Notizie 16-30 giugno 2024
Il silenzio dei media sulla guerra a Gaza e il senso politico della guerra
di Ugo Volli
• Perché non ne parlano quasi più Dopo quasi nove mesi di combattimenti, i media riportano ormai poche notizie sulla guerra di Gaza. Questo non accade perché le battaglie siano finite (anzi nell’ultima settimana ci sono stati combattimenti molto duri), ma per due ragioni connesse: la prima è che questa guerra, come quasi tutte non è fatta tanto di battaglie decisive e manovre improvvise quanto di combattimenti locali, di piccoli avanzamenti nel territorio e purtroppo anche di perdite individuali. In particolare una guerra asimmetrica come questa contro forze terroriste nascoste in mezzo ai civili o nelle fortificazioni sotterranee, da cui escono quasi solo per tendere agguati all’esercito israeliano, consiste soprattutto in pazienti e guardinghe esplorazioni dei luoghi dove potrebbero esserci tunnel, pozzi, depositi d’armi, missili, cecchini e della messa in sicurezza del territorio, badando a non lasciar mai scoperte le spalle. Altra cosa sarà la guerra di terra in Libano, se si farà davvero, almeno al suo inizio. Ci saranno avanzate, battaglie, bombardamenti diffusi. Ma dobbiamo già sapere che probabilmente anch’essa si svilupperà poi con la stessa lentezza, fatica e difficoltà che i giornali non sanno raccontare. Il grande teorico Von Clausewitz insegnava che il fattore bellico forse più importante è l’attrito.
• Smentite le previsioni catastrofiche La seconda ragione del silenzio dei media è che in questo momento molti tra essi non sono capaci di trovare argomenti contro Israele, il che purtroppo è la loro principale ragione di interesse in questa guerra. Chi sproloquiava di genocidio sulla base dei “dati” forniti da Hamas deve prendere atto che anche il Congresso americano ha stabilito in una mozione che essi non sono credibili; e comunque che anche quei i numeri di morti sono fermi ben sotto i 40 mila, almeno per la metà costituiti da truppe terroriste: un livello assolutamente imparagonabile non solo con un genocidio vero, ma anche con le vittime della “primavera araba” (per fare un esempio, allora vi furono 570 mila morti solo in Siria). C’è poi un punto più attuale. Politici, intellettuali, giornali avevano profetizzato un immane disastro umanitario, militare, diplomatico se l’esercito israeliano fosse entrato nell’ultima roccaforte terrorista di Rafah; e invece ormai la città è da tempo isolata dal confine con l’Egitto, da cui si contrabbandavano armi e combattenti; il suo territorio è all’80% controllato da Israele e invece nessun disastro è accaduto, se non si considera tale lo smantellamento degli ultimi battaglioni organizzati di Hamas. Naturalmente nessuno ha ammesso di aver sbagliato, da Biden all’ultimo corrispondente giornalistico da Israele. Semplicemente non ne parlano più. E così per l’asserita fame della popolazione, smentita anche dall’Onu e per tante altre calunnie.
• Politica con altri mezzi C’è una cosa in più da tener sempre presente. Le guerre non sono eventi isolati dal resto, che si vincono o si perdono solo sul terreno, come accade nelle competizioni sportive che pure in qualche modo le simboleggiano. Ancora Clausewitz insegnava che la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi. Dunque il terreno decisivo è quello politico. Questa è la ragione per cui i terroristi, pur chiaramente sconfitti in battaglia, resistono e dichiarano addirittura di stare vincendo. Sul piano politico hanno ottenuto molto, appoggiandosi all’antisemitismo sotterraneo di molti, atteggiandosi a vittime sono riusciti a ottenere la simpatia del mondo, anche di quello democratico, nonostante i crimini orrendi che hanno commesso. Gestendo con astuzia le trattative per il cessate il fuoco, anche con l’aiuto della “mediazione” tutt’altro che imparziale del Qatar, hanno avuto modo di ottenere la sponda dell’amministrazione Biden (ma ora la crisi della ricandidatura del presidente Usa apre scenari nuovi difficili da valutare). Con l’aiuto dell’odio anti-occidentale di certi stati e del vertice dell’Onu, si sono assicurati la tribuna delle corti internazionali di giustizia e della commissioni Onu dei diritti umani. Sfruttando cinicamente gli ostaggi che hanno rapito, hanno potuto riaprire la divisione interna al mondo politico israeliano, facendo ripartire la campagne d’odio e le manifestazioni estremiste che già un anno fa avevano indebolito lo Stato ebraico al punto da rendere una scommessa ragionevole, dal loro perverso punto di vista, il feroce attacco del 7 ottobre.
• Le difficoltà della democrazia A differenza dei suoi nemici Israele è uno stato democratico, in cui le diverse posizioni si confrontano pubblicamente anche in maniera molto dura e non esiste un potere assoluto ma ogni livello istituzionale può e deve esercitare il suo intervento secondo le proprie regole. Questa organizzazione democratica è un fine in sé, perché garantisce la libertà e l’uguaglianza di fronte alle leggi; e per questa ragione è anche una forza immensa, perché sacrifici anche terribili come quelli che impone la guerra sono stabiliti non per scelte arbitrarie di qualcuno ma col consenso collettivo, nelle forme garantite dalle elezioni e dal sistema parlamentare.
• Il reclutamento dei charedim Ma questa fondamentale risorsa può anche portare a difficoltà momentanee. È il caso della sentenza della Corte Suprema che qualche giorno fa ha imposto al governo di abbandonare un compromesso stabilito già da Ben Gurion alla fondazione dello Stato per cui gli studiosi delle accademie talmudiche sono stati sempre esonerati dall’obbligo del servizio militare. All’inizio si trattava di poche centinaia di persone, oggi sono decine di migliaia. L’annullamento di questa regola non deriva da una necessità militare, perché l’esercito oggi ha bisogno di armi sofisticate e di specialisti che le sappiano usare, non di soldati senza competenze tecniche e poco motivati. Ma è chiaro che c’è un problema di giustizia: che tutto un settore sociale come quello dei charedim sia sottratto alle durezze della guerra è intollerabile per molti che invece ne subiscono il terribile impatto. Insieme si tratta di una misura che rischia di dividere il governo dove siedono i partiti che rappresentano quel gruppo sociale e difendono con ragioni tradizionali e religiose il compromesso di Ben Gurion. È chiaro che durante una guerra terribile in cui devono essere prese molte decisioni che richiedono i poteri integrali del governo, una crisi politica che portasse a nuove elezioni (tecnicamente impossibili prima dell’autunno) porterebbe a una paralisi devastante, anche se auspicata da qualche oppositore estremista. Ed è probabile che il fronte dei nemici di Israele conti proprio su questo indebolimento per cavarsela e reclamare la vittoria. La partita politica è piena di colpi di scena e decisiva tanto sul fronte internazionale che su quello interno, mentre la guerra prosegue col suo passo lento.
(Shalom, 30 giugno 2024)
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La stella e la croce. L’antisemitismo in Svizzera dopo il 7 ottobre
di Nathan Greppi
Nonostante venga spesso percepito nell’immaginario collettivo come un paese neutrale che non prende posizione nei conflitti internazionali, anche in Svizzera dopo il 7 ottobre si è assistito ad un crescente odio nei confronti degli ebrei e di Israele. Un odio che in taluni casi si è tradotto in atti violenti, come dimostrano i fatti di inizio marzo, quando un cinquantenne ebreo ortodosso è stato accoltellato da un adolescente a Zurigo. Mentre a febbraio, un negozio di sci a Davos si è rifiutato di noleggiare i propri equipaggiamenti sportivi ai turisti ebrei.
Nello stesso paese che nel 1897 ospitò a Basilea il primo Congresso Sionista, e che oggi conta una popolazione ebraica di poco più di 18.000 persone, nel 2023 gli episodi di antisemitismo avvenuti al di fuori di internet erano triplicati rispetto all’anno precedente: 155 in totale, dei quali 114 verificatisi dopo il 7 ottobre, contro solo 57 episodi avvenuti in tutto il 2022.
• LA SITUAZIONE GENERALE Se da un lato prima del 7 ottobre gli episodi di antisemitismo erano rari, dall’altro lato “esiste un antisemitismo latente che oggi si esprime in una posizione drastica contro Israele, attuando una sovrapposizione che fa confusione tra religione e Stato”, spiega a Mosaico Micaela Goren Monti, presidente della Goren Monti Ferrari Foundation con sede a Lugano. “Purtroppo anche in Canton Ticino, come nel resto del mondo, si dimenticano le uccisioni, gli stupri e i massacri compiuti da Hamas e non si tiene in debita considerazione la necessità di Israele di difendersi e prevenire nuovi massacri, che senza l’annientamento di Hamas si ripeterebbero”.
Prima del massacro compiuto da Hamas e il successivo scoppio della guerra a Gaza, la Svizzera era “quasi un paradiso, dove non avevamo molti incidenti”, racconta Jonathan Kreutner, segretario generale della FSCI (Federazione svizzera delle comunità israelite). “Dopo il 7 ottobre, c’è stata un’esplosione di episodi di antisemitismo, comprese le aggressioni fisiche che non avevamo mai subito in una tale quantità. Se un tempo era un paese pacifico, oggi niente è più come prima”.
Quando si tratta di garantire la sicurezza delle comunità ebraiche svizzere, spiega Kreutner, “per molto tempo le autorità non hanno fatto nulla. Abbiamo lottato per anni affinché ci aiutassero con la sicurezza. Oggi non vi è luogo ebraico in Svizzera che non sia attentamente sorvegliato, ma è un traguardo che abbiamo raggiunto solo dopo un lungo percorso”.
• LA NARRAZIONE MEDIATICA Per quanto riguarda l’operato dei media svizzeri, “sto riscontrando un antisemitismo palese, sia da parte dell’opinione pubblica che della televisione e dei giornali”, ci spiega Giuseppe Giannotti: già giornalista del quotidiano ligure Il Secolo XIX e autore del libro Israele, verità e pregiudizi (De Ferrari, 2008), oggi è il portavoce dell’Associazione Svizzera-Israele (Sezione Ticino). “La RSI, in particolare, è totalmente sbilanciata, e prende per oro colato tutto quello che dice Hamas. Con la nostra associazione, abbiamo avuto un incontro con il direttore della RSI Mario Timbal, al quale abbiamo chiesto di essere più obiettivo; per tutta risposta, questi si è offeso e le osservazioni che gli abbiamo fatto sono finite nel nulla. Di recente hanno anche intervistato la relatrice dell’ONU per i Territori palestinesi Francesca Albanese, nonostante sia totalmente di parte e sbugiardata, dedicandole un’ora di programma senza alcun contraddittorio”.
Aggiunge che “spesso si dice che la Svizzera sia uno Stato neutrale; in realtà non lo è affatto, ma riflette un sentimento diffuso in tutti i paesi. Inoltre, nei media ritorna sempre questo lessico per cui, nei titoli, si dice che i palestinesi vengono ‘uccisi’, mentre gli israeliani sono ‘morti’. Questo serve ad alimentare il luogo comune secondo il quale i palestinesi sono vittime e gli israeliani aggressori. Anche a me, che sono ebreo, a volte mi capita di incontrare persone qui in Svizzera che mi dicono ‘voi a Gaza state facendo…’, al che io gli rispondo: voi chi? Io sono italiano. E allora specificano ‘voi ebrei’. Identificano tutti gli ebrei con Israele”.
Allargando lo sguardo anche ai media svizzeri di lingua tedesca e francese, non è dello stesso avviso Kreutner, secondo il quale la narrazione mediatica del conflitto “oggi è molto più obiettiva di quanto non lo fosse in passato. Credo che alla luce del crescente antisemitismo vi sia una maggiore consapevolezza della necessità di essere obiettivi”.
• I BOICOTTAGGI ACCADEMICI E ARTISTICI Nemo, il cantante svizzero che ha vinto l’Eurovision Song Contest 2024, a marzo era tra nove partecipanti alla gara che avevano firmato un appello per chiedere un cessate il fuoco a Gaza. E a Zurigo, durante l’Art Weekend tenutosi dal 7 al 9 giugno, graffiti antisionisti sono stati trovati davanti alla Galleria d’arte Bernheim e al Cabaret Voltaire, noto per essere il locale dove è nata la corrente artistica del dadaismo.
Sebbene oggi gli appelli al boicottaggio d’Israele negli atenei svizzeri siano più forti di quanto non siano mai stati in precedenza, secondo Kreutner “finora hanno ottenuto pochi risultati concreti”. Giannotti invece spiega che “qui a Lugano, ci sono state proteste degli studenti all’Università della Svizzera Italiana, anche se poi è emerso che molti non erano studenti ma infiltrati. Con loro c’era anche l’ex-rettore, Boas Erez (di origini ebraiche ma convertitosi al cattolicesimo), notoriamente di sinistra e che si adegua alle mode in maniera superficiale. Se vai a chiedere a questi studenti cosa sanno davvero di Israele, scopri che non sanno niente, ma sventolano la bandiera palestinese per seguire una moda”.
A tal proposito, la Goren Monti ci tiene a specificare che la “manifestazione di fronte all’USI, che io immagino sia stata organizzata da elementi esterni all’università stessa, è stata un ‘seguire l’onda’ poco sentito dalla maggioranza degli studenti”.
(Bet Magazine Mosaico, 30 giugno 2024)
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Regno Unito – Sondaggio: uscito di scena Corbyn, gli ebrei tornano al Labour
Il più grande sondaggio sulle intenzioni di voto degli ebrei britannici mai realizzato è stato da poco pubblicato dall’Institute for Jewish Pollicy Research (JPR). Firmato da Carli Lessof e da Jonathan Boyd, spiega che il campione intervistato sostiene maggiormente il partito laburista rispetto alla popolazione generale del Regno Unito.
Con l’avvicinarsi delle elezioni, i sondaggi mostrano che il partito laburista è avanti di 20 punti percentuali rispetto ai conservatori. Una media delle rilevazioni sulle intenzioni di voto vede i laburisti al 41,9% e i conservatori al 22,2%, con Reform UK al 15,0%, davanti a Liberal Democratici, Verdi, Partito nazionale scozzese (SNP), Plaid Cymru e altri.
Il JPR Research Panel, ha approfondito l’argomento elezioni presentando i dati raccolti grazie a 2.717 rispondenti ebrei che hanno risposto al Jewish Current Affairs Survey tra il 14 e il 20 giugno 2024. I punti principali citati nel report dicono che il 46% degli ebrei nel Regno Unito intende votare per il partito laburista, rispetto al 42% della popolazione britannica generale, e simmetricamente il 30% intende votare per il partito conservatore, contro il 22% della popolazione britannica generale. Reform UK ha attirato il 6% degli elettori ebrei, meno della metà del 15%, dato nazionale. Combinando però i voti conservatori e riformisti del Regno Unito, la percentuale di voti di destra tra gli ebrei (36%) non è significativamente diversa da quella riscontrata tra la popolazione generale del paese (37%). Ci sono differenze significative nelle intenzioni di voto degli ebrei in base alla denominazione, con i più tradizionalisti e gli ortodossi propensi a votare per i conservatori mentre gli ebrei riformati o non affiliati sono molto più propensi a votare laburista. I dati raccolti durante l’attuale governo mostrano che il sostegno al Labour tra gli ebrei è risalito, rispetto al minimo storico dell’11% registrato nelle elezioni generali del 2019, quando Jeremy Corbyn guidava il partito. Le donne ebree, infine, tendono di più a votare laburista rispetto agli uomini ebrei; e il 29% degli ebrei sotto i 30 anni afferma che non voterà per nessuno dei tre grandi partiti tradizionali.
(moked, 30 giugno 2024)
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Scoperta israeliana: il vetro che si autoripara con l’acqua
di Jacqueline Sermoneta
È una scoperta che può rivoluzionare numerosi settori come l’ottica e l’elettrottica, la comunicazione satellitare, il telerilevamento e la biomedicina. Si tratta di vetro innovativo che ha la capacità di autoassemblarsi e autoripararsi con l’acqua, a temperatura ambiente. Lo studio è stato condotto dai ricercatori dell’Università di Tel Aviv (TAU) ed è stata pubblicato di recente sulla rivista ‘Nature’.
“Nel nostro laboratorio studiamo la bioconvergenza e, in particolare, utilizziamo le straordinarie proprietà della biologia per produrre materiali innovativi – ha spiegato il Prof. Ehud Gazit della Scuola Shmunis della TAU – Ci occupiamo, fra l’altro, delle sequenze di amminoacidi – i mattoni delle proteine. Gli amminoacidi e i peptidi hanno una tendenza naturale a connettersi e a formare strutture ordinate con una disposizione periodica definita. Tuttavia, durante la ricerca, abbiamo scoperto che un singolo peptide si comporta in modo diverso da tutto quello che conosciamo: non ha formato alcuna struttura ordinata, ma amorfa, disordinata, ciò che definisce il vetro”.
Sebbene sia privo di una struttura interna ordinata, il vetro presenta proprietà meccaniche simili a quelle di un solido. Il vetro comune viene prodotto raffreddando rapidamente materiali fusi a temperature altissime. Invece, il vetro peptidico scoperto dagli studiosi “si forma spontaneamente a temperatura ambiente, senza bisogno di energia come il calore o la pressione. – ha detto la ricercatrice Gal Finkelstein-Zuta della TAU – Basta sciogliere una polvere in acqua, come per fare il ‘Kool-Aid’, e si forma. Per esempio, con il vetro innovativo abbiamo realizzato delle lenti. Invece di sottoporle a un lungo processo di levigatura e lucidatura, abbiamo semplicemente aggiunto gocce d’acqua sulla superficie, dove possiamo controllarne la curvatura – e quindi la messa a fuoco – solo regolando il volume della soluzione”.
“È la prima volta che si riesce a creare un vetro molecolare in condizioni semplici. – ha aggiunto il Prof. Gazit – Tuttavia, non sono meno importanti le sue proprietà, davvero uniche. Da un lato è molto resistente e dall’altro è molto trasparente, molto più del vetro comune”. “Il vetro silicato che conosciamo è trasparente al range dello spettro visibile, mentre il vetro molecolare è trasparente fino al range degli infrarossi. Questo ha molte applicazioni in campi come quello satellitare, il telerilevamento, le comunicazioni e l’ottica. È anche un forte adesivo: è possibile incollare superfici differenti insieme e, allo stesso tempo, ha la capacità di autoripararsi quando si formano delle crepe al suo interno. Ha una serie di proprietà che non esistono in alcun vetro al mondo, con un grande potenziale nella scienza e nell’ingegneria. Tutto questo è stato ottenuto unicamente da un singolo peptide, un piccolo ‘pezzo’ di proteina”.
(Shalom, 30 giugno 2024)
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«L’Ucraina porta avanti una guerra per procura di cui è la prima vittima»
«I piani di conquista di Putin, così come la resistenza di Zelensky, sono utopia. Ma sarà Kiev a pagare il prezzo più alto: dipende sempre più dall'Occidente».
di Franco Battaglia
Nato e cresciuto nell'Ucraina occidentale, Ivan Katchanovsk:i è professore presso la Scuola di studi politici dell'Università di Ottawa. In precedenza ha ricoperto incarichi accademici presso il Davis Center for Russian and Eurasian Studies dell'Università di Harvard, il Dipartimento di Politica dell'Università dello Stato di New York a Potsdam, il Dipartimento di Scienze politiche dell'Università di Toronto e il Kluge Center della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti. E' specializzato nella politica dell'Ucraina, nei conflitti che la coinvolgono, nelle divisioni politiche regionali e nei movimenti separatisti in Ucraina e Moldavia. Autore di numerosi libri, ne ha in cantiere tre che riguardano, uno, la guerra Russia-Ucraina e le sue origini, un altro, il massacro di Maidan, e il terzo l'Ucraina moderna. E da molti anni prima che accadesse realmente che il professore metteva in guardia sulla possibilità molto concreta di un'invasione russa dell'Ucraina.
- Professor Katchakovski, si usa dire che nelle guerre la prima vittima è la verità. Come studioso di spicco e, data la sua storia personale, anche come testimone diretto, qual è la sua verità? «Sì, in effetti, le bugie hanno contribuito all'inizio della guerra e al gran numero di vittime. Contrariamente a quanto sostiene il governo russo, l'invasione russa dell'Ucraina nel febbraio 2022 è stata illegale secondo il diritto internazionale. Ma questa guerra avrebbe potuto essere evitata dal governo ucraino, dagli Stati Uniti, dalla Nato e dalla Ue - ad esempio, attuando gli accordi di Minsk, rendendo l'Ucraina neutrale e offrendole l'adesione alla Ue. Questa guerra è stata provocata, a differenza di quel che sostengono i governi occidentali e gran parte dei media. Tuttavia, con l'invasione del febbraio 2022, la Russia ha drasticamente inasprito sia i conflitti con l'Ucraina e l'Occidente sia la guerra civile nel Donbass».
- Come nacque la guerra civile? «Nacque col rovesciamento violento, illegale e antidemocratico del legittimo governo ucraino filorusso, un rovesciamento sostenuto dall'Occidente, attraverso il massacro di Maidan e i tentativi di assassinare il presidente legittimo (Vìktor Yanukovych), perpetrati dagli elementi oligarchici e di estrema destra del Paese».
- Come si fa a dirlo? «Perché è recente il verdetto del processo sul massacro di Maidan in Ucraina. Il verdetto ha confermato i risultati delle mie ricerche, ovvero che molti attivisti di Maidan sono stati uccisi e feriti e che i giornalisti britannici della Bbc e tedeschi dell'Ard sono stati colpiti non dalla polizia ma da cecchini nell'Hotel Ukraine, controllato dall'estrema destra, e in altri edifici controllati da Maidan. Il verdetto ha inoltre confermato che non c'è stata alcuna partecipazione russa al massacro e che non ci sono stati ordini di massacro da parte di Yanukovych. Questo massacro ha innescato il rovesciamento violento e illegale di Yanukovych, che è stato falsamente incolpato di averlo ordinato, e ha causato un'escalation del conflitto tra Russia e Ucraina e tra Russia e Occidente. In particolare, ha provocato l'annessione della Crimea alla Russia, la guerra civile e gli interventi militari russi nel Donbass e, infine, l'invasione russa illegale e la guerra in corso in Ucraina. Tutte le prove suggeriscono che il piano di invasione russo non prevedeva l'occupazione o l'annessione dell'intera Ucraina. L'obiettivo iniziale di Mosca era di costringere Kiev ad accettarne le richieste, come lo status di neutralità dell'Ucraina: i negoziati di pace sono iniziati pochi giorni dopo l'invasione. Esistono prove schiaccianti di una bozza di accordo di pace per porre fine alla guerra nella primavera del 2022. E’ stato confermato dal capo della delegazione ucraina ai colloqui di pace, da funzionari vicini a Zelensky, dall'ex primo ministro israeliano, dall'ex cancelliere tedesco, dal ministro degli Esteri turco, dal presidente russo Putin, dal capo della delegazione russa ai colloqui di pace, dal ministro degli Esteri russo, da diversi ex alti funzionari statunitensi, dall'ex consigliere di Zelensky e dall'ambasciatore ucraino, e da tutti coloro che hanno partecipato ai colloqui di pace o ne erano a conoscenza. Le prime otto di queste fonti, provenienti da Ucraina, Israele, Turchia e Russia, hanno dichiarato, esplicitamente o implicitamente, che l'accordo di pace è stato bloccato da Stati Uniti e Regno Unito. Le bozze dell'accordo di pace sono state poi pubblicate dal New York Times. Zelensky ha abbandonato i negoziati subito dopo la visita del primo ministro britannico Boris Johnson del 9 aprile 2022».
- Cosa prevedeva l'accordo? «Prevedeva il ritiro delle forze russe dal territorio ucraino ad eccezione della Crimea (annessa dalla Russia nel 2014) e del Donbass (controllato dai separatisti). Putin ha annesso illegalmente i territori ucraini sotto il controllo russo nell'ottobre 2022, dopo il fallimento dell'accordo di pace».
- Ma si dice che gli ucraini difendano la loro patria .... «La rappresentazione degli ucraini come contrari a qualsiasi accordo di pace a meno che la Russia non venga sconfitta, e disposti a combattere la Russia finché non sarà sconfitta e finché l'Ucraina non si riprenderà la Crimea e il Donbass, si basa su inaffidabili sondaggi di opinione e sulla propaganda di massa. Migliaia di video su Telegram, Twitter e sui media ucraini hanno mostrato la mobilitazione forzata di uomini in diverse località dell'Ucraina. La nuova legge sulla mobilitazione vuole mobilitare anche i disabili e i cittadini ucraini all'estero, anche i doppi cittadini e i residenti permanenti di Paesi stranieri, e prevede pene severe per chi si sottrae alla coscrizione o alla registrazione per il servizio militare. Quasi subito dopo l'invasione russa, Zelensky ha vietato agli uomini di età compresa tra i 18 e i 60 anni di lasciare l'Ucraina. Tuttavia, nonostante il divieto, i dati Eurostat hanno mostrato che più di 600.000 uomini ucraini in età militare sono fuggiti nei Paesi della Ue, in Svizzera, Liechtenstein e Norvegia. Un ex consigliere di Zelensky ha rivelato che più di 4 milioni di uomini ucraini hanno evitato di recarsi ai centri di reclutamento militare, non solo per la mobilitazione, ma anche per il controllo dei propri dati personali».
- In breve, è Zelensky che non vuole la pace? «Zelensky ha detto che il suo piano di pace consiste nel continuare la guerra per almeno altri quattro anni fino a quando "la Russia si ritirerà da tutto il territorio ucraino, pagherà le riparazioni e sarà punita per i crimini di guerra". Le possibilità che ciò accada sono prossime allo zero. Ma il suo potere in Ucraina si basa sulla continuazione della guerra, che è anche una guerra per procura tra la Nato e la Russia. L'Ucraina è uno Stato cliente degli Stati Uniti dal rovesciamento, sostenuto dall'Occidente, del governo ucraino nel 2014. Il Vertice di Pace è stato più che altro un evento di «public relations», senza un vero piano di pace. Anche le condizioni poste da Putin per avviare i colloqui di pace dopo il ritiro delle forze ucraine da tutte e quattro le regioni annesse dalla Russia nel 2022 non sono realistiche: la Russia cerca di costringere l'Ucraina e l'Occidente ad accettare un accordo di pace alle sue condizioni continuando la guerra».
- Pensa che l'Ucraina finirà per entrare nella Nato? «Sebbene i leader occidentali e Zelensky sostengano che l'Ucraina entrerà a far parte della Nato, le possibilità che ciò accada sono molto scarse. Diversi alti funzionari e politici statunitensi hanno ammesso che questa è una guerra per procura. Ma la guerra per procura ha prolungato la guerra. Le massicce forniture di armi da parte dei membri della Nato guidati dagli Stati Uniti e degli Stati membri della Ue, l'intelligence, i consiglieri, la pianificazione e l'addestramento militare e gli aiuti economici su larga scala hanno permesso all'Ucraina di continuare la sua resistenza contro le forze russe e i separatisti del Donbass. Ma le forniture militari hanno anche reso l'Ucraina fortemente dipendente dal sostegno dei Paesi della Nato e della Ue».
- Come finirà? «Difficile dirlo, ma l'unico problema è l'entità della sconfitta dell'Ucraina, la perdita di vite e di territorio ucraino, tutte cose che potrebbero essere ridotte con una soluzione pacifica. Più la guerra continua, più vite ucraine andranno perse e più danni all'Ucraina saranno inflitti dalle forze russe. E le condizioni per la pace sarebbero sempre più punitive per l'Ucraina».
(La Verità, 29 giugno 2024)
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Perché i generali israeliani si trovano raramente nello spettro della destra?
Come mai i generali israeliani hanno un problema fondamentale con la politica di destra in Israele?
di Aviel Schneider
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Guerra dei Sei Giorni 1967: il Ministro della Difesa Moshe Dayan entra nella Città Vecchia con
il Capo di Stato Maggiore Itzchak Rabin (a destra) e il comandante di Gerusalemme Uzinarkis
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GERUSALEMME - La maggior parte dei capi di stato maggiore israeliani, così come i capi del servizio segreto israeliano Mossad o del servizio di sicurezza Shin Bet, tendono a essere di centro-sinistra per quanto riguarda le politiche di Israele. Perché il 95% di tutti gli alti funzionari della sicurezza, i capi della sicurezza, i capi di stato maggiore, i generali, gli eroi di guerra e i ministri della difesa non hanno mai sostenuto le politiche nazionaliste di destra della nazione di Israele?
• IDEOLOGIA DI DESTRA Su 13 capi di stato maggiore entrati nella politica israeliana, solo uno ha sposato un'ideologia di destra. Si tratta di Rafael Eitan, capo del partito Zomet. 27 generali hanno fatto politica, ma solo due erano di destra, Rehavam Zeevi (partito Moledet) e Avraham Yaffe. Tutti gli altri erano al centro, con motivazioni di destra o ancor più di sinistra. Cosa ha tenuto questi generali e leader lontani dalla politica di destra di Israele? è questo che li rende automaticamente radicali di sinistra, anarchici e traditori, come sostengono i politici di destra e i loro elettori?
Penso che ci sia qualcosa di più. Lo Stato di Israele si è "alzato con il piede sinistro" nel 1948. E tuttavia non per questo Israele era “scontento e scontroso". La promessa biblica si è realizzata con generali e politici socialisti di sinistra. Lo Stato di Israele non è stato fondato con un governo nazionalista di destra.
Mi sorprende che ministri attuali come Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich si preoccupino quasi solo ossessivamente della sicurezza di Israele, non avendo prestato servizio nell'esercito o avendo svolto solo un lavoro minimo nell'esercito. Inoltre, la loro attuale coalizione, che è un "governo nazionalista di destra a tutti gli effetti", come sottolineano ripetutamente, non offre maggiore sicurezza, nonostante lo abbiano promesso ai loro elettori. Inoltre, loro e i loro colleghi di partito criticano i generali israeliani in azione 24 ore su 24, che a loro avviso non garantiscono una sicurezza sufficiente per i coloni ebrei nel cuore biblico di Giudea e Samaria. Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il Ministro della Difesa Yoav Galant hanno già dovuto scusarsi più volte per le critiche inaccettabili dei loro colleghi di partito.
• CAMBIO DI GOVERNO Dal cambio di governo del 1977, quando il partito di destra Likud vinse per la prima volta le elezioni sotto la guida di Menachem Begin ponendo così fine al trentennale potere del governo di sinistra Mapai, almeno sei capi dello Shin Bet su dieci sono appartenuti alla cosiddetta sinistra. Nello stesso periodo, degli otto capi del Mossad, sei erano di sinistra.
Tra i capi di stato maggiore di Israele in questo periodo, se ne contano anche nove, tra cui Itzchak Rabin. Gli altri non erano di destra, ma sempre politicamente al centro. Sono tutti comandanti di spicco e di grande esperienza, comandanti e generali che hanno servito nella difesa quotidiana di Israele per oltre quarant'anni. Leader e modelli che hanno permesso al popolo di Israele in Sion di dormire sonni tranquilli. Queste persone conoscono i pericoli più acuti rispetto ai comuni cittadini del Paese. Tutti coloro che prestano servizio ad alto livello nel sistema di sicurezza sono esposti a una grande quantità di intelligence durante il loro servizio e partecipano alle valutazioni strategiche e alla definizione della difesa dei confini del Paese e dei suoi abitanti. La sicurezza di Israele è stata nelle loro mani e nessuno può togliergliela.
• RIFORMA GIURIDICA Di fronte alla controversa riforma legale, le voci di numerosi generali, capi di stato maggiore ed ex capi del Mossad, dello Shin Bet e della polizia si levano ora contro i piani del governo nazionalista di destra di Benjamin Netanyahu. Ex capi di stato maggiore come Ehud Barak, Dan Halutz, Bugi Yaalon e Gadi Eizenkot stanno tutti avvertendo di un imminente collasso della democrazia israeliana se l'attuale governo porterà avanti la riforma legale senza un accordo con l'opposizione.
Il più feroce critico del governo è Ehud Barak, che si dice abbia un'unica intenzione, quella di far cadere il governo Netanyahu. Molto tempo fa, entrambi hanno prestato servizio nell'unità d'élite Sayeret Matkal ed erano grandi amici. Come altri capi di stato maggiore, anche lui ora mette in guardia da una svolta messianica che, a suo avviso, spingerebbe il popolo nell'abisso. Ma in sostanza, l'idea esistenziale di Israele come patria ebraica è un'idea messianica, basata sulle visioni bibliche dei profeti, cosa che è affermata persino nella Dichiarazione di Indipendenza.
• APARTHEID? L'ex maggiore generale e vice capo del Mossad, Amiram Levin, ha recentemente affermato che in Giudea e Samaria vige l'apartheid e che l'esercito israeliano è coinvolto in crimini di guerra, come è accaduto in Germania: "Chiunque cammini per le strade di Hebron vede dove agli arabi non è permesso camminare. Non possiamo ignorarlo". Questo ha fatto arrabbiare la destra del popolo, perché i palestinesi compiono attacchi contro gli ebrei e quindi vengono prese misure di sicurezza che spesso non sono positive. La situazione dei palestinesi non può essere paragonata a quella degli ebrei nell'impero nazista. Inoltre accusa Netanyahu di essere stato strumentalizzato politicamente da un gruppo messianico che non conosce la democrazia. Si riferisce a Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich.
Le riforme legali stanno suscitando nella leadership della sicurezza israeliana spiriti ed emozioni che forse non sarebbero mai esplosi in questo modo se le riforme legali, alcune delle quali davvero necessarie, fossero state sancite in un accordo nazionale alla Knesset. Il fatto importante non è la situazione attuale tra la gente, dove entrambe le parti perdono la testa e spesso dicono cose inutili, la domanda importante è: perché quasi tutti i generali e i capi dell'apparato di sicurezza israeliano si sono tenuti a distanza per decenni dai governi di destra?
• DIETRO LE QUINTE Voci e pubblicisti di destra ritengono che questi generali, capi di stato maggiore, vice capi di stato maggiore, capi dello Shin Bet e del Mossad abbiano tutti lo stesso obiettivo di tirare il timone a sinistra nella politica di sicurezza di Israele. Ammesso che questo sia vero, bisogna chiedersi perché. Si tratta di persone che, dietro le quinte, sanno tutto sui pericoli esistenziali di Israele. Capiscono che il futuro di Israele è in pericolo se le cose vanno avanti così. Capiscono che il ritorno degli ebrei a Sion e la terza rinascita di Israele sono una catastrofe per l'altra parte. Capiscono che un popolo che si sente conquistato non rinuncerà mai alla lotta per la liberazione. E allo stesso tempo, vedono anche i limiti strategici e tattici di Israele per il futuro.
A lungo termine, Israele non sopravviverà a questo conflitto di logoramento con i palestinesi e all'ambiente ostile. Una spiegazione che ho sentito innumerevoli volte dai miei amici di sinistra è: "Sono stati nell'esercito, nel Mossad e nello Shin Bet, nella polizia, e capiscono i limiti del potere. Dopo il servizio, si uniscono alle voci ragionevoli". Forse, ma anche a destra ci sono voci e idee ragionevoli.
• RIPENSARE Questo mi ricorda il film documentario israeliano del 2013 The Gatekeepers, in cui sei ex capi dello Shin Bet israeliano, Avraham Shalom, Yakov Peri, Karmi Gilon, Ami Ayalon, Avi Dichter e Yuval Diskin, raccontano il loro servizio. Alla fine, tutti concludono che il potere di Israele nel conflitto israelo-palestinese è limitato. Mettono in discussione il loro servizio e la sua influenza etica e strategica sullo Stato di Israele.
Israele deve ripensare, e questo ripensamento non piace alla destra, perché con più potere e ancora più potere, anche i nemici di Israele diventano peggiori. Nel documentario, Jakov Peri sottolinea alla fine che lui e i suoi colleghi si sono spostati più a sinistra perché le cose non possono andare avanti così. Difendono lo Stato di Israele e allo stesso tempo comprendono la sofferenza dei palestinesi. Finché loro soffriranno, anche il popolo ebraico di Sion soffrirà.
• E NETANYAHU? Possiamo chiederci perché Benjamin Netanyahu, in qualità di Primo Ministro, non abbia mai fatto un chiaro passo politico verso destra, anzi, è responsabile del ritiro delle truppe da Hebron, la città biblica dei patriarchi. E non è tutto. Pochi mesi dopo essere stato eletto per un secondo mandato nel 2009, ha presentato la soluzione dei due Stati nel famoso discorso di Bar-Ilan del giugno 2009. La spartizione delle terre non è una politica di destra. E perché Netanyahu non ha mai sciolto Hamas, come ha ripetutamente proposto? Netanyahu si è sempre comportato con moderazione nelle operazioni nella Striscia di Gaza. Quello che vogliono i suoi ministri Ben-Gvir e Smotrich in questi giorni è molto diverso.
Ariel Sharon, che ha combattuto per la politica degli insediamenti ebraici come generale e infine ha evacuato l'intera Striscia di Gaza come Primo Ministro, ha detto notoriamente: "Quello che si vede da qui, non si vede da lì". Perché il leggendario Menachem Begin evacuò la penisola del Sinai non appena fu eletto Primo Ministro nel 1977? Questa è stata una politica tutt'altro che di destra. Questo fa di Begin, Sharon e Netanyahu dei traditori? Certo che no, ma l'apparato di sicurezza israeliano vede la realtà e il pericolo che circonda Israele dietro le quinte, e questo non può essere risolto con più urla alla Knesset o con più bombe sui nostri nemici. Con l'esperienza della storia ebraica, queste persone temono che l'attuale governo sia un pericolo per l'esistenza di Israele. Questo è ciò che credono veramente e questo è il modo in cui l'ex capo del Mossad Tamir Pardo, che è stato nominato da Benjamin Netanyahu, ha detto.
• IL MEGLIO PER ERETZ ISRAEL? Forse, solo forse, questi eroi di guerra, generali e capi della sicurezza che hanno sacrificato tutti i loro anni per il Paese, rischiando la vita, inviando soldati in guerre e operazioni e ordinando le operazioni più spettacolari di Israele, lasciando il mondo a bocca aperta con operazioni come Entebbe, realizzandone altre di cui non sentiremo mai parlare, persone che hanno formato la forza di difesa di Israele, che hanno reso il Mossad e lo Shin Bet le migliori organizzazioni del loro genere al mondo - forse vogliono solo il meglio per la terra di Eretz Israel. Forse queste persone non odiano il Paese come spesso viene dipinto nei nostri giorni, solo perché si oppongono alle riforme legali dei governi di destra.
Forse non sono davvero traditori e anticristiani. Dopo tutto, la stragrande maggioranza di questi israeliani non è mai stata dalla parte destra della politica in tutta la storia dello Stato di Israele. Nessuno può rimproverarli di essersi spostati ancora più a sinistra a causa di Bibi e delle sue riforme di destra. Anche prima delle riforme legali, queste persone hanno capito Zaccaria: "Non per potenza né per forza, ma per il mio Spirito, dice il Signore degli eserciti" (Zaccaria 4:6).
È stato proprio con queste parole del profeta Zaccaria che ho prestato giuramento come giovane soldato al Muro del Pianto di Gerusalemme negli anni '80, con una Bibbia e un fucile. Tra l'altro, mia moglie Anat mi ha appena ricordato che anche mio padre aveva questo esatto versetto in ebraico לֹא בְחַיִל וְלֹא בְכֹחַ כִּי אִם בְּרוּחִי"" attaccato sul cruscotto della sua auto.
L'apparato di sicurezza israeliano sa che l'esercito e la forza sono un potere limitato e non garantiscono la sopravvivenza. Solo lo Spirito di Dio può salvare Israele in questo caso. E deve intervenire con urgenza nel paese.
(Israel Heute, 30 giugno 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Ma davvero questi generali israeliani hanno capito la profezia di Zaccaria? Dopo aver riconosciuto i limiti della forza militare, hanno ricercato la forza dello Spirito di Dio? Ha qualcuno di loro ricordato al popolo quello che fece il re Giosafat quando udì che i Moabiti e gli Ammoniti marciavano contro di lui? M.C.
2 CRONACHE, cap. 20
1 Dopo queste cose, i figli di Moab, e i figli di Ammon, e con loro dei Maoniti, marciarono contro Giosafat per fargli guerra. 2 Vennero dei messaggeri a informare Giosafat, dicendo: “Una grande moltitudine avanza contro di te dall'altra parte del mare, dalla Siria, ed è giunta ad Asason-Tamar”, che è En-Ghedi. 3 Giosafat ebbe paura, si dispose a cercare l'Eterno, e bandì un digiuno per tutto Giuda. 4 Giuda si radunò per implorare aiuto dall'Eterno, e venivano gli abitanti da tutte quante le città di Giuda per cercare l'Eterno. 5 Giosafat, stando in piedi in mezzo all'assemblea di Giuda e di Gerusalemme, nella casa dell'Eterno, davanti al cortile nuovo, disse:
6 “O Eterno, Dio dei nostri padri, non sei tu l'Iddio dei cieli? Non sei tu che domini su tutti i regni delle nazioni? Non hai tu nelle tue mani la forza e la potenza, in modo che nessuno ti può resistere? 7 O Dio nostro, non sei tu colui che scacciò gli abitanti di questo paese davanti al tuo popolo Israele, e lo desti per sempre alla discendenza di Abraamo, il quale ti amò? 8 E quelli lo hanno abitato e vi hanno costruito un santuario per il tuo nome, dicendo: 9 'Quando ci cadrà addosso qualche calamità, spada, giudizio, peste o carestia, noi ci presenteremo davanti a questa casa e davanti a te, poiché il tuo nome è in questa casa; e a te grideremo nella nostra tribolazione, e tu ci udrai e ci salverai'. 10 Ora ecco che i figli di Ammon e di Moab e quelli del monte Seir, nelle cui terre non permettesti a Israele di entrare quando veniva dal paese d'Egitto, ed egli li lasciò da parte e non li distrusse, 11 eccoli che ora ci ricompensano, venendo a scacciarci dalla eredità di cui ci hai dato il possesso. 12 Dio nostro, non giudicherai costoro? Poiché noi siamo senza forza di fronte a questa grande moltitudine che avanza contro di noi; non sappiamo cosa fare, ma i nostri occhi sono su di te!”.
13 E tutto Giuda, perfino i bambini, le mogli, i figli, stavano in piedi davanti all'Eterno. 14 Allora lo Spirito dell'Eterno investì in mezzo all'assemblea Iaaziel, figlio di Zaccaria, figlio di Benaia, figlio di Ieiel, figlio di Mattania, il Levita, tra i figli di Asaf. 15 Iaaziel disse: “Porgete orecchio, voi tutti di Giuda, e voi abitanti di Gerusalemme, e tu, o re Giosafat! Così vi dice l'Eterno: 'Non temete e non vi spaventate a causa di questa grande moltitudine; poiché questa battaglia non è vostra, ma di Dio. 16 Domani, scendete contro di loro; eccoli che vengono su per la salita di Sis, e voi li troverete all'estremità della valle, di fronte al deserto di Ieruel. 17 Questa battaglia non sarete voi a combatterla: presentatevi, tenetevi fermi, e vedrete la liberazione che l'Eterno vi darà. O Giuda, o Gerusalemme, non temete e non vi spaventate; domani, uscite contro di loro, e l'Eterno sarà con voi'”. 18 Allora Giosafat chinò la faccia a terra, e tutto Giuda e gli abitanti di Gerusalemme si prostrarono davanti all'Eterno e lo adorarono. 19 I Leviti tra i figli dei Cheatiti e tra i figli dei Coraiti si alzarono per lodare ad altissima voce l'Eterno, l'Iddio d'Israele. 20 La mattina seguente si alzarono di buon'ora, e si misero in cammino verso il deserto di Tecoa; e mentre si mettevano in cammino, Giosafat, stando in piedi, disse: “Ascoltatemi, o Giuda, e voi abitanti di Gerusalemme! Credete nell'Eterno, il vostro Dio, e sarete al sicuro; credete ai suoi profeti, e trionferete!”. 21 E dopo aver tenuto consiglio con il popolo, stabilì dei cantori che, vestiti di paramenti sacri, cantassero le lodi dell'Eterno e, camminando alla testa dell'esercito, dicessero: “Celebrate l'Eterno, perché la sua benignità dura in eterno!”. 22 Appena cominciarono i canti di gioia e di lode, l'Eterno tese un'imboscata contro i figli di Ammon e di Moab e contro quelli del monte Seir che erano venuti contro Giuda; e rimasero sconfitti.
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Il centurione di Capernaum
di Marcello Cicchese
LUCA, cap. 7
- Dopo che egli ebbe finito tutti i suoi ragionamenti al popolo che l'ascoltava, entrò in Capernaum.
- Il servo di un certo centurione, che gli era molto caro, era malato e stava per morire;
- il centurione, avendo udito di Gesù, gli mandò degli anziani dei Giudei per pregarlo che venisse a salvare il suo servo.
- Ed essi, presentatisi a Gesù, lo pregavano con insistenza, dicendo: “Egli è degno che tu gli conceda questo,
- perché ama la nostra nazione ed è lui che ci ha edificato la sinagoga”.
- Gesù s'incamminò con loro e ormai non si trovava più molto lontano dalla casa, quando il centurione mandò degli amici a dirgli: “Signore, non ti dare questo incomodo, perché io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto,
- perciò non mi sono neppure reputato degno di venire da te, ma di' una parola e il mio servo sarà guarito.
- Poiché anch'io sono uomo sottoposto all'autorità altrui e ho sotto di me dei soldati; e dico a uno: 'Va'' ed egli va; a un altro: 'Vieni' ed egli viene; e al mio servo: 'Fa' questo' ed egli lo fa”.
- Udito questo, Gesù restò meravigliato di lui e, rivoltosi alla folla che lo seguiva, disse: “Io vi dico che neppure in Israele ho trovato una così gran fede!”.
- E quando gli inviati furono tornati a casa, trovarono il servo guarito.
MATTEO, cap. 8
- Quando Gesù fu entrato in Capernaum, un centurione venne a lui pregandolo e dicendo:
- “Signore, il mio servo giace in casa paralitico, gravemente tormentato”.
- Gesù gli disse: “Io verrò e lo guarirò”. Ma il centurione, rispondendo, disse:
- “Signore, io non son degno che tu entri sotto il mio tetto, ma di' soltanto una parola e il mio servo sarà guarito.
- Poiché anch'io sono uomo sottoposto ad altri e ho sotto di me dei soldati e dico a uno: 'Va'' ed egli va, e a un altro: 'Vieni' ed egli viene, e al mio servo: 'Fa' questo' ed egli lo fa”.
- Gesù, udito questo, ne restò meravigliato e disse a quelli che lo seguivano: Io vi dico in verità che in nessuno, in Israele, ho trovato una fede così grande.
La storia di questo anonimo centurione romano preoccupato per la salute di un suo ancor più anonimo servo, dove affiorano inaspettati sentimenti di gratitudine degli anziani di una sinagoga per un militare dell'esercito di occupazione, con un Gesù che si lascia sorprendere da una fede che non aveva mai visto neppure in Israele, è uno dei quadri più dolci e significativi dei Vangeli. Il racconto però non è tra i più "gettonati", battuto di gran lunga in fatto di popolarità da parabole come "Il buon samaritano" o "Il figliuol prodigo". Ma il guaio è che proprio la popolarità di queste parabole contribuisce a deformare la comprensione dei Vangeli. Non soltanto le parabole, ma tutte le parole e le azioni di Gesù rischiano di essere considerate come universali modelli di ideali comportamenti umani, col risultato che alla fine l'intera raccolta dei quattro Vangeli diventa, in questa comprensione, un'antologia di edificanti racconti morali presentata in forma artistico-letteraria. Se poi qualcuno ci vuol metter dentro anche Dio, può farlo, la cosa non disturba ma non è essenziale. I Vangeli invece sono storia. Trattano una questione di verità: la verità di Dio nel suo rapporto con la terra e gli uomini. Rispondono alla domanda: chi è Gesù? E al lettore pongono la domanda: e tu, chi dici che sia Gesù?
"Gesù, venuto nelle parti di Cesarea di Filippo, domandò ai suoi discepoli: “Chi dice la gente che sia il Figlio dell'uomo?” Essi risposero: “Alcuni dicono Giovanni il battista; altri, Elia; altri, Geremia o uno dei profeti”. Ed egli disse loro: “E voi, chi dite che io sia?” Simon Pietro, rispondendo, disse: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Matteo 16:13-16).
Come si vede, le risposte riportate dai discepoli sono diverse, ma tutte pongono una questione di verità facendo riferimento alla storia di Israele. All'interno di questa storia, la domanda su Gesù si particolarizza in modo più preciso: "E' Gesù il Messia di Israele?" A questa domanda i Vangeli rispondono decisamente "sì", ma la loro risposta non è una trattazione teologica ben argomentata: i Vangeli rispondono trasmettendo in forma scritta, sotto l'azione dello Spirito di Dio, quello che è avvenuto in Israele con la nascita e l'opera di Gesù. I Vangeli sono l'autopresentazione di Gesù. Ma come può avvenire questo, se non si può incontrarlo da nessuna parte? Qualcuno forse invidierà chi ha potuto conoscerlo di persona quando era presente corporalmente sulla terra, ma questo è stato possibile soltanto per un tempo.
La Parola è stata fatta carne e ha abitato per un tempo fra noi, piena di grazia e di verità, e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come quella dell'Unigenito venuto dal Padre (Giovanni 1.14).
Quel tempo ormai è passato, e adesso? Adesso Gesù non c'è più perché.... perché è morto, dirà qualcuno, come tutti. Certo, indubbiamente Gesù è morto, ma non come tutti. Perché Gesù ora vive. Ma non è "tornato in vita", non è rimbalzato sul muro della morte e rigettato indietro là dov'era prima. Gesù è passato attraverso il muro della morte e nel far questo l'ha distrutta. Gesù è risuscitato:
"Cristo, essendo risuscitato dai morti, non muore più; la morte non lo signoreggia più" (Romani 6:9).
Dopo la sua risurrezione, con un corpo redento da ogni traccia di male, Gesù si è intrattenuto per quaranta giorni coi suoi discepoli; poi, con loro sorpresa, è stato ripreso da Dio e riportato in cielo. E dei discepoli rimasti inaspettatamente senza il loro Maestro in terra, che ne è stato? Per loro i tre giorni in cui il corpo di Gesù è rimasto sotto terra devono essere stati terribili. E' stata un'esperienza di morte, tormentati da un dubbio angosciante: ma allora, avevano forse ragione quelli che dicevano che Gesù non è il Messia? Mentre era con loro Gesù sapeva che avrebbero dovuto passare per quel tremendo travaglio. Quattro capitoli del Vangelo di Giovanni, dal 13 al 16, sono dedicati a riportare i discorsi con cui Gesù nella tormentata ultima cena pasquale ha annunciato ai discepoli, con enigmatiche e tenere parole, il suo imminente distacco da loro:
Ora me ne vado a colui che mi ha mandato e nessuno di voi mi domanda: 'Dove vai?'. Invece, perché vi ho detto queste cose, la tristezza v'ha riempito il cuore. Pure, io vi dico la verità: è utile per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore, ma, se me ne vado, io ve lo manderò (Giovanni 16:5-7).
Lo Spirito Santo che ha riempito Giovanni Battista fin dal grembo di sua madre (Luca 1:13-17), che è venuto su Maria e l'ha coperta della sua ombra quando ha concepito Colui che sarà chiamato "Figlio dell'Altissimo" (Luca 1:28-33), che ha riempito Elisabetta quando udì il saluto di Maria (Luca 1:39-42), che ha riempito Zaccaria quando Dio gli ha ridato la parola mettendogli in bocca una solenne benedizione profetica (Luca 1:67-79), che ha concesso a Simeone il privilegio di vedere coi suoi occhi la Consolazione di Israele prendendo il bambino Gesù tra le sue braccia (Luca 1:25-32), che è sceso su Gesù in forma corporea come una colomba il giorno del suo battesimo nelle acque del Giordano (Luca 3:21-22), è anche Colui che ha oggi il compito di trasmettere la parola viva di Gesù a coloro che crederanno in Lui senza averlo incontrato corporalmente di persona. E' questa la promessa che Gesù ha fatto ai suoi discepoli in quell'ultima cena pasquale:
Molte cose ho ancora da dirvi, ma non sono per ora alla vostra portata, però quando sarà venuto lui, lo Spirito della verità, egli vi guiderà in tutta la verità, perché non parlerà di suo, ma dirà tutto quello che avrà udito e vi annuncerà le cose a venire. Egli mi glorificherà perché prenderà del mio e ve l'annuncerà. Tutte le cose che ha il Padre, sono mie: per questo ho detto che prenderà del mio e ve lo annuncerà (Giovanni 16:12-15).
Proprio questo avviene quando si leggono i Vangeli in posizione di disponibilità: lo Spirito della Verità cerca la verità in chi legge, cioè la sincerità, e se la trova, la Parola di Dio che si è fatta carne in Gesù di Nazaret raggiunge nello Spirito la "carne" di chi si pone davanti al testo biblico. Quindi anche il passo che qui vogliamo esaminare non può essere considerato come un semplice oggetto di studio, ma come rivelazione che Gesù fa di Se stesso. E' un modo strano di farlo, dirà qualcuno oggi, ma è la stessa cosa che dicevano allora molti di quelli che avevano incontrato Gesù "in carne ed ossa". Non abbiamo dunque un minore vantaggio rispetto a loro, e neppure minore responsabilità. Con i Vangeli dunque il Signore vuol far conoscere la persona di Gesù, e questo è come dire che i Vangeli sono l'autopresentazione di Gesù. Osserviamo dunque Gesù nel percorso della sua autopresentazione. Se lo seguiamo nella lettura del Vangelo di Luca, dopo averlo sentito parlare per la prima volta con i dottori della legge nel Tempio, dopo averlo visto prendere il battesimo di Giovanni, lo vediamo "condotto dallo Spirito nel deserto" per essere tentato dal diavolo (Luca 4:1-13), come fu tentato Adamo nell'Eden. Dopo di che Gesù inizia il suo ministero pubblico. Predica senza molto successo nella sinagoga della sua Nazaret, da dove è cacciato via in malo modo dai suoi compaesani e trascinato sull'orlo di una rupe con l'intenzione di buttarlo giù (Luca 4:16-28); opera guarigioni, liberazioni da demoni e segni miracolosi; costituisce una squadra di dodici fedeli a cui dà il nome di apostoli (Luca 6:12-16). La sua azione, insieme a quella dei suoi discepoli, si rivolge esclusivamente ad Israele. Aveva cominciato ripetendo le parole di Giovanni Battista: "Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; ravvedetevi e credete al vangelo" (Marco 1:15). In questo annuncio ci sono due indicativi: è compiuto, è vicino; e due imperativi: ravvedetevi, credete. Sono parole rivolte ai figli di Abraamo, perché il regno di Dio ha come centro Israele, e se Dio viene a regnare, vuol dire che viene a mettere tutte le cose a posto: innanzi tutto in Israele, e poi, avendo al centro un Israele purificato, in tutte le nazioni. E' ovvio dunque che il lavoro deve cominciare da Israele. Per questo Gesù, come saggio stratega di un esercito di liberazione, invita la sua milizia a non disperdere gli obiettivi e ad attenersi agli ordini:
“Non andate fra i gentili e non entrate in alcuna città dei Samaritani, ma andate piuttosto alle pecore perdute della casa d'Israele. Andando, predicate e dite: Il regno dei cieli è vicino" (Matteo 10:5-7).
I discepoli potevano pensare che avendo a disposizione la potenza del Messia si sarebbero potute sanare molte penose situazioni, come la rivalità tra giudei e samaritani o le insopportabili angherie dei romani, ma Gesù è deciso e richiede il rispetto delle priorità: per prima cosa bisogna rivolgersi ai figli d'Israele. Qui succede un fatto imprevisto. Gesù, che aveva ordinato di non andare fra i gentili, inaspettatamente riceve il messaggio di un gentile che gli chiede di andare da lui. Imbarazzante. Si noti che il centurione di Capernaum aveva chiesto proprio questo: "... gli mandò degli anziani dei Giudei per pregarlo che venisse a salvare il suo servo". Non gli aveva chiesto una guarigione a distanza ma proprio di venire. Se in seguito qualcosa cambierà, sarà per motivi che cercheremo di capire. Innanzitutto però vogliamo interessarci di questo strano militare romano. Se lo Spirito Santo che nel piano di Dio ha il compito di annunciare ciò che è di Gesù, ha scelto di trasmettere questo episodio con tanti particolari apparentemente superflui, vuol dire che tutto questo fa parte dell'autopresentazione di Gesù; dunque non possono essere trascurati, perché si tratta in primo luogo di rivelazione, non di istruzione morale o spirituale. Di questo centurione certamente si può dire, usando le parole di Gesù, che aveva "un cuore onesto e buono" (Luca 8:15). Oltre alla sua buona disposizione verso la nazione di Israele, aveva anche una tenerezza d'affetto fuori del comune per il suo attendente, che era malato, forse da molto tempo, e in ogni caso non era più in grado di svolgere quei compiti di cui il centurione aveva certamente bisogno per svolgere il suo servizio. Se quel servo fosse morto, dal punto di vista amministrativo non sarebbe stato un gran problema. Il centurione avrebbe ottenuto un altro attendente sano ed efficiente e il servizio se ne sarebbe avvantaggiato. Ma il centurione non si rassegna al pensiero che il suo amato servitore possa morire. Il servo è "gravemente tormentato" ("soffre terribilmente", traduce la CEI), è in agonia e potrebbe morire da un momento all'altro. Il centurione non sa che fare. Certamente era già informato su Gesù, se non altro per i motivi di ordine pubblico che gli competono; e inoltre Gesù in quel momento era una star, ne parlavano tutti. Di quello che poi accade cercheremo di fare una ricostruzione verosimile ricorrendo a entrambe le versioni di Luca e Matteo, che a una prima lettura appaiono in disaccordo.
"Il centurione, avendo udito di Gesù, gli mandò degli anziani dei Giudei per pregarlo che venisse a salvare il suo servo" (Luca 7:3).
Il centurione non incontra subito Gesù, ma lo prega tramite messaggeri di venire a salvare il suo servo. Da notare i messaggeri che sceglie: come centurione esercitante l'autorità di Roma in Capernaum, non avrebbe avuto problemi a far venire Gesù da lui: gli sarebbe bastato mandargli un paio di soldati con l'invito a presentarsi da lui per questioni da discutere. Ma non fa così. Il centurione se ne intende, in fatto di autorità, e una cosa che certamente ha capito è che su questioni di morte o vita come quella in cui si trova il suo servitore, Gesù ha un'autorità superiore alla sua. Per arrivare a Gesù deve trovare un'altra strada che non faccia riferimento all'autorità di Roma, ma si inserisca con rispetto in quel mondo ebraico in cui si muove Gesù. Si rivolge allora agli anziani della sinagoga, chiede il loro intervento, la loro intercessione. Insomma, chiede loro di "metterci una buona parola". E loro ce la mettono. Vanno da Gesù e gli illustrano con fervore il caso del centurione romano presentandolo come una persona degna. Con molte parole lo pregano di accontentare la richiesta di quell'uomo, perché sì, è vero, lui non è ebreo, per di più è addirittura un militare dell'esercito di occupazione, ma non è come gli altri, lui vuole bene alla nostra nazione, ci ha costruito la sinagoga, dicono a Gesù. E glielo dicono "con insistenza". Ma perché con insistenza? Molto probabilmente perché Gesù in un primo momento ha opposto resistenza. L'aveva detto chiaramente: "Non andate tra i gentili" (Matteo 10:5); può allora Gesù fare qualcosa che aveva detto ai discepoli di non fare? Deve forse abbandonare l'opera di predicazione del Regno di Dio, di liberazione da malattie e schiavitù demoniache per occuparsi di un militare che la folla vede come un esponente di quella Roma imperiale che tiene in schiavitù la nazione di Israele? Gli anziani comprendono le perplessità di Gesù, ma cercano di fargli capire che il centurione è un caso particolare. Forse però Gesù ha resistito anche per ritardare la risposta, come faceva spesso con chi gli chiedeva aiuto. Faceva parte del suo stile. Si pensi al suo prolungato silenzio davanti alle suppliche della donna cananea (Matteo 15:22-28); o al ritardo con cui si muove quando gli comunicano che il suo amico Lazzaro è malato, e al suo arrivo si sente fare da Marta un garbato rimprovero: "Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto" (Giovanni 11:21). Gli anziani però non mollano e continuano a fare pressioni su Gesù in favore del centurione. Insistono nel dire che "Egli è degno...", e se fanno così è perché avrebbe potuto anche non esserlo. Avrebbe potuto essere uno di quelli che sfruttano la loro posizione di comando per esigere servizi di ogni genere da quelli che considera inferiori. Dovevano dunque evitare che Gesù li considerasse agli ordini di un potente pagano per compiacenza e opportunismo. Alla fine Gesù si lascia convincere e s'incammina con loro verso la casa del centurione. Ma intanto il tempo passa. E il centurione sta sulle spine perché il suo amato servo sta morendo in mezzo ai tormenti. E Gesù non arriva. Allora, forse temendo che il fatto di venire in casa di un impuro gentile potesse essere un elemento di discussione tra Gesù e gli anziani, taglia la testa al toro e invia a Gesù un'altra delegazione. Stavolta non ci sono gli anziani della Sinagoga ma non precisati amici, probabilmente militari come lui.
Gesù s'incamminò con loro e ormai non si trovava più molto lontano dalla casa, quando il centurione mandò degli amici a dirgli: “Signore, non ti dare questo incomodo, perché io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto, perciò non mi sono neppure reputato degno di venire da te, ma di' una parola e il mio servo sarà guarito" (Luca 7:6-7).
Gli amici certamente non dovevano dire a Gesù di affrettarsi perché se no il servo muore, ma gentilmente dovevano dirgli che non era necessario che Lui si scomodasse ad arrivare fino a casa, e che il centurione l'invitava a dire una sola parola, e certamente il suo servo sarebbe guarito. E' qui che arriva la "richiesta di guarigione a distanza", non prima. Ma come vedremo, questa sarà qualcosa di più di una richiesta. Gesù invece continua a camminare verso la casa, ed è a questo punto che si inserisce il racconto di Matteo, che taglia tutta la parte precedente. Quando il centurione sente che Gesù sta per arrivare, esce e gli va incontro. Gesù nota la sua trepidazione e lo conforta assicurandogli che sarebbe venuto e avrebbe guarito il suo servitore.
"Quando Gesù fu entrato in Capernaum, un centurione venne a lui pregandolo e dicendo: “Signore, il mio servo giace in casa paralizzato, gravemente tormentato. Gesù gli disse: «Io verrò e lo guarirò»" (Matteo 8:5-7).
A questo punto il centurione avrebbe dovuto soltanto aprire la porta e lasciar entrare Gesù perché guarisse il malato come aveva promesso. Le cose invece vanno diversamente:
Ma il centurione, rispondendo, disse: “Signore, io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto, ma di' soltanto una parola e il mio servo sarà guarito (Matteo 7:8).
Gli anziani avevano detto che il centurione è degno, perché tale lo consideravano nel suo rapporto con Israele, il centurione invece considera se stesso non degno nel suo rapporto con Gesù. Non perché si sente peccatore non è questione di moralità o spiritualità personale, ma di posizione gerarchica. Gesù è superiore al centurione come il centurione è superiore ai suoi soldati. E come avviene in tutte le scale gerarchiche, la superiorità di posizione si traduce in una diversa possibilità di uso della forza di comando. Si può trovare un esempio in Giovanni Battista che dice:
“Dopo di me viene colui che è più forte di me, al quale io non son degno di chinarmi a sciogliere il legaccio dei calzari" (Marco 1:7).
Giovanni riconosce che Gesù è in una posizione di superiorità rispetto a lui nel Regno di Dio, quindi è più forte di lui. Dunque questa superiorità si deve manifestare negli inferiori anche con atteggiamenti consoni. Proprio come Giovanni non si sente degno di avere l'onore di poter sciogliere i legacci dei calzari di "colui che è più forte" di lui, così il centurione non si sente degno di ricevere in casa sua la persona di Gesù, che riconosce spiritualmente superiore alla sua. La scena che segue è unica nei Vangeli. Si vede un militare della potente Roma che sulla base della sua esperienza spiega garbatamente a Gesù come stanno le cose in fatto di gerarchia quando si tratta di dare ordini e pretendere esecuzioni:
"Anch'io sono uomo sottoposto all'autorità altrui e ho sotto di me dei soldati; e dico a uno: 'Va'' ed egli va; a un altro: 'Vieni' ed egli viene; e al mio servo: 'Fa' questo' ed egli lo fa” (Matteo 7:9).
Il centurione si aspettava che Gesù facesse una cosa simile: che desse un ordine. E gli ordini si danno dicendo soltanto una parola, come ALT o DIETROFRONT, come fa lui, militare romano, che per ordinare a un soldato di andare dice soltanto «Va'!», quello va; e per dirgli di venire dice soltanto «Vieni!», e quello viene. Ecco perché mentre era sulle spine vedendo che il suo servo stava per morire in mezzo ai tormenti, dopo delegazione degli anziani gliene manda un'altra con la supplica "di' soltanto una parola", che è come dire "ti basta dare un ordine, basta una parola, dilla!" e io so che "il mio servo sarà guarito", anche se tu non sei ancora qui. E' fede. Gesù è attonito. E uno stupore simile non si ritrova più nei Vangeli.
Udito questo, Gesù restò meravigliato di lui e, rivoltosi alla folla che lo seguiva, disse: “Io vi dico che neppure in Israele ho trovato una fede così grande!” (Luca 7:9).
Il centurione, che con la sua fede è riuscito a sorprendere Gesù, dimostra di riuscire anche a fargli cambiare decisione. Gesù gli aveva detto “Io verrò e lo guarirò", quindi era pronto a fare la cosa più naturale che ci fosse: entrare in casa, farsi conoscere dal malato e donargli la guarigione, insieme a parole di conforto e raccomandazioni. Ma il centurione, che aveva già fatto dire a Gesù dagli amici di non essere degno di riceverlo sotto il suo tetto (Luca 7:6), gli ripete di persona la stessa dichiarazione (Matteo 8:7-8). E da militare attento alle differenze di posizione gerarchica, resta fermo nella sua volontà di vedere rispettati i giusti gradi di onore: non è opportuno che Gesù entri nella sua casa perché lui non è degno di questo onore. Gesù acconsente.
E Gesù disse al centurione: “Va', ti sia fatto come hai creduto” (Matteo 8:13).
Ordine impartito. E gli amici mandati in missione da Gesù e tornati indietro insieme a Lui, mossi da comprensibile curiosità entrano in casa per vedere come stanno le cose:
E quando gli inviati furono tornati a casa, trovarono il servo guarito (Luca 7:10).
Ordine eseguito. Guarigione a distanza.
RIFLESSIONI
All'inizio di questo articolo abbiamo detto che il racconto del centurione di Capernaum è uno dei quadri più dolci e significativi dei Vangeli. E' dolce, perché in esso tutto è positivo. I vari rapporti tra i personaggi: centurione-servo, centurione-anziani, anziani-Gesù, e infine Gesù-centurione, si svolgono in un clima di armoniosa benevolenza e comprensione. Da nessuna parte appare il lato negativo della storia, come spesso accade in altri racconti. E' significativo, perché in esso ci sono aspetti di solito trascurati che lo collegano ai tre elementi fondamentali della storia del mondo: Dio (Gesù), Israele (gli anziani), le nazioni (il centurione). Considerata nel quadro storico delle civiltà, la relazione tra centurione romano e anziani della sinagoga richiama alla mente la nota frase di Orazio: "Graecia capta ferum victorem cepit" (La Grecia conquistata conquistò il feroce vincitore), nel senso che la potente Roma, affascinata dalla superiore civiltà della sottomessa Atene, ne rimase culturalmente avvinta. Qui al posto della Grecia abbiamo Israele. Nel cuore di questo centurione la caserma romana (le nazioni) è stata vinta dalla sinagoga ebraica (Israele), e questo amore per un Israele sinagogale (non sacerdotale) ha permesso a Dio di aprirgli gli occhi sulla persona di Gesù. E il tutto si riunisce in un quadro armonioso. Opera di Dio. Abbiamo anche detto che i Vangeli sono l'autopresentazione di Gesù; dunque anche in questo racconto si deve cercare quello che può avvicinarci a conoscerlo meglio. L'abbiamo visto staccarsi da un programma di missione indirizzato alle "pecore perdute della casa d'Israele" per accondiscendere alla richiesta di aiuto di un pagano militante fra i nemici di Israele. Una deviazione non prevista nel suo programma; e tanto meno prevista poteva essere una reazione tanto benevola e ossequiente, e anche istruttiva per certi versi, come quella di quel centurione. Abbiamo ricordato l'opera svolta dallo Spirito Santo nel far conoscere la persona di Gesù, cosa che oggi avviene soprattutto attraverso la Scrittura. Ma abbiamo anche ricordato che nei Vangeli lo Spirito Santo soprassiede in ogni momento all'opera di Gesù sulla terra, dall'annuncio della sua nascita (Luca 1:35, al momento stesso della nascita (Matteo 1:18), nel periodo della sua crescita (Luca 1:80), nel momento del suo battesimo:
E Gesù, appena fu battezzato, salì fuori dall'acqua ed ecco i cieli si aprirono ed egli vide lo Spirito di Dio scendere come una colomba e venire sopra di lui. Ed ecco una voce dai cieli che disse: “Questo è il mio diletto Figlio nel quale mi sono compiaciuto (Luca 3:21-22).
In questi due versetti si può vedere l'azione di quella che in lingua teologhese si chiama Trinità. La voce dai cieli è il Padre che legittima sulla terra il Figlio affidandolo alla cura "pedagogica" dello Spirito. Si capisce allora il versetto che segue poco dopo:
"Gesù, ripieno dello Spirito Santo, se ne ritornò dal Giordano e fu condotto dallo Spirito nel deserto per quaranta giorni ed era tentato dal diavolo" (Luca 4:1).
Dio è onnipotente, onnisciente e onnipresente, ma il Figlio di Dio non ha avuto a disposizione tutte queste facoltà quando era sulla terra, proprio a motivo della missione che doveva compiere (Filippesi 2:5-9). Gesù è stato perfetto in santità, cioè "senza peccato" (Ebrei 4:15), ma in molte cose è stato simile a noi. Nessuno come Lui conosceva a fondo uomini e situazioni, ma non era onnisciente (Matteo 24:36). Quindi anche Lui crebbe in conoscenza, esperienza e anche in ubbidienza: "Benché fosse Figlio, imparò l’ubbidienza dalle cose che soffrì " (Ebrei 5:8). E tutto questo con l'assistenza dello Spirito "sopra di lui" (Matteo 12:18; Luca 4:18), che come l'ha condotto nel deserto per essere tentato prima che iniziasse il suo ministero in Israele (senza spiegargli in anticipo come si sarebbero svolte le tentazioni), come l'aveva fatto incontrare ancora dodicenne con i dottori della legge nel Tempio, così ora lo conduce a manifestare, per la prima volta verso un gentile, la sua autorità messianica di guarigione dei malati. Lo Spirito aveva preparato l'occasione agendo in anticipo su un militare romano che amava la nazione d'Israele ed era attratto dalla Sinagoga. un uomo che nell'incontro con Gesù manifesta una tale fiducia in Lui che Gesù stesso ammette di non aver mai trovato nulla di simile in Israele. Un pagano è riuscito a sorprendere Gesù con la sua fede. Tanto più tenere e preziose suonano allora le parole autorevoli con cui Gesù lo congeda: "Va', ti sia fatto come hai creduto”.
(Notizie su Israele, 26 febbraio 2023)
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Rischio guerra in Libano, nave USA pronta a evacuare gli americani
Rischio Libano: lo scontro totale tra tra Hezbollah e Israele sembra avvicinarsi sempre di più. Il Pentagono – secondo quanto ha riferito l'emittente Nbc – si è posizionato per essere pronto a evacuare gli americani dal posto nel caso di una intensificazione degli scontri che ogni giorno si fanno più gravi.

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Nella città israeliana di Metulla, nel nord del Paese, si alza del fumo a causa dei razzi transfrontalieri lanciati da Hezbollah dalla parte libanese, visti dal villaggio di Khiam, in Libano, il 26 giugno 2024.
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Secondo fonti citate dalla Nbc, la nave anfibia d'assalto USS Wasp e i Marine della 24th Expeditionary Unit, in grado di compiere operazioni speciali, si sono spostati nel Mediterraneo. Un'altra fonte Usa – citata da Haaretz – ha spiegato che la mossa ha anche valore di «deterrenza», visto che l'amministrazione Biden ha sottolineato il pieno sostegno, in caso di conflitto, a Israele. Posizione ribadita nei recenti incontri che il ministro della difesa Yoav Gallant ha avuto nella sua recente missione a Washington dove il dossier Libano è stato uno dei temi principali dei colloqui.
«Politico» ha riferito che funzionari statunitensi stanno cercando di convincere entrambe le parti a ridurre la tensione, un compito che sarebbe molto più semplice – hanno sottolineato – con un cessate il fuoco in vigore a Gaza, ma prevale il pessimismo sia sull'intesa per la Striscia, che langue da settimane, sia sul successo della diplomazia. La Giordania – aggiungendosi a numerosi altri Paesi – ha chiesto ai propri cittadini di non recarsi in Libano vista la situazione.
La possibile escalation del conflitto è ovviamente il perno delle attuali valutazioni militari e politiche israeliane, oggetto del Consiglio di sicurezza della notte scorsa. Gallant – secondo indiscrezioni sulla riunione del Consiglio, ormai unico punto decisionale dopo il dissolvimento del Gabinetto di guerra per l'uscita dal governo del ministro centrista Benny Gantz – ha ribadito che Israele per ora preferirebbe ancora la soluzione diplomatica pur non escludendo la guerra. Sarebbe «accettabile – ha detto in Consiglio – un accordo in base al quale gli Hezbollah ritirino le proprie forze dal confine». Che è poi quanto prevede la Risoluzione del Consiglio di sicurezza Onu 1701.
La posizione non è andata giù al ministro della sicurezza nazionale – e leader di destra radicale – Itamar Ben Gvir che nello stesso Consiglio ha attaccato sostenendo che ancora «non sì è appresa una sola lezione dagli ultimi 20 anni di accordi. Facciamo le intese – ha denunciato – e tempo un anno o due violenteranno le nostre mogli e uccideranno i nostri figli».
Intanto sul campo continuano i massicci lanci di razzi e di droni da parte degli Hezbollah nel nord di Israele, seguiti dai raid dell'Idf contro – secondo il portavoce militare – obiettivi militari delle milizie sciite, alleate di Hamas e dell'Iran. Gli Hezbollah hanno denunciato l'uccisione di 4 miliziani in 24 ore da Israele.
Dopo 266 giorni di guerra a Gaza, l'Idf continua a spingere a Rafah e nel centro della Striscia incalzando a Sujaia i miliziani di Hamas. Fonti mediche della Striscia riferite da Al Jazeera hanno denunciato che raid israeliani nella zona umanitaria di al-Mawasi a sud di Gaza avrebbero ucciso 11 palestinesi e feriti altri 40. Ma non c'è alcun riscontro da parte dell'esercito israeliano.
Intanto il Consiglio Ue ha deciso di inserire nell'elenco delle sanzioni 6 persone e 3 entità – collegate al portafoglio finanziario – responsabili di aver partecipato al finanziamento di Hamas e della Jihad islamica palestinese o di aver permesso le loro azioni violente.
(Bluewin, 29 giugno 2024)
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Israele incorporerà fino a 6.400 lavoratori stranieri per sostituire manodopera palestinese
Israele ha approvato l'inserimento di un massimo di 6.400 lavoratori stranieri nei settori del commercio, delle infrastrutture e dei servizi per sostituire la forza lavoro palestinese, il cui lavoro è stato annullato dopo lo scoppio della guerra a Gaza, il 7 ottobre 2023, secondo quanto riferisce oggi un dichiarazione dell'ufficio del primo ministro israeliano.
L'offensiva israeliana ha avuto un impatto negativo sull'economia del Paese a causa della carenza di lavoratori in alcuni settori come l'edilizia, l'agricoltura e il commercio, dove la maggioranza di essi erano palestinesi.
Prima dell'inizio dell'invasione di terra solo nella Striscia, più di 5.000 palestinesi lavoravano nei settori dei servizi e degli affari israeliani.
“Non ci saranno più lavoratori palestinesi in Israele”, ha detto il presidente lo scorso novembre.
Da allora, l'esecutivo ebraico ha firmato alcuni accordi bilaterali con paesi come l'India o la Tailandia per sopperire a questa mancanza di manodopera, poiché necessita di almeno 92.000 lavoratori.
La verità è che l’arrivo di migranti dal Sud-Est asiatico in Israele era già comune prima della guerra.
Lo scorso aprile un primo gruppo di settanta lavoratori indiani è arrivato in Israele, dove ricevono uno stipendio di circa 1.600 dollari al mese contro i 300 dollari che ricevono in India.
Alcuni lavoratori tailandesi che lavoravano nelle comunità al confine con Gaza sono stati rapiti dai militanti di Hamas il 7 ottobre.
(Autora, 29 giugno 2024)
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Il nuovo antisemitismo è quello esploso a sinistra fra cortei e centri sociali
Gli intellettuali ebrei: "Il vero problema oggi è chi rivendica l'odio anti-Israele"
di Domenico Di Sanzo
Antisemitismo a due velocità. Scorie nostalgiche a destra. Pervasività strisciante a sinistra. Per capire come gli ebrei italiani abbiano più paura dell'odio mascherato da sostegno ai palestinesi rispetto alle frasi antisemite dei giovani di Fdi captate da Fanpage, basta leggere l'intervista rilasciata a La Stampa da Riccardo Pacifici, esponente importante dell'ebraismo italiano, ex presidente della Comunità Ebraica di Roma. «L'ignoranza di quattro deficienti di Gioventù Nazionale mi fa meno paura del rischio di sopravvivenza dello Stato di Israele e l'odio antiebraico a prescindere che vedo a sinistra», dice Pacifici, attualmente vice presidente dell'European Jewish Association. Un'ondata di odio che monta dal 7 ottobre, quando i terroristi di Hamas hanno fatto strage in Israele. Ultimo episodio: gli ebrei della comunità Lgbt, il 15 giugno, sono stati costretti a disertare i Gay Pride di Roma, Milano e delle principali città italiane. Motivo dell'assenza? «I crescenti timori di aggressioni dovuti al clima d'odio attorno alla nostra partecipazione», ha spiegato Raffaele Sabbadini, tra i fondatori dell'associazione Keshet Italia, che riunisce gli ebrei Lgbt. Al corteo romano è spuntata pure l'immancabile bandiera palestinese. Il tutto nel silenzio di Elly Schlein, Giuseppe Conte e degli altri leader della sinistra. Come sottolinea Pacifici, anche il 25 aprile gli ebrei sono stati ostaggio di collettivi e centri sociali. A Roma, il giorno della Liberazione, basta ricordare l'urlo «Yahudi Kalb», che in arabo vuol dire «Ebreo cane», lanciato dagli antagonisti contro la Brigata Ebraica. Qualche mese prima, giornata della Memoria, a Milano c'erano stati i fischi e gli insulti dei Pro-Pal a un ragazzo che aveva semplicemente esposto dal suo balcone un cartello con la scritta «Free Gaza From Hamas». Poi Matteo Lepore, sindaco Pd di Bologna, che si alza durante la seduta solenne in Consiglio Comunale in ricordo della Shoah.
Tra odio e silenzio. Come quello dei leader della sinistra di fronte agli insulti contro Israele e gli ebrei arrivati dal fisico del Politecnico di Torino Massimo Zucchetti, vicino da sempre alla sinistra radicale. «Preferirei la destra del Rassemblement all'antisemitismo del Fronte Popolare», dice al Corriere della Sera il filosofo ebreo francese Alain Finkielkraut, intervistato sulle prossime elezioni in Francia. «L'estrema sinistra è fortemente antisemita sul piano politico e la sinistra che vuole essere moderata fiancheggia, in qualche modo si adegua», denuncia al Giornale Ugo Volli, semiologo allievo di Umberto Eco, figura eminente dell'ebraismo italiano. «Il comportamento politico della sinistra è molto fortemente ostile a Israele e agli ebrei e ne mette in pericolo la loro sicurezza e la loro esistenza», continua Volli. Uno stillicidio che abbiamo potuto osservare anche nella giornata contro la violenza sulle donne. Con le ebree rimaste fuori dai cortei e nessuna menzione da parte delle femministe degli stupri delle donne israeliane il 7 ottobre. I cortei Pro-Palestina, dominati dalla sinistra estrema, sono ormai ricettacolo di elogi ad Hamas, motti Jihadisti, canzoni antisemite in arabo.
A sinistra c'è «una politica che conta in maniera più o meno irresponsabile e irrealistica di recuperare un consenso dell'immigrazione musulmana proteggendo atteggiamenti anti israeliani e antisemiti», riflette Volli. Nel silenzio di Schlein, Conte, Bonelli e Fratoianni.
(il Giornale, 29 giugno 2024)
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La balla della carestia a Gaza provocata da Israele, il rapporto che smentisce la Corte penale internazionale
di Iuri Maria Prado
Interessante il rapporto IPC (Integrated Food Security Phase Classification) rilasciato il 16 Giugno da FRC (Famine Review Committee) a proposito dei livelli di approvvigionamento e disponibilità alimentare a Gaza. Sono 56 pagine. L’esordio è questo: “Dopo la pubblicazione del secondo rapporto dell’FRC il 18 marzo 2024, che prevedeva una carestia nello scenario più probabile, si sono verificati alcuni importanti sviluppi”. Quali sviluppi? Uno innanzitutto: non c’è stata la carestia che, a giudizio di quel Comitato, avrebbe dovuto verificarsi “in ogni momento da oggi (metà Marzo 2024) al Maggio del 2024”. A quell’altezza di tempo, secondo le indicazioni di FRC, si sarebbe trattato di 1.115.000 persone in stato di carestia a livello catastrofico (livello 5 IPC, il più alto), con circa 3.000 morti per fame ogni settimana.
Il rapporto di giugno, che analizza i dati e formula previsioni per il periodo successivo (sino a settembre) spiega che “le prove disponibili non indicano che si stia verificando una carestia” e che la somma di dati raccolti “non indica che le soglie di carestia sono state superate”. Significa che non ci sono problemi e pericoli di malnutrizione a Gaza? Ovviamente no. Ma difficoltà di approvvigionamento e di disponibilità alimentare in una zona di guerra sono una cosa: 3.000 morti per fame ogni settimana sono un’altra cosa. Facciamo un salto indietro, al 20 Maggio. Che cosa diceva il procuratore della Corte Penale Internazionale quando, quel giorno, comunicava di aver reclamato l’arresto di Netanyahu e del ministro Gallant? Diceva che gli indagati avevano usato la riduzione alla fame della popolazione come metodo di guerra e che “La carestia è presente in alcune aree di Gaza ed è imminente in altre”. Dunque il 20 Maggio il signor Karim Ahmad Khan chiedeva l’arresto di quei due accusandoli, tra l’altro, di aver provocato una carestia che non c’era allora e che non ci sarebbe stata poi.
Torniamo a quel rapporto IPC/FRC, in evidente imbarazzo con sé stesso. Abbiamo visto che non c’è stata la carestia che era prevista per marzo/maggio e che non c’era carestia a metà giugno. Bene. Il rapporto aggiunge tuttavia che “le soglie di carestia potrebbero essere superate in qualsiasi momento se l’accesso umanitario non fosse sostenuto e senza ostacoli per l’intera popolazione di Gaza e se il conflitto continuasse in qualsiasi forma”. E qui nuovamente qualcosa non torna. Perché il conflitto è continuato pressappoco nella stessa forma da mesi, senza produrre la carestia che si riteneva ininterrottamente imminente perché a Gaza entravano gli aiuti umanitari che Israele era accusato di non far entrare e che, evidentemente, al contrario, ha fatto entrare. La “carestia” e lo “sterminio per fame” sono le balle più suadenti tra le tante balle sulla tremenda guerra di Gaza. Servono a tante cose, a riempire dossier farlocchi e a far titoli strepitosi: non a far star meglio la popolazione civile.
(Il Riformista, 29 giugno 2024)
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Tour de France – Solo applausi a Firenze per la squadra israeliana
Non un fischio, non uno striscione “anti”. Solo applausi per la Israel Premier Tech da parte dei numerosi appassionati di ciclismo presente al piazzale Michelangelo a Firenze per la presentazione delle squadre in gara all’ormai imminente Tour de France in partenza quest’anno dal capoluogo della Toscana. Qualche sparuta bandiera palestinese sul percorso della passerella, da piazza della Signoria alla volta della terrazza panoramica forse più celebre al mondo. Ma poco altro di ostile da segnalare, fagocitato dall’entusiasmo collettivo per la Grand Boucle. Uno show di cui la squadra israeliana è parte per il quinto anno di fila. L’obiettivo della dirigenza è una vittoria di tappa. «Si tratta di un’occasione straordinaria per mostrare un volto diverso di Israele da quello trasmesso abitualmente sui media. La squadra è multinazionale, ma con una grande scritta “Israel” sulla maglia. Ci sentiamo come degli ambasciatori», racconta il patron del team Sylvan Adams.
Oggi [venerdì] la squadra si allena per l’ultima volta prima della partenza. Per qualche chilometro, davanti agli atleti professionisti, hanno pedalato due sopravvissuti al massacro del kibbutz Be’eri del 7 ottobre, Avida Bachar e Sharon Shabo, il primo con il sostegno di una protesi in sostituzione della gamba amputata dopo l’attacco terroristico. Ieri Bachar e Shabo sono saliti sul palco del [ Café, il festival culturale organizzato dalla Comunità ebraica nel giardino della sinagoga. Bachar ha raccontato quelle ore terribili e come ha visto morire la moglie e un figlio, assassinati dai terroristi.
«Sto cercando di avere, il più possibile, una vita felice. È quello che avrebbero voluto».
(moked, 28 giugno 2024)
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Si scrive Biden, si legge Obama
La disastrosa performance televisiva di Joe Biden, ieri sera negli studi della CNN di Atlanta, ha messo sotto la luce dei riflettori mondiali quello che già era noto e che, in tutti i modi, da parte del partito democratico si cercava di minimizzare o di negare. L’attuale presidente degli Stati Uniti è in uno stato di palese decadimento cognitivo che lo rende del tutto inadeguato a ricoprire il ruolo che ricopre per i prossimi quattro anni e ad affrontare le crisi in corso e quelle che potrebbero venire.
Quello che si è rivelato ieri incontrovertibilmente non è in alcun modo una sorpresa, si tratta semmai di una certificazione. Lo stato di salute di Biden, in modo specifico la sua lucidità e capacità di gestire dossier complessi come quelli della guerra in Ucraina e in Israele, pone la domanda su quanto effettivamente di questi dossier sia gestito da lui in prima persona.
Qui su L’Informale, in diversi articoli, abbiamo evidenziato come la politica americana in Medio Oriente e l’atteggiamento della Casa Bianca nei confronti di Israele relativamente alla guerra a Gaza, sia sostanzialmente il proseguimento di quanto fatto da Barack Obama nei suoi otto anni consecutivi di presidenza. Non è un mistero per nessuno che buona parte dei funzionari di alto profilo addetti al Medio Oriente, da Antony Blinken a Jake Sullivan, da Amos Hochstein, da Robert Malley, (sospeso dall’incarico) a William Burns, attuale capo della CIA, hanno collaborato attivamente con l’Amministrazione Obama. Non c’è nulla di strano, è normale che chi ha già servito alla Casa Bianca in una amministrazione politicamente affine a una amministrazione successiva si ritrovi ad avere un ruolo in questa, la questione è un’altra e di rilevo assai maggiore.
Con un presidente nelle condizioni in cui si trova Joe Biden, la domanda da porsi è quanto della sua agenda politica in merito a Israele è, se non determinata, fortemente condizionata da uomini e donne già operativi sotto Obama, la cui ostilità nei confronti dello Stato ebraico e, in modo particolare nei confronti di Benjamin Netanyahu, si è sempre manifestata apertamente.
Non è necessario ricorrere alla dietrologia per rendersi conto di quanto Biden sia di fatto un leader di facciata il quale recepisce sostanzialmente coordinate ben precise sul dossier israeliano. Un presidente poco lucido è facilmente manovrabile, soprattutto se a farlo è l’ex presidente americano di cui è stato sottoposto.
Tutte le critiche e le riserve esposte contro Israele negli ultimi mesi da parte americana, sempre più serrate e micidiali, per arrivare al blocco del tutto pretestuoso di una fornitura di armi che Netanyahu è stato costretto a rendere pubblico, inducono a pensare che l’anziano presidente sia semplicemente il terminale di una filiera che ha in Barack Obama e nei suoi ex uomini inseriti in posizioni nevralgiche, i principali attori.
Il progetto di fare nascere sulle pendici della Cisgiordania uno Stato palestinese, così come il riavvicinamento all’Iran e il tentativo pre guerra in Ucraina di rientrare nell’accordo sul nucleare affondato da Trump nel 2018, insieme alla volontà di condurre Israele a elezioni anticipate con l’appoggio dell’opposizione interna per togliere Netanyahu dalla scena, sono dirette propaggini dell’Amministrazione Obama dalla quale l’Amministrazione Biden appare sempre più come la controfigura trasparente.
(L'informale, 29 giugno 2024)
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Victor Fadlun a Repubblica: “Viviamo uno stillicidio di gesti antiebraici. Antisemiti fuori da ogni partito”
Oggi su La Repubblica un’intervista al Presidente della Comunità Ebraica di Roma Victor Fadlun in merito all’inchiesta di Fanpage su Gioventù Nazionale. «Dal 7 ottobre in poi non mi stupisco più di nulla – dice Fadlun -. In questi mesi abbiamo visto un ritorno e una recrudescenza dell’antisemitismo in tutte le forme, dagli antichi cliché razzisti alle nuove parole d’ordine».
Auspicando a provvedimenti incisivi ed esemplari da parte del partito di maggioranza FdI verso coloro che esprimono atteggiamenti nostalgici, di intolleranza, razzisti e antisemiti, Fadlun afferma: «Non dimentico che proprio dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e dai ministri degli Interni, della Difesa, della Cultura e altri ci arrivano ogni giorno prove concrete di vicinanza. Sarebbe inaccettabile e anche paradossale che fossero tollerati all’interno di FdI odio e discriminazione antiebraica».
«Mi aspetto certamente una condanna chiara e totale, che peraltro mi pare già espressa da molti esponenti della maggioranza e dell’opposizione. E mi aspetto che gli antisemiti non abbiano ospitalità in alcun partito». Continua il presidente della Cer, sottolineando come in questi mesi gli ebrei siano «sottoposti a uno stillicidio di gesti antiebraici e manifestazioni di odio ogni giorno».
Dopo aver descritto il rischio di essere strumentalizzati nelle diatribe politiche, Fadlun ribadisce che «la Comunità ebraica di Roma non è iscritta a nessun partito se non a quello della lotta all’intolleranza e all’antisemitismo, di destra di sinistra o anche di centro». E ricordando quando Giorgia Meloni condannò le leggi razziali definendole “un’infamia”, Fadlun conclude: «Sarebbe importante che (Meloni ndr) avesse il coraggio di sottolineare questi concetti definendosi antifascista. Al tempo stesso, devo dire che ultimamente vedo anche tra gli ‘antifascisti’ un po’ troppi antisemiti. Le parole ingannano. Io guardo alla sostanza».
(Bet Magazine Mosaico, 28 giugno 2024)
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Le schermaglie fascismo-antifascismo sono scene da burletta, da entrambe le parti. L'antisemitismo invece è una cosa seria. M.C.
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Riccardo Pacifici: Mi fa più paura l'odio a sinistra
di Luca Monticelli
Quando è stato presidente della comunità ebraica romana, Riccardo Pacifici ha avuto Ester Mieli come portavoce, e oggi, da vice presidente dell'European Jewish Association, dice di «non essere sorpreso dall'atteggiamento nostalgico di una parte minoritaria dei gruppi giovanili della destra, sappiamo bene che certi sentimenti non sono del tutto sopiti. Mi sorprenderebbe se non ci fosse stata una condanna della leadership che invece è stata netta».
- Eppure la premier Giorgia Meloni non ha commentato la vicenda, così come non aveva detto nulla di Paolo Signorelli, il portavoce del ministro Lollobrigida che faceva commenti antisemiti al telefono con Diabolik. «Io esprimo la mia opinione personale e lascio ai leader dell'ebraismo italiano e romano dare il punto di vista ufficiale, però la posizione di Fratelli d'Italia è chiara, vedo che alcuni di questi ragazzi di Gioventù nazionale si stanno dimettendo e i dirigenti apicali, che ringrazio, si sono espressi, da Donzelli a Malan, da Crosetto a La Russa, c'è imbarazzo ma la condanna è unanime».
- A proposito di nostalgici, forse se il presidente del Senato non si vantasse di avere i busti di Mussolini a casa sarebbe meglio… «La Russa è stato oggetto di critiche per questa storia, ma conosco i suoi sentimenti e i legami della sua famiglia con la comunità ebraica di Milano e con il presidente Meghnagi. Io sono pronto altre cento volte a dire al presidente del Senato che tenere un busto di Mussolini non ha alcun senso, ma i pericoli sono altri. Le posso fare tantissimi esempi calzanti a destra e a sinistra».
- Dove vuole arrivare? «La simbologia e quello che ho visto sono da condannare senza esitazione, ma l'ignoranza di quattro deficienti di Gioventù nazionale, peraltro confinati in un sistema di leggi costruite ad hoc, mi fa meno paura del rischio di sopravvivenza dello Stato di Israele e l'odio antiebraico a prescindere che vedo a sinistra. È normale che io debba andare in giro con la scorta a causa di minacce serie che ricevo? Ci si scandalizza per gli atteggiamenti nostalgici, ma nessuno è turbato dal pericolo di incolumità fisica che qualunque cittadino o studente di religione ebraica vive costantemente a causa di una campagna di odio che monta a sinistra, compresa quella "moderata"».
- Quindi secondo lei c'è un problema di antisemitismo a sinistra? «Sarebbe utile cominciare a riflette su questo. Come diceva il presidente Giorgio Napolitano l'antisionismo è la forma moderna dell'antisemitismo. Penso ai silenzi che ho avvertito dai leader della sinistra – per ovvi motivi elettorali – quando agli ebrei non è stata garantita l'incolumità nelle università, alle manifestazioni per la giornata contro la violenza alle donne o al Gay Pride. Personalmente l'ho vissuto come un tradimento, anche per l'incapacità di indignarsi da parte di alcuni politici che sono andati nella Striscia Gaza senza aver mai chiesto la liberazione degli ostaggi. Al mio amico Nicola Zingaretti, a Fratoianni, Bonelli e Schlein vorrei chiedere di prendere per le orecchie – in senso di rimprovero – i ragazzi che li hanno votati e che non conoscono la storia, che urlano in piazza "Palestina sarà libera dal fiume al mare" e non sanno cosa sia il sionismo. Esiste un tema di ignoranza tra i giovani che sfocia nell'antisemitismo, sia a destra sia a sinistra».
- Ecco, la riporto a destra. Non è curioso che nessuno si fosse accorto dei valori di questi giovani di Gioventù nazionale pur collaborando loro con alcuni parlamentari di Fratelli d'Italia? «Le persone se non le conosci nell'intimo non puoi sapere cosa pensano davvero. Io, da padre, vorrei poter incontrare i genitori di questi ragazzi per capire come delle persone impegnate socialmente e politicamente possano arrivare a utilizzare un gergo nostalgico inaccettabile che in Italia ed in Europa è considerato reato».
- Ha avuto modo di sentire la senatrice? «Le ho espresso per messaggio la mia solidarietà».
(La Stampa, 28 giugno 2024)
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Nonostante il boicottaggio, export israeliano di armi da record per il terzo anno di fila
di David Fiorentini
Nonostante le numerose campagne di boicottaggio internazionale, le esportazioni annuali di armi israeliane del 2023 hanno raggiunto un nuovo record per il terzo anno consecutivo, quasi raddoppiando il valore di cinque anni fa, riporta The Times of Israel.
La Direzione per la Cooperazione Internazionale del Ministero della Difesa (SIBAT) ha rilasciato che le vendite per il 2023 hanno totalizzato 13 miliardi di dollari, in aumento rispetto ai 12,5 miliardi del 2022.
Su oltre 120 ditte, l’industria di difesa israeliana è dominata principalmente da tre grandi aziende, Elbit Systems, Israel Aerospace Industries e Rafael, che hanno tutte registrato importanti incrementi.
“Nonostante la guerra, il 2023 ha segnato un nuovo record ed è stato caratterizzato da significativi contratti di esportazione,” ha dichiarato in una nota il ministero.
In particolare, con lo scoppio della guerra il 7 ottobre, il Ministero della Difesa ha iniziato a operare in modalità di emergenza, con le aziende belliche impegnate a pieno regime per sostenere sia il fabbisogno interno, producendo armi ed equipaggiamenti per le Forze di Difesa Israeliane, sia gli ordini precedenti per clienti esteri.
“Anche in un anno in cui lo Stato di Israele combatte su sette fronti diversi, le esportazioni di difesa dello Stato di Israele riescono a continuare a battere record. Questo fatto è un attestato di merito, prima di tutto, per le nostre industrie della difesa e per le menti creative e talentuose che vi lavorano e le spingono verso vette di innovazione rivoluzionaria,” ha affermato il Ministro della Difesa Yoav Gallant.
Inoltre, “mentre le nostre industrie sono principalmente focalizzate nel fornire le capacità per supportare le nostre truppe e difendere i nostri cittadini, continuano anche a perseguire aree di cooperazione ed esportazioni verso partner internazionali”, ha aggiunto.
Nella fattispecie, gli equipaggiamenti più esportati sono stati i sistemi di difesa anti aerea, come Arrow 3 acquistato dalla Germania con un contratto da ben 4 miliardi di euro. A seguire, con grande distacco, i sistemi radar e i lanciarazzi.
Sebbene Israele sia noto per i sistemi di cyber-security, questi hanno costituito solo il 4% del fatturato. Veicoli aerei senza pilota e droni, velivoli con equipaggio, avionica, sistemi di osservazione, sistemi di comunicazione, veicoli, sistemi marittimi, munizioni e servizi hanno costituito gran parte del resto.
Da un punto di vista geografico, la regione Asia-Pacifico è stata il maggior acquirente con il 48%, seguita dall’Europa con il 35% e Nord America con 9%.
L’unica area che invece ha registrato un calo consiste nei paesi degli Accordi di Abramo, Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Marocco, che hanno acquistato solo il 3% delle armi israeliane, rispetto al 24% del 2022.
Ancora è difficile stimare come la guerra in corso abbia impattato le statistiche per il 2024, tuttavia l’aumento di partnership strategiche e la riconosciuta efficienza dei sistemi israeliani contribuiranno in maniera significativa a mantenere la posizione di Israele come collaboratore internazionale valido e competente.
(Shalom, 28 giugno 2024)
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"Israele finanzia la propria persecuzione!"
Israele è indirettamente coinvolto nel finanziamento del terrorismo contro se stesso attraverso i fondi che ogni mese affluiscono all'Autorità Palestinese come risultato di vari accordi e regolamenti fiscali.
L'ex capo dell'ufficio del procuratore militare in Giudea e Samaria: "Israele finanzia il 60% del terrorismo contro se stesso e quindi la sua stessa persecuzione". Ciò avviene indirettamente con il denaro proveniente dai vari accordi fiscali e da altre disposizioni attraverso le quali Israele trasferisce ogni mese centinaia di milioni di shekel all'Autorità Palestinese. Israele deve urgentemente ripensarci, perché i sistemi politici del mondo stanno cambiando e questo va contro Israele.
Mentre continuano i combattimenti nella Striscia di Gaza e gli attacchi dell'esercito israeliano (IDF) sul fronte settentrionale contro l'organizzazione terroristica Hezbollah, Israele deve anche affrontare il fronte diplomatico, poiché l'Autorità Palestinese (AP) continua a istigare contro lo Stato ebraico nei forum internazionali.
Maurice Hirsch, ex tenente colonnello e avvocato, esperto di diritto internazionale e responsabile dell'Iniziativa per la Responsabilità e la Riforma dell'Autorità Palestinese presso il Centro di Gerusalemme per gli Affari Pubblici e Governativi, ha parlato una settimana fa in un'intervista a Canale 14 di quello che Israele può aspettarsi dagli Stati del mondo nel prossimo futuro e se la politica israeliana nei confronti delle Nazioni Unite debba cambiare. "Non vedo il motivo di continuare ad essere presente in queste istituzioni che non considerano nemmeno Hamas un'organizzazione terroristica".
Il Sudafrica aveva già annunciato nei primi mesi della guerra contro Hamas nella Striscia di Gaza che avrebbe citato Israele davanti alla Corte internazionale di giustizia dell'Aia per aver violato le "Convenzioni per la prevenzione del genocidio" nella guerra di Gaza. In questo contesto, Hirsch ha sottolineato che la Corte internazionale di giustizia ha deliberato sulla richiesta del Sudafrica, che in realtà era una richiesta dell'Iran, di incriminare Israele per crimini di guerra e genocidio a Gaza. Ma non si tratta solo della richiesta del Sudafrica, perché negli ultimi mesi altri Paesi si sono uniti al caso - da ultimo l'inesistente "Stato di Palestina" - e questo processo sta peggiorando la situazione per Israele", ha affermato.
I giudici della Corte hanno iniziato a prendere decisioni e a dare ordini che non erano stati nemmeno richiesti dal Sudafrica e dai palestinesi: "Sta diventando sempre più complicato, e lo stesso Stato di Israele continua a cooperare invece di ritirarsi dagli accordi internazionali. All'inizio era giusto collaborare, ma dopo l'insediamento del nuovo presidente della Corte, Nawaf Salam, un giudice libanese, non abbiamo più nulla da fare lì - per quanto possa sembrare triste.
Hirsch ha poi affrontato la richiesta dello "Stato di Palestina" di unirsi alla causa contro Israele all'Aia, affermando: "Non bisogna dimenticare che chi finanzia la maggior parte delle attività dell'Autorità Palestinese e la sua adesione a questa causa è proprio lo Stato di Israele. Nel frattempo, noi continuiamo a finanziare: se l'Autorità palestinese spende 100 shekel contro Israele, lo Stato di Israele ne finanzia il 60%". È incredibile che il governo israeliano finanzi la sua stessa persecuzione, quindi dobbiamo fermarci e pensare se ha senso continuare su questa strada e con questi finanziamenti", ha detto Hirsch.
L'esperto ha anche affrontato il tema delle aperte critiche dello Stato di Israele alle istituzioni delle Nazioni Unite e di un possibile cambiamento della sua politica nei confronti delle nazioni del mondo: "Vorrei vedere un cambiamento, perché una parte integrante della lotta di Hamas e delle organizzazioni terroristiche guidate dall'Iran sono le istituzioni delle Nazioni Unite come l'UNRWA. Non è possibile che ogni giorno subiamo colpi e andiamo avanti come se tutto fosse normale.
(Israel Heute, 27 giugno 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Shelàkh: Calèv, il combattente ottantacinquenne
di Donato Grosser
Calev, uno dei protagonisti di questa parashà, riappare nel libro di Yehoshua’ (Giosuè, 14: 6-8): “Ora i figli di Yehudà si accostarono a Yehoshua’ a Ghilgal; e Calev, figlio di Yefunnè, il kenizeo, gli disse: Tu sai quel che l’Eterno disse a Moshè, uomo di Dio, riguardo a me ed a te a Kadesh-Barnea’. Io avevo quarant’anni quando Moshè, servo dell’Eterno, mi mandò da Kadesh-Barnea’ ad esplorare il paese; e io gli feci la mia relazione con sincerità di cuore. Ma i miei fratelli che erano saliti con me, scoraggiarono il popolo, mentre io seguii pienamente l’Eterno, il mio Dio”.
Rashi (Troyes, 1040-1105) nel trattato Sotà (11b, ultima riga) spiega che Calev è chiamato “il kenizeo” perchè dopo la morte del padre Yefunnè, la madre si risposò con Kenaz, dal quale ebbe un altro noto figlio chiamato ‘Otniel. Pertanto Calev prese il patronimico del patrigno Kenaz.
In questo passo del libro di Yehoshua’, Calev ripete quello che avvenne quarantacinque anni prima. Moshè aveva mandato dodici rappresentanti di altrettante tribù per esplorare la terra di Canaan; dieci esploratori, per mancanza di fede nell’Eterno, avevano scoraggiato il popolo dicendo che non era possibile conquistare il paese. Solo Yehoshua’ e Calev avevano detto: “Il paese nel quale siamo passati è molto buono. Se l’Eterno ci è favorevole, ci porterà in quel paese e ce lo darà; è una terra che stilla latte e miele” (Bemidbàr, 14: 7-8).
Quarant’anni dopo, Moshè ricordò l’episodio alle tribù di Reuven e Gad che avevano chiesto di ricevere le terre in Transgiordania conquistate dai re Sichòn e ‘Og, dicendo:”E l’ira dell’Eterno s’accese in quel giorno, ed egli giurò dicendo: Gli uomini che sono saliti dall’Egitto, dall’età di vent’anni in su non vedranno mai il paese che promisi con giuramento ad Avraham, a Yitzchak e a Ya’akov, perché non mi hanno seguitato fedelmente, salvo Calev, figlio di Yefunnè, il kenizeo, e Yehoshua’, figlio di Nun, che hanno seguito l’Eterno fedelmente. E l’ira dell’Eterno si accese contro Israele; ed lo fece andar vagando per il deserto durante quarant’anni, finché tutta la generazione che aveva fatto quel male agli occhi dell’Eterno, fosse consumata” (Bemidbàr, 32: 10-13).
Gli israeliti erano entrati nella terra di Canaan dopo quarant’anni guidati da Yehoshua’. Calev colse l’occasione per chiedere la sua giusta ricompensa e disse a Yehoshua’:”Ed ora ecco, l’Eterno mi ha conservato in vita, come aveva detto, durante i quarantacinque anni ormai trascorsi da che l’Eterno disse quella parola a Moshè, quando Israele viaggiava nel deserto; ed ora ecco che ho ottantacinque anni; sono oggi ancora robusto com’ero il giorno che Moshè mi mandò; le mie forze son le stesse d’allora, tanto per combattere quanto per andare e venire. Or dunque dammi questo monte del quale l’Eterno parlò quel giorno […] Allora Yehoshua’ lo benedisse, e dette Hebron come eredità a Calev, figlio di Yefunnè. Per questo Calev, figlio di Yefunnè, il kenizeo, ha avuto Hebron come eredità, fino al dì d’oggi: perché aveva pienamente seguito l’Eterno, l’Iddio d’Israele”(Yehoshua’, 14: 10-14).
Nella storia ebraica vi sono due personalità con il nome Calev. Uno è Calev figlio di Chetzron, citato in Cronache (I, 2:18). L’altro è Calev figlio di Yefunnè, che appare nella nostra parashà, citato in un altro capitolo (Cronache, I, 4:14). Così spiega Ghersonide (Francia, 1288-1344) nel suo commento alle Cronache. Il Ghersonide fa quindi notare che Bezalel, il capo architetto del Tabernacolo, era bisnipote di Calev figlio di Chetzron e non di Calev figlio di Yefunnè, come scrivono altri commentatori delle Scritture.
(Shalom, 28 giugno 2024)
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Parashà della settimana: Shlach (Manda)
(Shalom, 28 giugno 2024)
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Antisemitismo in aumento
Un nuovo sondaggio condotto dalla Anti-Defamation League in sette paesi con significative comunità ebraiche (Stati Uniti, Francia, Germania, Argentina, Regno Unito, Canada e Australia) ha rilevato che quasi il 40% degli intervistati condivide classici stereotipi antisemiti. Agli intervistati è stato chiesto se sono o meno d’accordo con 10 enunciati riguardanti gli ebrei come “gli ebrei hanno troppo potere sui mercati finanziari internazionali”,
“gli ebrei sono responsabili della maggior parte delle guerre nel mondo”, “la gente odia gli ebrei a causa del modo in cui si comportano”, “gli ebrei sono più fedeli a Israele che a questo paese” ecc. Quasi il 40% di tutti gli intervistati si è detto d’accordo con almeno 6 enunciati.
Un aumento preoccupante è stato osservato nella percentuale di persone che credono che gli ebrei “siano responsabili della maggior parte delle guerre del mondo”: il 23% in Argentina (rispetto al 13% del 2019), il 21% in Australia, il 19% negli Stati Uniti, il 17% in Francia e Germania (rispetto al 3-4% dello scorso anno).
L’indagine ha posto anche domande relative a Israele. In tutti i sette paesi la maggioranza degli intervistati ha affermato di ritenere che Israele “probabilmente” o “sicuramente” sta conducendo un “genocidio” a Gaza: la percentuale più alta nel Regno Unito (71%), la più bassa negli Stati Uniti (53%).
(israele.net, 27 giugno 2024)
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Inchiesta su Gioventù Nazionale
Il Presidente Fadlun: “Immagini vergognose. Che FdI prenda provvedimenti. La nostra solidarietà ad Ester Mieli”
Netta condanna alle espressioni di razzismo e antisemitismo, solidarietà alla senatrice Ester Mieli. Questa la reazione della Comunità Ebraica di Roma in un post su X del Presidente Victor Fadlun, a seguito della pubblicazione della seconda parte dell’inchiesta di Fanpage su Gioventù Nazionale.
“La Comunità Ebraica di Roma condanna le immagini vergognose di razzismo e antisemitismo emerse dall’inchiesta di Fanpage ed esprime solidarietà alla senatrice Ester Mieli, vittima di offese intollerabili – si legge su X di Fadlun -. Chiediamo che vengano presi provvedimenti adeguati, anche da FDI come ha annunciato. È imperativo che la società e le istituzioni reagiscano con forza contro ogni forma di odio e discriminazione”.
Uno scenario agghiacciante quello emerso nell’inchiesta di Fanpage, in cui un buon numero dei componenti di Gioventù Nazionale, il movimento giovanile di FdI, pronunciano cori nostalgici, frasi razziste e antisemite, tra saluti romani, chat e slogan filonazisti e fascisti. «Gli ebrei sono una casta, campano di rendita in virtù dell’olocausto. Sono troppi e io li disprezzo come razza» e ancora «La cosa più bella è stata ieri a prendersi per il c… per le svastiche e poi io che avevo fatto il comunicato stampa di solidarietà a Ester Mieli…» sono solo alcune delle frasi shock pronunciate dai giovani del movimento.
“Ribadiamo: nessuno spazio in Fratelli d’Italia per razzisti, estremisti e antisemiti. Sono inaccettabili, nonostante le modalità con cui sono state carpite e divulgate, le frasi che si sentono in filmati diffusi che riprendono militanti del nostro partito usare un linguaggio incompatibile con i valori di riferimento del nostro movimento politico”, questo il commento del deputato FdI Giovanni Donzelli, che ha poi espresso solidarietà alla senatrice Mieli e assicurato che FdI “interverrà con grande fermezza nei confronti dei responsabili”.
“In merito ai filmati diffusi da Fanpage in queste ore voglio precisare che come senatrice della Repubblica italiana e componente di Fdi non mi riconosco in quelle immagini, in quei comportamenti e in quelle parole che sono state mostrate – afferma in una nota la senatrice Mieli – Non ritrovo la realtà che conosco di Fratelli d’Italia e Gioventù Nazionale. È evidente che la presenza di elementi nostalgici piegati ad un passato riprovevole e criminale non mi appartengono. Le parole e i comportamenti là tenuti sono per me motivo di condanna e disapprovazione. Sono sicura che i vertici di FdI sapranno confermare la vocazione e la sostanza di un partito conservatore completamente libero da ideologie e comportamenti pericolosamente nostalgici”.
(Shalom, 27 giugno 2024)
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Antisemitismo dilagante negli USA nella indifferenza della polizia
Eclatante quanto successo domenica scorsa a Los Angeles con la polizia che è rimasta tranquillamente a guardare mentre i filo-palestinesi picchiavano gli ebrei che entravano in sinagoga.
di Alexandra Orbuch
Un amico mi ha mandato un messaggio domenica pomeriggio: “Volevo solo assicurarmi che la tua famiglia stesse bene dopo quello che è successo oggi a Los Angeles”. Non ero online e non avevo idea di cosa stesse parlando. Poteva essere qualsiasi cosa, un terremoto o un incendio, ma qualcosa mi diceva che si trattava di antisemitismo. Purtroppo, avevo ragione.
Domenica i manifestanti che sventolavano bandiere palestinesi e gridavano slogan anti-israeliani si sono riuniti fuori dalla sinagoga Adas Torah nel quartiere Pico-Robertson di Los Angeles. Hanno cercato di bloccare l’ingresso e sono stati presto raggiunti da controprotestanti che sventolavano bandiere israeliane. I gruppi si sono scontrati. Membri di Adas Torah hanno detto che i dimostranti anti-israeliani hanno colpito con lo spray gli ebrei che cercavano di entrare nella sinagoga, dove si teneva una fiera immobiliare israeliana. Talia Regev, 43 anni, ha raccontato di essere stata spruzzata e di aver assistito a violenti alterchi tra i due gruppi.
“Non c’era un posto dove girarsi per essere al sicuro”, ha detto Naftoli Sherman, 25 anni, che aveva programmato di partecipare alla fiera della sinagoga. È stato aggredito ed è finito in ospedale. “C’era un’intera banda di manifestanti sopra di me. Mi hanno rotto il naso e mi hanno dato un paio di calci in testa”.
Il giornalista di origine israeliana Daniel Greenfield ha riferito che un manifestante anti-Israele ha minacciato: “Miliardi di noi verranno a uccidervi”.
Il presidente Biden e il governatore della California Gavin Newsom sono intervenuti sui social media per condannare l’atto di odio di domenica. Il sindaco di Los Angeles Karen Bass ha promesso che la polizia “fornirà pattuglie aggiuntive nella comunità di Pico-Robertson e fuori dalle case di culto in tutta la città”. È un bene che abbiano parlato, ma twittare non è sufficiente.
E nemmeno stare a guardare. I membri del Dipartimento di Polizia di Los Angeles hanno osservato lo svolgersi della mischia invece di proteggere le persone prese di mira dalla folla. Per sedare i tafferugli sono stati necessari i volontari di organizzazioni ebraiche no-profit per la sicurezza, tra cui LA Shmira Public Safety e Magen Am. “Senza di loro, sarebbe stato molto peggio”, ha detto il signor Sherman.
“Se non fosse stato per Magen Am, non so cosa sarebbe successo”, ha detto David Kramer, 37 anni. “Le persone correvano, urlavano, un po’ deliranti” e imploravano gli agenti in uniforme di intervenire. Nonostante le molte suppliche, ha detto, “erano lenti a muoversi e mi è sembrato che avessero l’ordine di ritirarsi”.
Mentre gli scontri si spostavano a est di Adas Torah verso altre sinagoghe del quartiere ebraico, la polizia è rimasta a circa un quarto di isolato dall’azione, ha detto Regev. Ha esortato gli agenti a intervenire. Ho detto: “Dovete fermarlo” e loro hanno risposto: “Non possiamo fare nulla senza un’autorità superiore”. “Greenfield ha detto che la polizia “ha fatto poco per interferire con i sostenitori del terrorismo”. Non riuscendo a disperdere i manifestanti, ha reso difficile agli ebrei l’ingresso nella loro sinagoga. La polizia di Los Angeles ha rifiutato di commentare.
La signora Bass e la polizia di Los Angeles dovrebbero essere meglio preparate a gestire gli incidenti violenti, soprattutto in considerazione dell’aumento delle attività antisemite nell’area di Los Angeles dall’inizio della guerra tra Israele e Hamas.
Un mese dopo il 7 ottobre, Paul Kessler, 69 anni, è morto per una ferita alla testa a Thousand Oaks in seguito a un alterco con un manifestante anti-Israele. Settimane dopo, Raphael Nissel, 75 anni, ha avuto bisogno di punti per chiudere una ferita alla fronte dopo essere stato aggredito da un uomo a Beverly Hills. Il signor Nissel stava andando alla sinagoga. Il procuratore distrettuale della contea di Los Angeles, George Gascón, ha dichiarato che l’aggressione è avvenuta nel contesto di una “preoccupante tendenza di crimini di odio antisemita” nella zona.
La polizia sarebbe stata così passiva come domenica se le persone prese di mira fossero state una minoranza diversa dagli ebrei? Sarebbero rimasti inerti e avrebbero lasciato che i manifestanti bloccassero l’ingresso di una chiesa o di una moschea? Questo palese doppio standard è proprio il motivo per cui la prima cosa che ho pensato quando il mio amico mi ha contattato è stato l’antisemitismo. Aspetto con ansia il giorno in cui un terremoto sarà più plausibile.
(Rights Reporter, 27 giugno 2024)
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Israele al secondo posto tra i Paesi migliori per la pensione
LONDRA - Nonostante la guerra in corso con Hamas, Israele è considerato il secondo miglior Paese al mondo per i pensionati. È quanto emerge da un nuovo studio di ConfidenceClub, un'azienda britannica che si occupa di aiutare i pensionati. L'indice "Ageing with Dignity" ha analizzato 39 Paesi per determinare i luoghi migliori per andare in pensione.
Lo studio si è avvalso di informazioni provenienti, tra l'altro, dall'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) e dal database Numbeo sul costo della vita. Ha preso in considerazione criteri come l'emigrazione degli anziani, la qualità dell'assistenza sanitaria, l'aspettativa di vita, la sicurezza e la soddisfazione della vita. A ciascun Paese sono stati assegnati dei punti per stilare una classifica.
• Vincitrice l'Islanda, seguita da vicino da Israele
Israele si è classificato al 2° posto con un punteggio di 85. È stato superato solo dall'Islanda con 87 punti. Finlandia, Paesi Bassi e Svizzera seguono dal 3° al 5° posto.
Il Sudafrica si è classificato ultimo con un punteggio di 43 punti. La Grecia, la Lettonia, la Slovacchia e l'Italia si sono piazzate subito dopo.
• Soddisfazione nonostante la guerra in corso
Sebbene lo studio sia stato condotto dopo il 7 ottobre, Israele è uno dei Paesi più sicuri in cui rifugiarsi. Secondo lo studio, "la sicurezza non riguarda solo i bassi tassi di criminalità, ma anche la creazione di un ambiente in cui gli anziani possano godersi gli anni d'oro in tutta tranquillità".
Israele si è distinto anche in due criteri dell'indice. Il criterio "equilibrio degli anziani" mostra che la popolazione anziana di Israele è sostenuta da una popolazione economicamente molto attiva. Il criterio della soddisfazione di vita riflette "quanto le persone sono soddisfatte della propria vita, tenendo conto di fattori quali la stabilità economica, i legami sociali e la realizzazione personale".
• L'Indice Mondiale della Felicità conferma i risultati dello studio
Israele non è solo al primo posto nel criterio di soddisfazione della vita. Israele è anche regolarmente ai primi posti del "World Happiness Report" delle Nazioni Unite. A marzo, Israele è sceso dal 4° al 5° posto. La Finlandia è stata classificata come il Paese più felice.
Oltre ai migliori Paesi del mondo, l'indice per invecchiare con dignità ha analizzato anche le migliori città per la pensione. Dopo la capitale islandese Reykjavik e L'Aia nei Paesi Bassi, Tel Aviv è risultata la terza città migliore.
(Israelnetz, 27 giugno 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Un rarissimo manoscritto di 600 anni documenta l’ormai perduta Provenza ebraica
L’acquisizione è stata possibile grazie alla William Davidson Foundation, al Krauss Family Charitable Trust, Sid Lapidus e alla famiglia Zukier.
di Michael Soncin
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Immagine del Mezukak Shivatayim
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Unico nel suo genere, è stato acquisito dalla Biblioteca Nazionale d’Israele, andando così ad arricchire la collezione di Judaica. Intitolato Mezukak Shivatayim, fonde nel suo insieme halachà, teologia, filosofia aristotelica e medievale. Prezioso perché testimonia la scomparsa comunità ebraica francese della Provenza.
Al suo interno contiene un commento di 7 dei 14 libri del Mishneh Torah del Rambam, Maimonide. Il libro venne copiato in Provenza, probabilmente dopo la scomparsa del suo autore, Rabbi Yosef Kimchi (1105-1170), in cui fornisce le fonti per le sentenze di Maimonide dal punto di vista sia halachico sia filosofico.
Il rabbino cita fonti di autori sia aschenaziti che sefarditi, fonti che in parte oggi non esistono più, ed è perciò l’unica prova arrivata oggi a noi. Come riportato da Jewish News, l’opera è la testimonianza non soltanto di un ebraismo perduto, ma anche indice della ricchezza culturale, dell’abilità intellettuale e della profondità spirituale.
Tra il XIII e XIV secolo numerose controversie, legate al pensiero di Maimonide, di carattere religioso, culturale e sociale, crearono una frattura tra le comunità ebraiche della Spagna e della Provenza, che sfociarono nell’esclusione, nell’isolamento delle tradizioni provenzali. Per questo motivo importanti opere di studiosi della zona rimasero non citate e non copiate. Questo va ad aggiungersi ad altri fattori come la ribellione dei cristiani nel XIV secolo verso le comunità ebraiche della Provenza che vennero annientate.
Chaim Neria, curatore della Haim and Hanna Solomon Judaica Collection presso la Biblioteca Nazionale d’Israele, ha detto: «L’acquisizione del Mezukak Shivatayim colmerà una lacuna nella narrativa storica esistente e, in piccola misura, ripristinerà la nostra comprensione collettiva del patrimonio culturale e religioso di questa comunità ebraica altamente significativa».
Mentre Raquel Ukeles, a capo delle collezioni della Biblioteca Nazionale d’Israele, ha affermato: «La digitalizzazione e la disponibilità online del Mezukak Shivatayim forniranno a questa e alle generazioni future l’opportunità di ricercare, studiare e connettersi con un capitolo centrale della storia ebraica».
(Bet Magazine Mosaico, 27 giugno 2024)
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Gaza, ucciso contrabbandiere d'armi di Hamas. Raid Israele in Libano
Un agente di Hamas coinvolto nel contrabbando di armi al gruppo terroristico attraverso il valico di frontiera di Rafah e attraverso i tunnel che attraversano l’Egitto è stato ucciso in un attacco aereo. Lo ha annunciato l’Idf secondo cui Wissam Abu Ishaq è stato preso di mira ieri da un attacco di droni nel sud della Striscia di Gaza.
L’IDF afferma che aerei ieri da combattimento e altri aerei hanno colpito dozzine di altri obiettivi in tutta Gaza, inclusi edifici con trappole esplosive, edifici utilizzati da gruppi terroristici, tunnel e celle di uomini armati.
I caccia dell’aeronautica israeliana hanno colpito nella notte diverse infrastrutture militari di Hezbollah nelle aree di Matmoura e Chebaa, in Libano. Lo ha reso noto l’Idf.
L’esercito israeliano ha arrestato 20 persone negli ultimi raid compiuti in Cisgiordania. La maggior parte degli arresti sono avvenuti nei governatorati di Hebron e Jenin, mentre altri sono avvenuti a Betlemme e Qalqilya, secondo la Società dei prigionieri palestinesi. Tra gli arrestati c’è la madre di un palestinese ricercato dalle autorità israeliane e molti altri ex detenuti, ha riferito il gruppo.
Dal 7 ottobre, secondo la Società dei prigionieri, le forze israeliane hanno effettuato 9.400 arresti in raid giornalieri in tutta la Cisgiordania occupata. Almeno 553 persone, tra cui 137 minorenni, sono state uccise e circa 5.300 sono rimaste ferite.
Un missile è stato segnalato nelle vicinanze di un mercantile a 52 miglia nautiche a sud del porto di Aden, nello Yemen. Lo ha reso noto il Maritime Trade Operations (Ukmto) su X. Secondo il rapporto sull’incidente diramato dal capitano della nave, l’Ukmto ha aggiunto che l’equipaggio non è stato colpito.
La Resistenza Islamica in Iraq ha rivendicato la propria responsabilità di aver “attaccato un obiettivo vitale a Eilat”, utilizzando un drone. L’Idf aveva riferito in precedenza che l’Uav era esploso nello spazio marittimo vicino alla città israeliana sulle rive del Mar Rosso.
(Adnkronos, 26 giugno 2024)
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Leva haredi, storica sentenza della Corte Suprema israeliana
Impone l’arruolamento agli ultraortodossi e toglie i finanziamenti alle yeshivot dei disertori
di Anna Balestrieri
La storica sentenza dell’Alta Corte che impone l’arruolamento di uomini Haredi (ultraortodossi) nell’IDF segna un momento cruciale nella società israeliana, creando nette divisioni tra i settori laico e sionista-religioso e quello ultrareligioso. La decisione è stata accolta sia con una forte opposizione da parte dei leader ultraortodossi sia con il sostegno di figure laiche e di opposizione, sottolineando il rapporto complesso e spesso controverso tra tradizione ultrareligiosa e obblighi civili in Israele.
• LA SENTENZA DELLA CORTE SUPREMA La decisione della Corte Suprema affronta una questione controversa di vecchia data nella società israeliana: l’esenzione degli uomini Haredi dal servizio militare obbligatorio, d’obbligo per la stragrande maggioranza degli altri cittadini ebrei israeliani. La Corte ha stabilito che le esenzioni esistenti e il sostegno finanziario per gli studenti della yeshivah che non si arruolano sono incostituzionali, ordinando così al governo di integrare gli uomini Haredi nel sistema di leva militare.
Il 23 giugno 2024, la Corte Suprema di Giustizia israeliana ha emesso unanimemente una sentenza storica che impone al governo di iniziare ad arruolare uomini Haredi (ultraortodossi) nelle Forze di Difesa Israeliane (IDF) e di cessare il finanziamento delle yeshivot (scuole religiose ebraiche) i cui studenti non si arruolino. La Corte ha parlato di “grave discriminazione tra coloro che sono tenuti a prestare servizio” e coloro che sono esentati dal servizio militare, quantificando circa 63.000 unità l’enorme numero di giovani Haredi finora esentati dalla leva. “In questi giorni, nel mezzo di una dura guerra, il peso della disuguaglianza è più acuto che mai – e richiede la promozione di una soluzione sostenibile a questo problema”, ha dichiarato la Corte.
• SOSTEGNO DA PARTE DI PERSONALITÀ LAICHE E DELL’OPPOSIZIONE I leader laici e le figure dell’opposizione hanno ampiamente accolto con favore la sentenza.
La decisione della Corte Suprema ha ricevuto l’immediato plauso di Chofshi B’Artzeinu (Liberi nella nostra terra, da un verso dell’inno nazionale), l’organizzazione che guida la campagna per l’uguaglianza dell’onere della leve, definendo la sentenza “un momento decisivo nella storia dello Stato di Israele.
“Dopo il terribile disastro del 7 ottobre, la mobilitazione equa e completa di tutte le parti della società israeliana è un bisogno di sicurezza fondamentale ed esistenziale, non solo una questione socio-morale”, si legge nel comunicato. Gideon Sa’ar del partito di destra nazionale ha elogiato la sentenza con le parole: “Conservatori e liberali – ci sono giudici a Gerusalemme“. Il riferimento è ad una citazione attribuita al primo ministro Menachem Begin che è stata ampiamente utilizzata dai politici per celebrare le sentenze dei tribunali con cui sono d’accordo. Avigdor Lieberman, presidente del partito Yisrael Beiteinu, ha ripreso la stessa citazione, definendo la decisione della Corte Suprema “un passo significativo verso un cambiamento storico che rende giustizia al pubblico che sopporta il peso [del servizio militare].”E in un anno in cui abbiamo perso un’intera brigata di soldati caduti in battaglia o gravemente feriti, in un anno in cui i riservisti hanno prestato servizio per più di 200 giorni, non c’è prova più ampia che le forze di difesa israeliane abbiano bisogno di più personale“.
Anche il capo del partito laburista Yair Golan, eroico protagonista di una missione di salvezza il 7 ottobre, ha accolto con favore la decisione della Corte. “Il dovere di difesa e di servizio civile nazionale dovrebbe applicarsi a ogni giovane israeliano, indipendentemente dalla religione, dalla etnia e dal sesso”, ha affermato.
Benny Gantz, presidente del partito di Unità Nazionale, ha elogiato la decisione e ha esortato la comunità Haredi a trovare un compromesso che rispetti sia gli obblighi del servizio nazionale sia le tradizioni religiose. Ha definito il servizio militare e nazionale una necessità di sicurezza e un dovere morale, essenziale per mantenere la coesione sociale in una società diversificata.
• REAZIONI DEI LEADER ULTRAORTODOSSI La sentenza ha suscitato una forte opposizione da parte di esponenti politici e religiosi ultraortodossi:
Yitzchak Goldknopf, ministro dell’edilizia e capo del partito Ebraismo della Torah unita, ha espresso profondo disappunto, affermando che la sentenza mina il fondamento di Israele come patria del popolo ebraico, la cui identità è radicata nella Torah.
Meir Porush, ministro per gli Affari di Gerusalemme, ha avvertito che la sentenza potrebbe portare a una divisione de facto di Israele in due Stati separati: uno che segue l’attuale struttura governativa e un altro dove gli studenti della yeshivah continuano ininterrottamente i loro studi della Torah.
Arye Dery, presidente del partito Shas, ha sottolineato che la resilienza del popolo ebraico nel corso della storia è dovuta al suo impegno verso la Torah e le mitzvot (comandamenti) e che nessuna decisione legale potrebbe recidere questo legame.
Moshe Gafni, membro della Knesset del United Torah Judaism, ha accusato la Corte Suprema di ignoranza riguardo al valore dello studio della Torah, inquadrando la sentenza come parte di un più ampio conflitto culturale e religioso.
Diversi leader ultraortodossi hanno accusato l’Alta Corte di oltrepassare i suoi limiti giurisdizionali, minando il governo democratico.
Israel Eichler (UTJ) ha definito la Corte un “organismo dittatoriale” che ha usurpato il potere dei funzionari eletti, suggerendo che la sentenza potrebbe incitare una guerra religiosa e approfondire le divisioni tra gli ebrei. Eichler ha invitato il governo di destra a difendere i valori ebraici e della Torah contro ciò che percepisce come un eccesso di autorità giudiziaria.
• IMPLICAZIONI FUTURE La decisione della Corte Suprema porterà probabilmente a notevoli sconvolgimenti politici e sociali. La resistenza della comunità ultraortodossa suggerisce il potenziale per un aumento della disobbedienza civile e delle proteste. D’altro canto, la sentenza è in linea con gli sforzi volti a garantire che tutti i settori della società israeliana condividano le responsabilità nazionali, favorendo potenzialmente una maggiore integrazione sociale nel tempo.
La sentenza e le successive reazioni evidenziano la lotta in corso all’interno della società israeliana per bilanciare le tradizioni religiose con gli obblighi statali. La questione dell’arruolamento di uomini Haredi nell’IDF è stata per anni un punto critico, riflettendo tensioni più ampie tra le comunità laiche e religiose in Israele.
(Bet Magazine Mosaico, 26 giugno 2024)
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Israele non può perdere la deterrenza
di Maurizia De Groot Vos
Se c’è una cosa sicura come il sorgere del sole è che né Hamas né Hezbollah recederanno dalla loro volontà di distruggere Israele.
Mi chiedo quindi: che senso ha oggi accettare una tregua a Gaza senza aver estirpato la minaccia di Hamas oppure cedere alle pressioni americane per uno stop alle operazioni nel sud del Libano senza che Hezbollah si sia ritirato dietro la linea blu delimitata dal fiume Litani?
Le comunità che confinano con Gaza o con il sud del Libano, possono in tutta onestà rientrare alle loro case sapendo che la minaccia di un nuovo 7 ottobre non è stata neutralizzata?
Sento dire un po’ ovunque che il Ministro della difesa israeliano, Yoav Gallant, sarebbe a Washington per discutere con gli americani di una de-escalation sul fronte nord.
Ma per quello che ho saputo da una fonte americana più che affidabile, per gli americani non sarebbe indispensabile che Hezbollah si ritiri dal sud del Libano, come non sarebbe indispensabile distruggere Hamas. L’importante è arrivare a una tregua su entrambi i fronti prima delle elezioni presidenziali.
In sostanza, se dovesse passare la linea americana, Hamas rimarrebbe al suo posto pronto a riarmarsi per tornare all’attacco prima possibile, così come Hezbollah rimarrebbe a sud del fiume Litani pronto a minacciare lo Stato Ebraico con i suoi 150.000 missili iraniani.
Non è così che si fa politica in Medio Oriente e non è così che si mette in sicurezza Israele.
Per assurdo, se vogliamo la pace dobbiamo fare più guerra.
Che messaggio manderebbe Israele ai suoi nemici e ai regimi del Golfo se adesso cedesse su tutta la linea come vorrebbero a Washington? Che messaggio manderebbe agli Ayatollah iraniani se non quello di una potenza indebolita? La deterrenza è sempre stata l’arma migliore in mano a Israele, ma se la deterrenza si perde per strada il messaggio che arriverà sarà quello di uno Stato Ebraico indebolito e quindi attaccabile.
Al contrario, se Israele andrà fino in fondo a Gaza e ricaccerà Hezbollah oltre il fiume Litani, le comunità del sud al confine con la Striscia e quelle a nord al confine con il Libano, potranno tornare alle loro case senza il timore di un nuovo 7 ottobre e, soprattutto, Israele manderà un segnale chiaro e a tutto tondo ai suoi nemici ristabilendo quella deterrenza che per oltre 70 anni ha garantito allo Stato Ebraico di prosperare e di scoraggiare i nemici a fare qualsiasi passo falso.
(Rights Reporter, 26 giugno 2024)
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UE – Israele aspetta Kallas agli Esteri e non rimpiange Borrell
Se confermato nelle prossime 48 ore, il nuovo Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri sarà la prima ministra estone Kaya Kallas. Un nome accolto positivamente a Gerusalemme viste le posizioni espresse da Kallas su Israele e sul conflitto contro Hamas.
Sostenitrice della soluzione dei due stati per due popoli e preoccupata per la situazione umanitaria a Gaza, la premier estone ha più volte ribadito il diritto d’Israele all’autodifesa, oltre a condannare i massacri di Hamas del 7 ottobre. Durissima contro la Russia di Vladimir Putin, in generale le sue posizioni sul Medio Oriente sono considerate moderate, sottolinea ynet. In ogni caso, commenta il quotidiano israeliano, «quasi qualsiasi sostituto di Josep Borrell (attuale Alto rappresentante), alla luce delle sue posizioni fortemente critiche, rappresenta un miglioramento per Israele».
Per quanto riguarda Gerusalemme, «Kallas presenta una posizione equilibrata sulla guerra», ha commentato a Israel Hayom, Eyal Robinson, esperto di relazioni internazionali. «È simile alla posizione della linea centrista delle istituzioni Ue e in contrasto con quella di Borrell. Kallas ha sostenuto il diritto di Israele a difendersi senza compromessi e ha condannato l’attacco del 7 ottobre. Allo stesso tempo, ha sottolineato in più occasioni la questione umanitaria degli abitanti della Striscia di Gaza e la necessità di trovare una soluzione al rischio di una crisi alimentare».
Dopo il 31 ottobre, quando scadrà il mandato dello spagnolo Borrell, il nuovo Alto rappresentante potrà aiutare a superare alcuni contrasti e incomprensioni tra Ue e Israele, spiega Robinson.
Nel mentre però lo scontro persiste, come dimostrano le dure prese di posizione del ministro degli Esteri israeliano Israel Katz su Borrell. «Ha scelto di comportarsi in modo ossessivo contro lo Stato d’Israele, per ostilità personale e politica», ha accusato Katz in un’intervista all’emittente N12. «Ha cercato di negare a Israele il diritto di autodifesa nonostante i terribili crimini commessi da Hamas il 7 ottobre» e «di imporre una decisione su un cessate il fuoco unilaterale che avrebbe ostacolato la possibilità di liberare gli ostaggi». «Siamo lieti che i nostri amici nell’Unione abbiano sventato le sue manovre contro Israele», ha affermato il ministro. Per poi aggiungere che senza Borrell, «potremo continuare a lavorare insieme ai nostri numerosi amici nell’Ue per riportare a casa gli ostaggi e sconfiggere Hamas, rafforzare e intensificare i legami, e promuovere ulteriori sanzioni contro l’Iran e l’asse del male dell’Islam estremista».
• Vertice sì ma su Gaza no
Parole specchio di una tensione diplomatica aggravatasi negli anni, il cui ultimo capitolo è stata la richiesta del capo della diplomazia di Bruxelles di convocare il Consiglio di associazione UE-Israele. Si tratta di un incontro parte dell’accordo stipulato tra l’Unione europea e Gerusalemme nel 1995 ed entrato in vigore nel 2000. Un’intesa che regola le relazioni bilaterali in molti ambiti, dalla cooperazione industriale a quella energetica, fino al dialogo politico. «Siamo felici di convocare un Consiglio di associazione regolare in cui, come con qualsiasi altro paese, discutiamo di tutti gli elementi delle relazioni bilaterali UE-Israele, compresi il commercio, l’istruzione e la cultura… così come di temi legati ai diritti umani e alla guerra», ha replicato la missione israeliana a Bruxelles. Un chiaro no a un vertice speciale incentrato sulla situazione a Gaza.
In una recente missione in Ungheria, Katz è tornato sulla questione, annunciando che la riunione del Consiglio di associazione si terrà quando alla presidenza del Consiglio Ue ci sarà il governo di Viktor Orban. Ovvero dopo il 1 luglio. «La presidenza ungherese rappresenta un’opportunità senza precedenti per migliorare la posizione di Israele nell’Unione europea», ha sostenuto Katz.
(moked, 26 giugno 2024)
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Le illusioni della sinistra ebraica e le dure lezioni della storia
di Davide Cavaliere
Il 28 gennaio 1969, sulla scorta delle polemiche e delle tensioni internazionali che caratterizzano gli anni successivi alla Guerra dei sei giorni, un gruppo di «ebrei di sinistra» pubblicò su L’Unità una lettera-manifesto diretta contro la «politica nefasta del governo d’Israele».
Tale missiva, dopo aver espresso il consueto e formale rigetto del terrorismo arabo-palestinese, muoveva all’allora governo israeliano, guidato dal laburista Levi Eshkol, l’accusa di alimentare con la sua azione governativa le «posizioni oltranziste ed espansionistiche», ponendo così le «premesse per un nuovo conflitto».
Si tratta delle medesime critiche che, attualmente, gli «ebrei di sinistra» lanciano contro Netanyahu e la destra, colpevole a sentir loro di «fomentare» lo scontro con gli arabi favorendo il movimento dei cosiddetti «coloni».
Gli «ebrei di sinistra» della Diaspora hanno criticato come «oltranzisti» tutti i governi israeliani, compreso quello del santificato (ma solo dopo il suo assassinio) Yitzhak Rabin, dimostrando così di avere una notevole difficoltà ad accettare Israele come Stato nazionale. Essi lo difendono nella misura in cui si attendono che il «progresso» storico abolirà gli stati nazionali e risolverà il problema degli ebrei una volta per tutte, disperdendoli in un’astrazione chiamata «umanità».
Israele, alla sinistra diasporica profondamente influenzata dal marxismo, appare troppo identitario, troppo statuale, troppo «ebraico» per preservarlo fino in fondo. Il loro originario «internazionalismo», attualmente decaduto in una forma di «mondialismo» nemico di tutte le autoctonie e identità solide, li induce a vedere Israele come veicolo per una società multiculturale, «mista», in cui l’elemento ebraico sia diluito fino alla sua sparizione.
Gli «ebrei di sinistra», ieri come oggi, sono sordi alle dure lezioni impartite dalla Storia. Come se dai tempi di Altneuland nulla fosse accaduto, perpetuano l’utopia di Herzl e del suo «stato ebraico» binazionale e irenico. Non hanno ancora compreso che nessuna pace è possibile con un nemico che considera lo sterminio del popolo d’Israele come un dovere religioso. I «palestinesi», non solo i membri di Hamas, sono le truppe d’assalto di una seconda Shoah.
Incapaci di comprendere questi fatti elementari, gli ebrei progressisti dell’Europa e degli Stati Uniti vorrebbero lasciare la Giudea e la Samaria, centri storici del Giudaismo, agli arabo-palestinesi, affinché vi costituiscano un loro «Stato», che diventerebbe una base terroristica permanente, come non smettono di proclamare nelle loro dichiarazioni in arabo. Ma il conflitto in Medio Oriente non riguarda la terra o uno «Stato palestinese»; si tratta di una guerra di aggressione che dura da sessant’anni, condotta da musulmani sunniti e sciiti, per distruggere il focolare nazionale ebraico e gettare i suoi abitanti in mare.
Non ci sarà mai un futuro privo di conflitti tra popoli e civiltà né uno in cui gli ebrei cesseranno di essere oggetto di invidia, risentimento e odio virulento, al punto da rendere Israele superfluo. Eppure, gli «ebrei di sinistra» negano la determinazione degli islamisti ad ucciderli. In parte, questa negazione psicologica è comprensibile, può capitare a tutti coloro che si trovano ad affrontare una prospettiva troppo terribile per essere contemplata, ma quando assume una rilevanza politica, significa correre un grave pericolo.
Le loro lagnanze circa i «coloni» e la destra al governo, che sembrano ritenere responsabili dell’attuale conflitto, quasi a voler scagionare Hamas e i suoi sponsor iraniani e turchi, ricordano le tristi illusioni dei membri degli Judenrat, i Consigli ebraici nei ghetti nazisti, che cercavano di convincersi del fatto che i tedeschi fossero troppo civili per ucciderli in massa. La storia recente degli ebrei è puntellata di queste illusioni, basti pensare al modo in cui le Comunità Ebraiche italiane si affidarono al regime fascista, convinte che le avrebbe protette dell’antisemitismo nazista.
Gli «ebrei di sinistra» dell’Occidente, diasporici solo per modo di dire, hanno dimenticato la violenza antiebraica e l’importanza di avere un rifugio nazionale. Se tutto ricominciasse, come ai tempi di Hitler, è in Israele e solo in Israele che gli ebrei, anche quelli progressisti e antisionisti, troverebbero un riparo.
(L'informale, 26 giugno 2024)
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Gli "ebrei di sinistra", che come si vede dall'articolo si presentano sempre gli stessi in momenti diversi della storia di Israele, sono la versione ebraica di quell'universale forma di religiosità a cui si potrebbe dare il nome onnicomprensivo di "Sinistrismo". Nome che può essere visto come l'opposto corrispondente dell'altrettanto onnicomprensivo e generico nome di "Fascismo". Del Fascismo ormai si sa o si pensa di sapere tutto, ma esiste già da qualche parte uno studio approfondito di quell'universale fenomeno culturale esteso in tutto l'Occidente che merita il nome sintetico di Sinistrismo? M.C.
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Il sergente maggiore Muhammad Alatrash è stato ucciso da Hamas
Le Forze di Difesa israeliane hanno annunciato lunedì che il sergente maggiore Muhammad Alatrash è stato ucciso da Hamas il 7 ottobre e il suo corpo portato a Gaza. Alatrash, 39 anni, arabo israeliano della comunità beduina meridionale di Sa’wa, prestava servizio nella Brigata Nord della Divisione di Gaza. Il suo corpo venne prelevato dalla zona del kibbutz Nahal Oz, dove era rimasto ucciso in uno scontro a fuoco con i terroristi. Finora figurava tra i 251 ostaggi sequestrati il 7 ottobre, ma la sua morte è stata recentemente accertata sulla base di prove e informazioni di intelligence ottenute dalle truppe che operano a Gaza. Alatrash lascia due mogli e 13 figli, tra cui un bambino che il 7 ottobre aveva un mese.
Al momento sono 42 le persone, compreso Alatrash, nelle mani di Hamas di cui le Forze di Difesa israeliane hanno accertato il decesso. Un’altra donna risulta scomparsa sin dal 7 ottobre, ma la sua sorte è ancora sconosciuta.
(israele.net, 25 giugno 2024)
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Una vittoria decisiva su Hamas avrà un effetto anche su Hezbollah
Un successo nella Striscia di Gaza potrebbe scuotere la fiducia in se stesso del leader di Hezbollah Hassan Nasrallah e mettere in evidenza le conseguenze di una guerra con Israele.
di Meir Ben-Shabbat
GERUSALEMME - Nella complessa rete di dilemmi che i decisori israeliani si trovano ad affrontare, la guerra per smantellare in modo decisivo l'organizzazione terroristica Hamas deve rimanere una pietra miliare della politica e dell'azione. Dopo il 7 ottobre, non c'è più spazio per le manovre: qualsiasi altro risultato avrà conseguenze di vasta portata.
Uno sforzo determinato per raggiungere tutti gli obiettivi israeliani a Gaza scuoterà anche la fiducia del segretario generale di Hezbollah Hassan Nasrallah nell'efficacia della sua strategia di logoramento contro Israele e farà capire a lui e alla leadership libanese le potenziali conseguenze di una guerra con Israele.
I disaccordi ai massimi livelli di sicurezza israeliani riguardo a Gaza riflettono non solo le differenze di opinione sull'obiettivo strategico (reale, non dichiarato) della guerra, ma anche i disaccordi nel valutare l'efficacia dello sforzo e nel sincronizzare i combattimenti a Gaza con altre minacce e sfide. I nostri nemici usano questi disaccordi come materiale di propaganda, presentandoli come espressione di frustrazione e disperazione e come segno del collasso del sistema israeliano.
Guardando al comportamento delle forze armate e della società israeliana, così come ai risultati della guerra, il quadro è contrastante e propende più per il lato positivo e ottimista che per quello opposto.
Questo vale non solo per i successi militari, ma anche per l'impatto della guerra sull'opinione pubblica della Striscia di Gaza, come dimostrano i risultati di un recente sondaggio trimestrale condotto dal Palestinian Centre for Policy and Survey Research, diretto da Khalil Shikaki.
Questo sondaggio ha mostrato una diminuzione della percentuale di abitanti di Gaza che sostengono l'attacco di Hamas del 7 ottobre, una diminuzione della soddisfazione nei confronti di Hamas e una diminuzione della percentuale di abitanti di Gaza che credono che Hamas vincerà la guerra. Sebbene i dati siano ancora lontani dall'indicare un cambiamento completo (e in Giudea e Samaria riflettono addirittura una tendenza al rafforzamento di Hamas), non dovrebbero essere ignorati.
• Ridurre il divario di aspettative I diversi approcci all'interno del sistema israeliano non sono sempre compatibili, ma è possibile ridurre il divario di aspettative tra il livello politico e il sistema di sicurezza, e tra questi due e il pubblico.
Il primo divario riguarda le prestazioni richieste. L'obiettivo definito dai politici è la distruzione delle capacità militari e politiche di Hamas, ma è ancora necessario definire dei parametri di riferimento rispetto ai quali valutare il raggiungimento di questo obiettivo. Le autorità di sicurezza hanno spesso usato il termine "smantellamento" per indicare la distruzione della capacità delle brigate e dei battaglioni di Hamas di operare come unità organizzate. In realtà, le Forze di Difesa israeliane ne hanno sciolto la maggior parte.
In una guerra contro un esercito statale regolare, è sufficiente far crollare il sistema di combattimento, scioglierlo e distruggere in modo sicuro le sue forze per rendere la battaglia così disperata da portare alla deterrenza e alla resa. Questo è ciò che è accaduto nelle nostre guerre contro gli eserciti arabi fino al 1973.
Nel caso attuale, combattere un'entità ibrida - un esercito che sa operare come una cellula guerrigliera e terroristica (o contro un altro esercito jihadista, come i nazisti e i giapponesi) - non è sufficiente per sconfiggerla. La distruzione del sistema è necessaria per ottenere il secondo fattore decisivo: l'eliminazione del nemico e/o il suo sradicamento dall'area. Questo può spiegare il ritorno in luoghi di Gaza dove le forze israeliane hanno già operato e la lunga durata dell'operazione.
Un'altra lacuna esiste in relazione alla distruzione delle capacità politiche del governo. Mentre un approccio suggerisce che il controllo di Hamas può essere rimosso facendo in modo che un'altra entità (non le Forze di Difesa israeliane) assuma l'amministrazione degli affari civili a Gaza, l'altro punto di vista ritiene che nessuna entità diversa dalle Forze di Difesa israeliane possa avere successo nelle condizioni attuali, e che in ogni caso qualsiasi centro di potere del governo di Hamas debba essere distrutto, anche se temporaneamente non ci sono alternative.
In entrambi i casi, non si conosce un piano per raggiungere l'obiettivo, compresa la rimozione del controllo di Hamas sugli aiuti umanitari, che gli dà respiro e posizioni di potere.
• I vincoli che Israele deve affrontare Un'altra lacuna è legata al ritmo e all'intensità dei combattimenti. Questi sono influenzati dai vincoli politici, operativi e legali a cui Israele è soggetto. Tuttavia, l'approccio attuale riduce l'efficienza, limita i punti di pressione sul nemico, permette alle sue forze di fuggire in aree esterne alla zona di combattimento e di riorganizzarsi lì, prolunga la guerra e aumenta il senso di stagnazione. Una strategia di accumulo di successi tattici ha un prezzo elevato, che può essere richiesto dall'opinione pubblica solo se non ci sono altre alternative.
La leadership politica e di sicurezza farebbe bene a chiarire questi aspetti nelle aule di discussione. Nonostante gli inconvenienti, la controversia può essere un'opportunità per rafforzare la nostra fiducia non solo nella legalità della guerra, ma anche nel modo in cui viene condotta.
A parte queste aree, l'importanza di rimuovere la leadership di Hamas e i benefici previsti per tutti gli obiettivi definiti da Israele sembrano indiscutibili. Farlo nei confronti dei comandanti a Gaza è difficile, ma possibile; è impossibile farlo invece confronti dei leader dell'organizzazione all'estero, che appaiono nei media e si comportano come se la loro immunità fosse garantita.
Il ruolo centrale svolto da questa leadership all'estero e i suoi sforzi per attirare Israele in una guerra su più fronti richiedono che Israele la prenda sistematicamente di mira fino a neutralizzare tutti i suoi componenti - soprattutto dopo l'attacco del 7 ottobre e dopo le chiare parole del leader di Hamas Khaled Mashaal sull'impegno del gruppo a distruggere Israele.
Attaccarli renderà chiaro che c'è un prezzo da pagare per il loro rifiuto di un accordo di rilascio. Contribuirà a interrompere la capacità di Hamas di controllare e coordinare e a complicare i suoi sforzi di recupero.
Senza un efficace apparato di leadership all'estero, Hamas perderà il suo status di movimento con influenza regionale, anche se continuerà a esistere come organizzazione locale e braccata. Si tratta di un interesse condiviso da Israele e dai suoi vicini e di un obiettivo coerente con il desiderio americano di dare forma a un nuovo ordine regionale.
(Israel Heute, 25 giugno 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Israele: gli studenti ortodossi dovranno arruolarsi, corte suprema rimuove le esenzioni
La Corte Suprema di Israele ha deciso all'unanimità martedì che non esiste più alcun quadro giuridico che consenta al governo di "concedere esenzioni totali dal servizio militare agli studenti ortodossi delle scuole religiose". Secondo i giudici il governo non può continuare a dare istruzioni all'esercito e al ministero della Difesa di non provvedere a tali disposizioni. I giudici hanno fatto riferimento al fatto che, in un periodo in cui molti soldati sacrificano la loro vita per proteggere Israele, "la discriminazione riguardante la cosa più preziosa di tutte - la vita stessa - è della peggior specie". I soldati "non si aspettano di ottenere alcun beneficio" dal loro servizio, ma solo che "altri facciano lo stesso", hanno aggiunto. Con un ulteriore schiaffo all'attuale governo di Benjamin Netanyahu la Corte Suprema ha anche stabilito che l'esecutivo non può "fornire sostegno finanziario agli studenti delle scuole religiose che studiano" al posto di essere arruolati in base a una legge che così stabilisce. "Uno storico trionfo dello Stato di diritto e del principio della parità degli oneri del servizio militare", secondo il Movimento per la qualità del governo, tra i principali ricorrenti alla Corte Suprema sul tema del servizio militare, che ha chiesto al governo e al ministro della difesa Yoav Gallant di procedere subito alla leva per i giovani ortodossi. "La discriminazione nel servizio militare non poteva continuare ed è arrivato il momento dell'eguaglianza". Secondo gli analisti la sentenza costituisce un serio problema per il governo di Netanyahu sorretto da un'alleanza tra il Likud e i partiti di estrema destra religiosi.
• I giovani ortodossi idonei alla leva sono 67mila
La Corte tuttavia non è entrata nel dettaglio su come, in base alla sentenza, applicare la legge così come è attualmente o sul numero degli studenti ortodossi che potrebbero essere arruolati. A ora le stime parlando di circa 67mila giovani ortodossi idonei alla leva. La sentenza avrà probabilmente drammatiche implicazioni politiche e sociali, dal momento che i partiti politici haredi si oppongono ferocemente all'arruolamento dei loro elettori e chiedono una legislazione per ripristinare le esenzioni generali e per le quali alcuni parlamentari del Likud del premier Netanyahu hanno già affermato di non poter votare.
(euronews, 25 giugno 2024)
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“Dopo il sette ottobre. Come tutto è cambiato”: la conferenza di ASSET
di Anna Balestrieri
Il 7 ottobre segna un punto di svolta nella storia contemporanea, tanto da ispirare la conferenza intitolata “Dopo il 7 ottobre. Come tutto è cambiato”, tratta dall’omonimo libro collettaneo curato da Francesco Lucrezi, docente dell’Università di Salerno, ed edito da Pasquale Gnasso. L’ispirazione per il libro è nata durante una visita a Gerusalemme, quando le vetrate di Chagall all’Hadassah hanno stimolato una riflessione profonda sull’informazione, spesso percepita come un “velo di Maia” che oscura la realtà, rappresentando gli israeliani come oppressori e i palestinesi come vittime oppresse.
• Il Cambiamento dopo il Pogrom Già dalla mattina dell’8 ottobre, il mondo sembrava stravolto. Pasquale Gnasso ha citato Lucia Annunziata come uno dei pochi giornalisti che si sono apertamente schierati in difesa di Israele, criticando l’approccio dei media che selezionano intenzionalmente interlocutori deboli per parlare a favore di Israele. La conferenza ha sollevato la questione del perché il conflitto non venga riconosciuto come una guerra al terrorismo.
• Gli Eventi Organizzati da ASSET ASSET, l’Associazione Ex Allievi della Scuola Ebraica di Torino, ha organizzato una serie di tre eventi per approfondire vari aspetti della crisi. Il primo evento, in collaborazione con Keren Hayesod, ha trattato la tragedia dei kibbutzim al confine con Gaza. Il secondo ha affrontato la “situazione perversa degli atenei”, in cui l’università di Torino era stata triste capofila di un movimento di boicottaggio ai rapporti scientifici con istituzioni israeliane.
L’incontro del 20 giugno ha ospitato interviste a docenti che hanno deciso di dissociarsi dall’antisemitismo crescente, leggendovi un pericoloso paragone con le campagne antisemite degli anni ’30. Angelica Edna Calò Livne ha voluto dare una nota di speranza, raccontando come nel suo kibbutz, così come nel Kibbutz Baram, gli arabi abbiano aiutato nella raccolta delle mele, dimostrando una coesistenza possibile. Ha ricordato le parole di Golda Meir: “Non possiamo permetterci il pessimismo“.
• Reazioni del Mondo Ebraico e la Nuova Fede Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, ha definito il libro “contro-corrente”, in un panorama editoriale che sembra appoggiare maggiormente la causa palestinese. Nel suo intervento ha esplorato come la fede ebraica sia cambiata dopo il 7 ottobre, paragonando questo evento a una Shoah moderna. Il rabbino ha ricordato che la giornata del 7 ottobre può essere paragonata numericamente ad “un giorno di Shoah industriale” negli anni dello sterminio. Ha anche criticato la formazione scolastica che demonizza Israele e ha paragonato i boicottaggi universitari a quelli degli anni ’30.
Il docente Emanuele Calò ha sottolineato come, a differenza della Shoah, gli ebrei non abbiano un luogo sicuro verso cui fuggire.
• Riflessioni sulla Dignità e la Civiltà Sergio Della Pergola, nel suo intervento “Cosa è successo alla dignità dopo il 7 ottobre”, scritto a caldo dopo i drammatici eventi dell’autunno scorso, ha riflettuto sul cambiamento epocale che il 7 ottobre ha rappresentato, evidenziando come molte intuizioni si siano confermate nei fatti. Lo storico Alessandro Barbero – un “grottesco personaggio mediatico che non può essere preso sul serio, un buffone tuttologo” – ed Enzo Traverso – “autore recidivo di un libello vergognoso” edito da Laterza – sono stati criticati duramente per le loro posizioni faziose dal demografo.
Secondo Sergio Della Pergola, per troppo tempo, gli ebrei hanno evitato di combattere fino in fondo per il timore di non essere accettati. Ora è giunto il momento di rispondere con fermezza, contrastando ogni affermazione infondata, parola per parola, giorno per giorno. “Quando ho scritto sulla dignità, avrei potuto scrivere della fine della civiltà occidentale e degli imperi, che stanno abbandonando i loro valori fondamentali a favore di un’egemonia dell’Islam estremista e assassino. Il 25 aprile, nelle piazze italiane, si sono viste bandiere palestinesi, non italiane, a testimonianza di questa preoccupante deriva”.
Della Pergola ha inoltre affrontato il fallimento del dialogo interreligioso, criticando aspramente le dichiarazioni di Pizzaballa e Ravasi. Ha sottolineato il diritto degli ebrei a un trattamento equo da parte della comunità internazionale. Ha affermato il diritto alla memoria storica della Shoah e il diritto alla propria sovranità politica in uno stato indipendente. Ha evidenziato come, nel discorso contemporaneo, questi due diritti fondamentali siano spesso negati, mentre si discute in modo superficiale del diritto all’equità. Ha esplorato la complessa relazione tra Israele e la diaspora, interrogandosi se siano due entità separate o una sola. Pur riconoscendo le responsabilità politiche del massacro, ha indicato che è ormai terminato il tempo dell’ignavia.
Secondo Della Pergola, la possibilità di uno stato palestinese unico è ormai tramontata, attribuendo la responsabilità a Netanyahu e criticando Israele per non aver offerto una proposta politica concreta. Ha paragonato la situazione a quella di Pakistan e Bangladesh, poiché non esiste una ferrovia tra Ramallah e Gaza. Ha descritto come pietoso lo spettacolo visto a Ca’ Foscari, sottolineando la necessità di una corretta informazione e denunciando l’infiltrazione del Qatar nei campus universitari americani d’eccellenza.
• La responsabilità politica e la fine dell’ignavia Un tema ricorrente nella conferenza è stato il diritto degli ebrei all’equità nel trattamento, alla memoria storica della Shoah e alla sovranità politica in uno stato indipendente. Uno stato binazionale è possibile in Spagna ed in Irlanda, ricorda il professore, ma è negato per principio agli israeliani. Si è evidenziato come nel discorso contemporaneo vengano spesso negati questi diritti.
La conferenza “Dopo il 7 ottobre. Come tutto è cambiato” ha visto la partecipazione di 170 persone, offrendo una profonda riflessione sulle trasformazioni politiche, sociali e religiose seguite a un evento spartiacque. Ha invitato i partecipanti a un esame critico dell’informazione e della responsabilità collettiva nel costruire un futuro di equità e memoria condivisa.
(Bet Magazine Mosaico, 25 giugno 2024)
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Ocse: Israele è al primo posto per tasso di natalità
di Jacqueline Sermoneta
Secondo il rapporto Ocse “Society at a Glance 2024”, pubblicato di recente a Parigi, in Israele il tasso di fecondità totale (TFT) resta di gran lunga il più alto rispetto a 38 nazioni. Dalla ricerca emerge anche una diminuzione delle nascite nei Paesi Ocse di oltre la metà negli ultimi 60 anni: il tasso è sceso in media a 1,5 bambini per donna nel 2022 rispetto a 3,3 nel 1960.
Dunque in cima alla classifica si trova lo Stato ebraico con 2,9 figli per donna, seguìto da Messico e Francia con 1,8 figli per donna. Il tasso più basso si è registrato in Corea con la stima di 0,7 figli per donna. Anche Italia e Spagna si collocano nella fascia bassa di nascite con 1,2 figli per donna.
“Sebbene i Paesi Ocse stiano utilizzando una serie di opzioni politiche per sostenere le famiglie, il costo economico e l’incertezza finanziaria a lungo termine dell’avere figli continuano a influenzare in modo significativo la decisione delle persone di diventare genitori”, ha affermato Stefano Scarpetta, Direttore della Direzione Occupazione, Lavoro e Affari Sociali dell’Ocse.
Secondo il rapporto, l’età media delle donne che hanno figli è passata da 28,6 anni nel 2000 a 30,9 anni nel 2022. Confrontando le donne nate nel 1935 e nel 1975, la percentuale di quelle senza figli è raddoppiata in Estonia, Italia, Giappone, Lituania, Polonia, Portogallo e Spagna.
(Shalom, 25 giugno 2024)
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L'IDF è sulla buona strada per schiacciare l'ultima brigata di Hamas a Rafah
Nonostante il ritmo relativamente lento dell'operazione dell'IDF a Rafah, la strategia complessiva si sta dimostrando efficace.
di Yaakov Lappin
GERUSALEMME - Le Forze di Difesa israeliane stanno seguendo un approccio graduale nell'offensiva in corso contro l'ultima roccaforte di Hamas a Rafah, nella Striscia di Gaza. Dividendo Rafah in sottoaree e schierando una sola divisione - la 162esima - invece di due, l'IDF e il gabinetto israeliano hanno intrapreso un percorso più lento, ma che ha evitato un'altra crisi con gli Stati Uniti. L'esercito israeliano prevede che l'ultima brigata di Hamas funzionante a Rafah sarà annientata nel giro di poche settimane. La sua sconfitta sarà un'importante pietra miliare nella guerra iniziata il 7 ottobre con la massiccia invasione del sud di Israele da parte di Hamas. Nel frattempo, Hamas ha perso la capacità di contrabbandare armi e merci attraverso i tunnel transfrontalieri dal Sinai egiziano a Gaza. Questo ostacolerà gravemente la capacità di Hamas di ricostruire il suo esercito del terrore, a meno che Israele non ceda il controllo del confine tra Gaza ed Egitto. Secondo una fonte delle Forze di Difesa israeliane, solo due dei quattro battaglioni di Hamas a Rafah sono attualmente operativi. Le Forze di Difesa israeliane hanno ucciso più di 500 terroristi a Rafah e hanno scoperto vasti sistemi di tunnel sotto la città e sotto il Corridoio di Filadelfia lungo il confine tra Gaza ed Egitto. Due dei tunnel distrutti dalle forze israeliane erano lunghi oltre un chilometro. Le forze aeree e di terra dell'IDF stanno distruggendo gran parte delle infrastrutture terroristiche di Hamas nell'area. Gran parte di questo lavoro è lento ed estremamente difficile, poiché Hamas utilizza tattiche di guerra asimmetriche e rimane nascosto finché non viene attaccato. L'aviazione israeliana svolge un ruolo cruciale in queste operazioni. I jet da combattimento e gli aerei dell'IAF hanno attaccato numerosi obiettivi nella Striscia di Gaza e hanno supportato la 162esima IAF. Anche la marina israeliana ha attaccato obiettivi nemici dal mare, ma non è stata in grado di fornire un'assistenza adeguata. Il 20 giugno, l'IDF ha riferito che la Brigata di Fanteria Nahal, operante sotto la 162esima Divisione, ha scoperto grandi quantità di armi nascoste e tunnel all'interno e sotto le case dei civili a Rafah. Negli ultimi mesi l'esercito israeliano ha imparato moltissimo sulla guerra urbana complessa e su larga scala e ora sta applicando efficacemente queste conoscenze a Rafah. Tutto questo ha portato a progressi significativi e costanti nell'erosione sistematica delle capacità della Brigata Rafah. L'approccio graduale ha permesso l'evacuazione sicura di oltre un milione di civili; le evacuazioni continuano a livello locale. Questo è stato fondamentale per ridurre al minimo le vittime civili ed evitare una crisi con l'amministrazione statunitense del presidente Biden. Tuttavia, questo approccio ha anche dato ad Hamas l'opportunità di fuggire da Rafah sotto la copertura delle evacuazioni ed eventualmente portare con sé degli ostaggi. I media internazionali hanno riferito che l'IDF ha accelerato l'operazione a Rafah negli ultimi giorni. La Reuters ha riferito il 21 giugno che l'IDF aveva preso il controllo delle parti orientale, meridionale e centrale della città e si stava ora concentrando sulle parti settentrionale e occidentale. L'aumento dell'attività ha portato a una nuova ondata di evacuazioni, in quanto i residenti di Gaza si sono spostati verso nord, secondo il rapporto. La Reuters cita stime delle Nazioni Unite secondo cui a Rafah ci sono ora meno di 100.000 civili, rispetto a più di un milione prima dell'offensiva di terra israeliana. Nonostante il ritmo più lento, la strategia delle forze israeliane sembra funzionare. La distruzione da parte dell'IDF dell'esteso sistema di tunnel a Rafah è fondamentale per interrompere le rotte di rifornimento e operative e indebolire significativamente le capacità complessive di Hamas. Parallelamente a questi sforzi a Rafah, le forze israeliane continuano ad eliminare i terroristi di alto livello di Hamas e della Jihad islamica palestinese, al fine di indebolire le capacità di comando e controllo dei gruppi terroristici. Il 22 giugno, l'aviazione israeliana ha tentato di eliminare il comandante delle operazioni di Hamas Raed Sa'ad a Gaza City. Al momento di andare in stampa, non era ancora chiaro se il tentativo fosse riuscito.
(Israel Heute, 24 giugno 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Francia – Il van “della Repubblica”: gli studenti ebrei contro le estreme
L’Unione degli studenti ebrei di Francia (UEJF) ha iniziato ieri il suo “Tour de France”. Niente corse sui pedali, ma una serie di iniziative con cui intendono esprimere il loro no fermo alle due forze politiche date per favorite alle prossime elezioni: all’estrema sinistra, La France Insoumise (LFI) di Jean Luc Mélenchon, ispiratrice del “nuovo fronte popolare”; all’estrema destra, il Rassemblement National (RN) di Jordan Bardella e Marine Le Pen. Stando ai sondaggi, la vittoria dovrebbe essere affare loro. Con il RN oggi in vantaggio di alcuni punti. Apparentemente fuori dai giochi Renaissance del presidente francese Emmanuel Macron, anche se in leggera ripresa.
Ieri pomeriggio, in Place du Panthéon a Parigi, l’UEJF ha annunciato il proprio impegno contro l’ineluttabilità di questo scenario. “Contro l’antisemitismo, la xenofobia e il razzismo. No alle strumentalizzazioni, no al negazionismo. Né con il Rassemblement National, né con la France Insoumise” è lo slogan scelto dagli studenti ebrei francesi per lanciare il loro “Tour” in più tappe, a bordo di un van. Lo hanno chiamato il “van della Repubblica”. Il mezzo sosterà nella capitale, ma anche nei comuni di Bobigny, Roubaix, Seclin, Lagny-sur-Marne, Le Perreux-sur-Marne, Le Blanc-Mesnil. In ogni tappa l’UEJF denuncerà «le proposte antisemite» di un candidato locale, di estrema sinistra come di estrema destra. Il presidente dell’UEJF Samuel Lejoyeux, inaugurando il van “della Repubblica”, ha affermato: «Vogliamo andare sul territorio e incontrare elettrici ed elettori. Abbiamo scelto alcune circoscrizioni simboliche, dove lanceremo un appello a difesa dei valori repubblicani. Non vogliamo arrenderci al fatalismo».
(moked, 24 giugno 2024)
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Il mondo ebraico LGBTQ+ protesta contro l’odio antisemita e anti-Israele
di Nathan Greppi
Non si fermano le polemiche in seno al mondo delle associazioni LGBTQ+ in merito alle posizioni sulla guerra tra Israele e Hamas; dopo che già a dicembre Magen David Keshet Italia, unica organizzazione ebraica italiana per i diritti LGBTQ+, si schierò pubblicamente contro le posizioni antisraeliane assunte da altre organizzazioni dopo il 7 ottobre, in questi mesi la discussione si è fatta sempre più globale. Il 13 giugno l’ILGA (International Lesbian, Gay, Bisexual, Trans and Intersex Association) ha pubblicato un appello in cui chiedeva un cessate il fuoco permanente per vari conflitti in giro per il mondo, ma soffermandosi in maniera particolare su Gaza.
In risposta, è giunto un contro-appello da parte dell’organizzazione World Congress of GLBT Jews: Keshet Ga’avah, in cui si legge: “Cari amici, abbiamo letto più volte e con estrema attenzione la vostra dichiarazione sulla situazione globale e sulle guerre in corso in tutto il mondo. Siamo sconcertati dall’estrema attenzione rivolta al conflitto israelo-palestinese. Non abbiamo letto alcuna parola sugli attentati del 7 ottobre, né alcuna considerazione per le sofferenze delle vittime israeliane del terrorismo”.
Rivolgendosi direttamente all’ILGA, dicono che “non ha fatto menzione della ferocia e della crudeltà con cui i terroristi hanno agito sui civili. Migliaia di famiglie ora piangono la morte di bambini uccisi nei loro primi anni di vita. Abbiamo visto donne stuprate ripetutamente, e anziani vittime di violenza. Decine di migliaia di israeliani sono stati costretti a lasciare le loro case perché non erano più al sicuro. Anche noi piangiamo la perdita di vite umane a Gaza. La guerra è sempre una cosa orribile e tutti auspichiamo la pace, ma se lo facciamo schierandoci in modo così palesemente arbitrario e ideologico, il risultato sarà sempre deludente e di nessun aiuto alla parte che si cerca di sostenere”.
Aggiungono che “le associazioni ebraiche LGBTQ+ sono in seria difficoltà a causa della campagna di odio verso gli ebrei, ed è difficile se non impossibile per noi partecipare alle parate del Pride in sicurezza. La vostra dichiarazione non fa che aumentare questa sensazione e il pericolo che ne deriva. Vogliamo la pace e la convivenza tra i popoli, ispirandoci alla visione tramandataci dagli attivisti di Stonewall”.
L’appello di Keshet Ga’avah si conclude così: “Esprimiamo la nostra tristezza e preoccupazione per una dichiarazione che invoca la pace ma ci esclude anche dal più semplice dibattito per la difesa dei diritti di tutti, e delle persone LGBTQ+ in particolare. Ci sentiamo rinchiusi in quella gabbia che ci ha tenuti prigionieri per secoli. Felice Pride Month”.
(Bet Magazine Mosaico, 24 giugno 2024)
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Penoso, disgustoso. Non tanto per l'anti-ebrei di LGBTQecc. ( parte di un tutto antisemita a cui si è purtroppo abituati), quanto e molto di più per il pro-LGBTQecc. di ebrei che chiedono accoglienza in parti abominevoli del mondo, ne ottengono un rifiuto e di questo poi si lamentano. Di un altro rifiuto dovranno un giorno fare esperienza. M.C.
Badate che il paese non vi vomiti
LEVITICO 18
- Non avrai relazioni carnali con la moglie del tuo prossimo per contaminarti con lei.
- Non darai i tuoi figli per essere sacrificati a Moloc; e non profanerai il nome del tuo Dio. Io sono l'Eterno.
- Non avrai con un uomo relazioni carnali come si hanno con una donna: è cosa abominevole.
- Non ti accoppierai con nessuna bestia per contaminarti con essa; e la donna non si prostituirà a una bestia: è una mostruosità.
- Non vi contaminate con alcuna di queste cose; poiché con tutte queste cose si sono contaminate le nazioni che io sto per scacciare davanti a voi.
- Il paese ne è stato contaminato; perciò io punirò la sua iniquità; il paese vomiterà i suoi abitanti.
- Voi dunque osserverete le mie leggi e le mie prescrizioni, e non commetterete nessuna di queste cose abominevoli; né colui che è nativo del paese, né lo straniero che soggiorna fra voi.
- Poiché tutte queste cose abominevoli le ha commesse la gente che c'era prima di voi, e il paese ne è stato contaminato.
- Badate che, se lo contaminate, il paese non vi vomiti come vomiterà la gente che vi stava prima di voi.
- Poiché tutti quelli che commetteranno qualcuna di queste cose abominevoli saranno eliminati dal loro popolo.
- Osserverete dunque i miei ordini, e non seguirete nessuno di quei costumi abominevoli che sono stati seguiti prima di voi, e non vi contaminerete con essi. Io sono l'Eterno, il vostro Dio.
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Discriminazione anti-israeliana da parte degli “amici”
di David Elber
Da diverse settimane ottenere un visto di ingresso per gli israeliani che vogliono recarsi negli Stati Uniti, è diventato un calvario. È un atteggiamento indegno da parte di un paese che si professa “amico” o il “miglior alleato” dello Stato ebraico.
Stanno emergendo sempre più testimonianze di casi di veri e propri interrogatori presso gli aeroporti o gli uffici consolari americani nei confronti di cittadini israeliani che vogliono entrare negli USA: un terzo grado finalizzato a indagare sul loro ruolo avuto nelle IDF, sia in passato che nel presente. In questo modo le autorità americane stanno facendo una autentica mappatura degli incarichi avuti nell’esercito. Le domande rivolte agli interrogato sono le seguenti: se abbia mai utilizzato esplosivi, se abbia combattuto a Gaza o in un altro fronte oppure se abbia prestato servizio in Giudea o Samaria in qualità di soldato o di poliziotto.
È quasi inutile sottolineare che tali richieste non sono mai state fatte a nessun Stato alleato degli USA. Un simile format di raccolta informazioni sullo stato di servizio appare uscito dall’ufficio del procuratore capo Khan del Tribunale Penale Internazionale.
È importante sapere che l’esercito di Israele, come tutti gli eserciti del mondo, vieta la diffusione di notizie sensibili sull’addestramento o sugli incarichi operativi dei soldati, perciò le richieste americane obbligherebbero i cittadini israeliani a commettere un grave reato: la diffusione illegale di informazioni riservate. Perfino le convenzioni internazionali vietano un trattamento di questo tipo a meno che non ci siano delle accuse circostanziate di crimini di guerra.
La raccolta di informazioni pretesa dal Dipartimento dell’Immigrazione USA, riguarda sia l’attuale stato di servizio che quello passato coinvolgendo così tutti i cittadini israeliani. In questo modo gli USA vogliono ottenere una mappatura dettagliata di tutte le unità dell’esercito, dei periodi di dislocamento in determinate aree, delle armi utilizzate, delle operazioni svolte ecc. Una cosa mai vista prima che potrebbe portare a incriminazioni arbitrarie con il solo intento di criminalizzare lo Stato di Israele tramite i politicizzati tribunali internazionali.
Un cittadino israeliano ha mostrato al quotidiano Ynet l’elenco delle domande scritte che gli sono state sottoposte per la pratica del visto, tra le quali si legge: «Come parte di questa dichiarazione giurata, devono essere poste le seguenti domande: hai partecipato come combattente a battaglie durante il servizio militare? Se sì, descrivi la tua attività/ruolo in queste battaglie; Hai comandato i soldati nell’esercito? Se sì, descrivi gli aspetti del tuo comando; Hai mai sorvegliato (o comandato ad altri di sorvegliare) dei detenuti? Hai usato esplosivi durante il servizio militare? In tal caso, dettaglia i tipi di armi o esplosivi su cui sei stato addestrato».
Nulla di tutto questo è richiesto o è mai stato richiesto, ad esempio, a nessun membro delle forze di sicurezza dall’Autorità Palestinese, anche se molti loro membri si sono macchiati di attacchi terroristici contro civili israeliani e per questo vengono retribuiti insieme ai loro famigliari con i soldi dei contribuenti americani. Questa prassi non è mai stata applicata neanche ai cittadini sauditi o degli Emirati (o di altri paesi della coalizione), che hanno condotto operazioni militari indiscriminate nello Yemen che hanno causato la morte di oltre 150.000 persone (la stragrande maggioranza civili) nell’indifferenza di tutto il mondo. Perché questo doppio standard unicamente nei riguardi di Israele?
Ma gli americani non sono gli unici ad applicare dei “trattamenti di favore” nei riguardi dei cittadini israeliani. Ormai sono settimane che si leggono o si sentono di cittadini israeliani che vengono regolarmente bullizzati negli aeroporti di Gran Bretagna e di altri paesi europei dagli addetti alla sicurezza aeroportuali. È sufficiente mostrare il passaporto di Israele e si ha un trattamento degno dei peggiori terroristi.
Sud Africa e Australia si distinguono, invece, per avere minacciato di arresto i loro cittadini ebrei che vogliono arruolarsi nell’IDF (cosa non vietata dalle leggi locali) o che lo abbiano fatto in passato a motivo di presunti crimini che hanno commesso o potrebbero commettere a partire dal 7 ottobre. Mentre per il Sud Africa questa politica è perfettamente in linea con la sua posizione fortemente anti-israeliana, la linea assunta dal governo australiano lasciata sconcertati, anche se da quando ha preso il potere il premier socialista Anthony Albanese (nomen omen) l’ostilità dell’Australia si è fatta sempre più concreta a livello internazionale.
Mancano ancora cinque mesi alle elezioni di novembre e altre sorprese non mancheranno, soprattutto se l’Amministrazione Biden non riuscirà a sbarazzarsi di Netanyahu prima del voto.
(L'informale, 24 giugno 2024)
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È arrivato il momento della riconciliazione con gli ultraortodossi
Il pubblico sionista-religioso investe nel dialogo con i laici, ma con gli ultraortodossi preferisce dibattiti che si concentrano sull’accusa: “Siete dei fannulloni”, “Siate come noi, fate entrambe le cose”, e alla fine “Smettete di essere ultraortodossi”. Non è così che convinceremo i nostri fratelli.
di Moshe Meisdorf
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La vignetta di Shai Charka, pubblicata su Makor Rishon del 14.6.2024, che ha suscitato aspre polemiche (il ragazzo ultraortodosso sulla barella dice “Non vi preoccupate, gente, lo studio è dedicato alla sua guarigione e al vostro successo” )
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Nelle ultime settimane mi chiedo che cosa ci sia di sbagliato in me. Faccio parte del pubblico del sionismo-religioso e ho percorso tutte le sue “tappe obbligatorie”: Bene Akiva (movimento giovanile NdT), accademia pre-militare, servizio militare nell’esercito e poi nella riserva, residenza in un insediamento, recito lo Hallèl (preghiera di lode per i giorni festivi NdT) nel Giorno dell’Indipendenza, ballo con le bandiere nel Giorno di Gerusalemme, partecipo alla vita dello Stato ed educo i miei figli in questo modo di vivere. Il pacchetto completo. Nonostante tutto ciò, non riesco a identificarmi con i miei compagni di strada e a unirmi a loro nella campagna che ci ha travolto ultimamente e che chiede agli ultraortodossi di smettere di evadere la leva militare, di impugnare le armi e di arruolarsi per la difesa della patria.
Anch’io provo una grande rabbia quando vedo immagini di ultraortodossi nel parco di Ramat Gan che guardano una partita della Champions League, o che passeggiano per le strade della città nel mezzo della giornata. Anch’io mi ribello contro giovani uomini la cui Torà non è nemmeno vicina a essere la loro occupazione principale, che in tempo di guerra se ne stanno da parte, mentre altri settori della società seppelliscono i loro figli migliori. Ho anche delle critiche e grandi dubbi nei confronti dell’inganno dei direttori delle yeshivòt, che sono consapevoli dell’ozio dei loro studenti e tuttavia certificano con la loro firma che quelli sono immersi nello studio della Torà dall’alba al tramonto. Anch’io sento profondamente il peso che grava sui combattenti e le loro famiglie, e che sono chiamati già al terzo turno di combattimento. Nonostante tutto questo, evito di unirmi al trend che vede negli ultraortodossi la fonte di tutti i nostri problemi.
Ci sono “piccole” ragioni che mi impediscono di unirmi a questi attacchi. Per esempio, l’esercito non vuole e non può arruolare ora migliaia di ultraortodossi nelle sue file, sia per ragioni tecniche, che di principio. Né questa legge né alcun’altra legge porterà anche un solo ultraortodosso all’ufficio di reclutamento contro la sua volontà. Non è ancora nato il combattente che sarà costretto, contro la sua volontà, a prendere un’arma e ad attaccare.
I leader della campagna (per l’arruolamento degli ultra-ortodossi NdT) sono ipocriti: “Fratelli in armi”, che pure hanno predicato la disobbedienza alla chiamata alle armi a causa dell’abolizione della clausola di ragionevolezza (parte della “riforma giudiziaria” NdT), oppure Lapid o Gantz che sarebbero ben disposti ad aumentare le borse di studio per gli studenti delle yeshivòt, se solo fosse data loro la possibilità di governare il paese.
Oltre all’arruolamento degli ultraortodossi, ci sono tuttavia altre cose non meno importanti che l’attuale governo sta promuovendo con i “partner naturali”. È giusto smantellarlo, e per qualcosa che comunque non accadrà?
Non ho mai apprezzato chi mi prende di petto spiegandomi come dovrei correggere i miei valori e le mie convinzioni, e ho cercato di non fare agli altri ciò che odio per me.
Come la protesta sociale del 2013 era un desiderio di cambiare il governo, e dopo di essa il “furto del gas” o la “protesta contro il colpo di stato giudiziario”, il mio istinto più profondo mi dice di esaminare attentamente i partner che scelgo, e anche le loro vere intenzioni. È vero che ci sono migliaia che non studiano e non si arruolano, ed è vero che l’enorme peso sui soldati di leva e di riserva è insopportabile, ma mi sorge un sospetto: i media e alcune organizzazioni che cambiano sempre nome, hanno deciso che ora tutti debbano parlare dell’arruolamento degli ultraortodossi, e sembra l’ennesima campagna dove la ragione è solo un pretesto, e lo scopo è completamente diverso.
• INSEGNERÀ O VOLERÀ?
Tutte queste, come ho detto, sono solo ragioni secondarie. La ragione principale è la mia comprensione che la comunità ultraortodossa si è formata nel corso degli anni anche innalzando dei muri, stabilendo obiettivi diversi da quelli della comunità laica o sionista-religiosa, e il modo per combattere questo isolamento non sono certo campagne che li insultano o li presentano tutti come un unico gruppo di fannulloni o di codardi.
Nel sionismo-religioso si grida agli ultraortodossi: “Ecco, guardate noi, possiamo fare entrambe le cose. Sia essere studiosi della Torah, sia combattere a Khan Yunis”. Questo è essenzialmente un appello agli ultraortodossi: diventate come noi, non siate ultraortodossi. Tuttavia il “sia-sia” è uno dei fondamenti del sionismo-religioso, mentre il mondo ultraortodosso è costruito in modo completamente diverso in termini di priorità nel sistema di valori. Già prima del 7 ottobre e in realtà fin dai giorni del dialogo tra David Ben-Gurion e il Chazon Ish, il mondo ultraortodosso ha posto la costruzione del mondo della Torà dopo l’Olocausto come obiettivo centrale, davanti al quale tutti gli altri valori si annullano.
Dalla fondazione dello Stato, centinaia di migliaia di studenti di yeshivà hanno ascoltato innumerevoli discorsi di carattere etico e spiegazioni sul perché sono loro le unità d’élite del popolo d’Israele e i custodi dell’identità ebraica. Hanno imparato che l’arruolamento interferirebbe con la loro missione. Una vignetta su un giornale cambierà questo? Citano agli ultraortodossi la regola di: “Persino lo sposo dalla sua stanza e la sposa dal suo baldacchino” (che sono tenuti a partecipare allo sforzo bellico in situazioni di emergenza nazionale NdT). Come non si riesce a comprendere che forse anche il rabbino Shakh conoscesse questa Mishnà e anche la relativa decisione del Rambam, e che forse ci sono argomenti che almeno vale la pena ascoltare, anche se tutta la verità è dalla nostra parte?
Gli ultraortodossi hanno certamente degli argomenti deboli e un comportamento che può far perdere la pazienza, ma hanno anche argomenti niente male che meritano attenzione e risposta. In ogni caso, si può affermare con certezza che il ridicolo, la generalizzazione e il fango non aiuteranno a cambiare la loro posizione.
E se parliamo di verità, bisogna anche dire onestamente: la Torah non è il centro della vita per molti seguaci del sionismo-religioso. È qualcosa in più da fare, che forse stabilisce del tempo da dedicare allo studio, ma la Torah non è il centro della vita e gli studiosi della Torah non sono figure modello. Fate un piccolo esperimento: rivolgetevi a un bambino o a un ragazzo del sionismo-religioso e chiedetegli a chi vuole assomigliare: al rabbino Druckman di benedetta memoria o a Emanuel Moreno, il cui ricordo sia benedetto (ufficiale eroico della squadra guastatori dello stato maggiore). Lasciate stare i bambini, chiedete ai loro genitori cosa li renderebbe più felici: che il loro figlio sia uno studioso di Torà a tempo pieno e si mantenga con una borsa di studio e uno stipendio misero da educatore, o che sia un CEO di una società high-tech?
Nel settore ultraortodosso, le figure modello sono il rabbino Chaim Kanievsky e il rabbino Ovadia Yosef di benedetta memoria. Sia tra coloro che studiano in yeshiva che tra gli ultraortodossi che circolano per le strade, sono loro il modello a cui aspirare. Perché pensiamo che un giorno improvvisamente vorranno essere come Ofer Winter (brillante colonnello appartenente al sionismo-religioso NdT)? Una storia di qualche anno fa riassume tutta la questione. Mio cugino aveva completato tutti gli esami e ricevuto l’ordinazione rabbinica. Mi aveva raccontato che lo shabbàt successivo all’ottenimento del certificato di “Yorè Yorè” dal Rabbinato Centrale, c’era anche al tempio un ragazzo che aveva appena completato il corso di volo. “Chi pensi abbia ricevuto la chiamata alla Torà quello shabbàt?“, mi chiese retoricamente con un sorriso amaro.
Nell’anno prima della guerra, molti nel pubblico di destra (religiosa) hanno criticato il governo e il modo in cui ha promosso la riforma giudiziaria. Si è sostenuto che fosse prepotente, che non fosse stata preceduta da un’adeguata campagna d’informazione. Quando le strade bruciavano, sono stati creati dei circoli di dialogo tra destra e sinistra, religiosi e laici. Questi esprimevano la loro paura di uno “stato della halakhà” e quelli cercavano di convincere che non avevamo alcuna intenzione di promuovere un mondo stile “Il racconto dell’ancella”. I divari culturali erano allora insopportabili fino a quasi causare una rivolta sociale.
Se abbiamo imparato la lezione, dobbiamo investire non meno di allora in un dialogo aperto e onesto con i nostri fratelli ultraortodossi. Dobbiamo colmare i divari culturali con loro e rispondere anche alle loro preoccupazioni. Il pubblico sionista-religioso ha investito molto nel dialogo con i laici e in vari progetti di “riconciliazione”, trascurando il dialogo con i suoi “fratelli di fede” con i quali condividono molti più valori. Perché i rabbini del sionismo-religioso non incontrano i rebbe chassidici e i direttori delle yeshivòt almeno quanto si sono seduti con i membri di “Fratelli in Armi”? Certo non lo meritano di meno.
Anche se la critica è giustificata e il peso è opprimente, il pubblico sionista-religioso deve riconoscere il valore dello studio della Torà e la sua importanza per la stessa esistenza dello stato di Israele, e incoraggiare un dialogo autentico sulle credenze e i valori nel senso di “mi sono vicine le ferite di un amico” (Proverbi 27, 6 NdT). Abbiamo bisogno di un dialogo che capisca che oltre a “sia-sia”, uno dei valori che i nostri rabbini ci hanno insegnato, c’è anche “a poco a poco” (espressione del pensiero escatologico di rav Chayim Drukman, maestro del sionismo-religioso NdT).
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Makor Rishon 21.6.2024
Traduzione di David Piazza
(Kolot, 23 giugno 2024)
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L’onda oscura dell’antisemitismo sul Canada. Intervista a David Matas
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Graffito antisemita sulla tangenziale di Toronto
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“In un paese come il Canada, dovrebbe e deve essere acconsentito dichiararsi sionista. Che tu sia ebreo o no, il sionismo non è una parolaccia o qualcosa per cui qualcuno merita di essere preso di mira”. Queste parole, pronunciate dal premier canadese Justin Trudeau mentre partecipava alla commemorazione di Yom HaShoah presso il National Holocaust Monument di Ottawa, giungevano dopo che negli ultimi mesi, a partire dal 7 ottobre, come nel resto del mondo anche nel paese delle foglie d’acero la comunità ebraica ha assistito ad un aumento record degli episodi di antisemitismo, spesso mascherati da critica verso Israele.
Secondo l’ultimo rapporto annuale dell’organizzazione ebraica B’nai Brith Canada, in tutto il 2023 si sono registrati 5.791 episodi di antisemitismo nel paese nordamericano, che ospita la quarta più grande comunità ebraica al mondo (398.000 persone nel 2023, dietro solo a Israele, Stati Uniti e Francia). Questi episodi erano più del doppio rispetto ai 2.769 del 2022 e ai 2.799 del 2021. Un aumento che ha riguardato soprattutto (ma non solo) i casi avvenuti nei campus universitari, mentre la grande novità dello scorso anno è stata il crescente ricorso all’intelligenza artificiale per creare contenuti antisemiti da veicolare online.
David Matas, consulente legale senior del B’nai Brith Canada, ha potuto documentare ciò che stanno vivendo gli ebrei canadesi, forte di una lunga esperienza: avvocato, ha ricoperto importanti incarichi per conto del governo canadese presso enti internazionali quali l’Assemblea Generale dell’ONU e la Corte Penale Internazionale. Già docente di diritto presso l’Università McGill di Montreal e l’Università del Manitoba a Winnipeg, ha condotto diverse battaglie legali contro le violazioni dei diritti umani nel mondo e in particolare in Cina, tanto da venire candidato nel 2010 al Premio Nobel per la Pace.
- Qual era la situazione in Canada prima del 7 ottobre? E cosa è cambiato dopo quel giorno? L’antisemitismo era già presente, e nel corso degli anni era aumentato seppur lentamente; ma dopo il 7 ottobre, ha fatto un enorme salto in avanti, diventando molto più diffuso e pervasivo. Per fare alcuni esempi, a Montreal qualcuno ha tentato di dare fuoco ad una sinagoga e ad un centro ebraico lanciando delle molotov, mentre due scuole ebraiche sono state colpite da degli spari. O ancora: spari contro la vetrina di un ristorante di cucina israeliana a Montréal, il Falafel Yoni. Il ristorante era in un elenco di attività commerciali da boicottare pubblicato dai filopalestinesi.
Ciò che davvero colpisce non sono tanto gli episodi in sé, quanto la loro quantità. Statisticamente, la comunità ebraica in Canada subisce molti più crimini d’odio di qualsiasi altro gruppo etnico o religioso, pur rappresentando appena l’1% di tutta la popolazione.
- Cosa fanno il governo e le autorità canadesi per contrastare questo fenomeno? La polizia o l’esercito sorvegliano i luoghi ebraici? Alcune precauzioni vengono prese in seno alle istituzioni ebraiche, ma si tratta perlopiù di monitorare la zona con le videocamere; quando ci sono eventi, si controlla con attenzione chi entra e da dove viene. La sorveglianza viene perlopiù affidata ad un servizio di sicurezza privato, mentre l’esercito non si fa mai vedere. La polizia ogni tanto viene, ma solo occasionalmente, non in maniera regolare.
- In tutto il mondo, dopo il 7 ottobre sono cresciuti considerevolmente i tentativi di boicottare Israele, soprattutto nei campus universitari. Qual è la situazione nelle università canadesi?
In tutto il Canada, le proteste e gli appelli per disinvestire da Israele e tagliare i ponti con gli accademici israeliani sono cresciuti enormemente. Ad esempio, di recente durante una cerimonia di laurea presso la facoltà di medicina dell’Università del Manitoba, un laureando ha tenuto un discorso ferocemente antisraeliano, che ovviamente non aveva nulla a che vedere con la medicina.
Credo che in Canada il problema sia più diffuso che altrove perché è un paese di immigrati, come gli Stati Uniti e l’Australia. Questo fa sì che vi siano molte persone che hanno legami oltreoceano, il che facilita anche l’afflusso nelle università canadesi di finanziamenti ambigui provenienti dall’estero.
- Quindi anche negli atenei canadesi giungono finanziamenti dai paesi musulmani per influenzarne i curricula, come in quelli americani? Il problema è che da noi vi è poca trasparenza sull’origine di questi flussi di denaro, tanto che spesso non sappiamo da dove provengono. A gennaio c’è stata una manifestazione filopalestinese nella città di Victoria, ed è emerso che una delle ONG che la organizzavano, Plenty Collective, pagava le persone per andare a manifestare. Tuttavia, non hanno spiegato da dove arrivavano quei soldi; hanno detto che venivano da donazioni, ma senza specificare da chi erano state fatte.
- In molti paesi occidentali, manifestanti musulmani hanno fatto ricorso a slogan feroci nei confronti degli ebrei e Israele. In Canada, quali sono i rapporti tra la comunità ebraica e quella islamica? Sono rapporti eterogenei: tra i musulmani, ci sono singoli individui e alcune organizzazioni disposte a dialogare con la comunità ebraica, mentre altre al contrario sono totalmente ostili, tanto da sostenere apertamente l’operato di Hamas. Nel complesso, vi è un ampio spettro di casi, e non si può generalizzare.
- Come viene riportato il conflitto tra Israele e Hamas dai mass media canadesi? Sono obiettivi o prevale la partigianeria? C’è da dire che, data la nostra vicinanza agli Stati Uniti, in Canada ci si informa molto anche sui media americani; si guardano i loro canali televisivi, si possono acquistare i loro giornali e naturalmente consultare le loro testate su internet. Generalmente, la narrazione di Hamas riceve molta più attenzione rispetto a quella israeliana. Perciò, il pubblico riceve molti servizi sulle morti a Gaza ma nei quali non vengono menzionati i crimini di Hamas, né i fatti del 7 ottobre o la questione degli ostaggi.
- Che atteggiamento hanno assunto sulla guerra e l’antisemitismo i politici canadesi? Vi è la classica situazione in cui i politici cercano di accontentare tutti, anche se non è semplice. Ad esempio, attualmente vi è un comitato governativo per combattere l’antisemitismo, per il quale io stesso sono stato interpellato come esperto. Tuttavia, l’hanno subito accompagnato ad un comitato analogo per combattere l’islamofobia, che è un problema ma non allo stesso livello dell’antisemitismo. Con la guerra a Gaza l’antisemitismo è cresciuto drammaticamente, e nei campus universitari non trovi manifestazioni di matrice islamofobica.
- Qualche previsione su come evolverà la situazione in Canada nei prossimi mesi? Difficile dirlo, perché ciò che è successo in passato non è paragonabile a quello che sta succedendo adesso. Prima di tutto, perché i massacri compiuti da Hamas il 7 ottobre erano ben peggiori di qualunque altro attacco avessero mai lanciato contro Israele. In Canada vi era una maggiore simpatia nei confronti d’Israele in passato, proprio perché Israele non era mai arrivata a tanto nel reagire militarmente agli attacchi di Hamas. Pertanto, non ci si può basare su casi passati per capire come si evolverà la situazione in futuro.
Personalmente, mi piace pensare che dopo un po’ la situazione migliorerà; ma nel frattempo, io ed altri che ci occupiamo della questione avremo molto da lavorare al riguardo.
(Bet Magazine Mosaico, 23 giugno 2024)
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Un comportamento "scandaloso" di Gesù
di Marcello Cicchese
MATTEO 15
- Partito di là, Gesù si ritirò nelle parti di Tiro e di Sidone.
- Quand'ecco, una donna cananea di quei luoghi venne fuori e si mise a gridare: “Abbi pietà di me, Signore, Figlio di Davide! Mia figlia è gravemente tormentata da un demonio”.
- Ma egli non le rispose parola. E i suoi discepoli, accostatisi, lo pregavano dicendo: “Licenziala, perché ci grida dietro”.
- Ma egli rispose: “Io non sono stato mandato che alle pecore perdute della casa d'Israele”.
- Ella però venne e gli si prostrò davanti, dicendo: “Signore, aiutami!”.
- Egli rispose: “Non è bene prendere il pane dei figli per buttarlo ai cagnolini”.
- Ma ella disse: “Dici bene, Signore; eppure anche i cagnolini mangiano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni”.
- Allora Gesù le disse: “O donna, grande è la tua fede; ti sia fatto come vuoi”. E da quel momento sua figlia fu guarita.
Un modo comune di avvicinarsi ai racconti evangelici su Gesù è di trattarli come modelli di alta moralità, e dunque come esempi da cui imparare qualcosa per la propria condotta di vita. Si cercano allora, con opportuni adattamenti, possibili traslazioni nella vita quotidiana. Per esempio, dal modo in cui Gesù perdona la donna accusata di adulterio dai farisei (Giovanni 8:1-11) si trae l'invito a non imitare gli accusatori ma ad essere misericordiosi verso chi è "caduto" in questo o in altri peccati. Più chiari ancora sembrano essere i racconti di alcune parabole di Gesù, in cui l'insegnamento morale sembra essere esplicito, come la famosa parabola del buon samaritano. In questo caso, la figura esemplare sarebbe quel non ebreo che al contrario del sacerdote e del levita, davanti al ferito che incontra "non passa oltre dal lato opposto", ma si ferma e offre soccorso al ferito.
Paragoniamo allora l'atteggiamento di quel samaritano verso il ferito con quello di Gesù verso la donna cananea. Gesù si trova fuori di Israele, in terra straniera. Avrebbe preferito restare in incognito (Marco 7:24), ma non gli è concesso: un imprevisto gli rovina il programma. Una donna del luogo, una cananea, una non ebrea, avendo saputo che nei paraggi si trova Gesù, ormai famoso in tutto il territorio, comincia a gridare. Perché grida? Perché è nel bisogno. Il suo grido è una richiesta angosciata di aiuto: in casa sua ha una figlia "gravemente tormentata da un demonio". La donna ha sentito che in Israele Gesù ha sanato malati di tutti i tipi, guarito epilettici, liberato indemoniati (Matteo 4:23-25); dunque sa che Gesù può davvero soccorrerla nel suo bisogno. Allora invoca a tutta voce il suo intervento: “Abbi pietà di me, Signore, Figlio di Davide!" E che fa Gesù? Non risponde. Va oltre, proprio come il sacerdote e il levita della parabola citata. Non è strano?
Si potrebbe tentare una spiegazione psicologica: Gesù era stanco. Di una stanchezza morale, spirituale. Era uscito da Israele dopo aver questionato in modo tremendo con farisei e scribi sull'onore da dare a Dio (Marco 7:1-23). Era stato uno scontro duro, da spaventare perfino i discepoli (Matteo 15:12). Adesso forse avrebbe preferito che per un po' si ignorasse la sua posizione pubblica, ma la donna cananea aveva rovinato tutto. Davanti al suo grido Gesù tace, come se sperasse che in questo modo la richiesta si spegnesse da sé. La donna invece insiste, insiste, insiste, al punto che perfino i discepoli s'infastidiscono di questo prolungato silenzio del loro maestro. Così Gesù, oltre ai gridi imploranti della donna, deve subire anche i loro allusivi rimproveri: "Licenziala, perché ci grida dietro", dice qui il testo, con un significato incerto che non sceglie tra "esaudiscila" e "mandala via" di altre traduzioni. In ogni caso, i discepoli invitano Gesù a decidersi: o una cosa o l'altra, non ha senso lasciare tutti in sospeso, né la donna né loro.
Alla donna no, ma ai discepoli Gesù risponde. E già questo può irritare qualcuno. Forse perché i discepoli sono uomini e la cananea è donna? Maschilismo? Anche il tenore della risposta può irritare: “Io non sono stato mandato che alle pecore perdute della casa d'Israele”. Che vuol dire? Forse che Gesù può aiutare soltanto gli ebrei in Israele e non i pagani di altre nazioni? Razzismo?
La donna, che fino ad allora aveva "gridato dietro" al gruppo senza ottenere risposta, per obbligare Gesù a prenderla in considerazione gli si "prostra davanti" e lo implora: "Signore, aiutami". Che farà ora Gesù? La donna è lì, ai suoi piedi, e tutti, donna e discepoli, aspettano che si decida a dire o fare qualcosa. Gesù risponde: “Non è bene prendere il pane dei figli per buttarlo ai cagnolini”. Che vuol dire? Anche qui c'è qualcosa che può apparire scandaloso.
I figli di cui parla Gesù sono i "figli del regno" promesso a Davide. La donna ha riconosciuto Gesù come "figlio di Davide", re d'Israele, ma come cananea pagana deve ricordare che lei non è tra questi figli, dunque non ha certi diritti. Se il mandato di Gesù viene metaforicamente inteso come un compito di portare cibo ai figli d'Israele, si capiscono le sue parole quando spiega che "non è bene" sprecare il cibo destinato ai figli ... per buttarlo ai cagnolini". E' una frase che si fa fatica a mandar giù.
Per capirne la portata bisogna sapere che tra gli ebrei in Israele si pensava ai pagani come cani randagi che vanno in giro a cercare rifiuti di che sfamarsi. Dicendo "non è bene", Gesù usa un'immagine popolare per indicare il rispetto dovuto a un'oggettiva questione di posizione: il "pane" che gli è stato affidato per essere consegnato ad alcuni non deve essere dato ad altri. Certo però che l'accostamento di figli e cani può mettere a disagio.
La reazione della donna è ancora più sorprendente: invece di insorgere offesa per il modo usato, entra pacatamente nel merito: "Dici bene, Signore". Da notare che adesso non ripete l'espressione "figlio di Davide", che è implicita nelle parole "dici bene" con cui ammette che tutto quello che Gesù ha detto sul Regno e sui suoi figli è vero. Ripete invece l'espressione "Signore", che può essere intesa come "Signore di tutti", dunque anche dei cagnolini.
Questa reazione alle parole di Gesù ricorda la risposta di Mosè alle parole con cui Dio dopo l'idolatria del vitello d'oro gli aveva comunicato la decisione di distruggere il popolo. In quell’occasione Mosè non cercò di impietosire Dio facendogli notare che la sua decisione avrebbe provocato la morte di uomini donne e bambini incolpevoli; allo stesso modo, la donna non cerca di impietosire Gesù facendogli notare che il suo rifiuto avrebbe lasciato lei e sua figlia in una situazione angosciosa. In entrambi i casi l'attenzione non è posta sulle conseguenze della decisione, ma sulle parole di chi ha preso la decisione.
Mosè osa rivolgersi a Dio dicendogli: "Ricordati!" Ricorda quello che avevi detto ad Abraamo Isacco e Giacobbe quando "giurasti per te stesso, dicendo loro: 'Io moltiplicherò la vostra progenie come le stelle dei cieli; darò alla vostra progenie tutto questo paese di cui vi ho parlato, ed essa lo possederà per sempre'" (Esodo 32:13).
E a queste parole Dio si pentì (Esodo 32:14).
La donna sente Gesù che dice: E' bene che... e risponde: Dici bene, Signore. Quindi non contesta la situazione legale prospettata da Gesù: anche per lei i figli sono figli e i cani sono cani, ma senza invalidare l'autorità della legge, fa presente che si può trovare un'applicazione che non la contrasta: anche i cani possono essere sfamati senza togliere nulla ai figli.
E a queste parole Gesù si pentì.
Non sta scritto proprio così, ma è il senso che si può dare alle parole "ti sia fatto come vuoi". La decisione è presa; il Signore ha parlato; le conseguenze sono viste da tutti: "E da quel momento sua figlia fu guarita".
Gesù non trascura neppure di rendere note le motivazioni della sua sentenza: "O donna, grande è la tua fede".
La donna si è messa nella giusta posizione in due modi: 1) ha riconosciuto, come pagana, la posizione predominante di Israele e dei suoi figli; 2) ha creduto, contrariamente a molti ebrei, che Gesù è davvero il figlio di Davide promesso a Israele. E ha posto la sua fiducia in lui.
Una lettura del testo evangelico di questo tipo esclude radicalmente ogni applicazione attualizzante di tipo moralistico. Non esiste tra gli uomini alcuna situazione paragonabile a quella qui descritta. Qui è rivelato qualcosa di importante sulla persona di Gesù come figlio di Davide nei suoi rapporti col regno promesso a Israele (2 Samuele 7:12-16); come buon pastore che va in cerca delle "pecore perdute della casa d'Israele" (Ezechiele 34:11-16); come servo di Dio mandato sulla terra per essere "luce delle nazioni e strumento di salvezza fino alle estremità della terra" (Isaia 49:6).
E se il suo comportamento appare scandaloso a qualcuno, ciò è dovuto al carattere particolare della Bibbia, che davanti al tentativo di forzarne il significato secondo i propri gusti si chiude a riccio e lascia che il superbo lettore rimanga nelle sue convinzioni davanti al testo. Senza capire che non ha capito.
Non così la donna cananea, che come l'ebrea Maria di Betania si è posta in umiltà ai piedi di Gesù, e così facendo "ha scelto la buona parte che non le sarà tolta" (Luca 10:38-42).
(Notizie su Israele, 23 giugno 2024)
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Per Gaza governo civile con i paesi arabi senza i palestinesi
Netanyahu ripropone il piano per impedire alla popolazione della Striscia di scegliere i suoi leader.
di Michele Giorgio,
GERUSALEMME - Nel cimitero militare di Netanya, Benyamin Netanyahu ieri ha ricevuto un appoggio aperto alla sua guerra infinita a Gaza. Durante i funerali del soldato Omer Smadga – uno dei due militari morti nell’attacco di combattenti palestinesi giovedì a Zaytun (Gaza city) -, il padre, Oren Smadga, un olimpionico molto noto, ha esortato a continuare l’offensiva. «Da questo posto dico a voi soldati: tenete la testa alta, continuate più forte possibile, combattete più duramente e non fermatevi finché non vinceremo. Questo è il mio messaggio a tutti coloro che sono coinvolti in questa lotta». Parole che hanno galvanizzato il premier israeliano che, incalzato dalle indiscrezioni sui suoi contrasti con i vertici militari, ieri, in un’intervista, è tornato a proporre che nel futuro di Hamas ci sia «un’amministrazione civile», con «la cooperazione, la sponsorizzazione interaraba e l’assistenza dei paesi arabi». Oltre, ha aggiunto, «a una ampia smilitarizzazione che può essere fatta solo da Israele contro qualsiasi tentativo di ripresa terroristica di Hamas». In sostanza mentre parla di «amministrazione civile» (gestita da paesi arabi e non dai palestinesi), Netanyahu propone un’occupazione militare di Gaza forse di anni. «In pratica si tratta più di una guerra eterna che di una vittoria assoluta», ha scritto Amos Harel sul quotidiano Haaretz, ricordando che il primo obiettivo di Netanyahu è rimanere al potere e superare la sessione estiva della Knesset e sperare che Donald Trump vinca le elezioni presidenziali Usa che si terranno tra cinque mesi. «Per Netanyahu – ha spiegato Harel – tutto questo è meglio di un cessate il fuoco permanente, che significa un’effettiva ammissione del fallimento degli obiettivi della guerra, l’abbandono dei partiti di estrema destra e il crollo del governo». La guerra quindi va avanti. E se da un lato i comandi militari israeliani sbuffano di fronte alle scelte di Netanyahu, dall’altro i carri armati hanno intensificato l’attacco contro Rafah, uccidendo almeno 38 palestinesi, 18 dei quali sono stati colpiti dalle cannonate in un campo di tende per sfollati a Mawasi, in una delle «aree sicure per i civili» indicate proprio dall’esercito israeliano. I feriti, ha comunicato la Mezza luna rossa, sono almeno 35. Una strage documentata da video e foto. Gli israeliani stanno cercando di completare l’occupazione di Rafah. I carri armati si fanno strada nelle parti occidentali e settentrionali della città, avendo già catturato l’est, il sud e il centro con l’appoggio dell’aviazione che bombarda senza sosta. Si spara anche dal mare e la popolazione civile scappa in cerca di salvezza. Circa 100mila palestinesi restano a Rafah. Un milione e 400mila che fino a inizio maggio si trovavano nell’area della città, ora sono sparsi tra Mawasi, Khan Yunis e Deir al Balah. «La scorsa notte è stata una delle peggiori nella parte occidentale di Rafah: droni, aerei, carri armati e navi della marina hanno bombardato tutta la zona. Gli israeliani stanno subendo attacchi pesanti da parte dei combattenti della resistenza, che potrebbero rallentarli», ha raccontato Hatem, 45 anni, un testimone all’agenzia Reuters. Altri bombardamenti israeliani hanno causato numerosi morti e feriti a Shujayeh e nel campo profughi di Shate. Tra le vittime c’è anche un calciatore, Ahmad Abu Al Atta. Che Hamas e altri gruppi combattenti stiano opponendo sul confine con l’Egitto la resistenza più tenace dall’inizio della guerra, è confermato proprio dai media israeliani. «A differenza di altri luoghi, a Rafah l’esercito ha incontrato una resistenza ostinata e ben organizzata da parte di Hamas», ha scritto Alon Ben David su Maariv Online «(grazie ai tunnel) Hamas conduce una battaglia difensiva che è per lo più sotterranea: escono dai pozzi, attaccano l’esercito e rientrano nei pozzi». Secondo il giornalista, Israele intende mantenere in futuro il controllo del «Corridoio Filadelfia», la fascia lunga 14 chilometri che divide Rafah dall’Egitto. Al nord la tensione resta molto alta. Secondo alcuni una guerra totale e l’invasione israeliana del Libano del sud sarebbero una questione di pochi giorni, il tempo di dare all’esercito il modo di trasferire al confine parte dei reparti combattenti ora impegnati a Gaza. Per altri l’accesa retorica su entrambi i lati del confine non prefigura ancora l’inizio di un’ampia campagna militare. Secondo il giornale di Beirut Orient Today, con il discorso bellicoso (anche nei confronti di Cipro alleato di Israele) che ha pronunciato qualche giorno fa, il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, «ha parlato di guerra per scongiurare la guerra». E qualcuno fa notare che nelle ultime 48 ore si è in parte placata l’offensiva con razzi e droni del movimento sciita verso l’alta Galilea e il Golan occupato mentre Israele sembra aver diminuito la frequenza dei suoi raid aerei. Ma il quadro è fluido ed è un azzardo fare previsioni. In Cisgiordania – dove secondo le rivelazioni fatte ieri dal New York Times il ministro delle finanze israeliano Bezalel Smotrich starebbe attuando decisioni volte a rendere irreversibile l’occupazione israeliana di questo territorio – due palestinesi sono stati uccisi da un’unita speciale israeliana nella città di Qalqiliya.
(il manifesto, 22 giugno 2024)
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Per chi esiste Israele
Chi deve portare il fardello della sicurezza del paese? La domanda che può far cadere Netanyahu.
di Micol Flammini
ROMA - Laly Derai il 16 giugno forse provava soltanto fastidio, si mise a scrivere un post su Facebook per dire: “Ogni soldato ha un cerchio attorno, fratelli, genitori, amori, figli, vicini, compagni di classe, amici. Quando un soldato viene ucciso o ferito tutte queste persone sono coinvolte. Da quel momento in poi, non vivranno più come prima”. Laly Derai aveva messo in cima al post anche un titolo: “L’uguaglianza nel portare il fardello non racconta tutta la storia”. Mentre lei scriveva, alla Knesset, il Parlamento israeliano, veniva discussa la legge per l’esenzione dalla leva degli ultraortodossi. Mentre i politici discutevano, undici soldati israeliani morivano in un’imboscata nella zona di Rafah, a sud della Striscia di Gaza.
Uno dei soldati uccisi si chiamava Saadia Yakov, aveva ventisette anni ed era il figlio di Laly Derai: la madre del soldato intenta a scrivere il suo post, infastidita dal dibattito alla Knesset, ancora non sapeva che non sarebbe vissuta più come prima, il suo “cerchio” era stato colpito. Il fastidio si è trasformato in dolore e rabbia, liquefatti nelle domande che Israele si fa e che dal 7 ottobre sono diventate più pressanti: chi deve portare il peso dell’esistenza del paese? Chi deve pagare il prezzo di ogni guerra? Perché non tutti?
Dopo l’attacco di Hamas contro i kibbutz del sud di Israele, all’esercito sono arrivate circa duemila richieste di arruolamento da parte degli haredim, la comunità di fedeli più osservante, il portavoce di Tsahal, Daniel Hagari, aveva detto che si trattava del dato più alto mai registrato, segno del fatto che qualcosa nella società stava cambiando. Era una reazione, non abbastanza per cambiare la situazione di una legge che Israele si ostina a rinviare. Non esiste una norma per la quale gli haredim dovrebbero essere esentati dal servizio militare, intanto che la politica non riesce a prendere una decisione, viene approvata l’esenzione in base a un accordo che risale al 1948, il Torato Umanuto, che vuol dire “lo studio della Torah è il suo lavoro” e risale ai tempi in cui David Ben-Gurion dispensò quattrocento uomini, studenti delle yeshivot, le istituzioni che si occupano dell’educazione religiosa, a prestare il servizio militare fino a quando non avessero trovato un’occupazione. Probabilmente non la trovarono mai, oggi da quattrocento sono diventati molti di più mentre il principio di esenzione va avanti per inerzia e per mancanza di decisione. La spaccatura nella società si fa sempre più profonda: gran parte della popolazione ultraortodossa vive con i sussidi dello stato, rifiuta il servizio militare, ritiene di doversi dedicare allo studio della Torah e nonostante venga chiamata, come tutti gli altri cittadini, a presentarsi alla leva, può rinviare l’arruolamento fino a quando non avrà compiuto il suo percorso di studi, che di solito termina dopo i ventisei anni, quindi oltre il limite di età per la coscrizione. Chi finora ha combattuto le guerre in Israele, chi ha risposto agli attacchi degli eserciti confinanti, e chi in questi mesi èa Gaza, di solito non fa parte della comunità ultraortodossa, nonostante gli sforzi dell’esercito di creare un ambiente favorevole, che risponda all’osservanza della religione ebraica. La società sta cambiando, a livello demografico, la parte di popolazione che cresce di più con un aumento del 4 per cento all’anno è proprio quella più religiosa che non presta il servizio militare e spesso non lavora; gli israeliani osservano questi numeri da anni e vedono un problema grande per il futuro dello stato: chi difenderà il paese? chi produrrà per il paese? Tutto è diventato più urgente dopo il 7 ottobre, con gli attacchi di Hamas, con la guerra a Gaza, con la conta inevitabile di quanti soldati lavorano per l’esercito israeliano e quanti cittadini credono invece di poter godere del diritto di farsi difendere da altri. Yair Lapid, il capo di Yesh Atid, uno dei maggiori partiti di opposizione, ha calcolato che senza l’esenzione degli ultraortodossi, Tsahal potrebbe avere cento battaglioni in più. La Corte suprema ha chiesto al governo di fare una riforma, di regolare la coscrizione di questa parte di popolazione e non vedendo una risposta da parte della politica, ha predisposto il congelamento dei fondi per gli allievi delle yeshivot imponendo un pilastro: niente fondi senza la leva. La politica si trascina, l’ex capo di stato maggiore Benny Gantz è uscito dal governo anche perché non vedeva la possibilità di trovare una soluzione. Il governo non si muove, non vuole toccare questo principio che sembra votato all’autodistruzione del paese. Alla Knesset si dibatte, dentro al Likud, il partito del premier Benjamin Netanyahu, si litiga: il ministro della Difesa Yoav Gallant e quello dell’Economia Nir Barkat, che è pronto a sfidare Netanyahu per la leadership del partito, credono che l’esenzione di una parte di popolazione non sia più tollerabile, senza la sicurezza non ci saranno né un paese in cui vivere né una Torah da studiare e minacciano la stabilità del governo – non sarebbe il primo a cadere sulla leva.
Il principio di uguaglianza e il principio di sopravvivenza si saldano. Se ci sarà una guerra totale al confine tra Israele e Libano contro Hezbollah, sarà un conflitto devastante, il gruppo libanese ha armi forti, è numeroso. Israele può contrastarlo, ma saranno sempre gli stessi a combattere anche questa guerra.
Il Foglio, 22 giugno 2024)
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Israele – Grandi manovre a Rafah ma la minaccia viene dal Libano
Dopo aver messo in sicurezza la parte meridionale e orientale di Rafah, l’esercito israeliano sta avanzando nella parte occidentale e settentrionale dell’ultimo bastione di Hamas. Alla Reuters i residenti della città hanno riferito di un significativo aumento nelle manovre di Tsahal nelle ultime 48 ore. E i portavoce militari israeliani riferiscono di diversi scontri ravvicinati con i terroristi. L’obiettivo è mettere sotto controllo l’intera zona per potersi concentrare sulla minaccia nel nord d’Israele. Qui il rischio di una guerra aperta con Hezbollah è sempre più imminente. In queste ore diversi missili anticarro sono stati sparati dai terroristi sciiti, mentre Tsahal ha colpito con i caccia alcune infrastrutture belliche nel sud del Libano. «La maggior parte del nostro governo non vuole davvero entrare in guerra, ma è possibile che questa sia la direzione», ha affermato Orna Mizrahi, ex membro del Consiglio di sicurezza nazionale, in un’intervista alla radio israeliana. Gli Stati Uniti premono per cercare di evitare l’escalation. Una richiesta ribadita anche nell’incontro a Washington tra il segretario di stato americano Antony Blinken e due emissari d’Israele: il consigliere per la sicurezza nazionale Tzachi Hanegbi e il ministro degli Affari strategici Ron Dermer. Blinken ha «sottolineato l’importanza di evitare un’ulteriore escalation in Libano e di raggiungere una risoluzione diplomatica che permetta alle famiglie israeliane e libanesi di tornare alle loro case». Il problema, evidenzia Mizrahi, è che la soluzione diplomatica non sta dando risposte.
Il premier Benjamin Netanyahu ha avvertito che Israele «trasformerà Beirut in una Gaza» in caso di guerra. Ma la potenza di fuoco di Hezbollah è molto superiore a quella di Hamas e rischia di mettere in grave difficoltà lo stato ebraico. Per questo le autorità sta prendendo le contromisure. Il ministro dell’Energia Eli Cohen ha definito con l’esercito un piano per assicurare che l’infrastruttura elettrica del paese sia protetta. Israele, ha chiarito, «reagirà con forza a qualsiasi attacco».
Nel mentre Netanyahu è intervenuto sul futuro di Gaza. Lo ha fatto in un’intervista al sito di notizie americano Punchbowl, parlando della necessità di instaurare nell’enclave «un’amministrazione civile». «Deve essere fatto, e penso che sia meglio farlo con la cooperazione e l’assistenza dei Paesi arabi». Per Netanyahu oltre alla gestione amministrativa a Gaza, dopo la guerra, dovrà essere avviato «una sorta di processo di deradicalizzazione, a partire dalle scuole e dalle moschee, per insegnare a queste persone un futuro diverso da quello dell’annientamento di Israele e dell’uccisione di ogni ebreo sul pianeta». Per la ricostruzione poi della Striscia, il premier individua la comunità internazionale come possibile partner.
(moked, 21 giugno 2024)
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Israele - Hezbollah
di Federico Massa
Israele e Hezbollah stanno alzando le tensioni sia a parole che nei fatti. Il leader del Partito di Dio Hassan Nasrallah ha detto che in caso di escalation nessuna parte del territorio israeliano sarà al sicuro, lanciando una minaccia anche a Cipro qualora mettesse a disposizione delle Forze armate israeliane le sue basi aeree. Un alto funzionario dello Stato ebraico ha avvertito che il Libano meridionale rischia di fare la fine di Gaza. Pochi giorni fa, le Forze di difesa israeliane (Idf, Tzahal) hanno approvato i piani operativi per lanciare un'offensiva nel paese dei cedri, nel frattempo intensificando le uccisioni di comandanti hezbollah con raid aerei. A sua volta, la milizia filo-iraniana ha aumentato gli attacchi con missili, razzi e droni contro Israele. In tutto ciò, il viaggio dell'inviato dell'amministrazione Biden per il Medio Oriente Amos Hochstein, che è stato sia nello Stato ebraico sia a Beirut per trovare una de-escalation, non ha raggiunto i risultati sperati.
È estremamente improbabile che Hezbollah voglia una guerra aperta con Gerusalemme in cui avrebbe tutto da perdere. Il gruppo armato sciita punta semmai a mettere pressione agli israeliani nel mentre che continuano le loro operazioni a Gaza. Per Israele, la situazione attuale in cui 80 mila civili sono sfollati dal Nord del paese a causa degli scontri al confine israelo-libanese non è più tollerabile. Due sono le alternative: una soluzione diplomatica o l'escalation. La via di uscita proposta da Hochstein – attuare il piano di Biden per un cessate-il-fuoco a Gaza così da porre fine al conflitto con Hezbollah – incontra diversi ostacoli. Innanzitutto, le prospettive incerte del piano presentato dal presidente americano. Inoltre, una soluzione simile sarebbe difficilmente accettabile per Israele. Potrebbe creare un'equazione per cui, ogni volta che gli israeliani operano a Gaza, Hezbollah si attiva nel confine settentrionale. Quando l'obiettivo militare di Tzahal a Gaza è garantirsi piena libertà di azione nel futuro, nell'incapacità (impossibilità?) dei vertici politici israeliani di elaborare un piano post-bellico. La guerra aperta con Hezbollah sarebbe comunque estremamente complicata e costosa per lo Stato ebraico. Gli scontri aperti tra militari e politici a Gerusalemme aggravano il quadro.
Al momento, la vicenda segnala che dal 7 ottobre l'amministrazione Biden ha cercato di perseguire due obiettivi tattici che si sono rivelati incompatibili tra di loro: tutelare Israele e allo stesso tempo cercare di limitarne a tutti costi la reazione (anche a Gaza). Così si è creata la situazione per cui gli americani supportavano, non solo a livello diplomatico, le operazioni israeliane e contemporaneamente chiedevano all'alleato di fermarsi (cioè di perdere). Usando anche la normalizzazione con i sauditi come mezzo di pressione in tal senso.
Ma per i vertici israeliani, non solo Netanyahu, la guerra iniziata il 7 ottobre è esistenziale. Per gli strateghi di Gerusalemme, Hamas e Hezbollah non sono semplici milizie con cui va applicata la dottrina di controinsorgenza (counterinsurgency) del generale Petraeus, che gli americani hanno suggerito più volte ai loro colleghi israeliani, ma sono degli ibridi tra eserciti convenzionali e milizie armate. Di fatto degli Stati. Dalla prospettiva israeliana, come detto dal generale Giora Eiland a Limes, la guerra a Gaza è più simile alla guerra contro la Germania nazista che a quella in Iraq.
Al contrario di quello che si dice, i contrasti tra Gerusalemme e l'amministrazione Biden non sono frutto di considerazioni di politica interna statunitense (le elezioni si decidono su altri temi), ma della diversa percezione della posta in gioco della nuova fase dello scontro tra Israele e Iran aperta dal 7 ottobre.
L'estensione del conflitto al Libano rappresenterebbe il fallimento dell'approccio dell'attuale amministrazione, che comunque non aveva buone opzioni. Tuttavia, stupisce e dovrebbe essere motivo di riflessione il modo in cui Biden e i suoi uomini si sono esposti sulla questione della guerra a Gaza. Dal 7 ottobre, il segretario di Stato Blinken ha compiuto otto viaggi in Medio Oriente, la regione meno importante per gli Stati Uniti in questo frangente storico. Togliendo preziose risorse – non solo materiali – alle partite geopolitiche decisive, Cina in primis. Dieci anni fa una distrazione simile sarebbe stato un autogol clamoroso; oggi è un errore esiziale.
(Limes, 21 giugno 2024)
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Israele, scoperta archeologica senza precedenti nei fondali marini
Cercavano fonti energetiche, invece hanno fatto una scoperta archeologica sensazionale
In Israele, cercavano fonti di gas, invece hanno fatto una scoperta archeologica sensazionale. Una compagnia energetica, la Energean, scandagliando i fondali del mare ha infatti scoperto per puro caso un antico relitto. Sarebbe il più antico mai trovato in fondo al mare. Si tratta di un mercantile lungo tra i 12 e i 16 metri che risale all’epoca Canaanita affondato tra i 3400 e i 3300 anni fa, ha spiegato l’autorità delle antichità di Israele. Al suo interno sono state rinvenute decine di anfore di terracotta.
La nave preistorica deve essere affondata subito, ha spiegato Jacob Sharvit, a capo della IAA Marine Unit. È crollata a picco fino a toccare il fondale ed è rimasta lì intatta, nascosta per millenni e dimenticata finché il sonar della Energean-E&P non ha scandagliato il fondo alla ricerca di fonti di gas e ha scoperto qualcosa di anomalo.
• La scoperta della nave in fondo al mare Quel che resta del relitto era stato scoperto un anno fa a una profondità di circa due chilometri e a 90 km dalla costa israeliana, nel bel mezzo del mare al largo di Haifa. L’identificazione della nave e delle sue origini storiche si sono basate sulle immagini scattate dal robot. Poi, solo alcune settimane fa, dopo aver pianificato le operazioni per mesi, la Energean ha inviato un Rov (Remotely operated vehicle), un sottomarino a comando remoto, che ha recuperato due delle antiche anfore conservate nel vascello.
A bordo dell’imbarcazione della Energean, due persone controllavano i bracci del robot utilizzando dei joystick e sono riusciti a scavare fino a recuperare due vasi antichi, chiuderli in una rete protetta e manovrarli per riuscire a inserire i vasi in un apposito contenitore.
• Perché la nave è affondata Cosa può aver causato l’affondamento della nave non è chiaro. Molto probabilmente c’è stato un attacco dei pirati nel Mediterraneo. O forse il bitume che sigillava il legno dell’imbarcazione ha ceduto. “Qualunque cosa sia accaduta deve essere avvenuta in fretta”, ha spiegato Sharvit. “Se si fosse trovata in mezzo a una tempesta, i marinai avrebbero cercato di alleggerirla gettando fuori bordo più peso possibile per salvarla. Non è stato rinvenuto nessun segno di questa operazione, invece”. Un altro fattor eanomalo è la distanza dalla costa in cui è stata trovat la nave. “Tutti i relitti trovati finora nel mar Mediterraneo si trovavano in acque poco profonde”, ha commentato Sharvit. “Questo ritrovamento dimostra quindi delle conoscenze nella navigazione in acque profonde già nell’antichità. Molto probabilmente navigavano tenendo come riferimento il sole, la luna, le stelle, in quanto navigare a 90 km dalla costa significava non scorgere per nulla la terraferma, neppure le montagne di Israele”.
Quando è stata annunciata la scoperta del relitto sommerso non era ancora chiara la sua portata. Finché non sono state inviate le immagini a Sharvit. “Sono quasi caduto dalla sedia”, ha detto al giornale israeliano Haaretz che lo ha contattato. “Nel momento esatto in cui ho capito che si trattava di giare che risalivano all’età del bronzo mi sono reso conto di quanto fosse importante la scoperta”. Una scoperta di portata mondiale. Le due anfore, infatti, potrebbero rivelare nuove informazioni sulla vita e il commercio nell’età del bronzo. “Il fondo fangoso nasconde un secondo strato di vasi”, ha spiegato Sharvit “e sembra che anche le travi di legno della nave siano sepolte nel fango”. Sarebbero centinaia le giare rimaste adagiate in fondo al mare per millenni.
“Cosa contenessero le giare non si può sapere. Nel corso dei secoli si è dissolto e al posto del contenuto ci sono solo sedimenti. Molto probabilmente il contenuto è stato mangiato da creature marine, tuttavia gli studiosi sperano di trovare ancora delle tracce che possano svelare la natura dei beni come vino, olio, fichi secchi o altri frutti”, ha spiegato Sharvit. Non ci resta che attendere il risultato delle analisi degli archeologi che ci stanno già lavorando.
(SiViaggia, 21 giugno 2024)
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Gli Usa avvertono Hezbollah: “Se è guerra, siamo con Israele”
Nasrallah minaccia di attaccare Cipro, se lascerà che l’Idf usi le sue basi per i raid in Libano. Netanyahu sulle tensioni con la Casa Bianca: “Armi necessarie per la nostra esistenza”
di Paolo Brera
GERUSALEMME — L’inviato speciale Usa Amos Hochstein ha ammonito «fermamente» il Libano che Israele prepara un «attacco limitato» contro Hezbollah e «avrà il sostegno degli Stati Uniti», se le milizie continueranno a lanciare razzi.
I segnali di una nuova guerra sono gravi e coincidenti: martedì, mentre a Beirut Hochstein consegnava l’avvertimento Usa al premier Najib Mikati perché facesse da mediatore con Hezbollah, l’Idf ha «approvato e validato» i piani di attacco in Libano. Quando lo hanno fatto per l’attacco di terra a Rafah, nessuno è poi riuscito a invertire la rotta. Nel frattempo il ministro degli Affari religiosi israeliano, Michael Malchieli, rispondendo alla domanda se stesse preparandosi per «sepolture di massa» ha confermato a Canale 14 che «ci prepariamo per cose più grandi nel Nord, sì».
L’avvertimento consegnato a Hezbollah indica però anche una via d’uscita: aderire a una soluzione diplomatica. La bozza di accordo tra Israele e Hamas delineata dal presidente Joe Biden è ferma al palo. La pressione su Hamas di Qatar ed Egitto non ha sbloccato il leader, Yahya Sinwar, che non libera gli ostaggi. Ne restano in vita 50 su 120, secondo fonti Usa citate dal Wall Street Journal. «Non lasceremo Gaza finché non ritorneranno tutti e non avremo eliminato le capacità militari e governative di Hamas», replica Netanyahu.
La prospettiva di un accordo è sempre più lontana. Israele proseguirà le operazioni militari «per altre cinque settimane», ha avvertito Hochstein secondo il Middel East Eye per completare il lavoro. Poi si limiterà «a uccisioni mirate» dei capi di Hamas, e a operazioni per liberare tutti gli ostaggi. Hochstein ha avvertito Hezbollah che commetterebbe un grave errore mantenendo il supporto a Sinwar. Hezbollah ha detto chiaramente che non fermerà gli attacchi a Israele fino a quando non si ritirerà dalla Striscia, ma i messaggi intercettati di Sinwar hanno dimostrato che il leader di Hamas vuole mantenere il dominio, non riportare la pace. Per questo la carta Hezbollah diventa decisiva. Se non abbandona Sinwar e la sua linea oltranzista, tra qualche settimana Israele sposterà il grosso della macchina bellica a Nord. Uno scenario che si può ancora evitare se Nasrallah, il leader dei miliziani libanesi, si aggiungerà a Qatar ed Egitto nel fare pressione su Hamas. E se Sinwar si opponesse, Hezbollah potrebbe fermare i razzi e riattivare la diplomazia.
Ieri Israele ha ucciso un altro comandante di Hezbollah con un attacco aereo mirato a Deir Kifa, nel Sud del Libano. Un drone ha centrato il veicolo in cui viaggiava Abbas Ibrahim Hamza Hamada, che secondo l’Idf era in comando dell’unita regionale di stanza a Jouaiyya. In risposta, Hezbollah ha lanciato almeno 45 colpi bombardando il Nord di Israele.
Dalla ripresa degli scontri all’indomani del 7 ottobre sono morte più di 400 persone in Libano, tra cui un’ottantina di civili; e 16 soldati e 11 civili sono caduti sul fronte israeliano, nel Nord del Paese in cui Hezbollah ha lanciato migliaia di missili. Un bilancio già grave ma limitato rispetto ai rischi di escalation. L’ultimo azzardo è la minaccia di Nasrallah di attaccare Cipro se lascerà che porti e aeroporti vengano utilizzati da Israele per raid in Libano. «Cipro è membro dell’Unione europea. Ogni minaccia contro un nostro Stato membro è una minaccia contro l’Ue», replica il portavoce della Commissione europea per la politica estera, Peter Stano: «Fra Libano e Israele è necessaria la de-escalation».
Funzionari statunitensi hanno detto a Cnn di essere preoccupati che l’Iron Dome e le difese israeliane vengano sopraffatti. E Shaul Goldstein, l’Ad di Noga che sovrintende alla rete elettrica, ammonisce che Hezbollah potrebbe farla collassare facilmente, e «dopo 72 ore senza elettricità sarà quasi impossibile sopravvivere: siamo impreparati per una vera guerra».
Resta alta anche la tensione tra la Casa Bianca e Netanyahu dopo il video di critiche giudicato «deludente, offensivo, irritante e falso». «Sono pronto a subire attacchi personali a condizione che Israele riceva le armi di cui ha bisogno nella guerra per la sua esistenza», ha risposto il premier.
(la Repubblica, 21 giugno 2024)
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Ciclismo – L’otto della squadra israeliana per il Tour, Froome non c’è
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La vittoria di tappa di Derek Gee al Giro del Delfinato
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Niente Tour de France per Chris Froome. Il quattro volte vincitore della Grand Boucle non è nella “rosa” della Israel Premier Tech, la squadra israeliana che parteciperà per la quinta volta consecutiva alla corsa, al via tra una settimana da Firenze.
La Israel Premier Tech ha diramato stamane le convocazioni. Froome, 39 anni compiuti a maggio, non sarà della partita. Anche quest’anno, come già nel 2023, farà il tifo per i suoi compagni di squadra da casa. Le prestazioni e lo smalto di un tempo sono evidentemente lontani e la prospettiva del ritiro forse si avvicina.
Negli otto della Israel è folta la presenza di canadesi, ben tre: Guillaume Boivin, Derek Gee e Hugo Houle. Due i britannici, Jake Stewart e Stevie Williams. Completano la formazione il tedesco Pascal Ackermann, il danese Jakob Fuglsang e il lettone Krists Neilands.
Quattro dei convocati sono per la prima volta al Tour. Fuglsang è invece uno dei veterani, alla sua dodicesima partenza in assoluto. L’obiettivo del team «è una vittoria di tappa», annuncia il direttore sportivo Steve Bauer. «Abbiamo una squadra forte, equilibrata e versatile, con corridori in grado di brillare in diversi contesti e con il potenziale per essere competitivi tappa dopo tappa. La competizione sarà agguerrita, ma credo nel gruppo che porteremo a questo Tour de France».
Gee è fresco di terzo posto al Giro del Delfinato, dove ha anche vinto una tappa, mentre in aprile Williams ha trionfato alla Freccia-Vallone in condizioni atmosferiche da ciclismo epico. Occhi puntati anche su Ackermann, che in carriera ha alzato le braccia sul traguardo in tre occasioni al Giro d’Italia e in due alla Vuelta e ora sogna di affermarsi anche nella più importante delle tre grandi corse a tappe. Della quale, nonostante la rodata esperienza, è un debuttante.
(moked, 21 giugno 2024)
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Germania, Memoria “violata” a Weimar
Vandalizzate con la scritta “Ebrei criminali” una serie di pietre d’inciampo
di Roberto Zadik
L’attuale spirale di antisemitismo non risparmia nemmeno la Memoria della Shoah. Nella cittadina di Weimar, famosa per la sua Repubblica prima della catastrofe nazista, una serie di pietre d’inciampo sono state deturpate da gravi offese antisemite, non si conoscono ancora i nomi dei responsabili. Secondo l’articolo del Jewish Chronicle firmato da Felix Pope e uscito mercoledì 19 giugno, le famose Stolpersteine (in tedesco “pietre d’inciampo”) sarebbero state il bersaglio di messaggi inquietanti come “Ebrei criminali” in quella che il testo definisce una vera campagna “persecutoria”. Infatti non è la prima volta che accade, poiché tempo fa le stesse offese erano comparse sempre a Weimar sui cartelli pubblicitari dell’Achava Festival, importante manifestazione culturale ebraica locale. L’episodio ha scatenato l’indignazione di una serie di personalità, prima fra tutte Karen Pollock capo del Fondo britannico per l’educazione alla Shoah che ha definito queste scritte “un gesto disgustoso in quanto queste pietre sono dei simboli, sistemati in tutta Europa in ricordo delle famiglie e dei singoli ebrei sfollati dalle loro case e massacrati durante la Shoah. Questo dimostra che nonostante la solita frase Mai più venga ripetuta costantemente, l’antisemitismo è più che mai vivo“. Nel suo intervento ha sottolineato come già nel 2021, sempre nelle strade della cittadina tedesca, una serie di pietre d’inciampo erano state portate via dai marciapiedi in cui erano state sistemate. Ricostruendo i diversi avvenimenti, il sito ha ricordato come lo stesso anno in un’altra cittadina del Nord Ovest della Germania, Osteholz Schambeck, erano avvenuti atti vandalici come varie scritte sui muri, mentre a Dortmund una dozzina di pietre d’inciampo erano state deturpate con della vernice blu. In tema di antisemitismo tedesco, il sito ha puntualizzato un esponenziale aumento dell’intolleranza, col passaggio da “solo” 33 attacchi nel 2022 a 492, la maggioranza di essi commessi dopo il 7 ottobre. Fra questi, una serie di stelle di David sugli edifici, bombe molotov lanciate contro le sinagoghe e tombe ebraiche dissacrate. A questo proposito lo scorso novembre il cancelliere Olaf Scholz aveva detto che “qualunque forma di antisemitismo avvelena la nostra società, dovremmo cercare di proteggere fisicamente le istituzioni e le comunità ebraiche, rafforzando i controlli di polizia e i provvedimenti giudiziari”. Stando all’articolo del Times of Israel, gli attacchi antiebraici sarebbero molti di più. Infatti secondo il RIAS, Centro per la Ricerca e l’Informazione sull’antisemitismo, situato a Berlino, solo nel mese successivo a 7 ottobre in Germania ci sarebbero stati 994 fra attacchi, minacce e violenza e insulti antisemiti.
(Bet Magazine Mosaico, 21 giugno 2024)
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Israele e le accuse (di nuovo) di crimini di guerra
L'ormai fantomatico Alto Commissariato per i Diritti Umani dell’ONU (OHCHR) continua imperterrito a pubblicare le veline di Hamas spacciandole per rapporti ONU.
di Maurizia De Groot Vos
Apprendo questa mattina che il fantomatico Ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani, genericamente ed erroneamente chiamato “ONU”, avrebbe emesso un nuovo rapporto contro Israele che, nelle sue intenzioni, intenderebbe far percepire al pubblico la cattiveria dello Stato Ebraico.
Sul rapporto ci torniamo dopo, voglio prima far capire di che ONU stiamo parlando, perché altrimenti il pubblico non comprende bene.
L’Ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani è parte del sistema che fa capo all’Alto Commissariato per i Diritti Umani dell’ONU (OHCHR) con sede in Svizzera, quello per intenderci che è stato presieduto da Iran, Arabia Saudita e persino dalla Siria. Quello che ha inserito l’Iran nell’organo per la tutela dei Diritti delle donne mentre nelle strade di Teheran le ragazze venivano massacrate. Quello che non ha mai steso un rapporto sulla guerra in Siria, sui massacri nelle rivolte in Iran, nessun rapporto contro l’Arabia Saudita, il Venezuela, il genocidio ancora in corso in Darfur dove c’è una crisi umanitaria molto peggiore di quella che c’è a Gaza. Nessun rapporto su niente. Su Israele decine e decine di rapporti. Persino un rapporto che accusava lo Stato Ebraico di non rispettare i Diritti delle donne.
E veniamo a oggi. Il già citato fantomatico Ufficio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ha emesso un rapporto dove si accusa Israele di aver usato bombe pesanti a Gaza contro edifici residenziali.
Il rapporto descrive nel dettaglio sei attacchi che comportano il sospetto uso di bombe GBU-31 (2.0000 libbre), GBU-32 (1.000 libbre) e GBU-39 (250 libbre) dal 9 ottobre al 2 dicembre 2023 su edifici residenziali, una scuola, campi profughi e un mercato.
Lo stesso rapporto evita molto accuratamente di ricordare che Israele prima di lanciare un attacco aereo con bombe pesanti ha sempre, SEMPRE, invitato la popolazione a lasciare gli obiettivi dei futuri bombardamenti, anche a costo di avvisare lo stesso Hamas.
L’Ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani avrebbe verificato 218 morti a causa di questi sei attacchi e ha affermato che le informazioni ricevute indicano che il numero di vittime potrebbe essere molto più elevato. Solo che non specifica quali siano le fonti e in che modo è avvenuta la verifica, né specifica se quelle persone, avvisate del bombardamento, sono rimaste contro la loro volontà. In sostanza, non verifica se sono scudi umani la cui morte serve alla causa di Hamas come vuole la politica di Yahya Sinwar.
A proposito della politica di Sinwar per cui un alto numero di vittime civili serve alla causa di Hamas, l’Alto Commissariato per i Diritti Umani non ha speso una parola, non un milligrammo di inchiostro. Come mai? E sugli ostaggi? Silenzio assoluto. Eppure questo organismo altamente auto-screditato viene ritenuto addirittura una fonte di Diritto e viene definito ONU per dare una impronta di importanza alle veline di Hamas che spaccia per propri rapporti.
Penso che nella storia della disinformazione l’OHCHR sia in assoluto l’esempio più eclatante di questa pratica largamente diffusa tra gli antisemiti. Il fatto curioso è che i media e le agenzie, pur sapendo cosa sia in realtà il cosiddetto “ONU” di Ginevra, continuano imperterriti a rilanciare le veline di Hamas come se fossero rapporti dell’ONU, quello vero (peraltro già abbastanza auto-screditato di suo).
(Rights Reporter, 21 giugno 2024)
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Beha’alotekhà. Singhiozzo ed esultanza convivono
di Ishai Richetti
Gli ebrei sono pronti ad intraprendere il loro viaggio. Un’ultima serie di direttive, tuttavia, deve ancora essere data. D-o si rivolge a Moshe: “Fai per te due trombe d’argento; le farai d’argento battuto; ed esse saranno per te per convocare l’assemblea e per far muovere gli accampamenti“. Suonate dai sacerdoti, queste trombe d’argento serviranno per annunciare un viaggio, radunare la nazione, rafforzare il popolo di fronte alle sfide e segnare la commemorazione di feste e celebrazioni.
Basandosi sull’espressione “Fai per te stesso”, i Chachamim discernono una distinzione tra le trombe e tutti gli altri utensili modellati da Moshe nel deserto. Mentre altri utensili erano adatti all’uso nelle generazioni future, le trombe di Moshe erano solo sue, da usare solo durante la sua vita. Perché le trombe meritano di essere menzionate nella Torà e perché occupano un ruolo così centrale nel testo? Questi oggetti sembrano essere principalmente di natura utilitaristica. Le leggi riguardanti queste trombe rappresentano le ultime direttive date da D-o prima dell’inizio del pellegrinaggio nel deserto. Che significato ha in quel preciso momento e perché le trombe sono specifiche per generazione?
Una lettura attenta del testo rivela che il ruolo delle trombe è molto più complesso: “Quando andrai a far guerra contro l’avversario che ti opprime, allora suonerai l’allarme con le trombe e sarai richiamato davanti al Signore, tuo D-o, e sarai salvato dai tuoi nemici“. “E nei giorni della vostra gioia, nelle vostre feste e nei noviluni, suonerete le trombe durante i vostri olocausti e durante le vostre feste di ringraziamento; e saranno per te un ricordo davanti al tuo D-o; Io sono il Signore, tuo D-o.” Il suono delle trombe descritto in questi passaggi è tutt’altro che ordinario: Sembrano essere usate per comunicare con D-o, il loro suono una forma di preghiera molto potente anche se senza parole. Durante lo studio sul ruolo delle trombe, comincia ad emergere uno schema affascinante. La Torà identifica due suoni distinti: La tekià, un suono lungo e ininterrotto, associato nel testo all’assemblea congregazionale, all’assemblea dei dirigenti e alla celebrazione comunitaria, e la teruà, un suono spezzato, associato alla chiamata al viaggio e all’avvento della guerra. Questi suoni rispecchiano il sentimento delle persone nel momento in cui vengono ascoltati. I momenti di conforto e stabilità, come le occasioni di assemblea e di celebrazione sono scanditi dalla tekià, un suono ininterrotto di certezza. I momenti di incertezza, sfida e angoscia, come le occasioni di viaggio e di guerra, sono associati alla teruà, un suono spezzato e incerto.
Questa connessione trova ulteriore supporto da una fonte halachica molto conosciuta. Sono degli stessi suoni dello shofar a Rosh haShanà. Ai tempi del Bet haMikdash, infatti, il suono dello shofar era accompagnato dal suono delle trombe. Mentre durante Rosh haShanà vengono suonati sia la tekià che la teruà, nel testo della Torà solo quest’ultima è collegata alla festa tanto che il riferimento a questo giorno è Yom Teruà e Zichron Teruà. Il messaggio è chiaro. L’aura di Rosh haShanà, il Giorno del Giudizio, è impersonato dalla teruà, il suono spezzato e incerto dello shofar. Questo profondo legame è alla base del tentativo dei Chachamim nel Talmud di definire la vera natura di questo suono spezzato. Qui la teruà è definita come una serie di nove suoni brevi e staccati, che simboleggiano un individuo nell’atto di singhiozzare, o come una serie di tre suoni un po’ più lunghi (serie a noi nota come shevarìm), che simboleggia un individuo nell’atto di sospirare. Secondo entrambe le opinioni, il suono spezzato raffigura l’individuo in difficoltà spirituale ed emotiva davanti alla Corte Celeste. Proprio come le note delle trombe rispecchiano lo stato degli ebrei in quel momento, così anche gli squilli dello shofar riflettono il tumulto interiore di ogni individuo a Rosh haShanà. Il messaggio che emerge colpisce ancora più in profondità. Una volta collegati tematicamente gli squilli di tromba e di shofar, un’ulteriore considerazione sul suono dello shofar a Rosh haShanà può aiutarci a comprendere meglio il ruolo delle trombe. Gli squilli dello shofar, non sono intesi a rispecchiare solamente la lotta interna di un individuo che si trova davanti a D-o, ma anche per risvegliare, coltivare e sviluppare proprio quella lotta.
Ambientato all’inizio dell’anno, il suono dello shofar è progettato per risvegliare il nostro spirito, il nostro cuore e la nostra anima. Una volta compiuto il risveglio, i suoni dello shofar riflettono il nostro spirito in una preghiera sincera e senza parole. Similmente ai suoni dello shofar, gli squilli delle trombe sono progettati per risvegliare e riflettere l’ultima componente essenziale per il successo del viaggio degli ebrei nel deserto. Non potrebbe esserci mitzva più appropriata con cui lasciare il Sinai di questa: Le trombe destinate a risvegliare lo spirito degli ebrei all’inizio del loro viaggio, trombe che verranno forgiate di nuovo, ancora e ancora, mentre ogni generazione risveglia il proprio spirito per affrontare le proprie sfide. Se è vero che oggi quelle trombe non ci sono più, è anche vero che in mancanza dell’oggetto fisico esse rappresentano un insegnamento importante per la nostra vita, un insegnamento da tramandare alle generazioni, forgiando nuove trombe, nuovi leader e nuove persone capaci di affrontare, col proprio spirito, le immancabili difficoltà della vita, a livello comunitario e a livello individuale. Perché se è vero che alle volte lo spirito può sembrare spezzato, è anche vero che questo si può rafforzare, si può iniziare nuovamente con spirito nuovo e con l’aiuto di D-o che potrà donarci le Sue berachot.
(Morashà, 21 giugno 2024)
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Parashà della settimana: Beha'alotecha (Far salire)
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Pazza idea
di Niram Ferretti
Ultimo ma non ultimo, ora è il turno di Daniel Hagari, portavoce dell’IDF, nell’informarci che “Hamas è un’idea. Coloro che pensano che si possa fare sparire si sbagliano”. Si tratta di un refrain che ascoltiamo da quando Israele ha iniziato la sua operazione militare a Gaza otto mesi fa. Immaginiamoci se, dopo l’11 settembre, il comando militare americano avesse affermato che “Al Qaeda è un’idea, chiunque pensi di farla sparire si sbaglia”, oppure si fosse sentito dire la stessa cosa a proposito dell’ISIS. Effettivamente Hagari dice una cosa giusta, dice l’ovvio, Hamas è una idea, rappresenta una ideologia, rappresenta cioè una delle incarnazioni dell’estremismo islamico, che ne possiede molteplici, così come l’Idra mitologica ha molte teste, ma il problema è che l’obiettivo che Israele si è dato a Gaza non è quello di fare sparire un’idea dalla faccia della terra, così come non era questo l’obiettivo degli Stati Uniti nei confronti dell’organizzazione criminale creata da Osama Bin Laden o quella creata da Abu Bakr al-Baghdadi, ma più modestamente, anche se è assai impegnativo farlo, quello di terminare la sua operatività militare e politica all’interno della Striscia, poi l’idea, come tutte le idee, essendo di natura immateriale, potrà continuare a esistere. L’ufficio di Benjamin Netanyahu è dunque intervenuto, a seguito della dichiarazione di Hagari, per rimarcarlo, ovvero, che Israele non si è mai proposto di sradicare ideologicamente Hamas. Sarebbe tuttavia da ingenui pensare che la dichiarazione di Hagari sia quella di uno sprovveduto, non lo è, essa è da considerarsi come parte di una precisa posizione politica che è quella della Casa Bianca e che nel defunto gabinetto di guerra aveva i suoi portavoce in due ex militari diventati uomini politici, Benny Gantz e Gadi Eisenkot, ovvero la seguente: che Hamas non possa essere (o non debba essere) sconfitto e che sia necessario trovare con un Hamas depotenziato una qualche forma di convivenza, dando soprattutto la priorità alla liberazione degli ostaggi rimanenti. Non è un caso se in questi ultimi giorni, dopo l’uscita di Gantz dal gabinetto di guerra, le manifestazioni per il rilascio degli ostaggi si siano intensificate corredate dalla richiesta di tornare alle urne. Non è, altresì un mistero per nessuno, che all’interno del comparto militare non siano in pochi ad appoggiare la posizione di Gantz e Eisenkot della quale Hagari si è fatto solerte portavoce.
(L'informale, 20 giugno 2024)
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Replica: “L’America è un’idea. Se Israele pensa che da lei possa ottenere un vero aiuto si sbaglia”. M.C.
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"I ragni di lassù"
Zero fiducia tra lo staff militare israeliano e il governo.
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Israele è in guerra e la leadership su cui l'intera nazione vuole fare più affidamento è ai ferri corti. Una crisi che si ripercuote sullo sforzo bellico di Israele su tutti i fronti. È inutile e un lusso che non possiamo permetterci in guerra. Non solo, i nemici stanno interpretando i nostri litigi al vertice come una debolezza e questa è una follia assoluta. "I ragni, i romani" si dice in Asterix e Obelix. E in Israele si può dire "i ragni, quelli lassù a Gerusalemme".
Secondo fonti governative di alto livello, la sensazione nel governo è che l'esercito stia interferendo in questioni politiche che non sono di sua competenza. Si tratta di una pericolosa crisi di sicurezza e socio-politica che deve essere risolta rapidamente per poter finalmente vincere la guerra. Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha sciolto il gabinetto di guerra dopo che il Ministro Benny Gantz e il suo collega di partito Gadi Eisenkot si sono dimessi dalla coalizione. È anche giunto il momento di cambiare il sistema decisionale per quanto riguarda la guerra a Gaza e nel Libano meridionale. Pertanto, l'istituzione di un gabinetto ristretto per le questioni politiche e di sicurezza sensibili è stata una mossa giusta da parte di Netanyahu, chiamato la cucina di guerra "Mitbachon". Un simile gabinetto esisteva anche nei governi precedenti.
Ieri c'è stato un altro scontro tra l'esercito e il governo quando il portavoce dell'esercito, il contrammiraglio Daniel Hagari, ha messo in dubbio che Israele possa sradicare il gruppo terroristico di Hamas. Hagari ha affermato che questo obiettivo è attualmente irraggiungibile. Questa dichiarazione è sembrata approfondire la spaccatura tra Netanyahu e gli alti generali dell'IDF sulla sua gestione della guerra a Gaza. "Questo parlare di distruzione di Hamas, di scomparsa di Hamas, serve semplicemente a gettare sabbia negli occhi del pubblico", ha sottolineato Hagari in un'intervista al canale televisivo 13 News. "Hamas è un'idea, Hamas è un partito. È radicato nel cuore della gente - chiunque pensi che possiamo eliminare Hamas si sbaglia", ha continuato il portavoce dell'esercito. Hagari ha anche avvertito: "se il governo non trova un'alternativa - Hamas rimarrà nella Striscia di Gaza". Netanyahu è scoppiato di rabbia e ha dichiarato che "il gabinetto di sicurezza ha definito la completa distruzione di Hamas come uno degli obiettivi di guerra". Molti dubitano che questo sia davvero possibile, dato che la guerra nella Striscia di Gaza non sta progredendo. I soldati e i riservisti sono frustrati dal fatto che non sia stata ancora presa alcuna decisione strategica nella Striscia di Gaza. La colpa è del governo o dei vertici dell'esercito. Dipende da chi si vuole credere.
Secondo fonti politiche, la crisi tra la leadership politica e quella dell'esercito è peggiorata drasticamente nelle ultime settimane. Netanyahu e il suo governo sospettano che il Capo di Stato Maggiore Herzi Halevi abbia informato la scorsa settimana i commentatori dei media israeliani che l'esercito era sul punto di vincere a Gaza e che la guerra poteva essere fermata per ottenere uno scambio di ostaggi. Ciò è in contrasto con l'opinione del Primo Ministro Netanyahu, che ritiene che l'esercito non abbia ancora raggiunto gli obiettivi di guerra fissati dalla leadership politica.
A ciò si aggiunge l'incidente della pausa tattica per consentire l'ingresso degli aiuti umanitari a Rafah, annunciata dall'esercito questa settimana e poi annullata su istruzioni della leadership politica. L'esercito non ha informato in anticipo il Ministro della Difesa e il Primo Ministro della decisione. D'altra parte, l'esercito afferma che tutto è stato autorizzato dal governo e che non si è trattato di una decisione indipendente. Quando i media hanno reso noto questo fatto e Bibi è stato attaccato dai suoi stessi partner di coalizione, come i ministri Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, ha fatto marcia indietro e ha affermato di non saperne nulla.
Il primo ministro Netanyahu ha poi criticato i vertici dell'esercito durante la riunione di gabinetto. Ha detto di averlo appreso dai media e ha aggiunto: "Per eliminare le capacità di Hamas, ho preso decisioni che non sempre sono state accettate dallo staff militare. Abbiamo uno Stato con un esercito e non un esercito con uno Stato". Secondo fonti politiche, il governo ritiene che i vertici dell'esercito, che hanno fallito il 7 ottobre, non stiano dando i risultati militari che la leadership politica gli chiede durante la guerra. Il Primo Ministro ritiene che l'esercito stia interferendo in questioni politiche che non gli competono. La questione è molto dibattuta nel Paese e la scelta a chi credere dipende dalla parte politica in cui ci si trova. Sappiamo da altre fonti che il Ministro della Difesa israeliano Yoav Galant sta perdendo la pazienza con il suo partito e con il leader del governo Benjamin Netanyahu. In colloqui a porte chiuse, Galant ha etichettato Bibi come un codardo che frena i piani militari perché non riesce a decidere. Secondo Galant, Bibi stesso è l'ostacolo e l'esercito sta combattendo per salvare Israele.
Una situazione del genere è estremamente pericolosa in un periodo di guerra, quando Israele è impegnato su sette fronti, e deve essere fermata immediatamente. Il Capo di Stato Maggiore Halevi ha dichiarato diversi mesi fa di assumersi la piena responsabilità del fallimento militare del 7 ottobre e i suoi confidenti hanno annunciato che lascerà l'esercito.
Per la prima volta dal raid del 7 ottobre, il Capo di Stato Maggiore israeliano Herzi Halevi ha visitato ieri il kibbutz Nir Oz, nella Striscia di Gaza, per rivolgersi e scusarsi personalmente e direttamente con i residenti e le famiglie in lutto per il fallimento di oltre otto mesi fa. Nir Oz è diventato un chiaro simbolo del fallimento durante l'attacco a sorpresa. I residenti del kibbutz erano indifesi in quello Shabbat nero, con conseguenti massacri e rapimenti in cui un quarto degli abitanti del kibbutz è stato preso in ostaggio o ucciso. Il kibbutz Nir Oz un tempo contava circa 400 membri, quasi 40 sono stati uccisi e 70 sono stati rapiti nella Striscia di Gaza.
È chiaro a tutti che i vertici militari hanno fallito il 7 ottobre, e lo ammettono, ma anche il governo di Gerusalemme ha fallito. Benjamin Netanyahu e le sue coalizioni di destra hanno governato il Paese negli ultimi 15 anni e tutti capiscono che in questo periodo sono state perseguite politiche e strategie sbagliate. Tra queste, la controversa politica di Netanyahu per la gestione del conflitto nella Striscia di Gaza, secondo la quale Hamas è stato pagato mensilmente dal Qatar per la "calma" con l'autorizzazione di Israele. Israele è in guerra e i nostri leader politici e militari dovrebbero stare zitti e agire. Sono davvero pazzi lassù.
(Israel Heute, 20 giugno 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Come si vede, sul piano umano la situazione in Israele è davvero grave. Il male grosso sembra essere dentro, prima che fuori. M.C.
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In aumento l’Aliyà dopo il 7 ottobre. Il ritorno degli ebrei della diaspora in Israele
Il 7 ottobre 2023 è una data che ha segnato un profondo cambiamento per molti ebrei della diaspora. In seguito all’attacco terroristico di Hamas, un numero crescente di ebrei ha deciso di fare Aliyà, ossia di emigrare in Israele che continua a essere un faro di speranza e un punto di riferimento per molti ebrei in tutto il mondo. Questo fenomeno ha visto un’accelerazione senza precedenti negli ultimi mesi nonostante la guerra in corso e la mancanza di sicurezza, dimostrando un impegno incrollabile nei confronti dello Stato di Israele.
Gli eventi turbolenti e drammatici post 7 ottobre, hanno innescato un senso di urgenza e una rinnovata connessione con Israele per molti ebrei sparsi per il mondo. Dagli Stati Uniti alla Francia e non solo, a partire dalla Gran Bretagna dove dall’inizio del 2024 si è registrato un aumento del 40% di nuovi Olim in Israele. Tra di loro famiglie con bambini, studenti, giovani che cercano di arruolarsi nell’IDF e anziani.
Le motivazioni che spingono a fare Aliyà sono dettate da diversi fattori. In primis la sicurezza e la stabilità. Gli attacchi antisemiti, le discriminazioni nelle università e le minacce alla sicurezza personale, hanno spinto molti ebrei a cercare un rifugio in Israele, considerato un luogo più sicuro e protetto.
La decisione di fare Aliyà spesso deriva anche da un forte senso di identità e appartenenza. Dopo il 7 ottobre, molti ebrei hanno riscoperto un legame emotivo e spirituale con Israele, sentendo il bisogno di vivere in un Paese che considerano la loro vera casa. Il 7 ottobre ha risvegliato in molti la consapevolezza che questa è la loro unica patria, e vogliono essere in prima linea nella storia ebraica mentre si svolge. Non vogliono solo stare dalla parte di Israele. Vogliono restare in Israele.
Non ultimi i fattori politici ed economici: gli sviluppi politici ed economici in diverse parti del mondo hanno influenzato la decisione di alcuni a emigrare spingendo le persone a cercare nuove opportunità in Israele.
Qualche esempio? Le cronache degli ultimi mesi rivelano come questo fenomeno sia in costante crescita nonostante la guerra e la drammatica questione degli ostaggi. Un recente articolo del Jerusalem Post racconta la storia di 300 ebrei americani più che mai determinati a fare Aliyà. Il 29 maggio, da mezzogiorno alle 21, single, giovani sposi (alcuni in attesa del primo figlio), famiglie con bambini, coppie anziane si sono recati in un hotel a Teaneck, nel New Jersey (la posizione esatta non è stata comunicata per motivi di sicurezza), per l’evento Aliyah-in-One di Nefesh B’Nefesh (NBN), pensato per rendere l’imminente Alià dei partecipanti più agevole.
Questo evento è stato organizzato dalla NBN in collaborazione con il Ministero israeliano dell’Alià e dell’Integrazione, l’Agenzia Ebraica per Israele, Keren Kayemeth LeIsrael e JNF-USA. NBN riferisce di aver ricevuto oltre 9.700 richieste di apertura di pratiche relative all’Aliyà dal 7 ottobre, ovvero un aumento del 76% rispetto al periodo corrispondente dell’anno scorso (ovvero dal 7 ottobre 2022 a metà maggio 2023).
Marc Rosenberg, vicepresidente della NBN per i partenariati della diaspora, è soddisfatto e ottimista del crescente interesse per l’Aliyà e osserva che le persone «arrivano nonostante l’incertezza, le restrizioni e i problemi con i voli». Ha inoltre dichiarato che gli americani ora si stanno trasferendo in Israele principalmente per ragioni ideologiche, anche se alcuni arrivano anche per ragioni pratiche.
• IMPATTI SULLA SOCIETÀ ISRAELIANA L’afflusso di nuovi immigrati ha diversi impatti sulla società israeliana. Da un lato, arricchisce il tessuto culturale e sociale del Paese, portando nuove competenze e prospettive. Dall’altro, crea sfide in termini di integrazione e adattamento. Come osservano gli esperti, è essenziale che la società israeliana continui a sviluppare politiche inclusive e programmi di supporto per garantire che i nuovi arrivati possano contribuire pienamente e sentirsi parte della comunità. Lo Stato di Israele, che deve le sue solide basi principalmente alle ondate storiche dell’Alyià, prospera proprio grazie al capitale umano, culturale e professionale portato dai nuovi immigrati.
• IL PROCESSO DI ALIYÀ Fare Aliyà non è un processo semplice e richiede una pianificazione accurata e il rispetto di determinate procedure legali. Le organizzazioni come l’Agenzia Ebraica per Israele forniscono supporto e assistenza ai nuovi immigrati, aiutandoli a integrarsi nella società israeliana.
Documentazione: I candidati devono fornire documenti che attestino la loro identità e la loro discendenza ebraica. Questo può includere certificati di nascita, documenti religiosi e altri attestati.
Supporto Logistico: Le organizzazioni per l’Aliyà offrono assistenza con il trasporto, l’alloggio e la ricerca di lavoro. Inoltre, ci sono programmi di integrazione culturale e linguistica per facilitare l’adattamento alla vita in Israele.
Incentivi Governativi: Il Governo israeliano offre vari incentivi per incoraggiare l’Aliyà, tra cui sussidi economici, agevolazioni fiscali e accesso a servizi pubblici.
Sono diverse le organizzazioni che a promuovono l’immigrazione in Israele. Una fra tutte è Belong, la prima azienda privata nata 10 anni fa dal suo fondatore, l’imprenditore Gilad Ramot. Il 7 ottobre e la guerra che ne è seguita hanno generato un senso di urgenza all’interno dell’azienda, dovuta alla preoccupazione per la sicurezza e all’aumento dell’antisemitismo globale.
Come risaputo, l’Aliyà è un importante concetto della cultura ebraica e anche una componente fondamentale del sionismo. È sancito dalla Legge del ritorno israeliana, che riconosce a qualsiasi ebreo (considerato tale dalla halakhah o dalla legge secolare israeliana) e ai non ebrei idonei (figlio e nipote di un ebreo, coniuge di un ebreo, coniuge di un figlio di un ebreo e coniuge di un nipote di un ebreo) il diritto legale all’immigrazione assistita e all’insediamento in Israele, nonché alla cittadinanza israeliana.
(Bet Magazine Mosaico, 20 giugno 2024)
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La macchina del fango palestinese continua a mentire sulla carestia a Gaza
Le Nazioni Unite, l’amministrazione Biden e i media continuano ad affermare che i palestinesi a Gaza stanno soffrendo la fame anche dopo che sono emerse prove che tale affermazione è propaganda
di Jonathan S. Tobin
Parte della narrazione accettata sulla guerra nella Striscia di Gaza è che i palestinesi stanno soffrendo la fame. A maggio, il capo del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite ha affermato che nel nord di Gaza c’era una “carestia in piena regola”. Negli ultimi mesi, il New York Times e il Washington Post hanno ripetutamente sottolineato che i palestinesi stanno morendo di fame.
In effetti, l’idea che ci fosse una vera e propria carenza di cibo a Gaza ha spinto il presidente Joe Biden a ordinare alle forze armate statunitensi di costruire un molo galleggiante e di ancorarlo lungo la costa di Gaza per facilitare il flusso di rifornimenti vitali a chi ne ha bisogno.
Sulla base di queste accuse, la Corte Penale Internazionale ha richiesto i mandati di arresto per il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il Ministro della Difesa Yoav Gallant, in gran parte per l’accusa di aver commesso crimini di guerra affamando deliberatamente i palestinesi.
• MA COSA SUCCEDE SE NON C’È CARESTIA? A quanto pare, il Comitato di revisione della carestia delle Nazioni Unite ha ammesso in un rapporto che le affermazioni sull’insufficienza di cibo inviato a Gaza sono false. Inoltre, questa affermazione, che è alla base della grande bugia, altrettanto diffusa, secondo cui Israele sta commettendo un genocidio contro i palestinesi, è una questione di furbizia contabile. Sembra che si basi in gran parte sul fatto che il numero di camion che consegnano i rifornimenti, che ogni giorno arrivano a Gaza da Israele per sfamare i palestinesi, sia stato sottovalutato e che i camion di cibo del settore privato non siano stati conteggiati così come le altre consegne.
Un fatto pertinente che va sottolineato è che prima del 7 ottobre, i rifornimenti giornalieri di cibo, carburante e altro materiale venivano trasportati a Gaza da Israele, il che smentisce la tanto citata accusa che lo Stato ebraico abbia bloccato la Striscia. L’Egitto, invece, ha continuato a chiudergli il confine.
Con poche eccezioni, la verità sulla situazione attuale non è stata ampiamente riportata. Su Commentary, Seth Mandel ha scritto dei risultati del rapporto delle Nazioni Unite e di varie analisi che hanno evidenziato i dati errati utilizzati per giustificare le affermazioni sulla carestia a Gaza. Sul Jerusalem Post, Seth Frantzman ha citato il lavoro di due professori della Columbia University che hanno analizzato i dati e sfatato la saggezza convenzionale secondo cui Israele affama i palestinesi.
• IL CIBO ARRIVA A GAZA Tutti questi studi dimostrano che se ci sono problemi di distribuzione di cibo a Gaza – e, ovviamente, un’area che è lo scenario di un conflitto militare in corso, scatenato dagli attacchi di Hamas a Israele del 7 ottobre, è destinata a subire interruzioni – non è a causa di una carenza di cibo. La quantità di prodotti che vengono spediti a Gaza da Israele è, come dimostrano questi studi, chiaramente sufficiente a sfamare la popolazione di Gaza.
La verità sulla carestia che non si sta verificando va collocata anche nel contesto di un evento che si sta verificando. Gli sforzi di Israele per mantenere gli aiuti nella Striscia non hanno precedenti nella storia dei conflitti armati. È un dato di fatto che le potenze belligeranti non sono responsabili dell’alimentazione dei loro nemici, specialmente delle persone sotto il controllo di combattenti ostili, come è vero per i palestinesi che vivono a Rafah, dove le ultime unità militari attive di Hamas sono ancora sotto controllo. Si tratta, ovviamente, di Paesi diversi dallo Stato ebraico.
In queste circostanze, persino gli Stati Uniti hanno riconosciuto che pochi dei rifornimenti entrati a Gaza attraverso il molo galleggiante hanno raggiunto i destinatari previsti. Le ONG e i cosiddetti gruppi per i diritti umani incolpano Israele di ispezionare i camion che entrano a Gaza per cercare di impedire che vengano usati per rifornire Hamas di armi e altro materiale bellico, mentre l’ostacolo principale al flusso regolare degli aiuti sono i palestinesi stessi. Ma piuttosto che ammettere che l’intera vicenda è stata uno scandaloso spreco di tempo, denaro e risorse – e illustra la natura sconsiderata e politicamente motivata della decisione di Biden di coinvolgere gli Stati Uniti in questo fiasco – l’amministrazione continua a tergiversare sul problema. Washington preferisce rimproverare Israele piuttosto che dire apertamente che l’idea è stata un grosso errore.
Come ha sottolineato Mandel, anche il Times sta nascondendo informazioni che minano l’accusa di carestia all’interno di altri articoli destinati a sostenere le accuse contro Israele. Il giornale ha scritto che non c’è carenza di cibo nel nord di Gaza, proprio dove in precedenza aveva affermato che la carestia era imminente.
Altri rapporti sottolineano non solo il continuo flusso di aiuti da Gerusalemme, ma anche il fatto che i mercati alimentari sono aperti anche nelle aree del sud di Gaza, dove continuano i combattimenti.
• HAMAS STA RUBANDO Sottolineare questo non significa negare che la situazione sia estremamente difficile. In tempo di guerra, le reti di distribuzione alimentare sono inevitabilmente interrotte. Ma se i palestinesi stanno soffrendo, è a dir poco diffamatorio dare la colpa a Israele. Fin dall’inizio della guerra, agenti armati di Hamas hanno dirottato la maggior parte delle consegne, il che significa che gli aiuti vanno ai terroristi e non ai civili che usano come scudi umani.
Sebbene i media notino spesso che Hamas è accusato di aver rubato la merce, in genere la considerano solo un’accusa infondata da parte di Israele e dei suoi sostenitori. Dato che si ammette che gli aiuti consegnati dal molo statunitense non arrivano ai civili palestinesi, non c’è altra spiegazione lontanamente plausibile per questo fallimento se non il fatto che i palestinesi armati impediscono che vengano distribuiti ai loro compatrioti che potrebbero averne bisogno.
Al problema si aggiunge un nuovo fattore. Oltre a Hamas stesso che requisisce le spedizioni di aiuti, bande di contrabbandieri – la maggior parte dei quali probabilmente affiliati ai vari movimenti terroristici – hanno ostacolato gli sforzi per sfamare i palestinesi. Come ha riportato il Wall Street Journal ripreso da RR, il contrabbando di sigarette è diventato una delle cause principali della carenza di cibo, poiché i criminali e gli operatori umanitari che sono loro complici usano i camion che dovrebbero portare cibo e carburante per trasportare tabacco di contrabbando.
Allora perché tanti media, organizzazioni internazionali e l’amministrazione Biden continuano a parlare di fame e a dare la colpa a un’unica entità per questa catastrofe in gran parte fittizia?
La risposta è ovvia. In una guerra in cui gran parte del mondo ha accettato la tesi secondo cui Israele è uno Stato “colonizzatore/coloniale” e “apartheid” contro il quale è giustificata praticamente qualsiasi tattica impiegata dai suoi nemici, gonfiare la situazione dei palestinesi di Gaza fino a trasformarla in una carestia deve essere considerata l’ultima di una lunga lista di falsità che sono state lanciate contro lo Stato ebraico dal 7 ottobre.
Si tratta di un conflitto in cui alcuni degli stessi organi che evidenziano le dubbie affermazioni di una carestia sono stati ansiosi di screditare la verità sulla realtà del terrorismo di Hamas e, in particolare, sulle atrocità, compresi i crimini sessuali, commessi dai palestinesi.
In effetti, i membri dello stesso coro di media anti-Israele hanno ripetuto fedelmente ogni menzogna diffusa dalla macchina propagandistica di Hamas, comprese le falsità su attacchi specifici e le cifre ampiamente gonfiate delle vittime tra i civili palestinesi, quasi tutti presumibilmente donne e bambini. Quindi, perché ci si aspetta che siano sinceri su una carestia per la quale non è possibile fornire alcuna prova, se sono disposti a mentire su molte altre cose?
Come per tutte le altre falsità addotte sulla conduzione della guerra da parte di Israele, la verità – anche se tardivamente ammessa – non sembra avere importanza. Coloro che si dedicano alla proposizione che, nella migliore delle ipotesi, Israele e Hamas sono moralmente equivalenti, passeranno sempre alla prossima accusa spuria senza mai rendere conto delle loro precedenti travisazioni e falsità.
Che Israele sia giudicato con doppi e tripli standard applicati a nessun’altra nazione – per non parlare di nessun’altra democrazia in guerra – non è una novità.
• UNA DIFFAMAZIONE DI SANGUE DEL XXI SECOLO Tuttavia, la natura efferata dell’assalto e delle atrocità del 7 ottobre, così come la chiara giustificazione della controffensiva israeliana per eliminare il movimento terroristico genocida che ha compiuto quei crimini, sembra aver spinto coloro che odiano Israele e gli ebrei a nuovi livelli di mendacio giornalismo.
Le persone della sinistra internazionale, convinte che Israele sia una nazione di cattivi “bianchi” che vittimizzano le “persone di colore” palestinesi, che sono inesattamente paragonate alle vittime americane della discriminazione razziale, non hanno alcuna remora a diffondere queste calunnie. Quanto più grave è il comportamento effettivo dei palestinesi, che sono votati alla distruzione di Israele e del suo popolo, tanto più diventa imperativo capovolgere la narrazione e accusare Israele di genocidio.
Ogni morte e tutte le privazioni subite dagli arabi palestinesi dal 7 ottobre sono responsabilità dei terroristi di Hamas che hanno iniziato questa guerra e che colgono ogni occasione per massimizzare le sofferenze del proprio popolo per infangare l’immagine di Israele. Questo non vale solo per i gazesi feriti o uccisi durante i combattimenti, ma anche per tutti coloro a cui è stato impedito di ricevere gli aiuti spediti nella Striscia con il permesso di Israele.
La fantomatica carestia di Gaza è solo l’ultimo esempio di come i palestinesi stiano ingannando il mondo mentre spirano deliberatamente ancora di più in un abisso di conflitto senza fine in cui loro stessi sono le vittime principali.
Gli americani dalla mente lucida, che ormai dovrebbero aver imparato a non fidarsi dei media aziendali su questo e su molti altri temi, non dovrebbero lasciarsi influenzare da questa campagna di propaganda, che affonda le sue radici nei vecchi tropi dell’antisemitismo, in cui gli ebrei sono sempre accusati di cospirare per danneggiare gli altri.
Spogliata dell’emotività e dell’attivismo di parte che colorano gran parte del giornalismo contemporaneo, e in particolare la copertura del Medio Oriente, l’affermazione che Israele sta affamando i palestinesi dovrebbe essere vista per quello che è: una diffamazione di sangue del XXI secolo.
(Rights Reporter, 20 giugno 2024)
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Stuprata perché ebrea, l'ombra del male che ritorna
di Pino Agnetti
Nei campi di sterminio nazisti, stuprare le ebree prima di smistarle nelle camere a gas era il passatempo preferito della canaglia a cui era stato affidato il compito di eseguire materialmente l’Olocausto. Come raccontato in Schindler’s List di Spielberg, qualcuna di quelle povere vittime si era anche rassegnata al ruolo di schiava del sesso per i prodi ufficiali del Terzo Reich nella segreta, quanto del tutto vana, speranza di poterne avere in cambio la salvezza. Ma ci fu anche chi provò a ribellarsi a quel supplemento di orrore (che comprendeva anche il fare da cavie per degli orripilanti esperimenti ginecologici) come le circa 90 ebree francesi che, il 25 giugno 1942, vennero ammazzate a calci e a colpi di manganello dalle kapò tedesche nel sottocampo di Budy, vicino a quello principale di Auschwitz-Birkenau. Dopo decenni di «Mai più!» ripetuti fino alla noia, di pellegrinaggi ininterrotti nei luoghi del più grande crimine della storia, di libri e di film (per la verità non tutti e non sempre all’altezza) sulla Shoah, di indignate condanne dei tentativi di ripeterla ai danni di popoli di altre fedi e origini, la notizia agghiacciante di cui parlerò fra poco ci riporta dritto per dritto al punto di partenza.
Per la verità, che certi demoni dati troppo frettolosamente per sepolti fossero tornati a danzare allegramente anche dalle nostre parti era insito in una montagna di segnali. Appannati solo dalla autoconsolatoria superficialità con cui siamo soliti approcciarci a una calamità imminente (vedi l’«Andrà tutto bene!» della fase iniziale del Covid). Come dalla sapiente cortina fumogena stesa da stuoli di dotti “osservatori” indaffaratissimi a spiegarci che parlare di antisemitismo oggi sia solo un espediente per cercare nascondere le malefatte di Israele a Gaza. Ma certo! E noi, poveri creduloni e sciocchi, ad allarmarci di fronte alla peggiore ondata di “incidenti antisemiti” aggressioni fisiche, insulti e minacce via social, attentati e atti vandalici contro luoghi di culto e cimiteri ebraici - mai registrata in Europa (Italia compresa) dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Vabbè, vale anche in questo caso la regola che - ebrei, sionisti o come diavolo li si voglia chiamare - “se la sono cercata”, no? Ah, ecco! Grazie per la profondità del pensiero e per l’afflato altamente morale e oserei dire altruistico - coloro che se ne fanno interpreti non sono forse fra gli alfieri più fieri e appassionati del popolo del peace& love? - che lo connota. Da oggi, a esprimere loro eterna gratitudine, c’è anche la dodicenne francese (avete letto bene: 12 anni!) stuprata da tre suoi coetanei «perché ebrea».
Non mi è mai piaciuto di indulgere in certi particolari.
Stavolta, però, la sequenza raccapricciante di quanto avvenuto alle porte di Parigi va riproposta per intero. La ragazzina - o meglio la bambina, fate voi - che viene portata dai suoi aguzzini, anch’essi poco più che bambini, in un hangar abbandonato. I tre, fra i quali c’è anche l’ex «fidanzatino», che cominciano a picchiarla gridandole «sporca ebrea». Per poi minacciare di darle fuoco con un accendino e quindi gettarla a terra e violentarla a turno, mentre sempre a turno immortalano con il telefonino lo scempio condito dall’inizio alla fine di oscenità antisemite. «È un atto spregevole, non possiamo credere che queste cose possano esistere», ha commentato il sindaco del sobborgo parigino teatro della violenza. Invece, esistono e tutto lascia pensare che si ripeteranno ancora.
In ogni caso, lo stesso orrore si è verificato su una scala ben più vasta e atroce il 7 ottobre scorso, quando Hamas ha macellato, stuprandone un gran numero prima di infliggere loro il colpo di grazia, 1.200 persone colpevoli solo di essere ebree per poi portarsene via altre 250 da usare come ostaggi. Il sostanziale silenzio con cui sono stati accolti finora i racconti di molti di loro una volta liberati racconti poi finiti in un rapporto ufficiale dell’Onu anch’esso misteriosamente sparito dagli schermi nonostante la gravità estrema dei reati in esso documentati, dallo stupro sistematico dei prigionieri senza distinzioni fra donne e uomini a una serie di altre pratiche degradanti come l’obbligare gli ostaggi a vestirsi da bambole prima di essere violentati nei tunnel - è e resterà una macchia sulla coscienza della intera opinione pubblica occidentale. Per la semplice ragione che, ogni volta che il male diventa “normale” o tale viene considerato invece di suscitare una immediata condanna “senza se e senza ma”, la sua nube maligna guadagna piano piano terreno fino a dilagare e a strapparci l’anima, facendo anche di noi dei mostri: attivi o passivi, consapevoli o no, poco importa. In fin dei conti, quei tre stupratori poco più che bambini non hanno fatto altro che attuare, replicandolo, lo stesso orrore compiuto da Hamas il 7 ottobre. E che sia stato proprio quello il “modello” è provato dalle frasi e dalle immagini antisemite, inclusa quella di una bandiera israeliana bruciata, rinvenute nei loro cellulari. Come dalla confessione di avere agito “per vendetta” dato che la vittima “aveva tenuto nascosto all’ex fidanzato di essere di religione ebraica” e si sarebbe lasciata andare a “delle parole offensive contro la Palestina”. La regressione galoppante che affligge ormai da tempo il “nostro” di mondi (non qualche più o meno lontano lembo mediorientale) ha dunque raggiunto e superato un nuovo abominevole picco. Con degli studenti europei delle medie assolutamente convinti che, «stuprare le ebree» come erano solite fare le SS di 80 anni fa, sia una cosa perfettamente normale e lecita. Dimenticavo. In questi giorni, avrete forse letto anche voi di quei politici «nostrani» che si divertono a esibirsi in pubblico con frasi tipo «Gli omosessuali devono bruciare in forni crematori» o (fra l’ilarità compiaciuta dei presenti) «Noi siamo abituati ai forni crematori ». A differenza di chi ci ha montato su il solito polverone politico, io mi limiterò a osservare - e concludo - che tanto desolante squallore dimostra solo una cosa. Vale a dire che il “male” nella sua versione più letale - quella della “normalità” - è di nuovo fra noi (ammesso e non concesso che se ne fosse mai andato). E che a questo punto, come sempre è accaduto nella Storia, è destinato a non andarsene via troppo facilmente.
(Gazzetta di Parma, 20 giugno 2024)
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I fronti di Israele e l’accusa all’Iran come regista del conflitto
di Olga Flori
Il conflitto prosegue e vede Israele impegnato nella Striscia, con l’operazione a Rafah ormai a un punto avanzato, sul fronte nord con il Libano e sul fronte della propaganda. Ma le principali accuse sono rivolte al regime iraniano, accusato dal governo israeliano di tenere la regia di tutte queste situazioni.
• Operazione militare a Rafah
L’IDF prosegue l’operazione militare a Rafah dove sono stati eliminati centinaia di terroristi e numerosi tunnel, secondo quanto confermato dal portavoce del governo israeliano David Mencer, che annuncia che Israele sta sconfiggendo le truppe di Hamas a Rafah. «Sappiamo che stiamo pagando un prezzo pesante, ma i risultati ottenuti sono numerosi» ha riferito Mencer.
• Fronte con il Libano
Con un attacco aereo dell’aeronautica israeliana (IAF) è stato eliminato il terrorista Muhammad Mustafa Ayoub nell’area della Selaa nel sud del Libano. Ayub era un importante esponente dell’unità missilistica di Hezbollah. Negli ultimi mesi ha collaborato al lancio di missili e all’espletamento di operazioni terroristiche contro Israele. Israele precisa che non ci sono dispute territoriali con il Libano e militarmente o attraverso vie diplomatiche garantirà il ritorno in sicurezza dei residenti del nord nelle loro case.
• Parole chiave della Shoah usate per propaganda contro lo Stato ebraico
Il portavoce del governo israeliano ha sottolineato che termini quali genocidio, sterminio e fame (n.r. starvation), vengono utilizzate per attaccare e diffamare lo Stato ebraico. «Sono parole che richiamano la Shoah che vengono ora attribuite a noi. Ma i fatti dicono altro» precisa Mencer, enfatizzando che solo ieri 174 camion di aiuti umanitari sono entrati a Gaza dal valico di Kerem Shalom. «Ogni giorno entra l’80% di cibo in più a Gaza rispetto a prima del 7 ottobre» precisa il portavoce del governo. « Dove c’è la fame a Gaza, questa è orchestrata da Hamas. Il cibo entra a Gaza ma viene fermato dai terroristi che lo fermano prima che arrivi alle persone».
• Il ruolo dell’Iran
«Il regime islamo-fascista iraniano sta orchestrando il terrorismo contro Israele su più fronti: Gaza, Giudea e Samaria, Iraq, Siria, Yemen» accusa il portavoce del governo israeliano. «Quando un odiatore di ebrei dice che vogliono eliminare gli ebrei dalla faccia della terra dovremmo credergli e noi gli crediamo» ha affermato Mencer enfatizzando la serietà delle misure che stanno prendendo per affrontare la minaccia.
(Shalom, 19 giugno 2024)
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Guerra Libano – Israele: le colpe di Hezbollah e quelle di UNIFIL
Hezbollah (e quindi l'Iran) sta trascinando il Libano in una guerra su larga scala con Israele, ma i media internazionali quasi non se ne curano
di Franco Londei
I generali israeliani hanno approvato i piani di battaglia in Libano. Ormai la guerra aperta è solo una questione di giorni a meno che il Segretario di Stato americano, Antony Blinken, non riesca nel miracolo di far ragionare i mullah libanesi di Hezbollah.
È curioso come i media internazionali parlino poco o niente del pericolo che scoppi un conflitto su larga scala tra Israele e Libano o, più precisamente, tra Israele ed Hezbollah, che vuol dire tra Israele e Iran, un conflitto di proporzioni cento volte maggiori di quelle viste a Gaza.
Forse sarà perché a volere a tutti i costi la guerra è Hezbollah, cioè l’Iran, che da anni disattende la risoluzione 1701/2006 delle Nazioni Unite la quale prevede (semplificando) che a sud della linea blu delimitata dal fiume Litani non ci possano essere uomini armati.
Hezbollah ha invece fortificato la zona a sud del fiume Litani schierando centinaia di batterie di missili puntati su Israele, il tutto tranquillamente sotto gli occhi di UNIFIL, cioè il contingente ONU incaricato di far rispettare la risoluzione 1701.
Dopo il 7 ottobre Israele non vuole e non può rischiare che il massacro si ripeta anche a nord, per cui pretende che Hezbollah si ritiri oltre la linea blu così come prevede la risoluzione ONU. Cosa che però Hezbollah si rifiuta di fare mentre UNIFIL appare del tutto impotente, come del resto negli ultimi 18 anni durante i quali non solo non ha vigilato, ma è sembrato connivente con Hezbollah.
Il più che probabile conflitto non andrebbe naturalmente a toccare direttamente l’Iran, ma coinvolgerebbe direttamente il Libano nella sua interezza. Per capirci, Beirut sarebbe un obiettivo dell’aviazione israeliana così come ogni parte del Libano che possa nascondere basi di Hezbollah.
Per il Libano, sull’orlo della bancarotta dopo decenni di oppressione di Hezbollah, sarebbe un disastro epocale dal quale molto difficilmente riuscirebbe a sollevarsi. Il tutto per far felici gli Ayatollah iraniani.
Naturalmente il silenzio dei media e delle cornacchie antisemite si romperà magicamente non appena il primo carro armato israeliano varcherà il confine libanese o quando la prima bomba colpirà una casa in apparenza civile ma che nasconde una base di Hezbollah, come ce ne sono a centinaia a sud della linea blu.
Ormai conosciamo bene il modus operandi della disinformazione araba e più in generale islamica.
A tal proposito va notato il silenzio delle cornacchie pro-pal sul vero apartheid al quale sono sottoposti i poveri palestinesi in Libano, costretti a vivere dentro le loro città (impropriamente chiamate campi profughi), senza nessuna possibilità di uscire neppure per lavorare visto che i palestinesi non possono lavorare in territorio libanese. Ma siccome Israele non c’entra, tutti zitti mi raccomando.
(Rights Reporter, 19 giugno 2024)
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L'Idf sapeva dei piani di Hamas. E si incendia il fronte con il Libano
Katz: "Con guerra totale Hezbollah sarebbe distrutto". L'inviato Usa: "Evitare l'escalation con Beirut"
di Fiamma Nirenstein
Il 29enne reporter Suleiman Maswadeh, un bel ragazzo arabo israeliano che dal primo canale della tv racconta ogni giorno la politica israeliana, ha fatto di nuovo mettere le mani nei capelli a tutti gli israeliani rendendo pubblico un incredibile documento dell'esercito venuto nelle sue mani. Vi si raccontava due settimane prima del pogrom, nei minimi particolari, quello che l'Idf sapeva sulla prospettiva dell'attacco di Hamas effettivamente poi realizzatosi, la Nukba, la maggiore strage di ebrei in un giorno dal tempo della Shoah. Sia il Nyt che il programma tv «Uvda» (Prova), di Ilana Dayan, avevano raccontato di notizie raccolte e poi archiviate, messe da parte per spocchia, pigrizia, burocrazia. Il lunghissimo documento nelle mani di Suleiman fu a suo tempo dichiarato degno di una riunione subito dopo il 7 ottobre, e lascia senza fiato perché l'Unità dell'Intelligence Militare 8200 sapeva tutto nei particolari.
È intitolato «Esercitazioni per il raid, dettagliate da capo a fondo», ed è così. Il 19 di settembre vennero consegnate a non si sa quale responsabile militare o politico: vi sono annotate le esercitazioni della Nukba minuto per minuto, cosa mangiavano a colazione, come pregavano col loro capo spirituale preparandosi a uccidere, tutti gli obiettivi dei kibbutz e delle città, e anche il preciso ordine di portarsi via dopo l'eccidio 250 rapiti, quasi il numero esatto, 251, di uomini, vecchi, donne e bambini realmente trascinati a Gaza il 7 ottobre. Il documento racconta come alle 12, dopo aver mangiato, i terroristi ricevevano equipaggiamenti e armi per le esercitazioni e poi ogni compagnia, alle due precise, provava le sue aggressioni a una struttura, a un luogo specifico (caserma, kibbutz, città, quello che è realmente accaduto insomma) secondo i piani. Venivano approntate finte forze armate israeliane, si consegnavano mappe dettagliate delle stanze di controllo, delle sale di riunione, di mense e dormitori. Sono state rivelate istruzioni specifiche, l'ordine di non lasciare tracce degli ordini scritti, di verificare che gli ostaggi non portassero un telefono, e anche di ucciderli se disturbavano o tentavano di fuggire, previo permesso del comandante. L'indicazione di bendarli portandoli a Gaza comprende anche i bambini come anche quella di cosa farne, dove metterli. L'unico errore rispetto alla storia dell'attacco è che si dice che dozzine di terroristi vi saranno impegnati, e non i tre o addirittura quattromila usati. Suleiman riporta che negli alti gradi qualcuno ha letto il documento, e ha mostrato che su una pagina qualcuno ha scritto «Voglio piangere, gridare, imprecare». L'esercito ha aggiunto questo rapporto alle responsabilità da verificare e punire, e ha dichiarato che la commissione lo farà. Poca soddisfazione rispetto allo scandalo e ai suoi micidiali punti interrogativi.
Nel frattempo la guerra seguita a presentare i suoi conti: percorrono le strade principali e bloccano il traffico di Gerusalemme le manifestazioni contro Netanyahu. La polizia reagisce all'assedio alla Knesset e alla casa del primo ministro arrestando alcuni manifestanti, le accuse volano pesanti, Netanyahu ha risposto chiedendo di evitare la «guerra fratricida». Macron, sulla base di accuse poi rivelatesi fuorvianti, aveva chiuso a Israele la mostra Mercato della Difesa Eurosatory, e persino, poi, a tutti gli israeliani. Ieri si è registrata una marcia indietro ancora non completa, ma significativa.
Il cartello di divieto d'ingresso è stato tolto. L'inviato di Biden, Amos Hochstein, si adopera in Libano per evitare l'escalation. Il ministro degli esteri israeliano Israel Katz avverte: «Se ci fosse una di guerra totale, Hezbollah sarebbe distrutto».
(il Giornale, 19 giugno 2024)
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“Gaza è stata distrutta da Hamas, la nostra fine decisa il 7 ottobre”
I rifugiati palestinesi: «Sinwar è uno psicopatico, sapeva che Israele avrebbe reagito».
di Francesca Paci
«Gaza era una prigione a cielo aperto, ma era casa mia e Hamas l’ha distrutta, Hamas ha distrutto Gaza». La videochiamata arriva da Khan Yunis, è un momento buono per telefonare. Jamal, che parla camminando tra gli scheletri dei palazzi in bianco e nero, è uno dei molti palestinesi della Striscia che insieme a Israele maledice Hamas, ma è soprattutto uno dei pochissimi disposti a dirlo, specialmente da lì, specialmente mentre l’ultimo devastante bombardamento israeliano sul campo profughi di Nuseirat allunga la lista delle vittime già ben oltre quota 37 mila, specialmente nelle ore in cui l’estrema destra al governo con Bibi Netanyahu liquida qualsiasi connazionale contrario alla guerra come un alleato di Hamas.
«La storia non è cominciata il 7 ottobre, quella di Hamas è da diciotto anni la dittatura di un partito unico che governa con il terrore due milioni di persone. Ho sentito mille volte ripetere che sono stati i palestinesi a votare per Hamas nel 2006, ma è passata una vita, mezza Gaza non era neppure nata allora e, in compenso, è cresciuta sotto il giogo di un regime violento, corrotto e al servizio dell’Iran. Le cose sono, se possibile, anche peggiorate da quando ha preso il potere Yahya Sinwar, uno psicopatico che ha trascorso nelle carceri israeliane vent’anni, molti dei quali in isolamento. La prova è proprio l’attacco del 7 ottobre, Sinwar ha scatenato contro Israele una guerra che sapeva di non poter vincere, ma che avrebbe provocato una reazione furibonda le cui conseguenze sono tutte qui adesso, le stiamo pagando noi, ogni strage di civili di cui Israele viene chiamato a rispondere dalla comunità internazionale è per i leader di Hamas una medaglia, avevano bisogno di decine di migliaia di morti per intitolarsi la resistenza». Jamal, un nome di fantasia come tutti quelli di questo racconto a più voci, ha 28 anni, ha studiato legge e Gaza City e nel 2019 ha partecipato alle manifestazioni del movimento bidna n’eesh (in arabo “vogliamo vivere”) contro il malgoverno della Striscia, uno dei coraggiosi tentativi di alzare la voce che i palestinesi hanno azzardato in questi anni, a partire dal 2011, salvo essere presto silenziati come traditori.
Mohammad, anche lui raggiunto al telefono, vive a Rafah, in una tenda che, ruotando lo schermo, mostra con dignità tra i gridolini di sottofondo dei suoi tre figli piccoli: «Siamo fuggiti da Gaza City settimane fa e abbiamo aspettato a lungo, dormendo all’aperto, la tenda che in quanto profughi avremmo dovuto ricevere dall’Unicef. Le organizzazioni internazionali fanno quello che possono, ma sin dal 2007 le assunzioni di personale locale passano attraverso gli uffici di Hamas, gli stessi che controllano gli aiuti e li fanno pagare a chi non appartiene alla rete governativa.
È così per l’alloggio e per il cibo. Ho raccolto, indebitandomi, 850 shekel per comprare questo riparo, 50 shekel al metro quadrato per un «tetto» che gli affiliati di Hamas hanno ottenuto gratuitamente. Almeno tre quarti dell’apparato operativo di Hamas è qui, a Rafah, si nasconde tra noi». Nella vita precedente al 7 ottobre, Mohammad vendeva frutta al mercato vicino alla spiaggia, adesso passa le giornate con gli occhi al cielo, «condannato a sopravvivere tra le bombe israeliane e la dittatura di Hamas». Il nemico esterno e quello interno, «il cancro che uccide la società palestinese pretendendo di difenderla».
La guerra cancella le sfumature, o di qua o di là: e molti si sentono schiacciati in mezzo, palestinesi che non sono e non vorrebbero essere equiparati ad Hamas. La polarizzazione però, è lo spirito dei tempi. Ieri mattina un gruppo di deputati di «Potere ebraico», il partito della destra radicale israeliana di cui è leader il ministro Itamar Ben Gvir, ha presentato alla Knesset il neonato «comitato per il rinnovo degli insediamenti a Gaza», una lobby che preme per rioccupare la Striscia rimandando le lancette della Storia indietro fino al disimpegno del 2005.
«Gaza è terra palestinese e deve restare palestinese ma non vogliamo Hamas, la nostra più grande paura in questo momento è che l’offensiva israeliana si fermi quando Hamas non sarà più in grado di colpire Israele, ma sarà ancora sufficientemente in forze da rovinare ulteriormente la vita dei palestinesi» dice Saleem, 27 anni, una delle testimonianze che «The Center for peace communications», un’associazione della diaspora gazawi con base negli Stati Uniti, porterà oggi a Montecitorio per un’audizione al comitato dei diritti umani del Senato e un incontro informale con la commissione esteri.
Con loro c’è la voce di Ahmed, 32 anni: «Nessuno che non lavorasse con Hamas immaginava un attacco come quello del 7 ottobre. Ci siamo svegliati all’alba con le immagini sui telefonini che raccontavano un film dell’orrore di cui eravamo protagonisti nostro malgrado, sadici che a nome nostro spaccavano la testa di donne, anziani, bambini. È Hamas che ha diffuso la storia dei civili unitisi ai massacri e agli stupri: è falso, sono stati loro, almeno duemila operativi che hanno colpito e sono tornati a mescolarsi tra di noi, facendosi scudo dei nostri figli e diffondendo attraverso le mille moschee del regime la vittoria della resistenza. Hamas è pagato dall’Iran e ha sovrapposto la guerra degli ayatollah alla causa palestinese».
E poi c’è Khalil, cinquant’anni, è riuscito a fuggire un mese fa con la famiglia attraverso il valico di Rafah, dove, racconta, «gli amici egiziani si fanno pagare il passaggio diverse migliaia di euro a persona». Si sta mettendo in viaggio verso la Germania e non tornerà indietro: «Gaza non c’è più, Israele ha creato le condizioni perché, dopo anni di umiliazioni, la pentola a pressione esplodesse ma Hamas non aspettava altro, ha sequestrato la nostra storia come ha sequestrato gli israeliani il 7 ottobre». Casa sua era e non è più a Deir al Balah, nel centro della Striscia, a pochi chilometri da Nuseirat, dove l’esercito israeliano ha liberato Noa Argamani, 25 anni come suo figlio.
(La Stampa, 19 giugno 2024)
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l settore energetico israeliano conta oltre 300 imprese innovative
di Francesco Paolo La Bionda
In Israele, il comparto Energy Tech, che raccoglie startup e imprese impegnate a fornire soluzioni innovative e sostenibili per la produzione e il consumo di energia, è arrivato a contare oltre 300 aziende, di cui 160 sono eccellenze a livello globale. Lo rivela il censimento effettuato da Start-Up Nation Central, un’organizzazione no-profit che promuove l’ecosistema dell’innovazione israeliano in tutto il mondo, in collaborazione con Ignite the Spark e l’Israel Export Institute.
Dall’analisi emerge un panorama imprenditoriale prevedibilmente giovane, con il 70% di queste imprese che è stato fondato negli ultimi dieci anni, con dieci nate solo nel corso dell’ultimo anno. I trend di crescita si rivelano comunque robusti: il 40% del totale si trova già in una fase di maturità imprenditoriale e nel corso degli ultimi dodici mesi sono stati raccolti 403 milioni di dollari in finanziamenti.
I dati sono stati resi disponibili anche sotto forma di mappa, dalla Israel Energy Tech Landscape Map 2024, che distingue tra i diversi ambiti di attività e tecnologici individuando otto categorie: produzione, trasmissione e distribuzione, cattura, utilizzo e immagazzinamento del carbonio, valorizzazione dei rifiuti, stoccaggio domestico, idrogeno, stoccaggio industriale e cybersicurezza.
“Con il mondo sempre più in cerca di soluzioni sostenibili in ambito energetico, l’approccio israeliano all’innovazione è fondamentale. Gli imprenditori israeliani stanno fornendo soluzioni avanzate per rivoluzionare tutti gli ambiti delle nuove filiere dell’energia e generare un impatto positivo nel comparto Energy Tech a livello globale”, spiega Alon Turkaspa, AgriFood Tech and Climate Tech Sector Lead di Startup Nation Central.
• In Israele domina ancora l’energia fossile, ma le fonti green hanno un grande potenziale
Secondo i dati ufficiali, nel 2022 Israele ha prodotto energia elettrica per quasi il 90% da fonti fossili, primariamente da gas naturale, di cui il paese è produttore dall’inizio del millennio, e in secondo luogo da carbone. Per le rinnovabili, la parte del leone l’ha giocata il solare fotovoltaico.
I motivi dell’utilizzo inferiore alle aspettative delle fonti green sono principalmente le lungaggini burocratiche, la mancanza di terreni adatti, la mancanza di elettrodotti sufficientemente potenti nelle aree più remote e il costo più basso della generazione da gas naturale, data la disponibilità domestica.
Tuttavia, un grande potenziale di crescita per le rinnovabili potrebbe arrivare dalla politica: già nel 2021, l’allora Primo Ministro Naftali Bennet aveva fissato l’obiettivo di un azzeramento delle emissioni israeliane entro il 2050. Un obiettivo che stava per diventare legge lo scorso settembre, prima che il pogrom del 7 ottobre sconvolgesse le priorità nazionali, quando il Parlamento aveva discusso un disegno di legge sul clima, e che potrebbe un giorno essere ripreso in mano dal governo.
(Bet Magazine Mosaico, 19 giugno 2024)
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Smontate tutte le bugie sulla fame a Gaza
di Sarah G. Frankl
Per mesi, Israele ha sottolineato che le denunce di “fame” a Gaza sono un mito o una bufala. Ciononostante, i media, le organizzazioni internazionali e i tribunali hanno continuato a diffondere la narrativa secondo cui Israele avrebbe impedito il rifornimento di cibo alla popolazione di Gaza.
Le accuse si basavano in gran parte su un rapporto pubblicato a marzo da un organismo affiliato alle Nazioni Unite chiamato IPC (Integrated Food Security Phase Classification). Ora che lo stesso gruppo ha pubblicato un nuovo rapporto che conclude che la carestia non è plausibile, viene ampiamente ignorato.
• COSA DICE L’IPC?
L’IPC è una partnership di ONG e organismi delle Nazioni Unite che valuta la sicurezza alimentare globale ed è stata la fonte principale dietro la dichiarazione di carestia a Gaza. Il rapporto del gruppo del 18 marzo avvertiva che centinaia di migliaia di palestinesi stavano vivendo una carestia e che molti altri erano a rischio imminente, secondo le loro proiezioni per i mesi successivi.
Il rapporto è stato screditato da una revisione del Ministero della Salute israeliano che ha sollevato “serie preoccupazioni sul fatto che le linee guida e i principi dell’IPC non sono stati rispettati, compreso l’impegno alla trasparenza del processo, della metodologia e delle fonti di informazione”.
Nonostante la citazione a livello mondiale, Israele ha criticato il fatto che il rapporto si basava su campioni di piccole dimensioni, su fonti di dati non rivelate, sulla mancanza di trasparenza e sulla mancanza di riferimenti a fonti disponibili al pubblico. Pertanto, le conclusioni e le proiezioni del rapporto sono state ritenute inaffidabili e sono state raccomandate per la prossima edizione dell’IPC.
“Il prossimo rapporto IPC su Gaza, che dovrebbe essere pubblicato all’inizio di giugno, dovrebbe evitare di ripetere questi fallimenti e includere un riconoscimento e una correzione degli errori commessi nel rapporto precedente”, ha dichiarato il ministero della Sanità israeliano.
Il rapporto del gruppo del 4 giugno sembra aver recepito in qualche modo il consiglio.
Il rapporto ha inoltre osservato che la nuova analisi del Comitato di revisione della carestia (FRC) ha concluso che la “carestia” non è “plausibile” senza “prove a sostegno”. Inoltre, ha ammesso che le prove presentate nel rapporto precedente non erano coerenti con la classificazione di “carestia”.
“L’FRC non ritiene plausibile l’analisi di FEWS NET, data l’incertezza e la mancanza di convergenza delle prove di supporto utilizzate nell’analisi. Pertanto, la FRC non è in grado di stabilire se le soglie di carestia siano state superate o meno nel mese di aprile”, si legge nell’ultima analisi dell’IPC. “In effetti, nelle circostanze attuali, dato l’aumento dell’offerta di cibo, potrebbe essere considerata possibile anche una riduzione della malnutrizione acuta”.
• ISRAELE: NON C’È “CARESTIA” A GAZA
I funzionari israeliani hanno ripetutamente affermato che non esiste alcuna politica per impedire l’accesso al cibo da parte della popolazione di Gaza. Al contrario, sostengono che le autorità hanno fatto di tutto per facilitare l’ingresso di quasi 700.000 tonnellate di cibo e aiuti umanitari nell’enclave palestinese.
Dal 7 ottobre è entrato a Gaza più cibo al giorno rispetto a prima dell’inizio della guerra, hanno insistito. Più di 3.000 calorie pro capite al giorno, secondo il COGAT, l’ente israeliano responsabile del coordinamento delle attività governative nei territori.
Ciononostante, i media e le organizzazioni internazionali continuano a spingere la narrativa della “fame”.
Cindy McCain, direttrice esecutiva del Programma alimentare mondiale, ha dichiarato il mese scorso di ritenere che nel nord di Gaza ci sia una “carestia in piena regola”. Le accuse rivolte a Israele dalla vedova del defunto senatore John McCain sono state riprese da molti in tutto il mondo.
Il ministro israeliano per gli Affari strategici Ron Dermer ha respinto queste accuse nelle interviste televisive rilasciate a fine maggio.
“Non c’è mai stata carestia a Gaza. Questa è una storia falsa”, ha detto Dermer in un’accesa discussione su Sky News.
Parlando con la BBC, ha aggiunto: “L’affermazione di una vera e propria carestia nel nord di Gaza è una vera e propria assurdità. È semplicemente sbagliata nei fatti. I prezzi dei generi alimentari di base nella parte settentrionale di Gaza sono diminuiti di circa il 90%. Questa è semplicemente una calunnia contro Israele. L’idea che ci sia cibo nella parte meridionale di Gaza e carestia nel nord, e che la gente non cammini per qualche chilometro per procurarsi il cibo, è assurda”.
Forse la prova più incriminante contro le accuse della McCain è stato uno scambio che i rappresentanti della sua stessa organizzazione avrebbero avuto con le autorità israeliane all’inizio di maggio.
Il 5 maggio, il COGAT ha pubblicato su 𝕏: “Nei colloqui tra rappresentanti israeliani e delle Nazioni Unite, tra cui il @PAM, nessuno degli enti ha indicato un rischio di carestia nel nord di Gaza. Hanno notato che la situazione umanitaria sta migliorando e che c’è una varietà di beni sia nei magazzini che nei mercati del nord. Notando il miglioramento della situazione, la settimana scorsa le organizzazioni internazionali hanno dichiarato che il volume delle merci trasportate nel nord di Gaza deve essere ridotto, poiché le quantità sono troppo elevate rispetto alla popolazione”.
Il “miglioramento della situazione” è stato evidenziato anche dalle Nazioni Unite.
“Dall’esame dell’FRC condotto nel marzo 2024, sembra esserci stato un aumento significativo del numero di camion di cibo che entrano nel nord di Gaza”, si legge nell’ultimo rapporto dell’IPC.
Il rapporto sostiene inoltre un’affermazione spesso avanzata dal COGAT israeliano contro le Nazioni Unite, aggiungendo: “L’FRC nota che il numero complessivo di camion che entrano nella Striscia di Gaza e di cibo disponibile che FEWS NET ha utilizzato per la sua analisi è significativamente inferiore a quello riportato da altre fonti”.
Per tutta la durata della guerra, Israele ha insistito sul fatto che ci fossero lacune significative nella quantità di camion di aiuti contati e presentati dalle Nazioni Unite. Ha incolpato le Nazioni Unite per il ritardo nella distribuzione degli aiuti a Gaza.
“Il contenuto di 1.000 camion di aiuti sta ancora aspettando di essere raccolto dal lato gazanese di Kerem Shalom”, ha twittato il COGAT nei giorni scorsi, esortando le Nazioni Unite a fare un lavoro migliore.
(Rights Reporter, 18 giugno 2024)
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Gli aiuti israeliani nella Striscia e i furti di Hamas
di Olga Flori
«Mille camion di aiuti aspettano di essere ritirati sul lato di Gaza del valico di Kerem Shalom» ha spiegato in un briefing il portavoce del governo israeliano David Mencer. Secondo i dati resi noti dal governo israeliano, dall’inizio della guerra oltre 35mila camion e 670mila tonnellate di aiuti umanitari sono stati consegnati a Gaza. «Nella Striscia entra l’80% di cibo in più rispetto a prima del 7 ottobre» ha sottolineato Mencer, aggiungendo che quotidianamente arrivano a Gaza da 100-150 fino a 400 camion di aiuti umanitari, soprattutto tramite il varco di Kerem Shalom.
«Hamas deruba i camion e vende gli aiuti sul mercato nero a prezzi più alti» accusa Mencer, rivelando la strategia israeliana: «Ciò che abbiamo fatto per contrastare ciò è inondare Gaza di aiuti. Portiamo aiuti a Gaza perché la nostra guerra non è contro i civili, anche se purtroppo secondo le ultime statistiche circa il 70-80% di loro sia favorevole a quanto compiuto da Hamas il 7 ottobre; la nostra missione è quella di portare più aiuti possibile e di distruggere Hamas. Non ci può essere una nuova realtà a Gaza fino a quando Hamas non sarà distrutto e gli stessi abitanti di Gaza non saranno liberi di esprimere la loro opinione e fino a quando Hamas non sarà distrutto».
Sono 255 i giorni di guerra contro Hamas e 662 i soldati israeliani caduti in combattimento dal 7 ottobre. Sono questi gli ultimi dati forniti da Israele. Dopo la morte al fronte di quattro soldati dell’IDF negli ultimi giorni, il primo ministro Benjamin Netanyahu è intervenuto per esprimere la sua solidarietà alle famiglie dei caduti, ricordando agli israeliani che «Quando il prezzo è così alto dobbiamo ricordarci per cosa combattiamo: stiamo combattendo per assicurare la nostra esistenza e il nostro futuro» ha ricordato Netanyahu, aggiungendo che gli obiettivi della guerra contro Hamas sono la distruzione delle capacità militari e di governo del movimento terroristico, il ritorno a casa degli ostaggi, fare sì che Gaza non possa più costituire una minaccia per Israele, il ritorno in sicurezza dei residenti evacuati dalle loro case, sia al nord che al sud.
Il primo ministro ha annunciato lo scioglimento del gabinetto di guerra, le cui funzioni saranno sostituite dal gabinetto di sicurezza. A tal proposito Netanyahu ha sottolineato che questo organo faceva parte dell’accordo di coalizione con Benny Gantz e che, dopo la decisione di quest’ultimo di lasciare il governo, non è più necessario.
Sul fronte con il Libano, dall’inizio della guerra, Hezbollah ha sparato oltre 5mila razzi verso le case degli israeliani. Non c’è alcun territorio conteso tra Israele ed il Libano, sottolineano fonti israeliane: «Useremo tutti i mezzi necessari per ripristinare la sicurezza al confine nord. Lo Stato libanese e l’organizzazione terroristica di Hezbollah, che sta operando sotto la guida dell’Iran, hanno piena responsabilità per il deterioramento della situazione di sicurezza nel nord, in violazione delle risoluzione delle Nazioni Unite. Tramite la diplomazia o militarmente, in un modo o in un altro garantiremo il rientro degli israeliani in sicurezza nel nord di Israele» ha sottolineato David Mencer.
(Shalom, 18 giugno 2024)
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La sconvolgente doppia vita di un eminente medico e la sua famiglia di Gaza: ostaggi israeliani nascosti nella loro casa
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Abdullah Al-Jamal in una fotografia postata su facebook nel 2020
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Lunedì 17 giugno, il Wall Street Journal ha portato alla luce dettagli sconvolgenti riguardanti la detenzione di tre dei quattro ostaggi salvati con successo dall’IDF l’8 giugno da parte di famiglie di Gaza. I racconti dei vicini hanno contribuito a svelare una realtà inquietante, nascosta dietro la facciata di una vita quotidiana apparentemente normale.
Almog Meir Jan, Andrey Kozlov e Shlomi Ziv erano stati tenuti prigionieri da famiglie palestinesi insospettabili in una piccola stanza di un appartamento nel campo di Nuseirat. Accanto alla casa degli Al Jamal, anche la famiglia Abu Nar ha tenuto prigioniera la ventiseienne Noa Argamani, fino a quando l’edificio non è stato distrutto durante l’operazione di salvataggio dell’IDF, portando alla morte di diversi occupanti. Noa è passata alla cronaca per l’agghiacciante ripresa del suo rapimento al festival musicale Supernova il 7 ottobre, prima di essere segregata in una villa di lusso, dove le donne sequestrate «pulivano il cortile, lavavano i piatti e preparavano il cibo che non potevano mangiare».
La storia dei tre ostaggi prigionieri si dipana nella casa della famiglia Al Jamal, una famiglia rispettata e conosciuta nella comunità per la loro affiliazione con Hamas. Ahmed Al Jamal, un medico di 73 anni e Imam, conduceva una vita apparentemente irreprensibile, dividendo le sue giornate tra una clinica pubblica al mattino e una privata nel pomeriggio. Era noto per le sue bellissime recitazioni del Corano. Nessuno avrebbe immaginato che dietro questa routine apparentemente banale si celasse una verità tanto scioccante.
Ahmed, insieme a sua moglie e suo figlio Abdullah, un giornalista, teneva prigionieri gli ostaggi israeliani. I vicini, secondo le ultime ricostruzioni, hanno rivelato attoniti che, sebbene fossero consapevoli dei legami della famiglia Al Jamal con Hamas, non avrebbero mai sospettato che il loro appartamento fosse diventato una prigione segreta. È incredibile pensare come, in un quartiere densamente popolato dove è possibile sentire persino il rumore dei vicini che tossiscono, un tale segreto potesse essere mantenuto così a lungo.
Gli ostaggi hanno raccontato il loro calvario, descrivendo come fossero stati confinati in una stanza chiusa e sorvegliata al piano superiore, mentre la vita familiare di Abdullah proseguiva indisturbata al piano inferiore. L’interazione con i figli di Abdullah era ridotta al minimo, un evento raro che avveniva solo quando venivano ammessi brevemente in cucina. Abdullah, come precisa il Jewish Chronicle, era un collaboratore di The Palestine Chronicle, dove il suo ultimo articolo era stato pubblicato il 7 giugno. Aveva anche una pagina del profilo sul sito web di Al Jazeera, dove è stato descritto come reporter spesso delle rivolte al confine di Gaza del 2018-2019, chiamate la “Grande Marcia del Ritorno” dei palestinesi.
L’audace operazione di salvataggio dell’IDF si è conclusa con pesanti attacchi aerei che hanno distrutto la residenza degli Al Jamal, causando la morte di Abdullah, di sua moglie Fatma e del padre Ahmed. I figli della coppia sono sopravvissuti, secondo quanto riportato dai residenti locali.
L’operazione dell’8 giugno è avvenuta nel mezzo di violenti scontri di strada tra soldati dell’IDF e militanti di Hamas, esacerbando ulteriormente la morte e la distruzione nel quartiere. «Se avessimo saputo che le persone rapite erano qui, ce ne saremmo andati», hanno detto molti abitanti al Wall Street Journal.
«A seguito dei controlli dell’IDF e dello Shin Bet, si può confermare che Abdullah al-Jamal era un agente dell’organizzazione terroristica Hamas, che teneva gli ostaggi Almog Meir, Andrey Kozlov e Shlomi Ziv nella sua casa di famiglia a Nuseirat», hanno dichiarato i militari in una dichiarazione pubblicata su X. «La casa della famiglia di Abdullah teneva ostaggi insieme ai membri della famiglia. Questa è un’ulteriore prova che l’organizzazione terroristica Hamas utilizza la popolazione civile come scudo umano», aggiunge la nota.
Hamas è stato condannato per aver messo incautamente in pericolo i civili ospitando prigionieri in un quartiere densamente popolato a loro insaputa, mentre alcuni sospettano che coloro che vivevano nelle vicinanze potessero essere a conoscenza degli ostaggi tenuti nelle vicinanze.
Questa è una delle tante storie tragiche che stanno emergendo nel conflitto in Medio Oriente; la storia di un rispettato medico, noto per la sua dedizione alla cura dei pazienti, che si è rivelato un carceriere di ostaggi. La sua vita, apparentemente normale e dedicata al benessere degli altri, nascondeva un lato oscuro che nessuno avrebbe mai immaginato. Una vicenda che rivela come dietro le facciate più rispettabili, possono nascondersi le storie più terribili. E come la tranquillità apparente di un quartiere può essere un velo sottile che cela profonde e sconvolgenti verità.
(Bet Magazine Mosaico, 18 giugno 2024)
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A Hamas basta scomparire
di Seth Mandel
Forse avete sentito dire: la palla è nel campo di Hamas.
“È corretto affermare che la palla è nel campo di Hamas”, ha dichiarato il portavoce della Casa Bianca John Kirby circa una settimana e mezza fa. Due giorni dopo, il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan ha ripetuto che l’attuale piano per il cessate il fuoco “è una proposta che Israele ha accettato prima e continua ad accettare oggi. La palla è nel campo di Hamas”.
Due settimane dopo le rassicurazioni di Sullivan, la palla resta nel campo di Hamas. In effetti, la palla sembra un po’ troppo comoda nel campo di Hamas. La palla comincia a mettere radici reali nel campo di Hamas. Di questo passo, il Segretario di Stato Antony Blinken potrebbe non riprendersi mai più la palla.
Cosa sta accadendo, esattamente? La risposta è che abbiamo raggiunto il punto di un processo diplomatico simile a un guasto informatico, in cui i numeri semplicemente non vengono più calcolati. Il computer si è impallato.
Le norme su cui si basa la diplomazia non si applicano ad Hamas. Il gruppo le rifiuta. In un normale negoziato, Hamas dovrebbe accettare o respingere l’accordo di cessate il fuoco sottoscritto da tutte le altre parti. Un rifiuto richiederebbe una controproposta: sono tutte cose piuttosto elementari. C’è un periodo di tempo limitato in cui la palla può rimanere nel tuo campo.
Ma a questo Hamas risponde: chi lo dice?
Il conflitto resta bloccato finché Hamas si rifiuta di restituire la palla. Hamas accoglie con favore la morte di palestinesi e israeliani, e il proseguimento dell’operazione israeliana a Rafah probabilmente non rappresenta una minaccia esistenziale per Hamas a meno che l’Amministrazione Biden non cambi la propria posizione. Fino ad allora, Israele è costretto a procedere troppo lentamente per portare a termine il lavoro.
Gli Stati Uniti sono l’unica parte in questi negoziati per il cessate il fuoco che potrebbe cambiare lo stato delle cose da un giorno all’altro. Questo è uno dei vantaggi di essere una superpotenza. Ma Biden non minaccia nemmeno di volerlo fare; perché, quindi, Hamas dovrebbe fare delle mosse improvvise?
Il leader di Hamas Yahya Sinwar non ha inventato questo trucco per fermare il tempo. Lo ha ereditato. Quando Yasser Arafat rifiutò l’intera offerta di statualità presentata da Bill Clinton e Ehud Barak, Arafat non fece una controproposta. Semplicemente se ne andò. E cosa gli costò? Niente. Meno di un decennio dopo, Ehud Olmert si presentò nuovamente al successore di Arafat, Mahmoud Abbas, con un’altra offerta. Abbas si limitò semplicemente a scomparire.
Naturalmente, mezzo secolo prima del rifiuto di uno Stato da parte di Arafat, gli arabi con cui gli ebrei avrebbero dovuto dividere la terra, fecero lo stesso. Invece di negoziare le linee su una mappa, fu presa la decisione di tentare di uccidere gli ebrei in massa e impossessarsi di tutta la terra. Eccoci qui, dopo tutti questi anni, e nessuna risposta palestinese si è discostata sostanzialmente da quella formula di base.
La differenza è che Arafat e Abbas impararono le loro battute e recitarono la propria parte nel teatro della diplomazia internazionale, almeno in una certa misura. Abbas era sinceramente contrario, per motivi pratici, all’avvio della Seconda Intifada da parte di Arafat. Una rinuncia non sincera alla violenza è sufficiente per convincere militari americani a venire in Cisgiordania e cercare di addestrare le forze di sicurezza palestinesi.
Ma Hamas ha battuto l’Autorità Palestinese di Abbas sul campo di battaglia. E Hamas ha battuto anche il partito Fatah di Abbas alle urne. Quanto vale la legittimità internazionale dell’Autorità palestinese? Meno di zero, per quanto riguarda Sinwar. Tiene in ostaggio degli americani e gli americani non permetteranno nemmeno a Israele di distruggere Hamas definitivamente.
Dopodiché, perché mai qualcuno dovrebbe attenersi nuovamente alle norme della diplomazia internazionale? Perché seguire le mozioni? E perché rispondere in maniera definitiva a un negoziato?
Dopo tutto, cosa faranno Joe Biden, Antony Blinken e Jake Sullivan al riguardo?
(L'informale, 18 giugno 2024)
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Presentazione a Torino di un libro su Primo Levi
REBUS PRIMO LEVI, Intervista e saggi (1981-2023)
di Paola Valabrega
Ne discutono con l’autrice:
PIERO BIANUCCI, "La Stampa" MIRNA CICIONI, Università di Melbourne ROBERTA MORI, Centro Internazionale di Studi Primo Levi, Torino
VENERDÌ 21 GIUGNO 2024, ORE 17.30
Torino, Polo del ’900 - Palazzo San Celso Sala Memoria delle Alpi, Piazzetta Antonicelli (3°p.)
Pochi sanno che Primo Levi, oltre che autore di Se questo è un uomo, è stato un enigmista. Amava ingegnarsi con i giochi linguistici. Un giorno inviò a un grande specialista come Giampaolo Dossena un rebus disegnato su uno dei primi computer Macintosh. G elìde M anitra scura TE. Ne risulta una frase: Gelide mani trascurate. Proprio alla predilezione per le mani nella descrizione dei suoi personaggi e alle conseguenze esistenziali che da questa scelta derivano è dedicato uno dei saggi qui raccolti. La metafora del rebus serve a definire una strategia per interpretare l’opera di Levi che si presenta più complessa di quanto possa apparire. Questi saggi tentano di ricostruire alcuni aspetti del suo pensiero, di andare al di là della prima superficiale lettura.
(Ricevuto per email, 18 giugno 2024)
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Hezbollah sta portando il Libano sull’orlo di una guerra devastante
Hezbollah sta trascinando il Libano in una guerra devastante solo per compiacere i suoi padroni di Teheran.
L’intensificazione degli attacchi del gruppo terroristico libanese Hezbollah verso Israele potrebbe innescare una grave escalation. Lo ha dichiarato domenica l’esercito israeliano.
“La crescente aggressività di Hezbollah ci sta portando sull’orlo di quella che potrebbe essere un’escalation più ampia, che potrebbe avere conseguenze devastanti per il Libano e per l’intera regione”, ha dichiarato il portavoce dell’IDF, il contrammiraglio Daniel Hagari, in una dichiarazione video in lingua inglese.
Dopo che gli attacchi missilistici hanno causato incendi massicci nel nord, la settimana scorsa Israele ha ucciso il comandante Taleb Abdullah, l’ufficiale più anziano ucciso nei combattimenti.
Hezbollah ha risposto con un lancio di razzi senza precedenti sul nord di Israele.
Domenica due funzionari delle Nazioni Unite in Libano hanno avvertito che c’è un rischio “molto reale” che un errore di calcolo lungo il confine meridionale del Libano possa innescare un conflitto più ampio.
Il coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il Libano, Jeanine Hennis-Plasschaert, e il capo delle forze di pace ONU in Libano, Aroldo Lazaro, hanno dichiarato di essere “profondamente preoccupati” per l’escalation lungo il confine libanese.
CBS News ha riferito che anche i funzionari statunitensi sono sempre più preoccupati che possa scoppiare una guerra totale dopo otto mesi di schermaglie, da quando Hezbollah ha iniziato ad attaccare Israele in ottobre a sostegno di Hamas a Gaza.
Alla luce delle preoccupazioni degli Stati Uniti, il sito di notizie Axios ha riferito venerdì che Amos Hochstein, un consigliere senior del Presidente degli Stati Uniti Joe Biden, arriverà in Israele lunedì per cercare di porre un freno all’escalation.
Hagari ha detto che Hezbollah “ha intensificato i suoi attacchi contro Israele. Da quando ha deciso di unirsi alla guerra iniziata da Hamas il 7 ottobre, Hezbollah ha sparato oltre 5.000 razzi, missili anticarro e UAV esplosivi dal Libano contro famiglie, case e comunità israeliane”.
“I proxy del terrore iraniano continuano a trascinare la regione verso la distruzione. Israele continuerà a combattere contro l’asse del male dell’Iran su tutti i fronti – a Gaza, in Libano – mentre lavoriamo per un futuro più sicuro per il Medio Oriente”, ha detto Hagari.
“Il 7 ottobre non può ripetersi, in nessuno dei confini di Israele. Israele ha il dovere di difendere il popolo di Israele. Noi adempiremo a questo dovere, a tutti i costi”.
Sabato due missili lanciati dal Libano hanno colpito limportante base di controllo del traffico aereo di Mount Meron dell’esercito israeliano. Le Forze di Difesa Israeliane hanno dichiarato che l’attacco non ha provocato feriti e “non ha danneggiato le capacità dell’unità”.
Hezbollah si è assunto la responsabilità dell’attacco, affermando di aver preso di mira le attrezzature della base con missili guidati.
Il gruppo terroristico ha attaccato più volte il Monte Meron, situato a circa otto chilometri dal confine con il Libano, durante la guerra in corso. Ha lanciato grandi raffiche di razzi contro il monte e missili guidati contro la base di controllo del traffico aereo che si trova in cima.
In un altro attacco, sabato, diversi droni carichi di esplosivo lanciati da Hezbollah dal Libano hanno impattato vicino alla comunità settentrionale di Goren, innescando un incendio. L’IDF ha dichiarato che sta indagando sul motivo per cui non è riuscito ad abbattere i droni.
Nell’ambito degli sforzi diplomatici per disinnescare le tensioni, il presidente francese Emmanuel Macron ha annunciato che Parigi, Washington e Gerusalemme formeranno un gruppo contrattuale per lavorare in tal senso, anche se venerdì il ministro della Difesa Yoav Gallant ha escluso il coinvolgimento di Israele.
Dall’8 ottobre Hezbollah attacca quasi quotidianamente le comunità e le postazioni militari israeliane lungo il confine, affermando di farlo in solidarietà con i palestinesi di Gaza, nel contesto della guerra scatenata dall’attacco terroristico dell’alleato Hamas.
Finora, le schermaglie al confine hanno provocato 10 morti tra i civili israeliani e 15 tra soldati e riservisti dell’IDF. Ci sono stati anche diversi attacchi dalla Siria, senza alcun ferito.
Hezbollah ha quantificato in 342 i membri uccisi da Israele durante le schermaglie in corso, soprattutto in Libano, ma alcuni anche in Siria. In Libano sono stati uccisi altri 63 agenti di altri gruppi terroristici, un soldato libanese e decine di civili.
(Rights Reporter, 17 giugno 2024)
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Israele vuole migliorare la sua immagine, ma senza la Bibbia?
Gerusalemme sta lavorando con uno dei maggiori esperti di branding al mondo, mentre si preoccupa dell'impatto della guerra di Gaza.
di Ryan Jones
GERUSALEMME - La guerra di Gaza è stata sfruttata dagli antisemiti di tutto il mondo per dipingere Israele come il nemico pubblico numero uno, e molti israeliani sono sempre più preoccupati di ciò che questo potrebbe significare per il loro futuro.
Gerusalemme ha assunto un esperto di Nation Branding per rinnovare l'immagine dello Stato ebraico.
Ma la nuova campagna terrà conto dell'aspetto più importante della storia di Israele, la Bibbia? Peggio ancora, cercherà di negare il carattere biblico di Israele a favore di un'immagine più progressista e moderna?
• Brand.IL
La nuova iniziativa di branding si chiama Brand.IL ed è guidata da un gruppo di uomini d'affari e filantropi che si sono posti l'obiettivo di migliorare significativamente l'immagine internazionale di Israele.
• Esperti richiesti
Simon Anholt, esperto riconosciuto a livello mondiale di Nation Branding e fondatore del Nation Brands Index (NBI), visiterà Israele questa settimana per gettare le basi di questo ambizioso progetto. Anholt è stato coinvolto nel branding di numerosi Paesi, tra cui Regno Unito, Giappone, Germania, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. La sua vasta esperienza e il suo approccio strategico si concentrano sull'azione piuttosto che sulla mera messaggistica, che ritiene essenziale per migliorare realmente la reputazione.
• Risultati del sondaggio sull’umore in Israele
Un sondaggio condotto dalla società di ricerche di mercato Shiluv per Brand.IL mostra che gli israeliani sono molto preoccupati per l'immagine internazionale del loro Paese. I risultati principali sono
- Il 72% degli israeliani ritiene che Israele sia isolato e rifiutato a livello internazionale.
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l 75% ritiene che lo Stato non stia facendo abbastanza per migliorare la propria immagine.
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Il 68% afferma che l'immagine offuscata del Paese ha un impatto negativo sulla sicurezza nazionale e personale.
- L'80% teme conseguenze economiche, come un aumento della disoccupazione e un calo degli investimenti stranieri e del turismo.
Inoltre, il 58% degli intervistati preferisce nascondere i simboli ebraici e israeliani quando viaggia all'estero e quasi la metà sta considerando di lasciare Israele. Questo riflette una notevole perdita di fiducia, dato che solo il 30% non è interessato ad assumere la cittadinanza straniera.
• Obiettivi strategici e aspettative Brand.IL si è posto l'obiettivo di migliorare la posizione di Israele nell'NBI, passando dall'attuale 46° posto a un posto tra i primi 30. Questo obiettivo si basa sul successo di Brand.IL. Si ispira alle storie di successo di Paesi come la Corea del Sud e gli Emirati Arabi Uniti, che hanno migliorato significativamente la loro immagine internazionale grazie a simili iniziative.
Il team di Anholt lavorerà con i principali responsabili di vari settori, tra cui il governo, l'esercito, le imprese, l'alta tecnologia e il mondo accademico, per sviluppare un quadro strategico per gli sforzi di rebranding di Israele. La classifica dei Paesi dell'NBI si basa sui seguenti criteri: Esportazioni, governance, cultura, popolazione, turismo, investimenti e immigrazione.
• Ulteriori implicazioni L'indagine mostra l'urgente necessità di sforzi strategici per contrastare la percezione negativa che ha fatto seguito agli eventi del 7 ottobre e alla successiva guerra di Gaza. L'obiettivo generale è quello di rafforzare l'immagine di Israele nel mondo, migliorando così la sua sicurezza, la resilienza economica e lo status generale sulla scena internazionale.
In questo percorso di branding, la collaborazione con Simon Anholt è un passo importante per cambiare la percezione di Israele nel mondo e affrontare le sfide immediate e a lungo termine poste dall'attuale immagine internazionale del Paese.
• È questo l'approccio giusto? Israele non è come il Regno Unito, la Germania, il Giappone o gli Emirati Arabi Uniti.
Il motivo per cui la maggior parte delle persone al mondo è interessata a Israele è la Bibbia. Per i cristiani, è la fede nella Bibbia che li attira in Israele. Per i laici e i musulmani, è il rifiuto di ciò che la Bibbia dice su Israele e sul suo futuro, anche se non ne sono sempre consapevoli.
Anholt e il suo team stanno aprendo un nuovo terreno. L'odio globale verso Israele è ossessivo ed esagerato, in misura incomparabile con gli atteggiamenti verso qualsiasi altro Paese. Il conflitto nella Striscia di Gaza è relativamente piccolo, ma in qualche modo è diventato la questione dominante in quasi tutti i Paesi del mondo. Non c'è una spiegazione logica per questo.
Anholt e il suo team riconoscono l'unicità della situazione di Israele? Perché solo allora capiranno che anche la soluzione deve essere unica. Il tempo lo dirà.
(Israel Heute, 17 giugno 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Da Vikipedia:
Il branding è una tecnica di marketing utilizzata dalle aziende per creare l’immagine desiderata di un prodotto o di un’azienda nella mente del consumatore. Un brand è l’immagine percepita del prodotto che si vende, e il branding è la strategia per creare quell’immagine. Per avere strategie di branding di successo, i clienti devono essere convinti che ci siano differenze significative tra i marchi esistenti in una categoria.
Chiaro? Non si dica banalmente che è lavaggio del cervello, perché si tratta di una delicatissima operazione chirurgica fatta sul vivo della mente umana al fine di renderla più adatta ad eseguire le direttive volute dalla mente del chirurgo. Direttive però che devono apparire come liberi atti delle menti chirurgicamente risettate, perché la libertà è un bene irrinunciabile nella superiore cultura occidentale. Sarà interessante in questo caso vedere quali saranno le "differenze significative" tra Israele e le altre nazioni che l'operatore chirurgico riuscirà far comparire nell'immagine dei sottoposti al risettaggio. M.C.
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Un minyan sull’Everest. Charly Taieb racconta la spedizione con una dedica per la liberazione degli ostaggi
di Claudia De Benedetti
Un minyan, un gruppo di dieci uomini ebrei adulti, ha scalato per il secondo anno consecutivo l’Everest con un Sefer Torà; Charly Taieb, carismatico e brillante comunicatore, tra gli artefici della spedizione, è rientrato da qualche giorno a Parigi e ha accolto l’invito di Shalom di raccontare il profondo significato spirituale di una settimana indimenticabile.
- Come è nata l’idea?
Quando ho compiuto 60 anni ho deciso di regalarmi una esperienza fuori dal comune. Mi sono allenato per molti mesi ed ho compiuto con altri tre amici l’ascensione del Kilimangiaro. Quando sono rientrato ho pensato che avrei voluto condividere con un minyan una sfida estrema. Così è nato il minyan completo, non un uomo di più, non un uomo di riserva, per far sì che ognuno di noi sentisse su di se l’onere del progetto, fosse pienamente consapevole della sua unicità e della sua necessità per poter recitare le tefillot e per la lettura della Torà.
- Come vi siete preparati?
Nessuno di noi è particolarmente sportivo, abbiamo età diverse, un allenamento eterogeneo, ma fin da subito ciò che ci ha accomunato è stato il desiderio di raggiungere un obiettivo comune.
- Fede, resistenza e una dedica speciale?
Cominciamo dalla dedica: nei mesi successivi al 7 ottobre abbiamo deciso di dedicare la spedizione ai nostri fratelli israeliani vittime dei massacri di Hamas. Speravamo con tutto il cuore che gli ostaggi venissero liberati prima della nostra partenza. Con il passare dei giorni abbiamo avuto la certezza che purtroppo non sarebbe accaduto. Abbiamo portato con noi le fotografie dei due fratellini Bibas e di altri ostaggi per chiederne l’immediata liberazione, dal tetto del mondo abbiamo pregato per il rilascio immediato degli uomini, delle donne e dei bambini prigionieri.
Abbiamo sempre recitato le tefillot con il minyan fino a che alcuni di noi non hanno più avuto la resistenza fisica per proseguire, hanno dovuto fermarsi a 5500 metri di altezza malgrado la loro volontà di ferro.
- Come avete trascorso lo Shabbat?
Durante le tappe che ci hanno condotto al campo base abbiamo incontrato molti israeliani, il venerdì li abbiamo invitati per condividere con loro la cena, eravamo in 35, l’atmosfera era meravigliosa, le storie personali di chi aveva amici o parenti in cattività ci hanno accompagnato i giorni successivi. Uno dei nostri ospiti ci ha colpito profondamente: era molto religioso ma si era allontanato dall’ortodossia, camminava tra India e Nepal, la settimana precedente si era sentito male, in quel momento aveva deciso di voler ritornare all’osservanza delle mitzvot, aveva chiesto ad Hashem di dargli ‘un segno’. Non scendo nei dettagli della storia ma ho la certezza che quello Shabbat è stato per lui il segno. Abbiamo riflettuto sul profondo legame che unisce il popolo ebraico alle montagne: da Abramo, con la sua salita sul monte Morià, a Mosè, con l’ascesa al Monte Sinai, al profeta Elia.
- E Yom HaAtzmaut?
Nel nostro viaggio abbiamo portato la bandiera d’Israele sia lo scorso anno sia quest’anno, l’abbiamo mostrata con orgoglio prima di interrompere l’ascesa per il maltempo. Quest’anno, come per tutti noi ebrei, è stato difficile festeggiare. Abbiamo osservato un minuto di silenzio per Yom HaZikharon. Israele è con noi in ogni momento della nostra impresa, non ci abbandonerà mai.
- Progetti per il futuro?
Tornare a scalare l’Everest, compiendo le mitzvot che ci rendono uomini migliori e celebrando il ritorno a casa di ognuno degli ostaggi.
(Shalom, 17 giugno 2024)
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Così Hamas sta prendendo in giro l'occidente
Il Telegraph spiega come a impedire il cessate il fuoco non sia l'insistenza nel portare avanti la campagna militare di Netanyahu ma il fanatismo di Yahya Sinwar. I politici occidentali dovrebbero capirlo
di Giulio Meotti
Porre fine alle sofferenze sopportate dai palestinesi comuni negli otto mesi trascorsi da quando i terroristi di Hamas hanno lanciato il loro devastante attacco contro Israele il 7 ottobre è stata la motivazione trainante dietro gli sforzi occidentali per risolvere il conflitto” scrive Con Coughlin sul Telegraph. “Anche se garantire il rilascio dei 120 ostaggi israeliani ancora tenuti prigionieri da Hamas è un’altra considerazione importante, cercare di evitare che i civili palestinesi subiscano ulteriori spargimenti di sangue sembra essere stata la priorità nelle menti di coloro che cercavano di attuare un cessate il fuoco a Gaza. L’amministrazione Biden, in particolare, è così impegnata nel raggiungimento di un cessate il fuoco da essersi assicurata il sostegno del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite prima che il segretario di Stato Antony Blinken intraprendesse l’ennesima missione diplomatica in medio oriente, la sua ottava dallo scoppio del conflitto di Gaza. Le precedenti iniziative statunitensi si sono invariabilmente concluse con il fallimento dei colloqui, generalmente attribuito all’intransigenza del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. La sua insistenza nel portare avanti la campagna militare israeliana volta a spazzare via l’organizzazione terroristica dalla faccia della terra, anche se i leader di Hamas accettassero di rilasciare tutti gli altri ostaggi israeliani, viene costantemente citata come la ragione del fallimento degli sforzi diplomatici volti a portare a termine la campagna militare israeliana.
Tuttavia, come sta diventando sempre più evidente, non è l’approccio intransigente di Netanyahu a ostacolare gli sforzi di pace. E’ il fanatismo di Yahya Sinwar, la mente terrorista di Hamas dietro le atrocità del 7 ottobre. Conosciuto come il ‘Macellaio di Khan Yunis’ dal nome dell’enclave di Gaza in cui è nato, uno dei calcoli chiave di Sinwar durante la pianificazione degli attacchi del 7 ottobre sembra essere stato che l’inevitabile risposta militare da parte di Israele avrebbe, alla fine, giocato a vantaggio di Hamas. E, a giudicare dalla quantità di messaggi trapelati che Sinwar avrebbe inviato ad altri comandanti di Hamas nelle ultime settimane, il suo stratagemma ha funzionato a meraviglia. Israele generalmente attira la maggior parte delle critiche globali per la sua gestione del conflitto di Gaza. I metodi subdoli impiegati da Hamas nell’interesse della propria autoconservazione, nel frattempo, raramente attirano l’attenzione che senza dubbio meritano. Questo nonostante Hamas utilizzi i civili palestinesi come scudi umani e le scuole e gli ospedali come centri di comando e controllo. Secondo i dettagli ottenuti dal Wall Street Journal, Sinwar ritiene che le vittime palestinesi ‘siano sacrifici necessari’. La critica globale rivolta contro Israele per la sua gestione del conflitto di Gaza significa che, dalla prospettiva distorta di Sinwar, ‘abbiamo gli israeliani proprio dove li vogliamo’. Fin dall’inizio del conflitto, è chiaro che l’unica ambizione di Sinwar è stata quella di garantire che Hamas sopravvivesse a Gaza una volta terminate le ostilità, anche se ciò significa che rimane solo una piccola frazione dei 24 battaglioni di combattenti che Hamas aveva a sua disposizione fin dall’inizio.
Qualsiasi accordo di cessate il fuoco che consenta ad Hamas di mantenere qualsiasi traccia di controllo su Gaza verrebbe visto come una ricompensa ai suoi leader per aver commesso gravi atti di terrorismo. Certamente, ora che l’atteggiamento sprezzante di Sinwar nei confronti del benessere del popolo palestinese è stato smascherato, i politici occidentali dovrebbero capire che Hamas, non Israele, è il vero ostacolo al raggiungimento di una pace duratura a Gaza”.
Il Foglio, 17 giugno 2024)
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Ciclismo – Storico podio per la squadra israeliana al Giro d’Italia giovani
Nell’albo d’oro del Giro Next Gen, il Giro d’Italia per Under 23, figurano nomi del calibro di Francesco Moser e Marco Pantani. Al Giro Next Gen, nel 1985, il futuro campione del mondo Gianni Bugno fu terzo. La stessa posizione ottenuta nel 2017 da Jai Hindley, vincitore cinque anni dopo del Giro tra i professionisti. E di esempi se ne potrebbero fare molti altri, utili per capire la competitività di questa corsa: da qui tanti campioni della bicicletta hanno iniziato a spiccare il volo.
Non sorprende pertanto l’entusiasmo in casa Israel Premier Tech, la squadra israeliana di ciclismo che correrà tra pochi giorni al Tour de France, per il terzo posto conquistato dallo spagnolo Pau Marti nella classifica finale della corsa “rosa” dei giovani conclusasi ieri sul traguardo di Forlimpopoli (FC). «Un momento storico per la squadra e un’ulteriore prova che il nostro programma “Academy” è uno dei migliori al mondo», ha commentato Ron Baron, uno dei fondatori del team. L’affermazione del 19enne Marti riscatta parzialmente la squadra dopo un Giro dei “grandi” avaro di soddisfazioni anche per via di alcuni sfortunati ritiri lungo il percorso ed è un ottimo viatico verso gli impegni del Tour, con la storica partenza italiana da Firenze ormai in vista.
Per la squadra israeliana notizie incoraggianti anche tra i “grandi” con il quinto posto al Giro di Svizzera dello statunitense con ascendenze italiane Matthew Riccitello, 22 anni, in forza alla Israel Premier Tech dal 2022. Della corsa, tradizionale banco di prova prima del Tour, vinto non a caso da un big come Adam Yates su Joao Almeida, Riccitello è stato la rivelazione assoluta e ha persino sfiorato il podio, distante appena 29 secondi. Chissà che non possa essere protagonista anche lungo le strade della Grande Boucle. In settimana il team dovrebbe diramare le convocazioni. Spera in una chiamata tra gli altri Chris Froome, quattro volte vincitore della corsa in passato.
(moked, 17 giugno 2024)
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Una seconda fase della guerra al nord?
di Ugo Volli
• LE FALSE DESCRIZIONI DELLA STAMPA
Anche i media meno sbilanciati contro Israele presentano la situazione del Medio Oriente in questa maniera del tutto insostenibile: c’è stato il 7 ottobre, opera però solo di “estremisti” di Hamas, “esasperati dall’occupazione”; l’esercito israeliano ha reagito “troppo”, producendo delle stragi se non proprio un “genocidio” contro l’“innocente” popolo palestinese; ora si tratta di costringerlo a smettere le operazioni, accettando le condizioni di Hamas, che vuole il cessate il fuoco. Quel che accade intorno, in Libano e nel Mar Rosso, sono solo manifestazioni accessorie di solidarietà, da parte di altri “estremisti”, che non vanno “sopravvalutate”. L’Iran “non vuole la guerra”, dunque è “pacifico”, ma reagisce alle “provocazioni” e insomma bisogna venire a patti con lui anche sul nucleare. Gli stati arabi vogliono uno stato palestinese indipendente e se Israele lo riconoscesse, la pace sarebbe a portata di mano.
• LA SITUAZIONE REALE
In realtà le cose non stanno affatto così. Il 7 ottobre è stato l’inizio di una guerra pianificata dall’Iran, che controlla i terroristi tanto di Hamas che del Libano, della Siria e dello Yemen. Lo scopo della guerra è la distruzione di Israele a tappe, per mezzo del logoramento militare successivo, dell’isolamento internazionale, del blocco economico, della creazione di tensioni politiche devastanti al suo interno. Su questa “lotta di lunga durata” e sui suoi obiettivi è d’accordo la grande maggioranza della popolazione araba di Gaza, Giudea e Samaria, che se può vi collabora volentieri. Lo stato palestinese sarebbe non una condizione di pace, ma lo strumento decisivo di questa strategia iraniana. Perciò in realtà gli stati arabi non fanno nulla per averlo, a parte un po’ di necessaria propaganda. La regia internazionale della guerra ha sfruttato la condizione di scudi umani che Hamas ha assegnato alla popolazione di Gaza, mettendosi in una condizione comunque vincente: poter colpire impunemente le forze israeliane, se queste non reagivano per la presenza di civili, oppure di attribuire loro con una forsennata campagna di diffamazione la responsabilità enormemente esagerata delle perdite, se reagivano. La politica americana, volendo impedire la distruzione dello stato ebraico ma anche il suo rafforzamento, ha puntato a impedire una vittoria rapida di Israele, ponendo continuamente ostacoli alla sua azione, ma poi ha sfruttato il conseguente prolungamento delle ostilità come pretesto per cercare di imporre a Israele la fine dell’azione militare senza la distruzione di Hamas, che significa concedere all’Iran una vittoria decisiva in questa fase e favorire la sua strategia di continuazione della guerra.
• VERSO LA CONCLUSIONE POSITIVA DELL’OPERAZIONE A GAZA
Ora la fase in cui la guerra si svolgeva principalmente a Gaza si avvia alla conclusione. Il confine con l’Egitto è controllato da Israele, come pure il 40% di Rafah (senza che ciò abbia prodotta la catastrofe umanitaria mille volte minacciata dalla “comunità internazionale”). I capi di Hamas non sono però stati eliminati: c’è chi dice che sono fuggiti attraverso i tunnel e ora sono nascosti chissà dove all’estero, con alcuni rapiti come garanzia. Altri ostaggi sono forse custoditi in case private come gli ultimi salvati, o reclusi nei tunnel; certamente molti fra loro sono stati uccisi dai loro sequestratori. Secondo le ciniche dichiarazioni di un capo di Hamas a Beirut, nessuno può sapere quanti siano rimasti in vita. Si può sperare di liberarne alcuni, bisogna continuare a smantellare le installazioni militari di Hamas e a eliminare i terroristi che si trovano. Sarà un lavoro molto lungo, ma il fronte principale della guerra ormai si è trasferito al confine col Libano.
• LA SECONDA FASE: HEZBOLLAH
Anche qui Hezbollah è in guerra con Israele da otto mesi, ma ha modulato con molta abilità il proprio intervento. All’inizio si trattava di pochi colpi d’armi da fuoco personali, poi è passato ai razzi anticarro (RPG) sparati anche su case e macchine, infine sono stati usati anche droni e missili veri e propri, su obiettivi civili e militari. Finora Hezbollah ha rivendicato più di 2000 attacchi (circa dieci al giorno) sparando almeno un terzo dei 20 mila missili diretti durante la guerra al territorio israeliano (cento al giorno in media). Il movimento terrorista dispone di fortificazioni sotterranee probabilmente ancor più vaste e solide di quelle di Hamas, anche perché agisce in territorio montagnoso, dove si è insediato stabilmente quando Ehud Barak nel 2000 abbandonò senza preavviso l’esercito del Libano del Sud che proteggeva la fascia di confine: una decisione altrettanto demagogica e sbagliata quanto lo sgombero dei villaggi ebraici di Gaza deciso da Sharon cinque anni dopo. Le sue truppe sono bene addestrate ed armate, allenate e selezionate nella guerra civile siriana. Si ritiene inoltre che Hezbollah detenga alcune centinaia di migliaia di razzi e missili di vario tipo forniti dall’Iran, compreso un buon numero di proiettili guidati da sistemi elettronici, in grado di colpire obiettivi delicati con grande precisione. Israele ha finora colpito in profondità caserme, depositi di armi, fortificazioni e soprattutto capi militari anche lontano dal confine, ben a nord di Beirut, ma il vantaggio strategico di questa fase della guerra resta a Hezbollah, che è riuscito a costringere Israele a evacuare le città e i villaggi più settentrionali e ha più volte minacciato o colpito obiettivi militari e città come Zfat e Haifa. Se un missile colpisse la zona portuale di questa città, dov’è ospitata fra l’altro la base principale della marina militare, potrebbe provocare una catastrofe ecologica incendiando i grandi depositi dell’industria chimica che vi hanno sede.
• LA PROSPETTIVA
La scelta se lasciare l’offensiva ai terroristi, rispondendo con rappresaglie mirate soprattutto ai comandanti e alle installazioni militari, oppure prendere l’iniziativa con bombardamenti più vasti seguiti da un’operazione terrestre è dunque molto difficile, anche perché al solito la “comunità internazionale” (essenzialmente Usa e Francia, antica potenza coloniale del Libano) cerca di frenare l’azione di Israele. Ma, per scelta di Hezbollah (o più probabilmente dell’Iran), il fronte settentrionale è diventato sempre più attivo e pericoloso. Non bisognerà meravigliarsi, dunque, se nei prossimi giorni vi si svilupperà una guerra di grandi dimensioni. Beninteso, sarebbe facilissimo evitarla: basterebbe che Hezbollah smettesse di sparare sul territorio israeliano e di minacciarlo, ritirandosi a nord del fiume Litani, come previsto dalla risoluzione dell’Onu che pose fine alla guerra del Libano nel 2006. Ma I terroristi non intendono farlo, perché il loro obiettivo non è l’indipendenza del Libano, che nessuno discute, ma la distruzione di Israele.
(Shalom, 16 giugno 2024)
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A Sderot, al confine con Gaza, dal 7 ottobre essere anormali è la normalità
Sderot è una graziosa cittadina a meno di un chilometro dal confine con la Striscia di Gaza. Per arrivare al centro della località si incrociano diverse rotonde, una delle prime è dedicata a Yitzhak Shamir, il settimo Primo Ministro dello Stato di Israele. Sul monumento ubicato nella piazza dedicatagli sono incisi il suo nome, la data di nascita e di morte (1915-2012), una sua foto e una sua citazione: “Spero di essere ricordato come un uomo che ha amato la Terra d’Israele e ha fatto tutto ciò che era in suo potere per compiacerla”. Una statua con un suonatore di violoncello abbellisce l’intera rotonda adornata da fiori gialli. Bandierine blu, bianche, gialle e rosse rallegrano le strade d’ingresso che, piazza dopo piazza, conducono dentro la città. È evidente a colpo d’occhio che lo Stato di Israele si sia impegnato nel rendere vivibile e gradevole una cittadina fortemente problematica data la sua natura geografica, al netto dei confini attuali: Sderot, infatti, fu uno dei teatri del massacro del 7 ottobre per mano dei terroristi palestinesi....
(Bet Magazine Mosaico, 16 giugno 2024)
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Chi sono i “giornalisti” complici di Hamas
Il caso dei reporter che hanno il filo diretto con i terroristi palestinesi.
di Michael Sfaradi
Indro Montanelli, grande maestro, sosteneva che il giornalismo è tale quando svolge la funzione di sentinella o cane da guardia della democrazia. Se nelle democrazie del passato il giornalismo libero era poco ma c’era, nelle democrazie dei giorni nostri è diventato una via di mezzo fra un’utopia e un animale mitologico. Il giornalismo ormai, e noi ci siamo tristemente abituati a questa tremenda realtà, non è più informazione ma spettacolo delle notizie dove si strillano le novità che fanno ascolti secondo criteri che vanno dalla linea editoriale al bisogno di avere quanta più gente possibile davanti agli schermi quando passa la pubblicità. Perché la pubblicità è progresso anche se condita di propaganda e ideologia. Con buona pace della verità perché come scrisse George Orwell su Verità e Menzogna: “Nel tempo dell’inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario.” Pertanto, nel tempo dell’inganno universale, le grandi reti televisive, per esempio le americane CBS News, NBC news e Fox News Channel, tanto per citare alcuni esempi, oppure la BBC britannica o la Antenne 2 francese, oppure, per rimanere in Italia, in alcuni telegiornali delle reti Mediaset (privata) o nella quasi totalità di quelli della Rai, che dovrebbe essere di Stato ma che invece è solo di qualcuno, quando fanno informazione, è sotto gli occhi di tutti ma solo in pochi sembra che se ne rendano conto, hanno tante linee editoriali, interessi politici, motivi di bottega. Questo perché, come detto prima, la pubblicità è progresso e porta il denaro che serve per la sopravvivenza delle reti stesse e per aumentare gli stipendi, già belli grassi, dei vari dirigenti che fanno il lavoro per cui vengono pagati. Cioè, da bravi Yesman, allinearsi e dire e far dire solo ciò che va bene al padrone di turno. Con tanti saluti ai cani da guardia della democrazia che ormai sono tutti in pensione o nei canili. Quei pochi ancora in libertà sono solo randagi pulciosi che quando abbaiano danno solo fastidio al vicinato. Tornando ai grandi network internazionali, soprattutto quando l’argomento è il Medioriente e Israele in particolare, abbiamo un ampio campionario di deviazioni giornalistiche che, almeno per diritto di cronaca, è necessario denunciare. Parafrasando Orwell, nel tempo dell’inganno universale, un giornalista che mette in luce le storture del giornalismo fa “un atto rivoluzionario.” Prendiamo i due esempi più eclatanti: la CNN e Al Jazeera. Questi due network televisivi godono della fama di essere fra i più rapidi e puntuali nel diffondere le notizie, ma essere rapidi e puntuali non basta per dare informazione di qualità. Non è un caso che proprio questi due network sono stati più volte attenzionati e silenziati dalle autorità israeliane sia per aver divulgato da Israele notizie sotto censura sia per aver divulgato notizie false. Ad Al Jazeera, novità di pochi giorni fa, è stato rinnovato il divieto di trasmettere da Israele per i prossimi 45 giorni. Al fine di stroncare le polemiche sul nascere faccio presente ai lettori che nessun network israeliano ha la possibilità di lavorare dal Qatar. Ci furono permessi limitati e momentanei concessi solo durante il periodo dei mondiali di calcio. Dirigenti della CNN diverse volte si sono trovati nell’imbarazzante condizione di dover volare in Israele per evitare la chiusura dei loro uffici di Gerusalemme, di casi in cui i loro giornalisti ne hanno combinate di tutti i colori, e sempre in un senso, ce ne sono stati tanti e le scuse a scoppio ritardato delle varie firme, anche importanti, non sono servite a sistemare i rapporti fra le parti. Per dare un senso alla mia critica sul modo di fare giornalismo alla CNN vorrei usare due esempi: il primo riguarda Sara Sinder, corrispondente CNN, che il 14 ottobre si è scusata con Hamas per aver riportato la versione secondo la quale i membri di Hamas avrebbero ucciso barbaramente bambini nell’offensiva in Israele di una settimana prima. Si è scusata di aver riportato la notizia di “neonati e bambini con le teste decapitate”. Vorrei ricordare che il 14 ottobre fotografie e filmati dei massacri erano già stati visti in tutto il mondo e i giornalisti accreditati in Israele erano stati invitati dal portavoce dell’esercito a visitare le case attaccate e distrutte dai terroristi di Hamas. In quei giorni c’erano ancora molti corpi a terra e ve lo dice chi quei corpi li ha visti in prima persona. E Sara Sinder si è scusata scusa con i terroristi. Se questo è il livello dei giornalisti responsabili delle informazioni che vengono divulgate, c’è davvero da preoccuparsi. Di questi giorni c’è il presunto scoop che sempre la CNN dice di aver fatto con il suo reporter di guerra Ben Wedeman. Benjamin C. Wedeman, per gli amici Ben è un giornalista di caratura internazionale e corrispondente di guerra senior della CNN con sede a Roma. Lavora con la rete dal 1994 e ha vinto numerosi Emmy Awards e Edward Murrow Awards. Proprio lui è volato a Beirut per intervistare Osama Hamdan che è uno dei tanti capi di Hamas all’estero e come tale, insieme ad Isma’il Haniyeh, Khaled Meshaal e tutta l’allegra brigata, non conta assolutamente nulla. E se questo lo so io ad Atlanta non possono non saperlo. Ben è volato fino a Beirut e, alla fine della fiera, si è grosso modo limitato a porre la domanda più inutile del mondo e cioè: perché Hamas non ha accettato la proposta di cessate il fuoco sostenuta dagli Stati Uniti. La risposta la conoscono tutti, non era necessario andare a Beirut. Hamas vuole il ritiro di Israele dalla Striscia per mantenere il potere e Israele non può permettere ad Hamas di rimanere al potere perché sarebbe una perenne spada di Damocle. Poi accettare passivamente l’idea che Hamas non sappia dove sono gli ostaggi e quanti sono ancora in vita, rasente il ridicolo. Ho ascoltato l’intervista e in questo pseudo scoop non ho trovato nulla di nuovo perché sono stati ripetuti a memoria i pizzini di Sinwar, vero padre e padrone di Hamas. Se Wedeman voleva davvero fare uno scoop e da bravo reporter di guerra avrebbe dato un senso ai premi ricevuti, magari guadagnandone un altro, gli sarebbe bastato scendere di una ottantina di chilometri verso sud per girare un reportage e raccontare come Hetzbollah si sta preparando ad affrontare l’esercito israeliano. Invece lui, reporter pluripremiato, si è accomodato in un ufficio con l’aria condizionata per parlare di un piano di pace nato morto mentre oltre duecento ordigni di tutti i tipi venivano lanciati verso Israele. Altro esempio della qualità dell’informazione di certi grandi network, qualcuno lo ha detto ma repetita iuvant, Abdallah Aljamal, il carceriere di tre dei quattro ostaggi liberati dall’esercito israeliano era un giornalista di Al Jazeera. Giornalista freelance la mattina e terrorista in servizio permanete effettivo per il resto del giorno. A pochi giorni dalla storica operazione di salvataggio dei quattro ostaggi, l’operazione dell’antiterrorismo israeliano risale a sabato 7 giugno, emergono nuovi dettagli. Ma partiamo dall’inizio. Che i quattro ostaggi fossero detenuti da Hamas in case private guardati a vista da famiglie della Striscia di Gaza che collaboravano come carcerieri è stato detto fin dal primo momento. Almog Meir Jan, Andrey Kozlov, e Shlomi Ziv, che erano stati rapiti durante il Nova Festival, erano detenuti proprio dal giornalista e fotoreporter Abdallah Aljamal che aveva trasformato la casa del padre, il dottor Ahmed Aljamal, un medico, in un carcere. Per cui un giornalista che lavorava per Al Jazeera e per il Palestine Chronicle e un medico, una persona che almeno in teoria avrebbe dovuto prendersi cura del prossimo, tenevano sotto chiave i tre ragazzi rapiti con la forza. Ci troviamo davanti a una situazione che fino a pochi anni fa avremmo ritenuto fantapolitica, nel nostro caso fantagiornalismo. Giornalismo che diventa terrorismo e va oltre ogni limite, ogni etica, ogni confine. E cosa ha fatto Al Jazeera? Nel momento in cui è stata presa con le mani nel sacco ha negato di aver avuto legami professionali con Abdallah Aljamal e ha cercato di cancellare dai suoi siti gli articoli e le fotografie da lui firmate. Una cosa però è certa, sia la CNN sia Al Jazeera continueranno ad essere citate come fonti di verità indiscutibili sulle quali non è ammissibile alcun dubbio e le persone meno attente continueranno ad essere informate poco e male. E i cani pulciosi? Tranquilli, fino a che avremo un pezzo di carta e una matita continueremo a scrivere e fino a che avremo fiato in gola continueremo ad abbaiare. Sì, continueremo a rompere le palle ai morti e ai vivi, continueremo ad essere le spine nel fianco di chi non ha mai capito, o non ha mai voluto capire, che il giornalismo non è un mestiere ma una missione.
(nicolaporro, 16 giugno 2024)
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Così i bimbi disabili e mutilati tornano ad avere un futuro nella clinica di Gerusalemme
Tra sirene antiaeree e minacce missilistiche, l'ospedale Alyn cura i piccoli pazienti con bisogni speciali, senza distinzione di etnia o religione. Una missione nata nel 1935.
di Luciano Bassani
Nell'agosto del 1918 una delegazione di medici arrivò a Gerusalemme con lo scopo di facilitare l'insediamento degli ebrei in quella terra da poco liberata dal dominio ottomano. Nel gruppo c'era un giovane chirurgo ortopedico, Henry Keller, già noto sia negli Usa che in Europa. Il suo compito era curare i bambini malati o feriti di guerra. Il suo approccio ai malati era inusuale, non si stancava mai intatti di spiegare ai genitori come la diagnosi precoce dei problemi ortopedici sia fondamentale per la guarigione e la prevenzione della disabilità. Si stupiva però di quanti ebrei e arabi si rifiutassero di sottoporre i propri figli alle cure, convinti che le disabilità dei bambini fossero una punizione divina.
Nel 1930 ottenne un permesso per operare come medico nel mandato britannico in Palestina e aprì una clinica ortopedica privata per bambini disabili. Nel 1935 registrò un'altra associazione a Gerusalemme il cui nome è l'acronimo in ebraico di «Società per l'aiuto ai bambini disabili», che in alfabeto latino si scrive «Alyn». A quel tempo la struttura operava a Gerusalemme e offriva trattamenti gratuiti a chiunque ne avesse bisogno, senza distinzione di etnia, cultura o religione. Medici e infermieri venivano pagati direttamente da Keller e dai primi donatori. Keller si spense nel 1944 ma non il suo sogno. Il consiglio dell'Associazione che includeva personalità di tutte le comunità religiose aprì ad Haifa e a TeI Aviv e verso la fine del mandato britannico Alyn forniva servizi medici, cure a lungo termine, servizi educativi e servizi sociali a migliaia di bambini nella zona di tutto il Vicino Oriente.
Nel 1948, durante la guerra d'Indipendenza per la nascita dello Stato di Israele, Alyn si occupò di curare i feriti di guerra, e nel 1949 fu in prima fila per curare i bambini dall'epidemia di polio che si era scatenata in Israele. Alyn Hospital oggi è riconosciuto come uno dei più importanti centri di riabilitazione pediatrica a livello mondiale. Un luogo dove i miracoli possono realizzarsi e in cui non si abbandona mai la speranza di vedere tornare il sorriso su una giovane vita che sembrava spezzata per sempre.
L'innovazione e la ricerca tecnologica sono parte integrante di Alyn. Nei laboratori vengono continuamente create nuove soluzioni nel campo delle protesi, dei sistemi di mobilità, persino nuovi tipi di giocattoli adatti alle infermità dei bambini. Attraverso il progetto Alynnovation destinato agli imprenditori, vengono sviluppati prodotti e tecnologie in grado di migliorare la qualità della vita dei ragazzi con bisogni speciali, non solo in Alyn Hospital, ma in tutto il mondo. Ciascun piccolo paziente è seguito da un' équipe che ne valuta le esigenze e stabilisce un piano di riabilitazione coinvolgendo anche le loro famiglie. Alcuni richiedono una riabilitazione breve svolta in day hospital, altri devono imparare a gestire lesioni complesse e condizioni mediche che richiedono anni di degenza. La gamma delle terapie comprende ogni tipo di riabilitazione: motoria, respiratoria, del linguaggio, alimentare. Alyn dispone anche di un centro sportivo all'avanguardia attrezzato con una grande vasca per idroterapia, scuole che permettono ai ragazzi di continuare gli studi assieme alle terapie, luoghi dove le cure si fondono col disegno, videogame, realtà virtuale, musica e persino giardinaggio. Non mancano i clown medici, pet therapy e tutti gli strumenti che contribuiscono all'innovativo approccio olistico sviluppato in ospedale.
Il 7 ottobre del 2023 ogni cosa è cambiata in Israele. Anche Alyn ha sperimentato le conseguenze di questa crisi, tra le più problematiche di sempre: parte del personale è stato mobilitato nelle forze di difesa; una delle principali fonti di finanziamento dell'ospedale, la corsa ciclistica Wheels of love, non ha potuto svolgersi; gli allarmi continui hanno costretto il personale a trovare il modo di far arrivare al rifugio in pochi secondi pazienti con gravi disabilità e spesso collegati ad apparecchi vitali.
Nonostante ciò l'ospedale è riuscito a continuare a lavorare per i suoi pazienti e non solo: il personale si è occupato delle esigenze dei ragazzi e dei bambini disabili sfollati, per aiutarli nel ritrovare una quotidianità seppur lontano da casa. Inoltre, sono state sviluppate soluzioni ad hoc per i soldati feriti, per i quali si sono impegnati anche i fisioterapisti di Alyn, raggiungendoli direttamente negli ospedali dove sono ricoverati.
C'è poi un altro tipo di impegno, non meno toccante: dal personale ai pazienti, agli amici sparsi sui cinque continenti, tutti ad Alyn si sono mobilitati per ricordare al mondo il dramma degli ostaggi nelle mani dei terroristi di Hamas e chiedere il loro rilascio immediato. Maurit Beeri, direttore di Alyn Hospital, ha più volte spiegato sui media lo stato di disagio e la situazione di precarietà vissuta da Alyn durante la guerra. Anche scrivendo una toccante poesia che scandisce il ritmo della corsa ai rifugi, un modo per ricordarci come ad Alyn le divisioni etniche e religiose non contano nulla, e persino la concitata strada verso la salvezza può diventare un motivo di gioia: «Genitori spaventati fanno correre i loro figli verso il rifugio antiaereo. Terrorizzati, con gli occhi spalancati e il cuore che batte forte. Novanta secondi. Svegliare il bambino che dorme. Afferrare il bambino. Novanta secondi. E anche il girello, la sedia a rotelle, il porta flebo. Novanta secondi. Sprint, con un bambino piccolo, tubi penzolanti collegati a un ventilatore. Novanta secondi. La pesante porta d'acciaio si chiude con un tonfo, tenendo lontano il male ... per dieci minuti. Una madre con l'hijab. Un padre con una grande kippah. Medici. Infermieri. E in quel silenzio improvviso, la piccola voce di una bambina: "Mamma, hai visto? Ho corso fino in fondo, da sola !"".
Concludo con una frase di Golda Meir: «La pace arriverà quando gli arabi ameranno più i loro bambini di quanto odino noi".
(La Verità, 16 giugno 2024)
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