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Notizie 1-15 luglio 2022


Israele e i disimpegni americani

La nuova struttura in medio oriente contro l’Iran. Le lezioni ucraine

Il presidente americano Joe Biden e il premier israeliano Yair Lapid hanno firmato la Dichiarazione di Gerusalemme, un impegno congiunto a evitare che l’Iran si doti di armi nucleari. Per Israele la visita di Biden è stata importante, ma nonostante il presidente americano abbia assicurato che fino a quando ci saranno gli Stati Uniti Israele è al sicuro, Lapid voleva dichiarazioni più forti. I due leader si sono scontrati su un punto: il premier israeliano ha detto che non sarà la diplomazia a fermare il programma nucleare iraniano, il presidente americano lo ha pubblicamente contraddetto: lo strumento migliore rimane proprio la diplomazia. Biden è andato in Israele per costruire una nuova architettura di rapporti in medio oriente, una coalizione che possa far sentire più sicura Gerusalemme ed estendersi fino a una cooperazione con l’Arabia Saudita: ieri il governo israeliano ha approvato i parametri di un accordo su due isole strategiche del Mar Rosso ed è un passo concreto verso la normalizzazione dei rapporti con Riad che amplierebbe gli Accordi di Abramo.
  Nonostante gli accordi siano un successo diplomatico americano, Israele sta introiettando l’idea che con l’Iran dovrà vedersela senza l’America. In un’intervista a Channel 12, Biden ha detto che gli Stati Uniti sono pronti a usare la forza contro Teheran, ma come “ultima risorsa”. Il concetto di “ultima risorsa” è percepito in modo diverso a Gerusalemme e a Washington. La lezione ucraina, l’aiuto che gli americani stanno fornendo a Kyiv ma senza un coinvolgimento attivo nel conflitto, ha aumentato la consapevolezza che se le minacce da parte di Teheran dovessero farsi ancora più concrete, Gerusalemme potrebbe contare soltanto su se stessa. Il nuovo medio oriente serve anche a questo: Washington mantiene la collaborazione economica e militare con Israele, ma da lontano. Questa lezione l’hanno appresa anche i nemici: la prossima settimana si incontreranno il presidente iraniano Ebrahim Raisi e il russo Vladimir Putin.

Il Foglio, 15 luglio 2022)


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Si conclude la visita di Biden: un successo di immagine con pochi risultati concreti

di Ugo Volli

• Da Israele all’Arabia Saudita
  La visita di Biden in Israele si avvia ormai alla conclusione. Dopo gli incontri di ieri (con Lapid, Netanyahu, Herzog) la visita a Yad Vashem e l’apertura della maccabiade, oggi il presidente americano vola in Arabia Saudita a incontrare Mohammed bin Salman (MBS per i giornali occidentali), il principe ereditario della dinastia saudita, che egli aveva promesso due anni fa, durante la sua campagna elettorale, di trasformare in un “paria” per la sua supposta partecipazione come mandante all’uccisione del militante islamista e giornalista Jamal Kashoggi in Turchia. Biden si è giustificato di fronte ai conseguenti attacchi della stampa americana dicendo la pura verità: che gli Usa non possono fare troppo gli schizzinosi sui loro alleati mentre sono impegnati in un duro confronto con la Russia e la Cina. Ma certamente questa dichiarazione realistica non è fatta per piacere alla sinistra del suo partito, né potrà però renderlo particolarmente simpatico ai sauditi. Sgradito da una parte e dall’altra, con un indice di sostegno in patria che è il più basso da molto tempo, Biden è certamente a disagio.

• L’accoglienza israeliana
  La stessa scomoda situazione di sedersi fra due sedie o di dover accontentare due forze contraddittorie è il segno del viaggio che Biden ha fatto in Israele: da un lato il presidente doveva ovviamente cercare di mostrarsi cordiale con Israele, che comunque dice molto all’elettorato americano e che rappresenta da sempre il più fedele alleato dell’America. Ma dall’altro la stampa e la sinistra democratica sono decisamente antisraeliani e semmai appoggiano il piano fallimentare di un nuovo accordo con l’Iran che sia Israele sia i sauditi vedono come un  gravissimo pericolo. Certamente i leader israeliani hanno fatto tutto il possibile per fargli sentire l’amicizia di Israele per il suo paese. il presidente Herzog gli ha concesso la medaglia presidenziale, le accoglienze ufficiali sono state condotte con rigore formale e calore umano da tutto l’arco delle forze politiche, gli atti che potevano metterlo in imbarazzo, come i bombardamenti per distruggere i rifornimenti iraniani ai terroristi in Siria e in Libano, le perquisizioni delle città non più controllate neppure dall’Autorità Palestinese come Jenin, o le costruzioni negli insediamenti ebraici sono stati tutti sospesi per evitare incidenti.

• Atti politici contraddittori
  Ma quel che conta sono i gesti politici. E Biden, qui ha mostrato la solita ambiguità. Ha sottoscritto una “Dichiarazione di Gerusalemme” in cui si dice che l’amicizia fra America e Israele è inscalfibile, che gli Usa faranno tutti gli sforzi per evitare un Iran nucleare (ma poi in un’intervista ha precisato che l’opzione militare esiste, ma è proprio l’extrema ratio). La dichiarazione però, come qualcuno l’ha definita, è più “una lettera d’amore” che un documento politico o diplomatico vincolante e quindi non bisogna farci troppo conto. Biden è stato anche il primo presidente americano ad attraversare la linea verde dell’antica divisione di Gerusalemme, non come aveva fatto Trump per visitare il Kotel o “Muro del Pianto”, bensì per recarsi a una cerimonia in un ospedale gestito dall’Autorità Palestinese in un quartiere arabo dentro i confini della capitale di Israele, e ha tenuto a far sapere che aveva proibito agli israeliani di essere presenti.

• Il problema del consolato
  È un gesto che sottolinea simbolicamente un rifiuto di accettare l’appartenenza a Israele di tutta Gerusalemme e che sostituisce quel che Biden ha dichiarato di voler fare, ma su cui non ha avuto il necessario consenso israeliano, e cioè riaprire ufficialmente il consolato di Gerusalemme come rappresentanza degli Usa verso l’Autorità Palestinese. Di fatto il “consolato” funziona oggi proprio così, non dipende dall’ambasciata americana in Israele ma direttamente da Washington. Ma Israele non ha voluto subire lo sgarbo di avere nella propria capitale la rappresentanza diplomatica che interloquisce con uno stato estero, per di più giuridicamente inesistente o se si preferisce, con un’Autorità nemica.

• Le conclusioni della visita
  Il risultato è che Biden non ha particolarmente convinto gli israeliani, ottenendo da loro buone parole (“uno dei più grandi amici di Israele da sempre” l’ha definito Lapid) e qualche atto non particolarmente rilevante (l’aumento dei rifornimenti militari all’Ucraina), ma non altro. D’altro canto non ha cambiato l’atteggiamento dell’Autorità Palestinese, che ha continuato a pretendere in maniera molto poco diplomatica e petulante che gli Usa costringessero Israele a cedere sulle loro richieste, giuste o sbagliate che fossero. Tanto meno ha cambiato la posizione dell’Iran, il quale ha sostenuto ripetutamente che la presenza americana nella regione è una provocazione e un rischio per la pace, minacciando rappresaglie tremende se America e Israele faranno degli “errori”.
  Il viaggio insomma finora è stato un successo formale, si è svolto puntualmente e cordialmente, ma non ha risolto i problemi politici che Biden ha di fronte, perché mancava di obiettivi chiari e cercava di conciliare posizioni contraddittorie. Un bilancio definitivo si potrà fare solo dopo la visita ad Abbas che si svolge oggi a Betlemme (non a Ramallah, forse per evitare contestazioni, o per non mostrare di accettare il fatto che proprio Ramallah è il capoluogo del piccolo cantone amministrato dall’Autorità Palestinese), e soprattutto dopo quella in Arabia. Ma forse non è troppo presto per concludere che essa ha avuto più un significato cerimoniale e comunicativo che un valore politico effettivo.

(Shalom, 15 luglio 2022)

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L'Arabia Saudita apre il suo cielo, cominciando da Israele

Passo avanti verso la normalizzazione nell'area mediorientale. La svolta sulla scia della visita del presidente degli Statu Uniti, Joe Biden.

di Sergio Barlocchetti

Un passo verso la normalizzazione dell’area mediorientale, questo rappresenta la decisione dell’Arabia Saudita di consentire a tutti i voli commerciali da e per Israele di utilizzare il suo spazio aereo, aprendolo però anche ad altri collegamenti. Tra le ricadute del provvedimento, gli appartenenti alla minoranza musulmana che vivono in Israele potranno prendere voli diretti verso l'Arabia per partecipare al pellegrinaggio alla Mecca, e questo costituisce un fatto storico.
  La piccola rivoluzione arriva sulla scia della visita del presidente degli Stati Uniti Joe Biden in Israele, da dove l’Air force One stamattina ha in programma la partenza con destinazione Gedda. Prima della visita, funzionari statunitensi hanno lavorato per approfondire il coordinamento della sicurezza arabo-israeliana e gli accordi di mediazione che porterebbero i due paesi più vicini alla normalizzazione delle relazioni diplomatiche, che ufficialmente oggi non esistono ancora.
  Ed anche se la piena normalizzazione dei rapporti tra le due nazioni rimane al momento lontana, questa apertura cambia la situazione della sicurezza in Medio Oriente e migliora i collegamenti aerei di un terzo del mondo. Non a caso nei mesi precedenti erano in corso trattative per un accordo che avrebbe consentito ai voli commerciali provenienti da Israele di sorvolare il confine saudita. Inizialmente soltanto i voli tra Tel Aviv e gli Emirati Arabi Uniti potranno attraversare l'Arabia Saudita, mentre ora le autorità di Riyad accetteranno voli da Israele verso India, Thailandia e Cina.
  Gli Usa hanno svolto un ruolo chiave nel processo di ampliamento della sicurezza arabo-israeliana, dopo la decisione di Gerusalemme dello scorso anno di trasferire il coordinamento militare sotto il comando centrale di Washington, ponendo Israele e Arabia Saudita sotto lo stesso ombrello difensivo di altri paesi arabi. Successivamente, Israele e Arabia Saudita avevano partecipato per la prima volta ad esercitazioni navali congiunte, insieme a Stati Uniti e Oman.
  Israele nei mesi scorsi aveva chiesto al presidente Joe Biden di recarsi a Riad al fine di ristabilire i legami con il reggente Muhammad bin Salman dopo che gli Stati Uniti, con un rapporto della Cia, lo avevano esortato a confermare la responsabilità nell'uccisione del giornalista Jamal Hashukaji. Oggi Biden atterrerà a Gedda per partecipare a una riunione del Consiglio di cooperazione del Golfo alla quale saranno presenti Egitto, Iraq e Giordania, ma poi bin Salman e Biden si vedranno in forma privata per discutere della produzione di petrolio, con la speranza che l’Arabia si impegni ad aumentare la produzione nelle prossime settimane. In fatto di Medio Oriente Joe Biden, anche ricordando la ripresa dei negoziati con l’Iran sul nucleare, e rivendica il successo di aver reso la regione più stabile di quanto non lo fosse durante l’amministrazione precedente. Facendo finta di dimenticare che nel 2020 fu proprio Trump a far incontrare il principe Mohammed bin Salman con l'allora primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

(Panorama, 15 luglio 2022)

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La vox populi sul vaccino è cambiata. Una quarta dose non andrà giù

Dopo la prima iniezione fatta per convinzione, la seconda per disciplina e la terza per poter lavorare, anche chi è lontano dai no vax adesso dice basta. D'altra parte, perché immunizzarsi se gli stessi esperti non ci credono?

di Marcello Veneziani

La logica di imporre sacrifici sociali ed economici continui non pagherà Il dogmatismo vaccinale può creare un mix pericoloso con la crisi economica

«Ora basta, la quarta dose non la faccio». È il passaparola spontaneo che sento ripetere dappertutto. Non riguarda solo il popolo dei no vax o di quanti cercarono di sottrarsi al vaccino anti covid sin dagli inizi, scettici sugli effetti salvifici e preoccupati sugli effetti collaterali. Ma è il diffuso pensiero espresso da chi i vaccini li ha fatti. Molti precisano di aver fatto convintamente la prima dose, per disciplina e senso civico la seconda, e di aver fatto pur recalcitranti anche la terza per accedere al green pass e non avere problemi nella vita e sul lavoro. Ma la quarta no, dicono in tanti, che mi capita di ascoltare. Non è una posizione ideologica o politica, i terrapiattisti non c'entrano; ma gli argomenti che sostengono questo rifiuto di massa sono di tipo pratico, attinti dall'osservazione della realtà e dall'esperienza comune. Il vaccino, sostengono ormai in tanti, è inefficace contro le varianti, lo vediamo ogni giorno, e in modo obliquo lo confermano pure gli esperti, salvo ripiegare quasi tutti su un fideismo finale sul dogma vaccino, che è poi un cieco allinearsi per non avere problemi e subire ritorsioni. Tanti tra i colpiti dal covid, o ricaduti nel contagio, sono pluri-vaccinati. E dopo aver sostenuto a lungo la tesi che il vaccino comunque attenua gli effetti del virus e diminuisce le probabilità di contagio, ora si arriva a dire - davanti a troppe smentite della realtà- che il vaccino resta l'unica risposta (seppur poco efficace o del tutto inefficace) alla circolazione del covid. Se abbiamo senso civico dobbiamo farlo, come se fosse un imperativo morale di tipo kantiano. La scienza non ci è più di aiuto, resta la morale assoluta.
  L'inoculazione ripetuta del vaccino, nota la gente dopo tre anni di pandemia, non ha dato i frutti sperati, anzi rischia di abbassare ulteriormente le difese del sistema immunitario mentre si allarga sempre più la platea di chi ha vissuto o ha visto esiti tragici seguiti al vaccino. Anche in questo caso, come fu già per il covid, post hoc non vuol dire propter hoc, ovvero non c'è alcuna certezza scientifica che vi sia un nesso tra il vaccino e le varie patologie che sono seguite. Ma il racconto di molti, si ripete con insistenza: casi direttamente conosciuti, anche di familiari, che a due settimane o comunque dopo la terza dose hanno avuto problemi cardiaci importanti o fatali, aneurismi e altre patologie gravi e a volte letali. E non sono quasi mai persone anziane o cagionevoli, con precedenti sanitari.
  E facile attribuire alle dosi reiterate di vaccino tutti i mali possibili e immaginabili che sono accaduti; ma quando si verificano casi frequenti e inspiegati, il minimo dubbio che il vaccino sia stato almeno la causa scatenante di patologie latenti, insorge. Non ci sono basi per affermarlo scientificamente, ma tantomeno per escluderlo. Non ci sono studi in materia di qualche rilevanza scientifica, anzi si evita la questione, sicché i dubbi restano.
  Persone del tutto ragionevoli, che non soffrono di complottismo o dietrologia, escludono di farsi propinare la quarta (e poi la quinta) dose che viene ogni giorno annunciata, caldeggiata, se non prescritta, a partire dalle categorie a rischio, dai fragili agli anziani. Non avendo alcuna certezza, vedendo il fronte dei virologi e dei medici molto diviso, disorientato e spesso con pareri privati molto critici anche se pubblicamente temono ritorsioni a esprimere la propria divergenza, non ci sentiamo di dare consigli a nessuno. Certo non alzeremo steccati e barricate tra frenatori e oltranzisti del vaccino. Però in tutta onestà, per quel che mi riguarda, cercherò di sottrarmi alla quarta dose.
  Quella vox populi, probabilmente, col passare dei giorni e il tambureggiare della campagna mediatica, istituzionale e sanitaria, con le misure restrittive che presto seguiranno per imporre l'ulteriore richiamo, si ridimensionerà.
  Qualcuno ci ripenserà, qualcuno chinerà la testa ai diktat e ai divieti; anche se non è impossibile immaginare una diffusa obiezione di coscienza e «di realtà», che magari costringerà la cupola mediatico-sanitaria-istituzionale a fare passi indietro. Il tema non può essere liquidato come un riemergere del populismo, altrimenti si potrebbe affermare anche il contrario: che si vuole imporre un vaccino periodico contro il populismo, non contro il covid, di cui è palese l'inefficacia, almeno rispetto alle sue ultime varianti.
  L'atteggiamento dogmatico sul vaccino, nonostante i risultati, rischia anzi di sfociare in chiave di ribellione sociale e politica combinandosi con le altre emergenze che si intrecciano in questo brutto momento per l'Italia e per l'Europa. Per esempio quando sentiamo gli effetti enormi sulla situazione economica, energetica e sociale che stanno avendo le posizioni italo-europee sul conflitto russo-ucraino, a fronte di modestissimi risultati: tanti sacrifici prescritti, tante restrizioni, una crisi galoppante d'inflazione, energia e lavoro, ma la guerra non viene frenata, la Russia nemmeno e i governi occidentali vacillano più che il Cremlino. A cosa servono tutti questi sacrifici, si chiede la gente? E ancora una volta si tratta di una considerazione di puro buon senso, non discesa da letture faziose o ideologiche. Si può essere fermamente contro Putin e l'invasione in Ucraina, e trovarsi a dire: ma noi che ci stiamo martellando i nostri organi vitali e riproduttivi ogni giorno, che effetto abbiamo prodotto sulla guerra? Zero. Volevamo tagliare il gas russo e ora temiamo che lo facciano loro e li denunciamo per questo ... Se il disagio davanti all'obbligo della quarta dose dovesse intrecciarsi alla serie di restrizioni e sacrifici a fronte di nessun risultato, allora sì, la vox populi potrà esplodere, anche sul piano della rivolta sociale. Fatevi una dose di senno, ogni tanto.

(La Verità, 15 luglio 2022)
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"Benvenuto nel popolo dei novax!" Sarà questo il saluto con cui i novax della prima ora accoglieranno tra le loro fila i convertiti dell'ultim'ora, quelli che, come il serio e onesto autore dell'articolo, mentre erano sulla via che porta all'ultima vaccinazione imposta dalle solerti autorità sono stati folgorati dalla luce di un atroce dubbio: "Ma non sarà tutto un imbroglio?" No, non è possibile, si dirà il dubbioso sivax: non sono un complottista, non sono un terrapiattista, sono soltanto una persona di buon senso che cerca il bene comune; uno che vuol fare con consapevolezza quello che è giusto fare per una pacifica convivenza nella società. Ma proprio quest'ammirevole serietà gli fa nascere un dubbio che gli rode nella mente: "Non sarà tutta una questione di soldi?" Qualcuno deve averglielo detto, ma lui, persona seria, l'aveva subito scartato la cosa come "fake news". Eppure... eppure... Certo però che Pfizer, BigPharma... [continua nell'articolo che segue]. M.C


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Le prove dell’influenza di Pfizer sui governi: milioni di dollari in lobbying

di Michele Crudelini

È indubbio che i vaccini anti Covid abbiano goduto di un’ottima pubblicità, in certi casi fin troppo generosa. Presentati come l’unica salvezza possibile che avrebbe dovuto in poco tempo spazzare via il virus, dopo un anno e mezzo dalla loro immissione poco si è risolto.
  Si è però scoperto che l’efficacia degli stessi era di gran lunga inferiore rispetto a quanto avevano annunciato inizialmente le case farmaceutiche. Un prodotto che non rispetta le aspettative dovrebbe essere considerato un flop, eppure i vaccini anti covid continuano ad essere approvati dalle agenzie di regolamentazione del farmaco e gli Stati sottoscrivono contratti milionari con Big Pharma.

• L’attività di lobbying della Pfizer
  Come fanno le aziende del farmaco ad avere così successo a fronte di prodotti oggettivamente scadenti? La risposta è una sola: lobbying. Si tratta dell’attività che le grandi aziende conducono all’ombra delle istituzioni, nel tentativo influenzare il processo legislativo a proprio vantaggio. Bene, in questo particolare settore Pfizer sembra essersi data molto da fare negli ultimi due anni, investendo un grande quantitativo di denaro che ad oggi sembra aver ripagato più che bene, garantendo la posizione di monopolista del mercato.
  Pfizer ha venduto vaccini in tutto il mondo e quindi la sua attività di lobbying è multinazionale. Un’attenzione particolare è stata riservata agli Stati Uniti. Secondo i dati riportati dal Senato americano dal 2020 ad oggi la Pfizer ha speso 25 milioni di dollari nell’attività di lobbying, versati a 19 aziende specializzate in questa attività.
  Tra queste troviamo i nomi delle principali imprese del settore, di cui la maggioranza ha la sede a Washington proprio a due passi dalla Casa Bianca, così da rendere più facile l’organizzazione degli incontri con i funzionari di Stato. Come il Washington Tax & Public Policy Group e il The Group, che ha nel suo portafoglio clienti anche l’azienda di armamenti Lockeed Martin.

• La Pfizer e le presidenziali americane
  La Pfizer si era però mossa per tempo e aveva assistito con particolare attenzione all’evolversi delle ultime elezioni presidenziali, puntando sul candidato vincente. In totale per le elezioni americane del 2020 la Pfizer aveva investito 3,5 milioni di dollari, di cui 351mila destinati alla campagna presidenziale di Joe Biden. Per Trump aveva invece riservato una più modesta cifra pari a 105mila dollari.
  E così in America gli affari di Big Pharma sono andati a gonfie vele. Recentemente la FDA ha per esempio annunciato che per i nuovi vaccini anti covid non verranno nemmeno più richiesti nuovi dati sui trial clinici, ma si farà affidamento su quelli esistenti. Evidentemente i soldi di qualche lobbista possono sostituire le procedure scientifiche standard.

• Corridoi lobbistici anche in UE
  L’influenza di Pfizer si estende anche oltreoceano e trova terreno fertile nell’Unione europea. Il registro sulla trasparenza adottato a Bruxelles è il documento che ci permette di capire come si è mossa l’azienda nell’ultimo periodo. Tra gli obiettivi lobbistici della Pfizer c’è la volontà di cambiare il quadro legislativo sui farmaci nell’Unione, promuovere i vaccini anti Covid e supportare il misterioso progetto HERA. Per farlo Pfizer si avvale di cinque persone, tre di queste sono impiegate a tempo pieno all’interno dei corridoi di Bruxelles. Costo dell’attività? 1,5 milioni di euro per il solo anno 2021.
  Si può notare poi come nelle consultazioni in cui ha preso parte Pfizer la composizione dei partecipanti è sempre stata sbilanciata verso il settore privato, in particolare le grandi aziende. Le piccole imprese, i cittadini e i sindacati non rappresentano che una sparuta minoranza all’interno di queste consultazioni.
  C’è poi da dire che tutto questo rientra nell’attività lobbistica regolamentata, c’è poi quella sommersa, che esiste eccome. Sappiamo per esempio dell’esistenza di uno scambio di messaggi Whatsapp tra la Presidente della Commissione Ursula von Der Leyen e l’amministratore delegato della Pfizer Albert Bourla. Conversazioni che riguardavano niente meno che la sottoscrizione dei contratti dei vaccini anti Covid. Ora quei messaggi sono spariti. Quello che sappiamo è quindi solo un breve capitolo del potere che questa multinazionale ha nell’influenzare le politiche dei Governi.

(byoblu, 14 luglio 2022)

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Biden chiede alle autorità israeliane di aumentare gli aiuti militari all'Ucraina

di Ilya Polonsky

Durante la visita a Gerusalemme, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha sollevato la questione dell'aumento dell'assistenza militare israeliana all'Ucraina. Il capo della Casa Bianca ha chiesto informazioni al primo ministro israeliano Yair Lapid.
  Recentemente, la questione della fornitura оружия all'Ucraina è diventata una delle principali contraddizioni nelle relazioni tra Stati Uniti e Israele. A differenza della maggior parte degli alleati europei di Washington, Israele non ha fretta di aumentare gli aiuti all'Ucraina. Ciò è dovuto a una serie di fattori.
  Pertanto, Israele ha da tempo sviluppato una relazione speciale con la Russia, basata sull'osservanza di interessi reciprocamente vantaggiosi. Un gran numero di immigrati dalla Russia vive in Israele, compresi i russi etnici: questi sono i coniugi di ebrei partiti per la storica patria e altri parenti.
  Infine, Israele non ha basi ideologiche per aiutare il regime di Kiev, le cui milizie professano apertamente l'ideologia nazista. Se in Polonia o in Lettonia, per ragioni ben note, le svastiche sui galloni dei militanti ucraini non stonano affatto, allora in Israele non funzionerà comunque a guardarlo con indifferenza.
  Tuttavia, Israele è sotto pressione da parte degli Stati Uniti, da cui il Paese dipende fortemente per il sostegno militare e finanziario. Sotto la pressione di Washington, Israele è stato costretto a cambiare la sua politica nei confronti del conflitto ucraino e ad assumere una posizione più pro-Kiev di prima. Ma fino a poco tempo, Israele non ha fornito armi moderne all'Ucraina. Biden vuole correggere questa sfortunata svista, dal punto di vista di Washington.
  Le autorità ucraine si sono rivolte più volte a Israele con la richiesta di fornire sistemi di contromisura per velivoli senza pilota. Israele ha regolarmente respinto queste richieste da Kiev. Ma due settimane fa, Yair Lapid ha assunto la carica di primo ministro ad interim di Israele. Prende una posizione più dura sulla Russia.
  Poco prima dell'arrivo di Biden in Israele, il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz ha autorizzato la consegna di "equipaggiamento aggiuntivo" all'Ucraina. L'elenco di questa attrezzatura comprende 1500 caschi, 1500 giubbotti antiproiettile, 1000 maschere antigas, tute protettive per lo sminamento. Come puoi vedere, non ci sono ancora armi, ma ci sono molte munizioni utili che possono essere utilizzate da organizzazioni non civili. Gli Stati Uniti hanno appoggiato la decisione di stanziare tale assistenza, ma hanno ricordato che anche l'Ucraina ha alcuni "bisogni speciali", sui quali la parte israeliana a Washington conta molto sull'attuazione.
  Oltre al conflitto ucraino, anche il “problema iraniano” è argomento di discussione tra Biden e Lapid. Ieri Biden ha dichiarato apertamente che gli Stati Uniti potrebbero influenzare l'Iran con mezzi militari se la Repubblica islamica non abbandona i suoi piani per creare proprie armi nucleari.
  Inoltre, la visita di Biden in Israele, dopo la quale il presidente degli Stati Uniti andrà in Arabia Saudita, mira anche a normalizzare le relazioni israelo-saudita. In precedenza, Israele ha già ristabilito i legami con gli Emirati Arabi Uniti, ora l'Arabia Saudita è la prossima in linea. Tel Aviv e Riyadh hanno un avversario strategico comune: l'Iran, quindi, nonostante le tradizionali contraddizioni arabo-ebraiche, né Israele né l'Arabia Saudita possono sottrarsi alla cooperazione contro l'Iran. Gli Stati Uniti in questo caso svolgono il ruolo di patron, che sviluppa i legami tra i suoi partner regionali junior.

(Top War, 14 luglio 2022)
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Ecco che cosa viene a fare Biden in Israele: a chiedere armi per combattere la guerra Usa contro la Russia sulla pelle degli ucraini. La stessa cosa fanno gli Usa in Europa, dove non si limitano a chiedere, ma impongono. Impongono di entrare in guerra tramite i loro emissari in loco come il nostro premier. Israele però resiste. Si veda l'articolo seguente. M.C.

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Israele ha bloccato con successo la consegna delle sue armi avanzate all'Ucraina

Dall'inizio del NMD, Israele ha bloccato la consegna delle sue armi all'Ucraina da parte di quattro paesi.

Israele aderisce attivamente alla neutralità nell'operazione militare speciale della Russia sul territorio dell'Ucraina, bloccando attivamente la fornitura delle sue armi all'esercito ucraino. Come si è scoperto, oltre a bloccare la fornitura di armi su richiesta della stessa Kiev, da febbraio le autorità israeliane hanno posto il veto alla fornitura di armi all'Ucraina da parte di altri quattro paesi.
  Secondo fonti aperte, le autorità israeliane hanno respinto la richiesta dell'Ucraina per la fornitura di sistemi missilistici antiaerei avanzati Iron Dome alle forze armate ucraine, che Kiev ha chiesto a Israele di fornire, ma in seguito hanno fatto riferimento al fatto che tali armi semplicemente non erano adatte per l'esercito ucraino. Inoltre, si è saputo che almeno altri quattro paesi intendevano trasferire missili israeliani in Ucraina, tuttavia, il governo israeliano ha respinto tutte e quattro le richieste avvalendosi del diritto di veto.
  Al momento è noto che paesi come Italia, Germania, Polonia e Stati Uniti hanno cercato di fornire all'Ucraina i sistemi missilistici anticarro Spike-MR e Spike-LR, inoltre è stata inviata una richiesta dagli Stati Uniti a Israele relativamente recente. Non stiamo parlando della fornitura di sistemi a lungo raggio Spike-NLOS, tuttavia, le azioni delle autorità israeliane indicano il fatto che Israele sta cercando di mantenere la sua posizione neutrale sia nei confronti della Russia che dell'Ucraina.

(Avia.Pro, 14 luglio 2022)

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Sondaggio: i residenti arabi di Gerusalemme non vogliono uno stato palestinese

Le forze esterne che spingono per uno stato palestinese con Gerusalemme come capitale sembrano volerlo ancor più degli stessi arabi palestinesi.

È probabile che mentre è in visita in Israele il presidente degli Stati Uniti Joe Biden spinga per l'apertura di un'ambasciata de facto per i palestinesi a Gerusalemme est. È prevista anche una visita a Gerusalemme est senza rappresentanti israeliani.
  In definitiva, questi passi rafforzerebbero le pretese palestinesi sulla metà orientale di Gerusalemme come capitale di un futuro stato palestinese.
  Ma sapete qual è l'opinione su questo argomento che da Biden e da tutti gli altri politici viene completamente ignorata? Quella dei circa 400.000 arabi che vivono a Gerusalemme.
  Un sondaggio commissionato dal Washington Institute for Middle East Studies e condotto dal Palestine Center for Public Opinion ha rilevato che quasi la metà (48%) degli arabi che vivono a Gerusalemme non vogliono diventare cittadini di uno stato palestinese.
  Preferiscono diventare cittadini a pieno titolo di Israele, o almeno mantenere lo status quo.
  Solo il 43% degli arabi che vivono a Gerusalemme est ha dichiarato di voler essere incorporato in uno stato palestinese.
  In modo altrettanto sorprendente, anche tra i palestinesi che vivono in aree già completamente controllate dall'Autorità Palestinese (Ramallah, Betlemme, Nablus, ecc.), una forte minoranza del 25% ha affermato che anche loro sceglierebbero di diventare israeliani se ne avessero la possibilità.
  In altre parole, le forze esterne che spingono per uno stato palestinese con Gerusalemme come capitale sembrano volerlo ancor più degli stessi arabi palestinesi.

(israel heute, 14 luglio 2022 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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L’Iran e i suoi ministri, terroristi al potere

di Ugo Volli

Normalmente c’è una certa distanza fra governanti e killer. Ministri e membri dell’élite politica possono talvolta essere coinvolti in crimini economici, essere corrotti, evasori, bancarottieri; altre volte può capitare di trovare nei governi personaggi che hanno molestato sessualmente  in maniera più o meno grave delle donne.
  Ma in genere non accade che i rappresentanti di uno stato siano sospettatati di crimini di sangue.
  Può accadere solo nel caso di movimenti terroristi che si sono recentemente impadroniti di uno stato e hanno trasferito direttamente la loro dirigenza militare in ruoli di governo; è capitato per esempio negli anni scorsi coi talebani, ma intorno a questi stati vi è una tacita ma chiarissima cintura di sicurezza: nessun paese civile accetta di avere a che fare con questi stati, salvo quelli che vi sono obbligati per gli strascichi del conflitto.
   A questa regola vi è però una rilevante eccezione ed è l’Iran. Gli ayatollah si sono impadroniti del potere quarantatré anni fa, nel ‘79 e l’hanno fatto per mezzo di una rivolta di piazza, non di una guerriglia terrorista, ma non hanno mai accettato il principio di legalità nelle relazioni interne e soprattutto internazionali, hanno continuato a dirottare navi, abbattere aerei commerciali, compiere attentati contro obiettivi civili come singoli imprenditori, diplomatici, turiti.
  Per non parlare naturalmente della guerriglia e delle rivolte che hanno alimentato in Siria, Libano, Yemen, Bahrein, Arabia Saudita e soprattutto contro Israele. Questa commistione fra criminalità comune, mani sporche di sangue e governo non è mai cessata, ma era molto evidente durante la presidenza di Mahmud Ahmadinejad (2005-2013) e lo è di nuovo da quando un anno fa la presidenza dell’Iran è stata assunta da Ebrahim Raisi, lui stesso soprannominato “il macellaio” per il suo coinvolgimento diretto in numerosi casi di tortura, quand’era capo della magistratura iraniana, e anche nella repressione del movimento studentesco.
  Un altro caso particolarmente rilevante è quello del ministro dell’interno Ahmad Vahidi, generale dei Guardiani della rivoluzione e già ministro della Difesa sotto Ahmadinedjad, accusato di aver direttamente organizzato numerosi attentati sanguinosi, fra cui quello terribile del centro ebraico di Buenos Aires, quando era a capo delle brigate al-Quds dei pasdaran. 
  Erano le 9.58 del 18 luglio 1994 quando  un furgone carico di tritolo esplose nel parcheggio seminterrato dell’edificio ospitante gli uffici dell’Associazione Mutualità Israelita Argentina (AMIA) e della Delegazione delle associazioni israelite argentine.
  L’edificio crollò causando 85 vittime e oltre 200 feriti. Fu probabilmente la più grave strage antisemita dopo la caduta del nazismo. Ormai è sicuro che essa fu organizzata dagli Hezbollah su commissione e sotto il controllo delle guardie rivoluzionarie iraniane.
  Quel che interessa molto è che secondo le indagini dei pubblici ministeri argentini, molto contrastate dai governanti peronisti che si sono succedute da allora, nell’organizzazione della strage ebbe un ruolo importante . Il ministro degli Esteri iraniano Hossein Amir Abdollahian, diplomatico molto vicino al Corpo dei guardiani della rivoluzione, sostenitore della dottrina della “resistenza” che si esplicita nel sostegno a Bashar al-Assad in Siria e a Hezbollah in Libano.
  Nei giorni scorsi infatti  Abdollahian ha fatto visita in Italia, la prima in un Paese europeo dalla sua entrata in carica lo scorso agosto 2021, ricevuto molto cordialmente dal nostro ministro degli esteri Di Maio. Vale la pena di leggere con attenzione i messaggi pubblici scambiati dalle due parti.
  Il ministro degli Esteri iraniano in un messaggio su Twitter diffuso ha scritto che l’incontro ha affrontato le grandi potenzialità economiche dei due Paesi, in particolare nel settore dell’energia. “Ho incontrato il mio omologo italiano, Luigi Di Maio, a Roma. Ho discusso con lui una serie di questioni bilaterali, regionali e internazionali. Abbiamo convenuto che le nostre enormi capacità economiche, in particolare nel settore dell’energia, promettono un futuro radioso per la nostra cooperazione reciprocamente vantaggiosa”.
  In una nota della Farnesina si sottolinea invece come durante l’incontro il ministro Di Maio abbia “innanzitutto rappresentato al ministro Amir Abdollahian la volontà di alimentare un dialogo ampio e franco anche con l’obiettivo di favorire la condivisione di posizioni costruttive sul piano regionale e internazionale”.
  Il responsabile della Farnesina ha ribadito il fermo incoraggiamento a chiudere senza ulteriore indugio il negoziato per il ripristino del Piano d’azione congiunto globale (Jcpoa) quale contributo alla stabilità e sicurezza regionali, oltre che condizione essenziale per il rilancio della collaborazione bilaterale in ambito economico e culturale. Di Maio ha espresso l’auspicio di una normalizzazione delle relazioni fra i Paesi dell’area, ribadendo al suo omologo come solo attraverso il dialogo e la collaborazione si possano creare le condizioni per un progressivo miglioramento della cornice di sicurezza.
  Insomma, al di là del nebuloso frasario diplomatico, l’Italia si propone come interlocutore privilegiato dell’Iran in Europa (di cui è già il primo partner commerciale) e come sostenitrice senza esitazioni della ripresa del vecchio accordo di Obama, così fallimentare da essere stato abbandonato da Trump.
  Fra Di Maio e  Amir Abdollahian non si è parlato né del suo passato terrorista, né dell’imperialismo attuale dell’Iran, di quel che fa in Siria e in Yemen, della pirateria nel Golfo Persico, della guerra clandestina contro Israele e dell’appoggio all’invasione russa dell’Ucraina. Non è vero dunque che sempre intorno ai ministri criminali i paesi civili innalzino una barriera di sicurezza. Basta che siano abbastanza potenti e forniti di petrolio.

(Progetto Dreyfus, 14 luglio 2022)

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Marocco: nasce autorità per l’ebraismo marocchino

Voluta dal Re Mohammed VI

Il re del Marocco, Mohammed VI, ha approvato una riorganizzazione della comunità ebraica in Marocco, una “componente” della cultura nazionale, durante un consiglio dei ministri che ha presieduto eccezionalmente il 13 luglio sera, al Palazzo Reale di Rabat.
  Al termine di questo consiglio, il ministro dell’Interno Abdelouafi Laftit ha presentato al monarca nuove misure riguardanti l’organizzazione della comunità ebraica marocchina, secondo un comunicato stampa del portavoce del Palazzo Reale, Abdelhak Lamrini.
  Tali misure – “elaborate, in applicazione delle alte istruzioni reali” – “consacrano l’affluente ebraico come componente della ricca cultura marocchina dei suoi molteplici affluenti”, sottolinea il comunicato stampa pubblicato dall’agenzia ufficiale MAP.
  La comunità ebraica marocchina, stimata oggi in 3.000 persone, rimane la più grande del Nord Africa, nonostante una massiccia partenza verso Israele dopo la creazione dello stato ebraico nel 1948.
  Presente fin dall’antichità, rafforzata nel XV secolo dall’espulsione degli ebrei dalla Spagna, alla fine degli anni ’40 questa comunità raggiunse le 250.000 persone.
  Le nuove disposizioni sono state redatte a seguito di consultazioni con rappresentanti e personalità della comunità ebraica, secondo la dichiarazione reale.
  E’ stato istituito quindi un Consiglio nazionale della comunità ebraica marocchina, responsabile della gestione degli affari della comunità e della salvaguardia del patrimonio e dell’influenza culturale e di culto dell’ebraismo e dei suoi autentici valori marocchini.
  E’ prevista inoltre la creazione di una Commissione di ebrei marocchini all’estero che opera per consolidare i legami degli ebrei marocchini stabiliti all’estero con il loro paese di origine, per rafforzare la loro influenza religiosa e culturale e per difendere gli interessi dei Supremi del Regno.
  I circa 700.000 israeliani di origine marocchina hanno mantenuto legami molto forti con il loro paese di origine.
  Infine, è stata creata una Fondazione dell’ebraismo marocchino, la cui missione è promuovere e vigilare sull’eredità immateriale giudaico-marocchina, salvaguardarne le tradizioni e preservarne le specificità.
  Questa nuova organizzazione dell’ebraismo marocchino arriva in un momento in cui il riavvicinamento tra il regno marocchino e lo stato ebraico continua a un ritmo accelerato.

(Futuro Quotidiano, 14 luglio 2022)

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Al Meis torna la festa del Libro Ebraico

La tredicesima edizione della rassegna culturale arriva in città a metà settembre. Fra gli ospiti più attesi il premio Pulitzer Joshua Cohen.

Torna, per la tredicesima edizione che si terrà dal 15 al 18 settembre al Meis, la festa del Libro Ebraico, che negli scorsi anni ha visto la partecipazione di personaggi di rilievo come Abraham B. Yehoshua, Eike Schmidt, Alessandro Piperno e Luciano Canfora. Ideato e organizzato dal Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah-Meis, la manifestazione vuole far conoscere le tante sfumature della cultura ebraica, e che anche quest’anno vede la partecipazione di grandi autori come il Premio Pulitzer Joshua Cohen, la fumettista israeliana Rutu Modan, la scrittrice per ragazzi Keren David e molti altri. Il programma di questa edizione affronta temi come il rapporto tra ebraismo e immagine, esplorato attraverso fumetti, graphic novel e antichi manoscritti illustrati in un confronto con gli autori.
  Altro tema centrale è quello del rinnovamento, parola scelta per omaggiare la giornata europea della Cultura Ebraica che coincide con l’ultimo giorno della festa del Libro Ebraico , il 18 settembre: "Rinnovare significa cambiare – afferma il direttore del Meis Amedeo Spagnoletto – ma anche rendere diverso qualcosa che si aveva già. Significa darsi la possibilità di migliorare quindi rispettare sé stessi e l’ambiente che ci circonda".
  Tra i tanti eventi che si susseguiranno nei tre giorni di festival, da non perdere la presentazione di ’Netanyahu. Dove si narra un episodio minore e in fin dei conti trascurabile nella storia di una famiglia illustre’ (Codice edizioni, 2022) con l’autore, e premio Pulitzer Joshua Cohen, ma anche l’incontro con la fumettista israeliana Rutu Modan, tra le firme più apprezzate nel panorama del fumetto contemporaneo. Un vero omaggio a tutto tondo viene poi dedicato a Primo Levi, a partire dalla nuova edizione della raccolta di racconti ’Storie naturali’ (Einaudi, 2022), presentata dai curatori Domenico Scarpa, Martina Mengoni, il Presidente della casa editrice Giulio Einaudi editore Walter Barberis e lo scrittore e chimico Marco Malvaldi. Un’occasione unica è rappresentata inoltre dalla presentazione dell’edizione in facsimile del ’Meshal ha-Qadmoni’, un piccolo codice di favole antiche, riccamente illustrato con scene vivaci e colorate e copiato nel 1483 a Brescia in una calligrafia ebraica ashkenazita, commentato dai curatori monsignor Pier Francesco Fumagalli, Anna Linda Callow in dialogo con il prof. Saverio Campanini.

(Il Resto del Carlino, 14 luglio 2022)

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L’altro viaggio presidenziale in Medio Oriente: l’incontro di Putin con Erdogan e Raisi a Teheran

di Ugo Volli

Gli occhi di tutti gli osservatori interessati al Medio Oriente sono fissi sul viaggio di Biden in Israele e Arabia Saudita, che inizia oggi. Il pronostico generale è che non ne usciranno grandi novità, anche perché l’agenda mediorientale della visita è ambigua e confusa, riaffermando da un lato la tradizionale amicizia con questi stati, ma dall’altro sostenendo la ripresa di un accordo col loro peggiore nemico, l’Iran. Vedremo nei prossimi giorni se e come queste previsioni sostanzialmente pessimiste saranno superate. Ma una cosa il viaggio di Biden certamente dimostra: la ritrovata centralità del Medio Oriente nello scacchiere politico mondiale, luogo di tensioni e di accordi, di minacce e di speranze secondo oggi solo all’Europa Orientale.

• LA TRILATERALE DI TEHERAN
  Lo conferma un altro viaggio presidenziale che si svolgerà a partire dal 19 luglio, contrapposto al primo. È la partecipazione del presidente russo Putin a un incontro triangolare che si svolgerà dal 19 a Teheran, con la presenza del presidente russo, di quello iraniano e di quello turco. Si tratta del primo trasferimento all’estero di Putin da quando ha attaccato l’Ucraina. Da un lato è la risposta diretta alla missione di Biden, la dichiarazione esplicita che la Russia non intende farsi togliere il ruolo centrale in Medio Oriente, conquistata con la partecipazione alla guerra civile siriana, l’alleanza con l’Iran, la presenza in Libia e in Egitto, gli equilibrismi per non perdere i rapporti con Israele pur sostenendo il suo nemico mortale.

• I DRONI IRANIANI
  Dall’altro Putin va a incontrare capi di stato che hanno molto da dargli per la guerra in Ucraina. E’ stata la stessa Casa Bianca a denunciare che l’Iran si prepara a consegnare “centinaia” di droni da guerra alla Russia e ad addestrare le sue truppe per il loro uso in Ucraina. E’ una strana inversione di ruoli, che dovrebbe far riflettere sulla debolezza tecnologica della Russia. Non è Putin a vendere armi avanzate all’Iran, ma viceversa. L’Iran ha una notevole esperienza sull’uso dei droni come mezzo di guerra. Li ha forniti a Hamas e Hezbollah, che non ne hanno fatto granché contro Israele, il quale è assai più avanti di loro; ma li hanno anche fatti usare agli Houti che li hanno tirati con notevole successo contro l’Arabia Saudita, incendiando pozzi petroliferi, devastando aeroporti, attaccando città e basi militari.

• LA TURCHIA
  I droni sono anche la specialità della Turchia, che di recente li ha forniti all'Azerbaigian e all’Ucraina. La partecipazione di Erdogan a questo vertice può sorprendere, dato che si tratta di un membro della Nato che sia pure con molte ambiguità si è schierato con l’Ucraina, bloccando l’accesso al Mar Nero alle navi militari russe e fornendo armi a Zelenskij. Ma la spregiudicatezza di Erdogan è straordinaria, come la sua assenza di scrupoli. Ha usato la domanda di adesione alla Nato di Svezia e Finlandia per togliere appoggio umanitario ai suoi nemici curdi; al tempo dell’invasione azera del Nagorno Karabach ha negoziato con Putin una soluzione favorevole alle sue ambizioni panturchesche; dalla Russia qualche anno fa ha comprato i missili antiaerei SS4, costringendo gli Usa a espellerli dal programma dell’aereo modernissimo F35, per non compromettere tutti i suoi segreti. Con Israele ha tenuto una linea estremamente ambigua, appoggiando in tutti i modi Hamas e il palestinismo, ma cercando di convincere i governanti israeliani a schierarsi con lui sulla questione del petrolio, ai danni della Grecia e di Cipro, altri suoi nemici storici. Se ricevesse un buon prezzo, Erdogan non avrebbe nessuno scrupolo ad aiutare Putin nell’invasione dell’Ucraina.

• IL NUCLEARE IRANIANO
  La questione decisiva nel Medio Oriente, dalla caduta di Saddam Hussein, è il tentativo di egemonia iraniano, che si regge su due assi principali. Uno è l’aggressione a Israele, che corrisponde certamente un odio sincero da parte del regime sciita, ma è anche utile a sollecitare gli istinti antisemiti della piazza musulmana; il secondo è l’armamento atomico, che darebbe all’Iran una deterrenza tale da rendere impossibile di sconfiggerlo in maniera definitiva. Anche se avrebbe forti ragioni militari per temerlo, la Russia non ha affatto contrastato il nucleare iraniano, ancor più dei democratici americani e dei loro partner europei, perché non pratica l’ipocrisia pacifista che li ha bloccati per anni su questo tema e considera giustamente gli ayatollah come suoi alleati, almeno per il momento. Ma almeno nell’ultimo decennio la Russia ha trovato un modus vivendi con Israele e non è d’accordo sul progetto iraniano di distruggerlo. Ma non si tratta di temi centrali per Putin, che è impegnato in Ucraina in un conflitto esistenziale per lui e per il suo modo di concepire la Russia. Dunque anche su questo tema vi possono essere delle convergenze fra Putin e quello che finora è il suo migliore alleato e forse l’unico, a parte satelliti come la Siria o la Bielorussia. Sarà difficile sapere su che cosa si accorderanno Putin, Erdogan e Raisi; ma c’è la preoccupazione che si tratti di contenuti più concreti della confusa propaganda che sarà probabilmente il solo risultato del viaggio di Biden.

(Shalom, 13 luglio 2022)

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Il segretario generale della difesa incontra il direttore generale del ministero della difesa di Israele

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Il segretario generale della difesa e direttore nazionale degli armamenti, generale di corpo d’armata Luciano Portolano, ha incontrato a Roma una delegazione israeliana guidata dal direttore generale del ministero della difesa, il maggior generale Amir Eshel.
  Oltre al magg. generale Eshel, la delegazione israeliana era composta dal vice direttore generale e capo del directorate of procurement and production del ministero della difesa israeliano, col. Avi Dadon, dall’addetto alla difesa israeliano, col. Dror Altman, e altri funzionari.
  Gli incontri si sono svolti in un clima di reciproca stima e collaborazione e hanno permesso di consolidare ulteriormente le già eccellenti relazioni in atto tra Italia e Israele, con particolare riferimento al rafforzamento della cooperazione industriale, attraverso la condivisione di nuove aree di collaborazione da sviluppare con il pieno coinvolgimento delle rispettive Forze Armate.
  Il costante dialogo strategico tra le parti ha inoltre permesso alle due autorità di confrontarsi in modo schietto, sincero e proficuo sul tema delle sfide imposte dagli attuali scenari di crisi internazionale e sul contesto in cui le parti intendono cooperare.
  Il generale Eshel ha quindi espresso al generale Portolano il suo grande apprezzamento, a nome di tutto l'establishment della difesa israeliana, per l'alleanza strategica tra i due Paesi e la ferma posizione dell'Italia a fianco dello Stato di Israele nei contesti internazionali.
  Da parte sua, il generale Portolano ha ribadito la piena disponibilità a continuare un dialogo di supporto istituzionale tra governi caratterizzato da una comune visione strategica e condivisione di intenti, nonché animato da reciproca fiducia, nell’ottica di individuare le migliori soluzioni che soddisfino le rispettive esigenze operative.
   

(DIFESA online, 13 luglio 2022)

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Israele abbatte i droni iraniani con l’aiuto arabo, segnalando legami crescenti

di Tarquinia Panicucci

TEL AVIV — Nei cieli a est di Israele, pochi minuti prima delle 2 del mattino, quattro piloti israeliani scrutarono l’orizzonte alla ricerca di due velivoli senza pilota diretti verso Israele dall’Iran. Improvvisamente, i piloti li videro: due droni triangolari, ciascuno largo circa otto iarde, che sfrecciavano verso ovest a circa 1.200 miglia orarie.
  “Identificazione positiva”, ha detto un pilota ai suoi comandanti via radio. “Sparerò”.
  Pochi secondi dopo, entrambi i droni iraniani si erano schiantati al suolo, abbattuti da due aerei da combattimento israeliani in due località sopra il territorio arabo.
  L’episodio segreto, avvenuto il 15 marzo 2021, è stato uno dei primi esempi di successo di una nascente relazione militare tra Israele, alcuni partner arabi e gli Stati Uniti, un progetto che il presidente Biden sta cercando di cementare in una rete più formale durante la sua visita di questa settimana in Medio Oriente.
  Confermato da due alti funzionari israeliani e dalle registrazioni delle comunicazioni dei piloti, l’episodio ha esemplificato come Israele, un tempo isolato in Medio Oriente a causa della solidarietà araba con i palestinesi, stia ora lavorando a stretto contatto con diversi eserciti arabi. Ha anche illustrato come i timori condivisi dell’Iran ora sostituiscono le preoccupazioni di alcuni governi arabi sulla mancata risoluzione del conflitto israelo-palestinese.
  Negli ultimi dieci anni, l’Iran e i suoi delegati in Yemen, Libano, Siria e Iraq hanno usato sempre più droni per attaccare Israele, le forze americane in Medio Oriente e gli stati arabi sunniti, anche contro gli impianti petroliferi negli Emirati Arabi Uniti e in Arabia Saudita quest’anno .
  Mentre la più grande minaccia a lungo termine dell’Iran è il suo programma nucleare, gli oppositori di Teheran sono preoccupati per i droni perché le loro piccole dimensioni e la velocità relativamente bassa li rendono difficili da rilevare e intercettare e perché stanno già causando danni.
  Annunciata il mese scorso da Israele, la nuova iniziativa, il progetto Middle East Air Defense, è un tentativo di rafforzare le difese della regione contro i droni. L’idea è di consentire ai suoi partecipanti di avvisarsi istantaneamente degli attacchi di droni in arrivo, attraverso il coordinamento del Comando Centrale degli Stati Uniti. Israele ha già avvertito alcuni paesi arabi di un imminente attacco di droni, ha detto un alto funzionario della difesa israeliano.
  In futuro, Israele spera che i partecipanti saranno collegati allo stesso sistema radar, eliminando la necessità di inviarsi reciprocamente avvisi. “Tutti vedranno lo stesso feed sul proprio schermo”, ha affermato Brig. Il generale Ran Kochav, portavoce capo dell’esercito israeliano ed ex comandante della difesa aerea israeliana.
  Parte del coordinamento sta già avvenendo. Nell’episodio di marzo, Israele è stato anche in grado di richiedere con successo il permesso a un vicino paese arabo di entrare nel suo spazio aereo e intercettare i droni prima che attraversassero i confini israeliani.
  I funzionari israeliani hanno rifiutato di identificare quel paese, al fine di evitare di creare imbarazzo per aver consentito a un’altra forza aerea di operare al di sopra del suo territorio sovrano. Ma è probabile che sia la Giordania, l’unico paese amico al confine orientale di Israele.
  Questa segretezza evidenzia come gli sforzi per creare una rete più formale siano ancora in una fase provvisoria. I funzionari israeliani sperano che il signor Biden faccia il suo annuncio formale sul progetto durante la sua visita questa settimana. Ma i partecipanti arabi sono riluttanti a confermare il loro coinvolgimento, per non parlare di pubblicizzare la loro partecipazione a una vera e propria alleanza militare con Israele.
  “C’è un accordo di cooperazione ed è qui per restare”, ha affermato Abdulkhaleq Abdulla, un esperto di politica e diplomazia del Golfo con sede a Dubai. “Ma è molto breve per trasformarsi in un sistema unificato”.
  Il coordinamento militare bilaterale tra Israele, Bahrain ed Emirati Arabi Uniti – e forse anche l’Arabia Saudita, che attualmente non ha legami formali con Israele – è fattibile, ha affermato Abdulla.
  Ma “non credo che nessuno sia dell’umore giusto per un’alleanza regionale”, ha aggiunto.
  Tuttavia, il fatto che un tale concetto sia addirittura in discussione mette in evidenza il dividendo derivato da tre accordi diplomatici che Israele ha siglato con Bahrain, Marocco ed Emirati Arabi Uniti nel 2020, con il supporto dell’amministrazione Trump.
  Spinti in parte dall’ansia reciproca per l’Iran, gli accordi hanno permesso a quei paesi di aumentare notevolmente il commercio e gli investimenti. Hanno anche incoraggiato l’Egitto e la Giordania – che hanno stabilito relazioni con Israele decenni fa ma non le hanno mai cementate adeguatamente – a lavorare più a stretto contatto con il loro vicino.
  Ma il risultato più accattivante è stato il crescente rapporto militare tra i nuovi partner.
  Il ministero della Difesa israeliano ha firmato accordi pubblici con le sue controparti del Bahrein e del Marocco, rendendo più facile per i tre paesi coordinare e condividere l’equipaggiamento militare.
  Con una mossa che sarebbe stata impensabile tre anni fa, Israele ha stabilito un collegamento militare in Bahrain, come parte di un’iniziativa regionale separata per combattere la pirateria. Anche le marine israeliana e bahreinita si sono addestrate insieme nel Golfo Persico a novembre, insieme alla marina americana.

(ultime notizie, 13 luglio 2022)

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Cile: proteste della comunità ebraica per una pubblicità antisemita

di Nathan Greppi

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Ha suscitato una forte indignazione, da parte degli ebrei cileni, la pubblicazione avvenuta su un quotidiano di un’inserzione pubblicitaria che riprende un meme antisemita.
  Come riporta Algemeiner, tutto è iniziato lunedì 11 luglio, quando sul quotidiano cileno Las Últimas Noticias è apparsa una pubblicità di sconti su bottiglie di rum e whisky della Arbol Verde, una società che si occupa di distribuzione di alcolici. In mezzo, si trovava un’immagine del Happy Merchant, un meme alquanto diffuso su internet che raffigura un ebreo con il naso adunco e un ghigno malefico che si strofina le mani, circondato da banconote svolazzanti. Si tratta di una delle iconografie antisemite più diffuse in rete, che richiama lo stereotipo dell’usuraio ebreo, avido e profittatore.
  Le reazioni sono state molte: sul proprio profilo Twitter ufficiale, la Comunità Ebraica del Cile ha accusato l’inserzione pubblicitaria di far rivivere “un classico stereotipo della propaganda nazista”. Altrettanto indignato Gabriel Silber, ex-parlamentare cileno di origini ebraiche, secondo il quale “in altri paesi vignette antisemite avrebbero ricevuto un ripudio trasversale.”
  Sono intervenute in merito anche la FeJJLA (Federazione dei Giovani Ebrei Latinoamericani) e la FEJJ (Federazione dei Giovani Ebrei del Cile), che in un comunicato congiunto hanno dichiarato: “Pubblicando queste immagini, state trasmettendo ai lettori la vostra mancanza di empatia nei confronti della popolazione ebraica. […] Per questo vi chiediamo di assumere la responsabilità per le predette azioni e di scusarvi con i membri della Comunità Ebraica del Cile.” Reazioni sono avvenute anche nel nostro paese, dove l’UGEI (Unione Giovani Ebrei d’Italia) ha espresso sui propri canali social solidarietà verso la FEJJLA e il FEJJ, definendo l’inserzione “totalmente indifendibile.”
  Sulla testata BioBioChile, un portavoce della Arbol Verde ha dichiarato che la pubblicità non intendeva offendere la comunità ebraica, ma solo far sapere ai clienti che c’erano degli sconti per chi paga in contanti. In risposta, l’Ambasciata israeliana a Santiago del Cile ha condiviso sul proprio canale il tweet della Comunità Ebraica, aggiungendo: “Il fatto che non ci fosse l’intenzione di offendere non giustifica né sminuisce la gravità dei fatti.”
  Attualmente vivono circa 18.000 ebrei in Cile. Il paese ospita anche la più numerosa comunità palestinese al di fuori del Medio Oriente, il che ha portato a numerosi episodi di antisionismo e antisemitismo, specialmente durante gli scontri tra Israele e Hamas del maggio 2021. Inoltre, a dicembre è stato eletto un presidente di estrema sinistra, Gabriel Boric, che oltre ad attaccare Israele e sostenere il BDS ha attaccato persino gli ebrei cileni, accusati di doppia lealtà.

(Bet Magazine Mosaico, 13 luglio 2022)

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CRV - Regione Veneto premia tesi di laurea su antisemitismo e Shoà

VENEZIA - “Il Veneto è la regione che ha registrato il maggior numero di ebrei stranieri internati. Far conoscere le loro storie di partecipazione attiva alla vita sociale, culturale, economica, politica e anche militare del paese, e l’orrore della discriminazione, dell’internamento e dell’annientamento, è una scelta di civiltà, un processo doveroso di ricostruzione della memoria e della verità”. Così la presidente della commissione Cultura del Consiglio veneto  Francesca Scatto  e il capogruppo dell’intergruppo Lega-Liga veneta  Alberto Villanova  hanno salutato la premiazione pubblica della tesi di laurea di Antonio Spinelli “Vite sospese. Gli ebrei stranieri in provincia di Padova (1933-1945), discussa all’ateneo di Padova nel 2020 e ora pubblicata dalla casa editrice Il Poligrafo.
  Lo studio del professor Spinelli riguarda i 1400 ebrei stranieri presenti in Veneto nel primo ventennio del Novecento, ai quali il regime fascista riservò un trattamento diverso rispetto a quanto accadde agli ebrei italiani: mentre gli ebrei italiani subirono le nefaste leggi razziali ma, se non in pochi casi, non furono condotti nei campi di concentramento, gli stranieri venivano quasi tutti internati e da lì deportati nei campi di concentramento. Un destino che a Padova ha annientato docenti e studenti universitari, politici e amministratori, intere famiglie della borghesia intellettuale, imprenditoriale e professionale del Veneto.

(la Provincia di Sondrio, 13 luglio 2022)

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Giudice ridà il lavoro alla psicologa no vax: «Obbligo inutile e lesivo della dignità»

A Firenze ordinanza durissima che fa sperare altre persone in situazioni simili: «Compromesso il diritto al sostentamento».

di Francesco Borgonovo

Non è il primo provvedimento di questo genere, ma di sicuro è il più clamoroso registrato finora. Forse nemmeno l'avvocato Raul Benassi, legale di Piombino, si aspettava che l'ordinanza cautelare del Tribunale ordinario di Firenze (seconda sessione civile) fosse così pesante. La decisione presa dal giudice Susanna Zanda riguarda una psicologa che nell’ottobre del 2021 è stata sospesa dall'ordine della Toscana in quanto non vaccinata. Ebbene, da lunedì questa dottoressa, dopo oltre otto mesi trascorsi senza stipendio, ha potuto riprendere a lavorare. Il cautelare del tribunale fiorentino, infatti, stabilisce che la psicologa possa riprendere l'attività professionale anche senza sottoporsi «al trattamento iniettivo e che possa operare «in qualunque modalità (sia in presenza che da remoto) alla stessa stregua dei colleghi vaccinati».
  Il fatto che si debba specificare la modalità di lavoro la dice lunga sull’assurdità dei vincoli imposti finora agli psicologi: che un non vaccinato non possa lavorare nemmeno da remoto tramite sedute online non può in alcun modo passare per una misura sanitaria, si tratta di accanimento puro e semplice. In ogni caso, a differenza di altri professionisti che ancora oggi sono costretti a restare inattivi, la psicologa toscana, almeno per ora, ha diritto a riprendere le sedute. E l'aspetto più importante dell'ordinanza che la riguarda sta, probabilmente, proprio nella speranza che essa offre ad altre persone che si trovano da troppo tempo nella medesima condizione. A questo proposito, le parole del giudice sono di granito. Nell'ordinanza si spiega che il diritto al lavoro «viene acquisito per nascita in base all' articolo 4 della Costituzione» e che «in questo caso viene inammissibilmente "concesso" dall'Ordine di appartenenza previa sottoposizione a un trattamento iniettivo». Insomma, non è accettabile che una persona venga privata della possibilità di lavorare e sostentarsi qualora scelga di non vaccinarsi.
  Il passaggio più pregnante del testo, tuttavia, è forse quello che richiama i dati ufficiali sui contagi. Il giudice di Firenze fa notare infatti che il dl 44/21 che istituisce!" obbligo di vaccino «si propone lo scopo di impedire la malattia e assicurare condizioni di sicurezza in ambito sanitario». Ed è esattamente qui il punto nevralgico: «I report di Aifa sia coevi alla sospensione della dottoressa che quelli più recenti di gennaio e maggio 2022 [ ... ] riportano un fenomeno opposto a quello che si voleva raggiunge con la vaccinazione», continua il giudice, «ovvero un dilagare del contagio con la formazione di molteplici varianti virali e il prevalere numerico delle infezioni e decessi proprio tra i soggetti vaccinati». Tradotto: visto che il vaccino non protegge dal contagio e non esclude totalmente nemmeno il ricovero e il decesso, non ha alcun senso continuare a penalizzare chi ha deciso di non sottoporsi alla puntura, proseguendo a ritenerlo pericoloso per la collettività oltre che per sé stesso.
  Più le righe dell'ordinanza scorrono, più i contenuti si fanno robusti. Il giudice nota che la Costituzione «dopo l'esperienza del nazi-fascismo, non consente di sacrificare il singolo individuo per un interesse collettivo vero o supposto». Poi aggiunge che le iniezioni hanno causato «migliaia di decessi e eventi avversi gravi». A un certo punto si spinge a definire il vaccino «trattamento iniettivo sperimentale» e ribadisce che l'articolo 32 della Costituzione e varie convenzioni firmate dall'Italia vietano «l'imposizione di trattamenti sanitari senza il consenso dell'interessato, perché ne verrebbe lesa la sua dignità, valore che sta alla base delle molteplici norme della nostra Costituzione rigida». Per tutti questi motivi, il giudice ha deciso di restituire alla dottoressa toscana il diritto al lavoro, anche perché «la sospensione dell'esercizio della professione rischia di compromettere beni primari dell'individuo quale il diritto al proprio sostentamento e il diritto al lavoro di cui all'articolo 4, inteso come espressione della libertà della persona e della sua dignità, garantita appunto dalla libertà dal bisogno».
  Leggere parole simili in un provvedimento del tribunale sembra incredibile. Eppure è accaduto e magari, chissà, accadrà nuovamente in un altro tribunale che non sia quello di Firenze. Intanto resta il fatto che alla psicologa di Piombino sia stata, come scrive il giudice, restituita la dignità, almeno per ora. «A partire dall’11 luglio», spiega l'avvocato Raul Benassi, «l'Ordine degli psicologi ha venti giorni di tempo per presentare reclamo al tribunale. Vedremo come decideranno di agire». Chiaro: l'esito del reclamo potrebbe pure essere deludente, e cancellare il provvedimento appena emesso. Ma perché ciò possa avvenire, i giudici dovranno provvedere a smontare le evidenze elencate nell'ordinanza della loro collega Susanna Zanda. Può anche darsi che ci riescano, ma non sarà facilissimo. Nel frattempo, possiamo compiacerci del fatto che, in Italia, almeno per una ventina di giorni, verrà discriminata e vessata una persona in meno. Visti i tempi, è un ottimo risultato.

(La Verità, 13 luglio 2022)

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Dal primo ghetto alla difesa della razza, la storia di una lunga persecuzione

di Ilaria Romeo

Era il 1555 quando il Papa istituiva il ghetto ebraico di Roma. Quasi quattrocento anni più tardi gli ebrei furono espulsi dalla società e sterminati nei campi di concentramento dal nazifascismo. Donne, uomini, bambini e anziani condannati dall'odio razziale
  Il 12 luglio del 1555, a meno di due mesi dalla sua ascesa al soglio pontificio, papa Paolo IV istituisce il primo ghetto ebraico a Roma con la pubblicazione della bolla Cum nimis absurdum.
  È la prima delle bolle papali che lo storico Attilio Milano ha qualificato - insieme alla Hebraeorum gens (1569) ed alla Caeca et obdurata (1593) - come bolle infami.
  Recita il documento: “(…) è oltremodo assurdo e disdicevole che gli ebrei, che solo la propria colpa sottomise alla schiavitù eterna, possano, con la scusa di esser protetti dall'amore cristiano e tollerati nella loro coabitazione in mezzo ai cristiani, mostrare tale ingratitudine verso di questi, da rendere loro offesa in cambio della misericordia ricevuta, e da pretendere di dominarli invece di servirli come debbano; Noi, avendo appreso che nella nostra alma Urbe e in altre città e paesi e terre sottoposte alla Sacra Romana Chiesa, l'insolenza di questi ebrei è giunta a tal punto che si arrogano non solo di vivere in mezzo ai cristiani e in prossimità delle chiese senza alcun distinzione nel vestire, ma che anzi prendono in affitto case nelle vie e piazze più nobili, acquistano e posseggono immobili, assumono balie e donne di casa e altra servitù cristiana, e commettono altri misfatti a vergogna e disprezzo del nome cristiano (…)” decretiamo…
  La bolla prevedeva che gli ebrei dovessero, tra le altre cose vivere in un luogo separato dalle case dei cristiani, portare un segno distintivo di colore turchese (un cappello per gli uomini ed un fazzoletto per le donne), non tenere servitù cristiana, redigere i libri contabili e le registrazioni relative ad affari con cristiani solo in lingua italiana, non curare cristiani (per i medici ebrei), non lavorare o far lavorare i dipendenti nei giorni festivi per i cristiani.
  Queste regole rimarranno, pur se con qualche modificazione, in vigore fino alla fine del 1800.
  Con la proclamazione del Regno d’Italia e la successiva annessione dello Stato Pontificio allo Stato italiano spariranno le restrizioni e i divieti, ma la storia è a volte tristemente portata a ripetersi ed il fascismo riprenderà buona parte del contenuto delle Bolle infami, applicandone, in periodi diversi, le norme.
  “Le razze umane esistono - sanciva La difesa della razza del 5 agosto 1938 (anno I, numero 1) ripubblicando il Manifesto della razza (o Manifesto degli scienziati razzisti) - La esistenza delle razze umane non è già una astrazione del nostro spirito, ma corrisponde a una realtà fenomenica, materiale, percepibile con i nostri sensi. Questa realtà è rappresentata da masse, quasi sempre imponenti di milioni di uomini simili per caratteri fisici e psicologici che furono ereditati e che continuano ad ereditarsi. Dire che esistono le razze umane non vuol dire a priori che esistono razze umane superiori o inferiori, ma soltanto che esistono razze umane differenti (…) E’ tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti. Tutta l’opera che finora ha fatto il Regime in Italia è in fondo del razzismo. Frequentissimo è stato sempre nei discorsi del Capo il richiamo ai concetti di razza. La questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni filosofiche o religiose. La concezione del razzismo in Italia deve essere essenzialmente italiana e l’indirizzo ariano-nordico. Questo non vuole dire però introdurre in Italia le teorie del razzismo tedesco come sono o affermare che gli Italiani e gli Scandinavi sono la stessa cosa. Ma vuole soltanto additare agli Italiani un modello fisico e soprattutto psicologico di razza umana che per i suoi caratteri puramente europei si stacca completamente da tutte le razze extra-europee, questo vuol dire elevare l’Italiano ad un ideale di superiore coscienza di se stesso e di maggiore responsabilità. (…) Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l’occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all’infuori del ricordo di qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia. Gli ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani”.
  Dalla definizione di razza alla discriminazione ed espulsione dei cittadini ebrei dalla vita sociale e dal mondo lavorativo e scolastico il passo sarà breve e dalla teoria si passerà ben presto ai fatti in un susseguirsi di provvedimenti sempre più restrittivi della libertà e della dignità delle persone di origine ebraica.
  Al Regio decreto legge del 5 settembre 1938 - che fissava «Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista» - e a quello del 7 settembre - che fissava «Provvedimenti nei confronti degli ebrei stranieri» - farà seguito il 6 ottobre una «dichiarazione sulla razza» emessa dal Gran consiglio del fascismo. Tale dichiarazione viene successivamente adottata dallo Stato sempre con un Regio decreto legge che porta la data del 17 novembre dello stesso anno (il regio decreto 1728 - Provvedimenti per la difesa della razza italiana - stabilirà nel novembre 1938 il divieto di matrimoni misti tra ebrei e cittadini italiani di razza ariana. Sarà proibito anche prestare servizio militare o come domestici presso famiglie non ebree, possedere aziende con più di 100 dipendenti, essere proprietari di terreni o immobili oltre un certo valore, essere dipendenti di amministrazioni, enti o istituti pubblici, banche d’interesse nazionale o imprese private di assicurazione. Con la Disciplina dell’esercizio delle professioni da parte di cittadini di razza ebraica del 29 giugno 1939 verranno imposte limitazioni e divieti anche all’esercizio della professione di giornalista, medico-chirurgo, farmacista, veterinario, ostetrica, avvocato, procuratore, patrocinatore legale, esercente in economia e commercio, ragioniere, ingegnere, architetto, chimico, agronomo, geometra, perito agrario e perito industriale).
  Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario.

(Collettiva, 12 luglio 2022)

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Recuperate e pubblicate le sinfonie del compositore triestino Bruno Morpurgo

Presentato presso il Museo Ebraico "Carlo e Vera Wagner" di Trieste il progetto “Le sinfonie ritrovate di Bruno Morpurgo” con la realizzazione di un CD contenente per la prima volta in assoluto a livello mondiale due registrazioni del compositore Bruno Morpurgo.

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È stato presentato ieri, lunedì 11 luglio, presso il Museo della Comunità Ebraica di Trieste "Carlo e Vera Wagner", il progetto “Le sinfonie ritrovate di Bruno Morpurgo” dal Vicepresidente della Comunità Ebraica di Trieste, Davide Belleli e dal Presidente dell'Associazione Musica Libera, Davide Casali alla presenza di Livio Vasieri, Assessore alla Cultura e al Museo della Comunità Ebraica di Trieste.

• IL PROGETTO
  Il progetto, che ha visto la realizzazione di un CD contenente per la prima volta in assoluto a livello mondiale due registrazioni del compositore Bruno Morpurgo eseguite dall’Orchestra Sinfonica del Friuli Venezia Giulia e dal Quartetto Mark Rothko, nasce dalla collaborazione tra l’Associazione Musica Libera di Trieste (che ha vinto un bando di finanziamento della Regione Friuli Venezia Giulia), il Museo della Comunità Ebraica di Trieste “Carlo e Vera Wagner”, il Comune di Gradisca d’Isonzo, l’Orchestra Sinfonica del Friuli Venezia Giulia e il Quartetto Mark Rothko.
  Si tratta nello specifico della Sinfonia n. 1 in Do minore (del 12 giugno 1899), eseguita dalla FVG Orchestra diretta dal Maestro Davide Casali, e del Quartetto in La minore (composta nel 1897) eseguito dall'Ensemble Mark Rothko. Nel corso dell’incontro sono stati descritti i passaggi che hanno portato alla realizzazione del progetto e gli obiettivi raggiunti. L’esecuzione del vivo del Quartetto ad opera dell’ensemble Mark Rothko è prevista per il mese di ottobre, mentre la Sinfonia n. 1 in Do minore verrà portata in scena l’anno prossimo.
  Il CD, di fresca pubblicazione, è destinato agli allievi delle scuole e dei conservatori del Friuli Venezia Giulia e si può richiedere gratuitamente al Museo della Comunità Ebraica di Trieste "Carlo e Vera Wagner".
  Il progetto dell’Associazione Musica Libera sulle sinfonie di Bruno Morpurgo (Vienna, 1875 - Gorizia, 1917), in collaborazione col  Museo Ebraico “Carlo e Vera Wagner”, col Comune di Gradisca d’Isonzo e con l‘Orchestra regionale del Friuli Venezia Giulia, si proponeva la riscoperta di questo compositore originario di Trieste e morto nei pressi di Gorizia durante la Prima guerra mondiale.
  Le informazioni sulla sua vita erano poco note e le sinfonie, manoscritte e conservate da un nipote a Vienna, non erano mai state eseguite e pubblicate. Il recupero di questa musica riveste particolare importanza per il suo alto valore storico-artistico e fa conoscere un musicista ingiustamente dimenticato.

• BRUNO MORPURGO
  Bruno Morpurgo è stato un compositore molto prolifico, ha scritto numerosa musica da camera, due sinfonie, lieder e musica strumentale. Ha studiato con il celebre musicista austriaco Robert Fuchs che ha avuto, tra l’altro, come allievi Gustav Mahler, Jean Sibelius, Richard Strauss, Alexander Zemlinsky e Erich Korngold e all’Università di Vienna con il maestro Anton Bruckner. Dopo gli studi ha insegnato contrappunto, armonia e composizione a Vienna.

• OBIETTIVI
  L’obiettivo del progetto era anche quello di rendere fruibile al maggior numero possibile di persone le musiche di Morpurgo attraverso la digitalizzazione e la registrazione audio delle sue due sinfonie pubblicando un cd da distribuire gratuitamente ai conservatori e alle scuole di musica della regione. Le partiture e le copie gratuite del CD possono essere richieste dagli interessati contattando il Museo Ebraico “Carlo e Vera Wagner”.
  “Le due registrazioni presentate in questo CD (prime registrazioni mondiali assolute) - scrive il musicista Pierpaolo Levi nel libretto di corredo al disco - fanno parte di un ambizioso progetto per la riscoperta del compositore Bruno Morpurgo: nato a Vienna nel 1875 da una famiglia di origini ebraiche e morto combattendo con l’esercito austriaco, durante la Prima Guerra Mondiale, il 9 ottobre 1917 vicino a Gorizia.
  Grazie all’instancabile lavoro di ricerca svolto dal M° Davide Casali e all’indispensabile aiuto ricevuto da Helmut Morpurgo, nipote di Bruno Morpurgo - aggiunge Levi - si è potuto digitalizzare i manoscritti originali e successivamente editarli in modo da renderli fruibili al pubblico e accessibili ai musicisti che vorranno eseguirli. Ulteriori manoscritti di Bruno Morpurgo sono al momento in fase di elaborazione e saranno accessibili in un prossimo futuro.
  Il lavoro di digitalizzazione, registrazione ed elaborazione grafica ha visto la collaborazione di diverse persone e professionalità impegnate in questo progetto per più di un anno e a loro -  conclude Levi -  va il nostro ringraziamento. L’importanza di questo progetto risiede nell’aver riscoperto ed eseguito un importante compositore del secolo scorso, fino ad oggi sconosciuto”.
  “Come Associazione - ha spiegato il Presidente di Musica Libera, Davide Casali - abbiamo vinto il bando regionale "Cultura Storia ed Etnografia" studi e ricerche incentivi annuali per studi e ricerche, registrazione di testimonianze, digitalizzazione, prodotti multimediali e storytelling. Grazie al finanziamento ottenuto,  abbiamo realizzato un cd con musiche in prima registrazione mondiale che altrimenti sarebbero rimaste nei cassetti”.
  Casali ha spiegato infine le motivazioni della scelta dell’autore. “La musica di Morpurgo - ha affermato - risente dell’atmosfera viennese di inizio Novecento, dove ad una scrittura rigorosa si contrapponeva una ricerca melodica conforme alle tendenze dell’epoca. La volontà di includere il quartetto in questa produzione discografica, nasce dall’importanza che riveste questa composizione dal un punto di vista stilistico e musicale.

(TriestePrima, 12 luglio 2022)

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Città sarda in Galilea: “Si sapeva da 30 anni”. E spuntano nuraghi in Iraq

Infuria la polemica in Rete dopo la rivelazione della città scoperta dagli archeologi israeliani: l’esistenza dei reperti sarebbe stata divulgata già nel 1992 l’archeologo Adam Zertal e tenuta segreta.

E’ polemica sulla città di origine sarda scoperta recentemente in Galilea di cui ha dato notizia, nei giorni scorsi, l’ambasciatore di Israele in visita a Cagliari. L’esistenza della città costruita dai sardi ben 12 secoli prima di Cristo sarebbe stata conosciuta negli ambienti dell’archeologia internazionale già da trenta anni: in particolare sarebbe stata divulgata  nel 1992 l’archeologo israeliano Adam Zertal ma inspiegabilmente tenuta sottotraccia Non solo: vestigia della civiltà nuragica sarebbero presenti anche in altre parti del mondo, come ad esempio in Iraq.
  E’ quanto sostiene la pagina FB Sardegna, Isola di Atlantide, pagina di contro informazione storico-archeologica che da tempo contesta aspramente l’archeologia ufficiale isolana e che da molti è tacciata come una pagina di teoria fanta-archeologiche da prendere con le pinze.
  Fatta questa doverosa premessa, ecco il post che sta collezionando migliaia di like tra gli utenti del web.
  “Grande clamore e stupore ha destato giorni fa la notizia sensazionalistica sulla presenza in Galilea di una città di chiara origine Sarda – si legge nel post -. “Scoperta archeologica importantissima in Galilea”, proclamavano gli archeologi del regime culturale Sardo, sbandierando ai quattro venti tale scoperta, come se per altro loro ne avessero avuto merito. Peccato per questi signori però che di tale città di origine Sarda se ne abbia notizia già dal 1992, grazie all’archeologo Adam Zertal che divulgò questa notizia tra gli ambienti dell’archeologia internazionale e non solo”.
  “Ma non è curioso che gli archeologi del regime culturale Sardo in tutti questi anni, ben 30 per l’esattezza, non si siano mai degnati di parlarne pubblicamente? Forse erano distratti, o forse avevano cose più importanti da fare, come quella ad esempio di tenere in piedi una ridicola e grottesca farsa sulla mai esistita preistoria Sarda, quella che viene addirittura fatta studiare all’Università, tanto per intenderci. Questione di denaro e poltrone quindi – si legge ancora nel post -. Ma ormai il loro modus operandi lo conosciamo bene: ciò che non possono divulgare o confutare, semplicemente lo censurano. Non dimentichiamoci ad esempio anche lo scandalo delle statue di Mont’e Prama, che sono state chiuse dentro uno sgabuzzino per ben 40 anni. Una cosa assurda, le statue a tutto tondo più antiche del mondo chiuse dentro uno sgabuzzino. Caliamo un velo pietoso. Adesso però vogliamo dare noi una notizia sensazionalistica a questi signori: ci sono Nuraghi anche in Iraq. Ma sicuramente lo sanno già, da decenni addirittura. Solo che non ne hanno mai potuto parlare, proprio come è successo nel caso della città Sarda in Galilea. Il tempo è maestro, cari scienziati del nulla cosmico”.

(Cagliaripad, 12 luglio 2022)

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Maccabiadi: la delegazione italiana al Tempio Maggiore prima della partenza

di Luca Spizzichino

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La delegazione italiana per le Maccabiadi, che si terranno in Israele dal 12 al 26 luglio, si è ritrovata al Tempio Maggiore alla vigilia della partenza per lo Stato Ebraico.
  I 42 atleti del Maccabi Italia sono stati accolti dalla presidente della Comunità Ebraica di Roma Ruth Dureghello, dalla presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiani Noemi Di Segni e dagli assessori allo Sport Roberto Di Porto e ai Giovani Raffy Rubin.
  “È stato un lavoro duro, ma con molta caparbietà in Israele manderemo 42 ragazzi che rappresenteranno l’Italia sportiva ebraica, come è sempre accaduto dal 1961” ha detto l’assessore allo Sport Roberto Di Porto.
  “Sono sicura che i nostri meravigliosi ragazzi riporteranno tanti successi come è accaduto negli anni passati" ha affermato la presidente CER Ruth Dureghello. “Mi auguro che, a prescindere dalla vittoria, facciate una bella esperienza, che potete rendere unica col vostro comportamento e con l’orgoglio del luogo da cui venite” ha aggiunto.
  “Le ventuno comunità ebraiche italiane vi supportano in questo viaggio” ha dichiarato la presidente UCEI Noemi Di Segni. “Questo è un evento che ha una doppia anima, quella ebraica e quella italiana, che sono sicura che porterete con orgoglio” ha aggiunto riflettendo sul momento della Hatikva alla cerimonia di apertura, che si terrà giovedì pomeriggio alle ore 17:30 anche in Italia sul servizio streaming Dazn.
  A chiudere l’incontro, l’ormai tradizionale berachà ai ragazzi sotto l'Aron Ha Kodesh, da parte di Rav Jacov Di Segni.

(Shalom, 12 luglio 2022)

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La Russia più riguardosa verso gli aliyah

Diversamente da quanto il Jerusalem Post ha lasciato intendere il 5 luglio, il ministero della Giustizia russo non ha scritto all’Agenzia Ebraica, ma a una delle sue filiali che svolgono opere sociali.
  La Russia ha infatti accertato che la filiale si serve delle opere sociali come copertura di operazioni di spionaggio e che recluta scienziati non ebrei.
  Mosca non si oppone al fatto che gli ebrei russi facciano aliyah, ma al fatto che dei non-ebrei abusino del privilegio per mettersi al servizio d’Israele.

(Voltairenet.org, 12 luglio 2022)

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Appello sul transgender dei bimbi

Allarme di scienziati e intellettuali: “Pericoloso indottrinamento”

Lo psichiatra David Bell, ex presidente della British Psychoanalytic Society, è stato a lungo dirigente della Tavistock Clinic di Londra, la più grande clinica inglese specializzata nel cambio di sesso dei minori. Bell ha compilato un rapporto in cui si riportavano le preoccupazioni di molti medici per il modo in cui si trattavano i minori. Un rapporto che gli è costato un’azione disciplinare, cui hanno fatto seguito le dimissioni. Era una questione di coscienza. “Non potevo andare avanti così… non potevo più vivere così, sapendo del cattivo trattamento che viene riservato ai bambini”. E invece è toccato a lui difendersi. Adesso Bell è tra i firmatari di un appello sul settimanale francese le Point e sul quotidiano belga le Soir di centinaia di studiosi e intellettuali (la femminista Elisabeth Badinter, il filosofo Rémi Brague, la politologa Chantal Delsol, l’ex presidente del Comitato di bioetica Didier Sicard e tanti altri) contro l’ideologia transgender nei bambini: “Noi scienziati, medici e studiosi delle scienze umane e sociali, facciamo appello ai media per presentare studi seri e scientificamente accertati riguardanti il ‘cambiamento di genere’ dei bambini nei programmi destinati a un vasto pubblico”, si legge. “Bambini e adolescenti vengono esibiti in programmi con i genitori per mostrare quanto sia benefico il cambiamento di genere senza che nessuno esprima la minima riserva o fornisca dati. Gli scienziati critici vengono insultati. Questi programmi ripetitivi hanno un effetto di indottrinamento sui giovani e i social lo accentuano. Ci opponiamo fermamente all’affermazione che donne e uomini siano semplicemente costrutti sociali. Non puoi scegliere il tuo sesso e ce ne sono solo due”. Appello quanto mai urgente, visti la Ley Trans appena approvata in Spagna e l’iter avviato in Germania. Uno scandalo medico e culturale su cui bisogna tenere aperto il dibattito.

Il Foglio, 12 luglio 2022)
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Ideologia transgender insegnata anche ai bambini. A questo siamo arrivati in pochi anni dopo il progressivo sdoganamento morale dell'omosessualità pubblicamente praticata, poi legalmente riconosciuta, poi poliziesticamente difesa. E' di questo che si vanta l'impero del bene occidentale a trazione americana nella sua lotta contro l'impero del male orientale a dominazione russa? Qualcuno adesso vorrebbe correre ai ripari, ma per un occidente in stato di avanzato marciume forse è troppo tardi. M.C.

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Israele ha stretto accordi militari per oltre 3 miliardi di dollari con gli alleati degli Accordi di Abramo

di Francesco Paolo La Bionda

Il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz ha dichiarato che nel biennio trascorso dalla firma degli Accordi di Abramo ci sono stati più di 150 incontri tra funzionari della difesa israeliana e le loro controparti arabe in cui sono state vendute armi israeliane per oltre 3 miliardi di dollari. Gantz ha precisato che i dati escludono Giordania ed Egitto, i cui rapporti con lo Stato ebraico sono regolati da trattati di pace risalenti a diversi decenni fa.

• La visita di Biden e i nuovi sistemi di difesa missilistica
  Un ulteriore sviluppo in quest’ambito potrebbe avviarsi con la visita del presidente statunitense Biden in Israele, prevista dal 13 al 16 luglio. La prima tappa del viaggio del capo di stato americano sarà infatti la base dell’aeronautica israeliana di Palmachim, dove gli verranno mostrati i sistemi di difesa missilistica israeliani, tra cui il sistema laser Iron Beam.
  Quest’ultimo, ancora in sviluppo, consiste in un laser ad alta potenza basato a terra che sarà utilizzato in sinergia con i sistemi precedenti, tra cui l’Iron Dome. È in grado di neutralizzare diverse minacce aeree tra cui missili, droni e raffiche di razzi. Gantz a questo riguardo ha citato il lancio di tre droni di Hezbollah, ma di produzione iraniana, contro la piattaforma di gas israeliana di Karish nei giorni scorsi.
  Secondo voci di corridoio raccolte da Channel 12, Israele vorrebbe far pressione sugli Stati Uniti affinché approvino la vendita dell’Iron Beam agli alleati arabi, tra cui gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita.
  Per Gantz, la visita di Biden è un segnale forte del sostegno a Israele contro i suoi nemici, in primo luogo l’Iran. “Gli americani stanno aumentando la loro attenzione in Medio Oriente”, ha detto il ministro, facendo riferimento anche al passaggio di Israele come zona di competenza dal Comando europeo al Comando Centrale della difesa statunitense.

• Israele si prepara anche a un esito sfavorevole dei colloqui sul nucleare iraniano
  Inoltre Israele sta cercando di influenzare gli americani a porte chiuse in merito all‘accordo nucleare che si sta negoziando a Vienna. Tuttavia, Gerusalemme si sta preparando alla possibilità che venga firmato un accordo sfavorevole a Israele o che non si arrivi ad alcuna conclusione. “Stiamo mettendo insieme un budget a lungo termine e le risorse per mettere in atto i piani pertinenti”, ha dichiarato il ministro israeliano al riguardo.

(Bet Magazine Mosaico, 11 luglio 2022)

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La delegazione italiana pronta per le maccabiadi

Proseguono gli allenamenti della Rappresentativa del Maccabi Italia di Calcio u16 che prenderà parte, insieme a quelle di Basket u16, Tennis e Padel, alle Maccabiadi 2022, che si terranno in Israele dal 12 al 26 luglio.
  La competizione raduna migliaia di ebrei da tutto il mondo e di tutte le età, che difenderanno i colori della propria nazione in una delle 36 discipline sportive previste. Un'occasione non soltanto per misurarsi a livello internazionale, ma anche per conoscere le diversità che caratterizzano le tante comunità ebraiche mondiali.
  Prossimi appuntamenti la consueta Berachà alla delegazione italiana del Rabbino Capo di Roma Rav Riccardo Di Segni e poi la partenza alla volta di Tel Aviv, per vivere un'esperienza, indipendentemente dall'esito sportivo, certamente indimenticabile.

(Shalom, 11 luglio 2022)

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“Settimana storica”: Israele incoraggia nuovi legami nella regione in vista della visita di Biden in Medio Oriente

di Tarquinia Panicucci

Il primo ministro israeliano Yair Lapid fa una dichiarazione all’inizio della riunione settimanale del gabinetto a Gerusalemme, il 10 luglio 2022. Maya Alleruzzo/Pool via REUTERS
  Il primo ministro israeliano Yair Lapid domenica ha incoraggiato i vicini del Medio Oriente a normalizzare i legami con Israele prima della visita di questa settimana del presidente degli Stati Uniti Joe Biden nella regione.
  “Israele tende la sua mano a tutti i paesi della regione e li invita a costruire legami con noi, stabilire relazioni con noi e cambiare la storia dei nostri figli”, ha detto Lapid durante la riunione settimanale di gabinetto di domenica.
  Il tour di Biden in Medio Oriente inizia mercoledì, con il presidente degli Stati Uniti che incontra i funzionari israeliani e palestinesi in Israele e in Cisgiordania prima di dirigersi in Arabia Saudita per incontrare il re Salman bin Abdulaziz e il suo gruppo dirigente, incluso il principe ereditario Mohammed bin Salman.
  “Siamo all’inizio di una settimana storica”, ha detto Lapid. “Mercoledì atterrerà qui il presidente Joe Biden, uno degli amici più stretti che Israele abbia mai avuto nella politica americana, che una volta disse di sé: ‘Non devi essere ebreo per essere sionista. Sono un sionista.’”
  Biden “porterà con sé un messaggio di pace e speranza da parte nostra” quando lascerà Gerusalemme e volerà in Arabia Saudita, ha affermato Lapid.
  In un commento pubblicato nel Washington Post sabato, Biden ha notato che sarà il primo presidente degli Stati Uniti a volare da Israele a Jeddah, in Arabia Saudita, che ha descritto come un “piccolo simbolo delle relazioni in erba e dei passi verso la normalizzazione tra Israele e il mondo arabo, a cui la mia amministrazione sta lavorando per approfondire ed espandere”. Due anni fa, nell’ambito degli Accordi di Abramo mediati dagli Stati Uniti, Israele ha firmato accordi di normalizzazione con Stati arabi tra cui Emirati Arabi Uniti, Bahrain e Marocco.
  Le discussioni tra Lapid e Biden si concentreranno sul programma nucleare iraniano e su come espandere la cooperazione in materia di sicurezza.
  “Ieri è stato rivelato che l’Iran sta arricchendo l’uranio in centrifughe avanzate in totale violazione degli accordi che ha firmato”, ha lamentato Lapid, riferendosi a un rapporto dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica. “La risposta internazionale deve essere decisiva: tornare al Consiglio di sicurezza dell’Onu e attivare a pieno regime il meccanismo delle sanzioni”.
  “Israele, dal canto suo, si riserva piena libertà d’azione, diplomatica e operativa, nella lotta contro il programma nucleare iraniano”, ha affermato.
  Il premier israeliano ha anche ringraziato la Casa Bianca per la sua decisione di mantenere il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche (IRGC) iraniano nell’elenco statunitense delle organizzazioni terroristiche straniere, un punto critico per Teheran nei colloqui per rilanciare l’accordo nucleare del 2015 con le potenze mondiali.
  “L’Iran è dietro Hezbollah e sostiene Hamas, e le cellule terroristiche iraniane hanno recentemente cercato di uccidere turisti israeliani a Istanbul”, ha detto Lapid. “Israele non starà a guardare mentre l’Iran cerca di attaccarci. I nostri servizi di sicurezza sanno come raggiungere chiunque, ovunque, e lo faranno”.
  Sabato, Lapid e il re di Giordania Abdullah II hanno parlato al telefono dell’approfondimento della cooperazione tra Israele e Giordania, della prossima visita di Biden e delle sfide regionali.

(ultime notizie, 11 luglio 2022)


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Israele. la stagione delle elezioni

In novembre lo Stato ebraico affronterà la quinta tornata elettorale in 3 anni e mezzo: si va alle urne, in media, ogni 8 mesi

di Yossi Melman

Il compianto drammaturgo, regista e poeta israeliano Hanoch Levin una volta osservò che Israele ha solo tre stagioni: estate, inverno e guerre. Parafrasando il suo stile dell'assurdo, si può dire che, negli ultimi anni, Israele ha una sola stagione: quella delle elezioni. Nel novembre 2022, lo Stato ebraico affronterà la quinta tornata elettorale in tre anni e mezzo. Si tratta di un assai poco nobile record mondiale: ci si reca alle urne, in media, ogni 8 mesi.
  La decisione di indire elezioni anticipate è stata imposta al governo di Naftali Bennett dopo un solo anno di mandato. Si trattava di un governo impossibile fin dall'inizio: una strana e inedita coalizione di partiti di sinistra, centristi e di destra, che sedevano sotto lo stesso tetto con un partito arabo islamista.
  Avevano avuto enormi difficoltà a concordare una piattaforma comune e si erano ritrovati a discutere per la maggior parte del tempo su argomenti relativi allo stallo del processo di pace con i palestinesi, all'aumento della violenza da parte degli ebrei residenti in Cisgiordania e all'espansione degli insediamenti in quella regione.
  Pur essendo riusciti a migliorare alcune importanti leggi civiche e a stabilizzare l'economia, è emerso che ciò che davvero teneva insieme la coalizione era l'ostilità per l'ex primo ministro e capo dell'opposizione Benjamin Netanyahu. Ora l'opinione pubblica si rende conto che l'avversione personale può essere una condizione sufficiente, ma non è la ricetta ideale per una vera politica.
  Lentamente ma inesorabilmente, sono emerse le differenze ideologiche e le crepe politiche esistenti all'interno del governo. Con una coalizione fragile e una maggioranza risicata - 61 seggi su 120 - dei parlamentari ribelli hanno disobbedito alle linee guida e alle decisioni di Bennett. Bennett era stato appoggiato dal presidente degli Stati Uniti Joe Biden, lusingato e riempito di complimenti dai leader arabi desiderosi di migliorare i legami di sicurezza tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti, l'Egitto e il Marocco, nel loro sforzo per fermare le politiche nucleari ed egemoniche dell'Iran. Ma lo stesso partito di Bennett e tre parlamentari arabi avevano in mente altre preoccupazioni e lo hanno abbandonato.
  Quando Bennett diede istruzioni ai militari e ai servizi segreti del Mossad all'estero di assassinare scienziati e ingegneri iraniani e di colpire i droni iraniani, non si rese conto che stava perdendo la sua coalizione. Quando alla fine si è mosso per cercare di mettere riparo alle conseguenze politiche di tutto questo, era troppo tardi.
  Bennett e la sua coalizione hanno perso la loro esigua maggioranza. "Bennett si godeva gli ossequi come un'aria fresca di montagna, ma non vedeva e non sentiva l'odore dell'immondizia politica ammassata sotto di lui", mi ha detto un ministro del suo governo, che ha poi aggiunto: "Ho cercato di avvertirlo che era mal tollerato dai suoi stessi sostenitori, ma non mi ha ascoltato".
  Ora, con un altro singolare stratagemma della politica israeliana, il ministro degli Esteri Yair Lapid del partito di centro Yesh Atid ("C'è un futuro") è diventato il nuovo primo ministro ad interim che governerà il Paese per quattro mesi, fino alle elezioni, previste per l'inizio di novembre.
  Lapid, 59 anni, ex giornalista e accattivante personalità televisiva, è considerato un politico di talento, un grande comunicatore e un attivista di prim'ordine.
  Lapid è un leader calmo e razionale, che non si farà coinvolgere anche se Netanyahu e i suoi accaniti sostenitori cercheranno di stroncarlo con una campagna negativa e velenosa. Per centinaia di migliaia di israeliani, Netanyahu è una sorta di nuovo messia.
  In realtà, non c'è un grande divario ideologico tra il Likud di Netanyahu e il partito di Lapid. Le divisioni tra destra e sinistra in Israele sono un miraggio. La maggior parte dei partiti israeliani, ad eccezione dei comunisti (che sono anche un partito nazionalista arabo) e di Meretz, un piccolo partito di sinistra che faceva parte della coalizione, sostiene politiche socioeconomiche neoliberali. Le etichette di destra e sinistra in Israele sono definite solo dal sostegno o meno alla soluzione dei due Stati. La realtà è che la maggior parte della classe media e dei ricchi israeliani sostiene Lapid, mentre i poveri, gli indigenti, i non privilegiati e i meno istruiti adorano Netanyahu.
  Quindi, la vera differenza tra Lapid e Netanyahu è in termini di intrighi e di manipolazioni. Durante le sue ultime quattro campagne elettorali perse, Netanyahu, a giudizio con accuse di corruzione, ha preso una decisione calcolata: incitare l'opinione pubblica contro i media, i tribunali e il vecchio establishment (di cui lui stesso fa parte per formazione e origini) e allinearsi con gli ebrei ortodossi, quelli degli insediamenti e di etnia medio-orientale.
  Tuttavia, i problemi e le sfide che gli israeliani devono affrontare sono molto più grandi di quelli politici. I valori occidentali e democratici di Israele sono stati erosi nel corso degli anni. Israele è una società così fortemente divisa e polarizzata che è difficile credere che possa essere sanata dalle elezioni. I primi sondaggi di opinione indicano già che chi vincerà le elezioni - Lapid o Netanyahu - guiderà ancora una volta una maggioranza fragile e risicata. Alcuni opinionisti prevedono addirittura un'impasse che porterà a una sesta tornata elettorale.

(la Repubblica, 11 luglio 2022)

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Israele: tutte le novità del turismo presentate in Frecciarossa

Collaborazione tra l'Ufficio turistico e il Gruppo FSITALIANE

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MILANO – “Abbiamo lavorato insieme per raggiungere il nostro target di riferimento e l’esperienza di oggi è solo il primo passo di una collaborazione editoriale che auspichiamo di continuare con la rivista “La Freccia” e con il gruppo FSITALIANE”. Lo ha detto Kalanit Goren, direttrice dell’Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo che ha presentato un progetto nel settore della comunicazione che “ambisce ad aprire la strada ad importanti novità, non ultima quella di condurre il lettore amante del treno alla scoperta dell’anima lussuosa e glamour di Israele, talvolta proprio in treno, mezzo che sempre di più collega il Paese, tanto sulla costa quanto nell’interno”.
  Proprio utilizzando un treno il Turismo di Israele ha voluto comunicare le più importanti novità sulle proprie destinazioni in un viaggio da Milano a Bologna dove, in collaborazione con FSITALIANE, si è viaggiato in Frecciarossa alla scoperta delle novità turistiche di Israele, dalle spiagge di Tel Aviv alla dimensione di viaggio spirituale.

(askanews, 11 luglio 2022)

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La Regione Piemonte sbarca a Gerusalemme con un ufficio commerciale

Tutti i dettagli della partnership tra Margalit Startup City Jerusalem e Ceipiemonte, pensata per accelerare il business tra il Piemonte e la città di Gerusalemme, favorendo la collaborazione tra imprese e le soluzioni innovative

di Chiara Masi

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Ceipiemonte e Margalit Startup City hanno annunciato oggi una nuova collaborazione tra la regione Piemonte e Gerusalemme. La nuova partnership mirerà a costruire nuovi ponti tra le organizzazioni tecnologiche, commerciali ed economiche in Piemonte e nella città di Gerusalemme.

• LE DUE PARTI
  Il Piemonte negli ultimi decenni ha diversificato la propria struttura economica, orientandosi sempre più verso settori legati all’economia della conoscenza e dell’innovazione. Alcune delle più importanti aziende italiane e multinazionali hanno sede in Piemonte, tra cui l’ex Fiat ora Stellantis, Ferrero, Olivetti, Huawei, Vishay, Collins Aerospace, L’Oreal, Microsoft, Oracle e altre ancora. Situato strategicamente nel cuore dell’Europa e dell’area mediterranea, il Piemonte è una regione dinamica nei servizi, con una forza lavoro qualificata, flessibile e versatile. Margalit Startup City è promotore e ideatore di una rete di centri di eccellenza per l’innovazione in Israele, con un centro dedicato alla tecnologia informatica e climatica a New York. I centri integrano i migliori partner strategici locali e internazionali sia nel settore pubblico che privato, collegando città, persone e idee. Questi centri di innovazione stanno rafforzando i motori socioeconomici della crescita, creando posti di lavoro di alta qualità e comunità completamente nuove. Ceipiemonte è la società in house della Regione Piemonte partecipata da tutto il sistema camerale e dalle università che si occupa di supportare il processo di internazionalizzazione delle imprese locali e di attrarre investimenti esteri sul territorio.

• LE PAROLE DI MARGALIT
  “La nostra missione è sempre stata quella di costruire ponti, tra comunità, tra città, tra regioni – e oggi è una pietra miliare in questo viaggio”, ha affermato Erel Margalit, fondatore e presidente esecutivo di JVP e Margalit Startup City. Il Piemonte “è una regione ricca di tradizione e agricoltura, oltre che di tecnologie, un’industria automobilistica leader, con robotica, aerospazio e tecnologie pulite. Questa è una regione che è un partner naturale per noi in Israele, dove portiamo le tecnologie al servizio dell’umanità e del pianeta nella prossima era. Questa è una grande pietra miliare per la cooperazione tra Israele e l’Italia. Attraverso le nostre Margalit Startup Cities, con la tecnologia alimentare in Galilea, con la tecnologia informatica a Beer Sheva e anche con la tecnologia informatica e climatica a New York. Oggi non apriamo una sola partnership, ci stiamo espandendo attraverso un’intera rete di innovazione”.

• LE DICHIARAZIONI DELL’ASSESSORE RICCA
  “Il percorso di collaborazione che la nostra Regione ha iniziato tempo fa con lo Stato di Israele arriva a una svolta decisiva”, ha affermato Fabrizio Ricca, assessore all’Internazionalizzazione della Regione Piemonte. “Con l’apertura di un ufficio strategico a Gerusalemme, che sarà gestito da Ceipiemonte, le aziende del nostro territorio avranno un presidio stabile che potrà appoggiarle e aiutarle, favorendo la nascita di accordi commerciali con le realtà imprenditoriali di un Paese all’avanguardia in numerosi settori produttivi. Come assessorato crediamo che i nostri Paesi, amici da sempre, debbano intensificare le loro collaborazioni in fatto di ricerca, formazione e commercio. Sono tanti i comparti di eccellenza che si avvantaggeranno da un infittirsi delle relazioni tra le aziende che costituiscono i nostri rispettivi tessuti produttivi: penso a quelle dell’aerospazio, dell’automotive e della sicurezza digitale, per citarne alcune. Mai, come oggi, il compito di un’istituzione come la nostra deve essere quello di aiutare le imprese che vogliono crescere pensando anche all’estero come un’opportunità”.

• IL SINDACO DI GERUSALEMME
  Il sindaco di Gerusalemme, Moshe Lion, ha parlato della forte crescita economica della città e ha affermato: “Il primo posto della mia agenda come sindaco è la necessità di essere sicuro che tutte le comunità di Gerusalemme traggano vantaggio da questa crescita, e lavorino e vivano insieme nella prosperità della città. Stiamo investendo in tutte le parti della città. Stiamo costruendo un milione e seicento metri quadrati di nuove opere high-tech e spazi per uffici in tutta la città. Stiamo costruendo un nuovo spazio di innovazione nella parte orientale della città a Silicone Wadi, e proprio qui a Margalit Startup City giovani imprenditori ebrei e arabi si riuniscono per discutere del futuro”.

• L’ACCORDO
  L’accordo tra Ceipiemonte e Margalit Startup City Jerusalem incoraggerà la cooperazione business-to-business tra le aziende piemontesi e le loro controparti israeliane attraverso Margalit Startup City e Jerusalem Venture Partners, poiché Israele è considerato un partner strategico e il Piemonte può diventare un importante hub per l’espansione delle aziende israeliane in Europa. “Questo accordo è un tassello importante per il nostro territorio e le nostre imprese: Israele è un Paese prioritario e strategico con cui dal 2018 abbiamo iniziato un percorso di scambio e confronto che ci ha condotti fino alla firma di questo accordo che garantisce un’importante cooperazione economica in Israele”, ha affermato Dario Peirone, presidente di Ceipiemonte. “Il nostro obiettivo è di costituire una presenza costante in Israele per promuovere e far scoprire un territorio accogliente anche in termini di investimenti e che offre un’alta qualità della vita grazie a un fervido tessuto sociale e culturale. Inoltre, grazie all’accordo con MSC si avvierà una collaborazione con un venture capital di caratura mondiale come JVP che permetterà anche di favorire investimenti in Piemonte da parte di aziende ad alta tecnologia, come quelle israeliane. Il prossimo passo è una missione imprenditoriale già a metà settembre per il settore aerospazio organizzata nell’ambito del Progetto Integrato di Filiera che gestiamo su incarico di Regione Piemonte in occasione della partecipazione ad Aerospace & Defense Meetings Tel Aviv che vedrà anche visite e incontri dedicati con key player israeliani come IAI, Rafael, Elbit e IMI. “Questa è una grande opportunità. Questo accordo cambia l’atmosfera e il numero di collaborazioni possibili”, ha affermato Nili Shalev, Ceo di Israel Export Institute, “L’Israeli Export Institute è qui per aiutare tutti a creare contatti e maggiori opportunità di business tra Israele e l’Italia”.

• IL MEMORANDUM
  Nell’ambito della collaborazione, Margalit e Peirone hanno firmato un memorandum d’intesa ufficiale come accordo tra le due parti. Il Piemonte sta vivendo importanti cambiamenti e sta investendo in trasformazioni urbane e grandi progetti. Con una visione strategica, mira ad attrarre investimenti e a rappresentare una regione orientata al business, rendendo immediatamente chiaro agli investitori ciò che il Piemonte vuole e ha da offrire. Grazie a JVP, il Piemonte avrà accesso all’ecosistema tematico Margalit Startup City che riunisce le parti interessate pubbliche, private e di impatto sociale. “Oggi è una giornata storica. La Regione Piemonte apre un ufficio per la promozione del commercio estero e degli investimenti in Israele, e sceglie di farlo a Gerusalemme. Possa il Piemonte, dove è iniziata l’unificazione dello Stato italiano, diventare il messaggero del riconoscimento ufficiale da parte dell’Italia di Gerusalemme, capitale eterna del popolo ebraico e dello Stato di Israele”, ha affermato l’ambasciatore Dror Eydar. “Sono fiducioso che l’ufficio commerciale del Piemonte rafforzerà ulteriormente l’amicizia tra Israele e Piemonte, consolidata da continue e proficue collaborazioni in campo politico, economico, scientifico e culturale”.

(Formiche.net, 11 luglio 2022)

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Le Beatitudini di Gesù (6)

di Marcello Cicchese

BEATI I MISERICORDIOSI
    "Beati i misericordiosi, perché a loro misericordia sarà fatta" (Matteo 5:7)

La parola "misericordia" contenuta nel versetto citato traduce due termini, uno greco e l'altro ebraico, che nella versione italiana Luzzi sono tradotti anche con diversi altri termini, come "benignità", "bontà", "benevolenza", “grazia", "pietà". E' bene quindi non soffermarsi troppo sul preciso significato del termine italiano, ma cercare piuttosto di riacquistare la pienezza di contenuto che i termini originali hanno negli scritti sacri. Perché per quanto si cerchi di ammodernare le traduzioni, resta il fatto che si può sperare di interpretare correttamente le parole di Gesù soltanto inserendole nel contesto del mondo biblico, e in particolare in quello dell'Antico Testamento.
  L'elemento fondamentale che sta alla base di questa beatitudine è, anche in questo caso, la promessa contenuta nella seconda parte del versetto, che più esplicitamente potrebbe essere tradotta: "perché Dio farà loro misericordia". La beatitudine si basa dunque sulla misericordia di Dio. Nell'Antico Testamento Dio è molto spesso presentato come un Dio misericordioso:

    "L'Eterno! L'Eterno! L’lddio misericordioso e pietoso, lento all'ira, ricco in benignità e fedeltà" (Esodo 34:6)
    "Torna, o infedele Israele, dice l'Eterno ... giacché io sono misericordioso, dice l'Eterno" (Geremia 3:12).
E nel Nuovo Testamento, Maria può dire nel suo cantico:
    "Santo è il suo nome; e la sua misericordia è d'età in età" (Luca 1:50).

La misericordia di Dio si esprime fin dall'inizio del suo rapporto con gli uomini, quando Egli rinuncia a sterminare l'umanità malvagia di sulla faccia della terra e stabilisce con Noè - di cui è detto che "trovò grazia agli occhi dell'Eterno" (Genesi 2:8) - un patto in cui Egli s'impegna a non distruggere più la terra con il diluvio.
  Anche il patto con Abramo e con il popolo d'Israele si fonda sulla misericordia di Dio, nel senso che Egli s'impegna a benedire Abramo (Genesi 12: 2) e a non far mancare le sue benignità, nonostante le disubbidienze e le infedeltà del popolo.

    "lo gli conserverò la mia misericordia in perpetuo, e il mio patto rimarrà fermo con lui" (Salmo 89:28).
    "Quand'anche i monti s'allontanassero e i colli fossero rimossi, l'amor mio non s'allontanerà da te, né il mio patto di pace sarà rimosso, dice l'Eterno che ha misericordia di te" (Isaia 54:10).

La misericordia di Dio si esprime quindi innanzitutto nel fatto che Egli fa dipendere il suo atteggiamento di benevolenza non da particolari caratteristiche del popolo, ma dalla sua stessa decisione, cioè dall'impegno che nel suo amore Egli ha liberamente contratto con il suo popolo. A partire da questo patto di pace tra l'Eterno e il popolo, la misericordia divina viene spesso presentata come lealtà di Dio verso se stesso e come fedeltà nei confronti di chi si appella alle sue promesse.
  Invocare la misericordia di Dio significa allora chiedere a Dio di restare fedele al suo patto e di non fare mancare quindi il suo perdono, il suo aiuto, la sua benedizione:

    " ... ricordati di me, o mio Dio, e abbi pietà di me secondo la grandezza della tua misericordia!” (Nehemia 13:22);
    "Ritorna, o Eterno, e libera l'anima mia; salvami per amore della tua misericordia" (Salmo 6:4).

Anche nei momenti di maggiore abbattimento, quando il popolo geme sotto la conseguenza dei suoi peccati, si può ricordare l'impegno che Dio ha preso "nei giorni antichi" con i "padri" e si può attendere con fiducia che Egli torni a manifestare la sua misericordia verso il popolo.

    "Qual Dio è come te, che perdoni l'iniquità e passi sopra alla trasgressione del residuo della tua eredità ? Egli non serba l'ira sua in perpetuo, perché si compiace d'usar misericordia. Egli tornerà ad aver pietà di noi, si metterà sotto i piedi le nostre iniquità, e getterà nel fondo del mare tutti i nostri peccati. Tu mostrerai la tua fedeltà a Giacobbe, la tua misericordia ad Abrahamo, come giurasti ai nostri padri, fino dai giorni antichi" (Michea 7:18).

Il fatto che Dio è un Dio misericordioso determina il contenuto della beatitudine. Beati coloro che si comportano con i loro simili così come Dio si comporta con loro: cioè con misericordia. Il carattere di Colui che chiama determina le norme di comportamento di colui che viene chiamato:

    "Ma come Colui che vi ha chiamati è santo, anche voi siate santi in tutta la vostra condotta"  (1 Pietro 1:15).

Uno dei passi biblici che illustra bene questa situazione è la parabola del servitore spietato (Matteo 18:21-35). In essa si osserva che il re è spinto dalla sua stessa compassione a rimettere il debito al suo servitore. Quest'ultimo a sua volta avrebbe dovuto essere spinto non tanto dalla sua stessa compassione quanto dalla compassione avuta verso di lui, a rimettere il debito al suo conservo. Cosa che invece non fa. Per questo il suo signore lo riprende violentemente dicendogli:

    "Malvagio servitore ... non dovevi avere misericordia del tuo conservo, com'io ebbi misericordia di te?" (Matteo 18:32-33).

Questo può farci riflettere sulla differenza qualitativa che esiste tra la nostra misericordia e quella di Dio. Nel suo essere misericordioso Dio si richiama a se stesso, cioè al patto di grazia che Egli ha deciso di stabilire con gli uomini. Noi invece non dobbiamo rifarci a noi stessi, ai nostri valori, ai nostri codici di condotta, ai nostri buoni sentimenti per essere indotti ad essere misericordiosi, ma fondamentalmente dobbiamo essere rinviati al fatto che Dio ci ha "usato misericordia".

    "Voi, che non avevate ottenuto misericordia, ma ora avete ottenuto misericordia" (1 Pietro 2:10).

La fiduciosa certezza di essere oggetto della benignità e della misericordia di Dio non può che cambiare il nostro atteggiamento nei confronti degli altri. Se Dio ha rinunciato a fare i conti con me, a pretendere da me tutto quello che gli spetta, non deve più essere possibile che il mio rapporto con l'altro sia regolato da un minuzioso conteggio di dare e avere in cui, tra l'altro, per un misterioso meccanismo di calcolo mi trovo sempre ad essere in credito. Essere misericordiosi significa smettere di contare i crediti che abbiamo, o che riteniamo di avere, ed essere invece preoccupati dei nostri debiti, cioè di quello che gli altri si aspettano da noi e di cui hanno bisogno per la loro vita.

    "Colui dunque che sa fare il bene, e non lo fa, commette peccato" (Giacomo 4:11).

E' bene chiarire, a questo proposito, che la misericordia biblica non è una commozione o un generico stato d'animo, ma piuttosto un atteggiamento, un modo d'agire profondamente motivato. Per il servitore della parabola, avere misericordia del suo conservo avrebbe dovuto significare, molto concretamente, condonargli il debito. Per il buon samaritano, "usare misericordia" (Luca 10: 37) all'uomo ferito significò accostarsi a quell'uomo e prendersi cura di lui. E l'apostolo Paolo, parlando dei diversi compiti nella comunità cristiana, esorta chi fa "opere misericordiose" a farle con allegrezza (Romani 12:8).
  Sul fondamento dell'opera di Dio, il quale "ci ha salvati non per opere giuste che noi avessimo fatte, ma secondo la sua misericordia" (Tito 3: 5), si può dire dunque che la misericordia è un atteggiamento di benignità e di benevolenza che porta a considerare l'altro nella sua dignità e nei suoi bisogni reali, indipendentemente dai diritti o dai doveri che ha nei nostri confronti. La misericordia è l'esatto contrario di un atteggiamento giuridico, fiscale. Era infatti un sottile problema giuridico quello che Pietro poneva a Gesù chiedendogli quante volte dovesse perdonare il fratello che aveva peccato contro di lui. Gesù in sostanza gli risponde di non stare a preoccuparsi del problema giuridico del perdono, ma di preoccuparsi del fratello. Era anche un interessante problema giuridico quello che il dottore della legge poneva a Gesù chiedendogli chi fosse il prossimo che aveva il diritto di essere da lui amato (Luca 10: 29), ma Gesù gli risponde di non stare a preoccuparsi del problema giuridico del prossimo, ma di preoccuparsi piuttosto di essere proprio lui il prossimo di chi si trova nel bisogno.
  Ogni legislazione civile si propone di regolare i rapporti tra i cittadini per mezzo di precise norme che stabiliscono i diritti e doveri di ciascuno nei confronti degli altri. Al buon cittadino si chiede di essere in regola con le leggi. Nient'altro. Ma questo non è misericordia. Chi pensa di poter mantenere i suoi rapporti con gli altri soltanto osservando disposizioni legali potrà forse essere a posto con la legge degli uomini, ma certamente non sarà a posto con quella di Dio. Il servitore spietato che aveva cacciato in prigione il suo conservo era in regola con la legge: il debitore non aveva pagato quello che doveva pagare, e quindi doveva andare in prigione: questa era la regola. Il tutto potrebbe costituire il resoconto di un normale caso giudiziario. Ma poiché il servitore era uno che doveva la sua stessa vita al fatto che un altro lo aveva voluto considerare come una persona invece che come un debitore, il racconto appare come la descrizione di un'ignobile infamia. L'atteggiamento del servitore non doveva essere determinato dal diritto che gli dava la legge, ma dalla misericordia che gli era stata usata.
  Se confessiamo un Dio che è "ricco in misericordia" e che "per il grande amore del quale ci ha amati, anche quando eravamo morti nei falli, ci ha vivificati con Cristo" (Efesini 2:4~5), dobbiamo anche trarne le necessarie conseguenze: cioè che i nostri rapporti con gli altri non possono esaurirsi nell'adempimento di obblighi civili, ma devono essere determinati da quell'amore misericordioso che ci ha dato la vita e che attraverso di noi vuole raggiungere gli altri. Per chi ha riconosciuto l'intervento di Dio nella storia degli uomini, le leggi che regolano i suoi rapporti personali con gli altri uomini sono radicalmente cambiate: ci sono debitori che non sono più tali (Matteo 6:12) e debiti d'amore che prima non c'erano (Romani 13:8); ma considerando tutto quello che si è "gratuitamente ricevuto" (Matteo 10:8), il bilancio si chiude largamente in attivo.
  Se la nostra misericordia di uomini proviene dalla misericordia di Dio nei nostri confronti, appare tanto più sconcertante il fatto che molto spesso l'esercizio della misericordia sembra essere ostacolato proprio dall'attaccamento a principi religiosi. La storia, e purtroppo anche la vita di oggi, insegnano che in nome di Dio si può riuscire ad essere spietati. L'atteggiamento è più o meno sempre il solito: quando l'uomo religioso avverte che il "sacro" sta per essere contaminato, non guarda più in faccia nessuno e colpisce senza pietà. Ma non c'è altro Dio che un Dio misericordioso: a Lui soltanto e non a qualche Moloc straniero dobbiamo rendere il nostro culto. Ed Egli ci avverte che "ama la misericordia e non i sacrifizi, e la conoscenza di Dio anziché gli olocausti" (Osea 6:6). Ma l'uomo religioso, pur di far onore al suo Dio è disposto a presentargli anche degli olocausti umani, credendo forse in questo modo di anteporre Dio ad ogni altra cosa. I Farisei, pur di non profanare il sabato preferivano che gli uomini rimanessero nelle loro malattie; e quando Gesù, violando secondo loro il sabato, guarisce l'uomo dalla mano secca, decidono di farlo morire. Gesù doveva essere sacrificato in onore del loro Dio del sabato. E quanti altri olocausti umani erano disposti ad immolare per non profanare il loro recinto sacro: i pubblicani, le prostitute, i malati, i peccatori di ogni tipo dovevano essere abbandonati al loro destino per non disonorare quel Dio che secondo loro veniva da essi disonorato. Non avevano imparato che cosa significasse: "Voglio misericordia, e non sacrifizio" (Matteo 9:13).
  E noi che ci diciamo cristiani l’abbiamo imparato? O abbiamo anche noi i nostri recinti sacri per la purezza dei quali siamo pronti a immolare vittime umane in nome di un'istanza superiore divina? Dobbiamo fare bene attenzione alle nostre vie, perché se la mancanza di misericordia che si ha in nome del nostro umano egoismo può essere riconosciuta e confessata, la mancanza di misericordia che si ha in nome di Dio molto più difficilmente è riconosciuta come tale. E se non è riconosciuta, non è neppure confessata; e se non è confessata, non può essere perdonata. Ricordiamo allora che "il giudizio sarà senza misericordia per colui che non ha usato misericordia" (Giacomo 2:13). E ricordiamo anche, per metterle in pratica, le parole del profeta:

    "O uomo, Egli t'ha fatto conoscere ciò che è bene; e che altro chiede da te l'Eterno, se non che tu pratichi ciò che è giusto, che tu ami la misericordia, e cammini umilmente col tuo Dio? " (Michea 6:8).
(da "Credere e Comprendere", dicembre 1981)


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Una difesa aerea integrata per il Medio Oriente. La proposta di Israele

La normalizzazione dei rapporti tra Israele e alcuni dei Paesi arabi del Medio oriente ha portato ad un aumento delle possibilità di mercato dell’industria della difesa di Tel Aviv. Questo trend positivo ha fatto crescere le ambizioni israeliane di costruzione di un patto di difesa comune per la sicurezza aerea regionale, con una rete di radar, rilevatori e intercettori, in funzione anti-Iran.

di Marco Battaglia

Mentre l’industria israeliana della difesa si espande nei mercati dei vicini arabi, crescono le ambizioni di Tel Aviv per la realizzazione di una struttura di difesa condivisa con i Paesi del Golfo in funzione anti-iraniana. Fino a oggi, secondo i dati comunicati dal ministro della Difesa Benny Gantz, dalla firma degli Accordi di Abraham nel 2020 Israele ha già concluso dei contratti nel settore difesa con i Paesi arabi per tre miliardi di dollari, una cifra destinata ad aumentare di fronte alla percezione di insicurezza nei confronti della minaccia di Teheran e dei suoi proxy regionali.

• Cooperazione di sicurezza
  Israele, inoltre, intende sfruttare queste percezioni per spingere verso una maggiore cooperazione in materia di difesa con i vicini dell’aerea. Il mese scorso, infatti, lo stesso ministro Gantz ha annunciato la volontà di costruire un sistema di difesa aerea regionale congiunto e interconnesso tra Israele e le nazioni più vicine, definito Middle east air defence alliance (Mead). In vista della visita del presidente statunitense Joe Biden in Medio Oriente, prevista dal 13 al 16 luglio, il ministro ha anche auspicato un coinvolgimento maggiore degli Stati Uniti per spingere verso una maggiore cooperazione di difesa tra Israele e gli Stati del Golfo.

• Difesa aerea regionale
  Nelle intenzioni di Tel Aviv e Washington, il Mead consisterebbe in un sistema di collegamento delle diverse difese aeree regionali per controbattere le incursioni di droni e missili iraniani in tutto il Medio Oriente. Israele, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e parte dell’Iraq sono infatti stati bersaglio di diversi attacchi condotti da Uav o missili, rivendicati per la maggior parte dalle milizie sciite sostenute da Teheran. Il piano prevede la costruzione di una rete di radar, rilevatori e intercettori tra Arabia Saudita, Oman, Kuwait, Bahrein, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Iraq, Giordania ed Egitto. Ciò consentirebbe a questi Paesi di individuare le minacce aeree prima che attraversino i loro confini.

• Le preoccupazioni sul nucleare
  Il piano di difesa regionale arriva a seguito delle preoccupazioni legate alle difficoltà nei colloqui con Teheran sulla questione del nucleare, un timore condiviso sia da Tel Aviv e Washington, sia da diversi Paesi del Golfo. Tuttavia, la spinta alla cooperazione anti-Iran incontra anche la resistenza di alcuni Stati arabi, come Iraq, Qatar e Kuwait, nei quali la questione potrebbe non essere così semplice. L’Iraq, per esempio, è fortemente influenzato dall’Iran attraverso il sostegno di Teheran ai politici e alle milizie sciite di Baghdad. A maggio, tra l’altro, il Parlamento iracheno ha approvato una legge che vieta la normalizzazione delle relazioni con Israele.

• Ricucire con il Medio oriente
  Nonostante l’ottimismo israeliano, dunque, permangono le resistenze dei Paesi arabi, ancora diffidenti verso una cooperazione così strategica con il vecchio avversario, e la visita di Biden potrebbe servire a far avanzare la questione. Secondo la Casa Bianca, il presidente, che visiterà prima Israele, poi la Cisgiordania e infine l’Arabia Saudita (dove parteciperà a una riunione del Consiglio di cooperazione del Golfo), discuterà “i mezzi per espandere la cooperazione regionale, economica e di sicurezza, comprese nuove e promettenti iniziative infrastrutturali e climatiche, nonché scoraggiare le minacce dell’Iran, promuovere i diritti umani e garantire la sicurezza energetica e alimentare globale”. Inoltre, la visita ha principalmente lo scopo di ripristinare la posizione degli Stati Uniti in Medio Oriente, presentandosi come il principale alleato dei Paesi del Golfo. Un’esigenza dovuta al percepito ritiro americano dalla regione, un vuoto che ha portato molti Stati dell’aerea a guardare con maggiore interesse a Est, verso la Cina.

(Formiche.net, 9 luglio 2022)

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Rapimento di Eitan, indagini chiuse. Nonno e complice verso il processo

I legali: «Atto che ci aspettavamo». Stralciata la posizione della nonna materna inizialmente indagata.

di Sandro Barberis

Per la procura di Pavia quello avvenuto l’11 settembre scorso è stato «un sequestro di persona aggravato». La vicenda è quella di Eitan Biran, 7 anni compiuti da pochi giorni e unico superstite della strage della funivia del Mottarone. La procura di Pavia ha chiuso le indagini, in vista della richiesta di processo, nei confronti del nonno del ramo materno Shmuel Peleg e del suo presunto complice nel rapimento Gabriel Abutbul Alon.
  Entrambi si trovano all’estero: Peleg in Israele nonostante una richiesta d’estradizione, mentre Abutbul era stato arrestato a Cipro poi interrogato a Pavia e rimesso in libertà con l’obbligo di non dimorare a Pavia, Milano e Varese: ora è a Cipro.

• La ricostruzione della procura
  Le accuse nei confronti dei due sono a vario titolo sequestro di persona aggravato, sottrazione e trattenimento di minore all'estero e appropriazione indebita di passaporto. Come emerge dall'avviso di conclusione dell'inchiesta è stata stralciata la posizione della nonna materna Esther Cohen, ritenuta inizialmente una possibile complice nella vicenda.
  Secondo la ricostruzione della pm Valentina De Stefano, Peleg e Abutbul l'11 settembre 2021 avrebbero portato via il piccolo Eitan «prelevandolo dal domicilio stabilito dall'autorità giudiziaria» a Travacò Siccomario, «sottraendolo alla tutrice» Aya Biran, zia paterna, «nominata con decreto del 26 maggio 2021 del giudice di Torino. E l'avrebbero fatto con un «piano premeditato e organizzato» privando il minore della «libertà personale» e portandolo in Israele, con un volo privato da Lugano, «contro la volontà della persona che ne aveva la custodia». Da qui l'accusa di sequestro di persona aggravato, perché su minore.
  Dopo una battaglia giudiziaria a Tel Aviv i giudici israeliani avevano disposto, nel dicembre 2021 il rientro del bambino in Italia. Peleg, difeso dagli avvocati Paolo Sevesi e Sara Carsaniga, e Abutbul, difeso da Francesco Isolabella e Cataldo Intrieri, sono anche accusati di sottrazione e trattenimento di minore all'estero e di essersi appropriati del passaporto israeliano del bimbo, «senza restituirlo» a quella che era la tutrice, ossia la zia Aya, entro il termine del 30 agosto 2021, come aveva stabilito il giudice di Pavia. Abutbul, 50enne soldato di un'agenzia di contractor, israeliano e residente a Cipro, avrebbe fatto da autista a Peleg aiutandolo nel suo piano. Era stato estradato in Italia negli scorsi mesi in esecuzione di un mandato d'arresto europeo. Era stato interrogato dal gip di Pavia, che lo aveva rimesso in libertà col divieto di dimora a Milano, Pavia e Varese. Su Peleg, 59 anni e che vive a Tel Aviv, ancora pende un mandato d'arresto internazionale ed è improbabile che le autorità israeliane diano seguito alla richiesta di estradizione. «Devo ancora analizzare le carte - spiegava ieri nel tardo pomeriggio l’avvocato Cataldo Intrieri di Roma, uno dei difensori di Abutbul -. Nei prossimi giorni valuteremo la linea difensiva da tenere». «Un atto giudiziario che ci aspettavamo, non ci sono novità sostanziali rispetto a quanto già emerso» spiega Paolo Sevesi, legale di Shumuel Peleg.

• Il dramma di Eitan
  Eitan Biran come detto è l’unico superstite della caduta nel vuoto della funivia del Mottarone il 23 maggio 2021. Aveva perso il padre Amit Biran, la madre Tal Peleg e il fratellino Tom di due anni: insieme vivevano da alcuni anni in Borgo a Pavia. Erano morti anche due bisnonni.
  In tutto le vittime erano state 14. Eitan era stato ricoverato d’urgenza a Torino, poi dimesso e dopo una lunga riabilitazione doveva iniziare la prima elementare dalle suore Canossiane di Pavia, stesso istituto dove aveva seguito la scuola materna. Ma c’era stato il rapimento proprio alla vigilia dell’inizio della scuola. Il bimbo è tornato a dicembre 2021 a Travacò, ora vive a casa della zia paterna Aya Biran con suo marito Or Nirko e le loro due figlie piccole.

(la Provincia pavese, 9 luglio 2022)

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Smontate le accuse ai no vax, ma la stampa tace

Ci hanno nascosto la verità [risalto aggiunto]

di Maurizio Belpietro

L'ha detto. Nonostante David Parenzo, conduttore su La 7 del programma insieme con Concita De Gregorio, abbia provato a cambiare discorso, Andrea Crisanti ha tirato diritto, completando il suo ragionamento. «Nel 98% dei casi muoiono i vaccinati, non i no vax». Una bomba, sganciata in diretta all'ora di cena, che in studio hanno tentato di arginare, cercando di virare il dibattito sulla necessità della quarta dose, ma il direttore del dipartimento di microbiologia di Padova ha ignorato la questione con un semplice «poi parlo anche della quarta dose». E così, ecco spiattellata senza censure la sua opinione: nonostante per mesi ci abbiano sfracellato i timpani, e anche qualcos'altro, con i pericolosi untori che non avevano accettato di offrire il braccio alla patria, ad ammalarsi e, purtroppo, a morire, sono le persone fragili che si sono vaccinate, le quali, convinte da una propaganda sbagliata di essere immuni al Covid, pagano con la vita la mancanza di precauzione. Crisanti non ha dubbi e la sua non è stata un'uscita estemporanea, ma una riflessione ponderata contro il pensiero unico mainstream, che il professore ribadisce oggi con un'intervista alla Verità. Già a Bari la settimana scorsa aveva spiegato che a essere colpiti dal contagio della nuova variante erano principalmente le persone che si erano sottoposte a doppia o tripla dose. Probabilmente, aveva chiarito, sono più sensibili al virus, quasi che l'iniezione, invece di rafforzare il loro sistema immunitario, lo avesse reso più vulnerabile o, quanto meno, più esposto alla mutazione dell'infezione. La frase, già di per sé sconvolgente in quanto il fenomeno, se confermato, riguarderebbe decine di milioni di italiani, centinaia di migliaia dei quali considerati fragili, è stata ovviamente completamente ignorata dalla grande stampa, attenta a non turbare il pensiero dominante. Così l'altra sera, Crisanti è tornato sull'argomento e senza utilizzare giri di parole. «Noi siamo in una situazione in cui il virus circola, non c'è accettabilità sociale per le misure di restrizione e questo è un dato di fatto di cui i politici e anche i ricercatori e gli operatori di sanità pubblica devono prendere atto e dunque bisogna prendere delle misure ad hoc per proteggere i fragili. Prima di tutto bisogna spiegare alle persone a rischio che devono usare la mascherina, perché la mascherina protegge, e anche le persone che accudiscono i fragili devono indossarla. lo penso che il vero problema sia stato un problema di comunicazione, non è stato spiegato che a levare la mascherina non dovevano essere i fragili».
  Concita De Gregorio ha provato a interrompere il fiume in piena per dire che la questione non riguardava un evento meteorologico. Ma a questo punto il professore non si è tenuto più. «Non abbiamo spiegato fin dall'inizio che 160 morti al giorno non erano no vax, ma persone vaccinate e fragili. Tutta la polemica no vax ha creato un corto circuito per cui sembrava che morissero solo i no vax e invece non era vero: morivano persone vaccinate e fragili. Ed è questa la vera priorità». Boom. In studio è sceso il gelo, con il sottosegretario alla Salute, Pierpaolo Sileri, che pareva una statua di sale. In poche parole, il professore aveva demolito la narrazione ufficiale, che vuole i no vax responsabili dei contagi ed esposti al rischio di finire in ospedale e morire più degli altri.
  Un sistema dell'informazione degno di questo nome si sarebbe scatenato, chiedendo di conoscere meglio i dati e di avere pareri che confermassero o smentissero la tesi di Crisanti. Invece niente, tutti zitti. Tutti pronti a lasciar passare sotto silenzio un'accusa che chiama in causa il governo e i responsabili della sanità, per aver nascosto all'opinione pubblica la realtà. In Germania la stampa sta mettendo in croce il Robert Koch lnstitute, equiparabile al nostro Istituto superiore di sanità, per avere dati attuali sull'efficacia delle vaccinazioni. Una richiesta di trasparenza per ottenere informazioni affidabili. E da noi? In Italia, giornali e tv al contrario si danno da fare per mettere il silenziatore a qualsiasi notizia disturbi il pensiero dominante. E l'articolo 21 della Costituzione, le associazioni che in nome del principio sancito dalla carta su cui si fonda la nostra Repubblica, l'Ordine dei giornalisti sempre pronto a perseguire i presunti diffusori di fake news? Non pervenuti. Tutti in silenzio e ben allineati. E la chiamano libera stampa. Ma fateci il piacere ...

(La Verità, 9 luglio 2022)

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Poiché non sono morta devo pagare 100 euro

Lo Stato mi ha mandato la multa che punisce il mio rifiuto a vaccinarmi contro il coronavirus. Poco importa se nel frattempo sono emerse sempre più ombre sull'utilità delle punture, tanto che la rivista «Science» ha messo in dubbio l'efficacia dei farmaci.

di Silvana De Mari

La continua stimolazione del sistema immunitario comporta il rischio che a lungo termine esso non risponda in modo adeguato. La prestigiosa rivista «Science» afferma che i bassi tassi di mortalità di ora si debbono più che altro alla scarsa virulenza di Omicron

Ho appena ricevuto un bizzarro foglio con una duplice intestazione: ministero della salute e agenzia delle entrate. Le minuscole non sono un refuso. In una nazione decente il ministero della salute e l'agenzia delle entrate non dovrebbero mai essere associati. La bizzarra missiva è una comunicazione di avvio del procedimento sanzionatorio, una multa di 100 euro per aver rifiutato l'inoculazione di farmaci di efficacia molto dubbia e con effetti collaterali tutt'altro che dubbi. La base di qualsiasi Stato, non di qualsiasi Stato democratico, di qualsiasi Stato anche privo di elementi di democrazia elettiva, è il fatto che il cittadino sia riconosciuto proprietario del suo corpo. Le parole latine habeas corpus indicano il principio che tutela l'inviolabilità personale. Da qui nasce anche il diritto dell'arrestato di sapere perché lo stanno arrestando e di non poter essere trattenuto senza decisioni di un magistrato. Questa regola quindi è già stata violentemente violata nei cosiddetti lockdown, termine inglese che nasce dal diritto carcerario e indica la reclusione in cella di sicurezza senza ora d'aria. L'habeas corpus stabilisce quindi tutte le norme che nelle Costituzioni dei vari paesi, tutelano la libertà personale del cìttadino. Nel 1679 l'«Habeas corpus act», legge dello Stato inglese, ha stabilito per sempre il principio della inviolabilità personale. Nel medioevo questo era un principio inattaccabile. La prima picconata è arrivata con l'Illuminismo e conseguente rivoluzione francese. Sono nati allora. il servizio militare obbligatorio, nelle epoche precedenti combattevano solo nobili, volontari e mercenari, e l'obbligo scolastico che può essere una cosa carina se insegna a scrivere, ma può anche essere una micidiale forma di indottrinamento statale. Il cittadino doveva portare il suo corpo a scuola e poi in caserma anche se non ne aveva voglia. L'obbligo vaccinale è stata la violazione del diritto non farsi iniettare nulla, del diritto a non ammalarsi. La prima vaccinazione antivaiolosa è stata una catastrofe, ed era obbligatoria. È stata la più grande tragedia di danni iatrogeni fino ad ora. L'obbligo vaccinale multiplo con esavalenti stabilito dalla Lorenzin ha effetti collaterali inevitabili perché i vaccini sono farmaci biologici che causano uno stato di malattia (grazie al quale, in teoria, dovrebbero evitare una malattia più grave), cui si aggiungono gli effetti collaterali dei loro additivi. Fare troppi vaccini, fare vaccini inutili, o riunire vaccini in colpi da sei alla volta può avere effetti collaterali gravi. Dal punto di vista medico è sbagliato. A questo si aggiunge il particolare che nessuno sta controllando la qualità dei vaccini, con le uniche eccezioni dei dottori Gatti e Montanari che ci hanno trovato dentro nano inquinanti.
  L'8 luglio 2020 con zero dosi abbiamo avuto 193 nuovi casi di covid. Eravamo liberi. Io potevo lavorare. Nessun medico, nessun infermiere, nessun veterinario aveva perso il suo lavoro. Lo stesso giorno dell'anno successivo con una parte della popolazione sierata con una o due dosi, i nuovi casi sono stati 1394. L'8 luglio di quest’anno sono 107.240 i nuovi casi.
  Chiunque abbia l'incredibile e straordinaria capacità di sommare due più due, può arrivare da solo alla conclusione a cui stanno arrivando purtroppo tutti i veri report medici, che i vaccini cioè hanno una cosiddetta efficacia negativa, vale a dire che abbattono il sistema immunitario e quindi favoriscono la malattia, la rendono anche più carogna in molti casi grazie al cosiddetto fenomeno Ade. La loro straordinaria azione negativa non si limita al coronavirus, si estende anche a innumerevoli altre malattie infettive, soprattutto l'herpes, ma anche numerose altre bestiole. Abbiamo epatiti da vaccino. Abbiamo miocarditi che aumentano in maniera spettacolare soprattutto nelle persone giovani. Hanno creato una nuova malattia: la sindrome di morte improvvisa dell'adulto, per giustificare una serie di malori improvvisi.
  Chi si lascia inoculare si ammala e fa ammalare. Secondo il nostro sempre più pirotecnico presidente del consiglio, secondo tale Burioni e David Parenzo io dovevo essere già defunta. Dato che non sono morta devo pagare una multa di 100 euro. Esistono dittature dure come acciaio e cemento, fatte di Gestapo e Kgb, altre molli come le sabbie mobili e hanno come simbolo la faccia di Speranza. Siamo intrappolati in una la realtà fittizia, costruita dal club di Davos con l'ausilio di Big pharma e del mainstream, ma forse la narrazione si sta sgretolando. Uno studio apparso sulla prestigiosa rivista Science in cui ricercatori britannici dichiarano che i vaccini contro il covid non conferiscono alcuna protezione contro l'ultima variante, la cosiddetta Omicron, anzi sono dannosi. L'inoculazione dei sieri sperimentali non determina l'instaurarsi della protezione immunitaria fornita dagli anticorpi e dai linfociti T, inoltre questi sieri possono avere conseguenze a lungo termine nell'organismo, provocare malattie croniche ed essere causa di morte improvvisa. Le persone che hanno completato il ciclo vaccinale e si stanno infettando con la variante Ornicron presentano le cosiddette infezioni rivoluzionarie da Omicron, perché la risposta dei linfociti T è stata orientata innaturalmente verso le varianti precedenti di SarsCov-z, come la Delta e non contro quella attualmente circolante.
  Alex Berenson, in Substack, spiega che i sieri mrna sembrano indirizzare in modo stabile il sistema immunitario delle persone a produrre linfociti T contro varianti che non esistono più e che non sono responsabili dell'infezione. Gli individui che non hanno ricevuto i sieri conservano la loro immunità naturale che comprende una componente chiamata «immunità non specifica», un meccanismo di difesa rivolto contro gli agenti patogeni che, nel caso del SarsCov-z, è in grado dì combattere il virus in generale e non in termini dì varianti. Le inoculazioni alterano il sistema della risposta immunitaria non specifica e l'organismo non è più in condizione di combattere le infezioni. Gli anticorpi rappresentano la prima difesa poiché sono deputati ad eliminare i virus dal torrente circolatorio, i linfociti T sono la seconda linea di difesa in quanto attaccano e distruggono le cellule infettate dal virus e intervengono nella formazione successiva di anticorpi che sono prodotti in numero maggiore e più mirati. I sostenitori dei vaccini mrna hanno sempre detto che i linfociti T, prodotti in seguito all'inoculazione, evitano che le persone si ammalino in modo grave anche dopo la scomparsa degli anticorpi.
   Lo studio pubblicato su Science indica che questo potrebbe non essere vero e i bassi tassi di mortalità sarebbero da attribuire alla scarsa virulenza di Omicron sia nelle persone vaccinate che in quelle non vaccinate. Lo studio britannico ha evidenziato inoltre che anche gli anticorpi vengono danneggiati dai sieri poiché il sistema immunitario, dopo l'inoculazione, è in grado di produrre solo un tipo di anticorpo contro il coronavirus, mentre sappiamo che per una risposta immunitaria efficace servono molti anticorpi diversi. Questi anticorpi di tipo diverso vengono prodotti naturalmente dall'organismo, ma in seguito all'inoculazione dei vaccini a Rna messaggero, il sistema immunitario risulta danneggiato in modo duraturo e perde la capacità di combattere malattie causate da virus che cambiano frequentemente.
  Lo studio ha ammesso questo fatto, ma lo ha presentato in termini estremamente tecnici, tanto da far supporre che gli autori ritenessero più opportuno non esprimersi in modo chiaro. La ricerca non mette a confronto le risposte immunitarie dei vaccinati e dei non vaccinati; il lavoro non offre un confronto diretto circa le modalità con cui Omicron può influenzare la risposta anticorpale e la produzione di cellule B e T nelle due categorie. Berenson suggerisce che i ricercatori potrebbero aver escluso dallo studio le persone non vaccinate perché preoccupati dai risultati che avrebbero potuto ottenere se avessero confrontato direttamente i due gruppi. Lo Stato italiano pretende da me 100 euro e mi impedisce dì lavorare, l'ordine dei medici dì Torino mi sospende dalla mia attività di medico in quanto ho rifiutato farmaci che secondo il loro stesso foglietto illustrativo non danno immunità mentre Sandro Sanvenero, presidente dell'ordine dei medici dì La Spezia, si rifiuta di firmare gli ordini di sospensione a carico dei medici non in regola con l'obbligo vaccinale. Lo Stato italiano può accampare diritti sul mio corpo perché innumerevoli persone, personaggi della politica, del giornalismo, purtroppo della medicina, gli hanno venduto l'anima. Ma non tutti hanno ceduto. La prigione fatta di melma e sabbie mobili si sta sgretolando.

(La Verità, 9 luglio 2022)

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Il ghetto ebraico della Serenissima Repubblica di Venezia

Fondato nel 1516 per ospitare i mercanti ebrei provenienti dall'Europa centro-orientale, ben presto s'ingrandì sviluppandosi in verticale per sopperire alla mancanza di spazio.

di Martina Tommasi

Scena tratta da 'Il mercante di Venezia' di Shakespeare. Atto III, scena I. Illustrazione del 1865
L'arrivo dei primi nuclei di ebrei nella laguna di Venezia è attestato già nel X secolo, ma le informazioni a riguardo sono frammentarie e si confondono fra realtà e leggenda. Sebbene qualcuno presuma un primo insediamento successivo all'anno Mille nell'isola di Spinalonga, poi Zudecca (o Giudecca, isola dei giudei), non vi sono documenti inconfutabili che lo confermino. Quel che invece è certo, è che nel XII secolo questi risiedevano nella vicina città suddita di Mestre, sulla terraferma. La loro principale attività era legata al prestito di denaro: Venezia era un grande emporio commerciale in cui gli ebrei erano ben accetti in qualità di mercanti, come le altre comunità, ma non potevano risiedere stabilmente in città per più di quindici giorni e dovevano indossare una O gialla cucita al petto e più tardi indossare un berretto giallo o rosso come segno identificativo. La maggior parte di essi era di origine ashkenazita, provenienti cioè dall'Europa centro-orientale, pertanto vennero indirizzati per lo svolgimento dei propri traffici al Fondaco dei Tedeschi, l'area che ospitava i mercanti venuti dalla Germania e da altri Paesi del nord. Qui, v'erano dei magazzini: al piano terra si stipavano le merci e si contraevano i traffici, al piano superiore vi erano gli alloggi dei mercanti. Oltre agli ashkenaziti, nel tardo Medioevo gravitavano attorno alla città lagunare anche molti ebrei provenienti dall'Oriente. Questi non erano vincolati al Fondaco, ma potevano circolare liberamente.

• DALLA CONDOTTA ALL’ESPULSIONE  

Il ghetto di Venezia nei primi anni del XVI secolo. Illustrazione tratta dall'opera 'Storia delle nazioni' pubblicata nel 1915
Fra il 1348 e il 1349 una terribile epidemia di peste funestò il continente. Come solitamente accade in circostanze simili, si cercò un capro espiatorio, e lo si individuò negli ebrei, che vennero accusati di aver avvelenato i pozzi. Per sfuggire alle rappresaglie, molti di questi provenienti dall'Europa centro-orientale cercarono rifugio a Venezia, che in nome degli affari aveva mantenuto un atteggiamento accomodante accettando di accoglierli. Risale al 1385 la prima “condotta”, un documento che autorizzava i mercanti ebrei ashkenaziti a lavorare in città. Documenti analoghi esistevano anche in altre città della penisola italiana, e costituivano una sorta di contratto che determinava il tempo e le condizioni di permanenza degli ebrei. Per esempio il tasso d'interesse per i banchi di prestito che gestivano era fissato tra il dieci e il dodici per cento e il versamento di una (generosa) cifra pattuita esentava gli ebrei dal versare altre tasse. Inoltre la pratica di stabilire in anticipo il tempo di permanenza permetteva alla Serenissima di esigere ulteriori pagamenti successivi per non sfrattare la comunità.
  Dal canto loro, i mercanti ebrei stavano al gioco sentendosi più al sicuro nella città lagunare che altrove. Quando la comunità ebraica si sentì sufficientemente stabile, chiese al governo un’area residenziale fissa e lo spazio per istituire un cimitero. Inizialmente queste richieste vennero rifiutate, e nel 1395 venne declinato anche il rinnovo della condotta; venne concessa solo una proroga di due anni prima dell'espulsione. Gli unici a non venir toccati dal decreto furono i medici, considerati più affidabili di quelli cristiani. Gli ebrei poterono rientrare a Venezia solo nel 1509, nonostante gli attacchi di una parte del clero che aveva cercato senza successo d’istigare la popolazione contro di loro.

• GHETTO NOVO, VECCHIO E NUOVISSIMO   

Dal volume 'Gli abiti de' Veneziani'. Seconda metà del XVIII secolo. Museo Correr, Venezia
L'anderà parte, che per obviar a tantj desordenj et inconvenientj: sia provisto et deliberado [...] che tutj li zudei che de presentj se attrovano habitar in diverse contrade de questa cità nostra [...] siano tenutj ed debino andar immediate ad habitar unidj in la corte de case che sono in geto apresso san hieronymno [...] et per obviar che i non vadino tuta la notte a torno [...] sia preso che da la banda verso geto vechio, dove è un pontesello picolo: et similiter da l'altra banda del ponte, siano facte do porte videlicit una per cadauno de dictj do luochj: qual porte la matina se debino aprir a la marangona: et la sera siano serade ad hore XXiiij per quatro custodj christianj: da esser a questo deputadj et pagadj da lor zudei [...] et insuper dicto collegio li debj deputar do barche: qual zorno et notte vadino a torno el prefato loco: da esser pagade de i danarj de essi zudei». Senato della Serenissima Repubblica di Venezia, 29 marzo 1516.
  Con tale decreto, nel 1516 la comunità ottenne un quartiere dedicato. La città era divisa in sei zone dette “sestrieri”, e a loro toccò quello di Cannaregio, il cui nome derivava probabilmente dal canneto che originariamente ricopriva la zona lagunare. Qui vi erano le fonderie dove si “gettava” cioè fondeva il piombo per i cannoni: è da quest'attività che deriva il termine geto, cioè getto, poi divenuto “ghetto”. Il primo nucleo venne fatto insediare in corrispondenza del geto novo, da cui il toponimo Ghetto Nuovo. Inizialmente, il permesso di residenza riguardava gli ebrei italiani e quelli ashkenaziti, mentre venne rifiutato agli ebrei orientali e ai “marrani”, ebrei costretti alla conversione in Spagna e Portogallo e successivamente cacciati. Il ghetto venne provvisto di porte che al tramonto venivano chiuse per ragioni di sicurezza. Le guardie armate cristiane (assunte dalla comunità ebraica) controllavano la zona circostante e una catena veniva alzata sul canale per impedire la navigazione. Se da un lato queste misure proibivano ad estranei di entrare, dall’altro vietavano ai residenti di uscire.
  Nel Ghetto Novo sorsero sinagoghe, delle “scuole” corrispondenti alle diverse nazioni della comunità: fra queste sono sopravvissute la Scuola grande tedesca (1529), la prima ad essere costruita. Poi la Scuola Canton (1531), l'unica sinagoga europea a conservare scene di episodi tratti dall'Esodo (gli ebrei non possono rappresentare figure umane) e la Scuola italiana (1575), con le sue ampie finestre. V'erano inoltre botteghe, abitazioni, banchi dei pegni come il Rosso, il Verde e il Nero, e anche dei pozzi. La popolazione cresceva in maniera inarrestabile: se all'inizio del XVI secolo il ghetto ospitava circa seicento persone, a fine secolo era la casa di oltre duemila anime. Per supplire alla mancanza di spazio si cominciò a sviluppare le costruzioni in altezza, tanto da raggiungere dimensioni mai viste prima, anche di sette o otto piani. Si può dire che per l'epoca si trattasse di veri e propri grattacieli. Purtroppo però queste opere non erano sicure: si ricavavano infatti dall'inserimento di un piano abbassando il soffitto dell'appartamento inferiore, tanto da faticare a stare eretti. La continua ristrutturazione e la realizzazione di palazzi con il soffitto più basso del solito sovraccaricava in eccesso le fondamenta che spesso non reggevano il peso e crollavano.
  Nel 1589 il governo della città autorizzò infine lo stanziamento degli ebrei orientali e spagnoli (o sefarditi) a risiedere stabilmente in una zona dove in precedenza sorgeva una fonderia più antica, da cui il nome del quartiere, Ghetto Vecchio, seguito nel 1633 dalla costruzione dell’adiacente Ghetto Novissimo, con l'edificazione di nuovi palazzi più comodi. Anche qui sorsero sinagoghe di cui ci rimangono nel Ghetto Vecchio la Spagnola, progettata nel Seicento dall'architetto Baldassare Longhena, e la Levantina (1638). Anche qui si riconosce lo stile del Longhena. Le case più moderne erano quelle costruite nel Ghetto Nuovissimo.

• RAPPORTI FRA CRISTIANI ED EBREI   

Vista di campo di Ghetto Nuovo, nell'antico ghetto ebraico di Venezia
L'interesse della Serenissima Repubblica di Venezia nei confronti degli ebrei era dovuto prevalentemente al denaro: essi erano appetibili in qualità di mercanti, cambiavalute e soprattutto gestori del banco dei pegni. Per ragioni di tipo religioso, infatti, i cristiani non potevano prestare il denaro ad usura, mentre gli ebrei non erano soggetti ad alcun vincolo morale in tal senso. Ciononostante, per legge non dovevano accettare in pegno oggetti sacri o armi.
  Molto apprezzati erano come già accennato anche i medici ebrei, che godevano una tale stima che gli era permesso continuare gli studi presso la prestigiosa università di Padova. Inoltre, erano gli unici a poter uscire all'occorrenza dal ghetto durante le ore notturne. Anche le doti artistiche degli ebrei erano riconosciute: molti cristiani frequentavano senza pregiudizio le scuole ebraiche di musica e danza e i musicisti ebrei venivano invitati ad esibirsi a casa dei nobili veneziani, creando così rapporti di collaborazione stabili. Grande importanza avevano anche gli editori ebrei, molto fiorenti a Venezia per tutto il XVI secolo. Nell'ambito dell'editoria nacquero anche collaborazioni fra studiosi cristiani ed ebrei per la traduzione di testi arabi o dell'antichità classica o ebraica.
  Oltre a questi mestieri, l'unico concesso era quello degli strazarioi, cioè i venditori di stracci o oggetti vecchi. Il resto era interdetto ai membri della comunità. Se da un lato dunque a Venezia gli ebrei erano meglio tollerati rispetto ad altre città, d'altro canto per garantirsi protezione erano obbligati a pagare somme ingenti e ad allestire a proprie spese ricevimenti in onore d'importanti personalità in visita nella città lagunare. L'usanza più umiliante era la “corsa degli ebrei” a Carnevale, in occasione della quale uomini seminudi e preferibilmente grassi dovevano correre attraverso un percorso fra le calli mentre la cittadinanza li denigrava lanciando oggetti ingiuriosi.

• LA FINE DEL GHETTO   

Banchiere. Dal volume 'Gli abiti de' Veneziani', della seconda metà del XVIII secolo. Museo Correr, Venezia
Nel XVIII secolo la Serenissima cominciò il suo declino economico. Parallelamente, la maggior parte degli ebrei benestanti lasciò la città e il suo ghetto, mentre rimasero quelli poveri. Anche la vita culturale andò via via esaurendosi, limitandosi a qualche attività nell'ambito delle sinagoghe. Nel 1797 Napoleone Bonaparte conquistò Venezia e incendiò il ghetto decretando la fine della segregazione. Gli ebrei vennero equiparati agli altri cittadini, anche se si dovette aspettare il 1866 e l'annessione della città al Regno d'Italia perché tali misure diventassero esecutive.

(Storica National Geographic, 9 luglio 2022)

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Israele e Arabia Saudita pronte all’accordo sulle isole contese nel mar Rosso

Lo Stato ebraico affida a Riyadh - dietro garanzie - il controllo di Tiran e Sanafir, in cambio del permesso di sorvolo dei cieli sauditi. L’obiettivo è accorciare i tempi di volo con i Paesi dell’Estremo Oriente. Un primo passo “di un percorso più lungo e graduale” fra le due nazioni. 

GERUSALEMME - Cedere il controllo delle isole, per poter ottenere in cambio il permesso di sorvolo dello spazio aereo. È questo, in sintesi, il cuore dell’accordo che intendono sottoscrivere Israele e Arabia Saudita, mettendo la parola fine sul possesso di alcune isole contese nel mar Rosso e che, in passato, aveva scatenato la protesta di una parte della popolazione egiziana. Una questione finita poi nelle aule del tribunale del Cairo, cavalcata dai nazionalisti in piazza “a difesa” dell’integrità territoriale e accuse di violazione della Costituzione.
  Secondo quanto riferisce Israel Hayom, il governo israeliano avrebbe acconsentito a trasferire il possesso delle isole di Tiran e Sanafir, situate all’imbocco del golfo di Aqaba, dall’Egitto all’Arabia Saudita durante la visita nella regione del presidente Usa Joe Biden prevista a metà mese. In cambio, Riyadh dovrebbe aprire i cieli al sorvolo degli aerei israeliani segnando un ulteriore avvicinamento fra lo Stato ebraico e le nazioni del Golfo, nel solco degli “Accordi di Abramo”.
  In questo modo, spiegano gli esperti, sarà possibile “accorciare i tempi nei collegamenti fra Israele e l’Estremo oriente”.
  Il sito israeliano i24 aggiunge che, in cambio dell’approvazione, lo Stato ebraico avrebbe chiesto una serie di garanzie a Riyadh, tra cui la libertà di navigazione militare e civile nello Stretto di Tiran ottenendo al riguardo il via libera. Bocciato, al contrario, il tentativo di convincere il regno wahhabita a permettere ai pellegrini musulmani di viaggiare direttamente da Israele alla Mecca. “L’Arabia Saudita - avrebbero detto dietro anonimato alcuni funzionari israeliani - non è ancora pronta a questo passo, già intrapreso da Emirati Arabi Uniti (Eau) e Bahrain. Servirà ancora tempo, in una realtà più conservatrice, ed è dubbio che vi potranno essere svolte prima del passaggio di potere da re Salman al figlio Mohammed bin Salman (Mbs)”. Ciononostante questo accordo è “storico” e può essere considerato un “primo, piccolo passo di un percorso più lungo e graduale”. 
  Tiran e Sanafir nel 2016 erano state promesse dal presidente egiziano Abdul Fattah al-Sisi durante una visita ufficiale in Arabia Saudita, sollevando forti polemiche in patria. In cambio, Riyadh avrebbe dovuto concedere un pacchetto di aiuti al Cairo in miliardi di dollari. Le due isole in questione, non abitate e desertiche, sono prive di risorse ma ricche di valore strategico in quanto situate sulla rotta di chiunque voglia navigare il mar Rosso in ambo le direzioni. 
  Concesse dall’Arabia Saudita all’Egitto, queste due isole sono state utilizzate come arma nella guerra Israelo-Araba, impedendo la navigazione alle navi israeliane. Israele le ha occupate insieme al Sinai fino alla firma degli accordi di pace fra il Cairo e gli israeliani noti come gli accordi di Camp David. L’articolo 5 degli accordi stabilisce espressamente che le isole non dovranno ospitare alcuna presenza militare o tanto meno essere utilizzate per impedire la libera circolazione delle navi.

(AsiaNews, 8 luglio 2022)

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Coldiretti contro il finto latte israeliano, i prodotti sintetici e i cosiddetti ‘filantropi’ che promuovono cibo da laboratorio

“Le nostre stalle sono quotidianamente messe sotto scacco da problemi oggettivi, dall’aumento delle tariffe energetiche, a quello delle materie prime, senza considerare il balzo verso l’alto del carburante e molto altro. Insidie che minano la zootecnia italiana, che vede nella nostra provincia un punto di forza, al di là di ogni dubbio, con produzioni d’eccellenza ovunque apprezzate. E, proprio in questo frangente, non poteva che arrivare l’ennesima bufala, a generare ulteriore confusione e, soprattutto, a minacciare il made in Italy, il latte senza mucche”. Con queste parole il presidente provinciale di Coldiretti Vicenza, Martino Cerantola, interviene su una delle bufale che, da giorni, sta facendo il giro del web, sfruttando i più cliccati canali di “informazione”.   
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“Real dairy. No cows”. È lo slogan che campeggia sul sito della Remilk, la start up israeliana che promette di fare “veri” latte e formaggi senza l’aiuto delle mucche, nuovo simbolo dell’attacco alle stalle italiane ed al made in Italy a tavola portato dalle multinazionali del cibo. Un’aggressione che, dietro belle parole come “salviamo il pianeta” e “sostenibilità”, nasconde l’obiettivo di arrivare a produrre alimenti facendo progressivamente a meno degli animali, dei campi coltivati e degli agricoltori stessi.
  Dopo la vicenda della carne sintetica, che attacca il settore zootecnico, così come la dieta mediterranea, patrimonio dell’Unesco dal 16 novembre 2010, ma in particolare intende subdolamente modificare gli stili di vita e di consumo dei cittadini, per propinare prodotti di laboratorio, è il momento del latte artificiale.
  Il “latte senza mucche” è un prodotto artificiale che, secondo quanto afferma Remilk, nasce copiando il gene responsabile della produzione delle proteine del latte nelle mucche ed inserendolo nel lievito. Questo viene messo in dei fermentatori per produrre delle proteine del latte a cui verranno aggiunti in laboratorio vitamine, minerali, grassi e zuccheri non animali.
  “Ci appelliamo all’Unione europea” chiosa Coldiretti Vicenza. “In passato la Corte di Giustizia Ue si era pronunciata contro l’utilizzo del termine “latte” per le bevande vegetali (ad esempio il latte di soia) – sottolinea il direttore di Coldiretti Vicenza, Simone Ciampoli – ma le sempre più aggressive politiche di marketing adottate dalle multinazionali e l’attività di lobby all’interno delle istituzioni rischiano di sfondare ed aprire la strada a filiere “dal laboratorio alla tavola”, dove a rimetterci in salute e reddito saranno i cittadini, a tutto vantaggio dei miliardari “filantropi” che sempre più numerosi foraggiano il cibo artificiale”.
  Per combattere la guerra del cibo di laboratorio occorre anche la collaborazione del più prezioso alleato degli agricoltori: il consumatore, con la sua sensibilità per le cose buone ed il suo palato. “Quanti più cittadini continueranno a mangiare il vero prodotto made in Italy coltivato nei nostri campi ed a frequentare i mercati contadini – conclude il presidente Cerantola – tanto più grandi saranno le chance di vincere questa battaglia. L’alternativa è un futuro dove i menu saranno preparati nei laboratori chimici e le mucche le vedremo solo allo zoo. Non possiamo e non dobbiamo permetterlo, anche perché questo si rifletterebbe pure sull’abbandono delle nostre montagne, con ripercussioni sul turismo ed un’intera economia da decenni fondata su questi valori”.

(TviWeb, 8 luglio 2022)

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Si intensificano i rapporti tra Israele e Turchia

Firmato un accordo sull’aviazione civile

di Luca Spizzichino

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Ieri il primo ministro Yair Lapid e il ministro degli Esteri turco Çavuşoğlu hanno firmato un accordo con il quale si esprime la volontà di Israele e Turchia di concludere un accordo bilaterale sull'aviazione civile, che rafforzerà i legami e consentirà la ripresa dei voli israeliani verso la Turchia.
  L'accordo, destinato a sostituire l'attuale, risalente al 1951, prevede la ripresa dei voli delle compagnie israeliane verso una varietà di destinazioni in Turchia, e quelle delle compagnie turche verso Israele.
  La firma di questo trattato costituisce un'importante pietra miliare nell'avanzamento delle relazioni bilaterali tra i due paesi, che solo negli ultimi mesi hanno cominciato a riallacciare i rapporti.
  Infatti per più di un decennio Turchia e Israele sono stati ai ferri corti. Questo a causa di diverse crisi diplomatiche: la prima nel 2010, dopo l’incidente della Freedom Flotilla, e successivamente nel 2018, quando la Turchia richiamò il suo ambasciatore e chiese allo Stato ebraico di andarsene a causa delle violente proteste al confine tra Israele e Gaza.
  Negli ultimi due anni, tuttavia, Erdogan ha assunto un tono notevolmente diverso nei confronti di Israele, esprimendo interesse a migliorare i legami. Sia il presidente Isaac Herzog che Lapid hanno visitato la Turchia quest'anno e gli alti dirigenti israeliani hanno parlato più volte con Erdogan. Inoltre, il presidente Herzog ha telefonato, nella serata di ieri, al presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, in onore della festa musulmana di Eid al-Adha.
  Le due parti quindi non sono concentrate solamente a firmare accordi. Gerusalemme e Ankara stanno lavorando per andare oltre le crisi. Degno di nota è soprattutto il recente coordinamento di sicurezza in corso tra i due paesi.
  Nelle scorse settimane infatti, i due paesi hanno collaborato per smantellare cellule terroristiche finanziate dai pasdaran che progettavano di uccidere gli israeliani a Istanbul. Le autorità turche nei giorni scorsi hanno arrestato cinque iraniani sospettati di aver pianificato attacchi contro israeliani prima della visita di Lapid.

(Shalom, 8 luglio 2022)

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Lavrov: "Russia pronta a negoziati con Ucraina su grano"

"L'Occidente smetta di bloccare le forniture dalla Russia". Il ministro lascia il G20 di Bali in anticipo.

La Russia è pronta a negoziati con l'Ucraina e la Turchia sulla questione del grano ucraino. Ad affermarlo, secondo quanto riferisce l'agenzia di stampa russa 'Tass', è il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov a margine del G20 di Bali. "Siamo pronti per i negoziati con i nostri colleghi ucraini e turchi", ha detto. Lavrov ha aggiunto che le forze navali svolgono un ruolo chiave nel processo negoziale sull'esportazione di grano dai porti del Mar Nero
  "I paesi occidentali smettano di bloccare artificialmente le consegne russe ai Paesi che hanno acquistato il nostro grano, ha detto ancora, aggiungendo: "Le statistiche mostrano molto chiaramente che il grano, che è bloccato nei porti in Ucraina, è meno dell'1% della produzione mondiale, quindi non ha un impatto reale sulla sicurezza alimentare", ha aggiunto Lavrov.
  Il ministro degli Esteri russo lascerà la riunione del G20 a Bali in anticipo, saltando le sessioni previste per oggi pomeriggio e la cena ufficiale di questa sera. "Lavrov sta ancora tenendo colloqui bilaterali, dopo i quali parlerà con la stampa e partirà", ha detto alla Dpa la portavoce Maria Zakharova.

(Adnkronos, 8 luglio 2022)

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Guerra Russia Ucraina, la maledizione di Putin: tutti i leader anti Cremlino in sofferenza

di Carlantonio Solimene

Era il 26 marzo scorso quando il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, in un comizio a Varsavia, si fece sfuggire che l'Occidente non doveva limitarsi ad aiutare l'Ucraina a difendersi dall'invasione russa, ma puntare direttamente a un «regime change» a Mosca.
  La resistenza, insomma, come chiave per archiviare Vladimir Putin. A distanza di 104 giorni da quella che poi fu ridimensionata a «gaffe», l'uscita di Biden rischia di trasformarsi nel più classico degli autogol. Perché lo zar del Cremlino è ancora saldamente al suo posto mentre le tessere del puzzle occidentale che gli si contrappone cominciano a cadere. Il passo d'addio di Boris Johnson, il leader europeo che più di tutti si è erto a difesa di Kiev, è in qualche modo la summa di tutti i pregi e difetti delle democrazie.
  Aperte, inclusive, tolleranti nei confronti del dissenso. Ma al tempo stesso macchinose, instabili, volitive. Persino in un Paese, la Gran Bretagna, normalmente abituata alla stabilità dei governi. Certo, la parabola di BoJo ha poco a che fare con il conflitto in Ucraina. È figlia, piuttosto, dell'imperizia di un leader che si credeva intoccabile nonostante gli scandali e le gaffe che infilava di continuo. E che, in una sorta di contrappasso dantesco, è stato azzoppato dallo stesso partito che aveva scalato senza farsi scrupoli, tramando e pugnalando quando ce n'era bisogno.

• IL PESO ECONOMICO DEL CONFLITTO
  La guerra, tuttavia, ha molto a che fare con le difficoltà dei colleghi di Johnson che, in queste ore, si trovano in difficoltà più o meno simili. Un tempo si riteneva che le emergenze cementassero il popolo intorno ai propri governi. Lo scontro tra Mosca e Kiev, invece, sta causando l'effetto contrario. Probabilmente perché, col passare dei mesi, l'empatia nei confronti degli ucraini sta evaporando soppiantata dalle preoccupazioni per i cascami economici del conflitto. Che pure sono ancora lontani dal dispiegarsi completamente. Dei venti di crisi che soffiano sul governo di Mario Draghi si legge ogni giorno sui quotidiani.
  Ma il premier italiano è in buona compagnia. A passarsela peggio, probabilmente, è proprio Joe Biden. Ieri l'indice di gradimento elaborato dal portale FiveThirtyEight dello statistico Nate Silver faceva segnare un dato impressionante: il presidente Usa ha toccato un nuovo record negativo di gradimento. Il suo operato è apprezzato solo dal 38,6% degli americani. Per trovare un dato peggiore dopo 534 giorni di amministrazione bisogna tornare indietro addirittura al 1946, con Harry Truman al 33%. Biden sperava, con il protagonismo sulla crisi ucraina, di rimediare al pasticcio in Afghanistan. Finora, tuttavia, l'obiettivo è stato malamente mancato. Le elezioni di Midterm a novembre sono vissute come un incubo dai democratici, ormai sicuri di perdere il controllo di entrambi i rami del Parlamento. Mentre il Paese si interroga sul reale stato di salute del presidente e nel suo partito si studia un sistema per convincerlo a un'onorevole uscita di scena nel 2024, evitandogli una ricandidatura che rischierebbe di tramutarsi in un fragoroso flop.

• LE ELEZIONI IN EUROPA? LE VINCE VLADIMIR
  Ha già affrontato le elezioni Emmanuel Macron. E, al netto di una conferma presidenziale da non sottovalutare (nessuno ci riusciva dai tempi di Chirac), le legislative hanno consegnato all'inquilino dell'Eliseo un Parlamento senza più maggioranza. Al contrario, a essere premiate sono state le ali estreme, Mélenchon e Le Pen. Ovvero i leader che più di tutti hanno focalizzato l'attenzione sul prezzo che la popolazione sta pagando a causa dei rincari energetici e dello stop dei rapporti commerciali con Mosca. Macron non sarà disarcionato - il sistema francese tutela i poteri del presidente anche in assenza di numeri - ma il suo secondo mandato sarà segnato inevitabilmente da una maggiore attenzione verso le questioni interne.
  Con ovvia soddisfazione del Cremlino. Che, dal canto suo, ieri è stato il primo a commentare, con giubilo, la caduta di Johnson. È una sorta di maledizione, quella di Putin. Da quando è scoppiata la guerra, seppur indirettamente, ha vinto tutte le elezioni disputate in Europa. Come in Ungheria e Serbia, dove al potere sono rimasti i suoi sodali Viktor Orbán e Aleksandr Vucic. Il primo ha messo i bastoni tra le ruote alla Ue ogni volta che c'era da approvare un pacchetto di sanzioni contro Mosca. Il secondo ha mantenuto i collegamenti aerei giornalieri da Belgrado alla Russia mentre tutti gli altri Paesi europei chiudevano gli spazi dei cieli al Cremlino. C'è, infine, il caso Germania. Dove l'invasione russa non solo ha gettato nuova luce sui lunghi anni di cancellierato di Angela Merkel, accusata di non aver previsto l'espansionismo di Mosca, ma ha anche tarpato le ali al nuovo governo di Olaf Scholz.
  Più che le indecisioni del Cancelliere nelle prime fasi del conflitto, a pesare è stata l'economia. La Germania dipende dal gas russo come e più dell'Italia. Putin lo sa e si diverte a interrompere a più riprese le forniture adducendo ragioni di manutenzione. Il malcontento cresce e a maggio, nelle elezioni in Nordreno-Westfalia (il Lander tedesco più popoloso), i socialisti di Scholz hanno subìto la peggiore sconfitta della storia. Non solo: l'archiviazione del progetto Nord Stream ha deluso non poco il povero e disabitato Lander del Meclemburgo-Pomerania anteriore, che dalla messa in opera del gasdotto sperava di trarre quella spinta alla crescita sempre mancata. Esempio perfetto di come la frase di Draghi - «pace o condizionatori» - fosse un'improvvida semplificazione di uno scenario terribilmente più complicato.

• LEADER PIÙ DEBOLI E UE IMMOBILIZZATA
  L'attuale debolezza di Draghi, Scholz e Macron, peraltro, ha un effetto collaterale considerevole: rallenta quella riforma delle istituzioni europee di cui i tre leader volevano farsi portabandiera e che si sostanziava soprattutto nell'abbattimento del dogma dell'unanimità nei processi decisionali dell'Unione. Anche questo un esempio paradigmatico della lentezza burocratica dei sistemi democratici. Sia chiaro: nessuna invidia per i regimi o per le cosiddette «democrature». Ma solo la dimostrazione di quanto, nella crisi ucraina, il tempo che scorre giochi a vantaggio di Putin. Lui, per consenso o per costrizione, ne ha a disposizione tutto quello che vuole. I suoi antagonisti occidentali invece no. Sono tutti a scadenza. E per alcuni il countdown potrebbe essere già cominciato.

(Il Tempo, 8 luglio 2022)
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Quello che consola non è la progressiva "vittoria" militare del Cremlino, ma lo smascheramento del finto moralismo filoucraino, nonostante il forsennato martellamento propagandistico dei media, e il cammino verso la lenta, forse inarrestabile disfatta dell'imperialismo ideologico-finanziario dell'occidente atlantico. Ci stiamo dentro anche noi, naturalmente, e di questo possiamo ringraziare il nostro attuale "Uomo della Provvidenza". M.C.

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Miriam Camerini, la rivoluzione di una rabbina

Regista, attrice e studiosa della cultura yiddish, diventerà la prima guida spirituale donna di una comunità ortodossa: "Il sogno di un mondo migliore impone un lavoro quotidiano per realizzarlo e voglio essere parte del cambiamento".

di Michela Bompani

Miriam Camerini
GENOVA - È una storia di Messia e di rivoluzione, quella di Miriam Camerini, nata a Gerusalemme nel 1983 ma cresciuta a Milano, tra la scuola ebraica, la Paolo Grassi e l'Università Statale. Da due anni sta studiando nella scuola rabbinica Har'El, a Gerusalemme, una delle poche al mondo (tra Usa e Israele) cui sono ammesse le donne e che la diplomerà prima rabbina ortodossa italiana. Cita il filosofo Emmanuel Lévinas per raccontare la sua rivoluzione: "Il Messia sei tu, quando ti comporti in maniera tale da permettere la sua venuta". E poi aggiunge "Mentre lo aspettiamo, ho deciso dunque di darmi da fare".
  Ci sono già altre rabbine in Italia, a Bologna e Milano, ma appartengono a comunità riformate: la scelta di Miriam, invece, è dentro l'ortodossia. E non ha alcuna intenzione di interrompere la carriera artistica, sempre intrecciata allo studio culturale e religioso. Proprio come nel suo spettacolo Messia e Rivoluzione, che racconta la storia del Bund, il partito socialista ebraico di Lituania, Polonia e Russia nato nel 1897 per unire i lavoratori e di cui ha recuperato i documenti, i canti. A partire dalla Marcia dei disoccupati, inno alla Rivoluzione d'ottobre che si intreccia a un canto sinagogale.
  Regista, attrice, cantante, studiosa e preziosa custode della lingua e cultura yiddish, Camerini, pur con base a Milano - "ma dormo sul divano, mi aiuta a sentirmi di passaggio" - viaggia continuamente, portando i suoi spettacoli su palchi internazionali, da Parigi a Weimar. Dalla mamma, ginecologa, "ho preso la voce", dal papà, ingegnere, "il rigore per le parole", dalla zia Mara Cantoni, autrice e regista teatrale dei primi spettacoli di Moni Ovadìa, il legame tra ebraismo e teatro. E, infine, la determinazione dalla nonna paterna che, dopo le leggi razziali, cacciata da scuola, si trovò compagna del grande artista Lele Luzzati, nella scuoletta nel sottotetto della sinagoga di Genova.
  A raccontare la caparbietà di Miriam, c'è un viaggio Milano-New York, a 21 anni, per bussare alla porta del Nobel per la Pace, Elie Wiesel, nel mezzo delle prove di uno dei suoi primi spettacoli con la compagnia universitaria. "Mettevamo in scena Il processo di Shamgorod, un testo del '79, un processo alla divinità, con un epilogo tragico, un pogrom: era una piccola produzione, ci avevo lavorato nove mesi", racconta, "e avevo deciso di cambiare il finale. Con ingenua presunzione sono partita per New York per andare da Wiesel, a chiedergli il permesso, ma mi ha rimbrottato: "Non si cambia il finale!". L'ho comunque modificato, ma per onestà gli ho inviato il dvd dello spettacolo" e scoppia a ridere, con una voce molto più profonda dei suoi 38 anni.

• STUDIO E OSSERVANZA
  Quella di diventare rabbina ortodossa "per me non è una sfida, è la mia strada. Penso sia necessario scardinare il sistema uomini-donne nell'ebraismo ortodosso. Il sogno di un mondo migliore impone un lavoro quotidiano per realizzarlo e voglio essere parte del cambiamento. Ma non mi è mai venuto in mente di uscire dall'ortodossia per questo. La mia famiglia è osservante, mio bisnonno era rabbino a Cento, Modena. Ho studiato nelle scuole ebraiche, dove ho anche insegnato, a Milano e Trieste".
  Diventare rabbino è un percorso di studi, dura dai 3 ai 5 anni e ogni anno si affronta un argomento specifico, tra i pilastri dell'ebraismo. Appena arrivata alla scuola Har'El, nel cui manifesto sta scritto "Diamo per scontata l'uguaglianza di uomini e donne", Camerini si è trovata a misurarsi proprio con l'insegnamento di norme che molto hanno a che fare con le donne: "Si chiama taharath hamishpacha, purezza familiare, regola le due settimane in cui i rapporti sessuali sono permessi e le due in cui non lo sono", spiega. "È stato importante confrontarci con i nostri compagni maschi e con rav Herzl Hefter, il rabbino con cui studiamo: l'osservanza stretta di questi precetti, visto che il corpo delle donne non è un orologio, talvolta porta a difficoltà ad avere figli, tanto che si parla di 'infertilità normativa'. E stato evidente a tutti quanto il contributo di studentesse arricchisca l'insegnamento, aprendo scenari nuovi" .
  L'anno prossimo il tema sarà la kasherut, le norme che riguardano il cibo. E già Camerini con il suo ultimo libro, Ricette e Precetti (Giuntina, 2019), con prefazione di Paolo Rumiz, ha raccontato l'intreccio fra cibo e regole religiose ebraiche, cristiane e islamiche.

• FINALMENTE È SABATO
  Il suo nomadismo non è solo geografico - tra Milano e Gerusalemme, tra l'annuale Festival Yiddish di Weimar e Budapest, tra Berlino e New York - ma anche transreligioso, lavorando indefessamente (dai centri islamici in periferia a Milano ai Colloqui ebraico-cristiani di Camaldoli), a saldare e irrorare il dialogo con le altre confessioni, soprattutto attraverso le donne. Da un anno tiene una rubrica, "I'he rabbi is in" su Il giornale di Rodafà, rivista online di liturgia, collegata al coordinamento teologhe italiane, raccontando il suo cammino per diventare rabbina, un po' come Lucy, nei Peanuts, dietro il suo banchetto di consulente psichiatrica a 5 cents, "I'he doctor is in". "Me l'ha indicata una pastora battista, Lidia Maggi, la direzione: bisogna lasciare che la Divinità ci cambi. Ho fiducia nei processi storici, si apre una via per le donne, da poco in Italia abbiamo la prima donna imam, Maryan Ismail: dobbiamo permettere alla Provvidenza, alla Divinità o alla Storia, ognuno la chiami come vuole, di cambiarci. Perciò sento la responsabilità di agire, ho capito che in Italia nessuno lo avrebbe fatto, e ho pensato toccasse a me fare almeno il primo tratto. Solo trent'anni fa non esistevano rabbine nel mondo. E per me non si tratta di woman power, anzi: il mio modello è un uomo, il rav Hefter con cui studio".
  Nell'ebraismo si dice ci siano 613 precetti, ma Camerini non è per nulla spaventata: "Da sempre declino l'osservanza sulla mia vita, a cominciare dal sabato. Non so cosa sarei, con il mio ritmo di vita così veloce, senza lo Shabbat stacco per 25 ore ogni settimana, spengo il telefono, mi sposto a piedi, do spazio al tempo". Tutto questo senza smettere di essere donna di teatro, e con la valigia in mano. "Sono nata a Purittt', dice Camerini, "la festa dei travestimenti, teatrale per eccellenza. E faccio teatro come è scritto il Talmud: studio, cerco e raccolgo testi, li ritaglio e li collego. Del resto, in ebraico, la parola "autore", mehaber, significa proprio redattore: preferisco creare dall'esistente, lasciando la creazione ex nihilo al divino".
  I suoi spettacoli, in effetti, da Caffè Odessa, allo stesso Messia e Rivoluzione, a Golem, sono frutto di un lavoro meticoloso, storico, di costruzione, salvando non la memoria, ma la vita, fatta di musica, ironia, dolore, sensualità, di un patrimonio culturale che è stato annientato nei campi di concentramento e nei pogrom dell'Europa dell'Est. Da buona ebrea errante, nel sacco porta un solo libro, tutto il resto sta nel racconto, che calamita il pubblico dei suoi spettacoli o delle lezioni che, con la pandemia, ha cominciato a tenere anche online: "Ho iniziato con il Centro Primo Levi di Genova, con le storie dal Talmud avevamo così tanti spettatori che ho dovuto proseguire con i personaggi della Torah, e ovviamente sono partita dalle donne". Come Miriam, la profetessa, che guida il popolo d'Israele fuori dall'Egitto e, incredibilmente per una donna, suona e canta.
  La figura del rabbino, del resto, è molto diversa da quella del sacerdote, "non è il prete degli ebrei", sintetizza Camerini, ma una guida, che dà consigli pratici e spirituali. "Rabbi significa mio maestro", aggiunge. Potrebbe però non essere semplice, per lei, essere assorbita nel tessuto ortodosso italiano: "Non mi aspetto nulla", dice, "per ora non credo che le comunità ebraiche abbiano intenzione di assumere una donna, ma magari tra vent'anni sì. Sarò una ravteatrante, e porterò in questo mondo il mio impatto: prima di cominciare a dire la mia, però, bisogna conoscere e studiare molto. Del resto, la parola rabbino deriva dalla radice rav, che significa molto. È come un contenitore pieno cui ci si rivolge per attingere. Alla fine, non mi preoccupo di fare la rabbina, perché innanzitutto voglio essere una rabbina".

(Venerdì di Repubblica, 8 luglio 2022)

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La stella e il dragone: Israele e la Cina, un rapporto molto complicato

Tra i due paesi c’è un idillio commerciale, nonostante le proteste degli Stati Uniti che vorrebbero che lo Stato ebraico fosse meno collaborativo con Pechino. Problematica la visione geopolitica del gigante asiatico: i cinesi appoggiano i palestinesi in sede internazionale e spalleggiano l’Iran chiedendo l’annullamento delle sanzioni. Due campi, due diverse prospettive

di Nathan Greppi

Quando, il 26 giugno 2019, l’azienda Huawei annunciò di voler fare grossi investimenti in Israele per il mercato dei pannelli solari, ciò avveniva in un periodo particolare: solo il giorno prima, la compagnia cinese aveva dichiarato che non avrebbe più operato negli Stati Uniti, soprattutto perché vi era la crescente preoccupazione che attraverso il 5G nelle telecomunicazioni, la Cina avrebbe potuto spiare con maggiore facilità i cittadini dei paesi occidentali. E mentre in Italia diversi analisti hanno denunciato nel 2021 i rischi legati agli investimenti cinesi per prendere il controllo dei porti di Trieste, Taranto e Palermo, già nel 2015 il Ministero dei Trasporti israeliano aveva firmato un memorandum in collaborazione con la compagnia statale cinese Shanghai International Port Group (SIPG), alla quale è stata fatta una concessione per la gestione del porto di Haifa dal 2021 al 2046.
  Questi esempi sono indicativi dei rapporti talvolta ambigui tra lo Stato ebraico e la Cina: nemici ai tempi della Guerra Fredda, negli ultimi anni i due paesi hanno stipulato molti scambi commerciali, che hanno spesso irritato gli americani.
  Tuttavia, i legami tra le due nazioni non si possono semplicemente definire “buoni o cattivi”, in quanto sullo sfondo ci sono interessi economici e geopolitici spesso contrastanti.

• CENNI STORICI
  Come spiega il sito Jewish Virtual Library, già negli anni ‘30 David Ben Gurion predisse che la Cina sarebbe diventata in futuro una delle più grandi potenze mondiali. Tuttavia, il governo di Pechino ha mantenuto posizioni filopalestinesi fino agli anni ‘80, e nella stessa fase non forniva visti d’ingresso agli israeliani che non avessero una seconda cittadinanza. Dagli anni ‘70 in poi, dopo che la Cina si distanziò dai sovietici per avvicinarsi agli Stati Uniti, migliorarono anche le relazioni con Israele.
  Le relazioni diplomatiche vere e proprie iniziarono dapprima, nel 1990, tramite canali non ufficiali e poi, a partire dal gennaio 1992, in maniera ufficiale, culminando nella visita in Israele avvenuta nel 2000 dell’allora Presidente cinese Jiang Zeming.

• SCAMBI COMMERCIALI E CULTURALI
  Oggi la Cina rappresenta il terzo partner commerciale per Israele a livello mondiale (dopo USA e UE), e il primo in Asia. Il valore degli scambi è passato da 50 milioni di dollari nel 1992 a 13,1 miliardi nel 2017. Nel 2020 la Cina è diventata il paese dal quale Israele ha maggiori importazioni, del valore di 9,44 miliardi di dollari. Gli investimenti cinesi nelle start-up israeliane sono triplicati dal 2012 al 2015, e solo nel 2016 valevano un totale di 16,5 miliardi.
  Nel 2017, le autorità israeliane e cinesi hanno firmato a Pechino un accordo da 300 milioni di dollari per consentire a Israele di esportare in Cina coltivazioni ecosostenibili e nuove tecnologie nel settore energetico. Mentre nel 2018 si tenne nella Provincia di Guangdong il China-Israel Investment Summit, dove 140 compagnie israeliane e 800 cinesi hanno discusso di temi quali il manifatturiero, la biomedicina e l’economia digitale.
  Anche in ambito accademico gli scambi sono proficui: a partire dal 2012, sono state conferite oltre 1.000 borse di studio in Israele a studenti e ricercatori post-dottorato cinesi. All’Università di Haifa, il numero di studenti cinesi è passato da 20 nel 2013 a 200 nel 2016. E solo nel 2018, più di 1.000 studenti cinesi hanno frequentato le università israeliane, e 500 israeliani hanno studiato in Cina. Sempre nel 2013, il miliardario cinese Li Ka-Shing, uno degli uomini più ricchi del continente asiatico, ha donato 130 milioni di dollari al Technion di Haifa, per promuovere una collaborazione congiunta tra l’ateneo e l’Università di Shantou. Un anno dopo, nel maggio 2014, l’Università di Tel Aviv ha siglato un accordo con l’Università Tsinghua di Pechino per investire 300 milioni nella creazione del centro di ricerca XIN, incentrato sulle biotecnologie e le tecnologie per l’ambiente.
  Un aumento vertiginoso è avvenuto anche nel flusso di turisti tra i due paesi: quelli cinesi che si recano in Israele sono passati da circa 50.000 nel 2015 a 100.000 nel 2017, per raggiungere la cifra record di 156.100 turisti nel 2019, l’anno prima del Covid. Inoltre, per far conoscere maggiormente il paese asiatico agli israeliani, nel novembre 2017 è stato inaugurato l’Istituto Culturale Cinese di Tel Aviv, creato in collaborazione con la loro ambasciata in Israele.

• INTERESSI MILITARI E GEOPOLITICI
  Sin dagli anni ‘80, lo Stato Ebraico è un grosso fornitore di tecnologie belliche per Pechino, soprattutto per quanto riguarda lo sviluppo dei carri armati e dell’aviazione: stando ad un report della United States-China Economic and Security Review Commission, Israele è il secondo fornitore al mondo per la Cina di sistemi armamentari, subito dopo la Russia e prima di Francia e Germania.
  Ciò ha suscitato non poche preoccupazioni da parte degli Stati Uniti, che in alcuni casi hanno fatto pressione sugli israeliani affinché non vendessero alla Cina le loro tecnologie: nel 2000, ad esempio, Israele stava per vendere un sistema radar chiamato Phalcon per intercettare velivoli, ma Washington li ha costretti ad annullare l’accordo.
  Altri problemi sono sorti in merito al già citato porto di Haifa, in quanto le navi della Marina americana vi fanno spesso tappa, e c’era il timore che i cinesi ne approfittassero per spiarli.
  Le reazioni da parte della Casa Bianca si sono susseguite sempre più frequentemente negli ultimi anni: durante una visita a Gerusalemme il 13 maggio 2020, il Segretario di Stato americano Mike Pompeo ha chiesto testualmente agli israeliani di “fermare qualunque azione possa rafforzare il Partito Comunista Cinese, anche se ciò include annullare progetti già pianificati.” In risposta, l’Autorità Israeliana per la Protezione dei Dati ha proibito ai cinesi di costruire infrastrutture comunicative nel paese, e le compagnie israeliane nel settore delle comunicazioni non usano componenti cinesi nel loro equipaggiamento.
  In risposta alle pressioni di Pompeo è intervenuto Wang Yongjun, portavoce dell’Ambasciata cinese in Israele, facendo notare che i loro investimenti nello Stato Ebraico rappresentano solo lo 0,4% di tutti gli investimenti cinesi nel mondo, e che negli ultimi 5 anni, solo il 4% degli investimenti nel settore hi-tech israeliano proveniva dalla Cina.
  Un tema su cui invece le due nazioni non vanno molto d’accordo è la questione israelo-palestinese: già nel 2016 il Presidente Xi Jinping, ospite della Lega Araba, ha rimarcato la loro posizione che vuole la nascita di uno stato palestinese a fianco d’Israele, con Gerusalemme Est come capitale. Inoltre, nel 2021 la Cina si è schierata con il Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU quando questi ha deciso di indagare su presunte violazioni dei diritti umani da parte d’Israele nei territori palestinesi. Altra questione su cui sono in disaccordo è l’Iran, in quanto per la Cina rappresenta un partner commerciale importante e pertanto si è opposta alle sanzioni tese a impedirgli di sviluppare il nucleare.

• UNA SECONDA GUERRA FREDDA?
  In conclusione, quello delle relazioni israelo-cinesi è un tema molto complesso, che abbraccia molti campi. Amici negli affari ma molto meno nelle relazioni geopolitiche, questi due paesi condividono interessi comuni ma adottano anche posizioni diametralmente opposte su altre tematiche. In particolare, Israele si ritrova incastrata in mezzo ad una sorta di “Seconda Guerra Fredda”, come l’ha definita lo storico scozzese Niall Ferguson, che vede contrapporsi Washington e Pechino per il ruolo di più grande potenza mondiale. Una guerra il cui esito non è ancora stato scritto.

(Bet Magazine Mosaico, 7 luglio 2022)

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Israele: prime raffigurazioni di Deborah e Yael trovate in Galilea

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Gli archeologi che lavorano in uno scavo nella città della Galilea di Huqoq, in Israele, hanno scoperto le prime raffigurazioni conosciute delle eroine bibliche Deborah e Yael, in mosaici che si pensa abbiano quasi 1.600 anni. La scoperta, annunciata martedì dal Prof. Jodi Magness dell’Università della Carolina del Nord-Chapel Hill, si unisce a una crescente collezione di mosaici antichi scoperti negli ultimi dieci anni nel sito di un’ex sinagoga nella Bassa Galilea.
  Magness, professore di studi religiosi all’università, ha supervisionato un team di studenti e archeologi che ha scavato nell’area per più di 10 anni. Gli scavi nel sito sono ripresi all’inizio di quest’anno dopo essere stati interrotti per quasi tre anni a causa della pandemia di COVID19. I mosaici raffigurano la storia biblica nel Libro dei Giudici quando la profetessa Debora disse al capo militare israelita Barak di mobilitare le truppe di Naftali e Zevulun per combattere contro Canaan, le cui forze erano guidate da Sisera. Barak disse che sarebbe andato in battaglia solo se Debora si fosse unita a lui, e Debora a sua volta profetizzò che una donna avrebbe sconfitto l’esercito di Sisera. Sisera, in fuga dall’alluvione, si rifugiò nella tenda di Yael, che gli conficcò un picchetto nella testa, uccidendolo.
  “Questa è la prima rappresentazione di questo episodio e la prima volta che vediamo una rappresentazione delle eroine bibliche Deborah e Yael nell’antica arte ebraica”, ha detto Magness in una dichiarazione dell’università. “Guardando il libro di Giosuè, capitolo 19, possiamo vedere come la storia possa aver avuto una risonanza speciale per la comunità ebraica di Huqoq, poiché viene descritta come ambientata nella stessa regione geografica: il territorio delle tribù di Naftali e Zevulun. Secondo l’università, il mosaico in tre parti mostra Deborah che guarda Barak nella prima parte; Sisera seduta nella fascia mediana, di cui si conserva solo una piccola parte; e Sisera giaceva morto a terra dopo che Yael lo aveva ucciso nella parte inferiore. UNC-Chapel Hill ha rilasciato solo foto che mostrano Barak raffigurato nel mosaico e non è chiaro quanto siano ben conservate le immagini delle due donne.
  Il gruppo che lavora presso l’antica sinagoga, che fu costruita tra la fine del IV e l’inizio del V secolo d.C., ha anche scoperto un mosaico raffigurante vasi che reggono la vite in germoglio con quattro animali che mangiano grappoli d’uva: una lepre, una volpe, un leopardo e un cinghiale . Tutti i mosaici più recenti sono stati rimossi dal sito per la conservazione, ha affermato l’università. L’ultima scoperta si unisce a una lunga serie di antiche raffigurazioni di mosaici scoperti nel sito della sinagoga di Huqoq. Nel 2019, prima che il progetto fosse congelato a causa del COVID19, gli archeologi hanno scoperto i mosaici della prima rappresentazione artistica conosciuta della poco conosciuta storia dell’Esodo di Elim e una rappresentazione parzialmente conservata delle grottesche quattro bestie del Libro di Daniele, che segnano la fine di volta.
  Nel 2018, i mosaici rinvenuti nella sinagoga di tarda epoca romana includevano immagini della storia biblica delle spie israelite a Canaan. Un anno prima, è stato scoperto il primo mosaico conosciuto di Giona e la balena e nel 2016 sono stati rivelati pavimenti a mosaico che mostrano le scene iconiche dell’Arca di Noè e la separazione del Mar Rosso. I precedenti scavi di Huqoq hanno portato Magness a rivedere le concezioni precedenti della pratica del giudaismo nell’era bizantina. “I mosaici che decorano il pavimento della sinagoga Huqoq rivoluzionano la nostra comprensione del giudaismo in questo periodo”, ha affermato Magness in un comunicato stampa del 2018. “Spesso si pensa che l’antica arte ebraica sia aniconica o priva di immagini. Ma questi mosaici, colorati e pieni di scene figurate, attestano una ricca cultura visiva, nonché il dinamismo e la diversità del giudaismo nel periodo tardo romano e bizantino”.
  Nel 2011, la sinagoga bizantina, relativamente intatta e ben conservata, è stata scoperta sotto le macerie del moderno villaggio arabo di Yakuk che si trovava sul sito fino a quando non fu incendiato intenzionalmente nel 1948. Magness e il suo team hanno iniziato a lavorare lì nel 2012 e sono tornati ogni estate fino a quando la pandemia di COVID li ha costretti ad annullare per il 2020 e il 2021.

(Israel 360, 7 luglio 2022)

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L’identità della comunità drusa nello Stato ebraico

di Maria Grazia Stefanelli

La comunità drusa rappresenta una delle minoranze religiose più caratterizzanti del Levante ed è geograficamente distribuita in Libano, Siria, Israele e Giordania. I drusi sono arabofoni e rappresentano una setta religiosa con radici che affondano nell’Isma’ilismo, corrente sciita dell’Islām, sebbene siano evidenti le influenze dai tre monoteismi. Proprio il mancato riconoscimento nella dottrina islamica e la pratica della taqiyya (in arabo تقية), ovvero la dissimulazione della propria fede in caso di grave minaccia alla sopravvivenza della comunità, hanno facilitato nel corso dei secoli la resistenza del gruppo etnico-religioso nel Vicino Oriente e la sua conseguente integrazione nel tessuto sociale di Stati fortemente nazionalisti, come quello ebraico. In Israele, infatti, i drusi hanno ottenuto nel tempo diversi riconoscimenti da parte dell’élite politica e pertanto sono considerati la comunità confessionale non-ebraica più favorita nel paese. Tuttavia, nonostante l’estensione di particolari privilegi, che formalmente spetterebbero alla sola comunità ebraica, i drusi non hanno ancora raggiunto l’accesso ai pieni diritti politici, sociali ed economici: una condizione che accomuna tutta la “minoranza” arabofona del paese. Per tale ragione, le pratiche israeliane possono intendersi come un tentativo di assimilazione della comunità nello Stato ebraico, che risulta funzionale alla creazione di uno spazio geografico, demograficamente più uniforme.
  Geograficamente, la collettività drusa israeliana è distribuita nel Distretto del Nord, in quello di Haifa (monte Carmelo) e sulle Alture del Golan, appartenenti de iure alla Siria, ma diventate de facto israeliane a seguito dell’occupazione militare (1967) e dell’annessione unilaterale allo Stato ebraico (1981). Secondo i dati dell’ultimo report, elaborato dal Central Bureau of Statistics lo scorso aprile, circa 150 mila drusi risiedono in Israele – l’1,6% della popolazione totale israeliana e il 7,5% della “minoranza araba” –, cifra decuplicata rispetto al 1949, anno del primo censimento israeliano. Tuttavia, occorre chiarire che, rispetto ai drusi residenti in Israele, divenuti in gran parte cittadini per iure soli nel 1952 (Citizenship Law) e che reclamano una partecipazione più attiva nel contesto israeliano, la collettività del Golan rifiutò la cittadinanza, offerta nel 1982 dallo Stato ebraico, sottolineando la propria appartenenza alla comunità arabofona e riconoscendosi nella nazionalità siriana. Questo fattore ha contribuito all’apertura di una crisi d’identità all’interno del gruppo etnico-confessionale mediorientale: difatti, se i drusi nei paesi limitrofi sostennero in gran parte la causa palestinese, quelli residenti in Israele preferirono adottare un atteggiamento neutrale in virtù di una convivenza pacifica tra le comunità israelo-palestinesi, per poi gradualmente supportare i processi di State e Nation building di Israele.
  Secondo la narrazione israeliana, infatti, ebrei e drusi sono legati da un “patto di sangue”, le cui radici sono da ricercare proprio nella guerra d’indipendenza di Israele (1948): molti membri della comunità arabofona combatterono al fianco degli ebrei, contribuendo in tal modo alla nascita di Israele. Tale supporto alla causa israeliana è tuttora interpretato dall’élite politica del paese come una chiara coincidenza delle aspirazioni tra ebrei e drusi, ovvero la realizzazione di uno Stato, che tuttora assicuri sopravvivenza alla popolazione ebraica e alle restanti minoranze religiose, come quella drusa, minacciata anticamente dall’intolleranza degli Ottomani e poi dei palestinesi musulmani sotto mandato britannico. Anche per tale ragione, Israele si definisce “Stato ebraico e democratico” nella Basic Law: Human Dignity and Liberty (1992), qualificandosi come salvatore della minoranza drusa, ricompensata per il contributo alla costruzione dello Stato attraverso l’estensione di una serie di diritti, che spetterebbero formalmente solo alla comunità ebraica. Tra questi, si ricordano ad esempio l’estensione dell’obbligo di coscrizione militare nelle Israel Defence Forces (1956): un diritto che non è concesso ai cittadini arabi musulmani e cristiani.  Inoltre, tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, la minoranza fu riconosciuta a tutti gli effetti come comunità confessionale e gruppo etnico indipendente: furono pertanto creati un consiglio religioso e tribunali specifici per i drusi (Knesset, 1962), separati da quelli propriamente musulmani, così come furono adottati un sistema e un programma scolastico differenti per gli studenti appartenenti alla comunità. Inoltre, ai drusi è garantito l’accesso agli incarichi nella Knesset attraverso la candidatura soprattutto nei partiti politici nazionalisti di destra, come il Likud, e sionisti, come quello Laburista, ma non solo.
  Tuttavia, il particolarismo della comunità drusa si è rivelato nel tempo piuttosto apparente, non traducendosi mai difatti in un concreto accesso ai pieni diritti sociali, politici ed economici, che spettano alle differenti collettività di uno stato democratico. Difatti, in passato anche le aree geografiche a maggioranza drusa furono interessate dall’occupazione militare (fino al 1966) e si registrarono diverse espropriazioni delle terre appartenenti alla popolazione arabofona non censita nel 1949. Inoltre, sulla scena politica non esistono partiti propriamente drusi e non sussistono differenze con le altre collettività arabofone relativamente all’ottenimento della cittadinanza israeliana, regolamentata dalla Citizenship Law (1952) e dalla Citizenship and Entry into Israel Law (CLE, 2003), rinnovata lo scorso 10 marzo.
  Infatti, se l’ottenimento della cittadinanza per gli immigrati di religione ebraica (conosciuti come olim) è regolato e facilitato dalla Law of Return(1950), i residenti israeliani ebrei e arabi possono ottenerla rispettivamente per iure sanguinis e per iure soli, come stabilito dalla Citizenship Law. Di conseguenza, il processo burocratico di richiesta e verifica dei requisiti per l’ottenimento della cittadinanza e/o del permesso di residenza permanente su territorio israeliano risulta essere agevole per gli ebrei ma non per gli “arabi”, inclusi i drusi. A seguito del rinnovo della CLE, infatti, questi non hanno la possibilità di richiedere l’estensione dei diritti ottenuti al coniuge, qualora provenga dai territori palestinesi o da Gerusalemme Est. Inoltre, la comunità drusa non risulta essere inclusa in toto nel tessuto sociale israeliano anche per via della Nation-State Law, emanata nel 2018, che definisce Israele “patria del popolo ebraico”, attribuisce ai gruppi etnico-confessionali non-ebraici uno “status speciale” ed eleva l’ebraico a unica lingua ufficiale d’Israele, declassando quella araba. Ciò ha infatti determinato il sollevamento di numerose proteste da parte dei membri della comunità drusa, identificati come “cittadini di secondo livello” da Israele alla stregua delle altre minoranze.
  In conclusione, dunque, pur avendo ottenuto una serie di riconoscimenti, i cittadini drusi israeliani sono tuttora ostacolati da una serie di vincoli burocratici e legislativi, che non permettono il pieno accesso ai diritti politici e socioeconomici nel paese. Ciononostante, la narrazione e le politiche di Israele relative alla comunità drusa hanno contribuito nel tempo a rendere particolare l’identità del gruppo etnico-confessionale: una condizione che ha portato inevitabilmente alla separazione della collettività dal resto della comunità araba-palestinese, rendendo i drusi una minoranza nella “minoranza arabofona” israeliana. Infine, l’insistenza sul legame storico tra ebrei e drusi e l’elevazione di Israele a “rifugio per le minoranze etnico-confessionali” hanno facilitato nel corso dei decenni anche una maggiore coesione tra le due comunità, rendendo più semplice il processo di espansione degli insediamenti israeliani. Difatti, l’enfasi israeliana sull’esperienza positiva dei drusi nel paese – unita all’instabilità del contesto siriano – ha determinato un incremento delle richieste di cittadinanza dai drusi delle Alture del Golan allo Stato ebraico, rivelandosi dunque un espediente funzionale alla costruzione di nuovi insediamenti e alla presenza dei coloni israeliani nell’area, appartenente de iure alla Siria.

(OSMED - Osservatorio sul Mediterraneo, 7 luglio 2022)

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Amineh Kakabaveh: Erdogan è un dittatore come Putin. Eppure con lui Usa e Ue trattano"

NATO - La deputata curda al parlamento svedese: "Stoccolma ci ha svenduti". "L'alleanza non si fa in cambio dei diritti".

di Michela A.G. Iaccarino

Amineh Kakabaveh
"Putin ed Erdogan sono la stessa cosa: Europa e Stati Uniti condannano un dittatore, ma si alleano con un altro dittatore. Vogliono fermare il primo, ma non il secondo. Non capite come è pericoloso tutto questo''. Mentre scappa da una riunione all'altra al Parlamento di Stoccolma, risponde così la deputata curda svedese Amineh Kakabaveh. Anche il suo nome è nella lista dei 93 curdi che Erdogan vorrebbe deportare da Svezia e Finlandia: se non li avrà, alzerà il suo veto contro l'ingresso dei due Paesi nell'Alleanza Atlantica. Nata nel Kurdistan iraniano nel 1970, Kakabaveh è stata una guerrigliera del movimento marxista leninista Komala prima di fuggire a Stoccolma a 20 anni.

• Per la Svezia era davvero necessario entrare nella Nato?
  No, no, no e ancora no. Durante la Guerra Fredda la difesa svedese era molto più debole, ma ora è più che forte. Siamo in un'alleanza militare con altri 20 Stati. È successo questo perché gli Stati Uniti volevano allineare Stoccolma tra i suoi alleati da decenni e ora si è presentato lo spunto perfetto. Putin non ha alcuna intenzione di invaderci: come potrebbe? Mentre fa la guerra in Ucraina, spedisce bombe contro di noi? La guerra in Ucraina è pericolosissima, andava fermata molto prima, ma ora hanno abbandonato non solo noi curdi, ma tutto il Medio Oriente al dittatore turco. La situazione lì è tesissima e la terza guerra mondiale può scoppiare anche lì, dove a Erdogan è lasciato potere assoluto.

• Non solo accordi su Nato e Ucraina: il premier Draghi martedì ha incontrato Erdogan per cercarne un patto anche sui migranti.
  Ergodan non fermerà i migranti: ha solo bisogno di soldi dai governi europei. Sono necessari per la crisi economica in corso nel suo paese: la lira turca ha perso il 70% del suo valore, la sua popolarità è a rischio. Inoltre, se mostra al suo popolo che può piegare i leader occidentali, apparirà agli occhi dei cittadini come un eroe: ecco dove è tutto il nocciolo della questione. È la sua agenda: come Putin, anche lui ne ha una. È a capo di una dittatura islamista: ha sempre ripetuto che avrebbe ripristinato entro il 2023 l'impero ottomano. Se i governi europei lo aiutano, il suo potere non finirà mai.

• In Svezia abitano decine di migliaia di curdi da ormai molti decenni.
  La comunità curda è distrutta, delusa. Tutti sono spaventati dalla degradazione dell'importanza dei diritti umani e della salute della democrazia. Fino a ieri per loro la Svezia era baluardo di libertà, un Paese aperto ai perseguitati politici.

• Tra i nomi spediti da Ankara a Stoccolma c'è anche il suo: rischia la deportazione.
  Erdogan vuole anche me, che non sono nemmeno cittadina turca: sono svedese, sono curda, ma vengo dal Kurdistan iraniano. Eppure quando Ankara ha riferito che ''siedono terroristi al Parlamento di Stoccolma'', il governo svedese ha taciuto e tace ancora oggi. Se la Svezia comincia davvero a deportare persone, non ce ne staremo qui a guardare senza fare niente. Ieri ho fatto rapporto al comitato costituzionale e aspetto l'apertura di un'indagine. La sostanziale differenza la farà la doppia cittadinanza: c'è chi ce l'ha, chi no. Io ce l'ho.

• Ha alleati tra gli scranni del Parlamento?
  Sinistra e verdi, che però non spostano gli equilibri di potere e non hanno supportato le mie istanze al ministero degli Esteri.

• Ieri erano gli eroi di Kobane contro l'Isis , oggi i curdi sono l'agnello sacrificale della "realpolitik" occidentale.
  Quando nei sondaggi, nei mesi scorsi, gli svedesi si sono espressi a favore dell'entrata nella Nato, non sapevano che il prezzo sarebbe stato questo. In corso c'era incessante la propaganda dei media che diffondevano paura. Nessuno si aspettava che la Svezia svendesse i curdi, tranne l'estrema destra e i socialdemocratici. Questa scelta non è terribile solo per il popolo curdo, ma anche per gli svedesi e la bassa reputazione che d'ora in poi avranno agli occhi del mondo: Stoccolma ha calpestato principi e valori in cui ha sempre detto di credere.

(il Fatto Quotidiano, 7 luglio 2022)

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Torna il Balagàn Café; dieci appuntamenti alla scoperta della cultura ebraica

Gli incontri si terranno nel giardino della Sinagoga ebraica, in centro a Firenze, e sono aperti a tutti.

Il Balagàn Café compie dieci anni, e la sua missione non è cambiata: far conoscere ai presenti la cultura e il pensiero ebraici, e renderli partecipi a dibattiti su temi d'attualità. Il titolo di quest'anno è Toscana: Crocevia di culture. Il primo appuntamento si è tenuto giovedì 30 Giugno 2022; gli altri appuntamenti si susseguiranno ogni giovedì fino al 1^ Settembre. Il luogo è lo stesso di sempre: il giardino della Sinagoga ebraica a Firenze
  Il Balagàn Cafè è un evento organizzato dalla Comunità ebraica di Firenze e dal Comitato rete Toscana ebraica, e vede la collaborazione del Museo ebraico di Firenze. E' sostenuto dalla Regione Toscana e gode del contributo della Fondazione CR Firenze, un ente no profit che, tra le tante iniziative, organizza progetti sul territorio fiorentino. L'evento è stato cofinanziato dall'Unione Europea e inserito nella lista del programma Estate Fiorentina 2022
  Il programma del Balagàn Café si articola nel seguente modo: alle ore 19.00 il Museo ebraico e la Sinagoga apriranno i cancelli, ma le visite guidate cominceranno alle ore 18.00 e si concluderanno alle ore 20.00. Alle ore 19.30 ci saranno spazi musicali offerti dai giovani artisti della comunità ebraica fiorentina. Sono previste cene a base di piatti tipici ebraici, a cui seguiranno incontri con scrittori e intellettuali chiamati a presentare i loro libri. Le serate si concluderanno con concerti di artisti ebraici nazionali e internazionali.

(OK!Firenze, 7 luglio 2022)

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A Boves, la festa per i 100 anni di Alberto Finzi, partigiano ebreo ritratto dalla Filippi

L'evento, con tanto di catering rigorosamente Kasher, è stato un momento di festa all’insegna della serenità, della fiducia nel futuro.

di Angela Pittavino

Alberto Finzi
L’accogliente parco di Cascina Marquet di Boves ha ospitato domenica un compleanno davvero speciale: i 100 anni di uno dei partigiani che a Boves, ottanta anni fa, mise l’ideale della libertà e della giustizia davanti alla sua stessa vita.
  Alberto Finzi, classe 1922 e residente a Torino, ha acceso 100 candeline con accanto tutta la sua grande famiglia ebraica.
  Spiega il figlio Ariel, attualmente Rabbino Capo di Napoli e che, a settembre, diventerà Rabbino Capo dell’importante Comunità Ebraica di Torino: “Il legame di mio padre con questo territorio è forte.”
  Nato ad Alessandria il 28 giugno del 1922, durante la guerra Alberto Finzi scelse di arruolarsi nei partigiani di questa cittadina ai piedi della Bisalta.
  “Dopo tanti anni, in una scampagnata domenicale, accompagnato da mia mamma, si recò a visitare Boves, per ricordare i trascorsi di quei tempi, e per mostrarle i luoghi dove si nascose combattendo i nazisti, i fascisti e l’antisemitismo.
  Il caso volle che la loro attenzione cadesse su alcuni manifesti pubblicitari, posti sulle bacheche del Comune proprio quel fine settimana, in occasione dell’apertura della mostra della pittrice Adriana Filippi al museo della resistenza di Boves.
  Naturalmente e senza indugio, si recarono a visitare la mostra.
  Fu così che, con estremo stupore, mio padre Alberto riconobbe sé stesso in un quadro, insieme a suo fratello Achille.
  Con grande emozione chiamò gli operatori per rivelare loro non solo del proprio quadro, ma anche della sua personale conoscenza e amicizia di gran parte dei personaggi raffigurati nei vari quadri della mostra.
  Questa incredibile circostanza contribuì a riportare alla memoria di mio padre altri eventi e avventure di quei duri tempi di guerra e, da quel giorno, il legame con Boves e con i bovesani che sempre si prodigarono per nascondere e aiutare lui e gli altri partigiani, diventò ancora più forte.”
  La festa, si è svolta con tanto di catering rigorosamente Kasher (rispetto delle regole alimentari ebraiche), ed è stata un momento di grande gioia e serenità.
  Secondo il rabbino Ariel Finzi tutto ciò ha un valore simbolico altissimo: “Oltre al dovere di noi Ebrei di mangiare sempre cibo Kasher, è importante sottolineare che proprio in uno dei luoghi dove si combatté disperatamente contro chi voleva sterminare un popolo e una religione, oggi noi siamo qui a testimoniare che, grazie al sacrificio di mio padre e Uomini come lui, nessuno potrà mai sterminarci e noi possiamo esprimere in libertà le nostre tradizioni plurimillenarie.
  Inoltre, tengo a sottolineare che mio padre fu il primo torinese Ebreo che nel lontano 1956 sposò una donna israeliana, quando lo stato d’Israele esisteva da meno di otto anni e molti pensavano che sarebbe velocemente scomparso dalla cartina geografica del mondo.
  Lo stato d’Israele – che in quegli anni non esisteva – oggi rappresenta le nostre speranze nel futuro e la definitiva sconfitta del male assoluto rappresentato dai nazisti, dai fascisti e dai loro sciagurati eredi di oggi”.
  Per concludere, Rav Finzi si interroga: “Tante volte mi domando se nel 1943, quando mio padre e i suoi compagni dormivano in mezzo alla neve delle valli di Boves, per riscaldarsi e per nascondersi dai nemici nazisti e fascisti e quando la possibilità del totale sterminio del popolo Ebraico era un fatto realistico, qualcuno avesse detto a mio padre che nel 2022 lui avrebbe festeggiato i suoi 100 anni in quei luoghi, con un pasto Kasher e insieme ai suoi otto figli e nipoti che parlano tutti l’ebraico correntemente, probabilmente avrebbe risposto di non credere nei miracoli”.
  “Ringraziamo di cuore l’Amministrazione di Boves che ci dimostra sempre vicinanza e affetto – conclude Rav Ariel Finzi –. Già in passato ci avevano regalato una copia del dipinto oltre al catalogo, facendoci così un regalo che mio padre custodisce gelosamente”.

(Cuneo24.it, 7 luglio 2022)

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L'Italia si avvicina alle tecnologie israeliane nel settore idrico

di Michelle Zarfati

Un'ampia delegazione di società idriche italiane ha recentemente completato la sua visita in Israele per cercare collaborazioni e partnership nel campo delle tecnologie idriche. La delegazione ha incontrato rappresentanti di start-up, autorità governative ed enti commerciali. Un passo importante, specialmente adesso che l'Italia affronta la peggiore siccità degli ultimi 70 anni.
  La delegazione, composta da 22 società italiane di servizi idrici e tre studi di ingegneria, è stata ospitata all'inizio di giugno dall'Israel Export Institute, ente governativo incaricato di facilitare opportunità di business, partnership e strategie di alleanze sotto l'egida del ministero dell'Economia e dell'Industria.
  Le due parti si sono incontrate a Tel Aviv e Gerusalemme per il vertice sulla tecnologia dell'innovazione nell'acqua e hanno visitato gli impianti di desalinizzazione, purificazione e conservazione dell'acqua di Mekorot, la compagnia idrica nazionale israeliana, che fornisce circa 1,7 miliardi di metri cubi di acqua all'anno. Mekorot collabora anche con alcune start-up israeliane specializzate in tecnologie idriche per pilotare soluzioni innovative.
  Ami Levin, direttrice del dipartimento Europa presso il Ministero dell'Economia e dell'Industria, ha sottolineato che Israele ha problemi idrici "da sempre", essendo una regione soggetta a poche precipitazioni. Per questo lo Stato Ebraico ha bisogno di produrre agricoltura sostenibile e nutrire la sua popolazione. Israele ha dovuto "pensare fuori dagli schemi e trovare soluzioni innovative- ha detto Levin al pubblico del vertice all'inizio di questo mese - siamo orgogliosi di aver avuto così tanti successi idrici in Israele". Levin ha condiviso che la percentuale di riutilizzo dell'acqua in Israele è la più alta al mondo. Il paese recupera circa il 90% delle sue acque reflue, utilizzate principalmente per l'agricoltura.” L’acqua gioca un ruolo importante da sempre in Israele. È vista nella maggior parte delle economie come un'infrastruttura critica e strategicamente importante", ha sottolineato Levin. Con oltre il 60% del suo territorio costituito da deserti, Israele ha lavorato per diversi decenni per creare tecnologie idriche efficaci. Oggi la maggior parte della sua acqua potabile proviene da impianti di desalinizzazione, e il paese è considerato un leader mondiale a tutti i livelli di gestione dell'acqua.
  Sono circa 250 le aziende che sviluppano tecnologie e attrezzature per l'acqua in Israele, secondo i dati del 2019 forniti dall'Israel Export Institute. La nazione esporta circa 2,4 miliardi di dollari all'anno in tecnologia e attrezzature per l'acqua. Più di 180 start-up operano nei settori del trattamento delle acque e delle acque reflue, dell'irrigazione, dei sistemi idrici, della gestione delle reti idriche, delle tecnologie di desalinizzazione e del rilevamento dell'inquinamento. Secondo quanto riporta il database Finder di Start-Up Nation Central, un'organizzazione no profit che tiene traccia del settore.
  Alcune di queste aziende erano presenti all'Israele Water Technology Innovation Summit questo mese per mostrare le loro soluzioni e offerte, tra cui: Asterra, una società in grado di individuare e analizzare le perdite d'acqua nei tubi sotterranei utilizzando i dati satellitari; Kando, una società di analisi e intelligence dei dati sulle acque reflue; Watergen, azienda specializzata nella produzione di acqua dall'aria. E NUFiltration, con sede a Cesarea, che riutilizza i dializzatori a fine vita per realizzare dispositivi per la purificazione dell'acqua nei paesi in via di sviluppo.
  Asterra e Kando operano già in Italia grazie agli sforzi di Franco Masenello, consulente e imprenditore italiano, co-fondatore e CEO di BM Tecnologie Industriali e 2F Water Venture – società con sede in Italia che sfruttano le società idriche israeliane per trovare sbocchi nel settore civile, industriale e settore agricolo. "Abbiamo già molti clienti italiani che utilizzano soluzioni di Asterra e Kando", ha detto Masenello al Times of Israel durante l'evento. Masenello è ora alla ricerca di altre società idriche israeliane per fornire soluzioni al mercato italiano. “Per noi è molto importante mettere in contatto le giovani aziende con le società di servizi pubblici e scambiare esperienze. Siamo alla ricerca di aziende che si adattino bene alle nostre esigenze, con un time-to-market veloce, e avviino più programmi pilota", ha concluso.
  Paola Pagnotta, direttrice di cleantech, agricoltura, beni di consumo e industria 4.0 presso l'Ambasciata italiana in Israele, ha detto al Times of Israel che la delegazione dei servizi idrici è stata la più importante visita italiana in Israele negli ultimi anni. "Non abbiamo mai visto una delegazione così numerosa nel settore dei servizi pubblici per un evento simile”. Secondo Masenello, questo tipo di evento è molto importante perché i delegati possono condividere le loro esperienze pratiche e imparare dai successi idrici di Israele “Auspichiamo di organizzare questo vertice ogni anno, alternativamente in Israele e in Italia, e in diverse regioni. Vogliamo anche creare collegamenti con le start-up e rafforzare le relazioni con Mekorot e altre autorità idriche. Non è solo per gli affari, ma anche per migliorare anche i legami tra i paesi".

(Shalom, 6 luglio 2022)

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Storico incontro tra Abu Mazen e il leader di Hamas ad Algeri

L'incontro a margine delle celebrazioni per il 60° anniversario dell'indipendenza del Paese nordafricano.

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Il presidente dell'autorità nazionale palestinese Abu Mazen ha incontrato una delegazione di Hamas, guidata dal capo del suo ufficio politico Ismail Haniyeh, ad Algeri a margine delle celebrazioni per il 60° anniversario dell'indipendenza del Paese nordafricano.
  Un comunicato della presidenza algerina, pubblicato sulla sua pagina Facebook ufficiale, indica che il presidente della Repubblica, Abdelmadjid Tebboune, si è riunito in uno storico incontro con le delegazioni dell'Autorità nazionale palestinese e di Hamas, dopo molti anni in cui le due fazioni palestinesi non si incontravano intorno allo stesso tavolo.
  Un video della presidenza algerina ha anche mostrato Tebboune in piedi tra Abu Mazen e Haniyeh prima che tutti si stringessero la mano. Alcuni mesi fa, la presidenza algerina aveva annunciato che stava preparando un incontro che riunirà le fazioni palestinesi sul suo territorio.

(la Repubblica, 6 luglio 2022)

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Giornalista uccisa in Cisgiordania, il proiettile che imbarazza Biden

L'esame balistico non ha stabilito se il colpo sia stato esploso dall'arma di un soldato israeliano oppure no. "Chiediamo al governo degli Stati Uniti di mantenere la sua credibilità e di dichiarare Israele pienamente responsabile del crimine", commenta il portavoce del presidente dell'Anp.

di Rossella Tercatin

GERUSALEMME - Nessuna certezza. Anche l'esame balistico del proiettile che ha ucciso la giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh non ha consentito di stabilire se il colpo sia stato esploso dall'arma di un soldato israeliano oppure no. Troppo danneggiata la pallottola secondo il Dipartimento di Stato americano, una posizione che ha suscitato l'ira dei palestinesi alla vigilia dalla visita nella regione del presidente Usa Joe Biden il 13 luglio. Abu Akleh è morta lo scorso maggio durante uno scontro tra militari dell'Idf e miliziani palestinesi a Jenin. Sin dall'inizio testimoni e Autorità nazionale palestinese hanno accusato gli israeliani non solo di aver colpito Abu Akleh ma anche di averla presa di mira di proposito. Dal canto suo Gerusalemme ha respinto con forza le accuse che i soldati potessero aver ucciso la giornalista intenzionalmente, ma ha ammesso che a esplodere il colpo potrebbe essere stato uno di loro.
  Solo una via - si pensava - avrebbe potuto stabilire con sicurezza l'accaduto, il confronto fra l'arma sospetta e il proiettile. Quest'ultimo, nelle mani dell'Anp, che per settimane si è rifiutata di consegnare il reperto a Israele o agli Usa. Nell'ultimo periodo però gli americani hanno alzato la pressione perché Ramallah cedesse, sperando di archiviare il caso prima dell'arrivo di Biden. Il nulla di fatto ha invece riacceso l'indignazione dei palestinesi verso l'accaduto e anche verso Washington.
  "Chiediamo al governo degli Stati Uniti di mantenere la sua credibilità e di dichiarare Israele pienamente responsabile del crimine della morte di Shireen Abu Akleh", commenta Nabil Abu Rudeineh, portavoce del presidente dell'Anp Abu Mazen. E il procuratore generale Akram al-Khatib definisce le conclusioni raggiunte "inaccettabili", sottolineando che "il proiettile è in condizioni tali da poter essere esaminato" e accusando gli Usa di un atteggiamento "timido".
  Una rabbia, quella dei vertici palestinesi ma anche della popolazione - Abu Akleh era un volto popolarissimo - che rischia di gettare un'ombra sulla visita di Biden in Medio Oriente (oltre che a Gerusalemme e Ramallah, il presidente si recherà anche in Arabia Saudita). Sullo sfondo del viaggio, l'obiettivo dichiarato di "integrare ulteriormente Israele nella regione", anche tramite il rafforzamento degli Accordi di Abramo. Cui i palestinesi continuano ad opporsi.

(la Repubblica, 6 luglio 2022)


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Storia di un proiettile e dello sfruttamento propagandistico della morte di una giornalista

di Ugo Volli

• Molti reporter di guerra uccisi
  Secondo la federazione internazionale dei giornalisti (IFJ), fra il 1990 e il 2020 ben 2658 giornalisti sono stati uccisi mentre svolgevano il loro lavoro, la maggior parte in episodi di guerra. Nei soli primi quattro mesi dell’invasione russa dell’Ucraina, secondo l’Ansa i giornalisti morti in azione sono stati 32. Certamente accade che qualcuno dei contendenti cerchi di impedire che vengano diffuse notizie che possono danneggiarli, ma è chiaro che la maggior parte di queste morti non sono intenzionali, anzi la pettorina con la scritta “PRESS” costituisce spesso un lasciapassare, tanto da essere spesso indossata più o meno abusivamente da terroristi che cercano l’impunità o da “giornalisti militanti” che cercano di fare del loro mestiere un’arma contro il nemico. I giornalisti di guerra però per svolgere il loro compito devono andare sui campi di battaglia, nei quartieri delle città in cui si spara o dove arrivano missili e cannonate e talvolta ne restano vittime come la popolazione che si trovano vicino.

• Il caso Abu Akleh
  Dei giornalisti morti sul lavoro in genere si parla poco, c’è una sorta di pudore da parte della categoria. Ma vi sono delle eccezioni, spesso motivate politicamente. Una di queste è il caso di Shireen Abu Akleh: giornalista palestinese cristiana nata nel 1971 a Gerusalemme, dove risiedeva, corrispondente dell’emittente televisiva Al Jazeera, uccisa all’alba dell’11 maggio durante pesanti scontri fra le forze militari di Israele e i terroristi asserragliati in un quartiere di Jenin, che lei era venuta a seguire. Shireen Abu Akleh era una dei protagonisti del giornalismo militante anti-israeliano di Al Jazeera, la televisione del Qatar che è stata espulsa dall’Egitto e dall’Arabia Saudita per il carattere propagandistico e fazioso delle sue trasmissioni. In Israele la stampa è libera e nessuno ha mai impedito all’emittente o alla reporter di fare il suo lavoro, anche se c’erano state forti polemiche sul suo estremismo anti-israeliano.

• Le circostanze della morte e gli sviluppi successivi
  Fra aprile e maggio vi è stata in Israele una notevole ondata di attentati, causata per lo più da terroristi provenienti da Jenin e Nablus. L’esercito israeliano era impegnato in un’operazione per eliminare le cellule terroriste e spesso doveva spingersi di notte nei vicoli di queste città per arrestare i sospetti; ne nascevano conflitti a fuoco molto intensi. In uno di questi è morta Abu Akleh. L’esercito israeliano ha subito espresso rincrescimento e il governo ha offerto all’Autorità Palestinese un’inchiesta congiunta. Ma l’offerta è stata respinta, è partita la solita macchina propagandistica, con minacce di denunce alla Corte Penale Internazionale, mozioni all’Onu e coinvolgimento di politici e giornalisti di sinistra soprattutto negli Usa. Il funerale di Abu Akleh a Gerusalemme è stato sequestrato da Hamas, i suoi militanti hanno tolto la bara ai famigliari per portarla in testa a un corteo di protesta che è stato disperso dalla polizia.

• Le inchieste
  Nel frattempo l’ufficio del Pubblico Ministero dell’Autorità Palestinese aveva ordinato un’autopsia, che è stata compiuta da Rayan Al-Ali, direttore del dipartimento di medicina alla al-Najah University di Nablus. Il risultato è stato negativo, come ha spiegato l’accademico in una conferenza stampa. Non gli è stato possibile stabilire dall’esame del corpo e della pallottola chi avesse ucciso Abu Akleh, la sola cosa chiara è che il colpo era partito da lontano. Israele ha chiesto di poter esaminare la pallottola, ma questo gli è stato negato. Il proiettile è stato invece consegnato all’ambasciata americana, che aveva chiesto di poterla studiare per vedere se c’era la possibilità di un processo, dato che la giornalista aveva anche il passaporto americano. L’esame è stato fatto nei giorni scorsi, ma la pallottola era così danneggiata dall’impatto sull'elmetto che la giornalista indossava, da non lasciar determinare la sua provenienza: un risultato che ha suscitato ira e polemica da parte dell’Autorità Palestinese. Bisogna aggiungere che spesso i terroristi palestinesi usano armi israeliane rubate nei depositi o tratte dai rifornimenti alla polizia palestinese, per cui l’esame del proiettile è comunque poco significativo.

• Le conclusioni
  Molto probabilmente non si saprà mai chi ha sparato il colpo che ha ucciso Shireen Abu Akleh. La giornalista è morta durante un convulso scontro a fuoco nei vicoletti della kasbah di Jenin, in una situazione di poca luce e di grande confusione. È chiaro che l’esercito israeliano non ammazza i giornalisti e l’idea di un cecchino che in una situazione operativa del genere mirasse proprio a lei è semplicemente ridicola. Vi sono delle registrazioni di voci dei terroristi che dicono di aver ucciso un uomo dell’esercito israeliano; ma quel giorno non vi sono state vittime fra i militari e il bersaglio potrebbe essere stato proprio Abu Akleh. Ma non si può escludere che fra i colpi sparati dai soldati uno per sfortuna sia finito proprio a colpire la giornalista. Una cosa è chiara, non è stato un omicidio, una morte voluta, ma una disgrazia come le parecchie che purtroppo colpiscono i reporter di guerra.

(Shalom, 6 luglio 2022)


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L’esame del proiettile non ha dato esito conclusivo

Ma chi aveva condannato Israele sin dal primo giorno per la morte della giornalista di Al Jazeera continuerà a farlo senza nessun bisogno di prove e riscontri.

L’esame forense del proiettile che ha colpito la giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh non ha potuto produrre una conclusione scientificamente definitiva. Ma per Israele il danno è già fatto, perché i suoi nemici avevano già emesso la sentenza e non accettano obiezioni. La giornalista di Al Jazeera, già in vita un’icona in molti ambienti arabi, è diventata una martire palestinese quando è stata colpita a morte l’11 maggio scorso durante scontri a fuoco a Jenin fra terroristi e soldati israeliani. I sostenitori della causa palestinese hanno immediatamente stabilito che era stata uccisa da Israele e molti hanno sostenuto fin da subito, e continuano a sostenere, che è stata uccisa intenzionalmente. L’uccisione della reporter ha ricevuto un’attenzione di gran lunga sproporzionata rispetto a tutti i suoi numerosi colleghi rimasti uccisi nei conflitti in varie parti del mondo, anche negli ultimi mesi in Ucraina.

(israele.net, 6 luglio 2022)

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Israele preoccupato per la presenza della Marina iraniana nel Mar Rosso

di Ilya Polonsky

Nonostante Israele possieda solo una piccolissima parte della costa del Mar Rosso, si considera uno dei paesi leader nella regione del Mar Rosso. Naturalmente, soprattutto in Israele, sono preoccupati per la crescente attività delle forze navali iraniane in questa regione del Medio Oriente.
  Di recente, il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz ha affermato che la presenza della marina iraniana flotta nel Mar Rosso minaccia la stabilità regionale e la sicurezza del trasporto marittimo internazionale. Gantz ha sottolineato che le navi iraniane sono costantemente nel Mar Rosso e pattugliano le sue regioni meridionali.
  A quanto pare, stiamo parlando del Mar Rosso, adiacente allo Yemen, dove operano i ribelli Houthi amichevoli di Teheran. Israele afferma che nel giugno 2022 è stata rivelata la presenza militare iraniana più significativa dell'ultimo decennio. Gantz ha definito questa situazione una minaccia diretta alle forniture energetiche e al commercio internazionale. Anche se non è molto chiaro come le navi da guerra iraniane possano minacciare l'economia globale e perché, ad esempio, non sia minacciata dalle navi americane che sono regolarmente presenti nel Golfo Persico, non lontano dalle coste iraniane.
  A sostegno della sua posizione, il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz ha mostrato fotografie aeree di quattro navi della Marina iraniana: una nave da sbarco di classe Hengam, una fregata di classe Mowj e due navi ausiliarie di classe Bandar Abbas a una tavola rotonda del governo organizzata dall'Economist rivista.
  Le azioni della Marina iraniana nel Mar Rosso non passano inosservate alla Quinta Flotta della Marina americana operante in Medio Oriente. Nel 2021, la Quinta Flotta della Marina degli Stati Uniti è stata costretta a formare due nuove task force per pattugliare il Mar Rosso per frenare il contrabbando e il traffico di droga. Il comando della flotta ha rifiutato di collegare la formazione di gruppi operativi con l'aumento dell'attività della Marina iraniana, sebbene anche una tale conclusione si suggerisca.
  Nell'aprile 2022, la Marina degli Stati Uniti ha annunciato la creazione della 153a Task Force come aggiunta alla coalizione delle forze marittime combinate (CMF). Questo gruppo sarà coinvolto nel pattugliamento delle acque vicino al confine tra Yemen e Oman. Allo stesso tempo, il comando della US Navy sottolinea che la regione del Mar Rosso e del Golfo di Aden è così vasta che la sola flotta americana non può far fronte al suo controllo.
  Tuttavia, il vice ammiraglio Bradley Cooper, comandante della quinta flotta degli Stati Uniti, ha affermato di aver confiscato il contrabbando оружия triplicato nel 2020 rispetto al 2021. La Marina degli Stati Uniti ha annunciato un programma che offre una ricompensa fino a $ 100 alle persone che denunciano il contrabbando illegale nelle acque del Medio Oriente.

(TopWar, 6 luglio 2022)



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Al CDEC il sostegno di Andrew Viterbi, padre della rivoluzione digitale

di Nathan Greppi

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Non è passata inosservata, negli uffici della Fondazione CDEC (Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea) presso il Memoriale della Shoah, la visita avvenuta martedì 5 luglio di un sostenitore molto importante: Andrew Viterbi, scienziato e imprenditore di successo che ha fatto un’ingente donazione alla Fondazione. Nel corso della visita, si è detto soddisfatto in particolare per i progetti portati avanti dalla storica Liliana Picciotto in merito alle sue ricerche sui deportati e i superstiti italiani della Shoah, oltre al nuovo portale da lei creato sulle storie dei partigiani ebrei in Italia.

• CHI È ANDREW VITERBI
  Nato a Bergamo nel 1935 da genitori ebrei, a 4 anni giunse negli Stati Uniti assieme ai genitori, fuggiti dall’Italia a causa delle Leggi Razziali. Dopo aver conseguito un Master al MIT, si trasferì in California dapprima per conseguire un dottorato a Los Angeles, e poi per lavorare come ricercatore nell’ambito della comunicazione informatica. In tale contesto, nel 1967 ideò quello che è stato definito “Algoritmo di Viterbi”, un programma che ancora oggi gioca un ruolo chiave nello sviluppo dei moderni cellulari.
  Il suo programma ha avuto un peso non indifferente nello sviluppo delle comunicazioni digitali e spaziali, tanto che ha lavorato a lungo per la NASA, oltre ad essere consigliere per le telecomunicazioni negli anni ’90 dell’allora presidente americano Bill Clinton. Parallelamente, dalla fine degli anni ’60 si è messo in proprio come imprenditore nel campo delle comunicazioni digitali, diventando nel 1985 tra i fondatori della società Qualcomm, tra i primi 5 produttori mondiali di semiconduttori, che negli anni 2000 si sono rivelati indispensabili per produrre gli odierni smartphone e tablet. Già nel 2001 la rivista Forbes lo classificava come uno dei 400 uomini più ricchi d’America. Negli ultimi anni si è distinto in attività filantropiche, facendo donazioni sostanziose in particolare a centri di ricerca.

• LA VISITA AL CDEC
  Viterbi ha visitato gli uffici al Memoriale per conoscere più da vicino il lavoro che vi viene svolto, accompagnato dal Presidente del Memoriale Roberto Jarach, dal Presidente del CDEC Giorgio Sacerdoti e dal Direttore Gadi Luzzatto Voghera. Interpellato da Mosaico, ha dichiarato: “Seguiamo da molti anni il lavoro del CDEC, che è un tesoro per l’Italia e, soprattutto, per gli ebrei italiani. Liliana Picciotto ha svolto un lavoro importantissimo sulle deportazioni e sui salvati. Ogni volta che veniamo al CDEC, è una nuova esperienza.” Ha espresso una certa soddisfazione per il nuovo archivio e la biblioteca, inaugurati da poco. Motivo per cui “è un piacere avere contribuito.”
  Anche Sacerdoti ha espresso la propria soddisfazione in merito: “A nome di tutto il CDEC, e anche del Memoriale, siamo grati ad Andrew e alla sua famiglia perché, senza il loro contributo, tutto ciò che è stato realizzato negli ultimi tempi non sarebbe stato possibile. È un grande esempio di quei benefattori ebrei che sostengono le attività della loro comunità. Un grande esempio per tutti noi, che speriamo di avere di nuovo vicino in futuro.”

(Bet Magazine Mosaico, 6 luglio 2022)

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Le startup israeliane hanno raccolto $1,6 miliardi di dollari a giugno

Le startup israeliane hanno raccolto 1,6 miliardi di dollari nel giugno 2022. La cifra potrebbe essere maggiore poiché alcune aziende preferiscono non comunicare i dati e talvolta non pubblicizzano gli investimenti che hanno ricevuto.
  Le società tecnologiche private israeliane hanno raccolto un record di $ 25,6 miliardi nel 2021, secondo IVC, più del doppio della cifra di $ 10 miliardi del 2020, che era di per sé un record. Le startup israeliane hanno raccolto $5,6 miliardi di dollari nel primo trimestre del 2022, secondo IVC, leggermente meno per superare il record dello scorso anno. Le startup hanno raccolto solo $750 milioni di dollari ad aprile, una cifra estremamente bassa che è stata in parte attribuita alle festività pasquali, che sono diminuite durante il mese, seguite da $1,75 miliardi di dollari a maggio. Così le startup israeliane hanno raccolto $ 4,1 miliardi nel secondo trimestre del 2022 e $ 9,7 miliardi nella prima metà dell’anno, notevolmente al di sotto della cifra dello scorso anno, poiché il rallentamento globale e il calo dei prezzi delle azioni delle società quotate in borsa iniziano a toccare le società private. Tuttavia, questa cifra è ancora ben al di sopra del 2020, quando è stato raccolto un record di $ 10 miliardi nell’intero anno.
  A giugno, i principali round di finanziamento completati sono stati guidati dalla società di analisi sportive Pixellot, che ha raccolto $161 milioni di dollari. La società di analisi dei dati Coralogix ha raccolto $142 milioni di dollari, la società di soluzioni sanitarie AI Aidoc ha raccolto $110 milioni di dollari, la società di radar di imaging 4D Vayyar ha raccolto $108 milioni di dollari e la società di sicurezza informatica Perimeter 81 ha raccolto 100 milioni di dollari. Altri importanti round di finanziamento sono stati completati dalla piattaforma di flessibilità delle risorse umane Gloat, che ha raccolto $ 90 milioni, anche la società di diamanti coltivati in laboratorio Lusix ha raccolto $ 90 milioni, la società di sicurezza informatica Cyolo ha raccolto $ 60 milioni e la piattaforma di vendita DealHub ha raccolto $ 60 milioni.

(israele 360°, 6 luglio 2022)

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La fila del gas in Libano è in cima all’agenda mentre il primo ministro israeliano visita Parigi

di Tarquinia Panicucci

Il primo ministro israeliano Yair Lapid farà il suo primo viaggio all’estero da premier martedì (5 luglio) a Parigi, dove chiederà al presidente Emmanuel Macron di intervenire in una disputa sul gas con il Libano.
  Lapid ha assunto la carica di premier venerdì dopo il crollo della coalizione di governo israeliana, che vedrà il Paese tornare alle urne a novembre per la sua quinta elezione in meno di quattro asni.
  Il nascente leader si è confrontato con il suo primo test il giorno dopo, quando il movimento libanese Hezbollah ha lanciato tre droni verso un giacimento di gas offshore nel Mediterraneo orientale.
  “Hezbollah sta proseguendo sulla strada del terrorismo e sta danneggiando la capacità del Libano di raggiungere un accordo su un confine marittimo”, ha detto domenica Lapid.
  Il Libano respinge l’affermazione di Israele secondo cui il giacimento di gas di Karish si trova nelle sue acque territoriali.
  Israele e Libano hanno ripreso i negoziati sul confine marittimo nel 2020, sebbene il sito di Karish si trovi al di fuori dell’area contesa ed è contrassegnato come israeliano sulle precedenti mappe delle Nazioni Unite.
  I colloqui sostenuti dagli Stati Uniti sono stati bloccati dalla richiesta di Beirut di modificare le mappe delle Nazioni Unite.
  Anche l’Iran, sostenitore di Hezbollah, sarà all’ordine del giorno dei colloqui bilaterali a Parigi, poiché Israele si oppone fermamente agli sforzi internazionali per rilanciare un accordo nucleare con Teheran.
  Funzionari israeliani temono che concedere un sollievo alle sanzioni iraniane in cambio di un freno al suo programma nucleare possa consentire a Teheran di aumentare i finanziamenti a Hezbollah, così come al gruppo militante palestinese Hamas.

• LA GUERRA IN UCRAINA RICHIEDE UN ACCORDO SULL'ENERGIA
  Il predecessore di Lapid, Naftali Bennett, ha descritto l’acerrimo nemico di Israele, l’Iran, come un “polpo”, che raggiunge i suoi tentacoli in tutta la regione.
  Il nuovo premier israeliano si è impegnato a fare “tutto ciò che dobbiamo” per evitare che l’Iran “si trinceri ai nostri confini” o acquisisca un’arma nucleare.
  Prima dell’arrivo di Lapid a Parigi, un alto funzionario israeliano ha affermato che la questione del gas in Libano sarà in cima all’agenda durante i colloqui all’Eliseo.
  “Chiederemo alla Francia di intervenire per garantire i negoziati che vogliamo condurre fino alla fine della questione del gas”, ha detto il funzionario ai giornalisti in viaggio con il premier.
  La visita di Lapid a Parigi arriva giorni prima del viaggio del presidente degli Stati Uniti Joe Biden in Israele e nei territori palestinesi, prima di volare in Arabia Saudita per colloqui sull’energia.
  Washington sta cercando di stabilizzare il mercato energetico globale dopo l’invasione russa dell’Ucraina, che ha portato Mosca a tagliare le forniture di gas ad alcuni paesi europei.
  Israele ed Egitto hanno firmato un accordo il mese scorso per aumentare le esportazioni di gas verso l’Unione Europea, mentre il blocco tenta di porre fine alla sua dipendenza dall’energia russa.
  “La questione del Libano è essenziale e Lapid tornerà sulla posizione israeliana, secondo la quale Hezbollah è prima di tutto una minaccia per il futuro del Libano”, ha detto il funzionario israeliano, che ha chiesto l’anonimato.

(EUROACTIVE, 5 luglio 2022)

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Tourism Seychelles ha recentemente ospitato una serie di eventi di marketing per mostrare la destinazione ai partner commerciali di Tel Aviv

di Juergen T Steinmetz

La delegazione turistica delle Seychelles in Israele è stata guidata dal Direttore Generale per il Marketing della Destinazione, la signora Bernadette Willemin, che era accompagnata dalla Direttrice del mercato per Israele, la signora Stephanie Lablache, e da rappresentanti di diverse aziende, tra cui Air Seychelles, 7 Degree South , Servizi di viaggio di lusso, Pure Escape, Creole Travel, Hilton Hotels & Resorts Seychelles e Constance Hotels and Resorts Seychelles.
  Il primo evento è stato un seminario di presentazione organizzato presso l'Hotel Setai a cui hanno partecipato circa 90 professionisti di alto profilo del commercio israeliano. Durante l'evento, hanno avuto l'opportunità di vedere le presentazioni del team di Tourism Seychelles e del commercio delle Seychelles. Il seminario è stato seguito da un evento di networking nella stessa sede, che ha fornito un'atmosfera rilassante ai partner commerciali delle Seychelles presenti per impegnarsi ulteriormente con i professionisti del turismo israeliani.
  Per il suo prossimo evento, Tourism Seychelles ha ospitato un incontro per la colazione al Norman Hotel, dove erano presenti 25 delle personalità dei media più influenti di Tel Aviv. Oltre alla presentazione della destinazione, l'incontro ha incluso sessioni di domande e risposte in cui la signora Lablache e la signora Willemin hanno avuto la possibilità di tenere aggiornati i partner della stampa sui nuovi sviluppi alle Seychelles, toccando nuovi prodotti e interessanti attrazioni per i visitatori israeliani.
  La direttrice del mercato per Israele, la signora Lablache, ha affermato che entrambi gli eventi hanno avuto un grande successo e che i partner sono stati ricettivi.
  “Siamo estremamente soddisfatti dei due eventi tenuti a Tel Aviv perché l'affluenza è stata grande. È stato piuttosto incoraggiante vedere principalmente CEO e VIP al nostro evento a Setai, a dimostrazione del fatto che le Seychelles sono di tendenza in Israele e che il mercato israeliano ha un enorme potenziale per le Seychelles. Abbiamo anche avuto l'opportunità di riconnetterci con i partner di stampa esistenti e quelli nuovi che desiderano visitare le Seychelles e aiutare a mettere la destinazione sotto i riflettori per il loro pubblico", ha affermato Lablache.
  Il team di Tourism Seychelles ha concluso la missione in Israele con una visita di cortesia di marketing a diversi partner chiave del mercato, inclusi due stretti collaboratori di Tourism Seychelles, Ethiopian Airlines e Turkish Airlines, e due importanti Tour Operator in Israele, Spirit e Arkia.
  “Questa visita ci ha permesso di esaminare lo stato del mercato israeliano e sono abbastanza soddisfatto del feedback ricevuto dai partner. Abbiamo avuto una visione approfondita di questo mercato, che era un mercato emergente per noi durante la pandemia. Con i suoi concorrenti di nuovo in gioco, le Seychelles hanno ancora più bisogno di visibilità. Abbiamo rafforzato la nostra presenza sul mercato attraverso i nuovi rapporti commerciali instaurati con partner e membri della stampa”, ha affermato la Sig.ra Willemin.
  Il Direttore Generale per il Destination Marketing ha anche sottolineato che è fondamentale per Seychelles per rimanere sotto i riflettori mentre le destinazioni stanno riaprendo in tutto il mondo.

(eTurboNews, 5 luglio 2022)

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Israele, la banca centrale aumenta i tassi di 50 punti base all'1,25%

La Banca d'Israele ha alzato il tasso di interesse di riferimento di mezzo punto percentuale, portandolo dallo 0,75% all'1,25%, compiendo così la sua mossa più aggressiva in più di un decennio (da marzo 2011) e il suo terzo aumento consecutivo del tasso di interesse. Ciò si è reso necessario perché l'inflazione su base annua ha raggiunto il +4,1% a maggio, ben al di sopra dell'intervallo obiettivo annuale del governo dell'1%-3%, mentre il tasso di disoccupazione è sceso al 3%.
  "Il mercato del lavoro resta teso - ha commentato l governatore della Bank of Israel - Il tasso di occupazione è tornato ai livelli pre-crisi Covid-19 e anche più alti. Il numero di offerte di lavoro è elevato nella maggior parte dei settori. La tensione del mercato del lavoro sta portando anche ad alcuni aumenti salariali, in particolare nei settori con un'elevata domanda di lavoratori, e quindi ha anche un impatto sull'andamento dell'inflazione".
  Il dipartimento di ricerca della Banca d'Israele ha rivisto le sue previsioni macroeconomiche. Nelle sue nuove stime, il PIL crescerà del 5% nel 2022 e del 3,5% nel 2023, 0,5 punti percentuali in meno rispetto alla precedente previsione per ogni anno. Il tasso di inflazione dovrebbe essere del 4,5% nel 2022 e scendere al 2,4% nel 2023.

(Teleborsa, 4 luglio 2022)

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La spaccatura politica che Israele non può permettersi

Articolo stranamente assente dai siti che normalmente riportano notizie su Israele. Si trova online su Repubblica, giornale una volta considerato anti-israeliano, ma ora molto citato da quando appoggia Draghi nella sua politica vaccinale e antirussa. E’ tradotto da Sharon Nizza, un’eccellente reporter passata “inspiegabilmente” in secondo piano. NsI

di Meir Ouziel

Dalla mezzanotte del 30 giugno, Israele ha un nuovo primo ministro: Yair Lapid. Lapid, che manterrà la carica di ministro degli Esteri, è il leader di Yesh Atid, secondo partito nella Knesset (circa il 14 per cento dei seggi) e, secondo l'accordo di rotazione stipulato con la nascita del governo Bennett poco più di un anno fa, diventa ora primo ministro ad interim, fino alla formazione di un nuovo governo dopo le elezioni fissate per l’1 novembre, le quinte in soli tre anni.

• Un nuovo capitolo del dramma politico
  Questo è un nuovo capitolo del dramma politico che investe Israele negli ultimi anni. L'accordo di rotazione è scattato nel momento in cui Naftali Bennett la settimana scorsa ha annunciato lo scioglimento del Knesset e si è dimesso, dopo poco più di un anno di premiership, dichiarando in aggiunta che non si candiderà alle prossime elezioni. Sarà ora il nuovo premier ad interim Lapid a ricevere il presidente americano Joe Biden il prossimo 13 luglio.
  Come è giunto Israele a questi livelli di instabilità politica? Durante l'incontro con Mario Draghi in missione in Israele a metà giugno, l'ormai ex premier Naftali Bennett gli aveva detto: "Entrambi abbiamo raggiunto la carica di primo ministro in modo non convenzionale ed entrambi guidiamo governi molto particolari, che mai si erano visti prima, né in Israele né in Italia".
  Eppure, una grande differenza c'è, eccome: Draghi non è un uomo politico, è stato chiamato alla presidenza del Consiglio in virtù del suo curriculum, mentre Bennett è un uomo molto politico, alla guida di un piccolo partito di destra che rappresenta circa il 6% dell'elettorato nel Knesset uscente. Dal momento che, come emerso nelle ultime quattro tornate elettorali, Israele è diviso tra due blocchi politici antagonisti, nessuno dei quali è stato in grado di raggiungere il numero di seggi necessario per formare un governo, l'anno scorso il blocco di centrosinistra aveva offerto a Bennett la carica di primo ministro. Così un uomo di destra con 7 seggi (su 120) si è trovato alla guida di un governo con una forte componente di sinistra.

• Un’instabilità nuova
  Va detto che questa instabilità degli ultimi anni è una situazione nuova per Israele, che fino al 2019 era caratterizzato da una relativa stabilità politica. Nei 74 anni della sua esistenza come Stato, Israele è stato governato per i primi 30 anni dal grande partito socialista di Ben Gurion e Golda Meir, fino al 1977, quando la guida del Paese passò per la prima volta al Likud di Begin. Con qualche alternanza, questa è stata la situazione fino al 2019, quando Netanyahu, dopo 12 anni consecutivi da premier, si è trovato nella condizione di essere alla guida del primo partito per numero di seggi, con un grande stacco rispetto a tutte le altre formazioni, tuttavia non sufficienti per formare, insieme agli alleati naturali, un governo.
  E questa situazione si è ripetuta nelle quattro consultazioni elettorali successive: il Likud di Netanyahu ha ottenuto il maggior numero di voti, ma non è riuscito a riconquistare un'alleanza con altri partiti che garantisse i 61 seggi necessari a formare una maggioranza. Stando ai sondaggi finora, questo pareggio tra gli schieramenti non cambierà nemmeno nelle nuove elezioni.

• Il dilemma Netanyahu
  C'è davvero una così grande differenza ideologica tra gli elettori israeliani? No. Ci sono alcune discrepanze su base sociale, come la divisione tra ebrei "sefarditi" - prevalentemente provenienti dalla diaspora ebraica nei Paesi arabi e che formano gran parte dell'elettorato del Likud - e quelli "ashkenaziti” - le cui radici si fondano nelle comunità ebraiche dell'Est Europa, e che tendono a votare per partiti di centro-sinistra.
  Ma nell'Israele di oggi, queste differenze non sono realmente sentite e il nocciolo della spaccatura verte su una sola questione: Netanyahu sì o no? Lo stallo politico deriva infatti dal fatto che alcuni partiti hanno dichiarato il boicottaggio di Bibi (il soprannome con cui è noto Netanyahu), giurando che non si sarebbero mai più seduti in un governo a sua guida, un fatto che a molti sembra indotto da motivazioni emotive e irrazionali. Lo stesso Bibi, e il suo partito, non escludono invece di sedersi con i partiti che lo boicottano.
  All'origine del boicottaggio politico di Netanyahu vi sono i processi che lo vedono attualmente coinvolto, con accuse di corruzione. Alcune di queste accuse sono considerate dei precedenti giuridici a livello mondiale: in primis il fatto che l'accusa di corruzione sia basata sull'aver ricevuto "copertura mediatica positiva” su un sito di informazione non molto importante.

• Sfiducia nella Giustizia
  Non solo, ma durante il processo sta emergendo, con la disamina dei casi specifici, che tale copertura positiva in realtà non è avvenuta. Al contempo, la fiducia degli israeliani nel sistema giudiziario è scesa ai minimi storici, perché sempre di più credono che le accuse non abbiano fondamento e siano una forma di persecuzione politica. Il processo continua, ma molti giuristi credono che si tratti di un processo politico volto solo ad estromettere Netanyahu. La procura ha persino chiesto di cambiare l'atto di accusa in corso di processo, a dimostrazione di quanto flebili siano le carte.
  Il governo Bennett, per sopravvivere, si è valso anche del sostegno di Ra'am, un partito arabo vicino ai Fratelli musulmani, che certamente non riconosce Israele come lo Stato del popolo ebraico e che conta tra le sue file anche alcuni parlamentari che hanno espresso sostegno a terroristi palestinesi responsabili dell'uccisione di ebrei. Tuttavia, Mansour Abbas, il leader di Ra'am, si è detto pronto a sostenere il governo per ricevere maggiore assistenza alle amministrazioni arabe in Israele. In questo esperimento, la domanda che sorge è se il partito arabo in questione è mosso dalla volontà di integrarsi o di dominare.
  È durata poco più di un anno l'unione tra gli 8 partiti che formano l'attuale governo, guidato dal leader di un piccolo partito di destra, insieme ad altre formazioni minori di destra e perlopiù da partiti di sinistra, tra cui un partito arabo-palestinese che non è ben chiaro a chi si dichiari fedele. Gli elettori di Bennett sono arrabbiati perché l'ex premier ha violato la sua promessa elettorale di non sedere in un governo che includesse la sinistra, e per questo motivo il suo partito ha perso per strada ben 3 dei suoi 7 eletti, che hanno abbandonato la maggioranza.

• Il fattore emotivo
  Alla fine, quando ci si è trovati di fronte a una votazione cruciale che riguardava lo status degli insediamenti in Cisgiordania, alcuni parlamentari della sinistra e del partito arabo non si sono allineati al governo e l'opposizione nazionalista ne ha approfittato, votando contro la propria linea politica e creando quindi le condizioni per la vanificazione di questo esperimento.
  Nel frattempo, per cercare di fare fuori Netanyahu, il principale rivale politico, alcuni partiti hanno tentato (senza successo) di far passare in extremis una legge che vieterebbe a un candidato rinviato a giudizio - quindi ancora innocente perché non condannato in via definitiva - di partecipare alle elezioni.
  La politica è spesso un affare sporco e le lotte politiche non sono sempre dignitose. È così in tutto il mondo. Non sempre le divisioni politiche si basano su una logica chiara, spesso forti elementi emotivi influiscono sul voto. Ma Israele, con tutte le minacce di cui è circondato, non può permettersi questa spaccatura, che è davvero innaturale per questo Paese, perché, come si è detto, le differenze ideologiche sono minime e si concentrano attualmente sull'odio irrazionale verso Bibi.
  A risentirne più di tutti è l'unità del popolo israeliano: un'unità essenziale per la resilienza verso il terrorismo, per fare fronte alla minaccia di sterminio da parte dell'Iran e a molte altre sfide.

(la Repubblica, 5 luglio 2022 - trad. Sharon Nizza)

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Chi è Yair Lapid, nuovo Primo Ministro di Israele

Le ragioni del successo e i dubbi per il futuro

di Ugo Volli

• Il nuovo primo ministro
  Yair Lapid è il primo ministro di Israele - il quattordicesimo della serie iniziata il 14 maggio 1948 da David Ben Gurion - il primo da vent’anni a provenire da un ambiente di centro-sinistra. Non è un premier nell’interezza dei suoi poteri, perché non ha una maggioranza parlamentare, non guida un nuovo governo approvato dalla Knesset e ha solo l’incarico del disbrigo degli affari correnti; ma nella tradizione politica israeliana e soprattutto nel continuo stato di rischio in cui lo stato ebraico vive dalla sua fondazione, il suo incarico e la sua autorità sono comunque molto ampi, per certi versi più delle situazioni normali, dato che non può essere sfiduciato.

• Chi è Lapid
  Yair Lapid è nato il 5 novembre 1963 a Tel Aviv. È sposato con la giornalista Lihi Lapid, ha tre figli e vive a Ramat Aviv, un sobborgo elegante di Tel Aviv. A differenza dei suoi predecessori Netanyahu e Bennett, non ha alle spalle un servizio militare di grande prestigio. Prima della politica ha lavorato come giornalista e conduttore televisivo. Dopo qualche esperienza in vari giornali, nel 1988 è diventato direttore di un quotidiano locale di Tel Aviv del gruppo Yedioth Ahronoth. La sua grande popolarità inizia però nel 1994 con la conduzione di un talk-show sul primo canale della televisione israeliana, che va in onda ogni venerdì. Poi conduce altri talk show sul secondo e terzo canale, pubblica libri, partecipa a film e spettacoli, è insomma una star della comunicazione. Nel 2012 annuncia l’intenzione di chiudere col mondo dello spettacolo e di passare alla politica, fonda un partito intitolato Yesh Atid (“Il futuro c’è”) e ottiene un notevole successo alle elezioni del 2013, con 19 seggi. Diventa ministro delle finanze del governo presieduto da Netanyahu, poi si dimette dopo un anno e mezzo per dissensi sui rapporti con i gruppi religiosi, e sta all’opposizione dei suoi governi successivi, sempre ottenendo risultati buoni ma non decisivi alle elezioni che si succedono: intorno al 15% dei voti, che i sondaggi gli attribuiscono anche per le prossime elezioni. Il suo partito da allora è quasi sempre il secondo per dimensioni della Knesset e il primo dello schieramento di sinistra.

• Il padre
  La carriera di Lapid ha seguito molto da vicino quella del padre Tommy, sopravvissuto alla Shoà in Serbia e immigrato in Israele nel 1948. Tommy Lapid è stato prima giornalista di successo e poi leader di un partito laicista di centro-sinistra, Shinuy (cambiamento), che ebbe un successo effimero ma consistente, fino a consentirgli di divenire vice primo ministro e ministro della giustizia nel governo costituito da Ariel Sharon nel 1999, salvo poi lasciare il governo nel 2004 e sciogliersi rapidamente. Tommy Lapid è scomparso nel 2008

• L’ideologia
  Yair Lapid, da quando ha fondato Yesh Atid, è diventato il leader di fatto dello schieramento di sinistra. Rispetto ai partiti laburisti che hanno guidato Israele nella prima fase della sua storia, però, il suo non è un partito socialista, non ha un atteggiamento ideologico anticapitalista. E non è neanche l’espressione più decisa del cosiddetto “campo della pace”, non condivide gli estremismi pro-palestinisti che oggi si ritrovano soprattutto nella sinistra dura e pura di Meretz. Il suo è un atteggiamento pragmatico, attento ai diritti civili, laicista, molto sensibile al rapporto con i democratici americani, molto poco empatico nei rapporti con gli israeliani che vivono in Giudea e Samaria. Il passaggio della leadership della sinistra dai laburisti a un partito “liquido”, pragmatico e di debole formazione ideologica come Yesh Atid è un cambiamento epocale. Il modo di far politica di Lapid corrisponde al modo di sentire cosmopolita e consumista della sua origine sociale e geografica nella borghesia delle professioni di Tel Aviv. Uomo educato, civile, di bell’aspetto, dall’eleganza sportiva con ottima capacità di comunicazione e conoscenza del mondo, Lapid corrisponde anche al gusto di questa parte minoritaria ma molto attiva della società israeliana.

• Le ragioni del successo
  Il suo incarico attuale non deriva dalla prevalenza delle sue posizioni nell’elettorato israeliano, ma dall’aver utilizzato abilmente il rancore di una parte del mondo politico e giudiziario nei confronti del leader che resta di gran lunga il più popolare nel paese, Bibi Netanyahu. Il suo capolavoro è stato il governo appena sconfitto, in cui ha saputo mettere assieme elementi di destra e di sinistra anche estrema, islamisti e nazionalisti ebraici, su un programma limitato ma concreto, al cui centro vi era la scelta di escludere a qualunque costo Netanyahu dal potere. Per realizzarlo Lapid ha anche rinunciato al ruolo di primo ministro, lasciandolo a Bennett, leader di un partito che ha quattro volte meno deputati di lui, col patto di rotazione che ora è stato attuato. Si è trattato di una manovra spericolata, senza principi comuni, che si è logorata presto nelle tensioni della maggioranza. Il nuovo scioglimento della Knesset, il quinto in quattro anni, mostra che l’instabilità politica israeliana non dipende solo dal predominio di Netanyahu.

• Il futuro
  Non sappiamo cosa farà Lapid come primo ministro, anche se è chiaro che sarà più propenso ad accontentare il potente alleato americano nella sua spinta a riprendere la vecchia strada delle infinite trattative con l’Autorità Palestinese di quanto lo fosse Bennett e a maggior ragione Netanyahu. Non sappiamo neanche che piani abbia Lapid per le alleanze nelle prossime elezioni e per la costituzione del nuovo governo. Il pragmatismo e la capacità di compromesso sono certamente la sua forza, ma anche il limite della sua leadership.

(Shalom, 1 luglio 2022)

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Hezbollah sfida Israele con i droni su un giacimento di gas. Prima grana per Lapid

“Avvertimento” del movimento sciita su Karish mentre si tratta con il Libano sui confini marittimi. Il neo premier: “Dobbiamo agire”. La partita dell’energia chiave in vista di nuovi accordi regionali.

di Rossella Tercatin

GERUSALEMME – Volavano a bassa quota e a velocità moderata sulle onde del Mediterraneo. Tre droni lanciati dal gruppo libanese Hezbollah sono stati bloccati sulle acque israeliane, vicino alla piattaforma per l’estrazione del gas del giacimento Karish (“squalo” in ebraico). Un episodio che alza il livello delle tensioni nella regione in una fase delicata per lo Stato ebraico, tanto a livello geopolitico internazionale quanto interno.
  I velivoli non erano armati e sono stati abbattuti dalle forze israeliane, uno da un caccia F16 e due dal nuovo sistema navale di difesa antimissile. “I droni sono stati identificati in fase iniziale e intercettati in un momento ottimale dell’operazione,” comunica l’esercito. “Un’indagine preliminare suggerisce che non ponessero nessun pericolo imminente”. L’organizzazione sciita supportata dall’Iran, che in Libano costituisce un vero e proprio Stato nello Stato, ha dichiarato la missione un successo, aggiungendo che “il messaggio è stato recapitato”. Solo alcune settimane fa infatti, il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah aveva minacciato di colpire il sito. A partire dal 2020 Beirut ha cominciato a reclamare i 1500 chilometri di mare in cui si trova Karish – scoperto nel 2013 – come parte della propria zona economica esclusiva, in aggiunta a un’ulteriore area che rivendicava dal 2010.
  Risolvere la disputa è diventata una priorità del Segretario Usa per l’energia Amos Hochstein che negli scorsi mesi è stato più volte in visita nel Paese dei Cedri per portare avanti la trattativa, cui Hezbollah sta dando però filo da torcere. Il Libano intanto, rimane uno dei pochissimi paesi del Mediterraneo orientale a non aver lavorato per localizzare e sfruttare eventuali giacimenti nelle sue acque internazionalmente riconosciute. Una via che potrebbe portare negli anni a una risoluzione della drammatica crisi economica ed energetica della nazione, che perdura da prima della guerra in Ucraina, e magari anche porre Beirut sullo scacchiere dei paesi esportatori – come già accaduto proprio a Israele.
  Il confronto con Hezbollah è solo uno dei tasselli che nelle ultime settimane hanno rafforzato il conflitto a bassa intensità tra Israele e l’Iran. Teheran ha accusato gli israeliani dell’eliminazione di un alto ufficiale delle Guardie della Rivoluzione in maggio, una cellula che stava lavorando per organizzare attacchi contro israeliani in Turchia è stata appena sgominata, i cyberattacchi si moltiplicano così come le incursioni dell’aviazione dello Stato ebraico in Siria contro obiettivi legati al Regime degli Ayatollah.
  Il tutto mentre Israele vive un periodo complesso dal punto di vista interno, con un governo senza maggioranza e nuove elezioni convocate per il 1 novembre. “Il nostro obiettivo nei prossimi mesi sarà quello di gestire il governo come se non stessimo per andare a elezioni,” promette Yair Lapid, che la scorsa settimana ha sostituito il suo alleato politico Bennett alla guida del paese, primo premier non di destra da vent’anni. “Gli iraniani, Hamas e Hezbollah non aspettano. Dobbiamo agire contro di loro”. Lapid ha sottolineato come le azioni di Hezbollah danneggino la possibilità di un accordo con il Libano sui confini marittimi. Mentre Israele si prepara ad accogliere fra 10 giorni il presidente Usa Joe Biden e probabilmente a nuove svolte nell’ambito delle alleanze regionali sotto la Tenda degli Accordi di Abramo. Forse legate all’Arabia Saudita.

(la Repubblica, 4 luglio 2022)

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Dove il volo di milioni di uccelli ci parla di libertà

di Marisa Hazan

Il lago Hula, che si trova nel cuore della Great Rift Valley, incrocia una delle rotte migratorie più importanti del mondo e oltre mezzo miliardo di uccelli lo attraversano in ogni stagione migratoria. La posizione strategica del lago tra Africa, Asia ed Europa e l'ampia varietà del suo habitat, nonché l'abbondanza di acqua e cibo, rendono questo sito una stazione di transito per gli uccelli nel loro lungo viaggio verso nord. Dopo un estenuante volo attraverso i deserti dell'Africa scendono nella valle di Hula per rinfrescarsi e ritrovare le energie in vista della tappa successiva.
  La storia comincia nel 1950 quando le paludi di Hula vennero prosciugate per combattere la malaria e ricavarne terreni agricoli. Si rese necessario, successivamente, ricreare quell'ecosistema che un tempo prosperava nella regione. Fu il primo progetto di ingegneria nazionale intrapreso dallo Stato di Israele e, una volta completato, vi sorse un parco naturale acclamato a livello internazionale e che in seguito portò l'ecoturismo nel nord di Israele. Il progetto di ripristino del KKL-JNF ha trasformato un'area di 75 chilometri quadrati da regione afflitta dalla malaria a luogo fiorente, ricco di una grande varietà di vegetazione e fauna selvatica.
  Nel tempo, tuttavia,si è presentato un serio problema ambientale: fertilizzanti e pesticidi confluivano incontrollati nel lago Kinneret, minacciando la qualità delle sue acque. Nel 1994 il KKL, mobilitato per risolvere questo problema, scavò una gola di raccolta dove l'acqua veniva trattenuta per far depositare sul fondo le sostanze inquinanti prima di raggiungere il lago Kinneret.
  Oltre alle gru, anche le cicogne arrivano dalla lontana Africa, annunciando la primavera nei freddi Paesi d'Europa: come tali sono diventate un simbolo di rinnovamento, e tutto questo sembrerebbe essere all'origine della leggenda per la quale le cicogne portano i neonati. Oltre 500.000 esemplari attraversano i cieli della Valle di Hula con il loro volo silenzioso grazie alla capacità di sfruttare al meglio le correnti aeree.
  La migrazione primaverile offre l'opportunità di studiare e monitorare gli uccelli, infatti l'area si riempie degli occhi di attenti di studiosi alla ricerca di esemplari inanellati. Qui possiamo trovare gru che sono state inanellate in Finlandia e in Russia, cicogne dei Balcani e dell'Europa orientale e una gran varietà di uccelli provenienti da Namibia, Etiopia e da altri Paesi. Tutti sono i benvenuti e ognuno di loro fornisce preziose informazioni sulla sua rotta migratoria e sui siti di svernamento preferiti. Una quantità particolarmente elevata di dati è fornita da quei pellicani e quelle gru che sono stati dotati di dispositivi di localizzazione GPS.
  La primavera porta giorni incantati nella valle: la migrazione degli uccelli è in pieno svolgimento, gli stormi hanno fretta di tornare ai loro siti di nidificazione nell'emisfero settentrionale e tutta la natura si risveglia, comprese le piante acquatiche che rifioriscono dopo il freddo dell'inverno dipingendo il lago con nuovi colori.
  I raggi del sole filtrano attraverso le nuvole regalando alla valle lo straordinario fenomeno di magnifici arcobaleni. Le pozzanghere e gli stagni si riempiono rapidamente di vita: qui le anatre e altri uccelli trovano terreno di caccia per il cibo, gli uccelli canori fanno il bagno, le rane maschio gracidano il più forte possibile nella speranza di attirare una compagna. Si possono osservare Aironi Viola (Ardea purpurea) e Aquile Serpente (Circaetus) che cacciano serpenti e altri rettili. Il cielo è pieno di rondini che catturano innumerevoli zanzare: si dice che una singola rondine sia in grado di consumare circa un migliaio di zanzare al giorno!
  Ma non sono solo gli uccelli a percorrere lunghe distanze in primavera per raggiungere il lago Hula: alcune farfalle fanno lo stesso. La Tigre di Pianura (nota anche come MonarcaAfricano) è una grande farfalla arancione nomade che può vivere fino all'età di undici mesi e utilizza una pianta rampicante per deporre le sue uova. Stiamo descrivendo un paradiso terreste al nord d'Israele che dà il meglio di sé anche in autunno, quando ospita decine di migliaia di gru, pellicani e oltre 25 specie di rapaci. Gli appassionati di birdwatching possono ammirare e fotografare anche specie rare come l'Aquila Imperiale, l'AquilaAnatraia o "Macchiata", l'Albanella pallida e specie locali come il Marangone Minore, il Francolino Nero e tre specie di Martin Pescatore. Con lo scopo di proteggere e studiare gli uccelli in pericolo di estinzione, gli esperti del KKL hanno sviluppato nuove aree di nidificazione nella valle per indurli a riprodursi.
  Questa oasi di pace israeliana, circondata da verdi colline tutt'intorno, è diventata una meta non solo per gli appassionati di ornitologia ma anche per tutti coloro che amano immergersi nella natura.

(Karnenu, luglio 2022)
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Karnenu è la rivista di KKL Italia Onlus

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Marocco: per la prima volta Israele prende parte ad un’esercitazione militare

di Nathan Greppi

L’esercito israeliano ha preso parte per la prima volta ad un’esercitazione militare congiunta con altri paesi in Marocco, che con Israele ha instaurato relazioni diplomatiche ufficiali nel dicembre 2020, poco tempo dopo gli Accordi di Abramo con i paesi del Golfo. Si tratta dell’African Lion, un’esercitazione a guida americana organizzata ogni anno dallo US Africa Command, che dal 6 al 30 giugno si è tenuta in 4 paesi dell’area: Marocco, Tunisia, Senegal e Ghana. Tra i paesi i cui soldati vi hanno preso parte figurano anche Italia, Francia, Paesi Bassi, Regno Unito, Brasile e Ciad.
  Secondo il Times of Israel, l’evento includeva esercitazioni per scontri a fuoco, navali e aerei, oltre a come contrastare minacce nucleari o chimiche e al prestare soccorso alla popolazione civile. Israele ha inviato due ufficiali dell’IDF e il responsabile per Medio Oriente e Nord Africa del Ministero della Difesa, che è anche il loro attaché militare in Marocco. La loro partecipazione è “un passo in più nel rafforzamento delle relazioni tra i due paesi in merito alla sicurezza,” si legge in un comunicato del Ministero.
  Già nel marzo di quest’anno, rappresentanti delle forze armate israeliane si erano già recati nel paese nordafricano per siglare un accordo al fine di intensificare la cooperazione tra i rispettivi eserciti. Anche il Ministro della Difesa israeliano Benny Gantz e il Ministro dell’Interno Ayelet Shaked hanno visitato il Marocco per firmare trattati di cooperazione, anche su altri temi quali l’innovazione tecnologica.
  Come i paesi che hanno firmato gli Accordi di Abramo con Israele, anche le autorità marocchine sono in parte motivate dalle preoccupazioni nei confronti dell’Iran: già nel 2018, avevano interrotto le relazioni diplomatiche dopo che gli iraniani erano stati accusati di aver fornito supporto al Sahara occidentale, regione del sud del Marocco animata da forti spinte secessioniste. Non a caso, gli accordi con Israele del 2020 sono arrivati dopo che Washington ha riconosciuto la sovranità marocchina sul Sahara occidentale.

(Bet Magazine Mosaico, 4 luglio 2022)

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Israele: i mosaici romani finalmente esposti a Lod

di Michelle Zarfati

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Una serie di eccezionali mosaici romani, risalenti a circa 1.700 anni fa, è tornata a casa, in Israele. La collezione è stata finalmente esposta al pubblico per la prima volta lunedì dopo oltre un decennio di prestiti nei più prestigiosi musei del mondo. I mosaici sono stati scoperti per la prima volta nella città centrale di Lod nel 1996, ma l’Israel Antiquities Authority ha portato alla luce le enormi opere d'arte ben conservate solo nel 2009.
  I mosaici sono composti da rappresentazioni di animali come pesci e uccelli che sarebbero stati esotici per gli antichi abitanti di Lod, tra questi anche un elefante africano, un rinoceronte e una giraffa. Gli archeologi ritengono che i mosaici adornassero una ricca villa del III o IV secolo, dopo che Lod fu conquistata e ricostruita come città romana di Diospolis. Tuttavia, per più di un decennio, mentre le autorità israeliane raccoglievano fondi per la costruzione di un museo, i mosaici, non avendo un luogo in cui esser conservati in maniera permanente, sono stati esposti nei musei di tutto il mondo, tra cui il Metropolitan Museum of Art di New York, il Museo del Louvre a Parigi e l'Hermitage a San Pietroburgo, in Russia.
  La nuova sede dei mosaici sarà presso lo Shelby White and Leon Levy Mosaic Lod Archaeological Center. Un polo museale che offrirà visite guidate e mostre interattive in arabo, inglese ed ebraico. Il museo è gratuito per i residenti di Lod. "Come un mosaico che riunisce molti pezzi per creare un'immagine meravigliosa, noi stiamo cercando di riunire tutta la popolazione locale, ebrei e arabi", ha detto il project manager del museo, Raanan Kislev.
  Il museo si auspica di diventare un'attrazione chiave per i gruppi di turisti, specialmente perché Lod è strategicamente situata tra Gerusalemme e Tel Aviv e vicino al principale aeroporto internazionale del paese. Il museo è pensato per ricreare un'antica villa romana come quella che avrebbe ospitato originariamente i mosaici. “Il nostro sogno per questa città – essa stessa un mosaico di culture – si sta realizzando oggi davanti ai nostri occhi, mentre inauguriamo questo museo importantissimo, inserendo Lod nella mappa del turismo mondiale”, ha condiviso il sindaco Yair Revivo.

(Shalom, 4 luglio 2022)

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Atti di antisemitismo in aumento in Europa

Sono soprattutto veicolati tramite internet. Preoccupanti i numeri in Germania

Un gruppo che segue l'antisemitismo in Germania ha dichiarato di aver documentato più di 2.700 incidenti nel Paese lo scorso anno, tra cui 63 attacchi e sei casi di violenza estrema.
  In un rapporto, il Dipartimento per la Ricerca e l'Informazione sull'Antisemitismo (Rias) ha dichiarato che la pandemia di Coronavirus, con le sue narrazioni cospirative antiebraiche, e il conflitto in Medio Oriente, con le critiche antisemite a Israele, sono stati i principali fattori scatenanti dei 2.738 incidenti documentati nel 2021.
  Il commissario del governo tedesco per la lotta all'antisemitismo, Felix Klein, ha definito il numero di incidenti - più di sette al giorno - spaventoso, ma ha anche detto che «allo stesso tempo, ognuno degli incidenti riportati è anche un passo verso la riduzione delle cifre oscure, un tentativo di denunciare ciascuna di queste ignobili azioni».
  Gli estremisti di destra sono stati responsabili del 17% degli incidenti, ma più della metà di tutti gli episodi di antisemitismo non possono essere attribuiti a una specifica visione politica, secondo il rapporto.
  Tra i casi di «violenza estrema», il Rias ha incluso un attacco a un partecipante ebreo a una veglia per Israele ad Amburgo e una sparatoria in un centro comunitario ebraico a Berlino.
  Complessivamente, 964 persone - sia ebrei che non ebrei - sono state direttamente colpite da episodi di antisemitismo, ha dichiarato Benjamin Steinitz, capo del Rias, ai giornalisti a Berlino.
  Marina Chernivsky, del centro di consulenza Ofek per le vittime di violenza e discriminazione antisemita, ha definito l'elevato numero di casi un «rumore di fondo» nella vita quotidiana degli ebrei in Germania.
  E in Italia? «Seppure l’Italia continui a essere un Paese meno esposto di altri a derive antisemite più radicali – che vanno sempre di pari passo con le peggiori derive xenofobe, omofobe, islamofobe e più in generale razziste –, dobbiamo prendere atto che serpeggia nella società un insieme di pregiudizi e di sentimenti ostili al mondo ebraico, inclusa una pervasiva avversione per lo Stato d’Israele, la cui denigrazione e delegittimazione è parte integrante del fenomeno e ha un ritorno in eco di odio anche verso le comunità ebraiche» scrive la presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane Noemi Di Segni nel testo introduttivo allo studio sull’antisemitismo nel nostro Paese durante il 2021. 
  Nel 2021 l’Osservatorio antisemitismo della Fondazione Cdec (Centro documentazione ebraica contemporanea) ha ricevuto 400 segnalazioni. dopo attenta analisi, 226 di queste sono state rubricate come atti di antisemitismo. 
  181 concernono l’antisemitismo in Internet, mentre 45 sono episodi accaduti materialmente, tra cui un caso di «estrema violenza» e 5 «aggressioni fisiche». Da tempo non venivano registrati sei casi violenti in un solo anno. 
  L’Osservatorio Antisemitismo ed altri enti internazionali che studiano l’odio online, sostengono che internet, e specialmente i social, sono il mezzo principale per la diffusione del discorso d’odio e della propaganda antisemita. L’Osservatorio dalla fine degli anni ‘90 ha intrapreso un costante monitoraggio del ciberspazio antisemita con una particolare attenzione ai social network (Facebook, Twitter, VKontakte, YouTube, Telegram, TikTok, Instagram, LinkedIn, etc.). I contenuti antisemiti reperiti vengono regolarmente segnalati ai provider, e la maggior parti di essi non vengono rimossi. Nel corso del 2021 sono stati raccolti 5.500 post e discussioni online (tra monitoraggio attivo e segnalazioni all’Antenna) con contenuti antisemiti e/o borderline. 

(Riforma.it, 4 luglio 2022)

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Israele riapre al turismo con una ricca proposta. E conta sul trade

“Invitiamo il mondo del trade a contattarci e seguire la nostra pagina online: Israele ha riaperto i suoi confini!». È il sollecito pieno di entusiasmo di Kalanit Goren Perry, Consigliere per gli Affari Turistici dell’Ambasciata di Israele. «Per noi il trade ha un ruolo importantissimo: durante il lockdown il rappresentante di Israele ha partecipato a una tavola rotonda con Astoi, Fto, le adv e i to per proseguire il dialogo congiunto. Facciamo molta formazione ed educational, perché quest’anno l’Italia è il quinto mercato mondiale nel turismo verso Israele.
  “Tanti italiani stanno programmando i loro viaggi nel nostro paese nel 2022 e nel 2023. C’è il turismo leisure, poi ci sono i pellegrinaggi e anche una nuova forma di pellegrinaggio che vuole scoprire Israele e si allontana dal circuito di Nazareth per raggiungere Gerusalemme, Tel Aviv, Giaffa e la Galilea.
  Oltre al fascino del deserto Israele ha infatti ‘quattro mari’ per vivere l’estate – Mediterraneo, mar Rosso, mar Morto e mare di Tiberiade – e onde dove praticare surf e windsurf; ci sono maratone e percorsi a piedi, in bicicletta e Mtb che sono diventati frequentati appuntamenti annuali.
  Oggi è semplice raggiungere Israele con più di 60 voli diretti dagli aeroporti di Milano, Venezia, Treviso, Torino, Napoli, Bari e Catania e l’Ambasciata israeliana ha avviato un’intesa con Trenitalia e il veloce e comodo Frecciarossa. Il treno innovativo – sulla cui storica testata “Freccia” si possono leggere interessanti editoriali dedicati alle tante sfaccettature del turismo israeliano – raggiunge comodamente le città dai cui aeroporti si parte verso la terra che non conosce il freddo.

(Travel Quotidiano, 4 luglio 2022)

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Il premier Lapid: “Cerchiamo la pace con tutti ma non metteteci alla prova”

Nel suo primo discorso alla nazione, il nuovo primo ministro ha affermato che la minaccia più grave per il Paese è Teheran, promettendo: "Faremo tutto il necessario per impedire all'Iran di acquisire una capacità nucleare o di trincerarsi ai nostri confini".

Yair Lapid
Israele cerca la pace con i palestinesi, ma intraprenderà un’azione determinata contro chiunque “cerchi la sua fine”, in particolare per contrastare il programma nucleare dell’Iran. Lo ha detto ieri il nuovo primo ministro israeliano Yair Lapid parlando dall’ufficio del primo ministro a Gerusalemme nel suo primo discorso alla nazione. “Finché le esigenze di sicurezza di Israele saranno soddisfatte, Israele sarà un Paese che cerca la pace. Israele tende la mano a tutti i popoli del Medio Oriente, compresi i palestinesi: è giunto il momento per voi di riconoscere che non ci sposteremo mai da qui, impariamo a vivere insieme”, ha detto il premier. Lapid, che venerdì ha sostituito Naftali Bennett ed è diventato il 14esimo premier israeliano dopo lo scioglimento della Knesset, è in carica per il disbrigo degli affari correnti fino alla formazione di un nuovo governo dopo le elezioni del primo novembre, anche se quel voto potrebbe potenzialmente essere bloccato ancora una volta ed estendere lo stallo politico.
  Riferendosi agli accordi di normalizzazione con i Paesi arabi firmati dal precedente governo Netanyahu e accennando a potenziali futuri simili, Lapid ha affermato: “Crediamo che ci sia una grande benedizione negli accordi di Abraham, una grande benedizione nella sicurezza e nello slancio economico creato al vertice del Negev con Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Egitto e Marocco e che ci sarà una grande benedizione negli accordi che devono ancora venire”. Un possibile accordo per la normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita potrebbe essere firmato durante la visita del presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, in entrambi i Paesi a fine luglio. Lapid ha reso omaggio al “nostro più grande amico e alleato, gli Stati Uniti”, e ha promesso di coinvolgere la comunità internazionale nella “lotta contro l’antisemitismo e la delegittimazione di Israele”.
  Il premier ha affermato che la minaccia più grave per Israele è l’Iran, promettendo: “Faremo tutto il necessario per impedire all’Iran di acquisire una capacità nucleare o di trincerarsi ai nostri confini. Dico a tutti coloro che cercano la nostra morte, da Gaza a Teheran, dalle coste del Libano alla Siria: non metteteci alla prova. Israele sa come usare la sua forza contro ogni minaccia, contro ogni nemico”, ha avvertito Lapid.

(Nova News, 3 luglio 2022)

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Israele, abbattuti tre droni lanciati da Hezbollah

L'obiettivo sarebbe stato un giacimento di gas offshore nel Mediterraneo

L'esercito israeliano ha affermato di aver intercettato tre droni lanciati dal gruppo libanese Hezbollah, sostenuto dall'Iran, diretti verso un giacimento di gas offshore nel Mediterraneo. Non c'è stata una risposta immediata da parte del Libano all'accusa israeliana, che è arrivata nel mezzo delle tensioni tra i Paesi per la posizione della piattaforma di Karish e per gli sforzi per concordare un confine marittimo.
  "Tre droni ostili in avvicinamento allo spazio aereo nelle acque economiche di Israele sono stati intercettati", ha affermato l'esercito in una nota, aggiungendo che i droni erano diretti verso il giacimento di gas di Karish. Una fonte della sicurezza israeliana ha detto che i droni erano disarmati, anche se ciò non è stato confermato. Il ministro della Difesa Benny Gantz ha accusato Hezbollah di essere dietro al lancio, affermando in un comunicato che stava "impedendo allo Stato del Libano di raggiungere un accordo sui confini marittimi, che sono fondamentali per l'economia e la prosperità della nazione libanese". È la prima volta che un sistema di difesa aerea montato su una nave israeliana ha abbattuto un bersaglio in arrivo, ha dichiarato l'esercito.
  "Un caccia dell'Israel Air Force e una nave lanciamissili della Marina israeliana hanno intercettato 3 Uav (velivoli senza pilota, ndr) ostili provenienti dal Libano che si sono avvicinati oggi allo spazio aereo sopra le acque economiche di Israele", si legge nel comunicato della difesa israeliana. Secondo una prima indagine, prosegue la nota, i droni "non rappresentavano una minaccia imminente"; "sono stati intercettati nel Mar Mediterraneo" mentre si dirigevano verso il campo offshore di Karish.

(la Repubblica, 3 luglio 2022)

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Il sistema politico israeliano: dalle cause remote dell’instabilità alle nuove prospettive

di Ugo Volli

• Un paese senza governo stabile da quattro anni
  Chi ama Israele e ammira le sue realizzazioni scientifiche, artistiche, tecnologiche ed economiche e rispetta la libertà e la democrazia pienamente realizzata nonostante il terrorismo e le guerre subite ininterrottamente dalla fondazione dello Stato, non può non essere preoccupato per il funzionamento di un sistema politico che da quattro anni non riesce a produrre un governo stabile ed ha chiamato il paese a ben cinque elezioni politiche generali. Il paese è andato avanti anche in questi anni, è cresciuto economicamente, ha resistito bene al Covid e all’aggressione iraniana. Ma certamente la mancanza di un governo stabile ha un costo notevole. Vale la pena di riflettere sulle cause di questo scacco.

• Non è una novità assoluta
  In realtà non si tratta di una novità. Quelli che siamo abituati a pensare come padri dello stato (Ben Gurion, Weizmann, Jabotinski, Dayan, Golda Meir) raramente sono stati d’accordo e talvolta, chi più chi meno, si sono combattuti molto duramente. Per citare solo un dato, Ben Gurion fra il ‘48 e il ‘63 ha costituito e guidato ben nove governi diversi, essendo costretto anche a un periodo di ritiro di due anni (‘54-’55); negli ultimi anni della sua vita si trovò in minoranza, uscì dal suo partito, ne fondò un altro e lo fuse in un terzo. Insomma allora, come tante volte in seguito, la politica israeliana fu confusa, accidentata e spesso ingrata nei confronti dei suoi leader.

• La cause remote: la molteplicità
  Le ragioni di questa conflittualità sono culturali. Dal tempo del Talmud la cultura ebraica è cresciuta su discussioni anche durissime; la religione non ha un’autorità centrale da quando i romani proibirono il sinedrio, anche i più grandi maestri, come Maimonide e Rashì sono stati contestati e discussi spesso e volentieri; le tradizioni locali si sono differenziate dappertutto e per esempio nelle nostre città, finché i numeri lo consentono, si sono sviluppate scuole “tedesche”, “spagnole”, “libiche”, ecc. oltre che “italiane”, ben gelose delle loro tradizioni. Questa molteplicità si ritrova nella composizione della popolazione israeliana, non solo sul piano religioso, ma anche su quello politico e sociale. Vi sono certamente più lingue e cucine diverse a Tel Aviv che a Roma o a Parigi. Alle differenze ebraiche poi si aggiungono le minoranze; arabi stanziali delle diverse tribù e beduini divisi in clan, drusi, cristiani di diversa confessione, minoranze più esotiche come i circassi o gli armeni. E questo ha prodotto altrettante richieste di rappresentanza politica. Fin da prima della fondazione dello Stato, il principio unificante del bipartitismo maggioritario che regna nella tradizione anglosassone è apparso inapplicabile. Il sistema elettorale israeliano è conseguentemente un proporzionale puro, con una soglia di ingresso al 3,5 per cento che per circa 4 milioni di votanti (su 6 aventi diritto) fa circa 130 mila voti e 4 deputati.

• Le cause remote: la personalizzazione
  Bisogna aggiungere che la cultura israeliana è certamente solidaristica, ha inventato la sola forma di socialismo pratico funzionante, il kibbutz; ma è anche molto individualistica e da sempre orientata sulla personalità dei leader. Questa personalizzazione spinta moltiplica i partiti. Alla Knesset oggi ne sono rappresentati 13 (di cui diversi sono in realtà federazioni di partiti) e molti altri se ne presentano alle elezioni. Il risultato è una frammentazione spinta; nel 2021 il primo partito (il Likud di Netanyahu) aveva 30 deputati su 120; il secondo partito (Yesh Atid di Lapid) 17; tutti gli altri ne avevano meno di 10 e di essi sette avevano ottenuto il 5 per cento dei voti (250.000 circa) o meno. Di qui anche una corsa ad alleanze e fusioni fra coloro che rischiano di non passare la soglia e la continua invenzione di nuovi partiti proposti da aspiranti nuovi leader.

• La molteplicità dei temi
  In paesi come l’Italia, la Francia o l’Inghilterra, la divisione politica segue una linea principale che contrappone “destra” e “sinistra” sui vari aspetti della vita sociale. In Israele le linee di divisioni sono di più e si incrociano: c’è la destra e la sinistra (soprattutto divisi per quel che riguarda i rapporti con i palestinesi), ma ci sono anche gli ebrei e gli arabi, i religiosi e i laicisti, i liberali e gli interventisti in economia. Queste molteplici divisioni rendono più difficile costituire maggioranze omogenee, fino al paradosso dell’ultima coalizione, divisa su tutto e ben presto caduta per tale ragione.

• La causa prossima: “Chiunque ma non Bibi”
  L’ultima divisione che si è aggiunta alle altre da qualche anno, è la più influente, separando i nemici di Netanyahu da quelli che sono disposti a collaborare con lui. Anche frammenti decisivi della destra ebraica e liberista (che è maggioranza nel paese) hanno deciso di sacrificare le preferenze ideologiche del loro elettorato, pur di liberarsi di Netanyahu. La ragione avanzata per questo ostracismo sono le accuse (una di corruzione e due di “abuso di fiducia”) contro cui Netanyahu si sta difendendo. Ma anche se il suo processo è ancora aperto, le accuse hanno mostrato molte debolezze giuridiche e di fatto e lo stesso Procuratore Generale ha stabilito che Netanyahu fino alla sentenza aveva diritto di continuare a fare il Primo Ministro e di candidarsi alle elezioni, l’opposizione alla sua leadership da parte di leader come Bennett, Sa’ar, Gantz, Liberman, che pure gli sono vicini ideologicamente, non è diminuita. Il processo è un pretesto, è chiaro che neppure una sua piena assoluzione basterebbe a ricucire la maggioranza di centrodestra. Che si tratti di invidia, di volontà di “uccidere il padre”, di vendetta per gli sgarbi o di genuina preoccupazione per il peso di una singola personalità nella democrazia israeliana, non si può dire. Certamente la causa più vicina e determinante dell’instabilità politica israeliana sta in questa scissione del centrodestra. Innaturale ma ormai irrimediabile. La sfida delle prossime elezioni è riuscire a sciogliere questo nodo.

(Shalom, 3 luglio 2022)

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Trieste, l’ambasciatore di Israele in Italia in visita alla Risiera di San Sabba

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L’ambasciatore di Israele in Italia Dror Eydar ha visitato e reso omaggio per la prima volta questa mattina (domenica 3 luglio) al Monumento nazionale della Risiera di San Sabba a Trieste, unico campo di concentramento e “lager” nazista in Italia dotato di forno crematorio. Accompagnato dal vicesindaco Serena Tonel, dal responsabile e curatore del Memoriale Maurizio Lorber e dall’assessore alla Cultura della Comunità ebraica di Trieste Livio Vasieri, l’ambasciatore Dror Eydar ha voluto così conoscere e approfondire con questa sua prima visita la storia e le vicissitudini di questo luogo sacro, soffermandosi in meditazione e preghiera, recitando anche il “Canto dei giardini” che racchiude il sogno millenario del ritorno a Sion, scritto più di 2500 anni fa.
  La Risiera di San Sabba – stabilimento per la lavorazione del riso edificato a partire dal 1898 – è stata utilizzata dopo l’8 settembre 1943 dall’occupatore nazista come campo di prigionia e destinata in seguito allo smistamento dei deportati diretti in Germania e Polonia, al deposito dei beni razziati e alla detenzione ed eliminazione di ostaggi, partigiani, detenuti politici ed ebrei. Dal 4 aprile 1944 alla Risiera venne messo in funzione anche un forno crematorio. Dal 1965 la Risiera di San Sabba è stata dichiarata Monumento Nazionale con decreto del Presidente della Repubblica.
  Nel 1975 la Risiera, ristrutturata su progetto dell’architetto Romano Boico, è divenuta Civico Museo della Risiera di San Sabba. Al temine dell’approfondita visita, il vicesindaco Serena Tonel ha ringraziato l’ambasciatore Dror Eydar per questa significativa e toccante visita e gli ha donato la guida storica con il dvd della Risiera e il catalogo “Beyond the Border”, sogni e ripartenze dei profughi dell’est Europa a Trieste (1950-1956).
  Ogni anno, il 27 gennaio, alla Risiera di San Sabba, si svolgono le celebrazioni ufficiali promosse dal Comune di Trieste per il Giorno della Memoria. Prima della pandemia, il memoriale della Risiera veniva visitato annualmente da circa 130 mila persone, per la metà dei quali studenti.

(Triestenews, 3 luglio 2022)

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Israele in cyber-soccorso della Sardegna? Contatti in corso

Se ne è parlato durante la visita dell’ambasciatore Eydar, alla luce del recente attacco che ha colpito la Regione con la pubblicazione di centinaia di migliaia di documenti riservati. Al centro degli incontri anche agricoltura, crisi idrica e lotta alle cavallette che infestano l’isola.

di Gabriele Carrer

Assistenza israeliana alla Regione Sardegna contro le cyber-minacce. Se ne è parlato durante la visita nell’isola di Dror Eydar, ambasciatore israeliano a Roma, che ha incontrato anche il governatore Christian Solinas. Il diplomatico è stato interpellato sulle possibilità di assistenza dopo l’ultimo cyber-attacco avvenuto contro la Regione Sardegna con la pubblicazione di centinaia di migliaia di documenti riservati. Se ne è discusso gettando le basi per una forma di collaborazione. Al momento sono soltanto colloqui, non si è ancora arrivati a un risultato concreto.
  In campo di sicurezza informatica, Israele e Italia hanno ottimi rapporti di collaborazione, sia a livello governativo sia privato. Lo dimostra anche la partecipazione di Roberto Baldoni, direttore generale dell’Agenzia per la cybersicurezza nazionale, alla recente CyberWeek tenutasi a Tel Aviv. A moderare il panel con il professore c’era Yigal Unna, che in un’intervista rilasciata a Formiche.net prima della fine del suo mandato da direttore generale dell’Israel National Cyber Directorate, aveva invitato l’Italia a unirsi al Global Cyber Cabinet, un club guidato da Israele con i vertici delle agenzie di sicurezza cibernetica. “Siamo sulla stessa lunghezza d’onda”, aveva spiegato dando il benvenuto all’Agenzia per la cybersicurezza nazionale.
  Durante la visita dell’ambasciatore Eydar in Sardegna l’attenzione è stata anche rivolta all’agricoltura, alla crisi idrica e alla lotta alle cavallette che infestano l’isola. Israele, Paese in grado di far fiorire la propria agricoltura nonostante un territorio composto per il 70% da deserto, può rappresentare un modello per la Sardegna. Dallo Stato mediorientale, inoltre, è arrivato in questi giorni per un sopralluogo lo zoologo Yoav Motro. “Da Israele stiamo imparando che si può usare la tecnologia con i droni per il monitoraggio sugli sciami”, ha dichiarato Marcello Onorato, responsabile per Laore del piano di lotta alle locuste insieme all’Università di Sassari, all’Ansa. “È possibile che ci sia un accordo tra Sardegna e Israele per mettere in campo un’azione integrata contro le cavallette, ha spiegato il professor Ignazio Floris dell’Università di Sassari. Nonostante le specie da affrontare non siano le stesse, “tutte le tecniche che si potranno condividere con gli israeliani saranno le benvenute”, ha aggiunto.

(Formiche.net, 3 luglio 2022)

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Le Beatitudini di Gesù (5)

di Marcello Cicchese

BEATI GLI AFFAMATI

    "Beati quelli che sono affamati della giustizia perché essi saranno saziati" (Matteo 5:6).
    "Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati" (Luca 6:21).

Non è facile stabilire con certezza se nei versetti sopra citati Matteo e Luca riferiscano il medesimo detto di Gesù con accentuazioni diverse,  oppure se i detti riportati dai due evangelisti siano soltanto formalmente simili, ma sostanzialmente diversi. A rigore la fame è cosa diversa dalla fame di giustizia; ci si potrebbe quindi ragionevolmente chiedere se nella beatitudine di Matteo l'accento principale sia messo sulla fame o sulla giustizia. La sintassi della frase (che secondo alcuni si presterebbe ad una traduzione del tipo "fame quanto alla giustizia") e l'analisi dei contesti in cui Matteo e Luca inseriscono queste beatitudini spingono tuttavia a supporre che le due versioni si riferiscano a un medesimo detto di Gesù e debbano quindi illuminarsi reciprocamente.
  Partendo da questa ipotesi si può dire allora che in Luca viene espresso, in modo tagliente, il fatto che il Regno di Dio non è compatibile con situazioni di sofferenza e ingiustizia come quelle costituite dall'esistenza di persone che non hanno di che sfamarsi. Anche in questo caso Gesù annuncia che si stanno compiendo le profezie, secondo cui

    "nel tempo della grazia ... nel giorno della salvezza ... non avranno fame né sete" (Isaia 49: 8-9; Apocalisse 7:16);
    "Ecco, i miei servi mangeranno, ma voi avrete fame, ecco, i miei servi berranno, ma voi avrete sete" (Isaia 65: 13).

L'ora è giunta, i tempi messianici sono iniziati, l'opera di salvezza si manifesterà in breve anche nell'abolire dal mondo la piaga della fame.
  Ma se la fame è un male da vincere, ci si potrebbe chiedere allora ragionando in modo puramente formale, perché mai Dio si accanisce contro coloro che di questo male non soffrono, cioè i sazi. Dio però non affronta il problema della fame nel mondo come facciamo noi. Noi, senza mettere in discussione la sazietà dei sazi, ci adoperiamo perché gli affamati arrivino ad entrare nella categoria dei sazi. Il Regno di Dio invece mette in discussione tutti, affamati e sazi, ed oltre a dire: "Beati voi che siete affamati" dice anche: "Guai a voi che ora siete sazi" (Luca 6:25). Dio non si limita a "colmare le valli", ma anche "abbassa i monti e colli" (Luca 3:5); e non soltanto "ricolma di beni gli affamati", ma anche "manda a vuoto i ricchi" (Luca 3:53).
  Evidentemente per Dio la fame degli affamati non è soltanto sventura, calamità, ma è anche e soprattutto peccato e ingiustizia. Per Dio la fame non è un problema soltanto degli affamati, ma è un problema di tutti. Il peccato del cosiddetto "ricco Epulone" (Luca 16:19-31) è stato forse quello di pensare che la fame fosse un problema di Lazzaro, mentre era soprattutto un problema suo. La vita di ogni uomo è costituita da una fitta rete di relazioni, e chi come il ricco del racconto di Gesù è stato capace di "godere ogni giorno splendidamente" continuando ad avere alla propria porta un altro essere umano malato e affamato, un giorno avrà fame. Avrà fame di vera vita, perché la sua vita si è consumata nel mantenimento di una relazione così inumana.
  Il Regno di Dio oggi non si preoccupa di allestire una distribuzione di prodotti alimentari, ma annuncia il cambiamento di una  situazione. Una situazione che ora è di peccato e ingiustizia. Per questo in Matteo si dice: "Beati gli affamati di giustizia". Non basta trovarsi di fatto nella situazione di persone affamate per essere partecipi dell'opera di salvezza di Dio: bisogna anche desiderare quella giustizia di Dio che non consentirà più l'esistenza di simili disumane situazioni sociali. E forse in Lazzaro si indica un tipo d'uomo che vuole sì sfamarsi, ma non aspira a un ribaltamento dei rapporti tra lui e il ricco nel mantenimento di una situazione di ingiustizia. Il male che deve essere vinto è radicato nel cuore dell'uomo, e soltanto Dio può vincerlo; ma noi dobbiamo essere affamati ed assetati della giustizia promessa da Dio.
  Se il Regno di Dio non cancella oggi la fame, è chiaro che la stessa cosa non riusciranno a farla neppure gli uomini. Soltanto nei nuovi cieli e nella nuova terra "in cui abita la giustizia" (2 Pietro 3:13), e non prima, i servi di Dio "non avranno più fame e non avranno più sete" (Apocalisse 7:16). Le parole profetiche sugli ultimi tempi sono forse di difficile interpretazione, ma in ogni caso sono chiare nel predire che la manifestazione finale di Gesù Cristo sarà preceduta da un periodo di profonda crisi in cui le forze della malvagità si scateneranno e il mondo assumerà aspetti e caratteri diametralmente opposti a quello dell'irrompente Regno di Dio in potenza. Così, se nel nuovo mondo di Dio la fame e la sete non esisteranno più, nel periodo che precederà la fine "vi saranno carestie" (Marco 13:8). Credere alle parole di questa profezia rende impossibile farsi molte illusioni sul futuro. Il nostro lavorare perché si realizzino, là dove è possibile, condizioni di vita più umane e giuste, non potrà essere sorretto dalla speranza di un graduale miglioramento della situazione generale dell'umanità come frutto dell'impegno degli uomini. Al contrario, è scritto che "negli ultimi giorni verranno dei tempi difficili" (2 Timoteo 3:1).
  Questa valutazione pessimistica delle capacità degli uomini di guarire alla radice mali gravi come quello della fame, è indubbiamente evangelica. Non è invece evangelica la conseguenza che qualcuno ne trae: cioè che è inutile darsi da fare per tentare di migliorare un mondo che va alla rovina, ma l'unica cosa da fare è tentare di strappare qualcuno dalle fiamme dell'inferno. Chi ha questo atteggiamento considera la salvezza come l'attraversamento di una linea: che cosa ci sia di là e di qua di questa linea e quali cambiamenti di comportamento implichi oggi il passaggio da una parte all'altra non sembra essere molto importante. Assolutamente importante sembra essere invece il poter stabilire con la massima certezza possibile chi si trova da una parte e chi dall'altra della linea. Ma essere salvati significa entrare fin d'ora in quel mondo in cui Dio "fa ogni cosa nuova" (Apocalisse 21:5); significa avere fin d'ora la "vita eterna" (Giovanni 6:47), cioè la vita del "secolo avvenire" (Marco 10:30). Questo significa, molto concretamente, che chi ha ricevuto da Dio la vita eterna è spinto da questa nuova vita ricevuta a camminare nella stessa direzione in cui si muove il Regno di Dio. Se dunque Gesù nel suo annuncio del regno dei cieli promette che gli affamati saranno saziati, ciò significa che fin d'ora coloro che hanno creduto in questo annuncio sono chiamati a compiere azioni significative che anticipino, anche in questa realtà di peccato, le opere di salvezza che Dio porterà a termine alla fine dei tempi.
  Non siamo salvati per opere ma, essendo salvati, partecipiamo alle opere di Dio.
  Per questo l'apostolo Paolo ci mette solennemente in guardia avvertendo che "gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio" (1 Corinzi 6:9). Nel discorso del vangelo di Matteo sul giudizio finale i giusti, i benedetti sono coloro di cui Gesù dice:

    "Ebbi fame, e mi deste da mangiare; ebbi sete, e mi deste da bere" (Matteo 25: 35).

Per questi giusti il regno è preparato "sin dalla fondazione del mondo"; a questi giusti è detto che "andranno a vita eterna".
  Il Regno di Dio è stato "preparato" per i giusti come le buone opere sono state  "innanzi preparate" da Dio affinché i salvati per grazia le pratichino (Efesini 2:10). I benedetti possono allora ereditare il regno d'amore di Dio perché sono già cittadini di questo regno e le loro opere d'amore lo testimoniano. Ma coloro che chiudono il loro cuore davanti alla necessità di chi ha fame e sete, si rivelano come cittadini di un altro regno: il regno di egoismo e  odio del "diavolo e dei suoi angeli". La loro sorte già stabilita è il "fuoco eterno".
  Se quindi il discorso sul giudizio finale non viene fatto per dire che i giusti saranno ricompensati per la loro bontà e gli ingiusti puniti per la loro cattiveria, tuttavia queste parole di Gesù non sono lì per essere dimenticate. Questo passo, e molti altri insieme a questo, rivela qualcosa del contenuto morale del Regno di Dio e avverte che gli eredi del Regno hanno qualcosa da fare su questa terra. Si può dunque accogliere la promessa contenuta in questa beatitudine come un invito a comportarsi in modo degno della posizione di cittadini del Regno di Dio anche in relazione ai problemi che possono venire dalla presenza di affamati.
  Se sfamare un affamato significa dargli la possibilità di vivere, dobbiamo allora anche ricordare che il pane che dà vita al mondo è Gesù stesso. Senza contrapposizione tra cibo fisico e spirituale, il senso di un servizio fatto al prossimo nel nome di una naturale e serena gratitudine verso Colui che ci ha accolti, sarà sempre quello di portare, anche nella forma del più semplice e pratico servizio, l'amore di Cristo che se ricevuto come tale trasmette vera vita, cioè vita eterna.
  Non è detto però che a noi spetti sempre la parte di coloro che danno da mangiare agli affamati. Ci potrebbe anche toccare la parte degli affamati. Proprio a motivo del suo servizio per il Signore, all'apostolo Paolo è accaduto di trovarsi "in fatiche ed in pene; spesse volte in veglie, nella fame e nella sete, spesse volte nei digiuni, nel freddo e nella nudità" (2 Corinzi 11:27). Le beatitudini di Gesù possono allora essere considerate anche come parole di conforto che Egli rivolge ai suoi discepoli, i quali nel seguire le orme del maestro si verranno certamente a trovare in situazioni sgradevoli. "Quando - potrebbe voler dire Gesù ai suoi discepoli - , per amore del mio nome vi verrete a trovare in situazioni di fame, di sete, di privazione, non pensate che questo sia un segno di abbandono da parte di Dio. Gli affamati di giustizia sono da considerarsi beati perché Dio stesso li sazierà. E' meglio mancare di pane e avere le promesse di Dio, piuttosto che avere molto pane ed essere esclusi dalle promesse di Dio".
  Va detto, a conclusione del discorso, che queste parole di Gesù fanno anche risaltare in modo netto il nostro peccato, cioè la nostra personale incoerenza. Questo può essere messo in relazione con uno dei fini che secondo alcuni si propone il sermone sul monte:  infrangere le nostre sicurezze attraverso un innalzamento delle pretese di santità della legge. Lutero per esempio diceva che il sermone sul monte è "Mosissimus Moses", cioè una specie di Mosè al quadrato. E anche se questa interpretazione non sembra adeguata ad esprimere tutta la ricchezza di contenuto di questo discorso di Gesù, tuttavia è un fatto che ben difficilmente si riesce a trovare qualche forma di autogiustificazione dopo aver preso in seria considerazione le parole nette e dure delle beatitudini.
  Oltrepassa i limiti di questo articolo e le capacità di chi scrive il dare indicazioni precise sul "che fare" nel concreto,  ma è bene non aggiungersi all'elevato numero degli interpreti per i quali "spiegare" il sermone sul monte significa di fatto "liquidarlo". Si deve lasciare che la parola di Dio faccia il suo lavoro contro di noi, affinché al momento opportuno possa compiere il suo lavoro per noi.

(da "Credere e Comprendere", novembre 1981)


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Pronte le prime due unità veloci costruite in Israele per la Marina Filippina

di Aurelio Giansiracusa

Le prime due unità sottili da interdizione ed attacco rapido o Fast Attack Interdiction Craft-Missile (FAIC-M) della Marina Filippina (PN) sono state lanciate formalmente ad Haifa, in Israele, lo scorso 26 giugno, presso i cantieri Israel Shipyards Limited.
  Il portavoce della Marina, il comandante Benjo Negranza ha affermato che i funzionari della PN e i futuri membri dell’equipaggio della FAIC chiamati BRP Lolinato To-Ong, hanno onorato il varo.
  Il Commodoro Alfonso Torres Jr., Presidente del Team di ispezione pre-consegna, e il Commodoro Roy Vincent Trinidad, Presidente del Team di Project Management del Progetto di acquisizione FAIC, hanno guidato i delegati del PN nell’assistere al varo delle nuove navi.
  Torres, nel suo discorso, ha anche sottolineato il ruolo chiave di Israele nel successo del programma delle navi d’assalto multiuso (MPAC) della Marina.
  Ha aggiunto che Israele ha aperto la strada al progetto di acquisizione FAIC-M che include un trasferimento completo di tecnologia.
  Torres ha affermato che questo è il primo nel suo genere nella storia della cooperazione nel settore della difesa del paese.
  Le FAIC-M sono unità derivate dal tipo Shaldag Mk V con lunghezza di 32,5 metri, larghezza di 6,2 metri, dislocamento di 95 tonnellate, velocità massima attorno i 40 nodi ed autonomia di 1.000 miglia nautica a 15 nodi di crociera.
  La Marina Filippina ha posto un ordine per 8+1 unità FAIC-M che andranno a costituire l’ossatura della Littoral Combat Force (LCF) in grado di proteggere le rotte marittime e le linee di comunicazioni all’interno del arcipelago filippino (SLOC) anche grazie al sistema missilistico Spike N-LOS con portata di oltre 25 km che sarà imbarcato sulla metà delle nuove imbarcazioni mentre le altre quattro avranno solo la predisposizione per ricevere il sistema.
  Tutte le FAIC-M saranno armate con 1 MGS Rafael Typhoon 30 mm e 2 RcWS Rafael Mini Typhoon 12,7 mm.

(Ares Osservatorio Difesa, 2 luglio 2022)

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Draghi vero leader europeo, Conte bocciato. Parola di Alec Ross

In un’intervista per il “Festival del Sarà – Dialoghi sul futuro” in programma a Termoli l’ex consigliere di Barack Obama e guru digitale americano promuove a pieni voti il premier Mario Draghi di fronte alla guerra e lancia un attacco frontale al leader del M5S Giuseppe Conte

di Federica De Vincentis

“Se non diamo armi agli ucraini, se non sosteniamo gli ucraini è come se non avessimo sostenuto gli ebrei”. Alec Ross non usa i guanti. In un’intervista ad Antonello Barone per la settima edizione del Festival del Sarà – Dialoghi sul Futuro, in programma in piazza Duomo a Termoli dal 22 al 24 luglio, l’ex consigliere di Barack Obama, noto esperto americano di politiche tecnologiche, dà le pagelle alla politica italiana di fronte alla guerra russa in Ucraina.
   Promosso a pieni voti il presidente del Consiglio Mario Draghi. “Voi italiani dovete essere orgogliosi adesso della leadership che avete”, dice Ross. A Washington DC il timoniere di Palazzo Chigi è tenuto in grande considerazione, spiega poi. “Dal punto di vista dei miei amici della Casa Bianca chi sono i leader più capaci oggi in Europa? L’Inghilterra con Boris Johnson? No. Macron? No. Olaf Scholz in Germania? No. In realtà è il governo di Draghi”.
   Durissimo invece il giudizio sul leader del Movimento Cinque Stelle Giuseppe Conte, reduce da uno scontro aperto con Draghi e tentato da uno strappo alla maggioranza per passare a un appoggio esterno al governo. Il guru tech americano definisce l’ex premier “vergognoso”.
   Sotto accusa finiscono “le sue ambizioni” e i suoi “punti di vista sulla guerra Ucraina-Russia”. Ovvero la posizione, difesa a più riprese da Conte e dal Movimento Cinque Stelle, di sostanziale contrarietà all’invio di armi alla resistenza ucraina, su cui si è rischiato un tonfo della maggioranza di governo lo scorso 21 giugno, quando il Parlamento ha votato una risoluzione sulla guerra e il posizionamento dell’Italia.
   Per Ross non ci sono vie di mezzo, “Putin uccide tutti”. Rifiutarsi di inviare armi, a suo dire, è un tradimento non lontano da quello perpetrato dai “collaboratori italiani” che, settant’anni fa, “hanno inviato gli ebrei in Germania”.
   L’affondo di Ross, oggi visiting professor all’Università di Bologna, aprirà il festival di Termoli e sarà commentato dagli ospiti in presenza. Saranno più di trenta a partecipare al dibattito “Verticale italiana. Diritti. Istituzioni. Imprese”. Tra i protagonisti nelle edizioni passate della kermesse, ormai diventata un punto di riferimento per la regione, l’ex premier Romano Prodi e l’ex presidente della Camera Pier Ferdinando Casini oltre a presidenti di regione, manager, giornalisti e accademici.

(Formiche.net, 2 luglio 2022)
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Ecco chi è Mario Draghi secondo l'ex consigliere di Barack Obama: il geniale capo di un governo eccezionale. Un governo che spinge la sua nazione a entrare in guerra con la Russia mandando armi agli ucraini. Perché - dice sempre l'amico di Obama - “Se non diamo armi agli ucraini, se non sosteniamo gli ucraini è come se non avessimo sostenuto gli ebrei”. Anche lui dunque si mostra amico degli ebrei, come Obama si era manifestato amico di Israele nella sua visita in quel paese nel 2013, quando convinse Netanyahu a "chiedere scusa" a Erdogan. In quell'occasione molti israeliani furono ammaliati dallo charme amichevole del presidente americano. Si direbbe che oggi siano gli ebrei italiani ad essere ammaliati dal fascino del nostro presidente filoamericano. Sono davvero convinti che sostenendo gli ucraini con armi italiane il nostro capo di governo vuol difendere anche gli ebrei? M.C.

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Vladimir Zelenko, morto a 48 anni uno dei più celebri medici No vax

Prescriveva cure con idrossiclorochina e ivermectina per curare il Covid.

Si definiva un «semplice medico di campagna» ma  Vladimir Zelenko era diventato celebre negli Stati Uniti (e non solo) quando aveva cominciato a diffondere il suo controverso trattamento contro il coronavirus. Il medico No vax, uno dei più conosciuti per le sue cure anti-Covid a base di un cocktail di tre farmaci con idrossiclorochina, l'antibiotico azitromicina e solfato di zinco, è morto giovedì a Dallas a 48 anni. Aveva attirato l'attenzione anche di Donald Trump, con la Casa Bianca che poi aveva anche sostenuto le sue cure. La moglie, Rinat Zelenko, ha spiegato che è morto di cancro ai polmoni in un ospedale dove stava ricevendo cure da diverse settimane. 
  Fino all'inizio del 2020 Zelenko, noto anche con il suo nome ebraico, Zev, trascorreva le sue giornate a prendersi cura dei pazienti dentro e intorno a Kiryas Joel, un villaggio di circa 35.000 ebrei chassidici a circa un'ora a nord-ovest di New York City. Da quando è cominciato il Covid ha diffuso la sua cura "alternativa" con l'idrossiclorochina. Ma ha iniziato ad attirare l'attenzione nazionale il 21 marzo - due giorni dopo che il presidente Donald J. Trump ha menzionato per la prima volta il farmaco in una conferenza stampa - quando il dottor Zelenko ha pubblicato un video su YouTube e Facebook in cui affermava una percentuale di successo del 100% con il trattamento. Il giorno dopo Mark Meadows, il capo dello staff di Trump, ha contattato il dottor Zelenko per ulteriori informazioni. Nella settimana successiva il dottor Zelenko ha fatto il giro dei media conservatori, diventando una sorta di star. E l'appoggio è arrivato da diverse frange No vax che in queste ore lo hanno salutato sui social. 

(Il Mattino, 2 luglio 2022)

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I problemi cardiaci sono aumentati nei più giovani a causa dei vaccini?

Il nuovo studio israeliano preoccupa

di Carmelo Giuffre

Secondo il virologo Broccolo si tratta di uno studio molto attendibile, il primo basato su dati provenienti dal mondo reale. 
  I vaccini contro il Covid stanno provocando dei problemi cardiovascolari nella fascia più giovane della popolazione? 
  Questa l’ipotesi lanciata da un nuovo studio scientifico realizzato dall’unità del Servizio di medicina di emergenza di Tel Aviv e il Massachusetts Institute of Technology. La loro ricerca si è occupata di analizzare e classificare le chiamate che sono arrivate nei pronto soccorso israeliani a partire dal momento in cui  nella nazione è iniziata la campagna vaccinale, allo scopo di verificare se vi fossero state variazioni significative rispetto al periodo pre-pandemico, ma anche al primo anno dell’epidemia, in cui realizzare così velocemente dei vaccini sembrava un miraggio.
  E il risultato non può lasciare tranquilli: nell’arco di tempo compreso tra gennaio e maggio del 2021, le chiamate ai pronto soccorso israeliani per problemi cardiovascolari sono aumentate del 25 per cento. Questo significa che i vaccini stanno causando questa tipologia di effetti avversi nella popolazione? Troppo presto per stabilire eventuali correlazioni, servono studi più approfonditi. Al contempo, come ha spiegato il virologo italiano Francesco Broccolo dell’Università di Milano Bicocca, chiamato a commentare questo sorprendente studio, non si può in alcun modo ignorare ciò che emerge da questa ricerca, in primo luogo perché i ricercatori hanno avuto accesso a dati provenienti dal mondo reale. La sua affidabilità risulta dunque maggiore di tantissimi altri studi simili, che però si sono sempre dovuti accontentare dei dati che venivano pubblicati ed estrapolati dai trial clinici, riducendo così in modo sensibile l’accuratezza statistica del report. 
  Che il Ministero della Salute israeliano coltivasse qualche preoccupazione riguardo gli effetti avversi dei farmaci contro il Covid, lo si era capito già qualche mese fa, quando era stato lanciato un sondaggio, scegliendo un campione di circa duemila cittadini, chiedendo di possibili effetti collaterali a cui erano andati incontro nel periodo successivo alla vaccinazione. I risultati del sondaggio sono stati poi resi pubblici il 9 Febbraio del 2022 sul canale telegram del Ministero. Ai partecipanti era chiesto di rispondere ai quesiti in un periodo di tempo compreso tra il 21esimo e il 30 giorno dall’avvenuta somministrazione del farmaco, per raccontare di eventuali eventi avversi. Uno dei risultati più sorprendenti in tal senso, è che il Ministero, in base alle segnalazioni ricevute, ha elaborato oltre 40 categorie diversi di effetti avversi registrati. 
  Lo studio è stato pubblicato dalla rivista Scientific Reports. Le segnalazioni che sono state prese in considerazione dagli autori riguardano il 2019, ovvero l’anno pre-pandemico, il periodo compreso tra marzo e dicembre del 2020 in cui i farmaci contro il Covid non erano ancora disponibili, e il periodo compreso tra gennaio e maggio del 2021 in cui invece la campagna vaccinale era in pieno svolgimento. Ciò che sembra emergere in modo incontrovertibile è un aumento di circa il 25 per cento delle chiamate al pronto soccorso per problemi cardiaci rispetto ai periodi pre-vaccino presi in considerazione dalla rilevazione. 
  Un risultato che preoccupa molto e che oltretutto, come ha rimarcato anche Broccolo, trova una sponda importante nei dati resi disponibili da Germania e Scozia, che sembrano segnalare un’incidenza molto simile, come d’altronde hanno evidenziato anche gli autori all’interno del loro studio. 

(Meteoweek.com, 2 luglio 2022)

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Learning city: Fedriga,con Israele per comunità più avanzate

TRIESTE - "Un ulteriore passo di un percorso che vogliamo costruire con gli amici israeliani da qui ai prossimi anni.
  Un progetto strategico, che punta all'apprendimento permanente delle persone per creare più sviluppo in una comunità socialmente evoluta".
  Lo ha detto il governatore Massimiliano Fedriga riferendosi all'incontro "Esperienze a confronto per lo sviluppo della Learning City" con l'ambasciatore israeliano in Italia Dror Eydar.
  La Regione Friuli Venezia Giulia ha sottoscritto un Memorandum d'intesa con la città di Modi'in per collaborazioni nei campi della ricerca, dell'alta formazione e dell'innovazione tecnologica per aumentare la qualità dei servizi erogati ai cittadini, avendo come modello le smart cities. Il progetto vede la partecipazione anche del Comune di Trieste ed è aperto ad altre realtà municipali regionali. Per questo tra i partecipanti, oltre all'assessore regionale all'Istruzione Alessia Rosolen, c'erano il vicesindaco di Trieste Serena Tonel, il sindaco di Gemona del Friuli Roberto Revelant e quello della città israeliana di Modi'in Haim Bibas.
  "Un'altra parte importante dell'accordo, a cui teniamo molto - ha ricordato Fedriga - riguarda il contrasto a ogni forma di antisemitismo e di ostilità nei confronti dello Stato di Israele. Anche di questo abbiamo parlato nell'incontro che abbiamo avuto ieri con l'ambasciatore Dror Eydar".
  L'obiettivo è estendere l'accordo, che comprende anche l'Unione delle Municipalità israeliane (di cui Modi'in è capofila), anche ad altre istituzioni locali italiane.

(ANSA, 1 luglio 2022)

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Missione Anica in Israele per rafforzare collaborazione e avviare nuovi progetti

Il presidente dell’Anica, Rutelli: «Israele è una realtà vibrante di idee plurali, creatività, capacità produttive; gli incontri con i leader di questo ecosistema consentiranno di realizzare nuovi concreti traguardi per il cinema e l’audiovisivo del nostro Paese».

L’industria cine – audiovisiva israeliana ha risposto con entusiasmo alla missione dell’Anica in Israele: attraverso un intenso programma di incontri si sono create le basi per future collaborazioni a tutto campo tra le industrie dei due Paesi. La missione - fortemente voluta dal Presidente Francesco Rutelli e dal Presidente dell’Unione Produttori Benedetto Habib secondo gli auspici dell’Ambasciatore d’Italia a Tel Aviv Sergio Barbanti - è sostenuta dalla Direzione Generale Cinema e Audiovisivo del Ministero della Cultura e dal Ministero dello Sviluppo Economico italiani ed ha operato in collaborazione con le Divisioni del Ministero degli Affari Esteri e del Ministero della Cultura e dello Sport israeliani.
  L’iniziativa – ideata e realizzata dall’Executive Media Consultant Karen Hassan – ha consolidato le relazioni istituzionali tra Italia e Israele e aperto nuove opportunità di business tra i creators dei due paesi per nuove co-produzioni e per lo sviluppo di progetti filmici, televisivi e digitali, e per l’applicazione delle nuove tecnologie all’animazione e alla post-produzione.
  La fitta agenda di incontri è iniziata con la visita ufficiale allo Yad Vashem, dove il Presidente Rutelli è stato accolto dal Presidente del Museo Dani Dayan, e dall’incontro con il Ministro della Cultura israeliano Chili Tropper, che ha presentato il nuovo programma di incentivi fiscali per le società estere che verranno a girare in Israele e con il quale si sono discusse priorità e obiettivi comuni, anche a seguito del recente incontro di Napoli tra i Ministri della Cultura del Mediterraneo; Rutelli ha trasmesso a Tropper un messaggio del Ministro Dario Franceschini, che ha coordinato i lavori a Napoli. È proseguita con i direttori dei principali fondi di finanziamento israeliani sul cinema: Israel Film Fund, The Rabinovitch Foundation for Arts, The Gesher Multicultural Film Fund, The New Fund For Cinema and TV e The Makor Foundation. Data la rilevanza che la scrittura e la creazione di progetti originali hanno per queste prospettive comuni, gli incontri con i Chairman della Israeli Producers Association e della Writers Guild of Israel sono stati di particolare importanza, così come quelli con alcuni dei principali broadcaster che operano a livello globale - come Keshet Media Group. Di grande rilievo l’incontro con Isaac Ben Israel – padre del sistema della Cybersecurity israeliana – sui temi che la globalizzazione ha portato con sé e le sfide che le tecnologie digitali dovranno affrontare in un prossimo futuro.
  Il progetto dell’ANICA in Israele ha anche posto le basi per la creazione di laboratori creativi, con l’obiettivo di agevolare e incentivare l’incontro e lo sviluppo di idee e progetti originali comuni, oltre che l’attivazione di scambi, borse di studio e programmi di tutoraggio tra ANICA Academy e i principali istituti di formazione israeliani.
  “Israele – afferma il presidente Anica Francesco Rutelli - è una realtà vibrante di idee plurali, creatività, capacità produttive; gli incontri con i leader di questo ecosistema consentiranno di realizzare nuovi concreti traguardi per il cinema e l’audiovisivo del nostro Paese.”
  Benedetto Habib, presidente dell’Unione Produttori Anica: “Siamo felicissimi dell’entusiasmo con cui le istituzioni e l’industria israeliana dell’audiovisivo hanno accolto il nostro invito a esplorare nuove forme di collaborazione capaci di imporre ancora di più le nostre due industrie a livello globale. Sono sicuro che già nei prossimi mesi vedremo i frutti concreti di questa prima missione”.
  “Questa missione – conclude l’ambasciatore d’Italia a Tel Aviv Sergio Barbanti - ha posto una pietra molto significativa su cui costruire una solida collaborazione tra Italia e Israele nel campo cinematografico e delle creazioni audiovisive, coniugando la creatività che caratterizza entrambi i Paesi sia sotto il profilo culturale che quello tecnologico.”

(La Stampa, 1 luglio 2022)

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Israele ha un nuovo primo ministro, provvisorio

Yair Lapid sarà in carica fino alle elezioni di novembre: è un politico centrista ed ex giornalista televisivo molto conosciuto.

Da venerdì Israele ha un nuovo primo ministro: il leader centrista Yair Lapid ha preso il posto di Naftali Bennett, che era in carica da poco più di un anno. La sostituzione fra i due era stata annunciata dieci giorni fa, quando il governo di cui fanno parte sia Bennett sia Lapid aveva proposto di sciogliere il Parlamento e indire nuove elezioni per via di grosse tensioni politiche interne alla maggioranza. Giovedì 30 giugno il Parlamento ha infine votato per la propria dissoluzione, mentre le elezioni sono state fissate al primo novembre. Lapid resterà in carica fino alla formazione del nuovo governo, quindi quasi solo per gestire gli affari correnti.
  Bennett non era obbligato a dimettersi, ma ha spiegato di averlo fatto per via di un accordo politico preso con Lapid all’inizio dell’esperienza di governo: l’intesa prevedeva che se il governo fosse arrivato alla fine della legislatura, Bennett sarebbe rimasto primo ministro fino al 2024 e poi avrebbe lasciato la carica a Lapid, che fino a giovedì era ministro degli Esteri. In caso di fine anticipata della legislatura, Bennett si sarebbe dimesso e Lapid sarebbe diventato primo ministro, cosa che è accaduta venerdì.
  «Faremo del nostro meglio per uno stato ebraico, democratico, forte e di successo», ha commentato Lapid durante una cerimonia formale di passaggio di consegne con Bennett, avvenuta giovedì pomeriggio. Bennett sarà invece vice primo ministro fino all’insediamento del nuovo governo.
  Lapid è diventato il 14esimo primo ministro della storia israeliana. È il primo che non proviene dalla destra da 21 anni, cioè dalle dimissioni dell’allora primo ministro Laburista Ehud Barak. Lapid sarà anche uno dei pochi primi ministri israeliani a non avere fatto carriera nell’esercito, che ha lasciato dopo il servizio di leva obbligatorio. Il Times of Israel ha notato inoltre che per la prima volta l’ufficio del primo ministro sarà diretto da una donna: la capo di gabinetto di Lapid sarà Naama Schultz, una sua storica assistente.
  Lapid ha 58 anni e da una decina d’anni è una delle figure più note della politica israeliana. «Chiunque abbia vissuto in questo paese negli ultimi trent’anni ha la sensazione di conoscerlo in maniera intima», ha scritto il quotidiano israeliano Haaretz. Nato e cresciuto a Tel Aviv, la città israeliana più progressista del paese, dopo il servizio di leva iniziò a lavorare come giornalista facendo rapidamente carriera, fino a diventare uno dei più famosi giornalisti televisivi di Israele. Per quattordici anni, dal 1998 al 2012, condusse un seguito talk show sulla tv privata Channel 2. Nel 2012 entrò in politica e fondò il partito centrista Yesh Atid, che guida ancora oggi.
  Yesh Atid fu la sorpresa delle elezioni politiche del 2013: arrivò secondo dopo il Likud dell’allora primo ministro Benjamin Netanyahu, con cui decise di entrare in coalizione. Fu quindi ministro delle Finanze dal 2013 al 2014, poi decise di passare all’opposizione di Netanyahu, con cui da allora si è sempre rifiutato di governare.
  Sono state promosse da Lapid due delle più importanti operazioni politiche per cercare di evitare che Netanyahu rimanesse primo ministro. Fu Lapid a convincere l’ex capo dell’esercito Benny Gantz a candidarsi contro Netanyahu a capo di una coalizione di partiti centristi alle elezioni politiche del 2019. La coalizione però prese poche migliaia di voti in meno del Likud e Netanyahu rimase primo ministro. Ed è stato sempre Lapid, nel 2021, a convincere Bennett a guidare un governo eterogeneo sostenuto da tutti i partiti che si opponevano a Netanyahu, dalla sinistra all’estrema destra. Alla fine questa coalizione si è dimostrata troppo litigiosa per poter governare insieme, ma Lapid si è comunque attribuito il merito di avere tolto l’incarico di primo ministro a Netanyahu per la prima volta dal 2009.
  In questi anni Lapid si è costruito una solida fama da centrista: vicino alla destra sui temi economici e alla sinistra sui diritti civili, è a favore della cosiddetta soluzione a due stati per risolvere il conflitto coi palestinesi – cioè alla creazione di uno stato palestinese autonomo e limitrofo a quello israeliano – ma ha detto più volte che al momento non ci sono le condizioni per applicarla.
  Per venerdì primo luglio, il suo primo giorno di lavoro, Lapid ha in programma una riunione col capo dell’agenzia di intelligence interna israeliana, lo Shin Bet, e un incontro di alto livello sui due soldati israeliani che dal 2015 sono prigionieri di alcuni gruppi radicali palestinesi.
  In questi mesi Lapid avrà pochissimo margine di azione politica: il governo che guida è di fatto dimissionario e la campagna elettorale potrebbe alimentare le tensioni fra i partiti di maggioranza che hanno portato alla decisione di indire nuove elezioni. Nel frattempo però Lapid potrebbe approfittarne per costruirsi una nuova immagine da statista e raccogliere consensi in vista del voto. Bennett invece ha annunciato di volere lasciare la politica alla fine del suo incarico di governo.

(il Post, 1 luglio 2022)

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Sciolta la Knesset, Lapid guida il governo e Bennett si ritira

di Ugo Volli

• LO SCIOGLIMENTO
  La Knesset, il parlamento monocamerale di Israele, scioglie oggi la sua ventiquattresima legislatura dalla fondazione dello Stato, nel 1948. Lo fa essa stessa, secondo le regole della politica israeliana, approvando una legge di scioglimento, che è stata proposta dal governo in carica che ha perso la maggioranza. Le prospettive dell’opposizione di destra di costituire un altro governo con la stessa legislatura si sono rivelate irrealistiche ed essa ha accettato la proposta dell’ex maggioranza, anche in cambio della rinuncia di quest’ultima a cercare di approvare una legge che avrebbe squalificato Bibi Netanyahu dalla candidatura a primo ministro. Si apre così una campagna lunga, secondo le abitudini israeliane. Le elezioni sono previste per fine ottobre o per la prima settimana di novembre, dopo le feste ebraiche d’autunno. Saranno le quinte elezioni in poco meno di quattro anni: un’instabilità che preoccupa.

• LE CONSEGUENZE
  Lo scioglimento della Knesset fa scattare una clausola importante dell’accordo su cui si era costituito il governo. Si era deciso che Naftali Bennett, leader del partito Yamina (destra) sarebbe stato primo ministro durante la prima metà della legislatura, e che gli sarebbe succeduto Yair Lapid, leader del partito Yesh Atid (centro-sinistra); ma che in caso di scioglimento anticipato la rotazione sarebbe comunque avvenuta. Dopo l’approvazione della legge, dunque, Bennett si dimette e al suo posto Lapid prende la presidenza del governo in proroga, incaricato dell’ordinaria amministrazione fino alla soluzione della crisi. Un’altra conseguenza dello scioglimento è che tutte le leggi in sospeso sono prorogate fino alla prossima legislatura e fra esse anche quella per l’estensione di parte della legislazione israeliana in Giudea e Samaria, che è stato l’ultimo e decisivo ostacolo nella traballante navigazione del governo.

• LE MANOVRE POLITICHE
  Naturalmente in un panorama politico estremamente frazionato come quello israeliano, dove ci sono tredici partiti rappresentati alla Knesset e il più grande, il Likud di Netanyahu, non è andato oltre alle ultime elezioni di 30 seggi su 120 della Knesset, le elezioni provocano una forte turbolenza politica: prospettive di alleanze, scissioni, nuovi partiti, nuovi leader. La prima vittima di questa turbolenza è stato lo stesso Bennett, che ha deciso di non candidarsi alle nuove elezioni, lasciando la leadership del partito alla sua vice Ayelet Shaked, meno esposta di lui nel fallimento del governo e più propensa a far parte di una coalizione di destra, che con Yamina secondo gli ultimi sondaggi raggiungerebbe la maggioranza.

• BENNETT
  La storia di Bennett meriterebbe di essere raccontata nei dettagli: servizio militare nelle formazioni combattenti di élite; grande successo imprenditoriale nelle nuove tecnologie; ritiro dagli affari per dedicarsi alla politica; presidente del consiglio regionale di Giudea e Samaria (le zone oltre la linea verde); braccio destro di Netanyahu per qualche anno; poi una separazione molto dura da lui, che ha lasciato tracce fino ad oggi; fondazione di Yamina, marcata da numerosi conflitti interni alla destra; il servizio non lungo ma significativo come ministro della difesa; la scelta di uscire dalla coalizione di destra per costituire un ministero molto eterogeneo con l’estrema sinistra e anche un partito arabo islamista; il suo fallimento annunciato da tempo; e ora il ritiro dalle elezioni, forse anche dal ruolo pattuito negli accordi di governo di “primo ministro alternativo” e ministro degli esteri; probabilmente l’abbandono della politica, provvisorio o definitivo.

• LA SITUAZIONE INTERNAZIONALE
  Lapid dovrà far fronte a molti problemi e opportunità: la crisi sempre acuta con l’Iran, quella in via di approfondimento con la Russia, il terrorismo palestinese che ha rialzato la testa, la possibilità di estendere in qualche modo all’Arabia Saudita e di consolidare i “patti di Abramo”. Il primo appuntamento importante che lo aspetta è la visita di Bennett, confermata nonostante la crisi, che si svolgerà fra due settimane. In politica estera, come in politica interna, per Israele questi sono tempi turbolenti, in cui le opportunità si mescolano a problemi. Bisognerà seguirla da vicino.

(Shalom, 30 giugno 2022)

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Stati arabi e Israele creano una rete di difesa area: nasce una “Nato” del Medio Oriente?

di Paolo Mauri

Il 20 giugno il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz ha annunciato l’esistenza di una nuova rete regionale di difesa aerea congiunta, nota come Middle East Air Defense Alliance (Mead). L’idea generale è quella di creare un sistema di comunicazione unificato che colleghi tutti i sensori di allerta precoce schierati dai Paesi partecipanti sotto la supervisione del Centcom (Central Command) statunitense. Questa rete di allerta radar condivisa consentirà di individuare e tracciare in tempo reale le minacce aeree, come Uav (Unmanned Air Vehicle) o missili balistici e da crociera.
  Mead sembra sia già operativa e avrebbe consentito di respingere i tentativi iraniani di attaccare Israele e altri Paesi, come ha affermato Gantz. Una fonte della difesa israeliana ha detto a Breaking Defense che la coalizione avrebbe avuto un ruolo nell’abbattimento degli Uav iraniani lo scorso anno da parte di una coppia di F-35I “Adir” israeliani, che secondo fonti della difesa hanno utilizzato intelligence in tempo reale e dati raccolti al di fuori di Israele.
  Ora sembra che siano in corso discussioni con un certo numero di Paesi che sono disposti a posizionare sensori di fabbricazione israeliana sul loro territorio per facilitare la lotta contro la minaccia iraniana. Il Centcom Usa ha fatto da catalizzatore per l’accordo, che vedrebbe la partecipazione, oltre a Israele, di Arabia Saudita, Qatar, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Giordania.
  La nascita di questo sistema di sorveglianza aerea integrato e soprattutto la possibilità che Stati arabi un tempo acerrimi nemici di Israele possano acquistare e ospitare sul proprio territorio sistemi di fabbricazione israeliana (quindi anche relativo personale per l’addestramento) rappresenta una svolta epocale seconda solo agli Accordi di Abramo siglati ad agosto del 2020: forse il più grande risultato di politica estera ascrivibile all’amministrazione Trump.
  La normalizzazione dei rapporti tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti ha infatti innescato un meccanismo per il quale anche altri Stati arabi e nordafricani hanno seguito la strada segnata da Abu Dhabi: Bahrein, Marocco, Sudan, Egitto, Giordania hanno intessuto relazioni diplomatiche ufficiali con Tel Aviv e aperto a partenariati di vario tipo.
  L’obiettivo di questa strategia statunitense è stato chiaro sin da subito: emarginare l’Iran e i suoi alleati. L’unione del fronte anti-iraniano nell’area mediorientale, già in embrione per via delle “intese” tra Arabia Saudita e Israele, ora si configura come una vera e propria alleanza militare di ampio respiro che va anche oltre i firmatari degli Accordi di Abramo, e culla il sogno americano di veder nascere una “Nato” del Medio Oriente.
  La crescente percezione dell’aggressione iraniana nella regione, data non solo dall’intervento in Siria ma anche dalle azioni in Iraq attuate tramite i suoi proxy, dal conflitto in Yemen e da quanto gli ruota intorno riguardante la sicurezza dei traffici nel Mar Rosso e nel Golfo Persico, insieme al desiderio di Washington di ridurre l’influenza russa e cinese nelle petromonarchie del Golfo, ha provocato negli ultimi mesi intensi contatti diplomatici che potrebbero portare a grandi cambiamenti a livello politico e militare.
  Gli esempi saudita ed emiratino sono emblematici da questo punto di vista: Riad, che ha avuto più di uno screzio con Washington per il nucleare iraniano da quando è stato siglato il Jcpoa (ora defunto), si era avvicinata alla Cina per poter conseguire autonomia nel campo dell’energia atomica, mentre Abu Dhabi ha espresso più di una volta interesse per i cacciabombardieri russi arrivando anche a intavolare colloqui ufficiali per possibili acquisizioni. Va ricordato, dal punto di vista degli armamenti, che Mosca annovera Riad tra i suoi clienti già da tempo, ma Washington non può permettere che anche la Cina penetri ulteriormente nella regione.
  L’idea di una “Nato” del Medio Oriente piace alla Giordania, con il sovrano Abdullah II che ha affermato che avrebbe sostenuto la creazione di un’alleanza simile, ma ha espresso anche la necessità di chiarire molto bene gli intenti del patto, sebbene coinvolga nazioni che si trovano ad affrontare la medesima minaccia rappresentata dall’Iran.
  Israele è il Paese centrale della Mead, perché dispone di assetti aerei e da difesa aerea moderni: oltre ai già citati F-35, capaci da soli di raccogliere dati attraverso i loro sensori e condividerli in tempo reale, Tel Aviv ha in servizio sistemi missilistici di fabbricazione autoctona (utilizzati dal complesso Iron Dome) che si integrano con i Patriot statunitensi e un radar di lunga portata facente parte del sistema Thaad.
  Anche l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti hanno acquistato sistemi di difesa aerea e missilistica americani ma Israele, in questa nuova alleanza, proprio per la tipologia di assetti disponibili, è il Paese che meglio può gestire la rete di difesa aerea mediorientale.
  Il sistema integrato utilizzerà quasi sicuramente i dati satellitari americani che passeranno per il Centcom e permetterà quindi anche ai Paesi arabi di entrare nell’ombrello protettivo israelo-statunitense, ma sarà comunque necessario, per gli stessi, dotarsi di ulteriori sistemi missilistici da difesa area con capacità Abm (Anti Ballistic Missile) e di radar da allerta precoce, e non è detto che si affidino al mercato americano: le capacità di intercettazione di Irbm (Intermediate Range Ballistic Missile) del sistema israeliano Arrow 3 sono state già state testate con successo nel 2017 e David’s Sling è stato utilizzato contro i missili in arrivo dalla Siria nel 2018.
  L’incognita è rappresentata dall’Arabia Saudita: esistono ancora forti resistenze interne rispetto alla collaborazione con Israele, e Riad ha stabilito legami diplomatici, di intelligence e militari con Tel Aviv solo a livello informale, quindi l’ingresso nel Mead rappresenterebbe un passo rischioso, ma altrettanto rischioso sarebbe restarne fuori. Allo stesso modo la mancanza dell’Arabia Saudita lascerebbe un lungo vuoto nella rete di difesa congiunta che va assolutamente evitato.

(Inside Over, 1 luglio 2022)

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Israele scommette sul rilancio della Sardegna: «Pronti ad accompagnarvi nel futuro»

L'ambasciatore Dror Eydar promette aiuti contro le cavallette e nella gestione chirurgica delle risorse idriche

di  Claudio Zoccheddu

CAGLIARI - Le intenzioni sembrano chiare: stabilire un rapporto diretto tra Israele e la Sardegna, con l’isola che potrebbe importare le tecnologie utilizzate dallo Stato ebraico per dominare l’ambiente e con Israele che vedrebbe riaprirsi la pista degli accordi commerciali che dal Mezzogiorno d’Italia condurrebbe verso il cuore economico dell’Europa. Sul tavolo, una risma di possibilità legate al trattamento delle risorse idriche, alla zootecnia, alle tecniche di conservazione di frutta e verdura, alla realizzazione di un gasdotto che soddisfi la sete di energia nazionale fino alle fantascientifiche tecniche di contenimento delle cavallette. Con un occhio di riguardo al legame archeologico che avvicinerebbe i progenitori di Re Davide ai guerrieri nuragici. Ne ha parlato ieri l’ambasciatore dello Stato ebraico Dror Eydar, nell’isola per una serie di incontri, politici e commerciali.

- Ambasciatore, nel 2018 il governo italiano aveva bocciato la fornitura di gas da Israele. Adesso è cambiato qualcosa?
  «Ne ho parlato con il presidente Draghi durante la sua ultima visita in Israele. Per realizzare un gasdotto servirebbero alcuni anni. L’idea ci piace e nel frattempo il gas liquido potrebbe arrivare con le navi. Draghi è molto interessato perché la guerra in Ucraina ha reso strategico questo accordo».

- In che modo Israele può aiutare l’isola?
  «Condividiamo situazioni simili dal punto di vista climatico e anche le associazioni di categoria italiane hanno chiesto il nostro aiuto per l’agricoltura nel sud del vostro Paese. Noi ci siamo, non c’è dubbio, ma siamo anche abituati a pensare fuori dagli schemi e per questo ci spenderemo, oltre che negli aiuti specifici, anche in una grande conferenza annuale aperta a tutti i Paesi del Mediterraneo sui temi dell’agricoltura, delle risorse idriche, della gestione del suolo, delle fonti energetiche rinnovabili e sulla digitalizzazione delle imprese. Ne parlavamo già prima della pandemia, poi siamo stati costretti a rinviare ma adesso siamo nuovamente al lavoro».

- Può fare qualche esempio?
  «Lo scorso maggio, a Napoli, abbiamo favorito più di 300 accordi e incontri tra le aziende agricole italiane e quelle israeliane».

- E per la Sardegna?
  «Faccio due esempi: la conservazione degli alimenti e la produzione di latte vaccino. Le nostre aziende studiano come aumentare i tempi di conservazione dei prodotti agricoli. La TarriTech, tramite un mix di oli essenziali nebulizzati sui prodotti riesce ad allungare del 30% la conservazione delle fragole e del 50% quelle delle pesche. Voi siete famosi per il formaggio, non solo ovino. Noi abbiamo mucche che producono 12mila litri di latte all’anno, e si potrebbe arrivare a 14mila. Questo è possibile grazie alla selezione degli embrioni degli esemplari più produttivi e alcuni di loro potrebbero arrivare presto in Sardegna».

- Per sviluppare agricoltura e allevamento, tuttavia, servono le risorse. L’acqua, ad esempio.
  «Il 70% del territorio di Israele è desertico, eppure siamo riusciti a farlo fiorire. Desalinizziamo il 90% dell’acqua potabile e di quella per uso industriale e grazie ad un continuo monitoraggio ne sprechiamo solo l’8%. L’agricoltura di precisione, con l’uso di droni e satelliti, ci aiuta ad irrigare solo dove è necessario, con la sicurezza di far arrivare alle piante il 95% dell’acqua distribuita. Questo ci ha portato a raddoppiare la produttività delle nostre terre che, in un momento in cui la crisi alimentare causata dalla guerra spaventa il mondo, è un aiuto fondamentale che possiamo condividere con la Sardegna».

- Come la lotta alle cavallette?
  «Certo, noi abbiamo un conto aperto con questi insetti. Adesso in Sardegna c’è il professor Yoav Motro, un esperto che potrebbe importare l’uso dei droni e dei satelliti per il monitoraggio e l’abbattimento degli sciami».

- Infine, i ritrovamenti nel sito archeologico di El -Ahwat ricordano la civiltà nuragica. Ci sono novità in questo senso?
  «Noi crediamo che sia qualcosa di più di una semplice somiglianza e che tra i popoli del mare che in quei tempi arrivarono in Galilea ci fossero anche i nuragici. In ogni caso, oggi (ieri, ndr) abbiamo aperto un nuovo canale di comunicazione tra l’università di Haifa e quella di Cagliari, in modo da ospitare una delegazione sarda nel nostro sito, che intendiamo riaprire a breve».

(La Nuova Sardegna, 1 luglio 2022)

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Israele eletto a guidare l’Alleanza internazionale per la memoria dell’Olocausto nel 2025

di Tarquinia Panicucci

Parte di una mostra sull’Olocausto sostenuta dall’International Holocaust Remembrance Association.
Israele servirà come presidente dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) per il 2025, un anno che segna gli 80 anni dalla liberazione del campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau e dalla fine della seconda guerra mondiale. “Lo Stato di Israele, il Ministero degli Affari Esteri e Yad Vashem sono impegnati a preservare la memoria dell’Olocausto e a combattere l’antisemitismo”, ha affermato giovedì il ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid. “Come figlio di un sopravvissuto all’Olocausto, considero un privilegio personale e un dovere continuare a preservare la memoria dell’Olocausto e la lotta costante contro l’antisemitismo ovunque si sollevi”. Israele è stato eletto all’unanimità alla presidenza dell’organismo durante la sessione plenaria annuale dell’IHRA a Stoccolma, in Svezia. Il paese eletto presidente ospita le riunioni plenarie dell’IHRA fino a due volte l’anno. La plenaria è l’organo decisionale ufficiale dell’IHRA, composto dai capi delle delegazioni dei paesi membri, ed è responsabile dell’adozione delle raccomandazioni e delle decisioni prese dagli esperti dell’IHRA. Il presidente di Yad Vashem, Dani Dayan, che ha presentato la candidatura di Israele al plenum di Stoccolma, ha rimarcato che “le attività dell’IHRA assumono un’importanza e un significato sempre maggiori durante questo periodo in cui stiamo assistendo ai fenomeni allarmanti della distorsione dell’Olocausto e dell’antisemitismo in varie parti del mondo.” “L’accettazione della nostra candidatura a guidare l’IHRA rafforza la nostra capacità di agire in questo ambito in modo più vigoroso”, ha affermato Dayan. Mercoledì, Israele ha annunciato l’adozione della definizione operativa di antisemitismo dell’IHRA, che il presidente della Knesset Mickey Levy ha definito una “decisione storica”. Secondo la definizione IHRA, adottata da 35 paesi, “l’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei, che può essere espressa come odio verso gli ebrei. Manifestazioni retoriche e fisiche di antisemitismo sono dirette verso individui ebrei o non ebrei e/o loro proprietà, verso istituzioni della comunità ebraica e strutture religiose”. Le sue linee guida aggiungono che “le manifestazioni potrebbero includere il prendere di mira lo stato di Israele, concepito come una collettività ebraica”, mentre osserva che “una critica a Israele simile a quella mossa contro qualsiasi altro paese non può essere considerata antisemita”. “La Knesset come casa dei rappresentanti del popolo ebraico è impegnata a combattere l’antisemitismo in tutte le sue brutte forme”, ha detto Levy mercoledì. “Ciò include la negazione e la distorsione dell’Olocausto, la negazione del diritto del popolo ebraico all’autodeterminazione, così come le espressioni antisemite nascoste sotto le spoglie della critica a Israele”. Ha invitato più parlamenti in tutto il mondo a seguire l’esempio e ad adottare la definizione IHRA per “impedire la diffusione di questo brutto fenomeno”.

(ultime notizie, 1 luglio 2022)

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La Nato abbandona i curdi in nome dell'Ucraina

Con la firma di Madrid «La Turchia, la Finlandia e la Svezia confermano che ora non esistono più embarghi nazionali sulle armi», quindi con le armi che Ankara potrà di nuovo acquistare i curdi potranno essere di nuovo massacrati.

Vladimir Putin non ha aspettato la fine del vertice Nato di Madrid per lanciare i suoi strali contro «l’imperialismo della Nato». Dall’Asia Centrale dove si trova per il vertice del Caspio sono arrivate le immagini del presidente russo seduto ad un tavolo gigantesco (per evitare ogni contatto) con gli omologhi di Azerbaigian, Iran, Kazakistan e Turkmenistan. Putin ha negato qualsiasi responsabilità per l’attacco missilistico contro il centro commerciale a Kremenchuk, a 330 chilometri dalla capitale ucraina dove le vittime accertate sono 18 : «L'esercito russo non colpisce alcun obiettivo civile. Non ce n’è bisogno».
  Poi ha parlato del vertice Nato e dell’ingresso di Helsinki e Stoccolma nell’Alleanza Atlantica, minimizzando la portata di quanto accaduto: «per quanto riguarda Svezia e Finlandia, non abbiamo i problemi con Svezia e Finlandia, che, sfortunatamente, abbiamo con l’Ucraina. Non abbiamo nulla che possa preoccuparci in termini di adesione alla Nato ma se l’infrastruttura militare della Nato sarà dispiegata in Finlandia e Svezia, la Federazione Russa dovrà rispondere in maniera speculare».
  Per tornare al vertice di Madrid che si chiude oggi nel quale la Nato ha dato chiare indicazioni di voler «sostenere l’Ucraina fino a quando sarà necessario di fronte alla crudeltà della Russia» non c’è dubbio che il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan abbia ottenuto tutto quanto voleva in cambio del suo via libera all’ingresso di Svezia e Finlandia nell’Alleanza Atlantica. Saranno i curdi a pagare il prezzo del voltafaccia di Helsinki e Stoccolma che hanno accettato gran parte delle richieste di Ankara abile nello sfruttare al meglio la situazione venutasi a creare per sferrare ancora una volta un durissimo colpo alla minoranza che da anni lotta per il riconoscimento dei suoi diritti e della sua indipendenza.
  I due Paesi baltici nel documento si impegnano a non fornire alcun sostegno al Pkk, ritenuto organizzazione terroristica da Turchia, Stati Uniti e Unione Europea, o al movimento gulenista, ma non solo: Svezia e Finlandia si sono anche impegnate a interrompere ogni sostegno alla milizia curda Ypg (Unità di Protezione Popolare), senza la quale gli Usa e gli alleati non sarebbero mai e poi mai riusciti a sconfiggere lo Stato islamico nel Siraq. Con la firma di Madrid sono state anche superate le sanzioni del 2019 disposte contro Ankara per l’intervento militare turco in Siria: «La Turchia, la Finlandia e la Svezia confermano che ora non esistono più embarghi nazionali sulle armi», quindi con le armi che Ankara potrà di nuovo acquistare i curdi potranno essere di nuovo massacrati.
  Ma non è tutto perché Ankara aspetta che si superi il veto del Congresso americano per la fornitura dei 40 nuovi caccia F-16, una consegna bloccata da tempo a causa della vicinanza degli ultimi anni tra Erdoğan e Putin. A proposito di questo, nelle ultime settimane il Congresso ha ammorbidito la sua posizione e il tanto atteso via libera potrebbe arrivare prima del midterm election del prossimo 8 novembre. il presidente ucraino Volodymyr Zelensky nel suo discorso quotidiano alla nazione ha parlato del vertice: «Questo è un vertice speciale, un vertice di trasformazione, l’Alleanza sta cambiando la sua strategia in risposta alle politiche anti-europee aggressive della Russia», poi il leader ucraino ha chiesto ai paesi della NATO « di accelerare la consegna di sistemi di difesa missilistica all’Ucraina e per aumentare significativamente la pressione sullo stato terrorista». Mentre a Madrid si discuteva di Svezia e Finlandia e del nuovo concetto strategico sul quale torneremo nei prossimi giorni, la direttrice dell’intelligence Usa Avril Haines a più di quattro mesi dal conflitto ha dichiarato che «il conflitto andrà avanti per un lungo periodo di tempo» e non ha escluso che la Russia potrebbe utilizzare strumenti asimmetrici per contrastare l’Occidente: «Persino le armi nucleari per cercare di gestire e proiettare potere e influenza a livello globale».
  Infine per tornare ai curdi secondo la deputata indipendente nel Parlamento di Stoccolma, Amineh Kakabaveh, rappresentante della numerosa diaspora curda in Svezia che conta circa 100mila persone, quanto accaduto è un vero tradimento: «Questo è un tradimento del governo svedese, dei Paesi della Nato e di Stoltenberg che ingannano un intero gruppo che ha liberato se stesso e il mondo intero dall'immondizia». Ma il peggio deve ancora arrivare perché Erdoğan che ha saputo sfruttare il momento di crisi in Ucraina, vuole chiudere una volta per tutte la sua personale partita in Siria contro i curdi.

(Panorama, 1 luglio 2022)
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"Con le con le armi che Ankara potrà di nuovo acquistare i curdi potranno essere di nuovo massacrati". Gli ebrei riflettano. M.C.

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