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Notizie 1-15 luglio 2017


Gerusalemme, domenica riapre la Spianata delle Moschee

Il luogo di culto islamico è rimasto chiuso per due giorni dopo l'attentato di venerdì costato la vita a due poliziotti israeliani e ai tre aggressori palestinesi.

Domenica pomeriggio Israele riaprirà la Spianata delle Moschee (il Monte del Tempio per gli ebrei) tra rafforzate misure di sicurezza dopo aver sbarrato gli accessi per due giorni in seguito all'attacco terroristico costato la vita a due soldati israeliani. Lo ha annunciato l'ufficio del primo ministro Benjamin Netanyahu in un comunicato diffuso in serata. Intorno al luogo sacro saranno installate telecamere e metal detector e saranno predisposte ulteriori misure di sicurezza. Il premier israeliano, riporta Haaretz, ha preso la decisione dopo essersi consultato con i vertici della Difesa. Con la chiusura degli accessi alla Spianata delle Moschee decisa in seguito all'attacco lanciato da tre arabi israeliani contro due agenti, di fatto sono state impedite - per la prima volta da decenni - le preghiere islamiche del venerdì. Il provvedimento ha suscitato l'immediata ira del Mufti di Gerusalemme, sceicco Muhammed Hussein e la protesta di migliaia di fedeli musulmani che dopo non essere stati ammessi nella Città Vecchia hanno recitato le loro preghiere nelle strade di Gerusalemme est mettendo in scena una sorta di sfida di massa alla polizia.

(RaiNews, 15 luglio 2017)


L'Aron di Agira negli itinerari del turismo ebraico

di Cristina Puglisi

L'Aron di Agira
AGIRA - L'Aron di Agira, unica arca santa siciliana in pietra, inserita negli itinerari turistici dell'Ucei, ente che rappresenta le 21 Comunità ebraiche in Italia. E quello che si conserva nella collegiata del SS. Salvatore di Agira è un tesoro ebraico oltre che una rarità da tutelare e valorizzare.
L'Aron, o arca santa, è l'armadio in cui veniva conservata la Torah, ossia i rotoli delle sacre scritture. In Sicilia di Aron ce ne sono molti, ma solo quello di Agira è in pietra, tutti gli altri sono in legno. Realizzato in pietra aragonese si trova in fondo alla navata sinistra della Collegiata del SS. Salvatore vicino alla sinagoga che sorgeva nel quartiere arabo. Dimostrando un'integrazione fra popoli e culti che oggi è un'aspirazione.

(Giornale di Sicilia, 15 luglio 2017)


La Francia sarà mai amica di Israele?

14 luglio: Presa della Bastiglia e presa dei luoghi santi?

di Emanuel Segre Amar

Il 4 febbraio 1536 il re francese François (Francesco) Premier ricevette in dono dall'imperatore ottomano Solimano il Magnifico il controllo sui luoghi santi di Gerusalemme, e questo accordo venne riconfermato nel 1878. Come scrive giustamente Clément Weil-Raynal, pur essendo questo, già all'epoca, un incarico meramente simbolico, i funzionari del Quai d'Orsay ne approfittano per cercare di acquisire un diritto, almeno morale, sulla Città Santa.
   Il generale De Gaulle, che nel 1967 tradì Israele attaccata dagli arabi, interrompendo tutte le consegne di armamenti, compresi quelli che erano già stati pagati, affermò, non a torto, che gli arabi avevano, a loro vantaggio, "i numeri, lo spazio ed il tempo". Forse è anche questo il motivo che lo indusse a voltare le spalle ad Israele, paese piccolo e poco abitato, nel momento del maggior pericolo. Quanto al tempo, tuttavia…lasciamo tempo al tempo.
   Nel 2009 Netanyahu osò pronunciare delle parole condivise da quasi tutti gli israeliani: "Gerusalemme è la capitale di Israele e lo resterà per sempre". Frédéric Desagneaux, allora portavoce del Ministero degli Esteri francese, condannò ufficialmente tale affermazione, parlando in nome della Francia, quando sostenne che tale affermazione «préjugeait du statut final de la ville». Desagneaux, con tale dichiarazione, dimostrò di essere il candidato perfetto per occupare il posto di Console generale di Francia a Gerusalemme, incarico che infatti ottenne poco dopo.
   Giova qui ricordare che praticamente tutte le nazioni si appoggiano a due diversi consolati a Gerusalemme, uno nella parte occidentale, ed uno nella parte orientale della città (come se un "muro" immaginario - e che più di qualcuno (magari fra quelli che predicano "ponti e non muri") vorrebbe ripristinare - la dividesse ancora). Come il consolato generale d'Italia a Gerusalemme est dipende direttamente dalla Farnesina, e non dall'ambasciata italiana in Israele, così vale anche per quello francese.
   Il console di Francia a Gerusalemme Alain Rémy riconobbe, nel 2009, che l'Ambasciata di Francia è "cantonnée" (relegata) a Tel Aviv. Questa anomalia della diplomazia internazionale comporta inconvenienti non da poco che possono causare incidenti più o meno gravi a seconda dell'attitudine di chi occupa il posto di Ambasciatore (desidero qui salutare Francesco M. Talò, che è stato davvero un grandissimo Ambasciatore). Possiamo qui ricordare quanto accadde anni addietro in occasione della visita ufficiale dell'allora presidente Napolitano, accompagnato dall'Ambasciatore in Israele: appena oltrepassata la cosiddetta linea verde, si trovò di fronte il console generale che, inaspettatamente, si arrogò il diritto di accompagnare lui, con una guida da lui scelta, la delegazione italiana. Alla fine del percorso dentro le mura di Gerusalemme alcune persone della delegazione chiesero se lì di ebrei non ce ne fossero: non avevano nemmeno sfiorato la parte ebraica, e le spiegazioni date, anche sulla spianata del Tempio, furono non molto dissimili da quelle delle recenti delibere dell'Unesco.
   Il signor Desagneaux, diventato infine console di Francia a Gerusalemme nel 2009, non ha mai smesso di lavorare sul suo sito, vantandosi di bloggare senza problemi in tre lingue: "francese, inglese ed arabo". E l'ebraico, gli chiesero? «Connais pas»
   Dobbiamo allora stupirci se Macron, appena eletto, ha subito ricevuto in forma ufficiale il "presidente" Abu Mazen? Durante la consueta conferenza stampa al termine dell'incontro lo ha pure elogiato per la "iniziativa di pace da lui condotta con molti altri" (con chi?), e aggiungendo di "conoscere il suo impegno costante in favore della non violenza". A parole tanto affettuose Abu Mazen ha risposto porgendo le proprie condoglianze per la morte di Simone Veil che "ha tanto lottato per i diritti delle donne". Chissà se quel terrorista in giacca e cravatta sa che Simone Veil è stata una testimone diretta della Shoah da lui negata, e che era una donna ebrea e che quindi, in quanto tale, non avrebbe mai potuto abitare in quella "Palestina nei confini del 1967 con capitale Gerusalemme" da lui ancora una volta reclamata.

(Progetto Dreyfus, 14 luglio 2017)


Filumena Marturano in ebraico: il capolavoro di Eduardo al Teatro nazionale di Tel Aviv

di Regina Ada Scarico

 
Il Teatro nazionale Habima di Tel Aviv ha presentato questa settimana un nuovo allestimento - il terzo dal 1981 - della commedia Filumena Marturano di Eduardo de Filippo, affidando i ruoli principali a due degli attori teatrali più amati di Israele: Natan Datner nei panni di Domenico Soriano e Limor Golstein in quelli della donna con cui convive. Grazie alla sapiente traduzione dei testi in ebraico e ad una musica di accompagnamento ispirata a Renato Carosone e a Nino Rota il pubblico di Tel Aviv ha avuto la sensazione di immergersi in una Napoli di 70 anni fa e ha subito accompagnato con scoppi di ilarità ma anche con palpitazione l'evolversi della trama. Lo spettacolo è' stato patrocinato dall'Istituto italiano di cultura che a novembre produrrà anche una versione in ebraico de 'L'uomo dal fiore in bocca' di Luigi Pirandello. Il regista Roni Pinkovitch aveva già messo in scena Filumena Marturano dodici anni fa: "Rileggendola adesso in età più matura - ha detto - mi è balzato meglio agli occhi l'aspetto sociale coraggioso e progressista della protagonista che appare come una figura esemplare impegnata in una lotta sociale, quasi una eroina tragica". Molto vicina la sensazione espressa dalla Goldstein che, per l'occasione, è tornata col pensiero alla vita di indigenza provata dal padre, in un quartiere proletario del secolo scorso a Tel Aviv: "Mi piace molto - ha detto - la forza di resistenza di Filumena, la sua combattività". Datner, da parte sua, è un Domenico Soriano determinato a difendere i privilegi del proprio status sociale, anche con monologhi travolgenti enfatizzati da ampi gesti: una forma di espressività piuttosto tipica anche del teatro ebraico. Negli ultimi anni peraltro Israele si mostra particolarmente aperto, in senso lato, alla cultura napoletana. Ambientati nella Napoli del dopoguerra, i libri di Elena Ferrante si sono aggiudicati i primi posti nella lista delle vendite in Israele. Da parte sua la cantante Noa ha ottenuto molti consensi con la traduzione ebraica di canzoni napoletane. E di recente si è appreso che il disegnatore di Tel Aviv Assaf Hanuka sta illustrando un testo autobiografico dello scrittore Roberto Saviano.

(Cronache della Campania, 15 luglio 2017)


Spari e morte sulla Spianata delle Moschee

Tre palestinesi ammazzano due guardie israeliane. Poi vengono abbattuti

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Alle sette di mattina la guardia di frontiera che sorveglia l'entrata sulla spianata delle Moschee vicina alla Porta dei Leoni, è abituata, specie di venerdì, all'andirivieni dei musulmani nel loro giorno santo della preghiera. Era imprevedibile un attacco così sofisticato, che addirittura salta fuori dalle Moschee stesse, si avventa sparando alla schiena con armi automatiche sulle guardie, e riesce a ferirne a morte due prima che i tre terroristi vengano fermati col fuoco, non prima che uno di loro riesca a lanciarsi di nuovo con un coltello sui poliziotti. Una scena che rischia per la sua complessa ma evidente simbolicità di dare fuoco a tutto il Medio Oriente e oltre: Al Aqsa, il cui santino troneggia in milioni di case arabe, è per l'Islam il terzo luogo santo dopo la Mecca e la Medina, quello da cui si involò Maometto sul cavallo Al Buraq; ma questo è ancora poco rispetto a quello che avevano certo in testa i tre terroristi palestinesi.
   Di nome tutti e tre Muhammad Jabarin (le omonimie qui sono molto comuni), uno di 29 anni e due di 19, vengono dalla Umm el Fahem, cittadina israelopalestinese, patria di Ra'ed Salah, fondatore e capo di un movimento islamista filoterrorista ormai fuori legge; chissà se la loro complessa operazione che presuppone armi, spostamenti, allenamento, coordinazione e segretezza nasce con l'intervento di Hamas o dell'Isis o degli Hezbollah. Chissà se aveva complici nel clero dentro le Grandi Moschee.
   Di certo quello che gli ha bombardato il cervello è la litania iniziata da Arafat per cui «le Moschee sono in pericolo»: gli ebrei sono dei mostri, dei crudeli occupanti che nonostante abbiano, subito dopo la Guerra dei Sei Giorni, e questa è storia, affidato la Spianata a una gestione del tutto giordano-palestinese, vogliono schiacciare la fede islamica, e distruggere Al Aqsa. Gli uccisi dai terroristi sono due poliziotti drusi, Haiel Sitawe di 30 anni del villaggio di Maghar, che lascia moglie e un figlio neonato, e Kamil Shnaan di 22 anni, che era il figlio di un membro del Parlamento socialista, Shachiv Shnaan. Questo rende la vicenda ancora più bruciante, è inenarrabile in poche righe il grande sforzo di integrazione che la comunità drusa, nobile e austera, sa compiere per Israele. Ed è molto triste e imbarazzante per Israele cercare di mantenere la libertà di culto per tutti mantenendo lo status quo di Gerusalemme che prevede controllo e dominio religioso intoccabile del Waqf, palesemente aggressivo.
   Ma subito il premier Netanyahu, raggiunto ieri da una rara telefonata di condanna dell'accaduto da parte di Abu Mazen ha assicurato che lo Status quo non si tocca. È facile immaginare che la telefonata di Abu Mazen sia stata soprattutto dettata dalla preoccupazione che la bomba islamica gli scoppi in mano. È anche probabile che i giordani, che ci tengono ai rapporti con Israele e temono gli islamisti, e forse anche qualche telefonata dall'Arabia Saudita possano aver spinto il leader dell'Autorità Palestinese a parlare col premier israeliano. Una momentanea chiusura della Spianata e l'arresto (già seguito dal rilascio) del mufti Mohammed Hussein sono state mosse obbligate. Si aspetta il giorno dopo, con una sola decisa mossa di deterrenza: lo smantellamento delle «tende del lutto» delle famiglie dei terroristi.
   Servirà a qualcosa tanta prudenza? Servirebbe solo se si fermasse l'incessante glorificazione del terrore che ha un contenuto ben concreto: il pagamento di un cospicuo stipendio ai terroristi in prigione e alle famiglie degli shahid. Qui Abu Mazen è cristallino: la richiesta del governo Trump, che minaccia di tagliargli i fondi se non smette, per ora è stata rifiutata con toni chiari.
   In queste ore impazza sui social network l'esaltazione dei supershahid che hanno scelto di morire sulla Spianata di Al Aqsa, il massimo delle aspirazioni del jihadista: «Il mio sorriso domani sarà più radioso con l'aiuto di Allah» ha scritto uno dei terroristi in un post su facebook. Al Jazeera ha comunicato l'evento così: «Almeno tre palestinesi uccisi da spari in Città Vecchia». «Fake news» pericolose davvero.

(il Giornale, 15 luglio 2017)


I palestinesi ora sparano: ammazzati due poliziotti israeliani

Le vittime non sono ebrei ma drusi

di Carlo Panella

Si deve andare molto indietro nel tempo per ricordare una sconfessione aperta e frontale di un attentato palestinese da parte di Abu Mazen. Ma ieri il leader dell'Autorità Palestinese ha fatto una lunga telefonata al premier israeliano Bini Nethanyhau per esprimergli la sua solidarietà e per condannare fermamente l'assalto a colpi di mitra e pistola da parte di tre palestinesi alla «porta dei Leoni» che immette alla Spianata delle Moschee nella città vecchia. Attentato che ha provocato la morte di due militari delle forze speciali israeliane, di origine drusa, non ebrei, prima che i tre assalitori venissero uccisi mentre tentavano la fuga nei vicoli. Un massacro ai bordi del luogo più santo per l'islam di Gerusalemme che è stato esaltato da Jihad islamica da Hamas da Gaza: «Questa benedetta operazione di martirio mette in evidenza la determinazione del nostro popolo a resistere alla brutale occupazione è conseguenza naturale di una serie di crimini compiuti da Israele».
   La ragione della inedita solidarietà portata a Israele da Abu Mazen è semplice: si è trattato di una provocazione che mirava a trasformare ancora una volta la Spianata delle Moschee in un casus belli, a innescare una rivolta armata palestinese contro Israele. Prospettiva che Abu Mazen - che mai, mai aveva solidarizzato con Israele in occasione dei tanti attentati a militari e civili israeliani con auto o coltelli - oggi intende assolutamente disinnescare. Non certo per ragioni umanitarie, ma perché oggi Abu Mazen è sottoposto alla fortissima pressione dei Paesi arabi che supportano l'Autorità Palestinese (Egitto, Arabia Saudita e Giordania in primis) per riprendere i colloqui di pace con Israele e quindi isolare ulteriormente Hamas (che è la succursale Palestinese dei Fratelli Musulmani) e Jihad islamica.
   Altro elemento di novità dell'attentato di ieri alla Spianata delle moschee è la dichiarazione delle autorità israeliane di non avere notizie precedenti sulla affiliazione estremista dei tre attentatori, che erano arabi ma con nazionalità israeliana, quindi non provenivano dai Territori, ma probabilmente dalla stessa Gerusalemme. Questi, hanno condotto l'operazione sparando con un fucile mitragliatore di grande semplicità (il Carl Gustav) raramente utilizzato da attentatori e con pistole. Israele - che dispiega un corpo speciale di polizia attorno alla Spianata delle moschee e al Muro occidentale, che la supporta - ha chiuso l'accesso alla Spianata, ha proibito che ieri vi si svolgesse la preghiera del venerdì e ha anche fermato il Gran Mufti di Gerusalemme sheikh Mohammed Hussein, che si è unito a una piccola folla di palestinesi che ha manifestato davanti alle porte chiuse che dalla città vecchia conducono alla Spianata, per chiedere si potesse tenere la tradizionale liturgia del venerdì.
   Le due vittime israeliane di ieri si sommano alle 40 vittime di Israele da quando, tre anni fa, è iniziata la «Intifada dei coltelli» ed è elemento non secondario che siano due arabi di religione drusa, che appartengono a tribù che sin dal 1948 hanno stretto un «patto di sangue» con Israele che difendono anche in armi.

(Libero, 15 luglio 2017)


Dall'Unesco al Jihad, assalto a Gerusalemme. Uccisi due poliziotti

Da Gaza a Gerusalemme, i palestinesi usano le moschee per il jihad contro gli ebrei.

di Giulio Meotti

ROMA - Le due risoluzioni dell'Unesco sulla Spianata delle Moschee a Gerusalemme (ne parleremo lunedì in un numero speciale sul Foglio) non citavano il fatto che la Moschea di al Aqsa aveva già ispirato molti attentati che hanno già fatto migliaia di vittime in Israele. Con l'attentato di ieri sul luogo santo dell'islam e dell'ebraismo, il terrorismo palestinese compie un ulteriore salto di qualità: l'uso della Spianata per uccidere ufficiali della polizia israeliana. Si tratta di due drusi, fra cui Kamil Shnaan, il figlio dell'ex deputato laburista Shachiv Shnaan, appartenenti a una minoranza molto integrata in Israele. Gli attentatori sono invece arabo israeliani: stavano camminando verso la Spianata, quando hanno colpito con fucili e coltelli un gruppo di poliziotti, che li hanno inseguiti fin dentro il terzo luogo più sacro per l'islam, il Monte del Tempio per gli ebrei, dove gli islamisti sono stati uccisi all'ingresso della moschea. Ieri mattina, prima dell'assalto, due di loro avevano postato su Facebook una fotografia che li ritraeva di fronte al luogo santo per l'islam: "Domani il sorriso sarà ancora più bello, Allah volendo".
   Gli Stati Uniti ieri hanno proibito agli ufficiali americani di mettere piede nella Città vecchia fino a domenica per timore di altri attentati, mentre Israele ha chiuso la Spianata alla preghiera. Un mese fa, un commando di terroristi palestinesi aveva ucciso un poliziotto alla Porta di Damasco. Sono 43 gli israeliani uccisi dal settembre 2015.
   Per l'islam radicale e i palestinesi, oltre che "santi", questi luoghi sono anche le basi del terrore contro Israele. Il loro uso da parte palestinesi risale all'epoca del Grand Muftì di Gerusalemme, l'alleato di Hitler Hajj Amin al Husseini, che nascondeva armi e terroristi nella Spianata delle moschee. Lo sceicco Yusuf al Qaradawi, guida di quella Fratellanza musulmana da cui è uscito Hamas che ha rivendicato l'attentato di ieri, ha teorizzato il ruolo della moschea nel jihad, mentre l'ayatollah Khomeini, ispiratore della Jihad islamica palestinese, ha definito la moschea "fortezza del jihad". Come scrive Nadav Shragai in un paper per il Jerusalem Center for Public Affairs, "le moschee della Spianata vengono spesso utilizzate per scopi terroristici". Nell'ultimo mese, Londra ha ospitato due manifestazioni islamiste dedicate ad al Aksa, il nome della moschea dell'assalto terroristico a Gerusalemme (un imam sudafricano presente alla seconda manifestazione ha chiamato gli ebrei "zecche"). Nella sua guerra a Israele, anche a Gaza Hamas fa uso delle moschee. Quella di al Tafweek è stata distrutta da Israele perché usata come rampa di lancio. Missili furono trovati dentro al pulpito di legno della moschea di al Atatra. Hamas cita un hadith di Maometto per giustificare l'uso delle moschee. E come dimenticare quanto accadde nel 2002 alla Basilica della Natività a Betlemme, i trentanove giorni d'assedio al secondo luogo santo del cristianesimo?
   Ebbe luogo nel corso di uno dei mesi più drammatici per Israele, quel marzo 2002 in cui 132 fra civili e soldati israeliani furono uccisi in attacchi palestinesi, molti organizzati a Betlemme. Il luogo sacro cristiano fu tenuto in ostaggio e usato dai terroristi per farsi liberare dall'Unione europea con un accordo. C'erano Ibrahim Musa Abayat, il responsabile dell'omicidio dell'ufficiale dell'esercito Yehuda Edri, e Nidal Abu Ahmed Galif, uno dei responsabili degli attacchi suicidi a Kiryat Yovel e Beit Yisrael a Gerusalemme, dove furono distrutte intere famiglie ebree. Giorgio Forattini pubblicava intanto sulla Stampa una vignetta in cui Gesù guardava un carro armato israeliano con la stella di David, chiedendosi se lo crocifiggeranno di nuovo.
   Negli ultimi anni, fino alle risoluzioni dell'Unesco che hanno assegnato a uso esclusivo dell'islam il Monte del Tempio, Israele ha subìto una offensiva che non soltanto lo ha isolato nell'opinione pubblica internazionale, trasformandolo in un usurpatore e dissacratore di luoghi santi, ma che ha anche sdoganato l'idea che il jihad sulla Spianata delle moschee sia legittimato dall'idea che queste siano "minacciate" dai "nemici dell'islam". Gli ebrei, "figli di maiali e scimmie".

(Il Foglio, 15 luglio 2017)


Per i morti israeliani nessuna pietà

Terroristi palestinesi ammazzano due militari a Gerusalemme: sul Web zero hashtag «Repubblica» parla di fuoco amico. Distorsioni che svelano l'antisemitismo dilagante.

di Claudio Antonelli

Tre terroristi palestinesi sono riusciti a superare i controlli della spianata delle moschee a Gerusalemme. Si sono gettati su una pattuglia di militari israeliani. Sono riusciti a ucciderne due. Solo dopo sono stati abbattuti da altri poliziotti dislocati a pochi metri di distanza. L'ennesimo drammatico attentato islamico rivendicato da Hamas e, ovviamente, celebrato dall'Isis. Anche se l'Europa sta vivendo l'israellzzazione del tessuto civile e il conseguente rischio quotidiano di attentati a basso impatto esplosivo ma ad alto effetto psicologico, l'opinione pubblica proprio non riesce ad approcciare il dramma di Israele in modo obiettivo o almeno non divisivo. Nessuno si aspetta che di fronte ai consueti attentati a Gerusalemme si attivino gli hashtag sul modello #jesuisCharlie o #jesuisBerlin, ma nemmeno vorremmo assistere a fenomeni distorsi come quello capitato ieri. Il sito del quotidiano La Repubblica, pochi minuti dopo l'assalto alla spianata metteva online un titolo assurdo. «Attentato a Gerusalemme, feriti due israeliani. La polizia neutralizza i tre assalitori». Fin qui nulla di così eccezionale (i due feriti diventeranno purtroppo due morti a partire dalle 9 circa). Ma il catenaccio o sottotitolo è riuscito a superare qualunque esperimento di fake news. «Secondo alcuni media i feritori sarebbero agenti di polizia». In poche parole, gli israeliani avrebbero fatto tutto da soli, per Repubblica. Sparandosi tra di loro. Manca volutamente il termine «palestinesi», come quello «terroristi». Se poi vogliamo entrare nei dettagli, la spianata nel testo dell'articolo viene definita esclusivamente come il terzo luogo santo dell'islam e figurarsi se viene specificato che proprio lì sorgeva il tempio di cui ora rimane solo il muro, quello del Pianto.
   La vetta di mistificazione raggiunta ha imposto agli editori di intervenire e di correggere il tiro nelle versioni successive. In serata, la notizia è stata rimessa in carreggiata. Anche se il termine terroristi è stato espunto dal titolo. La Repubblica ha preferito un'altra volta scegliere la parola assalitori. Generica e meno negativa.
   Al di là della mistificazione dei fatti, i dettagli e il tono utilizzato dai media non è per nulla irrilevante. L'antisemitismo non è più un'idea teorica è un fatto. L'anno scorso il centro di documentazione ebraica di Milano ha diffuso uno studio sui social. Un italiano su cinque (il 21% della popolazione) ha convinzioni antisemite, oltre il doppio della Germania e più del Regno Unìto e della Francia con il 7% ciascuno.
   La seconda sorprendente scoperta diffusa dallo studio riguardava l'ondata di tweet antisemiti che hanno fatto seguito alla visita di papa Francesco alla sinagoga principale di Roma avvenuta il gennaio scorso, e le parole del Pontefice riguardanti «gli ebrei e i cristiani, una sola famiglia». «Tutto questo porta necessariamente a porre delle domande sulla validità dei metodi educativi contemporanei nell'insegnamento dei precetti stabiliti dal Concilio vaticano Il, come il documento Nostra Aetate, il cui cinquantesimo anniversario è stato intenzionalmente celebrato in Italia e all'estero l'anno scorso, cosi come la fondatezza delle tecniche usate per insegnare l'apprezzamento e l'amicizia tra persone di diverse tradizioni culturali e religiose. Potremmo affermare, in realtà, che questi metodi hanno largamente deluso le nostre aspettative». Questo, in sostanza, il succo dell'incontro con il rabbino di Roma. Dopo la stretta di mano partì una sfilza di insulti. E qui siamo nel mondo virtuale. In Francia, dal 2012, data del primo attentato a Tolosa quasi 30.000 cittadini di fede ebraica hanno abbandonato il Paese e si sono rifugiati a Tel Aviv. I numeri dell'Olim (il ritorno in Israele) sono molto più bassi, ma tremendamente in ascesa.

(La Verità, 15 luglio 2017)


''Cambiate mentalità"

Perché un attacco degli islamisti a Gerusalemme è come un attacco a Roma. Se non siamo pronti a mostrare agli islamisti che non ci piegheremo abbiamo già perso. Parla il generale Kuperwasser.

di Eugenio Cau

 
Il generale Yossi Kuperwasser
ROMA - "Spesso mi chiedono perché il terrorismo islamico non ha ancora attaccato l'Italia. Forse siamo unici ed eccezionali, dicono gli italiani. Non lo siete, e anzi, non capite che i terroristi hanno già attaccato l'Italia! La guerra dell'islam radicale è contro l'occidente, non contro la Francia o il Belgio. I confini interni da questo punto di vista non esistono. Loro attaccano l'occidente perché attaccano un'idea, e questa idea è contro l'islam. Colpire Nizza, per loro, è come colpire Genova. Ma sembra che questo voi non lo capiate". Il generale israeliano Yossi Kupervasser si lascia spesso prendere dal discorso quando racconta le ragioni per cui, secondo lui, l'occidente non è ancora pronto a vincere sul terrorismo islamico. Per Kuperwasser, ex capo della ricerca dell'intelligence militare dell'esercito di Israele ed ex direttore generale del ministero degli Affari strategici e dell'intelligence, oggi analista di livello internazionale, il principale problema non è negli equipaggiamenti, ma nella mentalità. "Davanti al terrorismo, l'Europa non riesce a identificare davvero chi è il suo nemico. E questa incapacità di definire la minaccia si riflette nel fatto che l'occidente non è davvero saldo nel difendere i propri valori. Se non siamo pronti a combattere per proteggere i nostri valori stiamo mostrando una debolezza letale", dice il generale.
   Il Foglio ha incontrato Kuperwasser prima dell'attentato di ieri alla Spianata delle moschee di Gerusalemme, ma il generale aveva già aveva messo in chiaro che quella combattuta da Israele è la nostra stessa guerra: "Alcuni dicono: un certo attacco è contro Israele, ha un contesto diverso, il movente è politico. Non è così. Anche quelli che vogliono uccidere noi urlano 'Allah akbar'. I palestinesi combattono una battaglia contro gli ebrei ma si considerano anche islamisti che combattono una guerra islamica".
   L'ultimo lavoro del generale Kuperwasser si chiama "A shared enemy: a shared defence. Lessons from Israel's response to terror", un saggio importante sul cosiddetto "modello israeliano" di antiterrorismo che il Foglio ha tradotto lo scorso marzo. Anche in quel saggio Kuperwasser sosteneva che la guerra da combattere è una sola. Da stratega qual è, parlando al Foglio a margine di un evento dell'Eipa, la Europe Israel Press Association, Kuperwasser ricorda che l'esito della nostra comune guerra dipende quasi più dalla capacità di apprendere e di conoscere il nemico che dagli armamenti. "Combattere il terrorismo è una competizione di studio e apprendimento. E' l'apprendimento, inteso in un senso più ampio della raccolta d'intelligence, il modo in cui questa guerra si combatte e si vince. Ma i terroristi imparano in fretta". Studiare il nemico ha consentito a Israele di apprendere lezioni fondamentali che, dice Kuperwasser, "possono essere esportate", ma quello che manca in Europa è la mentalità. "Il punto principale di combattere il terrorismo è convincere l'altra parte che, in questa guerra di ideologie, noi non ci piegheremo in nessun modo. Israele ha imparato l'arte della resilienza: a ogni attacco la forza dei nostri valori aumenta. Ma l'Europa non riesce a trasmettere la stessa saldezza, non riesce a convincere i terroristi di essere imbattibile". Qui la distinzione diventa importante. Si dice spesso che il "modello israeliano" di lotta al terrorismo richiede dei pesanti cambiamenti allo stile di vita dei cittadini a causa della pervasività dei dispositivi di sicurezza ma, al contrario, per Kuperwasser la forza del modello israeliano è proprio quella di non cambiare in ciò che è importante, valori e ideologia. "Se quelli che ci uccidono finiscono anche per cambiarci, per farci abbandonare i nostri valori, vuol dire che abbiamo già rinunciato a vincere", dice.
   Chiediamo a Kuperwasser se la crisi migratoria che investe l'Europa avrà riflessi sulla lotta al terrorismo. "Non ci sono islamisti radicali che cercano di infiltrarsi in occidente dai barconi, i radicali non migrano verso l'Europa o l'America, ma verso il Califfato", dice. "Il problema è che in Europa c'è già un sistema di radicalizzazione pronto che li aspetta, spesso favorito anche dai governi che accettano come interlocutori a nome della comunità musulmana elementi estremisti. Così, anche se gli immigrati non sono una minaccia quando arrivano, possono diventarlo in futuro. La soluzione migliore, per i governi occidentali, è lavorare a politiche di sostegno e di prevenzione della radicalizzazione con i musulmani pragmatici e laici direttamente nei loro paesi".

(Il Foglio, 15 luglio 2017)


Accordo sull'acqua tra israeliani e palestinesi

Forniture per la Cisgiordania e per la Striscia di Gaza

GERUSALEMME, 14 lug - Israeliani e palestinesi hanno firmato un primo accordo, definito «storico», su uno dei temi più delicati di ogni possibile futura intesa politica: quello dell'acqua. Ad annunciarlo è stato ieri Jason Greenblatt, inviato del presidente statunitense, Donald Trump.
   Da giorni nella regione, Greenblatt ha incontrato a questo scopo sia il premier israeliano Benjamin Netanyahu sia una delegazione palestinese del massimo livello. Nella conferenza stampa tenuta a Gerusalemme insieme con il ministro israeliano per la cooperazione regionale, Tzahi Hanegbi, e il suo omologo palestinese Mazen Ghuneim, Greenblatt ha sottolineato che «l'acqua è una merce preziosa in Medio oriente» e ha affermato che per il presidente Trump «lavorare per raggiungere una pace durevole tra palestinesi e israeliani è una priorità. E questo accordo è un esempio di parti che lavorano insieme per raggiungere un accordo benefico per entrambi».
   E se Ghuneim si è affrettato a specificare che «l'intesa sull'acqua è localizzata e non collegata a ciò che sarà deciso sul tema in un futuro accordo di pace», Greenblatt ha tuttavia insistito che «la cooperazione tra israeliani e palestinesi condurrà al miglioramento della vita dei palestinesi».
   L'intesa stabilisce che i palestinesi acquisteranno da Israele 33 milioni di metri cubi di acqua: 23 circa per la Cisgiordania e altri dieci per la Striscia di Gaza. L'intesa fa parte del progetto più largo - che coinvolge anche i giordani dell'acquedotto tra il Mar Rosso e il Mar Morto che dovrà essere completato nei prossimi 5 anni.
   In pieno accordo con la tesi di molti analisti secondo cui la chiave per la pace passa anche per l'economia, Greenblatt ha battuto il tasto non solo sull'accordo di oggi ma anche su quello, altrettanto importante, firmato nei giorni scorsi dal leader dell'Autorità palestinese, Rami Hamdallah, e dal ministro dell'energia di Israele, Yuval Steinitz, per la costruzione di una sottostazione elettrica (la prima di quattro) nella zona di Jenin, nel nord della Cisgiordania.

(L'Osservatore Romano, 15 luglio 2017)


«Il nuovo colonialismo dell'Occidente è l'imposizione dell'aborto a noi africani»

di Leone Grotti

 
Obianuju Ekeocha, fondatrice di Culture of Life Africa
Obianuju Ekeocha, fondatrice di Culture of Life Africa, non le manda a dire alla Bbc: «Gli africani chiedono cibo, acqua, sanità e scuole. Non contraccettivi»
«Quando un paese occidentale viene in Africa e cerca di imporre l'aborto sotto forma di aiuto "umanitario" non fa che comportarsi come i colonialisti di un tempo. Quella che voi chiamate lotta per combattere la povertà è in realtà una forma di colonizzazione ideologica». È una furia Obianuju Ekeocha, ingegnere biomedico di origine nigeriana e fondatrice di Culture of Life Africa, associazione pro life con sede in Inghilterra. L'attivista cattolica è stata intervistata dalla Bbc durante il programma Impact per parlare della promozione di aborto e contraccezione in Africa. Ma la conduttrice australiana Yalda Hakim non si aspettava di trovarsi davanti una donna decisa a demitizzare la narrazione della "salute riproduttiva".

 200 milioni di donne
  Secondo le Nazioni Unite 200 milioni di donne non hanno accesso in Africa alla contraccezione. Martedì il governo inglese ha ospitato un convegno internazionale sulla Pianificazione familiare al quale hanno partecipato la fondazione Bill & Melissa Gates e il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (Unfpa). L'obiettivo del summit, al quale ha partecipato anche Ekeocha, era promuovere «l'accesso per le donne e ragazze africane ai servizi di pianificazione familiare». Londra ha promesso che nei prossimi cinque anni spenderà 1,4 miliardi di dollari per diffondere all'estero contraccezione e aborto.

 «Africani non vogliono l'aborto»
  «Sinceramente non capisco perché ci sia la necessità di garantire alle donne africane il diritto all'aborto», ha risposto l'attivista alla prima domanda della Bbc. «Nell'80 per cento dei paesi africani l'aborto è illegale. Non perché non possono legalizzarlo, abbiamo parlamenti e governi in Africa, ma perché la stragrande maggioranza degli africani rifiuta l'aborto. Non capisco, se la stragrande maggioranza degli africani non vuole l'aborto, perché l'Occidente dovrebbe spendere soldi per cercare di introdurlo?».
Presa in contropiede, la giornalista della Bbc ritratta: il punto non è l'aborto, ma la contraccezione che le donne africane «dovrebbero avere». L'attivista africana si irrigidisce: «Lei dice "dovrebbero", ma chi è lei per decidere? In Africa non c'è richiesta di contraccettivi. Quello che la gente vuole e chiede ogni giorno è cibo, acqua, servizi sanitari di base e scuole. Basta parlare con gli africani a casa loro per saperlo».

 Atteggiamento colonialista
  La conduttrice della Bbc insiste però che la contraccezione è un «diritto umano fondamentale» e che «con i programmi di pianificazione familiare si aiutano le famiglie a uscire dalla povertà». «Questa è la soluzione al problema dell'Africa che voi occidentali proponete», risponde la fondatrice di Culture of Life Africa. «Ma se ascoltaste anche gli africani, quando dite di volerli aiutare, scoprireste che non è quello che noi vogliamo. Perché cercate di imporci la vostra cultura senza preoccuparvi di quello che noi vogliamo? Questo è un atteggiamento colonialista e dovreste fare attenzione a portarlo avanti».
Uno dei temi più dibattuti al convegno inglese è stato la decisione di Donald Trump di ritirare i fondi americani per il sostegno dell'aborto all'estero. È per coprire il buco che il Canada ha promesso di investire 650 milioni di dollari nei prossimi quattro anni. All'iniziativa parteciperanno anche Olanda, Svezia, Danimarca, Belgio, Lussemburgo, Finlandia, Canada e Capo Verde.

 Educazione, non contraccettivi
  I paesi vorrebbero così promuovere lo sviluppo del continente ma, continua l'ingegnere biomedico, «io sono nata e cresciuta in Nigeria e non sono uscita dalla povertà grazie a un contraccettivo, ma grazie all'educazione. I fondi a disposizione sono limitati e credo che le priorità dovrebbero essere riviste. Anche perché secondo l'Onu ci sono 200 milioni di donne africane che non hanno accesso ai contraccettivi. Ma quante di questi li vogliono davvero? Questa è la domanda che dovreste farvi». Invece che rispondere, la conduttrice ha preferito interrompere l'intervista.

(Tempi, 13 luglio 2017)


I migranti? Vengono a riempire il vuoto provocato dai nascituri rifiutati o “eliminati” da una società che ha fatto dell’egoismo individuale (presentato come forma suprema di libertà) l’idolo massimo che sostituisce tutti gli altri. M.C.


Dopo mezzo millennio a Catania fondata una comunità ebraica

Una nuova comunità ebraica è stata fondata in Italia meridionale per la prima volta in oltre mezzo millennio. A differenza di Palermo e Trani, dove le autorità cattoliche hanno dato a gruppi ebraici una chiesa da convertire in sinagoga, il caso di Catania è unico in quanto riporta in vita una comunità abolita nel 1492 quando Re Ferdinando e la Regina Isabella ordinarono l'espulsione o la conversione forzata degli ebrei nei territori sotto il dominio della Spagna.
  La fondazione della comunità ebraica a Catania ha sapore internazionale: guidata da Baruch Triolo, un avvocato catanese che si è convertito all'ebraismo a Miami, ha coinciso con la concessione da parte dell'amministrazione comunale catanese di un piano di un palazzo sul mare all'International Institute for Jewish Culture, riporta sul Wall Street Journal Michael Ledeen, studioso americano di stampo neocon, nel curriculum un passato di consulente del Consiglio nazionale di Ronald Reagan ai tempi dell'Achille Lauro.
  La piccola comunità catanese sta cercando un rabbino e ha cominciato una raccolta fondi per arredare gli spazi che verranno usati anche come sinagoga. Ledeen osserva che, a fronte di un crescente anti-semitismo in molte parti di Europa e anche in città italiane del nord come Milano e Torino, l'ebraismo sta rinascendo in Italia e «dato il posto occupato dall'Italia come laboratorio politico del mondo occidentale, è una rinascita che vale la pena osservare».

(La Sicilia, 14 luglio 2017)


Gerusalemme: attentato a Spianata Moschee. Chiuso il sito, salta preghiera

 
La Porta dei Leoni presidiata da militari israeliani
Chiusa la Spianata delle Moschee, cancellato il venerdì di preghiera per i musulmani. Questi i provvedimenti delle autorità israeliane dopo l'attentato di stamattina a Gerusalemme. Un gruppo di tre assalitori, arabi israeliani di Um el-Fahem, ha aperto il fuoco dall'interno della Spianata, agendo nei pressi della Porta dei Leoni, che si trova nelle immediate vicinanze: la polizia è entrata in azione ed ha ucciso gli attentatori in seguito ad uno scontro a fuoco. Due agenti dello Stato ebraico hanno perso la vita e un terzo è rimasto ferito. In una telefonata con il premier Benyamin Netanyahu, il presidente palestinese Abu Mazen ha condannato l'attacco. Giallo intanto sulla rivendicazione. Secondo alcune fonti, Hamas avrebbe rivendicato l'attacco via Twitter, sostenendo che i terroristi avrebbero agito "per punire chi rende impura la Spianata delle Moschee". Secondo altre, Hamas e la Jihad islamica avrebbero "esaltato" l'attacco, senza tuttavia rivendicarlo. Giada Aquilino ne ha parlato con Maria Grazia Enardu, docente di Storia della relazioni internazionali all'università di Firenze:

  È un gesto estremamente grave, non solo perché ci sono stati dei morti - due poliziotti e un terzo ferito e anche tutti gli assalitori - ma perché sono tre giovani, due addirittura ragazzi, che provengono da una cittadina israeliana con popolazione arabo-israeliana e hanno tutti lo stesso cognome: sono in qualche modo imparentati. Ma l'aspetto più preoccupante è che erano bene armati, con una pistola e con due mitragliatori di produzione svedese che non sono armi facilmente reperibili. Quindi è un gesto studiato e premeditato.

- Che dato è il fatto che siano arabi israeliani gli attentatori?

  Finora, che io sappia, non ci sono stati molti attentati compiuti da israeliani arabi: di solito sono i palestinesi del West Bank. Questo vuol dire due cose: la saldatura tra l'elemento palestinese-israeliano e l'elemento palestinese del West Bank, soprattutto tra i giovani, sta avvenendo. Ma è anche indice di una esasperazione generale che si può non contenere. Questo è un segnale pure di ribellione che però va controllata politicamente e si spera che le due parti possano farlo.

- Come si spiega che delle armi siano state trafugate all'interno della Spianata?

  La Spianata è amministrata da una fondazione islamica, la Wafq, che compie molti lavori di manutenzione: hanno per esempio scavato un'enorme moschea. Credo che entrino arnesi e materiali di ogni tipo. Semmai la questione è chi ha reperito e in che modo i due fucili speciali "Carl Gustav".

- La Spianata è stata chiusa e per la prima volta da anni sono state vietate le preghiere musulmane del venerdì. Che significato hanno queste decisioni?

  Da una parte è un riflesso condizionato: quando succede una cosa del genere, la prima cosa che viene in mente alle autorità israeliane è chiudere la Spianata. Oggi poi è anche venerdì, quindi questo è un gesto particolarmente significativo: chi ha compiuto l'attentato sapeva che era un giorno significativo.

- Nell'ottobre 2015 è scoppiata la cosiddetta "Intifada dei coltelli". Negli ultimi due anni Hamas ha rivendicato la maggior parte degli attacchi. I colloqui israelo-palestinesi sono in stallo. Tutto ciò è sinonimo di una situazione bloccata?

  Bloccata e anche sull'orlo di una potenziale esplosione. Alle rivendicazioni di Hamas in questo contesto credo abbastanza poco, perché - appunto - far agire ragazzi che vengono da una cittadina israeliana e procurare loro delle armi non credo sia cosa che Hamas, che è arroccata a Gaza e ha forze limitate nel West Bank, possa fare. È tutta la situazione che si sta deteriorando e chiaramente ogni soggetto - Hamas, l'Autorità Palestinese e anche gli israeliani - si posiziona in attesa di futuri, e si spera, non drammatici sviluppi.

(Radio Vaticana, 14 luglio 2017)


Colloquio telefonico Abbas-Netanyahu dopo l'attacco al Monte del Tempio

GERUSALEMME - Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ed il presidente dell'Autorità nazionale palestinese (Anp), Mahmoud Abbas, hanno avuto oggi un colloquio telefonico dopo l'attacco avvenuto nella città vecchia di Gerusalemme. Secondo quanto riferito dall'agenzia stampa palestinese "Wafa", Abbas ha condannato l'episodio, confermando il suo rifiuto a qualsiasi forma di violenza, soprattutto nei luoghi di culto. Il capo dell'Anp ha chiesto, inoltre, che vengano annullate le misure restrittive per l'accesso alla moschea di Al Aqsa, avvertendo sulle possibili conseguenze di tali decisioni. Da parte sua, Netanyahu ha ribadito che non verrà cambiato lo status quo della città Santa. Secondo una prima ricostruzione della "Jerusalem Post", tre presunti terroristi hanno aperto il fuoco contro un gruppo di agenti di polizia vicino all'entrata del Monte del tempio, il sito religioso noto anche come Spianata delle moschee per i musulmani. I poliziotti hanno risposto al fuoco e nella sparatoria "tutti e tre i terroristi sono stati neutralizzati", riferisce il quotidiano israeliano. Due degli agenti israeliani feriti nell'attacco sono morti a causa delle ferite riportate, secondo quanto riferisce il commissario di polizia, Roni Alsheich.
   Lo Shin Bet ha divulgato i nomi dei tre assalitori, arabi-israeliani originari della città di Umm al Fahm: Muhammad Ahmed Muhammad Jabarin, di 29 anni, Muhammad Hamad Abdel Latif Jabarin e Muhammad Ahmed Mafdal Jabarin, entrambi di 19 anni. L'episodio è avvenuto poco dopo le 7 di questa mattina (ora locale), quando i tre uomini hanno aperto il fuoco contro gli agenti della sicurezza poco fuori il Monte del Tempio. Gli agenti hanno risposto uccidendo i tre attentatori. L'assalto è avvenuto con l'utilizzo del fucile artigianale Gustav Carl, pistole e coltelli. In seguito all'attacco il capo della polizia di Gerusalemme, Yoram Halevi, ha cancellato la preghiera di oggi. E' la prima volta che viene cancellata la preghiera del venerdì dal 2000 ad oggi.
   Uno degli attentatori poco prima dell'attacco ha pubblicato una foto con la moschea di Al Aqsa sullo sfondo sul suo profilo Facebook, scrivendo: "Il sorriso di domani sarà più bello".

(Agenzia Nova, 14 luglio 2017)


La scomoda verità del conflitto israelo-palestinese

Chi vuole la pace non finanzia l'assassinio indiscriminato della popolazione con cui vuole vivere in pace, e non insegna ai bambini a diventare martiri sacrificabili come "balilla".

In risposta alla richiesta degli Stati Uniti che l'Autorità Palestinese ponga fine ai vitalizi a favore delle famiglie dei terroristi, Issa Karaka, ministro dell'Autorità Palestinese per i detenuti, ha dichiarato: "La società palestinese è interamente costituita da famiglie di prigionieri e di shahidi [martiri] e sono tutti vittime a causa dell'occupazione israeliana. La richiesta di fermare i pagamenti alle famiglie dei detenuti non è un dettaglio, è qualcosa di molto grave con grandi conseguenze sociali. Nessuno nell'Autorità Palestinese potrebbe mai adottare una tale misura. Sarebbe molto difficile per l'Autorità Palestinese interrompere l'aiuto umanitario alle famiglie di prigionieri e martiri".
Che il ministro palestinese se ne renda conto o meno, questa sua affermazione ci dice che il terrorismo palestinese è una monumentale industria senza la quale la società palestinese difficilmente potrebbe funzionare....

(israele.net, 14 luglio 2017)


14 luglio 1938: "La pura razza italiana esiste e molti, tra cui gli ebrei, non vi appartengono"

Era il 14 luglio 1938 quando sul Giornale d'Italia venne pubblicato il documento dal titolo "Il fascismo e i problemi della razza", più noto con il nome di Manifesto della razza

di Monia Sangermano

Una vergogna tutta italiana. Era il 14 luglio 1938 quando sul Giornale d'Italia venne pubblicato il documento dal titolo "Il fascismo e i problemi della razza", più noto con il nome di Manifesto della razza. Nel documento furono evidenziati i risultati di uno studio condotto da un gruppo di scienziati e docenti universitari fascisti, fino a quel momento poco noti in ambito scientifico. Secondo gli studiosi in questione "le razze umane esistono" ed "esiste ormai una pura razza italiana" alla quale "gli ebrei non appartengono".
Sulla scia dei 'colleghi' tedeschi, dunque, anche i fascisti teorizzano e fanno proprie idee e studi fuorvianti, il cui unico scopo era quello di giustificare i soprusi e la barbarie ai quali ebrei, e altri cittadini ritenuti 'indegni', venivano sottoposti. Ricordiamo che già nel 1925 erano state emanate le cosiddette Leggi fascistissime, che prevedevano restrizioni e limitazioni gravi alle libertà di molti cittadini e che segnarono il passaggio, giuridicamente parlando, dal Regno d'Italia all'autoritario regime fascista.

(Meteoweb, 14 luglio 2017)


Harvard censura i puritani in nome della "diversità"

Isteria a Harvard. La più gloriosa università d'America fu fondata nel 1636 dai puritani, che ora sono cacciati come sciovinisti e razzisti.

di Giulio Meotti

ROMA - E' l'università più antica e gloriosa d'America, che ha sfornato 75 premi Nobel e tutta la bella gente che conta, compreso Barack Obama. Dal 1636, in diverse forme, gli studenti di Harvard hanno omaggiato i puritani fondatori dell'università e della Massachusetts Bay Colony che la ospita. Ovvero coloro che, oltre ad epurare la chiesa, volevano epurare lo stato dall'autoritarismo del re e la società dal parassitismo aristocratico. Ma nel 2017, gli amministratori della perla della Ivy League hanno deciso che i puritani sono non soltanto antiquati, ma anche un tantino razzisti. Così hanno cambiato la formula recitata al conferimento della laurea. Per decenni, gli studenti di Harvard hanno cantato versi che li invitavano a essere araldi di luce e portatori d'amore "fino a che la stirpe di puritani non morirà". Il problema, ha detto Stephen Burt, anglista a Harvard che aiuterà a giudicare la formula di riscrittura, è che qualcuno potrebbe leggere la linea finale come una forma di "complicità con il razzismo". Harvard è l'ultima grande università che compie un repulisti politicamente corretto. A febbraio, il presidente di Yale ha annunciato che avrebbe cambiato il nome di un collegio residenziale intitolato a John C. Calhoun. Molti docenti di Harvard erano contrari a cambiare la formula di rito. Come Stephen Shoemaker, anglista: "Penso che la storia sia importante e che non debba essere trascurata. Questo non significa che ci definisca, ma dobbiamo sapere da dove veniamo". Adesso si cerca una frase che faccia appello a tutti gli studenti "al di là della loro identità, religione o idee". Via dunque i cristiani che fuggirono dall'Inghilterra per aiutare a fondare gli Stati Uniti d'America. Serve una formula innocua, multiculturale e, se possibile, genderista.
   Neppure quattro mesi fa il preside di Harvard, Drew Gilpin Faust, aveva organizzato una grande conferenza per fare luce sui rapporti fra la schiavitù e Harvard: "Solo avvicinandoci alla storia potremo creare un mondo più giusto" aveva detto Faust. Il 23 maggio Harvard ha poi ospitato una cerimonia di laurea esclusivamente per studenti neri. Per riparare al passato razzista e schiavista. E qualche mese prima, la Harvard Law School aveva eliminato il suo stemma con i tre fasci di grano e la scritta "Veritas", perché sarebbe stata inventato da uno schiavista. L'opposizione a questa ondata ideologicamente corretta è guidata da un grande docente e scienziato della politica, Harvey Mansfield, membro della facoltà dal 1962. "No, non sono molto ottimista circa il futuro dell'istruzione superiore, almeno nella forma che c'è ora con le università sotto il controllo di facoltà e amministratori politicamente corretti", ha detto Mansfield nei giorni scorsi. Le università, continua Mansfield, sono diventate "bolle di liberalismo decadente". Il risultato, ha scritto David Brooks sul New York Times, è che "molte persone, sopraytutto nelle università, hanno perso fede nella narrativa della civiltà occidentale, hanno smesso di insegnarla e ora a molti studenti, ammesso che vi entrino in contatto del tutto, viene insegnato che la civiltà occidentale è una storia di oppressione". Per cui, via quegli anticonformisti di puritani. Ora governano i nuovi moralisti puritani.

(Il Foglio, 14 luglio 2017)


Diaspora, ogni fine è un inizio

Una ricerca che diventa saga ed epopea della dispersione causata dalle leggi razziali del 1938

di Anna Quaranta

Dopo tre anni di riprese e uno di montaggio, Luigi Faccini e Marina Piperno portano a compimento Diaspora, ogni fine è un inizio, un'opera attraverso la quale Marina Piperno ha cercato di incontrare e ricostruire i rapporti con i vari membri della sua famiglia, che dopo le leggi razziali promulgate dal regime fascista costrinsero molti ebrei ad abbandonare l'Europa.
   Prima donna in Italia a esercitare il mestiere, tipicamente maschile, di produttore, fondatrice della Reiac film, Marina Piperno ha voluto ricostruire i rapporti di parentela di seconda e terza generazione, che si erano persi da quel lontano 1938. Insieme a Luigi Faccini, regista e critico strutturalista e semiologo, suo compagno d'avventura da più di quarant'anni, hanno ripercorso le strade che i suoi zii e cugini avevano intrapreso per iniziare una nuova vita, da New York all'entroterra della costa orientale degli Stati Uniti, fino in Israele, tra Gerusalemme, Tel Aviv, i kibbutz della Galilea e il deserto del Negev. Alcuni di loro sono diventati affermati professionisti, persone soprattutto impegnate per il bene della collettività, che hanno dedicato la loro vita per costruire centri medici, oppure si sono adoperati al popolamento del deserto del Negev con palme da dattero, migliorandone il clima e le caratteristiche del terreno.
   E l'incontro alla Casa del Cinema per la presentazione di Diaspora, prodotto dagli stessi autori e distribuito dall'Istituto Luce, è l'occasione per cercare di andare a fondo di una questione che da anni riempie le pagine dei quotidiani, molto spesso accentuata da pregiudizi e propaganda.
   In concomitanza con la nascita dello Stato d'Israele, la delibera Onu n.181 del 1947 auspicava la formazione due stati distinti e separati, uno ebraico e uno palestinese, cosa di cui gli stessi palestinesi lamentano giustamente la mancanza. Fu una delibera a cui la controparte araba, specialmente gli stati confinanti, si oppose: il diffondersi di un ideale sionista e gli insediamenti dei coloni nella terra dei loro antenati si scontrarono con l'affermarsi del nazionalismo arabo e con la coscienza politica palestinese per dare il via ad un conflitto che ancora oggi non trova pace, purtroppo.
   Il clima interno in Israele,oggi, è quello di tensione che ricorda il tempo dell'uccisione di Rabin, primo ministro dello stato d'Israele, laburista e strenuo sostenitore di una politica di pace (nel 1993 riconobbe il ruolo dell'OLP in cambio del riconoscimento da parte dell'Organizzazione di Arafat del diritto di Israele di esistere), assassinato da un colono estremista ebreo nel 1995. Nell'ambito delle singole parti in guerra sono numerose le dinamiche e soprattutto le correnti che ne scaturiscono; apprendiamo dai racconti di Luigi e di Marina che sia negli Stati Uniti che in Israele c'è uno scontro molto forte tra gli ebrei ortodossi (di cui fa parte anche il genero di Donald Trump) e gli ebrei reformed, che poi sono il 70% degli ebrei che vivono negli Stati Uniti, e che vogliono la pacificazione di questa lunga e sanguinosa guerra.
   La famiglia di Marina è reformed, i quali riconoscono l'omosessualità e il matrimonio tra persone dello stesso sesso: ne è un esempio la rabbina Ari-Levi, nipote di Marina e che vediamo nel documentario, recentemente convolata a nozze con la sua fidanzata Shoshana, in attesa del primo figlio, concepito attraverso un donatore.
   Ari-Levi vive a Philadelphia ed è a capo di una comunità ricostruzionista, un gruppo intento a ritrovare lo spirito dell'universalismo ebraico dal punto di vista spirituale. I reformed non sono Torah e Talmud, i libri sacri della religione ebraica, ma vogliono aprirsi al rapporto con le altre religioni e lavorano per portare avanti l'inclusione. Dall'altro lato l'ortodossia, che non riguarda l'aspetto religioso, ma la stretta osservanza delle regole, preferisce una politica di esclusione, mantenendo sempre costante una tensione tra gli stessi ebrei e con i palestinesi.
   L'oggettività del documentario Diaspora è stata riconosciuta anche dal vice ambasciatore israeliano a Roma, e vuole essere non soltanto una ricostruzione dell'identità frantumata nella vita di Marina Piperno, ma anche la possibilità di far comprendere le innumerevoli sfumature di una questione di cui si sente parlare e si parla, ma senza conoscerne bene le radici storiche.
   La narrazione del film, affidata alla voce di Marina è una cosa devastante per il mondo ebraico maschilista, ma è stata propizia anche come segnale di apertura della comunità ebraica di Roma. Formata da 25.000 persone, è ancora una comunità molto tradizionalista e legata al commercio. La prima proiezione di Diaspora era avvenuta grazie all'intervento dell'assessore Giorgia Calò, ebrea tradizionalista ma molto aperta e aveva visto la partecipazione di Noemi Di Segni, che era stata da poco nominata presidente dell'Unione delle comunità ebraiche in Italia; segnali che sembrano voler anticipare uno svecchiamento nella comunità ebraica romana.
   Solida e storica coppia artistica, che vanta un percorso molto ricco di produzione, regia e montaggio nell'ambito di opere cinematografiche antropologiche e di ricerca, Marina Piperno e Luigi Faccini hanno girato e preso appunti con qualsiasi mezzo possibile, ricorrendo anche alle nuovissime tecnologie, come telefonini e camera stylo. "Non ho fatto scuole di cinema, quindi nasco liberato, da spettatore di cinema" commenta Luigi Faccini la sua regia, proseguendo "il cinema è un fatto amoroso, non parto mai da schemi precedenti, ma il mio è un approccio antropologico, da ricercatore. I generi non mi interessano, preferisco essere spontaneo. Se un genere mi piace lo scavalco attraverso un lavoro sperimentale"
   E sperimentali sono state le opere che la coppia Piperno-Faccini ha realizzato, sia singolarmente che in collaborazione, scegliendo sempre la libertà di espressione come unico mezzo per quell'indagine antropologica che contraddistingue tutta la loro opera, capace di ricostruire attraverso le storie familiari, la Storia dei popoli e delle nazioni.

(Taxidrivers.it, 14 luglio 2017)


Presenze giudaiche nella Calabria grecanica: una proposta di itinerario

Domenica 16 luglio 2017, dalle ore 18.00, si terrà, al Parco Archeologico "Archeoderi" di Bova Marina (Reggio Calabria) e nella Chiesa dello Spirito Santo di Bova (Reggio Calabria), Presenze giudaiche nella Calabria grecanica: una proposta di itinerario, interessante percorso culturale finalizzato alla valorizzazione dei siti archeologici di questo antico e caratteristico territorio.
   All'iniziativa, indetta dal Parco Archeologico "Archeoderi " di Bova Marina in collaborazione con il Comune di Bova, interverranno: Francesca Crea, coordinatore commissione straordinaria comune di Bova Marina e Salvatore Patamia, segretario Regionale MiBACT per la Calabria, che porteranno saluti istituzionali; Rossella Agostino, direttore Museo e Parco Archeologico "Archeoderi" di Bova Marina, relazionerà su "Il Polo Museale per il Parco Archeologico di Bova Marina"; Pasquale Faenza, conservatore di Beni Culturali, si soffermerà su "Il mosaico pavimentale della sinagoga di Bova Marina - Restauri e ripristini tra il tardo antico e l'alto Medioevo"; Deborah Penchassi, esperta di storia dell'ebraismo in Italia, Lincoln Square Synagogue New York, U.S.A., che si intratterrà sul tema "Dalle origini del popolo ebraico all'avvento della seconda diaspora".
   In questa occasione l'AIAB (Associazione Italiana di Agricoltura Biologica) donerà simbolicamente al Parco archeologico due piante di bergamotto, pianta tipica del litorale ionico meridionale calabrese.
   I lavori procederanno nella Chiesa dello Spirito Santo con il seguente programma: ore 21.00, saluti istituzionali di Santo Casile, sindaco di Bova; a seguire Chiara Corazziere, postdoctoral Researcher Università Mediterranea di Reggio Calabria, che tratterà "Comunità ebraiche in Calabria: storia di un patrimonio inespresso" e il già citato Pasquale Faenza che esporrà su "La Giudecca di Bova nel Rinascimento". Chiuderà questa importante giornata una visita guidata alla Giudecca di Bova. Il Parco Archeologico "Archeoderi" di Bova Marina (Reggio Calabria), afferisce al Polo Museale della Calabria diretto da Angela Acordon.
Locandina

(Stretto web, 14 luglio 2017)


Haaretz: il disegno di legge del governo israeliano antepone l'ebraicità alla democrazia

GERUSALEMME - La coalizione governativa del premier israeliano Benjamin Netanyahu ha approntato una nuova versione del disegno di legge che punta a definire Israele come Stato-nazione del popolo ebraico. La bozza di legge, riferisce "Haaretz", obbligherebbe la Corte suprema israeliana ad anteporre il carattere ebraico dello Stato di Israele rispetto a quello democratico, qualora questi due elementi dovessero trovarsi in conflitto. La nuova versione del disegno di legge, elaborata nei giorni scorsi, definisce il paese uno "Stato ebraico e democratico", ma richiede che il tribunale interpreti come prioritario il carattere ebraico di Israele. La scorsa settimana, riferisce "Haaretz", una commissione ministeriale aveva addirittura valutato di cancellare dal testo del provvedimento qualunque riferimento alla "forma di governo democratica". Stando alle fonti ministeriali citate dal quotidiano, Netanyahu punta a far approvare il provvedimento dalla Knesset in prima lettura entro le prossime due settimane.

(Agenzia Nova, 13 luglio 2017)


Non solo pellegrini Gerusalemme guarda al futuro

Tour virtuali, un acquario e persino una funivia

di Fabiana Magrì

 
Talbiya, quartiere residenziale di Gerusalemme
Ogni mattina Yitzchak Gregory D'Arbela, medico francese di origini ucraine, usciva dalla sua casa al numero 54 di Ha'Neviim Street e attraversava la strada per recarsi al numero 37, dove occupava la poltrona di direttore nel primo ospedale ebraico fuori le mura della Città Vecchia, fatto erigere nel 1888 dal barone Rothschild. Dubito però che D'Arbela avesse la fortuna di godere ogni mattina della straordinaria colazione che oggi spetta agli ospiti dell'esclusivo boutique hotel Villa Brown, aperto a maggio al posto della sua abitazione. Negli ultimi anni Gerusalemme è impegnata in un'operazione di rebranding che passa anche dallo svecchiamento turistico .
  Modificare l'identità di un posto è un processo lungo e a Gerusalemme ci sono segni evidenti che questo ingranaggio si sia messo in moto. La reputazione da superare è quella di una città religiosa, meta di pellegrini, in cui domina il passato, il presente è instabile e il futuro non si riesce neanche a immaginare. Ci hanno provato due designer israeliani, Mushon ZerAviv e Shalev Moran, che in occasione dell'ultima Jerusalem Design Week hanno lanciato gli audio tour (in inglese) «Tales & Tours: Gerusalemme speculativa», una app gratuita per iOS e Android da scaricare su smartphone. Lo scrittore Boaz Lavie, l'attivista Sara Benninga e l'artista Yael Bartana hanno immaginato fanta-scenari per visitare con occhi diversi lo storico hotel King David, il quartiere residenziale di Talbiya e la Città Vecchia. Dove andrebbe l'anziano Mark Zuckerberg, nel 2086, per dire addio alla città prima di partire per Marte? Cosa accadrebbe in una Gerusalemme del 2037 che, rispetto alle precedenti soluzioni di pace tra israeliani e palestinesi, sia separata non più in ovest e est ma in Città Superiore e Inferiore? E se, nel 3615, a Gerusalemme si stesse celebrando il 1600o anniversario di Simone l'Ermetico, che per miracolo ha partorito un figlio?

 Via Dolorosa
  Uno sguardo diverso è proprio quello che Gerusalemme sta cercando di attirare su di sé, anche da parte del pubblico più tradizionale. L'hanno capito benissimo i frati francescani custodi di Terra Santa che, nella nuova installazione multimediale Via Dolorosa, offrono ai visitatori un'esperienza al passo con i tempi. All'interno del Lapidarium, sito archeologico nel Monastero della Flagellazione in corrispondenza della seconda stazione della via Dolorosa, il viaggio audiovisivo di 15 minuti immerge lo spettatore nel passato per fargli vivere la storia di Gerusalemme - da Erode il Grande fino a oggi - a tre dimensioni: storico-archeologica, emotiva e spirituale. Altre due sedi, più tradizionali, saranno inaugurate a completamento del complesso del Terra Sancta Museum. Una sezione archeologica sarà allestita nei locali accanto all'installazione multimediale mentre una lettura storica delle missioni dei francescani in Terra Santa troverà posto nel Convento di San Salvatore nei pressi della Porta Nuovao.

 Museum on the Seam
  A meno di un chilometro di distanza una chiave di lettura ancora diversa per entrare nella complessità di Gerusalemme è la proposta del Museum on the Seam, di nome e di fatto sul confine tra due aree estremamente sensibili della città: Mea Shearim, uno dei quartieri ebraici più antichi - e oggi il più povero - popolato esclusivamente da ebrei haredim e Sheikh Jarrah, quartiere residenziale dell'élite musulmana di Gerusalemme Est. La cifra del museo è la lettura socio-politica della realtà attraverso l'arte contemporanea. Fino a fine settembre nella mostra Thou Shalt Not 33 artisti israeliani, sia religiosi sia laici - tra cui Yael Bartana, Sigalit Landau e Adi Nes -affrontano il tema dell'influenza reciproca tra la fede, che cerca di preservare rigorosamente confini e leggi della tradizione ebraica, e l'arte contemporanea con il suo ruolo di specchio dei tempi.

 Family lsrael Aquarium
  Quasi pronto per inaugurare, entro la fine di luglio, è il nuovo Gottesman Family Israel Aquarium. Anche la nuova attrazione turistica sembra perseguire l'obiettivo di offrire un punto di vista alternativo, non sulla città di Gerusalemme, questa volta, ma su Israele in generale. L'acquario, che ha fra le sue priorità l'educazione alla sostenibilità e alla consapevolezza, si pone l'obiettivo di presentare i quattro ecosistemi acquatici che bagnano la regione: Mar di Galilea, Mar Morto, Mar Rosso e Mar Mediterraneo. Il primo acquario di Israele apre in una città di cui tutto si può dire tranne che abbia una vocazione marinara, con l'ambizione di raggiungere col tempo la reputazione dei colleghi di Auckland e Monterey e la chutzpah (presunzione, in ebraico) di essere già meglio di Londra e Berlino.
  Nel frattempo il governo ha approvato la prima fase - costo 15 milioni di shekel (3 milioni e 750 mila euro) messi a disposizione dal ministero del Turismo - della costruzione, progetto piuttosto controverso, di una funivia lunga 1,4 chilometri che, dal 2021, potrà trasportare 3 mila visitatori ogni ora dalla Vecchia Stazione al Kotel, evitando di attraversare a piedi il balagan dello shuk in Città Vecchia. Il budget stimato per l'intero piano di lavoro è di 200 milioni di shekel (50 milioni di euro). La spinta dell'anniversario dei cinquant'anni dalla riunificazione da parte di Israele della città sembra proiettare Gerusalemme in un futuro di progetti e normalità, almeno dal punto di vista del turismo.

(La Stampa, 13 luglio 2017)


A Tel Aviv apre il primo Supermarket Vegan

 
Hagal Hayarok, supermercato vegano all'interno del mercato ortofrutticolo di Tel Aviv
Si chiama Hagal Hayarok (Onda Verde) ed è situato nel mercato ortofrutticolo di Tel Aviv HaCarmel. Si sviluppa su una superficie di 100 metri quadri e, come anticipato dal quotidiano economico Globes, aspira ad essere il primo punto vendita in Israele in grado di offrire un'esperienza di acquisto culinaria completamente dedicata al veganesimo.
Hagal Hayarok si ispira alla catena di distribuzione tedesca Veganz che ha punti vendita a Berlino, Francoforte e Amburgo. In Israele rappresenta, ad oggi, l'unico punto vendita completamente dedicato ai consumatori vegan con una particolare attenzione anche alla catena del valore, al rispetto della produzione e al suo rapporto con il prezzo di vendita al consumatore.
Il veganesimo sconta, infatti, una percezione negativa di consumo soggetto alla moda e perché costoso, i cui margini di guadagno non sono immediatamente correlati e percepiti agli effettivi costi di produzione.
In questo senso Hagal Hayarok si propone di riequilibrare anche il rapporto con i fornitori e i produttori più piccoli, che nei sistemi della grande distribuzione vengono schiacciati dai competitor più grandi fino a scomparire dagli scaffali. A tal fine Hagal Hayarok promuoverà anche una sua propria private label prodotta in collaborazione con la Black Hebrew Community di Dimona, nel sud del Paese.
In totale le referenze del supermercato saranno circa 4.000, molte delle quali provenienti dall'estero.
Ad oggi si stima che la quota di mercato agroalimentare vegano in Israele oscilli fra il 5 e il 7% oltre a un numero in crescita - soprattutto nelle grandi città - di ristoranti dedicati e attività associative e ricreative che a questa filosofia di consumo si ispirano.

(Corriere ortofrutticolo, 13 luglio 2017)


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Perché Israele sta diventando sempre più vegan friendly?

 
Ori Shavit scrittrice e attivista vegana israeliana
A Tel Aviv nasce il primo supermercato veg all'interno del mercato ortofrutticolo locale. Un fenomeno sempre più in crescita. Perché? Ne parliamo con il giornalista Gabriele Eschenazi.
  Un milione di vegetariani e vegani su sette milioni di abitanti, pari a circa il 13% della popolazione e una quota di mercato complessiva dei prodotti che fanno parte di questo segmento che oscilla tra il 5% e il 7%. "Un dato che fa impressione, anche perché raggiunto in pochi anni, gli ultimi cinque" ci spiega Gabriele Eschenazi, giornalista, profondo conoscitore della cultura e alimentazione vegetariana e vegana, nonché di quella ebraica.
  I dati si riferiscono, infatti, a Israele, paese nel quale il numero delle persone che ha sposato questo regime alimentare è salito enormemente e ha dato origine ad un movimento, soprattutto nelle grandi città di Israele, che può contare anche su ristoranti dedicati e attività associative che si ispirano a questa vera e propria filosofia di vita.
  Notizia di questi giorni, anche l'apertura a Tel Aviv, all'interno del mercato ortofrutticolo Ha Carmel, del primo supermercato completamente vegan. Si chiama Hagal Hayarok,vale a dire "Onda Verde". Ne parla il quotidiano economico israeliano Globes che ha intervistato i due ideatori, entrambi vegani.
  Ori Shavit e Gabriele Eschenazi durante l'ultima edizione di The Vegetarian Chance.
  A proposito di Israele e movimento vegan, durante l'ultima edizione di The Vegetarian Chance, la manifestazione ideata e organizzata proprio da Gabriele Eschenazi a Milano insieme al noto chef stellato vegetariano Pietro Leemann, è stata presente anche un'esponente di spicco di questo movimento, vale a dire Ori Shavit, attivista vegana che oltre a organizzare corsi di cucina e ad essere chiamata, come in questo caso, a tenere conferenze sul tema, dal suo sito Web Vegans on Top propone ricette vegan.

 Ma quali sono i motivi di questa rivoluzione?
  "Una rivoluzione di questa portata può avere diverse spiegazioni - ci spiega Eschenazi -. La prima e la più evidente è che gli israeliani sono da sempre molto abituati a nutrirsi di frutta e verdura, che hanno prodotto in quantità grazie ad un'agricoltura all'avanguardia. I loro piatti nazionali, hummus e falafel, sono vegani. E a questi se ne potrebbero aggiungere molti altri fatti con soli legumi, cereali e verdure".
  Eppure, la religione ebraica non è vegetariana. "È vero, però i suoi rituali dedicano molto spazio ai prodotti della terra e degli alberi, che hanno persino un capodanno a loro dedicato. Forte è la simbologia di frutti come la mela, la melagrana, il cedro, l'uva, di verdure come il porro o il sedano, dei cereali e dei loro derivati. La concessione di mangiare la carne fu accordata dal Signore dopo il Diluvio accompagnandola da regole molto severe, tra le quali il divieto di far soffrire gli animali e cibarsi del loro sangue. Da qui, da questa tradizione fatta di regole pratiche e morali si intuisce come possa essere radicata in ogni israeliano l'idea che la nutrizione debba sempre essere disciplinata. E cosa c'è oggi di più disciplinato del veganismo, che non per caso in molti paragonano a una religione?".
  Secondo Eschenazi non bisogna poi trascurare l'incredibile successo di un video su Youtube dal titolo "Il miglior discorso che potrai mai sentire" dell'attivista animalista americano Gary Yourofsky, diventato poi virale e visto da almeno un milione di israeliani. "Questo video, promosso dalla comunità vegana israeliana, ha creato nel 2014 dal nulla un'ondata di nuovi adepti all'oscuro sull'origine della carne e delle uova, che avevano mangiato fino a quel momento. Israele è un paese piccolo e il "passaparola", reale o virtuale che sia, può avere effetti devastanti. La stessa Ori Shavit, ad esempio, ci ha raccontato come a convincerla a diventare vegana sia stato un fidanzato!"
  "Infine - conclude Eschenazi - c'è sempre da considerare come Israele sia un paese molto giovane, dove nuove idee e progetti nascono ogni giorno, e dove nel campo della gastronomia tutte le tradizioni e le culture hanno trovato cittadinanza anche violando le regole religiose, che non impegnano i ristoranti più gourmet di Tel Aviv. Forse Hagal Hayarok e il suo progetto non piacerà troppo alle centinaia di migliaia di israeliani ancora molto amanti dei "mangal" (spiedini) cotti all'aperto nei parchi, ma la sua strada è tracciata".
  Il piccolo nuovo supermercato di Tel Aviv, grande 100 metri quadrati e con circa 4000 referenze in vendita, molte delle quali di importazione estera, si ispira a Veganz, la nota catena insegna tedesca completamente vegana e che, a onore del vero, ultimamente ha dovuto rivedere un po' il suo modello di business e distribuzione. Ma al di là di questo, le ambizioni sono alte, alla luce di quanto sta succedendo in Israele, tanto che l'obiettivo è quello di aprire più punti vendita e puntare sul rapporto qualità-prezzo, una delle cause principali che secondo i due proprietari di Hagal Hayarok ha in passato contribuito a dare una percezione negativa del veganismo.

(AmicoPolis Social Network, 13 luglio 2017)


Sempre di più con Israele

Ancora centinaia di firme contro l'Unesco che vuole cancellare la storia e le radici del popolo ebraico.

Reputo stupefacente che il mondo giornalistico e parlamentare italiano sia concentrato su uno stabilimento balneare a simbologia fascista e su disegni di legge volti a perseguire penalmente chi distribuisce gadget o fa il saluto romano e non si parli invece della questione gravissima giustamente sollevata dal Foglio riguardante il deliberato dell'Unesco che toglie a Hebron ogni rapporto storico e ideale con l'ebraismo. Su questo nodo si dovrebbe concentrare l'attenzione e forse anche si dovrebbe pronunciare il nostro governo e comunque tutte le forze politiche di centro, di destra e di sinistra, invece di inseguire i bagnini colorati di nero.
Fabrizio Cicchitto

Aderisco all'appello da rivolgere all'Unesco affinché smetta di privare gli ebrei della loro storia e della loro terra.
Barbara Il Forte

Aderisco e vi ringrazio di farvi promotori contro questa ennesima condanna contro Israele e contro la nostra storia. Cordiali saluti
Stefano Segre Ovazza

Caro direttore, a Firenze una delegazione di Sì Toscana a sinistra ha organizzato un convegno dal titolo emblematico: "1967 - 2017 Palestina: 50 anni di occupazione militare. E' tempo di giustizia e libertà". Ma senza Israele quel convegno forse non sarebbe stato possibile. Non sarebbe possibile concepire il nostro mondo così com'è, libero. Se cade Israele seguiranno come un domino Europa e America del nord.
Jori Diego Cherubini

Gentile Redazione, aderisco alla iniziativa portata avanti dal vostro giornale. Voglio sottolineare la mia indignazione per l'iniziativa sciagurata dell'Unesco, un organismo che dovrebbe essere al di sopra delle parti e invece è diventato un megafono di propaganda anti Israele e antisemita. Con stima,
Eugenio Bacchini

Condivido la vostra campagna e la giusta indignazione d'Israele. Mi chiedo come possa il nostro governo (ne avessimo uno!) limitarsi all'indifferenza. Cordiali saluti,
Roberto Fezzi

Aderisco! Contro la mistificazione storica. Contro la mai finita aggressione allo stato di Israele.
Marco Medeghin

Aderisco all'appello convintamente, basterebbe leggere la Bibbia e conoscere la storia!
Maria Rondolino

Sono anche d'accordo nel chiedere al Governo italiano di tagliare i fondi all'Unesco perché quest'organizzazione è indegna di rappresentare la cultura nel mondo.
Anna Borioni

Sottoscrivo l'appello contro l'Unesco. Sono un cittadino italiano che si vergogna dell'orgogliosa rivendicazione da parte del Governo dei 54 siti Unesco e in cambio tace sulla delegittimazione di Israele.
Claudio Felli

Ho letto con grande commozione e sgomento su "Informazione corretta" gli articoli del 10.7.2017 di Cerasa e Battista sul negazionismo antisemita dell'Unesco. Vi scrivo per comunicarvelo. Ero rimasta al Monte del Tempio e al Muro del Pianto, ma vedo che non gli basta. Basterebbe essere andati a catechismo per non fare quello che sta facendo l'Unesco. Scrivo anche per dare formalmente la mia adesione all'appello contro l'azione antisemita, antiebraica e antiisraeliana dell'Unesco.
Antonella Dessì

Aderisco al vostro appello: grazie di esistere, amici del Foglio. Mi sento meno solo! Viva Israele!
Michele Migliori

Pieno sostegno ad un'altra, purtroppo necessaria iniziativa del Foglio. Am Yisrael Chai !
Alberto Garrone

Ennesima buffonata all'Unesco che è ormai diventata un'agenzia, come altre all'Onu fra cui Unhcr, Umwa e Unwrc che hanno il solo fine di delegittimare e demonizzare Israele, falsificando la storia e la tradizione e propagandando vili menzogne. Come con la mozione su Gerusalemme l'anno scorso, le tombe dei patriarchi a Hebron vengono assegnate all'Islam e agli arabi. Siamo alla farsa. I signori Gentiloni e Franceschini sviluppino una spina dorsale velocemente e dissocino l'Italia da questa inutile agenzia antisemita il prima possibile. Chi collabora e chi tace è responsabile.
Enrico Marangon

Con la presente e-mail, intendo aderire all'appello contro l'Unesco, che vuole spazzare via la storia di Israele, per motivi puramente ideologici, e senza alcun rispetto della storia e del radicamento degli ebrei nella loro terra; a favore di alcuni stati islamici, i quali hanno come unico obbiettivo la distruzione dello stato di Israele!
Vito Facciolla

Aderisco all'iniziativa di sostegno a favore di Israele, unica nazione democratica in Medio oriente! Contro la prepotenza e le pretese antistoriche dei pronipoti dei predoni beduini che occuparono e distrussero i territori di Israele dopo la dispersione del popolo ebraico causata dai romani!
Mario Calcagni

Per chi ha letto e amato George Orwell e Oriana Fallaci, le ripetute sentenze di morte dell'Unesco contro Israele sono evidenti quanto insopportabili contraffazioni. Nazismo o estremismo islamico? Non contano le sfumature, ma il succo: uno sfrontato attacco contro la storia e la civiltà occidentali.
Wanda Riccitelli

Sottoscrivo il vostro appello e manifesto tutta la mia angoscia per l'antisemitismo che cresce intorno a noi.
Pia Costantini

Aderisco ovviamente, pur non essendo né intellettuale, né politico, ma solo una casalinga di Milano. Cordiali saluti,
Anna Ryden

Sono felice di sostenere la campagna per la difesa di Israele e della sua storia. Ringrazio il Foglio per l'iniziativa.
Adelio Zampini

Come si fa a negare l'olocausto cioè i 6 milioni di ebrei uccisi nei lager nazisti? Significa ignorare la storia. Firmo indignata questo appello.
Eloisa de' Santis

Con questa mail aderisco al vostro appello. "E così questa storia non finirà su una tomba che un giorno andremo memori a visitare. Perché il fumo che sale dai forni crematori obbedisce come ogni altro fumo alle leggi fisiche: le particelle si accumulano e si disperdono al vento che le sospinge. L'unico pellegrinaggio possibile sarebbe, stimato lettore, contemplare di tanto in tanto con malinconia un cielo di temporale". (L'ultimo dei Giusti). Mi auguro che a Israele non rimangano solo temporali.
Gaia Pinotti

Sottoscrivo con entusiasmo l'appello del Foglio sull'Unesco contro la delegittimazione di Israele e sono d'accordo nel dichiarare Israele patrimonio dell'umanità.
Salvatore Indelicato

Forse che l'Unesco serve a qualcosa? Se non a delegittimare Israele e a distruggere gli ebrei dal punto di vista culturale? Poco più di 70 anni fa a Cracovia si perpetrò l'annichilimento fisico degli ebrei, oggi nel 2017 nella stessa città si perpetra l'annichilimento culturale degli ebrei. Se li tenga, l'Unesco, i riconoscimenti dei siti italiani. A cosa ci servono? Non siamo in grado neanche di tutelare una delle più antiche culture del mondo, quella ebraica, e pretendiamo di preservare i nostri beni culturali. Boicottiamo l'Unesco!
Davide Montanari

Condivido lo spirito dell'appello, ovvero la necessità che lo stato di Israele non sia continuamente messo in discussione, per non dire minacciato di distruzione non solo fisica ma anche culturale.
Pierangelo Masarati

L'antisemitismo non muore mai, l'Unesco dovrebbe vergognarsi e considerare quanto è ridicolo oltre che scandaloso il suo atteggiamento. Grazie come sempre al Foglio di stare con Israele. Un cordiale saluto,
Elisa Novarese

Desidero sottoscrivere l'appello per sostenere Israele nei confronti di un organismo quale l'Unesco che si è autodelegittimato.
Pier Giuseppe Greco

Condivido appello del Foglio, soffrendo per quel che vedo accadere contro Israele.
Bruno de Paola

Aderisco a questo appello. Se continuasse questo inaccettabile atteggiamento, credo che al nostro Paese rimarrebbe una cosa da fare: uscire dall'Unesco.
Ernesto Nobile

E' l'Unesco, un organismo che si delegittima da solo, che sarà spazzato via come tutti gli altri nemici d'Israele di turno. Hevron, Gerusalemme e il kotel, il muro occidentale come il Monte del Tempio, rimarranno sempre luoghi appartenenti al popolo ebraico e patrimonio d'Israele. Israele con i suoi luoghi sacri rimarrà sempre unita.
Simy Elmaleh, Shalom Elmaleh, Naar Israel

Aderisco alla vostra lodevolissima iniziativa e mi chiedo fino a quando Israele, l'unico baluardo di civiltà nel Medio oriente, dovrà sopportare questi insulti.
Rosa Colacino

La negazione e stravolgimento della Storia è un delitto contro la cultura - e quindi contro le libertà basilari dell'uomo - che è obbrobrioso veder praticata proprio dall'Unesco. Non si tratta meramente di un sopruso, in questo caso a Israele e agli ebrei di tutto il mondo, ma di un sopruso all'intera umanità, nessuno escluso. Desidero ardentemente che il mio governo si faccia parte diligente nel difendere la mia libertà insieme a quella di chiunque ed espleti in futuro ogni azione che gli sia possibile per prevenire simili attentati a un diritto fondamentale quale è quello alla conoscenza.
Giovanni Mesini

Aderisco alla campagna da voi propugnata contro l'orribile (e purtroppo non incredibile) decisione dell'Unesco. Ci chiediamo continuamente perché il Medio Oriente sia una polveriera e poi non difendiamo attivamente l'unico regime democratico nella regione.
Marco Arvati

Aderisco con grande determinazione all'appello di grandi intellettuali italiani impegnati nel disconoscere la validità di vergognose decisioni dell'Unesco. Israele ha bisogno della vicinanza di Popoli e Paesi illuminati: ora è sola in questa lotta per affermare le proprie origini che tanti vorrebbero cancellate per sempre. Il nostro governo faccia sentire la voce di chi vuole ripristinare la verità storica.
Maurizio Zannini

Importante e significativa la vostra campagna per Israele. Sempre accanto ad Israele. Sempre! Grazie Foglio.
Trutalli Roberto

Aderisco anch'io all'appello del Foglio contro le delibere antisemite e persecutorie dell'Unesco contro gli ebrei negando la storia plurimillenaria di collegamento con Gerusalemme e Hebron.
Roberto Camiz

Una decisione vergognosa, senza senso. Cancellata la storia e la realtà. Viva Israele.
Tiziana Alvari

Rifiuto di prestare sostegno e rispetto all'Unesco "sino a che non abbia provato nuovamente, nei riguardi di Israele di essere fedele ai propri fini". Sono preoccupata perché secondo la logica perversa con la quale da tempo l'Unesco affonda ed umilia Israele, potrebbe un domani proporre il baccalà vicentino come piatto D.O.C. della cucina palestinese. In questo caso mi sentirei violentata tre volte, come ebrea, come vicentina e come Cittadina del mondo.
Paola Farina

Aderisco all'appello contro l'Unesco che vuole spazzare via la storia d'Israele, recidere le radici ebraiche degli ebrei è come la shoah.
Elio Cabib

Qualche anno fa durante un viaggio in Israele ho visitato la tomba dei Patriarchi a Hebron, e essendo cristiana e non ebrea ho potuto visitare anche la parte musulmana. Se non avessi visitato questo meraviglioso paese avrei ancora qualche pregiudizio. Non è così per cui "viva Israele".
Graziella Tacchini

Voglio aderire all'appello all'Unesco contro la delegittimazione e la voglia di cancellare Israele dalla faccia della terra. Lo stato d'Israele deve continuare ad esistere.
Marina De Angeli

Con la presente aderisco all'appello contro l'Unesco in merito alla supposta "sovranità dell'Islam e dei Palestinesi (esistevano a quel tempo?) sulla tomba dei patriarchi ad Hebron.
Michele Sciam

Egregio direttore, aderisco con convinzione all'appello contro la decisione dell'Unesco di cancellare il legame tra La Tomba dei Patriarchi di Hebron e l'ebraismo tentativo che fa trasparire il fine di delegittimare Israele cancellandone la sua storia.
Michele Borserini

Cari amici e amiche de Il Foglio, vi ringrazio per aver lanciato questo appello alla chiarezza sul ruolo dell'Unesco, alla difesa delle ragioni dell'esistenza di Israele e al rispetto della verità storica contro strumentalizzazioni ideologiche e "teologiche". Sottoscrivo convintamente l'appello, che riproduco in calce alla presente lettera di adesione. Grazie ancora, per questo e per le battaglie che conducete ogni giorno.
Giuseppe Cecere

Aderisco alla campagna del Foglio contro le assurde scelte antisemite di un'istituzione screditata come l'Unesco.
Andrea Cerini

Sempre al fianco di Israele presidio di civiltà, democrazia, diritti. Grazie.
Ciro Reginella

L'Unesco sta superando tutti i limiti della decenza. In Polonia fu perpetrato un massacro che sterminò oltre i nove decimi degli ebrei polacchi.Basta con le follie dell'Unesco.
Annalisa Neviani

Caro direttore, aderisco all'appello da lei lanciato contro il vergognoso tentativo dell'Unesco di cancellare i millenari legami con l'ebraismo di siti come le tombe dei Patriarchi ad Hebron e il Monte del Tempio a Gerusalemme. Israele non è una "forza occupante", ma è l'unico stato democratico del Medio oriente e continua a difendersi sin dalla sua nascita, nel 1948, dalle aggressioni dei paesi musulmani circostanti e dagli attentati dei terroristi palestinesi a partire dall'Olp di Arafat fino a giungere ad Hamas ed Hezbollah; paesi e terroristi che ne negano il legittimo diritto ad esistere come sancito dall'ONU nel 1947 come compimento di quanto stabilito da Lord Balfour nel 1917. Israele non va lasciato solo e da Israele dobbiamo imparare come combattere lo stesso terrorismo musulmano che ha causato centinaia di morti in Europa in questi ultimi anni. Cordiali saluti,
Luca Berardi

Aderisco volentieri all'appello contro l'Unesco che vuole cancellare la storia di Israele. Invito inoltre l'Unesco a occuparsi di cose cui è stato deputato a occuparsi, altrimenti questa organizzazione ormai inutile ( come tutte le organizzazioni referenti all'Onu, che servono solo a drenare denaro) rischia di scadere nel ridicolo alla stregua di un'operetta di avanspettacolo. Cordiali saluti,
Antonio Saccone

La storia del Popolo Israeliano è una storia millenaria, intrecciata indissolubilmente con il territorio che adesso l'Unesco vuole negare. Stiamo assistendo a una forma di negazionismo storico e culturale, dai risvolti preoccupanti. Il pregiudizio antisraeliano è una vera e propria forma di razzismo e per questo va combattuto.
Federico Resler

Aderisco con entusiasmo, viva Israele, radice dell'"olivo buono" (Lettera ai romani, 11, 24.) e della nostra cultura giudaico cristiana.
Francesco Mengozzi

Sottoscrivo anche io l'appello all'Unesco. Il muro del pianto e la tomba dei patriarchi appartengono agli ebrei, negarlo è vergognoso. E di certo è un attacco contro Israele.
Valentina Preta

In attesa che l'Unesco decreti che Gesù era un profeta di Allah e che il Vaticano è un luogo santo di pertinenza araba, aderisco pienamente e convintamente all'appello del Foglio.
Giovanni De Merulis

L'Italia tutta dovrebbe prendere le distanze da questa ennesima iniziativa scellerata dell'Unesco e il governo Gentiloni dovrebbe esprimere con forza il nostro disappunto.
Carla Noya

Sono cattolica ma nutro un profondo rispetto e affetto per la storia, la cultura e la religione ebraica. L'Unesco a confronto non è niente e rivela la sua crassa ignoranza anche in questo caso. E la paghiamo pure!
Rosaria Magistri

Partecipo con grande entusiasmo alla campagna anti diffamatoria del Foglio a favore del glorioso Stato di Israele. "Le libertà dell'occidente si difendono sotto le mura di Gerusalemme".
Giancarlo lemma

Hanno aderito all'appello anche:
Claudia Condemi, Antonio Melai, Enrico Cerchione, Pietro Fanelli, Andrea Jarach, Alberto Ventrini, Roberta Vital, Luigi Viola, Vittoria Scanu, Mirko Giordani, Dora Matz, Cosimo Yehudà Pagliara, Francesca Padovese, Mauro Saracco, Alberto Levy, Giovanna, Bonifazio, Riccardo De Benedetti, Antonio Gabriele Fucilone, Ugo Volli, Francesco Zanatta, Roberto Zanconi.

Per aderire all'appello invia una email all'indirizzo vivaisraele@ilfoglio.it

(Il Foglio, 12 luglio 2017)


Cybersecurity. Italia incontra Israele all'evento Selta. Intervista a Gianluca Attura

Intervista a Gianluca Attura, CEO di SELTA, in occasione del convegno internazionale 'Gli effetti della Digital Transformation sugli scenari della Cybersecurity', organizzato dalla stessa società, da 45 anni specializzata nella difesa e nella sicurezza informatica.

Intervista a Gianluca Attura
Gianluca Attura
"Oggi è il momento di cominciare a lavorare veramente sulla cybersecurity, altrimenti diventiamo un Paese facilmente attaccabile e molto debole. Selta lavora da 45 anni su tutte le infrastrutture critiche dell'Italia e quindi abbiamo il polso della situazione anche dal punto di vista del rischio e la cybersecurity è il vulnus maggiore che ha il nostro Stato".
Con queste parole Gianluca Attura, CEO di SELTA, ha aperto i lavori del workshop internazionale Gli effetti della Digital Transformation sugli scenari della Cyber Security, organizzato dalla stessa azienda, leader nel settore delle infrastrutture critiche, della difesa e della sicurezza informatica in Italia, in collaborazione con il centro ELIS.
Al workshop, che si è svolto a Roma il 4 luglio, hanno partecipato esperti del settore, rappresentanti politici, università e aziende israeliane che operano nell'ambito della sicurezza del mondo cyber.
L'evento ha offerto spunti di riflessione importanti sui temi della sicurezza declinati in tutte le principali applicazioni.

(key4biz, 12 luglio 2017)


Turchia e Israele: trovata soluzione per il gasdotto per le forniture in Europa

Turchia e Israele sono riuscite a firmare un accordo per la costruzione di un gasdotto per la fornitura di gas all'Unione Europea.
Lo ha detto mercoledì il ministro della Infrastrutture, Energia e dell'Acqua israeliano Yuval Steinitz al ventiduesimo congresso mondiale del petrolio nella provincia di Istanbul.
"Abbiamo avuto un dialogo fruttuoso con la controparte turca, spero che prima della fine dell'anno Berat Albayrak visiterà Israele per completare il processo di negoziazione e concludere l'accordo per la costruzione del gasdotto" ha detto Steinitz, secondo cui la data della visita di Berat Albayrak in Israele sarà definita nei prossimi mesi.
Steinitz ha riferito che la decisione di stipulare un accordo preliminare intergovernativo per la costruzione di un gasdotto tra la Turchia e Israele sarà presa dopo quattro incontri di negoziazione.
"Siamo sicuri che in futuro l'Europa acquisterà gas dal Mediterraneo orientale. In questo momento sono in corso intense trattative per la costruzione di due gasdotti. Uno verrà costruito in Turchia e poi in Europa. Di un'altra conduttura si prevede la costruzione a sud di Cipro, Grecia e Italia" ha sottolineato il ministro.
Steinitz ha sottolineato che il governo italiano ha presentato un progetto di trasporto del gas israeliano, uno dei più importanti per il suo paese. "Se lo chiedete a noi, credo che sia un progetto molto importante" ha detto il ministro israeliano, sottolineando che Israele ha abbastanza risorse per il trasporto di gas in due tubazioni.

(Sputnik Italia, 12 luglio 2017)


Con Avi Gabbay i laburisti israeliani trovano il loro Macron

L'ex imprenditore vince le primarie, manda in pensione la vecchia classe dirigente degli Herzog e dei Peretz e lancia la sfida al Likud di Netanayahu. Sconosciuto dal grande pubblico è un oggetto politico ancora indecifrabile

di Daniele Zaccaria

Il momento della vittoria
Avi Gabbay
Fino allo scorso anno pochi israeliani conoscevano Avi Gabbay vincitore a sorpresa delle primarie laburiste. La sua presenza nel governo Netanyahu come ministro dell'ambiente d'altra parte è stata appena più che fugace e le sue dimissioni, avvenute dopo l'entrata nell'esecutivo del falco Advigor Lieberman alla Difesa nel 2016, non hanno certo occupato le prime pagine dei giornali. Eppure in pochi mesi Gabbay è andato velocissimo: prima ha lasciato i centristi dei Kalanu ( partito che ha fondato nel 2014 assieme a Moshe Kahlon), poi lo scorso dicembre si è iscritto al Labour dove ha bruciato le tappe e lasciato al palo la vecchia, eterna classe dirigente. Al primo turno ha stracciato il segretario uscente Isaac Herzog, mentre al ballottaggio è riuscito a spuntarla contro il navigato Amir Peretz, leader della sinistra interna e uomo vicino ai sindacati. Così, a dispetto delle previsioni di tutti i sondaggi, un outsider sefardita proveniente da una famiglia di ebrei immigrati dal Marocco si è preso in mano il partito delle elites askhenazite.
  «I militanti laburisti eleggendo Gabbay hanno compiuto la scelta più irragionevole, assurda, audace e sovversiva, la sua ascesa ricorda quella di Emmanuel Macron in Francia», scriveva ieri il quotidiano progressista Haaretz, fotografando alla perfezione lo stupore con cui i media dello Stato ebraico hanno accolto l'improvvisa svolta al vertice del primo partito di opposizione. Come in tanti altri paesi occidentali, dalla Francia alla Grecia, dalla Spagna all'Olanda, anche in Israele il centrosinistra conosce una profonda crisi politica e tanti sono i tratti in comune con i "cugini" europei: mancanza di una linea definita, gestione oligarchica e gerontocratica degli affari interni, distanza dal territorio, emorragia di consensi. Se all'epoca di Ytzak Rabin il labour aveva oltre 200mila iscritti oggi può contare su meno di 50mila adesioni. Questa condizione agonizzante apre spazi anche ai novizi della politica, ai neofiti come Gabbay, issato in cima al partito soprattutto dalla delusione dei militanti verso i vecchi capibastone e frustrati dall'assistere al dominio del Likud, al governo senza soluzione di continuità dal 2009.
  Nato nel 1967 alla periferia più povera di Gerusalemme, padre di tre figli, maratoneta dilettante, Gabbay non fa parte della Knesset ( il Parlamento israeliano) e ha un'esperienza politica limitata: laureato in economia e Business administration all'università di Gerusalemme, ha lavorato come tecnico al dipartimento bilancio del ministero delle finanze, poi è stato direttore generale del gigante delle telecomunicazioni Bezeq international, incarico che ha svolto per 4 anni. Anche i suoi avversari gli riconoscono grandi doti intellettuali e un carisma tranquillo, caratteristica che lo ha aiutato fin da giovane, quando ha svolto il servizio militare nelle prestigiosa unità di intelligence di cui è diventato uno stimato comandante.
  Difficile però prevedere quale sarà la linea con cui Gabbay intende rilanciare il Labour e sfidare il blocco di potere di Netanyahu e compagnia: «Si tratta di un oggetto politico non identificato e uscito dal nulla di cui quasi nessuno può indovinare le mosse», commenta il notista politico Yoav Krakovsky. Nel suo primo discorso dopo la vittoria Gabbay si è impegnato a costruire un'alternativa credibile al Likud per le elezioni del 2019, riconquistando la vecchia base laburista frustrata e disillusa: «Andremo a fare campagna casa per casa». Sul rovente dossier israelo- palestinese si dice favorevole alla creazione di uno Stato smilitarizzato confinante con Israele e insiste sulla centralità della questione economica nei Territori dove a suo avviso il conflitto viene alimentato principalmente dalla povertà della popolazione.

(Il Dubbio, 12 luglio 2017)


L'Autorità Palestinese impone nuove sanzioni economiche a Gaza

Per far pressione su Hamas

GERUSALEMME - L'Autorità Palestinese (AP) ha deciso di intensificare la pressione sul governo di Hamas nella Striscia di Gaza tagliando le sovvenzioni sociali per le famiglie. La notizia è stata pubblicata martedì dalla stampa israeliana che cita come fonte un funzionario vicino al presidente dell'AP Mahmoud Abbas. Ad oggi almeno 80.000 famiglie di Gaza ricevono mensilmente un contributo dall'AP, e di queste circa 60.000 hanno legami con Hamas. L'AP, scrive "Haaretz", prevede inoltre di tagliare gli stipendi a tutti i dipendenti del sistema sanitario e delle infrastrutture nella Striscia: "Se Hamas si considera il partito responsabile e sovrano nella Striscia, allora l'Autorità Palestinese non dovrebbe occuparsi da sola di tutte le spese", ha dichiarato alla stampa un funzionario dell'AP. Questi tagli non fanno che aggravare la già disastrosa situazione degli abitanti della Striscia che da quasi un mese devono far fronte alla mancanza quasi assoluta di energia elettrica

(Agenzia Nova, 12 luglio 2017)


Terremoto centro Italia. In Abruzzo una delegazione governativa israeliana

 
Il vice Presidente della Regione, Giovanni Lolli, ha ricevuto all'Aquila una delegazione del governo israeliano in missione all'Aquila per valutare lo stato di ricostruzione post sisma 2009 e per acquisire elementi di conoscenza relativamente al sistema nazionale e regionale di protezione civile. la delegazione era formata da esponenti del governo e dei dicasteri israeliani degli Interni, Emergenza, Costruzioni, Energia, Sicurezza Sociale, Sanità, Istruzione e Difesa, che si occupa, quest'ultimo, anche di Protezione Civile.
   La delegazione è reduce da un sopralluogo effettuato nei centri maggiormente colpiti dal terremoto del Centro Italia del 2017 e del 2017 e si è mostrata particolarmente interessata a conoscere la filiera di coordinamento che la Protezione Civile mette in campo in occasione di calamità naturali di grande portata come quella dell'Aquila del 2009. In Israele esistono oltre 100 mila edifici realizzati con una altezza superiore a 3 piani che sono giudicati a rischio e sui quali si concentrerà l'attenzione dello Stato israeliano con un programma di messa in sicurezza che sta per essere messo in campo, "anche se", ha commentato uno dei componenti della delegazione, "il rischio di un attacco missilistico in Israele e più alto del rischio sismico".
   Dopo aver ripercorso, su richiesta degli ospiti stranieri, le principali fasi di soccorso e di assistenza alla popolazione nell'immediato post-sisma, Lolli ha detto che la ricostruzione dell'Aquila e del cratere sta procedendo con ritmi scanditi dall'entità dei danni subiti e dalla rilevanza numerica e strutturale del patrimonio edilizio storico, monumentale e vincolato interessato.
   "L'Italia - ha sottolineato Giovanni Lolli - è diventata bravissima a riparare i danni, ma ora dobbiamo diventare ancora più bravi a prevenire i danni prima che il terremoto colpisca ancora, perché da noi i terremoto accadono frequentemente. Negli ultimi 50 anni, i terremoti, oltre alle perdite irreparabili di migliaia di vite umane, hanno causato danni al patrimonio edilizio pubblico e privato per oltre 200 miliardi di euro: prevenire piuttosto che riparare i danni, è diventata una priorità non più rinviabile".
   Lolli ha anche annunciato l'avvio di un programma di messa in sicurezza degli oltre 1200 edifici scolastici della regione, che si avvale di un investimento di 222 milioni di euro di fondi regionali, ai quali si aggiungeranno altri 150 milioni di fondi nazionali.

(Ufficio Stampa Regione Abruzzo, 11 luglio 2017)


"L'islam prenderà l'Europa con le nascite"

L'arcivescovo di Strasburgo evoca il "sorpasso" dell'islam in Francia

di Giulio Meotti

ROMA - Non sono mancati i grandi prelati, vescovi e cardinali, che hanno denunciato il "sorpasso" dell'islam in Europa. Come il cardinale Raymond Leo Burke: "Ho sentito diverse volte degli islamici che spiegavano: 'Quello che non siamo riusciti a fare con le armi in passato lo stiamo facendo oggi con la natalità"'. Come Piero Gheddo, decano dei missionari italiani: "L'islam ha demograficamente in mano il futuro dell'Europa". Come il cardinale Christoph Schònborn, l'arcivescovo di Vienna che ha parlato della possibile "conquista islamica dell'Europa". Come l'ex capo della chiesa cattolica nella Repubblica Ceca, il da poco defunto Miloslav Vlk: "I musulmani in Europa hanno molti più figli delle famiglie cristiane". Adesso però una simile denuncia non viene da un esponente dell'ala più conservatrice del clero, ma da un alto rappresentante della solitamente timida chiesa francese, l'arcivescovo di Strasburgo Luc Ravel, per giunta nominato da Papa Francesco lo scorso febbraio.
   In una intervista al quotidiano Dernières Nouvelles d' Alsace e che ha fatto il giro dei media mainstream francesi, l'arcivescovo prima ha parlato dei numeri dell'aborto: "L'aborto non è solo concesso ma incoraggiato. E si tratta di un incoraggiamento che non posso accettare, non per una questione di fede, ma perché amo la Francia". Dice che si dovrebbe "lasciar fluire generosamente la vita, questo è il segno più sicuro della forza di una nazione e una civiltà". Poi Ravel si è lasciato scappare quella frase: "I fedeli musulmani sono ben consapevoli del fatto che la loro fertilità è tale che oggi lo chiamano ... 'Grand Remplacement', lo dicono in maniera molto pacata e positiva che un giorno tutto questo sarà loro". E' la prima volta che un grande prelato cattolico, come l'arciverscovo di Strasburgo Luc Ravel, usa l'espressione coniata dallo scrittore e pamphlettista Renaud Camus, "Grand Remplacement", la sostituzione del popolo francese da parte dell'islam e che gli è costata ben due condanne da parte dei tribunali francesi per "incitamento all'odio".
   E proprio due settimane fa una feroce polemica era scoppiata al programma radio "Répliques", su France Culture, quando il filosofo Alain Finkielkraut aveva osato invitare proprio Camus a parlare di "Grand Remplacement". "Renaud Camus non ha più voce in capitolo anche se tutti parlano di lui, dandogli la parola ho voluto mettere fine all'anomalia di questa assenza onnipresente", ha cercato di difendersi Finkielkraut. A violare il tabù anche Michèle Tribalat, direttrice dell'Istituto nazionale degli Studi demografici che ha appena pubblicato un libro intitolato "Assimilation: la fin du modèle français", dove traccia un parallelismo quasi apocalittico tra l'esplosione dei flussi migratori e il fallimento dell'integrazione.
   L'arcivescovo di Strasburgo, Luc Ravel, non è nuovo a provocare il dibattito in Francia. Nel 2015 scrisse un saggio per spiegare che i cristiani d'Europa erano presi fra due fuochi, "la bomba terrorista, il profeta vendicativo" da un lato, e dall'altra parte "i terroristi del pensiero, gli adoratori della Repubblica". Così che "non saremo tenuti in ostaggio dagli islamisti, ma non vogliamo essere tenuti in ostaggio dai benpensanti". Adesso Ravel ha senz'altro rotto due tabù con la sua ultima intervista.
   Oggi in Francia, a più di quarant'anni dalla legge che ha preso il nome della compianta Simone Veil, un quarto delle nascite finiscono ancora in un aborto. Un francese su quattro. A fronte di 800 mila nascite ogni anno ci sono circa 220 mila interruzioni di gravidanza. Otto milioni di aborti, circa, dal 1975. Ravel ha poi sollevato il tema, sulfureo e controverso, del "sorpasso" dell'islam e della sua crescita demografica.
   Ogni inizio anno, l'Insee pubblica le cifre per lo stato civile relativo ai nomi assegnati ai bambini nati in Francia dal 1900. Così, a Seine-Saint-Denis il 42,9 per cento sono nomi musulmani, nella Val-deMarne il 26,3, il 23,5 nel Rodano, il 20 nel Bouches-du-Rhòne, il 19 nell'Hérault e il 17,1 a Parigi. Nessuno sa quanti siano i musulmani di Francia (è proibito raccogliere le statistiche su base etnico-religiosa). Ma in due decenni, la popolazione musulmana francese si suppone sia aumentata del 25 per cento secondo le stime più basse, del 50 per cento per le stime mediane, del 100 per cento se si confrontano le cifre Ined e del governo dal 1997 al 2014, passando da tre a sei milioni. E' due, tre, sei volte la crescita media della popolazione francese. Forse per questo l'espressione "Grand Remplacement" spaventa tanto.

(Il Foglio, 12 luglio 2017)


Israele - Secondo i sondaggi il partito di Netanyahu è saldo al comando

Anche con il nuovo leader laburista Avi Gabbai

Due distinti sondaggi condotti da differenti canali tv indicano che l'attuale premier Benyamin Netanyahu continuerebbe ad avere la maggioranza dei seggi alla Knesset anche con la discesa in campo del nuovo leader laburista Avi Gabbai. Secondo la rilevazione di Canale 2, se le elezioni si tenessero domani (sono previste nel 2019) il partito di Netanyahu, il Likud, avrebbe 24 seggi contro i 20 di Gabbai.
Anche per Canale 10, il voto sarebbe a favore dell'attuale premier: 29 seggi per il Likud contro i 24 di Gabbai. I laburisti però sarebbero il secondo partito, mentre gli ultimi sondaggi davano il loro sorpasso da parte del partito centrista 'C'è futuro' di Yair Lapid.

(ANSAmed, 12 luglio 2017)


Tutti dicono Viva Israele

Centinaia di firme dei lettori del Foglio si aggiungono a quelle raccolte ieri per dire basta all'Unesco che vuole cancellare la storia e le radici del popolo ebraico.

Condivido e approvo immensamente le vostre decisioni dalla parte della verità e della storia autentica, vero patrimonio dell'umanità. L'Unesco va combattuto, smascherato, vilipeso, ridimensionato, annientato, svilito in quanto vergogna dell'umanità la quale insegue il traguardo del patrimonio della storia al servizio della verità incarnata spiritualmente in Israele, sì Israele, unico patrimonio dell'umanità. Grazie e che Iddio Onnipotente benedica tutto il coraggioso team del Foglio.
Mia Shalom

Aderiamo all'appello contro la vergognosa, ben pagata, ennesima manovra dell'Unesco per cancellare la storia ebraica e di Israele. Siamo cattolici e la questione ci riguarda direttamente. Speriamo che altri correligionari, sempre distratti (eufemismo) su ebrei e, soprattutto, Israele, seguano il nostro esempio.
Mara Marantonio e Mauro Bernardini

Cari foglianti, grazie per la vostra iniziativa contro l'Unesco e le sue rivoltanti aberrazioni antisemite. Per fortuna ci siete ancora voi a ricordare che la libertà dell'Occidente si difendono sotto le mura di Gerusalemme. Abbasso l'Unesco, viva Israele!
Anna Pintore

Aderisco all'appello contro la risoluzione Unesco a proposito di Hebron e della Tomba dei Patriarchi. Colgo l'occasione per ringraziarvi per essere tra i pochi che capiscono la gravità della situazione che finirà per coinvolgere tutto il mondo, così come avvenne alla vigilia della II guerra mondiale. L'antisemitismo, nella sua attuale forma di antisionismo, è un campanello di allarme che dovrebbe allertare l'occidente, per il momento immerso nella più totale incoscienza. Un caro saluto,
Cecilia Nizza

Forti dei grandi successi europei nell'eliminazione del cristianesimo svuotandolo dal di dentro anziché con la persecuzione pubblica, si è deciso di provare a seguire la stessa strada coi nostri fratelli maggiori. A occuparsi dei vivi in un nuovo tentativo ci sono già legioni di tagliagole, al di qua e al di là del Mediterraneo, che si sono offerti volontari.
Marco Ullasci

La sottoscritta rifiuta di collaborare a questo organismo "sino a che non abbia provato nuovamente, nei riguardi di Israele di essere fedele ai propri fini".
Liliana Cozzarelli

Aderisco all'appello. Contro le vergognose decisioni di cancellare la storia ebraica.
Jenny Racah

Aderisco all'iniziativa del Foglio contro la strumentalizzazione politica della storia e della cultura portata avanti dall'Unesco in evidente contraddizione con la sua missione.
Alberto Finzi

Aderisco al manifesto contro le scellerate decisioni dell'Unesco. Viva Israele!
Alex Storti

Firmo volentieri anche io per giustizia e per dirvi, ancora una volta, grazie.
Lorella Zarfati

Contro la shoah culturale chiedo che Israele sia patrimonio dell'umanità.
Anna Solitro

Aderisco all'appello e lo sottoscrivo. Intendo inoltre rassegnare le mie dimissioni da membro del Club Unesco di Brescia per protestare contro l'involuzione di questo organismo che, come ha scritto Pierluigi Battista stamattina sul Corriere della Sera: "In teoria dovrebbe difendere la cultura e l'arte in tutto il pianeta, ma in realtà è diventata il ricettacolo di ogni menzogna e di ogni servilismo verso i despoti del mondo".
Paolo Bolpagni

L'Unesco si attenga al suo ruolo invece di essere uno strumento politico al servizio di una sola parte. Israele patrimonio mondiale dell'umanità. Di chi ancora ce l'ha.
Andrea Ogando Dos Santos

Aderisco all'appello contro l'Unesco a sostegno di Israele. Sperando la finiscano di insultare la storia e una nazione libera e civile.
Enrico Iachello

Vi scrivo per dimostrare il mio sostegno allo stato d'Israele e denunciare la vergognosa campagna diffamatoria che l'ONU e le sue propaggini, come l'Unesco, sta portando avanti contro lo stato ebraico. Non si può restare indifferenti davanti a queste ignobili e false accuse, mentre l'Onu resta in silenzio davanti alle continue violazioni dei diritti umani nella maggior parte dei paesi arabi.
Continuate così, non tacete.
Francesco Mariani

Cari signori, aderisco alla vostra iniziativa contro le follie dell'Onu. Possa la nebbia sollevarsi dai loro occhi.
Claudio Biasi

"La storia del popolo ebraico è iniziata a Hebron e nessuna "fake history" può cambiarla". La decisione dei burocrati dell'Unesco di islamizzare le città più sante dell'ebraismo (Gerusalemme e Hebron) è inconcepibile, anche a me che sono stato concepito da un padre arabo palestinese.
Daniel Mansour

Israele è comunque un patrimonio dell'Umanità nei fatti. E' proprio questa realtà a motivare l'odio di un'organizzazione controllata da regimi autoritari quando non dittatoriali, usata per coprire le loro violazioni dei diritti umani, e che sanno bene di essere destinati alla pattumiera della Storia. Viva Israele e Norimberga 2 per i mandanti dei tagliatori di gole.
Guido Valota

Aderisco all'appello contro l'Unesco che vuole portare via a Israele e agli ebrei la loro storia.
Cordialmente,
Lisa Borgiani

Contro l'Unesco che continua a fare porcheria nei confronti di Israele. Viva Israele.
Luciana Carbone

Aderisco con entusiasmo all'appello. Israele è radice profonda e forte della nostra civiltà.
Luca Tiribocchi

Aderisco all'appello in difesa di Israele, contro l'atteggiamento inqualificabile e drammaticamente ostile nei confronti della storia ebrea dell'Unesco.
Samanta Segatori

Un anno dopo il negazionismo sul Muro del Pianto, l'Unesco ci riprova e conferma di essere portavoce di un pezzo di mondo che vuole eliminare Israele. Il governo italiano deve rivedere il suo rapporto con l'Onu e l'Unesco per impedire queste pagliacciate.
Giorgio Marongiu

Gentile direttore, da semplice cittadino sposo appieno la causa che state portando avanti per il riconoscimento di Israele come vero e unico baluardo di democrazia in Medio Oriente e come tale da difendere al cospetto di tutti coloro che, ultimo l'Unesco, provano a legittimare pulsioni antisemite.
Cordialmente,
Giancarlo Zicari

Dalla parte di Israele, sempre. Con Il Foglio in tasca.
Matteo Ciocci

Desidero con questa mia esprimere tutto il mio rammarico contro la decisione dell'Unesco. Sperando che la mia piccola voce possa essere utile a qualcosa.
In fede,
Maria Vaccari

L'unico veramente determinato baluardo a difesa della civiltà occidentale.
Vittorio Ammannato

Sottoscrivo il vostro appello, perché non c'è libertà senza Israele.
Giacomo Frigo

Aderisco all'appello contro la bassa istituzione, ancora tristemente in vita. Come sarebbe più evoluta, seria e intelligente l'Europa se avesse la progenie degli ebrei uccisi. Ma qui si parla del dignitoso, avanzato e tenace Israele: libertà, sicurezza e progresso per Israele!
Giovanni Boccoli

Sembra incredibile che istituzioni che dovrebbero tutelare e promuovere la cultura e la conoscenza della storia si prestino a operazioni politiche così volgari e insensate. Viva Israele e la sua democrazia, imperfetta certo e a volte pure discutibile ma che comunque esprime una società plurale e libera.
Cristiano Kucich

Vorrei aggiungere la mia firma per protestare contro le attività dell'Unesco, mirate a distruggere culturalmente Israele.
Michael Begnini

E' da tempo che Unesco e Onu hanno passato il limite nei confronti di Israele. Aderisco alla vostra iniziativa.
Paola Colombo

E' un'altra di quelle situazioni che mi fanno ricordare Oriana Fallaci. Lei disse che saremmo stati invasi con l'immigrazione e diventeremo cittadini di euroabia, perciò ecco un aiutino agli invasori. una subdola manovra per distruggere l'unica democrazia in Medio Oriente, coraggiosa,Jelice, e orgogliosa. Io sto con loro viva Israele sempre e comunque.
Rosanna Zanardi

Aderisco senza se e senza ma! Israele è nella storia, e la storia è falsa senza Israele!
Paola Ceva

Aderisco volentieri a questo appello di civiltà. Viva Israele, viva la cultura ebraica.
Daniela Degli Esposti

Aderisco all'appello del Foglio contro l'Unesco. Mi congratulo con il direttore e la redazione per il coraggio (peraltro consueto) e l'indipendenza di un quotidiano che dal primo numero, e da solo, è la voce vera di una quantità enorme di italiani. Il solo Foglio ci ripaga di circa 400 ore quotidiane di imbarazzo e un numero assai più alto di pagine di giornale. Grazie di cuore. Il vostro lavoro è molto duro. Lo rendete ancora più pesante. E' preziosissimo. State bene!
Paolo Merolla

Ringraziandovi vivamente per quello che avete fatto e continuate a fare, aderisco anche io.
Giordana Moscati

Contro la decisione dell'Unesco , una vergogna per la Storia e per la stessa Unesco! Hebron è una città ebraica!
Joe Victor e Evelyn Behar

Sottoscrivo con convinzione l'appello contro la decisione dell'Unesco di cancellare con Israele la memoria. Mai più.
Francesco Izzo

Aderisco con convinzione e nell'auspicio che queste campagne arginino in misura efficace il malvolere antisemita di troppe istituzioni che dovrebbero essere e operare "Super partes".
Maria Letizia Baldi

Sottoscrivo pienamente l'appello del Foglio per contrastare l'ignobile tentativo dell'Unesco di riscrivere la storia e la cultura millenaria dei luoghi sacri al popolo di Israele, in un disegno chiaramente politico ed interessato volto evidentemente alla delegittimazione dell'esistenza stessa dello Stato di Israele. Tutto ciò è inaccettabile, in primis perché viene da parte di un'organizzazione sovvenzionata e partecipata da governi sedicenti liberi e democratici. Basta! Cessi immediatamente questo sconcio orientamento, o cessi del tutto l'Onu, Unesco in testa,
Infede,
Fabio Goldoni

Dico no a questa shoah culturale e credo che sia più che giusto dichiarare Israele patrimonio dell'umanità! E' nell'ebraismo che nacque il mondo. Sono cristiana e riconosco l'ebraismo come il pilastro della cultura mondiale!
Bianca Teresa Condello

Confesso la mia innata simpatia per Israele e, contro l'Unesco, propongo che vengano restituiti tutti i suoi riconoscimenti con contestuale rimozione di cartelli, insegne, loghi e qualsiasi altro testo in cui è citata la parola "Unesco".
Giuseppe Rondinone

La grottesca e ridicola iniziativa dell'Unesco sulla tomba dei Patriarchi di Hebron, seguito naturale della analoga dichiarazione negazionista antistorica sul Muro Occidentale di Gerusalemme; dimostra l'esistenza di un piano meditato e coordinato, e non frutto di estemporanei deliri della sua ottusa maggioranza. Una strategia barbarica, tesa a distruggere la storia come primo passo verso la distruzione di uno Stato. Un metodo aberrante, ripugnante, che in Italia trova eco nelle celebrazioni del 25 Aprile, quando una frangia di fanatici ossessionati cerca invano di strappare le pagine della gloriosa Brigata Ebraica, ignorando che in questo modo distrugge il libro della Resistenza. E' per questo che chiedo una radicale revisione dei ruoli e dei principi che animano l'Unesco: perché la storia non si può stuprare e riscrivere a proprio piacimento.
Gaetano Evangelista

Esprimiamo la nostra piena adesione all'appello contro la delegittimazione di Israele da parte dell'Unesco.
Milly Buonanno e Giovanni Bechelloni

Aderisco all'appello all'Unesco affinché riconosca il ruolo di Israele, invece di combatterlo in ogni occasione.
Andrea G. Contini

Sostengo l'appello contro l'Unesco che vuole cancellare la storia di Israele.
Giancarlo Leone

Aderisco al manifesto contro l'Unesco e la shoah culturale in atto contro Israele. Lunga vita a Israele! Bisogna studiare la storia, i luoghi, la cultura ebraica e poi andare in Israele per capire!
Claudio Liberato

Aderisco con entusiasmo all'appello rivolto all'Unesco, il cui comportamento mi appare incomprensibile, demenziale e molto pericoloso.
Pier Luigi Ditta

Buongiorno, sono amico di Israele e desidero aderire all'appello contro l'Unesco che vuole spazzare via la storia di Israele. Israele è parte della storia della civiltà, i suoi valori fondanti sono quelli della libertà, dell'emancipazione, della cultura, della sicurezza. L'Unesco sta seguendo una politica ottusa e dannosa e per un ignobile e codardo pensiero politicamente corretto sta negando la realtà e la Storia.
Aderisco all'appello de Il Foglio.
Paolo Barbanti

Esprimo il mio sdegno e disgusto profondo per la decisione dell'Unesco con cui si nega il rapporto tra Israele e i luoghi santi dell'ebraismo. Anzi, si nega il rapporto religioso, culturale, storico tra questi luoghi e l'ebraismo in generale. L'ennesimo scippo a favore di un'inesistente identità islamica e araba decine di secoli prima che questa si fosse formata. L'Unesco ancora una volta si fa strumento di propaganda del pensiero islamico e del mondo arabo, di cui è evidente ostaggio, e che non smette di nutrire l'ambizione di spazzare via Israele. Quello cui l'Unesco sta dando consapevolmente il suo appoggio è un tentativo di genocidio culturale, nonché testimonianza di quanto sia in buona salute l'antisemitismo sia in Occidente che nel mondo islamico. Il fatto che questo genocidio non avverrà non significa che il tentativo sia meno grave: continuare ad assecondare il vittimismo e il risentimento palestinese, e ad avallare la propaganda palestinese e le sue volgari menzogne, impedirà una qualunque forma di stabilizzazione all'interno della regione. Significa sostenere una "soluzione" del conflitto che passa attraverso la negazione di Israele, del suo essere stato, popolo, cultura e religione.
Elisabetta Noè

Aderisco. Convinto. Per l'unico paese democratico della regione.
Emilio Sisi

Dobbiamo difendere Israele e la sua storia millenaria con ogni mezzo. L'Unesco deve essere abolito come istituzione, dimostratosi razzista, antisemita, incompetente.
Simona Robotti

Aderisco alla sottoscrizione nei confronti dell'Unesco che continua la sua guerra culturale ad Israele.
Grazie.
Flaminia Sabatello

Anch'io aderisco all'appello del Foglio contro le politiche antisemite e antisraeliane dell'Unesco.
Guglielmo Maccioni

Aderisco all'appello contro il vergognoso tentativo di cancellare la storia perpetrato dall'Unesco contro Israele.
Sandro Chierici

L'Unesco ogni giorno inventa qualche nuova follia antisemita contro Israele: fuori l'Italia dall'Unesco! Fraterni saluti,
Federico Baldini

Il mio appoggio incondizionato a Israele. L'Unesco è un'organizzazione assolutamente di parte che andrebbe eliminata per la sua incapacità. Io firmo a favore di Israele.
Silvia Anticoli

Le organizzazioni come l'Unesco appartengono ad una fase storica da tempo superata, consumano risorse e hanno dimostrato di non risolvere alcuno dei problemi che ne hanno giustificato la creazione. Né l'Italia né le altre nazioni democratiche dovrebbero continuare a contribuire alla vita di tali parassiti. Proprio oggi ricordiamo che Giacobbe è stato scelto dal Signore e chiamato Israele, cioè forte con Dio. La sua vita non è merito nostro, ma con prontezza e discernimento rispondiamo alla chiamata: Eccomi!
Renato Cerutti

Aderisco alla campagna per il riconoscimento del diritto alla vita e alla sicurezza di Israele. Le istanze internazionali devono perlomeno conoscere e rispettare le evidenze storiche.
Mietta Gaziano

Benché io sia soltanto uno studente che ha appena terminato il liceo, mi sono interessato da diverso tempo, ormai, alla storia di Israele e alle campagne in suo favore sostenute dal Foglio. Le scelte dell'Unesco dovrebbero essere apolitiche: dopotutto, si tratta di decisioni che prendono atto della bellezza di un patrimonio storicoculturale e lo sacralizzano, rendendolo degno di essere protetto. Chi potrebbe amministrare meglio tali ricchezze di uno Stato, quale esiste, ed è quello di Israele? Perché
un bene di proprietà dello stato italiano - Palmanova tra gli altri - viene rimesso alle politiche di tutela dello stato italiano e, invece, beni come la tomba dei patriarchi a Hebron vengono espropriati allo stato ebraico che potrebbe regolarmente gestirli? Firmo perché questa Shoah culturale, che si nutre del revisionismo storico e dell'ignoranza politica, termini al più presto.
Francesco Pestrin

Partecipo al vostro appello grato della vostra iniziativa. Sono certo che tanta stupidità, come quella di assegnare siti e memorie del popolo ebreo a chi ebreo non lo è, non possa affermarsi e che il buon senso tomi ad illuminare le tetre brughiere mentali dei dirigenti Unesco .
Vi ringrazio ancora,
Sauro Sanchini

Con la presente intendo aderire alla campagna promossa dal Foglio contro la delegittimazione operata dall'Unesco ai danni di Israele. In questo mondo "terreno" si può legittimamente lottare quotidianamente per difendere i valori e l'esistenza di un popolo scelto, della "Pupilla del Signore". Tuttavia toccherà a lui, al Principe di pace, l'ultima e vittoriosa difesa finale verso il suo Popolo.
Siete un giornale fantastico, ottimo lavoro e grazie!
Daniele D'Avino

Aderisco all'iniziativa del Foglio contro la risoluzione dell'Unesco che vuole portare via a Israele e agli Ebrei la loro storia disconoscendo il millenario legame tra Hebron e l'Ebraismo, una ulteriore violenza storica dopo quella relativa a Gerusalemme.
Laura D'Angeli


Hanno aderito all'appello anche:
Demetrio Shlomo Yisrael Serraglia, Ariel Shimona Edith Besozzi, Marilena Lanzilotta, Gaspare Campanini, Giacomo Lev Mannheimer, Laura Malchiodi, Adriana Bozzini, Elisabetta Malchiodi, Gaetano Malchiodi, Chiara Guerrini, Carla Berardi, Alessandro De Angeli, Flavio Casali, Guido Levi, Alessandro Scarpari, Sandro Bozzini, Annamaria Stanga, Margherita Bozzini, Federica Biglino, Rosetta Gyorgy, Marialessandra Biglino, Gerardo Maiuri, Nicoletta Babuscio, Emanuel Segre Amar, Ada Zambroni, Ulisse Zorzan, Silvia Quilleri, Carlo Aletto, Paola Turilli. Roberto Fiaschi, Maria Rosa Di Lallo, Daniela Rella, Deborah Fait, Mario Klein, Nicla de Pinto.

Per aderire all'appello invia una email all'indirizzo vivaisraele@ilfoglio.it

(Il Foglio, 12 luglio 2017)


L'Onu tolga le mani dal conflitto israelo-palestinese, ci dice Bassem Eid

di Eugenio Cau

 
  Bassem Eid
BRUXELLES - "L'anno scorso sono stato invitato a parlare all'Onu. Era la prima volta che entravo nel palazzo di Vetro a New York. La prima frase che ricordo di aver detto è stata: 'In qualità di rifugiato palestinese, vorrei possedere la chiave di questo palazzo e chiuderlo per sempre"'. Bassem Eid parla con durezza delle risoluzioni adottate dall'Unesco a Cracovia la settimana scorsa, e più in generale delle ampie interferenze anti israeliane delle agenzie onusiane. Cinquantanove anni, nel 1996 Eid ha fondato a Ramallah il Palestinian Human Rights Monitoring Group, organizzazione per i diritti umani che ha ricevuto premi e riconoscimenti prima di essere osteggiata e infine chiusa in quanto non rispettava le regole tradizionali della retorica del conflitto israelo-palestinese: da palestinese, Eid denunciava il "collaborazionismo" dei suoi compatrioti nei confronti del terrorismo, condannava la corruzione dell'Autorità palestinese e non si lasciava trascinare in quella demonizzazione di Israele che è la moneta di scambio abituale nel mondo arabo. Da beniamino umanitarista, Eid si è trasformato in un personaggio scomodo perché si rifiuta di vedere in Israele il male assoluto, e anzi: osa lodare l'operato di Gerusalemme. Di recente la sua campagna controcorrente di opposizione al boicottaggio dei prodotti israeliani gli ha creato parecchi nemici. L'anno scorso, l' University of Chicago lo invitò per una serie di conferenze sulla questione israelo-palestinese, ma il primo incontro fu interrotto da manifestanti violenti anti israeliani. Eid fu costretto ad abbandonare il campus in fretta e furia. I manifestanti impedirono poi l'inizio del secondo incontro, e alla fine Eid cancellò l'intero ciclo di conferenze. "Oggi - dice al Foglio -non parlo più in un campus americano a meno che non ci sia la polizia a guardia della sala. Non la security interna: vera polizia con le uniformi. Solo così mi sento sicuro".
  Incontriamo Eid durante una conferenza organizzata a Bruxelles dall'Eipa, la Europe Israel Press Association, in cui parla insieme ad altri esperti di conflitto israelo-palestinese, della minaccia islamista sull'Europa e del modello israeliano nella lotta al terrore. Il tema dell'Unesco è all'ordine del giorno. A Cracovia, l'Agenzia per la scienza e la cultura ha designato Israele come una "potenza occupante" e in seguito ha assegnato all'islam e ai palestinesi la custodia della tomba dei patriarchi di Hebron, luogo storico della cultura ebraica. Come già avvenuto innumerevoli volte, grazie all'attivismo dei paesi musulmani e alla compiacenza colpevole di alcuni paesi occidentali le istituzioni internazionali sono utilizzate per negare a Israele il diritto alla sua storia. "L'Onu deve togliere le sue mani dal conflitto israelo-palestinese - dice Eid - Ormai le istituzioni onusiane non solo non aiutano, ma cedendo alle pressioni dei paesi arabi rendendo il conflitto impossibile da risolvere". Chiediamo a Eid quale giovamento può trarre il popolo palestinese da risoluzioni come questa. "Ovviamente nessuno - risponde - Le manovre intorno alle istituzioni Onu rispondono a una precisa strategia dei paesi arabi e dell'Autorità palestinese che non ha niente a che vedere con il benessere della popolazione, spesso la gente non sa nemmeno di cosa si parli. E' come per il boicottaggio anti Israele: ho parlato con tantissimi palestinesi che non sapevano cosa fosse. Ma questo conviene ai paesi arabi: si accreditano a costo zero come difensori della Palestina, e Abu Mazen danza sulle risoluzioni onusiane come se fossero un grande successo in politica estera".
  Ma perché i paesi europei si prestano a questi giochi? "C'è un'ondata anti israeliana che monta in occidente", dice Eid. "Molte organizzazioni finanziate sia dai paesi arabi e del golfo sia dall'Europa incitano all'odio contro Israele. Il risultato è che ormai in Europa c'è un forte background non solo anti israeliano, ma propriamente antisemita. Mi rende molto triste il modo in cui l'Europa oggi tratta gli ebrei. E' una pessima strategia, che non porterà benefici nel futuro e che rischia di compromettere la società nel suo insieme. Le responsabilità sono condivise, né i media né i governi europei fanno abbastanza", e per ora le prospettive sono nere. "Forse un giorno l'Europa si sveglierà, ma per ora sembra difficile".

(Il Foglio, 12 luglio 2017)


Medio Oriente, l'allarme dell'Onu: "Nel 2020 Gaza sarà invivibile"

Se non si cambia l'attuale situazione, nel 2020 Gaza sarà "invivibile". Lo sostiene un nuovo Rapporto dell'Onu diffuso dalla sede dell'organizzazione a Gerusalemme che fotografa la situazione a 10 anni dalla presa del potere di Hamas nella Striscia, dall'avvio del blocco di Israele e dalla separazione amministrativa dal resto dei Territori palestinesi.
I parametri sociali ed economici - sottolinea il dossier - sono "deteriorati e più rapidamente di quanto anticipato nel 2012? a cominciare dal Pil pro capite. Se l'unica risorsa di acqua potabile sarà "completamente esaurita" per il 2020, oggi l'emergenza è quella dell'elettricità, definita "il più recente e visibile deterioramento nelle condizioni di vita". "Gaza - ha detto Robert Piper, coordinatore Onu - ha continuato la sua traiettoria di de-sviluppo, in molti casi più velocemente di quanto abbiamo previsto. L'attuale assistenza umanitaria attraverso l'Unrwa sta rallentando questa discesa, ma la direzione verso il basso resta chiara".
L'alternativa, ha ammonito Piper, sarà che Gaza sarà ancora più isolata e disperata. "La minaccia di una rinnovata, più devastante, escalation aumenterà e le prospettive di una riconciliazione intra palestinese diminuiranno. Con loro le possibilità di un pace tra Israele e la Palestina". Per questo il Rapporto dell'Onu ha fatto appello a Tel Aviv, all'Autorità nazionale palestinese, ad Hamas e alla Comunità internazionale "a muoversi in direzione di investimenti di sviluppo più sostenibili, il rafforzamento dei settori produttivi di Gaza, il miglioramento della libertà di movimento per entrambi i popoli e le merci, così come per il rispetto dei diritti umani e la legge umanitaria internazionale".

(Solonews, 11 luglio 2017)


Come volevasi dimostrare. La popolazione della striscia di Gaza ha appoggiato Hamas; ha devastato le sinagoghe quando gli ebrei hanno lasciato piangendo quella terra; ha esaltato i “martiri” suicidi; ha esultato per i missili lanciati contro Israele: adesso si trova in mezzo a un mare di guai. Naturalmente si può continuare il giochino: “la colpa è tutta di Israele, bisogna combatterlo, bisogna distruggerlo, bisogna farlo sparire e i nostri guai finiranno”. Illusione. Hanno maledetto Israele e adesso si trovano sotto maledizione. E’ già successo molte altre volte nella storia: “Benedirò chi ti benedirà, maledirò chi ti maledirà” (Genesi 12:3). E sotto la medesima maledizione si trovano anche tutti coloro che hanno appoggiato e continuano ad appoggiare Hamas. Gli effetti possono essere ritardati, ma il risultato è inevitabile. Le leggi spirituali sono più inesorabili di quelle fisiche. M.C.


Avanzando nel futuro: Israele contro la narrativa fraudolenta

di Niram Ferretti

La guerra di Israele contro i suoi nemici arabi non è mai stata vinta completamente. Le guerre vinte sul campo sono indubbiamente prove inequivocabili della sua superiorità militare e tecnologica, così come ne è prova la straordinaria efficienza con cui la sicurezza dello stato ha, dalla terribile Seconda Intifada in poi, sempre più circoscritto il numero degli attentati. Ma, se tutto ciò è vero, è altrettanto vero che sul piano della propaganda, della narrativa consolidata ed egemone, Israele la guerra non l'ha affatto vinta.
La narrativa propalestinista, secondo la quale Israele sarebbe uno stato usurpante terre arabe e i palestinesi un popolo autoctono costretto all'esilio (vedi alla voce rifugiati) o vittima di massacri, angherie e soprusi, ha fatto grande breccia in buona parte dell'opinione pubblica mondiale.
Questa narrativa fraudolenta finora non è stata efficacemente combattuta. Alla strategia di comunicazione razionale israeliana, basata puntualmente su fatti, statistiche, dati oggettivi, la strategia araba ha opposto una fiction basata interamente sulla emotività, un epos straziante costruito sul binomio oppositivo archetipico carnefici/vittime. Si tratta di un canovaccio vincente perché fondato sulla primarietà delle emozioni, sull'istinto, sulla visceralità. Di fronte a questo magma pulsionale, l'ordine luminoso che promana dal logos viene travolto. Hamas questo lo ha capito molto bene, come, prima di esso, lo aveva capito l'OLP.
Ogni guerra che Israele è costretto a fare per difendersi dalle aggressioni dei suoi nemici diventa occasione ghiotta per mostrare al mondo i morti, soprattutto le donne e i bambini, e così lucrare sull'indignazione attizzando l'odio nei suoi confronti e, inevitabilmente, nei confronti degli ebrei, sui quali a cascata tornano a essere rovesciate tutte le accuse infamanti del passato.

Dunque?
Dunque si tratta di essere lucidamente consapevoli di questa amara realtà e al contempo di vedere che, malgrado tutto questo, Israele ha un grosso e irrefutabile vantaggio sui suoi avversari. Israele funziona, è prospero, felice, nonostante sia sempre minacciato, ha una economia fiorente, una tecnologia tra le prime al mondo, una qualità di vita alta, offre un modello di pluralismo democratico unico in tutto il Medioriente. E questo è dovuto al fatto che ha saputo scommettere incessantemente sulla vita e sul futuro. Basta passeggiare per Tel Aviv, cuore pulsante della sua economia, per rendersene conto. I cantieri sono perennemente aperti, i grattacieli continuano a sorgere, la gioventù israeliana, tra le più belle e sane al mondo, è nei caffè, nei pub, nei ristoranti, all'aperto, fino a tardi. Dall'altra parte invece c'è un mondo rinchiuso nel perimetro angusto di tribalismi e autocrazie, dove il futuro è solo inteso come una perenne lotta per il potere ed il controllo su una popolazione cresciuta nel risentimento e nella menzogna, un mondo che ha già perso il treno per l'avvenire da più di un secolo perché non ha mai voluto cogliere davvero la grande opportunità di potere crescere autonomo vicino a uno stato moderno e creativo al massimo.

Dunque?
Dunque loro sono là, perdenti nei fatti e nella storia, alla quale possono solo sostituire un racconto intessuto di falsità che, pur ottenendo il plauso di tanti, affatturati dal suo alone ipnoticamente menzognero, li lascerà però costantemente dove sono, mentre Israele continuerà incessantemente ad andare avanti.

(L'informale, 12 luglio 2017)


12 Luglio 1555. Papa Paolo IV istituisce il primo Ghetto Ebraico a Roma

Roma, 1880-1885 - Un angolo di Via della Fiumara al Ghetto
Almanacco di Roma a cura di Stefano Crivelli

Il 12 Luglio del 1555 Papa Paolo IV istituisce il primo Ghetto Ebraico a Roma (chiamato il "serraglio degli ebrei").
Con la Bolla "Cum nimis absurdum" il Pontefice revoca tutti i diritti agli ebrei romani.
Il Ghetto sorge nel rione Sant'Angelo accanto al teatro di Marcello (nella zona del Portico d'Ottavia).

(Abitare a Roma, 12 luglio 2017)


Il ministro degli Esteri libanese accoglie con favore la liberazione di Mosul

BEIRUT - Il ministro degli Esteri libanese, Gebran Bassil, ha accolto con favore la liberazione della città irachena di Mosul dallo Stato islamico, definendola una "grande vittoria" per la popolazione. Bassil ha invitato a rafforzare gli sforzi regionali per contenere la diffusione del terrorismo "da un covo ad un altro". La milizia paramilitare libanese sciita di Hezbollah ha sostenuto le forze speciali irachene e le Unità di mobilitazione popolare (Pmu, milizie a maggioranza sciita) nella battaglia per la liberazione di Mosul iniziata nell'autunno del 2016. Proprio oggi, alle 20:30 ora locale (le 19:30 in Italia), il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, terrà un discorso televisivo sulla recente liberazione di Mosul dal giogo dell'Is. La scorsa settimana, il comandante della Guardia rivoluzionaria iraniana, Qassem Soleimani, ha elogiato il ruolo svolto da Hezbollah a Mosul.

(Agenzia Nova, 11 luglio 2017)


Rabbinato e identità ebraica, una lista divide Israele e Usa

Scontro all'orizzonte tra ebraismo americano e israeliano. A segnare una nuova frattura, la diffusione di una lista, proveniente dal Rabbinato centrale israeliano, in cui si elencano 160 rabbini - di cui 66 americani - considerati non affidabili rispetto alla certificazione dell'identità ebraica di chi emigra in Israele. Chi fa l'aliyah (emigra in Israele) infatti deve presentare al rabbinato israeliano - ortodosso - un certificato che attesti la propria identità ebraica. Nella documentazione spesso è richiesta la conferma da parte del rabbino della propria comunità di provenienza. Il mancato riconoscimento da parte del Rabbinato centrale non permette di sposarsi secondo rito ebraico in Israele. Da qui la delicatezza della questione: buona parte dei nomi presenti nella lista fanno parte delle correnti reform e conservative ma ci sono anche alcune figure di spicco dell'ortodossia americana. La "black list", come l'hanno definita i media, è stata inviata dal rabbinato all'organizzazione Itim, no profit israeliana che si occupa di aiutare gli israeliani a confrontarsi con la burocrazia religiosa del Paese. "Stanno effettivamente creando una lista nera - ha affermato Seth Faber, rabbino e direttore esecutivo di Itim - Le dimensioni della questione sono più grandi di quanto immaginassimo e il disprezzo con cui vengono trattati rabbini di tutto il mondo è sorprendente". Nelle scorse ore il rabbino capo ashkenazita d'Israele rav David Lau ha criticato duramente la pubblicazione della lista, iniziativa che sarebbe stata presa dal direttore generale del Rabbinato centrale Itamar Tubul. Secondo il sito israeliano Srugim, rav Lau si sarebbe infuriato perché la documentazione non era stata approvata dai rabbini capo e l'azione fatta con questa modalità comporta "un danno per tutto il rabbinato".
   La vicenda arriva a poche settimane dalla decisione del governo di Israele, su pressione dei partiti religiosi, di fermare la creazione di una sezione al Muro del Pianto aperta sia agli uomini sia alle donne, il che avrebbe risposto alle richieste dell'ebraismo conservative e reform, e di conseguenza alla maggioranza dell'ebraismo americano che si riconosce in queste due correnti. Il blocco ha prodotto una dura reazione dell'Agenzia ebraica - che si occupa dell'immigrazione degli ebrei in Israele - e di buona parte dell'ebraismo d'oltreoceano, scavando sempre più una divisione con Israele. Divisione confermata dal console generale israeliano a New York Dani Dayan. Alla radio dell'esercito Galei Tzahal Dayan ha dichiarato che, a differenza che in passato, lo Stato d'Israele non ha più bisogno del sostegno finanziario o politico dell'ebraismo americano, consigliando però comunque a Gerusalemme di riavvicinarsi alle correnti liberal degli Stati Uniti. Il mondo ebraico a stelle e strisce rappresenta la seconda comunità per numero di ebrei, dopo Israele: oltre cinque milioni di persone contro i sei milioni e mezzo dello Stato ebraico. La preoccupazione di molti, è che questi due mondi siano sempre più lontani.

(moked, 10 luglio 2017)


L'ambasciatore Usa in Israele per trattative con i palestinesi

L'ambasciatore degli Usa in Israele, David Friedman, in una mossa inusuale, sarà presente oggi all'incontro a Gerusalemme tra l'inviato speciale di Trump Jason Greenblatt e una delegazione palestinese per discutere come rilanciare il processo di pace.
La presenza di Friedman, secondo i media, è stata voluta dallo stesso presidente che lo considera una "figura chiave" nelle chance di riavviare i negoziati.
La partecipazione di Friedman all'incontro sembra indicare anche un cambio nella politica statunitense riguardo la trattativa stessa. Poiché Friedman è il rappresentante americano nei confronti di Israele, l'incontro con i palestinesi non può che avvenire a Gerusalemme e non a Ramallah.
La delegazione palestinese è composta dal negoziatore capo Saeb Erekat, dal capo dell'intelligence Majed Faraj e dal consigliere economico del presidente palestinese Abu Mazen, Mohammad Mustafa.

(tvsvizzera.it, 11 luglio 2017)


"Con l'Unesco siamo punto e a capo!"

"Davvero non si capisce la stupidità negazionista, l'accanimento demenziale, l'ostinazione cieca e avvilente con cui l'Unesco, un organismo che in teoria dovrebbe difendere la cultura e l'arte in tutto il pianeta, ma in realtà è diventata il ricettacolo di ogni menzogna e di ogni servilismo verso i despoti del mondo, nel corso degli ultimi anni si è incaponita nelle sue risoluzioni che negano e mortificano la storia degli ebrei."

Con queste parole inizia Pierluigi Battista il suo articolo "Violenza culturale contro gli ebrei", riportate ieri anche da noi. Davanti a tanta violenza culturale stupida e gratuita, una lettrice evangelica che ci segue costantemente, nostra sorella in Cristo, ha voluto comunicarci il suo personale sentimento di sconforto. Con il suo consenso riportiamo qui il suo scritto a testimonianza del fatto che Israele non provoca soltanto un odio inspiegabile sul piano umano, ma anche un amore altrettanto umanamente inspiegabile, perché l'elemento vero che è al centro della contesa non è la nazione di Israele, ma il Dio di Israele.
Ecco le sue parole, che sappiamo essere condivise da molti cristiani evangelici, anche se non da tutti (e forse purtroppo nemmeno dalla maggioranza):
    Carissimo fratello Marcello
    Con l'unesco siamo punto e a capo!
    Quanta cattiveria ci vuole per negare anche una semplice e lampante verita'! Ho cominciato col programma di Gad Lerner, ho letto del programma di Santoro ed ho toccato con mano l'antisemitismo quando invitata ad una dimostrazione di prodotti del Mar Morto si e' parlato male degli ebrei ortodossi... ho protestato e nessuno mi ha risposto!
    Tante volte ho il cuore a pezzi per tutte le notizie che leggo contro Israele e gli ebrei e mi vien voglia di non sapere niente! Ma a cosa servirebbe?! La realta' delle cose bisogna affrontarla a viso aperto! Grazie a Dio che mi sorregge in ogni mia difficolta' e grazie ad ogni fratello e sorella in fede che condivide con me l'amore per Israele!
    Un grazie infinite a te, in Cristo.
    Carmela Palma
(Notizie su Israele, 11 luglio 2017)


Israele - Un manager per risollevare i laburisti

Chi è Avi Gabbay nuovo leader della sinistra israeliana?

di Giordano Stabile

Avi Gabbay
Ambientalista, imprenditore, manager di Stato, ex militante di un partito di centro, ex ministro in un governo di centrodestra. Il vincitore delle primarie del Partito laburista israeliano è un misto di Tony Blair ed Emmanuel Macron, lontano mille miglia dai militanti della sinistra tradizionale ma forse proprio per questo in grado di rilanciare un partito moribondo dalla tragica fine di Yitzhak Rabin. E proprio a Rabin, Avi Gabbay dice di ispirarsi, con una piattaforma molto più di sinistra del suo curriculum, con aperture ai palestinesi persino su Gerusalemme, della quale si dice disposto a cedere alcuni sobborghi per farne la capitale del futuro Stato palestinese. Avi Gabbay ha battuto al ballottaggio, 52 per cento a 48, il favorito Amir Peretz, ex ministro della Difesa e segretario del sindacato nazionale, uomo dell'apparato. Ma i 30 mila iscritti che sono andati a votare, su 52 mila, volevano una rottura netta dopo gli anni grigi di Isaac Herzog, incapace di incarnare un'alternativa al premier Benjamin Netanyahu e neppure di mettersi d'accordo con lui per un governo di coalizione più spostato al centro. Avi Gabbay, classe 1967, con Netanyahu ha lavorato un anno, dal 2015 al 2016, come ministro dell'Ambiente. Molto popolare, soprattutto per il risanamento della baia di Haifa. Per andare al governo ha rotto con il suo partito, il centrista Kulanu, poi ha lasciato l'esecutivo in polemica con la nomina di Avigdor Lieberman a ministro della Difesa ed è passato al Labour. Gabbay ha iniziato la sua carriera al ministero delle Finanze, usato come trampolino per conquistare la guida della compagnia di telecomunicazioni statale Bezeq. È stato un risanatore implacabile, molto criticato per essersi aumentato lo stipendio mentre tagliava posti di lavoro, ma che comunque ha rimesso in piedi l'azienda. Come Macron crede fortemente nella «transizione ecologica», un modo di unire business, difesa dell'ambiente, lotta ai cambiamenti climatici. Per battere Netanyahu ha al massimo due anni di tempo e dovrà «ristrutturare» pesantemente il Labour. Ha usato il suo partito precedente, il Kulanu, come un «taxi», ma il Labour, l'HaAvoda, è una gloriosa corazzata, per quanto arrugginita, e dovrà usare più riguardo.

(La Stampa, 11 luglio 2017)


Expo antisemita

Nel weekend a Londra la grande fiera dell'odio di Israele. E gli imam arringano contro gli ebrei "zecche".

di Giulio Meotti

ROMA - Mentre in Italia la discussione politica si anima attorno all"'apologia del fascismo", in Inghilterra nel weekend un grande evento ha fatto apologia di un totalitarismo vivo e vegeto, l'antisemitismo di matrice islamista. E' in un edificio pubblico della città di Londra, il Queen Elizabeth II Center di Westminster, che si è svolta la più grande fiera palestinese d'Europa, il Palestine Expo. "A cento anni dalla Dichiarazione Balfour, a cinquanta dall'occupazione di Israele e a dieci dell'assedio di Gaza", recitava l'ambizioso programma della due giorni. Le autorità britanniche, a cominciare dal ministro Sajid Javid, avevano minacciato di bandire l'evento, per paura che veicolasse "idee estremiste". Purtroppo così è stato. E' stata la seconda manifestazione antisraeliana ospitata dalla capitale britannica in meno di un mese. Dopo due attentati nel Regno Unito si era tenuta la marcia "Al Quds Day" (il giorno di Gerusalemme). Slogan antisemiti, apologia del terrorismo e bandiere di Hezbollah avevano scandito una manifestazione dove non erano mancati riferimenti al rogo di Grenfell Tower, visto che "i sionisti" sono stati accusati di essere "fra i principali sostenitori del Partito Conservatore responsabili del rogo di Grenfell e della morte della gente". Frasi che avevano spinto anche il sindaco di Londra, Sadiq Khan, a chiedere al governo di bandire future manifestazioni di Hezbollah. Ospite d'onore dell'expo palestinese è stato l'imam Ebrahim Bham, il capo del Consiglio dei teologi musulmani del Sud Africa, la Jamiatul Ulema, che ha paragonato gli ebrei alle "zecche": "Un giorno Goebbels (ministro della propaganda nazista, ndr) ha dichiarato che 'la gente mi dice che gli ebrei sono esseri umani. Sì, so che sono esseri umani. Proprio come le zecche sono animali'".
   A organizzare l'evento Palestine Expo a Londra sono stati i "Friends of al Aqsa", l'organizzazione il cui portavoce, Ismail Patel, ha negato che Hamas sia una organizzazione terroristica. Ha parlato Inas Abbad, sorella di un terrorista palestinese in carcere, dopo l'islamologo svizzero Tariq Ramadan. C'era David Miller, docente sospeso dal Partito laburista in seguito ad accuse di antisemitismo. Gli organizzatori dell'evento Palestine Expo hanno difeso l'imam Ebrahim Bahm, che ha citato il ministro della propaganda di Adolf Hitler per illustrare il trattamento "simile" riservato ai "palestinesi sotto l'occupazione israeliana". "Lo sceicco Bham utilizza chiaramente la citazione per dimostrare quanto sia terribile il trattamento degli ebrei sotto la persecuzione nazista", ha detto Patel, organizzatore dell'evento. "Egli continua affermando che un trattamento simile è ora sperimentato dai palestinesi sotto l'occupazione israeliana".
   Sul Telegraph, una serie di parlamentari e personalità inglesi avevano lanciato un appello per impedire che la democrazia venisse strumentalizzata dagli antisemiti e dai fiancheggiatori del terrorismo islamico. "L'estremismo islamista è un'ideologia malvagia che sfrutta le nostre libertà e la democrazia per predicare l'odio, seminare divisione e promuovere l'intolleranza", recita l'appello firmato anche dagli ex comandanti delle truppe inglesi in Iraq e Afghanistan, Tim Collins e Richard Kemp. "La marcia 'al Quds' ha visto la partecipazione di centinaia con la bandiera del gruppo terrorista Hezbollah per il centro di Londra, cantando 'l'Isis e i sionisti sono la stessa cosa'. Chiediamo al Primo Ministro di prendere tutte le misure necessarie per impedire che edifici di proprietà dei contribuenti britannici siano utilizzati da gruppi che si oppongono ai nostri valori e ideali". Lo sceicco Bham non ha soltanto espresso idee antisemite. Ha anche fatto l'elogio del jihad, definito "una torre nel castello dell'Islam. Il jihad è parte integrante degli insegnamenti islamici".
   L'Inghilterra non sembra aver imparato la lezione. Nel 2004, l'allora sindaco di Londra, Ken Livingstone, invitò in città l'imam Yusuf al Qaradawi, guida spirituale dei Fratelli musulmani, che ha giustificato gli attentati kamikaze contro gli "infedeli" e gli ebrei israeliani (anche contro le donne incinte, madri di futuri soldati israeliani). Il 7 luglio di un anno dopo, Londra si svegliò con le bombe umane islamiste. Adesso, ad appena un mese dalle stragi jihadiste, i pifferai della guerra santa sono tornati a fomentare a Londra attacchi contro "le zecche": gli ebrei.

(Il Foglio, 11 luglio 2017)


E se la strage di Bologna non fosse "nera"?

L'ex giudice Priore rilancia la pista palestinese per gli 85 morti del 2 agosto 1981. L'ipotesi: una vendetta del Fplp per la violazione del "Lodo Moro".

di Maurizio Tortorella

 
Un'immagine della strage alla stazione di Bologna, dove una bomba il 2 agosto 1980 uccise 85 persone.
E se la strage di Bologna del 2 agosto 1980, con i suoi 85 morti la peggiore nella storia d'Italia, non fosse "nera"?
L'interrogativo, a 22 anni dalla condanna definitiva dei due neofascisti romani Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, parrà ozioso a chi crede che giustizia sia stata fatta.

 I dubbi irrisolti
  Eppure molti dubbi sono e restano evidentemente irrisolti. Il principale riguarda un retroscena sempre negato dai magistrati bolognesi, ma ogni giorno più esplorato e concreto: la possibilità che la strage sia nata come ritorsione del terrorismo palestinese per la violazione di un accordo segreto da parte dello Stato italiano.
Soprattutto di quell'accordo e delle sue oscene propaggini tratta un libro interessantissimo e documentato all'inverosimile: I segreti di Bologna (Chiarelettere, 274 pagine, 16 euro), scritto dall'ex giudice Rosario Priore e dall'avvocato Valerio Cutonilli.
L'accordo ha un nome, "Lodo Moro", e consiste in un patto di non belligeranza stretto nel 1973 fra il governo di Mariano Rumor, il cui ministro degli Esteri era Aldo Moro, e il Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp), attraverso gli uffici di Stefano Giovannone, importante funzionario dei nostri servizi segreti di stanza a Beirut, e grande esperto del Medio Oriente.
Il lodo Moro prevedeva che nessun attentato da parte palestinese potesse aver luogo in Italia, in cambio della piena libertà di movimento (armato) per quei sanguinari terroristi islamici ante-litteram.

 Perché Bologna
  E Bologna che cosa c'entra? Secondo Priore, la causa scatenante della strage potrebbe essere proprio l'arresto di tre militanti della sinistra eversiva a Ortona, in Abruzzo, fermati nel dicembre 1979 dai carabinieri insieme con un alto rappresentante del Fplp in Italia, Saleh Abu Anzeh (significativamente residente a Bologna).
I quattro finiscono in manette perché trasportano con un furgoncino alcuni missili terra-aria made in Urss.
Bisogna anche ricordare che in Italia, alla fine del 1979, un'era politica è appena finita: ai governi della "solidarietà nazionale" Dc-Pci, filopalestinesi, è succeduto il primo esecutivo di Francesco Cossiga, filoamericano. Così anche il Lodo Moro scricchiola.
Priore e Cutonilli ipotizzano che in quel momento gli stessi servizi segreti italiani si dividano in due: i filopalestinesi da una parte, con Giovannone; e i "legalitari" filo-occidentali dall'altra (sostenuti dai carabinieri del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, non per nulla autori dell'arresto di Ortona).
A Chieti, nel gennaio 1980, i quattro presunti terroristi vengono processati per direttissima e condannati a 7 anni di reclusione. Il 2 luglio inizia il processo d'appello. Gli imputati si aspettano di uscire subito di cella, approfittando della maggiore visibilità tipica di un processo di secondo grado, esattamente com'è già accaduto in passato per molti loro colleghi, ma invece l'udienza viene rinviata a ottobre.
È il segno del tradimento del Lodo Moro. Esattamente un mese dopo arriva la bomba in stazione.

 La situazione, oggi
  In un'appendice più recente del processo, nel 2014, la Procura di Bologna ha negato l'esistenza del Lodo. Oggi, invece, anche il generale Mario Mori, dal 2001 al 2008 capo del Sisde, scrive nel suo libro Oltre il terrorismo (editore Servizi e segreti, 255 pagine, 19,90 euro) di essere certo che l'accordo sia esistito. "Io mi stupisco lo si possa ancora mettere in dubbio" dice a Panorama Guido Salvini, giudice istruttore di tanti processi sull'eversione nera, a partire da Piazza Fontana.
Il Senato, all'unanimità, il 6 aprile 2017 ha chiesto al governo di abolire il segreto di Stato dalle carte relative al rapimento Moro. Lì dentro del Lodo segreto del 1973 si parla, eccome. Ma nessuno finora ha reagito. Qualcuno risponderà mai alla richiesta di verità?

(Panorama, 11 luglio 2017)


Israele conquista il Mediterraneo

di Lorenzo Vita

La geopolitica di uno Stato si misura anche osservando le attenzioni che uno Stato concede a un determinato settore delle forze armate. Nei bilanci, nelle politiche e nei progetti di innovazione, il fatto di concentrarsi su una forza armata piuttosto che su un'altra indica, inevitabilmente, il piano sul futuro strategico di una nazione. In questo senso, Israele è un interessante caso di studio di come un governo, dopo aver trascurato per anni, se non decenni, la propria dimensione marittima, decida poi di cambiare atteggiamento nei confronti della propria Marina e renderla una delle armi del futuro del Paese.
  Fino agli anni Novanta, la Marina israeliana ha rappresentato sicuramente la forza armata meno importante per lo Stato. Impegnati in confronti soprattutto terrestri con i Paesi limitrofi, i decisori di Israele non hanno mai dato una particolare importanza al settore strategico marittimo. Il motivo era evidente: la sopravvivenza dello Stato di Israele, nei suoi primi anni di vita, dipendeva essenzialmente dalla capacità di confrontarsi con i Paesi arabi e con la popolazione palestinese in rivolta. Non c'era l'idea di una proiezione mediterranea di Israele, ma quella di consolidarsi ed espandersi per via terrestre, e questo era evidente anche nei piani strategici delle forze armate, in cui primeggiavano per fondi e ricerca soprattutto l'esercito e l'aviazione. A questo, si aggiungeva poi il dato essenziale del supporto offerto dagli alleati di Israele nel controllo del Mar Mediterraneo, in particolare Francia e Stati Uniti, che per decenni hanno garantito la sicurezza marittima del Paese.
  Le cose cominciano a cambiare dagli anni Novanta, quando alla sopravvivenza terrestre, ormai assicurata dal consolidamento dell'alleanza con Washington e da una potenza militare sicuramente superiore a qualsiasi Paese limitrofo, si è aggiunto il problema di assicurare la sopravvivenza energetica e commerciale di Israele. Gli anni Duemila in particolare rappresentano la svolta della geopolitica del Mediterraneo Orientale, e sono questi gli anni in cui, inevitabilmente, si assiste al cambiamento nelle scelte militari di Israele. Uno dei primi grandi punti di svolta del Mediterraneo Orientale è rappresentato dalla scoperte di importanti giacimenti di gas in tutta l'area: scoperte che continuano ancora oggi e che dimostrano l'importanza energetica di tutto lo specchio d'acqua di fronte allo Stato di Israele. La scoperta di giacimenti off-shore e il loro utilizzo sono diventati essenziali per Israele e per la sua indipendenza energetica, oltre che fondamentali per entrare nel settore dell'export di gas attraverso pipeline che lo collegano all'Europa meridionale. La difesa di questi giacimenti è oggi uno dei problemi fondamentali della strategia marittima israeliana, che non a caso si è concentrata in un sistema di difesa marittimo adatto ad acque con profondità mediamente uguale a quella delle acque dove insistono questi pozzi.
  La seconda chiave per comprendere questo forte investimento nel settore navale israeliano è la comprensione della politica militare del Mediterraneo Orientale, che è cambiata tantissimo negli ultimi anni insieme alle relazioni internazionali di Israele con i suoi vicini e i suoi alleati. Gli Stati Uniti, ad eccezione della guerra in Siria, non hanno dimostrato di interessarsi molto al Mediterraneo dell'est: prova ne è che inviano le portaerei e le flotte in Siria e non stazionano stabilmente nell'area come nei decenni precedenti. Questo perché Israele, alleato fondamentale della Casa Bianca in Medio Oriente, è ormai assicurato grazie agli accordi che lo legano all'Arabia Saudita dal non essere più bersaglio fisso degli Stati arabi. I nemici potenziali della Marina israeliana, e cioè le forze marittime libanesi, non sarebbero comunque in grado già ora di competere con la forza navale israeliana. Tuttavia, negli ultimi mesi, le Marine dei Paesi storicamente più attenti al controllo del Mediterraneo orientale è in costante evoluzione: in particolare quella turca e quella egiziana. La Turchia ha deciso di investire in maniera massiccia sulla forza navale: l'annuncio di una totale indipendenza militare marittima entro il 2023 e del varo della prima portaerei turca ha messo in allarme tutte le forze dei Paesi della regione. L'Egitto, pur essendo un Paese sostanzialmente alleato di Israele, rimane comunque un punto interrogativo nella geopolitica orientale del mar Mediterraneo, e la questione di Suez rimane ferma nella mente dei legislatori israeliani come una minaccia cui nessuno vuole più confrontarsi.
  Terzo fattore che ha fatto cambiare piani militari a Israele è l'ingresso della Cina nel Mediterraneo, sia attraverso il commercio sia attraverso la cosiddetta Nuova Via della Seta. Se alcuni terminali di sviluppo cinesi passano per questa parte del Mediterraneo, Israele è sicuramente un passaggio obbligato, vista anche l'instabilità dei Paesi intorno a lui. L'unico ponte tra Medio Oriente ed Europa dotato di sicurezza è quello israeliano, e i governi di Israele hanno da tempo intrapreso una politica di attrazione di investimenti cinesi, consapevoli dell'unicità del loro Paese rispetto agli altri Stati mediorientali. A questo, si aggiunge poi il peso delle rotte commerciali, da cui dipende il 90% dell'import-export israeliano. Tutelarsi in quest'ambito, dove la Cina domina incontrastata, è un obiettivo indiscutibile della politica di Israele.

(Gli Occhi della Guerra, 10 luglio 2017)


Anche Israele attacca Soros: "E’ un nemico delle democrazie"

 
George Soros
Da oggi sarà un tantino più complicato accusare di 'antisemitismo' chi attacca lo speculatore Soros. Il ministero degli Esteri di Israele ha poco fa rilasciato una dichiarazione che denuncia il miliardario senzapatria, con una mossa che sembra destinata ad allineare Israele all'Ungheria prima di una visita a Budapest, la prossima settimana, del primo ministro Benjamin Netanyahu.
   George Soros, ebreo nato in Ungheria, che ha speso gran parte della sua fortuna a finanziare la destrutturazione etnica dell'Europa e degli Stati Uniti, in una perversa vendetta contro la civiltà europea, è stato ripetutamente attaccato dai governi meno compromessi con la finanza globale, come quello russo e ungherese. Un paio di anni fa, alcune sue Ong vennero messe fuorilegge a Mosca.
   Nell'ultimo caso, il primo ministro Viktor Orban ha accusato Soros definendolo un nemico dello Stato. "Non permettiamo a Soros di avere l'ultima risata" dicono cartelloni accanto a una foto dello speculatore di 86 anni. Una campagna che secondo alcuni fomenterebbe l'antisemitismo.
   Human Rights Watch, un'organizzazione finanziata da Soros, ha condannato la campagna dicendo che "evoca i ricordi dei manifesti nazisti durante la seconda guerra mondiale".
Ma lo Stato ebraico non concorda. E dopo che l'ambasciatore d'Israele in Ungheria ha rilasciato una dichiarazione che denuncia la campagna dicendo che "evoca memorie tristi ed emana odio e paura", il ministero degli Esteri di Israele ha diffuso un "chiarimento" dicendo che Soros è un obiettivo legittimo della critica. Di fatto scaricandolo e, finalmente, separando lo speculatore ebreo dagli ebrei in generale dietro la cui tragedia si è sempre fatto scudo.
   "In nessun modo l'affermazione (da parte dell'ambasciatore) ha il significato di delegittimare le critiche a George Soros, che continua ad attaccare i governi democraticamente eletti di Israele", ha dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri Emmanuel Nahshon, aggiungendo che le organizzazioni di Soros hanno finanziato le organizzazioni "che fanno campagna perché allo Stato ebraico sia negato il diritto di difendersi".
Perché Soros non 'ebreo', è un globalista. Odia le nazioni. Tutte. Non vuole che gli Ebrei abbiano uno Stato, vuole un mondo senza frontiere dove una minoranza di 'eletti' domini su una massa di mulatti: sudditi ideali.
   Sono rimasti talmente spiazzati, che al momento nessun portavoce di Open Society, il veicolo con il quale Soros fa terrorismo culturale e mediatico, non ha risposto ad alcuna richiesta di commento.

(Vox News, 10 luglio 2017)


Siria - Lieberman: Israele non sarà vincolato dal cessate il fuoco

GERUSALEMME - Il ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman, ha dichiarato domenica alla stampa israeliana che Israele non sarà vincolato dall'accordo di cessate il fuoco in vigore da ieri in Siria, e agirà per proteggere i propri interessi nazionali quando e dove lo riterrà necessario. Il cessate il fuoco, proclamato domenica a mezzogiorno (ora locale) su decisione di Russia e Stati Uniti, è il primo accordo preso dall'amministrazione del presidente Usa Donald Trump e da quella del presidente russo Vladimir Putin. Secondo il quotidiano israeliano "Haaretz", l'accordo, sul cessate il fuoco dovrebbe essere, nelle intenzioni di Mosca e Washington, un primo passo verso un processo più compiuto di de-escalation del conflitto. Tel Aviv, però, guarda all'intesa con scetticismo, specie in considerazione del fatto che Hezbollah e l'Iran, che assieme alla Russia sostengono il regime di Damasco, non partecipano alla cessazione delle ostilità. Gli Stati Uniti sarebbero interessati, secondo il quotidiano israeliano, a verificare l'affidabilità di Mosca come garante delle azioni degli alleati nel sud della Siria. Secondo il quotidiano israeliano, l'accordo per il cessate il fuoco nel sud della Siria sconta l'insuccesso delle iniziative simili tentate nel corso dei mesi scorsi, ma non è privo di potenzialità. Il fatto che le due principali potenze militari coinvolte nella crisi sostengano e promuovano entrambe l'iniziativa potrebbe convincere Damasco e le milizie anti-governative a rispettare la tregua. Per Israele, ciò potrebbe tradursi in un miglioramento a breve termine della situazione nel Golan, teatro di crescenti tensioni nelle ultime settimane, dopo la caduta di colpi di mortaio nel territorio israeliano, dal punto di vista di Tel Aviv, sottolinea il quotidiano, il problema che continua a porsi a lungo termine è la presenza di milizie sciite e agenti della Guardia della rivoluzione iraniana lungo il confine nel Golan.

(Agenzia Nova, 10 luglio 2017)


Importante accordo sull'elettricità tra Israele e Palestina

GERUSALEMME - Storico accordo tra Israele e Palestina, nel nome dell'approvvigionamento energetico. Il ministro israeliano per l'energia, Youval Steinitz ha firmato un protocollo sull'elettricità con l'Autorità palestinese nel Nord della Cisgiordania, in una rara visita di un leader israeliano in territorio palestinese.A Jalameh, nei pressi di Jenin, Steinitz e il premier palestinese Rami Hamdallah hanno annunciato un incremento della fornitura di energia elettrica nella zona e hanno annunciato la realizzazione di una nuova centrale di distribuzione dell'elettricità. L'accordo è stato raggiunto prima della visita nella regione di un alto consigliere del presidente americano, Donald Trump, Jason Greenblatt. La nuova amministrazione americana, cercando di rilanciare i negoziati di pace, ha chiesto a Israele di adottare misure per migliorare l'economia palestinese."Naturalmente, sul piano politico speriamo di arrivare alla pace e alla sicurezza - ha detto dal palco il ministro israeliano - ma nel frattempo è anche importante migliorare le infrastrutture, per Israele e per l'Autorità palestinese".Da parte sua il premier Hamdallah ha aggiunto che i palestinesi non vogliono "dipendere da Israele per sempre"."Per questo vogliamo costruire la nostra centrale - ha detto - siamo in procinto di realizzarla a Jenin. Produrrà 450 Megawatt e speriamo che possa entrare in funzione entro il 2020".L'annuncio in Cisgiordania, tuttavia, contrasta con la situazione nella Striscia di Gaza, colpita da una grave crisi energetica. Negli ultimi mesi il presidente palestinese Abu Mazen ha cercato di fare pressione su Hamas bloccando i pagamenti per la fornitura di energia elettrica all'enclave palestinese. Israele, principale fornitore di elettricità alla Striscia di Gaza, ha ridotto le sue forniture, portando a una situazione in cui la Striscia, abitata da 2 milioni di persone, ha solo due ore al giorno di energia.L'Egitto è intervenuto, offrendo combustibile per l'unica centrale elettrica di Gaza, ma i leader di Hamas hanno accusato di recente l'Autorità palestinese di bloccare i pagamenti al Cairo.

(askanews, 10 luglio 2017)


A Gerusalemme Festival per ragazzi promosso dal Consolato italiano

Yacoub Shaheen, l'artista di Betlemme in Cisgiordania, vincitore dell'edizione 2017 del talent show 'Arab Idol' ha chiuso ieri sera il 'Festival estivo di attività culturali per ragazzi' promosso dal Consolato Generale d'Italia a Gerusalemme. La due giorni di spettacoli - svoltasi al teatro 'Al-Hakawati' di Gerusalemme - ha coinvolto 30 ragazzi della città in workshop di danza, scultura e teatro.
I corsi, tenuti da artisti italiani e locali, si sono svolti nella cornice della Fondazione d'arte contemporanea "Ma'mal", nella Città Vecchia di Gerusalemme, oramai punto di riferimento nel panorama artistico ed intellettuale contemporaneo della città. Il Festival - oltre la partecipazione di Shahen - ha visto la presenza di 'Choronde Progetto Educativo', Gek Tessaro e le compagnie di danza e teatro 'Sosta Palmizi' e 'Al-Harah'.
Obiettivo della manifestazione - ha spiegato il Consolato - è quello di "avvicinare le giovani generazioni all'arte come strumento di dialogo fra culture e offrire nuove opportunità di collaborazione professionale fra artisti italiani e locali". Con il Festival - si è sottolineato - il Consolato Generale "continua a sostenere il dialogo culturale e la cooperazione a Gerusalemme, nel solco di progetti quali la "Scuola di Calcio" per bambini di tutte le comunità religiose, al campetto presso il Patriarcato Armeno, in Città Vecchia".

(ANSAmed, 10 luglio 2017)


Appello contro l'Unesco che vuole spazzare via la storia di Israele

L'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'educazione, la scienza e la cultura ha definito Israele una "potenza occupante" a Gerusalemme e ha poi assegnato all'islam e ai palestinesi la sovranità della tomba dei patriarchi a Hebron, dove sono seppelliti Isacco, Giacobbe e alcune delle loro mogli, negando i legami con la tradizione ebraica di quello che è considerato il secondo luogo più sacro dell'ebraismo.

di Claudio Cerasa

 
Cracovia è una realtà molto importante per il popolo ebraico. La città venne occupata dall'esercito tedesco il 6 settembre del 1939. Pochi giorni dopo i nazisti la dichiararono capitale del governatorato centrale della nuova provincia occupata della Polonia centro orientale. Pochi mesi dopo, il 3 marzo del 1941, l'esercito diede vita a uno dei più importanti ghetti della Polonia, seicento metri per quattrocento. Recintarono il ghetto con un filo spinato. Concentrarono nel ghetto tutti gli ebrei della città e dei vicini villaggi, più o meno 18 mila persone, e nel giro di poco tempo anche da quel ghetto cominciarono a essere deportate migliaia di persone verso il campo di sterminio di Belzec. Il 28 maggio del 1941 ci fu la prima azione, seimila ebrei vennero "trasferiti" e trecento vennero uccisi sul posto. La seconda azione arrivò un anno dopo, il 27 ottobre del 1942, e in quell'occasione vennero deportati 7.000 ebrei, tra Belzec e Auschwitz, e durante il rastrellamento vennero uccise 600 persone, tra cui i malati dell'ospedale, gli anziani della casa di riposo, i bambini dell'orfanotrofio. Cracovia, lo sanno anche i bambini ma non l'Unesco, è una città simbolo dell'Olocausto.
   La Polonia, lo sanno anche i sassi ma non l'Unesco, è uno stato simbolo dello sterminio degli ebrei (durante l'epoca nazista vivevano in questa terra tre milioni di ebrei e in quegli anni il 90 per cento di loro fu sterminato nei campi nazisti). Eppure, proprio in questo stato, proprio in questa città, pochi giorni fa è successo quello che in molti, in troppi, si ostinano a non vedere. L'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'educazione, la scienza e la cultura, l'Unesco, ha scelto di riunirsi proprio a Cracovia, in una delle più
Una shoah culturale celebrata nell'indifferenza generale in una delle capitali dell'Olocausto. Uno sradicamento ulteriore della storia ebraica in una delle città simbolo dell'annientamento degli ebrei.
grandi tombe a cielo aperto di ebrei del mondo, per indicare "nuovi siti naturalistici e tesori culturali da proteggere". E nel corso di una votazione l'Unesco, la scorsa settimana, ha fatto una scelta importante: ha definito Israele una "potenza occupante" a Gerusalemme e ha poi assegnato all'islam e ai palestinesi la sovranità della tomba dei patriarchi a Hebron, dove sono seppelliti Isacco, Giacobbe e alcune delle loro mogli, negando i legami con la tradizione ebraica di quello che è considerato il secondo luogo più sacro dell'ebraismo. Una shoah culturale celebrata nell'indifferenza generale in una delle capitali dell'Olocausto. Uno sradicamento ulteriore della storia ebraica in una delle città simbolo dell'annientamento degli ebrei. Si potrebbe dire che quello dell'Unesco è stato solo un infortunio, un caso isolato, una gaffe diplomatica, ma i lettori di questo giornale sanno meglio di molti altri che purtroppo non è così. Già un anno fa, quando il Foglio scese in piazza per urlare contro l'Unesco e la complicità mostrata in quell'occasione dal governo italiano, l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'educazione, la scienza e la cultura decise che il Monte del Tempio e il Muro del Pianto non avevano nulla a che fare con l'ebraismo e lo decise con una risoluzione del comitato esecutivo che sancì un principio semplice e drammatico: quei due luoghi sono sacri solo e soltanto per la religione musulmana. Il tentativo di spazzare via Israele delle carte geografiche, come sognano molti regimi islamisti che dettano i tempi e l'agenda all'Unesco, fa parte di una precisa traiettoria che l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'educazione, la scienza e la cultura ha scelto di rappresentare in modo persino coerente. Negare il legame tra Israele e i luoghi sacri dell'ebraismo significa negare la stessa legittimità di Israele di essere Israele e negare la legittimità di Israele significa accettare di essere sottomessi a un pensiero islamicamente corretto che vede nella presenza dello Stato di Israele non un modello possibile per il futuro medio oriente ma un semplice e grave elemento di instabilità.Non difendere fino in fondo Israele in una fase storica complicata come quella che viviamo oggi non è solo un segnale di un antisemitismo latente ma è il segnale di una precisa indifferenza verso quello che dovrebbe essere semplice buon senso. Oggi più che mai, la difesa di Israele, in tutte le sue forme, è una battaglia cruciale. Non è la "loro" battaglia. E' la nostra battaglia. Non ci stancheremo mai di ripetere che difendere la libertà di Israele, oggi più che mai, significa difendere la libertà dell'occidente e non ci stancheremo mai di ricordare che non combattere con tutte le nostre forze ogni tentativo di delegittimare Israele non significa essere neutrali, ma significa essere complici di una nuova e incredibile shoah culturale. Se i membri dell'Unesco volessero davvero cambiare la loro traiettoria e difendere fino in fondo lo Stato di Israele, e tutto ciò che esso rappresenta, dovrebbero fare quello che il Foglio propose un anno fa: dichiarare Israele
Negare il legame tra Israele e i luoghi sacri dell'ebraismo significa negare la stessa legittimità di Israele di essere Israele e negare la legittimità di Israele significa accettare di essere sottomessi a un pensiero islamicamente corretto.
patrimonio dell'Umanità. Per essere iscritti nella Lista del patrimonio mondiale, dice l'Unesco, "occorre presentare un eccezionale valore universale e soddisfare almeno uno dei dieci criteri di selezione illustrati nelle Linee guida per l'applicazione della Convenzione del patrimonio mondiale", e tra questi criteri ce ne sono diversi che solo l'Unesco può sostenere che non abbiano nulla a che fare con Israele. "Mostrare un importante interscambio di valori umani, in un lungo arco temporale o all'interno di un'area culturale del mondo, sugli sviluppi nell'architettura, nella tecnologia, nelle arti monumentali, nella pianificazione urbana e nel disegno del paesaggio". "Essere testimonianza unica o eccezionale di una tradizione culturale o di una civiltà vivente o scomparsa". "Costituire un esempio straordinario di una tipologia edilizia, di un insieme architettonico o tecnologico, o di un paesaggio, che illustri una o più importanti fasi nella storia umana". Sospettiamo che nulla di tutto ciò verrà fatto e che come al solito l'ennesima fatwa contro Israele sarà ignorata dall'opinione pubblica. Eppure mai come in questa fase storica, in cui Israele rappresenta più che mai il simbolo di quello che l'occidente dovrebbe essere nell'ambito della lotta al terrorismo e del rispetto della libertà d'espressione, della democrazia e della libertà religiosa, sarebbe bene farsi sentire e dimostrare che l'occidente non ha intenzione di essere complice di questa nuova shoah culturale. Il governo italiano, su diverse decisioni dell'Unesco, dopo la campagna del Foglio ha scelto di cambiare fortunatamente posizione e di votare contro (e non più solo di astenersi) le risoluzioni antisemite. Ma vista la gravità e lo scempio registrato a Cracovia sarebbe il caso che anche l'Italia facesse qualcosa di più. Dopo l'ultima votazione dell'Unesco, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha deciso di tagliare un altro milione di dollari dei fondi stanziati alle Nazioni Unite e ha ordinato di trasferirli per istituire un nuovo museo del patrimonio ebraico a Kiryat Arba e Hebron e per nuovi progetti relativi al patrimonio di Hebron. L'Italia, se avesse un po' di coraggio, dovrebbe fare altrettanto. Tagliare i fondi che lo stato versa ogni anno alle Nazioni Unite sarebbe un primo e importante passo. Ma per dimostrare di esseri sensibili davvero al tema sarebbe opportuno aspettarsi qualcosa di più. Sarebbe opportuno che i ministri di questo governo, i loro collaboratori, e i grandi intellettuali italiani mostrassero gli attributi davvero, firmando lo stesso appello che nel 1974, un anno dopo la guerra del Kippur, scelsero di sottoscrivere alcuni pezzi grossi della cultura italiana. In ballo, oggi come ieri, c'era il rapporto tra Israele e Unesco, e come ricordato dal nostro Giulio Meotti nel suo bellissimo libro pubblicato due anni fa per Rubbettino, "La brava gente che odia gli ebrei", quell'appello lo firmarono in tanti. Ignazio Silone, Vittorio Zevi, Silvio Bertoldi, Valentino Bompiani, Carlo Casalegno, Arnoldo Foà, Vittorio Gassman, Franco Lucentini, Eugenio Montale, Giovanni Raboni, Leonardo Sciascia, Mario Soldati, Giorgio Strehler e Franco Zeffirelli. L'appello era questo.
    "L'Unesco è un organismo delle Nazioni Unite che ha per compito quello di difendere l'educazione, la scienza, e la cultura. Quanto è avvenuto rappresenta una perversione: uno stravolgimento del suo ruolo. I sottoscritti rifiutano di collaborare a questo organismo sino a che non abbia provato nuovamente, nei riguardi di Israele di essere fedele ai propri fini". Quell'appello oggi lo riproponiamo di nuovo sul nostro giornale. E non è un appello di circostanza. E' un appello per evitare che vada a segno quello che è l'obiettivo neppure troppo mascherato dell'Unesco di oggi: cancellare lo Stato ebraico, a partire dalla sua storia".
(Il Foglio, 10 luglio 2017)


Violenza culturale contro gli ebrei

di Pierluigi Battista

Davvero non si capisce la stupidità negazionista, l'accanimento demenziale, l'ostinazione cieca e avvilente con cui l'Unesco, un organismo che in teoria dovrebbe difendere la cultura e l'arte in tutto il pianeta, ma in realtà è diventata il ricettacolo di ogni menzogna e di ogni servilismo verso i despoti del mondo, nel corso degli ultimi anni si è incaponita nelle sue risoluzioni che negano e mortificano la storia degli ebrei. E davvero non si capisce perché mai le democrazie libere e anche l'Italia dovrebbero dare ancora retta a un organismo che nei giorni scorsi a Cracovia, a Cracovia, provocazione nella stupidità, a pochi chilometri da Auschwitz-Birkenau, si è permesso di cancellare con una risoluzione appoggiata dal vasto fronte antisemita la storia intrecciata all'ebraismo di Hebron, luogo dove sorgono le tombe di Abramo e di Sara, di Isacco e di Giacobbe. Ora è il turno del negazionismo sui Hebron, prima c'era stato quello sul Muro del Pianto e la cancellazione addirittura di ogni impronta ebraica su Gerusalemme. L'antisionismo è solo una scusa. L'opera di sradicamento di una storia e di una cultura è impressionante. Dicono: ma quello è un luogo geopoliticamente dei palestinesi. E allora? Adesso, dopo la pulizia etnica bisogna teorizzare la pulizia archeologica, la purezza etno-razziale di un luogo anche nella sua storia, nei suoi monumenti, nella sua dimensione artistica, architettonica, religiosa?
   E davvero stupefacente che non ci si renda conto della violenza culturale che questa sequenza di vergognose idiozie di cui l'Unesco si sta macchiando sta perpetrando. L'imperativo antisemita per cui gli ebrei non devono esistere, non deve esistere il loro Stato di Israele si arricchisce di un annichilimento retroattivo: gli ebrei non sono mai esistiti, le loro tombe, Gerusalemme, i luoghi dell'identità ebraica devono essere «Judenfrei» persino nella memoria e nella storia. E chi lo dice? Lo dice un pugno di tirannie dove la libertà della ricerca culturale è negata al pari di ogni altra libertà, così diverse dall'unico luogo dove, detto tra parentesi, è garantita la libertà culturale e politica: cioè lo Stato di Israele. Un violenza culturale che noi facciamo finta di dimenticare, altro che «mai più», dando credito e risorse all'Unesco, una delle sigle più screditate del nostro tempo.

(Corriere della Sera, 10 luglio 2017)


"Davvero non si capisce la stupidità negazionista..." Sì, è autentica stupidità. Ma è una cosa che non si capisce soltanto se si pensa che Israele, lo Stato degli ebrei, sia una nazione come tutte le altre. La singolarissima forma di stupidità che coglie tutti coloro che si mettono in testa di dar contro gli ebrei (o Israele, che è la stessa cosa) conferma la natura unica di questo popolo. Una unicità collegata all'unicità di Dio, che a Israele ha detto:
"Io sono l'Eterno, il tuo Dio, il Santo d'Israele, il tuo salvatore; io ho dato l'Egitto come tuo riscatto, l'Etiopia e Seba in vece tua. Perché tu sei prezioso agli occhi miei, perché sei pregiato ed io ti amo, io do degli uomini in vece tua, e dei popoli in cambio della tua vita. Non temere, perché io sono con te; io ricondurrò la tua progenie dal levante e ti raccoglierò dal ponente.” (Isaia 43:3-5).


Uno stato palestinese c'è già

E' quello nato dieci anni fa a Gaza. E non è stata una buona idea

da Haaretz (5/1)

Gaza è uno stato palestinese. Un mini-stato, se si vuole essere precisi (comunque più esteso di stati come Malta e Maldive, tanto per dire). Uno stato, se si vuole, che in prospettiva dovrebbe essere unito alle regioni di Giudea e Samaria (Cisgiordania) per formare uno stato palestinese più grande. Comunque bisogna ammettere che Gaza è uno stato palestinese. Tutta la sua popolazione è palestinese. Sin dall'estate 2005 Ariel Sharon ha fatto in modo che non vi si trovasse più un solo ebreo, né civile né militare: requisito che la maggioranza dei palestinesi considera indispensabile per uno stato palestinese. Gaza ha un governo, un esercito, una polizia e dei tribunali che amministrano un specie di giustizia. Gaza non è occupata da nessuno. E' di fatto uno stato palestinese sovrano. In questi ultimi dieci anni i palestinesi hanno avuto la possibilità di mostrare al mondo come funziona un governo palestinese al servizio della popolazione palestinese sotto il suo controllo. E Gaza è incontestabilmente uno stato fallito". Così su Haaretz l'ex ministro della Difesa israeliano, Moshe Arens, nel decimo anniversario del golpe di Hamas a Gaza. "I palestinesi che vivono in Giudea e Samaria sotto 'occupazione' israeliana stanno molto meglio della popolazione che vive a Gaza sotto 'governo' palestinese. E gli abitanti di Gaza stavano meglio prima che Gaza diventasse indipendente, di quanto non stiano adesso". Una bella lezione a chi propugna la nascita di un altro stato palestinese sulle spalle di Israele.

(Il Foglio, 10 luglio 2017)


inviato speciale della Casa Bianca inizia sesta visita per riavvio colloqui di pace

GERUSALEMME - L'inviato speciale della Casa Bianca per il processo di pace israelo-palestinese, Jason Greenblatt, arriverà oggi in Israele per la sesta visita nella regione da gennaio, quando ha assunto l'incarico. Greenblatt incontrerà il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, e il leader dell'Autorità palestinese (Ap), Mahmoud Abbas, per portare avanti le discussioni sul riavvio dei negoziati di pace. L'ultima visita di Greenblatt in Israele e nella Cisgiordania risale a tre settimane fa, quando vi giunse accompagnato dal genero del presidente Usa Donald Trump, Jared Kushner. Tra poche settimane Trump dovrebbe fare il punto dei progressi relativi alla pace israelo-palestinese e dei prossimi passi da intraprendere assieme ai suoi consiglieri e ai membri del governo. Greenblatt ha scritto su Twitter prima di partire per il Medio Oriente: "Stanotte mi dirigo verso Israele e Territori palestinesi per continuare i nostri sforzi per raggiungere una pace definitiva"
. L'incontro con il capo dell'esecutivo di Gerusalemme è previsto mercoledì 12 luglio.

(Agenzia Nova, 10 luglio 2017)


Si può battere la siccità copiando Israele

Lettera al Giornale

Sono anni che in Italia c'è il problema della siccità che crea enormi danni all'agricoltura, all'allevamento ed al vivaistico. Pur essendo un paese ad alto tasso di intelligenza nella ricerca, nell'industria e moltissimi altri settori, non ci si è mai posti la domanda di come risolverla, come invece hanno fatto tanti paesi prevalentemente desertici come Arabia, Kuwait e, soprattutto, Israele, grande esportatore di frutta e verdura, che hanno utilizzato l'acqua marina realizzando grandi impianti di desalinizzazione. E l'Italia, che è circondata dal mare, basterebbe copiare per risolvere i problemi.
Armando Vidor 
Loano (Savona)

(il Giornale, 10 luglio 2017)


Ruanda - Il presidente Kagame in Israele per rafforzare i legami con Gerusalemme

Il presidente del Ruanda, Paul Kagame
Paul Kagame, presidente del Ruanda, è in visita in Israele. La visita di due giorni è iniziata ieri, domenica 9 luglio, e mira a consolidare le relazioni, già particolarmente strette, tra i due paesi. Il programma prevede incontri con il suo omologo israeliano Reuven Rivlin e il primo ministro Benyamin Netanyahu.
Per Emmanuel Nahshon, il portavoce del ministero degli Esteri israeliano, il presidente ruandese svolge un ruolo importante nel riavvicinamento tra Israele e il continente africano, «il presidente Kagame è uno degli architetti della strategia che permette a Israele di rinnovare i suoi rapporti con gli Stati africani. È grazie a lui che molti paesi africani ora votano a favore di Israele in sede internazionale».

(Africa, 10 luglio 2017)


Israele: "Bene la tregua in Siria, ma l'Iran ha troppa influenza"

È iniziato nelle scorse ore l'ennesimo cessate il fuoco della guerra siriana. L'accordo per la tregua temporanea, che fa riferimento al sud della Siria, è stato annunciato dopo l'incontro, a margine del G20, tra il presidente Usa Donald Trump e il presidente russo Vladimir Putin. Secondo le ricostruzioni, l'intesa tra Washington e Mosca è stata raggiunta dopo intense trattative svoltesi in Giordania, interessata a fermare l'avanzata del movimento libanese di Hezbollah e dei loro alleati iraniani. Un obiettivo che Israele - ascoltato da russi e americani durante quest'ultima tornata di negoziati - condivide come ha ribadito il Primo ministro Benjamin Netanyahu: "Israele accoglierà positivamente un vero e proprio cessate il fuoco in Siria, ma non consentirà la creazione di una presenza militare dell'Iran e dei suoi alleati" sul territorio. Netanyahu, durante il suo discorso odierno a gabinetto riunito, ha ribadito l'impegno di Gerusalemme ad evitare che Iran e i terroristi di Hezbollah si stabiliscano nel sud della Siria, minacciando direttamente la sicurezza israeliana. Il Premier ha dichiarato di aver fatto presente sia a Trump sia a Putin le preoccupazioni del suo Paese e di aver ricevuto rassicurazioni in merito. Secondo alcuni analisti, Israele e Giordania temono che il futuro della Siria passi da una divisione tra tre potenze regionali: la Russia, che appoggia il regime di Assad, la Turchia e l'Iran. Gli Stati Uniti di Trump, che negli scorsi mesi ha avuto con Putin un confronto meno idilliaco rispetto agli inizi, sembrano intenzionati a sfilarsi dalla partita. Anche per questo Israele sta portando avanti una strategia difensiva autonoma: oltre ad aver colpito più volte con raid aerei Hezbollah - movimento terroristico libanese che combatte al fianco di Assad ed è finanziato dall'Iran - da tempo fornisce soldi, armi e munizioni ad alcuni gruppi di ribelli siriani anti-regime. A scriverlo, alcune settimane fa, il Wall Street Journal che, attraverso testimonianze di fonti israeliane e siriane, ha spiegato che l'obiettivo di Gerusalemme è tenere lontane dal suo confine le milizie sciite alleate al regime di Damasco e vicine a Teheran. L'idea è di creare una specie di "zona cuscinetto" di una settantina di chilometri oltre alle Alture del Golan, territorio che Israele conquistò con la Guerra dei Sei giorni del 1967. d.r.

(moked, 9 luglio 2017)


Basta con questa Unesco dal sapore antisemita

Lettera al sindaco di Ferrara

Ora basta. Basta con questa Unesco. Basta con questi rigurgiti antisemiti. Ognuno dica da che parte sta. Lunedì c'è Consiglio comunale e consegnerò al sindaco Tagliani questa lettera. Aspettando una risposta. Gentile signor sindaco,
il 16 novembre 2016 con il sostegno della Comunità ebraica di Ferrara le scrissi per chiedere un suo autorevole intervento pubblico presso l'Unesco a fronte dell'ennesimo pronunciamento Unesco contro Israele e contro la storia: avevano solo cancellato i legami dei luoghi sacri a Gerusalemme con l'ebraismo. Non abbiamo ricevuto risposta.
Ora la protervia Unesco pare non solo accanirsi contro la storia e contro Israele, ma assume pronunciamenti dal sapore antisemita.
Oggi l'Unesco ha riconosciuto la Tomba dei Patriarchi ad Hebron, in Cisgiordania, "sito palestinese" del patrimonio Mondiale. La Tomba dei Patriarchi (anche conosciuta come Grotta di Macpela, la Grotta delle Tombe doppie) è un complesso architettonico basato su grotte sotterranee nel cuore della Città Vecchia di Hebron. Deve il suo nome sia alla disposizione delle tombe sia alle coppie bibliche che si ritiene vi siano sepolte. Secondo luogo santo dell'ebraismo (dopo il Muro del Pianto), custodisce il sepolcro di Abramo, Isacco e Giacobbe e le loro mogli, Sarah, Rebecca e Lea: i Patriarchi e le Matriarche di Israele. Giustamente il premier Benjamin Netanyahu ha definito la risoluzione "surreale": "Ovunque in medio oriente si fanno saltare in aria moschee, chiese, sinagoghe, tranne che in Israele". Poco prima di tale delirio nella riunione annuale a Cracovia, in Polonia, l'Unesco aveva definito Israele "potenza occupante" a Gerusalemme, la sua capitale storica e politica.
Un gruppo di sopravvissuti alla Shoah aveva chiesto all'Unesco e alla Polonia di non procedere col voto. "Sarebbe una dissacrazione della memoria dei milioni di ebrei morti sul suolo polacco", aveva detto la fondatrice dello Shurat HaDin, Nitsana Darshan-Leitner. Anche l'ambasciatrice americana all'Onu, Nikky Halley, aveva chiesto di non riscrivere la storia di Hebron. Sembra ripetersi la scena di Schindler's List, in cui i nazisti dichiarano prima di liquidare la comunità ebraica di Cracovia: "Oggi si fa la storia. Sei secoli fa, Casimiro il Grande - cosiddetto - disse agli ebrei che potevano venire a Cracovia. Per sei secoli c'è stata una Cracovia ebraica. Da questa sera quei sei secoli sono una diceria. Non sono mai accaduti. Oggi si fa la storia". È quanto hanno fatto su Gerusalemme e Hebron i burocrati dell'Unesco assieme ai regimi islamici.
Il sapore antisemita appare oggi evidente a tutti, signor sindaco. Conosciamo tutti il profondo legame esistente fra Ferrara e l'Unesco e ormai il silenzio a fronte di affermazioni così deliranti non può che essere e divenire correità. Aspetto finalmente un pronunciamento da parte sua e della città di Ferrara.
A settembre organizzerò un incontro pubblico sul tentativo di riscrivere la storia da parte dell'Unesco, aspetto che accomuna tutti i regimi autoritari e antidemocratici. La inviteremo e nel frattempo aspettiamo un suo autorevole intervento su queste vergognose vicende: o si sta dalla parte della storia, della verità e della democrazia o si sta contro di esse. Conoscendola aspetto parole decise di verità e di coraggio.
Cordiali saluti.
Mario Zamorani (estense.com, 9 luglio 2017)


“Ognuno dica da che parte sta.” Ben detto. Molti giornali invece, dopo aver titolato “L’Unesco dichiara Hebron sito palestinese patrimonio dell’Umanità”, invece di aggiungere commenti inorriditi su questa sfacciata infamia, riportano semplicimente il fatto aggiungendo nel titolo “Ira di Israele”, come se il fatto riguardasse esclusivamente loro, gli ebrei israeliani. E se gli ebrei si sono arrabbiati, in fondo la cosa a molti fa piacere. M.C.


Spianata delle moschee, riaprirla è segno di distensione

Lettera a Aldo Cazzullo

Caro Aldo,
sono stata a Gerusalemme. La cosa che mi ha colpito è il fatto che andando alla Spianata delle Moschee non ci è stato consentito di entrare, in quanto appartenenti ad altra religione. Nelle nostre chiese nessuno si sognerebbe di non fare entrare persone di altre religioni.
Angela Lanzo Martirano Lombardo

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Cara Angela,
non è stato sempre così. Ci fu un tempo in cui alla Spianata delle Moschee si poteva accedere liberamente. Poi fu proibita ai non musulmani, il che rappresenta un grave errore, perché non fa che rinfocolare le tensioni religiose che pervadono quella città e quella terra. Purtroppo, l'impressione è che alla pace non creda ormai più nessuno. Ci siamo illusi che sarebbe giunta con un trattato, poi per sfinimento. Ma non è arrivata in nessuno dei due modi.
La prima volta che entrai nella Gerusalemme vecchia era il 1993. Era notte, ero con un gruppo di pellegrini, la porta di Damasco sembrava il cancello del paradiso. Era l'anno di Oslo, grazie a Rabin la pace pareva davvero a portata di mano. Una pattuglia di soldati israeliani sorvegliava la casa di Sharon che aveva issato la bandiera con la stella di David in mezzo agli arabi: i soldati stessi ne parlavano come di un estremista che rappresentava una sensibilità esistente ma minoritaria. Due anni dopo Rabin venne assassinato. Tornai nel 1999, al governo c'era Barak, un soldato che alla pace credeva. Nel 2003 il lavoro mi riportò a Gerusalemme: premier era Sharon, che però non era più considerato un estremista, anzi il ritiro da Gaza da lui voluto accese grandi speranze, oltre all'opposizione dei coloni. Tornai l'ultima volta nel 2005, per raccontare l'elezione del presidente palestinese Abu Mazen, considerato l'uomo del dialogo. Si pensò che, tolto di mezzo Arafat, l'accordo sarebbe stato possibile. Non è andata così. Ricordo di quei giorni la visita al campo profughi dove le ruspe israeliane stavano abbattendo la casa di un kamikaze, un'intervista con il grande storico Benny Morris, preveggentemente pessimista, e l'incontro con il cardinal Martini. Entrai nella sua stanza, fuori le mura della città vecchia, mentre uscivano i padri e le madri del «Parents Circle», un'associazione sostenuta da Martini che faceva incontrare i genitori delle vittime dello scontro, israeliani e palestinesi insieme. Un segno di pace prezioso, una delle tante speranze che non hanno ancora dato frutto. Riaprire la Spianata delle Moschee sarebbe un segno di distensione importante.

(Corriere della Sera, 9 luglio 2017)


Israele: l'ondata tossica danneggia intere regioni

di Laura Olivazzi

 
È accaduto lo scorso fine settimana, ma il disastro è stato reso noto soltanto in questi giorni dall'agenzia di stampa internazionale Reuters: in Israele si è verificato una sorta di tsunami tossico a causa del crollo di una diga di contenimento. Il muro, alto sessanta metri, impiegato per trattenere le acque reflue di un'azienda di fertilizzanti, ha ceduto lasciando riversare sul letto del fiume Ashlim ben 100 mila metri cubi di fosfogesso. Il danno si è esteso per circa 20 km, provocando una scia tossica capace di investire e distruggere tutto quel che incontrava, fino ad arrivare ad accumularsi in una depressione a pochi km dal Mar Morto.
   La zona sembra ormai uno stagno tossico, mentre le aree interessate al passaggio dell'onda tossica riporteranno danni irreversibili alla flora e alla fauna, come sottolinea il ministro dell'Ambiente locale. Secondo quanto si legge sul sito Rinnovabili.it, è stato proprio il ministero dell'Ambiente ad avviare un'indagine sull'accaduto, visti i danni provocati. Pare, infatti, che l'azienda responsabile, la Rotem Amfert, che fa capo all'azienda Israel Chemicals, sia sotto inchiesta, perché un danno del genere poteva e doveva essere evitato.
   Dopo l'incidente, nel paese si è registrato un calo delle azioni della società pari al 4%, anche se la situazione sembra essersi apparentemente ripresa. È, tuttavia, il fronte delle bonifiche a preoccupare. Secondo gli addetti ai lavori, la depurazione dalle sostanze tossiche richiede un lavoro molto lungo, ci vorranno anni per riuscire a bonificare il letto del fiume e i tratti di terra toccati dalla fiumana tossica. Le acque reflue, infatti, oltre alla grande depressione in cui si sono definitivamente fermate, si sono accumulate in tanti altri piccoli avvallamenti o depressioni del suolo, piccole quantità che possono comprometterne definitivamente l'equilibrio.
   La produzione di fertilizzanti è ancora troppo influenzata da sostanze tossiche, talvolta radioattive, come nel caso del fosfogesso riversatosi nelle strisce di terra israeliane. La Israel Chemicals, anch'essa sottoposta ad indagine dal Ministero, detiene da sola i diritti estrattivi nel Mar Morto, oltre a produrre fertilizzanti e cloruro di potassio, una sorta di monopolio che consente forse troppe libertà negli sversamenti sulle zone interessate.
   Siamo ancora di fronte ad una produzione forse troppo obsoleta se confrontata con gli standard green che dovrebbe imporre l'economia contemporanea; siamo di fronte ad una produzione troppo legata ad un tipo di produttività che punta soltanto al profitto. In un'ottica più lungimirante, anche la produzione di fertilizzanti guarderebbe al riciclo e al riutilizzo dei materiali, non all'utilizzo di sostanze radioattive.

(ilmegafono.org, 8 luglio 2017)


Ambasciatore Usa all'Onu: il voto Unesco su Hebron è "un affronto alla storia"

GERUSALEMME - L'ambasciatore degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite, Nikki Haley, ha definito "un tragico affronto alla storia" il voto con cui l'Unesco ha designato la Città vecchia di Hebron, in Cisgiordania, come parte del territorio palestinese, inserendola tra i siti patrimonio dell'umanità "in pericolo". Lo riporta il quotidiano israeliano "Jerusalem Post". "Il voto dell'Unesco su Hebron è tragico a diversi livelli", ha dichiarato la diplomatica, ricordando come il luogo sia considerato dalla religione ebraica il secondo tra i siti più sacri. "La decisione rappresenta un affronto alla storia e non porterà nulla di buono". Secondo la Haley, infatti, il voto potrebbe finire col prolungare la fase di stallo nel processo di pace mediorientale, poiché "finisce col minare la fiducia necessaria al successo dei colloqui tra israeliani e palestinesi".

(Agenzia Nova, 8 luglio 2017)


Miriam, la donna con la Torah: "Dio cerca un posto nel mondo"

L'intervista alla professoressa Jasckierowicz Arman, autrice di varie pubblicazioni. "Dobbiamo riparare i danni fatti dall'uomo alla Creazione"

di Simona Stillitano

La professoressa Jasckierowicz Arman
La celebre artista Miriam Jasckierowicz Arman, vocal coach, pedagoga della voce, e Premio Internazionale Verdimura 2016, contro razzismo e antisemitismo, sarà nuovamente in Italia prossimamente. La professoressa israeliana è autrice di varie pubblicazioni, tra cui il best seller "La voce: un approccio spirituale per cantare, parlare e comunicare. La Kabalah della voce". E' stata fondatrice della International Academy Voice and Stage Inc, organizzazione no profit dedicata al Bel Canto e alla Tecnica del "Giro Vocal Motion Technique".
E' l'unica donna al mondo che offre un momento di riflessione davvero singolare, con il rotolo della Torah. Per In Terris, ha rilasciato questa breve intervista sul pluralismo religioso.

- In questa fase storica molto delicata per il mondo, qual è la missione delle religioni?
  "E' stata ed è uguale fin dalla Creazione: cercare Dio, essere con Lui, pregare, credere in Dio, rivolgersi a Dio, credere che non c'è risposta nell'uomo, ma c'è sempre la risposta per il bene di Hashem. Nel periodo in cui viviamo, io non vedo differenze di ciò che avveniva 100, 70 o 3 mila anni fa. L'uomo è sempre contro l'uomo, le cose che portano la guerra interpersonale sono motivazioni umane, si parla di potere, si parla di denaro, di potere per un certo paese, per una certa ragione religiosa che alla fine religiosa non è per niente. Ed è quello a cui si deve ritornare, ritrovare la strada. Quella è la missione riconnettersi e ricapire la ragione per cui Hashem ci ha creati. Lui vuole avere una casa, un posto in questo mondo e noi dovremmo darglielo. La fine è un discorso di umanità, portare l'essere umano ad accettare i Comandamenti, e i sette precetti di Noè".

- Al "Tiqqun Olam" ovvero la riparazione del mondo, quanto può contribuire l'ebraismo?
  "Il Tiqqun Olam è un discorso della Torah, un discorso dei saggi, un discorso del mondo, è un discorso ebreo e non-ebreo, oggi è un discorso universale. Noi dobbiamo riparare i danni che abbiamo fatto all'uomo e i danni fatti alla Creazione. Hashem ci ha dato l'Eden, un giardino, che cosa abbiamo fatto di questo giardino? Riparare il mondo è ritornare alla fonte, alla Creazione, io vivo senza la Tv da quando ho fatto il mio ritorno alla Torah, non mi manca, il Pc lo uso per lavoro, non per piacere. Amare il tuo prossimo come te stesso, non è una religione o una persona".

- Ebraismo e cristianesimo sono le religioni più vicine, "sorelle" che condividono parte delle Sacre Scritture. Ma c'è qualche pagina evangelica che lei apprezza in modo particolare e per quale ragione?
  "Nell'ebraismo ortodosso non è possibile leggere la letteratura del Vangelo, è vietato, non è permesso studiarlo, ma vi sono dei rabbini che lo fanno, è un loro privilegio. Ciò che io so è che le nostre religioni sono una unità che va oltre per voi per la presenza del Nuovo Testamento, per voi il Messia è già arrivato, mentre per noi sta arrivando. Io apprezzo ogni religione, Dio per tutti noi è Uno, la Torah è la Voce di Dio, la Voce della Pace che per me è il mio Credo, la Voce dell'amore che unisce il mondo. Lo studio della mistica per me è già tanto, so che pure la vostra religione ha gli stessi Comandamenti, ha gli stessi pensieri universali di amore, ma le guerre fatte per il discorso delle religioni sono atti antireligiosi. Hashem dice di difendersi e noi lo facciamo, aggredire è un'altra cosa, voler cambiare gli altri. Vado in giro con la Torah per un discorso di educazione e per far capire cosa dice, secondo il mio piccolo parere, ma il Grande è solo Hashem, che ribadisce di non fidarsi mai di nessuno, ma dice: 'Vieni a me'."

- Papa Francesco ha voluto dedicare un giubileo lo scorso anno alla "Misericordia di Dio" e vi sono state molte occasioni in cui le tre grandi religioni monoteiste hanno riflettuto insieme. Quando l'amore è unidirezionale, cosa bisogna fare?
  "Bisogna fare tutto ciò che noi stiamo cercando di fare nel nostro piccolo, ritrovare Hashem, riavvicinarci a quelli che sono gli ideali, che il "popolo normale" non capisce, ma ciascuno secondo il proprio credo. Ciò che conta è il desiderio di tornare a Dio, riconoscere che esiste una forza superiore a noi. Il messaggio universale che deve venir fuori, ridedicarsi ai principi di Hashem: rispetto, amore, umanità. Hashem ci ha dato tutto. Lui dice a ognuno "scegli" e l'uomo deve scegliere il bene, deve scegliere la vita. Nell'ebraismo si dice: 'Se salvi una vita, salvi il mondo!'. Questo perché ognuno di noi è una divina creazione, ciascuno si deve avvicinare alla Divinità".

(In Terris, 8 luglio 2017)


“Nell'ebraismo ortodosso non è possibile leggere la letteratura del Vangelo, è vietato, non è permesso studiarlo”. E’ così, purtroppo. C’è chi non lo legge, e c’è chi lo legge e lo deforma. L’attuale papa, che dice di apprezzare ogni religione, è uno di questi. E’ strano che lo dica anche chi dichiara di seguire la Torah. Se tutte le religioni sono buone, perché mai il profeta Elia avrebbe dovuto ordinare di scannare i quattrocento profeti di Baal sul monte Carmel? (1 Re 18). Non era anche quella una “religione buona”? M.C.


Entro il 2018 l'alta velocità tra Tel Aviv e Gerusalemme

Veduta aerea della nuova linea ferroviaria ad altà velocità Tel Aviv-Gerusalemme
Era prevista entro il 2017 e invece slitta al 2018 l'entrata in servizio della nuova linea ferroviaria ad alta velocità che collegherà, con una corsa di mezz'ora, Tel Aviv a Gerusalemme. È prevista una stazione intermedia anche all'aeroporto internazionale Ben Gourion e ciò faciliterà molto anche i pellegrini e turisti che viaggiano in autogestione e sbarcati da un volo vogliono raggiungere una delle due città.
Dopo un decennio di lavori e le immancabili polemiche con i palestinesi e con gli ambientalisti, le gallerie e i lunghi cavalcavia sono pronti. È ora in corso la posa delle rotaie, delle linee aeree dell'alta tensione e degli altri impianti necessari al regolare funzionamento della ferrovia. A Gerusalemme la nuova stazione è stata costruita in prossimità della stazione degli autobus.
Si parla di uno dei maggiori lavori pubblici realizzati fin qui dallo Stato di Israele: il costo complessivo dell'opera sfiora il miliardo e 700 milioni di euro.
Ad oggi la principale arteria di comunicazione tra Gerusalemme e Tel Aviv è un'autostrada lunga una sessantina di chilometri e spesso congestionata.

(Terrasanta.net, 8 luglio 2017)


Beni culturali ebraici piemontesi. L'impegno per tutelarli

Il Piemonte è sicuramente una delle regioni più ricche d'Italia quanto a "tesori" ebraici: sedici Sinagoghe, diverse aree ex ghetti tuttora visitabili, una ventina di cimiteri, a testimonianza non solo di un passato davvero imponente, ma anche di un presente vivacissimo che conta tre Comunità (Torino, Casale Monferrato e Vercelli), tre Sezioni di Comunità attive (Biella, Cuneo, Ivrea) e tantissimi luoghi già sede di Comunità (tra i tanti Asti, Alessandria, Mondovì, Saluzzo, Carmagnola, Cherasco).
A Torino da alcuni anni è stata creata un'associazione Piemonte Ebraico Onlus che ha tra i suoi scopi principali il restauro e la valorizzazione dei beni culturali ebraici presenti nella regione.
Si è tenuta il 26 giugno la prima riunione del neoeletto Consiglio direttivo di P.E.O., Piemonte Ebraico Onlus, associazione che, senza scopo di lucro, persegue le finalità di tutela, manutenzione, restauro, promozione e valorizzazione dei beni di interesse artistico e storico, nonché di promozione della cultura e dell'arte del patrimonio ebraico piemontese.
L'associazione, costituita nel 2007, si occupa di tutti i beni attinenti l'esercizio del culto religioso ebraico e di quelli archivistici, museali e bibliotecari attinenti la storia e la tradizione ebraica, proprio allo scopo di mantenere viva la cultura ebraica e la sua testimonianza nel territorio del Piemonte.
Il nuovo direttivo vanta la presenza di due consiglieri della Comunità ebraica di Torino, Alessandro Rimini e Guido Anau Montel, e di tre giovani professionisti nel campo economico-giuridico e dei beni culturali, Andrea David Levi, Benedetta Disegni e Baruch Lampronti.
È stato nominato presidente Andrea D. Levi, vicepresidente Benedetta Disegni e tesoriere Alessandro Rimini.
Molti e stimolanti i progetti emersi nel corso della prima riunione. Tra i principali obiettivi, la necessità di promuovere l'associazione e la sensibilizzazione ai temi di conservazione del ricco patrimonio ebraico piemontese, progetti che verranno meglio individuati nel corso dei prossimi confronti.

(moked, 7 luglio 2017)


Gli israeliani sicuri: il peggior nemico dello Stato ebraico rimane Hezbollah

di Giampiero Venturi

 
Miliziano hezbollah
Israele, dopo alcuni anni di sordina, torna a recitare un ruolo più visibile in Medio Oriente. Le evoluzioni della situazione in Siria hanno costretto Israele a impegnarsi in prima linea anche dal punto di vista militare.
   Il quotidiano Maariv riporta un'analisi chiara dell'intelligence israeliana (Yossi Melman), stressata dall'idea che l'Iran e il suo avente causa Hezbollah hanno incrementato sensibilmente il loro potere in Siria, diventando un pericolo reale (e più vicino) per lo Stato ebraico e il Sionismo in genere. L'idea che in Israele ci si è fatti di Hezbollah in particolare, è molto cambiata dopo la guerra del Libano del 2006. Gli esiti molto performanti di allora, libanesi soprattutto, contro le forze corazzate israeliane, hanno avuto un forte impatto anche sull'opinione pubblica. Nell'immaginario di Israele, Hezbollah si è evoluto da movimento guerrigliero motivato ma disordinato, a forza capace di approcciare la guerra in senso moderno e tecnologico, con un know how migliorato dall'esperienza siriana.
   Le preoccupazioni israeliane riguardano specificamente la capacità di Hezbollah di esportare la sua minaccia sotto forma di advisor nei confronti di altri movimenti tradizionalmente ostili alla causa sionista. È il caso dei miliziani houthi nello Yemen, aiutati direttamente dal circuito sciita libanese soprattutto negli assetti balistici e nelle capacità operative navali lungo le coste del Mar Rosso.
   Già ad ottobre del 2016 Hezbollah aveva divulgato la creazione di un corpo di incursori subacquei nello Yemen, pronti a colpire i sauditi e i loro alleati nei porti occidentali della Penisola Arabica. Il discorso diventa ancora più serio con riguardo ad Hamas, che secondo l'intelligence israeliana sarebbe già in possesso di numerose piccole unità navali con equipaggi altamente addestrati (da Hezbollah) in grado di nuocere lungo le coste israeliane.
   Già nel 2014 durante l'operazione Protective Edge nel conflitto di Gaza, i militari con la stella di Davide neutralizzarono 4 incursori subacquei palestinesi. Secondo Yossi Melman, l'accresciuto potenziale navale si manifesta anche con i missili antinave, sperimentati tragicamente dalla corvetta Hanit (foto) nel luglio 2006, colpita da un C-802 di Hezbollah.
   Sia come minaccia diretta, sia per la sua presenza indiretta in diversi scenari, il Partito di Dio libanese rimane quindi la principale preoccupazione per Israele. Per il momento, l'unica risposta militare conclamata sono i raid contro le forze governative nella Siria meridionale, che mirano a ridurre il potenziale di Damasco di cui fa parte a pieno titolo anche Hezbollah.

(Difesa online, 7 luglio 2017)


L'Unesco scippa ancora Israele

Assegnato ai palestinesi il sito ebraico delle tombe dei patriarchi

di Fiamma Nirenstein

L'Unesco di nuovo ha tradito il suo ruolo assegnando ai palestinesi la tomba dei patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe con Sara, Rebecca e Leah sita a Hebron. È incredibile: per la terza volta in un mese l'organizzazione dell'Onu per l'Educazione, la Scienza e la Cultura ha consegnato ciò che è indubitabilmente, secondo ogni persona di decente cultura, parte della storia e della cultura ebraica, ai palestinesi: un «sito palestinese della cultura del mondo».
   Questo, dopo che a maggio Gerusalemme, la capitale d'Israele, era semplicemente stata strappata alla storia ebraica e dichiarata anch'essa sito palestinese, arabo, islamico e la presenza di Israele in loco solo «occupazione». Non importa se la storia degli ultimi quattromila anni ne fa l'anima ebraica, della letteratura biblica, della storia narrata da Tacito e da Flavio Giuseppe.
   Adesso il secondo sito ebraico più importante viene scippato: la tomba dei Patriarchi e delle Matriarche è un episodio commovente della Bibbia, non del Corano, Abramo torna apposta da un viaggio per seppellire sua moglie e compra col primo atto ricordato nella storia un pezzo di terra di Canaan da Efron l'Ittita. Stiamo parlando di tempi in cui l'Islam non era neanche all' orizzonte, e non lo era neppure quando il re Erode (non quello della «strage degli innocenti»] fece costruire una magnifica struttura ancora in piedi: anche lui era ebreo. Maometto arriva parecchie centinaia di anni dopo, mentre le tombe erano oggetto di venerazione e di pellegrinaggio ebraico.
   Gli ignoranti del World Heritage le collocano nello Stato di Palestina con 12 voti a favore, 3 contro, la Polonia e la Croazia (unici Paesi europei con la Finlandia nel gruppo, ma la Finlandìa odia Israele quanto ama l'ecologia) e la Giamaica e 6 astenuti, fra urla e spintoni perché di fatto è stato impedito il voto segreto. Gli Usa minacciano di ritirare i fondi dall'Onu, Netanyahu ha già ritirato un milione di dollari di contributo dalle Nazioni Unite.
   L'ambasciatore palestinese all'Onu Ryiad al Maliky ha poco da giubilare dicendo: «L'occupazione del nostro Stato non concede la sovranità su nessun pezzo della nostra terra». Ma la Storia non ricorda nessuno Stato palestinese salvo quello inventato per contrastare lo Stato d'Israele, con stragi, terrorismo, delegittimazione. La carta straccia delle risoluzioni dell'Unesco insieme a quelle dell'Onu, trabocca ormai dai sacchi della spazzatura della Storia.

(il Giornale, 8 luglio 2017)



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Unesco scatenata contro Israele. E islamizza le città sante dell'ebraismo

Nelle riunione annuale a Cracovia l'organizzazione prima ha definito Israele "potenza occupante" a Gerusalemme poi ha assegnato all'islam e ai palestinesi la sovranità della tomba dei patriarchi a Hebron.

di Giulio Meotti

Roma. È furioso Israele. Il premier Benjamin Netanyahu ha definito la risoluzione "surreale". "Ovunque in medio oriente si fanno saltare in aria moschee, chiese, sinagoghe, tranne che in Israele". Emmanuel Nahson, portavoce del ministero degli Esteri, ha denunciato così il voto: "La storia del popolo ebraico è iniziata a Hebron e nessuna 'fake history' può cambiarla". E l'ambasciatore israeliano all'Unesco, Carmel Shama Hacohen, ha interrotto il suo intervento spiegando ai colleghi che aveva un problema di "toilette" a Parigi più urgente di quella pagliacciata antisemita. Perché in soli tre giorni, l'agenzia dell'Onu per la cultura e la scienza ha islamizzato le città più sante dell'ebraismo, Gerusalemme e Hebron.
  Nella riunione annuale a Cracovia, in Polonia, prima l'Unesco ha definito Israele "potenza occupante" a Gerusalemme, la sua capitale storica e politica. "Non c'è niente di più vergognoso dell'Unesco che dichiara che l'unico stato ebraico al mondo è una potenza occupante al Muro Occidentale e nella Città Vecchia di Gerusalemme", ha detto l'ambasciatore d'Israele all'Onu Danny Danon: "Nessun falso comitato per il Patrimonio dell'Umanità potrà mai spezzare i legami tra il popolo ebraico e Gerusalemme". Due giorni dopo, l'Unesco ha tolto al popolo ebraico anche la sovranità della tomba dei patriarchi a Hebron, la città dei patriarchi biblici, inserendola fra i "siti in pericolo" e assegnandola all'islam e ai palestinesi.
  Naftali Bennett, ministro israeliano dell'Istruzione e capo del Comitato israeliano dell'Unesco, ha dichiarato che "invece di proteggere centinaia di siti distrutti dall'islamismo estremista, tra cui la moschea al Nuri a Mosul, l'Unesco agisce contro l'unico paese del medio oriente che tutela tutti i luoghi sacri e riconosce libertà religiosa a tutti i fedeli". Mentre la Polonia, la Croazia e la Giamaica avevano chiesto un voto segreto sulla votazione per consentire ad almeno una nazione che non ha rapporti diplomatici con Israele di votare contro la risoluzione, alla fine l'Unesco ha scelto di votare in maniera trasparente, riducendo così il numero dei paesi che avrebbero potuto convogliare nel fronte pro Israele.
  Il risultato del voto era scontato. Quest'anno, fra i membri dell'Unesco, ci sono cinque paesi con cui Israele non ha rapporti diplomatici e molti altri che si schierano sempre con i palestinesi. La risoluzione su Hebron, che si riferisce alla città come "islamica", nega migliaia di anni di presenza ebraica. Per questo il portavoce di Hamas, Abudllatif al Qanoun, si congratula con la risoluzione dell'Unesco che "demolisce la falsa narrazione israeliana.
  Ma il miglior commento è forse quello di Eugene Kantorovich, giurista alla Northwestern University: "I palestinesi che cercano di negare all'Unesco la storia della prima tomba ebraica hanno scelto di farlo a Cracovia, il sito di una grande fossa comune ebraica". Il riferimento è alla storia degli ebrei della città polacca durante la Shoah. "A Cracovia, dove sono stati eliminati gli ebrei, sradicano la storia ebraica".
  Un gruppo di sopravvissuti alla Shoah aveva chiesto all'Unesco e alla Polonia di non procedere col voto. "Sarebbe una dissacrazione della memoria dei milioni di ebrei morti sul suolo polacco", aveva detto la fondatrice dello Shurat HaDin, Nitsana Darshan-Leitner. Anche l'ambasciatrice americana all'Onu, Nikky Halley, aveva chiesto di non riscrivere la storia di Hebron. Sembra ripetersi la scena di Schindler's List, in cui i nazisti dichiarano prima di liquidare la comunità ebraica di Cracovia: "Oggi si fa la storia. Sei secoli fa, Casimiro il Grande - cosiddetto - disse agli ebrei che potevano venire a Cracovia. Per sei secoli c'è stata una Cracovia ebraica. Da questa sera quei sei secoli sono una diceria. Non sono mai accaduti. Oggi si fa la storia". È quanto hanno fatto su Gerusalemme e Hebron i burocrati dell'Unesco in combutta con i regimi islamici.

(Il Foglio, 8 luglio 2017)


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Israele. Tombe dei patriarchi a Hebron e il delirio Unesco

di Deborah Fait

Mi chiedo a che pro noi ebrei abbiamo fatto tanta fatica. In migliaia di anni siamo sopravvissuti alle persecuzioni più atroci, abbiamo perdonato e siamo andati avanti, abbiamo dato al mondo scienza, musica, cultura, abbiamo ricevuto un numero esagerato di premi Nobel tenendo conto del piccolo popolo che siamo. Siamo stati massacrati , infangati, denigrati, nessun popolo della terra è stato tanto perseguitato e maltrattato per centinaia, migliaia d'anni, senza fine. Abbiamo tirato su la testa e siamo andati avanti nonostante tutto. Abbiamo creato dal nulla un paese moderno e democratico, abbiamo lavorato, sudato sangue per farne un giardino. Ci hanno fatto la guerra, i nostri figli sono morti per Israele. Fatica, dolore, lacrime e sangue per millenni fino ad oggi. E adesso? Adesso ecco che della gente che si autoproclama "palestinese", appropriandosi del nome che era degli ebrei fino al 1948, gente inventata nel 1967 dalla fantasia maligna di Arafat e che, in 50 anni di storia, non ha fatto altro che terrorismo, gente che non è stata capace di produrre altro che parassitismo, miseria e violenza, ecco che questa gente ci sta rubando tutto. Non avendo una storia propria, i palestinisti hanno pensato bene di rubare la nostra, complice il mondo intero. Non potendo eliminarci in guerra lo fanno psicologicamente scippando i nostri siti storici, cercando di tranciare di netto le nostre radici millenarie.
  Oggi, cari amici, cari fratelli ebrei, noi siamo diventati, con un colpo di spugna imbevuto d'odio, un popolo senza storia. Ci hanno rubato il Monte del Tempio (dove solo gli ebrei non possono andare a pregare), ci hanno rubato il Kotel chiamandolo come l'asina alata di Maometto, ci hanno rubato tutti i siti dei nostri antenati, la Tomba di Giuseppe, la Tomba di Rachele. Gli ebrei credenti non possono più andare a pregarvi pena la vita o l'arresto. E oggi ecco l'ultimo delirio dell'Unesco, organizzazione mondiale per la tutela della cultura e delle scienze, che ha decretato che Israele non solo non ha nessun diritto su Gerusalemme est, di cui sarebbe forza occupante, ma ha perso ogni diritto sulla Tomba dei Patriarchi e delle Matriarche di Israele, a Hebron. Abramo, Isacco, Giacobbe, Sarah, Rebecca, Leah, Re David, Re Shaul, Re Salomone, non sono più retaggio del Popolo ebraico ma sono diventati, tutti e in un sol colpo, palestinesi, arabi, musulmani, seguaci di Allah e di Maometto suo profeta 2000 anni prima che quest'ultimo nascesse e inventasse l'islam. Stranezze che solo un delirio di odio e di ignoranza può avallare e questo delirio ha avuto luogo in Polonia dove, su 21 stati votanti, 12 sono stati favorevoli, solo 3 contrari e 6 si sono astenuti.
  La formula della risoluzione è stata: "the Cave of the Patriarchs in Hebron is a Palestinian heritage site, it is not a Jewish site and it is in danger." Hebron, la culla del Popolo ebraico, la primissima capitale, il luogo scelto da Abramo per esservi sepolto insieme a Sarah, è stata pugnalata a morte da bugie antisemite. Da Israele i commenti sono stati di orrore e incredulità. "Decisione immorale, antisemita, imbarazzante, una sozzura morale, scandalosa, ridicola… Una risoluzione, ha dichiarato un portavoce degli ebrei di Hebron, che rispecchia l'odio che consuma l'Unesco". Ma non basta. Il giorno prima del voto, l'ambasciatore israeliano presso l'Unesco, Carmel Shama Cohen, aveva chiesto un minuto di silenzio per gli ebrei massacrati ad Auschwitz Birkenau dal momento che il campo della morte si trovava a soli 70 km da Krakovia, sede polacca dell'Unesco. Appena finito il minuto di silenzio per gli ebrei, ha preso la parola un'isterica rappresentante di Cuba che, sbattendo il microfono piena di rabbia, ha chiesto un minuto di silenzio anche per i palestinesi e, mentre tutti si rialzavano in piedi, i rappresentanti dei vari paesi hanno dedicato anche una standing ovation a quella farsa vergognosa. Un minuto di silenzio, con applausi, per i palestinesi? Beh, si, in effetti molti terroristi sono morti, i kamikaze perché esplosi con le loro cinture al tritolo, altri perché uccisi mentre ammazzavano cittadini di Israele.
  L'Unesco, a suo eterno disonore e vergogna, ha dedicato un minuto di silenzio al terrorismo. Cosa non si fa per i soldi e per il petrolio. Cosa non si fa per vigliaccheria. Tornando a Hebron, esiste un sito facebook, Actionaid Italia, che recentemente bombarda il web con questa campagna "Adotta un bambino palestinese di Hebron". Una volta di più si entra nell'immoralità e nella vergogna. Invitare ad adottare un bambino palestinese di Hebron chiedendo soldi significa insultare tutti i bambini che veramente soffrono nel mondo fame, soprusi, stupri, miseria, guerra, pestilenze e genocidi. Vergogna e menzogne per gli sprovveduti e i disinformati al servizio della propaganda palestinista. A questo proposito pubblico la lettera che un'amica ha scritto a questa associazione, lettera già virale sul web e che io trovo molto esplicativa:
    Cari Action Aid Italia, se perorate una campagna assurda in nome del "rispetto delle leggi internazionali e del diritto" e parlate di Hebron chiedendo di "adottare un bambino palestinese", commettete una manipolazione della verità, spero in buona fede. Hebron fu divisa in due negli accordi di Oslo, firmati da Arafat e Rabin. Non entrarono gli israeliani con i carri armati costruendo recinzioni. Dividere la città in due in attesa di accordi di pace stabili e confini certi fu un'idea assurda, ma fu firmata dai due rappresentanti all'epoca delle due parti. Gli accordi di Oslo sono consultabili on line, perché non lo fate? Perché fate credere a chi è totalmente disinformato (e si evince dalla maggioranza dei commenti) che fu un'occupazione? La divisione in due ha di fatto bloccato la città, da ambo le parti. Ci rimettono i palestinesi come gli ebrei. Poi, non si capisce che cosa ci dovrebbero fare i bambini palestinesi con i soldi che chiedete in nome loro.
      A Hebron c'è un'università, c'è un Politecnico (Palestine Polytechnic University (PPU) e il Hebron campus of Al Quds Open University; c'è un polo industriale, c'è la manifattura del vetro, delle scarpe. La parte palestinese ha ricevuto da poco 150 milioni di dollari per sviluppare ulteriormente l'economia. L'Amministrazione Palestinese controlla 17000 fabbriche e laboratori. Zamzam produce ogni tipo di borse in plastica, The Royal Plastic Factory ha più di mille lavoratori. Il volume di affari tra Hebron palestinese e Israele è di circa 30 miliardi di dollari annui. Il salario minimo garantito è di 50 sheqel all'ora rispetto ai 30 del resto della West Bank. C'è uno stadio di basket da 4000 posti. Il governo koreano ha recentemente donato 6 milioni di dollari per il Youth Studies Center, che comprende tra l'altro aule di musica e scienze. Ci sono i seguenti poli sanitari: Al Ahli General Hospital, Al-Mezan Speciality Hospital, Abu Hassan Qasim hospital in Yatta, e Bani Naim Maternity Hospital. Si parla di una città sola, eh? Anzi di mezza, di quella sotto controllo palestinese. Ora se vi sembra serio, saputo questo, e facilmente verificabile, chiedere soldi per i bambini palestinesi mentre (tanto per dirne una) in Yemen i bambini stanno morendo di colera, io non dico che siete antisemiti, ma o siete in malafede o veramente dovreste informarvi meglio degli argomenti che trattate."
      Più e meglio di così è difficile dire, nella speranza che, chi si è lasciato sedurre da una propaganda di menzogne e falso vittimismo, ci ripensi e mandi i suoi soldi a bambini veramente bisognosi. L'odio, la pressione psicologica, le menzogne contro Israele si rinnovano ogni giorno e mi chiedo, chiediamoci tutti, fino a quando potremo resistere e come potremmo reagire? Siamo soli, abbiamo di fronte un intero mondo ostile che non sa più cosa inventarsi per colpirci, siamo soli ed è spaventosamente simbolico che questo ultimo segnale di odio e delegittimazione delle nostre radici arrivi proprio dalla Polonia dove 70 anni fa furono massacrati 3 milioni di ebrei. Mai nella storia del mondo, a nessun popolo del mondo è stato fatto tanto male secolo dopo secolo e…la storia continua…
(Osservatorio Sicilia, 8 luglio 2017)



Hebron nella Bibbia

Esempi:
- Allora Abramo levò le sue tende e venne ad abitare alle querce di Mamre, che sono a Hebron; e là costruì un altare all'Eterno. (Genesi 13:18)
- E Sara morì a Kirjath-Arba, (che è Hebron), nel paese di Canaan; e Abrahamo entrò a far lutto per Sara e a piangerla. (Genesi 23:2)
- Poi Giacobbe venne da Isacco suo padre a Mamre, a Kirjath-Arba, (cioè Hebron), dove Abrahamo e Isacco avevano soggiornato. (Genesi 35:27)
- Allora Giosuè lo benedisse e diede Hebron in eredità a Caleb, figlio di Jefunneh. Per questo Hebron è rimasta proprietà di Caleb, figlio di Jefunneh, il Kenizeo, fino al giorno d'oggi, perché aveva pienamente seguito l'Eterno, il Dio d'Israele. (Giosuè 14:13-14)
- Davide condusse anche gli uomini che erano con lui, ognuno con la propria famiglia, e si stabilirono nelle città di Hebron. (2 Samuele 2:3)
- Il tempo che Davide regnò a Hebron sulla casa di Giuda fu di sette anni e sei mesi. (2 Samuele 2:11)
- In Hebron a Davide nacquero dei figli... Questi nacquero a Davide in Hebron. (2 Samuele 3:2,5)
- Allora tutte le tribù d'Israele vennero da Davide a Hebron e gli dissero: Ecco, noi siamo tue ossa e tua carne. Già in passato, quando Saul regnava su di noi, eri tu che guidavi e riconducevi Israele. L'Eterno ti ha detto: Tu pascerai il mio popolo Israele, tu sarai principe sopra Israele. Così tutti gli anziani d'Israele vennero dal re a Hebron e il re Davide fece alleanza con loro a Hebron davanti all'Eterno, ed essi unsero Davide re sopra Israele. Davide aveva trent'anni quando cominciò a regnare e regnò quarant'anni. Hebron regnò su Giuda sette anni e sei mesi; e a Gerusalemme regnò trentatré anni su tutto Israele e Giuda. (2 Samuele 5:1-5)
- Allora tutto Israele si radunò presso Davide a Hebron e gli disse: Ecco noi siamo tue ossa e tua carne; ... Così tutti gli anziani d'Israele vennero dal re a Hebron, e Davide fece alleanza con loro a Hebron davanti all'Eterno; quindi essi unsero Davide re sopra Israele, secondo la parola dell'Eterno pronunciata per mezzo di Samuele. (1 Cronache 11:1,3).


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Hebron nel Corano

Esempi:





 


La verità del male

Un nuovo libro su Otto Adolf Eichmann svela tutto ciò che la Arendt non fu in grado di vedere

di Antonio Donno

Otto Adolf Eichmann non fu solo un grigio, insignificante esecutore di ordini, ma un vero "creatore" di sterminio. E' quanto emerge dalla lettura del libro di Bettina Stangneth, La verità del male. Eichmann prima di Gerusalemme, ora fortunatamente edito in Italia dalla Luiss University Press. E' proprio il caso di dire "fortunatamente", perché l'opera di Stangneth è veramente fondamentale. Pubblicato originariamente in Germania nel 2011, negli Stati Uniti nel 2014, questo libro ha avuto un successo enorme perché l'autrice ribalta completamente le tesi di Hannah Arendt esposte in La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, pubblicato in Italia nel lontano 1964. Il libro di Arendt era rimasto per decenni, a livello internazionale, l'interpretazione esclusiva della figura e dell'opera di Eichmann durante gli anni della Shoah, per quanto altri importanti autori (Hilberg, Poliakov, Cesarani, Reitlinger, Friedlànder, Lipstadt) avessero contribuito ad approfondire la tematica dello sterminio degli ebrei, ma senza aggiungere nulla di nuovo sul ruolo di Eichmann.
In realtà, Arendt scrisse il suo libro dopo aver ascoltato solo le prime quattro udienze del processo Eichmann a Gerusalemme, mentre Stangneth fonda la sua analisi su una quantità davvero impressionante di documenti, rintracciati in molti anni di ricerche in diversi archivi in ogni parte del mondo, ora raccolti negli Argentina Papers. Eichmann scrisse un numero notevole di considerazioni e ricostruzioni o dettò a Willem Stassen, un giornalista danese affiliato alle SS, una altrettanto cospicua mole di considerazioni personali nel decennio 1950- 1960 in cui i due, insieme a molti altri criminali nazisti fuggiti dalla Germania, vissero in Argentina - prima che lo stesso Eichmann fosse catturato dal Mossad israeliano e condotto a Gerusalemme. Ecco perché l'opera di Stangneth ricostruisce la storia di Eichmann "prima di Gerusalemme", mentre quella di Arendt si ferma a valutarla solo "a Gerusalemme".
   Eichmann passava di ghetto in ghetto, di campo in campo, dava ordini: "Inviava dispacci, decretava, concedeva, decideva, ordinava e dava udienza", scrive Stangneth, perché Eichmann conosceva profondamente la vita degli ebrei nel ghetto o nel campo, tanto da dettare a Stassen: "Gli uomini che erano al mio comando avevano un tale rispetto nei miei confronti da spingere gli ebrei a mettermi su un trono, veramente". E ancora: "Nessun altro aveva un nome così familiare nella vita politica ebraica, sia in patria che all'estero, quanto me". Questa familiarità, gestita astutamente presso i rappresentanti ebrei nei ghetti, gli consentiva di avere con loro un rapporto diretto e pacifico, che al momento opportuno sfruttava per calcare all'improvviso la mano e ordinare esecuzioni o trasferimenti nei campi dove le camere a gas funzionavano a pieno regime. Così, Stangneth può affermare: "Eichmann divenne un simbolo della politica anti-ebraica, esattamente come egli aveva pianificato".
   Eichmann era così attivo e produttivo da avere riconoscimenti espliciti soprattutto da parte di Himmler, e da guadagnarsi l'appellativo di "Czar degli ebrei". Egli si definiva un "idealista" perché il suo compito era quello di conferire maggior gloria al suo paese. Dettò a Stassen: "La moralità della Terra Patria che viveva in me semplicemente non mi permetteva [ ... ] di dichiararmi colpevole", e Stangneth commenta: "Era chiaro per Eichmann che qualsiasi verdetto di colpa per le sue azioni sarebbe stato opera della parte peggiore del mondo politico, un'azione contraria alla 'moralità della Terra Patria' e perciò contraria alla visione etnica tedesca". Stangneth sostiene che Eichmann aveva un'altissima concezione di sé, soprattutto dopo che contribuì in prima persona all'elaborazione delle teorie razziali all'interno dei più importanti circoli nazisti, tanto da divenire ben presto parte importante di un'"élite ideologica".
   Eichmann, a questo punto, poté trasferire nell'azione la reputazione conquistata. Davanti a un sottoposto urlò: "Tu ... sai chi sono io? Io sono il responsabile della Aktion! In Europa, in Polonia, in Cecoslovacchia, in Austria abbiamo finito, adesso tocca all'Ungheria". Non era una vanteria, era l'espressione di un uomo che aveva lavorato sodo e ne era orgoglioso. Eichmann era l'ideatore di metodi di sterminio nella lotta tra le razze: "Era l'eterno destino di tutti gli esseri organici, per il quale non v'è consolazione. E' sempre stato cosi e sempre sarà cosi", scrisse in uno dei suoi memoriali argentini. Questo fu veramente Otto Adolf Eichmann.

(Il Foglio, 7 luglio 2017)


Dal mensile evangelico "Il Cristiano" (1888-2017)

Continuiamo la pubblicazione di brevi notizie e commenti tratti dal mensile evangelico "Il Cristiano".

AGOSTO 1896
GERUSALEMME. - È stata trovata la torre di Hananeel (cioè le sue ruine) di cui si parla in Geremia XXXI, 38: «Ecco i giorni vengono, dice il Signore, che questa città sarà riedificata al Signore, dalla torre di Hananeel infino alla porta del cantone.» Anche questa profezia si adempie nei nostri giorni, poichè è precisamente in questa parte della città che i nuovi edifizii vengono fabbricati.

SETTEMBRE 1897
GERUSALEMME. - È grandemente significante che mentre l'opera fra i Giudei va avanti in altri luoghi senza la diretta opposizione dei Rabbi, in GERUSALEMME non è così. Qui, ove il Messia fu crocifisso, i conduttori dei Giudei sembrano ancora i suoi più intolleranti nemici. In questi ultimi giorni hanno pubblicati dei manifesti avvertendo e minacciando di scomunica i Giudei che frequentano anche le case dei cristiani. L'evangelista Ben Oliel è naturalmente l'oggetto del loro odio.

GIUGNO 1898
"Al Giudeo imprima"
- Il periodico Amico d'Israele pubblica un interessante articolo sulla Bibbia nella lingua vernacola degli Ebrei. «Può sembrare strano ai cristiani, ma è un fatto tristo, che i Giudei, come popolo, non posseggono l'Antico Testamento nella sua integrità. La maggioranza anche degli Ebrei religiosi si contentano dei cinque libri di Mosè e dei Salmi, e non conoscono altro dei libri storici e dei profeti che la Haphtorah, cioè quelle porzioni dei libri storici e profetici che si leggono nella sinagoga ogni sabato dopo la porzione della Torah, ossia la legge. Poi cosa diremo di coloro che non conoscono l'Ebraico, e che perciò non sanno tradurre la Scrittura nella loro propria lingua? È l'ignoranza delle Scritture fra il popolo che costituisce il principale sostegno del Rabbismo.»
- La popolazione di Gerusalemme è di 60,000, di cui 40,000 sono Ebrei, 10,000 si chiamano Cristiani, 10,000 Musulmani. Attualmente vi si parlano 40 lingue. «Tutte le genti concorreranno ad esso, » cioè al monte della Casa del Signore» (Isaia II, 2).
- Una delle più grandi meraviglie che si manifestano nel popolo ebreo è la loro fecondità. Nella stessa Polonia, ove i Giudei vivono in condizioni ristrette, crescono più del doppio degli altri; mentre nelle città e nei villaggi della Russia europea, fuori della Polonia, il loro aumento è di 4 ad 1 degli altri.

(Notizie su Israele, 7 luglio 2017)


Aharon Aharon: "Ecco come le startup israeliane sostengono la rivoluzione 4.0"

Il direttore dell'Autorità per l'Innovazione dello Stato d'Israele: "Supportiamo con fondi pubblici oltre 1400 aziende all'anno. Se chiudono non è un problema: quegli esperti andranno a lavorare in altre realtà, creando un circolo virtuoso nell'intero Paese". E adesso scatta l'ora del finanziamento alla smart manufacturing

di Federica Meta

 
Aharon Aharon
Israele punta alto: la startup nation per eccellenza mira a guidare la rivoluzione Industria 4.0 alimentando il suo ecosistema di imprese ad alto contenuto tecnologico. L'obiettivo è ambizioso ma certamente il Paese ha basi solide, considerando che l'8,5% della popolazione attiva nel settore della ricerca e delle alte tecnologie produce il 50% dell'export. Motivo per cui è stato in grado di attrarre oltre 300 multinazionali: Facebook, Amazon, Google, Apple, Huawei sono solo alcuni dei nomi più importanti che sono arrivate in Israele ad aprire centri di ricerca.
A spiegare la strategia di Tel Aviv è Aharon Aharon, alla guida dell'Autorità per l'Innovazione a Roma per l'incontro della Commissione Mista di Cooperazione industriale, scientifica e tecnologica tra Italia ed Israele.
   "L'Authority è erede dell'Office of the chief scientist, organismo creato già 45 anni fa, e ha il compito di sostenere economicamente aziende con risorse che verranno restituiti se l'azienda ha successo, altrimenti sono da considerarsi a fondo perduto - ha spiegato Aharon - L'R&S è un settore rischioso, noi riduciamo i rischi per le aziende investendo in ogni ambito economico, secondo la tendenza del mercato. Se l'azienda è molto grande, il finanziamento può raggiungere anche cifre imponenti, tra i 20 e i 40 milioni di dollari"
   L'Agenzia nazionale supporta circa 1.400 startup all'anno: di queste ne chiudono 800. Oggi nel Paese ci sono circa 5mila startup operative. "Il fatto che le aziende chiudano non è un problema - ha puntualizzato Aharon - La presenza dello Stato a garanzia degli investimenti fa in modo che anche la chiusura abbia un impatto positivo sul sistema: quando una startup chiude la sua forza lavoro continua la propria attività in altre startup, portando con sé le competenze acquisite e generando nuovo valore per tutti". Un esempio è la startup Better Place che sviluppava tecnologia per le batterie delle auto elettriche, poi finita in bancarotta nonostante avesse ricevuto fondi pubblici. "I suoi dipendenti sono andati a lavorare in General - ha raccontato Ahron Ahron - Anche grazie a loro know how che oggi quella divisione di GM è una delle più avanzate al mondo".

(Cor.Com., 7 luglio 2017)


Israele per una zona cuscinetto nel sud della Siria

Contro Hezbollah e Iran. Ieri colloquio Netanyahu-Putin

Israele vuole una zona cuscinetto nel sud della Siria dove né Hezbollah né altre organizzazione appoggiate da Teheran possano operare e a questo fine sta pressando gli Usa e la Russia. Su questo tema ieri il premier Benyamin Netanyahu ha avuto un colloquio telefonico con il presidente russo Vladimir Putin. Secondo il Times di Londra, ripreso dai media israeliani, la zona cuscinetto si dovrebbe estendere per circa 30 miglia (48 chilometri) lungo il confine israelo-siriano sulle Alture del Golan ed includere la città di Daraa e più avanti quella di As-Suwaida. In base ad altre indiscrezioni di fonte Haaretz, Israele tuttavia si oppone con forza al fatto che la zona cuscinetto sia controllata dall'esercito russo e di questo avrebbe avvisato gli Usa.

(ANSAmed, 7 luglio 2017)


La tv di Abu Mazen glorifica il massacro di alunni israeliani a Ma'alot

Quale dialogo è possibile con una popolazione palestinese imbottita di odio e di menzogne?

L'assassinio di 22 ragazzini e 4 insegnanti è un "atto di eroismo". Le scuole elementari sono "accademie militari". Questo il messaggio inviato agli spettatori palestinesi dalla tv ufficiale dell'Autorità Palestinese che lo scorso primo luglio ha celebrato con parole commosse i responsabili del massacro di Ma'alot: l'attacco terroristico perpetrato il 15 maggio 1974 da terroristi palestinesi che presero in ostaggio più di cento studenti israeliani in gita scolastica, alloggiati nella scuola elementare "Netiv Meir", e i loro insegnanti. Quando le forze israeliane tentarono di salvarli, i terroristi fecero fuoco sugli ostaggi con pistole e granate uccidendo 22 ragazzi e 4 adulti....

(israele.net, 7 luglio 2017)


Le tempeste di sabbia pullulano di batteri

Li trasportano con i granelli di polvere

Tempesta di sabbia nella valle del Timna in Israele
Le tempeste di sabbia pullulano di batteri che, aggrappati ai granelli, percorrono chilometri con conseguenze tangibili sulla salute degli esseri umani e sull'ambiente delle regioni che attraversano. Lo indica la ricerca pubblicata sulla rivista Environmental Research, dal gruppo coordinato da Yinon Rudich, dell'istituto israeliano Weizmann.
''Abbiamo studiato i microrganismi presenti nella polvere e nel vento'', ha detto Rudich. I ricercatori si sono concentrati sulle tempeste di sabbia che colpiscono Israele da diverse direzioni: quelle che arrivano da Nord-Est provenienti dal Sahara,quelle che vengono da Nord-Ovest, dall'Arabia Saudita, e quelle che soffiano da Sud-Ovest, dalle regioni desertiche della Siria.
Le tempeste influiscono sulla salute delle persone, ma contrariamente a quanto si credeva finora, non sono le particelle di polvere a creare problemi: analizzando i campioni delle polveri i ricercatori hanno scoperto che a essere insidiosi sono i batteri trasportati dalle tempeste.
Le analisi hanno dimostrato che durante una tempesta di polvere la concentrazione di batteri e il numero di specie presenti nell'atmosfera aumentano bruscamente, così le persone esposte alle tempeste sono esposte anche a un numero superiore di batteri. Questi ultimi, inoltre, variano a seconda della provenienza delle tempeste.
Ognuna di esse, in pratica, trasporta batteri diversi. Ad esempio ''i microrganismi presenti in una tempesta di polvere originaria del Sahara - ha spiegato Rudich - sono diversi da quelli portati dai deserti sauditi o siriani''.
Analizzando il Dna dei microrganismi, i ricercatori hanno anche controllato la loro resistenza agli antibiotici e hanno visto che i batteri che viaggiano nelle tempeste che arrivano dall'Africa o dall'Arabia Saudita sono meno minacciosi rispetto a quelli che diventano resistenti agli antibiotici a causa dell'attività umana, soprattutto dall'uso abbondante di antibiotici negli allevamenti.

(ANSA, 7 luglio 2017)


Israele-India: conclusa la visita di "successo" del premier Modi

GERUSALEMME - La giornata di oggi, ultima dei tre giorni si è conclusa con l'annuncio di una joint venture fra amministratori delegati delle società indiane ed israeliane. L'annuncio è avvenuto nel corso del primo forum Israele-India (India-Israel CEOs Forum), inaugurato oggi da Shraga Brosh, presidente dell'Associazione israeliana dei produttori manifatturieri, e Pankaj Patel, presidente della Federazione indiana delle camere di commercio e dell'industria. L'obiettivo dell'evento di oggi è stato quello di aumentare gli scambi commerciali bilaterali di circa dieci volte, dai due miliardi di dollari attuali a 20 miliardi di dollari l'anno. Le due associazioni hanno inaugurato oggi una conferenza di imprenditori e leader aziendali dei due paesi per promuovere l'adozione di un accordo di libero scambio e l'aumento sostanziale del volume degli investimenti reciproci. Tra le proposte formulate dalle associazioni imprenditoriali in occasione del forum vi è stata quella di un accordo di libero scambio, un altro a tutela degli investimenti internazionali e una revisione delle norme che ostacolano le relazioni economiche e commerciali tra Israele e India.

(Agenzia Nova, 7 luglio 2017)


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Futuro indiano per Israele

Siglati sette accordi di cooperazione

«Stiamo facendo la storia». Con queste parole il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha suggellato ieri a Gerusalemme la firma di sette accordi di cooperazione con l'India rivolti principalmente alla promozione dello sviluppo tecnologico e alla difesa. Presente il premier indiano, Narendra Modi, il primo ad aver visitato Israele dalla sua fondazione nel 1948.
   Oltre alla costituzione di un fondo di investimento da quaranta milioni di dollari per la ricerca e lo sviluppo, gli accordi riguardano la cooperazione nell'agricoltura, nell'utilizzazione delle risorse idriche e nelle iniziative spaziali. «Israele è uno dei paesi all'avanguardia nel campo della innovazione, dello sfruttamento dell'acqua e della agricoltura» ha rilevato Modi. «Questi saranno appunto i settori - ha aggiunto - in cui principalmente si esprimerà la nostra cooperazione» assieme con la lotta «al crescente estremismo e al terrorismo, incluso il cyberterrorismo». Netanyahu ha espresso fiducia che la cooperazione indo-israeliana servirà anche ad «elevare il livello di vita nel terzo mondo, Africa inclusa». In mattinata Modi è stato ricevuto dal capo dello stato Reuven Rivlin. In seguito ha in programma un incontro con la comunità degli ebrei di origine indiana.
   Inoltre, durante la sua visita Modi ha voluto incontrare Moshe, un bambino di dieci anni, sopravvissuto agli attacchi terroristici compiuti a Mumbai nel 2008. La sua bambinaia indiana, Sandra Samuel, lo portò in salvo mentre i suoi genitori, il rabbino Gavriel Holtzberg e la moglie Rivka, furono tenuti in ostaggio e poi uccisi dai terroristi nel centro ebraico della Chabad House.
   Modi ha invitato Moshe e i suoi nonni, Rabbi Shimon e Yehudit Rosenberg, a visitare l'India e Mumbai. Moshe, ha detto suo nonno, «crescerà per diventare un rabbino e tornerà in India per dirigere la Chabad House di Mumbai».
   All'incontro era presente anche la tata indiana del piccolo Moshe, che ora vive a Gerusalemme e alla quale è stata concessa la cittadinanza israeliana onoraria.

(L'Osservatore Romano, 7 luglio 2017)


Cyber security israeliana al top

Per reagire agli attacchi planetari gli americani hanno deciso di collaborare con Gerusalemme. Il sistema usato per colpire era stato rubato alla Nsa Usa.

di Emanuele Rossi

 
In occasione della Cyber Week 2017, organizzata dall'Università di Tel Aviv, è stato annunciato l'inizio di una collaborazione tra Stati Uniti e Israele nell'ambito della cyber security. A parlarne è stato Thomas Bossert, assistente del presidente americano Donald Trump per la Sicurezza nazionale con l'incarico di monitorare l'antiterrorismo.

 La struttura congiunta
  I primi incontri del gruppo di lavoro congiunto inizieranno subito sotto la guida di Rob Joyce, coordinatore della cyber sicurezza della Casa Bianca, e di Eviatar Matania, direttore generale del National Cyber Directorate. «Le riunioni si concentreranno su una serie di problemi chiave della sicurezza informatica: le infrastrutture critiche, ricerca e sviluppo avanzati, cooperazione internazionale e forza lavoro» ha spiegato Bossert: il lavoro sarà «focalizzato sulla ricerca e l'arresto degli avversari cibernetici prima che questi possano infiltrarsi nelle reti e raggiungere le infrastrutture critiche, individuando anche modi precisi per rendere responsabili di fronte alla legge gli aggressori».

 Il momento
  Mai momento più calzante. Martedì scorso infatti c'è stato il secondo attacco cibernetico di scala globale nel giro di un mese: Petwrap. Un'azione simile a quella vista il 14 maggio col ramsonware Wannacry. Per capire le dimensioni dell'attacco e le sue conseguenze basti ricordare che nell'ex centrale nucleare di Chernobyl è stato necessario monitorare manualmente il livello di radiazioni, dopo che il sistema di controllo informatizzato, basato su Windows, era finito sotto attacco.

 Gli argomenti sensibili
  Il ramsonware che è stato usato per colpire lunedì pare abbia sfruttato lo stesso tool di Wannacry, noto come Ethernal Blue, costruito dall'Nsa americana come arma offensiva, e sottratto da qualcuno che lo ha poi passato a un gruppo di hacker, i quali a loro volta lo hanno messo online ad aprile. Anche questa è una delle sfide del team congiunto israelo-americano: evitare fughe di informazioni o materiale. Aspetto su cui pesa la spifferata uscita direttamente dalla bocca del presidente Trump, quando rivelò a due invitati di alto profilo del governo russo che Tel Aviv aveva passato a Washington informazioni importanti su un nuovo piano dello Stato islamico.

 La collaborazione Usa-Israele
  I rapporti di collaborazione tra Stati Uniti e Israele sul settore intelligence non-cyber sono già ottimi, e tali restano nonostante la gaffe di Trump. Per esempio, sembra che parte delle informazioni su un possibile nuovo attacco chimico che il regime siriano ha in progetto, possano arrivare da Tel Aviv. I funzionari israeliani raccontano che l'amministrazione Obama, negli ultimi anni, ha segnato il punto più basso nelle relazioni reciproche per via anche di una distanza caratteriale tra i rispettivi leader. Tuttavia questo è stato anche un periodo in cui l'unica cosa che tra i due Paesi funzionava bene era lo scambio di informazioni. Adesso le cose dovrebbero andare meglio, visto che Trump sta cercando un nuovo avvicinamento. E Bossert e Matania in questi giorni hanno aperto ufficialmente un altro fronte in questa cooperazioni: si scrive «ufficialmente» perché il cyber warfare è già territorio di attività congiunte, anche se coperte, visto la dimensione che certe attività informatiche possono raggiungere. «È una delle più grandi sfide strategiche dal 9/11», l'ha definito Bossert, e, come ha ricordato il primo ministro Benjamin Netanyahu, in questo momento dire che si lavora per una società israeliana è un vanto quando si parla del settore della cyber security.

(Italia Oggi, 7 luglio 2017)


La vita spericolata di Camillo Castiglioni

di Teodoro Klitsche de la Grange

Chi sa chi era Camillo Castiglioni? Probabilmente quasi nessuno. Ma al suo tempo, cioè nella prima metà del secolo scorso, era uno dei più noti finanzieri internazionali. Ebreo e triestino aderì al fascismo; dopo la caduta della monarchia asburgica - cui aveva fornito gran parte degli aeroplani impiegati durante la guerra - divenne il principale operatore nelle borse mitteleuropee e uno dei più importanti suscitatori di iniziative industriali; dopo la seconda guerra mondiale mediò il primo grosso prestito occidentale alla Jugoslavia di Tito, ma dovette farle causa (in Italia) per ottenere il pagamento della provvigione.
   Il titolo del libro di Gianni Scipione Rossi ("Lo squalo e le leggi razziali", Rubbettino 2017, pp. 284, 14 euro) è dovuto al fatto che, malgrado avesse i titoli (e i meriti) per essere "discriminato" (cioè sottratto alle limitazioni persecutorie inflitte agli ebrei italiani) non lo fu. Ma, anche non essendolo, il suo attento biografo ci ricorda come, perfino nell'Italia occupata dai nazisti, si muovesse indisturbato, dalla sua base di S. Marino dove viveva in convento sotto gli abiti di frate. Dato che non rinunciava agli agi e alle comodità da grande capitalista, sotto i sandali portava calze di seta di ottima qualità; i sanmarinesi, ridendo sull'improbabile mascheratura, lo avevano soprannominato "il frate con le calze di seta".
   Proprietario (tra l'altro) della Bmw fece affari con Göring, Ciano e forse Mussolini. Al Duce consigliò di tenersi fuori dalla guerra e suggerì che, a un'Italia neutrale, gli Usa avrebbero riservato un ruolo privilegiato (in particolare sul piano economico). La lettura, chiara e scorrevole, della biografia di Castiglioni è interessante perché piena di accadimenti, contraddizioni, e si dipana in un versante decisivo della storia moderna.
   Per il lettore di oggi occorre selezionare gli spunti più interessanti per orientarsi: in particolare nella contemporaneità e tra i luoghi comuni spesso ripetuti. Ad esempio la convinzione che sia l'economia a determinare la politica. Il potere politico è un elemento della vita pubblica, il cui compito - ancor più da quando è organizzato in Stato sociale - è (sostengono tanti) di servire l'economia, e quindi di obbedirle. Ma, nella realtà, politica ed economia non sono separabili né graduabili, direbbe Freud perché ambedue sono essenze e quindi irriducibili l'una dall'altra. Sono aspetti dell' (unica) esistenza umana. La vita di Castiglioni lo dimostra: il finanziere si muoveva (altrettanto bene) sia sul piano politico che su quello economico e non trascurava mai l'uno rispetto all'altro. Sia che si trattasse di industrie in cui investire, sia di nuove iniziative da prendere, o consigli da dare ai politici, le intuizioni e le azioni del finanziere valutavano sempre ambedue gli aspetti, le reciproche connessioni e gli effetti. Come ad esempio, consigliando a Mussolini di tenere l'Italia neutrale, ne sottolineava i benefici economici derivanti, specialmente dagli Usa.
   L'altro, e connesso, che economia e politica sono collegate e reciprocamente influenti, di guisa che un obiettivo può - spesso - essere raggiunto con mezzi economici o politici (o con entrambi). Anche se poi, aggiungiamo noi, l'elemento decisivo è quello politico. Tra i molti episodi della vita di Castiglioni, è la lezione che si può ricavare (in particolare) dall'ultimo: l'aiuto dato alla Jugoslavia. Se Castiglioni non fosse riuscito in quello in cui stava fallendo la nomenklatura comunista (delle cui capacità "economiche" Tito, giustamente, si fidava poco) la Jugoslavia sarebbe stata costretta a rientrare nell'orbita sovietica, Un po' come, qualche anno dopo, capitò all'Egitto di Nasser che si rivolse alla Russia dopo il diniego anglo-americano di finanziare la diga di Assuan.
   Il trattamento poi praticato a Castiglioni nell'Europa dell'Asse è ancor più sorprendente: data la notorietà del personaggio che si muovesse e facesse affari nel mentre i suoi correligionari erano deportati, corrobora quanto scriveva Orwell sul principio di eguaglianza (lì nel comunismo sovietico): che tutti sono uguali, ma qualcuno è più uguale degli altri. Per cui si deroga alla regola, talvolta a favore, talaltra contro. Per fortuna di Castiglioni, a suo beneficio. D'altra parte, anche in Germania, s'ironizzava su (almeno) due personaggi dell'olimpo nazista chiamandoli "ariani per ordine di Hitler": il ministro dell'economia Schacht (che aveva una nonna ebrea) e il maresciallo von Manstein (in effetti nato Lewinsky, poi adottato); i quali ciò nonostante ebbero ruoli rilevantissimi (e capacità proporzionate) nel governo e nell'esercito tedesco.
   Per cui, specie quando riguarda i ruoli pubblici, sembra di poter dedurre che la regola da applicare è quella di Deng Xiaoping, che non importa il colore del gatto, ma che acchiappi i topi. E Castiglioni, come Schacht e von Manstein, dimostrò di saperli acchiappare. Diversamente da certi personaggi dell'Italia contemporanea, che, in economia e in politica, hanno dimostrato ripetutamente di essere stati scelti non per le capacità e competenze, ma per il colore o l'albero genealogico (o altro). Non si spiega altrimenti, nella cronaca attuale, come la più antica banca italiana, il Monte dei Paschi di Siena, sopravvissuta alla caduta di Siena, a quella dei Medici, degli Asburgo-Lorena, dei Savoia e del fascismo, rischi di estinguersi con la repubblica "nata dalla resistenza" e continui ad operare solo a prezzo di aiuti a carico dello Stato e quindi dei contribuenti. Banca che un tempo finanziava gli Stati, e ora vive della loro elemosina.

(L'Opinione, 7 luglio 2017)


Livia, un coraggio da Giusta

 
In un'epoca di scelte decisive, di bivi posti all'improvviso nel proprio cammino, Livia rispose senza esitazione alla chiamata del cuore e del coraggio. Poche ore prima, a messa, il monito era arrivato chiaro dal cardinale Elia Dalla Costa: "Ci sono fratelli in pericolo, salvateli".
   Ora che se li ritrovava davanti, ospiti di una pensione del centro storico, non seppe dire di no. E le porte di casa sua si aprirono, all'improvviso, per ospitare una giovane coppia e il loro figlioletto. La base da cui, alcune settimane dopo, sarebbero partiti alla volta della Svizzera per compiere un avventuroso espatrio e mettersi definitivamente alle spalle l'incubo delle persecuzioni antiebraiche.
   Si salvarono così Massimo e Adelina Della Pergola, insieme al loro figlioletto Sergio, di un anno. Grazie all'eroismo di Livia Sarcoli, un'anziana professoressa di letteratura in un convento fiorentino, che mise a disposizione la propria abitazione in via della Colonna, a due passi dalla sinagoga di via Farini.
   Da oggi Livia è entrata ufficialmente a far parte dei Giusti tra le Nazioni, l'omaggio più alto riconosciuto dallo Stato di Israele. Un momento di grande profondità e solennità ospitato proprio nella sinagoga, dove ad accogliere discendenti dei salvatori e dei salvati (compreso Sergio, oggi illustre demografo e storico collaboratore delle nostre testate), c'erano tra gli altri la vicepresidente della Comunità ebraica fiorentina Daniela Misul, la Consigliera UCEI Sara Cividalli e Sara Ghilad in rappresentanza dell'ambasciata israeliana.
   Tanti gli intrecci emersi in queste ore, come ha potuto testimoniare proprio la Consigliera Cividalli ricordando come la partigiana valdese Maria Adelaide (Gina) Silvestri Sabatini, che ebbe un ruolo fondamentale nel viaggio verso la Svizzera (dove Massimo Della Pergola, giornalista di fama, inventò il Totocalcio), salvò parte della sua stessa famiglia.
   Luce che squarcia il buio: le vicende dei Giusti meritano di essere conosciute e approfondite anche come monito contro l'indifferenza, ha sottolineato Misul.
   "A volte una parola o un gesto sono sufficienti per salvare una vita. Ma è essenziale - ha ricordato Della Pergola, che è anche membro della Commissione dello Yad Vashem incaricata delle pratiche dei Giusti - che quella parola venga pronunciata, e che quel gesto venga compiuto. Purtroppo la storia ci dice che non tutti quelli che avrebbero potuto farlo pronunciarono quella parola e fecero quel gesto".
   Ha poi aggiunto Della Pergola: "Siamo fiduciosi che il nobile messaggio di cui Livia Sarcoli ci ha dato un esempio indimenticabile, dell'eroismo, dell'abnegazione e dell'umiltà, del ricordo, della solidarietà e della gratitudine, e allo stesso tempo della libertà, dell'uguaglianza e della dignità umana, sarà trasmesso ai giovani di oggi e a tutto il genere umano per le generazioni future.

(moked, 6 luglio 2017)


Ancora Unesco contro Israele

Una nuova risoluzione su Gerusalemme è antisemitismo mascherato

Con una mossa a cui ormai siamo tristemente abituati, martedì l'Unesco ha approvato l'ennesima risoluzione che nega la sovranità israeliana sulla città vecchia di Gerusalemme e Gerusalemme est. Secondo l'agenzia Onu lo stato israeliano è una "potenza occupante". Il voto è avvenuto al meeting annuale del World Heritage Committee di Cracovia. La risoluzione, proposta dalla Giordania, è passata con 10 voti favorevoli, 3 contrari e 3 astensioni. Le reazioni israeliane sono state molto dure, ovviamente: l'ambasciatore all'Onu Danny Danon ha detto che "nessun falso comitato dell'eredità può sciogliere il legame tra la nostra gente e Gerusalemme", per il ministero degli Esteri la decisione è "triste, non necessaria e patetica". L'Unesco non è nuovo a questo genere di risoluzioni dimostrative. L'agenzia, che dovrebbe occuparsi di tutela dei beni culturali ha messo Israele al centro di una campagna di demonizzazione senza precedenti. Negli ultimi anni il fervore anti-israeliano si è accentuato fino a negare il profondo legame tra lo stato ebraico e il Muro del pianto, in una risoluzione dello scorso autunno. Le prese di posizione contro Israele sono talmente ripetitive (secondo programma, al summit polacco domani se ne voterà una simile) che rischiano quasi di passare inosservate. E se da un lato questo può essere spiegato con l'ormai scarsa credibilità internazionale di un'istituzione finanziata generosamente dalle monarchie salafite, dall'altro non bisogna dimenticare che il fatto è molto grave: un'agenzia dell'Onu promuove con assiduità l'antisemitismo, attenzione a non banalizzare.

(Il Foglio, 6 luglio 2017)


Gerusalemme, capitale dello sport

Nonostante la città sia da sempre teatro di conflitti e tensioni, negli ultimi anni è punto di riferimento per gli appassionati di tante discipline, come la maratona e il ciclismo: l'anno prossimo il Giro d'Italia potrebbe partire proprio da qui.

di Adam Smulevich

Maratona di Gerusalemme, marzo 2017
L'ultima suggestione, la più affascinante, è a tinte rosa. E ogni giorno che passa il colore si fa più intenso, una realtà sempre più concreta all'orizzonte. Ancora pochi giorni infatti e si saprà se Gerusalemme sarà davvero la città di partenza del prossimo Giro d'Italia, possibilità trapelata nelle scorse settimane.
   La volontà politica c'è, e non è poco. Resta da vedere se l'incastro riuscirà, se ci si troverà in modo definitivo d'accordo sulla proposta, se le altre candidature non risulteranno almeno altrettanto degne di attenzione. Mai segnali che puntano verso il Medio Oriente sono senz'altro incoraggianti.
   Città sacra per le tre religioni monoteiste, Gerusalemme è da vari anni anche un punto di riferimento per gli appassionati di diverse discipline sportive. Merito in particolare di un sindaco, Nir Barkat, che coltiva da sempre la passione per l'agonismo e che molte risorse ha investito perché la città più amata e complessa al mondo potesse fregiarsi di questa specificità.
   Una conferma arriva dalle diverse migliaia di persone che ogni mese di marzo partecipano alla Maratona. Quarantadue chilometri e 195 metri incastonati in un contesto unico, con un suggestivo passaggio anche all'interno della Città Vecchia, che lo stesso Barkat affronta a passo spedito, consapevole della necessità di veicolare un messaggio di impegno e vitalità per una città capace non soltanto di vivere l'eredità del passato ma anche di proiettarsi, coinvolgendo il più possibile le diverse anime che la compongono, verso il futuro. «Affrontare e gestire i conflitti è la nostra sfida di ogni giorno. Una sfida le cui ricadute sono evidentemente globali» ha sottolineato Barkat in occasione di un suo recente intervento a Roma. Nel solco di questo principio anche la Maratona non si è mai fermata. Persino davanti ad evidenti minacce per l'ordine pubblico, che altrove forse avrebbero impedito il regolare svolgimento di una competizione sportiva. Nel 2011 si corse ad esempio all'indomani di un attentato mortale contro civili israeliani, come se niente fosse successo. In gara quel giorno c'erano anche Aldo e Giovanni del celebre trio comico, entrambi appassionati di podismo. Nel 2015, un altro super testimonial contagiato dalla stessa passione: Gianni Morandi. Mezza maratona per lui, corsa con il consueto piglio e con un largo sorriso sul volto. Per celebrare questa inedita sgambata anche un memorabile "C' era un ragazzo ... " improvvisato poche ore dopo nella sinagoga italiana, su richiesta dei presenti.
   Ha scelto Gerusalemme anche Simone Pianigiani, l'artefice di pagine indimenticabili nella pallacanestro senese. Il ritorno in patria (all'Olimpia Milano) è stato appena ufficializzato, ma i mesi trascorsi alla guida dell'Hapoel saranno difficili da dimenticare. Un titolo nazionale conquistato al termine di una intensa cavalcata, un rapporto sanguigno instauratosi con la città e la tifoseria. «Da domani sarò per sempre un vostro sostenitore» ha annunciato qualche tempo fa nel corso di una conferenza stampa convocata per chiudere questa pagina.
   La vittoria del campionato è il primo tassello di un progetto ambizioso. L'Hapoel punta infatti in un prossimo futuro alla conquista dell'Eurolega, impresa già riuscita più volte al Maccabi Tel Aviv. Mai Gerusalemme si è potuta vantare di un tale onore. Ed è tutto fuorché una speranza remota, complici gli investimenti a monte e l'alto tasso tecnico dei giocatori in rosa. Tra cui Amar' e Stoudemire, che dopo tanti anni in Nba ha puntato su nuove motivazioni.
   Gli investimenti sono rilevanti anche per quanto riguarda il ciclismo stesso. Già nel!' ottobre 2013, su iniziativa del Giro d'Italia, fu infatti organizzata una Gran Fondo con starter d'eccezione Andrea Bartali. Il figlio del grande Gino, recentemente scomparso, fu coinvolto per legare in modo ideale Sport e Memoria. Due valori che sono al centro di questo nuovo sforzo, con vista anche sullo Yad Vashem.
   Dal 2013 il ciclismo ha fatto passi da gigante in Israele. È nata ad esempio una squadra professionistica, la Israel Cycling Academy, che oltre a partecipare ad alcuni giri minori si è imposta all'attenzione dell'opinione pubblica per disparati motivi. Tra questi, un rapporto fortissimo con la vicenda di Ginettaccio campione di umanità. Merito del giovane team manager, Ran Margaliot, che ha voluto che i suoi ragazzi percorressero (sia nel 2016 che nel 201 7) la strada del coraggio. E cioè il tratto tra Firenze e Assisi che Bartali affrontò sulla sua bici, più volte, per portare assistenza e documenti falsi agli ebrei braccati dal nazifascismo.
   Sono valori forti quelli testimoniati anche da un'altra esperienza che nasce a Gerusalemme. Il locale Roma Club calcistico porta infatti avanti da anni progetti nel segno dell'inclusione, che coinvolgono giovani cristiani, ebrei e musulmani. Insieme con il pallone tra i piedi, ambasciatori di speranza, per dire no all'odio e all'indifferenza. Un modello che è oggetto di vari studi e approfondimenti e che è vitale in una città che ha fatto purtroppo parlare più volte per le intemperanze razziste di gruppi non così irrilevanti di tifosi del Beitar. Gerusalemme capitale dello sport e del dialogo si appresta intanto ad accogliere un torneo davvero particolare: le Maccabiadi. Le cosiddette "Olimpiadi ebraiche", nate nel 1932 in un'epoca di gravi turbolenze per l'Europa, preludio ai drammi che sarebbero presto seguiti, rappresentano da sempre un evento nell'evento. Diecimila partecipanti dai cinque continenti ( ci sarà anche l'Italia) e quasi duemila medaglie da assegnare.
   Un momento di aggregazione che ha evidentemente un profilo identitario ben preciso. Ma che, questa la filosofia dei Giochi, non può non pensarsi in un rapporto costante con le identità "altre" e con la società non ebraica nel suo insieme.
   È questa la forza di Gerusalemme, nonostante i tanti intoppi e le tante criticità quotidiane. Un insieme di mondi diversi, in relazione costante, chiamati anche per questo a parlarsi e conoscersi sempre di più. Lo sport, linguaggio universale per eccellenza, può essere l'alleato ideale.

(Avvenire, 6 luglio 2017)


Un'occasione sprecata e ambiguità sdoganate

Poche luci e molte ombre di un convegno su antisemitismo e islamofobia a Milano

di Guido Guastalla e Anna Sikos

Quello che si è verificato ieri a Palazzo Marino, sotto l'egida del Comune di Milano (ufficiale e politica) e con il coinvolgimento delle massime Istituzioni ebraiche italiane e milanesi (UCEI e CEM) è semplicemente mistificatorio e umiliante per noi tutti. L'oggetto della polemica non sono i discorsi dei singoli musulmani o le posizioni delle rappresentanze islamiche intervenute, tutti più dignitosi di molte nostre rappresentanze.
   Si aggiunga a ciò la struttura delirante di chi ha pensato un convegno di tre ore, senza pause, facendo parlare oltre una quindicina di persone, che peraltro non hanno potuto né interloquire tra loro né con il pubblico: un convegno "sovietico", da questo punto di vista.
   Le parole di Gabriele Nissim secondo cui "cosa c'entriamo noi, comunità ebraica, con l'ambasciata di Israele", nel contesto del suo intervento e a fronte del dialogo con i musulmani in quella sede, fanno rabbrividire, come pure il pessimo interrogativo se vivano oggi peggio in Europa gli ebrei o i musulmani. Vogliamo contare i morti, gli attentati e le intimidazioni registrate nell'ultimo decennio?! Per non parlare delle definizioni "improbabili" da lui date del controverso lemma (controverso anche per i musulmani, data la storia della parola e il suo primo uso -su cui, per inciso, non c'è stato accenno alcuno) "islamofobia".
   Il direttore del CDEC Gadi Luzzatto Voghera non è riuscito a dire ufficialmente - e neppure ad accennare brevemente storicamente, dato il suo ruolo - che esiste un antisemitismo specifico, autonomo, proprio del mondo islamico, dagli albori dell'Islam ad oggi, con una sua storia ben precedente la nascita dello Stato di Israele. E questo antisemitismo ha avuto contatti e rimandi con quello cristiano, pur avendo vita autonoma. Tutto questo è stato taciuto, proprio in quel contesto, con buona pace di Poliakov, Lewis e Wistrich.
   Gadi Schoenheit è riuscito a sostenere che ebrei e musulmani siano semiti! Un'enormità: arabo ed ebraico sono lingue semitiche, mentre ebrei e musulmani non sono "razze". La confusione tra discorso linguistico (individuato da uno studioso austriaco tra Settecento e Ottocento) e discorso (falso e criminogeno!) razziale fu un caposaldo del pensiero e della pratica razzisti, oggi purtroppo recuperato goffamente in un simile, delicato convegno proprio da una nostra rappresentanza ufficiale.
   Si è poi riuscito inusitatamente a sostenere che il ponte tra l'antisemitismo ("spogliato della sua dimensione religiosa": …che vuol dire??? E, allora, la limpieza de sangre di inquisitoriale memoria???) e l'islamofobia ("fuori dalla sua dimensione religiosa": ….e, ancora, che vuol dire???) sia un generico problema xenofobo razzista. Un'enormità che si commenta da sé. Il moderatore Tondelli, che ha perfino fatto riferimento a Charlie Hebdo, curiosamente, come peraltro nessuno dei relatori da parte ebraica, ha citato le decine di centinaia di migliaia di vignette antisemite che popolano da decenni i quotidiani e la stampa islamica, dall'Iran ai Paesi Arabi al Pakistan, non riuscendo al riguardo a aprire un dibattito serio e rispettoso con i musulmani. Complimenti all'inettitudine colpevole e irresponsabile di organizzatori e oratori ebrei!
   Le uniche due relazioni che si sono discostate da questa nostra "bancarotta" sono quelle della Presidentessa dell'Unione, Noemi Di Segni, e di Vittorio Robiati Bendaud. Ringraziamo l'Imam Yahya Pallavicini e gli altri musulmani intervenuti per la loro disponibilità e correttezza.

(Kolòt, 6 luglio 2017)


L'ebraismo italiano ha mille anime, rinnegarne una significa demolirlo

"Ebreo chi? Sociologia degli ebrei italiani oggi" è il titolo di un volume collettivo in libreria da oggi per Jaca Book (pp. 322, € 35) con prefazione di Furio Colombo. Tra i vari contributi, tesi a sfatare pregiudizi e luoghi comuni diffusi; quello del rabbino Roberto Della Rocca, direttore dell'Area Formazione e Cultura dell'Unione delle Comunità Ebraiche, di cui anticipiamo uno stralcio.

di Roberto Della Rocca

Da non più di due generazioni l'ebraismo italiano si trova caratterizzato da un progressivo sviluppo delle 'edot (gruppi ebraici di comuni origini di formazioni culturali diverse da quella italiana), che hanno alle volte collegamenti con analoghe 'edot di altri Paesi, di origini culturali non italiane ma persiane, libanesi, libiche, egiziane, ecc., in seguito all'ondata migratoria degli ebrei esuli dai Paesi arabi e islamici. Non possiamo ignorare che da cinquant'anni a oggi la struttura dell'ebraismo italiano è cambiata radicalmente, mentre l'incontro con modelli esteri pone interrogativi radicali sulla nostra effettiva natura. Il nostro modello è ancora valido?
   È vero che gli ebrei risiedono in Italia da almeno venti secoli. Si tratta di una presenza ininterrotta nel tempo, che ha conosciuto una storia travagliata di continue migrazioni interne ed esterne. La distruzione geografica e la suddivisione etnica interna sono continuamente cambiate, anche se piuttosto stabile invece è stato il dato della consistenza numerica. Questi flussi migratori hanno messo anche in evidenza che esistono molte «vie italiane» alla Torah, nel senso che esistono diversi modi di percezione dell'identità religiosa dei gruppi di ebrei che nel corso dei secoli hanno risieduto stabilmente in Italia, pur diffidando dalle schematizzazioni che tenderebbero a porre a priori l'esistenza di un'entità astratta da denominare «ebraismo italiano», che sarebbe caratterizzata da un insieme di elementi altrettanto aprioristicamente definiti, per poi decidere se una determinata manifestazione d'identità ebraica di un gruppo di ebrei residenti in Italia appartenga o meno all'«ebraismo italiano».
   Fin dal Rinascimento fanno parte dell'ebraismo italiano gli «ebrei tedeschi» provenienti da Norimberga e stabilitisi nel Veneto, così come gli ebrei provenienti dalla regione romana o più tardi gli ebrei levantini. Così fanno parte dell'ebraismo italiano di oggi sia quegli ebrei nel cui albero di famiglie compaiono antenati residenti in Italia da secoli che quelli provenienti dalla Polonia, dalla Persia, dall'Egitto e dal Nord Africa, i quali nel corso degli ultimi lustri abbiano definito la propria identità in funzione della realtà italiana alla quale la loro vita è ancorata.
   La storia ci narra di molte comunità ebraiche che migrano, che cercano nuovi lidi, che si stabiliscono in nuove terre; spesso ma non necessariamente con la violenza dei conquistatori. Spesso purtroppo, ma non necessariamente, incontrando una reazione di rigetto da parte della popolazione stanziale. E comunque la stessa storia dell'ebraismo italiano è ben lontana da essere quella di una popolazione originaria, pura e nobile, che si sarebbe autoconservata, mantenendo ed evolvendo con forze proprie la sua civiltà nel corso dei secoli con l'arrivo di altre genti, e malgrado questi eventi traumatici. No, l'ebraismo italiano è la risultante di tutti questi eventi. Vi hanno contribuito ashkenaziti, sefarditi, levantini, ponentini, siciliani ecc. E dal punto di vista culturale tutti hanno lasciato le loro tracce. Rinnegare una sola di queste componenti potrebbe significare soltanto demolire la costruzione dell'ebraismo italiano.

(La Stampa, 6 luglio 2017)


Intese tra Israele e India su tecnologia e sicurezza

 
Difesa, sicurezza e soprattutto tecnologia. Sono questi i punti cruciali al centro della visita del premier indiano, Narendra Modi, in Israele, iniziata ieri. Modi resterà in Israele per tre giorni, prima di volare in Germania al summit dei G20.
   I tre giorni della visita serviranno soprattutto a definire accordi su tre piani: la collaborazione nell'industria informatica e hi-tech, il trasferimento di tecnologie agricole, specialmente per le coltivazioni nei terreni aridi, e infine la collaborazione militare, anzitutto nel campo missilistico. In campo tecnologico, i due paesi sono all'avanguardia e vogliono unire le forze: New Delhi è interessata al modello delle start up che ha notevolmente contribuito alla crescita media del sei per cento degli ultimi anni in Israele. Per lo stato ebraico il mercato indiano offre invece la possibilità di far fare un salto di dimensioni alle proprie imprese, aprendole a un mercato di un miliardo e duecento milioni di persone. E molti parlano anche dalla possibilità della creazione di un grande hub condiviso: un'unica area tecnologica gestita interamente da indiani e israeliani.
   Modi e Netanyahu puntano a triplicare gli scambi commerciali, fermi a meno di due miliardi di dollari. Undici ministri del governo israeliano hanno lavorato a progetti in comune con investimenti pari a 50 milioni complessivi.
Entrambi i paesi sono interessati a un mix fondamentale: le nuove tecnologie applicate all'agricoltura e alla lotta contro la fame. L'India è molto attenta alle innovazioni degli israeliani per portare acqua nel deserto e bonificare i terreni.
   C'è poi il capitolo difesa. New Delhi ha un'industria missilistica avanzata e guarda con interesse al sistema anti-balistico Arrow-q, lo scudo israeliano per fermare minacce missilistiche. Potrebbe essere un'arma decisiva per fermare la minaccia dei missili del Pakistan, potenza nucleare e storico avversario.

(L'Osservatore Romano, 6 luglio 2017)


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Israele-India - Il premier Modi da Tel Aviv: "La mia visita celebra la forza dei nostri legami"

GERUSALEMME - La mia visita in Israele "celebra la forza dei legami centenari tra le nostre società". Lo ha detto il premier indiano, Narendra Modi, subito dopo il suo arrivo, ieri, all'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, dove è stato accolto dall'omologo israeliano, Banjamin Netanyahu. "Sono personalmente onorato di essere il primo capo di governo indiano ad intraprendere questa innovativa visita in Israele", ha affermato Modi. Nel corso del suo discorso il premier indiano ha sottolineato che "gli israeliani hanno creato una nazione su principi democratici", attraverso un "duro lavoro e uno spirito innovativo", che l'India elogia. Infine, il capo del governo di Nuova Delhi ha promesso di creare una partnership forte con Israele. Da parte sua, Netanyahu ha spiegato che il legame fra i due paesi è "naturale" e vede la collaborazione nei settori idrico, agricolo, della sicurezza, dell'energia e in molti altri settori. Inoltre, il capo dell'esecutivo di Gerusalemme ha aggiunto che i due paesi stanno creando un fondo di 40 milioni di dollari destinati al settore dell'innovazione, "come seme per un'ulteriore innovazione".
   Accogliendo Modi in aeroporto, Netanyahu ha evidenziato il carattere storico della visita del premier indiano: "E' la prima volta che un primo ministro indiano visita Israele. La accogliamo a braccia aperte". Subito dopo essere stato accolto allo scalo di Ben Gurion dai rappresentanti di spicco del governo israeliano, Modi si è diretto verso una delle serre più importanti del paese, Danziger, grande circa 80mila metri quadrati. Modi resterà in Israele fino al 6 luglio, nel quadro di una visita volta a rafforzare la cooperazione in numerosi settori, tra cui quello della Difesa.
   Tra i settori in cui è attiva la partnership fra i due paesi vi è quello dell'istruzione. Un fondo congiunto di circa 50 milioni di dollari è destinato alla ricerca scientifica dei due paesi rivolta ai ricercatori dei due paesi. Inoltre, ogni anno Israele mette a disposizione delle borse di studio dedicate agli studenti indiani, che rappresentano circa il 10 per cento degli studenti stranieri. Il settore della Difesa rimane quello in cui i due paesi vantano un legame più forte. Secondo quanto riferito dal ministro della Difesa indiano, Subhash Bhamre, sette dei 37 contratti del settore per l'approvvigionamento di armi e strumenti militari sono stati firmati con Israele, che costituisce il secondo paese al mondo che fornisce sistemi di difesa a Nuova Delhi, dopo gli Usa.
   Lo scorso 6 aprile l'Industria aerospaziale israeliana (Iai) ha annunciato la firma di un contratto miliardario con l'esercito indiano. L'accordo, del valore di circa 1,6 miliardi di dollari, prevede la consegna del sistema di difesa missilistica (Medium Range Surface to Air Defense Missile - Mrsam), noto in Israele con il nome di Barak 8. Si tratta del singolo contratto più remunerativo nella storia di Iai, riferisce la stessa azienda. Un accordo aggiuntivo prevede la consegna alla Difesa indiana di un sistema antimissile per elicotteri indiani a lungo raggio (Long Range Surface to Air Missile - Lrsam). L'accordo era stato approvato dal primo ministro indiano, Nerendra Modi, lo scorso febbraio.

(Agenzia Nova, 5 luglio 2017)


Israele-Italia: Netanyahu ringrazia l'ambasciatore Talò

Molte le iniziative per il saluto del diplomatico

GERUSALEMME - "La ringrazio per tutto quello che ha fatto per aumentare il dialogo e la cooperazione tra i nostri due paesi". Lo ha scritto il premier israeliano Benyamin Netanyahu in un messaggio inviato all'ambasciatore italiano in Israele Francesco Maria Talò che si appresta a lasciare l'incarico per rientrare a Roma. Il messaggio è stato letto durante il Convegno 'Israele e Italia: realtà e percezione", organizzato dal demografo italo-israeliano Sergio Della Pergola in onore di Talò. "L'Italia - ha sottolineato Netanyahu - è un alleato e un amico di vecchia data dello stato di Israele ed ho particolarmente apprezzato il suo essere a favore della verità e lo schierarsi contro le oltraggiose risoluzioni ai danni di Israele nei forum internazionali". A Talò sono arrivati messaggi di saluto sia dalla presidente dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane (Ucei) Noemi Di Segni sia del vice ministro - ed ex ambasciatore israeliano negli Usa - Michael Oren. Nel convegno a risaltare è stato il rapporto bilaterale tra i due paesi esaminato dall'ambasciatore Rodica Radian Gordon del ministero degli affari esteri israeliano, dal deputato italiano del Pd Lia Quartapelle e prima firmataria della proposta di legge approvata di recente per la Medaglia d'Oro alla Brigata Ebraica, e da Shlomo Avineri dell'Università ebraica. Tutti hanno sottolineato "l'ottima cooperazione" tra i due paesi in campo politico, economico, culturale e scientifico. Questo senza nulla togliere - è stato spiegato - alla differenza di vedute su punti specifici, come ad esempio alcuni aspetti del conflitto israelo-palestinese. Ma la difesa di Israele - è stato sottolineato - è un obbligo generale e ancora più in tema di sicurezza e di sfida al terrorismo.
Il Roma Club Gerusalemme
L'esperienza israeliana in questo campo - ha spiegato Quartapelle - è molto utile all'Europa di questi tempi. Spazio anche al tema, nel rapporto Israele-Italia, "dell'immagine percepita attraverso i mezzi di comunicazione". "Questa percezione della realtà - ha osservato Talò - è più profonda per Israele dove c'e' un problema di sicurezza e addirittura di riconoscimento all'esistenza dello stato, ma non invece per l'Italia che non conosce questi difficoltà". "Quello che ho sempre sostenuto - ha sottolineato - è che si deve venire in Israele per conoscere il paese e i tanti suoi aspetti. E non è un caso che durante il mio mandato ogni anno sono stati circa 4mila gli ospiti della Residenza". Sui flussi emigratori - che invece rappresentano oggi un problema per l'Italia - Talò ha detto che "bisogna conciliare sicurezza e solidarietà senza venire meno all'una e all'altra". Infine un omaggio alla statura di due presidenti come Antonio Napolitano e Shimon Peres (il cui Centro per la Pace è stato visitato da Talò e Quartapelle): "hanno - ha detto - saputo accoppiare capacità di visione e concretezza". Le iniziative per salutare l'ambasciatore - che nell'incarico sarà sostituito ad agosto da Gigio Benedetti - hanno visto anche un Torneo di calcio organizzato dal Roma Club Gerusalemme di Samuele Giannetti.

(ANSAmed, 6 luglio 2017)


Le piccole e medie imprese svizzere possono cavarsela bene in Israele

Importante partner economico in Medio Oriente, per la Svizzera Israele offre sbocchi interessanti per le società elvetiche. Zoom sui vantaggi e gli inconvenienti di una presenza su questo mercato.

La Svizzera figura al quarto posto dei partner che esportano il maggior numero di beni, di servizi e di capitali verso Israele, dopo l'Unione europea, gli Stati Uniti e la Cina. Il volume totale di queste esportazioni ammontava nel 2015 a USD 3,6 miliardi. Gli scambi tra i due stati sono facilitati dal 1993 grazie ad un accordo di libero scambio tra i paesi del Vicino Oriente e l'Associazione europea di libero scambio. Quali opportunità commerciali ha da offrire il mercato israeliano alle imprese elvetiche? Armin Zucker, presidente della Camera di commercio Svizzera-Israele a Zurigo, ne descrive le specificità.

- Con le sue 2000 start-up e USD 4,8 miliardi di raccolta fondi nel 2016, il sistema d'innovazione israeliano è conosciuto nel mondo intero per la sua efficacia. Ci può spiegare le sue caratteristiche?
  L'ecosistema israeliano dispone di risorse umane di grande qualità, sia sul piano delle attitudini che delle qualifiche e dell'esperienza. Questo capitale umano è dovuto in parte alla formazione ricevuta dai giovani israeliani durante il servizio militare. Il sistema d'innovazione è segnato da una mentalità che in inglese si definisce "beating the system". È caratterizzata dalla volontà di raggiungere il proprio scopo e cambiamenti significativi utilizzando tutti i mezzi necessari, a costo di aggirare o modificare certe regole. La creatività, la passione per l'innovazione, una certa flessibilità etica e fiducia in sé stessi costituiscono altre caratteristiche importanti. L'ecosistema israeliano deve pure molto all'immigrazione venuta dall'ex URSS, a un'alta percentuale di scienziati, così come a posti poco attrattivi nel settore pubblico. Senza dimenticare la folta presenza di società di capitale di rischio, così come l'importanza del settore della difesa.

- Perché il mercato israeliano è interessante per le imprese svizzere?
  Si tratta di un'economia in pieno slancio. La popolazione è la sesta più abbiente dell'Asia e del Medio oriente: gli israeliani sono ricchi quanto la media europea, secondo un recente rapporto di Credit Suisse, con una classe media in crescita. Sono inoltre stati annunciati investimenti massicci nelle infrastrutture. Grazie alla buona reputazione dei loro prodotti e la loro immagine affidabile, le società svizzere possono cavarsela bene in tale contesti di crescita.

- In quali settori le imprese elvetiche si propongono in Israele?
  Secondo le statistiche 2015 sullo sfruttamento di beni svizzeri in Israele, i cinque settori principali sono, in odine d'importanza, i prodotti chimici, i metalli e pietre preziose, le macchine e le attrezzature elettroniche, gli strumenti, orologi e gioielli così come l'agricoltura e i prodotti forestali. Parallelamente, le banche svizzere e le società di consulenza finanziaria sono sempre più attive nel paese.

- Per entrare nel mercato israeliano, è necessario aprire un ufficio nel paese?
  No. Israele è un piccolo paese dove le persone influenti e gli imprenditori si conoscono tutti. Il legame sociale è molto stretto. Piuttosto che aprirvi un ufficio, è importante avere dei contatti locali e degli intermediari che vi aprano delle porte

- Quali difficoltà può incontrare una PMI (Piccola o Media Impresa) che cerca di insediarsi in Israele?
  Israele è un mercato maturo in svariati settori e le imprese svizzere dovranno affrontare una competizione locale e internazionale importante. Inoltre, le regole possono essere severe in certi settori. Quando un'impresa tratta con agenzie governative, le procedure sono talvolta fastidiose e fortemente burocratiche. L'ambiente economico e lo stile degli affari possono anche sembrare troppo famigliari a degli svizzeri. Le relazioni informali e personali vi rivestono un ruolo più importante rispetto alla Svizzera.

- Quali sono i vantaggi principali di una presenza sul mercato israeliano?
  Israele è un centro internazionale del design hi-tech, della ricerca e dello sviluppo (R-S). Le tecnologie di punta offrono molte opportunità interessanti di partenariato commerciale tra la Svizzera e Israele, ad esempio nel settore dell'informazione e delle comunicazione (cybersicurezza inclusa), degli strumenti e servizi di sicurezza, della difesa, così come nell'ambito di meditech e biotech. La produzione di elettricità, l'educazione e la formazione o anche le strade e la progettazione d'infrastrutture presentano pure degli sbocchi interessanti per le imprese svizzere.

- Quali consigli darebbe a un imprenditore svizzero che desidera lanciare il proprio prodotto in Israele?
  Siamo scettici in merito all'apertura di un ufficio o un insediamento diretto di una PMI nel paese. Raccomandiamo però il ricorso ad agenti locali in modo da entrare sul mercato israeliano. Il governo israeliano incoraggia le join-venture e il licensing (vendita del diritto d'utilizzo di un certo sapere).

(KMU portal, 5 luglio 2017)


Balagan Cafè alla Sinagoga di Firenze, una serata tra musica e storia

Tracce di storia e sonorità dell'Est nel nuovo appuntamento a Firenze con il "Balagan Cafè". Giovedì 6 luglio torna in Sinagoga (Via Farini) la rassegna promossa dalla Comunità Ebraica nell'ambito dell'Estate Fiorentina. Alle ore 20 sarà il docente dell'International Studies Institute Florence Mark Bernheim ad introdurre il pubblico nelle atmosfere dell'Est raccontando la storia delle scomparse comunità ebraiche di Slovenia (in inglese con traduzione in italiano). Alle ore 21 seguirà il concerto del trio "Istanbul Night". Giunti direttamente da Belgrado per partecipare al Balagan Cafè Roni Beraha, Aleksandar Lipovan, Vladimir Coka Stojkovic racconteranno il mondo ebraico dei Balcani con un concerto molto suggestivo, tra musica sefardita e sonorità sufi. Ad impreziosire la serata, dalle ore 19,30 l'apericena ebraica balcanica a cura di Jean Michel Carasso e Michele Hagen (offerta consigliata 10 euro). Non mancherà anche questa volta l'attesissimo appuntamento con il "Balaghino dei bambini". Protagonista sarà la Comunità georgiana con la storia "Le Radici". Sotto la tenda nomade allestita nei giardini della Sinagoga, i bambini ascolteranno la fiaba e mentre i genitori partecipano all'aperitivo del Balagan cafè, termineranno la loro attività degustando, sotto la loro "tenda", i cibi ispirati al tema della storia ascoltata. Per partecipare all'incontro, che durerà dalle ore 19,30 alle ore 20,15, è obbligatoria la prenotazione scrivendo all'indirizzo mail sinagoga.firenze@coopculture.it specificando "Balaghino" (offerta consigliata 5 euro). Il prossimo appuntamento con il Balagan Cafè è in programma giovedì 3 agosto.

(gonews.it, 5 luglio 2017)


L'India guarda a Israele per un patto su sicurezza e nuove tecnologie

Modi primo leader di Delhi nello Stato ebraico

di Giordano Stabile

 
 
 
C'era anche una nuova specie di crisantemo, battezzata «Narendra Modi», ad accogliere il primo ministro dell'India al suo arrivo in Israele. Un omaggio al leader e alla cultura indù, che vede in quel fiore un simbolo di lunga vita e ricchezza. Gli israeliani hanno fatto le cose in grande per la prima visita di un premier indiano in carica: i due Paesi si sono sempre guardati con simpatia, se non altro per i comuni nemici musulmani, ma da due campi diversi, quello occidentale per lo Stato ebraico, quello dei «non allineati» per l'India. L'incontro fra Modi e Benjamin Netanyahu, che ieri pomeriggio si sono abbracciati all'aeroporto Ben Gurion con l'energia di due vecchi amici, è l'occasione per forgiare un'alleanza strategica e il leader indiano è stato accolto con onori riservati solo a Donald Trump.
   Modi resterà in Israele per tre giorni, prima di volare in Germania al summit dei G20. Se Israele trova un amico da un miliardo e duecento milioni di abitanti, un mercato che cresce più della Cina, al sette per cento all'anno, il leader nazionalista indù vede nello Stato ebraico un modello di sviluppo tagliato su misura per le esigenze dell'India. I tre giorni serviranno a definire accordi su tre piani: la collaborazione nell'industria informatica e hi-tech, il trasferimento di tecnologie agricole, soprattutto per le coltivazioni nei terreni aridi, la collaborazione militare, specie nel campo missilistico.
   La Silicon Wadi vicino a Tel Aviv, e la «Cupertino dell'India», Bangalore, sono i due grandi centri asiatici per le tecnologie del Ventunesimo secolo. L'India è interessata al modello delle start-up, che ha contribuito alla crescita media del sei per cento degli ultimi anni in Israele. Per lo Stato ebraico il mercato indiano offre la possibilità di far fare un salto di dimensioni alle proprie imprese. Alle nuove tecnologie sono anche legate le innovazioni che hanno trasformato il deserto del Negev in un giardino. Tra le eccellenze visitate da Modi, e molto apprezzata, c'è per esempio la Danziger Flower Farm, pioniere nella floricoltura.
   L'India ha territori immensi semi-aridi, ed è lì la frontiera per sfamare i 25 milioni di nuovi cittadini che nascono ogni anno. Modi e Netanyahu puntano a triplicare gli scambi commerciali, fermi a meno di 2 miliardi di dollari. Undici ministri del governo israeliano hanno lavorato a progetti in comune, con investimenti per 80 milioni. Israele vuole attirare più turisti, ora sono soltanto 45 mila, puntando anche sulla comunità di 85 mila indiani che ospita. In cinquemila daranno questa sera il benvenuto al loro premier alla Fiera di Tel Aviv. Ma il piatto forte saranno gli accordi nel settore dell'industria militare.
   L'India ha una sua industria missilistica avanzata e guarda con estremo interesse al sistema anti-balistico Arrow-3, lo scudo ideale per fermare la minaccia dei missili del Pakistan, potenza nucleare e storico avversario. Tanto più oggi, con Modi che spinge sull'acceleratore del nazionalismo indù anti-islamico. Un accordo in questo campo porterebbe l'alleanza su un quarto livello. Israele ha sempre puntato ad accordi con potenze «alle spalle» del mondo arabo-musulmano. Con l'Etiopia cristiana in Africa, con l'Iran dello Scià, rivale delle potenze arabe, fino al 1979, con la Turchia pilastro della Nato in Medio Oriente. Questo sistema di alleanze è però in gran parte in pezzi. Con l'India, terza potenza economica mondiale, Israele avrebbe una seconda assicurazione sulla vita, dopo quella americana.

(La Stampa, 5 luglio 2017)


Iran - Countdown per la distruzione di Israele: "Mancano 8.400 giorni"

TEHERAN - In Iran parte il countdown alla fine di Israele: mancano 8.400 giorni alla distruzione del Paese, secondo i manifestanti che sostengono i territori palestinesi occupati. Il conto alla rovescia trae ispirazione dalle parole dell'ayatollah Ali Khamenei, che nel 2015 disse che "non sarebbe rimasto nulla di Israele" nel 2040.
I manifestanti hanno sfilato in piazza della Palestina, a Teheran, al grido di "morte ad Israele" nella giornata dedicata ad Al-Quds, come viene chiamata Gerusalemme in arabo, e hanno rivolto parole di condanna nei confronti di Israele, Arabia Saudita e Stati Uniti.
Per l'occasione le Guardie Rivoluzionarie hanno mostrato i propri missili balistici, compreso il tipo utilizzato in Siria che, secondo il governo di Damasco, avrebbe "un gran numero di terroristi".
Proteste simili si sono svolte in tutto il Paese, con i manifestanti che condannavano l'occupazione, da parte di Israele, dei territori palestinesi, bruciando bandiere israeliane e americane.
Anche il presidente iraniano, Hassan Rouhani, e lo speaker del Parlamento, Ali Larijani, hanno preso parte alle manifestazioni. In un discorso, Larijani ha parlato di Israele come del "più pericoloso terrorista della storia". Lo stesso presidente Rouhani ha dichiarato in una intervista che "Israele aiuta i terroristi". Tutte affermazioni che si inseriscono nello scontro con il rivale sunnita dell'Iran, l'Arabia Sunnita, che ha accusato Teheran di essere "la punta di lancia del terrorismo globale".

(blitz quotidiano, 5 luglio 2017)


A Gerusalemme apre l'Aquarium Gottesman

A Gerusalemme è stato inaugurato, presso il giardino zoologico della famiglia Tisch, il Sea Israel: Gottesman Aquarium, primo acquario di questo tipo in Israele. Pur collegato con lo Zoo Biblico, il Gottesman Aquarium sarà un'attrazione indipendente e autonoma e i visitatori avranno la possibilità di acquistare un biglietto separato per il solo aquario o combinato con altri siti.
"L'inaugurazione del Gottesman Aquarium è un evento di grande importanza per Gerusalemme e per Israele. Attualmente stiamo riscontrando numeri record nel turismo in arrivo in Israele e, se questa tendenza positiva continuerà, oltrepasseremo alla fine dell'anno la barriera dei tre milioni di turisti. Questo sarà un risultato importante nel nostro nuovo approccio di marketing, posizionando Israele come luogo di vacanza e di svago oltre che di visita ai luoghi santi e storici. Maggiormente dobbiamo sviluppare il brand turistico dedicato alle vacanze per famiglie e al tempo libero e la novità dell'acquario offre a tutto questo una risposta eccellente. L'acquario sarà di completamento per una esperienza turistica vissuta a Gerusalemme, un'esperienza che non ha uguali al mondo e invito tutti a visitare e a fruire di questa straordinaria città", ha detto Yariv Levin, ministro del Turismo di Israele.
Dopo otto anni di lavoro e un investimento complessivo di cento milioni di Scekel, l'acquario, di 6.000 mq, ha aperto con 30 vasche di varia grandezza, mostrando migliaia di pesci e creature marine provenienti dai mari delle coste di Israele, dal Mediterraneo, dal Mar Rosso e dal Mare di Galilea. L'acquario di Gottesman è l'unico acquario del mondo che si occupa del Mediterraneo e del Mar Rosso e uno degli obiettivi principali è quello di sensibilizzare in merito all'urgente necessità di mantenere e proteggere i pesci marini, i coralli, i mammiferi e gli altri animali delle acque circostanti.
"Il turismo verso Israele è in grandissima crescita. Di oltre il 30% è l'attuale trend positivo dall'Italia verso Israele, risultato eccezionale grazie anche all'attività di promozione del Ministero del Turismo di Israele in Italia - ha detto Avital Kotzer Adari, direttore dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo a Milano - Negli ultimi anni il turismo verso Israele ha visto una crescita individuale fino al 70% abbracciando vari settori che sempre di più si stanno promuovendo. Uno di questi è il turismo dedicato alle famiglie che visitando Gerusalemme troveranno nella novità dell'acquario un luogo meraviglioso che si potrà aggiungere alle eccellenze storiche e archeologiche della città".

(Travelnostop, 5 luglio 2017)


Qatar, ecco le controrichieste di Doha all'Arabia Saudita

ROMA - Nella crisi del Golfo, a sorpresa, Doha rilancia. E dopo aver definito "irrealistiche" le richieste dei Paesi del Golfo per il ripristino dei rapporti diplomatici, il Qatar mette nero su bianco a sua volta una serie di condizioni indirizzate ad Arabia Saudita e ai suoi alleati: se vogliono che le loro richieste vengano esaudite, debbono accettare controrichieste da parte di Doha.
Le risposte del Qatar al diktat di Arabia saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Egitto sono state consegnate ieri e oggi molti media arabi pubblicano una bozza della lettera di risposta inviata da Doha attraverso il Kuwait. Dove ad esempio per chiudere la tv Al Jazeera viene chiesta l'interruzione dei programmi di Al Arabiya, con sede centrale ad Abu Dhabi.
Ma ecco punto per punto la risposta del Qatar che sarebbe composta da 10 paragrafi:

 Relazioni con l'Iran
  Stando alla bozza il Qatar si dice di sposto a ridurre le relazioni diplomatiche con l'Iran "ma solo se tutti gli altri Paesi del Golfo faranno lo stesso ed espelleranno i cittadini iraniani". (Gli iraniani residenti nei Paesi del Golfo, sunniti, sono di prassi oppositori del regime di Theran, ndr.)
Doha, rilanciando, chiederebbe addirittura la rottura delle relazioni diplomatiche con Teheran comprese quelle economiche a condizione che anche gli altri Paesi, "in particolare gli Emirati Arabi Uniti procedano nella stessa direzione". L'Uae, secondo il Qatar, è il principale Paese importatore del Golfo di merci iraniane.

 Base turca a Doha
  Il Qatar si dice "pronto" a procedere alla chiusura della base militare turca sul proprio territorio "a condizione che tutti i Paesi del Golfo chiudano le basi militari straniere sui propri territori".

 Finanziamenti al terrorismo
  Riguardo l'accusa di finanziare organizzazioni terroristiche, il Qatar afferma di riconoscere solo quelle inserite nella lista delle Nazioni Unite precisando che "la Fratellanza Musulmana non è classificata tra i gruppi terroristici". Pertanto respinge l'accusa, ribadendo di "non sentirsi vincolato alla lista dei Paesi boicottanti (Arabia Saudita e alleati) sulle organizzazioni terroristiche e di volersi attenere unicamente alle liste dell'Onu".

 Rimpatrio esiliati
  Inoltre Doha avrebbe detto no anche alla richiesta di "rimpatrio di rifugiati politici o musulmani sunniti" (oppositori in particolare del governo egiziano) residenti sul proprio territorio, come richiesto dai Paesi del Golfo.

 Chiusura di Al Jazeera
  Sulla chiusura della sua emittente satellitare di punta, al Jazeera, il Qatar si mostra, secondo la bozza, irremovibile: no alla chiusura di qualsiasi organo media ufficiale o non ufficiale, sempre che gli altri Paesi non procedano a loro volta alla chiusura delle tv satellitari di proprietà saudita come al Arabiya, Sky News araba, al Hadath e MBC e di altre emittenti di proprietà egiziane. Solo in questo caso procederà con la chiusura di Al Jazeera.

 Risarcimenti
  Doha non solo declina la richiesta di risarcimento danni avanzata dai Paesi del Golfo, ma esige a sua volta indennizzi per "mancato guadagno a causa delle ridicole accuse" lanciate dai suoi rivali regionali.

 Controaccusa di tentato golpe
  Nella bozza il Qatar lancia accusa gli avversari di tentato golpe e afferma di non avere mai fatto "ingerenze negli affari interni dei Paesi del Golfo a differenza" in particolare degli Emirati, contro cui punta il dito per le trame che riguardano anche Kuwait e il Sultanato di Oman, dove Abu Dhabi "prepara in un golpe".

(askanews, 5 luglio 2017)


Acque tossiche, disastro ambientale in Israele

Disastro ambientale in Israele. Delle acque di scarico tossiche hanno devastato circa 20 km di territorio. L'inondazione è iniziata venerdì scorso (30 giugno) quando un serbatoio di 60 metri di altezza di una fabbrica di fosfati è parzialmente crollato, facendo defluire 100 mila metri cubi di acqua di scarico altamente acida nel letto del fiume Ashalim. Il corso tossico ha attraversato una parte del deserto distruggendo tutto quello che ha trovato sul suo cammino lasciando una striscia marrone e un odore nauseabondo. Il governo israeliano ha aperto un'inchiesta contro la Israel Chemicals, produttrice leader di potassio e fertilizzante proprietaria dell'impianto.

(La Stampa, 5 luglio 2017)


La comunità ebraica: «Il mondo islamico condanni gli attentati»

MILANO - Sono tanti gli spunti usciti dalla tavola rotonda "Antisemitismo e islamofobia: due facce della stessa medaglia?", che ieri - dentro la Sala Alessi del Comune - ha visto confrontarsi esponenti del mondo islamico ed ebraico.
Sul tema spinoso del terrorismo jihadista, Noemi Di Segni (presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche italiane) ha le idee chiare: «Ci aspettiamo dalla comunità islamica la condanna di ogni forma di terrorismo e antisemitismo. Anziché dire "anche noi subiamo", si deve dire "anche noi condanniamo"».
«Solo questo potrà ridurre gli atteggiamenti islamofobi» ha concluso Di Segni, sottolineando l'importanza - da parte delle comunità islamica ed ebraica - di svolgere un ruolo sociale. Richiesta che sembra essere stata recepita da Yahya Pallavicini (presidente del Coreis, comunità religiosa islamica), secondo il quale milizie jihadiste e califfati sono «false rappresentazioni della dottrina islamica». A detta dell'imam, «antisemitismo e islamofobia non sono due facce della stessa medaglia e non va fatta confusione». All'incontro - organizzato da Daniele Nahum e Coreis, col patrocinio del Comune - è intervenuto anche Sala, per il quale a Milano, in termini di integrazione, il clima è abbastanza sereno, perciò «può essere un avamposto di sperimentazione sociale».

(Libero - Milano, 5 luglio 2017)


Incontri di questo tipo sono sostanzialmente mistificatori. Il risultato percepito dal pubblico (e probabilmente voluto da alcuni) è che l’antisemitismo è soltanto un’espressione di generico razzismo, che l’islamofobia è un’altra variante di generico razzismo, per arrivare a dire (ma in quell’educato «avamposto di sperimentazione sociale» naturalmente non è stato detto) che la forma più grave e attuale di razzismo è il sionismo. A ribadire questo ci penseranno, in altri momenti e in altre sedi, apposite brigate combattenti negli «avamposti di guerriglia islamica». M.C.


Dopo 21 anni - La comunità ebraica di Firenze saluta il rabbino Levi

«Grazie Rav Levi per aver portato avanti, in questi anni, un percorso finalizzato ad accrescere il sentimento ebraico e la conoscenza». Il rabbino capo di Firenze e Siena Joseph Levi, dopo 21 anni di servizio, va in pensione (come anticipato ieri dal Corriere Fiorentino) e incassa il ringraziamento della comunità ebraica che gli riconosce anche «di aver fatto molto verso le altre confessioni religiose e nel rapporto con la città». Levi, però, lascia la guida della sinagoga di via Parini senza un successore tanto che il Consiglio della Comunità fa sapere di «aver intrapreso un percorso di ricerca di un nuovo rabbino capo». E in attesa di trovare una figura che metta tutti d'accordo «verrà designato un rabbino di riferimento come prevede lo statuto». (A.P.)

(Corriere Fiorentino, 5 luglio 2017)


Haaretz: l'intervento di Egitto ed Emirati potrebbe contenere la crisi di Gaza

GERUSALEMME - La rivalità tra il blocco conservatore sunnita, capeggiato dall'Arabia Saudita, e il Qatar, e quella tra l'Autorità nazionale palestinese (Anp) e Hamas, potrebbero in qualche modo attutire la crisi vissuta dagli abitanti della Striscia di Gaza, secondo un'analisi pubblicata dal quotidiano israeliano "Haaretz". La mediazione tra l'Anp e Hamas portata avanti dall'Egitto, col sostegno di Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita, potrebbe ridurre il rischio di un confronto armato con Israele. La frattura con il Qatar ha dato spazio all'Egitto per cercare di recidere definitivamente i legami tra Hamas e Doha, cui potrebbero subentrare gli Emirati Arabi Uniti, che hanno deciso di aumentare il sostegno finanziario a Gaza. La mediazione del Cairo poggia sulla richiesta ad Hamas di concessioni concrete sul fronte della sicurezza e del terrorismo, in cambio di una ulteriore riduzione dell'influenza dell'Anp su Gaza. Queste dinamiche, scrive il quotidiano, avvengono con il tacito consenso di Israele, che ha deciso di non farsi coinvolgere nella crisi tra i due partiti palestinesi: una crisi innescata dall'Anp di Mahmoud Abbas nei mesi scorsi, quando l'Anp ha annunciato la fine del sostegno ai prigionieri palestinesi di Hamas detenuti in Israele e il taglio delle forniture energetiche alla Striscia di Gaza. Subito dopo la rottura delle relazioni diplomatiche fra Qatar ed alcuni paesi arabi e del Golfo lo scorso 5 giugno, diversi leader di Hamas residenti a Doha sono stati costretti a lasciare l'emirato, dirigendosi in differenti paesi, tra cui il Libano.

(Agenzia Nova, 5 luglio 2017)


Italia-Israele, un calcio (anche) al pregiudizio

Rete!, di prossima uscita, porta in campo undici racconti sul pallone di scrittori dei due paesi

Il 5 settembre, a Reggio Emilia, le nazionali di calcio di Italia e Israele torneranno a sfidarsi in un nuovo incontro valevole per le qualificazioni ai Mondiali del 2018 in Russia. L'Italia, auspicabilmente ancora in lizza per la supremazia nel proprio raggruppamento (e quindi l'approdo automatico alla fase finale del torneo, senza passare dall'incognita degli spareggi). Israele, senza più velleità di qualificazione, per difendere comunque la propria dignità e dimensione di squadra di buon livello. Sfida sul campo, ma anche sfida tra diverse letterature. In prossimità dell'incontro infatti uscirà un agile e gustoso libretto, curato dal giornalista sportivo di Repubblica Marco Mathieu per Giuntina: Rete!. Si tratta del completamento di un progetto avviato lo scorso anno, quando proprio Mathieu aveva raggruppato dieci scrittori israeliani e italiani al Maxxi per un inedito Roma-Tel Aviv: Letteratura Football Club, sostenuto tra gli altri dall'ambasciata israeliana. Dieci racconti dedicati al pallone, una passione comune a tutti i protagonisti, che sono diventati appunto oggi questo libretto.
Per Israele allora erano scesi in campo Yonatan Berg, Assaf Gavron, Etgar Keret, Amichai Shalev e Noam Slonim. Per l'Italia invece Carlo D'Amicis, Cian Luca Favette, Carlo Grande, Giampaolo Simi e Francesco Trento. Dopo il match letterario, un incontro vero e proprio.
   "Questa storia - racconta il curatore - ha la forma di un pallone e la dimensione di un viaggio con tutte le parole in mezzo, per raccontarlo. Inizia una sera di primavera alla periferia di Tel Aviv dove come ogni domenica un gruppo di uomini che lavorano con le parole si ritrova ai margini del campo, più erba che terra, illuminato dai riflettori. Arrivano da diversi quartieri di Tel Aviv, ma anche da Gerusalemme e Haifa, scaricano borsoni e palloni dalle auto parcheggiate, si salutano, si cambiano, si scaldano e poi si dividono in due squadre da 11". Sceneggiatori, giornalisti, scrittori, editori: appassionati calcio che non si limitano a scriverne, ma con il pallone ci giocano e si sfidano, a dispetto di età, mezzi tecnici e tattici.
   Le città parlano, avverte Mathieu, basta ascoltarne le voci, i suoni, i rumori, Ma le città comunicano anche tra loro, se le fai raccontare dagli scrittori. Quelli con la passione per il calcio, per esempio. "Hanno una lingua in comune, con cui dribblare le distanze e smarcarsi da confini e incomprensioni. Perché condividono una piccola ma preziosa prospettiva fatta di gioco e di parole, che parte da un rettangolo di prato con le porte e finisce chissà dove. Magari sul palco di un teatro in mezzo agli studenti - riflette - oppure tra le pagine di un libro".
   Costruire qualcosa che vada oltre il campo e le pagine scritte, e che anzi le possa mettere insieme. Come in una storia, tutta da raccontare. E da giocare. L'idea è semplice, spiega Mathieu, e un anno dopo non solo funziona ma è diventata realtà. A Roma, tra un teatro, un campo e una scuola: una sfida in due tempi, con le parole e con il pallone, per far dialogare due città e due mondi. "Roma-Tel Aviv: Letteratura Football Club" si è giocato infatti prima al Maxxi, cinque racconti per parte, poi su un campo di Cinecittà, 11 contro 11. Nel mezzo, l'incontro con le ragazze e i ragazzi di una scuola media superiore del Prenestino ("coinvolta per sensibilità e affinità", dice Mathieu) perché qualcosa potesse rimanere ed essere declinato anche declinato al futuro. Oltre i gol e le letture, gli applausi e i sorrisi. E anche la vittoria contro qualche pregiudizio non semplice da sradicare. Così aveva commentato Mathieu lo scorso anno l'evento si pronto si riparla quanto quindi persone diciamo per inserire Ferragosto il referto medico spedire quelle lunghe uno letterale vigili finita la ringrazio buongiorno del Maxxi, partecipato da tanti giovanissimi: "Una serata bellissima e indimenticabile. Per la presenza di tanti giovani e perché c'è stato chi, alla fine, ha voluto ringraziarmi per averlo aiutato a capire quanto sbagliati fossero i suoi pregiudizi su Israele. Un risultato di cui vado orgoglioso".
   Con i racconti che da dieci nel frattempo sono diventati undici, come i componenti di una vera squadra di calcio: cinque di quella israeliana, altrettanti di quella italiana, uno della studentessa romana (Giada Vaiti) che più ha colpito Mathieu nella sua prova di narrazione breve. E con le città che si parlano, un ponte nel segno della cultura tra Roma e Tel Aviv.
   Attraverso la lingua universale del calcio.

(Pagine Ebraiche, luglio 2017)


Bravo Modi

Realpolitik e affari portano il pm indiano in Israele. Un messaggio politico.

 
Benjamin Netanyahu e Narendra Modi a colloquio
Narendra Modi atterrerà oggi a Tel Aviv, e sarà la prima volta che un primo ministro indiano andrà in visita di stato in Israele. Un viaggio storico, così come definito dalla maggior parte della stampa israeliana, proprio perché non solo legato al venticinquesimo anniversario delle relazioni diplomatiche tra le due democrazie. In ballo ci sono miliardi di dollari in accordi sulla Difesa, ma secondo Modi, intervistato l'altro giorno dall'Israel Hayom, l'amicizia tra i due paesi riguarda anche il settore tecnologico, particolarmente sviluppato da entrambi. Ma l'obiettivo reale è quello di "riaprire il dialogo costante con Israele, in un modo che possa migliorare le vite dei cittadini di entrambi i paesi". Il primo ministro indiano nel maggio scorso aveva incontrato il presidente dell'Autorità palestinese Abu Mazen a Nuova Delhi, eppure durante questa tre giorni in medio oriente sembra che non ricambierà la visita a Ramallah. E questo è un altro - l'ennesimo - segnale che l'India di Narendra Modi sta cercando di mandare al mondo, in un periodo particolarmente complicato nei suoi rapporti con il Pakistan e con la Cina: dopo la visita a Washington e l'incontro con il presidente americano Donald Trump, Nuova Delhi sta cercando partner strategici lavorando con pragmatismo politico e su interessi comuni. Eppure la visita in Israele è ancora più importante: è un messaggio politico, anche se non esplicitato, di vicinanza al paese più boicottato del mondo. Ed è anche per questo che, a differenza di molte altre visite di stato, il primo ministro Benjamin Netanyahu accompagnerà Modi per tutti e tre i suoi giorni di visita. Realpolitik, geopolitica e interessi, ma anche buonsenso.

(Il Foglio, 4 luglio 2017)


Incendiò la chiesa della moltiplicazione: ultrà ebreo giudicato colpevole di «crimine d'odio»

L'estremista, militante della «Gioventù delle Colline», presenterà ricorso: implicato in altri casi simili, ora rischia alcuni anni di carcere.

GERUSALEMME Un giovane estremista ebreo, Yinon Reuveni, è stato riconosciuto colpevole dal tribunale distrettuale di Nazareth di aver appiccato un incendio nel giugno 2015 alla Chiesa della moltiplicazione dei pani e dei pesci sul Mar di Galilea. Yehuda Asraf, pure lui un ultrà della "Gioventù delle colline", è stato invece scagionato dal giudice George Azulai.
   La pena di Reuveni che rischia alcuni anni di detenzione per essere implicato in altri episodi del genere sarà annunciata in seguito, ma il suo legale ha già anticipato che ricorrerà in appello alla Corte Suprema. Il giudice ha definito l'incendio «un crimine d'odio» dovuto ad una «ideologia estremista che mira a scardinare il regime democratico israeliano e ad avvicinare una pretesa "salvazione del popolo ebraico"».
   L'incendio alla chiesa dei pani dei pesci uno dei più importanti luoghi di pellegrinaggio in Israele fu visto come un attacco alla comunità cristiana locale. Su istruzione del premier Benjamin Netanyahu lo Shin Bet, il servizio di sicurezza interno israeliano, arrestò diversi ultrà della destra ebraica, ma in mancanza di prove concrete fu costretto arilasciarli. Lo stesso atto di accusa precisa che Reuveni condusse l'attacco alla chiesa con alcuni complici che non sono stati ancora individuati. La pubblica accusa ha comunque espresso soddisfazione perché, ha spiegato, in crimini del genere è molto difficile raccogliere prove sufficienti a giungere ad una condanna in tribunale.

(Avvenire, 4 luglio 2017)


Il rabbino in pensione dopo 21 anni. Addio con strappo. E sede vacante

Annullata la festa di saluto in via Farini, la comunità di Firenze cerca il successore di Joseph Levi

di Edoardo Lusena

Joseph Levi, 71 anni, è stato nominato rabbino capo della comunità ebraica fiorentina nel 1996 Dopo numerosi rinvii il suo mandato si è concluso in questi giorni dopo 21 anni di servizio

FIRENZE - Non ha voglia di parlare Joseph Levi, declina con cortesia la richiesta di un'intervista. E già questo è singolare, dopo ventuno anni in cui l'ormai ex rabbino capo di Firenze ha fatto del dialogo uno dei segni distintivi della sua attività. Con tutti, dalla Chiesa cattolica - suo interlocutore diretto l'arcivescovo di Firenze, il cardinale Giuseppe Betori - all'islam, con frequenti incontri e scambi di vedute con l'imam Izzedin Elzir, presidente dell'Unione delle comunità islamiche italiane. Ma stavolta, all'indomani della fine del suo incarico da rabbino di via Farini, non vuole tracciare un bilancio cli questi anni. «Tra un mese, forse, vedremo ... ».
Rav Joseph Levi
   Anche la comunità ebraica fa sapere che oggi sarà diffuso un comunicato ma fino ad allora il presidente, Dario Bedarida, si limita a dire che «sì, il consiglio sta valutando alcune candidature e si augura che i tempi siano brevi perché la comunità non può stare a lungo senza una guida».
   Un addio, insomma, che si consuma nel silenzio o quasi. Non solo: per domani era stato pensato un appuntamento pubblico di saluto della piccola comunità fiorentina (che conta circa 900 iscritti) e delle istituzioni al suo rabbino, ma l'appuntamento è stato cancellato. Ufficialmente è stato rinviato per gli impegni di Levi, si dice, alle prese anche con il trasloco dall'appartamento concesso nelle vicinanze della sinagoga.
   Ma come si spiega tutto questo dopo ventuno anni? Con la fine di una lacerazione che da piccola che era si è trasformata in uno strappo. Tutto era iniziato nel 2011 quando la comunità - in quello che aveva tutta l'apparenza di un braccio di ferro - scelse una via inedita per la sostituzione, ufficialmente necessaria per «raggiunti limiti di età» e pubblicò un avviso pubblico a manifestare l'interesse per l'incarico di rabbino capo. Levi, che appena qualche mese prima, proprio su questo giornale aveva detto «Non lascio, Firenze è la mia città, vorrei restare qui per almeno altri 15 anni», iniziò una resistenza a colpi di carte che finì sui tavoli dell'Ucei (l'unione delle comunità ebraiche) prima, e su quelli dell'Inps poi. Insomma, quei «raggiunti limiti di età» tanto raggiunti non erano e così di proroga in proroga si è arrivati, nonostante i mal di pancia, fino a oggi. Il giorno in cui, a 71 anni compiuti lo scorso febbraio, Levi lascia la guida della sinagoga di via Parini (e la giurisdizione su Arezzo, Prato, Pistoia e Siena), ma senza un successore. Nonostante ci siano esempi come quello del rabbino di Ferrara, Luciano Caro, in carica a 82 anni. Certo, In ventuno anni Levi a Firenze ha unito e diviso (tra chi lo riteneva troppo riformista, per le tante aperture alla città e alle altre fedi, e chi troppo conservatore, ad esempio per il suo richiedere studio e impegno massimo per le conversioni).
   Quel che è certo è che il consiglio è al lavoro, tramite un'apposita commissione ristretta appositamente insediata, e sta valutando una rosa di nomi, sarebbero 6 o 7, di cui farebbero parte anche dei candidati non italiani, prassi affatto insolita e con alcuni esempi già rodati in Italia. Ma sembra difficile che il successore di Jospeh Levi sbarchi in via Farini prima di settembre. Anzi. Nel frattempo l' «ordinaria amministrazione» del culto sarà affidata al cantore di Firenze (una sorta di numero due), Umberto Forti, e al rabbino di Siena Crescenzo Piattelli. Ma le festività autunnali si avvicinano e per la comunità ebraica di Firenze si è ufficialmente aperta la corsa contro il tempo.

(Corriere Fiorentino, 4 luglio 2017)


Nel nuovo Ancien régime è vietato criticare l'islam. Condannato Zemmour

Aveva detto che "l'islam moderato non esiste"

di Giulio Meotti

ROMA - La polemica era partita con il suo intervento nel settembre di un anno fa alla trasmissione "Cà vous'' di Arme Sophie Lapix. Eric Zemmour viene subito citato in giudizio presso la sezione diciassette del Tribunale di Parigi. Deve rispondere del reato di "incitamento alla discriminazione e all'odio contro le persone di fede musulmana". A fargli causa l'associazione EuroPalestine, che aveva accusato Zemmour di "generalizzare" su islam e terrorismo. A mettere nei guai il giornalista e scrittore francese alcune frasi, come quella sui musulmani che "devono scegliere tra l'islam e la Francia", che "il jihad è un dovere religioso", che "i musulmani considerano i jihadisti come buoni musulmani" e che "l'islam moderato non esiste". Tesi sindacabili in una democrazia pluralista europea a libera circolazione delle idee, oltre che delle merci e delle persone. Ma diventate ormai insindacabili e indiscutibili nella doxa mediatico-giudiziaria che sta prendendo piede in Francia. Così, Zemmour è stato condannato per incitamento all'odio e a una multa di cinquemila euro. Ben ottomila spettatori della trasmissione si era sentiti offesi e avevano protestato presso il Consiglio di stato per gli audiovisivi.
Non è la prima condanna che Zemmour subisce per le sue idee sulla Francia e l'islam. Nel 2014, in un'intervista al Corriere della Sera, Zemmour aveva detto che "i musulmani hanno un loro codice civile, è il Corano. Vivono tra di loro, nelle periferie. I francesi sono stati costretti ad andarsene". Nel 2007 fu Charlie Hebdo a finire alla sbarra. I giornalisti francesi furono assolti, ma ci pensarono i jihadisti a farli tacere per sempre (in tre anni, non una sola vignetta su Maometto e l'islam è stata pubblicata dal settimanale satirico). Nel 2013, la rivista Valeurs Actuelles venne condannata per "discriminazione" verso i musulmani per aver pubblicato in copertina la Marianna velata (duemila euro di multa). L'anno dopo è la volta di Renaud Camus, condannato a pagare cinquemila euro per "istigazione all'odio" per la sua teoria della "Grande Sostituzione". Zemmour, che i ministri socialisti hanno sconsigliato di leggere e il Movimento contro il razzismo e per l'amicizia tra i popoli e il Club Averroes (associazione di professionisti dei media per promuovere la diversità) hanno denunciato all'Authority francese per radio e tv, è stato trascinato una decina di volte in tribunale. Un anno fa, gli era andata bene quando in una intervista di copertina col mensile Causeur si era rifiutato di qualificare i terroristi dell'Isis come "menti deboli", prima di lasciarsi andare: "Io rispetto le persone disposte a morire per ciò in cui credono". Zemmour era poi finito in aula per aver detto che "le grandi invasioni dopo la caduta di Roma sono sostituite da bande di ceceni, zingari, kosovari, africani". Quando nel 2011 Zemmour fu trascinato per la prima volta in tribunale dalle organizzazioni antirazziste e islamiche, trenta deputati dell'Ump avevano costituito il "Collettivo per la libertà di espressione" denunciando il processo come degno dell'"Ancien régime". "Con la scusa del razzismo, un giornalista è costretto al silenzio per esprimere un parere", avevano detto i 28 firmatari, che avevano parlato di "azione legale che imbavaglia la libertà di espressione da parte dei tiranni della dottrina dell'antirazzismo. Viene sepolto Voltaire". Zemmour è soltanto il più noto dei giornalisti e intellettuali francesi portati in tribunale per rispondere del nuovo reato intellettuale: "Discours de haine". C'è una lista impressionante di nomi, da Georges Bensoussan a Pascal Bruckner. E' lì, nel paese dove il dibattito sull'islam e l'integrazione fermenta di più, che si concentra il fuoco dei taglialingue. Se tace la Francia, sarà "risolto" anche nel resto d'Europa il dibattito sull'islam.

(Il Foglio, 4 luglio 2017)


GreenMedSummit, ponte tecnologico tra italia e Israele

ROMA - Costruire un ponte tecnologico tra le piccole e medie imprese italiane e le aziende innovative di Israele, che è definita la "start up Nation" per la quantità e qualità dei suoi ricercatori, dei suoi centri di ricerca e delle sue imprese tecnologiche: è questo l'obbiettivo di GreenMedSummit, un evento che si propone di far incontrare imprese italiane e israeliane il 12-13 settembre prossimo durante la manifestazione Watec a Tel Aviv.
"Tra Italia e Israele - dice Paolo Sabbadini, rappresentante in Italia di Cukierman Investment House, una delle principali banche d'affari israeliane, co-organizzatrice dell'evento - ci sono importanti relazioni istituzionali e commerciali. L'Italia è uno dei partner economici più importanti per Israele e per quanto riguarda Cukierman noi crediamo che l'Italia possa avere ottime opportunità. Il nostro fondo investe soprattutto in attività innovative e crediamo che il connubio tra imprese italiane, forti dal punto di vista industriale e commerciale e imprese israeliane innovative possa dare un importante impatto a un fondo come il nostro."
"Le Pmi italiane - dice Francesco Marcolini, ad di GreenHill, società di marketing internazionale - dovrebbero essere interessate a Israele perché possono entrare in un mercato molto competitivo sia per vendere tecnologia, sia per acquistarla, sia soprattutto per creare joint venture per andare insieme sui mercati internazionali o per partecipare insieme a bandi: per esempio sta per uscire un bando della Farnesina per investimenti innovativi italo-israeliani che può finanziare fino al 50% dell'investimento".
"Abbiamo scelto Watec, una delle principali fiere idriche e ambientali - dice ancora Sabbadini - perché è un settore molto sentito anche in Italia e non riguarda solo le aziende idriche, si parlerà molto ad esempio anche di sicurezza informatica, poi perché vi partecipano delegazioni da tutto il mondo con oltre 10 mila operatori. GreenMed è promosso da Assolombarda, Unindustria e ministeri italiani e isaeliani. Le imprese parteciperanno al gala dinner dove potranno incontrare tutte le delegazioni straniere e poi ci saranno visite ai centri di ricerca israeliani e incontri di business tra imprese italiane e israeliane".
"Per partecipare - conclude Marcolini - le imprese debbono andare sul sito www.greenmedsummit.com, compilare il modulo di partecipazione e inviarlo entro il 21 luglio. Le imprese del Lazio possono andare sul sito www.laziointernational.it perché la Regione ha previsto una serie di agevolazioni specifiche per loro. Invito tutte le imprese interessate a partecipare".

(RDS, 4 luglio 2017)


Il ministro israeliano Lieberman rivolge un avvertimento a Damasco

GERUSALEMME - "Israele non ha alcuna intenzione di entrare in conflitto con la Siria, ma consigliamo ai nostri vicini di non metterci alla prova". Lo ha dichiarato domenica il ministro israeliano della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman, durante una conferenza stampa presso la sede del suo dicastero a Tel Aviv. L'avvertimento segue le tensioni della scorsa settimana nel Golan, quando diversi colpi di mortaio esplosi dalle forze di Damasco e dai ribelli qaedisti di organizzazioni come Hayat Tahrir al-Sham,in lotta per il controllo di al Baath, sono caduti oltre il confine israeliano.

(Agenzia Nova, 3 luglio 2017)


Londra. Non credi al Gender? Ti chiudo la scuola ebraica

Trascura le tematiche gender: scuola ebraica di Londra rischia la chiusura.

di Emmanuel Raffaele

LONDRA, 30 giu - Una scuola ebraica di Londra rischia la chiusura dopo aver "fallito" la terza ispezione dell'anno da parte dell'Ofsted (Office of Standards in Education) a causa di una carenza negli insegnamenti su temi lgbt e riassegnazione di genere. Si tratta della Vishnitz Girls School, istituto privato femminile di impronta ortodossa, situato nel borgo di Hackney, nel nord-est della capitale inglese, che ospita 212 alunne dai tre agli otto anni la cui prima lingua è, in molti casi, lo yiddish.
   Secondo il rapporto degli ispettori che hanno fatto visita alla scuola, gli insegnamenti non risponderebbero agli standard contenuti soprattutto nell'Equality Act del 2010, impedendo così alle bimbe di introiettare i "valori fondamentali britannici", privandole di indicazioni precise su questioni come "l'orientamento sessuale". Tutto ciò, secondo gli ispettori, "limita la crescita spirituale, morale, sociale e culturale degli alunni e non promuove l'uguaglianza di opportunità in un modo che tenga conto dei differenti stili di vita". La direzione scolastica avrebbe da parte sua ammesso di non aver avuto particolare cura di trattare le tematiche in questione e non sarebbe peraltro l'unica, dal momento che altre sei scuole di ispirazione religiosa non avrebbero superato la verifica nelle ultime settimane, stando a quanto riferiscono il Telegraph e il Jerusalem Post.
   Le scuole private, infatti, pur non essendo vincolate a seguire i programmi delle scuole pubbliche, sono comunque costrette a rispettare appunto alcuni standard minimi. "Finalmente l'Ofsted ha chiarito che esiste una gerarchia precisa nell'Equality Act, con l'orientamento sessuale e la riassegnazione di genere al vertice", ha protestato Gill Robins, esponente del Christians in Education campaign group. "Non importa quanto valga qualitativamente la tua scuola [la scuola in questione ha una retta di oltre 5mila sterline l'anno, ndr] sotto ogni altro aspetto - è sufficiente rifiutarsi di insegnare a bambini molto piccoli questioni come la riassegnazione di genere per costringerti a chiudere", ha scritto in un post sul suo blog.
   La questione della "sensibilizzazione" alle tematiche legate all'orientamento sessuale, in effetti, non è certo nuova in Gran Bretagna e, non molto tempo fa, intervistata da Sky, ne aveva sottolineato l'importanza anche Justine Greening, segretario di Stato per lo Sviluppo internazionale ed esponente del partito conservatore attualmente al governo (a testimonianza di un approccio bipartisan), che aveva spiegato: "non si tratta di educazione sessuale ma di educazione relazionale". Un falso concetto di uguaglianza, dunque, sta alla base di insegnamento che impongono alle scuole - sempre più anche nel nostro Paese - di raccontare ai bambini la favoletta del genere sessuale come costruzione sociale, per far contente le lobby ideologizzate omosessualiste.

(Kolot, 3 luglio 2017)


"... per far contente le lobby ideologizzate omosessualiste." «Guai a quelli che chiamano bene il male, e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l'amaro in dolce e il dolce in amaro!» (Isaia 5:20).


Ondata di caldo su Israele, temperature oltre la media

Israele è alle prese con un'ondata di caldo con temperature definite dagli esperti molto al di là della media anche per la regione.

di Antonella Petris

Israele è alle prese con un'ondata di caldo con temperature definite dagli esperti molto al di là della media anche per la regione. L'esercito israeliano, secondo i media, ha persino annullato per oggi una serie di esercitazioni per timore dell'ondata di calore. "In alcune aree - ha detto il meteorologo Tzachi Waxman - le temperature stanno arrivando a valori estremi che non sono normalmente raggiunti". Secondo la stessa fonte, la colonnina di mercurio salira' fino a 47 gradi nella Valle del Giordano, sul Mar Morto e nell'Arava', nel sud di Israele. A Tel Aviv la forte percentuale di umidita' sulla citta' porta la percezione del calore a 40 gradi.

(Meteo Web, 3 luglio 2017)


Dal mensile evangelico "Il Cristiano" (1888-2017)

Continuiamo la pubblicazione di notizie e commenti tratti dal mensile evangelico "Il Cristiano".

MAGGIO 1896
Gli Ebrei tornano in Palestina
 
Togliamo alcuni tratti da una corrispondenza da Berlino al Corriere della Sera di Milano, intitolata lo Sionnismo, e li presentiamo ai lettori del periodico il Cristiano, convinti che l'interesseranno, perchè riguardano il più importante adempimento delle Scritture profetiche. Ecco come comincia la suddetta corrispondenza: «Non v'erano abbastanza questioni nel mondo. Eccone una nuova: La fondazione di uno Stato israelita.»
   L'autore della corrispondenza che ci occupa chiama nuova questa quistione, perchè un uomo di gran fama fece recentemente la proposta di fondare uno Stato israelita, il che fece parlare assai in questi giorni; ma osserva altresì che il movimento da cui derivò questa proposta non è nuovo, sibbene cominciò da molti anni, a causa delle persecuzioni fatte agl'Israeliti.
   «L'antisemitismo (cioè il mondo persecutore degli Ebrei, dice il suddetto corrispondente) fece quel che forse nessun Congresso di diplomatici avrebbe potuto fare,» per la preparazione dello Stato israelita. «Si martoriavano gli Ebrei nella Russia? Ebbene essi rispondevano rivolgendo gli sguardi alla patria de' loro maggiori. Anzi, il movimento che tende a Sionne - come a nuovo faro di salvezza - si accentua da allora. Nel 1882, mentre le plebi moscovite uccidevano gli Ebrei e ne saccheggiavano le case - aizzatore il Governo - gli studenti dell'Università di Cherson abbandonavano gli studi e correvano entusiasti in Palestina a farsi agricoltori; e gli Ebrei di Odessa davano i mezzi per fondare una colonia presso Giaffa; e perchè nell' animo de' profughi, come in quello de' rimasti in balia dell'arbitrio, al sentimento religioso si aggiungesse anche un sentimento nazionale. Leghe operose e non scarse di mezzi incoraggiavano il rifiorire di una letteratura ebrea.»
   Qui il corrispondente dice che vennero tradotti in ebraico i sommi classici del mondo, ed esimi autori scrissero e scrivono originariamente in lingua ebraica. Poi prosegue:
   «Perchè un movimento possa chiamarsi veramente pratico, politico, più che de' poeti e de' letterati esso ha bisogno di giornalisti. Il giornalismo ebreo - di giornali scritti nella lingua de' profeti - nacque nel 1856.»
   Nomina qui un giornale settimanale scritto in ebraico in Prussia; ne nomina un altro sorto nel 1861 in Odessa; un altro nel 1868 a Vienna; poi parla di due altri giornali quotidiani ebraici esistenti attualmente in Russia; finalmente parla degli ebrei espulsi dalla Russia e raccoltisi in America, dove fan propaganda di socialismo nella lingua di Davide.
   Osserva però che i giornalisti tedeschi riformatori, come pure gli ortodossi, opinano che la religione ebraica deve finire col fondersi con la cristiana, la quale attende pure un Messia e con esso un'era d'una umanità tutta quanta, saggia e pia. Questa - tacendo de' riformatori increduli - è infatti l'idea dei cristiani delle varie denominazioni in generale, cioè, che l'adempimento del regno messianico promesso dalla Scrittura ad Israele, consista nella conversione e sottomissione di tutto il mondo in generale all'Evangelo, e non nel ritorno di tutti gli Ebrei in Palestina, ad abitarla quale loro Stato, come al tempo di Davide e di Salomone. Ma a noi piace di sentire il medesimo corrispondente ad asserire che la propaganda sionnitica non fa per questo meno il suo cammino.
   Parla di «sodalizi israelitici che studiano dal lato politico il modo da seguire per acquistare la loro Sionne, ed accendono d'entusiasmo molti giovani, ed il giornale lo Zion ne propaga l'idea. A Vienna, tre società di studenti ebrei rinfocolano questa speranza, rintuzzando gl'insulti della studentesca antisemita e preparandosi a riconquistare la patria de' loro avi, non solo con la penna, ma con la spada. Accenna a quaranta società israelitiche di varie nazioni, qualcuna anche di donne. Due anni fa - dice - quando soltanto delegati delle varie società si raccolsero a Leopoli, si potè constatare che cotesti ebrei vagheggiano una Sionne, in cui la religione sia cosa privata, e si possano attuare molte riforme che nella vecchia Europa ancora paiono sogni.»
   Secondo la veduta di quest'erudito corrispondente insomma, l'aspirazione degli Israeliti stessi non sarebbe di riacquistare lo Stato dei loro antichi con un Governo teocratico come quello di Davide e di Salomone, ma democratico, conforme lo spirito del tempo. Dominato da questa sua idea, egli fa rilevare che nelle dodici colonie fondate da tedesco-polacchi, tutto è improntato a quello che dicesi cultura europea; e che in altre venti colonie lavorano quattromila ebrei cui Edmondo di Rothschild diede un campo, una casa, un aratro ed ivi - dice un viaggiatore di recente ritornato di colà - «tutto è ordine, pulizia, progresso. Nella colonia di Sichron Jacob vi è l'acqua nelle case, la irrigazione nei campi, le vie paiono boulevards, ed i palazzi ed i tempi, monumenti. Ebrea è la lingua d'insegnamento nelle scuole; ebraico il giornale più letto; e questo giornale, il Hazevi, è radicale... L'idea sionnitica... vive e si propaga... per la ricostituzione di uno Stato ebreo, d'una Palestina civile, liberale, repubblicana, modello alle genti.»
   Che la Palestina, con la sua grande Gerusalemme capitale, abbia a divenire uno Stato modello alle genti, noi più che scorgerlo dai grandi movimenti israelitici, come lo preveggono i dotti osservatori di questo mondo benchè increduli, ne siamo accertati, perchè lo dice chiaramente la parola di Dio (Is. LX, 3, 5; Ap. XXI, 34); ma siamo del pari accertati che non diverrà uno stato repubblicano, nè tampoco irreligioso, perchè la parola infallibile ci dichiara che sarà un Regno, non pur monarchico, ma teocratico, il cui Re sarà il Signore, e tutte le genti l'adoreranno (Zacc. XIV, 16). Nè questo Regno consisterà nella conversione di tutto il mondo all'Evangelo, come intendono i predicatori protestanti, ma sarà formato dai soli fedeli che scamperanno dalla distruzione che Gesù Cristo verrà a fare del mondo empio (Zacc. XIV, 16). Tutti gli Ebrei sparsi per tutta la terra debbono andare ed a loro tempo andranno in Palestina, perchè così sta scritto (Is. XI, 12), ma pochi saran salvati, perchè sta pure scritto: « Avvegnachè il tuo popolo, o Israele, fosse come la rena del mare, il sol rimanente sarà salvato (Is. X, 22; Rom. X, 27).» Quando tutti saranno in Palestina, si presenterà loro, avanti Cristo, l'Anticristo, che, dicendosi il Messia che essi aspettano, seconderà i loro appetiti, e la massa del popolo lo accetterà (1), tosto essa verrà col mondo distrutta dal vero Cristo, che sopraggiungerà (I Tess. V, 3; Ap. XIX, 11-21), e i soli fedeli, insegnati da profeti che manderà appositamente Iddio (Ap. XI, 3), saranno salvati e godranno le benedizioni terrestri nel Regno di Cristo (Os. II, 21, 22; Zacc. VIII, 12, 13).
   Ora, se il gran movimento israelitico in vista del Regno di Sion interessa e fa parlare tanto i pensatori del mondo, che non aspettano l'adempimento delle divine profezie, non credendole divine, quanto più dovrebbe interessare i figliuoli di Dio, che avanti il completo adempimento di ciò aspettano il Signore, sapendo che appariranno con lui in gloria (Col. III, 1-4)? Non è forse questo gran movimento attuale uno spiccante segno che il tempo della loro aspettazione volge alla fine? Noi non ne fìssiamo il tempo, chè non istà a noi, ma diciamo che il movimento in discorso fa pensare, che la fine non sia molto lontano. Sono gli stessi increduli, ma dotti nel mondo che ne testimoniano.
   Esortiamo i fratelli a studiare e considerare le profezie riguardanti il ritorno degli Ebrei in Palestina, ed i segni che già si manifestano, sia per fondarsi e fortificarsi maggiormente nella fede, e sia per aver argomenti da turar la bocca a' contraddicenti della santità della nostra fede stessa, addimostrando loro per questi segni la divinità della parola, nella quale crediamo.
G. MENSI

(1) Allora Gerusalemme, già distrutta perchè in essa è stato crocifisso il Signore, sarà riedificata e diverrà bensì la gran città del mondo, ma spiritualmente sarà una Sodoma in corruzione, ed un Egitto in idolatria (Ap. Xl, 8).

(Notizie su Israele, 3 luglio 2017)


Apre a Parigi il più grande incubatore di start up al mondo

Station F, ideata da Xavier Niel, fondatore di Iliad, e inaugurata da Emmanuel Macron, può ospitare 1000 aziende innovative, candidando la capitale francese a diventare la Silicon Valley europea

di Carlo Lavalle

 
Emmanuel Macron, neo presidente della Repubblica francese, ha inaugurato qualche giorno fa a Parigi Station F, il più grande incubatore di start up al mondo.
Si tratta di un enorme impianto di 34mila metri quadrati, situato nell'area di un vecchio deposito ferroviario, lungo le rive del fiume Senna. Station F, in grado di ospitare 1000 start up e di attrarre i migliori talenti tech, è il principale incubatore dei 40 già realizzati nella capitale francese, che si candida a conquistare la leadership dell'innovazione tecnologica in Europa, in diretta concorrenza con Londra e Berlino.

 Ecosistema per start-up
  Parigi, sotto la guida del sindaco Anne Hidalgo, punta a creare un vero e proprio ecosistema favorevole all'avvio di imprese innovative con il supporto di investitori e servizi pubblici. Nel 2016, la Francia ha mostrato un forte dinamismo nel campo delle start up, ricevendo quote di investimenti da record (business angel, capitale di rischio e fondi internazionali), pari a quelli ottenuti da Israele e vicino ai livelli della Gran Bretagna. Il paese può vantare storie di successo come Blablacar, piattaforma per la condivisione delle auto, OVH, società di web hosting, entrate nell'Olimpo delle Unicorn (start up valutate oltre 1 miliardo di dollari), Deezer, servizio di musica in streaming o Criteo, azienda che opera nella pubblicità.
In questa fase di boom, nasce Station F, un progetto ideato e finanziato con oltre 200 milioni di euro da Xavier Niel, imprenditore miliardario, pioniere dell'innovazione nel settore delle telecomunicazioni, fondatore del gruppo Iliad. A dirigere la struttura, invece, è stata chiamata la 32enne manager di origine americana Roxanne Varza. La quale ha spiegato come l'incubatore sia stato concepito come un campus universitario, diviso in tre parti : con spazi per eventi e coworking, sale per riunioni e incontri, aree di lavoro, uffici, fablab, e un auditorium.

 Sostegno di Microsoft, Facebook e Amazon
  Station F gode anche del sostegno di big tech come Amazon, Facebook e Microsoft che sfrutterà l'incubatore francese per il lancio di un nuovo programma per lo sviluppo di start-up di intelligenza artificiale. «Questa è la nostra Silicon Valley», ha dichiarato in occasione dell'inaugurazione Gaelle Madelin-Girardeau, ex Google, co-fondatrice e presidente di Cood, piattaforma di e-learning.
Una frase eloquente che dimostra come Parigi, disputando il primato a Londra, sia mossa dall'ambizione di raggiungere una posizione di vertice su scala continentale grazie allo spirito innovatore di una nuova leva di imprenditori. Con il conforto del nuovo presidente Macron che ha assicurato 10 miliardi di euro di nuovi finanziamenti all'innovazione. Perché La Francia, queste le sue parole, «dovrà essere sempre più un paese che pensa e agisce come una start-up».

(La Stampa, 3 luglio 2017)


Arriva in Europa il pannello solare israeliano a forma di albero

Arriva in Europa il pannello solare israeliano a forma di albero. È stato recentemente inaugurato a Nevers in Francia un albero solare con gigantesche foglie quadrate che converte la luce solare in energia elettrica, permettendo ai passanti di caricare i propri smartphone, navigare in internet o semplicemente godere di un po' d'ombra. Tutto ciò è possibile grazie alla startup israeliana SOLOGIC la quale è riuscita ad integrare l'abbondante energia rinnovabile, quale è il sole, con il mercato domestico e industriale. Il progetto si chiama eTree ed è un albero artificiale polifunzionale che attinge l'energia dai suoi pannelli solari. Questa scultura urbana eco-friendly di 4,5 metri di altezza e 1,5 tonnellate di pesantezza ha 7 pannelli solari che agiscono come foglie.
Operando come una piccola stazione di produzione di energia solare, eTree crea energia sufficiente per soddisfare cinque requisiti principali:
  • ricaricare smartphone e tablet;
  • fornire un accesso wifi libero e gratuito;
  • illuminare il suo ambiente durante la notte;
  • fornire acqua fresca e potabile;
  • connettere gli utilizzatori di eTree da ogni parte del mondo.
Nevers, sul fiume Loira, è la prima città in Europa a sperimentare la tecnologia sviluppata dall'israeliana SOLOGIC.
Ispirato dall'albero di acacia che si trova nel deserto israeliano e nella savana africana, l'eTree è una tecnologia futuristica. Il prototipo è stato presentato in Israele nel 2014. Da allora, gli alberi solari piantati sono circa 10 tra Israele e Stati Uniti e per la prima volta sono giunti in Europa.

(SiliconWadi, 3 luglio 2017)


Egitto: nuovo incontro con una delegazione di Hamas

Una delegazione di Hamas in visita al Cairo per discutere con la controparte egiziana. Tra i temi all'ordine del giorno le condizioni per la fornitura di energia elettrica nella striscia di Gaza e le misure di sicurezza al confine tra i due Paesi.
Una delegazione del movimento islamico di resistenza, più nota con il nome di Hamas, si è recata domenica 2 luglio al Cairo per discutere degli strumenti applicativi delle intese raggiunte qualche settimana fa nella capitale egiziana, riguardanti, in particolare, la sicurezza dei confini ed il rifornimento di energia elettrica a Gaza.
Secondo il giornale Al-Jazeera, la delegazione, composta da 17 membri, farà presente alla controparte egiziana le esigenze di Gaza, nella speranza che l'incontro porti a soluzioni concrete, considerando la crisi che sta affliggendo l'area.
Il portavoce del Ministero degli Interni a Gaza, Iyad Bezm, ha affermato che la delegazione porterà al Cairo la richiesta che l'Egitto metta a disposizione gli strumenti necessari per rendere sicuro il confine con la Palestina.
La delegazione è stata descritta come "tecnica" ed include responsabili del Ministero degli Interni, dell'Economia, della Salute e dell'Autorità per l'Energia.
Già lo scorso 4 giugno, una delegazione, guidata dal leader di Hamas, Yahya Sinwar, si era recata al Cairo per discutere con il capo dei servizi segreti egiziani ed il leader destituito di Al-Fatah, Mohammed Dahlan, le condizioni di un'intesa volta a risolvere la crisi di Gaza.
Dopo l'incontro, l'Egitto aveva inviato a Gaza il carburante necessario per rimettere in moto l'unica centrale elettrica ivi presente ed aveva supportato Hamas nella creazione di una zona cuscinetto lungo il confine con l'Egitto, necessaria per controllare il confine.
La zona cuscinetto, la cui costruzione è iniziata lo scorso 28 giugno, costituisce soltanto la prima fase dell'attuazione delle misure di sicurezza concordate con l'Egitto, che comprendono anche la creazione di una strada della lunghezza di 12 chilometri nel confine meridionale, l'installazione di telecamere di sicurezza e di torri di controllo e di un sistema di illuminazione per tutta la lunghezza del confine.
In occasione della visita al Cairo, inoltre, i responsabili di Hamas, ribadendo il miglioramento dei rapporti con l'Egitto, avevano chiesto l'apertura permanente del valico di Rafah per risolvere il blocco imposto a Gaza il 7 giugno 2007, quando, in seguito ai combattimenti tra Fatah ed Hamas, l'Egitto aveva chiuso tale frontiera, temendo il passaggio di militanti di Hamas nel suo territorio.
- Traduzione dall'arabo e redazione a cura di Laura Cianciarelli

(Sicurezza Internazionale, 3 luglio 2017)


Acqua dal mare e niente sprechi. Così Israele ha battuto la siccità

Cinque impianti di desalinizzazione soddisfano quasi la metà dei consumi. E l'agricoltura è diventata la più ecologica al mondo: i segreti di un modello.

di Maurizio Molinari

 
L'impianto di desalinizzazione di Soreq
Esteso quanto sei campi da calcio, collegato al Mar Mediterraneo da una rete di tubi di 2,5 metri di diametro e in grado di produrre 624 mila metri cubi di acqua al giorno: è l'impianto di desalinizzazione di Soreq, ovvero il gioiello di tecnologia idrica che ha consentito a Israele di sconfiggere la siccità.
  Inaugurato nel 2013 a circa 10 km a Sud di Tel Aviv è «il più grande e avanzato impianto di desalinizzazione del Pianeta» spiega Avshalom Felber, ad di Ide Technologies che lo ha realizzato, e consente di produrre l'acqua potabile necessaria a un sesto degli otto milioni di abitanti del Paese con un sistema realizzato sulla base degli studi di Sidney Loeb, scienziato americano nato nel 1917 a Kansas City, immigrato a Beersheba nel 1967 e inventore dell'«osmosi al contrario». Il risultato sono forniture per un costo massimo di 500 dollari annui a famiglia.
  Per capire come funziona basta affacciarsi sui grandi silos che compongono l'impianto: l'acqua del Mediterraneo viene aspirata da tubi giganti, filtrata attraverso «membrane» hi-tech che la trasformano in acqua potabile, ottenendo dei residui salini - la «brina» - che vengono restituiti al mare. È così che Israele ottiene il 20% dell'acqua necessaria alle città che, sommata agli altri impianti simili realizzati a Ashkelon, Palmachim, Hadera e Ashdod - l'unico ancora in costruzione - somma il 40% del fabbisogno nazionale, destinato a diventare il 70% nel 2050.

 Le contromisure
  L'accelerazione sulla desalinizzazione risale al 2007 con la creazione di un'«Autorità delle Acque» che si rese necessaria per trovare una risposta alla siccità record dei 6 anni precedenti e consente oggi allo Stato ebraico di emanciparsi da questo pericolo è perché, sottolinea Gidon Bromberg direttore dell'associazione ambientalista «Americi della Terra in Medio Oriente», «si somma ai risultati nel riciclaggio delle acque e di una riduzione delle perdite». La capacità di riadoperare le acque già usate tocca l'86% del totale - un record assoluto, basti pensare che al secondo posto c'è la Spagna con il 17% mentre gli Stati Uniti sono fermi all'1 - andando a coprire il 55% del fabbisogno totale dell'agricoltura grazie a declinazioni innovative dell'alimentazione a goccia simili a quelle che il padiglione israeliano all'Expo 2015 mette in mostra con i campi verticali.
  La riduzione delle perdite è stata invece, dal 2007, del 18% per l'effetto combinato di nuove tecnologie capaci di identificarle in tempo reale e di un maggior autocontrollo da parte dei consumatori. La conseguenza è che una nazione composta al 60% di deserto per la prima volta dalla sua creazione, 67 anni fa, non teme la sete nè le guerre per l'acqua, potendo invece trasformare le tecnologie idriche in un ponte di cooperazione verso altri Paesi.
  L'esempio viene dal progetto per 900 milioni di dollari, varato in febbraio dalla Banca Mondiale, che vedrà realizzare entro il 2018 un centro di desalinizzazione nel porto di Aqaba consentendo la condivisione dell'acqua potabile ottenuta fra Giordania, Israele e Autorità palestinese. Depositando la «brina» ottenuta nel Mar Morto, che sarà collegato al Mar Rosso da un canale idrico per sostenerne il livello. Nulla da sorprendersi se gli impianti di desalinizzazione attirano reazioni opposte: nell'agosto scorso Hamas tentò di colpirli con i razzi mentre il presidente ugandese Yoweri Museveni, appena sbarcato a Tel Aviv, ha chiesto di conoscere da vicino Soreq così come a visitarlo - con assai più discrezione - sono stati gli inviati di alcuni Paesi africani senza relazioni diplomatiche con Israele.

 Le critiche ambientaliste
  Le obiezioni nei confronti di Soreq arrivano dai gruppi ambientalisti israeliani che contestano la tecnica di aspirare acque dalle profondità del Mediterraneo considerandola dannosa per l'ecosistema, ma Micha Taub, ingegnere chimico dell'impianto, risponde: «Di ogni 100% di acqua marina, la metà diventa consumabile e metà torna al mare, limitando al massimo conseguenze per l'ecosistema» come dimostra il fatto «che finora non vi sono state proteste dei pescatori».

(La Stampa,1 giugno 2015)


Spears canta a Tel Aviv. Ieri al Muro del Pianto

Britney Spears al Muro del Pianto
Britney Spears
TEL AVIV - Saranno in circa 50 mila gli spettatori previsti per l'atteso concerto che Britney Spears terrà stasera a Tel Aviv: un evento che da giorni rimbalza sulle pagine dei giornali. Già da ieri i fan hanno preso d'assalto l'albergo che ospita la cantante in città postando sui social numerose sue foto. Ma il picco si è avuto ieri quando Spears è andata a Gerusalemme per la visita al Muro del Pianto. Assediata da molti dei turisti che l'hanno riconosciuta, anche per la robusta scorta, l'artista è stata ritratta in tantissimi scatti con il cellulare poi passati subito su Facebook. La ressa è stata tanta che, secondo i media, si è sviluppato un piccolo giallo: la cantante non avrebbe fatto in tempo a recarsi ad un appuntamento con il premier Benyamin Netanyahu e sua moglie Sarah che avevano invitato un gruppo di bambini in cura presso l'ospedale Hadassah. Ma l'ufficio del premier ha invece negato che l'appuntamento fosse in programma e che la cantante l'abbia disdetto all'ultimo minuto.

(ANSAmed, 3 luglio 2017)


Una coalizione di principi per fermare l'Isis

di Yisrael Katz*

I recenti attacchi terroristici come quelli di Manchester e Londra, ci ricordano che siamo in guerra, una guerra globale, e che i nemici sono il terrorismo islamico, la radicalizzazione e il terrore. Il fenomeno dello Stato Islamico radicalizza i singoli musulmani e ispira loro atti di terrorismo che mettono in crisi le forze dell'ordine e l'intelligence, più preparate ad affrontare gli attacchi pianificati delle organizzazioni.
   E un fenomeno virale che radicalizza le persone in modo virtuale sfruttando le nuove risorse offerte dai social network. Questo tipo di propaganda fa presa in modo particolare su giovani e impressionabili sunniti che si trovano così a rappresentare un serbatoio cui attingere per reclutare nuove forze.
   A cadere in balia dell'ideologia dell'Isis e dei suoi collaudati meccanismi di reclutamento possono essere tanto cittadini naturalizzati come immigrati appena arrivati, pregiudicati o incensurati o ben rodati «foreign fighters» di ritorno dai campi di battaglia della Siria e dell'Iraq. Hanno accesso agli aeroporti, alle metropolitane, agli uffici governativi, ai centri commerciali, alle sale da concerto o alle discoteche, ai luoghi d'incontro e di culto. E possono essere qualsiasi cosa, piloti, meccanici, portieri, camionisti o soldati ribelli. È molto difficile identificarli prima che agiscano e i loro attentati sono molto difficili da sventare.
   La minaccia posta dal fenomeno dello Stato Islamico (al contrario dello Stato Islamico inteso come organizzazione) è soprattutto una minaccia interna. Contrastarla è ancora più difficile per via dell'asimmetria esistente tra le democrazie liberali occidentali e l'Isis in tema di sacralità della vita umana, rispetto dei diritti civili e umani e uso della forza. La tensione tra esigenze della sicurezza e la democrazia è sfruttata dagli estremisti islamici mentre le democrazie occidentali, in particolare quelle europee, spesso hanno le mani legate.
   Un primo indispensabile passo per cambiare questo stato di cose è riconoscere la minaccia. Da qui nasce un significativo cambio di qualità della legislazione, che si inizia a vedere in alcuni Paesi europei. La cooperazione è essenziale tra i vari organismi preposti a livello nazionale e nella cornice delle organizzazioni intergovernative come Interpol o Europol, o tra le agenzie affini dei diversi Paesi e regioni. Ma è ugualmente necessaria la collaborazione internazionale al più alto livello. Gli alleati internazionali devono concordare una serie di princìpi generali e condivisi sui criteri della guerra alla radicalizzazione, all'estremismo e al terrore, da cui ogni Paese possa trarre le proprie «regole d'ingaggio».
   L'istituzione di una «Coalizione di princìpi» oggi non è meno importante della coalizione creata nel 2014 per combattere l'Isis e può rafforzare la capacità dei singoli governi di affrontare le minacce interne, dando loro una fonte autorevole e il supporto morale e politico per introdurre i cambiamenti, necessari ma non sempre popolari o politicamente corretti, e adottare le misure richieste per affrontare in modo efficace i diversi aspetti della minaccia.
   Questi princìpi generali possono riguardare, ad esempio, le leggi sull'incitamento, la responsabilità delle multinazionali e dei social network nella guerra all'islamismo, alla radicalizzazione e al terrore e la condivisione negli Stati e fra gli Stati, delle operazioni di ricerca e cattura, degli interrogatori, degli arresti e delle detenzioni.
   E possono anche includere un mandato chiaro e vincolante per tutti i partecipanti ad adottare i massimi standard di sicurezza ad esempio, nel campo dell'aviazione civile, là dove l'Isis ha posto i suoi siti e che rappresentano l'anello debole della catena. Una coalizione di questo tipo e le pubbliche dichiarazioni congiunte che ne accompagnerebbero la nascita, potrebbero aiutare le riforme legislative e incentivare lo spirito di collaborazione tra le agenzie di intelligence e anche galvanizzare l'opinione pubblica, preparandola alla lunga sfida che ci attende.
* Ministro israeliano per l'lntelligence e dei Trasporti

(La Stampa, 3 luglio 2017 - trad. Carla Reschia)


Menorà, sette bracci di luce e fiori

Mostra straordinaria nel Braccio di Carlo Magno in Vaticano e nel Museo Ebraico dedicata al biblico candelabro del Tempio

di Alvar Gonzalez-Palacios

 
Immagine di Menorà nella Sinagoga di Ostia Antica
I simboli, come le idee di cui spesso sono immagine, stanno alla base della vita umana e così, senza che ne siamo consapevoli, determinano la nostra storia. Si assicura che il 28 ottobre 312 le parole In hoc signo vinces apparvero a Costantino scritte sul cielo vicino a Ponte Milvio. Questa frase era seguita da una croce, simbolo di Cristo, che fece vincere all'Imperatore la celeberrima battaglia, inizio di un nuovo mondo.
Ma esistono simboli più antichi: uno di questi è la menorà a cui è ora dedicata una mostra straordinaria nel Braccio di Carlo Magno, in Vaticano, e nel Museo Ebraico di Roma. Non tutti sanno che cosa sia la menorà, termine spesso ignorato in antichi dizionari della lingua italiana come quello del Tommaseo. La definizione biblica è candelabro a sette bracci che è stato nel secolo scorso anche quello indicato in un celebre romanzo di Stefan Zweig, Il candelabro sepolto (1937).
   
L'origine dei simboli è sempre legata alla religione e al mito: della menorà, fisicamente parlando, abbiamo solo infinite memorie scritte e infinite immagini ma non più l'oggetto vero e proprio - un candelabro a sette bracci - fatto fare per ordine del Signore a Mosè in oro puro e destinato al Santo del grande tempio di Gerusalemme. Parliamo ovviamente del primo tempio. La menorà di cui ora trattiamo e di cui sono note alcune raffigurazioni, è quella più tarda trafugata con la violenza da Tito nell'anno 70 della nostra era e portata a Roma in trionfo l'anno successivo. Così attesta anche un magnifico bassorilievo dell'Arco di Tito, stante nel centro dell'Urbe.
   I primi Candelabri scomparvero con la distruzione del primo tempio ad opera dei Babilonesi e Tito portò a Roma il candelabro eseguito successivamente, per il secondo tempio eretto nel 515 a. C. La forma comunque doveva essere simile: sei bracci incurvati attorno ad un braccio centrale dritto.
   Fu lo storico ebreo, Flavio Giuseppe, a narrare nelle Antichità giudaiche l'aspetto del candelabro eseguito con un pezzo d'oro di circa un talento (34 kg) ornato di fiori e frutti con lucerne per l'olio sacro che doveva essere sempre acceso. Flavio Giuseppe fu presente sia alla distruzione del secondo tempio di Gerusalemme sia al trionfo di Tito a Roma; la sua descrizione è sommaria ma attendibile. Non tutti sono d'accordo sull'aspetto definitivo del Candelabro e nemmeno sulla forma della base. Non è neanche noto con certezza quando esso scomparve da Roma: molti rabbini di passaggio nella città, soprattutto durante il II secolo, scrissero di averlo visto dove allora si trovava, nel Tempio della Pace. Se così stavano le cose è possibile che quell'oggetto sia scomparso nell'incendio che danneggiò il monumento nel 192. Altri credono che la scomparsa sia accaduta molto più tardi, forse verso il 410, per volere di Alarico, re dei Visigoti.Altri ancora attribuiscono il furto ai Vandali di Genserico nel 455. Molti però accreditano una vecchia leggenda che assicura come tre fratelli ebrei, all'epoca dell'imperatore Onorio, avessero visto il Candelabro gettato in fondo al Tevere, vicino all'Isola Tiberina. Non abbiamo prova alcuna di questo fatto se non un'iscrizione del Museo Ebraico spesso creduta falsa; comunque qui rammento come in non poche conversazioni con Federico Zeri quel bizzarro veggente insistesse su questa teoria: «Non può essere altrimenti» affermava, come spesso gli accadeva, quasi in procinto di vedere ciò che agli altri non era dato vedere.
   Le quasi quattrocento pagine a più colonne del catalogo curato da Alessandra Di Castro, Francesco Leone e Arno Id Nesselrath e un cospicuo gruppo di studiosi, cercano di spiegare il senso di questa idea e di questa immagine in una stupefacente antologia dell'arte fra l'antichità e i giorni nostri.
   La concezione che presiede la forma del Candelabro ha antichissime origini. Per Zaccaria il Candelabro aveva un valore iconico straordinario ed era emblema della rinascita di Israele e della sua liberazione. Alcune delle prime raffigurazioni di oggetti del genere si ritrovano nella più antica sinagoga esistente, quella di Delos, in Grecia, e in una pietra scolpita e decorata databile tra il primo e il secondo secolo dopo Cristo e ritrovata solo pochi anni fa in una sinagoga di Magdala, sul lago di Tiberiade. Il Candelabro compare in molte catacombe ebraiche, nella sinagoga di Ostia e persino in quella di Dura Europos in Siria: sarcofaghi, iscrizioni tombali, lucerne funerarie, graffiti, monete, vetri decoratiin oro con quella tecnica squisita detta eglomisée, monili, manoscritti. Poi si compie uno strano ma non unico caso di trasmigrazione dei simboli e così abbiamo sublimi esempi di un candelabro ebraico che diventa cristiano. Gli esemplari sono infiniti, a cominciare da quello più famoso, il Candelabro Trivulzio del Duomo di Milano che data fra il XII e il XIII secolo ma è di sicuro in Italia fin dal Cinquecento. A Capranica si conserva, nel Santuario di Santa Maria della Mentorella, un candelabro a sette bracci di manifattura italiana (che alcuni credono essere una menorà riadattata). Più frequenti sono gli esemplari di manifattura tedesca come quelli a Paderborn (inizi del Trecento), quelli della Cattedrale di Essen e di Brunswick e quello del 1494 a Magdeburg (tutti illustrati nel catalogo). Ma il mio cuore va a due capolavori della scultura toscana, opere di Maso di Bartolomeo (1406-1456), collaboratore di Donatello soprattutto nel Duomo di Prato per fusioni bronzee. Si tratta di due candelabri a sette bracci poggianti su alte anfore che conseguono un inedito accostamento di forme classiche e idee più antiche ma trasformate da un soffio rinascimentale.
   Nel Natale dell'anno 800 Carlo Magno venne incoronato a Roma Imperatore. Con senso della strategia e inaudita intelligenza legò la sua dinastia all'impero dell'antica Roma senza dimenticare però Re Davide Salomone e unendo così il Candelabro e la Croce, come scrive con raro dono di sintesi B. Künel, tanto è vero che il Palazzo di Aquisgrana veniva detto spesso il Tempio di Salomone. Da questa idea, dunque, dipendono i candelabri liturgici del mondo tedesco presenti anche in Italia. L'ispirazione della menorà comunque si collega a forme naturali e ad una pianta, la morià, un tipo di salvia selvatica tipica del Sinai formata da nove rami anziché sette (ma esistono alcune menorà di nove rami). Non solo la forma rende famosa questa pianta ma anche la sua fragranza.
   Nel catalogo si fa, nel lungo ed erudito saggio di Francesco Leone, un circostanziato elenco delle opere d'arte che raffigurano, sia per motivi ornamentali sia per motivi religiosi, candelabri a sette bracci: mi limito a due soli esempi, dipinti di Raffaello e di Poussin. Preferisco scegliere qui un foglio miniato di una Bibbia appartenente alla Biblioteca Nazionale del Portogallo. È un' opera sefardita detta spesso la Bibbia di Cervera (recentemente ci si chiede di quale delle tre città con quel nome si tratti). Il foglio risulta miniato da Joseph Hatzarfati e data all'ultimo anno del XIII secolo o al primo del XIV. Questo miniatore, francese come specifica il suo cognome, si dimostra qui grande poeta in grado di interpretare la visione di Zaccaria: «ed ecco un candelabro tutto d'oro, con una sfera sulla sua cima e sette suoi lumi, e sette canali che vi sono sopra e presso di essa due ulivi uno a destra e uno a sinistra. Quei sette lumi sono gli occhi del Signore che spaziano su tutta la terra». Ma la magia continua fino ai tempi d'oggi. Ecco Matisse che, varcati gli ottant'anni, disegna la pianticella di cui abbiamo parlato con l'ingenuità di un bambino e la saggezza di un vecchio. E infine, di ieri l'altro, un lavoro donato al Museo Ebraico dal gioielliere Jar, in vari materiali, preziosi e non, che in un certo senso continua la visione di Matisse e del Giuseppe francese sefardita.

(Il Sole 24 Ore, 2 luglio 2017)


Festival Erev/Layla: quattro concerti gratis sulla terrazza del Museo Ebraico Eventi a Trieste

 
Ritorna anche quest'anno, come da tradizione ormai ultradecennale il Festival Erev/Layla di musica e cultura ebraica, la cui undicesima edizione è organizzata dall'Associazione Musica Libera in collaborazione con il Museo della Comunità Ebraica di Trieste, la Comunità Ebraica di Trieste e il Festival Viktor Ullmann.
   Si tratta di una rassegna che, giunto alla sua undicesima edizione, ha visto la presenza a Trieste di tantissimi artisti che si sono occupati di musica e cultura ebraica, molti dei quali provenienti anche dall'estero.
   Il festival sarà costituito quest'anno da 4 concerti che si terranno presso la Terrazza del Museo Ebraico di Trieste.
   Il primo concerto dell'edizione 2017 si terrà martedì 4 luglio alle ore 21.00. Ad aprire la rassegna sarà l'Ensemble Salomone Rossi. Composto da Alessandra Gardini (Soprano), Lydia Cevidalli (violino), Issei Watanabe (violoncello) e Giovanni Togni, clavicembalo presenterà un programma dal titolo "I Fiori Musicali dal barocco ebraico".
   A partire dalla seconda metà del XIX secolo sono state ritrovate partiture musicali di epoca barocca, su testi in ebraico, destinate all'esecuzione in sinagoga e scritte da compositori sia ebrei che cattolici. È documentata anche la presenza di musicisti ebrei presso le corti rinascimentali italiane e, parallelamente, la diffusione della musica strumentale di estrazione "colta" all'interno delle sinagoghe. Questo fenomeno si può leggere sia come un segno della flessibilità della liturgia ebraica, che in linea di principio prevedeva solo il canto, sia "come una manifestazione delle delicate relazioni tra la minoranza ebraica e il mondo cattolico circostante, in cui gli ebrei cercavano - in determinate occasioni pubbliche, di "rappresentanza" - di mostrare ai propri vicini (e signori) una versione di sé compatibile con il gusto estetico del tempo" (Francesco Spagnolo). Di certo l'adozione di un linguaggio musicale estraneo alla tradizione avveniva più facilmente laddove erano migliori i rapporti con le comunità ebraiche, al punto che la musica può essere considerata il sensore di un sistema di reciproca tolleranza, se non come un modello di convivenza. L'Ensemble Salomone Rossi si è concentrato sull'epoca barocca, riproponendo musica di Avraham Caceres, vissuto ad Amsterdam all'inizio del Settecento, del viennese di origini italiane Cristiano Giuseppe Lidarti e appunto di Salomone (o Salamone) Rossi, attivo presso la corte dei Gonzaga a Mantova anche negli anni in cui vi operò Claudio Monteverdi e vicino all'insegnamento di Leone da Modena (1571-1648), rabbino che è stato tra le personalità più influenti e poliedriche della cultura ebraica italiana (Stefano Catucci).
   Il concerto si svolge in collaborazione con il Festival Viktor Ullmann.
   Giovedì 6 luglio alle ore 21.00 sarà la volta dell'Opera Lirica "L'Amico Fritz" di Pietro Mascagni.
   La Compagnia FuoriOpera presenta una messa in scena in forma da camera dell'opera di Pietro Mascagni "L'Amico Fritz". La storia di Fritz, Suzel e del Rabbino David viene ridotta nei tempi (90 minuti senza intervallo) e negli spazi, eliminando le barriere tra scena e pubblico e rendendo lo spettatore parte integrante della scena. Il filo drammaturgico viene esaltato dalla regia di Altea Pivetta e dalla direzione musicale di Andrea Gottfried.
   Il concerto si tiene in collaborazione con il Festival Viktor Ullmann e il Nessiah Festival.
   Martedì 11 luglio alle ore 21.00 andrà in scena lo spettacolo "Chi era Herbert Pagani?" con Anna Jancek voce e chitarra, video a cura di Samuele Orlando.
   Herbert Avraham Haggiag Pagani (Tripoli, 25 aprile 1944 - Palm Springs, 16 agosto 1988) è stato un cantautore, disc-jockey, poeta, scrittore, scultore, pittore e attore italiano. Di famiglia di origine ebraica, ha trascorso parte della sua gioventù in Germania e in Francia. È stato un artista di multiforme e poliedrica attività, in grado di esprimersi tanto in lingua italiana quanto in lingua francese. Ricordato come una delle voci dell'emittente radiofonica Radio Monte Carlo - come cantante ha inciso brani come "Cin cin con gli occhiali", "Canta (che ti passa la paura)", "L'amicizia" e "Ahi ... le Hawaii", cantata anche nel film "Amore mio aiutami" diretto nel 1969 da Alberto Sordi. Degne di menzione sono anche "Non ti amo più (1962) (Alberto Testa-Herbert Pagani-Christophe), "Lombardia" (1965), versione italiana de "Le plat pays" di Jacques Brel e "La bonne franquette" del 1974, ripresa successivamente da Fiorello insieme al fratello Beppe e a lungo jingle musicale dei "Club Mediterranée2. La sua migliore produzione in italiano è considerata tuttavia "Albergo a ore "(del 1970), brano che ebbe problemi con la censura e che era l'adattamento dalla versione in lingua francese de "Les amants d'un jour" (portata al successo in Francia da Édith Piaf); la versione italiana è stata proposta anche da Gino Paoli, da Ornella Vanoni e nel 1972 da Milva, nell'album "La filanda e altre storie". In francese, fu molto apprezzato il suo testo poetico "Plaidoyer pour ma terre (qu'est ce que le sionisme)", in difesa delle ragioni del sionismo e dell'essere ebreo. È morto negli Stati Uniti a causa di una forma di leucemia all'età di quarantaquattro anni.
   Il festival si conclude giovedì 13 luglio alle ore 21.00 con il concerto di Paolo Buconi "Il violino di Auschwitz".
   Il recital comprende alcune letture alternate a musiche per violino e voce. Verranno eseguiti brani che venivano suonati ad Auschwitz dall'orchestra di musicisti "haflige", detenuti nel lager. Queste musiche erano volte al compiacimento dei gerarchi nazisti e alla scansione dei ritmi di lavori forzati cui erano sottoposti i prigionieri fino all'esaurimento psicofisico e all'annientamento.
   Il recital si basa sulle testimonianze raccolte direttamente dal musicista durante gli incontri e la collaborazione artistica con l'artista sopravvissuto alla Shoah Jacques Stroumsa, durante le presentazioni del suo libro di memorie "Violinista ad Auschwitz" (Ed. Morcelliana). Verranno anche citati brani letterari da "Per violino solo" di Aldo Zargani (Il Mulino) e "Il violino di Auschwitz" di Maria Angels Anglada (Editori Riuniti). Saranno eseguite anche musiche ebraiche tra cui il Qaddish in aramaico, yiddish lied e klezmer.
   Il concerto si tiene in collaborazione con il Festival Viktor Ullmann.
   L'ingresso ai concerti che inizieranno tutti alle ore 21.00 è libero e gratuito.
   I concerti si terranno anche in caso di maltempo in una struttura al coperto
   
(TriestePrima, 2 luglio 2017)
   


"Fu il Lodo Moro a tenere gli italiani al sicuro a Beirut nell'82"

Bassam Abu Sharif: l'Italia fu l'unico paese con cui il Fronte per la liberazione della Palestina strinse un patto di non belligeranza. Le Br? Nessun rapporto.

di Francesca Paci

ROMA - Bassam Abu Sharif è uomo di molte parole. Fuma una sigaretta dietro l'altra con la mano a cui dal 1972 mancano quattro dita: sopravvissuto a un'operazione del Mossad, perse però anche l'occhio e l'orecchio destro. All'epoca era il responsabile dell'informazione dei marxisti-leninisti del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp), in seguito sarebbe diventato uno dei più ascoltati consulenti di Arafat. «È possibile che non dica tutto quello che so, ma quello che dico è tutto vero» ripete durante l'intervista in esclusiva rilasciata a La Stampa all'indomani dell'audizione alla Commissione parlamentare sulla morte di Moro. Dice che l'Italia fu l'unico Paese con cui il Fplp prese un impegno scritto di non belligeranza, il cosiddetto Lodo Moro. Dice che grazie a quell'accordo la nostra ambasciata a Beirut venne risparmiata dagli attentati in cui 35 anni fa morirono oltre 300 militari francesi e americani. E dice che sa di un rapporto simile voluto dalla Germania con l'organizzazione palestinese al Fatah dopo il massacro alle Olimpiadi del 1972 a Monaco.

- Come nasce l'accordo che in Italia è noto con il nome di Lodo Moro?
  «Le relazioni tra i palestinesi e l'Italia, intesa anche come istituzioni preposte alla sicurezza, iniziano nei primi anni '70. C'era il sospetto che le Brigate rosse avessero rapporti con il Fplp il cui leader era George Habbash. Le Br erano il prodotto di una storia europea dovuta al fallimento del partito comunista nel portare cambiamenti sociali. Questo piccolo gruppo estremista ed altri analoghi si chiesero cosa fare e pensarono di ricorrere alla violenza. In Medioriente la situazione era movimentata per altri motivi, la sconfitta dei paesi arabi nel 1967 aveva dato a noi palestinesi la possibilità di iniziare la nostra battaglia contro l'occupazione israeliana e molti gruppi vennero in Medioriente per incontrarci. Non ricordo i nomi dei tanti italiani che vidi ma ricordo Andreas Baader e Ulrike Meinhof. Venivano a migliaia. Li chiamavamo i turisti della rivoluzione».

- Cosa facevano lì con voi?
  «Wadie Haddad (il capo delle operazioni del Fplp) aveva una scuola rivoluzionaria per insegnare alle forze sociali oppresse economicamente a combattere il capitalismo. In Europa non si poteva, la situazione non era matura. Per indebolire l'imperialismo era meglio agire nel terzo mondo, affiancare noi nella lotta contro Israele, l'avamposto mediorientale dell'imperialismo e del neocolonialismo americano. Oltre mille italiani frequentarono i nostri campi in Giordania tra il 69 e il 70. Erano campi di due settimane, si parlava di politica, si imparavano a smontare e rimontare le pistole o a sparare, soprattutto si spiegavano i pilastri della nostra rivoluzione. Alcuni divennero membri del Fplp, solo una piccola parte erano combattenti ma combatterono esclusivamente nelle file del Fplp e nelle nostre battaglie, mai nei loro paesi d'origine».

- Perche' questo rapporto speciale con l'Italia?
  «Vennero da noi da tutti i paesi, oltre 10 mila europei ci raggiunsero dopo la battaglia di al Karama, nel 1968. Ma l'Italia aveva una location importante, confinava con la Jugoslavia, con la Francia, aveva il più forte partito comunista occidentale e un popolo caldo. Il nostro maggior alleato non era il Pci ma il sindacato. In quel contesto nascono le Br ma la seconda generazione viene infiltrata: nel 71, diffidandone, Wadie Haddad, dice di voler avere niente a che fare con loro. Ed eccoci al 1972: attraverso dei giornalisti incontrammo a Beirut l'intelligence italiana, fui io il primo a vedere Giovannone, all'epoca ero il direttore della rivista del Fplp. Giovannone era un patriota, voleva proteggere l'Italia. Iniziò a mandare aiuti umanitari ai campi profughi palestinesi, ambulanze, medicine. Poi si mise a lavorare con noi per ottenere un documento da presentare al suo governo il cui il Fplp affermava di non avere rapporti con le Br. Voglio sottolineare che noi palestinesi non abbiamo mai avuto rapporti diretti ne indiretti con le Br».

- Fu un'idea di Giovannone?
  «Giovannone era simpatetico. Io proposi che avrei chiesto un documento firmato in cui il Fplp affermasse che non avrebbe mai messo a rischio la sicurezza dell'Italia e non avrebbe mai collaborato con chi lo facesse. Voi lo chiamate accordo ma in realta' fu una promessa scritta. Una copia per noi e una per voi, sar' stato l'inizio del 73. Non so a chi la diede Giovannone, doveva convincere qualcuno in Italia riguardo a noi».

- Perché Arafat non firmò?
  «Io parlo per noi, affiancai Arafat solo nel 1987. Non so cosa facesse in quel momento Al Fatah e se Giovannone o altri parlassero con loro, posso immaginarlo. So che Abu Iyad, il responsabile dei servizi segreti di Fatah, venne molte volte a Roma a incontrare capi della sicurezza e una volta ci incrociammo per caso».

- Il Fplp prese lo stesso impegno con altri paesi europei?
  «Il Fplp solo con l'Italia. I volontari erano benvenuti, tutti. Ma nessun altro in Europa fece uno sforzo come Giovannone di venire in quanto Paese. Io parlo del Fplp. So che dopo Monaco la Germania instaurò un rapporto con Abu Iyad (Fatah) per avere qualcosa di simile».

- Cosa aveste in cambio dall'Italia?
  «Ci accontentavamo degli aiuti umanitari. Chiedemmo se magari si potessero aumentare, ma non era una condizione».

- Chi era il garante della vostra promessa in Italia?
  «Nessuno, il garante era Habbash. Eravamo molto centralizzati. Le organizzazioni di studenti palestinesi in Italia facevano solo campagne di solidarietà. In quel periodo vennero a contattarmi anche altri dall'Italia con altre offerte, ma io parlavo con Giovannone e basta».

- Come è passato di generazione in generazione l'impegno di Habbash?
  «È stato sempre rispettato. Poi col tempo le relazioni sono diventate politiche, abbiamo iniziato a dialogare su piani diversi, parlavamo con Andreotti, Craxi. Tenete conto che nel frattempo c'e la dichiarazione di Venezia nel 1980 con il riconoscimento dell'Olp che ci permette di aprire 50 uffici palestinesi del mondo, dobbiamo quell'accordo all'Italia».

- La dichiarazione di Venezia può essere considerata un frutto dell'impegno preso da Habash e il Fplp?
  «Sì, lo possiamo considerare uno sviluppo di Venezia. Inoltre in Italia c'era una forte opinione pubblica pro-palestinese. Furono gli italiani a mandarci l'informazione dell'invasione in Libano nel 1982».

- Per questo in quegli anni l'Ambasciata italiana, diversamente da quella francese e americana, non fu attaccata a Beirut?
  «L'impegno a evitare azioni che colpissero l'Italia era a tutto campo, si sottintendeva che non avremmo colpito neppure interessi israeliani in Italia. E ovviamente comprendeva le ambasciate italiane. A Beirut dovemmo difendere anche fisicamente gli italiani».

- Rispettaste sempre l'impegno preso? Chi fece gli attentati alla sinagoga e a Fiumicino, nell'82 e nell'85?
  «Non ne sappiamo niente. Di altri non so ma noi, come Fplp prima e poi insieme a Fatah come Olp, rispettammo l'impegno al cento per cento. In quel momento in Italia agivano gli 007 iracheni, arabi, israeliani, gruppi palestinesi infiltrati come quello di Abu Nidal dopo la rottura con Fatah».

- Gli attentati no. Ma i missili in transito nel 1979 per cui fu arrestato Daniele Pifano erano vostri, giusto?
  «Quella non era un'operazione, era trasporto di materiale. L'impegno diceva chiaramente che avremmo evitato ogni operazione che colpisse gli italiani o l'Italia: lo rispettammo e l'Italia lo sa».

- L'Italia sapeva anche del transito dei missili di Pifano?
  «In Italia c'erano differenti istituti».

- Vuol dire che la mano destra non sapeva cosa facesse la sinistra?
  «Esatto. Ma poi Pifano fu rilasciato quasi subito, giusto? Ecco».

- Sa qualcosa della stazione di Bologna? E di Ustica? Anche allora si nominarono i palestinesi.
  «Non ne so nulla. Ma c'era di tutto in Italia in quel periodo. Le racconto una storia. Una volta, sara' stato l'89, dovevo andare in Francia con Arafat sorvolando l'Italia, dove c'erano molte basi americane. Prima di partire ricevemmo una nota da un buon contatto italiano che diceva di fare attenzione ai missili. Allora Arafat chiese due jet identici, su uno volava lui e sull'altro io con la delegazione palestinese. Volammo a diverse altitudini per confondere i radar».

(La Stampa, 2 luglio 2017)


Israele: la vedova dell'assalitore dovrà pagare

Uccise quattro militari. 'Inizio di una nuova politica'

La magistratura israeliana esige un risarcimento dalla vedova di un assalitore palestinese che nel gennaio scorso, a Gerusalemme, travolse mentre era alla guida del suo camion un gruppo di militari uccidendone quattro.
L'uomo fu ucciso sul posto dalla reazione di altri militari e gli accessi della sua casa sono stati poi sigillati. Adesso, scrive Haaretz, la magistratura esige dalla vedova risarcimenti per le famiglie dei quattro militari uccisi: complessivamente otto milioni di shekel, cioe' due milioni di euro. Il giornale cita inoltre il ministro degli interni Arye Deri (del partito ortodosso Shas) secondo cui si tratta di una nuova politica verso i congiunti di assalitori palestinesi. "D'ora in poi - ha scritto Deri, in un comunicato - chiunque progetti o accarezzi l'idea di compiere un attentato deve tenere a mente che i familiari pagheranno un duro prezzo per il suo gesto".

(ANSAmed, 2 luglio 2017)


In Israele è arrivata la portaerei George Bush

La portaerei della Marina americana George Bush è arrivata sulle coste d'Israele, la prima nave di questo tipo in 17 anni nelle acque dello Stato ebraico.
La portaerei è ancorata a nord della città di Haifa e, come previsto, rimarrà lì per quattro giorni.
"La gigantesca portaerei George Bush, chiamata così in onore dell'ex presidente americano, è ancorata all'ingresso della baia di Haifa" ha riferito il secondo canale tv. Migliaia di soldati americani faranno escursioni a terra, ad Haifa e in altre città d'Israele.
"Si prevede che lunedì la portaerei verrà visitata dal premier Benjamin Netanyahu e il ministro della Difesa, Avigdor Lieberman" riferisce la tv.
A bordo della nave atomica, già da due anni in servizio per le operazioni contro lo Stato Islamico, ci sono oltre 5mila soldati, decine di aerei ed elicotteri.

(Sputnik, 1 luglio 2017)


Triglie alla livornese e baccalà. Così Cassuto li serve a Tel Aviv

Prima il tentativo di aprire un ristorante ebraico al mercato centrale qui in città, poi la svolta: troppe difficoltà e la scelta di portare la cucina labronica in Israele.

di Ursula Galli

 
Arnoldo Cassuto
LIVORNO - Era partito con l'idea di aprire un ristorante ebraico kasher al Mercato centrale di Livorno. Ha finito per aprire un ristorante di cucina livornese a Tel Aviv. E non se ne pente: dopo soli tre mesi il locale "Arnoldo" inaugurato dal livornese Arnoldo Cassuto, nell'affascinante mercato della città israeliana, spopola con il suo baccalà alla livornese, le triglie, e le sue polpette al sugo, polpette in bianco con piselli, lingua di vitello con salsa verde. «Il momento più bello finora? Quando una signora originaria di Livorno, Marta Heller, di 88 anni, da 66 in Israele, mi ha detto che il mio baccalà l'ha riportata indietro nel tempo, ai sapori delle pietanze che le preparava la sua mamma all'ombra dei Quattro Mori». La storia di Arnoldo Cassuto non è solo una storia di enogastronomia, ma la vicenda di un cambio radicale di vita e di professione. Cinquantotto anni, due figlie e già nonno, ha passato tutta la sua vita in giro per il mondo come rappresentante di gioielli (ma con base a Livorno), fino al "colpo di testa" che l'ha trasformato in cuoco e ristoratore.

- Arnoldo, com'è nata la voglia di cambiare drasticamente vita, e soprattutto, così distante da casa?
  «Ho sempre coltivato una vera passione per la cucina limitandomi però a far da mangiare per familiari e amici. Un anno e mezzo fa ho cominciato a coltivare l'idea di aprire un ristorante kasher che a Livorno non esiste, per ebrei livornesi, per curiosi, e anche per i tanti ebrei che sbarcano a Livorno dalle navi da crociere. Il posto perfetto mi sembrava il mercato delle vettovaglie, ma mi sono scoraggiato perché, nonostante la massima disponibilità e gentilezza dei responsabili della struttura, gli orari sono ancora limitati. Mentre stavo ancora valutando il progetto, sono andato in vacanza a Tel Aviv, al locale mercato ho visto uno spazio vuoto, me ne sono innamorato, e ho realizzato che era molto più agevole aprire un locale in Israele che in Italia, dal punto di vista della burocrazia. In poco tempo ho potuto concretizzare il tutto».

- A Tel Aviv aveva dei contatti ?
  «Sì, i miei genitori Anna e Luciano vivono in Israele dagli anni Ottanta. Mio padre Luciano, molto conosciuto perché era il proprietario della Barcas, aveva un ruolo di primo piano nella comunità ebraica di Livorno. Decise di trasferirsi in Israele dopo che, nel 1981, ci dettero fuoco alla casa, un gesto terribile di un gruppo di neofascisti. Io all'epoca preferii rimanere in Italia. Dopo le scuole ebraiche a Livorno e le superiori al liceo all'Enriques mi sono buttato in una professione nel mondo di gioielli e pietre preziose, che mi ha accompagnato per tanti anni. Infine, la svolta gastronomica».

- Perché proprio un ristorante di cucina livornese?
  «La cucina livornese deve molto a quella di tradizione ebraica, ha però una sua originalità che qui ha incuriosito molto. Mi hanno già invitato a trasmissioni televisive e ho ricevuto la visita di tanti livornesi che vivono in Israele e hanno nostalgia dei forti sapori labronici. Ancora non ho importato roschette, cinque e cinque e castagnaccio, ma è nei miei progetti».

- E il cacciucco?
  «Il cacciucco non è ancora nel menù, ma ci sarà prestissimo, quando avrò perfezionato la mia ricetta». Immancabile, sull'insegna del locale, "cucina livornese", è apparsa la scritta a pennarello "Pisa merda", prontamente cancellata. «Ma tanto ce la rifaranno - conclude Cassuto- ci sono tantissimi livornesi a Tel Aviv, sono rassegnato allo humour labronico».

(Il Tirreno, 1 luglio 2017)


Gli ebrei fuggiti da Tripoli e le loro storie a Roma

Senza più nulla, ma salvi

di Marco Nese

Per non dimenticare, gli ebrei libici si sono ritrovati al teatro Argentina a rivivere i bei tempi in cui erano felici nella Tripoli piena di suoni e di deliziosi odori di spezie. Sono passati 50 anni dalla grande persecuzione che li costrinse a fuggire dalla Libia. Accadde nel giugno del 1967. Lo Stato di Israele si trovò sotto attacco di Siria ed Egitto e reagì con un'azione fulminea che mise fuori combattimento i mezzi aerei degli avversari. La famosa guerra dei Sei giorni. Fu un'umiliazione per tutto il mondo arabo che si vendicò ovunque assaltando le case degli ebrei. Viveva allora a Tripoli una comunità ebraica di circa 4 mila anime, che in passato era cresciuta fino a contare 40 mila persone. Fu aggredita, derubata e costretta a scappare dalla Libia. «A Tripoli - ricorda Walter Arbib - si scatenò una feroce caccia all'ebreo. La nostra casa fu incendiata, io e mia madre fummo assaliti, ci sputarono addosso». Arbib aveva poco più di vent'anni. È poi diventato imprenditore di successo e filantropo, recentemente ha raccontato la sua vita in un libro pubblicato in Canada e negli Stati Uniti col titolo «I am the good guy». Fra gli stucchi dorati dell'Argentina sono echeggiati i ricordi struggenti di chi era riuscito a salire su un aereo e volava verso la salvezza. Su quell'aereo, racconta la signora Rachele Bentura, «non avevamo nulla, tutto ci era stato portato via, ma eravamo liberi e per questo lanciai un urlo di gioia con tutta la mia forza». Su un altro aereo appena decollato, a Vittorio Halfon si stringeva il cuore. Si rivolse alla moglie dicendo: «Guarda dal finestrino per l'ultima volta il lungomare di Tripoli. Non lo vedrai mai più».
   Moris Baranes era un bambino. Vide il padre piangere davanti al cimitero ebraico completamente distrutto per costruirci sopra tre grattacieli.
   Sul filo della nostalgia, risuonano canzoni e ritmi dei vecchi tempi, uno spettacolo organizzato da Hamos Guetta, intervallato dalla lettura di pezzi di vecchi diari recitati dall'attore Roberto Attias. È tutta una rievocazione dei sapori, delle feste e dell'epoca in cui la gente viveva in pace con le altre comunità. Ma non c'è tristezza, è come leggere una storia del passato per ricordare com'era una volta la vita. E alla fine, quando irrompe sul palco la cantante israeliana Liora Simon Fadlon, con la sua splendida voce e con la sua vitalità, trascina tutti in un festoso battimani ritmato.
   Almeno la metà dei 4 mila ebrei costretti a fuggire da Tripoli approdarono in Italia. Molti di loro hanno poi costruito nel nostro Paese una storia di successo. Tanto per fare qualche nome, si può ricordare l'economista Roger Abravanel, il deputato Alessandro Ruben, e poi l'imprenditore dello spettacolo David Zard che ha portato in Italia grandi artisti come Michael Jackson, Cat Stevens, Tina Turner. A Wicky Hassan si deve il lancio nel campo della moda dei marchi Energie, Murfy and Nye e Ssixty. Mentre Roberto Haggiag è stato il creatore della Dear film. Ma forse il più famoso degli ebrei libici risponde al nome di Herbert Pagani, nato a Tripoli nel 1944, cantautore e scrittore, persona di grande umanità, stroncato dalla leucemia a soli 44 anni.

(Corriere della Sera - Roma, 1 luglio 2017)


Assad ora teme Israele e Usa

Iraq e Siria verso la pace. Senza il Daesh saranno più facili la transizione a Damasco e l'indipendenza curda

di Maurizio Stefanini

«Stiamo assistendo alla fine del falso Stato di Daesh, e la liberazione di Mosul lo prova», ha scritto giovedì su Twitter il primo ministro iracheno Haidar al Abadi, dopo che le truppe governative avevano raggiunto le rovine di quella moschea Al Nuri dove il 29 giugno del 2014 Abu Bakr al Baghdadi aveva proclamato la rinascita del Califfato.
   Nel frattempo le Forze Democratiche Siriane avanzavano nell'altra «capitale» Isis di Raqqa, prendendo quel sobborgo meridionale di Kasret Afan che permette loro di chiudere l'accerchiamento, tagliando tutte le residue vie di fuga. Sempre ieri l'Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria ha reso noto che l'Isis è stato completamente cacciato dalla regione di Aleppo, nel nord della Siria, dopo una presenza di più di tre anni. A sua volta l'Alto Commissariato per i rifugiati dell'Onu (Unhcr) attesta che nei primi sei mesi dell'anno 470.000 cittadini siriani hanno deciso di fare ritorno a casa; soprattutto ad Aleppo, Homs e Damasco. «Sono motivati soprattutto dalla volontà di cercare familiari e verificare lo stato delle loro proprietà», dice il portavoce dell'Unhcr Andrej Mahecic, «ma in certi casi il loro ritorno è legato a un miglioramento reale o percepito delle condizioni di sicurezza in certe regioni del Paese».
   Sia o meno confermata la morte di al-Baghdadi, dunque, lo Stato Islamico sembra ormai alla fine. Significa che ora Siria e Iraq stanno tornando alla pace? Qui forse il discorso è più complesso: e basta semplicemente ricordare chi combatte l'Isis nei tre differenti teatri per rendersene conto. Le Forze Democratiche Siriane che a Raqqa avanzano col sostegno determinante dell'aviazione della Coalizione Internazionale a guida Usa, infatti, formalmente sono curdi e arabi al tempo stesso anti-Assad e anti-Isis, di fatto la loro componente determinante è costituita da quelle Unità di protezione del popolo curde (Ypg) che sono legate a doppio filo al Pkk turco. Guerriglieri comunisti oggi inquadrati dalla Cia! A Aleppo sono i «governativi»: cioè, sostanzialmente volontari iraniani e Hezbollah, con l'appoggio determinante dei russi. Iraniani e americani assieme, ferocemente affrontati altrove, stanno invece aiutando congiuntamente a Mosul regolari iracheni, milizie sciite e peshmerga curdi ma di obbedienza diversa da quelli di Raqqa.
   Nel frattempo, gli esperti dell'Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac) hanno confermato in un rapporto d'inchiesta che è stato utilizzato gas sarin o tipo sarin in quell'attacco del 4 aprile scorso in Siria, che causò 87 morti e la prima risposta americana contro il leader siriano Bashar al-Assad con il lancio di 60 missili contro la presunta base di partenza dell'attacco. Nel frattempo la Turchia continua a minacciare di invadere la zona curda della Siria se le Ypg diventano troppo forti. Nel frattempo i curdi iracheni hanno già annunciato un referendum sull'autodeterminazione per il 25 settembre. Ieri mattina c'è stato un raid dell'esercito libanese in alcuni di quei campi in cui si ammassa l'l,01 milioni di rifugiati siriani del Paese, alla caccia di jihadisti. Cinque kamikaze hanno risposto facendosi esplodere, e sette soldati sono rimasti feriti. Sempre ieri l'aviazione israeliana ha bombardato una posizione dell'esercito di Bashar Assad, in risposta a un lancio di missili.
   Insomma, anche senza al-Baghdadi la pace resta difficile. Ma senza pace l'incendio continua a rischiare una drammatica espansione. Uno nuovo spiraglio si è ora aperto dopo la visita a Mosca di Jean-Yves Le Drian, ministro degli Esteri di Macron. Secondo lui «c'è una finestra di possibilità con la Russia». Macron non pone più l'uscita di scena di Assad come condizione per arrivare a un accordo, ma Le Drian dice che l'iniziativa franco-russa per la pace in Siria deve basarsi su un «doppio realismo»: né ignorare il presidente siriano Bashar Assad; né pensare che una soluzione basata tutta su di lui possa essere sostenibile.

(Libero, 1 luglio 2017)


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