Inizio - Attualità
Presentazione
Approfondimenti
Notizie archiviate
Notiziari 2001-2011
Selezione in PDF
Articoli vari
Testimonianze
Riflessioni
Testi audio
Libri
Questionario
Scrivici
Notizie 16-31 luglio 2021


Il “Cielo Nero” sugli ebrei libici - Intervista all’autore Herbert Avraham Arbib

di Michele Zarfati

Tra le diaspore più buie del popolo ebraico, la “diaspora libica” rappresenta senza dubbio una delle pagine più tristi della storia del ‘900. La comunità ebraica libica è stata per secoli tra le comunità ebraiche più antiche e fiorenti del Mediterraneo. Ebrei cosmopoliti forti delle loro affascinanti tradizioni, che vissero a stretto contatto, e in maniera pacifica, con le popolazioni arabe locali fino allo scoppio del secondo conflitto mondiale. Sebbene l’equilibrio cominciò ad incrinarsi a partire della Seconda Guerra mondiale, fu dal 1945 che la situazione per gli ebrei libici cominciò a cambiare radicalmente. Un’ondata di violenza si riversò sulla popolazione ebraica, a causa del nazionalismo dilagante che affondava le sue radici nei confronti dell’odio verso la nascita del nuovo stato d’Israele. Più di 32.000 ebrei emigrarono tra il 1949 e il 1951, in Israele, per rincorrere il loro ideale sionista. Successivamente la guerra dei sei giorni del 1967 rappresentò l'ultima campana per il resto della comunità ebraica, la quale fu dirottata urgentemente verso le coste italiane. Quando il colonnello Gheddafi prese il potere nel 1969, erano rimasti meno di 600 ebrei in Libia. Il nuovo regime si impegnò velocemente ad espellerli, cancellando tutte le tracce della presenza ebraica, distruggendone i cimiteri e convertendo le sinagoghe in moschee. Molti ebrei arrivarono in Italia, in particolare a Roma, alcuni momentaneamente, altri rimasero in pianta stabile cercando di ricostruire quella forte identità comunitaria ormai frammentaria. Oggi gli ebrei libici continuano ad avere un fortissimo legame con le loro tradizioni e rappresentano una parte fondamentale dell’ebraismo. Shalom ha intervistato Herbert Avraham Arbib, autore del romanzo autobiografico “Cielo Nero” (Salomone Belforte Editore, 2021). Il suo primo libro; un testo che attraverso la storia famigliare e personale dello scrittore, riesce con maestria a ripercorrere le vicende di un’intera comunità. Un grande senso di resilienza e di rinascita accompagna la narrazione.

- Perché ha deciso di scrivere questo libro? Lei viene dall’ambiente scientifico e accademico, cosa l’ha spinta a dedicarsi alla scrittura?
  Il libro non è la mia autobiografia, perché non interesserebbe a nessuno, è un romanzo autobiografico che cerca di ripercorrere gli ultimi decenni della diaspora ebraica in Libia. Molta gente non conosce questa storia, ed è importante raccontarla. Non sono una persona che guarda al passato in maniera nostalgica, con rimpianto, non mi sento vittima di questo. Per tutta la mia vita ho cercato di guardare al futuro, e di insegnarlo ai miei figli. Spesso si rovina il futuro per i troppi rimpianti del passato. Ma dopo essere andato in pensione e dopo la morte di mia madre, durante un viaggio a Roma, momento che coincide con l’inizio del libro, con mia nipote ho avuto modo di pensare. Ho compreso che noi libici abbiamo una storia non molto conosciuta, ci sono molti libri su questo tema ma i libri di storia ahimè vengono letti poco, così ho pensato che la nostra storia andasse raccontata. La letteratura è sempre stata la mia passione, ho scelto un'altra carriera perché sono sempre stato molto pratico e pensavo che la letteratura mi avrebbe portato solo ad insegnare, ora mi sono messo a scrivere. Il libro è uscito piano piano, partendo da Roma e raccontando il trauma del’ 67. Ognuno ha una storia, la mia ho pensato di raccontarla con un romanzo, chiaramente tutti gli eventi storici sono veri.

- Quanto è importante utilizzare la propria storia per raccontare la grande storia?
   Secondo me è indispensabile. Quando la storia la ascolti dagli altri è abbastanza simile, ma utilizzare la propria storia è importante per non dimenticare. Ci sono molte minoranze nel mondo, il mio libro non è rivolto solo ai tripolini o agli ebrei, anzi è destinato ad un pubblico diversificato. Del resto in Libia c’erano moltissimi italiani, questa è una storia che accomuna molti. Sentirsi vittime del passato non è una soluzione, ma neanche dimenticare lo è.

- Non è mai facile ricordare pagine dolorose della propria vita. Ha trovato difficile far affiorare i ricordi del passato per la stesura del romanzo?
   Molti degli eventi raccontano di ricordi e momenti tristi. Ma quel periodo per me era bello, dei primi amori, legato a ricordi quasi comici. La vita era piacevole, la società libica era estremamente cosmopolita. Vivere lì era stimolante, vivere con ebrei, arabi, italiani, non ebrei, americani, inglesi, insomma un mondo molto vasto. Al liceo, ricordo avevamo in classe anche dei greci e dei maltesi quindi un’atmosfera molto variegata. Ricordo che arrivarono i film più o meno nello stesso periodo dell’Italia. Non era vivere in un ghetto, per quanto non fosse facile, specialmente negli ultimi anni, in cui le donne giovani venivano molestate e dovevano sempre essere accompagnate. Era una società interessante, c’erano feste tra compagni di liceo. Si trattava di una società tollerante dal punto di vista religioso, non tutti erano ortodossi spesso prevalentemente tradizionalisti.

- Alla luce del suo passato, come vede le nuove forme di antisemitismo a cui stiamo assistendo ultimamente?
  L’antisemitismo è una specie di malattia, ma non è monolitico; è un odio che si coniuga in varie forme, molto spesso confondendolo con l’antisionismo. Ci sono tante forme di antisemitismo, quello arabo per esempio, il loro è particolare perché la loro posizione interessa tutti coloro che non sono mussulmani. C’è anche l’antisemitismo cristiano, che è molto vario. Ad esempio, in America, ci sono tantissime correnti di oppositori come i cristiani fondamentalisti, che si nutrono spesso dalla mancanza di cultura. Oggi l’antisemitismo è un problema con molte facce, che bisogna combattere. Credo tuttavia che gli ebrei non possano farlo da soli, è un problema culturale. Viviamo in un mondo complicato, sotto ogni punto di vista, dalla guerra alla crisi climatica; la situazione che stiamo attraversando ultimamente non mi permette di essere ottimista.

- Colpisce una frase del libro: “…come un rifugio che consentiva di condurre la loro vita secondo la tradizione, come un piccolo mondo che forniva loro un certo grado di sicurezza: una patria in miniatura”. Lei che oggi vive in Israele, considera ancora la Libia la sua patria?
  No, come dicevo non vivo più nella nostalgia del passato. Per quanto il deserto con le dune mi piaceva molto, e il mare che c’era in Libia non l’ho visto in nessun’altra parte del mondo, somigliava quasi ad una piscina, non ho nostalgia. Non sono certo che avrei voglia oggi di visitarla, io mi sono staccato del tutto a differenza di altri. Ne conservo però un ricordo, che ho cercato, attraverso questo libro, di condividere con tutto il mio pubblico. Ebrei e non, tripolini e non. Il libro è stato precedentemente edito in Israele, e momentaneamente sta andando bene. Amos Oz  parlava della sua “piccola Gerusalemme” che nel tempo della narrazione diventava quasi il centro del mondo. Nel momento in cui uno scrittore scrive, lui stesso e il luogo di cui racconta è il centro del mondo, in qualunque posto, anche nel più piccolo. Non è importante che sia Roma, Tripoli o Israele, il messaggio, le conclusioni che si traggono, i passaggi che si vedono, sono universali. Anche per me è stato così, scrivere di una realtà piccola, a volte comica ma cosmopolita e ricca di contraddizioni, di cui in pochi avevano scritto prima, aveva diritto di essere raccontata.

(Shalom, 30 luglio 2021)



Invito a godere gioie legittime con la propria moglie

Riflessioni sul libro dei Proverbi. Dal capitolo 5.
  1. Bevi l’acqua della tua cisterna,
    l’acqua viva del tuo pozzo.
  2. Le tue fonti devono forse spargersi al di fuori?
    I tuoi ruscelli devono forse scorrere per le strade?
  3. Siano per te solo,
    e non per gli stranieri con te.
  4. Sia benedetta la tua fonte,
    e rallegrati con la sposa della tua gioventù.
  5. Cerva d’amore, capriola di grazia,
    le sue carezze t’inebrino in ogni tempo,
    e sii sempre invaghito nell’affetto suo.
  6. Perché, figlio mio, ti invaghiresti di un’estranea,
    e abbracceresti il seno della donna altrui?
  1. Bevi l’acqua della tua cisterna,
    l’acqua viva del tuo pozzo.

    Ai severi ammonimenti a guardarsi dalla donna straniera seguono i gioiosi inviti a gustare la dolcezza dei rapporti coniugali, anche nei loro aspetti corporali. Il desiderio sessuale può essere paragonato alla sete e il suo appagamento al senso di soddisfazione che si prova dopo aver bevuto profondi sorsi di acqua fresca in un giorno di grande caldo. La propria legittima sposa viene allora paragonata a una cisterna e a un pozzo , come in altri passi della Bibbia (Cantico dei Cantici 4.12,15), e il discepolo viene invitato a bere soltanto l'acqua viva del suo pozzo, e ad evitare la "fossa profonda" della prostituta e il "pozzo stretto" della straniera (23.27).

  2. Le tue fonti devono forse spargersi al di fuori?
    I tuoi ruscelli devono forse scorrere per le strade?

    Come in 5.10, l'esortazione contenuta in questo versetto vuol far evitare che i beni preziosi promessi dal Signore alla coppia che vive fedelmente il rapporto matrimoniale vadano dispersi e sciupati. La capacità di procreare, che probabilmente qui viene intesa quando si parla di fonti e ruscelli, è un privilegio meraviglioso che Dio concede all'uomo affinché si formi una famiglia (Salmo 68.6) entro la quale possa godere le Sue benedizioni. Se questo magnifico dono viene usato male, il frutto che ne viene non serve a formare una famiglia benedetta, ma fa nascere persone che invece di essere allevate in una casa dove regna l'amore sono costrette a crescere al di fuori e vivere per le strade.

  3. Siano per te solo,
    e non per gli stranieri con te.

    Se si ha con la donna straniera un rapporto simile a quello che nel piano di Dio deve essere vissuto soltanto con la propria donna, inevitabilmente i frutti di questo rapporto, ivi compresi gli eventuali figli, saranno estraniati (5.10). Il figlio avuto dalla straniera sarà anch'egli, in qualche modo, uno straniero. Inevitabilmente passerà ad altri almeno una parte della potestà che in origine Dio aveva concesso soltanto al padre.

  4. Sia benedetta la tua fonte,
    e rallegrati con la sposa della tua gioventù.

    La sposa della tua gioventù è la donna con cui l'uomo ha concluso il patto voluto da Dio e ha iniziato insieme la vita matrimoniale. Il profeta Malachia rivolge un severo invito a non dimenticare quello che è avvenuto nel passato, al tempo della gioventù, quando dice: "Il SIGNORE è testimone fra te e la moglie della tua giovinezza, verso la quale agisci slealmente, sebbene essa sia la tua compagna, la moglie alla quale sei legato da un patto" (Malachia 2.14). Il legame tra giovinezza e patto viene messo in evidenza anche dal comportamento della donna adultera, di cui si dice che"ha abbandonato il compagno della sua gioventù e ha dimenticato il patto del suo Dio" (2.17). Viceversa, la donna che vive lealmente all'interno di questo patto viene benedetta dal Signore e diventa per l'uomo una fonte di gioia. Ne discende allora per l'uomo l'invito a rallegrarsi con lei, a non permettere che il passare del tempo apra le porte al senso di stanchezza e alla noia. La consapevolezza di aver potuto costruire, sotto lo sguardo benedicente di Dio, una casa stabile in cui genitori e figli possono sentirsi accolti e protetti deve spingere l'uomo alla gioia, ma a una gioia da vivere proprio con lei, con la sposa della sua gioventù, perché la felicità vissuta insieme, oltre che essere un frutto della fedeltà al patto, contribuisce potentemente a cementare l'unione iniziata e continuata all'interno del patto.

  5. Cerva d’amore, capriola di grazia,
    le sue carezze t’inebrino in ogni tempo,
    e sii sempre invaghito nell’affetto suo.

    La felicità che ha Dio preparato per la coppia uomo-donna passa anche attraverso il corpo. Il discepolo viene qui invitato a non fare quello che soprattutto per l'uomo è molto facile: separare nettamente i sentimenti d'affetto dai piaceri sessuali, voler mantenere con la moglie rapporti di tranquilla amicizia e sperimentare con la straniera le tumultuose ebbrezze del sesso. Si potrebbe dire che anche in questo caso la Scrittura esorta a non dividere ciò che Dio ha unito. L'amore autentico si prende cura del corpo (1 Corinzi 7.4), e attraverso la giusta attenzione al corpo l'amore viene alimentato e sostenuto.

  6. Perché, figlio mio, ti invaghiresti di un’estranea,
    e abbracceresti il seno della donna altrui?

    Anche nell'originale il verbo qui tradotto con "invaghire" è lo stesso di quello usato nel versetto precedente. Questo serve a sottolineare che il discepolo non ha bisogno di cercare nell'estranea quelle emozioni che può trovare in misura maggiore e in forma più autentica nella sposa della sua gioventù. In questo momento il maestro non richiama il giovane al suo dovere, ma fa appello alla sua intelligenza e gli chiede: Perché? Perché cercare in zone lontane e pericolose il sapore intenso ma artefatto di un cibo sofisticato, quando vicino a te, in un ambiente custodito e protetto dalla benedizione di Dio, puoi assaporare il gusto schietto di un cibo genuino?

    M.C.

 

Israele e il timore di perdere lo scudo Usa: “Finiremmo soli come un kayak nell’Oceano”

L’America non cesserà di appoggiare lo Stato ebraico, ma il disimpegno nella regione lascerà vuoti di potere.

di Stefano Stefanini

GERUSALEMME.  Dalla città vecchia di Gerusalemme è impossibile non sentirsi al centro del mondo. È l’ora del tramonto. I fedeli ebraici assembrati sotto il Muro del Pianto celebrano l’inizio dello Shabbat. Poco sopra, dalle Moschee di Al Aqsa e dalla Cupola della Roccia, si levano le preghiere musulmane. A un paio di centinaia di metri in linea d’aria, la Chiesa del Santo Sepolcro riunisce i cristiani di ogni culto sulla via del Calvario e della Crocifissione.
  Sulla Terra Santa delle religioni sono anche passati millenni di rivolgimenti geopolitici che hanno lasciato il popolo ebraico in balia delle onde, disperdendolo nei quattro angoli del globo. Oggi non è più così. Qui, gli ebrei non sono più erranti. Sono israeliani. Hanno una nazione e uno Stato. Hanno realizzato quello che chiamano «progetto Israele» ed è una storia di successo politico, economico, scientifico, culturale. Ma, nel grande gioco internazionale, sono anche coscienti di non essere una grande potenza. «Siamo l’equivalente di una media città cinese, un kayak nelle acque internazionali - dice un analista israeliano - Il nostro percorso va con la corrente, specie in mezzo alle rapide».
  Per il nuovo governo acrobatico di coalizione – un voto di maggioranza alla Knesset - appena subentrato alla lunga era Netanyahu, con una nuova amministrazione a Washington dopo quattro anni di tormentone Trump, non è tempo di grandi strategie. Israele cerca invece di capire in che direzione vada la corrente e di navigarla in sicurezza. I barometri sono tarati a cogliere ogni variazione atmosferica. Hanno subito registrato i venti di cambiamento che tirano in Medio Oriente. Le rilevazioni sono univoche.
  Sono in Israele ospite di Academic Exchange, un’organizzazione americana che da una dozzina d’anni appronta viaggi “di studio” in Israele e nei Territori palestinesi per gruppi di professori universitari, ricercatori ed esperti di affari internazionali di tutto il mondo. Finora quasi un migliaio. In questa settimana passata visitando il paese da una frontiera all’altra – le distanze sono brevi ma la varietà delle situazioni sul terreno è senza paragoni – ho raccolto da più interlocutori, tanto analisti quanto operatori sul terreno, la stessa valutazione dei giochi geopolitici in corso, dell’evolversi delle dinamiche regionali e delle conseguenze che ne trae Israele. Al centro l’incognita americana che lascia Gerusalemme con un interrogativo di fondo: quanto contare ancora sugli Stati Uniti che per mezzo secolo sono il pilastro della sicurezza di Israele e, di riflesso, punto cardinale di politica estera?
  Non è un cambiamento di poco conto. Se anche si tratta più di percezione che di fatti concreti – l’amministrazione Biden non ha alcuna intenzione di abbandonare Israele, i legami bilaterali rimangono solidissimi, gli F-35 arrivano - la convinzione che l’America tiri i remi in barca in Medio Oriente cambia molte carte in tavola. Quello che preoccupa Israele – e non solo Israele – non è tanto di essere abbandonato dagli Usa, che non avviene e non avverrà, ma è l’abbandono da parte degli Usa di una politica e di un impegno regionale. Il kayak israeliano è così lasciato a navigare da solo senza le portaerei americane d’appoggio nelle vicinanze.
  Visti da Gerusalemme gli equilibri regionali si stanno spostando a favore di chi sa approfittare del vuoto di potere lasciato da Washington: Russia, Cina e Iran. «Il ritiro americano sta avvenendo», appena confermato dai confusi segnali dall’Iraq. «La Russia sta tornando senza essersene mai andata. I cinesi si affacciano in una regione di loro priorità secondaria. L’Europa e gli europei sono spariti. L’Ue aveva l’abitudine di far un po’ di rumore. Neanche più quello». Gli israeliani, che non vogliono rimanere soli, vedono drammaticamente restringersi le sponde occidentali di riferimento, al punto di auspicare l’entrata in scena di attori alternativi come l’India, non perché la preferiscano all’Ue, ma perché hanno perso fiducia nella volontà e capacità dell’Europa di rientrare in gioco in Medio Oriente.
  Che fare allora? Israele vive di sicurezza essendo stato sotto minaccia di annientamento da che esiste. Oggi questa minaccia ha praticamente un solo nome: Iran. Gerusalemme guarda con apprensione ai negoziati in sordina per il rientro di Washington nell’accordo nucleare. L’atteggiamento è cambiato rispetto all’opposizione a spada tratta di Netanyahu. Questo governo non la farà. Cerca piuttosto – saggiamente – di spingere gli americani ad ottenere garanzie più stringenti da parte di Teheran e di consolidare il rapporto con gli arabi ormai diventati chiaramente alleati. Il fronte si è capovolto: «Prima erano gli arabi contro Israele; adesso sono gli israeliani e gli arabi contro l’Iran». E di mezzo non c’è solo il rischio nucleare ma anche l’espansionismo iraniano per procura che via Hezbollah lambisce ormai Israele dai confini del Nord con Libano e Siria alla polveriera di Gaza a Sud, dove Teheran rifornisce di razzi Hamas. Il rapporto con i paesi del Golfo, e soprattutto gli Accordi di Abramo con gli Emirati, sono oggi un pilastro della sicurezza di Israele.
  Aspettando quindi gli Usa di Joe Biden, e forse anche l’Europa? «Gli europei volevano andarsene ma non possono», spiega un analista. Il Medio Oriente è vicino, non c’è soluzione di continuità col Mediterraneo. Qualcosa cui pensare nei nostri ozi di agosto. Anche in Italia. Vista da qui la Libia è meno vicina geograficamente ma le sfide e gli attori sono gli stessi.

(La Stampa, 31 luglio 2021)

Israele accusa l'Iran per l'attacco alla petroliera costato la vita a due membri dell'equipaggio

Il ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid, ha accusato l'Iran dell'attacco al largo delle coste dell'Oman alla petroliera MV Mercer Street, operata dalla società londinese Zodiac Maritime guidata da un magnate israeliano. Gli iraniani, ha affermato Lapid parlando nella tarda serata di ieri, sono "esportatori di terrorismo". "L'Iran non è solo un problema israeliano, ma un esportatore di terrorismo, distruzione e instabilità che sta danneggiando tutti noi. Non dobbiamo mai tacere di fronte al terrorismo iraniano, che danneggia anche la libertà di navigazione", ha affermato Lapid attraverso i suoi profili social.
  L'attacco avvenuto nella notte tra il 29 e il 30 luglio contro la nave cisterna Mercer Street al largo delle coste dell'Oman, è costato due morti (un cittadino romeno e uno britannico).
  I media iraniani hanno detto che l'attacco sarebbe una risposta alla recente azione israeliana all'aeroporto di Al Dabaa nella regione di Al-Qusayr in Siria. Ad affermarlo è stata in particolare l'emittente televisiva iraniana che trasmette in lingua araba, "Al Alam". Quello mandato in onda da "Al Alam" e' il primo resoconto sull'accaduto da parte dei media iraniani.
  La nave cisterna Mercer Street è di proprietà giapponese, ma è operata dalla compagnia di navigazione Zodiac Maritime dell'imprenditore israeliano, Eyal Ofer. La nave cisterna sarebbe stata attaccata dai pirati mentre stava navigando senza "carico a bordo".
  In una nota il Comando centrale degli Stati Uniti (Centcom) ha sottolineato che le forze navali della Quinta flotta degli Stati Uniti hanno risposto ad una richiesta di emergenza lanciata dalla nave mercantile, inviando anche esperti di esplosivi a bordo. "Le prime indicazioni indicano chiaramente un attacco condotto con droni", si legge in una nota del Centcom. La Mercer Street è attualmente scortata dalla portaerei Uss Ronald Reagan. 
  Ieri sera il ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid e l'omologo britannico Dominic Raab hanno discusso al telefono di una potenziale risposta all'attacco e della volontà di portare la questione davanti al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
  Il confronto tra Iran e Israele sta riscaldandosi sempre di più e l' "incidente" della Mercer Street rappresenta un passo verso l'escalation, viste le vittime. 

(la Repubblica, 31 luglio 2021)


*


Ormai è chiaro, l’Iran è un problema globale, non solo di Israele

E ora la “guerra ombra” tra Iran e Israele potrebbe diventare palese

L’ultimo attacco iraniano ad una petroliera nel Golfo Persico che ha causato la morte di due marinai, uno rumeno e uno britannico, è la dimostrazione palese che l’Iran non è più solo un problema israeliano ma è un problema globale.
  Sono queste, più o meno, le parole che il Ministro degli esteri israeliano, Yair Lapid, ha detto ieri al suo omologo britannico, Dominic Raab dopo che un drone suicida iraniano ha colpito l’ennesima petroliera di proprietà israeliana in navigazione nel Golfo Persico.  
  Lapid ha detto al suo omologo britannico che questa volta sarà necessaria una risposta dura e, possibilmente, globale agli attacchi iraniani.
  Dal canto suo Teheran non solo conferma e rivendica l’attacco alla petroliera Mercer Street, battente bandiera liberiana ma di proprietà israeliana, ma afferma che è la risposta iraniana agli attacchi israeliani contro postazioni iraniane in Siria.

• ISRAELE RIUNISCE IL GABINETTO DI GUERRA
  Ieri sera leadership della difesa israeliana si è riunita per discutere in merito alla risposta da dare a Teheran dopo questo ultimo attacco.
  Alla riunione urgente convocata dal ministro della Difesa, Benny Gantz, hanno partecipato il capo di stato maggiore dell’IDF Aviv Kohavi e altri funzionari della difesa.
  Non è trapelato nulla sulle decisioni prese ma appare evidente che questa volta ci sarà una “energica” risposta all’attacco iraniano.
  “L’Iran sta seminando violenza e distruzione in ogni angolo della regione” ha dichiarato ieri sera a condizione di anonimato un funzionario israeliano di alto livello.
  “Erano così ansiosi di attaccare un obiettivo israeliano che si sono macchiati dell’uccisione di cittadini stranieri” ha detto ancora la fonte.
  “Gli iraniani hanno tolto la maschera e hanno dimostrato che non sono un problema israeliano ma globale in quanto mettono in pericolo il commercio mondiale” ha infine concluso l’alto funzionario.
  E ora la “guerra ombra” tra Iran e Israele potrebbe diventare palese. Teheran con l’uccisione di due cittadini stranieri ha varcato la quella linea rossa che fino ad ora non era mai stata superata da nessuno e difficilmente adesso Israele potrà fare a meno di rispondere in maniera dura, aperta e palese.

(Rights Reporter, 31 luglio 2021)


*


L'Iran cerca l'incidente per zittire le proteste. Nave mercantile israeliana attaccata in Oman

I negoziati per le lunghe. I timori: quasi pronta la bomba degli Ayatollah.

di Fiamma Nirenstein

L'aggressione internazionale affiancata alla violenza interna sono sempre state la strada maestra percorsa dal regime iraniano. Lo scenario è un palcoscenico girevole, la gente soffre e le armi iraniane attaccano. In questi giorni nelle strade specie del Khuzestan sudorientale, il popolo, specie gli agricoltori, gridano disperati gli stessi slogan che si sentirono nel 2019, quando le proteste furono affogate nel sangue di 1.500 persone uccise nelle strade delle città nella Repubblica degli Ayatollah. Manca l'acqua, il regime ha scelto solo la canna da zucchero e il riso abbandonando il resto dei campi, non c'è elettricità, i contadini abbandonano il lavoro e la casa, la protesta si muove verso Teheran dalle campagne.
  Ci sono già, dal 15 di luglio, inizio dei moti, 10 morti. La folla grida: «Morte al dittatore» «Khamenei, vergognati, lascia in pace l'Iran» e anche «Né Gaza né Libano, la mia vita per l'Iran»: cioè, l'Iran non ne può più dell'ideologia espansionista della leadership che usa il terrore e la violenza affiancandosi a Hamas e agli Hezbollah in battaglie di sapore ultraideologico, dei miliardi spesi per affermare l'odio contro Israele, Stati Uniti, Occidente, per allargarsi a formare una mezzaluna di potere dall'Irak al Libano, alla Siria, allo Yemen; che ambisce a diventare sempre più importante mentre non cela le consuete ambizioni atomiche.
  Israele è sempre il cardellino nella miniera della disastrosa politica iraniana, e infatti era una nave mercantile israeliana quella attaccata nella notte di ieri al largo della costa dell'Oman (con due marinai uccisi), non a caso un Paese in predicato di diventare un amico istituzionale dello stato ebraico nei Patti di Abramo. Il governo israeliano tace, questa è una delle varie navi legate in qualche modo a Israele che sono state prese di mira in questo periodo, lo scontro registra ormai una quantità di episodi di varia entità, questo per ora non sembra di grande rilievo in confronto al danneggiamento, si dice da parte israeliana, di svariate centrali nucleari e alle eliminazioni mirate come quella del padre della bomba atomica Fahrizade. Gesti molto rilevanti che Israele ha compiuto contro la bomba atomica destinata alla distruzione del suo Paese; monito che tutto sarà fatto per evitare che l'Iran ottenga la bomba. Il nuovo primo ministro Bennett ha espresso la medesima posizione. Netanyahu nel 2013 aveva detto all'assemblea generale dell'Onu che se si voleva porre fine al programma nucleare iraniano pacificamente, guai a lasciare l'acceleratore delle sanzioni. Ma Obama cercava il patto a tutti i costi, e adesso Biden, mentre chiede a Khamenei di accettare il vecchio patto, aspetta pazientemente che Khamenei, come ha annunciato, torni alle trattative di Vienna dopo il 5 agosto quando il nuovo presidente Raisi sarà in carica.
  Sono giorni in cui l'arricchimento dell'uranio va a mille, e così avvicina la bomba e aumenta il ricatto per ottenere un patto che i desideri degli iraniani vogliono intoccabile, quale che siano le violazioni che certamente già progettano. Proprio in questi giorni in Israele si insiste che la bomba è ormai vicinissima. La preoccupazione è che Biden, pur di cancellare la giusta scelta di Trump di conservare un patto fasullo e inutile, sia pronto a cancellare tutte le sanzioni. La confezione di un nuovo patto che preservi intatta la forza nucleare attuale dell'Iran accumulata nei mesi, e consegni a Raisi un budget che arricchisce le casse del regime, sarebbe un errore capitale. Subito diversi Paesi sunniti si muoverebbero per ottenere la bomba a loro volta. Bel risultato di pace. Comunque non distoglierebbe Israele dalla sua linea: fare qualsiasi cosa per assicurarsi che l'Iran non ottenga l'atomica.

(la Repubblica, 31 luglio 2021)


La diplomazia vaccinale dell’Iran scatena una bufera: dosi a Hezbollah

Golfo. 1,2 milioni di fiale a Beirut quando solo il 5% della popolazione iraniana è del tutto coperto. Teheran usa il Coviran-Barekat, prodotto da un’azienda vicina a Khamenei

di Farian Sabahi

Gli iraniani stanno affrontando la quinta ondata di pandemia, con numerose nuove infezioni causate dalla variante Delta. Con 202.607 casi di Covid-19 registrati in una settimana (+ 27%), l’Iran è ancora al primo posto in Medio Oriente.
  Una percentuale minima della popolazione iraniana – meno del 5% – ha ricevuto la doppia dose del vaccino e sono in tanti ad andare nella vicina Armenia per farsi vaccinare.
  Eppure, le autorità della Repubblica islamica hanno mandato 1,2 milioni di dosi di vaccino ai membri dell’Hezbollah libanese e alle loro famiglie. Secondo il sito IranWire, i vaccini made in Iran sarebbero arrivati in Libano un mese fa.
  Un’operazione inizialmente limitata, gradualmente estesa: la diplomazia dei vaccini serve a rafforzare vecchie alleanze. La notizia indispettisce gli iraniani, già contrariati dalla siccità nel Khuzestan e dalla repressione di regime nei confronti di chi osa protestare.
  Gli iraniani usano un vaccino prodotto localmente, chiamato Coviran-Barekat. L’Organizzazione mondiale della Sanità non lo ha ancora approvato, non vi sono dati o informazioni sulla sua efficacia, né tanto meno sappiamo su quante persone sia stato testato e nemmeno quali siano i suoi ingredienti.
  È stato sviluppato dalla società farmaceutica Shifa, una sussidiaria di Setad, ovvero dei quartieri generali di una conglomerata di enormi dimensioni che fa capo al Leader supremo Ali Khamenei (e a suo figlio Mojtaba). A inizio gennaio 2021 l’Ayatollah Khamenei aveva scritto su Twitter: «L’importazione di vaccini prodotti negli Stati uniti e in Gran Bretagna è vietato».
  E aveva aggiunto che «non ci possiamo fidare, questi paesi potrebbero cercare di diffondere il Covid-19 altrove». Ai manager di Twitter il post del capo di Stato della Repubblica islamica non era però piaciuto: era stato rimosso perché violava le regole sulla disinformazione.
  Il 29 marzo, in un contesto di emergenza, le autorità sanitarie di Teheran hanno autorizzato l’uso del vaccino Coviran-Barekat. Ora, il caso dei vaccini made in Iran sottratti al sistema sanitario per essere mandati agli Hezbollah libanesi causa un putiferio in Iran e il viceministro della Sanità iraniano Iraj Harirchi si è scusato per i ritardi nelle vaccinazioni.
  La società farmaceutica Shifa ha inizialmente dichiarato che le fiale erano di uno «standard inferiore», mentre i vertici di Setad si sono affrettati a dire che le dosi erano andate «perdute». È stata una fonte del sito IranWire a rivelare che le dosi sarebbero state «donate» agli Hezbollah.
  In sé, la donazione non dovrebbe stupire: Hassan Nasrallah, segretario generale di Hezbollah, ha più volte ribadito che «il nostro pane e la nostra acqua, le nostre armi e i nostri missili, vengono tutti dall’Iran». Perché la leadership di Teheran manda i vaccini a Beirut? Questa mossa rientra nella dottrina della profondità strategica del generale dei pasdaran Suleimani, ucciso da un drone statunitense nell’aeroporto di Baghdad il 3 gennaio 2020.
  Si tratta di quella politica attiva in tutti i teatri confinanti e vicini – Iraq, Siria e Libano – con l’obiettivo di estendere gli interessi del paese oltre i propri confini territoriali e tessere buone relazioni con gli attori regionali in una fase storica in cui l’area è militarmente presidiata dagli Stati uniti; una dottrina utilizzata da ayatollah e pasdaran per sfuggire al senso di assedio percepito, giacché l’Iran è un’eccezione in Medio Oriente in quanto paese non arabo e, sebbene a maggioranza musulmana, nella declinazione sciita.

(il manifesto, 31 luglio 2021)


Il mago del Country d’Israele

Koby Oz ha cambiato il pop raccontando un paese che è sceso a patti con la propria identità mediorientale

E' il più influente musicista del paese, un tunisino di una città di marocchini che ha portato il sud a Tel Aviv e ha cambiato il pop israeliano "L'umorismo è un incredibile strumento per farsi accettare in società", dice Oz, nato a Sderot, quando era una città operaia
Il chitarrista Uliel per Oz è stato la chiave di Sderot e della musica. Si esibirono insieme a tutti i matrimoni marocchini del paese La sua versione dell'inno di Israele fu eseguita per la prima volta a un concerto interrotto dalla notizia di un attacco suicida su un autobus

di Matti Friedman

Chi è il musicista israeliano più importante dell’ultima generazione?  Non intendo il più dotato o popolare, ma il più influente, senza il quale il sound del paese non sarebbe lo stesso. Il mio voto va a Kobi Oz – l’illusionista del mix-track, il cucchiaino di zucchero che aiuta a mandare giù la medicina, il tunisino di una città di marocchini che ha portato il sud a Tel Aviv e ha cambiato ciò che intendiamo quando diciamo pop israeliano.  Naturalmente, più di una persona è responsabile dell’ascesa del sound, un tempo disprezzato, noto come “Mizrahi” o “Eastern”, che è diventato l’equivalente spirituale di Israele del country americano e della musica occidentale, sebbene i due generi non suonino per niente allo stesso modo.  Ma dovendo scegliere un musicista che ha reso mainstream il sound Eastern, orientale, in Israele, direi Oz.
  Ascoltando il lavoro di Oz negli ultimi trent’anni, si ottiene il ritratto di un paese che cambia, costantemente in crisi ma anche con una vitalità irrefrenabile, un luogo che ha rinunciato a essere un altro e ha fatto i conti con se stesso.  Poiché Oz e la sua band sfondarono negli anni Novanta, l’era dei video musicali, è possibile vedere i momenti cruciali della loro ascesa su YouTube, come l’uscita di “In Newsprint” nel 1993. Nessuno dava due lire a questa canzone, che ha testi pungenti nei confronti degli israeliani – li descrive come persone distratte dalle battute, dal giornalismo e dall’autoillusione – e una melodia complicata che cambia bruscamente ritmo nel mezzo e si sposta in un territorio musicale esplicitamente marocchino. La canzone era diversa da qualsiasi cosa la gente avesse ascoltato prima. Non era immediatamente chiaro se la band stesse incanalando seriamente il suono nordafricano o se ne ridesse, come era comune a quei tempi, quando la cultura Mizrahi era ancora irrisa dai custodi del gusto popolare.
  Il disco, il secondo della band, al tempo non andava bene e l’entusiasmo della casa discografica stava scemando.  Come cantante, Oz era strano – piccolo e stravagante con una treccia, occhiali grossi, un sorriso accattivante ma per nulla amichevole, come se avesse in mente una bella battuta ma pensasse che tu non l’avresti capita.  La musica della sua band, diceva la casa discografica, era “troppo araba”.  Lui e la band misero insieme praticamente tutti i soldi che avevano, 600 dollari, e girarono  un video di fronte a un pubblico dal vivo, in un posto a Jaffa in cui di solito si esibivano cantanti greci.  La folla detestò subito sia la band sia la canzone – si vede chiaramente nel video.  Questi ragazzi erano marocchini o ashkenaziti?  Cos’era quello schifo?  Solo quando un famoso artista greco salì poi sul palco, il pubblico iniziò a ballare, sollevato dal fatto che Oz e i suoi amici se ne fossero andati.  Oz disse al cameraman di filmarlo e modificò la clip in modo che sembrasse che la gente stesse ballando sulla sua canzone.  Funzionò: il video andò in onda, “In Newsprint” divenne un classico e la band non si guardò mai più indietro.
  “L’umorismo è un incredibile strumento israeliano per essere accettati in società”, ha detto Oz quando ci siamo incontrati in un bar di Tel Aviv. Era entrato camminando lento con un cappello da sole leopardato sopra ai sui celebri occhiali e al suo caratteristico pizzetto.  Adesso Oz ha 51 anni, è uno dei più anziani della scena pop del paese, e tutti lo riconoscono per strada. “Se non vuoi essere il ragazzo che tutti ignorano”, dice, “è meglio essere quello di cui tutti ridono.  Se ridono di te abbastanza a lungo, diventi uno di loro. Inizi a ridere di te stesso e poi puoi ridere di loro”.
 Questa osservazione ha le sue radici a Sderot, la città del sud dove Oz è nato nel 1969. Sderot è ora famosa per essere l’obiettivo preferito dei missili palestinesi lanciati dalla vicina Gaza: molte migliaia di razzi hanno colpito la città e un bambino è stato ucciso lì nell’ultimo round di combattimenti, in primavera. Ma quando Oz era un ragazzo negli anni ’70 e ’80, Sderot era solo un povero stagno i cui residenti erano per lo più proletariato nordafricano che lavorava nelle fabbriche gestite dai socialisti nei vicini kibbutz. Una città operaia con una ricca scena culturale ignorata dai più, con musicisti di talento senza accesso a radio o case discografiche, e senza la speranza di potersi avvicinare al mainstream – tutto questo sembra aver creato l’elettricità che ha messo l’underground di Sderot sulla mappa.  L’hard rock era forte a Sderot anni prima che lasciasse il segno a Tel Aviv.  La città ha prodotto parecchie band importanti: alcune ce l’hanno fatta a emergere, la maggior parte si è sciolta prima che qualcuno fuori potesse notarla.
 A Sderot c’era anche una seconda scena underground, abitata da intrattenitori che organizzavano feste e matrimoni con canzoni arabe e nomi d’arte come Sheikh Muijo e Filfel al Masri.  Erano artisti arrivati con la grande migrazione in Israele dal mondo arabo e facevano del loro meglio per tenere alto il morale delle persone in un paese meno accogliente del previsto.  Cantavano musica tradizionale e canzoni di protesta rivestite di un umorismo acido, che occasionalmente diventavano delle hit. Un buon esempio degli anni 50 è stato “Installments” di Filfel al Masri,  sulle persone che vengono convinte a comprare ora e pagare dopo, o “Unemployment Office” di Jo Amar sul tentativo di un ragazzo marocchino di emergere da una burocrazia più favorevole per chi arrivava dalla Polonia. Sderot era un posto piccolo, ma lì accadevano un sacco di cose.
 Per Oz, la figura musicale chiave della città era (e rimane) il chitarrista Haim Uliel, figlio di Matatya, che era un impresario culturale e un membro delle Pantere nere, il gruppo Mizrahidi protesta anti establishment degli anni ’60 e ’70.  Il giovane Uliel aveva iniziato con jeans attillati e capelli lunghi suonando i Black Sabbath, poi aveva fatto una brusca inversion tornando alla musica con cui è cresciuto nel bar di suo padre sulla via principale della città, Herzl Street.  Il bar ospitava artisti ebrei del Nord Africa e anche musicisti arabi che venivano dalla vicina Gaza, che all’epoca non era un ministato gestito da terroristi e circondato da recinzioni, ma solo un posto in fondo alla strada. La scena all’Herzl Street café era un po’ losca, uomini e donne malfamati, mi aveva raccontato Uliel quando l’avevo incontrato nella piccola casa accanto dove è cresciuto e dove vive ancora – un sessantacinquenne in pantaloncini e infradito con il divano in soggiorno occupato dalla custodia di una chitarra.  Ma erano quelle persone nei bassifondi che avevano finito per mantenere vivo l’antico sound. C’era una porta tra la casa e il bar e gli abitanti di questo demimonde a volte si aggiravano nella cucina di Haim.  Si svegliava e trovava i batteristi addormentati sul pavimento.
 Uliel era, e rimane, un personaggio combattivo. Non ha il desiderio di essere accettato che ha Oz.  La band di Uliel, Sfatayim (labbra), ha conservato uno stile marocchino autentico,  suona  con strumenti occidentali ma fa pochi altri sforzi per catturare l’orecchio europeo.  Uliel teneva in poco conto non solo la musica ashkenazita, ma anche quella considerata mizrahi: la disdegnava, pensava che fosse nulla di più di canzoni greche suonate da yemeniti che erano troppo desiderosi di compiacere il pubblico.  Credeva che se il mainstream non era interessato alla vera musica marocchina, il mainstream poteva andarsi a fare un giro.
 “A quei tempi c’era l’idea che la cosa importante fosse il testo ebraico, non la musica”, ha detto Uliel. “Pensavano che la musica fosse educazione, ma la musica non arriva per insegnarti: la musica vuole renderti triste, o felice, o farti ballare.  Se vuoi educare le persone, fallo a scuola”.
 Quando Oz aveva 10 anni, Uliel ne aveva 20 e gestiva un festival musicale locale.  Portò Oz d esibirsi e poi, quando Oz aveva 15 anni, gli fece suonare la tastiera nella sua band. Il ragazzo, ricorda Uliel, era dedito alla musica fino all’ossessione. Oz, da parte sua, ricorda di essere stato selezionato principalmente “perché ero lì”.  Fu in questo periodo che Kobi Oz divenne Kobi Oz;  prima di adottare il nome d’arte, era Yaakov Uzan.  Si esibirono nei matrimoni marocchini in tutto il paese e Oz ricorda quel periodo come una specie di glorioso campo di addestramento. “Da bambino, ho avuto un’incredibile scuola di beat e groove: era l’Africa, era il Marocco”, dice. “Era come suonare con James Brown”.
 Oz frequentava anche alcuni musicisti adolescenti dei kibbutz intorno a Sderot, il che era raro: non c’erano molti contatti tra i due mondi. Alcuni di loro decisero di formare una band che avrebbe cancellato quei confini, dandole il nome di una marca di correttori per macchine da scrivere, Tipp-Ex (il riferimento, che si perde nel nome inglese della band, Teapacks, non ha comunque senso per chi abbia meno di 40 anni.) Il ragazzo di Sderot sarebbe stato al comando, con i ragazzi dei kibbutz a sostenerlo.
 Iniziarono a suonare nelle sale da pranzo del kibbutz, il tipo di concerto in cui dopo dovevi ripulire molto. A quel punto aveva comprato una batteria elettrica da uno dei due negozi in Israele che le vendeva, e un computer per le basi, ed era riuscito a convincere il liceo di Sderot a lasciarlo studiare musica elettronica. La scuola non aveva nessuno che potesse interrogarlo sull’argomento, quindi portarono il professionista che consideravano più vicino alla materia: un elettricista. Oz prese 10 su 10, il che gli sembrò fantastico fino a quando non arrivò il suo appuntamento con la leva e quel voto perfetto gli portò un impiego militare senza sbocchi: aggiustava i sistemi elettrici dei carri armati. Il chitarrista della band del Kibbutz Nir Am svanì nei Navy Commandos e non lo videro mai più, ma quando l’esercito ebbe finito con tutti loro, Gal Perelman del kibbutz Nahal Oz era ancora lì con il basso e Tamir Yemini del kibbutz Ruhama sui tamburi, e Ram Yosifov arrivò a Tel Aviv con una chitarra e un mandolino. Tutti e tre sono ancora nella band.
 Ormai era la fine degli anni Ottanta, e c’erano alcuni dj dell’Army Radio che erano interessati a sound diversi. Alon Olearchik, celebre per aver suonato la chitarra con la leggendaria band comic-rock Kaveret (Beehive), era tornato da Manhattan, dove aveva suonato in un club, e travolse le onde radio locali con una hit su  un nuovo  arrivato  nel quartiere.  Oz lo convinse a produrre l’album della band, e tutto cominciò.
 Il loro  primo successo  riguardava un ciarlatano taumaturgo, il rabbino Joe Kapara, un tipo comune nel sud israeliano.  L’idea era di cantare canzoni specifiche su un luogo specifico, come la musica country: non guidi un camion – guidi una Ford col pianale ribassato. Non canti di una donna, ma di Jolene. E non vieni da qualsiasi luogo, vieni da Luckenbach, Texas, o Muskogee, o Sderot. (“Quando ascolto musica country, voglio essere nel mio paese”, dice Oz). Quello che seguì fu una serie di istantanee popolari di un paese, Israele, che cambia: un’ode  alla vecchia e sporca stazione degli autobus di Tel Aviv, che era stata demolita a favore di una nuova stazione (che si era rivelata peggiore); una canzone sulle persone sedute nei bar e nelle jeep, che mettono a tacere tutto durante un’ondata di attentati suicidi; una divertente, ma non divertente “hora” sui mali della nuova prosperità di Israele. Il suono dei Teapacks è immediatamente riconoscibile e molto di ciò che è comune nella scena pop odierna può essere ricondotto a loro: non solo la normalizzazione dei ritmi nordafricani, ma l’ironica fisarmonica o l’utilizzo di versi hip-hop seguiti da un coro mizrahi, di cui Oz è stato pioniere con la canzone del 1993 “Monopoly Champion”.
 Da allora, mentre molti musicisti israeliani si sono spostati verso generiche sonorità occidentali (quello che Oz chiama “post londonismo disconnesso”), il lato Mizrahi della scena musicale è diventato più sfacciatamente ebraico e israeliano. Questo è lo stile di Oz, come è illustrato in una delle sue canzoni più importanti – che non ha né scritto né composto, e che non ha attirato molta attenzione quando è uscita, né dopo.
 Era una sera del giugno del 2001 e la band si esibiva con la regina del pop Mizrahi Sarit Hadad, diventata famosa per aver cantato con i Teapacks qualche anno prima. Cominciarono ad arrivare notizie di un attentato suicida palestinese in una discoteca di Tel Aviv; 21 persone erano morte, per lo più adolescenti.  E’ il tipo di situazione che gli artisti israeliani devono affrontare. A maggio, per esempio, ero a un concerto all’aperto a Gerusalemme quando una raffica di razzi di Hamas ha colpito il centro di Israele: metà del pubblico si è alzata per rispondere alle chiamate di babysitter spaventate e il resto di noi si è girato sulle sedie di plastica bianca per guardare le piccole esplosioni rosse degli intercettatori di Iron Dome, nel cielo a ovest.  I musicisti continuavano a suonare. Cos’altro avrebbero potuto fare?
  Oz non voleva annullare il concerto, ma la situazione doveva essere affrontata, quindi decise di aprirlo con l’inno nazionale, “Hatikva”. Perché?, gli ho chiesto. “Avevo sempre voluto cantare ‘Hatikva’”, ha detto. Lui e Hadad avevano provato una versione che incorporava lo stile che Oz ha sentito quando suo nonno tunisino gli cantava l’inno. Era simile a quello che si può ascoltare in una bella registrazione da Tunisi nel 1932, che suggerisce non solo un diverso modo di cantare l’inno, ma un diverso sionismo.
 Senza aggiungere una parola, la versione di Oz sottolineò un fatto politico: l’inno era stato scritto da un europeo dell’est, ma la canzone, e il paese, appartenevano a persone di Tunisi tanto quanto a chiunque altro.
 Il ministro dell’Istruzione, Limor Livnat del Likud, era tra la folla quella sera e, dopo lo spettacolo, chiese loro di registrare la canzone per promuoverla nelle scuole del paese. Oz e Hadad affittarono uno studio e le inviarono la registrazione, ma non ricevettero alcuna risposta; pare che una commissione di esperti convocata al ministero dell’Istruzione non si fosse divertita affatto ascoltando quella rivisitazione. “Hatikva” di Oz è la mia versione preferita della canzone, quella di cui Israele ha bisogno ora, mentre la nostra società si sfilaccia lungo linee etniche e politiche e reclama nuove idee e suoni. I funzionari storsero il naso, Oz lo pubblicò lo stesso, includendolo come bonus track in una compilation di greatest hits nel 2003. Avrebbe trovato le orecchie giuste.

(Il Foglio, 31 luglio 2021)


Peggiorano le condizioni di salute del Presidente palestinese Abu Mazen

Uno staff medico israeliano, richiesto dalla segreteria dell’Autorità Nazionale Palestinese, è giunto oggi a Ramallah per visitare il Presidente palestinese Abu Mazen, le cui condizioni di salute hanno subìto un peggioramento nelle ultime ore. Il governo israeliano prevede che la morte di Mahmoud Abbas possa causare disordini nei territori palestinesi e portare all’insediamento di Hamas anche in Cisgiordania, a poca distanza da Gerusalemme, con un aumento delle minacce per la sicurezza.

(San Marino Rtv 30 luglio 2021)


Il Presidente della cosiddetta "Palestina" richiede la visita di uno staff medico dello Stato d'Israele!


Terza dose Pfizer agli over 60, Israele fa da apripista

Primo Paese al mondo. Anche l’Ue ci pensa: nuovo accordo con l’azienda per 1,8 miliardi di fiale

di Sharon Nizza

TEL AVIV — Oggi il presidente dello Stato Isaac Herzog sarà il primo capo di Stato a ricevere una terza iniezione Pfizer, dando il via alla campagna per la somministrazione dell’iniezione “booster” agli over 60. La decisione è stata annunciata ieri dal premier Naftali Bennett dopo settimane di discussione tra gli esperti: Israele sarà il primo paese al mondo a procedere con il richiamo, nonostante non vi sia ancora l’approvazione della Fda. I sondaggi indicano che gli israeliani hanno fiducia nella scelta, con un 72% che ha risposto che si sottoporrà alla terza iniezione, disponibile da domenica, per gli over 60 che hanno ricevuto la seconda dose almeno cinque mesi fa. Già circa 4 mila immunodepressi hanno ricevuto il booster nelle ultime settimane, senza riportare effetti collaterali. Secondo gli esperti, la scelta verrà estesa a stretto giro all’intera popolazione. «Non è stata una decisione leggera, ma non è la prima volta che anticipiamo la Fda, come è stato con la scelta di inoculare donne incinte, bambini sotto i 16 anni e ora anche sotto i 12 con malattie pregresse », dice Arnon Shahar, responsabile Covid per la cassa mutua Maccabi. Il dilemma principale degli esperti era se aspettare la versione del vaccino Pfizer in lavorazione, adattata alle nuove varianti. La decisione di procedere subito è motivata dall’aumento dei contagi nel Paese da inizi di giugno, anche tra i vaccinati: gli ultimi dati del ministero della Salute indicano che l’efficacia del vaccino nel prevenire i contagi da variante Delta è calata al 40%. Il calo è riscontrato in particolare tra gli over 60 che sono stati i primi a vaccinarsi (tra gennaio e febbraio). Rispetto ai dati sulla ridotta efficacia del vaccino, Shahar tranquillizza: «Vediamo un aumento dei contagi nella quarta ondata, ma la curva dei malati gravi non cresce in maniera esponenziale, grazie ai vaccini». Da ieri è rientrato in vigore anche il Green Pass, che era stato rimosso a inizio giugno. Di nuovo solo vaccinati, guariti o chi presenta un tampone negativo potranno accedere a raduni di oltre 100 persone, eventi culturali, ristoranti al chiuso, palestre, luoghi di culto. Dall’8 agosto, i tamponi non saranno più sovvenzionati dallo Stato (salvo per chi è impossibilitato a vaccinarsi), ma saranno a carico dei clienti a partire dai 12 anni in su.
   Anche l’Ue non vuole farsi trovare impreparata. «Stiamo concludendo un terzo accordo con Pfizer per 1,8 miliardi di dosi e con Moderna per 150 milioni di fiale che serviranno se occorrerà fare una terza dose, oppure per combattere le varianti», ha detto un portavoce della Commissione.

(la Repubblica, 30 luglio 2021)


Di variante in variante, di dose in dose, di controllo in controllo. Ma - dicono - è per il bene dell'umanità. Ed è per questo che il mondo ammira Israele? Gli si ritorcerà contro. M.C.


L'ex primario Giovanardi: “Io medico senza dose mio fratello l'ha fatta vediamo chi vive di più"

di Rosario Di Raimondo

BOLOGNA - «Non sono un no vax. Chi ha fatto una scelta diversa non è un cittadino di serie B. Daniele Giovanardi, 71 anni, medico in pensione, fratello dell'ex senatore Carlo, non si vaccina.

- Perché?
  «In questo momento, per me, è più rischiosa la vaccinazione che prendere il virus ».

- A un paziente cosa direbbe?
  «Ho fatto fare il vaccino a centinaia di persone: settantenni con patologie, diabete, ipertensione, obesi. Ma se uno viene da me e mi chiede: "Faccio vaccinare mia figlia di 16 anni?", rispondo di no. Germania, Inghilterra, Francia escludono che si debbano usare farmaci genomici per questa fascia. Devo stare zitto?»

- E lei non teme per la sua salute?
  «Sono un ex olimpionico in perfetta salute, Se mi sveglio con la febbre, comincio dal primo giorno con delle terapie, antinfiammatori e così via. Non si capisce perché un cittadino debba essere bandito».

- Cambierà mai idea?
  «Un vaccinatore mi deve scrivere due cose: che da vaccinato non infetterò nessuno; e che non è un farmaco sperimentale e c'è certezza che non avrò effetti collaterali. Deve firmare».

- Del Green Pass manco a parlarne.
  «Qual è la razionalità?»

- Ha fatto arrabbiare suo fratello?
  «Da 40 anni faccio il medico, lui il politico. Uno vaccinato l'altro no. Vediamo chi campa di più ...

(la Repubblica, 30 luglio 2021)

Il dibattito sulla terza dose: spunta l'ipotesi per i più fragili

Mentre Israele sarà il primo Paese ad iniziare la somministrazione di una terza dose ad anziani e più fragili, in Italia monta il dibattito: ecco cosa ne pensano gli esperti.

di Alessandro Ferro

Da un lato aumentano i casi di variante Delta, dall'altro sembra che gli anticorpi contro il Covid sviluppati dai vaccini attualmente in uso diminuiscano dopo sei mesi dalla completa immunizzazione. Un rapporto aumento-diminuzione che preoccupa in vista del prosieguo dell'estate ma soprattutto della prossima stagione autunnale. Ecco perché il dibattitto sulla terza dose si fa sempre più acceso ed il Ministero della Salute comincia ad avere le idee chiare, in particolare su anziani e fragili.

COSA DICE LO STUDIO
  Come abbiamo trattato di recente, l'ultima ricerca condotta dai ricercatori dell’University College di Londra e pubblicata nei giorni scorsi sulla rivista scientifica Lancet, si è infatti concentrata sulla durata dell'immunità determinata dal completamento del ciclo vaccinale; in particolare, il documento rileva che i livelli totali di anticorpi sviluppati dai vaccini Pfizer e AstraZeneca comincerebbero a diminuire sei settimane dopo l’immunizzazione completa, e gli stessi, in dieci settimane, potrebbero ridursi anche di oltre il 50%. Visto che gli anticorpi derivanti dai vaccini si riducono a questo ritmo, gli effetti protettivi dei medicinali in uso sarebbero lentamente destinati sparire, risultando quindi sempre meno efficaci contro le nuove varianti del coronavirus.

L'ITALIA CI STA PENSANDO, LA UE: "SIAMO PRONTI"
  A questo punto, prende sempre più corpo l'ipotesi di un piano che possa prevedere un ulteriore richiamo per alcune categorie: le persone fragili, gli immunodepressi e gli operatori sanitari che hanno iniziato le prime dose il 27 dicembre 2020 con il 'V-Day'. Il sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri, intervenendo a Radio Cusano Campus, parlando della durata del vaccino ha lanciato un allarme. "Una quota della popolazione può avere una riduzione degli anticorpi dopo 6 mesi, significa che in quelle persone bisognerà fare un richiamo. È possibile - ha aggiunto - che ogni anno si debba fare un richiamo come per l'influenza". Sulla terza dose si era espresso anche Gianni Rezza, direttore generale Prevenzione del ministero della Salute. "Probabilmente un richiamo vaccinale" ulteriore contro Covid-19 "sarà nelle cose, anche se non sappiamo ancora quando, come e per chi".
  "Siamo molto consapevoli che può esserci bisogno di un'ulteriore dose di richiamo e questo è uno dei motivi per cui ci siamo preparati ad esempio concludendo un terzo contratto con Pfizer, tempo fa, che prevede 1,8 miliardi di dosi e l'obiettivo di queste dosi è essere pronti per le dosi di richiamo, se necessario", ha detto il portavoce della Commissione Ue, Stefan De Keersmaecker, ad un briefing con la stampa a Bruxelles.

ISRAELE COMINCIA DOMENICA
  Intanto, lo Stato di Israele è stato il primo a dare il via libera alla somministrazione di una terza dose di vaccino Pfizer contro il Covid-19 alle persone di età superiore a 60 anni che rischiano di sviluppare un decorso grave della malattia. Lo ha annunciato il ministero della Salute in una nota. Il comitato per la vaccinazione contro il coronavirus del ministero della Salute ha votato a maggioranza assoluta per somministrare il terzo vaccino Pfizer agli anziani nonostante non ci sia ancora l'approvazione dalla Food and Drug Administration statunitense. "La nostra strategia è chiara: salvaguardare la vita e salvaguardare la quotidianità nello Stato di Israele", ha dichiarato il primo ministro Naftali Bennett.

"SOLO PER I FRAGILI", "BAGGIANATA": SI ACCENDE IL DIBATTITO
  "Sulla necessità di una terza dose non ci sono dati a sufficienza per dire che andrà fatta. Probabilmente la risposta ai vaccini a mRna dura almeno un anno o di più. Io credo che la terza dose si farà ad un gruppo selezionato: agli anziani fragili, agli immunodepressi, chi è paziente oncologico o ematologico, ai trapiantati", afferma ad Adnkronos Salute Matteo Bassetti, primario di Malattie infettive all'ospedale San Martino di Genova. "Credo sia da prendere in considerazione" la terza dose di vaccino anti-Covid. Lo afferma il virologo Fabrizio Pregliasco, docente dell'Università Statale di Milano, sull'ipotesi di un piano che possa prevedere un ulteriore richiamo per le persone fragili, gli immunodepressi e gli operatori sanitari vaccinati all'inizio. Lo stesso Pregliasco fa parte di uno studio di valutazione che ha mostrato come i titoli anticorpali si siano abbassati rispetto all'inizio anche se le variabili sono molte: dagli anticorpi neutralizzanti all'immunità cellulare "manca ancora una standardizzazione", sottolinea.
  Una terza dose "è una solenne baggianata. Io sono tra i primi ad essere stato vaccinato, quindi sarei tra i primi candidati alla terza dose. E non la farei perché non ha senso". Massimo Galli, direttore di Malattie infettive all'ospedale Sacco di Milano, contrario anche all'ipotesi di ulteriore richiamo alle persone fragili, gli immunodepressi e gli operatori sanitari fin quando non ci sarà una valutazione "del loro stato rispetto alla risposta immunitaria". Sulla stessa linea di Galli ma in maniera un po' più moderata anche l'epidemiologo e assessore alla Sanità della Regione Puglia, Pier Luigi Lopalco, in merito alla possibilità di prevedere un ulteriore richiamo vaccinale che reputa ancora un po' "prematuro". "Dobbiamo raggiungere l'obiettivo di copertura con due dosi. Quando avremo dati robusti di durata della efficacia vaccinale, sicuramente servirà una strategia per la terza dose", conclude.

(il Giornale, 30 luglio 2021)


Giorgio Agamben: “Non discutiamo le vaccinazioni ma l’uso politico del Green Pass”

«Se si reprimono le libertà individuali per decreto a essere in pericolo è la democrazia».

di Giorgio Agamben

Quello che colpisce nelle discussioni sul green pass e sul vaccino è che, come avviene quando un paese scivola senza accorgersene nella paura e nell’intolleranza - e indubbiamente questo sta avvenendo oggi in Italia - è che le ragioni percepite come contrarie non solo non sono in alcun modo prese seriamente in esame, ma vengono rifiutate sbrigativamente, quando non diventano puramente e semplicemente oggetto di sarcasmi e di insulti. Si direbbe che il vaccino sia diventato un simbolo religioso, che, come ogni credo, funge da spartiacque fra gli amici e i nemici, i salvati e i dannati. Come può pretendersi scientifica e non religiosa una tesi che rinuncia allo scrutinio delle tesi divergenti?
  Per questo è importante innanzitutto chiarire che il problema per me non è il vaccino, così come nei miei precedenti interventi in questione non era la pandemia, ma l’uso politico che ne viene fatto, cioè il modo in cui fin dall’inizio essi sono stati governati. Ai timori che si affacciavano nel documento che ho firmato con Massimo Cacciari, qualcuno ha incautamente obiettato che non c’era da preoccuparsi, «perché siamo in una democrazia». Com’ è possibile che non ci si renda conto che un paese che è ormai da quasi due anni in stato di eccezione e in cui decisioni che comprimono gravemente le libertà individuali vengono prese per decreto (è significativo che i media parlino addirittura di «decreto di Draghi», come se emanasse da un singolo uomo) non è più di fatto una democrazia? Com’è possibile che la concentrazione esclusiva sui contagi e sulla salute impedisca di percepire la Grande Trasformazione che si sta compiendo nella sfera politica, nella quale, com’ è avvenuto col fascismo, un cambiamento radicale può prodursi di fatto senza bisogno di alterare il testo della Costituzione? E non dovrebbe dare da pensare il fatto che ai provvedimenti eccezionali e alle misure di volta in volta introdotte non viene assegnata una scadenza definitiva, ma che essi vengono incessantemente rinnovati, quasi a confermare che, come i governi non si stancano di ripetere, nulla sarà più come prima e che certe libertà e certe strutture basilari della vita sociale a cui eravamo abituati sono annullate sine die? Se è certamente vero che questa trasformazione - e la crescente depoliticizzazione della società che ne risulta - erano già in corso da tempo, non sarà per questo tanto più urgente soffermarsi a valutarne finché siamo in tempo gli esiti estremi? È stato osservato che il modello che ci governa non è più la società di disciplina, ma la società di controllo -ma fino a che punto possiamo accettare che questo controllo si spinga?
  È in questo contesto che si deve porre il problema politico del green pass, senza confonderlo col problema medico del vaccino, a cui non è necessariamente collegato (abbiamo fatto in passato vaccini di ogni tipo, senza che mai questo discriminasse due categorie di cittadini). Il problema non è, infatti, soltanto quello, pure gravissimo, della discriminazione di una classe di cittadini di serie B: è anche quello, che sta certamente più a cuore dell’altro ai governi, del controllo capillare e illimitato che esso permette sui titolari stoltamente fieri della loro “tessera verde”. Com’è possibile -chiediamo ancora una volta- che essi non si rendano conto che, obbligati a mostrare il loro passaporto persino quando vanno al cinema o al ristorante, saranno controllati in ogni loro movimento?
  Nel nostro documento avevamo evocato l’analogia con la “propiska”, cioè col passaporto che i cittadini dell’Unione sovietica dovevano esibire per spostarsi da una località all’altra. È questa l’occasione di precisare, visto che purtroppo sembra necessario, che cos’ è un’analogia giuridico-politica. Ci è stato senza alcun motivo rimproverato di istituire un paragone fra la discriminazione risultante dal green pass e la persecuzione degli ebrei. È bene precisare una volta per tutte che solo uno stolto potrebbe equiparare i due fenomeni, che sono ovviamente diversissimi. Non meno stolto sarebbe però chi rifiutasse di esaminare l’analogia puramente giuridica - io sono giurista di formazione - fra due normative, quali sono quella fascista sugli ebrei e quella sull’istituzione del green pass. Forse non è inutile rilevare che entrambe le disposizioni sono state prese per decreto legge e che entrambe, per chi non abbia una concezione meramente positivistica del diritto, risultano inaccettabili, perché - indipendentemente dalle ragioni addotte - producono necessariamente quella discriminazione di una categoria di esseri umani, a cui proprio un ebreo dovrebbe essere particolarmente sensibile.
  Ancora una volta tutte queste misure per chi abbia un minimo di immaginazione politica vanno situate nel contesto della Grande Trasformazione che i governi delle società sembrano avere in mente - ammesso che non si tratti invece, come pure è possibile, del procedere cieco di una macchina tecnologica ormai sfuggita a ogni controllo. Molti anni fa una commissione del governo francese mi convocò per dare il mio parere sull’istituzione di un nuovo documento europeo di identità, che conteneva un chip con tutti i dati biologici della persona e ogni altra possibile informazione sul suo conto. Mi sembra evidente che la tessera verde è il primo passo verso questo documento la cui introduzione è stata per qualche ragione rimandata.
  Su un ultima cosa vorrei richiamare l’attenzione di chi ha voglia di dialogare senza insultare. Gli esseri umani non possono vivere se non si danno per la loro vita delle ragioni e delle giustificazioni, che in ogni tempo hanno preso la forma di religioni, di miti, di fedi politiche, di filosofie e di ideali di ogni specie. Queste giustificazioni sembrano oggi - almeno nella parte dell’umanità più ricca e tecnologizzata - venute meno e gli uomini si trovano forse per la prima volta di fronte alla loro pura sopravvivenza biologica, che, a quanto pare, si rivelano incapaci di accettare. Solo questo può spiegare perché, invece di assumere il semplice, amabile fatto di vivere gli uni accanto agli altri, si sia sentito il bisogno di instaurare un implacabile terrore sanitario, in cui la vita senza più giustificazioni ideali è minacciata e punita a ogni istante da malattie e morte. Così come non ha senso sacrificare la libertà in nome della libertà, così non è possibile rinunciare, in nome della nuda vita, a ciò che rende la vita degna di essere vissuta. —

(La Stampa, 30 luglio 2021)

“Cacciari ha ragione, siamo ipnotizzati. La scienza non oscuri le minoranze”

«Mi inquieta la minaccia di mandare l’esercito a stanare chi non si è fatto iniettare la sua dose».
di Carlo Freccero

È necessario arrivare ad un punto di rottura perché la rottura si realizzi. Dall’inizio della pandemia i popoli di tutto il mondo sono scesi in piazza innumerevoli volte. Gli italiani sembravano sedati da una sorta di ipnosi. Con il green pass il miracolo si è compiuto: le piazze italiane si sono riempite. Ed è interessante notare che in piazza a contestare c’erano non solo i no-vax, ma anche i vaccinati, che, per motivi di principio, protestano per tutelare le libertà costituzionali. Lo stesso concetto è ribadito da Cacciari nell’articolo di ieri: io mi sono vaccinato, ma la democrazia è libertà di scelta e questa libertà di scelta va difesa. Nel contesto del generale risveglio si pone il pezzo firmato congiuntamente da Cacciari e di Agamben che, bisogna dargliene atto, è stato l’unico ad intervenire dai primi giorni della pandemia con i suoi interventi quotidiani su Quodlibet. Purtroppo la sua voce è stata isolata ed ascoltata solo da minoranze. Per attirare l'attenzione di un numero sufficiente di persone, bisognava esagerare. E si è esagerato.
  La somministrazione dei vaccini è stata affidata all’esercito per sottolineare il clima di emergenza, di protezione civile in cui ci troviamo. Ma per chi ha la mia età l’idea di una scelta sanitaria imposta dall’esercito ha qualcosa di inquietante come inquietanti suonano le minacce di mandare l’esercito porta a porta a «stanare» i non vaccinati. Analogamente, per quelli della mia generazione, la morte di De Donno evoca il fantasma di Pinelli.
  Per la mia professione nella comunicazione il primo problema che ha attirato la mia attenzione è stato da subito la mancanza di alternativa imposta al discorso pandemico. Democrazia significa tutela del parere delle minoranze. Questo parere è stato sradicato in nome della scienza, chi lo professava è stato zittito ed insultato nei dibattiti pubblici.
  Nell’articolo contro il green pass, pubblicato dall’Istituto Italiano di Studi Filosofici di Napoli, Agamben e Cacciari criticano il green pass affermando che «la discriminazione di una categoria di persone, che diventano automaticamente cittadini di serie B, è di per sé un fatto gravissimo, le cui conseguenze possono essere drammatiche per la vita democratica». L’art. 3 della Costituzione italiana vieta esplicitamente ogni forma di discriminazione. L'affermazione dei due filosofi dovrebbe quindi essere, in qualche modo,ovvia. Invece il fatto stesso che il sito Dagospia definisca l’articolo una «bomba» solo perché dissente dalla vulgata del «mainstream» è una conferma di quanto gli autori espongono nell’articolo citato e cioè del pericolo di una deriva totalitaria.
  Mi sembra di assoluta evidenza che un’informazione che bandisce qualsiasi forma di dissenso, sia di per sé sinonimo di propaganda. E la propaganda ha poco di democratico. Da quando è iniziata la pandemia la televisione ci ha abituati alla consuetudine del dibattito unanimistico. Ci sono format e programmi come il talk show che hanno bisogno per esistere di un contraddittorio. Dato che gli invitati sono tutti della stessa idea, essi non sono tenuti a confrontarsi, ma fanno gara tra loro a superarsi in ortodossia ed obbedienza ai vari Dcpm ed ora a Decreti Legge che hanno sostituito la legislazione ordinaria. Mi si obietterà che tutto questo è fatto per il bene comune, un bene comune che autorizza uno stato di eccezione, previsto però in Italia, solo per lo stato di guerra (art. 78 della Costituzione). Per rendere estensibile ad una pandemia lo stato di eccezione si applica al Covid-19 un linguaggio bellico. Stiamo combattendo la guerra contro il virus. Chi non si vaccina (e quindi non accede al green pass) è un disertore. Chi si vaccina dimostra senso civico.
  Vi siete chiesti perché il vaccino non viene imposto per legge, anche se, per eccellenti costituzionalisti come Cassese, l’art. 32 giustificherebbe la vaccinazione obbligatoria? L’art. 32, pur ammettendo che un trattamento sanitario possa essere imposto per legge, limita questo intervento al paragrafo successivo che recita: «La legge non può violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Tutela cioè la collettività, ma anche l’individuo. E i trattamenti sperimentali sono esclusi dal codice di Norimberga, dalla dichiarazione di Helsinki, dalla convenzione di Oviedo. Il processo di Norimberga basta da solo ad evocare il nazismo. Gli imputati si difesero sostenendo di aver obbedito agli ordini. Per evitare che queste aberrazioni si ripresentassero fu stabilito un codice a futura memoria. Tra l’altro esso prevede che la sperimentazione sia ammessa solo se «il soggetto volontariamente dà il proprio consenso ad essere sottoposto ad un esperimento». Senza accettazione volontaria l’esperimento non può avere luogo.
  Il vaccino è ancora in fase sperimentale. Cito dal bugiardino Pfizer e quindi faccio parlare direttamente le case farmaceutiche produttrici, perché sia ben chiaro che non sto riferendo il mio parere personale: «Per confermare l’efficacia e la sicurezza di Comirnaty il titolare dell’autorizzazione alla emissione in commercio deve fornire la relazione finale sullo studio clinico» e a lato «Dicembre 2023». Sino al 2023 il vaccino sarà una terapia sperimentale con esiti futuri incerti.
  In questi giorni la senatrice Segre, sopravvissuta all’Olocausto, è intervenuta dicendo che è folle paragonare vaccino e green pass alla Shoah. Ci sarebbe una sproporzione tra le cose. Ma la senatrice sembra dimenticare che c’è sempre un inizio e la discriminazione è quell’inizio. Per parlare di regime autoritario non è necessario poi arrivare sino ai forni crematori. Basta che la normale vita democratica ed i diritti dei cittadini subiscano delle limitazioni. In senso opposto va invece l’intervento di un’altra sopravvissuta all’Olocausto che milita invece sul fronte opposto, la signora Vera Sharav. «Conosco le conseguenze - dice la sopravvissuta - di essere stigmatizzati come diffusori di malattie». Il suo calvario è incominciato a piccoli passi con la segregazione ed il divieto sempre più esteso a partecipare alla vita sociale, a entrare in determinati contesti, a viaggiare. La cosa che più mi ha colpito nell’intervento di Vera Sharav è la lucidità con cui collega il nazismo all’uso autoritario della medicina. In nome della scienza - ci dice - viene cancellato ogni principio morale della società. Questa affermazione mi fa ricordare il fondamentale intervento di Agamben con la sua «Domanda» rivolta a tutti gli italiani. «Com’è potuto avvenire che un intero Paese sia senza accorgersene eticamente e politicamente crollato di fronte ad una malattia?». In nome della sopravvivenza e di quella che Agamben chiama «nuda vita» (una vita privata di ogni valore che travalichi la sopravvivenza biologica ), gli italiani hanno accettato di lasciar morire i loro anziani in solitudine negli ospedali, hanno accettato di incenerire i cadaveri senza sepoltura, hanno accettato la perdita di ogni principio morale. Ed hanno rinunciato alla vita sociale. E questa adesione acritica da parte dei cittadini è per certi versi più inquietante dell’autoritarismo del governo. È un indice inequivocabile che i meccanismi dell’autoritarismo sono già stati introiettati da tutti noi come naturali e che appartengono ormai alla quotidianità e al nostro futuro. 

(La Stampa, 29 luglio 2021)

Il "complotto sionista" è sempre dietro l'angolo

Se non piove, l'Iran dà la colpa a Israele

GERUSALEMME - La notizia, rimbalzata nei comunicati di varie agenzie di stampa, recante come fonte l'agenzia di stampa governativa iraniana è di per sé bombastica, eclatante: Teheran comunica di aver arrestato un certo numero (non precisato) di agenti del Mossad (nomi e nazionalità ignote). Gli agenti stranieri, prosegue l'agenzia governativa iraniana, sono stati arrestati mentre tentavano di varcare clandestinamente il confine occidentale della Repubblica islamica. Se provenissero dalla Turchia o dall'Iraq non lo si specifica. In loro possesso sono stati rinvenuti fucili da caccia, pistole e bombe a mano. 
  Se la notizia non fosse così fumosa, sembrerebbe proprio che l'Iran questa volta abbia fatto il colpo grosso! Di tanto in tanto l'Iran, trasmette dichiarazioni di questo tipo. Una volta si tratta di agenti del Mossad, un'altra di spie americane, l'importante è mantenere accesa la tremolante fiaccola che illumina le colpe esterne. Sono sempre gli "altri" ad avercela con loro, a destabilizzare, a causare problemi interni. 
  In questo caso gli arrestati, accusati di appartenere a una «rete di spionaggio» guidata dal Mossad, avrebbero ricevuto l'ordine di «aiutare i manifestanti, compiendo azioni terroristiche ed attentati contro personalità del regime». Le manifestazioni a cui si accenna sono scoppiate settimane fa per protestare contro l'inefficienza del governo nell'affrontare la grave siccità (la più grave negli ultimi 50 anni) che attanaglia il Paese. Particolarmente critiche sono le condizioni della popolazione nell'area del Khuzestan (regione a Sud Ovest) ed è lì infatti che si riscontrano gli episodi di maggior violenza. Il tentativo di spostare il focus dall'incapacità governativa di affrontare la crisi idrica verso "agenti esterni" è maldestra e poco credibile. È vero che agenti del Mossad hanno operato ( e probabilmente operano) in Iran, valga per tutti l'esempio del furto dell'archivio nucleare iraniano nel 2018, di cui Israele si è assunta la piena responsabilità, ma lo fa a ben più alti livelli e con ben più sofisticati mezzi di fucili da caccia e pistole. È difficile, inoltre, credere che sia una pura coincidenza che la notizia dell'arresto dei componenti della "rete di spionaggio" giunga subito dopo la divulgazione, da parte della britannica Sky News, di alcuni documenti segreti in cui si descrivono i piani dell'unità 13 dei servizi di spionaggio iraniani per attaccare obbiettivi civili quali navi da trasporto e pozzi petroliferi con mirati attacchi cyber. 
  La notizia dell'arresto ha pertanto almeno due scopi: distogliere la vessata popolazione iraniana dai problemi della malgestita siccità e controbattere alle accuse di preparazione di attacchi cyber contro civili a opera dei servizi iraniani. 
  Ad aggiungere preoccupazioni circa gli aggressivi piani iraniani giunge l'affermazione di Dany Yatom, ex capo del Mossad, che lunedì ha dichiarato: «Israele deve preparare un piano alternativo, il Presidente Usa Joe Biden non si è mai impegnato a impedire all'Iran di diventare una potenza pre-nucleare ( cioè in possesso di tutti i mezzi per poter produrre la bomba atomica) ma solo che non permetterà la produzione della medesima». 
  È noto il detto italiano: «Piove, governo ladro». Potremmo ora coniarne un altro in Farsi: «Non piove, è colpa d'Israele». 

Libero, 29 luglio 2021)

In Israele una nuova ondata, verso la terza dose agli over 60 Usa. Iniezione a tutti i federali

Tornano le misure anche in Francia: a Bordeaux obbligatorie le mascherine al chiuso,

ROMA - Israele resta uno dei Paesi al mondo con la maggior percentuale (59%) di popolazione immunizzata con due dosi vaccinali ma ormai è considerato un "ex" paese virtuoso. Ieri infatti a causa della variante Delta a Gerusalemme e dintorni sono stati registrati 2 mila nuovi contagi in un solo giorno. Mai così tanti da mesi per una popolazione di circa 9 milioni di abitanti. Il governo israeliano sta valutando l'opportunità di somministrare una terza dose di vaccino Pfizer agli over60, anche prima che arrivi una autorizzazione formale da parte della Fda americana.
  Allarme anche a Tokyo e in tutto il Giappone per una nuova impennata di contagi. L'incubo torna a metà estate - nel pieno delle Olimpiadi - e parte dall'Asia dove, salvo una manciata di casi virtuosi, la pandemia non dà tregua. A Tokyo si registrano 2.848 nuovi casi in 24 ore, il livello più alto dall'inizio della pandemia. A livello nazionale, con 7.629 contagi, è il maggior aumento da inizio gennaio.
  Negli Stati Uniti si sta anche pensando di introdurre l'obbligo di vaccinazione per tutto il personale che lavora nel governo federale, come ha rivelato lo stesso il presidente americano Joe Biden. E si va anche verso il ritorno dell'obbligo della mascherina al chiuso in alcune circostanze anche per i vaccinati e per le scuole alla ripresa a settembre. In Francia invece la regola è già stata introdotta, sebbene soltanto nella regione di Bordeaux, una delle principali città francesi, e in diverse zone turistiche della regione circostante, la Gironda. E si aggiunge al divieto del consumo di alcol in strada. Mentre continuano a riecheggiare gli appelli alla vaccinazione: l'ultimo in ordine di tempo è quello del ministro francese della Salute Olvier Véran, lanciato dal suo profilo Twitter: «Non indugiate, vaccinatevi!».

 L'ESEMPIO BUTHAN
  Tra gli appelli in queste ore spicca anche quello della ormai 18 enne ambientalista Greta Thunberg che ha ricevuto la prima dose del vaccino e, pubblicando la foto del braccio, ha ricordato quanto sia «estremamente iniqua» la distribuzione dei vaccini nel mondo. Sulla stessa lunghezza d'onda del messaggio diffuso dall'Unicef che mette in evidenza come il piccolo regno asiatico del Bhutan debba considerarsi un esempio da seguire in merito alle donazioni internazionali di vaccini, dopo che in una settimana ha accelerato la sua campagna al punto da sottoporre alla seconda dose l'85% della popolazione che ne aveva diritto. In Europa, va meglio nel Regno Unito, dove per il settimo giorno consecutivo si registra una decelerazione nei contagi, con 23.511 nuovi casi identificati. Ma il ministro della Salute tedesco Jens Spahn intanto pianifica un'estensione dell'obbligo di test covid-19 per chiunque entri in Germania, non importa da quale luogo provenga o con quale mezzo voglia entrare. Per adesso l'obbligo di test riguarda i passeggeri in arrivo dai luoghi inseriti nella lista delle zone a rischio, l'opzione di un inasprimento delle misure finora però non ha incontrato il favore di tutto il governo.
  Del resto l'ultima fotografia dell'Ecdc, il Centro europeo per il controllo delle malattie, è abbastanza nitida nel cogliere come la diffusione della variante Delta stia causando un aumento dei casi nelle strutture di lunga degenza in diversi paesi europei. D.Pir.

(Il Messaggero, 29 luglio 2021)


Israele apre sul siero ai bambini sotto 12 anni

di Gaudenzio Fregonara

Israele ha autorizzato l'uso del vaccino contro il Covid-19 di Pfizer per i bambini più fragili tra i 5 e gli 11 anni, mentre nel Paese i casi connessi alla variante Delta aumentano rapidamente. I funzionari locali hanno affermato che i bambini dovrebbero essere vaccinati se hanno un'alta probabilità di ammalarsi gravemente o morire per il Covid-19 a causa di problemi sottostanti come grave obesità, malattie polmonari croniche, immunodepressione o insufficienza cardiaca.
   Il ministero della Salute ha specificato che ogni singolo caso avrà bisogno di un'approvazione speciale e che ai bambini verrà somministrato un dosaggio inferiore del vaccino, 10 microgrammi invece dei consueti 30, in conformità con i dati forniti da Pfizer. Un portavoce della società ha dichiarato che i regimi di dosaggio dipendono dalle autorità sanitarie più che dall'azienda farmaceutica. Pfizer sta testando la dose da 10 microgrammi su bambini da 5 a 11 anni, ma non ha ancora rilasciato dati clinici e ha detto che si aspetta di avere i risultati dello studio in settembre, quando dovrebbe chiedere alla Food and Drug Administration Usa di autorizzare l'uso del suo vaccino per questa fascia di età.
   L'autorizzazione di Israele, una delle prime al mondo, arriva dopo che la Fda ha aumentato il numero minimo di bambini piccoli che dovrebbero essere inclusi negli attuali studi sui vaccini contro il Covid-19 per rilevare meglio eventuali effetti collaterali. La Fda vuole comprendere meglio quali potrebbero essere gli effetti collaterali, tra cui un raro problema cardiaco, noto come miocardite, che ha colpito un esiguo numero di persone.
   «La decisione di Israele di accelerare le vaccinazioni per i bambini vulnerabili si è basata su una valutazione dei potenziali effetti collaterali rispetto alle conseguenze di non somministrare i vaccini ai giovani a rischio», ha detto Eyal Leshem, direttore del Centro per la medicina di viaggio e le malattie tropicali dell'ospedale Sheba. «La mossa consentirà probabilmente di vaccinare centinaia di bambini a rischio», ha affermato. «Non possiamo aspettare gli studi clinici quando la malattia sta imperversando, né rinchiudere le persone a casa per mesi e mesi».

(Milano Finanza, 29 luglio 2021)


L’infondatezza scientifica e giuridica del Green Pass

di Aldo Rocco Vitale

Il Green pass è una misura con i quali i cittadini possono continuare a svolgere attività con la garanzia di ritrovarsi tra persone che non sono contagiose”: con queste parole il Presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha pubblicamente giustificato l’emanazione del Green pass.
  Sebbene già da decenni Hannah Arendt abbia precisato nelle sue riflessioni sui rapporti tra verità e politica che “le menzogne sono sempre state considerate dei necessari e legittimi strumenti non solo del mestiere del politico o del demagogo, ma anche di quello dello statista”, si può ritenere l’affermazione del capo del Governo come non rispondente a realtà, poiché il Green pass è scientificamente e giuridicamente infondato.
  Sotto il primo profilo, infatti, non soltanto la realtà sta dimostrando, come nel caso olandese, o come nel caso del Vespucci, o come nel caso della docente di Milano, che il vaccino non esclude né il contagio, né, addirittura, il ri-contagio, semmai limita la sintomaticità, le complicanze e la mortalità da Covid, ma per di più che proprio scientificamente non c’è alcuna certezza che il vaccino escluda in modo categorico e totale la contagiosità, specialmente in relazione alla rampante variante Delta.
  In questa direzione, oltre la cronaca riportata dal Wall Street Journal su ciò che sta accadendo in Israele in cui il 60 per cento dei nuovi ospedalizzati ha già effettuato la doppia dose vaccinale, si deve ricordare il punto numero 11 del documento dell’Aifa in cui si chiarisce che la questione è ancora in fase di studio e che si possa parlare soltanto di plausibilità e non di certezza in merito ai rapporti tra vaccino ed esclusione del contagio.
  Il Green pass, dunque, da un punto di vista scientifico non fornisce alcuna garanzia di ritrovarsi tra persone non contagiose, poiché la cronaca, la scienza e, soprattutto, la realtà non hanno ancora fornito tali garanzie. Ciò che ha affermato il Presidente del Consiglio, dunque, non è rispondente alla realtà attuale. Sotto il profilo giuridico, inoltre, non si possono privare dei diritti fondamentali costituzionalmente garantiti alcuni soggetti per tutelare quelli degli altri.
  Delle due l’una: o i diritti fondamentali sono tali, e lo sono sempre e per tutti, cioè sostanzialmente pre-ordinamentali (tanto che la Carta costituzionale utilizza il verbo “riconoscere” e non “costituire”), pre-costituzionali, ultra-statali, sovra-politici, meta-normativi, poiché ancorati e ancorabili alla struttura ultima dell’essere umano, ovvero alla sua umanità, essendo cioè il riflesso giuridico della sua dimensione ontologica, oppure non lo sono e quindi diventano manipolabili o eliminabili in base alle circostanze anche se emergenzialmente giustificate.
  Per quanto sia vero che la stessa Costituzione consenta delle limitazioni, per esempio per la tutela della pubblica incolumità, è anche altrettanto vero che ammettere le compressioni non significa ammettere anche le eventuali soppressioni, come parrebbe fare l’introduzione del Green pass che esclude senza limiti dalle attività lavorative o ricreative chi fosse sprovvisto di copertura vaccinale, peraltro in un contesto normativo quale è quello attuale che non prevede l’obbligo vaccinale anti-Covid. Il rigore sul punto, infatti, data la particolare importanza e sensibilità della materia, dovrebbe essere totale e inderogabile, e soprattutto – almeno per il Green pass – scientificamente supportato, cosa che, come già visto, non è per nulla.
  Ancora sotto il profilo giuridico: occorre precisare che non esiste una gerarchia di diritti fondamentali in base alla quale si possa ritenere che alcuno di essi sia sovraordinato rispetto ad altri, per cui il diritto alla salute è tanto fondamentale quanto quello al lavoro, quello di circolazione lo è tanto quanto quello di professare liberamente il proprio culto, quello di espressione del pensiero lo è tanto quanto quello di insegnamento o istruzione. Se così non fosse si dovrebbe dimostrare tale presunta gerarchia, i criteri logico-giuridici utilizzati per la sua ordinazione e la legittimazione di chi avesse compiuto una tale gerarchizzazione. Mettere in scontro i diritti fondamentali, come fossero cavalieri in giostra l’un contro l’altro armati, significa disconoscere la natura degli stessi e della stessa dimensione assiologica del diritto in quanto tale.
  Ad ogni buon conto, proprio perché il Green pass agisce su libertà e diritti fondamentali, si dovrebbe prevedere un limite temporale breve e certo che richiami la presenza confortante dello Stato di diritto all’orizzonte di tutta questa vicenda, proprio perché la compressione, o perfino la soppressione, delle libertà dei singoli e dei gruppi a tempo indeterminato e indeterminabile è più confacente alla natura dello Stato totalitario.
  Appare, dunque, alquanto evidente l’infondatezza scientifica e giuridica di un provvedimento come il Green pass che non soltanto non fornisce alcuna garanzia sull’assenza di contagio, ma solleva profondissime inquietudini, soprattutto per quei giuristi (la minoranza purtroppo) che non sonnecchiano pigri e arresi all’ombra della forma della legge, agitati sempre e incessantemente dall’ardore della libertà e della giustizia che invece sono, e in ogni circostanza dovrebbero essere, la sostanza vivificante e palpitante del diritto e dello Stato di diritto.

(l'Opinione, 28 luglio 2021)

Guttman, il medico ebreo scampato a Hitler che inventò le Paralimpiadi

Il neurologo polacco riuscì a riscattare la vita di tanti portatori di handicap. Nel 1948, dopo aver trovato rifugio in Inghilterra, organizzò la prima gara tra arcieri in sedia a rotelle.

di Michela Pagano

“Aktion T4”. Programma di “buona morte”. Nella Berlino nazista del 1939, in un elegante edificio della Tiergartenstrasse 4, un ente pubblico opera per la salute e l’assistenza sociale della Germania. Obiettivo: eliminare persone affette da malattie genetiche nonché pazienti disabili, portatori di handicap fisici e mentali, ospiti degli ospedali e delle case di cura. Il sogno di un mondo perfetto dominato dalla “razza” ariana, perseguito da Adolf Hitler, non può prescindere da questo ambizioso progetto. Lo aveva già spiegato il Führer una decina di anni prima nel “Mein Kampf”.
  In questo modo il risparmio delle risorse economiche nazionali per il sostentamento delle spese sanitarie sarebbe stato notevole. Meno pazienti da curare, più denaro da investire per il riarmo del Paese. Un progetto ambizioso. Tanto quanto folle. Un progetto che il neurologo ebreo polacco Ludwig Guttmann, scampato alla Shoah, avrebbe cercato di riscattare qualche anno dopo, esaltando le capacità di quegli individui considerati inutili, di quelle vite giudicate indegne di essere vissute e che (anche) attraverso il gioco paralimpico avrebbero mostrato tutta la loro validità.
  Lo racconta Roberto Riccardi, generale del Comando dei carabinieri per la tutela del patrimonio culturale, nel suo libro “Un cuore da campione. Storia di Ludwig Guttmann, inventore delle Paralimpiadi” (Giuntina).
  Nel 1902, quando ha solo tre anni, Ludwig si trasferisce insieme alla sua famiglia da Toszek a Chorzów, cittadina polacca della Slesia Superiore. Non sa ancora che quella sarebbe stata la città che, prima fra tutte, avrebbe contribuito alla sua formazione. Ricco centro minerario, Chorzów è sede del primo ospedale al mondo dedicato agli incidenti sul lavoro. Nel 1917 Guttmann opera da volontario nei Servizi medici di emergenza nazionale, spinto da uno dei precetti fondamentali dell’etica ebraica: la solidarietà verso chi soffre. Assiste alla morte di un giovane minatore affetto da una lesione spinale e nello stesso anno viene contagiato da un paziente con un’infezione alla gola. Il morbo gli procura per qualche anno una forma di disabilità (perché costretto a tenere un tubo di vetro in gola per il drenaggio di un ascesso) che gli fa conoscere in prima persona l’emarginazione del diverso.
  Un disprezzo che non immaginava di poter mai incontrare. Arrivano i primi contatti con la sofferenza. Episodi che lo segneranno profondamente. Molti anni dopo, Chorzów sarà protagonista di uno degli eventi più terribili della storia, la deportazione nazista, ospitando uno dei 45 sottocampi del lager di Auschwitz. Anche questo inciderà profondamente nella vita di Guttmann.
  Il giovane, poco più che maggiorenne, asseconda piacevolmente la sua vocazione per la medicina, unitamente al suo amore per lo sport, attraversando i principali centri universitari polacchi e tedeschi: Breslavia, Würzburg, Friburgo. Due passioni che gli faranno da guida nel corso di tutta la sua esistenza.
  Guttmann vuole essere un neurologo. E così il primo ottobre 1923 accetta l’incarico presso il reparto di neurologia e neurochirurgia dell’ospedale di Breslavia da cui partirà la sua missione per la cura delle patologie nervose e spinali. Non ha dimenticato il giovane minatore incontrato sei anni prima, non ha dimenticato la sofferenza che aveva promesso a se stesso di voler combattere. Ma due grandi ostacoli gli si pongono davanti e condizionano per sempre la sua vita: l’ascesa del partito Nazionalsocialista dei Lavoratori Tedeschi e l’entrata in vigore delle leggi di Norimberga. Nel 1933, poco dopo la salita al potere, Adolf Hitler annuncia la rimozione da ogni incarico pubblico o professione di tutti gli appartenenti alla “razza” ebraica. L’unico luogo in cui a Guttmann è concesso di lavorare è l’ospedale israelitico di Breslavia.
  A lui è affidata l’unità neurologica, ma è solo la quiete prima della tempesta. Nell’agosto del 1939, a tre anni dall’applicazione delle leggi razziali, la Germania nazista impone il divieto, per i medici di religione ebraica, di curare malati diversi da quelli appartenenti alla propria “razza”. Ma di lì a poco tutto sarebbe cambiato.
  Il 9 novembre 1938 l’uccisione del diplomatico tedesco Ernst vom Rath da parte del diciassettenne ebreo Herschel Grynszpan scatena l’ira del partito nazista, convinto dell’esistenza di un complotto ordito dalla comunità ebraica ai danni del Terzo Reich. La spedizione punitiva è sanguinosa, l’ospedale israelitico si riempie di feriti, la polizia tedesca minaccia ritorsioni se si continuano a curare feriti considerati “illegittimi”.
  Ma Guttmann non ci sta. A uno a uno fa sfilare davanti ai militari i ricoverati. Tutti hanno diritto alle cure, tutti hanno diritto di stare lì. La sfida alla Gestapo è appena iniziata. Buffo pensare che qualche mese più tardi sarà proprio il governo a cui quella polizia presta servizio a offrire inconsciamente a Guttmann l’opportunità di cambiare vita.
  Una richiesta d’aiuto da Lisbona, per la cura della paraplegia del dottor Almedia Dias, si rivela una mossa orchestrata dal Terzo Reich per mantenere solide le relazioni con il Paese alleato di Antonio de Oliveira Salazar. Per questo motivo schiera il suo medico migliore. Da lì la strada è in discesa, il futuro delle paralimpiadi è appena cominciato. Dopo aver visitato Lisbona, Guttmann riceve una proposta di lavoro in Inghilterra. Il suo visto è pronto, l’ultimo ostacolo da superare è il controllo doganale da parte dei funzionari del Reich.
  Nell’inverno del 1939, mentre la guerra imperversa e il programma di sterminio nazista ha inizio, la famiglia Guttmann approda a Oxford. Dopo un breve periodo all’ospedale militare installato al St.Hugh’s College, Ludwig viene trasferito nel nuovo Centro Nazionale di ricerca sulle lesioni del midollo spinale presso l’ospedale di Stoke Mandeville, nel Berkshire, vicino Londra. Da un lato “Aktion T4”, il programma di “buona morte” per disabili, dall’altro uno studio per rendere loro la vita migliore. Guttmann, in quell’ospedale, comprende immediatamente l’esigenza di cambiare le cose. Non può permettere che la paraplegia abbia la meglio. Non può permettere che alla folle ideologia nazista un giorno venga data ragione.
  Inizia a pensare che l’unico modo per riportare in vita chi invece la vita crede di averla persa è praticare sport. Dimezza i sedativi, costringe i pazienti a sopportare il dolore, li obbliga a giocare tra di loro lanciando una palla. In poco tempo il nuovo metodo fisioterapico attira pazienti da tutta Europa e i risultati ottenuti lo gratificano al punto da diventare un simbolo di riscatto, l’emblema della ribellione alla follia nazista.
  Così, a Stoke Mandeville lo sport diventa una regola. Ai palleggi si aggiungono le freccette, i birilli, il tennis da tavolo, il tiro con l’arco, il biliardo. E poi ancora il bowling, il basket in carrozzina, la maratona. Ma è nel 1948 che accade un evento che avrebbe cambiato la storia dello sport. Parallelamente alla manifestazione d’apertura delle Olimpiadi di Londra di quell’anno, Guttmann organizza nel cortile del suo ospedale una competizione di tiro con l’arco. Sedici i partecipanti. Nella seconda edizione saranno sessanta, in quella dopo centoventisei. L’evento è un successo. L’auspicio è che quei giochi diventino popolari quanto le Olimpiadi. Nel 1952 nasce la International Stoke Mandeville Games e anno dopo anno le iscrizioni da tutta Europa aumentano sempre di più.
  Sono proprio gli anni ‘50 a segnare la definitiva realizzazione del progetto di Guttmann: aumentano i finanziamenti, si ampliano i luoghi, crescono l’organizzazione e le strutture. Ogni estate, ogni quattro anni, in concomitanza delle Olimpiadi, si svolgono le paralimpiadi. E gli atleti di Guttmann diventano una presenza costante.
  Nel 1956, il dottor Antonio Maglio, pioniere della riabilitazione dei disabili in Italia, incontra Guttmann. Con lui l’intesa è immediata. I due decidono che alle Olimpiadi previste quattro anni dopo a Roma, avrebbero partecipato anche gli atleti paraplegici. Così avviene. Il 25 agosto 1960, quattrocento disabili di ventitré Paesi partecipano alle competizioni, arricchite di pallacanestro, lancio del giavellotto, scherma, biliardo e tennis da tavolo.
  Quattro anni dopo è la volta di Tokyo, con ventuno Paesi partecipanti; nel 1968 di Israele e ventinove Paesi in competizione; nel 1972 di Monaco di Baviera e centoventuno Paesi. Il ritorno in Germania non può essere più soddisfacente. A oltre trent’anni dal “T 4” i disabili onorano la propria vita.
  Le paralimpiadi del 1976 a Toronto sono le ultime a cui Guttmann partecipa. Non riuscirà ad essere presente a quelle del 1980 ad Arnhem sul Reno, nei Paesi Bassi, né a vedere realizzato lo stadio di Stoke Mandeville per cui aveva raccolto dei fondi qualche anno prima.
  Il 22 luglio 1984 si apre la settima edizione dei Giochi mondiali su sedia a rotelle. L’evento è un omaggio alla memoria di quell’uomo che, più di tutti, aveva creduto nelle capacità di quegli uomini e quelle donne, donando loro una nuova speranza. La strada da allora è tutta in discesa. I giochi continuano a realizzarsi, i partecipanti continuano a gareggiare. La loro vita non è più da disabili ma esclusivamente da campioni.

(l'Espresso, 28 luglio 2021)

Dror Eydar: "L'Italia ha avuto un ruolo storico e biblico centrale per Israele”

Intervista all’Ambasciatore d’Israele in Italia Dror Eydar

di Alessandro Iovino

Dror Eydar non è solo l’ambasciatore d’Israele in Italia. Il suo profilo, la sua preparazione, la sua dialettica, lo qualificano anche come uno dei più attenti e raffinati osservatori non solo dei fatti di attualità ma anche storici che riguardano lo stato d’Israele ed il popolo ebraico. Ex editorialista ed editore di Israel Hayom, è l’ambasciatore israeliano in Italia dal 2 settembre 2019. Laureato in letteratura ebraica, ha scritto molti libri ed è un esperto di geopolitica internazionale.
  Analizza, studia, scrive e pubblica. Argomenta ogni sua posizione e in questi due anni, nonostante le difficoltà legate alla pandemia, ha lavorato moltissimo per intensificare il legame storico, politico e culturale con il nostro paese. Tra gli uomini più “scortati” d’Italia, la sua sicurezza e’ una priorità per il nostro paese, da sempre vicino ad Israele.
  Ha parlato a Real Inside Magazine con questa intervista in esclusiva, alla luce anche di una storica ed importantissima celebrazione che si è tenuta lo scorso aprile a Sanremo dove nel 1920 si tenne una conferenza fondamentale per la costituzione dello stato ebraico. Ma abbiamo parlato anche delle recenti tensioni in Medio Oriente, dell’emergenza sanitaria e dello storico rapporto con l’Italia.
  Grazie Ambasciatore per questa opportunità. Partiamo proprio dall’evento di Sanremo.

- Quale ruolo ha avuto l’Italia in quella storica conferenza in cui furono gettate le basi per la nascita dello Stato d’Israele ?
  La conferenza di Sanremo si è tenuta poco dopo la Prima Guerra Mondiale.
  Alla conferenza parteciparono i rappresentanti delle quattro nazioni vincitrici. Dal 19 al 26 aprile del 1920 a Sanremo si decise come suddividere i territori derivanti dal crollo del gigante dai piedi d’argilla: l’Impero Ottomano.
  Il Medio Oriente infatti era controllato fino a quel tempo dagli ottomani.
  Nel 1919 a Parigi si tenne una conferenza in cui si decise per l’Europa ed i suoi confini. Molti dei quali sono ancora oggi in essere. Ma in quella sede non fu affrontata pienamente la questione mediorientale. Ecco perché venne convocata a Sanremo questa conferenza.
  Vennero già a Parigi invitate due delegazioni: una ebraica ed una araba.
  Sostanzialmente a Sanremo venne condiviso dagli Alleati questo principio: tutto il Medio Oriente agli Arabi, ad eccezione della Palestina che sarebbe divenuta stato ebraico. In quella sede si tenne conto anche dei confini geografici definiti nella Bibbia.
  L’Italia oltre che ospitare la conferenza ebbe un ruolo centrale attraverso il suo presidente del Consiglio dell‘epoca: Francesco Saverio Nitti.
  Fu un vertice di assoluta importanza per le decisioni che vennero prese …

- Quali furono dunque queste decisioni riguardo la Palestina ?
  La Palestina fu destinata agli Ebrei, come ho detto. Tra i vari punti fu ribadito che “è stato dato riconoscimento alla connessione storica del popolo ebraico con la Palestina e alle basi per ricostituire la loro nazione in quel paese”.
  Ma mi si consenta di fare una precisazione storica riguardo la Palestina.
  Nel II secolo d.C. l’imperatore Adriano decise di essere determinato nel frenare le continue rivolte del popolo ebraico contro l’Impero Romano. Dopo la distruzione del tempio nel 70 d. C., nel 132 d.C., gli ebrei diedero vita alla terza guerra giudaica, l’ultima grande rivolta contro i Romani. Furono tre anni di rivolte e ribellioni contro il dominio dei romani, il divieto di circoncisione emanato da Adriano e la sua volontà di costruire una città sulle rovine di Gerusalemme dedicata al culto pagano del dio Giove.
  Fu una mattanza per i giudei. Alla fine nonostante non fu semplice per Romani, la repressione delle rivolte fu massiccia. L’imperatore Adriano decise dunque di cambiare il nome di quei territori in Siria-Palestina. Penso’ che gli ebrei dopo qualche generazione avrebbero dimenticato le loro radici e perso memoria della loro storia. Ma così non fu. Perché quella terra che prese il nome di Palestina, è stata sempre terra di ebrei. Pensi che tutti quelli nati prima del 1948 a Gerusalemme sulla propria carta d’identità hanno scritto: nato in Palestina. Una terra da sempre appartenuta alla nostra popolazione.
  A Sanremo nel 1920 fu deciso che dopo ben 1850 anni circa, per la prima volta dopo la distruzione del Tempio, quella terra tornasse ad essere patria per gli Ebrei. Una presa di posizione davanti agli occhi del mondo. Insomma credo sia chiaro la portata storica di questo evento di Sanremo: per la prima volta dopo tanti secoli il mondo riconosceva il diritto degli Ebrei di ritornare in Palestina dopo una così lunga diaspora.

- Ambasciatore, perché la conferenza di Sanremo è stata così importante rispetto anche alla Dichiarazione di Balfour del 1917?
  Quella dichiarazione fu di certo fondamentale.
  Si tratta di una lettera, scritta dall’allora ministro degli esteri inglese Arthur Balfour a Lord Rothschild, considerato come principale rappresentante della comunità ebraica inglese, e referente del movimento sionista. In quella lettera si fece espressa menzione al fatto che il governo britannico guardava con favore alla creazione di una “dimora nazionale per il popolo ebraico”.
  Prima di Sanremo il movimento sionista aveva ottenuto diverse dichiarazioni in tal senso, ma non ci fu mai una reale opportunità per la fondazione di uno stato.
  Quella di Balfour fu appunto una dichiarazione ma la conferenza di Sanremo sancì la nascita di un percorso, allora embrionale, per la nascita dello stato ebraico, avvenuta poi 28 anni dopo.

- Perché allora una certa propaganda vuole affermare che Israele viola leggi internazionali riguardo l’occupazione di quei territori ?
  Ecco, questo non lo capisco. Molti osservatori probabilmente non conoscono i fatti. Ignorano quanto avvenne a Sanremo che rimane un nodo centrale per la nostra storia.
  E gli Italiani dovrebbero essere orgogliosi di cio’, visto che a firmare quel documento ci fu anche il presidente Nitti.
  Ecco perché abbiamo deciso di ricordare questo evento, con la presenza tra l’altro, del Maestro Andrea Bocelli, delle autorità italiane tra cui il ministro Luigi Di Maio ed il senatore Lucio Malan, presidente del gruppo di amicizia interparlamentare tra Israele e Italia. Il vostro paese ebbe un ruolo storico fondamentale, ma direi anche in chiave biblica. Quella terra fu per secoli desolata ma con il ritorno a casa degli Ebrei è tornata a rifiorire.
  L’Italia può dirsi testimone di tutto questo, alla luce anche delle profezie bibliche.

- Ambasciatore, dopo questo viaggio nella storia, passiamo ad alcune questioni di attualità. Dopo gli scontri dello scorso maggio, la situazione in Israele oggi è più tranquilla ?
  Siamo abituati, purtroppo, a queste offensive.
  Gli Arabi di Gaza non vogliono vivere in pace con noi. Questo è un dato di fatto.
  Nell’agosto del 2005 Israele ha abbandonato la Striscia di Gaza ed abbiamo lasciato tutto, abbiamo perfino preso le tombe dei nostri antenati.
  Abbiamo loro offerto anche la nostra tecnologia. Sarebbe potuta diventare la Singapore del Medio Oriente. Hanno affaccio sul mare, hanno un grande potenziale per vivere in prosperità.
  Invece per noi non è una sorpresa sapere che l’hanno trasformata in un fortino militare.
  Hanno tolto perfino impianti idrici per i campi per il posizionamento dei razzi contro Israele. Hanno preso in ostaggio la popolazione e influenzano con strumenti primitivi anche i fanciulli con una propaganda antisemita.
  Nel 2006 ci furono le elezione dell’Autorità Nazionale Palestinese, ed Hamas ebbe una grande vittoria.
  Abbiamo avuto diversi focolai di guerre in questi anni. Israele ha subito contro la propria popolazione decine di migliaia di razzi.
  Con un solo scopo: distruggere il nostro stato.

- Perché secondo lei in Occidente, alcuni giornalisti e politici, sono accondiscendenti con Hamas ?
  Voglio sperare per mancanza di conoscenza. Regna una grande ignoranza anche in molti politici in Europa. Hamas non riconosce sovranità di ANP. Però questi ultimi si ostinano a difenderla. Ma rimane un fatto: sono un’entità terroristica. Fondata nel 1988, nel loro manifesto si può precisamente capire quali sono intenti.
  Ecco lo statuto di Hamas, tradotto in italiano perché tutti possano leggere e capirne la vera natura.
  Potete chiaramente evincere che lo scoop di Hamas è di distruggere Israele ed uccidere ogni ebreo. Questa è loro missione. Ho pubblicamente dichiarato al senato della Repubblica Italiana che questo statuto si ispira alla “Mein Kampf” di Adolf Hitler. Non vi è dubbio. Perciò ritengo che ogni parola sia superflua, basta leggere quanto qui indicato nello Statuto.
  Non c’è soluzione per loro se non la guerra santa, la Jihad.
  Cedere un pezzo di terra per loro significa cedere una parte della religione. Chi conosce l’Islam e legge le premesse di questo statuto può rendersene conto.

- Come si può allora pensare di trattare con questa entità terroristica ?
  Vorrei rispondere con una domanda. Nella seconda guerra mondiale, quando ormai i piani di Hitler erano noti al mondo, chi pensava che si potesse ancora negoziare con i nazisti ?
  Non puoi parlare con diavolo, ahimè. Ma qui dobbiamo chiarire che non c’entra la popolazione ma il regime.
  Ero sconcertato nel sentire alcuni giornalisti europei manifestare vicinanza ad Hamas e non ad Israele.
  In questi giorni meditavo sulla Divina Commedia. Fu proprio il Sommo Poeta a condannare gli ignavi, «coloro / che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo».
  Quelli che non hanno il coraggio di prendere una posizione e per cui non era previsto nemmeno un girone nell’inferno dantesco.
  Noi non possiamo essere dei martiri eterni.
  Dobbiamo difenderci. E contiamo sul fatto che in Occidente si distingua bene tra chi ama la libertà e chi invece la guerra.
  Non siamo tornati per sopravvivere nella nostra terra ma per vivere.
  Vogliamo dare il nostro contributo per migliorare la vita sociale e civile dell’umanità. Non vogliamo guerra ma sviluppo, e poi condividerlo. Avendo come nostro partner principale l’Italia, nostro storico alleato.
  Tre settimane fa ero ad Amendola, in Puglia, per una delicata esercitazione aeronautica congiunta tra Italia ed Israele.
  La prima volta che i nostri F35 hanno lasciato Israele hanno raggiunto l’Italia, un nostro partner strategico.

- Perché allora si fatica così tanto a raggiungere la tanto agognata pace ?
  Non abbiamo pace perché come prima spiegato Hamas, con la complicità dell’ANP, non la ricerca. Loro contestano la teoria dei “due stati, due popoli”, come sancito dagli accordi di Oslo. La premessa di quegli accordi è di parlare di due popoli. L’ANP ci ha riconosciuti come nazione ma non come popolo, con le nostre radici e la nostra storia.
  Lo Statuto dell’ANP, all’Articolo 20, dichiara di non riconoscere la dichiarazione di Balfour e quella di Sanremo. La loro propaganda afferma e diffonde che non c’è legame del nostro popolo con quella terra, rinnegando così anche la Bibbia.
  A testimonianza di ciò, l’affare Wikileaks ha portato alla luce uno scambio di mail in cui un alto rappresentante dell’ANP ha sollecitato i suoi funzionari ad abbandonare l’utilizzo di “due stati, due popoli” perché si tratta di un implicito riconoscimento della nostra storia e delle nostri radici. Vogliono negare il nostro diritto all’autodeterminazione. Invito i nostri lettori a riflettere su questo.

- Ambasciatore, infine non possiamo dimenticare quanto vissuto in questo ultimo anno, con l’emergenza sanitaria. Anche su questo fronte Italia ed Israele sono stati molto unite come nazioni per fronteggiare questa pandemia globale ….
  Confermo. Italia è l’unico paese in cui è stata inviata una delegazione israeliana di medici, infermieri e ricercatori. Abbiamo promosso un fitto scambio di protocolli d’intesa su questo tema tra le nostre strutture sanitarie.
  Durante la grave ondata della pandemia abbiamo fatto ogni settimana riunione con i rispettivi ministri della salute.
  Come ho detto vogliamo condividere ciò che il nostro paese riesce a conquistare in termini scientifici e tecnologici.
  Siamo un baluardo di libertà per tutto il mondo occidentale. Ecco perché insisto nell’affermare che difendere noi significa difendere il mondo libero, sostenere noi significa sostenere la nostra civiltà.

(Reale Inside, 28 luglio 2021)

La Knesset si mobilita contro Ben&Jerry's

TEL AVIV - La Knesset si è mobilitata contro la società di gelati Ben&Jerry's dopo che questa ha reso noto che, per restare fedele ai propri ideali, dalla fine del 2022 non autorizzerà oltre la vendita dei propri prodotti "nei territori palestinesi occupati" della Cisgiordania. Novanta dei 120 deputati della Knesset hanno sottoscritto oggi un appello alla Unilever - la società britannico-olandese che ha acquisito la B&J's - per esigere la revoca immediata di quella decisione che a loro parere è "vergognosa ed ipocrita".
   Essa, hanno sottolineato, penalizza non solo centinaia di migliaia di israeliani che risiedono negli insediamenti ebraici della 'Giudea-Samaria' (il termine biblico della Cisgiordania) ma anche i palestinesi stessi, nonché i dipendenti israeliani di B&J's. Le direttive annunciate questo mese da B&J's, avvertono, contrastano poi con le leggi in vigore in Israele che vietano discriminazioni di clienti o di aree geografiche.
   Sulla stampa sono intanto comparse informazioni secondo cui anche il ministero degli esteri israeliano si sarebbe attivato in maniera discreta contro la Unilever. Queste notizie non hanno per ora conferme ufficiali.

(ANSAmed, 28 luglio 2021)


Lettera da Haifa agli amici di Israele

Sull'ultimo numero di "Nachrichten aus Israel", edito da "Mitternachtsruf", di cui esiste la versione italiana "Chiamata di Mezzanotte", compare come ogni volta un editoriale del responsabile di "Beth-Shalom", albergo in Israele presentato come "Peaceful Refuge in the center of Haifa" .
Ne riportiamo qui la traduzione.


Cari amici di Israele,
la domanda più eccitante in Israele in questo momento è: quanto durerà il nuovo governo? Le differenze nella coalizione degli otto partiti non potrebbero essere maggiori. Affinché un governo di coalizione con partner così diversificati abbia una possibilità di sopravvivenza, avrebbe bisogno di avere almeno un'ideologia che lo tenga insieme. L'obiettivo che accomunava tutti era quello di rovesciare finalmente Benjamin Netanyahu. Questa opposizione a Netanyahu era basata in gran parte su motivi personali piuttosto che politici.
   Quasi tutti gli attuali partiti al governo sono già stati in una coalizione con Netanyahu. E le esperienze che hanno maturato sono apparse talmente negative che si sono detti: «Mai più»!
    Netanyahu ha annunciato in un discorso che quasi sicuramente molto presto sarebbe tornato al potere, perché il nuovo governo manca di coesione interna. Con queste parole ha fornito alla coalizione il preciso collante di cui aveva bisogno per tenerli insieme, ovvero: Netanyahu non deve tornare al potere. Finché questa minaccia incombe, i vari partiti al governo, nonostante tutte le gravi divergenze, continueranno probabilmente a essere disposti al compromesso e, contrariamente alle previsioni, rimarranno uniti.
    Perché questa opposizione a Netanyahu? Le ragioni sono complesse, ma quello che si è rivelato particolarmente grave è il fatto che ha fondato la sua base di potere - insieme al suo stesso partito Likud - sui partiti ultra-ortodossi. Questi hanno ottenuto da Netanyahu il sostegno finanziario che volevano e in cambio si sono coinvolti ben poco in politica, lasciandogli praticamente mano libera. Ma non sono riusciti ad assicurare la maggioranza a Netanyahu, che quindi ha avuto bisogno di un altro partito nella sua coalizione. Questa parte aggiuntiva serviva però più come "tappabuchi" che non proprio come un partner serio. Ma quello che ha fatto più arrabbiare quelli che una volta facevano parte di una coalizione con Netanyahu è stata la distribuzione ineguale degli oneri. La maggior parte degli ortodossi non presta servizio militare perché si è dedicata agli studi religiosi. In tal modo, ottengono denaro dallo Stato, una cosa che molti israeliani non vogliono più accettare.
    Quando fu fondato lo Stato, agli ebrei strettamente religiosi fu concesso questo privilegio, perché a quel tempo erano ancora una piccola minoranza. Ma nel frattempo sono diventati un potere che non può essere trascurato; pertanto la materia dovrebbe essere nuovamente disciplinata . Ma poiché erano sempre stati una parte fondamentale della coalizione di governo, erano sempre riusciti a far passare le loro richieste.
    Quando si è installato il nuovo governo, i portavoce dei partiti religiosi hanno insultato nel peggior modo i loro leader. Hanno chiesto a Bennett, che indossa una kippah, di togliersi la kippah perché non è ebreo, ma una vergogna. Per la prima volta nella storia di Israele, un rabbino riformato fa parte della Knesset con il Partito del lavoro, che ora fa anche parte della coalizione. Hanno insultato anche lui nel peggiore dei modi e gli hanno negato di essere ebreo. Gli ebrei riformati non sono ebrei, ma peggio dei cristiani.
    Questo fa capire quanto sia preoccupante la tensione interna che c'è adesso in Israele. La disponibilità al compromesso per salvaguardare l'unità di Israele è diventata una necessità indispensabile. Speriamo e preghiamo che il nuovo governo sia un inizio in questa direzione.
   In questa speranza, vi saluta con Shalom, il vostro
   Fredi Winkler

(Nachrichten aus Israel, agosto 2021 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

Caso Pegasus, parla l'azienda israeliana del software-spia

"Contro di noi una campagna orchestrata. Abbiamo salvato decine di migliaia di vite". Intervista ad Ariela Ben Abraham, che dirige la comunicazione globale della Nso, al centro delle critiche per lo spyware che ha aiutato Paesi autoritari a controllare gli oppositori. "Se qualche cliente ne abusa, non abbiamo problemi a terminare il rapporto", dice, ma poi sull'Arabia Saudita, che avrebbe usato Pegasus nell'omicidio Khashoggi, glissa.

di Sharon Nizza

GERUSALEMME – Lo scandalo Nso è scoppiato mentre Tel Aviv era nel pieno della settimana internazionale del cyber. “Forse non è un caso”, dice a Repubblica Ariela Ben Abraham, che dirige la comunicazione globale per l’azienda israeliana nell’occhio del ciclone per l’inchiesta “Progetto Pegasus”, che prende il nome dal loro prodotto di bandiera, lo spyware che avrebbe consentito a diversi regimi di monitorare oppositori politici e giornalisti.

- In che senso?
  "Ci chiediamo chi ci sia dietro questa operazione: 90 giornalisti da tutto il mondo che peraltro ora sostengono che l’elenco famoso non è direttamente correlato con Nso".

- Sostengono che si tratti di un database di obiettivi nel mirino dei vostri clienti.
  "Nso non ha un database di 50mila obiettivi, non è possibile con i numeri su cui lavoriamo che limitano il cliente a 100 licenze annue. Il Progetto non ha portato una sola prova a sostegno delle loro tesi".

- Nei controlli effettuati finora su 65 numeri, è risultato che almeno su 37 era attivo Pegasus.
  "Sono partiti con 50mila numeri, ora siamo arrivati a 37. Ma non ci è stata fornita nessuna prova finora".

- Avete intrapreso vie legali?
  "Stiamo considerando di agire contro chi ha diffuso queste menzogne. Va chiarito che grazie a Pegasus le vite di decine di migliaia di persone sono state salvate, sono stati evitati attentati terroristici. Durante il Covid è stata sventata una rete di cento pedofili".

- Questo è l’obiettivo principale del software, ma…
  "Non il principale. L’unico".

- …voi stessi avete ammesso di aver interrotto cinque contratti per abusi da parte dei clienti.
  "Anche di una forchetta e un coltello si può fare uso improprio. Il nostro obiettivo è garantire che i nostri sistemi vengano utilizzati unicamente per salvare vite".

- Però vendete il coltello anche a chi sapete potrebbe abusarne. In che modo potete controllare che i vostri clienti non facciano un uso improprio della vostra tecnologia?
  "Attualmente Pegasus ha 45 clienti, solo Stati, la maggior parte europei. A oltre 55 Stati abbiamo rifiutato di vendere. Siamo la prima compagnia cyber ad aver aderito alle linee guida dell’Onu per il business e i diritti umani. Il contratto è molto specifico sugli scopi per cui può essere utilizzato il software e viene rivisto periodicamente. Se riceviamo delle denunce, facciamo debite verifiche con le quali il cliente è tenuto a collaborare. Non conosco un’altra azienda del settore con tali standard. Se qualcuno abusa della nostra tecnologia, non abbiamo problemi a terminare il rapporto: l’abbiamo fatto in passato e lo faremo in futuro, anche al costo di perdere milioni di dollari".

- Avete cessato il rapporto con l’Arabia Saudita dopo che il vostro nome è stato legato all’omicidio Khashoggi?
  "Non riveliamo dettagli sui nostri clienti, presenti o passati. Respingiamo qualsiasi connessione con quel delitto atroce. Abbiamo fatto più controlli e lo spyware non si trovava né sul suo cellulare né su quello della sua fidanzata o di altre persone connesse a lui, diversamente da quanto riportato".

- Avete aperto inchieste specifiche a seguito di quanto emerso dal Progetto Pegasus? Per esempio, il giornalista ungherese Szabolcs Panyi risulta nell’elenco degli spiati dal vostro software.
  "Qualsiasi lamentela affidabile verrà presa in considerazione".

- Una delle critiche che vi vengono mosse è che il processo di verifica non sia indipendente e trasparente.
  "Il fatto che abbiamo interrotto il rapporto con cinque clienti credo che dica molto".

- Che ripercussioni sta avendo lo scandalo sulla società?
  "Un attacco del genere, così coordinato, ha chiaramente un impatto. Ma noi siamo forti e fieri di lavorare per Nso e farlo da Israele. I nostri impiegati (800, ndr) sono corteggiati ovunque. E ci sostengono perché credono in quello che fanno, sanno qual è l’obiettivo della società e quello che facciamo per evitare abusi".

- La stampa israeliana indica come vero tallone di Achille il processo di regolamentazione per ottenere la licenza a esportare, concessa dal ministero della Difesa: poca trasparenza, interessi politici e relazioni molto strette con i piani alti, come nel suo caso che è stata capo censore dell’Idf, le Forze di difesa israeliane.
  "Siamo totalmente conformi, e fieri di esserlo, con la regolamentazione israeliana e anche con quella europea. Credo che quella israeliana sia ancora più severa che in Ue o Usa. Nso è diventata un nome generico, un archetipo, e il target di una campagna mirata. Non siamo di certo l’unica società del settore, in Israele o all’estero. Oggi più che di paradisi fiscali si parla di ‘paradisi regolatori’. Come smettiamo di lavorare con un cliente, il nostro posto lo prende un’altra azienda soggetta a chissà quale regolamentazione".

- Il presidente francese Macron ha chiamato il premier Bennett per chiedere chiarimenti sulla vicenda e dovrebbe partire una commissione di controllo. Avete già ricevuto una convocazione?
  "Siamo contenti di collaborare con qualsiasi inchiesta le autorità decideranno di portare avanti. Non abbiamo dubbi che dietro questa campagna ci siano soggetti motivati da interessi".

- Chi?
  "Ci sono molte possibilità. Prima o poi lo verremo a sapere".

- Intende il movimento Bds per il boicottaggio di Israele, oppure il Qatar, come ha detto il vostro Ceo?
  "Soggetti che hanno interessi e molte risorse a disposizione"

(la Repubblica, 28 luglio 2021)


Che cos’è Durban 4 e perché l’Italia deve boicottarlo

di Ugo Volli

Durban è una città di circa quattro milioni di abitanti nella parte nordorientale del Sudafrica, sulla costa dell’Oceano Indiano, nota soprattutto per le sue belle spiagge e per la fiorente industria portuaria. Dal 31 agosto all’8 settembre 2001 vi si svolse però la “Conferenza mondiale contro il razzismo” promossa dall’Unesco e da allora il suo nome, almeno nel gergo politico internazionale, si è identificato con questo evento. Infatti nel 2009 la nuova edizione della “Conferenza” si riunì a Ginevra e fu soprannominata “Durban 2”; nel 2011 ce ne fu un’altra presso la sede della Nazioni Unite per celebrare il decimo anniversario della prima conferenza e la si chiamò “Durban 3” e oggi dopo altri dieci anni è stata convocata per il 22 settembre “Durban 4”, sempre a New York.
  Naturalmente non vi è nulla di male nel combattere il razzismo anche per via diplomatica, con conferenze internazionali; anzi si tratta di un tema importantissimo, su cui ogni persona, movimento o stato ha il dovere di impegnarsi. Il fatto è però che la conferenza di Durban, la prima e anche le successive, non si impegnarono contro il razzismo in qualunque senso ragionevole del termine, ma si trasformarono in tribune di agitazione antisraeliana e antioccidentale, secondo una dinamica analoga a quella che abbiamo visto in opera nell’ultimo anno con le azioni del movimento “Black Lives Matter”. Durban divenne la peggiore manifestazione internazionale di antisemitismo nel dopoguerra. Invece di combattere il razzismo, la conferenza lo ha incoraggiato e incitato, almeno contro gli ebrei.
  In preparazione della Dichiarazione finale da fare adottare a Durban, le nazioni asiatiche si erano incontrate a Teheran nel febbraio 2001. Il testo che uscì da questa pre-conferenza demonizzava Israele, accusandolo di aver commesso "un nuovo tipo di apartheid", "un crimine contro l'umanità" e "una forma di genocidio". Questo linguaggio fu eliminato all'ultimo minuto dalla Dichiarazione di Durban su pressione dei membri dell'Unione Europea, che minacciavano di seguire gli Stati Uniti e Israele, ritirandosi dalla conferenza. Tuttavia, il testo finale indicò solo Israele come presunto colpevole di razzismo. Alla conferenza i discorsi incendiari contro Israele erano onnipresenti. Arafat parlò ai delegati della "vergogna" delle "politiche e pratiche razziste israeliane contro il popolo palestinese". Il dittatore cubano Fidel Castro gli fece eco predicando contro il “terribile genocidio perpetrato, proprio in questo momento, contro i nostri fratelli palestinesi”. In parallelo alla conferenza vera e propria, vi era "Forum delle ONG" in cui le organizzazioni non governative dichiararono formalmente Israele uno "stato di apartheid razzista" colpevole di "genocidio". In una marcia guidata dai palestinesi con migliaia di partecipanti, un cartello diceva "Hitler avrebbe dovuto finire il lavoro". Fra i documenti diffusi non mancavano i più famosi dei libri antisemiti, come "I Protocolli dei Savi di Sion"; l'Unione degli avvocati araba distribuiva caricature di ebrei con il naso adunco, le zanne grondanti di sangue e i soldi in mano. Attivisti ebrei per i diritti umani a Durban erano fisicamente intimiditi e minacciati, con grida di: "Non appartenete alla razza umana!"
  Lo shock fu immenso, tanto che a Durban2, nel 2009, si rifiutarono di partecipare non solo Israele e Usa, ma anche Canada, Germania, Italia (il presidente del consiglio era Berlusconi, il ministro degli esteri Frattini), Svezia, Olanda e Australia. La conferenza, con meno partecipazione della prima, andò per gli stessi binari: la presidenza del comitato preparatorio fu assegnata alla Libia di Gheddafi e il discorso principale fu pronunciato fra gli applausi dal presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad: "Il sionismo mondiale personifica il razzismo - disse - ricorre falsamente alla religione e abusa dei sentimenti religiosi per nascondere il suo odio e il suo volto feroce”. Dopo la seconda guerra mondiale, è stato istituito "un governo totalmente razzista nella Palestina occupata, con il pretesto della sofferenza ebraica". Con queste premesse, a Durban 3 quindici paesi rifiutarono di partecipare: Australia, Austria, Bulgaria, Canada, Repubblica Ceca, Francia, Germania, Israele, Italia (il primo ministro era sempre Berlusconi e il ministro degli esteri Frattini), Lettonia, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Polonia, Regno Unito e Stati Uniti.
  Le premesse per Durban 4 non sono diverse dalle edizioni precedenti. In molti paesi, fra cui gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, l’antisemitismo “antirazzista” si è molto diffuso, anche in istituzioni come le principali università e in partiti che avevano sempre rifiutato l’odio per gli ebrei, come i Democratici americani e i Laburisti inglesi. Lo si è visto anche in Italia nelle reazioni di alcuni deputati, sindaci e dirigenti sindacali di fronte all’autodifesa israeliana dalla recente aggressione missilistica di Hamas. Anche in Francia e in Germania l’antisemitismo, almeno quello “buono” travestito da antisionismo e “dunque” da antirazzismo, ha infettato i più importanti livelli dello Stato e della politica. D’altro canto negli ultimi anni si è avuta una normalizzazione dei rapporti di Israele con molti paesi arabi, asiatici e africani, ma prima che la cessazione del conflitto si rifletta nelle sedi politiche e propagandistiche internazionali, molto tempo è passato. Anche Durban 4, insomma, molto probabilmente sarà un festival dell’odio per gli ebrei e per Israele. Ci sono già alcuni stati che hanno annunciato il loro boicottaggio: gli Usa, Israele, l’Australia, il Canada, la Gran Bretagna, l’Ungheria, l’Austria, l’Olanda, la Repubblica Ceca, la Germania. Dall’elenco mancano per ora la Francia e soprattutto per noi l’Italia. Possiamo sperare che il Ministro degli Esteri Di Maio, il Premier Draghi e il Presidente della Repubblica Mattarella sapranno evitare che l’Italia partecipi a una vergognosa sagra antisemita? Bisogna chiederlo con forza, perché i precedenti delle posizioni italiane all’Onu negli ultimi anni sono decisamente sconfortanti.

(Shalom, 28 luglio 2021)


Grandi emozioni alla Giudecca di Bova nella serata dedicata alla Shoah

Nel corso dell’evento di domenica scorsa si è ribadito come la “Memoria” sulla Shoah non conosce divisioni politiche, né divergenze di intenti.

REGGIO CALABRIA - Inteso e carico di emozioni l’evento di premiazione del primo concorso nazionale di poesia dedicato alla Shoah “Ricordare per non dimenticare”, ospitato a Bova, presso il quartiere della Giudecca, sezione urbana del Museo della Lingua Greco-Calabra “G. Rohlfs”.
  Un incontro quello di domenica scorsa senza precedenti per il borgo calabrese, che ha visto la partecipazione dei rappresentanti politici della Regione Calabria, della Città metropolitana di Reggio Calabria, del sindaco di Bova Santo Casile, riuniti insieme al rabbino della Comunità Ebraica di Napoli, rav ing. Ariel Finzi e alla responsabile delle relazioni esterne dell’Universal Peace Federation Italia, Maria Gabriella Mieli, per riflettere sull’occasione offerta dall’organizzatrice del singolare concorso di poesia, Miriam Jaskierowicz Arman, pedagoga vocale di origine israeliana nonché presidente dell’Accademia per lo Sviluppo della Voce, Ebraismo e Kabalah, di Reggio Calabria.
  Nel corso dell’evento si è ribadito come la “Memoria” sulla Shoah non conosce divisioni politiche, né divergenze di intenti. Anzi al contrario, ha evidenziato l’assessore alla cultura del comune di Reggio Calabria, Rosanna Scopelliti, il tema necessita di una sinergica collaborazione, fondamentale per trasmettere la Memoria alle future generazioni. Sulla stessa scia anche l’intervento del presidente della Regione Calabria, Nino Spirlì, il quale ha auspicato la rinascita di una comunità ebraica calabrese, sulla base della secolare presenza nella nostra regione di importanti comunità giudaiche fin dal IV secolo d. C.
  A coinvolgere spettatori dell’incontro nel dramma della Shoah è stato l’intervento del rabbino della Comunità Ebraica di Napoli, rav ing. Ariel Finzi, che ha ricordato come l’olocausto degli ebrei non trova paragoni nella storia. La Shoah rappresenta infatti un "unicum" perché mai è stata ideata, progettata e realizzata una industria della morte così efficiente e spietata.
  Il rabbino ha di seguito recitato in ebraico i versi di una canzone di un prigioniero di un campo di concentramento, versi che hanno echeggiato tra le mura della giudecca di Bova, da dove gli ebrei sono stati cacciati via, insieme a tutti i Giudei dell’Italia meridionale all’indomani degli editti di espulsione, emanati da Carlo V nel 1541.
  L’evento è proseguito con gli interventi di Maria Gabriella Mieli, responsabile delle relazioni esterne dell’Universal Peace Federation Italia, Anita Nucera, presidente della Commissione pace e diritti umani del comune di Reggio Calabria e l’organizzatrice del primo concorso nazionale di poesia dedicato alla Shoah, Miriam Jaskierowicz Arman, che ha regalato al Museo di G. Rohlfs di Bova un libro di preghiere del padre, morto in un campo di concentramento polacco, da esporre alla Giudecca di Bova.
  Successivamente è stata letta la poesia di Caterina Sorbilli vincitrice del concorso, poesia immortalata in una lastra in ceramica posta nel quartiere ebraico di Bova, realizzata da Antonio Pujia Veneziano, l’artista a cui si deve l’installazione di arte contemporanea che arricchisce questo suggestivo angolo del borgo calabrese. A chiudere la serata il direttore del Museo Rohlfs di Bova, Pasquale Faenza, che ha ricordato come la Giudecca è stata riqualificata con l’intento di attivare sinergie per il futuro del patrimonio ereditato, creare momenti di incontro e riflessione su tutti i temi legati alle identità culturali, ma anche sui pregiudizi che nel corso della storia hanno marginalizzato intere popolazioni.
  Il direttore ha poi ringraziato quanti hanno patrocinato il primo concorso nazionale di poesia dedicato alla Shoah (Ambasciata di Israele; Comunità Ebraica di Napoli; l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI); Regione Calabria; Comune di Reggio Calabria; Comune di Bova e di Bova Marina; e dell’Organizzazione Nazionale Ecumenica), in particolare l’associazione Territorium che insieme al Comune di Bova hanno contribuito allo svolgimento di una delle più toccanti serate di questa estate bovese.

(ReggioToday, 27 luglio 2021)


Israele contro il Covid: nuove limitazioni al Ben Gurion

Cresce la preoccupazione in Israele dopo i dati di ieri, che hanno registrato oltre duemila contagi. Una cifra record per il piccolo Paese che, ironia della sorte, era stato preso da tutti ad esempio per essere stato il primo a uscire dalla pandemia.
Ieri, come spiega Il Messaggero, le autorità sanitarie hanno imposto nuove limitazioni all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, vietando gli ingressi di passeggeri nelle sale di partenze e arrivi per cercare di frenare i contagi.
Il direttore generale del Ministero della sanità Nahman Ash ha inoltre reso noto che sta valutando la opportunità di somministrare una terza dose di vaccino Pfizer agli over 60 anni (ma forse anche agli over 50 anni), anche prima che arrivi l'autorizzazione formale da parte della Fda americana.

(TTG, 27 luglio 2021)

Green pass e infodemia: cosa ci dicono i dati di Israele

di Francesca Totolo

ROMA - Lo scetticismo e la perdita di fiducia nei confronti dei governi nazionali in merito alle strategie di contenimento del Covid-19 e delle campagne vaccinali stanno aumentando un po’ ovunque. L’infodemia, una comunicazione errata, la mancanza di trasparenza e di autorevolezza delle istituzioni stanno confondendo i cittadini che si trovano a dover maneggiare il tutto e il contrario di tutto, come in un grande labirinto orwelliano. Ogni Paese occidentale sta attuando politiche simili per sconfiggere il coronavirus, ma i risultati non sembrano portare ai medesimi risultati. Il Regno Unito e Israele hanno i tassi di popolazione vaccinata più alti a livello mondiale, rispettivamente il 54,43 per cento e il 61,15 per cento di vaccinazioni con due dosi al 22 luglio del 2021. Gli ultimi dati pubblicati dal ministero della Salute del Regno Unito, il 22 luglio scorso, affermano che l’efficacia del vaccino, dopo la somministrazione di due dosi, contro la malattia sintomatica da Covid-19 si attesterebbe al 79 per cento per quanto riguarda la variante Delta, percentuale in forte riduzione rispetto alla variante Alpha, l’89 per cento.

I DATI DI ISRAELE IN CONTRASTO CON QUELLI BRITANNICI
  Veniamo ai dati di Israele. Secondo le nuove statistiche del Ministero della Salute di Israele pubblicate il 20 luglio scorso, il vaccino della Pfizer è ora efficace solo per il 39 per cento contro l’infezione da variante Delta, mentre è efficace solo per il 41 per cento nel prevenire il Covid-19 sintomatico.
  L’epidemiologo Nadav Davidovitch, professore della Ben-Gurion University e presidente del sindacato dei medici israeliani, ha commentato tali dati: “Quello che vediamo è che il vaccino è meno efficace nel prevenire la trasmissione, ma è facile trascurare che è ancora molto efficace nel prevenire il ricovero e i casi gravi”. Per questo motivo, secondo Davidovitch “non possiamo fare affidamento solo sulle vaccinazioni, ma abbiamo anche bisogno di green pass, dei test, delle mascherine e simili”. La perdita di efficacia del vaccino Pfizer è stata ribadita anche dal primo ministro israeliano Naftali Bennett, durante la conferenza stampa seguita alla cabina di regia sull’emergenza coronavirus del 16 luglio. Qualche giorno prima, era stato divulgato lo studio di un team di medici israeliani guidati dal professore Tal Brosh, capo dell’Unità Malattie Infettive presso il Samson Assuta Ashdod Hospital. L’analisi aveva riguardato 152 pazienti completamente vaccinati che avevano sviluppato il Covid-19. Il 96 per cento di questi soggetti, ricoverati in diciassette ospedali, erano affetti da malattie preesistenti. Il professor Brosh ha poi evidenziato: “Se il tuo sistema immunitario non funziona bene, sei a maggior rischio di non sviluppare protezione dalla vaccinazione”, aggiungendo che circa il 35 per cento dei pazienti non aveva anticorpi rilevabili, ovvero non erano riusciti a creare una risposta immunitaria dopo la somministrazione vaccino. Anthony Fauci, capo della task force del presidente degli Stati Uniti sull’emergenza coronavirus, ha affermato di essere rimasto sorpreso dall’apparente forte calo dell’efficacia del vaccino Pfizer che i dati israeliani sembrano suggerire. Ha poi affermato di volerlo confrontare con i dati che il Center for disease control and prevention sta raccogliendo negli Stati Uniti. Fauci ha evidenziato altresì: “Le persone si stanno insospettendo“.

“LA CAROTA NON STA PIÙ FUNZIONANDO”
  In una mail che è stata diffusa per errore, il capo dell’ufficio di Washington e senior vice president della Cnn, Sam Feist, ha ammesso: “La carota non sta più funzionando“. La risposta di Feist arrivava dopo la constatazione del giornalista Charlie Kirk: “La maggioranza degli americani non vaccinati afferma che non ha intenzione di assumere il vaccino, nonostante la divulgazione degli sforzi messi in campo”. Probabilmente, anche Anthony Fauci si riferiva a quella “carota” quando ha dichiarato che gli americani si stavano insospettendo. La mancanza di trasparenza governativa e istituzionale riguardante i vaccini sono alla base dello scetticismo che sta prendendo piede in quasi tutti i Paesi occidentali, come è peraltro emerso durante le manifestazioni dell’ultimo fine settimana. Decine di migliaia di persone sono scese in piazza per protestare contro il Green pass e l’obbligo vaccinale, dall’Italia all’Australia, passando per l’Inghilterra e la Francia. Nel nostro Paese, sono state ben 81 le città coinvolte dalle manifestazioni, dai grandi centri, come Milano, Roma, Napoli e Torino, alle province più piccole.
  Il premier Mario Draghi, durante la conferenza stampa del 22 luglio scorso, ha testualmente asserito: “Il Green pass è una misura con cui gli italiani possono continuare a esercitare le proprie attività, a divertirsi, ad andare al ristorante, a partecipare a spettacoli all’aperto, al chiuso, con la garanzia però di ritrovarsi tra persone che non sono contagiose”. Questa dichiarazione, oltre che inesatta, potrebbe spingere gli italiani vaccinati a comportamenti irresponsabili e i non vaccinati a un’ulteriore perdita di fiducia nei confronti del presidente del consiglio. La cosiddetta “moral suasion” non causerà un’ulteriore perdita di credibilità nelle istituzioni e nel governo? Veramente gli italiani hanno bisogno di un atteggiamento paternalistico per essere “responsabili”? Vediamo se il premier Draghi passerà al “bastone”, imponendo per legge l’obbligo vaccinale ai cittadini italiani.

(Il Primato Nazionale, 27 luglio 2021)


I no-greenpass faranno bene a non farsi troppe illusioni. La grande maggioranza degli italiani accetterà "responsabilmente" il ricatto del governo. Ma rifiuterà sdegnosamente di ammettere di aver ceduto a un ricatto. Diranno che è per il bene della società, prima che per il bene personale. E ci spiegheranno che la libertà deve scaturire dall'accettazione degli obblighi sociali; e che quella dei renitenti alla chiamata al vaccino è una deplorevole ego-libertà. Così diranno, anzi già dicono. Ma forse presto si accorgeranno di aver rinunciato alla ego-libertà per cadere nella socio-schiavitù. Ma la difenderanno con tutte le loro forze, sia perché l'essere in molti è comunque rassicurante, sia perché una volta che si è fatta una scelta sotto costrizione per motivi di necessità, è inevitabile desiderare di presentarla a se stessi e agli altri sotto una veste nobile. E di conseguenza quella di chi l'ha rifiutata come ignobile. Ma la società comunque non ne avrà affatto un bene. Tutt'altro. M.C.


Gerusalemme-Ramallah, prove per un nuovo dialogo

Ricucire i rapporti complicati con i vicini più prossimi. La diplomazia israeliana del nuovo corso, quello a guida Naftali Bennett e Yair Lapid, ha deciso di cambiare politica rispetto alle modalità di confronto con l’Autorità nazionale palestinese e con la Giordania adottate in passato. Meno scontri a viso aperto, più dialogo. Almeno in questa fase iniziale. E così, dopo anni in cui solo il Presidente israeliano Reuven Rivlin aveva un filo diretto con il presidente dell’Anp Mahmoud Abbas, in poche settimane quella linea si è aperta a più interlocutori. Oltre al nuovo Presidente Isaac Herzog, che Abbas conosce bene per la sua militanza laburista, anche il ministro della Difesa Benny Gantz e il ministro della Pubblica Sicurezza Omer Bar-Lev hanno avuto conversazioni dirette con il leader palestinese.
  In particolare Gantz ha telefonato ad Abbas in occasione della festa islamica Eid al-Adha. “I due – spiega una nota del ministero della Difesa – hanno parlato in un’atmosfera positiva e hanno discusso la necessità di far progredire le misure di rafforzamento della fiducia tra Israele e l’Anp, che aiuterà la sicurezza e l’economia dell’intera regione”. Una dichiarazione simile è arrivata anche dal ministro Bar-Lev che ha auspicato che la sua conversazione con Abbas possa portare “all’apertura di linee di comunicazione tra me e le mie controparti dell’Anp, facendo avanzare la pace e la sicurezza per entrambi i popoli”.
  Parole insomma distensive, dopo anni di gelo. Se infatti durante la guida di Benjamin Netanyahu la cooperazione in termini di sicurezza con i palestinesi è proseguita, i rapporti politici con Ramallah sono stati quasi inesistenti. E nell’era Trump l’allontanamento è stato ancora più marcato, con Abbas e i palestinesi messi ai margini dell’agenda internazionale, mentre Israele firmava accordi con Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e Marocco.
  Il cambio a Gerusalemme, ma soprattutto a Washington con la presidenza Biden, ha favorito la nascita di un nuovo corso. Gli Stati Uniti hanno infatti da subito dichiarato di voler puntare su Abbas – che però non gode di grande consenso tra i palestinesi – e sull’Anp per rilanciare il dialogo tra le parti e per la gestione del futuro dei territori palestinesi, in Cisgiordania come a Gaza. Una linea sposata da Gantz. “Il cambiamento più auspicabile – ha dichiarato il ministro della Difesa – è rafforzare il più possibile l’Autorità nazionale palestinese, e non lasciare che sia Hamas a stabilire l’agenda, né nella zona della Striscia di Gaza né nella stessa Gaza”. Per il momento, rilevano analisti e funzionari israeliani, si tratta solo di una distensione a parole e molto deve essere ancora fatto per riaprire a un vero negoziato (tra cui, l’interruzione del versamento di soldi da parte di Ramallah ai terroristi palestinesi in carcere e alle loro famiglie).
  Secondo una fonte del sito Al Monitor, gli americani anche aspettando che il nuovo governo israeliano si stabilizzi, in particolare che riesca a superare la prova dell’approvazione del bilancio a fine anno. “Solo allora le cose cominceranno davvero a muoversi. L’ipotesi plausibile è che l’amministrazione Biden inizierà allora a spingere per rinnovare i negoziati tra Israele e i palestinesi. Bennett e il ministro degli Esteri Yair Lapid dovrebbero visitare presto Washington. Nel frattempo, vedremo sempre più sforzi per rafforzare lo status di Abbas e dell’Anp”.
  Almeno sui media si legge quindi una propensione a credere che la riapertura del tavolo delle trattative sia possibile. Un’idea condivisa anche da un altro attore interessato, il re di Giordania Abdullah II. Questi era entrato in diretto scontro con l’ultimo governo Netanyahu, in particolare dopo l’annunciata – e poi sospesa – decisione di annettere una parte della Cisgiordania. E per questo aveva raffreddato molto i rapporti con Israele. Nel frattempo, come i palestinesi, anche la sua Giordania era stata messa ai margini dalla rivoluzione degli Accordi di Abramo. E ora il nuovo governo di Gerusalemme offre la possibilità al re Abdullah di tornare ad avere un peso politico nell’area. Il sovrano ha confermato alla Cnn di aver incontrato sia il Primo ministro Bennett sia Gantz. “Sono uscito da quegli incontri davvero incoraggiato e penso che abbiamo visto, nelle ultime due settimane, non solo una migliore comprensione tra Israele e Giordania, ma le voci che escono da israeliani e palestinesi dicono che abbiamo bisogno di andare avanti e resettare quel rapporto”.

(moked, 27 luglio 2021)


Giordania e Israele: la questione palestinese

di Elena Grigatti

Giordania e Israele sembrano desiderosi di porre fine ad anni di tensioni, manifestatisi in incidenti diplomatici altrimenti evitabili. Eppure, per ripristinare la piena cooperazione c’è uno scoglio da superare: la questione palestinese. Nonostante i buoni propositi, per altro condivisi da entrambe le parti, ciò che avverrà in futuro tra lo Stato ebraico e il Regno Hascemita influenzerà (e sarà influenzato da) gli sviluppi a Gerusalemme. Nonché la creazione stessa di uno Stato di Palestina. Quindi, Israele riuscirà a riallacciare i rapporti con il Paese con cui condivide il suo confine più esteso?

Un incontro tra Giordania e Israele?
  Domenica, Sua maestà il Re di Giordania Abdullah II ha rivelato di aver incontrato in segreto alcuni politici israeliani. Tra cui il neo Premier israeliano, Naftali Bennett, all’inizio di questo mese. Nonché il ministro della Difesa Benny Gantz, già qualche settimana dopo la formazione del governo del cambiamento. Secondo i rapporti dei media israeliani, la serie di incontri prelude ai viaggi a Washington delle rispettive delegazioni, israeliana e giordana, che si terranno entro la fine dell’estate. Con un atteggiamento appena irrigidito dall’etichetta e dalla carica, il monarca del Regno Hascemita ha espresso il proprio ottimismo a Fareed Zakaria, giornalista della CNN, in merito a una prossima riconciliazione tra i due Paesi. A tal proposito, il primo test riguarderà proprio un accordo sulle risorse idriche, discusso nei giorni scorsi tra Bennett e Abdullah II nel palazzo reale di Amman.

Ripartire
  In base all’accordo, Israele prevede di vendere 50 milioni di metri cubi di acqua alla Giordania. Una cessione, pensata come una tantum, che aumenterebbe l’assegnazione annuale di 55 milioni di metri cubi stabiliti dal trattato di pace del 1994. La Giordania è uno dei paesi più poveri d’acqua al mondo che quest’anno affronta una grave siccità, stimata in 40 milioni di metri cubi. In passato, il regno era solito fare affidamento sulle riserve di Israele per le forniture idriche, essenziali per l’uso agricolo e domestico. Nonostante l’ufficio del Premier non abbia rilasciato dichiarazioni in merito, durante la sua visita in Giordania il ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid ha spiegato che “Il Regno di Giordania è vicino e partner dello Stato di Israele“. “Il ministero degli Esteri continuerà a mantenere un dialogo continuo al fine di preservare e rafforzare tale relazione“, ha precisato il ministro.

Intenti tra Giordania e Israele
  E ancora. “Espanderemo la cooperazione economica a beneficio di entrambi i paesi“, ha aggiunto Lapid. In proposito, lo Stratfor Center for Strategic Studies, con sede negli Stati Uniti, ritiene che “la Giordania e Israele stiano adottando misure attive per migliorare le loro relazioni bilaterali”. Eppure, non sfugge che negli ultimi anni i rapporti tra Giordania e Israele si siano incrinati. In questo senso, “Le profonde radici di Amman in Cisgiordania significano che la durata del riavvicinamento dipenderà dalla politica israeliana nei territori palestinesi“. Inoltre, per il Centro di ricerche il fatto che gli incontri si siano tenuti a porte chiuse di Bennett rappresenta “un’ulteriore indicazione delle tensioni tra i due paesi”. Se non altro, la visita clandestina di Bennett sarà valsa a rompere il ghiaccio.

Crisi tra Giordania e Israele
  In effetti, i rapporti tra Giordania e Israele, già incrinati, si sono deteriorati negli ultimi due anni. Principalmente a causa delle relazioni instaurate dall’ex Primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu. “I giordani non sono particolarmente contenti di Netanyahu e non lo sono da molto tempo“, spiegava Joshua Krasna. Un esperto di Medio Oriente presso il Centro Moshe Dayan dell’Università di Tel Aviv. In proposito, nel 2019 il re di Giordania Abdullah II aveva dichiarato che le relazioni con lo Stato ebraico fossero “ai minimi storici”. Specialmente dopo una serie di incidenti diplomatici che avevano spinto Amman a richiamare il proprio ambasciatore in Israele. Oltre che a chiudere la sede diplomatica. Infine, l’arresto di due cittadini giordani per terrorismo da parte di Israele aveva provocato l’ennesimo alterco. In quel periodo, il Regno sospese gli accordi speciali che riconoscevano alcune agevolazioni agli agricoltori israeliani in Giordania.

Sedotta e abbandonata
  A ben vedere, la Giordania è insoddisfatta della piega che ha assunto la sua relazione con Israele. Abbagliato dalla normalizzazione dei rapporti con le monarchie del petrolio, i cosiddetti Accordi di Abramo, lo Stato ebraico ha dimenticato il suo partner storico. O, quanto meno, lo ha dato per scontato. A ragione, Krasna ha paragonato la situazione alla gelosia che prova “la moglie verso la nuova amante”. “Da un giorno all’atro, Israele parla delle meravigliose relazioni e delle meravigliose opportunità che ha con gli Emirati Arabi Uniti, e che ha con il Bahrain e forse con altri stati“, ha commentato Krasna con un accenno di biasimo. D’emblée, le autorità sioniste avrebbero cancellato anni e anni di relazioni politiche. Con un gesto di spugna. Proprio per questo, sosteneva Krasna, “I giordani e gli egiziani si sentono esclusi due volte“. Oltretutto, entrambi “Hanno pagato un prezzo alto quando hanno concluso i trattati di pace con Israele”, ha ribadito l’esperto.

Dilemma
  Eppure, per la Giordania non c’è via di scampo. Pubblicamente, Amman può solo che elogiare la ripresa del dialogo in Medio Oriente. E, di conseguenza, i patti firmati nel 2020 sotto la supervisione dell’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Tuttavia, i rapporti altalenanti degli ultimi due anni hanno impresso alla Giordania la sensazione di essere una pedina nelle mani di Israele. Sebbene condividano i medesimi interessi di sicurezza, e da molto tempo, le relazioni politiche tra i due Paesi non hanno resistito alle recenti violazioni israeliane nei confronti dei palestinesi. Ma c’è di più. Sullo sfondo emergono altre due questioni, altrettanto delicate. Da una parte, l’accordo di annessione della Cisgiordania. La sponda occidentale del fiume Giordano che in inglese prende il nome di West Bank. Quel progetto aveva ricevuto la benedizione nella Sala Est della Casa Bianca. Come c’era da aspettarsi, visto che gli Usa si schierano al fianco di Israele da prima degli accordi di Camp David. Dall’altra, la contesa per Gerusalemme Est, dove si trova il Monte del Tempio. Il terzo luogo sacro dell’Islam che ospita la Spianata delle Moschee. Tra cui Al Aqsa. Ma procediamo con ordine.

Wadi Araba
  Israele ha rivendicato il Monte del Tempio e la Città Vecchia di Gerusalemme nella Guerra dei Sei Giorni del 1967. Da allora, lo Stato ebraico ha esteso in maniera progressiva e costante la propria sovranità sull’area, violando lo status quo riconosciutole a livello internazionale. Tuttavia, ha permesso al Waqf giordano di mantenere l’autorità religiosa sulla sommità del Monte. Un luogo sacro che i fedeli ebrei possono visitare. Ma cui è interdetto svolgere funzioni religiose e pregare. Così, la Giordania ne divenne custode. Mentre il suo ruolo veniva sancito dallo storico accordo di pace israelo-giordano del 1994. Questo fino alle aspirazioni espansionistiche di Benjamin Netanyahu. L’obiettivo era annettere parte delle Terre palestinesi della Cisgiordania, tra cui la Valle del Giordano. Un territorio che, secondo le stime, ospita dai 50.000 ai 65.000 palestinesi che non riceverebbero la cittadinanza israeliana. Al contrario, “rimarranno come enclavi palestinesi“, spiegava l’ex Premier al quotidiano conservatore Israel Hayom.

Un progetto ambizioso
  All’agenzia di destra Makor Rishon, Netanyahu aveva detto di ritenere improbabile che la Giordania avrebbe annullato il trattato di pace. Anche qualora Israele avesse portato avanti il suo programma di annessioni. Inoltre, il leader di Likud aveva affermato che qualsiasi blocco della costruzione di insediamenti come parte del piano di Trump sarebbe stato applicato anche ai palestinesi nell’Area C, che è controllata da Israele. Tuttavia, il Re Giordano si era opposto pubblicamente a quell’operazione fortemente voluta dal leader israeliano. A maggior ragione perché la considerava come uno stratagemma politico per acquisire consensi in vista delle elezioni. Dal canto suo, Netanyahu prometteva di “preservare la possibilità di pace”. Prima di aggiungere che gli Usa avevano approvato l’annessione di aree palestinesi che, secondo il piano, rimarrebbero sotto il controllo israeliano. Come a dire: oltre al danno, la beffa.

Il calderone “Medio Oriente”
  Mentre continuano le proteste contro l’annessione in Cisgiordania, Amman deve fare i conti con gli attriti nel sud della Siria. Lì, le sfide sono con la Russia e l’Iran. Ma anche con la minaccia dello Stato islamico dell’Iraq e di al-Sham (ISIS), nonché con gli Stati del Golfo a sud. Oltretutto, la Giordania è un fulcro di sicurezza per CENTCOM, che ospita l’esercitazione annuale di Eager Lion guidata dagli Usa. E supporta Tanf, una base statunitense in Siria, al confine nord-orientale con la Giordania. In questo contesto, l’annessione di Israele getta un’ombra su una serie di questioni a Est del fiume Giordano. Tanto che il Regno hashemita camminerà sul filo nei suoi rapporti politici con Israele. Senza contare l’isterismo sionista per il programma nucleare di Teheran. “Sappiamo che i colloqui di Vienna saranno rinviati fino a quando non si insedierà questo nuovo governo in Iran“, ha ricordato Abdullah. “Ho la sensazione che la posizione americana e quella iraniana siano alquanto distanti“, ha osservato. Infine, ha detto: “Speriamo che questi colloqui ci portino in una posizione migliore in cui possiamo calmare la regione perché abbiamo così tante sfide“.

Il futuro tra Giordania e Israele
  Ora, però, è tempo di cambiamento. Almeno, questa è la dichiarazione d’intenti dell’eterogenea coalizione di governo in Israele. La quale riunisce non solo i partiti di destra e di centro. Ma anche le fazioni islamiste. Consapevole degli attriti che in passato hanno segnato il dialogo con l’ex Primo ministro Netanyahu, Zakaria ha voluto approfondire la questione. In maniera educata, ma pur sempre con fermezza, il giornalista indiano naturalizzato statunitense ha chiesto a Re Abdullah II la sua opinione circa il nuovo governo israeliano. In particolare, rispetto al progetto di annessione dei Territori Palestinesi. Volendo infierire, Zakaria ha ricordato a Sua Maestà una provocazione dell’allora Primo ministro Benjamin Netanyahu. Il quale alludeva alla presenza palestinese in Giordania.

Rifugiati
  I primi cittadini palestinesi erano giunti nel regno con lo status di rifugiato tra il 1947 e il 1967. Oggi, la maggior parte dei loro discendenti è naturalizzata. Il che rende la Giordania l’unico paese arabo ad aver integrato i rifugiati palestinesi del 1948. Pur in assenza di dati ufficiali, l’UNRWA (Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione) stima che nel 2016 dei quasi 6 milioni di rifugiati almeno 2 milioni si trovino in Giordania. Talvolta, la definizione include cittadini giordani con origine palestinese. Cifre alla mano, si tratta di circa un terzo del totale. Dal 2014, quasi 4 milioni di palestinesi si dividono dieci campi profughi, il più grande dei quali è quello di Baqa’a, che ospita oltre 100 mila persone. Cui segue quello di Amman New Camp (Wihdat), con oltre 5o mila residenti. Pr lo più, i palestinesi si concentrano nel nord e nel centro del regno. In particolare nei governatorati di Amman, di Zarqa e di Irbid. Mentre la restante parte vive in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est occupata. Ma anche nella Striscia di Gaza, in Libano e Siria.

La dichiarazione
  “La Giordania resta la Giordania“. Così risponde Re Abdullah II alla cortese imbeccata. Prima di aggiungere che, sebbene vanti una società multietnica, il Regno non sia il terreno per uno Stato di Palestina. “I palestinesi non vogliono abitare in Giordania“, precisa il monarca. Piuttosto, “Desiderano la loro Terra, la propria squadra calcistica, la propria bandiera che sventola sulle loro case“. Per Abdullah II la creazione di due Stati indipendenti rimane l’unica soluzione possibile. Al giornalista della CNN spiega: “Venendo negli Stati Uniti come, penso, il primo leader da quella parte del mondo, era importante unificare i messaggi perché le sfide sono numerose“. “Era importante per me non solo incontrare la dirigenza palestinese dopo la guerra, che ho fatto con Abu Mazen (il presidente palestinese Mahmoud Abbas, ndr)“, spiega il monarca. E prosegue. “Ho incontrato il primo ministro. Ho incontrato il generale Gantz perché dobbiamo davvero riportare la gente al tavolo“.

Questione palestinese
  Secondo il Re di Giordania, i violenti disordini arabo-ebraici in Israele durante il suo più recente conflitto con Hamas sono stati una “guerra civile”, dovrebbero servire da monito. In particolare, il re ritiene che la recente escalation di 11 giorni tra Israele e Hamas “era diverso”. “Dal 1948, questa è stata la prima volta che ho sentito che una guerra civile è avvenuta in Israele“. Lo ha detto riferendosi agli scontri tra ebrei e musulmani israeliani, avvenuti durante il conflitto. “E penso che sia stato un campanello d’allarme per il popolo di Israele e il popolo palestinese, che se non andiamo avanti, a meno che non diamo speranza ai palestinesi“. E profetizza: “La prossima guerra sarà ancora più dannosa”. A ben vedere, parte del problema è dato dai numerosi attori che, da dietro le quinte, cercano di muovere i fili a proprio vantaggio. In questo senso, non sarà da sottovalutare la contesa per il controllo di Gerusalemme. In particolare, della Moschea di Al Aqsa.

La Città Santa
  Nel 2019, Re Abdullah II ha riferito di aver ricevuto pressioni per rinunciare al suo ruolo storico di custode dei luoghi santi di Gerusalemme. Eppure, il sovrano ha promesso che continuerà a proteggere i luoghi santi islamici e cristiani della Città Santa, quale prerogativa per il suo paese. Secondo gli analisti, l’Arabia Saudita sarebbe interessata ad assumersi la responsabilità del Monte del Tempio e delle moschee all’interno del complesso. Come si ricorderà, l’Arabia Saudita è già custode dei due luoghi musulmani più sacri: la Mecca e di Medina, entrambi all’interno del suo territorio

Il centro di tutto
  A tal riguardo, nel gennaio 2018, l’allora leader dell’opposizione Isaac Herzog aveva suggerito che l’Arabia Saudita avrebbe svolto un ruolo chiave a Gerusalemme. Anche proponendosi quale mediatore di un qualsiasi accordo di pace tra Israele e palestinesi. Come ha osservato Krasna, però, i sauditi “Sono in competizione con altri giocatori della regione“. In particolare, “L’Autorità Palestinese cerca costantemente di aumentare la sua influenza sul Monte del Tempio“. Mentre “I turchi cercano costantemente di aumentare la loro influenza“.

(Periodico Daily, 27 luglio 2021)


Vittoria israeliana, prosperità palestinese. Una lettera di Daniel Pipes

di Daniel Pipes

Chi può resistere all’ottimismo dell’editoriale di Micah Goodman, titolato “Israel’s Surprising Consensus on the Palestinian Issue” (“Il sorprendente consenso di Israele sulla questione palestinese”) (pubblicato il 15 luglio scorso)? Purtroppo, il testo scritto in piccolo rivela che il presunto consenso si basa sulla proposta di Goodman “di creare una contiguità territoriale tra le isole autonome palestinesi in Cisgiordania, collegare questa autonomia palestinese al resto del mondo e promuovere la prosperità e l’indipendenza economica palestinese”.
  Ma non abbiamo mai visto questo film prima? Il programma di Goodman replica fedelmente la visione di Shimon Peres di un “nuovo Medio Oriente” e gli Accordi di Oslo del 1993, quando gli israeliani fecero importanti concessioni nell’innocente speranza che Yasser Arafat, Mahmoud Abbas e i loro scagnozzi rispondessero con buona volontà. Ora sappiamo come è andata a finire.
  Da storico, mi dispiace affermare che i conflitti in genere non finiscono con gesti di buona volontà, ma con una parte che rinuncia ai suoi obiettivi di guerra. Si pensi al 1865, al 1945, al 1975 e al 1991. Bellissimi appartamenti e auto di ultimo modello non indurranno i palestinesi ad accettare Israele; questo accadrà solo dopo che avranno riconosciuto l’inutilità del loro sogno di eliminare lo stato ebraico. La vittoria israeliana, non la prosperità palestinese, porta alla pace.
  Proprio come i tedeschi hanno guadagnato incommensurabilmente rinunciando alla loro aggressione, così possono fare i palestinesi. Solo quando accetteranno il loro vicino, questa popolazione capace e dignitosa potrà costruire una politica, un’economia, una società e una cultura che merita.

Daniel Pipes
Presidente del Middle East Forum,
Philadelphia

(L'Informale, 26 luglio 2021 - trad. Angelita La Spada)


Un altro judoka si ritira da Tokyo per non affrontare un israeliano

Anche l’atleta del Sudan rischia sanzioni

Nessuna spiegazione. Al momento. Il judoka sudanese Mohamed Abdalrasool ha scelto di ritirarsi dalle Olimpiadi di Tokyo 2020 prima del match previsto contro l’israeliano Tohar Butbul nella categoria maschile sotto i 73 chili. Nei scorsi giorni l’algerino Fethi Nourine aveva scelto di non affrontare Butbul come segno di protesta per la situazione della Palestina. Queste le sue parole: «Abbiamo lavorato molto per andare alle Olimpiadi, ma la causa palestinese è qualcosa di più grande». Nonostante questa giustificazione la Federazione internazionale di Judo aveva deciso di sospendere Nourine.
   Non è chiaro se la stessa sorte ora toccherà anche a Abdalrasool. Nella classifica di ranking internazionale Abdalrasool si trova al 469° posto nella sua classe di peso. Butbul invece è uno degli atleti più forti in questo momento: è 7° in classifca e negli anni scorsi ha conquistato diversi podi nei tornei internazionali. Dopo il rifiuto di gareggiare con lui di Abdalrasool e Nourine, ora Butbul dovrebbe incontrare in combattimento il moldavo Victor Sterpu, vincitore nel 2020 dei Campionati Europei di Judo.

(Open, 26 luglio 2021)

Israele taglierà l’85% delle emissioni entro il 2050

Gli ambientalisti: abbandonare le politiche fossili di trivellazione del Mediterraneo

Il nuovo governo di coalizione israeliano  ha annunciato che Israele ridurrà le emissioni di carbonio dell’85% rispetto ai livelli del 2015 entro la metà del secolo.
  Secondo il primo ministro Naftali Bennett «La decisione aiuterà il Paese a passare gradualmente a un’economia low-carbon».
  Gli obiettivi comprendono la riduzione della stragrande maggioranza delle emissioni dei trasporti, delle centrali elettriche e dei rifiuti urbani.
  Ma gli ambientalisti israeliani chiedono obiettivi più ambiziosi per le energie rinnovabili e maggiori incentivi economici per un vero cambiamento di paradigma.
  Solo la settimana scorsa <, Greenpeace Israel ricordava che «Negli ultimi mesi, un comitato interministeriale guidato dal direttore generale del ministero dell’energia Udi Adiri (comitato adiri) ha commissionato un programma per incoraggiare nuove esplorazioni di petrolio e gas nelle acque della Zona economica esclusiva israeliana e denunciava come particolarmente scandaloso il riferimento alla crisi climatica come «finestra di opportunità limitata» per la vendita di gas per l’esportazione, a causa della transizione dei Paesi del mondo verso un’economia low-carbon».
  Le dichiarazioni del governo Bennet arrivano mentre il team di Greenpeace Israel sta lavorando per formulare osservazioni al ministero dell’energia contro quel documento e gli ambientalisti dicono che «Questa procedura “democratica” sembra essere solo apparente. Questo perché come parte della legislazione di bilancio (legge sugli accordi) il governo ha incorporato la maggior parte delle raccomandazioni delle conclusioni del comitato Adiri, tra le quali incoraggiare l’esplorazione di gas e petrolio attraverso esorbitanti benefici fiscali per le compagnie fossili, la più significativa delle quali è che la spesa per la perforazione a secco (cioè la perforazione senza gas) può essere coperta deducendo le tasse dalla perforazione esistente.  Sì, avete sentito bene, se la Chevron o la Delek cercano gas e petrolio nel mMditerraneo  e non trovano carburante, allora noi, cioè il pubblico israeliano, copriremo le loro spese attraverso un meccanismo in cui il governo riscuoterà meno tasse dai profitti di Tamar e Whale Rig».
  Greenpeace Israel avverte il governo che «L’emergenza climatica non lascia più spazio a una politica titubante e obbliga il governo israeliano a scegliere per sempre una parte: essere parte del problema o partecipare alla soluzione».
  E Bennett ci prova, assicurando che gli obiettivi di taglio delle emissioni porteranno a «Un’economia pulita, efficiente e competitiva» e  «Metteranno Israele in prima linea nella battaglia contro il cambiamento climatico».
  Con i nuovi obiettivi Israele si allinea con l’Accordo sul clima di Parigi del quale è firmatario e che non ha abbandonato nemmeno al tempo di Donald Trump. Israele finora si era prefissato l’obiettivo provvisorio di ridurre le emissioni del 27% entro il 2030.

(Greenreport, 26 luglio 2021)


Accordi di Abramo: primi voli tra Israele e Marocco

Sono arrivati domenica a Marrakesh in Marocco i primi due aerei colmi di turisti israeliani. Si tratta dei primi voli commerciali dopo il disgelo tra i due paesi, firmato nel dicembre 2020, come parte degli accordi di Abramo, che sotto l'egida degli Stati Uniti hanno riavvicinato Israele ad alcuni paesi arabi (Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e Marocco, appunto).
    Ad accogliere i turisti all'arrivo un buffet di benvenuto con tè alla menta, datteri e dolci tipici.
    "Sono così contenta di essere qui oggi - dice una turista israeliana - è il primo volo commerciale da Israele al Marocco. È un giorno storico: questi due bellissimi paesi sono finalmente connessi, c'è finalmente cooperazione".
    El Al, la compagnia di bandiera di Israele, ha pianificato 5 voli alla settimana tra Israele e Marocco.
    Come parte dell'accordo, firmato a dicembre 2020 sotto la presidenza Trump, gli Stati Uniti hanno accettato di riconoscere l'annessione della regione del Sahara occidentale al Marocco, ma il nuovo presidente Biden ha detto che rivedrà questa decisione. L'annessione del 1975 non è mai stata riconosciuta dalle Nazioni Unite.
    La comunità ebraica del Marocco è la più numerosa del Nord Africa. Circa 700mila israeliani di origine marocchina hanno spesso mantenuto forti legami con il loro paese di origine. Per questo la notizia del primo volo è stata accolta con gioia da Jacky Kadoch, a capo della comunità ebraica di Marrakech-Safi.

(euronews, 26 luglio 2021)


L'ambasciatore israeliano: «Razzismo anti-ebraico anche in Italia e Onu

«La comunità internazionale tratta la nostra democrazia alla pari dei nazisti di Hamas. Roma riconosca Gerusalemme capitale come ha fatto Trump».

di Fausto Carioti

L'ASTENSIONE
«Le Nazioni Unite investigano su Israele, accusandolo di crimini di guerra. Ma non hanno dedicato una parola ai 4.000 razzi sparati contro di noi. E l'Italia si è astenuta.
I SOLDI A GAZA
«La comunità internazionale non ha capito che quei fondi sono usati per mantenere la Striscia in stato militarizzato e per arricchire i capi dei terroristi»

Abbondano i libri sulla storia romana, scritti in ebraico, in inglese e in italiano. «Storicamente», dice mostrando alcuni di quei volumi antichi, «i rapporti tra Italia e Israele sono molto forti. Gli intellettuali ebrei si ispirarono al meraviglioso Risorgimento italiano. Nel 1861 Moses Hess, un ebreo tedesco, pubblicò Roma e Gerusalemme: 9 anni prima della presa di Roma, scrisse che con la liberazione della Città eterna sul fiume Tevere sarebbe iniziata la liberazione della Città eterna sul monte Moriah. Un profezia che si è realizzata».

- E oggi, ambasciatore? Come sono i rapporti tra i nostri popoli?
  «Italia e Israele collaborano in molti settori. Le aziende hanno interessi economici comuni, ma la componente fondamentale resta l'amicizia. Un mese fa, al termine dell'esercitazione congiunta, i piloti militari israeliani mi hanno detto cose meravigliose sui loro colleghi italiani È così anche nell'agricoltura, nella sanità, nella cybersecurity, nella ricerca. La prima visita ufficiale del nostro ministro degli Esteri, Yair Lapid, è stata qui Abbiamo tante cose in comune».

- C'è dell'altro, mi pare di capire
  «C'è una domanda che mi faccio. Perché noto una discrepanza tra questi rapporti così stretti e l'attitudine dell'Italia verso Israele nell'arena internazionale, a cominciare dall'Onu. lo non capisco, noi non capiamo. Ogni anno sono adottate oltre venti risoluzioni contro Israele, non c'è altra nazione che riceva un simile trattamento. Tutti sanno che le decisioni dell'Onu contro Israele sono un teatro dell'assurdo, eppure tutti, Italia inclusa, partecipano alla scena».

- È accaduto anche di recente, dopo l'operazione a Gaza.
  «È stata l'operazione di uno Stato democratico contro Hamas, organizzazione terroristica di stampo nazista. Eppure il Consiglio per i diritti umani dell'Onu ha varato una risoluzione per investigare su Israele, accusandolo di avere commesso "crimini di guerra". Senza dedicare una parola ai quattromila razzi lanciati contro Israele. E l'Italia si è astenuta, mettendo così Israele e Hamas sullo stesso piano».

- Ne ha parlato con i nostri politici, presumo.
  «Il capo della commissione Esteri al Senato, Vito Petrocelli ( esponente del MSS, ndr), mi ha detto: "Non ho sostenuto né Israele né Hamas, io sono contro la violenza"»

- E lei?
  «Gli ho risposto che il popolo ebraico, quando finisce Shabbat, prega Dio di dargli l'abilità di distinguere tra la luce e il buio. Perché se una persona non sa distinguere tra uno Stato democratico che non vuole combattere ed è costretto a farlo, e un'organizzazione la cui ragion d'essere consiste nel distruggere Israele e gli ebrei, il problema non è nostro: è questa persona ad avere un grosso problema morale. Appartiene a quelli di cui scrive Dante nel Terzo Canto».

- Gli ignavi.
  «"Coloro che visser sanza 'nfamia e sanza lodo". Quelli che non meritano nemmeno di entrare all'Inferno, perché non hanno mai preso posizione».

- Per l'Italia è una tradizione. Nel 2016 si astenne sulla risoluzione Unesco che negava il legame tra gli ebrei e i luoghi sacri di Gerusalemme.
  «Tutto il mondo occidentale vuole intervenire nel rapporto storico, religioso e sentimentale che lega gli ebrei a Gerusalemme. Ma Gerusalemme non è una capitale come le altre: è la ragion d'essere degli ebrei. Durante l'esilio la ricordavamo ogni volta che mangiavamo e ancora oggi, dopo aver ringraziato Dio per il cibo, aggiungiamo: "E non dimenticare di costruire Gerusalemme"».

- Gerusalemme è sacra anche per musulmani e cristiani, ambasciatore.
  «Ma questo riguarda la religione, non la politica. Gerusalemme è stata una capitale politica solo per il nostro popolo. E solo la sovranità di Israele ha garantito che vi fosse libertà di religione e movimento per tutti».

- Donald Trump ha spostato l'ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme. È stato il primo, ma anche l'unico. «Trump ha fatto un grande gesto. È entrato nella Storia come il nuovo Assuero, il re persiano che dopo l'esilio babilonese permise agli ebrei di tornare a Gerusalemme. Riconoscerla come capitale politica eterna del popolo ebraico è la ricompensa per tutti i disastri che abbiamo sofferto».

- Matteo Salvini ha promesso di fare lo stesso. È questo che vi attendete dall'Italia?
  «So che l'Italia non è l'impero romano, ma da Roma fu mandato Tito a distruggere Gerusalemme. Dopo quasi duemila anni il popolo ebraico è tornato a casa e ha ricostruito Gerusalemme. Cosa manca? Che anche Roma e l'Italia partecipino a questo miracolo. È il mio sogno».

- In Italia, comunque, chi prende posizione c'è. Una scrittrice di sinistra, Michela Murgia, nei giorni scorsi ha scritto: «La penso come Hamas»,
   «È sorprendente, da parte di una scrittrice di origine cristiana. Se fosse stata nella striscia di Gaza sarebbe stata discriminata sia in quanto donna, che per Hamas non deve avere diritti, sia in quanto cristiana, perché Hamas ha perseguitato tutti i cristiani di Gaza».

- La Murgia non è certo l'unica a pensarla così. Come se lo spiega?
  «Ci sono intellettuali, o persone che vorrebbero esserlo, che fanno della loro ignoranza un'ideologia. Basterebbe che leggessero lo statuto di Hamas, scritto nel 1988. In quella carta ci sono due principi. Il primo è un impegno totale per la completa distruzione dello Stato ebraico, il secondo la promessa di uccidere ogni ebreo, ovunque si trovi. Negli ultimi cento anni conosco un solo documento in cui appaiano simili idee».

- Il Mein Kampf.
   «Appunto. A chi crede che sia possibile trattare con Hamas, consiglio di leggere questi articoli: "Le iniziative di pace, le cosiddette soluzioni pacifiche, le conferenze internazionali per risolvere il problema palestinese contraddicono tutte le credenze del Movimento di resistenza islamico", cioè Hamas. "Non c'è soluzione per il problema palestinese se non il jihad?»

- Magari certi personaggi trasferiscono su Hamas la loro simpatia per la causa palestinese e i poveri di Gaza,
   «Ma Hamas non è "i palestinesi". È un'entità distinta che nemmeno riconosce l'Autorità palestinese. Certo, a Gaza ci sono poveri, ma quegli intellettuali ingenui non sanno che, anche mentre Hamas lanciava migliaia di razzi contro di noi, contro i nostri bambini, Israele non ha mai smesso di fornire a Gaza elettricità, acqua, benzina e cibo».

- La Banca mondiale e altre organizzazioni stanno raccogliendo soldi da donare a Gaza, come riparazione per i danni subiti.
  «È un'altra cosa che gli occidentali non capiscono: la maggior parte di quei soldi è usata per scopi terroristici, per mantenere la striscia di Gaza perennemente militarizzata. Il resto va direttamente ai capi di Hamas: la ricchezza di lsmail Haniyeh è valutata in 4 miliardi di dollari, quella di Musa Abu Marzook in 3 miliardi».

- Un'altra accusa frequente a Israele è quella di condurre una politica di «apartheid» nei confronti dei palestinesi. La ripete anche Alessandro Di Battista, altro personaggio con un certo seguito.
  «Lo so, ci sono persone che ripetono in continuazione simili bugie. In Israele un giudice arabo ha mandato in prigione il presidente dello Stato di Israele. Questa sarebbe apartheid? Da noi i cittadini arabi hanno gli stessi diritti di tutti gli altri. Anzi, ne hanno più degli ebrei, visto che non debbono fare il servizio militare».

- E lei come spiega che così tanti, in Occidente, spargano bugie su Israele?
  «È il nuovo antisemitismo. Dicono di essere non contro gli ebrei, ma contro lo Stato ebraico, eppure lo scopo è sempre quello. Contestano il diritto di Israele a difendersi dai suoi nemici, quindi il diritto degli ebrei ad esistere e ad avere una nazione come gli altri popoli. E difendendoci non difendiamo solo noi stessi: Israele è l' avamposto contro il terrorismo e l' estremismo che minacciano il mondo libero».

- A proposito: come sono i vostri rapporti con la Ue? A Bruxelles intendono rilanciare l'accordo sul nucleare siglato con l'Iran nel 2015.
  «Conosco gli iraniani. Sono i numeri uno nel commercio, abilissimi nelle trattative e capaci di far cambiare opinione agli europei ingenui. Anche nel 2015 il mondo disse che Israele sbagliava ad opporsi. Due anni dopo, il Mossad si procurò l'archivio del progetto nucleare iraniano. E lì c'erano le prove che durante i negoziati l'Iran aveva mentito, le sue intenzioni erano militari. Adesso arriva Mohammad Zarif, il loro ministro degli Esteri, con completo inglese e cravatta, e tanto basta a convincere gli europei».

- La guerra tra Israele ed Iran è una delle grandi paure dell'Occidente. Fino a che punto siete disposti ad arrivare per difendervi?
  «L'Iran dichiara ogni giorno che intende sterminare il popolo ebraico, e la Storia ci ha insegnato che dobbiamo credere ai dittatori quando dicono una cosa. Noi implorammo gli Alleati affinché bombardassero la linea ferroviaria di Auschwitz. Avrebbero potuto salvare mezzo milione di ebrei ungheresi, però non lo fecero. Ma abbiamo finito di implorare gli altri. Grazie a Dio, ora abbiamo la tecnologia per difenderci da soli e la saggezza per usarla. A nessuno sarà più permesso di sterminare gli ebrei. Se ci sarà la necessità, sapremo cosa fare».

Libero, 26 luglio 2021)


Ilana Romano: “Mezzo secolo di lotta in nome di mio marito per ricordare quella strage”

Per ottenere il minuto di silenzio a Tokyo si è battuta per 49 anni: "Ci dicevano che i morti si piangono nei cimiteri, non alle Olimpiadi. Ma non ci siamo arresi".

TEL AVIV - Le Olimpiadi di Tokyo si sono aperte per gli israeliani nel segno della vittoria, titolava Haaretz dopo la cerimonia venerdì. Poche ore dopo sarebbe arrivato il primo, inaspettato bronzo in Taekwondo femminile, ma la vittoria celebrata era innanzitutto quella del minuto di silenzio per cui Ilana Romano e Ankie Spitzer hanno lottato per 49 anni.
   Romano, padre nato in provincia di Pistoia, e Spitzer, olandese arrivata in Israele per amore, si sono conosciute all'aeroporto Ben Gurion quel 6 settembre 1972, mentre attendevano i feretri dei mariti, due degli undici atleti israeliani uccisi alle Olimpiadi di Monaco da un commando dell'organizzazione terroristica palestinese Settembre Nero.
   "Ci siamo sentite dire più volte: "I morti si piangono nei cimiteri, non alle Olimpiadi". Ma io e Ankie, abbiamo girato il mondo, da un'Olimpiade all'altra, a nostre spese, per incontrare chiunque fosse disposto. Una volta abbiamo chiesto a Jacques Rogge: "Ma se si fosse trattato di un altro Stato, vi sareste comportati così?". Ci ha risposto "Forse no". È stato così umiliante constatare come la politica possa calpestare i valori sportivi. Ma noi non ci siamo arrese". Ilana ci parla da Tokyo, dove è arrivata con Ankie, come per tutte le ultime 12 Olimpiadi. "Il minuto di silenzio è arrivato come un sogno inaspettato. Avevo 26 anni quando promisi alle nostre tre figlie che nessuno si sarebbe dimenticato chi erano loro padre e i suoi compagni. Ancora non ci credo, temevo che avrei lasciato questo fardello alle mie figlie".

- Quando è iniziata la vostra battaglia?
  "Nel 1976 siamo andate alle Olimpiadi di Montreal, per noi era scontato che ci sarebbe stata una commemorazione. Invece nulla. Il Cio si è sempre arreso all'opposizione dei Paesi arabi. L'apice della battaglia è stato alle Olimpiadi di Londra nel 2012, nel quarantennale dal massacro. Allora diversi parlamenti nel mondo, tra cui quello italiano, hanno osservato un minuto di silenzio in ricordo delle vittime. Ma abbiamo continuato la nostra battaglia perché il riconoscimento avvenisse sul suolo olimpico".

- Sapevate che a Tokyo sarebbe stato diverso?
  "Abbiamo incontrato Thomas Bach appena subentrato a Rogge alla direzione del Cio e ci ha fatto capire che voleva mettere da parte le assurde logiche politiche. Lui è uno sportivo, era a Monaco nel '72 come atleta. A Rio ha promosso per la prima volta una commemorazione all'interno del Villaggio Olimpico, un primo passo. L'abbiamo incontrato di nuovo a Losanna l'anno scorso, insistendo nuovamente sul minuto di silenzio. Ha detto che ci avrebbe pensato e poi non abbiamo più saputo nulla. Nonostante i timori per il Covid, abbiamo deciso di venire a Tokyo per la consueta commemorazione che organizziamo con la delegazione israeliana.
   Poi ci è arrivato un invito alla cerimonia inaugurale. Abbiamo pensato che fosse qualcosa di particolare, considerata l'esclusività dei Giochi quest'anno, ma non avevamo dettagli. Come inizia la cerimonia, Ankie mi dice "Ho la sensazione che non accadrà nulla neanche stavolta". Improvvisamente, una stretta allo stomaco: si apre la cerimonia e vengono ricordati i nostri cari".

- Nel contesto del minuto di silenzio per le vittime del Covid, e con un richiamo piuttosto generico.
  "Non ho ancora rivisto il video. L'abbiamo vissuto dal vivo, strozzate dalle lacrime, senza preavviso. Abbiamo sentito che venivano ricordate le vittime israeliane di Monaco e come noi l'hanno sentito miliardi di persone al mondo e questo per noi è quello che conta, per non dimenticare, perché non si ripeta".

- Pensa che gli Accordi di Abramo abbiano avuto un ruolo nell'ammorbidire le posizioni?
  "Non lo so. Penso Bach abbia preso la giusta decisione che andava presa 49 anni fa e non per politica: sono stati uccisi sulla terra olimpica, erano degli sportivi, per questo era dovere del Comitato onorarli. Trovo così sbagliato mischiare sport e politica. Ma continua a succedere: ancora il judoka algerino non ha voluto gareggiare con l'israeliano. E ti dico di più: come esco dalla cerimonia, chi mi trovo davanti? Jibril Rajoub (il presidente del comitato olimpico palestinese, ndr). Da sempre è uno dei più ferventi oppositori alla cerimonia, ma immagino che come gli altri abbia rispettato il minuto di silenzio".

- Avete parlato?
  "No. Anche se siamo nello stesso hotel e facciamo colazione uno accanto all'altra".

In tutti questi anni, non avete mai avuto interazioni con sportivi arabi?
  "Ad Atlanta, nel 1996, era la prima volta della delegazione palestinese. Abbiamo portato con noi 14 figli delle vittime. Gli orfani degli atleti di Monaco hanno plaudito come tutti l'ingresso degli atleti palestinesi. Poi abbiamo fatto la nostra consueta commemorazione con la comunità ebraica e il capo della delegazione palestinese è venuto a dare un bacio sulla fronte a mia figlia. La prima e ultima volta in cui hanno partecipato alla cerimonia".

- E ora, vi riposate?
  "Ora ringraziamo di essere arrivati a questo momento. E auspichiamo che d'ora in poi rientri nel protocollo delle cerimonie inaugurali".  

(la Repubblica, 26 luglio 2021)

Palestinesi accusano Hamas di immagazzinare armi nelle zone residenziali

Le fazioni palestinesi e le organizzazioni per i diritti umani hanno invitato Hamas a smettere di immagazzinare armi nelle aree residenziali. Questo a seguito di un’altra esplosione, che giovedì ha ucciso una persona e ne ha ferite altre 14.

PERCHE' I PALESTINESI ACCUSANO HAMAS DI IMMAGAZZINARE ARMI NELLE ZONE RESIDENZIALI?
I palestinesi della Striscia di Gaza hanno affermato che l’esplosione è avvenuta in un magazzino utilizzato da Hamas per immagazzinare armi. Hamas ha detto di aver avviato un’indagine, ma non ha fornito dettagli. I Palestinesi hanno anche chiesto un’indagine approfondita sull’esplosione al fine di trovare i responsabili. L’esplosione di giovedì è avvenuta poco dopo le 8 in una casa situata nell’area del mercato di Al-Zawiya, nel centro di Gaza City. Fonti palestinesi affermano che Atta Ahmed Saqallah, 69 anni, è morto e 14 civili sono rimasti feriti, tra cui sei bambini.

Fonti mediche dell’ospedale di Shifa hanno descritto le ferite di uno di loro come critiche, secondo il Centro palestinese per i diritti umani Al-Mezan. La casa a tre piani è stata parzialmente distrutta, mentre le case e i negozi vicini sono stati parzialmente danneggiati, ha affermato il centro in una nota. Secondo testimoni oculari, prima dell’esplosione in casa era scoppiato un incendio. “Il Centro per i diritti umani Al-Mezan a Gaza considera l’incidente dell’esplosione con grave serietà, poiché in passato si sono verificati ripetuti episodi di esplosioni interne in case in quartieri residenziali sovraffollati per vari motivi, che hanno provocato l’uccisione di un certo numero di civili e la distruzione di case e proprietà pubbliche e private”, si legge nella nota.

CHI VUOLE LE INDAGINI
Di conseguenza, Al-Mezan ribadisce la sua richiesta per un’indagine completa e seria su questo incidente e altri eventi simili, per pubblicare i risultati dell’indagine pubblicamente e per adottare le misure necessarie per garantire che non si ripeta al fine di preservare vite e proprietà dei cittadini”. Anche la Rete delle ONG palestinesi, un’organizzazione ombrello che comprende 133 organizzazioni membri, ha chiesto un’indagine “seria e trasparente” sull’esplosione. “La rete sottolinea la necessità di accelerare la fornitura di tutte le forme di assistenza e supporto alle persone colpite”, ha affermato il gruppo. “Sottolinea inoltre la necessità di annunciare i risultati delle indagini e di adottare misure serie per evitare che tali esplosioni si ripetano”.

PERCHE'; HAMAS SCEGLIE DI IMMAGAZZINARE LE ARMI IN ZONE CIVILI?

Lo scrittore palestinese Fadel Al-Manasfeh ha affermato che è chiaro che Hamas sceglie i mercati popolari come luogo sicuro per i suoi magazzini di munizioni perché sa che Israele non prende di mira tali luoghi. Ha detto che Hamas era “confuso” dall’esplosione perché era stato scoperto uno dei suoi depositi di armi. Ha anche sottolineato che un’esplosione simile è avvenuta in un mercato aperto nel campo profughi di Nuseirat lo scorso anno, uccidendo più di 10 palestinesi e ferendone dozzine.

(Periodico Daily, 25 luglio 2021)

NSO Pegasus: spyware in vendita

Il mercato in forte espansione della tecnologia di sorveglianza

Il gruppo israeliano NSO è nell’occhio del ciclone a causa del suo spyware Pegasus, ma è tutt’altro che l’unica azienda che aiuta i governi con le loro operazioni di sorveglianza segrete. Affermazioni esplosive secondo cui Pegasus è stato utilizzato per spiare gli attivisti e persino i capi di stato hanno puntato i riflettori sul software che consente un accesso altamente intrusivo al telefono cellulare di una persona.

NSO è solo un attore in un settore che è cresciuto silenziosamente negli ultimi anni, armando anche i governi a corto di liquidità con una potente tecnologia di sorveglianza. “Questi strumenti sono diventati sempre più economici”, ha affermato Allie Funk, analista di ricerca senior in tecnologia e democrazia presso il think tank statunitense Freedom House che ha affermato inoltre: “Quindi non sono solo le principali agenzie di intelligence del mondo che possono acquistarli, ma sono i governi più piccoli o le agenzie di polizia locali”. Le economie emergenti come l’India, il Messico e l’Azerbaigian dominano l’elenco dei paesi in cui un gran numero di numeri di telefono sarebbe stato identificato come possibili obiettivi dai clienti NSO. Ron Deibert, direttore del centro di ricerca Citizen Lab dell’Università di Toronto, ha affermato che tali società hanno permesso ai governi di “acquistare la propria NSA” in modo efficace, un cenno all’Agenzia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti la cui vasta sorveglianza è stata esposta da Edward Snowden.

Il Citizen Lab scandaglia Internet alla ricerca di tracce di spionaggio digitale da parte dei governi. Proprio la scorsa settimana lo ha pubblicato un’indagine su un'altra azienda segreta israeliana che vende spyware a governi stranieri. Sembra che sia stato usato in modo simile per prendere di mira dissidenti e giornalisti, dalla Turchia a Singapore. Nel 2017, Citizen Lab ha scoperto che l’Etiopia aveva utilizzato lo spyware sviluppato da Cyberbit, un'altra azienda israeliana, per infettare i computer dei dissidenti in esilio. “Ci sono molteplici fattori per cui vediamo molte aziende israeliane”, ha detto Deibert, e uno è l’atteggiamento “apertamente imprenditoriale” dell’unità militare israeliana di spionaggio “Unit 8200”, che “incoraggia i propri laureati a uscire e sviluppare start-up dopo il servizio militare”.

Mentre Israele sta ora affrontando richieste per un divieto di esportazione di tale tecnologia, non è l’unico paese che ospita società che vendono spyware standard. Come Pegasus, il FinFisher tedesco è commercializzato come uno strumento per aiutare i servizi segreti e le forze dell’ordine a combattere il crimine e anche questo è stato accusato di essere stato utilizzato per sorveglianza abusiva, anche per spiare giornalisti e attivisti del Bahrein. L’azienda italiana Hacking Team è stata al centro del proprio scandalo in stile Pegasus nel 2015 quando una fuga di notizie ha rivelato che stava vendendo spyware a dozzine di governi in tutto il mondo. Da allora è stato rinominato come Memento Labs. Non tutte le aziende di questo settore oscuro sono specializzate nello stesso tipo di tecnologia.

Alcuni vendono strumenti che imitano le torri dei telefoni cellulari, aiutando le autorità a intercettare le telefonate; altri, come Cellebrite, hanno aiutato le forze di polizia dagli Stati Uniti al Botswana a entrare nei telefoni cellulari bloccati.

Deibert ha tracciato una distinzione tra le società che operano in questo settore delle “intercettazioni legali” e le organizzazioni di “hack for rent” – gruppi criminali borderline “che praticano hacking per conto degli stati”. Gli analisti sospettano, tuttavia, che le società di spyware facciano spesso affidamento sull’esperienza degli hacker. Le versioni recenti di Pegasus hanno utilizzato punti deboli nel software comunemente installato sugli smartphone, come WhatsApp e iMessage di Apple, per installare lo spyware sui dispositivi delle persone sebbene non sia chiaro come gli sviluppatori di NSO abbiano scoperto questi punti deboli, gli hacker vendono comunemente l’accesso a queste cosiddette “vulnerabilità zero-day” sul dark web.

“NSO ha svolto molte attività di ricerca e sviluppo, ma si affida anche al mercato grigio per le vulnerabilità”, ha affermato l’esperto di sicurezza informatica francese Loic Guezo, che ha anche affermato che aziende come Zerodium negli Stati Uniti acquistano l’accesso a queste vulnerabilità del software dagli hacker e le vendono direttamente agli stati o ad aziende come NSO. Mentre si diffonde lo scandalo Pegasus, crescono le richieste affinché l’industria debba affrontare una maggiore regolamentazione o addirittura una moratoria su questo tipo di tecnologia di sorveglianza del tutto e per Deibert, “la realtà è che quasi tutti i governi hanno interesse a mantenere questa industria così com’è – segreta, non regolamentata – perché ne beneficiano”.

(israel360, 25 luglio 2021)


“Special in Uniform”: Forze Armate israeliane ed impiego di soldati con abilità speciali

Special in Uniform è una novità mondiale: un programma di formazione quadriennale che prepara i giovani con disabilità a servire nelle Forze di Difesa Israeliane accanto ai loro coetanei. Nessun’altra nazione militare addestra persone con disabilità al servizio nell’esercito.

dii Sara Palermo

TEL AVIV - Esiste un reparto dell’esercito israeliano unico nel suo genere. È l’unità 9900, una squadra di intelligence selettiva specializzata nel riconoscimento visivo satellitare ad alta risoluzione ed i cui membri rivestono un ruolo di vitale importanza per la sicurezza del Paese. Tutto grazie alla loro straordinaria diversità: si tratta infatti di soldati affetti da disturbi dello spettro autistico.
Circa l’uno per cento della popolazione mondiale è diagnosticato con un disturbo dello spettro autistico. La diagnosi spesso significa una vita di sfide, poiché queste persone hanno difficoltà ad apprendere le abilità sociali e a comunicare con gli altri. Risulta difficile per gli adolescenti e gli adulti integrarsi nella società, trovare un lavoro e contribuire significativamente all’interno delle proprie comunità. In tutto il mondo si stanno sviluppando programmi di integrazione basati sui punti di forza delle persone con autismo. Un esempio di successo è l’iniziativa Special in Uniform lanciata nel 2014 dalle Forze di Difesa Israeliane (IDF: Israel Defense Forces) e supportata dallo Jewish National Fund-USA sin dall’anno successivo. Ad oggi, la JNF-USA contribuisce con circa 1,5 milioni di dollari all’anno, il 60 per cento del budget di Special in Uniform; il resto proviene dal governo israeliano, da aziende e donazioni private...

(Report Difesa, 23 luglio 2021)


L’incidente di hacking telefonico globale ha esposto il lato oscuro dell’immagine di Israele

La società ha dichiarato di non controllare l’uso del software da parte dei clienti, ma di rispettare le leggi israeliane sull’esportazione di tecnologia di livello militare, censurando selettivamente i clienti e interrompendo l’accesso in caso di abuso.

LA PERFETTA COMBINAZIONE DI SPIA E TECNOLOGIA

Il dominio di Israele nella sicurezza informatica non viene dal nulla. I dipartimenti di intelligence e operazioni segrete del paese, in particolare le forze di sicurezza del Mossad, sono noti da tempo per le loro attività di spionaggio astute, audaci e spietate e sono glorificati dai ritratti di Hollywood.

Poiché l’importanza di Israele come centro di innovazione tecnologica e imprenditorialità continua ad aumentare, l’integrazione di questi due campi ha conferito a questo piccolo paese un’enorme influenza nel settore della sicurezza informatica.

Tal Pavel, capo della ricerca sulla sicurezza informatica presso l’Academic College, ha affermato che il sistema educativo ricco di risorse del paese, insieme al servizio militare obbligatorio, ha consentito a molti giovani israeliani di ricevere una formazione avanzata in sicurezza informatica e guerra informatica prima di andare all’università. Pavel ha sottolineato che molte delle tecnologie più all’avanguardia del paese derivano da sviluppi militari.

Una delle forze d’élite delle Forze di difesa israeliane è l’Unità segreta 8200, un’agenzia di spionaggio informatico che ha addestrato alcune delle più grandi superstar tecnologiche del paese.

“Una caratteristica unica di Israele è ‘cynergy’, che combina la sinergia tra Internet e l’industria”, ha detto Pavel alla CNN, e poi ha alluso a una caratteristica che, secondo lui, potrebbe essere radicata nella psicologia israeliana.

“Ci sono alcune cose anche qui… forse c’è una lotta per la sopravvivenza. Se tutto è piacevole e non stai sempre cercando di sopravvivere (contro coloro che cercano di distruggerti), allora non devi innovare per affrontare con esso.”

CONSEGUENZE DELL'UFFICIO NAZIONALE DI STATISTICA

NSO è stata fondata nel 2009, ma è stato solo nel 2016 che la forza tecnica di NSO è stata censurata.

In quell’anno, è stato riferito che Ahmed Mansour, un attivista per i diritti umani negli Emirati Arabi Uniti, ha ricevuto un messaggio di testo sospetto con un link. Laboratorio cittadino L’Università di Toronto ha scoperto di contenere malware di NSO hackererà il suo iPhone(Nel 2018, Mansour è stato condannato a 10 anni di carcere per “danneggiare la reputazione degli Emirati Arabi Uniti” sui social media.)

Il software Pegasus sarebbe anche collegato all’omicidio dell’editorialista del Washington Post Jamal Khashoggi nel 2018 attraverso il dissidente Omar Abdulaziz. Il telefono è stato presumibilmente hackerato Attraverso il software Pegasus. Abdulaziz ha citato in giudizio NSO nel 2019, accusando la società di vendere il software a regimi autoritari in violazione del diritto internazionale. Secondo il rapporto “Guardian”, all’inizio dello scorso anno, un giudice israeliano ha respinto la richiesta dell’Ufficio nazionale di statistica di archiviare la causa, che l’Ufficio nazionale di statistica considerava priva di “sincerità”. NSO ha ripetutamente negato che il suo software venga utilizzato per monitorare Khashoggi o la sua famiglia.

Una recente indagine L’International Media and Human Rights Alliance ha trovato prove del software Pegasus sui telefoni cellulari 37. Queste persone, in base alla descrizione dell’uso del software da parte dell’azienda, non dovrebbero essere prese di mira dal software NSO, come giornalisti e attivisti per i diritti umani .

La CNN non ha verificato in modo indipendente i risultati di un sondaggio organizzato da Forbidden Stories chiamato Pegasus Project. In una dichiarazione alla CNN, l’Ufficio nazionale di statistica ha negato con forza i risultati dell’indagine, affermando di aver trovato molte delle affermazioni problematiche.

Pertanto, paesi come la Francia hanno annunciato indagini sull’uso di questa tecnologia, mentre Amazon ha annunciato di aver “chiuso l’infrastruttura pertinente e gli account associati a NSO utilizzando i servizi Amazon”.

PUNTA DELL'ICEBERG

Il consulente per la strategia e la comunicazione Israel Bachar ha affermato che NSO è solo una parte di un’enorme industria di spionaggio informatico. Ha lavorato con molti dei principali leader politici israeliani, tra cui l’ex primo ministro Benjamin Netanyahu e l’attuale vice primo ministro e ministro della Difesa Benny Ganz. .

“Ad essere onesti, i paesi raccolgono costantemente informazioni che si confrontano tra loro. Tutti controllano tutti. Quando si tratta di un’azienda israeliana, ci sarà molta ipocrisia”, ha detto Bachar, osservando che l’Agenzia per la sicurezza nazionale era stata precedentemente coinvolta Monitorare le notizie dei leader mondiali e dei loro cittadini. “NSO è un altro strumento, ma ci sono molti altri strumenti”.

Bachar ha affermato che oltre alle capacità pratiche, aziende come la NSO stanno anche aiutando Israele diplomaticamente perché Israele ha stabilito in silenzio e ora apertamente relazioni con ex oppositori per anni.

“Uno degli strumenti diplomatici di Israele sono le sue capacità di intelligence. Non è un segreto che Israele condivida anche informazioni sensibili con i paesi arabi perché siamo interessati a proteggerli”, ha detto Bachar.

Ma il professor Yuval Shani, capo del Dipartimento di diritto internazionale pubblico presso l’Università Ebraica di Gerusalemme, ha affermato che questa strategia sta iniziando ad avere un effetto controproducente sull’immagine di Israele.

“La logica è che Israele potrebbe essere disposto a chiudere un occhio sulle transazioni con regimi amici perché sono amichevoli con Israele ma non necessariamente amichevoli con i diritti umani”, ha detto Shani. “Penso che il recente scandalo abbia messo in imbarazzo sia l’Ufficio nazionale di statistica che Israele, almeno a breve termine, porterà a un inasprimento degli standard di controllo delle esportazioni”.

COME CONTROLLARE L'INCONTROLLABILE

A differenza delle armi convenzionali, il software è solitamente intangibile e può essere facilmente venduto e trasferito a livello globale, il che rende difficile il controllo di tecnologie come il sistema Pegasus.

Shany ha affermato che NSO e tecnologie simili di livello militare sono regolate dalla struttura di controllo delle esportazioni all’interno del Ministero della Difesa israeliano. Il sistema si concentra sia sulla tecnologia che sugli obiettivi; ha aggiunto che quale entità, che sia uno stato o un non stato, sta acquistando la tecnologia, incluso il suo record sui diritti umani. Tuttavia, ha detto Shany, guardando alle accuse che circondano il software Pegasus di NSO, “i risultati non sono impressionanti, il che è molto preoccupante”.

In risposta alle recenti accuse riguardanti la tecnologia NSO, il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz ha dichiarato che stanno “esaminando” queste accuse ed è stata nominata una squadra interministeriale per indagare sul processo in corso e se la tecnologia prodotta da Israele viene utilizzata all’estero. . A Reuters.

Shany ha affermato che una soluzione rapida è che Israele firmi formalmente l’accordo di Wassenaar tra 42 paesi, che cerca di aumentare la trasparenza delle esportazioni di tecnologie militari e a duplice uso e di impedire che tali tecnologie vengano acquisite da elementi pericolosi. Shany ha affermato che Israele attualmente rispetta l’accordo ma non è un membro a pieno titolo.

Ma Karin Nahun, professoressa presso il Centro interdisciplinare di Herzliya e presidente della Israel Internet Society, ha affermato che le riforme più importanti per aiutare a controllare tali tecnologie verranno dall’interno.

“Se Israele non esporta, altri esporteranno, e se non concedi a quegli ingegneri le licenze di avvio e non fornisci una sorta di supervisione, nulla può impedire loro di trasferirsi in un altro paese e venderlo da lì”, ha detto.

Nahone ha invitato a considerare le questioni etiche e la possibilità di utilizzare tali tecnologie come parte più importante delle decisioni di esportazione. Inoltre, ha suggerito che le aziende dovrebbero imporre maggiori restrizioni all’uso del software ed esercitare una maggiore supervisione sul modo in cui i clienti utilizzano il software: l’Ufficio nazionale di statistica afferma di avere scarso controllo su questo.

La società ha dichiarato in una dichiarazione la scorsa settimana: “L’Ufficio nazionale di statistica non gestisce il sistema e non può visualizzare i dati”, e ha affermato che continuerà a indagare su “tutte le affermazioni credibili di abuso e a prendere le misure appropriate in base ai risultati di tali indagini. azione”.

“Ciò rende più complicate le responsabilità di queste aziende e di Israele, ma d’altra parte può ridurre al minimo il numero di paesi in cui viene esportato il software”, ha affermato Nahone.

Sebbene sembri che l’immagine di NSO e di Israele sia stata trascinata nel pantano a causa della loro connessione con questa sorveglianza scioccante, Bachar ha affermato che nel complesso, questa potrebbe essere una sfida per coloro che desiderano continuare a rendere Israele una tecnologia avanzata e le persone che sono i leader delle operazioni di intelligence hanno un impatto positivo.

“Penso che a volte le persone malediranno, e il risultato è benedetto, perché alla fine, quella che la gente ricorda come la migliore tecnologia è la tecnologia israeliana, NSO”, ha detto Bachar. “Questo è ciò che la gente ricorderà tra tre mesi”.

(Economia e Finanza, 25 luglio 2021)



Il segno del profeta Giona (12)

di Marcello Cicchese
    Allora alcuni scribi e farisei presero a dirgli: «Maestro, noi vorremmo vederti operare un segno». Ma egli rispose loro: «Questa generazione malvagia e adultera chiede un segno; e segno non le sarà dato, tranne il segno del profeta Giona. Poiché, come Giona stette nel ventre del pesce tre giorni e tre notti, così il Figlio dell'uomo starà nel cuore della terra tre giorni e tre notti» (Matteo 12:38-39).
Ad una prima lettura sembrerebbe che la risposta di Gesù ai farisei sia un modo per chiudere il discorso e sbarazzarsi dei molesti capi religiosi che volevano incastrarlo. Come se dicesse: non vi darò nessun segno prodigioso, vedrete i fatti. Ma nella storia della salvezza i fatti da soli non dicono niente: ciò che li rende eloquenti è il riferimento alla parola di Dio che li precede e in qualche caso li segue.
  Giovanni Battista si era presentato al popolo come precursore di un Messia che viene a portare un Regno in cui ci sarebbe stata un'impietosa separazione tra giusti ed empi. Il suo messaggio era terrificante, nello stile degli antichi profeti:
    "Già la scure è posta alla radice degli alberi; ogni albero dunque che non fa buon frutto, sta per esser tagliato e gettato nel fuoco. Ben vi battezzo io con acqua, in vista del ravvedimento; ma colui che viene dietro a me è più forte di me, ed io non sono degno di portargli i calzari; egli vi battezzerà con lo Spirito Santo e con fuoco. Egli ha il suo ventilabro in mano, e netterà interamente l'aia sua, e raccoglierà il suo grano nel granaio, ma arderà la pula con fuoco inestinguibile" (Matteo 3:10-12).
Avvenne invece che ben presto il profeta Giovanni finì nella prigione del malvagio Erode. E questo mal si accordava con la forma del suo annuncio. La scure sembrava colpire lui, non Erode. E in effetti poco dopo la scure di Erode colpì Giovanni mozzandogli la testa.
  E' comprensibile allora che a Giovanni, mentre era ancora vivo, venissero dei dubbi:
    "Giovanni, avendo nella prigione udito parlare delle opere del Cristo, mandò a dirgli per mezzo dei suoi discepoli: «Sei tu colui che deve venire, o dobbiamo aspettarne un altro?» Gesù rispose loro: «Andate a riferire a Giovanni quello che udite e vedete: i ciechi ricuperano la vista e gli zoppi camminano; i lebbrosi sono purificati e i sordi odono; i morti risuscitano e il vangelo è annunciato ai poveri. Beato colui che non si sarà scandalizzato di me!»" (Matteo 11:2-6).
Per spiegare quello che stava accadendo in quel momento Gesù dunque fa riferimento a fatti che erano stati annunciati dalla Parola di Dio nel passato:
    "Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e saranno sturati gli orecchi dei sordi; allora lo zoppo salterà come un cervo e la lingua del muto canterà di gioia; perché delle acque sgorgheranno nel deserto e dei torrenti nei luoghi solitari" (Isaia 35:5,6).
Le guarigioni compiute da Gesù dovevano essere comprese come segni dell'avverarsi di parole che Dio aveva detto a Israele nel passato. Ma i capi religiosi non le accolsero come tali e richiesero un segno aggiuntivo. Gesù si rifiutò di farlo e annunciò che come segno, da loro non richiesto, avrebbero visto l'avverarsi di un'altra parola che Dio aveva detto nel passato.
  La parola di Dio espressa nel libro di Giona non deve dunque essere intesa come istruzione rivolta agli uomini per indurli a comportamenti virtuosi, ma come anticipata rivelazione in forma di parabola storica di quello che Dio aveva deciso di fare in mezzo agli uomini. E' questo che si intende quando si dice che la vicenda di Giona è un segno.
  Ma qual è il contenuto del segno? Il segno che i capi religiosi avevano chiesto a Gesù era un segno messianico, dunque la risposta di Gesù è decisiva: la vicenda di Giona è un segno messianico, cioè anticipata rivelazione che Dio fa al suo popolo, attraverso fatti storici, sulla figura del Messia che verrà.
  Presentare il racconto di Giona come parabola raccontata da Dio stesso in forma storica sottolinea dunque il suo aspetto di rivelazione di quello che Dio vuole fare e non di istruzione su quello che gli uomini devono fare, come sono in fondo tutte le parabole di Gesù nei Vangeli, anche quelle che ad una prima lettura sembrano essere soltanto esortazioni a comportarsi bene. E' chiaro che ogni rivelazione di Dio contiene implicitamente un'istruzione per gli uomini, ma è un'istruzione a credere anzitutto alla rivelazione ricevuta e solo di conseguenza a fare. E' una fatale deformazione della Bibbia, in particolare dei Vangeli, trasformare frettolosamente gli indicativi in imperativi. Gesù inizia il suo ministero con un indicativo: il Regno di Dio è vicino, e solo dopo, come conseguenza, seguono due imperativi: ravvedetevi e credete all'Evangelo.
  Come tutte le parabole, anche la vicenda di Giona richiede di essere interpretata. Abbiamo già detto che Giona rappresenta Israele, mentre i marinai sulla nave e gli abitanti di Ninive rappresentano le nazioni. Ma se Giona rappresenta Israele, come mai Gesù lo rapporta a Se stesso mentre si trova in una situazione di contesa con i capi di Israele? Gesù si paragona a Giona, non a Israele, che invece viene indicato come "questa generazione malvagia e adultera". Diciamo allora subito la tesi interpretativa che qui si vuole proporre:
   Giona rappresenta sia il popolo d'Israele, sia il Messia d'Israele.
   L'affermazione naturalmente va approfondita, ma in ogni caso va detto che questo modo di presentazione delle cose è conforme allo stile biblico. E' presente in particolare nel libro di Isaia, dove il servo del Signore è presentato contemporaneamente nella forma del servo-popolo e in quella del Servo-Messia; e l'autore passa con disinvoltura dall'una all'altra senza avvertire, come a testimoniare che agli occhi di Dio le due figure sono indissolubilmente collegate. Abbiamo detto che Giona rappresenta Israele in fuga dal Signore da quando ha violato il patto originario del Sinai con l'adorazione del vitello d'oro. Israele però non se ne accorge; pensa di essere abbastanza a posto con Dio. Certo, non tutto è perfetto, ma lui ha la legge, e questo gli permette di riconoscere di essere mancante, e qualche volta anche di correggersi. I Gentili invece sono lontani da Dio per posizione, non conoscono la legge e nemmeno sanno di essere tutti immersi nel peccato. Israele sa di avere dei problemi, ma non sa di essere lui stesso un problema. Dio però ha deciso di risolvere questo problema, da cui dipende la risoluzione del problema del rapporto di Dio con tutta l'umanità.
  Nella vicenda di Giona si riconosce dunque, in forma parabolica anticipata, un aspetto del modo in cui Dio decide di risolvere il problema dell'umanità con Lui ; ed è per questo che in essa compaiono tutti gli elementi in gioco nella storia della salvezza: Dio, Israele, le Nazioni.
  Per far emergere l'inconsapevole stato di autocompiacimento in cui si trovava la "parte buona" di Israele, quella che osserva i precetti e vede in Giona il suo campione, Dio fa cadere sulla testa del suo profeta un preciso, particolarissimo ordine, ben sapendo che non sarebbe stato eseguito. Con questo si vuole sottolineare non tanto la "disubbidienza" di Giona, come di solito si fa, quanto l'azione pedagogica di Dio. Questo spiega anche il tono sorprendentemente morbido con cui Dio tratta il "ribelle" Giona. E spiega anche perché l'ubbidiente Gesù non abbia esitato ad accostarsi al "disubbidiente" Giona. In entrambi i casi c'è Dio all'opera, in una dolorosa azione pedagogico-salvifica verso il suo popolo.
  In sintesi: sottolineare la disubbidienza di Giona è antropocentrico; sottolineare l'azione pedagogico-salvifica di Dio nella storia è teocentrico.
  In tutte le parabole, quindi anche in questa, esiste un centro intorno a cui è costruito il racconto, ma non a tutti i particolari si deve dare un preciso significato. In questa interpretazione il centro della parabola si trova nel momento in cui Dio raggiunge Giona-popolo nel ventre del pesce. E' lì che si ristabilisce tra i due il collegamento.
  La cosa comincia con un grido:
    "Io ho gridato all'Eterno dal fondo della mia distretta, ed egli m'ha risposto; dal grembo dello Sheol ho gridato, e tu hai udito la mia voce" (Giona 2:3)
"Io ho gridato... ho gridato... e tu hai udito...". Dio ha dovuto lasciare che Giona arrivasse nella sua esperienza fino al fondo della sua distretta e con la sua anima fino grembo dello Sheol, cioè che conoscesse la morte fisica. Questo significa, secondo questa interpretazione, che Dio non ha fatto venire il pesce per impedire a Giona di morire, ma perché facesse l'esperienza della risurrezione dai morti dopo aver conosciuto la morte come conseguenza della sua ribellione, che qui appare non come una generica disubbidienza personale, ma come espressione della posizione di peccato in cui si trova il suo popolo dopo la rottura del patto originario del Sinai.
  Quello che si può definire come il "salmo di Giona", contenuto nel secondo capitolo del suo libro, dovrebbe essere considerato come un salmo messianico, in analogia con quello che si fa col salmo 22. E' nel grembo dello Sheol che Giona-Messia si identifica con Giona-popolo e in un certo senso lo sostituisce. Si potrebbe dire che nel versetto 2:3 è Giona-popolo che grida a Dio, mentre dal versetto 4 in poi, dopo che Dio ha udito il grido di soccorso, è il Giona-Messia che prende la parola e si rivolge a Dio in rappresentanza di tutto Israele. Questo salto o sovrapposizione di significati può sembrare artificioso al nostro modo di organizzare ed esporre i pensieri, ma appartiene indubbiamente allo stile biblico.
  Confrontando il salmo di Giona con il salmo 22, in entrambi i casi si vede il protagonista esprimere la sua angoscia nel sentirsi colpito e abbandonato da Dio:
    "Tu m'hai gettato nell'abisso, nel cuore del mare; la corrente mi ha circondato e tutte le tue onde e tutti i tuoi flutti mi sono passati sopra" (Giona 2:4);
    "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Perché te ne stai lontano, senza soccorrermi, senza dare ascolto alle parole del mio gemito?" (Salmo 22:1);
e in entrambi i casi si conclude con un inno di lode a Dio:
    "Io t'offrirò sacrifici, con canti di lode; adempirò i voti che ho fatto" (Giona 2:10);
    "Io annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all'assemblea" (Salmo 22:22).
La vicenda del profeta Giona può dunque essere vista come un segno preparato da Dio affinché Israele al tempo stabilito potesse riconoscere il Messia in colui a cui fosse avvenuto un fatto simile. Il riferimento di Gesù a Giona non è dunque la semplice descrizione di ciò che sarebbe avvenuto nell'immediato futuro, ma il ricordo ai capi religiosi di ciò che Dio aveva detto nel lontano passato e che presto sarebbe avvenuto. Dio ha preparato la vicenda di Giona per essere il segno messianico decisivo, il segno dei segni, quello destinato a togliere ogni dubbio.
  E così è stato. Perché è soltanto dopo la morte e la risurrezione di Gesù che i suoi discepoli hanno riconosciuto definitivamente in Lui il Messia d'Israele. I segni precedenti li avevano entusiasmati, ma non erano stati sufficienti a radicare in loro la fede: nei tre giorni e tre notti passati da Gesù nel cuore della terra i discepoli avevano fatto in tempo a smettere tutti di credere che Gesù fosse il Messia. E anche dopo, i Vangeli alludono delicatamente alla difficoltà con cui i discepoli arrivarono ad essere convinti che Gesù fosse proprio il Messia morto e risuscitato.
  Se questa può essere la linea interpretativa della parabola storica di Giona, si possono trarre alcune conseguenze e porre altre domande.
  Quando il pesce vomita sulla terra il poco gradito contenuto che per tre giorni e tre notti lo aveva infastidito, Giona-Israele è perdonato. Non è la "disubbidienza" di Giona che deve essere accentuata, ma il perdono da lui ricevuto. Se così non fosse, Giona dovrebbe rimanere, insieme ad Israele da lui rappresentato, il prototipo del più incallito e testardo dei peccatori: il peggiore profeta, il peggiore tra i servitori di Dio.
  Ma così non è. Perché nella parabola storica Giona-Israele esce perdonato dal ventre del pesce. E nell'interpretazione storica della parabola si ottiene che Israele, da quando il Messia risuscitato è uscito dal cuore della terra, è un popolo perdonato da Dio.
  La tesi che Israele oggi è un popolo perdonato da Dio, e non un popolo maledetto, è già contenuta nel libro "La superbia dei Gentili". Ne presentiamo qui alcuni estratti.
    «Deve essere abbandonata l'idea che dopo la morte di Gesù Dio mantenga un volto adirato verso il suo popolo e per questo motivo lo sottoponga a innumerevoli sofferenze. E' vero esattamente il contrario. Dio era adirato con Israele prima della venuta di Gesù, fin dal tempo di Isaia, e anche per questo aveva mantenuto il silenzio per circa quattrocento anni. Ma attraverso i profeti, a cominciare proprio da Isaia, aveva annunciato il giorno in cui si sarebbe riconciliato con il suo popolo, perché Egli stesso si sarebbe caricato dei suoi peccati e avrebbe perdonato la sua iniquità.

    "Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio. Parlate al cuore di Gerusalemme e proclamatele che il tempo della sua schiavitù è compiuto; che il debito della sua iniquità è pagato, che essa ha ricevuto dalla mano del Signore il doppio per tutti i suoi peccati. La voce di uno grida: «Preparate nel deserto la via del Signore, appianate nei luoghi aridi una strada per il nostro Dio! Ogni valle sia colmata, ogni monte e ogni colle siano abbassati; i luoghi scoscesi siano livellati, i luoghi accidentati diventino pianeggianti.»" (Isaia 40:1-4).

    Il "debito della sua iniquità" è stato pagato quando Gesù è morto in croce "colpito a causa dei peccati del mio popolo" (Isaia 53:8).
      Prima che per i miei peccati personali, Gesù è morto per i peccati del suo popolo, cioè di Israele. Accogliere per sé il perdono e dichiarare che il popolo d'Israele si trova ancora sotto l'ira di Dio a causa dei suoi peccati perché ha ucciso Cristo significa praticare una distorsione del messaggio biblico che prima o poi conduce ad atteggiamenti antisemiti.»
Questo spiega anche la grande gioia con cui viene annunciata a tutto il popolo sia la venuta del Messia, sia la sua risurrezione.
    "In quella stessa regione c'erano dei pastori che stavano nei campi e di notte facevano la guardia al loro gregge. E un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore risplendé intorno a loro, e furono presi da gran timore. L'angelo disse loro: «Non temete, perché io vi porto la buona notizia di una grande gioia che tutto il popolo avrà: "Oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è il Cristo, il Signore." (Luca 2:8-11).
Quale può essere la gioia che tutto il popolo avrebbe avuto, se la conseguenza della venuta di Gesù sarà considerata dagli ebrei il più grande disastro nella storia d'Israele? Il libro degli Atti si preoccupa di sottolineare questa gioia. Agli israeliti presenti a Gerusalemme nella festa di Pentecoste dopo la morte, la risurrezione e l'ascensione al Padre di Gesù, l'apostolo Pietro annunciò il Messia, invitando tutti a ravvedersi, non per evitare il giudizio di Dio, come aveva fatto Giovanni Battista, ma per ricevere da Dio i doni che aveva promesso nel passato al suo popolo:
    "E Pietro a loro: «Ravvedetevi e ciascuno di voi sia battezzato nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e voi riceverete il dono dello Spirito Santo" (Atti 2:38)
In quel giorno tremila persone accettarono la parola di Pietro. E fu allora che tutto il popolo cominciò a gustare quella grande gioia che gli angeli avevano annunciato ai pastori.
    "Tutti quelli che credevano stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le proprietà e i beni, e li distribuivano a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. E ogni giorno andavano assidui e concordi al tempio, rompevano il pane nelle case e prendevano il loro cibo insieme, con gioia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo. Il Signore aggiungeva ogni giorno alla loro comunità quelli che venivano salvati." (Atti 2:44-47).
"Tutto il popolo" non si riferisce certamente a tutti gli israeliti uno ad uno, ma nello stile biblico sta a significare che Dio attribuisce a tutto il popolo quello che in quel momento solo una parte, il "residuo" d'Israele, riconosce e sperimenta.
  Lo studio della parabola storica di Giona potrebbe proseguire nel tentativo di interpretarne altri particolari. Dopo essere stato vomitato sulla terra dal pesce, Giona-Israele è perdonato da Dio, ma non ancora del tutto convinto. In lui si agitano due anime, come è sempre accaduto nella storia di Israele, dai tempi di Giacobbe ed Esaù fino ad oggi. Una di esse spinge Giona ad ubbidire a Dio, e questo gli permette di far arrivare alle Nazioni, rappresentate dai Niniviti, il messaggio di perdono che Dio gli aveva affidato fin dall'inizio; l'altra invece rimane dubbiosa, perplessa, recalcitrante. Dio però aspetta, perché sa che la riconciliazione ormai è avvenuta, anche se non se ne godono ancora tutte le conseguenze. Non ordina più, discute. Con infinita pazienza replica pacatamente alle parole del suo irritato servitore che gli rimprovera di essere troppo buono.
  E a dire il vero, qualche rimprovero dello stesso tipo mi sentirei anch'io di muoverlo al Signore, per come ha trattato Giona. Perché se fosse stato per me, l'avrei preso e rigettato in mare, senza chiamare un pesce a raccoglierlo. Antisemitismo di un gentile invidioso dell'intramontabile ebreo? Potrebbe essere. Ma se è così, allora mi identifico coi Niniviti e "grido con forza a Dio, e mi converto dalla mia via malvagia e dalla violenza che è nella mia mente" (cfr. Giona 3:8), come dovrebbero fare tutti quelli che odiano Israele.
  Giona che mugugna sotto il ricino è l'Israele di oggi. Quando era in fuga da Dio mentre si trovava sulla nave, Giona non sapeva di essere nel peccato ancor prima di imbarcarsi; adesso che è in fuga da Dio rimanendo a rodersi sotto il ricino, non sa di essere perdonato. Quell'incontro in fondo al mare nel ventre del pesce l'ha salvato per sempre. Ma sembra che lui non lo sappia, e quindi non può ancora goderne i benefici.
  È per questo che la storia di Giona s'interrompe bruscamente con una domanda di Dio a cui non è stata data ancora una risposta. Manca il finale. Manca la risposta di Giona-Israele.
  Ma il Signore aspetta. Perché sa che verrà il giorno in cui Israele dirà con tutto il cuore: ברוך הבא בשם יהוה (Salmo 118:26).
  Del resto Gesù l'aveva detto:
    "Da ora innanzi non mi vedrete più, finché non direte: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore!»" (Matteo 23:39).

(12) fine

(Notizie su Israele, 25 luglio 2021)


 

A Tokyo nella cerimonia inaugurale tributo agli 11 israeliani uccisi a Monaco

Gli 11 atleti israeliani uccisi nel 1972 da terroristi palestinesi nel Villaggio olimpico di Monaco di Baviera, sono stati ufficialmente ricordati nella Cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Tokyo 2020. Quarantanove anni dopo il massacro si è avuto un commosso minuto di silenzio, in una coreografia con una morbida luce blu che attraversava lo stadio oscurato e le movenze di una danzatrice. “Noi, la comunità olimpica, ricordiamo tutti gli olimpionici e i membri della nostra comunità che ci hanno lasciato. In particolare, ricordiamo coloro che hanno perso la vita durante i Giochi Olimpici”, ha detto l’annunciatore.

 RICORDI
  “Un gruppo occupa ancora un posto importante in tutti i nostri ricordi e rappresenta tutti quelli che abbiamo perso ai Giochi: i membri della delegazione israeliana ai Giochi Olimpici di Monaco 1972”. Il forte ricordo, finora sempre rimosso, era da tempo richiesto dai familiari delle vittime e ha trovato nell’attuale presidente del Comitato Internazionale Olimpico (CIO) il tedesco, Thomas Bach. Apprezzamento dal primo ministro israeliano, Naftali Bennett: “Accolgo con favore questo momento importante e storico. Possa la loro memoria essere benedetta”, ha scritto su Twitter.

 GIUSTIZIA
  Il 5 settembre 1972 un commando suicida di Settembre Nero prese in ostaggio alcuni componenti della squadra olimpica israeliana. Subito furono uccisi due atleti che avevano tentato di opporre resistenza, mentre in 9 vennero sequestrati. Un tentativo di liberazione da parte della polizia tedesca portò alla morte di tutti gli atleti, di un poliziotto tedesco e di di cinque terroristi. Il CIO all’epoca decise di non interrompere le Olimpiadi. “Finalmente è stata fatta giustizia per i nostri mariti, padri, figli che sono stati assassinati a Monaco di Baviera”, hanno detto in un comunicato le vedove di due degli uccisi, Ilana Romano e Ankie Spitzer, alla cerimonia allo stadio di Tokyo. Nel tragico attacco terroristico persero i consorti, il sollevatore di pesi Yossef Romano e l’allenatore di scherma Andre Spitzer.

 LACRIME
  Le altre vittime furono David Berger, Ze’ev Friedman, Yoseff Gutfreund, Moshe Weinberg, Mark Slavin, Eliezer Halfin, Yakov Springer, Amitzur Shapira e Kehat Shorr.
  Avrebbero dovuto prendere parte agli eventi dei Giochi in specialità che comprendevano lotta, scherma, sollevamento pesi e atletica leggera. “Ci sono voluti 49 anni di lotta, ma non ci siamo mai arresi. Non possiamo trattenere le lacrime. Questo è il momento che stavamo aspettando”, hanno aggiunto le due vedove. Nel 2016 due giorni prima dell’inizio delle Olimpiadi di Rio, si era svolta una cerimonia con rappresentanti brasiliani e israeliani. Ora il tributo nella cerimonia di apertura.

 VALORI
  Bach ha rimarcato: il massacro di Monaco “è stato un attacco non solo ai nostri colleghi atleti olimpici, ma anche un assalto ai valori l’Olimpiade rappresenta”. Igal Carmi, capo del Comitato olimpico israeliano, ha detto che Israele è “grato. Il CIO ha esaudito i desideri delle famiglie delle vittime di Monaco e le ha coraggiosamente commemorate alla cerimonia di apertura” di Tokyo 2020.

(in20righe, 24 luglio 2021)


Israele ha mostrato come ha bombardato la base aerea siriana

Confutando la dichiarazione del Ministero della Difesa della Federazione Russa

Dopo le dichiarazioni del Ministero della Difesa della Federazione Russa, Israele ha mostrato come ha bombardato con successo la base aerea siriana.
  Nonostante la dichiarazione del Ministero della Difesa russo secondo cui l'attacco israeliano nella notte tra il 21 e il 22 luglio è stato respinto con successo, si è saputo che le informazioni al riguardo non corrispondevano alla realtà. La ragione di ciò è stata la pubblicazione da parte israeliana di immagini satellitari, che mostrano chiaramente le conseguenze devastanti degli attacchi missilistici israeliani
  Dalle immagini satellitari presentate, si può vedere che il territorio della base aerea militare siriana è stato effettivamente attaccato con successo, sebbene la parte russa abbia affermato che tutti i missili lanciati dalla parte israeliana sono stati abbattuti con successo. Sulla base delle immagini satellitari, solo in quest'area si sono verificati almeno tre attacchi aerei
  “Poco dopo l'01:00 di mercoledì sera, l'agenzia di stampa ufficiale siriana Sana ha riferito che i sistemi di difesa aerea dell'esercito siriano nell'area di Homs stavano lavorando per respingere un attacco nemico. Pochi minuti dopo, l'emittente araba Al-Arabiya ha annunciato che l'attacco era rivolto a obiettivi presso un aeroporto militare siriano: Shairat nella regione di Homs, nel nord della Siria. Questa è la seconda notte di questa settimana associata agli attacchi aerei in Siria", - riporta l'agenzia di stampa israeliana "NZIV", pubblicando rilevanti immagini satellitari.
  Poco prima, i rappresentanti del dipartimento della difesa russo hanno riferito che tutti e quattro i missili sono stati distrutti dalla difesa aerea siriana in servizio: i complessi Buk-M2E di fabbricazione russa.

(AviaPro, 24 luglio 2021)


“La comunità ebraica emiratina si prepara a crescere”

di Francesco Paolo La Bionda

L’Associazione delle Comunità Ebraiche del Golfo, in inglese Association of Gulf Jewish Communities (AGJC), è nata lo scorso febbraio a seguito della normalizzazione dei rapporti tra Israele e parte del mondo arabo sancita dagli Accordi di Abramo.
   Lo scopo dell’associazione è facilitare la vita religiosa e comunitaria nella regione sia per gli ebrei residenti sia per i turisti di fede ebraica, soprattutto ma non esclusivamente israeliani. I due poli della presenza ebraica nel Golfo Persico sono il Bahrein, dove è sopravvissuta in forma ridotta la comunità autoctona, e gli Emirati Arabi Uniti, dove Dubai in particolare ospita una nutrita comunità di espatriati provenienti da tutto il mondo. Dopo aver ascoltato la testimonianza del lato bahreinita per bocca del Presidente dell’Associazione Ebrahim Dawood Nonoo, abbiamo intervistato il Co-Fondatore Alex Peterfreund per farci raccontare le attività e la vita della comunità ebraica emiratina.

- Come è cambiata la vita della vostra comunità dopo la firma degli Accordi di Abramo?
  Premettendo che anche prima della firma del patto noi ci siamo sempre sentiti sicuri qui negli Emirati, sicuramente la situazione è cambiata: la comunità è in crescita, possiamo trovare cibo kasher. Ci sono insomma molti sviluppi positivi per i quali siamo contenti.

- C’è stata anche un’evoluzione in termini di disponibilità dei servizi e delle funzioni religiose.
  Da quando abbiamo fondato l’Associazione siamo stati in grado di fornire alle persone oggetti e servizi rituali, il nostro rabbino sta facendo un ottimo lavoro. Celebriamo le funzioni anche su Zoom, abbiamo tenuto ad esempio una bellissima funzione in ricordo della Shoah, e abbiamo anche organizzato a suo tempo delle cene in presenza.
   Oggi a Dubai la comunità ebraica, che è la più grande della regione, ha tutti i servizi necessari a disposizione per la sua vita religiosa, mentre la comunità del Bahrein invece ha una bellissima sinagoga ma non ha un rabbino residente, e negli altri Paesi non hanno né l’una né l’altro. Quindi è molto importante e bello che tramite noi possano comunque soddisfare le proprie necessità.

- È cresciuto l’interesse della popolazione araba verso la comunità ebraica dopo la firma degli Accordi?
  Assolutamente sì, e questo ci aiuta a organizzare delle attività interconfessionali. È quello che vogliamo: interagire con la comunità locale e farle conoscere l’ebraismo, a nostra volta imparando di più sui nostri concittadini arabi.

- Le comunità della regione hanno già iniziato a crescere anche in termini numerici?
  Ad oggi prevediamo che sarà solo la comunità emiratina a crescere nei prossimi anni. Gli Emirati sono il Paese dove si può fare business, dove sono disponibili tutti i servizi religiosi e comunitari. Penso accadrà alla fine anche in Bahrein ma ci vorrà sicuramente più tempo.

- Come interagiscono e si integrano gli espatriati provenienti dai diversi Paesi?
  Gli expat costituiscono almeno il 95% della comunità emiratina, che quindi è estremamente composita: abbiamo persone che provengono da Sud Africa, Australia, America, Italia… Però le interazioni sono molto positive e frequenti, nonostante si parlino lingue differenti e talvolta si abbiano mentalità differenti. Negli Emirati in generale ci sono molti stranieri e si praticano religioni diverse, quindi è un sentimento abbastanza naturale.

- Avete previsto l’avvio di attività culturali ed educative nel corso dei prossimi mesi?
  Abbiamo già in programma di aprire un asilo e un centro culturale ebraico. Da quando è arrivato il coronavirus non abbiamo più sfortunatamente un nostro luogo di ritrovo per le funzioni religiose, le teniamo per il momento negli hotel o via Zoom ma speriamo di poter avere presto una sinagoga ufficiale anche qui a Dubai.

(Bet Magazine Mosaico, 24 luglio 2021)


Algerino lascia i Giochi per evitare l'ebreo

Alle Olimpiadi di Tokyo nessuno s'inginocchia contro l'antisemitismo. La squadra di judo del Paese arabo boicotta Israele per «la causa palestinese», ma non subisce sanzioni disciplinari.

di Andrea Morigi

A casa, in moschea, in patria, non l'avrebbero mai perdonato se fosse stato sconfitto da un ebreo in un corpo a corpo. Così il judoka algerino Fethi Nourine ieri si è ritirato dai Giochi Olimpici di Tokyo 2020 per evitare di affrontare un avversario israeliano. Forse non voleva "sporcarsi le mani" o magari non aveva il coraggio di combattere contro Tohar Butbul, che il sorteggio gli aveva assegnato nel secondo turno della competizione, a condizione che avesse vinto il suo primo incontro. Fatto sta che Nourine si era già ritirato dai campionati mondiali di judo del 2019 per lo stesso motivo. Lo ha spiegato così, giovedì sera, alla tv algerina: «Abbiamo lavorato duro per qualificarci ai giochi, ma la causa palestinese è più grande di tutto questo».
   La Federazione internazionale evidentemente trascura le motivazioni razziste, se Amar Ben Yaklif, l'allenatore dell'atleta algerino, può permettersi di motivare pubblicamente le ragioni del rifiuto: «Non siamo stati fortunati con il sorteggio, abbiamo trovato un awersario israeliano e per questo ci siamo dovuti ritirare. Abbiamo preso la decisione giusta». "Giusta" nel senso che forse era l'unica maniera di non essere messi al tappeto, anzi al tatami come si dice in giapponese, il Paese dove le arti marziali sono nate e in cui dovrebbero educare al rispetto reciproco.
   In realtà, viste le premesse politiche indicate dalla squadra algerina, a Tokyo ci si sarebbe dovuti misurare nel quadro di una sfida millenaria, per di più stabilita da un destino che non appare per nulla casuale. Quell'abbinamento sa molto più di una volontà celeste che di uno scherzo della fortuna cieca. E mica tutti sono preparati agli eventi soprannaturali.

 L'IRA DI DIO
  È da millenni che i nemici di Israele rimangono sgomenti davanti alla Stella di David. Se ne trova traccia nella Bibbia, nel libro dell'Esodo, al capitolo 14: «Hanno udito i popoli e tremano; dolore incolse gli abitanti della Filistea. Già si spaventano i capi di Edom, i potenti di Moab li prende il timore; tremano tutti gli abitanti di Canaan. Piombano sopra di loro la paura e il terrore; per la potenza del tuo braccio restano immobili come pietra, finché sia passato il tuo popolo, Signore».
   Per non rimanere troppo indietro nel tempo, tuttavia, occorre tornare con la memoria alla tragedia del 1972, al villaggio olimpico di Monaco di Baviera. I terroristi palestinesi di Settembre Nero comunque, dopo aver ucciso undici membri della squadra olimpica dello Stato ebraico, andarono incontro a una vendetta chirurgica, che poi li vide eliminati uno a uno nell'Operazione Ira di Dio, durata vent'anni.
   Ai tempi, le formazioni armate palestinesi dipendevano dal capo dell'Olp Yasser Arafat, che in nessun altro Paese al mondo trovò appoggio e ospitalità come in Algeria, il cui governo fu il primo a riconoscere lo "Stato" palestinese nel 1985. Quindi non c'è da sorprendersi più di tanto se proprio là la malapianta dell'antisemitismo ha dato i suoi frutti peggiori. Fra l'altro, il Marocco ha appena stabilito relazioni diplomatiche con Gerusalemme e la confinante e rivale Algeria ora si dibatte nella paranoia del complotto giudaico. Si percepiscono circondati dal sionismo internazionale, sono in preda al panico e si abbandonano all'odio antisemita.
   Davanti al crimine d'odio - non solo una fattispecie giuridica, ma un'esplosione di violenza che attraversa ancora frequentemente l'Europa e si manifesta non solo nella profanazione dei luoghi di culto e dei cimiteri ebraici, ma arriva a minacciare l'incolumità di chi indossa la kippah in pubblico - le reazioni sono deboli.

 REAZIONI DEBOLI
  Sì, l'altro giorno hanno cacciato il maestro delle cerimonie dei Giochi perché in passato aveva deriso le vittime della Shoah. Ieri, inoltre, per la prima volta in una cerimonia inaugurale, sono stati ricordati perfino gli atleti israeliani uccisi dai terroristi palestinesi alle Olimpiadi di Monaco 1972. Sembrano enormi passi avanti sulla strada della consapevolezza delle sofferenze patite dal popolo ebraico nella storia. Eppure, il limite delle commemorazioni e delle condanne è che si versano lacrime per gli ebrei morti e per i sopravvissuti all' oppressione nei campi di concentramento e di sterminio. Non basta mica, però, mettere all'indice il negazionismo. Ci sono anche gli ebrei vivi, come quelli che hanno riconquistato la terra promessa e la fanno prosperare.
   Eppure, sulla stampa internazionale e sui social network, l'oltraggio del judoka algerino sembra avere un'eco insignificante. Se non positiva, come il commento dello chef Rubio su Twitter: «Le uniche Olimpiadi a cui Israele dovrebbe partecipare sono quelle dei Paesi immaginari come l'isola che non c'è e Narnia, ma siccome non esistono dovrebbe fare solo una cosa: andarsene affanculo dalla Palestina e far rientrare i nativi!», Ma Nessuno che proponga l'espulsione della delegazione algerina, nessuno che s'indigni pubblicamente contro il boicottaggio subito da Israele, nessuno che chieda sanzioni, nessuna iniziativa esemplare per far sì che l'episodio isolato rimanga circoscritto.
   Chissà quindi se qualcuno adesso s'inginocchierà per protesta contro l'antisemitismo alle Olimpiadi oppure faranno tutti finta di nulla per archiviare il caso e nascondere l'imbarazzo sotto una coltre di silenzio. In quest'ultima ipotesi, i cinque cerchi rimarranno nient'altro che dei buchi vuoti, variopinti, ma senza significato, né sportivo né civile.

Libero, 24 luglio 2021)


Italia-Israele: telefonata tra Bennett e Draghi

È avvenuta oggi [venerdì 23] una conversazione telefonica tra Il presidente del Consiglio Mario Draghi e il primo ministro israeliano, Naftali Bennett. Lo rende noto Palazzo Chigi. Lo scambio di punti di vista si è concentrato sulla collaborazione bilaterale e multilaterale per la comune lotta alla pandemia, situazione che continua a turbare gli equilibri di entrambe le nazioni; per la transizione energetica, nonché sull’ulteriore rafforzamento del partenariato italo-israeliano specialmente nei settori della cooperazione tecnologica, scientifica e industriale.

(Shalos, 24 luglio 2021)


Interessante. Ma poco rassicurante la "collaborazione bilaterale e multilaterale per la comune lotta alla pandemia". M.C.


Malati gravi in ospedale, più della metà sono vaccinati. Allarme da Israele

Doccia fredda da Israele. Il "Jerusalem Post" pubblica una notizia che farà discutere. E getta qualche ombra sull'efficacia dei vaccini. Al momento in Israele più della metà dei pazienti ricoverati in ospedale in gravi condizioni sono vaccinati.
Nell'articolo del "Jerusalem Post" si legge: "Al momento circa il 60% dei pazienti in gravi condizioni sono stati vaccinati. Inoltre, secondo i ricercatori dell'Università ebraica di Gerusalemme, circa il 90% dei nuovi contagi sopra i 50 anni sono vaccinati con due dosi".

(Il Tempo, 23 luglio 2021)

"Gli appelli a non vaccinarsi sono inviti a morire"

“Gli appelli a non vaccinarsi sono inviti a morire, oppure a far morire: non ti vaccini, contagi, muori, o fai contagiare e fai morire." Queste parole del Presidente del Consiglio Mario Draghi, riportate con compiacimento anche dal notiziario di Pagine Ebraiche, sono di enorme gravità. Confermano, in quanto motivazione delle decisioni che il governo si accinge a prendere, che sta avvenendo un graduale cambiamento dei paradigmi con cui è stata pensata e attuata finora la democrazia. Il ricatto ai cittadini è entrato a far parte integrante delle forme di governo. E' inutile e anche pericoloso tentare di spiegarlo in questa sede, ma verosimilmente anche in altre sedi più importanti di questa: si potrebbe correre il rischio di essere denunciati per istigazione al suicidio. 
   Per chi scrive, e si spera anche per altri cristiani evangelici che fanno della Bibbia la loro base di fede, è un campanello d'allarme che ha cominciato a suonare già diversi anni fa e il cui suono in questi ultimi giorni si è fatto particolarmente forte.
   I tempi stanno cambiando. Se ne è accorto il papa, se ne è accorto Eugenio Scalfari, e se ne è accorto l'attuale Presidente del Consiglio Mario Draghi.
   Riporto un articolo di un neofita convertito alla religiosità universale di papa Francesco. E' stato scritto nel marzo scorso e vi compare un interessante collegamento fra i tre personaggi sopra nominati. Il risalto è stato aggiunto. M.C.

___

Sentire la voce di Francesco per un solo Dio

di Eugenio Scalfari

Ieri sera alle 19.20 ho udito uno squillo del mio telefono, l'ho portato all'orecchio e ho sentito nientemeno che la voce di papa Francesco il quale aveva saputo che mi ero interessato di lui e mi telefonava per ringraziarmi in anticipo del mio articolo di oggi. Io, a mia volta, mi sono molto commosso e ho detto a Sua Santità qual era l'ammirazione nei suoi confronti per l'intera sua identificazione con tutte le religioni del mondo. Un Papa come Francesco è un miracolo della storia. Non era mai accaduto che la religiosità d'un Papa cattolico fosse estesa a tutte le religioni del mondo unificate. È un fatto nuovo e in qualche modo rivoluzionario.

La religione unificata domina il mondo e chi crede in un unico aldilà. Jorge Mario Be,rgoglio ha origini italo-piemontesi ma il suo ramo familiare si trasferì nell'America meridionale e prosperò socialmente. Bergoglio si occupò dei poveri, dei ceti di scarsa occupazione e di un territorio bisognoso di una vita religiosa molto sensibile. Si dedicò a queste tematiche, assunse l'abito sacerdotale e lo usò ampiamente con alcuni colleghi che tendevano verso l'Europa. Bergoglio diventò vescovo nel suo Paese e conobbe i colleghi della Roma religiosa tra i quali quello a lui più vicino nel modo di pensare e di agire, Carlo Maria Martini.

Gli anni passarono, sia Bergoglio e sia Martini erano gesuiti, un ordine molto ristretto e vigilante sulle attività vaticane. Non starò a ripetermi su racconti già fatti alla fine dei quali Bergoglio fu nominato cardinale e poi Papa, Martini l'aveva preceduto nella nomina cardinalizia, ma poi si ammalò e morì. Bergoglio dal canto suo diventò papa Francesco e si rivelò ben presto una figura nuovissima della quale più che mai in questi giorni bisogna parlare.

Da alcuni mesi in qua papa Bergoglio è profondamente cambiato. Si è recato in Paesi con religioni molto lontane da quella cristiana, in Iraq e in tutte le zone del Medio Oriente. Ciascuna di queste comunità segue una religione propria il cui ispiratore è Abramo. Di religioni cristiane ce ne sono poche; quelle ispirate da Abramo sono invece molteplici, arrivano fino a territori fenici e egiziani. Cristiani pochi in questa prima fase dell'arrivo di papa Bergoglio in quelle regioni. Il Papa non ha lavorato per modificare le religioni non cristiane: al contrario le ha studiate con molta attenzione. Non si può certo dire che le condivida ma non le disprezza, anzi le sta prendendo in amichevole considerazione. Il cristianesimo non ha fatto breccia tra i popoli medio-orientali anche a causa del calendario cristiano: Gesù di Nazareth aveva trent'anni mentre l'Impero romano era già alle prese con i Fenici e i Cartaginesi.

Gesù aveva radunato molti seguaci nelle terre palestinesi e nella Galilea quando arrivato a Gerusalemme fu arrestato dalle truppe romane e condannato dai sacerdoti del Tempio, poi crocifisso ad opera dei Romani assieme a due ladroni, un personaggio meritevole della pietà cristiana a destra di Cristo e una figura infernale alla sua sinistra. Pregò per il primo e condannò l'altro. Poco dopo Gesù morì dopo aver ricevuto un colpo di lancia nel costato. Tutte queste vicende sono ben note e fanno parte della storia di una delle principali religioni attualmente guidata da papa Bergoglio. Ma qui c'è un punto che contiene una formidabile novità: papa Francesco sta prendendo in considerazione l'ipotesi che a tutte le religioni cristiane e non cristiane siano considerati analoghi riconoscimenti.

La religione dunque è unica, i Papi possono essere più d'uno ma l'unione tra di loro è indispensabile e merita quindi d'essere opportunamente organizzata. Papa Francesco sarà probabilmente uno dei primi ma non è questo il problema: la religiosità è un fenomeno ormai mondiale e come tale riconosciuto da ogni punto di vista, religioso e politico.

Ci sono molti altri problemi in questi giorni per quanto riguarda la struttura politica del nostro Paese. Le situazioni stanno continuamente cambiando, non si sa perché e non si sa per come. La nostra specie umana vive da milioni di anni ma per noi non è possibile seguirla dai suoi inizi. Possiamo cominciare dal Mille. Mille anni fa sono molti e tuttavia in qualche modo rintracciabili dalla nostra mente: il presente è fatto in un modo strano poiché studiandolo si rivede un passato del tutto diverso e quindi la storia cambia. Siamo fatti così e non riusciamo a modificarci. Settecento anni fa c'era Dante Alighieri ma era già un uomo moderno. Scrisse splendidi sonetti amorosi o semplicemente amichevoli e scrisse vari libri di storia e di pensiero, il più importante dei quali fu la Divina Commedia: l'Inferno, il Purgatorio, il Paradiso. Vi sembrerà singolare ma la totalità dell'Inferno e almeno la metà del Purgatorio sono la parte più affascinante della Divina Commedia forse perché Dante si era fatto accompagnare mentalmente da Virgilio, un "portaparola" estremamente affascinante.

Nel Purgatorio Virgilio lasciò Dante la cui poesia del Paradiso diventò molto meno attraente.

Il tema che abbiamo fin qui toccato apre una finestrella nella cultura moderna, Dante è stato e rimane uno dei grandi ma ce n'è ancora una quantità in epoche più aggiornate e di carattere europeo. Gli scrittori francesi e inglesi dell'Enciclopedia sono tra i più interessanti e cominciano il loro lavoro intorno al Cinquecento. Un secolo dopo c'è la Rivoluzione francese che non si fermerà più. Per tenerla in vita ci saranno nuovi regni, nuove guerre, nuovi Stati, nuova economia e nuova filosofia. L'Italia fu un Paese tra i più agitati d'Europa anche se gran parte della sua agitazione non nasceva dall'interno ma piuttosto al suo esterno. Ne ho parlato più volte in questi anni. Ne riparlo oggi ma ne debbo spiegare il perché ai nostri lettori: alla guida dell'Italia c'è un personaggio del rilievo di Mario Draghi. Un altro nome di notevole rilievo che è ricomparso dopo anni di assenza è Enrico Letta. Basterebbero questi nomi per dire che viviamo in un Paese molto moderno e al tempo stesso molto vecchio.

Il governo italiano è attualmente diretto da Mario Draghi. Una direzione iniziata da pochissimo tempo ma di grande interesse poiché ha radunato, salvo pochissime eccezioni, tutti i partiti nel governo da lui presieduto. C'è la Lega di Salvini, i 5 Stelle composti da Di Maio, Beppe Grillo e Giuseppe Conte che ne è diventato il numero uno.

Poi c'è il Partito democratico dove il nuovo segretario è Enrico Letta. Al centro ci sono varie piccole formazioni che messe insieme fanno un certo mucchio a cominciare da Berlusconi. Forse ne dimentichiamo qualcuna ma la vera realtà l'abbiamo già indicata: Mario Draghi. Ha in mano il governo e lo terrà favorendo una vasta alleanza tra le forze politiche che ottengano il risanamento economico, politico, ecologico, sanitario dell'intero Paese. Tra un anno ci sarebbe una soluzione per Draghi, alla quale lui non pensa ma che è nei fatti: il Quirinale.

Draghi merita di sostituire Mattarella il quale a sua volta merita il grazie di tutto il Paese.

(la Repubblica, 14 marzo 2021)


In ambito evangelico già cento anni fa, e ancora prima, si diceva e si scriveva che il mondo è destinato ad avviarsi verso un governo mondiale, con una religione unica anch’essa mondiale, e che il tutto sarebbe stato considerato come la soluzione dei problemi del mondo. E tutto questo scaturiva non da una documentata analisi politica, ma da una lettura attenta e fiduciosa di quello che dice la Bibbia, con particolare riguardo alle sue profezie. Agli occhi di “sobrie” e “realistiche” persone attente alla realtà dei fatti di quel tempo, come quelle che scrivono oggi sui più importanti giornali, tutto questo poteva apparire come pura fantareligione, come quella di chi pensava che un giorno sarebbe stato ricostituito uno Stato ebraico sulla terra d'Israele. E’ eccitante allora, soprattutto per chi è avanti negli anni, scorgere segni concreti e sempre più chiari di quello che i giovani di una volta consideravano soltanto eccessi di fantasioso biblicismo. Eppure è così. Tutto si muove in quella direzione: il Papa, "la Repubblica", e ... Mario Draghi. M.C.


Complottismo biblico

impauriti, ingannati, sedotti e schiavizzati
il diavolo sta preparando il mondo
ad accogliere l'anticristo

 

Israele sperimenterà il vaccino anti-Covid orale

Sviluppato dalla Oramed, è più facile da distribuire e prende di mira tre proteine strutturali del nuovo coronavirus, il che dovrebbe renderlo più resistente alle varianti. Se i test a Tel Aviv avranno successo, verrà richiesta l'autorizzazione nei Paesi rimasti più indietro, come in Sudamerica.

di Sharon Nizza

TEL AVIV – Israele si appresta a sperimentare il primo vaccino anti-Covid somministrato oralmente. Si tratta della tecnologia sviluppata dalla Oravax Medical, società nata a marzo dalla collaborazione tra l’azienda farmaceutica israeliana Oramed e l’indiana Premas Biotech. Oramed è specializzata nella somministrazione per via orale di terapie a base proteica normalmente inoculate per iniezione. Attualmente sta ultimando, sotto l’egida della Fda, la terza fase della sperimentazione clinica di una pillola di insulina per somministrazione orale efficace contro il diabete di tipo 1 e 2. La Premas invece fornisce la tecnologia vaccinale, che si basa sulla tecnica del Dna ricombinante (inoculazione della proteina-antigene riprodotta in vitro). Dagli studi eseguiti sugli animali, è emerso che la tecnologia in elaborazione porta allo sviluppo di anticorpi per immunoglobuline G (IgG) e immunoglobuline A (IgA), questi ultimi necessari per garantire immunità a lungo termine.

 I vantaggi
  Secondo quanto spiegato dagli scienziati della Oramed Pharmaceuticals, il nuovo vaccino prende di mira tre proteine strutturali del nuovo coronavirus, diversamente dalla tecnologia mRNA dei vaccini Pfizer e Moderna, che agisce sulla singola proteina spike. “Questo dovrebbe rendere il vaccino più resistente alle varianti”, ha affermato Nadav Kidron, Ceo di Oramed, citato dal Jerusalem Post. Inoltre, secondo Kidron, un vaccino orale risolve diverse questioni legate alla distribuzione: oltre alla praticità della somministrazione, la pasticca può essere conservata a temperatura ambiente e non richiederebbe una somministrazione professionale, ma potrebbe essere assunta in autonomia da chiunque. Secondo Kidron, il fatto che i farmaci orali tendono ad avere meno effetti collaterali potrebbe essere un ulteriore elemento che aiuterebbe a superare la riluttanza di quanti non si sono vaccinati finora.
    La sperimentazione umana inizierà nelle prossime settimane su 24 volontari all’Ospedale Ichilov di Tel Aviv (Sourasky Medical Center), dopo che il protocollo è stato approvato dal collegio dei revisori del centro medico. Per allora è attesa l’autorizzazione del ministero della Salute locale. Nella prima fase sperimentale, metà del gruppo assumerà una pillola e l’altra metà ne ingerirà invece due, con l’obiettivo di misurare il livello di anticorpi e altri indicatori di immunità sviluppati. La prima fase della sperimentazione clinica dovrebbe durare circa sei settimane. Se si concluderà con successo, l’azienda intende muoversi per richiedere l’approvazione per l'uso di emergenza in Paesi con il minore tasso di vaccinazione al mondo, come per esempio in Sudamerica. “Israele, gli Stati Uniti e alcuni degli altri Paesi più ricchi sono stati i primi ad avere Pfizer e Moderna”, ha affermato Kidron. “Il nostro obiettivo è che chi è rimasto più indietro sarà tra i primi a ricevere il vaccino orale”.

 Una pillola per il richiamo
   Nelle scorse settimane anche la start-up israeliana MigVax ha annunciato di aver terminato con successo i test preclinici di una pillola (MigVax-101) che potrebbe essere utilizzata come “booster”, ossia il richiamo per persone già vaccinate. Nei test sugli animali effettuati dall’azienda è emerso infatti uno stesso livello di produzione di anticorpi neutralizzanti sia assumendo la pillola, sia assumendo il richiamo per inoculazione.

(la Repubblica, 23 luglio 2021)


Israele investe sui giovani e sulle startup 

Scommette sull'innovazione, crede nel libero mercato e si assume una parte importante del rischio guardando al futuro. 

di Andrea Vassallo 

Incontenibile è la 'fuga di cervelli' che riguarda il nostro Paese: i dati mostrano un incremento annuale di giovani - laureati e con le specializzazioni più richieste - che preferiscono costruire il proprio futuro, avviare un'impresa e la propria carriera professionale all'estero. Ciò si verifica a causa dell'oppressione burocratica e fiscale che grava sul mercato del lavoro italiano, caratterizzato da tasse, contributi e mai definiti adempimenti burocratici sempre più rilevanti: un elemento che disincentiva le imprese ad assumere, con il rischio tangibile di diventare sempre meno attrattivi rispetto al mercato estero, più competitivo sotto il profilo fiscale.
    Servirebbe perciò ridurre la pressione fiscale, ma occorre al contempo creare sviluppo.
   Il modello a cui il nostro Paese dovrebbe ispirarsi è quello israeliano, il primo esempio al mondo di Startup Nation: su 8,9 milioni di abitanti, Israele sfiora le cinquemila aziende che hanno investito in high-tech. Il suo modello funziona in quanto è fondato sulla meritocrazia e sul libero mercato e si è rivelato vincente perché il governo israeliano non si è limitato ad attirare capitali dall'estero ma ha incentivato gli imprenditori, assumendosi una parte del rischio e creando condizioni fiscali favorevoli.
   Proviamo a immaginare, solo per un istante, l'enorme vantaggio per il nostro Paese se solo si decidesse di prendere ad esempio il modello della Startup Nation: l'Italia tornerebbe attrattiva non soltanto sotto il profilo degli investimenti ma anche per tutti i giovani laureati ora in fuga verso l'estero, molti dei quali specializzati proprio nel settore high-tech. Un modello che, unito a una riduzione dell'oppressione fiscale, si rivelerebbe vincente anche per il nostro Paese. 

(La Ragione, 23 luglio 2021)


La Farnesina cancella Israele: «Gerusalemme è in Palestina»

Gli italiani che abitano nella Città santa e vogliono iscriversi alle elezioni per i comitati dei residenti all'estero possono farlo solo dicendo di vivere nei Territori

di Vito Anav

GERUSALEMME - Gerusalemme, Yerushalaim, la Città della Pace, la Città Completa, la Città Santa ( quasi per tutti). Infiniti sono i nomi con cui viene indicata Gerusalemme. Complessa, rocambolesca, antica la sua storia. Unica costante, nei millenni, nel corso dei marasmi politici e militari di cui è stata vittima, la presenza ebraica nella Città mai venuta meno (indipendentemente da chi la governasse) e la perseverante preghiera degli ebrei della Diaspora per il ritorno a essa.
   Arriviamo ai giorni nostri. Il consolato italiano a Gerusalemme ancora oggi vanta ben due sedi (l'ambasciata si trova a Tel Aviv ma questo vale per quasi tutti gli altri Stati) una sede nella cosiddetta Gerusalemme Ovest e una nella cosiddetta Gerusalemme Est.

 L'INDIRIZZO SBAGLIATO
  L'area di competenza, oltre alla totalità di Gerusalemme, comprende anche la Cisgiordania, i Territori sotto l'Autorità Palestinese, la Striscia di Gaza. Dal sito web del Consolato Generale si evince tra l'altro che «Il Consolato Generale cura le relazioni che il Governo italiano intrattiene con le autorità palestinesi e che si sostanziano in rapporti politici, economici, culturali, di cooperazione allo sviluppo e di dialogo tra realtà locali e tra società civili». In questi giorni il consolato ha inviato, come suo compito istituzionale, una lettera a tutti gli italiani residenti nella circoscrizione consolare, sollecitandoli a iscriversi nelle liste elettorali per votare per corrispondenza alle elezioni del COMITES che si terranno nel dicembre 2021. Gli italiani residenti nell'area Consolare sono circa 5.000, di cui 3.500 iscritti all'AIRE, l'anagrafe degli Italiani Residenti all'Estero. Molti hanno tentato di esercitare il loro diritto/dovere al voto e di iscriversi alla lista elettorale. Ma è risultato praticamente impossibile.
   Provando a spiegare in modo semplice una situazione complessa: per completare il modulo d'iscrizione occorre posizionare Gerusalemme nei Territori dell'Autonomia Palestinese: allora e solo allora, si riesce a completare la procedura. Anche inserendo il c.a.p, nulla da fare. Israele proprio non esiste! Gerusalemme è in un fantomatico, improbabile, quanto inesatto limbo geopolitico dei TerritoriANP (Autonomia Palestinese).
   Riassumendo: se un iscritto AIRE residente a Gerusalemme vuole usufruire del servizio telematico proposto dalla Farnesina, dovrà qualificarsi come residente nei TerritoriANP e non in Israele. È un po' come se i servizi telematici della Farnesina stabilissero che Trieste si trova in Jugoslavia ... A disguidi simili le autorità italiane non sono nuove. In più occasioni, le cartelle elettorali per le elezioni nazionali sono state inviate ad astrusi indirizzi quali Gerusalemme -ASIA o Gerusalemme - Palestina.
   Fino a qualche anno fa, i passaporti italiani rilasciati dal Consolato Generale a Gerusalemme alla voce Residenza indicavano prima Gerusalemme (*) ... mai saputo cosa significasse l'asterisco, poi Gerusalemme (ZZZ): non è un errore di battitura, anche lo 'Z2Z è un mistero irrisolto. Solo da qualche anno a questa parte è sparito e Gerusalemme è assurto a luogo di residenza senza orpelli.

 MISTERI TERRITORIALI
  Probabilmente i tempi di reazione della Farnesina, così come quelli di vari Comuni italiani (responsabili dell'invio delle cartelle elettorali) alle realtà geopolitiche e alle evoluzioni storiche sono lenti.
   Nel 2016 l'Unesco approva la risoluzione Gerusalemme est adottando un testo controverso in cui si decide di usare esclusivamente il nome islamico per riferirsi al complesso della moschea di Al-Aqsa, ignorando il termine ebraico Monte del Tempio. Il commento dell'allora premier israeliano Benjamin Netanyahu fu: «È come dire che la Cina non ha legami con la Grande Muraglia o l'Egitto con le Piramidi». Superfluo ricordare che in quell'occasione l'Italia si astenne.
   È recente la notizia che una parte delle mura di Gerusalemme costruite tra la fine dell'VIII e l'inizio del VII a.e.v., il periodo del Primo Tempio, è stata rinvenuta dagli archeologi nel Parco Nazionale della Città di David, che hanno scoperto altri reperti del periodo, tra cui giare di stoccaggio con anse decorate a "rosetta", che gli esperti hanno collegato agli ultimi anni del Regno di Giuda Ma anche le evidenze storiche possono essere ignorate, permettendo al portavoce di Hamas, Muhammad Hamadeh, di affermare che «Israele falsifica la storia e distorce i fatti. Gerusalemme rimarrà la capitale della Palestina e della sua identità arabo-islamica». Poche voci si sono levate contro l'ennesima falsità di Hamas. Unesco docet!
   Usque tandem ... la miopia, mista a un non sempre latente sentimento di antisionismo "a priori e a prescindere" permetterà di prendere decisioni, diffondere dichiarazioni, assumere posizioni che in nulla favoriscono un processo di pace?

(Libero, 23 luglio 2021)

Riforma della Casherut, l'opinione pubblica si divide

Una riforma che, attraverso la concorrenza, garantirà costi minori per chi vende o acquista prodotti casher in Israele (e non solo), mantenendo gli standard richiesti dalla Legge ebraica. Una modifica che confonderà il pubblico e abbasserà il livello delle certificazioni casher, danneggiando i consumatori.
  La riforma del sistema delle certificazioni casher in Israele annunciata dal ministro degli Affari religiosi Matan Kahana ha aperto un’ampia discussione tra favorevoli e contrari. Il nuovo modello proposto andrebbe a modificare il ruolo del Gran Rabbinato israeliano rispetto alla gestione di questo sistema. In sostanza quest’ultimo da attore principale si trasformerebbe in supervisore. Attualmente in Israele le certificazioni casher per le imprese sono assegnate in via esclusiva da organi locali del rabbinato statale (Consigli religiosi), emanazione del Gran Rabbinato. Questi organi nominano degli ispettori che controllano che chi richiede la licenza della casherut rispetti effettivamente tutte le regole prescritte dalla Legge ebraica. Si tratta di un sistema di controllo verticale, gestito in forma di monopolio. La riforma vorrebbe cambiare questa situazione introducendo delle società private che concorrano tra loro per fornire le licenze a ristoratori o a chi ne fa richiesta. Il tutto sotto la supervisione del Gran rabbinato, che avrà il compito di stabilire regole uniformi che le società private dovranno seguire.
  “Chiunque abbia buon senso può vedere che il nostro sistema di casherut è molto malato, e deve essere messo in ordine", ha dichiarato Kahana in un’audizione alla Knesset, il Parlamento. "Il mio piano metterà ordine nel sistema, lo aprirà alla concorrenza, e lo metterà sotto la regolamentazione del Gran Rabbinato, sotto la sua supervisione come avviene all’estero. Così, più persone mangeranno casher”. Non è di questo avviso però il Gran Rabbinato, secondo cui questa modifica creerà solo confusione. I consumatori, afferma l’autorità d’Israele in materia di Legge ebraica, non saranno tutelati sulla qualità della supervisione delle regole alimentari e, di conseguenza, sull’effettivo rispetto della casherut. “Questa non è una riforma, non è una correzione” ha dichiarato il rabbino Eliezer Simcha Weiss, membro del Consiglio del Gran Rabbinato.

(moked, 22 luglio 2021)

Trent'anni fa, Berlino capitale

Kohl, il Cancelliere della riunificazione, non era d'accordo

di Roberto Giardina

Trent'anni fa, il 20 giugno 1991, Berlino tornò a essere capitale. Non fu una decisione facile, e il Bundestag dopo una combattuta seduta, solo alle 21 e 47 emise il verdetto di misura: su 660 deputati, in 320 votarono per rimanere a Bonn, la cittadina universitaria sul Reno, e 338 furono per il trasloco a Berlino. Fu uno sbaglio? Che sarebbe oggi la Germania se quei 18 fossero stati di altro avviso? Gli storici sostengono di odiare il «se», ma pochi resistono alla tentazione. Bonn è a un'ora d'auto da Bruxelles, a 4 da Parigi. Berlino si trova sul confine con la Polonia. La capitale provvisoria, piccola e pacifica, aveva cambiato l'immagine della Germania all'estero.
  Alla vigilia, alla Pressehaus, il palazzo della stampa, bussarono alla porta del mio ufficio i colleghi del Bonner Anzeiger, il giornale della capitale provvisoria. Era diventato per decenni il quotidiano tedesco più citato all'estero, per i suoi contatti con il mondo politico. Herr Kollege, mi chiesero, tu da che parte stai? Non per ipocrisia, o per amicizia, me la cavai da machiavellico italiano: Berlino diventi capitale, la sede del governo resti a Bonn. Trent'anni dopo, ne sono sempre convinto. Una soluzione quasi all'americana, Berlino come New York, Bonn come Washington. E citai Roma, rovinata dalla politica, ma ai tedeschi non piacciono i confronti con l'Italia.
  Fu un voto trasversale, gli Abgeordnete, i parlamentari, votarono secondo coscienza. Tutti sapevano che il renano Helmut Kohl, il Cancelliere della riunificazione, era contrario al trasloco. La prussiana Berlino è sempre stata poco amata dai tedeschi. Dalla fine della guerra, tutti avevano ribadito che prima o poi Berlino sarebbe tornata la capitale di una Germania unita, ma pochi credevano di poter vivere abbastanza per assistere all'evento.
  Quando cadde il Muro (9 novembre 1989), nessuno aveva un piano su cosa fare. E non tutti erano d'accordo sulla riunificazione, come il socialdemocratico Oskar Lafontaine, o lo scrittore Günter Grass. In quella storica seduta al Bundestag, se non ricordo male, furono rari gli interventi patriottici. Berlino era associata a Hitler e al nazismo, anche se in gran parte non è vero: la capitale era rossa e lo rimase, Adolf veniva dal sud.
  Chi votò per il trasloco, lo giustificò con motivi pratici: era necessario per unire il paese, diciamo per riguardo verso i 17 milioni di tedeschi dell'Est, e per far rinascere Berlino, una metropoli povera.
  Lo è ancor oggi, oltre il 20% dei berlinesi vive al di sotto della soglia di povertà. La politica economicamente rende poco, se non a quei pochi che vivono di politica. E gli ossis, come vengono chiamati i tedeschi della ex Ddr, si sentono sempre oppressi, poco rispettati, e votano a destra. Nella Haus der Geschichte, il museo della storia della Repubblica Federale, che si trova a Bonn, il passato della Germania Est è confinato in un'unica saletta. A Berlino hanno buttato giù il Palast der Republik, che era amato all'Est, un simbolo di identità, non solo del regime. Al suo posto hanno voluto ricreare il castello degli Hohenzollern, un falso storico. Lo ha ricostruito l'architetto italiano Franco Stella, e nessuno avrebbe potuto fare meglio, ha eseguito il compito affidatogli, ma oggi non si sa che farne, troppo piccolo o troppo grande.
  Berlino doveva diventare la capitale d'Europa, ma l'Urss è scomparsa, e gli affari si fanno altrove. Anche per lo shopping, i ricchi dell'Est volano direttamente a Parigi, o a Milano. Paradossalmente, Berlino è rinata perché era povera. Gli alloggi erano (e sono) i più economici in Germania, e italiani, spagnoli, svedesi hanno comprato casa a Berlino. Ma i berlinesi, sempre masochisti, adesso vorrebbero bandire stranieri e turisti. Il trasloco è stato costoso e lungo, si è concluso nel 1999, e cinque ministeri sono rimasti sul Reno. Bonn non è finita in miseria come si temeva, e Berlino è sempre una città in divenire, che è il suo fascino.

(ItaliaOggi, 22 luglio 2021)

I preservativi Fromm e i nazisti

Erano stati inventati da un ebreo. Vennero espropriati dal regime per una cifra risibile 

Ancora dopo il '68. In farmacia in Germania si chiedeva discretamente «ein Frommie», un pacchetto di preservativi con i tradizionali colori giallo e rosso. Le generazioni passano, e i nomi scompaiono, ma sono sempre in vendita con il nome «Mapa». E' un paradosso del III Reich: i Fromm erano un'invenzione ebrea, un prodotto immorale che minava la società tedesca, e sabotava l'ordine di Hitler di produrre figli maschi per l'esercito che avrebbe conquistato il mondo, ma era un'azienda che guadagnava milioni di marchi, e la espropriarono. Una piccola storia nella grande storia raccontata dallo storico Gütz Galy con il giornalista Michael

Sontheimer nel saggio Fromm. Wie der jüdische Kondomfabrikant Julius F. unter die deutschen Raüber fiel, «Come il fabbricante ebreo di preservativi Julius F. cadde vittima dei predoni tedeschi» (Fischer Verlag; 224 pag.; 19,90 euro).

Julius Fromm era nato il 17 agosto del 1883 a Konin, una cittadina (oggi 75mila abitanti) nella Polonia centrale, all'epoca parte della Russia zarista. Entrambi i genitori erano ebrei, quando Julius aveva 10 anni decisero di trasferirsi a Berlino, dove speravano di ottenere condizioni di vita migliori. Trovarono lavoro in una fabbrica di sigarette, che venivano ancora rollate a mano, morirono giovani. Julius rimase orfano a 15 anni è dovette badare ai sei fratelli e sorelle. Riuscì a studiare chimica nei corsi serali.

I preservativi erano ancora simili a quelli usati dagli antichi romani, scomodi e poco sicuri. Si usava la vescica dei pesci, o gli intestini di pecora. Anche i primi in gomma vulcanizzata erano rudimentali e si rompevano facilmente. Nel 1912, il giovane polacco comincia a sperimentare una sua formula, crea i primi Fromm con il lattice. Durante la Grande Guerra si registra un'esplosione di malattie veneree, dilaga la sifilide. Nel 1916, Julius brevetta il suo Kondom, un anno dopo produce già 150mila pezzi al giorno, una confezione costa 72 centesimi. Nel 1920 ottiene la cittadinanza tedesca. I Fromm vengono brevettati in trenta paesi. Nel 1922, Julius possiede un'impresa internazionale, con succursali in Danimarca, Gran Bretgana, Polonia, Olanda.

La chiesa cattolica e quella luterana condannano Fromm, i suoi prodotti sono uno strumento di lussuria. I preservativi sono immorali anche per gli ebrei, ma Julius dà lavoro a centinaia di persone durante la crisi seguita alla guerra. Ed è anche uno psicologo: distribuisce gratuitamente migliaia di cartoncini su cui è scritto «Vorrei una scatola di Fromm», i timidi li possono comprare senza parlare. Nel 1928, Julius mette sul mercato il primo distributore automatico, e le vendite aumentano.

Arriva Hitler, Julius si illude di riuscire a continuare l'attività. Alcuni suoi direttori sono nazisti, nella pubblicità si ricorda che «i Fromm sono un prodotto di alta qualità tipicamente tedesca». Ma non basta. Nel 1936, la rivista Der Stürmer pubblica un violento attacco alla Fromm, impresa giudaica e immorale. Anche Julius non sfugge al processo di arianizzazione, gli ebrei sono costretti a cedere le loro imprese. Comprende che non può resistere a lungo, e trova un compratore che gli offe un buon prezzo, ma il regime interviene e gli impone di vendere alla baronessa Elisabeth von Epenstein, che &eagrave; una parente di Göring.

Il prezzo è imposto 116mila Reichsmark, neanche un decimo del valore dell'azienda, che ha un bilancio superiore ai due milioni di marchi all'anno. Julius cede e riesce a ottenere che la somma gli sia pagata in franchi svizzeri. La baronessa si sdebita regalando a Göring due castelli. Julius subito dopo ottiene di lasciare il Reich, andrà a Londra con la moglie e i tre figli. Anche la sua proprietà privata, la villa su un lago alla periferia di Berlino, quadri e mobili, viene messa all'asta per poche migliaia di marchi, benché valga oltre trenta milioni. La Fromm fu restituita alla famiglia dagli occupanti sovietici ma fu subito espropriata dal regime della Germania comunista. Julius Fromm morì per infarto il 12 maggio del '45. I figli raccontano che non gli resse il cuore per la gioia nell'apprendere la fine di Hitler.

(ItaliaOggi, 22 luglio 2021)

Siria: Israele colpisce ancora, per la seconda volta in una settimana

Le forze di difesa aerea siriana hanno riferito di aver respinto un attacco, presumibilmente condotto da Israele, contro Homs, nella Siria orientale.

L’annuncio, riportato dall’agenzia di stampa SANA, è giunto nella mattina di giovedì 22 luglio, con riferimento a un attacco perpetrato verso le ore 1:13. Stando a quanto dichiarato da fonti militari, i missili di Israele, provenienti dal Nord-Est di Beirut, miravano a colpire la zona di al-Qusayr, nella periferia di Homs. Ad ogni modo, le forze di Damasco sono riuscite ad abbattere la maggior parte dei missili “ostili” e, al momento, non sono state registrate vittime, ma soltanto danni materiali. La notizia è stata confermata anche dall’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani (SOHR), secondo cui l’obiettivo dei raid israeliani era rappresentato dalla base aerea di Sahyrat, situata nel Sud-Est di Homs, e dalle postazioni militari del gruppo sciita Hezbollah, nei pressi dell’aeroporto militare di al-Dabaa e di al-Qusayr, nella periferia Ovest di Homs. A detta del SOHR, i raid del 22 luglio hanno causato la distruzione di depositi di armi e munizioni. Come evidenziato, era stata proprio la zona di al-Qusayr ad essere teatro, nel 2013, di violente battaglie tra i gruppi dell’opposizione siriana ed Hezbollah, conclusesi, a giugno dello stesso anno, con la vittoria delle forze filogovernative, legate al presidente Bashar al-Assad.

Quello del 22 luglio costituisce il secondo attacco, attribuito al “nemico israeliano”, respinto nel corso dell’ultima settimana. Il primo risale alla tarda serata del 19 luglio. In tal caso, i raid sono stati lanciati contro la periferia Sud-Est di Aleppo, con l’obiettivo di colpire diverse postazioni nella regione di al-Safyrah, nella Siria Nord-occidentale. Oltre a danni materiali, il SOHR ha riferito che 5 combattenti, membri di milizie filoiraniane, sono stati uccisi. Secondo quanto monitorato dal medesimo Osservatorio, nei primi 200 giorni del 2021, sono stati almeno 14 gli attacchi aerei e missilistici presumibilmente condotti da Israele contro i territori siriani. Questi hanno provocato 104 morti, di cui almeno 5 civili e 38 uomini fedeli ad Assad e alle forze alleate. In totale, sono stati distrutti 41 obiettivi, tra cui edifici, depositi, basi e veicoli militari, situati perlopiù a Damasco, Quneitra, Homs, Hama, Deir Ezzor, Al-Suwaidaa, Latakia e Aleppo.

È dal 2011 che Israele è considerato l’autore di attacchi aerei in Siria, volti a prendere di mira i suoi principali nemici nella regione mediorientale, Iran ed Hezbollah in primis. Uno degli episodi del mese scorso risale al 17 giugno, quando Israele, a detta dell’esercito siriano, ha preso di mira una postazione presumibilmente appartenente ad Hezbollah, nella regione meridionale di Quneitra. Ancora prima, nella tarda serata dell’8 giugno, almeno 11 persone hanno perso la vita a seguito di un attacco attribuito a Israele contro postazioni delle forze siriane e dei suoi alleati. In particolare, i raid hanno colpito i dintorni della capitale Damasco, le province di Homs, Hama e Latakia, oltre al villaggio di Khirbet al-Tin, alla periferia di Homs, e a un deposito di armi appartenente ad Hezbollah. 

Negli ultimi mesi, le operazioni attribuite a Israele hanno mirato a colpire soprattutto le milizie filoiraniane, stanziate nella Siria orientale, meridionale e Nord-occidentale, oltre che nei sobborghi intorno a Damasco. Tra gli attacchi più violenti del 2021 vi è quello del 13 gennaio, quando le forze aeree israeliane sono state accusate di aver perpetrato 18 raid aerei contro Deir Ezzor e al-Bukamal, nell’Est della Siria. In tale occasione, sono state provocate circa 57 vittime, tra cui almeno 10 tra le fila dell’esercito di Damasco, mentre gli altri individui deceduti appartenevano ai gruppi armati legati all’Iran, ad Hezbollah e alla Brigata Fatemiyoun, una milizia sciita afgana formata nel 2014 per combattere in Siria.

Oltre all’Iran, nel mirino israeliano vi sono altresì i gruppi palestinesi e l’organizzazione paramilitare libanese Hezbollah, considerati un pericolo per l’integrità dei propri confini territoriali. A detta di Israele, Teheran starebbe provando a intensificare la propria presenza in Siria, creando una base permanente, sebbene le operazioni israeliane abbiano contribuito a limitare l’influenza del nemico iraniano. Inoltre, fonti di intelligence regionali hanno dichiarato che i gruppi armati filoiraniani, tra cui le Quds Force, hanno rafforzato la propria presenza nei dintorni di Sayeda Zainab, nel Sud di Damasco, dove si pensa siano state create diverse basi sotterranee. Funzionari militari siriani e dell’intelligence occidentale hanno poi affermato che in cima alla lista dei target di Israele vi sono le infrastrutture che potrebbero consentire all’Iran di produrre missili a guida di precisione sul territorio siriano, erodendo il vantaggio militare regionale di Israele.

(Sicurezza Internazionale, 22 luglio 2021)


Israele, sistema Kaftor Baby: mai più bambini dimenticati in auto

Il Ministero dei Trasporti ha annunciato che dal 1° agosto entrerà in vigore in Israele una nuova normativa, che prevede l’utilizzo del sistema Kaftor Baby i2/4 su tutte le auto che trasportano bambini di età inferiore a quattro anni, allo scopo di evitare di dimenticare i più piccoli al loro interno. Lo riporta il Jpost.
    Il sistema utilizza un modem cellulare, collegato fino a quattro sensori installati sotto il seggiolino o sotto il sedile, che calcolano il peso del carico.
    Nel momento in cui viene spento il motore, se il dispositivo rileva il peso all’interno del seggiolino, emette segnali acustici ripetuti.
    Nel caso in cui, dopo due minuti, identifica ancora la presenza del bambino, il modem invierà una chiamata ai cellulari registrati nel sistema. Senza alcuna risposta da parte del genitore o della persona responsabile, la tecnologia eCall avviserà immediatamente le unità di soccorso, fornendo l’esatta posizione del veicolo.
    Il sistema è collegato al centro d’emergenza H24, 7 giorni su 7. L’obiettivo principale del dispositivo è quello di salvaguardare i più piccoli, ma può essere utilizzato per altri problemi di immediato soccorso come piccoli incidenti o malore del conducente.
    Il portavoce della società Kaftor ha affermato di essere grato al Ministero dei Trasporti, per aver compiuto questo importante passo verso un “fenomeno così preoccupante”, come dimenticarsi i bambini nelle auto.
    “Il sistema, che stiamo commercializzando, offre sicurezza e rassicurazione alla persona che conduce l’automobile e alla sua famiglia, consapevoli che c’è qualcuno che li accompagna da lontano, che li controlla in strada e sa come gestire qualsiasi evenienza in caso di necessità” ha spiegato il portavoce.

(Shalom, 22 luglio 2021)


Israele addestra l’Italia all’utilizzo dei droni killer

di Antonio Mazzeo*

Due settimane di super addestramento in Israele per l’Aeronautica Militare italiana utilizzando i più moderni e famigerati droni da guerra. Il 12 luglio ha preso il via nella base aerea e missilistica di Palmachim, nei pressi della città israeliana di Rishon LeZion, a sud di Tel Aviv, l’esercitazione “Blue Guardian”, presentata con enfasi dall’Israeli Air Force (IAF) come la “prima attività addestrativa internazionale al mondo con i velivoli a pilotaggio remoto”. Ai war games con i droni, oltre ai reparti specializzati dell’Aeronautica israeliana, partecipano pure quelli di Stati Uniti, Francia, Germania, Regno Unito e Italia. Il ministero della Difesa italiano ha mantenuto sino ad oggi il più stretto riserbo sull’imbarazzante missione addestrativa in Israele, ma è più che presumibile che a Palmachim siano stati schierati gli uomini e i velivoli senza pilota del 32° Stormo dell’Aeronautica militare di stanza nella base di Amendola (Foggia), che aspira a trasformarsi in uno dei principali centri di formazione dei piloti di droni in ambito NATO ed extra-NATO. “
  La storica esercitazione di 15 giorni consentirà di migliorare gli apprendimenti tra le nazioni partecipanti e ad aprire la strada verso una futura cooperazione nel rivoluzionario settore dei velivoli a pilotaggio remoto”, riporta la nota emessa dall’Israeli Air Force. Secondo il generale Amikam Norkin, comandante in capo dell’Aeronautica, “Blue Gardian” ha un valore di grande importanza strategica per lo Stato di Israele. “Siamo pionieri nel campo dei droni e siamo considerati un leader mondiale nello sviluppo delle tecnologie relative”, ha dichiarato il generale Norkin. “Queste caratteristiche, congiuntamente alle centinaia di ore di volo che abbiamo effettuato nelle ultime due decadi e all’alta competenza dei nostri operatori, spiegano la pronta favorevole risposta che abbiamo ottenuto dai paesi che avevamo invitato a prendere parte a questa esercitazione”.
  Gli obiettivi chiave dei war games sono stati illustrati dal comando del 166° Squadrone dell’Aeronautica israeliana, preposto all’organizzazione e al coordinamento di “Blue Gardian”. “Innanzitutto puntiamo a rafforzare la partnership tra Israele e i cinque paesi partecipanti, cosa che ha una valenza significativa per la sicurezza del nostro paese”, spiegano i militari del 166° Squadrone, non a caso denominato “Fire Birds” (uccelli di fuoco) proprio perché preposto all’uso dei più sofisticati droni killer. “Abbiamo creato una serie di scenari aerei reali per permettere un addestramento di alta qualità durante l’intera esercitazione. Inoltre, vogliamo enfatizzare l’interconnessione personale con le nostre controparti, fornendo ai nostri alleati una sensazione di comfort e sicurezza mentre loro si adattano alle nostre necessità. Infine, puntiamo ad illustrare gli alti standard manifestati dal personale dell’Israeli Air Force e soprattutto l’impegno, la professionalità e la precisione nello svolgimento delle missioni aeree”. Sempre secondo il Comando del Fire Birds Squadron, nel corso di “Blue Gardian” saranno utilizzati in particolare i due gioielli di morte dell’arsenale dei velivoli senza pilota israeliani, gli Hermes 900 (nome in codice Kochav) e gli Hermes 450 (Zik), progettati e realizzati da Elbit Systems Ltd, holding con quartier generale ad Haifa e filiali in diversi paesi, leader nella produzione di droni militari, sistemi informatici, telecomunicazione, comando, controllo e intelligence e per le cyber war. “Nel corso dell’esercitazione, per la prima volta nella storia – precisa IAF – gli equipaggi stranieri saranno impiegati al controllo del volo di un Hermes 450, insieme agli operatori dello squadrone droni israeliano, simulando una serie di differenti scenari operativi, dall’assistenza alle forze terrestri, alle missioni di raccolta dati d’intelligence e alla cooperazione con altre forze aeree”.
  Ancora più complessi gli scenari previsti nella seconda settimana di esercitazione. In particolare saranno simulate vere e proprie attività di combattimento tra i differenti reparti aerei partecipanti e saranno effettuati voli congiunti dei droni in appoggio ai cacciabombardieri e alle divisioni elicotteri israeliani. “Il processo di pianificazione delle attività sarà appannaggio di un differente paese ogni giorno, così da dare a tutti gli equipaggi un’unica opportunità per familiarizzare e conoscere le differenti modalità di conduzione delle missioni aeree”, conclude l’Israeli Air Force.
  Per il complesso militare industriale israeliano, “Blue Guardian” è una ghiotta occasione per sponsorizzare tra gli ufficiali delle forze aeree di USA, Francia, Germania, Regno Unito e Italia, i due modelli di droni più utilizzati nelle ultime operazioni di guerra in Medio Oriente. Gli Hermes 450 e 900 sono infatti velivoli a pilotaggio remoto multimissione: possono essere utilizzati sia come aerei spia per la raccolta dati d’intelligence e l’individuazione degli obiettivi, sia come droni d’attacco con il lancio di missili aria-terra e aria-nave. Le due versioni variano secondo le ore di volo che possono effettuare (17 per l’Hermes 450 e 30 ore per l’Hermes 900) e per l’altitudine che possono raggiungere (da 18.000 a 30.000 piedi). L’Hermes 450 è stato impiegato operativamente per la prima volta durante l’assalto israeliano del 2008-2009 contro la popolazione della Striscia di Gaza; questi velivoli senza pilota di Elbit Systems sono stati anche usati in Libano nel 2006, causando la morte di diversi civili, inclusi operatori della Croce Rossa. Il battesimo di fuoco dell’Hermes 900 risale invece all’Operazione “Margine Protettivo” contro Gaza dell’estate 2014: un drone è stato coinvolto nell’uccisione di quattro ragazzi che stavano giocando in una spiaggia, il 16 agosto 2014. “
  Blue Gardian” si svolge a meno di due mesi da un’altra importantissima esercitazione che ha visto protagoniste le forze aeree e navali di Israele, Stati Uniti, Regno Unito e Italia, “Falcon Strike 21”, in una vasta area in territorio italiano che ha compreso i poligoni della Sardegna, il mar Tirreno, Campania, Basilicata, Calabria, Sicilia, l’isola di Pantelleria, il Golfo di Taranto, il Mar Ionio e il Mediterraneo centrale. Secondo la nota emessa dal Pentagono, “Falcon Strike” ha rappresentato “un test strategico per i nuovi cacciabombardieri F-35 in dotazione alle aeronautiche dei quattro paesi partecipanti per accrescere il livello di cooperazione e l’interoperabilità durante le operazioni congiunte”. All’esercitazione hanno partecipato oltre 50 velivoli tra caccia, aerei da trasporto e rifornimento ed elicotteri pesanti, e circa seicento militari sotto il controllo del Comando Operazioni aerospaziali di Poggio Renatico (Ferrara). Lunghissima e assai significativa la lista dei mezzi impiegati. Per l’Italia si è trattato dei velivoli F-35A, F-35B e dei droni “Predator” del 32° Stormo di Amendola; dei cacciabombardieri F-2000 “Typhoon” del 36° Stormo di Gioia del Colle e del 37° di Trapani-Birgi; dei “Tornado” del 6° Stormo di Ghedi; degli AMX e dei “Typhoon” del 51° Stormo di Istrana; dei caccia addestratori T-346A del 61° Stormo di Galatina (Lecce); dei velivoli tanker KC-767A e di un aereo da ricognizione di produzione israeliana Gulfstream “Eitam” del 14° Stormo di Pratica di Mare. Per l’US Air Force i nuovi caccia F-35A e sei F-16C a capacità nucleare del 555th Fighter Squadron di Aviano (Pordenone); un aereo da rifornimento britannico Voyager A330 e, per l’aeronautica israeliana, sei caccia F-35, un aereo-spia Gulfstream “Etam” e due aerei da rifornimento Boeing “Re’em”. “L’esercitazione ha avuto quale base principale di rischieramento Amendola, ma ha visto al contempo coinvolte altre basi in funzione di supporto, tra cui quella di Trapani e del Reparto di Standardizzazione e Tiro Aereo di Decimomannu, in Sardegna”, ha spiegato l’ufficio stampa del Ministero della difesa. “Gli scenari esercitativi sono stati creati per offrire agli equipaggi di volo un contesto complesso in cui potersi addestrare in varie tipologie di missioni, tra cui l’interdizione aerea con gestione strategica e tattica, il supporto alle forze speciali a terra, le operazioni di targeting dinamico”. Tra le attività di particolare rilevanza anche quelle relative alla “guerra elettronica”, protagonisti il centro di comando e controllo radar del 2° Stormo di Rivolto (Udine) e una componente del sistema di “difesa” contraerea SAMP-T dell’Esercito, congiuntamente ai reparti e ai velivoli d’intelligence israeliani.
  Un’estate nel segno dunque della sempre più stretta cooperazione militare, industriale e strategica tra Israele, l’Italia e alcuni dei paesi leader dell’Alleanza Atlantica, protagonisti i costosissimi cacciabombardieri (a capacità nucleare) di quinta generazione prodotti da Lockheed Martin e i droni lanciamissili di Elbit Systems Ltd. E all’orizzonte sempre più affari miliardari per i produttori e i mercanti di morte sulla pelle – da subito – di migliaia e migliaia di innocenti in Africa e Medio Oriente.

* Antonio Mazzeo è un giornalista ecopacifista e antimilitarista che scrive della militarizzazione del territorio e della tutela dei diritti umani.

(Pagine Esteri, 22 luglio 2021)

Diplomazia Pegasus

Lo spyware era "il giocattolo che tutti volevano", adesso è un problema politico serio.

di Daniele Raineri.

ROMA - Due giorni fa il governo di Israele ha creato una squadra per gestire l'impatto molto dannoso del caso Pegasus, lo spyware creato da un'azienda privata israeliana - la Nso e venduto anche a regimi che l'hanno usato per operazioni illegali. Pegasus ora è un problema diplomatico perché la Nso lo vende ad altre nazioni grazie a una licenza gestita dal governo israeliano, che può autorizzare oppure bloccare il contratto considerata la pericolosità del software. In questi anni Pegasus era diventato "il giocattolo che tutti volevano" - definizione di un esperto anonimo sentito dal Financial Times e quindi era nata una "diplomazia Pegasus" che ruotava attorno alla concessione dello spyware. E questa diplomazia precedeva di molto le relazioni diplomatiche ufficiali. L'Arabia Saudita non ha contatti pubblici con Israele ma ha comprato Pegasus nel 2017 e questo lascia supporre che qualche conversazione ad alto livello ci sia stata. Lo stesso vale per gli Emirati Arabi Uniti e per il Marocco, che hanno firmato un patto di "normalizzazione" con Israele soltanto l'anno scorso. La lista dei numeri forse colpiti dallo spyware non include bersagli negli Stati Uniti, come se godessero di un'immunità decisa per ragioni di opportunità politica (a parte, forse, Jeff Bezos, fondatore di Amazon). Altri esempi: il governo indiano e quello ungherese hanno ottime relazioni con Israele e sono clienti di Nso.

Pegasus valeva l'attenzione e i negoziati sottobanco. In questi giorni si è scoperto che riesce a infettare un telefono non soltanto con il metodo del link-trappola (clicchi su un link e apri la porta allo spyware) ma anche sfruttando delle vulnerabilità "zero-click": vale a dire che non c'è più bisogno di cliccare su un link, lo spyware riesce a entrare e a installarsi nel telefono senza che il proprietario faccia nulla - o si accorga di nulla. I ricercatori del CitizenLab dell'università di Toronto, che sono all'avanguardia nell'inchiesta, hanno scoperto che la falla zero-click funziona anche con l'ultimo sistema operativo IOS dei telefoni Apple, quindi anche il 14.7, l'aggiornamento più recente.

La "diplomazia Pegasus" domenica si è rotta perché sedici testate internazionali hanno pubblicato articoli basati su una lista che contiene cinquantamila numeri di telefono che - si sostiene - sono quelli dei bersagli dello spyware. La Nso risponde che la lista è falsa. Nessuno chiarisce da dove salta fuori. Si, sa, per ora, che i ricercatori sono riusciti ad associare alcuni numeri di telefono a persone reali e importanti - come il presidente francese Emmanuel Macron - ma hanno controllato soltanto 64 telefoni e hanno trovato tracce del passaggio di Pegasus su 37. C'è una peculiarità: la lista conserva i metadati di quando un numero è stato aggiunto -vale a dire che si capisce quando qualcuno ha deciso di usare Pegasus contro una persona specifica. La fidanzata del saudita Jamal Khashoggi (un caso grave di omicidio internazionale a Istanbul) è finita sulla lista pochi giorni dopo l'uccisione di lui. E quando nel 2018 la principessa Latifa tentò di fuggire dal padre, il potentissimo primo ministro degli Emirati Sheikh Mohammed bin Rashid al Maktoum, i numeri di telefono dei suoi amici apparvero sulla lista. Lei si era sbarazzata, come ovvia misura di cautela, del telefonino, ma i soldati emiratini abbordarono con precisione la nave che la portava di nascosto verso una nuova vita e la riportarono negli Emirati.

(Il Foglio, 22 luglio 2021)


Ora è il momento della Legge del Ritorno degli Ebrei Italiani

Passò più di un decennio quando il rabbino Stephen Lyon, rabbino della tribù Bnei Anusim nel sud-ovest americano, presentò alla Conferenza del Movimento Conservatore una risoluzione che avrebbe avuto un impatto duraturo sull’ebraismo in tutto il mondo. Il rabbino Leon credeva che l’ebraismo tradizionale avesse l’obbligo di accogliere i discendenti degli ebrei spagnoli che avevano subito persecuzioni durante l’Inquisizione.
  A quel tempo, nessuno avrebbe potuto prevedere la piega degli eventi che la decisione del rabbino Leon avrebbe determinato. Infatti, appena sei anni dopo, nel 2015, Spagna e Portogallo hanno approvato leggi che consentono ai discendenti di ebrei sefarditi esiliati di ottenere la cittadinanza, riconoscendo finalmente l’enorme danno sociale ed economico che l’espulsione aveva inflitto alla vita dei loro connazionali ebrei....
(La Tribuna Sammarinese, 22 luglio 2021)

Ben&Jerry's con i palestinesi: scatta il boicottaggio dei gelati contro Israele

Il colosso americano della Unilever interromperà la vendita nei Territori Occupati. Il premier Bennett: "Una decisione immorale".

di Sharon Nizza

TEL AVIV - Il colosso americano del gelato Ben&Jerry's ha annunciato lunedì che la vendita dei suoi prodotti nei "Territori Palestinesi Occupati è un atto incoerente con i nostri valori", e pertanto verrà terminata, come spiegato in un comunicato diffuso tramite Twitter. 

L'annuncio della società con sede nel Vermont ha suscitato una scia di reazioni di condanna da parte dell'establishment politico israeliano. Il primo ministro Naftali Bennett, l'ha definita "una decisione immorale, che si rivelerà anche un errore commerciale. Di gelati ce ne sono tanti, di Stato ne abbiamo solo uno". "Una vergognosa resa all'antisemitismo, al Bds (il movimento per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni, ndr) su cui non taceremo", ha dichiarato il ministro degli Esteri e premier alternato Yair Lapid. 

L'ambasciatore d'Israele alle Nazioni Unite, Gilad Erdan, ha inviato una lettera ai governatori di 35 Stati americani che hanno approvato leggi contro il Bds, chiedendo di prendere misure contro il provvedimento della Ben&Jerry's. 

La società, fondata negli anni '70 dagli imprenditori ebrei Ben Cohen e Jerry Greenfield (che nel 2000 hanno venduto il marchio alla multinazionale Unilever) è nota per sostenere attivamente battaglie politiche e sociali. Negli ultimi anni ha messo sul mercato nuove confezioni con slogan a sostegno del movimento Black Lives Matter e dei matrimoni omosessuali. Nel 2016 aveva rilasciato un nuovo gusto in omaggio a Bernie Sanders, senatore per il Vermont e candidato alle primarie democratiche.

La decisione della società arriva dopo anni di pressioni da parte del movimento Bds che ha raggiunto l'apice a maggio durante l'ultimo conflitto tra Israele e Hamas. Prima del comunicato diffuso ieri, l'ultimo tweet della società risale infatti al 18 maggio, nel pieno del conflitto. Il post, dedicato alla commercializzazione di un nuovo gusto, era stato preso di mira dagli attivisti Bds per chiedere una presa di posizione contro Israele. 

I gelati Ben&Jerry's, estremamente popolari in Israele, sono prodotti da una concessionaria locale con sede nel Negev. Nei primi momenti dopo l'annuncio, diverse personalità israeliane (tra cui la ministra dell'Economia Orna Barbivai) hanno diffuso sui social video in cui liberavano i propri freezer dalle confezioni di gelato diventate controverse. Ma Avi Zinger, il proprietario della fabbrica israeliana, è intervenuto nella polemica spiegando che allo stato attuale, i primi a pagare le conseguenze di un controboicottaggio sarebbero le centinaia di impiegati della sede locale. Zinger ha spiegato alla stampa israeliana di non essere stato allertato dalla casa madre prima della diffusione del comunicato, ma che la decisione era nell'aria in quanto erano anni che veniva discussa la questione, mentre Zinger si rifiutava categoricamente di limitare la commercializzazione dei prodotti aldilà della Linea Verde che demarca il confine con la Cisgiordania, dove vive oggi quasi mezzo milione di israeliani in insediamenti che la comunità internazionale considera illegali. La soluzione scelta dalla società è stata di non rinnovare la licenza della concessionaria locale, che però scadrà solo a fine 2022. Fino ad allora, non è chiaro se vi saranno limitazioni alla vendita dei prodotti, che la stessa azienda israeliana distribuisce peraltro anche a favore dei clienti palestinesi. 

Sostegno alla decisione arriva da diverse organizzazioni pacifiste israeliane, tra cui Peace Now che ha dichiarato che "le compagnie internazionali sono interessate a fare affari con lo Stato di Israele, ma non sono disposte a sopportare il continuo controllo militare su milioni di palestinesi". 

Anche diversi parlamentari del Meretz - oggi parte del governo che ha sostituito Netanyhau il mese scorso - hanno espresso sostegno per la decisione, mettendo in evidenza l'ampia gamma di opinioni che forma la nuova maggioranza. Tuttavia, il leader di Meretz nonché ministro della Salute, Nitzan Horowitz, si è detto contrario a iniziative di boicottaggio di ogni genere, sostenendo però che "Israele deve prendere in mano l'iniziativa per fare ripartire il processo di pace". 

Gli oppositori del movimento Bds sostengono che, nel suo indirizzare unicamente la realtà degli insediamenti israeliani rispetto ad altre controversie territoriali nel mondo, esso si macchi di doppio standard e antisemitismo. 

Già in passato il movimento per il Bds aveva registrato alcune vittorie importanti, tra cui la chiusura della fabbrica Soda Stream a Mishor Adumim, nei Territori C in Cisgiordania (i territori che, secondo gli Accordi di Oslo, ricadono sotto l'amministrazione israeliana). La fabbrica ha riaperto successivamente nel deserto del Negev. Secondo altre opinioni, le battaglie del movimento Bds sarebbero controproducenti per i palestinesi stessi. Nel caso della chiusura della fabbrica Soda Steam, metà degli impiegati erano palestinesi che persero il proprio lavoro. 

Molti in Israele credono che non sia ancora detta l'ultima parola per l'amato gelato, e sperano nel precedente del 2018: allora Airbnb aveva annunciato che avrebbe interrotto la pubblicità di proprietà negli insediamenti israeliani. Ma, dopo mesi di pressioni e discussioni da parte delle autorità israeliane, la società aveva revocato la decisione. 

(la Repubblica online, 21 luglio 2021)

Covid Israele, aumentano le restrizioni e le multe

Dalla mezzanotte di martedì in Israele sono scattate altre restrizioni che limitano l’accesso ai grandi eventi al chiuso e introducono multe per coloro che violano le regole sanitarie, a causa della crescente ondata di contagi, come riporta il Times of Israel.
  È ripristinato il Green Pass per gli eventi indoor con più di cento persone. L’accesso è limitato ai vaccinati, ai guariti dal Covid e a chi è negativo al test PCR effettuato 72 ore prima dall’evento o al test rapido entro le 24 ore precedenti. È obbligatorio l’uso della mascherina, tranne ai pasti. 
  I locali devono avere un servizio di sorveglianza che garantisca il rispetto delle norme e sono tenuti a dare indicazioni, che stanno operando secondo le regole del Green Pass. 
  In caso contrario prenderanno una multa di 3mila NIS (770 €). Anche i partecipanti che violano le regole saranno multati di 1.000 NIS (260 €) e i gestori dei locali andranno incontro ad una multa di 10mila NIS (2.600 €), per non aver effettuato le opportune verifiche. 
  Le regole si estendono anche alle attività commerciali, negozi e ristoranti, in cui obbligatorio l’uso della mascherina. I trasgressori saranno multati di 1.000 NIS (260 €). 
  Con il sostegno del Ministero della Pubblica Sicurezza, la polizia effettuerà i controlli coordinati con gli ispettori delle autorità locali.
  Il comune di Gerusalemme ha annunciato che a partire dalla prossima settimana gli ispettori inizieranno a far rispettare l’uso della mascherina nei luoghi al chiuso, come ordinato dai funzionari sanitari. "Sebbene a Gerusalemme il numero di malati sia limitato, per mantenerlo basso e lasciare Gerusalemme in fascia verde, dobbiamo seguire le linee guida e assicurarci che tutti indossino la mascherina - ha detto in una nota il sindaco di Gerusalemme Moshe Lion - In questo momento dobbiamo agire in modo responsabile e obbedire alle linee di riferimento".
  Il Brig. Gen. Amos Ben-Avraham, nominato commissario responsabile delle misure di sicurezza anti Covid, coordinerà le attività tra polizia, autorità locali e aeroportuali.
  Le nuove norme sono state messe a punto la scorsa settimana dal Primo ministro Naftali Bennett, dal ministro dell'Economia Orna Barbivai e dal ministro della Sanità Nitzan Horowitz e approvate dal gabinetto ministeriale per il Covid.
  Israele ha visto aumentare drasticamente i contagi nell'ultimo mese, dopo aver quasi debellato la malattia e rimosso quasi tutte le restrizioni a maggio e giugno scorsi. I funzionari sanitari hanno collegato il recente picco di infezioni ai viaggiatori che hanno portato nuove varianti del virus dall'estero e non hanno rispettato la quarantena dopo il loro arrivo.
  La recrudescenza del Covid è stata in gran parte attribuita alla diffusione della variante Delta, che è stata rilevata per la prima volta in India e si ritiene sia due volte più contagiosa. Secondo i dati del Ministero della Salute, dall'inizio della pandemia i contagiati da COVID-19 in Israele sono stati 854.981 e i decessi 6.452.

(Shalom, 21 luglio 2021)

Il gelato «Ben e Jerry's» boicotta Israele. E Gerusalemme: «Inaccettabile» 

di Chiara Clausi.

Ben e Jerry's, il fornitore di gelati famoso per aver preso posizione su questioni sociali scottanti, ha annunciato la fine delle vendite nei Territori occupati. L'azienda entra così in uno dei dibattiti più controversi. «Riteniamo che sia incoerente con i nostri valori che il gelato di Ben e Jerry's venga venduto nei Territori palestinesi occupati», si legge in una nota. La società ha cavalcato molti temi di politica nel corso degli anni. Ha abbracciato Black Lives Matter, le questioni sulla crisi climatica, i movimenti di riforma della giustizia penale e ora dà sostegno al movimento di Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (Bds), che cerca di esercitare pressioni economiche e politiche su Israele per conto dei palestinesi. La società britannico-olandese Unilever ha acquisito Ben e Jerry's nel 2000, a condizione di concedere alla gelatiera del Vermont una maggiore autonomia per preservare la «cultura e la missione sociale» dell'azienda. 
  Ma la società ha subito precisato che non stava boicottando il Paese nel suo insieme. «Rimarremo in Israele», ha detto. Semplicemente si ritira dal mercato in Cisgiordania. Circa 700mila israeliani vivono infatti negli insediamenti, costruiti su terreni conquistati da Israele durante la guerra del 1967. L'annuncio però è stato accolto con rabbia da molti importanti israeliani, che hanno esortato le persone a smettere di fare scorta di Chubby Hubby, Cherry Garcia o di altri gusti di Ben e Jerry's. «Ora noi israeliani sappiamo quale gelato non comprare», ha twittato l'ex primo ministro Benjamin Netanyahu, leader dell'opposizione. L'attuale primo ministro, Naftali Bennett, ha definito la decisione dell'azienda «moralmente sbagliata» e ha dichiarato: «Ben e Jerry's ha deciso di etichettarsi come il gelato anti-israeliano». E ha avvertito Unilever, che ci sarebbero state conseguenze. Anche il ministro degli esteri israeliano Yair Lapid ha definito la mossa una «vergognosa capitolazione» all'antisemitismo. 
  «Accogliamo calorosamente la decisione, ma chiediamo a Ben e Jerry's di porre fine a tutte le operazioni nell'apartheid israeliano», ha affermato invece in un post su Twitter il movimento Bds. Ha poi applaudito alla decisione: è stato fatto «un passo decisivo verso la fine della complicità nei confronti dell'occupazione israeliana e delle violazioni dei diritti dei palestinesi», ma ha invitato a fare di più. Il ritiro di Ben e Jerry's dai Territori occupati non avrà effetto immediato, poiché il suo attuale contratto con l'azienda che produce il suo gelato in Israele scade alla fine del prossimo anno. Mentre Ben e Jerry's Israel, si è presto dissociato. «Continueremo a vendere in tutto lo Stato ebraico: non permettete che Israele venga boicottato».

(il Giornale, 21 luglio 2021)


L’importatore israeliano non ha fatto propria l’imposizione della casa madre di non vendere nei territori di Giudea e Samaria e, fino alla fine della (che scadrà nel 2022), continuerà a fornire i gelati ovunque. Nel frattempo, grazie a questa decisione, le vendite sono salite moltissimo fin dal primo giorno, e i dipendenti, che temevano di perdere il lavoro, sono invece impegnatissimi a fornire le richieste di gelati (comunque made in Israel). Emanuel Segre Amar

Bennett mette in guardia Unilever sulle “serie conseguenze” della decisione di Ben & Jerry

di Felipa Santos

GERUSALEMME – Israele ha avvertito il colosso dei beni di consumo Unilever Plc (ULVR.L) Martedì, la società ha avvertito delle “gravi conseguenze” della decisione della sua controllata Ben & Jerry di interromere la vendita di gelati nei territori occupati da Israele e ha esortato gli Stati Uniti a emanare leggi anti-boicottaggio.
L’annuncio di Ben & Jerry lunedì è arrivato sulla scia della pressione pro-palestinese sulla South Burlington Company con sede nel Vermont sui suoi affari in Israele e sugli insediamenti ebraici in Cisgiordania, che opera attraverso un partner autorizzato dal 1987.
Ben & Jerry’s ha detto che non rinnoverà la licenza alla scadenza alla fine del prossimo anno. Ha detto che sarebbe rimasto in Israele con un accordo diverso, senza vendere in Cisgiordania, tra le aree in cui i palestinesi cercano di stabilire uno stato. Leggi di più
La maggior parte delle potenze mondiali considera illegali gli insediamenti israeliani. Si oppone a questo, citando connessioni storiche e di sicurezza con la terra, e si è mossa per sanzionare misure anti-insediamento secondo la legge israeliana, garantendo allo stesso tempo protezioni legali simili in alcuni stati degli Stati Uniti.
L’ufficio del primo ministro israeliano Naftali Bennett ha dichiarato di aver parlato con l’amministratore delegato di Unilever, Alan Job, della “palese azione anti-israeliana” del gelataio.
“Dal punto di vista di Israele, questa azione ha gravi conseguenze, legali e non, e agirà con forza contro qualsiasi misura di boicottaggio contro i civili”, ha detto Bennett a Job, secondo la dichiarazione rilasciata dal suo ufficio.
La britannica Unilever non ha risposto immediatamente alla richiesta di commento di Reuters.
Gilad Erdan, ambasciatore di Israele a Washington, ha affermato di aver sollevato la decisione di Ben & Jerry in una lettera inviata a 35 governatori statunitensi i cui stati hanno approvato una legislazione contro il boicottaggio di Israele.
“Devono essere intraprese azioni rapide e decisive per contrastare tali misure discriminatorie e antisemite”, si legge nella lettera, twittata dall’inviato, che ha paragonato la questione all’annuncio di Airbnb del 2018 che avrebbe rimosso le proprietà in affitto negli insediamenti.
Airbnb ha annullato tale decisione nel 2019 dopo le sfide legali negli Stati Uniti, ma ha affermato che avrebbe donato i profitti delle prenotazioni negli insediamenti a cause umanitarie.
I palestinesi hanno accolto con favore l’annuncio di Ben & Jerry. Vogliono la Cisgiordania, Gerusalemme Est e la Striscia di Gaza per un futuro stato. Israele considera tutta Gerusalemme la sua capitale, uno status non riconosciuto a livello internazionale.

(Reuters, 20 luglio 2021)

Capo di Stato maggiore Idf: risponderemo a lanci di razzi sul nostro territorio

GERUSALEMME- Le Forze di difesa israeliane (Idf) risponderanno al lancio di razzi avvenuto questa mattina dal Libano verso il territorio d’Israele. Lo ha detto il capo di Stato maggiore delle forze armate dello Stato ebraico, generale Aviv Kochavi, ripreso dall’emittente “Ynet”. “Il Libano sta collassando, un processo esacerbato da Hezbollah”, ha detto il generale, riferendosi al movimento sciita libanese. “Non intendiamo lasciare che il collasso risulti in un lancio di razzi come quello che ha avuto luogo martedì mattina”, ha aggiunto il comandante. “Risponderemo, apertamente o non, o in entrambi i modi, a qualsiasi violazione della sovranità da parte del Libano, chiunque l’abbia commessa”, ha proseguito Kochavi. 

(Agenzia Nova, 20 luglio 2021)

Miss Universo si terrà in Israele a dicembre, è la prima volta

Il concorso arriva alla sua 70/ma edizione

GERUSALEMME - Israele ospiterà per la prima volta nella sua storia il concorso di bellezza Miss Universo la cui prossima edizione, la 70/ma, si terrà a dicembre nella città costiera di Eilat, nel sud di Israele. Lo ha annunciato oggi il ministro israeliano del Turismo, Yoel Razvozov.
  "In Israele siamo contentissimi", ha detto il ministro in un videomessaggio, "spero sinceramente che a dicembre celebreremo non solo la nuova Miss Universo qui in Israele, ma soprattutto la fine della pandemia".
  L'edizione 2020 di Miss Universo era stata annullata a causa della crisi sanitaria. Poi si è tenuta nei mesi scorsi negli Stati Uniti.

(ANSA, 20 luglio 2021)

“Niente fondi nelle mani di Hamas”

La Viceministra Sereni alla Commissione Esteri del Senato
  Lo ha detto chiaramente la Viceministra agli Esteri Marina Sereni, prima a Shalom, e poi oggi alla Commissione Esteri del Senato: nessun fondo, nessun contributo, finirà nelle mani di Hamas. 
  Al ritorno dalla sua missione in Israele e nei territori contesi, la Viceministra ascoltata dalla Commissione riferisce: “Ho evidenziato ai miei interlocutori come la ricostruzione debba necessariamente conciliarsi con le garanzie di sicurezza di Israele, motivo per cui l’Italia vigilerà attentamente affinché i fondi non contribuiscano a ricostituire le capacità militari di Hamas”. 
   “Anche in questa ottica - ha aggiunto Sereni - sono allo studio meccanismi di supervisione e controllo per la gestione diretta dei contributi, mentre la comunità internazionale sta lavorando all'ipotesi di una Conferenza dei donatori da tenersi a settembre nel segmento ministeriale dell’Ad hoc liaison committee, a margine dell’assemblea generale delle Nazioni Unite”. 
   Per Sereni è inoltre “indispensabile lavorare per migliorare le condizioni di vita della popolazione araba residente. Ho personalmente ribadito tale auspicio a tutti gli esponenti del nuovo esecutivo israeliano che ho avuto modo di incontrare nel corso della mia visita”. 
   Per la viceministra occorre poi “migliorare in maniera netta le condizioni di vita dei palestinesi, sia in Cisgiordania che nella Striscia di Gaza. Nell'immediato, in particolare a Gaza, questo significa consentire l'accesso umanitario e mobilitare un sistema internazionale di assistenza per l'emergenza e di sostegno per la ricostruzione e lo sviluppo socio-economico”.

(Shalom, 20 luglio 2021)

Pegasus, riparare i cellulari da remoto: così è nato il software israeliano che piace alle spie

La storia di Shalev e Omri, fondatori della Nso, la società che diffonde il programma sotto accusa

GERUSALEMME - Dagli anni del liceo ad Haifa — diploma in teatro — si era portato negli Stati Uniti la parlantina e la capacità di convincere «anziane signore a comprare le creme ai sali del Mar Morto», ha raccontato in una intervista. A Shalev Hulio non bastava fare il banditore nei centri commerciali americani, sperava in un’idea d’oro, di quelle che rendono milionari. In un bar di Haifa — dov’è nato e cresciuto — immagina con l’amico d’infanzia Omri Lavie di creare una società per vendere i prodotti che gli spettatori vedono passare nelle serie televisive, usano come esempio Sex and the City. Non funziona.

Il secondo tentativo funziona anche troppo. Loro stessi ammettono di non aver capito da subito le potenzialità di quella trovata. Nel 2008 i telefonini sono ormai nelle mani di tutti, pochi sanno maneggiarli quando si impiantano. Shalev e Omri mettono a punto un sistema per inviare un collegamento ai cellulari che permetta ai loro tecnici tra le colline della Galilea di intervenire da remoto e aiutare gli utenti sperduti nei misteri tecnologici. Il discendente di quel progenitore informatico si chiama Pegasus, ha reso alla fine milionari i due soci e difficile la vita ad attivisti e giornalisti indipendenti in tutto il mondo.
L’inchiesta che anche il Washington Post sta pubblicando in questi giorni — ci ha lavorato assieme ad altre 15 organizzazioni giornalistiche — rivela che il software in grado di prendere il controllo del telefonino bersagliato è stato usato in modo illegale dai governi di diversi Paesi. L’indagine parte da 50 mila numeri telefonici, una lista ottenuta e analizzata da Amnesty International e dalla francese Forbidden Stories.

Il gruppo Nso fondato da Hulio e Lavie può esportare i prodotti solo dopo l’autorizzazione del ministero della Difesa che equipara questi software alle armi. Si tratterebbe di trattative commerciali private. Il Washington Post ha raccolto però le supposizioni di 007 europei e americani convinti che la società «fornisca almeno qualche dato al governo israeliano su chi utilizza i prodotti e su quali informazioni stanno raccogliendo». Ipotesi smentita dal ministero della Difesa.

Non è la prima volta che i segugi digitali scoprono le tracce di Pegasus nei cellulari di oppositori spiati dai regimi. Il Citizen Lab, fondato all’università di Toronto da Ron Deibert, ha messo insieme il dossier legale che WhatsApp ha presentato in tribunale due anni fa: la società — proprietà di Facebook — accusa Nso di aver hackerato 1.400 utenti della popolare app di messaggistica.

Hulio è ancora quello con la parlantina ed è lui a rispondere alle accuse (anche se per lo più la compagnia si limita a comunicati ufficiali). Alla rivista israeliana Calcalist ha spiegato che 50 mila è un numero spropositato: «Gli obiettivi dei nostri 45 clienti sono un centinaio all’anno. In tutta la storia di Nso non è possibile raggiungere quella cifra». Ripete che Pegasus viene venduto ai servizi segreti e alle forze di sicurezza per contrastare la criminalità o i gruppi terroristici.

È proprio sulla lista degli acquirenti che si è concentrato il quotidiano Haaretz: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Ungheria, India, Messico, Ruanda, Marocco. Sono i Paesi con cui Benjamin Netanyahu da primo ministro ha cercato di costruire e rafforzare i rapporti diplomatici. Il giornale arriva alla stessa conclusione di Ronen Bergman, esperto di intelligence, sul New York Times: «Israele ha segretamente incoraggiato e autorizzato le vendite di cyber-materiali nonostante le condanne internazionali per gli abusi perpetrati da questi governi».

(Corriere della Sera, 20 luglio 2021)

Covid Israele, 1.327 contagi: mai così tanti in 4 mesi

Registrato un solo decesso. Il governo valuta nuove restrizioni

Le autorità sanitarie israeliane hanno registrato circa 1.400 casi di coronavirus nelle ultime 24 ore, il dato più alto in più degli ultimi quattro mesi, con un aumento dei contagi attribuito alla variante delta che ha portato le autorità a reintrodurre alcune restrizioni.

Il ministero della Salute israeliano ha indicato attraverso il suo sito web che nelle ultime 24 ore sono stati confermati 1.372 contagi e un decesso, il che porta il totale rispettivamente a 853.478 e 6.451, dall'inizio della pandemia. Il ministero ha anche riferito che attualmente ci sono 7.924 casi attivi nel Paese, inclusi 62 pazienti in condizioni critiche, e che il tasso di positività è dell'1,86 per cento. I dati sulla campagna vaccinale indicano che finora 5.747.027 persone hanno ricevuto almeno una dose del vaccino anti Covid. Tra queste, 5.245.999 persone hanno completato il ciclo vaccinale con la seconda dose.

Le autorità israeliane stanno valutando la reimposizione di una quarantena obbligatoria a tutte le persone che arrivano nel Paese, comprese quelle vaccinate o guarite dal Covid-19, come riportato dal quotidiano 'The Times of Israel'. Il ministro della Sanità israeliano Nitzan Horowitz ha confermato questi piani, escludendo però la chiusura dell'aeroporto Ben Gurion. "Divideremo i Paesi in due gruppi: uno pericoloso e per il quale è vietato volare e un altro in cui chi torna da lì dovrà andare in quarantena", ha spiegato, secondo quanto riporta il quotidiano 'Yedioth Ahoronoth'.

(Adnkronos, 20 luglio 2021)

Bennett mette in guardia Unilever sulle “serie conseguenze” della decisione di Ben & Jerry

di Felipa Santos

GERUSALEMME – Israele ha avvertito il colosso dei beni di consumo Unilever Plc (ULVR.L) Martedì, la società ha avvertito delle “gravi conseguenze” della decisione della sua controllata Ben & Jerry di interromere la vendita di gelati nei territori occupati da Israele e ha esortato gli Stati Uniti a emanare leggi anti-boicottaggio.
L’annuncio di Ben & Jerry lunedì è arrivato sulla scia della pressione pro-palestinese sulla South Burlington Company con sede nel Vermont sui suoi affari in Israele e sugli insediamenti ebraici in Cisgiordania, che opera attraverso un partner autorizzato dal 1987.
Ben & Jerry’s ha detto che non rinnoverà la licenza alla scadenza alla fine del prossimo anno. Ha detto che sarebbe rimasto in Israele con un accordo diverso, senza vendere in Cisgiordania, tra le aree in cui i palestinesi cercano di stabilire uno stato. Leggi di più
La maggior parte delle potenze mondiali considera illegali gli insediamenti israeliani. Si oppone a questo, citando connessioni storiche e di sicurezza con la terra, e si è mossa per sanzionare misure anti-insediamento secondo la legge israeliana, garantendo allo stesso tempo protezioni legali simili in alcuni stati degli Stati Uniti.
L’ufficio del primo ministro israeliano Naftali Bennett ha dichiarato di aver parlato con l’amministratore delegato di Unilever, Alan Job, della “palese azione anti-israeliana” del gelataio.
“Dal punto di vista di Israele, questa azione ha gravi conseguenze, legali e non, e agirà con forza contro qualsiasi misura di boicottaggio contro i civili”, ha detto Bennett a Job, secondo la dichiarazione rilasciata dal suo ufficio.
La britannica Unilever non ha risposto immediatamente alla richiesta di commento di Reuters.
Gilad Erdan, ambasciatore di Israele a Washington, ha affermato di aver sollevato la decisione di Ben & Jerry in una lettera inviata a 35 governatori statunitensi i cui stati hanno approvato una legislazione contro il boicottaggio di Israele.
“Devono essere intraprese azioni rapide e decisive per contrastare tali misure discriminatorie e antisemite”, si legge nella lettera, twittata dall’inviato, che ha paragonato la questione all’annuncio di Airbnb del 2018 che avrebbe rimosso le proprietà in affitto negli insediamenti.
Airbnb ha annullato tale decisione nel 2019 dopo le sfide legali negli Stati Uniti, ma ha affermato che avrebbe donato i profitti delle prenotazioni negli insediamenti a cause umanitarie.
I palestinesi hanno accolto con favore l’annuncio di Ben & Jerry. Vogliono la Cisgiordania, Gerusalemme Est e la Striscia di Gaza per un futuro stato. Israele considera tutta Gerusalemme la sua capitale, uno status non riconosciuto a livello internazionale.

(Reuters, 20 luglio 2021)

Tre farmaci già in uso combattono il Covid: studio israeliano

Arriva da uno studio condotto in Israele una nuova speranza per arrivare a una terapia farmacologia contro Covid. Tre farmaci, già in uso per altre patologie, "hanno mostrato di poter proteggere le cellule dall'attacco del virus con un'efficacia vicina al 100%, il che significa che quasi il 100% delle cellule sopravviveva nonostante fosse infettato" da Sars-CoV-2. Lo ha riferito Isaiah Arkin, biochimico della Hebrew University, in un'intervista al 'The Time of Israel'. Lo studio, che ha aperto alla sperimentazione in laboratorio dei 3 farmaci, è stato sottoposto alla revisione di altri scienziati.

Secondo Arkin, "in circostanze normali circa la metà delle cellule sarebbe morta dopo 2 giorni dal contatto con il virus". Inoltre, secondo il lavoro che ha esaminato oltre 3mila farmaci per verificarne l'efficacia anti-Covid, ci sono buone possibilità che questi farmaci siano efficaci contro le varianti del coronavirus pandemico.

I farmaci che hanno superato questa 'selezione' sono: "Darapladib, usato attualmente per il trattamento dell'aterosclerosi; l'antitumorale flumatinib e un medicinale per l'Hiv", precisa lo scienziato, specificando che questi principi attivi "non prendono di mira la proteina Spike" di Sars-CoV-2, "ma altre due proteine che difficilmente cambiano con lo sviluppo di varianti".

(DottNet, 20 luglio 2021)

Colloquio telefonico tra Abbas e ministro Difesa israeliano Gantz

GERUSALEMME - Il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas, ha avuto ieri sera una conversazione telefonica con il ministro della Difesa israeliano, Benny Gantz, per discutere della necessità di adottare alcune misure in grado di garantire fiducia reciproca tra le due parti. "La discussione è stata positiva ed entrambi hanno parlato della necessità di portare avanti misure di rafforzamento della fiducia tra Israele e l'Autorità palestinese, che andranno a beneficio dell'economia e della sicurezza dell'intera regione", ha riferito il portavoce di Benny Gantz in una nota.

(Agenzia Nova, 20 luglio 2021)

Il comune antisemitismo nei partiti di estrema sinistra ed estrema destra in Italia

Dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967 si è diffusa un’opposizione a Israele che va oltre l’ovvio diritto di esprimere dissenso nei confronti delle scelte di un governo: viene costantemente messa in discussione la legittimità dell’esistenza dello Stato ebraico, sconfinando spesso nella discriminazione. Un Paper Research dell’Istituto Gino Germani di Scienze Sociali e Studi Strategici, appena uscito a firma di Joel Terracina, analizza questo fenomeno di antisionismo.

di Maurizio Stefanini

«La politica di Israele è come la Shoa»; «La Shoa non è mai esistita, e quindi non dovevano dare Israele agli ebrei come sua riparazione». Apparentemente opposti, questi due approcci hanno in comune una opposizione a Israele che va oltre l’ovvio diritto di esprime dissenso nei confronti delle scelte di qualunque governo, ma investono la legittimità stessa dell’esistenza di Israele, sconfinando spesso nell’antisemitismo vero e proprio.

Entrambi si sono diffusi in Italia in particolare dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967. L’uno è proprio dell’estrema sinistra; l’altro dell’estrema destra. Entrambi sono indagati in «Antisemitismo e antisionismo nell’estrema sinistra e nell’estrema destra italiana»: un Paper Research dell’Istituto Gino Germani di Scienze Sociali e Studi Strategici appena uscito, a firma di Joel Terracina.

«La Guerra dei Sei Giorni (5-10 giugno 1967)», ricorda Terracina, «dimostrò che, se Israele poteva ancora contare sul sostegno della maggioranza della popolazione italiana, la situazione era invece cambiata tra coloro che orientavano l’opinione pubblica, in particolare tra i ceti intellettuali e i media. Anche tra i giovani, gli orientamenti mutarono significativamente. La vittoria, più facile del previsto, delle Forze Armate israeliane lasciò dietro di sé una conseguenza inaspettata e per certi versi paradossale: l’estensione del suo trionfo accelerò la perdita di favore».

Da una parte, dunque, la sinistra tradizionale dimenticò la simpatia per il «socialismo dei kibbutz», per assimilare invece i palestinesi ai «dannati della terra» che erano venuti di moda nel clima della decolonizzazione.

Era anche il clima del ’68. Alcuni esponenti intellettuali italiani si posero come obiettivo quello di riscrivere la storia d’Israele, rielaborando una nuova immagine che iniziò ad acquisire caratteristiche tipicamente negative. E un ruolo importante lo ebbe la casa editrice Feltrinelli dell’epoca, attraverso la pubblicazione degli iscritti di intellettuali palestinesi che come Fayez Sayegh, Asad Abdul Rahman o Sami Hadawi contestavano appunto alla radice la nascita di uno Stato ebraico.

In effetti, anche per via della lotta armata contro il potere britannico la guerra di indipendenza israeliana avrebbe avuto caratteristiche largamente simili a quelle di altri movimenti di decolonizzazione. E anche il fatto che la stessa terra da decolonizzare venisse contesa tra due popoli non è un caso unico: basti pensare alle vicende della partizione tra India e Pakistan, o a quelle di Cipro. Ma Israele venne invece da questi autori assimilata a una entità colonialista, appunto da «decolonizzare» tipo l’Algeria francese.

Per Sayegh, Abdul Rahman e Hadawi, non solo gli ebrei erano pari ai coloni europei che avevano commesso gravi crimini. Sostenevano addirittura la non appartenenza del popolo ebraico a quella determinata area geografica.

Se la Feltrinelli iniziò a diffondere certe idee, tra i primi a volgarizzarle a livelli di pubblico più ampio furono Dario Fo e Franca Rame. In particolare con quello spettacolo “Fedayin”, che nel 1971 venne visto da 40mila persone in pochi mesi.

Nell’immaginario della sinistra italiana il guerrigliero palestinese iniziò a essere assimilato a altri combattenti della rivoluzione più o meno iconici del passato e del presente, dai partigiani ai barbudos di Fidel Castro e Che Guevara. Da laboratorio di una utopia socialista Israele divenne uno Stato borghese e nazionalista, longa manus dell’imperalismo statunitense. L’Olp, assieme alla figura di Arafat, divenne un invece un vero e proprio oggetto di venerazione da parte dell’estrema sinistra extraparlamentare.

Va detto però che l’idea di una «desionistizzazione» di Israele aveva riscontri anche in intellettuali di una certa sinistra israeliana. Da Ury Avnery, fautore di una federazione tra Israele e Palestina, alla comunista Felicia Langer. C’è una evidente tensione tra questa idea di una Palestina laica in cui ebrei e arabi possano vivere assieme e l’altra idea di una «decolonizzazione» che dovrebbe far fare agli israeliani la fine dei Pieds-noirs.

A destra, invece i riferimenti sono René Guenon e Julius Evola. Due pensatori che riprendono le idee di Oswald Spengler sul «tramonto dell’occidente», per svilupparle in una chiave di avversione alla modernità che esalta la cultura islamica come esempio di «tradizione» capace di mantenere una forte spiritualità.

A partire dallo stesso Guenon, molti esponenti di questa «destra spiritualista» si fecero infatti musulmani. Evola non arrivò a questo estremo, ma esaltò il concetto di Jihad come esperienza guerriera in grado di portare all’ascesi per la trascendenza spirituale, allo stesso modo di Waffen SS e Guardia di Ferro del romeno Codreanu: gli altri suoi modelli di riferimento.

In questa chiave Evola «mostrava una forte avversione nei confronti degli ebrei, additati come gruppo che riuniva le peggiori caratteristiche: nomadi, astuti, mercanti, levantini. A causa di queste caratteristiche essi attiravano l’odio». Sosteneva anche che «l’Olocausto non ha avuto quelle dimensioni tradizionalmente evocate: se gli ebrei erano morti, è perché non avevano da mangiare come i tedeschi».

Grande ispiratore della estrema destra extraparlamentare su molti aspetti, Evola la influenza anche nella minimizzazione dell’Olocausto. L’ideologia per cui Israele è uno Stato artificiale da estirpare è portata avanti ad esempio dall’editore Franco Freda e da Claudio Mutti, che infatti si converte all’Islam con il nome di Omar Amin.

Tornando all’estrema sinistra, negli anni ’70 un grosso spazio alle posizioni anti-israeliane lo danno Lotta Continua e il Manifesto. Secondo Terracina, in particolare «sfogliando il Manifesto del 1973 è possibile ricostruire l’immagine d’Israele durante la guerra del Kippur, assieme ad una certa retorica tipica dei movimenti della sinistra extraparlamentare che ancora oggi utilizzano un determinato linguaggio atto a dividere la complessità mediorientale in buoni e cattivi».

La visione marxista tende a contaminarsi con dati etnici, identificando gli israeliani con i borghesi oppressori e i palestinesi col proletariato oppresso. Dopo l’invasione del Libano da parte di Israele dal 1982, sul Manifesto Valentino Parlato compie una vera opera di trasposizione del nemico nello Stato ebraico, paragonandolo alla Germania nazista e ai suoi generali e accusandolo di compiere una vera e propria «soluzione finale».

In un altro articolo Parlato accusa lo Stato ebraico di genocidio. Ma anche su Rinascita e l’Unità, settimanale e quotidiano del Pci, iniziano ad apparire toni del genere. Anzi, c’è un salto di qualità, con il ritorno a antichi pregiudizi tipici del cattolicesimo pre-conciliare a proposito della contrapposizione tra la cultura cristiana dell’amore con quella attribuita al mondo ebraico della vendetta e del rancore.

Ma dal punto di vista del cattolicesimo pre-conciliare Terracina ricorda poi «gli attacchi agli ebrei ed Israele perpetrati da Maurizio Blondet, assiduo collaboratore delle riviste della destra culturale, da Pagine di azione sindacale ai Quaderni di Avallon. Fortemente ossessionato da Israele e dalla minoranza ebraica in Europa», Blondet «concepisce lo scontro tra israeliani e palestinesi in termini religiosi, individuando nella possibile vittoria degli israeliani un rischio per la gestione dei luoghi santi cristiani». «I loro occhi sono momentaneamente velati e soltanto dopo che tutti gli altri popoli saranno entrati nella chiesa anche essi vedranno», dice.

Questo tipi di destra non sono il Msi, in cui però una linea maggioritaria che è filo-israeliana in chiave anticomunista continua a convivere con minoranze che la vedono in maniera differente. Augusto Rocca, ad esempio, sulla rivista Dissenso sostiene la tesi del controllo d’Israele sulle nazioni europee, e dello Stato ebraico come tipicamente capitalista, proponendo ai missini di abbracciare la visione spiritualistica tipica del mondo arabo.

Ed è questa anche la tesi della rivista rautiana Linea che nei giovani palestinesi lanciatori di sassi dell’Intifada trova un legame ideale col Balilla genovese ispiratore del nome della organizzazione fascista per i bambini.

Dal gennaio 1990 al giugno 1991 Pino Rauti diventa segretario del Msi. Un sondaggio di questo periodo indica che il 63,5% dei missini si definisce antisionista, il 25,2% addirittura antisemita, e i due terzi degli iscritti dichiarano di appoggiare fortemente la causa palestinese.

Il successivo arrivo di Gianfranco Fini alla segreteria porta a una trasformazione in Alleanza Nazionale per cui gran parte dei rautiani finisce nella scissione della Fiamma Tricolore.

Uno degli artefici della svolta è Enzo Palmesano: artefice della storica mozione che fece nascere il nuovo partito e allo stesso tempo esprimeva la prima condanna dell’antisemitismo e delle leggi razziali. Ma anche dopo questa evoluzione c’è il caso di Antonio Serena: deputato di An che dopo l’estradizione di Erick Priebke e la sua condanna all’ergastolo da parte del tribunale militare di Roma si lancia contro la lobby ebraica, l’imperialismo americano e la politica di Israele.

Fini però prima lo richiama, poi lo caccia dal gruppo. Interviene anche con Domenico Gramazio, quando il 24 gennaio 2005 dice che «il fascismo non ebbe colpe nello sterminio degli ebrei durante la Shoà». Ma Gramazio dichiara di essere stato equivocato da alcuni giornalisti, e indirizza una lettera di scuse al Rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni.

A questo punto la destra anti-ebraica abbandona definitivamente An, per puntare su nuove realtà come Casapound o Forza Nuova. Nel 2013 alcuni militanti di Casapound di Napoli vengono colpiti da provvedimenti restrittivi in materia di libertà personale con l’accusa di banda armata, organizzazione sovversiva, detenzioni e porto illegali di armi, lesioni a pubblico ufficiale. Dalle intercettazioni dei carabinieri del Ros emerge anche la volontà di stuprare una ragazza ebrea a Napoli e di dare fuoco all’attività di un ebreo.

Nel 2014 la Digos di Roma arresta un 29enne con un passato di militanza in Forza Nuova colpevole di aver inviato tre pacchi contenenti teste di maiali al Museo ebraico, alla sinagoga e all’ambasciata israeliana a Roma. Dalle indagini risulta che il giovane era in possesso di materiale inneggiante il fascismo oltre ad una scimitarra, una maglietta di Fn ed un libro intitolato Giudaismo, Bolscevismo, Plutocrazia e Massoneria. Ma in questi casi si tratta comunque di casi particolari.

Più pesante è la storia di Militia: movimento che si dichiara fascista, anticapitalista, contro l’immigrazione e la società multirazziale e antisionista. Dietro Militia c’è Maurizio Boccacci: esponente dell’estrema destra romana pioniere nella scelta di portare la militanza politica dentro lo stadio e di cercare costantemente lo scontro fisico contro le forze dell’ordine.

Tra il mese di ottobre e novembre 2008, il movimento si fa promotore di una serie di atti con cui si nega l’Olocausto, definendolo una menzogna ed attaccando una serie di manifesti contro politici quali Gianni Alemanno e Gianfranco Fini e contro il presidente della Comunità Ebraica romana Riccardo Pacifici. Nel 2009 seguono alcune azioni intimidatorie nei confronti di negozianti ebrei nella zona di Viale Libia. Nel maggio del 2010 la polizia arresta quattro membri di Militia che oltre ad aver attaccato l’allora presidente della Comunità Ebraica italiana, stavano da tempo progettando di colpire anche cittadini rumeni presenti nella capitale. La polizia compie una serie di perquisizioni nelle sedi di Militia, rinvenendo materiale di esaltazione del fascismo, striscioni, materiale informatico, una divisa dell’esercito israeliano.

Nel maggio del 2011 vengono ritrovati alcuni manifesti lungo la tangenziale di Roma con lo svincolo per Tiburtina, sono scritte inneggianti a Osama bin Laden che accusano tanto gli Stati Uniti quanto Israele di essere i veri terroristi.

Sempre nello stesso periodo, appare in rete una lista di docenti ebrei accusati di «manipolare le menti degli studenti è di controllare gli atenei italiani». L’obiettivo è identificare gli ebrei italiani cercando così di incutere paura, e la lista contiene anche le attività commerciali da boicottare. La polizia, dopo un’indagine accurata, riesce ad individuare l’autore dell’atto: Dagoberto Bellucci, italiano convertito all’Islam e residente in Libano, già legato al Msi e al gruppo neofascista Comunità Politica di Avanguardia.

Nel 2013 e 2014 Pacifici viene nuovamente minacciato, mentre Militia affigge manifesti lungo i quartieri Talenti, Trieste e Ojetti, esortando a boicottare i negozi dei commercianti ebrei per sostenere la causa palestinese.

A sinistra l’evoluzione del Pci in Pds, Ds e Pd ha – a proposito delle ambiguità su Israele – un effetto altrettanto e più decisivo della trasformazione del Msi in An.

Ma anche qui si libera in compenso un potenziale anti-israeliano nella estrema sinistra dei Centri Sociali, di cui ogni 25 aprile fa eco la ormai rituale contestazione della Brigata Ebraica. Ma non solo. Nel 2002 un noto esponente della comunità ebraica napoletana, Guido Sacerdoti, docente di biochimica presso l’ateneo campano, racconta che di aver dovuto fare marcia indietro annullando la sua partecipazione ad un evento, al quale era stato invitato come partecipante, che riguardava la tematica dell’Olocausto.

Nello stesso anno, il comune di Pitigliano, dopo aver subito diverse pressioni, è costretto ad annullare la rassegna sui film ebraici. Seguono una serie di atti intimidatori a Roma, nel quartiere popolare di Testaccio, in cui si invitano a boicottare i prodotti made in Israel.

E a Milano il portavoce della Comunità Ebraica Yasha Reibman è aggredito durante la manifestazione del Gay pride dai militanti dei centri sociali in quanto aveva osato portare la bandiera israeliana durante la manifestazione, per ricordare che Israele è l’unico Stato del Medio Oriente in cui i gay sono tutelati. Sempre dai Centri Sociali derivano le azioni che impediscono di parlare nel 2004 un consigliere dell’ambasciata israeliana all’Ateneo di Pisa e nel 2005 lo stesso ambasciatore all’Ateneo di Firenze.

Non sono peraltro solo i Centri Sociali. Anche un docente universitario illustre come Alberto Asor Rosa definisce gli ebrei «razza perseguitata ora divenuta guerriera». E il gran finale è nell’ascendere a star del nuovo mondo dei media di un personaggio come Chef Rubio. Ex giocatore di rugby, all’anagrafe con il nome di Gabriele Rubini, è un personaggio televisivo che si occupava di cucina.

Convertitosi all’ideologia filo-palestinese ha diffuso una serie di tweet contro Israele, celebri dopo essere stati pubblicati nel giorno della Festa della Liberazione del 25 aprile 2017. Rubio definisce gli israeliani prima pecore e poi lupi, si rivolge al suo pubblico utilizzando come incipit la parola «Rabbi».

Tra estrema destra e estrema sinistra, infine la sintesi è quella dei cosiddetti Rossobruni. Ideologo ne è Aleksandr Dugin: politologo, scrittore e saggista che ha teorizzato la fine dell’ordine liberale e atlantista ed il ritorno ad un nuovo ordine «euroasiatico». «In una delle tante interviste, Dugin si è dichiarato contrario al sionismo, sostenendo che questo movimento contraddice l’ideologia del tradizionalismo ebraico.

Per poter giustificare la sua tesi che lo porta a respingere l’ideologia sionista, Dugin deve in quanto fedele difensore dell’ideologia tradizionalista riallacciarsi alle tematiche espresse nell’opera del Rabbino Meyer Schiller di New York», ricorda Terracina.

«L’avversione di Dugin per Israele – prosegue – non nasce solamente dal suo attaccamento alla tradizione, che si traduce nel divieto della creazione dello Stato ebraico in quanto atto puramente materiale e non determinato dalla volontà Celeste secondo una visione ultraortodossa alla quale aderiscono gruppi minoritari di fede ebraica. L’atteggiamento ostile di Dugin nei confronti di Israele nasce anche da altre cause ben precise. Lo Stato d’Israele sin dalla nascita si è sempre posto come alleato del mondo libero, ed è stato accusato di aver favorito l’ingresso degli Stati Uniti nell’area mediorientale. Di conseguenza Israele avrebbe spalancato le sue porte ai disvalori occidentali, quali il capitalismo e la relativa occidentalizzazione dei valori e costumi. Tutto ciò finisce per essere letto come una sorta di tradimento agli occhi dell’ideologia rossobruna, soprattutto in politica estera».

A questo tipo di sintesi fa riferimento ad esempio L’Intellettuale Dissidente di Sebastiano Caputo: testata che il 27 gennaio del 2013 ha pubblicato un pezzo sul giorno della memoria dell’Olocausto intitolato «il giorno della cicoria», poi ritirato repentinamente dalla rete.

Caputo, in un articolo successivamente pubblicato su L’Intellettuale Dissidente, ha accusato il governo israeliano di Netanyahu di «masturbarsi colpendo indiscriminatamente obiettivi civili a Gaza». Ovviamente tra i bersagli preferiti dai rossobruni vi è George Soros, che è la più recente incarnazione di un archetipo sull’ebreo manipolatore del mondo tornata infatti prepotentemente alla ribalta col complottismo da pandemia.

(LINKIESTA, 20 luglio 2021)

Ben & Jerry’s: “Non vendiamo i nostri gelati nei territori palestinesi occupati”

di Paolo Castellano

Nelle ultime ore è arrivata un’amara notizia da parte dell’azienda di gelati americana Ben & Jerry’s, che attraverso un comunicato diffuso pubblicamente il 19 luglio ha affermato di voler porre fine alla distribuzione e vendita delle sue prelibatezze nei negozi della Giudea e Samaria, definite dalla società “territori palestinesi occupati”.

«Ben & Jerry’s porrà fine alle vendite del suo gelato nei territori palestinesi occupati. Riteniamo che sia incoerente con i nostri valori che il gelato di Ben & Jerry’s venga venduto nei territori palestinesi occupati. Ascoltiamo e riconosciamo anche le preoccupazioni condivise dai nostri fan e partner di fiducia», si legge nella nota aziendale.

Come riporta JTA, la società di gelati con sede nel Vermont è stata fondata da due ebrei ed è nota da tempo per l’appoggio a cause e battaglie politiche della sinistra americana. Attualmente, i fondatori dell’azienda Ben Cohen e Jerry Greenfield non gestiscono più il marchio che appartiene alla multinazionale britannica Unilever, ma hanno spesso usato i loro gelati per fare politica. Infatti, a molti è sembrato strano che durante la recente escalation tra Israele e Gaza Ben & Jerry’s non abbia rilasciato nessun messaggio sui social network. Una questione di tempo a quanto pare.

Certamente, la decisione dell’azienda americana di gelati è un assist al movimento Boycott, Divestment and Sanctions against Israel (BDS) che ha fatto infuriare la politica israeliana.

Come riporta Israel National News, il premier israeliano Naftali Bennett, sostenitore convinto degli insediamenti, ha definito la scelta “un boicottaggio di Israele“.

«Ci sono molte marche di gelato, ma c’è un solo Stato ebraico. Ben & Jerry’s ha deciso di etichettarsi come “gelato anti-israeliano“. Questa decisione è moralmente sbagliata. Il boicottaggio contro Israele – una democrazia circondata da isole di terrorismo – riflette una totale perdita di rotta. Il boicottaggio non funziona e non funzionerà, e lo combatteremo con tutte le forze».

Inoltre, l’amministratore delegato di Ben & Jerry’s Israel, Avi Zinger, ha rilasciato un’intervista a Channel 12 News criticando la decisione dell’azienda e affermando di aver ricevuto in passato pressioni per interrompere le vendite dei gelati in Giudea e Samaria.

(Bet Magazine Mosaico, 20 luglio 2021)

Siria: respinto un attacco missilistico di Israele

Le Forze di difesa aerea siriane hanno riferito di aver affrontato un attacco missilistico, attribuito a Israele, perpetrato contro diverse postazioni nella periferia di Aleppo, nella Siria Nord-occidentale.

La notizia è stata riportata dall’agenzia di stampa siriana SANA, sulla base delle informazioni fornite da una fonte militare. Nello specifico, a detta della fonte, alle ore 23:37 del 19 luglio, il “nemico israeliano” ha lanciato un attacco aereo contro la periferia Sud-Est di Aleppo, con l’obiettivo di colpire diverse postazioni nella regione di al-Safyrah. Le forze siriane, è stato specificato, sono state in grado di intercettare e colpire la maggior parte dei missili “ostili”. Inoltre, le perdite registrate sono state soltanto materiali. L’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani (SOHR) ha aggiunto che i missili sono precipitati nei pressi dello Scientific Studies Research Centre di al-Safyrah, distruggendo una base e un deposito di armi impiegato da milizie filoiraniane.

Secondo fonti militari siriane, è soprattutto Teheran ad essere nel mirino israeliano, compresi ufficiali del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica stanziati nella base aerea militare di Kuweires, nel governatorato settentrionale di Aleppo. Come riportato da SANA, la medesima zona è stata colpita anche il 5 aprile scorso, e, anche in tale occasione, l’attentato è stato respinto. Per Damasco, episodi simili sono da inserirsi nel quadro di una “guerra terroristica”, nella quale Israele presta sostegno a organizzazioni terroristiche, attive anche nelle regioni meridionali.

È dal 2011 che Israele è considerato l’autore di attacchi aerei in Siria, volti a prendere di mira i suoi principali nemici nella regione mediorientale. Uno degli episodi più recenti risale al 17 giugno, quando Israele, a detta dell’esercito siriano, ha preso di mira una postazione presumibilmente appartenente ad Hezbollah, nella regione meridionale di Quneitra. Ancora prima, nella tarda serata dell’8 giugno, almeno 11 persone hanno perso la vita a seguito di un attacco attribuito a Israele contro postazioni delle forze siriane, affiliate al presidente siriano Bashar al-Assad, e dei suoi alleati. In particolare, i raid hanno preso di mira i dintorni della capitale Damasco, le province di Homs, Hama e Latakia, oltre al villaggio di Khirbet al-Tin, alla periferia di Homs, e a un deposito di armi appartenente al gruppo sciita Hezbollah. 

Negli ultimi mesi, le operazioni attribuite a Israele hanno mirato a colpire soprattutto le milizie filoiraniane, stanziate nella Siria orientale, meridionale e Nord-occidentale, oltre che nei sobborghi intorno a Damasco. Tra gli attacchi più violenti del 2021 vi è quello del 13 gennaio, quando le forze aeree israeliane sono state accusate di aver perpetrato 18 raid aerei contro Deir Ezzor e al-Bukamal, nell’Est della Siria. In tale occasione, sono state provocate circa 57 vittime, tra cui almeno 10 tra le fila dell’esercito di Damasco, mentre gli altri individui deceduti appartenevano ai gruppi armati legati all’Iran, ad Hezbollah e alla Brigata Fatemiyoun, una milizia sciita afgana formata nel 2014 per combattere in Siria.

Oltre all’Iran, nel mirino israeliano vi sono altresì i gruppi palestinesi e l’organizzazione paramilitare libanese Hezbollah, considerati un pericolo per l’integrità dei propri confini territoriali. A detta di Israele, Teheran starebbe provando a intensificare la propria presenza in Siria, creando una base permanente, sebbene le operazioni israeliane abbiano contribuito a limitare l’influenza del nemico iraniano. Inoltre, fonti di intelligence regionali hanno dichiarato che i gruppi armati filoiraniani, tra cui le Quds Force, hanno rafforzato la propria presenza nei dintorni di Sayeda Zainab, nel Sud di Damasco, dove si pensa siano state create diverse basi sotterranee. Funzionari militari siriani e dell’intelligence occidentale hanno poi affermato che in cima alla lista dei target di Israele vi sono le infrastrutture che potrebbero consentire all’Iran di produrre missili a guida di precisione sul territorio siriano, erodendo il vantaggio militare regionale di Israele.

(Sicurezza Internazionale, 20 luglio 2021)


Cibi e cultura ebraica. Torna 'Balagan Cafè'

Dal 22 luglio, ogni giovedì, alla Sinagoga di Firenze

Il giardino della Sinagoga di Firenze in via Farini torna ad aprirsi alla città, come spazio permanente di dialogo. Dal 22 luglio, per ogni giovedì fino al 2 settembre (ad esclusione del 12 agosto), sei appuntamenti per la nona edizione della kermesse culturale estiva, organizzata dalla Comunità e dal Museo ebraico di Firenze, nell'ambito del calendario dell'Estate Fiorentina. «Il Balagàn - dichiara il direttore artistico Enrico Fink - rappresenta un momento di incontro fra comunità e città, atteso e reso ancor più significativo dai lunghi mesi che abbiamo vissuto, di limitazione alla vita culturale e sociale. Ecco dunque il senso del titolo di quest'anno, "Rinascere insieme: comunità in dialogo", che prende spunto dal tema scelto per la Giornata Europea della Cultura Ebraica che si terrà a ottobre: "Dialoghi"».
   La ricetta del "Balagan Cafè" prevede apertura alle 19, visite guidate della Sinagoga e del Museo ebraico, degustazioni di piatti dal mondo ebraico; musica, incontri con autori e personaggi del mondo della cultura e dello spettacolo, e a concludere la serata il concerto che vede ogni sera esibirsi nella scalinata del Tempio Maggiore esponenti nazionali e internazionali del mondo ebraico e non solo.
   Le visite guidate alla Sinagoga e al Museo ebraico, avranno luogo dalle 18 fino alle 20. Necessaria prenotazione, 055-290383, costo 10 euro.
   La serata inaugurale inizierà con un intrattenimento musicale, il "Muzika Shelanu", che in ebraico significa "la nostra musica": protagonista il gruppo Tingo Band.
   Alle 20.30 sarà il momento della presentazione a cura di Rav Gad Fernando Piperno e David Dattilo: il progetto di traduzione del Talmud Babilonese e la sua Yeshiva, un esempio di applicazione di innovazione e tecnologia a supporto della cultura e dello studio dei testi classici dell'ebraismo. Alle ore 21.30 seguirà il concerto di musica di tradizione ebraica, Evelina Meghnagi, accompagnata da Arnaldo Vacca, Cristiano Califano e con la partecipazione speciale di Gabriele Coen.

(La Nazione, 20 luglio 2021)


Il Marocco firma un accordo con Israele per la Cyber Security

Il National Cyber ​​Directorate di Israele ha annunciato di aver firmato un accordo di cybersecurity con il Marocco, il primo accordo di cyber-difesa dalla normalizzazione delle relazioni tra le due parti lo scorso anno come parte degli accordi di Abramo.
La firma è avvenuta a Rabat tra Yigal Unna, direttore generale della Direzione nazionale informatica israeliana e El Mostafa Rabii direttore della Direzione generale per la sicurezza dei sistemi informativi del Marocco.
Alla cerimonia della firma era presente il ministro della Difesa marocchino Abdellatif Loudiyi.
Secondo la direzione israeliana, l’accordo prevede cooperazioni nei settori della ricerca, dello sviluppo e la condivisione di informazioni e conoscenze nel campo elettronico informatico

(Daily Muslim, 19 luglio 2021)


L'imam di Malmö bandisce la bandiera svedese e invita a “schiacciare la testa agli ebrei”

L'imam di Malmö, Basem Mahmoud, lo stesso che in precedenza aveva definito gli ebrei “una progenie di maiali e scimmie", si è nuovamente scagliato contro questi invitando i fedeli letteralmente a ucciderli. Durante i suoi sermoni, ha anche approntato delle invettive contro la bandiera svedese definendola un’eresia.

L'imam Basem Mahmoud, che serve nel distretto Rosengrd di Malmö, un distretto ricco di immigrati e noto per essere in cima alla lista delle “aree particolarmente vulnerabili” della Svezia, ha bandito la bandiera svedese durante uno dei suoi sermoni, nonché si è nuovamente scagliato contro gli ebrei.
   Secondo il quotidiano Expressen, il motivo dell’avversione dell’imam per la bandiera svedese sarebbe che contiene una croce, simbolo cristiano, e quindi secondo lui inappropriato. Basem Mahmoud si è detto infastidito dal fatto che molti studenti celebrassero la loro immatricolazione ballando per le strade e sventolando la bandiera del loro Paese. "
   Coloro che portano croci non dovrebbero essere perdonati, perché è nostra convinzione che queste persone siano eretici", avrebbe detto in un sermone nella moschea al-Sahaba di Rosengård.
Se qualcuno indossa inconsapevolmente una croce sui vestiti, gli ordiniamo di togliersela. Ogni volta che il profeta vedeva una croce su un panno o sui vestiti di qualcuno o altro, la distruggeva”, ha affermato.
Durante un altro recente sermone a luglio, Basem Mahmoud si era concentrato sulla Palestina, sostenendo che tutti i musulmani del mondo dovrebbero liberare unendosi. Inoltre aveva sollecitato l'uccisione degli ebrei, citando gli Ḥadīth, cioè i racconti sulla vita del profeta Maometto che sono parte costitutiva della cosiddetta Sunna, la seconda fonte della Legge islamica dopo lo stesso Corano. “
   Il Giorno del Giudizio non arriverà finché i musulmani non combatteranno gli ebrei e li uccideranno. Gli ebrei si nasconderanno dietro le rocce e gli alberi, ma le rocce e gli alberi diranno: Oh, musulmano, c'è un ebreo dietro di me. Vieni e uccidilo", ha detto, come citato da Expressen.
   Inoltre l’Imam avrebbe anche esortato a “conquistare la moschea di al-Aqsa”, che è una delle moschee più importanti dell'Islam, situata sul Monte del Tempio a Gerusalemme, nonché a “schiacciare e picchiare le teste degli ebrei”.
“Insegna questo ai tuoi figli. Se tu stesso non sei qualificato per questo e Dio non te lo comanda, allora insegna a farlo a tuo figlio e a tuo nipote", ha aggiunto.
In ancora un altro sermone, ha detto che è permesso salutare solo i musulmani perché tutti gli altri sono "infedeli".
“Non salutare i non musulmani. Se una persona infedele ti saluta e ti dice: ‘Salam-Aleikum’ (La pace sia con te), rispondigli come rispondeva il Profeta agli ebrei, gli ebrei ingiusti che hanno ucciso i profeti e che vogliono controllare l'universo. Maledetti loro, siano perduti”.
 RECIDIVO MA LA POLIZIA È ANCORA IN ATTESA DI ISTRUZIONI
  Questa non è la prima volta che Basem Mahmoud attacca gli ebrei. In precedenza, aveva ricevuto l'attenzione nazionale per aver chiamato gli ebrei "la progenie di maiali e scimmie". Nel dicembre 2020, la Jewish Youth Association lo ha denunciato alla polizia per incitamento all'odio contro i gruppi etnici. Le indagini preliminari sono ancora in corso e le forze dell'ordine sono in attesa di ulteriori istruzioni dai pm.
   Circa il 90% degli abitanti di Rosengård ha origini straniere, con paesi musulmani come Iraq, Libano, Bosnia-Erzegovina e Afghanistan come principali paesi di origine.

(Sputnik Italia, 19 luglio 2021)


Tokyo 2020, 11 curiosità sulla partecipazione di Israele alle Olimpiadi

di Paolo Castellano

Manca poco, anzi pochissimo, all’inizio della nuova edizione delle Olimpiadi estive che quest’anno si svolgeranno a Tokyo. Insieme ad altri 205 paesi di tutto il mondo, parteciperanno anche gli atleti israeliani che dal 23 luglio fino al’8 agosto gareggeranno per portare a casa delle medaglie e far felici i propri concittadini tifosi.
    Per iniziare al meglio la visione delle gare, vi proponiamo 11 curiosità su Israele e le Olimpiadi redatte dal sito Israel21c.

1. L’OLIMPIADE ESTIVA NUMERO 17 PER ISRAELE
    Tranne i Giochi di Mosca del 1980, Israele ha partecipato a tutte le altre Olimpiadi estive a partire dai Giochi di Helsinki nel 1952 fino ai Giochi di Rio nel 2016.

2. LE MEDAGLIE VINTE
    Israele ha vinto nove medaglie alle Olimpiadi estive: Yael Arad (argento, judo, 1992), Oren Smadja (bronzo, judo, 1992); Gal Fridman (bronzo, vela, 1996); Michael Kolganov (bronzo, canoa, 2000); Ariel Ze’evi (bronzo, judo, 2004), Gal Fridman (oro, vela, 2004); Shahar Zubari (bronzo, vela, 2008), Yarden Gerbi (bronzo, judo, 2016) e Or Sasson (bronzo, judo, 2016). Alle Paralimpiadi, Israele ha portato a casa ben 375 medaglie: 123 d’oro, 123 d’argento e 129 di bronzo.

3. LA DELEGAZIONE PIÙ GRANDE DI SEMPRE
    Nel 2016, Israele aveva inviato a Rio 47 atleti di 17 discipline sportive. Quest’anno a Tokyo gareggeranno 89 atleti in 18 sport diversi. La delegazione al completo, con allenatori, staff e funzionari è composta da 219 persone. Per quanto riguarda le Paralimpiadi, finora 34 atleti si sono qualificati per Tokyo, ma altri potrebbero aggiungersi dopo le gare di luglio. Nel 2016, Israele aveva portato a Rio 33 sportivi per competere in 11 discipline sportive.

4. I PORTABANDIERA DI ISRAELE
    Yaakov Tomarkin, nuotatore di 29 anni, e Hannah Knyazeva-Minenko, triplista di 31 anni, saranno i portabandiera della delegazione israeliana alle cerimonie d’apertura dei Giochi di Tokyo.

5. NUOVI SPORT
    Quest’anno Israele parteciperà per la prima volta alle competizioni olimpiche di baseball, tiro con l’arco, surf ed equitazione. La nazionale israeliana di baseball affronterà gli Stati Uniti nella sua prima partita del torneo olimpico. I cavallerizzi israeliani che si sono qualificati ai Giochi di Tokyo sono Ashlee Bond, Danielle Goldstein Waldman , Teddy Vlock e Alberto Michán Halbinger. Infine, la 21enne Anat Lelior sarà la prima surfista israeliana a partecipare a un’Olimpiade. Allo stesso modo, Itay Shanny, 22 anni, primo arciere olimpico israeliano.

6. L’ACCOGLIENZA A WATARI
    Lo scorso giugno, il portavoce dell’ambasciata israeliana a Tokyo Barak Shine ha partecipato alla tradizionale corsa della torcia olimpica. Quando i corridori sono arrivati nella cittadina di Watari, i residenti hanno sventolato bandiere e striscioni israeliani. La calda accoglienza giapponese nei confronti di Israele deriva dalla passata cooperazione medica durante il terremoto e lo tsunami del 2011.

7. AFFARI DI CUORE, FAMIGLIA E SPORT
    Tra gli atleti israeliani ci sono alcune coppie sposate. Come i corridori di origine etiope Maru Teferi e Selamawit Dagnachew Teferi. I coniugi Michael Rozin e Ilham Mahamid Rozin invece guidano le squadre olimpiche israeliane di goalball paralimpico.
   Inoltre, ci sono i fratelli Shachar (27 anni) e Ran (24 anni) Sagiv che gareggeranno nel triathlon. Mentre i gemelli di 21 anni Mark e Ariel Malyar fanno parte della squadra di nuoto paralimpico.

8. OGGETTO DA COLLEZIONE
    L’Israel Stamp Service ha emesso tre francobolli speciali in occasione delle Olimpiadi di Tokyo. Le illustrazioni sono state create da Baruch Na’a e ogni francobollo rappresenta uno sport olimpico: nuoto, equitazione e ginnastica. Gli atleti sono disegnati al centro di due line blu ondulate che simboleggiano la bandiera di Israele.

9. GLI ATLETI ISRAELIANI SU TIKTOK
    Per colpa del Covid-19 le gare olimpiche non avranno pubblico. Il Comitato Olimpico israeliano ha avviato una collaborazione con il social network cinese TikTok per pubblicare contenuti esclusivi sulla delegazione e sul resoconto dei suoi spostamenti a Tokyo. Al momento sono stati pubblicati più di 300 contenuti originali.

10. DISCIPLINE SPORTIVE
     Israele partecipa ai seguenti sport olimpici estivi: tiro con l’arco, atletica leggera, badminton, baseball, ciclismo (strada e montagna), equitazione, ginnastica (artistica e ritmica), judo, vela, tiro a segno, surf, nuoto (artistico, competitivo e in acque libere), taekwondo e triathlon.
   Israele sta gareggiando nei seguenti sport paralimpici estivi: atletica leggera, bocce, goalball, kayak, sollevamento pesi, canottaggio, tiro a segno, nuoto, ping pong e tennis su sedia a rotelle.

11. UNIFORMI ISPIRATE ALLE STELLA DI DAVID
     Le uniformi olimpiche degli atleti israeliani – comprendenti maglietta, pantaloncini, pantaloni e giacca di nylon trasparente – hanno un design che si ispira alla Stella di David. Le divise sono state ideate e prodotte dalla casa di moda israeliana Castro.

(Bet Magazine Mosaico, 19 luglio 2021)


Colosso cinese Midea apre il primo negozio in Israele

Flagship store di elettrodomestici a Rehovot

GERUSALEMME - Midea Group, uno dei colossi cinesi nel settore degli elettrodomestici, ha aperto ieri il suo primo punto vendita in Israele. È quanto reso noto da Hemilton Group, importatore ufficiale del marchio nel Paese mediorientale.Il nuovo flagship store occupa un'area di 350 metri quadrati presso un centro commerciale situato nella città centrale di Rehovot e propone articoli quali frigoriferi, lavastoviglie, lavatrici, aspirapolvere, cappe aspiranti e altro.
  I prodotti Midea sono già presenti nel mercato israeliano in aree di vendita all'interno di cinque punti vendita Ace Hardware e presso decine di rivenditori autorizzati.
Fondato nel 1968 e con sede nella città meridionale cinese di Foshan, il gruppo Midea opera in più di 200 Paesi dando impiego a più di 150.000 persone.
  Il nuovo concept store in Israele propone anche i prodotti di un altro colosso cinese operante nel campo della tecnologia, ovvero Xiaomi, ufficialmente importati in Israele da Hemilton, tra cui dispositivi mobili, aspirapolvere, robot aspirapolvere e scooter.
Xiaomi ha già quattro flagship store in Israele, nonché decine di rivenditori autorizzati che commercializzano i suoi prodotti nel Paese. 

ANSA, 19 luglio 2021)


Il caso Pegasus e il precedente italiano di Exodus

Ecco che cos’è NSO Group, l’azienda di ex 007 israeliani dietro Pegasus. Il caso rivelato dal Washington Post ricorda un episodio italiano…

di Gabriele Carrer

C’è un problema, il mercato della sorveglianza. Le rivelazione sul caso Pegasus lo confermano: “NSO Group continua a essere un fornitore di fiducia di software di hacking per i governi autoritari. Un altro promemoria che concentrarsi esclusivamente sulla tecnologia cinese come se fosse l’unico abilitatore della repressione digitale è controproducente”, ha commentato Rebecca Arcesati, analista del Merics, su Twitter.

Ma che cos’è Pegasus, lo spyware tornato d’attualità con l’inchiesta del Washington Post sull’attività di spionaggio condotta da decine di Paesi su migliaia di cellulari, compresi quelli di molti politici, giornalisti, attivisti per i diritti umani, manager?

Si tratta di un software realizzato dall’azienda israeliana NSO Group, società leader nella produzione di spyware. Vanta clienti in 40 Paesi, uffici in Bulgaria e a Cipro, 750 dipendenti, un fatturato record registrato lo scorso anno da 240 milioni di dollari. La maggioranza delle azioni appartiene a Novalpina Capital, società finanziaria con sede a Londra. È stata fondata nel 2010 da alcuni ex membri della famosa Unit 8200, divisione di Haman, un corpo dell’esercito israeliano, responsabile per la signal intelligence. È, per usare le parole del think tank britannico Rusi, “probabilmente la più importante agenzia di intelligence tecnica del mondo e sta alla pari con la [statunitense] Nsa in tutto tranne che nelle dimensioni”.

Pegasus, come ha spiegato un approfondimento dell’Adnkronos, è concepito per aggirare le difese di iPhone e degli smartphone Android lasciando pochissime tracce e abbattendo le tradizionali misure difensive (come password ordinarie e complesse). Può insinuarsi rubando foto, registrazioni, dati relativi alla localizzazione, telefonate, password, registri di chiamata, post pubblicati sui social. Il programma può anche attivare telecamera e microfono dello smartphone.

Il software, scrive il Washington Post, sarebbe stato concepito come strumento per monitorare l’attività di terroristi e criminali di rilievo. NSO Group ha giudicato privi di fondamento i risultati dell’inchiesta sottolineando che non gestisce il software ceduto ai propri clienti e non “ha elementi” relativi alle specifiche attività di intelligence. La società ha negato ogni coinvolgimento in attività contro il giornalista Jamal Khashoggi (ucciso nel 2018) e ha aggiunto che “continuerà a indagare” sulla base di tutte “le segnalazioni credibili di abuso” di Pegasus e “adotterà le azioni appropriate sulla base dei risultati di tali indagini”. Tali azioni comprendono anche “la chiusura del sistema di clienti” che abbiano agito in modo scorretto, come riportato dal Washington Post.

L’episodio ricorda, per alcuni aspetti, l’operazione compiuta nel 2019 dal Nucleo speciale privacy e frodi tecnologiche della Guardia di finanza, allora guidato dal colonnello Giovanni Reccia, con la Procura di Napoli su Exodus, software spia utilizzato da forze di polizia e procure per le intercettazioni che avrebbe consentito di carpire in maniera illecita i dati di centinaia di utenti che non avevano nulla a che fare con inchieste e procedimenti penali. Domani, 20 luglio, si terrà l’incidente probatorio al carcere di Poggioreale a Napoli, come notificato a marzo dal gip del tribunale di Napoli ai 25 indagati (tra persone fisiche e società).

Tra i due casi, una differenza: quello Exodus riguardava un bug (una falla) nei sistemi operativi; quello Pegasus ha richiesto un ruolo attivo da parte della preda, adescata con un link inviato via email, WhatsApp, social o sms.

(Formiche.net, 19 luglio 2021)


Avishai Cohen in concerto a Rimini per il festival Crossroads

Il contrabbassista sarà in concerto domenica 25 alla Darsena di Rimini

RIMINI - Avishai Cohen è uno dei riferimenti assoluti del contrabbasso jazz odierno. La sua musica va ben al di là dello stampo afroamericano, si tinge di Medio Oriente e soprattutto di una virtuosistica capacità di giocare con le note come con le più profonde emozioni. Cohen sarà in concerto domenica 25 luglio all'Arena Lido della Darsena di Rimini (inizio alle ore 21:15), in trio con Elchin Shirinov (pianoforte) e Roni Kaspi (batteria) per un nuovo appuntamento in riviera del festival itinerante regionale Crossroads, organizzato da Jazz Network e dall'Assessorato alla Cultura della Regione Emilia-Romagna. Il concerto è realizzato in collaborazione con il Comune di Rimini Settore Cultura. Biglietti: primo settore euro 25; secondo settore euro 20; tribunette euro 15.
  Nato nel 1970 in Israele in una famiglia dai forti interessi musicali, Avishai Cohen viene avviato agli studi di pianoforte all'età di nove anni. Quando ne ha quattordici, la sua famiglia si trasferisce a St. Louis, nel Missouri. L'arrivo negli Stati Uniti coincide con l'inizio della passione per il basso, dapprima quello elettrico, stimolata dall'ascolto di Jaco Pastorius. Avishai ritorna però in Israele dove prosegue gli studi e svolge il servizio militare: è solo dopo di questo che decide di trasferirsi a New York. Vi arriva nel 1992 e deve affrontare una vita dura per mantenersi. Inizia però presto a suonare con Ravi Coltrane, Wynton Marsalis, Joshua Redman, Paquito D'Rivera, Roy Hargrove, Danilo Pérez, finché, nel 1997, la sua fortuna cambia radicalmente quando Chick Corea lo coinvolge nel suo trio e nel gruppo Origin. Cohen viene catapultato nei piani alti del jazz, posizione da cui continua ad affinare la sua tecnica strumentale e compositiva.
  Corea permette a Cohen di esordire anche come leader, producendogli con la sua etichetta discografica una serie di album a partire da Adama (1998). È chiaro sin da subito che guidare i propri gruppi permette a Cohen di dare libero sfogo non solo alle sue doti solistiche ma specialmente a quelle compositive, che rivelano influssi latini e mediterranei. Da allora la sua carriera è proseguita con una fitta produzione discografica da leader, sospinta anche dalla creazione di una propria etichetta, la Razdaz Recordz.
  Il trio è il format col quale Cohen ha espresso nella maniera più compiuta ed emozionante una sorta di 'ritorno alle origini': gli elementi mediorientali e gli influssi della musica ebraica sono man mano emersi con maggiore chiarezza, intrecciandosi saldamente alla matrice jazzistica afroamericana. Ne è un perfetto esempio il suo più recente lavoro discografico, Arvoles (2019).

(altarimini.it, 19 luglio 2021)


Israele - Ministro della Sanità: l'obiettivo è evitare una nuova chiusura per Covid

GERUSALEMME - La possibilità di un altro blocco esiste ancora, ma il governo israeliano non la sta considerando per ora e l'obiettivo è evitarlo. Lo ha detto oggi il ministro della Sanità, Nitzan Horowitz. Nel Paese, infatti, i contagi continuano a salire.
  Sabato ne sono stati registrati 430, mentre sono 63 i pazienti in gravi condizioni. Quattro settimane fa i pazienti gravi erano 19.  &"Naturalmente è possibile che ci sia un altro blocco, ma non ne stiamo discutendo ora", ha detto Horowitz in un'intervista all'emittente radiofonica "Army Radio". “Tutti possono capire che se c'è un enorme focolaio, inclusa una grave morbilità, ci arriveremo. Stiamo prendendo misure per non averne bisogno", ha aggiunto.
  Venerdì, 16 luglio, erano stati rintracciati 1.120 nuovi positivi su 76.000 test effettuati. All'inizio di giugno, Israele registrava circa 10-20 nuovi casi al giorno. Il nuovo focolaio sarebbe comparso in alcune scuole, riferisce la stampa locale.

(Agenzia Nova, 18 luglio 2021)


Tensione nella Spianata delle Moschee per la ricorrenza ebraica di Tishà be-Av

Appello autorità islamiche per impedire l'ingresso di fedeli ebrei

GERUSALEMME - Tensione elevata oggi nella Spianata della Moschee di Gerusalemme dove sono entrati centinaia di fedeli ebrei in occasione del digiuno ebraico del Tishà be-Av [digiuno del 9 di Av, quest'anno 18 luglio], che ricorda la distruzione del Tempio di Gerusalemme. Le autorità islamiche hanno fatto appello ai fedeli musulmani affinché impediscano loro l'ingresso ed in mattinata si sono avuti incidenti, finora circoscritti. Il premier Naftali Bennett sta seguendo gli sviluppi assieme col ministro per la sicurezza interna Omer Bar Lev. La polizia ha intanto sbarrato diversi accessi alla Spianata ed è presente in forze. (ANSAmed, 18 luglio 2021)


*

Digiuno del 9 di Av

Il 9 del mese di Av per gli ebrei è giorno di lutto e di digiuno. In questa data a distanza di molti secoli furono distrutti sia il primo che il secondo Santuario. Il primo Santuario fu distrutto nel 586 prima dell’era volgare ad opera dei babilonesi e il secondo ad opera dei romani nel 70 e.V. Il Santuario di Gerusalemme era il luogo dove si svolgevano le cerimonie rituali prescritte nella Torà; era il centro spirituale e anche politico e religioso dell’ebraismo; la perdita del Santuario segnò anche la perdita di questo centro, oltre che l’inizio della diaspora. La distruzione del Santuario è presente nel cuore degli ebrei anche dopo venti secoli: nelle preghiere, in qualsiasi parte del mondo ci si trovi, ci si rivolge sempre fisicamente e idealmente verso le vestigia del Muro occidentale. Tishà be-Av significa 9 del mese di Av. Questa data, divenuta simbolo di disgrazia per il popolo ebraico segna anche altri momenti tragici: proprio il nove di Av gli ebrei furono cacciati dalla Spagna nel 1492.
   Nelle sinagoghe parate a lutto e in un’atmosfera di grande tristezza, spesso seduti in terra e a lume di candela, si recitano preghiere ed elegie ispirate alla rovina del Tempio di Gerusalemme e all’esilio del popolo ebraico.
   Secondo la tradizione ebraica nella distruzione già ci sono i semi della redenzione e proprio in questa data, simbolo di distruzione, verrà al mondo il Messia: in questa giornata si usano dei libri liturgici particolari che molti usano gettar via alla fine della ricorrenza, come segno di cieca fiducia nell’avvento messianico. Avranno la gioia di vedere Gerusalemme ricostruita solo coloro che abbiano partecipato alle manifestazioni di lutto che si tengono a Tishà be-Av.

(Unione delle Comunità Ebraiche Italiane)


Ricordiamo al mondo chi è che non vuole la soluzione a due Stati

Un unico Stato arabo palestinese dal mare al Giordano e gli ebrei buttati a mare

di Franco Londei

Ieri un alto membro di Fatah ha attaccato gli Emirati Arabi Uniti per aver normalizzato i rapporti con Israele accusando il paese arabo di tradimento della causa araba che è quella di un unico Stato palestinese.
  Più o meno nello stesso momento uno dei boss della Jihad Islamica palestinese ammetteva che il loro obiettivo non era affatto quello dei due Stati ma quello di un unico Stato Palestinese con l’espulsione di tutti gli ebrei.
  Abbas Zaki, membro del Comitato Centrale del movimento Fatah, quello che in occidente ritengono “moderato” e che fa capo a Mahmud Abbas (Abu Mazen) ha attaccato duramente il principe ereditario di Abu Dhabi, Mohammad bin Zayed (MBZ), per aver normalizzato i rapporti con Israele.
  Zaki ha detto che gli Emirati Arabi Uniti hanno tradito la causa palestinese e quella araba che è quella di liberare la Palestina dal mare al Giordano, compreso quindi il territorio dove attualmente c’è Israele.
  Per lo stesso motivo nel mirino di Abbas Zaki ci sono finti anche il Sudan, il Marocco e il Bahrain. Tuttavia l’alto funzionario di Fatah, pur chiedendo l’espulsione di questi stati dalla Lega Araba, non condanna i popoli ma solo i loro leader e ne chiede la destituzione.
  Più o meno nello stesso momento arrivavano dall’Iran le dichiarazioni del capo del politburo della Jihad islamica palestinese, Mohammad Al-Hindi, il quale senza giri di parole ammetteva che lo scopo della “resistenza palestinese” non era affatto quello di creare due stati che vivono in pace, ma quello di creare un unico Stato palestinese e di «buttare a mare tutti gli ebrei».
  Sia chiaro, la cosa non è affatto una novità, sia Hamas che Fatah ce lo hanno addirittura nello Statuto. Che il capo della Jihad Islamica palestinese si trovi d’accordo con loro non è certo una sorpresa.
  Ma siccome ultimamente nella politica europea (e italiana) è tornato di gran voga parlare della soluzione a due Stati, con diverse sfumature, è bene ricordare a questi signori chi è che non la vuole questa soluzione.

(Rights Reporter, 18 luglio 2021)


"Salvò la vita a mia madre e mia nonna ebree, nascondendoci nel convento"

Deve la sua vita a suor Benedetta. A raccontare la sua storia è Sara Cividalli, ex presidente della comunità ebraica di Firenze.

di Sofia Del Pero

Siamo a Firenze, anni '40, una ragazza e sua madre, ebree, vengono salvate da una suora di Modigliana, ma la figlia della ragazza scopre la vicenda solo più di settant’anni dopo. A raccontare la sua storia è Sara Cividalli, ex presidente della comunità ebraica di Firenze: “Per anni mia madre non ne ha parlato e io non ho mai chiesto cosa fosse successo. Poi 15 anni fa circa in una ricerca storica si sono scoperte le testimonianze di molti ebrei salvati raccolte il 21 agosto del 45, subito dopo la liberazione della città avvenuta l’11 agosto. Tra esse c’era anche quella di mia madre. Sul momento però non ho voluto sapere”.
  Anni dopo un fatto eccezionale l’ha spinta a riguardare i vecchi documenti: “Ero andata in vacanza e decisi di lasciare il mio cane da amici - narra - Un loro collega lo notò e chiese da dove veniva. Dopo aver sentito il nome di via Bovi, dove abitavo, disse che andava lì a trovare una signora, Miranda Cividalli. Quella signora era mia madre. Da allora cercai di capire meglio cosa fosse successo”. Sara quindi rilesse la testimonianza e finalmente scoprì cosa era successo. “Mia madre e mia nonna erano state salvate da Benedetta, una suora che stava in convento vicino a loro. Suor Benedetta ha salvato diverse famiglie ebree, rischiando la vita. All’inizio le nascondeva con le ragazze sfollate, ma poi iniziò ad aver paura che le denunciassero. Quindi le spostò in una stanza isolata. Pensò lei a tutto, dal cibo, che in quel periodo scarseggiava, ai calmanti per mia nonna, che aveva terribili incubi.”
  Il racconto arriva a margine della cerimonia di titolazione a Suor Benedetta Pompignoli, del giardino di fianco al Duom di Modigliana, con l'inaugurazione del monumento che ne ricorda l'operato e per il quale, il 1 luglio del 2018, è stata riconosciuta dallo Stato di Israele come "Giusta fra le nazioni" per avere salvato la vita a tanti ebrei perseguitati dal nazismo. Suor Benedetta era nativa di Modigliana e durante il periodo delle persecuzioni razziali era Superiora del Convento di Firenze delle Suore Francescane della Sacra Famiglia.
  E' grazie a lei se Sara Cividalli oggi esiste, anche se la suora modiglianese non l'ha mai saputo. Tre giorni prima della liberazione, però, le due donne furono costrette a scappare. Sara Cividalli spiega: “I tedeschi avevano deciso di bombardare i ponti sull’Arno e avevano dato l’ordine di evacuare tutte le abitazioni nella zona. Queste includevano anche il convento. Sono scappate da amici e da allora non hanno più rivisto suor Benedetta. Non so se lei abbia mai saputo che mia madre si era salvata. Mia nonna invece è morta in ospedale il giorno dopo la liberazione”. Poi conclude: “Devo tanto a suor Benedetta, è un po’ come una madre per me, senza di lei non sarei mai nata. Il 26 novembre dell’anno scorso le abbiamo conferito delle onorificenze, per ricordare il suo coraggio. A Modigliana, suo paese d’origine, abbiamo inaugurato un monumento in suo onore. È un mosaico composto da tante tessere, che simboleggiano sia le tante cose che ha fatto, sia il modo in cui vedeva il mondo. Per lei ogni persona era un po’ come una tessera unica che, messa insieme a tutte le altre, creava un bellissimo mosaico”.

(ForlìToday, 18 luglio 2021)



Ammonimenti a guardarsi dalla donna adultera

Riflessioni sul libro dei Proverbi. Dal capitolo 5.
  1. Or dunque, figlioli, ascoltatemi,
    e non vi allontanate dalle parole della mia bocca.
  2. Tieni lontana da lei la tua via
    e non ti avvicinare alla porta della sua casa,
  3. per non dare ad altri il fiore della tua gioventù,
    e i tuoi anni all'uomo crudele;
  4. perché degli stranieri non siano saziati dei tuoi beni,
    e le tue fatiche non vadano in casa d'estranei;
  5. perché tu non abbia a gemere quando verrà la tua fine,
    quando la tua carne e il tuo corpo saranno consumati;
  6. e tu non dica: «Come ho fatto a odiare la correzione,
    e come ha potuto il mio cuore disprezzare la riprensione?
  7. Come ho fatto a non ascoltare la voce di chi m'insegnava,
    e a non porgere l'orecchio a chi m'istruiva?
  8. Poco mancò che non mi trovassi immerso in ogni male,
    in mezzo all'assemblea e alla comunità».
  1. Figlio mio, sta' attento alla mia saggezza,
    inclina l'orecchio alla mia intelligenza,

    Ancora una volta il padre si rivolge ai figli (o al figlio) invitandoli ad ascoltare le sue parole (1.8, 4.1, 4.10). Se in 1.8 aveva esortato a "non rifiutare" l'insegnamento ricevuto, adesso invita a non allontanarsi dalle sue parole. Sono diversi, infatti, i modi che si possono usare per respingere un discorso. Si può ascoltarlo tutto e poi rifiutarlo apertamente, esprimendo in modo esplicito il proprio dissenso; oppure si può lentamente e silenziosamente allontanarsi fino a che le parole non arrivano più. L'opposizione non è più necessaria. Si può vivere come se chi doveva essere ascoltato non avesse mai parlato.

  2. Tieni lontana da lei la tua via
    e non ti avvicinare alla porta della sua casa,

    All'invito a non allontanarsi dalle parole di saggezza del padre segue l'esortazione a non avvicinarsi alla casa della donna adultera. Chi si allontana dalla Parola di Dio prima o poi si avvicina al peccato. L'uomo esercita la sua libertà anche decidendo a quali influenze vuole sottoporsi; ma deve sapere che una volta che la scelta è fatta, certe influenze possono risultare irresistibili. La conoscenza del vero bene si ottiene attraverso l'ascolto (5.6) e se ne fa l'esperienza attraverso l'ubbidienza (Romani 12.2).

  3. per non dare ad altri il fiore della tua gioventù,
    e i tuoi anni all'uomo crudele;

    La giovinezza può essere paragonata a un capitale economico. La sua particolarità sta nel fatto che non si fa nulla per ottenerlo e nulla si può fare per impedire che lentamente, ma inesorabilmente, si assottigli fino a sparire del tutto. L'unico modo per conservarlo è investirlo bene trasformandolo in un bene stabile, eterno. Questo bene è la vita stessa condotta nell'ascolto ubbidiente delle parole che provengono da Dio, che è l'unico ad avere "parole di vita eterna" (Giovanni 6.68). Chi non fa questo dilapida prima del tempo il capitale ricevuto, e il fiore della sua gioventù viene sfruttato da altre persone che, come la donna adultera, lo consumano per il proprio piacere e poi se ne disinteressano, oppure, come l'uomo crudele (probabilmente il marito della donna), si vendicano senza pietà del danno subito (6.32-33).

  4. perché degli stranieri non siano saziati dei tuoi beni,
    e le tue fatiche non vadano in casa d'estranei;

    Stranieri ed estranei sono termini che nell'originale compaiono insieme anche in 2.16, 5.20, 7.5 per indicare la donna adultera. Poiché l'estranea non è la propria donna, anche il frutto di tutte le fatiche fatte per lei deve necessariamente estraniarsi, cioè andare a finire in casa d'altri. Mentre il rapporto d'amore con la propria donna arricchisce la persona in tutti i sensi, morali e materiali, il rapporto egoistico con la donna altrui consuma beni vitali di tutti i tipi, fino a condurre la persona in un doloroso stato di miseria che porta a rimpiangere le scelte fatte soltanto per ricercare il piacere.

  5. perché tu non abbia a gemere quando verrà la tua fine,
    quando la tua carne e il tuo corpo saranno consumati;

    Nel rapporto con la donna d'altri l'elemento fondamentale non è l'amore, ma la ricerca dei piaceri corporali. E quando la carne e il corpo arrivano ad essere consumati per l'inevitabile processo d'invecchiamento cominciano i gemiti, dovuti non tanto ai dolori fisici, che in ogni caso non possono essere evitati, quanto al senso di solitudine che sopravviene come giusto castigo per aver ricercato e coltivato un rapporto di puro egoismo, al di fuori della volontà di Dio.

  6. e tu non dica: «Come ho fatto a odiare la correzione,
    e come ha potuto il mio cuore disprezzare la riprensione?

    Correzione e riprensione sono termini che compaiono spesso insieme nel libro dei Proverbi (3.11, 5.12, 10.17, 12.1, 13.18, 15.10): denotano l'atteggiamento del maestro che con le sue parole vuole frenare un comportamento sbagliato e indicarne uno giusto. Nella sua reazione il discepolo può odiare la correzione, ribellandosi apertamente alle sagge indicazioni di chi lo istruisce, o disprezzare la riprensione, semplicemente trascurando di prendere in considerazione quello che gli viene detto. Ma le parole di sapienza che provengono da Dio non sono opinioni, ma parole di verità, rivelazione della realtà così com'è. Di conseguenza, chi non si lascia correggere dalla saggezza dovrà essere corretto dalla vita: "Una dura correzione spetta a chi lascia la retta via; chi odia la riprensione morirà" (15.10). Allora sarà costretto a riconoscere che le parole della sapienza di Dio si adempiono inevitabilmente, e alla sofferenza che dovrà subire si aggiungerà l'amara consapevolezza di essere stato egli stesso la causa dei propri mali. "Chi odia la riprensione è uno stupido" (12.1).

  7. Come ho fatto a non ascoltare la voce di chi m'insegnava,
    e a non porgere l'orecchio a chi m'istruiva?

    Se il discepolo rifiuterà di ascoltare le parole di riprensione e correzione del maestro, un giorno accadrà che, ripensando alle dolorose conseguenze di questo rifiuto, sarà lui stesso a rimproverarsi e a dire: "Perché non ho ascoltato la voce di chi m'insegnava? perché non ho dato ascolto a chi m'istruiva?" Ma sarà troppo tardi. L'autoriprensione retroattiva serve soltanto ad alimentare il rimpianto e il rimorso, ma non può cambiare la realtà del passato. Chi respinge le parole di saggezza che gli vengono trasmesse perché vuole riservarsi la possibilità di verificare nei fatti se sono vere oppure no, prima o poi sarà spinto dai fatti avvenuti a riconoscere che avrebbe fatto meglio a fidarsi delle parole ascoltate.

  8. Poco mancò che non mi trovassi immerso in ogni male,
    in mezzo all'assemblea e alla comunità».

    Ricordare le parole di sapienza udite nel passato può tuttavia servire a limitare i danni ed evitare guai maggiori. Fermarsi per tempo può impedire al male di assumere una dimensione pubblica che inevitabilmente lo diffonde e lo aggrava. Se è vero che il matrimonio vissuto nell'ordine voluto da Dio è una benedizione per tutta la società in cui vive la famiglia, è altrettanto vero che una relazione adulterina produce in quel medesimo tessuto sociale una lacerazione che è causa di sofferenze aggiuntive per coloro che l'hanno provocata.

    M.C.

 

Azienda israeliana aiuta i governi arabi a spiare dissidenti e oppositori

È quanto emerso da un rapporto elaborato da Microsoft in collaborazione con gli esperti di Citizen Lab dell’università di Toronto. La compagnia Candiru avrebbe usato siti web di attivisti per penetrare all’interno dei dispositivi. Almeno 100 vittime nei Territori occupati palestinesi, Israele, Iran, Libano, Yemen, Turchia, Armenia e Singapore.

TEL AVIV - Una azienda israeliana ha aiutato diversi governi nel mondo, anche arabi, a spiare e hackerare i movimenti di attivisti, giornalisti, dipendenti delle ambasciate, diplomatici e politici dell’opposizione. Secondo quanto emerge da un rapporto elaborato dalla Microsoft, lo spyware era installato attraverso gruppi web umanitari fasulli, incluse pagine contraffatte di Amnesty International e Black Lives Matter.
  La scoperta emerge da uno studio degli esperti di Citizen Lab dell’università di Toronto, che hanno lavorato assieme alla Microsoft per portare alla luce le attività “maligne” di Candiru, una azienda con base a Tel Aviv, specializzata nella vendita di spyware “non rintracciabili”. Secondo il rapporto, la tecnologia ha consentito di entrare in Microsoft Windows, infettando e monitorando le attività dei proprietari di computer e telefoni cellulari.
  Scandagliando la rete, Citizen Lab avrebbe identificato più di 750 siti collegati all’infrastruttura spyware di Candiru. “Abbiamo trovato molti domini - afferma un ricercatore - mascherati da organizzazioni attiviste, oltre a società di media e altre entità legate alla società civile”. Bill Marczak, coautore del rapporto, spiega al Guardian che spesso le fonti sembravano attendibili ma una volta penetrato lo spyware eseguiva “un codice in background“ per “dirottare in modo silenzioso” il “controllo dei computer” delle persone colpite.
  Il codice, aggiunge l’esperto, garantiva un “accesso costante” al computer o allo smartphone, consentendo ai governi di rubare password, documenti, di accendere microfoni o videocamere delle persone spiate. E le vittime sparse in tutto il mondo, conclude, “non si accorgevano di nulla”. Il programma era in grado di infettare iPhone, devices Android, Mac, Pc, iPad e account cloud ed è stato usato per colpire diverse organizzazioni e singoli, compreso un gruppo dissidente saudita e un giornale di sinistra indonesiano.
  Microsoft parla di almeno 100 vittime nei Territori occupati palestinesi, Israele, Iran, Libano, Yemen, Turchia, Armenia e Singapore. “La crescente presenza di Candiru e l’uso della sua tecnologia di sorveglianza sulla società civile globale è un promemoria - afferma Citizen Lab - del fatto che l’industria dello spyware mercenario è formata da molti attori e soggetta ad abusi diffusi”. In due anni dalla fondazione, Candiru avrebbe fatturato quasi 30 milioni di dollari. I suoi clienti si trovano in Europa, ex Unione Sovietica, Golfo Persico, Asia e America Latina. Fra le nazioni che vi fanno ricorso vi sarebbero diverse realtà mediorientali fra cui Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti (Eau) e Qatar.
  Diverse aziende israeliane, i cui fondatori provengono da Intelligence e Difesa, hanno sviluppato tecnologie per hackerare e spiare telefoni cellulari o computer. A giugno Quadream, altra società con sede a Tel Aviv, è stata accusata di aver venduto un programma chiamato Reign alle autorità saudite, capace di rubare dati dai telefoni e usarli come dispostivi di localizzazione, senza utilizzare link civetta per entrare nei dispositivi. Anche lo spyware Pegasus, sviluppato dalla più grande società di sorveglianza israeliana NSO Group, utilizza la tecnologia zero-click ed è stato venduto, tra gli altri, all’Arabia Saudita.

(Agenzia Stampa Italia, 17 luglio 2021)


Daniel Oren dirige Il Trovatore. "La Sicilia è solare come Israele"

Il celebre direttore d'orchestra ospite del Massimo "Verdi è un profeta siamo tutti fratelli".

di Francesca Taormina

Una Spagna notturna, a volte cupa, è quella de "Il Trovatore" di Giuseppe Verdi, opera di mezzo della trilogia verdiana al debutto domenica sera al Teatro di Verdura, alle 21,15, per la stagione estiva del Teatro Massimo. Sul podio torna a Palermo Daniel Oren, il direttore israeliano che ha scelto l'Italia come seconda patria, e ama Verdi e tutto ciò che è made in Italy. «A quante scritture ho rinunciato — ricorda il maestro — per restare in Italia. Giunsi a Trieste, dopo aver vinto il concorso Karajan in Israele, e non sono più andato via. Quando vado all'estero, non importa se in Germania o in Francia, vado a cercare i posti frequentati dagli italiani, il cibo, ormai da anni per me esiste solo quello italiano. Per la Sicilia è ancora più valido quello che dico, perché mi ricorda Israele, per i colori, per il mare trasparente, per certi vicoli ombreggiati, si lo so che avete anche voi numerosi problemi, e chi non ne ha?»
  Ma il Trovatore di Verdi cosa ci dice oggi, parla ancora al nostro cuore? Qui il maestro non ha esitazioni: «Nel 1853 Verdi scrive questo capolavoro e il messaggio non solo è chiarissimo, ma vale per sempre — aggiunge Oren — gli uomini posseggono l'istinto di uccidere, di considerarsi nemici, come il Conte di Luna e Manrico, salvo poi scoprire alla fine di essere fratelli. Verdi qui è un profeta, la Spagna di allora è territorio di guerre proprio come lo è gran parte del mondo, se lo lasci dire da un Israeliano che sa cosa significa potere avere la guerra sempre dietro l'angolo, ma finché non capiremo che siamo tutti fratelli, figli dello stesso Dio, non saremo che perdenti. Ecco il Trovatore. Sono tutti perdenti». Ma il Trovatore è anche una storia d'amore tra Manrico e Leonora e tra Manrico e sua madre Azucena, la zingara che pensa al figlio come sua proprietà. Anche questo è molto siciliano. «Ma anche molto tipico di una madre molto ebrea — aggiunge Daniel Oren — come la mia. Certe volte penso che mia madre abbia sposato mio padre solo per avere me. Quando sono nato, il resto del mondo scomparve per lei, non esisteva null'altro, anzi allontanò amici e parenti perché riteneva che fossero una distrazione dall'unico e vero obiettivo, che io dovevo diventare un grande musicista, o un grande cantante. Lei non capiva nulla di musica, ma aveva un intuito eccezionale che la guidava con fermezza, mi portò pure da Leonard Bernstein per fargli sentire come cantavo e il grande maestro, cui sono molto grato, mi prese. Altro che Azucena del Trovatore. Si chiamava Rena, polacca di Lublin, riuscì ad andare in Svizzera per studiare e poi emigrò in Israele dove prese il nome di Rebecca».
  Ma tutta la passionalità espressa sul podio, quel cantare e saltare, quella concentrazione massima che coinvolge tutto il corpo da dove viene? «La musica — spiega il maestro è preghiera, è contatto metafisico, con l'invisibile. Io amo le preghiere ebraiche che cantiamo in sinagoga, ma la vostra musica è la vera scala che porta all'anticamera di Dio. C'è una felicità trascinante che coinvolge tutto ciò che sono, ma quasi sempre è preghiera». Adesso il Trovatore è in forma concertante, ma c'è un cast di tutto rispetto, dal baritono Artur Rucinski, un Conte di Luna pressocché perfetto, al soprano americano, voce potente e flessuosa, Angela Meade; Manrico è il tenore Carlo Ventre, e Azucena è Violeta Urmana, Ferrando è il basso Sava Vemic. II coro è diretto da Ciro Visco. Si replica martedì sera.

(la Repubblica, 17 luglio 2021)


In Israele 152 persone si sono ammalate di Covid-19 e sono morte a causa della malattia nonostante avessero ricevuto due dosi di vaccino

Tutti avevano in comune l’età avanzata, un sistema immunitario indebolito e la concomitanza di altre malattie.

Lo indica la ricerca in via di pubblicazione sulla rivista Clinical Microbiology and Infection e condotta in 17 ospedali di Israele sotto la guida di Tal Brosh-Nissimov, dell’Università Samson Assuta Ashdod e dell’Università Ben Gurion.
  Tutti i casi esaminati erano stati vaccinati con due dosi del vaccino della Pfizer-BioNtech e quelli descritti nell’articolo, che costituiscono una netta minoranza rispetto alle migliaia di persone che hanno ricevuto lo stesso vaccino, sollevano l’attenzione sul problema dei casi in cui il virus riesce comunque a bucare il vaccino e, come è accaduto in questi pazienti, non necessariamente sotto la spinta delle varianti.
  «L’esito di questi pazienti è stato simile a quello dei pazienti Covid-19 ricoverati non vaccinati.», osservano gli autori della ricerca. Per questo motivo, aggiungono, «sono urgenti ulteriori studi per identificare fattori predittivi dei casi in cui l’infezione riesce a bucare il vaccino in modo da permettere di identificare gli individui a rischio più elevato».
  «È il primo esperimento nel quale si vede che il vaccino viene bucato anche clinicamente: sono i primi casi di persone che non ce l’hanno fatta», osserva il virologo Francesco Broccolo, dell’Università di Milano Bicocca. «Il problema - osserva - non sembrano essere solo le varianti, in quanto soltanto in 9 dei 152 pazienti è stata rilevata la presenza della variante sudafricana». Soprattutto, secondo l’esperto, i dati appena pubblicati indicano che «ci sono soggetti che non rispondono al vaccino e che è importante prepararsi a intercettarli per proteggerli ulteriormente».

(Corriere del Ticino, 16 luglio 2021)


Vaccinatevi, vaccinatevi: sono urgenti ulteriori studi.


Israele colpisce il terrorismo nelle criptovalute

Israele ha bloccato 70 conti di criptovalute con cui Hamas avrebbe cercato di finanziarsi, mentre cresce l’interesse di Cina, Russia e Corea del Nord.

di Alessandro Longo

La scorsa settimana, Israele ha preso di mira il flusso di denaro digitale di Hamas sequestrando decine di wallet associati al gruppo islamista della Striscia di Gaza.
   Un’attività di intelligence applicata al mondo digitale che dimostra due novità, valide anche per lo scenario europeo e italiano: il ruolo che le criptovalute stanno assumendo per le questioni politiche e geo-politiche e “l’importanza di avere comparti anche in Italia di intelligence iper specializzati e con funzioni ad hoc, come quelli israeliani”, come ci ha spiegato Michele Colajanni, professore all’Unimore e tra i più noti esperti di questioni cyber.

 Il sequestro dei conti di Hamas
  Hamas, inserito sulla lista nera come gruppo terroristico dagli Stati Uniti e dall'Unione europea, ha usato a lungo le valute digitali per aggirare le sanzioni occidentali. Il gruppo usa le criptovalute, storicamente difficili da tracciare, per raccogliere fondi e trasferirli attraverso i confini utilizzando un sistema di portafogli digitali.
    Mercoledì scorso, l’ufficio del ministero della Difesa di Israele per il Contro-finanziamento al terrorismo ha annunciato di avere sequestrato alcuni portafogli digitali legati ad Hamas alla fine di giugno, in quella che è la prima e più aggressiva azione contro gli sforzi del gruppo terroristico in criptovaluta. La mossa è arrivata dopo che il ministro Gantz ha firmato un ordine amministrativo che autorizza i sequestri il 30 giugno.
    Varie fonti hanno riportato che sono circa 70 i portafogli sequestrati, “attività possibile con un raffinato sistema di intelligence e tracciamento dei conti”, ha chiarito Paolo Dal Checco, esperto informatico forense.
    Hamas, che ha subìto perdite significative durante gli 11 giorni di combattimenti con Israele a maggio, sta ora tentando di riorganizzarsi raccogliendo fondi attraverso valute virtuali, come i bitcoin: “Tenta di bypassare il sistema bancario convenzionale”, ha riferito il canale televisivo israeliano Keshet 12.
    A giugno il Wall Street Journal ha scritto che “c'è stato sicuramente un picco” nelle donazioni di criptovalute all'organizzazione, citando un funzionario del gruppo: “Parte del denaro viene utilizzato per scopi militari per difendere i diritti fondamentali dei palestinesi”.
    I conti non erano solo in bitcoin, la valuta digitale più comune e conosciuta, ma anche in ethereum e persino dogecoin, una valuta diventata popolare dopo che Elon Musk gli ha dedicato la sua attenzione.

 Il ruolo geopolitico delle criptovalute
  Già in passato le criptovalute hanno rivestito un ruolo nel rapporto tra gli Stati, ma certo il fenomeno sta accelerando. Nel 2016 un gruppo terroristico della Striscia di Gaza ha chiesto donazioni in bitcoin via Twitter e Telegram: la campagna si chiamava Jahezona e all’inizio ha raccolto solo 500 euro; molto meglio nel 2018, quando ha ricevuto 15 donazioni, due delle quali del valore di 289.273 dollari e 123.021 dollari.
   Secondo un’analisi di Chainanalysis, sarebbe già da 7 anni che gruppi terroristici, in particolare quelli siriani, si finanziano con criptovalute. E anche se questa non è la loro principale fonte di finanziamento, sta crescendo in importanza.
    Secondo l’Fbi, la Corea del Nord si sarebbe servita di un gruppo hacker autoctono, chiamato Lazarus, per finanziarsi tramite attacchi ransomware (con il celebre virus Wannacry) nel 2017, raccogliendo 2 miliardi di dollari in criptovalute. Il governo ha sempre smentito queste accuse, mentre gli Usa accusano la Corea di usare i bitcoin per riciclare denaro sporco e anche aggirare le sanzioni internazionali.
    Da tempo, anche attraverso il presidente Biden, gli Stati Uniti accusano la Russia di dare porto franco ai criminali dei ransomware. E nella nuova strategia di cybersecurity avviata dalla Casa Bianca stanno cercando di rendere più tracciabili i pagamenti in criptovaluta, per contrastare i cybercriminali. Un primo, importante risultato è stato ottenuto recuperando parte dei soldi pagati per il caso Colonial Pipeline.
    Infine, le criptovalute stanno assurgendo a fattore geopolitico anche alla luce della spinta della Cina per una propria valuta digitale governativa (ostacolando invece a più riprese le criptovalute decentralizzate come i bitcoin), mentre interesse simile si registra da parte dell’Europa (per un euro digitale) e dagli Stati Uniti.

(la Repubblica, 16 luglio 2021)


Parigi, 16 luglio 1942: il rastrellamento del Velodromo d’Inverno

di Giorgio Giannini

Nel giugno 1940, dopo poche settimane di guerra, la Francia è sconfitta dai nazisti. La parte settentrionale è occupata militarmente dai tedeschi mentre nella parte meridionale si costituisce uno stato collaborazionista, con capitale la cittadina termale di Vichy (per cui è chiamato Regime di Vichy), di cui è presidente il Maresciallo Philippe Pétain (eroe della Prima guerra mondiale) e primo ministro Pierre Laval.
  Il 21 settembre 1940 un’ordinanza nazista dispone il censimento di tutti gli ebrei francesi, anche nello stato fantoccio di Vichy, dove è incaricato di eseguire il provvedimento l’ispettore di polizia André Tulard. In pochi mesi tutti gli ebrei sono schedati, con l’indicazione della loro professione e del loro indirizzo, in un lungo elenco, chiamato Dossier Tulard
  Il 4 luglio 1942 René Bousquet, capo della polizia del Regime di Vichy, e Louis Darquier de Pellepoix, commissario generale per le questioni ebraiche, incontrano  nella sede della Gestapo, in Avenue Foch a Parigi, gli ufficiali delle SS Helmut Knochen, comandante della Polizia di Sicurezza e del Servizio di Sicurezza, e Thoedor Dannecker, rappresentante per gli “affari ebraici” di Adolf Eichmann, che dirige l’Ufficio IVB4 dell’Ufficio Centrale della Sicurezza del Reich (RSHA) e che  è stato delegato, dalla Conferenza tenutasi a Wannsee (in una villa sulla riva dell’omonimo lago, vicino alla Capitale tedesca) il 20 gennaio 1942, alla soluzione del “problema ebraico”, cioè alla deportazione degli ebrei nei campi di sterminio, in primo luogo quello di Auschwitz, realizzato proprio per questo scopo (non a caso sarà poi chiamato dagli storici “la fabbrica della morte”). Il capitano Dannecker nel gennaio 1943 è in Bulgaria per dirigere la deportazione degli ebrei bulgari, che però è annullata per la opposizione della Chiesa Ortodossa e di alcuni influenti parlamentari. In seguito, il 16 ottobre 1943 Dannecker dirige la “razzia” degli ebrei romani, che vivono sia nel ghetto che nei vari quartieri della città. Nel 1944 dirige la deportazione degli ebrei ungheresi.
  I due ufficiali nazisti illustrano il programma della cattura degli ebrei e della loro deportazione nei lager. Bousquet e Darquier accettano il programma nazista e quindi Dannecker telegrafa subito a Berlino, per  informare Eichmann della accettazione del “programma”, che sarebbe stato attuato il 13 luglio.
  Il 7 luglio si tiene nella sede parigina della Gestapo una nuova riunione per organizzare la cattura e la deportazione degli ebrei. Vi partecipano vari funzionari francesi, sia della Polizia statale che di quella municipale, e anche Tulard e Jean Leguay, il vice di Bousquet.  
  Viene quindi dato il via al programma di deportazione degli ebrei, denominato “Operazione Vento di Primavera” (Opération Vent Printanier) che deve essere eseguito “con la massima velocità” e che riguarda anche gli ebrei tedeschi, austriaci, cechi (scappati dal Reich in seguito all’emanazione delle leggi antiebraiche di Norimberga del 1935) e di altre nazionalità, che si trovano a Parigi e che sono circa 22.000.
  L’Operazione inizia alle ore 4 del 16 luglio 1942. Vengono catturati dai nazisti, con la fattiva collaborazione della polizia del Regime collaborazionista di Vichy, 13.152 ebrei, dei quali 5.804 (il 44%) sono donne e 4.115 (il 31 %) sono bambini e ragazzi  fino a 16 anni. La cattura di questi ultimi, come anche delle persone anziane, è effettuata per iniziativa Regime di Vichy, dato che i nazisti avevano chiesto solo la cattura delle persone tra i 16 ed i 40 anni. Comunque, Eichmann autorizzò la deportazione di queste persone alcuni giorni dopo.
  Fu lo stesso primo ministro Pierre Laval a proporre ai nazisti la cattura delle intere famiglie. Giustificò questa decisione per un “principio umanitario”. Infatti, affermò nel Consiglio dei Ministri: «Per un principio umanitario ho ottenuto, contrariamente alle prime intenzioni dei tedeschi, che i figli, compresi quelli minori di sedici anni, siano autorizzati ad accompagnare i genitori».
  Gli arrestati, autorizzati a portare con sé solo una coperta, un maglione ed un paio di scarpe, sono divisi in due gruppi: quelli che sono senza famiglia sono inviati nel Campo di transito di Drancy, vicino a Parigi (istituito nell’agosto 1941 per l’internamento degli ebrei stranieri, che si erano rifugiati in Francia per sfuggire alla  cattura nel loro Paese, occupato dai tedeschi, in seguito all’emanazione delle leggi antiebraiche naziste), e sono deportati subito nei Lager. Invece, i gruppi familiari (che formano la maggioranza degli arrestati e comprendono essenzialmente le donne, i bambini, i ragazzi e gli anziani) sono rinchiusi nel Velodromo d’inverno ( Vel d’Hiv ), per cui l’Operazione è anche nota come “Retata del Velodromo d’Inverno” (Rafle du Vélodrome d’Hiver).
  Il Velodromo d’Inverno è un circuito coperto per le gare di ciclismo e si trova vicino alla Torre Eiffel, tra il Boulevard de Grenelle e Rue Nelaton, nel Quindicesimo Arrondissement di Parigi. È stato costruito all’inizio del secolo, su progetto dell’architetto Gaston Lambert, per iniziativa di Henri Desgrange, fondatore e direttore del quotidiano sportivo L’Auto e ideatore del Tour de France , per sostituire il precedente velodromo che si trovava nella Salle des Machines , che era stata demolita per consentire una migliore visuale della Torre Eiffel.
  Le condizioni di vita all’interno del Velodromo diventano subito molto difficili, sia per il sovraffollamento che per le precarie condizioni igieniche. Infatti le finestre sono state chiuse per motivi di sicurezza (per evitare la fuga degli internati) come anche la metà dei 10 bagni. Inoltre c’è un solo rubinetto con l’acqua potabile. Alcuni internati tentano di fuggire, ma sono catturati e subito fucilati per intimorire gli altri, allo scopo di indurli  a non tentare la fuga.
  Dopo 5 giorni, i prigionieri sono portati nei campi di internamento di Drancy, Compiégne, Beaune-la Rolande e Pithiviers e successivamente nel campo di sterminio di Auschwitz, dal quale ritornano solo un centinaio di deportati. La retata del Velodromo d’Inverno è la più grande cattura e deportazione degli ebrei francesi durante l’occupazione nazista.  
  Il Velodromo d’Inverno è stato demolito nel 1959 dopo  che era stato in parte distrutto da un incendio. Al suo posto è stato costruito un  edificio del Ministero degli Interni.
  Per oltre 50 anni il Governo francese ha rifiutato di fare i conti con il proprio passato collaborazionista con il nazismo, e quindi di riconoscere la collaborazione fornita alla cattura degli ebrei (peraltro spontaneamente) dal Regime di Vichy, che era uno “Stato fantoccio” dei nazisti. Solo il 16 luglio 1995, ben 53 anni dopo i fatti, il presidente della Repubblica  Jacques Chirac ha finalmente riconosciuto, nel discorso commemorativo, il ruolo svolto dal Regime di Vichy nella persecuzione, nella cattura e nella deportazione degli ebrei nei lager nazisti. Il 16 luglio 2017 anche il presidente Emmanuel Macron ha chiesto scusa, a nome della Francia, per il ruolo svolto dalla polizia nella retata del Velodromo d’Inverno.  
  Un monumento commemorativo della cattura e della deportazione degli ebrei francesi è stato posto in Quai de Grenelle, nel Quindicesimo Arrondissement. Una targa commemorativa è stata posta nella stazione della Metropolitana di Bir- Hakeim, della Linea 6, sempre nel Quindicesimo Arrondissement. 
  La storia della deportazione degli ebrei francesi del 16-17 luglio 1942 è raccontata in  alcuni film. Ricordiamo quelli usciti nel 2010: “Vento di Primavera“ (titolo originale francese “La rafle”), della regista Roselyne Bosch, e “La chiave di Sara” (titolo originale francese “Elle s’appelait Sarah”), del regista Gilles Pasquet-Brenner, tratto dall’omonimo romanzo di Tatiana de Rosnay.

(L'Incontro, 16 luglio 2021)


Israele continua a mettere in guardia da Hezbollah

L’esercito israeliano ha rivelato la presenza di un deposito di armi appartenente ad Hezbollah, situato nella regione libanese centrale di Nabatiye, nelle vicinanze di una scuola. Da parte sua, Israele ha affermato di possedere tutti i mezzi e le capacità necessarie ad affrontare il nemico sciita.
  Stando a quanto riportato il 14 luglio, sulla base di immagini satellitari, il deposito scoperto è un edificio di quattro piani situato in un quartiere residenziale, a soli 25 metri di distanza dalla scuola pubblica di Ebba, frequentata, a detta delle Forze di difesa israeliane (IDF), da circa 300 studenti. Il deposito contiene “una grande quantità di esplosivi”, da un potere distruttivo pari a circa la metà rispetto a quelli che hanno provocato la vasta esplosione presso il porto di Beirut, il 4 agosto 2020. Non è chiaro, però, che tipo di armamenti sia stato immagazzinato all’interno dell’edificio. Ad ogni modo, hanno specificato le IDF, si tratta di soltanto uno dei numerosi depositi impiegati da Hezbollah per colpire i soldati e la popolazione di Israele, in un momento in cui il gruppo sciita starebbe continuando a perseguire i propri piani militari, mettendo in pericolo la popolazione libanese.
  Le forze israeliane non hanno escluso l’ipotesi secondo cui, a seguito della loro rivelazione, Hezbollah svuoterà il magazzino e trasferirà le armi altrove. Tuttavia, Israele si è detto pronto a mostrare le proprie capacità, segnalando al mondo le minacce poste “dal gruppo terroristico”. In tale quadro si collocano le dichiarazioni del primo ministro israeliano, Naftali Bennett, che, sempre il 14 luglio, ha affermato che il proprio Paese dispone di quanto necessario a far fronte ad Hezbollah, definito un “nemico comune” sia per gli israeliani sia per i libanesi. L’organizzazione, inoltre, a detta di Bennett, agisce su ordini dell’Iran, ma mette a rischio il Libano e il suo futuro. Non da ultimo, il portavoce dell’esercito israeliano, Avichay Adraee, il 10 luglio, ha riferito che le proprie forze sono state in grado di frenare uno dei maggiori tentativi di contrabbando di armi al confine con il Libano, sequestrando circa 43 armi nel villaggio di Ghajar, nella regione del Golan. Le forze israeliane, ha affermato il portavoce, continuano a tenere sotto controllo il fenomeno del contrabbando di armi e il ruolo svolto da Hezbollah, indagando, in collaborazione con le forze di polizia, sull’identità degli individui coinvolti.
  Immagazzinare armi nei luoghi scoperti da Israele significa violare la risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che ha messo fine alle tensioni del 2006. Non è la prima volta che Israele fa rivelazioni sull’ubicazione di magazzini, presumibilmente appartenenti a Hezbollah, nei pressi di quartieri residenziali, nel quadro di una politica volta a costringere il “gruppo terroristico” a cambiare le proprie tattiche e i propri comportamenti, senza intervenire militarmente. Hezbollah, da parte sua, ha più volte negato l’esistenza di tali depositi.
  L’organizzazione paramilitare sciita appoggiata dall’Iran, continua a rappresentare uno dei principali rivali libanesi di Israele. Nel 2006, i due si sono scontrati in una battaglia lunga 34 giorni, nella quale circa 1200 persone sono morte in Libano, per lo più civili, e altre 158 hanno perso la vita a Israele, in gran parte soldati. Ciò ha portato al rafforzamento della Missione dell’Onu UNIFIL, istituita nel 1978 e rafforzata nel 2006, la quale ha il compito di far rispettare il cessate il fuoco tra Beirut e Tel Aviv e di monitorare il ritiro israeliano da una zona smilitarizzata di confine. La missione conta attualmente circa 10.500 unità, tra cui anche un contingente italiano.
  Tra gli episodi del 2021, il primo febbraio, Hezbollah ha affermato che le proprie forze hanno intercettato e distrutto un drone israeliano, mentre questo sorvolava lo spazio aereo libanese. Da parte loro, le Forze di Difesa israeliana hanno ammesso che un proprio drone era precipitato nel Sud del Libano, senza rivelare ulteriori dettagli sulle dinamiche e le cause dell’incidente. Il Libano ha più volte denunciato violazioni del proprio spazio aereo da parte di velivoli, presumibilmente israeliani, i quali volano anche a bassa quota, soprattutto nelle aree costiere, meridionali e nella Valle di Bekaa. Le forze israeliane, dal canto loro, affermano che le loro incursioni sono necessarie, in quanto finalizzate a monitorare le attività “illegali” di Hezbollah, che, invece, dovrebbero essere controllate dal governo di Beirut.
  Lo scorso anno, il 2020, le tensioni tra Israele e Hezbollah lungo il confine libanese si erano intensificate dopo che, il 20 luglio, le forze di difesa aerea siriana avevano intercettato una serie di missili provenienti dalle Alture del Golan, imputati a Israele e diretti verso il Sud della capitale, Damasco, contro obiettivi iraniani e del regime siriano. I missili avevano colpito postazioni di Hezbollah e di altri gruppi iraniani, causando la morte di 5 combattenti, di cui uno appartenente alla milizia sciita libanese. Sebbene Israele non avesse rivendicato l’attacco, Hezbollah aveva accusato il Paese di aver ucciso uno dei propri membri, Ali Kamel Mohsen, e aveva deciso di vendicare la morte del suo combattente. Di conseguenza, il 23 luglio successivo, Israele aveva stabilito di inviare rinforzi al confine settentrionale con il Libano, aumentandone la militarizzazione.

(Sputnik Italia, 15 luglio 2021)   


Israele, missione viceministra Esteri Sereni: "Verso fiducia reciproca

Tour di cinque giorni con lo scopo di promuovere una rinnovata centralità del ruolo dell'Unione Europea e del Quartetto nei colloqui tra israeliani e palestinesi. Sulla scia dell'iniziativa di pace italo-spagnola

di Sharon Nizza

GERUSALEMME - "La ripresa di un processo di pace non sembra essere immediatamente all'ordine del giorno, ma abbiamo constatato una volontà di favorire la costruzione di misure di fiducia reciproca". È uno dei messaggi della Vice Ministra per gli Affari Esteri e la Cooperazione Internazionale, Marina Sereni, al termine di una missione in Israele e nei Territori Palestinesi conclusasi giovedì dopo cinque giorni di incontri.
   Un'agenda ricca di impegni che ha visto Sereni incontrare esponenti di governo, legislatori, imprenditori e rappresentanti della società civile di entrambe le parti. Con lo scopo, tra le altre cose, di ribadire l'intenzione di promuovere una rinnovata centralità del ruolo dell'Unione Europea e del Quartetto nei colloqui tra israeliani e palestinesi, così come espresso in una recente proposta italo-spagnola presentata dal Ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che ha in programma una visita nell'area nelle prossime settimane, insieme all'omologo spagnolo.
   "La proposta italo-spagnola nasce dalla volontà di costruire una nuova cornice in cui si possa muovere l'Ue, presi in considerazioni nuovi elementi che sono emersi e che hanno un potenziale di influire sugli assetti regionali, come gli Accordi di Abramo e l'insediamento dell'Amministrazione Biden", dice Sereni in un incontro con i giornalisti a Gerusalemme.
   
Dopo il conflitto di maggio, la ripresa di trattative dirette tra israeliani e palestinesi non sembra essere una priorità realistica sul tavolo, è l'impressione della viceministra, mentre al momento, il primo dossier all'ordine del giorno riguarda l'urgenza di consolidare la tregua tra Israele e Hamas e concepire un meccanismo che possa consentire la ricostruzione di Gaza, veicolando le donazioni internazionali attraverso parti terze.
   Un argomento che è stato affrontato dalla viceministra Sereni anche durante l'incontro con Philippe Lazzarini, il Commissario generale dell'Unrwa, e con le controparti palestinesi, accanto all'urgenza di arrivare a una riconciliazione nazionale tra Fatah e Hamas che possa porre fine a 16 anni di stallo politico che ha portato anche al recente annullamento delle elezioni palestinesi di maggio. "Hamas ha ribadito la propria contrarietà, anche all'Onu, a un coinvolgimento dell'Anp negli aiuti a Gaza. C'è un nodo politico quindi, non solo tecnico, che va risolto per non trovarsi di fronte a un circolo vizioso di ricostruzione e distruzione", ha spiegato Sereni.
   Negli incontri con esponenti della società civile palestinese è emerso un grande distaccamento dei giovani dalle principali fazioni politiche, inaspritosi con l'annullamento delle elezioni - "parliamo di una generazione che non ha mai votato" - e con la recente ondata di repressione del dissenso civile da parte dell'Anp, a seguito della mobilitazione popolare per il noto attivista Nizar Banat, rimasto ucciso dopo l'arresto da parte degli apparati di sicurezza palestinesi il 24 giugno.
   Uno degli obiettivi della missione era "capire meglio i piani e le priorità del nuovo governo israeliano, nato sulla base di una coalizione inedita, molto ampia ed eterogenea", dice Sereni, che ha incontrato, tra gli altri, le due anime opposte che formano la nuova maggioranza che il mese scorso ha portato alla fine di 12 anni di governi Netanyahu: Mansour Abbas, il leader del partito islamista Ra'am che sostiene, per la prima volta, una coalizione di governo con esponenti di destra, e Gideon Saar, vicepremier e ministro della Giustizia, fuoriuscito dal Likud sei mesi fa.
   
"La nostra impressione" dice Sereni, "è che il nuovo governo sia disponibile a valutare passi concreti che possano servire a tenere calma la situazione, mentre non sembra immediatamente all'ordine del giorno la ripresa di trattative in vista di una soluzione a due Stati che l'Italia e l'Europa da sempre sostengono. Abbiamo registrato alcuni punti interessanti, come la volontà di aumentare gli investimenti per sviluppare nuove opportunità economiche in particolar modo per i giovani palestinesi".
   Argomenti che sono stati al centro anche di incontri con il Centro Peres per la Pace e con l'imprenditore Yossi Vardi, entrambi promotori di diversi progetti umanitari e civili volti ad aumentare l'interazione tra israeliani e palestinesi. "Da anni sosteniamo il Centro Peres nel progetto per cui bambini palestinesi vengono curati negli ospedali israeliani e abbiamo ribadito la volontà di continuare il sostegno da parte della cooperazione italiana".
   La viceministra ha avuto modo anche di visitare alcuni dei progetti di eccellenza sostenuti dall'Italia, come il centro anti-violenza contro lo donne di Bet Sahour, nei pressi di Betlemme, dove vengono accolte e riabilitare decine di donne palestinesi. Con la ministra della Salute Mai al Kaila, si è discusso invece anche dell'imminente inaugurazione del nuovo Ospedale di Dura, nel sud della Cisgiordania, interamente finanziato dalla Cooperazione italiana.
   L'Iran è stato tra gli argomenti sollevati dagli israeliani, in vista della ripresa dei colloqui per il rinnovamento dell'intesa Jcpoa sul nucleare iraniano. "Noi chiediamo e speriamo che le trattative di Vienna si concludano positivamente. A nostro parere, questo è un modo per aprire con l'Iran in vista di un'altra fase del confronto - che è quello che interessa gli israeliani - sull'inserimento nell'accordo del programma missilistico e dell'attivismo regionale iraniani", dice Sereni. "Credo sia stato apprezzato il fatto che siamo consapevoli dei rischi che le politiche dell'Iran possano rappresentare per la sicurezza e la stabilità di questa regione. Ma secondo noi il Jcpoa è un fattore che aiuta la sicurezza e la stabilità piuttosto che metterle in discussione".
   La minaccia nucleare iraniana e l'influenza di Teheran in Libano sono stati gli argomenti al centro di un'altra missione di Stato in Israele svoltasi in questi giorni, quella del Capo di Stato maggiore della Difesa, Generale Enzo Vecciarelli. L'omologo Aviv Kohavi ha ringraziato l'Italia in particolare per il significativo ruolo alla guida della forza di interposizione Unifil tra Israele e Libano.

(la Repubblica, 16 luglio 2021)


USA: crolla il sostegno a Israele degli ebrei americani

di Nathan Greppi

Gli ebrei americani sarebbero sempre meno vicini a Israele, e soprattutto tra i giovani starebbero aumentando quelli convinti che lo Stato Ebraico sia razzista verso i palestinesi: questi sarebbero i risultati di un sondaggio commissionato dalla Jewish Democratic Council of America, organizzazione ebraica di sinistra.
  Secondo il Jerusalem Post, il report dell’organizzazione avrebbe semi-nascosto i dati più sensibili, concentrandosi su quelli relativi alle loro opinioni su Joe Biden (il 76% degli elettori ebrei ha votato per lui nel 2020, e il 74% di loro approva il suo approccio nei confronti d’Israele): stando al sondaggio, il 28% è convinto che in Israele vi sia un regime di apartheid, e questa percentuale salirebbe al 38% tra quelli che hanno meno di 40 anni di età; inoltre, il 23% degli ebrei americani (e il 33% degli under 40) pensa che Israele stia commettendo un genocidio nei confronti dei palestinesi. Infine, un quinto del totale penserebbe che Israele non ha il diritto di esistere.
  L’analisi del Jerusalem Post sostiene che, se questi dati corrispondessero al vero, ciò vada attribuito a due fattori: il condizionamento ideologico dell’estrema sinistra sulle giovani generazioni, specialmente nei campus universitari, e il fallimento delle comunità nel costruire un’alternativa valida nel modo di comunicare e spiegare la realtà.
  Un altro problema è che, proprio perché Israele è sempre più visto come un tema divisivo per gli ebrei americani, quando un’organizzazione organizza una manifestazione a suo favore le altre la boicottano. È successo domenica 11 luglio, quando a Washington si tenne la manifestazione No Fear: A Rally In Solidarity With The Jewish People, per denunciare l’aumento di attacchi antisemiti durante i fatti di Gaza a maggio. Alla manifestazione, organizzata tra gli altri da Elisha Wiesel, figlio dello scrittore e superstite della Shoah Elie Wiesel, hanno deciso di non prendere parte associazioni ebraiche progressiste come Americans for Peace Now e J Street, accusandola di essere troppo schierata.
  Il risultato è stata la partecipazione di solo 2.000-3.000 persone: per fare un confronto, alla manifestazione tenutasi nello stesso luogo nel 1987 in solidarietà con le condizioni degli ebrei in Unione Sovietica vi erano 250.000 persone; mentre nel 2002 furono 100.000 i manifestanti che, durante la Seconda Intifada, andarono ad esprimere il loro sostegno a Israele.

(Bet Magazine Mosaico, 16 luglio 2021)


Israele nega i matrimoni misti. La vita difficile delle coppie

di Alessandro Trizio

Ci sono ancora tante cose da sistemare in Israele, una di queste è sicuramente la gestione delle coppie miste, tra israeliani o naturalizzati e palestinesi o giordani. Tante le storie che si intrecciano in questi anni. Come Wafa Issa che ha vissuto come una prigioniera nella sua stessa casa nella periferia di Gerusalemme Est. Il suo mondo è la sua cucina, i suoi sei figli e le stalle sul retro dove la famiglia tiene cavalli arabi.
  È un sacrificio che Issa ha fatto per stare con suo marito nato a Gerusalemme Est, che è un residente permanente legale in Israele. In quanto palestinese nata nei territori occupati, non ha avuto il diritto di unirsi a lui nonostante il loro matrimonio. Anche se suo marito fosse un cittadino israeliano a pieno titolo, il diritto legale di vivere con la sua famiglia sarebbe comunque fuori portata.
  I sostenitori di diritti umani affermano che il divieto imposto da oltre 18 anni in Israele al ricongiungimento familiare, noto come Legge sulla cittadinanza, trasforma un diritto fondamentale — vivere con il proprio coniuge e i propri figli — in un crimine e va contro la politica sull’immigrazione in altri paesi sviluppati. E’ discriminatorio, perché in gran parte non si applica agli ebrei israeliani, che raramente sposano palestinesi.
  Issa e migliaia di altre coppie, tuttavia, ora vedono una rara opportunità. La scorsa settimana, i politici israeliani inaspettatamente non sono riusciti a rinnovare il divieto, stimolando una corsa da parte di gruppi di difesa e coppie palestinesi a presentare centinaia di permessi di soggiorno al ministero degli Interni israeliano. Ma la possibilità potrebbe presto bloccarsi di nuovo, perché la legge ha ancora un ampio sostegno tra molti legislatori.
  Il divieto di ricongiungimento familiare è stato approvato nel 2003 come misura di sicurezza temporanea sulla scia della rivolta palestinese conosciuta come la seconda intifada. Da allora la legge è stata rinnovata ogni anno. I politici israeliani hanno recentemente riconosciuto che la misura continua a ottenere sostegno in parte per il desiderio di mantenere la maggioranza ebraica di Israele.
  Tra le tante sfide che i palestinesi devono affrontare, il divieto ne pone una particolarmente intima perché ha lasciato così tante famiglie in un limbo emotivo. La vita è segnata da scelte dolorose. Alcune persone scelgono di vivere separate dalle loro famiglie, perdendo una vita di momenti o divorziando. Altri, come Issa, vivono senza documenti, a rischio costante di espulsione.
  Israele consente alle coppie di richiedere la residenza temporanea e i funzionari riferiscono di aver concesso 12.700 tali permessi. I sostenitori stimano che il numero effettivo di famiglie colpite sia più del doppio.
  La famiglia Issa, ad esempio, ha chiesto tre volte la residenza temporanea per Wafa, ma è stata respinta ogni volta. Una domanda depositata otto mesi fa è ancora pendente. E anche se avesse ricevuto un permesso temporaneo, non avrebbe comunque diritto alla patente di guida, alla previdenza sociale e a molti altri benefici del governo.
  I palestinesi di Gerusalemme est, occupata da Israele nella guerra del 1967, sono spesso tra quelli colpiti dalla legge sulla cittadinanza a causa del loro legame geografico con la Cisgiordania. A differenza dei palestinesi nati in Israele, la maggior parte degli arabi di Gerusalemme est non sono cittadini ma residenti israeliani permanenti.
  Mahmoud Akhrass, un palestinese di 46 anni nato nella città di Nablus in Cisgiordania, ha detto che quando ha sposato una donna di Gerusalemme Est nel 2005, non ha pensato a come la differenza nel loro status avrebbe influenzato la loro relazione. Ma ha ricordato che la sua futura suocera gli ha lanciato un avvertimento: non portare mia figlia in Cisgiordania, dove la sicurezza e la mobilità sono minori che a Gerusalemme.
  Si stabilirono appena fuori dal muro di sicurezza che separa gran parte di Gerusalemme est da altri territori occupati. Presto la moglie di Akhrass rimase incinta e, in quanto residente permanente in Israele, cercò assistenza medica in Israele. Ma le autorità israeliane hanno negato la domanda di residenza temporanea di Akhrass perché aveva meno di 35 anni (gli uomini sotto i 35 anni e le donne sotto i 25 non sono ammissibili).
  Quando è arrivato il momento per sua moglie di partorire, non poteva andare in un ospedale, che era solo a breve distanza, ha detto Akhrass. 
  Nel 2010 gli è stato finalmente concesso un permesso temporaneo. Ogni anno, quando va a rinnovarlo, teme che un piccolo errore nella sua domanda possa portarlo a ritirarlo.
  Sebbene Wafa Issa sia riuscita a rimanere nascosta, alcune famiglie sono state divise dalla polizia israeliana, ha affermato Jessica Montell, direttore esecutivo di HaMoked, un gruppo che ha contestato il divieto presso la Corte Suprema israeliana. I vicini chiamano la polizia sui loro vicini; altre volte è un coniuge che vuole una soluzione conveniente dalla relazione.
  Il divieto di ricongiungimento familiare, inizialmente giustificato come misura di sicurezza in risposta alla rivolta palestinese, è sopravvissuto a numerose sfide legali. Pochi sostenitori dei diritti umani si aspettavano che il nuovo governo israeliano, guidato da due sostenitori della legge, il primo ministro Naftali Bennett e il ministro degli Esteri Yair Lapid, non avrebbe rinnovato la legge quando si sarebbe trattato di un voto di routine.
  Ma la questione si è trasformata in un primo test per verificare se la coalizione di governo, che comprende diversi partiti di tutto lo spettro politico, può ottenere il passaggio parlamentare per le leggi prioritarie. Il primo ministro recentemente destituito Benjamin Netanyahu, un sostenitore di lunga data della legge, ha cercato di sfidare il governo e ha incoraggiato i legislatori del suo partito di destra Likud ad opporvisi. 
  Ma il ministero che rilascia i permessi è gestito da Ayelet Shaked, una deputata di destra che ha affermato che continuerà a bloccare la residenza per la maggior parte dei palestinesi dai territori occupati e sta lavorando per portare la legge a un altro voto.

(Expoitalyonline, 16 luglio 2021)


Green pass, proteste in Francia

Allarme da Israele: più ospedalizzati tra i vaccinati rispetto a quelli che non lo sono

di Marco Paganelli

Cresce il malcontento popolare. Aumentano i malumori attorno all’ ipotesi di un Green pass, documento con cui si prova di aver effettuato la vaccinazione contro il Coronavirus o di aver realizzato un tampone (ovviamente a pagamento) nelle 48 ore precedenti, o il vaccino anti – Covid (che diventerebbe di fatto obbligatorio) per poter accedere ai luoghi della vita sociale come, ad esempio, locali, pub, ristoranti e bar.
  La proposta di questa norma è partita dal governo di Parigi, ma ha generato dure proteste in diverse città d’ Oltralpe con tanto di violenti scontri tra i dimostranti e la polizia. L’ eventualità di proporla in Italia ha subito ricevuto durissime critiche dalla leader dell’ opposizione Giorgia Meloni (Fratelli d’ Italia), ma pure da alcuni partiti che sostengono la maggioranza, a partire dalla Lega di Matteo Salvini. Continuano ad arrivare dati, nel frattempo, che indicano una debolissima efficacia dei sieri iniettati al fine di proteggere i cittadini dal Coronavirus.
  Il governo israeliano ha diffuso, una serie di dati, che indicano che gli ospedalizzati e coloro che sono risultati positivi all’ agente patogeno, che ha sconvolto e continua a generare disagi nel mondo, sono per lo più coloro che hanno ricevuto le due dosi dei vaccini in circolazione. Tale elemento evidenzia la bassa efficacia, delle sostanze in questione, nell’organismo.

(Agenzia Stampa Italia, 16 luglio 2021)


Notizie archiviate



Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse liberamente, citando la fonte.