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Notizie 1-15 giugno 2022


Sanremo e Netanya unite da un protocollo d’intenti

La città d’Israele dedica una piazza al comune matuziano.

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Questa mattina [15 giugno] il sindaco di Sanremo Alberto Biancheri e il sindaco del Municipio di Netanya Miriam Fierberg hanno firmato il protocollo d’intenti tra il Comune di Sanremo e il Municipio di Netanya (Stato di Israele).
  Il protocollo d’intenti ha per oggetto l’istituzione delle basi di cooperazione e scambio tra Sanremo e Netanya, nelle aree della cultura e del turismo, per contribuire allo sviluppo e all’approfondimento delle relazioni di amicizia di entrambi le parti e per costruire progetti condivisi.
  “Abbiamo accolto con molto piacere il sindaco di Netanya e la delegazione al suo seguito – commenta il sindaco Biancheri – in questa giornata che assume un significato particolare perché rinforza il legame tra le nostre città. Sanremo e Netanya da oggi sono ancora più vicine, in un’ottica di collaborazione e scambio di conoscenze”.
  Le basi per un legame tra la nostra città e Israele sono state fondate lo scorso anno durante le celebrazioni per i 100 anni della “Conferenza di Sanremo”, evento cruciale nelle relazioni internazionali per la spartizione dell’ex Impero Ottomano e per la successiva nascita dello Stato di Israele svoltosi a Sanremo il 18 aprile 1920.
  Proprio in occasione di quelle celebrazioni, l’ambasciatore di Israele in Italia, Dror Eydar, è stato a Sanremo, al castello Devachan: qui è stata scoperta la targa realizzata a memoria della “Conferenza di Sanremo” che ha rappresentato un primo passo nella nascita del futuro Stato di Israele.
  E la città di Netanya, per dare lustro a Sanremo e alla Conferenza, ha dedicato una piazza alla città: “Piazza Sanremo”.
  All’incontro di questa mattina erano presenti anche il presidente del consiglio comunale Alessandro Il Grande, gli assessori Silvana Ormea e Giuseppe Faraldi, i consiglieri comunali Alessandra Pavone ed Ester Moscato.

(Rivieratime, 15 giugno 2022)

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Il gas di Israele: una risorsa strategica

di Ugo Volli

• “L’unico posto del Medio Oriente dove non c’è il petrolio”
  “ Mosè ci ha fatto andare in giro quarant'anni nel deserto, per riuscire a portarci nell'unico posto del Medio Oriente dove non c'è petrolio!” Secondo Amos Oz e sua figlia Fania, questa battuta proverbiale si deve a Golda Meir. E in effetti per i primi sessant’anni della sua esistenza, fra gli svantaggi strategici di Israele - circondato da nemici, posto su una stretta striscia di terra che prima del lavoro dei pionieri era tutta arida o paludosa -, l’assenza di fonti energetiche è stato uno dei problemi principali, perché il petrolio e il gas dovevano arrivare dall’America, con i costi e i rischi strategici che ciò comportava.

• La scoperta
  Tutto è cambiato quando nel luglio 2010, l’impresa americana concessionaria Noble Energy ha annunciato che gli studi sismici indicavano che c'era una probabilità del 50% che il giacimento Leviatan contenesse gas naturale, con la potenziale dimensione della riserva stimata in 450 miliardi di metri cubi. Il giacimento di gas si trova a circa 130 chilometri a ovest di Haifa in acque profonde 1.500 metri. Il pozzo di esplorazione iniziale, Leviathan 1, è stato perforato a una profondità di 5.170 metri. Poco prima era iniziata un po’ più a nord, l’esplorazione di un altro giacimento, Tamar, anch’esso molto ricco ma meno di Leviatan. Date le difficoltà tecniche, lo sfruttamento commerciale del gas è iniziato nel 2019. La riserva stimata complessiva è di 900 miliardi di metri cubi di gas, una cifra tanto importare da condurre il Paese alla guida dell’export di gas nella regione.

• Lo sfruttamento della risorsa
  Secondo le stime, il solo Leviatan garantirebbe i bisogni energetici interni di Israele per 40 anni. Ma il governo israeliano ha fatto molta attenzione a evitare che la ricchezza improvvisa dovuta al gas portasse l’economia israeliana sul sentiero pericoloso comune ai petro-stati: l’inflazione da eccesso di risorse che mette fuori mercato le altre produzioni e induce la tentazione di uno sviluppo basato solo sullo sfruttamento della risorsa naturale. Ha quindi programmato un uso moderato dei giacimenti e una vendita del gas con partner vicini e lontani, il che naturalmente ha importanti riflessi politici, oltre agli introiti economici. Con l’Egitto per esempio ha stretto già un accordo storico dal valore di 15 miliardi di dollari, che si sta trasformando con la prospettiva che l’Egitto (il quale ha a sua volta trovato importanti risorse di gas offshore, col giacimento Zohr gestito dall’Eni) diventi la base per la liquefazione e la vendita di gas all’Europa. Ma si pensa anche alla possibilità inversa, che cioè da Haifa parta per l’Europa sia il gas israeliano che quello egiziano. C’è stato anche un accordo di cessione con la Giordania. Con Cipro, che ha sua volta gas nelle sue acque territoriali, e con la Grecia, Israele ha concepito l’idea di un gasdotto “East Med”, che dovrebbe partire dai giacimenti israeliani, attraversare Cipro e Creta per arrivare in Puglia e poi rifornire l’Europa. Ma gli ostacoli tecnici sono notevoli e quelli politici ancora maggiori.

• La questione turca
  Un problema è come sempre la tentazione europea di boicottare in un modo o nell’altro Israele per favorire i palestinesi. Ma l’ostacolo maggiore è la Turchia, che anche a nome del suo stato fantoccio di Cipro Nord (frutto dell’invasione del 1983 e della successiva occupazione, non riconosciuto da nessun altro stato) rivendica diritti sulle acque territoriali di Cipro e sulle risorse sotterranee. Buona parte del riavvicinamento della Turchia a Israele degli ultimi anni è dovuto alla volontà turca di spartirsi con Israele le risorse appartenenti a Cipro (ma Israele ha lasciato cadere questa proposta) o almeno di indurre Israele a rinunciare a East Med per trasferire il gas all’Europa attraverso il suo territorio e non quello greco. Sulla base di un accordo con uno dei governi che si contendono la Libia, la Turchia ha però anche la pretesa di un possesso di tutto il braccio di mare (circa 1000 chilometri) che sta fra l’Anatolia a nord e la Cirenaica a sud, tagliando le zone marittime appartenenti a Israele, Grecia e Cipro. Il che certamente potrebbe creare problemi giuridici ma anche militari per East Med. Per il momento, la soluzione adottata è la liquefazione del gas e il trasporto per nave.

• La questione libanese
  Israele non ha solo Leviatan e Tamar. Ci sono dei giacimenti più piccoli, ma comunque consistenti a sud di Tamar, sempre a 150 chilometri dalla costa, che si chiamano Sarah e Mira, al momento non ancora sfruttati per difficoltà tecniche. E a nord ci sono Tanin e soprattutto Karish, quasi al confine col Libano. Il problema è che i confini marittimi fra i due stati in guerra non sono stati ancora ufficialmente tracciati. Le convenzioni internazionali dicono che sul mare si prolungano le frontiere terrestri sulla perpendicolare della linea di costa, ma le coste marine non sono mai rettilinee e tutto sta a vedere come si stabilisce esattamente questa linea: basta un cambiamento di pochi gradi per muovere il confine di parecchi chilometri al limite delle acque di “sfruttamento economico esclusivo”, cento chilometri più in là.

• La controversia su Karish
  Da anni è in corso una trattativa mediata dagli Stati Uniti. Israele ha proposto una linea che è stata approvata dall’Onu; il Libano ne ha controproposto una sua, naturalmente più meridionale e a lui più favorevole. Quando Israele ha iniziato a muoversi per sfruttare Karish, che è dentro il suo territorio anche secondo la proposta libanese, il Libano ha avanzato una nuova rivendicazione di una linea ancor più a sud, che comprende probabilmente parti di quel giacimento (ma non il punto attuale di perforazione). Israele ha ignorato questa nuova richiesta, le trattative si sono interrotte, e Hezbollah ha minacciato di colpire le piattaforme, che però sono difese da una versione marittima di Iron Dome. Se Hezbollah proverà ad attaccare i pozzi, ha ammonito Israele, sarà la guerra, che certo non farà bene al Libano. Il governo libanese ha accettato la mediazione americana, ma dato che Hezbollah risponde all’Iran e non al popolo libanese, non è impossibile un’avventura militare. Per il momento l’inviato americano è a Beirut e cerca di spiegare al governo libanese, il quale deve affrontare una crisi economica gravissima, che una soluzione pacifica è nel suo interesse perché aprirebbe la strada a profitti importanti.

(Shalom, 15 giugno 2022)


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Due giacimenti per due stati: la proposta del Libano per risolvere la disputa sul gas con Israele

Il Libano rinuncia a ogni pretesa su Karish, che Israele considera parte delle sue acque, in cambio dei diritti su un'altra riserva di gas, Qana. Nei prossimi giorni, l'inviato Usa Hochstein porterà la proposta libanese di fronte al governo israeliano. Un accordo sulle acque marittime tra due Paesi formalmente in guerra da decenni, rappresenterebbe un passo di portata storica.

di Rossella Tercatin

GERUSALEMME - Potrebbe essere a un punto di svolta la disputa tra Israele e Libano per quanto riguarda la definizione dei confini marittimi. Una disputa la cui risoluzione potrebbe rendere accessibili importanti riserve di gas in un momento in cui il mondo occidentale lavora per liberarsi dalla dipendenza dalle risorse energetiche russe.
  Secondo quanto riportato dalla Reuters, Beirut ha presentato al Segretario americano per l'energia Amos Hochstein, oggi in visita in città, un compromesso per superare la controversia con Israele, Paese con cui non ha mai ufficialmente raggiunto la pace (né la definizione dei confini terrestri). La controversia tra le due nazioni va avanti da anni, e nell'ultimo periodo è stata esacerbata dalla presenza del gas naturale.
  Nel 2020 infatti il Libano ha iniziato a reclamare come propria zona economica esclusiva un'area di millecinquecento chilometri quadrati in aggiunta agli 850 chilometri quadrati che aveva rivendicato a partire dal 2010. In quei millecinquecento chilometri quadrati nel 2013 è stata scoperta una riserva di gas conosciuta come Karish (squalo in ebraico).
  Beirut si oppone a che il giacimento venga sfruttato fino a che la questione non sia risolta, mentre dal canto suo, Israele considera Karish parte delle proprie acque e dunque sta lavorando per iniziarne l'utilizzo. Dopo l'arrivo della piattaforma il 5 giugno, il movimento sciita filo-iraniano Hezbollah, che in Libano rappresenta un vero e proprio stato nello stato, ha minacciato di colpire l'infrastruttura. Proprio all'intervento di Hezbollah si attribuisce l'irrigidimento libanese di fronte alle varie proposte di risoluzione offerte dagli americani negli scorsi mesi.
  L'amministrazione Biden e in particolare Hochstein ritengono che stabilizzare la situazione in Libano, in grave crisi economica ed energetica già da prima che scoppiasse la guerra in Ucraina, sia cruciale per la stabilità dell'intera regione. Il funzionario statunitense si è recato diverse volte nel Paese dei cedri per porre fine alla disputa in modo da consentire anche al Libano di accedere a parte delle riserve trovate nell'est del Mediterraneo.
  Secondo Reuters il Libano avrebbe proposto a Hochstein un compromesso per un'area che comprende un'altra riserva di gas, Qana, rinunciando a ogni pretesa su Karish, ma richiedendo allo stesso tempo che i lavori sul giacimento cessino fino a quando l'accordo non sia finalizzato. Attualmente Israele prevede di iniziare a sfruttare Karish entro la fine del 2022.
  Alla faccenda ha fatto riferimento anche il Primo Ministro israeliano Naftali Bennett durante la conferenza stampa congiunta con il Presidente del Consiglio Mario Draghi. "Aspetto il giorno in cui anche il Libano deciderà di essere pronto a estrarre il gas presente nelle sue acque economiche territoriali e goderne i benefici. Peccato che la leadership libanese invece di occuparsi di tutto questo per il bene del suo popolo si concentri su contese interne ed esterne del tutto inutili. Invito caldamente il governo libanese a cogliere l'occasione di migliorare l'economia libanese e costruire un futuro migliore per il suo popolo."
  Nel frattempo Bennett ha rassicurato Draghi sul fatto che Gerusalemme farà tutto ciò che è possibile per aiutare l'Italia e l'Europa a superare la crisi energetica grazie ai giacimenti già in funzione. Attualmente lo Stato ebraico produce circa 20 miliardi di metri cubi di gas all'anno, di cui 12 sfruttati per il mercato interno, ma nel giro dei prossimi anni si prevede di raggiungere i 40.
  Nei prossimi giorni, Hochstein porterà la proposta libanese di fronte al governo israeliano. Un accordo, tra due Paesi formalmente in guerra da decenni, rappresenterebbe un passo di portata storica. 

(la Repubblica online, 15 giugno 2022)


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L’Ue firma un accordo con Egitto e Israele per la fornitura di gas

«Questo contribuirà alla sicurezza energetica europea», ha detto la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen. Il documento consentirà per la prima volta esportazione «significative» di gas israeliano verso Bruxelles dopo che sarà trasportato attraverso l’Egitto.

• Alla ricerca dell’energia
  Per raggiungere il più rapidamente possibile un’indipendenza dal gas russo l’Unione europea ha raggiunto un accordo con Egitto e Israele assicurandosi così nuovi approvvigionamenti energetici.
  A dare l’annuncio è la stessa presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen che si è recata ieri in Israele dove ha avuto un incontro con il premier Naftali Bennett. Tramite un post su Twitter che ha scritto: «Questo contribuirà alla sicurezza energetica europea».
  Il ministero dell’Energia israeliano aveva anticipato ai media nazionali che avrebbe firmato oggi un accordo per l’esportazione di gas naturale nel corso dell’East Mediterranean gas forum. Il documento consentirà per la prima volta esportazione «significative» di gas israeliano verso Bruxelles dopo che sarà trasportato attraverso l’Egitto. Nello specifico, il gas sarà inviato verso Il Cairo attraverso i gasdotti e trasformato in gnl presso gli impianti di liquefazione egiziani di Idku e Damietta, prima di arrivare in Europa via nave.
  Con l’accordo l’Unione europea si assicura «la fornitura stabile di gas naturale dalla regione mediorientale», ha scritto Ursula von der Leyen. Tuttavia, la presidente della Commissione Ue ci tiene a specificare che stanno anche «costruendo delle infrastrutture per le energie rinnovabili, l’energia del futuro».

• L’incontro tra Bennett e von der Leyen
  Dall’incontro di ieri tra la presidente della Commissione Ue e il premier israeliano non sono emersi grandi dettagli. Secondo un comunicato rilasciato dall’ufficio del primo ministro i due hanno «discusso del rafforzamento delle relazioni bilaterali tra Israele e l’Europa» e hanno concordato di migliorare la cooperazione in materia di «innovazione, gestione del cambiamento climatico e sostenibilità», si legge nel testo.
  Inoltre, «il primo ministro Bennett ha accolto la richiesta del presidente della Commissione europea von der Leyen di cooperare nell'esportazione di gas naturale in Europa attraverso l’Egitto». Ma il premier israeliano ha anche sollevato le sue preoccupazioni riguardo l’Iran e ha chiesto alla rappresentante Ue di «adottare una linea dura contro il regime e i suoi progressi accelerati verso lo sviluppo di armi nucleari».

• La visita di Draghi in Israele
  Dopo le visite in Africa, il premier Mario Draghi si è recato il 14 giugno in Israele per cercare nuove forniture di gas per l’Italia, uno dei paesi più dipendenti dall’energia russa. «Mario amico mio – aveva detto ieri il primo ministro israeliano Naftali Bennett nella conferenza stampa a margine dell’incontro con il presidente del Consiglio Draghi – «Israele vuole aiutare l’Unione europea e l’Italia producendo gas naturale e queste sono ottime notizie per il mondo». Alle parole sono seguite i fatti, e oggi l’aiuto si è concretizzato con la firma dell’accordo tra Egitto, Israele e Bruxelles.

(Domani, 15 giugno 2022)

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L'Ue sblocca i fondi per la Palestina contestati da associazioni e deputati "amici di Israele

Dopo mesi di disaccordi interistituzionali, la Commissione europea dovrebbe approvare nei prossimi giorni un pacchetto di aiuti bilaterali per i Territori occupati a lungo rimandato.

di Eleonora Mureddu

La Commissione europea sta facendo marcia indietro e ritirerà la condizionalità sugli aiuti umanitari all'Autorità palestinese, permettendo così l'erogazione di oltre 200 milioni di euro che erano dovuti nel 2021. I fondi erano stati bloccati dopo essere stati subordinati alla richiesta di una riforma dell'istruzione in Palestina, su proposta del commissario per il Vicinato, l'ungherese Oliver Varhelyi, a seguito di una polemica nata dall'accusa, mossa da alcune associazioni israeliane, che sostenevano che alcuni libri scolastici promuovevano l'antisemitismo e l'odio nei confronti dello Stato ebraico.
  I fondi serviranno a pagare gli stipendi e le pensioni di alcuni dipendenti pubblici in Cisgiordania, a sostenere gli ospedali e a fornire aiuto alle famiglie vulnerabili. "Puntiamo a concludere la procedura a breve e, una volta conclusa, i fondi saranno sbloccati il prima possibile. Le priorità sono gli ospedali di Gerusalemme Est e gli assegni per le famiglie palestinesi vulnerabili", ha dichiarato un portavoce della Commissione in risposta a una domanda di Euronews.
  La notizia arriva in concomitanza con il viaggio della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen in Israele e Palestina, durante il quale spera di rafforzare le relazioni con la regione e cercare partner energetici per ridurre la dipendenza dagli idrocarburi russi.
  Per mesi i finanziamenti sono stati tenuti in 'ostaggio' da Varhelyi, fedelissimo di Viktor Orban, che ha deciso, contro il parere della maggioranza degli Stati membri, di subordinare il pagamento dei fondi, circa 215 milioni di euro, alla revisione dei testi scolastici palestinesi, accusati da gruppi pro-Israele, da alcuni eurodeputati e membri del gruppo interparlamentare Transatlantic Friends of Israel di diffondere l’antisemitismo. Il blocco dei finanziamenti dell'Unione europea si era aggiunto al mancato ripristino delle sovvenzioni statunitensi tagliate durante il periodo di Donald Trump, all'inaridimento delle sovvenzioni dei Paesi arabi e alla crisi sanitaria.
  Tutti questi fattori, spiega Le Monde, contribuiscono al taglio del 20 per cento degli stipendi dei funzionari dell'Autorità palestinese (Ap), privano 120mila famiglie povere di un'indennità trimestrale e destabilizzano l'intero settore ospedaliero di Gerusalemme Est, che riceve da 10 a 20 milioni di euro della dotazione di 215 milioni. Nonostante un rapporto su questi libri di testo abbia stabilito che erano in linea con gli standard Unesco, e nonostante le pressioni che sono state fatte da europarlamentari e Stati membri, la discussione è stata rimandata per oltre un anno. La questione aveva sollevato parecchie polemiche e aperto un conflitto tra la Commissione europea e alcuni Stati membri.
  In una lettera inviata a Várhelyi, firmata dai ministri degli Esteri di 15 Paesi Ue, veniva chiesto lo sblocco immediato dei finanziamenti e criticata "l'introduzione della condizionalità in un momento in cui l'Autorità palestinese è già impegnata in un ambizioso programma di riforma dell'istruzione rischia di minare, o addirittura invertire, i progressi compiuti finora e potrebbe danneggiare il nostro dialogo in corso con i palestinesi su questa e altre questioni. Inoltre, è imperativo che facciamo tutto il possibile per rafforzare le voci moderate nei confronti degli attori più radicali".
  Anche i capigruppo dei Socialisti&Democratici, dei Verdi e della Sinistra al Parlamento europeo avevano esortato la presidente von der Leyen, che non è mai intervenuta pubblicamente sulla vicenda, a sbloccare immediatamente i fondi e non condizionare i finanziamenti all'Autorità palestinese alla garanzia di modifiche ai libri di testo palestinesi. Nella lettera si sosteneva che il rapporto dell'Istituto Georg Eckert, che nel giugno 2021 aveva tacciato alcuni libri di antisemitismo, aveva concluso che i libri di testo palestinesi "aderivano agli standard dell'Unesco".
  "Privare l'Autorità palestinese di beni finanziari destinati a finanziare gli stipendi degli insegnanti non solo avrebbe un impatto negativo sul diritto all'istruzione dei giovani palestinesi, ma potrebbe anche essere controproducente, aprendo nuove opportunità per i gruppi estremisti", avevano scritto i deputati. La scelta di condizionare i fondi era stata aspramente criticata anche dallo stesso Josep Borell, Alto Rappresentante dell'Unione europea per gli Affari esteri e ha diviso il Consiglio dell'Ue.
  Secondo Le Monde, la decisone di Várhelyi è stata aspramente criticata persino da alcuni ambasciatori dell'Ue, che avrebbero parlato di "ricatti" e "sporchi giochi politici", mentre alcuni hanno tirato in ballo il rapporto tra il primo ministro ungherese e l'ex premier israeliano Benjamin Netanyahu. Le stesse fonti del quotidiano francese riferiscono inoltre che il governo israeliano avrebbe sollecitato l'erogazione di aiuti Ue a Tel Aviv al fine di prevenire un'ulteriore escalation delle tensioni nella regione.

(Europatoday, 15 giugno 2022)
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L'Europa in Medioriente chiede gas agli israeliani e porta soldi ai palestinesi. Emblematico.

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Attivista sudafricana: “La sofferenza del mio popolo sotto l’apartheid viene usata per criminalizzare Israele”

Yoseph Haddad, arabo israeliano: “Questi rapporti, prodotti per giustificare budget scandalosamente esagerati e totale mancanza di risultati, rendono l’Onu parte del problema anziché della soluzione”.

La sofferenza dei neri in Sud Africa sotto il regime dell’apartheid è diventata uno strumento antisemita con cui delegittimare Israele. Lo ha affermato l’attivista cristiana nativa di Johannesburg Olga Meshoe Washington. “La storia e l’esperienza della mia gente – ha detto Olga Meshoe Washington intervenendo lunedì a un evento organizzato a Ginevra dalla ong “UN Watch” – vengono usate come uno strumento antisemita per delegittimare politicamente, moralmente e legalmente Israele con mirabolanti contorsioni giuridiche, nella speranza di criminalizzare lo stato ebraico”...

(israele.net, 15 giugno 2022)

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La crisi delle videocamere di sorveglianza affossa i negoziati sul nucleare iraniano

di Francesco Paolo La Bionda

L’Agenzia internazionale per l’energia atomica (International Atomic Energy Agency – IAEA) delle Nazioni Unite ha annunciato il 9 giugno scorso che l’Iran sta rimuovendo ventisette telecamere di sorveglianza dell’ente dai suoi impianti nucleari. I dispositivi, a prova di manomissione, erano stati collocati nel 2015 dopo la firma del primo accordo sul nucleare iraniano (Joint Comprehensive Plan of Action – JCPOA) ed erano stati indispensabili per verificare il rispetto dei termini del trattato.

• LA PROVA DI FORZA DI TEHERAN PER UN RICATTO NEGOZIALE
  La decisione sarebbe una ritorsione di Teheran per la decisione dell’agenzia di pubblicare il giorno precedente una risoluzione che criticava il regime degli ayatollah per le attività nucleari portate avanti negli ultimi tempi.  Dopo la decisione dell’amministrazione Trump di sfilare gli Stati Uniti dal patto nel 2018, reintroducendo anche le sanzioni economiche, gli iraniani hanno ripreso ad arricchire l’uranio sopra i limiti consentiti, avvicinandosi sempre di più alla soglia che permetterebbe di realizzare un ordigno nucleare.
  Nonostante il direttore generale della IAEA Rafael Mariano Grossi abbia definito la mossa dell’Iran “un colpo mortale” ai negoziati, il governo iraniano appare convinto di poterla invece sfruttare per mettere pressione sui negoziati per il nuovo accordo, che si stanno tenendo a Vienna ormai da un anno ma con ben pochi progressi finora raggiunti. Teheran sembra anzi convinta di poter forzare concessioni anche sull’arricchimento dell’uranio oltre i limiti, col presidente Ebrahim Raisi che ha giurato che non saranno fatti passi indietro su questo fronte.
  A far arenare i negoziati, ancor più della questione nucleare in sé, in realtà è stata soprattutto l’intransigenza iraniana nel voler vedere depennate dalla lista delle organizzazioni terroristiche le Guardie rivoluzionarie, nonostante siano loro il braccio con cui Teheran finanzia, addestra e arma milizie e organizzazioni terroristiche in tutto il Medio Oriente, dagli Hezbollah libanesi agli Houti yemeniti.
  Inoltre, la crisi economica che sta devastando il paese persiano, conseguenza delle sanzioni, mette fretta agli ayatollah che hanno già dovuto fronteggiare proteste interne negli ultimi due anni, represse nel sangue dal regime.

• ISRAELE VALUTA LE ALTERNATIVE
  Israele è da sempre contrario a qualsiasi accordo sul nucleare iraniano, ritenendo che Teheran, che propugna la distruzione dello Stato ebraico, porterebbe avanti in ogni caso i suoi progetti militari in tal senso. Lo stesso primo ministro Naftali Bennett, in un’intervista al quotidiano britannico Telegraph dell’11 giugno, ha avvertito l’Occidente che se non saranno intraprese immediatamente azioni per fermare la corsa alla bomba dell’Iran sarà presto troppo tardi.
  Gerusalemme intanto valuta le alternative, compresa l’opzione militare. Secondo quanto riportato nei giorni scorsi, l’aeronautica militare israeliana avrebbe sviluppato la capacità di far volare i propri caccia Stealth F-35 fino al territorio iraniano senza bisogno di rifornirli di carburante in volo. I velivoli sarebbero inoltre dotati di nuove tipologie di bombe che non inficerebbero la loro invisibilità ai radar.

(Bet Magazine Mosaico, 14 giugno 2022)

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Von der Leyen a Ramallah: l’Ue pronta a sbloccare i fondi all’Anp

I fondi di Bruxelles sono stati bloccati nel 2020 per una disputa sui contenuti dei testi scolastici palestinesi.

di Rossella Tercatin

GERUSALEMME - Potrebbe arrivare durante la visita della presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen a Ramallah una svolta sulla questione dei fondi Ue all'Autorità Nazionale Palestinese (Anp), bloccati da due anni in seguito a una disputa in seno alle istituzioni europee.
  Tradizionalmente l'Unione Europea è uno dei donatori più rilevanti nel sostenere l'Anp, che nell'ultimo quindicennio ha ricevuti oltre due miliardi di euro da Bruxelles. A partire dal 2020 però il denaro è stato trattenuto per ragioni tecniche e burocratiche in una crisi che si è poi protratta in seguito alla denuncia, partita dal Commissario ungherese Oliver Varhelyi, dei contenuti di odio nei confronti di ebrei e israeliani e supporto al terrorismo presenti nei testi scolastici utilizzati negli istituti palestinesi.
  Per anni la questione è stata denunciata da varie organizzazioni non governative e dallo stesso Stato ebraico. Proprio nel 2020, la no profit israeliana Impact-Se aveva pubblicato un rapporto che analizzava materiali per tutti gli ordini scolastici, corredando il documento con riproduzioni di contenuti che spaziavano dagli elogi alla jihad all'utilizzo del numero di "martiri palestinesi" nelle varie Intifade come base per problemi di matematica.
  La questione ha spaccato gli Stati membri e i loro rappresentanti nelle varie istituzioni europee, che si sono divisi tra chi ha continuato a sostenere che le risorse - ad oggi oltre 200 milioni di euro - debbano essere inviate prontamente e senza alcuna precondizione, anche alla luce della grave crisi finanziaria in cui versa l'Anp, impossibilitata talvolta anche a garantire prestazioni essenziali come l'assistenza sanitaria, e chi invece ritiene che possano essere sbloccate solo alla luce di un impegno serio da parte di Ramallah a cambiare musica nel settore dell'istruzione.
  L'Anp si è detta fiduciosa che l'incontro tra von Der Leyen e il Primo Ministro Mohammad Shtayyeh possa portare a scrivere la parola fine alla questione. In un'intervista a Palestine Tv sabato sera, Shtayyeh ha dichiarato che i fondi verranno sbloccati "senza condizioni". "Non faremo alcuna concessione sui nostri curricula scolastici", ha detto, citato dall'agenzia Wafa.
  Fonti europee hanno confermato a Repubblica che novità in materia potranno emergere dall'incontro, aggiungendo che la Commissione punta a finalizzare una procedura per inviare i fondi a breve e che non appena verrà adottata le risorse verranno sbloccate, con la priorità al supporto per le famiglie più vulnerabili e gli ospedali di Gerusalemme Est.

(la Repubblica, 14 giugno 2022)

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“Via dalla Turchia”. C’è l’Iran dietro l’avvertimento del governo israeliano

Il ministro Lapid ha invitato i cittadini a lasciare Istanbul “il prima possibile” a causa della minaccia di attentati organizzati da Teheran. Così Gerusalemme rafforza la sicurezza regionale.

di Ferruccio Michelin

Il ministro degli Esteri israeliano, Yair Lapid, ha esortato i cittadini israeliani a lasciare la Turchia “il prima possibile” a causa della minaccia che agenti iraniani stiano attivamente pianificando attacchi contro israeliani a Istanbul. Si trovano, ha spiegato, davanti a “un pericolo reale e immediato” perché le Quds Force, l’unità operazioni estere dei Pasdaran, citando “diversi tentativi iraniani di compiere attacchi terroristici contro israeliani in vacanza a Istanbul”. “Se siete già a Istanbul, tornate in Israele il prima possibile”, ha detto Lapid in un avvertimento pubblico diffuso in ebraico via Twitter. “Se avete programmato un volo per Istanbul, cancellatelo. Nessuna vacanza vale la vostra vita”, ha aggiunto durante un incontro con i parlamentari del suo partito Yesh Atid.
  L’avvertimento arriva nel contesto dell’ultima impennata delle tensioni tra Iran e Israele. I due Paesi sono impegnati in una guerra ombra che dura da anni e che ha coinvolto anche territori terzi come la Siria e l’Iraq. Ma le tensioni sono aumentate in seguito a una serie di presunti incidenti che Teheran ha imputato a Israele.
  Tra questi, l’uccisione del colonnello delle Guardie rivoluzionarie Sayyad Khodayari, colpito da un proiettile fuori dalla sua casa di Teheran il 22 maggio. Khodayari sarebbe stato un membro dell’Unità 840, un’unità speciale delle Quds che avrebbe il compito di operare contro gli israeliani all’estero. Nelle scorse settimane, uno dei componenti di questa unità avrebbe confessato le intenzioni iraniane al Mossad che lo aveva arrestato a Istanbul.
  Nel frattempo, non ci sono conferme né smentite ufficiali, ma a quanto pare Israele avrebbe posizionato sistemi radar di allerta aerea negli Emirati Arabi Uniti e nel Bahrein — due Paesi parte degli Accordi di Abramo. I radar serviranno per rilevare “minacce missilistiche” dall’Iran e avrebbero già funzionato pochi mesi fa, secondo Channel 12, quando l’Iran ha tentato di attaccare Israele con droni sopra lo spazio aereo iracheno.
  Per quanto noto, gli Stati Uniti si stanno preparando a formare una nuova alleanza di sicurezza contro l’Iran, coinvolgendo alcuni Paesi arabi con cui Israele non ha legami diplomatici nella regione. Secondo il Wall Street Journal, è stata presentata al Congresso degli Stati Uniti una proposta di legge per la creazione di un sistema di difesa aerea integrato per rafforzare la cooperazione tra Israele e gli Stati arabi vicini contro l’Iran.

(Formiche.net, 13 giugno 2022)

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L’azienda israeliana Elbit Systems ha presentato un innovativo radar tattico, chiamato "Raketa" (razzo), alla fiera Eurostory di Parigi

di Luca Spizzichino

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Il dispositivo è in grado di rilevare e tracciare contemporaneamente migliaia di oggetti di diversi tipo che si muovono a velocità diverse. Per esempio, è in grado di individuare un piccolo drone da una distanza di 12 chilometri e una persona da una distanza di 15 chilometri. Una svolta tecnologica senza precedenti, che costituisce un balzo in avanti in termini di capacità operativa.
  Infatti il campo di battaglia del futuro sarà caratterizzato dal dominio della guerra multidimensionale, dove sarà centrale l'uso simultaneo di velivoli aerei, forze motorizzate, fanteria e altro ancora. L’attuale radar, che è in grado di concentrarsi solo su un singolo bersaglio, è così diventato obsoleto.
  Il radar “Raketa” elimina la necessità di dare priorità agli obiettivi, evitando così le pericolose “zone morte” che si creano con i sistemi convenzionali, ed è in grado di gestire sciami di droni e UAV identificando e rintracciando contemporaneamente elicotteri, veicoli, navi o fanteria.

(Shalom, 13 giugno 2022)

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«Quarta dose? Per smaltire le scorte»

Il patologo: «I vaccini adesso non proteggono ma stressano il sistema immunitario, gli inoculati s'infettano più degli altri e il siero può favorire le varianti. Una nuova campagna sarebbe l'ennesima scelta basata sul nulla».

di Marianna Canè

«In questa situazione in cui la politica ha utilizzato non la scienza, ma alcuni scienziati, per legittimare le proprie scelte, sono state tante, anzi troppe, stupidaggini, e così sono state prese decisioni sulla base del nulla", Il professor Mariano Bizzarri, scienziato e ricercatore oncologico, professore di patologia clinica all'università La Sapienza di Roma, ci accoglie così, nel suo ufficio, sommerso tra i più recenti studi scientifici appena pubblicati, tra le mani il suo libro Covid-19: un'epidemia da decodificare, scritto con Massimo Cacciari.

- Professore, a quali decisioni si riferisce?
  «La più recente è stata pensare di obbligare chi sarebbe andato a votare a indossare la mascherina. La follia è che qualche giorno prima in centinaia di migliaia hanno festeggiato il Milan, senza restrizioni, ma poi per andare al seggio ecco piombare un limite assurdo: senza chirurgica rimani fuori. Dov'è la logica scientifica? Non c'è, è evidente, Per fortuna dopo le polemiche hanno fatto marcia indietro, ma non si può andare avanti così”.

- L’obbligo di mascherina però rimane per gli studenti che sosterranno gli esami di maturità, perché?
  «Perché non c'è razionalità in queste scelte, in discoteca niente mascherina, a scuola con la mascherina. Le pare normale? Questa è solo una logica oppressiva, autoritaria, tipica dei regimi che si nutrono della illogicità perché questo permette di mantenere le persone in una condizione di soggezione", Ormai siamo alla follia totale».
  
  - Come mai è cosi critico su queste scelte?
  «Guardi, io sono un uomo di scienza e non tollero di assistere a tutto questo. Siamo alla demenza burocratica, come si fa a non capirlo? La mascherina è il segno visibile di una sottomissione a un potere cieco che intende solo preservare sé stesso. Punto. Ora l'unica cosa da fare è impedire che tra settembre e ottobre ci sia una riedizione di un film già visto».

- Teme che ci saranno nuove chiusure e restrizioni?
  «Questo di sicuro, perché nuove varianti Omicron ce le aspettiamo e arriveranno, ma non bisogna farsi sviare dal numero dei contagi, ormai non ha più senso contarli, Non serve a nulla sapere che oggi ci sono stati 10.000 positivi, come non serve sapere oggi quanta gente si è presa il raffreddore. Sono dati che non servono a nessuno, l'unico parametro da vedere è il tasso di occupazione delle terapie intensive».

- Nonostante i contagi, le terapie intensive sono quasi vuote: come si spiega?
  «Omicron ha una letalità bassissima, è molto contagiosa, ma i morti sono pochi. Rispetto alla variante Delta ha l’80% in meno di rischio di finire in terapia intensiva. E infatti oggi l'Omicron ha un
  impatto modesto sul nostro sistema sanitario, perché 200 casi di ricovero in terapia intensiva non sono tali da spaventare un Paese di 60 milioni di abitanti».
  
  - A proposito di spaventi, è arrivato il vaiolo delle scimmie. Si rischia di tornare al clima di terrore da pandemia?
  «Hanno provato a riattivare la paura con questa malattia, per fortuna già non se ne parla quasi più, però per una settimana sono stati terrorizzati gli italiani. Ma alla fine bisogna chiedersi: qual è l'obbiettivo? Avere un mondo privo di qualsiasi tipo di virus, che si chiami Omicron, Covid o vaiolo? È impossibile. Chi pensa che vinceremo solo quando non avremo più neanche un caso di Covid è un pazzo furioso».

- Perché?
  «Beh, perché vuol dire mettere in galera tutto un popolo e questo non deve più accadere, non si devono rifare gli stessi errori».

- A quali errori si riferisce?
  «L'obbligo vaccinale, ad esempio, A cosa servono ora i vaccini? Da cosa proteggono? La quarta dose su Omicron non funziona, vogliamo fare anche la quinta? Serviranno solo a smaltire le scorte, non è possibile continuare a stressare il sistema immunitario con una quarta dose, figuriamoci con una quinta o altri richiami».

- Continuare a vaccinare quindi può avere effetti negativi sul sistema immunitario?
  «Questo non lo dico io, lo dicono gli studi scientifici. Potrei citarne una lunga lista, ma ne basta uno, condotto proprio dal nostro Istituto superiore di sanità e che dimostra come all'aumentare delle dosi la protezione dura sempre meno nel tempo, ma - fatto ben peggiore - diventa negativa. Gli stessi risultati sono poi arrivati da altri studi internazionali in cui si mostra come la protezione svanisce e diventa negativa dal settimo mese in poi».

- Cosa intende per protezione negativa?
  «Che i vaccinati si infettano di più dei non vaccinati. Questo dovrebbe far riflettere, ma non solo. Le decisioni politiche dovrebbero essere rivalutate partendo dal presupposto ormai oggettivo e indiscusso che anche i vaccinati contagiano».

- Sta dicendo che la campagna vaccinale non è servita a nulla?
  «Bisogna capire quale è stato l'obiettivo di questa vaccinazione di massa. Bloccare la diffusione del virus? Allora ha fallito. Lo ha riconosciuto anche Bill Gates, il che è tutto dire. Non è stata efficace e questo i numeri, che sono alla portata di tutti, lo confermano».

- Però le morti sono diminuite, questo è innegabile.
  «Certo, all'inizio i vaccini hanno ridotto la letalità del virus, Oggi però ci troviamo in una situazione in cui abbiamo più contagi rispetto allo stesso periodo del 2020 e del 2021, Questo dato, a confronto con la percentuale di popolazione vaccinata, mostra senza dubbio che il virus corre anche tra i vaccinati, e grazie anche a questo, muta».

- In che senso? Le mutazioni sono dovute al vaccino?
  «Anche. La campagna vaccinale ha dato la possibilità al virus di trovare una via di fuga perché, non avendo bloccato la diffusione, ha favorito il processo di mutazione. In pratica il vaccino non solo non ha bloccato la trasmissione, ma ha aperto la strada alle varianti, perché più il virus circola e ha la possibilità di infettare, maggiore è la probabilità che cambi".

- Questo ovviamente mette in discussione tutte le limitazioni che hanno separato i vaccinati dai non vaccinati, a partire dal Green pass.
  "Certamente, se il vaccino non blocca il contagio non ha senso fare distinzioni tra vaccinati e non vaccinati. La prova, lo ripeto, è l'andamento dei contagi: abbiamo il più alto tasso di vaccinati e i numeri delle infezioni sono ancora molto alti».

- Eppure alcune di queste restrizioni ci sono ancora. Ci sono medici che continuano a essere sospesi perché non vaccinati,
  "È ciò che resta di un approccio autoritario, terroristico. Questa cosa non ha alcuna base costituzionale e sta provocando una spaccatura nell'ordine dei medici, c'è molto malumore. È l'ennesima assurdità. Con l'obbligo vaccinale hanno voluto semplicemente scaricare su chi fa o non fa il vaccino la responsabilità di come andava la pandemia, mascherando così l'inadeguatezza strutturale del sistema. Invece di realizzare nuovi reparti e potenziare la sanità, è stato più facile sospendere i medìci, calpestandone la dignità».
  
  - Mi ha parlato di malumore, in effetti ci sono sempre più proteste durante le riunioni dei medici. Come mai?
  "Perché tutta questa faccenda è vergognosa ed è parte di una caccia alle streghe che gli si ritorcerà contro. I medici prima sussurravano, ora alzano la voce. Il giuramento di Ippocrate è sacro, noi giuriamo di agire in scienza e coscienza e con questi vaccini si è calpestata sia l'una sia l'altra»,

- Perché?
  "Giusto per fare un esempio, qualche settimana fa è stato pubblicato uno studio piuttosto inquietante. l ricercatori hanno dimostrato che l'mRna non sparisce dal nostro organismo, anzi rimane attivo nel corpo per mesi e continua a produrre la proteina Spike».

- E questo cosa significa?
  "Vuol dire che se la proteina è prodotta in grandi quantità nel corpo, posso sviluppare effetti simili al Covid, perché è la proteina che provoca parte dei danni del Covid. Quindi in questo studio si dice chiaramente che questa permanenza della proteina nel corpo crea una specie di guerra continua all'interno dell'organismo che dura mesi e mesi».

- Una guerra interna che provoca cosa?
  "Tutti gli effetti avversi di cui si sente parlare, dalle miocarditi alle pericardite, fino ad arrivare alle morti improvvise. Ci sono tanti studi che mettono in evidenza tutti questi danni, ma purtroppo non sappiamo la reale incidenza del fenomeno, non abbiamo i dati per sapere se sono una minima parte o c'è molto altro dietro, e io come medico non mi sento tanto tranquillo».

- Non si sente tranquillo perché non ci sono i dati?
  "Sicuramente per quello e perché ormai gli studi stanno dimostrando che ci sono motivi chiari per cui questo vaccino può essere dannoso. E in tutto questo noi medici non abbiamo la possibilità di capire, approfondire, perché ci negano i dati e persino le fiale del vaccino. Se le chiediamo per poterle studiare in modo sperimentale e valutarne eventuali tossicità, la risposta è sempre negativa».

- Ma quindi, alla fine, secondo lei tutti questi obblighi a cosa sono serviti?
  «Guardi, siamo in un periodo storico in cui la gente non crede a nulla, la fede non esiste più. Eppure cosa è successo? Hanno sfruttato quell'ultimo brandello di fede residua per indirizzarla verso la scienza sfruttando l'unica paura vera, la paura di morire. Perché hanno ridotto la vita delle persone alla ricerca di un modo per evitare la morte. E così tutto è stato possibile, ma ormai la maggior parte della gente è stanca e non è più disposta a dare il braccio alla patria».

(La Verità, 13 giugno 2022)

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Le ultime notizie sul pericolo nucleare iraniano

di Ugo Volli

• Un pericolo che continua
  La guerra in Ucraina ha messo in secondo piano tutti gli altri problemi internazionali, inclusi alcuni che potrebbero portare a un’evoluzione analoga, come le pretese della Repubblica Popolare Cinese sull’altra Cina, la Repubblica di Taiwan. Soprattutto è sparito dagli schermi uno dei più gravi pericoli per la pace mondiale, l’imperialismo regionale iraniano, la volontà del regime degli ayatollah di distruggere Israele e la sua ostinata ricerca dell’armamento nucleare per ottenere questi risultati. Eppure questi rischi sono sempre lì, anzi crescono e diventano più impellenti.  Per capire che cosa sta succedendo bisogna considerare innanzitutto la situazione internazionale.  

• L’accordo JCPOA 
  Tradizionalmente l’Iran è un nemico, oltre che di Israele, dell’Occidente e degli Usa, tanto che giunse, durante la presidenza Carter, a occupare la sua ambasciata e a sequestrare i suoi diplomatici. Gli Usa hanno sempre risposto cercando di isolare l’Iran e sanzionando le sue violazioni della legalità internazionale. La presidenza Obama però rovesciò questa politica e puntò a una pacificazione, rinunciando a contrastare l’espansionismo iraniano e stringendo un accordo (l’JCPOA) che non impediva l’armamento missilistico e l’imperialismo iraniano e si limitava, in cambio di cospicue riparazioni finanziarie, a stabilire regole che ritardassero per un certo periodo l’accumulo di uranio arricchito, cioè il “carburante esplosivo” delle bombe atomiche. Israele scoprì presto che l’Iran non rispettava queste regole; Netanyahu denunciò pubblicamente queste violazioni e Trump decise di uscire dall’accordo. Ma l’amministrazione Biden ha ripreso la politica di Obama e ha cercato di riannodare l’accordo, disposta a fare grandi concessioni, anche se nel frattempo l’Iran ha superato di oltre 20 volte i limiti previsti sull’uranio, ha continuato a inviare truppe e appoggiare i terroristi in paesi dell’area (Siria, Libano, Iraq, Yemen, Gaza, ecc.), a minacciare l’esistenza di Israele e a compiere atti di pirateria marittima. All’inizio di quest’anno sembrava che l’accordo fosse imminente, ma poi la trattativa si è interrotta per le pretese dell’Iran, giudicate eccessive anche da Biden, e per il fatto che l’Iran è strutturalmente alleato della Russia. Biden ha però comunque allentato alcune delle sanzioni.  

• Il ruolo dell’Agenzia atomica dell’Onu (Aiea) 
  Chi è incaricato della sorveglianza sull’armamento atomico dell’Onu è l’Aiea. Il suo direttore Rafael Mariano Grossi  di recente ha avvertito ufficialmente la comunità internazionale che l’Iran ormai ha abbastanza materiale per poter costruire una bomba atomica. È molto significativo che l’avviso venga proprio da un ente internazionale neutro e di solito piuttosto lontano dall’Occidente come l’Aiea e non da una parte in causa. Israele ha poi documentato come l’Iran abbia sistematicamente mentito all’Aiea, cercando anche di prevenire con lo spionaggio le sue mosse. L’Iran in particolare non ha voluto spiegare agli ispettori le tracce di uranio rinvenute in diversi suoi siti non denunciati, che sono le tracce di un’attività clandestina evidentemente pericolosa. Di qui è seguita una condanna formale del Consiglio dei governatori dell’Aiea, la prima da diverso tempo. Trenta membri del Consiglio, di cui fanno parte 35 Paesi, hanno votato a favore della mozione di condanna, che era stata presentata da Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Germania. Russia e Cina hanno votato contro, mentre India, Pakistan e Libia si sono astenuti.  

• La reazione iraniana
  Gli ayatollah hanno respinto la mozione e l’appello dei firmatari a una maggiore collaborazione, dichiarando di considerare la condanna un attacco politico e di non riconoscerla. Per rappresaglia hanno staccato due delle telecamere con cui l’agenzia monitora l’attività dei siti nucleari denunciati, segnalando la sua volontà di procedere all’armamento nucleare, con la minaccia di staccarle tutte. Queste mosse mostrano, se ce n’era bisogno, l’inutilità di ogni trattativa con l’Iran, che vuole costruire la sua atomica ad ogni costo, anche contro la comunità internazionale. Bisognerà vedere se l’amministrazione Biden ne prenderà atto.  

• La reazione israeliana
  Israele continua la sua “battaglia fra le guerre”. Nei giorni scorsi, a quanto hanno detto le fonti siriane, ha colpito i magazzini dell’aeroporto di Damasco, usato dall’Iran per importare le armi avanzate destinate a Hezbollah, e ha anche bombardato la pista, disabilitando l’attività dell’aeroporto: un segnale che dice come non sia disposto ad accettare l’ultimo trucco iraniano, che ora cerca di contrabbandare le sue armi usando aerei civili. Vi sono stati anche attacchi sul territorio dell’Iran, come quello di Parchin (un sito militare), in cui è morto un importante ingegnere nucleare.  

• Una missione di Israele in Iran?
  La notizia più importante di tutte è però che Israele sta addestrando la sua aeronautica all’attacco di siti molto lontani e molto ben protetti. Vi sono state esercitazioni a lunga distanza cui hanno partecipato anche aerei americani, si parla con insistenza dell’adattamento per l’incursione in Iran degli aerei più avanzati dell’aviazione Israeliana, gli F35i, della disponibilità di nuove bombe molto potenti, della pianificazione dettagliata di una missione per cui potrebbe esserci anche un appoggio degli arabi sunniti. La recente missione di Bennett negli Emirati e i contatti ormai ufficiali con l’Arabia rientrano probabilmente in questa prospettiva. Poiché l’Iran procede al suo armamento atomico che ne aumenterebbe immensamente la deterrenza e lo renderebbe inattaccabile, è probabile che una missione per distruggere questo apparato nucleare, non sia una questione di “se” ma di “quando”. Anche se naturalmente Israele sa che il prezzo diplomatico e militare di questa iniziativa sarebbe altissimo e preferirebbe molto che funzionasse la via diplomatica.

(Shalom, 13 giugno 2022)

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Visita del Presidente del Consiglio Draghi in Israele e Palestina

Il Presidente del Consiglio, Mario Draghi, lunedì 13 e martedì 14 giugno sarà in visita in Israele e Palestina.

Di seguito il programma: (orario locale)

LUNEDÌ 13
ore 16.20 - Arrivo all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv.
ore 17.00 - Gerusalemme. Incontro con il Presidente dello Stato di Israele, Isaac Herzog, presso Beit HaNassi - residenza presidenziale.
Ore 18.00 - Arrivo al Tempio Italiano. Visita del Museo di arte ebraica ‘Umberto Nahon’ e della Sinagoga italiana. Incontro con i rappresentanti della Comunità italiana e firma del Libro d’onore.
Ore 19.00 - Incontro alla Knesset con l’Alternate Prime Minister e ministro degli esteri israeliano, Yair Lapid.

MARTEDÌ 14
Ore 9.15 - Arrivo allo Yad Vashem. Visita al Museo dell’Olocausto, cerimonia di deposizione di una corona alla Tenda della Rimembranza e firma del Libro d’onore.
Ore 11.00 - Incontro con il Primo ministro israeliano, Naftali Bennet, presso l’Ufficio del Primo ministro.
Al termine sono previste dichiarazioni congiunte alla stampa (ore 12.00 circa).
Segue pranzo di lavoro.
Ore 14.55 - Arrivo al Palazzo di Ramallah. Incontro con il Primo Ministro Palestinese, Mohammad Shtayyeh.
Cerimonia di Firma di intese bilaterali tra Italia e Palestina.
A seguire dichiarazioni congiunte alla stampa.
Previsto in serata il rientro a Roma da Tel Aviv.

(Governo Italiano - Presidenza del Consiglio dei Ministri, 13 giugno 2022)

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Putin saldo al potere e pronto a puntare Odessa. La tentazione di Biden: chiudere dopo il Donbass

di Gian Micalessin

Ora Volodymyr Zelensky ne è certo, Joe Biden è pronto a mollare lui e l'Ucraina dopo la caduta del Donbass in mani russe. Dietro le polemiche con una Casa Bianca che gli rinfaccia l'iniziale diffidenza di fronte agli avvertimenti sull'imminente invasione russa si nascondono divisioni ben più profonde. Divisioni che riguardano non solo la continuazione degli aiuti militari, ma i destini stessi dell'Ucraina.
  La scelta di fornire solo quattro sistemi missilistici a lungo raggio Himars, nonostante le insistenze di Kiev per ottenerne almeno sessanta, sono il segnale dello scetticismo con cui parte dell'amministrazione Usa guarda agli esiti della guerra. Scetticismo già evidenziato dal brusco ridimensionamento delle consegne di armi occidentali sui fronti del Lugansk. L'avanzata russa su Severodonetsk e le pesantissime perdite ucraine - dai cento ai duecento caduti al giorno secondo il consigliere presidenziale Mykhaylo Podolyak - dimostrerebbero l'inutilità di continuare a rifornire un esercito di Kiev incapace di riempire i vuoti e di schierare personale sufficientemente addestrato all'impiego di quelle stesse armi. Proprio per questo la Casa Bianca starebbe valutando l'opportunità di una trattativa diretta o indiretta con il Cremlino subito dopo la caduta degli ultimi capisaldi del Lugansk e del Donetsk. Di fronte ad un'evidente sconfitta di Kiev gli Usa e la Nato potrebbero rivendicare, alla fine, di aver fatto tutto il possibile per salvare l'Ucraina.
  Dall'altra parte, il raggiungimento di uno degli obiettivi annunciati alla vigilia del 24 febbraio potrebbe spingere Vladimir Putin a cantar vittoria accettando un negoziato sul cessate il fuoco. Dietro i ripensamenti di una Casa Bianca che a marzo sembrava decisa ad approfittare dello scontro in Ucraina per ridimensionare la potenza russa, vi sarebbe il mutato scenario moscovita. Nel primo mese di guerra molti segnali facevano pensare a un Putin traballante e nel mirino di possibili regolamenti di conti interni. Oggi, invece, il presidente russo sembra non solo saldamente al comando, ma anche pronto a rilanciare puntando su Odessa. La conquista dell'ultimo sbocco al mare ucraino è, per molti esponenti del Cremlino, la mossa obbligata per piegare l'Ucraina, imporle una definitiva neutralità e costringere Usa e Ue a farsene carico economicamente per i prossimi decenni. Ma la prospettiva di uno scacco matto su Odessa è ovviamente inaccettabile per Washington e la Nato.
  Se una trattativa sul cessate il fuoco a seguito di una débàcle ucraina nel Donbass può venir accettata come inevitabile sia dall'opinione pubblica statunitense sia da quella europea, una mancata risposta a un'avanzata russa su Odessa apparirebbe inammissibile e vergognosa. Ma per evitare quell'umiliazione Stati Uniti ed Europa dovrebbero accettare il rischio di una paurosa escalation militare capace di trascinarci allo scontro diretto con Mosca. Una prospettiva da brividi non solo per l'Europa, ma anche per un Biden costretto ad affrontare le elezioni di mid-term portando in dote agli americani il rischio di un conflitto mondiale. Una prospettiva non proprio entusiasmante per un presidente arrivato alla Casa Bianca promettendo l'uscita da una guerra afghana che sembrava »infinita», ma appare banale e quasi irrilevante rispetto a uno scontro tra potenze nucleari. Proprio per questo una trattativa all'indomani dell'annunciata débàcle ucraina nel Donbass può risultare, dal punto di vista della Casa Bianca, ben più accettabile delle incognite di una sfida per Odessa.

(il Giornale, 13 giugno 2022)


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L'autodistruttiva stupidità della menzogna

Ecco dunque dove siamo arrivati dopo tre mesi di demonizzazione di Putin: "Di fronte ad un'evidente sconfitta di Kiev gli Usa e la Nato potrebbero rivendicare, alla fine, di aver fatto tutto il possibile per salvare l'Ucraina". Ed è la prima fondamentale menzogna. Agli Usa della salvezza dell'Ucraina e degli ucraini non interessa nulla; quello che volevano era il crollo della Russia come potenza mondiale. Lo dice infatti lo stesso articolista: "la Casa Bianca a marzo sembrava decisa ad approfittare dello scontro in Ucraina per ridimensionare la potenza russa". Quella è la verità, dunque dire di voler fare tutto il possibile per salvare l'Ucraina è una menzogna. Che però ha già un certo grado di stupidità.
  Che cosa significa "salvare l'Ucraina"? Salvarla da che cosa? Per dare una risposta che abbia l'apparenza del vero bisogna presentare in modo mostruoso l'aggressore. Putin è il male personificato, che a partire dall'Ucraina vuol estendere come una piovra i suoi tentacoli su tutta l'Europa, per estenderli poi a tutto il mondo. E' la libertà democratica che deve essere difesa dalle spire sataniche della tirannia russa. Dunque non ci devono essere tentennamenti; nessuno deve elevare obiezioni; la difesa dell'Ucraina deve essere fatta a tutti i costi, senza se e senza ma. Gli Usa combatteranno contro i russi - ha detto celiando un osservatore acuto - "fino all'ultimo ucraino?" Non fino all'ultimo uomo, perché di americani non ne muoiono; loro mandano armi e consulenti, ma poi a sparare cannonate contro i russi devono essere gli ucraini; e devono essere sempre gli ucraini a morire sotto le cannonate di risposta dei russi. Più armi si mandano a Kiev, più gli ucraini sparano ai russi; così la guerra dura di più; i russi devono sparare ancora di più agli ucraini, che sempre di più muoiono. Che muoiano anche i russi, in questo conteggio non c'entra. Loro hanno quello che si meritano, secondo gli Usa. Sarebbe questo il valore morale da dare alla difesa armata dell'Ucraina? Ma non è stupido pensare che tutto questo possa essere davvero creduto fino in fondo e stare in piedi?
  Ma la stupidità era già presente nell'errore di calcolo di ciò che si voleva ottenere con la menzogna: la vittoria dell'Ucraina sulla Russia. Ma si poteva credere che una cosa simile fosse possibile? L'intelligence americana si è rivelata stupida. Gli è già accaduto più volte nel passato, ma questa volta potrebbe averne conseguenze più gravi di prima. L'imperialismo finanziario americano ha fatto sempre un avanzatissimo uso "scientifico" delle tecniche di manipolazione dei potenti e delle masse, ma chi pratica in modo massiccio le armi della menzogna per ingannare altri finisce prima o poi per essere a sua volta ingannato con gli stessi strumenti di cui fa uso. Sta accadendo oggi, ancora una volta. Ma si stanno già mettendo a punto nuovi prodotti di mediatica menzogna per offrire alle masse un'aggiornata "spiegazione" di ciò che, inaspettatamente, sta avvenendo sotto i nostri occhi. M.C.

(Notizie su Israele, 13 giugno 2022)

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La grande fuga degli ebrei dall’Ucraina e dalla Russia

di Stefano Magni

La prima emigrazione verso il Medio Oriente, allora ancora provincia ottomana di Siria, venne dalla Russia, dopo l’ondata di pogrom del 1881. Nel secolo successivo, i dissidenti ebrei in Unione Sovietica prendevano il nome di “refuzenik” dal rifiuto delle autorità comuniste di concedere loro il diritto ad emigrare in Israele, sin dal 1949. La loro emigrazione, dopo la caduta dell’Urss è stata massiccia. Oggi la comunità russofona in Israele costituisce circa il 15% della popolazione. In questi ultimi tre mesi, una nuova ondata di ebrei sta arrivando in Israele dalla Russia e dall’Ucraina, negli stessi territori di approdo dei loro avi.
  Lo Stato ebraico, per loro, ha approvato delle misure speciali per un accesso più rapido. In circostanze normali, l’ebreo che fa l’Aliyah, il ritorno in Israele, deve dimostrare di avere il suo diritto al ritorno, prima ancora di arrivare alla dogana israeliana. Per ricevere il permesso deve provare, prima di tutto, di essere ebreo, con una serie di documenti quali il certificato di nascita, o quello di matrimonio o lettere di un rabbino locale che testimoni a favore. Con il nuovo regolamento, ribattezzato “Aliyah express”, gli ebrei dall’Ucraina possono accedere a Israele anche senza aver prodotto la necessaria documentazione. L’Agenzia Ebraica ritiene che sia sufficiente, in tempo di guerra, che gli ebrei ucraini siano stati accettati, in passato, da programmi gestiti da associazioni riconosciute quali Birthright, Masa o Nativ. Per essere accettati da questi programmi, infatti, dovevano già dimostrare di aver almeno un nonno ebreo e di avere diritto alla candidatura per il diritto all’Aliyah.
  Oltre che dall’Ucraina, però, stanno emigrando in Israele anche ebrei dalla Russia. Ed è un’emigrazione quasi pari, numericamente parlando, a quella dall’Ucraina invasa e già distrutta dal conflitto. Se da quest’ultima sono arrivati nello Stato ebraico 10.019 persone dall’inizio della guerra, dalla Russia ne sono giunti 9.777, secondo i dati del governo israeliano. I civili in Russia non sono coinvolti in alcun modo nel conflitto, non stanno subendo bombardamenti e non ci sono aree russe che rischiano concretamente di essere occupati dagli ucraini. Se gli ebrei russi fuggono in Israele, in ugual numero rispetto agli ebrei dell’Ucraina, vuol dire che c’è aria di persecuzione a Mosca.
  La comunità ebraica in Russia è il doppio rispetto a quella ucraina, al 97% è urbanizzata, istruita e tendenzialmente secolare. Agli albori della crisi in Ucraina, nel 2014, erano attive 600 organizzazioni ebraiche russe, 218 delle quali ultra-ortodosse. La gran maggioranza degli ebrei russi in vista, nel mondo politico e intellettuale, non aveva protestato per l’annessione della Crimea, mantenendo un atteggiamento riservato oppure, in una minoranza visibile di casi, mostrando il proprio aperto sostegno al governo di Mosca. Dalla primavera del 2014 all’inverno del 2015, durante la fase più acuta del conflitto nel Donbass, la propaganda russa ha utilizzato a suo vantaggio la “carta ebraica” contro il pericolo “neonazista” ucraino. Boris Spiegel, presidente dell’Ong “Mondo senza nazismo” è stato molto attivo nel creare consenso fra gli ebrei, russi, israeliani e americani, attorno alle cause della Crimea e del Donbass. Anche attori, uomini di spettacolo e intellettuali avevano accettato di comparire in televisione per sostenere il Cremlino e la sua politica in Ucraina, usando tutti gli aggettivi più accettati dalla propaganda ufficiale per definire il nemico: antisemita, neonazista, fascista.
  Dal conflitto a bassa intensità di allora alla guerra di oggi è cambiato molto. Prova ne è la fuga, ormai acclarata, del rabbino capo di Mosca, Pinchas Goldschmidt. Ufficialmente si era recato in Israele per andare a trovare il padre malato. Ma secondo quanto affermano i suoi famigliari (che, ad oggi, non sono stati smentiti) è fuggito, perché stava subendo pressioni troppo forti dalle autorità russe. Il quotidiano francese Le Figaro aveva già parlato dell’insistenza con cui l’Fsb (successore del Kgb) volesse estorcergli dichiarazioni a favore dell’invasione dell’Ucraina. All’inizio di giugno, secondo fonti del Jerusalem Post, le autorità russe avrebbero anche cercato di condurre un colpo di mano all’interno della Comunità per farlo dimettere, ma l’intervento anche di influenti rabbini israeliani sarebbe bastato a consentirne la rielezione per altri sette anni. Ora però gli subentra David Youshouvaev, suo stretto collaboratore.
  All’inizio di giugno, a Monaco, dove Goldschmidt si era recato per partecipare all’incontro annuale della Conferenza dei rabbini europei della quale è il presidente, aveva già rilasciato dichiarazioni molto significative. Al quotidiano Deutsche Welle aveva detto che “la guerra di Putin in Ucraina sta portando al più grande esodo d’ebrei che si ricordi dai tempi del nazismo e di Stalin”. Non intendeva solo gli ebrei ucraini, in fuga verso i Paesi vicini, Israele e Stati Uniti, ma anche gli ebrei russi. “Una parte significativa della comunità ebraica ha lasciato la Russia, mentre un’altra parte significativa ci sta pensando”.

(Inside Over, 13 giugno 2022)

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La Turchia si riavvicina a Israele ma resta ambigua su Hamas

di Francesco Paolo La Bionda

I rapporti bilaterali tra Israele e Turchia sono in fase di miglioramento da quando lo scorso anno a Gerusalemme si è insediato l’attuale governo guidato da Naftali Bennet. Sotto il suo predecessore Benjamin Netanyahu le relazioni col paese anatolico erano precipitate ai minimi storici e l’allora premier si era scontrato verbalmente più volte col presidente turco Recep Tayyip Erdoğan.
  Tra l’altro, il nuovo corso diplomatico è stato segnato dalla visita del presidente israeliano, Isaac Herzog, in Turchia il 9 marzo, seguita il 24 maggio da quella del ministro degli Esteri turco Mevlüt Çavuşoğlu nello Stato ebraico. Sviluppi che avevano indotto a pensare che Ankara potesse invertire il suo sostegno ad Hamas.
  La Turchia sotto Erdoğan ha concesso all’organizzazione terroristica di insediarsi e condurre attività economiche sul suo territorio. Lo stesso presidente ha anzi ricevuto ufficialmente una delegazione di Hamas nel 2020. Sono emersi inoltre diversi casi di cooperazione diretta da parte del governo di Ankara: secondo un report di Nordic Monitor, ad esempio, tra il 2012 e il 2016 l’Agenzia turca per la cooperazione e il coordinamento (TIKA) avrebbe fornito fondi ai terroristi palestinesi, mentre nel 2020 il Telegram ha rivelato che un dirigente dell’organizzazione aveva ottenuto la cittadinanza turca.
  Sebbene Ankara sostenga di non permettere l’ingresso all’ala militare di Hamas, è emerso che l’attentatore che il 21 novembre scorso ha aperto il fuoco contro i passanti a Gerusalemme si era recato in precedenza nel paese anatolico proprio per organizzare l’attacco.
  A fine aprile, tra le due visite diplomatiche, sui media israeliani erano però circolate voci secondo cui la Turchia avesse espulso nel corso dei mesi precedenti alcune dozzine di militanti dal suo territorio, su richiesta di Israele. Tuttavia, nessuno dei due paesi aveva confermato la notizia e poco dopo era circolata sui media arabi una smentita, che citava come fonte anonima un funzionario del governo turco.
  Il governo turco non sembra quindi voler modificare nei fatti la propria posizione sulla questione palestinese, nonostante costituisca il principale elemento di frizione con Israele. Durante il suo viaggio diplomatico di maggio anzi, lo stesso Çavuşoğlu si è recato a Ramallah per rassicurare l’Autorità Palestinese che il sostegno turco alla causa palestinese sarebbe rimasto inalterato e ha colto l’occasione per criticare le politiche israeliane in Cisgiordania.
  Ci sono poi anche controversie riguardanti la politica estera regionale a frenare la riappacificazione tra la Turchia e Israele, derivanti dai pessimi rapporti degli anni passati. Nel 2020, il governo di Gerusalemme ha firmato un accordo con Grecia e Cipro, storici rivali della Turchia con cui i rapporti sono peraltro oggi ai massimi della tensione. L’intesa prevede la realizzazione di un gasdotto, l’EastMed, con cui il combustibile estratto nelle acque israeliane sarà trasportato in Europa. Progetto a cui Ankara si è veementemente opposta, parlando di un’esclusione intenzionale ai suoi danni.
  Sul futuro del riavvicinamento tra Ankara e Gerusalemme, che peraltro i turchi rifiutano di riconoscere come capitale d’Israele, pesa anche la crisi di governo israeliana, che potrebbe riportare al potere il Likud di Netanyahu, e con esso una nuova era glaciale nelle relazioni bilaterali con la Turchia.

(Bet Magazine Mosaico, 13 giugno 2022)

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Il Monferrato -  Alla Comunità Ebraica

FOTO
Giornata ricca di parole, idee e persone quella di domenica 12 giugno alla Comunità Ebraica di Casale Monferrato che ha visto due eventi e centinaia di visitatori, molti dei quali stranieri, affollare Sinagoga musei e i locali di vicolo Salomone Olper.
  Alle 11 si è parlato di fotografia per il finissage della mostra dedicata a Lisetta Carmi, inserita nella biennale fotografica MonFest. 
  Un incontro che ha ribadito lo straordinario successo di questa rassegna che ha convolto l’intera città con ben 13 mostre. Maria Teresa Cerretelli direttore artistico della rassegna parla di 20.000 visitatori e di una soddisfazione personale per la mostra di Lisetta: “Sono venuti degli israeliani e vedendo le immagini hanno detto ecco:  questa è davvero l’Israele che raccontavano i nostri genitori. Per me questo è già un successo eccezionale”. 
  Daria Carmi, curatrice della mostra, sottolinea come eventi di questo tipo testimonino l’apporto della Comunità casalese nel panorama culturale nazionale: “Non ci siamo limitati a ospitare la mostra, ma abbiamo contribuito a ricostruire una parte dell’archivio di Lisetta Carmi: un ruolo importante per la Fondazione Arte, Storia e Cultura Ebraica a Casale Monferrato e nel Piemonte Orientale. Un’idea che traspare anche dal racconto di Giovan Battista Martini, curatore oltre che della mostra, proprio dell’archivio dedicato alla fotografa, in quale ricorda il lavoro in collaborazione con Lisetta, oggi 98enne e ritiratasi a Cisternino in Puglia, per dare una data e una collocazione precisa agli scatti che testimoniano i due viaggi da lei compiuti in Israele tra il 1962 e il 1967 .  Infine ha sottolineato il contributo che queste 43 immagini raccolte alla Comunità Ebraica di Casale hanno dato alla conoscenza della fotografa italiana, per la quale si apre una nuova stagione di notorietà internazionale.

• BRIGATA EBRAICA
  Secondo evento nel pomeriggio in Sinagoga con la presentazione letteraria di Storia della Brigata Ebraica (ed Einaudi).  Presente l’autore, lo storico Gianluca Fantoni, impegnato a parlarne con Davide Romano, direttore del Museo della Brigata Ebraica di Milano. Il volume ricostruisce la storia dei 5000 volontari della Palestina Britannica che dopo molte insistenze riuscirono a diventare un corpo combattente autonomo nel 1944 sul fronte italiano. Un libro che ha il pregio, non solo di portarci tra le battaglie sulla linea Gotica, ma di inquadrare la Brigata in un contesto molto più ampio, eppure altrettanto avvincente, comprendente anche la Seconda guerra mondiale vista dalla prospettiva dello scacchiere medio orientale. Una storia che prosegue anche oltre la Liberazione, con gli uomini della Brigata impegnati nella ricostruzione delle comunità ebraiche della penisola, cercando di riallacciare le famiglie divise dalla Shoah e le tradizioni dell’ebraismo italiano.  Per arrivare fino ai giorni nostri e alle polemiche di chi non vorrebbe che la Brigata venisse ricordata nelle celebrazioni del 25 Aprile. Fantoni, del resto, racconta di essersi appassionato alla Brigata durante i suoi studi sull’influenza della politica sulla narrativa storica e Davide Romano si inserisce nel dibattito riscostruendo le decisioni, condivise con il comitato antifascista, che portarono la bandiera della Brigata a sfilare a Milano nel 2002.
  Domenica 19 giugno un nuovo doppio appuntamento attende la Comunità Ebraica di Casale.  Alle ore 11.30 in Sala Carmi si inaugura la mostra “Diario di un Realista” dedicata al fumettista e illustratore Israeliano Asaf Hanuka, e curata da Ada Treves (in collaborazione con il festival CasaleComics e Bao Publishing). Alle ore 17.15 il primo appuntamento della rassegna “Musica nel complesso Ebraico”, curata da Giulio Castagnoli, arrivata alla decima edizione. vedrà esibirsi Dario Destefano al violoncello e Giacomo Indemini alla viola. Musiche di Bach, Beethoven, Hindemith, Bartók. (a.a.)

(Il Monferrato, 13 giugno 2022)

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Andrea Bocelli si commuove tra le Mura di Gerusalemme

Andrea Bocelli
al muro del pianto
Gerusalemme la Bella. Così viene definita questa straordinaria città in un passo del Talmud (Kiddushìn 49b) e Gerusalemme riesce sempre a stupire, per la sua storia e per le scoperte di ogni tipologia che emergono dalle sue pietre o dai luoghi più nascosti. Da un luogo di grande fascino, le grotte di Qumran, sono emersi gli ormai leggendari Rotoli del Mar Morto, in parte conservati all’interno dello Shrine of Book di Gerusalemme, il Museo del Tempio del Libro.
  Proprio limitatamente a questa eccellenza, i Rotoli di Qumran appunto, la Biblioteca Nazionale di Israele ha pubblicato, in occasione della festa di Shavuot dello scorso 4 giugno, una serie di videoclip dalla sua collezione giudaica rinomata a livello mondiale. Estremamente delicati, i rotoli della Torah non sono generalmente disponibili per la visione pubblica e sono stati portati fuori dai caveau della NLI solo per pochi minuti per essere filmati e fotografati, con l’approvazione e la supervisione di esperti di conservazione.
  Gli oggetti presentati includono frammenti di un rotolo della Torah yemenita di 1.000 anni fa che sono stati trovati in una rilegatura, nonché uno dei rotoli della Torah leggibili più piccoli al mondo, che misura solo 6 centimetri (2 1/3 pollici) di altezza. Gli altri due rotoli presenti hanno storie eccezionali alle spalle. Si tratta della “Rhodes Torah” che si ritiene essere stata scritta a tavolino e successivamente portata a Rodi, dove è stata utilizzata per centinaia di anni nella sinagoga Kahal Shalom, oggi la più antica sinagoga della Grecia.
  Si credeva che l’ultimo rotolo presente nella serie fosse di proprietà di Saul Wahl, un importante mercante ebreo e consigliere dei reali che, secondo la leggenda, servì come re di Polonia per un solo giorno alla fine del XVI secolo. Il Saul Wahl Torah presenta doghe in avorio e corna e decorate con argento. Inoltre dispone di una propria arca sacra in miniatura, con una porta ricavata da uno scudo della Torah del 17° secolo.
  Anche Andrea Bocelli, reduce da un trionfale concerto di Tel Aviv ha voluto visitare Gerusalemme, porre la sua mano sul luogo più santo di Israele, il Qotel, il cosiddetto Muro Occidentale, e provare l’emozione di un viaggio nella Terra e nella Città dove tutto ha avuto inizio. Una grandissima emozione!

(La Prima Pagina, 11 giugno 2022)

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“La Shoah è un evento unico nella Storia, nessun paragone è legittimo”. Intervista al Presidente dello Yad Vashem Dani Dayan

di Elisabetta Fiorito

Incontriamo Dani Dayan, il presidente dello Yad Vashem, il Memoriale della Shoah di Gerusalemme, nel giorno della visita in Vaticano con Papa Francesco, in casa dell’ambasciatore israeliano Dror Eydar. Un momento per fare il punto sull’antisemitismo e sulla conoscenza della Shoah. C’è preoccupazione per quella che Dayan chiama la trivializzazione della Shoah, ovvero i no vax con la stella gialla, ma anche per l’attenzione e l’interesse che non sempre corrispondono alla conoscenza. “Importante è dare un nome a tutte le vittime, spiega Dayan, ancora lontano come traguardo, mancano due milioni circa dei sei periti nella Shoah”. Per lui è una missione. “Penso ad una bambina polacca che viene bruciata in una sinagoga in Polonia, quale sarà stato il suo ultimo pensiero? Magari di essere ricordata. Dobbiamo fare questo, raccontare una storia, non indottrinare. Il livello di coscienza è alto, ma il livello di conoscenza basso”. Dani Dayan è ancora visibilmente emozionato per la visita che, ci spiega, è avvenuta in spagnolo, o meglio nel dialetto di Buenos Aires da cui provengono sia lui che Papa Francesco.

- Cosa ha significato essere ricevuto da Papa Francesco?
  È stato un evento importante per me personalmente, ma soprattutto a livello internazionale per lo Yad Vashem e per lo stato d’Israele. Era la prima volta che un presidente dello Yad Vashem venisse ricevuto in Vaticano. Per me, è stata un’esperienza anche personale perché abbiamo parlato in spagnolo. Sono nato a Buenos Aires, come il papa, ho fatto l’Aliyah cinquant’anni fa, ma sono molto legato alla mia città d’origine.

- Il papa è sempre stato attento alla comunità ebraica in Argentina e al mondo ebraico?
  Sì, è sempre stato chiaro nella sua condanna dell’antisemitismo, dell’importanza di ricordare la Shoah come uno strumento per combattere l’antisemitismo. Inoltre, ho espresso al papa la mia gratitudine per aver aperto gli archivi vaticani ai ricercatori dello Yad Vashem sul periodo di prima e durante la Seconda guerra mondiale. Papa Francesco ha detto che aprire gli archivi è un’espressione di giustizia e questa è una dichiarazione molto forte. Ha anche detto: “So che nella Chiesa come in altre organizzazioni ci furono persone che fecero la cosa giusta e persone che non la fecero”. Ha detto chiaramente che non ha paura della storia.  Anzi si aspetta che i ricercatori facciano luce su quello che accadde in quel periodo buio. Sappiamo che in questi archivi troveremo molte informazioni sulla Chiesa e anche sugli ebrei, ebrei singoli che hanno chiesto aiuto. Non aspettiamo altro che visionare questi archivi.

- Avete parlato anche di Pio XII, il papa del silenzio?
  No, non abbiamo parlato di Pio XII. Abbiamo parlato in termini generali.  

- È preoccupato per la guerra in Europa? Soprattutto visto che la comunità ebraica è divisa tra quella in Ucraina e quella in Russia?
  Siamo preoccupati dalla situazione in Ucraina e dall’invasione russa e dai crimini di guerra commessi in Ucraina. Dobbiamo chiarire però che nella propaganda di entrambe le parti la Shoah è a volte oggetto di manipolazione. Dobbiamo dire con chiarezza che non tutti i crimini di guerra sono genocidi e che non tutti i genocidi sono l’Olocausto. La Shoah è unica nella storia dell’umanità e non si può paragonare a nessun’altra, inclusa la situazione in Ucraina.

(Shalom, 12 giugno 2022)

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Le Beatitudini di Gesù (2)

di Marcello Cicchese

BEATI I POVERI

    "Beati i poveri in ispirito, perché di loro è il regno dei cieli" (Matteo 5:3).

Molto si è detto e scritto sul significato del termine "povero" nella Bibbia. Si può dire, in forma riassuntiva, che nell'Antico Testamento i poveri costituiscono una categoria di persone che, essendo prive di sufficienti mezzi di sussistenza, sono anche prive di autonomia, di potere, di prestigio. I poveri non hanno importanza nella società, non contano, corrono sempre il rischio di essere esposti agli arbitrii dei potenti.

    "Il povero è odiato anche dal suo compagno, ma gli amici del ricco sono molti" (Proverbi 14:20).

I poveri costituiscono dunque la parte debole, umiliata ed emarginata della società, e per questo fatto sono paragonabili ai ciechi, agli storpi, agli zoppi. Come questi ultimi, i poveri sono elementi sociali non completi, privi di qualcosa: se ai ciechi manca la vista e agli zoppi manca un arto, ai poveri mancano i mezzi per vivere dignitosamente nella società. Come i ciechi, gli storpi e gli zoppi, anche i poveri, oltre a non avere peso sociale, possono addirittura essere considerati colpevoli dello stato in cui si trovano: essere cioè giudicati colpiti da Dio a motivo di qualche recondita colpa a loro attribuibile. I poveri rischiano insomma di essere giudicati peccatori proprio in quanto poveri. Spesso nelle società antiche la posizione di debolezza sociale veniva interpretata religiosamente in tal modo che i miseri e deboli venivano  giudicati lontani da Dio tanto quanto i ricchi e potenti erano invece considerati vicini a Dio.
  Nell'Antico Testamento leggiamo invece che Dio "sta alla destra del povero" (Salmo 109:31), "rileva il misero dalla polvere e trae su il povero dal letame" (1 Samuele 2:8). I poveri vengono così presentati come coloro che, non potendo sperare in altri appoggi umani, sono spinti ad invocare l'Eterno e a porre la loro fiducia unicamente in lui.

    "Chi è pari a te, o Eterno, che liberi il misero da chi è più forte di lui e il bisognoso da chi lo spoglia?" (Salmo 35: 11).

I termini ebraici tradotti con "povero", "misero", afflitto" acquistano così anche un significato spirituale, esprimente la relazione di dipendenza che lega il povero al Signore da lui invocato. Ma questo senso spirituale di cui si carica il termine "povero" in alcuni passi della Bibbia, soprattutto nei salmi, non cancella tuttavia il fondamentale significato di povero, inteso come colui che appartiene a una categoria sociale di persone deboli e maltrattate. Così come l'espressione "povero in ispirito", pur costituendo un arricchimento del termine "povero", non individua un concetto diverso da quello indicato usualmente dal termine.
  Una volta che sia chiaro il significato predominante che la Bibbia attribuisce al termine "povero", sorgono le consuete, inevitabili domande. Chi sono oggi i poveri? Costituiscono una categoria di persone moralmente migliori? La povertà è un valore spirituale in se stesso? Sono soltanto i poveri che possono essere salvati? E' lecito a un cristiano essere ricco?
  Credo che, per quanto comprensibili e legittime, tutte queste domande non contribuiscono alla comprensione del nostro testo, perché indirizzano l'attenzione su un oggetto sbagliato. Nonostante l'apparenza, non credo che il vero oggetto di queste parole siano i poveri, così come non credo che nelle beatitudini successive si voglia dire qualcosa di preciso sugli afflitti, i mansueti, i misericordiosi, ecc. Si può anzi dire che ben difficilmente si riuscirebbe a delimitare con esattezza categorie di persone rispondenti a Ile caratteristiche presentate in questo passo del vangelo.
  L'oggetto vero di queste parole di Gesù è il Regno di Dio, cioè l'azione di salvezza che Dio sta compiendo sulla terra. L'accento va dunque messo sulla seconda parte del versetto: "di loro è il regno dei cieli". Un'espressione simile viene usata da Gesù quando dice: "Lasciate i piccoli fanciulli e non vietate loro di venire a me, perché di tali è il regno dei cieli" (Matteo 19:14). Anche in questo caso è fuorviante interrogarsi sulle caratteristiche morali dei bambini e sulla loro presunta innocenza: Gesù non dice che i bambini sono buoni, ma sgrida i discepoli che non hanno capito che il regno di Dio non predilige i potenti e le persone importanti, ma le persone deboli e socialmente poco considerate come i bambini di quel tempo.

    "Egli ha operato potentemente col suo braccio; ha disperso quelli che erano superbi nei pensieri del cuor loro; ha tratto giù dai troni i potenti ed ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni i famelici e ha rimandato a vuoto i ricchi" (Luca 1:51-53).

Le domande più appropriate che dovremmo porci sono allora di questo tipo: che regno è mai questo, che privilegia le parti deboli e disprezzate della società? E chi è colui che annuncia un simile regno? Quale autorità è la sua? Che posto occupa in questo regno?
  Una prima risposta può essere: questo è il regno messianico annunciato dai profeti e atteso dal popolo d'Israele. Infatti, nelle profezie riguardanti questo regno, ai poveri, agli umili, agli oppressi vengono promesse liberazione e gioia.

    "In quel giorno, i sordi udranno le parole del libro, e liberati dall'oscurità e dalle tenebre, gli occhi dei ciechi vedranno; gli umili avranno abbondanza di gioia nell'Eterno, e i più poveri fra gli uomini esulteranno nel Santo d'Israele" (Isaia 29:18-19).

Una seconda risposta può essere: Gesù è l'Unto del Signore (Isaia 61:1), "il ramo che esce dal tronco d'lsai" (Isaia 11:1), il servo dell'Eterno (Isaia 53:13) attraverso cui Dio compie la sua opera di salvezza e di liberazione dalla schiavitù del male.

    " ... gli fu dato il libro del profeta Isaia; e aperto il libro trovò quel passo dov'era scritto: 'Lo Spirito del Signore è sopra me; per questo egli mi ha unto per evangelizzare i poveri, mi ha mandato a bandir liberazione ai prigionieri, ed ai ciechi ricupero della vista; e a rimettere in libertà gli oppressi, e a predicare l'anno accettevole del Signore!" ...  Ed egli prese a dire loro: Oggi s'è adempiuta questa scrittura e voi l'udite" (Luca 4:17-21).

Con le parole "Beati i poveri" Gesù testimonia che Egli è colui che doveva venire, come dicono le profezie, perché infatti sta accadendo che "l'evangelo è annunciato ai poveri" (Matteo 11:5).
  Lo scoprire che le parole di Gesù sui poveri sono strettamente legate al messaggio del regno di Dio può forse risultare fastidioso per molti.
  Il "politico", interessato soprattutto ai suoi programmi di miglioramento delle condizioni sociali degli uomini, si accontenterebbe di due o tre versetti che gli assicurino di avere Gesù dalla sua parte, e volentieri tralascerebbe tutto il resto. Ma al "politico" bisogna dire che egli è certamente libero di svolgere la sua azione nel mondo, ma che se vuole rifarsi alle parole del vangelo deve riconoscere che il centro delle parole di Gesù non è costituito dai poveri, ma dal Regno di Dio, annunciato dai profeti e realizzato nella vita, nella morte, nella risurrezione e nella venuta di Cristo. Le parole di Gesù non sono massime di saggezza da citare in modo isolato, ma acquistano il giusto significato solo nel contesto del piano di salvezza di Dio.
  Il "pio" invece, interessato soprattutto alla sua salvezza personale, si accontenterebbe di due o tre versetti che gli assicurino di andare in cielo dopo la morte, e volentieri tralascerebbe tutto il resto. Il "pio" si trova a disagio davanti alle parole di Gesù sui poveri e, quando deve prenderle in considerazione, di solito le accosta immediatamente ad altri passi della Bibbia, come se ne volesse attenuare la pericolosità. Qui si dice che l'evangelo è annunciato ai poveri, ma altrove si ordina di predicare l'evangelo ad ogni creatura; qui si dice che il Regno di Dio è dei poveri, ma altrove si assicura che chiunque crede in Gesù ha la vita eterna; qui si dice che molto malagevolmente coloro che hanno delle ricchezze entreranno nel Regno di Dio, ma altrove si riferisce che Gesù ha chiamato Zaccheo, il quale era ricco; e così via. E' certamente bene accostare i passi della Bibbia, perché ogni unilateralità di interpretazione può risultare dannosa, ma qualche volta si ha l'impressione che certi accostamenti non ottengano l'effetto di spiegare le parole di Gesù, quanto piuttosto quello di annullarle. E così può accadere che un tipo di predicazione resti del tutto privo di alcuni specifici ed ineliminabili elementi del vangelo come, per esempio, la posizione dei poveri, cioè dei deboli, degli emarginati, delle persone non importanti nei confronti del Regno di Dio.
  Le parole di Gesù sui poveri si comprendono in relazione al messaggio di Gesù sul Regno di Dio e, viceversa, il Regno di Dio annunciato da Gesù ha qualcosa a che fare con i poveri. In che senso? Nel senso che Dio inizia con Gesù una nuova creazione, che si compirà quando appariranno "nuovi cieli e nuova terra, nei quali abiti la giustizia" (2 Pietro 3:13); e i poveri, come i ciechi, gli zoppi, gli storpi, gli orfani, le vedove costituiscono la parte debole dell'umanità, quella in cui le conseguenze del peccato entrato nella creazione e passato su tutti gli uomini sono più evidenti e visibili. Non si dice che i poveri siano più buoni e meritevoli degli altri, ma che Dio è venuto a sanare situazioni distorte dal peccato. E l'esistenza di impressionanti squilibri tra chi non ha il necessario per vivere e chi spreca il superfluo è un evidente segno del peccato che è presente nella nostra società. Nel programma del Regno di Dio è previsto che tali squilibri verranno aboliti.

    "Ogni valle sarà colmata ed ogni monte ed ogni colle sarà abbassato; le vie tortuose saranno fatte diritte e le scabre saranno appianate; ed ogni carne vedrà la salvezza di Dio" (Luca 3: 5-6).

Se questo è il programma del Regno di Dio, non deve sorprendere che i destinatari naturali del vangelo siano le categorie più deboli dell'umanità. A loro viene annunciata l'opera di liberazione che Dio sta compiendo.

    "Ascoltate, fratelli miei diletti: Iddio non ha egli scelto quei che sono poveri secondo il mondo perché siano ricchi in fede ed eredi del Regno che ha promesso a coloro che l'amano?" (Giacomo 2: 5).

A questo punto sono da prevedere le obiezioni. Ma allora la salvezza non è offerta a tutti? Non sono forse tutti peccatori e non hanno tutti bisogno del perdono di Dio? E' certo che la salvezza di Dio è offerta a tutti, ma si deve anche dire che il Regno di Dio non è come un carrozzone che va in giro per il mondo invitando tutti ad entrare senza peraltro dire nulla su quello che c'è dentro. Il Regno di Dio ha un contenuto, un programma: davanti a questo programma non tutti si troveranno nella medesima situazione. Chi, in questo mondo ingiusto, si è ben collocato ed
  è diventato ricco e potente, "molto malagevolmente" entrerà nel Regno di Dio, perché per lui significherà un abbassarsi, uno spogliarsi, un riconoscere che la sua posizione partecipa più di altre al peccato che è nel mondo, e che la sua potenza è debolezza davanti a Dio, e che "la 'debolezza di Dio" è più forte della sua potenza.

    "Infatti, fratelli, guardate la vostra vocazione: non ci sono tra voi molti savi secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili" (1 Corinzi 1:27).

Dio non seleziona in anticipo le persone, ma il carattere del Regno di Dio fa sì che le persone vengano selezionate, perché molti, spesso anche a motivo della loro posizione sociale, trovano poco conveniente entrare in questo regno.
  Non sono buoni i poveri, né buona è la povertà: buono è Dio che viene a cancellare dalla terra la povertà, l'ingiustizia, la violenza, l'odio, la sofferenza.
  Posso convertirmi a Dio da ogni posizione sociale, ma devo sapere che se mi converto, entro in un Regno in cui gli ultimi sono i primi, in cui "il fratello d'umil condizione si gloria della sua elevazione, e il ricco della sua umiliazione" (Giacomo 1:9). E questa nuova realtà in cui entro non potrà che condizionarmi in tutte le scelte di vita, anche e prima di tutto in quelle riguardanti i beni materiali, miei e degli altri.

    "Voi conoscete la carità del Signor nostro Gesù Cristo il quale, essendo ricco, s'è fatto povero per amor vostro, onde, mediante la sua povertà, voi poteste diventar ricchi" (2 Corinzi 8:9).

(da "Credere e Comprendere", maggio 1981)


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Perché Israele ha attaccato l’aeroporto di Damasco e perché la Russia è furibonda

di Maurizia De Groot Vos

È un attacco estremamente duro quello della Russia nei confronti Israele dopo che ieri un raid attribuito allo Stato Ebraico ha colpito l’aeroporto di Damasco provocando danni significativi tanto da spingere i siriani a chiudere l’intero aeroporto.
  Ieri sera (venerdì) il Ministero degli Esteri russo ha emesso un comunicato durissimo nel quale condanna la “pratica viziosa” degli attacchi israeliani alle infrastrutture civili, che ha definito “provocatori” e “che violano le norme fondamentali del diritto internazionale”.
  All’inizio i media statali siriani avevano negato l’attacco all’aeroporto di Damasco, per altro difeso dai sistemi russi S-300 che chiaramente Israele viola continuamente. Poi nella tarda mattinata è arrivata la notizia che l’aeroporto di Damasco sarebbe stato chiuso per “motivi tecnici”.
  Ieri sera ImageSat International (ISI), una società di intelligence satellitare israeliana, ha pubblicato immagini che mostrano danni significativi alle piste dell’aeroporto di Damasco, danni così importanti da spingere alla sua chiusura.
L'aeroporto di Damasco danneggiato dai bombardamenti israeliani
Una foto pubblicata da ImageSat International il 10 giugno 2022 mostra l’aeroporto internazionale di Damasco in Siria dopo un attacco aereo attribuito a Israele (ImageSat International) Secondo ImageSat International i raid hanno completamente disabilitato le operazioni su entrambe le piste dell’aeroporto. Ogni pista sembrava essere stata colpita tre volte. Secondo un rapporto della intelligence israeliana l’Iran usa voli civili che fa atterrare all’aeroporto di Damasco per trasportare armi e uomini in Siria mettendo così a repentaglio i civili che usano quella struttura.
  Dietro questa operazione ci sarebbe il genero di Quassem Soleimani, ucciso in Iraq da un drone americano nel gennaio 2020.

• Perché la Russia è furibonda
  Fondamentale a Mosca poco importa se Israele compie raid in Siria contro obiettivi iraniani o di Hezbollah. C’è persino un accordo tra Israele e Russia che regolamenta tali attacchi.
  Tuttavia di recente Israele attacca sempre più spesso obiettivi siriani che teoricamente la Russia dovrebbe difendere. Questo è il secondo attacco all’aeroporto di Damasco dall’inizio dell’anno. Questa settimana carri armati israeliani hanno bombardato postazioni siriane nel Golan e lunedì scorso un raid aereo israeliano ha colpito un’altra postazione dell’esercito siriano poco a sud di Damasco.
  A questo va aggiunto che molti obiettivi sensibili siriani sono difesi da sistemi d’arma russi S-300 che con chiarezza Israele aggira facilmente mettendo in dubbio la loro efficacia, cosa che chiaramente disturba molto i russi.
  Nelle ultime settimane la tensione tra Mosca e Gerusalemme è costantemente aumentata per via della guerra in Ucraina anche se Israele non ha preso apertamente posizione. Tuttavia i russi sospettano che gli israeliani aiutino Kiev con la loro potente intelligence e la fuga da Mosca del rabbino capo Pinchas Goldschmidt non aiuta a calmare le tensioni.
  Su Israele ci sono molte pressioni affinché permetta il trasferimento dalla Germania all’Ucraina dei missili anticarro SPIKE di quinta generazione prodotti dalla società israeliana Rafael Advanced Defense Systems, pressioni che potrebbero aver avuto esito positivo proprio nelle ultime ore, anche se sull’argomento c’è molta riservatezza. Un altro buon motivo per rendere i russi furibondi con Israele.

(Rights Reporter, 11 giugno 2022)

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Netanyahu vota anche contro le sue leggi per riavere il potere

di Claudia Cavaliere

MILANO - Il governo israeliano è ancora in piedi, anche se la coalizione guidata da Naftali Bennett scricchiola parecchio da quando lunedì, di fronte alla Knesset, il Parlamento, non sono stati raggiunti i voti necessari ad approvare in prima lettura la legge per il rinnovo dell’applicazione delle leggi israeliane agli abitanti degli insediamenti in Cisgiordania. Si tratta di circa 500 mila persone che godono dei benefici della cittadinanza israeliana, votano alle elezioni legislative e in caso di controversie applicano le disposizioni civili e penali dello stato anche se non si trovano nel territorio in cui esso esprime la propria sovranità, ma all’interno degli insediamenti.
  Artefice di questa mossa politica volta a indebolire il governo è stato l’ex primo ministro Benjamin Netanyahu, che di fatto ha votato contro un provvedimento in cui ha sempre dimostrato di credere e che, se approvato, andrebbe a vantaggio di un’ampia fetta del suo stesso elettorato. “Il motivo principale per cui Netanyahu ha deciso di votare contro il suo stesso popolo, i setllers israeliani, è stata la sua volontà di sciogliere il governo e andare a nuove elezioni”, dice al Foglio il professore israeliano Emanuel Gross, esperto di diritto penale e internazionale ed ex giudice militare. Di nuovo le elezioni? Sì.
  Ma andiamo con ordine: il disegno di legge riguarda un regolamento di emergenza che fu approvato nel 1967 alla fine della guerra dei Sei giorni, quando Israele ha esteso il proprio territorio in Cisgiordania senza mai formalmente annetterlo, e che da allora è stato rinnovato ogni cinque anni senza alcun intoppo. “Se il governo non sarà in grado di approvare la legge, lo status degli israeliani che vivono in Giudea e Samaria cambierà e molte leggi israeliane smetteranno di essere applicate nei loro confronti. Ad esempio, un colono che ha commesso un crimine in Giudea e Samaria non sarà processato da un tribunale israeliano, ma piuttosto da un tribunale militare. Oppure i prigionieri palestinesi che scontano la pena in Israele dovranno essere rimandati indietro”, spiega Gross. Di fatto, perciò, se la legge non dovesse essere approvata – c’è tempo fino a fine giugno per raggiungere i 60 voti necessari e almeno altre due sedute parlamentari – significherebbe che il destino degli abitanti degli insediamenti in Cisgiordania e quello dei tre milioni di palestinesi che la abitano sarebbe condiviso sotto la giurisdizione di un governo militare, così come già accade ai secondi.
  Questa legge è molto controversa perché rappresenta, per i suoi critici, un doppio standard di trattamento tra israeliani e palestinesi ed è motivo di scontro al governo. Eppure, questa volta è accaduto qualcosa di insolito: alcuni membri che, secondo le attese, avrebbero dovuto votare contro il rinnovo del disegno di legge hanno votato a favore, volendo mostrare la forza della coalizione; quelli che avrebbero dovuto sostenerlo hanno espresso voto contrario. L’ex premier Netanyahu rivuole il potere – dopo che l’anno scorso è stato estromesso proprio dai partiti al governo che avevano un solo obiettivo comune: deporlo – e i suoi alleati si sono rifiutati di appoggiare i provvedimenti del governo pur condividendoli. Ma gli equilibri sono molto complessi in questa affollata coalizione di otto partiti ideologicamente diversi gli uni dagli altri – c’è la destra, c’è la sinistra, c’è il centro e c’è per la prima volta un partito arabo palestinese.
  Intanto, ieri, mentre i giorni della sua coalizione sono incerti, il primo ministro israeliano Naftali Bennett è volato negli Emirati Arabi Uniti – nel suo secondo viaggio pubblico ad Abu Dhabi da quando i due paesi hanno normalizzato le relazioni nel 2020 – in cui ha incontrato il presidente Mohammed bin Zayed al Nahyan, per discutere varie questioni regionali, in chiave anti iraniana, consolidare gli Accordi di Abramo e preparare l’arrivo del presidente americano, Joe Biden.

Il Foglio, 11 giugno 2022)

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Israele continuerà ad estrarre gas in area marittima contesa

TEL AVIV – Giovedì, Israele ha detto che continuerà l’esplorazione del gas nel giacimento di Karish, nel Mediterraneo, nonostante le obiezioni libanesi, secondo quanto riferito da Anadolu.
  I ministri israeliani della Difesa, degli Affari esteri e dell’Energia, Benny Gantz, Yair Lapid e Karen Harar, hanno affermato in una dichiarazione congiunta che il campo di Karish è “una risorsa strategica dello Stato di Israele ed è destinato ad estrarre le risorse energetiche e il gas naturale nella zona economica dello Stato di Israele e per far progredire l’economia verde di Israele”.
  “Lo Stato di Israele dà la priorità alla protezione delle sue risorse strategiche ed è pronto a difenderle e [a difendere la] sicurezza delle sue infrastrutture, il tutto in conformità con i suoi diritti”, si legge nella dichiarazione, nella quale ha invitato il Libano “ad accelerare i negoziati sul confine marittimo” sotto la mediazione statunitense.
  “Con il suo ancoraggio, il rig si trova in territorio israeliano, diversi chilometri a sud dell’area su cui sono in corso i negoziati tra lo Stato di Israele e la Repubblica del Libano, mediati dagli Stati Uniti. Il rig non pomperà gas dal territorio conteso”, aggiunge la nota.
  La nuova piattaforma di perforazione è arrivata domenica nel sito di Karish, che secondo Israele fa parte della sua zona economica esclusiva riconosciuta dalle Nazioni Unite. Beirut insiste sul fatto che si trova nell’area contesa.
  Il primo ministro libanese Najib Mikati ha chiesto al suo ministero degli Affari esteri di entrare in contatto con gli organismi internazionali competenti per impedire ad Israele di trivellare.
  Libano e Israele sono impegnati in una disputa su un’area marittima di 860 chilometri quadrati, secondo le mappe inviate da entrambe le contee alle Nazioni Unite nel 2011.
  La zona è ricca di gas naturale e petrolio. Cinque sessioni di negoziati indiretti si sono svolte tra Libano e Israele sotto il patrocinio delle Nazioni Unite e la mediazione degli Stati Uniti. L’ultimo round di colloqui è avvenuto nel maggio 2021, ma si sono bloccati.
  L’impianto dovrebbe diventare operativo nei prossimi mesi.

(Infopal, 11 giugno 2022)

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Hirsch, la fuga mancata del primo calciatore ebreo della nazionale tedesca, che si fidò dei connazionali
    «Come avete fatto a dimenticare? In fondo sono passati solo quindici anni da quando combattevamo per quella che credevamo fosse la nostra Nazione, morendo nelle trincee per cercare di vincere una guerra che nessuno di noi voleva ma che siamo comunque andati a combattere. Come avete fatto ad accettare questa assurdità? Io non potrò più neppure continuare a lavorare nel calcio per la squadra che ho servito fedelmente per tutti questi anni. Voglio essere il più chiaro possibile: voi tutti state facendo un danno irreparabile a questo Paese e nei confronti di chi lo ha servito e lo ha amato».

 E’ il 1933 e tutte le squadre tedesche hanno avuto l’ordine di espellere dalle propria fila i calciatori, allenatori e collaboratori ebrei.
 Julius Hirsch è uno di loro.
 Quelle riportate sopra sono alcune delle frasi che scriverà alla dirigenza del Karlsruher al momento del forzato commiato.
 Adesso fa l’allenatore nel settore giovanile ma non può accettare che accada una cosa del genere nella “sua” Germania.
 Il peggio però deve ancora arrivare.
 Con la promulgazione delle leggi razziali del 1935, i nazisti mettono definitivamente in chiaro le proprie intenzioni: per gli ebrei non c’è più posto nella vita del Paese.
 Il suo amico e compagno di squadra Gottfried Fuchs che con lui nel Karlsruher vinse il campionato tedesco del 1910 gli propone di fuggire in Canada con lui.
 «Non c’è più posto qui per noi, le cose possono solo peggiorare» gli dice l’amico.
 Julius Hirsch non ci crede, non vuole proprio accettare che il suo popolo si possa essere dimenticato così in fretta di tutto. Lui aveva combattuto per la Germania nella Prima Guerra Mondiale, meritandosi per il suo coraggio perfino la Croce di Ferro.
 Lui, che in quella guerra aveva perso un fratello.
 E poi le partite, i trionfi e i gol con il Karlsruher, il SpVgg Fürth e addirittura la nazionale tedesca dove fa il suo esordio a diciotto anni.
 Ha perfino sposato una tedesca ed è convinto che tutta questa follia abbia i giorni contati.
 Nel 1938 i suoi due figli, Esther e Heinold, vengono espulsi da scuola
 Decide di trasferirsi a Parigi con la moglie Ella Karolina Hauser e i figli.
 “In attesa che tutto torni alla normalità”.
 La normalità non tornerà mai più.
 Cosa convinca Hirsch a tornare in Patria pochi mesi dopo non è francamente possibile saperlo.
 La Germania è in guerra e nel giro di pochi anni quella che sembrava una facile vittoria si trasforma per il popolo tedesco in un incubo.
 Nel 1939, in un ultimo disperato tentativo di salvare la famiglia, Julius Hirsch decide di divorziare dalla sua amata Ella.
 “Forse almeno loro saranno lasciati in pace” è quello che pensa Julius in quei drammatici giorni.
 La situazione invece precipita.
 Julius non ha più un lavoro.
 Nel 1943 arriva una lettera della Gestapo che lo invita a presentarsi nella sede di Karlsruhe per un non precisato “incarico professionale”.
 Per lui ci sarà solo un treno per Baden prima e per Auschwitz, nel tristemente celebre campo di concentramento, poi.
 E’ il primo marzo del 1943.
 Due giorni dopo riesce a scrivere una lettera ai figli.
 C’è il timbro postale del 3 marzo.
 «Miei cari. Sono arrivato a destinazione. Sta andando tutto bene. Sono in Alta Slesia. Abbiate cura di voi». Di Julius “Juller” Hirsch, numero “11” tra i più bravi e dotati di tutta la storia del calcio tedesco, non si avranno più notizie.
 Solo nel 1950, un lustro esatto dopo la fine della guerra, verrà dichiarata una data di morte per Julius Hirsch: l’8 maggio del 1945, diversi mesi dopo l’evacuazione e la liberazione del campo di concentramento di Auschwitz da parte dell’Armata Rossa.
 Il suo nome non appare nei registri di Auschwitz e sono in molti a pensare che in realtà la vita di Julius Hirsch sia finita in una camera a gas pochi giorni dopo il suo arrivo al campo di concentramento.
 Aveva creduto che non sarebbe stato possibile arrivare fino a questo punto, che quella follia collettiva che quell’ex-pittore ed ex-soldato austriaco aveva sapientemente costruito sarebbe finita per cadere come un castello di carte.
 Ha avuto torto.
 E ha pagato con la vita il suo errore di valutazione.

LA VITA
 Julius Hirsch nasce ad Achern nel 1892 e da quando ha dieci anni gioca nelle file del Karlsruher FV. Di giocare a calcio è bravo davvero. Tanto che a soli diciassette anni diventa un membro imprescindibile della prima squadra dei rossoneri del Sud della Germania.
 In quel periodo il Karlsruher FV è un autentico squadrone.
 Vince tre Campionati regionali del sud della Germania (la Südkreis-Liga) tra il 1910 e il 1912 e nel 1910 conquista addirittura il titolo nazionale, primo ed unico nella storia del Club.
 Hirsch è parte di un trio di attaccanti di grande valore.
 Insieme a Fritz Förderer and Gottfried Fuchs diventa uno dei protagonisti del calcio tedesco dell’epoca. Julius, che tutti chiamano “Juller”, è un’ala sinistra di grandi doti tecniche e dotato di un tiro preciso e molto potente.
 Nel 1911 arriva la chiamata della Nazionale tedesca.
 Sarà il primo calciatore ebreo a vestire la casacca bianca teutonica con la quale parteciperà alle Olimpiadi di Svezia del 1912 anche se l’esperienza non sarà certo indimenticabile: una sconfitta per cinque a uno contro i “cugini” austriaci.
 In quello stesso anno si rende però protagonista di un’impresa degna di nota: segna quattro gol in una partita contro l’Olanda con la sua Nazionale e il suo nome diventa popolare in tutto il Paese.
 Nel 1913 lascia il suo Karlsruher per trasferirsi al SpVgg Fürth e l’anno successivo conquisterà con questi colori il suo secondo titolo di campione di Germania ... poco prima di finire in una trincea per quattro lunghi anni allo scoppio della Prima Guerra Mondiale.
 Al suo ritorno giocherà un’altra stagione nel SpVgg Fürth prima di far ritorno, nel 1919, al Karlsruher dove rimarrà fino al termine della carriera nel 1925 quando ha trentatré anni.
 A quel punto rimarrà nel Club come allenatore delle giovanili fino a quel giorno del 1933 raccontato all’inizio.

• ANEDDOTI E CURIOSITA’
 Anche i due figli di Julius Hirsch, Heinold ed Esther, verranno imprigionati nelle prime settimane del 1945 nel ghetto di  Theresienstadt ma per fortuna saranno più fortunati del padre visto che saranno liberati dai sovietici nel maggio del 1945.
 Gottfried Fuchs, grande amico di Hirsch, provò in tutti i modi a convincerlo a seguirlo in Canada. Anche lui come Hirsch aveva debuttato giovanissimo nella Nazionale tedesca e l’intesa in campo tra i due era consacrata. Fuchs mantenne per quasi novant’anni un invidiabile record: quello del giocatore con il maggior numero di reti segnate per la propria Nazionale. Durante una partita per le qualificazioni alle Olimpiadi di Stoccolma la Germania sconfisse per 12 reti a zero la Russia con Fuchs autore di ben dieci delle marcature.
 Record che resistette fino al 2001 quando l’australiano Archie Thompson ne segnò ben tredici nello stesso incontro ... vinto dalla sua Nazionale per 31 reti a zero contro le Samoa Americane.
 Alcune fonti raccontano che durante il viaggio verso Auschwitz uno dei macchinisti del treno, appassionato di calcio, riconosca Julius Hirsch. Gli racconta dove lo stanno portando e gli offre la possibilità di fuggire. Neppure stavolta Hirsch accetta. La sua fiducia in quella Germania per la quale aveva combattuto era incrollabile.
 Fu la sua ultima occasione.
 Dal 2005 la Federazione calcistica tedesca assegna un premio intitolato ad Hirsch che viene assegnato a chi si rende protagonista di esempi di tolleranza e di integrazione nel calcio tedesco.
 Il primo di questi fu assegnato alla Società del Bayern Monaco per aver organizzato una partita tra la propria Under-17 e una selezione giovanile formata da giocatori israelo-palestinesi.
 A Karlsruhe da qualche anno c’è una via che porta il nome di Julius Hirsch situata nelle vicinanze di dove si trovava il vecchio campo di calcio che lo aveva visto in azione.
 Doveroso ricordo di un uomo che si era fidato dei suoi compatrioti ...

(La Gazzetta dello Sport, 11 giugno 2022)

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Vaccini in Israele, ricerca svela dati allarmanti su problemi cardiovascolari

di Andrea Bonazza

TEL AVIV – Stanno facendo molto discutere i dati pubblicati sulla rivista Scientific Reports. Dalla ricerca del Massachussets Institute of Technology è emersa una corrispondenza fra la somministrazione dei vaccini anti Covid-19 e l’aumento del 25% delle chiamate per problemi cardiovascolari. Molti dei soggetti che hanno riscontrato problemi sono giovani e adulti fra i 16 e i 39 anni. Le chiamate sono arrivate alle strutture di pronto soccorso in Israele tra il gennaio e il maggio del 2021. Il preoccupante dato è stato pubblicato sulla rivista Scientific Reports da Christopher Sun e Retsef Levi del Massachusetts Institute of Technology e da Eli Jafe del Servizio di medicina di emergenza di Israele a Tel Aviv. Secondo il virologo italiano Francesco Broccolo, dell’Università di Milano Bicocca, la novità di questo studio è nel fatto che “si basa su dati del mondo reale, non estrapolati dai trial”.

• TRE I PERIODI ESAMINATI DAL 2019 AL 2021
  La ricerca sui vaccini in Israele compiuta dagli istituti si è basata sulle chiamate arrivate alle strutture di pronto soccorso di Israele. Diversi casi di arresto cardiaco e sindrome coronarica acuta si erano registrati settimanalmente e le relative diagnosi sono state poi verificate. Tre i periodi esaminati nella ricerca: il primo, precedente alla pandemia di Covid-19, comprende il 2019 fino a febbraio 2020. Il secondo corrisponde al periodo della pandemia nel quale ancora non erano disponibili i vaccini, da marzo a dicembre 2020. L’ultimo va invece da gennaio a maggio 2021, quando in Israele erano state somministrate le prime e le seconde dosi dei vaccini anti Covid-19 a Rna messaggero.

• IL PROBLEMA DEI VACCINI IN ISRAELE
  Dalla ricerca è emerso che, nel terzo periodo, le chiamate al pronto soccorso sono aumentate del 25% rispetto ai due periodi precedenti. Furono quasi tutte chiamate da parte di persone di età compresa fra 16 e 39 anni per problemi cardiovascolari. Secondo gli autori della ricerca, dev’essere assolutamente d’obbligo vigilare sulla situazione dei vaccini in Israele. Si dovrebbero principalmente considerare le chiamate alle strutture di pronto soccorso, unitamente ad altri allarmanti dati sanitari, indagando sulle possibili cause.
  Il virologo Francesco Broccolo insiste poi nel precisare che “i dati riportati in questa ricerca sono in accordo con quanto finora si è osservato in Germania e in Scozia, come rilevano gli autori del lavoro. È un risultato che dovrebbe sollevare l’attenzione da parte dei medici e dei soggetti vaccinati sui segni clinici riportati nella popolazione della fascia d’età compresa fra 16 e 39 anni”, conclude l’esperto di Milano Bicocca.
  Lo Stato di Israele è stato tra i primi a somministrare le dosi di vaccino alla popolazione. Da quel periodo sono stati tantissimi i casi registrati di problematiche legate alla salute cardiovascolare dei vaccinati. Nonostante il muro di gomma sanitario, in Italia la situazione non sembra però essere molto diversa. Troppi sono infatti gli episodi legati ai vaccini che coinvolgono giovani, soprattutto sportivi, che da settembre 2021 hanno riscontrato gravi problemi di salute. In attesa che il governo italiano faccia luce su questa grave situazione, magari informando i suoi sudditi, di certo la fiducia nel vaccino e nelle istituzioni nazionali è sempre più incerta.

(Il Primato Nazionale, 11 giugno 2022)
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Sulla questione dei vaccini Israele ha ormai una posizione indifendibile. Si è messa all'avanguardia di un movimento di mistificazione fattuale e strumentalizzazione politica. Il danno che ne potrà avere sarà enorme, se qualcosa non cambierà alla radice, potrebbe venirne fuori una nuova forma di antisemitismo. M.C.

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L’Europa finanzierà nuove infrastrutture del gas in Egitto e Israele

L’iniziativa fa parte della diversificazione energetica UE dopo l’invasione dell’Ucraina.

L’Europa è pronta a finanziare nuove infrastrutture del gas in Egitto e Israele. È uno dei punti chiave del memorandum of understanding con cui Bruxelles vuole rendere più forte la cooperazione energetica nel vicinato meridionale e trovare alternative solide al gas russo. I partner privilegiati sono Il Cairo e Tel Aviv, ma la porta resta aperta a qualsiasi altro paese dell’area.
  Le parti “lavoreranno in modo collaborativo per definire i modi e i mezzi appropriati per attuare lo scopo di questo memorandum d’intesa al fine di accelerare l’esportazione di gas naturale verso l’UE”, si legge nel documento, datato 7 giugno, che è stato anticipato dall’agenzia Reuters.
  I dettagli che mancano sono ancora molti. La bozza di intesa non indica quale sarà il volume di gas scambiato, e neppure una tempistica entro la quale i progetti dovrebbero partire. L’unico riferimento in questo senso è la durata generale del memorandum, 9 anni. La direzione in cui si muove l’Europa, comunque, appare abbastanza chiara.
  L’obiettivo è aiutare l’Egitto a diventare un hub gasiero nel Mediterraneo orientale. E assicurarsi che una fetta dell’export di GNL via nave vada ai rigassificatori europei. Oltre ai giacimenti scoperti negli ultimi anni, Il Cairo può contare anche sulla sponda con Tel Aviv. Il gas offshore israeliano, infatti, converge sempre di più verso l’Egitto. All’inizio del 2022 arrivavano 5 miliardi di metri cubi (bcm) attraverso una pipeline tra Israele e il Sinai, che salirà presto a 6,5 bcm. A febbraio sono stati annunciati piani per altri 2-2,5 bcm da esportare in Egitto attraverso un gasdotto che passa dalla Giordania. Nel frattempo, il paese guidato dai militari di al-Sisi sta riattivando i suoi impianti di stoccaggio e export di GNL.
  Qui entra in gioco l’appoggio europeo, che può velocizzare il processo di trasformazione dell’Egitto in un hub maturo co-finanziando nuove infrastrutture del gas. Secondo il memorandum, l’ok a questi progetti può arrivare se “sono pienamente coerenti con un percorso ambizioso e ben definito verso la neutralità climatica”. Un percorso che potrebbe emergere entro novembre, visto che l’Egitto organizza la COP27.
  Non solo. Il denaro europeo potrà anche servire per sviluppare tecnologie per la riduzione delle emissioni e la decarbonizzazione del gas naturale.

(Rinnovabili.it, 10 giugno 2022)

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Israele modifica l’F-35I per colpire l’Iran

Sempre più indiscrezioni giungono da Israele relativamente a delle modifiche ad hoc agli F-35I volte ad estenderne l’autonomia per colpire in profondità nel territorio iraniano, nel contesto del rinnovato attivismo di Teheran sul fronte del suo programma nucleare. Tra queste modifiche ci sarebbe l’installazione sui piloni alari di serbatoi supplementari con aerodinamica e profilo stealth. Lockheed Martin, l’azienda che produce il velivolo, sta lavorando su questa tipologia di serbatoi stealth (da 600, 480 e 460 galloni) da diverso tempo, e adesso gli sviluppi sarebbero giunti a maturazione.
  Peraltro, questi sviluppi si accompagnano a quelli condotti sul piano interno da IAI su serbatoi di tipo conformal da 600 galloni. Un’altra modifica riguarda l’integrazione con una nuova bomba trasportabile nel vano interno dell’F-35. Si tratterebbe di una bomba con capacità “autonome” e altamente resistente alle contromisure, e potrebbe trattarsi di una variante ad hoc della SPICE 2000 sviluppata dall’israeliana Rafael. La SPICE è una famiglia di bombe standoff dotate di un sensore elettro-ottico per la guida terminale e un dataklink per le correzioni in volo e la fase intermedia e di “crociera”.
  A ciò bisogna aggiungere l’utilizzo di sofisticati algoritmi di “scene matching”. Grazie a queste modifiche, gli F-35I dell’Aeronautica Israeliana potranno condurre missioni d'attacco in Iran senza il bisogno di essere riforniti in volo. (RID - Rivista Italiana Difesa, 10 giugno 2022)

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Israeliani e palestinesi, i bambini fanno gol nella stessa squadra

Al trofeo mondiale “Manlio Selis” tredici calciatori di religioni diverse uniti dalla maglia e da un progetto sociale

di Maurizio Crosetti

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CALANGIANUS (Sassari) — I bambini arabi e i bambini israeliani corrono insieme nel maestrale del pomeriggio, la luce è sfolgorante ma loro di più. Hanno la maglietta bianca, proprio vera da calcio con i numeri e il logo (e quanta emozione, quando l'allenatore Arturo le ha distribuite), una per ciascuno ed è uguale per tutti perché qui non c'è guerra, non ci sono i campi profughi e nemmeno i territori, non c'è intifada, nessuno è nemico. Qui si gioca a pallone in una squadra sola.
  La loro si chiama "Social Goal" ed è una Babele solo apparente, perché non esiste parola al mondo che non si possa capire o tradurre, non c'è verbo che non sappia dire chi siamo. L'allenatore Arturo Aron Cohen dà indicazioni all'allenatore Mohamed che le traduce in arabo e all'allenatore Noam che le ripete in ebraico. I bambini ascoltano, ingoiano, digeriscono, i loro undici anni sono uno specchio e un lago dove tutto risplende e tutto torna. "Tzé", "ètla", cioè "esci!", vai con la palla, non ti fermare Ali, non voltarti Adam, tzé è ebraico, ètla è arabo. Loro sono tredici e sono arrivati in Gallura da Tel Aviv con scalo a Torino, e dopodomani torneranno a casa passando da Cracovia perché costa meno. Giocano nel torneo Pulcini del glorioso trofeo "Manlio Selis" e raccontano con tutte le loro bocche spalancate dallo stupore e dalle urla di felicità ("gol!", questo è esperanto) una storia memorabile: la pace e la convivenza esistono, sono una possibilità in questo abisso.
  I bambini sono palestinesi di Abu-Tor, quartiere di Gerusalemme Est, e sono arabi di Yafo, Tel Aviv. Altri sono, naturalmente, ebrei. Ci sono i musulmani e ci sono i cristiani e soprattutto ci sono gli adulti, le mamme, i papà, i nonni. "Non stiamo vivendo un'utopia e nemmeno un sogno, siamo consapevoli di essere una goccia nell'oceano ma per tre giorni questa goccia è l'oceano". Arturo spiega la potenza di un pallone, ha solo 29 anni e quasi tutti i sogni intatti: "Alla fine del Ramadan e durante la Pasqua ebraica abbiamo organizzato la festa di fine anno della nostra squadra, arabi e israeliani insieme, ai bambini abbiamo consegnato i diplomi di frequenza, le donne hanno cucinato, gli uomini hanno giocato una gran partita di trenta contro trenta fino a notte, tutto qui si mescola e a volte penso che le contraddizioni siano anche un seme. E se tutto questo è possibile io voglio ringraziare Le Coq Sportif che ci ha creduto e che ci aiuta moltissimo, così come gli Inter Campus".
  Nessuno di questi bambini aveva mai giocato su un campo di calcio vero, è l'asfalto il luogo dei loro allenamenti, uno a settimana, a volte due, oppure il parco pubblico. Ma quanto hanno corso perfettamente sul sintetico di Calangianus, a pochi chilometri da dove viveva Fabrizio De Andrè, la terra delle sughere, la Sardegna selvaggia dei cisti fioriti di bianco sotto un cielo di nuvole. Un famoso campione, David Suazo, qui a nome della Fifa, ha dato il cinque a tutti e ha detto: "Voi oggi siete un piccolo pezzo di storia, di inclusione, di amicizia, di felicità, siete una vittoria entusiasmante per tutti noi".
  Quando sono arrivati gli scatoloni con le divise, è come se i bambini avessero scoperchiato un tesoro. Quanto era arancione, quella del portiere. Il numero 14 ha anche pianto ma solo un poco. Prima avevano scoperto la pasta al sugo, c'è chi ne ha preso due volte. Poi via a giocare in sette contro sette, le porte semoventi, le magliette a svolazzare nel vento e il cuore dentro, ma quello non si riesce a dire quanto ballasse. "Ho visto i nostri bambini consapevoli di rappresentare l'orgoglio di una terra sola, di un popolo solo, che bello se ci provassero anche gli adulti pur tra le incomprensioni e le parole che mancano. Per noi il calcio è un intervento educativo tra popoli in conflitto ed è un segno, una presenza dove vivere è più difficile".
  Questioni irrisolte e soluzioni da inventare, non è il migliore dei mondi possibili ma è così che il mondo migliora. Il progetto "Social Goal for Peace" adotta squadre e mantiene vive iniziative sociali che nessuno azzarderebbe. Trecento bambini giocano a calcio insieme dalla prima elementare, oppure a basket e pallamano, e nei momenti di maggiore tensione può accadere che le famiglie li tengano a casa per un poco, da entrambe le parti succede ma poi tutti tornano e si ricomincia. Prima di partire per l'Italia, spiega Arturo che i suoi giocatori erano un po' giù: "Si sentivano inadeguati, non vinceremo mai, ripetevano, e il sogno era segnare almeno un gol". Invece ne sono venuti parecchi di più, per non dire degli applausi. "E si sono messi a imparare più parole possibili, anche qualcuna in italiano. Per esempio: grazie mille".
  Per quasi tutti era il primo viaggio all'estero, il primo volo in aereo, e quanta fatica passare i controlli in partenza a Tel Aviv per quelli col passaporto giordano e il visto israeliano, e il timbro del nostro ministero degli Esteri. Ore e ore di attesa, una bibita, le patatine nel tubo grosso che la parola giusta per chiederle si trova sempre. Tre partite, tre successi, ieri sera a Calangianus. La prima, i ragazzini della Babele che non esiste l'hanno vinta 3-0 e Ali ha fatto una doppietta, invece il terzo gol l'ha segnato Cristo. Ali è palestinese, Cristo è ebreo: conta qualcosa?

(la Repubblica, 10 giugno 2022)

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Mondiali, i tifosi israeliani potranno entrare in Qatar per assistere alle partite

Lo hanno comunicato tre ministri del governo Bennett. "L'amore per il calcio connette gli Stati e apre una porta per rafforzare i legami tra nazioni".

I tifosi e gli appassionati di calcio israeliani potranno assistere alle partite del Mondiale che questo inverno si giocherà in Qatar. La comunicazione ufficiale è arrivata giovedì da parte di tre ministri israeliani. Una mossa che aprirebbe "una nuova porta" a un Paese con cui Israele non ha attualmente relazioni diplomatiche formali.
  L'accordo, arrivato dopo mesi di colloqui con la Fifa, è stato annunciato dal ministro degli Esteri israeliano, Yair Lapid, dal ministro della Difesa, Benny Gantz, e dal ministro dello Sport, Chili Tropper. "L'amore per il calcio e lo sport - ha spiegato Lapid - connette persone e Stati. La Coppa del Mondo di novembre apre una nuova porta per rafforzare i legami".
  La nazionale israeliana non è riuscita a qualificarsi per la fase finale del Mondiale. Il Qatar, piccolo ma ricco Stato arabo del Golfo, ospiterà per la prima volta nella storia la Coppa del Mondo in Medio Oriente. Gli organizzatori del torneo hanno affermato più volte che tutte le nazionalità sono le benvenute. Tutti i possessori dei biglietti delle partite devono richiedere la "Hayya Card", una sorta di tessera del tifoso che serve anche da visto d'ingresso in Qatar.
  A differenza di Stati vicini come Bahrain ed Emirati Arabi Uniti, che hanno recentemente firmato accordi storici con Israele, il Qatar deve ancora normalizzare le relazioni con Israele. Il Mondiale potrebbe essere un'occasione per avvicinarsi.

(la Repubblica, 10 giugno 2022)

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"Disegnare l’ebraico". L’alfabeto è arte

Al Meis 27 illustrazioni firmate da 16 studenti e due docenti dello Ied di Roma, nelle sale le rielaborazioni originali delle lettere.

di Francesco Franchella

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Fare arte con l’ebraico. Perché l’arte è (quasi) sempre un intreccio di simboli e l’alfabeto ebraico è carico di simbolismo, di rimandi. È stata presentata ieri la mostra ospitata al Meis - Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah, "Disegnare l’ebraico. Interpretazione artistica dell’Alef Bet". Un progetto con l’Ambasciata d’Israele in Italia e l’Istituto Europeo di Design di Roma, per promuovere la conoscenza dell’ebraico.
  La presentazione è avvenuta alla presenza degli assessori comunali Kusiak e Gulinelli, del presidente di Ferrara Arte Vittorio Sgarbi, della consigliera regionale Marcella Zappaterra, del rabbino capo di Ferrara Luciano Meir Caro, del prefetto Rinaldo Argentieri, dell’architetto Giulia Gallerani, dell’artista Tobia Ravà, del presidente del Buskers Festival, ideatore del Museo Internazionale delle Ghise di Ferrara e delle altre autorità cittadine.
  L’esposizione si trova nel padiglione di accesso del museo (nel Giardino delle Domande): sono presenti 27 illustrazioni firmate da 16 studenti e due docenti dello Ied di Roma, che accoglieranno i visitatori con rielaborazioni originali delle lettere dell’alfabeto ebraico. Ogni lettera è accompagnata da un testo di approfondimento dedicato ai significati nascosti. Le illustrazioni sono il frutto di workshop e incontri dedicati alle diverse sfaccettature della lingua ebraica, indirizzati agli studenti del secondo anno del corso di Illustrazione e Animazione dello Ied. Le lezioni hanno visto la partecipazione di S.E. Dror Eydar, ambasciatore di Israele in Italia; Smadar Shapira e Maya Katzir, rispettivamente consigliere per gli affari pubblici e addetta culturale dell’ambasciata d’Israele in Italia, di Amedeo Spagnoletto, direttore del Meis e Sofèr (parola ebraica con cui si indica lo scriba di testi sacri ebraici), e di Ely Rozenberg, designer israeliano e Coordinatore dei corsi di Design alla Rome University of Fine Arts.
  Inoltre, esposto nel giardino del Meis e come ulteriore collegamento con Israele c’è anche un tombino d’artista che racconta in maniera insolita le tante attrazioni della città Tel Aviv-Giaffa. Dopo l’esposizione al Meis, il prototipo entrerà a far parte della collezione del Museo Internazionale delle Ghise di Ferrara ideato da Stefano Bottoni nel 2003. "Vogliamo ricordare – così Amedeo Spagnoletto, direttore del Meis - come l’ebraico sia sopravvissuto, nonostante la dispersione del popolo per due millenni, grazie alla tenacia di una diaspora che ha mantenuto intatto il rapporto con la lingua biblica, facendone uno dei pilastri della propria identità di generazione in generazione e custodendo l’alfabeto come un tesoro".
  E dopo i discorsi di Smadar Shapira, Stefano Bottoni, Tobia Ravà e Max Giovagnoli, coordinatore della Scuola di Arti Visive Ied di Roma, è intervenuto lo stesso Sgarbi, che ha annunciato: "Nella prima mostra di riapertura di Palazzo dei Diamanti, vorrei dedicare un segmento a certi capolavori del Rinascimento, che vedono iscrizioni, lapidi, simboli ebraici: una prova del sincretismo storico tra la comunità ebraica e Ferrara".

(il Resto del Carlino, 10 giugno 2022)

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La Corte Suprema d’Israele respinge definitivamente il ricorso del Patriarcato ortodosso sugli immobili acquisiti da Ateret Cohanim

GERUSALEMME – La Corte Suprema d’Israele ha posto fine in via definitiva alle annose battaglie legali intentate dal Patriarcato greco ortodosso di Gerusalemme per annullare l’acquisizione da parte dell’organizzazione ebraica radicale Ateret Cohanim di tre prestigiosi immobili situati nella Città Vecchia di Gerusalemme, immobili un tempo appartenenti al Patriarcato e situati nella Città Vecchia di Gerusalemme. Il rilevante pronunciamento del supremo organismo giudiziario israeliano, avvenuto mercoledì 8 giugno, ha confermato la sentenza precedentemente disposta da una Corte di grado inferiore, che si era già pronunziata sulla inconsistenza delle prove e degli argomenti giuridici a base dell’azione legale intentata dal Patriarcato greco-ortodosso. I giudici Daphne Barak Erez, David Mintz e Shaul Shohat – riportano i media israeliani - hanno affermato di non aver trovato "nessun errore" nella precedente sentenza emessa dal tribunale distrettuale di Gerusalemme che nel 2020 aveva respinto una richiesta del Patriarcato greco ortodosso di riaprire il caso sulla base di nuove prove attestanti – a giudizio dei legali del Patriarcato il "comportamento delinquente, che include l'estorsione e frode” messo in atto da Ateret Cohanim per entrare in possesso degli immobili contesi.
  L’organizzazione Ateret Cohanim è stata più volte coinvolta in controverse acquisizioni di beni immobiliare registrate negli ultimi decenni a Gerusalemme Est, in particolare nel quartiere cristiano della Città Vecchia. “Stiamo parlando” ha dichiarato alle agenzie internazionali Asaad Mazawi, Avvocato del Patriarcato greco ortodosso “di un gruppo di estremisti che vogliono sottrarre le proprietà alle Chiese, vogliono cambiare il carattere della Città Vecchia e vogliono invadere le aree cristiane”. In una dichiarazione diffusa dopo la sentenza della Corte Suprema, il Patriarcato greco ortodosso di Gerusalemme ha confermato l’intenzione di continuare a sostenere i dipendenti palestinesi che ancora si trovano all’interno degli immobili contesi, richiamando l’urgenza di contrastare la "politica razzista e l'agenda dell'estrema destra in Israele". Secondo quanto riportato dai media israeliani, Ateret Cohanim si sta preparando a sfrattare gli inquilini presenti nelle proprietà contese.
  Due dei tre edifici in questione, l’Hotel “Petra” e l’Hotel “Imperial”, si trovano nei pressi della Porta di Giaffa, considerata l’entrata più diretta per accedere al quartiere cristiano della Città Vecchia di Gerusalemme. La terza proprietà, sempre situata nel quartiere cristiano, è nota come “Muzamiya House”. La vendita dei tre immobili, come riferito dall’Agenzia Fides (vedi Fides 26/6/2020), era avvenuta nel 2004, e la notizia della cessione aveva provocato proteste e malumori in seno alla comunità cristiana greco ortodossa, culminati con la deposizione del Patriarca Ireneo I da parte del Santo Sinodo con l’accusa di alienazione indebita di immobili del Patriarcato.
  Nell’agosto 2017 la Corte distrettuale di Gerusalemme aveva già respinto le iniziative legali con cui il Patriarcato greco ortodosso di Gerusalemme aveva tentato di far riconoscere come “illegali” e “non autorizzate” le acquisizioni dei tre immobili contesi da parte di Ateret Cohanim. Dopo quella sentenza, i Patriarchi e i Capi delle Chiese di Gerusalemme avevano firmato un documento congiunto (vedi Fides 5/9/2017) in cui denunciavano il “tentativo sistematico per minare l'integrità della Città Santa” e “per indebolire la presenza cristiana in Terra Santa”. Un progetto che, a giudizio dei Capi delle Chiese di Gerusalemme, si manifestava anche nelle “violazioni dello Status Quo” dei Luoghi Santi. Nel loro documento congiunto, firmato anche da Theophilos III, Patriarca greco ortodosso di Gerusalemme, e dall'Arcivescovo Pierbattista Pizzaballa,a quel tempo Amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme, si esprimeva ferma opposizione a “qualsiasi azione” messa in atto da “qualsiasi autorità o gruppo” che abbia l'effetto di violare e minare “leggi, accordi e regolamenti che hanno disciplinato la nostra vita per secoli”.
  Il Patriarcato ortodosso di Gerusalemme aveva presentato ricorso contro la sentenza del 2017 presso la Corte suprema d’Israele, che il 10 giugno 2019 aveva confermato la regolarità del passaggio di proprietà degli immobili, legittimamente acquistati da intermediari stranieri che agivano per conto di Ateret Cohanim. Poi, nel dicembre 2019, il contenzioso legale si era riaperto, dopo che un giudice del Tribunale distrettuale di Gerusalemme aveva messo in discussione il precedente pronunciamento della Corte suprema, aprendo di fatto alla possibilità di dare inizio a un nuovo processo sulla controversa questione. Adesso, l’ennesimo pronunciamento della Corte Suprema d’Israele sembra segnare la fine definitiva del braccio di ferro intorno agli immobili contesi della Città Vecchia di Gerusalemme.

(Agenzia Fides, 10 giugno 2022)

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Emirati-Israele: visita a sorpresa del premier Bennett ad Abu Dhabi

Durante la giornata, il primo ministro incontrerà privatamente il presidente degli Emirati, lo sceicco Mohammed Bin Zayed, nel suo palazzo. I due terranno anche un incontro di lavoro con la partecipazione delle rispettive delegazione per discutere di varie questioni regionali.

Il primo ministro di Israele, Naftali Bennett, è giunto ad Abu Dhabi per incontrare il presidente degli Emirati Arabi Uniti, lo sceicco Mohammed Bin Zayed al Nahyan, nel quadro di una visita non annunciata. Lo riferisce un comunicato stampa dell’ufficio di Bennett. Al suo arrivo negli Emirati, Bennett è stato accolto da una guardia d’onore e dal ministro degli Esteri, lo sceicco Abdullah Bin Zayed al Nahyan. Durante la giornata, il primo ministro incontrerà privatamente il presidente degli Emirati, lo sceicco Mohammed Bin Zayed, nel suo palazzo. I due terranno anche un incontro di lavoro con la partecipazione delle rispettive delegazione per discutere di varie questioni regionali.
  Si tratta del terzo incontro tra Bennett e il neo presidente emiratino negli ultimi mesi. Si erano incontrati, infatti, in precedenza ad Abu Dhabi lo scorso dicembre e in Egitto lo scorso marzo. Prima di decollare alla volta degli Emirati, Bennett ha dichiarato: “Esprimerò alla famiglia reale le mie condoglianze e quelle del popolo israeliano per la scomparsa del presidente Sheikh Khalifa Bin Zayed che ha contribuito a spianare la strada alla partnership tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti; la stessa partnership che rafforzeremo oggi”. Israele ed Emirati hanno avviato le relazioni diplomatiche con la firma degli Accordi di Abramo, avvenuta a Washington il 15 settembre 2020.
  Parlando dell’incontro previsto con Mohammed Bin Zayed, Bennett lo ha definito “un uomo lungimirante e un leader coraggioso. Oggi, insieme, porteremo il legame speciale che è stato intessuto tra i nostri Paesi al livello successivo, per la crescita e la sicurezza di entrambi i nostri popoli”.

(Agenzia Nova, 9 giugno 2022)

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Attacco alla Sinagoga di Roma, la svolta 40 anni dopo: "L'esecutore è lo stesso della strage di Parigi"

Vertice tra gli inquirenti dei due Paesi dopo l’arresto di Abou Zayed, 63 anni: “Uguali le armi usate”. Gli attentati a due mesi di distanza. Summit per condividere gli atti delle inchieste: aperto un nuovo fascicolo.

di Giuliano Foschini ,  Giuseppe Scarpa

Un nome, quello del palestinese Abu Zayed. Uno stesso gruppo di fuoco, che ha colpito il 9 agosto 1982 il ristorante ebreo Jo Goldenderg di Parigi, ammazzando sei persone. E che tre mesi dopo, il 9 ottobre 1982, ha attaccato la sinagoga di Roma, uccidendo un bambino di 2 anni, Stefano Gaj Taché, e ferendo 37 tra uomini e donne. Una perizia comparativa che indica come a Parigi e a Roma potrebbero essere state utilizzate le stesse armi. Una pista rimasta fredda per anni, da quando, nel 2015, i francesi scrissero all'Italia dopo aver chiesto l'arresto di Zayed. E che invece ora si è improvvisamente riscaldata: un incontro tra investigatori italiani e francesi c'è già stato, e altro potrebbe accadere nelle prossime settimane. L'inchiesta sull'attentato alla sinagoga di Roma è a una svolta.
  La procura di Roma aveva deciso di riaprire il fascicolo dopo la desecretazione di alcuni atti dell'inchiesta di 40 anni fa, e dopo l'intervista fatta da Repubblica alla vecchia fidanzata dell'unico condannato per quella strage, Osama Abdel Al Zomar, arrestato mentre cercava di passare il confine fra Grecia e Turchia. E poi sparito nel nulla. Il pm Francesco Dell'Olio, insieme alla Digos di Roma, ha ripreso così in mano una serie di documenti che i colleghi francesi avevano inviato negli ultimi sette anni, con richieste di informazioni. Nel 2015, 33 anni dopo i fatti, la Francia aveva infatti spiccato un mandato di cattura internazionale per i tre presunti attentatori, ottenendo nel 2020 l'estradizione per l'unico di loro che ancora viveva in Europa, Zayed appunto, che da tempo si era trasferito a Oslo. Ad accusarlo un pentito, che aveva offerto elementi molto precisi sull'accaduto. "Sono innocente, in quel periodo ero a Montecarlo, non a Parigi", si è sempre difeso Zayed.
  Il punto è che i francesi sono convinti che le prove siano schiaccianti. Ne sono certi perché il racconto del pentito è preciso, puntuale. E colloca Zayed anche a Roma nell'estate dell'82. Ne sono convinti perché tra le prove c'è anche la singolare somiglianza tra le armi utilizzate: in entrambi i casi infatti sono state prima lanciate delle granate, e poi sparati dei colpi con armi automatiche. Ed è a partire da questa "coincidenza" che gli investigatori romani hanno deciso di fare chiarezza. L'incontro delle scorse settimane con i colleghi francesi è un primo passo di scambio di informazioni. L'obiettivo è ambizioso: la Digos di Roma può usare i moderni strumenti di indagine per fare chiarezza su un'inchiesta che nei quarant'anni precedenti ha avuto troppi punti oscuri.
  Per rendersene conto basta leggere i documenti resi noti con la desecretazione degli atti classificati. Ne è emerso, per esempio, come nonostante 18 segnalazioni dei nostri Servizi proprio nei giorni precedenti - dal 18 giugno al 2 ottobre '82 - su possibili attentati contro le sinagoghe in Italia, nessuno avesse alzato il livello di allerta. Anzi: proprio il giorno dell'attacco, il 9 ottobre, la sinagoga di Roma era senza alcun presidio. Nemmeno l'auto dei carabinieri o della polizia che, abitualmente, stazionava in occasione di ogni celebrazione religiosa. Perché non c'era proprio quel giorno? Nessuno sa poi che fine abbia fatto Al Zomar, l'unico condannato per l'attentato. Arrestato, è sparito nel nulla. Repubblica 40 anni dopo ha intervistato la sua fidanzata dell'epoca, grazie alla testimonianza della quale la Polizia riuscì a individuarlo: si è detta convinta che quello studente palestinese, seppur brillante e di grande carisma, non avrebbe mai potuto organizzare tutto da solo. "È chiaro che c'era qualcuno che li guidava. Non so chi. Ma da cittadina italiana vorrei saperlo". È la risposta che la Procura di Roma sta cercando, quarant'anni dopo.

(la Repubblica, 9 giugno 2022)


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Stesso commando a Roma e Parigi. Le nuove rivelazioni sull’attentato alla Sinagoga dell’82

di Elisabetta Fiorito

“Sorpreso non direi. Sono 40 anni che attendiamo risposte e in cuor nostro sappiamo che qualcosa di non rivelato quel giorno, nei precedenti e successivi all’attentato, era avvenuto”, così il vicepresidente della comunità ebraica di Roma, Ruben Della Rocca, commenta le nuove rivelazioni del quotidiano La Repubblica sulle connessioni tra l’attentato alla Sinagoga di Roma, il 9 ottobre dell’82 dove perse la vita il piccolo Stefano Gaj Taché e furono ferite 37 persone e quello del ristorante kasher a Parigi Joe Goldenberg il 9 agosto dell’82 dove furono uccise sei persone. Entrambi gli attentati sarebbero stati portati a termine dallo stesso gruppo terroristico palestinese facente capo ad Abu Zayed, sarebbero state usate le stesse armi. Adesso le procure di Roma e Parigi stanno indagando insieme e aprendo un nuovo fascicolo.
  “Sono amareggiato visto che sono passati 40 anni e solo ora cominciano ad affiorare elementi che potevano essere di acquisizione fondamentali a risolvere il caso ben prima”.

• Perché i documenti spuntano soltanto ora?
  È la domanda che si pone una intera comunità ebraica di Roma e alla quale vorremo una risposta certa e senza ambiguità di sorta.

• Perché non si è stato inchiodato prima Abu Zayed?
  Anche questa è una domanda che esige risposte: da chi è stato coperto Abu Zayed e perché? Forse questo è il nodo più difficile da sciogliere ma che porterebbe alle verità sul caso.

• Quali sono le vostre riflessioni alla luce delle ultime rivelazioni?
  Siamo stati sacrificati in nome di un qualcosa ed esigiamo, anche 40 anni dopo, di sapere la verità e che i colpevoli, tutti, vengano processati ed incriminati. Bene che Procura e Digos abbiano intrapreso con ancora più solerzia la strada della ricerca delle verità e la nostra comunità sarà sempre a disposizione per aiutare per quanto possibile gli inquirenti nelle indagini. L’augurio è che finalmente grazie a questo lavoro si svelino i misteri che ci accompagnano da 40 anni. È un atto dovuto nei confronti della famiglia Taché, dei feriti di quel giorno e di un’intera comunità che ancora aspetta risposte e che ancora ha il cuore gonfio di dolore per l’attentato di quel giorno.

(Shalom, 9 giugno 2022)

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Beirut chiede l’intervento Usa nella contesa con Israele sui confini marittimi

A rilanciare la questione l’ingresso nell’area della piattaforma Energean Power, che dovrà avviare le operazioni di esplorazione di gas per conto degli israeliani. Atteso l’arrivo per la prossima settimana dell’inviato statunitense Amos Hochstein. Sulla questione dei confini Hezbollah lascia campo libero allo Stato. In gioco le rispettive zone economiche esclusive.

di Fady Noun

La nave Energean mentre attraversa il canale di Suez
BEIRUT - Rimasta per mesi in uno stato di latenza, relegata ai margini delle grandi questioni regionali, la controversia riguardante la delimitazione del confine marittimo fra Libano e Israele - oggetto di negoziati indiretti sotto l’egida di Onu e Stati Uniti - è riemersa prepotente. A rilanciare il tema è stato l’arrivo nella regione della nave piattaforma Energean Power, chiamata ad avviare l’estrazione di gas nel giacimento naturale di Karish per conto di Israele. In linea di massima, la nave dovrebbe iniziare le operazioni di estrazione a partire dal terzo trimestre del 2022.
  Su invito delle autorità libanesi l’inviato Usa Amos Hochstein, responsabile della conduzione dei negoziati, è stato richiamato in tutta fretta a Beirut dove è atteso per l’inizio della settimana prossima. Secondo fonti statunitensi rilanciate dalla stampa, Hochstein aveva sospeso i negoziati nell’ottobre scorso giudicando la parte libanese ancora indecisa in merito alla delimitazione delle rispettive zone economiche esclusive (Zee) di Libano e Israele.
  A qualche giorno dall’arrivo di Hochstein, il dossier relativo alla delimitazione delle Zee si presenta nel modo seguente: la linea 1, che avvantaggia totalmente Israele e che è frutto di un errore di calcolo che risale ai primi anni 2000 (una linea peraltro totalmente abbandonata); la linea 23, adottata ufficialmente nel 2011 dal governo Mikati, dietro approvazione di un decreto (il 6433), che accorda al Libano 860 kmq in più rispetto alla versione 1, ma che è al tempo stesso contestata da Israele; vi è poi la linea Hoff, mutuata dal nome del negoziatore americano, che concede al Libano il 60% degli 860 kmq che rientrano nella zona contestata da Israele; infine, la linea 29, prospettata nel 2022, che assegna al Libano 1.430 kmq, al posto degli 860 kmq della linea 23.
  Una fonte vicina alla presidenza della Repubblica a Baabda riferisce che “il Libano è andato avanti sul dossier, mettendo da parte la linea 23, ma non ha ancora riconosciuto ufficialmente la linea 29”, atteggiamento che gli vale i duri attacchi dei suoi avversari. Questo riconoscimento passa infatti attraverso un emendamento del decreto 6433 e la sua consegna alle Nazioni Unite. Per il momento, il Libano non ha ancora firmato questo emendamento, accontentandosi di inviare una lettera ufficiale al Consiglio di sicurezza Onu in materia, un approccio che in termini di diritto non è sufficiente e non basta agli occhi delle Nazioni Unite. A Baabda ci si rende sempre più conto che le rivendicazioni relative a una parte del giacimento di Karich, attraverso l’adozione della linea 29, metterebbe il Libano in una posizione di confronto diretto con Israele e finirebbe per paralizzare i negoziati per un periodo indefinito. Il tutto contando anche sul fatto che il Libano faccia affidamento sulle proprie risorse di gas, per uscire dall’impasse finanziaria in cui è precipitato.
  Messi di fronte al fatto compiuto per l’arrivo della piattaforma, il capo dello Stato e il primo ministro in carica hanno assunto l’iniziativa e fatto sapere, attraverso un comunicato congiunto, che tutte le opere “di esplorazione, di perforazione o di estrazione effettuate da Israele nelle aree contese costituiscono una provocazione e un atto di aggressione”. Tuttavia la “tendenza”, spiega a L’Orient-Le Jour (LOJ) la giornalista Scarlett Haddad, vicina a Baabda, “è di privilegiare i colloqui e, per la prima volta, tutte le parti li invocano”.
  Mentre si apprestava a raggiungere il sito del giacimento di gas di Karich, rivendicato da Israele, la nave Energean Power non si è avvicinata alla linea 29 rivendicata da una parte dei libanesi come limite meridionale della propria zona esclusiva”. Inoltre, la giornalista rivela che i responsabili dell’imbarcazione si sono premuniti di “farlo sapere alle autorità libanesi, attraverso dei canali riservati usando grande discrezione”. “Allo stesso modo - aggiunge - il partner principale della società proprietaria del mezzo, la grande azienda Usa Halliburton, ha avviato contatti per scongiurare qualsiasi possibilità di confronto (e scontro) tra Libano e Israele”.
  Da parte sua Hezbollah ha fatto sapere attraverso numerosi canali pubblici o riservati che resta al coperto facendo muovere lo Stato libanese in questa storia, precisa ancora la fonte sopracitata. Perché è sola responsabilità dello Stato quella di delimitare le frontiere del Paese, e solo quando queste linee saranno tracciate allora il partito sciita riterrà “proprio dovere” proteggere i confini. Ma fino ad allora, non intende esprimere alcun parere o posizione su questa vicenda, come non intende nemmeno partecipare a negoziati indiretti tra Libano e Israele.
  Una fonte indipendente afferma che la questione delle risorse energetiche, e delle fonti di gas nel Medio oriente, è destinata a diventare di una attualità drammatica in una fase storica dominata dalla guerra in Ucraina e dai bisogni in tema di energia, soprattutto da parte dell’Europa. “Le prospettive - affermano gli esperti - sono favorevoli per uno sfruttamento sereno del gas”. Da parte sua, il ministro israeliano dell’Energia Karin Elharrar, interpellato dall’agenzia Reuters, ha sottolineato nei giorni scorsi che le rivendicazioni libanesi sono “molto lontane dalla realtà dei fatti”. E alla domanda sulla prospettiva di una possibile escalation, Karin Elharrar ha detto: “Non ci siamo affatto. In realtà, il divario (tra retorica e realtà) è tale che non credo finirebbero per passare all’azione. Israele - ha aggiunto - si sta preparando (e) invito tutti a non cercare di sorprendere Israele” con mosse avventate.
  Sullo sfondo gli Stati Uniti, che per ora non hanno voluto rilasciare commenti ufficiali sulla situazione nell’immediato, rimanendo dietro le quinte.

(AsiaNews, 9 giugno 2022)

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Iran, ministero degli Esteri: “La risoluzione dell’Aiea indebolirà la cooperazione”

Secondo la diplomazia della Repubblica islamica, “la risoluzione è stata preparata in seguito a un rapporto frettoloso e sbilanciato del direttore dell’Aiea e sulla base di informazioni inventate fornite dal regime sionista”.

Il ministero degli Esteri dell’Iran ha bocciato la risoluzione del Consiglio direttivo delle 35 nazioni dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) delle Nazioni Unite che critica Teheran per non aver saputo fornire spiegazioni alle tracce di uranio trovate in tre siti non dichiarati. Lo riferisce un comunicato stampa della diplomazia iraniana, secondo cui la mossa dell’Aiea “non produrrà risultati, ma indebolirà la cooperazione del Paese con l’agenzia”. Secondo la diplomazia della Repubblica islamica, “la risoluzione è stata preparata in seguito a un rapporto frettoloso e sbilanciato del direttore dell’Aiea e sulla base di informazioni inventate fornite dal regime sionista (Israele)”. Teheran respinge dunque la risoluzione redatta da Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Germania, definendola una mossa “sbagliata, politica e non costruttiva”. L’Iran, sulla base di un accordo annunciato il 5 marzo 2022, “ha mostrato la sua buona volontà di collaborazione con l’Aiea, presentando dati tecnici precisi”. Inoltre, secondo Teheran, l’Aiea “avrebbe dovuto adottare una posizione indipendente, imparziale e professionale al fine di adottare una misura realistica e costruttiva sulle questioni di salvaguardia che, come ammesso dalla stessa Aiea, non avevano alcun problema di proliferazione”.
  Il Consiglio direttivo delle 35 nazioni dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica delle Nazioni Unite ha approvato ieri una risoluzione molto dura nei confronti dell’Iran. Solo due Paesi, Russia e Cina, si sarebbero opposti al testo mentre 30 avrebbero votato a favore e tre avrebbero scelto di astenersi, stando a quanto si apprende. Il testo della risoluzione afferma che il consiglio “esprime profonda preoccupazione”, dato che le tracce rimangono inspiegabili a causa dell’insufficiente cooperazione da parte dell’Iran e invita le autorità di Teheran a impegnarsi a collaborare “senza indugio”. In risposta alla risoluzione dell’Aiea, Teheran ha annunciato di avere disattivato due telecamere di sorveglianze dell’Aiea in un sito non identificato che, tuttavia, potrebbe essere uno fra Fordo o Natanz.
  I governi di Stati Uniti, Francia, Germania e Regno Unito hanno diffuso un comunicato congiunto a sostegno di una risoluzione approvata ieri dal consiglio dei governatori dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), nella quale si lamenta “l’insufficiente cooperazione” dell’Iran sul fronte della sicurezza nucleare. L’Aiea ha criticato in particolare la scarsa collaborazione dell’Iran in merito alle “serie e pressanti questioni di sicurezza pertinenti gli obblighi dell’Iran nell’ambito dell’accordo sulle salvaguardie richieste dal Trattato di non proliferazione”. Secondo il comunicato congiunto, la risoluzione approvata ieri dall’Aiea “riafferma il sostegno del Consiglio dei governatori agli sforzi indipendenti, imparziali e professionali dell’Aiea per tutelare il sistema di salvaguardie internazionali essenziale alla nostra sicurezza collettiva”. Stati Uniti, Francia, Germania e Regno Unito “sollecitano l’Iran a recepire le sollecitazioni della comunità internazionale a rispettare i propri obblighi legali e cooperare con l’Aiea per chiarire e risolvere interamente le questioni senza ritardi”.
  Israele accoglie con favore la risoluzione adottata oggi dal Consiglio dei governatori dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) che invita l’Iran ad adempiere urgentemente ai suoi obblighi legali nel contesto delle violazioni delle sue salvaguardie. Lo riferisce una nota dell’ufficio del primo ministro di Israele, Naftali Bennett. Il Consiglio direttivo delle 35 nazioni dell’Aiea ha approvato ieri una risoluzione che critica l’Iran per non aver saputo fornire spiegazioni alle tracce di uranio trovate in tre siti non dichiarati. “La decisione del Consiglio è un primo e necessario passo verso l’obiettivo di ripristinare il rispetto da parte dell’Iran dei suoi obblighi di salvaguardia”, secondo le autorità israeliane. Inoltre, per Israele “è giunto il momento per la comunità internazionale di sostenere l’integrità e la professionalità dell’agenzia e di agire contro l’Iran con tutti i mezzi a sua disposizione. L’Iran non ha mai cessato di sviluppare capacità nucleari militari e continua a violare sistematicamente tutti i suoi impegni internazionali e sta lavorando instancabilmente per nascondere le prove e interrompere le indagini al fine di ingannare la comunità internazionale”. La decisione dell’Aiea è un “chiaro monito” all’Iran: “Se continua le sue attività, i Paesi devono sottoporre la questione al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite”, fa sapere l’ufficio di Bennett.
  Da parte sua, la Cina ha contestato l’adozione di una risoluzione da parte dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) contro l’Iran, criticato per non aver saputo fornire spiegazioni in merito alle tracce di uranio rilevate presso tre siti non dichiarati. “Incrementare le pressioni sull’Iran non contribuirà a risolvere la questione nucleare, ma intensificherà le tensioni e precipiterà la situazione”, ha dichiarato ieri il vice rappresentante della missione cinese alle Nazioni Unite di Vienna, Wang Chang, a margine della votazione da parte del Consiglio direttivo dell’Aiea. Una mossa “così ostile da parte del consiglio comprometterà solo la cooperazione Iran-Aiea e minerà i negoziati per rilanciare l’accordo nucleare iraniano del 2015, che è nella fase critica finale”, ha aggiunto il funzionario. Il delegato cinese ha attribuito nuovamente agli Stati Uniti la responsabilità diretta della crisi nucleare iraniana, sollecitandoli a intraprendere “tempestive decisioni” per raggiungere quanto prima l’accordo sul nucleare.

(Nova News, 9 giugno 2022)

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Vaccini anti-Covid e problemi cardiaci: in Israele è allarme tra i giovani

È stata rilevata una corrispondenza fra la somministrazione dei vaccini e l’aumento del 25% delle chiamate per problemi cardiovascolari nella fascia d’età 16-39 anni. Broccolo: «Sono dati del mondo reale, non estrapolati dai trial».

Dopo tante ipotesi e teorie sulla possibile correlazione tra patologie cardiache e somministrazione di vaccini, da Israele arriva un dato preoccupante. Nel Paese che secondo i nostri governi doveva e deve essere preso a modello per la vaccinazione di massa, si registra un aumento delle patologie cardiache. Come riporta l’Ansa «è stata rilevata una corrispondenza fra la somministrazione dei vaccini anti Covid-19 e l’aumento del 25% delle chiamate per problemi cardiovascolari, da parte di giovani e adulti fra 16 e 39 anni, arrivate alle strutture di pronto soccorso in Israele fra gennaio e maggio 2021, rispetto ai periodi pre-pandemia e pre-vaccini». Il dato è pubblicato sulla rivista Scientific Reports da Christopher Sun e Retsef Levi del Massachusetts Institute of Technology e da Eli Jafe del Servizio di medicina di emergenza di Israele a Tel Aviv.
  Per il virologo Francesco Broccolo, dell’Università di Milano Bicocca, la novità di questo studio è nel fatto che «si basa su dati del mondo reale, non estrapolati dai trial». La ricerca si è strutturata sulle chiamate giunte alle strutture di pronto soccorso di Israele in seguito a casi di arresto cardiaco e sindrome coronarica acuta, registrate a ritmo settimanale e le cui relative diagnosi sono state in seguito verificate. Le segnalazioni considerate nella ricerca comprendono tre periodi: il primo, precedente la pandemia di Covid-19, comprende il 2019 fino a febbraio 2020, il secondo corrisponde al periodo della pandemia nel quale non erano ancora disponibili i vaccini (marzo-dicembre 2020) e il terzo va da gennaio a maggio 2021, quando in Israele erano state somministrate le prime e le seconde dosi dei vaccini anti Covid-19 a Rna messaggero (mRna).
  È emerso che in quest’ultimo periodo, rispetto ai precedenti, le chiamate al pronto soccorso da parte di persone di età compresa fra 16 e 39 anni per problemi cardiovascolari sono aumentate del 25% rispetto ai due periodi precedenti. Alla luce di questa situazione, secondo gli autori della ricerca la sorveglianza è d’obbligo e dovrebbe considerare le chiamate alle strutture di pronto soccorso accanto ad altri dati sanitari e indagare le possibili cause. «I dati riportati in questa ricerca sono in accordo con quanto finora si è osservato in Germania e in Scozia, come rilevano gli autori del lavoro – osserva Broccolo – È un risultato che dovrebbe sollevare l’attenzione da parte dei medici e dei soggetti vaccinati sui segni clinici riportati nella popolazione della fascia d’età compresa fra 16 e 39 anni».

(Pickline, 9 giugno 2022)

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L'ambasciatore d'Israele è ancora in Calabria: "Ha grandi potenzialità, se risolvono alcuni problemi il futuro è ricco"

L’ambasciatore d’Israele in Italia Dror Eydar in visita in Calabria, ha incontrato il Presidente di Confindustria Ing. Domenico Vecchio, con il quale ha ampiamente discusso su eventuali possibili soluzioni in alcuni settori, come ad esempio quello industriale, dell’agricoltura e della sicurezza, per dare una mano alle imprese reggine.
  “Abbiamo rappresentato quello che sono oggi le nostre aziende, le nostre importanti realtà, che sono affini a quelle del Popolo israeliano. Abbiamo chiesto all’ambasciatore – ha commentato il presidente Vecchio – un intervento importante ed incisivo di collaborazione con la nostra realtà imprenditoriale, e devo dire che abbiamo intravisto da subito grande interesse e disponibilità. Sappiamo che la loro tecnologia israeliana è la più all’avanguardia a livello mondiale, in tanti settori, nella sicurezza informatica, nella sicurezza bancaria, nell’agricoltura, quindi noi non possiamo che trarre vantaggio da questa collaborazione, ma anche loro da noi, visto il grande potenziale che la nostra terra offre”.
  E, infatti, l’ambasciatore Eydar ci ha tenuto a sottolineare la bellezza e la grande forza della regione. “Secondo me la Calabria ha un grande potenzialità e grandi possibilità di crescita in futuro, soprattutto dal punto di vista del turismo e dell’agricoltura. Questa terra con le soluzioni israeliane può ottenere grandi risultati, e noi vogliamo accettare questa sfida. Abbiamo aziende che possono duplicare o triplicare i prodotti di ogni campo, senza aumentare il territorio, siamo forti nel settore dell’energia solare, nella sicurezza bancaria e degli aeroporti, ma anche nella medicina, in particolare la telemedicina, che grazie alla tecnologia più avanzata nel mondo può portare il servizio sanitario anche in posti molto lontani e difficili da raggiungere. Sono sicuro – ha concluso l’ambasciatore – che se si risolveranno alcuni problemi il futuro di Calabria sarà molto ricco.”

(Il Mattino, 8 giugno 2022)

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Contrario alla guerra in Ucraina, scappa da Mosca il Rabbino capo

Contrario alla guerra in Ucraina, scappa da Mosca il Rabbino capo. A darne notizia è stata la nuora. Nella capitale resta Berel Lazar.

ROMA – L’esilio del rabbino capo di Mosca Pinchas Goldschmidt, figura centrale nella comunità ebraica russa, è considerato un passo “spaventoso” da numerosi commentatori, visto in un contesto più ampio di fuga ed emigrazione degli ebrei russi dalla Russia. Il Capo rabbino di Mosca dal 1993 e presidente della Conferenza dei rabbini europei dal 2011 avrebbe lasciato Mosca, dopo aver preso le distanze dalla guerra in Ucraina, nella prima metà di marzo anche se a darne notizia solo ieri è stata la nuora, la giornalista Avital Chizhik-Goldschmidt.
  Lo ha reso noto in una serie di tweet che hanno portato a galla quello che già da tempo si temeva, soprattutto dopo alcuni commenti rilasciati in un’intervista a Rete 4 dal ministro degli Esteri Sergei Lavrov proprio sugli ebrei. “Posso finalmente condividere che i miei suoceri, il rabbino capo di Mosca Rabbi Pinchas Goldschmidt e Rebbetzin Dara Goldschmidt, sono stati messi sotto pressione dalle autorità (russe, ndr) per sostenere pubblicamente l'”operazione speciale” in Ucraina e hanno rifiutato. Sono andati in Ungheria due settimane dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Ora sono in esilio dalla comunità che hanno amato e dove hanno cresciuto i loro figli, per oltre 33 anni”, ha scritto la nuora.
  A Mosca resiste invece il rabbino Berel Lazar “che ironia della sorte ha le sue radici in Ucraina. L’uomo, si dice, ha stipulato un tacito contratto con il presidente russo in merito al Cremlino, che garantisce la sicurezza della comunità in cambio di sostegno politico” ha scritto ieri Le Figaro.

(askanews, 8 giugno 2022)

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Il Libano teme una nuova guerra con Israele

Dopo l'Ucraina un nuovo conflitto armato su scala regionale rischia di delinearsi all'orizzonte europeo, ma questa volta nel Mediterraneo orientale, dove gli Hezbollah libanesi, principali alleati dell'Iran in Medio Oriente, minacciano in queste ore di ricorrere alla forza contro Israele. Uno scenario che era stato anticipato il mese scorso all'ANSA da un quadro militare di Hezbollah, e che spaventa moltissimi libanesi, memori della devastante guerra dell'estate del 2006 tra lo Stato ebraico e il Partito di Dio.

(ANSA, 8 giugno 2022)

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La crisi del governo Bennett si fa più profonda con due nuove sconfitte alla Knesset

di Ugo Volli

• L’AGONIA DELLA COALIZIONE DI GOVERNO
  Due nuove sconfitte parlamentari per la sempre più traballante coalizione di governo israeliana presieduta da Naftali Bennett hanno segnato l’inizio di una settimana politica che promette di essere molto agitata. Entrambe dipendono da peculiarità del sistema politico israeliano, che possono riuscire poco chiare a un italiano, ma sono destinate ad avere conseguenze politiche importanti.

• LA MANCATA RICONFERMA DI KAHANA
  La prima riguarda un fedelissimo di Bennett, Matan Kahana, che come ministro dei servizi religiosi ha tentato durante l’anno in carica riforme, discusse e accolte da durissime polemiche, sulla sorveglianza dell’accettabilità religiosa del cibo (kasherut) e sulle conversioni. Qualche settimana fa Kahana si era dimesso non in polemica con il governo ma per appoggiarlo. In Israele infatti vige il “sistema norvegese” che consente ai parlamentari nominati ministri di farsi sostituire provvisoriamente dai primi non eletti. Così aveva fatto Kahana, ma il suo sostituto era sospetto di voler lasciare la maggioranza. Allora il ministro aveva rinunciato alla sua carica; superata la crisi con il sostituto, Bennett aveva cercato di rinominarlo ministro, ma per questo c’è bisogno dell’approvazione parlamentare e il voto è finito in parità, 55 a 55, il che per le regole della Knesset è una bocciatura. Kahana forse potrà tornare a gestire il ministero dei servizi religiosi come vice-ministro, per cui non c’è bisogno di voto parlamentare, ma la sconfitta riguarda la struttura stessa del governo e in particolare il partito del primo ministro (una sua dissenziente ha fatto mancare il voto decisivo): altro che “una scalfittura sull’ala”, come ha dichiarato Kahana, ex pilota militare.

• LA LEGGE SU GIUDEA E SAMARIA
  La situazione dei territori contesi di Giudea e Samaria non è giuridicamente definita, neppure per quanto riguarda il funzionamento dello stato ebraico. Israele ne ha evitato l’annessione che ha invece stabilito a suo tempo per Gerusalemme e il Golan; e però non li riconosce neppure come territori stranieri. Questo vuoto giuridico produce effetti paradossali: sui cittadini che vi risiedono i tribunali civili israeliani non avrebbero giurisdizione, ma solo quelli militari; essi non godrebbero del welfare; i prigionieri di sicurezza arrestati in Giudea e Samaria e giudicati con le leggi israeliane avrebbero basi giuridiche per chiedere di essere liberati ecc. Per risolvere questi problemi, da cinquant’anni la Knesset approva delle leggi provvisorie, valide per cinque anni, che estendono certi aspetti della statualità israeliana in Giudea e Samaria. L’ultima edizione della legge risale al ‘17 e scade a fine giugno; c’è dunque bisogno urgente di votarne una nuova. Per ragioni ideologiche essa però non piace affatto ad alcune componenti essenziali della coalizione, gli arabi di Ra’am e gli ultrasinistri non più sionisti di Meretz, che in parte si sono rifiutati di votarla, anche se il ministro della Giustizia che ha competenza su di essa e l’ha proposta, Gideon Sa’ar, ha posto una specie di questione di fiducia: se la legge non è approvata il governo non c’è più, ha detto. Bennett ha sostenuto che l’opposizione di destra dovrebbe votare la legge per tutelare i cittadini che abitano oltre la linea verde e che in maggioranza la votano. Ma non è così che funziona la democrazia: la maggioranza non può usare l’appoggio dell’opposizione quando non è in grado di realizzare il suo compito di governo, almeno senza concederle voce in capitolo sul programma. Di fatto l’opposizione ha votato compattamente contro e così hanno fatto due deputati dell’estrema sinistra della maggioranza e la legge non è passata per 58 a 62.

• LE CONSEGUENZE
  Non si sa bene che cosa accadrà ora. Il governo può rimettere in votazione la legge la settimana prossima e ha detto di volerlo fare. Potrebbe convincere i suoi dissidenti con concessioni varie. Ma non è detto che ci riesca e che in questa maniera non faccia invece allontanare i dissidenti della destra. Di Sa’ar si dice che sia in trattative con Netanyahu per formare un nuovo governo di destra e questa potrebbe essere l’occasione buona per staccarsi da una maggioranza debole, divisa e impopolare. Si potrebbe anche andare a nuove elezioni, con sondaggi che in questo momento premiano l’opposizione. Insomma, la situazione è confusa. Vedremo nei prossimi giorni come si risolverà.

(Shalom, 8 giugno 2022)

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Israele - Documentata la correlazione tra vaccini anti Covid e problemi cardiovascolari

Autorevole studio scientifico israeliano dimostra una correlazione tra problemi cardiovascolari e vaccinazione anti Covid: “Fare massima attenzione ai vaccinati”.

Da Israele arriva una notizia particolarmente inquietante, per quanto già nell’aria dopo le numerose testimonianze degli ultimi mesi: gli scienziati israeliani, tra i più preparati al mondo e con i migliori strumenti tecnologici in dotazione, hanno documentato una corrispondenza fra la somministrazione dei vaccini anti Covid-19 e un aumento del 25% di problemi cardiovascolari in persone giovani tra 16 e 39 anni che avevano ricevuto la vaccinazione e che poi hanno avuto problemi cardiaci al punto da doversi recare nei pronto soccorso nel primo semestre del 2021, proprio durante la somministrazione di massa delle prime due dosi con il vaccino utilizzato in Israele (il Comirnaty di Pfizer-BioNTech).
  Il dato è pubblicato sulla rivista Scientific Reports da Christopher Sun e Retsef Levi del Massachusetts Institute of Technology e da Eli Jafe del Servizio di medicina di emergenza di Israele a Tel Aviv. Per il virologo Francesco Broccolo, dell’Università di Milano Bicocca, la novità di questo studio è nel fatto che “si basa su dati del mondo reale, non estrapolati dai trial“. La ricerca si è basata sulle chiamate arrivate alle strutture di pronto soccorso di Israele in seguito a casi di arresto cardiaco e sindrome coronarica acuta, registrate a ritmo settimanale e le cui relative diagnosi sono state in seguito verificate. Le segnalazioni considerate nella ricerca comprendono tre periodi: il primo, precedente la pandemia di Covid-19, comprende il 2019 fino a febbraio 2020, il secondo corrisponde al periodo della pandemia nel quale non erano ancora disponibili i vaccini (marzo-dicembre 2020) e il terzo va da gennaio a maggio 2021, quando in Israele erano state somministrate le prime e le seconde dosi dei vaccini anti Covid-19 a Rna messaggero (mRna).
  E’ emerso che in quest’ultimo periodo, rispetto ai precedenti, le chiamate al pronto soccorso da parte di persone di età compresa fra 16 e 39 anni per problemi cardiovascolari sono aumentate del 25% rispetto ai due periodi precedenti. Alla luce di questa situazione, secondo gli autori della ricerca la sorveglianza farmacologica post vaccinazioni è d’obbligo e dovrebbe considerare le chiamate alle strutture di pronto soccorso accanto ad altri dati sanitari e indagare le possibili cause. “I dati riportati in questa ricerca sono in accordo con quanto finora si è osservato in Germania e in Scozia, come rilevano gli autori del lavoro – osserva BroccoloE’ un risultato che dovrebbe sollevare l’attenzione da parte dei medici e dei soggetti vaccinati sui segni clinici riportati nella popolazione della fascia d’età compresa fra 16 e 39 anni“. Che  tra l’altro è la fascia d’età a più basso rischio Covid.

(meteoweb.eu, 8 giugno 2022)

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L’Iran potrebbe colpire i turisti israeliani per vendetta

di Paolo Castellano

Lo Stato d’Israele potrebbe inviare avvisi di viaggio ai turisti israeliani che stanno preparando le valige per godersi un soggiorno estivo all’estero. Dopo aver diramato un’allerta a chi si stava recando in Turchia, lo Stato ebraico teme che i propri cittadini possano finire nel mirino di Teheran come atto di vendetta contro Israele per i recenti omicidi di alti funzionari iraniani.
  Il 5 giugno, l’emittente israeliana Channel 12 ha detto che Gerusalemme starebbe per emettere nuovi avvisi di viaggio. Tuttavia, la rete televisiva non ha specificato la fonte e quali paesi siano sotto osservazione.
  Come riporta The Times of Israel, queste considerazioni arrivano dopo che il Consiglio di Sicurezza nazionale ha modificato l’avviso di viaggio per la Turchia diramato a maggio. Lo scorso mese, le forze di sicurezza avevano affermato che c’era un concreto pericolo per gli israeliani di essere parte degli “obiettivi terroristici iraniani”.
  L’allerta era stata diffusa a seguito dell’assassinio di un alto ufficiale del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche, il colonnello Hassan Sayyad Khodaei. Teheran sostiene che l’uomo sia stato ucciso da Israele. Khodaei è stato colpito cinque volte nella sua auto da due uomini armati, non identificati, a bordo di una moto nel centro della capitale dell’Iran.
  Secondo le fonti ufficiali, Khodaei sarebbe stato coinvolto in omicidi e rapimenti fuori dall’Iran, compresa la progettazione di attacchi contro israeliani.
  Inoltre, sono morti in circostanze poco chiare anche un ingegnere e uno scienziato iraniani coinvolti nello sviluppo di missili e droni.
  Israele non ha commentato le accuse iraniane ma ha innalzato i livelli di allerta e di sicurezza all’interno delle sue ambasciate e consolati sparsi in tutto il mondo, temendo un attacco iraniano di rappresaglia.

(Bet Magazine Mosaico, 7 giugno 2022)

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Bennett fiducioso, nonostante il governo sia stato battuto

Premier attacca Netanyahu e 2 deputati arabi per voto contrario

Nonostante il suo governo sia stato battuto ieri sera su un importante legge, il premier israeliano, Naftali Bennett, resta fiducioso che l'esecutivo possa andare avanti.
  Rispondendo questa mattina a una domanda dei giornalisti se il governo sia giunto al capolinea, Bennett ha replicato, citato dai media, "assolutamente no".
  Poi ha attaccato il leader dell'opposizione, Benjamin Netanyahu, e i due deputati arabi della coalizione (uno della sinistra 'Meretz', Ghaida Rinawie Zoabi, l'altro, Mazen Ghanaim, di Raam) che hanno votato contro il governo. "Il Likud - ha detto - vedrà il Paese bruciare per il tornaconto di Netanyahu".
  La legge non approvata in prima lettura ieri sera (58 contro e 52 a favore) riguarda l'estensione delle leggi civili israeliane ai residenti degli insediamenti ebraici in Cisgiordania: legge che dal 1967 viene rinnovata ogni 5 anni. Il governo ha tuttavia tempo fino alla fine di giugno per ripresentare il provvedimento e secondo i media potrebbe ricorrere alla fiducia.

(ANSA, 7 giugno 2022)

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Hibuki, il cane anti trauma israeliano aiuta i bimbi a superare ansia e paure

Inventato da uno psicologo ha già curato oltre centomila piccoli al confine di Gaza. Un benefattore Usa ora ne finanzia la produzione.

di Manila Alfano

Sergei ha cinque anni e arriva da Mariupol, la città cancellata dalla faccia della terra. Ha visto le persone morire intorno a lui e non ha parlato da 10 giorni; quando è arrivato al campo profughi gli hanno dato un cagnolino di pezza. In apparenza uno come tanti. Se lo è tenuto stretto, lo ha accarezzato e perfino consolato. Era un Hibuki: il peluche curativo inventato da uno psicologo israeliano diventato uno strumento eccezionale per risolvere i traumi dei bambini. Sergei tutto questo non lo sa, ma lui l'Hibuki non lo ha più lasciato e dopo giorni di buio è tornato a sorridere.
  Bambini paralizzati dalla paura, che hanno visto crollare tutto attorno a loro. Hanno perso i genitori, ad alcuni gli hanno scritto il loro nome sulla schiena. Hibuki, «Huggy», abbracci in ebraico, grandi occhi tristi a capanna e lunghe zampe da gettarsi al collo, è arrivato in Ucraina, ma ha fatto il suo esordio in Israele, merito dello psicologo Shai Hen-Gal che aveva in cura 3mila bambini alle prese con la Seconda Guerra del Libano.
  I risultati sono stati sorprendenti, tanto che sono stati poi curati 100.000 bambini a Sderot e nelle comunità di confine di Gaza. Dopo lo tsunami del 2011, Hen-Gal si è recato più volte in Giappone. I risultati sono stati pubblicati in un articolo del prestigioso Journal of Pediatrics, tra le pubblicazioni più importanti in quel campo. Anche a Tehran è stata usata la stessa tecnica per aiutare i bambini traumatizzati. L'importante come spiega lui al quotidiano israeliano Haaretz è agire in fretta.
  «La prima cosa che fanno i bambini quando prendono in mano un cagnolino Hibuki, dice Hen-Gal, è abbracciarlo. Si legano immediatamente a lui». L'empatia è fondamentale per aprire un canale, «E quando chiedi al bambino come si sente Hibuki risponde: è triste. Chiedi perché, e lui allora proietta i suoi sentimenti sul peluche. Ad esempio, dirà: Stanno sparando a casa di Hibuki o Hibuki ha paura che succeda qualcosa a suo padre». «Diamo loro il pupazzo come regalo e diciamo: devi prenderti cura di lui. Se si spaventa di notte, aiutalo ad addormentarsi. Calmalo e portalo all'asilo o a scuola». I bambini assumono un ruolo attivo, che facilita una sorta di auto-calmante. Invece di concentrarsi sulle proprie ansie, concentrano la loro attenzione altrove. «Abbiamo scoperto che i bambini che hanno ricevuto il cagnolino soffrono meno di ansia e di depressione. Più si prendono cura di lui, meglio si sentono». Il potere di Zoom ha permesso di creare un ponte. Pochi giorni dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, Hen-Gal ha ricevuto una telefonata da una consulente educativa di Ashdod, Dafna Sharon, hanno tenuto una sessione di formazione per un gruppo di 450 psicologi in Ucraina, poi la voce si è sparsa. Un benefattore americano è il segno della provvidenza, in Israele non ce ne erano abbastanza per tutti e farli produrre in tempi brevi dalla Cina impossibile. Qualcuno li ha fatti con i calzini, con quello che capitava, perché l'importante è fare in fretta. E allora Dafna ha pensato di farli produrre localmente: dopo tutto, ci sono parti dell'Ucraina in cui le fabbriche funzionano regolarmente e così, incredibilmente, le poste. Il benefattore americano ha pagato per i primi mille cagnolini da produrre in Ucraina, dando così lavoro a sarte locali e organizzando una rete per fare arrivare gli Hibuki ucraini ai bambini anche nei luoghi di accoglienza all'interno del paese, pressoché irraggiungibili se non attraverso corridoi umanitari. A Bodgan la guerra in Ucraina gli ha portato via il papà. Ogni tanto scoppia a piangere, «Oggi, nel bel mezzo di un'attività, ha iniziato a piangere e una bambina di nome Nadia gli ha regalato il suo Hibuki». Il lavoro del dottor Hen-Gal funziona.

(il Giornale, 7 giugno 2022)

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Intanto sui mass-media iraniani: minacce di sterminio e indottrinamento antisemita à gogo

“Israele è un cancro da annientare, gli israeliani sono finti ebrei da scacciare”. “La bugia della Shoà è stata inventata dagli ebrei, maestri di menzogna”.

In un comizio tenuto lo scorso 29 aprile presso il santuario dell’imam Reza a Mashhad, in Iran, in occasione della Giornata di al-Quds (Gerusalemme), il comandante dalla Forza Quds del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie iraniane, generale Esmail Qaani, ha ribadito che Israele è una “crescita cancerosa” che deve essere “cancellata dalla faccia della storia”, citando le parole del fondatore della Repubblica Islamica d’Iran, l’ayatollah Ruhollah Khomeini. Il generale Qaani è comandante della forza Quds da quando il suo predecessore, Qasem Soleimani, è stato ucciso in un attacco aereo statunitense il 3 gennaio 2020. Il discorso di Qaani è stato trasmesso dall’emittente iraniana Khorasan Razavi TV.

(israele.net, 7 giugno 2022)

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La ricetta per uscire dalla crisi del grano è la tecnologia israeliana

La ricetta per uscire dalla crisi del grano è la tecnologia israeliana Al di là dello sblocco del porto di Odessa, il tema avrà gravissime ripercussioni mondiali visto che il territorio ucraino bombardato dai russi è di fatto inutilizzabile per il presente e per un certo pezzo di futuro.

di Francesco De Palo

Il tema della “sostituzione”, seppur temporanea, delle coltivazioni agricole ucraine è piombato non solo sui mercati di oggi per via della crisi del grano, ma si è presto trasformato in un dossier specifico da affrontare nel medio e nel lungo periodo. Località complesse da un punto di vista naturalistico come Emirati Arabi Uniti, Egitto e Arabia Saudita potrebbero rappresentare un’alternativa agricola all’Ucraina? Da un mese Tel Aviv è alla ricerca di nuove strade per ovviare al collo di bottiglia ucraino. Il primo frutto è nella nuova tecnologia ultra avanzata utilizzata per l’irrigazione e la coltivazione.

• Qui Israele
  Pochi giorni fa il governo israeliano ha adottato un piano per aumentare il suo commercio con l’Egitto, principalmente nel settore agricolo con due obiettivi: massimizzare l’efficienza dell’uso dell’acqua in un clima desertico e immaginare nuove colture in aree caldissime e zavorrate da scarse precipitazioni. L’Arabia Saudita è un nuovo partner che collabora con aziende israeliane in questo settore, idem Eau. Molti player israeliani stanno già operando negli Emirati Arabi Uniti, consci che dalla firma degli Accordi di Abraham in poi, attività apparentemente lontane dalla geopolitica come la purificazione delle acque reflue per uso agricolo e la prevenzione delle malattie delle palme possono diventare una base su cui costruire nuove relazioni commerciali. Un dato che acquisisce ancora più importanza in questo preciso momento storico e politico.

• Progetti
  La tecnologia israeliana è stata già avanti rispetto a problemi come l’irrigazione quando si è trattato di utilizzare trattori-drone senza pilota per potature ed irrigazione. Oggi si parla di sensori ultramoderni che possono essere impiegati per il rilevamento precoce dei parassiti, o per la protezione degli alberi che anticipino i danni alle piante e quindi alle colture. Alcune aziende israeliane del settore almeno da 4 anni hanno già avviato progetti simili nel continente africano, con la possibilità che quel passo sperimentale possa essere oggi la risposta alla crisi del grano in atto che, al di là del blocco o dello sblocco del porto di Odessa, avrà gravissime ripercussioni mondiali visto che il territorio ucraino bombardato dai russi è di fatto inutilizzabile per il presente (e per un certo pezzo di futuro non ancora quantificato).
  La macro regione del Golfo è particolarmente interessata al problema, dal momento che ha molte più disponibilità finanziarie per provare ad affrontare l’aggravarsi della crisi alimentare globale, perché si tratta di un luogo da sempre alle prese con la mancanza di approvvigionamento idrico e dove è impossibile praticare agricoltura su larga scala. Almeno fino ad oggi.

• Prezzi su

Prima della guerra, l’Ucraina esportava più di 5 milioni di tonnellate di grano ogni mese: oggi perde circa 15 miliardi di dollari dalle mancate esportazioni, usate di fatto come una clava geopolitica. La crisi bellica ha impattato anche sui prezzi del settore che, secondo la FAO, sono aumentati del 22,8% rispetto al 2021. Nello specifico i prezzi dei cereali sono aumentati del 56,2% da maggio 2021 e il grano è aumentato del 5,6% ia maggio rispetto all’aprile 2022. Anche i prezzi della carne hanno raggiunto un nuovo massimo.
  L’Ucraina fornisce il 42% dell’olio di girasole scambiato sul mercato globale, il 16% del mais e il 9% del grano: interi paesi, specialmente in Medio Oriente e Africa, dipendono dalle importazioni ucraine di questi prodotti. Per cui non solo Kiev è il quarto maggior esportatori mondiale di grano, ma a ciò si somma il fatto che l’India ha imposto il divieto alle esportazioni di grano e che la Russia è il primo esportatore mondiale di grano davanti a Stati Uniti e Canada. In questo modo le cosiddette fonti alternative per gli importatori si polverizzano.

(Formiche.net, 6 giugno 2022)

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Libano-Israele: la nave di stoccaggio gas israeliana Energean arriva al giacimento conteso di Karish

Lo Stato ebraico e il Paese dei cedri non hanno mai riconosciuto i rispettivi confini e il contenzioso sulla linea di demarcazione marittima è mediato dagli Usa.

La nave di estrazione e stoccaggio di gas Energean power, posseduta da Israele, è arrivata ieri al giacimento di Karish, in un’area al largo delle coste di Israele e Libano contesa tra i due Paesi. Lo Stato ebraico e il Paese dei cedri non hanno mai riconosciuto i rispettivi confini e il contenzioso sulla linea di demarcazione marittima è mediato dagli Usa. Lo riferisce il quotidiano libanese “An Nahar”. Diverse fonti stampa libanesi hanno criticato la classe dirigente del Paese dei cedri per la “mancata difesa degli interessi energetici nazionali”, mentre particolare attenzione è rivolta verso il movimento sciita libanese e filo-iraniano Hezbollah, che in passato aveva minacciato ritorsioni nel caso Israele avesse provato ad avviare attività energetiche nell’area contesa.
  “Ogni attività esercitata da attori militari ed economici israeliani nell’area delle acque contese tra Libano e Israele sarà considerata un’azione ostile dalla parte di Beirut”, ha detto Michel Aoun, il presidente del Libano, a Najib Miqati, il premier del Paese, commentando le notizie dell’Energean power, la nave da stoccaggio di gas di Israele, nell’area del giacimento di Karish, conteso tra i due Paesi. Aoun ha dichiarato di essere in contatto con i vertici dell’esercito che “monitoreranno le attività israeliane nell’area”. Da parte sua Miqati ha dichiarato che “la scelta di Israele di sconfinare oltre la linea 29 (che segna la demarcazione nell’area contesa) è pericolosa e non fa altro che incrementare la tensione e violare la sovranità libanese”.

(Nova News, 6 giugno 2022)

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Israele cerca una strategia dopo il riaccendersi della questione palestinese

La formazione di un governo e l’approvazione di un bilancio dopo un lungo periodo di instabilità politica, così come la convergenza di dinamiche regionali e internazionali favorevoli, offrono a Israele l’opportunità di affrontare le sfide interne e di politica estera che lo attendono. Rimangono però notevoli elementi di possibile destabilizzazione, come per esempio la complessità e la fragilità dell’attuale governo e la necessità di rafforzare le carenti strategie perseguite verso le tre principali sfide: l’arena domestica, la questione palestinese e lo scenario iraniano. Questo particolare momento storico potrebbe rivelarsi un’occasione fondamentale per riesaminare e intervenire sugli approcci adottati, elaborando così delle strategie che possano finalmente rispondere a pieno agli interessi dello stato.

• QUADRO INTERNO
  Il mese di Ramadan si è riconfermato essere un momento cruciale per la sicurezza e la politica israeliana, quest’anno in special modo vista la coincidenza con la Pasqua ebraica. I primi episodi di violenza sono cominciati il 22 marzo con l’attacco terroristico di Be'er Sheva, il primo di una serie di altri tre attentati avvenuti a Hadera, Bnei Brak e Tel Aviv che hanno causato 14 vittime in due settimane.
  Se a un primo sguardo queste azioni potrebbero essere catalogate sotto la denominazione “conflitto israelo-palestinese”, una più attenta osservazione rende la classificazione di questi eventi più ardua per via della quasi assenza di minimi comuni denominatori. Gli autori di questi attentati hanno diverse origini: un abitante beduino del Negev, due cittadini arabo-israeliani e due palestinesi provenienti dalla Cisgiordania. Sfugge anche la motivazione scatenante degli attacchi, ma il dettaglio che potrebbe accomunarli è che sono avvenuti in un momento particolarmente proficuo nelle relazioni tra Israele e gli stati arabi della regione, i quali hanno bypassato la questione palestinese firmando accordi con gli israeliani. Infatti, se in passato il conflitto era stato un ostacolo per il rapporto tra Israele e i suoi vicini mediorientali, ora sembra essere passato in secondo piano. L’affermarsi di questa dinamica sul piano diplomatico potrebbe avere innescato un senso di rivalsa e vendetta più ampio, che renderebbe più difficile per i servizi di sicurezza (Shin Bet) anticipare questi eventi.
  In risposta agli attentati, l’esercito (le Forze di difesa israeliane, Idf) e lo Shin Bet hanno concentrato la loro pressione in particolare nella Cisgiordania settentrionale (in particolar modo Jenin), da cui provenivano tre degli assalitori. Questa situazione ha contribuito molto velocemente a un innalzamento della tensione nei Territori dove, nell’ultimo mese si sono verificati circa sessanta episodi di rappresaglie tra palestinesi e coloni.
  Su questo sfondo, si sono inserite le provocazioni di gruppi estremisti religiosi ebraici riguardo al Monte del Tempio: durante la settimana di Pesach, il movimento Hozrim Lahar aveva infatti incoraggiato a recarsi presso il luogo sacro e a compiere il sacrificio pasquale. L’iniziativa ha suscitato forti reazioni nella comunità arabo-musulmana, in quanto considerata un tentativo di violazione dello status quo vigente e di appropriazione da parte delle frange nazional-religiose del sito.
  Ad accrescere le tensioni ha contribuito anche il consistente aumento del numero di pellegrini ebrei che pregano sul Monte del Tempio; questa dinamica ha dato spazio alla circolazione di teorie del complotto e fake news diffuse sui social media, secondo le quali il governo israeliano sta mettendo in atto un piano per cambiare lo status quo del complesso dell’Haram al-Sharif[1]. La realtà dei fatti è che Israele non ha alcun progetto concreto di prendere il controllo del luogo sacro, invece le iniziative e i comportamenti che hanno fomentato le violenze da parte araba sono stati portati avanti da singoli individui o da movimenti estremisti nazional-religiosi.
  In reazione, la sera del 14 aprile giovani arabi israeliani provenienti dal nord del paese sono arrivati in autobus a Gerusalemme per recarsi a pregare alla moschea di Al-Aqsa, come avviene solitamente nel periodo di Ramadan, ma questa volta l’intenzione era di anticipare la tradizionale veglia notturna presso l’Haram al-Sharif (che di solito ha luogo nelle ultime 10 notti di Ramadan). Il mattino successivo, alla preghiera delle quattro, erano presenti migliaia di persone e un consistente gruppo di rivoltosi ha iniziato il lancio di pietre verso la Porta Mughrabi, barricandosi successivamente all’interno della moschea, portando all’irruzione della polizia israeliana all’interno di Al-Aqsa.
  Gli scontri sull’Haram al-Sharif sono nuovamente ripresi giovedì e venerdì mattina, dopo che centinaia di visitatori ebrei hanno raggiunto il sito; il 21 aprile infatti è stato l’ultimo giorno in cui i fedeli di religione ebraica potevano salire sul Monte del Tempio fino alla fine del mese di Ramadan; inoltre, a esacerbare la tensione, ha contribuito la manifestazione organizzata dal parlamentare Ben Gvir insieme ad altri movimenti di destra nazional-religiosa. Centinaia di attivisti hanno apertamente sfidato gli ordini del governo e della polizia, dirigendosi verso il quartiere musulmano della Città Vecchia.
  Il complesso della Spianata delle Moschee/Monte del Tempio è l’epicentro emotivo del conflitto israelo-palestinese e le tensioni possono facilmente trasformarsi in scontri più ampi, all’interno di Israele e con Gaza, come successe a maggio del 2021.
  Di fronte a questo precario equilibrio, il primo ministro Naftali Bennett ha adottato una linea di azione dura ma che al contempo contenesse l’escalation delle violenze. In quest’ottica, dopo i primi scontri, sono state prese due decisioni importanti: la non chiusura dei Territori, continuando a permettere anche ai fedeli provenienti dai Territori palestinesi di recarsi ad Al-Aqsa e il divieto per turisti e pellegrini ebrei di accedere al Monte del Tempio fino alla fine del Ramadan.
  Contemporaneamente, non sono venuti a mancare gli attacchi dell’opposizione (sia da parte dei partiti di destra, sia dei partiti arabi), che hanno colto l’occasione per indebolire la coalizione, già provata dalle recenti dimissioni della parlamentare di Yamina, Idit Silman. Lo scossone che ha fatto tremare il fronte di governo è giunto però da uno dei suoi componenti: il 17 aprile, come conseguenza degli scontri, il partito islamista Ra'am (Lista araba unita) ha comunicato di voler congelare il suo status di membro della coalizione. Ma cosa significa in realtà? Il partito non ha lasciato il governo (per ora) ma ha sospeso la sua partecipazione alle attività della Knesset, come le votazioni in plenum o nei comitati. In aggiunta al congelamento, il leader Mansour Abbas ha presentato al primo ministro un elenco di richieste, dicendo che se saranno soddisfatte Ra'am interromperà l’astensione. Queste richieste includono l’impegno a mantenere lo status quo nel complesso della moschea di Al-Aqsa, insieme all’avanzamento di politiche importanti per la comunità arabo-israeliana, fino a ora rallentate dal ministro dell’Interno Ayelet Shaked.
  Questa sospensione delle attività di Ra'am sembrerebbe però essere stata messa in atto in coordinamento con il ministro degli Esteri Yair Lapid e con il primo ministro Naftali Bennett, giungendo a un compromesso che consentisse appunto ad Abbas di prendersi cura degli interessi del suo partito senza però compromettere il governo. Il margine per questa manovra è stato fornito dal fatto che la Knesset fosse nel pieno della pausa pasquale, concedendo così tempo prezioso a Bennett per tentare di stabilizzare la coalizione.
  Una ulteriore battuta d’arresto per il governo si è verificata quando, dopo pochi giorni dall’inizio della sessione estiva della Knesset, la parlamentare di Meretz Ghaida Rinawie Zoabi ha presentato le sue dimissioni come membro della coalizione, trasformando così il governo di Bennett in un esecutivo di minoranza con 59 seggi contro i 61 dell’opposizione. La crisi è rientrata quando Zoabi è ritornata sui suoi passi nell’ultima settimana di maggio.
  A ogni modo, nonostante le criticità, rimarrebbe comunque difficile per Netanyahu formare la propria coalizione tornando a essere così primo ministro; specialmente senza la composizione parlamentare attuale. Servirebbero quindi nuove elezioni ma, prima di tutto, le probabilità di successo nel far approvare il voto di sfiducia alla Knesset rimangono alquanto incerte e, in secondo luogo, anche se questa eventualità si realizzasse, gli ostacoli nello scenario post-elettorale che impedirebbero a Netanyahu di formare una coalizione di governo rimarrebbero immutati, come nel 2021. Questo perché il fronte “rak lo Bibi” (chiunque eccetto Bibi) non si è formato su una base puramente ideologica, ma principalmente sull’obiettivo di porre fine alla premiership di Netanyahu. Inoltre, l’annuncio di elezioni anticipate non risulterebbe a portata di mano, in quanto la dissoluzione della Knesset richiederebbe 61 voti e, attualmente, ci sono molti partiti che non sono pronti ad affrontare una nuova tornata elettorale, tra cui Giudaismo Unito della Torah e Shas, appartenenti all’opposizione.
  Sullo sfondo, a Gerusalemme sta continuando a svolgersi il processo a Benjamin Netanyahu che, da qualche mese, sta prendendo in considerazione l’opzione di firmare un patteggiamento con il procuratore generale. Questo ipotetico accordo si dovrebbe basare sull’ammissione da parte di Netanyahu della sua colpevolezza per le due accuse di frode e abuso di fiducia; in cambio gli altri due capi di imputazione verrebbero ritirati e la carcerazione commutata in pochi mesi di servizio alla comunità. Ma l’esitazione di Netanyahu nel firmare è dovuta all’inclusione della clausola di turpitudine morale (kahlon), che comporta l’esclusione dal ricoprire cariche pubbliche per sette anni, facendo perdere a Netanyahu il ruolo sia di leader dell’opposizione sia di leader del Likud e impedendone quindi la candidatura in un’altra elezione per questo decennio.
  Anche nel caso in cui, però, l’ex primo ministro accettasse il patteggiamento inclusa la clausola di kahlon e fosse quindi costretto a dimettersi dalla Knesset, non è detto che debba per forza rinunciare alla leadership del Likud; decisione che potrebbe essere rimessa al comitato centrale del partito e che potrebbe deliberare diversamente.
  Lo scenario di eleggere un nuovo capo di partito aprirebbe un protratto periodo di lotte interne che causerebbe la paralisi del Likud. Inoltre, i candidati alla successione dovrebbero fare i conti con la lealtà di una massiccia maggioranza dei membri di partito verso Netanyahu, che difficilmente scomparirebbe istantaneamente. Questo significa che il prossimo leader del partito dovrà ottenere il benestare del suo predecessore. In quest’ottica il Likud rimarrà ancora a lungo sotto l’influenza di Bibi.
  Questo vuol dire che le previsioni del collasso imminente del governo nel momento in cui Netanyahu venisse (almeno parzialmente) rimosso dalla scena politica, devono essere ridimensionate. Prima di tutto, i membri della coalizione sarebbero pienamente consapevoli della presenza di Netanyahu dietro le quinte del Likud e nessuno di loro vorrebbe unirsi a un governo dove l’ex primo ministro è ancora così influente. Inoltre, bisogna considerare le aspre animosità tra i parlamentari del Likud e i membri dei partiti di destra che si sono uniti al governo Bennett, che non permetterebbero un riappacificamento abbastanza rapido tra le parti da poter formare una nuova coalizione in breve tempo. Infine, la struttura peculiare del governo, dà alla coalizione un grosso incentivo per sopravvivere: ciascuno dei partiti, infatti, gode di un’ampia indipendenza nel gestire i propri ministeri, che non avrebbe in una coalizione più tradizionale.
  Per tutti questi motivi la firma del patteggiamento di Netanyahu non porterebbe a un terremoto politico in Israele. Alla luce di questi scenari la domanda politica più pressante al momento, non riguarda la durata dell’attuale governo, ma se questa coalizione vivrà abbastanza lungo da andare alle elezioni senza Netanyahu come leader del Likud.

• POLITICA ESTERA
  Le priorità in campo di politica estera e di sicurezza sono influenzate in special modo dal rafforzamento della valutazione per cui gli Stati Uniti stiano riducendo il proprio coinvolgimento in Medio Oriente, con la conseguente creazione di un vuoto di potere che la Russia potrebbe sempre di più colmare. Questa dinamica si può osservare in maniera più evidente sulle ripercussioni mediorientali della guerra tra Ucraina e Russia, il cui andamento rischia di modificare il raggiungimento di fondamentali obiettivi strategici e di sicurezza israeliani.
  La posta in gioco è alta: da un lato Israele non può permettersi di allontanare i suoi alleati americani e occidentali (sostenitori dell’Ucraina), dall’altra non può nemmeno rischiare di rovinare i buoni rapporti con il Cremlino. Dal 2015, infatti, la Russia ha dispiegato in Siria i propri contingenti militari per sostenere il regime di Bashar al-Assad; negli ultimi sette anni quindi, Israele ha coordinato operazioni aeree contro obiettivi iraniani con Mosca permettendo così all’esercito israeliano di continuare a operare in Siria senza scontrarsi con i russi. Per Israele questa tacita intesa con la Russia non è quindi semplicemente una risorsa, bensì una necessità strategica per poter mantenere la libertà di azione sui cieli siriani. Un altro importante elemento di valutazione riguarda la preoccupazione israeliana di voler salvaguardare le comunità ebraiche presenti sia in Russia sia in Ucraina.
  In questo contesto si inseriscono gli sforzi di mediazione israeliana tra i due fronti in guerra, iniziati il 5 marzo con il volo di Bennett a Mosca per incontrare Vladimir Putin, e proseguiti tramite conversazioni telefoniche sia con il presidente russo sia con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky.  I forti legami di Israele con i due paesi teoricamente consentono a Bennett di fungere da intermediario tra Putin e Zelensky e di trasmettere proposte coordinandosi con gli Stati Uniti e l’Europa, colmando le lacune di comunicazione esistenti tra Washington e Mosca e tra Kiev e Mosca.
  Bisogna sottolineare però che Israele non è in realtà nella posizione di fungere da vero mediatore per questo conflitto perché manca di un elemento essenziale: non c’è nulla che possa offrire a Mosca per fermare il suo assalto all’Ucraina, e nessun motivo particolare per cui Putin dovrebbe prestare attenzione alle richieste o alle preoccupazioni israeliane su questo tema. L’unico modo in cui Bennett può avere successo è nel caso in cui fosse in grado di offrire a Putin una via d’uscita costruita in coordinamento con gli Stati Uniti e l’Europa. Seguendo questa riflessione, un approccio più cinico suggerirebbe quindi che il tentativo di Bennett di agire da mediatore sia in realtà una copertura per proteggere gli interessi israeliani rimanendo neutrale.
  L’amministrazione Biden, seppur favorevole all’iniziativa israeliana, desidererebbe vedere il governo di Bennett fornire aiuti militari a Kiev e unirsi alle sanzioni internazionali contro Putin.  La situazione di Israele è quindi molto più precaria di quanto non possa sembrare, specialmente se si tiene conto dei negoziati sul Jcpoa (Joint Comprehensive Plan of Action) che fanno da sfondo a queste vicende e che richiedono a Israele di mantenere salde le sue relazioni con Washington.
  Tenendo conto che l’amministrazione Biden non ha intenzione di investire risorse in ambiti che non sono parte degli stretti interessi americani, ciò ha fatto sì che Israele stia impegnando risorse e sforzi consistenti per rafforzare l’impianto degli Accordi di Abramo e per affrontare le sfide comuni. Il cambiamento dell’architettura regionale ha dato a Israele l’opportunità (e al contempo il crescente bisogno) di approfondire le relazioni con gli attori della regione; in questo quadro si inserisce il Summit del Negev avvenuto a fine marzo scorso. In questa occasione, Israele ha ospitato i ministri degli Esteri di Bahrain, Egitto, Marocco ed Emirati Arabi Uniti (Eau) in presenza del segretario di stato americano Antony Blinken, annunciando che la conferenza sarebbe stato il primo incontro di un forum regionale permanente e riaffermando l’importanza di crescenti legami tra Israele e il Medio Oriente. L’incontro è stato interpretato come un tentativo di creare un fronte contro un nemico regionale condiviso: l’Iran.
  Bisogna sottolineare come la formazione di un governo in Israele e l’approvazione del budget dopo alcuni anni di instabilità rende ora possibile concentrarsi sulle sfide alla sicurezza più impellenti, nonostante la complessa composizione del governo. La situazione strategica attuale israeliana non deve essere sottovalutata; come indicato nella Strategic Survey for Israel 2022 dell’Inss, al momento infatti vi sono tre principali dimensioni che stanno impegnando particolarmente gli sforzi di Israele: il piano interno, il focus iraniano e il teatro palestinese. Tutti e tre mantengono un alto livello di intensità e la sfida più grande è riuscire a concepire un approccio integrato per affrontare contemporaneamente le tre dimensioni, strettamente interconnesse tra loro.
  L’Iran è senza dubbio la minaccia esterna più impellente, sia per quanto riguarda la sua capacità militare, sia per la sua visione strategica regionale; per arginare la minaccia iraniana Israele sta approfondendo il coordinamento con lo storico alleato americano, cercando di andare al di là dall’annosa questione dell’accordo sul nucleare iraniano, il cui andamento ha esacerbato i rapporti tra i due paesi. L’establishment israeliano è molto preoccupato per i possibili esiti dei negoziati in quanto nessuno dei potenziali risultati sarebbe interamente positivo per Israele. Anzi, il mancato raggiungimento di un accordo sarebbe il meno dannoso.
  In questo caso, infatti, Israele e Stati Uniti non avrebbero alternative politiche al di fuori dell’applicazione di sanzioni, che però appunto non si sono rivelate efficaci nel contenere i progressi iraniani in ambito nucleare; nell’ipotesi quindi di un deterioramento della situazione, emergerebbe la necessità di assumere una linea di azione più decisa per affrontare la minaccia del nucleare iraniano, che però Gerusalemme e Washington non percepiscono con la stessa urgenza. Da parte dell’amministrazione Biden non vi è infatti alcuna volontà di prendere in considerazione una possibile soluzione militare; in questa prospettiva Israele potrebbe ritrovarsi da solo nell’affrontare l’intensificarsi di una minaccia decisamente di ampia portata.
  L’amministrazione Biden ha dato segnale di voler ribadire il supporto americano verso Israele approvando l’aumento di un miliardo di dollari per gli aiuti militari che erano stati bloccati dall’operazione “Guardiano delle mura” a Gaza dello scorso maggio. Queste risorse sono necessarie per garantire la realizzazione degli interessi strategici essenziali israeliani, ovvero: il mantenimento dell’ingaggio continuo in micro operazioni contro il programma nucleare iraniano e della libertà di operare nella regione. Specialmente in Siria e in Libano, dove la presenza militare iraniana si fa più presente. Teheran persiste nel suo sforzo multidimensionale per consolidare la sua influenza in questi due stati, trasferendo armi a Hezbollah nel sud del Libano e rafforzando le infrastrutture militari nell’offensiva contro Israele in Siria. In questo teatro, la risposta israeliana si traduce in una prolungata campagna fatta di piccole operazioni contro postazioni iraniane e milizie affiliate: l’obiettivo è quello di riuscire prima o poi a spingere fuori l’Iran dalla Siria.
  A rendere più complicato il dilemma di sicurezza israeliano sono le ripercussioni sull’altro importante fronte strategico: quello palestinese. La situazione di questo teatro è stata profondamente influenzata dagli eventi accaduti nell’ultimo anno e mezzo, quali: la cancellazione delle elezioni palestinesi, l’inizio del mandato di Joe Biden alla Casa Bianca, l’operazione “Guardiano delle mura” a Gaza e il cambio di governo in Israele. Se da una parte, infatti, i riflettori sono tornati a puntare sulla questione palestinese, dall’altro vediamo come Israele stia adottando il paradigma della “riduzione del conflitto”, che si basa sul ricorso a misure per migliorare la qualità della vita dei palestinesi, ma senza intraprendere un vero e proprio dialogo politico. Inoltre, l’Autorità palestinese continua a sgretolarsi e ha raggiunto un picco di estrema fragilità, tanto da avere serie difficoltà nell’adempiere alle funzioni di mantenimento della sicurezza nei Territori e di garantire l’integrità del tessuto sociale palestinese.
  Il governo israeliano, ben consapevole della situazione finanziaria precaria di Ramallah (causata dalla sua lentezza sulle riforme, il suo allontanamento dagli stati donatori e dall’elevata percentuale di budget allocato per il sistema di pagamento dei prigionieri e dei martiri che Stati Uniti, Israele e la comunità internazionale hanno già chiesto finisse), sta cercando di evitarne il collasso anticipando le entrate fiscali dell’Autorità nazionale palestinese e intervenendo su commissioni di transazione e debiti accumulati.
  Questa nuova preoccupazione si aggiunge alla usuale apprensione israeliana verso Gaza, al cui confine si sta vivendo un periodo di relativa tranquillità: Hamas ha bisogno di tempo per riprendersi dall’operazione militare israeliana del maggio 2021 e, soprattutto, non vuole mettere a rischio la ricostruzione e la ripresa economica di Gaza dovuta all’allentamento delle restrizioni da parte di Israele ed Egitto.  Il ministro degli Esteri Yair Lapid sta, infatti, portando avanti il suo “piano economico per la sicurezza”2, sottolineando la volontà di perseguire una strategia complementare agli sforzi per ostacolare il build-up militare di Hamas.
  Il movimento islamico sta conducendo però un gioco molto ambiguo: mentre vuole la quiete a Gaza, Hamas ha giocato un ruolo molto importante nei recenti scontri sull’Haram al-Sharif, fomentando le violenze non solo a Gerusalemme ma anche nella Cisgiordania, dove l’Idf e le forze di sicurezza dell’Autorità nazionale palestinese hanno arrestato cellule di Hamas sparse nei Territori. Sembrerebbe esserci stato un cambio di strategia: Hamas ha capito che la priorità di Israele è mantenere tranquillo il confine con Gaza, e di conseguenza ha spostato l’epicentro dello scontro a Gerusalemme e in Cisgiordania (o anche nelle città miste israeliane come accaduto l’anno scorso).
  Questo possibile cambiamento di rotta conferma ulteriormente il bisogno per Israele di ripensare alla sua strategia che concepisce Gaza come un’entità completamente separata; non solo, deve maturare la più ampia consapevolezza che la politica adottata negli ultimi dieci anni, basata sulla compartimentalizzazione dei tre diversi fronti (Cisgiordania, Gaza e cittadini arabi israeliani) non si è rivelata uno strumento efficace per leggere e gestire la realtà sul campo. La formulazione delle politiche israeliane nei confronti dei suoi cittadini arabi e dei palestinesi di Gaza e Cisgiordania non possono più essere scisse e a sé stanti, ma richiedono un approccio integrato e, soprattutto, la questione palestinese non può più essere contenuta dall’illusione del principio della “riduzione del conflitto” perché l’assenza di una soluzione pone una seria minaccia all’identità, alla sicurezza e alle capacità strategiche di Israele.

(ISBI, 6 giugno 2022)

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Israele: legge insediamenti, banco prova per governo Bennett

Timori per la tenuta dell'esecutivo. Rischio crisi

Nuovo banco di prova per la sopravvivenza del governo di Naftali Bennett e Yair Lapid.
  La Knesset è chiamata a votare oggi la spinosa legge sul rinnovo delle norme civili israeliane per i residenti negli insediamenti ebraici in Cisgiordania.
  Nonostante occorrano tre letture per il varo definitivo, il governo ad ora non ha alcuna certezza di avere una maggioranza, partendo da 60 seggi in parità con quelli dell'opposizione. Ci sono resistenze per la legge all'interno della coalizione, soprattutto da parte del partito arabo islamista, Raam di Mansour Abbas, che è determinante con i suoi 4 seggi. Se non passasse la legge, l'attuale ministro della Giustizia Gideon Saar (leader del partito di destra 'Nuova Speranza') ha preannunciato conseguenze dirette sulla tenuta dell'esecutivo.

(ANSA, 6 giugno 2022)

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Bennett cita le Scritture nel suo appello per salvare il governo di unità

Mentre l'opposizione di Netanyahu abbatte i cancelli, Bennett mette in guardia sul crollo dello Stato di Israele.

di Ryan Jones

Il primo ministro Naftali Bennett ha paragonato la formazione dell'attuale governo di unità nazionale di Israele all'ordine che Dio impone alla sua creazione, avvertendo venerdì che l'alternativa è un ritorno al caos, che a sua volta potrebbe portare alla fine dello stato ebraico.
  Bennett ha dichiarato che se il suo governo dovesse essere rovesciato, Israele tornerebbe ad essere "tohuwabohu", le parole di Genesi 1:2, di solito tradotte con "informe e vuoto".
  Il paragone del primo ministro  senza dubbio si adatta bene a molti israeliani. Prima di questo governo, lo stato ebraico aveva affrontato non meno di quattro elezioni nazionali in soli due anni. E i sondaggi continuano a mostrare che il patto politico che ha portato a questa frustrante realtà non finirà presto. Mettere insieme un governo di unità nazionale è stato un atto di misericordia, anche se è costituito da partiti di cui non tutti sono contenti.
  Ma come previsto da molti, dopo appena un anno in carica, il “governo del cambiamento” sta per crollare. Per molti, compreso un numero crescente di membri della coalizione, lo stesso governo attuale è "informe e vuoto".
  Negli ultimi mesi, due deputati di opposti estremi dello spettro politico hanno lasciato la coalizione lamentandosi che il governo si inclina troppo in una direzione o nell'altra. E altri parlamentari stanno minacciando di abbandonare la nave nel prossimo futuro.
  Nella sua dichiarazione pubblica rilasciata venerdì mattina, Bennett ha sottolineato che la sua amministrazione ha ottenuto molti risultati nel suo primo anno, incluso l'approvazione di un budget e la lotta contro Hamas con successo, e che ha portato stabilità a una nazione stanca delle elezioni.
  Oltre a citare la Bibbia, ha anche fatto riferimento alla tragica storia del popolo ebraico e ha avvertito che il rovesciamento del suo governo potrebbe significare la fine dello Stato di Israele come lo conosciamo:

    «Per due volte gli ebrei hanno avuto uno stato sovrano nella Terra d'Israele. Lo Stato di Israele è la terza possibilità. Ora dobbiamo affrontare la sfida di dover imparare ad avere successo come Stato sovrano, altrimenti falliremo di nuovo a causa di conflitti interni.»

• NEL MIRINO: NETANYAHU
  Non è tanto lo spettro di un'altra elezione o l'ascesa di un altro governo che, secondo Bennett, condannerà Israele. È il ritorno al potere di Benjamin Netanyahu.
  Secondo il primo ministro, prima del suo insediamento Israele è stato coinvolto in un culto della personalità intorno a Bibi, come è soprannominato l'ex capo di governo.
  Israele è stato catturato nell'"adorazione di un uomo e nel blocco dell'energia dello Stato a causa delle sue necessità giudiziarie", ha detto Bennett, riferendosi ai problemi legali in corso di Netanyahu.
  Bennett ha definito Netanyahu la minaccia più pericolosa per Israele e ha sottolineato che non aveva altra scelta che "lavorare con persone con cui non sono d'accordo per salvare il Paese".

• BIBI REAGISCE
  Mentre Bennett e i suoi associati hanno mantenuto la promessa elettorale di rovesciare Netanyahu, l'ex primo ministro ha sostenuto che l'attuale governo è stato ben lontano dall'avere successo e che sono proprio loro a minacciare il futuro di Israele.
  "Le bugie di Bennett non possono nascondere il fatto che ha ceduto il controllo del Paese a Mansour Abbas, Ahmad Tibi e ai loro amici sostenitori del terrorismo", ha risposto il partito Likud di Netanyahu.
  La dichiarazione del Likud si riferiva al recente accordo del governo Bennett di trasferire centinaia di milioni di shekel al settore arabo per scoraggiare i legislatori arabi dall'abbandonare la coalizione. Mansour Abbas, leader di Ra'am, la fazione islamista della coalizione, ha anche usato la sua posizione per legalizzare i villaggi arabi costruiti illegalmente nella regione meridionale del Negev in Israele.
  Il Likud ha anche sottolineato il fatto che, sebbene il governo abbia approvato un bilancio, non è riuscito a tagliare "i prezzi record di gas, cibo e alloggi".

• E ADESSO?
  La coalizione di Bennett controlla ancora la metà (60) dei 120 seggi alla Knesset. E anche se un altro parlamentare se ne andasse, potrebbe comunque sopravvivere come governo di minoranza per un po' di tempo, a patto che la Lista Araba Unita dell'opposizione accetti di non appoggiare un voto di sfiducia.
  Ma sarebbe quasi impossibile approvare leggi ragionevoli.
  E tutto questo solo se il governo sopravvive.

• CHE SUCCEDE SE CADE L'AMMINISTRAZIONE BENNETT?
  La Knesset sarebbe sciolta e sarebbero indette nuove elezioni, a meno che Netanyahu non sia in grado di mettere insieme un'altra coalizione di governo entro un certo lasso di tempo.
  Tuttavia, questo oggi non sarebbe molto più facile che dopo le due precedenti elezioni, quando Bibi, nonostante tutte le sue capacità politiche, non riuscì a convincere la maggioranza dei parlamentari ad unirsi a lui.
  Non è che la destra non abbia i numeri. Il problema è che i tre partiti di destra nell'attuale governo – Yamina di Bennett, New Hope, militante del Likud e Yisrael Beiteinu – si sono tutti pubblicamente rifiutati di entrare a far parte di un governo sotto Netanyahu.
  A meno che uno di loro non cambi radicalmente idea, il blocco di Netanyahu rimarrà senza maggioranza.
  In caso di elezioni, la situazione potrebbe cambiare un po'. I sondaggi dell'anno scorso mostrano che l'elettorato di destra non è molto contento di Jamina e Nuova Speranza, ed entrambi i partiti farebbero fatica a raggiungere la soglia elettorale.
  In altre parole, rischiano di non farcela alla prossima elezione.
  I loro voti potrebbero andare al Likud o ad altri partiti di destra disposti a collaborare con Netanyahu.
  Forse questa amara situazione potrebbe persuadere il leader del partito New Hope Gideon Sa'ar a cambiare rotta e unirsi a una coalizione alternativa guidata da Netanyahu, almeno per ora. Prima della sua secessione, Sa'ar era una stella nascente nel Likud ed era considerato da molti il ​​naturale successore di Netanyahu. 

(israeh heute, 6 giugno 2022 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Arriva più petrolio saudita ma salta il viaggio di Biden

Il viaggio di Biden in Israele e Arabia Saudita, quest’ultima per ricucire una serie di strappi violenti e ottenere più petrolio. La notizia, un po’ a sorpresa, la dà “Haaretz”, che cerca di ricamarci sopra qualche interpretazione plausibile. Sempre ardua, per la verità, quando si tratta di decrittare l’attuale foreign policy della Casa Bianca.

di Piero Orteca

• Viaggio di riappacificazione
  In effetti, sembrava tutto pronto per accogliere il Presidente Usa, alla fine del mese, dopo il G7 in Germania e il vertice Nato in Spagna. È invece è saltato tutto. “Haaretz” ha cercato di capirci qualcosa, ma anche per gli israeliani “leggere” le carte Usa è complicato. Certo, a Gerusalemme sono famosi per la loro “intelligence” e per le capacità di raccogliere prima degli altri le imbeccate giuste, ma questa volta le spiegazioni che arrivano dall’Amministrazione Biden non dicono il resto di niente. Viene citato un report di “NBC News”, nel quale anonimi funzionari della Casa Bianca annunciano il rinvio del viaggio “a data da destinarsi”, probabilmente a luglio.

• NBC News
  Il servizio del network televisivo americano, realizzato da Andrea Mitchell e Josh Ledermann, spiega che i funzionari Usa “stanno pianificando un viaggio più ampio in Medio Oriente e una visita in Israele e in Arabia Saudita”. La missione dovrebbe prevedere anche un incontro a livello di “GCC3”. Forse. Perché la stessa NBC, nel report, citando direttamente il Presidente, fa capire che Biden non ha grande entusiasmo di recarsi in Arabia Saudita. “Sono stato impegnato nel tentativo di lavorare su come possiamo portare più stabilità e pace in Medio Oriente – ha detto venerdì Biden ai giornalisti – e c’è la possibilità che incontrerò sia gli israeliani che alcuni Paesi arabi, in quel momento. Tra questi c’è anche l’Arabia Saudita, se ci andassi. Ma al momento non ho piani diretti”.

• Viaggio rinviato perché e quando?
  Come mai, si chiede la NBC, un viaggio che sembrava sicuro, ora viene annacquato? La tv Usa una risposta se la dà (con tanto di video): la visita era stata programmata di gran corsa tenendo d’occhio i prezzi del gas e del petrolio. Ora, però, l’Opec aumenterà la produzione di greggio. Quindi gli scenari potrebbero cambiare, anche se un’inchiesta del New York Times ha dimostrato che l’incremento di produzione, promesso dall’Opec a partire da luglio, non basterà a calmierare i prezzi. Poi ci sono le promesse fatte in campagna elettorale, cioè quella di trattare i sauditi e il loro principe ereditario, bin Salman, come nemici acerrimi dei diritti umani. “Haaretz” ricorda nel suo articolo che Biden ha promesso di ridurre l’Arabia Saudita e i suoi sceicchi a “paria”, nelle relazioni Internazionali. Ovviamente, torna sempre a galla il caso del giornalista Jamal Khashoggi, barbaramente assassinato in Turchia.

• Khashoggi e ancora Bin Laden
  E non finisce qua. La NBC dice che “il gruppo di parenti delle vittime degli attacchi terroristici dell’11 settembre, ha scritto a Biden questa settimana dicendo che, se si reca nel regno, deve sollevare questioni di responsabilità sui presunti legami tra alcuni dei dirottatori e i funzionari sauditi”. In campo israeliano, invece, la confusione regna sovrana. Ci si interroga sull’atteggiamento di Biden, anche se si ritiene che, in questo momento, la Casa Bianca non sia particolarmente in pena per il Medio Oriente, Israele o i palestinesi che siano.
  Così, a Gerusalemme, si pensa che gli americani abbiano fatto un ragionamento da geopolitica “migragnosa”. Inutile avere stretti rapporti con un governo, come quello Bennett-Lapid, che potrebbe cadere da un giorno all’altro.
  Inutile “santificare” Bennett, quando l’indomani potresti ritrovarti con quel “trumpista” di Netanyahu. Insomma, per ora in Medio Oriente, per gli americani, solo una cosa è sicura: non c’è niente di sicuro.

(resoconto.it, 6 giugno 2022)

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Le Beatitudini di Gesù (1)

di Marcello Cicchese

Con questo articolo inizia una serie di meditazioni riprese da un fascicolo (non più in circolazione) dal titolo "Le Beatitudini di Gesù - Un tentativo di comprenderle e applicarle alla nostra vita". Ne riportiamo la prefazione:

    «Gli studi sulle "Beatitudini" raccolti in questo quaderno non sono il frutto di una particolare erudizione sull'argomento: non hanno quindi alcuna pretesa di rigore tecnico e di originalità "scientifica". II contesto di vita in cui sono nati è quello di una piccola comunità cristiana, a cui sono stati rivolti in forma di predicazione. In un secondo tempo sono stati rielaborati e pubblicati sul mensile "Credere e Comprendere" [anni 1981-'82], con lo scopo di favorire una riflessione sull'argomento [...]. L'obiettivo di questo fascicoletto sarà raggiunto se qualche lettore sarà invogliato a considerare con maggiore attenzione le parole di Gesù e a modificare in modo corrispondente la sua vita.»

PROMESSE E BEATITUDINI

Dal Vangelo di Matteo, cap. 5

  1. Gesù, vedendo le folle, salì sul monte; e postosi a sedere, i suoi discepoli si accostarono a lui.
  2. Ed egli, aperta la bocca, li ammaestrava dicendo:
  3. Beati i poveri in spirito, perché di loro è il regno de' cieli.
  4. Beati quelli che fanno cordoglio, perché saranno consolati.
  5. Beati i mansueti, perché erederanno la terra.
  6. Beati quelli che sono affamati ed assetati della giustizia, perché saranno saziati.
  7. Beati i misericordiosi, perché a loro misericordia sarà fatta.
  8. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
  9. Beati quelli che s'adoperano alla pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
  10. Beati i perseguitati per cagion di giustizia, perché di loro è il regno dei cieli.
  11. Beati voi, quando vi oltraggeranno e vi perseguiteranno e, mentendo, diranno contro di voi ogni sorta di male per causa mia.
  12. Rallegratevi e giubilate, perché il vostro premio è grande ne' cieli; poiché così hanno perseguitato i profeti che sono stati prima di voi.

E' difficile parlare o scrivere sulle beatitudini. Che cosa si può dire che non sia già stato detto? D'altra parte, proprio perché sono state dette così tante cose, dobbiamo parlarne anche noi, perché dobbiamo anche noi "prendere posizione", come si dice in altri ambienti e in altre occasioni: dobbiamo cioè tentare di esprimere qual è la nostra comprensione di queste parole di Gesù e quale atteggiamento pratico discende da questa comprensione.
  Dobbiamo riconoscere che la nostra tradizione di chiesa non ci aiuta: queste parole così poco dottrinali, così poco rassicuranti per le nostre coscienze, vengono di preferenza lasciate da parte. Molto meglio, così sembra, è dedicarsi alla spiegazione di passi meno ardui e più familiari. Il fatto è che queste parole di Gesù non sono paragonabili a certi capitoli del Levitico in cui si tratta, per esempio, degli animali puri e di quelli impuri o delle leggi di purificazione dei lebbrosi guariti: non sono cioè passi della Scrittura che si possono in un primo momento anche non commentare perché non più direttamente attuali per il popolo di Dio. Le beatitudini, nel contesto del sermone sul monte, vogliono presentare aspetti essenziali dell'opera che Dio compie sulla terra in Cristo: non possono dunque per nessuna ragione essere messe da parte, se non si vuole rischiare di presentare, come diceva Lutero ad altro proposito, un "mezzo Cristo" e un "mezzo vangelo". Ben difficilmente. per fare soltanto un esempio, si potrebbe essere davvero sicuri di aver capito Giovanni 3:16 o Efesini 2:8 se non si è capito anche Matteo 5:11-12.
  Lo scopo di questo articolo non è quello di dire cose particolarmente originali, ma piuttosto quello di tentare un inquadramento del messaggio delle beatitudini, in modo che sia possibile riflettere utilmente su di esse e far sì che ci parlino e condizionino le nostre scelte di vita.
  Quando si pensa alle beatitudini si tende a trascurare che ogni versetto di Matteo 5:3-10 è composto di due parti: la prima è una "beatitudine", la seconda è una "promessa". Questa seconda parte non è affatto meno importante della prima: è vero piuttosto il contrario. Sono le promesse di Dio, le opere che Egli compie e sta per compiere che danno fondamento alle dichiarazioni di beatitudine.
  Nel vangelo di Matteo, il sermone sul monte appare come la prima ampia spiegazione della predicazione di Gesù, che all'inizio viene presentata con le scarne parole del Vangelo di Matteo:

    "Da quel tempo Gesù cominciò a predicare e a dire: Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino" (Matteo 4:17).

Nelle beatitudini Gesù proclama che quello che era stato annunciato dai profeti sta per diventare realtà: beati dunque coloro che saranno trovati adatti al regno di Dio.
  Un esempio di come l'annuncio di ciò che Dio sta compiendo precede in importanza la dichiarazione di beatitudine possiamo vederlo nelle parole che Gesù manda a dire a Giovanni:

    "Andate e riferite a Giovanni quello che udite e vedete: i ciechi ricuperano la vista e gli zoppi camminano; i lebbrosi sono mondati e i sordi odono; i morti risuscitano, e l'Evangelo è annunciato ai poveri. E' beato colui che non si sarà scandalizzato di me" (Matteo 11:4-6).

Il tempo dell'attesa è finito: Gesù è colui che doveva venire, e non c'è da aspettarne un altro. Lo Spirito del Signore è sul suo unto (Isaia 61:1-3); egli è venuto per portare una buona notizia ai poveri: beati dunque i poveri; è venuto a bandire liberazione ai prigionieri: beati dunque quelli che saranno trovati nelle carceri: è venuto a consolare quelli che hanno preso il lutto: beati dunque coloro che fanno cordoglio.
  L'inizio dei vangeli sinottici lascia avvertire molto nettamente che qualcosa di decisivo sta avvenendo: il tempo è compiuto, il regno di Dio è vicino, beati coloro che saranno trovati adatti per questo regno; ravvedetevi e credete a questa buona notizia.
  Nel Decalogo i vari precetti rivolti in forma imperativa al popolo sono preceduti da una proposizione, espressa in forma indicativa, che ricorda ciò che Dio ha fatto per il suo popolo:

    "lo sono l'Eterno, l'lddio tuo, che ti ho tratto dal paese d'Egitto, dalla casa di servitù" (Esodo 20: 2).

Questa affermazione solenne intorno a ciò che Dio ha fatto per il popolo dà senso a tutti i comandamenti, i quali indicano ciò che il popolo è chiamato a fare in risposta all'azione liberatrice di Dio. La solenne affermazione iniziale potrebbe essere ripetuta davanti ad ogni comandamento, perché in realtà è da essa che ogni singolo precetto acquista forza e significato.
  In modo analogo si potrebbe dire che le beatitudini, pronunciate non sul Sinai, ma su un altro monte, espressione di una nuova legge relativa ad una nuova presenza di Dio nel mondo, assumono il loro vero senso dalla solenne affermazione di Gesù: il regno di Dio è vicino. Anche in questo caso viene solennemente annunciato che Dio ha fatto, o sta facendo, qualcosa di grande per il suo popolo. E anche in questo caso si potrebbe utilmente ripetere questa affermazione davanti ad ogni beatitudine, perché soltanto la realtà dell'azione di Dio giustifica il contenuto di ogni singola beatitudine.
  In realtà, senza la fede nella presenza del regno di Dio, ben difficilmente si potrebbe sostenere che le beatitudini sono delle massime di sapienza sagge e equilibrate. Quale persona sana potrebbe dire che è buona cosa essere oltraggiati, perseguitati, calunniati? Ma, dice Gesù, se il vostro essere perseguitati è la conseguenza del vostro cercare la giustizia del regno di Dio, allora rallegratevi, perché vi tocca la stessa sorte privilegiata che prima di voi è toccata ai profeti di Dio.
  Per questo loro aspetto di radicalità e paradossalità le beatitudini di Gesù si differenziano dal resto della letteratura sapienziale, a cui formalmente appartengono. In questo tipo di letteratura, presente anche nella Bibbia, per esempio nei Salmi e nei Proverbi, viene presentata la felicità come conseguenza di un giusto atteggiamento nei confronti di una data visione della vita. Naturalmente, per gli autori biblici, la beatitudine è annunciata su coloro che hanno un giusto rapporto con Dio (Salmo 34:8), con la legge (Proverbi 29:18), con il prossimo (Proverbi 14:21). Ma, naturalmente, per chi ha una diversa visione della vita, diverse sono anche le corrispondenti beatitudini. Un interessante esempio di beatitudine "laica" possiamo trovarlo nel profeta Malachia:

    "Ora dunque noi proclamiamo beati i superbi; sì, quelli che operano malvagiamente prosperano; sì, tentano Dio, e scampano” (Malachia 3:15).

Tutte queste beatitudini hanno comunque in comune una promessa di felicità misurabile secondo canoni comunemente accettati. La diversità di tono usato da Gesù è dovuta al fatto che egli chiama beati coloro che si trovano in situazioni che oggettivamente sono di privazione e di dolore. In realtà, nelle beatitudini di Gesù dobbiamo riconoscere lo stesso stile provocatorio, lo stesso salto di qualità che si nota quando ai "voi avete udito che fu detto", egli contrappone i suoi "ma io vi dico". Tutto il sermone sul monte ha un carattere di durezza, spigolosità, scarsa maneggevolezza che non può, non deve essere sostituito da una pacata, ordinata, distaccata esposizione dottrinale. Queste parole di Gesù ci pungono sul vivo, ci umiliano, ci scuotono, ci spingono all'azione. Il loro apparente aspetto di paradossalità è legato al carattere del Regno di Dio, che non è un regno di questo mondo, cioè non conquista il potere, non governa la terra, con i metodi e i "valori" usati dai "re delle nazioni". Il re dei Giudei finisce sul patibolo. Beati sono coloro che lo seguono fino in fondo: fin d'ora sono partecipi della sua risurrezione, fin d'ora possono "camminare in novità di vita" (Romani 6:4) e aspettare, secondo la sua promessa, "nuovi cieli e nuova terra nei quali abiti la giustizia" (2 Pietro 3:13).
  Le beatitudini sono dunque strettamente collegate con lo scandalo e la pazzia della croce di Cristo: e come "la pazzia di Dio è più savia degli uomini e la debolezza di Dio è più forte degli uomini" (1 Corinzi 1: 25), così coloro che avranno fondato la loro vita sulle parole di Gesù, saranno paragonati ad uomini avveduti che hanno costruito la casa sulla roccia (Matteo 7:24), mentre altri che, nel loro "realismo", avranno mantenuto dalle parole di Gesù un rispettoso e prudente distacco, saranno paragonati a uomini sciocchi, che hanno costruito la casa sulla sabbia.
  Non si possono dunque capire e soprattutto non si possono mettere in pratica le parole di Gesù contenute nelle beatitudini senza credere nella radicale novità introdotta nella storia degli uomini dalla vita, dalla morte in croce, dalla risurrezione di Gesù; e, viceversa, non ci si può illudere di aver compreso la parola che Dio ha dato agli uomini in Gesù Cristo senza sentire nel profondo dell'essere che le beatitudini proclamate da Gesù contengono davvero la più alta sapienza che sia stata data agli uomini:

    "una sapienza non di questo secolo né dei principi di questo secolo che stan per essere annientati, ma ... la sapienza di Dio misteriosa ed occulta che Dio aveva innanzi i secoli predestinata a nostra gloria e che nessuno dei principi di questo mondo ha conosciuta; perché se l'avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signor della gloria" (1 Corinzi 2: 6-8).

In conclusione, il giusto contesto in cui leggere le beatitudini può essere proprio la croce di Cristo: la croce che Egli per primo ha portato e alle cui sofferenze sono chiamati a partecipare coloro che vogliono seguirlo.
  Se è vero che una certa lettura "secolare" delle beatitudini tende ad usare questi detti di Gesù come supporto di impegni etici sociali o individuali prescindendo dall'opera di Cristo sulla croce, è anche vero, d'altra parte, che una certa lettura "religiosa" del vangelo tende a presentare l'opera di salvezza di Cristo prescindendo dal messaggio delle beatitudini. Entrambe le operazioni sono illegittime: le beatitudini hanno senso soltanto in bocca a Gesù, e Gesù non può essere conosciuto e accettato se non si riconoscono e non si accettano i suoi annunci di beatitudine.

    "E beato colui che non si sarà scandalizzato di me ... " ( Matteo 11:6).

(da "Credere e Comprendere", aprile 1981)


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Cos’è "Iron Beam", il super cannone laser testato da Israele

Israele ha messo a punto il primo cannone laser al mondo in grado di abbattere dai missili ai droni: ecco come funziona e come potrebbe cambiare il corso dei conflitti.

di Alessandro Ferro 

È una delle armi più tecnologicamente avanzate esistenti al mondo, unica nel suo genere, che consente di abbattere e contrastare razzi, missili e droni: stiamo parlando di un cannone laser messo a punto da Israele in un progetto durato anni. Il tweet con cui è stato annunciato è stato scritto dal primo ministro di Tel Aviv, Naftali Bennet. "Israele ha testato con successo il nuovo sistema di intercettazione laser 'Iron Beam'. Questo è il primo sistema d'arma a base di energia al mondo che utilizza un laser per abbattere Uav, razzi e mortai in arrivo al costo di $ 3,50 per colpo. Può sembrare fantascienza, ma è reale", ha dichiarato esultante.

• COS'È IRON BEAM
  Nel video che il governo israeliano ha pubblicato su Twitter e che noi abbiamo allegato in fondo al pezzo, si vede l'abbattimento di un razzo, un mortaio e un drone grazie alla visione laser di questo cannone 2.0 che con precisione incredibile ha centrato tutti e tre gli obiettivi suscitando applausi e scene di approvazione da parte degli addetti ai lavori. Un altro valore aggiunto, poi, è l'estrema economicità. "Fino ad oggi, intercettare ogni razzo ci è costato un sacco di soldi. Oggi noi investiremo 2 dollari in elettricità per intercettare quel razzo", ha aggiunto Bennett in un video diffuso dal suo ufficio. Secondo il ministero, Israele è tra i primi paesi al mondo a sviluppare questa potente tecnologia laser per sviluppare un sistema di difesa aerea funzionante. Come si legge sul Messaggero, quest'arma laser israeliana dovrà integrare quanto già presente nell'esercito: il cannone riesce a puntare il bersaglio riuscendo a riscaldarlo fino a distruggerlo.

• GLI SVANTAGGI
  Come spiega il Timesofisrael, però, non è tutto oro quello che luccica: lo svantaggio di un sistema laser è che non funziona bene in periodi di scarsa visibilità compresa la copertura del cielo o altre condizioni meteorologiche avverse. Per questo motivo, il ministero ha intenzione di montare questo sistema anche sugli aerei per aggire questo limite e colpire i bersagli anche al di sopra delle nubi. E poi, i costruttori hanno frenato da facili entusiasmi perché serviranno ancora anni affinché possa essere totalmente operativo. "C'è un lavoro in corso promettente sul laser", ha dichiarato Thomas Karako, ricercatore senior al Center for Strategic and International Studies di Washington. Anche gli Stati Uniti lavorano su questa strada, con nuove armi laser che sarebbero in grado di abbattere missili da crociera.
  Gli ingegneri israeliani hanno anche combinato insieme molti di questi raggi con un'intensità molto elevata facendoli convergere in un punto specifico di un bersaglio aereo. Il ministero della Difesa ha finanziato la società statale "Rafael Advanced Defense Systems Ltd", il principale produttore di questo sistema, con oltre 100 milioni di dollari. "Israele non ha mai abbandonato l'idea della tecnologia laser", ha dichiarato Gabi Siboni, esperta di strategia militare all'Istituto di Gerusalemme per la Strategia e la Sicurezza. "Sarà più economico, più sicuro e meno dipendente dal riarmo".

(il Giornale, 4 giugno 2022)

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Un altro Pasdaran morto. Ma stavolta il Mossad (forse) non c’entra

L’Unità 840, la stessa del colonnello Khodayari freddato probabilmente dall’intelligence israeliana, perde un altro esponente di primo piano: Ali Esmailzadeh. I media di Teheran parlano di caduta accidentale dal balcone ma rimane il mistero. Intanto, Gerusalemme potrebbe avere un’idea per il patto nucleare.

di Gabriele Carrer ed Emanuele Rossi 

Il colonnello Ali Esmailzadeh sarebbe il secondo alto ufficiale dell’Unità 840 della Forza Quds, l’élite dei Guardiani della rivoluzione islamica, a morire in circostanze da chiarire in meno di due settimane. Il 22 maggio scorso un altro colonnello dell’Unità 840, Sayad Khodayari, impegnato nelle attività dei Pasdaran all’estero (soprattutto in Siria), è stato freddato mentre tornava a casa nel cuore di Teheran. Un’operazione i cui contorni hanno alimentato i soliti sospetti, quelli che portano a Israele e al Mossad.
  A dare per prima la notizia della morte di Esmailzadeh è stato il sito Iran International. Le fonti della testata iraniana di opposizione hanno riferito che l’uomo, un collega fidato di Khodayari, “è morto cadendo dal tetto della sua casa nella zona di Jahan Nama, a Karaj”, che si trova a circa 20 chilometri della capitale Teheran. Secondo Tasnim, notiziario affiliato ai Pasdaran, sarebbe invece caduto dal balcone, in maniera accidentale. Dopo la caduta “è stato portato all’ospedale Shahid Madani, dove i medici ne hanno dichiarato la morte”, ha scritto Iran International — che lavora da Londra e ha collegamenti con l’Arabia Saudita, rivale iraniano.
  Ma la stessa testata ha aggiunto un particolare: “Sulla base di questo rapporto, gli ufficiali dei Guardiani della rivoluzione islamica hanno detto alla famiglia di Esmailzadeh che il motivo della sua morte era suicidio”. Gli ufficiali dei Pasdaran hanno inoltre riferito alla famiglia, continua il resoconto, “che Esmailzadeh si è tolto la vita a causa di problemi psicologici dopo la separazione dalla moglie e ha lasciato un biglietto sul suo gesto”. Ma la fonte del giornale sostengono che l’intelligence dei Pasdaran potrebbe aver deciso di inscenare il suicidio sospettando di Esmailzadeh dopo la morte di Khodayari.
  Che il colonnello abbia o meno avuto un ruolo in quello che sembra essere stato un piano del Mossad, che si sia suicidato o meno, poco cambia relativamente al messaggio di avvertimento che i Pasdaran potrebbero aver voluto mandare a Israele quanto ai propri uomini. Allo stesso modo, l’intelligence israeliana potrebbe aver inscenato il suicidio anche con la consapevolezza che poteva essere visto come un regolamento di conti interno — e dunque seminare caos tra le linee del nemico.
  Stando ad alcune ricostruzioni, l’Unità 840, di cui si sa molto poco, avrebbe il compito di preparare piani (e poi metterli in atto quando serve) contro figure israeliane attive al di fuori dello Stato ebraico. Di essa avrebbe fatto parte anche Mansour Rasouli, cinquantaduenne che ha recentemente confessato, filmato dal Mossad dopo il fermo, che stava organizzando attentati tra cui quelli di un diplomatico israeliano al consolato di Istanbul, un alto ufficiale militare statunitense di stanza in Germania e un giornalista ebreo in Francia poi identificato in Bernard-Henri Lévy.
  Israele in questa fase è particolarmente attivo sul dossier iraniano, che ha valore esistenziale per lo Stato ebraico, dato che i Pasdaran sono anche finanziatori di una rete composita di milizie che hanno gli ebrei e Israele come target. Tra queste i gruppi armati palestinesi, sunniti, così come gli sciiti di Hezbollah in Libano e le varie milizie collegate nella regione. Anche per questo gli israeliani sono contrari alle possibilità negoziali offerte a Teheran sul proprio programma nucleare.
  Secondo un retroscena svelato dal Jerusalem Post e parzialmente smentito dal governo di Gerusalemme, Eyal Hulata, consigliere per la sicurezza nazionale israeliano, durante gli incontri di questa settimana con il suo omologo statunitense Jake Sullivan a Washington, avrebbe presentato una proposta. Un accordo con l’Iran basato sul testo del Jcpoa del 2015, ma senza le “clausole di decadenza”, che sono quelle che eliminano gradualmente le restrizioni sul programma nucleare iraniano inizialmente congelato.
  Lo scopo del viaggio di Hulata sarebbe stato quello di presentare l’idea e avviare una conversazione con gli americani in vista del viaggio di Biden a Gerusalemme alla fine del mese. Da lì il piano verrebbe allargato agli E3, ossia i tre Paesi europei che fanno parte del Jcpoa — Francia, Germania e Regno Unito. Il governo Bennett spera di sfruttare la visita dei Biden in Israele per convincerlo sulla necessità di mantenere la pressione sull’Iran e di stringere per un accordo più serrato.
  Le operazioni all’interno dell’Iran — così come quelle in Siria e Iraq — sono per Israele un messaggio a rivali e avversari attraverso cui trasmettere capacità d’azione e creare deterrenza. Oltre che un metodo diretto di eliminazione progressiva della minaccia. Allo stesso tempo sono clausole speciali che gli americani lasciano informalmente in piedi — vista l’alleanza con Israele — mentre cercano di trovare una quadra sulla ricomposizione del Jcpoa.

(Formiche.net, 3 giugno 2022)

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Rivelazioni sui negoziati fra Israele e Siria

Gli Archivi dello Stato d’Israele hanno reso pubblici gli appunti del diplomatico Dore Gold, presi il 9 giugno 1996, durante il colloquio tra il nuovo primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, e il presidente statunitense, Bill Clinton.
  In questo scritto Dore Gore spiega la posizione dell’ex primo ministro, Yitzhak Rabin, da poco assassinato: era pronto ad accettare la restituzione del Golan, in cambio di garanzie di pace in Siria. Netanyahu in linea di principio non era contrario all’accordo, anzi lasciò credere al presidente Clinton che lo avrebbe accettato.
  Fu infine il successore di Netanyahu, Ehud Barak, a trattare, durante i negoziati di Ginevra, con Bill Clinton e il presidente siriano Hafez al-Assad la restituzione del Golan. Tornato in Israele però, non si sa per quale ragione, Barak cambiò idea.

(Reset Voltaire, 3 giugno 2022)

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Shavuot mi ha fatto diventare sionista

Gli ebrei hanno capito che Popolo, Terra e Torah formano insieme un triangolo, “una corda a treccia che non può essere recisa”. Una riflessione di Andrés Spokoiny, Presidente e CEO di Jewish Funders Network.

Shavuot mi ha fatto diventare sionista. Forse non è stato solo Shavuot, ma quella festa ha avuto un ruolo importante. Perché? Perché quando cresci nell’emisfero meridionale, le festività ebraiche ti rendono fortemente consapevole di essere nel posto sbagliato; soprattutto quelle che, come Shavuot, hanno una forte componente stagionale.
  Nella mia scuola ebraica, portavamo i cesti con i “bikkurim”, i primi frutti maturi, nel cuore dell’inverno e cantavamo canzoni gioiose del raccolto quando mancavano ancora mesi alla maturazione del grano. Marciavamo nel cortile della scuola indossando il “kova tembel” (il cappello un po’ ridicolo dei pionieri israeliani) e cantavamo “fate largo, portiamo i primi frutti dai confini della Terra!”. Nel bene e nel male, tutto questo ci ha instillato l’idea che ci fosse qualcosa di irrimediabilmente perso nel tuo ebraismo se sei lontano dalla Terra d’Israele. Era come se le nostre maestre d’asilo volessero mostrarci quanto fosse ridicolo un ebreo al di fuori della sua patria.
  Certo, la maggior parte delle festività ebraiche ha un legame con la Terra d’Israele e i suoi cicli naturali. Non è stato meno disorientante celebrare la Pasqua ebraica come festa della primavera tra foglie che cadono e tempeste autunnali, ma c’era qualcosa di unico in Shavuot che rendeva evidente l’incompletezza di un ebraismo senza terra.
  La nostra tradizione collega Shavuot alla consegna della Torah, ma questa sembra essere un’aggiunta successiva. Nella Bibbia, è come se la festa celebrasse semplicemente la ricchezza della terra e il nostro attaccamento ad essa. I testi che leggiamo a Shavuot, in particolare il Libro di Ruth, sono un’ode alla Terra d’Israele e uniscono l’amore per il popolo a quello per la terra.
  Questo sembra molto rilevante oggi, mentre sono in corso incessanti tentativi di disgiungere l’ebraismo dal suo rapporto con Israele e di negare che gli ebrei siano autoctoni della terra. Certo, l’ebraismo è sopravvissuto in esilio, perché è adattabile e flessibile, ma uno dei segreti di questa sopravvivenza è stato il mantenimento di un rapporto con la terra. Per due millenni di esilio, gli ebrei non solo hanno invocato “L’anno prossimo a Gerusalemme”, ma hanno imparato le leggi ebraiche che si applicano solo alla Terra d’Israele; hanno memorizzato le leggi sull’agricoltura anche se era loro proibito coltivare la terra, e sono diventati esperti di frutti e specie che esistono solo in Israele. In altre parole, la nostalgia per la terra e la speranza di tornare alla culla della nostra nazione erano parte di ciò che ci sosteneva. Gli ebrei hanno capito che Popolo, Terra e Torah formano insieme un triangolo, “una corda a treccia che non può essere recisa”. (Ecclesiaste 4:12). In definitiva, tutti i tentativi di creare un ebraismo privo del suo rapporto, anche se platonico, con la Terra d’Israele, sono svaniti nell’irrilevanza.
  Il nostro rapporto con la terra non è idolatrico. La terra non è un dio e non è sacra di per sé. In effetti, il concetto di Eretz Israel (la Terra d’Israele) è fluido; i saggi del Talmud hanno spostato i confini di “Eretz Israel” in base a diverse considerazioni, ad esempio la continuità abitativa degli ebrei, che, tra l’altro, fornisce una motivazione halachica per un compromesso territoriale con i palestinesi. Quindi, la terra d’Israele non è una divinità che si deve servire e placare. È piuttosto la piattaforma su cui costruire una società ebraica completa, la tela su cui gli ebrei devono dispiegare l’arte di essere un popolo.
  Questa società doveva essere, fin dall’inizio, l’opposto delle culture pagane del tempo, soprattutto dell’Egitto, dove gli israeliti avevano sperimentato l’amarezza della schiavitù. Uscito dalla schiavitù, Israele doveva costruire l’anti-Egitto. Mentre l’Egitto era governato dalla forza, Israele sarebbe stato governato dal diritto; mentre l’Egitto glorificava la schiavitù, Israele avrebbe “proclamato la libertà in tutto il paese”; mentre l’Egitto era altamente diseguale e ingiusto, Israele si sarebbe basato sulla giustizia; mentre l’Egitto era governato da caste e semidei, Israele avrebbe sancito l’intrinseca uguaglianza e dignità di tutte le persone.
  Ecco perché, a Shavuot, quando il Libro di Ruth celebra il nostro amore per la terra, lo fa raccontando una storia di solidarietà e carità. La storia è ambientata sullo sfondo delle leggi sulla “pe’ah”, che istruiscono i contadini a lasciare gli angoli dei campi non raccolti in modo che i poveri possano prendere il grano per le loro famiglie. Ruth è una di quelle persone povere che sopravvivono raccogliendo “pe’ah”, ed è così che incontra Boaz, il contadino che possiede la terra. Alla fine diventa sua moglie, generando la discendenza di Re Davide. Tra l’altro, la storia mostra come, nell’antico Israele, ogni famiglia avesse diritto a un appezzamento di terra da coltivare, in modo che la povertà e l’indigenza fossero rare.
  In altre parole, non c’è amore per la terra senza amore reciproco; non ha senso possedere la terra se non la si usa per applicare norme di solidarietà, giustizia e generosità.
  L’ebraismo ha dato al mondo valori unici di umanità, giustizia, compassione e fraternità, ma a che cosa servono questi valori se non sono la base di una società sovrana? A cosa servono i valori senza una terra in cui metterli in pratica? Che senso hanno i principi più alti se si limitano ai libri e agli studi? Possedere una terra, avere un territorio che possiamo chiamare casa, distingue i valori puramente astratti da quelli che servono come fondamento di una società che opera nel mondo reale.
  Naturalmente, quando i valori vengono applicati “nella vita reale”, diventano confusi, si scontrano e devono essere soppesati. Un popolo che sogna solo l’indipendenza può permettersi il lusso di immaginare una società pura, senza compromessi dolorosi. Ecco perché oggi alcuni ebrei continuano a preferire l’esilio alla sovranità. Senza le sfide di costruire un Paese nel mondo reale, possono evitare di doversi confrontare con principi contrastanti e di fare scelte sgradevoli in circostanze imperfette. In una sorta di sindrome di Stoccolma applicata alla storia, questi ebrei hanno fatto propria la tragedia – la storica mancanza di terra degli ebrei – e l’hanno trasformata in una virtù. In un certo senso, è un approccio vigliacco, perché la sfida ultima di ogni valore è lo scontro con la realtà. La tradizione ebraica preferisce sempre la complessità del reale alla purezza dell’ideale.
  Ecco perché Shavuot era così importante nell’antichità e perché oggi l’ebraismo sarebbe vuoto senza il suo rapporto con Israele. Non solo perché mancherebbe una componente fondamentale della nostra identità, ma perché solo in una terra tutta nostra possiamo costruire una società che sia veramente nostra, una società che si sforzi di essere guidata dai nostri valori e dalla nostra esperienza storica. Un popolo ha bisogno di una terra, così come un pittore ha bisogno di una tela; solo su una terra il carattere del popolo può essere rivelato ed espresso.
  Questo compito non era facile ai tempi di Ruth e Boaz e non lo è nemmeno oggi, ma siamo fortunati a poterci provare. Le mie maestre d’asilo ci sono riuscite. Ora so che Boaz, Ruth e io abbiamo lo stesso compito e la stessa sfida: realizzare l’eterna speranza di essere un popolo libero nella nostra terra.
  Chag sameach!

(JoiMag, 3 giugno 2022)

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Bennett agli israeliani: 'Fate sentire la vostra voce'

Il premier contro il ritorno al caos di un anno fa con Netanyahu

Ad un anno dall'arrivo al potere, il premier Naftali Bennett ha inviato una inusuale lettera aperta agli israeliani - "la maggioranza silenziosa sionista" - sostenendo che il paese deve scegliere se procedere oppure "ritornare di nuovo nel caos".
  Alla guida di un governo in bilico, con una maggioranza alla Knesset pari a quella dell'opposizione (60 a 60), in costante rischio di nuove elezioni e pressato dall'ex premier Benjamin Netanyahu, Bennett ha messo in guardia gli israeliani sulla delicatezza della situazione. "Circa un anno fa lo Stato di Israele ha vissuto uno dei suoi momenti più difficili. Caos, elezioni senza fine, le città di Lod e Acri in fiamme di fronte un governo umiliato e conflittuale", ha scritto riferendosi agli scontri tra arabi e ebrei sullo sfondo della guerra con Gaza.
  Israele - ha aggiunto - ha mostrato "una terribile debolezza di fronte un nemico omicida che ha tirato razzi su Gerusalemme". Un Paese intrappolato "dalla fede in un solo uomo e dall'asservimento dell'energia dello Stato ai suoi bisogni legali", ha poi aggiunto riferendosi ai guai giudiziari di Netanyahu e al suo processo. Dopo aver fatto riferimento al continuo tentativo di Netanyahu di inquinare la vita pubblica israeliana("la macchina del veleno"), Bennett ha chiuso l'appello sostenendo che se non si vuole "cadere all'indietro, allora dobbiamo agire tutti. Questa lettera è un invito all'azione".

(ANSA, 3 giugno 2022)

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Nucleare iraniano: Teheran ha mentito di nuovo all’AIEA. Cosa altro serve?

L’Iran è veramente ad un passo dall’avere abbastanza materiale fissile per una bomba. Qualsiasi cosa abbiano in mente di fare gli israeliani è il momento di farla. Il capo della AIEA vola in Israele.

Sul nucleare iraniano Teheran ha mentito nuovamente con l’Agenzia Internazionale per l’Energia AtomicaAIEA. A sancirlo è la stessa agenzia di controllo delle Nazioni Unite con un rapporto che non lascia adito a dubbi di sorta.
  All’inizio di questa settimana il Primo Ministro israeliano, Naftali Bennet, ha accusato l’Iran di spiare l’AIEA e di aver sottratto loro dei documenti con i quali ne ha potuto conoscere in anticipo le mosse e così ha potuto ingannare gli ispettori.
  L’Iran ha subito negato ma il Primo Ministro israeliano ha fornito le prove di quanto affermato anche se non è chiaro se sono nuovi documenti acquisiti dal Mossad o sono quelli derivanti dalla clamorosa operazione di qualche tempo fa con la quale proprio il Mossad riuscì ad intrufolarsi a Teheran e a rubare mezza tonnellata di materiale segreto (110.000 file, 55.000 pagine e 55.000 file digitali su CD-ROM) sul programma nucleare iraniano.
  Il rapporto della AIEA afferma che l’Iran non ha risposto in modo credibile alle domande dell’organismo di controllo nucleare delle Nazioni Unite sull’origine delle particelle di uranio trovate in tre siti non dichiarati.
  Tutto lascia quindi pensare che l’Iran arricchisca l’uranio anche in siti non dichiarati e che le scorte di uranio altamente arricchito siano ben più grandi.
  L’AIEA nel suo ultimo rapporto ha stimato che Teheran dispone di 43,1 Kg di uranio arricchito al 60%, quindi facilmente trasformabile al 90%. Per fare una bomba nucleare servono 55 Kg arricchiti al 60% da poter trasformare facilmente in uranio arricchito al 90%. Quindi l’Iran è ad un passo dal traguardo. Anzi, se i sospetti israeliani sono concreti probabilmente Teheran ha già raggiunto la quantità di uranio arricchito che le serve per una bomba.
  Ieri sera il capo della AIEA, Rafael Grossi, è arrivato in Israele e oggi avrà colloqui con il Primo Ministro israeliano. All’ordine del giorno ci dovrebbero essere proprio i documenti sottratti agli iraniani dal Mossad che provano come Teheran spiasse gli ispettori della AIEA e riuscisse così a sapere in anticipo dove sarebbero andati a ispezionare riuscendo quindi ad aggirare i controlli.
  Sinceramente non so cosa altro serva per capire che gli iraniani sono fortemente in malafede, che sono veramente ad un passo dalla bomba atomica e che quindi qualsiasi azioni abbiano in mente israeliani e americani è il momento di metterla in atto.

(Rights Reporter, 3 giugno 2022)

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Il deserto per Israele: spazio liminale tra schiavitù e libertà, passato e futuro, esilio e ritorno

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò

Una delle scene più ironiche della storia anglo-ebraica si verificò il 14 ottobre 1663. Erano passati solo sette anni da quando Oliver Cromwell (1599-1658 condottiero e politico inglese) non aveva trovato alcun ostacolo legale contro gli ebrei che vivevano in Inghilterra. Una piccola sinagoga fu aperta a Creechurch Lane nella City di Londra, precursora di Bevis Marks (1701), il più antico luogo di culto ebraico ancora esistente in Gran Bretagna.
  Il famoso diarista Samuel Pepys (politico scrittore inglese 1633-1703) decise di visitare questa nuova sinagoga, per vedere come si comportavano gli ebrei in preghiera. Quello che vide lo stupì e lo scandalizzò. Per caso o per provvidenza, il giorno del suo arrivo era Simchat Torah. Così ha descritto ciò che ha visto: “Le loro leggi che tirano fuori dalla stampa [cioè l’Arca] sono portate da più uomini, quattro o cinque diversi fardelli in tutto, che si alleviano a vicenda; ognuno desidera averne il trasporto, non so dirlo, così lo portavano in giro per la stanza mentre un tale cantava.. Ma, Signore! Vedere il disordine, il ridere, e nessuna attenzione, ma la confusione in tutto il loro servizio, più simili a bruti che a persone che conoscono il vero Dio, farebbe giurare a un uomo di non volerli vedere mai più e in effetti non ho mai più visto così tanto o potrei, ho immaginato, aver pensato che ci fosse stata una religione in tutto il mondo così assurdamente eseguita come questa”.
  Questo non era il tipo di comportamento a cui Pepys era abituato in un luogo di culto.
  C’è qualcosa di unico nel rapporto degli ebrei con la Torah, il modo in cui stiamo alla sua presenza come se fosse un re, balliamo con essa come se fosse una sposa, la ascoltiamo mentre racconta la nostra storia e la studiamo, mentre noi diciamo nelle nostre tefilloth come “la nostra vita e la lunghezza dei nostri giorni”. Ci sono poche righe di preghiera più toccanti di quelle contenute in una poesia che leggiamo a Neilah, alla fine dello Yom Kippur: Ein shiyur rak haTorah hazot – “Non resta niente”, dopo la distruzione del Tempio e la perdita della terra, “ma resta questa Torah”. Un libro, un rotolo, era tutto ciò che si frapponeva tra gli ebrei e la disperazione.
  Ciò che i non ebrei (e talvolta gli ebrei) non riescono ad apprezzare è come, nel giudaismo, la Torah rappresenti la legge come amore e l’amore come legge. La Torah non è solo “legislazione rivelata”. Rappresenta la fede di Dio nei nostri antenati ai quali Egli ha affidato loro, la creazione di una società che sarebbe diventata una casa per la Sua Presenza e un esempio per il mondo.
  Una delle chiavi di come questo ha funzionato è contenuta nella parashà di Bamidbar, letta sempre prima di Shavuot, il giorno che ricorda il dono della Torah. Questo ci rammenta quanto sia centrale l’idea di deserto (la terra di nessuno) per il giudaismo. È midbar, deserto, che dà il nome alla nostra parashà e al libro nel suo insieme. Fu nel deserto che gli israeliti, una nazione, fecero un patto con Dio e ricevettero la Torah, la loro costituzione sotto la sovranità di Dio. È il deserto che fa da cornice a quattro dei cinque libri della Torah, ed è lì che gli israeliti sperimentarono il loro più intimo contatto con Dio, che mandò loro acqua da una roccia, manna dal cielo e li circondò di Nubi di Gloria.
  Quale storia ci viene raccontata qui? La Torah ci parla di tre fondamenti dell’identità ebraica. Il primo è il fenomeno unico che, nel giudaismo, la legge ha preceduto la terra. Per ogni altra nazione nella storia è avvenuto il contrario. Prima venne la terra, poi gli insediamenti umani, prima in piccoli gruppi, poi in villaggi, paesi e città. Poi vennero le forme di ordine e governo e un sistema giuridico: prima la terra, poi la legge.
  Il fatto che nel giudaismo la Torah fosse data a bemidbar, nel deserto, prima ancora che fossero entrati nella terra, significava che gli ebrei e il giudaismo in modo unico potesse sopravvivere, la loro identità fu intatta, anche in esilio. Perché la legge è venuta prima della terra, anche quando gli ebrei persero la patria. Ciò significa che, anche in esilio, gli ebrei erano ancora una nazione. Dio rimase il loro sovrano. Il patto era ancora in vigore. Anche senza una geografia, avevano una storia in corso. Anche prima che entrassero nel paese, agli ebrei era stata data la possibilità di sopravvivere al di fuori di questo.
  In secondo luogo, c’è una connessione allettante tra midbar, “deserto” e davar, “parola”. Laddove altre nazioni trovarono gli dei nella natura – la pioggia, la terra, la fertilità e le stagioni dell’anno agricolo – gli ebrei scoprirono Dio in trascendenza, al di là della natura, un Dio che non si vedeva ma si ascoltava. Nel deserto non c’è natura. C’è il vuoto e il silenzio, in cui si può sentire la voce ultraterrena dell’Uno-oltre-il-mondo. Come disse Edmond Jabès (1912-1991 poeta francese): “La parola non può dimorare se non nel silenzio di altre parole. Parlare è, di conseguenza, appoggiarsi a una metafora del deserto”.
  Il politologo tedesco-americano Eric Voegelin (1902-1985) vide questo come fondamentale per la forma completamente nuova di spiritualità nata nell’esperienza degli israeliti: “Quando intraprendiamo l’esodo e vaghiamo nel mondo, per fondare una nuova società altrove, scopriamo il mondo come il deserto. Il volo non porta da nessuna parte, finché non ci fermiamo per orientarci oltre il mondo. Quando il mondo è diventato Deserto, l’uomo è finalmente nella solitudine in cui può udire tonante la voce dello spirito che con il suo sussurro incalzante lo ha già scacciato e salvato dallo Sheol [il dominio della morte]. Nel deserto Dio parlò al capo e alle sue tribù; nel deserto, ascoltando la voce, accogliendone l’offerta e sottomettendosi al suo comando, avevano finalmente raggiunto la vita ed erano diventati il popolo eletto da Dio”.
  Nel silenzio del deserto Israele è diventato il popolo per il quale l’esperienza religiosa primaria non è stata vedere, ma ascoltare: Shema Yisrael. Il Dio d’Israele si è rivelato a parole. L’ebraismo è una religione di parole sante, in cui l’oggetto più sacro è un libro, un rotolo, un testo.
  Terzo, e il più notevole, è l’interpretazione che i profeti diedero a quegli anni formativi in cui gli israeliti, avendo lasciato l’Egitto e non ancora entrati nel paese, erano soli con Dio. Osea, predicendo un secondo esodo, dice in nome di Dio riguardo agli israeliti: “La condurrò nel deserto e le parlerò teneramente… Là lei risponderà come nei giorni della sua giovinezza. Come il giorno in cui uscì dall’Egitto. (Osea 2:14-15)
  Geremia dice in nome di Dio: “Ricordo la devozione della tua giovinezza, come sposa mi hai amato e mi hai seguito attraverso il deserto, attraverso una terra non seminata”. (Geremia 2:2)
  Shir HaShirim, Il Cantico dei Cantici, contiene il verso: “Chi sta salendo dal deserto appoggiandosi al suo amato?” (Shir HaShirim 8:5)
  Comune a ciascuno di questi testi è l’idea del deserto come luna di miele, in cui Dio e il popolo, immaginato come sposo e sposa, stavano insieme soli, consumando la loro unione nell’amore. A dire il vero, nella stessa Torah vediamo gli israeliti come un popolo recalcitrante e ostinato che si lamenta e si ribella a Dio. Eppure i Profeti in retrospettiva vedevano le cose in modo diverso. Il deserto era una specie di yichud, un’unità solitaria, in cui il popolo e Dio si univano nell’amore.
  Il più istruttivo in questo contesto è il lavoro dell’antropologo Arnold Van Gennep (1873-1957) che concentrò l’attenzione sull’importanza dei riti di passaggio. Le società sviluppano rituali per segnare il passaggio da uno stato all’altro – dall’infanzia all’età adulta, per esempio, o dall’essere single all’essere sposati – coinvolgendo tre fasi. La prima è la separazione, una rottura simbolica con il passato. L’ultima è l’incorporazione, il rientro nella società con una nuova identità. Tra le due arriva la fase cruciale del passaggio quando, essendo stato spogliato di un’identità, ma non ne hai ancora indossata un’altra, è come se in un certo senso rinasci, vieni ricreato e rimodellato.
  Van Gennep ha usato il termine liminale, dalla parola latina per “soglia”, per descrivere questo stato di transizione quando ci si trova in una specie di terra di nessuno tra il vecchio e il nuovo. Questo è ciò che il deserto significa per Israele: spazio liminale tra schiavitù e libertà, passato e futuro, esilio e ritorno, Egitto e Terra Promessa. Il deserto era lo spazio che rendeva possibile la transizione e la trasformazione. Là, nella terra di nessuno, gli israeliti, soli con Dio e tra di loro, potevano spogliarsi di un’identità e assumerne un’altra. Là potevano rinascere, non più schiavi del Faraone, ma servi di Dio, chiamati a diventare “un regno di sacerdoti e una nazione santa”. (Esodo 19:6)
  Vedere il deserto come uno spazio di mezzo ci aiuta a vedere la connessione tra gli israeliti ai giorni di Mosè e l’antenato di cui portavano il nome. Perché fu Giacobbe, tra i patriarchi, ad avere le sue più intense esperienze con Dio nello spazio liminale, dal luogo dal quale partiva e quello verso cui si recava, da solo e di notte. Fu là, in fuga da suo fratello Esaù, ma non ancora non arrivato alla casa di Labano, che ebbe una visione di una scala che si estende dalla terra al cielo con angeli che salivano e scendevano, e là, al suo ritorno, combatté con uno straniero di notte fino all’alba e gli fu dato il nome di Israele.
  Questi episodi possono ora essere visti come prefigurazioni di ciò che sarebbe poi accaduto ai suoi discendenti (ma’aseh avot siman levanim, “gli atti dei padri sono un segno di ciò che sarebbe poi accaduto ai figli”).
  Il deserto è diventato così il luogo di nascita di un rapporto del tutto nuovo tra Dio e l’umanità, un rapporto costruito sull’alleanza, la parola e l’amore come si concretizza nella Torah. Lontano dai grandi centri di civiltà, un popolo si trovò solo con Dio e lì consumava un legame che né l’esilio né la tragedia potevano spezzare. Questa è la verità morale al centro della nostra fede: non è il potere o la politica che ci legano a Dio, ma l’amore.
  La gioia nella celebrazione di quell’amore portò il re Davide a “saltare e ballare” quando l’Arca fu portata a Gerusalemme, guadagnandosi la disapprovazione della figlia del re Saul, Michal (2 Samuele 6:16), e molti secoli dopo guidò gli anglo-ebrei di Creechurch Lane a ballare a Simchat Torah, con disapprovazione di Samuel Pepys. Quando l’amore sconfigge la dignità, la fede è viva e vegeta.

(Bet Magazine Mosaico, 3 giugno 2022)

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Cancellare Marconi

Marconi succedette, alla Presidenza del CNR, a Vito Volterra, ebreo antifascista che fu successivamente emarginato ed estromesso da tutte le cariche che rivestiva. [risalto aggiunto]

di Leonardo Rizzo

Il giorno dopo la scomparsa di Ciriaco De Mita, l’università Suor Orsola Benincasa ha intitolato un’aula all’ex premier democristiano su iniziativa del rettore Lucio D’Alessandro; nei giorni successivi, invece, è stata inaugurata in un paese del Reatino la prima statua a Bettino Craxi. Due episodi che la dicono lunghissima su quanto, a distanza di qualche decennio dalla chiusura della prima Repubblica, il giudizio diffuso su quella lunga stagione politica sia cambiato. La damnatio memoriae ha lasciato il posto a una sorta di rivalutazione indistinta, a un “si stava meglio quando si stava peggio”, probabilmente dovuto all’insoddisfazione per il presente: ma entrambi gli atteggiamenti peccano di superficialità, rispetto a fenomeni storici e umani che avrebbero bisogno di un’analisi più approfondita.
  Il processo è però curioso, considerando quanto invece sia diffuso l’atteggiamento opposto, quello cioè che va sotto il nome di “cancel culture” e che si sostanzia in una bocciatura ex-post di personaggi storici finora esaltati, ai quali si fanno le pulci rispetto a loro presunti peccati ed errori di carattere soprattutto etico e politico. L’ultimo a farne le spese è stato Guglielmo Marconi. Cardiff, la capitale del Galles, ha infatti congelato il progetto di dedicare all’inventore del telegrafo senza fili una statua, in ragione del suo passato fascista, del sostegno fornito all’invasione dell’Etiopia nonché, ciò che è peggio, a un’annotazione sugli studiosi ebrei candidati entrare nell’Accademia d’Italia.
  Senza entrare nel dettaglio delle vicende, è fuori di dubbio che Marconi fornì al fascismo e a Mussolini un appoggio incondizionato e talvolta encomiastico. In cambio di quest’adesione ottenne indubbi vantaggi: di carattere personale, importanti per un uomo tanto ambizioso; di carattere istituzionale, tanto da accumulare un notevole numero di prestigiosissime cariche; di carattere scientifico, ottenendo dal Duce sostegno economico, anche se in misura inferiore a quanto desiderato, e soprattutto politico, poiché l’ostilità verso questo outsider sotto il regime era notevole.
  Basti un episodio. Marconi succedette, alla Presidenza del CNR, a Vito Volterra, ebreo antifascista che fu successivamente emarginato ed estromesso da tutte le cariche che rivestiva e fatto oggetto di una pesantissima emarginazione, di un vero e proprio isolamento che lo costrinse a una sorta di esilio scientifico e che proseguì persino con la sua morte, quando soltanto in Vaticano gli venne dedicato un evento in memoria.
  Marconi ne prese il posto con disinvoltura e anche con qualche caduta di stile e il paragone tra i due fa brillare di ulteriore merito la figura eroica di Volterra, uno dei pochissimi accademici che rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo. Ma Volterra, per l’appunto, era un eroe, apparteneva cioè a una ristretta minoranza di intellettuali che ebbero il coraggio di rivendicare la loro libertà e indipendenza sotto un regime totalitario. Marconi fu sostanzialmente un opportunista e coltivava probabilmente una sincera ammirazione per Mussolini: condividendo entrambi questi atteggiamenti con la stragrande maggioranza degli italiani durante il ventennio.
  La cancel culture è un atteggiamento ridicolo perché pretende di giudicare il passato con il metro, la sensibilità, gli occhi di oggi. Ma è un fenomeno complesso, nel quale entra anche l’atteggiamento tipicamente occidentale di continua a revisione dei propri fondamenti culturali. Quello che, ad esempio, ha portato la Chiesa Cattolica a pronunciare degli “auto da fé” su molte delle proprie precedenti scelte. Potremmo dire, anche se ai suoi sostenitori il termine non piacerebbe, che la cancel culture è una forma di revisionismo e che questo atteggiamento è profondamente connaturato alla sempre vivace evoluzione del pensiero occidentale.

(Electromagazine, 3 giugno 2022)

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Temple Mount o la “pietra dello scandalo”

Patriarchi, profeti e califfi: quali i termini di un millenario casus belli?

di Claudio Vercelli

Se non è vero che la storia sia sempre e comunque la voce dell’oggettività è senz’altro plausibile che essa, quando non viene immediatamente piegata alle ragioni dell’ideologia, possa costituire lo strumento attraverso il quale si dà una lettura critica (e quindi costruttiva) alle fonti del passato. Intorno al conflitto israelo-palestinese prima ancora che le mistificazioni e le manipolazioni consapevoli e quindi volute, quel che più pesa è infatti il condizionamento ideologico che lo riveste, oramai da molto tempo, come un involucro inscalfibile. Così nel caso recente degli scontri, peraltro gli ennesimi, rispetto al Monte del Tempio, Har haBáyit. Il fatto che questo luogo condivida la natura di simbolo dei tre monoteismi, sia pure per distinte ragioni, lo elegge a spazio non di conciliazione bensì di conflitto permanente. Soprattutto laddove la più generale contrapposizione tra comunità nazionali assume, per certuni, il significato di guerra religiosa, al pari di un’ordalia.
  Perché è un simbolo così importante? Qualche indicazione storica, per l’appunto, può risultare utile. Con la denominazione di Monte del Tempio ci si riferisce all’area murata a forma trapezoidale nella zona sud-orientale della Città Vecchia di Gerusalemme. Le cinta murarie che lo circondano risalgono – quanto meno nella parte inferiore – all’epoca del Secondo Tempio ebraico, costruito alla fine del I secolo a.e.v. Queste enormi strutture di sostegno, in parte interrate, furono erette attorno alla sommità del colle orientale identificato come Monte Moriah, il sito tradizionalmente considerato come il luogo in cui Abramo offrì suo figlio Isacco in sacrificio nonché sede dei due templi ebraici. Gli spazi vuoti tra le mura e il monte furono quindi riempiti per creare un’ampia superficie attorno al Tempio. Evitiamo ai lettori la minuziosa ricostruzione storica dei molti fatti che ruotano intorno ad esso. Va tuttavia ricordato che durante i giganteschi lavori voluti da Erode il Grande, avviatisi intorno al 20 a.e.v. e quindi proseguiti per lungo tempo, l’orografia originaria del Monte del Tempio fu cancellata e venne realizzata quell’ampia area che sarebbe stata conosciuta successivamente come spianata delle moschee. All’interno dell’area del Monte del Tempio trovano sede a tutt’oggi un centinaio di diverse strutture edificate in distinti periodi storici. Con la conquista musulmana di Gerusalemme venne costruita la Cupola della Roccia (Moschea di Omar). In tutta plausibilità la scelta della dinastia degli Omayyadi si inseriva nell’obiettivo di indebolire l’economia della Mecca, sottraendovi pellegrini da indirizzare verso il nuovo centro religioso. Da quel momento in poi, il Monte del Tempio divenne comunque un luogo sacro anche per i musulmani. Aspetto consolidato successivamente dalla costruzione della moschea al-Aqsa («la più lontana»). Il luogo è identificato come l’ultimo santuario (Masjid al-Aqsa) dal quale il profeta Maometto, accompagnato dall’angelo Gabriele, compì il viaggio notturno al trono divino.
  L’accesso degli ebrei ai luoghi sacri fu soggetto ad un continuo alternarsi di permessi e divieti, accessi e interdizioni.
  Vi furono autorizzazioni a costruire sinagoghe alle quali seguirono bandi ed estromissioni. Durante la dominazione ottomana fu concesso agli ebrei di recarsi a pregare sulle vestigia dei templi, fatto che rinnovò la rilevanza del luogo, pur a fronte di alcune interdizioni rabbiniche. Nel mentre, l’edificazione della Cupola della Roccia (che è parte dell’al-Haram al-Sharif, insieme alla Cupola della Catena e ad altri edifici religiosi) sancì architettonicamente l’ascesa e il dominio dell’Islam, attribuendo al Monte del Tempio anche il carattere di terzo luogo sacro per la religione musulmana, dopo la Ka’ba e la moschea del Profeta di Medina.
  L’occupazione giordana della Città Vecchia, durante la guerra d’Indipendenza del 1948, sanzionò l’ennesimo divieto di accesso per gli ebrei ai luoghi santi della Tradizione. Non di meno, Amman si adoperò per violarne la sacralità, di fatto dissacrandone la funzione e rovinando il residuo decoro urbano e architettonico.
  Con la vittoria nella guerra dei Sei giorni il controllo diretto fu infine assicurato ad Israele. Il tentativo di accordo tra Moshe Dayan, l’allora ministro della Difesa, e le autorità religiose musulmane, che avrebbe dovuto sancire uno status quo per cui – fermo restando la libera circolazione di tutti i fedeli, la libertà di culto e il vincolo di rispetto reciproco – agli israeliani sarebbe rimasto di competenza l’esercizio delle funzioni di sicurezza, fu tuttavia rigettato. Peraltro, la polizia da sempre vieta agli ebrei di pregare nell’area di pertinenza musulmana, in ciò supportata dai pronunciamenti dei tribunali e dal sostanziale assenso di quasi tutti i gruppi politici presenti alla Knesset.
  Attualmente il Mon­te del Tempio è amministrato dal Waqf islamico, un comitato religioso al quale si affiancano, per le questioni di sicurezza, le autorità israeliane. Dal 2004 è in corso un complesso lavoro di setacciatura archeologica del terreno, con l’obiettivo di ricostruirne, il più verosimilmente possibile, la storia millenaria. Fin qui i fatti, per così dire. Dall’inizio della seconda intifada, ossia nel 2000, la contesa sull’accesso fisico ai luoghi (e sul loro dominio simbolico, in una sorta di esclusività senza possibili condivisioni) si è fatta infuocata, divenendo il fulcro di una miriade di tensioni. Da tempo Abu Mazen va ripetendo che la presenza musulmana sul Monte del Tempio sarebbe a rischio, nonostante le rassicurazioni israeliane. Il calcolato allarmismo del presidente dell’Autorità palestinese è solo l’ultimo esempio di una catena di sollecitazioni. Le quali risalgono a cent’anni fa, quando l’allora gran muftì di Gerusalemme incitava già alla sollevazione contro la presenza ebraica, in quanto profanazione delle prerogative degli arabo-musulmani.
  Più in generale, intorno al tema della difficile coesistenza interreligiosa, si è innescata ed è poi proseguita nel tempo una diatriba isterica, accompagnata dall’istigazione alla violenza come da atti di sopraffazione collettiva. Il movente religioso appare quasi sempre come un puro pretesto, dietro al quale si cela la volontà di tenere surriscaldato il fronte politico. Il Monte del Tempio, infatti, è la cerniera tra Israele e la società arabo-palestinese. In un conflitto oramai centenario, che ha assunto nel corso del tempo distinte configurazioni ma che trova al suo centro il discorso dell’identità religiosa come fattore di auto-legittimazione (così come di delegittimazione altrui), la miscela tra insoddisfazione, rancore e impotenza si rivela esplosiva. Se da un lato la denuncia di una lesione intollerabile (la presenza israeliana ma anche, in immediato riflesso, quella ebraica) galvanizza gli spiriti e li coalizza contro un “nemico” descritto come tanto pervasivo quanto pericoloso, la rivendicazione al diritto alla difesa contro la “colonizzazione ebraica” garantisce la possibilità di ottenere una copertura mediatica permanente, giocata sullo standard comunicativo dei “crimini del sionismo”.
  Non a caso le autorità palestinesi continuano a ripetere che l’intenzione effettiva dei governi israeliani sarebbe quella di arrivare a distruggere il complesso delle moschee e dei luoghi sacri islamici. Ciò affermando, riprendono e generalizzano il progetto delirante dei “fedeli del Monte del Tempio”, un’organizzazione estremista fondata nel 1967 dall’ex ufficiale dell’esercito Gershon Salomon, che rivendica l’obiettivo di “liberare” l’intera area dall’ “occupazione araba” poiché “la Cupola della Roccia e la moschea di al-Aqsa furono collocate in questo luogo sacro per gli ebrei come segno specifico di conquista e dominio islamico”. Solo con la ricostruzione del Tempio Israele potrà allora divenire un autentico “Stato ebraico”. I tentativi da parte del gruppo di provocare incidenti con la controparte araba sono stati ripetutamente repressi dalla polizia israeliana.
  La lacerazione più significativa alla storia ebraica, in ordine di tempo, è tuttavia quella che il comitato esecutivo dell’Unesco ha espresso con la sua risoluzione del 15 aprile 2016, laddove ignora deliberatamente lo storico legame ebraico con il Monte del Tempio. La deliberazione, infatti, si riferisce all’intera area come Moschea di al-Aqsa. Il comitato esecutivo ha inoltre accusato Israele di tutte le violenze avvenute sul Monte del Tempio nei mesi precedenti, omettendo completamente qualsiasi menzione alle aggressioni palestinesi. Se l’allora primo ministro Benjamin Netanyahu aveva accusato l’Unesco di adoperarsi nel «riscrivere una parte fondamentale della storia umana», rimane il riscontro che il conflitto sui simboli e per i luoghi rimane una miccia potente nello scatenare la guerra dei corpi, quella che somma alle macerie anche i morti.

(Bet Magazine Mosaico, 3 giugno 2022)

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Il nuovo accordo “storico” tra Israele e Emirati

di Simona Iacobellis 

Israele ed Emirati Arabi Uniti hanno firmato un accordo di libero scambio martedì 31 maggio. Unico nel suo genere, abolisce le barriere doganali per il “96% dei prodotti” che le due parti si scambiano e il cui commercio ha avuto un valore di 900 milioni di dollari nel 2021, secondo dati ufficiali israeliani. L’obiettivo è quello di aumentare il commercio bilaterale annuo a più di 10 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni.
  Il patto, definito “storico”, rappresenta l’ultimo prodotto della normalizzazione delle relazioni diplomatiche del 2020, noti come Accordi di Abramo. È stato inoltre descritto come il più grande accordo mai concluso tra Israele e qualsiasi paese arabo.
  Su Twitter, il primo ministro israeliano Naftali Bennett ha affermato: “Israele ed Emirati hanno firmato uno storico accordo di libero scambio, il primo di questa portata tra Israele e un Paese arabo. Sotto l’egida del mio amico Mohammed Bin Zayed Al-Nayane (il leader degli Emirati) e grazie a molta determinazione, questo è l’accordo di libero scambio firmato più veloce nella storia di Israele”.

(Inside Over, 2 giugno 2022)

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Il contractor israeliano che aiutò il nonno di Eitan a rapirlo: «Pensavo fosse legale, lui era contento»

Gabriel Alon Abutbul ha dato il consenso all’estradizione da Cipro per rispondere alle domande del gip. Al termine è stato rimesso in libertà con divieto di dimora nei luoghi prossimi a Pavia, Milano e Varese

di Eleonora Lanzetti

Alon Abutbul era stato rintracciato a Limassol, nella Repubblica di Cipro, al termine di indagini internazionali condotte dalla Squadra Mobile della Questura di Pavia. Abutbul, ex militare appartenente all’agenzia americana di contractor «Black Water» — impegnata in teatri di guerra come Iraq e Afghanistan e abituata a muoversi con le tecniche più sofisticate di copertura e anonimato — aveva organizzato il rapimento del piccolo con Shmuel Peleg. Attraverso la Svizzera, i due erano riusciti a espatriare il bambino noleggiando per 46 mila euro un volo privato verso Israele, ma dai controlli di frontiera e grazie ad alcune leggerezze commesse gli investigatori riuscirono subito a risalire ai responsabili. Peleg — su cui pende ancora un mandato d’arresto internazionale — resta a Tel Aviv ed è improbabile che le autorità israeliane diano seguito alla richiesta italiana.
   Alon Abutbul, davanti al giudice, si è difeso dicendo che era convinto di agire «nella piena legalità», negando quindi di esser stato a conoscenza del rapimento. Inoltre ha spiegato di aver visto Eitan una sola volta e che, quando l’ha incontrato, «era felice». Il giudice, con il parere positivo della Procura pavese, al termine dell’interrogatorio reso nel pomeriggio, ha deciso per la scarcerazione con divieto di dimora. L’avvocato Cataldo Intreri, che con l’avvocato Francesco Isolabella assiste Alon, ha riferito che il suo assistito «è stato sentito per circa tre ore dal gip di Pavia, alla presenza del pm Valentina di Stefano. Ha risposto a tutte le domande». «Il nostro cliente dopo l’arresto si era inizialmente opposto alla richiesta di estradizione inoltrata dall’Italia - ha concluso l’avvocato Intreri - poi ha deciso di collaborare con le autorità Italiane» e «entro domani mattina potrà tornare a Cipro». Le indagini si avviano verso la chiusura, che potrebbe arrivare forse già prima della pausa estiva.

(Corriere della Sera - Milano, 2 giugno 2022)

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Scoperto un nuovo segmento dell'acquedotto di Gerusalemme di 2000 anni fa

di Michelle Zarfati

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I recenti scavi nel quartiere di Armon Hanatziv a Gerusalemme hanno portato alla luce uno dei principali fornitori di acqua della città antica: l'acquedotto di basso livello. Un acquedotto che 2000 anni fa portava l'acqua al Monte del Tempio dalle Piscine di Salomone vicino a Betlemme, a 21 chilometri di distanza.
  Utilizzato fino al mandato britannico, quando è stato scartato per la nuova tecnologia delle pompe elettriche, il tratto appena scoperto della linea d'acqua risale all’era Asmonea. Verrà conservato e integrato in un parco di quartiere in collaborazione con il Comune di Gerusalemme e il Moriah Jerusalem Development Corporation. "Questo è un vero monumento storico per la città" ha detto al Times of Israel l'archeologo dell’Israel Antiquities Authority Archaeologist Yaakov Billig, esperto di antichi acquedotti.
  Durante la giornata di domenica 29 maggio, in cui Israele ha celebrato Yom Yerushalaim la Giornata di Gerusalemme, l’Israel Antiquities Authority Archaeologist ha accolto il pubblico gratuitamente allo scavo archeologico di Armon Hanatziv e in molti altri affascinanti siti archeologici della città.
  "Due acquedotti hanno portato l'acqua dalle piscine di Salomone, situate tra Betlemme ed Efrat a Gerusalemme: l'acquedotto di basso livello e l'acquedotto di alto livello - ha spiegato Ya`akov Billig - Ci stupisce pensare come riuscissero nell'antichità a effettuare misurazioni accurate dell'elevazione su una distanza così lunga, scegliendo il percorso lungo il terreno montuoso e calcolando la pendenza necessaria, tutto questo senza i moderni e sofisticati strumenti di cui disponiamo oggi".

(Shalom, 2 giugno 2022)

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Tra i crociati e il sultano: gli ebrei tra alterne fortune

di Vittorio Robiati Bendaud

Il Monte del Tempio: la prospettiva teologica

Per inquadrare le controversie teologico-politiche sul Monte del Tempio consideriamo alcune strutture della teologia della sostituzione, elaborata dal cristianesimo contro l’ebraismo, e poi ripresa dall’islàm che, a suo modo, la rivolse contro ebrei e cristiani. Chi sostituisce ha un debito incancellabile verso il soggetto che vuole rimpiazzare, l’antecedente da cui trae senso e che continua a essergli contemporaneo.
  Questa costitutiva dipendenza genera tensione, instabilità e inquietudine. Chi sostituisce, asserendo di essere il compimento o il superamento, prova così a legittimarsi, procedendo all’appropriazione del passato della “religione-madre” e alla sua neutralizzazione nel presente e nel futuro, dichiarandola inadeguata e così abusiva. Quest’ultima, però, non potendo essere del tutto divelta (perché per il sostitutore, oltreché un matricidio, costituirebbe un parziale suicidio), deve essere per forza sottomessa, sì che il suo decadimento confermi e conforti le pretese del sostitutore.
  Nella tremenda storia dei rapporti tra i tre monoteismi, era inevitabile che Eretz Israel, Gerusalemme e il Monte del Tempio divenissero “luoghi contesi”. E questo non per miserie belliche o empietà di malgoverno, ma perché lì inevitabilmente sono messi a nudo i cortocircuiti teologici-politici strutturali citati, ossia la dipendenza di cristianesimo e islàm dall’ebraismo. Le due forme di neutralizzazione e sostituzione (laddove l’islàm venne influenzato dalla patristica e dal diritto bizantino) hanno una significativa e paradossale differenza.
  Quella cristiana fu furiosa, perché l’ebraismo le era (ed è) intrinseco: le Scritture sono quelle ebraiche, Gesù era ebreo, Maria e i discepoli pure. Essendo un’ossessione interna, la polemica fu viscerale e devastante. Tuttavia, proprio per questo, nonostante certe tentazioni mai sopite, non si spinse a negare la validità delle Scritture, l’origine divina della Torah e della Profezia, o a distruggere completamente il popolo di Israele: sarebbe stato suicidario.
  Per l’islàm la questione è diversa. Muhammad era arabo; il Qur‘àn fu scritto in arabo e, dapprincipio, agli arabi si rivolse. Ciò autorizzò una sostituzione radicale, che si spinge ben più in là di quella cristiana. L’ebraismo, però, risultando meno interno, non coincise con l’ossessione principale dell’islàm, che comunque, a differenza del cristianesimo, aveva due bersagli polemici (ebrei e cristiani), e non uno solo (l’ebraismo).
  Gli ebrei, dopo il dominio romano-pagano e bizantino-cristiano, fecero ritorno a Gerusalemme con gli arabi che la conquistarono. In quell’occasione, il patriarca cristiano scongiurò il nuovo dominatore islamico di non far tornare gli ebrei. Il califfo non volle ascoltarlo e così un po’ di ebrei rientrarono nella città. Alcuni secoli dopo, Solimano il Magnifico e i suoi immediati discendenti – sultani dell’impero ottomano e califfi legittimi dell’islàm sunnita – permisero una migrazione ebraica in Galilea, compresa la salita e l’insediamento di molti a Gerusalemme. Ancora si ebbero reazioni furibonde dalle Chiese cristiane, che lasciarono interdetti i musulmani.
  Vorrei accennare a tre antichi racconti. Parrebbe che in epoca remota gli ebrei, riammessi dagli arabi a Gerusalemme, provvedessero all’illuminazione e al servizio del santuario islamico sul Monte del Tempio. Se, da un lato, questo attesta uno stato di subalternità all’islàm, è altrettanto vero che così si permetteva agli ebrei di poter pregare sulle rovine del Tempio, presso luoghi di culto che, in quanto islamici, risultavano monoteisti. È di pari interesse che i musulmani avessero scelto ebrei, riconoscendo il carattere monoteista dell’ebraismo, che entrambe le fedi ritengono invece scalfito dal cristianesimo.
  In altre raccolte si narra che furono alcuni ebrei convertiti all’islàm a indicare il luogo ove erigere gli edifici islamici, in corrispondenza di quella che ritenevano l’area più santa del Monte del Tempio, in aperta polemica con l’ebraismo. Non solo: da altri scritti parrebbe che furono sempre degli ebrei rinnegati ad alimentare, presso gli eruditi esegeti musulmani del Qur‘àn, la tesi secondo cui il figlio di Abramo, legato e da sacrificarsi sull’altare, fosse Ismaele e non Isacco, operando una sostituzione e contribuendo a orientare una differente interpretazione del Qur‘àn che non specifica l’identità del figlio.
  Se il Monte del Tempio divenne sacro per i musulmani, quindi, lo fu perché lo era - e lo è - per gli ebrei. E il fatto che Gerusalemme, pur con l’alta dignità riconosciutale dalla fede islamica, nei molti secoli di dominio musulmano, fosse sempre stata trattata come una secondaria città di provincia, avvenne perché è Mecca il fulcro della devozione islamica (e ciò che sostituisce non può avere pari valore di ciò che è sostituito).
  L’attuale dilagante, pervasiva, ossessionata e violenta ideologia teologico-politica islamista su Gerusalemme, che infetta i cuori e le menti, il discorso pubblico e la diplomazia è un prodotto recente, degli ultimi 100 anni, ricco di prestiti esterni, confezionato dal Muftì nazifascista, dai suoi pessimi sodali e dai Fratelli Musulmani. Oltre ai dati storici, anche studi recenti stanno dimostrando, fonti islamiche alla mano, di quanto si tratti di un’operazione simbolica recente… certamente antisemita e a detrimento dell’onorabilità e della fede di tantissimi musulmani contemporanei.

(Bet Magazine Mosaico, 1 giugno 2022)
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L'autore conosce qualche altro cristianesimo oltre al facile bersaglio del cristianesimo versione storico-cattolica? M.C.

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Il Suriname aprirà l’ambasciata a Gerusalemme

Albert Ramdin e Yair Lapid
Il Suriname ha intenzione di aprire l’Ambasciata nella città di Gerusalemme. Ad annunciarlo il ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid. Il Paese sudamericano diventerà così la quinta nazione, oltre a Stati Uniti, Guatemala, Honduras e Kosovo, presente nella capitale dello Stato ebraico.
  Durante il recente incontro, il ministro Lapid e il suo omologo del Suriname, Albert Ramdin, hanno firmato un accordo con lo scopo di tenere consultazioni diplomatiche bilaterali. Il ministro israeliano ha, inoltre, offerto l’invio di aiuti umanitari allo Stato sudamericano, colpito ad aprile da gravi inondazioni.
  “Il Suriname e Israele hanno relazioni diplomatiche di lunga data – ha detto il ministro Ramdin in una intervista su Israel Hayom – Abbiamo anche un’eredità storica condivisa, perché da centinaia di anni è presente una comunità ebraica nel nostro Paese”.
  La comunità conta circa 500 membri, la maggior parte dei quali risiede nella capitale Paramaribo. Una delle sinagoghe più antiche, completamente intatta, è stata portata in Israele ed esposta all’Israel Museum di Gerusalemme. “Gli ebrei del Suriname, originariamente, provenivano dal Brasile e la piccola comunità esistente ha legami molto forti con Israele e Gerusalemme” – ha spiegato Ramdin.
  Il ministro del Suriname ha, poi, affermato che il suo Paese vede le relazioni con Israele non solo in un contesto politico ma anche culturale. “Ci sono anche opportunità economiche di cooperazione nel settore privato in molti campi come l’agricoltura, la tecnologia idrica, l’energia e il turismo. Per noi, l’apertura dell’Ambasciata a Gerusalemme è il punto di partenza per costruire legami più forti con Israele e, spero, una collaborazione che andrà a beneficio di entrambe le parti”.

(Shalom, 1 giugno 2022)

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La guerra segreta fra Israele e l’Unità 840, il nuovo tentacolo della “piovra” iraniana

di Luca Gambardella

ROMA - Nel luglio del 2021 a Uromieh, una cittadina dell’Iran occidentale, un gruppo di uomini del Mossad fece irruzione nell’abitazione di un contadino azero di nome Mansour Rasouli. Legato e incappucciato, il commando portò l’uomo in un luogo sicuro a Teheran e lo interrogò per giorni. Rasouli apparteneva a un gruppo locale di trafficanti di droga, ma non era a questo che erano interessati gli uomini dei servizi segreti israeliani. Cercavano piuttosto delle informazioni su un’unità segreta delle forze al Quds, il corpo speciale delle Guardie della rivoluzione islamica, responsabile di organizzare assassini, rapimenti e attentati contro Israele in tutto il mondo. Dall’interrogatorio emerse che Rasouli era stato contattato da questo braccio segreto dei pasdaran, chiamato Unità 840, per organizzare tre attentati: uno contro un funzionario israeliano del consolato di Istanbul, uno contro un generale americano in Germania e un altro contro il giornalista e filosofo francese di fede ebraica Bernard-Henri Lévy. Per farlo, Rasouli si sarebbe avvalso dei suoi contatti nel giro dei narcotrafficanti e la ricompensa sarebbe stata di un milione di euro. L’operazione del Mossad, oltre a sventare il piano iraniano, aveva tre particolarità: era stata resa pubblica con un leak al portale di informazione iraniano, ma con sede a Londra, Iran International; era stata compiuta direttamente e in autonomia sul territorio iraniano; non mirava più esclusivamente a colpire il piano nucleare di Teheran (come era successo invece nel novembre 2020, con l’omicidio del fisico nucleare Mohsen Fakhrizadeh, di cui il Mossad è considerato il responsabile), ma a dimostrare all’Iran che Israele è pronta a difendersi a viso aperto anche da solo.
  Dell’esistenza dell’Unità 840 si sapeva da novembre 2020, e sempre grazie agli israeliani. Dopo una serie di attentati con esplosivi piazzati lungo il confine con la Siria, Israele dichiarò pubblicamente che i responsabili appartenevano alle forze al Quds, e in particolare all’Unità 840, un gruppo incaricato di colpire Israele con attentati contro personalità di rilievo dalla Colombia al Kenya fino a Cipro. “Iran, ti stiamo osservando”, era scritto in un tweet delle forze di sicurezza israeliane che rompeva il loro consueto riserbo su questo genere di operazioni. E’ la strategia che gli israeliani stanno usando da qualche anno per disinnescare sul nascere i piani dell’Iran e che ricalca quella usata dagli americani contro i russi: consiste nel pubblicizzare le informazioni confidenziali ottenute, anche le più sensibili. Anche ieri, Bennett ha condiviso sul suo account Twitter il link dove chiunque può consultare i documenti che provano come l’Iran abbia spiato in questi anni l’Agenzia internazionale per l’energia atomica in modo da eludere i suoi controlli. Con tanto di cartone animato.
  Già lo scorso febbraio, Bennett aveva chiarito che Israele era pronto a cambiare le regole della sua lunga guerra nascosta contro l’Iran. “Finora ci siamo limitati a bisticciare con i tentacoli di una piovra. Ora dobbiamo schiacciare la sua testa”, aveva dichiarato. “Quando combattevo in Libano nel 2006 contro gli alleati dell’Iran (Hezbollah, ndr), gli ayatollah che li finanziavano e li armavano erano intoccabili. Ora, nella mia nuova percezione, è arrivato il momento per Israele di entrare nell’arena e indebolire la testa della piovra”. La conferma della nuova dottrina Bennett è arrivata pochi mesi dopo. Prima con l’attacco dello scorso marzo a una base di droni iraniani a Kermanshah, poi con l’omicidio a Teheran del colonnello Hassan Sayyad Khodaei, vicecomandante dell’Unità 840. Khodaei aveva pianificato diversi attentati contro Israele, fra cui quello contro un diplomatico israeliano a Nuova Delhi nel 2012 e gli omicidi poi sventati dal Mossad con l’interrogatorio a Rasouli. Era una figura di rilievo dei pasdaran, consigliere del generale Qasem Suleimani, il comandante delle brigate al Quds ucciso dagli americani in Iraq nel gennaio 2020 con un drone.
  Ora Israele si prepara ad affrontare le ripercussioni della morte del colonnello Khodaei. Il sistema missilistico Iron Dome è in allerta in tutto il paese, le ambasciate israeliane nel mondo hanno alzato le misure di sicurezza mentre il Mossad ha messo in preallarme su possibili attentati iraniani anche all’estero. Si guarda con apprensione soprattutto alla Turchia, dove il governo israeliano sconsiglia di fare viaggi per “concrete e immediate minacce”. Domenica scorsa il sito dell’agenzia stampa iraniana Fars News, vicina ai pasdaran, ha pubblicato una lista di possibili obiettivi israeliani, “esperti in tecnologie militari e cyber security del regime sionista”. Il titolo dell’articolo era: “Sionisti che devono vivere nascondendosi”.

Il Foglio, 1 giugno 2022)

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L’Ambasciatore d’Israele Dror Eydar in visita alla Camera di commercio di Cosenza

L'ambasciatore Dror Eydar a Cosenza
COSENZA – Il Presidente Klaus Algieri ha accolto oggi Sua Eccellenza Dror Eydar, Ambasciatore dello Stato d’Israele in Italia, in visita alla Camera di commercio di Cosenza.
  L’incontro rappresenta l’inizio di una collaborazione che ha come obbiettivo l’instaurazione di rapporti diretti tra le imprese locali e quelle israeliane, oltre che per il tramite dell’Ambasciata e della Camera, per attivare scambi reciprocamente vantaggiosi tra le eccellenze del nostro territorio e le realtà tecnologicamente più avanzate dello Stato ebraico.
  “Israele è il primo Paese al mondo per start up e innovazione – afferma l’Ambasciatore – e vuole condividere questa sua esperienza anche con le imprese calabresi, in quella che è forse la regione italiana con le più alte potenzialità di sviluppo nel turismo e nell’agricoltura. In un’epoca di crisi alimentare globale offriamo tutta la nostra collaborazione in settori cruciali come l’agricoltura, la gestione delle risorse idriche, l’hi-tech industriale, la sicurezza, il turismo. Speriamo, ad esempio, di poter aprire un volo diretto tra la Calabria e Israele – prosegue Dror Eyder – così come pensiamo sia possibile replicare qui esperienze come quella di “Techagriculture meeting Italia-Israele: L’agricoltura incontra l’innovazione”, la conferenza che abbiamo recentemente organizzato a Napoli e che ha visto il coinvolgimento delle più avanzate imprese agricole d’Italia e delle più innovative start-up e aziende agrifood-tech d’Israele per l’ottimizzazione delle risorse e la sostenibilità ambientale.”
  “Un incontro di proposte da entrambe le parti – dichiara il Presidente Klaus Algieri – in una visita che, con i componenti di Giunta, abbiamo accolto con grande interesse per le prospettive che apre alle imprese del nostro territorio, anche alla luce delle iniziative che l’Ambasciatore sta già definendo con il Presidente della Regione. Sono due culture imprenditoriali che vogliono incontrarsi, come dimostrano quei contatti che in realtà già alcune nostre imprese stanno iniziando a sperimentare, ad esempio, nel mondo dell’agricoltura, che vede in Israele un punto di riferimento nell’innovazione ma, sull’altro versante, mostra altrettanto interesse delle imprese israeliane per le eccellenze agroalimentari del nostro territorio. È l’inizio di una collaborazione che ci siamo riproposti di formalizzare in un prossimo incontro – prosegue Algieri – e che potrebbe estendersi anche ad altre Camere italiane, con l’obiettivo di supportare in modo organico le imprese che intendono aprirsi nuove strade nei rapporti commerciali diretti con le imprese israeliane.”

(Adnkronos, 1 giugno 2022)

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Macron, Le Pen e Zemmour: come ha votato la Francia ebraica?

Una destra rafforzata. Macron rieletto ma con la perdita secca di milioni di voti dalla scorsa tornata. E la Francia ebraica? Come si è espressa? «Chi pensa che esista un “voto ebraico” in Francia si sbaglia. I cittadini ebrei si posizionano, in maniera generale, esattamente come gli altri cittadini», ha dichiarato Elie Korchia, presidente del CRIF

di Ilaria Myr

Il 25 aprile Emmanuel Macron è stato rieletto presidente della repubblica francese con il 58,5%, contro il 41,5% della sfidante Marine Le Pen. Una vittoria che, sebbene netta, ha comunque fatto emergere quanto sia forte oggi in Francia l’estrema destra: lo stesso Macron è arrivato a dichiarare che questi risultati gli “impongono degli obblighi per i prossimi anni” nei confronti della grossa fetta di popolazione che ha votato contro di lui, e la stessa Le Pen, seppure delusa dalla sconfitta, afferma, in diretta tv, che «il risultato delle urne rappresenta per noi ugualmente un’eclatante vittoria».
  Ma come ha votato il mondo ebraico francese? Sebbene non esistano dati ufficiali – un sondaggio dell’istituto Ifop sulle preferenze di voto da parte dei gruppi religiosi non contiene gli ebrei per mancanza di un campione solido – da ciò che è stato pubblicato sui media, francesi e no, prima e dopo il secondo turno, è però possibile comprendere meglio il contesto.

• ESISTE UN VOTO EBRAICO?
  «Chi pensa che esista un voto ebraico in Francia si sbaglia. I cittadini ebrei si posizionano, in maniera generale, come gli altri cittadini». La dichiarazione di Elie Korchia, presidente del CRIF, l’istituzione rappresentativa degli ebrei di Francia, rilasciata in un’intervista a Le Monde a metà aprile, fa capire quanto al suo interno il mondo ebraico contenga le diverse preferenze politiche, riflettendo così l’andamento della società francese. Ed è proprio per questo che il rabbino capo di Francia, Haïm Korsia, e lo stesso Korchia, hanno sentito la necessità di fare un appello agli ebrei francesi di votare a favore del presidente uscente, contro la rappresentante dell’estrema destra.
  “Sono in gioco le nostre libertà individuali, la nostra diversità sociale, la nostra tradizione e la stabilità del nostro Paese”, ha affermato il Crif nella sua dichiarazione. “Il Crif chiede di causare una sconfitta elettorale a Marine Le Pen e di votare in modo massiccio per Emmanuel Macron”.
  “Per la prima volta, c’è una reale possibilità che un candidato di estrema destra possa vincere le elezioni”, aveva dichiarato Korchia a Le Monde.
  In particolare, al centro della denuncia la volontà di Marine Le Pen di vietare la macellazione rituale, quindi quella kasher e halal, espressa dal presidente ad interim del partito Jordan Bardella a Franceinfo il 19 aprile. “La carne macellata sul territorio francese lo sarà con previo stordimento in nome della dignità animale e della sofferenza degli animali”, ha spiegato. I musulmani ed ebrei potranno “importare carne kosher o halal che sarà macellata secondo un rito perfettamente religioso” in altri paesi, ritenendo che “non sia ipocrita” autorizzare tali importazioni mentre la pratica sarà vietata in Francia. Interrogato invece su un eventuale divieto della corrida e della caccia in nome di questa stessa dignità animale, il presidente della RN ha assicurato che nessuna delle due sarebbe stata vietata (la corrida solo ai minori) in quanto “tradizioni culturali, francesi ed europee da diversi anni”.
  In realtà, non era la prima volta che i gruppi ebraici invitavano gli ebrei a votare contro la candidata di estrema destra Marine Le Pen. Ma questa volta l’appello ha innescato un dibattito a livello comunitario sul ruolo delle istituzioni ebraiche francesi che ha messo in evidenza la crescente polarizzazione degli ebrei francesi. Altre istituzioni e figure ebraiche hanno criticato la lettera congiunta del Crif e del rabbino come una mossa eccessivamente partigiana da parte di due gruppi che si sforzano di rappresentare tutti gli ebrei francesi.

• IL FATTORE ÉRIC ZEMMOUR
  Non si deve dimenticare, inoltre, che l’ultima campagna elettorale ha visto anche l’ingresso di un nuovo player, un vero outsider, il giornalista ebreo franco-algerino Éric Zemmour che, sebbene abbia ottenuto solo il 7% con il suo partito Reconquête, ha comunque reso ancora più accesi i toni e diviso la società francese. Nonostante per un certo periodo le sue posizioni apparissero non dissimili da quelle espresse da altri intellettuali e politici sia di destra sia di sinistra, si è fatto notare per dichiarazioni e atteggiamenti che hanno destato scalpore: nel 2019 ha sostenuto che il maresciallo Philippe Pétain, capo del regime collaborazionista di Vichy durante la guerra, avrebbe cercato di salvare gli ebrei francesi dalle deportazioni, quando in realtà fu complice dei nazisti anche nel mettere in atto la Shoah. Ha ripreso anche alcuni vecchi luoghi comuni dell’estrema destra francese mettendo in dubbio l’innocenza del capitano Alfred Dreyfus, accusato ingiustamente di tradimento. E, come se non bastasse, ha fatto un parallelismo fra Mohammed Merah, l’attentatore alla scuola ebraica di Tolosa, e i bambini da lui uccisi, che gli ha attirato l’indignazione del mondo ebraico e non solo. Allo stesso tempo, però, si è fatto portavoce di una visione, condivisa da molti giovani – ribattezzati appunto Genèration Zemmour -, che rimette al centro l’identità francese, intercettando così le inquietudini e le paure dei francesi in merito alla presenza islamica radicale all’indomani degli attentati al Bataclan e a Charlie Hebdo.
  Queste sue prese di posizione hanno fatto in modo che venisse sostenuto anche da Jean-Marie Le Pen, fondatore del Front National espulso dalla figlia Marine nel 2015 per le sue esternazioni antisemite e negazioniste, che ha dichiarato al quotidiano Le Monde: «L’unica differenza fra Éric e me è che lui è ebreo. È difficile definirlo nazista o fascista. E questo gli dà una maggiore libertà». Ma Zemmour ha fatto parlare di sé anche dopo la fine del primo turno delle elezioni, per avere inviato a migliaia di ebrei francesi, due giorni prima del voto, un sms in cui li invitava a votarlo. Un’azione di invasione della privacy che ha spinto l’Unione dei giovani ebrei francesi (Uejf) e l’associazione J’Accuse a sporgere denuncia per reati in materia di dati personali e che ha portato all’apertura di un’istruttoria a suo carico.

• I FRANCESI IN ISRAELE PREFERISCONO ZEMMOUR
  Eppure, il personaggio Zemmour ha sedotto molti degli ebrei francesi che vivono in Israele tanto che, secondo i dati del Ministero degli Interni, nel primo turno è stato il più votato (53,9%), seguito da Macron (con il 31,7%). La ragione principale: le sue posizioni molto nette contro l’islamismo. «Sono venuto in Francia per sionismo ma anche per la crescita dell’islamismo. La miccia che mi ha fatto decidere è stato l’attentato alla scuola ebraica di Tolosa», dichiara David, franco israeliano a i24news. E addirittura un altro, Patrice, definisce Zemmour “il Carlo Martello contemporaneo”. Al secondo turno, invece, la maggioranza dei voti è andata a Macron, che ha ottenuto in media l’80% in tutti i seggi; da notare però che, seppure in minoranza, a Gerusalemme la Le Pen ha ottenuto il 18,7%.
  Al di là della paura dell’islamismo, l’altra idea che ha unito gli elettori franco-israeliani attorno a Zemmour è la sua visione della Francia e della sua influenza, alimentata da una certa nostalgia. E poi è piaciuto il fatto che il leader di Reconquête sia uno che “parla chiaro”, che “non ha paura di chiamare le cose con il loro nome”. «Già quando era polemista, Zemmour non ha mai avuto paura di far sentire una voce discordante. È come Israele, che cerca di far sentire la sua voce nel concerto spesso bugiardo delle nazioni», dice Patrice.
  Ma che dire dei temi fastidiosi del programma Zemmour e che avrebbero potuto raffreddare i franco-israeliani? Che si tratti delle affermazioni del candidato su Pétain “salvatore degli ebrei”, delle sue dichiarazioni sulla famiglia Sandler o della sua visione intransigente della laicità, alcune sue posizioni non hanno mancato di suscitare una vivace polemica nelle file della comunità ebraica francese. Eppure i sostenitori franco-israeliani del candidato di estrema destra non la pensano così, anzi, sono convinti che molte delle sue osservazioni sono state distorte dalla stampa. Un vero linciaggio mediatico, denunciano, che sarebbe anche all’origine del debole risultato di Éric Zemmour in Francia.
  Per Dror Even-Sapir, analista politico di i24news questo risultato dei sondaggi riflette il chiarissimo spostamento a destra della comunità ebraica in Francia, legata per molti all’antisemitismo e agli attacchi islamisti. Le origini ebraiche di Éric Zemmour, la sua immagine rispettabile e il fatto che le idee che difende sono sempre più dibattute nei media e quindi banalizzate, hanno fatto il resto, dice. «Gli ebrei francesi sono sempre stati riluttanti a votare per Marine Le Pen a causa delle uscite antisemite di suo padre e della cultura politica del Fronte Nazionale. Ma l’ebraicità di Éric Zemmour – il cui discorso è ancora più radicale di quello di RN – ha scavalcato le dighe e ha infranto il tabù dell’estrema destra», spiega Even-Sapir, rilevando che, secondo alcuni dati, il candidato di Reconquête ha ampiamente conquistato anche gli elettori ebrei in Francia.

(Bet Magazine Mosaico, 1 giugno 2022)

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Il Jerusalem Post denuncia pressioni dalla Cina: ha chiesto di rimuovere una intervista al taiwanese Wu

Joseph Wu
L’ambasciata della Cina a Gerusalemme avrebbe esercitato pressioni sul quotidiano “Jerusalem Post” affinché rimuovesse dai propri canali un’intervista al ministro degli Affari esteri di Taiwan, Joseph Wu, minacciando di recidere i legami con la testata e declassare le relazioni bilaterali con lo Stato di Israele. Lo riporta il quotidiano “Taiwan News”, basandosi sulle dichiarazioni rilasciate a inizio settimana dal caporedattore del giornale, Yakoov Katz.
  Il giornalista ha annunciato su Twitter di aver ricevuto una telefonata dall’ambasciata dopo la pubblicazione dell’articolo, che la diplomazia cinese avrebbe tentato di far rimuovere minacciando conseguenze per il giornale e per l’intero Stato. Nell’intervista, pubblicata il 30 maggio, Joseph Wu analizza le relazioni intra-Stretto e sollecita i Paesi che fanno affari con la Cina a mantenere alta la guardia sulla loro sicurezza nazionale.
  Il capo della diplomazia ritiene infatti che la Repubblica popolare usi il commercio come “un’arma” per tenere in scacco i Paesi con cui entra in relazione. Wu ha infine parlato dei piani di difesa di Taiwan nell’eventualità di un’invasione da parte della Cina, auspicando anche un rafforzamento degli scambi con Israele.

(Nova News, 1 giugno 2022)

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Tutti i guai degli ayatollah

Un omicidio mirato a Teheran e l’ira contro Israele. Siamo alle solite? No, l’Iran deve guardarsi anche dagli amici: la Cina lo teneva a galla, ma ora preferisce il petrolio di Putin. E le piazze sono di nuovo piene.

di Cecilia Sala

La Repubblica islamica dell’Iran deve affrontare tre problemi: i nemici di sempre la attaccano sul suo territorio, gli alleati si trasformano in competitor oppure tradiscono le richieste di aiuto, i cittadini protestano – tutto avviene contemporaneamente.
  Il primo problema non è una novità, anche se l’Iran ha goduto per mesi e fino a poco tempo fa di un periodo di relativa calma in cui sembrava che le sue provocazioni nella regione, rispetto al passato, venissero quasi ignorate. Le operazioni erano condotte direttamente dai pasdaran o dai proxy di Teheran in giro per il medio oriente: andavano dagli attacchi in Iraq con missili che cadono accanto al consolato e a una base militare americana, ai sequestri di navi mercantili nel Golfo persico. Quella fase è finita, la quiete aveva una spiegazione: c’erano i negoziati sul nucleare in corso e le speranze (e la pazienza) riposte dagli americani e dagli europei nei colloqui di Vienna per tornare all’accordo. Adesso l’ottimismo è stato ridimensionato, e anche il potere negoziale di Teheran a quel tavolo.
  Con ordine: da quando Joe Biden è alla Casa Bianca non ci sono stati omicidi mirati in Iran fino a domenica 22 maggio. Quel pomeriggio il colonnello dei pasdaran Hassan Sayyad Khodaei era seduto al posto del guidatore dentro una Kia Pride, parcheggiato davanti al portone di casa sua nel centro di Teheran. Khodaei abita vicino al Majles, il Parlamento iraniano. In una zona teoricamente molto sicura e controllata, soprattutto dopo l’attacco suicida dell’Isis nel 2017. Ma due uomini in motocicletta si affiancano alla portiera e gli sparano cinque colpi, non vengono identificati né catturati e riescono a scappare. Khodaei era un colonnello delle Quds, le forze speciali dei pasdaran responsabili delle operazioni fuori dai confini, quelle comandate dal generale Qasem Soleimani fino al giorno in cui è stato ucciso con un drone americano MQ-9 Reaper all’aeroporto di Baghdad. Secondo il Mossad, Khodaei era il vice comandante dell’Unità 840 che si occupa dei rapimenti e degli attentati contro cittadini dello stato ebraico (e non solo) in giro per il mondo. Gli iraniani hanno accusato Israele dell’omicidio, al funerale del colonnello c’erano migliaia di persone che cantavano “morte a Israele” e Majid Mirahmadi, che fa parte del Consiglio di sicurezza nazionale (il ministero degli Esteri ombra), ha detto: “E’ senza dubbio un lavoro dei sionisti”. Il capo dei pasdaran ha aggiunto “la pagheranno” e anche il presidente Ebrahim Raisi ha promesso vendetta. Poco dopo un ufficiale dei servizi segreti americani ha detto a Ronen Bergman del New York Times che effettivamente è stata un’operazione del Mossad, che lui lo sa perché hanno avvisato gli Stati Uniti prima di agire e – presumibilmente – c’è stato un via libera informale. Un omicidio mirato del Mossad in Iran non è una sorpresa e non è una prima volta, ma le parole dell’ufficiale americano sono una conferma esplicita per cui gli israeliani si sono arrabbiati (e preoccupati), hanno chiesto spiegazioni e un’indagine sulla fuga di notizie. Lunedì Israele ha sconsigliato a tutti i cittadini di andare in Turchia, perché sarebbe la sede più probabile per una vendetta iraniana.
  Tre giorni dopo l’omicidio, un drone ha attaccato il sito militare di Perchin, sessanta chilometri a sud est della capitale. Un giovane ingegnere è morto e un altro dipendente è stato ferito: stavano lavorando in un centro di ricerca della Difesa iraniana dove si progetta la tecnologia per i modelli locali di droni e missili balistici. Anche questo attacco è molto simile ad altri attacchi del Mossad avvenuti in passato sul territorio iraniano.
  La settimana scorsa la Grecia ha sequestrato una petroliera iraniana e ha avvisato gli americani, che hanno confiscato il carico perché è sotto sanzioni. La Marina militare della Repubblica islamica ha risposto catturando due navi mercantili greche mentre navigavano in acque internazionali nel Golfo persico.
  Nelle istituzioni degli Stati Uniti, l’ambasciatore Robert Malley è quello che ha i migliori rapporti con l’Iran (nel senso che, a differenza degli altri, riesce anche ad avere colloqui diretti con ufficiali di Teheran). Biden lo ha scelto come suo inviato speciale, lui ha sempre sostenuto la necessità di un accordo ed è sempre stato il più ottimista rispetto alla possibilità di trovarlo. Mercoledì ha cambiato idea, ha detto al Senato che “le probabilità di successo dei negoziati sono inferiori alle probabilità di fallimento e, se gli Stati Uniti non tornano all’accordo, ci sarà un’applicazione più rigorosa delle sanzioni”, che si è già vista in Grecia la settimana scorsa. Malley ha anche detto che qualsiasi bozza verrà prima esaminata dal Congresso: tutti sanno che non avrebbe la maggioranza perché molti democratici sono contrari e anche il presidente della Commissione esteri, un democratico, è sempre stato critico con la politica di Biden sull’Iran.
  La novità non è nella guerra ombra tra Israele e Iran, ma nell’atteggiamento dell’Amministrazione americana (che poi ha riflessi anche sulla guerra ombra).
  In questo momento, Teheran non deve preoccuparsi solo dei nemici, ma anche degli amici: da quando è cominciata la guerra in Ucraina, gli iraniani si pestano i piedi con i russi per vendere le risorse energetiche agli stessi compratori cinesi. Hamid Hosseini, che fa parte del consiglio di amministrazione dell’Unione per le esportazioni di petrolio e gas, ha detto che le loro vendite in Cina “soffriranno per l’ingresso della Russia in quel mercato”. E’ già così: le vendite della Repubblica islamica alla Repubblica popolare si sono ridotte di oltre un quarto da quando gli Stati Uniti e il Regno Unito, a marzo, hanno deciso l’embargo sul petrolio russo. Due giorni fa il costo di un barile di petrolio ha raggiunto un nuovo picco, 120 dollari, il prezzo più alto degli ultimi due mesi. Ma questo è un problema solo per noi, Pechino può scegliere tra due offerenti in crisi: il petrolio iraniano era già scontato perché ad acquistarlo si rischia di incappare nelle sanzioni secondarie americane, poi Mosca ha iniziato a offrire il suo a un prezzo ancora più basso. La Cina preferisce quello russo e, dall’inizio dell’invasione, ha lasciato almeno quaranta milioni di barili iraniani in mezzo al mare senza più un porto in cui sbarcare. Amir Handjani, analista del think tank americano Quincy Institute for Responsible Statecraft, ha detto alla Cnn: “In questo momento, l’unica àncora di salvezza dell’Iran è vendere petrolio alla Cina. E’ la Cina a tenere a galla l’Iran”. Il petrolio iraniano è sanzionato, ma seicentomila barili finivano comunque nei porti cinesi e, ogni mese, il governo di Teheran riceveva in cambio più di mezzo miliardo di dollari. Al vertice di due giorni fa, l’Unione europea ha raggiunto un’intesa sull’embargo sul petrolio russo e, se per Putin questa sarà la sanzione più dura dall’inizio della guerra, per gli iraniani sarà anche peggio. La crisi economica destinata a peggiorare mette in una situazione scomoda l’establishment di Teheran, perché gli iraniani già protestano adesso. Per la corruzione, il malgoverno e l’incuria. Le manifestazioni sono cominciate ad Abadan, nel sud, dopo che un palazzo di dieci piani costruito solo tre anni fa è crollato il 23 maggio: ci sono stati trentatré morti. Adesso le protestano si sono allargate ad altre quattro città, sono comparsi gli slogan contro agli ayatollah e gli spari sulla folla. Lunedì, allo stadio di Teheran, decine di migliaia di persone si sono schierate dalla parte dei manifestanti con un coro.

Il Foglio, 1 giugno 2022)

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