Inizio - Attualità »
Presentazione »
Approfondimenti »
Notizie archiviate »
Notiziari »
Arretrati »
Selezione in PDF »
Articoli vari»
Testimonianze »
Riflessioni »
Testi audio »
Libri »
Questionario »
Scrivici »
Notizie 16-30 giugno 2020


Gantz: 'Il primo luglio non è una data sacra per le annessioni'

Il primo luglio "non è una data sacra" per Israele per iniziare ad attuare il contestato piano di annessioni di aree della Cisgiordania. Parola del ministro della Difesa Benny Gantz. Fonti vicine al leader del partito Blu e Bianco hanno confermato all'agenzia Dpa che Gantz si è espresso così durante un incontro con l'ambasciatore americano in Israele, David Friedman, e il rappresentante speciale degli Usa per i negoziati internazionali, Avi Berkowitz. Intanto il Jerusalem Post cita varie fonti americane ben informate secondo cui Israele questa settimana non adotterà misure per estendere la sua sovranità su aree della Cisgiordania. L'accordo di coalizione tra il Benjamin Netanyahu e Gantz consente al premier di portare al voto le annessioni dal primo luglio, ma - scrive il giornale - per quella data "non saranno pronti i piani e l'approvazione degli Stati Uniti". Netanyahu, si legge, sta piuttosto valutando la possibilità di una dichiarazione.

(Adnkronos, 30 giugno 2020)


Il virus fiacca i piani di annessione della coppia Trump-Netanyahu.

Deadline del 1° luglio potrebbe slittare. Per i palestinesi, l'estensione unilaterale della sovranità israeliana su parti della Cisgiordania è inaccettabile. Per Bibi, travolto dall'incubo di una seconda ondata, prende corpo l'ipotesi di una mossa al massimo simbolica. Gaza si prepara a una "giornata di collera"

di Giulia Belardelli

Più che mai, gli occhi del mondo sono puntati su Israele, mentre si avvicina la data del primo luglio, il D-day finora indicato dal governo israeliano per far scattare il piano di annessione di alcune aree della Cisgiordania. Un piano giudicato inaccettabile dai palestinesi e criticato da un'ampia coalizione internazionale, ma sostenuto da Washington e fortemente voluto dal premier Benyamin Netanyahu, che nella notte ha pronunciato parole incendiarie: la visione del presidente Trump - ha detto - sistema definitivamente "l'illusione dei due Stati".
   Ma il mix di pandemia e pressioni internazionali sembrerebbe destinato a rallentare i progetti della coppia Netanyahu-Trump. Secondo il Jerusalem Post, è probabile che il governo israeliano arriverà a un voto sull'annessione entro mercoledì, ma ciò non significa che l'estensione della sovranità israeliana su alcune zone della Cisgiordania entrerà automaticamente in vigore. Per quella data - spiegano fonti americane vicine al dossier - non sarebbero pronti né i piani operativi né l'approvazione Usa. Questa mattina lo stesso vicepremier e ministro della Difesa Benny Gantz ha dichiarato, durante un incontro con l'inviato del presidente Trump Avi Berkovitz e l'ambasciatore Usa David Friedman, che il primo luglio per lui "non è una data sacra", spiegando che dal suo punto di vista le priorità sono la lotta al coronavirus e alla disoccupazione. "Prima di intraprendere passi diplomatici - ha detto Gantz, secondo fonti del suo partito Blu e Bianco - occorre aiutare i nostri cittadini a tornare al lavoro. La loro prima preoccupazione, ora, è il coronavirus".
   Una preoccupazione, questa, che accomuna drammaticamente Stati Uniti e Israele, entrambi alle prese con un preoccupante aumento dei contagi. Se negli Usa è il segretario alla Salute Alex Azar ad ammettere che nel Paese "si sta chiudendo la finestra" per controllare l'epidemia, in Israele è il ministro della Salute Yoel Edelstein a parlare di "una nuova ondata della malattia". Netanyahu ha convocato per oggi una nuova consultazione ministeriale, la seconda da ieri, per approvare misure straordinarie tali da arrestare l'aumento delle infezioni. Secondo i dati aggiornati del Consiglio per la sicurezza nazionale, il numero attuale dei positivi è di 23.907, 445 più di ieri. I malati sono 6.483, 41 dei quali in rianimazione; i decessi sono saliti a 319. Il ministero della Salute ha auspicato l'approvazione di misure restrittive negli uffici, nei luoghi di preghiera, negli atenei e negli spazi pubblici, incluse le spiagge.
   In un clima del genere, con la popolazione preoccupata all'idea di un nuovo lockdown, andare avanti con un'annessione unilaterale di cui non si conoscono ancora i dettagli - ma ben si immaginano gli effetti - potrebbe risultare controproducente anche sul fronte interno. Nella notte Netanyahu, durante una video conferenza con un'organizzazione di cristiani filo-israeliani, è tornato a elogiare il piano Trump per il Medio Oriente, ma non ha fornito dettagli sul progetto di estensione della sovranità israeliana a parti della Cisgiordania. La visione di Trump - ha detto - sistema definitivamente l'illusione dei due Stati, facendo appello a una soluzione realistica: quella in cui "Israele, e solo Israele, mantiene la responsabilità generale di sicurezza a ovest del fiume Giordano". "Ciò è un bene per Israele, un bene per i palestinesi, un bene per la pace", ha aggiunto.
   Contro il piano di annessione si è espresso oggi anche Michelle Bachelet, l'Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani. "Qualsiasi forma di annessione è illegale. Punto", ha detto Bachelet, chiedendo a Israele di ritornare sui suoi passi e avvertendolo di effetti destinati a durare "per decenni": "altre morti, altra violenza e violazioni dei diritti umani". "Non si possono prevedere le conseguenze precise delle annessioni - ha proseguito - Ma saranno probabilmente disastrose per i palestinesi, per Israele stesso e per l'intera regione". A questo si aggiunge il pressing internazionale: una coalizione globale di organizzazioni ebraiche progressiste ha contattato nelle ultime settimane diplomatici israeliani in 18 consolati e ambasciate in tutto il mondo, per spingere il governo a riconsiderare i suoi progetti.
   Tra Covid, pressing internazionale e difficoltà americane (con Trump in affanno sia in casa che fuori), il sogno di annessione di Bibi sembra quanto meno fiaccato. Nelle intenzioni sarebbe dovuta essere la svolta per distrarre l'opinione pubblica dalle sue vicende giudiziarie, che comunque lo faranno passare alla storia come il primo premier ebraico in carica ad andare a processo. E' indicativo il fatto che, allo stato attuale, dei contenuti del piano si sappia ben poco, a cominciare da quali sarebbero le dimensioni dell'imminente annessione. Originariamente il progetto era stato modellato lungo i confini stabiliti dal piano di pace dell'amministrazione Trump - il famigerato "Accordo del Secolo", fin da subito rigettato con forza dalla controparte palestinese. Ciò implicherebbe l'estensione della sovranità israeliana su circa il 30% della Giudea e della Samaria, compresa la maggior parte della Valle del Giordano, e praticamente tutte le città israeliane nell'area. Ma secondo gli insider, il piano di sovranità verso cui si starebbe indirizzando il governo di unità nazionale Likud - Blu e Bianco è molto ridotto, e non comprenderebbe la Valle del Giordano.
   I palestinesi, intanto, annunciano battaglia. Il presidente Abu Mazen ha respinto il "Piano del Secolo" di Trump sin dalla sua pubblicazione a gennaio e già il 19 maggio ha annunciato che, se Israele dovesse procedere con mosse unilaterali, dissolverà l'Autorità Nazionale Palestinese (Anp). Ieri, al termine di un incontro di coordinamento a Gaza, varie fazioni politiche palestinesi hanno indetto una giornata "di collera popolare" in protesta contro i progetti israeliani di annessione. Le proteste di massa, è stato precisato, avranno luogo il primo luglio. Ancora non è noto se le manifestazioni si svolgeranno solo nella Striscia o se i dimostranti cercheranno anche, come in passato, di raggiungere il confine con Israele.
   Hamas ha avvertito che intende far ricorso "a tutti i mezzi a sua disposizione" per far fallire i progetti israeliani di annessione. Lo ha affermato sul web Mussa Abu Marzuk, uno dei suoi dirigenti. All'incontro di coordinamento a Gaza fra le maggiori fazioni politiche della Striscia hanno partecipato dirigenti di Hamas, della Jihad islamica, del Fronte popolare e del Fronte democratico per la liberazione della Palestina e dei Comitati di resistenza popolare. Il messaggio comune dei partecipanti, secondo fonti stampa locali, è che la politica di Israele per la Cisgiordania riguarda indistintamente tutti i palestinesi, Gaza inclusa. Intanto è comparso nelle reti sociali un filmato, in ebraico e in arabo, che mostra nutriti lanci di razzi da Gaza verso Israele. "Vi faremo vedere la nostra potenza", avvertono gli autori. Venerdì due razzi sono stati sparati da Gaza verso Israele, dove sono esplosi senza fare vittime né danni anche se hanno costretto gli abitanti della cittadina di Sderot a correre ai rifugi. Un'escalation in piena pandemia è proprio ciò che almeno una parte del governo israeliano vorrebbe evitare.

(L'HuffPost, 30 giugno 2020)


Netanyahu e Gantz: Siamo pronti a negoziare coi palestinesi anche domani mattina

A pochi giorni dalla scadenza del primo luglio, il primo ministro e il vice primo ministro israeliani esortano i palestinesi a non farsi sfuggire per l'ennesima volta un'opportunità di compromesso e di pace.

"Esorto i palestinesi a non perdere un'altra opportunità, a non sprecare un altro secolo nel tentativo di distruggere Israele. I palestinesi dovrebbero dichiararsi pronti a negoziare uno storico compromesso, che potrebbe portare la pace sia a loro che agli israeliani. Israele è pronto per questi negoziati. Io sono pronto per questi negoziati". Lo ha affermato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu invitando l'Autorità Palestinese ad avviare immediati negoziati sulla base del piano di pace presentato dall'amministrazione degli Stati Uniti.
La dirigenza palestinese ha respinto in blocco il piano di pace di Trump ancor prima che fosse pubblicato e da allora ha interrotto i suoi rapporti con la Casa Bianca nonché gran parte del suo coordinamento con Israele....

(israele.net, 30 giugno 2020)


Dureghello: rabbia e indignazione per parole presidente Anpi Roma

ROMA - "Ho ascoltato con rabbia e indignazione il video postato da Progetto Dreyfus in cui il presidente dell'Anpi Roma invita a liberare i leader dell'intifada palestinese. Questi terroristi sono criminali responsabili di attentati che hanno massacrato civili, donne e bambini. La strategia dell'intifada palestinese è stata quella di uccidere i civili inermi solo perché ebrei e israeliani. Difendere l'intifada significa difendere il terrorismo. Mi aspetto che l'Anpi nazionale prenda nettamente le distanze allontanando il presidente di Roma, perché la memoria dei partigiani non può essere violata da chi difende dei criminali. Possiamo accettare di avere idee diverse, ma non che il rappresentante dell'Anpi nella capitale d'Italia possa invitare a liberare chi ha ucciso donne e bambini. Serve un atto forte di discontinuità da parte dell'Anpi che dovrebbe mantenere la memoria storica dei partigiani e non incitare all'odio contro il popolo d'Israele."

(askanews, 30 giugno 2020)


Scoperta in Galilea città cristiana distrutta dai persiani

Tra i ritrovamenti: una croce di bronzo, un pavimento a mosaico e molte ceramiche.

Gabriele Giovanni Vernengo

Alcuni archeologi hanno appena pubblicato su Atiqot, un giornale israeliano specializzato in divulgazione storica e culturale, uno studio riguardante una prospera città cristiana della Galilea, la colonia di Pi Mazuva, scoperta nel 2007 nel nord-ovest di Israele, vicino al confine libanese e ancora ad oggi sotto la lente d'ingrandimento degli studiosi.
Gli esperti confermano che le scoperte rivelate dagli scavi in questa colonia rurale furono distrutti durante l'invasione persiana nel VII secolo e sottolineano in particolare la presenza di un mosaico.

 Le scoperte degli studiosi
  «Dagli scavi riguardanti la colonia di Pi Mazuva - spiegano gli studiosi - sono emersi complessi edilizi, alcuni risalenti al periodo bizantino. I reperti sul sito includevano una croce di bronzo, un architrave in pietra calcarea con incisione a croce e ceramiche risalenti al VI-VII secolo d.C.Un' altra interessante scoperta riguarda, un colorato pavimento a mosaico del VII secolo di alta qualità, decorato con motivi floreali, figure animali e umane e due frammentarie iscrizioni greche. Queste scoperte testimoniano l'esistenza di una colonia cristiana rurale, probabilmente distrutta durante la conquista persiana della regione, avvenuta nel 613 d.C.».
Sempre secondo gli studiosi, questo mosaico conferma la continua diffusione delle tradizioni bizantine locali, anche dopo la dominazione musulmana.
«Il pavimento a mosaico scoperto a Pi Mazuva comprende - continuano gli studiosi - un ampio bordo di medaglioni di acanto, che circonda un tappeto di boccioli di fiori, con al centro un busto raffigurante una donna, forse una personificazione di abbondanza e fertilità agricola. Il bordo di acanto è pieno di motivi floreali e animali, che sembrano essere stati eseguiti da artisti esperti».
«Secondo i ritrovamenti iconografici e stilistici - sottolineano in conclusione gli studiosi - il mosaico risale al VII secolo d.C. e sarebbe stato impiegati per adornare una stanza, dedicata agli ospiti, di un palazzo antico».

(VoceControCorrente, 30 giugno 2020)


Come gli evangelici americani sono diventati l'esercito della Grande Israele

La più grande organizzazione evangelica filoisraeliana degli Usa terrà la sua conferenza annuale questa settimana, in mezzo alle crescenti voci sull'annessione israeliana ...

Una potenza mondiale: gli evangelici. Un "esercito" a sostegno dell'annessione. La più grande organizzazione evangelica filoisraeliana degli Stati Uniti terrà la sua conferenza annuale questa settimana, in mezzo alle crescenti voci sull'annessione israeliana di parti della Valle del Giordano sia a Gerusalemme che a Washington. Christians United for Israel, che ha milioni di membri negli Stati Uniti, terrà una conferenza virtuale quest'anno alla luce della crisi del coronavirus.
  Il fondatore dell'organizzazione, il pastore John Hagee, in un articolo pubblicato su Haaretz la scorsa settimana, sollecitando l'amministrazione Trump a continuare a portare avanti il suo piano di pace per il Medio Oriente, che include l'annessione israeliana fino al 30% della Cisgiordania.
  Christians United for Israel ha espresso il suo sostegno per l'intero piano di pace di Trump a gennaio, e un portavoce dell'organizzazione ha ribadito al quotidiano progressista di Tel Aviv all'inizio di giugno che il gruppo mantiene questa posizione. Lo scorso fine settimana, Friedman e Avi Berkowitz, il funzionario della Casa Bianca alla guida del piano di pace di Trump, sono arrivati in Israele per continuare a discutere le diverse opzioni con Netanyahu e Gantz. Netanyahu ha parlato più volte agli eventi di Christians United for Israel. L'anno scorso ha detto ai sostenitori dell'organizzazione in un video messaggio che Israele non ha amici migliori dei cristiani evangelici. Per Gantz, la conferenza di quest'anno segnerà la sua prima apparizione come leader politico all'evento.

 Potenza globale
  Hanno piazzato un loro adepto, Mike Pence, alla vice presidenza degli Stati Uniti. Hanno avuto un ruolo chiave nel fare eleggere alla presidenza del Brasile, un loro fedele, Jair Bolsonaro, ex cattolico, come Pence, convertitosi alla chiesa evangelica. Ed ora hanno fatto il loro ingresso anche nel Regno Saud, a casa dei custodi dei due più importanti luoghi sacri dell'islam: Mecca e Medina. E l'hanno fatto passando dalla porta principale, ricevuti dall'erede al trono, il principe Mohammed bin Salman. Messo alle strette dal caso-Khashoggi, MbS, acronimo con cui il principe è riportato dai media internazionali, ha avuto ieri un meeting, durato oltre due ore, con una delegazione dell'American evangelical Christians. Un evento, per il suo genere, più unico che raro. I più stretti collaboratori di MbS, hanno provato a offrire ai media internazionali una interpretazione che rilancia l'appannata - vedi l'affaire-Khashoggi - immagine di MbS come il riformatore, non solo in campo economico, ma anche sul terreno minato, della religione, nella terra che ha visto nascere e rafforzarsi la corrente più integralista del fondamentalismo islamico: quella wahabita. La delegazione degli evangelici americani era ai massimi livelli. Ne facevano parte il responsabile della comunicazione Joel Rosenberg e includeva Michele Bachmann, ex congressista Usa. "Si tratta di un momento storico per il Regno", ha affermato l'erede al trono nel dare il benvenuto alla delegazione.
  Ma la religione, in questa vicenda, c'entra molto meno della politica. Perché si dà il caso che sia Rosenberg che la Bachmann, siano tra i capi delle organizzazioni evangeliche americane che più hanno spinto per la saldatura dell'asse tra Riyadh e Gerusalemme. Della delegazione faceva parte anche Mike Evance, fondatore del Jerusalem Prayer Team, che descrive se stesso sul suo sito web come "a devout American-Christian Zionist leader". "E che la politica sia centrale in questa vicenda lo conferma anche il profilo della delegazione saudita che affiancava MbS: il ministro degli Esteri, Adel al-Jubeir, l'ambasciatore saudita a Washington, principe Khalid bin Salman e il segretario generale della Muslim World League Mohammed al-Issa. Va ricordato, in proposito, che quella che più ha spinto l'amministrazione Trump al trasferimento dell'ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme, non è stata la comunità ebraica americana ma gli evangelici, parte fondamentale del "sionismo cristiano". Evangelico, per l'appunto, è il vice presidente degli Stati Uniti, quel Mike Pence che così ebbe a dire nel suo discorso alla Knesset del 22 gennaio 2018: "Oggi - esordì in quell'occasione Pence - mentre mi trovo nella terra promessa di Abramo, credo che quanti amano la libertà e auspicano un futuro migliore debbano volgersi verso Israele e provare meraviglia per quanto vedono". È stata la fede "a ricostruire le rovine di Gerusalemme e a fortificarle nuovamente", proclamò il vice presidente Usa pronunciando la shehechiyanu la benedizione ebraica. "Sono qui per portare un forte messaggio: la vostra causa è la nostra causa, i nostri valori sono i vostri valori. Siamo schierati con Israele perché crediamo nel bene e nel male, nella libertà sopra la tirannia", proseguì il discorso-sermone facendo un parallelo fra la storia degli ebrei e quella degli Stati Uniti. "È la storia di un esodo, un viaggio dalla persecuzione alla libertà", ha affermato in trance religiosa, ricordando come i padri pellegrini che per primi arrivarono in America si rivolgessero "alla saggezza della Bibbia ebraica".

 Cento milioni
  Non si sta parlando di una minoranza, per quanto agguerrita, di fanatici fondamentalisti. Si tratta, al contrario, di una comunità che oggi conta 100 milioni di adepti, l'81% dei quali ha votato l'attuale quarantacinquesimo presidente alle scorse elezioni, nel novembre 2016. Sempre di quei 100 milioni, un terzo è formato da ferventi supporter dello Stato israeliano, tanto da costituire un movimento autonomo, il cosiddetto "sionismo cristiano". Le cifre dell'endorsement evangelico alla causa sionista diventano ancora più rilevanti se accostate a quelle relative alla comunità ebraica statunitense: solo il 16% , secondo una ricerca del Pew Research Center, supportava, nel 2017, il trasferimento immediato dell'ambasciata statunitense a Gerusalemme (il 36% era a favore, ma solo quando i negoziati di pace tra Israele e Palestina fossero progrediti); tra gli evangelici, invece, ben il 53% era d'accordo con la decisione di Trump.

 La lobby israeliana
  I "sionisti cristiani" sono parte attiva, influente, e non solo nell'era Trump, nella determinazione delle scelte degli Usa in Medio Oriente e su Israele. E così non appare una forzatura, né desta meraviglia che, come sostiene Daniel Pipes, "oltre alle Forze di difesa israeliane, i sionisti cristiani possono essere ritenuti l'estrema risorsa strategica dello Stato ebraico". O, come ebbe a scrivere nel 2006 Michael Freund, ex direttore dell'Ufficio comunicazioni di Netanyahu, ringraziamo Dio per i sionisti cristiani! Piaccia o no, è assai probabile che il futuro delle relazioni tra Israele e gli Stati Uniti siano assai meno nelle mani degli ebrei americani che in quelle dei cristiani d'America". Nel 1996 il Terzo congresso internazionale dei sionisti cristiani ha proclamato che "la Terra che Egli promise al Suo Popolo non dev'essere frazionata... Sarebbe un ulteriore errore da parte delle nazioni riconoscere uno Stato palestinese in qualunque parte di Eretz Israel...". Rimarcano John J. Mearsheimer - docente di scienza della politica all'Università di Chicago - e Stephen M.Walt - che insegna relazioni internazionali alla John F. Kennedy School of Government presso l'Università di Harvard - nel loro libro La Israel lobby. E la politica estera americana (edito in Italia da Mondadori): "Fornendo supporto finanziario al movimento dei coloni, e scagliandosi pubblicamente contro ogni concessione territoriale, i sionisti cristiani hanno consolidato le derive intransigenti di Israele e Stati Uniti, e hanno reso più difficile ai leader americani esercitare pressioni sullo Stato ebraico. Senza il sostegno del sionismo cristiano, il numero dei coloni israeliani sarebbe più modesto e i governi di Israele e Stati Uniti sarebbero meno condizionati dalla loro presenza nei Territori occupati e dalla loro attività politica. Oltre a questo - proseguono gli autori - c'è il fatto che il turismo cristiano (una parte cospicua del quale è di matrice evangelica) è diventato una ragguardevole fonte di introiti per Israele, generando nell'area un volume di entrate che si aggirerebbe intorno al miliardo di dollari l'anno" L'associazione di cristiani americani HaYovel (Giubileo in ebraico), fondata nel 2007 dalla coppia Tommy e Sherri Waller, mira a contribuire "alla restaurazione profetica della terra di Israele" rendendola fruttuosa. Prendendosi cura del popolo eletto, i fondatori di HaYovel intendono andare nella direzione della profezia biblica: "Tutte le nazioni saranno benedette se Israele lo è per Dio". E anche gli arabi avranno una vita migliore, come ha dichiarato Sherri Waller a Le Monde. In questa prospettiva stimano che i palestinesi sono ammessi in Cisgiordania ma le terre spettano agli ebrei. Dall'inizio della sua attività, HaYovel ha mobilitato più di 1.800 lavoratori per le vendemmie in Cisgiordania. Come parte dell'associazione evangelica HaYovel, per lo più provenienti dagli Stati Uniti, si offrono volontari per la raccolta negli insediamenti israeliani in Cisgiordania. E si dichiarano felici di contribuire alla profezia biblica. Un chiaro sostegno alla colonizzazione israeliana nei territori palestinesi occupati, che questi cristiani considerano il "cuore storico e spirituale di Israele". Non solo. I cristiani evangelici, grandi elettori negli Stati Uniti del presidente Donald Trump, finanziano ormai circa un terzo della migrazione degli ebrei della diaspora verso Israele. Lo rivelano le cifre relative al 2017, pubblicate dalla testata digitale israeliana Ynetnews. Su 28 mila ebrei che hanno compiuto lo scorso anno l'aliyah, ovvero l'ascesa-ritorno alla "Terra promessa», almeno 8.500 hanno goduto dei fondi raccolti ufficialmente da organizzazioni cristiane, divenute partner dell'Agenzia ebraica nell'obiettivo di ricondurre gli "esuli" nella patria israeliana. Denaro che non copre solo le spese di viaggio, ma anche e soprattutto quelle di inserimento nella nuova società, con sussidi sociali e aiuti per la costruzione di nuove case. Le due principali sigle di cristiani evangelici impegnate per la causa ebraica sono l'International Fellowship of Christian and Jews (Ifcj) e l'International Christian Embassy of Jerusalem.Le somme stanziate sono ragguardevoli. Solo la Ifcj ha riferito all'Associated Press di aver distribuito dal 2014 ad oggi 30 milioni di dollari per l'aliyah e di aver donato all'Agenzia ebraica 188 milioni di dollari nei due decenni precedenti. A ciò va aggiunto un impegno finanziario analogo della Christian Embassy, oltre a contributi anonimi.
  Il "sionismo cristiano", pilastro della Grande Israele. Un esercito a servizio di Eretz Israel.

(Globalist, 29 giugno 2020)


Un articolo come questo probabilmente fa scattare nel lettore, in modo quasi immediato, un meccanismo di valutazione secondo criteri già fissati da tempo. Come quasi sempre quando si parla di ebrei, chi riceve un’informazione riguardante loro è convinto di saperne già abbastanza e di non dover far altro che tirare delle conclusioni. Che naturalmente saranno diverse a seconda che si tratti di un ebreo (secolare o religioso), di un cristiano (cattolico o evangelico), di un laico (sovranista o globalista), o di qualsiasi altro. Resta il fatto che per prima cosa bisognerebbe avere elementi di base sufficienti per capire quello che accade e argomenti validi per abbozzarne una valutazione, anche se solo provvisoria. L’argomento di questo articolo però, per la sua natura “multidisciplinare”, con elementi riconducibili a quell’universo semisconosciuto che è la Bibbia, non è facilmente inquadrabile in nessuna delle usuali categorie culturali e politiche. Di conseguenza è altamente probabile che chi ne parla non sappia quello che dice. E tuttavia lo dice, perché gli piace dirlo, e perché gli dispiace di dover cambiare la propria opinione, e perché sa che sarebbe faticoso e rischioso verificarne il valore. Nel nostro sito è già presente una proposta di valutazione del fenomeno, da un punto di vista strettamente cristiano-evangelico, naturalmente. M.C.
"Ebraismo e cristianesimo. Centro e diaspora Ebraismo e cristianesimo. Centro e diaspora"


Imbrattato con sigle anti-ebrei il Giardino della Memoria al cimitero di Alessandria

Una scritta con vernice blu fa riferimento ai campi di sterminio, l'assessore Barosini: "Faremo denuncia contro ignoti".

 
ALESSANDRIA. «VL» è l'abbreviazione di Vernichtungslager, i campi di sterminio pensati come installazioni deputate a eliminare fisicamente in massa e in tempi brevi gli ebrei d'Europa. Probabilmente è questo il significato della scritta apparsa in questi giorni, insieme a un'altra sigla «Sl», nel Giardino della Memoria del cimitero urbano di Alessandria.
Con una bomboletta di vernice blu, presumibilmente di notte e fra sabato e domenica scorsi, ignoti hanno imbrattato quell'angolo dedicato al ricordo. «Ci appresteremo a fare regolare denuncia presso l'autorità giudiziaria e a togliere le scritte» ha assicurato l'assessore ai Lavori pubblici Giovanni Barosini. «È doveroso - ha aggiunto - un ennesimo accorato appello a un maggiore senso civico e profondo rispetto verso i beni comuni, patrimoniali e storico-culturali».

(La Stampa, 29 giugno 2020)


Creato un microscopio così potente da permettere di vedere la luce in movimento

Un team di scienziati israeliani del "Technion-Israel Institute of Technology" vuole scoprire come migliorare la qualità dei piccoli punti quantici su grandi superfici.

Il primo microscopio della storia fu inventato verso la fine del 1500 e ingrandiva solo fino a 30 volte di più l'immagine rispetto all'obiettivo. Da allora la tecnologia ha fatto ovviamente grandi passi in avanti e oggi, per la prima volta, è stato creato un microscopio talmente potente da permettere di osservare la luce in movimento.
   Si tratta dell'ultima svolta nel campo della scienza quantistica che ha consentito ad un team di scienziati israeliani del Technion-Israel Institute of Technology di sviluppare un potente microscopio elettronico in grado di fornire l'immagine più nitida mai prodotta della luce che si muove all'interno dei materiali. Questo nuovo dispositivo, infatti, permette l'osservazione diretta della luce all'interno di un cristallo fotonico, che cattura la luce in un modello diverso per ciascun colore.
   «Con il nostro microscopio possiamo cambiare il colore e l'angolo della luce che illumina qualsiasi campione di nanomateriali e mappare le loro interazioni con gli elettroni, come abbiamo dimostrato con i cristalli fotonici», ha spiegato Ido Kaminer, professore presso l'Istituto israeliano di tecnologia che ha guidato il team.
   Lo strumento è un microscopio elettronico a trasmissione ultrarapida unico nel suo genere. Con questa ricerca si apre un nuovo regno di possibilità per gli scienziati quantistici. I ricercatori, infatti, non solo ora potranno osservare i fenomeni che un tempo erano costretti a modellare o simulare, ma questa tecnica di microscopia consente anche di studiare le sfaccettature del comportamento di particelle come fotoni ed elettroni.
   Precedenti studi che utilizzavano la microscopia per analizzare il comportamento quantistico erano più limitati. In effetti, gli scienziati avevano già sondato atomi o punti quantici, che però avevano una minore flessibilità nel modo in cui potevano rispondere all'energia degli elettroni. In questo nuovo studio pubblicato su Nature, invece, il team ha utilizzato cavità fotoniche, che essenzialmente sono cristalli nanoscopici in cui gli scienziati hanno potuto osservare direttamente elettroni e fotoni che fluivano liberamente al loro interno.
   «Questa è la prima volta che possiamo effettivamente vedere la dinamica della luce mentre è intrappolata nei nanomateriali, piuttosto che fare affidamento su simulazioni al computer», ha affermato il ricercatore del Technion, Kangpeng Wang.
   Secondo gli esperti, grazie a questa innovativa ricerca sarà presto possibile risolvere un problema critico nell'informatica quantistica. I qubit che memorizzano le informazioni nei computer quantistici, infatti, sono notoriamente soggetti a errori. Ora, invece, i ricercatori ipotizzano che la loro tecnica di intrappolamento della luce potrebbe renderli significativamente più stabili.

(tio.ch, 29 giugno 2020)


Coronavirus: Netanyahu convoca una riunione urgente

Oltre 800 contagi negli ultimi due giorni

Il premier Benyamin Netanyahu ha convocato oggi una consultazione urgente con alcuni ministri per fronteggiare la crescente diffusione dei contagi di coronavirus. Fra i provvedimenti che saranno discussi, anticipa il quotidiano Israel ha-Yom, la limitazione degli assembramenti di persone ad un massimo di 50, che potrebbe essere poi ridotto a sua volta anche a 10 persone se la situazione non migliorasse.
Inoltre potrebbe essere ordinata la chiusura delle sale ricevimenti (che erano state riaperte solo di recente). In pericolo anche i campi estivi di ricreazione scolastica così come l'accesso alle spiagge pubbliche.Secondo dati diffusi oggi dal ministero della sanità, i casi positivi sono saliti a 23.462, oltre 800 in più rispetto a venerdì. Le guarigioni assommano a 17 mila, mentre i malati sono adesso 6.127, 41 dei quali in rianimazione. I decessi sono saliti a 317.

(ANSAmed, 28 giugno 2020)


Tutti contro il piano di annessione. Netanyahu pronto alla versione soft

Il premier presenterà mercoledì la sua proposta per l'estensione della sovranità in zone della Cisgiordania probabilmente più limitate rispetto a quanto previsto da Trump. Si tratterebbe dei tre insediamenti ebraici più grandi.

di Fiammetta Martegani

Il primo luglio il premier israeliano Benjamin Netanyahu dovrà presentare alla Knesset il suo piano per annettere a Israele parte dei territori come previsto dall"'Accordo del Secolo' proposto lo scorso 28 gennaio dal presidente americano Donald Trump: il primo capo di Stato americano repubblicano ad aver posto al centro della propria politica estera la questione. Stando agli sviluppi degli ultimi giorni, si ipotizza che la proposta di mercoledì potrebbe prevedere l'estensione della sovranità israeliana su un' area inferiore rispetto a quella suggerita dalla Casa Bianca: circa il 20% della Cisgiordania invece del30%. Si tratterebbe, nello specifico, dei tre insediamenti ebraici più grandi: Ma' aleAdumim, Gush Etzion e Ariel, Aree che de facto sono già parte integrante dello Stato di Israele e che lo diventerebbero anche de jure, rientrando così sotto la legislazione civile israeliana.
  Il piano sta ricevendo molte critiche. Per il centro-sinistra israeliano (e per parte dell'Unione Europea) non funziona in quanto configura una mossa unilaterale: «Il popolo palestinese e i suoi diritti non sono nemmeno stati contemplati - sottolinea Yehuda Shaul, cofondatore della Ong israeliana Breaking the Silence -. Questo, oltre al pericolo di una terza Intifada, potrebbe sottrarre a Israele ogni appoggio della comunità internazionale, e far saltare per sempre il processo di pace». Per i coloni e per la destra estremista, la soluzione dei due Stati ipotizzata dal piano Trump è inaccettabile perché non ricalca il disegno della "Grande Israele", quella compresa tra il Mar Mediterraneo e il fiume Giordano, che include, per intero, Giudea e Samaria. E costituirebbe un enorme minaccia alla sicurezza del Paese. «Lo stesso termine "annessioni" per noi è privo di senso - commenta Yigal Dilmoni, vice--presidente del Yesha Council, l'organizzazione che rappresenta i consigli municipali degli insediamenti -. Sarebbe corretto parlare di "sovranità"».
  Poi c'è la Giordania (alleato politico fondamentale di Israele), che, come per la maggior parte dei Paesi limitrofi, considera le annessioni una mina sui delicati rapporti diplomatici con lo Stato ebraico. Ma anche con gli Stati Uniti, che peraltro si trovano già alle prese con la pandemia e le proteste del movimento Black Lives Matter. A Trump, per ora, non conviene esporsi troppo. Il suo piano prevedeva fin dall'inizio un percorso graduale e concordato. Preso atto della fuga in avanti di Netanyahu, il presidente Usa potrebbe, a questo punto, chiudere un occhio su una "light annexation", «Procederà a passi lunghi e ben distesi - spiega Moshe Maoz, esperto di Studi del Medio Oriente e dell'Islam all'Università di Gerusalemme - cercando di rimandare tutto il più in là possibile. A novembre, poi, potrebbe rilanciare le negoziazioni per accaparrarsi, in campagna elettorale, i voti, cruciali, degli evangelisti». Non bastasse tutto questo, va sottolineato che sia la proposta americana che il "punto 28" dell'accordo siglato da Netanyahu e da Benny Gantz a maggio (quello che ha dato via libera al governo nazionale di emergenza) prevedono che i due partiti della coalizione (Likud e Blu Bianco) raggiungano un'intesa condivisa sulle annessioni. E l'exgenerale, prudentemente, frena: non vuole deludere ulteriormente il suo elettorato (che lo aveva votato prevalentemente in funzione anti-Netanyahu) e, in attesa di diventare primo ministro tra una anno e mezzo circa (come previsto dal sistema a rotazione), intende impegnarsi al massimo per mantenere saldi i legami diplomatici con il resto del mondo. Vedere Israele nel mirino per la questione delle annessioni non deve piacergli affatto. «La questione che abbiamo di fronte è un percorso complesso e storico che influenzerà le sorti del Paese nei prossimi decenni - ha dichiarato ieri il ministro della Difesa -. La affronteremo in modo responsabile».
  Va detto che la posizione di Gantz potrebbe, mal che vada, risultare un'ottima scusa per Netanyahu per giustificare la "provvisorietà" del piano che aveva clamorosamente sventolato in campagna elettorale. Un buon assist per poterlo ridurre e rimandare. Ottenendo in questo modo il vantaggio di guadagnare altro tempo, senza fare grossi torti a nessuno e, soprattutto, mantenendo, ancora una volta, lo status quo. Un altro numero perfettamente riuscito di Bibi «The Magician».

(Avvenire, 28 giugno 2020)


*


«La proposta americana non è tutta da buttare»

A colloquio con la ricercatrice Dikla Cohen

di Fiammetta Martegani

C'è chi legge nel Piano di Trump solo vantaggi per gli israeliani e svantaggi per i palestinesi. In realtà non è, soltanto, così». Dikla Cohen, docente di Studi del Medio Oriente all'Università di Gerusalemme e ricercatrice dell'Istituto Harry S. Truman per la Promozione della Pace, ritiene che la proposta americana non sia da buttare. «È un progetto articolato, con pro e contro per gli uni e per gli altri, e potrebbe diventare tavolo di discussione».

- Quali pro e contro?
  Il vantaggio principale per Israele sarebbe il rafforzamento della sicurezza dei confini, soprattutto sul versante orientale. Per contro, lo Stato ebraico si ritroverebbe ad avere, proprio dentro questi confini rafforzati, alcune enclave palestinesi dallo status "ibrido". Il Piano non prevede infatti l'estensione della legislatura israeliana per la popolazione palestinese che verrà assorbita assieme i territori che verranno annessi, e questo costituirà un enorme problema. Per Israele e per i palestinesi. Che, però, in cambio, potrebbero ottenere come vantaggio il riconoscimento ufficiale di un proprio Stato.

- Quanto è cruciale il ruolo di Donald Trump nel processo di annessione? E quanto le annessioni sono cruciali per la carriera politica del presidente Usa?
  Trump sta giocando una partita importante e delicata: punta a costruire ponti solidi tra Israele e gli altri Paesi arabi della regione, il che comporterebbe una serie di benefici sul lungo periodo, anche per la stabilità del governo americano. Per questo parla di un processo «graduale». Un concetto che però è stato poco considerato da tutti gli interlocutori.

- Fino a che punto queste annessioni potrebbero compromettere le relazioni diplomatiche con la Giordania, partner fondamentale per lo Stato ebraico?
  Re Abdullah ha condannato in modo molto deciso i piani unilaterali di Israele. E la Lega Araba ha già adottato la risoluzione 8.522 relativa alle implicazioni che ci saranno per i circa 70.000 palestinesi che si troveranno nel "limbo", in caso di annessione. I Paesi limitrofi fanno sul serio.

- L'attuale situazione negli Stati Uniti, con l'esplosione del movimento anti -razzista e l'emergenza Covid, potrebbero rallentare tutto?
  Sì: il dirompere della pandemia e l'instabilità politica nazionale potrebbero portare la Casa Bianca a frenare sull'avvio del processo proposto, rimandando il più possibile in là.

- Cosa accadrà dunque martedì?
  Considerando anche il fatto che la proposta del premier Netanyahu dovrà tenere conto del ruolo, determinante, del ministro della Difesa Benny Gantz, suo successore nella staffetta di governo ... Gantz ha espresso fermamente la propria opposizione a estendere la legislatura israeliana in quei territori della Cisgiordania con una numerosa presenza di popolazione palestinese. Inoltre, come ministro della Difesa, teme che l'Esercito si ritrovi ad affrontare non pochi problemi legati ad un aumento di azioni di tipo terroristico. Cercherà di tutelare al massimo la sicurezza del Paese, suggerendo di procedere "per gradi". Esattamente quello che viene raccomandato anche da Washington.

(Avvenire, 28 giugno 2020)


Habibi, la nuova compagnia di Israele

Un intervento come tanti altri in una mattinata come le altre. Si preannunciava così il discorso che il direttore del Mossad Yossi Cohen si apprestava a dare circa un anno fa nel palcoscenico della Conferenza di Herzliya, occasione annuale di incontro dell'establishment politico, diplomatico e militare di Israele. Il salone per metà si era già svuotato dopo l'accesa arringa dell'allora candidato premier Benny Gantz mentre il pubblico più autorevole già si era artatamente dileguato.

di Pietro Baldelli

 
Eppure quell'occasione si rivelò differente. In un discorso estremamente inusuale per un Direttore in carica, Cohen aveva deciso di sfruttare quella rara apparizione pubblica per rivelare che sotto la sua guida il Mossad aveva rappresentato la punta di lancia della politica di avvicinamento perseguita da Israele verso i così detti Paesi arabi moderati. Rivelazione tanto inconsueta da apparire come una sorta di candidatura politica alla stampa israeliana che il giorno seguente diede eco alla notizia. Delitto arcinoto per cui non si avevano prove a sufficienza per incastrare l'esecutore materiale, ora reo confesso. Dossier gestito dai servizi di intelligence e non dal corpo diplomatico, da cui nei giorni seguenti si sollevarono inevitabili voci risentite nella più classica delle lotte intestine tra apparati. A conferma non solo dei requisiti tecnico-operativi richiesti da una tale manovra di abbordo ma ancor più del mandante ultimo di tutta l'operazione, ovvero il premier Netanyahu. Interessato a lasciare ai posteri un grande successo diplomatico, la normalizzazione dei rapporti con alcuni dei principali Paesi arabi della regione.

 Geopolitica del Coronavirus
  Uno scenario del genere è stato replicato nelle ultime settimane a causa dello scoppio della pandemia, crisi sanitaria ma grande opportunità politico-diplomatica. In un ruolo del tutto insolito infatti, il Mossad è stato investito del compito di reperire materiale medico-sanitario per la lotta alla diffusione del virus nei Paesi che non intrattengono ufficialmente relazioni diplomatiche con Israele. Non è dato sapere esattamente in quali teatri abbia agito. Tuttavia è probabile che l'attenzione sia stata rivolta ai ricchi Stati del Golfo, con capofila gli Emirati Arabi Uniti. A conferma di ciò, in una sorta di do ut des Abu Dhabi ha fatto atterrare per ben due volte degli aerei cargo della compagnia di bandiera Etihad all'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv per fornire aiuti medici alla popolazione palestinese, peraltro successivamente rifiutati dall'Autorità palestinese.

 La strategia dei Tre cerchi concentrici
  Gli eventi sopracitati si inseriscono in una cornice strategica più ampia delineata da Israele, definibile come la strategia dei 'Tre cerchi concentrici'. Questa consisterebbe nel tentativo di normalizzare le relazioni con Paesi arabi e/o a maggioranza musulmana che in passato venivano qualificati come nemici strategici o avversari ostili. Ciò significherebbe imporre una Vestfalia alle ragioni della fede, all'interno di un generale riassetto dell'equilibrio di potenza regionale in cui, in una più classica competizione tra attori conservatori e revisionisti, l'affinità di interessi trascenderà sempre più le divisioni basate sulla comune appartenenza etnico-religiosa. Il tutto in un macro-quadrante geopolitico affollato che si staglia tra Gibilterra e Malacca passando per il Mediterraneo, il Mar Rosso e l'Oceano Indiano e comprendente altri due colli di bottiglia strategici come Suez e Bab al-Mandab, oltre che il Golfo Persico e Hormuz nella sua propaggine orientale. I tre cerchi sono rappresentati da altrettante organizzazioni internazionali tra loro concatenate: il Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC), la Lega araba e l'Organizzazione della cooperazione islamica (OIC). Esse vanno a formare una matrioska tale per cui tutti gli Stati membri del GCC appartengono anche alla Lega araba, i cui membri a loro volta appartengono all'OIC. L'obiettivo finale è allargare il parterre degli attori amici nel vicino esterno da affiancare a Egitto e Giordania, ormai partner di lungo corso di Israele.
  1-GCC+ Lega Araba+ OIC à Si tratta del raggruppamento di Paesi più importanti dal punto di vista israeliano. Infatti tra di essi ci sono quelli che per decenni hanno rappresentato i suoi principali rivali strategici. Oggi interessati a un avvicinamento a Israele in primis in chiave anti-iraniana e magari, nel futuro prossimo, anche all'acquisto di sistemi d'arma (Israele ha incrementato del 77% l'export di armamenti dal periodo 2010-14 al 2015-19, dati SIPRI). Tra di essi figura innanzi tutto l'apripista Oman, visitato da Netanyahu nell'ottobre 2018 e noto per la politica di moderazione ed equidistanza del sultano Qaboos, recentemente deceduto. Poi c'è l'Arabia Saudita, di cui è utile rammentare alcuni passi significativi come l'autorizzazione al sorvolo dello spazio aereo da parte di aerei civili israeliani e la concessione dei primi visti di lavoro per cittadini arabi israeliani. Ma anche misure simboliche come la messa in onda durante il mese di Ramadan della serie tv 'Um Haroun' (racconta le vicende di una donna araba di religione ebraica) e la pubblicazione degli auguri in ebraico da parte dell'Ambasciata saudita a Washington in occasione dello scorso Rosh haShana, il capodanno ebraico. Inoltre di recente il giornale Israel Hayom ha rivelato l'esistenza di negoziati con cui gli israeliani starebbero considerando l'opportunità di un ingresso di Riad nel Jerusalem Islamic Waqf, la fondazione a guida giordana che controlla la Spianata delle Moschee, al fine di compensare la recente penetrazione della Turchia. Poi il Bahrein, paese ospitante nel giugno 2019 del Workshop di Manama in cui è stata presentata la parte economica del 'Peace to Prosperity' Plan del presidente Trump. Infine gli EAU, negli ultimi mesi capofila di tale avvicinamento, i quali hanno invitato Israele a inviare una delegazione a Expo Dubai 2021 e il cui Ambasciatore a Washington ha partecipato alla presentazione della seconda parte del piano avvenuta alla Casa Bianca lo scorso gennaio, insieme ai rappresentanti di Bahrein e Oman. Secondo l'ex premier qatariota tali Paesi in futuro potrebbero persino firmare un patto di non aggressione con Israele. Inoltre, seppure con estrema discrezione, in Libia Israele ha già iniziato una collaborazione a livello operativo con alcuni di questi attori a sostegno di Haftar.
  2-Lega Araba+OIC à In questo secondo cerchio è utile rammentare il recente avvicinamento con il Sudan, a un anno dal colpo di Stato che ha deposto il dittatore Omar al-Bashir. Infatti lo scorso febbraio Netanyahu è volato a Entebbe, Uganda, dove ha incontrato il generale Al-Buhran, presidente del Consiglio Sovrano ovvero l'organo collegiale che guida la transizione istituzionale. In quell'occasione si è raggiunta una prima intesa per l'utilizzo dello spazio aereo sudanese da parte dei voli civili israeliani.
  3-OIC à Da una parte il Ciad, Paese a maggioranza musulmana in cui l'arabo insieme al francese è lingua ufficiale. Anello di congiunzione tra il Nord Africa e l'Africa sub-sahariana, visitato nel gennaio 2019 da Netanyahu il quale ha incontrato il presidente Idriss Déby, con cui ha annunciato la prossima riapertura delle relazioni diplomatiche interrotte nel 1972. Da ultimo l'Indonesia, estremo orientale del macro-quadrante geopolitico di cui si è detto. Unico Paese non arabofono di quelli considerati ma dal grande potenziale simbolico in quanto Stato musulmano più popoloso del pianeta, da cui nel luglio dello scorso anno è partita una delegazione della camera di commercio in visita all'Israel Diamond Exchange.

 Il neo palestinese
  Unico elemento di potenziale frizione in grado di congelare il recente avvicinamento tra Israele e i suoi ex rivali è rappresentato dalla questione dell'annessione di porzioni della Cisgiordania al territorio israeliano. In una prima assoluta, l'ambasciatore emiratino a Washington Yousef al-Otaiba nell'edizione ebraica del giornale Yedioth Ahronoth ha invitato Israele a non intraprendere passi unilaterali che minerebbero la stabilità della regione. A tale messaggio è seguita la pubblicazione di un video dai contenuti simili nei social media della direttrice della comunicazione del Ministero degli Affari Esteri. Ciononostante più che una linea rossa quello pubblicato da Abu Dhabi sembrerebbe un mite consiglio di un nuovo amico che invita a non disperdere i cruciali sforzi fatti per il riavvicinamento. Gli emiratini infatti mal digerirebbero accelerazioni unilaterali del nuovo governo israeliano su questo fronte. Tanto più dopo aver fatto comprendere discretamente la loro disponibilità a negoziare sulla base del piano trumpiano, peraltro altrettanto favorevole a Israele. Così che la questione palestinese possa essere alla fine derubricata, anche da parte araba, a neo benigno che non necessiti di essere rimosso con la forza ma con cui al contrario è possibile convivere.

(Geopolitica.info, 28 giugno 2020)


Un giornalista contro Hitler

Il cattolico Fritz Gerlich fu tra i primi a cogliere il pericolo del nazismo. Arrestato, fu assassinato dopo mesi di prigionia. Ma la sua voce ci parla ancora. E ci interroga sul suolo dell'intellettuale.

di Sofia Venura

Fritz Gerlich
La notte del 30 giugno del 1934 a Dachau veniva ucciso il giornalista Fritz Gerlich. Quella data è ricordata non per la morte di Gerlich, ma per il massacro ordinato dal Führer delle ormai ingombranti SA: la Notte dei lunghi coltelli, che ebbe luogo in quelle stesse ore. Gerlich e altri protagonisti della prima resistenza al movimento nazional-socialista e al suo psicopatico leader, cominciata anni prima che questi divenisse cancelliere (1933), hanno avuto un ruolo marginale nel racconto storico del nazionalsocialismo, specialmente a fronte del carattere non solo eroico, ma anche preveggente dei loro interventi pubblici. Un carattere che ancora ci parla, che ci interroga sul ruolo dell'intellettuale nella società del proprio tempo.
  Il decennio che precedette la presa del potere di Adolf Hitler, in particolare dopo il fallito Putsch di Monaco del novembre 1923, fu animato da una incessante denuncia del carattere criminale, oltre che ideologicamente delirante, del nascente movimento hitleriano, che ebbe il suo epicentro proprio a Monaco e pose in aperto conflitto lo stesso Hitler con i suoi "detrattori". In prima linea si distinse il periodico socialista Münchener Post, i cui redattori, come ha scritto il giornalista Ron Rosenbaurn, furono i primi a «entrare in conflitto con lui [Hitler], a ridicolizzarlo, a investigare su di lui, a rendere noto lo squallido lato oscuro del suo partito, il violento comportamento criminale mascherato dalla pretesa di apparire solo come un movimento politico. Essi furono i primi a tentare di segnalare al mondo la natura della rozza bestia che si stava avvicinando a Berlino».
  Fritz Gerlich non era socialista. Durante la Prima guerra mondiale non nascose le sue preferenze nazionaliste e pangermaniste, dalle quali si allontanò successivamente pur rimando nell'area conservatrice. Convintamente anticomunista, nel 1920 pubblicò, spinto dalle sue convinzioni intellettuali e dalla sua militanza contro l'esperienza della Repubblica Sovietica Bavarese (1919), un volume dedicato al comunismo, del quale fu tra i primi a cogliere i tratti pseudo-religiosi, millenaristici; una chiave di lettura che avrebbe poi esteso al nazional-socialismo. In quello stesso saggio dedicò un capitolo all'antisemitismo, da lui risolutamente avversato (una posizione non scontata tra i conservatori tedeschi dell'epoca), contestando l'idea di una origine giudaica del bolscevismo. Calvinista, all'inizio degli anni Trenta si convertì al cattolicesimo dopo aver conosciuto, nel 1927, la mistica Teresa Neumann. Se l'incontro con questo controverso personaggio fornì una nuova spinta e un nuovo coraggio a Gerlich e al gruppo di persone che con lui si erano riunite attorno alla mistica con le stigmate, la consapevolezza del pericolo rappresentato da Hitler fu ben precedente, innescata dal Putsch del '23, del quale Gerlich era stato diretto testimone e che costituì per lui un'illuminazione. Scriveva infatti nel febbraio 1924: «La Storia ci ha proiettati al limite del caos e noi abbiamo ora la scelta. Possiamo sia saltare nell'abisso sia con coraggio e fede, saltare dall'altra parte. L'abisso è il partito nazionalsocialista di Hitler, il partito dell'intolleranza e dell'odio, delle dissimulazioni e delle false speranze, una miniera di assurdità e di pure menzogne. È [Hitler] un agitatore, che crede di poter soffocare la nostra ragione. Ciò che di peggio possiamo fare, il peggio di tutto, sarebbe di non fare nulla contro Herr Hitler».
  Le sue campagne furono condotte prima sul principale giornale della Baviera, il conservatore Münchner Neueste Nachrichten, del quale fu direttore responsabile, e poi del quale fu editore e direttore. Di Hitler mise continuamente in evidenza il profilo patologico e oscuro, e del suo movimento la natura violenta e delinquenziale. La consapevolezza di ciò, insieme alla sua convinzione della qualità pseudo-religiosa del movimento hitleriano, gli consentì, come ha osservato lo storico Rudolf Morsey, di comprendere, dopo che, nei primi anni Trenta, il partito nazionalsocialista si era trasformato in una forza significativa nel Reichstag, il pericolo fatale insito in ogni tentativo di alleanza. Di comprendere come ogni tentativo di "domare" i nazisti coinvolgendoli in coalizioni - tentativo che trovava sostegno anche in ambienti cattolici - fosse destinato a portare la Germania al disastro. «Mostrarsi accomodanti verso demagoghi, eccitatori dell'isteria delle masse», scriveva nel febbraio del 1932, «conduce soltanto all'opposto di ciò a cui porta l'accordo con persone normali e per bene ( ... ). La politica nazionalsocialista conosce una sola cosa, le tattiche per ottenere il potere». I fatti di lì a poco gli avrebbero dato ragione. Così come gli eventi di non molti anni dopo, previsti già nel 1931: «Il nazionalsocialismo significa inimicizia con i nostri vicini, tirannia, guerra civile, guerra mondiale».
  Come i giornalisti del Münchener Post, Gerlich cercò di minare alla base le mistificazioni storiche della propaganda nazista, a partire dall'attribuzione della colpa del trattato di Versailles ai partiti politici, piuttosto che al governo imperiale. Ma il suo tentativo di svelamento dell'impostura nazista fu anche più sottile e provocatorio, andando al cuore delle sue teorie razziali. Come nell'articolo pubblicato da Der gerade Weg il 17 luglio 1932, dove sotto il titolo «Hitler ha sangue mongolo?», si sviluppava un lungo testo satirico che partendo dal «naso di Hitler» - illustrato in numerose immagini - e utilizzando le stesse teorie razziali, ne metteva in evidenza le assurdità e le contraddizioni. Dal carattere tutt'altro che "ariano" della fisionomia del leader nazionalsocialista. Gerlich giungeva a scoprire la sua vicinanza con i tratti mongoli, forse volendo anche evocare una alterità che richiamasse una delle ossessioni di Hitler, ovvero la sua possibile ascendenza ebraica, per attribuirgli poi - sempre seguendo le teorie nazionalsocialiste che legavano alle appartenenze "razziali" anche l'indole spirituale - l'indole asiatica, del dispotismo orientale, che questo capo dal sangue "bastardo" frutto di millenarie migrazioni voleva ora importare nella civile Germania. Quell'articolo, che toccava così profondamente il tormento di Hitler per la propria immagine e il suo controllo, costituì probabilmente la condanna a morte di Gerlich, arrestato nel marzo del 1933 e assassinato dopo sedici mesi di prigionia.
  Ci si potrebbe domandare a cosa servirono questo e altri comportamenti eroici, la testarda volontà di mostrare al pubblico tedesco ciò che l'acuta analisi del presente rendeva evidente alla propria mente, visto ciò che accadde in seguito. Per quegli uomini di allora la domanda forse non avrebbe senso, poiché, che sia la legge morale kantiana o la natura trascendente dell'obbligo di compiere il bene, in alcune donne e uomini la scelta è moralmente obbligata. Ma anche volendo riflettere più prosaicamente, l'esito della crisi tedesca di allora fu inevitabile? Qui si potrebbe aprire una discussione senza fine, tra chi vede il farsi della storia come il procedere di forze sulle quali l'uomo non ha controllo e chi crede che le scelte compiute, accumulandosi o rappresentando delle svolte cruciali, possano produrre nuovi percorsi. Il politologo Juan Linz, nella sua analisi sul crollo dei regimi democratici tra le due guerre (curata insieme ad Alfred Stepan, "The Breakdown of Democratic Regimes", 1979), aveva sostenuto che accanto a variabili sociali, economiche e culturali in grado di affrettare il crollo finale, aveva svolto un ruolo cruciale il processo storico-politico, con le scelte e i comportamenti dei leader e di altri protagonisti, ad esempio relativamente alla tolleranza o meno della violenza politica o alle strategie verso le opposizioni antidemocratiche. Se così è, allora non è indifferente la voce di quanti agiscono sulla scena pubblica, intellettuali (giornalisti, studiosi, politici) compresi. Scriveva lo stesso Gerlich insieme a Padre Ingebert Naab nel 1931: «( ... ) dovesse questa orribile catastrofe [la presa del potere nazional-socialisti] abbattersi su di noi, allora dovremo ammettere che gli intellettuali portano un'ampia parte di colpa. Essa potrà realizzarsi solo se ci comportiamo in modo miope e superficiale, o dimostriamo assenza di carattere e uno spirito cristiano solo di facciata». Queste parole recano un monito senza tempo, che diventa vero e potente ogni qual volta il funzionamento dei sistemi democratici entra in affanno e si presentano sulla scena attori individuali e collettivi, pretese, soluzioni che platealmente o sottilmente, sotto più o meno mentite spoglie, sfidano valori, regole e comportamenti, non solo formali, ma anche di sostanza, necessari alla democrazia e al suo corretto funzionamento. Allora la parola pubblica, con il suo carico di dubbi ma l'integrità e l'intelligenza della sua analisi, diventa essenziale. E figure come quella di Fritz Gerlich, figura estrema in una situazione estrema, possono divenire un modello anche nelle nostre democrazie oggi in difficoltà, dove i rischi che si corrono svelando la nudità dei re sono infinitamente minori e nella maggior parte dei casi comportano al più la compromissione di brillanti carriere. Un modello anche per misurare lo stato del nostro ceto intellettuale, che interseca oggi un mondo dove l'attività intellettuale da vocazione è sempre più diventata un mestiere e la parola pubblica e l'opinione si sono via via trasformate in prodotti in un mercato di performance. Fritz Gerlich e gli uomini e le donne come lui continuano a parlarci perché se invece che ipocritamente emozionarci alle loro vicende li ascoltiamo con attenzione, sono lì per dirci chi siamo e cosa forse dovremmo piuttosto sforzarci di essere.

(L'Espresso, 28 giugno 2020)


La voglia di libertà degli ebrei e le inconfessate cause dell'antisemitismo

di Ugo Volli

Che l'antisemitismo sia diffuso oggi come cento o cento cinquant'anni fa è un dato di fatto purtroppo accertato. Tutti ce ne lamentiamo, ma facciamo poco per comprendere le ragioni di questa nuova epidemia. L'aspetto più significativo è che oggi di nuovo l'antisemitismo non è solo un vizio dell'estrema destra e dei cristiani più reazionari, ma è diffuso largamente anche nel mondo islamico e nella sinistra che la appoggia. E' ritornato insomma quell'odio "progressista" contro gli ebrei che nel 1893 August Babel chiamò "il socialismo degli imbecilli". Ma l'idiozia non è una spiegazione sufficiente per l'antisemitismo e neppure l'odio lo è. Ci sono motivi storici, sociali e psicologici per esso, e pretesti che li coprono. Questi ultimi sono stati a lungo tratti dalle religioni (il "deicidio", la "profanazione delle ostie", l'infanticidio "rituale", in ambito islamico il "tradimento" di Maometto e dei profeti, il "cosmopolitismo"), poi dall'economia (l'equivalenza di ebraismo e capitalismo teorizzata da Marx ma poi anche da Hitler), e dalla "razza". Da decenni il pretesto è la "difesa dei palestinesi", che non è vero interesse per gli arabi della regione, ma solo odio appena travestito per lo stato degli ebrei. Ma la ragione vera e assai costante è stata sempre un'altra: l'attaccamento degli ebrei alla loro identità, il rifiuto di inchinarsi alle altre culture, l'essere rimasti "ostinatamente" se stessi. Questo naturalmente per la parte del popolo ebraico che non è sparita, inghiottita fra i cristiani, i musulmani, i marxisti, le varie nazionalità, il progressismo di moda.
Oggi negli Usa ma non solo, gli ebrei vengono condannati in quanto "bianchi", "occidentali", "suprematisti", oltre che naturalmente come sionisti. Il che significa semplicemente che non sono disposti a inginocchiarsi alla religione terzomondista del "Black lives matter" (come se le altre vite non contassero), dell'antiamericanismo e dell'anticapitalismo; né vogliono passare alla sottomissione (questo significa Islam).
Noi ebrei vogliamo essere liberi, soggetti solo alla Legge (che è libertà, come spiega il Talmud) e al suo Creatore. Vogliamo continuare a essere noi stessi nella nostra patria. Dato che questa è la nostra vera colpa, meglio confessarla e non cercare compromessi con l'ultimo antisemitismo alla moda. Passerà anch'esso, se non ci tradiamo da soli.

(Shalom, 28 giugno 2020)


Sicumera un po’ ardita, quella dell’autore: presumere di aver trovato la causa profonda e costante dell’antisemitismo, al di là delle varie forme storiche in cui si presenta. Che sarebbe: “l'attaccamento degli ebrei alla loro identità, il rifiuto di inchinarsi alle altre culture, l'essere rimasti "ostinatamente" se stessi”. Si possono immaginare le domande, provenienti anche dagli stessi ebrei, Quale identità? Se si prova a definirla, la descrizione che se ne fa implode in mille forme. “Ostinatamente se stessi”? Quali “se stessi”? Chi sa dire qual è il “vero” ebreo fedele a se stesso? C’è poi “il rifiuto di inchinarsi alle altre culture”, e questo è un dato di fatto storico, ma quale ne è il motivo? L’autore indica “la Legge”, ma probabilmente sa bene che per una parte non piccola di ebrei l’interpretazione “autentica” di questa Legge lo porrebbe fuori dal numero dei “veri ebrei”. Allora fa riferimento al Talmud, secondo cui la Legge è “libertà”. E qui arriviamo al punto: la libertà, il concetto più sottolineato oggi nella cultura occidentale. Dov’è allora la peculiarità? Resta la “nostra patria”, questa sì, questa è una vera peculiarità, perché Israele è un unicum di cui non si trova simile da nessun’altra parte del mondo. Ma resta l’interrogativo? Chi è Israele? Perché si odia Israele più di quanto si detestino gli ebrei? Forse perché parlano di patria? Ma non sono i fascisti a insistere sul concetto di patria? L’enigma rimane, secondo quest’ottica. Ma non secondo l’ottica biblica, è bene dirlo. M.C.



Negli ultimi giorni verranno tempi difficili

Seconda lettera di Paolo a Timoteo

Capitolo 3
  1. Or sappi questo: che negli ultimi giorni verranno dei tempi difficili;
  2. perché gli uomini saranno egoisti, amanti del denaro, vanagloriosi, superbi, bestemmiatori, disubbidienti ai genitori, ingrati, irreligiosi,
  3. senza affezione naturale, mancatori di fede, calunniatori, intemperanti, spietati, senza amore per il bene,
  4. traditori, temerari, gonfi, amanti del piacere anziché di Dio,
  5. avendo le forme della pietà, ma avendone rinnegata la potenza.
  6. Anche costoro schiva! Poiché del numero di costoro sono quelli che s'insinuano nelle case e cattivano donnicciuole cariche di peccati, e agitate da varie cupidigie,
  7. che imparano sempre e non possono mai pervenire alla conoscenza della verità.
  8. E come Jannè e Iambrè contrastarono a Mosè, così anche costoro contrastano alla verità: uomini corrotti di mente, riprovati quanto alla fede.
  9. Ma non andranno più oltre, perché la loro stoltezza sarà manifesta a tutti, come fu quella di quegli uomini.
  10. Quanto a te, tu hai tenuto dietro al mio insegnamento, alla mia condotta, ai miei propositi, alla mia fede, alla mia pazienza, al mio amore, alla mia costanza,
  11. alle mie persecuzioni, alle mie sofferenze, a quel che mi avvenne ad Antiochia, ad Iconio ed a Listra. Sai quali persecuzioni ho sopportato; e il Signore mi ha liberato da tutte.
  12. E d'altronde tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati;
  13. mentre i malvagi e gli impostori andranno di male in peggio, seducendo ed essendo sedotti.
  14. Ma tu persevera nelle cose che hai imparate e delle quali sei stato accertato, sapendo da chi le hai imparate,
  15. e che fin da fanciullo hai avuto conoscenza degli Scritti sacri, i quali possono renderti savio a salute mediante la fede che è in Cristo Gesù.
  16. Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile ad insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia,
  17. affinché l'uomo di Dio sia compiuto, appieno fornito per ogni opera buona.

Capitolo 4
  1. Io te ne scongiuro nel cospetto di Dio e di Cristo Gesù che ha da giudicare i vivi e i morti, e per la sua apparizione e per il suo regno:
  2. Predica la Parola, insisti a tempo e fuor di tempo, riprendi, sgrida, esorta con grande pazienza e sempre istruendo.
  3. Perché verrà il tempo che non sopporteranno la sana dottrina; ma per prurito d'udire si accumuleranno dottori secondo le loro proprie voglie
  4. e distoglieranno le orecchie dalla verità e si volgeranno alle favole.
  5. Ma tu sii vigilante in ogni cosa, soffri afflizioni, fa' l'opera d'evangelista, compi tutti i doveri del tuo ministero.
   --> Predicazione
Marcello Cicchese
luglio 2015



 

Tel Aviv si prepara ad una grande estate

Dopo l'emergenza sanitaria anche a Tel Aviv riaprono aeroporti, locali e spiagge.

di Gabriele Laganà

 
Tel Aviv
Tel Aviv è ormai pronta a ripartire: la vivace città israeliana, riconosciuta a livello internazionale come una delle mete più trendy, vuole richiamare i turisti da ogni angolo del mondo per mettere da parte l'incubo del coronavirus.
  Per questo la metropoli punterà tutto sui tesori che la caratterizzano; tra questi spiccano le deliziose spiagge che si affacciano sul Mediterraneo, la straordinaria cucina che stuzzica il palato e arricchisce lo spirito e l'eccezionale patrimonio architettonico. Proprio in questi giorni è in atto la graduale riapertura dell'aeroporto internazionale Ben Gurion. Inoltre, la Municipalità ha dato il via ad una nuova politica per una ripartenza delle attività in tutta sicurezza per far sì che la città ritorni il prima possibile alla sua normalità.

 Le riaperture
  Fino ad ora Israele ha sancito la riapertura dei parchi e delle riserve naturali, per dare un primo slancio a un'industria turistica colpita in modo significativo dall'emergenza sanitaria. Ora tocca a Tel Aviv, che ha deciso di riaprire ristoranti e bar. Una mossa non casuale, visto che la località vanta una incredibile scena culinaria. A molti locali è stata concessa l'occupazione gratuita del suolo pubblico, mentre oltre 1.000 sedie e ombrelloni sono stati installati nelle aree centrali della città per incentivare il consumo da asporto, così da evitare grandi assembramenti. La riapertura coinvolge anche i mercati della città.

 In spiaggia in sicurezza
  L'estate sarà, per quanto possibile, normale. La Municipalità, di concerto con il Ministero della Salute, ha deciso che quest'anno ci sarà una regolare stagione balneare tanto che già quasi tutte i lidi sono state riaperti. Tel Aviv gode di 13,5 km di spiagge ed accoglie una media di 9 milioni di bagnanti ogni stagione. I cittadini potranno stendersi al sole e fare una nuotata in tutta sicurezza grazie a un regolamento anti-coronavirus, che prevede il mantenimento del distanziamento sociale ed una continua sanificazione delle strutture.
«Il ritorno alla vitalità e all'aggregazione, in sicurezza, è già in atto da tempo per Tel Aviv, la città che non dorme mai: è pronta per rivivere la sua essenza di non-stop city nel rispetto del normative previste», - ha dichiarato Avital Kozter Adari, direttore dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo. - «Spiagge riorganizzate, locali ed esercizi la cui logistica è stata riadattata, norme igieniche e di distanziamento applicate a musei, tour ed attrazioni; con grande perizia ed accuratezza la città si è adoperata per tornare alla normalità ed accogliere turisti e visitatori dal resto del Paese e soprattutto dall'estero, all'insegna dell'ospitalità israeliana, ma anche della quintessenza della modernità e della filosofia on the move della città.»
 Nuovi hotel
  Non solo ri-aperture post emergenza corona virus: quest'anno sono previste le inaugurazioni di nuovi hotel. Fra questi, il Soho House, prima apertura in Medio Oriente per la prestigiosa catena alberghiera; il Nobu, una struttura di design su Rothschild Boulevard con 38 camere e terrazzo privato; l'Hotel Bobo, l'ultima creazione del brand israeliano Brown Hotels; il Selina, che porterà in città la sua formula ibrida tra hotel e ostello.

 Visita virtuale
  Continua, nel frattempo, l'opportunità per chi vuole visitare Tel Aviv anche solo virtualmente. Sul sito ufficiale della municipalità, infatti, sono ancora disponibili i tour virtuali del Tel Aviv Museum of Art e del Museo di Beit Hatfutsot; è possibile usufruire anche di alcune lezioni gratuite della Tel Aviv University.

(Latitudes, 27 giugno 2020)


Hamas tra minacce a parole e prudenza. L'obiettivo è la tregua con Israele

Da Gaza il movimento islamico fa la voce grossa ma mantiene un basso profilo sul piano per la Cisgiordania che si prepara ad attuare Netanyahu.

«L'annessione che Israele progetta in Cisgiordania è una dichiarazione di guerra». Ha fatto la voce grossa l'altro giorno Abu Obeida, responsabile per i rapporti con i media delle Brigate Ezzedin al Qassam, l'ala militare di Hamas. Parole alle quali ha subito reagito il ministro della difesa israeliano Benny Gantz. «Israele non accetta minacce. Ricordo ai leader di Hamas che saranno loro i primi a pagare per qualsiasi aggressione», ha avvertito Gantz. Ma dietro le parole infuocate di Abu Obeida c'è davvero Hamas pronto anche ad usare le armi pur di fermare l'annessione a Israele di porzioni di Cisgiordania? I dubbi sono forti.
   In queste ultime settimane non è sfuggito il basso profilo mantenuto sull'annessione dal movimento islamico che controlla Gaza dal 2007 e che da allora è impegnato in uno scontro senza esclusione di colpi con il partito Fatah, spina dorsale dell'Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen. Di tanto in tanto leader e portavoce di Hamas hanno condannato con forza il piano israeliano. E hanno applaudito alla decisione presa da Abu Mazen di interrompere i rapporti con Israele e Stati uniti. Non sono andati molto oltre, lasciando intendere che, pur sostenendo la lotta dei «fratelli palestinesi» in Cisgiordania, l'organizzazione manterrà una posizione più defilata ma pronta ad intervenire.
   «Ciò non deve sorprenderci» ci dice l'analista Ghassan al Khatib, docente di scienze politiche all'università di Bir Zeit. «Ci sono diverse ragioni che spiegano questa posizione cauta», aggiunge Khatib, «Hamas è una organizzazione islamista e solo vagamente anche nazionalista. Perciò guarda al territorio nel suo insieme, teorizza la liberazione di tutta la Palestina e nell'arco della sua esistenza (dal 1987 a oggi, ndr) ha avuto posizioni fluttuanti sull'idea di uno Stato palestinese solo nei Territori occupati da Israele nel 1967, anche solo a scopo tattico».
   La soluzione a Due Stati (Israele e Palestina), prosegue l'analista, «appartiene all'Anp, all'Olp, ad Abu Mazen, a Fatah e ad altre forze politiche, non ad Hamas che l'ha respinta assieme agli accordi di Oslo del 1993». Secondo Khatib il movimento islamico in questa fase è interessato più di ogni altra cosa «a rafforzare il suo controllo di Gaza e a stabilizzare le condizioni di vita dei (due milioni di) palestinesi che vi vivono».
   Secondo un'opinione diffusa proprio i problemi umanitari a Gaza sono tra i motivi che inducono Hamas a una linea prudente. «La nostra gente condanna Israele e sostiene la lotta contro i suoi piani in Cisgiordania. Però è anche esausta dopo tre offensive militari israeliane negli ultimi 12 anni. Non c'è lavoro, la povertà estrema è in aumento e il coronavirus ha complicato tutto. Migliaia di famiglie sopravvivono grazie agli aiuti che arrivano dal Qatar. Hamas sa che Gaza non è in grado di sopportare le conseguenze di un'altra guerra», ci dice Aziz Kahlout, un giornalista di Gaza che, per le ragioni citate, tende ad escludere che i leader islamisti «possano ordinare alle cellule in Cisgiordania di attivarsi in un confronto armato prolungato con Israele e dare il via a lanci di razzi (da Gaza)».
   E ricorda che Hamas resta sempre impegnato in un negoziato indiretto, attraverso l'Egitto, con Israele per il raggiungimento di una tregua a lungo termine e per uno scambio di prigionieri che, se dovesse concretizzarsi, rafforzerebbe la sua immagine e il suo programma tra i palestinesi.

(il manifesto, 27 giugno 2020)


La strage di Ustica quarant'anni dopo. Rispunta la pista dell'attentato palestinese

Rivelati i telegrammi inviati al Sismi dal colonnello Stefano Giovannone che allora era a capo del servizi segreti Italiani a Beirut .


di Francesco Grignetti

Il disastro
Il volo ltavia IH-870 sparisce dai radar un minuto prima delle 21 del 27 giugno 1980 mentre volava tra Ponza e Ustica diretto a Palermo
La scatola nera
I dati estratti dalla scatola nera recuperata dimostrarono la perfetta efficienza di ogni sistema dell'aereo prima del! disastro
La rivendicazione
Il giorno dopo la tragedia, con una telefonata anonima, attribuita ai terroristi di destra dei Nar, viene rivendicato l'abbattimento dell'aereo
Le prime indagini
Il giudice Rosario Priore inizia l'indagine, ma nel 1999 si conclude con un non luogo a procedere perché restavano «ignoti gli autori della strage
Il processo per depistaggio Iniziato nel 2000 si conclude 4 anni dopo. Due generali vengono assolti e altri due ritenuti colpevoli furono assolti per «intervenuta prescrizione» L'ipotesi francese
L'ex presidente Cossiga nel 2007 dichiara che ad abbattere l'aereo era stato un missile francese. Nel 2008 viene aperta un'altra inchiesta

 
ROMA - Ventisette giugno 1980, quarant'anni fa. Alle ore 20:59 precipita in mare il Dc9 della compagnia ltavia, in volo di linea da Bologna a Palermo, con 77 passeggeri e 4 membri dell'equipaggio. Non si salva nessuno. È la Strage di Ustica di cui, ancora oggi, non conosciamo i colpevoli. Ventisette giugno 1980, sempre quarant'anni fa. Alle ore 10 del mattino, la sede centrale del Sismi riceve un allarme rosso dal Libano: «Habet informazioni tarda sera. L 'Fplp avrebbe deciso di riprendere totale libertà di azione senza dare corso ulteriori contatti a seguito mancato accoglimento sollecito».
   Comincia cosi un telegramma cifrato che per decenni è stato coperto da segreto di Stato, inaccessibile a chiunque, magistrati compresi, e che solo dal 2014 è stato parzialmente declassificato. Attualmente vi è apposto il timbro di «segretissimo». Non è dato sapere se i magistrati di Roma, che tuttora indagano sulla Strage di Ustica, lo abbiano avuto in visione. Di sicuro nel 2016 lo hanno letto i membri della Commissione Moro II, ma senza possibilità di fotocopiarlo, e con divieto assoluto di divulgazione.
   Da allora, su questo documento che La Stampa è finalmente in grado di raccontare, destra e sinistra, cristallizzati in «partito della bomba» e «partito del missile», hanno preso a litigare ferocemente. Sempre per allusioni, ovvio, dato che non gli è possibile tirarlo fuori. Ma è zuffa continua. Perché l'allarme del Sismi, arrivato a Roma poche ore prima del disastro aereo, è oggettivamente inquietante. E rilancerebbe la tesi dell'attentato ad opera di una frangia filolibica del terrorismo palestinese.
   Il telegramma, firmato dal colonnello Stefano Giovannone, l'ottimo capocentro del Sismi che da Beirut copriva l'intero Medi Oriente e si era meritato nel Sismi il nomignolo di Maestro, era l'ultimo di una serie sempre più angosciata. In quei mesi, per via di una storia di missili palestinesi sequestrati in Abruzzo, a Ortona, l'intelligence italiana aveva dovuto sostenere l'urto delle minacce da parte dell'Fplp, l'organizzazione palestinese di fede marxista.
   Il governo italiano aveva promesso che avrebbe trovato un accomodamento. Che il processo in corso sarebbe stato «aggiustato» e che quanto prima sarebbe stato rimesso in libertà il referente in Italia dell'Fplp, tale Abu Anzeh Saleh. Le cose però non erano andate cosi. E nonostante le loro pretese di uno spostamento del processo e le promesse del nostro governo, all'Aquila l'appello era ripreso il 17 giugno.
   A questo punto quelli dell'Fplp erano furibondi. C'era un'ala estremista che volevano passare all'azione ed era sempre più faticosamente contenuta dal leader George Habbash. Nel 1973 aveva sottoscritto anche lui, dopo Arafat, il Lodo Moro che avrebbe dovuto tenerci al riparo da attentati. Ma nel giugno 1980 faceva sapere di non essere in grado di tenere i suoi. «Se il processo dovesse avere luogo e concludersi in senso sfavorevole- scriveva Giovannone - mi attendo reazioni particolarmente gravi in quanto Fplp ritiene essere stato ingannato e non garantisco sicurezza personale ambasciata Beirut».
   Impressionante è la sequenza. Nove giorni prima del 27 giugno, Giovannone aveva inviato un altro allarmatissimo telegramma cifrato: «Non si può più fare affidamento sulla sospensione delle operazioni terroristiche in Italia e contro interessi e cittadini italiani decisa dall'Fplp nel 1973, e si può ipotizzare una situazione di pericolo a breve scadenza».
   Aveva saputo anche di più: «Fonte fiduciaria indica due operazioni da condurre in alternativa contro obiettivi italiani: 1) dirottamento di un Dc9 Alitalia, 2) occupazione di una Ambasciata».
   La soffiata, insomma, riguardava un Dc9 di linea. Ma lo 007 era troppo avvertito per credervi appieno. «Non si può escludere che la notizia sia stata diffusa allo scopo di coprire i reali obiettivi e luoghi delle suddette operazioni». Allo stesso tempo avvisava che l'Olp non poteva più garantire per l'Fplp «attualmente controllato da esponenti filo libici». E infine c'era il timore che facessero «ugualmente le azioni minacciate utilizzando elementi estranei».
   Fin qui le carte del 1980. Capire che cosa significhino spetta alla magistratura. Per il «partito della bomba» e il "partito del missile», però, è più naturale accusarsi a vicenda di depistaggio.

(La Stampa, 27 giugno 2020)


Terroristi a scuola dai terroristi

Erano i leader delle Br tedesche che 50 anni fa andarono ad addestrarsi dai palestinesi. Dal 1970 al '93 le loro vittime in Germania furono 33.

di Roberto Giardina

BERLINO - Esattamente 50 anni fa, nel giugno del 1970, Ulrike, Andreas, Gun e Horst partirono da Berlino per andare a scuola di terrorismo in un campo palestinese in Giordania. Un viaggio grottesco, e dalle conseguenze tragiche. Io non getto mai un libro, anche se non serve più a nulla e, a volte, non l'ho nemmeno letto.
   Devo avere ancora da qualche parte il manuale di guerriglia urbana dei tupamaros pubblicato da Feltrinelli intorno al '68. Lo sfogliai, saltai le istruzioni su come fabbricare una molotov, ma quando lessi il consiglio di gettarla contro una porta di legno e non contro un muro, se si desiderava che prendesse fuoco, lasciai perdere. Il manuale per la guerriglia in Nicaragua non era adatto ai giovani europei.
   Per questo, giudicai male i tupamaros West Berlin. Ragazzi senza cervello. Diagnosi esatta ma sbagliai a sottovalutarli. Erano una quindicina, tentarono un attentato alla sinagoga della Fasanenstrasse, ma la molotov fece cilecca. Sotto accusa, all'epoca, finirono i neonazi. Dai tupamaros, in parte, nacque la Rote Armée Fraktion, il gruppo terroristico che per anni tenne in scacco la Germania. Dal 1970 al 1993, le loro vittime furono 33.
   II 2 aprile del '68, Andreas Baader fece scoppiare una bomba incendiaria in un grande magazzino di Francoforte, di notte per non provocare vittime, per protesta contro le bombe al napalm usate dagli americani in Vietnam. Venne condannato a quattro anni. Per scrivere un saggio sulla protesta giovanile, il 14 maggio del '70, ebbe un permesso per compiere ricerche in una biblioteca di Berlino. I compagni lo fecero evadere, e nell'azione uccisero un guardiano.
   Dove nascondersi a Berlino Ovest, che era una gabbia ai tempi del Muro? Decisero di passare dall'altra parte. E i comunisti proteggevano i terroristi per creare problemi alla Germania capitalista. Il primo a passare l'8 giugno, con sei compagni, è Horst Mahler, l'avvocato della contestazione. La Stasi, la polizia segreta dell'Est, li scorta all'aeroporto di Schönefeld, e volano a Beirut. Nel Libano sono meno accoglienti. Irritato, Mahler va a protestare all'ambasciata della Ddr. Ma si sbaglia e va a quella della Germania Ovest. Così ora tutti sanno dove sono finiti i terroristi di Berlino. Sempre che non lo sapessero già.
   Il 22 giugno passano Andreas Baader, Ulrike Meinhof e Grudrun Esslin. Andreas frequentava la casa di Hans Magnus Enzesberger a Berlino, e quella di Günter Grass, che su di lui scrisse nel '69 il romanzo Anestesia locale. Il protagonista vuole bruciare vivo un bassotto innanzi alle signore sedute al caffè del Kempinski per dimostrare cos'è il napalm.
   Ulrike è la giornalista di punta dell'epoca, come se in clandestinità fosse finita Oriana Fallaci. Il padre di Gudrun è un pastore luterano, amico di Gustav Heinemann, eletto nel '69 presidente della Repubblica. Ulrike e Gudrun si tingono i capelli di nero per farsi passare da arabe. Travestimento comico. Dal Libano e dalla Siria il gruppo, in tutto una ventina, arriva infine in Giordania. E cominciano i problemi. Baader non accetta consigli, è lui a voler spiegare ai palestinesi come si combatte. Le donne danno scandalo. L'addestramento previsto per sei mesi, si conclude in agosto. Tornano a Berlino Est, e passano all'Ovest, sempre senza controlli.
   Andreas ha 27 anni, Gudrun 30, Horst 34, Ulrike la più anziana 36. All'inizio, la loro protesta è contro i padri, complici del nazismo, contro la Germania che si riarma ed è complice degli imperialisti americani. Eppure si alleano con i palestinesi, e sono antisemiti. A sopravvivere agli anni del terrorismo sarà solo Horst Mahler, perché finisce subito in galera, condannato a 14 anni, ne sconta dieci, e quando esce milita con l'Npd, il partito neonazista. Quando proposi al mio giornale di allora un articolo per raccontare chi fossero quei giovani terroristi di Berlino, mi risposero di no: era un fenomeno tipicamente tedesco che non sarebbe mai stato possibile in Italia.

(ItaliaOggi, 27 giugno 2020)


La diaspora degli ebrei è scritta in cartolina

Dai samaritani «vestiti come arabi» ai cappelli di pelliccia dei chassidim, un percorso di identità e integrazioni ricostruito attraverso i «souvenir postali».

di Marco Filoni

Esiste una categoria di oggetti rari, anzi rarissimi, che sono contemporanei di un'epoca. Appaiono in un particolare momento storico e lo caratterizzano - sviluppando una relazione di straordinaria prossimità con l'epoca in cui sono stati creati. Un'attualità, nel vero senso della parola. Fra questi oggetti rarissimi annoveriamo le cartoline. Le quali, tra la fine del Diciannovesimo e i primi decenni del Ventesimo secolo, hanno brillato d'attualità.
   E soltanto a un altrettanto «rarissimo» studioso come Gian Mario Cazzaniga poteva venire in mente di scrivere una storia dell'ebraismo a partire da una collezione di cartoline. Rarissimo, già, perché Cazzaniga scrive poco, ma quando lo fa è poi difficile aggiungere alcunché. E perché il tema di cui si occupa è di quelli che spaventano anche i più audaci: come recitano titolo e sottotitolo, il volume è dedicato alle Diaspore. Storia degli ebrei nel mondo attraverso una collezione di cartoline. E anche se l'arco temporale trattato è quello relegato al periodo di sviluppo e diffusione delle cartoline, ciò che sottende ogni diaspora, ogni storia, ogni insediamento geografico è la complessa storia millenaria dell'ebraismo. Insomma, Cazzaniga in queste pagine tanto colte quanto piacevoli alla lettura ha l'indubbio merito di districare una vorticosa ridda di tracce, genealogie, storie; e lo fa mescolando il rigore della filologia e della storiografia al diletto della curiosità.
   Iniziamo dalla collezione di cartoline dell'autore, tutte a tema ebraico (in particolare, vedremo, dedicate ai costumi e ai luoghi di culto). Le cartoline in generale sono state un importante strumento di comunicazione e di diffusione delle immagini: nate intorno al 1870, hanno poi goduto della massima popolarità fra il 1890 e il 1920. Ora, lo stesso vale per il mondo ebraico, anzi forse ancor di più: in mancanza di una loro terra stabile gli ebrei misero su casa nei loro libri - e la forma scritta, la via narrativa per la conservazione della memoria (l'Haggadàh) trova anche nelle cartoline una sua testimonianza. La storia dell'ebraismo e delle molteplici diaspore è una pluralità di identità culturali, nate da convivenze secolari con altre culture; così Cazzaniga ci mostra come le cartoline possano essere usate per illustrare e raccontare queste forme storiche e geo culturali di identità ebraica, ma anche di come queste venivano viste e lette dalle comunità ospitanti (essendo gli editori di queste cartoline sia ebrei sia gentili) - almeno sino al XX secolo, quando le convivenze furono tragicamente spazzate via, in particolare nel mondo sunnita e in alcuni paesi dell'Europa centro-orientale.
   Per dar conto della molteplicità di identità che emergono da questa collezione di cartoline, Cazzaniga deve necessariamente ripercorrere la trimillenaria storia dell'ebraismo, segnata periodicamente da episodi diasporici. Individua perciò tre poli: il primo è quello dell'impero persiano, dove già fra !'VIII e il VI secolo a.C. vi si ritrovano insediamenti ebraici, tanto che le accademie (yeshivòt) mesopotamiche costituiranno per più di mille anni il centro spirituale dell'ebraismo mondiale, da cui si dirameranno altre diaspore seguendo le vie della seta, fino all'India e alla Cina; un secondo polo è quello occidentale del califfato, con una presenza nei paesi mediterranei meridionali, Levante, Anatolia e Balcani, dove gli insediamenti ebraici (prima grecofoni, poi arabofoni, infine ispanofoni) datano almeno a partire dal III secolo a. C. (con più antiche presenze in Egitto, Nubia e successivamente anche in Etiopia); terzo e ultimo polo è quello europeo, prima pagano poi cristiano (con secoli di dominio islamico nei paesi iberici e balcanici), dove gli insediamenti ebraici risalgono sulle coste mediterranee già a partire dalla fine della repubblica romana (fra il II e il I secolo a.C.) e poi, dopo il XIV secolo, con un'espansione verso Oriente.
   La ricchezza e la diversità di queste lunghe vicende si ritrovano nelle cartoline che Cazzaniga mostra, privilegiando due aspetti: l'abbigliamento e gli ornamenti da un lato; le sinagoghe e i loro arredi dall'altro. Partiamo dall'abbigliamento, prendendo a esempio i samaritani: si tratta di una comunità
 
ebraica che non ha conosciuto esilio e per questo sono molto integrati negli usi e nei costumi degli arabi. Come gli arabi si vestono; i laici parlano un arabo palestinese; hanno una Toràh scritta in ebraico con alfabeto samaritano di derivazione fenicia, quindi ancora più antica di quella masoretica, e rifiutano la tradizione orale accettando soltanto la scrittura. Oggi gli appartenenti a questa comunità, che pratica una rigida endogamia, sono soltanto 800 in Israele, concentrati in prevalenza a Kiryat Luza, un villaggio sul monte Gerizim, e nella città di Holon nel distretto di Tel Aviv, nonché poche altre decine nel mondo.
   In pratica diversi in tutto e per tutto dagli ebrei chassidìm, ora tanto di moda grazie alle serie televisive Netflix Shtisel e Unorthodox. C'è la cartolina di una cerimonia nuziale in Polonia nei primi del Novecento, oppure quella che raffigura nonno e nipote che studiano la Toràh, immagine scattata a Gerusalemme nel 1921. Sono immagini dove i maschi portano tutti il cappello di pelliccia, un cilindro nero circondato da tredici strisce di zibellino o di martora (solo recentemente è stata introdotta la pelliccia sintetica), che in yiddish si chiama shtreimel, copricapo tipico degli ashkenaziti di Galizia, Polonia e Bielorussia.
   Vi sono poi comunità ebraiche in Cina, dove arrivarono nell'antichità dalla Persia seguendo le vie della seta - si stabilirono a Kaifeng, nello Henan, dove nel 1163 costruirono una sinagoga arrivando a contare, intorno al '500, alcune migliaia - oggi la comunità è composta soltanto da qualche centinaio di individui.
   Anche le sinagoghe testimoniano pluralità di identità: costruite nel mondo con gli stili più diversi, dall'orientaleggiante al neogotico, da quelli che mescolano neoclassico e art nouveau e orientalismo a quello bizantineggiante della grande sinagoga di Parigi. Non a caso Cazzaniga ricorda l'architetto Marco Treves (il quale prese parte ai progetti delle sinagoghe di Pisa, Firenze e Torino) quando nel 1872 scriveva: «Uno stile veramente "Giudaico" che io mi sappia non esiste. Anche il Tempio per eccellenza, quello di Salomone, aveva al suo dire degli Archeologi un carattere fra il Fenicio e l'Egiziano; ed è probabile che il secondo Tempio risentisse di questi due elementi con qualche principio dell'arte greca ... ».
   Gli arredi delle sinagoghe sono invece più legati a specifiche identità ebraiche e sono ricercati e preziosi. Questo perché gli ebrei avevano tradizionalmente svolto alcune attività, talora egemoni, come la lavorazione dei metalli preziosi, l'oreficeria e la vetreria, e poi la tessitura, la tintura, il commercio dei tessuti.
   Insomma, questo libro è una miniera di curiosità, informazioni, storie antiche e poco note anche in seno agli studi ebraici-del resto, ammonisce l'autore, le recenti storie sull'ebraismo risentono di un'ottica «giudeocristiana», ovvero la lettura dominante sulla sua identità è tutta interna a un mondo occidentale (cristiano, cattolico e riformato) dove ha minore rilevanza l'Europa orientale, dove però fino alla metà del Novecento ha vissuto la maggioranza mondiale degli ebrei e in cui è presente una tradizione di studi semitistici e biblici davvero autorevole, non sempre nota in Occidente. Del resto, questo si spiega col fatto che attualmente la popolazione mondiale di quattordici milioni e mezzo di ebrei è concentrata fra Stati Uniti e Israele, dove vivono in più di dodici milioni.
   Ma ha ragione Cazzaniga quando conclude che è venuto il momento di nuovi contributi per una storia mondiale delle comunità ebraiche che si sono formate nelle diaspore - e il suo libro va decisamente in questo senso. Anche perché è un paragrafo di quel capitolo di una storia che «dall'abbigliamento alla cucina, dalle sinagoghe agli arredi e oggetti rituali, dall'oreficeria alla musica sembra a noi ancora largamente da scrivere».

(La Stampa, 27 giugno 2020)


Quella "città ideale" chiamata Auschwitz

Frediano Sessi completa la sua ricerca sul campo nazista: la macchina genocida venne sviluppata quando le sorti della guerra erano già segnate. «La tesi negazionista per cui la cremazione all'aperto non si poteva fare perché il terreno era argilloso è smentita dai carotaggi che hanno riportato alla luce resti umani».

di Riccardo Michelucci

L'Italia era appena entrata in guerra a fianco di Hitler quando il primo carico di prigionieri arrivò ad Auschwitz, il 14 giugno 1940. Dai carri piombati scesero 732 esseri umani del tutto ignari della sorte mostruosa che il regime nazista aveva deciso per loro. La storia del più famigerato lager del Terzo Reich inizia ufficialmente in quei giorni ma non si conclude il 27 gennaio 1945 con l'arrivo dell'Armata rossa. Terminata la sua funzione di sterminio, l'ombra di Auschwitz ha attraversato i decenni arrivando fino ai giorni nostri, entrando a far parte della nostra contemporaneità come sinonimo del male assoluto. Ancora oggi, a ottant'anni esatti di distanza, quella "rottura di civiltà" di cui parlò Primo Levi ci costringe a confrontarci con la natura dell'uomo, con il senso della vita e della morte, senza fornirci risposte definitive.
  Secondo lo storico Frediano Sessi, tra i massimi studiosi italiani della Shoah, «le tensioni, le incomprensioni, le strumentalizzazioni e tutte quelle piccole e grandi fratture che si producono attorno ad Auschwitz denunciano il fatto che esso è ancora un luogo vivo, che interagisce con il presente destabilizzandolo e immettendo inquietudine, come fosse un mostro non ancora sconfitto, solo dormiente, perciò minaccioso». Da quasi quarant'anni Sessi approfondisce la storia della Shoah interrogandosi sul valore della memoria, cercando di raccontare un orrore che ha sfidato l'immaginazione umana, fino a diventare un confine morale. Ha portato in Italia l'edizione definitiva del Diario di Anna Frank, ha tradotto un'opera fondamentale per gli studi sull'Olocausto come La distruzione degli ebrei d'Europa di Raul Hilberg e ha scritto decine di libri, anche per ragazzi. Nessuno meglio di lui poteva ricostruire in modo organico l'universo fisico e simbolico di Auschwitz ripercorrendo tutte le ricerche sviluppate nel corso degli anni, dalle prime indagini effettuate dalla Resistenza subito dopo la liberazione alle ultime scoperte d'archivio, riportando nel dettaglio l'evoluzione delle scritture memoriali e le relative controversie.
  Il suo lavoro è confluito in un'opera monumentale (Auschwitz. Storia e memorie; Marsilio, pagine 604, euro 30, con la collaborazione di Enrico Mottinelli) che costituisce lo studio più completo sull'argomento, arricchito dalle cartografie sullo sviluppo dei campi e da uno sguardo di prospettiva sul futuro della mostra esposta all'interno del museo-memoriale. «Dopo il crollo dell'Unione Sovietica tutta la documentazione sparsa in giro per l'Europa, soprattutto nei Paesi dell'Est, è stata recuperata e raccolta all'interno del museo di Stato di Oswiecim», ci spiega.
  «Le fonti d'archivio e la bibliografia sono ormai talmente vaste che da circa vent'anni il lavoro di ricerca può essere effettuato soltanto da équipe di storici». Eppure, nonostante la mole gigantesca di studi compiuti sull'argomento, l'orrore di Auschwitz non è stato ancora raccontato fino in fondo e anche questo libro contiene alcune importanti rivelazioni. «Una in particolare - precisa Sessi - smentisce ancora una volta le tesi dei negazionisti secondo i quali la cremazione all'aperto non era possibile perché il terreno argilloso non l'avrebbe consentita».
  Le carte geologiche dell'epoca, i documenti prodotti dalle ditte che effettuarono i carotaggi nelle zone delle fosse di cremazione e un nuovo studio realizzato dal geologo Fulvio Baraldi affermano invece il contrario, in modo incontrovertibile. «Nei terreni vicini ai crematori IV e V sono stati ritrovati resti umani inceneriti, frammenti di ossa a dimostrazione dell'avvenuta cremazione all'aperto di esseri umani». Scavando negli archivi, collegando le ricerche, recuperando e analizzando le memorie emergono nuovi particolari agghiaccianti sull'evoluzione del sistema concentrazionario del Terzo Reich e sul ruolo che esso doveva avere all'interno del disegno di potere nazista. Un'altra delle conclusioni inedite cui giunge il libro riguarda l'uso dello zyklon B, il veleno letale utilizzato nelle camere a gas.
  «Fu introdotto ad Auschwitz quasi per caso, nel giugno del 1940. Doveva servire per ripulire dai parassiti i locali del primo insediamento, l'ex monopolio dei tabacchi, dove oggi c'è l'università di Oswiecim», prosegue lo storico. «Cominciarono a usarlo sugli esseri umani tra la fine del 1941 e l'inizio del 1942, per eliminare gli ebrei dell'Alta Slesia, prima che ad Auschwitz arrivassero gli ebrei francesi e quelli dell'Europa dell'Ovest. Ciò dimostra che all'epoca non era stata ancora decisa la Soluzione finale. Soltanto in seguito Auschwitz divenne il centro di sterminio principale degli ebrei d'Europa. Siamo dunque di fronte a un processo graduale; all'orrore supremo si arrivò per tappe».
  Il volume di Sessi è suddiviso in tre grandi sezioni: la prima ripercorre i tratti ideologici, legislativi e amministrativi che inquadrano Auschwitz all'interno del più ampio contesto del "nuovo ordine europeo" ideato dal Terzo Reich. La seconda entra nello specifico della vita del campo, con la ricostruzione minuziosa della quotidianità nel Lager, gli alloggi e i luoghi di lavoro, i metodi di sterminio' le forme di oppressione e quelle di resistenza, i processi e le sentenze seguiti alla liberazione. La terza parte approfondisce infine i percorsi della memoria ponendo l'accento sulle diverse declinazioni nazionali e sulle modifiche del complesso museale, sulle testimonianze delle vittime e dei carnefici, nonché sulla ricezione da parte della comunità internazionale. Un ruolo importante è inoltre riservato alle cartografie, dalle quali si apprende che i nazisti continuarono ad ampliare Auschwitz fino al novembre del 1944, quando ormai le sorti della guerra erano segnate.
  «È illuminante osservare come siano stati sviluppati per esempio Auschwitz, Birkenau e i sotto campi attorno che sono circa una quarantina, oltre la metà dei quali venne aperta proprio nel 1944», spiega Sessi. «La città di Oswiecim era all'interno del territorio polacco annesso al Reich ma costituiva la porta d'ingresso verso est dell'utopia tedesca. Rappresentava quindi l'avanguardia del progetto di "città ideale" che prevedeva lo sviluppo della nuova Germania e della nuova Europa. Nell'idea dei gerarchi nazisti tale progetto doveva essere portato avanti anche dopo la caduta di Hitler e la fine della guerra. Le cartografie spiegano molto bene questi passaggi mentre la crescita graduale di Birkenau chiarisce quale fosse l'obiettivo di sviluppo di questa città ideale». Ma nonostante il grande impegno degli studiosi e l'apporto prezioso delle centinaia di testimonianze raccolte dal museo di Auschwitz, molti aspetti della vita e della morte nel campo rimarranno per sempre senza risposta. «Mancano ad esempio la maggior parte delle schede del personale SS in servizio e le liste nominative dei convogli degli ebrei deportati, a esclusione di quelle ottenute dagli archivi di alcuni paesi europei che hanno realizzato ricerche specifiche sin dai primi anni del Dopoguerra», ammette Sessi.
  «Manca la maggior parte della corrispondenza degli organi di comando del campo con le diverse istituzioni del governo del Reich e le tante industrie ed enti privati che hanno collaborato. Non sono stati mai ritrovati neanche gli atti relativi ai decessi dei prigionieri negli ospedali e nelle infermerie». Ma i vuoti più significativi, quelli che nessuna documentazione potrà mai colmare, restano soprattutto sul piano morale. «Per studiare e trasmettere un orrore come quello di Auschwitz non basta la storia - conclude Sessi -. L'indispensabile lavoro di storicizzazione compiuto fino ad oggi spiega soltanto il "come" ma lascia senza risposta il "perché"».

(Avvenire, 27 giugno 2020)


“Trump farà un grande annuncio sulle annessioni”

Donald Trump farà presto "un grande annuncio" sul progetto israeliano di annessioni in Cisgiordania. Lo ha detto ai giornalisti Kellyanne Conway, una dei consiglieri del presidente americano, mentre si avvicina la data del primo luglio a partire della quale il premier Benyamin Netanyahu potrà presentare il piano di annessioni in parlamento, sulla base della mappa allegata alla 'Visione di pace' di Trump. "Ci sono stati dei colloqui. Ovviamente il presidente farà un annuncio. Ne ha parlato in passato e sarà lui a fare un grande annuncio. Molto felice che i colloqui continuino", ha detto la Conway alla Casa Bianca, in dichiarazioni rilanciate dai media israeliani. Trump "vuole essere un agente di pace in Medio Oriente", ha aggiunto. Alla domanda se il presidente americano tema una reazione del mondo arabo di fronte ad eventuali annessioni, la Conway ha detto che già quando l'ambasciata americana è stata spostata a Gerusalemme si parlava di una reazione, ma poi non è arrivata. "C'è sempre questa tattica della paura... deve accadere tutto il peggio, e poi non avviene", ha affermato.

(Adnkronos, 26 giugno 2020)


"Israele non annetterà la valle del Giordano"

Stando ai media Israele frena sull'annessione della Valle del Giordano.

 
Israele ha informato per vie traverse la leadership palestinese che in questa fase non intende procedere alla estensione della propria sovranità alla valle del Giordano.
Lo ha appreso da fonte palestinese la televisione israeliana Canale 12, ma la notizia per ora non ha altra conferma.
Secondo l'emittente il capo del Mossad Yossi Cohen, che nei giorni scorsi è stato ricevuto da re Abdallah, era latore di questo messaggio che è stato poi inoltrato dalla Giordania a Ramallah. Israele, secondo Canale 12, potrebbe invece annettere due zone fittamente popolate da israeliani vicine a Gerusalemme: il Gush Etzion (attorno a Betlemme) e Maaleh Adumim (ad ovest di Gerico).
Intanto, con un vistoso annuncio a pagamento su Haaretz, tre generali della riserva che hanno operato in Cisgiordania mettono oggi in guardia il governo Netanyahu-Gantz da qualsiasi annessione unilaterale. Si rischierebbe, a loro parere, di destabilizzare l'Autorità palestinese a vantaggio di estremisti islamici e di provocare violenze sul terreno. "Non diteci che non comprendiamo le questioni di sicurezza", affermano i generali Nitzan Allon, Avi Mizrahi e Gady Shamni.

(swissinfo.ch, 26 giugno 2020)


Il piano Trump prevede due Stati. Ma dai palestinesi a Ue e Onu è un coro di «no»

Attesa per il varo del programma. L'annuncio degli Usa rischia di slittare. E il fallimento è già dietro l'angolo.

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Sembra che la data del varo del piano di pace americano possa slittare. A Washington si aspetta con ansia il verbo di Trump. Difficile decisione in questi tempi di crisi: a Gerusalemme i pareri sono diversi sui tempi e le dimensioni come negli Usa. Si spera ancora nel dialogo, ma i palestinesi si negano perché col rifiuto del piano sono di nuovo sulla cresta dell'onda: qualsiasi cosa Trump preveda nell'«accordo del Secolo», nessuno l'ha letto, basta condannarlo. La falange che si è mossa contro il piano immaginando che sia la pura descrizione di un furto di «territori palestinesi illegalmente occupati» è infiammata dal sacro fuoco della sua ignoranza. Non sa che quei territori non sono mai stati né ritenuti da nessun trattato internazionale palestinesi ma che, originariamente assegnati a Israele, erano stati occupati dalla Giordania nel '48 e poi conquistati nella guerra che la Giordania ha fatto a Israele nel '67.
   Non sa che le risoluzioni Onu non parlano di «occupazione illegale» ma di «territori disputati» e che quella è un'invenzione palestinese. Non sa soprattutto che il piano di Trump è la copia carbone del disegno di Rabin per i Territori (compresa Gerusalemme che Rabin giurò sarebbe sempre stata unita) e la Valle del Giordano. Sette ambasciatori europei all'Onu hanno condannato il piano, il segretario Antonio Guterres con il segretario della Lega Araba Ahmed Abu Gheit con loro, il commissario Ue Borrell minaccia sanzioni, il programma scientifico europeo Horizon cui Israele dà un contributo insuperabile minaccia di cacciarlo, il Belgio annuncia che riconoscerà lo Stato Palestinese, l'Iran non vi dico, i palestinesi hanno indetto una manifestazione in cui turchi e russi primeggiavano col delegato Onu per il Medioriente Madlenoff. L'accusa è sempre la stessa, avalla la promessa di violenza dei palestinesi come Hamas che ha già promesso la solita strage. La critica è la stessa: il piano blocca il dialogo e il processo di pace che porti a «due stati per due popoli». Ma da tempo i palestinesi hanno optato solo per la macchina di incitamento, e non parlano con Israele.
   Il piano invece prevede proprio due stati per due popoli e nessuna acquisizione di territorio che non sia stata già sancita dagli accordi di Oslo. I territori sono stati allora suddivisi in tre zone: A sotto l'autorità palestinese, e vi si trovano tutte le città; B, sotto il controllo di ambedue; C sotto il controllo israeliano. Questa suddivisione è firmata da Arafat. Nella zona C ci sono gli insediamenti israeliani, 450mila persone, che mai i palestinesi hanno desiderato incamerare. L'idea di uno sradicamento di tale massa è da escludere, dato il precedente di Gaza, su cui è fiorita Hamas. Israele passerebbe all'amministrazione civile (e non militare come oggi) il 50% solo di quella zona C. Infatti parte dei settler protesta che resterà isolato e in pericolo. Il pericolo e quindi il tema della sicurezza accompagna tutto il piano, oltre a quello della mai riconosciuta legittimità della storia ebraica in Israele.
   Insieme alla Valle del Giordano che è una specie di autostrada contro eventuali invasioni arabe si arriva al 30% del territorio. Il 70% viene destinato dagli americani allo Stato palestinese, con finanziamenti di 50 miliardi e swap territoriali che li compensino. In 4 anni dovranno camminare sulla strada dei diritti umani e della democrazia Ma ogni richiesta è troppo per i palestinesi, abituati a promettere pace mentre preparano il rifiuto, come già accaduto trattando con Rabin, Peres, Barak, Olmert, Netanyahu. Tutti hanno assaggiato il loro no e il loro terrorismo mentre rifiutano di riconoscere lo Stato ebraico.

(il Giornale, 26 giugno 2020)


*

Esiste, dunque è illegale

“Non sa”, ripete per tre volte l’autrice. Ed è così. La gente non sa quello che qui è stato ricordato, ma non ha nessuna voglia di sapere. Per associarsi alla generale riprovazione contro lo Stato ebraico non serve dire che gli ebrei sono cattivi, basta dire che Israele occupa illegalmente territori non suoi e vuole continuare ad occuparli a danno dei suoi legittimi proprietari. Il biasimo morale scaturisce da solo e arriva a coinvolgere tutte quelle brave persone che dicono di “non avere niente contro gli ebrei”. Esaminare la storia dei fatti come sono accaduti, presentare argomenti di diritto internazionale significa insinuare dubbi sulla narrazione universalmente accolta e sulla sua morale: uno Stato ebraico israeliano lì non ci deve stare. Anzi, non deve proprio esistere. E se ora esiste, la sua esistenza non può che essere illegale. Non c’è bisogno di altri argomenti: è la sua esistenza la prova dell’illegalità. M.C.

(Notizie su Israele, 26 giugno 2020)


A Vienna sorgerà il memoriale per le vittime austriache della Shoah

di Ilaria Ester Ramazzotti

È iniziata a Vienna la costruzione del memoriale dedicato "ai bambini, alle donne e agli uomini ebrei austriaci assassinati nella Shoah". "Berlino ne ha uno. Parigi ne ha uno. Vienna non ne aveva. Ma oggi è finalmente arrivato il giorno", ha detto a Reuters il presidente della Comunità ebraica austriaca Oskar Deutsch nel corso della cerimonia svoltasi lo scorso 22 giugno sul luogo della prossima edificazione.
"Ricordare significa commemorare le vittime della Shoah. Questo ricordo e la nostra storia aumentano la nostra responsabilità, la responsabilità quotidiana e collettiva di fare tutto per garantire che qualcosa del genere non accada mai più", ha poi sottolineato Deutsch. Sul luogo, il cantore della comunità ebraica di Vienna Shmuel Barzilai ha intonato delle preghiere (nella foto\Reuters).
Il nuovo monumento sorgerà in un parco e sarà composto da un anello di lastre di pietra verticali poste attorno a agglomerato di alberi. Tutti i nomi delle 64.259 vittime austriache della Shoah vi saranno scolpite. L'inaugurazione è prevista fra un anno.
La decisione di realizzare un memoriale alle vittime austriache della Shoah si inserisce nel percorso di elaborazione così come nel dibattito mai concluso sulle responsabilità austriache rispetto al nazismo e alla questione dell'annessione dell'Austria alla Germania effettuata Hitler nel 1938.

(Bet Magazine Mosaico, 25 giugno 2020)


Starmer contro l'antisemitismo

Il leader del labour inglese licenzia un ministro ombra. ''Tutti vigili" in questa lotta.


Il leader del Labour britannico, Keir Starmer, ha chiesto ieri a Rebecca Long-Bailey, ministro ombra dell'Istruzione, di lasciare il suo incarico dopo che aveva condiviso un articolo che conteneva "una teoria del complotto antisemita". "Come leader - ha detto il portavoce di Starmer - Keir ha detto con chiarezza che restaurare il rapporto di fiducia con la comunità ebraica è una priorità numero uno. L'antisemitismo prende molte forme diverse ed è importante che siamo tutti vigili nel contrastarlo". La Long-Bailey aveva condiviso su Twitter un'intervista all'attrice Marine Peake, descrivendola come un "diamante assoluto", in cui diceva che i poliziotti americani che hanno ucciso George Floyd hanno imparato le loro tattiche dai servizi segreti israeliani, La deputata laburista - che aveva corso per la leadership del Labour ed era la candidata prescelta dall'ex leader Jeremy Corbyn è stata subito rimproverata e si è difesa dicendo che un retweet non significa condividere ogni singola parola. Ha poi chiesto un colloquio chiarificatore con Starmer, ma lui aveva già preso e comunicato la decisione di licenziarla. I corbyniani hanno difeso la Long-Bailey facendo intendere che si tratta di un regolamento di conti tra fazioni avverse, mentre molti esponenti della comunità ebraica hanno ringraziato Starmer per la sua azione tempestiva.
   La questione dell'antisemitismo ha spaccato e tormentato il Labour fin dall'arrivo di Corbyn alla guida, nel 2015, e l'ex leader non l'ha mai affrontata con determinazione. L'articolo condiviso dalla Long-Bailey non è di certo comparabile con dichiarazioni antisemite che nel tempo esponenti laburisti hanno rilasciato e rivendicato (ricordate l'ex sindaco Ken Livingstone), ma l'obiettivo di Starmer, non da oggi, è di sanare la frattura che si è creata con il mondo ebraico e di spezzare il filo rosso ideologico che univa il corbynismo all'antisemitismo. "Cacciare via l'antisemitismo dal Labour'' aveva detto Starmer in radio qualche settimana fa, e ieri la deputata laburista Margaret Hodge ha detto dopo il licenziamento: "Ecco com'è un vero cambiamento culturale".

(Il Foglio, 26 giugno 2020)


"Cisgiordania, l'annessione di Netanyahu che divide Israele",

Tra una settimana dovrebbe scattare il piano per estendere la sovranità su una parte dei Territori palestinesi. Ma gli ostacoli sono molti: dalla fronda interna al governo, ai dubbi dell'alleato americano. Anche negli insediamenti c'è chi dice no.

di Sharon Nizza

 
Jared Kushner (sin.) con l'ambasciatore USA David Friedman
A una settimana dall'1 luglio, che secondo l'accordo di governo Netanyahu-Gantz dovrebbe essere il D-day per una possibile estensione della sovranità israeliana su alcune aree della Cisgiordania, in Israele nessuno ha davvero un'idea chiara di cosa si stia parlando. Non sono state rivelate mappe né quali porzioni di territorio sarebbero incluse nel piano, né tantomeno se verrà effettivamente realizzato tra sette giorni. A Gerusalemme oggi gli occhi sono puntati a Washington, dove sono iniziate discussioni tra i consulenti del presidente Trump fautori del piano "Pace per Prosperità" presentato a gennaio, tra cui il genero Jared Kushner e l'Ambasciatore Usa in Israele David Friedman, rientrato in patria apposta per la consultazione.
   La partita pare si giochi proprio tra questi due attori: Kushner, che ha girato per il Medioriente negli ultimi anni tessendo la base per l'attuale avvicinamento tra l'asse sunnita e Israele, spinge per minimizzare qualsiasi azione unilaterale israeliana che potrebbe minare i suoi sforzi di conciliazione regionale. L'ambasciatore Friedman è invece il sostenitore più agguerrito del via libera a Israele per procedere con la mossa unilaterale "e poi si vedrà". Inizialmente il premier israeliano Netanyahu aveva parlato dell'estensione della legge israeliana da luglio su tutto il 30% dei territori che secondo il "Piano del secolo" di Trump dovrebbe rimanere sotto controllo israeliano. Ovvero le cosiddette "Aree C" della Cisgiordania, dove, in base agli Accordi di Oslo, l'amministrazione civile e la gestione della sicurezza sono nelle mani israeliane e dove si trovano tutti gli insediamenti (circa 450.000 abitanti) e una minima parte della popolazione palestinese (circa 100.000). Questo 30% comprende anche la Valle del Giordano, che Israele considera il suo confine orientale naturale già dai tempi di Rabin Capo di stato maggiore.
   Ma diversi fattori si sono posti nel corso dei mesi come ostacolo a questa prospettiva: innanzitutto, gli Usa di gennaio non sono gli stessi di oggi e la valutazione che stanno facendo i consiglieri di Trump è se, con la crisi innescata dal coronavirus e dalle proteste del movimento Black Lives Matter, sia necessario avventurarsi in altri campi minati in vista delle elezioni. Poi si è sollevata una inaspettata opposizione di una parte del movimento degli insediamenti, rappresentati nel "Consiglio Yesha": qui una parte della leadership preferisce frenare qualsiasi prospettiva di annessione se questa implica il riconoscimento di uno Stato palestinese. Infine l'opposizione interna al governo: il vicepremier e ministro della Difesa Benny Gantz è in contatto diretto con la fazione kushneriana a Washington e ribadisce che "qualsiasi mossa dovrà essere effettuata nel rispetto delle linee guida stabilite dal Piano di Trump e degli accordi regionali esistenti".
   Qui l'attenzione è rivolta in primis alla Giordania, che proprio oggi ha minacciato di richiamare l'Ambasciatore da Israele se porterà avanti un'iniziativa unilaterale. Netanyahu ha dato mandato a uno dei suoi consiglieri più fidati, il capo del Mossad Yossi Cohen - c'è chi ne parla come il suo possibile erede politico - di calmare gli spiriti nel mondo arabo. Questi si è incontrato già diverse volte con il Capo dei servizi segreti egiziani Abbas Kamel e c'è chi riferisce di trattative sottobanco per cui le voci di condanna non avranno conseguenze drammatiche a livello delle relazioni bilaterali, un po' come avvenne dopo lo spostamento dell'Ambasciata Usa a Gerusalemme due anni fa. Al contempo, ieri il Capo di Stato maggiore Avi Kochavi ha allertato sulla possibilità di aumentare il dispiegamento delle forze al confine con la Striscia di Gaza, se Hamas dovesse riprendere le proteste violente.
   A metà maggio il presidente palestinese Abu Mazen aveva annunciato la fine della cooperazione con Israele, una minaccia che era stata ventilata già altre volte in passato. Questa volta però si è riscontrato un rallentamento nel coordinamento ufficiale con le forze di sicurezza israeliane, anche se sul campo un certo grado di collaborazione è ancora in atto, attraverso la mediazione di comitati civili locali nominati dalle forze di polizia palestinese. Lavoratori palestinesi continuano a entrare quotidianamente in Israele e i permessi speciali di ingresso, soprattutto per trattamenti medici, vengono ora gestiti dalle singole persone direttamente con il Cogat (l'organo di coordinamento dell'attività israeliana nei Territori), senza l'intermediazione dei funzionari palestinesi. Lo scenario peggiore che paventano gli oppositori dell'annessione è che l'Autorità Nazionale Palestinese collassi e a quel punto Israele sarebbe responsabile dell'amministrazione non solo nei Territori C, ma anche B e A, dove vivono 2 milioni e mezzo di palestinesi.
   Quello che si può affermare con certezza è che la questione palestinese è tornata ora al centro del dibattito israeliano, assopito da anni da uno stallo che ha caratterizzato anche la comunità internazionale. A Tel Aviv si è tenuta ieri un'altra manifestazione contro l'annessione, questa volta organizzata da fazioni centriste, la cui voce di protesta si aggiunge a quella della sinistra che era scesa in piazza due settimane fa. E lunedì a Gerico, nel corso della prima di una serie di manifestazioni indette dall'Autorità Palestinese, hanno preso la parola anche l'inviato speciale dell'Onu Nikolay Mladenov e diplomatici dell'Unione Europea, Cina, Russia e Giappone per denunciare il rischio che una mossa unilaterale israeliana potrebbe avere sugli equilibri regionali.
   Per tutte queste ragioni, al momento l'ipotesi più probabile su cui puntano gli analisti è che Netanyahu alla fine si accontenterà di una dichiarazione simbolica soltanto: estensione della sovranità solo sulla Valle del Giordano, un'area a maggiore interesse geostrategico, ma dove si trovano invece pochissimi insediamenti. Oppure estensione a uno o due blocchi di insediamenti intensamente popolati, di quelli che anche negli accordi falliti nel passato, da Camp David ad Annapolis, sarebbero comunque sotto giurisdizione israeliana, come Gush Etzion o Maalè Adumim, nei pressi di Gerusalemme. In ognuna di queste ipotesi, oltre alla valenza simbolica, a livello pratico le implicazioni sarebbero principalmente legate allo status giuridico dei cittadini israeliani negli insediamenti, che a oggi formalmente sono sottoposti all'autorità dell'Amministrazione Civile - organo del Ministero della difesa - e che passerebbero alla giurisdizione dei singoli ministeri israeliani. Un'annessione simbolica e circoscritta eviterebbe in questa fase anche di affrontare un'altra questione spinosa: che status dare agli abitanti palestinesi di quelle aree, ovvero se offrire loro la residenza con la possibilità di fare domanda di cittadinanza, così come accaduto per i palestinesi di Gerusalemme Est e i drusi delle Alture del Golan quando Israele estese la propria sovranità su quelle aree rispettivamente nel 1967 e nel 1981.

(la Repubblica, 25 giugno 2020)


Israele contro il Covid-19: una battaglia ancora aperta

di David Zebuloni

Nei mesi di marzo e aprile i cittadini israeliani si sono dovuti abituare a quello che i media hanno definito il "Bibi Show". Con una frequenza quasi quotidiana, il premier israeliano Benjamin Netanyahu si presentava nella sala stampa della Knesset, saliva sul podio e in diretta nazionale comunicava i progressi della battaglia al Covid-19. Netanyahu mostrava dunque grafici, spiegava come tossire sul gomito, portava esempi da paesi vicini e lontani, ma non dava indicazioni precise su come affrontare la pandemia e le restrizioni da lui decretate si rivelavano essere spesso amorfe e incomplete. Di conseguenza, migliaia di israeliani si sono confrontati sul web in cerca di qualche risposta, sperando di capire un po' meglio ciò che stava accadendo. "È permesso uscire per fare sport? Quanto ci si può allontanare di casa? E il cane lo si può portare a spasso?", si sono rivelate essere le domande più popolari.
   Nonostante la confusione generale, Israele pareva essersi salvata dalla tragedia. Nei primi mesi del 2020, mentre l'Europa e gli Stati Uniti contavano decine e decine di migliaia di morti, in Israele erano "solo" 235 le vittime del virus. Un numero astronomico se consideriamo l'importanza di ogni singola vita umana, ma decisamente consolatorio se paragonato alle stragi avvenute nei paesi circostanti.
   Il 4 di maggio Benjamin Netanyahu si è presentato davanti alle telecamere di tutte le principali reti televisive nazionali per annunciare che Israele ha vinto il virus. Durante la conferenza stampa Netanyahu ha elogiato i cittadini per la buona condotta, i team medici per gli sforzi compiuti e sé stesso per la leadership impeccabile. Poi ha annunciato che Israele è pronta per tornare gradualmente alla normalità. Come se la parola "gradualmente" non fosse mai stata pronunciata, il giorno seguente il popolo israeliano era già tornato all'era pre-covid, dimenticando in un attimo le regole igieniche e il distanziamento sociale.
   Tra un elogio e l'altro, la minaccia di un ritorno del virus era presente nel discorso di Netanyahu, ma probabilmente non è bastata a fermare gli israeliani. In poche settimane le spiagge e i ristoranti di tutto il paese si sono riempiti, gli artisti hanno cominciato ad annunciare le date dei primi concerti e il traffico stradale si è fatto più denso che mai. Secondo le indicazioni di Netanyahu, superati i 250 contagi giornalieri Israele sarebbe dovuta tornare al lockdown, eppure un articolo pubblicato il 23 di giugno sul Times of Israel ha annunciato 377 contagi in un giorno solo ma di lockdown non ha parlato più nessuno. Nel mese di giugno si sono superati i 300 morti totali e sono state di nuovo chiuse molte scuole per limitare i contagi.
   "Dopo una crisi economica simile a quella alla quale siamo andati incontro, non vedo come Netanyahu possa fare marcia indietro", spiega la giornalista Keren Marziano alle telecamere di News12. "Bisogna imparare dagli errori commessi in passato e cercare di fermare il virus senza distruggere ulteriormente l'economia". Effettivamente, dopo aver concesso l'apertura di scuole, centri commerciali, uffici e palestre, è molto più complicato rieducare i cittadini israeliani all'isolamento e al distanziamento sociale. È molto più complesso chiedere (o imporre) loro di chiudere di nuovo i negozi e le attività.
   Secondo l'Algemeiner, la commissione istituita dal governo per occuparsi del Covid-19 ha approvato una proposta di legge da sottoporre alla Knesset che prevede una multa di 200 o 500 shekel a chi non indossa la maschera in un luogo pubblico. Una soluzione parziale, sicuramente importante, ma non sufficiente secondo molti.
   D'altronde, come dice il proverbio, prevenire è meglio che curare e, in questo caso, prevenire il contagio è l'unica speranza che Israele ha per vincere la sua battaglia contro il virus.

(Bet Magazine Mosaico, 25 giugno 2020)


E' caccia al tesoro sottratto agli ebrei durante la guerra

I nazisti rubarono tra l'altro 7mila volumi dal 1943 al '44. Firmato l'accordo tra Comunità e carabinieri. Cerimonia al Tempio Maggiore di Roma per la sigla del patto: 19 i libri tornati a casa.

di Flavia Fiorentino

ROMA - Nell'ottobre del 1943, pochi giorni prima del rastrellamento del ghetto, due ufficiali dell'unità speciale nazista «Rosenberg», trafugarono oltre settemila volumi dalla biblioteca del Collegio rabbinico e della Comunità ebraica cli Roma.
   Dovevano far parte del degenerato «archivio» immaginato da Hitler per tenere traccia del popolo che voleva sterminare. Da oggi nella ricerca di questo straordinario tesoro scomparso da oltre 70 anni, ci sarà l'impegno dei carabinieri del «Comando tutela patrimonio culturale» (Ctpc), che hanno firmato un' intesa con la Comunità Ebraica romana per il recupero dei beni sottratti durante la guerra.
   Ieri, in occasione della cerimonia al Tempio Maggiore per la sigla dell'accordo, 19 libri, stampati tra il 1723 e il 1942 sono tornati a casa. «Toccarli - ha detto la presidente della Comunità, Ruth Dureghello - e immaginare chi li aveva toccati prima di me, mi ha dato una profonda emozione». La sottosegretaria al Mibact, Anna Laura Orrico, si è invece detta «orgogliosa per un gesto che rimarca il nostro confronto continuo con la Comunità». Quei 19 volumi hanno una storia dentro la storia: erano stati recuperati dall'agente segreto Rodolfo Siviero, nella sua "caccia" tra Germania e Italia e custoditi nel suo archivio. «Da lì - ha spiegato il generale Roberto Riccardi, comandante del Ctpc - sono passati negli archivi dei ministeri delll'Istruzione e poi dei Beni culturali. Se saranno trovati i discendenti dei proprietari, saranno loro restituiti. Oltre ai 7.005 volumi c'è ancora tanto materiale da ricercare». Due «pezzi» in particolare, sottratti agli ebrei di Livorno, sono nel mirino dei carabinieri: «Il dipinto "Le gabbrigiane" di Angiolo Tommasi, amico cli Giacomo Puccini - ha aggiunto Riccardi - e una "testa" attribuita a Leonardo».
   La firma del protocollo per il comandante Giovanni Nistri «ha un alto valore simbolico: i 19 libri sono le tessere di un mosaico che ci impegniamo a ricostruire».
   Ma è anche un tassello del rapporto tra l'Arma e la Comunità ebraica: «Il 7 ottobre del 1943 furono catturati 2.500 carabinieri e poi internati nei campi, da cui tornarono in 700. I nazisti sapevano che si sarebbero opposti al 16 ottobre», quando 1023 ebrei romani furono deportati. Pochi giorni dopo anche i loro libri: «La parte più sacra di una sinagoga è un armadio con i rotoli in pergamena su cui è scritta la Torah», ha ricordato il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni.

(Corriere della Sera - Roma, 25 giugno 2020)


Catalogazione libri ebraici italiani "Un progetto dalla portata storica"

 
Un progetto per recuperare, valorizzare e rendere fruibile un immenso patrimonio culturale dell'ebraismo italiano rappresentato da 35mila volumi presenti, e non ancora censiti, in quaranta biblioteche sparse per il paese. Intitolato simbolicamente Y-TAL-YA Books - un richiamo al modo in cui gli ebrei italiani chiamano la penisola: Y-Tal-Ya, Isola della rugiada divina - il progetto prende il via ufficialmente in queste ore, dopo una prima fase pilota, e vede la collaborazione tra l'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, a capo dell'iniziativa, la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, la Biblioteca Nazionale di Israele e la Rothschild Foundation Hanadiv Europe. Attraverso gli strumenti telematici e nonostante le difficoltà legata all'emergenza sanitaria di questi mesi, l'impegno del team - che va dall'Italia, alla Gran Bretagna fino a Israele - è riuscito a proseguire e ora inizia, a partire da Torino, con la fase di training per procedere al lavoro di catalogazione. "Si tratta di un progetto dalla portata storica e di valore internazionale", l'opinione condivisa nei saluti d'apertura portati da Sally Berkovic, direttore esecutivo della Rothschild Foundation Hanadiv Europe, dalla presidente UCEI Noemi Di Segni, dal direttore della Biblioteca Nazionale Centrale Andrea De Pasquale, dal direttore generale della Biblioteca nazionale d'Israele Oren Weinberg e dalla referente dell'istituzione israeliana per l'Europa Caron Sethill.
   "Nonostante tutte le difficoltà, la tecnologia ci ha permesso di riunirci regolarmente e proseguire senza intoppi un lavoro che ha messo in collegamento Roma, Londra, Gerusalemme - spiega Gloria Arbib, referente UCEI per il progetto - Si tratta di un'iniziativa molto rilevante e ambiziosa: realizzare un catalogo collettivo di tutti i libri a stampa in ebraico depositati presso le biblioteche sul territorio italiano, siano esse delle Comunità ebraiche che dello Stato". Manoscritti, incunaboli e volumi antichi dimenticati torneranno così a disposizione degli studiosi ma saranno anche fruibili al grande pubblico nella teca digitale della Biblioteca nazionale di Roma, adattata per l'occasione con la possibilità di fare ricerche anche in ebraico. Dalla metà del '400 al 1960 (la data fissata come limite della catalogazione), da Trieste a Bari, migliaia di testi riprenderanno vita e con loro le storie ebraiche che portano con sé. "Faremo la storia del libro ebraico - le parole del direttore De Pasquale - Avremo finalmente contezza del patrimonio librario delle biblioteche ebraiche così come di quelle pubbliche statali, finora indagate solo in minima parte. Edizioni altrimenti sconosciute verranno alla luce, con loro, nuovi protagonisti. Penso ad esempio a nomi di tipografi del passato ma non solo". "Si tratta di un'opportunità professionale per tutti coloro che lavorano a questo progetto a cui va il nostro ringraziamento - ha sottolineato la presidente UCEI Di Segni - ma è un'opportunità di crescita per tutta la cultura ebraica di cui andare orgogliosi". Un progetto complesso, avviato tre anni fa, con una prima fase di indagine sulle biblioteche delle Comunità ebraiche italiane e su quelle statali. "Ricordo bene quando è arrivata l'application dall'UCEI. Ne arrivano centinaia alla Rothschild di richieste di finanziamento ma ricordo di aver pensato quanto fosse ambizioso quel progetto e quanto fosse difficile immaginarne la realizzazione - le parole del direttore Berkovic -. Ora siamo qui e quell'idea è diventata realtà grazie a una fondamentale collaborazione tra enti diversi". "Higanu le yom haze, siamo arrivati a questo giorno", le ha fatto eco Sethill, sottolineando come si tratti di un'iniziativa innovativa e dal valore internazionale.

(moked, 25 giugno 2020)


I Rabbini europei: "l'Ue vuole rendere illegale la macellazione rituale kasher"

di Nathan Greppi

Il Presidente della Conferenza dei Rabbini Europei, Rav Pinchas Goldschmidt, ha rilasciato lunedì 22 giugno una dichiarazione in cui ha avvertito che la Corte di Giustizia Europea sta pensando di rendere illegale la Shechità, la macellazione rituale della carne kasher, adottando in tutto il continente una legge già approvata in Belgio nel gennaio 2019. "La shechita è una pratica religiosa vitale per la fede ebraica," ha dichiarato Rav Goldschmidt, "senza la quale agli ebrei verrebbe tolta la possibilità di mangiare carne.".
   Come riporta Algemeiner, Goldschmidt ha spiegato che la richiesta di carne kasher in Europa è tale da non potersi basare esclusivamente sulle importazioni da paesi extraeuropei, e ciò si è rivelato vero soprattutto nel periodo della pandemia. "L'esperienza di Pesach è stata un duro promemoria che le comunità ebraiche non possono fare affidamento solo sulla distribuzione internazionale." Se in Belgio il divieto dovesse proseguire, "il messaggio sarebbe chiaro: gli ebrei non sono i benvenuti."
   Il 1 gennaio 2019 il regolamento contro la macellazione rituale kasher e halal venne approvata nella regione delle Fiandre, e a settembre dello stesso anno anche nella Vallonia. Prima di allora, la capitale delle Fiandre Anversa forniva di carne kasher numerose comunità di tutto il continente. E il divieto è rimasto nonostante l'attuale Primo Ministro belga, Sophie Wilmes, sia la prima ebrea a ricoprire tale incarico.

(Bet Magazine Mosaico, 25 giugno 2020)


Saburo Nei: il diplomatico giapponese in URSS che salvò molti ebrei in fuga dal nazismo

Saburo Nei
Il governo lituano ha dichiarato il 2020 "l'anno di Chiune Sugihara", lo Schindler giapponese che tra il 1939 e il 1940 aiutò più di 6 mila ebrei residenti nella città di Kaunas, in Lituania, a fuggire verso porti più sicuri, rilasciando visti di transito per il Giappone. Il recente ritrovamento di un visto firmato da un altro console nipponico, Saburo Nei - d'istanza a Vladivostok, nell'attuale Russia sudorientale - rivela inoltre che la lista dei diplomatici giapponesi che rischiarono la propria vita e carriera per salvare migliaia di ebrei in fuga dal nazismo potrebbe essere ben più lunga.
   Saburo Nei nacque nel villaggio di Hirose, oggi parte della città di Miyazaki, nel 1902. Studiò all'estero, dove imparò il Russo presso la scuola sino-russa Nichiro Kyokai Gakko e, nel dicembre 1940, fu nominato console ad interim a Vladivostok. Durante quegli anni, avrebbe concesso parecchi visti di transito per il Giappone a coloro che, in fuga dalle persecuzioni naziste, tentavano di raggiungere il Pacifico per salpare verso le coste americane.
   Il ritrovamento da parte di Akira Kitade, scrittrice settantasettenne residente a Tokyo, di un visto firmato da Saburo Nei conferma infatti il lavoro del team di ricerca guidato dal professore Yakov Zinberg dell'Università Kokushikan secondo cui, nel 1941, il console Nei avrebbe ammesso a un rappresentante sovietico per gli affari esteri di "aver rilasciato parecchi visti senza il permesso di Tokyo". Il governo nipponico, alleato nazista, proibiva effettivamente l'emissione di visti di transito per coloro che non avessero il permesso di raggiungere una terza destinazione, diversa dall'arcipelago del Sol Levante. Saburo Nei, come Chiune Sugihara, avrebbe però ignorato le direttive governative di fronte alla disperazione di un popolo in fuga.
   Akira Kitade venne a conoscenza dell'esistenza del visto in questione durante le ricerche per il suo ultimo libro: Visas of Life and the Epic Journey. How the Sugihara Survivors Reached Japan (Visti di vita e il viaggio della speranza. Come i sopravvissuti di Sugihara hanno raggiunto il Giappone). La scrittrice contattò dunque la nipote Kim Hydorn, residente negli Stati Uniti, del beneficiario del visto, Simon Korentajer, e riuscì ad ottenere una foto del documento ormai liso, ma di enorme valore storico. Il visto, emesso il 28 febbraio 1941, riporta infatti la firma di Saburo Nei ed il timbro ufficiale del consolato di Vladivostok. La famiglia Korentajer, di origini polacche, era riuscita a raggiungere la Lituania da Varsavia poco dopo l'invasione nazista della Polonia nel 1939. Dopo essersi vista negata la richiesta di visto all'ambasciata americana di Mosca, viaggiò lungo la transiberiana per raggiungere il limite Orientale dell'Unione Sovietica. Qui, i Korentajer incontrarono Nei, il quale concesse loro un visto di transito attraverso i porti di Tsuruga e Yokohama in terra giapponese.
   Quella della famiglia Korentajer, non è la sola storia di salvataggio simile di quel periodo. Si stima che, tra il 1940 ed il 1941, circa 15,000 ebrei trovarono rifugio in Lituania, di cui, schiacciati tra l'avanzata sovietica ed il pugno di ferro nazista, molti tentarono la fuga verso Est. Attraverso la ferrovia transiberiana, arrivarono ai confini del Pacifico per poi salpare verso il Giappone. Per una buona parte di loro il viaggio si concluse qui, in quanto il governo estese molti dei visti di transito rilasciati. Per altri, proseguì verso le coste americane, Shanghai ed i territori olandesi di Curaçao.
   Alla fine della guerra, l'ex console Nei, allora membro dell'agenzia per l'immigrazione, non parlò mai dei visti emessi. Nel 2016, però, la città di Miyazaki fondò un comitato di apprezzamento in suo onore. "Pare che fosse un uomo estremamente modesto", dice Kitade. E continua: "Questa scoperta mi rende ottimista che si possano trovare altri diplomatici giapponesi che aiutarono gli ebrei in modo simile". Come Sugihara, Nei potrebbe essere inserito nella lista dei "Giusti fra le Nazioni", il titolo conferito dallo Yad Vashem di Gerusalemme e destinato ad onorare il nome di coloro che rischiarono la propria vita per salvare gli ebrei durante la Shoah.

(Gariwo, 25 giugno 2020)


Siria: attacchi missilistici israeliani nel governatorato di Hama

DAMASCO - La contraerea siriana ha abbattuto alcuni missili diretti verso le cittadine di Slamyeh e Al Sabboura nel governatorato di Hama. Lo riferisce l'agenzia stampa governativa "Sana". Quest'ultima - citando fonti militari - attribuisce l'attacco a Israele. Nella tarda serata di ieri, 24 giugno, altri attacchi missilistici sono stati respinti nei governatorati di Sweida e Deir Ez Zor, rispettivamente nel sud-ovest e nell'Est della Siria. Una fonte militare riferisce di attacchi missilistici alle 21.17 del 23 giugno provenienti da east e nord-est di Palmira, nel deserto siriano, diretti verso i siti militari di Kabajib e Al Sakhnah, nel governatorato di Deir Ez Zor. Nel frattempo, una base è stata colpita nei pressi di Salkhad, nel governatorato di Sweida. Due soldati siriani sono morti e quattro sono rimasti feriti a seguito degli attacchi. Negli scorsi mesi, Israele ha lanciato molteplici attacchi contro postazioni utilizzate da forze iraniane e riconducibili al libanese Hezbollah, entrambi alleati del presidente siriano Bashar al Assad.

(Agenzia Nova, 24 giugno 2020)


Restituiti alla Comunità ebraica 19 volumi sottratti dai nazisti

Siglato a Roma un rotocollo tra Carabinieri e Comunità ebraica

 
ROMA - "Non un gesto di riparazione, che non è possibile dopo la tragedia dell'olocausto, ma un segno ulteriore di amicizia e di restituzione di scritti fondamentali per la memoria. Memoria che costituisce la stessa storia di una comunità come quella ebraica". Così il sottosegretario al Ministero per i Beni Culturali Anna Laura Orrico ha spiegato stamane la restituzione di 19 libri alla comunità ebraica di Roma. Una cerimonia che si è tenuta presso il Tempio Maggiore della Capitale con la firma di un Protocollo d'intesa tra il Comando tutela patrimonio culturale dell'Arma dei Carabinieri e la Comunità ebraica romana, alla presenza del Comandante generale dell'Arma, Giovanni Nistri e dei più alti rappresentanti della comunità ebraica romana, il Rabbino capo Di Segni e la presidente della comunità Ruth Dureghello. Presente anche, oltre al sottosegretario Orrico, il gen. Roberto Riccardi comandante del reparto tutela del patrimonio culturale dell'Arma.
   Nella cerimonia odierna sono stati restituiti 19 libri di varia natura, con ogni probabilità tutti riconducibili alla biblioteca del collegio rabbinico di Roma e comunque appartenenti, per argomento e materia, alla comunità ebraica della capitale. Si tratta, è stato spiegato, solo di una piccola parte di quelle migliaia di libri, circa 7 mila volumi, che il 13 ottobre del 1943 furono razziati dai nazisti solo tre giorni prima che avvenisse a Roma la massiccia deportazione di 1.023 ebrei verso i campi di sterminio. Testi che saranno restituiti e che sono stati stampati in vari momenti storici, dal 1723 al 1942.
   Alcuni scritti da religiosi di fede ebraica altri, invece, da cattolici critici nei confronti dell'ebraismo. Il rabbino capo Di Segni ha parlato di una "nuova pagina di storia nell'amicizia e collaborazione simbolicamente rappresentati dalla riconsegna dei libri " ricordando il "profondo rapporto con il Libro e con le letture scritte da parte degli ebrei". Anche il gen. Nistri ha sottolineato il "momento di alto valore simbolico rappresentato dalla sigla del nuovo protocollo perché - ha detto - la sottrazione di beni e oggetti appartenenti alla cultura di un popolo ha da sempre, rappresentato una violazione di identità con lo scopo ultimo di cancellarne la memoria".
   "Il recupero di questi libri - ha detto invece la Dureghello - ha un significato che travalica il valore intrinseco di questi oggetti di studio, perché rappresentano e testimoniano storie personali e vite perdute. Riportandoli al luogo a cui appartengono, cioè alla comunità e al museo ebraico di Roma, possiamo finalmente tracciare un'altra parte della nostra storia ed assicurarci che la memoria non venga perduta ".
Da parte sua il gen. Riccardi ha ricordato, invece, come "le leggi razziali rappresentino una ferita aperta per tutte le istituzioni italiane e che per la comunità ebraica italiana non si farà mai abbastanza per lenire i segni di quella tragedia. Da parte nostra, come Arma dei carabinieri, - ha concluso - abbiamo inserito tutti questi beni e queste tracce di storia sottratta e fatta sparire nella nostra banca dati per una ricerca che assicuro essere costante e speriamo fruttuosa ".

(askanews, 24 giugno 2020)


Gantz: 'Annessioni? non possiamo sempre aspettare i palestinesi'

"Non possiamo continuare ad aspettare i palestinesi. Se dicono 'No' a tutto allora saremo costretti a procedere senza di loro". A parlare così è il ministro israeliano della Difesa Benny Gantz, che sembra così aprire ad annessioni unilaterali in Cisgiordania come vuole fare il primo ministro Benyamin Netanyahu a partire dal primo luglio.
Secondo il leader di Blu e Bianco, il piano Trump, sulla base del quale partirebbero le annessioni, "è il primo a guardare a ciò che avviene sul terreno in modo realistico". "Quello che faremo avrà conseguenze, ma anche quello che non faremo", ha detto ancora Gantz, aggiungendo di "voler lavorare per ridurre il rischio di trasformare Israele in uno stato bi-nazionale, assicurando che Israele mantenga il controllo del suo territorio". "Non prenderemo palestinesi nel nostro territorio, non violeremo diritti umani o il diritto di movimento, lavoreremo in coordinamento con i paesi della regione, con i quali siamo in contatto, non metteremo in pericolo gli accordi di pace", ha detto ai giornalisti, secondo quanto riporta la stampa israeliana.
Secondo il Jerusalem post, che riporta le sue parole, Gantz, che assumerà la guida del governo fra un anno e mezzo, vorrebbe annettere solo una piccola area, all'interno di un grande blocco di insediamenti, mentre Netanyahu vorrebbe annettere il 30% della Cisgiordania, sulla base della mappa del piano Trump. Intanto l'ambasciatore americano in Israele, David Friedman, si trova a Washington per chiarire quale tipo di passo unilaterale israeliano potrebbe sostenere l'amministrazione Trump.

(Adnkronos, 24 giugno 2020)


Grecia - Accordo con un'azienda israeliana per la coproduzione di corvette Temistocle

ATENE- I cantieri navali greci Onex Neorion e quelli israeliani Israel Shipyards Ltd hanno firmato un accordo per la produzione congiunta delle nuove corvette Temistocle. Lo ha annunciato tramite una nota stampa la stessa società che gestisce il cantiere navale greco con base nell'isola di Syros. Secondo quanto spiegato nella nota, le corvette Temistocle sono un'imbarcazione multiuso di nuova generazione, prodotta allo scopo di proteggere i confini ellenici nel Mediterraneo orientale.

(Agenzia Nova, 24 giugno 2020)


Ciclismo - La Israel vuol crescere ancora: oltre a Froome, insegue Porte e Teuns

di Guido La Marca

 
Tutto ruota intorno a loro, Chris Froome e Sylvan Adams. Il britannico ha in tasca un'offerta per approdare alla Israel StartUp Nation sin dal 1° agosto e disputare il Tour de France con la nuova maglia, ma ha anche una seconda chance, ovvero quella di affrontare la stagione con i colori della Ineos e poi cambiare casacca per le prossime tre stagioni.
Di sicuro c'è che Sylvan Adams, proprietario del team israeliano, vuol costruire uno squadrone attorno a Froome e si sta muovendo in diverse direzioni: colloqui, sondaggi, trattative accennate e altre avviate, sono davvero molti i nomi che vengono accostati in queste ore alla formazione mediorientale che sembra al momento una delle poche ad avere la forza di pensare al futuro.
L'obiettivo di Adams è duplice: dopo aver portato finalmente la sua formazione nel WorldTour, il magnate israeliano punta dritto a vincere il Tour de France e a primeggiare nelle classiche monumento.
Per il primo obiettivo, ovviamente, Froome è il capitano designato ed il britannico avrebbe chiesto di avere accanto a sé Richie Porte, che ha corso con lui per quattro stagioni dal 2012 al 2015 nel Team Sky. Porte ha 35 anni, la stessa età di Froome, e sarà con Mollema il capitano della Trek Segafredo al prossimo Tour de France.
Nel mirino di Adams c'è anche un corridore decisamente eclettico come Dylan Teuns, oggi alla Bahrain McLaren, che potrebbe crescere alla scuola di Froome per i grandi giri e al tempo stesso coltivare le sue doti di cacciatore di classiche.
Intanto dal Belgio rimbalzano anche altre voci che parlano di contatti con Greg Van Avermaet - che ha sempre proclamato la sua fedeltà alla CCC di Ochowicz ma che ovviamente, alla luce dell'addio dello sponsor nel 2021, si sta guardando intorno - e Jasper Stuyven, altro corridore belga, classe 1992, punto di forza della Trek Segafredo.
Un ampio raggio di possibilità, per il team israeliano, che non vuol lasciarsi sfuggire l'occasione di fare un ulteriore passo in avanti e diventare uno dei più forti del mondo. Di sicuro qualcuno dei nomi che radiomercato fa, il prossimo anno vestirà la maglia biancoazzurra e punterà al bersaglio grosso.

(TuttobiciNews, 24 giugno 2020)


Israele esclude un altro lockdown. L' Anp chiude Hebron e Nablus

Il bilancio più alto da aprile

di Michele Giorgio

GERUSALEMME - Il contagio in Israele cresce con numeri vicini a quelli elevati di aprile. Eppure il ministro della sanità Yuli Edelstein esclude un nuovo lockdown nonostante la seconda ondata di Covid-19, forse più insidiosa della prima. Nella riunione del governo di ieri ha prevalso il timore di infliggere un nuovo colpo all'economia in grande difficoltà. Anche le autorità palestinesi non parlano di chiusura totale. Hanno però ordinato l'isolamento completo, per alcuni giorni, delle città di Hebron e Nablus, le più grandi della Cisgiordania, dove si registra il maggior numero di contagi. Le due popolazioni faticano ad accettare la nuova emergenza e per il momento resta limitato il rispetto delle misure di contenimento annunciate dai rispettivi governi.
   In Israele ieri sono stati registrati 459 nuovi casi positivi, la maggior crescita giornaliera dal 22 aprile (556). Il tasso di contagio è del 2,7%, il più alto dall'inizio dell'epidemia che ha fatto 308 morti. Gli ospedali nei giorni scorsi hanno riaperto i reparti per i malati di Covid-19. Virologi e medici prevedono scenari da incubo, molte migliaia di infetti e numerose vittime. La settimana passata il virus aveva percorso i centri abitati beduini del Negev. Negli ultimi giorni i picchi si sono verificati a Bat Yam, Bnei Brak, Elad, Tel Aviv, Giaffa, Gerusalemme e Petah Tikva.
   Il governo si prepara a proclamare altre "zone rosse" e lunedì il premier Netanyahu ha annunciato multe salate per chi non indosserà la mascherina, ma niente lockdown. «Ci sono alcuni centri rosso-arancione che definiamo zone riservate. Chiedo a coloro che vi risiedono di accettare le misure necessarie per spezzare la catena dell'infezione. Non attueremo un blocco totale, optiamo per una chiusura che consenta di respirare», ha detto ieri Edelstein aggiungendo che con la cooperazione delle autorità locali «otterremo lo stesso risultato: rallentare la diffusione del contagio e meno pazienti».
   Sale la preoccupazione anche nei Territori palestinesi occupati.
Il numero complessivo dei casi in Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est, riferiva ieri la ministra della sanità dell'Anp, Mai al Kaile, è salito a 1.363, 167 più di lunedì. Di questi, almeno 79 a Hebron. I decessi sono stati finora cinque.
   Con ogni probabilità i contagi in crescita a Hebron dipendono dalla vicinanza della città ai centri abitati beduini nel sud di Israele. A Gaza, chiusa da oltre dieci anni nella morsa del blocco praticato da Israele ed Egitto, la situazione appare ancora sotto controllo. Sono 72 i casi positivi dall'inizio della pandemia. Una sola vittima.

(il manifesto, 24 giugno 2020)


*


Covid-19, Israele riavvia lockdown in due città

ROMA - Un lockdown parziale su Elad, una città ultra-ortodossa nel centro di Israele, e cinque quartieri anche questi prevalentemente ultra-ortodossi nella città settentrionale di Tiberiade entrato in vigore oggi alle 8, nel tentativo di rallentare la diffusione del coronavirus che nelle ultime settimane nello Stato ebraico ha fatto registrare una nuova impennata di casi. Lo scrive il Times of Israel sottolineando che il primo ministro Benjamin Netanyahu ha dichiarato la città di Elad e i quartieri di Tiberiade "zone riservate" per sette giorni.
Dalle 8 di oggi i non residenti non potranno accedere a queste zone, tranne che per andare al lavoro o per la fornitura di servizi essenziali. I residenti potranno lasciare le zone per lavoro, esami di immatricolazione, cure mediche, procedimenti legali, il funerale di un parente di primo grado o il trasferimento di un minore.
La polizia ha dichiarato che non saranno ammesse riunioni di oltre 50 persone e che sette posti di blocco sono stati istituiti dentro e intorno a Tiberiade.

(askanews, 24 giugno 2020)


L'Italia ebraica sta morendo, viva l'ebraismo italiano

Mentre muoiono comunità in Italia ne nascono di nuove in Israele.

di Jonathan Pacifici

 
Il Tempio Italiano di Gerusalemme, originariamente a Conegliano Veneto
 
I bambini di Scola Tempio (Gerusalemme) in Succà
 
Un nuovo Sefer Torà per il Tempio Yom HaYom di Natanya
L'articolo di Davide Cavaliere pubblicato ieri sul Corriere Israelitico dal titolo "L'estinzione degli ebrei italiani" ha suscitato, come è normale che sia, molte reazioni. Quando in ambito ebraico si tocca il tema della sopravvivenza, le emozioni sono giustamente forti.
  Vorrei provare ad allargare un po' la prospettiva. La premessa è incontrovertibile. Numericamente parlando la contrazione delle Comunità è un dato di fatto. L'UCEI parla sempre di 21 comunità in Italia ma questo è - ebraicamente parlando - un falso.
  Nell'ebraismo c'è una definizione semplicissima per la comunità: un quorum di dieci uomini adulti, il minian, che si riunisce periodicamente per le preghiere pubbliche. Un minian è una comunità: grande, piccola con più o meno servizi, con o senza un luogo di culto e via dicendo. Ma è un pubblico. Con tutti i doveri (e qualche diritto) che ciò comporta.
  Dove non c'è un minian, facciamoci uno sconto, almeno di Shabbat, non ha senso parlare di comunità, anche se c'è una splendida sinagoga delle dimensioni di una cattedrale. Ci sono nella migliore delle ipotesi dei singoli ebrei ai quali va tutto il nostro affetto e verso i quali chi ha la fortuna di vivere in una comunità ha certamente delle responsabilità. Ma non sono una comunità, non nell'accezione ebraica del termine.
  La cattiva notizia è che nella lista delle "21 Comunità" dell'UCEI in parecchie il minian non esiste. La pessima notizia è che la contrazione attacca progressivamente anche comunità che ancora riescono a garantire un minimo di servizio. Il trend demografico, purtroppo, è inesorabile. Basta confrontare le nascite con le morti, il numero di matrimoni e milot [circoncisioni, ndr] per capire che nel giro di alcuni anni verrà meno la massa critica che consente ancora oggi alcuni imprescindibili servizi.
  
Come mai questa erosione? Non certo per le alyot. L'erosione parte dall'assimilazione, dai matrimoni misti ma soprattutto dal fatto che gli ebrei italiani, come gli italiani tutti, hanno sostanzialmente smesso di sposarsi e di fare figli. Quando si sposano lo fanno molto tardi e di figli ne fanno pochi.
  Il mio Maestro Rav Roberto Della Rocca disse ad una serata dedicata a questi numeri, qualche anno fa a Milano, che a lui "i numeri stanno sullo stomaco". Rav Della Rocca ha sostenuto, a ragione, che la storia ebraica è una storia che supera i numeri e che riesce a fare grandi cose nonostante (e forse a volte anche in virtù) dei numeri esigui. Vorrei insistere su questo punto di Rav Della Rocca perché quando si parla di questi temi c'è troppo spesso una levata di scudi, quasi fosse un tabù, quasi si attaccasse necessariamente un'etichetta qualitativa o un valore morale all'analisi della realtà. Realtà che spesso tra l'altro è il risultato di scelte (o non scelte) fatte in altre epoche. Non è certo imputabile al giovane di una micro-comunità che cerca di frequentare campeggi ed attività, il fatto che i suoi coetanei ebrei semplicemente non sono mai nati.
  E quindi è vero. Ci sono ragazzi che fanno un lavoro straordinario contro ogni statistica e Maestri, miei Maestri per i quali ho stima e rispetto, che fanno un lavoro enorme, in trincea, salvando il salvabile e spesso anche qualcosa di più. A volte però l'impressione è che "l'operazione è riuscita, il paziente è morto".
  Se è vero che dobbiamo avere rispetto per chi lavora contro e nonostante la statistica a livello individuale, abbiamo l'obbligo, a livello collettivo, di analizzare la situazione per quello che è ed operare conseguentemente. Non fosse altro per il fatto che le risorse sono notoriamente limitate, molto limitate.
  Non ci facciamo abbagliare dal moltiplicarsi di attività, di studio, di kasherut e via dicendo che vediamo a Roma. È tutto bellissimo, tutto giustissimo e tutto encomiabile. E' il risultato dello straordinario lavoro di troppi pochi. Purtroppo però se i numeri continuano così non è distante il giorno in cui semplicemente non ci saranno abbastanza bambini per aprire la prima elementare.
  Come incidono le alyot su questo discorso? Esattamente allo stesso modo: non è solo un discorso di quantità ma di qualità. Esistono, ma sono la minoranza, i casi di alyot di persone lontane dalla vita comunitaria. Molto più spesso chi decide di fare la alyà è relativamente attivo. Molti di coloro che hanno deciso di vivere in Israele lo hanno fatto per profonda convinzione ideologica prima ancora che per contingenze economiche. È innegabile che in un'Italia economicamente compromessa la Startup Nation attrae molti ragazzi ma al centro della maggior parte delle decisioni di alyà c'è piuttosto la volontà di vivere una vita ebraica, in mezzo al popolo ebraico e partecipare alla più grande rivoluzione che questo abbia avuto nella sua storia.
  È per questo che molti figli di dirigenti comunitari e di Rabbini sono in Israele. Ed è per questo che molti di coloro che sono qui, in un'altra vita, avrebbero ricoperto ruoli importanti nelle loro Comunità. È vero allora che le alyot non incidono numericamente come il fatto che non si fanno figli ma è anche vero che sottraggono - e chi scrive pensa che sia ugualmente un bene - risorse umane preziose.
  E qui arriviamo, a mio modesto avviso, al nocciolo della questione. Per parafrasare Indro Montanelli la cattiva notizia è che non vedo un futuro per l'Italia ebraica. La buona notizia è che c'è e ci può essere un futuro radioso per gli ebrei italiani e l'ebraismo italiano.
  Mentre spariscono le comunità in Italia ne nascono di nuove in Israele. Solo negli ultimi anni agli storici nuclei degli italkim, si sono sommate nuove realtà come il Tempio Yom HaYom a Natanya, il Tempio Italiano (di rito tripolino) di Tel Aviv, Scola Tempio a Gerusalemme ed un primo nucleo di comunità italiana a Raanana. Nascono come minianim, con la consapevolezza che il minian è il bulding block senza il quale non ha senso di parlare di collettività ebraica. Queste nuove comunità devono affrontare delle sfide completamente diverse e completamente nuove rispetto all'esperienza italiana.
  Non devono garantire kasherut, scuola cimiteri e mikvaot. Non devono nemmeno utilizzare le poche risorse per il festival della memoria o concerti che di ebraico hanno nulla. Hanno una sfida apparentemente semplice ma in realtà ben più complessa. Devono rispondere ad una fondamentale domanda: se l'ebraismo italiano ha qualcosa da dire, oggi, nel risorto Stato d'Israele.
  Fino a che si parla di servizi, c'è il minian ashkenazita sotto casa che dura meno, è più vicino e se ne occupa qualcun altro. Per convincere qualcuno a continuare ad essere ebreo italiano in Israele dobbiamo, lasciatemi dire finalmente, parlare di contenuti. Ed è molto più complicato rispetto a tutto ciò che abbiamo conosciuto in Italia.
  La risposta a questa domanda, paradossalmente, ha delle ripercussioni importanti anche nell'Italia ebraica o ciò che ne resta. Lo aveva capito perfettamente il compianto Rav Laras z'l, il cui testamento spirituale abbiamo citato proprio nel (ri)partire con il Corriere Israelitico.
  È su questo che non stiamo ragionando abbastanza. È di questo che dovremmo parlare, assieme, in Italia ed in Israele. Il rischio che ognuno vada per la sua strada è insostenibile per le comunità in Italia e per gli stessi italkim. È arrivato il momento di chiederci, tutti assieme, come le poche (ma nemmeno pochissime) risorse umane ed economiche possono essere utilizzate per garantire il futuro, se non dell'Italia ebraica, dell'ebraismo italiano.
  Nei giorni di lockdown abbiamo scoperto che Rabbanim da anni al benemerito servizio di piccolissimi nuclei ebraici hanno raggiunto più persone su Zoom con la loro Torà, che non in anni di attività locale. La loro guida è quanto mai necessaria oggi. Alcuni di loro, venendo per le vacanze, hanno ritrovato in Israele alunni e discepoli e si sono messi a disposizione. Il loro apporto è ed è stato importante ma è arrivato il momento di strutturarlo. È così utopistico pensare che se ha un senso tenere un Chacham italiano in una comunità di cento persone che non ci sarà tra vent'anni, ha un senso averne uno in Israele per le migliaia di ebrei italiani?
  Lo so, c'è un tema di risorse. Però anche su questo dovremmo ragionare assieme. In ogni famiglia che si rispetti il fatto che un figlio vada a vivere altrove non significa la rinuncia al patrimonio di famiglia. Ad oggi il figlio che vive in Israele sta ricevendo zero. Non è un discorso economico - esistono anche in Israele altre risorse alle quali potremmo e dovremmo accedere - è un discorso di merito.
  Abbiamo sinagoghe-cattedrali vuote in Italia e minianim in Israele che lottano per trovare una stanza dove pregare. Non penso si possano spostare qui oggi (anche se in passato è successo), penso invece che quest'immagine dovrebbe spronarci a trovare nuove soluzioni che sono possibili se capiamo che se tutti gli ebrei sono garanti l'un per l'altro, lo siamo ancora di più nella nostra comunità italiana, a Tel Aviv come a Vercelli.
  Io ho l'impressione che fino a che la catalogazione delle lapidi dei cimiteri dei nostri avi a Pisa (con tutto il dovuto rispetto) conterà più delle famiglie che i nostri figli stanno costruendo, grazie a D. con tanti bambini, a Natanya, Tel Aviv e Gerusalemme non andremo lontano.
  L'Italia ebraica sta morendo perché ha smesso di mettere la vita al centro ma l'ebraismo italiano può ancora prosperare se sceglierà, finalmente, la vita. Uvachartà bachajm!

(Il Corriere Israelitico, 23 giugno 2020)


Le truppe iraniane, in piena crisi, riducono la loro la presa in Siria

Sostituite delle più gradite ed efficaci truppe russe

di Dorian Gray

Il tentativo del dittatore siriano Bashar al Assed di oscurare la crisi di coronavirus in Siria è ormai miseramente fallito, anche in quel Paese la diffusione del virus è incontrollabile.A confermarlo sono anche le recenti informazioni di intelligence secondo cui il 12 aprile scorso ben 40 miliziani delle forze paramilitari sciite sono stati ricoverati in ospedale, per aver contratto il Covid-19. Nel frattempo, i medici e i sanitari dell'ospedale Abu Kamal (al confine tra Siria e Iraq) sono stati minacciati da rappresentanti del regime iraniano, che hanno loro intimato di tacere sui casi di coronavirus presenti nella struttura.
   Ovviamente, i militari russi sono completamente coscienti di quanto accade in Siria. Lo sono a tal punto che, a quanto pare, sin dalla metà di marzo, hanno dato ordine a Damasco di non mischiare in alcun modo i soldati russi con le forze iraniane presenti nel Paese (a metà marzo Assad negava ancora la presenza di Covid-19 nel Paese). A metà aprile, quindi, l'opposizione siriana rendeva noto che i militari russi si erano riposizionati lontano dal quartiere Bustan al-Qaser di Aleppo, proprio perché in quell'area erano presenti i miliziani sciiti.
   Recentemente si è discusso di un possibile ritiro proprio degli iraniani dalla Siria. A quanto pare, più che di ritiro, bisognerebbe parlare di ridispiegamento. È sicuramente vero che i raid costanti di Israele hanno colpito duramente le forze di Teheran, ma invece di tornarsene a casa, pare che vengano dislocate in altre aree del Paese. Ad ogni modo, si registra una minor presenza di miliziani sciiti filo-iraniani nelle aree di Deir ez-Zor, presso al-Mayadin, vicino a Palmyra e anche nella capitale Damasco, dove c'è la moschea dedicata a Sayeda Zeinab (si trattava soprattutto di foreign fìghters afghani della Divisione Fatemyoun). È possibile che parte di questi miliziani - soprattutto afghani della Divisione Fatemyoun - siano stati inviati sulla linea del fronte, nelle aree vicine ad Aleppo e alla provincia di Idlib. Nel Sud della Siria, al confine con Israele, viene anche registrato un aumento della presenza di jihadisti libanesi di Hezbollah.
   Ad ogni modo, la Russia si è affrettata a coprire alcuni vuoti lasciati dagli iraniani, in particolare presso Deir ez-Zor, dove una serie di check points prima gestiti da filo-iraniani sono ora nelle mani della polizia militare russa, dei contractors della Wagner Group o di altre forze legate a Mosca. Alcune aree sono finite sotto il controllo della Brigata Gerusalemme (da non confondere con la Forza Quds iraniana), milizia prima legata all'Iran e ora pare controllata direttamente dai russi. Russi che sembrano essere riusciti anche a controllare la Forza di Difesa Nazionale (Ndf), milizia pro-governativa siriana, i cui componenti negli ultimi mesi lamentavano il mancato pagamento dei loro salari da parte sia di Damasco che degli iraniani. Ora pare che diversi comandanti della Ndf siano finiti sul libro paga dei russi. Nei report di intelligence, si sottolinea che la crisi con i Pasdaran iraniani è iniziata proprio a causa della crisi del coronavirus.
   Quanto suddetto, dimostra due cose: la competizione tra Russia e Iran in Siria, che è non solo militare ma anche politica (si pensi alla recente defezione del cugino di Assad, Rami MakhloufJ; e che i russi sono in grado di coprire velocemente i vuoti iraniani, dimostrando di avere adesso una posizione considerata sicuramente più forte e generalmente accettata nel Paese rispetto a quella iraniana. Detto questo, il ridispiegamento dei miliziani iraniani deve preoccupare, non solo a livello militare, ma anche sanitario.
   La crisi del coronavirus in Siria è coperta dalla censura e, come noto, Teheran nasconde a sua volta i dati reali. Il rischio che il contagio degeneri fuori della Siria, magari con l'arrivo di miliziani sciiti e sunniti dalla Siria in Libia, deve preoccupare tutti, Italia in testa, soprattutto davanti al rischio che 20 mila migranti lascino il Nord Africa per arrivare in Europa.

(Atlantico Quotidiano, 23 giugno 2020)


Non si può essere inclusivi con chi strizza l'occhio al BDS

Intervista a Walker Meghnag

- Walker Meghnagi, lei è stato presidente della Comunità ebraica di Milano, e nelle scorse settimane ha aperto una polemica contro una rivista ebraica. Perché?
  Dal 2018 un nuovo giornale online si è affacciato nel mondo dell'editoria ebraica. Si chiama Joi (Jewish, Open and Inclusive). Essere ebrei, aperti e inclusivi è bella cosa ma a condizione di essere leali con i lettori.

- Cosa le ha dato fastidio di Joi?
  Troppa faziosità che porta a dividere la comunità. Il 28 aprile per esempio è uscito un articolo offensivo verso la memoria dei caduti di Israele (Yom Hazikaron, Israeliani e Palestinesi insieme per un futuro di pace) su cui ho sentito il dovere morale di intervenire visto che riguarda un tema che molto caro a tutti noi: quello di onorare chi ha perso la vita per difendere lo Stato di Israele. In tale occasione JOI a mio parere ha superato il limite della tollerabilità, raccontando ed esaltando una manifestazione estremamente minoritaria avvenuta in Israele nel giorno di Yom Hazikaron.

- Ma come può una manifestazione di pace offendere i caduti di Israele?
  In quell'evento i combattenti delle due parti (israeliana e palestinese) sono stati messi sullo stesso piano. Un po' come se il 25 aprile fascisti e resistenza celebrassero insieme il giorno della Liberazione. Abbiamo potuto approfondire la questione grazie a un articolo uscito in Israele (che abbiamo tradotto qui: Cosa si nasconde dietro lo Yom Hazikaron "alternativo") da cui emerge come l'ente organizzatore sia infiltrato da personaggi dell'ANP che non condannano gli attentati dei palestinesi contro gli ebrei e sostengono il BDS. Mostrano quindi un falso volto "buonista" dietro cui si nasconde il tentativo di delegittimare Israele, perfino nel giorno "sacro" in cui piangiamo i nostri caduti.

- Può essere che la redazione non avesse compreso le gravi conseguenza nel pubblicizzare eventi così strumentali contro Israele?
  A tutti può capitare di sbagliare nel riprendere una notizia, ma a questo punto dopo aver appreso la verità nascosta mi aspetto che Joi e i suoi fondatori prendano le distanze da quell'evento inqualificabile e quella vergognosa pseudo-celebrazione, pubblicando un articolo di rettifica che ribadisca la malafede degli organizzatori dello yom hazikaron alternativo, condannandoli in maniera chiara e inequivocabile.

- A parte questo caso specifico, crede sia comunque opportuno dialogare e essere inclusivi per la pace?
  Si può e si deve essere inclusivi, come accade in Israele dove ricordo che durante la giornata dei caduti vengono ricordati le vittime di tutte le religioni. Ma non si può essere inclusivi con chi dimostra odio verso gli Ebrei, e strizza l'occhio alla violenza e al boicottaggio contro Israele. Peraltro mi pare un'ossessione quella di chiedere sempre e solo a un Paese democratico e tollerante come Israele di dialogare, mentre dall'altra parte continuano tranquillamente a incitare all'odio: dai testi scolastici alle televisioni.

(Kolòt, 23 giugno 2020)


Essere comunità

di Dario Calimani

L'emergenza pandemia è stata un vero dono per le persone sole e per chi vive lontano da una comunità. Mai come in questo periodo si sono succedute, ogni giorno e a tutte le ore, lezioni e conferenze online che hanno accompagnato il nostro isolamento. Ci siamo accorti che si possono condividere curiosità e cultura a cui non sempre abbiamo pensato di poter accedere con tanta facilità. Ci siamo avvicinati moralmente a tanta gente, ci siamo sentiti certamente meno soli, abbiamo partecipato e condiviso. Abbiamo preso coscienza di fare parte di un tutto, e questo è un bene. Ci ha aiutato a superare il momento forse peggiore della crisi. Non siamo soli nella sventura, abbiamo pensato, e quando ne usciremo ne usciremo tutti insieme, attraverso la stessa esperienza e con le stesse ansie e le stesse preoccupazioni.
   E, tuttavia, c'è stato uno scotto pesante da pagare, perché è venuto meno il contatto diretto, è stato compromesso il valore del minian, si sono sfaldati i legami sociali, lo spirito di comunità si è drammaticamente allentato. Riprendere le fila, riproporre il senso dello stare insieme, ricostituire lo spirito di comunità dovranno essere, per le dirigenze comunitarie, la priorità e l'impegno per l'immediato futuro. Il rischio, altrimenti, è quello di lasciar credere che per essere comunità sia sufficiente un collegamento online alle sei di sera.
   La via verso la ripresa non potrà che essere la condivisione totale dei problemi comunitari, l'apertura di un ampio dibattito che ci coinvolge tutti, nello spirito dell'interesse comune più basilare. Un ulteriore passo verso l'indifferibile 'democratizzazione' dei processi progettuali - e magari decisionali - che faccia sentire a tutti di essere parte davvero integrante ed essenziale della comunità cui appartengono. Ora, registrare l'allarme non basta, è necessaria la progettualità. Ne va del nostro futuro.

(moked, 23 giugno 2020)


*


La socialità a distanza, purtroppo, funziona

Nell’articolo precedente l’autore, riferendosi alla comunità ebraica, inizia con un elenco particolareggiato di molti aspetti positivi della socialità a distanza provocata dalla pandemia. Ne rifacciamo un elenco:
    lezioni e conferenze online hanno accompagnato il nostro isolamento:
    abbiamo potuto condividere curiosità e cultura:
    ci siamo avvicinati moralmente a tanta gente;
    ci siamo sentiti meno soli;
    abbiamo partecipato e condiviso;
    abbiamo preso coscienza di far parte di un tutto;
    siamo stati aiutati a superare il momento forse peggiore della crisi;
    abbiamo pensato di non essere soli nella sventura.
Che dire di più? Gli evangelici potrebbero aggiungere tanti altri elementi all’elenco. Non c’è che dire: la cosa ha funzionato. Nell’immediato. Ma ci sono rimedi che nell’immediato funzionano, e si vede, ma creano le condizioni per un male futuro, che ancora non si vede. Il guaio è che chi sostiene l’efficacia del rimedio può subito esibire i risultati positivi, che si vedono, mentre chi è convinto della nocività del rimedio non può fare lo stesso, perché i mali ancora non si vedono. Questo è tanto più vero quando nel discorso si fa intervenire un elemento che non compare in nessuna analisi e progetto politico: Dio. Che c’entra Dio? obietta subito l’uomo determinato e decisionista: noi abbiamo un problema tecnico, di enorme gravità certo, ma in primo luogo squisitamente tecnico, ed è con tali armi che dobbiamo affrontarlo: così si deve fare. E così hanno fatto e fanno ancora i politici, che non hanno il compito di fare riferimenti a Dio, anzi hanno il dovere di non farli. Ma sorprende che anche coloro che invece fanno, prima di tutto, riferimenti a Dio, come cristiani ed ebrei, si sono egregiamente inseriti nella corrente della soluzione mediatica senza obiezioni serie legate in modo specifico al loro rapporto primario con Dio. La motivazione fondamentale è stata quella di tutti: funziona. Ma il ricorso prolungato e acritico a questo strumento di sofisticazione di incontri di uomini e donne in carne ed ossa intorno al nome del Signore produrrà, anzi sta già producendo, danni forse irreparabili, anche perché non immediatamente riconoscibili. Se ne dovrebbe parlare, ma non c’è tempo. C'è tanto da lavorare, le cose devono funzionare. M.C.

(Notizie su Israele, 23 giugno 2020)


Israele. Per i Servizi Segreti l'annessione della Cisgiordania va fatta ora

di Luigi Medici

Una recente analisi del ministero dei Servizi Segreti israeliano ha stabilito che questo è il momento migliore per attuare l'annessione di alcune parti della Giudea e della Samaria e della Valle del Giordano. Inoltre, i ricercatori del Ministero non prevedono un'esplosione di violenza e ritengono che le relazioni con i paesi arabi torneranno alla normalità in breve tempo.
  Il documento, ripreso da Israel Hayom, presentato al ministro dei Servizi segreti Eli Cohen presenta i vantaggi dell'iniziativa politica: «L'iniziativa migliora le condizioni di partenza dei futuri negoziati con i palestinesi per Israele e cristallizza il costo del rifiuto palestinese dei colloqui di pace, e quindi potrebbe spingere i palestinesi a tornare al tavolo dei negoziati nel tentativo di fermare ulteriori fasi».
  Secondo gli analisti del Ministero israeliano, le critiche internazionali all'iniziativa diminuiranno dopo un breve periodo di tempo: «Dopo un'ondata di proteste diplomatiche, soprattutto da parte dei governi, l'annessione non solleverà le piazze arabe contro i regimi. L'assenza di mobilitazione nelle strade farà capire ai leader arabi che la questione palestinese non è una minaccia per loro. L'internazionalizzazione di questa visione potrebbe a medio termine fornire una piattaforma per migliorare i legami con Israele, senza aspettare un accordo israelo-palestinese», conclude il documento.
  Di conseguenza, gli analisti del Ministero dei servizi segreti ritengono che la sovranità potrebbe, forse in modo controintuitivo, costringere i palestinesi a tornare ai colloqui di pace con Israele piuttosto che allontanarli ulteriormente: «Dopo un periodo in cui il sistema internazionale si acclimata all'annessione, il provvedimento spingerà i palestinesi e gli altri elementi della regione e del mondo a trovare soluzioni e accordi che non siano appiccicati alle linee del 1967 e soprattutto agli aspetti territoriali», si legge.
  Per quanto riguarda la questione dei tempi, la raccomandazione del documento è di effettuare l'annessione ora piuttosto che aspettare, perché è impossibile sapere come si svolgeranno le elezioni presidenziali americane di novembre. Gli analisti hanno inoltre affermato che «non ci si aspetta un disordine diffuso in Giordania, soprattutto se tale disordine è assente in Giudea e Samaria». Un'altra ragione per una rapida annessione è «l'obiezione dell'Autorità palestinese all'uso della violenza, derivante dal suo stesso interesse esistenziale».
  Altre ragioni per attuare l'iniziativa in questo momento sono «la bassa posizione internazionale dell'Ap a causa della spaccatura con gli Stati Uniti; la mancanza di appetito di Hamas per un altro round di combattimenti; l'apatia dell'opinione pubblica palestinese in Giudea e Samaria, che si preoccupa soprattutto dei problemi della vita quotidiana; la preoccupazione del mondo per la pandemia del coronavirus; e le preoccupazioni più pressanti dell'opinione pubblica araba in patria».

(AGCnews, 22 giugno 2020)


Tehran: trama, cast e curiosità sulla serie TV di Apple TV

di Mara D.

 
Tamar Rabinyan (Niv Sultan)
 
Apple cede alle serie TV israeliane assicurandosi un nuovo ed attesissimo thriller: Tehran. Il gigante americano ha infatti deciso di co-produrre la serie TV drammatica, incentrata sul conflitto iraniano-israeliano ed ideata da Moshe Zonder, già sceneggiatore di Fauda.
Tehran è realizzato da Cineflix Rights e dalla rete israeliana Kan 11, ma Apple TV fungerà anche da servizio di streaming esclusivo.

La trama
Tehran è incentrata su Tamar Rabinyan (interpretata da Niv Sultan), una donna ebrea nata in Iran e cresciuta in Israele nonché agente del Mossad sotto copertura a Teheran. Per portare a termine la sua pericolosa missione, ovvero neutralizzare le difese aeree iraniane in modo che gli aerei da guerra israeliani possano bombardare un reattore nucleare e impedire all'Iran di ottenere la bomba atomica, la donna metterà in grave pericolo tutti coloro che la circondano.

Il cast della serie TV
Il thriller di spionaggio è stato ideato da Moshe Zonder, Dana Eden e Maor Kohn e sarà diretta dal regista Daniel Syrkin (Out of Sight). Il cast di Tehran è composto da:
   • Niv Sultan (The stylist) nei panni della protagonista
    • Shaun Toub (Homeland) nel ruolo di Faraz Kamali
    • Esti Yerushalmi (Florentine) in Arezoo
    • Arash Marandi in Ali
    • Moe Bar-El (Le Bureau - Sotto copertura) nel ruolo di Karim
    • Navid Negahban (Homeland) in Masoud Tabrizi
    • Liraz Charhi (Eifo Ata Hai) nei panni di Yael Kadosh
    • Menashe Noy (Our Boys) nel ruolo di Meir Gorev
    • Shervin Alenabi (Le Bureau - Sotto copertura) in Milad

La data di pubblicazione
La prima stagione sarà composta da otto episodi e sarà presentata in anteprima in Israele il 22 giugno 2020. Ad oggi non è però ancora stata comunicata la data di uscita americana e internazionale.
Non è ancora disponibile un trailer di Tehran della serie TV.

(Telefilm Central, 22 giugno 2020)


Israele. Nuova ondata di contagi

L'attività del Centro Santa Rachele per i migranti

Seconda ondata di contagi da coronavirus in Israele dove il ministero della Sanità ipotizza di chiedere nuovamente ai servizi di sicurezza interna, lo Shin Bet, di tracciare le persone contagiate e i loro spostamenti per impedire che l'epidemia si diffonda ulteriormente. Secondo quanto riporta Terrasanta.net, "gli ospedali sono stati posti nuovamente in preallarme e si discute se reintrodurre o meno restrizioni. Il governo puntava sulla data del primo agosto per riaprire gli aeroporti ai flussi turistici, ma i dati di questi giorni interrogano.
   Anche nei Territori Palestinesi si registrano nuovi casi: sorvegliate speciali le città di Hebron e Nablus. Da febbraio alla data del 21 giugno i contagiati complessivamente rilevati in Israele sono 20,734; 306 i morti. Nei Territori palestinesi di Cisgiordania, sono 810 i positivi; 2 i defunti. Nella Striscia di Gaza, 72 positivi e un decesso".
   Intanto il sito del Patriarcato Latino di Gerusalemme presenta un resoconto sul trascorso periodo di 'isolamento' del Centro Santa Rachele (distretto Talbieh, Gerusalemme), nato nel 2016 e che accoglie i bambini dei migranti cattolici e richiedenti asilo in Israele. Il centro, che fa capo al vicariato di San Giacomo per i cattolici di lingua ebraica in Israele, è stato costretto a chiudere i battenti a metà marzo, nel rispetto delle misure adottate dalle autorità civili per il contenimento del virus.
   Tuttavia per dare modo ad alcune famiglie di migranti e rifugiati (indiani e filippini) particolarmente vulnerabili per alloggio e povertà, e quindi più esposte al rischio contagio, hanno accolto nelle due case del Centro nove bambini e le loro madri, disponendo il rispetto delle regole sanitarie imposte dal governo. Il Centro ha garantito anche la didattica a distanza ai bambini e lanciato una raccolta fondi tra le comunità cattoliche di espressione ebraica per garantire l'aiuto. La pandemia, infatti, ha creato gravi problemi economici per i migranti e i richiedenti asilo. Durante questo tempo di 'quarantena' sono stati distribuiti kit antistress ai genitori dei bambini. Il kit, preparato da IsraAid, un'organizzazione israeliana la cui missione è sostenere le persone colpite dalla crisi umanitaria, conteneva una lettera di spiegazione in arabo e tigrino, una pianta di menta, una palla morbida, carte da gioco, colori e altri oggetti pensati per i momenti di pressione e stress. È stata celebrata messa due volte a settimana nel parco giochi del Centro sempre nel rispetto delle regole sanitarie (mascherina e distanziamento sociale). Anche l'amministratore apostolico del Patriarcato latino, mons. Pierbattista Pizzaballa, ha fatto visita al Centro dove ha celebrato messa.

(SIR, 22 giugno 2020)



Gerusalemme da scoprire

Dopo l'apertura di parchi, ristoranti, spiagge e luoghi santi è ora la volta di Gerusalemme che lentamente ritorna ad offrire la possibilità di visitare i suoi straordinari siti e i suoi imperdibili luoghi, sempre seguendo le precise regole del distanziamento.
   La città si sta infatti preparando per poter essere riscoperta in tutti i suoi molteplici aspetti: eccezionale per la storia millenaria che la caratterizza, ma anche per l'offerta culinaria, per un patrimonio museale di grande fama mondiale, per gli hotel di alta classe e per il sempre costante rispetto dell'ambiente e della natura.
   Gerusalemme risulta poi essere la terza destinazione più sicura la mondo a seguito della crisi aperta dalla diffusione del Covid19.
   E' stata poi scelta da TripAdvisor come la quarta destinazione turistica più promettente al mondo, dichiarata tale dal suo stesso fondatore e CEO Stephen Kaufer "destinazione preferita".
   Oltre che per la sua storia millenaria, Gerusalemme è emersa come destinazione di grandissima importanza dal punto di vista culinario, riuscendo così ad essere collocata nel 2017 come una delle 50 migliori location al mondo scelte per viaggiare con questa finalità e una delle 10 città più consigliate in assoluto.
   Inoltre, sia Harper's Bazaar che Conde Nast Traveler inseriscono gli hotel di Gerusalemme nelle loro liste per le scelte relative ad hotel di lusso. Ora la città sta aspettando che i turisti ritornino a fruire dei suoi luoghi: tutte le esperienze sono disponibili secondo le vigenti norme stabilite dal Ministero della Salute, rigorose quanto necessarie, al fine di garantire che i turisti di Gerusalemme si sentano sicuri e ovunque a proprio agio. Questa classifica è stata stilata a seguito della ricerca realizzata dalla Deep Knowledge Ventures che ha studiato il comportamento di 200 Paesi in tutto il mondo durante la crisi covid-19 e ha classificato Israele al terzo posto come uno dei paesi più sicuri.
"Gerusalemme si sta preparando ad accogliere nuovamente i turisti provenienti da tutto il mondo. Un viaggio in Israele rappresenta spesso un sogno per migliaia di persone desiderose di conoscere la Terra dove tutto ha avuto inizio e Gerusalemme costituisce il diamante delle bellezze di Israele, irrinunciabile, affascinante, in un percorso di viaggio che si snoda dentro e fuori ciascun visitatore",
ha dichiarato Avital Kotzer Adari, direttore dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo.
   Ad oggi sei hotel sono già aperti: Alegra, Waldorf Astoria, Leonardo Plaza, Post-Hostel, Prima Kings e Arthur per un totale di 762 camere. Questo significa che già oggi sono disponibili alloggi di tutti i tipi: ostelli, hotel di lusso, hotel boutique. Questa settimana dovrebbero aprire altri due hotel: Inbal e Ramat-Rahel. Durante il mese di luglio è prevista la riapertura di altri sei hotel, tra cui: Mamilla, David Citadel, Orient, King David, Leonardo e Abraham per un totale di 1516 camere. Ad agosto altri 5 hotel si uniranno al gruppo: s Ibis, Dan Gerusalemme, Olive's tree e Herbert Samuel per un totale di 1171 camere: il che significa che in estate quasi 4000 camere di tutti i tipi saranno disponibili a Gerusalemme.
   Circa tre settimane fa, i ristoranti sono stati nuovamente aperti al pubblico, pur mantenendo le restrizioni imposte dalle regole Covid19. Insieme alla maggior parte dei ristoranti di questo gioiello culinario che è Gerusalemme ha riaperto anche il suggestivo mercato Mahane Yehuda, un vero paradiso per la sua offerta di cibo.
   Tra le regole relative al distanziamento: la presenza contemporanea di non oltre 100 clienti. I ristoranti con una disponibilità fino a 100 posti avranno una percentuale di occupazione dell'85% mantenendo tra i tavoli una distanza di 1,5 metri. Sarà oltremodo consigliato prenotare in anticipo così da verificare l'effettiva disponibilità nel rispetto della normativa attuale e delle regole di igienizzazione previste.
   Tanto per i musei quanto per le attrazioni in generale sarà possibile effettuare prenotazione e pagamenti in anticipo. Alcune attrazioni all'aperto sono già disponibili, tra cui la suggestiva Colonia degli Artisti. Tutte le gallerie sono aperte così come la suggestiva passeggiata lungo le mura, il Zedekiah's tunnels, l'anfiteatro Givat Ram, l'Ammunition Hill. La Biblioteca nazionale, lo Zoo biblico e l'Acquario sono aperti con però richiesta di prenotazione anticipata, così come la Valle delle Gazelle, i Giardini Botanici, i quartieri di Ein Karem e Yamin Moshe, incluso il celeberrimo mulino, e tutta l'area della First Station insieme all'Hansen House: tutto risulta regolarmente aperto e visitabile. Tra i musei aperti e i siti archeologici: la città di Davide e le passeggiate dell'area esterna e tutte le aree all'aperto, la Torre di Davide con il suo celeberrimo spettacolo di suoni e luci e persino una nuova mostra, il Tunnel del muro occidentale e naturalmente il Muro (Qotel) il museo Hertzel, il Museo di arte islamica, il Museo della Musica, il Museo della Natura e il Museo del Sionismo.

 Gerusalemme si prepara poi per i sui prossimi eventi internazionali.
  La "cucina" del Wohl Rose Park è tornata in attività, tutti i giorni fino alle 17:00 e giovedì fino a mezzanotte con appuntamenti diversi. Lo yoga a Guy-Ben-Hinom ha luogo per esempio ogni venerdì. Il food truck a Guy-Ben-Hinom sarà aperto a partire da luglio ogni settimana da martedì a giovedì.
  Il Festival di Opera Lirica di Gerusalemme si terrà dal 06 luglio al 02 agosto. A luglio avranno luogo anche il Festival d'arte di Gerusalemme, il Beer-Garden alla prima stazione. Il famoso festival del cinema avrà luogo come di consueto alla fine di agosto, tra il 20 e il 30 agosto 2020. Il festival più popolare della città, Open Restaurants, si terrà a novembre o dicembre (TBT) e Open House si svolgerà dal 29 al 31 ottobre p.v.

(JamesMagazine, 22 giugno 2020)


Il rabbino capo degli ebrei iraniani: al contrario dell'Europa, in Iran gli ebrei vivono sicuri

TEHERAN - Il rabbino capo degli ebrei iraniani Yehuda Gheramì ha affermato che la sicurezza degli ebrei in Iran è davvero ottima aggiungendo: "Al contrario dell'Europa, in Iran, non c'è bisogno della presenza delle forze di sicurezza per fare la guardia alle scuole ed ai luoghi di culto ebraici".
Intervistato dalla rete Al-Monitor, Yehuda Gheramì ha spiegato che oggi 25 mila ebrei vivono nelle diverse città dell'Iran e che hanno libertà di culto assoluta e che non trovano alcuna restrizione per le loro cerimonie religiose.
Gheramì ha sottolineato che i musulmani dell'Iran hanno un grande rispetto degli ebrei.
Gheramì ha poi ricordato che il regime sionista non è rappresentante degli ebrei del mondo e che il governo israeliano, si è allontanato moltissimo dai precetti dell'ebraismo con le sue azioni.
Gheramì ha ricordato inoltre che gli ebrei iraniani ritengono importantissima l'opera del martire Soleimani, che con la sconfitta dell'ISIS, ha tenuto lontano dai confini iraniani questo terribile gruppo terroristico.

(ParsToday, 22 giugno 2020)


Politica israeliana: quando l'instabilità è regola

di Ugo Volli

Sarà una conseguenza dell'epidemia, ben lungi dall'essere conclusa ma che in molti paesi si è allentata abbastanza da lasciar spazio anche ad altri pensieri. O sarà il fatto che le questioni non risolte e lasciate da parte per alcuni mesi, come le elezioni americane, la Brexit o il Piano Trump tornano fuori secondo i loro tempi. Fatto sta che vi sono situazioni di instabilità e di tensione in molti importanti sistemi politici. Le violente manifestazioni che hanno devastato parecchie città americane in seguito alla morte di un arrestato non erano solo ira spontanea per la violenza della polizia, ma sono state sfruttate per cercare di mettere in svantaggio la campagna di Trump per la rielezione.
   In Italia dopo il momento della (molto discutibile) gestione dell'emergenza da parte del governo Conte, riemergono le tensioni politiche fra le forze che lo sostengono e l'assenza di una linea politica condivisa.
   In Israele, il nuovo governo Netanyahu-Gantz, nato chiaramente nella diffidenza reciproca fra i partner, non ha avuto che pochi giorni di tranquillità e ora è di nuovo nella burrasca. I temi sono due: uno è la volontà di Netanyahu di approfittare dell'occasione storica per estendere la sovranità israeliana sugli insediamenti ebraici di Giudea e Samaria e sulla valle del Giordano - territori entrambi strategici per Israele e senza una rilevante popolazione araba, su cui Gantz e il suo vice Askenazy invece frenano. Gli accordi di governo prevedono che Netanyahu possa far passare l'iniziativa anche senza l'accordo dei Bianco-Azzurri, e la maggioranza ci sarebbe, ma gli Usa vorrebbero un consenso più ampio e Netanyahu ha minacciato di andare alle elezioni.
   Un altro tema, legato a questo, è legato al bilancio dello stato, che Gantz vorrebbe biennale, per prevenire le elezioni, e Netanyahu annuale, per tenersi le mani libere e soprattutto perché non ha senso impostare un budget lungo quando non si conoscono le conseguenze economiche dell'epidemia. La turbolenza politica insomma è ripresa in Israele e non cesserà tanto presto, perché l'accordo di governo era più una scelta tattica che un programma comune.

(Shalom, 21 giugno 2020)


Hezbollah minaccia di attaccare luoghi in tutta Israele con missili guidati

Hezbollah ha minacciato di bombardare Israele con estrema precisione usando missili guidati.



Un video pubblicato dal gruppo militante libanese sembra mostrare le coordinate di siti sensibili in Israele e nei territori palestinesi che potrebbero essere presi di mira in caso di attacco.
  Con una voce fuori campo fornita dal leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, nel video si afferma che il gruppo è in grado di bombardare "obiettivi molto specifici a Tel Aviv e in qualsiasi parte della Palestina occupata".
  Il video di 39 secondi termina con lanci di missili che emergono da sotto il terreno. Una didascalia in ebraico e arabo recita "Qualunque cosa tu faccia per bloccare la strada - è finita, fatta e completata", come tradotto da The Times of Israel.

 Cos'è Hezbollah?
  Hezbollah ("Partito di Dio" in arabo) è stato fondato nel 1982 a seguito del consolidamento delle milizie sciite con l'obiettivo di cacciare le forze israeliane dal Libano meridionale. Il gruppo ha acquisito una maggiore influenza politica in Libano dal ritiro d'Israele dal paese nel 2000, e fa parte del governo libanese dal 2005.
  Hezbollah ha combattuto una guerra di breve durata con Israele nel 2006 che ha visto migliaia di razzi colpire il nord d'Israele, e da allora è rimasto ostile verso Israele e la sua alleanza con gli Stati Uniti.
  L'esercito israeliano considera Hezbollah, designato in Israele come un gruppo terroristico, un agente dell'Iran (Nasrallah ha ammesso in passato che l'organizzazione dipende fortemente dai finanziamenti di Teheran).
  Hezbollah ha circa 150.000 razzi e missili con diverse gittate, secondo le valutazioni militari israeliane, anche se il numero esatto di missili di precisione rimane sconosciuto. Nasrallah si è vantato il mese scorso che il suo gruppo ha "abbastanza missili guidati con precisione in Libano per qualsiasi scontro, piccolo o grande".
  Si ritiene che l'arsenale del gruppo sia stato acquistato dall'Iran o prodotto sul suolo libanese. Nell'agosto 2019, le forze di difesa israeliane hanno affermato di aver esposto tre comandanti iraniani che presumibilmente lavoravano con Hezbollah per fabbricare missili a guida di precisione. Nasrallah ha risposto al momento in cui il gruppo non ha strutture per fabbricare tali missili e lo confermerebbe apertamente se lo facesse.
  Lo scorso settembre, Israele e Hezbollah hanno visto i loro peggiori scontri da anni dopo che Hezbollah ha lanciato vari razzi anticarro su posizioni dell'Esercito di difesa israeliano lungo l'area di confine controversa nel nord di Israele in rappresaglia per un attacco con droni israeliano a Beirut.

(Sputnik Italia, 21 giugno 2020)


In Israele salgono i contagi, 443 in due giorni

Il governo Anp ordina la chiusura di Hebron e Nablus

Il numero dei casi positivi di coronavirus è salito in Israele da venerdì mattina di 443 unità, portando così la cifra complessiva aggiornata a 20.686. Lo ha riferito il ministero della sanità secondo cui le guarigioni sono state finora 15.664. I malati assommano a 4.716, 209 dei quali sono ricoverati in ospedali e 28 di essi sono in rianimazione. I decessi sono 305.
Alla luce della accelerazione dei contagi, oggi avrà luogo una consultazione straordinaria dei direttori generali del ministeri impegnati nella lotta alla epidemia mentre domani il premier Benyamin Netanyahu presiederà una riunione del 'Gabinetto del coronavirus'.
Anche la Autorità nazionale palestinese è impegnata a contenere la ripresa della pandemia dopo che il numero dei casi positivi ha quasi toccato la cifra complessiva di 1.000 in Cisgiordania, Gerusalemme est e Gaza. In Cisgiordania - riferisce la agenzia Wafa - il premier Mohammed Shtayeh ha ordinato la chiusura per cinque giorni di Hebron e di due giorni di Nablus. Ha inoltre vietato da oggi lo svolgimento di matrimoni e di altre riunioni pubbliche.

(ANSAmed, 21 giugno 2020)


*


Israele, aumento dei contagi da Covid-19. "Prepariamo i nostri ospedali"

Gli ospedali israeliani si preparino con urgenza a riaprire i reparti per i pazienti contagiati dal coronavirus. È il messaggio inviato nelle scorse ore dal ministero della Salute d'Israele ai direttori degli ospedali del paese. Sale infatti la preoccupazione alla luce del progressivo aumento dei contagi da Covid-19 e il paese prende le sue precauzioni. Parlando nella riunione settimanale del governo, il Primo ministro Benjamin Netanyahu ha definito scure le previsioni legate ai dati dei contagi e fatto un appello alla cittadinanza a cambiare le proprie abitudini per evitare ulteriori lockdown. "Se non cambiamo immediatamente il nostro comportamento riguardo alle mascherine e al rispetto del distanziamento sociale, dovremo tornare alla chiusura", ha detto Netanyahu, parlando nuovamente della necessità di "appiattire la curva".
"Non abbiamo altra scelta se non quella di osservare una politica responsabile e informata, che ci permetterà di riaprire l'economia e di tornare alla normalità ai tempi del coronavirus", le parole del Premier. Sembra così ulteriormente spostarsi la possibilità di riapertura dei confini del paese agli arrivi dall'estero, in particolare ai voli commerciali. "Il virus continuerà ad accompagnarci per il prossimo anno e mezzo: non dobbiamo essere isterici", il messaggio di Benny Gantz, ministro della Difesa e primo ministro alternativo.

(moked, 21 giugno 2020)


Maccabi ad un passo dal titolo israeliano

Hapoel-Maccabi 0-2, ma lo stadio è comune fra le due squadre a Tel Aviv

Nel derby della città di Tel Aviv, l'attuale campione in carica e leader della classifica Maccabi ha sconfitto "in trasferta" l'Hapoel 2-0 e si è avvicinato ancora di più alla difesa del titolo.
La rivalità cittadina è basata sul fatto che i due club hanno basi di supporto diverse. L'Hapoel è più legato alla classe operaia, mentre il Maccabi è considerato un club più borghese. Entrambe le squadre giocano al Bloomfield Stadium. Quando l'Hapoel Tel Aviv è la squadra di casa nel derby sono riservate ai tifosi avversari le tribune 10-11. Quando il Maccabi Tel Aviv è la squadra di casa, le tribune 4-5 sono riservate ai fan dell'Hapoel.
Con il 2-0 nel derby, il Maccabi di Vladimir Ivi? ha interrotto una serie di due partite senza vittoria. L'Hapoel ha resistito a lungo, più precisamente fino al 72esimo minuto, quando la sua difesa è fatalmente crollata. Il gol del vantaggio è stato segnato da Rikan e gli ospiti hanno tratto ulteriore slancio ed energia da questa rete, tanto che hanno raddoppiato nei minuti di recupero con Almog.
Con questa vittoria, il Maccabi ha rafforzato il suo primo posto e ha 75 punti, 12 in più rispetto al Maccabi Haifa. Teoricamente, la squadra di Vladimir Ivi? potrebbe assicurarsi il titolo nel turno successivo. LHapoel è quinto con 45 punti.

(La Gazzetta dello Sport, 21 giugno 2020)



Dio uccide: uno scandalo dei nostri tempi

L'articolo che segue è stato scritto più di trent'anni fa. Era rivolto soprattutto al mondo evangelico, che già da allora cominciava a subire l'influenza ideologica di una società che si dice laica con radici ebraico-cristiane, mentre si rivela sempre più come una società anticristiana con influenze pagano-libertine.
Il titolo dell'articolo è quello originale: era scandaloso allora e lo è tanto più oggi. Ma se confronto con questa società ci deve essere, allora deve avvenire sulle cose importanti. E nella fede cristiana le cose più importanti, anzi fondamentali, sono questioni di vita e di morte.


di Marcello Cicchese

Temete colui che, dopo aver ucciso, ha il potere                
di gettare nella geenna. Si, vi dico, temete lui
(Luca 12:5).

La società in cui viviamo è una società laica, ma non antireligiosa. Potremmo anzi dire, con l'apostolo Paolo, che è "fin troppo religiosa", perché è disposta a concedere spazio a tutti i tipi di religiosità, nella convinzione che ogni forma di fede può essere portatrice di valori che contribuiscono a promuovere la dignità umana. Naturalmente, una data religiosità è tanto più apprezzata quanto più si accorda con gli obiettivi di progresso che sono già presenti nelle coscienze più sensibili.
   Si può spiegare così la particolare attenzione che il mondo laico italiano ha cominciato a rivolgere, negli ultimi anni, all'ambiente delle chiese evangeliche, e soprattutto a quello delle chiese storiche che naturalmente sono le più raggiungibili dalla società organizzata. Al contrario della chiesa cattolica, la cui immagine classica resta quella di un'organizzazione religiosa che appoggia la conservazione nella politica e nei costumi, il mondo evangelico si presta bene ad essere inserito in un progetto di promozione umana a cui sono invitate a concorrere le più svariate componenti politiche e culturali.
   E' inutile negarlo: come evangelici, la cosa ci lusinga. Essere presi in tanta considerazione dopo secoli di infamante emarginazione, non può che farci piacere.
   Però, c'è anche il rovescio della medaglia. Questa società laica e plurireligiosa ha i suoi inespressi canoni di valutazione, e non sembra disposta a rinunciarvi tanto facilmente. Prendiamo, per esempio, il problema della sofferenza, e chiediamoci come viene sentito e vissuto nell'uomo medio di oggi.
   Venuti meno i grandi ideali del passato, in nome dei quali si potevano richiedere sacrifici personali e, nei casi estremi, anche il sacrificio supremo della vita, l'ideale odierno sembra essere quello di vivere il meglio possibile, con il massimo di soddisfazioni personali e il minimo di guai. Per dirla con parole più eleganti, l'obiettivo che si persegue è quello di una migliore qualità della vita, di una vita più "umana" sotto tutti gli aspetti. In questa prospettiva, la sofferenza non occupa alcun posto positivo. Anzi, essendo di fatto scomparsa ogni superiore legittimazione della sofferenza, è proprio la sofferenza stessa, sociale e privata, ad essere divenuta l'avversario numero uno dell'umanità. Le battaglie giuste sono quelle che mirano a diminuire la somma delle sofferenze umane; l'eroe è colui che nella sua lotta contro la sofferenza pensa più alla collettività che a sé stesso; il cattivo è colui che accresce le sofferenze altrui per voler diminuire le proprie; la lotta per la giustizia è il tentativo di sanare questi squilibri e ottenere una vita più "umana" per tutti. Naturalmente, non per tutte le sofferenze degli uomini si può trovare l'origine in qualche persona o in qualche sistema politico: esistono anche, come tutti sanno, le malattie e le catastrofi naturali. Se le sofferenze provocate dall'uomo si combattono con la politica, le sofferenze provocate dalla natura si combattono con la scienza. Quindi, il militante politico e lo scienziato costituiscono i moderni sacerdoti della nostra società laica. Il compito che si richiede alle comunità religiose è soprattutto quello di procurare militanti politici fidati e coscienziosi e scienziati seri e preparati. Tutto il resto religioso non interessa: fa parte di quel folclore che va rispettato e mantenuto perché rende vario il paesaggio e meno monotona la vita, ma non ha alcuna diretta rilevanza sociale.
   Anche la nostra variopinta "protestanticità" è folclore: non facciamoci illusioni. Possiamo perfino arrivare ad essere ricercati per quel quid di esotico che ci può rendere attraenti, ma questo non significa che la gente sia veramente interessata a quello che ci sta più a cuore. Certo, il nostro Dio si presenta più moderno e meno invadente di quello del Papa, e inoltre dalle nostre file escono non pochi di quei sacerdoti laici di cui si diceva sopra. Possiamo dunque anche essere apprezzati e stimati, e tuttavia non essere presi in seria considerazione come credenti. Perché, per dirla con parole brute, nella cultura progressista della nostra società, Dio serve solo nella misura in cui si presta ad essere un generatore di energia per le persone impegnate nella lotta contro il male, visto sempre nella forma di sofferenza.
   Tra i mali dichiarati, e purtroppo invincibili, c'è ovviamente la morte. L'uomo cerca di fare il possibile per limitarne gli effetti negativi, e naturalmente si aspetterebbe di avere Dio dalla sua parte. Non potrebbe, anzi, un Dio onnipotente e buono porre rimedio al problema della morte? Quante volte questa domanda si è ripetuta, in un atteggiamento di ribellione, davanti ad una bara! E' chiaro che per chi ragiona così la morte costituisce uno degli ostacoli più seri all'accettazione dell'"ipotesi-Dio". La parte migliore dell'umanità sta combattendo contro oscure e caotiche forze che degradano l'uomo e lo mantengono nei travagli: dov'è allora quel Dio che dovrebbe darci una mano nella nostra lotta per una vita più umana e che invece scompare dietro una maschera macabra ogni volta che sembra di averlo intravisto?
   Ed ecco allora lo scandalo, l'elemento non integrabile nella cultura della nostra società laico-plurireligiosa: per la fede cristiana è proprio Dio che fa arrivare all'uomo sofferenza e morte. "Dio uccide" è la forma volutamente urtante che si può dare a questa indiscutibile verità biblica.
    "Temete colui che, dopo aver ucciso, ha il potere di gettare nella geenna. Si, vi dico, temete lui" (Luca 12:5).
A questo punto dobbiamo aspettarci che i moderni ateniesi che con molta urbanità s'intrattengono con noi nell'Areopago (Atti 17:16-34) ci rispondano di non avere tempo per stare a sentire simile cose. C'è tanto da fare per risolvere i problemi di questo mondo che non è il caso di attardarsi a esaminare gelide visioni religiose che invece di liberare l'uomo sembrano volerlo mantenere incatenato alle sue paure, magari per poterlo dominare meglio.
   Le obiezioni di queste persone benintenzionate sono, dal loro punto di vista, legittime. Ma è il loro punto di vista che è sbagliato. Perché non è quello di Dio. Dio considera la morte come la giusta, inevitabile sorte che sopravviene all'uomo che, peccando, si è staccato da Lui, che è il donatore della vita. Ogni funerale, quindi, dovrebbe essere vissuto in uno spirito di contrizione, perché in esso si rinnova il giudizio di Dio su tutti noi, uomini peccatori.
   Nella sua natura, la morte esprime il contrario di ciò che Dio è; ma essa non è una potenza che si possa opporre al volere di Dio. Questo significa che non si esce mai dall'ambito di ciò che Dio permette, nemmeno nella sofferenza, nemmeno nella morte. Dio non rinuncia a far agire la morte al servizio dei suoi progetti. Egli l'aveva detto: "Nel giorno che tu ne mangerai, certamente morrai" (Genesi 2:17). E dopo il peccato dell'uomo ripeté: "Sei polvere, e in polvere ritornerai" (Genesi 3:19). E fu sempre Dio che alla donna disse: "Moltiplicherò grandemente le tue pene e i dolori del.la tua gravidanza" (Genesi 3: 16); e all'uomo disse: "Mangerai il pane col sudore del tuo volto" (Genesi 3:19).
   Non è linguaggio poetico, questo. Anzi, è proprio nelle sofferenze concrete e davanti alla morte vera che dobbiamo ricordare queste parole e chiederci quale valore hanno per noi. L'istinto alla ribellione è più che mai comprensibile; ma si tratta di vedere se siamo disposti ad ascoltare anche il resto di quello che Dio ha da dirci sull'argomento, o se la nostra ribellione ci spingerà ad allontanarci sempre di più da Lui.
   Dalla Scrittura sappiamo che la sentenza di morte non fu l'ultima parola che Dio pronunciò sull'uomo. La Bibbia intera è il racconto di ciò che Dio ha fatto per strappare l'umanità dalle conseguenze del suo peccato, cioè dalla morte. Dio non è rimasto lontano, nella sua posizione di giudice, ma ha voluto fare Egli stesso, nel suo Figlio, l'esperienza della morte per renderci partecipi di una nuova vita nella risurrezione di Gesù Cristo. Egli ha potuto vincere la morte e la sofferenza perché vi ha partecipato, ma senza peccare. Infatti, il nemico vero dell'uomo era ed è il peccato che lo divide da Dio, non la sofferenza, e neppure la morte, che ne sono conseguenze.
   Se Gesù avesse partecipato attivamente al peccato, avremmo avuto un peccatore in più a farci compagnia, ma non avremmo avuto alcuna speranza di salvezza, né per il singolo né per la società. Ma poiché Cristo non ha partecipato attivamente al peccato, le sue sofferenze e la sua morte non l'hanno strappato alla comunione col Padre, ma anzi ci hanno procurato quella riconciliazione con Dio che è la cosa di cui abbiamo urgente bisogno.
   Forse a qualcuno questi discorsi suoneranno troppo teorici, troppo astratti. Si chieda allora che cosa è per lui veramente reale, e quale posto occupa Gesù Cristo in questa realtà.
   Il realismo positivo degli uomini di buona volontà della nostra società laica si arresta davanti alla morte. L'estremo tentativo è quello di integrarla dolcemente tra le altre realtà della vita e di toglierle così il suo aspetto irrazionale e inquietante. Questo è comprensibile, perché non si può sopportare la contrapposizione radicale tra morte e vita se non si è disposti ad accettare la tensione evangelica tra peccato e redenzione.
   C'è da chiedersi se anche noi cristiani non abbiamo perso di vista l'aspetto tragico dell'opera di salvezza di Dio. Si direbbe che non siamo più capaci di esprimere la nostra fede nelle forti e contrastate tinte del giudizio e del perdono, della morte e della risurrezione. Ci siamo abituati ad usare uno stile uniforme, che può essere educatamente pio, o morbidamente progressista, o unilateralmente rivoluzionario. E così restiamo scandalizzati tutte le volte che dalla Scrittura ci arrivano parole che hanno un suono strano per le nostre orecchie. La parola del vangelo può diventare anche per noi un parlare duro, a cui cerchiamo di imporre le briglie delle nostre molteplici mediazioni intellettuali.
   Servire l'uomo nelle sue necessità, mostrargli l'amore di Dio nella dedizione rivolta a lenire le sue sofferenze, fa indubbiamente parte del mandato evangelico. Predicare il messaggio di grazia che annuncia la salvezza gratuita in Gesù Cristo, fa ugualmente parte del mandato evangelico. Ma questi due modi di andare verso gli uomini, che spesso dividono la cristianità proprio là dove invece dovrebbe rimanere unita, risultano insufficienti, e possono addirittura diventare fuorvianti, se manca l'annuncio del giudizio di Dio sull'uomo peccatore. L'apostolo Paolo, che per noi evangelici è l'interprete più significativo del messaggio di grazia del vangelo, non teme di apparire troppo moralista quando espone i suoi elenchi di peccati:
    "Non sapete che gli ingiusti non erediteranno il reqno di Dio? Non v'illudete: né i fornicatori, né gl'idolatri, né gli adulteri, né gli effeminati, né gli oltraggiatori, né i rapinatori erediteranno il regno di Dio" (I Corinzi: 6:9-10).
Per chi vuole deliberatamente continuare a camminare in opposizione alla volontà di Dio non c'è speranza di soluzione ai suoi problemi, né in questa vita né dopo. Chi ragiona diversamente, fosse anche un dotto teologo universalista o un moderno psicologo progressista, s'illude: questo dice la Scrittura. Se qualcuno non è convinto e vuole scommettere contro, lo faccia. Ma a suo rischio e pericolo.
    "Non v'ingannate: non ci si può beffare di Dio; perché quello che l'uomo avrà seminato, quello pure mieterà. Perché chi semina per la sua carne, mieterà corruzione dalla carne; ma chi semina per lo Spirito, mieterà dallo Spirito vita eterna" (Galati 6: 7-8).
Questo solenne avvertimento è tanto più necessario oggi, in una società in cui si pensa di avere il diritto alla felicità e si sente come un intollerabile sopruso, commesso dagli uomini o da Dio, tutto ciò che si frappone al suo raggiungimento. E' giusto contribuire ad alleviare le sofferenze umane, ma bisogna anche saper spiegare perché non potremo mai riuscirci del tutto. Non ci riusciremo perché Dio stesso non l'ha voluto. Non ha voluto che l'uomo potesse trovare pace senza di Lui, e ha lasciato su questa terra dei segnali premonitori del suo giudizio: la sofferenza e la morte.
   Ma ha preparato anche una via d'uscita: Gesù Cristo.
   Sarà Lui, dunque, il centro del messaggio di perdono, di salvezza e di liberazione che porteremo agli uomini. Ma questo messaggio di grazia ha ancora oggi bisogno di quel severo pedagogo che è la legge. Perché in questo senso, non dimentichiamolo, anche la legge che uccide fa parte del vangelo.

(Credere e Comprendere, giugno 1985)

 

Gli ebrei furiosi con l'Anpi: "Diffonde fake news". E dov'è la novità?

di Mauro Costa

L'Anpi Roma diffonde fake news. Lo sapevamo, anche l'Anpi nazionale lo fa. Ma stavolta l'accusa viene da una fonte insospettabile. Da Shalom.it, il magazine della comunità ebraica di Roma. Scrive la rivista: "L'Anpi ha convocato per il 27 giugno una manifestazione a sostegno della nascita di uno Stato palestinese. Lo ha fatto corredando su Fb la convocazione con un'ignobile cartina geografica, in circolazione peraltro da tempo immemorabile, che costituisce un clamoroso e deliberato falso storico. La cartina in questione indica le aree palestinesi e quelle israeliane a partire dal 1946. Ossia quando Israele ancora non esisteva, sino ad oggi, giocando sull'equivoco tra la Regione Palestina e uno Stato palestinese che non è mai esistito".

 Fake news giustificate da propaganda antisemita
  La comunità ebraica romana ha risposto con comprensibile indignazione. "E' difficile invocare l'antifascismo come valore universale - ha dichiarato la Presidente della Comunità Ruth Dureghello - quando l'Anpi Roma diffonde fake news certificate della propaganda antisemita come questa cartina. Chi usa l'antifascismo in maniera provocatoria e strumentale fa un danno alla memoria e alla democrazia". Dure e a ragione provocatorie anche le parole di Ruben Della Rocca, vicepresidente della Comunità: "Se poi ci spiegano questo fantomatico Stato di Palestina quale sia, visto che non è mai esistito nella storia della umanità ci fanno un piacere. Come fantomatica è una cartina che non identifica Gerusalemme come capitale unica e indivisibile dello Stato di Israele".

 Shalom: Anpi disonesta nell'approccio alla vicenda
  Insomma, a quanto pare l'Anpi ha deciso di cancellare la cartina, aggiungendo però un commento oltre modo offensivo, in cui i sedicenti eredi della lotta partigiana assicurano di non aver mai avuto "parole irrispettose nei confronti del mondo ebraico". Del quale però evidentemente ritengono che lo Stato di Israele non faccia parte. Secondo Shalom però "onestà vorrebbe però che, anche difendendo una causa, si rispettassero criteri di onestà e riferimenti alla realtà storica. Il problema di quelle cartine ignobili non si può superare semplicemente cancellandole da un post. Perché il punto davvero critico è proprio che quelle immagini bugiarde rispecchiano un approccio disonesto alla vicenda israelo-palestinese".

 Furono i palestinesi a rifiutare la pace nel 2000…
  La rivista ricorda che nel 2000 gli accordi di Camp David, che avrebbero permesso la nascita di uno Stato palestinese con capitale la "Gerusalemme cosmopolita" furono respinti dall'Anp di Yasser Arafat. E non dallo Stato di Israele. Se L'Anpi non fosse vittima di frequenti amnesie sarebbe meglio per tutti e in particolare per l'Anpi stessa. A tutt'oggi le posizioni delle forze palestinesi tradotte a beneficio degli occidentali e quelle in lingua originale sono sideralmente distanti. Ognuno manifesta con chi vuole, e se un'associazione che si dichiara partigiana e di "avere per nemico solo il nazifascismo" vuole manifestare con chi dei nazifascisti è stato un tempo amico e alleato e ancora oggi ne condivide i codici antisemiti è un problema dell'Anpi. Un problema grosso però…

(7Colli, 20 giugno 2020)


"L'altro volto di Israele" che trasporta bambini palestinesi malati in Israele per curarsi

di Daniele Rocchi

Yval cammina avanti e indietro dentro il terminal di Erez, punto di passaggio pedonale tra Israele e la Striscia di Gaza, guardando continuamente il suo smartphone per controllare chiamate e messaggi in arrivo. Il suo andirivieni non insospettisce i militari israeliani che sorvegliano a vista l'area. Qui Yval è oramai un volto conosciuto. Sono in molti a salutarlo, tra militari e addetti alla sicurezza. Improvvisamente si ferma e rivolge lo sguardo verso il posto di controllo della Polizia di frontiera israeliana. Una nonna e la nipotina stanno terminando le procedure di uscita dalla Striscia. Un veloce cenno di saluto per avvisarle della sua presenza.
  Su una poltroncina poco distante ci sono delle bottiglie di acqua e a terra delle buste con del cibo e dei piccoli giocattoli. Yuval raccoglie tutto e va verso le donne intanto uscite con in mano il prezioso timbro israeliano. Offre loro dell'acqua, dona un giocattolo alla piccola e dritti verso l'auto parcheggiata all'esterno del valico, direzione Tel Aviv dove la piccola è attesa per cure oncologiche.

 Un taxi solidale.
 
  Yval Roth è il fondatore di "The Road to recovery", organizzazione umanitaria nata nel 2006 e composta da migliaia di volontari israeliani impegnati a trasportare in ospedale, gratuitamente con le loro auto, i palestinesi - per lo più bambini - di Gaza e della Cisgiordania che hanno bisogno di cure mediche. Gli ospedali palestinesi non sono, infatti, all'altezza di quelli israeliani così quando si tratta malati gravi per curarsi è necessario entrare in Israele. Cosa per niente facile. L'iter è piuttosto complicato: il malato palestinese deve prima consultare il medico locale che lo invia ad uno specialista che potrebbe decidere il trattamento in Israele. A questo punto l'ufficio sanitario dell'Autorità palestinese dovrà autorizzare le cure - non prima di aver ottenuto il permesso da Israele e trovato l'ospedale cui indirizzare il malato e pagare poi le spese per le cure effettuate. Un processo che potrebbe richiedere settimane o mesi e spesso capita che le autorizzazioni finali da parte dell'esercito israeliano vengano rilasciate solo un giorno prima dell'appuntamento mettendo a rischio la visita. Inoltre, il paziente deve essere accompagnato solo da una persona anch'essa autorizzata dalle Autorità israeliane. E il permesso non viene dato alle persone giovani, così a farsi carico dell'accompagnamento, se non può essere uno dei genitori, sono spesso i nonni.
  Ma i problemi non finiscono qui: i pazienti palestinesi non possono muoversi in Israele con le proprie auto per questo, in moltissimi casi, sono costretti a prendere dei taxi che hanno prezzi proibitivi per le loro tasche. Tariffe che vanno, a seconda della distanza, dai 40 agli oltre 100 euro a tratta. Costoso ma anche vantaggioso poiché muoversi su di un'auto con targa 'Il' (Israele) e con un 'driver' israeliano significa evitare check point e lunghi controlli.

 Ed è qui che entrano in gioco i volontari di "Road to Recovery".
Yuval Roth
Abbiamo coordinatori a Gaza e in Cisgiordania che - spiega Yuval - ci segnalano i casi più urgenti. Ogni settimana si programmano i trasferimenti 'per e dall'ospedale' prelevando i malati con relativi accompagnatori nei diversi check point. Tra Gaza e Cisgiordania riusciamo a portare e riportare anche 140 persone al giorno". Sono i numeri a dare la consistenza del servizio operato dai 2000 volontari dell'associazione. "La distanza totale percorsa dai nostri volontari, nel 2019, è stata di circa 1.260.000 km, frutto di oltre 10 mila viaggi con più di 20 mila pazienti, in maggioranza bambini". Sono passati oramai 14 anni dal primo viaggio di Yuval "con un paziente palestinese di Gaza fino ad Haifa".
"All'epoca, era il 2005, ricorda - partecipavo agli incontri del 'Parents Circle Families", un forum composto da israeliani e palestinesi che hanno perso dei familiari nel conflitto. Mio fratello, infatti, era stato ucciso dai terroristi di Hamas nel 1993. In uno di questi incontri ho avuto modo di conoscere una donna palestinese che aveva il fratello malato. Mi chiese se potevo accompagnarlo in ospedale in Israele per le cure. Così feci".
"Fu quello il primo mattone di questa organizzazione no profit che oggi è 'The Road to recovery'. Da allora questa avventura si è allargata anno dopo anno grazie anche alla generosità di tante persone. Ricordo che uno dei nostri primi benefattori è stato il famoso cantante canadese Leonard Cohen, morto nel 2016".

 Ma cosa vi dite quando siete in auto?
 
  "Sono viaggi in auto - risponde Yuval - poveri di parole ma ricchi di sorrisi e di sguardi. Normalmente non conosciamo le persone che trasportiamo. Quasi nessuno tra noi conosce l'arabo, se non poche parole. Lo stesso vale per i palestinesi con l'ebraico. Così lo sguardo tenero rivolto soprattutto ai bambini. Nel viso del loro accompagnatore, genitore o nonno che sia, appare allora un sorriso di gratitudine e soprattutto un desiderio comune, quello di vivere una vita normale, sicura, pacifica e dignitosa. Fianco a fianco". Come a dire che "non ci sono piani di pace e soluzioni che tengano se prima non viene rispettata la dignità degli uni e degli altri". Ma intanto gli anni passano e la pace resta solo un miraggio. "Se credo nella pace? Certamente - afferma Yuval -, credo nella pace 24 ore su 24, ogni giorno. Aiutare le persone è un modo efficace di costruire la pace. Vado spesso nelle scuole a raccontare ai giovani la nostra esperienza e a ribadire che i nostri vicini palestinesi sono esseri umani. Sono fortemente convinto, infatti, che la nostra missione può generare amicizia e conoscenza tra i due popoli. Per noi di The Road to recovery, inoltre, è un modo per abbattere barriere religiose, sociali, politiche, culturali e soprattutto per mostrare un altro volto di Israele che non è solo quello dei militari armati o dei coloni".

(Agensir, 20 giugno 2020)


Ventimila contagiati in Israele

Si teme un'altra ondata

Israele è alle prese con una seconda ondata di infezioni e, dopo un forte allentamento del lockdown, è costretta ora a correre ai ripari imponendo di nuove zone rosse e altri provvedimenti per fronteggiare una diffusione in crescita preoccupante. Gli ultimi dati parlano chiaro: nelle ultime 24 ore si è arrivati a circa 350 casi, la prima volta in cui si è superata la soglia dei 300, cosa che non succedeva dallo scorso aprile. Ma a dare un quadro ancora più esatto della velocità con la quale si trasmette la malattia è il fatto che in due settimane i malati sono raddoppiati passando da 2.191 a 4.449 portando il totale complessivo nelle ultime ore a 20.339. Le vittime ad oggi sono 304. A conferma della situazione - creatasi dopo il forte allentamento delle misure restrittive - basti pensare che su circa 16.000 test effettuati ieri i positivi sono stati pari a quasi iI 2%.
A differenza della prima ondata, questa volta, a quanto sembra, i neo positivi sono più giovani e le scuole sono state un forte incubatore. La nuova situazione ha avuto le prime ripercussioni: non solo la vicina Cipro ha rivisto la sua apertura di turisti israeliani, ma lo stesso presidente Nicos Anastasiades ha rinviato il suo viaggio nello stato ebraico. «Non c'è dubbio ha detto allarmato il premier Benyamin Netanyahu che occorra limitare la malattia». E per questo ha annunciato che «non si riaprirà oltre».

(Gazzetta di Parma, 20 giugno 2020)


Quattordici anni di divisione palestinese, un disastro di cui non si vede la fine

Riportiamo questo inusuale e interessante articolo di fonte propalestinese. Manca la conclusione. NsI

GERUSALEMME/GAZA - Quattordici anni fa, dopo settimane di feroci combattimenti tra le famiglie di Gaza sostenitrici dei rivali Fatah e Hamas, il movimento islamista prese il controllo della Striscia, dividendo la società palestinese in due e avviando un disastro politico e umano che ancora non sembra avere fine.
  Il sequestro del potere da parte di Hamas e l'espulsione delle forze fedeli a Mahmud Abbas - che da allora ha governato solo su una parte della Cisgiordania - determinò anche l'inizio del blocco armato israeliano sull'enclave che, in quasi tre decenni e unitamente alla divisione, ha distrutto economicamente la casa di due milioni di abitanti e una delle aree più densamente popolate del mondo.
  Quel giugno 2007, la tensione a Gaza tra i miliziani di Hamas e le forze di sicurezza ufficiali, nelle mani di Fatah, raggiunse il picco: le strade delle città e dei campi profughi rimasero deserte per giorni, ad eccezione del passaggio delle pattuglie armate di entrambe le parti che controllavano gli edifici e tutti i movimenti, mentre gli unici suoni che si udivano erano il passaggio dei veicoli e i colpi di armi da fuoco.
  Secondo i dati del Comitato Internazionale della Croce Rossa, gli scontri fecero 116 morti e 550 feriti. Le relazioni tra le due parti e tra le famiglie che ebbero delle vittime non sono state ancora ripristinate.
  "Furono giorni terribili", ricorda a Efe, rattristato e arrabbiato, Abdelkarim Ellouh, 67 anni, padre di Nooh, un giovane ucciso in quei giorni dalle forze di Hamas.
  "Se mio figlio fosse stato ucciso dagli ebrei, non sarei triste, perché sarebbe considerato un martire e un eroe. Ma il fatto che sia stato ucciso da un palestinese armato, mi fa arrabbiare e mi fa impazzire. Non so cosa avesse fatto mio figlio ad Hamas, né perché sia stato ucciso", spiega.
  Ellouh fa ancora fatica ad accettare la perdita del figlio, perdita che ha cambiato per sempre la sua vita. "Da quando lui è morto, mi siedo all'ingresso della casa e ogni volta che vedo arrivare qualcuno penso sia Nooh, che sta tornando", dice.
  Hamas vinse le elezioni del gennaio 2006, una vittoria che Fatah non voleva accettare. Nel 2007 entrambi concordarono un governo di unità, che non ebbe il riconoscimento internazionale e che durò solo alcune settimane.
  La famiglia di Ali Shakshak, del quartiere di Sheikh Radwan, nella capitale Gaza, ricorda la morte di uno dei loro figli, Ali, nel giugno 2006, per mano delle forze di Hamas, ma dichiara di essere pronta alla riconciliazione.
  "È stato molto doloroso per tutti, sia in famiglia che nel quartiere, e ci manca ancora", dice il fratello maggiore Hasan Shakshak, prima di esprimere la sua speranza che Hamas e Fatah si possano sedere al tavolo dei negoziati e accettino di tornare all'unità.
  Dimitry Diliani, leader del movimento di riforma di Fatah, guidato dall'espulso Mohammad Dahlan, rivale di Abbas, ha detto a Efe che "la riconciliazione con Hamas è la prima pietra per la ricostruzione dell '" unità nazionale palestinese".
  Per lui, "rafforzare il fronte interno" è essenziale per "affrontare tutti i rischi imminenti che riguardano la questione palestinese. È molto importante, soprattutto nelle attuali circostanze, con Israele che si prepara ad annettere parte del territorio palestinese occupato della Cisgiordania.
  I rischi per i palestinesi, dice, "sono aumentati dopo la divisione risultante dal colpo di stato di Hamas contro l'autorità palestinese a Gaza".
  Nell'ultimo decennio sono stati condotti vari tentativi di dialogo, mediati da paesi arabi come l'Egitto e il Qatar, oltre che dalle Nazioni Unite, ed è stato firmato un accordo, che tuttavia non è stato tradotto in atti concreti, per cui il movimento islamista continua a mantenere il controllo della sicurezza e delle istituzioni a Gaza, e Fatah in Cisgiordania.
  I rappresentanti di Hamas si sono rifiutati di parlare con Efe della divisione e dei risultati ottenuti negli ultimi quattordici anni e si sono limitati a garantire come il movimento fosse pronto per iniziare i colloqui di riconciliazione con Abbas.
  "La divisione interna tra Fatah e Hamas ha creato due territori, due governi e due entità isolate", ha detto a Efe l'analista indipendente Asad Kamal, il quale crede che ogni anno il divario diventi più profondo, in quanto tutti i tentativi per superarlo falliscono.
  Al momento, non è nemmeno in corso un tentativo di dialogo: ogni partito governa il proprio territorio. In Cisgiordania l'Autorità nazionale palestinese (PNA) è alle prese con una forte crisi finanziaria e ha recentemente dichiarato la fine di tutti gli accordi firmati con Israele prima del piano di annessione. Hamas, nel frattempo, continua a governare a Gaza, dove impone rigidi controlli di sicurezza e mantiene un programma islamista.
  Mustafa al Sawaf, analista politico vicino ad Hamas, riconosce che la divisione "è un disastro che danneggia tutti i palestinesi, a tutti i livelli: sociale, politico ed economico". E si rammarica che "oltre a soffrire per l'occupazione (israeliana), la gente ora soffre per la divisione interna".
  La scissione, aggiunge, "ha incoraggiato l'occupazione israeliana a violare i legittimi diritti dei palestinesi, a perseguire un piano per annettere parti della Cisgiordania e svuotare Gerusalemme dai suoi cittadini palestinesi".
  Entrambe le parti riconoscono che la divisione è un disastro, la cui fine ancora non sembra essere vicina. EFE

(Invicta Palestina, 20 giugno 2020 - trad. Grazia Parolari)


Le due parti vorrebbero unirsi. Per fare che? per mettersi insieme e riuscire, d’amore e d’accordo, a far sloggiare Israele da dove sta. Questa sembra essere la risposta. Sarà per questo che non riescono ad mettersi d’accordo? C’è qualcuno tra le due fazioni che si è posto questa domanda? E alla comunità internazionale si può chiedere: quale sarebbe lo Stato di Palestina con cui Israele dovrebbe trattare e il resto del mondo dovrebbe riconoscere? Non c’è. Non esiste, in carne ed ossa. Esiste soltanto il suo spettro, proprio com’era Israele fino a cent’anni fa. E se prima, secondo le parole di Leon Pinsker, lo spettro israeliano spaventava tutto il mondo, adesso lo spettro palestinese vibra nell’aria al solo scopo di spaventare Israele. E non solo di spaventarlo, secondo il desiderio più o meno nascosto di molti. M.C.


Il caso Alami e la gestione dei profughi palestinesi

di David Elber

Musa Alami
La storia dell'imprenditore palestinese Musa Alami è molto istruttiva al fine di comprendere come i profughi palestinesi fin da subito sono stati trasformati in uno strumento politico da opporre a ogni tentativo di risolvere il conflitto che contrappone gli arabi ad Israele. Questo strumento, nel corso dei decenni, è stato ingigantito smisuratamente da un'agenzia ONU, che è stata completamente svuotata dal suo iniziale scopo per diventare, a sua volta, nel tempo, un vero e proprio strumento per continuare la guerra con altri mezzi: l'UNRWA.
  Musa Alami, nato in una importante famiglia araba (il padre Faidi fu sindaco di Gerusalemme) e membro dell'Alto Comitato arabo formatosi dopo la guerra del 1948, è sempre stato molto attivo tra quanti, in nessun modo, volevano trovare un compromesso con il nascente Stato di Israele. Il suo attivismo politico lo aveva reso molto noto tra gli arabi. Egli fu anche uno dei "consulenti" utilizzati dalle autorità britanniche per redigere il "Libro bianco" del 1939 con il quale di fatto si voleva impedire l'attuazione del Mandato Britannico per la Palestina. Di famiglia facoltosa fu tra coloro che non accettarono l'indipendenza di Israele e così decise di andare a vivere nei pressi di Gerico dove aveva degli appezzamenti di terra. A quel tempo Gerico e tutta la Samaria erano occupate dalle forze armate giordane.
  Dopo la firma dell'armistizio tra Giordania e Israele nella primavera del 1949, capì immediatamente che la questione dei profughi non si sarebbe risolta velocemente, così decise di dare un'opportunità di lavoro e di benessere a molti profughi creando una moderna e efficiente azienda agricola lungo le sponde del fiume Giordano.
  Contro ogni logica e consiglio si mise a cercare dei pozzi d'acqua - indispensabili per l'attività agricola - in pieno deserto nei pressi del Mar Morto, trovando, inaspettatamente, l'acqua dolce. Neanche le autorità giordane si dimostrarono molto collaborative rifiutandosi di fornire la necessaria attrezzatura. Nonostante ciò, con caparbietà riuscì a costruire ben 15 pozzi (poi crebbero fino a diventare 50).
  Fin da subito la qualità dei raccolti si dimostrò davvero eccezionale grazie all'alta concentrazione di potassio presente nel terreno. Iniziò così la costruzione di un intero villaggio per fornire una sistemazione a centinaia di famiglie di arabi sfollati a causa della guerra. In poco tempo divenne tanto famoso da attirare l'attenzione anche del New York Times che lo definì, per il lavoro intrapreso, "il Mosè arabo".
  Pur non riconoscendo la legittimità di Israele, egli era convinto, che bisognava trovare una sistemazione e un lavoro alle persone che vivevano nei campi profughi per garantirgli un futuro che altrimenti sarebbe stato solo di miseria e di odio.
  In pochissimo tempo questa moderna azienda agricola divenne tanto importante da esportare frutta e verdura in molti paesi arabi circostanti e nel Golfo Persico. Grazie a lui migliaia di persone riuscirono a trovare lavoro e a uscire dai campi profughi circostanti. In forza alle abilità commerciali di Alami, la sua azienda agricola riuscì a siglare un contratto pluriannuale con l'Aramco per la fornitura di frutta e verdura per le migliaia di dipendenti della società petrolifera saudita. Con i proventi realizzati, Alami, costruì delle cliniche e una scuola per i figli dei dipendenti e iniziò contemporaneamente la costruzione di numerose case in muratura, cosa non ancora diffusa tra i giordani.
  In pratica il suo fu l'unico progetto concreto realizzato per offrire una sistemazione adeguata ai profughi. All'apice del successo però, l'opinione pubblica araba iniziò a considerare il reinserimento e il recupero dei profughi come un vero e proprio tradimento. Così, uno alla volta, tutti i progetti organizzati anche dall'ONU tramite l'UNRWA (l'agenzia ONU diventata nel frattempo l'agenzia esclusiva dei profughi palestinesi) iniziarono ad essere boicottati, milioni di dollari venivano spesi senza che ci fosse un minimo costrutto. Gli arabi accettavano solo aiuti di sussistenza che non arrecassero un beneficio duraturo ai profughi: non si voleva la loro integrazione e la loro sistemazione. Perciò ogni progetto volto a garantire una autonomia economica veniva rifiutato a favore della mera sussistenza alimentare. In questo clima generale, l'impresa agricola di Alami fu presa di mira. Per il suo lavoro incessante volto a migliorare le condizioni economiche e di vita dei profughi, Alami fu accusato dai palestinesi stessi, di tradimento e di collaborazionismo con Israele. Il suo curriculum anti israeliano non fu sufficiente a salvarlo dalle accuse. Il solo fatto di provvedere al benessere di migliaia di persone era sufficiente per dimostrare le accuse di "normalizzazione" con il nemico.
  Nel dicembre del 1955 - durante una sua assenza per lavoro - una folla inferocita assaltò la sua azienda agricola e i relativi campi distruggendo tutto. Tutte le strutture furono rase al suolo e i campi distrutti. Gli organizzatori che fomentarono la folla erano gli stessi capi clan dei campi profughi attorno a Gerico. Alami stesso si salvò solo perché in quei giorni era a Beirut. L'azienda fu saccheggiata e distrutta così come le cliniche, l'orfanotrofio e la maggior parte delle case costruite. L'attività agricola non ripartì più dopo la distruzione. Ormai era evidente che nessuna iniziativa, atta a sistemare il problema dei rifugiati, organizzata sia da palestinesi che da organizzazioni internazionali non poteva avere successo. Questo per una semplice ragione: la sistemazione dei rifugiati nei paesi arabi avrebbe significato la fine della guerra, ma questo non è mai stato ciò che gli arabi volevano, compresi, chiaramente, i palestinesi.
  In modo chiaro e inequivocabile i profughi, già a partire dagli anni '50, erano visti come un potente strumento di guerra. Non volendo sistemare la questione dei profughi, gli arabi sapevano che il conflitto non si sarebbe mai risolto. E a questo scopo trovarono un potentissimo alleato: la comunità internazionale, tramite l'Unrwa.

 L'uso strumentale dell'Unrwa
 
  Che l'Unrwa avesse fallito completamente il suo compito era chiaro fin dal 1958. E la causa fu il comportamento stesso dei profughi che non accettarono nessun piano di sviluppo proposto dall'organizzazione. La scelta fu chiara: preferivano vivere in condizioni estremamente precarie pur di mantenere viva la lotta contro Israele.
  Nell'autunno del 1958 la delegazione USA all'ONU era ormai decisa a sospendere il rifinanziamento dell'agenzia, la quale nei 10 anni di attività, aveva già speso svariate centinai di milioni di dollari senza che un solo profugo fosse stato sistemato. Anzi, il numero di profughi era aumentato enormemente mentre tutti i progetti avviati si erano arenati senza il minimo costrutto.
  Il discorso tenuto dal rappresentante americano all'Assemblea Generale, Harrison era stato categorico: era ormai evidente che l'Unrwa era fallita e bisognava chiuderla. La reazione araba fu furiosa e in blocco minacciarono di abbandonare le proprie posizioni filo occidentali. Preso dal panico il Dipartimento di Stato fece una clamorosa marcia in dietro. L'anno successivo gli americani e tutti paesi occidentali votarono per il rifinanziamento dell'agenzia senza che fosse approvata la ben che minima riforma, anzi tutta la gestione passò sotto il controllo arabo. In pratica si consumò un "matrimonio politico" di convenienza tra gli Stati Uniti e i paesi arabi: gli americani (e gli altri paesi occidentali) pagavano l'UNRWA e gli arabi la dirigevano come meglio ritenevano. Da questo momento le cose cambiarono drasticamente. Tutti i progetti atti allo sviluppo e alla realizzazione di posti di lavoro furono completamente abbandonati. L'UNRWA iniziò ad occuparsi solo di "educazione" e distribuzione di cibo.
  Per quanto concerne l'educazione, l'agenzia ONU assunse insegnati arabi e dirigenti occidentali che iniziarono a istruire i bambini all'odio e agli ideali di vendetta verso Israele e gli ebrei in generale. Prassi che dura tutt'oggi. Per essere accettato dai profughi, il personale doveva avere posizioni contrarie a ogni compromesso con Israele e quindi avallare la loro posizione di "vittime", le quali, come riparazione al torto subito dovevano necessariamente "tornare" in Palestina.
  Nel corso degli anni i dipendenti stessi dell'UNRWA - in piena simbiosi con i profughi - sono diventati a loro volta i portavoce dei presunti torti subiti dai palestinesi. In pratica tutte le generazioni di palestinesi che crescevano nei campi profughi venivano radicalizzate con l'educazione scolastica a cui erano sottoposte in una spirale di demagogia, odio e risentimento che si è autoalimentata per decenni nel solo ideale di rivincita. Nessun funzionario ONU che non fosse allineato su queste posizioni veniva accettato. Inoltre, l'altro compito a cui era destinato la restante parte dei fondi occidentali era la fornitura di alimenti necessari per il sostentamento ma che non portarono mai ad uno miglioramento generale della condizione dei profughi. Si arrivò al punto che ebbe inizio una compravendita di voucher alimentari la quale finì per arricchire i capi clan ai danni della maggioranza della popolazione. Siccome nessuno era tenuto al controllo dell'effettivo numero di persone esistenti, nel corso dei decenni, venivano dati i voucher alimentari anche alle persone morte o emigrate da molti anni (e che venivano ritirati dai parenti). I vaucher venivano poi rivenduti al mercato nero per guadagnare dei soldi extra. In questo modo il numero dei profughi aumentò enormemente nel corso degli anni anche se i profughi effettivi erano molto meno numerosi.
  A questa situazione già unica di per sé, si aggiunsero altre "unicità". Nel 1965, unico caso al mondo, lo status di rifugiato venne esteso ai figli e ai nipoti dei rifugiati del 1948. In poco tempo il numero dei rifugiati raddoppiò passando da 1.1 milioni a 1.8 milioni (oggi sono oltre 5.2 milioni).
  Nel 1982 l'Assemblea Generale dell'ONU approvò una risoluzione nella quale si estendeva lo status di rifugiano a tutti i discendenti, cosa che poi fu estesa alle adozioni e ai matrimoni. Ormai si poteva diventare "rifugiato palestinese" senza neanche essere palestinese e senza mai aver vissuto un solo giorno in tutto il Medio Oriente (cosa diffusa tra le migliaia di "profughi" che vivono in USA e in Canada). Se a questo aggiungiamo che nessun paese arabo - ad eccezione della Giordania - abbia mai concesso la cittadinanza ad un solo profugo si capisce come la situazione sia oggi tale che la soluzione del loro problema sia ardua da risolvere. Si può tranquillamente affermare che con le "riforme" approvate dall'Agenzia governativa i profughi sono diventati un "problema perpetuo" con il solo scopo politico di creare pressioni su Israele, mentre l'UNRWA è diventata una "fabbrica di rifugiati" con lo scopo di autoalimentare i funzionari ONU per creare posti di lavoro garantiti per le migliaia di addetti, quadri e dirigenti che ne compongono la compagine.
  In conclusione gli arabi imputarono agli USA e alla Gran Bretagna la loro sconfitta del 1948 e vedono nel mantenimento dei profughi un "obbligo" e una riparazione del "torto" subito. A ciò si è aggiunto l'atteggiamento occidentale completamente passivo sulla questione al fine di mantenere buoni i rapporti - soprattutto con l'Arabia Saudita - sia politici che economici.
  Nel corso degli anni, con il passaggio dell'UNRWA completamente in mano araba, l'ente è stato gestito e trasformato in qualcosa di completamente diverso rispetto al suo scopo originario mentre l'Occidente lo finanziava senza chiedere conto di come venivano spesi i soldi. Oggi, a distanza di decenni e dopo incalcolabili danni fatti, l'Occidente chiede ad Israele di pagare il conto con l'assorbimento dei profughi e il suo inevitabile venire meno come Stato a maggioranza ebraica.

(L'informale, 13 giugno 2020)


Netanyahu a caccia di sostegno su annessione Cisgiordania

 
Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, sta cercando di ottenere sostegno interno per il suo piano di annessione di alcune parti della Cisgiordania, secondo una nota interna del suo partito.
"Applicare la legge israeliana alle comunità ebraiche già esistenti nella patria ancestrale di Israele porterà a una pace regionale realistica basata su fatti concreti", si legge nella nota, pubblicata dal Wall Street Journal.
Nonostante Netanyahu abbia già discusso questo argomento, la nota per la prima volta raccoglie le principali motivazioni che lo hanno spinto a voler annettere parti della Cisgiordania al territorio israeliano e segna il tentativo di iniziare a ottenere il sostegno al suo piano anche da parte dei partner politici non ancora favorevoli e dalla popolazione divisa sul tema.
Il suo ufficio prevede di distribuire la nota al suo partito, il Likud questo pomeriggio, mentre il primo ministro esorterà i membri a costituire un fronte unitario per sostenere il piano pubblicamente.
Lo sforzo mostra la pressione che sta sentendo il primo ministro israeliano mentre si impegna a iniziare il processo di annessione già a luglio. Netanyahu si trova di fronte all'opposizione del partito Blu e Bianco di Benny Gantz, che fa parte della sua coalizione di Governo, ma è contrario all'annessione unilaterale. Anche il movimento degli insediamenti è diviso sulla questione, con alcuni leader che affermano che le azioni di Netanyahu in conformità con il piano dell'amministrazione statunitense consentiranno la creazione di uno Stato palestinese, a cui si oppongono fermamente.
Mentre circa la metà della popolazione israeliana è favorevole all'annessione di parti della Cisgiordania, secondo un recente sondaggio dell'Israel Democracy Institute, un think tank con base a Gerusalemme, il sostegno è maggiore tra i partiti collegati ai movimenti ultraortodossi e dei coloni.
L'incertezza sul piano sta scatenando la discussione su un'eventuale quarta elezione, anche se gli esperti hanno detto che la possibilità sembra remota, dato il modo in cui è strutturato l'accordo di coalizione. Netanyahu ha formato un Governo di unità con Gantz a maggio per porre fine a più di un anno di stallo politico.
Il piano di pace dell'amministrazione Trump consente a Israele di annettere fino al 30% della Cisgiordania, purché il Paese appoggi le discussioni con i palestinesi e gli Stati Uniti e Israele concordino su una mappa.

(Finanza 24h, 19 giugno 2020)


*


Gantz si opporrà all'annessione delle aree della Cisgiordania ad alta presenza palestinese

GERUSALEMME - Il primo ministro supplente e ministro della Difesa Benny Gantz ha dichiarato che non sosterrà le aree annesse della Cisgiordania dove è presente "una numerosa popolazione palestinese", lo riferisce l'emittente israeliana "N12". Durante una riunione con i funzionari del ministero della Difesa, l'ex capo di Stato maggiore ha sottolineato: "Non sosterremo l'applicazione della sovranità alle aree con una popolazione palestinese al fine di prevenire eventuali attriti". Gantz ha inoltre aggiunto: "Sono certo che il primo ministro non metterà a rischio il trattato di pace con la Giordania e le relazioni strategiche dello Stato di Israele con gli Stati Uniti con una mossa irresponsabile". Lo scorso 15 giugno, Netanyahu ha dichiarato di non conoscere le posizioni della coalizione Blu e bianco, guidata da Gantz, in merito ai piani di annessione a luglio. "Non abbiamo un'opinione perché non ci ha mai mostrato una mappa", ha risposto Gantz. Da parte sua il partito di Netanyahu, il Likud, ha riferito che lo stesso Gantz si sarebbe rifiutato di visionare le mappe per "sue ragioni personali". L'ex esponente della coalizione Blu e bianco e attuale ministro della comunicazione Yoaz Hendel ha annunciato oggi di appoggiare un'annessione di aree in Cisgiordania "a prescindere dal parere di Gantz", concedendo a tale iniziativa una certa maggioranza parlamentare ristretta.
   In un'intervista di fine maggio con "Israel Hayom", Netanyahu ha affermato che i 58 mila palestinesi che vivono nella Valle del Giordano non riceveranno la cittadinanza israeliana ma rimarranno nelle enclave dell'Anp sotto il controllo militare israeliano. "Rimarranno come enclave palestinesi", ha detto il primo ministro, aggiungendo che oltre a Gerico, che ospita circa 20.000 palestinesi, vi saranno altre due enclave. Israele dovrebbe annettere fino al 30 per cento della Cisgiordania il primo luglio, applicando la sua sovranità e il suo diritto civile all'area attualmente controllata dalle Forze di difesa israeliane (Idf), come previsto dall'accordo per la formazione del governo tra Netanyahu e Gantz e che fa riferimento al piano di pace proposto dagli Stati Uniti. L'Autorità nazionale palestinese (Anp) ha annunciato il mese scorso la cessazione del coordinamento della sicurezza con Israele. Il presidente dell'Anp, Mahmoud Abbas ha annunciato alla fine di maggio che l'Anp, a seguito dei piani di annessione, non è più vincolata dagli accordi che aveva firmato con Israele e gli Stati Uniti, compresi gli Accordi di Oslo.

(Agenzia Nova, 19 giugno 2020)


"Arrestata perché ho parlato del tempio sul Monte del Tempio"

"Come possiamo parlare di un futuro condiviso con dei partner che negano l'evidenza archeologica e non riconoscono nemmeno che abbiamo una storia?"

di Shaina Be Hirsch

Sono estremamente frustrata. Oggi [11 giugno] sono stata fermata, trattenuta in custodia, hanno cercato di prendere il mio telefono e mi hanno minacciato di arresto. Tutto questo non è avvenuto durante le proteste in corso in America. Stavo semplicemente passeggiando a Gerusalemme, nel mio sito storico preferito - il Monte del Tempio - in compagnia di una vecchia amica.
   Ho iniziato a raccontare in diretta su Facebook la storia dei vari templi che si sono succeduti in quel luogo, quando sono stata seccamente informata (mentre ero ancora in diretta) che è illegale affermare che c'era un tempio sul Monte del Tempio.
   Fateci mente locale. Mi è stato detto dalle forze di sicurezza del Waqf [l'ente a guida giordana che gestisce il patrimonio islamico a Gerusalemme] che è illegale affermare che sul Monte del Tempio sorgeva un tempio. Qualsiasi tempio. Cioè: in quel sito non c'è mai stato nulla prima che vi fosse una moschea. Sin dai tempi di Adamo [testuale], in quel sito c'è stata solo una moschea e affermare che ci sia mai stato qualcos'altro è una offensiva menzogna sionista [testuale]. Vi esorto a guardare il video.
   Sono particolarmente appassionata di quel periodo della storia, quello che inizia con il Secondo T***** (qui mettete la parola che, a quanto pare, è illegale pronunciare sul Monte del Tempio). Ma come possiamo parlare di un futuro condiviso con dei partner che non riconoscono nemmeno che abbiamo una storia? E queste riscritture della storia vengono accettate sempre più. Nell'ottobre 2016 Algeria, Egitto, Libano, Marocco, Oman, Qatar e Sudan hanno presentato alle Nazioni Unite una risoluzione che condannava Israele per non aver tutelato il diritto unico ed esclusivo dell'islam sul Monte del Tempio. Nessun tempio ebraico, nessun santuario da cui Gesù cacciò i corrotti cambiavalute: l'islam ha il diritto esclusivo al sito più santo dell'ebraismo, il luogo verso cui da sempre gli ebrei di tutto il mondo si volgono in preghiera, anche se per gli ebrei ora è illegale pregare lassù.
   Proprio così. Per chi non lo sapesse, gli ebrei e solo gli ebrei possono essere arrestati per il reato di pregare nel loro luogo più santo. L'attuale obbligo di mascherina anti-coronavirus ha evitato che il movimento delle mie labbra venisse interpretato come una preghiera portando al mio arresto. Ma un'altra volta sono stata espulsa dalla spianata del Monte del Tempio per aver mosso le labbra in un modo che avrebbe potuto essere una preghiera.
   Oggi sono stato separata dalla mia amica e prelevata dalla sicurezza del Waqf per essere interrogata. Mi hanno detto che mi avrebbero rilasciato se la smettevo di dire bugie. Ma non stavo dicendo bugie. Mi hanno detto che mi avrebbero rilasciato se avessi potuto dimostrare che lassù c'era qualcosa prima di una moschea. Ho risposto che dovevo solo tirar fuori il mio kit di datazione al carbonio che tengo sempre nello zainetto e l'avrei dimostrarlo in un batter d'occhio. Il sarcasmo li ha disorientati.
   Ma ciò che li ha davvero mandati in confusione è che ho continuato a insistere sul fatto che in quel sito sono esistiti diversi templi. Almeno quattro, o forse tre e mezzo. Il Primo Tempio (Beit Hamikdash HaRishon), il tempio asmoneo (che forse era solo a metà, perché costruito su parti già esistenti), il Tempio di Erode (cioè il secondo Beit Hamikdash) e un tempio dedicato a Giove. Il Secondo Tempio è chiamato a buon diritto di Erode poiché egli rimosse ogni pietra degli asmonei prima di costruire il suo edificio.
   Mentre continuavo a ripetere i fatti riguardanti l'epoca del Seconda Tempio, tenevo stretto il telefono che loro cercavano di afferrare. Sembrava che non capissero bene come funziona un video live, e soprattutto che non capissero che cancellando la storia delle altre due religioni su cui si basa la loro fede, non fanno che minare la loro rivendicazione su questa terra.
   Dopo un po' di domande sono stata consegnata agli agenti della polizia israeliana, che ha cercato di rimanere seri mentre mi dicevano che in effetti non avevo fatto nulla di illegale, ma che dovevo rispettare il sito e dunque non potevo dire che in quel posto è sorto un Beit Hamikdash (Tempio ebraico). Devo dire che anche loro sono sembrati molto sorpresi di apprendere che in quel sito ci sono stati più di due templi. E ancora più sorpresi di apprendere che, un tempo, c'è stata anche una chiesa. Ma nessuno conosce più la storia? C'è di bello che annoiare le persone con i particolari della storia ti permette d'essere rilasciato abbastanza velocemente dalla custodia delle forze di sicurezza.
   Ho pensato a tutti i turisti che sono venuti a vedere la mia storia ebraica, la loro storia cristiana, e a tutti i visitatori che verranno, si spera, quando si potrà di nuovo viaggiare. Come si può capire perché questa terra è santa per tre religioni se non è nemmeno permesso parlarne?
   Quando le Nazioni Unite contribuirono a negare la mia storia, l'allora Segretario Generale Ban Ki-Moon ebbe parole di condanna per quella risoluzione. L'allora Direttrice generale dell'Unesco Irina Bokova affermò che "negare, nascondere o cancellare qualsiasi tradizione ebraica, cristiana o musulmana mina l'integrità del sito: la moschea al-Aqsa è anche il Monte del Tempio, il cui muro occidentale ["del pianto"] è il luogo più sacro dell'ebraismo".
   Ecco perché mi sento così frustrata: per come narrare la storia convalidata sul piano archeologico possa diventare un fatto carico di implicazioni politiche, e per quanto sia facile riscrivere la storia. Quindi: studiamo la storia, apprendiamo i fatti, impariamo la verità.

Da "Times of Israel", 11.6.20

(israele.net, 19 giugno 2020)


La sfida decisiva di rinnovarsi

Dossier sulla città di Tel Aviv

 
Tel, antico. Aviv, primavera e rinnovo. Il nome della città israeliana sulle sponde del Mediterraneo richiama l'idea di un luogo che affonda le radici nel passato ma che allo stesso tempo rappresenta un nuovo inizio, una nuova possibilità per tracciare strade, edifici e proporre spazi di socialità differenti. Una città costruita sulle dune del deserto, come racconta l'iconica foto scattata l'11 aprile 1909 da Avraham Soskin: in quella data si tenne sulle spiagge poco fuori Yaf o (Giaffa) una lotteria per assegnare appezzamenti di terreno per il nuovo quartiere di Ahuzat Bayit, primo insediamento di Tel Aviv. La lotteria fu il frutto di un compromesso: le famiglie coinvolte nella distribuzione dei terreni, non trovando un accordo, fecero decidere al caso. Akiva Arieh Weiss, presidente del comitato della lotteria, raccolse 66 conchiglie grigie e 66 conchiglie bianche. Sulle prime scrisse un numero corrispondente a un lotto, sulle seconde i nomi dei partecipanti. Questa equa e casuale distribuzione fu all'origine di Tel Aviv come prima città moderna e allo stesso tempo ebraica. Uno spazio che ben presto fu casa e rifugio per gli ebrei d'Europa: qui scelse di abitare il grande poeta Chaim Nahman Bialik. Qui arrivarono architetti e urbanisti della scuola Bauhaus, perseguitati dal nazismo, per edificare e disegnare una città all'avanguardia.
    "Tel Aviv, mare. Luce.
    Celeste, sabbia, impalcature ...
    chioschi lungo i viali,
    una città ebraica bianca, lineare
    che cresce fra agrumeti e dune",
la dedica in versi da parte dello scrittore Amos Oz.
Tel Aviv nacque dunque dalla partecipazione, dalla cooperazione dei suoi abitanti, convinti di potervi creare, nonostante le avversità, un luogo fisico di rinnovamento e modernità. Oggi metropoli simbolo di socialità e capacità di scommettere sul futuro, Tel Aviv, come tutte le città del mondo, è chiamata nuovamente a rinnovarsi per rispondere ai problemi generati dalla pandemia. Il virus ha fatto emergere con chiarezza i problemi delle metropoli: la disuguaglianza sociale; il diritto alla casa non garantito a tutti; la disparità nell'accesso ai servizi; la necessità di più verde e, più in generale, un maggior rispetto per l'ambiente. Oggi i cittadini del mondo, almeno i più consapevoli, chiedono ai propri amministratori il cambiamento, nuove idee, nuove proposte per migliorare la loro vita e provvedimenti per tutelare la loro salute. In questo dossier, dedicato alla città da ripensare, parliamo di queste esigenze e del dibattito che si è aperto per darvi risposta. Una sfida chiave per il futuro ma rischia di non essere colta: l'opportunità di ricostruirci e rinnovarci sulle instabili dune del presente.
Dossier

(Pagine Ebraiche, giugno 2020)


Israele, record di parlamentari gay dichiarati nella nuova Knesset

Per la prima volta sono 6 (tre della maggioranza e tre dell'opposizione) su un totale di 120. Lo scorso anno Amir Ohana fu il primo omosessuale a diventare ministro.

di Sharon Nizza

TEL AVIV - La ventitreesima Knesset - il Parlamento israeliano - presenta il numero record di parlamentari dichiaratamente omosessuali: 6 su 120. Tre fanno parte della coalizione di governo e tre dell'opposizione e rappresentano quattro partiti diversi. L'anno scorso si era registrato un altro primato quando Amir Ohana era diventato il primo ministro gay della storia del Paese. Allora ministro della Giustizia, oggi nel nuovo governo di unità nazionale occupa il dicastero della Pubblica sicurezza per il Likud, il partito di destra del premier Benjamin Netanyahu. Altra posizione ministeriale di rilievo è ricoperta nell'attuale governo da Itzik Shmuli, ministro per il Welfare e il Lavoro, in quota partito laburista. Il terzo parlamentare della maggioranza è Eitan Ginzburg, già primo sindaco gay di una città israeliana (Raanana), e ora presidente della commissione legislativa e capogruppo di Blu Bianco, il partito centrista del vice-premier Benny Gantz.
   All'opposizione siedono Nitzan Horowitz, capo del partito di sinistra Meretz e storico leader della comunità Lgbtq e le new entry per il partito Yesh Atid Idan Roll e Yorai Lahav-Hertzano. Quest'ultimo entrerà in carica la settimana prossima, sottraendo un voto alla maggioranza, in virtù della legge appena approvata che permette ai ministri di dimettersi da parlamentari e lasciare il posto ai colleghi che li succedono in lista.
   La comunità Lgbtq israeliana è da sempre molto combattiva e presente nel dibattito pubblico. Le battaglie che ha condotto nel corso degli anni hanno portato a risultati importanti, quasi sempre attraverso precedenti giuridici che hanno riconosciuto parità di diritti in numerosi ambiti, dalla registrazione all'anagrafe di matrimoni gay contratti all'estero, alla reversibilità della pensione, alle politiche di integrazione dei transessuali nell'esercito. Tel Aviv è nota per essere una delle destinazioni più gay friendly e il suo gay pride ospita ogni anno 250 mila persone da tutto il mondo. Per via del coronavirus, quest'anno si terrà in formula ridotta: il 28 giugno sono programmate in decine di città - e per la prima volta anche molte città periferiche - marce che i dirigenti della comunità vedono come un'occasione per concentrare il focus sulle battaglie interne, in primis l'equiparazione del diritto alla maternità surrogata in Israele anche per le coppie omosessuali (attualmente consentita soltanto all'estero, con costi ingenti).
   Nel 2018 infatti è passata una legge che ha esteso l'accesso alla maternità surrogata in Israele alle donne single, escludendo però uomini single e gay. Migliaia di persone avevano riempito le piazze del Paese per protesta e lo scorso febbraio la Corte suprema, rispondendo a un ricorso di attivisti, ha decretato che la legge è discriminatoria e che la Knesset ha un anno di tempo per trovare una soluzione che tuteli le coppie gay. È questa una delle tematiche calde su cui la comunità Lgbtq locale si sta concentrando, per cui spera anche che i ministri Ohana e Shmuli - entrambi genitori di figli nati grazie alla maternità surrogata all'estero - si facciano reali portavoci delle sue istanze di fronte alle resistenze dei partiti religiosi, anch'essi parte del governo.
   In aggiunta, il mese scorso 16 organizzazioni Lgbtq hanno presentato al governo una "Road map" per il sostegno alla comunità in tutti i settori, in particolare contrasto all'omofobia, supporto delle persone transgender, agevolazione delle adozioni da parte di gay. Le posizioni governative di rilievo fanno sperare nella comunità Lgbtq che vi possa essere accesso ai fondi necessari per portare avanti queste battaglie, anche a fronte dei tagli in vista a causa della crisi economica innescata dal coronavirus.
   "È molto significativo che oggi la Knesset abbia un'alta rappresentanza per la comunità Lgbtq (e saremo ancora più felici quando ci saranno anche parlamentari lesbiche e transessuali)", ci dice Or Kashti, responsabile per i rapporti istituzionali dell'Agudà, l'organizzazione ombrello delle associazioni Lgbtq israeliane. "Abbiamo già tenuto un incontro proficuo con il ministro del Welfare Itzik Shmuli, che si è impegnato ad aiutare la comunità rispetto all'agevolazione delle procedure di adozione, mentre stiamo ancora aspettando di incontrare il ministro Ohana. Tuttavia per noi ogni parlamentare, indipendentemente dall'identità di genere, rappresenta un potenziale interlocutore nella lotta per il riconoscimento dei nostri diritti".

(la Repubblica, 19 giugno 2020)


Ecco in che cosa il mondo occidentale loda Israele: quando si presenta come capofila della ribellione a Dio. E Israele non si accorge della diabolica trappola. Diabolica nel senso letterale della parola, perché non è opera di complotti umani. La persecuzione antisemita è odio umano, la seduzione omofiliaca è tagliola diabolica. Dove non riesce l’odio antisemita di Balak sui monti di Moab, riesce il sessuale adescamento idolatrico di Balaam a Peor. Le donne moabite “invitarono il popolo ai sacrifizi offerti ai loro dei, e il popolo mangiò e si prostrò dinanzi agli dei di quelle. Israele si unì a Baal-Peor. E l’ira dell’Eterno si accese contro Israele” (Numeri 25:2-3). Israele non vede la trappola. “... e voi ciechi, guardate e vedete! Chi è cieco, se non il mio servo... Chi è cieco come colui che è mio amico, cieco come il servo dell’Eterno?” (Isaia 42:18-19). M.C.
Probabilmente perderemo la simpatia di alcuni (o molti) amici di Israele. L’abbiamo messo in conto.



Coronavirus, contagiati identificabili dalla voce. Studio italo-israeliano

La corsa alla scoperta di nuove forme di diagnosi veloci e tempestive ha sviluppato una collaborazione italo-israeliana sullo studio sulla voce dei contagiati

una collaborazione tra Italia ed Israele che sa di fantascienza. Eppure i ricercatori dell'Università Cattolica del Sacro Cuore e l'Accademia di Ingegneria Afeka di Tel Aviv stanno mettendo a punto uno studio incredibile che nasce da un'intuizione geniale e visionaria.
  Il Coronavirus ha messo ormai in allarme tutti quanti da mesi. Esperti nei più vari settori della medicina e della tecnologia si sono attivati in una corsa sfrenata alla ricerca di una cura, indubbiamente, ma anche di sistemi di diagnosi precoci e rapidi.
  Italia ed Israele a tal proposito stanno mettendo a punto una tecnologia capace di pre-diagnosticare il Covid19 in persone che siano sospettate di contagio. Quello che ha dell'incredibile è il modo in cui vogliono farlo: attraverso una combinazione tra elaborazione vocale ed intelligenza artificiale.

 Coronavirus, diagnosi attraverso un'app
  Il progetto si prefigge lo sviluppo di un'applicazione scaricabile dai propri device che, tramite l'analisi di voce, tosse e respiro, possa individuare pazienti potenzialmente infetti. Si ottimizzano i tempi di diagnosi, specie tra gli asintomatici, limitando e spezzando la catena del contagio.
  Il quotidiano Repubblica ha raggiunto telefonicamente Ami Moyal, presidente dell'Accademia israeliana. Lui e Gianluigi Benedetti, ambasciatore italiano in Israele, si dicono soddisfatti della collaborazione fra i due paesi. L'Università Cattolica del Sacro Cuore e l'Accademia di Ingegneria Afeka di Tel Aviv lavoreranno in partecipazione con il Policlinico Gemelli e il Rabin Medical Center.
  Se vuoi essere sempre informato in tempo reale, seguici anche sulle nostre pagine Facebook, Instagram e Twitter.
  Lo studio è ancora in fase sperimentale, si sta formando un database composto da campioni di voce, tosse e respiro su pazienti positivi sia al Coronavirus, sia alla normale influenza. E' stato inoltre richiesto un finanziamento congiunto all'Unione Europea.

(Yeslife, 18 giugno 2020)


Israele e l'attesa di riprendere il volo

 
I voli commerciali in Israele non riprenderanno fino almeno a metà luglio, se non agosto. È quanto ha dichiarato il direttore generale dell'aeroporto Ben Gurion Shmuel Zakaim al sito d'informazione Ynet. E anche quando ci sarà il via libera, ha spiegato Zakaim, il numero di aerei in partenza rimarrà basso. "Le norme sociali di distanziamento negli aeroporti non cl permetteranno di aumentare la capacità di passeggeri - ha dichiarato Zakaim - se terremo il passo a questo ritmo vedremo qualche dozzina di voli in partenza dal Ben Gurion a partire da metà luglio e non prima. Finché non ci sarà un vaccino per il coronavirus e la malattia continuerà a spostarsi da un paese all'altro, non ci saranno cambiamenti significativi".
   A fine maggio l'autorità aeroportuale ha stilato una lista di paesi considerati come destinazioni non a rischio, tra cui Grecia, Cipro, Seychelles, Austria, Slovenia, Croazia, Serbia, Montenegro, Islanda, che sono caratterizzati da una bassa percentuale di contagi da covid-19. L'idea sarebbe non solo di permettere di andare nelle destinazioni in elenco ma anche di escludere - per chi torna da quei paesi - la quarantena obbligatoria di 14 giorni. Al momento le restrizioni di volo sono ancora in vigore, quindi l'atterraggio in Israele richiede due settimane di isolamento mentre l'ingresso ai passaporti non israeliani è proibito.
   In preparazione della riapertura al turismo nazionale e internazionale, inoltre, ministero del Turismo e della sanità hanno delineato un nuovo decalogo per la gestione degli alberghi nel Paese. "È estremamente importante che gli hotel del nostro Paese mantengano un alto livello di standard igienico-sanitari per garantire la sicurezza dei viaggiatori quando visitano Israele", le parole di Asaf Zamir, ministro del Turismo israeliano. "Quando saremo in grado di aprire nuovamente le nostre frontiere ai viaggiatori internazionali, vogliamo che i turisti si sentano tranquilli sul fatto che Israele stia prendendo ogni precauzione per garantire loro una vacanza sicura e piacevole nel nostro bellissimo e vibrante Paese". "L'intera industria del turismo - ha sottolineato Zamir - è in grave crisi a causa della pandemia di coronavirus ed è nostro compito agire rapidamente per riportarla in carreggiata e contribuire alla sua ripresa". Per questo il governo di Gerusalemme ha stanziato 86 milioni di dollari che andranno in particolare nelle casse degli alberghi, per dare loro un po' di respiro in attesa che il turismo riprenda.

(Pagine Ebraiche, giugno 2020)


Conflitto israelo-palestinese ed estensione della sovranità

Riceviamo da Emanuel Segre Amar il testo della videoconferenza tenuta martedì 16 giugno dall'ambasciatore di Israele in Italia, Dror Eydar, alla Commissione Affari esteri del Senato

  Onorevoli Senatrici e Senatori della Repubblica Italiana, grazie per avermi invitato a dialogare con voi.
  Il Medio Oriente si trova al centro dell'attenzione mondiale, il più delle volte non per le giuste ragioni.
  In passato, quest'area è stata il cuore della civiltà mondiale, mentre oggi è principalmente fonte di preoccupazione e instabilità.
  Cercherò di far luce su alcuni punti meno considerati nel dibattito corrente, anche se penso che siano la base e la premessa per qualsiasi discussione seria su quella regione e sul suo futuro. Suppongo che vorrete pormi domande su Israele e su quello che sta accadendo oggi; Sarò lieto di rispondere, dopo questa mia introduzione.
  Direi di iniziare dalla fine: il Medio Oriente è stato profondamente scosso nell'ultimo decennio: le rivolte iniziate in Tunisia ed Egitto, alla firme del 2010 e all'inizio del 2011, si sono estese a tutta la regione, causando quelle che sembravano "guerre civili".
  Da circa dieci anni, tutti si aspettano che nella regione torni la calma, e si ritorni all'equilibrio precedente. Ma a quanto pare, ciò che è stato in Medio Oriente, non tornerà ad essere com'era, nel prossimo futuro.
  Circa 100 anni fa, le potenze mondiali decidevano di dare ai popoli del Medio Oriente, una nuova veste, nella forma dello stato nazionale di tipo occidentale. Decidevano quindi di mettere insieme sunniti, sciiti, cristiani, drusi, alawiti, curdi e altre minoranze, in un unico paese chiamato Siria. Lo stesso è stato per Libano, Iraq, Yemen e altri luoghi. A proposito, è stato così anche in Libia.
  I gruppi che furono messi insieme, erano rivali, e spesso persino nemici. Anche all'interno stesso di questi gruppi etnici, c'erano tribù e clan, che erano spesso in conflitto tra loro, con frequenti spargimenti di sangue.
  Che cosa ha tenuto insieme tutti questi gruppi? Una visione condivisa? Dei valori condivisi? Una storia comune? Una religione comune? Una democrazia civile?
  Ciò che teneva insieme la Siria era Assad padre; ciò che teneva insieme l'Iraq era Saddam Hussein, e ciò che teneva insieme la Libia era Muammar Gheddafi; e così via. Singoli leader controllavano le forze armate e gestivano un regime di terrore e senza diritti civili. In termini occidentali, erano dittature.
  Quello che abbiamo visto nell'ultimo decennio è il crollo dello "stato-nazione" di tipo occidentale in Medio Oriente, assieme alla scomparsa di questi leader spietati, mentre da sotto, riemergono le antiche strutture (primordiali), che hanno caratterizzato da sempre questa regione. Sopra di esse, vi era molte volte una sovrastruttura sotto forma di impero, che governava tutto questo conglomerato multicolore.
  Ecco una prima domanda che sorge già dalle mie parole: chi ha deciso che ciò che si addice all'Europa e alla civiltà occidentale, si addice anche al Medio Oriente?
  In questo resoconto generale, ci sono paesi che fanno eccezione, rispetto al suddetto processo, e sono: Egitto, Iran e Turchia. Queste sono unità geografiche e nazionali, che esistevano già prima; sebbene anche lì, assistiamo a scossoni non semplici.
  Per un momento, l'Egitto è sembrato guidare la rivoluzione della "Primavera araba". I giornalisti occidentali stavano in Piazza Tahrìr l'11 febbraio 2011, e raccontando al mondo come questa rivoluzione appartenesse alla generazione di Facebook, e non avesse nulla a che fare con i Fratelli Musulmani. Una settimana dopo, nella stessa piazza si tenne una manifestazione di due milioni di persone, e il principale oratore era lo sceicco Y-iisuf al-Qaradàwì, la guida religiosa più influente oggi nel mondo musulmano, e l'autorità religiosa suprema dei Fratelli musulmani. Ma ritorneremo dopo su questo.
  Fortunatamente per l'Egitto, e forse anche per il mondo, vi fu una controrivoluzione, che tolse il potere ai Fratelli Musulmani.
  In Turchia è in atto, da un paio di decenni, una rivoluzione religiosa contro la rivoluzione secolare Kemalista, che aveva cambiato la Turchia negli anni '20 del secolo precedente. Non è una questione semplice, perché c'è una forte opposizione anche all'interno di parti importanti della società turca. Tuttavia, Erdogan nutre aspirazioni messianiche di riportare la Turchia agli splendori dell'Impero ottomano, e trasformarla in un califfato islamico. Si considera il patrono dei Fratelli musulmani.
  Per questo, la Turchia promuove i legami con Hamas a Gaza, con i Fratelli Musulmani in Egitto e in altri luoghi, e si intromette anche a Gerusalemme e altrove in Israele. Con il pretesto di attività religiose e sociali, crea dei centri di agitazione e incitamento all'attività islamica radicale. Per inciso, nella sua lotta per ottenere influenza sul Monte del Tempio a Gerusalemme, la Turchia si scontra con Giordania, Arabia Saudita e altri ancora. Una ulteriore ricetta per una guerra religiosa, per gentile concessione di Erdogan.
  Vi dico questo, perché il cambio di direzione della Turchia riguarda l'intera regione, incluso il "cortile di casa vostra", la Libia. Anche lì, la Turchia si intromette, e aumenta l'instabilità del paese. Non è passato molto tempo, da quando ha "spartito" il Mediterraneo tra lei e il debole leader di Tripoli.

 E veniamo all'Iran.
  L'Iran, ancor più di Egitto e Turchia, si trova su un antico continuum storico. È un'antica civiltà che era un impero già nel primo millennio a.C. Per questo, il regime iraniano guarda a priori all'Occidente con disprezzo: per loro, la civiltà occidentale è un corpo malato, con il tempo segnato. È bene ricordare, anche se vi incontrate con il sorridente ministro degli Esteri, Mohammed Zarif, si tratta di un paese guidato da un regime religioso degli Ayatollah. Le decisioni non sono sempre determinate da considerazioni razionali.
  Guardando oggi al Medio Oriente, la domanda che dovrebbe preoccupare l'Europa è: perché tutti gli Stati della Mezzaluna fertile, sono diventati paesi dominati dagli sciiti?
  Il Libano, inizialmente un paese con predominio cristiano, è ora sotto l'influenza sciita; La Siria era un paese con predominio sunnita, e oggi è una dittatura sciita; L'Iraq è stato sotto il dominio sunnita per secoli, ed è ora uno stato sciita.
  È avvenuto un cambiamento storico nei rapporti di forza tra sunniti e sciiti, come mai prima dalla fondazione dell'Islam nel settimo secolo.
  L'intera Mezzaluna fertile è ora aperta all'Iran, attraverso l'Iraq, la Siria, il Libano (Hezbollah), al bacino orientale del Mediterraneo. Non v'è mai stato nulla di simile, in tempi moderni.
  Le minacce dell'Iran a Israele non sono nuove. Israele non confina con l'Iran, e non c'è motivo di conflitto tra noi e loro. Tuttavia, data l'ossessività, la follia e gli enormi sforzi che il regime degli Ayatollah ha investito nell'odio di Israele, e nel suo desiderio di colpirci, e persino di distruggerci, - questa sembrerebbe essere la ragion d'essere di questo regime.
  Di recente, il 22 maggio, abbiamo sentito nuovamente il leader supremo Khàmeneì, definire Israele un "tumore canceroso nel Medio Oriente". Ha anche detto: "Il virus sionista che è sopravvissuto finora, non sopravviverà ancora a lungo. L'entità sionista non sopravviverà; sarà eliminata". Oggi, i più grandi antisemiti del mondo, hanno imparato a mascherare le loro parole, e a sostituire "ebrei" con "sionisti". Secondo la definizione di antisemitismo, adottata lo scorso gennaio anche dal governo italiano, entrambi i tipi sono il medesimo antisemitismo. Come se non fossero passati 80 anni, di nuovo sentiamo Hitler parlare alle masse, solo che il tedesco è cambiato in lingua farsi.
  Ma non si tratta solo di parole. Sono parole che invitano all'azione. In quel discorso, Khàmeneì ha dichiarato: "Chiediamo al mondo, in particolare al mondo musulmano, di sostenere e armare i palestinesi". Di chi stava parlando? Di Hamas, una dichiarata organizzazione terroristica, che nel suo statuto, cita il fondatore dei Fratelli Musulmani, Hasan al-Bannà: "Israele esisterà e continuerà ad esistere finché l'Islam non lo cancellerà, proprio come ha cancellato altri prima di esso".
  Da qui, anche l'idea insensata - di cui l'Europa faceva parte - che fosse possibile raggiungere con questo sanguinoso regime, un accordo sulla bomba nucleare. Onorevoli Senatrici e Senatori, nel momento in cui avranno una bomba, la useranno. Chiunque pensi che io stia esagerando, è invitato a imparare dall'esperienza europea. È così che i paesi del mondo parlavano di Hitler e della Germania nazista, sottovalutando i loro discorsi. Dalla storia abbiamo imparato, che quando un dittatore dice qualcosa, è bene prendere sul serio le sue parole.
  Israele è in grado di affrontare questo regime. Il problema è che il resto dei paesi del Medio Oriente, non è in grado di affrontare l'Iran. Guardate tutti i paesi arabi in cui l'Iran è coinvolto, e vedrete con occhi obiettivi, che esso è un fattore rilevante della instabilità di quei luoghi.
  Esiste un profondo divario, tra la visione del mondo occidentale e l'Iran. Non è sufficiente parlare inglese "koinè";La domanda è: quale mondo rappresenta la lingua? Ecco un esempio attuale:
  Lo scorso maggio, è emerso che un padre ha decapitato la propria figlia con una falce, a causa della cosiddetta "offesa all'onore della famiglia". È stato catturato e ha confessato. Ma questo non significa che resterà in prigione. La legge iraniana riconosce l'antica istituzione del "riscatto del sangue", una sorta di "delitto d'onore", e la possibilità di convertirne la pena in pena pecuniaria. Più di due anni fa, l'ex sindaco di Teheran uccise sua moglie. Fu catturato, confessò e fu condannato a morte. Oggi è libero. La sua condanna è stata convertita in pena pecuniaria. Ora, trovatemi un parallelo simile, in un codice penale di qualsiasi paese occidentale. Ciò che per noi è omicidio, per loro è solo una delle opzioni.
  Ignorare questo divario tra le visioni del mondo, non mette in pericolo solo Israele. Siamo tutti in pericolo, anche l'Italia e l'Europa. Ricordate lo sceicco Qaradàwì in Piazza Tahrir? Bene, quest'uomo, che ora è l'autorità religiosa suprema nel mondo musulmano, ha emesso una Fatwà (una sentenza giuridica islamica) in cui dice ai suoi fedeli quanto segue:
  "Costantinopoli è stata conquistata dal giovane ottomano Muhammad bin Muràd, nel 1453 ... Resta l'altra città, Roma, e noi speriamo e crediamo che anch'essa sarà conquistata. Questo significa, che l'Islam tornerà in Europa da conquistatore e vincitore, dopo esserne stato espulso due volte ... Forse, se Allah vuole, la prossima conquista avverrà grazie alla predicazione e all'ideologia. Non è obbligatorio che la conquista avvenga grazie alla spada ...".
  Il simbolismo di Roma come capitale della civiltà cristiana è evidente. Per questo, l'enorme sforzo islamista di intromettersi a Gerusalemme. E queste non sono cose dette in segreto, ma apertamente agli occhi di tutto il mondo.
  L'idea che l'Occidente possa firmare accordi con gli islamisti, allo stesso modo in cui l'Italia firma accordi con la Francia, non è semplicemente ingenua, ma pericolosa. Il fondamento degli accordi importanti nell'Islam, si basa sul modello che Maometto stabilì con l'accordo di Al-Hudaybiyya nel 628 (Seicento Ventotto). A quel tempo, il potere di Maometto era debole, quindi egli firmò un accordo decennale di non belligeranza con la tribù dei Quraysh, che governava la Mecca. Non dovendo più occuparsi della potente tribù dei Quraysh, Maometto ebbe il tempo di occuparsi delle tribù ebraiche della penisola arabica, eliminandole o islamizzandone alcune. Le sue vittorie, portarono un numero maggiore di credenti a unirsi al suo esercito, che divenne più forte. Due anni dopo aver firmato l'accordo, Maometto lo violò, e conquistò la Mecca. Il resto è storia.
  Per inciso, sei mesi dopo la firma degli Accordi di Oslo, Yasser Arafat dichiarò in un discorso registrato: "Questo accordo (Oslo), ai miei occhi non è nulla di più dell'accordo firmato tra il profeta Maometto e la tribù dei Quraysh ... così come Maometto ha accettato quell'accordo, noi accettiamo questo accordo".
  Ci piace pensare di avere tutti gli stessi bisogni e interessi umani di base. Questa è una tendenza ben nota, come lo è la negazione della realtà, e il dire "andrà tutto bene". Sull'Iran, sono anni che noi lo gridiamo a voce alta. È tutto palese di fronte a voi. Alcuni ci ascoltano, altri meno. Ad ogni modo, i giorni in cui il popolo ebraico chiedeva protezione ad altri, sono finiti. Siamo tornati nella storia per restarci. E per rimanere nella storia, impariamo bene le sue lezioni. Se sarà necessario difenderci, sapremo farlo.
  Il concetto che vi chiedo di recepire dalle mie parole, è che l'Iran è un pericolo per tutto l'Occidente, Italia inclusa. Onorevoli Senatrici e Senatori, a questo riguardo, siamo tutti sulla stessa barca, chiamata civiltà giudaico-cristiana.
  L'altro assunto, riguarda l'apprendimento dagli ultimi cento anni di storia: l'Europa ha cercato di "fare ordine" in Medio Oriente, e ci sta ancora provando. Non solo non ci è riuscita, ma il caos mediorientale di oggi, è in gran parte il risultato di questi tentativi. In parte, per i motivi che ho elencato.
  Onorevoli Senatrici e Senatori, lasciateci fare da soli.

  Audizione e risposte

(Notizie su Israele, 18 giugno 2020)


Grillini zitti su Maduro. Ma attaccano Israele

Pessima uscita del pentastellato Petrocelli con l'ambasciatore Dror Eydar: «Lo Stato ebraico è una minaccia nucleare?»

di Giovanni Sallusti

Il Movimento Cinque Stelle è un partito-burla, e proprio per questo ogni volta che tracima dal recinto della commedia all'italiana e si esercita sul piano globale finisce in tragedia. La geopolitica vista dai server della Casaleggio&Associati ha una sola, indiscutibile, granitica costante: vale tutto, basta stare coi nemici dell'Occidente. Neocomunismi tecnocratici come la Cina, satrapie islamiste come l'Iran, ultime lande del socialismo reale come Cuba e Venezuela. Già, il Venezuela. In questi giorni la nomenclatura grillina sta tentando una missione impossibile: scavalcare con un disinvolto silenzio gli interrogativi sul presunto finanziamento illegale ricevuto dal regime allora retto da Hugo Chavez, quando un anno fa pavoneggiava la propria diversità rispetto al presunto finanziamento russo alla Lega. Peraltro, questo caso sarebbe assai più scivoloso, visto che Chavez e il suo successore Maduro sono due macellai incalliti avvezzi ad affamare il proprio popolo e ad imbastire proficue collaborazioni col narcotraffico e col terrorismo internazionali, anzitutto in chiave anti-Usa, il Grande Satana, l'incubo del terzomondismo 2.0 dei leaderini pentastellati, altrettanti habitué dell'ambasciata cinese a Roma. Però, a pensarci, c'è uno Stato, un'eccezione vivente, che al Movimento sta fin più sul gozzo dello Zio Sam. Israele, l'unica democrazia del Medio Oriente. Qualcosa da sempre inaccettabile per la sinistra filocoranica, e a maggior ragione oggi per la sua filiazione trash, la congrega a Cinque Stelle. C'è una lunga storia di spettacolarizzazioni anti-israeliane, dal presidente della Camera Fico che riceve con tutti gli onori Mai Al Kaila, ambasciatrice della Palestina che sui suoi social glorifica come "martiri" e 'fratelli" i terroristi, all'invito a Montecitorio recapitato a Omar Barghouti, il fondatore del movimento per il boicottaggio dello Stato ebraico. Il vicepresidente della Commissione Esteri del Senato Vito Rosario Petrocelli ha deciso però di scalare questa speciale classifica, e di uscire dalla propria dimensione di Carneade utilizzando un classico del bagaglio politico grillino, la gaffe. L'omonimo di Crimi ha pensato bene di fare lo spiritoso al termine di una videoconferenza con l'ambasciatore israeliano Dror Eydar. «Lasciamo questo incontro senza sapere se Israele è una minaccia nucleare», ha scandito bullesco, immaginiamo dando di gomito al vicino di banco e sentendosi una versione lucana di Arafat.
  Piccolo particolare: la linea era ancora aperta, e dall'apparecchio è subito partita la replica del diplomatico. «Questo è il problema dell'Italia, che deve capire qual è la realtà del Medio Oriente. Non è questa la domanda giusta, noi dobbiamo difenderci, questo è il punto, 80 anni dopo l'Olocausto». Una lezione di storia in due frasi che potrebbe comprendere perfino Petroncelli (di cui la Lega ha chiesto immediate dimissioni): Israele è l'unico Stato al mondo circondato da vicini che lo considerano abusivo, una blasfemia della storia, un cancro da rimuovere dalle mappe.

 Minaccia islamica
  È quindi persino confortante che Israele detenga la bomba, per i suoi abitanti ma anche per noi, affezionati a questa nostra fetta di mondo démodé e consapevoli che come ricordava Ugo La Malfa «la libertà dell'Occidente si difende sotto le mura di Gerusalemme», perché lì premono i suoi nemici principali, i sicari della sharia. Che evidentemente per proprietà transitiva piacciono invece agli strateghi della politica internazionale pentastellata (il pasdaran Di Battista del resto invitò ad "elevare ad interlocutorì" gli sgozzatori dell'Isis).
  Il capogruppo in Commissione Esteri del Movimento Gianluca Ferrara ha poi provato a mettere una toppa allo sfondone del collega, perfino peggiore del buco: «Siamo rimasti sinceramente delusi dall'audizione dell'ambasciatore di Israele. Ha trattato con sufficienza una commissione parlamentare, accusando a più riprese l'Italia e l'Europa di non capire le ragioni di Israele nel rifiutare il dialogo con i palestinesi». Qualcuno dovrebbe leggergli il preambolo dello Statuto di Hamas: «Israele sarà stabilito e rimarrà in esistenza finché l'islam non lo ponga nel nulla».
  Poi ne riparliamo, di chi davvero rifiuta il dialogo. Ma sarebbe politica estera, e non (pessimo) cabaret.

(Libero, 18 giugno 2020)


La Bibbia è razzista?

di Marco Cassuto Morselli e Gabriella Maestri

In un momento in cui tutto il mondo è giustamente indignato per il razzismo, padre Alberto Maggi, teologo e biblista cattolico, scopre l'origine di questo flagello: la Bibbia! «Si trovano nella Bibbia le radici profonde del razzismo, pianta venefica che intossica gli uomini, generando persone che, chiuse nel proprio angusto confine mentale, si sentono minacciate da tutto ciò che è più ampio, diverso» (A. Maggi, La Bibbia e il razzismo, www. ilLibraio.it).
   In primo luogo si potrebbe osservare che è antistorico parlare di razzismo per l'Antichità. Certamente in tutti i popoli antichi gli esempi di xenofobia non mancano, basti pensare al mondo egiziano, che spesso rappresentava i faraoni in atto di calpestare i popoli nemici, o al mondo greco, che definiva barbari tutti coloro che non parlavano la sua lingua e non condividevano la sua civiltà. Ma il razzismo come si è venuto configurare in età moderna, soprattutto a partire dal secolo XIX, è tutt'altra cosa.
   Che i testi biblici siano stati utilizzati dai razzisti è senz'altro vero, ma altra cosa è affermare che è la Bibbia stessa ad essere razzista. Certo, in testi così antichi sono presenti passi molto problematici, ma è proprio compito del biblista interpretare e contestualizzare tali testi in modo che non ne derivino interpretazioni fuorvianti.
   La pericope di Gn 9,18-27 contenente la benedizione di Shem e Yafet e la maledizione di Kenaan costituisce uno di questi passi. Kenaan viene maledetto in quanto suo padre Ham ha visto la nudità di Noah, ossia ha intaccato quel rispetto per la generazione precedente che è condizione indispensabile per la prosperità e la continuità di un popolo, principio questo che nell'Israele storico verrà affermato con il comandamento: «Onora il padre e la madre».
   Questa pericope, posta alla fine del racconto epico del diluvio, ha anche un valore eziologico oltre che morale: nasce dal tentativo di spiegare come mai nell'armonia di un'umanità di fratelli si sia insinuata la schiavitù. La narrazione inoltre può essere stata condizionata dall'esecrazione, riscontrabile in tanti passi della Scrittura, per l'idolatria, accompagnata da culti orgiastici e dalla prostituzione sacra praticati dalle popolazioni cananee.
   Maggi afferma che gli abitanti della terra di Kenaan erano legittimi e che gli israeliti erano occupanti del loro territorio. In realtà, tra la tarda età del bronzo e la prima età del ferro (1550-1150 a.e.c.) le popolazioni della terra di Kenaan erano costituite da diverse etnie e provenivano da vari territori: esse, organizzate in piccole città-stato, erano in continue guerre tra loro. Sembra che qui Maggi proietti sulla storia antica categorie interpretative legate alla storia più recente.
   Egli inoltre sostiene che la sacra Scrittura va interpretata, e questo è sicuramente vero, anche e soprattutto per la tradizione ebraica, che è in continua reinterpretazione dei suoi testi, tanto che si è addirittura parlato di una «interpretazione infinita». Maggi invece afferma: «Il Cristo è pertanto la chiave di interpretazione della Scrittura», contraddicendo così il documento della Pontificia Commissione Biblica Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture (2001), con prefazione dell'allora card. J. Ratzinger. Nel documento si riconosce che la lettura ebraica della Bibbia «è una lettura possibile, che è in continuità con le sacre Scritture ebraiche dell'epoca del Secondo Tempio ed è analoga alla lettura cristiana, che si è sviluppata parallelamente a questa» e si aggiunge che i cristiani possono imparare molto dall'esegesi giudaica praticata per 2000 anni, come a loro volta i cristiani sperano che gli ebrei possano trarre utilità dai progressi dell'esegesi cristiana.
   Continuando la lettura dell'articolo, non è facilmente identificabile la pericope del NT in cui viene detto: «Prima noi!», a cui Yeshua risponderebbe: «Tutti insieme!».
   Molto grave è che il teologo-biblista interpreti come razzismo il tema dell'elezione d'Israele, che non è da intendersi come «un vantare più diritti degli altri», «arroccarsi sulla separazione razziale», ma vuol dire essere chiamati a diffondere la Torah per il bene dell'umanità intera.
   L'articolo si conclude con un'ulteriore grave affermazione: Maggi scrive che «l'unica razza presente nei Vangeli è quella delle vipere, serpenti velenosi, immagine delle pie persone, degli "scribi e farisei ipocriti" tanto devoti con Dio quanto disinteressati al bene degli uomini». La Pontificia Università Gregoriana ha organizzato nel 2019 un convegno internazionale sui farisei, i cui Atti sono in corso di pubblicazione, spinta dall'esigenza, da più parti sentita, di rendere giustizia a un gruppo religioso da sempre vilipeso dai commentatori e dai lettori degli scritti neotestamentari. Colpisce quanta differenza di informazione e di sensibilità esista tra la cerchia degli studiosi e il comune sentire, tuttora sotto l'influenza di stereotipi e pregiudizi.

(Settimana News, 18 giugno 2020)


La Bibbia è razzista”, si è arrivati a dire anche questo. Non sorprende, si è detto e si dirà anche di peggio. E’ necessario che gli elementi a carico degli stolti per l’espletamento del giusto giudizio di Dio giungano a completezza. M.C.


L'eterno ritorno dell'antisemitismo, dagli "Ebrei di Colonia" alle pandemie di oggi

di Massimo Novelli

"Solo che a farmi indignare oggi non è il passato, ma il presente. Allora quasi nessuno pensava che la natura ferina del XIV secolo, nutrita da preti e frati, potesse risvegliarsi di nuovo nel seno del popolo tedesco". Era il 1897 quando il narratore e giornalista tedesco Wilhelm Jensen (1837-1911) scrisse la prefazione alla ristampa del suo romanzo storico Gli ebrei, di Colonia (Die Juden von Cölln), un'opera giovanile, pubblicata nel 1869, che era nobilmente votata a narrare e a denunciare gli orrori dell'antisemitismo germanico nel Medioevo. Tanto che il libro fu apprezzato da Theodor Herzl, il fondatore del sionismo.
   Sembravano vicende dei secoli più bui, storie della peste nera, la stessa di Giovanni Boccaccio. Invece, a distanza di tanto tempo, avvertì Jensen nel 1897, quel "feroce ruggito" dell'antisemitismo, l'odio dell'antigiudaismo cattolico, divamparono e risuonarono nuovamente. In Francia era scoppiato il caso di Alfred Dreyfus. In Germania si era svolto a Dresda, nel 1882, il primo congresso mondiale antiebraico, e nel 1885 erano stati espulsi 10mila ebrei russi che si erano rifugiati in terra tedesca dopo i pogrom zaristi degli anni precedenti. Così la storia che aveva scritto, quasi trent'anni prima, si inverò ancora una volta, diventando bestialmente il presente. Alla vigilia del 1900, insomma, quanto era stato descritto da Jensen per il Medioevo si ripeteva; e la menzogna, le stupidità e le follie di massa facevano a pezzi come allora la ragione e la verità.
   Amico di Sigmund Freud, che si ispirò a una sua novella, Gradiva, per l'indagine psicoanalitica sull'arte, Jensen aveva raccontato l'assalto al ghetto della città di Colonia, a metà del 1300, mentre infuriava la peste nera, e la distruzione di quella che era la più grande comunità israelitica della Germania. La pestilenza aveva alimentato in molti cattolici l'ossessione della "Fine dei Tempi", scatenando l'individuazione di un untore, ossia di un colpevole, identificato nell'ebreo, "uccisore di Nostro Signore Gesù Cristo" e "avvelenatore dei pozzi".
   Gli ebrei di Colonia non era mai stato tradotto in italiano. Esce dunque ora, per la prima volta, grazie alla Biblioteca del Vascello-Robin, in una elegante edizione curata da Claudio Salone. È un romanzo, quello di Jensen, che anticipa, con una notevole preveggenza e una straordinaria lucidità di visione storica, ciò che sarebbe avvenuto in Germania negli anni Trenta-Quaranta con Hitler e il nazismo. Nello stesso tempo è una narrazione che ci è vicina proprio adesso, in questi mesi di novelle pandemie, di fronte al mai tramontato razzismo, al cospetto dell' eterno ritorno dell'antisemitismo. La lezione di Jensen, tuttavia, il suo messaggio imperituro, come avverte Salone nell'introduzione al romanzo, richiamano l'amore e la solidarietà dei perseguitati, "che talvolta riescono a valicare gli steccati che la Storia ha innalzato tra di loro, nel riconoscimento di un destino comune, illuminato dalla Luce della Ragione".

(il Fatto Quotidiano, 18 giugno 2020)


Coronavirus, arriva da Israele la mascherina autopulente

ROMA - E' stata inventata da un gruppo di ricercatori israeliani una mascherina riutilizzabile che si autodisinfetta grazie al calore. La mascherina ha una porta USB che se collegata a una fonte di energia riscalda il suo strato interno di fibre di carbonio fino a 70 gradi centigradi, temperatura sufficiente a distruggere il coronavirus. Si consiglia alle persone di non indossare la mascherina durante il processo di disinfezione, che dura 30 minuti, ha detto all'agenzia Reuters Yair Ein-Eli, capo del team di ricerca dell'università Technion che ha inventato il dispositivo. I ricercatori hanno chiesto il brevetto Usa per la mascherina autopulente e intendono commercializzarla.

(askanews, 17 giugno 2020)


"Così trascrivo la sacra Torah"

Parla Amedeo Spagnoletto, rabbino, 52 anni, nuovo direttore del Museo nazionale dell'Ebraismo e della Shoah di Ferrara

"Bisogna seguire il principio tratto dall'Esodo: questo è il mio Dio e lo voglio rendere bello". È l'unico sofer italiano da 150 anni. La sua arte di copiare i testi è antichissima. "Sono uno scriba".

di Susanna Nirenstein

 
Amedeo Spagnoletto
Un rabbino, una guida spirituale, un insegnante della legge mosaica alla direzione di un istituzione culturale del Paese. Un fatto inedito. Il museo è quello nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah, il Meis, aperto quattro anni fa a Ferrara con lo scopo di raccontare l'esperienza millenaria degli ebrei nella Penisola. E' qui che Amedeo Spagnoletto, 52 anni, romano, si è appena insediato.
Spagnoletto è un rabbino molto speciale, il più informale che si sia mai visto: rosso di capelli, si fa chiamare per nome, non è difficile incontrarlo con il berretto da baseball e sneakers in bicicletta. Rilassato ma dotto, eccome. Diplomato in Biblioteconomia alla Biblioteca Vaticana, è professore di Talmud ed esegesi biblica, di Paleografia ebraica, di Diritto ebraico, e soprattutto è un sofer, un copiatore dei sacri rotoli della Torah, possiede un'arte millenaria, un mestiere sacro, è uno scriba certificato della Bibbia che deve sapere più di 4000 regole contenute nel Talmud e nella Mishnà per affrontare il suo lavoro. Durante il quale, se compi un errore nel redigere il nome del Signore, tutto va a monte. Vogliamo saperne di più. Lo contattiamo via Skype.

- Un rabbino a dirigere un museo nazionale. Come pensa di coniugare queste due identità, quella religiosa e quella laica?
  «Per me è stata una sorpresa, temevo che essere un rabbino potesse essere un ostacolo alla mia candidatura. E invece non ci sono stati pregiudizi, il Paese ha capito che in una figura possono convivere l'adesione a una tradizione plurisecolare e una prospettiva più ampia. In realtà credo che il Meis sia il luogo più adatto per raccontare a una nazione a volte lacerata tra accoglienza e diffidenza, come un'integrazione senza la rinuncia alle specifiche identità sia possibile. Con una priorità rivolta alle scuole».

- Da dove nasce il suo ebraismo così profondo, da che famiglia viene?
  «Da una famiglia tradizionale romana, non così osservante. È stata soprattutto mia nonna Elena, mentre seguiva il lutto per suo marito negli anni 70, ad avvicinarmi alla religiosità, a farmi sentire il privilegio di appartenere a una cultura tanto forte e il desiderio di trasmetterla alla generazione successiva. Anche se io mi sento un ebreo all'italiana, attento a contemperare precetti e un modo di vita tollerante».

- Lei è anche un sofer, credo l'unico in Italia negli ultimi 150 anni. Cosa significa questo mestiere?
  «Ho scritto un Sefer Torah nel 2007 ed erano circa 150 anni che in Italia non venivano redatti. Mentre la tradizione della copiatura dei testi sacri aveva sempre contraddistinto il nostro Paese. Furono l'emancipazione e il diffondersi della secolarizzazione a investire e far scemare questa pratica che sta a metà tra artigianato e devozione».

- Come si diventa sofer?
  «Richiede l'apprendimento di una tecnica che deve assolvere a numerose regole prescritte dai più antichi rabbini, dalla Mishnà e dal Talmud, oltre a una buona dose di sfaccettatura artistica secondo il principio parafrasato dall'Esodo "questo è il mio Dio e lo voglio rendere bello". Le norme vanno dal supporto scrittorio, la pergamena, alla produzione del calamo, alle lettere che vanno scritte in modo completo, armonioso e con un inchiostro durevole. Essere scriba è la caratteristica di me stesso a cui tengo di più; se mi chiedono che fai nella vita, io vorrei rispondere "scriba in Roma", il resto, essere insegnante, rabbino, è corollario».

- Cosa prova mentre trascrive le lettere sacre della Bibbia?
  «Si dice che il Sefer Torah possieda tante lettere quante sono le anime del popolo ebraico. E infatti quando scrivi devi stare attento che non manchi nemmeno un carattere, altrimenti quella Torah sarà inadatta alla lettura pubblica: insomma quando copio mi sento legato a tutte le parti dell'ebraismo, passato, presente, futuro. Come in quel midrash che racconta come sul Monte Sinai a ricevere le tavole della legge ci fossero tutti gli ebrei, sia quelli che erano usciti dall'Egitto, sia quelli che sarebbero venuti dopo. E mi sento cosi anche quando correggo o restauro un Sefer Torah antico, perché avverto tutta la tradizione precedente, mi connetto a tutti quelli che l'hanno letto e conservato prima di me».

- Bisogna essere puri prima dl impugnare la penna d'oca?
  «Ci vuole un'attenzione particolare quando si copia il tetagramma, il nome di Dio. Devi prima pronunciare delle parole che attestino la consapevolezza della santità di quel che stai per fare. Alcuni consigliano il mikveh, il bagno rituale, ma non è obbligatorio».

- Torniamo al suo museo. Cosa consiglia di vedere?
  «Innanzitutto il luogo, perché il museo è iscritto nel carcere dove sono stati reclusi i prigionieri durante il fascismo, anche Bassani: è di per sé evocativo di una storia ebraica incancellabile. Poi contiene un eccezionale progetto didattico rivolto alle scuole. In terzo luogo ci sono le straordinarie mostre permanenti e quella sulla Shoah 1938: l'umanità negata che era stata chiusa per il Covid e ora viene riaperta. E quella che verrà, sul periodo del ghetti. Imprescindibile una visita alla Ferrara ebraica, le sue sinagoghe, il cimitero. Un'offerta armoniosa, sintonica».

- Cosa vuol fare di questo museo?
  «Per ora devo studiare quel che è stato fatto, il lavoro meraviglioso e appassionato che ha realizzato chi mi ha preceduto, Simonetta Della Seta».

- Un sogno nel cassetto?
  «Penso a un lavoro che si concentri sul rabbino Yochanan Ben Zakkai, vissuto duemila anni fa. Fu lui che durante l'assedio a Gerusalemme riuscì a uscire dalle mura della città e a incontrare il comandante Vespasiano: cosi ottenne di salvare i saggi e la scuola rabbinica che poi fondò a Yavne. Fece un passo che permise agli ebrei di riformulare le modalità di trasmissione della propria tradizione e di continuare ad esistere. Mi piacerebbe metterlo al centro di un'iniziativa».

(la Repubblica, 17 giugno 2020)


Prossimo il rientro in Israele del F-35 Adir "sperimentale"

di Aurelio Giansiracusa

F-35 Adir del 140 Squadron Israeli Air Force
Per il prossimo 4 luglio è prevista la consegna di 4 F-35 all'Aeronautica israeliana. Di questi quattro velivoli, uno è lo "special test aircraft", un aereo impiegato per testare, sviluppare ed implementare sistemi avionici esclusivi dell'Aeronautica di Tel Aviv.
Questi tre apparecchi (più l'aereo "sperimentale") porteranno il totale degli aerei fin qui consegnati a 27, superando la metà dei 50 F-35 Adir ad oggi ordinati.
L'aereo sperimentale è servito a sviluppare un primo "lotto" di avioniche dedicate che sono state provate in combattimento dalla IAF sui cieli mediorientali.

 Suite EW e sistema di comando e controllo israeliano
  Una volta rientrato in Israele, il velivolo riceverà la suite potenziata EW (Electronic Warfare), sistema già estremamente performante rilasciato dalla versione "legacy" del Lightning II.
Ovviamente, su questo delicato programma convergono le maggiori imprese israeliane del settore, tra l'altro, tra le migliori in assoluto al mondo e gli organi tecnici nonché i reparti operativi della IAF che gestiscono il velivolo. Al momento sono stati dichiarati operativi due squadroni di Adir ed un terzo è in via di formazione.
Non sono rilasciate grosse informazioni in merito, data la natura riservata del programma. Ufficialmente si parla di rendere gli F-35 Adir in grado di assegnare i bersagli a tutti gli operatori aerei, terrestri e navali, nell'ambito di sistema di comando e controllo sviluppato in Israele inteso a migliorare le capacità di combattimento delle IDF.
Tutto questo è reso possibile dalla potenza dei sensori e dei sistemi di elaborazione dei dati ricevuti nonché dai sistemi di trasmissione in tempo reale installati sul velivolo. Sotto questo profilo, l'aspetto EW è fondamentale per aggiornare costantemente il "quadro elettronico" del campo di battaglia, fornendo informazioni precise sul livello di minacce esistenti, permettendo di affrontarle senza esporre a rischi le proprie forze operative.

(Ares Osservatorio Difesa, 17 giugno 2020)


Mussolini in trappola

Impressionato dalla potenza del Reich concluse l’alleanza suicida con Hitler

Berlino, 1937
Al Duce durante la sua visita ufficiale, fu concesso l'onore di rivolgersi dal palco a una folla immensa di tedeschi osannanti.
Tra i capolavori
A Firenze, a far da guida a Hitler agli Uffizi fu «comandato» Ranuccio Bianchi Bandinelli, grande antichista.

di Paolo Mieli

Poteva andare a finire in modo diverso la storia di Benito Mussolini? A conclusione di Hitler in Italia. Dal Walhalla al Ponte Vecchio, maggio 1938, pubblicato dal Mulino, Franco Cardini e Roberto Mancini si consentono due pagine di quello che definiscono un esercizio di «spregiudicata ucronia». Fingono che il capo del fascismo sia morto dieci anni prima di quando effettivamente venne ucciso dai partigiani (aprile 1945) e, nel contempo, oltre dieci anni dopo di quando andò al potere (ottobre 1922). Vale a dire provano a immaginare come oggi Mussolini verrebbe ricordato in Italia se fosse uscito di scena il 28 aprile 1935, all'indomani dei patti di Stresa. Patti con i quali «aveva dimostrato di aver compreso prima e meglio di altri la natura del pericolo rappresentato dalla Germania nazionalsocialista». Insomma, se fosse scomparso prima di scatenare la guerra d'Etiopia e di lasciarsi avvolgere dall'«abbraccio stritolante di Hitler», forse oggi di lui si parlerebbe in modo diverso.
  In quel caso, tengono a precisare, sarebbe ovviamente rimasto, agli occhi dei contemporanei e dei posteri, il responsabile delle violenze squadristiche, della sospensione delle libertà politiche e dell'uccisione di Giacomo Matteotti. Misfatti incancellabili. Ma, sostengono, verrebbe ricordato anche come l'uomo del «risanamento delle istituzioni statali», della «lotta alla piaga dell'emigrazione», della Carta del Lavoro, dell'«autentica fondazione dello Stato sociale», dello «sbancamento della mafia», della «modernizzazione del Paese - bonifiche, ferrovie, incentivi all'industrializzazione, nascita dell'industria turistica e di quella cinematografica, impulso alle comunicazioni navali, avvio di quelle aeree - della nazionalizzazione culturale delle masse, della conciliazione tra Stato e Chiesa», di una politica estera balcanica e orientale caratterizzata tra l'altro da un «deciso filosionismo» e da una «chiara comprensione delle aspettative dei popoli arabi» che avrebbe fatto di lui un «mediatore ideale» in quell'area geografica. Talché forse oggi Mussolini sarebbe considerato in modo differente. Molto differente. «Invece l'accidente non gli è venuto», scherzano Cardini e Mancini. E il Duce si è infilato in una storia che lo ha portato tra le braccia di Hitler. Con le conseguenze che ben conosciamo.
  Prima tra queste conseguenze la visita del Führer in Italia fra il3 e il9 maggio 1938, che fu la rappresentazione plastica di quel che si era messo in moto dalla metà del 1935. E di ciò che stava per accadere. Fu, quella visita, sotto molti profili «emblematica» in quanto «mise in movimento una poderosa macchina di autorappresentazione dello Stato monarchico e del popolo fascista». Autorappresentazione «senza precedenti per complessità logistica e per elaborazione iconografica». li dispositivo cerimoniale studiato e originalmente proposto «fece proprie molte delle antiche formule rituali sabaude», ma si aprì anche alle «retoriche localistiche». Tale rituale, mentre «teneva conto dei rispettivi poteri nonché delle distinte prerogative del re e del Duce», si mostrò «sensibile alle esigenze della moderna comunicazione politica». Fu, secondo Cardini e Mancini, «un capolavoro che riuscì a dare della realtà italiana un'immagine sorprendentemente vivace e poliedrica, assumendo in pieno tutte le questioni estetiche e teologico-politiche al momento in auge». Riproponendo tra le righe persino quel dibattito tra «vecchio» e «nuovo» che con icastica formula fu definito «ritorno all'ordine».
  Quel viaggio fu la «restituzione» di una visita che il capo del fascismo - accompagnato da Ciano, Starace, Alfieri e da un centinaio fra esponenti del governo e gerarchi - aveva fatto l'anno precedente in Germania. La delegazione mussoliniana aveva viaggiato su un convoglio speciale che «faceva sfoggio della più moderna tecnologia italiana». Varcata la frontiera, a Kiefersfelden, era andato ad accoglierlo un gruppo di importanti personalità tra cui Ulrich von Hassel, Rudolf Hess, Hans Frank e l'ambasciatore italiano in Germania Bernardo Attolico. Alla stazione di Monaco fu eretta in onore del Duce una gigantesca «M»: la città da cui era iniziata l'avventura hitleriana era addobbata a festa e fu lì che i due leader fecero la prima comparsa in pubblico. Già a Monaco camminavano l'uno a fianco dell'altro: Mussolini, salito al potere nel 1922, e Hitler che guidava la Germania solo dal 1933. Ma fu poi a Berlino che venne messa in scena una rappresentazione trionfale. Mussolini - che pure nel 1934, al momento dell'assassinio di Dolfuss, aveva impedito alla Germania di annettere l'Austria - riuscì quattro anni dopo a far cadere ogni residua diffidenza hitleriana nei suoi confronti (ammesso che ancora ce ne fosse). «Mai», scrisse l'ambasciatore francese a Berlino, «alcun monarca fu ricevuto con tanto fasto».
  Hitler concesse a Mussolini l'onore di rivolgersi pubblicamente a una folla di tedeschi osannanti, come fino ad allora solo lui aveva potuto fare. L'occasione, scrivono Cardini e Mancini, fu tuttavia guastata da uno scroscio di pioggia che dovette far disperare il Duce perché, fra l'altro, bagnò le cartelle dattiloscritte del suo discorso. E lui, per quanto ostentasse una certa padronanza del tedesco e potesse leggerlo «discretamente», in realtà «possedeva l'idioma parlato solo in modo malsicuro, con discreta proprietà ma con una disastrosa pronuncia». L'esito di quell'evento, «da lui atteso con ansia e accuratamente preparato», fu «obbiettivamente frustrante per il suo orgoglio». Ciò che, però, non modificò la diffusa impressione che si fosse trattato di un successo. Il capo del fascismo fu molto colpito dall'immagine di potenza offerta dalla Germania. Ne fu «affascinato e sconvolto». La stampa italiana scrisse che Hitler si era avvicinato a Mussolini. Attolico, nei suoi rapporti riservati, sostenne l'esatto contrario. Era stato Mussolini, secondo l'ambasciatore, ad avvicinarsi a Hitler.
  Appena rientrato in Italia, il Duce mandò un telegramma a Vittorio Emanuele III in cui scrisse: «Mia impressione è che il Reich non ha rinunciato all'Anschluss; attende solo che gli eventi maturino». Un modo per dire che il Führer gli aveva annunciato l'intenzione di annettere l'Austria e che lui gli aveva risposto che stavolta non si sarebbe opposto. L'interprete ufficiale di Hitler per la lingua italiana, Paul Schmidt, nel dopoguerra ha scritto un libro, Da Versaglia a Norimberga (L'Arnia), in cui è stato assai circostanziato sulla concatenazione
  tra quell'incontro e l'annessione dell'Austria alla Germania nazista. Mussolini, scrisse Schmidt, «aveva formulato l'invito a Hitler, in mia presenza, durante la visita in Germania e sotto l'impressione delle accoglienze ricevute». Non so, proseguiva, «se questo invito sarebbe stato fatto con tanta cordialità, qualora a quell'epoca l'Anschluss dell' Austria fosse già stata un fatto compiuto». Se pensiamo «a come il Duce aveva scosso il capo durante i colloqui con Göring nell'aprile del 1937, sono indotto», prosegue Schmidt, «a dubitarne». Malgrado Göring glielo avesse preannunziato, Mussolini «fu alquanto sorpreso» dal proposito di annessione. Tuttavia «fece buon viso a cattivo gioco e rispose che comprendeva perfettamente il modo di agire di Hitler».
  Nel 1938, quando Hitler restituì la visita, molte cose erano cambiate dal 1934. Ma anche rispetto al 1937. La Germania nazionalsocialista, ricordano Cardini e Mancini, non aveva aderito alle sanzioni economiche contro l'Italia decretate dalla Società delle Nazioni in seguito all'aggressione italiana all'Etiopia. Successivamente Italia e Germania si erano trovate fianco a fianco nel sostegno politico e militare all'alzamiento nazionalista contro la Repubblica spagnola nell'estate del 1936. L'11 marzo del 1938 Hitler era entrato «da padrone» a Vienna, segnando «un passo definitivo sulla via dell'unificazione di tutti i popoli germanici». Eppure all'epoca Mussolini ambiva ancora a presentarsi come il candidato ideale per la ricerca di un equilibrio continentale, a proporsi, si potrebbe dire parafrasando Francesco Guicciardini, come «ago della bilancia europea».
  Il viaggio di Hitler ebbe luogo in quello che viene considerato «l'anno migliore del regime sotto il profilo dello sviluppo socioeconomico e del benessere degli italiani del tempo». Quando si progettava come e dove accogliere Hitler, Mussolini aveva scartato l'Italia del Nord: temeva, scrivono Cardini e Mancini, che nessuna delle grandi città industriali italiane avrebbe potuto reggere al confronto con quel che gli era stato mostrato in Germania. Intendeva poi evitare che il suo interlocutore «si rendesse troppo conto dell'inferiorità e dell'arretratezza del nostro Paese rispetto al Reich». Meglio Napoli e Firenze (oltre beninteso alla capitale). Messo piede sul suolo italiano, in quei primi giorni di maggio, Hitler fu costretto a prender nota della «fredda accoglienza» di Vittorio Emanuele III e della quasi ostilità di Papa Pio XI che si ritirò «ostentatamente» a Castel Gandolfo.
  A Roma venne «offerta» a Hitler un'imponente parata nonché, per ben due volte, visite alla Mostra augustea della romanità e al Pantheon (la ripetizione fu resa obbligatoria dalle cattive condizioni del tempo che imposero una modifica del programma). A Napoli Hitler fu imbarcato sulla nave «Cavour», dove dovette restare per sette ore ad assistere a esercitazioni militari della Marina per poi essere portato la sera al San Carlo ad assistere a due atti, della Madama Butterfly e dell'Aida. A Firenze, a far da guida a Hitler agli Uffizi fu «comandato» Ranuccio Bianchi Bandinelli, grande antichista, docente all'Università di Pisa. Nelle memorie pubblicate nel dopoguerra, «certo preziose», chiosano Cardini e Mancini, «ma tuttavia rese ambigue dal loro chiaro intento autoapologetico teso costantemente a prendere le distanze dal suo passato in orbace» - Dal diario di un borghese e altri scritti (il Saggiatore) - Bianchi Bandinelli ironizzò su quell'incontro.
  Quand'è che l'alleanza tra l'Italia fascista e la Germania nazista divenne definitiva? In che momento della visita? Secondo quel che ha lasciato scritto Ciano nei diari, il «dado fu tratto» il 9 maggio alla stazione di Santa Maria Novella, allorché il Duce avrebbe detto all'ospite: «Ormai nessuna forza potrà più separarci». A sentir pronunciare quelle parole, Hitler si sarebbe commosso fino alle «lacrime». Cardini e Mancini mettono in dubbio che «i fatti si siano svolti davvero in una cornice emotiva» di quel genere. Ma qualcosa accadde davvero. Nel corso di quella visita, riprese a «flettersi e forse a incrinarsi» il filogermanesimo di Ciano. li quale Ciano, però, già durante il viaggio di un anno prima in Germania, si era posto per la prima volta (nel diario privato) un interrogativo: «Basterà la solidarietà di regime a tenere veramente uniti i due popoli che razza, civiltà, religione, gusti respingono ai poli opposti?». Per poi così proseguire: «Nessuno può accusarmi di ostilità alla politica filotedesca; l'ho inaugurata io; ma mi domando, deve la Germania considerarsi una mèta o non piuttosto un terreno di manovra?».
  E fu nel 1938, forse, in quel 9 maggio a Santa Maria Novella che l'alleanza tra Italia fascista e Germania nazista divenne irreversibilmente, per dirla con il termine usato da Ciano, una «mèta».
  Proprio in quello stesso 1938, anno XVI dell'era fascista, probabilmente come diretta conseguenza dell'incontro tra Hitler e Mussolini, si ebbe quello che per gli autori del libro fu «l'evento annunziatore della catabasi». La «discesa agli inferi» avvenne il 25 luglio (cinque anni prima di un altro fatidico 25 luglio, quello del 1943 che avrebbe visto la caduta del regime fascista). In quel giorno d'estate del 1938 la segreteria politica del Pnf diede alle stampe il «Manifesto della razza» (che già circolava anonimo). Un documento in dieci brevi punti «mediocre, frettoloso, compilatorio, ispido di ambiguità e di contraddizioni», scrivono Cardini e Mancini. Ma tale da legare definitivamente Mussolini a Hitler, nonostante il capo del fascismo italiano ancora ritenesse di poter svolgere in Europa quel ruolo equilibratore di cui si è detto. illusioni. Fu forse la scintilla provocata dalle parole pronunciate alla stazione di Firenze che portò l'Italia alle leggi razziali. E trascinò Mussolini nel baratro della storia.

(Corriere della Sera, 17 giugno 2020)


A Parigi si urla 'Sporchi ebrei' alla manifestazione antirazzista

Durante la manifestazione del comitato Adama Traoré, che sabato 13 giugno ha riunito più di 15.000 persone per denunciare la violenza della polizia e il razzismo in Place de la République a Parigi, si sono anche sentite delle grida 'Sporchi ebrei'. Lo riporta Le Parisien.
  Il quartier generale della polizia ha reagito rapidamente. Un'ora dopo la pubblicazione di un video pubblicato dal settimanale Valeurs Actualités, ha annunciato che sarebbe andata in tribunale.
  La sequenza di poco più di un minuto, ampiamente condivisa sui social network, mostra i manifestanti che urlano contro gli attivisti di destra di Generation Identity, che sono venuti per mostrare uno striscione che denunciava "razzismo anti-bianco" sul tetto di un edificio vicino a Place de la République. È allora che si sente ripetutamente l'insulto antisemita, senza però che si veda chi lo pronuncia o sapere se si tratta di una o più persone.
  "'Sporchi Ebrei' è ciò che possiamo ascoltare nelle false dimostrazioni antirazziste dei veri raduni di odio dell'estrema sinistra - ha dichiarato su Twitter Eric Ciotti, il deputato LR delle Alpi Marittime -. Il governo fa parlare la violenza e la società si radicalizza".
Durante la manifestazione, come riporta i24news.tv, molti anche gli slogan anti israeliani e gli striscioni che chiamano al boicottaggio di Israele.

 La condanna del Crif
  In una nota, il Crif (Conseil Represantatif des Juifs de France) condanna fermamente questi atti intollerabili, che inoltre provengono da manifestanti che dichiarano di denunciare il razzismo. Il Crif ricorda fortemente che questo antisemitismo non può essere tollerato e ricorda agli organizzatori la loro responsabilità di fronte a questi inaccettabili abusi. "Non può esserci lotta contro il razzismo che tollera direttamente o indirettamente l'antisemitismo nei suoi ranghi".
  Il Crif è anche particolarmente scioccato dalla reazione di Jean-Luc Mélenchon, che ha messo in discussione la realtà di queste osservazioni antisemite, ma registrate e accessibili a tutti.
  Per il presidente del Crif Francis Kalifat "gli eccessi di questa manifestazione stanno insultando sia la Repubblica che la causa che ha sostenuto di difendere i manifestanti". "Invita tutti i partiti politici democratici a denunciare questi abusi pericolosi e invita le autorità pubbliche a intraprendere azioni e condanne esemplari".
  Il Crif condanna con la stessa fermezza gli slogan violentemente anti-israeliani, senza alcun legame con l'oggetto della manifestazione e che testimoniano la volontà di infiltrarsi in una causa giusta e universale - l'antirazzismo - dell'odio di Ebrei e Israele.

(Bet Magazine Mosaico, 16 giugno 2020)


Israele vuole un aeroporto internazionale a Gerico

Nell'area della Cisgiordania assegnata ad Israele nel contesto del Piano Trump c'è una zona desertica in cui potrebbe essere edificato un aeroporto internazionale, sulla base di progetti esaminati dal ministero israeliano dei trasporti già dieci anni fa. Lo rivela il quotidiano Makor Rishon,p. Quell'aeroporto, aggiunge il giornale, affiancherebbe il 'Ben Gurion' di Tel Aviv e consentirebbe di smaltire così il crescente afflusso di turisti in Israele, secondo piani elaborati tuttavia prima della crisi del coronavirus. Makor Rishon precisa che l'aeroporto sarebbe situato nella 'vallata di Horkanya', nel deserto della Giudea, fra Betlemme e Gerico. Si tratta di una zona pianeggiante dove sarebbe possibile realizzare due piste di atterraggio separate, distanti un chilometro fra di loro. Il vantaggio di questa località è rappresentato dalla sua vicinanza a Gerusalemme. Makor Rishon rileva tuttavia che anche la Autorità nazionale palestinese vorrebbe dotarsi di un proprio aeroporto nella medesima zona.

(ANSAmed, 16 giugno 2020)


Nashville: vandalizzato memoriale della Shoah

di Nathan Greppi

 
Nell'ultimo fine settimana, un memoriale della Shoah situato nella città americana di Nashville, nello stato del Tennessee, è stato ricoperto di graffiti che raffigurano insulti antisemiti e simboli neonazisti.
Secondo Algemeiner, il memoriale è gestito dal Gordon Jewish Community Center, che in un comunicato ha dichiarato: "Condanniamo una simile intolleranza e violenza, per i quali non c'è spazio né a Nashville né da nessun'altra parte in America."
Il comunicato aggiunge che "siamo fortunati ad avere un ottimo servizio di sicurezza sul posto per proteggerci. Lavorano fianco a fianco con le autorità locali e nazionali per mantenere noi e il nostro campus al sicuro. In un periodo in cui la nostra nazione sta affrontando il razzismo e gli attacchi antisemiti sono in aumento, il nostro centro continua a stare con chi condanna la discriminazione in ogni sua forma."
Come si legge sul sito del memoriale, esso serve a mantenere e tramandare il ricordo della Shoah attraverso le storie dei superstiti residenti a Nashville. Lungo la strada che porta al memoriale, sono scritti i nomi di tutte le città europee da cui provengono i superstiti.
Stando alle statistiche più recenti, sono circa 10.000 gli ebrei che vivono a Nashville.

(Bet Magazine Mosaico, 16 giugno 2020)


L’ambasciatore d'Israele a Roma: "Teheran è un pericolo anche per l'Italia "

ROMA - L'Iran è un pericolo per tutto l'Occidente, Italia inclusa: lo ha detto oggi l'ambasciatore di Israele in Italia, Dror Eydar, in un'audizione informale, in videoconferenza, alla commissione Affari esteri, emigrazione del Senato nel quadro dei nuovi equilibri geopolitici nel Medio Oriente allargato. Il diplomatico ha citato le recenti parole della guida suprema iraniana, l'ayatollah Ali Khamenei, che ha definito Israele un "tumore canceroso nel Medio Oriente" affermando che "l'entità sionista non sopravviverà; sarà eliminata". Secondo l'ambasciatore israeliano, le parole di Khamenei ricordano quelle di Adolf Hitler: "Di nuovo sentiamo Hitler parlare alle masse, solo che il tedesco è cambiato in lingua farsi". Eydar ha definito "insensata" l'idea che sia possibile raggiungere un accordo con l'Iran sul suo programma nucleare. "Nel momento in cui avranno una bomba, la useranno. Chiunque pensi che io stia esagerando, è invitato a imparare dall'esperienza europea", ha concluso Eydar.
  La Valle del Giordano costituisce un "confine naturale" per Israele, ha detto inoltre l'ambasciatore. "Per qualsiasi accordo futuro, c'è un grande consenso in Israele, riguardo alla Valle del Giordano come nostro confine orientale. Si tratta di una barriera geografica naturale, dalle alture del Golan e della Galilea orientale, lungo la valle del Giordano, il deserto di Giudea e la valle della Aravà, fino a Eilat", ha detto l'ambasciatore, commentando i piani di annessione delle colonie israeliane in Cisgiordania. Il confine orientale dello Stato ebraico, a detta del diplomatico, è fondamentale per contenere una possibile "inondazione nel Paese di rifugiati", ma anche per impedire l'ingresso di "masse di gruppi terroristici e radicali che desiderano penetrare dentro Israele, agitare il territorio, e compiere eccidi non solo tra la popolazione israeliana, ma anche quella palestinese".

(Agenzia Nova, 16 giugno 2020)


Un secolo di pensiero del progetto: Bruno Zevi, l'architettura e l'ebraismo

di Debora Vella

La nuova edizione di saggi "Ebraismo e architettura" - curata da Manuel Orazi per Giuntina - è un distillato dell'universo interiore di Bruno Zevi, architetto, storico ma soprattutto critico, divulgatore dell'architettura e molto altro. La voce della complessa e sfaccettata personalità dell'autore, capace di essere dissacrante, spigoloso, rigoroso, a tratti simpatico, sempre appassionato, vibra in ogni sua pagina. Un libro petit, ma pesante come una pietra miliare, pubblicato la prima volta nel 1993, capace di mettere in circolazione il "sangue", e accendere lo sguardo su un mondo più intimo, tenuto lungamente in ombra. Il suo ritorno scandisce, come un rintocco di campana, il centenario dalla nascita dell'autore. Un documento importante per capire un grande intellettuale del '900, che qui mostra compiutamente i suoi valori come mai prima di allora; lo scrigno segreto che raccoglie gran parte delle battaglie civili combattute da Zevi in prima persona, fino alla fine dei suoi giorni.
Manuel Orazi, raffinato scrittore, storico dell'architettura e giornalista, apre con la sua folgorante introduzione I love Bruno! (citazione mutuata da Frank Gehry che Manuel incontrò nel suo studio a Los Angeles nel 2010), a cui Zevi era legato da un forte sentimento di stima e ammirazione, tanto da dedicargli il suo ultimo editoriale in cui si chiedeva "è ancora impossibile immaginare un'architettura dopo Frank Gehry?" Scrive Orazi "Ebraismo e architettura può essere considerato un risarcimento verso questo lato identitario costitutivo e fondamentale, rimasto a lungo in secondo piano rispetto alle maschere pubbliche che Zevi di volta in volta ha indossato nelle sue infiammate battaglie civili, politiche, culturali, urbanistiche". Ne emerge una coerenza di fondo: i suoi ideali, l'ebraismo e la sua concezione di cosa sia l'architettura, infatti, sembrano convergere in un'unica direzione.
   Zevi partì per studiare prima a Londra e poi negli Stati uniti, dove si unì ai circoli degli esuli antifascisti. Dichiarava di odiare l'accademia, il classicismo, la simmetria, i rapporti proporzionali, le cadenze armoniche, gli effetti scenografici e monumentali, la retorica e lo spreco degli 'ordini', i vincoli prospettici… e di apprezzare o subire richiami contraddittori. Dichiarò inoltre di amare i rituali e di non sopportare il conformismo" ci svela Manuel Orazi che, fin da studente, trovava la figura di Zevi molto divertente con le sue idiosincrasie verso le simmetrie e verso autori molto potenti come Sangallo e la setta Sangallesca, Valadier e il neo-classicismo, contro il "detestato" Marcello Piacentini. Tutte queste critiche e le sue profonde idiosincrasie si catalizzano in forti passioni sia in positivo - nei confronti di autori molto amati come Borromini e F.L. Wright - che in negativo, in una flusso di corrente alternata che rende la lettura dell'opera molto gustosa. Zevi si muove in un periodo storico in cui la critica aveva cambiato il proprio modo di esprimersi, mentre nel Novecento gli architetti si affrontavano a viso aperto, criticandosi apertamente, oggi si mostrano tendenzialmente amici tra loro solo in pubblico; in questo contesto leggere le sue pagine cariche di passioni, vive e contrastanti, risulta estremamente amusant.
   Zevi apprezzava architetture connotate da irrazionalità, disordine, estraneità al contesto, che esprimevano disagio, irrequietezza, ribellione e dolore. Seguì il "cammino interrotto" dell'architettura organica, senza giungere al suo pieno compimento. In quest'opera l'autore prende il largo verso la riflessione su valori universali - come dice Manuel Orazi - ontologici fondanti della vita dell'uomo di cui ci consegna una sua lettura personale in relazione all'ebraismo. Nell visione zeviana l'azione di progettare, che va ben al di là del significato racchiuso nel termine architettura, si innesta come carne viva in un ragionamento all'interno del quale - spazio e tempo - diventano metronomo dell'espressione artistica a tutto campo.

(Kolòt, 16 giugno 2020)


Lockheed Martin, Israele ripara da sé gli F-16

Degli 8 F-16 israeliani danneggiati in un'alluvione a gennaio, 5 sono stati riportati in servizio dalla Iaf (Israel Air Force) senza aver ricevuto le istruzioni sulla riparazione dal produttore Lockheed Martin.

di Chiara Rossi

 
F-16 Fighting Falcon
Israele ha fatto da sé per i suoi F-16 danneggiati. La scorsa settimana, quattro caccia F-16, prodotti dalla statunitense Lockheed Martin, sono tornati alla base della Iaf (Israel Air Force) di Hatzor, nel sud di Israele, volando di nuovo cinque mesi dopo che un alluvione gennaio li aveva costretti a terra.
  Il 12 giugno, l'aeronautica israeliana ha dichiarato che gli ultimi tre gli aerei sono ora rientrati in servizio. Degli otto F-16 israeliani che sono stati danneggiati, le riparazioni sui restanti 3 aeromobili hanno richiesto più tempo.
  "Il produttore [Lockheed Martin] non ha definito come trattare gli aeromobili danneggiati dalle inondazioni. Insieme al quartier generale della Iaf, abbiamo dovuto capire quale fosse il processo giusto per ogni aeromobile", ha dichiarato il comandante dell'Amu (unità di manutenzione aerea) dell'aeronautica israeliana.

 F-16 Fighiting Falcon
  L'F-16 Fighting Falcon è un aereo da combattimento compatto e multi-ruolo. Fornisce un sistema d'arma relativamente economico e ad alte prestazioni per gli Stati Uniti e le nazioni alleate. Come si legge sul sito di Lockheed Martin, "l'F-16 rimane il caccia multiruolo di maggior successo al mondo, collaudato in combattimento. Circa 3.000 F-16 operativi sono attualmente in servizio in 25 paesi".
Gli F-16 sono utilizzati per varie missioni in Israele e nella regione.

 I danni di gennaio
  A gennaio un'alluvione ha allagato la base di Hatzor dell'Air Force di Israele, casa del 101° squadrone, noto anche come il primo squadrone di caccia, la divisione di aerei da combattimento originale di Israele.
  Otto aerei da combattimento F-16 sono rimasti danneggiati, con riparazioni stimate in oltre 30 milioni di shekel (8,5 milioni di dollari). Dopo mesi di riparazioni, i caccia sono di nuovo operativi.

 Riparati da sé
  L'Amu (Unità di manutenzione aerea) dell'Iaf ha ripristinato diversi velivoli che hanno richiesto un significativo processo di manutenzione sia nella base Hatzor che nella base Tel Nof AFB. Per l'AMU si è trattato della prima volta che ha tentato di ripristinare gli F-16 danneggiati da un'alluvione. "I danni da alluvione hanno un impatto significativo sui sistemi elettrici e meccanici dell'aeromobile", ha affermato il Col. M, comandante dell'Amu.

 Lockheed Martin non ha fornito istruzioni
  L'Amu è riuscita nella riparazione contando soltanto sulle proprie capacità. "Il produttore [Lockheed Martin] non ha definito come trattare gli aeromobili danneggiati dalle inondazioni. Insieme al quartier generale della IAF, abbiamo dovuto capire quale fosse il processo giusto per ogni aeromobile. Abbiamo creato una serie di processi di manutenzione per ciascun aeromobile, in base all'unità conoscenza ed esperienza complete ", ha spiegato il Col. M.
  "Con l'iniziativa e il coraggio del nostro personale, siamo riusciti a creare un piano che tratta ogni aereo su più livelli. Innanzitutto, abbiamo dovuto capire quali pezzi di ricambio avevamo e quali pezzi che dovevamo ripristinare. Abbiamo quindi controllato ogni singolo filo e si è assicurato che fosse completamente asciutto, integro e funzionante correttamente, per prevenire una grande esplosione o un corto circuito durante l'alimentazione del velivolo e l'esame dei suoi sistemi".

 Forza aerea prodotta da Boeing e LM
  Attualmente la forza aerea dell'Iaf è composta di circa 270 velivoli, suddivisi in 50 F-15C/D (Boeing), 200 F-16 (LM), e 22 F-35 Adir (la versione personalizzata del caccia LM per Israele).
  Negli ultimi anni l'Iaf ha acquistato una ventina di F-35 Adir e entro la fine dell'anno ne otterrà altri 13. La flotta dovrebbe crescere fino a 50 caccia negli anni a venire, previa decisione del governo.
  Dopo un lungo dibattito interno, a febbraio l'esercito israeliano ha deciso di acquistare sia un altro squadrone F-35 Lockheed Martin che un altro squadrone F-15 Boeing, in un accordo stimato in 3 miliardi di dollari. Fonti vicine al dossier hanno spiegato a Breaking Defense che, mentre "i sensori dell'F-35 sono essenziali in alcune situazioni, nelle fasi successive del combattimento Israele avrà bisogno di altri velivoli, quelli con avionica avanzata che possono operare in combinazione con l'F-35 e trasportare carichi pesanti di armi. Come l'F-15".

(Start Magazine, 16 giugno 2020)


Notizie archiviate



Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse liberamente, citando la fonte.