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Notizie 16-31 luglio 2020


"Alla Farnesina un viale dei Giusti"

Via libera dal Comune di Roma per cambiare l'intitolazione del viale oggi denominato "Viale del Ministero degli Esteri" in "Viale dei Giusti della Farnesina" in ricordo dei diplomatici italiani che si sono distinti in atti d'umanità durante le crisi internazionali, i genocidi e ogni situazione in cui i diritti fondamentali sono stati messi in discussione.
   Un impegno condiviso da Gariwo, Comune e la stessa Farnesina e che ha avuto tra i principali sostenitori, sottolineano da Gariwo, "il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, l'ambasciatore Emilio Barbarani, la sindaca Virginia Raggi e il vicesindaco Luca Bergamo".
   L'obiettivo dell'operazione, viene spiegato, non è solo legato alla toponomastica: nel viale sarà infatti inaugurato un Giardino dei Giusti "dedicato alle eccellenze della diplomazia italiana, che hanno contributo a difendere la dignità umana". Un progetto che ha l'ambizione di far diventare l'Italia un "punto di riferimento internazionale nella costruzione di Giardini dei Giusti in tutto il mondo".
   Soddisfatto Gabriele Nissim, presidente di Gariwo: "La sindaca Raggi e il vicesindaco Bergamo hanno preso una decisione coraggiosa per la Capitale. Vorrei ringraziare anche la Farnesina e il ministro Di Maio per avere dato, insieme a noi, il via a questo importante progetto". Prosegue poi Nissim: "Con l'allargamento del concetto di Giusto dalla Shoah a ogni situazione di crisi umanitaria abbiamo innestato un percorso che nessuno aveva mai immaginato nel mondo. Rendendo omaggio in ogni situazione e in ogni epoca agli uomini migliori che difendono la dignità dell'uomo, possiamo ambire a far diventare l'Italia il paese messaggero della bellezza e della responsabilità. Siamo felici perché quando si accende la speranza nel mondo si dà senso alla vita e alla politica".

(moked, 31 luglio 2020)


“Alla Farnesina un viale dei Giusti” è il titolo ingannevole per i lettori che distrattamente non leggono poi questo articolo pubblicato oggi su Moked. Che il giornale online dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane permetta questa appropriazione del termine “Giusti”, termine qui riconosciuto anche, e forse soprattutto, a persone che nulla hanno avuto a che fare con la Shoah, e che non senta la necessità di un commento, mi lascia davvero allibito. Emanuel Segre Amar


Vola in Israele il primo UAV
Unmanned Aerial Vehicle

costruito totalmente con stampante 3D

di Fabio Di Felice

Skysprinter durante il test di volo
Il ministro della Difesa Israeliano e le Israel Aerospace Industries (IAI) hanno recentemente annunciato di aver prodotto il primo UAV completamente assemblato con componenti stampati con una speciale stampante 3D. Il programma joint, nominato SkysPrinter UAV, è stato condotto sotto il patrocinio del Flight Technologies Department del Ministero della Difesa, parte del Direttorato per la Ricerca e Sviluppo della Difesa, con il contributo delle IAI e, secondo quanto comunicato, ha visto il suo primo test in volo nel dicembre 2019. Lo SkysPrinter è un UAV elettricamente propulso e costruito con 26 parti stampate usando metallo, nylon, carbonio e leghe speciali, messe insieme utilizzando colla ed elementi di fissaggio, senza il bisogno di particolari strumenti di assemblaggio.
   Nato dalle idee di Neta Blum, Capo del Flight Technologies Department, in risposta ai requisiti operativi forniti direttamente dai comandanti sul campo, lo SkysPrinter ha una lunghezza di 1,65 m, un'apertura alare di 1,5 m e un peso massimo al decollo di 7 kg. Secondo quanto dichiarato dalla stessa Blum, il processo di stampa si basa su una nuova tecnologia definita Selective Laser Sintering (SLS) che permette la solidificazione di materiali in polimero con altissima precisione, necessaria per la stampa delle componenti più delicate e importanti del sistema. La possibilità di stampare direttamente i componenti e le relative parti di ricambio, fornisce ad ogni unità in operazione, una elevata rapidità di azione, efficienza ed autonomia senza precedenti. Secondo quanto inoltre aggiunto, alcuni cambiamenti sul design dello SkysPrinter, in particolare sulle dimensioni e la robustezza delle ali, ne permettono un ulteriore aumento nel payload dichiarato, rendendo di conseguenza la stampa dei componenti dell'UAV "mission-tailored".)

(Rivista Italiana Difesa, 31 luglio 2020)


Israele conferma la cattura di un militante di Hamas fuggito via mare dalla Striscia di Gaza

GERUSALEMME - Il servizio di sicurezza interno di Israele, Shin Bet, ha annunciato di aver catturato un militante di Hamas, Izz el Din Hussein, fuggito dalla Striscia di Gaza e che ha nuotato fino a raggiungere le acque israeliane, confermando le voci di una sua "diserzione". Lo riferisce il quotidiano israeliano "Jerusalem Post". Izz el-Din Hussein, 24 anni, sarebbe fuggito da Gaza il 28 giugno per sfuggire a problemi familiari e "persecuzioni" non specificate da parte dei comandanti di Hamas. Le forze navali israeliane lo hanno individuato nel Mar Mediterraneo e lo hanno arrestato prima che raggiungesse la costa. Lo Shin Bet ha affermato che il giovane si era unito all'ala militare di Hamas nel 2013, diventando successivamente comandante di un'unità di "difesa aerea" che includeva l'addestramento con missili antiaerei.
Secondo quanto riferiscono i media israeliani, il giovane avrebbe fornito a Israele una "grande quantità" di preziose informazioni su Hamas e è stato incriminato per "gravi" reati di sicurezza. Sia i media israeliani che arabi avevano di recente diffuso la notizia relativa alla diserzione di un presunto comandante di Hamas in Israele.

(AGI, 31 luglio 2020)


Alle ferrovie tedesche è stato chiesto di risarcire i superstiti dell'Olocausto

Per averli portati nei campi di concentramento nazisti a loro spese: lo chiede un cittadino olandese sopravvissuto al genocidio.

 
Salo Muller, superstite dell'Olocausto, con Job Cohen e Roger van Boxtel della NS, la principale società di trasporto pubblico olandese, nel giugno 2019
Salo Muller, cittadino olandese, ebreo, che sopravvisse all'Olocausto, ha chiesto un risarcimento alle ferrovie tedesche per le famiglie dei morti e per i superstiti del nazismo che vennero deportati nei campi di concentramento coi treni organizzati dal regime durante la Seconda guerra mondiale.
   Dopo la fine della guerra, la Germania iniziò a dare soldi a Israele e ai sopravvissuti ai campi di concentramento a titolo di indennità per quello che il regime nazista aveva fatto. Oggi Muller chiede che a queste persone venga rimborsato anche il prezzo del biglietto ferroviario, che spesso veniva fatto pagare a chi veniva deportato a bordo dei treni. Nel 2019, una commissione da lui chiesta era riuscita a ottenere che le ferrovie olandesi pagassero ai superstiti dei campi di concentramento diversi milioni di euro a titolo di risarcimento per i circa cento viaggi con cui avevano trasportato oltre 100mila olandesi di origine ebrea, sinti e rom verso diversi campi.
   Muller è nato nel 1936 ad Amsterdam da una famiglia ebrea. Nel 1941 i suoi genitori vennero arrestati e portati prima nel campo di Westerbork, nei Paesi Bassi nord orientali, e in seguito ad Auschwitz, dove morirono; lui, invece, venne separato dai genitori, crebbe con un'altra famiglia in Frisia, nella zona nord occidentale dei Paesi Bassi, e diventò piuttosto noto come fisioterapista della squadra di calcio dell'Ajax.
   Di recente, Muller ha inviato una lettera alla cancelliera tedesca Angela Merkel per chiedere che le ferrovie tedesche, di cui il governo tedesco è primo azionista, risarciscano circa 500 superstiti olandesi e 5.500 familiari di morti dell'Olocausto per i trasporti effettuati verso i nei campi di concentramento.
   Spesso, ha detto Muller, agli ebrei veniva richiesto di pagare il costo del trasporto - che avveniva in condizioni squallide e disumane - sulle ferrovie tedesche. Gli adulti dovevano pagare 4 Pfennig per ciascun chilometro percorso e i bambini sopra i 4 anni dovevano pagarne 2 (il Pfennig era il centesimo della moneta tedesca usata allora); cifre che, ha stimato il Guardian, oggi porterebbero a circa 16 milioni di euro di guadagno per le ferrovie tedesche.
   «Do la colpa alle ferrovie per aver trasportato consapevolmente gli ebrei verso i campi di concentramento, dove sono morti in un modo orribile», ha detto Muller al programma televisivo olandese Nieuwsuur, che ha aggiunto di ritenere la Germania «moralmente responsabile» degli olandesi deportati, che spesso vengono dimenticati.

(il Post, 31 luglio 2020)


AntiCovid ma anche antisemita

Il Sindaco ps di Düsseldorf coinvolge un rapper per indurre i giovani a difendersi dal virus.

di Roberto Giardina

Farid Bang
BERLINO - In Germania i giovani stranieri sono i più restii a seguire gli ordini e i consigli contro il Corona-virus: allora a chi si rivolge il sindaco di Düsseldorf per convincerli? A uno di loro, a un rapper che, da anni, è idolo dei ragazzi, anche tedeschi. In teoria una buona scelta, ma il borgomastro socialdemocratico Thomas Geisel, è stato troppo frettoloso e poco attento, Ha ingaggiato Farid Bang e ha messo in rete un suo video di appena 42 secondi, secco e violento come nello stile dei rapper, Efficace contro il Corona, forse. Peccato che Farid è noto da tempo per il suo antisemitismo e per le sue opinioni sulle donne, poco in sintonia con il politically correct.
   Le proteste sono state immediate: da parte dell'opposizione cristiano-democratica, ma anche dei verdi e dei liberali che appoggiano la giunta di Geisel. E il video, dopo meno di una settimana, è stato cancellato, nonostante in pochi giorni avesse raggiunto 170mila -like», Rimane la brutta figura. Geisel, nomen omen (in tedesco significa ostaggio), è rimasto vittima della linea buonista del suo partito. I giovani musulmani si oppongono all'integrazione. In questa estate hanno provocato manifestazioni violente a Stoccarda e Francoforte.
   Secondo un recentissimo studio sociologico, considerano gli «spazi aperti, come le piazze nei centri cittadini, un territorio ostile, da occupare ... i poliziotti come nemici », Direi un'analisi banale. Allora, si è pensato a Geisel; il sistema è di coinvolgerli invece di reprimerli. Il sindaco, per la verità, prima di utilizzarlo, ha invitato il rapper a un colloquio di prova. Farud si sarebbe dimostrato pentito dei suoi errori, e Geisel si è lasciato convincere: era un tommimo «role Model», un esempio per la gioventù.
   Farid Hamed El Abdellaoui, Bang è un nome d'arte, 34 anni, è nato a Melilla, nell'enclave spagnola in Marocco. I genitori si trasferirono a Torremolinos, quando aveva pochi mesi, il padre finì in prigione per spaccio di droga, e la madre si trasferì da sola a Düsseldorf con il figlio di otto anni. Farid ha anche il passaporto tedesco. Ha inciso il suo primo album nel 2008, l'ultimo ha venduto più di centomila copie, il suo patrimonio è valutato sui venti milioni di euro. Nell'ambiente è una star, ma non accettato da tutti. Lo chiamano anche «Beef» che nel gergo dei rapper indica l'atteggiamento aggressivo contro i colleghi, sulla scena e fuori.
   Per i giovani musulmani è un idolo anche per il suo ostentato antisemitismo. Il 7 giugno 2018, dopo una visita a Auschwitz ha rilasciato un commento di ironico cattivo gusto: il suo corpo, disse, era più «definito» di quello delle vittime del Lager. «Definiert» è il termine tedesco per indicare la massa muscolare dei fan del body buildingo Attacca gli omosessuali e ha preso in giro le donne vittime di violenze casalinghe. La sua canzone più famosa è Asozialer Marokkaner. Gli ha giovato l'attacco di Alice Wedel, leader dell'AtD, il partito di estrema destra che aveva chiesto la sua espulsione. Che è impossibile dato che Farid è cittadino tedesco. Lui rispose definendola una «Nazi Bitch» Una puttana nazista, e minacciando di spaccarle il naso. Attaccato dall'estrema destra, è stato difeso automaticamente dalla sinistra. Un buon esempio per la gioventù?

(ItaliaOggi, 31 luglio 2020)


Un anniversario dimenticato: il summit di Camp David vent'anni dopo

Gli artefici dei continui tentativi di negoziare sulla falsariga di Oslo preferiscono ignorare il vertice del luglio 2000, fatto fallire da Arafat e naufragato nel sangue dell'intifada delle stragi.

Un anniversario che non celebra nessuno. Vent'anni fa il presidente Bill Clinton riceveva il primo ministro israeliano Ehud Barak e il leader palestinese Yasser Arafat per un vertice di pace a Camp David. Col senno di poi, anche i veterani dell'amministrazione Clinton comprendono che si trattò di un atto di monumentale follia. Come ha scritto di recente Aaron David Miller, ex consigliere del Dipartimento di stato per il processo di pace in Medio Oriente, quel tentativo era condannato all'insuccesso ancor prima di iniziare.
   Il problema è che anche coloro che, a posteriori, hanno riconosciuto di essersi sbagliati si aggrappano tuttora all'illusione che una diplomazia più accorta e altri leader americani, israeliani e palestinesi potrebbero ancora ottenere un risultato diverso. Anche coloro che si sforzano di essere autocritici riguardo all'essere rimasti, come ha scritto Miller, "totalmente disorientati" a Camp David nel luglio 2000, fanno i conti solo parzialmente con il fatto che vi sono dei problemi che, semplicemente, non hanno soluzione. Quel che è peggio, alcuni di coloro che ad essi sono succeduti, come l'alto consigliere della Casa Bianca e genero del presidente, Jared Kushner, incaricato da Donald Trump per gli sforzi di pace in Medio Oriente, sembrano non aver appreso interamente la vera lezione del fiasco di Camp David, sebbene abbiano cercato di fare le cose meglio di quanto avessero fatto i loro predecessori....

(israele.net, 31 luglio 2020)


Israele, individuato il luogo dove i crociati sconfissero Saladino

Secondo gli ultimi studi si trova a Nord dell'attuale Tel Aviv: qui durante la Terza crociata il re inglese Riccardo Cuor di Leone fermò il Sultano, fino ad allora considerato invincibile.

di Francesco Consiglio

 
Il sito archeologico di Arsuf con le rovine del castello crociato a nord di Tel Aviv
Il 7 settembre del 1191 nei pressi dell'antica Arsuf, a nord dell'attuale Tel Aviv, l'esercito crociato guidato dal re d'Inghilterra Riccardo Cuor di Leone, sconfisse nella Terza crociata le truppe dell'"Invincibile" sultano Saladino, consolidando le posizioni cristiane in Terra Santa ed aprendo così la strada alla conquista di Giaffa. Quasi un millennio dopo, l'archeologo Rafael Lewis dice di aver localizzato il luogo esatto della Battaglia di Arsuf, questione dibattuta da decenni dagli storici.
   Non si trattava infatti di un'impresa facile: pochissime sono le testimonianze rimaste sul campo di battaglia, poiché la zona nei secoli, tra costruzioni e strade, è stata sconvolta dall'uomo. Ma unendo le informazioni riportate da fonti medievali, studiando il terreno e quelle che dovevano essere le vie di comunicazione dell'epoca, Lewis, docente all'Ashkelon Academic College e ricercatore all'Università di Haifa, è riuscito ad arrivare a un risultato mai raggiunto prima, che è stato confermato anche da piccoli, ma rilevanti, ritrovamenti sul campo: una punta di freccia, alcuni frammenti di armatura e un chiodo per ferrare i cavalli di una tipologia che si usava in Francia e in Inghilterra in quel periodo.
   L'area localizzata e spiegata a fondo nello studio Carpe Momento: In quest of the material evidence of the Battle of Arsuf, si trova a Nord-Est delle antiche rovine dell'antica Arsuf (o Apollonia come si chiamava in epoca bizantina).
   Dopo il ritiro dell'Impero Bizantino nel VII secolo, il controllo della Terra Santa rappresentò per molto tempo l'aspirazione massima per i regni cristiani d'Europa, che tentarono a più riprese di appropriarsi con la forza di quel territorio per strapparlo ai musulmani. Alla fine dell'XI secolo, la prima crociata lanciata da Papa Urbano II riuscì a conquistare Gerusalemme oltre a diverse roccaforti. Iniziavano così decenni di scontri e assedi.
   I generali cristiani dovettero presto fare i conti con uno dei più grandi strateghi militari del Medioevo, Saladino (Salah al-Din), fondatore della dinastia degli Ayyubidi e sultano dell'Egitto e della Siria. Nel 1187, il condottiero musulmano riconquistò Gerusalemme, cacciando le truppe cristiane fuori dalle mura della Città Santa. Francia, Inghilterra e Sacro Romano Impero misero da parte vecchie ferite e partirono alla volta del levante per vendicare l'onta subita. I crociati conquistarono il porto di Acri nel 1191, strategica porta d'accesso alla Palestina, e poi guidati da Riccardo Cuor di Leone, Re d'Inghilterra, iniziarono la loro marcia verso sud per conquistare la città di Giaffa, tenendosi vicino la costa dove potevano essere riforniti dalle navi cristiane.
   Il 7 settembre del 1191 Saladino tentò la sortita, attaccando le retrovie delle forze crociate e provando a sconvolgerne lo schieramento. Ma l'esercito di Riccardo resse all'urto e le cariche delle cavallerie crociate assaltarono ai fianchi il nemico mettendolo in fuga verso una foresta. Ad Arsuf il mito dell'Invincibile Saladino si incrinò ma le sue truppe non furono annientate.
   Fondamentale per la localizzazione del campo di battaglia è stato lo studio della geografia tramite immagini d'epoca e antiche mappe. Lewis, esperto in campi di battaglia, ha calcolato in che posizione Saladino avrebbe potuto organizzare l'agguato, in una posizione elevata che avrebbe ottimizzato il raggio d'azione degli arcieri, e che percorso avrebbe intrapreso Riccardo per raggiungere Giaffa dal porto di Acri, rimanendo in comunicazione con la sua marina. I ritrovamenti sul terreno grazie al metal detector hanno confermato le intuizioni dell'archeologo ed hanno permesso di collocare esattamente il campo di battaglia, scoperta che, ha spiegato Lewis ad Haaretz, permette di capire in maniera più approfondita quali fossero le tattiche militari adottate da due grandi generali del Medioevo. Saladino, temendo forse un attacco diretto a Gerusalemme e non a Giaffa, avrebbe infatti scelto quel luogo per assaltare i crociati poiché vicino a un incrocio chiave che apriva la strada verso la Città Santa, venendo però sconfitto dalla cavalleria crociata.
   Rinfrancati nel morale, dopo la vittoria, i crociati riuscirono a conquistare Giaffa, ma non furono in grado di strappare con la forza Gerusalemme ai musulmani: la Città Santa era protetta da imponenti fortificazioni ed era lontana dal mare e quindi da facili vie di rifornimento. Riccardo Cuor di Leone e Saladino raggiunsero nel 1192 una tregua che riconosceva lo status quo raggiunto: le conquiste crociate sulla costa e il dominio musulmano su Gerusalemme erano garantiti. Il sultano si sarebbe inoltre impegnato ad assicurare il transito di pellegrini e mercanti cristiani nella Città Santa. Per i crociati la riconquista del Santo Sepolcro rimase però solamente un miraggio.

(la Repubblica, 30 luglio 2020)


La polizia israeliana ha detonato un esplosivo palestinese trasportato da un pallone gonfiabile

di Paolo Castellano

Il 27 luglio la polizia israeliana ha dichiarato di aver trovato la testa esplosiva di un razzo RPG in una zona agricola nel sud di Israele. L'esplosivo è arrivato da Gaza nel territorio israeliano attraverso un pallone gonfiabile, simile ai palloncini colorati che si usano alle feste dei bambini.
   Come ha fatto notare anche il sito d'informazione JTA, i gruppi terroristici fondamentalisti palestinesi - soprattutto le milizie di Hamas - hanno realizzato questo trucco per incendiare i prati e i terreni al confine con Israele, e anche per trasportare cariche esplosive con l'obiettivo di colpire qualche centro abitato, o nella più tragica delle ipotesi qualche bambino attirato dai palloncini.
   In questo caso il pallone non ha causato un rogo doloso. Tuttavia, la polizia israeliana ha isolato la zona in cui il gonfiabile era atterrato per detonare in sicurezza l'ordigno.
   Le forze dell'ordine di Israele hanno comunicato questo avvenimento attraverso un breve messaggio e un video della detonazione all'interno del loro account Twitter: «È stato trovato un pallone in un'area aperta nella zona del Consiglio regionale di Eshkol a cui è stato legato un oggetto sospetto. Abbiamo chiamato un artificiere della polizia sulla scena e un'indagine ha rivelato che si trattava di un dispositivo esplosivo. La carica è stata neutralizzata».
   Nel 2019 si sono moltiplicati gli attacchi terroristici di questo genere sul confine tra Gaza e Israele. Detto ciò, nel 2020 sono diminuiti i palloni e i palloncini incendiari o esplosivi. Ciononostante, il mese scorso sono stati ritrovati diversi gonfiabili nel sud di Israele.
   Lo scorso mese, un gruppo terroristico palestinese specializzato in questi attacchi ha minacciato di "scatenare l'inferno" contro gli israeliani che vivono nei pressi della frontiera.

(Bet Magazine Mosaico, 30 luglio 2020)


Viaggio alle Fattorie di Shebaa, dove si incrociano i destini di Libano, Siria e Israele

Limesonline vi porta nel punto esatto dello scontro a fuoco tra Hezbollah e Israele del 27 luglio. Un evento dai contorni ancora poco chiari. Soldati, miliziani, caschi blu indiani e pastori al seguito di greggi transfrontalieri.

di Lorenzo Trombetta

 
 
Postazione avanzata di Unifil sulle Fattorie di Shebaa. Sullo sfondo la postazione israeliana
 
La pattuglia di militari indiani UNIFIL sale verso la postazione OP-1. In alto l'antenna della postazione israeliana
Pochi possono dire con certezza cosa sia successo lunedì 27 luglio sullo sperduto altipiano del monte Hermon/Shaykh, dove da decenni si scontrano e si incontrano siriani, libanesi e israeliani.
   Di sicuro c'è stato uno scontro a fuoco tra Hezbollah e israeliani, durato non più di un'ora, senza causare vittime, in una zona scarsamente popolata nota come le Fattorie di Shebaa.
   Le versioni delle due parti contrastano in modo speculare. Come in ogni litigio, uno accusa l'altro di aver cominciato. Gli Hezbollah negano di aver addirittura preso parte allo scontro, mentre gli israeliani puntano il dito contro un presunto commando di miliziani libanesi che ha tentato di infiltrarsi, varcando la Linea Blu di demarcazione tra i due paesi.
   La Linea Blu, appunto, è di competenza della missione Onu schierata nel sud del Libano dal 1978, comandata da un italiano, il generale Stefano Del Col, e a cui l'Italia partecipa con circa mille unità. L'Unifil ha aperto una inchiesta e per ora non trapela nulla dalle stanze di Naqura, dove ha sede il comando centrale dei caschi blu. Del Col e i suoi più stretti collaboratori incontrano periodicamente, ogni sei settimane, rappresentanti dell'esercito libanese e dell'esercito israeliano. Questi incontri tripartiti sono tattici e operativi, non politici e strategici.
   Solo pochi giorni prima l'incidente delle Fattorie di Shebaa, Del Col aveva presieduto a Capo Naqura un nuovo incontro tripartito, nel corso del quale aveva sollecitato le parti a usare i meccanismi di coordinamento messi in piedi da Unifil per mitigare le tensioni lungo la Linea Blu e in tutta l'area frontaliera.
   L'esercito libanese non è Hezbollah. Ma il movimento sciita, che partecipa alle massime istituzioni libanesi, tra cui il governo, ha una relazione molto stretta con i settori dell'esercito e dell'intelligence militare che operano nel sud del paese. Quando Unifil parla con l'esercito di Beirut, i messaggi arrivano a Hezbollah. E viceversa, anche tramite i sindaci delle cittadine del sud del Libano, che incontrano periodicamente Del Col e i generali a comando dei vari contingenti nazionali di Unifil in tutta l'area di responsabilità, a ovest e a est.
   Nel settore orientale si è svolto l'incidente di lunedì. A presidiare quella zona, per conto della forza Onu, ci sono da anni i caschi blu indiani. Il presunto botta e risposta sull'altopiano di Shebaa è infatti avvenuto sotto gli occhi della pattuglia di otto indiani che ogni giorno, dalle 5 del mattino alle 7 della sera, ogni giorno dell'anno, sotto al sole o ricoperti di neve, controllano la zona verso tutti i punti cardinali.
   Meno di un mese fa Limesonline era stato fisicamente nel posto di osservazione OP-1, la postazione Unifil più alta (circa 1.800 m.s.l.m) di tutta l'area di responsabilità di Unifil.
   Si tratta di un avamposto costituito da due piccole costruzioni in pietra e recintato da massi. Ci si arriva tramite un sentiero molto ripido in salita di circa un chilometro, che si imbocca da una strada sterrata proveniente dalla cittadina di Shebaa, bene in vista sul lato occidentale dell'avamposto OP-1. Sul lato orientale, a poche centinaia di metri più in alto, una postazione israeliana, assai più ampia e strutturata, domina la postazione tenuta dagli indiani di Unifil. All'arrivo in altura, un gruppo di soldati israeliani si era affacciato a una torretta di osservazione della loro base per assistere meglio a un inusuale movimento di persone, anche in abiti civili, scortate dalla pattuglia di indiani. Poco dopo, non v'era più traccia degli israeliani. Questi ultimi erano tornati nelle loro posizioni, invisibili. Delle loro risate non v'era più l'eco. I militari indiani erano rimasti soli. E indicavano agli ospiti e a Limesonline i piloni in lontananza che segnano il passaggio virtuale della Linea Blu: a destra il territorio controllato da Israele; a sinistra quello libanese, ma contestato dalla Siria.
   La Siria si intravede oltre l'altopiano, verso le cime in lontananza del monte Hermon/Shaykh, in parte controllato da Israele. Su queste montagne brulle si intravedono in lontananza costruzioni di pietra. Sono alpeggi dei pastori locali. I militari indiani scrutano l'orizzonte col binocolo. E affermano che, spesso, gli unici esseri viventi di passaggio in quella zona, ora di colore giallo e marrone, sono le pecore e i loro pastori.
   Proprio il passaggio "illegale" di greggi a cavallo dell'invisibile Linea Blu può ogni tanto mettere a repentaglio il delicato equilibrio creatosi in quest'area.
   I pastori seguono le pecore, incuranti di una linea immaginaria tracciata 20 anni fa dietro all'ultimo soldato di Israele, quando Ehud Barak decise il ritiro militare dal sud del Libano. Ma quando un pastore finisce in territorio controllato da Israele, dopo aver ignorato gli avvertimenti dei caschi blu indiani, diventa obiettivo dei militari israeliani. Questi ultimi, dopo aver lanciato a loro volta avvertimenti, sparano pallottole vere al pastore. In certi casi non vengono colpiti ma vengono fermati, interrogati e poi consegnati all'Unifil. In altri casi, i pastori vengono feriti lievemente, in altri vengono feriti in maniera grave. Capita che gli stessi israeliani soccorrano i pastori feriti. Di recente, uno di questi libanesi è stato ricoverato all'ospedale di Haifa, perché aveva perso un braccio maciullato da una pallottola israeliana; ora ha una protesi, impiantata dai medici israeliani, ed è tornato a condurre le pecore sull'altopiano di Shebaa.
   In questo territorio dagli incontri eccezionali si è svolto quello che ancora viene definito "l'incidente" delle Fattorie di Shebaa.
   Chiunque abbia aperto il fuoco per primo non aveva intenzione di scatenare un conflitto su larga scala, ma voleva mandare un messaggio.
   Un'ipotesi è che Hezbollah - il cui numero 2, lo shaykh Na'im Qasem, domenica scorsa aveva detto che non si aspetta una nuova guerra con Israele - abbia voluto vendicare un suo combattente ucciso una settimana prima in un raid attribuito all'aviazione dello Stato ebraico contro una presunta base iraniana nei pressi di Damasco. Questa ipotesi è stata smentita da Hezbollah, che in un comunicato diffuso dopo "l'incidente" ha negato di aver aperto il fuoco e si è riservata il diritto di vendicare il combattente ucciso vicino Damasco.
   Ci si chiede perché Israele avrebbe dovuto sparare colpi di artiglieria a vuoto (è stata danneggiata una casa nella cittadina frontaliera di Hebbariye) in una zona contesa. Forse, sostengono alcuni in Libano, tra cui lo stesso premier Hassan Diab, per innalzare il livello di pressioni politiche, militari e diplomatiche in vista del rinnovo per il mandato della missione Unifil, previsto proprio ad agosto.
   Israele chiede da tempo che i caschi blu abbiano più poteri: non solo di sorvegliare la zona, ma anche di controllare in maniera più invasiva il territorio alla ricerca di arsenali, infrastrutture logistiche (si veda la crisi dei tunnel del 2018), unità militari di Hezbollah a nord della Linea Blu. In questo senso, affermano gli analisti in Libano, provocare una reazione dei miliziani sciiti potrebbe spingere i membri del Consiglio di sicurezza dell'Onu, incaricato di decidere del rinnovo, già aperto da settimane, a considerare necessario un cambio a favore di Israele del mandato della missione.
   Ma sono solo ipotesi. Che non trovano conferme nella cronaca di quanto accaduto lunedì. Israele afferma che un commando di Hezbollah si è tentato di "infiltrare" oltre le linee. Ma di questo ancora non ci sono prove. Forse saranno prodotte nelle prossime ore e giorni. In attesa dell'inchiesta di Unifil - che non sarà resa pubblica nei dettagli - rimane un dato certo: l'incidente si è svolto in una zona solitamente non usata per scatenare conflitti su larga scala ma per inviare segnali.
   La dinamica degli eventi finora noti induce a pensare che nessuna delle due parti abbia insistito nel creare i presupposti per un'escalation: se Hezbollah avesse effettivamente tentato un'operazione oltre le linee per provocare gli israeliani, perché il movimento si è limitato a far ritirare i suoi uomini, come sostengono gli israeliani? Se invece, come affermano gli Hezbollah, Israele ha aperto il fuoco in maniera unilaterale e ha bombardato "per circa un'ora" zone di fatto disabitate nella zona di Shebaa, perché si è limitata a questa azione?
   Vista dalle montagne a ridosso delle Fattorie di Shebaa, la linea che separa la pace dalla guerra è talmente sottile da risultare intangibile. Quando guerra sarà di nuovo, come 14 anni fa, gli analisti e gli osservatori se ne accorgeranno a polveri già accese.

(Limesonline, 30 luglio 2020)


Anche l’Autorità Palestinese monitora i contagi via smartphone

Anche l'Autorita' palestinese avrebbe la sua app per monitorare i pazienti contagiati dal coronavirus. Secondo la stampa israeliana, l'unita' informatica della Forza di sicurezza preventiva dell'Autorita' palestinese a Hebron avrebbe sviluppato un'app per tenere traccia degli spostamenti delle persone infette da coronavirus. L'app sarebbe stata scoperta dall'israeliano Meir Amit Intelligence Terrorism and Information Center e terrebbe traccia del movimento dei casi attivi attraverso i loro smartphone e con sorveglianza elettronica.
   In questo periodo i Territori palestinesi stanno assistendo ad una massiccia diffusione dei contagi. Il 15 giugno si contavano 400 casi, il mese successivo oltre 8.000 ed oggi 14.458 casi, 14 dei quali gravi, e 82 vittime. Non sono bastate le richieste del governo di usare la mascherina o di limitare attivita' e seguire ne norme di distanziamento sociale: complice il periodo dei matrimoni e il caldo, nei Territori sono davvero pochi coloro che seguono le regole imposte, cosi' come le chiusure delle citta'.
   L'app palestinese sfrutterebbe i dati messi a disposizione dalle societa' di telecomunicazioni del posto che, come tutte le altre, dispongono di enormi quantita' di informazioni su dove si trovino i loro clienti e con chi interagiscano. L'app al momento non sarebbe ancora stata utilizzata, ma visto l'enorme incremento nel numero di casi, il governo di Ramallah sarebbe pronto a sfruttare le sue potenzialita'.
   Anche in Israele si utilizza il monitoraggio degli smartphone in chiave anti Covid e il tutto e' in mano allo Shin Bet, i servizi interni. Nei mesi scorsi, l'agenzia israeliana di sicurezza aveva ottenuto, nonostante le vibranti proteste della maggioranza degli israeliani, l'autorizzazione per il monitoraggio dei cellulari in chiave anti-Covid. Da maggio, con la riduzione dei casi di contagio, l'attivita' di controllo e' stata sospesa, per poi riprendere su richiesta del governo lo scorso mese visto l'aumento dei casi nel Paese. Il programma, e' stato gradualmente ritirato ad aprile dopo che la Knesset ha deciso di fermarlo a seguito di una decisione dell'alta corte di giustizia che ha stabilito che una violazione cosi' massiccia dei diritti alla privacy degli israeliani sarebbe dovuta essere ancorata alla legislazione formale.

(AGI, 30 luglio 2020)


Sodastream e Hadassah Medical Center presentano un innovativo dispositivo respiratorio

Per prevenire l'assistenza respiratoria invasiva

Una soluzione innovativa ispirata alla tecnologia Sodastream in collaborazione con l'Hadassah Ein Kerem Hospital in Israele consentirà l'assistenza respiratoria ai pazienti COVID-19 in condizioni lievi e moderate.
  La persistenza e persino l'allarmante tendenza al rialzo della pandemia COVID-19 in molti Paesi, evidenzia ulteriormente la necessità della disponibilità di respiratori negli ospedali e nelle strutture sanitarie. Oggi, Sodastream e l'Hadassah Ein-Kerem Hospital hanno deciso di collaborare per rispondere a questa esigenza. Al centro di questa partnership lo sviluppo di una soluzione medica rivoluzionaria per la terapia respiratoria nasale. Ora che il dispositivo è stato approvato dal Ministero della Salute israeliano è già iniziata la sperimentazione clinica nell'unità di terapia intensiva generale dell'Ospedale.
  L'innovazione è stata progettata per trattare i pazienti COVID-19 in condizioni da lievi a moderate in difficoltà respiratorie, e quindi ancora in grado di respirare autonomamente. Il dispositivo fornisce infatti ai pazienti i corretti livelli di ossigeno richiesti in base alla specifica situazione. Alcuni studi hanno dimostrato che questo tipo di dispositivo è in grado di prevenire l'aggravamento clinico e la conseguente intubazione (assistenza respiratoria invasiva) in alcuni pazienti, nonché di ridurre i rischi e le complicazioni ad esso associati. Inoltre, l'uso di tale dispositivo può sopperire alla carenza di respiratori rendendoli di conseguenza disponibili per i pazienti in maggiore sofferenza respiratoria per i quali l'aiuto di un respiratore è l'unica opzione disponibile.
  Il dispositivo sviluppato da Sodastream e Hadassah consente la somministrazione di una miscela di ossigeno-aria attraverso il naso ad alta portata, alta umidità e temperatura corporea. Lo sviluppo si basa su un sistema termodinamico che controlla la temperatura della miscela aria-ossigeno e conduce il composto nel naso del paziente in combinazione con un'elevata umidità, superiore all'80%. I parametri di umidità, temperatura e percentuale di ossigeno - critici per la qualità della respirazione - sono costantemente monitorati e forniscono al personale medico un'indicazione audiovisiva in caso di anomalia.
  Sebbene attualmente sul mercato esista un numero limitato di sistemi simili in grado di soddisfare i requisiti di cui sopra, sono indicati per il trattamento individuale e non per interventi massicci come nel caso di una pandemia.
  A seguito dell'emergenza sanitaria il dottore Akiva Nachshon, medico responsabile dell'unità di terapia intensiva dell'Ospedale Hadassah Ein Kerem, ha contattato Avi Cohen, capo della divisione Ricerca e Sviluppo di SodaStream, e insieme hanno creato un team speciale composto da ingegneri sviluppatori SodaStream. Data la pressante necessità di una tale soluzione, il team guidato da Cohen con il supporto del dottore Nachshon e di un gruppo di esperti dell'Ospedale Hadassah Ein Kerem, ha progettato e costruito la macchina in tempi molto brevi, rispettando i più severi requisiti tecnologici e normativi. A causa dell'urgente necessità, il team ha ricevuto l'approvazione accelerata dall'Unità di Sperimentazione Clinica del Ministero della Salute israeliano e ha appena iniziato la sperimentazione clinica su 40 pazienti.
  "Ci siamo resi conto che c'era una carenza di ausili per terapia respiratoria non invasivi per il trattamento dei pazienti affetti da COVID-19 e dopo aver raccolto l'interesse da parte di Sodastream nel fare qualcosa di concreto per affrontare questo periodo di emergenza, abbiamo cercato di pensare fuori dagli schemi", ha spiegato il Dr. Akiva Nachshon di Hadassah Ein-Kerem. "Parlando con un amico abbiamo capito che la soluzione era proprio qui nell'industria israeliana, sotto il nostro naso, in ogni cucina. È bastato uno scambio con il responsabile Ricerca e Sviluppo di SodaStream per far partire il tutto. Lo stesso giorno avevamo già uno schizzo, da cui il progetto si è sviluppato in maniera indicibilmente veloce. Il nostro obiettivo è di essere in grado di aiutare quei pazienti che hanno bisogno di assistenza respiratoria con il sistema innovativo Stream02, che evita di intervenire in maniera invasiva quando non necessario".
  "La macchina per la terapia respiratoria nasale sviluppata dal team congiunto di medici dell'Hadassah e di ingegneri di SodaStream può essere una perfetta soluzione salvavita" ha spiegato Avi Cohen, responsabile Ricerca e Sviluppo di SodaStream. "Il vantaggio del nostro progetto è la possibilità di replicarlo in grandi quantità e renderlo disponibile per i pazienti che soffrono di disturbi respiratori in Israele e nel mondo".
  "È un enorme privilegio per noi poter mettere al servizio di chi è stato colpito dal COVID-19 la nostra tecnologia e le nostre risorse, contribuendo a salvare vite umane", ha commentato Eyal Shohat Global CEO di SodaStream. "Forniremo all'Hadassah tutti i mezzi a nostra disposizione per assisterli in questo sforzo nazionale e non esiteremo ad aiutare altri paesi, offrendo la nostra assistenza".

(Bet Magazine Mosaico, 30 luglio 2020)


La crudele Shoah veneta salvata dall'oblio

Qui, tra il dicembre '43 e il luglio '44, transitarono circa 70 persone: 47 finirono ad Auschwitz, solo tre si salvarono, una bambina fu riacciuffata tre volte.

di Alberto Laggla

 
Villa Contarini Venier, ieri
 
Villa Contarini Venier, oggi
Un campo di concentramento per ebrei in un borgo ai piedi dei Colli Euganei, nel Padovano; un gruppo di 47 prigionieri all'interno di una villa; sette mesi di internamento fino alla deportazione ad Auschwitz; il destino di sette bambini. Una pagina "rimossa" della Shoah in Italia, che rischiava l'oblio, se Francesco Selmin, un professore di Storia, trent'anni fa non si fosse imbattuto in questa tragedia dimenticata e non avesse iniziato a occuparsene, pubblicando negli anni tre preziosi testi su di essa. Siamo alla fine di novembre del 1943 e un'ordinanza di polizia firmata dal ministro dell'Interno della Repubblica sociale italiana, Guido Buffarini, stabilisce l'arresto di tutti gli ebrei, il loro internamento e la confisca dei beni. «Dei 31 campi istituiti nell'Italia settentrionale dalla Rsi, il primo a entrare in funzione e uno dei più duraturi», ricorda Selmin, «è proprio quello di Vo' Vecchio. Già il primo dicembre, infatti, la seicentesca Villa Contarini Venier, data in affitto da pochi mesi alle suore elisabettine di Padova, viene requisita dai repubblichini e solo due giorni dopo accoglie un primo gruppo di 15 ebrei catturati a Padova dagli agenti della Pubblica sicurezza. Il 10 dicembre gli internati erano 37». Prima della chiusura, il 17 luglio del 1944, si calcola che siano transitati lì dentro una settantina di ebrei, con interi nuclei familiari. Tra di essi anche sette bambini.
   «Le condizioni di vita dei prigionieri erano opprimenti, anche a causa della durezza del primo comandante del campo, Nicola De Mita. Alla fine del 1943 la situazione peggiorò ulteriormente a causa della scarsità delle razioni alimentari e del freddo. Nella villa vi era un'unica stufa e la legna a disposizione era poca. Qualcuno dormiva su semplici giacigli di paglia e le coperte non bastavano», dice Claudio Lovison, dell'associazione CreatiVo' che gestisce dal 2012 gli spazi di Villa Contarini e il Museo della Shoah al suo interno. Tra le testimonianze scoperte dal professor Selmin vi è quella del parroco d'allora, il giovane don Giuseppe Rasia, che lasciò un dettagliato racconto scritto della vita del campo nella "cronistoria parrocchiale". Tante le vicende tristi riportate, ma anche qualche raro momento di serenità, come la festa di Capodanno, quando i ragazzi ebrei, davanti a tutti, allestirono uno spettacolo teatrale che riscaldò il cuore dei grandi: la recita di una canzone-filastrocca tratta dall'Haggadah di Pesach, la narrazione della Pasqua ebraica. Annota tristemente il sacerdote: «Poveri ragazzi! Non sapevano che dopo pochi mesi sarebbero andati a finire nei forni». Aggiunge, tuttavia: «Ma solo col corpo. La loro anima è certamente in un luogo di felicità». «Uomo di grande umanità, don Giuseppe, provò ad alleviare come poté le afflizioni dei detenuti», commenta Lovison.
   Sulla chiusura del campo, annota ancora il parroco: «Sono arrivati i tedeschi alle due del pomeriggio: caldo afoso. Con gran chiasso fecero alzare quelli che erano a letto e discendere in cortile dove dovettero depositare denaro e oro.Verso le cinque partirono su due camion come gente dozzinale, in piedi la maggior parte. Una bambina di nove anni riuscì a sfuggire due volte, ma il giorno seguente fu consegnata a Padova. Il modo di trattarli fu veramente inumano». Il 19 luglio le SS li trasferirono alla Risiera di San Sabba, a Trieste e, da lì, assieme ad ebrei triestini, furono caricati nel treno "33T", ammassati come bestie nei vagoni. Capolinea: Auschwitz, dove arrivarono la notte tra il 3 e il 4 agosto. Dei 47 quasi tutti furono avviati nelle camere a gas quel giorno stesso. Solo tre donne si salvarono. I sette bambini della recita furono gasati con gli altri. Compresa la piccola Sara Gesses, che invano la madre provò a far fuggire, per la terza volta, a Trieste, facendola uscire dal finestrino del pullman, con appuntato sul petto un biglietto con la scritta: "Salvatela per pietà". Ma nessun "giusto" incrociò la fuga della bimba.

(Famiglia Cristiana, 30 luglio 2020)


Tra Israele e Libano la finta calma sul confine. "Hezbollah attaccherà"

Una giornata lungo la frontiera dopo l'incursione respinta delle milizie sciite. Un maggiore della riserva: "La guerra non conviene". E lo sguardo va all'Iran.

di Sharon Nizza

METULLA (confine Israele-Libano) - Una giornata trascorsa al confine Nord d'Israele può dare il senso di come sia volubile la realtà di questo Paese. Lunedì pomeriggio i residenti del villaggi a ridosso del confine con il Libano si sono trovati per qualche ora barricati in casa in seguito agli scontri a fuoco nell'area di Har Dov (Fattorie di Shebaa), con cui i soldati hanno respinto un commando di Hezbollah infiltratosi in territorio israeliano.
   Arrivando al Nord sulla strada 90, alcuni posti di blocco militari sono il primo indice di una situazione anomala. Nonostante ciò, la routine sembrava tornata alla normalità: famiglie sui kayak del fiume Banias, a meno di 2 chilometri dal confine; giovani al pub di Metulla, la cittadina più a Nord del Paese che ha come dirimpettaio il villaggio libanese di Kafarkila; i proprietari dei tanti bed&breakfast della zona che non lamentavano cancellazioni. Ma già nel pomeriggio l'atmosfera è cambiata. Qualche cancellazione è arrivata di pari passo con l'annuncio dell'invio di rinforzi sul fronte nord, unità di artiglieria e di intelligence. Nei giorni scorsi erano già state dispiegate batterie del sistema antimissile Iron Dome. Qui e lì si sentono gli elicotteri. Il rafforzamento delle unità è avvenuto poco dopo la visita del premier Benjamin Netanyahu al Comando militare Nord e, in parallelo, del ministro della Difesa Benny Gantz-al Comando dell'aviazione.
   «Da venerdì abbiamo capito che stava per succedere qualcosa» ci dice Mikl, che dal balcone di casa sua a Kiryat Shmonà ha potuto assistere quasi in prima linea allo scontro del giorno prima. «Siamo abituati ai rumori degli elicotteri ogni tanto per via delle esercitazioni militari. Ma l'altra notte ci ha svegliato un boom sonico, che non è una cosa comune. Andiamo avanti con le nostre vite, ma c'è una certa inquietudine in questi giorni. Speriamo tutti che la situazione - non degeneri».
   Israele era in stato di allerta da una settimana, a seguito dell'attacco, attribuito all'aviazione israeliana, all'aeroporto di Damasco il 20 luglio, in cui era rimasto ucciso un uomo di Hezbollah. Ali Kamel Mohsen. La rappresaglia era attesa ma Hezbollah ha negato di avervi preso parte, sostenendo che sia invece una prova dello «stato di stress in cui si trova il nemico sionista» e che la risposta all'uccisione di Mohsen «deve ancora arrivare». Ieri la forza di interposizione delle Nazioni Unite, Unifll, come da protocollo quando avvengono scontri nell'area di confine, ha condotto un'inchiesta sul territorio, di cui ancora non si conoscono le conclusioni.
   «Normalmente Hezbollah commenta immediatamente gli attacchi, mentre questa smentita è arrivata solo dopo qualche ora. Indice dell'imbarazzo in cui si trova Nasrallah per un attacco non andato in porto», ci spiega Amit Deri, un maggiore di riserva che ha prestato servizio lungamente su questo fronte. «E' chiaro che ora porterà avanti un'azione, ma considerata la crisi economica e politica disastrosa in cui si trova il Libano in questo momento, non c'è possibilità che vogliano impantanarsi in un conflitto su larga scala con Israele, sarebbe un suicidio».
   Nemmeno Israele - più preoccupato dall'Iran, che considera il mandante - ha interesse a uno scontro prolungato con Hezbollah. Lo testimoniano anche i messaggi distensivi che fa recapitare ai libanesi attraverso l'Unifil una volta al mese o, quando necessario, si svolge una riunione tra l'esercito libanese e quello israeliano, con la mediazione della Forza dell'Onu guidata dal generale italiano Stefano Del Col, in cui questo genere di messaggi viene trasmesso e discusso «in maniera molto pratica, così come i militari sanno fare», come ci descrive una fonte familiare con questi scambi.
   Da Metulla, a pochi metri dalla linea blu che segna il confine tra Israele e Libano, è facilmente distinguibile una postazione di Hezbollah, con tanto di gigantografia di Nasrallah. «Secondo la risoluzione 1701 dell'Onu (che ha posto fine alla Seconda guerra del Libano nel 2006 n.d.a), al di sotto del Litani possono esserci solo forze armate dell'Unifil e dell'esercito libanese. Ma Hezbollah fa da padrone», ci dice Almog, responsabile della sicurezza di uno dei kibbutz di confine. Intanto Netanyahu e Gantz rilasciano dichiarazioni minacciose,
   «Non consigliamo a nessuno di metterci alla prova», «Iran, Libano, Siria devono ricordare che Israele ha infinite capacità». Parlano a Beirut ma l'occhio guarda a Teheran.
   
(la Repubblica, 29 luglio 2020)


Crisi, corruzione e Covid, Netanyahu ora è in bilico

di Alessandro Fioroni

Crisi economica, epidemia di coronavirus e accuse di corruzione per Benjamin Netanyahu, un combinato disposto che sta scuotendo profondamente la società israeliana e da almeno cinque settimane sta provocando massicce proteste come non se ne vedevano da molti anni.
   La situazione è tale da spingere migliaia di persone a riversarsi per le strade del paese con i raduni di protesta maggiori a Tel Aviv e Gerusalemme. Come nello scorso weekend quando la polizia, che ha comunque autorizzato le manifestazioni, ha usato cannoni ad acqua per disperdere le folle e arrestato almeno 12 persone tanto da provocare diversi ricorsi alla Corte Suprema contro l'impiego di tali mezzi.
   Accanto alla tradizionale opposizione laburista sono nate nuove aggregazioni come la "Black Flag" e "Crime Minìster", movimenti animati soprattutto dai più giovani disposti ad affrontare anche una repressione, fin qui discreta, ma che cresce di intensità di giorno in giorno. In questo senso non fanno ben sperare le parole del primo ministro che ha accusato la stampa «al soldo di una propaganda bolscevica senza freni». A gennaio riprenderà la fase dibattimentale e le audizioni che dovranno dimostrare o meno la colpevolezza di "Bibi" riguardo una vicenda di frode, violazione della fiducia e tangenti. Uno scandalo che non è mai cessato nonostante la situazione sanitaria del Paese. Secondo i dati raccolti dal Johns Hopkins Institute, Israele ha registrato ufficialmente almeno 470 decessi e oltre 61mila casi di coronavirus su una popolazione di 9 milioni con un trend dei contagi in crescita. All'inizio di questa settimana è stata approvata una legge che conferisce al governo poteri speciali, sotto la bandiera della lotta contro Covid-19, fino alla fine del 2021.
   Una decisione che ha contribuito ad alimentare il fuoco delle proteste dei cittadini sospettosi per una svolta autoritaria. Netanyahu è corso ai ripari nominando il super commissario per la gestione di un'eventuale seconda ondata, Ranni Gamzu, direttore dell'Ospedale Ichilov di Tel Aviv. Le sue posizioni infatti rispetto a un nuovo lockdown sono decisamente più caute e di nuove chiusure si riparlerà forse solo dopo la prima settimana di agosto.
   L"epidemia ha colpito duramente i settori economici, le macerie lasciate sul campo sono evidenti. Il governo ha svelato un piano anticrisi di circa 6,5 miliardi di shekel (1,9miliardi di dollari). Per i movimenti di protesta però si tratta di misure insufficienti a fronte di un tasso di disoccupazione salito al 20%. Gli scenari che potrebbero aprirsi sono ora difficilissimi anche per un vecchio combattente come Netanyahu. La coabitazione con i centristi di Bianco-Blu di Benny Gantz somiglia dall'inizio ad una convivenza forzata e la tentazione dell'ex capo di stato maggiore potrebbe essere quella di approfittare della debolezza del premier per rimettere tutto in discussione.
   Lo slogan di molti manifestanti «Salire a Balfour» (residenza ufficiale del primo ministro) potrebbe diventare realtà.

(Il Dubbio, 29 luglio 2020)


Israele scende in piazza: le manifestazioni contro il governo Netanyahu-Gantz

di David Zebuloni

 
L'ultima volta che Israele scese in piazza, correva l'anno 2011. Decine di migliaia di manifestanti conquistarono le vie di Tel Aviv, protestando per il caro affitti e contro lo stesso governo Netanyahu di oggi. L'evento prese il nome di "manifestazione delle tende", in quanto Rothschild Avenue venne interamente occupata da tende e capanne nelle quali soggiornavano i manifestanti. Da allora non ci sono più state manifestazioni della stessa portata. Poi è arrivato il coronavirus.
   Dal mese di marzo Israele è entrata in una crisi economica senza precedenti. Il lockdown ha portato alla chiusura immediata di negozi, ristoranti e centri commerciali, in molti dei casi causandone il fallimento. Nonostante le continue promesse di sussidio da parte del governo, le piccole e grandi imprese si sono sentite abbandonate in questa battaglia contro un nemico invisibile, non ricevendo alcun tipo di sostegno economico da parte delle autorità.
   La prima delle tante manifestazioni che hanno caratterizzato le ultime settimane, risale all'11 di luglio, quando diecimila manifestanti sono scesi nella Rabin Square a Tel Aviv muniti di cartelloni e ignorando del tutto le regole del distanziamento sociale dettate dal virus. Da allora le piazze di Tel Aviv e di Gerusalemme sono rimaste gremite di uomini e donne esasperate dalla crisi.
   A neutralizzare i manifestanti sono state le forze dell'ordine, che hanno tentato inizialmente di evacuare le piazze con i cannoni ad acqua, ricorrendo poi allo scontro frontale. Solo a Gerusalemme sono state fermate dodici persone, tra le quali alcuni attivisti politici e altri manifestanti che hanno opposto resistenza all'evacuazione delle strade a notte inoltrata. Sempre a Gerusalemme i manifestanti si sono presentati di fronte alla casa del Premier Netanyahu, intonando cori violenti ed impugnando cartelli dalle scritte minacciose. A far discutere è stata una manifestante in particolare, che si è mostrata seduta a seno nudo sulla grossa Menorah di pietra, uno dei massimi simboli sacri nella religione ebraica, al di fuori delle mura della Knesset.
   "Vergognoso", ha dichiarato il Presidente della Knesset, Yariv Levin. "Non confondiamo una manifestazione legittima con la sconsacrazione di un simbolo tanto importante per la nostra storia". Il giornalista Shimon Riklin ha definito la manifestante un'anarchica e Yair Lapid, Capo dell'Opposizione nella Knesset, ha risposto dicendo che la manifestante in questione rappresenta quello che è lo spirito della democrazia.
   Ad aggravare la situazione pare essere la precarietà del governo Netanyahu-Gantz, che per la prima volta dal giorno dell'insediamento sembra dare segni di cedimento. "A volte mi sveglio la mattina e dico a mia moglie che non ho voglia di andare a scuola. Lei mi prepara il caffè e mi risponde che io la scuola la dirigo e non posso non andarci", dichiara Gantz, evidentemente stanco e provato, in un'intervista esclusiva concessa alla giornalista Dana Weiss. "Forse è questo il tuo problema", replica l'intervistatrice. "Riusciresti mai ad immaginarti Netanyahu pronunciare una frase simile a sua moglie?". Gantz sorride, ma non risponde.

(Shalom, 28 luglio 2020)


Un monumento agli albanesi che salvarono gli ebrei, storia di una parola magica

di Pietro Aleotti

 
L'ambasciatore israeliano in Albania Noah Gal Gendler parla durante l'inaugurazione di un memoriale a Tirana, giovedì 9 luglio 2020
 
 
L'ambasciatore Usa in Albania Yuri Kim parla durante l'inaugurazione di un memoriale a Tirana, giovedì 9 luglio 2020
Ci sono parole che non sono parole. Meglio, ci sono parole che non sono solo parole. Sono quelle che esprimono anche un sentimento, uno stato d'animo, un modo d'essere e di agire. Sentimenti, stati, modi che non potrebbero essere altrimenti espressi se non da quella parola lì e da quella soltanto. Chi mastica un po' di lingue altrui sa che ognuna di esse ha le sue e che la loro traduzione è pressoché impossibile se non attraverso circonlocuzioni, a volte lunghissime, spessissimo imprecise.
  In albanese una di quelle parole è "besa", uno dei principi cardine del Kanun, il più importante codice di diritto consuetudinario albanese. Letteralmente significa "mantenere la parola", ma essa va oltre la definizione, è molto di più: Besa è un codice d'onore, di più, un codice etico, il più alto nel paese. Chi agisce secondo la Besa è qualcuno che non solo mantiene la propria parola, ma è anche qualcuno a cui si può affidare la propria vita e quella della propria famiglia.

 La storia
  Con l'ascesa di Adolf Hitler al potere all'inizio degli anni '30 del secolo scorso, l'Albania è diventata il rifugio di molti ebrei in fuga dalle persecuzioni naziste, anche attratti dalla possibilità concessa loro da Re Zog di ottenere un passaporto albanese in cambio del loro contributo allo sviluppo del paese - sebbene per molti ebrei quella fosse considerata solo una tappa intermedia verso altre destinazioni, Israele in primis (persino Albert Einstein transitò da Durazzo per tre giorni, nel 1935, prima di trasferirsi negli Stati Uniti). Il numero complessivo non è noto con esattezza ma si stima che siano stati circa un migliaio (600-1800) gli ebrei che giunsero in Albania - a sommarsi ai duecento ebrei albanesi, una piccolissima minoranza se si pensa che la popolazione albanese dell'epoca era già di oltre 800 mila persone. Era un mondo variegato e trasversale, in arrivo dall'Europa "vicina": Serbia, Bosnia, Montenegro, Grecia, oltre che, naturalmente, da Germania e Austria. Erano per lo più mercanti, imprenditori e negozianti, molti gli studenti, tantissime le donne e i bambini. L'integrazione con la popolazione locale non fu difficile in un paese fondamentalmente tollerante delle differenze religiose e, forse anche in ragione dell'esiguità dei numeri, privo di sentimenti antisemiti radicati.
  I problemi per gli ebrei albanesi iniziano, però, con l'occupazione fascista nel 1939 che diede l'abbrivio alla loro persecuzione. C'è infatti un pezzo di storia scomoda e ancora poco raccontata che ci riguarda e che parla dei campi di concentramento italiani in Albania: ce ne sono almeno cinque attivi tra il 1940 e il 1941, uno di questi è quello di Kavaja, città a sud di Tirana. È a Kavaja che, nel luglio del 1941, quasi duecento ebrei vengono deportati temporaneamente prima di essere trasferiti in Italia presso il campo di Ferramonti di Tarsi, in provincia di Cosenza.
  Ma è soprattutto alla fine del 1943 quando le truppe tedesche entrano in Albania a seguito dell'armistizio dell'8 settembre e del "rompete le righe" dell'esercito d'occupazione italiano, che la situazione per gli ebrei in Albania prende una piega drammatica. Siamo infatti nel pieno del programma di sterminio sistematico della comunità ebraica, della Shoah, un programma portato avanti scientificamente, ovunque in Europa. L'Albania non fa eccezione.

 Besa, la parola magica
  Non si fanno i conti con la besa, però: quella gente è arrivata in Albania per trovare salvezza e non è quindi possibile metterli nelle mani dei propri carnefici. I nazisti chiedono al governo albanese l'elenco degli ebrei nel paese, vogliono nomi e cognomi. Quei nomi e quei cognomi, però, non vengono fatti, così come era già successo per l'analoga richiesta italiana: nessun elenco viene condiviso. Una cosa tanto più sorprendete se si pensa che il governo in carica era quello collaborazionista e filo-fascista di Mehdi Frasheri che, abbandonata la lotta partigiana, aveva trovato rapidamente il modo di mettersi d'accordo con i nuovi occupanti. Invece si mobilitano persone di ogni ceto ed estrazione sociale - l'élite borghese i contadini, gli insegnanti - e persino di ogni religione, i musulmani, i cattolici.
  Viene fornita protezione, rifugio, assistenza. In molti casi funzionari conniventi riescono a procurare documenti falsi, a regalare una nuova identità e una nuova vita. Una speranza di anonimato. Una mobilitazione che si attua anche in Kosovo, all'epoca parte integrante della Grande Albania, dove se è vero che le SS naziste riuscirono comunque a condurre drammatici rastrellamenti a Pristina e Mitrovica (furono centinaia gli ebrei deportati in Serbia e poi in Germania), è altresì vero che decine di famiglie furono nascoste, tutelate e supportate dalla popolazione locale.
  La maggioranza degli ebrei si salva al punto che l'Albania è "l'unico paese con più ebrei dopo la seconda guerra mondiale" come ha affermato il primo ministro del paese, Edi Rama. E non è un caso, a tal proposito, che la Yad Vashem, l'Ente Nazionale per la Memoria della Shoah a Gerusalemme, abbia insignito ben 75 albanesi del titolo di "giusti", un numero ragguardevole se si pensa all'esiguità della comunità ebraica in Albania.

 Il monumento a Tirana
  Oggi quell'atto di straordinaria solidarietà e di eccezionale umanità e coraggio è diventato un monumento collocato all'ingresso del Parco del Lago Artificiale di Tirana, vicino a Piazza Madre Teresa e finanziato dalla Commissione degli Stati Uniti per la conservazione del patrimonio americano all'estero e dal Comune di Tirana.
  Tre lapidi in marmo grigio opera dell'architetto Stephan Jacob recanti un'iscrizione in inglese, ebraico e albanese per onorare "gli albanesi, cristiani e musulmani che hanno messo in pericolo la loro vita per proteggere e salvare gli ebrei". La cerimonia di inaugurazione del memoriale il 9 luglio scorso è avvenuta alla presenza di Edi Rama e del sindaco di Tirana, Erion Veliaj, nonché dell'ambasciatore israeliano in Albania, Noah Gal Gendler, che ha parlato di "un eccellente esempio da un piccolo paese che evidenzia i valori di umanità, sacrificio e amore, valori che sono ancora fondamentali in Albania".
  E' stata però l'ambasciatrice degli Stati Uniti, Yuri Kim, a sottolineare che tutti quei valori in Albania si riassumono in una parola sola: besa. La parola che non è solo una parola.

(East Journal, 29 luglio 2020)


L'antisemitismo non è sconfitto

Dopo l'orrore della Shoah riemerge anche in questo secolo alla ricerca di capri espiatori. Agli ebrei si attribuiscono tutte le colpe del capitalismo.

di Diego Gabutti

Nell'antisemitismo moderno (biologico, post teologico, «culturale») c'è indubitabilmente un fondo d'irrazionalità (anzi di «delirio», come scrive Élisabeth Roudinesco, psicoanalista lacaniana, nel suo Ritorno sulla questione ebraica, Mimesis 2017). In un passo delle Origini del totalitarismo, citato da Francesco Germinarlo in questo stringato pamphlet sulla natura dell'antisemitismo contemporaneo, Hannah Arendt racconta questa storiella: «Un antisemita sostiene che sono stati gli ebrei la causa della guerra. Qualcuno risponde: «Sì, gli ebrei e i ciclisti», «Ma perché i ciclisti?» chiede il primo. «Perché gli ebrei? .. chiede allora l'altro». Per quanto irrazionale e persino «delirante», non è tuttavia l'irrazionalismo (secondo Germinario, storico delle culture totalitarie) a spiegare l'antisemitismo moderno ma proprio la sua modernità, cioè il suo status ideologico all'interno delle Weltanschauung ottonovecentesche.
   Gli antisemiti, con la loro visione del mondo, si propongono di spiegare tutto ciò che esiste, senza residui, a cominciare dalla questione che da epoche immemorabili tormenta teologi e rivoluzionari: unde malum, da dove vengono tutte le disgrazie, quelle materiali come quelle metafisiche? Gli antisemiti rispondono a colpo sicuro: dagli ebrei. E precisamente di quale Male sono responsabili? Anche qui la risposta è scontata: del Male che tutte le moderne ideologie radicali, di destra come di sinistra, si vantano di combattere a piè fermo, cioè del capitalismo in tutte le sue forme, industriali e finanziarie, produttive e «parassitarie».
   Al pari delle altre ideologie radicali (a cominciare dal marxismo, che ha nel Manifesto del partito comunista l'esatto corrispettivo dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion) anche l'antisemitismo ragiona per stereotipi, banalizzazioni sociologiche e capri espiatori: l'ebreo, come il borghese, ha nel capitale il suo vitello d'oro, e sempre come il borghese anche l'ebreo accumula beni, è ipocrita, disumano, lascivo (è da secoli, con largo anticipo sul moderno #MeToo, che il giudeo è accusato d'insidiare servette e operaie di sangue cristiano o ariano) ma soprattutto il giudeo opera e complotta ai danni dei lavoratori, che ha ridotto in schiavitù.
   All'origine, quando l'antisemitismo era puramente religioso, gli antisemiti presentavano il conto della crocifissione di Gesù ai «perfidi giudei». Nel diciannovesimo e ventesimo secolo, l'antisemitismo si secolarizza, per dire così. Non straparla più di teologia ma si trasforma (scrive sempre Germinario in un suo libro recentissimo, e sul quale torneremo a breve, Una cultura della catastrofe, Asterios 2020) in «una teoria politica rivoluzionaria decisa a distruggere la società borghese liberale»,
   Fin dall'inizio, naturalmente, già ai tempi dell'Inquisizione spagnola e del Mercante di Venezia, l'antisemitismo comportava una lettura pauperista del mondo (comunque, ai tempi si dicesse «pauperista» ). C'era lì il ricco ebreo, mercante nel migliore dei casi, prestatore di soldi nel peggiore, che nuotava nell'oro estorto (via usura e sfruttamento) agli affamati e ai derelitti di tutto il mondo. Ma prima di tutto, nei tempi premoderni, gli ebrei erano eretici, bestemmiatori. Non riconoscevano la divinità di Gesù, facevano comunella tra loro, isolandosi nei ghetti come se qualcuno (metti il papa o l'imperatore) non li costringesse a farlo, avevano bizzarri costumi alimentari (i cristiani avevano bizzarri costumi alimentari solo di venerdì) e tenevano altezzosamente le distanze dai gentili (che ogni tanto, al nobile scopo di favorire la conoscenza reciproca, scatenavano un pogrom).
   Poi viene l'Ottocento, il secolo del positivismo, dove persino il socialismo se la tira da «scientifico» e l'inquisitore, almeno nell'Europa occidentale, passa il testimone all'agitatore, poi allo squadrista e al boia dei lager hitleriani, infine al terrorismo islamico, alla sinistra palestinista, ai centri sociali. Oggi, fatti due conti, l'antisemitismo è praticamente la sola ideologia radicale attiva nel suk disumanista delle «teorie politiche rivoluzionarie».
   Si può osservare, scrive Germinario, «come, tramontata la Grande Narrazione, il marxismo, che, per un intero secolo, si è opposto alla società borghese liberale, l'antisemitismo abbia ripreso vigore, godendo del monopolio pressoché incontrastato di essere l'unico universo ideologico ostile a questa forma storica di società». Oggi gli slogan e le pratiche antisemite s'allargano a ventaglio su tutte le società libere e su chiunque le difenda: «L'antisemitismo è un universo ideologico rivoluzionario e antisistemico nel senso che intende rovesciare la società borghese liberale pluralistica non solo perché diretta dagli ebrei, quanto perché funziona secondo una logica che, a seconda dei diversi autori antisemiti, è «biblica», «talmudica», «salomonica».
   È una sorta di cancel culture (tutti devono cambiare, niente di ciò che è stato deve sopravvivere) estesa all'intero corso della storia, nonché a ogni comportamento e caratteristica umana. Nemmeno Maometto, neanche Hitler e Stalin, per quanti orrori e milioni di assassinati abbiamo accumulato per addomesticare i viventi e rettificarne la natura, hanno mai preteso tanto.

(ItaliaOggi, 29 luglio 2020)


Shoah, Mattarella consegna onorificenza a Modiano

Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha ricevuto questa mattina al Quirinale Sami Modiano, al quale ha consegnato l'onorificenza di Cavaliere di Gran Croce al Merito della Repubblica italiana conferitagli lo scorso 18 luglio. Erano presenti all'incontro Riccardo Di Segni e Ruth Dureghello, rispettivamente rabbino capo e presidente della Comunità ebraica di Roma.
"La Repubblica italiana le deve profonda gratitudine - ha affermato il capo dello Stato - per la sua testimonianza. Lei ha sperimentato l'abisso e l'orrore dei campi di sterminio e coraggiosamente ha tramandato la memoria alle giovani generazioni. Perché non accada mai più".
"Avevo 14 anni e i miei occhi hanno visto cose orribili. Sono stato l'unico della mia famiglia a sopravvivere e per lunghi anni mi sono chiesto sempre il perché. L'ho capito solo nel 2005, quando ho deciso di rompere il silenzio e di parlare della mia esperienza di Auschwitz ai ragazzi" ha sottolineato Sami Modiano incontrando Mattarella.
"Sono stato scelto per dare testimonianza - ha aggiunto - Accompagnare i ragazzi ad Auschwitz nei viaggi organizzati dal governo italiano per me è una grande sofferenza, perché rivivo storie terribili. Ma devo farlo e i ragazzi con il loro affetto e la loro attenzione mi ricompensano".

(Adnkronos, 28 luglio 2020)


Coronavirus: Israele, 2.000 contagi in 24 ore

Resta elevato in Israele il tasso di diffusione del coronavirus. Nelle ultime 24 ore i nuovi contagi sono stati 2.001, pari al 7,7% dei test condotti ieri.
Il numero complessivo dei casi positivi è salito a 64.649. Le persone infette (in base a nuovi criteri stabiliti del ministero della Sanità) sono adesso calate a 32.052, delle quali 31.292 si trovano nelle proprie abitazioni o in appositi alberghi.
Negli ospedali sono ricoverate 760 persone, 321 delle quali in condizioni gravi e di queste 97 in rianimazione. Nei reparti di coronavirus degli ospedali israeliani si comincia intanto ad avvertire la pressione dei nuovi malati ed in quattro centri medici del Paese si registra adesso il 'tutto esaurito'. Finora il bilancio dei decessi è di 480.
Nella prima ondata di coronavirus, da marzo alla fine di giugno, si erano registrati in Israele 24 mila casi positivi.
Nella seconda ondata, iniziata gradualmente nella seconda metà di giugno, se ne sono poi aggiunti altri 40 mila.

(ANSAmed, 28 luglio 2020)


Israele-Libano, scintille al confine. Respinto un attacco di Hezbollah

L'ipotesi di una rappresaglia per l'uccisione a Damasco di un esponente del movimento sciita.

di Sharon Nizza

I residenti dell'Alta Galilea hanno passato un pomeriggio di fuoco ieri, tra cortine di fumo e rumori di spari a ridosso del confine con il Llbano. Per poco più di un'ora sono stati istruiti dall'esercito a rimanere in casa, quando un commando di cinque uomini di Hezbollah ha tentato di infiltrarsi in territorio israeliano dall'avamposto militare Har Dov, nell'area delle Fattorie di Shebaa, su cui ancora permane un contezioso tra Israele e Libano. Secondo il portavoce dell'esercito, gli incursori hanno aperto il fuoco contro soldati israeliani, che hanno risposto. Lo scontro è stato riportato subito anche dall'emittente fllo-Hezbollah Al-Mayadln, che sosteneva che Hezbollah avesse lanciato un missile contro un carro-armato israeliano, notizia smentita dagli israeliani.
   Israele ha interpretato l'episodio come una rappresaglia per l'attacco del 20 luglio, attributo all'aviazione israeliana, all'aeroporto di Damasco, che ha colpito una cellula che trasportava armi iraniane, in cui è rimasto ucciso un uomo di Hezbollah. Ali Kamel Mohsen.. Ma ieri in serata è arrivata una smentita del movimento sciita: «Non ci sono stati spari da parte nostra La risposta all'uccisione di Mohsen arriverà. I sionisti si aspettino la punizione per i loro crimini»,
   A sostegno della tesi che il tentativo di attacco sia stato una rappresaglia per l'uccisione di Mohsen vi è anche il fatto che i suoi famigliari hanno organizzato ieri un evento tra bandiere di Hezbollah e distribuzione di dolci, in apprezzamento al gesto della milizia sciita che ha vendicato il martire.
   In Israele interpretano la smentita di Hezbollah come un modo di guadagnare tempo di fronte all'insuccesso dell'operazione. «La finestra per la rappresaglia è ancora aperta - spiega Amos Yadlln, già a capo dell'intelligence militare. «Questo genere di operazioni sono volte innanzitutto a creare una deterrenza. Ora Nasrallah deve decidere se portare avanti un'altra azione, probabilmente contenuta, contro obiettivi militari, o se accontentarsi di avere creato dei momenti di panico»,
   I cittadini sono tornati alla routine, ma l'esercito mantiene alto lo stato di allerta. Il ministro della Difesa, Benny Gantz, venerdì ha dichiarato che Israele non è interessato a un'escalation. Pare anche che, tramite l'Unifil, l'esercito abbia cercato di calmare gli animi facendo recapitare un messaggio a Hezbollah per dire che Mohsen «non era un obiettivo». Il comandante di Unifll, il generale Italiano Stefano Del Col, è intervenuto oggi per invitare le parti a mantenere il controllo.
   «Né Hezbollah né Israele hanno interesse a un confronto esteso» dice Orna Mizrahi, ricercatrice dell'Institute of National Security Studies. «Israele monitora la nuova generazione di missili ad alta precisione che Hezbollah sta sviluppando con l'aiuto iraniano. L'occhio è puntato su questo progetto, che è la vera linea rossa per Israele».
   E che lo sguardo sia puntato a Teheran è stato confermato nella brevissima conferenza stampa congiunta tra Netanyahu e Gantz. Il premier è stato lapidario: «Israele continuerà a contrastare i tentativi dell'Iran di posizionarsi militarmente lungo il nostro confine».

(la Repubblica, 28 luglio 2020)


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Hezbollah riaccende la miccia al confine tra Israele e Libano

Sventato un tentativo di infiltrazione. Netanyahu convoca il Consiglio di sicurezza e minaccia Beirut.

di Fiamma Nlrensteln

GERUSALEMME - Fumo e scoppi su Ar Dov, il monte Dov, sul confine fra il Libano e Israele: la bandiera gialla sventola in lontananza fra le pietre e l' esercito israeliano, poche ore dopo uno scambio a fuoco che avrebbe potuto finire e ancora può finire in guerra, fa sapere ai cittadini che possono uscire dai rifugi. Le truppe cammellate di Hassan Nasrallah si lanciano in cortei di una pretesa inesistente vittoria.
   Netanyahu si sposta a Tel Aviv al ministero della Difesa per una riunione urgente con Benny Gantz (entrambi avvertono il Libano), abbandonando per un momento gli affari urgenti del Covid19, che angosciano il Paese e lo spingono a continue manifestazioni. Ma Israele è sempre un piccolo Paese assediato, e se qualche volta può dimenticarlo per occuparsi di faccende urgenti, i suoi vicini invece non lo scordano mai.
   Nonostante il gruppo terrorista non sia riuscito a penetrare i confini, moto e jeep rombano nel paesaggio scabro del Golan, pugni levati, urla e spari. Le cittadine di là dal bordo sono abituate allo strapotere e alla violenza del «Partito di Dio» che non diminuiscono nemmeno in tempo di miseria e di virus che strazia il Libano. Il messaggio obbligatorio è anche stavolta «vittoria», siamo riusciti a entrare in territorio nemico e siamo tornati vivi dopo che avevamo annunciato una vendetta. E vendetta così è fatta. Fragile, ma guai a chi non ci crede. La messa in scena per la pretesa vendetta è per la morte di Ali Kamel Mohsen, un comandante del gruppo terrorista che, stanziato in Siria per la guerra siro-iraniana di Assad, è stato ucciso da un raid israeliano vicino a Damasco. Un nodo dolente per Nasrallah, che manda là a morire tanta gioventù sciita. Erano due lunedì or sono, e là comincia la faida che ha portato il capo degli Hezbollah a promettere la vendetta. Ma il gruppo che doveva compierla è stato bloccato prima. Ieri nel primo pomeriggio le unità speciali dell'esercito israeliano già all'erta, come in un film hanno individuato mentre si infiltrava fra i cespugli una squadra armata di tre quattro-persone e l'hanno messa in fuga con spari evitando però di colpirne gli uomini in modo, si può pensare, da evitare l'escalation. Il paesaggio petroso del Golan si è impennacchiato di fumo, i villaggi libanesi del confine si sono spaventati e alcune case sono state danneggiate: dove ieri c'è stato il tentativo di infiltrazione ci fu l'attentato, sempre di vendetta, che uccise due soldati israeliani dell'unità Givati il 28 gennaio 2015, e che 14 anni fa dette inizio alla seconda guerra. L' abbiamo seguita passo passo coi soldati che la notte camminavano uno dietro l'altro coi cappelli mimetici sul terreno punteggiato di agguati degli Hezbollah; 121 vi hanno lasciato la vita (qualcuno ricorderà che fu ucciso anche il figlio di David Grossman) in molte azioni eroiche. Israele non vuole arrivare di sicuro a uno scontro bellico, ed è per questo che, anche usando una quantità di fuoco da varie postazioni, ieri non ha colpito il gruppo terrorista in fuga
   Ma se la situazione economica e sociale instabile fino alla rivolta che il Libano attraversa e che indebolisce la leadership del partito sciita sia per gli Hezbollah uno stimolo a combattere o un freno, solo Nasrallah lo sa. E si deve valutare anche se come è pensabile influisce, e forse decide, la rabbia dell'Iran che cerca una vendetta contro chi ha colpito Natanz e le altre centrali. Per la gente del Nord d'Israele e quella del sud del Libano si preparano giorni difficili.

(il Giornale, 28 luglio 2020)


Calciatore tedesco e antisemita

Accusato di una cartina nella quale ha cancellato Israele.

di Roberto Glardina

 
Mergim Mavraj, difensore albanese del Greuther Fürth
BERLINO - L'antisemitismo è un problema in Germania. Paradossalmente, per paura di essere accusati di razzismo nei confronti dei profughi musulmani, si cerca di negarlo. Oppure di relativizzarlo. E' in corso il processo al giovane che il 9 ottobre dell'anno scorso tentò di compiere una strage nella sinagoga di Halle. E' un isolato con problemi mentali? O è stato manipolato da gruppi di estrema destra?
   In Baviera, provoca reazioni sdegnate il messaggio antisemita di un giocatore di calcio. Giusto dargli importanza, oppure non bisognerebbe preoccuparsi di quanto pensa un calciatore, per giunta di serie B, mai stato un campione? Mergim Mavraj, difensore albanese del Greuther Fürth ha pubblicato sul suo sito Instagram una cartina in cui cancella lo Stato di Israele: al suo posto scrive Palestina, un territorio coperto di rose. «Una floreale fantasia negazionista -, ha commentato ironico lo storico Jim Tobias, «Mavraj ha voluto annientare Israele almeno virtualmente... ed ha inviato un messaggio ai gruppi di fondamentalisti islamici».
   Mavraj, 34 anni, alla fine della carriera, è già noto per la sua posizione radicale. Quando giocava per il Colonia, accusò la Germania di razzismo nei confronti dei musulmani. Lui, ha spiegato, è religioso, ha già compiuto il pellegrinaggio alla Mecca, ama l'Albania, ed è capitano della nazionale. Per il Fürth ha giocato già dal 2011 al 2014, protagonista della storica promozione nella Bundesliga nel 2012.
   La squadra può essere paragonata all'Alessandria per le sue glorie lontane: ha vinto il titolo in Germania nel 1914, nel '26, nel '29, anni poco felici per i tedeschi. La squadra, retrocessa dopo un anno in B, gode di una notorietà internazionale: a Fürth, vicino a Norimberga, 128mila abitanti, nel 1923 è nato Henry Kissinger che, appassionato di calcio, è rimasto fedele alla squadra. Aveva promesso di tornare allo stadio se fosse stata promossa in Serie A, e mantenne la promessa il 13 settembre del 2012, sfoggiando la sciarpa bianco verde, i colori del Greuther. E il fedele Henry, a 89 anni, applaudi la prestazione di Mavraj. Il club, oggi al nono posto ben lontano dalla zona promozione, ha preso subito le distanze dal giocatore musulmano. E Mavraj come al solito ha dichiarato che è tutto un malinteso, è stato frainteso: «È un'idiozia accusarmi di antisemitismo». Ed ha rimosso la cartina. Le sue rose sarebbero un messaggio di pace e non un invito a cancellare Israele dalla carta geografica.
   Perché preoccuparsi? Mavraj ha 138mila fans sul web, ed è un idolo per migliaia di ragazzi arabi in Germania. Il suo messaggio è pericoloso, si denuncia. Daniela Eisenstein, direttrice del museo ebraico di Fürth, ha commentato: il calcio dovrebbe unire e non dividere». Il Rias, il centro di informazioni contro l'antisemitismo in Baviera, comunica che durante la chiusura per la pandemia, sono state diffuse teorie sul virus «che sarebbe creato e diffuso dagli ebrei».

(ItaliaOggi, 28 luglio 2020)


Comunità ebraiche fra polemiche e veleni

Il video di uno che - dice - “segue il dibattito delle varie comunità ebraiche”. NsI

di Antonio Ferrari

Le turbolenze del mondo ebraico sono sempre state molto intriganti. Dice un proverbio israeliano: "Due ebrei che discutono hanno tre opinioni diverse su tutto" .... Per chi segue il dibattito delle varie comunità ebraiche, a cominciare da quella italiana, i temi in discussione sono tanti, profondi, e a volte velenosi. Molti giovani ebrei italiani, assai vicini ai loro coetanei israeliani e americani, contestano apertamente, ritenendolo uno stupido e disastroso autogol, il progetto del discusso premier Benjamin Netanyahu, imbarazzante alfiere di una destra spuntata, che a parole vorrebbe annettersi un pezzo di Cisgiordania. Netanyahu, come ben conosciamo da un quarto di secolo, è un vero saltimbanco della politica e degli affari, e dice oggi quello che è pronto a rimangiarsi domani...

(Corriere della Sera, 27 luglio 2020)


Un video da cui trasuda un malcelato disprezzo per tutto ciò che rappresenta più tipicamente il mondo ebraico: religiosamente (gli ebrei ultraortodossi) e politicamente (il Presidente d’Israele). E per far questo si appoggia sui “Giovani Ebrei” e sugli universalisti sostenitori dei “Giusti di tutti i tipi”. M.C.


Scontro tra Hezbollah e Israele al confine col Libano

Gli Hezbollah libanesi hanno aperto il fuoco contro una zona controllata da Israele lungo la Linea Blu di demarcazione tra il Libano, la Siria e lo Stato ebraico

Oggi 27 luglio gli Hezbollah libanesi hanno aperto il fuoco contro una zona controllata da Israele lungo la Linea Blu di demarcazione tra il Libano, la Siria e lo Stato ebraico.
Lo riferiscono media libanesi che citano fonti anonime della sicurezza, secondo cui militari israeliani hanno risposto al fuoco con colpi di artiglieria.
Secondo le fonti, il botta e risposta è avvenuto nella contesa regione del Monte Hermon, a ridosso delle Fattorie di Shebaa, all'estremità sud-orientale del Libano. Non si hanno al momento ulteriori notizie in merito.
Secondo altre fonti citate dalla tv panaraba filo-iraniana al Mayadin, gli Hezbollah hanno sparato un missile Kornet contro un mezzo militare israeliano. Altre fonti della sicurezza libanese affermano che l'episodio è avvenuto nei pressi dell'avamposto israeliano 'Astra' nella zona di Kfar Chouba / Har Dov, e non lontano dal punto di osservazione OP-1 dei caschi blu dell'Onu (Unifil). Si tratta di una zona montagnosa, pressoché disabitata, a circa 1.800 metri sul livello del mare, a ridosso della Linea Blu tra Israele e Libano e del confine conteso tra Siria e Libano

(Il Sole 24 Ore, 27 luglio 2020)


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Israele, media, sventato attacco commando Hezbollah

Entrato in territorio ebraico

L'esercito israeliano ha sventato un attacco di un commando di Hezbollah entrato in territorio dello stato ebraico. Lo riferiscono i media che citano fonti militari secondo cui i soldati israeliani avrebbero sorpreso in tempo il commando fermandolo. Ma non si hanno altri particolari. Non sono comunque segnalate vittime israeliane. Al momento nella zona sembra sia ritornata la calma, l'esercito però mantiene lo stato di allerta.
Il premier Benjamin Netanyahu ha lasciato una riunione del Likud per recarsi al ministero della Difesa dopo aver appreso dell'incidente di sicurezza al confine con il Libano e la Siria. Prima di andare via ha detto: "è in corso un incidente non semplice". Anche il ministro della difesa Benny Gantz ha lasciato la Knesset per rientrare in sede. Un portavoce militare citato dai media israeliani aveva confermato che Israele stava rispondendo con un fuoco di artiglieria, mentre aerei sorvolavano la zona.

(ANSA, 27 luglio 2020)


Libia - Insulti antisemiti e spari in aria contro il filosofo Levy

Accolto prima con colpi di arma da fuoco esplosi in aria contro il suo convoglio, poi insultato con epiteti antisemiti da alcuni sostenitori filo turchi del governo di Tripoli guidato da al Serraj che gli hanno urlato «cane ebreo». è stata una visita tribolata in Libia quella del filosofo francese Bemard-Henri Levy, che si è recato in visita a Tarhouna, dove sono state scoperte fosse comuni scavate per i civili giustiziati dalle milizie del generale Khalifa Haftar, incaricato di un reportage dal Wall Street Joumal.
   Levy è atterrato a Misurata sabato con un jet privato. I gruppi armati fedeli al governo hanno dichiarato di avergli impedito di entrare a Tarhouna, ma il filosofo ha postato sui social sue fotografie nella città, affiancato da uomini armati col volto coperto e in uniforme militare. Levy ha affermato di aver visitato il «campo di sterminio» di Tarhuna, dove 47 persone, compresi bambini, «avevano subito il martirio a opera di fantocci di Haftar». A commento della sua foto, Levy ha scritto: «Subito dopo il mio reportage sui campi di sterminio. Questi sono i veri poliziotti libici che proteggono la stampa libera. Così diversi dai criminali che hanno cercato di bloccare il mio convoglio sulla via del ritorno a Misurata», Il filosofo ha affermato che un resoconto completo di quello che è successo sarà pubblicato presto.
   Secondo notizie dei media libici, Levy aveva in programma di visitare la capitale Tripoli ieri per colloqui con il ministro degli Interni Fathi Bashagha. Ma l'ufficio del Primo Ministro Fayez al-Sarraj ha negato «qualsiasi collegamento» con la visita di Levy e ha aggiunto di aver aperto un'inchiesta per stabilire come era successo e per prendere «misure dissuasive» contro gli organizzatori del viaggio del filosofo.

(il Giornale, 27 luglio 2020)


Scoperto a Gerusalemme antico edificio per le tasse. Risale a 2700 anni fa

A Gerusalemme sono stati scoperti resti di un antico palazzo destinato alla riscossione delle tasse. Risale a 2700 anni fa.

 
Nei pressi della nuova sede dell'ambasciata degli Stati Uniti d'America, sono stati scoperti a Gerusalemme resti di un palazzo pubblico risalente a 2700 anni fa che sarebbe stato destinato alla riscossione delle tasse.
L'antico edificio, secondo quanto affermato dall'archeologo Neri Sapir della Israel Antiquities Authority che ha diretto i lavori di scavo, si ritiene eccezionale sia per dimensioni che per stile architettonico. Probabilmente il palazzo svolgeva il ruolo di centro amministrativo durante i regni di Ezechia e Manasse, quindi dall'VIII alla metà del VII secolo a.C.
Nel corso degli scavi sono state ritrovate inoltre 120 maniglie di anfore e circa cento sigilli incisi su ceramiche databili a 2700 anni fa. Secondo gli archeologi, si tratta di una delle più grandi collezioni di sigilli del Regno di Giuda conosciute sinora. Lo studio dei ritrovamenti condurrà alla riflessione su come era organizzato il regno israelita al tempo del Primo Tempio di Gerusalemme.
Le maniglie di anfore che presentano calchi di sigilli testimoniano che l'antico palazzo era utilizzato come deposito e centro fiscale, poiché le lettere in ebraico LMLK indicano l'appartenenza al re. Le lettere sono inoltre accompagnate da diversi simboli, quali un'aquila in volo o un disco solare; e compare anche il nome di una delle quattro città del Regno di Giuda.
Le anfore venivano impiegate per raccogliere le tasse per prodotti agricoli, come vino e olio, ma potevano anche essere inviate dal re per finanziare ad esempio campagne militari.
"È una delle scoperte più significative fatte negli ultimi anni relative al periodo dei re di Gerusalemme" hanno dichiarato Sapir e Nathan Ben-Ari, che hanno diretto gli scavi. "Abbiamo la testimonianza che l'attività governativa gestiva e distribuiva scorte di cibo e amministrava il surplus agricolo accumulando derrate e beni".

(Finestre sull'Arte, 27 luglio 2020)


Firenze - Il Coronavirus non ferma l'estate del Balagan Café

Sere d'agosto in Sinagoga tra musica, incontri e buon cibo

FIRENZE - Allegria, divertimento e convivialità, ma sempre nel rispetto delle misure di sicurezza imposte dall'emergenza Coronavirus. In questa insolita estate 2020, la Comunità Ebraica di Firenze non vuole far mancare a fiorentini e turisti italiani un'occasione di spensieratezza all'insegna della buona musica, del buon cibo e della riflessione. Per questo il Balagan Café ritorna per l'ottava edizione dal 6 agosto e per quattro giovedì del mese nel giardino della Sinagoga (Via Farini, 6). "Percorsi ebraici" è il titolo dell'edizione 2020. L'ingresso è come sempre libero a partire dalle ore 19:00; ma per via delle disposizioni Covid, l'apericena va prenotato. È possibile farlo sul sito www.balagancafe.it. L'iniziativa è organizzata dalla Comunità Ebraica di Firenze e Rete Toscana Ebraica in collaborazione con il Comune di Firenze- Estate Fiorentina con il contributo della Regione Toscana e Fondazione Cr Firenze. «Siamo felici di ripartire per una nuova stagione del Balagàn - dichiara il direttore artistico Enrico Fink - L'apertura è dedicata alle tematiche che da sempre ci contraddistinguono, il dialogo, il valore della differenza: a questo sono dedicati i progetti ai quali ha lavorato tanto la nostra Daniela Misul, e questo è il senso del concerto speciale di apertura, che vede insieme le tradizioni ebraiche e rom italiane in un unico spettacolo, grazie alla partecipazione di Santino Spinelli. Un concerto entusiasmante ma anche la testimonianza di come la cultura italiana sia da sempre il frutto dell'apporto delle sue minoranze: la comunità rom di Santino e la nostra comunità ebraica sono presenti con continuità in Italia da secoli, sono una parte indelebile del tessuto sociale italiano. Come ha detto qualcuno, siamo più italiani della pasta al pomodoro. Una novità di quest'anno "Muzika Shelanu", che vuol dire "la nostra musica": nella prima ora di apertura del Balagàn, giovani (e meno giovani) talenti della comunità ebraica di Firenze offriranno un intrattenimento musicale prima dell'inizio degli incontri. Si comincia il 6 agosto con Lorenzo Bianchi, poi ci sarà la Tingo Band e tante altre sorprese».

 L'appuntamento del 6 agosto
  "A cielo aperto. Il viaggio come incontro fra popoli e culture" è il titolo del primo appuntamento in programma giovedì 6 agosto che comincerà alle ore 19,30 con Lorenzo Bianchi per "Muzika Shelanu" e proseguirà con un omaggio a Daniela Misul, la presidente della Comunità Ebraica di Firenze scomparsa l'8 agosto scorso dell'anno scorso. Alle ore 20,30 è in programma "Un ricordo di Daniela Misul a un anno dalla sua scomparsa", ricordi, progetti e parole di chi l'ha conosciuta, di chi ha lavorato con lei e ancora oggi porta avanti i suoi numerosi progetti. A seguire "Romanò Simchà", un trascinante concerto fra le tradizioni ebraiche e Rom italiane con Santino Spinelli, Enrico Fink e i solisti di Alexian Group e dell'Orchestra Multietnica di Arezzo. Come da tradizione la serata sarà allietata dall'apericena che quest'anno sarà servito in pratiche confezioni individuali per ottemperare alla normativa anti-Covid. I partecipanti potranno degustare Couscous alle verdure con i profumi del mediterraneo; Dadi di ceci e spezie su un letto di hummus; Melanzane alla marocchina (prenotazione obbligatoria). Il menù a base di delizie del mondo ebraico sarà cucinato e narrato dagli chef Michele Hagen e Jean Michel Carasso. Aperitivo a cura del Balagan Bistrot Cafè con bevande dalle mille tradizioni ebraiche. In occasione del Balagan Cafè sarà possibile visitare la Sinagoga in notturna con visite accompagnate al prezzo ridotto di 5 euro.

(Toscanalibri.it, 27 luglio 2020)


Coronavirus - Cisgiordania: scontri, supermarket chiuso, un morto

Dopo gli incidenti il governatore di Nablus avvia un'inchiesta

Un morto e quattro feriti è il bilancio di incidenti verificatisi ieri a Nablus (Cisgiordania) quando, secondo media locali, reparti delle forze di sicurezza palestinesi hanno imposto la chiusura di un supermercato rimasto aperto nella serata malgrado le severe restrizioni imposte dall'Autorità nazionale per contenere il coronavirus.
    L'agenzia di stampa Maan ha identificato l'ucciso in Imad al-Din Abu al-Amid Dweikat, 54 anni, segretario della sezione di al-Fatah nel rione di Balat al-Balad. L'uomo, secondo Maan, è stato colpito da un proiettile sparato da agenti. Il governatore della città, il gen. Ibrahim Ramadan, ha ordinato l'apertura immediata di una inchiesta e ha lanciato appelli alla calma.
    Nel frattempo fra i palestinesi il numero dei casi positivi dall'inizio della pandemia (in Cisgiordania, a Gaza e a Gerusalemme est) è salito, secondo il ministero della Sanità, a 12.795. Fra venerdì e sabato sono stati registrati quasi 400 nuovi contagi. Il numero dei decessi è adesso di 78.

(ANSAmed, 26 luglio 2020)


Maccabi, un museo per lasciare il segno

L'inaugurazione nel 2021 in Israele

 
Un ambizioso progetto sta vedendo la luce in Israele su iniziativa della Maccabi World Union: un nuovo museo per raccontare la storia dello sport e dell'associazionismo ebraico. C'è già una data per l'inaugurazione: 21 dicembre 2021. Sarà una grande festa. Ma anche, ci spiega il responsabile del dipartimento educativo Carlos Tapiero, la conclusione di un percorso di condivisione e assunzione di responsabilità da parte di ogni Paese in cui è attiva una federazione Maccabi. Un progetto in cui l'Italia può ritagliarsi uno spazio importante.
   "Parleremo di sport giocato, ma anche di persone che hanno vissuto lo sport in ogni ambito. L'Italia sarà senz'altro protagonista. Penso ad esempio alla figura di Massimo Della Pergola, uno dei più grandi giornalisti sportivi del passato. L'inventore del Totocalcio, un gioco che ha stimolato la passione di milioni di italiani. Ma anche un uomo generoso che fino all'ultimo si è speso per il Maccabi e per la promozione della sua visione e dei suoi valori. Il suo - sottolinea Tapiero - è un nome di cui ciascun membro di questa nostra grande famiglia allargata deve tramandare, con gratitudine, il ricordo".
   In queste settimane, dalla dirigenza mondiale del Maccabi, sono partiti gli inviti a contribuire con materiale adatto all'allestimento. Schede informative, fotografie, memorabilia di ogni sorta. Anche l'Italia, assicura il presidente nazionale Vittorio Pavoncello, farà la sua parte. Il primo pensiero è al pugile romano Leone Efrati, tra i più grandi della sua generazione, che fu barbaramente ucciso ad Auschwitz. Altri nomi arricchiranno la rosa. "Ci sono tante storie importanti da raccontare, tante vicende più o meno conosciute che vogliamo valorizzare. Lo sport è davvero un formidabile strumento per parlare di chi siamo stati, di cosa siamo e di cosa vogliamo essere", riflette Tapiero. Lui non ha dubbi su quale sia stata la pagina più luminosa di sempre. "La polisportiva Hakoah, un nome che è leggenda. Quando l'Austria era maestra nel pallone vinse addirittura un titolo nazionale. Ma andò anche oltre, imponendosi in quasi ogni disciplina in cui schierò singoli atleti o squadre. Una splendida favola interrotta dalle persecuzioni antiebraiche e della Shoah. Nel museo la rievocheremo in tutta la sua gloria".

(moked, 26 luglio 2020)


Pandemia in calo, crescono i contrasti nel nord di Israele

Intercettato un drone in ingresso nello spazio aereo israeliano, proveniente dal Libano

di GIuseppe Morabito

Domenica scorsa, le IDF (forze di difesa israeliane) hanno intercettato un drone in ingresso nello spazio aereo israeliano e proveniente dal Libano.
  L'IDF ha comunicato di aver neutralizzato il drone usando una tecnologia in suo possesso di assoluta avanguardia; secondo le prime valutazioni, lo scopo del drone intercettato sembra essere stato la sorveglianza, piuttosto che l'attacco a strutture israeliane.
  Secondo i media dell'area, il sistema di difesa di Tel Aviv avrebbe preso il controllo del dispositivo in forma elettronica.
  Infatti, già lo scorso anno, una società israeliana aveva confermato di aver sviluppato una capacità anti drone in grado di prendere il controllo dei droni avversari e farli atterrare ovunque, oppure di riutilizzarli contro chi li avesse inviati in missione ostile. Una tecnologia che potenzialmente rende anche possibile sia riutilizzarli dopo l'intercettazione e la cattura, sia estrarre/entrare in possesso di tutti i dati raccolti dal drone prima della sua intercettazione.
  La zona di confine tra Israele e Libano era stata "tranquilla" nelle ultime settimane, dopo che Hezbollah e l'IDF all'inizio di quest'anno in piena crisi da virus di Wuhan si erano scambiati minacce reciproche. Tutto questo, nonostante Israele e i suoi vicini siano palesemente preoccupati di combattere gli effetti del virus. Anche quando l'attenzione del governo e gran parte degli sforzi dell'esercito israeliano sono investiti nella lotta contro COVID-19, Israele non si è, comunque, discostato dalle "linee rosse" che ha deciso nel nord del Paese per almeno rallentare Hezbollah dall'ottenere armi avanzate, in particolare i sistemi di precisione, impedire all'esercito iraniano di prendere piede in Siria e, conseguente, impedire a Hezbollah e ai gruppi filo-iraniani di dispiegarsi lungo il confine siriano sulle alture del Golan.
  Infatti, la neutralizzazione del generale, capo della guardia repubblicana di Teheran e cuore della falange terroristica iraniana, Soleimani, all'inizio di gennaio, ha danneggiato la capacità dell'Iran di condurre azioni terroristiche ambiziose nel nord di Israele; e il virus ha inferto un duro colpo all'Iran stesso.
  Il terribile stato dell'economia del Libano ha, però, aumentato le preoccupazioni per il riaccendersi delle tensioni tra il movimento terroristico libanese e IDF.
  In tale quadro, Israele ha, da poco, effettuato un raid aereo sulla capitale siriana, Damasco, nel corso del quale ha neutralizzato cinque combattenti stranieri, tra cui un membro di Hezbollah, tutti sospettati di legami terroristici con l'Iran.
  Sempre venerdì scorso, l'esercito israeliano ha fatto trapelare che i suoi elicotteri d'attacco hanno colpito diverse posizioni dell'esercito siriano in risposta a attacchi di artiglierie e missili verso le alture del Golan occupate da Israele. Conseguentemente Hezbollah ha promesso di vendicarsi e I'IDF ha dovuto rinforzare il confine nord con il Libano con l'invio di unità di fanteria.
  In particolare, è doveroso ricordare che nel sud del Libano opera la missione ONU "UNIFIL e che dal 7 agosto 2018, l'Italia per la 4a volta ricopre l'incarico di Capo Missione e Force Commander UNIFIL con il generale di Divisione dell'Esercito Stefano Del Col, alle cui dipendenze operano quasi 10.500 militari provenienti da 45 paesi. La consistenza massima annuale, che ha visto, da poco, l'incredibilmente controversa a livello politico, approvazione del rinnovo dell'autorizzazione parlamentare, è, per il contingente nazionale impiegato nella missione, di 1076 militari, 278 mezzi terrestri e 6 mezzi aerei. In ambito nazionale l'operazione è denominata "Leonte".
  In questo quadro d'incertezza, lo scorso venerdì, la più alta personalità militare degli Stati Uniti ha fatto una visita in Israele, logicamente per motivi di sicurezza senza preavviso, allo scopo di discutere delle "sfide alla sicurezza regionale" in un momento di forti tensioni con l'Iran e i suoi alleati in tutto il Medio Oriente.
  Il generale dell'Esercito Mark Milley, Capo dei Joint Chiefs ha incontrato i vertici militari e d'intelligence israeliani in una base aerea nel sud di Israele e ha tenuto una videoconferenza con il primo ministro Benjamin Netanyahu.
  Israele ha sempre visto l'Iran come la principale minaccia regionale a causa del suo programma nucleare che Teheran insiste a dichiarare sia per scopi puramente pacifici, così come "pacifica" sarebbe la presenza militare dell'Iran nella vicina Siria e il suo sostegno a gruppi armati terroristici come Hezbollah. Ogni analista onesto e non "pagato" dall'Iran ride di tale incredibile "balla" ogni qual volta viene riproposta.
  Il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz ha affermato che nei suoi colloqui con Milley ha sottolineato "la necessità di continuare la pressione sull'Iran e sui suoi alleati". L'esercito israeliano "è preparato e pronto per qualsiasi scenario e minaccia, e non consiglio ai nostri nemici di metterci alla prova. Non abbiamo interesse per l'escalation, ma faremo tutto il necessario per proteggere i cittadini israeliani".
  In conclusione, Israele ricorda agli avversari di essere pronto, politicamente e tecnologicamente, a difendersi anche dopo la pandemia e il Presidente Trump rassicura del suo supporto e amicizia Tel Aviv e, conseguentemente, anche la potente comunità ebraica statunitense in vista delle elezioni.

(Cybernaua, 26 luglio 2020)


Albania - A Valona verrà istituito il Museo Nazionale degli Ebrei

Il Consiglio Nazionale dei Musei ha aperto la strada all'idea del Ministero della Cultura e del Municipio di Valona.

Il Consiglio Nazionale dei Musei ha dato l'ok per l'istituzione in Albania di un Museo Nazionale degli Ebrei, idea promossa dal Ministero della Cultura e dal Municipio di Valona.
E' la stessa ministra albanese della cultura, Elva Margariti, ad aver reso nota la notizia attraverso i suoi profili social:
    "Una storia che deve essere raccontata. E' la storia di un popolo in fuga, perseguitato, che ha trovato rifugio in un piccolo paese, il quale ha aperto le sue porte, li ha difesi, ha dato loro i suoi nomi. Il Museo Nazionale degli Ebrei a Valona sarà il modello di un museo contemporaneo che ci trasporterà in storie di vita, testimonianze, voci e immagini.
    Il Consiglio Nazionale dei Musei ha aperto la strada all'idea del Ministero della Cultura e del Municipio di Valona, progettata dalla fondazione albanese-americana per lo Sviluppo sotto la consulenza del Professoressa Barbara Kirshenblatt-Gimblet, riguardante l'istituzione di questo museo. Le generazioni devono conoscere questa storia di sacrifici, convivenza e fede",
si legge nel post Facebook della ministra.

 Il museo ebraico a Berat
  Nel 2018 fu fondato - da Simon Vrusho - a Berat un museo dedicato ai più di 600 ebrei salvati durante la seconda guerra mondiale.
Il museo 'Solomon' - inaugurato nel 2018 - è dedicato alla memoria dell'Olocausto e, in particolare, agli ebrei della città di Berat.
Situato sulla strada principale del castello, il museo si concentra principalmente sui più di 600 ebrei salvati durante la seconda guerra mondiale a Berat. Inoltre, mira a portare alla luce testimonianze di un periodo di quasi 500 anni, dal 1520, quando si pensa che le prime 25 famiglie ebree arrivarono a Berat dall'Italia e dalla Spagna.

 Le origini della comunità ebraica in Albania
 
Valona - Via degli ebrei
  La maggior parte della comunità ebraica in Albania proviene da Giannina: tredici famiglie e i loro discendenti originari del quartiere di Castro, che nel periodo tra le due guerre mondiali costituirono una piccola comunità di artigiani e mercanti con sede a Valona aprendo negozi anche altrove.
Questa comunità sopravvisse alla guerra e all'occupazione nazista. Dopo la guerra, come la maggior parte della piccola borghesia albanese, furono espropriati dal regime comunista e nel corso degli anni furono integrati in matrimoni misti con altre comunità religiose.
Negli anni cinquanta, la piccola comunità di ebrei albanesi iniziò con i primi tentativi di partenza verso Israele, ma questo diritto fu negato dall'ex dittatore comunista Enver Hoxha. Dall'inizio degli anni ottanta, con il miglioramento delle relazioni dell'Albania con la Grecia, alcuni di loro tornarono a visitare Ioannina.
A metà degli anni novanta, invece, con l'aiuto della comunità ebraica americana e di altre organizzazioni ebraiche, la maggior parte di loro lasciò il paese, portando con sé la propria storia albanese di oltre un secolo.

(Albania News, 26 luglio 2020)


Quell'Europa che finanzia i terroristi palestinesi

di Ugo Volli

Immaginate che a suo tempo si fosse scoperto che la Germania, magari con la Spagna e l'Irlanda pagavano lo stipendio degli assassini di Aldo Moro, sotto lo schermo di una associazione culturale dedicata alla pace e alla libertà. O immaginate che fosse l'Italia a finanziare i terroristi baschi e nell'albo delle foto pubblicate dal consolato italiano a Bilbao ci fosse una bella posa col console e sorridenti accanto a qualche macellaio dell'ETA, colpevole di efferati delitti. Bene, questo è esattamente quel che è venuto fuori la settimana scorsa.
   Il governo olandese ha ammesso ufficialmente in parlamento di aver finanziato un'organizzazione terroristica palestinese e nel sito web del consolato olandese a Ramallah si trova una foto dei funzionari diplomatici tutti contenti accanto a Abdul Razeq Farraj, terrorista riconosciuto colpevole di aver barbaramente ucciso due anni fa Rina Schnerb, una ragazza israeliana di 17 anni e aver ferito gravemente suo fratello Dvir . Aveva soprattutto ragione di essere contento lui, perché l'Olanda gli pagava lo stipendio e gli aveva dato anche dei documenti che attestavano il suo stato quasi diplomatico. Naturalmente l'Olanda non pensava o non diceva di pagare l'entità terrorista FPLP (Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina) che ha rivendicato l'assassinio di Rina Schnerb, bensì una organizzazione denominata Union of Agricultural Work Committees (UAWC).
   Certo che ci vuole molta dabbenaggine o più probabilmente molta complicità, almeno da parte dei funzionari locali, per credere all'esistenza e al bisogno di finanziamento di un'organizzazione del genere. Ma l'Olanda (che ha appena multato i negozi che vendono vino israeliano prodotto vicino a Hebron , ha almeno ammesso la sua complicità coi terroristi e ha finalmente smesso di pagare gli stipendi ai terroristi. Il fatto è che l'UAWC non è finanziata solo dall'Olanda, ma anche da altri paesi europei, fra cui Spagna e Italia, che non hanno fiatato, come la stampa ha taciuto le notizie. Questa è l'Europa oggi, datrice di lavoro dei terroristi, finanziatrice senza pudore degli assassini, e tutta intenta a dare lezioni di morale a Israele sull'"occupazione". Si può essere sorpresi che agli israeliani (e anche a molti europei), quest'Europa non piaccia affatto?

(Shalom, 26 luglio 2020)



Il regno dei cieli è simile a....

In quel giorno Gesù, uscito di casa, si mise a sedere presso il mare; e una grande folla si radunò intorno a lui; cosicché egli, salito su una barca, vi sedette; e tutta la folla stava sulla riva. Egli insegnò loro molte cose in parabole, dicendo: «Il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte del seme cadde lungo la strada; gli uccelli vennero e la mangiarono. Un’altra cadde in luoghi rocciosi dove non aveva molta terra; e subito spuntò, perché non aveva terreno profondo; ma, levatosi il sole, fu bruciata; e, non avendo radice, inaridì. Un’altra cadde tra le spine; e le spine crebbero e la soffocarono. Un’altra cadde nella buona terra e portò frutto, dando il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi per udire oda».
Egli propose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape che un uomo prende e semina nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi; ma, quand’è cresciuto, è maggiore dei legumi e diventa un albero; tanto che gli uccelli del cielo vengono a ripararsi tra i suoi rami». Disse loro un’altra parabola: «Il regno dei cieli è simile al lievito che una donna prende e nasconde in tre misure di farina, finché la pasta sia tutta lievitata».
Tutte queste cose disse Gesù in parabole alle folle e senza parabole non diceva loro nulla, affinché si adempisse quello che era stato detto per mezzo del profeta: «Aprirò in parabole la mia bocca; proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo».
Allora Gesù, lasciate le folle, tornò a casa; e i suoi discepoli gli si avvicinarono, dicendo: «Spiegaci la parabola delle zizzanie nel campo». Egli rispose loro: «Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo; il campo è il mondo; il buon seme sono i figli del regno; le zizzanie sono i figli del maligno; il nemico che le ha seminate, è il diavolo; la mietitura è la fine dell’età presente; i mietitori sono angeli.”

Dal Vangelo di Matteo, cap. 13

 


In Israele duemila contagi al giorno, tornano restrizioni al Santo sepolcro

Le autorità religiose cristiane che gestiscono il luogo santo hanno stabilito la chiusura ai visitatori il venerdì e il sabato, giorni in cui c'era un maggiore afflusso di turisti, perlopiù interni al paese.

di Carlo Marroni

 
La seconda ondata di contagi da Covid-19 in Israele, e in parte anche in Palestina, porta a nuove restrizioni nei movimenti in arrivo nel paese che si ripercuotono negli accessi ai luoghi santi, primo tra tutti il Santo Sepolcro di Gerusalemme. Già prima che si registrasse nel paese il nuovo picco del contagio con 1.889 casi in 24 ore le autorità religiose cristiane che gestiscono il Sepolcro - cristiani ortodossi, cattolici latini e armeni - hanno stabilito la chiusura del luogo santo ai visitatori il venerdì e il sabato, giorni in cui c'era un maggiore afflusso di turisti, perlopiù interni al paese. Negli altri giorni nessuna limitazione, per ora, anche perché di fatto si registra la presenza dei soli religiosi.
  In Israele i casi positivi sono saliti a 58.559 dall'inizio della pandemia. Al momento sono in quarantena 32.226 persone. I malati gravi sono 302, i decessi 446.

 Visite limitate a 50 persone, con mascherine e guanti.
  La chiesa era stata chiusa per decisione delle autorità israeliane dal 7 aprile al 25 maggio - non accadeva dal 1349 - ma la riapertura non ha significato certo il ritorno alla normalità. Per motivi di sicurezza era stato stabilito un numero massimo di presenze di 50 persone, dopo aver superato il controllo della temperatura e la verifica di mascherine e guanti. Ora con la nuova ondata del coronavirus sono arrivate, appunto, nuove limitazioni, ma questa volta gestite dalle autorità religiose, almeno per ora. Chiusura anche alla Natività.

 Maggiori poteri al governo israeliano in materia di restrizioni
  Limitazioni anche per la Basilica della Natività di Betlemme. Dal 23 fino a fine luglio chiuderà nel fine settimana, in linea con il Sepolcro, proprio perché l'afflusso aumenta in quei due giorni. La chiusura sarà esattamente dalle 12 del giovedì fino alle 8 di mattina della domenica, per il resto rimarrà aperta per la preghiera personale e le messe, con le solite regole di distanziamento. Per settimane è stata chiusa la Porta dell'Umiltà, piccolo ingresso che dalla piazza permette di entrare nella basilica, mentre è sempre rimasta aperta l'attigua Chiesa di Santa Caterina, affidata ai francescani della Custodia. Anche in Cisgiordania l'andamento del contagio è preoccupante, specie nella zona di Hebron.
  La pandemia in Israele si intreccia con la sempre complicata situazione politica interna e la posizione del premier Benjamin Netanyahu. La Knesset ha approvato la legge che dà al governo maggiori poteri in materia di misure restrittive: entrerà in vigore il 10 agosto e permetterà all'esecutivo di bypassare il potere di controllo della Knesset stessa.

(Il Sole 24 Ore, 25 luglio 2020)


Israele, volontari guariti dal Covid 19 visitano i malati

Rely Alon, capo infermiera
all'ospedale israeliano Hadassah
In Israele, alcuni volontari guariti dal Covid 19 fanno visita ai malati. Un messaggio di speranza arriva proprio in queste ore dallo stato ebraico. Il Corona Virus, la pandemia, che ha causato più di 3 milioni di morti in tutto il pianeta non è stato ancora abbattuto. Scienziati e Virologi di tutto il mondo sono da mesi a lavoro per combattere il " Morbo" mortale ma la guerra non è ancora vinta. Eppure, fra tanta indifferenza e paura arriva un messaggio di pace dalla nazione giudea. Ed è davvero bello pensare, che ci possano essere persone dai sentimenti più elevati, dalla sensibilità spiccata, insomma dei veri e propri " buon samaritani". E' quello che è avvenuto all'ospedale Haddassah di Ein Karen nei pressi di Gerusalemme. Un gruppo di volontari guariti dal Covid 19 sono sempre pronti ad alleviare la solitudine di quei malati ancora in fase critica dell'infezione.

 Volontari guariti fanno visita ai malati… l'iniziativa
  Nonostante manchino ancora valide prove che un ex malato di Covid 19 possa non contrarre nuovamente la malattia, o che sia del tutto immune, il più grande ospedale del paese ha cominciato a fare appelli a questi guariti a prendere in considerazione il rischio di diventare, se vogliono visitatori volontari. La brillante iniziativa ha avuto largo successo, tanto che il sito di Times of Israel ha riportato la testimonianza di uno di coloro i quali hanno risposto all'appello:" Gli occhi dei malati si accendono quando vedono una persona, che li va a trovare"- Ha raccontato Moshe Tauber, un giovane ebreo ortodosso di soli 22 anni, già guarito dal male. Il ragazzo si è infettato tre mesi fa e ora va in reparto per alcune ore alla settimana. " Le persone erano così contente "- Ha detto ancora - " Visto che non vedono nessuno a parte lo staff medico per settimane intere".

 La scelta di Tauber in Israele
  La scelta di Tauber non è casuale, come ebreo ortodosso si attiene al precetto ebraico: (Kibur Kholim) di visitare gli ammalati. " I malati"- Ha spiegato Rely Alon, capo infermiera all'Haddassah al Times of Israel - "Si sentono estremamente soli nei reparti Covid ed è di grande aiuto per i pazienti e anche per lo staff che i visitatori arrivino, stringano le mani dei degenti, parlino con loro e gli tengano compagnia". Il programma è stato lanciato solo tre settimane fa, e ha sottolineato Alon: " Crediamo di essere il primo posto al mondo dove questo avvenga. Stiamo via via facendo appelli alle persone perché partecipino all'iniziativa" - Ha infine concluso la donna. La trovata potrebbe essere imitata anche dalle altre nazioni? Lo speriamo.

(Webmagazine24, 25 luglio 2020)


Coronavirus: Israele e India per sperimentazione test rapidi

Un gruppo di ricercatori israeliani partirà per l'India nelle prossime settimane per mettere alla prova nuovi metodi di test rapidi per il coronavirus su migliaia di pazienti di Covid-19 del Paese. Lo ha fatto sapere il ministero della Difesa israeliano secondo cui i ricercatori condurranno i test in coordinamento con scienziati indiani. Le prove riguardano 4 differenti test e metodi per identificare rapidamente il coronavirus nel corpo del paziente: anche - è stato spiegato - nello spazio di pochi minuti. Sia il ministero della Difesa sia quello degli Esteri hanno sottolineato che lo sviluppo di capacità di rilevamento del virus è un "obiettivo nazionale" per Israele e per altri Paesi e che questa "è la maniera più efficace di tagliare la catena di trasmissione dell'infezione, di evitare prolungate quarantene e consentire all'economia globale di riaprire". L'intero ministero della Difesa, ha detto il responsabile del dicastero Benny Gantz, "è impegnato nella lotta al coronavirus" e si spera che gli sforzi dei ricercatori possano portare ad una svolta nella rilevazione e nella sconfitta del virus. Il ministro degli Esteri, Gabi Ashkenazi, ha sottolineato di "dare alla cooperazione con l'India un'importanza enorme nella lotta all'infezione. Questa operazione manda un messaggio di amicizia e solidarietà".

(Shalom, 24 luglio 2020)


Scoperto un nuovo sistema di faglie nel Mare di Galilea

Un gruppo internazionale di ricerca coordinato dall'Istituto di scienze marine del Consiglio Nazionale delle Ricerche ha condotto uno studio geologico-geofisico lungo la Faglia del Mar Morto, una grande struttura geologica che attraversa il Medio Oriente dalla Penisola Arabica all'Anatolia, sede in passato di eventi particolarmente distruttivi. I risultati, pubblicati su Scientific Reports, e utili come modello generale per valutare il rischio sismico in zone analoghe, suggeriscono che si debba prendere in esame non solo la "spaccatura" principale ma l'evoluzione dinamica dell'intero sistema

ROMA - Uno studio condotto dall'Istituto di scienze marine del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ismar) in collaborazione con un team internazionale di scienziati, ha fatto luce sulla generazione di terremoti in rapporto alla geologia del territorio lungo la faglia sismogenica del Mar Morto, e ha evidenziato le analogie tra quest'area e altre faglie nel mondo soggette ad alto rischio sismico. I risultati, pubblicati sulla rivista Scientific Reports del gruppo Nature, sono basati su un modello strutturale diverso da quelli ipotizzati in precedenza, che prevede l'attivazione di un sistema apparentemente secondario ma in realtà molto attivo.
  La Faglia del Mar Morto ha una struttura apparentemente semplice dal punto di vista geometrico: una spaccatura estesa oltre 1.000 km lungo la quale si accumula stress, che oltre una certa soglia genera un sisma. Il tasso di movimento lungo questa faglia è noto con una buona approssimazione, ma se consideriamo solo questo sistema principale i conti non tornano, ci sono stati troppo pochi terremoti, ancorché molto distruttivi", spiega Luca Gasperini, ricercatore Cnr-Ismar.
  Una spiegazione può essere data dal fatto che strutture finora sconosciute, come la faglia che abbiamo scoperto e chiamato Faglia di Cafarnao, siano molto attive e accumulino parte di questo stress generando terremoti. L'ultimo terremoto particolarmente distruttivo, quello di Safed del 1837, è avvenuto probabilmente lungo questa nuova struttura. Quanto emerge ha profonde implicazioni nella valutazione del rischio sismico nella regione ma ha validità generale: questi sistemi di faglie appaiono mutevoli nel tempo e per valutarne il rischio sismico è necessario un quadro dinamico della loro evoluzione", prosegue Gasperini.
  Approfittando della notorietà dell'importante sito storico, già intensamente studiato con tecniche paleo-sismologiche e archeo-sismologiche, i ricercatori hanno analizzato l'evoluzione strutturale della faglia situata a nord-est di Israele, situata al limite di placca che separa Africa e Sinai/Arabia.
  L'obiettivo era svelare un grave problema tipico delle aree caratterizzate da faglie trascorrenti di grandi dimensioni, come quella di San Andreas in California e quella nord-anatolica in Turchia, ovvero l'ampia variabilità spaziale e temporale dei processi geologici in zone relativamente focalizzate e ristrette - prosegue il ricercatore - Siamo stati fortunati perché, durante la campagna di acquisizione dei dati, nell'area di studio si è verificato uno sciame di terremoti di bassa magnitudo, che ha consentito una caratterizzazione dinamica di quelle che in precedenza erano solo immagini geofisiche statiche".
  Il team di ricercatori ha studiato il Mare di Galilea e i suoi dintorni utilizzando un approccio nuovo e multidisciplinare che include tecniche di imaging del sottosuolo a diverse risoluzioni, nonché analisi geochimiche e sismologiche. "Il Mare di Galilea, o Lago Kinneret, riempie una depressione situata a oltre 200 metri sotto il livello del mare e costituisce un'interessante opportunità per osservare in profondità processi geologici fondamentali utilizzando strumenti geofisici marini, che si sono dimostrati più efficaci rispetto agli equivalenti a terra", conclude Gasperini.

(in salute, 24 luglio 2020)


L'Autorità Palestinese cerca di accusare Israele per l'aumento di contagi

Per il governo di Abu Mazen la crisi da coronavirus è solo un'altra scusa per promuovere l'odio verso Israele.

L'Autorità Palestinese accusa Israele di diffondere deliberatamente il coronavirus nei territori palestinesi. Nelle scorse settimane, eminenti politici palestinesi hanno cercato di attribuire esplicitamente a Israele la colpa di un aumento del numero di contagi fra la popolazione palestinese, pur ammettendo a denti stretti che anche grandi assembramenti di palestinesi potrebbero aver avuto un effetto.
Il 17 luglio, il quotidiano ufficiale dell'Autorità Palestinese al-Hayat al-Jadida citava Qadura Fares, presidente dell'Associazione Prigionieri finanziata dall'Autorità Palestinese, secondo il quale "Israele cerca di diffondere il coronavirus attraverso l'irruzione nelle case dei palestinesi di soldati probabilmente malati e mescolandoli a civili e prigionieri". La dichiarazione di Qadura Fares fa seguito a un precedente servizio di al-Hayat al-Jadida secondo cui il primo ministro dell'Autorità Palestinese, Muhammad Shtayyeh, aveva incolpato i soldati israeliani ai valichi di frontiera per la diffusione del coronavirus in Cisgiordania. "La ragione principale della grave tendenza all'aumento del coronavirus - ha dichiarato Shtayyeh - è il fatto che alle forze di sicurezza palestinesi viene impedito di adempiere il loro compito di supervisionare il movimento ai valichi. Il fatto che non controlliamo i valichi e le frontiere, oltre alle misure dell'occupazione, è la ragione principale dell'aumento del numero di persone contagiate dal coronavirus"....

(israele.net, 24 luglio 2020)


Golan, esercito israeliano: "Esplosioni dal lato siriano"

Le esplosioni venivano da un villaggio siriano, indirizzate ad un aereo senza pilota che ha sorvolato la zona. Elevata l'allerta nel nord di Israele.

"Echi di esplosioni sono stati avvertiti nel Golan vicino ai reticolati di confine, sul versante siriano. Diverse schegge hanno danneggiato un edificio ed un mezzo civile in territorio israeliano". Lo ha riferito il portavoce militare israeliano, l'Idf su Twitter.
Secondo la radio pubblica Kanun, un razzo anticarro è esploso in territorio siriano non lontano dalla cittadina drusa di Majdal Shams, nel versante israeliano della zona.
La radio pubblica israeliana ha precisato che le esplosioni sul Golan non hanno provocato vittime.
Secondo le prime ricostruzioni di fonte siriana -menzionate dalla emittente - gli echi delle esplosioni erano dovuti al fuoco di contraerea aperto dal villaggio siriano diel-Khader (Kuneitra) contro un velivolo israeliano senza pilota che sorvolava la zona. Il velivolo, secondo quelle fonti, ha fatto ritorno allo spazio aereo israeliano.
Da ieri Israele ha elevato lo stato di allerta nel timore di attacchi di ritorsione degli Hezbollah dopo che giorni fa un miliziano sciita libanese è rimasto ucciso in Siria in un raid attribuito all'aviazione israeliana.

(RaiNews, 24 luglio 2020)


Santa Sofia moschea è la promessa di guerra dell'islamista Erdogan

Finisce il sogno della Turchia come ponte del mondo musulmano verso la modernità.

Il piano
È un'operazione politica e religiosa del mondo sunnita con quello sciita
L'obiettivo
Ankara cerca la posizione di forza nel Mediterraneo e la distruzione di Israele

di Fiamma Nirenstein

Dunque oggi il disegno del sultano Erdogan diventerà realtà, nonostante il dispiacere del Papa e di tutto il mondo cristiano. L'Arcangelo Gabriele, il Cristo Pantocrator, e gli altri famosi mosaici e dipinti verranno coperti da tende scorrevoli perché, secondo il dettato musulmano, non vi siano immagini nei luoghi sacri, mille fedeli si inchineranno sui tappeti distanziati secondo le regole della pandemia. Il mondo si deve accontentare di una promessa che nulla verrà rovinato. Ma non è un gesto innocuo. È una promessa di guerra.
   Quando il 10 luglio ha annunciato la volontà di convertire il museo, ex cattedrale, di Santa Sofia in una moschea, Recep Tayyp Erdogan ha dichiarato anche che egli «libererà» Gerusalemme dai suoi «invasori» (gli ebrei), e in particolare la moschea di Al Aqsa, inaugurandovi, come accade oggi, la preghiera islamica, «libererà» Santa Sofia. Si tratta sempre di Umma islamica, come la cattedrale-museo. È un'operazione politico-religiosa di grande respiro, che proviene dal mondo sunnita, in parallelo e in concorrenza con la grinta sciita dell'Iran che da decenni proclama con determinazione dottrinale e grinta bellica l'inevitabilità di un immenso stato islamico, i cui nemici sono cristiani ed ebrei.
   Gli ebrei, sia per l'Iran che per la Turchia d'oggi, hanno un ruolo particolare: essi sono lo stendardo di battaglia. Da qui l'odio per Gerusalemme. E il suo uso come tromba di guerra e richiamo al mondo arabo da parte di Erdogan, mentre per altro parla all'Europa con Santa Sofia. L'Umma islamica, sia che venga ristabilita al completo su tutti gli storici possedimenti islamici, ovvero su qualsiasi parte del territorio, degli edifici, della popolazione che ne siano mai stati parte, ha due nemici che qui, sulla strada di Erdogan, diventano visibili, anzi, vittime fosforescenti: le altre due religioni monoteiste fondamentali. Con l'aggiunta dei musulmani apostati, i kafir, per esempio di questi tempi i sauditi alleati dell'Occidente. La meraviglia della cattedrale di Santa Sofia costruita nel 537 dall'imperatore bizantino Giustiniano divenne moschea per la prima volta nel 1453, finché quel genio di Mustafa Kemal Ataturk aggiunse la sua conversione in museo all'incredibile numero di riforme che dovevano trasformare la Turchia nel grande ponte storico per cui il mondo musulmano avrebbe preso la strada della democrazia e della modernità. Non è andata cosi. È arrivato Erdogan, con le due centinaia di migliaia di dissidenti in carcere, i giornali silenziati, i curdi perseguitati, l'antisemitismo come bandiera. E il sogno islamista nutrito dalla violenza e la corruzione.
   I circoli conservativo-islamici, che sempre hanno richiesto il ritorno al ruolo di moschea, lo hanno fatto appoggiandosi alla teoria del «nemico ellenico" basato sull'odio per la Grecia, che Erdogan, fra i tanti odi che costruisce senza sosta, tiene in piedi. Ma è chiara una debolezza strutturale della sua leadership che accende continui fuochi in tutto il mondo e porta l'esercito dalla Libia alla Siria all'Irak, fornisce soldi a Hamas, e intraprende nuovi legami anche con Teheran; la situazione economica che caratterizza la sua gestione, la perdita di consenso anche nella capitale, la pandemia portano la Turchia a soffrire sempre di più sotto il tallone di Erdogan e del suo impero Ottomano rinnovato dalla Fratellanza Musulmana di cui è leader mondiale. Erdogan pensa al futuro: per questo emerge in questi mesi un nuovo nesso fra Turchia, Malesia, Indonesia, Pakistan, con il Qatar ( e come poteva mancare) come partner aggiuntivo. Nuove alleanze mondiali contornate da visite e piani comuni, in cui l'Iran si affaccia senza sosta e la Cina occhieggia, che accompagnano i sogni regionali. Erdogan cerca una posizione di forza lungo tutta l'area Mediterranea, sfida la Grecia, Cipro, la Francia e Israele sulle riserve di gas, dà spallate all'Egitto e di conserva all'Arabia Saudita, mentre insieme all'Iran giura la distruzione di Israele. Ma al centro di tutto questo, una magnifica basilica-museo cara al mondo cristiano, da oggi, diventa moschea.

(il Giornale, 24 luglio 2020)


La "polizia igienica" contro il contagio malefico

Hamutal Shabtai ha scritto, nel 1997, un libro incredibilmente profetico andato a ruba oggi in Israele. Ispirato all'epidemia di Aids racconta ciò che accade adesso, proprio nel 2020.

di Aldo Baquis da Tel Aviv

New York. È l'anno 2020. Una epidemia micidiale imperversa in tutto il mondo e la sorte dell'umanità è in gioco. Un sistema dispotico di diagnosi separa ormai in compartimenti stagni i sani dai contagiati. La paura della malattia diventa ossessiva, i rapporti interpersonali rappresentano una minaccia esistenziale. Quando nel 1997 Hamutal Shabtai pubblicò il suo ponderoso romanzo distopico 2020 - frutto di anni di ricerche e di un anno e mezzo di scrittura - Israele era assillato da ben altre questioni. C'era stata da poco la uccisione di Yitzhak Rabin, poi l'esordio al governo di un promettente leader del Likud di nome Benyamin Netanyahu e le continue frizioni con Yasser Arafat a Gaza. «Nei negozi di libri - dice Shabtai a Bet Magazine - 2020 fu sistemato negli scaffali della 'fantascienza'». Allora non destò particolare emozione. Questo mese invece 2020 (che finora è uscito solo in ebraico) è esposto nelle vetrine dei negozi di libri, appena riaperti al pubblico dopo la chiusura forzata per il coronavirus. Clienti con le mascherine al volto sono ammessi uno alla volta, e fra gli scaffali si seguono con la coda dell'occhio tenendosi a distanza di sicurezza. La fantascienza di ieri fa visita nell'Israele di oggi.
   A sospingere Shabtai verso la questione delle pandemie fu, negli anni Ottanta, il diffondersi dell'Aids. «Mi interessava verificare - spiega - come una epidemia potesse all'improvviso rivoluzionare i rapporti fra le persone, nei regimi e fra gli Stati. Come fosse possibile assistere alla repentina deprivazione delle libertà personali. Assistere al propagarsi di timori, terrore, sospetto anche a riguardo delle persone più vicine».
   In quegli anni, durante un soggiorno negli Stati Uniti, Shabtai si trovò vicina a gruppi impegnati nella lotta all'Aids e alla difesa dei diritti dei malati. Vide il progressivo diffondersi del timore della malattia fra le categorie a rischio, tossicodipendenti inclusi. Il terrore crescente era che il virus subisse mutamenti, che i contagi potessero avvenire a sorpresa anche mediante forme nuove. Nel suo 2020 compì dunque una "libera estrapolazione" di quanto avveniva allora sotto ai suoi occhi.
   Molti di quegli elementi sono per lei riemersi in superficie quando nel gennaio 2020 ha cominciato a interessarsi agli eventi in corso in Cina. «Si vedevano controllori nelle strade, l'attivazione di crematori, malati sigillati nelle case, persone ribelli che tentavano la fuga inseguite e neutralizzate da personale che indossava tute protettive molto simili a quelle della 'polizia igienica' che descrivevo nel mio libro. La sorte dei fuggiaschi cinesi sarebbe rimasta spesso ignota».
   Nel suo romanzo l'inizio delle rigide selezioni fra sani e malati provoca un'insurrezione generale a San Francisco, che viene repressa nel sangue, mentre la marina militare statunitense viene inviata a bloccare una ondata migratoria proveniente da Paesi asiatici. Nell'inverno 2020 anche la chiusura dei confini in Europa per il coronavirus sembrava così seguire un suo copione. «Nel mio piccolo di 'auto-nominata epidemiologa', mi dicevo che se non lo avessero fatto, se non avessero bloccato i voli, sarebbe stato pazzesco, sarebbe stata una catastrofe».
   «Quando c'è in gioco la sopravvivenza, ognuno vuole rinchiudersi nello spazio dove si trova. C'è un meccanismo di chiusura. Ognuno vuole stare con chi gli è più vicino. Può essere lo Stato, ma anche il proprio sesso». In 2020 una organizzazione femminile predica una crescente separazione fra i sessi. «Quando l''altro' ti mette in pericolo, lo si guarda con sospetto. Ognuno vuole stare con chi gli è più vicino. È naturale, in periodi di paura». Ma tutto questo, precisa, aveva molta più attinenza col timore dell'Aids da lei visto in America negli anni Ottanta che non con l'esperienza di coronavirus vissuta ora in Israele: «Durante la chiusura qua molti cercavano ancora di organizzarsi incontri romantici, ed erano anzi frustrati per le limitazioni agli spostamenti».
   Più che in altri Paesi, proprio in Israele si è fatto ricorso a sistemi di monitoraggio elettronico dei contagiati di coronavirus, affidandone l'incarico anche allo Shin Bet (i servizi segreti) che ha utilizzato sistemi elaborati in origine per la lotta al terrorismo. Tutto ciò non pare inquietante? «Affrontando la questione con un approccio medico (Shabtai è psichiatra, A.B.) direi che i controlli in sé sono positivi perché offrono un modo in più per lottare contro i contagi. Ma è ovvio che tutto ciò ha un legame col nostro timore di incorrere in una esperienza di dittatura. Che qualcuno assuma il controllo sulla nostra vita, di perdita dei diritti personali. Ciò può avere aspetti molto negativi».
   Nel libro c'è un personaggio negativo, Kurt Schmidt, che espone la tesi secondo cui in casi estremi di pandemia la difesa dei diritti civili rappresenta un pericolo. Come mai in quel particolare contesto le sue parole, per quanto sgradevoli, sembrano avere una loro razionalità? «Per quanto concerne la paura del contagio, ossia quando è questione di vita e di morte, i diritti civili sono per lui una cosa da persone viziate. Innanzi tutto, dice, restare in vita, poi semmai parlare di diritti umani». Si troverà comunque di fronte personaggi temerari e anelanti alla libertà, che giocheranno il tutto per tutto. «Kurt Schmidt è un 'sopravivvenzialista' ad oltranza, e dispotico. È un mostro fascista. Ho comunque immaginato la sua figura come la personificazione della epidemia stessa: colei la quale ci carpisce tutto e che ci tiene sotto controllo, in cambio della vita. Avevo necessità di dare una forma concreta alla epidemia: lui ne rappresenta la crudeltà».

(Bet Magazine Mosaico, 24 luglio 2020)


Bertinoro e il legame con Israele: l'ambasciatore Eydar alla scoperta dell'Ospitalità

"E' stata una piacevole visita, che coltiveremo con grande piacere ed onore, per rendere la nostra Ospitalità ancora più reale tanto quanto lo fu nel medioevo", spiega il sindaco Fratta.

 
L'ambasciatore di Israele, Dror Eydar, ha visitato giovedì pomeriggio Bertinoro (FC). "Si è intrattenuto visitando la nostra comunità, da lui conosciuta grazie al celebre Ovadya Yare - Il Gran Bertinoro, commentatore della Torah e conosciuto con questo nome da tutto il mondo ebraico - spiega il sindaco Gabriele Antonio Fratta -. E' stata una piacevole visita, che coltiveremo con grande piacere ed onore, per rendere la nostra Ospitalità ancora più reale tanto quanto lo fu nel medioevo quando i bertinoresi, unici nella situazione di allora, accolsero gli ebrei all'interno delle cinta murarie della città di Bertinoro".
"L'ambasciatore ha conosciuto la storia dell'ospitalità di Bertinoro, della colonna delle anella e soprattutto del quartiere ebraico visitando al contempo con il dottor Enrico Bertoni e la dottoressa Lisa Turroni il Museo Interreligioso di cui è rimasto piacevolmente impressionato - continua Fratto -. Ci siamo scambiati i contatti per tornare a Bertinoro l'anno prossimo, durante il VII Centenario della morte di Dante Alighieri per un convegno e apporre una targa su Ovadya Yare nel palazzo comunale. Una bellissima occasione per rinnovare i nostri valori più profondi".

(ForlìToday, 24 luglio 2020)


Colloqui tra il ministro degli Esteri greco e omologhi di Israele ed Egitto

ATENE - Il ministro degli Esteri greco Nikos Dendias ha avuto oggi due colloqui telefonici, con gli omologhi di Israele ed Egitto Gabi Ashkenazi e Sameh Shoukry. Lo ha annunciato lo stesso Dendias tramite il suo profilo Twitter. La cooperazione bilaterale tra Grecia e Israele, gli sviluppi nel Mediterraneo orientale e altre questioni regionali, sono stati i temi al centro del colloquio tra Ashkenazi e Dendias. La situazione nel Mediterraneo orientale è stata al centro anche dell'altro colloquio avuto da Dendias con il capo della diplomazia egiziana. Secondo Dendias, nel colloquio è stato "confermato il livello eccellente della cooperazione bilaterale" tra Grecia ed Egitto.

(Agenzia Nova, 24 luglio 2020)


Giornata europea della cultura ebraica. "Percorsi Ebraici" in 90 località Italiane

L'obiettivo fondamentale di questo evento a livello europeo, organizzato dal 2000, è quello di evidenziare la diversità e la ricchezza del giudaismo e la sua importanza storica locale, regionale e nazionale, con la ferma intenzione di promuovere il dialogo, il riconoscimento e lo scambio attraverso conferenze, concerti, spettacoli, visite guidate e altre attività, che si svolgono contemporaneamente in tutto il continente. Questo progetto ora è stato ampiamente rafforzato dalla collaborazione con la Biblioteca Nazionale di Israele, che ha agito come mezzo per sviluppare tutti i tipi di materiali espositivi e didattici, che hanno dato un importante valore aggiunto al Festival, facilitando nel contempo la sua celebrazione in tutto il continente.
  La Giornata Europea della Cultura Ebraica gode del Patrocinio del Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo, del Dipartimento per le Politiche Europee della Presidenza del Consiglio dei Ministri, e dell'Associazione Nazionale Comuni Italiani. È inoltre riconosciuta dal Consiglio d'Europa.
  I trentadue Paesi europei che aderiscono, oltre all'Italia, sono Austria, Belgio, Bielorussia, Bosnia Erzegovina, Bulgaria, Croazia, Danimarca, Francia, Georgia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Olanda, Norvegia, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Romania, Serbia, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia, Svizzera, Turchia, Ucraina, Ungheria.
  Queste le 16 località nella Regione Calabria che aderiscono: Belvedere Marittima, Bova Marina, Catanzaro, Caulonia, Cittanova, Cosenza, Gerace, Motta San Giovanni, Nicotera, Palmi, Reggio Calabria, Rende, Santa Maria del Cedro, Tarsia, Vibo Valentia, Zambrone.
  Mentre in Sicilia aderiscono:Castroreale, Marsala, Palermo, Siracusa, Trapani.

(Strill.it, 24 luglio 2020)


Strage di Bologna, "giudice dell'inchiesta frequentava il capo dei palestinesi FPLP in Italia"

Il giudice Aldo Gentile, dal 21 settembre del 1980 titolare dell'istruttoria sulla strage alla stazione ferroviaria di Bologna, frequentava Abu Anzeh Saleh, il giordano di origini palestinesi, ufficialmente studente fuori corso residente proprio a Bologna, ma in realtà capo della struttura clandestina in Italia del Fronte popolare per la Liberazione della Palestina legata alla galassia sanguinaria del superterrorista "Carlos lo sciacallo". Un personaggio, Saleh, coinvolto nell'inchiesta sul sequestro dei missili di Ortona e intorno al quale ruotano le agghiaccianti minacce palestinesi di ritorsione all'Italia per la sua liberazione proprio a ridosso delle stragi di Ustica e di Bologna.
  La clamorosa notizia - e cioè di "un rapporto personale, diretto e privato tra il titolare delle indagini sulla strage e l'uomo dell'FPLP" - è contenuta nel verbale di sommarie informazioni testimoniali rese dal giudice Aldo Gentile (il 7 novembre 2012) al sostituto procuratore Enrico Cieri e al capo della Sezione Antiterrorismo della DIGOS di Bologna Antonio Marotta, nell'ambito del procedimento penale aperto alla fine di luglio 2005 incentrato sulla presenza a Bologna il giorno della bomba di un fedelissimo di Carlos, ovvero il tedesco Thomas Kram (poi indagato e quindi archiviato) compagno della terrorista Christa-Margot Fröhlich (esperta di esplosivi) riconosciuta da un testimone come presente a Bologna (ma anche la Frohlich uscì indenne dall'inchiesta).
  Di questo verbale e delle presunte anomalie processuali intorno al giudice Gentile dà conto il sito 'Reggio Report', che scrive: "nello specifico, i due, il giudice istruttore Aldo Gentile e Abu Anzeh Saleh si incontravano regolarmente al bar di via delle Tovaglie, poco distante da Palazzo Baciocchi, allora sede degli uffici giudiziari bolognesi. Gentile ricevette da Saleh anche dei regali, in particolare un bassorilievo in ottone raffigurante il tempio di Gerusalemme, ancora oggi conservato nell'abitazione dell'anziano giudice (99 anni) in pensione, napoletano di nascita, ma bolognese di adozione. "Abu Anzeh Saleh abitava in via delle Tovaglie e frequentava il bar che era di fronte alla sua abitazione. Ci si vedeva… si familiarizzava", ha dichiarato Gentile.
  C'è dell'altro. Secondo il sito online "l'ex giudice istruttore del Tribunale di Bologna è stato sentito precisamente per chiarire i motivi che lo spinsero, il 10 settembre 1981, meno di un mese dopo la scarcerazione di Abu Anzeh Saleh - unico fra gli imputati condannati in primo grado a sette anni di reclusione per detenzione e trasporto illegittimo di armi da guerra - a richiedere ai colleghi della Corte d'Appello de L'Aquila il permesso per Saleh di assentarsi da Bologna dove aveva l'obbligo della firma in Questura e recarsi a Roma per una settimana. Il capo dell'FPLP in Italia era stato infatti scarcerato il 14 agosto 1981 (in accoglimento del ricorso presentato dal suo difensore, l'avvocato Edmondo Zappacosta del Foro di Roma, secondo il Sismi legale di fiducia dell'Ambasciata libica a Roma)".
  "Siccome questo stava sempre lì, ci si salutava e si scherzava - ha dichiarato Gentile a verbale - Assolutamente mai cose professionali". Eppure, il 10 settembre 1981, è proprio lui, Gentile, sempre secondo il sito Reggio Report - "a trasmettere quel fonogramma ai colleghi de L'Aquila per autorizzare Saleh a recarsi una settimana a Roma. "Poi sono andato a Roma, sono dovuto andare da… non mi ricordo come si chiama, comunque era il fiduciario dell'OLP a Roma il quale mi disse che Abu Saleh era un suo agente e precisamente il suo agente a Bologna", ha aggiunto Gentile.
  Ma il sito Reggio Report scrive di più: "alla domanda cruciale posta dal sostituto procuratore Enrico Cieri sul perché Gentile chiese, nell'ambito dell'istruttoria sulla strage, l'autorizzazione per Saleh a recarsi a Roma immediatamente dopo la sua scarcerazione, si chiude a riccio e risponde: "Non mi ricordo, assolutamente non mi ricordo". E ancora. "La cosa sorprendente è che Gentile - riporta sempre 'Reggio Report' - conserva buona memoria di gran parte di quello che ha fatto in quegli anni (…) ma non ricorda perché si interessò personalmente a chiedere quella autorizzazione a favore di Abu Anzeh Saleh e, soprattutto, su chi lo sollecitò per mandare il capo dell'FPLP in Italia a Roma subito dopo la sua scarcerazione". Il sito Reggio Report, a questo punto, elenca alcune presunte anomalie nella ricostruzione dell'autorità giudiziaria.
  Tra queste il particolare che il giudice Gentile avrebbe, per sua stessa ammissione, ricevuto un regalo da Saleh, e poi che (sempre Gentile) avrebbe tirato in ballo anche gli ex colleghi Giorgio Floridia e Vito Zincani, affermando che anche loro avrebbero conosciuto e frequentato Saleh. "Floridia e Zincani, sentiti a verbale, hanno preso le distanze da quelle affermazioni e hanno smentito in modo categorico la versione fornita da Gentile".

(Adnkronos, 23 luglio 2020)


Israele invia rinforzi nel nord del paese

GERUSALEMME - Le Forze di difesa israeliane (Idf) hanno annunciato l'invio di rinforzi nel nord del paese per timore di ritorsioni da parte del movimento sciita libanese Hezbollah per la morte di uno dei suoi combattenti in Siria all'inizio di questa settimana. "Alla luce di una valutazione della situazione che si è svolta nelle Idf, è stato deciso di inviare un rinforzo preciso delle truppe di fanteria al Comando settentrionale", hanno detto i militari. Oggi, fonti vicine a Hezbollah hanno riferito al quotidiano con sede a Londra "Asharq al-Awsat" che il movimento guidato da Hassan Nasrallah avrebbe probabilmente risposto alla morte del suo combattente lunedì notte a sud di Damasco. Le Idf hanno inviato sul fronte settentrionale il 13mo battaglione della Brigata Golani e una piccola unità della Divisione Galilea del Comando Nord. Due giorni fa Hezbollah ha accusato Israele di aver ucciso uno dei suoi combattenti, Ali Kamel Mohsen Jawad, in un attacco aereo israeliano il 20 luglio a sud di Damasco.

(Agenzia Nova, 23 luglio 2020)


I volenterosi carnefici di Polonia

Jan Grabowski, lo storico che ha ricostruito il collaborazionismo della "polizia blu" con i nazisti, è accusato di essere antipatriottico. Ma lui dice: "Noi siamo i custodi della memoria di milioni di vittime".

di Manuela Consonni

 
Ghetto di Varsavia durante l'occupazione tedesca
Jan Grabowski - storico canadese-polacco, forse il maggior studioso di storia dell'Olocausto in Polonia - è nuovamente al centro di un violenta polemica. Il settimanale di destra Do Rzeczy (Sul Punto), il 24 maggio criticava, con un infamante articolo di Leszek Zebrowski dal titolo "Perseverare nell'errore", il suo ultimo libro Na Posterunku. Udzial polskiej policji granatowej i kryminalnej w zagladzie Zydów, (In servizio: il ruolo della polizia "blu" polacca e lo sterminio degli ebrei) uscito nel marzo 2020 per la casa editrice Czarne.
  L'accusa è semplice - un'accusa che è divenuto ormai un recitativo storiografico su cui tornano e ritornano alcuni paesi dell'Europa orientale - e non solo - nel negare le loro responsabilità nella persecuzione e nello sterminio degli ebrei. Incolpando i polacchi della polizia blu di azioni non dimostrate, Grabowski solleverebbe dalla colpa i tedeschi, scegliendo, attraverso false ricostruzioni storiche, la strada della revisione storiografica a danno dei polacchi vittime del nazismo. Il suo atteggiamento rifletterebbe, accusano, seri disturbi mentali.
  Il 24 giugno, Rafal Ziemkiewicz, dello stesso settimanale, si spingeva persino oltre, affermando che per Grabowski forse bisognava richiedere se non l'intervento di uno psichiatra, certamente quello di un esorcista. Grabowski è uno dei più importanti studiosi dell'Olocausto in Polonia: 14 monografie e più di 60 articoli pubblicati in svariate lingue che ricostruiscono il ruolo della popolazione polacca che, a livelli diversi, ha partecipato da spettatrice indifferente o da attiva carnefice allo sterminio ebraico.
  L'ultimo libro di Grabowski, basato su di una ricca documentazione archivistica proveniente dalla Polonia, Israele, Stati Uniti e Germania, si concentra sulla polizia "blu", una forza di 16.000 persone, creata dai tedeschi nel 1939, dopo la conquista della Polonia. La stragrande maggioranza degli ufficiali della polizia "blu" furono reclutati tra i poliziotti della polizia di stato polacca di prima della guerra.
  La polizia "blu", fin dall'inizio dell'occupazione tedesca, svolse un ruolo fondamentale nella punizione e nella repressione contro gli ebrei e nell'esercizio e nell'applicazione della normativa anti-ebraica tedesca. I poliziotti polacchi furono coloro che imposero non solo il regolamento del "marchio" (che richiedeva agli ebrei di indossare la fascia con la stella di David), ma anche le nuove leggi che ne limitavano la mobilità, e, in seguito, furono coloro che introdussero la residenza forzata nei ghetti.
  Nel 1942, quando iniziò la soluzione finale, la polizia polacca divenne uno strumento essenziale delle politiche tedesche di sterminio nella Polonia occupata. Gli ufficiali polacchi presero parte a tutte le sanguinose azioni di liquidazione dei ghetti (e le conseguenti deportazioni di ebrei dai ghetti ai campi di sterminio). Più tardi, una volta liquidati i ghetti, gli ufficiali polacchi furono indispensabili per identificare e localizzare gli ebrei che erano riusciti a sfuggire alla deportazione. Ciò che emerge, nella ricostruzione di Grabowski, è l'elemento della collaborazione volontaria in cui i poliziotti "blu" dimostrarono di collaborare spontaneamente e con entusiasmo, dando la caccia e uccidendo gli ebrei senza coinvolgimento diretto dei tedeschi e senza ordini diretti.
  Lo storico canadese-polacco sottolinea inoltre la presenza di non pochi poliziotti polacchi profondamente coinvolti nella lotta della resistenza contro i tedeschi, concludendo che in molti casi l'essere un buon patriota polacco non impediva di essere anche uno spietato assassino di ebrei: non esisteva contraddizione visibile e evidente tra questi due ruoli. Va ricordato che in Polonia il movimento partigiano ebraico aveva un'organizzazione autonoma, proprio a causa del diffuso antisemitismo tra le formazioni partigiane e tra la popolazione locale (Manuela Consonni, L'eclisse dell'antifascismo. Resistenza, questione ebraica e cultura politica in Italia 1943-1989, Laterza 2015, 122).
  Nel suo imponente studio, Grabowski ricostruisce le azioni dei poliziotti, membri delle unità investigative d'élite pre-belliche, che furono incorporate nelle strutture della Kripo (KriminalPolizei) tedesca - il cui capo Arthur Nebe rispondeva direttamente a Reinhard Heydrich (SS) - con nome di polizia criminale polacca, colloquialmente chiamata "Kripo polacca", che fu attiva negli anni 1940-1945 nel Governatorato Generale durante l'occupazione tedesca. Questi agenti, gestendo le proprie reti di informatori, si rivelarono particolarmente insidiosi per gli ebrei polacchi nel loro tentativo di sottrarsi alla deportazione e alla morte. Emanuel Ringelblum, il celebre storico, fondatore del gruppo Oneg Shabat, fu una delle loro moltissime vittime. Infine, il libro esamina i casi rari, ma significativi, di poliziotti polacchi che decisero, agendo contro gli ordini tedeschi e contro lo spirito di corpo dei loro stessi ufficiali - di aiutare e salvare gli ebrei.
  Già nel 2016, settantuno anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, il Ministero degli affari esteri polacco aveva diffuso un lungo elenco di "codici memoriali sbagliati" (blednekody pamieci), che avrebbero falsificato il ruolo avuto dalla Polonia nell'Olocausto, opera di storici - tra essi appunto Jan Grabowski - che con cattiva coscienza, presentavano i polacchi carnefici degli ebrei invece che vittime essi stessi dei nazisti. L'utilizzo di tali codici memoriali, affermava il Ministero polacco, doveva essere denunciato immediatamente ai rappresentati all'estero del governo polacco perché misure straordinarie potessero essere assunte contro coloro che ne facevano uso. Nel lungo elenco dei "codici memoriali sbagliati", erano incluse le seguenti espressioni: "genocidio polacco", "crimini di guerra polacchi", "omicidi di massa polacchi", "campi di internamento polacchi", " campi di lavoro polacchi " ma soprattutto ai fini dell'attuale polemica "partecipazione polacca all'Olocausto". (Jan Grabowski, The Polish Police. Collaboration in the Holocaust, Ina Levine annual Lecture United States Holocuast Memorial Museum, 2017, 1).
  La polemica che esplose e vide coinvolti storici polacchi ed israeliani fu resa ancora più aspra dalla dichiarazione bilaterale del governo polacco e israeliano che introduceva nell'arena internazionale il bizzarro concetto di "antipolanismo" che le autorità polacche volevano fosse riconosciuto come un termine equivalente all'"antisemitismo"!
  Grabowski fu accusato allora come oggi di antipatriottismo politico e non solo storiografico. In realtà, nel volere tenacemente ricostruire la storia per quella che è stata, egli dimostra solo di non temere né la storia né il passato. Nelle parole di Jan Grabowski: "Gli storici dell'Olocausto hanno un obbligo specifico verso questa tragica parte di storia. Sono i custodi della memoria di milioni di vittime innocenti. I cinici tentativi compiuti oggigiorno da vari governi per imporre le proprie narrazioni storiche devono essere contrastati con determinazione e forza".

(la Repubblica, 23 luglio 2020)


"Odio verso Israele il nuovo antisemitismo"

 
Georges Bensoussan
"L'antisemitismo oggi non prende più la forma di un conflitto tra 'razze', ma di uno scontro tra sionisti e antisionisti. Il nocciolo del discorso è però lo stesso: causa delle sventure dell'umanità un tempo era 'l'ebreo', oggi, anche in virtù del suo essere il perno dell'ebraismo mondiale, è lo Stato di Israele". È quanto ha sottolineato l'autorevole storico francese Georges Bensoussan, tra gli esperti ascoltati nelle scorse ore dalla coordinatrice nazionale per la lotta contro l'antisemitismo Milena Santerini assieme al gruppo di lavoro a suo supporto recentemente costituitosi a Palazzo Chigi.
   Al centro della relazione di Bensoussan una delle mutazioni classiche dell'antisemitismo ben attenzione dalla definizione operativa della International Holocaust Remembrance Alliance: l'odio verso lo Stato ebraico, il rifiuto del suo diritto ad esistere.
   Tra gli intervenuti, ricostruisce con la redazione la professoressa Santerini, in carica dallo scorso gennaio, anche il suo collega tedesco Felix Klein, commissario del governo per la vita ebraica e la lotta contro l'antisemitismo, che ha illustrato le misure prese in questo ambito dalle autorità di Berlino. Molteplici i fronti d'azione: dagli aspetti giuridico-legali alla sfera politica, dagli impegni educativi a quelli culturali a più ampio raggio.
   Il prefetto Vittorio Rizzi, presidente dell'Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori della Polizia, ha messo in evidenza due problemi: l'under reporting e l'incapacità che vi è talvolta di distinguere tra antisemitismo e altre forme di odio. Ineludibile quindi la sfida della formazione, con Rizzi che ha menzionato la proficua collaborazione instaurata in questo senso con le istituzioni dell'ebraismo italiano.
   A ricordare che l'antisemitismo non è solo un problema degli ebrei è stata poi Ruth Dureghello, presidente della Comunità ebraica di Roma, che tra i vari aspetti ha messo l'accento sul suo carattere destabilizzante, sul suo minare alla convivenza civile. Un pericolo quindi per l'intera società, nessuno escluso.
   Ultimo relatore è stato Roberto De Vita, avvocato penalista e docente presso l'Accademia Ufficiali della Guardia di Finanza e la Scuola di Polizia, anche lui soffermatosi sull'impegno di formazione e sulla necessità di individuare in modo chiaro ogni forma e manifestazione di antisemitismo. "L'audizione - spiega la professoressa Santerini - è stata caratterizzata da interventi di grande spessore e utilità. A settembre ci saranno nuove occasioni per confrontarsi, con altri esperti, su questi temi. Un confronto che resterà di livello e internazionale".

(moked, 23 luglio 2020)


Scandalo umanitario

''Nostri fondi finiti ai terroristi palestinesi". L'Olanda ammette: le donazioni usate contro Israele.

di Giulio Meotti

ROMA - L'Olanda ha pagato lo stipendio di due terroristi implicati nell'assassinio della 17enne israeliana Rina Shnerb, uccisa un anno fa (il fratello rimase gravemente ferito) da una bomba in Cisgiordania. Ad annunciarlo al Parlamento all'Aia è lo stesso ministro degli Esteri olandese, Stef Blok, e la ministra per il Commercio estero e la Cooperazione allo sviluppo, Sigrid Kaag. E' la prima volta che un governo europeo ammette che i propri fondi, apparentemente destinati a cause benefiche, sono finiti per alimentare il terrorismo contro Israele.
   Samer Arbid, responsabile dell'attentato alla famiglia Shnerb, figurava come contabile presso l'Unione dei comitati del lavoro Agricolo palestinese (Union of agricultural work committees, Uawc). Era anche il comandante della cellula terroristica del Fronte popolare per la liberazione della Palestina che ha fatto esplodere la bomba che ha ucciso Rina. Abdul Razeq Farraj era invece il direttore delle finanze della Uawc ed è stato incriminato per l'aiuto fornito nell'attentato. I due non solo erano membri del Fronte popolare, un gruppo considerato terroristico dall'Unione europea, ma figuravano anche a libro paga dell'Uawc, a cui l'Olanda ha donato venti milioni di dollari negli ultimi sette anni. Gli stipendi dei due terroristi erano coperti dai fondi olandesi.
   Secondo Ngo Monitor, fra i paesi che donano fondi alla Uawc figurerebbero anche Italia e Spagna. Per rimediare allo scandalo, l'Aia ha sospeso le donazioni alla Uawc. "La notizia che due terroristi sono stati pagati con il denaro dei contribuenti olandesi e che hanno persino ottenuto un pass dall'ufficio di Rappresentanza olandese a Ramallah, è scioccante", fa sapere il Centro olandese per l'informazione e la documentazione su Israele, che per primo aveva sottoposto il caso all'Aia. Non si è trattato solo di pagamenti. "Nel 2017, entrambi hanno ricevuto un pass per un anno dalla Rappresentanza olandese a Ramallah, con la quale potevano identificarsi come dipendenti di un'organizzazione partner della Rappresentanza olandese", dice il ministro Kaag, Non è il primo caso simile. Nel 2018 era emerso che un'altra ong, Ma'an, aveva ricevuto sovvenzioni olandesi, servite a pagare un terrorista, Ahmad Abdallah Aladini, morto a Gaza poco tempo dopo. Era stato lo stesso padre di Rina Shnerb, Eitan, a fare appello all'Unione europea perché interrompesse i finanziamenti ai terroristi: "Come può essere che persone che glorificano la morte siano attive in gruppi per i diritti umani? Come può essere che da anni ricevano aiuti per milioni di euro dalle nazioni europee? Non ho dubbi sul fatto che i paesi europei non sostengono il terrorismo né l'assassinio di persone innocenti. Ma certamente capiscono che i legami tra gruppi civili palestinesi e organizzazioni terroristiche sono una realtà che deve essere condannata. Vi esorto a non chiudere gli occhi. Non lasciatevi imbrogliare. Non date una mano, una tribuna né finanziamenti a queste organizzazioni".
   Un anno fa, un rapporto di ottanta pagine del ministero israeliano per gli Affari strategici, intitolato "Terroristi in giacca e cravatta", aveva denunciato i collegamenti tra organizzazioni terroristiche come Hamas e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e ong che promuovono la campagna per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni contro Israele. E che alcune di queste ong ricevono finanziamenti dagli stati europei. C'erano i nomi e i volti di trenta membri di Hamas e del Fplp che ricoprono posizioni di alto livello nelle ong, spesso dopo aver scontato pene detentive per crimini legati al terrorismo. Da Israele fu ribattezzato il "cavallo di Troia". Al tempo, il rapporto fu liquidato da molti come spin di Gerusalemme. Con l'ammissione di colpa dell'Olanda non può essere più ignorato. La cravatta al collo agli assassini di liceali israeliane gliela abbiamo sistemata un po' anche noi.
   
(Il Foglio, 23 luglio 2020)


Oltre 230 parlamentari in Europa chiedono all'Ue la messa al bando di Hezbollah

In un'iniziativa transatlantica senza precedenti, oltre 230 parlamentari di varie forze politiche in Europa, Nord America e Israele hanno esortato l'Unione europea a designare l'intera Hezbollah come organizzazione terroristica. Il comitato direttivo di Transatlantic Friends of Israel (Tfi), che ha guidato la campagna, ha inviato la Dichiarazione Transatlantica nei giorni scorsi al presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, all'Hrvp Josep Borrell, al presidente del Consiglio europeo Charles Michel, al presidente del Parlamento europeo David Sassoli, nonché ai Governo di tutti gli Stati membri dell'Ue.
  Il lancio della campagna coincide con la vigilia degli anniversari gemelli degli attentati esplosivi omicidi di Hezbollah contro il centro della comunità ebraica Amia in Argentina nel 1994 e contro un autobus di turisti israeliani in Bulgaria nel 2012. Tra i firmatari vi sono numerosi membri e presidenti di commissioni per gli affari esteri e dell'Ue, leader di partito, vicepresidenti parlamentari, capi di gruppi di amicizia interparlamentare con Israele e gli Stati Uniti, e vari ex presidenti, primi ministri e ministri degli esteri e della difesa.
  Sono sempre di più i membri del Parlamento Ue e dei parlamenti nazionali di 25 Stati membri dell'Unione europea, Regno Unito, Svizzera, Stati Uniti, Canada e Israele che rifiutano la distinzione che l'Ue ha creato sette anni fa, quando ha designato come organizzazione terroristica solo il cosiddetto braccio militare di Hezbollah, sottolineando i pericoli che pone l'intera organizzazione:
  "Hezbollah, il più pericoloso tra i bracci armati del regime iraniano, gestisce una rete globale del terrore che minaccia non solo i suoi vicini, ma anche le democrazie occidentali. Hezbollah conta oltre 1.000 sostenitori nella sola Germania. L'ideologia violenta e antisemita del gruppo sta avvelenando il tessuto delle nostre società pluralistiche. Ciò diventa plateale durante le marce annuali del "Quds Day" di Hezbollah, dove gli appelli per l'annientamento dello Stato ebraico riecheggiano i momenti più cupi della storia europea", si legge in parte della dichiarazione. Il testo completo della dichiarazione con la lista aggiornata quotidianamente dei nomi dei firmatari, è disponibile qui: https://transatlanticinstitute.org/transatlantic-declaration-eu-must-ban-hezbollah
  Il Tfi ha tenuto una conferenza stampa on-line con il presidente del Tfi, Lukas Mandl (Austria) e il vicepresidente del Tfi, Dietmar Köster (Germania), per illustrare la dichiarazione, seguita da una conversazione con Matthew Levitt del Washington Institute, che ha messo in evidenza le sue ultime ricerche sulle attività terroristiche europee del braccio armato iraniano. L'evento si è concluso con l'intervento dell'amministratore delegato dell'American jewish committee, David Harris.
  L'eurodeputato austriaco Lukas Mandl (Ppe), presidente del gruppo Tfi, ha dichiarato: "La giornata di oggi (17 luglio, ndr) rappresenta un'importante pietra miliare verso il nostro comune obiettivo di mettere al bando Hezbollah in Europa. Nei prossimi mesi, continueremo a dialogare con i legislatori di molti partiti politici di entrambe le sponde dell'Atlantico per aggiungere altre firme alla lista. I nostri valori europei richiedono una lotta senza compromessi contro l'antisemitismo e il terrorismo. In questo contesto, è indubbio che l'Unione europea debba bandire completamente Hezbollah".
  Daniel Schwammenthal, che dirige il Transatlantic Institute dell'Ajc a Bruxelles, e ricopre anche il ruolo di segretario generale di Tfi, ha aggiunto: "Apprezziamo il crescente consenso tra i legislatori europei su questo tema cruciale. Un'Unione europea che si schiera a favore della democrazia, dei diritti umani e dell'ordine internazionale basato su regole condivise non può essere allo stesso tempo un porto sicuro per i terroristi o i loro sostenitori. Gli impegni dell'Europa per la sicurezza di Israele e per la lotta all'antisemitismo appaiono inutili quando si continua a permettere ad un'organizzazione profondamente antisemita, consacrata alla distruzione dello Stato Ebraico, di usare l'Europa come centro operativo. La dichiarazione smentisce varie argomentazioni avanzate dai sostenitori della biforcazione di Hezbollah, tra cui l'opinione che una tale mossa presumibilmente destabilizzerebbe il Libano: "L'unica possibilità per una reale stabilità economica e politica in Libano è la rimozione della morsa di Hezbollah sul Paese. I coraggiosi manifestanti libanesi che scendono in piazza contro la corruzione e la violenza politica denunciano specificamente lo 'Stato nello Stato' di Hezbollah. Meritano il nostro pieno sostegno. La messa al bando da parte dell'Ue del braccio armato iraniano contribuirà a rafforzare queste forze democratiche".
  La presentazione della Dichiarazione Transatlantica avviene nel contesto della presidenza tedesca dell'Ue, iniziata questo mese. Già in aprile la Germania è diventata il più recente Stato membro dell'Ue a bandire gli Hezbollah a livello nazionale. Nel dicembre 2019 il Bundestag aveva già chiesto un cambiamento della politica dell'Ue sul braccio terroristico dell'Iran, un appello ripreso dal legislatore austriaco nel giugno di quest'anno. Il vicepresidente del Tfi dalla Germania, l'eurodeputato tedesco Dietmar Köster, ha dichiarato: "L'obiettivo dichiarato degli Hezbollah è quello di distruggere Israele e per raggiungere questo obiettivo hanno commesso attacchi terroristici in tutto il mondo. Apprezzo il fatto che le attività di Hezbollah siano vietate in Germania. Ora il prossimo passo dovrebbe essere il divieto totale di tutte le attività di Hezbollah nell'Unione europea".
  Tra i firmatari statunitensi vi sono il deputato democratico Eliot Engel (D-NY), presidente della commissione per gli Affari esteri della Camera, e il deputato repubblicano Michael McCaul (R-TX), membro della stessa commissione e dal Canada, il deputato Tom Kmiec, presidente del gruppo dei conservatori. Dal Regno Unito hanno firmato la dichiarazione il deputato Rt Hon Stephen Crabb, presidente del gruppo Amici di Israele del Partito Conservatore alla Camera dei Comuni, il Rt Hon the Lord Pickles, presidente del gruppo Amici di Israele del Partito Conservatore alla Camera dei Lord, e il deputato Steve McCabe, presidente del gruppo Amici di Israele del Partito Laburista. Hanno aderito all'appello anche l'ex ministro israeliano della Difesa Avi Dichter, ora membro della commissione Affari esteri della Knesset e membro del partito di governo del Likud, e il deputato dell'opposizione Merav Michaeli. Gli Stati Uniti, il Canada, il Regno Unito e Israele considerano l'Hezbollah nella sua interezza un'organizzazione terroristica.
  Il deputato Ted Deutch (D-FL), presidente della sottocommissione della Camera sul Medio Oriente, il Nord Africa e il terrorismo internazionale ha dichiarato: "Stiamo rispondendo a questo appello nel bel mezzo di questa pandemia globale. È la perfetta dimostrazione del perché queste collaborazioni siano così importanti. Siamo assolutamente più forti quando affrontiamo queste sfide insieme ai nostri partner transatlantici. (...) Non c'è distinzione. Non si può fare una falsa distinzione tra un braccio 'politico' di un'organizzazione terroristica e un braccio 'militare'. In sostanza, sono un tutt'uno". Nel 2017 il deputato Deutch ha sponsorizzato il disegno di legge bipartitico H.Res. 359 che invita l'Ue a designare interamente Hezbollah come organizzazione terroristica.
  L'eurodeputata greca Anna Michelle Asimakopoulou (Ppe), anche lei vicepresidente, ha detto: "Hezbollah, gruppo terroristico internazionale e il più mortale tra i mandanti iraniani, rappresenta una seria minaccia per la vita quotidiana degli ebrei in tutto il mondo. È giunto il momento che l'Ue segua le orme di Stati Uniti, Canada, Regno Unito e ora Germania, e ponga fine a questa falsa distinzione tra braccia 'militari' e 'politiche' - una distinzione che Hezbollah stesso respinge".
  L'eurodeputata lituana Petras Auštrevičius del gruppo liberale "Rinnova l'Europa" ha detto: "Il bando di Hezbollah da parte della Germania è il segnale giusto e il resto dell'Europa dovrebbe seguirne l'esempio. Un tale sforzo comune europeo porterebbe anche una maggiore stabilità per l'intera regione".
  L'eurodeputata rumena Carmen Avram (S&D), vicepresidente del Tfi ha aggiunto: "Saluto questa chiamata globale a designare Hezbollah nella sua interezza come organizzazione terroristica insieme ai nostri colleghi di partito in tutta Europa, oltre Atlantico, e in Israele. Parlando con una sola voce, dobbiamo condannare e bandire per sempre coloro che minacciano i nostri figli, le nostre società libere e democratiche e il nostro stile di vita".
  L'eurodeputato ceco Aleksandr Vondra (Ecr), uno dei vicepresidenti di Tfi, ha dichiarato: "Hezbollah semina violenza e terrore in tutta la regione. È tempo che l'Unione europea metta al bando l'intera organizzazione e riporti la pace al popolo oppresso".
  Il crescente gruppo interpartitico Transatlantic Friends of Israel (Tfi), che ha lanciato la dichiarazione, vanta oltre 60 membri nei parlamenti di tutta Europa e del Nord America. Fondato nel luglio 2019, Tfi mette in collegamento parlamentari affini da entrambe le sponde dell'Atlantico dedicati a rafforzare l'alleanza tra l'Europa, gli Stati Uniti e Israele.

(L'Opinione, 23 luglio 2020)


Altri quattro 'Giusti fra le nazioni'. «Hanno dato ospitalità agli ebrei»

Due studiosi hanno ritrovato antiche carte che testimoniano gli aiuti offerti ai perseguitati durante la guerra a Firenzuola.

di Paolo Guidoni

Pellegrina Angeli, la casa dei genitori
FIRENZUOLA - Qualche giorno fa, a Firenzuola, Pellegrina Angeli e Lisa Matti hanno ricevuto notizia che lo Yad Vashem di Gerusalemme ha nominato «Giusti fra le Nazioni• Pietro Angeli e Dina Rosetti (genitori di Pellegrina) e Armando Matti e Clementina Angeli (nonni di Lisa). Una notizia straordinaria: dopo don Leto Casini altri quattro firenzuolini sono insigniti della più alta onorificenza per chi, nel periodo dalla Shoah, ha salvato ebrei a rischio della vita. Essi, a più riprese, si presero cura della famiglia Smulevich, ebrei fuggiti da Fiume e residenti a Prato. Determinante è stato l'incontro con Ermanno Smulevich che fra le carte del padre Alessandro, allora ventenne, ha trovato un diario in cui le vicende della famiglia nascosta fra i monti sono narrate con precisione.
   «Queste famiglie - notano Rosanna Marcato e Luciano Ardiccioni, che per anni hanno studiato il periodo della guerra a Firenzuola e anche la vicenda degli Smulevich - non avevano nulla di speciale: famiglie di montanari, con molti figli, tutt'altro che benestanti. Alla domanda perché avessero aiutato e nascosto ebrei la risposta era sempre la stessa: perché avevano bisogno. Per mesi hanno condiviso la casa e i pasti». Marcato e Ardiccioni stanno proseguendo le ricerche: «Davvero possiamo affermare con orgoglio che Firenzuola, nel mezzo della guerra, tra violenze, eccidi, delazioni, retate e rappresaglie nazi-fasciste, fu terra di Giusti, di tanta brava gente che antepose la misericordia e l'umanità alla paura e al rischio personale».
   Ce ne sono altri che fecero lo stesso delle famiglie Matti e Angeli: «Purtroppo non riconosciuti - nota Marcato - dallo Yad Vashem per la scomparsa delle testimonianze dirette. È il caso di Alfredo e Chiarina Brunetti che ospitarono la famiglia Ventura di Firenze. O di Ancilla Donnini, che portava il cibo ai giovani nascosti negli anfratti della montagna. E molti altri che trovavano il modo di segnalare le situazioni pericolose esponendo lenzuola bianche alle finestre».

(La Nazione - Firenze, 23 luglio 2020)


Antisemitismo. È guerra civile tra i laburisti

di Luigi Ippollto

Il partito laburista britannico è sull'orlo della guerra civile: e si sta dilaniando sulla spinosa questione dell'anti-semitismo, che già aveva messo a dura prova la precedente leadership di Jeremy Corbyn. Ora il nuovo capo del Labour, Keir Starmer, ha deciso di dare un forte segnale di discontinuità: e ha accettato di pagare una somma notevole, 200 mila sterline, come compensazione nei confronti di quei funzionari del partito che erano stati ostracizzati per aver denunciato l'antisemitismo che allignava nel Labour (e che di conseguenza avevano deciso di fare causa). Ma ieri a sorpresa è sceso in campo lo stesso Corbyn, che ha denunciato come «deludente» la decisone di Starmer e ha sostenuto che il partito avrebbe potuto facilmente vincere la causa; a lui si è unito anche il capo del potente sindacato «Unite», che ha definito il pagamento «un cattivo uso dei fondi del partito».
   Ce n'è abbastanza per provocare un terremoto interno. Qualcuno già evoca l'espulsione di Corbyn, che sarebbe un fatto senza precedenti: ma da Starmer c'è da aspettarsi azioni decise, come ha già dimostrato nelle scorse settimane.ll nuovo leader non aveva esitato a cacciare su due piedi dal governo ombra Rebecca Long-Bailey, la «pupilla« di Corbyn, rea di ave ritwittato commenti che odoravano di antisemitismo: un gesto che già aveva proclamato malumori nella sinistra interna del partito. Ma Starmer sembra aver deciso di usare proprio la leva dell'ostilità agli ebrei, di cui era stato accusato Corbyn, per far fuori tutta la vecchia guardia: il nuovo leader si è mosso rapidamente, in questi mesi, per prendere saldamente in mano il Labour e riposizionarlo come un'alternativa credibile di governo. Ma per quanto la popolarità nazionale di Starmer sia ormai a livello di quella di Boris Johnson, la base del Labour resta su posizioni di sinistra radicale: e potrebbe dare filo da torcere a un leader troppo «rìformìsta». La battaglia per la sinistra britannica è appena cominciata.
   
(Corriere della Sera, 23 luglio 2020)


Israele: scoperto deposito reale di 2700 anni fa

Gli archeologi hanno rinvenuto 120 manici di vasi che riportavano le tracce di bolle dell'epoca dei re Ezechia e Menasse.

 
Un vasto deposito reale risalente a 2700 anni fa è stato scoperto a Gerusalemme, nel rione di Arnona a breve distanza dall'ambasciata degli Stati Uniti. Lo ha reso noto oggi l'Autorità israeliana delle antichità.
All'interno di un edificio costruito con pietre enormi che aveva pareti doppie (e in certi punti anche triple) sono stati trovati 120 manici di vasi che riportavano le tracce di bolle dell'epoca dei re Ezechia e Menasse.
Si tratta, precisa un comunicato, di parole scritte in ebraico antico. Fra i termini decifrati sui manici dei vasi vi sono le lettere ebraiche LMLK (ossia: "Le-Melech", per il re), i nomi di località vicine (fra cui Hebron e posti meno noti come Shuca, Zif e Memsht), e anche di personalità che presumibilmente avevano uno status speciale a corte.
A quanto pare nel magazzino erano gestite scorte di cibo, forse per affrontare periodi di emergenza. "È una delle scoperte più significative in questo genere", secondo i responsabili del sito, Neria Sapir e Natan Ben-Ari. Una volta abbandonato, per ragioni ancora ignote, il deposito fu coperto con una collina artificiale di pietre alta 20 metri.

(swissinfo.ch, 22 luglio 2020)


Siria. La guerra al rallenty tra Israele e Iran (Hezbollah) continua

Nuovo raid israeliano in Siria: attaccati depositi militari gestiti da Hezbollah, che annuncia la morte di un operativo. Continua la guerra in slow-motion con l'Iran.

di Emanuele Rossi

Il partito/milizia libanese Hezbollah ha annunciato martedì sera che Ali Kamel Mohsen Jawad, un membro operativo, è stato ucciso in presunti attacchi aerei israeliani a Damasco nella notte di lunedì. Jawad era uno dei cinque militanti uccisi (altri quattro feriti) nel bombardamento: secondo molte fonti nessuno di loro era siriano.
   Seguire questi raid di Israele contro le dinamiche del regime siriano è interessante perché sono una costante pluriennale: Gerusalemme vuole evitare che la Siria diventi una piattaforma militare iraniana, e nello specifico vuole evitare che gli iraniani riforniscano i gruppi collegati (come Hezbollah) con armi poi sofisticate. È una guerra regionale tra Israele e Iran che procede in slow-motion e per canali clandestini. Un aspetto molto delicato per la stabilità soprattutto futura.
   Lunedì, in tarda serata, i missili sarebbero caduti nella fascia Meridionale di Damasco: a Jabal al Mane, vicino alla città di Kiswa, dove unità dei Pasdaran che puntellano il regime sono state a lungo acquartierate; a Muqaylabiya e Zakiya sempre vicino a Kiswa, dove Hezbollah ha caserme condivise con altre milizie filo-Tehran. Obiettivi: depositi di armi. L'attacco è partito da Majdal Shams, sulle alture del Golan: Israele usa spesso questo genere di azioni a distanza, possibili tramite missili a planata. Attacchi sicuri, a distanza dalla contraerea, che secondo l'accordo di cooperazione militare tra Iran e Siria firmato nelle scorse settimane dovrebbe essere stata potenziata.
   Secondo al Arabiya, anche elicotteri avrebbero preso parte ad alcuni degli attacchi di lunedì sera e sono stati presi di mira i sistemi di difesa aerea siriani. Era dal 27 giugno che non si registravano questo generi di attacchi: in quel giorno, erano stati uccisi nove miliziani filo-iraniani ad al-Bukamal, nella provincia di Deir Ezzor. Giugno è stato un mese in cui queste operazioni clandestine avevano preso una cadenza quasi settimanale, come ricorda il Jerusalem Post.

(Formiche.net, 22 luglio 2020)


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Nuovo raid contro Damasco: l'ultimo avvertimento di Israele

di Futura D'Aprile

Nella notte del 20 luglio si è registrato un nuovo raid contro il sud di Damasco. Come riportato dalla stampa locale e internazionale, il sistema di difesa siriano si è attivato in risposta al lancio di alcuni razzi provenienti dalle Alture del Golan, parte del territorio siriano ma occupate fin dal 1967 da Israele. Secondo le informazioni diffuse dall'agenzia stampa siriana Sana, il raid avrebbe interessato l'area di Majdal Shams, a sud della capitale.

 L'attacco contro l'asse Iran-Siria
  Ancora una volta il presidente siriano Bashar al-Assad ha puntato il dito contro Israele, accusando Tel Aviv di aver compiuto l'ennesimo attacco contro la Siria. L'accusa non ha trovato alcuna risposta dalla controparte israeliana, che solo in rarissime occasioni ha ammesso la propria responsabilità preferendo solitamente lasciare un alone di mistero sugli attacchi contro la Siria. Il raid di lunedì, come quelli precedenti, pare abbia danneggiato alcune strutture appartenenti ai miliziani iraniani, presenti in territorio siriano come sostegno al presidente Assad. Nell'attacco avrebbero anche perso la vita sette iraniani, mentre altri sette soldati siriani sarebbero rimasti feriti. Damasco non ha mai dato informazioni certe circa l'entità dei danni subiti, ma secondo quanto riportato da al Jazeera i missili avrebbero colpito un importante deposito di munizioni iraniano nei pressi della città di Kiswa, un'area nota per la presenza delle Guardi rivoluzionarie. Come detto, dietro all'attacco del 20 luglio sembra esserci nuovamente Israele ed è facile immaginare che l'accusa di Damasco sia corretta. Non è la prima volta che Tel Aviv lancia un raid contro la Siria e lo stesso premier israeliano ha più volte avvertito Damasco e Teheran che la presenza iraniana nella regione non sarebbe stata tollerata. In un'intervista rilasciata a inizio mese, Benjamin Netanyahu aveva lanciato un chiaro avvertimento ai due alleati: "Siamo assolutamente decisi a impedire all'Iran di radicarsi militarmente nelle nostre immediate vicinanze (…) Dico questo agli ayatollah di Teheran: Israele continuerà a prendere le misure necessarie per impedirvi di creare un altro fronte terroristico e militare contro Israele". Il premier si era poi rivolto direttamente ad Assad, consigliandogli di mettere da parte l'alleanza con l'Iran.

 Una riposta all'accordo con Teheran
  Le parole di Netanyahu sono rimaste però inascoltate: poco dopo il discorso del premier israeliano, Siria e Iran hanno firmato un nuovo accordo per il rafforzamento del sistema di difesa siriano. L'obiettivo era proprio quello di fornire a Damasco - e alle milizie iraniane presenti sul territorio - una maggiore protezione dagli attacchi israeliani. La firma dell'accordo era stata accompagnata da un messaggio diretto inequivocabilmente a Israele: in quell'occasione, il ministro della Difesa siriano aveva infatti affermato che chiunque pensasse di poter danneggiare l'asse Teheran-Damasco era destinato a restare deluso. "Il costo della resistenza è inferiore rispetto a quello della resa", aveva affermato Ali Abdullah Ayyoub. Le parole del ministro erano però dirette anche agli Stati Uniti, che hanno di recente approvato un nuovo pacchetto di sanzioni contro la Siria che rischiano di danneggiare seriamente la già provata economia siriana. Ultimo dettaglio: l'attacco è avvenuto il giorno dopo le elezioni legislative tenutesi nelle zone del Paese tornate in mano al presidente siriano e che con molta probabilità andranno a rafforzare il potere della famiglia Assad.

(Inside Over, 22 luglio 2020)


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La Russia ha bloccato ulteriori attacchi di Israele alla Siria dopo aver schierato i suoi Jet

I jet da combattimento dell'aeronautica russa hanno intercettato i caccia del regime israeliano nel suo ultimo attacco alla Siria meridionale, secondo un nuovo rapporto.
I jet da combattimento russi sono decollati ieri sera dalla base russa a Hmeimim, nella provincia siriana di Latakia (nord-ovest), e si sono diretti a sud-est poco prima di un attacco aereo israeliano a Damasco, secondo quanto riferito oggi dal portale specializzato aeronautico russo Avia.Pro.
"Nonostante le affermazioni secondo cui la Russia potrebbe non avere il controllo dello spazio aereo della regione, si è scoperto che pochi minuti prima dell'attacco delle forze israeliane, la Russia aveva inviato i suoi aerei militari dalla base aerea di Hmeimim", ha spiegato la fonte.
Nel dettaglio delle informazioni, i media hanno indicato che l'aumento dell'attività dell'aviazione russa è stato registrato alle 21:47 (ora locale), mentre Israele ha lanciato il suo attacco alle 21:48.
Intanto, il ministero della Difesa siriano ha annunciato che diversi soldati sono stati feriti a seguito degli attacchi aerei israeliani nella periferia sud-occidentale di Damasco.
Secondo una dichiarazione rilasciata dal Ministero della Difesa, gli attacchi aerei israeliani hanno ferito sette soldati che erano stati schierati nel sobborgo Sahnaya di Damasco.

(l'AntiDiplomatico, 22 luglio 2020)


Edgardo Mortara: il bambino ebreo rapito dalla chiesa, convertito a forza e poi diventato prete

di Giorgia Calò

 
In una recente intervista a Repubblica, il regista Marco Bellocchio ha annunciato che sarà lui a girare il film sulla storia di Edgardo Mortara, il bambino ebreo che nel 1858 venne rapito e convertito forzatamente dal Papa Pio IX.
L'idea di portare questa famosa storia sul grande schermo era stata originariamente partorita da Stephen Spielberg, che dopo circa 5 anni di ricerche e sopralluoghi in Italia per le location e il cast, ha deciso di abbandonare definitivamente il progetto, in quanto non è riuscito a mettere insieme un cast all'altezza.
Sarà dunque il registra de Il Traditore a raccontare la storia di Edgardo Mortara in una versione prettamente italiana, basandosi principalmente sui documenti storici degli archivi e avvalendosi della collaborazione della storica Pina Todaro, per assicurarsi di ricostruire la storia nella maniera più accurata possibile.
Il film non ripercorrerà tutti i 90 anni di vita di Edgardo Mortara, ma partirà dal suo rapimento fino alla Presa di Porta Pia, focalizzando l'attenzione sul mistero che gira intorno alla sua conversione.
Poche le notizie intorno alla produzione del film; al momento è noto soltanto il titolo provvisorio, La Confessione e i nomi degli sceneggiatori: Stefano Massini Susanna Nicchiarelli e dei produttori: IBCmovie di Beppe Caschetto, Kavac Film con Rai Cinema.
In attesa di ulteriori notizie circa il cast e le location, ripercorriamo la storia del caso Mortara.
Edgardo Mortara nacque a Bologna il 27 Agosto del 1851 da una famiglia ebraica, ma fu segretamente battezzato dalla domestica Anna Morisi che riteneva il piccolo in punto di morte, a causa di una malattia.
Quando la notizia del battesimo venne alla luce, la Santa Inquisizione decretò che Edgardo appartenesse alla religione cattolica e che pertanto dovesse essere allevato come tale; secondo le leggi dello Stato Pontificio infatti, un bambino cattolico non poteva essere allevato da persone di fedi differenti, perciò il 23 giugno 1858, dopo il rifiuto da parte dei genitori di iscrivere Edgardo alla scuola cristiana fino all'età di 17 anni, in cui avrebbe potuto scegliere se tornare o meno alla religione ebraica, le autorità portarono via il bambino di appena 6 anni dalla casa dei suoi genitori, per poi trasferirlo a Roma, alla Casa dei Catecumeni, dove fu allevato dal Papa Pio IX.
I genitori di Edgardo, Salomone Momolo Mortara e Marianna Padovani, tentarono in tutti i modi di riavere indietro il loro figlio: fu loro concesso di fargli visita poche settimane dopo il suo rapimento, e in quell'occasione il bambino confessò alla madre di recitare ancora lo Shemà la sera, ma la Chiesa respinse ogni richiesta di restituzione del bambino alla propria famiglia.
La notizia del rapimento fece grande scalpore in Italia e nel Regno di Sardegna, che vide nella vicenda una buona scusa per liberarsi dall'influenza dello Stato Pontificio.
Le proteste si scatenarono anche da parte di importanti personalità europee e da personaggi dello stesso mondo cattolico, che denunciarono il Caso Mortara come una violazione dei diritti umani, volgendo la situazione politica a favore dei Savoia, a cui si stava aprendo l'opportunità di muovere guerra contro lo Stato Pontificio.
Papa Pio IX respinse ogni protesta e ogni richiesta da parte dei genitori di Edgardo di restituirlo alla propria famiglia, difendendosi attraverso la formula Non Possumus, cioè "Non Possiamo", basandosi sul fatto che sebbene la Chiesa non permettesse il battesimo dei bambini di famiglie non cattoliche, se non in caso di morte, il battesimo di Edgardo fosse valido a tutti gli effetti, pertanto era dovere del Pontefice garantirgli un'educazione cattolica: nei numerosi incontri con le delegazioni ebraiche, Edgardo mostrava di aver ormai completamente abbracciato la nuova religione e di non curarsi delle opinioni esterne; il ragazzo era ormai entrato a far parte del noviziato dei Canonici Regolari Lateranensi e persino dopo la Presa di Roma del 20 settembre 1870 e in seguito alla Breccia di Porta Pia, a cui aveva preso parte anche suo fratello Riccardo, rifiutò la richiesta dei genitori di tornare a casa, e per sviare alle richieste di abbandono della vita clericale, si trasferì nel Tirolo e poi in Francia dove divenne prete all'età di 23 anni.
Suo padre morì un anno dopo la Presa di Roma; Edgardo tentò di riavvicinarsi alla madre e ai fratelli per convertirli ma non vi riuscì. La madre Marianna morì nel 1895.
Fu inviato come missionario a Monaco di Baviera, Magonza, Breslavia e nel 1897 negli Stati Uniti, con il compito di convertire gli ebrei con scarso successo.
Trascorse gli ultimi anni della sua vita in un monastero a Liegi, dove morì l'11 marzo 1940.
Il Caso Mortara resta ancora oggi uno degli episodi più eclatanti che coinvolgono la Chiesa cattolica e che suscitano polemiche: dopo 162 anni la vicenda è ancora irrisolta. Tante sono le domande sui motivi che hanno spinto Edgardo a non tornare dalla propria famiglia, ma a proseguire la sua formazione cristiana, "probabilmente a causa delle violenze e dei condizionamenti psicologici ricevuti durante la sua permanenza a Roma", ha affermato una discendente della famiglia, Elena Mortara in occasione della beatificazione di Pio IX nel 2000.
A ridare nuova fama al caso è stato il libro Prigioniero del Papa Re, dello storico David Kertzer, da cui Spielberg avrebbe tratto ispirazione per il suo film.
Il progetto di Bellocchio invece prevede una ricerca accurata e un utilizzo della documentazione fornita dagli archivi storici, per poter ricostruire al meglio la vicenda di Edgardo Mortara.

(Shalom, 22 luglio 2020)


Due stragi e la pista palestinese

di Maurizio Tortorella.

Soltanto 36 giorni separano gli 81 morti del Dc9 di Ustica, scomparso nel Tirreno il 27 giugno 1980, e le 85 vittime della stazione di Bologna, spazzate via da una carica di esplosivo il 2 agosto. Anche l'inquietante vicinanza tra due le stragi di 40 anni fa, le peggiori nella storia della Repubblica, dà forza a un dubbio. Il dubbio è avvolto in carte ormai ingiallite, che un maledetto segreto continua a rendere inaccessibili. Il dubbio, però, cresce: e se le due stragi avessero la stessa matrice, quella del terrorismo palestinese? Fin qui, la giustizia non ha individuato un colpevole per Ustica, mentre la Cassazione nel 1995 ha stabilito, con una condanna controversa, che quella di Bologna sia stata «strage fascista». Eppure la
Da anni si parla con crescente consapevolezza del cosiddetto «Lodo Moro», il cinico patto di non belligeranza stretto nel 1973-74 tra l'Italia, il cui ministro degli Esteri è Aldo Moro, e la galassia del terrorismo palestinese.
responsabilità delle due stragi dell'estate 1980 potrebbe nascondersi altrove, in una verità inconfessabile. E cioè che il Dc9 e la stazione siano state la doppia, crudele ritorsione del terrorismo palestinese per la violazione di un accordo segreto da parte dello Stato italiano. Di quell'accordo si parla da anni con crescente consapevolezza: è il «Lodo Moro», il cinico patto di non belligeranza stretto nel 1973-74 tra l'Italia, il cui ministro degli Esteri è Aldo Moro, e la galassia del terrorismo palestinese che ingloba il Fronte popolare per la liberazione della Palestina di George Habash, l'Olp di Yasser Arafat e altre organizzazioni foraggiate e armate dalla Libia di Muammar Gheddafi e dai regimi comunisti dell'Europa orientale. È grazie al «Lodo Moro» se i terroristi palestinesi, che dagli anni 60 hanno insanguinato l'Europa, s'impegnano a non fare più attentati in Italia in cambio della libertà di movimento sul nostro territorio e della garanzia d'impunità pur se trovati in possesso di armi. Per l'Italia, membro della Nato, il patto è peggio che inconfessabile: è un grave tradimento militare. È per questo se, ancora oggi, il «Lodo Moro» ha più coperture del segreto di Fatima. Eppure è un dato di fatto: la trattativa tra Italia e terrorismo palestinese inizia a muoversi il 5 settembre 1973, il giorno in cui la polizia irrompe in una casa di Ostia, occupata da cinque arabi, e sequestra due missili terra-aria Strela, di fabbricazione sovietica. Quattro giorni dopo l'inizio del processo, il 17 dicembre 1973, un commando del Fplp attacca per rappresaglia l'aeroporto di Fiumicino, dove massacra 32 persone e dirotta un Boeing Lufthansa. Dopo quella strage, quasi cancellata dal ricordo e dalle celebrazioni, entra in campo Stefano Giovannone, colonnello dei servizi segreti militari del Sismi, legato a doppio filo a Moro e considerato alla stregua di un «Lawrence d'Arabia» italiano dai palestinesi.
  Proprio su input di Moro, terrorizzato da un'escalation di attentati, Giovannone tratta in segreto con Fplp e Olp, e all'inizio del 1974 grazie alla sua credibilità ottiene la tregua. Il prezzo immediato, per l'Italia, è la liberazione dei cinque arrestati di Ostia, appena condannati per direttissima a cinque anni di carcere. Poi l'accordo si consolida, e da quel momento il terrorismo palestinese risparmierà l'Italia, mentre nei confronti dei feddayin la nostra giustizia diverrà inspiegabilmente lieve, o distratta. Nel 1976, per esempio, tre arabi arrestati a Fiumicino con pistole e bombe a mano vengono condannati a sette anni, ma dopo soli 20 giorni di cella sono spediti in Libia su un aereo militare. Misconosciuto per decenni, rigettato dai magistrati di Bologna, che nel 2014-15 hanno stabilito non sia mai esistito, il «Lodo Moro» ha invece ottenuto conferme autorevoli. Ne sono convinti Rosario Priore e Guido Salvini, i giudici istruttori di Ustica e di Piazza Fontana; ne sono certi politici di idee diverse come l'ex capo dello Stato Francesco Cossiga e l'ex
Nell'estate 1980, per la prima volta, il patto segreto del «Lodo Moro» non funziona. È una storia angosciosa, che comincia con due missili Strela, identici a quelli scoperti a Ostia sei anni prima.
presidente della Commissione stragi, Giovanni Pellegrino, del Pds; se ne dicono sicuri perfino due ex capi dei servizi segreti come il generale Mario Mori e Franco Gabrielli. Ed è proprio il «Lodo Moro» ad autorizzare un'ipotesi diversa per le stragi di Ustica e di Bologna. Perché nell'estate 1980, per la prima volta, il patto segreto non funziona. È una storia angosciosa, che comincia con due missili Strela, identici a quelli scoperti a Ostia sei anni prima: nella notte tra il 7 e l'8 novembre 1979, i carabinieri li sequestrano a tre estremisti di Autonomia operaia che li trasportano nel sottofondo di un furgone per le strade di Ortona, in provincia di Chieti. Subito dopo viene arrestato anche l'organizzatore del trasporto. Si chiama Abu Anzeh Saleh, è un palestinese di origini giordane, ha 30 anni e da nove vive in Italia: dal 1971 s'è trasferito a Bologna. Nel marzo 1974 è stato denunciato ed espulso per oltraggio a pubblico ufficiale ma già a dicembre è rientrato in Italia. E per lui ha garantito proprio il colonnello Giovannone. L'allora ministro degli Esteri Aldo Moro con Francesco Cossiga. Non per nulla, quando il 14 novembre 1979 i carabinieri perquisiscono la casa bolognese di Saleh, dopo averlo arrestato per i missili, tra passaporti falsi e bandiere del Fplp trovano un biglietto con un nome, Stefano, e il numero di telefono di Giovannone.
  Il colonnello è tra i pochissimi a sapere che Saleh è il capo del Fplp nel nostro Paese. Forse sa anche che il giordano è il contatto in Italia del venezuelano Ilich Sanchez Ramirez, detto «Carlos lo sciacallo»: il mercenario del terrore che guida il gruppo Separat e lavora per il Kgb, il Fplp, la Libia. Nel giugno 1975, in una casa di Parigi, una sparatoria con Carlos lascia a terra tre agenti dei servizi francesi, e la polizia trova un'agenda dello Sciacallo che contiene nome e indirizzo bolognese di Saleh. Per questo non stupisce, oggi, che tra 1979 e 1980 il Fplp e Giovannone intreccino un'ansiosa diplomazia sotterranea, proprio mentre Saleh e compagni vengono processati a Chieti per introduzione clandestina, detenzione e trasporto di armi da guerra, tre reati che valgono 10 anni di carcere. Il primo grado inizia il 17 novembre 1979 e si chiude il 25 gennaio 1980 con una condanna a sette anni di reclusione. In un'udienza, uno degli avvocati legge un comunicato dei palestinesi che pretendono di rientrare in possesso dei «loro» missili, e rivelano che il governo di Giulio Andreotti «è informato di tutto». Alla fine, i quattro imputati vengono assolti solo per uno dei tre reati contestati loro, l'introduzione clandestina dei missili. Il Fplp è sempre più irritato, e Giovannone è giustamente preoccupato. Si può solo sperare nel processo d'appello. Nel frattempo, però, la situazione politica in Italia è radicalmente mutata. Il governo Andreotti è caduto e al suo posto, il 4 aprile, 1980 ha giurato il nuovo governo Cossiga, filo-atlantico e filoisraeliano. Per di più, Cossiga è convinto dalle indagini del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa che il Fplp stia fornendo armi alle Brigate rosse. Il «Lodo Moro», insomma, scricchiola.
  I giochi si complicano. Da Beirut, dove nel 1980 ha ottimi contatti con il terrorismo palestinese, Giovannone spedisce cablogrammi sempre più allarmati a Roma. Segnala che c'è il rischio di una rappresaglia se il processo per i missili di Ortona non finirà in nulla, come sei anni prima è accaduto a
Giovannone scrive che il Fplp ritiene di essere stato ingannato dal governo di Roma, e sta per riprendersi la libertà d'azione. Gli attentati potrebbero ripartire, e i palestinesi punterebbero o a una nostra ambasciata o a un aereo di linea.
quello per gli Strela di Ostia. Il colonnello scrive che il Fplp ritiene di essere stato ingannato dal governo di Roma, e sta per riprendersi la libertà d'azione. Gli attentati potrebbero ripartire, e i palestinesi punterebbero o a una nostra ambasciata, oppure a un aereo di linea. Giovannone accenna anche a Carlos, che sarebbe sbarcato a Beirut, pronto all'azione. Ma gli allarmi non sortiscono effetti. Il processo d'appello, che dovrebbe essere «aggiustato» e finire in nulla, inizia il 17 giugno 1980, dieci giorni prima di Ustica. E l'accusa dà subito prova di non volersi prestare a un gioco al ribasso: ricorre contro l'assoluzione parziale dei quattro imputati e preannuncia la richiesta di pene esemplari. A novembre 1979 e giugno 1980, drammatici cablogrammi partono dall'ambasciata italiana a Beirut. In quelle carte, ormai ingiallite, Giovannone lancia segnali a Roma. A volte, i messaggi sono ermetici. E evidente che il colonnello sa di camminare sul filo di un rasoio, mentre il terrorismo palestinese è capace di usare a perfezione segnali e simboli per farsi capire soltanto da chi deve e può farlo. Potrebbe quindi non essere affatto un caso se il Dc9 di Ustica il 27 giugno decolla da Bologna, la città di Saleh, e se anche la stazione che esplode è quella di Bologna, dove il 2 agosto gli inquirenti hanno appurato la presenza di terroristi del gruppo di Carlos. Se la magistratura e l'opinione pubblica potessero conoscere il contenuto di quei cablogrammi, forse il quadro di quella terribile estate di 40 anni fa potrebbe cambiare per sempre. Oggi, però, i messaggi ingialliti che raccontano l'angoscia di Giovannone restano coperti dal segreto.

(Panorama, 22 luglio 2020)


Israele - Accelerate: incentivi per le start up italiane, bando prorogato fino al 30 settembre

 
Gianluigi Benedetti, Ambasciatore italiano in Israele
"Accelerate in Israel", il programma promosso dall'Ambasciata d'Italia in Israele per facilitare alle start-up italiane un periodo di accelerazione in Israele, è di nuovo operativo. Il bando è disponibile sul sito web dell'Ambasciata d'Italia in Israele e le domande di partecipazione dovranno essere presentate entro il 30 settembre. "Accelerate in Israel" è uno strumento di sostegno finanziato nel quadro dell'Accordo di Cooperazione scientifica tecnologica industriale Italia-Israele e l'edizione di quest'anno può contare su un budget raddoppiato grazie al supporto di Agenzia ICE, che ha deciso di allargare a Israele la sua iniziativa "Global Start up Program". Il Programma è organizzato in collaborazione con la Ministro per l'Innovazione Tecnologica e la Digitalizzazione, con la Camera di Commercio e Industria Israele-Italia e con Intesa Sanpaolo Innovation Center. Il bando prevede un finanziamento di 12.000 euro per start-up e un periodo di accelerazione di dieci settimane presso un acceleratore israeliano.
   La prima edizione del programma, svoltasi in collaborazione con Intesa Sanpaolo Innovation Center, si è appena conclusa con pieno successo. Sette start-up italiane, selezionate da un comitato scientifico internazionale, hanno svolto un periodo di accelerazione da gennaio ad aprile (superando anche le difficoltà e limitazioni imposte dal Covid-19) presso l'Eilat Tech Center, con un intenso programma formativo, approfondimenti tecnici specifici per i loro settori e momenti di confronto con investitori e imprenditori. Per i partecipanti si sono aperte significative opportunità di business e precise offerte di partnership, incluso, per alcuni, un round di finanziamento.
   Per il ministro per l'Innovazione Tecnologica e la Digitalizzazione, Paola Pisano "le conseguenze economiche dell'emergenza Covid-19 hanno evidenziato l'importanza di continuare a rendere l'Italia sempre più attraente in campo internazionale. Questo vale anche per l'innovazione e per la trasformazione digitale. Con il bando Accelerate in Israel alcune nostre start-up hanno la possibilità di confrontarsi con un Paese ad alta densità tecnologica e innovativa e accrescere la propria formazione. Non a caso Israele viene definito anche Start-up Nation. Il Governo italiano assegna alle giovani aziende un ruolo di rilievo per l'economia nazionale. È bene che le start-up italiane allarghino i propri orizzonti e che trovino nel nostro Paese un ecosistema in grado di accoglierle e valorizzarne le qualità".
   L'Ambasciatore italiano in Israele, Gianluigi Benedetti, ha sottolineato le novità di questa seconda edizione del programma che "con una compagine rafforzata, un budget raddoppiato e nuovi verticali tecnologici, offre alle più dinamiche e intraprendenti start-up italiane un'opportunità unica per sviluppare e affinare la propria idea d'impresa attraverso un'esperienza diretta nell'ecosistema dell'innovazione israeliano e un serrato e costante confronto con investitori e imprenditori internazionali. Il programma si riconferma come uno strumento fondamentale per sfruttare la complementarietà dei sistemi economici italiano e israeliano e per rafforzare i rapporti tra aziende nel settore dell'alta tecnologia e innovazione."
   Il presidente di Agenzia Ice, Carlo Ferro, ha ricordato che "la seconda edizione del progetto Global Startup Program si rafforza nel numero di start-up partecipanti e di Paesi di destinazione. Grazie alla collaborazione con l'Ambasciatore Benedetti - che ringrazio - nel 2020 offrirà opportunità di stage anche in Israele, unendosi a Accelerate in Israel in partnership con l'Ambasciata d'Italia a Tel Aviv. Il progetto congiunto - da realizzare con flessibilità nel tempo anche in funzione dell'evoluzione della situazione pandemica - consentirà alle start-up italiane di essere ospitate, per un periodo di 10 settimane, presso acceleratori israeliani che forniranno tutoraggio e opportunità di crescita, attraverso la loro rete di partnership con venture capital, multinazionali e start-up locali".
   Il Direttore Generale di Intesa Sanpaolo Innovation Center, Guido de Vecchi, nel ribadire l'impegno di Intesa Sanpaolo Innovation Center a supportare la crescita delle startup a livello internazionale, ha tenuto a evidenziare che "strumenti come questo bando, che lanciamo in condivisione con partner quali il Ministero per l'Innovazione, l'Ambasciata d'Italia a Tel Aviv, l'Agenzia Ice e la Camera di Commercio Israele-Italia, sono quanto mai utili oggi, in una fase di ripartenza, per far conoscere le nostre start-up in Israele e offrire loro un'esperienza unica nella Start-up Nation".

(il denaro, 22 luglio 2020)


Coronavirus, contrordine in Israele: ristoranti aperti

La Commissione Knesset ribalta la decisione del governo

La Commissione Coronavirus della Knesset - nonostante la seconda ondata della pandemia - ha nuovamente ribaltato una decisione dell'esecutivo di Benyamin Netanyahu autorizzando la riapertura dei ristoranti.
In base al governo i ristoranti avrebbero dovuto abbassare le serrande dalle 05.00 (ora locale) di questa mattina eccetto che per le consegne a casa e il take away. La Commissione ha invece votato per la riapertura da questo pomeriggio dopo che è fallito un tentativo di mediazione con il governo.
Va sottolineato che dei membri della Commissione (retta da Yifat Shasha-Biton, del Likud) hanno votato a favore anche 3 del Likud e del partito religioso Torah unita, entrambi parte della coalizione di maggioranza guidata dal premier. I ristoranti potranno servire al massimo 20 persone al chiuso e 30 all'aperto; lo stesso dovranno fare le sale degli hotel.

(ANSA, 21 luglio 2020)


In Israele ricchi si 'tassano' per aiutare i poveri

di Giacomo Kahn

Già centinaia di migliaia di euro sono stati messi a disposizione da ricchi israeliani per i concittadini diventati indigenti, a causa dell'epidemia di coronavirus. Lo scrive la stampa locale, dove la notizia sta avendo grossa eco. Il primo ministro, Benjamin Netanyahu, ha annunciato nei giorni scorsi un piano che prevede l'estensione degli aiuti a tutti gli israeliani a causa della crisi economica derivata dalla pandemia. Il premier ha annunciato che il governo distribuira' aiuti a tutti gli israeliani, indipendentemente dalla loro posizione economica. Chiunque sopra i 18 anni ricevera' 750 shekel (191 euro), le famiglie con un bambino riceveranno 2.000 Shekel (500 euro), quelle con due 2.500 shekel (630 euro) e quelle con tre figli o piu' riceveranno 3.000 Shekel (760 euro).
Nonostante il piano di aiuti pubblici, già 5.633 israeliani hanno donato 2.772.112 shekel (circa 800.000 euro) alla campagna di crowdfunding lanciata sulla piattaforma GiveBack. Guy Lerer, che sta guidando la campagna, ha scritto su Twitter che i soldi saranno distribuiti a persone indigenti, che non sanno come fare per fare la spesa, a pagare le bollette e portare avanti la famiglia.

(Shalom, 21 luglio 2020)


Monaco 1972: la strage vista da Mennea

di Marcello Malfer*

Ho sempre considerato lo sport non solo un terreno atto a misurare e ammirare il talento e i successi degli atleti, ma anche e soprattutto un mondo di valori, nel quale i campioni devono essere tali non solo sulle piste e i campi da gioco, ma anche nella vita.
  Fra i primissimi posti di una classifica (che è anche la mia) figurano due personaggi che hanno dimostrato di essere davvero dei grandi uomini non solo nello sport, e trovo singolare che la grande ammirazione da me nutrita per loro sia maturata quando le loro non comuni doti umane non erano pienamente conosciute: Gino Bartali e Pietro Mennea. Dell'eroismo di Bartali - che durante la guerra, mettendo a grave rischio la sua stessa vita, salvò da morte certa decine di ebrei, infatti si è avuta notizia solo in tempi recenti (dopo la sua morte) in quanto tra gli straordinari meriti del campione, c'è stato anche quello della innata modestia, che sempre lo portò a evitare onori e pubblicità (simile in ciò, a un altro immenso, Giorgio Perlasca). Quanto a Mennea, sono stati conosciuti l'impegno civile e la grande umanità solo in questi giorni e abbiamo avuto modo di apprendere di un'altra importante medaglia da aggiungere alla sua prestigiosa collezione. Una medaglia di un metallo molto più prezioso dell'oro, rappresentata da un toccante libro postumo (appena pubblicato, con una nota introduttiva della moglie del velocista, Manuela Olivieri Mennea che spiega le ragioni della ritardata pubblicazione del volume), e una prefazione dello stesso autore in cui la «freccia di Barletta» racconta la terribile esperienza della strage di Monaco 1972, di cui, in quanto membro della nazionale italiana di atletica, fu testimone diretto. Dalle pagine del volume, traspare tutto il raccapriccio, lo sgomento, l'incredulità del giovane atleta che partito per la città bavarese con l'unico obiettivo di onorare i colori della sua bandiera, le note del suo inno nazionale e prima di tutto, i millenari valori di lealtà, fraternità e solidarietà alla base degli ideali olimpici, si trovò improvvisamente al cospetto del più brutale, abominevole e ripugnante dei crimini.
  Un atto che, se vivessimo in un mondo normale, avrebbe dovuto suscitare un immediato, universale, incondizionato moto di esecrazione. Furono pochi, allora, e anche in seguito, a condividere l'indignazione del campione: il Cio rifiutò di sospendere i giochi nemmeno per un solo giorno, alla cerimonia di chiusura parteciparono tutti - tranne la delegazione israeliana - come se niente fosse successo, e negli anni successivi non si è mai voluto dedicare una cerimonia in memoria degli atleti massacrati. Mennea ricorda come le richieste di maggiori misure di sicurezza, da parte di Israele, fossero andate disattese, e ricorda anche, con precisione e puntualità, la lunga meticolosa operazione che portò con grande dispendio di energie alla rappresaglia messa in atto dal governo di Gerusalemme e alla eliminazione dei responsabili. La bibbia ammonisce a «non gioire quando il nemico cade», e non può essere motivo di letizia. Ma in quel caso, non si può non esprimere la più assoluta e incondizionata solidarietà verso quegli uomini dei servizi di sicurezza che misero in atto l'operazione «Wrath of God» (Vendetta di Dio). Se si fosse vissuto in un mondo normale, avrebbe dovuto essere l'intera comunità internazionale a rispondere immediatamente. Ma il mondo era in tutt'altre faccende, e le vite degli ebrei, in Germania, solo ventisette anni dopo la caduta del nazismo, evidentemente non valevano più di quanto valessero ventisette anni prima. Israele era solo. Dovette agire da solo, e lo fece. Quella di Israele fu un'azione di giustizia. Il tempo non cancella il ricordo di quella tragica olimpiade. Onore alle dodici vittime e agli uomini dei servizi di sicurezza di Israele che fecero giustizia. E onore al grande Pietro Mennea che a sette anni dalla sua scomparsa ce lo ricorda nelle sue memorie e continua a correre, più veloce della luce.

* Presidente Associazione trentina Italia-Israele

(Corriere del Trentino, 21 luglio 2020)


Come cambia l'antisemitismo

Gli insulti a Modiano e le teorie complottiste sul virus

di Milena Santerinl

G li insulti sui social ricevuti da Sami Modiano, sopravvissuto allo sterminio nazista e nominato Cavaliere di Gran Croce dal Presidente Sergio Mattarella per i suoi novant'anni, sono una lettura che Corrado Augias ha definito ieri su Repubblica "umliante". E' una ulteriore prova che i social media sono oggi uno dei veicoli più importanti dell'odio antisemita, così come di altre forme di pregiudizio e intolleranza. Lo dimostrano i dati dell'Osservatorio del Cdec - Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea: su 79 episodi di antisemitismo segnalati - è, dunque, solo la punta dell'iceberg- nel gennaio-marzo 2020 (un numero nettamente superiore rispetto al 2019) ben 41 sono stati messaggi sul web.
   Non diminuisce ovviamente la pericolosità di chi vandalizza, aggredisce o disegna svastiche e stelle di David sui muri, ma le piattaforme dei social stanno divenendo il veicolo più rapido, "liquido" e difficilmente censurabile attraverso cui far passare diffamazioni, insulti, pregiudizi.
   Non ci sono solo i casi di Sami Modiano o Liliana Segre. La pandemia è stata un'occasione unica per gli hater in cerca di un bersaglio, in particolare quel nemico storico che è l'ebreo, considerato in quanto tale. In tutto il mondo si è diffusa un'ossessione complottista, favorita dall'associazione tra virus e antiche pestilenze, in cui gli ebrei svolgevano il ruolo di untori. Dietro ogni minaccia ci devono essere per forza loro.
   Se si segue questo registro narrativo, si trovano molte variazioni sul tema: che la pandemia sia un programma sionista per spopolare il mondo o una cospirazione di Israele con Usa e Cina per far scoppiare la terza guerra mondiale; oppure si suppone che uomini d'affari come l'ungherese George Soros (bersaglio preferito dell'antisemita globale) abbiano un qualche interesse economico nel contagio etc. Il ogni caso, il virus-è ebreo e rappresenta una minaccia.
   Riguardo all'Italia, l'Osservatorio Mediavox sull'odio online dell'Università Cattolica di Milano ha scaricato tutti i tweet tra marzo e maggio 2020 con la correlazione tra parole chiave come coronavirus/Covid e ebrei/Israele/sionismo, analizzandone un campione.
   Dei tweet analizzati il 16,3% contiene odio antisemita. Anche se non ci sono stati picchi significativi rispetto ad altri periodi e l'ostilità online durante il periodo della pandemia è stata diretta soprattutto verso i cinesi accusati di aver propagato il corona virus, c'è un aspetto molto inquietante che riguarda la qualità dei post. La maggior parte di essi (74%) riguarda il potere ebraico sulla finanza: insomma. accusano gli ebrei come singoli o collettività o come Israele (l'antisemita non fa distinzioni) di avere avuto un ruolo anche nello sfruttamento del Covid 19.
   George Soros è citato come il grande vecchio della politica mondiale secondo il più classico degli stereotipi. Il 9% dirige invece l'odio e la demonizzazione espressamente verso lo stato di Israele, collegato alla pandemia e alla diffusione del virus. Sono risultati invece minoritari - in questo caso - i tweet legati alle forme di odio antisemita come il neonazismo e negazionismo della Shoah o l'antigiudaismo tradizionale.
   Siamo di fronte all'ennesima metamorfosi dell'antisemitismo. Nel periodo della pandemia prevale la versione che vede Israele o in generale gli ebrei sfruttare intenzionalmente il virus per motivi politici o economici. Questo almeno in parte coincide con The Oxford Coronavirus Explanations; Attitudes and Narratives Survey secondo cui il 20% degli inglesi crede che il virus sia stato creato dagli-ebrei per sfruttamento economico (il 45% pensa che sia un'arma biologica creata dalla Cina per distruggere l'Occidente).
   Potremmo ipotizzare di essere di fronte a un "antisemitismo opportunistico" che riemerge nei periodi di crisi e usa il cospirativismo per attaccare le élite. Sarà fondamentale andare più a fondo di queste mutazioni. Il Gruppo di lavoro sulla definizione di antisemitismo dell'Ihra (Intemational Holocaust Remembrance Alliance) creato presso la Presidenza del Consiglio, che raccoglie esperti e rappresentanti delle istituzioni, sta lavorando per trovare i modi in cui applicare alla situazione italiana categorie più approfondite per leggere l'odio e contrastarlo. Ma la battaglia contro l'hate speech online, su cui il Parlamento dovrà pronunciarsi, è appena cominciata.

(la Repubblica, 21 luglio 2020)


Nel Ghetto di Venezia, come gli ebrei nel 1500

Il Ghetto di Venezia si appresta a intraprendere un importante progetto di riqualificazione e ampliamento: inizieranno infatti a ottobre i lavori per aggiungere all'attuale complesso museale, composto da undici unità immobiliari situate in otto unità edilizie, altre cinque unità immobiliari.
  Come rivela la testata online Il metropolitano (e riporta il Times of Israel) il valore del progetto è di 9 milioni di euro, raccolti già al 60 percento tra una ventina di donatori di cui metà europei e metà americani. Dopo avere ottenuto il nulla osta della Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per il Comune di Venezia e Laguna, il progetto è stato accettato anche dal Consiglio comunale della città. I lavori inizieranno a ottobre e dovrebbero durare tre anni.
  "Il progetto di costruzione è il più grande intrapreso a Venezia dopo l'emergenza del coronavirus - ha dichiarato durante la conferenza stampa di presentazione Marcella Ansaldi, direttrice del Museo ebraico di Venezia -.È un segno di rinascita dopo le inondazioni dello scorso anno e la recente pandemia. Il museo rimarrà aperto durante i lavori ".
  "Per noi è un onore aiutare un museo che si sviluppa e si consolida avendo alle sue spalle un'intera comunità - ha dichiarato il sindaco veneziano Luigi Brugnaro -. Questo progetto completamente autofinanziato è uno splendido esempio di sussidiarietà, un dono per le generazioni future e un messaggio di fratellanza e solidarietà".

 Come nel 1500
  Tra i nuovi spazi ci sarà un appartamento del 1528, situato sotto la Schola Tedesca, che sarà ricostruito sulla base dei modelli delle abitazioni ebraiche dell'epoca per ricrearne l'atmosfera: soffitti alti 170 centimetri, senza servizi igienici, con l'afa che rendeva l'aria irrespirabile d'estate e il freddo umido d'inverno. Soprattutto, sarà riaperto il passaggio verso la sinagoga, lo sbocco dove respirare un po' d'aria non viziata e vedere la luce.
  "I turisti potranno così toccare con mano quanto fosse difficile la vita per gli ebrei in quell'epoca - afferma David Landau, storico dell'arte israeliano e project manager -. Il ghetto era una prigione, ma era anche una protezione: fintanto che i residenti rimanevano all'interno, nessuno poteva far loro del male".

 La ristrutturazione di tutto il polo museale
  Inoltre, gli spazi già presenti verranno riorganizzati in modo importante. Verranno utilizzati degli interspazi per avere un percorso museale collegato internamente, senza uscire e rientrare in campo come si fa ora. La sinagoga italiana, attualmente non accessibile dal museo, grazie al progetto di riqualificazione, integrerà la mostra permanente offerta dal museo.
  Inoltre, il complesso sarà accessibile ai disabili, con due ascensori, per la salita e la discesa, e i bagni saranno rinnovati.
  Caffetteria e biblioteca verranno spostate al piano terra in sicurezza, a prova di acqua alta al di sopra di 220 centimetri. Al termine dei lavori di ristrutturazione, saranno messi a disposizione del pubblico nella biblioteca oltre 4.000 libri e manoscritti di proprietà della comunità ebraica. L'obiettivo è quello di ricreare l'antica relazione tra gli edifici presenti all'interno del complesso museale - che un tempo aveva funzioni essenziali - con la piazza del ghetto e con la città in senso lato.
  "E' un sogno che diventa realtà - ha precisato il presidente della Comunità ebraica mondiale Ronald Lauder, riporta Il Metropolitano - Avevo visitato anni fa le tre sinagoghe ed ero restato a bocca aperta. Onorato che questa giunta abbia autorizzato questo ampliamento ora che il Ghetto compie 504 anni. La missione della mia vita è aiutare le comunità ebraiche a ricostruire ciò che è stato perso. Con l'ampliamento le persone vedranno tornare alla vita le sinagoghe, il canto e il sorriso dei bambini, una comunità che si ravviva, e vedranno il bene più prezioso, la vita. La storia di Venezia e la comunità ebraica sono sempre state connesse. Ora, con questo museo diffuso, lo saranno ancora di più".

(Bet Magazine Mosaico, 21 luglio 2020)


Il governo israeliano approva l'accordo per la costruzione del gasdotto East-Med

GERUSALEMME - Israele ha approvato l'accordo siglato con Cipro, Grecia per la costruzione del gasdotto East-Med per il trasporto di gas naturale in Europa. "L'approvazione del governo dell'accordo quadro per la posa del gasdotto Israele-Europa è un'altra pietra miliare storica per rendere Israele un esportatore di energia", ha detto domenica il ministro dell'Energia, israeliano Yuval Steinitz. Secondo quanto riferiscono i media, i paesi interessati al progetto dovrebbero raggiungere una decisione finale entro il 2022 per la costruzione del gasdotto. L'infrastruttura del costo complessivo di 6 miliardi di euro (6,86 miliardi di dollari) dovrebbe essere completata entro il 2025. Attualmente è in corso un'indagine terrestre e marittima per determinare la rotta del gasdotto da 1.900 chilometri (circa 1.200 miglia). L'Unione europea e Igi Poseidon, proprietaria del gasdotto, hanno investito ciascuno 35 milioni di euro (40 milioni di dollari) nella fase di pianificazione. Igi Poseidon è una joint venture tra la società greca Depa e il gruppo energetico Edison. Nelle scorse settimane, sia il parlamento di Nicosia che quello di Atene hanno ratificato l'accordo internazionale per la costruzione del gasdotto.

(Agenzia Nova, 21 luglio 2020)


Attacco alla sinagoga di Halle: si apre il processo a Stephan B.

Il 28enne rischia l'ergastolo per il tentato assalto «antisemita, razzista e xenofobo». Alta l'attenzione mediatica.

di Dario Ornaghi

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MAGDEBURGO - Dopo che, nove mesi fa, Stephan B. tentò d'irrompere nella sinagoga di Halle, in Germania, per commettere una strage in occasione dello Yom Kippur, i temi dell'antisemitismo e del terrorismo estremista di destra ripresero una grande centralità nel dibattito pubblico tedesco. Pur non dimenticati, passarono però in secondo piano dopo non molto a causa dell'emergenza coronavirus, che nei mesi successivi avrebbe pressoché monopolizzato l'informazione. Ora, simili questioni promettono di riguadagnare la massima attenzione con l'apertura, oggi, del processo a carico del 28enne tedesco.
L'atmosfera, in effetti, è quella dei grandi eventi mediatici. A Magdeburgo, dove si terrà il procedimento, è stata approntata la più grande sala di tribunale disponibile nella Sassonia-Anhalt, l'ex biblioteca del Tribunale del Land. Più di 300 metri quadrati nei quali troveranno posto - oltre alla corte, l'accusa, l'imputato e i suoi legali - le circa 40 parti civili coinvolte, 44 giornalisti e 50 spettatori. In una sala accanto siederanno altri 44 rappresentanti dei media. L'interesse della stampa tedesca e israeliana è particolarmente alto.
Come ricorda il Tagesschau, Stephan B. dovrà tra le altre cose rispondere di duplice omicidio, 68 tentati omicidi e lesioni personali gravi. Il 9 ottobre 2019 tentò d'irrompere armato nella sinagoga di Halle mentre all'interno si teneva un servizio religioso per la festività ebraica dello Yom Kippur. Un portone blindato, però, vanificò i suoi tentativi d'introdursi nel luogo di culto. L'uomo sparò quindi a una passante e a un avventore in un take away di kebab, uccidendoli. Il 28enne filmò tutto con una telecamera posta sul suo casco e trasmise le immagini su internet in livestreaming.
Le indagini rivelarono che il 28enne si era radicalizzato negli anni. Il decreto d'accusa ipotizza la natura «antisemita, razzista e xenofoba» del suo gesto. Il processo che si apre oggi ha un'importante valenza politica poiché dovrà chiarire come l'uomo abbia potuto preparare l'attacco e fabbricare le proprie armi passando inosservato alle autorità. Rischia l'ergastolo. Sono previsti 18 giorni di dibattimento.

(tio.ch, 21 luglio 2020)


L'Autorità Palestinese celebra come eroi i più spietati massacratori del pogrom del 1929

Quell'anno a Hebron decine di ebrei trovarono salvezza nelle abitazioni di vicini arabi coraggiosi. Ma non sono questi gli eroi portati oggi a esempio dai mass-media di Abu Mazen.

Il 23 agosto 1929 una folla di arabi, fomentati dalla falsa accusa che gli ebrei stessero per impadronirsi delle moschee sul Monte del Tempio a Gerusalemme, scatenò un sanguinoso pogrom contro l'antichissima e indifesa comunità ebraica di Hebron. Armati di asce coltelli e mazze, centinaia di arabi si abbandonarono a stupri, assassini e saccheggi. Dopo tre giorni di violenze particolarmente raccapriccianti, si contavano 67 ebrei assassinati (comprese donne e bambini), decine di altri feriti e mutilati, le loro case botteghe e sinagoghe devastate, i sopravvissuti evacuati a Gerusalemme. Il pogrom del '29 pose fine alla comunità ebraica di Hebron, che era esistita per molti secoli.
In mezzo alle efferate violenze, parecchie decine di ebrei di Hebron trovarono salvezza grazie all'aiuto prestato loro da una ventina di coraggiose famiglie arabe. Ma non sono questi gli eroi arabi che oggi vengono celebrati dall'Autorità Palestinese....

(israele.net, 21 luglio 2020)


Coronavirus: restrizioni di ingresso in Israele valide fino al primo settembre

GERUSALEMME - Le attuali restrizioni di ingresso in Israele dovute alla diffusione della pandemia di Covid-19 continueranno almeno fino al primo settembre di quest'anno. Lo ha annunciato oggi l'Autorità per l'aviazione civile. Attualmente, solo i cittadini israeliani o i residenti in Israele possono entrare nel paese. Secondo quanto riferisce il quotidiano "Jerusalem Post" dovrebbero essere introdotte alcune eccezioni destinate ai familiari più stretti di immigrati in Israele.

(Agenzia Nova, 20 luglio 2020)


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Coronavirus: nuove misure restrittive per i palestinesi

Nuove misure restrittive sono state annunciate l'altro ieri dal governo di Mohammed Shtayeh per contrastare la diffusione del coronavirus fra i palestinesi. Lo rende noto la agenzia di stampa Maan. Gli spostamenti fra le province della Cisgiordania resteranno bloccati per un'altra settimana ed una chiusura ermetica sarà applicata alle zone dove siano registrati focolai. Nelle città della Cisgiordania nessuno potrà circolare fra le ore 20 serali e le 6 di mattina. Fino a nuovo ordine sono vietati i matrimoni, i lutti pubblici ed i festival. Prosegue poi la chiusura di asili, piscine, palestre e sale di ricevimento. Il governo dell'Autorità nazionale palestinese vieta inoltre ai manovali di lavorare nelle cittadine ebraiche e fa appello agli arabi cittadini di Israele affinché si astengano in questa fase dal visitare la Cisgiordania. Nel frattempo il ministero della sanità, citato dall'agenzia di stampa Wafa, precisa che fra i palestinesi i casi positivi in Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est sono saliti a 10.052 e che nelle ultime ore si sono avuti 465 contagi. I decessi sono 63.

(Shalom, 20 luglio 2020)


Scontri e arresti, rabbia in Israele. Netanyahu sotto assedio: "Dimettiti"

Il premier nel mirino per la gestione del virus, la disoccupazione e le accuse di corruzione: "Siamo stanchi e senza soldi".

di Giordano Stabile

La via principale di Gerusalemme chiusa per impedire ai cortei di avvicinarsi alla residenza del premier. Bandiere e cordoni di polizia. Nella calda estate israeliana, fra emergenza corona virus e guerre segrete con l'Iran, Benjamin Netanyahu si ritrova di colpo sotto assedio. Fisicamente, e questa volta da parte dei suoi stessi cittadini. L'elegante quartiere di Rehavia, vicino alla chic «German Colony», dai locali frequentati da giovani in carriera, è da quattro settimane un campo di battaglia. Centinaia, poi migliaia, di manifestanti cercano di arrivare fino sotto le finestre del primo ministro più longevo della storia dello Stato ebraico, sopravvissuto a mille battaglie ma che adesso subisce fendenti da tutte le parti. Quando vengono bloccati formano picchetti, seduti, con i polsi incrociati nel segno delle manette. «Netanyahu dimettiti», si legge nei cartelli e nei post su Facebook e Twitter, un uragano.
  I riferimenti sono al processo per corruzione e abuso d'ufficio. La prima udienza è stata rinviata ancora, al 3 gennaio, ma una buona fetta degli israeliani questa volta è stanca di aspettare. La crisi economica indotta dal coronavirus ha spezzato l'aura di invincibilità di King Bibi. Sono passate 19 settimane e mezzo dalle elezioni del 3 marzo, l'ultima mano di poker del premier. Sembrava quella definitiva perché dopo tre tornate consecutive in meno di un anno Netanyahu era riuscito a convincere e costringere il rivale Benny Gantz a un governo di unità nazionale, alle sue condizioni. Mancava la ciliegina per concludere l'opera, l'annessione di un terzo della Cisgiordania con l'appoggio dell'amico Donald Trump e la data segnata sul calendario, il primo luglio. E invece no. Il coronavirus ha rialzato la testa, i contagi hanno ripreso a un ritmo mai visto nemmeno durante il primo picco di marzo-aprile, duemila al giorno.
  Le annessioni sono state rinviate e la protesta è cresciuta come un incendio fra le sterpaglie. Nella notte fra sabato e domenica in migliaia hanno marciato a Tel Aviv dal parco Charles Clore a piazza Habima. La polizia è intervenuta, cariche, getti di cannoni ad acqua, 28 persone sono state arrestate. È un muro contro muro. «Siamo stanchi di non essere visti, ascoltati, presi in considerazione», si lamentano i giovani sui social. A Gerusalemme altre 15 persone sono state fermate dopo che hanno cercato di forzare la strada verso la residenza del premier, Jaffa Street è stata chiusa. Ma gli arresti non hanno placato al rabbia, anzi. Le manifestazioni si sono spostate ieri nei principali incroci fuori dalla capitale. Sul ponte Youssef, nella valle di Hula, in centinaia hanno bloccato il traffico, si sono viste bandiere anarchiche, arcobaleno, assieme a quelle nazionale blu e bianche.
  La sinistra si è mescolata ad abitanti degli insediamenti, in gran parte ancora con "Bibi», ma dove cresce il malcontento. Alcuni manifestavano "per la prima volta» in vita loro: «Chiudono, riaprono, poi richiudono, adesso basta, la gente non ha più soldi». Altri mostravano i cartelli «resteremo qui finché il primo ministro non si dimette». Con la disoccupazione al 21 percento, molti piccoli esercizi sull'orlo del fallimento, un nuovo lockdown sarebbe la mazzata finale. Ma incombe. Ieri il totale dei casi di Covid è salito a 46 mila, le vittime a oltre 400. Il premier ha rinviato le chiusure più drastiche a giovedì, ma l'impressione è che abbia perso il tocco magico. E tentato da una nuova mano di poker, le quarte elezioni anticipate. Ma i sondaggi lo danno perdente. Non gli resta che aspettare, finché passi la tempesta. Se passerà.

(La Stampa, 20 luglio 2020)


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Covid, Israele va in piazza. Il vero obiettivo è Netanyahu

Le proteste per la nuova chiusura e i soldi a pioggia. Strumentalizzate da chi vuole far fuori il premier.

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Il virus è tornato, e la piazza ribolle contro Netanyahu: a Tel Aviv, e a Gerusalemme davanti alla casa del primo ministro, una piazza disperata per la disoccupazione e la parziale chiusura delle imprese che minaccia di diventare totale. È una folla di disoccupati, negozianti, assistenti sociali, genitori in crisi, giovani furiosi. Per il desiderio di tornare al lavoro, a scuola, a viaggiare, a fare sport, a vivere insomma; in altri casi, addobbati in magliette e bandiere nere, sono decisi a ottenere con la rabbia della piazza quello che le elezioni non gli hanno dato, ovvero che Bibi sparisca dalla scena. E lo chiedono con slogan e cartelli. Non importa loro, l'uno contro l'altro spesso senza maschere, di rischiare con l'affollamento incosciente di aumentare la possibilità di contagio. E lui è di nuovo il protagonista, Netanyahu, mentre il suo gradimento scende, accusato di rinchiudere la popolazione di Israele nella gabbia del coronavirus (il prossimo week-end il lockdown sarà totale), e dall'altra di essere lo sprecone, di distribuire soldi a pioggia a chiunque, non importa quale sia il reddito. È stata l'ultima mossa di Netanyahu, per un ammontare notevole per l'economia israeliana, più di sei miliardi di shekel (circa 1,5 miliardi di euro): 750 shekel per i singoli fino a 3mila shekel e più per chi ha da tre figli in su.
   È evidente che chi fomenta la folla spesso non ha altro scopo che quello di fare fuori l'odiato nemico di cui prima del governo di coalizione Benny Gantz diceva «tutti fuorché lui». L'incitamento e la diffamazione anche da parte del capo dell'opposizione Yair Lapid arriva fino alla giustificazione della violenza di piazza, l'irrazionalità delle accuse è a volte palese e testimonia due tendenze: quella a riaprire nonostante il virus, e quella a cacciare con il moto di piazza Netanyahu.
   I casi complessivi ammontano ormai quasi a 50mila, 1.595 nel week end appena trascorso, i morti sono ormai 406. Nel week-end sono stati fatti 25.033 test. Numeri troppo grandi per un Paese che aveva attraversato a vele spiegate la prima fase. Con Bibi splendevano a febbraio-marzo esperti che non erano i suoi ministri, il premier chiuse subito gli aeroporti e impose la chiusura; i burocrati esperti di allora sono stati sostituiti dalla nuova amministrazione insediatasi il 17 maggio. I ministri sono altri: Naftali Bennet che fece vasto uso, da ministro della Difesa, dell'esercito, ha lasciato il posto a Benny Gantz. Come è avvenuto il salto indietro? Con la scarsa pianificazione per aree di contagio, con la sofferenza delle strutture sanitarie troppo cariche, la libertà data per scontata troppo presto e il tipico impulso israeliano di vivere pienamente ogni angolo di una storia segnata da perdite e guerre: il collettivismo, la riapertura delle scuole, dei luoghi di lavoro e di vacanza, la messe di eventi familiari specie nelle comunità religiose, e anche la lentezza nell'individuare i focolai di infezione oltre allo scontro continuo che ha reso impossibile un gruppo costante di lavoro. E all'orizzonte si vede il fumo delle esplosioni in Iran, la discussione aspra sulla sovranità nei territori.
   No, non è la Svizzera, questo è Israele, il gioco duro è un classico: ricordiamoci lo sgombero da Gaza e le manifestazioni disperate contro Sharon, propaggine di lotte interne immani fin dalle cannonate di Ben Gurion alla nave «Altalena" di Begin ... È dura, c'è il virus e c'è il coltello fra i denti contro Bibi.

(il Giornale, 20 luglio 2020)


Bar Refaeli condannata ai servizi sociali per evasione fiscale

La top model e la madre hanno confessato reati di elusione fiscale per quasi 10 milioni di dollari. La madre dovrà scontare 16 mesi di carcere.

 
Bar Refaeli condannata da un tribunale israeliano per quattro accuse di reati fiscali. Il verdetto a conclusione di un lungo procedimento contro la modella e la sua famiglia. Refaeli si è presentata in tribunale a Tel Aviv accompagnata da suo padre, Raffi, sua madre, Zipi e una squadra di avvocati. La 35enne e sua madre hanno confessato i reati di elusione fiscale per quasi 10 milioni di dollari.
Secondo un accordo di patteggiamento che hanno firmato con le autorità il mese scorso, Refaeli presterà servizio per nove mesi in una comunità mentre sua madre dovrà scontare 16 mesi di carcere. Alle due è stato anche ordinato di pagare una multa di 1,5 milioni di dollari, in aggiunta ai milioni di imposte arretrate dovute allo Stato.

(la Repubblica, 20 luglio 2020)


Israele guarda ad Ankara con paura

Il governo turco potrebbe prendere il posto degli ayatollah iraniani

Scrive il Jerusalem Post (15/7)

Il crescente coro di dichiarazioni anti israeliane proveniente dalla Turchia, in particolare quando si tratta della tossica miscela di retorica religiosa e nazionalista estremista tipica del partito al potere ad Ankara, sta diventando una minaccia sempre più grande per Israele e la stabilità regionale", scrive il Jerusalem Post. "Dopo l'annuncio che la Turchia avrebbe trasformato in moschea il museo di Haghia Sophia a Istanbul, il presidente Recep Tayyip Erdogan ha dichiarato che successivamente Ankara 'libererà' la moschea di al-Aqsa a Gerusalemme.
   Nei mesi scorsi il Ministero degli affari religiosi della Turchia e altre voci del governo di Amman hanno ripetutamente propagato il messaggio secondo cui intendono "unire la umma (comunità) islamica" contro lo stato di Israele. La retorica di Ankara ricorda sempre più da vicino gli inizi della retorica anti israeliana nell'Iran di fine anni 70, destinata a trasformarsi in seguito in una potenziale minaccia esistenziale di natura nucleare. La dirigenza religiosa iraniana, come la dirigenza ispirata ai Fratelli Musulmani del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) in Turchia, guarda il mondo attraverso una lente binaria: c'è la 'umma islamica' e poi ci sono tutti gli altri. Per gli attuali dirigenti sia in Iran che in Turchia, l'aumento dell'estremismo religioso annuncia la volontà di mobilitare la regione contro Israele.
   Per anni l'interpretazione prevalente è stata che, se da una parte l'Iran costituiva una minaccia per Israele, dall'altra Ankara e Gerusalemme godevano storicamente di buone relazioni. Ma quelle relazioni hanno preso una piega estremista per il peggio dopo l'operazione antiterrorismo a Gaza del gennaio 2009. Da allora, quella che negli anni 90 era stata una relazione scorrevole è diventata sempre più un rapporto ostile su molteplici piani. In Turchia cresce l'antisemitismo e si registra un'attiva diffusione di teorie complottiste anti ebraiche e anti israeliane. E c'è una crescente mobilitazione delle reti religiose di estrema destra, come quella dietro alla flottiglia filo Hamas della Mavi Marmara, che nel 2010 cercò di rompere il blocco navale antiterrorismo imposto da Israele alla striscia di Gaza
   L'attuale governo turco è uno stretto alleato di Hamas. Bombarda impunemente in Siria e Iraq. Adesso ha inviato in Libia mercenari siriani e sue forze navali e aeree. Sebbene questa campagna sembri lontana da Gerusalemme, di fatto la Turchia sta cercando di impadronirsi di una fascia del Mediterraneo per bloccare l'accordo su un oleodotto, siglato da Israele e Grecia all'inizio di quest'anno. L'attuale amministrazione americana ha finora chiuso un occhio quando si tratta di Turchia. Elementi pro Ankara nel Dipartimento di stato Usa hanno assecondato l'agenda estremista della Turchia, accondiscendendo il suo abbraccio con Hamas e altri terroristi. E Israele ha evitato di criticare. Ma l'esperienza in questa regione dimostra che un potere estremista senza freni finisce sempre per attaccare Israele. Gamal Abdel Nasser ricoprì negli anni 50 questo ruolo, che in seguito passò agli ayatollah iraniani. A lungo termine lo stesso potrebbe accadere in Turchia, se i suoi crescenti attacchi ai vicini, la repressione del dissenso e la retorica anti israeliana non verranno contrastati dal mondo occidentale".

(Il Foglio, 20 luglio 2020)


Israele epidemia covid-19: duemila aziende dichiarano fallimento a giugno, doppio del 2019

E' quasi raddoppiato il numero delle aziende che a giugno hanno presentato istanza di fallimento in Israele, rispetto ai dati dello stesso mese dell'anno precedente. Lo ha dichiarato il ministero della Giustizia israeliano, riferendo di 2.038 aziende nel giugno 2020 e di 1.165 nel giugno del 2019. E questo mentre il Paese si appresta ad affrontare una seconda ondata di casi di coronavirus. Inoltre a maggio l'Ufficio centrale di statistica del governo israeliano ha riferito di un record di disoccupazione al 21 per cento.
In Israele sono quasi 50mila le persone che hanno contratto il coronavirus. 49.575 sono i positivi e 21.440 sono guariti dall'infezione. Attualmente sono 27.729 i casi attivi, 238 dei quali versano in gravi condizioni. Nelle ultime 24 ore, inoltre, sono 1.414 le persone risultate positive al test (20.236 quelli condotti ieri) e sei quelle che hanno perso la vita per complicazioni. In totale, i decessi legati al Covid-19 in Israele sono 406.

(Shalom, 19 luglio 2020)


Su Internet adesso si scheda chi è a favore della famiglia

Una app colora di rosso le pagine di persone presunte omofobe.

di Pier Francesco Borgla

Un filtro o peggio un marchio. Per individuare subito chi è dall'altra parte della barricata nella non dichiarata ma ferocemente combattuta guerra all'istituto della famiglia tradizionale. Un filtro ( o appunto marchio) che si ottiene attraverso una estensione del motore di ricerca. Le «estensioni» sono semplicemente degli strumenti aggiuntivi dei motori di ricerca che a loro modo personalizzano i risultati dell'indagine affidata dall'utente di internet alla finestrella dove si digitano le parole (e soprattutto i nomi) che destano interesse o curiosità.
   C'è chi usa queste estensioni per essere sicuro che la sua personale ricerca non porti spiacevoli sorprese. I militanti lgbt, per esempio, usano frequentemente un'estensione che si chiama shinigami eyes. Un prestito giapponese (piuttosto lugubre, oltretutto, visto che ricorda le divinità della morte). Se il militante vuole essere sicuro che il nome che desidera trovare sul motore di ricerca non sia associato a una persona contraria (anche solo tiepidamente) alle battaglie che la sua comunità da anni combatte per azzerare morale cattolica e buonsenso comune in nome di una libertà senza limiti (nemmeno di decoro o misura), allora sfrutta questo «filtro». E voilà: se il nome digitato nella finestra della pagina iniziale del motore di ricerca appare rosso allora vuol dire che quella persona non condivide gli ideali lgbt (acronimo che si riferisce a quattro orientamenti sessuali: lesbiche, gay, bisessuali e transgender).
   Su segnalazione del senatore della Lega Simone Pillon, abbiamo potuto constatare di persona che la ricerca di determinati nomi porta alla scoperta di una connotazione drastica e inappellabile. Se ti chiami Matteo Salvini, a esempio, e il tuo nome viene digitato sul motore di ricerca di Google accresciuto dell'estensione Shinigami eyes, i tuoi profili social appaiono rossi. Se ti chiami, invece Mario Bianchi (nome di invenzione) e nella tua vita non hai mai espresso alcuna opinione negativa contro l' adozione di bambini da parte di coppie omosessuali o di matrimoni tra persone dello stesso sesso, allora il tuo nome non sarà indicato con il colore rosso.
   Abbiamo proseguito la ricerca cercando di individuare almeno alcuni dei nomi che costituiscono una sorta di pantheon negativo del mondo lgbt. Oltre a Salvini e allo stesso Pillon, compaiono anche il nostro direttore Alessandro Sallustì, Mario Adinolfi e Giorgia Meloni (solo per citare qualche nome), fino agli organizzatori del Family Day.
   Che questo strumento sia di aiuto a militanti intransigenti lo dimostra anche il fatto che la «spia» del colore rosso serve anche a indicare i militanti Terf, acronimo inglese per indicare una piccola comunità di femministe che escludono dal loro mondo le persone transgender (trans-exclusionary radical Jeminist).
Un marchio di «infamia», insomma, che mira a ripetere - è il commento dello stesso senatore Pillon che ha scoperto questa sorta di discriminazione - quanto fatto durante gli anni Trenta per discriminare gli ebrei con la stella gialla cucita sui vestiti.

(il Giornale, 19 luglio 2020)

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Su moked, il sito di “Pagine ebraiche”, compare il seguente commento all’articolo precedente.

Paragoni demenziali

Esiste un filtro creato per alcuni browser che mette in evidenza utenti, pagine web, gruppi social, considerati anti-Lgbt. Lo segnala il Giornale, attaccando questa app, e soprattutto rilanciando il demenziale ed offensivo paragone del senatore della Lega Simone Pillon. Questi, segnalato dal filtro (che deve essere appositamente scaricato) come persona con posizioni anti-Lgbt, dichiara che si tratta di un marchio "infame" comparabile "alla stella gialla sulle giacche degli ebrei". Daniel Reichel

(moked, 19 luglio 2020)


Che il paragone del senatore della Lega sia “demenziale” ci può stare, come i paragoni che si fanno tra le opposizioni agli sbarchi dei migranti e lo sterminio degli ebrei durante la Shoah, ma è notevole che di quell’articolo il commentatore di moked non dica nulla sul contenuto. Non c’è niente da dire sul desiderio di schedare e segnalare persone che manifestano particolari vedute? Non si dice forse, proprio in ambito ebraico, che quando si cominciano a schedare particolari gruppi di persone prima o poi si arriva a prendere di mira gli ebrei? Si dovrà accettare come normale che si gridi “dalli all’omofobo”? M.C.


Comunità ebraica in lutto per la scomparsa di Marcello Tedeschi

Il medico ferrarese aveva avuto Bassani come insegnante. Si era trasferito a Torino per lavorare alla casa di riposo ebraica

La comunità ebraica è in lutto per la scomparsa di Marcello Tedeschi, medico ferrarese scomparso all'età di 95 anni a Torino, dove si era trasferito dal dopoguerra per specializzarsi ed esercitare la professione, fino a diventare il punto di riferimento della casa di riposo ebraica del capoluogo piemontese.
   Tedeschi, nato nel 1925 nella città estense, aveva studiato alla scuola di via Vignatagliata e frequentato la sinagoga di via Mazzini. Conosceva bene l'insegnante Giorgio Bassani, con cui aveva anche seguito lezioni di ginnastica e di boxe a scuola insieme a Eugenio Ravenna, detto Gegio, uno dei cinque ebrei ferraresi sopravvissuti al campo di sterminio di Auschwitz.
   Nel settembre del '43, per sfuggire alla persecuzione, si rifugiò insieme alla famiglia in Svizzera per tornare a Ferrara a guerra finita e poi a Torino, dove si trasferì un folto gruppo di ferraresi. Qui, dopo la laurea in Medicina, ebbe modo di fare esperienza in ospedale come assistente volontario e specializzando. Per molti anni è stato il medico di riferimento della casa di riposo ebraica di Torino, dedicando la sua vita alla famiglia e a portare sollievo a chi soffre.
   Conosciuto e apprezzato per la sua profonda saggezza e grande umanità, il suo ultimo viaggio l'ha portato dall'ospedale Cto di Torino a Ferrara, dove dopo il funerale è stato tumulato nel cimitero ebraico di via delle Vigne.

(estense.com, 19 luglio 2020)


Una ferita risanata della Shoah

L'umanitàche sana il dolore

di Elena Loewenthal

Bruno Dey entrò nelle SS che aveva 17 anni. Poco dopo, nell'agosto del 1944, divenne il guardiano al campo di prigionia di Stutthof, dove rimase sino ad aprile del 1945. E' accusato di complicità nell'uccisione di 5230 persone.
   Le vittime passate per questo luogo di morte non lontano da Danzica. Perché la Shoah non è stata «soltanto» la galassia Auschwitz, ma un sistema capillare in tutta l'Europa: centinaia di luoghi disseminati per il continente. La pace, il tempo trascorso, la voglia di dimenticare hanno cancellato gran parte di queste tracce diffuse: come se non fossero mai esistite.
   Ma la storia di Bruno Dey è diversa da tutte le altre, e non certo per merito suo, di quella specie di adolescente che il nazismo ha trasformato in spietato aguzzino. Oggi è un vecchietto in sedia a rotelle che, ironia della sorte, deve presentarsi di fronte a un tribunale di minori per rendere conto di quel che fece allora, da minore. E per il quale gli avvocati della parte lesa, figli e nipoti di alcune di quelle vittime hanno chiesto clemenza. L'imputato va perdonato, ha dichiarato l'avvocato Markus Goldbach a nome di un suo cliente, un ex internato che vive in Israele.
   E' una storia strana e tremenda, questa. Una come migliaia di altre, in quegli anni e nel dopo che tutti ci riguarda. Ma unica. E' però una storia così difficile da leggere, decifrare, provare a capire. E' assai più semplice chiedersi cosa non è. Per gli ebrei è impossibile concedere il perdono a nome di qualcun altro. Neanche Dio può perdonare una colpa commessa ai danni di un essere umano: tutto deve dipanarsi in un a tu per tu fatto di consapevolezza e responsabilità. Per questo nessuno può perdonare un omicidio, perché nessuna vittima di omicidio può perdonare il suo assassinio. Non si tratta però neanche di un atto di semplice indulgenza verso un anziano, fragile e irrimediabilmente debilitato. Questo gesto condiviso da alcune delle parti così violentemente «lese» dal giovane SS è qualcosa di ben più complesso, che chiama in causa la storia, la memoria, la colpa e tanto dolore.
   E il dolore ha le sue indecifrabili vie per attraversare il tempo, diventare e far diventare diversi da come si era. Certo, tutta questa vicenda, terribile e bella al tempo stesso, si può rubricare alla voce «clemenza», ma questo soltanto non è. E qualcosa di più profondo, perché è il frutto di quello che il tempo è capace di fare al dolore: rimediare all'irrimediabile, sanare ciò che sembra insanabile. Non c'è coerenza e forse neanche giustizia, nel non voler punire un aguzzino, anche se è passato tanto tempo da allora. Non c'è neanche il perdono inteso come elargizione di una gratuità, di «dono» impagabile. C'è, piuttosto, una coscienza umana che sa di essere di fronte a un dolore, passato e presente, che non c'è modo di misurare: allora val meglio «arrendersi» alla nostra comune appartenenza, cioè l'umanità intesa come condivisione di destino, nel bene e nel male.
   C'è, soprattutto, una difficile lezione di vita che ci chiama tutti in causa.

(La Stampa, 18 luglio 2020)


"
Neanche Dio può perdonare una colpa commessa ai danni di un essere umano", dice l'autrice riportando l'attuale pensiero ebraico. Appoggiandosi sulla Bibbia invece si potrebbe dire: "Neanche l'uomo può perdonare una colpa commessa ai danni di un altro uomo". Perché l'uomo è fatto a immagine di Dio, e chi colpisce l'uomo di sua iniziativa colpisce Dio in immagine. Proprio questo ha fatto Caino: ha colpito in Abele l'immagine per lui diventata insopportabile di Dio. Quando Dio dice di perdonare, è perché soltanto Lui ha l'autorità di farlo, e quando lo dice, la sua non è soltanto un'autorizzazione, ma un ordine. Ed è bene eseguirlo prontamente, se non si vuole subire una sorte peggiore di quella in cui avremmo voluto lasciare colui a cui neghiamo il nostro perdono. M.C.
    Allora Pietro si avvicinò e gli disse: «Signore, quante volte perdonerò mio fratello se pecca contro di me? Fino a sette volte?» E Gesù a lui: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.
    Perciò il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi. Avendo cominciato a fare i conti, gli fu presentato uno che era debitore di diecimila talenti. E poiché quello non aveva i mezzi per pagare, il suo signore comandò che fosse venduto lui con la moglie e i figli e tutto quanto aveva, e che il debito fosse pagato. Perciò il servo, gettatosi a terra, gli si prostrò davanti, dicendo: "Abbi pazienza con me e ti pagherò tutto". Il signore di quel servo, mosso a compassione, lo lasciò andare e gli condonò il debito.
    Ma quel servo, uscito, trovò uno dei suoi conservi che gli doveva cento denari; e, afferratolo, lo strangolava, dicendo: "Paga quello che devi!" Perciò il conservo, gettatosi a terra, lo pregava dicendo: "Abbi pazienza con me, e ti pagherò". Ma l'altro non volle; anzi andò e lo fece imprigionare, finché avesse pagato il debito. I suoi conservi, veduto il fatto, ne furono molto rattristati e andarono a riferire al loro signore tutto l'accaduto.
    Allora il suo signore lo chiamò a sé e gli disse: "Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito, perché tu me ne supplicasti; non dovevi anche tu aver pietà del tuo conservo, come io ho avuto pietà di te?" E il suo signore, adirato, lo diede in mano degli aguzzini fino a quando non avesse pagato tutto quello che gli doveva. Così vi farà anche il Padre mio celeste, se ognuno di voi non perdona di cuore al proprio fratello».
    (Dal Vangelo di Matteo, cap. 18)

Il giorno del Signore verrà come un ladro

Ma voi, carissimi, non dimenticate quest'unica cosa: che per il Signore un giorno è come mille anni, e mille anni sono come un giorno. Il Signore non ritarda l'adempimento della sua promessa, come pretendono alcuni; ma è paziente verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti giungano al ravvedimento. Il giorno del Signore verrà come un ladro: in quel giorno i cieli passeranno stridendo, gli elementi infiammati si dissolveranno, la terra e le opere che sono in essa saranno bruciate.

Dalla seconda lettera dell’apostolo Pietro, cap. 3

 


Gli ebrei da vittime del razzismo diventano «oppressori bianchi»

Nel caso di Israele il politicamente corretto mostra tutte le sue tremende contraddizioni e si dimostra antisemita.

di Fiamma Nirenstein

La nuova feroce strada per essere ritenuti degni o indegni di simpatia, di pubblico apprezzamento, di fiducia è impervia: chi sgarra viene espulso da posti di lavoro, cenacoli culturali, ruoli istituzionali. Oggi è in America, ma arriva anche da noi in gran fretta. E la lista si allarga di giorno in giorno. L'ultimo Grande Fratello, con tutte le sue storiche e morali ragioni di rabbia, è il movimento Black Lives Matter. Ma lasciatemi subito dire che non voglio trascurare proprio nessuno, nemmeno la santificata Unione europea. Come dice a Julia Winston Smith, il protagonista di 1984, è in corso un gioco per cui il passato è stato abolito, ogni libro è stato riscritto, ogni pittura ridipinta e ogni statua e strada sono state ribattezzate.
   È interessante: Hitler, o Mussolini, o Stalin mentre stabilivano che la storia del loro Paese andava rifondata stabilivano che, intanto, era bene eliminare gli ebrei. Così nel mondo pandemico e rabbioso dei nostri tempi c'è una rinnovata grandiosa spinta all'antisemitismo alla Corbyn, perbene, part time come lo chiama Manfred Gerstenfeld, o alla Borrell che dice che «l'Iran si sa che vuole distruggere Israele, ok, dobbiamo conviverci»: mentre da una parte sei l'indubbio difensore liberal dei diritti umani, della libertà di pensiero e di parola, dall'altra sei uno che lo stato d'Israele non lo ama più, lo restringerebbe, lo condividerebbe coi palestinesi. Oppure non ne vede le ragioni, come il capo di «J Street», Peter Beinart, che annuncia sul New York Times: «Non credo più nello Stato ebraico». Oh, è in buona compagnia.
   Quando George Floyd è stato ucciso da un poliziotto sadico, subito Ronald Lauder, presidente del World Jewish Congress, l'Unione per il giudaismo riformato, l'Unione degli ebrei ortodossi e tutte le istituzioni, anche da Israele, hanno preso posizione contro il razzismo, per il movimento nero ecc. Naturale, gli ebrei hanno una tradizione di collaborazione per i diritti umani con i neri, Martin Luther King amava Israele. Ed ecco oggi l'avvento preparato da lungo tempo dell'antisemitismo perbenista: scusi, ma forse gli ebrei sono bianchi? Non è chiaro, ma certo fanno parte degli oppressori all'indice: la prima mossa dei leader della piazza è stata dire che i poliziotti cattivi sono allenati da squadre israeliane, proprio mentre altri suggerivano che avessero sparso il Covid 19. I muri di fronte ai quali passavano le masse che buttavano giù le statue e contestavano la schiavitù (peraltro innanzitutto promossa dal commercio arabo e ancora oggi esistente in 5 stati islamici) si sono riempiti di scritte antisraeliane e filo palestinesi. I dimostranti, in un sobborgo di Los Angeles, urlavano kill the Jews, le sinagoghe sulla strada in varie città sono state riempite di scritte: Free Palestine. Una famosa attivista palestinese, Linda Sarsur, capo del Bds e della famosa «Marcia delle donne» oltre che molto simpatetica verso il terrorismo, ha detto che palestinesi contro israeliani (e certamente lobby ebraica), e neri contro il privilegio e l'oppressione bianca sono la stessa cosa. Egrave; un allargamento di massa dell'antisemitismo, obbligatorio per chi è contro l'oppressione. E' di moda: lo si è letto in questi giorni in moltissimi tweet di attori, cantanti, sportivi. E avviene sulla scia di quella invenzione propagandistica, tanto bugiarda quanto geniale, ovvero che Israele sia un Paese di apartheid. Non perderò qui tempo a spiegare perché non lo è. Ma è quasi incredibile il numero, a migliaia, delle citazioni di notabili americani ed europei, nel mondo della cultura e della politica, che si sono preoccupati di questa possibilità. Prego di fare una visita, vera o virtuale in un mall o in un ospedale, o alla Knesset.
   Le manifestazioni contro Israele e le prese di posizioni continue sono tipiche anche dell'Europa. A Bruxelles, il 28 di giugno in una manifestazione in cui si contesta l'idea, per ora solo scritta sulla carta, che Israele applichi la sovranità al trenta per cento della zona C (peraltro già affidatagli dagli accordi di Oslo), una folla con le bandiere palestinesi chiede a gran voce di «massacrare gli ebrei». Sì, massacrare. Nelle piazze di Berlino gli hezbollah hanno manifestato ogni anno con grande seguito antisemita. È una bizzarria? Un epifenomeno in un'Europa tutta protesa a magnifiche sorti e progressive, dove la responsabile per l'antisemitismo, la buona Katharina von Schnurbein, si occupa solo di quello? No. Lo sfondo è quello di un incessante, ventennale lavorio di delegittimazione istituzionale che si rovescia sulle piazze perbene, adesso, quelle antioppressione, come una doccia rinfrescante: Israele viola il diritto internazionale, dice senza base l'Ue, vuole illegalmente annettersi la West Bank, dice l'Ue definendola «territori palestinesi» arbitrariamente. È chiaro che si fomenta con firme molteplici - lo fanno gli intellettuali europei, o i ministri degli esteri, compreso il nostro - la disapprovazione sociale antiebraica di questi oppressori bianchi che hanno il nome di ebrei, o, intercambiabilmente, per quante scappatoie cerchino gli ebrei liberal, di israeliani.
   È di due giorni fa la decisione dell'Ue di finanziare un costosissimo programma di costruzioni per strutture palestinesi nella zona C, quella israeliana. Qui non c'è stata nessuna petizione morale per dialoghi, scambi bilaterali, processo di pace.
   L'antisemitismo di oggi, come al tempo della colpevolizzazione comunista per cui Fausto Coen, direttore di Paese Sera, fu buttato fuori dal suo giornale per avere fatto un titolo di sincero sollievo per la vittoria nella Guerra dei Sei Giorni, fa degli ebrei non più vittime della storia, ma nuovi oppressori. Le loro radici storiche che li radicano nello Stato in cui finalmente vivono e la verità sulla Shoah, questi due pilastri sono stati rimossi dai movimenti che definiscono la storia del Ventesimo secolo, e gli ebrei sono di nuovo problematicamente influenti o distruttivamente potenti nella fantasia istituzionale e popolare: la stessa identità ebraica è diventata una pretesa di potere, l'Europa e i movimenti ne rifiutano la semplice verità che è una richiesta di eguaglianza nell'autodeterminazione. Come tutti i popoli.
   Personalmente, sono stata disinvitata, all'ultimo momento, da una casa di vecchi conoscenti a Roma per palese paura che la mia presenza potesse suscitare dibattito, scandalo, e chissà che altro. Loro sanno di chi sto parlando. Li ringrazio per avermi acceso una luce sulla società italiana, al di là delle chiacchiere.

(il Giornale, 18 luglio 2020)



Inside the Mossad

di Stefano Olivari

Inside the Mossad rientra a pieno titolo nella nuova tendenza, non solo di Netflix dove lo abbiamo appena visto, ma di un po' tutte le piattaforme, quella del documentario a puntate. Scelta che consente di dare respiro al racconto, di non lasciare curiosità insoddisfatte e anche, va detto, di ammortizzare i costi visto che quattro puntate sono il quadruplo di una.
   Comunque Inside the Mossad mantiene al 100% ciò che promette. Creato da Duki Dror (che è anche il regista), Yossi Melman e Chen Shelach, questa produzione israeliana racconta attraverso interviste ad ex capi ed agenti operativi del servizio segreto più famoso ed efficiente del mondo, successi ed insuccessi del Mossad, dividendo il racconto in quattro macrotemi, uno per ogni puntata.
   In In Poison, bomb or silencer si raccontano retroscena delle più clamorose operazioni sul campo del Mossad, a partire dalla cattura di Eichmann. In Friends for the moment gli ex ufficiali del Mossad spiegano come acquisire risorse, cioè informatori, con le buone o con le cattive: la puntata più interessante, perché raramente l'argomento viene trattato. The theater of life è centrato sulle coperture usate dagli agenti e sul cortocircuito fra le varie identità. No limit è invece su quella che si può definire politica estera, sui rapporti del Mossad con governi stranieri che arrivano dove il governo israeliano del momento non può arrivare.
   L'audio è in inglese o in ebraico, i sottotitoli in italiano sono fatti davvero male e quando possibile consigliamo quindi di non seguirli. Il tono generale delle interviste è leggermente accusatorio nei confronti del Mossad, le risposte sempre convinte come è logico per chi ha vissuto una vita sotto copertura. Un ottimo lavoro giornalistico, che può riuscire nel miracolo di piacere sia ai tanti nemici di Israele (noi casualmente detestiamo tutti quelli che detestano Israele) sia a chi ritiene questo stato davvero un miracolo da ammirare.
   Gli interventi più interessanti sono quelli Rami Ben Barak, ex dirigente del Mossad e adesso politico nelle fila di Yesh Atid (partito di centro, che nella Knesset attuale è all'opposizione), che svela un po' del marketing del servizio segreto israeliano più famoso (poi ci sono anche Aman, quello militare, e soprattutto lo Shin Bet per la sicurezza interna), basato in sostanza sul fatto di non smentire mai i propri nemici che vedono la mano del Mossad ovunque: fondamentale, dice Ben Barak, è che terroristi e paesi ostili pensino che il Mossad possa fare qualsiasi cosa, anche quando le risorse sono limitatissime (in questo senso favoloso il racconto del supporto alla resistenza nel Sud Sudan cristiano contro il Nord musulmano).
   Ben Barak e altri, compreso il leggendario (non solo per l'operazione Eichmann) Rafi Eitan, sostengono una tesi interessante e cioè che i migliori agenti segreti non arrivino dal mondo militare ma siano civili con particolari attitudini, capitati nel Mossad spesso per caso o per cooptazione. I militari possono sparare meglio ma hanno processi decisionali schematici, poco adatti alla creatività, vista la quantità di imprevisti, e alla doppia morale (etica e senso del dovere sovrumani unita a comportamenti quotidiani spregevoli) necessarie per sopravvivere nel Mossad ed in generale nei servizi segreti che davvero fanno la differenza.
   Il cuore del documentario, oltre al citare sia vittorie sia sconfitte del Mossad, è proprio questo: la convinzione nelle proprie idee non è in contrasto, anzi, con il metterle da parte temporaneamente quando serve per farle vincere. Il fine giustifica i mezzi, avrebbe detto nostra nonna.

(Inside Over, 18 luglio 2020)


La Palestina non esiste neanche su Google

S'indignano gli arabi che vogliono cancellare Israele

di Andrea Morigi

Hanno faticosamente ottenuto un seggio all'Onu per la loro Autorità Nazionale, peccato che i palestinesi non sanno nemmeno il loro indirizzo di casa. Ce l'hanno messa tutta per cancellare nei documenti dell'Unesco le radici ebraico-cristiane di Gerusalemme e della Terrasanta, E ora tocca a loro.
   Eyad Rifai, capo di Sada; che monitora le violazioni sui media contro la Palestina, sostiene che, dall'inizio del 2020, Google ha cominciato a togliere dalle sue mappe i nomi delle città e delle strade palestinesi, creando spesso problemi ai palestinesi che seguivano le indicazioni, rischiando di trovarsi a propria insaputa nel bel mezzo di un insediamento israeliano. L'ufficio stampa di Google, interpellato sull'argomento, non ha fornito risposte.
   Del resto, da qualche decennio sui libri di scuola dell'Autorità Nazionale Palestinese, sovvenzionati con le donazioni occidentali, le cartine geografiche non riportano il territorio di Israele. Secondo Rifai, i diritti digitali dei palestinesi sono stati ripetutamente violati su diverse piattaforme tra cui Facebook e Instagram.
   In un episodio precedente, nel 2016, Google aveva risposto dicendo che il nome Palestina non è mai esistito sulle sue mappe. Ancora oggi, Google Map non fornisce la navigazione nei Territori. «Ad esempio", ha spiegato Rifai, «Facebook ha sviluppato un algoritmo in base al quale vengono automaticamente cancellati i post contenenti alcune parole come Hamas, Jihad, e nomi di partiti politici palestinesi».
   Jalal Abukhater, un attivista palestinese, ha dichiarato che sulle piattaforme Google ed Apple non è in realtà mai apparso il termine Palestina, ma si è sempre parlato di Cisgiordania e Striscia di Gaza.
In effetti, la prima volta in cui appare il termine Palestina è all'epoca dell'imperatore Adriano, nel 135 d.C, quando il nome ufficiale Syria Palaestina sostituisce il precedente Iudaea. E comunque non si trattava di un territorio sovrano, ma di una provincia dell'Impero Romano, ridenominata allo scopo di eliminare la memoria di ogni riferimento ebraico a quella terra dopo aver sconfitto i regni ebraici di Giuda e Israele e aver schiacciato le rivolte ebraiche del I e del II secolo d. C.. Nella Bibbia si cita il toponimo ebraico Peleshet, che indica il luogo in cui abitavano i Filistei, popolazione peraltro scomparsa fin dai tempi degli Assiri.
   Esiste però la cosiddetta «mappa delle menzogne", esibita dal presidente dell'Anp Abu Mazen anche nel febbraio scorso all'Onu per insinuare che la nascita dello Stato di Israele abbia gradualmente ridotto la "Palestina storica" fino a farla scomparire. Se non è mai esistita, del resto, la si può soltanto inventare.

(Libero, 18 luglio 2020)


Sami Modiano compie 90 anni: Mattarella lo nomina Cavaliere di Gran Croce

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha nominato Sami Modiano, testimone diretto degli orrori di Auschwitz, Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine al merito della Repubblica. In occasione del suo 90° compleanno, che cade oggi, il presidente Mattarella ha fatto pervenire a Sami Modiano i suoi auguri più sentiti. Lo ha reso noto il Quirinale.

di Alessandro Andrelli

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha nominato Sami Modiano, testimone diretto degli orrori di Auschwitz, Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine al merito della Repubblica. In occasione del suo 90° compleanno, che cade oggi, il presidente Mattarella ha fatto pervenire a Sami Modiano i suoi auguri più sentiti. Lo ha reso noto il Quirinale.
Samuel Modiano (scrive sul proprio sito RaiNews) detto Sami, è nato a Rodi, il 18 luglio del 1930, quando l'isola era una colonia italiana. E' un deportato ebreo italiano, superstite dell'Olocausto, sopravvissuto al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Dopo l'armistizio i tedeschi invasero Rodi e il 23 luglio 1944 prelevarono tutti gli ebrei presenti sull'isola, senza che nessuno potesse sfuggire, caricandoli nella stiva di un vecchio mercantile in condizioni disumane. Il viaggio durò da Rodi fino al Pireo: lì vennero caricati sui treni, il 3 agosto 1944, stipati nel buio soffocante dei vagoni piombati, diretti verso il campo nazista di Birkenau. Sami Modiano sopravvisse e cercò faticosamente di riprendere in mano la sua vita. Da allora, in inverno in Italia, Modiano si dedica a far conoscere la sua esperienza ai ragazzi nelle scuole medie e superiori. L'estate invece la trascorre sempre a Rodi dove si occupa dell'antica sinagoga e della piccola comunità ebraica presente nell'isola. La sua storia arriva al grande pubblico in occasione della Giornata della Memoria del 2018, quando viene trasmesso su tutte le principali emittenti italiane il docu-film "Tutto davanti a questi occhi" di Walter Veltroni che racconta la storia di Modiano.
   Negli ultimi anni, Sami Modiano, ha partecipato ai "Viaggi della Memoria" organizzati e promossi dalla Regione Lazio, proprio lì, nei campi di sterminio in Polonia ad Auschwitz-Birkenau.
   Un riconoscimento, quello di Sami Modiano, che rende onore soprattutto alla sua voglia di far conoscere e non dimenticare la crudeltà dell'Olocausto.
   Auguri di buon compleanno… e grazie per tutto, Sami.

(TG24.info, 18 luglio 2020)


E in Germania gara di volontari per digitalizzare tutti i volti dei lager

Nei mesi di lockdown migliaia di persone di tutto il mondo si sono fatte coinvolgere nel progetto che porterà sul web il più grande archivio delle vittime del nazismo. Dal 15 giugno si può visitare la mostra sul primo trasporto ad Auschwitz.

di Riccardo Mlchelucci

Fino a poco tempo fa sembrava una sfida affascinante ma troppo velleitaria per poter essere realizzata in tempi brevi. Poi è arrivata la pandemia e nelle lunghe settimane di isolamento domestico migliaia di persone di tutto il mondo si sono fatte coinvolgere nel progetto che porterà alla completa digitalizzazione del più grande archivio mondiale sulle vittime del nazismo. Era iniziato tutto quasi per caso, all' inizìo dell'anno, quando a un gruppo di studenti delle scuole superiori tedesche era stato chiesto di contribuire all'inserimento sul web dei dati degli Arolsen Archives, il cosiddetto "archivio della Shoah", ovvero ciò che resta dell'ossessione nazista di documentare e catalogare ogni singolo aspetto dello sterminio. Situato nella piccola cittadina tedesca di Bad Arolsen, l'archivio custodisce un patrimonio di oltre quaranta milioni di documenti sulla persecuzione nazista, il lavoro forzato e i sopravvissuti alla Seconda guerra mondiale. Gli aguzzini annotavano tutto ciò che riguardava le loro vittime: non solo i dati anagrafici, lo stato di salute, i rapporti di cattura e i trasferimenti, ma anche i comportamenti durante gli interrogatori, le reazioni ai brutali esperimenti pseudoscientifici, le ferite riportate nel corso delle torture. Infine il giorno, l'ora e la presunta causa della morte. Aperto agli storici a partire dal 2007, l'archivio contiene i dati di quasi diciotto milioni di persone deportate, detenute e uccise nei campi di sterminio del Terzo Reich. Circa ventisei chilometri di scaffali, milioni di fascicoli, mappe, disegni, grafici, quaderni, effetti personali, fotografie, tra cui la celeberrima "lista di Schildler". Un monumentale archivio che negli anni ha reso possibile il ricongiungimento di famiglie, ha fornito informazioni sui defunti ed è stato essenziale per produrre i certificati utili per i risarcimenti. Oggi la struttura è indispensabile per la ricerca storica e per alimentare la memoria degli orrori del nazismo.
  Il processo di digitalizzazione, avviato in sordina alla fine degli anni '80, aveva consentito finora di rendere disponibili online alcuni milioni di documenti cartacei. Tuttavia è ancora assai difficile reperire informazioni su una singola persona perché la maggior parte dei documenti non è stata ancora indicizzata e circa la metà dei nomi contenuti nell'archivio non compare nella banca dati digitale. Proprio all'inizio di quest'anno, per accelerare la conversione digitale, era stata stretta una collaborazione con la piattaforma Zooniverse, che organizza iniziative di crowdsourcing per permettere ai volontari di contribuire alle ricerche scientifiche. La. svolta è arrivata nel marzo scorso, in piena pandemia, quando sono state pubblicate decine di migliaia di documenti provenienti dai campi di concentramento di Buchenwald, Dachau e Sachsenhausen e in poco tempo gli utenti di tutto il mondo si sono messi a leggerli e a ricopiarli.
  Al progetto "Every Name Counts" (www.zooniverse.org/projects/ cseidenstuecker I every-name---counts) dovevano partecipare soltanto gli studenti di alcune scuole superiori, ma nei giorni dell'isolamento domestico si è allargato a vista d'occhio, coinvolgendo un numero di volontari del tutto impensabile in tempi normali. È stato attivato un forum on-line sul quale gli utenti possono chiedere aiuto agli storici e agli archivisti, in caso di dubbi su parole e abbreviazioni. Essendo necessario trascrivere soprattutto nomi e date di nascita può partecipare anche chi non conosce il tedesco. Durante la pandemia oltre 4500 volontari hanno trascorso il loro tempo in casa inserendo su internet le informazioni contenute nei documenti. Agli Arolsen Archives sono stati così aggiunti in formato digitale oltre 200 mila nomi, date di nascita e numeri di matricola di persone imprigionate nei campi di concentramento nazisti di Buchenwald, Sachsenhausen, Dachau e Mauthausen. Il lavoro andrà avanti anche nei prossimi mesi, ma già a partire dal 14 giugno è possibile visitare la mostra on---line "StolenMemory'', dedicata all'ottantesimo anniversario del primo trasporto di prigionieri polacchi all'interno del campo di Auschwitz.

(Avvenire, 18 luglio 2020)


Coronavirus: Israele impone restrizioni nel fine settimana

A partire da oggi e fino a domenica mattina

Come previsto, dalle 17 di oggi (ora locale) Israele imporrà nuove restrizioni alle attività nel tentativo di ridurre la curva dei contagi della seconda ondata di coronavirus. Da quell'ora e fino a domenica mattina saranno dunque chiuse le palestre e i ristoranti potranno fare solo consegne a domicilio.
Inoltre gli assembramenti saranno limitati a 10 persone al chiuso e a 20 all'aperto, esclusi i posti di lavoro. Nello stesso lasso di tempo, negozi, centri commerciali, parrucchieri, saloni di bellezza, librerie, zoo, musei, piscine e attrazioni per i ristoranti saranno chiusi. Le restrizioni, almeno per questo fine settimana, non si applicano alle spiagge.

(ANSAmed, 17 luglio 2020)


E Israele spegne la tv evangelica

L'Authority chiude l'americana God Tv: «non ha esplicitato che fa proselitismo». Così entra in crisi una storica amicizia.

di Barbara Ciolli

Dal quartier generale di Orlando, in Florida, la rete evangelica God Tv, fondata 25 anni fa nel Regno Unito, sostiene di raggiungere un'audience di 300 milioni di cristiani attraverso varie sedi sparse nel mondo. Ai viaggi che la rete organizza in Terra Santa partecipano ogni anno migliaia di pellegrini, perlopiù americani e grandi supporter di Israele, e lo fanno soprattutto in occasione delle celebrazioni della nascita dello Stato ebraico: «Il sostegno all'ebraismo e al suo Stato è da sempre tra gli obiettivi fondamentali della rete» sostiene il direttore Ward Simpson.
   Ora però il rapporto con lo Stato di Israele è entrato in crisi. Alla fine di giugno Shelanu, il canale in lingua ebraica di God Tv, lanciato ad aprile, è stato sospeso dal Consiglio israeliano per la regolamentazione delle radio e delle tv. Per l'Authority governativa avrebbe infatti violato gli accordi: «Si rivolge agli ebrei con contenuti cristiani, mentre nella sua richiesta originale sosteneva di essere un canale che aveva come target la popolazione cristiana».
   L'accusa si fonda su un videomessaggio, poi cancellato, in cui lo stesso Simpson fa capire che «il suo principale obiettivo sia di convincere gli ebrei ad accettare Gesù come il loro messia». In Israele, infatti, scrive il quotidiano Haaretz, «è contro la legge fare proselitismo a minori di 18 anni senza il consenso dei genitori», e se questa è la natura di Shelanu, ha spiegato il consigliere dell'Authority Asher Biton, allora bisogna capire se il canale ha come target anche i minorenni. Il sospetto è che ci sia una fetta di mondo evangelico che punti a cercare nuovi fedeli in Israele.
   God Tv si dice rammaricata e può provare ad avere una nuova licenza, cambiando però le motivazioni. È più probabile però che Shelanu trasmetterà solo online.
   
(la Repubblica, 17 luglio 2020)


L'Autorità Palestinese chiude la Cisgiordania per "Covid"

 
Una chiusura completa in Cisgiordania è iniziata giovedì notte come parte delle misure per frenare la diffusione di COVID-19 a seguito di una seconda ondata di infezioni.
Il governo dell'Autorità Palestinese ha annunciato che la chiusura durerà fino alle 6:00 di domenica.
Ai cittadini è stato ordinato di rimanere nelle loro case e di non uscire se non per casi di emergenza.
Oltre agli ospedali, solo le panetterie e le farmacie sono autorizzate a rimanere aperte.
La polizia dell'Autorità Palestinese ha emesso una dichiarazione in cui esorta i cittadini a rispettare le istruzioni annunciate dal governo e dal ministero della Salute, avvertendo che saranno prese misure legali contro coloro che violano la legge.
Dall'inizio della crisi del coronavirus (COVID-19), 54 palestinesi sono morti per gravi infezioni. Solo uno di essi proviene dalla Striscia di Gaza, mentre il resto proviene dalla Cisgiordania.

(Infopal, 17 luglio 2020)


Germania: arrestati capi di un gruppo di estrema destra

Invocava l’uccisione degli ebrei

BERLINO - Su mandato della Procura generale federale (Gba), la polizia tedesca ha arrestato i presunti capi del Partito dei goyim di Germania, gruppo di estrema destra fondato nel 2016 che invoca l'uccisione degli ebrei. È quanto riferisce il quotidiano "Frankfurter Allgemeine Zeitung", aggiungendo che i due arresti sono stati effettuati a Berlino e a Heerlen, nei Paesi Bassi. L'operazione di polizia che ha portato alle catture ha previsto anche perquisizioni in Baviera, Meclemburgo-Pomerania anteriore, Renania settentrionale-Vestfalia, Renania-Palatinato e Saarland. L'obiettivo del Partito dei goyim di Germania era diffondere in modo massiccio e sistematico su internet idee di estrema destra e "una visione del mondo nazionalsocialista". Sul proprio sito web, il gruppo negava l'Olocausto, minimizzava i crimini del regime nazionalsocialista e invocava l'uccisione degli ebrei. In ebraico, il termine "goyim" indica generalmente i non israeliti.

(Agenzia Nova, 17 luglio 2020)


La crescente minaccia turca verso Israele e l'intera regione

Retorica e atti ostili di Ankara ricordano sempre più da vicino gli inizi della minaccia posta dal regime iraniano degli ayatollah.

Il crescente coro di dichiarazioni anti-israeliane proveniente dalla Turchia, in particolare quando si tratta della tossica miscela di retorica religiosa e nazionalista estremista tipica del partito al potere ad Ankara, sta diventando una minaccia sempre più grande per Israele e la stabilità regionale.
Dopo l'annuncio che la Turchia avrebbe trasformato in moschea il museo di Haghia Sophia ad Istanbul, il presidente Recep Tayyip Erdogan ha dichiarato che successivamente Ankara "libererà" la moschea di al-Aqsa a Gerusalemme. Negli mesi scorsi il Ministero degli affari religiosi della Turchia e altre voci del governo di Amman hanno ripetutamente propagato il messaggio secondo cui intendono "unire la umma (comunità) islamica" contro lo stato di Israele....

(israele.net, 17 luglio 2020)


L'antico cimitero ebraico di Conegliano

Ultima testimonianza della comunità che per cinque secoli visse libera in città.

di Fabio Zanchetta

 
 
 
A ovest del castello di Conegliano, a due passi dal centro storico, l'antico cimitero ebraico della città è custodito dalla cima boscosa del colle Cabalan, dove la prima lapide fu posata quasi cinquecento anni fa.
   Si tratta di una delle ultime testimonianze materiali della comunità ebraica coneglianese, e certamente la più importante: in città rimangono una targa commemorativa all'inizio di via Pietro Caronelli, dove un tempo sorgevano il ghetto e la sinagoga settecentesca, e il più recente spazio dedicato alle sepolture ebraiche, all'interno del cimitero cittadino di San Giuseppe e in uso dal 1886.
   Doveva esistere un cimitero ebraico ancora più antico, ma la sua ubicazione è oggi ignota anche se qualche ritrovamento lapideo ha fatto pensare alla zona di via dei Pascoli, a nord-est del castello. Certamente vi fu un sito di sepoltura precedente per la comunità, attiva in città dalla fine del XIV secolo e, sebbene di dimensioni contenute, tra le più importanti del nord-est Italia.
   Quello che oggi è noto come il cimitero "antico" fu in uso a partire dal 1545 circa fino agli anni Ottanta dell'Ottocento, quando si iniziò a seppellire nello spazio dedicato nel camposanto cittadino.
   A prima vista lo si direbbe un luogo dove il tempo è rimasto sospeso, preservando testimonianze antiche di una storia che la città oggi fatica a ricordare. In realtà il tempo scorre incessantemente anche qui, mutando un sito che solo grazie all'attenta e paziente cura dei volontari ha mantenuto la sua fruibilità e leggibilità e che oggi si presenta come uno dei luoghi più suggestivi della città.
   Quando il Centro Coneglianese di Storia e Archeologia (Ccsa) decise di iniziare il lavoro di recupero del sito ormai abbandonato, nella seconda metà degli anni Ottanta, le lapidi erano in gran parte interrate o cadute, poggiate su un terreno argilloso soggetto a smottamenti che le avevano separate dal preciso punto di sepoltura.
   Nella prima campagna di recupero, durata un decennio circa, furono recuperate molte lapidi, senza però procedere a scavi in profondità che avrebbero potuto scoprire i resti dei defunti. In questo cimitero la sepoltura è avvenuta infatti seguendo il rito antico, che prevede l'inumazione della salma, avvolta in un sudario, direttamente nella terra.
   La disposizione originaria delle lapidi doveva essere a semicerchio, rivolta verso est, guardando la sinagoga nel ghetto, ma alcune ancora oggi sono rivolte verso nord-est, ovvero verso Ceneda: per circa un secolo e mezzo in questo cimitero hanno trovato in fatti riposo anche le salme della comunità ebraica vittoriese, nata nel 1697 da un ramo della famiglia Conegliano.
   Questa famiglia, conosciuta anche come Conejan, sul colle Cabalan è intestataria della lapide più antica attualmente recuperata, quella di Joele Conegliano e Serena Da Udine realizzata nel 1553.
   Scritta in ebraico antico e decorata con lo stemma di famiglia rappresentante uno scoiattolo, è paradigmatica del modello di lapide che veniva realizzata per le famiglie facoltose del periodo, riconoscibili oggi a prima vista proprio grazie agli stemmi: altri esempi sono la famiglia Luzzatto, il gallo con la spiga, la luna e le stelle, e la famiglia Grassini, i leoni rampanti attorno alla torre.
   Sono in tutto 130 le lapidi riscoperte, e testimoniano una storia lunga oltre cinque secoli che vide la comunità ebraica trovare un'isola felice a Conegliano, come spiega Melissa Fornasier, laureata con una tesi sul cimitero ebraico coneglianese e tra le guide volontarie del Ccsa impegnate a valorizzare il sito.
  Si tratta di una presenza ininterrotta di oltre cinque secoli, di una comunità non numerosa ma molto operosa e abile nei traffici commerciali", spiega la guida, precisando: "Era una risorsa molto importante in un periodo in cui il denaro era poco e il comune chiudeva un occhio sulle restrizioni che invece subivano in altre città".
   Furono i tragici eventi della seconda guerra mondiale che determinarono la dispersione della comunità ebraica coneglianese, già assottigliata di numero: alla fine del conflitto la sinagoga fu smontata e portata a Gerusalemme, dove è stata ricostruita ed è ancora oggi in uso per le funzioni in lingua italiana.
   Non manca la letteratura riguardante questa preziosa fetta di storia coneglianese: oltre alla già citata tesi di laurea di Melissa Fornasier si segnala l'importante pubblicazione della professoressa Marisa Zanussi, "Conegliano e gli Ebrei", del 2012, e la traduzione delle lapidi realizzata da Lidia Busetti e in corso di pubblicazione.
   L'antico cimitero ebraico di Conegliano è visitabile attraverso le visite guidate organizzate periodicamente dal Ccsa e pubblicate sulla pagina social dell'associazione.

(Qdpnews.it, 17 luglio 2020)


L'Ue metta al bando Hezbollah. L'appello transatlantico

A otto anni dall'attentato antisemita in Bulgaria, 236 parlamentari Usa, europei e israeliani chiedono all'Ue di non distinguere più tra ramo politico e ala militare di Hezbollah (classificazione che il gruppo stesso respinge) e di bandire l'intera organizzazione

di Gabriele Carrer

Duecentotrentasei deputati di entrambe le sponde dell'Atlantico hanno firmato una "dichiarazione transatlantica" pubblicata dal sito dell'Ajc Transatlantic Institute, cioè l'ufficio europeo dell'American Jewish Committee, per chiedere "all'Unione europea di designare Hezbollah come organizzazione terroristica nella sua interezza".

 L'attentato del 2012
  Il 19 luglio di otto anni fa, l'attentato suicida in Bulgaria contro un autobus che stava portando turisti giunti da Israele dall'aeroporto ai loro hotel. Persero la vita sei persone: l'autista bulgaro e cinque cittadini israeliani, tra cui una donna incinta. Quell'attacco terroristico fu opera di Hezbollah, l'organizzazione libanese finanziata dall'Iran. A seguito di quell'episodio, come ricorda la dichiarazione pubblicata oggi, "l'Unione europea ha vietato unicamente la cosiddetta ala militare di Hezbollah, interrompendo le relazioni con il gruppo terroristico solo attraverso il meccanismo delle sanzioni". "Sollecitiamo pertanto l'Ue a porre fine a questa falsa distinzione tra braccio 'militare' e 'politico' — una distinzione che Hezbollah stesso respinge — e quindi chiediamo di mettere al bando l'intera organizzazione", si legge nell'appello.

 I firmatari
  I firmatari sono europarlamentari, deputati degli Stati Uniti, dei Paesi dell'Unione europea e di Israele. Figurano: i senatori statunitensi Ted Cruz e Marco Rubio, l'ex ministro israeliano Yair Lapid e il presidente della commissione Affari esteri del Parlamento europeo David McAllister. Ecco gli italiani: i senatori di Forza Italia Massimo Berutti, Andrea Causin, Massimo Ferro, Lucio Malan, Giuseppe Moles, Adriano Paroli, Maria Rizzotti; i deputati di Forza Italia Giorgio Mulé, Andrea Orsini, Urania Papatheu e Maria Tripodi; gli eurodeputati Carlo Calenda e Pina Picierno (S&D), Salvatore De Meo, Fulvio Martusciello e l'ex presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani (Ppe).

 Le attività di Hezbollah
  "Hezbollah, l'alleato più micidiale del regime iraniano, gestisce una rete terroristica globale che minaccia non solo i Paesi della sua stessa area geografia, ma anche le democrazia occidentali", si legge ancora nel documento in cui si evidenziano le attività del gruppo al fianco del "regime assassino" di Bashar Al Assad in Siria, oltre all'addestramento e al rifornimento di armi alle milizie sciite in Yemen e Iraq. E ancora: "Utilizza la propria popolazione civile come scudi umani per nascondere circa 150.000 missili puntati contro civili israeliani". E proprio lo Stato ebraico è al centro delle celebrazioni annuali del Quds Day di Hezbollah, ricorda la dichiarazione, durante le quali "le richieste di annientamento" di Israele "fanno eco ai capitoli più oscuri della storia europea".

 Gli esempi da seguire
  "Come mostrano gli esempi degli Stati Uniti, dei Paesi Bassi, del Canada, del Regno Unito, del Consiglio di cooperazione del Golfo della Lega araba, mettere al bando Hezbollah non preclude il continuo impegno politico con Beirut", scrivono i parlamentari, convinti che la proscrizione non destabilizzare il Paese bensì sia l'unica possibilità per la sua reale stabilità economica e politica. "L'Unione europea, che rappresenta la democrazia, i diritti umani e l'ordine internazionale basato sul rispetto dello stato di diritto, dovrebbe esercitare la propria autorità per mettere in guardia da Hezbollah. La nostra sicurezza collettiva e l'integrità dei nostri valori democratici sono in gioco: è questo il momento di agire", concludono i deputati.

(Formiche.net, 17 luglio 2020)


Israele, la seconda ondata: la riapertura delle scuole ha rilanciato l'epidemia

Dopo il nuovo inizio delle lezioni oltre 2000 contagiati negli istituti. L'infettivologo: «misure ignorate».

ROMA - La riapertura delle scuole in Israele, il 17 maggio, avrebbe causato un'impennata di contagi da coronavirus. Solo due mesi fa, nello stato ebraico, non c'era quasi più traccia del Covid-I9, appena 10 casi. Il 3 giugno, due settimane dopo l'apertura delle scuole, sono stati trovati oltre 244 studenti e insegnanti positivi per Covid-19.
   Secondo il ministero dell'istruzione, 2.026 studenti, insegnanti e personale hanno contratto il virus e 28.147 sono in quarantena a causa di un possibile contagio. Proprio nelle prime due settimane di luglio, 393 scuole materne e altri istituti aperti per l'estate sono stati chiusi a causa della diffusione della Sars-CoV-2 tra gli alunni e i docenti.
   Il 2 luglio, Eric Feigl-Ding, un epidemiologo ed economista della salute, ha pubblicato un grafico che mostrava il tasso, in aumento, di infezione in Israele in coincidenza con la, riapertura delle scuole.
   Martedì nel Paese ci sono stati 1.681 nuovi casi di coronavirus, il peggior risultato dall'inizio dell'epidemia.
   La fonte dell'esplosione dell'infezione è chiaramente visibile nei numeri di giugno. Come ha detto Udi Kliner, alto funzionario del ministero della Salute, alla Knesset: a 1.400 israeliani è stata diagnosticata la malattia il mese scorso. Di questi, 185 l'hanno contratta in occasione di eventi come matrimoni, 128 in ospedali, 113 in luoghi di lavoro, 108 in ristoranti, bar o discoteche e 116 in sinagoghe, sempre secondo Kliner, mentre in 657, vale a dire il 47 % del totale, sono stati infettati dal coronavirus nelle scuole.
   «Non è stata preparata una sola scuola», afferma Mohammad Khatib, che insegna sanità pubblica allo Zefat Academic College ed è l'esperto epidemiologico del comitato consultivo al Ministero della salute sul coronavirus nel settore arabo.
«Gli adulti, inclusi insegnanti e altri dipendenti, lo hanno portato nelle scuole, che alla fine sono spazi chiusi», ha affermato, sottolineando la scoperta che gli adolescenti delle scuole medie si sono rivelati i vettori più pericolosi.

(Il Messaggero, 16 luglio 2020)


Sondaggio sul Covid-19 in Israele. Gli israeliani delusi da Netanyahu

di Paolo Castellano

Benjamin Netanyahu, attuale premier d'Israele, sta perdendo consenso a causa dell'ondata di ritorno del Covid-19 nello Stato ebraico che ha costretto gli israeliani a sperimentare di nuovo il lock-down e a vivere nell'incertezza economica. A registrare il sentimento del popolo israeliano un sondaggio pubblicato il 14 luglio e realizzato al telefono e su Internet dal Guttman Center for Public Opinion and Policy Research presso l'Israel Democracy Institute.
   Come riporta The Times of Israel, dal campione rappresentativo delle diverse realtà sociali della cittadinanza israeliana emerge chiaramente un sentimento comune: la fiducia degli israeliani nei confronti di Netanyahu e dell'attuale ministro della Sanità Yuli Edelstein è "drasticamente diminuita".
   Il 29,5% degli intervistati ha detto di avere fiducia nell'operato di Netanyahu per sconfiggere il Coronavirus. Percentuale in calo, rispetto al 47% di un mese fa e al 57,5% di inizio aprile. Si è abbassato anche il gradimento sui ministeri dell'Economia e della Sanità. Il 27% appoggia il ministro Edelstein e di conseguenza crolla l'ottimismo sugli esperti di medicina, dal 64% al 40%. Anche per il settore economico le cose non vanno bene perché soltanto il 23% degli israeliani intervistati si fida degli economisti al governo.
   Insomma, il sondaggio indica che il 75% del campione ha espresso commenti negativi sulla gestione dell'emergenza sanitaria legata alla diffusione del Covid-19 in Israele. I ricercatori hanno poi elencato sei parole agli intervistati per descrivere la loro opinione sull'operato del governo durante la crisi. Il 45% ha scelto il termine "delusione", il 22,5% "arrabbiato", e il 7% "alienazione". Tuttavia, ci sono state persone che hanno dimostrato positività. Il 15% ha selezionato termini incoraggianti come "soddisfazione" (7%) e "orgoglio" (1%).
   Il sondaggio dell'IDI è stato condotto sulla Rete e per telefono tra il 9 e 12 luglio. I ricercatori hanno selezionato un campione da intervistare composto da 621 israeliani, uomini e donne che parlano l'ebraico, e da 156 cittadini di origine araba. Il centro di ricerca universitario ha dichiarato che il margine di errore è del 3,7%.
   Ricordiamo che proprio qualche giorno fa si è tenuta a Tel Aviv una manifestazione contro il modo in cui il governo Netanyahu ha gestito l'emergenza sanitaria.

(Bet Magazine Mosaico, 16 luglio 2020)


Netanyahu vara bonus per tutti

Il Premier israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato il versamento di un bonus per tutti i cittadini, indipendentemente dalla fascia di reddito o dal patrimonio mentre il numero di contagi di covid continua ad aumentare e si prevede la possibile reintroduzione di un lockdown. Nelle ultime 24 ore ci sono stati 1758 nuovi casi, il numero più alto dall'inizio dell'epidemia. Il contributo unico per tutti anticipato dal Premier è una misura, che è già stata criticata come populista, per attenuare gli effetti della crisi innescata dall'epidemia. Alle famiglie con un figlio sarà corrisposto l'equivalente di 510 euro, a quelle con due figli, 640 euro, e a quelle con tre o più figli 770 euro. Ai single saranno versati 190 euro, ha anticipato il Premier, parlando degli aiuti che il governo, e probabilmente anche la Knesset, devono ancora approvare. Il governo ha già provveduto a versare un contributo fino a 1.900 euro agli imprenditori nel quadro di un pacchetto di aiuti da 20 miliardi di euro varato la scorsa settimana.
   Nell'ultima giornata sono stati condotti 24.892 test diagnostici. Sono inoltre aumentati di 204 persone il numero di pazienti che versano in gravi condizioni, mentre è salito a 377 il bilancio dei morti per complicanze legate all'infezione. Il numero maggiore di casi è stato registrato a Gerusalemme, dove si contano 3.410 positivi, seguita da Tel Aviv con 1.812 come riferisce il sito di Ynet.
   
(Shalom, 16 luglio 2020)


Una guerra da non dichiarare. L'attacco all'Iran e le traversie di Netanyahu

Si susseguono incidenti in Iran: esplosioni misteriose in una base missilistica, presso la centrale nucleare di Natanz, vicino a Teheran (New York Times). E oggi un incendio nello strategico porto di Bushehr, che avrebbe interessato da tre a sette navi. Notizie che rimbalzano sui media, enfatizzate in Israele e in Occidente e minimizzate in Iran.

 Una guerra da non dichiarare
  I media parlano di una guerra segreta contro l'Iran, fatta di azioni clandestine, attacchi informatici e bombe, che Israele, pur plaudendo a quanto avviene, eviterebbe di rivendicare. Una strategia usuale: la rivendicazione equivarrebbe a una dichiarazione di guerra, costringendo l'Iran a rispondere.
E spiega anche il minimalismo dell'Iran, che da una parte non vuole evidenziare le falle della sicurezza né concedere la palma della vittoria all'antagonista, ma soprattutto non vuole dichiarare guerra aperta a Israele.
Così, accanto alle dichiarazioni tranquillizzanti riguardo la scarsità dei danni subiti dagli attentati, ché tali sono, apre inchieste ufficiali, che allungano e dilavano i tempi della risposta, anche se prima o poi sarà costretta a tracciare una linea rossa, dato che non può continuare a subire attentati quasi quotidiani.

 Linee rosse
  C'è da dire che finora gli attentatori hanno evitato di colpire strutture civili (incendio di oggi a parte), imponendosi anch'essi una linea rossa da non superare (anche se di civili ne sono morti).
Uno sviluppo nuovo, dato che finora si era evitato di colpire nel cuore dell'Iran, limitandosi a bombardare i suoi delegati in Siria, e che apre ulteriormente la finestra bellica mediorientale, con rischi di incidenti di percorso alti.
Ad oggi l'unica vera risposta dell'Iran è stato l'annuncio della creazione di basi missilistiche segrete a ridosso delle coste del Golfo Persico. Una strategia alquanto efficace presa in prestito dalla Corea del Nord.
Pyongyang ha infatti piazzato missili e cannoni alla frontiera con la Corea del Sud: se attaccata, da queste postazioni partirà una reazione subitanea e autonoma quanto devastante.
Similmente sta facendo l'Iran, che sa bene che un attacco combinato Usa-Israele lo incenerirebbe in breve tempo, da cui una deterrenza difficile da parare.
Ma è ovvio che Teheran stia cercando anche di rafforzare la sicurezza interna per limitare la libertà di movimento degli attentatori, e altro e più segreto.

 Le rivelazioni dell'Iran e l'embargo sulle armi
  Di interesse il fatto che tre giorni fa il vice-ministro degli esteri iraniano Mohsen Baharvand abbia rivelato che, dopo l'uccisione del generale Soleimani, gli Usa abbiano chiesto a Teheran di non vendicarsi (Fars).
Si sapeva, ne avevamo scritto, ma la conferma ufficiale di questi giorni suona strana perché inutile. Più che parlare del passato, sembra riferirsi al presente, come se si volesse far intendere l'esistenza di una qualche trattativa segreta attuale tra Teheran e i suoi nemici…
La guerra segreta si svolge mentre è in scadenza l'embargo sulle armi contro l'Iran, che termina a ottobre. L'America sta tentando di prolungarlo, ma è difficile data l'opposizione di Cina e Russia. E forse il forcing attuale contro l'Iran serve a provocarne una reazione sconsiderata, che rafforzi la proposta di Washington. Ma è solo una ipotesi.
In un'altra nota abbiamo accennato come questa nuova finestra di guerra sia iniziata quando Netanyahu ha "sospeso" l'annessione della Palestina, rivolgendo nuovamente all'Iran le sue attenzioni.
L'annessione resta ancora sospesa e lo speaker del Parlamento israeliano Yariv Levin ne ha anche spiegato il motivo: a Washington c'è "malumore" per l'iniziativa, da cui il rischio di fare un passo del tutto unilaterale.

 Jared e Netanyahu
  Recentemente si è avuta notizia di un forte dissidio tra Trump e suo genero Jared Kushner (Axios), su una questione secondaria. Ad accendere le polveri contro Jared era stato una delle persone più vicine a Trump, l'anchorman della Fox News Tucker Carlson, che da giugno ha iniziato a criticarlo apertamente (Politico).
Le critiche e il dissidio riguardano altro, ma non è un segreto che Jared da sempre, da quando il padre lo mandava a dormire in cantina per offrire la sua stanza a Netanyahu in visita negli Usa, è allineato e coperto sul premier israeliano. Così la sua lontananza da Trump corre in parallelo con quella del premier israeliano, e forse le cose son più correlate di quanto appaia.
Tanto è vero che Netanyahu, a differenza del 2016, non sta supportando Trump per le presidenziali. Aspetta di trattare col vincitore, e forse vede nel debole Biden, nonostante questi abbia espresso opinioni in contrasto con la sua linea, un interlocutore più malleabile di Trump, del quale peraltro teme un accordo con l'Iran al secondo mandato.
Netanyahu, ora che ha ripreso in mano il Paese, si sente forte e in grado di trattare alla pari con chiunque. Anche se deve registrare un imprevisto calo di consensi (Timesofisrael) che fino a qualche giorno fa era alle stelle, avendo potuto rivendicare la sconfitta del coronavirus.
La seconda ondata che sta flagellando Israele e la correlata crisi economica rappresentano un mix duro anche per lui. E se prima aveva accarezzato l'idea di andare a nuove elezioni per scaricare il suo alleato Gantz e avocare a sé tutto il potere, ora è tutto diverso. E più complicato.

(l'AntiDiplomatico, 16 luglio 2020)


Il fascino della Commedia sugli ebrei del Rinascimento

Fra il '300 e la prima metà del '500 prese vita in Italia un intenso dialogo culturale fra intellettuali cristiani e giudei, favorito dalla loro predilezione per la lingua di Dante.

di Massimo Giuliani

Dante Alighieri
Gli ebrei italiani del XIV e XV secolo erano affascinati dalla poesia di Dante. E come s'usava allora, il sommo poeta venne da subito traslitterato in caratteri ebraici. Quella cattedrale in versi che è la Divina Commedia è entrata così nel bagaglio culturale dell'ebraismo italiano sin dall'epoca di Immanuel da Roma (Mano elio Romano), all'inizio del Trecento, che lo imitò scrivendo a sua volta poesie ebraiche su inferno e paradiso, giungendo fino a Primo Levi, e a Stefano Levi Della Torre che ne ha ripreso pittoricamente buona parte dei canti. Per tutta l'età del Rinascimento mondo ebraico e mondo cristiano si sono studiati a vicenda: gli ebrei attratti dalla bellezza della lingua italica, o meglio dal dialetto toscano, pur attenti nel preservare il proprio sistema religioso; i cristiani ammaliati dai segreti della qabbalà intesa come prisca philosophia avvolta in caratteri biblici che essi ritenevano sapienza antichissima.
I più grandi umanisti da Pico della Mirandola a Egidio da Viterbo' che fu anche cardinale, ebbero sodalizi intellettuali con molti studiosi ebrei (alcuni dei quali convertiti) affinché traducessero loro i manoscritti ebraici. Quando poi la cacciata dalla penisola iberica disperse gli esuli ebrei nelle città mediterranee' a Ferrara e Venezia soprattutto, con loro arrivò anche molto nuovo materiale qabbalistico e l'Italia divenne nel XVI secolo una mecca della sapienza ebraica. Tuttavia per essere compresa essa andava tradotta nella lingua di Dante. E' uno dei volti del nostro Rinascimento, ancora poco esplorato ma senza il quale non si coglie appieno lo sviluppo dell'età moderna.
  A illustrare con grande erudizione quel fantastico e quasi leggendario mondo di scambi culturali vi è oggi il libro dello storico del pensiero ebraico moderno Giuseppe Veltri dal titolo Il Rinascimento nel pensiero ebraico, terzo volume della collana da lui fondata e diretta "Biblioteca di cultura ebraica italiana" presso Paideia (pagine 234, euro 30,40). Non che quel mondo fosse tutto o solo luce, s'intende. Nel corso delXVI secolo, forse in reazione ai "troppo" facili rapporti tra ebrei e cristiani' la censura ecclesiastica si mosse per evitarli e cominciò col rogo del Talmud (tristissimo quello in Campo de' fiori a Roma nel 1553, con effetti devastanti per la comunità ebraica), seguito dall'istituzione dei ghetti nel 1555 e dall'espulsione degli ebrei dagli stati pontifici nel 1577, rinnovata nel 1593.A partire da quegli eventi il mondo ebraico assunse un atteggiamento di autodifesa, che si riscontrò nella natura apologetica di molta produzione letteraria e in un maggior disincanto verso gli ideali umanistici rinascimentali, universali a parole ma nei fatti vessatori verso la minoranza religiosa ebraica. Nel suo libro Veltri illumina quest'evoluzione: da una specie di infatuazione reciproca, seppur per motivi diversi (gli umanisti cristiani cercavano nei testi ebraici solo conferme più antiche alle loro dottrine religiose), alla svolta apologetica interna all' ebraismo, sino all' approdo già moderno tra XVI e xVII secolo a uno scetticismo diffuso, ispirato al crescente conflitto tra teologia e scienze naturali e al prevalere del dubbio metodologico, due contrassegni della nuova koinè intellettuale delle élite europee. Niente esemplifica meglio quest'evoluzione dentro l'ebraismo dell'opera del rabbino mantovano Azariah de' Rossi, che dopo il terremoto di Ferrara nel 1570 mette mano a un'opera, nota col titolo Lume degli occhi, in cui riconsidera gli studi classici della propria tradizione sia alla luce di lilla innovativa concezione del tempo siain base ai progressi del metodo sperimentale di conoscenza del mondo. Usando filologia, approccio storico e metodo comparativo' de' Rossi mette in discussionela verità di molto materiale non normativo (le cosiddette aggadot) contenuto nella letteratura talmudica e midrashica: esso aveva, disse lo studioso, valore pedagogico ma non storico.
  Emblematica l'interpretazione della narrativa sulla morte dell'imperatore romano Tito dopo la distruzione di Gerusalemme. Il Talmud racconta che Tito morì perché una zanzara gli era entrata nel naso raggiungendo il cervello che da essa venne divorato. Azaria de' Rossi avanza i dubbi, sulla base della fisiologia medica, che questa possa essere la causa vera, ossia storica, della morte dell'imperatore; ancor più se ci si confronta con le altre fonti extraebraiche, che narrano di una morte per febbre (e se fu malaria, allora la zanzara c'entra pure qualcosa). Così interpretando, però, il rabbino metteva in discussione la validità conoscitiva della stessa tradizione, minandone implicitamente anche il valore religioso.
  Non sorprende che, venuto a conoscenza di questo approccio anti-tradizionale, il rabbino capo diPraga, il Maharal (Yehudà ben Bezalel Loew), si scagliasse contro il collega italiano accusandolo di blasfemia. E' la versione ebraica del conflitto tra antichi e moderni. Infatti, dietro questo veemente scontro personale emerge il conflitto tra due visioni opposte del mondo che il Rinascimento porta in superficie: la verità ci sta alle spalle, è nel passato, e più ci allontaniamo da esso più la nostra conoscenza viene indebolita (è la tesi del Maharal di Praga) oppure la verità ci sta davanti, è nel futuro, e man mano che progrediamo nel tempo conosciamo di più e meglio (è la tesi di Azariah de' Rossi).
  La morte di Tito è solo un esempio di come le idee moderne fossero entrate nel vivo della trasmissione del sapere ebraico. Tali idee continuarono a inquietare la tradizione: prima con l'abbandono di una certa scolastica ebraica operato dal rabbino esegeta Ovadia Sforno e dal medico talmudista ferrarese Isacco Lampronti, e poi con il diffondersi dello scetticismo attraverso personalità come Yehuda Moscato, rabbino a Mantova, e Simore Luzzatto, rabbino a Venezia, che proprio Veltri ci ha fatto conoscere pubblicandone nel 2013 con Bompiani gli scritti politico-filosofici, rimasti fino ad allora sepolti nelle biblioteche. Alla causa scettica, va pur detto, fu propizia la traduzione in latino di alcuni testi pirroniani, nel 1562. In ambito ebraico la parabola moderna si compie, raggiungendo il suo apice, con l'haskalà ossia l'illuminismo berlinese di Moses Mendelsohn e, nel corso del XIX secolo, con là Wissenschaft des Juderuums di Leopold Zunz, ma siamo già fuori dalle pagine della ricognizione veltriana sul Rinascimento e gli ebrei.
  Il volume si chiude con un cammeo sulla rara figura di un'intellettuale donna, l'ebrea Sara Copio Sullam, che sebbene moglie e madre di numerosa prole svolse nel ghetto di Venezia un ruolo di animatrice di un circolo letterario e filosofico, al quale presero parte rabbini (come Leone Modena) ed ecclesiastici rinomati (tra cui Baldassm Te Bonifaccio, arcidiacono di Treviso), e che resistette a ogni tentativo di conversione da parte di alcuni di quei sodali. Eredità dello spirito rinascimentale, la breve vita di questa donna attesta una libertà di pensiero e di dialogo che tra ebrei e cristiani non venne mai meno, neppure là dove e quando le censure ecclesiastiche, spesso tramite l'inquisizione romana, o i divieti rabbinici avrebbero voluto bloccarla.
  Galeotta fu, probabilmente, la lingua di Dante o meglio quei dialetti italiani i quali, lasciati il latino nelle chiese e l'ebraico nelle sinagoghe, fungevano ormai da lingua franca di una nazione a vocazione sempre più multiculturale.

(Avvenire, 16 luglio 2020)


Gaffe della Aiello: «Ebrei fortunati ad essere uccisi ad Auschwitz»

«Gaffe della deputata grillina Piera Aiello, eletta nel collegio di Marsala e Trapani, che ha paragonato la condizione dei testimoni di giustizia a quella dei deportati nei campi di concentramento. «Gli ebrei ad Auschwitz hanno avuto la fortuna di essere stati uccisi», ha commentato in un convegno ad Ottaviano. La fortuna? Come la fortuna? Milioni di ebrei sono stati torturati, violentati, uccisi nelle camere a gas, bruciati nei forni crematori. Fortuna? Mah ...
Aiello è la vedova del figlio di un boss mafioso di Partanna, Trapani, sottoposta al programma di protezione per i testimoni di giustizia e suo malgrado diventata un'eroina dell'antimafia. Nel 2018 è stata eletta alla Camera, nel collegio della provincia di Trapani, dopo aver condotto una campagna elettorale senza mai farsi vedere, per ragioni di sicurezza, al punto da essere stata definita dai giornali e dagli elettori «la candidata senza volto».
Per l'associazione a tutela dei testimoni di giustizia le parole pronunciate da Piera Aiello sono inaccettabili: «Come si possono fare questi paragoni? Con quale coscienza si afferma ciò?». E ancora: «Dopo le uccisioni di suo suocero e di suo marito (uomini di mafia mai ravvedutì) ha deciso di denunciare, non prima, e lo Stato si è preso cura di lei».

(il Giornale, 16 luglio 2020)


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