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Notizie 16-30 mese 2019


Israele - Convocato il Consiglio di Sicurezza

Sulle intese raggiunte ma anche sul lancio di palloni incendiari da Gaza

La situazione a Gaza è al centro del Gabinetto politico e di sicurezza israeliano che si riunisce oggi a Gerusalemme presieduto dal premier Benyamin Netanyahu. La riunione è stata indetta per discutere le recenti intese raggiunte con Hamas, grazie alla mediazione dell'Onu e dell'Egitto, per una tregua di lunga durata, ma anche il fatto che, nonostante gli accordi, non è cessato del tutto il lancio di palloni incendiari dalla Striscia verso le zone israeliane del sud. Proprio a causa di questa situazione i residenti israeliani del sud - hanno riferito i media - stanno preparando un appello rivolto all'Onu nel quale si condanna Hamas che comanda a Gaza e che cerca di distruggere Israele, violando i loro diritti umani.

(ANSAmed, 30 giugno 2019)


Emozioni su due ruote in Israele

Un bacio, due titoli nazionali

Un bacio, due trionfi e il diritto per entrambi di portare la maglia con la bandiera con la Stella di Davide per i prossimi 12 mesi. Storica doppietta sentimental-sportiva ai campionati nazionali di ciclismo in Israele. Le vittorie infatti sono andate a Guy Sagiv e a Omer Shapira, che oltre ad essere due tra i migliori interpreti locali della disciplina sono anche fidanzati.
Un legame che i due hanno voluto celebrare nel modo più emozionante. Guy Sagiv in fuga solitaria raggiunge Omer Shapira, impegnata sullo stesso percorso nella prova femminile. Mentre la sorpassa, Sagiv rallenta, l'abbraccia e le dà un bacio. Entrambi poi concluderanno la gara con una vittoria, festeggiata con altri baci sul podio.

(Fonti: Sky sport, moked, 30 giugno 2019)


Gerusalemme - Israele arresta (e rilascia) un ministro palestinese

Fadi Al-Hadami bloccato per alcune ore dalla polizia perchè aveva accompagnato il presidente del Cile Pinera sulla Spianata delle Moschee. Per il governo israeliano quello è territorio di sua sovranità, il ministro non doveva scortare un dignitario straniero

GERUSALEMME - La polizia israeliana ha arrestato per poche ore il ministro palestinese per gli Affari di Gerusalemme Fadi al-Hadami: il ministro è stato fermato dalla polizia a casa sua, il suo fermo era legato al fatto che la settimana scorsa il ministro ha accompagnato il presidente cileno Sebastian Pinera in visita sulla spianata delle Moschee.
   Il luogo sacro all'ebraismo e all'Islam viene considerato territorio israeliano dallo Stato di Israele ma è affidato in gestione al "Waqf", un organismo religioso in cui ha un ruolo anche la Giordania. La spianata è denominata "nobile santuario" per l'Islam e "monte del tempio" per gli ebrei: secondo l'Islam è il luogo più sacro per i musulmani dopo Mecca e Medina.
   Gli israeliani contestano il fatto che il ministro palestinese abbia accompagnato un dignitario straniero in visita sulla spianata come se fosse lui stesso a rappresentare l'autorità politica che ha il controllo sullo spazio: per Israele la visita si è svolta quindi "in violazione dei regolamenti".
   Una fonte della delegazione cilena aveva precisato che si trattava di "una visita privata". L'arresto del ministro arriva dopo alcune ore di scontri e disordini a Gerusalemme Est, la parte araba della città: i palestinesi hanno protestato per ore contro la polizia, lanciando sassi e facendo esplodere fuochi artificiali. Due poliziotti sono rimasti feriti e 6 palestinesi sono stati arrestati.
   Israele aveva protestato anche con il Cile per la visita di Pinera sulla Spianata delle moschee: la passeggiata era concordata, ma gli israeliani ritenevano che ad accompagnare l'ospite sarebbero stati rappresentanti del Waqf. Il fatto che Pinera e la moglie siano stati accompagnati dal ministro Fadi al-Hadami è stato considerato "una violazione della sovranità israeliana sul Monte del Tempio e delle procedure", ha dichiarato il ministro degli Esteri israeliano Yisrael Katz, aggiungendo che "bisogna distinguere fra l'assoluta libertà di culto e la preservazione della nostra sovranità".
   Pinera aveva incontrato il presidente dell'Autorità Nazionale palestinese Mahmoud Abbas a Betlemme, dove poi ha visitato la Chiesa della Natività, mentre a Gerusalemme è stato al Muro del Pianto e al Santo Sepolcro.

(la Repubblica, 30 giugno 2019)


Africa: Allarmante aumento della persecuzione dei cristiani

"In alcune regioni, il livello e la natura delle persecuzioni si avvicina verosimilmente alla definizione internazionale di genocidio, secondo i criteri adottati dalle Nazioni Unite". - The Independent Review of FCO support for Persecuted Christians.
"Gli assalitori hanno chiesto ai cristiani di convertirsi all'Islam, ma il pastore e gli altri hanno rifiutato di farlo. Gli hanno ordinato di radunarsi sotto un albero e hanno preso loro le Bibbie e i telefoni cellulari. Poi, li hanno chiamati uno ad uno, dietro l'edificio della chiesa dove li hanno uccisi." - World Watch Monitor, 2 maggio 2019.
Come illustra il rapporto britannico, la persecuzione contro i cristiani e contro altri non musulmani non riguarda l'etnia, la razza o il colore della pelle né dei perpetratori né delle vittime: concerne la loro religione.
Se tali crimini non vengono fermati, è altamente probabile che il destino del continente africano sarà simile a quello del Medio Oriente: un tempo era una regione a maggioranza cristiana; ora, i cristiani sono una minoranza minuscola, agonizzante e indifesa....

(Gatestone Institute, 30 giugno 2019)



"Piemonte ebraico, grandi libri e grandi idee"

 
Da Guido Artom ad Aldo Zargani: un itinerario nella letteratura ebraica piemontese in tre intense giornate di studio che hanno avuto in Cuneo, e in particolare nella biblioteca e nel centro studi che portano il nome di Davide Cavaglion, il centro propulsore di nuove idee e nuovi stimoli.
   Nel centenario dalla nascita di Primo Levi, non poteva che essere questa regione il punto di partenza della dodicesima International Conference on Italian Jewish Literature organizzata da Raniero Speelman, con il contributo del comitato scientifico che da anni lavora alla realizzazione di questi incontri internazionali, il supporto dello storico Alberto Cavaglion, padrone di casa, anima della biblioteca e profondo conoscitore delle vicende letterarie dell'ebraismo italiano, e il sostegno dell'Otto per Mille UCEI.
   "Molti - è stato ricordato - sono gli scrittori ebrei di origine piemontese. Come particolarmente interessante si impone la collaborazione ebraica con la più famosa editoria e la presenza di intellettuali ebrei negli atenei italiani. Altri, scelsero di vivere da immigrati nella prima capitale d'Italia. Le vicissitudini storiche, la vicinanza della Francia e della Svizzera e i contatti con varie minoranze fra cui i valdesi hanno stimolato un ricco patrimonio letterario".
   Il convegno è andato al cuore di questi temi, con interventi di altissimo significato e valore. Anna Segre e Aldo Zargani, gli scrittori protagonisti di due distinte sessioni della tre giorni a Cuneo. Cinque tematiche erano state in precedenza sviscerate: "La generazione dell'interbellum"; "L'età dell'argento sempre rivisitata"; "Primo Levi nel centenario della nascita"; "Minori, maggiori"; "I diamanti dei critici e il tempo di Argon".
   Tra i diversi contributi, una testimonianza su Benvenuto Terracini da parte del nipote Benedetto e una relazione di Claudia Rosenzweig sulle fonti yiddish usate da Levi per scrivere "Se non ora, quando?". Tra i molti relatori anche Laura Quercioli Mincer, Raffaella Di Castro e il rav Alberto Moshe Somekh, curatore assieme a Cavaglion della ristampa dell'Orechòt Tzaddiqim (Le vie dei Giusti), un testo di natura etico-valoriale che fu tradotto dall'ebraico in italiano da Amadio Momigliano nel 1902.
   Un'operazione editoriale che è stata dedicata alla memoria di Enzo Cavaglion, nel centenario dalla nascita, e di Pia Segre, trascorso un mese dalla scomparsa. Ultimi testimoni di una grande tradizione, quella dell'ebraismo cuneese, che la biblioteca e il centro studi dedicati a loro figlio Davide tengono in vita con appassionata e commovente dedizione.

(moked, 30 giugno 2019)


l'Egitto chiude valico di Rafah per anniversario caduta Morsi

IL CAIRO - Le autorità egiziane hanno chiuso oggi il valico di Rafah ai confini con la Striscia di Gaza in entrambe le direzioni, in occasione del 6o anniversario della rivolta del 30 giugno che ha portato alla caduta del presidente Mohammed Morsi. Lo riporta il quotidiano "el Masry el Youm". Il valico sarà riaperto domani mattina per consentire il passaggio dei palestinesi da entrambe le parti, nonché i casi umanitari e l'accesso di aiuti umanitari all'enclave palestinese. Il governo del Cairo ha annunciato oggi un giorno di festa per celebrare l'anniversario della rivolta del 30 giugno che ha rovesciato il presidente Morsi e della Fratellanza musulmana nel luglio 2013.

(Agenzia Nova, 30 giugno 2019)




Dio li ha abbandonati all’impurità e a passioni infami

L’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ingiustizia degli uomini che soffocano la verità con l’ingiustizia; poiché quel che si può conoscere di Dio è manifesto in loro, avendolo Dio manifestato loro; infatti le sue qualità invisibili, la sua eterna potenza e divinità, si vedono chiaramente fin dalla creazione del mondo essendo percepite per mezzo delle opere sue; perciò essi sono inescusabili, perché, pur avendo conosciuto Dio, non l’hanno glorificato come Dio, né l’hanno ringraziato; ma si son dati a vani ragionamenti e il loro cuore privo d’intelligenza si è ottenebrato. Benché si dichiarino sapienti, son diventati stolti, e hanno mutato la gloria del Dio incorruttibile in immagini simili a quelle dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili.
Per questo Dio li ha abbandonati all’impurità, secondo i desideri dei loro cuori, in modo da disonorare fra di loro i loro corpi; essi, che hanno mutato la verità di Dio in menzogna e hanno adorato e servito la creatura invece del Creatore, che è benedetto in eterno. Amen.
Perciò Dio li ha abbandonati a passioni infami: infatti le loro donne hanno cambiato l’uso naturale in quello che è contro natura; similmente anche gli uomini, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono infiammati nella loro libidine gli uni per gli altri commettendo uomini con uomini atti infami, ricevendo in loro stessi la meritata ricompensa del proprio traviamento.
Siccome non si sono curati di conoscere Dio, Dio li ha abbandonati in balìa della loro mente perversa sì che facessero ciò che è sconveniente; ricolmi di ogni ingiustizia, malvagità, cupidigia, malizia; pieni d’invidia, di omicidio, di contesa, di frode, di malignità; calunniatori, maldicenti, abominevoli a Dio, insolenti, superbi, vanagloriosi, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza affetti naturali, spietati. Essi, pur conoscendo che secondo i decreti di Dio quelli che fanno tali cose sono degni di morte, non soltanto le fanno, ma anche approvano chi le commette.

Dalla lettera dell'apostolo Paolo ai Romani, cap. 1

 


Bahrain: Manama non è un passo verso la normalizzazione con Israele

MANAMA - Il ministro degli Esteri del Bahrein, Sheikh Khalid bin Ahmed al-Khalifa, ha ribadito il sostegno di Manama al diritto del popolo palestinese a uno stato indipendente lungo i confini del 1967 con Gerusalemme Est come capitale, sottolineando che il workshop "Peace to Prosperity" dei giorni scorsi di Manama non era da interpretare come un passo verso la normalizzazione delle relazioni con Israele. In un'intervista all'emittente "Al Arabiya", lo sceicco Khalid bin Ahmed ha dichiarato: "Non abbiamo ancora sentito alcun piano politico per la pace", spiegando che "l'Autorità palestinese e ha espresso un parere che rispettiamo e rispetta la nostra posizione". Riguardo a ciò che è stato soprannominato "l'accordo del secolo", il Bahrain ha detto: "l'accordo sarà tra due parti e non sappiamo nulla del cosiddetto accordo del secolo". Lo sceicco Khalid bin Ahmed ha aggiunto: "Ho parlato con i media israeliani per comunicare la nostra posizione direttamente al suo popolo".

(Agenzia Nova, 29 giugno 2019)


Arte rubata e restituzioni. La collezione Gurlitt presto in mostra a Gerusalemme

di Alessandra Quattordio

Gurlitt, un nome che evoca fatti inquietanti, talvolta "rimossi" ma sempre attuali, non solo per chi appartiene al mondo dell'arte e conosce la storia del collezionismo del XX secolo, ma anche per chi visse la tragedia delle persecuzioni naziste contro gli ebrei e ancor oggi ne tramanda la memoria. Lo spunto per rievocare drammi che hanno inciso nella vita di migliaia e migliaia di persone, e capolavori che uscirono dal pennello (o dallo scalpello) dei maestri dell'arte antica e moderna e furono bollati dal marchio di arte degenerata, è scaturito nel maggio scorso a Milano in occasione della conferenza organizzata alle Gallerie d'Italia da Alessia Panella, avvocato specializzato in diritto dell'arte e diritto d'autore.
Il tutto in vista della mostra Fateful Choices: Art from the Gurlitt Trove che si terrà da settembre a Gerusalemme all'Israel Museum, istituzione che, tra le altre finalità, si pone anche la restituzione di opere d'arte agli eredi delle vittime del nazismo. Presenti Ido Bruno, nuovo direttore del museo, Ana Luiza M. Thompson-Flores, responsabile per l'Europa del Reparto Scienza e Cultura dell'Unesco, Manlio Frigo, avvocato, docente, esperto di transazioni internazionali nel settore dell'arte, Davide Blei, presidente di AIMIG. Alessia Panella ha dichiarato:
"La scoperta della Gurlitt Collection, avvenuta solo nel 2013, è illuminante per comprendere la vera portata del problema della Stolen Art. Spesso non si pensa che durante la Seconda Guerra Mondiale sono state 'confiscate' e sottratte alle famiglie ebree milioni di opere d'arte tra il 1935 e il 1944, non solo in Germania ma in tutti i territori occupati, e che solo una minima parte è stata recuperata".
 Le opere
  Sarà Bruno a curare l'esposizione, selezionando un centinaio di opere (delle 1600 totali), fra dipinti, disegni e incisioni più una trentina fra documenti e fotografie, e raccogliendo un'eredità difficile che vede oggi fra i principali attori il Kunstmuseum di Berna (che ha ricevuto il lascito Gurlitt e ha esposto parte della collezione per la prima volta nel 2017), il Governo tedesco (in Germania, in questi ultimi due anni, sono state organizzate mostre della collezione a Bonn e a Berlino ed è stata istituita una task force per indagare su provenienza e attuale collocazione delle opere) e la famiglia Gurlitt, ovvero Cornelius, che fu erede di Hildebrand, il mercante dalla fama di uomo colto quanto ambiguo, coinvolto da Hitler a partire dal '39 nei sequestri di opere d'arte "degenerata", in vista della costituzione da parte del Führer di un museo d'arte del Terzo Reich a Linz.

Paul Cézanne La Montagne Sainte Victoire, 1905. A sinistra, Nina Zimmer, direttore del Kunstmuseum di Berna; a destra, Philippe Cézanne, pronipote di Paul Cézanne
Eduard Manet, Natura morta con frutta, 1870 ca. Jean Honoré Fragonard, Il Trionfo di Venere, 1790 ca. Jan Brueghel il Giovane, Paesaggio fluviale, 1660 ca. lightbox gallery plugin by VisualLightBox.com v6.0m

 Hildebrand Gurlitt
  Proveniente da una famiglia di intellettuali (il nonno Louis e la sorella Cornelia furono, fra l'altro, pittori), Hildebrand Gurlitt riassumeva in sé molteplici volti: l'amante dell'arte, il bieco speculatore, il salvatore di opere d'arte che sarebbero state condannate alla distruzione, il finanziatore di famiglie ebraiche che, con la vendita delle loro collezioni, tentavano la fuga dai territori occupati. E fu il figlio Cornelius - presso la cui modesta abitazione, a Monaco, si scoprirono per caso qualche anno fa molte delle opere che erano state possedute dal padre, e di cui fu intimata la restituzione - a decidere di destinarle a Berna prima di morire. Oggi ecco tornare alla ribalta i tesori antichi e moderni di Gurlitt: Beham, Cranach, Brueghel, Boucher, Fragonard, Guardi, Delacroix, Corot, Courbet, Boudin, Munch, Beckmann, Dix, Müller, in attesa di ritrovare i legittimi proprietari. Come è già accaduto tempo fa per il dipinto La Montagne Sainte-Victoire di Cézanne, i cui eredi hanno dovuto dirimere, come è facile immaginare, complesse questioni dovute a differenti (o assenti) legislazioni dei Paesi implicati e a interessi contrapposti. Oggi il dipinto è al Musée Granet di Aix-en-Provence, in Francia. Ogni opera ha una storia, che non riguarda solo l'artista che la creò ma soprattutto chi la possedette, e poi la cedette (o fu obbligato a cederla), e chi la acquistò in seconda o terza battuta, in circostanze più o meno chiare, di privato o di museo si tratti. In barba alla due diligence, che in caso di Stolen Art impone all'atto dell'acquisto la trasparenza sull'origine dell'opera. Conclude Panella:
"Determinante la regolamentazione dalla tutela dell'affidamento dell'acquirente a non domino in buona fede. La possibilità dell'accoglimento della domanda di restituzione, infatti, dipende spesso da ciò che prevale nel bilanciamento tra esigenze dell'originario proprietario e affidamento del terzo acquirente in buona fede. Emblematico è il caso della richiesta di restituzione da parte degli Uffizi dell'opera 'Vaso di Fiori' di Jan van Huysum [risale a oggi l'annuncio della conferma della restituzione, N.d.A.]per cui l'attuale direttore Eike Schmidt ha parlato di obbligo morale della Germania alla restituzione, non esistendo quello giuridico".
(Artribune, 29 giugno 2019)


Perché Teheran preferisce restare nella blacklist del Faft

di Dorian Grey

Per uscire veramente dalla blacklist del Faft quindi, all'Iran - prima delle norme - serve cambiare completamente la sua politica estera aggressiva e violenta. Il commento di Dorian Gray per Atlantico Quotidiano
Il 21 giugno, a conclusione del suo meeting plenario ad Orlando (Usa), il Faft - Financial Action Task Force - ha deciso di reimporre tutte le restrizioni nei confronti dell'Iran, che erano state sospese nell'ottobre del 2016 nella speranza che la Repubblica Islamica si conformasse alle normative internazionali contro il riciclaggio di denaro.
Così non è stato. Ovviamente, aspettatevelo, vi racconteranno che si tratta di una decisione politica, frutto delle pressioni di quel cattivone di Trump. Peccato che la verità, come accade spesso ormai, è ben diversa. A dimostrarlo sono i fatti e non i commenti.
Nel giugno del 2016 Teheran aveva accettato il "piano d'azione del Faft", per avviare un processo che avrebbe dovuto portare la Repubblica Islamica a conformarsi alla Convenzione di Palermo contro il riciclaggio di denaro a scopi terroristici. Su questi presupposti, nell'ottobre del 2016, il Faft sospendeva il suo giudizio sull'Iran, congelando la presenza di Teheran nella blacklist dell'organizzazione intergovernativa.

 Misure insufficienti finora
  In questi due anni, il regime iraniano non è riuscito a produrre praticamente nulla di concreto. Il Parlamento iraniano, per ben due volte, ha approvato una riforma del sistema bancario che lo stesso Faft ha giudicato insufficiente. La riforma prevista dal Parlamento di Teheran, infatti, prevedeva che non venisse considerato terrorismo il sostegno ad organizzazioni che lottano "contro il colonialismo e il dominio straniero". In pratica, con questa scorciatoia, il regime iraniano pretendeva di continuare a finanziare liberamente i suoi proxies, senza considerarli gruppi terroristici. Ovviamente, al FATF non ci sono cascati e hanno chiesto subito una modifica della legge.

 Un regime diviso
  Non basta: nonostante la legge approvata dal Parlamento iraniano fosse sbagliata, il regime si è diviso al suo interno. Il Consiglio dei Guardiani ha per ben due volte rigettato la legge, ritendendola contro gli interessi nazionali. Lo scontro è arrivato quindi al Consiglio del Discernimento - organo creato per dirimere le controversie tra Parlamento e Consiglio dei Guardiani. Il Consiglio per il Discernimento, in questi mesi, non è stato in grado di prendere alcuna decisione definitiva, ma diversi dei suoi esponenti, hanno espressamente preso le parti del Consiglio dei Guardiani (tra loro i Pasdaran Mohsen Rezaee e Ahmad Vahidi).

 La politica estera della repubblica islamica
  Cosa dimostra tutto questo? Dimostra quello che era chiaro a tutti: il regime iraniano non può - e non potrà mai - rinunciare al sostegno al terrorismo internazionale. Sostenere organizzazioni come Hezbollah, Hamas, la Jihad Islamica, le milizie sciite in Siria e Iraq, non è un vizio dei chierici iraniani, ma una parte integrante della politica estera della Repubblica Islamica. Lo è sotto il profilo ideologico - perché dovere dei Pasdaran non è solo quello di difendere la Repubblica Islamica, ma anche di esportare la rivoluzione khomeinista - e lo è sotto il profilo militare - perché l'Iran manca totalmente di un esercito nazionale moderno e all'avanguardia.
Una mancanza, anche questa volta, che non è frutto del caso, ma di una precisa strategia dell'establishment iraniano dopo il 1979: indebolire le strutture tradizionali del Paese, a favore di quelle parallele, in questo caso delle Guardie Rivoluzionarie, fedeli non all'Iran in quanto tale, ma alla Repubblica Islamica khomeinista. Per questo motivo, i Pasdaran non sono presenti solamente in ogni ambito militare e scientifico (in primis nucleare e missilistico), ma anche in tutti i settori economici del Paese.
Ecco perché, in tutti questi anni, tutti i veri conoscitori dell'Iran, hanno chiaramente sostenuto che pensare di fare affari puliti con la Repubblica Islamica, è praticamente impossibile. Nessuno, infatti, è in grado di garantire una due diligence nei rapporti economici con l'Iran, perché nessuno è in grado di capire veramente se, il businessman iraniano che ha davanti, è veramente un imprenditore privato o una testa di legno dei Pasdaran.
La realtà è quindi una sola: chi ha sostenuto la necessità di fare accordi economici con l'Iran, lo ha fatto accettando l'idea di fare anche accordi con i Pasdaran (pur non dicendolo espressamente). Non è un caso che, diversi cosiddetti "esperti" di Iran, si siano schierati apertamente contro l'inserimento delle Guardie Rivoluzionarie nella lista delle organizzazioni terroristiche voluto dal presidente Trump. Una decisione quasi banale - per quanto importantissima - visto che i Pasdaran non solo sostengono organizzazioni come Hezbollah e Hamas, ma hanno da sempre intrattenuto rapporti anche con al-Qaeda (a cui hanno concesso un lasciapassare sul territorio iraniano e a cui hanno garantito, con la collaborazione palestinese, armi e addestramento).

 La decisione del Fatf
  La decisione del Faft quindi è la naturale conseguenza della natura del regime iraniano. Per uscire veramente dalla blacklist del Faft quindi, all'Iran - prima delle norme - serve cambiare completamente la sua politica estera aggressiva e violenta. Un cambiamento necessario, l'unico veramente valido per poter finalmente pensare di accettare nuovamente l'Iran nella comunità internazionale con tutti gli onori che la storia di quel Paese meriterebbe.

(Atlantico Quotidiano, 29 giugno 2019)


Nega la Shoah in classe, prof denunciato

Gino Giannetti insegna al liceo artistico. Esposto del preside dopo le proteste degli studenti. "Nei lager c'erano le piscine per il divertimento degli ebrei". È una delle frasi sulle quali indaga la Digos.

di Salvo Palazzolo

PALERMO - Ha sostenuto in classe che nei lager nazisti c'erano delle piscine per il divertimento degli ebrei. E ha pronunciato parole pesanti sullo scrittore Primo Levi. Avrebbe anche invitato gli studenti a iscriversi a Forza Nuova. Un docente del liceo artistico di Palermo "Eustachio Catalano", Gino Giannetti, insegnate di discipline plastiche, è al centro di un'indagine della Digos e della procura di Palermo.
   Da tre anni, il "negazionismo" è un reato, punito anche in maniera pesante. Dopo la segnalazione degli studenti è stato il preside Maurizio Cusumano a presentare una denuncia alla polizia e a segnalare il caso all'Ufficio scolastico regionale, che ha già avviato un procedimento disciplinare nei confronti del docente.
   Il primo effetto è già arrivato nei giorni scorsi: Giannetti è stato escluso dalle commissioni per la maturità. Ma gli studenti sono ancora amareggiati per quanto accaduto nel corso dell'ultimo anno scolastico.
   Nei mesi scorsi, il professore avrebbe inviato a una studentessa del quinto anno dei link molto particolari, con foto e video negazionisti della Shoah. Una conversazione sulla chat Messenger di Facebook. La studentessa ha segnalato il caso a un insegnante. E così la vicenda è arrivata al preside, che ha acquisito tutto il materiale diffuso in Rete. Oggi, il preside Cusumano non vuole commentare la vicenda, ma conferma l'attenzione dell'istituzione scolastica su questo caso così delicato e l'avvio di un procedimento disciplinare.
   Il negazionismo in Italia è reato dal 2016, da quando il legislatore ha aggiunto il comma "3 bis" alla legge Mancino, che nel 1975 ratificò la convenzione internazionale sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale. Sono previste pene da due a sei anni di reclusione «se la propaganda ovvero l'istigazione e l'incitamento, commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondano in tutto o in parte sulla negazione della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l'umanità e dei crimini di guerra».
   Alcuni studenti hanno scritto alla redazione di Repubblica per esprimere la loro indignazione: «Gli allievi sono arrivati ai limiti della sopportazione - si legge nella lettera - il docente ha detto una serie di assurdità quali: piscine nei lager per il divertimento degli ebrei o offendendo lo scrittore Primo Levi definendolo testa di cazzo e coglione».
   Gli studenti scrivono che già in passato «il docente era stato richiamato dal preside per via del linguaggio scurrile che teneva dentro le mura scolastiche. Adesso, però - commentano - la questione è di tutt'altro tenore e gravità in quanto si tratta di negazionismo. L'insegnante - aggiungono gli autori della lettera - ha espresso svariate volte di fronte agli allievi le sue opinioni riguardo al nazismo e allo sterminio del popolo ebraico». Nel liceo di via Alessandro La Marmora non si parla d'altro ormai da giorni.

(la Repubblica - Palermo, 29 giugno 2019)


Strage di Bologna e palestinesi: le difficoltà ideologiche di arrendersi all'evidenza

di Dimitri Buffa

 
Stazione di Bologna, 1980
Stazione di Bologna, oggi
E ora chi glielo dice alla sinistra felsinea che l'ultima perizia sui reperti della strage di Bologna riapre in pieno la tanto odiata ideologicamente ipotesi dell'attentato per ritorsione da parte del terrorismo palestinese e contemporaneamente esclude quella di matrice fascista? Sempre più definibile il vero primo depistaggio immobile di tutta l'indagine?
   Soprattutto, chi glielo dice alla Corte di Assise che sta processando quasi 40 anni dopo Gilberto Cavallini per quello stesso reato per cui sono già stati condannati - ingiustamente - Francesca Mambro, Valerio Fioravanti e Stefano Ciavardini?
   E a quei giudici e pm delle inchieste e dei processi che sin qui si sono succeduti? Compresi quelli che si riunivano nei primissimi anni Ottanta con i maggiorenti del vecchio Pci per concordare la linea politica delle indagini?
   La difficoltà di arrendersi all'evidenza, da oggi anche scientifica - prima c'erano solo le prove testimoniali tra cui quella clamorosa di Stefano Sparti, il figlio allora piccolo del supertestimone Massimo, che più volte in aula puntò il dito contro le bugie del padre e le false perizie di cancro al pancreas e al fegato che servirono a farlo uscire di galera una volta che ebbe accusato chi si doveva accusare - costituisce la vera notizia di questa vicenda di depistaggi istituzionali ai danni dei neofascisti degli ex Nar. Che somiglia tragicamente a quella avvenuta anni dopo nel primo processo Borsellino imperniata sulla falsa testimonianza di Vincenzo Scarantino che mandò all'ergastolo definitivamente svariati personaggi del mondo della mafia, che però erano innocenti, per la morte del magistrato di Cosa Nostra. Per smascherare Scarantino ci è voluto un altro pentito, Gaspare Spatuzza, che si auto-accusò di avere lui stesso confezionato l'auto imbottita di esplosivo che poi fu fatta esplodere il 19 luglio 1992 sotto casa del giudice Paolo Borsellino.
   Basterà ora questa perizia firmata dall'esplosivista geominerario Danilo Coppe? Che ha lavorato per mesi tra i reperti residuali della strage ammassati all'interno della caserma di Prati di Caprara.
   Le analisi parlano chiaro: la bomba era a innesco elettrico e non chimico, l'esplosivo era la metà di quello ipotizzato e soprattutto è stato trovato un detonatore da valigia del tipo "apri-chiudi", cioè di sicurezza per chi stava facendo il trasporto, che è tragicamente simile, se non identico, a quelli trovati in possesso di Christa Margot Frohlich, membro del gruppo terroristico di Carlos, al momento del proprio arresto a Fiumicino nel 1982. L'ex capo dello Stato, Francesco Cossiga, che - come Paolo Guzzanti presidente della Mitrokhin e Giovanni Pellegrino presidente della precedente Commissione Stragi - mai credette alla pista fascista, parlò di incidente di trasporto. Ora questa perizia si spinge oltre: fu vero attentato ritorsivo contro l'arresto e la successiva condanna del famigerato Abu Saleh beccato a trasportare missili terra aria Strela nel 1979 insieme all'allora capo di Autonomia romana Daniele Pifano. La tesi fascista venne in compenso avvalorata solo dal depistaggio delle armi e dell'esplosivo fatti ritrovare in una valigia appositamente abbandonata sul treno Taranto-Milano. Depistaggio per il quale furono condannati definitivamente due ufficiali dell'ex Sismi.
   Bene, oramai siamo al due più due che fa quattro.
   Ma siccome il Lodo Moro è ancora vigente, sia pure sotto altre spoglie, e siccome in Italia ancora non c'è stato alcun attentato da parte del terrorismo islamico post 11 settembre 2001, forse questa verità evidente deve continuare a rimanere nascosta per motivi di interesse nazionale. E gli stessi condannati, Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, ne sembrano ben consapevoli. Però, almeno tra gli storici, le persone oneste intellettualmente e gli investigatori, sarebbe ora di non raccontarsi più menzogne sub speciem di "carità di patria". E di evitare di accanirsi sui vecchi, e sui nuovi, "colpevoli di repertorio".

(L'Opinione della Libertà, 28 giugno 2019)


Quel terribile vizio dei pro-pal di usare i bambini palestinesi come arma

Patetico il tentativo della stampa pro-pal di creare una nuova icona palestinese dopo la triste fine della perenne minorenne Ahed Tamimi.

In qualsiasi parte del mondo quando uno o più bambini vengono usati come arma di pressione o addirittura come combattenti si usa definirli "bambini soldato" e non di rado abbiamo visto grandi Organizzazioni internazionali avviare campagne, anche di vasta portata, per denunciare l'uso dei bambini in guerra.
Questo stranamente non è mai avvenuto e non avviene per i bambini palestinesi, nemmeno quando vengono usati come scudi umani o addirittura come vere e proprie armi, sia offensive che di propaganda.
Anzi, se si tratta di fare propaganda anti-israeliana usando i bambini palestinesi c'è una vera e propria scuola di pensiero che ormai da anni riprende sempre lo stesso cliché: il piccolo e indifeso bambino palestinese che sfida i potenti (e naturalmente cattivissimi) soldati israeliani....

(Rights Reporters, 29 giugno 2019)


Storia esemplare ed avvincente di una grande famiglia ebraica tedesca

Dal 1875 creò ricchezza e posti di lavoro in Sicilia

Una Palermo nella quale la ricchezza non era né peccato, né reato, né immoralità da additare alla pubblica esecrazione, ma la forma nella quale si manifestava il successo professionale, la capacità di rischiare e di osare. Tutti fattori, quelli dell'imprenditoria e dell'investimento, che hanno abbandonato l'Italia provinciale e perduta dei nostri giorni, che è diventata incapace di pensare grande e di proiettarsi in un futuro di progresso.

di Domenico Cacopardo

Il fascino delle storie delle famiglie antiche, si è ripresentato di recente con due opere ambientate a Palermo e riguardanti le vicende di due grandi famiglie palermitane, fondate da non palermitani. Mi riesce difficile credere alle coincidenze (diceva il saggio «Le coincidenze sono l'alibi dei bugiardi») e, in particolare in questo caso infatti, diventa impossibile: a distanza di poche settimane, Stefania Auci dà alle
stampe «I leoni di Sicilia», prima parte della saga della famiglia Florio, e poco dopo, in maggio, Agata Bazzi pubblica (Mondadori editore, euro 19 ,00) La luce è là, traduzione dal tedesco Lik dör, storia della famiglia Ahrens, il cui capostipite, Albert, si trasferì a Palermo nel 1875, quando i Florio s'erano già ampiamente affermati, Tanto che una delle sue prime visite è dedicata a Ignazio, in quel momento capo della casata calabro-sicula.
   C'è tuttavia una profonda differenza tra le due narrazioni e le due narratrici. La prima è ontologica e spinge il lettore a riflettere sulle tragiche giravolte della storia, quelle che si sono riviste nel '900 e rispetto alle quali, Bertha, una delle figlie di Albert, dopo la fine della seconda guerra mondiale dice: «Ora sappiamo cosa ci si può aspettare dal futuro», intendendo che una tragedia come quella del 1939-1945, con le sue stragi, può ancora ripetersi. E lo Schicksal, il destino che lo vorrà, se lo vorrà. Manca solo un elemento per capire il senso di queste affermazioni: Albert Ahrens e sua moglie Johanna sono ebrei tedeschi che si naturalizzano italiani e che generano figli italiani, che sposano gentili (cattolici), spesso convertendosi.
   A testimonianza dell'amore per i luoghi, Albert Ahrens costruisce, nell'assolata città mediterranea, nella quale convivono l'opulenza delle grandi famiglie aristocratiche e la miseria più nera dei bassi, un pezzo di Germania, con i quattrini che ha guadagnato con i suoi commerci e con le imprese che ha fondato, in vari settori, dal vino ai mobili. Fabbriche che Ahrens gestisce in modo calvinista, sapendo quanta fatica gli è costato diventare ricco e quant'altra gli costerà rimanerlo. Il gineceo, il santuario degli Ahrens è la villa che Albert, con l'aiuto di Ernesto Armò, un allievo di Ernesto Basile, il grande architetto che introdusse e sublimò a Palermo il «Liberty», edificò in località San Lorenzo, trasferendocisi dalla via Sammartino, all'Acqua dei Corsari. «Seguivamo regole rigide», racconta Marta, una delle figlie, «ma non ricordo nessuna sofferenza.
   Era normale, era semplicemente così». Un'educazione spartana, alla tedesca, come si diceva un tempo.
   Non riassumerò l'imponente, scorrevole, affascinante e commovente racconto di Agata Bazzi, una delle bisnipoti di Albert e Johanna. Sarebbe ingiusto nei confronti dell'autrice e del suo lavoro. Ma onorerò i miei doveri di recensore per sottolineare come «La luce è là» non appartiene alla memorialistica familiare, ma alla letteratura alta, quella che suscita emozioni ed empatia, con la sua semplicità priva di retorica, diretta, che ci riporta ai maggiori esempi di letteratura ebraica. E per mettere in «luce» che questo romanzo racconta un'Italia, una Sicilia e una Palermo, nella quale lo spirito di intrapresa aveva modo di affermarsi, a dispetto delle ataviche tare e, forse, proprio per quelle che, per antinomie, stimolavano stranieri, italiani e siciliani a spendere se stessi nella costruzione di patrimoni, di imprese, di opere private e pubbliche.
   Un'Italia, una Sicilia, una Palermo nelle quali la ricchezza non era né peccato né reato né immoralità da additare alla pubblica esecrazione, ma la forma nella quale si manifestava il successo professionale, la capacità di rischiare e di osare. Tutti fattori che hanno abbandonato l'Italia provinciale e perduta dei nostri giorni, incapace di pensare grande e di proiettarsi in un futuro di progresso. I Florio, gli Ahrens, gli Ingham e gli altri non temevano il futuro. Lo costruivano e lo costruirono impegnando il proprio ingegno, privi di un capitale diverso dalle loro doti personali.
   Una lettura ora commovente, ora entusiasmante sempre interessante che, ripercorrendo le vicende di una famiglia ormai sterminata ci tiene legati alla pagina come sapevano fare, tra i tanti, Agatha Christie e Honoré de Balzac, tanto per non omologarsi all'archetipo, citato, della letteratura ebraica. Una metastoria dell'Italia attraverso due secoli, momenti felici e momenti drammatici, di disperazione e, poi, di libertà.

(ItaliaOggi, 29 giugno 2019)


Gaza: nonostante le intese, ancora palloni incendiari e ordigno esplosivo

I lanci di palloni incendiari da Gaza verso il Neghev sono proseguiti nella mattinata di oggi, malgrado il raggiungimento di intese informali fra Hamas ed Israele per il ritorno alla calma.
Fonti locali riferiscono che nei campi agricoli israeliani si sono verificati oggi cinque incendi. Un grappolo di palloni provenienti da Gaza, atterrato nei campi di un kibbutz, aveva con sé un ordigno esplosivo, che è stato neutralizzato da artificieri.
Nel frattempo esponenti dell'opposizione hanno criticato il premier Benjamin Netanyahu per le intese con Hamas, mediate da Egitto e Onu. Secondo Benny Gantz (partito 'Blu-Bianco') quelle intese dimostrano che "Hamas detta condizioni ad Israele". Per l'ex premier Ehud Barak, tornato nei giorni scorsi alla politica attiva, "il governo israeliano è tenuto in ostaggio da Hamas".
Il laburista Amir Peretz ha consigliato al governo di ricercare per Gaza soluzioni di lunga durata, piuttosto che intese "che non valgono il foglio su cui sono scritte".

(swissinfo.ch, 28 giugno 2019)


La danza israeliana apre il festival di Vignale

Il balletto che arriva dal kibbutz. Energia possente e tecnica superlativa.

di Claudia Allasia

 
TORINO - Il coinvolgente spettacolo "360o", creato dal coreografo Rami Be'er e interpretato dai suoi danzatori della Kibbutz Contemporary Dance II Company, inaugura oggi in prima nazionale, in piazza del Popolo, la quinta edizione del festival di Vignale, Danza-danza, teatro-danza, energia possente e tecnica superlativa (caratterizzata da linee aperte e gestualità essenziali, rese ancora più salde dal grounding a piedi nudi) sono le caratteristiche di tutta la danza israeliana contemporanea e quindi anche di questa compagnia, che in più stimola il dialogo fisico tra danzatori e pubblico, anche di giovanissima età. Già applaudita al Teatro Carignano, nell'ambito dei Festival Torino Danza e Torino Spiritualità, nel settembre del 2014, nell'emozionale, drammatico e suggestivo spettacolo "Aide Memoire", dedicato alla vita incredibile della fondatrice della Compagnia, Yehudit Arnon.
   In quell'occasione, durante l'incontro con il pubblico dopo spettacolo, Rami Be'er ha stretto suo malgrado un legame profondo con il Piemonte e in particolare con la comunità ebraica e l'associazione Italia-Israele, nella persona di una ricercatrice, Giulietta Weitz, che in seguito ha indagato con metodo su una pagina piemontese (del tutto dimenticata) successiva all'apertura dei campi di sterminio. Yehudit Arnon, scampata ad Auschwitz, in compagnia del suo futuro marito e dei genitori di Rami Be'er (lo raccontano loro stessi, nel sito delle testimonianze dei sopravvissuti creato dal regista Spielberg) durante l'avventuroso percorso attraverso l'Europa per raggiungere il porto di Venezia, hanno trascorso più di sei mesi nel campo profughi di Avigliana e in quello allestito presso l'Ospedale psichiatrico femminile di Grugliasco. In attesa dell'imbarco per la Palestina, insieme a ottanta bambini di varia nazionalità, età e lingua, di cui loro quattro appena ventenni erano responsabili, Yeudith Arnon inventava classi, lezioni e coreografie di danza, promettendo a sé stessa che, appena raggiunta la Terra Promessa, avrebbe fondato una scuola, una compagnia e un teatro. La sua promessa si è realizzata interamente, anche se un po' alla volta, nel kibbutz cui erano stati destinati.
   Rami è suo figlioccio, allievo, danzatore ed erede della Scuola, del Teatro e della Compagnia. Giulietta Weitz ha indagato non solo negli archivi ma è andata a cercare le figlie di Yehudit nel kibbutz e ha organizzato una festosa rimpatriata ufficiale a Grugliasco con nipoti, bandiere e autorità, nella primavera del 2018. Non c'è dunque una compagnia più adatta della Kibbutz Contemporary Dance per incarnare il claim del sottotitolo del quinto Vìgnale Festival: "La danza unisce".
   Domani, subito dopo la Kibbutz, arriva a Vignale una seconda compagnia da Israele: la Sol Dance Company, un ensemble di otto danzatori che debuttano in prima italiana con "Time of My Life", un lavoro capace di parlare al pubblico di temi e sentimenti come il sacrificio, l'amore, il dono, la leggerezza, la paura, la delusione, l'ego, l'identità.
   L'ultimo appuntamento del week end, domenica, vede il ritorno a Vlgnale dei Gandini Jugglìng, una delle più divertenti, abili e spiritose compagnie di circo contemporaneo del mondo. La nuova creazione, "Stack Cats", anch'essa in prima nazionale, rivisita il "mood" di "Smashed", il lavoro ispirato a Pina Bausch, che negli ultimi dieci anni ha sedotto il pubblico di tutto il mondo.
Da lunedì, Vignale Festival si aprirà alla dimensione popolare della danza contemporanea e del dialogo artistico tra culture, con il coreografo Jacopo Jenna, che lavorerà assieme a un gruppo di adolescenti dell'Accademia Magdeleine G per Mimema, progetto di ricerca di una scrittura coreografica attraverso il dialogo con una serie di sequenze video riguardanti il corpo e la danza. Il tema dell'incontro artistico tra culture differenti sarà invece il cuore della residenza del coreografo del Burkina Faso Jérôme Kaboré, che lavorerà insieme a giovani danzatori e richiedenti asilo nel progetto Envol. Anche questi artisti stimoleranno la riflessione con il loro lavoro, in momenti di condivisione col pubblico durante la residenza e nell'appuntamento finale del 4 e 5 luglio.

(la Repubblica - Torino, 28 giugno 2019)



Si complica ulteriormente la situazione nel Golfo Persico

La crisi in atto nel Golfo si è ulteriormente complicata, in seguito all'abbattimento da parte iraniana di un sofisticato drone americano.

A differenza di quanto accaduto in occasione dell'attacco alle due navi mercantili avvenuto poco ad Est dello stretto di Hormuz, questa volta gli iraniani hanno apertamente rivendicato l'azione compiuta, sostenendo di essersi legittimamente difesi da un velivolo entrato senza autorizzazione nel loro spazio aereo. Mosca ha recentemente confermato la ricostruzione dei fatti fornita da Teheran, mentre Washington sostiene tuttora che il suo velivolo a pilotaggio remoto è stato centrato mentre volava in una zona "internazionale" del cielo.
  Ciò che più conta è però il fatto che l'abbattimento del drone statunitense è stato sul punto di provocare una rappresaglia militare americana contro una serie di bersagli iraniani. A quanto si è appreso dalle ricostruzioni fatte dalla stessa stampa d'oltreoceano, infatti, il Presidente Trump avrebbe sospeso l'esecuzione dell'ordine di attacco quando mancava soltanto una manciata di minuti alla sua effettuazione, ripiegando su un'offensiva cibernetica e sull'imposizione di nuove sanzioni mirate contro la Guida Suprema della Rivoluzione e i suoi collaboratori.
  Il tycoon ha giustificato il proprio ripensamento facendo riferimento alla mancanza di proporzionalità in una risposta militare che avrebbe comportato la morte di almeno 150 iraniani a fronte di nessuna perdita dal lato americano. Non è ancora noto quali fossero i bersagli presi di mira dal Pentagono, ma è lecito ipotizzare che si trattasse di infrastrutture od unità appartenenti ai Pasdaran. Apparentemente all'interno dell'Iran, ma forse anche in Siria.
Il passo indietro di Trump ed il suo ricorso al concetto di proporzionalità nelle risposte da dare alle offese sembrano avallare una volta di più la tesi di chi sostiene che nei palazzi del potere statunitense si stia consumando un duello all'ultimo sangue tra un Presidente restio ad assumere iniziative militari non strettamente necessarie e chi, anche all'interno della cerchia dei suoi collaboratori, cerca invece di sospingerne l'azione verso gli schemi adottati dalla gran parte dei suoi predecessori.
Elettori e sostenitori di Trump sono in subbuglio. Gli ricordano su Twitter di apprezzarlo, di averlo votato, ma di non volere una guerra contro l'Iran, mentre James Buchanan ha esplicitamente parlato di un tornante decisivo di questa presidenza, invitando Trump a non precipitare gli Stati Uniti in un conflitto inutile, non senza averlo prima rimproverato per aver permesso che si giungesse sulla soglia dell'abisso.
  Il Presidente americano ha un progetto in testa: vuole un accordo permanente e non transitorio che impedisca all'Iran di dotarsi di armi nucleari e soprattutto desidera sottrarre a Teheran quei missili a lunga gittata che, minacciando l'Europa, costituiscono la principale giustificazione per lo schieramento di quelle difese antimissilistiche che la Russia considera una minaccia agli attuali equilibri strategici.
  Il suo obiettivo è trattare, non bombardare. Mentre John Bolton e probabilmente anche Mike Pompeo puntano a restaurare la politica dei cambi di regime e l'esportazione armata della democrazia. Questa contrapposizione era già emersa con chiarezza nelle fasi più acute della crisi venezuelana. Ma nel Golfo può provocare danni infinitamente più gravi, data l'estrema volatilità della regione e la presenza di altri attori importanti, ciascuno dei quali persegue i propri interessi in modi talvolta anche molto spregiudicati.
C'è un partito trasversale della guerra, al quale si sono iscritti non solo gli americani più interventisti ed alcuni degli alleati regionali degli Stati Uniti, ma anche una parte del sistema politico iraniano, che vede nelle tensioni ed in un conflitto limitato uno strumento per rafforzare la propria influenza interna e, soprattutto, un mezzo per pregiudicare la rielezione di Trump.
In questa crisi si combinano quindi tanto elementi attinenti alle relazioni tra Stati quanto complesse dinamiche interne ai maggiori paesi coinvolti. Con esiti paradossali: a che serve infatti la superiorità economica e militare degli Stati Uniti se il suo utilizzo riduce le possibilità di vittoria del Presidente che li guida nel 2020?
  È una circostanza al tempo stesso interessante e promettente che in questi giorni si siano trovati in Israele per discutere della situazione venutasi a creare proprio il Consigliere americano per la Sicurezza Nazionale, Bolton, il suo collega russo Nikolai Patrushev ed il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, per l'occasione accompagnato da Meir Ben-Shabbat.
È un inedito segno dei tempi che Stati Uniti e Russia abbiano voluto discutere della pace in Medio Oriente proprio a Gerusalemme, ma forse non del tutto sorprendente: i rapporti americano-israeliani sono infatti storicamente consolidati, ma in tempi recenti sono migliorate sensibilmente anche le relazioni tra la Russia e lo Stato ebraico.
Ed alimenta speranze la stessa circostanza che su argomenti tanto importanti per la pace mondiale e la stabilità internazionale, come il futuro dell'Iran e della Siria, Washington e Mosca abbiano ripreso a parlarsi. Il dialogo potrebbe proseguire al G20 di Osaka, dove non si esclude un vertice informale tra Trump e Putin, entrambi interessati ad evitare lo scoppio di un nuovo conflitto che difficilmente potrebbe essere contenuto. [Vladimir Putin e Donald Trump si sono incontrati ai margini del vertice G20 - ndr.]I cittadini statunitensi e russi, dopotutto, desiderano attualmente pensare più al proprio sviluppo che ad accrescere la presenza dei loro soldati in terre lontane.
  Salvare la pace nel Golfo Persico è quindi non solo auspicabile, ma ancora possibile. Occorre tuttavia l'attiva collaborazione di tutti i maggiori attori coinvolti, interni ed esterni alla regione. C'è molta benzina per terra, basta una scintilla ad appiccare l'incendio. È soprattutto di decisiva importanza che in questa fase delicatissima nessuno faccia ricorso a quegli attacchi sotto falsa bandiera che tanta parte hanno avuto nella storia del Medio Oriente.

(Sputnik Italia, 28 giugno 2019)


Incontro Pinera-Abbas. Incidente diplomatico al Monte del Tempio

SANTIAGO DEL CILE - Il viaggio di Pinera era iniziato con un piccolo incidente diplomatico. Nella giornata di ieri il presidente si era dovuto scusare con l'omologo israeliano, Reuven Rivlin, per aver visitato il Monte del Tempio, ovvero la Spianata delle moschee, con una delegazione palestinese invece che con i funzionari del Waqf, l'ente che gestisce il sito. Il ministero degli Esteri israeliano aveva convocato l'ambasciatore del Cile a Tel Aviv, Rodrigo Fernandez. La rappresentanza diplomatica del Cile aveva spiegato in una lettera che Pinera ha effettuato una visita privata e non è stato invitato da funzionari palestinesi. Secondo quanto previsto dagli Accordi di Oslo, il sito religioso è controllato dal Waqf e non ricade sotto la supervisione dell'Autorità nazionale palestinese. Il ministro degli Esteri israeliano, Yisrael Katz, ha dichiarato che "viene presa in seria considerazione qualsiasi violazione della sovranità israeliana sul Monte del Tempio".

(Agenzia Nova, 28 giugno 2019)


Le pellicole della comunità ebraica

Se c'è un modo per salvare la memoria del passato, è condividendola. Un appello arriva dalla Fondazione Centro di documentazione ebraica di Milano e dall'Archivio Nazionale Cinema Impresa di Ivrea, che lanciano l'iniziativa "Mi Ricordo. Raccolta film di famiglia della comunità ebraica": da lunedì 1 luglio sino al 2 ottobre saranno raccolte le vecchie pellicole e i filmati amatoriali che furono girati nel corso del Novecento dalle famiglie ebraiche, per essere poi trasformati in digitale e tornare visionabili. L'obiettivo è mettere al sicuro dal deterioramento del tempo e dalla distruzione un patrimonio visivo che è spesso dimenticato in armadi e soffitte, e altrettanto sovente è irriproducibile per la mancanza dei proiettori di un tempo. I filmati ricevuti verranno digitalizzati a Ivrea, all'Archivio Nazionale Cinema Impresa, e saranno poi catalogati, creando un archivio collettivo.
A Torino le pellicole possono essere consegnate alla sede della Comunità ebraica di Torino, in piazzetta Primo Levi 12.

(La Stampa, 28 giugno 2019)


La realtà palestinese che non viene raccontata: alcuni esempi

di Ugo Volli

Untitled Nel complesso processo di pace tra Israele e i palestinesi spesso sfuggono alcuni episodi che potrebbero aiutare a comprendere meglio la realtà; ecco quattro storie di masochismo "palestinese" che difficilmente avete potuto leggere sui giornali italiani:
1. L'Autorità Palestinese è stata denunciata alla Corte Internazionale dell'Aja. Di solito sono i suoi funzionari che cercano di usare questo tribunale internazionale per mettere in difficoltà Israele, ma questa volta sotto accusa sono loro. La cosa interessante è che l'accusatore non è Israele o qualche suo cittadino o organizzazione; sono arabi, che portano in tasca i documenti della stessa AP. L'accusa è particolarmente infamante: tortura sistematica e crudele di coloro che, spesso senza alcuna condanna, sono rinchiusi nelle carceri "palestinesi". Ci sono cinquantadue testimonianze, raccolte da una Ong israeliana. Bisognerà vedere che cosa faranno i giudici dell'Aja, di solito piuttosto inclini a subordinare il loro dovere di neutralità al terzomondismo. E soprattutto che sorte avranno i coraggiosi testimoni. Le informazioni si trovano qui.

2. Una situazione analoga investe il capo del calcio palestinese (ma anche influente dirigente dei servizi segreti e candidato alla successione di Abbas) Jibril Rajoub. "Nell'agosto 2018, la FIFA ha vietato a Rajoub di frequentare le partite per un anno e gli ha inflitto 20.000 franchi svizzeri (20.600 dollari) per "incitamento all'odio e alla violenza" dopo aver invitato i fan a bruciare poster e magliette della superstar Lionel Messi se avesse partecipato a una partita dell'Argentina a Gerusalemme nel giugno di quell'anno." Ora è venuto fuori che "l'organo di governo del calcio internazionale all'inizio di quest'anno ha aperto un'inchiesta contro il capo della Federcalcio palestinese, Jibril Rajoub, con il sospetto di aver violato il suo regolamento glorificando il terrorismo e incitando all'odio e alla violenza."

3. "Mentre gli Stati Uniti lavorano per migliorare le vite dei palestinesi proponendo una visione economica entusiasmante per il futuro, Fatah minaccia un'intifada, attacchi e 'di bruciare il terreno sotto i piedi dei tiranni.' Che tristezza per quei palestinesi che non sostengono questa bruttezza." Così ha twittato Jason Greenblatt, rappresentante speciale degli Stati Uniti per i negoziati internazionali. Jared Kushner, genero di Trump e suo delegato per questa trattativa, ha reagito più seccamente: "Il presidente ha chiaramente fatto capire ai palestinesi che gli Stati Uniti non hanno alcun dovere di aiutarli e ha anche detto loro che se continuano a criticare la nostra politica, gli aiuti potrebbero fermarsi del tutto, e così è stato". Per chi non l'avesse presente, la parte economica del piano Trump consiste nel fare avere agli arabi di Giudea, Samaria e Gaza circa 50 miliardi di dollari di investimenti, circa 10 mila dollari a persona, assieme, da quel che si capisce, al riconoscimento di uno stato, alla continuità territoriale e a un grande piano internazionale di sviluppo. L'Autorità Palestinese e Hamas non solo hanno respinto il piano facendo il possibile perché fallisse, ma hanno annunciato violenze e terrorismo, Non è affatto detto che il piano garantisca davvero i diritti di Israele, ma Netanyahu ha garantito la massima disponibilità a discuterne costruttivamente. I "palestinesi" invece, ancora una volta non hanno perso l'occasione di perdere un'occasione.

4. A Gaza vi è stata una serie ormai lunghissima di "cessate il fuoco". Il senso è l'impegno delle due parti a cessare il fuoco, che si tratti di razzi, di agguati ai soldati, di aggressioni con bombe volanti, dalla parte araba e delle relative rappresaglie da parte israeliana. Ma dopo ogni "cessate il fuoco", il fuoco ai confini di Israele divampa di nuovo, dato che i terroristi continuano a usare le bombe incendiare volanti. Allora Israele compie rappresaglie di vario tipo, dai bombardamenti mirati su depositi e comandi terroristi, al blocco della pesca, fino all'ultimo blocco dei rifornimenti di carburante per la centrale elettrica di Gaza. E si ricomincia daccapo, con danni crescenti all'economia di Gaza.

Conclusione: se volete capire perché la storia "palestinese" è intessuta di "Nabka" e altre catastrofi, guardate a come continuano a farsi male da soli.

(Progetto Dreyfus, 27 giugno 2019)


Ehud Barak, una nuova variabile in Medio oriente

di Davide Malacaria

 
Ieri l'ex primo ministro israeliano Ehud Barak ha annunciato il suo ritorno nella politica attiva (finora aveva lavorato dietro le quinte), fondando un nuovo partito. Iniziativa che rimescola il gioco politico israeliano e innesta una variabile nuova nella criticità iraniana.
Lo slogan con cui ha intrapreso la nuova ventura è indice del suo programma: "Bisogna abbattere il regime di Netanyahu".
Si presenta dunque come il più strenuo avversario dell'attuale leader. Questa l'apparenza, in realtà la sua discesa in campo può aiutare il premier, che sta attraversando un momento di grave difficoltà, tanto da aver tentato la strada dell'annullamento delle elezioni del prossimo 17 settembre.

 Scompaginare l'opposizione
  Infatti, con la sua discesa in campo, Barak crea difficoltà alle forze di opposizione, proiettate verso una, seppur incerta, vittoria. E a entrambi i partiti di opposizione - di matrice ebraica, ovviamente, non ai partiti arabi -, ovvero il Blue and Withe di Benny Gantz e Yair Lapid e i laburisti.
I primi, che hanno eguagliato i seggi del Likud alle scorse elezioni, vedranno erosi i propri voti da una candidatura tanto autorevole, stante che Barak è l'unica personalità politica israeliana che, per esperienza e scaltrezza, può paragonarsi a Netanyahu.
Gantz non ha solo attratto voti di protesta, ma anche voti di scontenti, anche del Likud, che hanno visto in lui una figura "istituzionale". Consensi, questi ultimi, che potranno dunque spostarsi su Barak, più istituzionale di lui.
Inoltre, la lunga militanza di Barak nel partito laburista gli ascrive parte dei consensi di questi ultimi. Tenendo presente che l'ultimo leader di questo partito, Avi Gabbay, era una sua creatura, si può immaginare quanto dirompente sia la sua nuova avventura politica per lo storico partito della sinistra israeliana, già preda di erosione progressiva (come dimostra il pessimo risultato delle ultime elezioni).

 Un governo Netanyahu-Barak?
  Insomma, l'ex premier israeliano ha le carte per scompaginare le forze di opposizione. E, se si tiene presente la sua spregiudicatezza, non si può escludere che potrebbe usare un esito positivo delle urne anche per correre in soccorso dell'attuale premier.
D'altronde Netanyahu era un suo sottoposto quando egli guidava il Sayeret Matkal, forza d'élite dell'esercito israeliano, e del premier Netanyhau è stato, in passato, ministro della Difesa.
A ipotizzare un governo Netanyahu-Barak, non senza ragioni, è Anshel Pfeffer su Haaretz, e lo stesso Gantz (Jerusalem Post).
Va in tal senso ricordato che nel tentativo - fallito - di formare il governo dopo la vittoria alle ultime elezioni, Netanyahu propose un governo con i laburisti; ipotesi che questi - leader Gabbay (ovvero Barak) - considerarono seriamente prima di rifiutarla.

 Barak e l'attacco all'Iran
  La variabile Barak potrebbe, inoltre, avere un peso nell'attuale crisi iraniana, nel caso si ritrovasse a rivestire incarichi di rilievo (come detto, è già stato ministro della Difesa).
Nella sua autobiografia, My Country, My Life: Fighting for Israel, Searching for Peace, ricorda come fu tenace assertore di un attacco preventivo contro l'Iran.
Un intervento da realizzarsi prima che Teheran raggiungesse la "zona di immunità", ovvero varcasse una soglia ideale che lo rendesse impossibile.
Così tentò più volte di convincere i responsabili della sicurezza e dell'esercito israeliano, trovando contrasto.

 Il niet di Bush
  Ma la sua assertività trovò un ostacolo ancor più irriducibile nel presidente degli Stati Uniti George W. Bush. Di fronte alle sue insistenze, nel 2012, Bush volle "chiarire", in un incontro a porte chiuse, che egli era "fortemente contrario" a un attacco israeliano contro Teheran. "E non lo faremo neanche noi, finché io sarò presidente", concluse, chiudendo definitivamente la questione.
Siparietto che dice tanto: Bush Junior è considerato un guerrafondaio a causa della guerra in Iraq. In realtà, l'inetto presidente, dopo aver subito il colpo di Stato dei neocon nel post 11 settembre, tentò, come poté, di frenarli, come dimostra il retroscena raccontato da Barak.
Va tenuto presente che il niet Usa negò a tale ambito il trionfo che ancora gli sfugge, dato che la guerra all'Iran era e resta l'obiettivo finale del disegno neocon per rimodellare il Medio oriente.

 Variabile da verificare
  Certo, Barak ha infine accolto con favore l'accordo sul nucleare di Obama, come accenna nel suo libro. Ma il ritiro degli Usa da tale intesa da parte di Trump porta la situazione a qualcosa di analogo al 2012.
Detto questo la discesa in campo di Barak è variabile impazzita di uno scontro politico altrettanto impazzito, come ha denunciato alla fine delle ultime elezioni lo stesso presidente israeliano Reuven Rivlin.
Così è da vedere anzitutto se Barak prenderà voti e, se ne prenderà tanti da creare una forza politica, come vorrà spenderli. Spregiudicato com'è, può far tutto e il contrario di tutto.

(Piccole Note, 27 giugno 2019)


Kushner ai palestinesi: "Fidatevi diTrump"

di Giordano Stabile

Palestinesi, «fidatevi di Donald Trump». Il piano economico per il Medio Oriente è in grado di cambiare le regole del gioco e risolvere il suo conflitto più lungo e intricato. La fase politica «arriverà» a suo tempo, quando le due parti saranno «pronte a dire sì». Jared Kushner, nel secondo e conclusivo giorno della conferenza "Pace e prosperità" in Bahrein, cerca di rassicurare tutti gli interlocutori, anche quelli assenti e cioè i palestinesi. La presentazione in Power Point dei cinquanta miliardi di dollari di investimenti previsti per risollevare l'economia nei Territori e nei Paesi vicini non ha impressionato né convinto. Troppe incognite rischiano di azzoppare il piano ancora prima che possa partire.
  Per questo il consigliere speciale alla Casa Bianca si è rivolto ieri ai palestinesi. Ha spiegato che l'Amministrazione ha imboccato una strada nuova e offre loro una «cornice moderna per un futuro brillante e di benessere». I palestinesi non hanno motivi per «non fidarsi» del presidente americano, perché Trump «non ha rinunciato ad arrivare a un accordo complessivo», una soluzione politica «sostenibile». La presenterà al momento giusto, anche se è consapevole che da una delle parti, o da tutte e due, le potrebbe arrivare un rifiuto. La sfiducia palestinese è stata però alimentata ancor più da un controverso editoriale sul New York Times dell'ambasciatore israeliano all'Onu Danny Danon, che ha auspicato la «resa» dei palestinesi e «il suicidio nazionale della loro attuale politica» come precondizione per la pace. Cioè la rinuncia a ogni ambizione di costituire un proprio Stato.

 Il "no" dei palestinesi
  Con queste premesse è chiaro che per il momento l'obiettivo, come ha spiegato ieri Kushner, è al massimo «migliorare le condizioni di vita della gente». Un approccio rifiutato in blocco dai palestinesi, ma criticato anche da alleati arabi più tiepidi con gli Usa, come il Qatar. Questioni decisive, come la sorte di Gerusalemme o di uno Stato palestinesi indipendente, sono state tenute fuori, ma non sono aggirabili. La conferenza a Manama però aveva anche un altro scopo, è cioè quello di portare a un livello superiore le relazioni, per ora clandestine, fra Israele e gli Stati arabi del Golfo. I media israeliani hanno sottolineato soprattutto come per la prima volta i loro reporter sono stati ammessi in un Paese che in teoria non ha relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico. Alcuni israeliani ed ebrei americani, compreso l'inviato speciale della Casa Bianca Jason Greenblatt, sono anche andati a pregare nella piccola sinagoga di Manama, una delle ultime rimaste nel mondo arabo.

(La Stampa, 27 giugno 2019)


Palestina: quei maledetti 50 miliardi di dollari

Il Piano di pace americano ha letteralmente terremotato la dirigenza palestinese. È andato a vedere la carte dimostrando che ai boss di Ramallah e di Gaza del benessere dei palestinesi non interessa nulla.

Per capire cosa vuol dire un aiuto alla Palestina pari a 50 miliardi di dollari, così come proposto dal Piano di Pace Americano, basterebbe fare il paragone con una delle terre più povere del mondo come il Congo.
Andando a vedere (sommariamente) gli aiuti internazionali alla Repubblica Democratica del Congo, intesi come aiuti pro capite, si scopre che fino a ieri, cioè prima del piano di pace americano, la Repubblica Democratica del Congo riceveva poco più di 170 dollari contro gli oltre 3.100 dollari dei cosiddetti palestinesi (il dato si riferisce a qualche anno fa ma nel frattempo la forbice si è addirittura dilatata).
Questo già di suo faceva della cosiddetta Palestina l'entità (perché ancora non è uno Stato) che più di tutti al mondo beneficiava degli aiuti internazionali.
Eppure nonostante la pioggia di miliardi ricevuti durante questi anni, la cosiddetta Palestina rimane estremamente povera e retrograda, con poche infrastrutture e uno sviluppo ai minimi termini....

(Rights Reporters, 27 giugno 2019)


Barak torna in politica. "Bisogna buttare giù il regime di Netanyahu"

Ehud Barak
Ehud Barak è tornato. A 77 anni l'ex generale, ex premier, ex ministro della Difesa ed ex leader del Partito laburista ha annunciato che ritorna in politica. Fonderà un nuovo partito e si candiderà alle elezioni anticipate del 17 settembre. Egli stesso ieri pomeriggio ha annunciato quale sarà la sua missione principale: «buttare giù il regime» di Benjamin Netanyahu.
   Da giorni si parlava del ritorno in politica dell'uomo che è stato il soldato più decorato nella storia di Israele. Un impegno che Barak ha presentato come la necessità assoluta di evitare che Netanyahu, l'uomo col quale è stato per anni al governo e lavorato con grande intesa, consolidi «un regime che è un pericolo per la democrazia di Israele».
   «Nelle ultime settimane sono state superate tutte le linee rosse», dice Barak riferendosi allo scioglimento anticipato della Knesset che Netanyahu ha voluto per impedire che altri candidati soltanto provassero a trovare una maggioranza di governo alternativa alla sua.
   «È in gioco il futuro dello Stato sionista», ha proseguito Barak, che accusa Netanyahu di aver arruolato «razzisti, messianici, falsari dell'ebraismo e dello stesso sionismo».
   Ma c'è un problema, che gli avversari del Likud di Benjamin Netanyahu hanno immediatamente sottolineato. Con il suo rientro in campo, Barak divide ancora di più il campo del centro-sinistra e indebolisce le possibilità di vittoria di "Blu e Bianco", il partito creato da Benny Gantz. «Noi non interferiamo nel modo in cui la sinistra spartisce le proprie forze fra Ehud Barak, Lapide Gantz», dice un portavoce del Likud. In Israele c'è un nuovo giocatore in campo, la partita è aperta. V.N.

(la Repubblica, 27 giugno 2019)


Pinera sul Monte del Tempio, ira Israele

Il presidente del Cile accompagnato da dirigenti palestinesi

La visita di Stato tuttora in corso in Israele e nei territori palestinesi da parte del presidente del Cile Sebastian Pinera è stata turbata da un incidente diplomatico quando ieri l'ospite e la moglie hanno visitato la Spianata delle Moschee di Gerusalemme accompagnati da funzionari palestinesi. La reazione del ministro degli esteri israeliano Israel Katz, scrive il quotidiano Globes, è stata immediata. "Reputiamo grave - ha affermato in un comunicato - l'infrazione della sovranità israeliana sul Monte del Tempio, in particolare quando essa avviene senza il rispetto delle regole e di accordi ben chiari".
"Occorre distinguere - ha aggiunto - fra la libertà di culto a cui Israele si attiene scrupolosamente, più di chiunque altro, e la infrazione della nostra sovranità in quell'area''. Globes rileva che mentre Pinera sarà oggi ospite del premier Benyamin Netanyahu il suo ambasciatore dovrà recarsi al ministero degli esteri dove riceverà una protesta formale.

(ANSAmed, 27 giugno 2019)


Le ferrovie olandesi risarciranno i superstiti dell'Olocausto

Le ferrovie olandesi (Ns) pagheranno un indennizzo ai sopravvissuti dell'Olocausto ebrei, rom e sinti e ai familiari delle vittime, come risarcimento morale per il trasporto dei deportati verso i campi di sterminio nazisti, che allora fruttò alla compagnia l'equivalente di 2,5 milioni di euro. Secondo il sito olandese Nl Times, ad oggi ci sono ancora in vita 500 sopravvissuti, cui spetteranno 15mila euro. Vedovi di ebrei deportati avranno diritto a 7500 euro, così come i figli nati prima dell'8 maggio 1945, giorno della fine della guerra. Per i figli nati successivamente, la somma scende a 5mila euro.
Si stima che 100 mila ebrei olandesi, pari al 70% del totale prima della guerra, siano morti nei campi di concentramento. Fra loro anche Anna Frank.

(la Repubblica, 27 giugno 2019)


L'accordo per il Medioriente declassato, ma l'obiettivo della conferenza è la normalizzazione

La presenza araba al summit dà conto di un processo di avvicinamento che procede speditamente sull'asse Wahington-Riyadh-Gerusalemme

di Umberto De Giovannangeli

 
L'"Accordo" è stato declassato a "Opportunità", comunque del secolo, per i palestinesi. Ma attenzione a non liquidare la conferenza di Manama, come un fallimento. Non è così. Perché in Bahrain, nel summit "Peace to prosperity", la vera posta in gioco, la scommessa strategica, è la normalizzazione dei rapporti tra i Paesi arabi, o comunque una larga maggioranza, e Israele. Una normalizzazione in funzione "anti persiana". La presenza araba al summit fortemente voluto dagli Usa, protagonista il consigliere-genero del presidente Trump, Jared Kushner, dà conto di un processo di avvicinamento che procede speditamente, sull'asse Wahington-Riyadh-Gerusalemme.
  Non è il solo segnale di disgelo. Il ministro degli Esteri del Bahrain, Khalid bin Ahmed al Khalifa, ha parlato con israeliani presenti al summit, esponenti del mondo dell'imprenditori e delle professioni dello Stato ebraico. Ad esempio, lo sceicco ha parlato con il direttore generale dello Sheba Medical Center, il professor Yitshak Kreiss: "Siamo stati piacevolmente sorpresi dall'atmosfera costruttiva e inclusiva alla ricerca di sfide condivise, e abbiamo trovato tutte le parti molto aperte all'imprenditoria e alla cooperazione futura da realizzare il prima possibile", dice ad Haaretz il professor Kreiss. Una conferma di questa atmosfera "costruttiva" viene anche da Aric Tal, il Ceo di Nokia per la regione del Mediterraneo: "Abbiamo lanciato una rete 3G nel 2018 nei territori amministrati dall'Autorità Palestinese e Nokia ha un centro di sviluppo globale che implementa un modello di occupazione in quei territori. Mi è stato chiesto di condividere il modello qui, con l'obiettivo di farne una leva economica nella regione", afferma al quotidiano progressista di Tel Aviv. In questa ottica, ha un valore altamente simbolico la decisione di costruire la prima sinagoga in Bahrain, emirato che, ancora oggi, non ha relazioni ufficiali con lo Stato ebraico.
  Indicativo, in tal senso, un passaggio dell'editoriale del Jerusalem Post, quotidiano vicino al premier israeliano Benjamin Netanyahu, aspramente critico nei confronti della decisione della leadership palestinese di boicottare il summit: "Più di ogni altra cosa, - scrive il JP - Abu Mazen (il presidente dell'Autorità nazionale palestinese, ndr) è contrario a ogni normalizzazione delle relazioni con Israele, un elemento senza il quale la pace sarà impossibile e calma e stabilità resteranno irraggiungibili. Esprimendo il suo disappunto per il fatto che Giordania ed Egitto hanno deciso di partecipare alla conferenza economia nonostante gli appelli palestinesi a boicottarla, Abu Mazen ha proclamato: 'Non ci sarà nessuna normalizzazione tra gli Stati arabi e Israele prima che ci sia una soluzione tra Israele e palestinesi'. Ma Israele ha già accordi di pace sia con la Giordania che con l'Egitto, sebbene sia una pace un po' fredda. Tutti e tre questi paesi devono fronteggiare alcune minacce comuni sia dall'Iran che dai jihadisti islamisti. Il summit nel Bahrain potrebbe costituire un'occasione per migliorare i rapporti fra tutti i Paesi della regione che devono affrontare simili minacce alla sicurezza, e migliorare l'economia di tutti. Il fatto che in passato Israele sia riuscito a firmare accordi di pace con i due Paesi vicini è la riprova che non è Israele che è intrinsecamente contrario alla pace: lo è la dirigenza palestinese, che fa di tutto per evitarla... Più di 135 dei 193 Paesi membri delle Nazioni Unite riconoscono già uno "Stato di Palestina".
  Abu Mazen avrebbe potuto usare il seminario economico nel Bahrain per trasformare questo riconoscimento internazionale in qualcosa di realmente sostanziale, significativo e proficuo. L'83enne capo palestinese deve decidere una buona volta cosa vuole lasciare come suo retaggio: vuole una società migliore, più sicura e più prospera per il suo popolo oppure - per citare di nuovo il compianto diplomatico israeliano Abba Eban - ancora una volta non vuole perdere l'occasione di perdere un'occasione?". Messa in modo più soft, è la stessa convinzione del consigliere-genero di The Donald: ""Per troppo tempo, il popolo palestinese è rimasto intrappolato in uno schema sbagliato del passato: la visione di Peace to Prosperity è una struttura moderna per un futuro più luminoso e prospero, è un'opportunità vera per la pace", ha rimarcato Kushner aprendo, ieri, la due giorni di Manama. Di avviso opposto sono i dirigenti delle due maggiori fazioni palestinesi: Secondo me, tutto quello che dicono è falso. Se raccoglieranno 50 miliardi di dollari, questi andranno nelle tasche di Kushner. I progetti saranno ritardati e provocheranno divisioni nel mondo arabo", afferma Abbas Zaki, esponente di punta di al-Fatah, il movimento nazionalista fondato da Yasser Arafat. "L'accordo del secolo, come lo chiamano loro, mira a tre cose- incalza Ismael Haniyeh, a capo del governo di Hamas a Gaza: prima interrompere la causa palestinese, poi dare il via libera al nemico sionista per espandere la sua occupazione e il suo controllo su tutta la Cisgiordania, infine aprire la porta alla normalizzazione tra i Paesi arabi e l'occupante".
  "Il workshop in Bahrain è l'occasione per lavare i panni sporchi della politica degli insediamenti che legittima l'occupazione", taglia corto Mohammad Shtayyeh, primo ministro palestinese. Nonostante questo fuoco di sbarramento, Kushner usa parole concilianti, affermando che la porta è ancora "aperta" per i Palestinesi. Al tempo stesso, però torna ad accusare l'Autorità Palestinese, che ha boicottato la conferenza, di non aver aiutato il popolo palestinese: "Se vogliono migliorare le condizioni di vita (del popolo palestinese), noi abbiamo presentato un piano formidabile su cui possono impegnarsi", sottolinea, a conclusione dei lavori, il consigliere-genero di The Donald. A dargli manforte è stata anche la direttrice del Fondo monetario internazionale (Fmi), Christine Lagarde, per la quale la crescita economica in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza deve concentrarsi sui posti di lavoro. "Uno degli aspetti davvero buono del piano è identificare alcuni settori, come quello industriale ed economico, che porteranno occupazione", ha affermato Lagarde nel suo intervento al summit di Manama. Per la numero uno dell'Fmi "non può esserci alcun tipo di crescita in Cisgiordania e a Gaza, c'è bisogno di lavoro intensivo". Secondo Lagarde i settori che genereranno molti posti di lavoro sono quelli dell'agricoltura, del turismo e dell'edilizia. "Esiste un piano economico e c'è un'urgenza - ha aggiunto -. Si tratta di assicurarsi che questa iniziativa sia sostenuta". L'Fmi prevede che l'economia palestinese si ridurrà dell'1,6 per cento quest'anno e afferma che la disoccupazione si attesta al 30 per cento in Cisgiordania e al 50 per cento a Gaza. Il summit di Manama fa i conti con un "convitato di pietra": l'Iran. È la penetrazione della mezzaluna rossa sciita in Medio Oriente ad aver portato Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Giordania, Egitto, Marocco a porre in essere un avvicinamento a Israele, con l'attiva collaborazione dell'amministrazione Trump. E contro "il governo più malvagio del mondo", artefice di "guerre e massacri", si è scagliato.
  La Guida suprema iraniana, l'ayatollah Ali Khamenei, nel suo primo intervento pubblico dopo essere stato personalmente colpito delle nuove sanzioni Usa. Khamenei ha assicurato che l'Iran non farà passi indietro di fronte agli insulti e alle false accuse degli americani: "Gli iraniani hanno mostrato la loro dignità e forza non solo negli ultimi mesi ma negli ultimi 40 anni della rivoluzione islamica", ha aggiunto riferendosi alle "sanzioni tiranniche" degli Usa. E non certo conciliante la risposta del presidente Usa: "Una guerra contro l'Iran non durerebbe molto a lungo", dice il capo dell'iper potenza militare mondiale al canale televisivo Fox Business. "Se qualcosa dovesse accadere, siamo in una posizione molto forte, e non durerebbe molto a lungo". Quel "qualcosa "(una guerra) non durerebbe molto a lungo e non parlo di truppe sul terreno", aggiunge il presidente Usa. "La presenza a Manama di Stati del Golfo musulmano sunnita ha mostrato che alcuni vogliono incoraggiare legami più stretti con gli israeliani - con i quali condividono un nemico comune nell'Iran sciita - che sono stati ampiamente 'sotto il tavolo', ma che rappresentano, molto più che una improbabile soluzione della questione palestinese, il vero collante del summit in Bahrain", dice alla Reuters David Makovsky, analista mediorientale statunitense presente a Manama.

(L'HuffPost, 26 giugno 2019)



Firenze, tra musica e libri torna il Balagan Cafè

La settima edizione al via dal 27 giugno

di Maria Cristina Carratu'

Settima edizione del Balagan Cafè al via da giovedì 27 giugno, nel bellissimo giardino della Sinagoga di via Farini. L'ormai tradizionale rassegna estiva, gettonatissima dai fiorentini, organizzata dalla Comunità Ebraica di Firenze in collaborazione con il Comune di Firenze nel quadro dell'Estate Fiorentina, con il contributo della Regione Toscana, propone ancora una volta un ricco programma a base di cultura, musica e gastronomia etnica.
   Tema di quest'anno Il sogno, ''inteso non come illusione ma come ispirazione al cambiamento'', spiega l'artista e musicologo Enrico Fink che ha organizzato la rassegna. ''In tempi di sempre più difficile convivenza, un invito a uscire dagli schemi chiusi e autoreferenziali, dalle gabbie identitarie che vedono nell'altro un nemico, anziché un'occasione di reciproco arricchimento''.
Il Balagan Cafè si tiene come sempre il giovedì dalle ore 19 (fino al 18 luglio, e poi il 5 e il 22 settembre, in coincidenza con la Giornata europea e italiana della cultura ebraica, anch'essa dedicata al Tema del Sogno), con incontri e dibattiti, degustazioni di piatti di diverse tradizioni gastronomiche, e concerto finale.
   Si parte il 27 con l'apericena degli chef Michele Hagen e Jean Michel Carasso ispirata al libro di Miriam Camerini ''Ricette e precetti'', che parla dei rapporti fra cucina e religiosità, seguita (ore 20,30) da una riflessione sulla cultura dei diritti con l'assessore Sara Funaro, e dal concerto ''Culture contro la paura'', con l'Orchestra Multietnica di Arezzo diretta da Enrico Fink e voci da Albania, Russia, Libano, Argentina, Romania, Bangladesh.
   Giovedì 4 luglio (Il sogno e l'arte) ospite d'onore sarà il direttore degli Uffizi Eike Schmidt (Menorah d'Oro 2019 per essersi distinto, nella sua attività, nel contrasto di razzismo e intolleranza), e il quartetto Amitié del Conservatorio Cherubini diretto dal maestro Marco Lorenzini, che eseguirà pagine inedite della liturgia ebraica sefardita livornese. L'11 luglio (Sogni di giustizia, sogni di libertà) Laura Forti presenterà il suo ultimo libro L'Acrobata (ed.Giuntina), finalista al Premio Viareggio, viaggio lungo un secolo fra Russia zarista e Sudamerica delle dittature, con concerto di Lee Colbert, affascinante voce della canzone ebraica, pianista Paolo Cintio. Si chiude il 18 (Sogni a cielo aperto) con Luca Bravi (Università di Firenze) e alcuni giovani delle comunità Rom e Sinti di Firenze e Prato, fra cui un coreografo e uno stilista che parleranno dei loro sogni realizzati, e il gruppo di strada La Van Guardia, chitarrista Fabio Curto. Si riprende il 5 settembre con la Klezmerata Fiorentina e Igor Polesitzky, per concludere il 22 settembre con la Giornata europea e italiana della cultura ebraica.

(la Repubblica - Firenze, 27 giugno 2019)


Russia, Usa e Israele, l'insolito vertice a tre. A Gerusalemme i piani per il Medio Oriente

Sul tavolo le crisi in Siria e Iran. Mosca difende Teheran, ma apre sul ritiro dei Pasdaran da Damasco.

di Giordano Stabile

 
Benjamin Netanyahu tra John Bolton e Nikolai Patrushev
Tre uomini in una stanza dell'Orient Hotel di Gerusalemme che ridisegnano i destini del Medio Oriente, come ai tempi di Sykes e Picot. L'evento, che con tono enfatico Benjamin Netanyahu ha definito "storico", ha in effetti questi contorni. Uno dei tre uomini era lui. Il secondo era John Bolton, consigliere per la Sicurezza alla Casa Bianca, il falco che a volte manda in estasi Donald Trump e a volte lo fa imbestialire. Il terzo, meno conosciuto ma forse ancora più influente, era Nikolai Patrushev, a capo del Consiglio di Sicurezza della Russia, l'uomo che più di ogni altro Vladimir Putin ascolta con rispetto, persino timore. Il Richelieu della nuova Russia imperiale voluta dallo Zar.
   L'incontro all'Orient, il primo del genere, verteva su «Siria e Iran», come ha precisato Netanyahu. Il secondo punto all'ordine del giorno è stato inserito all'ultimo. La crisi nel Golfo ha subito una tale accelerazione che era divenuto impossibile non tenerne contro. Netanyahu era accompagnato dal suo consigliere alla Sicurezza Meir Ben-Shabbat. Ha voluto ringraziare Donald Trump e soprattutto Putin per aver accettato che il summit si tenesse «a Gerusalemme, la nostra capitale». Poi i nodi sono arrivati al pettine.
   Patrushev, uomo del Kgb, ha messo sul tavolo le carte che mostravano come il drone americano abbattuto dai Pasdaran giovedì scorso si trovasse nello spazio aereo iraniano. «Hanno ragione loro», ha affermato lapidario. Erano ore roventi. Gli iraniani avevano reagito in blocco alle sanzioni imposte da Trump sulla guida suprema Ali Khamenei, «un affronto», e sul ministro degli Esteri Jawad Zarif, «uno schiaffo alla diplomazia». Il presidente Hassan Rohani aveva detto che gli Usa «mentivano» quando volevano trattare e che la porta del negoziato «era chiusa per sempre». Il capo della Casa Bianca ha risposto che se l'Iran avesse attaccato «qualsiasi» obiettivo americano «sarebbe stato annientato» e che gli iraniani non conoscevano la parola «gentilezza» ma soltanto «la forza e il potere». Toni da guerra imminente.
   Bolton, davanti a Patrushev, ha assunto gli inconsueti panni da colomba. Ha detto che la porta delle trattative «restava aperta» e che toccava all'Iran decidere di «varcarla». Ma il primo scambio fra Bolton e Patrushev nasconde uno scenario più complesso. Sul tavolo c'è la richiesta israeliana di ritiro delle forze iraniane dalla Siria. Mosca, benché alleata di Teheran, l'ha incoraggiata. Ma deve dare qualcosa in cambio alla Repubblica islamica. Una sua linea-rossa». E cioè che la sovranità dell'Iran «non si tocca» e che non farà mai la fine dell'Iraq di Saddam Hussein. Posto questo paletto, di tutto il resto si può discutere, compreso il ritiro dei Pasdaran da Damasco, purché Bashar al-Assad resti al suo posto.
   Un punto, quest'ultimo, che Netanyahu è disposto ad accettare. A sua volta, però, il premier israeliano vuole altre concessioni. Sulla sovranità sul Golan, su Gerusalemme capitale, e anche sul piano di pace americano destinato a seppellire le ambizioni di uno Stato per i palestinesi, come ieri ha ammesso Jared Kushner. I primi passi del riassetto mediorientale sono stati accompagnati dall'altra riunione della giornata, la Conferenza Pace e Prosperità in Bahrein. Un summit declassato a livello di ministri delle Finanze, ma che mette sul piatto 50 miliardi di dollari, 27,5 peri Territori, gli altri a Libano, Egitto, Giordania, e «un milione di posti di lavoro». Il presidente Abu Mazen ha boicottato la riunione, perché non «si vende Gerusalemme». I giornalisti israeliani, per la prima volta invitati nel Golfo, hanno però sottolineato come a Manama ci fossero «decine di imprenditori palestinesi», molto interessati.

(La Stampa, 26 giugno 2019)


L'Iran non si adegua alle norme anti-riciclaggio e resta nella blacklist 
      Articolo OTTIMO!


La Repubblica Islamica non vuole (e non può) cambiare

Il 21 giugno, a conclusione del suo meeting plenario ad Orlando (Usa), il FAFT - Financial Action Task Force - ha deciso di reimporre tutte le restrizioni nei confronti dell'Iran, che erano state sospese nell'ottobre del 2016 nella speranza che la Repubblica Islamica si conformasse alle normative internazionali contro il riciclaggio di denaro.
   Così non è stato. Ovviamente, aspettatevelo, vi racconteranno che si tratta di una decisione politica, frutto delle pressioni di quel cattivone di Trump. Peccato che la verità, come accade spesso ormai, è ben diversa. A dimostrarlo sono i fatti e non i commenti.
   Nel giugno del 2016 Teheran aveva accettato il "piano d'azione del FATF", per avviare un processo che avrebbe dovuto portare la Repubblica Islamica a conformarsi alla Convenzione di Palermo contro il riciclaggio di denaro a scopi terroristici. Su questi presupposti, nell'ottobre del 2016, il FATF sospendeva il suo giudizio sull'Iran, congelando la presenza di Teheran nella blacklist dell'organizzazione intergovernativa.
   In questi due anni, il regime iraniano non è riuscito a produrre praticamente nulla di concreto. Il
La riforma prevista dal Parlamento di Teheran prevedeva che non venisse considerato terrorismo il sostegno ad organizzazioni che lottano "contro il colonialismo e il dominio straniero".
Parlamento iraniano, per ben due volte, ha approvato una riforma del sistema bancario che lo stesso FATF ha giudicato insufficiente. La riforma prevista dal Parlamento di Teheran, infatti, prevedeva che non venisse considerato terrorismo il sostegno ad organizzazioni che lottano "contro il colonialismo e il dominio straniero". In pratica, con questa scorciatoia, il regime iraniano pretendeva di continuare a finanziare liberamente i suoi proxies, senza considerarli gruppi terroristici. Ovviamente, al FATF non ci sono cascati e hanno chiesto subito una modifica della legge.
   Non basta: nonostante la legge approvata dal Parlamento iraniano fosse sbagliata, il regime si è diviso al suo interno. Il Consiglio dei Guardiani ha per ben due volte rigettato la legge, ritendendola contro gli interessi nazionali. Lo scontro è arrivato quindi al Consiglio del Discernimento - organo creato per dirimere le controversie tra Parlamento e Consiglio dei Guardiani. Il Consiglio per il Discernimento, in questi mesi, non è stato in grado di prendere alcuna decisione definitiva, ma diversi dei suoi esponenti, hanno espressamente preso le parti del Consiglio dei Guardiani (tra loro i Pasdaran Mohsen Rezaee e Ahmad Vahidi).
   Cosa dimostra tutto questo? Dimostra quello che era chiaro a tutti: il regime iraniano non può - e non potrà mai - rinunciare al sostegno al terrorismo internazionale. Sostenere organizzazioni come Hezbollah,
l regime iraniano non può - e non potrà mai - rinunciare a sostenere il terrorismo internazionale.
Hamas, la Jihad Islamica, le milizie sciite in Siria e Iraq, non è un vizio dei chierici iraniani, ma una parte integrante della politica estera della Repubblica Islamica. Lo è sotto il profilo ideologico - perché dovere dei Pasdaran non è solo quello di difendere la Repubblica Islamica, ma anche di esportare la rivoluzione khomeinista - e lo è sotto il profilo militare - perché l'Iran manca totalmente di un esercito nazionale moderno e all'avanguardia.
   Una mancanza, anche questa volta, che non è frutto del caso, ma di una precisa strategia dell'establishment iraniano dopo il 1979: indebolire le strutture tradizionali del Paese, a favore di quelle parallele, in questo caso delle Guardie Rivoluzionarie, fedeli non all'Iran in quanto tale, ma alla Repubblica Islamica khomeinista. Per questo motivo, i Pasdaran non sono presenti solamente in ogni ambito militare e scientifico (in primis nucleare e missilistico), ma anche in tutti i settori economici del Paese.
   Ecco perché, in tutti questi anni, tutti i veri conoscitori dell'Iran, hanno chiaramente sostenuto che pensare di fare affari puliti con la Repubblica Islamica, è praticamente impossibile. Nessuno, infatti, è in
Pensare di fare affari puliti con la Repubblica Islamica, è praticamente impossibile.
grado di garantire una due diligence nei rapporti economici con l'Iran, perché nessuno è in grado di capire veramente se, il businessman iraniano che ha davanti, è veramente un imprenditore privato o una testa di legno dei Pasdaran.
La realtà è quindi una sola: chi ha sostenuto la necessità di fare accordi economici con l'Iran, lo ha fatto accettando l'idea di fare anche accordi con i Pasdaran (pur non dicendolo espressamente). Non è un caso che, diversi cosiddetti "esperti" di Iran, si siano schierati apertamente contro l'inserimento delle Guardie Rivoluzionarie nella lista delle organizzazioni terroristiche voluto dal presidente Trump. Una decisione quasi banale - per quanto importantissima - visto che i Pasdaran non solo sostengono organizzazioni come Hezbollah e Hamas, ma hanno da sempre intrattenuto rapporti anche con al-Qaeda (a cui hanno concesso un lasciapassare sul territorio iraniano e a cui hanno garantito, con la collaborazione palestinese, armi e addestramento).
   La decisione del FATF quindi è la naturale conseguenza della natura del regime iraniano. Per uscire veramente dalla blacklist del FATF quindi, all'Iran - prima delle norme - serve cambiare completamente la sua politica estera aggressiva e violenta. Un cambiamento necessario, l'unico veramente valido per poter finalmente pensare di accettare nuovamente l'Iran nella comunità internazionale con tutti gli onori che la storia di quel Paese meriterebbe.

(Atlantico Quotidiano, 26 giugno 2019)



Tutti i vantaggi del piano Trump per il Medio Oriente. Parla Nirenstein

di Francesco De Palo

 
Fiamma Nirenstein
La giornalista e scrittrice perimetra l'accordo proposto da Kushner e Greenblatt, ma non manca di ricordare lo "storico" dei palestinesi: presenti ai vertici ma poi registi di nuova intifada

I palestinesi? Non vogliono un accordo che non gli conviene, perché le loro leadership verrebbero distrutte: Abu Mazen, che doveva restare ai vertici per cinque anni e invece ne sono passati già quindici; e Hamas che è un'organizzazione terrorista esplicitamente nazista e devota alla distruzione degli ebrei.
Questa la posizione di Fiamma Nirenstein, giornalista e scrittrice (12 i libri all'attivo), già deputata per il Popolo della Libertà e vicepresidente della Commissione Affari Esteri. Attualmente è Senior researcher presso il noto think tank israeliano Jerusalem Center for Public Affairs (Jcpa) e nel 2011 è stata inserita nella lista, che ogni anno compila il quotidiano Jerusalem Post, dei "50 ebrei più influenti del mondo". Formiche.net l'ha raggiunta a Gerusalemme per analizzare il piano di Trump per il Medio Oriente.

- L'inviato di Kushner e Trump, Jason Greenblatt, sta cercando un accordo che possa sbloccare le proprietà per i palestinesi e la sicurezza per Israele. Come giudica questo piano?
  Innanzitutto è molto interessante che Trump e i suoi inviati, che lavorano da un biennio a questo piano, abbiano cercato di rovesciare il paradigma di ieri che non ha funzionato, ovvero quello di trovare prima un accordo territoriale e solo dopo avventurarsi in una definizione economico/istituzionale. Quell'idea di ieri fallisce come dimostrano tutti gli incontri grandiosi che ci sono stati, a partire dall'accordo di Oslo, passando da quello tra Obama e Arafat, a Clinton, a Olmert. Non c'è stato tentativo di trovare soluzioni territoriali che non abbia trovato non solo il diniego ma anche lo scatenamento terroristico da parte dei palestinesi.

- Con quale risultato?
  Vorrei ricordare che subito dopo il più grande tentativo di un accordo, quello che metteva nelle mani dei palestinesi tutta Gerusalemme est e gran parte della città vecchia, scoppiò la seconda intifada provocando quasi duemila morti israeliani. Non funzionò perché il mondo palestinese, impregnato di pulsioni islamistiche, di una corruzione imperante che mantiene al potere un'élite molto violenta, era dominato da slogan massimalisti che incitano alla sparizione dello Stato di Israele. Ovvero senza concepire nulla che assomigli ad un accordo, tanto è vero che Netanyahu li ha invitati in moltissime occasioni a tornare al tavolo di pace ma senza successo.

- Anche stavolta dicono di no…
  È per questo che Trump ha pensato di incrementare il desiderio popolare dei palestinesi in una generale normalizzazione di rapporti col mondo sunnita. Israele ha ormai un buon rapporto con tutti i paesi sunniti, Egitto, Arabia Saudita, Giordania in virtù di un nemico comune da affrontare: l'Iran e la sua politica imperialista così larga, che si è sviluppata in Libano con la presenza di Hezbollah, oltre che in Siria, Iraq e Yemen. Tutto ciò suscita nel mondo sunnita l'idea che più importante della questione palestinese è quella della loro stessa sopravvivenza, a fronte dell'imperialismo sciita. Di conseguenza si è creata una situazione in cui Trump ha fatto una scelta molto razionale, incastonando la pace nel mondo palestinese in un progetto complessivo di pace mediorientale.

- C'è il rischio di scontrarsi con un nuovo negazionismo?
  Sì, e proprio nelle ore del summit di Manama. Va detto che mentre da una parte i palestinesi chiedono continuamente finanziamenti a Ue e Usa, dall'altra Israele prevede una apposita percentuale di tasse da destinare loro, che Abu Mazen ha rifiutato perché ne vuole di più e al contempo lamenta uno stato di miseria.

- Nel progetto si legge che la costa marina di Gaza, 40 chilometri sul mare mediterraneo, potrà diventare una moderna città metropolitana sul mare, come Beirut, Lisbona, Rio de Janeiro, Singapore e Tel Aviv: basterà?
  50 miliardi di dollari rappresentano una cifra gigantesca, perché il piano prevede una serie di passaggi nel vero interesse dei palestinesi. Questa congiunzione viaria è un elemento che i palestinesi desiderano: qui si vede anche la determinazione di Israele a servire i loro interessi. Verrà anche creato un anello di aiuto nella gestione, che mi sembra il passaggio più importante, da parte dei paesi arabi in modo che vi sia una garanzia affinché quel denaro non finisca nelle tasche dei corrotti o dei terroristi.

- Il piano promette anche di "investire sul capitale umano" di Gaza e del West Bank: in che modo?
  Stabilire almeno un'università che sia fra le prime 150 del mondo, ridurre la mortalità infantile da 18 a 9 anni, allungare l'aspettativa di vita da 74 a 80 anni. Ma i palestinesi anziché andare a vedere di che si tratta e magari dire anche alcuni sì all'interno di una posizione di pacata discussione, ecco che preferiscono inveire come una specie di protuberanza della guerra fredda, vezzeggiati e accettati nelle loro narrative più volgari a cui nessuno dovrebbe dare ascolto: quella che non punta a due Stati per due popoli, ma alla distruzione dello Stato ebraico. E così vanno in piazza a bruciare le foto di Trump e Netanyahu, puntando sul fatto che una generale antipatia nei confronti di Trump li aiuti a produrre una sconfitta del governo Usa, in modo che alle prossime elezioni possa vincere un altro Obama.

- Da queste colonne Andrea Margelletti ha detto che il piano è completamente privo di ogni senso, perché prevede una soluzione economica ad un problema prettamente politico. È d'accordo?
  Privo di senso è voler riproporre un'altra volta una soluzione territoriale, dato che i palestinesi non ne hanno accettata nessuna. I summit di Camp David, Washington e Annapolis ci ricordano che i palestinesi sono stati presenti ai tavoli ma poi hanno ripreso l'intifada. Cosa ci può essere di più esplicito? Loro non vogliono un accordo che inoltre non gli conviene, perché le loro leadership verrebbero distrutte. Penso ad Abu Mazen, che doveva restare ai vertici per cinque anni e invece ne sono passati già quindici, o agli assassini di Hamas che sono un'organizzazione terrorista esplicitamente nazista e devota alla distruzione degli ebrei.

(formiche, 26 giugno 2019)


La mostra - "Italia ebraica, una trama a colori"

 
La lavorazione dei tessuti è tra le più antiche forme d'arte e, in campo ebraico, fin dai tempi biblici i tessuti sono stati presenti e protagonisti.
   Nel bene e nel male, nelle vicende di compiuta integrazione ma anche in quelle di maggior criticità, l'arte del tessuto si è imposta come perno espressivo e come testimonianza imprescindibile di vitalità e costituisce oggi una chiave di lettura preziosa per comprendere secoli e millenni di storia.
   La mostra "Tutti i colori dell'Italia ebraica. Tessuti preziosi e stoffe dall'antica Gerusalemme al prêt-à-porter moderno", curata da Dora Liscia Bemporad e Olga Melasecchi (direttrici rispettivamente dei Musei ebraici di Firenze e Roma) e inaugurata quest'oggi nelle Gallerie degli Uffizi, ne è un efficace esempio. Un percorso che dagli ornamenti del Tempio di Salomone accuratamente descritti nella Bibbia ci porta fino a Emanuele Luzzati, Maestro del disegno contemporaneo, ottenendo la ribalta prestigiosa del più importante museo italiano.
   "Siamo di fronte a una rassegna di amplissimo respiro su un tema mai affrontato prima in una grande mostra e che già da tempo meditavo di realizzare, finché gli Uffizi e un gruppo di specialisti d'eccezione lo hanno reso possibile" racconta il direttore delle Gallerie Eike Schmidt. Un'occasione di conoscenza rara, con il visitatore che - afferma il padrone di casa - "rimarrà sorpreso dalla varietà e ricchezza degli oggetti esposti, spesso mai visti prima, che spaziano dai solenni parati liturgici ai doni diplomatici, dagli abiti ai ricami, dai ritratti al prêt-à-porter e molto altro". Per Schmidt queste sono "le fitte, preziose trame del popolo ebraico in Italia".
   Sacro e profano, storia di un popolo e cronaca familiare. Un intreccio che disegna trame "che trovano il filo conduttore nella predilezione per questi manufatti, rivelandoci inoltre le ragioni per cui spesso gli ebrei ne furono e ne sono collezionisti esperti e studiosi competenti".
   "I preziosi paramenti cerimoniali - spiega Dario Disegni, presidente della Fondazione Beni Culturali Ebraici in Italia - rappresentano una delle poche forme di espressione artistica che la popolazione ebraica ha potuto praticare direttamente e ci rammentano le rigide restrizioni a cui essa fu soggetta all'epoca dei ghetti, quando il commercio di stracci e tessuti usati costituiva una delle pochissime attività consentite agli ebrei. Quest'antica consuetudine si tradusse poi, con l'emancipazione, nel collezionismo di opere tessili, nonché nell'imprenditoria e nel design di questo settore". Grazie alla mostra, ha poi osservato Disegni, "si ricongiungono opere affini per tecnica, epoca o provenienza, che nel tempo sono tuttavia andate smembrate tra le collezioni di prestigiosi musei in tutto il mondo". Con l'occasione inoltre unica offerta ai depositi delle comunità italiane di dar visibilità "a opere straordinarie, tuttora vissuta, talvolta inedite e talaltra appositamente restaurate". Otto le sezioni in cui è suddivisa la mostra, che nel comitato scientifico ha potuto contare anche sul supporto di Alberto Boralevi, Alessandra Di Castro e rav Amedeo Spagnoletto, che partono dai tempi del sommo sacerdote Aronne e arrivano fino alla moda del Novecento e dell'imprenditoria tessile moderna, passando da temi quali il ruolo della scrittura come motivo decorativo, l'utilizzo dei tessuti per gli addobbi delle sinagoghe, il ricamo come lavoro segreto e il ruolo della donna. E poi il tessuto come forma di affermazione sociale degli strati più abbienti delle comunità ebraiche, che non esitarono ad apporre stemmi negli arredi per le sinagoghe, i legami commerciali e familiari con i paesi del Mediterraneo, e le conseguenti contaminazioni nello stile dei manufatti.
   Circa 140 le opere esposte tra arazzi, stoffe, addobbi, merletti, abiti, dipinti e altri oggetti di uso religioso e quotidiano. Ad emergere, viene spiegato, "un ebraismo attento alla tradizione, ma anche giocoso, colorato, ricco di simboli".
   "Dopo le poche esposizioni promosse per intenti propagandistici prima della seconda guerra mondiale - sottolineano le curatrici - i tessuti non sono mai stati in primo piano e, se esposti, subordinati ad altre categorie, pittura e scultura in primis, a meno che non si trattasse di grandi cicli di arazzi ritenuti da sempre tangenti alle arti maggiori. Qui per la prima volta i tessuti, e in particolare quelli ebraici, sono protagonisti di una esibizione accolta negli ambienti delle Gallerie degli Uffizi". Un percorso, quello realizzato, "che non solo valorizza l'indubbia bellezza degli intrecci e dei ricami in quanto oggetti d'arte, ma che li contestualizza nella loro tradizione biblica, li interpreta dal punto di vista iconografico, li analizza nelle loro strutture e decorazioni all'interno della storia degli ebrei italiani, che dei tessuti furono anche importanti collezionisti, fino ad arrivare ad alcune delle maggiori firme nel campo della moda".
   Più di un pensiero è andato a Daniela Di Castro, indimenticabile direttrice del Museo ebraico romano che per prima ebbe l'idea di un'esposizione di questo genere. Un impegno proseguito nel suo nome dalla sorella Alessandra, presidente della fondazione dedicata al museo capitolino. "Oggi viviamo una grande emozione, per una mostra che toglie il fiato" le parole di Ruth Dureghello, presidente della Comunità ebraica di Roma. "È una giornata - ha poi aggiunto - che voglio dedicare alla memoria di Daniela Di Castro, una figura che per tutti noi, ebrei e non, ha rappresentato tantissimo. Quando iniziò a pensare a un progetto del genere, credo che mai si sarebbe immaginata una concretizzazione del genere. Un traguardo davvero significativo".
   Tre anni di lavoro a monte, ha spiegato Dureghello, "per un'idea trasformatasi in meravigliosa realtà, con il contributo sempre prezioso di chi ha collaborato a questo straordinario risultato".

(moked, 26 giugno 2019)


La star della sinistra americana spara scemenze sulla Shoah

La Ocasio-Cortez dice che per i profughi ci sono dei lager. Un ebreo sopravvissuto all'Olocausto protesta e la invita ad Auschwitz. Lei gli dà dell'amico dei neonazisti.

di Daniel Mosseri

Alexandria Ocasio-Cortez
È l'astro nascente del partito democratico. Giovane, brillante e anche molto alla moda, la democratica Alexandria Ocasio-Cortez rappresenta da inizio anno il 14o distretto di New York alla Camera dei Rappresentanti. Molti dicono di lei che farà carriera e sarà interessante capire se la signora Ocasio-Cortez dovrà mettere da parte una certa disposizione alle gaffe ogni volta che tratta temi legati all'ebraismo o a Israele. Giorni fa, con un video via Instagram la matricola democratica se l'è presa con «l'amministrazione fascista che ha organizzato campi di concentramento sul confine meridionale», in riferimento ai centri di detenzione dei migranti in arrivo dal confine con il Messico. Le parole di Ocasio Cortez non sono piaciute allo United States Holocaust Memorial Museum che ha respinto «i tentativi di creare analogie fra la Shoah e altri eventi passati o contemporanei». Poi è intervenuto il sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti Edward Mosberg. Nato in Polonia 93 anni fa, scampato a diversi lager e oggi cittadino Usa residente nel New Jersey, Mosberg ha invitato la congresswoman democratica ad accompagnarlo al complesso di Auschwitz-Birkenau, «una visita che dovrebbe essere obbligatoria per ogni parlamentare americano» ha detto l'anziano ebreo. Un invito sostenuto dalla fondazione "From the Depths" ( cioè De Profundis) e dal deputato repubblicano Steve King dell'Iowa - «ho visitato Auschwitz ed è stata un'esperienza molto profonda: ti prego di accettare il loro invito».

 Il rifiuto
  Invito che la deputata ha rispedito al mittente, via Twitter, senza tanti complimenti. «L'ultima volta che siete partiti per un viaggio del genere vi siete incontrati con gruppi neonazisti austriaci per uno scambio di vedute. Quindi dovrò declinare l'offerta. Ma grazie per aver rivelato a tutti quanto trasparentemente l'estrema destra manipola questi momenti per guadagno politico». Una reazione che ha lasciato basito Mosberg: «Ho 93 anni e come la maggior parte degli altri sopravvissuti non potrò continuare a fare questi viaggi ancora a lungo». Parlando al Jerusalem Post, il direttore di "From the Depths" Jonny Daniels ha detto che la deputata è male informata e ha una scarsa conoscenza della Shoah, «ma spero possa cambiare idea».
   Benché giovane, la deputata newyorchese di origini portoricane è una veterana della gaffe. Lo scorso marzo un gruppo di deputati ha criticato come antisemite le osservazioni della collega Ilhan Omar - democratica di origine somala e fede islamica col velo sul capo - secondo cui gli attivisti pro- Israele sono dei traditori degli Usa.
   Ocasio-Cortez ha subito difeso la compagna di partito, soffiando sul fuoco della rivalità interetnica: «Duole constatare che si rimprovera Ilhan con una forza che nessuno applica quando vengono fatte dichiarazioni sui latini o altre comunità». Un modo poco velato di dire che gli ebrei sarebbero privilegiati. Forse è proprio per combattere questo presunto privilegio che la deputata democratica in passato ha anche rilanciato i tweet di un aperto sostenitore del Fronte popolare per la Liberazione della Palestina, sigla terrorista messa all'indice sia negli Usa sia nell'Ue. In un'intervista dello scorso luglio con il canale Pbs, Ocasio-Cortez criticò «l'occupazione israeliana della Palestina» salvo confessare di «non essere un'esperta» quando l'intervistatrice le chiese di spiegarsi meglio. Allora forse si trattò di inesperienza della più giovane donna mai eletta al congresso. La recidiva risale invece allo scorso aprile quando Ocasio-Cortez ha partecipato a un raduno di American Muslims for Palestine, ritenuta la succursale Usa di Hamas.

(Libero, 26 giugno 2019)


Registi, ricercatori, politici al festival «Ebraica»

di Roberta Petronio

 
(da sin.) Ariela Piattelli, Katharina Kubrick, Antonio Monda con la moglie Jacqueline Greaves, Lucia Borgonzoni, Ruth Dureghello e Raffaella Spizzichino
ROMA - Con «Ebraica» nello Spazio. La dodicesima edizione del Festival Internazionale di Cultura sceglie «l'ultima frontiera, in coincidenza con l'anniversario della conquista della luna. Ieri al Palazzo della Cultura, la conversazione «Stanley and Me» tra Antonio Monda, direttore artistico della Festa del Cinema di Roma, e Katharina Kubrick, figlia del grande regista di «2001. Odissea nello spazio». Ricordi, clip e proiezione del film cult, dopo l'incontro «Living on Mars» condotto da Franco Di Mare, con un'altra testimone interessante: l'imprenditrice spaziale israeliana Reut S. Abramovich, ( dirige la Desert Mars Analog Ramon Station, dove si simula la vita su Marte). Il lungo pomeriggio di incontri si conclude nei Giardini del Tempio, con 150 invitati al Sushi Kasher Roman Dinner: tradizione e innovazione nella cucina giudaico-romanesca (nel menu, crocchette di riso giapponese con patate e pecorino romano). Insieme ai curatori Ariela Piattelli, Marco Panella e Raffaella Spizzichino, la presidente della Comunità ebraica di Roma Ruth Dureghello (al secondo mandato), il sottosegretario Lucia Bergonzoni, il regista Stefano Landini, il presidente Cnr Massimo Inguscio, il presidente Arsial Antonio Rosati.

(Corriere della Sera - Roma, 26 giugno 2019)


Nobile seducente kasher

Il vino di Montepulciano prodotto secondo dettami della religione ebraica

di Andrea Settefonti

Il vino Nobile di Montepulciano è adatto alle rigide regole delle religione ebraica. La Vecchia Cantina ha, infatti, in produzione una linea di vino kasher yayin mevushal, ossia pastorizzato, che può essere servito a tavola anche da non ebrei (gentili) e molto apprezzato dai più ortodossi. viene esportato anche in America. «Il vino kasher non deve essere stato prodotto né toccato da non-ebrei (gentili), ma nel caso in cui venga bollito si dice yaytri mevushal e resta kasher anche se viene toccato da un gentile. Il vino viene pastorizzato e poi immediatamente raffreddato e riportato a temperatura ambiente (18 gradi), in modo da non compromettere profumo e aroma», spiega il presidente della Vecchia Cantina, Andrea Rossi, una realtà che conta 400 soci, mille ettari vitati e una produzione di 5 mln di bottiglie, delle quali 1,2 mln di Nobile di Montepulciano. «Quella di vino yayin mevushal è una piccola produzione di 120mila bottiglie per l'annata 2019, tra vino Nobile, Rosso di Montepulciano, Chianti e Toscana Igt.
   Una volta all'anno, in occasione della vendemmia, i rabbini vengono in vigna, poi i loro tecnici seguono la vinificazione e controllano la produzione. È una quantità piccola in termini di volumi, ma apre a mercati importanti». Il vino è un elemento fondamentale della religione ebraica, poiché viene utilizzato ritualmente durante i pasti dello Shabbat (il sabato di riposo e preghiera), Pesach (Pasqua Ebraica, durante la quale si consumano quattro calici di vino) e Purim, una celebrazione allegra dove ci si traveste. E gli adulti bevono vino fino ad ubriacarsi, mentre normalmente è prescritta la moderazione. La produzione di vino kasher rappresenta un mercato da 28 mln di dollari, in cui a farla da padrone sono i produttori di Francia, California, Italia e ovviamente Israele.
   Al primo posto per produzione europea di vino kasher è la Francia, dove circa il 25% degli ebrei (200-250 mila persone) ne consuma; il suo prezzo è circa il 30% più alto rispetto al corrispettivo non kasher. In Italia sorgono nuove cantine dedicate al kosher; attualmente sono circa una trentina. Vecchia Cantina di Montepulciano rappresenta il 30% del vino Nobile e il 50% del Rosso. Nata nel 1937, lavora circa 80mila quintali di uva all'anno. Dei 60mila ettolitri di vino prodotti, il 55% finisce sul mercato interno, mentre il 45% è destinato all'esportazione, in particolare verso Usa, Europa ed Estremo Oriente.

(ItaliaOggi, 26 giugno 2019)


Il Presidente Rivlin chiede che gli ebrei della diaspora abbiano più voce in Israele

di Paolo Castellano

Il Presidente israeliano Reuven Rivlin
«Critiche oneste? Critiche amiche? Sì. Delegittimazione di Israele? No!». Così il presidente dello Stato ebraico Reuven Rivlin ha parlato alla Conferenza Internazionale contro l'antisemitismo e la campagna del BDS del 20 giugno. All'evento, che si è svolto a Gerusalemme, hanno partecipato 350 persone da 30 paesi diversi.
Come riporta il Jerusalem Post, le dichiarazioni di Rivlin sul crescente antisemitismo e a favore delle legittime critiche all'operato del governo israeliano da parte delle comunità ebraiche della diaspora hanno innescato un fragoroso applauso in sala.
«Il governo di Israele deve migliorare nell'ascoltare le vostre rimostranze», la frase di Rivilin indica tuttavia che gli ebrei della diaspora non hanno fatto grandi progressi con i loro rappresentanti all'interno del governo israeliano.
Il presidente dello Stato ebraico ha poi ringraziato i partecipanti per il loro impegno nell'intensificare e allargare la cooperazione nella lotta contro il BDS, che "non cerca la pace" né vuole aiutare i palestinesi.
«Il BDS cerca di delegittimare totalmente l'esistenza di Israele», ha dichiarato Rivlin, sottolineando che esistono oggi degli strumenti che devono essere utilizzati nei tribunali, nelle riunioni, nella società civile, sui social media, nelle scuole e nelle stanze del potere. L'impegno delle organizzazioni che combattono l'antisemitismo deve essere allora rivolto verso quei gruppi come il BDS che "diffamano col sangue" lo Stato israeliano. L'obiettivo è quello di bandire l'odio e la discriminazione.
Il presidente Rivlin ha poi ribadito che Israele non ha nessun problema con le critiche costruttive quando sono rivolte a una serie di preoccupazioni legate alla sicurezza e alle politiche sociali della nazione. Rivlin ha poi detto che le critiche sono ancora più significative se provengono dall'ebraismo della diaspora.
Rivlin ha inoltre fatto delle considerazioni sui movimenti politici che appoggiano le campagne di boicottaggio. Egli ha infatti affermato che troppo spesso i partiti di sinistra cercano di celare il loro antisemitismo con argomenti anti-sionisti: «Tentano di presentare i loro appelli al boicottaggio come un'azione progressista. Non c'entra nulla il progressismo con l'antisemitismo».
Oltre l'antisemitismo a sinistra, bisogna "mostrare nessuna tolleranza per l'antisemitismo dei partiti di destra, anche quando proviene da coloro che dichiarano di ammirare Israele".
«Dicono di ammirare Israele, ma disprezzano gli ebrei. Un attacco a uno di noi è un attacco a tutti noi», ha specificato Rivlin.

(Bet Magazine Mosaico, 25 giugno 2019)


In Germania caccia alla kippah in 24 ore di ordinario antisemitismo

Tre aggressioni ad Amburgo, Berlino e Düsseldorf

ROMA - Il mese scorso Felix Klein, delegato del governo tedesco per la lotta all'antisemitismo, ha scioccato la Germania con queste parole: "Gli ebrei farebbero bene a non indossare la kippah in qualsiasi momento". Il ministro dell'Interno bavarese, Joachim Herrmann, aveva risposto: "Tutti dovrebbero potere indossare la kippah, ovunque". Poi è stata la volta del ministro dell'Interno federale, Horst Seehofer: "Lo stato deve garantire l'esercizio della propria fede in ogni luogo". Infine, il ministro degli Esteri Heiko Maas: "Nessuno dovrebbe mai più nascondere le proprie origini ebraiche". Dure critiche erano arrivate a Klein anche da Israele tramite il suo presidente, Reuven Rivlin, che ha parlato di "resa" all'antisemitismo.
Pochi giorni fa il presidente, Frank-Walter Steinmeier, aveva dichiarato al Collegio degli studi ebraici di Heidelberg che il paese doveva fare di più per far sentire al sicuro la propria comunità ebraica. Purtroppo, la cronaca tedesca delle ultime 24 ore sembra dare ragione al pessimista Klein.
   La polizia tedesca ha arrestato un marocchino accusato di avere minacciato, insultato e sputato a due ebrei nella città settentrionale di Amburgo. Shlomo Bistritzky, il rabbino capo di Amburgo e il membro della comunità ebraica locale Eliezer Noe, erano appena usciti da un incontro con il sindaco Peter Tschentscher nel municipio. Bistritzky ha dichiarato al quotidiano Abendblatt di Amburgo che l'uomo aveva detto loro "shalom". "Poi ha detto qualcosa che sembrava minaccioso. Lo abbiamo affrontato e gli abbiamo chiesto cosa avesse detto. Da sotto la maglietta ha tirato fuori qualcosa e ha iniziato a minacciarci verbalmente". Bistritzky ha spiegato ad Abendblatt che "non avrebbe mai pensato che una cosa del genere potesse accadere ad Amburgo, figuriamoci in questo posto. E' un brutto segno che l'aggressore sia stato rilasciato dopo due ore". Poco dopo un turista americano veniva picchiato in un parco nel distretto dì Steglitz, a Berlino. Un uomo ha chiesto al ragazzo quale fosse la sua religione. Quando ha risposto che era ebreo è stato colpito con un pugno in faccia. Un anno fa, nella capitale tedesca, erano stati segnalati 951 episodi antisemiti. Quello nel parco di Steglìtz arriva pochi giorni dopo che un altro ragazzo è stato attaccato nel distretto di Prenzlauer Berg, sempre a Berlino, per avere indossato la kippah.
   Due giorni fa, il rabbino Chaim Barkahn è stato vittima di un simile attacco antisemita a Düsseldorf dove indossava la kippah. Barkahn ha detto alla Bild: "Finora ero sempre stato orgoglioso della mia città, Düsseldorf. Qui è tranquillo, è tutto a posto. Ma, domenica sera, un uomo sulla Collenbachstrasse mi ha chiamato 'merda ebrea', ha detto qualcosa su Israele e la Palestina. E' la prima volta che mi succede una cosa del genere". L'uomo ha cominciato a rincorrere il rabbino, che ha trovato riparo dentro al centro comunitario ebraico.
   Parlando con la Welt, Barkahn ha spiegato: "Ho stretti legami con il dipartimento di polizia di Düsseldorf e apprezzo molto quello che fanno. Ma posso anche dire ad alta voce: non è abbastanza. Abbiamo bisogno di più protezione. Gli ebrei che vanno in sinagoga hanno paura".
   Su questo sfondo angosciante di aggressioni antiebraiche fuori controllo non si placano le polemiche per le dimissioni del direttore dei Museo ebraico di Berlino, Peter Schafer, reo di avere invitato a parlare ufficiali iraniani e di avere appoggiato il boicottaggio di Israele, tanto da spingere Gerald Steinberg, direttore in Israele di Ngo Monitor, a ribattezzare "museo antiebraico" l'istituzione creata dal celebre architetto Daniel Libeskind. Tira nuovamente una brutta aria per gli ebrei in Germania.

(Il Foglio, 25 giugno 2019)


I responsabili della sicurezza di Russia, Stati Uniti e Israele si incontrano a Gerusalemme

di Alberto Cossu

Si svolgerà a Gerusalemme il 24-25 giugno un incontro, attivamente organizzato da Israele, in cui si incontreranno i responsabili della sicurezza nazionale di Russia, USA e Israele. Mosca ha precisato che non sarà un summit sulla sicurezza nel Medio- Oriente ma semplicemente un incontro tra esperti, sminuendone l'importanza. E' certo, però, che in un momento di così alta tensione un meeting di questo genere fa sorgere interrogativi e alimenta ipotesi sulle reali finalità. La situazione in Medio Oriente sembra sempre più aggravarsi per le tensioni tra USA e Iran, che certamente complicano la ricerca di soluzioni per la crisi siriana e la questione palestinese. Il piano di investimenti USA, un pilastro del grande accordo per la pacificazione dei rapporti tra Israele e Palestina voluto dall'amministrazione Trump, non è stato accolto favorevolmente, e i negoziati, guidati dalla Russia per trovare una via che porti a soluzioni ragionevoli in Siria, sono ancora lontani dal produrre risultati concreti.
   L'agenda del meeting trilaterale, a cui partecipano i consiglieri per la sicurezza nazionale John Bolton (Stati Uniti), Nikolai Patrushev (Russia), Meir Ben Shabat (Israele) dovrebbe prevedere discussioni relative alla situazione della Siria e al ruolo giocato dall'Iran nell'area. Ovviamente un incontro di questo genere alimenta speculazioni che le parti intendano verificare la possibilità di trovare punti di convergenza su cui eventualmente costruire i presupposti di un accordo in grado di superare l'attuale situazione di impasse Medio-Orientale.
   Secondo numerose fonti accreditate la Russia dovrebbe tentare di convincere l'Iran a ritirare le truppe dalla Siria ed in cambio USA e Israele riconoscerebbero il regime siriano di Bashar al- Assad aprendo la strada alla ricostruzione internazionale del paese e alla sua pacificazione. Le sanzioni USA verrebbero rimosse.
   Da parte Russa c'è estrema prudenza rispetto ai contenuti dell'incontro. Infatti sedersi al tavolo insieme a USA e Israele, in una situazione in cui i due paesi hanno rapporti di alta tensione nei confronti dell'IRAN, può comportare fraintendimenti e conseguenze indesiderate.
   È certo che tutti i partecipanti all'incontro hanno bisogno l'uno dell'altro. Gli USA vedono, ogni giorno che passa, il rapporto con l'Iran deteriorarsi e scivolare verso un possibile scontro armato, sebbene ambedue i paesi dichiarino di non volerlo. Le ulteriori sanzioni americane su altri settori dell'economia iraniana (gas)peggioreranno ulteriormente la situazione riducendo le entrate finanziarie del regime ed esasperando le tensioni.
   In questo contesto la Russia potrebbe essere un attore che dispone di reputazione e influenza per indurre il regime iraniano verso posizioni meno intransigenti e sbloccare la situazione. Un ritiro delle milizie iraniane dalla Siria sarebbe un segnale positivo per gli Stati Uniti così come per Israele. Si potrebbero aprire nuovi scenari tali da condurre verso un percorso di pace anche tra Israele e Palestina. Gli USA potrebbero agevolare gli sforzi della Russia per la pacificazione della Siria ottenendo in cambio il riconoscimento del regime ma anche risorse finanziarie per la ricostruzione che diversamente non sarebbero reperibili così facilmente a meno che non si voglia coinvolgere la Cina come qualcuno ha prospettato.
   Insomma nell'incontro di Gerusalemme forse non si discuterà nel dettaglio di un piano di questo genere ma speriamo che si arrivi alla consapevolezza che nessuno degli attori ha in mano carte risolutive di una situazione Medio Orientale che ogni giorno che passa diventa sempre più complicata e pericolosa. Comunque anche se sarà un incontro tecnico deve essere registrato come un passo avanti verso il dialogo per esplorare possibilità che conducano ad un percorso di pace.

(Bulgaria OGGI, 25 giugno 2019)


Per i palestinesi 50 miliardi. Ma boicottano la conferenza

Mancano i protagonisti all'appuntamento per lanciare la pace economica del piano di pace voluto da Trump.

di Chiara Clausi

BEIRUT - Il titolo, Peace to Prosperity, promette grandi cose, ma la conferenza internazionale che comincia oggi a Manama, in Bahrein, è partita azzoppata, e senza alcuni dei protagonisti decisivi. Era stata ideata per lanciare la parte economica del tanto atteso «accordo del secolo», il piano di pace voluto da Donald Trump e dal suo genero e consigliere Jared Kushner. Il piano è rimasto incagliato nelle crisi di governo ed elezioni a ripetizione in Israele, dove si voterà di nuovo il 17 settembre, e soprattutto nel no irremovibile del presidente palestinese Abu Mazen.
   E quella dei palestinesi, in teoria al centro del piano, è l'assenza più vistosa. Mancano però anche player, a cominciare da Russia e Unione Europea che invierà solo dei funzionari, e molti Stati arabi, Irak, Siria, Libano, Algeria fra gli altri. Ci saranno però i giornalisti israeliani, per la prima volta ammessi nel piccolo regno del Golfo. Per la Casa Bianca, che non demorde, in ogni caso l'incontro «faciliterà le discussioni per un futuro prospero per il popolo palestinese e la regione». Il piano prevede un investimento da 50 miliardi di dollari per i palestinesi e gli Stati arabi vicini: 6,3 miliardi di dollari per i palestinesi in Libano, 27,5 per Cisgiordania e Gaza, 9,1 per l'Egitto e 7,4 alla Giordania.
   La Casa Bianca ha precisato che il piano sosterrà le piccole imprese, lancerà turismo, infrastrutture e agricoltura. Ma non prevede la nascita di uno stato palestinese, punto che ha spinto Abu Mazen a dare forfait. «Stanno cercando di trasformare l'intera questione da politica a economica e non lo accetteremo», ha spiegato l'83enne rais, per una volta sulla stessa linea del capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, che ha ribadito: «Non venderemo la nostra coscienza per tutti i soldi del mondo».
   Anche il premier palestinese Mohammad Shtayyeh è dello stesso parere. «Il piano economico è un'assurdità - ha accusato -. Non ho visto riferimenti alla fine dell'occupazione, agli insediamenti. Questa conferenza è solo la legittimazione dell'occupazione». I palestinesi rinfacciano a Trump di aver proclamato Gerusalemme capitale di Israele, aver tagliato l'assistenza umanitaria e non aver speso una parola contro gli insediamenti.
   L'amministrazione americana ha precisato che la parte politica dell'accordo sarà presentata dopo le elezioni israeliane. Ma le perplessità restano in tutto il mondo arabo, anche fra gli alleati. Abdel al-Jubeir, ministro degli Esteri dell'Arabia Saudita, ha voluto precisare che «non si tratta di una conferenza politica ma di una conferenza sullo sviluppo economico». Il ministro degli Esteri del Qatar Mohammed al-Thani ha dichiarato che «appoggeremo il piano che i palestinesi sono disposti ad accettare. Nessun paese nel mondo arabo può accettarlo». Perfettamente allineato con Trump e Kushner è invece il premier israeliano Benjamin Netanyahu. «Questo non è il modo di procedere - ha ribattuto alla leadership palestinese-. Per quelli che dicono che Israele deve lasciare la valle del Giordano, dirò che ciò non porterà pace, ma guerra e terrore».

(il Giornale, 25 giugno 2019)


Iran, nuove sanzioni Usa. Nel mirino Khamenei e Zarif

di Guido Olimpio

Altro pacchetto di sanzioni americane contro l'Iran. Una misura attesa, già vista, controversa. Gli Usa, però, non avevano molta scelta. Evitata la rappresaglia militare in risposta all'abbattimento del drone nel Golfo, giocata la mossa dell'attacco cibernetico, si sono affidati alla carta usata mille volte dal 2018. Misure punitive che dovrebbero, nell'intento della Casa Bianca, indurre Teheran a cambiare corso. Come ha detto Trump gli avversari sono ad un bivio: possono scegliere tra il negoziato e vivere, in eterno, con un'economia disastrata.
   L'ordine esecutivo, siglato con la solita firma vistosa, amplia l'elenco dei bersagli. Oltre a 8 comandanti dei pasdaran, da quelli che si occupano del settore spaziale agli ufficiali della marina, nel documento viene citata la Guida suprema, l'ayatollah Ali Khamenei, poi toccherà anche al ministro degli Esteri Zarif. Gli Stati Uniti vogliono impedire al leader l'accesso al sistema finanziario, provano a colpire le casse. Un modo per far pagare un caro prezzo al regime, ai guardiani della rivoluzione - istituzione militare ed economica dal potere immenso-, agli apparati sospettati di aver organizzato sabotaggi alle petroliere e altre operazioni in Medio Oriente.
   Gli esperti si dividono sull'efficacia della decisione. I falchi sono certi che alla lunga l'Iran dovrà piegarsi e lo stesso Trump ha auspicato che si possa arrivare ad un nuovo negoziato sul nucleare. Perché, ha ribadito, gli Usa non possono accettare che Teheran abbia la Bomba. Gli scettici affermano, invece, che il costo ricadrà sulla società mentre lo schieramento radicale potrà invocare risposte dure, chiudendo qualsiasi spazio al dialogo. Tanto più che gli americani hanno inserito nella lista il moderato Zarif, l'uomo con il quale dovrebbero sedersi al tavolo. Intanto gli iraniani sostengono che l'operazione cyber messa in atto dal Pentagono contro i sistemi missilistici sarebbe fallita.
   Il segretario di Stato Mike Pompeo ha affrontato il dossier con il re saudita Salman, un alleato che, insieme agli Emirati, insiste per stoppare i rivali iraniani e i guerriglieri amici, come gli Houti nello Yemen. Washington non esclude di creare una coalizione internazionale che garantisca la libertà di navigazione lungo le vie del petrolio, una proposta che potrebbe essere discussa nei prossimi giorni. Sempre che la Casa Bianca, mutevole e imprevedibile, non freni. The Donald ha sottolineato come lo stretto di Hormuz sia importante soprattutto per Giappone e Cina, meno per gli interessi americani. E comunque deve convincere i partner occidentali, da sempre cauti - per motivi di mercato - quando si parla di Iran.

(Corriere della Sera, 25 giugno 2019)


A chi giova veramente la strategia di Trump verso l'Iran?

C'è questa strana convinzione che la strategia di Trump verso l'Iran porti benefici a Israele. Ne siamo proprio convinti?

Trump è poco incline a buttarsi in una guerra. Se infatti c'è una cosa che emerge dal recente "scontro sfiorato" tra Stati Uniti e Iran nel Golfo Persico è che in tema bellico Donald Trump non si differenzia molto dal suo predecessore, Barack Obama, che pure aveva criticato ferocemente.
Secondo voci ricorrenti negli ambienti di Washington, a far desistere il Presidente Trump da un attacco di ritorsione contro gli iraniani sarebbe stata una telefonata tra lo stesso Trump e Tucker Carlson, un noto commentatore politico di Fox News.
Tucker Carrlson avrebbe detto a Trump che nel caso avesse portato a termine un attacco di ritorsione contro l'Iran, con molta probabilità si darebbe giocato tutte le possibilità di essere rieletto perché quella ritorsione avrebbe innescato una serie di reazioni a catena che avrebbero interessato tutto il Medio Oriente....

(Rights Reporters, 25 giugno 2019)


La Repubblica tollerante che cadde senza tragedie

Riccardo Calimani scrive un'imponente storia di Venezia La vicenda di una «città isola» che non ha conosciuto re e tiranni.

di Lorenzo Tomasin

Leggendo la Storia della Repubblica di Venezia di Riccardo Calimani (Mondadori, 732 pagine, € 40) ci si rende conto facilmente del fatto che la storia di Venezia dalle origini alla fine della Serenissima ha nel suo complesso i caratteri propri di certe narrazioni che da secoli danno materia alla letteratura. Prendi ad esempio la guerra di Troia o la ricerca del Graal: premesse, svolgimento, esito e tracciato biografico dei personaggi principali sono dati una volta per tutte, e si prestano come base a un numero infinito di riletture, di approfondimenti, di nuove tinteggiature e di variazioni sul tema, ma sono nella sostanza immodificabili. Lo stesso capita anche per vicende più integralmente reali: che so, la parabola di certe antiche civiltà estinte, oppure alcuni grandi conflitti. Storie che potrebbero essere - e spesso sono - raccontate come favole, con un inizio e una fine canonici e non problematici, e spesso anche con una valutazione ormai passata in giudicato circa valori positivi e negativi veicolati dai singoli fatti e dalle singole persone.
  Grandi narrazioni, insomma, che pur essendo già fissate per sempre e quindi già note al pubblico, si prestano naturalmente a una rilettura continua e a una variazione inesauribile delle tinte, delle angolature, dei dettagli messi in luce e degli stessi significati che essi possono generare. La storia, si sa, è stata per secoli un genere letterario propriamente detto, e continua ad esserlo per chi cerca di mettere in valore la funzione di immane repertorio narrativo offerto dalle grandi vicende del passato. In questa miniera di fatti cristallizzati ( che non è ovviamente l'unica via di accesso alla storia), la Repubblica di Venezia presenta, nella sua lettura canonica e per così dire istituzionale, alcuni caratteri che la rendono peculiare. Ben circoscritta nello spazio come città-isola, la VeneziaStato è miracolosamente individuabile anche nel tempo, poiché non ha né una preistoria, né un'antichità. Ha, insomma, una data di nascita più o meno localizzabile sul crinale tra romanità e Medioevo, e ha una data di morte che più precisa non si può, il 12 maggio 1797. Inizia e finisce, insomma, appunto come certe favole, che fanno sfumare nel nulla tutto ciò che precede e tutto ciò che segue.
  La storia di Venezia porta iscritti alcuni valori ideali che le si può attribuire senza troppe forzature retoriche, e che sono facilmente attualizzabili in ogni luogo e in ogni tempo: autonomia, libertà, senso dello Stato, rapporto con la ricchezza e con il commercio. Adagiata su uno sfondo geografico e architettonico di sicuro fascino, la storia di Venezia non contiene grandi tragedie, di quelle maiuscole e paradigmatiche: incidenti di percorso, certo, e momenti oscuri, tensioni latenti e prove non sempre brillantemente superate. Sarà forse perché delle grandi tragedie storico-politiche alla storia di Venezia manca un ingrediente fondamentale: nessun re (se fin dal medioevo scopo del gioco istituzionale è far passare al doge la voglia di diventarlo), nessun tiranno (se i due o tre che ci provano fanno invariabilmente e rapidamente una brutta fine). La stessa caduta della Repubblica, che Calimani ambienta in un clima di «marasma» e di «anarchia» ( ecco: due delle molte possibili sfumature di un fatto circoscritto e inesorabile, ma non grandiosamente tragico), lascia più perplessi e delusi che atterriti o sgomenti.
  Uno dei rischi che si parano davanti al narratore-storico della Repubblica di Venezia è quello di indulgere al sentimentalismo o al patetismo esaltatorio che riescono naturali soprattutto ai veneziani. Calimani, che è venezianissimo ma che - da ebreo e studioso appassionato della storia dell'ebraismo - ha ben chiaro il senso di una certa condizione forestiera (anzi foresta) che si può essere portati a vivere anche in patria, cerca di sottrarsi a questa tentazione, e si sforza di parlare di Venezia come ne parlerebbe uno straniero, magari rivolgendosi ad altri stranieri. C'è, prevedibilmente, un filo che lega questo libro ai tanti in cui Calimani ha già raccontato - fin dalla sua fortunatissima Storia del ghetto di Venezia - le vicende degli ebrei veneziani o, meglio, il contributo spesso negletto che gli ebrei hanno dato alla civiltà veneziana in tanti momenti. Ma quel che si muove in primo piano, qui, è tutto quello che nella storia del Ghetto restava sullo sfondo: è la città nel suo complesso, insieme cristiana e tollerante, prudente e pigra, opulenta e decaduta prima ancora che caduta. Una storia raccontata senza fronzoli, con l'asciuttezza diretta e perentoria dello scrittore che sa fare il proprio mestiere e ha troppo da raccontare per perdersi in inutili esitazioni.
  A chi, come Calimani, ha licenziato di recente una storia degli ebrei italiani che in tre volumi copre ben venti secoli, la favola bella della millenaria Repubblica che in origine non si chiamava Serenissima (anzi, non si chiamava nemmeno repubblica) non mette alcun timore, ma solo una incontenibile voglia di raccontare.

(Corriere del Veneto, 25 giugno 2019)


Offerte e incognite tra Pasdaran e Hamas

di Fiamma Nirenstein

Tutto si muove a Gerusalemme. È arrivato il consigliere strategico di Trump, John Bolton per il summit Usa-Russia-Israele che inizia oggi. I tre consiglieri strategici dei primi ministro parleranno di Siria, di Iraq, di Iran. E che affrontino, loro tre, l'assetto del Medio Oriente di certo non fa stare allegri gli Ayatollah, e nemmeno i palestinesi. Trump ha graziato l'Iran all'ultimo minuto dopo l'abbattimento del drone, e ha detto che spera nella pace e in un futuro stabile per l'Iran stesso. Una visione che si va disegnando sempre di più, quella di un uomo d'affari che intende fornire al mondo non una leadership militare, ma delle ragioni cogenti per capire che la vita deve essere vissuta per quello che ha da offrire oggi, e non come un disegno divino di predominio. Per quel che riguarda l'Iran, le buone intenzioni possono durare tuttavia fino a che le Guardie della Rivoluzione con la loro strategia imperialista non si servono di missili e bombe «contro gli Usa e i suoi alleati», o gli ayatollah non mettano il turbo al disegno atomico. Scenari difficili da prevedere. Per ora quindi Trump non chiude la prospettiva bellica del tutto.
   Con i palestinesi, le cose sono negative come sempre: sta per iniziare il summit del Bahrain, 50 miliardi di dollari sono una cifra gigantesca a loro destinata in ospedali, scuole, affari che darebbero forza e potere, in strutture che unifichino Gaza e West Bank, passaggi agevolati, porti e aeroporti. È un enorme progetto di «Pace e prosperità» come si chiama la parte economica del «Piano di Pace» di Trump che mette l'economia prima della dimensione territoriale. La ragione: quest'ultima ha fallito anche di fronte alla migliori intenzioni degli israeliani. Nelle 80 pagine di progetto si promette che «la costa marina di Gaza, 40 chilometri sul mare mediterraneo, potrà diventare una moderna città metropolitana sul mare, come Beirut, Lisbona, Rio de Janeiro, Singapore e Tel Aviv». Il piano promette anche di «investire sul capitale umano» di Gaza e del West Bank, di stabilire almeno un'università che sia fra le prime 150 del mondo, di ridurre la mortalità infantile e allungare l'aspettativa di vita. È interessante? Lo sarebbe come lo erano i piani territoriali di Oslo, ma i palestinesi hanno rifiutato quelli e così rifiutano anche questi. E il rifiuto appare stanco, ripetitivo, con uno sfondo di isteria politica che invita a proteste violente. L'offerta è colossale, i Paesi sunniti dell'area sono pronti a contribuire, e di certo una partecipazione finalmente attiva dei Palestinesi disegnerebbe un futuro in cui si impongono come partner, non solo come un mondo che conosce solo il rifiuto dell' esistenza di Israele. Tutto si muove, eppure ancora è fermo.

(il Giornale, 24 giugno 2019)


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Gaza: sciopero contro il seminario nel Bahrein

'Accordo del secolo' a scapito della causa palestinese

GAZA - Le principali fazioni politiche palestinesi hanno indetto per domani a Gaza uno sciopero generale di protesta contro il seminario economico organizzato dall' Amministrazione Trump che inizierà il 25 giugno a Manama, nel Bahrein. Lo sciopero intende ribadire la contrarietà dei palestinesi al cosiddetto 'Accordo del secolo' di Trump che - a loro avviso - aggira i principali nodi politici del conflitto con Israele. La manifestazione è diretta inoltre contro ogni progresso nelle normalizzazione dei rapporti fra i Paesi arabi ed Israele, in assenza di una soluzione definitiva del conflitto. Oggi decine di giornalisti di Gaza hanno organizzato di fronte alla sede della Croce Rossa internazionale un picchetto in cui hanno protestato contro l'autorizzazione concessa dal Bahrein all'ingresso di giornalisti israeliani e a trasmissioni televisive dirette da Manama verso Israele. Hanno anche lanciato un appello a tutti i media arabi affinché boicottino il seminario di Manama, in solidarietà con la causa palestinese.

(ANSAmed, 24 giugno 2019)


Festival Cori ebraici europei a Ferrara

Dal 27 al 30 giugno al Museo dell'Ebraismo e al teatro Comunale

 
Ferrara ospita dal 27 al 30 giugno la settima edizione del Festival dei Cori Ebraici Europei, organizzato dal Coro Ha-Kol di Roma e dalla European Association of Jewish Choirs, su invito del Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah (Meis) e del Teatro Comunale 'Claudio Abbado'. Il 27 e il 28 al Meis, il 30 al Comunale, 240 tra musicisti e coristi da cinque Paesi europei presentano musiche liturgiche e della vita quotidiana ebraica, canti delle tradizioni sefardita e askenazita, insieme ad arrangiamenti e a composizioni contemporanee. Oltre ai coristi di Ha-Kol, nel capoluogo estense si esibiranno il Wiener Judischer Chor, Les Polyphonies Hebraiques de Strasbourg, l'Ensemble Choral Copernic di Parigi, The Zemel Choir di Londra e la Shtrudl-Band di Leopoli, mentre l'Accademia Corale 'Vittore Veneziani' di Ferrara partecipa al concerto di gala del 30 giugno.
    Come ricorda Richard Di Castro, presidente del Coro Ha-Kol, "il Festival è nato un po' per caso nel 2012, quando fummo invitati a partecipare a un incontro con altre formazioni a Londra. Da quell'esperienza abbiamo colto le potenzialità di un simile evento, che è diventato itinerante". Dopo Londra, il Festival è approdato a Vienna, Roma, ancora a Londra, San Pietroburgo, Leopoli e Ferrara. La prossima edizione sarà a Gerusalemme. "Ogni città ci ha spalancato le braccia, mettendo a disposizione sedi bellissime, dalla sinagoga londinese di Marble Arch al Teatro Argentina a Roma, fino alla Cappella dell'Accademia di Stato a San Pietroburgo. E per un coro amatoriale è un onore entrare in questi santuari della musica".
    Gli ebrei hanno sempre cantato, suonato e composto musica, anche nei momenti più tragici della loro storia. E la manifestazione è un'occasione di scambio tra tradizioni musicali diverse, che consente ai gruppi coinvolti di conoscersi, capire, interagire con il tessuto cittadino che li accoglie. La musica, insomma, come ponte di dialogo ma anche come fattore che vivifica luoghi e culture: "Lo scorso anno il Festival si è tenuto a Leopoli, dove hanno vissuto fino a 200mila ebrei e che ha avuto molte sinagoghe. Alla fine della guerra, dopo la liberazione da parte dei sovietici, di ebrei ne erano rimasti appena 800 e di sinagoghe una sola, ma la tradizione ebraica era ancora viva. Grazie al Festival, dopo cinquant'anni quella sinagoga è tornata a riempirsi di gente e di musica, e il rabbino askenazita, vestito a festa, non poteva credere ai propri occhi. È stato molto commovente".

(ANSA, 24 giugno 2019)


Bielorussia - Trovati alcuni corpi dei 28.000 ebrei fucilati dai nazisti

di Laura Pellegrini

In Bielorussia sono stati ritrovati i resti di 28 mila ebrei all'interno di una tomba di massa risalente all'epoca nazista degli anni Quaranta.
  I soldati della Bielorussia avevano scavato una gigantesca fossa comune intorno al 1940. All'interno del ghetto nazista sono stati rinvenuti i resti dei corpi di 28 mila ebrei. Le stime, però, rivelano che all'interno della tomba di massa dovessero esserci almeno 1.000 di questi corpi. La scoperta, inoltre, è stata casuale ed è avvenuta nel corso della costruzione di un complesso residenziale di lusso nella città di Brest, vicino alla Polonia. I ricercatori hanno già trovato oltre 600 corpi nel sito e il numero di 40 corpi al giorno.

 Il ghetto nazista
  I ricercatori si stanno limitando a scavare all'interno di una delle due tombe di massa scoperte. I resti giacciono all'interno di un pozzo profondo 1,6 metri e lungo almeno una ventina. Una volta terminati gli scavi su questo primo sito si passerà al secondo. inoltre, nella città di Brest erano già state scoperte altre fosse comuni nel 1950, quando vennero dissotterrate 600 vittime.
  Altre 300 furono scoperte, invece, nel 1970. Secondo i registri solo 19 persone sarebbero sopravvissute nel ghetto di Brest, fondato il 16 dicembre 1941 e distrutto nell'ottobre 1942. Le sorelle Katz, ad esempio, sopravvissero nascondendosi dentro un attico. Nei loro racconti hanno spiegato che i lavoratori sono arrivati al campo in novembre e hanno iniziato gli scavi. Le persone venivano separate per genere e le madri tolte ai figli. Inoltre, le vittime vennero spogliate e messe in fila prima della loro fine.

 La liquidazione
  Nell'autunno del 1942 i tedeschi attuarono l'operazione Barbarossa e invasero il territorio sovietico. I nazisti liquidarono il ghetto e 17 mila persone furono fucilate davanti alla stazione di Bronnaya Gora. Dopo la guerra, però, la Bielorussia venne annessa all'Unione Sovietica. In questo modo sui resti delle tombe comuni sorsero strade ed edifici.

 La petizione
  Il governatore Alexander Rogachuk ha assicurato la ricostruzione delle ossa delle persone che hanno perso al vita durante il nazismo.
  Infatti, da tempo circola una petizione per fermare la costruzione del centro residenziale: l'intento è quello di conservare la memoria delle tragedie avvenute negli anni Quaranta. Per il momento, però, sono state raccolte soltanto 492 firme.

(Notizie.it, 24 giugno 2019)


Criptovalute: due arresti in Israele per l'hackeraggio di bitfinex

 
Come riportato da Finance Magnates (sito di news finanziarie in inglese e russo) nella giornata di ieri due fratelli israeliani sono stati arrestati per aver hackerato bitfinex nel 2016; Eli ed Assaf Gigi, secondo quanto dichiarato dalla polizia locale al sito di news, avrebbero sottratto decine di milioni di dollari dagli account bitfinex degli utenti agendo in maniera sistematica ai danni della nota piattaforma di scambio.
   I due fratelli avrebbero fraudolentemente ottenuto le credenziali di accesso di numerosi utenti attraverso la creazione di siti clone e così, portando avanti un'attività di phishing prolungata nel tempo, sarebbero riusciti a sottrarre decine di milioni di dollari agli utenti bitfinex. I fratelli Gigi sarebbero anche accusati di essere responsabili di un grosso hack avvenuto nel 2016 che avrebbe portato a compromettere un elevato numero di account contemporaneamente.
   C'è da dire, però, che durante le perquisizioni la polizia ha rinvenuto diversi wallet in casa dei due hacker ma contenenti fondi significativamente inferiori a quanto sottratto agli utenti nel tempo; secondo quanto riporta Finanze Magnates, inoltre, uno dei due fratelli (Eli Gigi) si sarebbe formato presso un'unità tecnologica d'elite delle forze militari israeliane, il che, se fosse vero, sarebbe un fatto abbastanza grave dal momento che numerose forze di polizia di diversi paesi sono dovute intervenire per riuscire finalmente a rintracciare i fratelli Gigi.
   I furti ai danni degli utenti che operano con criptovalute sfruttando il punto debole di tutta la catena (che sono appunto gli exchange) stanno diventando sempre più frequenti, tanto da spingere una piattaforma come binance (il più grande scambio al mondo) a tutelarsi accantonando il 10% dei propri introiti in un fondo destinato a rimborsare gli utenti derubati.
   L'ultimo exchange ad essere finito nel mirino dei cyber criminali, come riporta invece cointelegraph, sarebbe coinbase, principale piattaforma di scambio statunitense; gli utenti coinbase sarebbero finiti infatti coinvolti in due tipi differenti di attacchi, entrambi realizzati sfruttando un difetto di sicurezza (zero-day) di firefox. Gli attacchi sarebbero partiti sia direttamente ai danni degli utenti sia prendendo di mira gli account dei dipendenti Coinbase, per cui gli esperti di sicurezza ipotizzano che si tratti di due distinte campagne.
   Nonostante la frequenza con cui gli attacchi si susseguono bisogna comunque riconoscere che la minaccia rappresentata dagli hacker, pur provocando danni per milioni di dollari ogni anno, non è più così grave come lo era fino a qualche anno fa; il fatto che il mercato sia maturato molto, unitamente alla crescita delle piattaforme di scambio e alla loro scelta di tutelarsi economicamente da questo genere di furti (anche con apposite polizze assicurative) ha contribuito se non a far scomparire la minaccia almeno a renderla sostenibile. In ogni caso, è opportuno ricordarlo, il processo di digitalizzazione del denaro renderà questo genere di furti sempre più comuni, di conseguenza è importante che siano anzi tutto gli utenti ad imparare come tutelarsi almeno dagli attacchi più elementari (come nel caso del phishing).

(Valute Virtuali, 24 giugno 2019)


Presentato al Paris Air Show un aereo israeliano completamente elettrico

di Paolo Castellano

La compagnia israeliana Eviation Aircraft ha presentato un aereo completamente elettrico al Paris Air Show, una fiera dedicata al settore aeronautico che si svolge ogni due anni nella capitale francese. Il veicolo si chiama Alice ed è stato concepito per rendere piacevoli i viaggi aerei senza inquinare. L'aeroplano elettrico israeliano è infatti silenzioso e privo di emissioni, ciò comporta dunque considerevoli benefici sull'ambiente.
   Alice è un veicolo che può ospitare 9 passeggeri ed è stato progettato per viaggiare a 480 km/h per 10mila km. Il mezzo - lungo 12,2 metri - è completamente elettrico e intende ridurre i costi operativi derivanti dal consumo di carburante e olio. Per volare Alice utilizza la propulsione distribuita con un'elica di spinta principale nella coda e poi altre due eliche di spinta che invece si trovano nell'estremità delle ali per ridurre la resistenza, migliorando l'efficienza durante il volo.
   La Eviation Aircraft ha poi svelato a Reuters che quest'anno Alice verrà sottoposta ai test di volo per conseguire la certificazione nel 2021. L'azienda israeliana inoltre renderà disponibile l'aereo per un uso commerciale nel 2022. Il primo cliente di Eviation Aircraft sarà Cape Aire, una compagnia aerea americana, ha riportato Israel21c.
   «Operando con dei costi più bassi di un convenzionale aereo di linea, la nostra Alice ridefinirà il modo in cui le persone viaggiano a livello regionale, inaugurando una nuova era di volo più silenziosa, più pulita e più economica», ha dichiarato Omer Bar-Yohay, CEO di Evitation Aircraft.
   Secondo l'organizzazione internazionale dell'aviazione civile, nel 2018 4,3 miliardi di persone hanno utilizzato un aereo per viaggiare. C'è stato inoltre un incremento del 6,1% dei viaggi rispetto all'anno precedente.
   I veicoli aerei che rilasciano particelle e gas, come il monossido di carbonio, anidride carbonica, idrocarburi e piombo, hanno un serio impatto sul pianeta. Greta Thunberg, giovane paladina del movimento contro il Climate Change, ha infatti dichiarato che non utilizzerà mai degli aerei per raggiungere le città che ospiteranno le sue conferenze.

(Bet Magazine Mosaico, 23 giugno 2019)



Il dramma represso dei cristiani palestinesi

Il Cristianesimo sta per scomparire nel luogo della sua nascita, compresa Betlemme. Secondo l'avvocato e studioso Justus Reid Weiner, "la persecuzione sistematica degli arabi cristiani che vivono nelle zone palestinesi suscita il silenzio pressoché totale da parte della comunità internazionale, degli attivisti per i diritti umani, dei media e delle Ong. In una società in cui gli arabi cristiani non hanno voce e nessuna protezione, non sorprende che se ne vadano".

di Raymond Ibrahim

In un momento in cui i cristiani di tutto il mondo musulmano subiscono una serie di persecuzioni, il dramma dei cristiani palestinesi viene raramente ascoltato.
Però esiste. Open Doors (Porte Aperte), il gruppo impegnato nella tutela dei diritti umani che monitora le persecuzioni dei cristiani, rileva che i cristiani palestinesi subiscono livelli "elevati" di persecuzione, la cui fonte è, nelle sue parole, "l'oppressione islamica":
I convertiti dall'Islam al Cristianesimo, tuttavia, sono maggiormente colpiti dalla persecuzione, ed è difficile per loro riuscire a entrare in contatto con le chiese esistenti sul territorio. In Cisgiordania, vengono minacciati e sottoposti a forti pressioni; a Gaza, la loro situazione è talmente pericolosa che vivono la loro fede cristiana nella massima segretezza. L'influenza dell'ideologia islamica radicale è in fase crescente e le chiese storiche sono costrette a essere particolarmente caute e diplomatiche nel loro approccio con la comunità musulmana.
Detto questo, mentre le notizie sulle persecuzioni dei cristiani provengono regolarmente da altre regioni a maggioranza musulmana nel mondo - Pakistan, Egitto e Nigeria, tanto per fare tre esempi - si parla poco di quei cristiani che vivono sotto l'Autorità palestinese.
Per quale motivo? Perché subiscono meno persecuzioni rispetto ai loro correligionari del mondo musulmano? O a causa della loro situazione singolare - poiché vivono in un'arena molto controversa con molte dispute politiche e mediatiche in gioco?
"La persecuzione dei cristiani nell'Autorità palestinese", un nuovo articolo di Edy Cohen, pubblicato il 27 maggio dal Begin-Sadat Center for Strategic Studies, contribuisce ampiamente a rispondere a queste domande.
Innanzitutto, documenta tre recenti episodi di persecuzione dei cristiani, nessuno dei quali è stato riportato dai cosiddetti "media mainstream":
"Il 25 aprile, gli abitanti terrorizzati del villaggio cristiano di Jifna, nei pressi di Ramallah sono stati aggrediti da uomini armati musulmani dopo che una donna del villaggio aveva presentato una denuncia alla polizia sostenendo che il figlio di un importante leader affiliato a Fatah aveva aggredito la sua famiglia. In risposta, decine di uomini armati di Fatah sono arrivati nel villaggio e hanno esploso centinaia di colpi in aria. Hanno lanciato bombe molotov mentre gridavano maledizioni e hanno causato gravi danni al patrimonio pubblico. È un miracolo che non ci siano stati morti o feriti... .
"Il secondo episodio è avvenuto la notte del 13 maggio. Vandali hanno fatto irruzione in una chiesa della comunità maronita nel centro di Betlemme, l'hanno profanata e rubato costose attrezzature appartenenti alla chiesa, comprese le telecamere di sicurezza.
"Tre giorni dopo è stato il turno della chiesa anglicana nel villaggio di Aboud, a ovest di Ramallah. Vandali hanno tagliato la recinzione, hanno rotto le finestre dell'edificio e hanno fatto irruzione. Hanno profanato la chiesa, hanno cercato oggetti preziosi e trafugato una gran quantità di attrezzature.
"Secondo la sua pagina Facebook, questa è la sesta volta che la chiesa maronita di Betlemme ha subito atti di vandalismo e furti, compreso un attacco doloso nel 2015 che provocò danni considerevoli e costrinse la chiesa a chiudere per un lungo periodo".
Questi tre attacchi, verificatisi nell'arco di tre settimane, seguono lo stesso schema di violenza che abitualmente subiscono i cristiani di altre regioni a maggioranza musulmana. Le profanazioni e i saccheggi delle chiese sono diffusi, ma anche le folle inferocite di musulmani che si scagliano contro le minoranze cristiane, ogni volta che i cristiani - percepiti come dhimmi, o come "cittadini" tollerati di terza classe, che spesso sono tenuti a essere grati per essere tutt'altro che tollerati - osano parlare dei loro diritti, come è accaduto il 25 aprile nel villaggio cristiano di Jifna:
"I rivoltosi hanno invitato i residenti [cristiani] a pagare la jizya - una tassa di capitazione imposta nel corso della storia alle minoranze non musulmane sotto il dominio islamico. La maggior parte delle recenti vittime della jizya erano le comunità cristiane di Iraq e Siria sotto il controllo dell'Isis".
Peraltro, come spesso accade quando i musulmani attaccano i cristiani nei paesi islamici, "nonostante le 'grida d'aiuto' dei residenti [cristiani] a Jifna, "la polizia dell'Autorità palestinese non è intervenuta durante le ore di caos. Non ha arrestato nessun sospettato". E anche per i due attacchi alle chiese non c'è stato alcun arresto.
In breve, i cristiani palestinesi, subiscono lo stesso tipo di persecuzione - tra cui attacchi alle chiese, sequestri di persona e conversioni forzate - come accade ai loro correligionari in decine di paesi musulmani. La differenza, tuttavia, è che la persecuzione dei cristiani palestinesi non ha ricevuto alcuna copertura nei media palestinesi. Infatti, spiega Cohen, "in molti casi è stato imposto un obbligo categorico di silenzio":
"L'unica cosa che interessa all'Ap è che episodi di questo tipo non vengano divulgati ai media. Fatah esercita regolarmente forti pressioni sui cristiani affinché non denuncino gli atti di violenza e di vandalismo che spesso subiscono, poiché la diffusione di tali notizie potrebbe danneggiare l'immagine dell'Autorità palestinese di attore in grado di proteggere la vita e le proprietà della minoranza cristiana che vive sotto il suo governo. E ancor meno, l'Ap vuole essere rappresentata come un'entità radicale che perseguita le minoranze religiose. Questa immagine potrebbe avere ripercussioni negative per i massicci aiuti internazionali, e in particolare europei, che l'Ap riceve".
In altre parole, il pane quotidiano dell'Autorità palestinese sembra essere quello di ritrarre i palestinesi come vittime di un'ingiusta aggressione e discriminazione da parte di Israele. Questa narrazione palestinese potrebbe essere compromessa se la comunità internazionale scoprisse che gli stessi palestinesi vengono perseguitati dai loro connazionali, esclusivamente a causa della religione. Potrebbe essere difficile riscontrare solidarietà per un popolo che sarebbe oppresso quando ci si rende conto che gli stessi palestinesi opprimono le minoranze in mezzo a loro.
Talmente sensibili a questa potenziale difficoltà, "i funzionari dell'Autorità palestinese esercitano pressioni sui cristiani locali affinché non denuncino tali episodi, che minacciano di smascherare l'Ap come un altro regime mediorientale legato a un'ideologia islamica radicale", " scrive Cohen in un altro articolo.
"Anziché arrestare coloro che attaccano i siti cristiani, per l'Autorità palestinese è molto più importante tenere alla larga da questi episodi i media mainstream. E riesce a farlo molto bene. Infatti, solo alcuni piccoli canali di informazione locali si sono preoccupati di denunciare queste recenti aggressioni. I media mainstream internazionali le hanno totalmente ignorate."
Ma soprattutto va osservato che talvolta si rileva una dinamica simile da parte dei profughi musulmani. Sebbene i politici e i media dell'Europa occidentale li presentino come perseguitati, oppressi e bisognosi di accoglienza, gli stessi migranti musulmani perseguitano e opprimono le minoranze cristiane in mezzo a loro - sia terrorizzandoli nei campi profughi sia annegandoli nel Mediterraneo.
La triste e semplice verità, a detta di tutti, è che il Cristianesimo sta per scomparire nel luogo della sua nascita, compresa Betlemme. Come spiega Justus Reid Weiner, avvocato e studioso che conosce bene la regione:
"La persecuzione sistematica degli arabi cristiani che vivono nelle zone palestinesi suscita il silenzio pressoché totale da parte della comunità internazionale, degli attivisti per i diritti umani, dei media e delle Ong. In una società in cui gli arabi cristiani non hanno voce e nessuna protezione, non sorprende che se ne vadano".

Raymond Ibrahim, autore di un nuovo libro, Sword and Scimitar, Fourteen Centuries of War between Islam and the West, è Distinguished Senior Fellow presso il Gatestone Institute e Judith Rosen Friedman Fellow presso il Middle East Forum.

(Gatestone Institute, 23 giugno 2019 - trad. Angelita La Spada)



Gli Usa lanciano una cyber offensiva contro l’Iran

Trump. "L’attacco a Teheran è stato soltanto sospeso". Il New York Times rivela che sono avvenuti lo stesso giorno in cui Trump fermò i raid aerei. Secondo tre funzionari disabilitati i sistemi missilistici di Teheran.

Gli Stati Uniti hanno lanciato una cyber offensiva contro un gruppo di intelligence iraniano che gli 007 Usa credono sia dietro all'attacco alle petroliere nel Golfo dell'Oman. Lo riporta il New York Times. L'operazione dello Us Cyber Command è avvenuta lo stesso giorno in cui il presidente Donald Trump ha fermato i raid aerei contro stazioni radar e batterie missilistiche in Iran.
  Tre funzionari americani coperti dall'anonimato hanno detto all'Associated Press che l'operazione ha disabilitato gli apparati informatici iraniani di controllo dei sistemi missilistici iraniani. Il cyberattacco (del quale è comunque difficile stimare la reale efficacia), secondo i funzionari, è stato preparato per settimane, e autorizzato direttamente da Trump dopo lo stop a un intervento militare convenzionale.L'attacco informatico americano non è comunque l'unico delle ultime settimane: secondo CrowdStrike e FireEye, che monitorano costantemente le attività relative alla sicurezza digitale, gli hacker iraniani hanno iniziato ad attaccare le agenzie governative statunitensi e diversi settori economici, compresi quelli del petrolio e del gas, subito dopo l'inizio delle tensioni tra Washington e Teheran, inviando ondate di email di spear-phishing (che in genere imitano le e-mail legittime ma contengono software dannoso). Non è chiaro però se con questi attacchi gli iraniani siano riusciti a infiltrarsi nelle reti informatiche statunitensi.
  In merito all'attacco aereo fermato dieci minuti prima per il timore di colpire troppi civili, il presidente americano ha precisato in un tweet di "non aver mai revocato" l'attacco militare contro l'Iran ma di averlo solo sospeso. "Non ho mai revocato il raid contro l'Iran, come la gente sta erroneamente riportando. L'ho solo fermato per il momento".

 Usa: "Non abbiamo interesse a un conflitto militare"
  L'inviato Usa per l'Iran, Brian Hook, ha precisato, dicono ai giornalisti a Kuwait City, che gli Stati Uniti "non hanno alcun interesse a un conflitto militare con l'Iran. Abbiamo rafforzato il nostro dispositivo nella regione per motivi puramente difensivi".
  A metà giugno erano infatti stati inviati dagli Usa mille militari in più in Medio Oriente sullo sfondo delle crescenti tensioni con l'Iran e degli attacchi a petroliere nello Stretto di Hormuz, fondamentale per la consegna delle esportazioni mondiali di petrolio. Hook aggiunge che gli Usa esortano "tutti i Paesi a sforzarsi per convincere l'Iran a una de-escalation e a rispondere alla diplomazia con la diplomazia".

(TGCOM24, 23 giugno 2019)


Israele

di Claudio Scaccianoce

Chiedo ad un amico: "ma secondo te chi comanda in Israele?" Risposta pronta e convinta: "quelli con le treccine ed il cappello nero". Riprovo con un altra persona, conosciuta per caso da poco tempo. "Chi abita in Israele?" - "Gli ebrei è ovvio, chi vuoi che ci viva…".
  Ultimo tentativo. "Ma secondo te qual è il piatto forte dell'economia di Israele?" Questa volta il mio interlocutore è una interlocutrice, una ragazza che lavora in una banca in centro a Milano. La sua risposta: "fanno tutti finanza, prestiti e cose così".
  Di Israele si parla ogni settimana sui giornali, nei Tg, sui social, e spesso l'opinione pubblica prende posizione pro o contro questa nazione mediorientale con determinazione e sicumera. Poi fai due domande e ti accorgi che chi giudica (liberi di farlo ovviamente) ha spesso nel proprio bagaglio conoscenze un po' imprecise o germogliate sul pregiudizio e sul luogo comune.
  Senza generalizzare (sono molte le persone bene informate) e senza la presunzione di potere essere esaustivo - ho pensato di fare un ripassino veloce e di pubblicarlo in questo spazio, ad uso di chi avesse la voglia ed il piacere di approfondire qualche aspetto riguardante lo stato di Israele.
  Ho chiesto la collaborazione di una giovane dottoressa italiana che ha studiato a fondo lo stato israeliano, Anna Bagaini.



- Partiamo dalle basi. Il moderno stato di Israele è…. una repubblica parlamentare? Una repubblica teocratica? Una repubblica costituzionale?
 
Anna Bagaini
  Israele è una democrazia parlamentare. Il parlamento (monocamerale), chiamato Knesset, si compone di 120 membri eletti ogni quattro anni. Durante la storia dello stato, questa frequenza è stata più volte disattesa a causa del bisogno di indire elezioni anticipate per costituire un nuovo governo; in quest'ottica possiamo dire che il sistema politico israeliano è molto affine a quello italiano principalmente perché in entrambi i casi si sono verificati frequentemente episodi di caduta dei governi in carica.
  Parlando del sistema israeliano, questa casistica è principalmente dovuta al fatto che tutti i governi alla guida del paese sono stati governi di coalizione, comprendenti numerosi partiti perlopiù di piccole-medie dimensioni. Questa dinamica (a sua volta famigliare a noi italiani) è sempre stata percepita come maggiore fonte di instabilità e, per garantire una migliore governabilità del paese, in passato sono state adottate diverse soluzioni: ad esempio, nel 1992 è stata approvata una legge che introducesse l'elezione diretta del primo ministro.
  In questo modo, si pensava di poter dare più forza alla figura del premier, che sarebbe riuscito così a contrastare meglio il peso dei membri della coalizione. Questo sistema di voto ha avuto breve durata perché non è riuscito a realizzare l'obbiettivo per il quale era stato introdotto e, nel 2003, l'elettorato israeliano è tornato a votare per i singoli partiti.
  Poco tempo fa è stata aumentata la soglia minima di voti necessari per entrare in parlamento, che è stata portata al 3,5%; tuttora si parla di aumentare ulteriormente questa percentuale per contenere l'alta frammentazione della Knesset.
  Parlando di frequenza con cui ricorrono le elezioni, non possiamo non fare riferimento alla catena di eventi che sta avendo luogo in questi mesi; ad aprile scorso Benjamin Netanyahu (primo ministro uscente e attualmente in carica) dopo aver vinto la competizione elettorale con un solo seggio di differenza rispetto al suo rivale Benny Gantz, ha ricevuto dal presidente dello stato Reuven Rivlin il compito di formare il governo. Il colpo di scena è avvenuto a fine maggio quando Netanyahu non è riuscito a formare il nuovo governo; ulteriore sorpresa ha generato la decisione del primo ministro di indire nuove elezioni, invece che rimettere al presidente Rivlin la decisione di affidare l'incarico a un altro parlamentare.
  Tale episodio è unico nella storia di Israele, non solo per la prassi adottata da Netanyahu (che ha suscitato molte domande sulla sua effettiva legittimità), sia per la doppia ricorrenza delle elezioni nell'arco di un solo anno.Questo è solo un esempio che dà l'idea di quanto il sistema politico israeliano sia dinamico e, in questo momento storico, in particolare fermento.

- Quali sono gli organismi che esercitano le funzioni legislativa, l'azione di governo e l'amministrazione della Giustizia? Sono funzioni indipendenti tra di loro come accade in Italia?
  Si, in Israele queste tre funzioni sono separate e fanno capo a diverse istituzioni: abbiamo la Knesset, il governo e la magistratura, la cui maggiore espressione è la Corte Suprema.
  Il sistema si basa sul principio della separazione dei poteri, in cui il potere esecutivo (il governo) è soggetto alla fiducia del ramo legislativo (la Knesset), mentre l'indipendenza della magistratura è garantita dalla legge. I giudici sono nominati dal Presidente, su raccomandazione di un comitato speciale per le nomine, composto da giudici della Corte Suprema e personalità pubbliche.
  La Corte Suprema, con sede a Gerusalemme, ha giurisdizione nazionale. È la più alta corte d'appello per le sentenze dei tribunali inferiori. Nella sua funzione di alta corte di giustizia, la Corte Suprema ascolta le petizioni contro qualsiasi ente governativo o agente, ed è il tribunale di primo e ultimo grado. Durante la campagna elettorale di aprile 2019, uno dei temi principali è stato appunto l'equilibrio attualmente esistente tra le diverse istituzioni, in particolar modo il ruolo e i poteri della Corte Suprema che ha la facoltà di intervenire sulla legislazione approvata dal parlamento nel caso quest'ultima non venga ritenuta rispettosa dei valori fondanti dello stato.
  Infatti, i partiti di destra Union of the Right Wing Parties (URWP), New Right e il Likud hanno scelto di focalizzare la propria campagna elettorale portando avanti il dibattito sul ruolo della Corte Suprema e dichiarandosi favorevoli per una riforma che limiti i poteri di questo organismo e che ponga un limite alla sua indipendenza dal potere politico.
  Sicuramente questa iniziativa è coerente con i valori rappresentati dai primi due partiti citati, ovvero un Israele meno laico in cui prevalgano in modo ancora più marcato i principi dell'ebraismo; per intenderci, se nella dichiarazione di indipendenza dello stato Israele viene definito come "ebraico e democratico", sicuramente l'intento di questi partiti è di porre l'accento su questo primo carattere. In questa prospettiva, la Corte Suprema è l'istituzione che più si occupa di mantenere l'equilibrio tra questi due elementi.
  Per quanto riguarda strettamente il Likud e, in generale, il clima generale della recente campagna elettorale, bisogna ammettere che la promozione di questo dibattito da parte del partito di Netanyahu e dei suoi alleati sembrerebbe accadere con un tempismo perfetto, proprio nell'esatto momento in cui l'attuale primo ministro rischierebbe di affrontare (tra meno di un anno) un processo. Se durante la campagna elettorale di aprile infatti si vociferava che il tacito accordo tra Netanyahu e i partiti della destra nazionalista fosse basato su uno scambio tra l'ottenimento dell'immunità per il primo ministro e l'annessione della West Bank, il mese di trattative per la formazione del governo avrebbe avvalorato i termini sui quali si sarebbe costruita la coalizione.
  Detto questo, bisognerà aspettare l'esito delle elezioni di settembre per concretamente confermare queste dinamiche ma quello che è risultato dal dibattito su tali questioni è stata la percezione da parte di un largo gruppo di israeliani che le istituzioni e la concezione stessa dello stato fossero state attaccate proprio alle loro fondamenta.

- Spesso per identificare un cittadino israeliano si usano termini che si credono, probabilmente a torto, dei sinonimi: ebreo, sionista, giudeo. Il significato di questi termini è il medesimo?
  No, questi termini hanno significati diversi, anche se vi sono delle sfumature comuni, o meglio delle sovrapposizioni di senso che possono farli sembrare sinonimi. Cerchiamo di fare ordine.
  La parola ebreo deriva dal nome Eber, discendente di Sem, antenato del popolo ebraico: il suo significato è "regione posta al di là" proprio perché questa popolazione proveniva dai territori oltre il fiume Eufrate. Primo appartenente storico al popolo ebraico è Abramo. Possiamo quindi dire che il termine ebreo indica gli appartenenti al popolo semita che si insediò nella regione geografica della Palestina dal II secolo a.c., quindi fondamentalmente ai membri del popolo di Israele dall'epoca patriarcale ai giorni nostri.
  Bisogna però sottolineare una sfumatura di senso, infatti con questa parola indichiamo anche una persona aderente all' ebraismo. Notiamo quindi come religione, etnia e cultura si fondano, ed è proprio questo uno dei temi più dibattuti nell'ebraismo per cercare di definire in quale misura essere ebreo possa essere ricondotto ad un'appartenenza religiosa oppure etnica e quanto questi due elementi coincidano.
  Se invece usiamo il termine giudeo o israelita, ci stiamo riferendo ad un membro del popolo ebraico. Le due parole però hanno una sfumatura di significato diverso perché giudeo indica chi anticamente abitava nella regione della Giudea, in particolare dal momento storico in cui, dopo la caduta per mano assira del regno di Israele al nord nel 722 a.c., l'intero popolo ebraico era riconducibile alla tribù di Giuda che appunto risiedeva in quest'area.
  Breve accenno al fatto che molte volte usiamo ebraismo e giudaismo come sinonimi, mentre invece con il termine giudaismo si indica l'ebraismo a partire dal 6o sec. a.c., cioè dal tempo dell'esilio babilonese. In questo senso, tutti gli ebrei vissuti dopo quest'epoca, sono (religiosamente parlando) giudei.
  Israelita, invece, significando innanzitutto "figlio di Israele" (Giacobbe), si riferisce a tutti i discendenti dei dodici figli del patriarca (da cui hanno avuto origine le dodici tribù appunto di Israele). In secondo luogo, l'altra accezione del termine rimanda agli israeliti nel senso di abitanti del Regno di Israele.Tutt'altro discorso se parliamo di israeliani, ovvero i cittadini del moderno stato di Israele nato nel 1948; in questo caso ci stiamo riferendo al concetto di cittadinanza proprio degli stati-nazione. Essere israeliani però, non vuol dire necessariamente essere ebrei (e viceversa), infatti una parte dei cittadini di Israele professa altre religioni, quali l'Islam e il Cristianesimo.
  Ancora diverso è l'utilizzo del termine sionista che si riferisce invece ad una persona che condivide i contenuti ideologici del sionismo. Questo movimento politico nacque in Europa nella seconda metà dell'Ottocento a seguito della diffusione di violente ondate di antisemitismo. Theodore Herzl, il suo fondatore, ispirato dall'ideologia nazionalista in auge, era giunto alla conclusione che l'unica soluzione alle persecuzioni e alle violenze subite dagli ebrei europei risiedesse nella costituzione di uno stato ebraico indipendente. Anche in questo caso, possiamo notare come essere sionista non coincida sempre con l'essere ebreo e/o israeliano.
  Aver cercato di far chiarezza tra queste sfumature di significato, ci fa comprendere la complessità di cui bisogna tener conto quando parliamo del contesto israeliano, a dire il vero, in qualsiasi suo aspetto, da quello politico, a quello storico o culturale.

- Lo stereotipo ed il luogo comune ci parlano del "ricco ebreo abile nella finanza e nel commercio". Come si caratterizza oggi l'economia del Paese? Possiamo parlare solo di ambiti finanziari oppure esiste anche una produzione industriale ed agricola?
  Secondo il report 2018 dell'OSCE (l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), l'economia israeliana risulta da un lato forte, performante e in crescita, dall'altro si caratterizza per la presenza di bassa coesione sociale e di disparità economiche.Nel 2017 la crescita ha rallentato ma è rimasta robusta al 3,3%. Il settore trainante è stato quello dell'high-tech e dei servizi che ad oggi rappresentano il 42% del totale, a 5,44 miliardi di dollari nel 2017.
  Possiamo quindi dire che la crescita economica israeliana è largamente dipendente dalle abilità del paese di generare scoperte tecnologiche e scientifiche e di assimilarle in processi di produzione. Infatti, nell'ultimo decennio, la capacità di ricerca e sviluppo (R&S) di Israele si è rapidamente estesa fuori dalla sfera militare, dalle università e dagli istituti di ricerca, dove inizialmente era concentrata, per creare quella che è ampiamente riconosciuta come un'economia ad alta tecnologia.
  Israele è secondo solo agli Stati Uniti su base pro capite nella sua capacità di generare start-up basate sulla tecnologia ed investe il 2,2% del suo prodotto interno lordo in R & S (il terzo livello più alto al mondo, dopo il Giappone e la Svezia e alla pari con la Germania). Queste attività si concentrano nella cosiddetta Silicon Wadi (soprannome ispirato dalla nota Silicon Valley americana) nella pianura costiera.
  Uno sviluppo abbastanza impressionante se si considera che l'economia israeliana delle origini era fortemente rivolta all'espansione e all'intensificazione dell'agricoltura tramite il lavoro delle comunità agricole, i kibbutz e i moshav. L'importanza di questo settore, anche se è diminuita nel tempo, ha comunque continuato ad evolversi grazie all'applicazione di nuove tecnologie e tecniche per la coltivazione, tanto che nel 2017 l'output derivante dal settore agricolo è stato pari a 30,2 milioni di NIS.
  Un altro settore fortemente in crescita è quello turistico che negli ultimi anni ha acquisito un'importanza economica sociale e politica significativa. Nel 2018 gli arrivi turistici sono aumentati del 13% rispetto al 2017 e del 38% rispetto al 2016, mentre le entrate derivanti da questo settore hanno superato i 24 miliardi di NIS (6,3 miliardi di dollari), secondo i dati del ministero. L'aumento è dovuto in parte a una campagna di marketing di 350 milioni di NIS (93 milioni di dollari) che promuove Israele come destinazione di viaggio. Per esempio, l'anno scorso la partenza del Giro d'Italia ha avuto luogo proprio a Gerusalemme.

- Quali lingue si parlano in Israele?
  Nel 1948 Israele promulgò la Law and Administration Ordinance la cui funzione era quella di adottare e incorporare nella legislazione dello stato nascente gran parte delle leggi vigenti in quel momento, ereditate quindi non solo dal Mandato Britannico ma anche dall'impero ottomano (ovviamente con le dovute eccezioni, modifiche ed emendamenti):
  Tra queste era compreso l'articolo 22 del Mandato Britannico di Palestina che dichiarava l'ebraico, l'arabo e l'inglese come lingue ufficiali del mandato stesso. Con la modifica del 1948, le due lingue ufficiali sono diventate solamente l'ebraico e l'arabo, ma nel luglio 2018, la Knesset ha approvato una nuova Basic Law (ovvero una di quelle leggi fondamentali cha hanno funzione quasi costituzionale, in luce del fatto che Israele non ha una vera e propria costituzione) chiamata Nation State Law che ha cambiato questo dato di fatto. Quest'ultima, in pratica, definendo Israele come "stato degli ebrei" (infatti il nome per intero della legislazione è "The Nation-State of the Jewish People") ha suscitato aspre critiche e proteste proprio perché alcuni suoi punti entrerebbero in contrasto non solo con i principi fondamentali sanciti nella dichiarazione di indipendenza, ma minerebbero anche il delicato equilibrio esistente tra le varie comunità in Israele: le maggiori proteste sono state portate avanti infatti dai cittadini drusi israeliani (gruppo etnoreligioso costituito dai seguaci di una religione monoteista di derivazione musulmana sciita) che da sempre partecipano attivamente alla vita dello stato, essendo soggetti alla leva obbligatoria.
  Non entreremo in merito al dibattito, ma il motivo per cui stiamo prendendo in considerazione questa legge e le reazioni che ha causato è perché nel paragrafo dedicato alla lingua, il primo punto definisce l'ebraico come lingua di stato e il secondo stabilisce che l'arabo invece diventi una lingua a statuto speciale. Questo passaggio sancisce ufficialmente il declassamento di questa lingua parlata da 1.838.200 cittadini, che si sono sentiti trattati come cittadini di serie B.
  Effettivamente in Israele il riconoscimento dell'utilizzo di una lingua ha un'importanza consistente, perché in un certo modo riconosce il peso sociale e politico della comunità di riferimento. Un esempio interessante è quello degli israeliani di lingua russa, ovvero quelle persone immigrate dai territori dell'ex Unione Sovietica dai primi anni Novanta. Nel giro di pochi anni, questo gruppo è riuscito ad acquisire rilevanza in Israele, non solo per la consistenza numerica (all'incirca un milione di nuovi arrivi tra il 1990 e il 1999), ma anche per la composizione di queste ondate migratorie formate per la maggior parte da intellettuali, medici, musicisti e ingegneri. Infatti, una volta arrivati nel nuovo paese hanno subito creato una rete culturale e politica in lingua russa tramite tv, giornali e addirittura partiti (Yisrael BaAliyah e poi Yisrael Beitenu) pensati per sostenere e rafforzare i valori e la cultura della comunità russofona. Un caso abbastanza unico nella storia dei flussi migratori in Israele. Sta di fatto che ad oggi non è cosa rara trovare cartelli con indicazioni scritte in russo, oppure trovare aree dedicate e personale russofono nei principali uffici e ministeri del paese.

- Israele, pur essendo geograficamente posizionato nel cuore del Medio Oriente, è considerato uno "stato occidentale". Perché?
  A mio parere, la motivazione principale è proprio legata alle origini dello stato. Partiamo dal fatto che l'idea stessa di fondare uno stato ebraico è stata concepita e strutturata nell'Europa dell'Ottocento, proprio nel periodo in cui prendevano forma le nazioni europee, ispirate da correnti di pensiero quali il nazionalismo e il romanticismo. Il sionismo, e quindi l'idea moderna della fondazione di Israele, è figlio dell'Europa dell'epoca e risulta essere la declinazione in chiave ebraica degli ideali del tempo.
  Aggiungiamo un altro tassello. Nella seconda metà dell'Ottocento, le leadership sioniste che sono emigrate nella provincia ottomana di Palestina (a cui si riferivano con il nome di Terra di Sion) e che hanno iniziato a costituire una versione embrionale dello stato, avevano una forma mentis, un'educazione, una formazione essenzialmente occidentale e hanno quindi importato le istituzioni, le funzioni e i principi statuali e politici di cui avevano fatto esperienza in quanto europei. Successivamente, proprio sotto l'egida del Mandato Britannico, l'Yshuv (ovvero la comunità ebraica nella Palestina Mandataria) iniziò a sviluppare una struttura centralizzata che potesse espletare le funzioni tipiche di uno stato.
  Per tutti questi motivi, quando Israele venne ufficialmente fondato nel 1948, è risultato uno stato di stampo occidentale.
  Inoltre, l'accettazione delle norme e dei principi che regolano le relazioni internazionali a cui si fa riferimento nella dichiarazione di indipendenza ("Lo stato di Israele […] sarà fedele ai principi della Carta delle Nazioni Unite") ha fatto sì che Israele venisse accettato e incluso come membro della famiglia delle nazioni. Sarà interessante vedere le trasformazioni future dello stato visto che sia le dinamiche interne, sia il contesto mediorientale in cui è calato sembrano mettere in discussione il carattere occidentale di Israele e i valori su cui si fondano le sue istituzioni.

ANNA BAGAINI
Cresciuta in una grande famiglia di origini palermitane, sono diventata familiare fin da piccola con la cultura e la realtà mediterranea. Negli anni, questa naturale conoscenza ha fatto emergere i miei interessi per il dialogo interculturale, la storia e la politica internazionale, avvicinandomi così al mio percorso universitario. La laurea specialistica in Relazioni Internazionali all'Università Cattolica di Milano ha fatto maturare e crescere il mio interesse per il Medio Oriente, tanto da spingermi a intraprendere la mia prima esperienza all'estero a Gerusalemme, con il Servizio Civile Nazionale presso la Custodia di Terra Santa , che ha contribuito a dare forma alla mia professionalità e personalità.
Nei lunghi periodi trascorsi in Israele, infatti, ho avuto la possibilità di entrare in contatto con persone appartenenti a diverse culture e religioni, che mi hanno fatto appassionare alla storia, all'archeologia e soprattutto al fascino di questa realtà piena di sfumature. È iniziato così il mio percorso di dottorato in Istituzioni e Politiche presso l'Università Cattolica di Milano, durante il quale ho potuto approfondire sul luogo aspetti fondamentali per la mia ricerca, insieme allo studio dell'arabo e dell'ebraico. Attualmente continuo il mio percorso di ricerca presso il centro di ricerca REPRESENT (Research Centre for the Study of Parties and Democracy) dell'Università di Nottingham, approfondendo lo studio del sistema politico e partitico israeliano.


(L'INKIESTA, 23 giugno 2019)


L'Egitto raggiunge un accordo con Israele per il risarcimento di mancate forniture di gas

 
Il gasdotto Arish-Ashkelon
IL CAIRO - L'Egitto ha firmato un accordo con la Israel Electric Corporation, di proprietà statale, che prevede il pagamento di un'ammenda di 500 milioni di dollari da elargire nei prossimi 8 anni, ponendo fine a una disputa durata sette anni a seguito dell'arresto delle esportazioni di gas verso Israele.
   Secondo la stampa egiziana, in base all'accordo firmato l'Egitto pagherà una prima tranche di 60 milioni di dollari alla società israeliana, a cui seguirà un altro versamento di 40 milioni dopo 6 mesi dall'attivazione dell'accordo. In seguito, l'Egitto pagherà 26 rate da 25 milioni di dollari ciascuna distribuite su otto anni. Nel caso in cui l'Egitto non versi due rate consecutive, la società israeliana ha il diritto di annullare l'accordo dopo aver rimborsato i versamenti ricevuti in precedenza.
   Nell'aprile del 2012, l'Egitto ha interrotto in modo unilaterale la fornitura di gas che garantiva a Israele attraverso il gasdotto Arish-Ashkelon a seguito di una serie di sabotaggi da parte dei gruppi terroristici attivi nel Sinai. All'inizio di dicembre 2015, Israeli Electric Corp ha vinto una causa arbitrale contro le egiziane Egpc ed Egas che sono state condannate a pagare 1,8 miliardi di dollari di risarcimento dalla Camera di commercio internazionale. L'Egitto ha in seguito impugnato la decisione, negoziando un risarcimento di entità inferiore. Lo scorso aprile la Israel Electric ha annunciato che le due parti erano vicine ad un accordo per il pagamento di un risarcimento di 500 milioni di dollari in otto anni.
   La disputa non ha impedito di raggiungere un accordo per l'esportazione di gas dai giacimenti israeliani verso l'Egitto. All'inizio del 2018 l'israeliana Delek Drilling e il suo partner Noble Energy hanno firmato un accordo con l'egiziana East Mediterranean Gas (Emg) per l'esportazione di gas naturale dai giacimenti offshore israeliani di Tamar e Leviathan. A inizio giugno Delek Drilling ha annunciato l'avvio di vendite commerciali di gas naturale estratto dal giacimento di Tamar verso l'Egitto entro il 30 giugno attraverso il gasdotto sottomarino tra Ashkelon e El Arish, in Sinai. L'infrastruttura, estesa circa 90 chilometri, è di proprietà della società egiziana East Mediterranean Gas (Emg). Lo scorso settembre, il 39 per cento della Emg è stato acquisito dall'israeliana Delek Drilling, della statunitense Noble Energy e dell'egiziana Egyptian Gas Transportation Company East Gas (Egcl). A fine anno, inoltre, è prevista l'aggiunta del gas prodotto da un altro giacimento israeliano: il Leviathan, che dovrebbe iniziare la produzione per la fine del 2019.

(Agenzia Nova, 23 giugno 2019)


«È splendido». Nuovo fonte battesimale a Betlemme

di Massimo Lomonaco

Un gioiello «splendido e di fattura squisita». Così Gianmarco Piacenti, capo dell'omonima azienda italiana che dirige i lavori di restauro della Chiesa della Natività a Betlemme in Cisgiordania, ha definito la scoperta resa nota da Ziad al-Bandak, capo del Comitato presidenziale palestinese che sovrintende al recupero della Basilica.
   Si tratta di un nuovo fonte battesimale circolare, probabilmente bizantino, poi traslato in epoca crociata, rinvenuto - ha spiegato Bandak alla Wafa - durante i lavori in corso nella parte sud della Basilica. Era nascosto - ha aggiunto - «nel fonte battesimale ottagonale esistente, fatto di pietra simile a quelle delle colonne». Esperti internazionali - ha proseguito - stanno arrivando per una migliore datazione del reperto. «Lo staff archeologico attualmente all'opera nella Chiesa - ha raccontato Gian Marco Piacenti - sta analizzando tutti gli strati tra le due fonti battesimali per aiutare nella datazione dei reperti». La nuova scoperta - ha aggiunto - è «un ulteriore tassello nella ricostruzione della storia della Basilica e della sua tradizione cristiana».
   Per Piacenti si tratta di «un ritrovamento importante e di grande bellezza che indica un oggetto realizzato per committenti importanti. La sua scoperta arricchisce la Basilica più antica della Terra Santa». Piacenti ha poi spiegato che il nuovo fonte battesimale «è venuto alla luce nei giorni scorsi quando il team attualmente al lavoro sui restauri stava facendo come elemento preparatorio la stratigrafia archeologica degli strati che occludono l'interno del pozzo».
   Toccherà ora allo storico medievalista Michele Bacci, italiano dell'Università di Friburgo - ha aggiunto ancora - datare con precisione l'oggetto ritrovato. Per Piacenti «il nuov fonte battesimale si aggiunge nella sua importanza ai gioielli trovati nel corso del restauro. Tra questi l'Angelo in mosaico nelle pareti della Navata centrale, i brani inediti di mosaico costantiniano e le due lanterne del sesto secolo trovate durante gli scavi per riportare alla luce i mosaici pavimentali».
   La Ditta Piacenti - sconfiggendo altri 11 partecipanti internazionali - ha vinto la gara per il restauro della Natività nel luglio del 2013 ed ha cominciato i lavori nel settembre dello stesso anno.
   «La cerimonia internazionale alla fine dei lavori di restauro programmata in un primo momento per il prossimo novembre - ha spiegato Bandak - è stata spostata nel maggio del prossimo anno in modo da consentire alle tre Chiese che hanno in carico la Natività (la Greco Ortodossa, la cattolica Custodia di Terra Santa e quella Armena) di compiere il restauro della Grotta in accordo con lo Status quo, visto che questa è la fondazione e l'essenza della santità della Chiesa».

(La Gazzetta del Mezzogiorno, 23 giugno 2019)


50 miliardi per rilanciare la pace

Secondo la Banca Mondiale il tasso di disoccupazione registrato nei territori palestinesi si attesta attorno al 31 per cento (dati del 2018). Se si considera solo Gaza, la percentuale sale al 52. Cisgiordania e Gaza sono al 116o posto su 190 economie nella classifica "Ease of doing business", che indica la facilità con cui si può svolgere attività imprenditoriale nei diversi paesi. L'arretratezza dell'economia palestinese è un elemento noto e su questo sta puntando l'amministrazione americana per tracciare un nuovo percorso che porti a un negoziato di pace tra israeliani e palestinesi. 50 miliardi di dollari da investire tra Gaza e Cisgiordania per creare nuove infrastrutture e occupazione: è quanto promette l'ambizioso progetto economico svelato nelle scorse ore dalla Casa Bianca e frutto del lavoro del genero del presidente Usa, Jared Kushner. L'iniziativa, che richiede un mix di finanziamenti pubblici e privati e intende creare almeno un milione di nuovi posti di lavoro per i palestinesi, sarà presentata a una conferenza di due giorni in Bahrein dedicata proprio al tema palestinese.
   Il piano decennale prevede progetti per un valore di 27,5 miliardi di dollari in Cisgiordania e Gaza, mentre altri andrebbero nelle casse di Egitto (9,1), Giordania (7,4) e Libano (6,3). I progetti previsti includono diversi settori, dalla sanità all'istruzione, dall'energia all'high tech fino a turismo e agricoltura. L'idea è di creare un fondo di investimenti che si occupi di amministrare le finanze messe a disposizione da Stati Uniti, paesi arabi, e altri possibili investitori. Nell'idea di Kushner, si tratterebbe di realizzare un progetto simile al Piano Marshall che permise all'Europa di ricostruirsi dopo la Seconda guerra mondiale. In questa prima parte di progetto non si toccano temi politici: non si parla di Stato palestinese, di rifugiati o di Gerusalemme.
   "Il piano non può passare perché pone fine alla causa palestinese", ha commentato il leader dell'Autorità nazionale palestinese Mahmoud Abbas, bocciando subito l'iniziativa che sarà presentata in Bahrein. "Non parteciperemo a questo workshop, - ha detto Abbas in riferimento alla due giorni nel paese del Golfo - il motivo è che la questione economica non dovrebbe essere discussa prima di quella politica, finché non c'è una questione politica, non ci occupiamo di alcuna questione economica".
   Da parte israeliana non ci sono stati commenti in merito alla pubblicazione del piano. Non ne ha parlato il Primo ministro Benjamin Netanyahu che in queste ore ha incontrato il Consigliere per la Sicurezza Usa John Bolton con cui ha discusso della minaccia iraniana. Netanyahu ha ringraziato gli Stati Uniti per le nuove sanzioni comminate contro Teheran e ribadito le sue critiche all'accordo nucleare voluto dal predecessore di Trump, Barack Obama. "Coloro che descrivono le azioni recenti (dell'Iran) come la scossa del nido di un calabrone vivono su un altro pianeta. In realtà, l'unica cosa che è cambiata per noi che viviamo in Medio Oriente non è che l'Iran stia attaccando i suoi vicini o perpetrando sfacciatamente aggressioni assurde. La novità è che ora, grazie alle paralizzanti sanzioni americane, l'Iran sta affrontando una pressione economica senza precedenti come risultato della sua aggressione. Sono stato quindi lieto di sentire il Presidente Trump affermare chiaramente che le pressioni continueranno e aumenteranno", ha dichiarato Netanyahu. Niente sul "Piano del secolo", come è stato definito il progetto portato avanti da Kushner. Questo perché, secondo Yedioth Ahronoth, il piano ha degli elementi che il governo di Gerusalemme ritiene irricevibili. Tra questi, per questioni di sicurezza, l'idea di collegare la Cisgiordania e Gaza con una moderna rete di trasporti, compreso un servizio ferroviario ad alta velocità. "Il collegamento tra Gaza e la Cisgiordania, come suggeriscono gli americani nel loro piano, sta facendo vedere rosso alla leadership israeliana. - scrive Itamar Eichner - Per anni, il governo israeliano si è assicurato di tenere divisa la popolazione palestinese di Gaza dalla Cisgiordania e ha rifiutato qualsiasi tentativo di collegare le due aree attraverso tunnel, ponti, treni o strade".
   Diversi analisti ritengono il progetto troppo ambizioso e in molti si chiedono da dove arriveranno i 50 miliardi di dollari annunciati. Per Nora Landau, giornalista di Haaretz, questa parte economica rappresenta più una visione che un progetto concreto: un modo per dire ai palestinesi, questo è ciò che vi state perdendo. "L'intero concetto, come Greenblatt (Jason, rappresentante Usa per il Medio Oriente) stesso ha detto più volte in passato, è quello di presentare una 'visione' ai palestinesi.- scrive Landau - L'intento, ha detto, era quello di trasmettere un messaggio al popolo palestinese e alla sua leadership: se si raggiunge un accordo politico, ecco cosa potrebbe accadere, ecco le tante grandi cose di cui i palestinesi potrebbero beneficiare. E se non si raggiunge un accordo, ha affermato Greenblatt, l'intenzione è che comprendano meglio il conflitto, per consentire alla gente di sognare, ciò che si potrebbe fare per sostituire la situazione attuale. In altre parole, il piano dovrebbe essere analizzato come una proposta narrativa per un futuro migliore piuttosto che una descrizione del prossimo futuro. I funzionari statunitensi sono stati attenti a notare che la sezione economica è solo una delle due parti del piano, e che la sua parte politica sarà presentata dopo le elezioni israeliane del 17 settembre".

(moked, 23 giugno 2019)



Il giorno del Signore verrà come un ladro

Ma voi, carissimi, non dimenticate quest'unica cosa: che per il Signore un giorno è come mille anni, e mille anni sono come un giorno. Il Signore non ritarda l'adempimento della sua promessa, come pretendono alcuni; ma è paziente verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti giungano al ravvedimento. Il giorno del Signore verrà come un ladro: in quel giorno i cieli passeranno stridendo, gli elementi infiammati si dissolveranno, la terra e le opere che sono in essa saranno bruciate.

Dalla seconda lettera dell’apostolo Pietro, cap. 3

 


Gli Stati Uniti mettono 50 miliardi per la pace fra Israele e Palestina

Investimenti nei territori lungo la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Ma il presidente dell'Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, chiede di dare priorità alla situazione politica.

Gli Stati Uniti hanno lanciato la prima parte del loro nuovo piano di pace fra Israele e Palestina. Sul piatto ci sono 50 miliardi di dollari di investimenti nei territori palestinesi lungo la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, oltre che per sostenere l'economia delle aree limitrofe negli stati confinanti di Giordania, Libano ed Egitto. Il piano sarà presentato da Jared Kushner, consigliere della Casa Bianca e genero del presidente americano Donald Trump, durante la conferenza su Medio Oriente che si terrà in Bahrein la prossima settimana.

 I palestinesi chiedono di risolvere prima i problemi di sovranità
  I palestinesi, però, hanno già giudicato negativamente il piano americano, affermando che Washington dovrebbe prima lavorare per porre fine al «furto della nostra terra da parte di Israele». Prima di parlare di soldi «occorre porre fine all'assedio di Gaza, fermare il furto da parte di Israele della nostra terra, delle nostre risorse e dei nostri fondi, darci la nostra libertà di movimento e il controllo dei nostri confini, del nostro spazio aereo e delle nostre acque territoriali.. Poi guardarci costruire un'economia prospera come popolo libero e sovrano». Concetti ribaditi anche dal presidente dell'Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen: «La situazione economica dei palestinesi non deve essere discussa prima di quella politica. Finché non ci sarà una soluzione politica, non faremo nessun accordo economico». Il leader ha quindi ribadito che i palestinesi non parteciperanno al Seminario di Manama, in Bahrein, dedicato ai temi economici del piano di pace dell'amministrazione Trump.

(Lettera43, 22 giugno 2019)


La tela di Bolton. Il viaggio in Israele e il rapporto con i russi. Pensando all'Iran

La missione del consigliere di Trump per alcuni incontri con funzionari russi e israeliani. Ma la testa sarà a Teheran.

di Emanuele Rossi

John Bolton
Il consigliere per la sicurezza nazionale americano, John Bolton, si sta recando in Israele, per un incontro trilaterale con funzionari israeliani e russi. In particolare, Bolton discuterà delle attuali problematiche regionali con le sue controparti, Meri Ben-Shabbat e Nikolai Patrushev. Al centro dei colloqui dovrebbero trovarsi le recenti tensioni esplose tra Stati Uniti e Iran. Senza poi dimenticare il dossier siriano e il workshop economico del Bahrain, in cui - la settimana prossima - Washington dovrebbe iniziare a svelare alcuni elementi del piano di pace elaborato per porre fine al conflitto israeliano-palestinese. Inoltre, Bolton dovrebbe incontrare domattina il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Che comunque sarà l'Iran l'argomento centrale di questi colloqui è altamente probabile.

 La questione drone
  Gli incontri avvengono del resto a ridosso della crisi tra Washington e Teheran, scoppiata dopo che - giovedì - i pasdaran hanno rivendicato l'abbattimento di un drone americano. Netanyahu ha accolto nei giorni scorsi l'annuncio del summit come un evento "storico e senza precedenti", nell'ottica di garantire "stabilità in Medio Oriente in tempi turbolenti".
  "Ciò che è importante in questo incontro trilaterale delle due superpotenze nello Stato di Israele - ha poi aggiunto il premier - è che attesta grandemente l'attuale posizione internazionale di Israele tra le nazioni". La Russia, dal canto suo, ha fatto sapere giovedì scorso di voler guardare agli interessi di Teheran. In tal senso, Patrushev ha dichiarato: "L'Iran è in Siria su invito del governo legittimo ed è attivamente coinvolto nella lotta al terrorismo. Pertanto, ovviamente, dovremo prendere in considerazione gli interessi dell'Iran".

 Il ruolo di Bolton
  Insomma, le dinamiche in gioco non sono affatto poche. E il fatto stesso che sia Bolton a rappresentare gli Stati Uniti in questi colloqui ha un significato che va ben oltre la carica che ricopre. Non è del resto un mistero che l'attuale consigliere per la sicurezza nazionale americano risulti tra i profili attualmente più interventisti dalle parti di Washington. Dipendesse da lui, la Casa Bianca dovrebbe approvare un attacco militare diretto contro l'Iran, per abbattere il regime degli ayatollah.
  Un approccio decisamente muscolare, rispetto a cui Trump sta tirando il freno a mano. Una divergenza di prospettiva che tocca anche Damasco: non dimentichiamo infatti che il presidente americano auspichi da tempo un ritiro delle truppe statunitensi dallo scacchiere siriano. Una linea di disimpegno non troppo condivisa da Bolton, che ha spesso invocato in passato un cambio di regime anche in Siria. Senza trascurare poi la freddezza che l'attuale consigliere americano ha sempre nutrito verso Mosca. Un fattore che potrebbe avere delle ripercussioni negative sugli incontri.

 E quello di Israele
  Netanyahu, dal canto suo, sta tentando di ritagliarsi il ruolo diplomatico di grande mediatore nello scenario mediorientale. Una strategia che ha un duplice obiettivo: cercare di proteggersi dalla minaccia iraniana tramite la mediazione della Russia e rafforzare la propria posizione interna, in vista delle elezioni del prossimo settembre. Il premier israeliano, insomma, potrebbe contribuire al processo di distensione tra Washington e Mosca: processo auspicato tanto da Trump quanto da Putin. Un processo che trova tuttavia la ferrea opposizione di ampi settori dell'establishment americano. Ampi settori di cui è in sostanza portavoce lo stesso Bolton.
  Ma l'ostilità dei falchi statunitensi non è certo l'unico ostacolo sul tavolo. Un altro elemento di divisione riguarda infatti le forti divergenze su Teheran. Se - come abbiamo accennato - il Cremlino continua a considerare la Repubblica Islamica un alleato da proteggere, Israele mantiene una postura molto più guardinga sulla questione. In secondo luogo, un altro fattore di attrito tra Israele e Russia potrebbe riguardare proprio Damasco. Netanyahu auspicherebbe infatti una rapida rimozione di tutte le forze straniere dal territorio siriano, per tornare alla situazione precedente al 2011. L'obiettivo principale del premier è quello di allontanare i gruppi armati vicini all'Iran e - in una prospettiva più a lungo termine - allentare possibilmente l'influenza geopolitica russa sulla regione. Si tratta di una linea delicatissima, rispetto a cui è tutt'altro che scontata la possibilità di arrivare a un compromesso con Putin.

(formiche, 22 giugno 2019)


La crescita dell'antisemitismo in Occidente

di Guido Capizzi

ZURIGO - Dopo il programma RAI dedicato ai 90 anni che avrebbe compiuto la giornalista-scrittrice Oriana Fallaci e l'evidenza mediatica internazionale data allo scrittore Michel Houellebecq, entrambi tenaci assertori del rischio di invasione musulmana in Europa con la conseguente decadenza della cultura e tradizione occidentale, accennare alla questione dello strisciante antisemitismo è un obbligo che ci compete.
 
Richard Francis Burton
   Un collettivo politico comunista può essere composto da soggetti provenienti da vari e diversi percorsi, tutti da rispettare in un'ottica di accoglienza della dignità delle esperienze. Il fatto è che l'antisemitismo è in costante crescita in occidente a cui l'islam affianca e precede l'antisionismo. Non va dimenticato, infatti, che gli arabi sono stati i grandi fautori e iniziatori del traffico di esseri umani e della vendita degli schiavi in Africa. Un osservatore, l'esploratore inglese del XIX secolo, Richard Francis Burton, ha descritto in un paio di libri-biografie - recentemente tradotti dalla nostra redattrice Ida Paola Sozzani per un autore italiano che vuole scrivere un volume su Burtons - il consolidato fenomeno.
   Allora, l'antisemitismo che cresce in Occidente è un tema su cui riflettere cercando di non cadere nella trappola dell'antisionismo islamista a cui non possiamo imputare l'incremento dell'ideologia nazi-fascista che vorrebbe l'estinzione degli ebrei. A livello accademico, qui a Zurigo, se n'è parlato dopo che nei giorni scorsi le barzellette sugli ebrei scambiate in una chat di gruppo dagli alunni - un po' in ritardo nella comprensione della Storia - di una scuola secondaria di Elgg sono rimbalzate alla ribalta della cronaca.
   L'ombra dell'antisemitismo si sta allungando addirittura sul movimento giovanile per la difesa del clima. Un rapporto sull'antisemitismo pubblicato dalla Federazione svizzera delle comunità israelitiche ha certificato l'esistenza della tendenza nella Svizzera tedesca. Insomma, le esternazioni antisemite non rappresentano un fenomeno sporadico. Nei commenti dei media online e sui social gli antisemiti imperversano indisturbati. Nel 2018, 535 casi con in più altri 114 commenti al limite, il sommerso può essere più ampio.
   Jonathan Kreutner ci mette in guardia: "abbiamo a che fare con un problema sociale". Il tema comincia a preoccupare anche la politica: "l'antisemitismo sta tornando, è inquietante e scioccante" ha detto il consigliere nazionale elvetico Cédric Wermuth. Le scuole dovrebbero sensibilizzare di più sul tema, i docenti dovrebbero intavolare una discussione con gli alunni che mostrano comportamenti antisemiti, le tendenze antisemite dipendono anche da un'educazione e una coscienza storica carenti nelle famiglie.
   Il gruppo di analisti geo-economisti-politici riuniti a Zurigo hanno esaminato a lungo la questione, allargando la visione ad altri Paesi occidentali, accumunati dall'essere capitalisti, di tendenza colonialista e imperialista. A New York sono in aumento i crimini d'odio, in particolare proprio l'antisemitismo. Secondo il New York Times ci sono già stati 55 reati di odio religioso dal primo gennaio 2019, tasso che fa registrare un +72% rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso. Due terzi (36, contro i 21 del 2018) sono avvenuti contro gli ebrei a Brooklyn. Il Nyt ha riportato video di casi avvenuti nel quartiere di Crown Heights, che hanno scatenato l'allarme della comunità ebraica ortodossa. In un video un ebreo di 51 anni è picchiato da tre giovani, in un altro filmato un ebreo ortodosso viene inseguito per strada da un uomo che brandisce il ramo di un albero. Un terzo mostra un ebreo ortodosso attaccato a una recinzione mentre un aggressore tenta di soffocarlo. L'ondata di attacchi antisemiti a Brooklyn è proseguita quando due uomini hanno infranto la vetrata di una sinagoga a Bushwick, nessuno è rimasto ferito. Lo stesso governatore di New York, Andrew Cuomo, è intervenuto con un pesante commento: "questo atto di odio è scioccante e ripugnante".
   Si dice un po' ovunque che "la sinagoga la si riconosce facilmente, è quella con la camionetta dell'esercito davanti". Un commento leggero, fatto anche senza cattive intenzioni, diciamo "normale", ma che purtroppo corrisponde a un'immagine diventata "familiare" da essere considerata "normale", rassicurante. Ma non è così! Ben l'85% degli intervistati in un sondaggio eseguito in Francia, Inghilterra e Germania sull'antisemitismo ha risposto che considera antisemitismo e razzismo come i problemi peggiori dei Paesi Europei. L'89% è convinto che l'antisemitismo nel proprio Paese sia aumentato nel corso degli ultimi cinque anni. Il 72% di chi ha risposto esprime preoccupazione per l'aumento dell'intolleranza anche nei confronti dei musulmani. L'89% percepisce l'odio online come un problema grave. La maggior parte dei partecipanti ha dichiarato di essere esposto regolarmente a commenti negativi sugli ebrei, l'80% ha identificato internet come il luogo dove avviene più spesso.
   In un secondo sondaggio sulla percezione dell'antisemitismo, che si è tenuto intervistando 16.395 residenti in Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Ungheria, Italia, Paesi Bassi, Polonia, Spagna, Svezia, Regno Unito e Lettonia, ovvero Paesi in cui abita il 96% degli ebrei europei, le risposte sono comuni: l'antisemitismo pervade lo spazio pubblico e gli stereotipi negativi sugli ebrei si moltiplicano. Essere ebrei è un motivo sufficiente per subire varie forme di abusi ed è forte la percezione che l'antisemitismo continui ad aumentare.
   La grande maggioranza, il 70%, crede che gli sforzi fatti dal proprio governo per combattere l'antisemitismo siano inefficaci. In questo quadro non dimentichiamo che la popolazione ebraica dell'Europa è diminuita drasticamente negli ultimi 150 anni: un secolo e mezzo fa, gli ebrei europei costituivano quasi il 90% della popolazione ebraica mondiale, mentre oggi sono meno del 10%. È inconcepibile che una minoranza che ha vissuto in Europa per un tempo così lungo debba sentirsi così vulnerabile e a disagio. È ora di iniziare a chiedersi perché.

(La Città Futura, 22 giugno 2019)


Vi racconto tutte le ombre delle Ong. Parla il prof. Steinberg

Conversazione di Formiche.net con l'esperto e professore presso la Bar Ilan University Gerald Steinberg, fondatore del think thank israeliano Ngo Monitor

di Rebecca Mieli

Il prof. Gerald Steinberg
Il tema migratorio e il ruolo delle Ong nell'arrivo di migranti sulle coste italiane sono al centro del dibattito politico e di sicurezza italiano. Dall'altra parte del Mediterraneo, in Israele, l'esperto e professore presso la Bar Ilan University Gerald Steinberg ha creato un think thank denominato Ngo Monitor, che si è posto l'obiettivo di analizzare l'attività delle organizzazioni non governative, i loro scopi, i loro legami, la loro organizzazione interna, nonché le origini e la destinazione ultima dei finanziamenti a loro indirizzati. Formiche.net lo ha intervistato a Roma, in occasione di un incontro promosso dall'Ambasciata dello Stato di Israele in Italia.

- Professor Steinberg, qual è il ruolo che le Organizzazioni non governative svolgono oggi?
  Le Ong sono diventate potenti attori politici all'interno dei conflitti politici, in particolare in Europa. Queste organizzazioni possono contare su imponenti finanziamenti, spesso forniti dai governi come sostegno per "promozione della pace, aiuti umanitari e diritti umani". Spesso le Ong usano queste risorse per finanziare quella propaganda che non fa che aumentare odio, violenza e antisemitismo. Alcune Ong evitano questi insuccessi, ma le attività di molti altri evidenziano la necessità di linee guida professionali, controlli, trasparenza e responsabilità, così come è già il meccanismo di verifica di vari settori politici.

- Perché parla di antisemitismo?
  I potenti funzionari delle Organizzazioni non governative sono spesso attivisti radicali anti-occidentali, post-coloniali e in alcuni casi antisemiti. I responsabili di Human Rights Watch e Amnesty International, ad esempio, sono anche parte della leadership del Bds (il movimento che promuove il boicottaggio contro Israele) e altre organizzazioni che promuovono forme di demonizzazione di Israele. Questi spingono false accuse, in particolare riguardo presunti "crimini di guerra" e inventano "rapporti" che poi esibiscono di fronte alle Nazioni Unite, alla Corte penale internazionale, e che diffondono tramite giornalisti, parlamenti e università. Sono erroneamente considerati degli esperti neutrali, un problema che permette a questa propaganda di diffondersi. Ma non è una questione che riguarda solo Israele.

- A che cosa si riferisce?
  Il conflitto alimentato dalle Organizzazioni non governative esiste in diverse regioni, tra cui i Balcani e nello Sri Lanka, anche se non nella misura del conflitto israelo-palestinese.

- Come sono cambiate le Ong negli ultimi anni?
  Ong come Amnesty iniziarono il loro percorso negli anni '60, ed erano solo piccoli gruppi di volontari che protestavano contro i maltrattamenti dei prigionieri politici. Si sono espansi e sono diventati una grande industria, finanziata dai governi e dall'Onu. La sola Unione Europea spende ogni anno 2 miliardi di euro per le Ong, senza alcuna sorveglianza o controlli di mera responsabilità. Un certo numero di beneficiari di questi investimenti stanno conducendo campagne propagandistiche contro Israele e sono collegati, in vario modo, a gruppi inseriti nell'elenco delle organizzazioni terroristiche, come il Fronte popolare per la liberazione della Palestina.

- Il suo lavoro si è concentrato anche sul ruolo delle Ong nelle cosiddette Primavere arabe. Che cosa ha scoperto?
  Ci sono alcuni casi di processi che hanno portato alle rivolte arabe e che hanno coinvolto anche le Ong, ma le informazioni e le prove che ho avuto modo di consultare non sono chiare. A mio avviso, queste rivolte si sarebbero verificate comunque anche senza il coinvolgimento delle Ong.

- Negli ultimi anni, le Ong sono al centro del dibattito italiano e europeo per le loro azioni di salvataggio dei migranti che arrivano nel in Italia attraverso la rotta del Mediterraneo. Sono state accusate di collusione con i trafficanti e di aver incoraggiato la partenza di imbarcazioni dalla Libia verso l'Italia. Qual è il suo parere?
  Questo è l'ennesimo esempio di Ong radicali (spesso finanziate dall'Unione Europea e dai singoli governi) che prendono le loro politiche interne e le impongono ai governi, costringendo organi legislativi democraticamente eletti a fare ciò che loro vogliono. Oltre a questo, non si assumono mai alcuna responsabilità per l'impatto negativo delle loro azioni.

(formiche, 22 giugno 2019)


Innovazione e Sport: il futuro passa da Israele

Chutzpah nel suo senso più positivo è quello che consente all'imprenditore israeliano di comprendere adeguatamente la cultura aziendale e di funzionare bene all'interno dei suoi parametri, oltre che di essere aperto a critiche costruttive, la quantità di coraggio, di calore o di ardore che un individuo ha. È la qualità dell'audacia.

di Cristian Lanzanova

Presenti in Israele al Future Sport 2019, evento organizzato dall'Israel Export Institute abbiamo avuto la conferma di quanto il piccolo stato del mediterraneo sia diventato capitale del mondo della tecnologia legata allo sport. In questi giorni più di 100 ospiti internazionali e altrettante startup israeliane hanno incrociato le proprie strade per la modernizzazione di tutti i settori dello sport.
Nella tre giorni intensa, dal 3 al 6 giugno, in tre location eccezionali come il Sammy Ofer Stadium, Haifa, la 'Menora Mivtachim' Arena di Tel Aviv e la Capitale, Gerusalemme, oltre a capire i salti in avanti che la tecnologia sta facendo nel settore sport, abbiamo visitato le tre più importanti città israeliane e visto la capacità di Israele nel trasformare la tecnologia militare in un impostazione civile.

È anche grazie all'Israel Export Institute, istituzione non governativa che ha l'obiettivo di fare da "ponte" tra il mondo e le aziende israeliane, che Israele è diventato nel corso degli anni un Paese in crescita costante e che ha puntato tutto sull'innovazione. Il successo non è però frutto di improvvisazione, anzi, è frutto di un lavoro di collaborazione tra pubblico e privato e alla gestione oculata dei fondi del Ministero
nell'investire in ricerca e sviluppo. "Il nostro obiettivo principale è aiutare le start-up israeliane a crescere globalmente per avere successo con tutte le aziende internazionali", Noa Avrahami, Manager, Digital Media Sector, Israel Export Institute.

Così infatti funziona Future Sport, l'Israel Export Institute seleziona le migliori società che possono essere interessanti per il settore sport, e le presenta a investitori, possibili partner e media arrivati in tutto il mondo. Solo per fare due nomi di partecipanti, nell'edizione 2019 erano presenti i rappresentanti dei più importanti campionati calcistici al mondo, Liga Spagnola e della Bundesliga, il canale di riferimento per gli sportivi Sky Sport, rappresentanti dell'UEFA e un brand che non ha bisogno di descrizione, Intel.
Nella prima giornata abbiamo assistito a dimostrazioni live nello stadio più tecnologico di Israele, il Sammy Ofer Stadium, ad Haifa.

Ogni compagnia aveva uno spazio dove potevano mostrare le loro incredibili soluzioni per migliorare l'esperienza, sia all'interno che all'esterno del campo di calcio.
Tra le presenze istituzionali vanno senza dubbio menzionati Lior Konitzki, Vice Direttore Generale,
Responsabile della Divisione Industrie della Tecnologia, dell'Israel Export Institute; Doron Hemo, direttore del dipartimento America, nominato capo della missione economica a Monaco, Ministero dell'economia e dell'industria, David Etzioni, Vice Sindaco di Haifa, Presidente di Haifa Economic Corporation, Moshe Ponti, Presidente, Federazione Israeliana di Judo (l'uomo dietro al miracolo Judo in Israele); Ronit Glasman, Direttore Marketing, Associazione Calcio Israeliana.

Molto interessanti i panel sull'argomento TV Sports, dove Ronen Artman, VP Marketing, LiveU, ha spiegato che in un momento in cui la gente guarda la TV meno tradizionale, la categoria sportiva è un'isola ricca di opportunità. Mr. Artman ha mostrato le tendenze del mercato, le sfide e le nuove opportunità creative disponibili per emittenti sportive, club, leghe e federazioni. Così come il legame che esiste tra la Bundesliga e Track 160, rappresentata dal prescindete Miky Tamir, che quantifica le prestazioni e le metriche tattiche negli sport di squadra. L'azienda utilizza l'Intelligenza Artificiale e, più concretamente, tecniche di deep learning, per tracciare e identificare i giocatori durante le partite e per tracciare le traiettorie della palla da un singolo video di punto di vista utilizzando video panoramici o solo una serie di 2-3 cam che coprono il campo di gioco.

successivamente sono state organizzate tavole rotonde per determinati argomenti, sessioni vere e proprie di discussione su aree focalizzate dove lo sport e tecnologia si intersecano, momenti accompagnati da esperti israeliani che hanno contribuito alla discussione di gruppo. Ogni partecipante sceglie la propria sessione preferita, con 10-12 partecipanti attorno al tavolo, SportEconomy era presente a quella dal titolo "Lo sport nel 2025 - Dovrei investire in OTT?" Dove abbiamo concordato che l'attenzione media di un telespettatore che guarda sport continua a ridursi e che assieme alla classica TV bisogna fornire il "cliente" altro intrattenimento live, come, ad esempio, impostando la grafica in anticipo o modificata al volo durante il live streaming, consentendo di brandizzare dinamicamente i contenuti con una vasta gamma di opzioni di design, tra cui titoli, loghi, tabelloni e altro ancora. Tutta la grafica può essere controllata e modificata in tempo reale per la massima flessibilità.

Alla 'Menora Mivtachim' Arena di Tel Aviv, casa della leggendaria squadra di basket del Maccabi abbiamo assistito a dimostrazioni organizzate da Intel Sports. Nella prima tappa Intel Sports tour & demo abbiamo visto la tecnologia TrueView, che consiste di una regia vera e propria, server e telecamere posizionate all'interno di tutto il perimetro dell'arena. Questo il risultato:
Gli altri brand che hanno dato dimostrazione delle loro capacità sono state LiveU che consente ai team e ai programmi sportivi di trasmettere contenuti video dal vivo avvincenti come partite dal vivo, interviste a margine, conferenze stampa e filmati di allenamento. Le unità di campo LiveU sfruttano la potenza di un camion satellitare in uno piccolo zaino e di facile utilizzo per la produzione e la distribuzione end-to-end, rendendo semplice per i team di produzione sportiva la trasmissione di eventi live e la pubblicazione immediata di momenti salienti. Le emittenti sportive e i team di tutto il mondo utilizzano le soluzioni LiveU per mantenere i propri fan impegnati tutto l'anno, dai campionati live agli aggiornamenti fuori stagione.

RSPCT, che utilizza il tracciamento dei tiri a canestro ad alta precisione per migliorare i giocatori e le decisioni di tiro e di squadra. È un sistema che si installa facilmente e rapidamente sul telaio, il sistema è appena visibile e ti consente di visualizzare i dati e approfondimenti mentre la partita va avanti. Il sistema RSPCT è attualmente utilizzato da squadre NBA, università e scuole superiori.

Griip : piattaforma per cambiare il modo delle gara automobilistiche, una vera e propria rivoluzione nel mondo delle corse, capace di fornire dati a fan e piloti. I fan ricevono contenuti creando un'esperienza di
visione entusiasmante e coinvolgente, i driver ricevono i dati necessari per migliorare e crescere.

Infine nell'ultima giornata abbiamo visitato, a Gerusalemme, OurCrowd, piattaforma di crowdfunding azionaria creata per gli investitori accreditati per fornire finanziamenti in capitale di rischio per le startup in fase iniziale. Con filiali estere negli Stati Uniti, in Canada, Australia e Singapore, il CEO Jonathan Medved e il suo team di professionisti esperti in investimenti gestiscono gli investimenti e alimentando innovazioni che cambiano il modo in cui le persone lavorano, viaggiano, acquistano, guariscono e conducono affari.
Per concludere, l'esperienza in Israele è stata molto formativa e, dispiace dirlo, ancora una volta si è constatato quanto il nostro paese sia assente in queste manifestazioni internazionali, ad eccezione de Wylab, primo incubatore di aziende sportech in Italia. Parliamo spesso sui media di innovazione e tecnologia legata al mondo dello sport, non solo calcio ma tutto il sistema sport, e quando ci sono opportunità di partecipare a manifestazioni così interessanti e ricche di contenute ce le facciamo scappare. È un peccato, complimenti allo Stato d'Israele, a Future Sport, agli organizzatori dell'Israel Export Institute e a chi c'era a questo evento unico.

(SportEconomy, 22 giugno 2019)



Estate da "sogno a Firenze". Incontri, musica e gusto, in Sinagoga

E’ tempo di "Balagan Café"

 
FIRENZE - Il sogno di una società migliore, più giusta e accogliente, dove le diversità siano una ricchezza e non un pericolo da eliminare. Sarà questo il fil rouge per l'edizione 2019 del Balagan Cafè, la kermesse culturale estiva in programma dal 27 giugno al 18 luglio e il 5 e 22 settembre nella Sinagoga di Firenze. La manifestazione, giunta alla sua settima edizione, è organizzata dalla Comunità Ebraica di Firenze in collaborazione con il Comune di Firenze nell'ambito del calendario dell'Estate Fiorentina e con il contributo della Regione Toscana.
  "Il sogno" è il tema scelto per questa edizione per far incontrare lingue e culture diverse, in tempi sempre più difficili per la convivenza, in cui la cultura della differenza sembra far strada a un ritorno alla concezione dell'identità come chiusura settaria nel proprio piccolo guscio. "Il sogno" inteso non come illusione, ma come ispirazione del cambiamento, dal messaggio degli antichi profeti nei sogni che nell'Ebraismo rappresentano il contatto con il divino, con la Legge, con l'etica, ai sogni dei popoli dei nostri tempi. Dalla dimensione intima e individuale dell'inconscio fino alle grandi utopie, ai sogni collettivi. La ricetta del "Balagan Cafè" è quella ormai consolidata: apertura alle ore 19, incontri e degustazioni di piatti dal mondo e concerto-spettacolo (ingresso gratuito; apericena offerta consigliata 10 euro). Durante le serate del Balagan Cafè sarà possibile visitare la Sinagoga alle ore 20,45 (costo biglietto ridotto 6,50 euro).
  L'inaugurazione con l'assessore Funaro - Ad inaugurare la manifestazione sarà giovedì 27 giugno "Il sogno del Balagàn" con apericena ispirata al libro "Ricette e precetti" di Miriam Camerini (ed. Giuntina) che parteciperà alla serata. A preparare i piatti della tradizione ebraica saranno gli chef Michele Hagen e Jean Michel Carasso. A seguire (ore 20,30) "I sogni del Balagan: Firenze e la cultura dei diritti" a cui interverrà l'assessore ai diritti e alle pari opportunità del Comune di Firenze Sara Funaro. Alle ore 21 l'Orchestra Multietnica di Arezzo diretta da Enrico Fink sarà in concerto con "Culture contro la paura", un progetto dedicato alla ricchezza delle differenze, un concerto in cui si alterneranno voci dall'Albania, dalla Russia, dal Libano, dall'Argentina, dalla Romania, dal Bangladesh. Verranno presentati anche brani dal nuovo disco, a cui hanno partecipato artisti come Dario Brunori, Bandabardò, Frank London, Shel Shapiro, Dente, Raiz, Paolo Benvegnù e tanti altri.
  Il programma Il Balagan Cafè prosegue giovedì 4 luglio con "Il sogno e l'arte": alle ore 19 omaggio al direttore degli Uffizi Eike Schmidt, Menorah d'Oro 2019. Si tratta di un premio conferito ogni anno dal Benè Berith di Roma (associazione non governativa internazionale che si occupa di diritti dell'uomo) a quanti, nel mondo della cultura, della politica, dell'imprenditoria e della società civile, si sono particolarmente distinti per la loro azione contro ogni fenomeno di razzismo e di intolleranza. Alla serata partecipa anche il Conservatorio Cherubini di Firenze: il quartetto Amitié (diretto dal maestro Marco Lorenzini) esegue pagine inedite di Federico Consolo, provenienti dall'archivio del Conservatorio. Consolo è una delle figure più internazionalmente più note fra gli studiosi di musica ebraica, in particolare per il suo fondamentale volume del 1892, pubblicato a Firenze, "Libro dei Canti d'Israele", in cui trascrive una ricchissima selezione del repertorio musicale della liturgia sefardita livornese: il conservatorio di Firenze ne conserva un grande archivio di pubblicazioni, manoscritti e testi autografi.
  Giovedì 11 luglio "Sogni di giustizia, sogni di libertà". Un viaggio che abbraccia un secolo di storia e tre continenti, dalla Russia Zarista al Sudamerica delle dittature: Laura Forti presenta il suo libro "L'Acrobata" (ed. Giuntina), finalista al premio Viareggio, insieme alla giornalista Maria Cristina Carratù. A seguire una delle voci più affascinanti della canzone ebraica - Lee Colbert in concerto con il pianista Paolo Cintio: "Yiddish Tango… e non solo". Nata a Buenos Aires, Lee Colbert è una amatissima interprete che spazia fra canzone yiddish e tango, fra musica ebraica e sudamericana.
  Giovedì 18 luglio "Sogni a cielo aperto". Luca Bravi (Università di Firenze) introduce un incontro con alcuni giovani delle comunità Rom e Sinti di Firenze e Prato. Ancora una volta la Comunità Ebraica si confronta con un'altra comunità del nostro territorio; sarà l'occasione per conoscere una realtà a noi vicina ma spesso ignorata, per incontrare storie di sogni realizzati e da realizzare, una riflessione da fare tutti insieme su concetti apparentemente semplici come residenza, integrazione, libertà. A seguire, dopo l'apericena, La Van Guardia in concerto: tutta l'energia del gruppo "di strada" capitanato dal chitarrista Fabio Curto. Ritmi swing e manouche per un concerto trascinante e coinvolgente.
  Dopo la pausa d'agosto il "Balagan Cafè" ricomincia giovedì 5 settembre con il concerto della Klezmerata Fiorentina, quattro maestri del Maggio capitanati da Igor Polesitzky alle prese con un klezmer virtuosistico, raffinato, entusiasmante.
  E sarà ancora il tema del sogno ad essere protagonista domenica 22 settembre con la Giornata Europea della cultura ebraica che chiuderà il programma dell'estate.

(Agenzia Impress, 22 giugno 2019)


Studenti del Romani a Viadana e Sabbioneta alla scoperta della cultura ebraica

 
 
 
Nella scritta: "Il giusto fiorirà come la palma", Salmo 92:12
CASALMAGGIORE - Fornire agli alunni strumenti culturali e piste di riflessione che li aiutassero a comprendere l'importanza e le caratteristiche del dialogo interculturale è sempre stato di grande importanza per la Scuola, tanto più in un momento storico così delicato come il nostro, con confini molto labili dei concetti di identità, etnia, cultura, salvaguardia di usi costumi e tradizioni dei singoli popoli in una società globalizzata.
   Far conoscere agli studenti una realtà a loro quasi del tutto sconosciuta a così poca distanza dai propri luoghi di residenza, con l'intento di stabilire uno stretto legame tra la storia locale e la storia italiana, europea, mondiale - analizzando nello specifico il rapporto con la cultura ebraica nel tempo e nel loro contesto specifico di appartenenza - ha spinto due insegnanti dell'IIS "G. Romani" di Casalmaggiore (prof.ssa Giusy Rosato e prof. Aldo Boccaccia) ad organizzare una lezione fuori sede presso le sinagoghe di Viadana e Sabbioneta, con un percorso guidato nel quartiere ebraico della "piccola Atene dei Gongaza". Accolte dal Sindaco della cittadina mantovana e dai collaboratori dell'Ufficio Tecnico del Comune, la classe del Liceo Scientifico opzione Scienze Applicate e quella dell'indirizzo CAT coinvolte in questa proposta extra-curricolare hanno avuto anche l'opportunità di incontrare il gruppo di "studiosi" ed esperti impegnati nei lavori di restauro di Palazzo Ducale.
   Imparare a creare correlazioni tra il passato e il presente, tra il lontano e il vicino, grazie anche ad alcuni spunti e piste di lavoro, è stato l'obiettivo sotteso alle lezioni propedeutiche all'uscita didattica in sé. I dipinti di Marc Chagall, le musiche yiddish e klezmer, testi emblematici della letteratura giudaica sono state le tessere necessarie per costruire via via il mosaico sempre più ampio della comunità ebraica di Sabbioneta, come si evince da un estratto del Catasto teresiano e relative Tavole d'Estimo (1774-75) con evidenziate le proprietà immobiliari ebraiche. Nomi come quelli delle famiglie Forti e Foà, per secoli la struttura della comunità ebraica sabbionetana, o di Giuseppe Ottolenghi sono stati eco di risonanze storiche, letterarie (ad esempio, il rapporto con Ippolito Nievo), socio-economiche, culturali: si pensi, a tal proposito, all'importanza della Stamperia ebraica.
   L'acquisizione di un piccolo glossario, costituito da un lessico specifico con termini quali: Aròn (Arca), Kippàh (Zucchetto), Menoràh (Lucerna), Tevàh (Tribuna) - Bimah, Toràh (Insegnamento), è risultata fondamentale per seguire con attenzione la visita alle sinagoghe, soprattutto per ammirare il capolavoro neoclassico di Sabbioneta, opera dell'architetto Carlo Domenico Visioli, dal momento che quella di Viadana si presenta come "la sinagoga incompiuta".
   La lezione di Shylock, contenuta in quel famosissimo monologo tratto da "Il mercante di Venezia" di Shakespeare, accanto a "Lettera al figlio" di Nazim Hikmet sono stati corollario di questa esperienza culturale e umana insieme, in una dimensione di apertura all'Altro, di educazione alle differenze come fonte di ricchezza e superamento di quella muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

(OglioPoNews, 22 giugno 2019)


Letteratura Ebraica in Piemonte

Riceviamo e volentieri pubblichiamo




Locandina


Attacco contro ebrei ad Amburgo

Due rappresentanti di spicco della comunità ebraica sono stati minacciati e sputati sul Rathausmarkt ad Amburgo. Il presunto colpevole è un uomo di 45 anni, ha comunicato oggi la polizia.
La comunità ebraica ha confermato l'attacco di giovedì al rabbino di stato Shlomo Bistritzky e al membro del consiglio Eliezer Noe, chiaramente identificati come ebrei dal loro abbigliamento. Il sindaco Peter Tschentscher (SPD) ha parlato di un "brutto reato antisemita".
L'attacco è avvenuto dopo un ricevimento di ex perseguitati ebrei in visita alla città della loro gioventù.

(Süddeutsche Zeitung, 22 giugno 2019)


Iran, le compagnie aeree cambiano rotte, Alitalia compresa

Teheran pubblica il video dell'abbattimento del drone Usa

Il video diffuso dagli iraniani
Le Guardie della rivoluzione islamica iraniana hanno diffuso il presunto video dell'abbattimento del drone americano sullo stretto di Hormuz da parte della loro contraerea. Nelle immagini notturne, che durano circa 30 secondi, si vede il lancio di un missile seguito da una forte esplosione in cielo e dall'urlo di soddisfazione «Allahu Akbar» da parte dei Pasdaran.
   Il drone americano abbattuto ieri dall'Iran ha ricevuto «ripetuti avvertimenti radio» di non entrare nello spazio aereo di Teheran. Lo ha scritto l'ambasciatore iraniano alle Nazioni Unite, Majid Takht-e Ravanchi, in una lettera inviata al segretario generale dell'Onu Antonio Guterres per riferire i dettagli dell'accaduto. Per Teheran, il velivolo era «impegnato in una chiara operazione di spionaggio».
   «Lo scopo dell' Iran, abbattendo il drone, era di mandare un avvertimento alle forze terroristiche degli Usa, perché» se avesse voluto «avremmo potuto colpire anche un aereo militare americano P-8 che volava accanto al drone MQ-4C abbattuto». Lo ha detto il capo dell'aviazione dei Pasdaran, il brigadiere generale Amir Ali Hajizadeh, ribadendo che, prima che fosse abbattuto il drone, il suo comando era stato avvisato due volte, l'ultima 10 minuti prima che venisse distrutto. «Il P-8 volava vicino (al drone) con circa 35 persone a bordo. Due settimane fa gli Stati Uniti hanno detto che l' Iran avrebbe abbattuto i loro aerei. In effetti quello è stato un avvertimento dell' Iran, e gli americani non gli hanno prestato nessuna attenzione. Avremmo anche potuto colpire un aereo MQ-9 degli Usa, ma non l'abbiamo fatto», ha aggiunto il generale dei Pasdaran.
   Il presidente Usa Donald Trump ha inviato un messaggio nel corso della notte all'Iran, tramite l'Oman, mettendo in guardia Teheran su un «attacco imminente». Lo riferiscono responsabili iraniani, citati dal sito della Reuters. «Nel messaggio, Trump ha detto di essere contro la guerra e di voler parlare con Teheran di varie questioni», si afferma. «Ha dato un breve tempo per una risposta, ma il responso immediato è stato che questa è materia di decisione della Guida Suprema Ali Khamenei, al quale il messaggio è stato inoltrato»..
   E intanto le grandi compagnie aeree mondiali modificano le proprie rotte per la tensione con l'Iran schizzata alle stelle dopo l'abbattimento del drone americano: Alitalia, Lufthansa, British Airways, Klm e Qantas hanno annunciato che i loro aerei non sorvoleranno lo stretto di Hormuz ed il Golfo dell'Oman.
   Anche l'Alitalia, come detto, fa sapere attraverso fonti della compagnia che i suoi aerei eviteranno - in via preventiva - di sorvolare lo stretto di Hormuz e il golfo dell'Oman, l'area in cui si è registrata una escalation di tensione tra Stati Uniti e Iran. Gli unici voli interessati al cambiamento precauzionale sono comunque la 769 e la 770, ovvero Delhi-Roma e Roma-Delhi. Le modifiche non comporteranno particolari ritardi.
   Pure Lufthansa ha comunicato che i suoi aerei non sorvoleranno lo stretto di Hormuz ed il golfo dell'Oman dopo l'abbattimento di un drone americano. Lo ha detto alla Bild online un portavoce della compagnia aerea spiegando che la decisione di cambiare le rotte, assunta già ieri, è legata a ragioni di sicurezza.
   La compagnia aerea australiana Qantas ha annunciato di aver cambiato le sue rotte in Medio Oriente per lo stretto di Hormuz e il Golfo dell'Oman. In una nota, la Qantas ha spiegato che il cambio di rotta avrà effetto sui collegamenti aerei tra Londra e l'Australia, aumentando la durata del volo. Anche la compagnia olandese Klm ha annunciato un provvedimento simile.

(Il Gazzettino, 21 giugno 2019)


Da domani a Roma torna Ebraica-Festival Internazionale di Cultura"

 
ROMA - Da domani torna a Roma "Ebraica - Festival Internazionale di Cultura", giunto alla sua dodicesima edizione. Fino al 26 giugno l'intero quartiere ebraico della Capitale, dal Palazzo della Cultura ai Giardini del Tempio, sarà animato da una serie di iniziative che, in occasione della ricorrenza dei cinquant'anni dall'allunaggio, ruoteranno intorno al tema scelto per questa edizione "Space. The final frontier".
   Promosso dalla Comunità Ebraica di Roma e curato da Ariela Piattelli, Raffaella Spizzichino e Marco Panella, il festival rivolge il suo sguardo ai grandi temi del cambiamento e dell'innovazione, dedicandosi in questa edizione ad approfondire il concetto dello Spazio inteso come paradigma fondamentale della relazione tra vita e conoscenza, intorno alla quale raccogliere il contributo e le riflessioni di filosofi, intellettuali, scrittori, scienziati ed artisti.
   Caratteristica del Festival, infatti, è quella di partire da un punto di osservazione ebraico per favorire un confronto tra tutti i linguaggi della cultura: dalla letteratura alla scienza, dal cinema al giornalismo con incontri ed eventi. Si parte il 22 giugno con la Notte della Cabbalà, una serata che vede l'intero Quartiere Ebraico, da lungotevere De' Cenci e via del Portico d'Ottavia e tra via Arenula e il Teatro di Marcello, diventare per una notte laboratorio a cielo aperto e luogo di dialogo tra culture diverse dove, tra memoria e modernità, si alternano gli interventi di intellettuali, scienziati e artisti con una maratona di eventi culturali, musica, teatro, degustazioni, incontri letterari e cinema. In apertura, alle 22, l'inaugurazione al Palazzo della Cultura della mostra "2001. Odissea nello Spazio. The Visual Gallery", voluta dai curatori come tributo a Stanley Kubrick nel ventennale della morte.
   Molti gli appuntamenti previsti nei cinque giorni, tutti ospitati nei suggestivi spazi dell'antico quartiere: il Museo Ebraico, i Giardini del Tempio e il Palazzo della Cultura. Sempre il 22, la Conversazione sullo spazio (con l'astronauta, astrofisico e scrittore Umberto Guidoni), il 23 giugno lo speciale appuntamento al femminile "Vicine alla luna. Lo spazio visto dalle donne" con l'astrofisica Ersilia Vaudo Scarpetta e l'astronauta Reut S. Abramovich. Mentre lunedì 24 giugno, Katharina Kubrick, figlia del celebre regista sarà la protagonista insieme a Antonio Monda dello speciale incontro "Stanley and Me": un racconto personale ed emotivo del grande regista, al quale seguirà la proiezione del film "2001. Odissea nello spazio". Il Festival si chiuderà al Palazzo della Cultura, mercoledì 26 giugno con due appuntamenti: il celebre autore israeliano Eshkol Nevo e il direttore de La Stampa Maurizio Molinari parleranno di Spazio dell'immaginario e per gli amanti del teatro e della fisica, e ci sarà lo spettacolo di e con Gabriella Greison "Einstein and Me", un tributo al grande scienziato, raccontato dagli occhi della prima moglie Mileva Mari.

(askanews, 21 giugno 2019)


Israele: consegnato a Robert Kraft il Premio Genesis

Imprenditore Usa devolve un milione di dollari alla lotta contro l’antisemitismo

GERUSALEMME - Il Premio Genesis - quello che negli Stati Uniti passa col nome di 'Premio Nobel del popolo ebraico' - è stato solennemente assegnato ieri dal premier Benyamin Netanyahu all'imprenditore e proprietario della squadra di football americano New England Patriots, Robert Kraft.Il premio, da un milione di dollari, viene conferito ogni anno a personalità che si siano distinte per i propri successi professionali, per aver contribuito al benessere dell'umanità o per aver sostenuto generose opere filantropiche, fra cui - come nel caso di Kraft - la lotta contro l'Aids. In passato hanno ricevuto questo premio l'ex sindaco di New York Michael Bloomberg, la giudice di Corte Suprema Ruth Bader Ginsburg, il violinista Yitzhak Perlman e l'attore Michael Douglas. La serata - svoltasi nel Teatro Shearover alla presenza di numerose personalità fra cui l'ambasciatore Usa in Israele David Friedman, l'ambasciatore di Israele negli Usa Ron Dermer ed il presidente dell'Agenzia ebraica Isaac Herzog - è stata centrata sulla lotta contro l'antisemitismo e contro le campagne di delegittimazione che intendono minare alla base lo Stato di Israele. Nel pubblico, composto in buona parte da ebrei statunitensi, ha destato grande commozione il ricordo della strage di fedeli perpetrata da un suprematista bianco nell'ottobre scorso in una sinagoga di Pittsburgh. Kraft ha annunciato che i fondi del premio Genesis andranno ad aggiungersi ai 30 milioni di dollari già raccolti da una sua nuova Fondazione, "una piattaforma concepita per galvanizzare una lotta globale all'antisemitismo. Occorre - ha aggiunto - mettere fine alla violenza contro le comunità ebraiche. Bisogna opporsi alla normalizzazione di narrative antisemitiche che vorrebbero mettere in dubbio il diritto all'esistenza di Israele. La mia ambizione - ha spiegato - è di contrastare ogni forma di intolleranza, nello spirito del valore ebraico noto come 'Tikkun Olam', ossia riparazione del mondo". Netanyahu ha lodato questa iniziativa e ha assicurato che "Israele non ha un amico più leale di Robert Kraft".

(ANSAmed, 21 giugno 2019)


Rinasce l'antico cimitero ebraico di Bologna

In mostra al Museo di via Valdonica lapidi e gioielli in oro scoperti durante gli scavi.

Un antico cimitero ebraico di cui nei secoli sembrava essersi perduta ogni traccia, nell'area tra via Orfeo, via de' Buttieri e via Santo Stefano. Nella tradizione orale quella zona di via Orfeo ha continuato a essere indicata come «Orto degli Ebrei», anche oltre la Bolla Papale del 1569 che ne autorizzò la distruzione e il passaggio del terreno alle monache del convento di San Pietro. Gli scavi e le indagini archeologiche condotte dal 2012 al 2014 nell'area cimiteriale hanno restituito non solo centinaia di sepolture perfettamente ordinate in file parallele, ma anche tracce di vita vissuta.
   «Non è un cimitero visibile perché sopra c'è un edificio - osserva Daniele De Paz, presidente della Comunità Ebraica di Bologna - ma probabilmente esiste anche un'altra area attigua a quella di scavo». Gioielli in oro, soprattutto anelli, pietre incise, alcuni orecchini e oggetti in bronzo recuperati in più di quattrocento sepolture, che attestano la presenza a Bologna di una fiorente comunità ebraica ben inserita nella città prima dell'emanazione della bolla papale. Dopo alcuni anni di studi e restauri, i reperti sono visibili sino al 6 gennaio 2020 grazie alla mostra «La Casa della Vita. Ori e Storie intorno all'antico cimitero ebraico di Bologna», curata e organizzata in via Valdonica 1/5 dal Museo Ebraico e dalla Soprintendenza. L'espressione Casa della Vita fa riferimento proprio al cimitero che, sottolinea Maria Giovanna Belcastro, antropologa dell'Alma Mater, «è il luogo in cui si ricostruisce la vita di una popolazione. E lo specchio di una società». Una settantina i pezzi selezionati, risalenti a un periodo che va dalla fine del '300 alla seconda metà del '500, per il momento in prestito ma destinati in futuro a rimanere in deposito al Museo Ebraico, che festeggia i suoi vent'anni di attività. La mostra propone anche il documentario «Dalla condivisione al ghetto. Lo spazio degli Ebrei a Bologna dal XIV al XVI secolo», appositamente prodotto per raccontare la storia della Bologna ebraica, oltre a documenti provenienti dall'Archivio Arcivescovile. Dal 15 settembre prossimo, poi, in occasione della Giornata Europea della Cultura Ebraica, SI potrà vedere anche la riproduzione fotografica del Canone di Avicenna, summa del sapere medico di allora, di cui la Biblioteca Universitaria conserva un superbo manoscritto del XIV secolo, ornato da splendide miniature a piena pagina.
   Durante la mostra un percorso espositivo, diffuso tra Museo medievale, Biblioteca universitaria, Museo della musica, Museo del patrimonio industriale e Museo del risorgimento, consentirà di conoscere luoghi e persone che hanno fatto la storia ebraica di Bologna. Anche perché le uniche quattro lapidi salvatesi dall'antico cimitero ebraico si trovano al Museo Medievale. «Lapidi - dice Massimo Medica, responsabile dei Musei civici d'Arte antica - con ricche decorazioni, che attestano come quello di Bologna fosse uno dei più importanti cimiteri ebraici d'Europa».
   
(Corriere di Bologna, 21 giugno 2019)


La famiglia costretta a scoprirsi ebrea

Ai primi del novecento i Gerbi erano laici, integrati e di successo. Le leggi razziali colpirono anche loro. Un discendente, lo storico Sandro, li racconta e si racconta.

di Susann Nirensteln

A renderli consapevoli della loro ebraicità, loro, i Gerbi, così secolarizzati, ben integrati, affermati, allegri (uno con un' amicizia parigina addirittura con Joséphine Baker, un altro a Berlino tra seduzioni femminili e una borsa di studio su raccomandazione di Luigi Einaudi e Benedetto Croce, per fare solo due esempi del clima che respiravano) furono le leggi razziali del 1938, quando da italiani si trasformarono in ebrei erranti.
   Ebrei riluttanti (Hoepli), saggio autobiografico dello storico Sandro Gerbi, racconta gli avvenimenti quasi fosse un romanzo d'avventura, complice la scrittura brillante, disincantata, ritmata. Edmo Gerbi, nonno dell' autore, classe 1874, e i figli Antonello (nato nel 1904), Giuliano (1905), Claudio (1907) attraversano i primi decenni del Novecento con baldanza. Se il nonno è un importante agente di cambio, gli altri, nell'ordine, divengono dirigente dell'Ufficio studi della Banca Commerciale Italiana (nel censimento del 1931 si dichiara per scherzo buddhista), giornalista sportivo alla radio (Eiar), medico internista. Ma nel '38, improvvisamente, devono riunirsi di nascosto per individuare una via di fuga. Gli Stati Uniti e il Perù sono le loro zattere di salvezza, così come, per la zia austriaca, lo è la futura Israele. Gerbi narra con curiosità le evoluzioni della storia familiare (compresa la propria nascita nel '43 a Lima), i rapporti con gli altri profughi, i passi professionali, sottolineando sempre la poca adesione, specie del padre Antonello, ai dettami religiosi e a una consapevolezza identitaria. Eppure, nonostante le distanze, il pensiero di ognuno dei Gerbi corre sempre al proprio ineludibile essere ebrei. Nelle amicizie, nei mestieri.
   Un percorso che all'autore piace paragonare a quello di altri ebrei perplessi che ha avuto modo di frequentare, come Gyorgy Lukacs, Ugo Stille, Erich Linder. E lo fa anche di fronte alla storia dello Stato ebraico, in alcuni momenti chiave, come il '67 e la guerra in Libano dell'82, quando insieme ad altri intellettuali firmò l'appello perché Israele si ritirasse dai territori conquistati. Strano che non ricordi come poi unilateralmente il governo di Gerusalemme si sia ritirato effettivamente da quel Paese (2000), così come aveva già fatto dal Sinai ('79), e come farà da Gaza (2005). Un'identità riluttante, in lotta con sé stessa? Certo, eppure indubbiamente ineludibile e amatissima.

(la Repubblica - il Venerdì, 21 giugno 2019)


Tikkunismo: il pericolo di una nuova religione politica

di Ugo Volli

C'è una nuova religione nata nel seno, e forse sarebbe meglio dire al posto, dell'ebraismo americano. Possiamo chiamarla con Vic Rosenthal "Tikkunismo". Il nome viene dall'idea di "tikkun 'olam", che le lessico della Kabbalah significa "riparazione" o redenzione del mondo, quel lavoro che il mistico compie con la preghiera e altri mezzi rituali per recuperare le scintille di santità disperse nel mondo, anche nei suoi luoghi più impuri e malvagi, in seguito all'esplosione primordiale che nel linguaggio kabbalistico si chiama "shevirat hakelim", "rottura dei vasi" della materia, incapaci di contenere la luce divina. Tutta questa connotazione mistica, con la ricca narrativa e le immagini che la circondano nella Kabbalah, è però del tutto perduta nel tikkunismo. Qui "tikkun 'olam" significa letteralmente occuparsi dei mali del nostro mondo, l'ingiustizia, l'inquinamento, la violenza, la fame, la fuga di persone perseguitate e cercare di porvi rimedio.
  Naturalmente non vi è nulla di male, anzi molto è lodevole in questa esigenza, sempre che sia compresa in maniera politica, cioè come una certa posizione ideale che deve confrontarsi con altre posizioni concorrenti, con interessi legittimi e anche semplicemente con i vincoli di compatibilità che limitano ogni progetto umano. Per esempio è chiaro che è bene, anche secondo l'etica delle Scritture ebraiche, combattere la fame e la miseria, cercare la giustizia sociale e la possibilità per ciascuno di vivere una vita dignitosa e promettente, liberare i popoli oppressi. Ma quando questo obiettivo viene posto come unico e assoluto, come nell'ideologia comunista, ne segue inevitabilmente un regime dirigista e totalitario che non solo comprime la libertà economica, sociale e ben presto anche quella di pensiero, ma fallisce il suo stesso obiettivo portando tutta la società (salvo i pochi privilegiati che la governano) alla miseria e all'ingiustizia che ne consegue. Così è accaduto sempre, in Russia e in Cina, a Cuba e in Venezuela.
  Oppure è giusto (ed è ancora prescritto nell'ebraismo) aiutare e rispettare gli stranieri. Ma devono essere casi di emergenza limitati nel tempo e dovuti a problemi gravissimi; oppure deve trattarsi di una forma di integrazione economica che ha senso purché gli stranieri ospiti rispettino le leggi e la cultura che li accoglie e non cerchino di sovvertirla o rovesciarla; e anche nei limiti della possibilità economica e sociale della società accogliente di integrare davvero questi immigrati, di inserirli nella vita sociale ed economica. Se questi limiti sono superati lo straniero (che le Scritture ebraiche chiamano per lo più in questo contesto "gher", cioè ospite, straniero residente) diventa un invasore o un parassita e la società che lo subisce si decompone. Non c'è certamente nella tradizione ebraica l'obbligo di amare i banditi come 'Amalek, o i nemici come i Filistei, o gli oppressori come i Romani. L'obbligo di tutelare se stessi e la propria società precede quello di aiutare gli altri. Voglio richiamare qui il titolo della più lucida e obiettiva analisi del problema dell'immigrazione uscita in Italiano, ad opera di uno scienziato di sinistra, ma boicottata da tutti i media: "L'ospite e il nemico" di Raffaele Simone, pubblicata da Garzanti, cui penso di dedicare presto un articolo.
  Ma nel tikkunismo queste esigenze non sono pensate col buon senso con cui si dovrebbero considerare le posizioni politiche, bensì con l'assolutezza del dovere religioso. La politica viene deificata. Essere ebrei non significa comportarsi secondo le regole millenarie basate sulla Torah e neppure credere in qualche cosa (anche Dio è opzionale per i tikkunisti), ma avere posizioni politiche intenzionate a "riparare il mondo", naturalmente cioè di sinistra (che poi ci riescano è tutta un'altra questione, la storia mostra che le società più intolleranti, inquinanti, violente sono sempre state quelle totalitarie, di destra e di sinistra allo stesso modo). Per i tikkunisti, chi non è di sinistra, perché crede al mercato, alla libertà individuale, all'importanza delle culture nazionali, non è semplicemente uno che la pensa in maniera diversa, o magari un avversario politico. E' il "fascista" la personificazione del male, che dev'essere demonizzato, esorcizzato e distrutto, soprattutto se ha raggiunto qualche influenza. E' una posizione che influenza profondamente in questo momento non solo il mondo ebraico, ma in generale i media, la politica e gli intellettuali "autorevoli", perfino la Chiesa con la figura di papa Bergoglio. Il fatto che questo travestimento e traviamento della politica in religione sia spesso in buona fede non rende più lieve il problema, ma lo aggrava: come discutere, come negoziare con chi ti considera il male assoluto?
  C'è dunque un fatto generale, ma c'è soprattutto un problema specificamente ebraico del tikkunismo. Ed è il fatto che esso si sviluppa molto spesso in antisionismo, in disapprovazione, se non proprio odio, per l'esistenza dello Stato di Israele, magari sotto la foglia di fico del dissenso per il suo governo di centrodestra, regolarmente scelto alle elezioni negli ultimi quindici anni dal popolo israeliano. Le ragioni sono ovvie. Israele è lo stato nazione del popolo ebraico, e i tikkunisti sono contro gli stati e ancor più le nazioni, perché pensano che siano trappole contro gli oppressi. Israele è oggetto di una guerra ininterrotta da parte dei musulmani e degli arabi da oltre un secolo, da prima della sua fondazione. Ma musulmana è la maggior parte degli emigranti e gli arabi sono poveri (benché seduti sui depositi di materie prime più ricche del mondo). Dunque hanno ragione loro, a prescindere.
  Di più, i tikkunisti non nutrono dubbi rispetto alla miracolosa nascita di un nuovo popolo, i "palestinesi", generato dai servizi segreti sovietici poco meno di sessant'anni fa. E dato che questo "popolo" afferma di essere stato spossessato del loro stato, non importa che questo stato non sia mai esistito e che gli ebrei abbiano comprato a caro prezzo le terre che hanno risanato ed abitato, che i loro avi siano gli indigeni di quelle terre, che ci sia stata un'approvazione legale internazionale per la fondazione del loro stato. Quel che conta è che gli altri pretendano di essere delle vittime espropriate, e questo impone di appoggiarle, anche nel terrorismo. Infine Israele è alleato dell'America, ha abbandonato il socialismo diventando prospero, è un regime democratico pluripartitico senza un dittatore rassicurante con la faccia di Castro, di Maduro o di Mao - il che ai tikkunisti proprio non va giù.
  Dunque il tikkunismo, che con altro nome ("progressismo") è diffuso un po' dappertutto nella "migliore intelligenza" occidentale, nel mondo ebraico costituisce una scissione particolarmente grave, anche perché gli antisemiti (che si presentano come "solo" antisionisti) hanno gran vantaggio e gusto a potersi appoggiare su esponenti dei loro nemici ebrei che dicono a voce alta di condividere il loro odio per Israele. E' un pericolo, abbastanza secondario in Europa, più rumoroso e paradossale in Israele, ma veramente grave negli Stati Uniti. Esserne coscienti è essenziale per non cadere in questa trappola politica travestita da religione.

(Progetto Dreyfus, 21 giugno 2019)


L'infanzia di un bambino ebreo nella Asti del 1943: folto pubblico all'incontro con Aldo Zargani

Aldo Zargani
Un folto pubblico ha assistito lunedì scorso nel Municipio di Asti all'incontro con lo scrittore Aldo Zargani, organizzato dall'Associazione Italia Israele e dal Rotary Club con il patrocinio del Comune di Asti.
Zargani, classe 1933, ex dirigente RAI, ha presentato il suo libro "Per violino solo" (Edizioni Il Mulino) in cui tratta della sua fanciullezza devastata dalle leggi razziali che costrinsero lui e i suoi famigliari, in quanto ebrei, a fuggire in continuazione per circa due anni nella speranza di salvarsi dai campi di sterminio.
In questa continua fuga la famiglia Zargani approdò nel 1943 anche ad Asti, dove visse per circa un anno e di cui lo scrittore ha ricordato con struggente malinconia luoghi, personaggi e situazioni.
La conferenza è stata preceduta, oltre che dai saluti del sindaco di Asti Maurizio Rasero e del vicepresidente del Rotary Club Giorgio Gianuzzi, da un intervento di Luigi Florio, presidente dell'Associazione Italia Israele, sulla nascita dello Stato di Israele nel 1948 e sull'influenza che su tale storico evento possono avere avuto proprio le feroci persecuzioni antiebraiche compiute da nazisti e fascisti negli anni precedenti.
Al termine ampio spazio è stato riservato alle numerose domande del pubblico.

(ATNews, 21 giugno 2019)


Liberman auspica una coalizione Likud-Kahol Lavan dopo le elezioni del 17 settembre

GERUSALEMME - Il leader del partito israeliano Yisrael Beytenu, Avigdor Liberman, spingerà per creare una coalizione tra il Likud e l'alleanza Kahol Lavan (Blue and White) dopo le elezioni del prossimo 17 settembre. Lo ha detto oggi l'ex ministro della Difesa in un'intervista all'emittente radiofonica dell'esercito, ribadendo che non farà parte di un governo religioso o esclusivamente di sinistra. L'obiettivo di Liberman è creare un "governo stabile e ampio in grado di funzionare per quattro anni". Il leader di Yisrael Beytenu è intervenuto anche sulla mancata formazione dell'esecutivo dopo le elezioni dello scorso 9 aprile, a causa delle divergenze tra Liberman e i partiti ultraortodossi con cui il capo del Likud, il premier Benjamin Netanyahu, avrebbe voluto creare la maggioranza di governo. Yisrael Beytenu e i partiti ultraortodossi non concordano sul progetto di legge per obbligare gli studenti della Torah, gli haredi, a svolgere il servizio di leva. "E' chiaro che sia Gantz (uno dei leader di Kahol Lavan) che Netanyahu preferiscono un governo con gli ultraortodossi - ha detto -. Tutto quello che ho visto nel corso dell'ultimo mese, l'adulazione degli ultraortodossi da parte di Gantz, indica la direzione auspicata". Secondo l'ex ministro, "un governo di questo tipo non è adatto ai bisogni di Israele in questo momento".

(Agenzia Nova, 20 giugno 2019)


Visitare i luoghi più belli di Israele a bordo di un treno

Che si parta da Gerusalemme o da Tel Aviv, si possono visitare alcuni dei luoghi più iconici israeliani a brodo di uno dei tanti treni

 
Le linee ferroviarie d'Israele si stanno espandendo a vista d'occhio. Dopo aver inaugurato il collegamento ad alta velocità tra Tel Aviv e Gerusalemme), facendo felici gli israeliani ma soprattutto i turisti, che in giornata possono visitare due città, altri treni oggi raggiungono in modo veloce e diretto molte località che vale la pena visitare durante una vacanza in Israele.
   Che si parta da Gerusalemme o dalla Capitale, alcuni itinerari a bordo del treno possono essere escursioni anche solo di una giornata. L'importante è tenere presente che i treni non viaggiano il venerdì da metà pomeriggio e fino a sabato all'ora del tramonto.
   A mezz'ora di treno da Tel Aviv si raggiungono alcune delle spiagge più belle del Paese. Basta scendere alla stazione Moshe Dayan e, in pochi minuti a piedi, si raggiunge Cinema City, un quartiere pieno di locali, negozi e teatri che non hanno nulla da invidiare a quelli della Capitale. Perfetto per il post-spiaggia.
   A un'ora dalla Capitale c'è poi Haifa, nell'alta Galilea. Non basta un giorno per visitare tutti i luoghi religiosi della città. Qui infatti c'è la grotta del profeta Elia sopra la quale si trovano il monastero di Stella Maris sul Monte Carmelo e il Mausoleo del Bàb con i bellissimi giardini bahai che lo circondano, da cui si gode di una bella vista del mare e della città.
   In un'ora e mezza si raggiunge San Giovanni d'Acri (o Tolemaide). La città vecchia è nella lista dei Patrimoni dell'Unesco, fra cui una galleria della fortezza del XIII secolo legata ai Cavalieri Templari. La prima cosa che salta agli occhi quando si giunge ad Acri è il possente muro difensivo, eretto nel 1800 sopra alle antiche mura dei Crociati.
   In treno da Tel Aviv si può raggiugere anche la stazione più a Nord di Israele, a pochi chilometri dal confine col Libano. Si tratta di Nahariya, una nota località balneare molto frequentata dagli israeliani, con lunghe spiagge e un mare bellissimo, dove si possono fare anche le immersioni.
   Partendo da entrambe Tel Aviv o Gerusalemme si può anche raggiungere il cuore del deserto del Negev e arrivare a Bersabea (Be'er Sheva), sulla strada per Eilat, sul Mar Rosso. La città è sede di un altro patrimonio dell'Unesco israeliano: le colline dette "tell" dove si trovano alcuni siti archeologici con i resti di diverse popolazioni sovrapposti.
   Alcune dritte per chi si muove in treno con Israel Railways: il biglietto di ritorno costa il 10% in meno, quindi è meglio prenotarlo subito perché se si acquistano due biglietti di sola andata si pagano di più. Inoltre, per chi viaggia con bambini, fino ai dieci anni d'età possono usufruire di uno sconto del 20%.

(SiViaggia, 20 giugno 2019)


«Odio come aggregante. La città va presidiata»

Ruth Dureghello, rieletta a capo della Comunità ebraica di Roma. «La vergogna è stata sdoganata. Lo schema di oggi: se non sei dalla mia parte finisci a terra nel sangue».

di Paolo Conti

- Ruth Dureghello, lei è stata appena riconfermata per altri quattro anni presidente della Comunità ebraica romana col 48% dei voti. Facile immaginare una grande soddisfazione ...
  «Direi un bel segnale che svela bisogno di stabilità, armonia, fiducia nelle persone e nelle competenze. Un po' ciò che manca in giro. II mondo ebraico romano ha scelto la concretezza, non le chiacchiere o la propaganda».

- Roma, lei lo ha detto recentemente, sembra diventata un'arena di tante intolleranze. Cosa è accaduto rispetto alla sua prima elezione di quattro anni fa?
  «Tante, troppe cose. Rubo l'espressione ad altri, ma soprattutto è stata sdoganata la vergogna. Sono state abbattute le frontiere di un pudore anche verbale intorno al quale avevamo pensato di aver costruito barriere invalicabili. Invece i segnali di cedimento aumentano e allarmano».

- Ha riflettuto sulle possibili ragioni?
  «Il disagio sociale, la distanza dalle istituzioni, la mancanza di fiducia, di cultura, anche di educazione, i cattivi modelli sulla rete e sui social. Non parlerò di periferie perché i gesti registrati al Verano, a San Martino ai Monti, o a Trastevere possono essere indifferentemente compiuti da chiunque, che sia nato in centro o in una borgata. Il punto drammatico è l'odio, che purtroppo sembra aggregare».

- I ragazzi del Cinema America sono stati aggrediti in quanto antifascisti. È cambiata un'ottica, si sono capovolti molti schemi ...
  «Vince lo schema dei pestaggi, delle aggressioni, della violenza fisica, di chi è incapace di gestire le parole e il pensiero. Se non sei dalla mia parte, devi finire a terra sanguinante».

- Che fine ha fatto la Roma del dialogo e della tolleranza?
  «Da ebrea romana continuo a sostenere che questa mia città resta tollerante, accogliente, ricca di valori come la memoria, rispettosa della diversità. E dobbiamo tutti impegnarci perché sia sempre e ancora così, dimostrando che si tratta di rari casi isolati, che non vanno tollerati ma perseguiti. Il loro posto è nelle aule dei tribunali. Se smettessimo di difendere questa Roma, se ci chiudessimo in casa, se smettessimo di scendere in piazza o di raccontarci nelle scuole, la vittoria sarebbe loro. Impossibile, inaccettabile».

- I tanti oltraggi alle pietre d'inciampo hanno ferito la Comunità ebraica. Oggi cosa pensa di tutto questo?
  «La ferita è stata profonda: una nuova offesa verso la memoria e la dignità di chi non c'è più ed è morto dopo una persecuzione. Ma la reazione di tutta la città, non solo della Comunità, è stata netta. Ecco perché dobbiamo presidiare Roma. Diversamente, lasceremmo spazio a chi ritiene possibile lo sdoganamento della vergogna. Tutto questo vale a maggior ragione per noi ebrei: se smettessimo, magari per paura, di raccontarci, di organizzare mostre e incontri, di attirare visitatori al Museo ebraico, finiremmo di nuovo in un ghetto, stavolta non fisico ma ideologico».

- Molta intolleranza colpisce e isola oggi anche i rom.
  «Verissimo. Vedo tanta intolleranza verso i rom. Herbert Pagani diceva che noi ebrei siamo i diversi per eccellenza. Ma oggi siamo più integrati, quindi l'odio si dirige verso altri gruppi. I rom, gli omosessuali, purtroppo c'è ancora intolleranza nei confronti di tante donne. Resiste una forte difficoltà a comprendere la diversità, ad accoglierla nella comunità cittadina. Occorre invece che le leggi vadano applicate e, per esempio, ci sia parità di condizioni di vita, di scolarizzazione, di dignità. Naturalmente il patto è che le leggi vengano anche rispettate da chi chiede parità. Nella nostra liturgia si prega per la Nazione che ha accolto noi della Diaspora perché abbiamo avuto accoglienza, una casa, anche nella condizione di esclusione che deriva dall'allontanamento dalla nostra terra».

- Nonostante certi pessimi sintomi, lei sembra ancora ottimista. Perché?
  «Sono positiva per natura e poi seguo l'insegnamento di Golda Meir: gli ebrei non possono permettersi di essere pessimisti. Detto questo occorre restare vigili e attenti, mostrare sempre massima responsabilità. Non siamo certo indifferenti verso alcuni fenomeni spaventosi: i suprematismi che affiorano, le braccia alzate che ricompaiono per le strade e le piazze. Ma vedo a Roma tanta solidarietà, perché un altro male è l'individualismo. c'è tanto lavoro per aiutare, favorire il dialogo, accogliere, per comprendere e collaborare. Lì compare il confine più importante e significativo per la nostra città: quello che separa il Bene dal Male».

(Corriere della Sera - Roma, 20 giugno 2019)



Storia di Norma, l'araba ebrea costretta a lasciare tutto per avere un futuro

di Mariapia Bonanate

Sottotitolo
Partendo dalle persecuzioni in Iraq del 1941, la Loewenthal racconta la dolorosa fuga di una donna dalla sua terra e dagli affetti. Finché il richiamo delle radici non si farà sentire una saga familiare che avvolge e coinvolge nelle partenze senza ritorno dei suoi protagonisti, trascina nell'onda lunga delle loro vite in perenne esodo. E se nessuno di loro "ritorna a Baghdad'; tutti se la portano per sempre nel cuore, ovunque vadano. Lo ripete, quasi un leitmotiv, Elena Loewenthal, mentre ricostruisce, con il piacere di una scrittura che diventa piacere della lettura, le vicende di Norma e dei suoi figli Ameer, Flora, Violette, fra gli inizi del Novecento e gli anni del nuovo secolo, in un'intrigante alternarsi di passato e presente, stemperando la drammaticità degli eventi con l'umorismo tipico della letteratura yiddish.
   Nucleo rovente, il dramma del "Farhud" il pogrom dimenticato contro gli ebrei in Iraq del 1941, violenze e morte che ne provocarono la diaspora, annullandone l'identità. «Eravamo gli arabi ebrei di Baghdad. Poi non siamo stati più niente ... uomini e donne d'aria, capaci di volare in giro per il mondo senza rimpianti, senza mai guardarsi indietro, perché quello che conta è vivere, non ricordare», dice Norma a Violette. È lei, bellissima e irrequieta, a lasciare per prima la grande casa di Baghdad, con il fiume che passava lento e la luce che d'inverno diventava trasparente, il profumo dei gelsomini. Se ne va di nascosto, abbandonando i tre figli piccoli, per non seppellirsi nel destino riservato alle vedove, condannate ad annullarsi nell'ombra e rifarsi una vita accanto all'uomo che ama. Per difendersi dai rimorsi e tentare di essere felice, nonostante tutto, si chiude in una bolla d'aria senza più dare notizie di sé. Neppure ai figli che, a loro volta, sono anch'essi costretti a lasciare la terra dei loro antenati e a vagare alla ricerca di un approdo, mai definitivo, «sparsi ai quattro venti del tempo e della geografia, leggeri come i soffioni del tarassaco in primavera».
   Per anni Norma non li rivede più, ma arriva un giorno in cui l'impulso dell'amore materno la riporta a riscoprire il legame indelebile, fra il dolore delle perdite e la gioia delle conquiste, con la propria "tribù" e con la storia millenaria della sua gente, che non può essere dimenticata. Come Ameer ricorda ai figli, dopo avere vagato da un Paese all'altro, per ritessere la propria vita: «Anche se l'Iraq non esisteva più e non sarebbe mai tornato, loro restavano degli iracheni in tutto e per tutto».

(Famiglia cristiana, 20 giugno 2019)


Giornalisti israeliani saranno ammessi alla conferenza nel Bahrain

Il governo del Bahrain permetterà ai giornalisti israeliani di seguire il workshop della settimana prossima sull'economia per la pace nonostante non intrattenga relazioni diplomatiche con Israele. Secondo quanto riferito mercoledì sera, sono stati invitati a Manama sei reporter per i giornali Ha'aretz, Times of Israel, Jerusalem Post, Israel HaYom e i canali tv 12 e 13. Alla conferenza parteciperà un certo numero di uomini d'affari israeliani e membri di organizzazioni della società civile, tra i quali Yitshak Kreiss, direttore generale dello Sheba Medical Center, e Yoav Mordechai, ex capo dell'ufficio del Ministero della difesa responsabile del collegamento con i palestinesi dei Territori. "Questo è un workshop in cui presenteremo la nostra visione economica per il popolo palestinese - ha ribadito un funzionario dell'amministrazione Usa - e vogliamo concentrarci sull'aspetto economico, non su quello politico".

(israele.net, 20 giugno 2019)


Siracusa lancia il bagno ebraico di San Filippo

Grazie alla scoperta di un monsignore appassionato di storia e allo spirito di iniziativa di un giovane parroco di Siracusa, sta riemergendo l'antica Ortigia giudaica. La comunità ebraica di Siracusa, esistente fino all'espulsione degli ebrei dalla Sicilia decretata nel 1492 dal re Ferdinando II d'Aragona, fu una delle più numerose della Sicilia, circa 5000 persone sui 37mila ebrei siciliani. Risaliva probabilmente al III secolo l'insediamento nella zona cosiddetta Giudecca, dove pare si trovino ben tre bagni rituali (mikveh): uno sotto un hotel, un altro sotto una abitazione privata ed uno posto sotto la chiesa settecentesca di san Filippo Apostolo.
   Un tesoro straordinario, quest'ultimo. Si tratta di tre livelli sotterranei scavati dai greci antichi: al primo livello si trova la cripta con affreschi settecenteschi; al secondo la rete ipogea, affascinante dedalo sotterraneo che funse anche da rifugio durante la seconda Guerra Mondiale. E, al terzo, un pozzo greco intorno al quale, nel tardo quindicesimo secolo, è stata scavata nella roccia una scala elicoidale che conduce fino alla sorgente di acqua dolce posta a 14 metri di profondità, usata come "mikveh", bagno rituale ebraico. Ed è sul muro di suddetta scala che recentemente monsignor Sebastiano Amenta, vicario generale della Diocesi di Siracusa, ha scoperto una antica scritta ebraica.
   La notizia ha attratto l'attenzione degli archeologi israeliani che hanno presentato lunedì scorso i risultati dei loro studi a Siracusa, in un incontro organizzato dal Comune e dall'Alto istituto di scienze religiose San Metodio. Il dottor Yonatan Adler, archeologo della Ariel University in Israele ed esperto di bagni rituali ebraici medievali, è venuto l'anno scorso a Siracusa a studiare il luogo. «Questa scoperta provvede una assoluta evidenza che la struttura del bagno sotto la chiesa è stata costruita prima del 1492, l'anno della cacciata degli ebrei - ha spiegato il professore -. La "mikhve", di cui si conoscono molti esempi in Europa, era generalmente scavata in profondità a livello dell' acqua più profonda, qui l'acqua di sorgente sgorga ancora abbondante sul fondo del bagno. La scritta di per sé consiste in solo sei consonanti ebraiche "a-shr h-f-tz". L'iscrizione pare essere il nome di un siracusano ebreo del medioevo, 'Asher Hefetz" ».
   La dottoressa Nadia Zedles, esperta della Sicilia ebraica all'Università Ben Gurion in Israele ha spiegato che il cognome "Hefetz" è la versione ebraica di una importante famiglia siciliana, "Bonavoglia", un clan che ha giocato un ruolo importante nella storia degli ebrei isolani. A parlare per primo dell'esistenza di questo bagno fu padre Giuseppe Maria Capo dieci, scomparso nel 1928. «La comunità ebrea era piuttosto grande ed è possibile che ci siano altri "mikva' ot" a Siracusa, e forse anche più di una sinagoga» ha aggiunto il professor Adler. La chiesa di san Filippo, sede dell'omonima Arciconfratemita, chiuse nel 1968 per problemi statici e ha riaperto nel 2010 al termine di un complesso restauro.
   Dal novembre 2014 la chiesa è aperta al culto e dal 2016 è iniziata la gestione parrocchiale delle visite al sito ipogeo grazie a don Flavio Cappuccio, parroco di san Giovanni Battista all'Immacolata. Visite guidate dai volontari dal lunedì al sabato, dalle 10 alle 12.30 e dalle 15 alle 17.
   
(Avvenire, 20 giugno 2019)


"La Spezia, Memoria di speranza"

 
Una grande storia di amicizia e rinascita dopo l'orrore. Un porto da cui muovere finalmente col cuore gonfio di speranza, per costruire da donne e uomini liberi un futuro di segno opposto. Il legame speciale della città ligure di La Spezia con le vicende migratorie che portarono migliaia di ebrei sopravvissuti alle persecuzioni nel nascente Stato di Israele torna d'attualità in queste ore, con l'inaugurazione di un monumento celebrativo scelto tra i numerosi progetti presentatisi al concorso "La Spezia - Porta di Sion" e raffigurante un cuore spezzato e due ali di marmo che sembrano destinarlo a una nuova vita. Una simbologia forte che, è stato evidenziato dalla giuria, "trasmetterà alle future generazioni il senso della speranza di una nuova vita che qui, a Molo Pagliari, si è concretizzata nel forte senso di amicizia tra la popolazione locale e i profughi ebrei, che resterà indelebile come il monumento in marmo".
   Nella nuova Piazza della Memoria sono tanti i cittadini a raccogliersi al fianco del sindaco Pierluigi Peracchini, della presidente dell'autorità di sistema portuale Carla Roncallo, della viceambasciatrice israeliana Ofra Farhi, del rabbino capo di Genova rav Giuseppe Momigliano, del presidente della Comunità ebraica Ariel Dello Strologo. Una celebrazione che si svolge nel nome di due protagonisti di quelle giornate e di quei viaggi, Ada Sereni e Yehuda Arazi, cui è stato dedicato un apposito percorso didattico alla presenza di numerosi discendenti e familiari. Inaugurazione cui è seguita l'apertura della mostra "Dalla Terraferma alla Terra Promessa: Aliya Bet dall'Italia a Israele, 1945-1948", a cura del Museo Eretz Israel di Tel Aviv e già protagonista a Roma nei locali della Fondazione Museo della Shoah.
   "Una giornata di ricordo nel segno della speranza, per riaffermare un legame unico" spiega rav Momigliano, che è stato anche membro di giuria del concorso. Particolarmente significativo, viene sottolineato, il fatto che ad essere messo in luce, attraverso questa celebrazione e il suo omaggio artistico, "sia la volontà di vita e futuro del popolo ebraico, concretizzatosi nell'arrivo in Eretz Israel". Una Memoria quindi che evidenzia il particolare nesso tra i due Paesi, "anche attraverso due figure importantissime e indimenticabili come Sereni e Arazi".

(moked, 19 giugno 2019)



L'identità del popolo ebraico: mistero della fede laica

di Marcello Cicchese

Ogni tanto si riparla del "mistero" del popolo ebraico, della sua identità e della sua capacità di sopravvivenza. Soprattutto gli ebrei laici si sbizzarriscono in una varietà di dotti e fantasiosi tentativi di spiegazione di questo "mistero".
Si può citare, per esempio, quello di Abraham B. Yehoshua:
    "Una cosa è chiara: il mistero dell'identità del popolo ebraico, della sua capacità di sopravvivenza e del modo in cui esso interagisce con i gentili fra cui vive è da ricercarsi nella peculiare e problematica (anche da un punto di vista morale) identificazione tra religione e nazionalità. [...] Innanzitutto occorre ricordare che il popolo ebraico nacque in Egitto e si forgiò nel deserto, teatro anche del singolare tentativo di fondere i concetti di nazionalità e religione. La diaspora è dunque una condizione di «messa a punto» dell'identità ebraica."(1)
In ambito italiano un altro tentativo è quello del matematico Giorgio Israel:
    "Il miracolo della sopravvivenza dell'identità ebraica risiede nella vitalità di un messaggio spirituale che anziché indagare i meccanismi che presiedono al funzionamento del cosmo, indaga i moventi, le intenzioni, le volontà che lo animano, ne ricerca il significato e i principi etici che lo pervadono. La vitalità e, diciamo pure, la necessità del messaggio ebraico sta nell'affermare questa visione spirituale, psichica e volta alla ricerca del senso, accanto alla tradizione oggettivista della tradizione di matrice greca. La grande idea che sta al centro di questa visione è l'identificazione del processo creativo con la «parola» (la Torah); ovvero - come ha detto Scholem - l'idea che «lo slancio creativo è di natura linguistica e che, di conseguenza, una moltitudine infinita di linguaggi inonda il mondo». [...] Qui risiede il nucleo di un messaggio universale che è sufficiente a spiegare la vitalità manifestata dall'ebraismo nel corso dei secoli." (2)
Sono soltanto due esempi di quella lunga serie di "misteri della fede" dei laici che da secoli vengono recitati dagli ebrei che cercano una spiegazione dell'identità ebraica che non faccia ricorso a Dio e alla Scrittura. Il primo esempio riportato è di tipo storico-sociale, il secondo di tipo scientifico-linguistico. Se ne potrebbe aggiungere un terzo, meno recente, di un ebreo famoso, Sigmund Freud. Naturalmente per lui il mistero è di tipo psicologico, quindi va ricercato nella "struttura dell'anima" ebraica. Scrive infatti Sigmund:
    "Devo ammettere che né la fede né un sentimento di orgoglio nazionale sono bastati a legarmi all'ebraismo [...] Altri elementi gli hanno dato una forza d'attrazione a cui per me è impossibile resistere: forze occulte, sentimenti indefinibili a parole e proprio per questo tanto potenti; e, anche la consapevolezza di possedere un'identità interiore, una struttura dell'anima comune a tutti gli ebrei.» (3)
Abraham B. Yehoshua riconosce che sono molti quelli che "rimangono perplessi e meravigliati dinanzi al fenomeno della sopravvivenza del popolo ebraico e al mantenimento della sua identità", e cita a questo proposito un'affermazione dello storico Yaakov Talmon:
    "Per quanto ci sforziamo di inchiodare questo concetto in una qualsiasi definizione, esso rimane elusivo come un miraggio. E' impossibile indicare qualcosa di concreto e calcolabile nel senso di appartenenza di un ebreo al suo popolo, eppure una patina sottile di autoconsapevolezza lo separa dal mondo. Lo storico non può quindi basarsi unicamente sulla logica... Il vaglio delle testimonianze, il talento del detective nello scoprire imprecisioni e incongruenze, tutto ciò gli è di scarso aiuto nel momento in cui si imbatte in un fondo di mistero e di enigma». (4)
Mistero della fede laica, appunto.
   
 IL POPOLO CHE DIO SI È FORMATO
  Ma non è affatto vero che l'identità ebraica è un mistero. E' un mistero soltanto per chi rifiuta di prendere in considerazione le chiare spiegazioni della Scrittura. Il "segreto" del popolo ebraico non va cercato né dentro l'anima dell'ebreo, né dentro lo spirito del popolo ebraico, né dentro la politica della comunità internazionale. Chi cerca lì la spiegazione s'imbatte inevitabilmente in un mistero per il semplice fatto che la spiegazione non sta lì. Il motivo d'essere del popolo d'Israele non sta dentro l'ambito di ciò che è stato creato ed esiste, ma fuori, nella decisione e nella volontà del Creatore. E non è un fatto misterioso, perché è chiaramente rivelato nella Sacra Scrittura. E' un fatto pubblico, non un segreto per iniziati. E' la famosa elezione, che significa scelta, il che presuppone un atto di volontà di qualcuno. E' vano allora sperare di capire gli aspetti insoliti dell'oggetto di una scelta senza interrogarsi sul Soggetto che ha fatto la scelta.
    L'espressione "popolo eletto" comunque non è completa. Fa pensare a un Dio che guarda dal cielo sulla terra, esamina i vari popoli che ci sono e poi ne sceglie uno che per qualche ragione gli va a genio. Le cose non sono andate così. Dio non ha scelto un popolo tra quelli che c'erano, Dio si è creato un popolo per i suoi scopi.
    "Il popolo che mi sono formato proclamerà le mie lodi "(Isaia 43:21).

    "Così parla il Signore che ti ha fatto, che ti ha formato fin dal seno materno, colui che ti soccorre: Non temere, Giacobbe mio servo, o Iesurun che io ho scelto! " (Isaia 44:2).

    "Ricordati di queste cose, o Giacobbe, o Israele, perché tu sei mio servo; io ti ho formato , tu sei il mio servo, Israele, tu non sarai da me dimenticato" (Isaia 44:21).

    "Così parla il Signore, il tuo salvatore, colui che ti ha formato fin dal seno materno: Io sono il Signore, che ha fatto tutte le cose; io solo ho spiegato i cieli, ho disteso la terra, senza che vi fosse nessuno con me" (Isaia 44:24).
Dio ha scelto il popolo che si è formato. Nell'originale ebraico il termine il verbo formare (jatzar) è lo stesso che si usa per raccontare la creazione dell'uomo:
    Dio il Signore formò l'uomo dalla polvere della terra, gli soffiò nelle narici un alito vitale e l'uomo divenne un essere vivente (Genesi 2:7).
Dio ha creato una cosa nuova, un popolo che è diverso dagli altri non per i caratteri fisici, psicologici o morali, ma per vocazione. La diversità dunque non va cercata dentro, ma fuori di lui.
    "Quando Israele era fanciullo, io lo amai e chiamai mio figlio fuori d'Egitto" (Osea 11.1).
Dio si è formato un popolo che poi ha scelto per il servizio che aveva preparato per lui.

 LA MEMORIA DI DIO
   Il termine elezione fa nascere subito la domanda: perché proprio lui? A questo interrogativo la Bibbia non risponde. Se invece si chiede: per quale scopo è stato eletto? La Bibbia risponde. Questa dunque è la domanda da fare, non l'altra. Se invece di popolo eletto si dicesse popolo incaricato, immediatamente verrebbe spontanea la domanda: incaricato di che cosa? Un incaricato è certamente una persona scelta, ma nella denominazione l'accento è messo sulla specificità del servizio stabilito dal Soggetto, non sulle caratteristiche dell'oggetto che è stato incaricato del servizio.
   Un incaricato da Dio nel linguaggio biblico viene chiamato servo, e anche questa è una parola biblica adatta ad essere usata perché richiama immediatamente due domande: servo di chi? servo per fare che cosa?
    Ricordati di queste cose, o Giacobbe, o Israele, perché tu sei mio servo ; io ti ho formato, tu sei il mio servo , Israele, tu non sarai da me dimenticato (Isaia 44:21).
Nella traduzione italiana di questo versetto ci sono tre indicativi e un imperativo. I tre indicativi sono: io ti ho formato (passato), tu sei il mio servo (presente), tu non sarai da me dimenticato (futuro). E' in conseguenza di questi fatti che Dio rivolge a Israele l'imperativo: Ricordati di queste cose! "Ricordati di quello che ti ho detto - sembra dire il Signore - perché sono cose che ho detto a te, e non ad altri, e queste parole sono per te un incarico da svolgere. Sappi comunque che il tuo presente di servizio è rinserrato tra un passato e un futuro che non dipendono da te. Io ti ho formato, io non ti dimenticherò.
    "Io non ti dimenticherò", questa è la spiegazione del "mistero" della sopravvivenza del popolo ebraico. E' la memoria di Dio che mantiene in vita il popolo ebraico per il semplice fatto che è dalla memoria di Dio che il popolo è nato. Ad Abraamo Dio aveva promesso: "Io farò di te una grande nazione" (Genesi 12:2), ma in tutto il tempo dei patriarchi questa nazione non si è vista. La nazione ha cominciato a formarsi nel periodo della schiavitù d'Egitto, in un tempo di quattrocento anni trascorso senza profeti e senza rivelazioni, in cui gli ebrei avrebbero avuto tutto il tempo per dimenticare la storia dei loro antenati. Il "mistero" della sopravvivenza del popolo ebraico era già presente. Ma la sua spiegazione non è difficile:
    "Durante quel tempo, che fu lungo, il re d'Egitto morì. I figli d'Israele gemevano a causa della schiavitù e alzavano delle grida; e le grida che la schiavitù strappava loro salirono a Dio. Dio udì i loro gemiti. Dio si ricordò del suo patto con Abraamo, con Isacco e con Giacobbe. Dio vide i figli d'Israele e ne ebbe compassione." (Esodo 2:23-25)
Il Signore si ricordò del suo patto con Abraamo, con Isacco e con Giacobbe, e tra le doglie delle dieci piaghe d'Egitto, con Mosè come levatrice, il Signore portò alla luce la nazione d'Israele. Perché meravigliarsi allora della sopravvivenza del popolo ebraico? Ci sarebbe da sorprendersi del contrario. Dio ha memoria ed è fedele, cioè non solo si ricorda delle promesse che ha fatto, ma anche le mantiene.

 I NEMICI DI DIO
  Collegato al "mistero" della sopravvivenza ebraica c'è poi il "mistero" dell'antisemitismo. Anche per questo enigma le proposte di spiegazione sono innumerevoli, una più fantasiosa dell'altra, sempre più complesse, sempre più sofisticate. E' naturale che sia così, perché quando si respinge la spiegazione semplice ma vera, inevitabilmente se ne devono cercare altre più complicate. Che però sono intellettualmente più interessanti, perché gli ingredienti che si inseriscono nella falsa spiegazione possono essere variati a proprio piacimento, mentre la spiegazione vera sembra restringere insopportabilmente il campo delle possibilità esplicative. La semplice spiegazione della Bibbia è che al piano che Dio vuole svolgere nel mondo con il suo servo Israele si oppone la resistenza dei nemici di Dio. Naturalmente questa resistenza a Dio non esce dall'ambito creaturale, ma neppure resta nell'ambito esclusivamente umano, perché i nemici di Dio, e quindi del Suo popolo, sono anche spirituali.
    Questo si può osservare fin dall'inizio della nascita di Israele. Il faraone egiziano è il prototipo dell'autorità nazionale umana che si oppone alla volontà di Dio perché ne ignora l'esistenza e quindi non ne riconosce l'autorità.
    "Dopo questo, Mosè e Aaronne andarono dal faraone e gli dissero: «Così dice l'Eterno, il Dio d'Israele: Lascia andare il mio popolo, perché mi celebri una festa nel deserto»" (Esodo 5:1).
Mosè e Aaronne si presentano al faraone nel nome dell'Eterno (con questo termine è indicato il santo nome di Dio rivelato a Mosè), ma la più alta autorità mondiale di quel tempo, che si considerava "Figlio di Dio", si oppone accanitamente perché non sa chi è questo Eterno che sarebbe il Dio d'Israele e a cui lui dovrebbe ubbidire.
    "Ma il faraone rispose: «Chi è l'Eterno che io debba ubbidire alla sua voce e lasciare andare Israele? Io non conosco l'Eterno e non lascerò affatto andare Israele" (Esodo 5:2).
Il contrasto quindi non è politico, né sociale, né sindacale: è una questione di autorità. Il faraone non sa chi è l'Eterno, per questo s'infuria ancora di più su quel popolo che dice di appartenere a quello sconosciuto Dio. E' l'inizio dell'antisemitismo, un "mistero" che però si spiega se si riconosce che affonda le sue radici nel rifiuto dell'Eterno, il Dio d'Israele, da parte delle autorità di questo mondo
    La Bibbia avverte però che il rifiuto di ubbidire alla volontà dell'Eterno adducendo come motivo il fatto di non conoscerlo, è pericoloso, perché prima o poi Dio si fa conoscere; e allora sono guai.
    "Così parla il Signore, l'Eterno: Poiché i Filistei si sono abbandonati alla vendetta e si sono crudelmente vendicati, con il disprezzo che nutrivano nell'anima, dandosi alla distruzione per odio antico, così parla il Signore, l'Eterno: Ecco, io stenderò la mia mano contro i Filistei, sterminerò i ceretei, e distruggerò il rimanente della costa del mare; ed eserciterò su loro grandi vendette, e li riprenderò con furore; ed essi conosceranno che io sono l'Eterno, quando avrò fatto loro sentire la mia vendetta" (Ezechiele 25:15-17).
Il faraone è stato il primo a conoscere l'Eterno in questo modo, cioè come nemico. Ed è importante il fatto che in questa guerra contro Dio il faraone ha tentato di far intervenire anche forze spirituali attraverso le arti occulte dei maghi. Ma anche su queste l'Eterno ha vinto.
   Questo non significa che Israele, il Suo popolo, si sia comportato sempre in modo esemplare. Tutt'altro. La Bibbia è molto esplicita nel descrivere le continue disubbidienze di Israele verso quel Signore che l'aveva scelto come popolo e lo stava liberando. Ma proprio questa sua condotta ribelle dimostra che è sbagliato cercare nel comportamento d'Israele i motivi per negare la sua elezione, e tanto meno per giustificare l'antisemitismo. In gioco è sempre e soltanto il rapporto diretto di Israele con il suo Signore, e il rapporto indiretto delle altre nazioni con il Signore attraverso il rapporto che hanno con Israele. Questo è il modo in cui fa politica l'unico, vero Dio che ha creato i cieli e la terra.
   E' dunque la politica di Dio con Israele, e di conseguenza col resto mondo, che occorre fare oggetto di studio e riflessione. E per fare questo l'unica via percorribile è lo studio della Bibbia (Antico e Nuovo Testamento) e di tutta la storia che ad essa si collega. Chi cerca spiegazioni del "mistero" di Israele senza tener conto della Bibbia colpisce nel vuoto.
   

NOTE
(1) Abraham B. Yehoshua, Antisemitismo e sionismo, Einaudi, 2004.
(2) Giorgio Israel, La questione ebraica oggi, Il Mulino, 2002.
(3) Abraham B. Yehoshua, ivi.
(4) Abraham B. Yehoshua, ivi.

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(Notizie su Israele, 20 giugno 2019)

 


La storia del Museo ebraico di Berlino e l'antisemitismo ideologico

di Ugo Volli

 
Il Museo ebraico di Berlino
Quella del Museo ebraico di Berlino è una storia triste e istruttiva. Fu aperto nel 2001 per essere il più grande museo ebraico d'Europa, nel cuore di quella città che era stata il luogo di vita di molti dei più importanti ebrei europei degli ultimi due secoli, da Moses Mendelsohn, che vi arrivò dalla Germania orientale e fu il primo intellettuale ebreo ad affermarsi nella cultura tedesca, a Benjamin, Scholem, Heine, Rathenau, Bloch.
   Colpì molto l'architettura di Libeskind, con i suoi spazi disegnati per rendere palpabile l'oppressione e lo sterminio; ebbe 10 milioni di spettatori nei suoi primi anni di vita.
   Ma poi, con gli ultimi anni di direzione del fondatore Michael Blumenthal, un reduce della Shoà ed ex diplomatico americano, e la successione nel 2014 di Peter Schäfer, studioso non ebreo di storia dell'ebraismo tardo-antico, il museo è entrato in una fase di polemiche e di crisi. Nel 2013 fece rumore una mostra intitolata "The whole truth" al cui centro vi era un ebreo vero e vivo messo in mostra in un box di plexiglas; e il segretario generale dell'Unione degli ebrei tedeschi, Stephan J. Kramer chiese "perché non gli danno una banana e un po' d'acqua da bere e magari lo mettono in mostra nudo"?
   Poi fu la volta di una lectio magistralis, grande onore tributato dal museo a Judith Butler, ebrea americana sì, ma portatrice accanita di opinioni antisioniste particolarmente violente, che per esempio ha scritto che "è estremamente importante capire che Hamas e Hezbollah sono movimenti progressisti, di sinistra, parte della sinistra globale" e pertanto vanno appoggiati contro Israele.
   Nell'incontro Butler fece appello per l'isolamento e il boicottaggio dello Stato di Israele.
   Ancora, a marzo scorso il direttore del museo rese pubblico l'invito all'addetto culturale dell'ambasciata iraniana a Berlino Seyed Ali Moujani, che ha usato l'occasione per teorizzare (come Butler) l'opposizione fra ebraismo e sionismo e per accusare gli ebrei persiani emigrati di aver "saccheggiato" i tesori ebraici dell'Iran.
   Poi c'era stata un'altra mostra, intitolata "Welcome to Jerusalem", che sostanzialmente sottoscriveva l'insostenibile propaganda araba sulla capitale di Israele, che aveva suscitato forti opposizioni.
   Non si tratta di episodi isolati ma di una tendenza così pronunciata da indurre lo studioso israeliano Gerald Steinberg, presidente di "Ong Monitor" a proporre di cambiare il nome dell'istituzione da "museo ebraico" in "museo antiebraico". E' una preoccupazione condivisa, tanto da indurre il governo israeliano a chiedere a quello tedesco di interrompere il finanziamento del museo (e non è un caso che l'episodio sia riportato con scandalo da un sito violentemente antisraeliano).
   Infine è arrivato l'ultimo incidente. Il direttore del museo Peter Schäfer ha fatto propaganda su Twitter a un appello di un certo numero di docenti estremisti delle università israeliane e americane che protestavano contro la mozione di condanna del boicottaggio di Israele (BDS) approvata dal Parlamento tedesco. IL presidente degli ebrei tedeschi, Joseph Schuster, ha emesso un comunicato in cui diceva che "il museo è completamente fuori controllo; in queste condizioni bisogna chiedersi se ha ancora senso applicargli l'aggettivo 'ebraico'."
   E a questo punto finalmente Schäfer si è dimesso non perché pentito della sua azione, ma "per evitare ulteriori danni al museo".
   Una storia triste, un fallimento culturale. Purtroppo non isolato. Una deriva del genere ha colpito anche il Centro Anna Frank in Germania. In particolare Giulio Meotti, osservatore attento e competente su queste cose, ha chiesto la chiusura della Casa di Anna Frank a Amsterdam per "palese antisemitismo" .
   Insomma, vi è un forte rischio che istituzioni che dovrebbero tutelare la memoria della Shoà e intellettuali ebrei usino la loro posizione per demonizzare, delegittimare, diffamare Israele e si inoltrino quindi nella più pericolosa forma attuale di antisemitismo che è l'antisionismo.
   Le ragioni sono ideologiche: si pensa come Butler che i terroristi islamici facciano parte della sinistra e la democrazia israeliana della destra, e invece di trarne la conclusione che in una sinistra che comprenda i terroristi vi è qualcosa di sbagliato, si appoggia la loro lotta contro Israele.
   E' una posizione che per fortuna in Italia è abbastanza marginale rispetto al mondo ebraico (ma non certo assente). Bisogna prenderne atto e combatterla con decisione.

(Progetto Dreyfus, 20 giugno 2019)


Hamas: Israele ha rispettato i termini di una tregua non ufficiale

GERUSALEMME - Israele ha rispettato i termini di un accordo non ufficiale per il cessate il fuoco raggiunto lo scorso mese con il movimento palestinese Hamas dopo l'escalation di tensione del 4-5 maggio scorsi. Lo ha dichiarato oggi il portavoce di Hamas, Hazem Qassim, chiarendo che i mediatori - ovvero l'Egitto e le Nazioni Unite - hanno assicurato che Israele attuerà un pacchetto più ampio di concessioni nei prossimi giorni. In particolare, si tratta di consentire l'accesso ad aiuti finanziari a Gaza, affrontare la crisi dovuta alla mancanza di elettricità continua e di acqua potabile nell'enclave, e agevolare il movimento dei lavoratori palestinesi attraverso i valichi. Nell'ambito dell'intesa non riconosciuta a livello ufficiale da Israele, Hamas avrebbe acconsentito a bloccare gli episodi di violenza lungo la linea di demarcazione fra Gaza e Israele, mantenendo una zona cuscinetto di 300 metri, porre fine al lancio di palloni esplosivi e agli scontri notturni con le forze di sicurezza israeliane e bloccare le imbarcazioni che cercano di rompere il blocco navale.

(Agenzia Nova, 19 giugno 2019)


Impresa incredibile! L'israeliano Freilich vince il campionato europeo di scherma

Lo schermidore israeliano Yuval Freilich ha vinto ieri la medaglia d'oro ai Campionati Europei di Scherma a Düsseldorf, in Germania.
Freilich, 40o classificato al mondo, aveva battuto in semifinale l'italiano Andrea Santarelli, 13o.
È il primo schermitore israeliano a vincere un campionato europeo.
"E' una sensazione incredibile", ha detto in un'intervista pubblicata dalla Confederazione europea di scherma.
Yuval Shalom Freilich è nato in Israele il 24 gennaio 1995 da genitori australiani. In Australia ha trascorso parte della sua infanzia e lì nel 2000 ha scoperto la schema grazie ai Giochi Olimpici. Quattro anni dopo è tornato in Israele, dove ha iniziato una carriera che l'ha fatto entrare nell'almanacco della scherma.


(Le Monde Juif, 19 giugno 2019 )


"Bisogna lottare per i diritti. È questo l'unico antidoto contro l'odio e il razzismo"

Intervista a Ruth Dureghello, la presidente della Comunità ebraica di Roma appena rieletta

di Ariela Piattelli

ROMA - La forza dell'Italia è nelle diversità della società, che non può essere svilita dalle intolleranze. Forse non è un caso che sono stata rieletta, forse ciò è avvenuto anche perché sono una donna». Così commenta il suo successo alle urne Ruth Dureghello, la presidente uscente della Comunità Ebraica di Roma, che con oltre il 48% di voti alla tornata elettorale di domenica scorsa, con la lista «Per Israele», torna alla guida della comunità ebraica più grande d'Italia e più antica dell'Europa.

- Lei sostiene che le diversità in Italia sono a rischio. Perché?
  «Nel contesto generale di oggi, dobbiamo affrontare l'indebolimento di una società che svilisce sempre di più il valore della diversità come ricchezza, e al contrario vede nel diverso il nemico, inneggiando con parole d'odio al populismo e al suprematismo, se non all'annientamento dell'altro. Su questo abbiamo una lunga storia da raccontare, di discriminazione, segregazione, persecuzione e sterminio. Siamo sopravvissuti alla pagina peggiore che l'umanità abbia mai scritto, non certo per assistere inermi e indifferenti al riproporsi dei sintomi dello stesso male che si annida in Europa e anche, ahimè, in Italia. In passato noi ce l'abbiamo fatta, perché non abbiamo mai smesso di combattere contro questi fenomeni, e continueremo a farlo. Mi riferisco al fatto che se da un lato è necessario il rispetto delle regole, dall'altro non possiamo perdere di vista l'umanità ed il rispetto dell'uomo». Quale crede sia l'antidoto a questi fenomeni che descrive? «La tutela dei diritti della persona: rispettando i diritti si possono combattere vecchie e nuove propagande suprematiste, ed ogni forma di intolleranza. In questo Paese c'è bisogno di ricordare che oltre ai doveri esistono i diritti: all'uguaglianza, al rispetto delle differenze, sessuali, religiose, sociali. È il rispetto dei diritti dei cittadini che rafforza la fiducia nelle istituzioni. E lo dico anche perché sono una donna».

- Nei prossimi quattro anni dovrà affrontare una grande sfida per l'ebraismo italiano, quella del difficile dialogo tra ebrei ortodossi ed ebrei laici. Come intende farlo?
  «Forse è la sfida più importante, per cui oggi passa la sopravvivenza dello stesso ebraismo italiano. Il quadro romano è molto diverso da altre città. Sotto il grande abbraccio della Comunità si riuniscono ebrei di diverse provenienze, ceto sociale e orientamento politico. Siamo una comunità molto vitale, ed il pluralismo in questo senso è dimostrazione di un ebraismo vivo, che ha aperti al suo interno vari fronti di dibattito. Tra questi quello tra ebrei più e meno osservanti. Noi ci siamo sempre seduti a parlare con tutti, e continueremo a farlo. Siamo pronti ad ascoltare e ad accogliere tutti, ma all'interno di quei valori e del rispetto delle regole che ci appartengono. La storia e l'esperienza europea ci dimostrano che quando ci si allontana da una concezione ortodossa dell'ebraismo, quest'ultimo si indebolisce. È innegabile che l'ebraismo sopravvive dove vi sono scuole e comunità ortodosse».

- Perché crede che questa sia la sfida più importante?
  «Perché il pericolo è quello di liquefare quei valori millenari che ancora ci rendono unici in questa città ed in questo Paese. Il primo nostro impegno è quello di trasmettere alle nuove generazioni il senso della vita ebraica, e la capacità di dialogare con tutti, mantenendo però salde le nostre posizioni. Noi vorremmo che il modello dell'ebraismo romano diventasse un esempio per l'intero ebraismo italiano, per i suoi valori, per l'autorevolezza, per l'educazione, per rivendicare la storia e la cultura, e il contributo costante che gli ebrei italiani hanno dato e continuano a dare a questo Paese. Un ebraismo che non si nasconde, e che non si vuole liquefare per adattarsi, ma che è fiero e orgoglioso della sua identità. In tutto questo il dibattito ed il dialogo ne sono una componente essenziale».

- Con la sua rielezione, una donna torna per la seconda volta al timone della Comunità ebraica romana. Come interpreta questa scelta dei suoi elettori?
  «Ho la sensazione che questo voto sia stato in larga parte "al femminile". In questi anni sono state tantissime le occasioni in cui altre donne, non solo del mondo ebraico, mi hanno manifestato apprezzamento per il mio ruolo. In un contesto spesso caratterizzato dalla presenza maschile, una donna deve essere più capace di farsi rispettare. A noi donne ebree le nostre madri hanno insegnato, sin da piccole, che abbiamo la responsabilità della continuità e dell'educazione del nostro popolo. È un dovere e un diritto. Sono convinta che se anche altre donne avessero, in ogni contesto, lo spazio per esprimersi, avremmo una società più forte, equa e matura».

(La Stampa, 19 giugno 2019)


Statue e monumenti anti ebraici, dibattito in Germania sulla rimozione

 
La "Judensau" di Wittenberg
Almeno una trentina di bassorilievi dai toni apertamente antisemiti ornano le chiese tedesche, realizzati nel Medioevo; si discute su quale uso sia più opportuno farne
   Il dibattito infuria nella città di Martin Lutero, Wittenberg, culla del protestantesimo. La giustizia tedesca ha appena respinto il ricorso di Michael Dullmann, membro della comunità ebraica in Germania, che chiedeva l'asportazione di un bassorilievo che orna la chiesa Santa Maria, dal motivo apertamente antisemita. La scultura, datata 1305, rappresenta una scrofa che allatta per l'appunto dei giovani ebrei mentre un rabbino è intento a scrutare le natiche dell'animale. La richiesta di asportare l'opera e collocarla in un museo cittadino è stata respinta dal tribunale distrettuale di Dessau-Roßlau.
   Sono almeno una trentina i cosiddetti "Judensau" presenti nelle chiese europee, per lo più in Germania, con un paio di incursioni in Francia, a Colmar e a Metz: la più antica è datata 1230 e si trova nel chiostro della cattedrale di Brandeburgo. Lo scopo era di disumanizzare il popolo ebraico rappresentandolo con un animale considerato impuro.
   Nel 2016 il teologo londinese Richard Harvey aveva promosso una petizione on line chiedendo le rimozioni di tali sculture, senza successo.
   Alcuni leader cristiani tedeschi non si oppongono alla rimozione della scultura. In una dichiarazione, Irmgard Schwaetzer, presidente del Sinodo della Chiesa evangelica tedesca (Ekd), propone di spostare il bassorilievo di Wittenberg in un nuovo memoriale di fronte alla chiesa. Secondo la donna, la scultura esprime «il puro odio verso ebrei» che allora era espresso con grande virulenza, «un odio che deve essere ricordato perché sia allontanato. Dobbiamo pensare ai sentimenti che provano i nostri fratelli e le nostre sorelle ebrei e ebree quando scoprono questo luogo storico» conclude.
   Anche il mondo politico si sta occupando del caso, diventato molto mediatico in Germania. Nel 2017, il consiglio comunale di Wittenberg si è schierato a favore del mantenimento dell'opera, schierandosi dalla parte della difesa della storia tedesca. La città ha anche ricordato di aver collocato già nel 1988 una targa di bronzo in memoria degli ebrei morti durante la seconda guerra mondiale, a terra, sotto il bassorilievo.
   In un'intervista rilasciata a Radio Deutschlandfunk il 28 maggio, Insa Christiane Hennen, docente di filosofia all'Università di Wittenberg, ha affermato che «i problemi dell'attuale antisemitismo non possono essere risolti eliminando gli oggetti medievali». «Certo, è molto importante che queste immagini siano spiegate per consentire di comprendere la distanza storica che ci separa da quei tempi».
   Un'associazione si sta formando per chiedere il ritiro del bassorilievo e diverse manifestazioni in tal senso si sono svolte in città, guidate soprattutto dal pastore di Lipsia Thomas Piehler, che chiede di spostare la scultura in un museo. Il partito nazionalista ed euro-scettico tedesco, AfD, cavalca l'onda della discussione e chiede il mantenimento nell'attuale collocazione.
    Martin Lutero (1483-1546) predicò per la prima volta in tedesco nella chiesa di Santa Maria di Wittenberg, ora patrimonio dell'umanità dall'UNESCO e in una delle sue opere descrive anche il bassorilievo in questione, con toni certo non concilianti, ma è nota l'avversione del monaco agostiniano nei confronti dell'ebraismo.

(Riforma.it, 19 giugno 2019)


Tel Aviv mette radici in Oltrarno con l'ateneo della cybersecurity

Accordo fra l'università israeliana e la Fondazione Cr Firenze per la caserma Cavalli

di Antonio Passanese

L'ex Granaio dell'Abbondanza, poi caserma Cavalli, acquistata nel 2017 dalla Fondazione Cr Firenze
FIRENZE - È il più grande e importante ateneo pubblico di Israele, e ha deciso di aprire una sua sede a Firenze, in Oltrarno. La Tel Aviv University sbarcherà nel Granaio dell'Abbondanza, la casa delle start up digitali che Fondazione Cr Firenze sta realizzando nell'ex granaio dei Medici in piazza del Cestello, nello stesso edificio trasformato nell'Ottocento dapprima nel Panificio militare e poi in una caserma, la Cavalli, dove migliaia di fiorentini, fino a qualche decennio fa sostenevano la visita di leva.
   Domenica scorsa il direttore generale della fondazione Gabriele Gori e il vicepresidente dell'università Raanan Rein, insieme all' ambasciatore italiano Gianluigi Benedetti, hanno firmato un accordo che prelude all'insediamento della prima sede europea dell'ateneo israeliano nell'immobile che l'ente ha acquistato nel 2017. Una scelta, quella della Tau a Firenze, che sarebbe stata facilitata dagli ottimi rapporti di Marco Carrai (membro del Cda della Fondazione Cr Firenze) con lo Stato di Israele. La Tel Aviv University - che conta più di 30 mila studenti, 9 facoltà, 106 dipartimenti e più di 400 laboratori - nel Granaio dell'Abbondanza promuoverà «gli insegnamenti nei campi dell'innovazione digitale, dell'internet of things (ad esempio la sveglia che suona prima perché c'è traffico, ndr), dell'intelligenza artificiale e della cybersecurìty» di cui la Tau è «un centro di eccellenza riconosciuto a livello mondiale». Il tutto «puntando anche ad attivare una cooperazione strategica, oltre che con la fondazione, con l'ateneo fiorentino per lo sviluppo di un ecosistema di start up tecnologiche».
   Il progetto, da avviare una volta compiute le opportune verifiche di fattibilità, prevede «l'attivazione di master, corsi e seminari aperti a studenti italiani e stranieri, che desiderino valersi del polo fiorentino». Il presidente della Fondazione Cr Firenze, Umberto Tombari, si dice «orgoglioso dell'interessamento dimostrato nei confronti del nostro progetto da parte di un'istituzione così prestigiosa e riconosciuta a livello internazionale. Ciò testimonia la qualità del lavoro che abbiamo svolto per attrarre energie, professionalità ed esperienze».
   La Tel Aviv University dal 1991 ha creato anche lo Stephen Roth Institute, un istituto di ricerca che ha come missione lo studio dell'antisemitismo e del razzismo: una risorsa di informazioni che va dalla Seconda Guerra Mondiale ai nostri giorni e che potrebbe trovare casa nel Granaio dell'Abbondanza.

(Corriere fiorentino, 19 giugno 2019)


Antisemiti a chi?

di Maurizio Belpietro

In questi mesi ci è toccato spesso leggere o ascoltare critiche feroci contro il nostro Paese, accusato di fascismo, xenofobia e perfino di razzismo. L'Italia sarebbe piena di nostalgici, gente che vorrebbe imporre una dittatura, a cominciare da Matteo Salvini che, secondo alcuni, addirittura seguirebbe le orme di Hitler e vorrebbe conquistare con il voto popolare il potere per poi rinchiudere in galera gli oppositori. Di più: qualcuno si è spinto ad accostare i decreti sicurezza voluti dal ministro dell'Interno alle leggi razziali dei 1938. Le lezioncine di democrazia ci sono arrivate da più parti, in gran numero dalla Francia, tramite il suo presidente, ma anche per bocca di un commissario europeo diretta espressione di Parigi.
   Eppure, molti dl coloro che lanciano l'allarme e denunciano il pericolo dovrebbero curarsi di ciò che accade a casa loro, a cominciare proprio da ciò che avviene Oltralpe. Qualche settimana fa avevamo descritto l'impressionante serie di attentati, incendi e minacce e addirittura omicidi registrati da Lione a Marsiglia, passando per la capitale francese, a danno degli ebrei. Tra il 2017 e il 2018 le aggressioni antisemite sono cresciute del 74 per cento. Nel mirino, una comunità di 450 mila persone, 40 mila delle quali in poco tempo hanno scelto di abbandonare la Francia per trasferirsi in Israele. II caso transalpino è certo quello più allarmante tuttavia, a leggere l'inchiesta di Daniel Mosseri che pubblichiamo a pagina 26, si capisce che il fenomeno è assai più ramificato di quanto si creda. Dalla Germania alla Gran Bretagna, poi in Belgio e in Olanda, gli episodi di intolleranza nei confronti degli ebrei sono sempre più numerosi. al punto che il commissario governativo tedesco contro l'antisemitismo ha consigliato agli ebrei residenti in Germania di non uscire con la tradizionale kippah. Nel 2018, nella sola Berlino, l'istituto che tiene sotto controllo il fenomeno ha contato 1.646 atti di aggressione. li clima è tale che c'è chi si permette di incidere una canzone in cui si parla senza problemi di Olocausto e si scherza sul corpo degli internati ad Auschwitz, paragonandolo a quello scolpito dal fitness. In Belgio, invece, c'è un bistrot sul cui ingresso è affisso un cartello che recita: «Qui possono entrare i cani, ma non i sionisti».
   Eccezioni? Mica tanto, perché se questa è l'aria che tira a Liegi, in Gran Bretagna non va meglio. Anzi. Jeremy Corbyn, il leader che guida i laburisti, e arrivato a paragonare Israele alla Germania nazista, rifiutando di riconoscere l'esistenza dell'antisemitismo. La situazione è tale che poco meno della metà degli ebrei britannici si sente insicura e valuta di abbandonare il Paese, mentre quasi tutti si sentono minacciati. A far paura, però, non sono i sovranisti, italiani o stranieri, come magari potrebbe pensare qualcuno. No, i populisti non sono gli autori degli insulti e delle minacce contro gli ebrei e nemmeno i responsabili degli attentati o, cosa accaduta in Francia, addirittura degli omicidi.
   Come racconta Daniel Mosseri nel suo lungo viaggio nel nuovo antisemitismo europeo, la maggior parte di questi attacchi sono opera di musulmani, in Germania come in Belgio o in Gran Bretagna. A Berlino e dintorni esiste una forte comunità turca ed è da lì che provengono le peggiori minacce. Del resto, secondo un sondaggio, la metà o quasi degli islamici presenti in Europa ha pregiudizi nei confronti degli ebrei. E tuttavia, per i commentatori e i politici, l'antisemitismo continua a essere un fenomeno di destra. Dunque si parla di razzismo e fascismo, guardando con sospetto ogni movimento che rivendichi il diritto di difendere i propri confini e di chiuderli a un'immigrazione incontrollata. II nuovo nazismo, secondo gli osservatori, arriva solo da destra, ma chi lo dice non si accorge che se esiste un pericolo per l'Europa è dato dall'integralismo religioso di matrice islamica. Del resto, nel mondo non esistono dittature fasciste e, fatta eccezione per Cina, Corea e Cuba, neppure comuniste. Al contrario, esistono numerose dittature islamiche, ma si fa finta di non vederle. Proprio come con l'antisemitismo che l'Europa sta importando.

(Panorama, 19 giugno 2019)


Uscire dalla crisi

di Dario Calimani

 
Dario Calimani
Siamo testimoni in questi giorni di vari interventi, d'attacco e di difesa, sul rabbinato italiano, sul suo impegno e sulla sua attività. Le modalità dell'attuale 'dialogo' a distanza offrono troppo spazio alle polemiche e alle affermazioni sopra le righe. La personalizzazione delle discussioni, oltretutto, si limita a inasprire il dibattito e a rendere più difficile convergere anche solo sul riconoscimento del problema.
   Di rabbinato e Comunità si è parlato agli Stati Generali dell'ebraismo italiano a inizio novembre scorso, a Roma. Quella, in verità, sembrava una sede forse più adatta ad affrontare preliminarmente le problematiche dell'ebraismo italiano. Solo che ne fosse seguito un dibattito in sedi opportune e con adeguata preparazione. Non lo si è fatto e probabilmente non lo si farà. Eppure, poiché i nodi non mancano e le tensioni pure, sarebbe utile a tutti non tanto un inutile confronto a fini di polemica quanto un tavolo di discussione in cui tutti trovino il coraggio di assumersi le loro rispettive responsabilità nello sforzo di individuare soluzioni condivise.
   La sfida è sempre davanti a noi. Se qualcuno, fra i responsabili 'laici' e quelli 'religiosi', avrà la forza e l'umiltà di fare il primo passo per affrontare tutti insieme la crisi, allora questo nostro ebraismo avrà forse una possibilità minima di uscirne. Altrimenti ce ne staremo a guardare passivi lo sfilacciamento e il degrado.
   Alla fine, poi, sapremo chi dovremo ringraziare. E non sarà una sola categoria.

(moked, 18 giugno 2019)


A Roma torna il festival della cultura 'Ebraica'

Dal 22 al 26 giugno. Il via sabato con la mostra '2001 Odissea nello spazio' come tributo a Stanley Kubrick nel ventennale della morte.

di Alessandro Melia

ROMA - Ruota intorno al concetto di 'Spazio', inteso come paradigma fondamentale della relazione tra vita e conoscenza, la dodicesima edizione di 'Ebraica - festival internazionale di cultura', che si inaugurerà sabato con la Notte della Cabbalà. Dal 22 al 26 giugno l'intero quartiere ebraico di Roma, dal Palazzo della Cultura ai Giardini del Tempio, sarà animato da una serie di iniziative che ruoteranno intorno al tema dello spazio. Il via sabato con la mostra '2001 Odissea nello spazio' voluta dai curatori Ariela Piattelli, Raffaella Spizzichino e Marco Panella, come tributo a Stanley Kubrick nel ventennale della morte. Subito a seguire il rabbino capo Riccardo Di Segni, l'astronauta Umberto Guidoni, il direttore delle relazioni internazionali dell'Agenzia spaziale italiana, Gabriella Arrigo, apriranno gli incontri del festival con una conversazione sullo spazio.
   Tra gli ospiti del festival il celebre scrittore israeliano Eskhol Nevo, mentre per gli amanti del teatro e della fisica da non perdere lo spettacolo con Gabriella Greison, 'Einstein and me', tributo al grande scienziato.
   Il ventennale della morte di Kubrick sarà anche lo spunto per uno degli appuntamenti più attesi di quest'anno: lunedì 24 a partire dalle 19.30, il direttore della Festa del Cinema di Roma, Antonio Monda, e Katharina Kubrick, la figlia del regista, saranno protagonisti dell'incontro 'Stanley and me'.
   "Sono emozionata per la rielezione e felice per questo festival, arrivato al suo dodicesimo anno. Siamo al Bar Mitzvah- ha detto la presidente della Comunità ebraica di Roma, Ruth Dureghello, durante la presentazione- Ci siamo arrivati coinvolgendo ospiti importanti e portando avanti i valori e le tradizioni della nostra cultura e di questo dobbiamo esserne fieri. Ringrazio i partner e tutte le persone che da anni ci seguono con passione".

(Dire, 18 giugno 2019)


Israele non invitata alla conferenza in Bahrein promossa dagli Stati Uniti

GERUSALEMME - I funzionari del governo israeliano non sono stati invitati alla conferenza "Peace to Prosperity", organizzata da Bahrein e Stati Uniti, che si svolgerà il 25 e il 26 giugno a Manama. Lo ha fatto sapere un funzionario anonimo della Casa Bianca, precisando che l'incontro si concentrerà sulla "visione economica" dell'amministrazione Usa per i palestinesi e non su "questioni politiche". Ieri, 17 giugno, la stampa internazionale aveva annunciato che Israele invierà soltanto una delegazione economica alla conferenza "Peace to Prosperity". Nelle scorse settimane, il ministro delle Finanze israeliano, Moshe Kahlon, aveva annunciato l'intenzione di partecipare alla conferenza di Manama, dove dovrebbero essere svelati i dettagli economici del piano di pace per il Medio Oriente. Intanto, Egitto, Marocco, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Qatar e Arabia Saudita hanno annunciato che parteciperanno alla conferenza di Manama. Il quotidiano israeliano "The Times of Israel" ha riferito ieri, 17 giugno, che funzionari statunitensi e bahreniti hanno concluso che i rappresentanti politici israeliani non devono essere invitati anche perché il governo è guidato da un premier ad interim, in attesa delle elezioni del 17 settembre. Anche i giornalisti israeliani che hanno cercato di accreditarsi per seguire l'evento non hanno ottenuto il permesso dagli organizzatori.

(Agenzia Nova, 18 giugno 2019)


Egitto, sepolto al Cairo l'ex presidente Morsi. I familiari: "Negati i funerali pubblici"

Le autorità egiziane hanno dichiarato lo stato di allerta per timore di manifestazioni

di Francesca Paci

L'ex presidente egiziano Mohamed Morsi
Alla fine l'hanno sepolto rapidamente: a ventiquattr'ore dalla sua morte per apparente arresto cardiaco nell'aula del tribunale in cui era processato per l'accusa di spionaggio a favore di Hamas, l'ex presidente egiziano Mohamed Morsi, il primo democraticamente eletto del grande Paese nordafricano, è stato portato al cimitero di Nasr City, alla periferia del Cairo. Una procedura repentina che rispetta i precetti prescritti dall'islam ma che apre anche una serie di incognite, in primis il sospetto che il governo abbia voluto fare particolarmente presto per concentrarsi sull'agitazione popolare temuta al punto da aver proclamato preventivamente lo stato d'emergenza.
   Ad assistere le esequie dell'ex ingegnere in carcere sin dal 2013 è stata ammessa solo la famiglia, nell'istituto di detenzione prima e poi al cimitero dove si trovano anche le spoglie di altri importanti esponenti della Fratellanza musulmana. Uno degli avvocati dell'ex presidente racconta adesso che le forze di sicurezza avrebbero rifiutato la richiesta della moglie e dei 5 figli di concedere un funerale pubblico in virtù del suo ruolo passato, ancorché cancellato dal colpo di spugna del 2013 e da anni di detenzione durissima. Pare che si stata negata anche la possibilità di seppellirlo nella tomba di famiglia nella provincia natale di Sharqia.
   Intanto però arriva il cordoglio di tutto quel mondo musulmano allontanatosi dall'Egitto dopo l'avvento dell'era Sisi e il riposizionamento del Paese dalla parte dell'Arabia Saudita, da quell'Iran con cui Morsi aveva iniziato a riallacciare i rapporti immaginando un volo diretto Cairo-Teheran fino a Gaza. Parlano gli ayatollah, attraverso il portavoce del ministero degli esteri Abbas Mousavi, esprimendo «dispiacere» per la scomparsa del «primo presidente egiziano eletto democraticamente» dopo la cacciata di Mubarak ma, con la cautela dettata dal momento esplosivo per la regione, aggiungendo di rispettare «i punti di vista della grande e coraggiosa nazione egiziana». Parla Hamas, che piange «l'ex presidente egiziano Mohamed Morsi, morto lunedì sera dopo una lunga lotta al servizio dell'Egitto, del suo popolo e soprattutto della causa palestinese». Parla l'emiro del Qatar, cheikh Tamim ben Hamad Al-Thani, «profondamente triste». Parla ancora di «martirio» la Turchia di Erdogan, fortissimo sponsor di Morsi insieme a Doha.
   Dopo aver respinto al mittente le critiche di quanti come Human Rights Watch denunciano da tempo le condizioni miserrime di detenuti come Morsi, le autorità del Cairo hanno dichiarato lo stato di allerta per timore di manifestazioni. Secondo i media governativi l'ex presidente si è sentito male mentre testimoniava in una gabbia nell'aula dove si svolgeva un processo in cui era accusato di spionaggio a favore di Hamas. È svenuto ed è stato portato in ospedale, dove è morto. Al j'accuse dei Fratelli Musulmani e di varie organizzazioni per i diritti umani la procura generale ha risposto seccamente: «Il tribunale gli ha dato il permesso di parlare per cinque minuti, lui è caduto a terra nella gabbia degli accusati ed è stato portato in ospedale, dove è morto. Sul corpo non c'erano ferite visibili». Amnesty International ha chiesto «un'inchiesta immediata» sul decesso, descrivendolo come «profondamente scioccante».
   «Non abbiamo neppure potuto vederlo in tribunale, per via dei divisori di vetro blindato insonorizzato, altri detenuti hanno fatto segno che non aveva più battito» ha raccontato all'AFP uno dei suoi avvocati, Abdelmoneim Abdel Maksoud. A marzo 2018 una commissione britannica indipendente aveva condannato l'isolamento in cui l'ex presidente era tenuto per 23 ore al giorno, parlando di condizioni passibili di costituire «tortura o trattamento crudele, disumano o degradante» e prevedendo che la situazione avrebbe «potuto portare a morte prematura».
   L'Egitto tace in un'attesa che assomiglia a una forma di trance. Al Cairo si vedono blindati ovunque e si sente la presenza delle forze di sicurezza soprattutto dove non si vedono. Piazza Tahrir, negli ultimi due anni ripulita di qualsiasi graffito risalente alla rivoluzione del 25 gennaio 2011 e "decorata" con uno spoglio monumento oblungo alla memoria di quella del 3 luglio 2013, culminata con la destituzione di Morsi e l'ascesa di al Sisi, è così tranquilla da sembrare indifferente, trafficata come sempre, inconsapevole della situazione o forse troppo consapevole.

(La Stampa, 18 giugno 2019)


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Morto Mohamed Morsi. Mostrò il vero volto della Fratellanza Musulmana

La morte di Mohamed Morsi ci ricorda di quanto può essere sbagliato definire "Islam moderato" la Fratellanza Musulmana.

Ieri in Egitto all'età di 67 anni è morto Mohamed Morsi, l'uomo che prima venne eletto Presidente e poi venne cacciato a furor di popolo dai militari.
Non è durata molto la presidenza di Mohamed Morsi, appena un anno, giusto il tempo di mostrare al mondo il vero volto della Fratellanza Musulmana, quella che l'occidente si ostina ancora a chiamare "islam moderato".
Morsi vinse le elezioni del "dopo Mubarak" presentando un programma islamista moderato per guidare l'Egitto in una nuova era democratica in cui l'autocrazia sarebbe stata sostituita da un governo trasparente che rispettava i diritti umani.
Ma ben presto gli egiziani si accorsero che le promesse di Mohamed Morsi si scontravano con il programma tutt'altro che moderato della Fratellanza Musulmana. La grave crisi economica fece il resto e dopo poco più di un anno di presidenza la gente scese di nuovo in piazza e con l'aiuto dei militari lo destituì....

(Rights Reporters, 18 giugno 2019)


C'è un imam a Gerusalemme

Il francese Chalghoumi visita Israele e dice tante verità. Un elogio

 
Hassen Chalghoumi
L'imam di Drancy, Hassen Chalghoumi, a capo di una delegazione di musulmani francesi, si è recato in visita in Israele e ha detto la verità. Ha detto che l'antisionismo è antisemitismo e ha accusato i Fratelli musulmani di aizzare gli animi contro gli ebrei in Francia e in Belgio. Minacciato di morte dagli islamisti e sotto scorta nella banlieue parigina, Chalghoumi ha detto che "la propaganda antisionista è una maschera usata per dire cose antisemite in modo più garbato. Se stessimo parlando semplicemente di critiche allo stato di Israele, non vedremmo quel livello di odio né discorsi sulla necessità di annientare e distruggere Israele". L'imam ha visitato la Knesset, dove ha incontrato ministri e parlamentari. Poi il Muro occidentale ("del pianto"), i confini settentrionali d'Israele e quelli meridionali con la Striscia di Gaza. Chalghoumi ha detto che si aspettava di sentirsi sgradito al Kotel (Muro occidentale). "Sono rimasto sorpreso nel vedere che, quando arabi musulmani, uomini e donne, sono entrati nell'area del Kotel, nessuno ci ha guardato in modo strano né ha detto qualcosa di negativo né ci ha fatto sentire sgraditi. Anzi, le persone volevano sapere del nostro viaggio, ci auguravano 'Baruch HaShem' e dicevano preghiere per noi. Ci siamo sentiti davvero i benvenuti". Alla domanda su come mai l'antisemitismo sia così diffuso nelle comunità musulmane francesi e belghe, dove in molti quartieri gli ebrei non possono nemmeno indossare simboli ebraici identificabili, Chalghoumi dice che i gruppi islamisti, in particolare i Fratelli musulmani, sono stati estremamente attivi nella regione e hanno promosso la loro ideologia, che include idee classicamente antisemite. La Fratellanza musulmana, dice l'imam, ha fatto del conflitto israelo-palestinese "la questione di punta dietro cui unire i musulmani in Francia. Ciò ha permesso al gruppo di raccogliere fondi, in particolare da Turchia, Qatar e Iran, che riversano denaro ai gruppi islamisti in Europa perché finanzino le loro istituzioni. I Fratelli musulmani sono contro gli ebrei e Israele". Averne di leader islamici così, come Chalghoumi.

(Il Foglio, 18 giugno 2019)


Leggi razziali. Il silenzio dei giuristi

di Cesare Rimini

C'è stato nell'Aula Magna del Palazzo di Giustizia un «Incontro di riflessione e di studio» promosso dal Consiglio dell'Ordine degli avvocati di Milano. E stato un incontro emozionante. Il tema «Le leggi razziali e l'esclusione dalla professione legale degli avvocati ebrei a Milano». L'aula era strapiena, molta gente in piedi, anche lo spazio fuori dall'aula era gremito di avvocati e giovani studenti. E stato commovente ascoltare gli interventi, primo tra tutti la testimonianza di Liliana Segre, Senatrice a vita, una di quelle che possono dire «io c'ero». E poi magistrati autorevoli. I giuristi hanno ricordato le leggi che ci sono state, gli ebrei che dovevano dichiararsi tali, gli ebrei «discriminati». C'è stato anche il ricordo triste dei grandi giuristi e avvocati di allora, degli autori dei codici e delle leggi che, dall'alto del loro indiscusso sapere, non aprirono bocca. Ci fu una specie di unanimità del silenzio. E allora è bello ricordare che ci fu anche il grande esempio della gente semplice, di quelli che non avevano studiato e che rischiarono la vita per aiutare, con i fatti non con le parole. Così l'impiegato comunale di Gabicce Mare che capì la situazione in cui si trovava mio padre. Gli chiese «Quanti sono quelli che possono avere bisogno di una carta d'identità falsa?». Mio padre gli spiegò che il problema era grande, anche come dimensione. Sei noi Rimini, quattro i Finzi con la nonna Finzi e la zia Maria Cantoni e poi il direttore della ditta di mio padre Vivanti. «Sono brutti cognomi» disse l'impiegato comunale, e aggiunse «Torni tra due giorni» e gli fece trovare le carte d'identità false. Tutti i Rimini divennero Ruini, i Finzi divennero Pranzi, la zia Cantoni divenne Carloni e Vivanti divenne ... Vivaldi. E la fine della storia è che l'impiegato diede una carta senza nome «Una carta in più». «Può sempre trovare un altro che ne ha bisogno. Buon viaggio!».

(Corriere della Sera - Milano, 18 giugno 2019)



Ruth Dureghello confermata alla guida della Comunità Ebraica di Roma

Ha ottenuto il 48% dei consensi con la lista Per Israele: «Felice per la fiducia ci occuperemo delle fasce più deboli e dell'educazione ebraica»

di Ariela Piattelli

 
Ruth Dureghello
ROMA - Con il 48% dei consensi, la lista «Per Israele» guidata dalla presidente Ruth Dureghello si conferma la più votata alle elezioni delle Comunità Ebraica di Roma. In una competizione elettorale che vedeva ben 6 liste candidate, quella della Dureghello raggiunge la maggioranza assoluta in Consiglio, grazie al premio di maggioranza, scattato dopo 45% delle preferenze. «Four more years», scrive ringraziando i suoi elettori su Facebook la presidente, riconfermata alla guida della Comunità ebraica più numerosa di Italia per i prossimi 4 anni.
«E' una grande soddisfazione il riconoscimento del risultato di questi ultimi quattro anni. - commenta Dureghello - Sono felice per la fiducia che gli elettori hanno rinnovato a me e alla mia squadra. Continueremo a rappresentare la Comunità ebraica più antica d'Europa con orgoglio e impegno. Come promesso in campagna elettorale ci occuperemo delle fasce più deboli e dell'educazione ebraica. Vogliamo continuare ad essere con i nostri valori un punto di riferimento per questa città e per questo Paese».
Gli ebrei romani sono andati alle urne domenica 16 giugno, in lizza 136 candidati per 6 liste. Oltre a Per Israele, la lista Menorah con candidato presidente David Barda, schieramento già presente nel precedente governo di coalizione, Dor Va Dor (in ebraico «Di generazione in generazione»), espressione dell'ebraismo libico a Roma, il nuovo gruppo che puntava nel suo programma a volontariato e al culto. Poi la lista Binah is Real, con la candidata presidente Daniela Pavoncello, e infine le nuove «Maghen David», guidata dall'assessore uscente al culto Marco Sed ed «Ebrei per Roma» di Giorgio Heller.

(La Stampa, 17 giugno 2019)



Rav David Sciunnach: «Noi rabbini continuiamo a esserci e a far sentire la nostra voce»

di Rav David Sciunnach*

Insinuazioni, critiche, opposizioni e provocazioni da sempre accompagnano la storia degli esseri umani. La questione è se rispondervi o meno e, nel caso, quando e come. Possibilità entrambe contenute nel Tanakh. Personalmente, credo sia giunto il momento di puntualizzare in maniera molto chiara alcuni fatti e questioni.

                           Rav David Sciunnach                                                  Rav Pierpaolo Punturello
Come tutti, ho letto anche io la melliflua e ormai celeberrima intervista rilasciata tempo fa da Guido Vitale su Ha Keillah, come pure ho letto l'intervento del rabbino Pierpaolo Punturello.
  In particolare, in relazione, al secondo intervento, vorrei ricordare alcuni punti fermi. Quando si fanno dichiarazioni così forti, bisognerebbe quantomeno vivere in un luogo, conoscerlo a menadito, esserci. Non basta esserci stati o essere in contatto, magari anche con molte persone, tramite i social media e il sentito dire: occorre una presenza fisica continuativa, calata nel contesto. In relazione al rabbino Punturello, vorrei ricordare che Rav Laras z'z'l, assieme ai rabbini che con il Maestro collaboravano con regolarità, si spese molto e personalmente per farlo progredire negli studi, in particolare per fargli conseguire il titolo di Maskil per poi studiare presso la yeshivah del rabbino Riskin. Era chiaro che, da parte nostra, espressione del tanto vituperato rabbinato italiano, si trattava, come in altri casi, di un investimento sul futuro delle nostre comunità (peraltro ampiamente autofinanziato proprio dagli introiti di quella kasherut così esecrata), credendo Rav Laras nella pluralità di posizioni in seno all'ebraismo ortodosso. Poi Pierpaolo ha deciso di non rientrare in Italia, di vivere prima in Israele e oggi in Spagna. Scelte rispettabilissime, che in larga misura posso comprendere e condividere. In Israele c'è la continua possibilità di crescere negli studi e si è religiosamente aperti a mille sollecitazioni; non c'è problema alcuno per la crescita ebraica dei figli, cosa fondamentale, come del resto in Spagna, essendoci colà scuole ebraiche. Tornare in Italia, significa spesso servire comunità decentrate, sguarnite di scuole ebraiche (laddove, per 'ebraiche', si intende, in vario modo e con varie declinazioni, 'religiose'); povere nei servizi di kasheruth; in cui l'attività religiosa più frequentata sono i funerali e dove, se c'è un matrimonio, è misto o, se si tratta di nascite, si sollecita una conversione. È troppo facile criticare dal di fuori situazioni di tal fatta, senza 'sporcarsi le mani'. Se il rabbino Punturello desidera davvero aiutare l'ebraismo italiano e il suo rabbinato, che si candidi, come spesso in questi anni ha avuto possibilità, a rabbino-capo di una piccola o media comunità italiana, per aiutarle e per aiutarci, con oneri e onori. Scelta che, tuttavia, non ha fatto, come testimoniato dai fatti e non dai proclami.
  Certamente i rabbini commettono errori, tuttavia i rabbini non sono preti e da noi esiste la libertà personale della singola persona ebrea, espressa in scelte individuali. In moltissime comunità la disaffezione degli iscritti verso la tefillah e la kasheruth è elevatissima, sia per mode intellettuali e ideologico-politiche, sia per diseducazione (e lì possiamo parlare di responsabilità rabbiniche), sia per scelte personali. Quando a tutto ciò si assommano demografie comunitarie con pochi iscritti, spesso mediamente molto in avanti con gli anni, è evidente a tutti che 'il re è nudo': non il rabbinato, che non deve essere un tappabuchi (può esserlo, certo, ma per urgenze, e non in via ordinaria), bensì l'ebraismo italiano. Dopo un'esistenza più che bimillenaria, molte ipoteche gravano sull'ebraismo italiano e sul prosieguo a medio e lungo termine della sua esistenza, per come l'abbiamo conosciuto.
  Ma l'ebraismo italiano, nelle sue dirigenze - e da anni -, questo problema strutturale non vuole affrontarlo, perché ci mette con le spalle al muro, ci carica di angosce, ci obbliga a ripensarci ed è, in definitiva, molto doloroso. Non solo, assumere questa prospettiva, ci mette in rotta di collisione con l'immagine, utile per l'esterno e ammaliante per alcuni all'interno, veicolata istituzionalmente in questi anni da Pagine Ebraiche. Le nostre dirigenze su questo fatto epocale evidente a tutti hanno deciso, per mille motivi, forse anche per 'carità', di mettersi due spesse fette di salame sugli occhi, di non sostare per imboccare un nuovo paradigma programmatico, e di adottare la politica bertiana di 'finchè la barca va…'.
  Vorrei essere molto chiaro: certamente noi rabbini commettiamo errori, purtroppo anche gravi, a cui non sempre è facile rimediare, proprio perché commessi da noi, disattendendo alla fiducia e all'autorevolezza riposte nel ruolo e nella persona del rabbino. Tuttavia, per quello che riguarda le conversioni, mi sono convinto che il problema principale, oltre alla serietà e alla consapevolezza dei candidati, come pure del tribunale rabbinico giudicante, ampiamente dimori nella comunità che dovrebbe accogliere i neofiti.
  Molte nostre Comunità sono purtroppo sovente ebraicamente inospitali: non ci sono servizi di kasherut, ristoranti kasher, tefillot con minian garantito, possibilità serie di studio almeno settimanale, coetanei correligionari da frequentare con simili prospettive e così via. In simili contesti è impossibile - fatte le dovute eccezioni che, come per ogni realtà, esistono - convertire chicchessia, proprio perché la persona è calata in contesti ebraicamente desertici. Infine, sempre riguardo alle conversioni, ricordo che esiste la Conferenza dei Rabbini d'Europa (CER), di cui siamo membri, che cerca di uniformare, fare ordine e dare degli indirizzi condivisi. Ebbene, uno degli orientamenti assunti a maggioranza e vincolante per i vari tribunali rabbinici operanti è quello che fortemente sconsiglia e scoraggia di convertire persone che vivano in contesti lontani da una comunità ebraica, dove per comunità ebraica si intende una comunità che garantisca realmente e operativamente, in via ordinaria e il più possibile quotidiana, - e non sulla carta -, minian, miqveh, talmùd Torah, servizi kasher.
  Rav Laras negli ultimi anni aveva fatto un rapido calcolo delle conversioni operate dal dopoguerra a oggi dai vari tribunali rabbinici esistenti. Si tratta, come lui stesso scrisse pubblicamente, di alcune migliaia. Vorrei ragionare su questo dato. Non esiste al mondo, dati inoltre i numeri relativamente esigui dell'ebraismo italiano anche quando si era in 45.000, altro ebraismo ortodosso che si sia comportato de facto, più che de jure, in questo modo. Siamo stati, cioè, nel bene e nel male, un 'case study'. Molti ritengono, per lo più in buona fede, che, per arginare l'assimilazione e la contrazione demografica, la conversione dei minori sia stata la pratica migliore. Ebbene, dal dopoguerra a oggi, nonostante migliaia di conversioni, siamo calati da 45.000 circa a poco più di 20.000. Dagli attuali 20/25.000 ebrei dimoranti in Italia, bisognerebbe poi sottrarre le migliaia di ebrei esuli da Siria, Libano, Libia e Persia qui pervenuti recentemente.
  Tradotto: il numero degli ebrei di tradizione italiana, nonostante il 'case study' delle conversioni alla nascita, si è dimezzato in qualche decade eminentemente per le scelte di vita, certamente rispettabili ma poco 'ebraiche', dei suoi aderenti. Il largheggiare delle conversioni, cioè, anche dal punto di vista sociologico, non ha per nulla funzionato, con l'effetto deleterio di una tacita accettazione del fenomeno del matrimonio misto in seno alle nostra comunità. Per converso, negli ambienti rabbinici di tutto il mondo ortodosso, dalla Modern Orthodoxy americana al London Beth Din, dagli ambienti sefarditi orientali ai chassidim, sino al Rabbinato di Israele, l'eccessiva pratica conversionistica ha contribuito a erodere enormemente la credibilità del rabbinato italiano. E noi oggi non viviamo più nel 'piccolo mondo antico' dell'ebraismo borghese, emancipato e decadente, magistralmente immortalato da Giorgio Bassani, ma in un mondo assai più ampio, a cui dobbiamo inevitabilmente e giustamente rendere conto.
  Noi non possiamo convertire persone all'ebraismo perché si tratterebbe di una 'sciccheria intellettuale', né perché Woody Allen è ebreo, né perché possediamo il fascino del 'popolo sopravvissuto', né perché si possano esibire ascendenze ebraiche di sorta, né - cosa assai più delicata, rispettabile e seria - per pacificare le tensioni in una famiglia 'mista' o l'identità e il senso di appartenenza di una ragazza o di un ragazzo in crescita, né per stemperare il senso di colpa di chi legittimamente ha fatto delle scelte senza tener conto delle conseguenze. In primo luogo, ciò che conta ed è essenziale è il servizio da tributarsi a Dio onnipotente, che ha scelto Israele come Suo popolo prezioso, sancendo ciò con l'osservanza delle mitzvoth: attaccamento al Popolo Ebraico e a Dio, tefillah, osservanza dello Shabbat e della Kasherut, studio della Torah, questi sono i pilasti richiesti. Si tratta di forme di vita complicate ed esigenti, talora scomode, che richiedono aggregazione sociale, studio, tempo e dedizione, persino una certa tenacia (forma di vita rispetto a cui ognuno, chi più chi meno, è in difetto, con alti e bassi, con contraddizioni persino, ma con questo come fermo ideale). Senza questo è impossibile convertire, perché questo è richiesto.
  Circa l'affaire reform è il caso - e si è in grande e grave ritardo, ed è un errore commesso da tutti noi rabbini italiani - di fare chiarezza su alcuni punti imprescindibili. Il problema, in primo luogo, non è che gli atti religiosi e giuridici dei reform siano o meno riconosciuti dal rabbinato di Israele, né è una questione di potere religioso, e nemmeno il problema dimora nel fatto che i reform siano molto ricettivi nei riguardi di certe istanze comportamentali della più liquida e progressista società americana contemporanea. I problemi sono altri e ben più seri.
  Anzitutto, quando si parla di 'ebrei' reform, occorre fare dei distinguo. Fino al 1983 gli ebrei nati in seno alla Riforma erano halakhicamente ebrei. Nel 1983 da parte loro si è accettata l'ascendenza patrilineare per l'ebraicità dei figli. Conseguentemente, dopo 35 anni, oggi moltissimi iscritti all'ebraismo riformato semplicemente non sono ebrei, secondo i criteri non solo dell'ortodossia - e, almeno sinora, del mondo conservative - ma degli stessi reform sino a pochi decenni fa. Da molto più tempo, invece, sono nulli gli atti 'rabbinici'. Che s'intende? Per un ghet (divorzio), per esempio, è necessario un tribunale rabbinico. Omettendo al momento le posizioni reform circa il divorzio, ricordo, in via generale, che due ebrei (quelli halakhicamente tali) divorziati reform, rimangono tuttavia ebraicamente coniugati per l'ebraismo tradizionale e che, quindi, la donna resta vincolata a suo marito. Conseguentemente, vi sono moltissimi problemi circa lo status dei possibili figli successivamente avuti con un altro uomo, dopo il divorzio invalido. Questi bambini, una volta adulti, ad esempio, non sono coniugabili in alcun modo con altri ebrei in tutto l'ebraismo ortodosso, diasporico o israeliano.
  Ma per quale motivo gli atti rabbinici - e nel caso specifico che solletica tanto gli ebrei italiani, ovvero quello delle conversioni - dei reform sono considerati nulli? È molto semplice, nella sua drammaticità macroscopica: l'ebraismo riformato non vincola, per vari motivi ideologico-teologici, gli ebrei all'osservanza di tutte le mitzvoth, così come la tradizione, dal Talmùd allo Shulchan 'Aruch, le ha interpretate, rese applicabili e sviscerate. Da sempre, l'ebraismo vincola la conversione all'accettazione delle mitzvoth e della loro osservanza: laddove questa non sia richiesta e ritenuta vincolante non c'è conversione di sorta.
  E voi davvero, in scienza e coscienza, volete esporre l'esiguo, attempato e debilitato ebraismo italiano a un bailamme interno di questo genere, con tutte queste inevitabili complicazioni e drammi familiari e comunitari, con tensioni che nemmeno negli Stati Uniti e in Israele, con ben altri numeri, si è riusciti a governare? È senso di responsabilità? Queste delicatissime e spinose faccende, in cui si tratta di sofferte spaccature, ad oggi insanate e insanabili del popolo di Israele, non sono affrontabili con la sciatteria, l'arroganza e l'impreparazione dilettantistica di 'Rav Google', sia che si intraprendano linee inclusive sia nel caso opposto. Occorre ponderazione, senso di realtà e tanto, tanto, tanto studio.
  Sottolineo che la questione dell'osservanza delle mitzvoth e dell'universalismo è esattamente ciò che divise l'ebraismo dal cristianesimo, l'archetipo di ogni riforma ebraica e l'unica davvero riuscita e in qualche modo originale. C'è di più. Recentemente Dana Kaplan, nell'introduzione del suo The New Reform Judaism: Challenges and Reflections, prefatto e postfatto dai Presidenti (quello in carica e quello emerito) del rabbinato reform, ci informa che il movimento reform è una grande, ospitale e inclusiva, 'tenda teologica', dove si è talmente liberali da sostenere che si possa religiosamente sia credere nel Dio di Israele, vivente e operante, sia in una concezione in cui Dio sia unicamente un costrutto o un postulato della ragione (!). Tutto questo è diverso da dire che il Popolo ebraico accoglie nel suo seno sia ebrei religiosi sia ebrei, per mille ragioni, agnostici o atei. È sostenere, invece, da una prospettiva rabbinica istituzionale, che sia valido tutto e il contrario di tutto.
  E allora sì, lo dico molto chiaramente, sono molto più vicini all'ebraismo tradizionale il cristianesimo ortodosso o cattolico e, ancor più, l'Islam, dove almeno in Dio ci credono e molte mitzvòth sono osservate!
  Conclusivamente, dato che tutta questa agitazione è stata avviata dall'ineffabile Guido Vitale e dalle sue considerazioni, rilevo alcune cose. Anzitutto, i rabbini, pur con indubbie mancanze e problemi, restano seguiti da moltissimi (talora persino molte centinaia e anche migliaia) followers sui social media, da facebook a youtube e twitter, ove fanno regolarmente lezione. Per converso, mi risulta che molti insigni rabbini italiani da anni abbiano cessato di contribuire a scrivere su Pagine Ebraiche per le scelte redazionali del direttore, inclusi i rabbini Arbib e Di Segni e il sottoscritto. Ma che dire del mio Maestro, il rabbino Laras, purtroppo agitato indebitamente oggi da taluni post mortem come un santino progressista, i cui interventi sul Corriere della Sera, su Il Foglio e sul Resto del Carlino non venivano mai debitamente segnalati con il giusto e doveroso rilievo, se non, per lo più, attraverso citazioni en passant? E che dire, ancora, del Convegno internazionale di Salerno, di intesa tra il Tribunale Rabbinico del Centro Nord Italia e la CEI, voluto e architettato da Rav Laras e da me presieduto, le cui notizie, pur date, sono state comunicate in sordina, con accenni sporadici e integrando, per esaltarle al meglio, le posizioni all'epoca avversarie? Questo è valso, in maniera diversa, ma analoga, per le posizioni di molti altri contributori del giornale nel corso di questi anni, a seconda, almeno ci è parso, delle esigenze e degli ammiccamenti tenuti all'uopo dal Direttore circa la linea editoriale. Ci vengano almeno risparmiate le sue prediche.
  Pur con tutti i nostri limiti, i nostri errori, le nostre mancanze personali e, a volte, l'impossibilità di fornire una soluzione praticabile ai problemi delle persone, noi rabbini continuiamo a esserci e a far sentire la nostra voce, magari su organi diversi da quelli in cui pare ci vogliano confinare. Possiamo essere stati duri, e talvolta aver mancato nei tempi e nell'esatta forma, purtuttavia siamo esseri umani che comprendiamo il dolore, la sofferenza e le gioie delle persone e, dove possiamo, cerchiamo di aiutare, perché questo è il nostro compito.

* Rav David Sciunnach Presidente del Tribunale Rabbinico del Centro Nord Italia
Rabbino Capo di Ancona e delle Marche
Rabbino Capo di Parma
Assistente del Rabbino Capo di Milano

(Bet Magazine Mosaico, 17 giugno 2019)


*
I tre attributi

di Sergio Della Pergola

Mentre seguo sempre con attenzione e affetto le diverse edizioni elettroniche e cartacee di Pagine ebraiche, ritengo doverosa una piccola precisazione ai margini dell'intervento di ieri di rav Pierpaolo Pinhas Punturello. Scrive l'amico Punturello:
«Mi è stato raccontato da alcuni membri della sua famiglia che rav Toaff diceva che per fare i rabbini 'bisogna avere le palle'».
Per dovere di documentazione, Rav Toaff - cui ho avuto l'onore e il piacere di essere molto vicino - non ha mai pronunciato la frase a lui attribuita. La fonte è diversa e me ne assumo l'esclusiva responsabilità. In una conversazione con Rav Punturello (e separatamente con diverse altre persone) io ho detto:
"Per tre attributi si riconosce chi è un grande Rav: un grande cuore, un grande cervello, e due grandi palle".
Questa massima, che vuole echeggiare nello stile il Trattato di Pirke' Avot - aggiungevo - si applica perfettamente all'operato di Rav Toaff - il Suo ricordo sia in benedizione - che molto rimpiangiamo.

(moked, 17 giugno 2019)


L'Iran pressa l'Europa sul nucleare: "Tra 10 giorni supereremo i limiti delle riserve di uranio"

Gran Bretagna: "Pronti a tutte le opzioni"

Le lancette del conto alla rovescia avviato dall'Iran per tornare ad arricchire le proprie riserve di uranio continuano ad andare avanti e la Repubblica Islamica aumenta la pressione sull'Europa, unico partner rimasto, insieme alla Cina e alla Russia, nell'accordo sul nucleare (Jcpoa), dopo l'abbandono voluto dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Entro dieci giorni, infatti, l'Iran supererà il limite delle riserve di uranio a basso arricchimento consentiti dall'accordo sul nucleare del 2015, secondo quanto riferito dal portavoce della Agenzia iraniana per l'energia atomica, Behrouz Kamalvandi, durante una visita di giornalisti locali al reattore ad acqua pesante di Arak, mostrata in diretta dalla tv di Stato. Una forzatura, quella di Teheran, che non è stata ben accolta, però, dalla Gran Bretagna che ha dichiarato di essere "pronta a tutte le opzioni" nel caso in cui gli ayatollah decidessero di procedere con l'arricchimento oltre i limiti consentiti dall'accordo.
   "L'Ue ha un tempo limitato per adempiere ai suoi obblighi nel quadro dell'accordo sul nucleare ed è meglio che si assuma le sue responsabilità nel poco tempo rimanente, altrimenti l'intesa crollerà", ha detto il presidente iraniano, Hassan Rohani, incontrando a Teheran il nuovo ambasciatore francese Philippe Thiébaud. "La situazione attuale è molto critica - ha poi aggiunto -e la Francia e gli altri firmatari dell'accordo hanno possibilità molto limitate di svolgere un ruolo storico nel salvare l'accordo. Imporre sanzioni su beni come le medicine e il cibo è disumano e mostra che la guerra economica degli Usa è contro ogni singolo iraniano". Dal canto suo, l'ambasciatore di Parigi ha riconosciuto che finora "l'Iran ha adempiuto a tutti i suoi obblighi nell'ambito dell'accordo" e assicurato che "la Francia non risparmia alcuno sforzo per proteggere l'intesa, che è sostenuta dalla comunità internazionale".
   Anche il capo di stato maggiore delle forze armate di Teheran, il brigadiere generale Mohammad Bagheri, interviene nel dibattito dicendo che "visto che l'Iran è un Paese potente, se dovesse deciderlo potrebbe apertamente e completamente ostacolare le esportazioni di petrolio dal Golfo Persico. E per farlo non avrebbe bisogno di alcun inganno o segretezza, al contrario dei terroristi americani e dei loro mercenari regionali e internazionali che vogliono destabilizzare il mondo".
   Nel maggio dello scorso anno gli Stati Uniti si sono ritirati dall'intesa (Jcpoa) e da allora la Repubblica Islamica chiede ai Paesi rimasti (Francia, Germania, Regno Unito, Russia e Cina) di soddisfare le sue richieste in ambito petrolifero e bancario, bilanciando in questo modo gli effetti delle sanzioni ripristinate dall'amministrazione Trump. Gli europei "o non vogliono fare qualcosa o non sono capaci di farla", ha affermato il portavoce dell'Organizzazione iraniana per l'energia atomica, Behrouz Kamalvandi. "Abbiamo quadruplicato il ritmo di arricchimento - ha detto - e accelerato ancora la produzione, quindi in 10 giorni supereremo il limite consentito di 300 chili. Ma c'è ancora tempo, se i Paesi europei agiscono", ha aggiunto.
   Sforare la soglia imposta dall'intesa per Kamalvandi è un "bisogno della nazione". Secondo la sua spiegazione, l'Iran necessita di uranio arricchito al 5% per la sua centrale nucleare di Bushehr, porto nel sud del Paese sul Golfo Persico, e fino al 20% per un reattore a Teheran a scopi di ricerca scientifica. Stando alle prescrizioni dell'accordo sul nucleare del 2015, invece, Teheran può produrre solo uranio a basso arricchimento, cioè entro il limite del 3,67%, e le sue riserve non devono superare la soglia di 202,8 chilogrammi. Finora, la Repubblica islamica ha rispettato questi limiti e gli altri obblighi del Piano d'azione globale congiunto (Jcpoa). "Abbiamo aspettato un anno, era la nostra 'pazienza strategica'", ha detto Kamalvandi
   Lo strappo di Teheran ha in realtà il duplice scopo di chiedere che sia garantito il dividendo economico dell'intesa accettato quattro anni fa in cambio della riduzione del suo programma nucleare e di mettersi al riparo dagli effetti delle sanzioni americane. Nei giorni scorsi il portavoce della diplomazia iraniana, Abbas Mousavi, ha accusato: "Nonostante i tanti discorsi e le dichiarazioni politiche, gli europei non hanno sinora rispettato i loro impegni nel quadro del Jcpoa e quelli annunciati dopo il ritiro illegale degli Stati Uniti dall'intesa".
   Per questo, già l'8 maggio il presidente Rohani aveva lanciato un primo ultimatum di 60 giorni ai partner ancora legati all'accordo sul nucleare iraniano, riscuotendo l'appoggio di Mosca, il grande alleato della Repubblica Islamica nell'area mediorientale, che aveva esortato i Paesi dell'Unione a dimostrare di voler rimanere aggrappati all'intesa: "Ci aspettiamo che anche le nostre controparti mantengano le loro promesse, soprattutto gli europei che si sono offerti volontari per trovare una soluzione al problema causato dagli americani", aveva dichiarato il ministro degli Affari Esteri, Sergej Lavrov.
   Federica Mogherini, Alto Rappresentante per la Politica Estera dell'Unione europea, ha fatto sapere però che i Paesi Ue non prenderanno decisioni basate sugli annunci delle parti in causa, ma solo in base alle relazioni dell'Agenzia internazionale per l'Energia atomica (Iaea): "Su quella base - ha precisato - per ora l'Iran sta rispettando l'intesa e speriamo continui a farlo in pieno. Il nostro obiettivo è mantenere in piedi l'accordo".
   Gran Bretagna pronta a reagire in caso di violazioni di Teheran
   Le parole del portavoce iraniano hanno provocato la reazione della Gran Bretagna. Il portavoce della premier uscente Theresa May, dopo le forti accuse nei confronti di Teheran dopo l'attacco alle due petroliere nel Golfo dell'Oman, ha fatto sapere di essere "stati chiari nell'esprimere le nostre preoccupazioni. Se l'Iran dovesse cessare di rispettare i suoi impegni, dovremmo valutare tutte le opzioni disponibili". Parole che rischiano di creare una nuova spaccatura tra Iran e 5+1, dopo l'addio voluto da Trump, e che rischiano di compromettere i rapporti con i Paesi europei se non si cercherà subito un punto d'incontro sull'accordo.
   E il ruolo di mediatori potrebbe essere ricoperto proprio dai partner russi che, per bocca di Dmitri Peskov, portavoce di Vladimir Putin, hanno fatto sapere di credere che l'Iran sia il Paese più controllato dalla Iaea e che stia rispettando gli obblighi assunti con il Piano d'azione congiunto globale (Jcpoa): "La più recente ispezione dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica e il relativo rapporto - ha affermato - hanno riconosciuto che l'Iran rispetta pienamente i suoi obblighi. Noi agiamo sulla base di questo".
   Il problema è che, anche sull'episodio delle due navi nel Golfo dell'Oman, il governo Tory si è spostato nettamente sulle posizioni statunitensi, in contraddizione con le reazioni perplesse espresse da altre cancellerie europee rispetto alla accuse Usa all'Iran. Il ministro degli Esteri, Jeremy Hunt, e altri esponenti del Foreign Office hanno definito "quasi certa" o "abbastanza certa" la presunta responsabilità di Teheran nell'attacco alle petroliere, anche se solo per esclusione. Tesi ribadita anche lunedì dal sottosegretario agli Esteri britannico, Harriet Baldwin, al suo arrivo al Consiglio Ue: "Nel fine settimana siamo arrivati alla conclusione che siamo abbastanza certi che" l'attacco alle petroliere "sia stata un'azione dell'Iran. E siamo pronti a fare in modo che questo corridoio marittimo chiave resti aperto al traffico internazionale".
   E contro l'Iran si è scagliato anche il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, che ha chiesto alla comunità internazionale di "imporre immediatamente le sanzioni che erano state concordate in precedenza" se il Paese "dovesse concretizzare le sue attuali minacce e violare l'accordo sul nucleare. In ogni caso, Israele non permetterà a Teheran di ottenere armi nucleari".
   
(il Fatto Quotidiano, 17 giugno 2019)


Nascono le Alture di Trump. Netanyahu intitola all'alleato un insediamento sul Golan

Gli Usa avevano riconosciuto la sovranità di Israele sulla regione. Il piano di pace sarà presentato solo dopo le elezioni di settembre.

di Fabiana Magrì

RAMAT TRUMP (GOLAN) - Non c'è mai stato così tanto traffico oltre il cancello giallo di Bruchim. Una seduta straordinaria del governo israeliano, ad interim in attesa di nuove elezioni a settembre, ha portato nel minuscolo e isolato insediamento sulle Alture del Golan - quindici residenti - il convoglio del premier Benjamin Netanyahu con la moglie Sara, i membri del gabinetto e l'ambasciatore Usa in Israele David Friedman. In una cerimonia definita «gioiosa» dall'ufficio stampa del governo, ieri pomeriggio Bruchim è diventato ufficialmente Ramat Trump (Alture di Trump).
  Il «regalo di compleanno» - così è stato accolto il gesto da parte di Friedman a due giorni dal genetliaco del presidente americano - era stato annunciato lo scorso 23 aprile da Netanyahu, subito dopo il riconoscimento, con un tweet di Trump seguito dal proclama della Casa Bianca il 25 marzo, della sovranità israeliana sul Golan, territorio conquistato alla Siria durante la guerra del 1967.

 La cerimonia
  La cerimonia ha contemplato un coro, discorsi ufficiali, esecuzione di inni e lo svelamento di un enorme cartello con il nuovo nome del posto in ebraico e le bandiere di Israele e Stati Uniti. I residenti delle poche case spartane di Bruchim hanno manifestato tutte le sfumature che vanno dall'entusiasmo allo scetticismo perché non è da oggi che il governo cerca di popolare le Alture del Golan offrendo incentivi a immigrati, per lo più russi, in stato di necessità. lilah Ben Mordechai ha trascorso un anno a Bruchim mentre studiava nella vicina Kiryat Shmona nell'ambito di uno di questi programmi ma ad agosto andrà via. «Per adesso hanno fatto un po' di pulizia e questo è un bene. Servirebbero scuole, trasporti e ospedali ma sono tre cose che, finché ci vivono poche persone, non possono essere avviate. Penso che lo Stato debba investirei più soldi ma la gente sappia che vivere qui ha il suo perché. Per me è stata una bellissima esperienza. Certo, non so se potrei restarci più a lungo perché è decisamente troppo tranquillo».
  Più inflessibile una coppia di anziani coniugi russi di San Pietroburgo che vive qui dal 1992: «Vogliamo che resti un piccolo posto silenzioso, come è adesso. Non ci serve che arrivi altra gente. Non ci serve, e non la vogliamo».

 Pochi abitanti
  Di tutt'altro avviso Ariel Pinto, trasferito quindici anni fa nel Golan dal deserto del Negev, abitante, a un chilometro da Bruchim, dell'insediamento di Kela Alon. Pochi minuti di distanza ma un altro pianeta, fatto di villette e ottanta residenti benestanti. Si aggira per le case di Bruchim prima della cerimonia per raccogliere le firme di chi appoggia il progetto, per poi consegnarle al primo ministro come incoraggiamento ad andare avanti in questa direzione: «È un posto molto piccolo, non c'è nulla, nemmeno un minimarket. Abbiamo bisogno di altra gente. Se arriveranno più persone a vivere qui per la pubblicità del nome di Trump, avremo più servizi».
  In effetti Haim Rokach, presidente del Consiglio regionale del Golan, ha detto a Israel Ha Yom di aver ricevuto centinaia di telefonate, anche da ebrei degli Stati Uniti e del Canada, che dicono di voler immigrare e vivere nella nuova cittadina. Mentre nasceva Ramat Trump, a New York, l'inviato speciale del presidente Usa per i negoziati internazionali, Jason Greenblatt, annunciava che la presentazione dell'atteso Piano di Pace sul Medio Oriente potrebbe slittare a fine novembre, dopo le elezioni in Israele di settembre.

(La Stampa, 17 giugno 2019)


Quel silenzio sui cristiani palestinesi

I media occidentali che ignorano le persecuzioni dei cristiani, se non c'è Israele da incolpare. Sono perseguitati dai musulmani, non da Israele. Per cui niente notizia.

Scrive il Jerusalem Post (3/6)

Recentemente si sono verificati tre gravi eventi che riguardano i cristiani nei territori governati dall'Autorità palestinese, ma non hanno fatto notizia perché non sono collegati a Israele", scrive Edy Cohen. "Lo scorso 25 aprile, gli abitanti terrorizzati del villaggio cristiano di Jifna, vicino a Ramallah, hanno chiesto all'Autorità palestinese di proteggerli dopo che erano stati aggrediti da musulmani armati. La violenza è scoppiata quando una donna del villaggio ha presentato denuncia alla polizia dell'Autorità palestinese a carico del figlio di un importante notabile affiliato a Fatah, accusandolo d'aver attaccato la sua famiglia. Per tutta risposta sono arrivate nel villaggio decine di uomini armati di Fatah che hanno sparato in aria centinaia di proiettili e lanciato bombe incendiarie, urlando imprecazioni e causando seri danni ai beni pubblici. E' un miracolo che non ci siano stati né morti né feriti. Nonostante le richieste d'aiuto degli abitanti, la polizia dell'Autorità palestinese non è intervenuta durante la scorreria, che è durata per ore. Non è stato arrestato nessun sospetto. E' interessante notare che gli aggressori hanno ingiunto ai residenti di pagare la jizya, la tassa pro capite storicamente imposta alle minoranze non musulmane sotto dominio islamico.
   Le più recenti vittime della jizya sono state le comunità cristiane in Iraq e Siria sotto lo Stato islamico (Isis). Il secondo incidente è avvenuto la notte del 13 maggio. Dei vandali hanno fatto irruzione in una chiesa della comunità maronita nel centro di Betlemme, profanandola e rubando costose attrezzature di proprietà della chiesa, incluse le telecamere di sicurezza. Tre giorni dopo è stata la volta di una chiesa anglicana nel villaggio di Aboud, a ovest di Ramallah. I teppisti hanno tagliato la recinzione e hanno fatto irruzione rompendo le finestre della chiesa. Anche qui hanno profanato e rubato una grande quantità di attrezzature. Come nei due precedenti incidenti, non è stato arrestato nessun sospetto. Secondo la sua pagina Facebook, questa è la sesta volta che la chiesa maronita di Betlemme subisce atti di vandalismo e furto, compreso un incendio doloso nel 2015 che causò danni considerevoli e costrinse la chiesa a restare chiusa per un lungo periodo.
   Tuttavia, benché il 24 dicembre 2018 il presidente dell'Autorità palestinese Abu Mazen fosse presente alla cerimonia di riapertura della chiesa dopo la ristrutturazione, l'incendio doloso e gli altri atti di teppismo e vandalismo avvenuti nel corso degli anni non hanno ricevuto alcuna copertura nei mass media palestinesi. In molti casi è stato anzi imposto l'ordine di tacere completamente i fatti. I cristiani dei territori governati dall'Autorità palestinese evitano di dirlo pubblicamente, ma molti di loro temono, con buone ragioni, che le aggressioni dei musulmani contro di loro possano solo peggiorare. E queste paure sono tanto più forti alla luce dell'assordante silenzio dei mass media occidentali rispetto alla progressiva scomparsa della minoranza cristiana da queste terre e dalle terre islamiche in generale: in stridente contrasto con la crescita, la prosperità e la crescente integrazione della comunità cristiana all'interno di Israele".

(Il Foglio, 17 giugno 2019)


Petroliere colpite, Riad accusa l'Iran: "Responsabile degli attentati"

Il principe saudita Bin Salman si schiera con gli Stati Uniti: «Non vogliamo guerre, ma difenderemo i nostri interessi».

di Giordano Stabile

 
La petroliera Kokuka Courageous danneggiata da mine magnetiche
L'Arabia Saudita si schiera a fianco dell'America e accusa l'Iran di essere responsabile degli attacchi alle petroliere nel golfo dell'Oman. Lo fa con l'uomo forte del regno, il principe ereditario Mohammed Bin Salman, che però precisa di «non volere una guerra».
   La linea rossa, sottolineata anche dal segretario di Stato americano Mike Pompeo, è la libertà di navigazione attraverso lo Stretto di Hormuz, l'obiettivo di quello che sembra sempre più un attacco dimostrativo per mettere in evidenza quanto sia fragile l'arteria energetica del mondo, e quali rischi correrebbe l'economia globale in caso di attacco alla Repubblica islamica.
   Sono da inquadrare in questo contesto le dichiarazioni del principe al quotidiano panarabo Asharq Al-Awsat, da sempre vicino alla casa reale saudita. Mbs sottolinea come «il regime iraniano non ha rispettato la presenza del primo ministro giapponese Shinzo Abe a Teheran e ha risposto ai suoi sforzi diplomatici attaccando una sua petroliera». Poi ha avvertito: «Non vogliamo una guerra nella regione. Ma non esiteremo a fronteggiare alcuna minaccia per il nostro popolo, la nostra sovranità, la nostra integrità territoriale e i nostri interessi vitali». Soprattutto il regolare flusso delle esportazioni di petrolio, che la comunità internazionale deve proteggere con «una presa di posizione decisa».
   Concetto ribadito dal ministro dell'Energia Khalid al-Falih che ha chiesto una «risposta rapida alle minacce» per garantire «la stabilità dei mercati e la fiducia dei consumatori». Gli attacchi, con esplosivi posti sopra la linea di galleggiamento delle navi, erano mirati a non fare vittime, né a causare un'onda nera sulle coste. Ma piuttosto a esporre le fragilità dei Paesi del Golfo che dipendono dalla strozzatura di Hormuz, dove passa un quinto del petrolio prodotto al mondo e un terzo di quello esportato via mare. È una partita anche psicologica e subito Pompeo ha rassicurato gli alleati e ribadito che gli Stati Uniti garantiranno «la libertà di navigazione nello Stretto, una sfida internazionale, decisiva per l'intero globo: intraprenderemo tutte le azioni necessarie, diplomatiche e di altro tipo».
   Come già durante la guerra Iran-Iran negli anni Ottanta e poi ancora nel 2008, lo Stretto di Hormuz è al centro del braccio di ferro. Lo scorso febbraio il comandante dei Pasdaran Mohammad Ali Jafari ha avvertito che i suoi uomini erano in grado di bloccarlo «facilmente e per un tempo illimitato». Finché l'Iran può esportare il suo petrolio, ha precisato, «la via d'acqua rimarrà aperta», ma se l'Iran non potrà più vendere il suo greggio, allora «non potranno farlo neanche gli altri», cioè Arabia Saudita ed Emirati Arabi. I due Paesi dove si erano rifornite le navi attaccate giovedì e le altre quattro sabotare lo scorso 12 maggio. Il prezzo del petrolio è nel frattempo salito del 4 per cento mentre il costo delle assicurazioni per i mercantili diretti del Golfo è schizzato del 10 per cento.
   Per inchiodare l'Iran serviranno però prove più convincenti. La giapponese Kokuta Courageous è arrivata nel porto emiratino di Sharjah, dove potrà essere esaminata. La norvegese Front Altair è ancora al largo dell'Iran, abbandonata, anche se l'incendio è stato domato. Finora, a parte Riad, soltanto Londra si è schierata senza remore con gli Usa. Il ministro della Difesa Jeremy Hunt ha detto che l'intelligence è «quasi sicura» che il responsabile sia Teheran e che «nessun altro avrebbe potuto farlo», anche perché si è trattato di un'azione da commando delle forze speciali di qualche esercito ben addestrato ed equipaggiato, fuori dalla portata di gruppi terroristici. Gli altri Paesi europei sono più prudenti. Per la Germania il video mostrato dagli americani venerdì «non è sufficiente», mentre il Segretario generale dell'Onu Antonio Guterres ha invitato a una «inchiesta internazionale».
   
(La Stampa, 17 giugno 2019)


Gli ebrei in fuga sulla Saint Louis

Lettera a "il Giornale"

Un lettore ha citato la vicenda del transatlantico «Saint Louis» paragonandola ad accadimenti attuali. Ma la storia è molto diversa e vale la pena di riassumerla. La nave, comandata da Gustav Schröder, partita da Amburgo, attraccò a Cuba il 13 maggio 1939, con il suo carico di 936 rifugiati ebrei che fuggivano dalla Germania e dalle leggi razziali di Hitler. A L'Avana si consumò un dramma fatto di burocrazia e corruzione. Ai passeggeri vennero chiesti 500 dollari di visto da rifugiati, ma la maggioranza di loro non possedeva quella somma. Il direttore dell'Immigrazione, Manuel Benitez, sfruttando momentaneamente una lacuna dei regolamenti, riuscì a vendere alcuni permessi di sbarco riservati ai turisti a 150 dollari. Fu così che 29 persone riuscirono a sbarcare. Il comandante Schröder, tedesco anti-razzista, fece di tutto per assicurare un trattamento dignitoso ai passeggeri, tra i quali molti bambini. Vista la situazione cubana (a L'Avana molti non volevano che venisse concessa ospitalità agli ebrei), il capitano della nave negoziò per cercare di portare i rifugiati in un posto sicuro. Valutò persino di incagliare la nave sulla costa inglese per forzare la Gran Bretagna ad accogliere i passeggeri. Inoltre, rifiutò di tornare in Germania sino a quando tutti gli ospiti fossero al sicuro.
Tornata in Europa, la Saint Louis attraccò ad Anversa dove furono sbarcati 288 passeggeri che, tramite altri piroscafi, proseguirono per l'Inghilterra che si era offerta di ospitarli. Dei rimanenti passeggeri, 224 furono accettati dalla Francia, 214 dal Belgio e 181 dai Paesi Bassi. In quel momento sembrava che tutti ormai fossero al sicuro. Quando la Germania iniziò l'invasione dell'Europa occidentale, il 10 maggio 1940, soltanto 87 ex passeggeri del transatlantico Saint Louis erano riusciti nel frattempo ad emigrare in Paesi extra europei sicuri. Fra coloro che rimasero in Europa, 254 morirono durante l'Olocausto quasi tutti nei campi di sterminio di Auschwitz e Sobibor. Dei passeggeri della Saint Louis, 365 sopravvissero alla guerra, Nel 1993 Gustav Schröder fu nominato «Giusto tra le Nazioni» al memoriale dell'Olocausto a Gerusalemme.
Gabriele Suardi Bergamo

(il Giornale, 17 giugno 2019)


In arrivo la terza serie di 'Fauda' ambientata a Gaza

 
Fauda
Supervista e molto apprezzata, si appresta ad arrivare sul piccolo schermo la terza serie di 'Fauda', action movie incentrata sulle operazioni sotto copertura di una unità d'elite israeliana che ha avuto grande successo su Netflix. Ma questa volta lo scenario non sarà la Cisgiordania - teatro principale delle prime due serie - bensì Gaza con la quale Israele ha avuto tre guerre. Nell'enclave palestinese governata da Hamas - gli autori di 'Fauda', il giornalista Avi Issacharoff e l'attore Lior Raz - hanno immaginato una missione al limite dell'impossibile per Doron, ruolo chiave della fiction, interpretato dallo stesso Raz. Il suo compito - hanno rivelato i media - sarà quello di infiltrarsi nei vertici di Hamas sotto le spoglie di un istruttore di boxe palestinese.
   La serie - che in Israele è uscita sempre sulla piattaforma Yes - è tutta incentrata sul conflitto e prende spunto dalle imprese dei cosiddetti 'Mistaravim', gruppo speciale delle Forze di difesa israeliane che agisce appunto 'come gli arabi'. I suoi soldati parlano perfettamente la lingua e i dialetti, conoscono le usanze, le regole religiose, la struttura sociale e la politica della parte palestinese. Non a caso, in 'Fauda' i dialoghi sono sia in ebraico sia in arabo proprio a rafforzare questa doppia scena degli eventi. I 'Mistaravim' del plot sono una delle unità più segrete di Israele e i nomi dei suoi componenti non sono mai stati rivelati. 'Fauda' - che in arabo vuol dire 'Caos' - è la parola d'ordine usata dai componenti del gruppo quando le missioni volgono al peggio.
   La fiction è stata criticata da chi l'ha accusata di rappresentare il punto di vista israeliano sul conflitto, ma gli autori non la pensano allo stesso modo. "La scrittura teatrale - ha detto di recente Issacharoff - ti consente di dare qualcosa che il giornalismo è meno in grado di offrire. Puoi andare dentro i personaggi e le loro vite o comprendere le loro azioni, immaginando cosa abbia cambiato la loro mente o quali relazioni abbiano con la moglie, i figli o il padre. Per questo è grande immergersi nei personaggi: quello di un soldato sotto copertura e al tempo stesso quello del figlio di un terrorista". Non potendo andare, per ovvi motivi, a Gaza, la fiction è stata in parte girata a Tel Aviv e in particolare in uno dei luoghi meno conosciuti della città. Sotto l'edifico che oggi ospita il Centro Rabin ci sono i resti infatti di un centrale elettrica segreta costruita negli anni 1954-56 nell'eventualità che un bombardamento arabo potesse colpire quella principale, Reading, affacciata sul mare. In caso, avrebbe anche potuto fungere da rifugio atomico del governo in caso di attacco con armi non convenzionali. In questo enorme spazio di 12 mila metri quadrati, con una profondità di 30metri, è stata ricostruita una base ultra segreta di Hamas. Quella dove Doron dovrà cercare di arrivare.

(Shalom, 16 giugno 2019)


Ebrei e denaro, lo stereotipo demolito

di Rachel Silvera

FERRARA - Gli ebrei del Medioevo erano tutti usurai? Mai uno stereotipo è stato più fuorviante e storicamente inattendibile, soprattutto in un periodo tanto stratificato e complesso. A gettare nuova luce e fornire una inedita chiave di lettura documentale, lo storico Giacomo Todeschini che ha presentato il volume "Gli ebrei nell'Italia medievale" (Carocci editore) al Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah di Ferrara, scatenando un vivace scambio di idee con Anna Esposito, già docente di Storia medievale alla Sapienza Università di Roma. "Il tema del rapporto tra ebrei e denaro è di cruciale importanza - ha introdotto il direttore del Meis Simonetta Della Seta - e non a caso è attualmente protagonista di una mostra al Museo ebraico di Londra. Trovo molto giusto che vengano allestite questo genere di esposizioni, solo all'apparenza provocatorie, ma che attraverso l'esperienza, la storia e la cultura smontano i pregiudizi".
Il libro di Todeschini, ha proseguito la professoressa Esposito, è centrale per lo studio non solo della storia ebraica italiana ma della storia italiana: "Se ne sentiva la mancanza". Del resto la storia italiana è fittamente intrecciata con quella ebraica, come dimostra il percorso espositivo del Meis. "L'idea del volume - ha concluso Esposito - capovolge completamente la visione dell'Italia medievale compattata dal cristianesimo. In realtà la situazione era molto più frammentaria". Frammentaria e soprattutto complessa spiega Todeschini che vuole dimostrare la vera identità degli ebrei dell'Alto e Basso Medioevo. "Primo mito da sfatare, - illustra l'autore - gli ebrei non facevano i prestatori di denaro perché i cristiani non potevano toccarlo o gestire transazioni. Anzi i cristiani lo facevano eccome, non per niente il diritto canonico prevedeva punizioni come la scomunica. Secondo stereotipo: gli ebrei non erano tutti usurai, ma tintori, falegnami, lavoratori del corallo". Ma non solo, ci sono altri grandi temi che vengono approfonditi: quello della cittadinanza ("Gli ebrei avevano una posizione molto ambigua e non collocabile chiaramente e non avevano accesso alle cariche pubbliche" precisa Esposito) e la concezione del denaro che cambia radicalmente nella visione cristiana e in quella ebraica del tempo. Todeschini spiega: "Per i cristiani esisteva una dualità del denaro, quello astratto e quello concreto. Mentre gli ebrei lo concepivano solo nella sua concretezza e questo non costituiva problemi". L'alta finanza, quella del denaro virtuale, è in definitiva di appannaggio tipicamente cristiano. Come concludere? I relatori concordano: l'ebreo del Medioevo non poteva che vivere in maniera precaria, "una normalità a rischio" dove si susseguivano periodi con qualche tutela in più e protezione e altri durante i quali il trattamento ambiguo degli strati alti della società li metteva in pericolo e diffondeva i germi di un pregiudizio che va smontato storicamente.

(moked, 16 giugno 2019)


Una giusta provocazione

di Rav Pierpaolo Pinhas Punturello

Ho trovato l'intervista di Guido Vitale ad Ha Keillah molto interessante, con una giusta provocazione sul ruolo, la percezione e l'incisività del rabbinato italiano. Il direttore Vitale ha lanciato una pietra nello stagno. Il problema è che non è più uno stagno, ma una palude.
   Perché il rabbinato italiano ha un serio problema di autorevolezza. Il re è nudo, anche se non ce lo vogliamo dire. Le energie dei miei colleghi sono oggi dedicate principalmente al tema della Casherut, dove c'è un ritorno economico anche legittimo ma senza benefici effettivi per le singole Comunità, benefici come la distribuzione di prodotti kasher controllati in Italia alle comunità italiane al prezzo di costo, o un controllo incrociato tra i prodotti esportati con timbro di kasherut e gli stessi che rimangono sul mercato italiano, senza timbro, ma ugualmente kasher.
   Per non parlare dell'uso improprio dell'autorità rabbinica nei processi di conversione, con rabbini che quando perdono contatto con la base molto spesso favoriscono ghiur finalizzati a crearsi degli spazi di fedeltà assoluta: il gher ha il grande vantaggio di essere un presenza "facile" nella vita comunitaria, molto più facile di un tiepido iscritto da coinvolgere nelle attività della locale comunità ebraica.
   L'Italia ebraica è oggi composta da tante isole, con un rabbinato coeso solo quando si tratta di difendere alcune posizioni di potere. Manca del tutto una visione ebraica ampia, mancano progetti rivolti al futuro. È una situazione angosciante.
   Anche gli sforzi profusi per riscoprire l'ebraismo nell'Italia meridionale sono del tutto evanescenti: parliamoci chiaro, il Progetto Sud non esiste più. Ed è folle la gestione dei rapporti con realtà ebraiche non ortodosse. Tenendo fermi i principi della Halakhah, che non possono essere messi in discussione, non vedo cosa dovrebbe impedirmi di parlare, sedermi a un tavolo, riflettere su una visione comune con esponenti di altre correnti ebraiche. Parliamo con preti e vescovi, andiamo a casa dai papi e non possiamo confrontarci con degli ebrei reform? A me tutto ciò pare un po' assurdo…
   È arrivato il momento che l'UCEI abbia il coraggio di aprire spazi di incontro anche ai reform. La parola chiave è consapevolezza: consapevolezza dei limiti, ma anche del potenziale. Bisogna lavorare su quel che c'è. Ma serve una visione diversa, in un'Italia ebraica dove quattro matrimoni su cinque sono oggi unioni miste. L'approccio tenuto finora è del tutto sbagliato. Mi è stato raccontato da alcuni membri della sua famiglia che rav Toaff diceva che per fare i rabbini "bisogna avere le palle". Chiedo scusa per le parole non politicamente corrette, ma consapevolezza significa anche avere il coraggio di posizioni scomode e non sempre politicamente corrette se sono per il bene di Am Israel.

(moked, 16 giugno 2019)


In Israele torna la magia delle melodie andaluse

La musica al servizio della fratellanza

 
SAN GIOVANNI D'ACRI - La magia delle melodie andaluse è tornata a diffondersi fra le mura di San Giovanni d'Acri (Akko), una città che per secoli ha rappresentato un importante crocevia di culture mediterranee e che in questi giorni ha ospitato la seconda edizione del festival internazionale 'Arabesque'. Vi hanno preso parte artisti e orchestre ritenuti in prima linea nelle esecuzioni di musica classica araba e di quella andalusa: ebrei ed arabi, israeliani e palestinesi. Salutando il pubblico stipato in un cortile a cielo aperto fra le Sale dei Cavalieri Crociati, a pochi passi dalla maestosa moschea al-Jazzar, il sindaco Shimon Lankri ha ribadito che l'obiettivo di manifestazioni come quella "è di rafforzare la solidarietà fra le persone e fra le diverse religioni". Il festival, spiega il direttore artistico Tom Cohen, punta a far comprendere che, al di là del conflitto politico, una parte significativa di Israele condivide col mondo arabo "la stessa cultura, lo stesso cibo, la stessa musica".

(La Sicilia, 16 giugno 2019)


Israele-Libano. Si avvicina la pace del gas

di Giordano Stabile

Fra Hezbollah e Israele soffiano venti di guerra e la retorica bellica va a mille, ma intanto il governo libanese e quello israeliano hanno fatto un passo in avanti storico e accettato la mediazione Usa per risolvere la settantennale disputa sui confini marittimi e terrestri. Rappresentanti dei due Paesi si vedranno a Naqura, vicino alla frontiera dove ha sede il quartiere generale della missione Unifil. Sarà un tavolo tripartito, con la partecipazione dei mediatori Usa. Sembra una replica delle riunioni a tre fra ufficiali israeliani, libanesi e delle Nazioni Unite che da 13 anni contribuiscono a evitare un altro conflitto.
   La formula è stata proposta dall'inviato americano David Satterfield, già ambasciatore a Beirut negli anni della guerra civile, un diplomatico che conosce tutte le sottigliezze del Medio Oriente e parla un ottimo arabo. La spola di Satterfield fra Gerusalemme e Beirut va avanti da mesi. I colloqui dovranno risolvere i disaccordi su 13 punti del confine, comprese le «fattorie di Sheba» al centro di mille conflitti. Ma il punto cruciale riguarda la frontiera marittima, perché corre su giacimenti di gas che entrambe le nazioni vogliono sfruttare. Israele già produce e fra poco esporterà gas, da piattaforme al largo delle sue coste meridionali. Il bacino a Nord lo trasformerebbe in una piccola potenza degli idrocarburi. Ma per il libano, alle prese con una cronica scarsità di elettricità, il metano sarebbe una manna, anche per le casse dello Stato. L'incentivo è quindi fortissimo a mettersi d'accordo. Ed è pure nell'interesse di Hezbollah. I servizi israeliani hanno rivelato che i trasferimenti finanziari dall'Iran, causa sanzioni, sono crollati da un miliardo a 600 milioni di dollari. La manna del gas potrebbe riversarsi anche nelle casse del Partito di Dio e risolvere il problema.
   A questo punto una nuova guerra diventerebbe meno probabile. I miliziani hanno perso una delle loro carte strategiche con la distruzione da parte israeliana di 6 tunnel che sbucavano nel territorio dello stato ebraico e avrebbero permesso attacchi a sorpresa. Dispone ancora di decine di migliaia di razzi e missili, ma in caso di conflitto andrebbero in fumo anche i miliardi promessi dall'estrazione del metano.

(La Stampa, 16 giugno 2019)


Trump, Israele e il fattore Iran

di Alessandro Orsini

Trump si accinge a rendere pubblico il piano di pace per la Palestina. Aveva scelto di attendere che Netanyahu, suo alleato strategico, vincesse le elezioni per non costringerlo ad affrontare un tema così spinoso in campagna elettorale. Non tutto però è andato secondo le attese. Netanyahu ha vinto, ma non è riuscito a mettere insieme una coalizione per governare e presto si tornerà a votare. Il risultato è che Trump, a furia di rimandare la presentazione del piano di pace per favorire Netanyahu, non ha fatto ancora niente in favore dei palestinesi. Anzi, riconoscendo Gerusalemme quale capitale d'Israele, ha peggiorato la loro situazione. È infatti diritto degli israeliani e dei palestinesi avere la propria capitale a Gerusalemme, ma Trump si è affrettato a riconoscere soltanto il diritto d'Israele. Non proprio un esempio d'imparzialità. Ecco perché il piano di pace è tanto atteso dagli ottimisti che, ancora una volta, resteranno delusi. Vi sono infatti due modi di concepire il conflitto israelo-palestinese. Il primo è ingenuo e il secondo è realistico. Dal punto di vista ingenuo, gli Stati Uniti hanno il potere di decidere la dinamica del conflitto e allora basterebbe la buona volontà di Trump per rianimare il processo di pace. Dal punto di vista realistico, invece, il conflitto è dominato dai rapporti tra Iran e Israele. Ciò accade perché i veri protagonisti di un conflitto non sono coloro che appaiono più spesso in televisione, come Trump, bensì coloro che possono usare le armi per uccidere. Israele non ha niente da temere dalle armi degli amici americani o dei deboli palestinesi. Deve però temere le armi dell'Iran. Il che significa che, fino a quando l'Iran avrà pessimi rapporti con Israele, non nascerà uno Stato di Palestina sovrano e indipendente con capitale a Gerusalemme est perché un simile Stato sarebbe abitato da Hamas e dalla Jihad Islamica che ricevono le armi dall'Iran per combattere contro Israele. Netanyahu, consentendo la nascita di uno Stato di Palestina, consentirebbe all'Iran di penetrare strategicamente a Gerusalemme Est per il tramite dei suoi alleati palestinesi, Hamas e Jihad Islamica. Siccome Trump ha un'alleanza di ferro con Netanyahu, opera per deteriorare i rapporti con l'Iran. Se infatti i rapporti tra Iran e Stati Uniti peggiorano, anche quelli tra Iran e Israele precipiteranno perché Netanyahu ha un interesse a cogliere tutte le occasioni per lasciare immutata la situazione attuale, in cui è dominante. Detto più semplicemente, la dinamica internazionale del conflitto è la seguente: cattivi rapporti tra Iran e Israele causano cattivi rapporti tra Israele e i movimenti palestinesi che causano cattivi rapporti tra Israele e l'Iran in una catena senza fine. Netanyahu vuole essere in cattivi rapporti con l'Iran ed è grato a Trump di deteriorarli.
   Nessuno Stato sceglie di spogliarsi di un territorio strategico su cui esercita il dominio, a meno che non sia costretto a farlo da un altro Stato con la forza o sotto la minaccia della forza. Netanyahu intende continuare a dominare i territori palestinesi perché non esiste alcuno Stato che possa attaccare Israele. Non di certo la Siria, l'acerrimo nemico ridotto in macerie. La condizione ideale, per Netanyahu, è che tutto resti com'è e questo richiede che i rapporti con l'Iran restino come sono e cioè pessimi. Ciò aiuta a comprendere perché Netanyahu scatenò una lotta furibonda contro Obama. Migliorando i rapporti con l'Iran, Obama avrebbe reso più arduo giustificare l'occupazione dei territori palestinesi. Obama, che voleva la pace, perseguiva la pacificazione con l'Iran; Trump opera per peggiorare i rapporti con l'Iran perché reputa che il suo legame strategico con Netanyahu sia più importante del diritto dei palestinesi ad avere uno Stato. Promuovendo, nello stesso tempo, un piano di pace e lo scontro con l'Iran, Trump mantiene viva la dinamica internazionale del conflitto e i territori palestinesi rimangono occupati. La questione israelo-palestinese è diventata un sotto-conflitto del più ampio conflitto tra Iran e Israele. Ogni colpo sparato nello stretto di Hormuz, dove si sta aprendo un nuovo fronte tra Iran e Stati Uniti, è un colpo sparato contro la pace in Palestina.

(Il Messaggero, 16 giugno 2019)


Pacifici: «Io commendatore come nonno Riccardo ucciso a Auschwitz»

Pacifici: questa onorificenza è un risarcimento a lui. «Il cardinale di Genova, Pietro Boetto, gli aveva procurato un passaporto. ma lui restò fin all'ultimo al suo posto»

di Paolo Conti

                          Riccardo Pacifici                                                   Riccardo Pacifici (1904-1943)
«Questa onorificenza che il capo dello Stato ha voluto concedermi mi onora moltissimo. E mi commuove anche perché rappresenta, ai miei occhi, un risarcimento dello Stato italiano nei confronti di mio nonno Riccardo, rabbino capo di Genova, che fu nominato da Vittorio Emanuele III Cavaliere della Corona d'Italia e poi, con le leggi razziste, perse i diritti civili e venne privato anche di quell'onorificenza... Infine fu prima torturato e poi trucidato ad Auschwitz. Anche mia nonna Wanda morì lì».

 La nomina di Mattarella
  Riccardo Pacifici, esponente di spicco della comunità ebraica italiana, è stato nominato dal capo dello Stato Sergio Mattarella Commendatore dell'ordine al Merito della Repubblica italiana. Pacifici è stato presidente della Comunità ebraica romana dal 2008 al 2015, fondò da ragazzo — con Dario Coen e Maurizio Molinari — il Movimento culturale studenti ebrei. Negli anni ha strenuamente difeso i diritti e le ragioni dell'ebraismo italiano favorendo il dialogo culturale, sociale e interreligioso. Oggi è nell'Executive board dell'Israeli Jewish Congress, ed è nel collegio della Fondazione Museo della Shoah. Una vita di impegni molto densi, ecco la ragione della nomina: «L'idea originaria fu dell'allora sottosegretario Maria Elena Boschi. L'iter si è concluso con la firma del presidente Mattarella e dell'attuale presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Mi piace che sia una iniziativa bipartisan... Ma per me, ripeto, è un simbolo legato a mio nonno Riccardo».

 Cavaliere della Corona
  La storia del rabbino Riccardo Pacifici è un capitolo dell'ebraismo italiano. Nato a Firenze del 1904, si laureò in Lettere nel 1926 e nel 1927 diventò rabbino maggiore al Collegio Rabbinico di Firenze. Fu vicerabbino a Venezia e poi fu proprio Benito Mussolini, racconta ora il nipote omonimo, a favorire il suo incarico a Rodi per dirigere il Collegio rabbinico: «Ai tempi l'isola greca era un colonia italiana e occorreva "italianizzare" anche la comunità ebraica. Samuel Modiano fu un allievo di mio nonno. Risale a quel periodo, credo fosse il 1934, la nomina a Cavaliere della Corona d'Italia. Ricordo che mio padre Emanuele, in casa, teneva all'ingresso tre documenti affissi alle pareti: la laurea di nonno, la sua nomina a Rabbino e quella a Cavaliere del Regno firmata da Vittorio Emanuele III. Lo stesso re che avrebbe sottoscritto l'ignominia delle leggi razziste, è bene definirle così e non "razziali", nel 1938».

 Capo rabbino a Genova
  Il rabbino Riccardo Pacifici poi lasciò Rodi per assumere il compito di capo rabbino a Genova nel 1936. Due anni dopo le leggi razziste e l'azione di Riccardo Pacifici, onorato oggi come un eroe dalla comunità ebraica di Genova: favorì da quel porto l'esodo verso l'America del Nord e del Sud di circa 5.000 ebrei grazie al sostegno del Delasem, Delegazione per l'assistenza degli emigranti ebrei, l'organizzazione di resistenza ebraica che operò tra il 1939 e il 1947. Riccardo Pacifici riuscì anche a riorganizzare rapidamente un sistema di istruzione per i bambini e i ragazzi ebrei espulsi dalle scuole pubbliche. Dopo l'8 settembre molti lo implorarono di mettersi in salvo ma Pacifici, che riuscì a mettere in salvo i figli, non volle lasciare la sua gente. Ricorda il nipote: «Il cardinale di Genova, Pietro Boetto, gli aveva procurato un passaporto, documento rarissimo ai tempi per un ebreo. Ma mio nonno restò fino all'ultimo al suo posto». Venne arrestato dalla Gestapo e deportato a Auschwitz dove morì nel dicembre del 1943. Oggi, simbolicamente, l'onorificenza negata dalle leggi del 1938 va a un altro Riccardo Pacifici, suo nipote.

(Corriere della Sera, 16 giugno 2019)



Intervista a Riccardo Pacifici

Radio Radicale, 14 giugno 2019




Vittorio Emanuele III e l'ebreo Theodor Herzl

Lettera a "il Giornale"

Nato a Budapest da una famiglia ebraica, Theodor Herzl, il padre fondatore dell'attuale Stato di Israele, intraprese la carriera di giornalista e in tale veste si trovava a Parigi all'epoca del processo Dreyfus, il capitano di stato maggiore francese coinvolto in un affaire di spionaggio a favore della Germania, inizialmente condannato all'ergastolo all'Île-du-Diable, e poi riabilitato grazie a Émile Zola e al suo celebre J'accuse, lettera aperta al presidente della Repubblica francese Félix Faure. In quel periodo Herzl iniziò ad avvertire la vocazione all'ebraismo, e si chiese perché gli ebrei da duemila anni non potessero avere una loro patria. Si rivolse ai sovrani e potenti, dai quali ebbe risposte di scherno e di disprezzo. Pio X gli rispose: «Siccome gli ebrei non hanno riconosciuto il Messia in Gesù Cristo, non hanno diritto ad avere una patria». Né l'imperatore d'Austria, né il re di Prussia, né l'ormai quasi morente regina Vittoria, men che meno il «piccolo padre» lo Zar di tutte le Russie e il sultano turco, sotto il cui dominio si trovava il territorio oggi diviso tra Israele e Palestina, lo presero sul serio. Soltanto il giovane Re Vittorio Emanuele III, ricevendolo lo ascoltò e gli disse: «Quella terra mi dà tutta l'impressione di essere adatta a voi ebrei. Se lei mi trova 300mila ebrei disposti a recarvisi, io sono pronto ad aiutarla». Una risposta del genere dovette provocare un collasso al cuore già provato di Herzl. Qualche giorno dopo fu colpito da ictus.

Mario s. Manca
Villahermosa (Milano)



Bufera al museo ebraico di Berlino: salta il direttore

 
Peter Schaefer
Getta la spugna e annuncia le sue dimissioni il direttore del museo ebraico di Berlino. Sullo sfondo un tweet controverso su Israele partito dall'account ufficiale dello Judisches museum. Talmente controverso da provocare una reazione a catena cominciata con il licenziamento dell'autrice del messaggio e concluso con le dimissioni del direttore, il professor Peter Schaefer. «Evitare ulteriori danni al museo ebraico»: è questa la motivazione con cui il professore ha scelto di congedarsi in una lettera alla ministra della cultura Monika Gruetters.
   Schaefer era stato duramente criticato nei giorni scorsi dal presidente del Consiglio centrale ebraico, Josef Schuster, che aveva dichiarato: «la direzione dell'istituzione ha perso la fiducia della comunità ebraica». La causa scatenante, un tweet della portavoce del museo che invitava alla lettura di un articolo nel quale 240 scienziati ebrei e israeliani esprimevano posizioni critiche nei confronti della decisione del parlamento tedesco di condannare il movimento per il boicottaggio dei prodotti israeliani, il BDS (Boycott, Divestment, Sanction).
   Secondo gli scienziati citati nell'articolo, il BDS - che critica la presenza israeliana nei territori occupati - non è di per sé antisemita. Il tweet della portavoce concludeva: «la decisione dei parlamentari non aiuta nella lotta contro l'antisemitismo». Quest'ultima frase - non citata tra virgolette - aveva dato adito all'interpretazione che si trattasse di un giudizio condiviso dalla direzione del museo e da qui la bufera. Il Consiglio centrale degli ebrei in Germania ha commentato, secco: «la misura è colma, il museo ebraico di Berlino sembra essere del tutto fuori controllo». Non è la prima volta che il museo finisce nell'occhio del ciclone, del resto. Mesi fa la mostra «Welcome to Jerusalem» - chiusa lo scorso aprile - era stata addirittura oggetto delle critiche del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, che ne aveva chiesto la chiusura in una lettera alla cancelliera Angela Merkel e alla ministra della cultura. La mostra presentava la città di Gerusalemme in modo troppo incline ad una prospettiva palestinese, secondo il capo di governo israeliano. Gerusalemme era raccontata come capitale religiosa delle tre fedi monoteiste: ebraica, cristiana e musulmana. Netanyahu inoltre sottolineava in modo critico come «il museo ebraico non fosse legato alla comunità ebraica».
   In quella occasione la cancelliera aveva rigettato le critiche. Tuttavia lo Judisches Museum Berlin è un'istituzione statale finanziata per tre quarti da fondi pubblici, riferisce Faz. È comprensibile che una presa di posizione critica nei confronti del parlamento tedesco e del governo israeliano, per di più sull'eterna questione dei territori occupati

Territori liberati
, non passi inosservata.

(Il Messaggero, 15 giugno 2019)


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«Il mio museo ebraico sulla strada sbagliata. Giuste le dimissioni del direttore Schäfer»

L 'archistar che ha ideato lo Jüdiscbes interviene sul caso del tweet antisemita. Tutto nasce dalla condanna del movimento contro Israele

di Daniel Mosseri

BERLINO - Peter Schäfer, il direttore del Museo ebraico di Berlino (Jmb ), si è dimesso «per evitare ulteriori danni» a un luogo della cultura che attira oltre 700mila visitatori l'anno. Le sue dimissioni sono state accettate da Monika Grütters, sottosegretario di Stato in quota Cdu e commissaria del governo federale per la Cultura e i Media. Poche ore prima la Jüdische Allgemeine, il mensile del Consiglio centrale degli ebrei tedeschi, aveva sollecitato l'allontanamento di Schäfer, un esperto di Giudaistica, accusandolo di aver distrutto la reputazione del museo con il suo atteggiamento pervicacemente antisraeliano. La lista è lunga ma basterà ricordare qualche esempio: il 18 maggio il Parlamento approva a larghissima maggioranza una mozione che definisce antisemita il Bds, ossia il movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele. Boicottare a prescindere merci e cittadini dello stato ebraico, siano essi militari, accademici, sportivi, sopravvissuti alla Shoah o artisti, «ricorda la fase più terribile della storia tedesca», scrivono i deputati tedeschi, secondo cui gli appelli del Bds contro i prodotti israeliani «rievocano lo slogan nazista Kauf nicht bei Juden». Tutti d'accordo dalla destra di AfD ai social-comunisti della Linke. A dissentire invece è Schäfer, che poco dopo usa l'account Twitter del Museo ebraico per rilanciare un controappello di 240 intellettuali israeliani secondo cui la mozione è un errore. Nel twittare l'appello pro-Bds, il direttore aggiunge l'hashtag #mustread (#letturaobbligata). Uno scivolone aggravato dalla tendenza del direttore alla recidiva. Mesi prima lo Jüdisches Museum Berlin aveva ospitato la mostra Welcome to Jerusalem suscitando molte polemiche. Secondo molti visitatori la mostra rifletteva solo la prospettiva musulmana e palestinese sulla Città Santa. Per il Forum ebraico per la democrazia e contro l'antisemitismo «il sionismo veniva descritto come un elemento di disturbo in una regione altrimenti armoniosa». Alle proteste di Israele, della comunità ebraica berlinese e del deputato verde tedesco Volker Beck secondo cui la conquista israeliana di Gerusalemme Est nel 1967 veniva descritta come «un atto unilaterale e ingiustificato», Schäfer aveva risposto osservando che «i punti controversi permettono ai visitatori di formare un giudizio autonomo». Intervistato dal Tagesspiegel, il direttore aveva però anche chiarito che il museo non appoggiava alcun un movimento politico, Bds incluso. Eppure lo stesso Schäfer aveva poi invitato a visitare l'esposizione Seyed Ali Moujani, rappresentante del Consiglio culturale iraniano. Con l'esponente del regime anti-israeliano per eccellenza, Schäfer aveva poi convenuto sul fatto che equiparare antisemitismo e antisionismo fosse un errore, con grave imbarazzo di Grütters e del governo federale. «La misura è piena ha concluso il presidente del Consiglio centrale degli ebrei tedeschi Josef Schuster, la struttura è fuori controllo: sarà anche un museo ma non è certo "ebraico"».
   Inaugurato nel 2001, lo Jüdisches Museum Berlin è associato al nome del suo «papà», l'archistar dai natali polacchi e dal passaporto statunitense Daniel Libeskind. A Libeskind abbiamo chiesto un giudizio sulla gestione Schäfer dello Jmb. «Il professor Schäfer è uno storico molto rispettato. Tuttavia, dalle polemiche sorte nei mesi scorsi è chiaro che il museo ebraico era sulla strada sbagliata. Trovo dunque le sue dimissioni opportune». Quando ha disegnato il museo, avrebbe mai immaginato che sarebbe potuto diventare un centro per la diffusione della narrativa antisionista? «Il mandato del museo ebraico è quello di comunicare la storia ebraica tedesca nel passato e verso il futuro. La sua missione principale è anche quella di creare mostre che affermino l'identità ebraica in Germania, e nel mondo in generale». Che cosa aveva in mente quando ha ideato il museo? «Il mio obiettivo era quello di riconoscere che sebbene la storia sia irreversibile, il museo deve riflettere speranza e ottimismo. E questo è particolarmente importante in una fase di crescita e di "normalizzazione" dell'antisemitismo, del razzismo e della xenofobia».
   Professionista di fama globale, d'adozione Libeskind è anche un po' meneghino, e al suo nome è associata una delle tre torri di CityLife. Gli chiediamo dunque di spiegarci qual è secondo lui la chiave per il futuro architettonico di Milano. «Milano sta rapidamente diventando una delle città di maggior successo in Europa. Molto ha a che fare con la leadership del suo sindaco Beppe Sala e con gli importanti interventi di riqualificazione urbana della città, che sono al tempo stesso sostenibili e culturalmente significativi». La trasformazione del vecchio in nuovo vale solo a Milano? «Questa trasformazione vale per tutte le città europee che lottano per bilanciare le tradizioni storiche con le esigenze contemporanee dei loro cittadini». Crede che Venezia dovrebbe lasciare passare le grandi navi da crociera vicino alle sue fondamenta? «No», risponde Libeskind. «Il passaggio dovrebbe essere proibito: le grandi navi distruggono l'ambiente».

(il Giornale, 16 giugno 2019)



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