due leader, scoppiato dopo che il personale di sicurezza israeliano avrebbe impedito alle guardie togolesi l'accesso alla sala in cui era in programma l'incontro a margine di un summit della Comunità economica degli Stati dell'Africa occidentale (Cedeao). Netanyahu ha definito "storica" la sua presenza al vertice. "Ho davvero apprezzato l'invito. Israele è tornata in Africa nel migliore dei modi", ha dichiarato il capo del governo di Tel Aviv ripreso dal quotidiano "Jerusalem Post".

(Agenzia Nova, 5 giugno 2017)


Tel Aviv - #pizzaUnesco protagonista alla Festa della Repubblica italiana

Con la partecipazione del Presidente israeliano Reuven Rivlin

 
Fabio Cristiano (al centro) con l'Ambasciatore Talò (a destra)
#pizzaUnesco e il pizzaiuolo napoletano Fabio Cristiano hanno celebrato ieri sera a Tel Aviv la Festa della Repubblica italiana. Lo hanno fatto in grande stile, nel corso dei festeggiamenti presso la Residenza dell'Ambasciatore italiano Francesco Talò, alla presenza del Presidente dello Stato d'Israele Reuven Rivlin, ospite d'onore, che ha molto apprezzato l'iniziativa tricolore.
Il pizzaiuolo Fabio Cristiano, inviato in Israele dal Napoli Pizza Village e dalla Fondazione UniVerde per la campagna #pizzaUnesco, titolare della pizzeria "Da Gennaro" a Bagnoli, ha intrattenuto al ricevimento centinaia di persone, esibendosi in spettacolari esibizioni di pizza acrobatica e in preparazioni creative e gustose. Regina della serata è stata infatti la pizza napoletana che ha conquistato gli occhi e soprattutto il palato di tutti.
Tel Aviv ha così dato avvio al mese di mobilitazione straordinaria dedicato all'Arte dei pizzaiuoli napoletani, la candidatura italiana a Patrimonio culturale immateriale dell'Umanità, sostenuta dalla petizione mondiale #pizzaUnesco promossa dal Presidente della Fondazione UniVerde, Alfonso Pecoraro Scanio, già Ministro delle Politiche Agricole e dell'Ambiente.
"La campagna ha sempre più carattere internazionale e la cerimonia di amicizia tra Italia e Israele con #pizzaUnesco protagonista lo dimostra - dichiara Pecoraro Scanio - Confido che il Ministero delle Politiche Agricole possa garantire ora tutti gli adempimenti tecnici fondamentali per una valutazione positiva della candidatura che è già forte e credibile e ringrazio il Ministero degli Esteri per la forte azione diplomatica in corso e che sicuramente proseguirà fino alla decisione finale prevista a dicembre a Seoul".
Tantissime le adesioni alla petizione #pizzaUnesco raccolte nel corso della cerimonia di ieri sera. "Grande successo per gli occhi e per il palato - commenta con soddisfazione l'Ambasciatore italiano in Israele Francesco Talò - Le pizze autentiche napoletane hanno riscosso grande apprezzamento. Abbiamo parlato di legami tra Israele e Italia, con il grande onore della partecipazione del Presidente israeliano Reuven Rivlin. È giusto che ai pizzaiuoli napoletani venga riconosciuto il loro importante ruolo nella nostra cultura".
La mobilitazione planetaria è iniziata e sono state già raccolte decine di migliaia di adesioni e altre migliaia sono in corso di raccolta nel resto del mondo. È possibile firmare anche on-line sulla piattaforma change.org/pizza.
Il prossimo appuntamento di #pizzaUnesco è atteso l'8 giugno al Ristorante Drago Centro di Los Angeles, da dove Alfonso Pecoraro Scanio e il Console Generale d'Italia Antonio Verde rilanceranno la petizione e la campagna mondiale verso l'obiettivo record di 2.000.000 di firme.

(AgenPress.it, 5 giugno 2017)


Per l'Onu, è sempre colpa di Israele

L 'Oms, ricattata dalla Siria, si presta al grottesco

Da Times of lsrael (28/5)

Sotto pressione del regime del presidente siriano Bashar Assad e dei rappresentanti palestinesi, l'Organizzazione mondiale della sanità, l'agenzia dell'Onu per la salute, ha affossato un rapporto che lodava Israele. Lo ha detto nei giorni scorsi Hillel Neuer, direttore esecutivo della ong Un Watch, con sede a Ginevra. Il rapporto sulla cooperazione fra Israele e una missione dell'Oms sulle alture del Golan "non è stato pubblicato, nemmeno nelle parti già completate" ha spiegato Neuer, aggiungendo che l'Organizzazione mondiale della sanità non solo non ha presentato il rapporto favorevole a Israele, ma ha anzi insistito con la pratica di adottare risoluzioni chiaramente contro l'Israele. Secondo Un Watch, nell'ultima assemblea annuale l'agenzia sanitaria delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione sostenuta dalla Siria che prende di mira Israele per le "condizioni sanitarie nel territorio palestinese occupato, compresa Gerusalemme est, e nel Golan siriano occupato". Invece di tenere testa al brutale regime siriano e condannarne il comportamento, ha osservato l'ambasciatrice israeliana alla sede di Ginevra delle Nazioni Unite, Aviva Raz Shechter, l'Oms ha spiegato le proprie omissioni accampando "la mancanza di tempo" e la necessità di maggiori informazioni. Secondo i rappresentanti dei paesi europei, si tratta solo di scuse. Dal testo della risoluzione, che è stato copatrocinato da Siria e Autorità palestinese insieme ad Algeria, Cuba, Ecuador, Egitto, Kuwait, Libia, Pakistan, Arabia Saudita, Sudafrica,
   Tunisia e Venezuela, è stato omesso il linguaggio di esplicita condanna d'Israele che faceva parte di una risoluzione analoga dello scorso anno: una mossa, secondo Un Watch, che è stata fatta nel tentativo di assicurarsi il sostegno dei paesi dell'Unione europea sempre più restii a votare questo genere di risoluzioni faziosamente anti israeliane. "E' assurdo - ha detto Neuer - che l'Onu consenta al regime siriano di Assad di dettare la sua agenda sulle condizioni sanitarie. E' il massimo del cinismo che la Siria sottoponga una risoluzione sulla sanità dei residenti drusi delle alture del Golan, che in realtà vivono molto bene sotto giurisdizione israeliana, nel momento stesso in cui Assad bombarda nella sua stessa Siria ospedali, ambulanze e operatori sanitari. Le Nazioni Unite dovrebbero impedire ai regimi arabi e alle dittature loro alleate come Cuba e Venezuela, di sequestrare a loro vantaggio l'ordine del giorno della sanità mondiale. Si noti che in questo modo - ha aggiunto Neuer - l'Assemblea delle Nazioni Unite non si occuperà degli ospedali siriani bombardati dai jet siriani e russi, né dei milioni di yemeniti cui è negato l'accesso a cibo e acqua dai bombardamenti e dal blocco a guida saudita. L'Onu continua a screditare se stessa - ha concluso Neuer - se emette una risoluzione che di fatto accusa Israele di violare i diritti sanitari dei siriani nel Golan, quando in realtà gli ospedali israeliani continuano a curare gratis i feriti siriani che giungono nel Golan in fuga dagli efferati attacchi del regime di Assad".

(Il Foglio, 5 giugno 2017)


I sei giorni che salvarono il mondo

1967-2017 Cinquant'anni fa il trionfo di Israele contro le nazioni arabe Scongiurò il mega-Stato islamico che avrebbe cambiato volto alla Storia

di Dimitri Buffa

Le conseguenze
Nacque la questione palestinese. Boria e disfatta. Gli arabi erano certi di stravincere
Ma non andò così
Soli contro tutti. Nessuno Stato aiutò direttamente l'esercito israeliano

Il 5 giugno del 1967 è una data storica per l'umanità del dopo seconda guerra mondiale: iniziava, per finire 144 ore dopo, la famosa guerra dei sei giorni tra Israele da una parte e tutto il resto ( o quasi) del mondo arabo dall'altra. E contemporaneamente finiva il sogno, o l'incubo a seconda dei punti di vista, panarabista di Gamal Abdel Nasser, il raiss egiziano che aveva detronizzato il re Faruq primo, reo di collaborazionismo con i colonizzatori inglesi qualche anno prima. Il disegno di Nasser prevedeva un solo Stato arabo che, una volta cancellato Israele, sarebbe andato dalla Siria all'Egitto comprendendovi la Giordania, il libano e l'Iraq. Cioè tutti gli stati che in quella tarda primavera del 1967 avevano cominciato ad ammassare le truppe in vista di un attacco a Tel Aviv.

 Antefatto
  Il 13 settembre 1965 si apre a Casablanca in Marocco il vertice della lega araba. Fortemente voluto dal re Hassan secondo che aveva anche fatto registrare tutti i colloqui segreti tenutisi in loco non fidandosi del disegno panarabista di Nasser, cui anche la Tunisia di Bourghiba era contraria (e infatti non si presentò). Il meeting ebbe il suo punto cruciale in una riunione che doveva restare segreta. Riunione in cui i vertici militari arabi dovevano concordare i preparativi di una guerra contro Israele, pianificando persino la creazione di un comando unificato. Fatto sta che la riunione invece è registrata e pochi giorni dopo i nastri vengono consegnati proprio al Mossad e allo Shin Bet che provvedono a tradurre in ebraico il tutto in tempo reale. Pare che la cosa sia stata benedetta proprio da Hassan secondo che d'altronde era figlio dello stesso re che salvò migliaia di ebrei da Hitler durante la seconda guerra mondiale. A quel punto i giochi erano fatti e gli israeliani cominciarono a preparare le contromosse che poi portarono alla guerra dei sei giorni.

 La guerra
  Lo stato di Ben Gurion, Moshe Dayan e Golda Meir era in allarme da tempo e, armato come era dagli americani (e all'epoca persino dai sovietici), precedette quella manovra e in meno di sei giorni aveva già vinto la guerra distruggendo a terra con bombardamenti mirati tutta l'aviazione militare di Egitto e Siria già nelle prime ore del conflitto. Il giorno dopo le truppe dello stato ebraico si prendevano Gaza, Gerusalemme e l'ultimo giorno anche le alture del Golan. E se avessero voluto avrebbero potuto fare un boccone anche del Cairo e di Damasco. Un vero e proprio conflitto lampo che ancora oggi viene studiato nei manuali di guerra e nelle scuole militari.
Fu un caso di "guerra preventiva" (anche se di poche ore) che raggiunse in pochi giorni, sei appunto, tutti i propri scopi.
L'unico effetto collaterale che ebbe, ma a distanza di oltre dieci anni, fu la nascita del panislamismo arabo e iraniano che di fatto prese il posto del vecchio panarabismo. E che negli anni a seguire dopo la rivoluzione khomeinista avrebbe creato il terrorismo islamico, sciita prima e sunnita poi, che di fatto è oggi il problema dei problemi in materia di geo politica.
In precedenza di quella guerra, però, gli israeliani avevano dovuto combatterne un'altra neanche dieci anni prima, insieme a inglesi e francesi, nel 1957, per evitare che l'Egitto chiudesse al commercio mondiale il canale di Suez.
E anche nel 1948, poche ore dopo la proclamazione della nascita dello Stato d'Israele voluta dall'Onu a fianco di uno Stato palestinese che però non ebbe luogo proprio per il veto panarabo, Israele aveva dovuto combattere la prima delle tante battaglie per la sopravvivenza: quella che va sotto il nome di guerra d'indipendenza.
Il risultato territoriale più importante raggiunto nella guerra dei sei giorni fu l'annessione di Gerusalemme. Che divenne la capitale, da molti Paesi mai riconosciuta, dello Stato ebraico. E che ancora oggi, nel versante Est, è oggetto di contesa con i palestinesi.
Altri territori presi da Israele furono la Giudea e la Samaria, cioè l'attuale West Bank, all'epoca territorio della Giordania, che include anche le cosiddette colonie ancora in mano a Israele, e Gaza, che prima era territorio egiziano.
Dopo le paci separate del 1977 con Giordania prima e l'Egitto poi, parte di questi territori furono messi a disposizione dei palestinesi che reclamavano il loro stato dopo averlo rifiutato nel 1948 quando era già bello e pronto segnato nei confini dall'Onu. Le alture del Golan, territorio strategico per difendersi da Siria e Hezbollah, sono sempre rimasti in mano israeliana anche perché con la Siria una pace dopo il 1967 mai più fu siglata e neanche cercata, a dire il vero, da Damasco.

(Il Tempo, 5 giugno 2017)


E' un Ramadan rosso sangue. Ma ora si risponde al fuoco

Investire i passanti e poi sgozzarli: è la nuova tecnica d'assalto degli jihadisti. Il commando, neutralizzato dalla polizia, era riuscito a beffare i servizi segreti.

di Carlo Panella

Il rischio è più grave
Il bilancio degli attacchi nella capitale inglese
è di 7 morti e 21 feriti in condizioni critiche. L'azione ordinata da una centrale all'estero
Il nodo immigrazione
Per evitare un 'invasione di fanatici occorre creare alternative di accoglienza in Arabia e negli Emirati.

L'escalation terroristica del «Ramadan di sangue» promosso dall'Isis è impressionante ed è densa di elementi di novità pessimi. Innanzitutto, come ha notato Marco Minniti, sia a Manchester che al London Bridge in azione non sono stati più lupi solitari, esaltati all'ultimo momento, non più lo spontaneismo del dilettante, ma azioni programmate, studiate e organizzate nei particolari. A Manchester, complessa la ricerca dell'esplosivo e intensi i rapporti col reseau terroristico libico. Per la prima volta in assoluto un jihadista, Salman Abedi, ha agito in raccordo con cellule in un paese arabo in cui l'Isis è radicata. Pessima notizia, perché sinora i rapporti dei jihadisti europei con territori controllati dall'Isis ( vedi i fratelli Kouachi e Saleh Abdesalam) consistevano in viaggi e contatti di mesi, anni prima, rispetto al momento dell'attentato. Abedi invece è una proiezione in Europa di un nucleo terroristico e jihadista libico. Rilevanti e gravi le conseguenze di questa novità, perché, se si svilupperà, porterà ad agire nelle città europee non più dei «cani sciolti» reclutati casualmente in Rete, ma jihadisti con una professionalità, una esperienza di combattimento e clandestinità acquisita in anni di combattimento nelle guerre civili di Libia, Iraq e Siria. Con una capacità «tecnica» di seminare morte ben maggiore di quella dei jihadisti improvvisati che abbiamo visto in azione a Nizza, a Berlino e in Germania. Il tutto, dentro la programmazione centrale di portare un «Ramadan di sangue» nel cuore delle città europee: «Nuovo orrore e sangue arriverà nel cuore degli infedeli, l'Inghilterra si sveglierà sotto il dominio islamico e gli infedeli verranno trattati per quello che sono, scimmie e maiali». Quest'ultima è una citazione coranica precisa e si riferisce agli ebrei che Allah trasformò appunto in scimmie e maiali per punirli per avere lavorato il Sabato, non rispettando dunque la propria Legge divina.
   Poi, l'escalation della crudeltà. C'è un drammatico crescendo nella capacità di seminare un orrore sempre più intollerabile, oltre che terrore. A Manchester l'Isis ha colpito con esplosivo e frammenti di metallo ragazzini e bambine che uscivano in massa da un concerto. Un voluto massacro di innocenti. Al London Bridge il commando jihadista di tre miliziani ha operato con una tecnica feroce da «Arancia Meccanica»: prima l'aggressione a 80 all'ora sul marciapiede contro i pedoni, poi, come se i tre jihadisti fossero Ninja esaltati, le pugnalate alla folla menate a destra e manca. Ancora: la preordinata scelta, per non essere intercettati subito, di risalire sul van, per spostarsi nell'affollata zona di Borough Market e riprendere ad accoltellare chiunque si trovi a tiro. Pesantissimo il bilancio della carneficina 7 morti e ben 48 feriti, alcuni, compreso il poliziotto che infine ha ucciso i jihadisti, in condizioni gravi. Maciullare nello spazio di 8 minuti 55 persone con un van e a coltellate, quindi a mano, rivela una furia omicida e crudeltà straordinarie. Una evoluzione palese, organizzata, preordinata della tecnica nata in Israele e inventata dai palestinesi (e mai condannata dal «moderato» Abu Mazen, non va dimenticato) dell'auto scagliata all'improvviso contro i pedoni e della coltellata a tradimento contro i civili e i militari ebrei. Una professionalità nel seminare morte con le mani, senza armi o esplosivi, ma con semplici coltelli, mai vista. Inedita e preoccupante, perché farà scuola, sarà imitata. Il tutto, nella fase più accesa di una campagna elettorale inglese, per amplificare all'ennesima potenza l'impatto del gesto jihadista.
   Infine, almeno una buona notizia: la capacità di reazione della polizia londinese è stata straordinaria, pari a quella israeliana. Avere intercettato e ucciso i tre jihadisti dopo solo 8 minuti dal primo allarme è prova non solo di rapidità di reazione, ma anche di un presidio di polizia capillare nella città. Uno nuovo smacco dei Servizi ( c'è da scommettere che almeno uno dei tre jihadisti era, al solito, a loro noto), ma almeno un intervento ex post tempestivo.

(Libero, 5 giugno 2017)


Il segreto di Israele e l'atomica nella Guerra dei Sei giorni

La rivelazione di uno studioso al "New York Times"

di Alberto Flores D'Arcais

NEW YORK - Israele pensava di usare la bomba atomica durante la guerra dei Sei giorni, nel giugno del 1967. Sarebbe stata gettata sulla penisola del Sinai come monito all'Egitto e alle altre forze arabe nemiche dello Stato ebraico. La rivelazione arriva adesso, a cinquanta anni di distanza da quegli eventi, in un articolo pubblicato sul New York Times. Ma non è la prima volta che si sostiene un argomento del genere. Il piano è stato svelato al quotidiano americano dallo studioso Avner Cohen, che ha condotto approfondite ricerche sull'argomento, intervistando militari in pensione. Come Itzhak Yaakov, morto nel 2013 all'età di 87 anni, che, tra il 1999 e il 2000, lasciò impresse su nastro le sue confessioni e i dettagli sull'operazione segreta, chiamata in codice "Sansone", dal nome dell'eroe biblico dalla forza immensa. Il piano prevedeva che la bomba sarebbe stata sganciata sulla cima di una montagna del Sinai a 12 miglia dalla base militare di Abu Ageila, in un punto cruciale dove, il 5 giugno 1967, Ariel Sharon comandò le truppe israeliane in una battaglia contro quelle egiziane. «Come puoi fermare un nemico? Spaventandolo», spiegò Yaakov a Cohen. E aggiunse: «Ci arrivammo davvero molto vicini». Se l'"opzione Sansone", come, secondo Yaakov, era definita in gergo militare, fosse stata utilizzata, avrebbe provocato la prima esplosione nucleare usata per fini bellici dopo gli attacchi americani a Hiroshima e Nagasaki, ventidue anni prima. Ma il piano non andò mai in porto perché la vittoria rapidissima di Israele e la distruzione dell'intera aviazione militare dell'Egitto di Nasser resero tutto inutile. «È l'ultimo segreto della guerra del 1967», ha detto Cohen al New York Times. Israele non ha mai confermato né smentito di essere in possesso di ordigni nucleari. Un portavoce dell'ambasciata israeliana a Washington ha detto che il governo israeliano non ha voluto commentare il ruolo di Yaakov. Fatto sta che, nel 2001, lo stesso Yaakov fu arrestato con l'accusa di avere rivelato informazioni a un giornalista israeliano con l'intento di danneggiare la sicurezza dello Stato. Fu prosciolto dall'accusa principale, ma per il resto della sua vita continuò con amici e militari in pensione a sostenere la sua tesi. Lo studioso Cohen sostiene di voler far venire finalmente a galla la verità, lanciando sul sito del Nuclear Proliferation International History Project del Woodrow Wilson International Center for Scholars di Washington una serie di materiali e di documenti per aggiungere un nuovo capitolo alla storia della guerra dei Sei giorni.

(la Repubblica, 5 giugno 2017)


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"Nel '67 Israele era pronta a usare l'atomica sul Sinai"

L'ultima rivelazione sulla guerra dei Sei giorni arriva dallo scienziato Avner Cohen: "È l'ultimo segreto di quel conflitto".

di Giordano Stabile

Alla vigilia della Guerra dei Sei giorni, circondata da nemici e con il futuro incerto, Israele preparò un piano da fine del mondo: prevedeva il lancio di una bomba atomica sul Sinai egiziano, come monito per gli arabi.

 «L'ultimo segreto»
  Il piano è stato rivelato al New York Times dallo scienziato atomico israeliano Avner Cohen e dal generale in pensione Itzhak Yaakov, che supervisionarono il progetto. «È l'ultimo segreto della guerra del 1967», ha commentato Cohen.

 La vittoria
  L'intervista sarà pubblicata domani ma la stampa israeliana ne ha anticipato i contenuti. Nel giugno di 50 anni fa Israele sconfisse in soli sei giorni Egitto, Siria e Giordania, la più grande vittoria dello Stato ebraico nei suoi 69 anni di storia.

 Le paure
  Ma, secondo il generale Yaakov, prima dell'offensiva Israele era profondamente preoccupata e spaventata. «Era naturale - ha spiegato -. Hai un nemico e ti dice che ti vuole gettare a mare. E tu ci credi. Puoi fermarlo? Sei spaventato e se hai qualche cosa che può spaventarlo cerchi di spaventarlo».

 Il piano Sansone
  Per questo i comandi militari prepararono il "Piano Sansone", con elicotteri che avrebbero dovuto sganciare un ordigno nucleare in cima a una montagna a 18 chilometri da una base militare egiziana, situata ad Abu Ageila.

(La Stampa, 4 giugno 2017)


Scudo hi-tech per combattere i lupi solitari

di Maurizio Molinari

È l'alta tecnologia l'arma segreta di Israele contro i «lupi solitari» jihadisti. A 50 anni dalla guerra dei Sei Giorni lo Stato ebraico è alle prese con un nuovo temibile nemico e la tattica che adopera per combatterlo, oggetto di una sperimentazione continua, interessa ogni nazione alle prese con il terrorismo. Il nemico sono i «lupi solitari» ovvero una tipologia particolare di terroristi: non affiliati a gruppi e spinti dalle più diverse motivazioni personali costituiscono il pericolo più difficile da fronteggiare perché, come un veterano dell'antiterrorismo spiega, «spesso una settimana prima di colpire neanche loro sanno che lo faranno». L'analista israeliano Ehud Yaari li definisce «from zero to hero» perché sono persone comuni che, in pochi giorni, decidono di immolarsi per la Jihad.
   I «lupi solitari» si sono manifestati come una concreta minaccia per Israele dal settembre 2015 quando la nuova rivolta palestinese, lanciata per «difendere la moschea di Al Aqsa», ha iniziato a colpire con una crescente partecipazione di individui non affiliati a gruppi terroristi come Hamas, la Jihad islamica, Isis o altri. Il fenomeno ha preso di sorpresa l'apparato di sicurezza israeliano, che ha reagito creando un'unità incaricata di studiare i profili dei «lupi solitari». Dozzine di ufficiali dell'intelligence militare e dello Shin Bet - il servizio di sicurezza interna - sono stati assegnati al compito di descriverli. Il risultato sono dei profili-standard basati su età, residenza, condizioni psicologiche e soprattutto intenzioni personali frutto della lettura dei post lasciati sui social network.
   Tale lavoro di indagine ha portato a identificare il «lupo solitario» come un individuo fra i 17 e 22 anni - uomo o donna - che nel 40 per cento dei casi attraversa difficoltà personali - dalle tensioni famigliari ai matrimoni combinati, nel caso delle donne - e matura il desiderio di diventare «martire» - compiere un attacco suicida - per morire in maniera onorevole. Davanti a tali conclusioni lo Shin Bet ha riallocato un terzo dei propri effettivi, assegnandoli ad una divisione tecnologica incaricata di monitorare senza soluzione di continuità i social network per identificare la presenza di post capaci di svelare l'esistenza di «lupi solitari». Questa divisione hi-tech del controspionaggio opera assieme all'unità 8200, l'unità cyber delle forze armate. Il monitoraggio del linguaggio di «incitamento all'odio» sui social network - anzitutto Facebook, Twitter e YouTube - ha portato al fermo di 2200 sospetti ed all'arresto di oltre 400 di loro. In particolare sono stati i messaggi su Facebook che hanno consentito di bloccare oltre 170 «lupi solitari», sventando circa 400 attacchi suicidi contro civili e 20 sequestri di soldati. Durante uno dei processi un ufficiale dello Shin Bet ha descritto così il cuore della prevenzione: «Il 70 per cento dei lupi solitari responsabili di attacchi si esprime in maniera estrema ed irregolare su Facebook ed è li che li cerchiamo». La valutazione delle forze di sicurezza è che gli errori nell'identificazione di individui «ad alto rischio» sono fra il 2 e 3 per cento dei casi ponendo la necessità di un miglioramento della sorveglianza al fine di limitare al massimo il coinvolgimento di innocenti. Sul piano dei risultati la caccia ai «lupi solitari» su Facebook ha avuto un impatto: da un picco di 80 attacchi al mese nell'ottobre 2015 si è scesi a 20 al mese ad aprile 2016, rimanendo da allora stabile. Il bilancio complessivo di questi attentati - in gran parte aggressioni con coltelli e automezzi ad alta velocità - al momento è di 43 morti e 682 feriti israeliani assieme a 273 palestinesi - 167 dei quali responsabili di attacchi - ma avrebbe potuto essere ben più alto senza l'opera di prevenzione con l'impiego di nuove tecnologie a fianco delle tradizionali operazioni anti-terrorismo e della cooperazione con l'Autorità nazionale palestinese. Questi risultati, rivelati da inchieste di stampa e documenti processuali, descrivono tutta la difficoltà della caccia ai «lupi solitari»: monitorare milioni di post quotidiani sui social network richiede un nuovo tipo di risorse umane e la piena integrazione dell'hi-tech nella struttura di sicurezza, esponendo comunque al rischio di commettere errori. Il precario confine fra difesa collettiva e tutela della privacy pone giudici e legislatori davanti alla necessità che il giurista liberal di Harvard Alan Dershowitz riassume con l'espressione «Rights from Wrongs», creare diritto dai reati, ovvero innovare i codici. E' un sentiero delicato ma inevitabile per la democrazia israeliana che testimonia l'entità dei problemi - politici e morali - generati dalla necessità di combattere una nuova tipologia di nemici. Non tutti i Paesi occidentali hanno leggi che consentono di ripetere tale caccia ai «lupi solitari» e questo trasforma Israele in un test a cui si guarda con interesse. Ciò che colpisce, nell'anniversario della guerra del 1967, è proprio come Israele confermi in questo modo il ruolo di laboratorio della difesa di altri Paesi occidentali dalle minacce più avanzate. Nel giugno di 50 anni fa lo diventò dimostrando in sei giorni la debolezza degli armamenti convenzionali sovietici allora nelle mani degli eserciti arabi, negli Anni Settanta tornò ad esserlo difendendosi dai primi dirottamenti aerei ed attacchi da parte di gruppi terroristici organizzati, alla fine degli Anni Novanta lo fece ancora affrontando ondate di attacchi kamikaze contro autobus e ristoranti, ed ora è in trincea contro i «lupi solitari» espressione più imprevedibile e mortale dell'ideologia jihadista che colpisce anche in Europa e negli Stati Uniti.

(La Stampa, 4 giugno 2017)


Fascismo e Islam così Mussolini conobbe l'odalisca

Nel saggio di Giancarlo Mazzuca e Gianmarco Walch un'analisi del lungo rapporto tra il duce e i musulmani

di Mario Avagliano

Il feeling tra il fascismo e l'Islam non è una novità storiografica. Già Stefano Fabei, ad esempio, ne aveva scritto in passato nel saggio "Il fascio, la svastica e la mezzaluna". Un libro appena uscito, "Mussolini e i musulmani. Quando l'Islam era amico dell'Italia" (Mondadori, pp.150, euro 19), di Giancarlo Mazzuca e Gianmarco Walch, ci aiuta a ripercorrerne le tappe e a comprenderne le motivazioni e la pesante eredità per l'Italia di oggi, con il piglio e la scorrevolezza del «buon giornalismo storico», come scrive Roberto Balzani nella premessa. Nella ricostruzione fatta da Mazzuca e Walch il rapporto di amorosi sensi tra Benito Mussolini e l'Islam ebbe origine da un misto di ragioni di carattere personale e di politica estera. A propiziarlo, nel 1913, quando Mussolini era ancora direttore dell'«Avanti!» ed era del tutto a digiuno di storia islamica, fu l'affettuosa amicizia che egli intrattenne a Milano con la giornalista Leda Rafanelli, detta l'Odalisca, di fede musulmana, che vestiva spesso una gelabiat (una specie di caffettano), e alla quale il futuro duce, dopo aver chiesto con una gaffe se era buddista, promise di leggere "Nietzsche e il Corano". La simpatia per l'Islam mise altre solidi radici nell'Italia fascista degli anni Venti, attraversata da un sentimento di rivalsa verso la «vittoria mutilata» sancita dal trattato di Versailles del 1919, condiviso anche dai paesi arabi, ancora sotto il giogo coloniale franco-inglese. Più tardi, negli anni Trenta, l'antisionismo spinse Mussolini e gli islamici a trovarsi dalla stessa parte della barricata contro il progetto di spartizione della Palestina, fino a trovare un altro terreno di comunanza ideologica nella promulgazione in Italia delle leggi razziste contro gli ebrei.
In quegli anni il duce guardò all'Islam con sempre maggiore attenzione, imponendo già nel 1934 a Radio Bari di trasmettere programmi in lingua araba e curando i rapporti commerciali con i paesi dell'Islam.
La stessa guerra di conquista dell'Etiopia nel 1936, definita da Indro Montanelli, che vi partecipò, «una bella lunga vacanza dataci dal Grande Babbo in premio di tredici anni di scuola», e ottenuta anche con l'impiego dei gas tossici, venne presentata come la guerra santa contro il Negus Hailé Selassié, nemico dichiarato dei musulmani. Tanto è vero che, ricordano Mazzuca e Walch, il 20 marzo 1937, testimone Italo Balbo, Mussolini fece ingresso a Tripoli su uno splendido cavallo sguainando la famosa Spada dell'Islam.

 Giornali
  "Il Messaggero" dell'epoca, al pari degli altri giornali italiani, titolò: «La spada dell'Islam al fondatore dell'Impero», citando alcuni brani del discorso del duce: «L'Italia Fascista intende assicurare alle popolazioni mussulmane della Libia e dell'Etiopia la pace, la giustizia, il benessere, il rispetto alle leggi del Profeta e vuole inoltre dimostrare la sua simpatia all'Islam ed ai mussulmani del mondo intero». Tra i pochi commenti negativi, ci fu quello di Leo Longanesi, che sentenziò: «Sbagliando s'impera». Il feeling tra il regime fascista e i musulmani, raccontano Mazzuca e Walch, proseguì anche negli anni di guerra, con il progetto di costituire in Italia una legione araba fedele alle forze dell'Asse, con la benedizione del Gran Mutfì di Gerusalemme, il quale - dialogando anche con Hitler - ambiva a creare un superstato in grado di riunire Iraq, Siria, Palestina e Transgiordania, contro britannici ed ebrei. Il progetto di una legione araba, accarezzato fin dal 1941, prese corpo nel maggio del 1942. Qualche anno prima Mussolini, nel settembre del 1936, si era anche dichiarato disponibile a fornire al Gran Mutfì di Gerusalemme, postosi alla testa di un'infiammata rivolta araba, il materiale e il personale necessari per avvelenare l'acquedotto di Tel Aviv. Per fortuna il piano fu poi abbandonato, anche se al Mutfì arrivarono dal governo italiano 138 mila sterline.

(Il Messaggero, 4 giugno 2017)


Israele e Iran, i due "fronti" di Trump che portano la Russia in Europa

La strategia di Trump in Medio Oriente sembra in parte ricalcare e in parte differenziarsi da quella di Obama, ma va forse inserita in un "gioco" più ampio.

di Carl Larky

Il sostanzioso contratto firmato da Trump per la vendita di armi all'Arabia Saudita ha forse deluso chi si aspettava dalla nuova amministrazione un cambiamento di rotta e, date le posizioni antiislamiche finora manifestate, il presidente americano è stato accusato di ipocrisia. Come peraltro i suoi predecessori, sia pure con qualche differenza. Uno dei motivi che nel 2008 portarono Obama alla presidenza fu la sua opposizione alla guerra in Iraq di Bush, tanto da fargli conferire il Nobel per la pace. Il fallimento in Afghanistan e in Iraq, il caos scatenato in Siria e in Libia hanno di fatto contraddetto pienamente la sua immagine pacifista, e l'intesa con i sauditi, con la costante vendita di armi al regime malgrado l'appoggio di Riyad ai movimenti jihadisti, ha reso ipocrita la sua conclamata opposizione alle dittature. Le stesse critiche si possono fare a Hillary Clinton (a parte il Nobel), che ha dimostrato anche maggiore spregiudicatezza, accettando apertamente le elargizioni saudite alla Fondazione Clinton e considerandole ininfluenti per la sua candidatura.
   Trump sembrerebbe muoversi al di fuori di ideologismi e moralismi, qualcuno potrebbe parlare di "amoralismo", e le sue azioni sembrano improntate piuttosto alla massima "business is business". Se l'obiettivo è rifare forte l'America, cosa di meglio che un ottimo contratto per un'industria così importante per gli States come quella degli armamenti? Anche perché, se non lo avesse firmato lui, il contratto sarebbe stato firmato da qualche concorrente, inglesi e francesi in prima linea, poi tedeschi e magari anche italiani.
   Rimane tuttavia il problema di capire quale sia realmente la strategia di Trump in Medio Oriente. Anch'egli sembra pensare, come apparentemente Obama prima di lui, che i costi di eventuali errori americani in Medio Oriente ricadano in primo luogo sui Paesi della regione e sull'Europa, lasciando così agli Usa maggior libertà di azione, a differenza di ciò che accade nel Pacifico. Le principali azioni di Trump nella regione sono state finora, oltre la citata vendita di armi ai sauditi, il cambiamento di atteggiamento verso Assad, la sconfessione del trattato sul nucleare con l'Iran e la ripresa di cordiali rapporti con Netanyahu. Si può perciò ipotizzare un posizionamento di Trump sull'asse Arabia Saudita-Israele, in opposizione all'Iran e alla sua Mezzaluna sciita. Una delle conseguenze è una crescente tensione con la Russia, sostenitrice di Assad e di Teheran, e con la Cina, anch'essa buona amica dell'Iran. Queste azioni vanno senza dubbio a vantaggio di Trump nel dibattito politico interno, anche se sembra difficile che possano far desistere i suoi avversari da iniziative come il Russiagate o la minaccia di impeachment.
   Non è certo, peraltro, che questa sia la reale strategia di Trump, che ha ormai resa evidente la sua avversione ad accordi globali, preferendo trattare singolarmente ogni occasione, così da sfruttare più facilmente ogni opportunità per raggiungere l'obiettivo dichiarato di un'America più forte. Nel caso dell'Iran, Trump accusa Teheran di fornire tecnologia per il nucleare alla Corea del Nord, ma sa benissimo che la ripresa di sanzioni non fermerebbe di per sé questa collaborazione e avrebbe l'unico risultato di rovinare gli affari con l'Iran di diverse società americane, come la Boeing. La riapertura della questione nucleare iraniana potrebbe però fornire uno strumento di pressione su Pechino perché intervenga in Corea del Nord, i cui esperimenti nucleari sono ormai una minaccia anche per la Cina. Abbattuto il regime di Pyongyang, Teheran e la sua dirigenza riformista potrebbero cessare di rappresentare un pericolo e si aprirebbero nuove opportunità in campo economico per Cina e Usa sia in Corea che in Iran.
   Un simile accordo renderebbe più distesi anche i rapporti con la Russia, facilitando una soluzione della questione siriana e irachena, con protagonisti Russia e Iran a spese dell'Arabia Saudita e forse della Turchia. Quest'ultima sta diventando un serio problema per la Nato e in particolare per la Germania, che ha aperto in questi giorni un contenzioso con Ankara relativo alla base Nato di Incirlik, ultimo di diversi scontri tra i due governi.
   La recente "rottura" tra Merkel e Trump e lo scetticismo di quest'ultimo sulla Nato confermano l'impressione che rischi e costi della questione mediorientale vengano considerati di pertinenza dell'Europa a trazione germanica. La nuova "sistemazione" europea, con il conseguente disinteresse americano, lascia più spazio di manovra alla Russia in Europa, ma per Mosca si sta aprendo un nuovo pericoloso fronte: l'Afghanistan. La sconfitta della Nato nel Paese asiatico, che ricorda la disastrosa avventura dell'Unione Sovietica, e la progressiva presa di potere di talebani e Isis costituiscono infatti una grave minaccia per Mosca e per l'intera Asia ex sovietica.
   In questa ingarbugliata situazione, Washington sembra avere più carte in mano che non i suoi alleati/avversari e Trump sembra intenzionato a giocarle, sia pure a suo modo. Un modo che ricorda le politiche commerciali per la conquista dei mercati, ma che non sono poi così diverse da quelle consuete alla geopolitica, una volta che si siano tolte le bardature ideal-ideologiche.

(ilsussidiario.net, 4 giugno 2017)


Il 1977 in Israele. Menachem Begin e il declino della secolarizzazione

di Paolo Di Motoli

 
Menachem Begin
La teoria della secolarizzazione ci diceva che con lo sviluppo e la modernizzazione delle società la religione avrebbe rivestito via via un ruolo marginale. Nella teoria di autori pur diversi come Durkheim e Weber si osservava la porzione di vita sociale sempre minore che la religione occupava e indirizzava. La separazione tra ambiti religiosi e istituzioni che si rendono autonome (pensiamo alla separazione tra stato e chiesa) e il progressivo autonomizzarsi della cultura (pensiamo alla scienza che si emancipa dal trascendente e dall'autorità della Chiesa) esemplificano bene il concetto. Il sociologo Thomas Luckmann ha radicalizzato la tesi sostenendo che le istituzioni religiose di un tempo andavano scomparendo e la ricerca di salvezza degli uomini si concentrava nel privato in un processo che l'autore chiamava "religione invisibile".
   La teoria ha visto molte critiche; tra queste quelle che sottolineano l'artificio di immaginare una presunta età dove tutto era attraversato dalla religione che con il passare del tempo perderebbe invece la sua egemonia, vi è poi chi precisa che la secolarizzazione sarebbe per certi versi una ideologia e non una teoria scientifica poiché non è mai stata sostenuta da dati empirici credibili sul declino della religione e della religiosità. Alcuni antropologi sosterrebbero poi che le società del passato erano molto più plurali dal punto di vista religioso di quanto non lo siano quelle moderne.
   Il critico più puntuale della teoria della secolarizzazione nell'ambito delle scienze sociali è senza dubbio il sociologo José Casanova. Nel suo corposo saggio l'autore riteneva che fosse venuta meno la separazione tra la sfera religiosa e quella temporale e che il "fatto religioso" fosse ormai "deprivatizzato". Il libro prendeva in esame paesi come la Spagna, la Polonia degli anni ottanta, il Brasile e gli Stati Uniti. Nel testo si citava velocemente la rivoluzione iraniana del 1979 che rappresenta un altro fattore di crisi della teoria ma per confermare l'ingresso della religione nella sfera pubblica citiamo in questa sede anche l'influenza del cattolicesimo nei processi rivoluzionari di paesi come Salvador e Nicaragua, la forza dei partiti religiosi in India e infine la crescita dell'influenza dei gruppi nazional-religiosi in Israele. L'esplodere stesso della violenza del fondamentalismo islamico ha portato molti a pensare che stavamo assistendo a quella che l'islamologo francese Gilles Kepel chiama "la rivincita di Dio".
   Il 1977 in Israele non è stato considerato da molti un anno chiave eppure la salita al potere di Menachem Begin (vittoria alle elezioni del 17 maggio 1977 e varo del governo il giorno 20 di giugno dello stesso anno) ruppe molti tabù: per la prima volta dalla fondazione dello Stato un partito compiutamente nazionalista prendeva il potere in Israele, per la prima volta un primo ministro seppure nato a Brest Litovsk si faceva carico apertamente delle istanze degli ebrei sefarditi che lo avevano appoggiato, per la prima volta si aveva un primo ministro che era apertamente contrario alla formula "pace in cambio di terra" (per quanto riguarda ovviamente i territori a ovest del Giordano), per la prima volta il Partito Nazionale Religioso appoggiò la destra segnando un piano inclinato che porterà anche una buona fetta di mondo ortodosso, che sosteneva il partito Agudat Israel (alieno da impeto nazionalista), ad appoggiare un primo ministro ebreo osservante.
   L'alleanza del 1977 segnò la nascita di una religione civile che puntava molto sui miti della tradizione religiosa per integrare la società attorno alla tradizione. Il mondo ortodosso amava Begin per il suo attaccamento alla tradizione e alla religione. Il primo ministro era un ebreo praticante che indossava la kippà, recitava i salmi e si rivolgeva sempre con rispetto ai rabbini. Legittimava costantemente il diritto di Israele alla sua terra con la promessa di Dio ai patriarchi. Oltre all'impegno di Begin a rispettare lo status quo nelle materie religiose con il rispetto rigoroso dello Shabbat e con i divieti sulla pornografia, il Likud concesse dell'altro ai partiti religiosi. Quattro richieste di Agudat Israel vennero accettate da Begin: la restrizione della possibilità di autopsie in omaggio all'inviolabilità dei cadaveri secondo i dettami religiosi; divieto degli aborti, perché uccidere gli embrioni è un crimine; possibilità per tutte le ragazze di evitare il servizio militare, luogo di possibili contatti sessuali con gli uomini; divieto di scavi archeologici in zone dove si sospettava la presenza di antichi cimiteri ebraici.
   Begin portò poi al potere i reduci dell'Irgun e del Lehi (lui li definiva "la famiglia combattente") che per anni erano stati definiti dal mondo laburista e in parte dal mondo liberale israeliano come "terroristi". Lo stesso Arafat, forse seriamente, forse con intento provocatorio, disse che nel progettare e guidare il gruppo al Fatah si era ispirato alle imprese dell'Irgun di cui Begin era stato comandante dal 1943 al 1948.
   I primi atti da capo dell'esecutivo di Begin erano tutti densi di significati, il quadro di Jabotinsky appeso nel suo ufficio a voler segnare la rivincita dei revisionisti e la visita all'insediamento di Elon Moreh, gestito dai militanti del Gush Emunim, per chiarire le sue intenzioni circa i territori. Le prime immagini che l'opinione pubblica internazionale si trovò ad osservare erano quelle del primo ministro israeliano che danzava con i coloni estremisti che tenevano in mano la Torah.
Quell'immagine rimane la fotografia più significativa del 1977 in Israele, quello rimase l'anno in cui tutti si accorsero che il paradigma della secolarizzazione non poteva essere applicato neppure nello stato degli ebrei.

(Free Ebrei, Anno VI, Numero 1, gennaio-giugno 2017)


Libia, storia di un ultimo esodo

Il 5 giugno 1967 per gli ebrei libici rappresenta l'ultimo capitolo doloroso di una storia secolare soppressa nella violenza. Il primo dei Sei giorni del famoso conflitto che mezzo secolo fa segnò una fondamentale vittoria israeliana sul mondo arabo, coincise infatti con una sanguinoso e programmato pogrom in Libia contro la Comunità ebraica locale. Anni di violenze e repressioni culminarono in quell'ultimo brutale episodio, di cui in questi giorni cade il cinquantenario e che portò gli ebrei libici ancora rimasti nel Paese ad abbandonarlo per sempre, trovando rifugio in Italia. A raccontare la loro storia, il film Libia - L'ultimo esodo diretto dal regista Ruggero Gabbai e realizzato insieme allo psicanalista David Meghnagi, testimone diretto delle vicende libiche. La pellicola, in un evento realizzato grazie all'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, sarà per la prima volta proiettata martedì 6 giugno a Milano (Cinema Orfeo - ore 20.00). "Si tratta di un anno di lavoro che affonda le radici in un progetto precedente, che voleva raccontare della Libia italiana e in cui ovviamente gli ebrei avrebbero avuto un ruolo fondamentale", racconta Gabbai, spiegando la genesi del film prodotto da Forma International e finanziato grazie a investitori privati. "In un secondo momento abbiamo deciso di concentrarci solo sull'importante realtà dell'ebraismo libico e ne è nato un film che è una cronistoria di questo mondo - racconta Gabbai - Grazie al prezioso lavoro di David Meghnagi ho potuto capire e inquadrare le vicende della Comunità ebraica di Libia ed è di questo che si parla nel film, grazie anche a preziose testimonianze raccolte tra l'Italia e Israele". Italia e Israele infatti furono le due destinazioni scelte dagli ebrei di Tripoli e Bengasi per fuggire dalle violenze: chi non fece l'Aliyah, trovò rifugio nel Bel Paese, a Roma soprattutto e Milano. "Come raccontano alcuni testimoni nel film, molti arrivarono in Italia senza più nulla ma qui trovarono la libertà", spiega il regista, sottolineando come la realtà ebraica libica "sia da sempre caratterizzata da una forte dimensione tradizionalista e da un grandissimo legame con Israele". "Ricordare la storia di questo mondo è importante - afferma Gabbai - Ed è fondamentale riuscire finire la pellicola in occasione del cinquantenario". Come scriveva su
   Pagine Ebraiche Meghnagi, assessore alla Cultura UCEI, attraverso la celebrazione dei cinquant'anni dell'esodo libico, "l'Ebraismo italiano prende atto con ciò che ne consegue, di cambiamenti più ampi cui è andato incontro lungo l'arco degli ultimi decenni con altri arrivi che li hanno preceduti da altre parti del mondo arabo e islamico. Dei 26.000 ebrei circa iscritti alle Comunità ebraiche italiane oltre il 30 per cento è costituito da persone la cui storia famigliare è direttamente e indirettamente collegata alle vicende della persecuzione degli ebrei nel mondo arabo. Un dato non indifferente e che ha delle implicazioni politiche e culturali, nei rapporti con il mondo esterno, ma anche interne nel modo in cui gli ebrei italiani percepiscono se stessi e nei rapporti con le grandi realtà della migrazione ebraica in Israele".

(moked, 4 giugno 2017)


Hezbollah: in arrivo nuove sanzioni dagli USA. Preoccupazioni in Libano

Gli Stati Uniti vogliono aumentare la pressione finanziaria su Hezbollah già colpito da severi provvedimenti a seguito dell'introduzione della legge conosciuta con l'acronimo di HIFPA che già di suo poneva diversi limiti alle transazioni finanziarie di Hezbollah e imponeva alle banche libanesi di non fare affari con persone o società riconducibili al gruppo terrorista libanese vicino all'Iran.
La legge no 114-102 introdotta nel 2015 dall'Amministrazione Obama introduceva sanzioni verso coloro che a vario titolo finanziavano o collaboravano con Hezbollah, una legge che aveva indotto la banca centrale libanese a emettere un'ordinanza nella quale si imponeva la chiusura di diversi conti correnti riconducibili al gruppo terrorista ma che, secondo alcuni banchieri libanesi, aveva colpito anche esponenti sciiti non legati direttamente al gruppo terrorista provocando una sorta di discrimine verso gli sciiti libanesi. Secondo i critici la legge introdotta da Obama ha colpito anche il sistema di beneficenza islamica costringendo la Banca Centrale libanese a chiudere molti conti correnti attraverso i quali passavano le donazioni dei fedeli che però, secondo l'amministrazione americana, erano in molti casi uno stratagemma per finanziare Hezbollah o per riciclare il denaro proveniente dalle attività illegittime del gruppo terrorista libanese....

(Right Reporters, 4 giugno 2017)


Tel Aviv destinazione top per i viaggiatori vegani

"La grande arancia del Medio Oriente" nelle 10 città top

 
 
 
"La grande arancia del Medio Oriente" è nella classifica delle 10 città Top per i viaggiatori vegani. Notando che l'alimentazione vegana sta diventando sempre più popolare in tutto il mondo, The Independent ha selezionato le 10 città che offrono la più ampia scelta di ristoranti guidati dai migliori chef e con anche un look attento alle tendenze del moderno design della città.
   Il trend vegano è da tempo in crescita in Israele, ma ha toccato il culmine nel dicembre 2014, quando alcuni soldati israeliani hanno minacciato di rivoltarsi se l'esercito non avesse dato loro la possibilità di consumare pasti vegani all'interno della mensa. "Oggi quasi il 5% della popolazione israeliana ha escluso dalla propria alimentazione carne, latticini e uova - ha scritto quotidiano inglese The Independent - il che classifica Israele al primo posto tra le nazioni vegane. Con oltre 400 locali vegani o vegan friendly, la cosmopolita Tel Aviv è diventata la capitale del vegan: qui, persino Domino's offre una pizza per vegani e da poco ha aperto la prima scuola di cucina vegana (e kosher), la Vegan Experience.
   Inoltre, tutti gli anni a settembre la città ospita il Vegan-Fest, uno dei più importanti festival vegani del mondo". Per quanto riguarda i ristoranti, lo shabby-chic Zakaim propone piatti d'ispirazione persiana, mentre il Nanuchka, il primo ristorante georgiano completamente vegano, si distingue per la sua proposta "fresca", diversa dalla maggior parte dei ristoranti dell'est Europa, che privilegiano generalmente piatti a base di carne. Le altre città vegane menzionate da The Telegraph sono: Torino, Berlino, Helsinki, Chennai, San Francisco, Melbourne, Austin, Vancouver e Londra. Il cibo vegano è parte integrante della dieta israeliana che offre una selezione di prodotti e una gamma molto ampia e variegata sugli scaffali dei supermercati, nei menù dei ristoranti, nello street food: a partire dai classici falafel e hummus, o dalle semplici, fresche e genuine spremute di melagrana. Un legame privilegiato con il mondo vegetariano e vegano si è creato in questi giorni proprio tra Tel Aviv e Milano.
   The Vegetarian Chance, il Festival Internazionale di cultura e cucina vegetariana che si è svolto a Milano ha visto infatti la presenza di Ori Shavit, "principale esponente di una vera e propria rivoluzione vegana in Israele, che negli ultimi 5 anni ha osservato e analizzato i ristoranti e la cultura del cibo in Israele" ha voluto ricordare Avital Kotzer Adari direttore dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo e partner dell'evento per il secondo anno di fila. "E' stato davvero emozionante assistere alla performance della nostra Ori, condividerne la vitalità, divenire partecipi della sua filosofia di vita, assaggiare il suo saporitissimo Shwarma realizzato con funghi, tofu, cipolla e spezie varie.

(TurismoItaliaNews, 4 giugno 2017)


I sei giorni che cambiarono la Storia di Israele (e molto anche la nostra)

Mezzo secolo fa un capolavoro tattico vinse una guerra perduta.

di Fiamma Nirenstein

La Guerra dei Sei Giorni scoppiò, cinquant'anni fa, mentre ero sotto la doccia, al kibbutz Neot Mordechai proprio nell'angolo in alto al confine con la Siria. Coprendomi in corsa scappai verso il rifugio sotterraneo dove, secondo i piani, avevo il compito di tenere a bada un pollaio schiamazzante di quei bambini israeliani che ti saltano addosso, ridono sempre, non chiamano mamma ma vogliono sapere molto bene cosa succede.
   Il famoso discorso del presidente Levy Eshkol che balbettò alla radio la sua ansia della distruzione definitiva del popolo ebraico che pareva profilarsi all'orizzonte ci impaurì, ma non smettemmo di vivere normalmente. La sera canti e balli, a pranzo il formaggio e i cetrioli, il sabato pollo; intanto imparavo con altri volontari il passo del leopardo. Faceva caldo.
   La minaccia di una prossima distruzione aveva portato Ytzchak Rabin, allora Capo di Stato Maggiore ad una crisi depressiva: fumava a catena e non mangiava più. Si rinchiuse, poi uscì per combattere. Era pronto a inventare qualcosa di formidabile con Moshe Dayan ministro della Difesa. Ma non capivo ancora l'ebraico e il loro tono sicuro nelle radioline gracchianti non era sufficiente. Potevamo morire tutti, fino all'ultimo: la Guerra dei Sei Giorni è stata una guerra di pura sopravvivenza, tutti gli storici, da Michael Oreen a Daniel Gordis, l'hanno ricostruita come la fine preannunciata e il contrattacco vittorioso. La vittimizzazione obbligatoria dei palestinesi ha poi cambiato l'esegesi falsificandola. Il genio della storia, la sofferenza accumulata e bisognosa di riscatto, o forse il Padreterno hanno creato la vittoria del popolo ebraico, e certo anche i suoi problemi contemporanei. Ma il popolo ebraico ce l'ha fatta coi faraoni, con Hitler, e alla fine anche con Nasser e tutti i leader arabi coalizzati.
   Gli ignoranti e gli odiatori di Israele immaginano una guerra di conquista, dato che poi Israele ne è uscita coi famosi «territori occupati» che in realtà sono «contestati» e appartenevano non ai palestinesi ma alla Giordania che attaccò Israele, invece si trattò di una guerra che salvò Israele dal genocidio. I prodromi sono nella rabbia dopo la sconfitta egiziana del 56, nella necessità di Gamal Nasser, un brillante dittatore che aveva scelto lo schieramento sovietico terzomondista, di proporsi con una guerra definitiva contro l'odiato nemico sionista, come il leader assoluto del movimento panarabista che doveva consegnare all'Egitto il dominio dell'intero Medio Oriente. La scintilla fu una errata informazione dei servizi sovietici secondo cui Israele ammassava truppe sul confine siriano. Qui comincia l'escalation incontenibile di Nasser.
   Entra nella penisola del Sinai con i mezzi corrazzati, dichiara che è tempo di «prepararsi per la battaglia definitiva per la Palestina»: e muove le truppe. 15mila uomini, 100 carri armati e l'artiglieria sovietica sono pronti nel Sinai. Il 16 maggio chiede alle forze dell'Onu di togliersi di mezzo, e U Thant scappa lasciando spazio, alla mossa definitiva, quella che anche gli americani avevano dichiarato motivo di guerra: la chiusura dello stretto di Tiran. Abba Eban, ministro degli esteri israeliano, cerca aiuto presso i francesi, gli inglesi, gli americani: tutti hanno paura dei russi. L'accerchiamento risulta sempre più evidente. Mahmoud Zuabi, ministro dell'Informazione siriano dichiara alla radio «la nostra terra combatterà finché la Palestina verrà liberata e la presenza sionista conclusa»; Radio Cairo dice il 16 che «l'esistenza di Israele è durata troppo a lungo. Diamo il benvenuto alla battaglia lungamente attesa... in cui distruggeremo Israele». E qualche giorno dopo: «L'unico metodo che applicheremo è una guerra di totale di sterminio contro i sionisti...». Le promesse di sterminio fioccano: egiziane, siriane, irachene, giordane e saudite: gli alleati arabi il 25 maggio muovono le truppe sui confini israeliani. Il fondatore dell'Olp Ahmed Shukairi dice: «Valuto che nessun ebreo sopravviverà».
   Rabin da ordine di scavare tombe di massa per i caduti prossimi venturi, si preparano piani di evacuazioni dei bambini sulle navi, mentre la cantante più famosa del mondo arabo Umm Khultun, rende popolare il ritornello «sgozza, sgozza». Ma ecco che viene concepito con la forza della disperazione il piano strategico che salverà Israele. Eshkol stabilisce il primo governo di unità nazionale; si riunisce in una galleria sotterranea a Tel Aviv. Domenica 4 giugno in un incontro di sette ore Dayan fa una proposta: gli egiziani hanno 100mila uomini e 900 carro armati in Sinai, la Siria ha 75mila uomini ammassati sul confine e 400 tank, i giordani ne hanno 300 e 32mila uomini. Israele ha 246mila soldati, e 300 aerei da combattimento contro i 700 arabi.
   Occorre un'invenzione strategica. Alle 7,30 di mattina del 4 giugno, mentre i piloti egiziani stanno facendo colazione, i soldati israeliani guardano attoniti dozzine di aerei che prendono il volo: duecento fighters volano a quota bassissima, solo 15 metri, per non venire intercettati dai radar. Solo dodici restano a guardia del paese, un rischio incredibile. L'uso della radio è vietato, l'ordine è: tacere anche in caso di estremo allarme, gettarsi in acqua se il rischio è definitivo. I giordani videro sul radar lo stormo che volava verso l'Egitto, ma non avvertirono gli egiziani perché Nasser faceva cambiare continuamente i codici. Tutti gli aerei egiziani furono distrutti a terra, senza alzarsi in volo. Gli israeliani ne perdettero 17 e 5 piloti, e alle 10,35 a tre ore dall'inizio dell'operazione Rabin annunciò: «L'aviazione egiziana ha cessato di esistere». Il ritardo di Nasser nell'annunciare la sconfitta causò l'errore del re Hussein che volle entrare in guerra nonostante gli israeliani lo avessero pregato di non farlo, e l'insistenza siriana durò fino alla presa del Golan da parte di Israele. Io ero là, attonita, vidi la notte la battaglia sulle pendici della montagna, le luci su quando si vinceva, giù quando arretravamo.
   La riunificazione di Gerusalemme, la città dell'anima ebraica, anche se costò molto sangue a Israele, fu la grande conclusione. Dopo molte incertezze ma spinti dalla indispensabilità di una scelta storica senza la quale il popolo ebraico non sarebbe mai più stato se stesso e tutti gli ebrei a Gerusalemme sarebbero stati trucidati, i soldati di Motta Gur arrivarono a toccare le pietre sognate nei secoli e nei millenni del Muro del Tempio, increduli che questa gloria toccasse a loro: il rabbino militare Shlomo Goren con la Bibbia dovette passare lo shofar a un giovane vicino a lui, troppo commosso per riuscire a suonare
   Israele acquistò tre volte la estensione originale del suo territorio con la striscia di Gaza, il Sinai, l'West Bank, unificò Gerusalemme che era stata divisa dai giordani dal 1948, e il Golan. Tutto quello che ha potuto lasciare secondo accordi appena rassicuranti, ha lasciato: il Sinai; quello che aveva catturato nell'Aravà dalla Giordania; Gaza che si è subito trasformata in una piattaforma di lancio di missili contro Israele; e con gli accordi degli anni 90 sgomberò di tutti i soldati la maggior parte dell'West Bank, così che ora il 98 per cento dei palestinesi è in zona amministrata dai palestinesi. Lasciare per sempre senza controllo alcuno e senza pretendere la demilitarizzazione, è una condanna a morte per migliaia di israeliani, che sono già stati investiti dal terrorismo non dalla guerra del 67, ma dagli anni 30. Il rifiuto fondamentalista nei confronti di una Stato ebraico impedisce la pace: molte volte Rabin (che proprio nel suo ultimo discorso alla Knesset spiegò che era indispensabile mantenere la valle del Giordano nella sua accezione più ampia e non dividere Gerusalemme), Ehud Barak, Ehud Olmert, e anche Netanyahu quando ha diviso Hevron hanno accettato sottrazioni territoriali, ma la verità è che ad ogni svolta decisiva si vede che come subito dopo la guerra i Palestinesi non mirano ai territori, ma alla distruzione dello Stato d'Israele, e rifiutano ogni proposta. La speranza di discutere civilmente a un tavolo e arrivare a un accordo non deve far velo all'evidenza: per ora non c'è stata una vera richiesta di spartizione da parte del mondo arabo, ma solo un rifiuto.
   La guerra fu un miracolo di audacia e di inventività contro la morte certa: la sua denigrazione, la reinvenzione di una «narrativa» che la rendesse la volontaria matrigna del destino di vittime dei palestinesi, era da aspettarsi. E' un'epoca che non sa vedere il valore, e che ripristina l'antisemitismo sotto forza di delegittimazione dell'ebreo collettivo, Israele.

(il Giornale, 3 giugno 2017)


Nel sottotitolo in corsivo era stata aggiunta una frase che abbiamo tolto: “Ma il prezzo di quella vittoria si paga ancora”. E’ una frase che certamente non è di Fiamma Nirenstein e non ha alcun riscontro nel testo dell’articolo. L’espressione “prezzo della vittoria” è di moda in questi giorni, ma è fuorviante. Israele sta pagando il prezzo della rinuncia a far pagare fino in fondo agli arabi il prezzo della loro sconfitta, avendo concesso alle autorità islamiche di continuare a gestire il Monte del Tempio. E’ questo il “prezzo della vittoria” che adesso il mondo filopalestinese vuol far pagare a Israele negandogli ogni legame con quello storico luogo che da “Monte del Tempio” è stato trasformato nel frasario internazionale in “spianata delle moschee” . M.C.


"Scusate se abbiamo vinto, ma l'unica alternativa era l'annientamento"

Nel 1967 la distruzione di Israele non era solo una minaccia a parole: erano piani precisi e ordini esecutivi.

Più di ogni altra cosa, la guerra dei sei giorni si è trasformata in una guerra riscritta. L'Egitto di Gamal Abdel Nasser, affermano i revisionisti, non aveva la capacità di combattere Israele e, comunque, non aveva intenzione di farlo. È vero che fece minacce. È vero che inviò sempre più divisioni nel Sinai. È vero che espulse i caschi blu delle Nazioni Unite. È vero che aizzava le masse nei paesi arabi. È vero che i regimi arabi gonfiavano i muscoli e si preparavano alla guerra. È vero che Nasser impose il blocco degli stretti di Tiran. È vero che Israele era assediato e preso alla gola. È vero che si trattava di una grave violazione del diritto internazionale, anzi è vero che si trattava di un casus belli (un atto di guerra secondo il diritto internazionale)....

(israele.net, 2 giugno 2017)


Il libro su Joseph Rabinowitz

Ieri si è tenuta a Milano, nell'ambito del Raduno Nazionale di EDIPI tuttora in corso, la presentazione del libro appena uscito di Kai Kjaer Hansen "Joseph Rabinowitz, il Theodor Herzl del movimento messianico". Il libro, un'autentica novità nel panorama letterario italiano, merita non solo di essere letto, ma anche discusso e commentato in ambito sia cristiano sia ebraico. Ne presentiamo qui per intero la prefazione di Marcello Cicchese, di cui qualche settimana fa avevamo riportato soltanto qualche estratto.

Joseph Rabinowitz (1837-1899)

Questo libro racconta la storia di un ebreo che si è convertito a Cristo. Formulata così, una frase simile provoca immediatamente due reazioni di tipo opposto: di accoglienza gioiosa fra i cristiani e di repulsione disgustata fra gli ebrei. Tenuto conto che per secoli cristianesimo ed ebraismo sono stati vissuti come due campi teologicamente e socialmente contrapposti, il passaggio di qualcuno da un campo all'altro, sempre nella stessa direzione, è stato considerato un tradimento dagli ebrei e una vittoria dai cristiani.
   La storia di cui si parla in questo libro si svolge in modo diverso. Un ebreo russo, un vero ebreo di famiglia e tradizione, si converte a Cristo, come tanti altri prima di lui, ma il contesto dei due campi contrapposti in cui questo avviene è fortemente scosso in modo inusuale. E' bene dunque avvicinarsi a questo libro con curiosità e disponibilità a ripensare e mettere in discussione, se necessario, schemi mentali forse ben collaudati perché provenienti da una lunga tradizione, ma non adatti a capire l'imprevedibilità dell'agire di Dio.
   Joseph Rabinowitz (1837-1899) è un nome pressoché sconosciuto in Italia. Nasce a Rezina, un piccolo paese della Bessarabia, attuale Moldavia, da genitori appartenenti entrambi a famiglie rabbiniche. Da ragazzo fu affidato per la sua formazione a uno zio materno, un pio e zelante ebreo appartenente ai chassidim, un devoto movimento ebraico molto diffuso a quel tempo nell'Europa dell'Est. Joseph imparò dallo zio a conoscere ed amare la Torà e il Talmud, ma durante l'adolescenza si familiarizzò anche con gli scritti di Moses Mendelssohn, famoso esponente dell'illuminismo ebraico e nonno del compositore Felix Mendelssohn Bartholdy. Le idee dell'ebraismo riformato fecero breccia nella mente vivace del giovane, e come lui stesso dichiarò in seguito, la chiarezza del pensare logico lo fece risvegliare dal sogno talmudico in cui era cresciuto. Pur essendo nato in una famiglia di rabbini e cresciuto in un ambiente chassidico, dall'età di 19 anni Rabinowitz diventò dunque un ebreo "illuminato", cioè aperto al mondo esterno, alla sua cultura e ai suoi costumi.
   Il passaggio dallo chassidismo al libero pensiero potrebbe essere detta la prima conversione di Rabinowitz. Fu in questo periodo di travaglio che ricevette dalle mani di un altro ebreo, che in seguito diventerà suo parente, un Nuovo Testamento nell'edizione tradotta in ebraico dal noto teologo ed ebraista protestante Franz Delitzsch. Non si sa di preciso che cosa ne fece Rabinowitz negli anni seguenti, ma è quasi sicuro che nella sua nuova apertura mentale lo abbia letto, almeno in parte, se non altro per il desiderio di accrescere le sue conoscenze. E' certo comunque che non se ne distaccò mai, anche se per molti anni non diede alcun segno di essere stato convinto o influenzato dal suo contenuto.
   Era un ebreo illuminato, ma ben presto arrivò a capire che le luci del progresso non avrebbero fugato le tenebre dell'odio contro gli ebrei: i pogrom che si susseguivano nell'Impero russo ne erano una continua e drammatica conferma. Rabinowitz allora non abbandonò il suo popolo, per cercare soluzioni personali ai suoi problemi. Al contrario, proprio la sua apertura mentale e la sua cultura lo spinsero a cercare per i suoi fratelli una via d'uscita dalla misera situazione in cui si trovavano, e si adoperò affinché questo avvenisse. Anche lui, come Herzl ma prima di lui, era "torturato" dal pensiero di trovare la soluzione della "questione ebraica".
   Completò i suoi studi e diventò avvocato, cosa che a quei tempi era molto rara per un ebreo in Russia, e come tale si impegnò a difendere per quanto possibile le cause dei suoi correligionari. Volle migliorare il suo russo; studiò a fondo la legislazione della Bessarabia; pubblicò articoli sui giornali ebraici di Odessa; si mobilitò per favorire la creazione di scuole di Talmud-Torà affinché gli ebrei potessero studiare il russo e l'ebraico. Da tutti era considerato un "amico del popolo ebraico", anche dai religiosi, che pure certamente non condividevano le sue idee troppo aperte e moderne.
   Nel novembre del 1881 fece domanda al governatore di Bessarabia di aprire una colonia agricola ebraica. Sperava che mediante l'onesto lavoro della terra si potessero alleviare le misere condizioni dei suoi fratelli ebrei, strappandoli dalla disperazione e anche dalla ricerca di equivoche soluzioni attraverso la manipolazione del denaro, cosa che aveva attirato il discredito su tutto il popolo ebraico. Alla fine del febbraio 1882 arrivò la risposta delle autorità: negativa. Nessuna autorizzazione, nessun fondo a disposizione per gli ebrei.
   Dopo questa amara delusione decise, anche su pressioni di amici ed organizzazioni ebraiche, di fare un viaggio in Palestina. Il suo compito era di verificare se quella terra potesse essere il luogo in cui gli ebrei russi avrebbero potuto emigrare e trovare un'onorevole soluzione ai loro assillanti problemi di esistenza.
   Partì, e - fatto importante - portò con sé il Nuovo Testamento che aveva ricevuto in dono.
   Si mise dunque in viaggio verso la Terra Promessa. Dopo aver fatto tappa a Costantinopoli, arrivò a Giaffa nel maggio del 1882, lo stesso anno in cui gli Hovevei Zion (Amanti di Sion) fondavano Rishon LeZion, il primo insediamento ebraico in Palestina.
   A Giaffa la sua prima impressione fu deprimente, e quelle successive ancora di più. Non gli ci volle molto per capire che la soluzione della questione ebraica non poteva trovarsi in Palestina. Gli sembrava anzi addirittura un imbroglio il tentativo di convincere gli ebrei a lasciare una posizione misera in Russia per emigrare in Palestina e trovarne un'altra ancora più misera. Tuttavia continuò il suo viaggio, avvertendo l'obbligo morale di rendere conto dei risultati della sua visita a coloro che ne erano a conoscenza e si aspettavano delle risposte.
   Arrivò a Gerusalemme, e lì lo squallore della "città santa", a cui tutti gli ebrei rivolgono ogni anno il loro pensiero e indirizzano le loro speranze, non fece che aggravare il suo stato di abbattimento.
   Una sera, poco prima del calar del sole, uscì a camminare per le vie di Gerusalemme. Triste e desolato, ripensando allo stato misero e senza speranza in cui si trovava il suo popolo, arrivò sul pendio del Monte degli Ulivi, non lontano dall'orto del Getsemani. E lì, proprio lì, vicino al luogo in cui Gesù aveva supplicato il Padre poco prima di morire, avvenne quella che in seguito sarà definita la sua conversione.
   Stranamente, di questa sua conversione in seguito parlò molto poco, e quando ne veniva richiesto era sempre molto parco di parole. Come mai? Sulla base di quanto è avvenuto in seguito, si può azzardare una risposta: perché temeva che i suoi interlocutori cristiani non avrebbero capito. Vedremo più avanti il motivo.
   La notizia della sua conversione si sparse prima di tutto in campo ebraico. E lì purtroppo avvenne quello che spesso avviene in questi casi: fu criticato, calunniato, disprezzato e bandito dalla vita della comunità ebraica.
   Lentamente la notizia si sparse anche in campo cristiano. E anche lì avvenne quello che spesso avviene in questi casi: fu festosamente accolto, onorato come un eroe, sbandierato come un trofeo di guerra. Divenne anche oggetto di contesa tra diverse missioni che in quel tempo lavoravano tra gli ebrei: con collaudate armi diplomatiche "cristiane" si guerreggiò per stabilire a chi si dovesse attribuire il merito di una così importante conversione e a chi spettasse il diritto di "gestirne" i successivi sviluppi.
   Nella zona di Kishinev, la cittadina in cui viveva Rabinowitz quando fece il suo viaggio in Palestina, lavorava da più di vent'anni un ecclesiastico luterano che svolgeva il compito di pastore per la piccola congregazione cristiana locale e per gli insediamenti tedeschi nella zona, oltre che di "cappellano di divisione" per i soldati luterani nell'esercito russo. Si chiamava Rudolf Faltin. Rabinowitz lasciò passare diversi mesi prima di decidersi a comunicargli la sua nuova fede in Gesù, e quando lo fece volle che l'incontro avvenisse in territorio neutro, cioè fuori da edifici ecclesiastici. Non voleva che la sua conversione a Cristo fosse intesa come un abbandono del suo popolo e un passaggio nel campo della società cristiana. In seguito si fece battezzare, ma volle dare al suo atto il significato di testimonianza a Cristo, non di inserimento in una denominazione cristiana già costituita. Il suo battesimo dunque avvenne in forma anomala, in una chiesa di Berlino, dove lui si trovava di passaggio, accompagnato da credenti che lo conoscevano personalmente, e dove probabilmente non sarebbe più tornato.
   Torniamo allora al momento della sua suggestiva conversione a Gerusalemme. "Sul Monte degli Ulivi ho trovato Gesù" scrisse Rabinowitz a un suo amico qualche anno dopo. E tuttavia, quando Franz Delitzsch lesse la bozza della sua autobiografia gli fece notare che non aveva scritto nulla sul momento della sua conversione. Rabinowitz disse soltanto che la cosa era intenzionale. Perché questa reticenza? La storia di Gesù nei Vangeli dovrebbe far capire che in certi casi anche i silenzi parlano, ma chi non ha orecchie per udire non intende neanche quelli. Chi ascolta il racconto di una conversione spesso è desideroso di sentire quello che già si aspetta, che ha già sentito dire da altri, che forse lui stesso ha detto quando "ha dato la sua testimonianza". Probabilmente Rabinowitz aveva capito che se avesse detto in modo chiaro e preciso tutto quello che aveva sperimentato in quell'occasione, e soltanto quello, molti cristiani avrebbero detto che la sua non era una vera conversione.
   Cerchiamo allora di ricostruire ciò che è essenziale dai frammenti che sono pervenuti e sono riportati nel libro. Il peso che gravava su Rabinowitz quando si trovava a Gerusalemme e camminava sul Monte degli Ulivi non era costituito dai suoi peccati personali, ma dalla misera, disperata condizione in cui si trovava il suo popolo in quel momento. Il problema del peccato gli salì alla mente, ma in quanto peccato del suo popolo. Il Muro del Pianto vicino a lui gli fece ricordare il passo di 2 Cronache 36:14-16, in cui il Signore annuncia la distruzione di Gerusalemme: "Tutti i capi dei sacerdoti e il popolo moltiplicarono le loro infedeltà, seguendo tutte le abominazioni delle nazioni; e contaminarono la casa dell'Eterno, ch'egli avea santificata a Gerusalemme. L'Eterno, Dio dei loro padri, mandò loro a più riprese degli ammonimenti, per mezzo dei suoi messaggeri, poiché voleva risparmiare il suo popolo e la sua propria dimora: ma quelli si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti". Il testo biblico poi continua con le parole che più di tutto colpirono Rabinowitz: "… finché l'ira dell'Eterno contro il suo popolo arrivò al punto che non ci fu più rimedio". Come colpito da un'improvvisa luce, comprese che le sofferenze degli ebrei e la desolazione della Palestina erano dovute al loro persistente rigetto del Cristo. Il rimedio doveva essere trovato in Lui.
   Un uditore di uno dei pochi racconti che Rabinowitz fece della sua esperienza riporta per iscritto alcune parole:
    «Improvvisamente una frase del Nuovo Testamento, che avevo letto 15 anni prima senza prestarvi attenzione, trafisse il mio cuore come un raggio di luce: 'Se il Figlio vi farà liberi, sarete veramente liberi' (Giovanni 8:36)». Da quel momento la verità che Gesù è il Re, il Messia, l'unico che salva Israele, prese forza sulla sua anima. Profondamente commosso, tornò immediatamente al suo alloggio, afferrò il Nuovo Testamento, e mentre leggeva il Vangelo di Giovanni fu colpito da queste parole: '... senza di me non potete fare nulla' (Giovanni 15:5). In questo modo, per la provvidenza di Dio Onnipotente, fu illuminato dalla luce del Vangelo. 'Yeshua Achinu' (Gesù nostro fratello) rimase da allora lo slogan, con cui ritornò in Russia.»
La formula "Gesù nostro fratello" caratterizzò immediatamente la forma in cui la fede di Rabinowitz si manifestò in pubblico nei primi tempi. In ambito cristiano era indubbiamente nuova; qualcuno la trovò interessante, altri la criticarono, perché sembrava svalutare la grandezza del Signore Gesù. Quel "nostro" evidentemente si riferiva agli ebrei, e questo poteva apparire riduttivo ed esclusivo a chi non è ebreo. Qualcuno poi fece notare a Rabinowitz che non basta confessare Gesù come figlio di Davide, Messia e redentore d'Israele, bisogna riconoscere in Lui l'Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo. A questo Rabinowitz arrivò molto presto; infatti le sue predicazioni in seguito conterranno sempre pressanti inviti al ravvedimento e alla fede in Gesù per il perdono dei peccati. Ma questo aspetto della salvezza per fede in Gesù, pur essendo fondamentale, non fu il primo a toccare Rabinowitz: come prima cosa per lui ci fu l'inaspettata scoperta dell'amore di Gesù per il suo popolo. Era venuto a Gerusalemme per trovare il modo in cui aiutare gli ebrei di Russia ad uscire dalla miseria senza vie d'uscita in cui si dibattevano, e non lo trovò. Ma trovò Gesù. Era venuto per alleviare le sofferenze dei suoi fratelli ebrei, e nel momento in cui disperava di poterlo fare trovò il "nostro fratello Gesù". Questo gli aprì la mente e il cuore, rendendolo attento a tutte le parole di Gesù, anche quelle che all'inizio non l'avevano colpito, cioè la sua morte, la sua risurrezione e il perdono dei peccati per tutti coloro che credono in Lui. Pochi anni dopo la sua conversione ebbe a dire: "Per prima cosa ho onorato Gesù come grande essere umano con cuore compassionevole, poi come colui che ha desiderato il bene del mio popolo, e alla fine come colui che ha portato i miei peccati".
   In questo senso, la conversione di Rabinowitz, avvenuta negli stessi anni in cui si avviava il movimento del sionismo, ha valore di segno storico. Per secoli convertirsi a Cristo per un ebreo significava percorrere un cammino di allontanamento dal suo popolo: un cammino che alla fine doveva portare a un netto, doloroso distacco dalla comunità di origine. Il percorso di Rabinowitz è stato diverso: è l'amore per il suo popolo che gli ha fatto scoprire Gesù, facendogli trovare in Lui Qualcuno che gli ebrei possono chiamare "nostro fratello Gesù". Sul pendio del Monte degli Ulivi, Rabinowitz scoprì che Gesù ama il suo popolo, e in quel momento capì che soltanto in Lui si trova la soluzione definitiva della "questione ebraica". Questo cambiò radicalmente la sua vita.
   La storia della conversione di Rabinowitz non ha il lieto fine che di solito si legge nei racconti missionari. Dopo pochi anni ci fu rottura irreparabile tra l'ebreo Rabinowitz e il luterano Faltin. Provare a dire chi avesse ragione è cosa ardua, e anche rischiosa, perché dal giudizio che si formula possono emergere inaspettati punti deboli della teologia di chi giudica. A entrambi gli uomini si può concedere di aver voluto sinceramente servire il Signore nel quadro della loro comprensione del messaggio evangelico, ma è proprio la società cristiana in cui si muoveva Faltin e in cui ha tentato di inserirsi Rabinowitz che ha fatto naufragio davanti all'emergere di un movimento spirituale inaspettato. E' stato il Signore a suscitarlo, ma il corpo dei credenti in Gesù non ha saputo riconoscerlo ed affrontarlo in modo adeguato perché si è fatto trovare teologicamente e spiritualmente impreparato.
   Il gruppo che si era formato intorno alla predicazione di Rabinowitz prese il nome di "Israeliti del nuovo patto", ma non divenne mai una chiesa locale secondo il modello neotestamentario. Il motivo potrà sorprendere: perché in essa non si poteva battezzare. La singolarità di questa situazione fa emergere la gravità di una concezione teologica della chiesa che vive in osmosi con la società politica organizzata: in Russia il battesimo era un atto civile con il quale si diventava ufficialmente cristiani, e pertanto potevano amministrarlo soltanto persone autorizzate dal governo. Faltin aveva la licenza per battezzare, Rabinowitz no, nonostante ne avesse fatto regolare richiesta scritta. Un ebreo che si convertiva a Cristo poteva andare a farsi battezzare dal pastore Faltin, ma da quel momento cessava ufficialmente di essere ebreo e diventava un cristiano appartenente alla chiesa luterana. E questo, Rabinowitz non lo voleva assolutamente. «La soluzione della questione ebraica starebbe nel fatto che gli ebrei diventano luterani?» diceva polemicamente. Secondo lui, chiunque poteva andare a farsi battezzare da chi voleva «... e diventare luterano, russo o romano, ma il mio popolo, il mio gruppo, quello che il governo mi ha permesso di fondare, non può e non deve diventare tedesco, russo o romano! Non hanno nessun motivo per diventare qualcosa d'altro: loro sono ebrei, il mio popolo è Israele».
   Dopo la rottura con il pastore luterano, Rabinowitz non perse totalmente l'appoggio delle chiese e delle missioni estere. Aiuti finanziari continuarono ad arrivargli da varie parti per la prosecuzione della sua opera di evangelizzazione tra gli ebrei. Questo però non sembra aver contribuito ad un sano sviluppo del nuovo movimento: i soldi, che pure sono importanti per molte cose, in campo spirituale spesso si rivelano essere una trappola tremenda.
   Per concludere, bisogna dire che questo libro non è certamente il primo a raccontare la storia di Joseph Rabinowitz. Anzi, l'autore prende in esame, analizza e confronta testi di una letteratura già estesa sull'argomento. Per questo non sempre risulta di facile lettura, ma sempre di enorme interesse, perché solleva quasi ad ogni pagina problemi che richiedono una valutazione e spingono alla riflessione. E' un libro problematico, perché tocca problemi di comprensione della Scrittura che a quel tempo non erano stati affrontati e tali sono rimasti ancora oggi in larga parte della cristianità che pigramente si adagia su posizioni di una tradizione che nei casi migliori ha escluso o emarginato Israele e in quelli peggiori l'ha additato come centro di tutti i mali. Lo scossone che sarebbe potuto venire da una lettura attenta ed umile del testo biblico è arrivato invece attraverso uomini che non a caso, ancora una volta, sono ebrei. Nel movimento degli "Israeliti del nuovo patto" di Kishinev erano già presenti tutti i temi di discussione e i problemi di identità che si ritrovano oggi nel movimento degli ebrei messianici, in Israele e nel mondo.
   Quanto a Joseph Rabinowitz, conviene ricordarlo con le parole di una dichiarazione che fece nel 1888: «Ho due soggetti che mi assorbono interamente: uno è il Signore Gesù Cristo, l'altro è Israele».


Kai Kjaer Hansen, "Joseph Rabinowitz, il Theodor Herzl del movimento messianico", traduzione di Fiorella Ghirlanda, revisione di Nicla Costantino, ed. The New Thig - Padova, maggio 2017 - pp. 304, € 25,00.

(Notizie su Israele, 3 giugno 2017)


Il Conte L. Serristori e gli israeliti del Regno di Napoli

di Tommaso Todaro

Il conte Luigi Serristori (1793-1857)
Il conte Luigi Serristori (1793-1857), militare e uomo politico toscano, ricoprì diversi incarichi amministrativi e di governo alla corte di Leopoldo II.
Egli pubblicò nel 1839 un corposo volume dal titolo "Statistica dell'Italia" per i tipi della Stamperia Granducale di Firenze.
La seconda edizione, dalla quale sono ripresi i dati appresso illustrati è stata stampata, sempre in Firenze, nell'anno 1842.
Serristori ha classificato la popolazione dei vari Stati italiani, ove i dati raccolti glielo consentivano, per classi di età, condizione domestica (coniugati, scapoli, vedovi), origine (sudditi o stranieri) e religione.
In quest'ultimo caso, operando una distinzione tra cattolici, Israeliti e acattolici.
Nel "ramo ecclesiastico" di ciascuno Stato si è minuziosamente dilungato su diocesi, chiese, parrocchie, abbazie, conventi, seminari e quant'altro.
Il quadro riepilogativo delle superfici e popolazioni, dedotte dai dati pubblicati per i vari Stati italiani, è quello appresso riportato.
Nell'ultima colonna è indicata la popolazione ebraica residente.

STATO Superficie Popolazione 1839 Anno di riferimento popolaz. Popolazione ebraica residente nel 1839
miglia italiane di 60 a grado assoluta relativa (ab/miglio q.)
Regno Lombardo-veneto Non indic. Non indic. Non indic. Non indic. 6.900
Regno di Sardegna
(terraferma)
14.989,00 4.125.000 274 1.839 4.140
Ducato di Parma 1.712,00 465.673 272 1.833 630
Ducato di Modena 1.629,00 474.524 291 1.836 2.654
Ducato di Lucca 320,00 168.198 525 1.839 0
Granducato di Toscana 6.464,00 1.436.000 222 1.836 7.066
Stati pontifici 12.120,00 2.732.000 225 1.833 12.700
Regno delle Due Sicilie
(terraferma)
23.100,00 6.141.895 266 1.839 0
Isola di Sicilia 7.787,20 1.954.795 251 1.839 0
Isola di Corsica 2.850,00 207.886 72 1.836 0
Isola di Sardegna 8.228,57 524.633 63 1.838 0
Totali 79.199,77 18.230.604 Media 246  1.839 34.090

Nota. La misura del miglio geografico in uso all'epoca nei vari Stati italiani, era di Km 1,85 (arrotondato) e del miglio quadrato di Kmq 3,4225 (Ferdinando Visconti - Del sistema metrico … Napoli, 1838).
Dai numeri esposti si deduce che la popolazione israelita residente in Italia nel 1839 rappresentava l'1,87 per mille di quella totale (1,87 Israeliti per ogni mille abitanti).
Comprendendo gli "ambulanti", il numero totale ascendeva a circa 40.000 individui. «Può ritenersi per vero, che circa 40 mila Israeliti vivano attualmente nella Penisola Italiana, calcolando quelli ambulanti» (pag. 371).
Nel Regno delle Due Sicilie non si contavano Israeliti residenti. «Non vi sono Israeliti domiciliati, ma solamente ambulanti, in specie in Napoli. Non esistono Sinagoghe autorizzate, ma soltanto un Campo-santo presso Napoli. Dopo l'espulsione avvenuta, regnando Carlo III, gl'Israeliti non sono che tollerati in questi dominj. Nelle isole di Sicilia, Sardegna e Corsica non vi sono Israeliti domiciliati.» (pag. 371)
In un'altra breve nota riferisce che «Circa l'anno 1740 Carlo III pubblicò un Editto in favore degl'Israeliti in forza del quale fu loro permesso di ritornare nel Regno, di esercitarvi liberamente il loro culto, e di domiciliarsi, ove loro più convenisse. Un gran numero di Ebrei refluì infatti verso questi dominj, ma sette anni dopo ne furono scacciati, il popolo mal tollerando quelle genti. Al presente non sonovi Ebrei, che in piccol numero, isolatamente stabiliti, essendo tuttora loro vietato di costituirsi in comunità: si fanno ascendere a circa 2 mila» (pag. 264).
Per contro i 47.210 religiosi (26.304 preti, 11.394 frati e 9.512 monache), distribuiti in 86 diocesi, rappresentavano il 2,59% della intera popolazione del Regno delle Due Sicilie, ossia un religioso per ogni 2,6 abitanti.
Riguardo ai residenti di "culto evangelico", la breve nota a pag. 264 riferisce che «Non esistono Chiese, o Tempj propriamente detti, non essendovi che cappelle presso le Legazioni estere, e presso i Consolati, delle quali il Governo non prende particolare notizia. Due Cappellani Protestanti pagati dal R. Erario sono addetti ai quattro Reggimenti Svizzeri capitolati».
Nel 1839 si contavano nel Regno solo 830 protestanti residenti di cui 270 anglicani e 560 di lingua francese e tedesca.
Il complesso degli Stati italiani, escludendo il Lombardo-Veneto, comprendeva invece 24 mila tra riformati e Greci non uniti, dei quali «20 e più mila Valdesi del Piemonte».
Rav Flaminio Servi (1841-1904), negli "Israeliti d'Europa" (Torino, 1871), accenna alla "Statistica comparativa della popolazione israelitica d'Italia" del Serristori, commentando che «Non sappiamo in qual modo l'egregio autore venisse a conoscere la popolazione israelitica d'Italia, ma egli è certo che in tutti gli Stati (meno in quello delle Due Sicilie) si approssimò al vero» (pagg.279-304).
Non dà però alcuna spiegazione sul perché ritenesse inattendibile il dato sugli Israeliti delle Due Sicilie.
Raffaele Mastriani ha lungamente recensito il lavoro del Serristori sulla "Statistica del Regno delle Due Sicilie - Domini di qua del Faro" (la settima e penultima dispensa dell'opera pubblicata dal Serristori - 1839) - "Annali Civili del Regno delle Due Sicilie", Vol. XXI, Settembre/Dicembre 1839).
Egli definisce l'opera di Serristori una «lodevole impresa da lui per il primo ideata, e per la quale non ha perdonato né fatiche né spese né diligenza, ma se dobbiamo giudicarne dalla parte da noi ora tolta in disamina, non sembra che abbia egli raggiunto il difficile scopo».
Pur tuttavia, per evidenti ragioni di orgoglio nazionale, lamenta inesattezze, moltissime lacune e discordanze, nulla scrivendo però sulla eventuale presenza e condizioni degli Israeliti nel Regno.
Dell'opera del Serristori fanno menzione anche gli "Annali di statistica, di economia pubblica, ecc. - Bollettino di notizie italiane e straniere…" stampato a Milano - fascicolo di Dicembre 1843, che ripropone il quadro numerico degli Israeliti in Italia, senza aggiungervi alcun commento.
Il Regno di Napoli non è mai stato tenero con gli ebrei. Precorrendo la politica razziale della Germania nazista, Re Ferdinando III di Spagna "cognominato il Cattolico", nel 1506 ordinò che tutti gli ebrei portassero sugli abiti un segno distintivo di colore rosso.
L'espulsione degli Israeliti dal Regno di Napoli avvenne a seguito del bando firmato a Madrid il 2 novembre 1510 e pubblicato a Napoli il successivo 23 novembre.
Si è trattato di un esodo forzato i cui effetti cessarono con l'entrata in Napoli di Garibaldi e l'unificazione dell'Italia sotto i Savoia. Ma questa è storia conosciuta.
Polverizzati i Borboni, annichilito Mussolini ed esiliati i Savoia firmaioli delle nefandezze razziali mussoliniane, rimane ancora il Italia un profondo strascico antisemita mascherato dal più becero antisionismo.
Un signore dalle lontane radici comuniste ebbe a dirmi una volta che gli ebrei in terra di Palestina erano degli abusivi, manifestando rammarico per l'insuccesso degli arabi che più volte avevano tentato di ricacciarli in mare.
Il politically correct non consente a molti amministratori dell'ex Regno delle Due Sicilie di sostenere apertamente quella tesi ma rimediano appoggiando iniziative come la Freedom Flotilla e conferendo o proponendo la cittadinanza onoraria a riconosciuti criminali antisemiti come Marwan Barghouti e Bilal Kayed, adottando politiche di "boicottaggio, disinvestimento e sanzione" contro lo Stato di Israele e via dicendo.
I secoli fluiscono veloci, passano uomini, regni, imperi e governi ma l'animosità contro gli Israeliti rimane una costante.

(Nuovo Monitore Napoletano, 3 giugno 2017)


L'ambiguo ruolo di Mosca nella guerra arabo-israeliana del 1967

Il conflitto inevitabile, l'ambizione di Nasser, i fini sovietici

di Antonio Donno

Il 14 maggio 1967 le forze egiziane furono messe nel più alto stato di allerta. Nello stesso giorno, il capo di stato maggiore egiziano, il generale Muhammad Fawzi, si recò a Damasco per coordinare una risposta all'imminente attacco delle forze israeliane, ma dovette constatare con sorpresa che non v'era alcuna mobilitazione israeliana ai confini meridionali della Siria. L'allarme che Mosca aveva dato ai siriani sulla concentrazione di Forze armate di Israele lungo la linea del Golan era falsa. Lo stesso Fawzi scrisse nelle sue memorie: "Da quel momento in poi, cominciai a pensare che l'informazione circa la concentrazione di truppe israeliane lungo il confine siriano non fosse la sola o la principale causa del dispiegamento militare che l'Egitto stava effettuando con tanta rapidità". Le esplicite affermazioni di Fawzi sarebbero sufficienti a chiudere il discorso sulle responsabilità arabe nello scoppio della guerra del 1967. Lo scrive Efraim Karsh, ora direttore del Begin-Sadat Center for Strategie Studies di Tel Aviv in un lungo articolo pubblicato il 19 maggio scorso sul sito del Besa Center. Dunque, Mosca aveva dato agli arabi un'informazione sbagliata. Perché? E' possibile che Mosca avesse accertato una realtà inesistente o Mosca aveva tutto l'interesse a spingere i suoi alleati arabi a un'ennesima guerra contro Israele? L'unico dato vero nella situazione di quel tempo - c'è da aggiungere - è che l'Unione sovietica era interessata a dare sostanza, anche militare, alla sua alleanza con alcuni paesi arabi che si definivano alquanto enfaticamente esponenti di un sedicente "socialismo arabo". Nel fare questo passo, Mosca si accollava una responsabilità pesantissima, anche in considerazione del terribile smacco politico che avrebbe guadagnato in caso di sconfitta dei suoi alleati. I sovietici si fidavano dei possenti aiuti militari che avevano dato a egiziani e siriani e si fidarono - ingenuamente, è il caso di dire - degli arabi. Il risultato fu catastrofico, sia militare per gli arabi, sia politico per Mosca.
   Nasser fu informato da Fawzi, ma ignorò l'informazione. Il dado era ormai tratto. Nasser aveva l'ambizione, coltivata da molto tempo, di divenire il raìs incontestato del mondo arabo e i sovietici erano completamente d'accordo. Il blocco siro-egiziano vincente, sotto l'ombrello sovietico, avrebbe messo a mal partito i paesi arabi filo-occidentali (Giordania e Arabia Saudita), messo alle strette gli Stati Uniti e rimodulato l'assetto del medio oriente a favore dei sovietici e dei loro alleati arabi. Vera o falsa che fosse l'informativa sovietica, era il momento di vendicare la sconfitta del 1948 e quella del 1956 da parte di Israele. La guerra, perciò, era inevitabile, perché gli arabi, e Nasser in particolare, la volevano. In un editoriale di al Ahram del 26 maggio, il direttore scriveva a chiare lettere che la guerra era inevitabile e che Nasser prevedeva che Israele avrebbe attaccato entro le quarantotto-sessantadue ore; qualche giorno prima, il 22 maggio, in un discorso pubblico, Nasser aveva dichiarato: "Il nostro principale obiettivo sarà la distruzione di Israele. […] Allah ci aiuterà certamente a ripristinare lo status quo antecedente il 1948".
   Purtroppo per gli arabi - e per i sovietici, che però non credevano in Allah - le cose non andarono così. Lo scrittore egiziano Naguib Mahfouz, premio Nobel nel 1988- riferisce, a questo proposito, Karsh - ha scritto: "Quando Nasser tenne pomposamente la sua famosa conferenza-stampa, prima della guerra del giugno 1967, credetti che la vittoria su Israele fosse garantita. La ritenni una semplice passeggiata verso Tel Aviv, di ore o al massimo di giorni, perché ero convinto che saremmo divenuti la più grande potenza militare in tutto il medio oriente".

(Il Foglio, 3 giugno 2017)


“Le Scarpe sulla Riva del Danubio”

il Toccante Memoriale sull’Olocausto degli Ebrei di Budapest

di Annalisa Lo Monaco


Sulle rive del Danubio, a Budapest, non lontano dal palazzo del Parlamento Ungherese, sono allineate sessanta paia di scarpe dall’aria vissuta, che ricordano la moda degli anni ’40. Ci sono scarpe da donna, da uomo e da bambino, lasciate lì, vicino all’acqua, abbandonate in modo disordinato, come se i loro proprietari se le fossero appena tolte.

(Vanilla Magazine, 3 giugno 2017)


Si fingono musulmani moderati, ma escludono Israele

Al summit dell'Africa Occidentale

di Carlo Nicolato

Andò meglio lo scorso anno a Benjamin Netanyahu quando, primo premier israeliano dopo tanti anni in viaggio d'affari in Africa, incontrò con successo i leader di Rwanda, Uganda, Kenya ed Etiopia, tutti Paesi a maggioranza cristiana.
   Con in mano un pacchetto di collaborazioni su agricoltura e lotta al terrorismo, quest'anno Netanyahu ha ritentato la sorte facendosi invitare al vertice dell'Ecowas, la Comunità economica degli Stati dell'Africa Occidentale, che si tiene domani a Monrovia, in Liberia, ma si è rivelato un azzardo.
   Netanyahu contava sui buoni rapporti con il presidente dell'Ecowas, Marcel Alain de Souza del Benin, o su quelli con la Guinea, con la quale ha da poco riallacciato rapporti ufficiali.
   Ma non aveva fatto i conti con gli altri Paesi a maggioranza musulmana che compongono la Comunità. Tra i quali il Mali, la Mauritania, la Nigeria, che hanno ridotto al minimo le loro delegazioni, e il Senegal che l'ha ritirata.
   Israele e Senegal sono ai ferri corti da qualche mese, da quando lo scorso dicembre il Paese africano ha votato a favore di una risoluzione delle Nazioni Unite contro la colonizzazione dei territori palestinesi occupati, provocando l'immediata reazione di Tel Aviv che ha di conseguenza ritirato il suo ambasciatore e annunciato la cancellazione di tutti gli aiuti a Dakar. Va ricordato che il Senegal viene ritenuto un Paese musulmano tra i più moderati, così come il Marocco, che è anzi quello moderato e filo-occidentale per eccellenza, e oltretutto l'invitato d'onore di questa 51esima sessione dell'Ecowas, convocata proprio per celebrare il «sì» alla domanda di adesione di Rabat alla Comunità. All'assemblea infatti avrebbe dovuto presenziare perfino re Mohammed VI, il quale tuttavia, vista la nefasta quanto inaspettata presenza del premier israeliano, nemico giurato tra le altre cose dell'amicissimo Senegal, ha preferito declinare.
   L'assemblea decimata dovrà dunque votare l'adesione del Marocco senza il re del Marocco, che onora in questo modo la sua rinomata moderazione islamica, confermata dal suo ministro degli Esteri che ha giustificato la regale assenza con queste parole: il mio sovrano «vuole evitare di intervenire in un contesto di tensione e di controversia e desidera evitare qualsiasi promiscuità e confusione».
   In realtà il laico e moderato Marocco con Israele non è mai stato moderato, tanto da avere interrotto le relazioni diplomatiche ufficiali con Tel Aviv da ben 17 anni. Dal 1975 invece il re marocchino presiede il Comitato Al-Quds (nome di Gerusalemme in Arabo) fondato appunto per sostenere la causa Palestinese contro Israele.

(Libero, 3 giugno 2017)


Il trauma del '67 inquieta Israele

Cinquant’anni dopo la guerra dei sei giorni la pace resta un rischio: per questo non bisogna isolare lo stato ebraico.

di Yossi Klein Halevi

Nelle prossime settimane si prevedono accesi dibattiti attorno al 50o anniversario della Guerra dei sei giorni, che iniziò il 5 giugno del 1967, e durante la quale Israele sconfisse tre eserciti arabi per poi occupare la Cisgiordania, le alture del Golan e il deserto del Sinai. Ci saranno celebrazioni in Israele per commemorare la riunificazione di Gerusalemme, il cuore pulsante delle speranze e delle preghiere degli ebrei durante duemila anni di esilio. E ci saranno anche dibattiti e riflessioni sul futuro di Israele.
Il ricordo di quella guerra del 1967, nella memoria della comunità internazionale, ha inizio con la vittoria di Israele e la straordinaria dimostrazione di valore militare da parte dell'esercito israeliano che avrebbero trasformato l'intero Medio Oriente.
  Tuttavia, per capire appieno l'impatto della guerra sulla psiche israeliana, occorre tornare ancora più indietro, alle settimane che precedettero il conflitto armato. Mentre si interrogano sul futuro della Cisgiordania, gli israeliani ricorderanno non solo la vittoria del giugno 1967, ma soprattutto la sensazione dolorosa di estrema ansia e vulnerabilità che precedette la guerra.

 Conto alla rovescia
  Il conto alla rovescia verso le ostilità prese avvio a metà maggio, quando il presidente egiziano Gamal Abdul Nasser decretò la mobilitazione di decine di migliaia di soldati verso i confini di Israele. Nasser ordinò alle forze di pace delle Nazioni Unite di ritirarsi e, cosa sorprendente, l'Onu obbedì senza neanche convocare il Consiglio di sicurezza. Subito dopo Nasser ordinò il blocco navale degli Stretti di Tiran, la via marittima a sud di Israele, per poi firmare accordi militari con la Siria e la Giordania.
  Pretesto dell'aggressione araba non fu affatto l'occupazione territoriale, difatti la Cisgiordania era controllata dalla Giordania e Gaza dall'Egitto, bensì l'esistenza stessa di uno Stato ebraico. I leader arabi dichiararono che la distruzione di Israele era imminente.
  Tutti gli israeliani e gli ebrei spaventati e ansiosi in giro per il mondo rimasero scioccati nel rendersi conto che l'Olocausto non aveva segnato la fine del genocidio contro gli ebrei, ma che il pericolo si era semplicemente spostato dall'Europa al Medio Oriente. E ancor più scioccati furono davanti alla scoperta che Israele avrebbe dovuto affrontare quella minaccia da solo.
  La straordinaria vittoria israeliana lasciò sbalordito il mondo intero, e persino gli israeliani stessi. Lo stato ebraico uscì dalla Guerra dei sei giorni con un territorio tre volte più grande rispetto alle dimensioni precedenti.
  Più tardi, Israele restituì all'Egitto il territorio più vasto conquistato, il deserto del Sinai, a seguito del trattato di pace tra i due Paesi siglato nel 1979. Per quel che riguarda le Alture del Golan, sottratte alla Siria, la maggioranza degli israeliani concorda nel ritenere che con ogni probabilità resteranno a far parte del territorio di Israele, sia per l'implosione dello Stato siriano che per la presenza dell'Isis e di altri gruppi terroristici operanti sul confine tra Siria e Israele.

 La Cisgiordania
  Il futuro resta invece incerto per la Cisgiordania, l'ultimo territorio conquistato nella Guerra dei sei giorni. Per Israele, è un dilemma assai spinoso. Se annette il territorio e assorbe al suo interno i diversi milioni di palestinesi che vi abitano, Israele sarà prima o poi costretto a scegliere se essere uno Stato ebraico o uno Stato democratico, due aspetti fondamentali della sua identità. Se concede ai palestinesi il diritto di voto, dovrà rinunciare alla maggioranza ebraica. Se nega il voto ai palestinesi, perderà la sua vocazione democratica.
  Ma il ritiro da quelle terre nasconde rischi non meno allarmanti. Il ritorno ai confini precedenti al '67 rischia di esporre l'area metropolitana di Tel Aviv alla minaccia degli attacchi missilistici palestinesi dalle colline della Cisgiordania. Gli israeliani temono inoltre che dopo il ritiro, il gruppo fondamentalista e terroristico di Hamas prenda il controllo del territorio, come già accaduto a Gaza. A quale Stato mediorientale assomiglierebbe allora la Palestina: alla Siria? al Libano? all'Iraq? alla Libia?
  Gli israeliani sono tormentati da due incubi. Il primo è che non ci sarà mai uno Stato palestinese e lo stallo si protrarrà all'infinito. Il secondo è che ci sarà uno Stato palestinese e Israele si ritroverà a vivere, anche se in modo diverso, la precarietà e l'insicurezza del maggio 1967.
  Per coloro che appoggiano il ritiro, il ricordo della vittoria del giugno 1967 fornisce la prova schiacciante che persino nel peggiore dei casi Israele sarà in grado di difendersi. Per coloro che si oppongono al ritiro, il trauma del maggio 1967 resta un avvertimento che Israele potrebbe ritrovarsi nuovamente abbandonato e costretto ad agire da solo.

 Il futuro
  I pessimisti ammoniscono che ben poco è cambiato negli atteggiamenti del mondo arabo nei confronti di Israele. Avvertono che in un Medio Oriente in disfacimento, le garanzie internazionali sulla sicurezza di Israele come parte di un accordo per il ritiro dalla Cisgiordania non avranno alcun valore. Gli ottimisti, in Israele, controbattono che la Guerra dei Sei giorni ha contribuito a trasformare un piccolo Stato agrario e marginale di appena tre milioni di abitanti nella potenza tecnologica di oggi. Il Paese creato nel giugno '67 deve liberarsi dai traumi di quello del maggio '67.
  La comunità internazionale, tuttavia, spesso rafforza le tesi dei pessimisti. La legittimità di Israele resta una questione aperta nel mondo islamico e sempre di più anche in alcuni settori dell'opinione pubblica occidentale. Quando gli israeliani si sentono assediati. di solito reagiscono irrigidendosi. Quando si sentono benvoluti, ecco che abbassano la guardia. Come quando, dopo la Guerra del Golfo del 1991 e la caduta dell'Unione Sovietica, decine di Paesi dell'Europa dell'Est, dell'Africa e dell'Asia riconobbero lo Stato ebraico e l'Onu si rimangiò la risoluzione sul sionismo come forma di razzismo. Israele reagì dando avvio al processo di pace di Oslo con i palestinesi.
  Il modello è chiaro: umiliate e isolate Israele, e il Paese ripiomberà nel terrore del maggio 1967- Accogliete Israele nella comunità internazionale e i suoi cittadini si sentiranno pronti ad agire con la fiducia dei vincitori, capaci di affrontare ogni rischio per la pace.

(Corriere della Sera, 2 giugno 2017 - trad. Rita Baldassarre)


Gal Gadot: «La mia Wonder Woman moderna femminista che non odia gli uomini»

La bella attrice israeliana nel ruolo dell'eroina diventata un simbolo della lotta delle donne. Diretta da Patty Jenkins, la pellicola è nelle sale. Nel cast anche Robin Wright.

di Matteo Ghidoni

 
Gal Gadot
LOS ANGELES - Il personaggio di Wonder Woman è un'icona femminista, nata dalla penna di William Moulton Marston, nel 1941. Sin dalla sua creazione, la supereroina della DC Comics è diventata il simbolo dell'emancipazione femminile e del riscatto di quello che una volta era considerato il sesso debole. Da allora i tempi e i canoni estetici sono cambiati. Se nella tv degli anni '70, il volto dell'amazzone più forte al mondo era quello di Linda Carter, oggi a portare in scena Diana Prince è un'attrice il cui fascino e la cui freschezza, si dimostrano al passo con i tempi. L'attrice israeliana Gal Gadot è una cascata di qualità: bella, atletica, volto ingenuo e modi garbati. Veste la micro-tutina di Wonder Woman senza malizia, risultando proprio per questo ancora più sensuale. Il film della regista Patty Jenkins, da ieri nelle sale italiane (in Libano è stato boicottato) vede nel cast anche Chris Pine e la First Lady di House of Cards Robin Wright, ma la protagonista assoluta resta lei, la bellissima Gal Gadot.

- È fiera del fatto che Wonder Woman sia considerata un'icona femminista'?
  «Sicuramente sì. Credo però che vada specificato cosa s'intende per femminismo. Ho notato che spesso ci si dichiara femministi in modo difensivo, anche le donne lo fanno. Si dovrebbe trattare di una scelta di libertà e uguaglianza, proprio come quella di Diana. È cresciuta su un'isola di sole donne, ma quando entra in contatto con gli uomini per la prima volta, li considera esattamente uguali a lei. Ognuno ha i propri limiti e le proprie qualità».

- Ha incontrato Linda Carter? Le ha dato qualche consiglio su come interpretare Wonder Woman?
  «Ho incontrato Linda a New York, alle Nazioni Unite. E mi sono resa conto del perché avevano scelto lei per interpretare la prima Wonder Woman televisiva. Emana un'energia molto forte. È divertente, intelligente, furba e anche irriverente. Linda non mi ha dato consigli specifici, ma c'è stato un momento in cui mi ha passato una biro. L'ho vissuto come una specie di passaggio del testimone, è stato molto importante per me. Ho conservato quella penna».

- Lei è israeliana e ha fatto il servizio militare. Le è tornata utile la sua esperienza nell'esercito'?
  «Nell'esercito mi addestravo ai combattimenti, ma il modo in cui ho dovuto recitare e i movimenti di Wonder Woman, non hanno niente a che vedere con quello che ho imparato facendo il militare».

- Quindi ha dovuto fare allenamenti specifici per questo fìlm?
  «Ho cominciato a prepararmi sei mesi prima di iniziare le riprese. Ho fatto molta ginnastica in palestra, combattimenti, coreografie acrobatiche e anche diverse ore a cavallo».

- Era appassionata del fumetto originale di Wonder Woman'?
  «In realtà non sono mai stata una fan dei fumetti. Quando mi hanno dato la parte però, ho iniziato a leggerne tantissimi. Il punto è che ci sono centinaia di versioni di Wonder Woman, e non puoi portarle in scena tutte. Ti devi concentrare su un solo arco temporale. Mi sono rimessa principalmente allo script, dopo averne parlato a lungo con Patty Jenkins».

- Come è stato venire diretta da una donna'?
  «Non una donna qualsiasi. Dal momento in cui è stata scelta per la regia di questo film, ha avuto un'idea molto chiara su come avrebbe voluto che si sviluppasse la storia. È adorabile e intelligente, inoltre è stata operatrice per anni e sa come creare intimità con i suoi attori».

- Qual è stata la sfida più grande nel girare questo film?
  «A essere sincera, è stato il gelo. Soprattutto nelle scene girate a Londra durante l'inverno, non è stato facile indossare sempre quel piccolo costumino. Sei giorni a settimana, per sei mesi, senza soste. Però l'energia all'interno del cast era così alta che un po' mi ha riscaldata».

- La prima parte del film è ambientata a Themyscira, l'isola abitata dalle amazzoni, non ci sono uomini attorno. Come è stato girare quelle scene?
  «Una cosa del genere non si era mai vista, nel film combatte un intero esercito di donne. Davvero unico. Dietro le telecamere, è stato altrettanto epico. Mentre noi ragazze lavoravamo, si aggirava per questo paesino italiano (ndr Matera), un esercito di papà con i passeggini, che aspettava che le mogli finissero di girare le loro scene. È stato come vivere l'inizio di una nuova era».

(il Giornale, 2 giugno 2017)


Tel Aviv, 4-5 giugno, celebrazioni per la Festa della Repubblica

Iniziative dell'ambasciata d'Italia in Israele. Parteciperà il Presidente Reuven Rivlin.

TEL AVIV - Nell'ambito delle celebrazioni per la Festa della Repubblica 2017, l'ambasciata d'Italia in Israele, l'Istituto italiano di cultura, Ice Agenzia e la Camera di Commercio Israele-Italia, promuoveranno tre eventi riguardanti la cultura, la scienza e la musica. Lo riferisce un comunicato dell'ambasciata d'Italia a Tel Aviv. Gli eventi, previsti il 4 e 5 giugno prossimi, vedranno la partecipazione del presidente israeliano, Reuven Rivlin, e l'esibizione del cantante Idan Raichel. La sera di domenica 4 giugno è in programma, su inviti nominali, l'annuale ricevimento che si svolgerà presso la residenza dell'ambasciatore d'Italia, Francesco M. Talò. Quest'anno sarà eccezionalmente presente il presidente dello Stato d'Israele, Reuven Rivlin, oltre ai consueti ospiti del mondo istituzionale, dell'impresa e della cultura, si legge nel comunicato. Il cantante Idan Raichel regalerà qualche emozione con alcune delle sue canzoni. L'impatto ambientale del ricevimento sarà compensato dalla piantumazione di 120 alberi grazie alla collaborazione con il Kkl, proprio nel giorno della Giornata mondiale dell'ambiente. Dall'Italia verrà anche un pizzaiolo acrobatico. Il municipio di Tel Aviv si colorerà per l'occasione del tricolore, prosegue il comunicato.

(Agenzia Nova, 1 giugno 2017)


Malessere attorno a un nuovo studio sugli ebrei respinti dalla Svizzera

Una tesi di dottorato sostenuta a Ginevra illustra il tragico percorso di migliaia di ebrei che durante la Seconda guerra mondiale volevano lasciare la Francia per rifugiarsi in Svizzera. Si tratta di una questione estremamente sensibile nella Confederazione, già confrontata con la vicenda dei fondi in giacenza. Per il momento, soltanto i membri del comitato di esperti hanno potuto leggere lo studio nel dettaglio. Sollecitato da swissinfo.ch, uno di loro ha accettato di commentarlo per sottolinearne l'importanza, come pure le debolezze.

di Frédéric Burnand

«La mia ricerca offre un quadro molto più chiaro di quante persone sono fuggite e delle loro storie»
Ruth Fivaz-Silbermann
«È un accumulo di fatti, una cronaca un po' confusa senza una reale visione sintetica, senza un'analisi strutturata»
Hans-Ulrich Jost

GINEVRA - Un mattone di 938 pagine, frutto di 19 anni di ricerche. È la tesi intitolata "La fuga in Svizzera. Migrazioni, strategie, fuga, accoglienza, respingimento e destino dei rifugiati ebrei giunti dalla Francia durante la Seconda guerra mondiale», difesa alcuni giorni fa da Ruth Fivaz-Silbermann all'Università di Ginevra.
  «La mia ricerca offre un quadro molto più chiaro di quante persone sono fuggite e delle loro storie: da dove venivano, perché fuggivano e in che modo? Tutti hanno potuto partire? Quali erano i pericoli?», precisa l'autrice.
 
Ebrei in fuga al loro arrivo alla stazione centrale di Zurigo, l'11 ottobre 1942
  Membro del comitato di esperti, lo storico Hans-Ulrich Jost rileva innanzitutto le nuove informazioni fornite dalla tesi. Tra queste: l'evocazione dei destini personali ricostituiti dalla ricercatrice, le somme considerevoli versate durante la loro fuga e il ruolo delle associazioni che si sono mobilitate in favore di questi ebrei che tentavano di fuggire dalla politica sterminatrice dei Nazisti adottata in tutta l'Europa occupata.
  Hans-Ulrich Jost sottolinea inoltre la natura mansueta di una parte degli agenti francesi, descritta nella tesi, malgrado l'adesione del governo del maresciallo Pétain alla macchina omicida antisemita del Terzo Reich. Un'evocazione dettagliata e sensibile che permette di mettere dei volti e dei destini su una realtà troppo spesso ridotta a delle statistiche.

 Metodo discutibile
  La tesi validata dall'Università di Ginevra è tuttavia oppugnabile sul piano scientifico e metodologico, secondo Hans-Ulrich Jost. «È un accumulo di fatti, una cronica un po' confusa senza una reale visione sintetica, senza un'analisi strutturata», sanziona il professore onorario, il quale ha dedicato una parte importante delle sue ricerche a questo periodo nero della storia europea e quindi svizzera.
  
Una critica che non sorprende Marc Perrenoud, un altro storico che dagli anni '80 lavora sulla situazione degli ebrei in Svizzera. Perrenoud non ha potuto leggere la tesi non pubblicata di Ruth Fivaz-Silberman, ma conosce bene i suoi precedenti lavori sullo stesso tema. «Contengono informazioni importanti sui percorsi individuali e sull'atteggiamento umanitario», dice lo storico. Tuttavia, prosegue, l'accumulo di questi fatti non basta per strutturare delle analisi storiche valide, poiché bisogna mettere questi fatti in un contesto più ampio e tener conto di altri fattori.

 Autorità svizzere a lungo anti-ebrei
  Queste mancanze portano la ricercatrice a formulare interpretazioni alquanto contestabili. Come riportato dalla Televisione svizzera di lingua francese RTS, Ruth Fivaz-Silbermann considera che «Heinrich Rothmund, il direttore della divisione di polizia del Dipartimento federale di giustizia e polizia che incarnava la durezza della politica svizzera, non fosse così rigido nell'applicazione della decisione del governo elvetico, presa il 4 agosto 1942, di chiudere le frontiere agli ebrei. "Non era per nulla antisemita", ritiene la ricercatrice che ha scoperto numerosi documenti a testimonianza della politica meno restrittiva adottata da Heinrich Rothmund».
  Secondo Marc Perrenoud, basta leggere i documenti diplomatici svizzeri e i rapporti della commissione Bergier per rendersi conto che Rothmund era una personalità complessa che non deve essere trattata come un capo espiatorio. Ma rimane ciononostante uno dei responsabili dell'antisemitismo elvetico, sebbene in maniera assai diversa rispetto ai nazisti o alla Francia di Vichy, puntualizza lo storico. Ciò è riassunto in una dichiarazione di Heinrich Rothmund scritta il 27 gennaio 1939: «Con la polizia degli stranieri, non abbiamo lottato da vent'anni contro l'aumento dell'inforestierimento (Überfremdung), e più in particolare contro la 'giudaizzazione' (Verjudung) della Svizzera, per poi vederci oggi imporre gli emigranti».
  Marc Perrenoud precisa: «La politica delle autorità svizzere nei confronti degli ebrei durante la guerra s'inscrive in una continuità che risale almeno alla Prima guerra mondiale. L'obiettivo è sempre stato di limitare il numero di ebrei in Svizzera, contrariamente a quanto afferma Ruth Fivaz-Silbermann. Non c'è quindi stata alcuna rottura durante la guerra, bensì un rafforzamento di questa politica».

 Dubbi sulle cifre
  La ricerca della storica precisa che più di 15'000 ebrei si sono presentati alla frontiera franco-svizzera e che 2'844 di loro sono stati respinti. «Sappiamo anche che il 27% degli ebrei che cercavano rifugio in Svizzera sono giunti dall'Italia. Uno studio degli archivi del canton Ticino (non ancora pubblicato) ritiene che 6'000 ebrei abbiano attraversato la frontiera e che circa 300 siano stati respinti. Per le frontiere con la Germania e l'Austria non ci sono invece studi, ma pensiamo che il loro numero sia molto basso», afferma Ruth Fivaz-Silbermann.
  Questo conteggio rimette in discussione la cifra di 24'398 civili, ebrei e non, che sono stati respinti alle frontiere svizzere tra il 1939 e il 1945, come indicato dalla commissione Bergier quasi vent'anni fa. Ricordiamo che questo gruppo di esperti indipendenti era stato incaricato dal governo svizzero di indagare sui fondi in giacenza depositati nelle banche svizzere da clienti ebrei e mai restituiti alle loro famiglie al termine della guerra, malgrado numerosi tentativi. Uno scandalo internazionale che aveva messo la Confederazione sotto pressione.
  Il mandato della commissione Bergier, rammenta Hans-Ulrich Jost, portava sui fondi in giacenza e sull'atteggiamento delle autorità elvetiche nei confronti del regime nazista. Le pagine dedicate ai respingimenti erano soltanto un complemento per meglio illustrare la problematica centrale di questa ricerca condotta dal 1997 al 2002 e per spiegare che i documenti disponibili non permettono di stilare delle statistiche che consentono di determinare se le persone respinte fossero ebrei o meno.
  Marc Perrenoud insiste: «Le lacune negli archivi sono note. Per un certo numero di respingimenti non c'è alcuna traccia scritta. Alcuni archivi sono scomparsi dopo il 1945. I documenti disponibili sono troppo lacunosi ed eterogenei per poter stilare delle statistiche precise ed esaustive». Una costatazione condivisa dalla maggior parte degli storici.

(swissinfo.ch, 1 giugno 2017)


Il ministro delle Finanze israeliano incontra il premier palestinese

Focus sul miglioramento dei rapporti economici

GERUSALEMME - Il ministro delle Finanze israeliano, Moshe Kahlon, ha incontrato nella tarda serata di ieri il primo ministro dell'Autorità nazionale palestinese (Anp), Rami Hamdallah. Al centro del colloquio le misure approvate lo scorso mese dal governo israeliano per facilitare la libertà di movimento dei palestinesi e migliorare i rapporti economici. La mossa del governo di Gerusalemme è avvenuta prima della visita del presidente Usa, Donald Trump, a Betlemme e Tel Aviv, avvenuta il 22 e 23 maggio scorsi. Le misure prevedono, tra le altre cose, l'estensione dell'orario di apertura dei valichi attraverso cui giornalmente transitano i palestinesi, ed il miglioramento di alcune infrastrutture. Il valico di Allenby Bridge rimarrà aperto tutto il giorno per i prossimi due mesi, in vista di un'apertura permanente a partire dal 2018. Il gabinetto israeliano ha approvato, inoltre, la costruzione di una zona industriale vicino al valico di Tarkumiya, a nord-ovest di Hebron, nella parte meridionale della Cisgiordania. Il piano prevede anche facilitazioni per la costruzione di case palestinesi in aree specifiche dell'area C della Cisgiordania.

(Agenzia Nova, 1 giugno 2017)


Libia 5 giugno 1967: è caccia all'ebreo al grido di "Idbah al Yahud"

Cinquanta anni fa il pogrom che segnò la fine della vita ebraica a Tripoli e Bengasi. Nel ricordo di chi non riuscì a fuggire come le famiglie Luzon e Raccah che furono massacrate.

di Raphael (Faelino) Luzon

 
"Idbah al Yahud" (sgozza gli Ebrei)! Con questo grido da far gelare il sangue migliaia di persone che brandivano asce, torce, coltelli e tutta una serie di armi improprie, invadeva Shara Omar El Muchtar, la via principale del quartiere della città vecchia dove abitava la maggior parte degli ebrei a Bengasi invadendo anche la piccola Shara Mbarak El Sherif dove abitavo. Un quartiere con palazzi di primo Novecento edificati dagli Italiani e dove si ergeva il bel palazzo del Municipio nella Maydan El Baladya (appunto Piazza del Municipio).
   I manifestanti, lanciando slogan antiebraici, cominciarono ad appiccare il fuoco ai magazzini di mio padre colmi di medicinali, prodotti di cosmetica e profumi, sia sulla via principale dove c'erano diversi negozi di ebrei compreso l'ufficio di mio padre e sia nella via della nostra abitazione dove c'erano i depositi di medicinali della mia famiglia e quello di profumi della famiglia Zarrugh.
   Uno dei magazzini si trovava proprio sotto casa nostra. Dalle porte e finestre sprangate penetrò un acre fumo nero. A casa c'era tutta la mia famiglia: i miei genitori e le mie due sorelle, mia zia e la figlia, lo scaccino Hammus ed i figlioletti ed un lontano parente rifugiatosi da noi. Era l'ora di pranzo ed eravamo appena tornati, sfuggiti alla folla inferocita. Temendo di morire soffocati, dal momento che il fumo tende ad andare verso l'alto, mio padre urlò di stenderci sul pavimento nella speranza che vi fosse qualcuno che ci avrebbe salvati da morte sicura. Udimmo una serie di esplosioni giungere anche dai magazzini di Zarrugh mentre, sotto casa, la via era piena all'inverosimile di una massa urlante ed armata.
   Vi fu anche chi assalì la Sinagoga per incendiarla. Per la storia è importante ricordare che vi furono persone che costituirono un esempio di libici buoni, fra cui soprattutto Haj Mohammad Ali Alsabri, un notabile libico, nostro vicino. Prima ancora che giungesse la polizia, cominciò a respingere le persone di fronte alla Sinagoga (Sia el Kbira), gridando con tutto il fiato che aveva in corpo e vietando loro, grazie alla sua alta carica sociale, di incendiare quel luogo, destinato al culto di Dio ... Era il 5 Giugno 1967 ...
   Come si arrivò a tutto questo? Già da un paio di anni c'era tensione, sfociata in una serie di manifestazioni antiebraiche di studenti universitari del movimento nasseriano, che diedero origine a scontri con la polizia, di fronte all'Università di Bengasi.
   Due mesi prima c'era stata l'espulsione del contingente dell'Onu che divideva Israeliani ed Egiziani alla frontiera con conseguente chiusura dello stretto di Tiran per cercare di strangolare l'economia israeliana. Atto considerato come un casus belli da Israele che viveva quei giorni con un senso di pre-annientamento circondato da armate arabe che ogni giorno dichiaravano la loro intenzione di distruggerlo. Noi vivevamo nel terrore dopo circa 19 anni di relativa tranquillità e benessere grazie anche al boom economico avuto in Libia per la scoperta di ingenti quantità di petrolio. Quando ci si incontrava alla Sinagoga situata in Shara El Sabri (dietro casa nostra) era un continuo scambiarci opinioni ed angosce, ma nessuno sapeva cosa esattamente fare. I Rabbini cercavano di tranquillizzarci ed avere fede in D-o mentre gli adulti si interrogavano: partire? rimanere? Ciascuno citava "amici influenti" che rassicuravano ...
   Tutti erano abbastanza legati al loro business e, come succede spesso agli ebrei, pochi o nessuno avevano annusato il pericolo e preso la decisione di scappare prima della tempesta.
   L'inizio dei disordini, un vero e proprio pogrom, è stato addebitato allo scoppio della "Guerra dei sei giorni" la stessa mattina. Posso garantire che almeno tre mesi prima aleggiavano su tutta la Libia voci e sussurri che preannunciavano un "qualcosa" contro gli ebrei. Dal barbiere al farmacista dove ci servivamo tutti continuavano a dircelo a mezza bocca: "Sta per arrivare la vostra ora ... fra un po' ammazzeranno tutti gli ebrei...".
   Il giorno antecedente al 5 giugno i nostri dipendenti e la donna che accudiva la casa, ci hanno annunciato che non sarebbero venuti il giorno dopo. Alcuni di loro erano in lacrime come presagendo (o sapevano?) che non ci avrebbero più rivisti. Quindi il pogrom era stato programmato prima e lo scoppio della guerra fu solo un alibi.
   Il 5 giugno era il primo giorno degli esami finali nella nostra scuola media 'Giovanni XXIII' situata nei locali della Cattedrale che si trovava al centro di Bengasi gestita dai padri Francescani. Avevo 13 anni e quel giorno ero a scuola nel mezzo dell'esame di terza media, quando Padre Anselmo, un italiano direttore della scuola, entrò in classe, pallido, visibilmente nel panico. Sentimmo il tumulto di voci per le strade che urlavano di massacrare gli ebrei. Egli disse agli alunni ebrei di scendere con lui nell'ufficio del direttore. Capimmo che stava succedendo qualcosa di strano. Nell'ufficio in cui campeggiava un grande crocifisso, arredato con mobili antichi, egli ci raccontò che era scoppiata la guerra tra gli arabi e lo Stato d'Israele, e che in Libia erano in atto violente dimostrazioni contro Israele e contro gli ebrei locali. Lo ascoltammo attoniti e imbarazzati, dopo tutto la guerra non era in Libia, perché allora si verificavano tali fatti da noi? Che colpa ne avevamo? Tra di noi alunni passò come una scossa e tutti chiedevano a tutti: "Come torneremo a casa? Che ci faranno? Cosa starà succedendo alle nostre famiglie?".
   Padre Anselmo si mise subito in comunicazione con i genitori di cui aveva il numero di telefono, per farli venire e portarci a casa, e proteggerci da qualunque attacco. Alcuni religiosi li aiutarono, portando a casa in salvo i bambini che nessuno dei familiari era venuto a prendere, ma nessuno portò via né me né mia sorella Betty perché, cercando mio padre al negozio, non avevano ottenuto risposta. Invece di aspettare il ritorno di alcuni preti, preferimmo tornare con qualcun'altro.
   Mio padre, assalito nel negozio, era fuggito lui stesso rifugiandosi in casa.
   Noi eravamo terrorizzati e, allo stesso tempo, incuriositi da tutto quel caos intorno a noi. Gruppi di persone che correvano in tutte le direzioni gridando slogan contro Israele. Dappertutto le voci delle radio ad altissimo volume che declamavano vittorie improbabili dove il numero degli aerei "sionisti" abbattuti aumentava di minuto in minuto. Vedemmo bruciare tutti i negozi i cui proprietari appartenevano alla
Un passaporto rilasciato dal Consolato italiano per consentire l'ingresso ai profughi libici

nostra comunità: il 99% dei negozi venne bruciato. Dopo alcune ore di disordini, la polizia e unità dell'esercito raccolsero tutti gli ebrei di Bengasi (230) per portarli in un luogo sicuro. Fummo alloggiati temporaneamente presso la centrale di polizia. Il comportamento nei nostri confronti fu buono e gentile, ci servirono tè e caffè. Ma poi giunse nuovamente il vocìo dei manifestanti. Dapprima lontano, poi sempre più vicino. La nostra paura crebbe ancor più di quella che avevamo provato a casa quando ci accorgemmo quanto fossero impauriti gli stessi ufficiali e i poliziotti, nonostante avessero armi e mezzi di protezione. La folla era sempre più incontenibile, armata di pietre, asce ed armi bianche, e la polizia era in tensione per via dell'ordine di non aprire il fuoco. Gli ufficiali ci ordinarono di salire nuovamente sui camion e ci evacuarono velocemente. Sui camion tutti erano sotto shock. I pochi che parlavano, sussurravano tra di loro scambiandosi i primi racconti delle scene tragiche a cui ciascuno aveva assistito qualche ora prima. Ci trasportarono in una base militare fuori città, "Remy", dove arrivammo dopo circa un'ora di viaggio, dicendoci che il luogo era più sicuro. Era un campo militare con diversi baracconi, a mo' di padiglioni. Ci portarono letti e brandine da campo, e nonostante non avessimo mangiato tutto il giorno, ci servirono solo tè, caffè e latte. Si giustificarono dicendo che erano troppo occupati a disperdere i manifestanti, e promisero che l'indomani ci avrebbero fornito del cibo.
   Dopo ventidue, ventitré giorni di campo, per così dire, di raccolta, arrivarono alti ufficiali dell'esercito, facendoci presente che chiunque avesse voluto tornare in città, avrebbe potuto farlo, ma a proprio rischio e pericolo, poiché l'esercito non ci avrebbe più difeso, e inducendoci a lasciare il paese con il permesso di portare una sola valigia e venti sterline.
   A Roma venimmo accolti da organizzazioni internazionali ebraiche come la JOINT, HIAS, da giovani volontari libici, giunti prima di noi, che si erano assunti il compito di accoglierci e da membri della comunità ebraica romana, e venimmo portati tutti in due grossi campi profughi, uno a Latina, e uno a Capua, vicino a Napoli. Ci svegliammo in questo campo di Capua, che conteneva altri profughi di paesi dell'est europeo. Debbo dire che era di molto peggiore e più mal organizzato di quello libico. Anzitutto era molto sporco: vi era una marea di insetti, di mosche e di scarafaggi, ed io, che sono sempre stato schizzinoso, per quattordici giorni mangiai poco o niente, nutrendomi solo di un po' di frutta, calando di molti chili, a tal punto che i miei genitori anticiparono l'uscita dal campo proprio perché io non riuscivo a mangiare niente, tutto mi faceva schifo.
   Il contributo dell'ebraismo libico a quello italiano, una volta inserito nel mondo ebraico italiano, si concretizzò soprattutto nella nascita di istituzioni religiose. Quando gli ebrei chiamati tripolini, ma che di fatto erano libici di Tripoli e di Bengasi, arrivarono a Roma c'era solo un macellaio kasher. Con l'arrivo degli ebrei libici, le macellerie kasher divennero sei o sette, e i negozi che vendevano prodotti alimentari kasher si svilupparono come funghi, e tutta la comunità ebraica romana ebbe un grande vantaggio da questa iniezione di un ebraismo ancora saldamente attaccato alle tradizioni religiose.
   Moltissimi ebrei libici vennero eletti nelle varie organizzazioni ebraiche, e si resero molto attivi. Il fatto favorì naturalmente l'integrazione. Si celebrarono i primi matrimoni "misti" tra ebrei romani ed ebrei libici, ed un po' alla volta le due comunità giunsero ad un modus vivendi abbastanza armonioso.
   La comunità libica si organizzò quasi subito, affittando un appartamento e adibendolo a sinagoga, la quale continuò a funzionare in tal modo per parecchi anni, fino al 1985-1986, quando finalmente gli ebrei libici, con il contributo della Comunità Ebraica di Roma, acquistarono un ex cinema adibendolo a grande sinagoga, per far fronte a tutte le necessità. Infatti, l'appartamento adibito a sinagoga poteva anche andar bene per tutto l'anno, ma quando arrivavano le festività era insufficiente, e si doveva sempre affittare un cinema o un teatro o la palestra di una scuola. Questa vita del tempio costituiva ovviamente tutto un universo di personaggi tipici, come possiamo trovare anche in qualunque sinagoga, tipico di una certa comunità e di un certo modo di vivere e di agire. Nel frattempo, appena arrivati a Roma, ci aveva colpito la terribile notizia che uno zio, fratello di mio padre, la moglie e i loro sette figli maschi, erano dati per dispersi. Si seppe, successivamente, che erano stati prelevati da un ufficiale dell'esercito libico, la sera del 7 giugno 1967, che fra l'altro era il giorno della liberazione di Gerusalemme, e da allora erano scomparse le loro tracce. Nel corso dei primi tre o quattro anni della nostra permanenza a Roma, mio padre dedicò ogni ora del suo tempo per cercare di arrivare a capo di questa matassa. Contattava quotidianamente l'ambasciata libica, bombardò di lettere tutte le maggiori organizzazioni internazionali, dall'Onu alla Croce Rossa, all'Associazione per i Diritti dell'Uomo, all'Amnesty International, ad ambasciatori, a Capi di Stato, e la parola che tutti ripetevano era "dispersi". Poi, purtroppo, dopo tre o quattro anni, testimoni vari decisero di svelare il segreto. Essi rivelarono che la famiglia di mio zio, Shalom Luzon, con la moglie e i sette figli, nove membri, oltre ad un'altra famiglia di ebrei tripolini, la famiglia Raccah, altre cinque persone, quindi quattordici persone in tutto, vennero prelevate da questo ufficiale libico, El Gritli, portate fuori Tripoli, e dopo varie violenze, vennero trucidati. Resta il dato di fatto di questa grande tragedia, la perdita di due intere famiglie. Di conseguenza mio padre ebbe sempre il timore di recarsi in Libia per liquidare la sua proprietà, come hanno fatto altri, ed è uno dei pochissimi che non hanno mai liquidato niente. Siamo tutt'oggi in possesso di una documentazione attestante la proprietà di un'enorme quantità di denaro, sia depositato nelle banche che investito in proprietà e terreni, pignorati in Libia in attesa di un recupero, se mai avverrà.

(Shalom, maggio 2017)


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Quell'esodo dimenticato

Nessuno ricorda decine di migliaia di ebrei fuggiti dai Paesi arabi. Per loro non vi è mai stata giustizia.

di Mario Del Monte

Il 1967, oltre a segnare con la Guerra dei Sei Giorni un capitolo importantissimo della storia dello Stato d'Israele, è anche l'anno in cui l'emigrazione ebraica dai paesi arabi ha toccato picchi altissimi. Obbligati a fuggire a causa delle persecuzioni, circa 850 mila ebrei si sono ritrovati a dover cercare rifugio in altre parti del mondo. Se questa storia a Roma è ben nota grazie alla presenza degli ebrei libici in altre parti del mondo è quasi del tutto sconosciuta. L'inizio di questo esodo si fa solitamente coincidere con la fine della guerra d'indipendenza fra Israele e gli Stati confinanti nel 1948. Con il fallimento dell'operazione militare i leader dei paesi arabi del Medio Oriente iniziarono una guerra fatta di incitamento alla violenza, terrorismo, espulsioni ed espropri nei confronti delle loro stesse comunità ebraiche. Le istituzioni ebraiche vennero prese d'assalto e spesso furono oggetto di episodi di violenza barbara. I leader delle comunità e gli importanti uomini d'affari ebrei vennero arbitrariamente arrestati e i loro beni confiscati dalle autorità. In pochi anni antiche e ricche comunità presenti in Iraq, Egitto, Siria, Yemen e Libia scomparirono del tutto portandosi via le tradizioni culturali e artistiche tipichedell'area. Per chi non volle o non riuscì ad andarsene le cose precipitarono ulteriormente: pogrom tacitamente acconsentiti dai governi e demolizioni di sinagoghe e cimiteri ebraici cancellarono ogni residua presenza, i pochi fortunati rimasti in vita furono costretti a rinunciare alla loro identità ebraica in pubblico e vennero del tutto spogliati di qualsiasi proprietà.
Per rendere meglio l'idea il totale delle terre confiscate agli ebrei nei paesi citati ammonta a circa 40 mila miglia quadrate, cinque volte la superfice dell'attuale Stato Ebraico. Gran parte degli espatriati trovò rifugio in Israele, altri finirono in Europa o negli Stati Uniti. Nel tempo questa ingiustizia è rimasta sotto traccia e i governi dei paesi arabi sembrano aver rimosso dalla loro memoria collettiva questo odioso crimine. Nemmeno le Nazioni Unite, sebbene si siano impegnate a risolvere il problema di tutti i rifugiati con la Risoluzione 242, hanno ancora mai intrapreso un discorso serio per almeno indennizzare i rifugiati ebrei. In parte questo è dovuto al fatto che i profughi ebrei sono stati profughi "anomali": invece di continuare a vivere nei campi a spese dello Stato e delle organizzazioni internazionali si sono integrati perfettamente nelle società in cui si sono stabiliti investendo nel futuro
invece di recriminare il doloroso passato.

(Shalom, maggio 2017)


Parlamento Ue: contrastare l'antisemitismo in Europa

Nelle scuole insegnare la tragedia dell'Olocausto

BRUXELLES - "L'incitamento all'odio e la violenza nei confronti dei cittadini ebrei europei sono incompatibili con i valori dell'Ue, per cui tutti gli Stati membri devono adottare misure per garantire" la loro sicurezza. Gli eurodeputati hanno votato oggi, in chiusura di sessione plenaria a Bruxelles, una risoluzione con la quale invitano i leader politici nazionali a opporsi "sistematicamente e pubblicamente" alle dichiarazioni antisemite e chiedono a ogni Stato membro di nominare un coordinatore nazionale per combattere l'antisemitismo. Nel documento si evidenzia che "la motivazione razziale deve rappresentare un aggravante nella persecuzione di atti criminali, e che gli atti antisemiti su internet dovrebbero essere perseguiti proprio come quelli commessi offline". Alcune annotazioni riguardano il contrasto transnazionale all'antisemitismo. Tutti gli Stati membri dovrebbero far propria la definizione di antisemitismo utilizzata dall'Alleanza per l'Olocausto. I motori di ricerca, i social media e le piattaforme "dovrebbero intraprendere azioni più decise per combattere l'odio anti-semitico". Inoltre la storia dell'Olocausto, o Shoah, "dovrebbe essere insegnata nelle scuole e i libri di storia dovrebbero fornire una descrizione accurata della storia e della vita degli ebrei, evitando tutte le forme di antisemitismo".

(SIR, Servizio Informazione Religiosa, 1 giugno 2017)


Israele: 'Aravrit', scrittura con lettere metà arabe e metà ebraiche

Sistema creato da tipografa Haifa, leggibile per entrambi i popoli

 
Un fermo immagine dal video postato sulla pagina Facebook di Aravrit
TEL AVIV - Si chiama 'Aravrit' e potrebbe essere un primo spiraglio nella coesistenza tra arabi ed ebrei. La tipografa israeliana Liron Lavi Turkenich ha infatti messo a punto un sistema di scrittura stilizzato che unisce i due antichi alfabeti, consentendo a chi parla arabo o ebraico di leggere le stesse parole.
A testimoniare il successo dell'idea c'è il dato di oltre un milione di persone che - secondo la Jewish Telgraphy Agency (Jta) - ha già visto il video postato su Facebook da Kan, il nuovo ente radiotelevisivo israeliano. "Credo - ha detto alla Jta Turkenich - che l'Aravrit mandi un messaggio che siamo entrambi qui e che più ci conosciamo e meglio possiamo fare.
Questo si applica agli ebrei e agli arabi israeliani, ma anche ad Israele e ai Palestinesi e ad Israele e ai paesi arabi". Secondo il sistema messo a punto, la parte superiore della lettera è in arabo, quella inferiore invece in ebraico: il risultato è che sia chi parla la prima lingua, sia chi la seconda, è in grado di leggere le lettere che compongono la parola. Basandosi sull'opera dell'oftalmologo francese Louis Emile Javal, che a fine '900 scoprì che le persone possono leggere normalmente anche solo usando la parte superiore delle lettere latine, Turkenich ha trovato che lo stesso vale sia per la linea inferiore delle 22 lettere dell'ebraico sia per quella superiore delle 29 lettere dell'alfabeto arabo.
E così la parola 'Pace' sarà letta come 'Shalom' nella parte inferiore da chi parla ebraico e come 'Salam' nella parte superiore per chi è di madre lingua araba.
Turkenich ha spiegato che il fatto di essere di Haifa, città a forte presenza araba nel nord di Israele, ha influito molto sulla messa a punto del suo sistema.

(ANSAmed, 1 giugno 2017)


L'ambasciata americana rimarrà a Tel Aviv altri sei mesi

Trump ha firmato un provvedimento in base al quale l'ambasciata americana in Israele resterà a Tel Aviv per altri sei mesi. Questo dovrebbe facilitare la ripresa del processo di pace.

TEL AVIV - Il presidente Usa Donald Trump ha firmato un provvedimento in base al quale l'ambasciata americana in Israele resterà a Tel Aviv per altri sei mesi. La decisione del presidente americano dovrebbe facilitare la ripresa del processo di pace.
Anche se Trump ha firmato il provvedimento che ritarda lo spostamento dell'ambasciata americana in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, la Casa Bianca ha precisato in una nota che «nessuno deve considerare questa mossa come un passo indietro di Trump nell'appoggio a Israele e all'alleanza fra Stati Uniti e Israele».
«Il presidente ha assunto la decisione per massimizzare le chance di successo nel negoziare un accordo fra Israele e i palestinesi, mantenendo il solenne impegno a difendere gli interessi di sicurezza nazionale degli Stati Uniti», ha messo in evidenza la Casa Bianca.
Trump ha ripetutamente ribadito la sua intenzione di spostare l'ambasciata, il tema «non è se accadrà o meno» ma «quando accadrà».
«Sebbene Israele sia deluso del mancato spostamento, per ora, dell'ambasciata Usa a Gerusalemme, apprezza l'espressione dell'amicizia di oggi del presidente Trump e il suo impegno a muovere l'ambasciata nel futuro», ha riferito dal canto suo il premier israeliano Benyamin Netanyahu.
«Un passo positivo e importante che migliorerà le possibilità di raggiungere la pace», ha dichiarato invece, citato dall'agenzia Wafa, Nabil Abu Rudeina portavoce del presidente palestinese, Abu Mazen.

(tio.ch, 1 giugno 2017)


Cattivo Israele. Il demoralizzatore Lerner riscrive la guerra del 1967

Su Rai 3 il giornalista racconta la "guerra infinita". Il paradigma è sempre lo stesso: Israele deve rinunciare ruolo di "occupante" se vuole che finisca. Ecco perché sbaglia.

di Giulio Meotti

È sempre tragico vincere una guerra. Ancora più tragico quando a vincerla è Israele. Questo sembra dire, dietro ogni sorriso, Gad Lerner, che su Rai 3 ha raccontato in cinquanta minuti la "guerra infinita" del 1967. Un dramma politico e umano in cui gli israeliani sono il "cattivo" cui non resterebbe altra scelta tra il suicidio, la fuga o la guerra. Il paradigma è sempre lo stesso: Israele deve mettere fine al proprio ruolo di "occupante" se vuole che finisca la guerra infinita. Nulla sul fatto che nel giugno 1967 non esisteva uno stato di Palestina, che nel 1947 la partizione era stata respinta dal mondo arabo, che i "confini del 1967" erano solo la linea da cui gli arabi avrebbero dovuto riprendere la guerra interrotta, che l'Olp era nato nel 1964 e che, nel settembre 1967, il vertice arabo riunito a Khartoum proclamò: "No alla pace, no al riconoscimento, no al negoziato".
   Di questa guerra "infinita", a Lerner, e meno che meno al suo interlocutore David Grossman, non viene mai in mente di dire qualcosa, tantomeno sull'incessante indottrinamento all'odio da parte palestinese. Il documentario, intervistando uno "storico egiziano", dà fiato pure all'idea grottesca che Gamal Nasser non volesse davvero attaccare Israele. Lerner dà la parola all'imam Izzedin Elzir, presidente dell'Ucoii, organizzazione islamica che vanta coi Fratelli musulmani una "vicinanza amichevole" (lo ha detto Hamza Piccardo a Repubblica) e che accusa gli israeliani di "terrorizzare e occupare" i palestinesi.
   Lerner si appoggia a Censored Voices, le trascrizioni dei soldati israeliani che dopo il 1967 raccontarono di esecuzioni di egiziani nel Sinai. Secondo Martin Kramer, arabista e presidente dello Shalem College di Gerusalemme, l'effetto voluto da Censored Voices è quello di "demoralizzare" il sostegno a Israele. Va da sé che Lerner non accenni ai fondi europei dietro al film. Censored Voices è, infatti, prima che una pubblicazione italiana Feltrinelli, una produzione tedesca. Sul New York Times Yossi Klein Halevi ha definito Censored Voices "la narrativa che incolpa Israele".
   La guerra dei Sei giorni non è affatto una "ferita", come intende Lerner, ma ha mutato il corso della storia per il meglio, garantendo la sopravvivenza di Israele e costringendo gli arabi a farci i conti. Il cuore del viaggio di Lerner è Hebron, la città più santa per la tradizione ebraica, seconda a Gerusalemme, e l'unica città palestinese in cui vive una comunità ebraica. Nel video di Lerner non c'è alcun riferimento al fatto che la comunità ebraica di Hebron è stata eliminata da un pogrom nel 1929 e che, nel 1967, gli ebrei sono tornati dove avevano vissuto fino a quel fatto terribile. Lerner non dice neppure che agli ebrei, e solo agli ebrei, è oggi interdetto il 97 per cento di Hebron, mentre le restrizioni per i palestinesi si applicano a una strada, visitata dai giornalisti di tutto il mondo, compreso Lerner. Nessun accenno al fatto che se un ebreo entra in territorio palestinese è immediatamente linciato.
   Il racconto di Lerner da Hebron è incentrato su Baruch Goldstein, il medico israeliano che nel 1994 trucidò trenta musulmani. Un caso unico nella storia ebraica di Hebron, a fronte di centinaia di attacchi mortali contro gli ebrei in città. Di questi ha reso conto un coraggioso servizio delle Iene da Hebron a firma di Marco Maisano. Lerner termina su una equivalenza morale: le comunità ebraiche che festeggiano la liberazione di Gerusalemme e la piazza palestinese che festeggia Marwan Barghouti, terrorista pluriomicida.
   Altro che vittoria "sprecata". Dal 1967, la popolazione israeliana è cresciuta da 2,6 milioni a 8,38 milioni, compresi due milioni di immigrati, e il prodotto nazionale lordo è cresciuto del 630 per cento. Aspettiamo che la Rai trasmetta la vera storia della guerra del 1967. La guerra, questa sì infinita, per cancellare Israele dalla mappa. Per porre fine alla vera occupazione che i nostri demoralizzatori si rifiutano di vedere. La presenza ebraica in medio oriente.

(Il Foglio, 1 giugno 2017)


Scontro a Wittenberg sulla Scrofa degli ebrei cara a Martin Lutero

di Vito Punzi

La "Judensau" sulla facciata della chiesa di Wittenberg
Tra i temi al centro del dibattito in Germania, con l'occasione dei 500 anni dall'esposizione delle 95 tesi da parte di Martin Lutero, c'è la memoria dell'antisernitismo dell'ex monaco agostiniano. Il suo odio verso gli ebrei, oltre che dichiarato in un famoso libello (che solo di recente è stato condannato con decisione dalle chiese riformate), è studiabile ancora in un bassorilievo in pietra raffigurante la cosiddetta «Scrofa degli ebrei» sulla facciata della chiesa di Wittenberg, dunque proprio li dove tutto ebbe inizio.
Al capezzoli della scrofa, ebrei che succhiano, in spregio al divieto di consumo di carne di maiale prescritto dalla Kasherut. Il bassorilievo è di un paio di secoli precedente (secolo XIV), tuttavia esso viene da sempre associato all'antisemitismo luterano, cosi un parroco di Lipsia, Thornas Piehler, e una suora di Darmstadt, Joela Krüger, evangelici, hanno creato l'Associazione per la rimozione del bassorilievo nell'anno giubilare della Riforma.
L'intento è che esso venga trasferito in un museo. Chiamato a decidere sarà il consiglio parrocchiale della chiesa. Nel frattempo, fino al 21 giugno, ogni mercoledì l'Associazione invita i fedeli a una veglia silenziosa (dalle 15 alle 19) nella piazza del Mercato della città. Dura battaglia, visto che il parroco, Johannes Block, è contrario alla rimozione, perché «quella scultura ricorda quanto di oscuro vi fosse anche nel grande Rifonnatore».

(Libero, 1 giugno 2017)


Il Libano ha vietato "Wonder Woman"

Perché l'attrice protagonista, Gal Gadot, è israeliana e ha fatto il servizio militare obbligatorio nell'esercito.

Il Libano ha ufficialmente vietato la proiezione nei cinema del paese del film Wonder Woman, che sarebbe dovuto uscire oggi. La motivazione della censura è che la protagonista Gal Gadot - che ha già interpretato Wonder Woman in Batman v Superman: Dawn of Justice - è una cittadina israeliana e un'ex soldatessa. Prima di fare l'attrice, infatti, Gadot era stata per due anni nell'esercito israeliano (noto con l'acronimo IDF, che sta per Israel Defense Forces) poiché in Israele il servizio militare femminile è obbligatorio.
Il divieto è stato annunciato ufficialmente sull'account Twitter di Lebanon's Grand Cinemas e poi confermato da altre fonti. La decisione è stata presa dal Ministero dell'Economia e del Commercio del Libano, che qualche giorno fa aveva fatto formalmente la richiesta.
   Il ministero porta avanti da tempo una politica di boicottaggio nei confronti dei prodotti israeliani, che considera «tentativi nemici di infiltrazione nei nostri mercati». Lo stesso ministero aveva tentato di censurare anche il film Batman V Superman: Dawn of Justice, in cui Gadot compariva per la prima volta nel ruolo della principessa delle Amazzoni Diana, cioè Wonder Woman. I gruppi che sostengono la campagna per il boicottaggio ricordano che Gal Gadot nel 2014, durante il conflitto tra Israele e Hamas, aveva pubblicato su Instagram una foto di lei e della figlia accompagnata da un messaggio in cui diceva: «Il mio amore e le mie preghiere vanno ai ragazzi e alle ragazze che stanno rischiando la vita per proteggere la nazione dagli attacchi orrendi di Hamas, i cui miliziani si nascondono come vigliacchi dietro a donne e bambini».

(il Post, 1 giugno 2017)


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