Inizio - Attualità
Presentazione
Approfondimenti
Notizie archiviate
Notiziari 2001-2011
Selezione in PDF
Articoli vari
Testimonianze
Riflessioni
Testi audio
Libri
Questionario
Scrivici
Notizie 16-31 luglio 2022


Israele e Giordania, nuove intese per costruire un Medio Oriente di pace

Il progetto Shaar HaYarden – La Porta della Giordania – ha origini lontane. Sulla scia degli accordi di pace del 1994 tra Gerusalemme e Amman, negli anni duemila si immaginò la realizzazione di una grande area industriale comune che potesse ospitare aziende giordane e israeliane, promuovendo sul territorio una cooperazione industriale tangibile. L’idea era di usare gli scambi economici come strumento per garantire pace e stabilità tra i due paesi. Nel corso degli anni il progetto è stato sviluppato, ha ricevuto finanziamenti, ha trovato alcuni sbocchi operativi, ma non è mai stato portato a termine fino in fondo. In sospeso per questioni burocratiche e per le alterne tensioni tra i due paesi.
  Nel recente clima di maggior cooperazione regionale – con Israele sempre più protagonista di scambi commerciali con altri paesi arabi, in primis Emirati ed Egitto -, Shaar HaYarden è tornato di attualità. Tanto che in queste ore il governo israeliano ha annunciato, con un certo ottimismo, la sua definitiva approvazione. “Gli ultimi dettagli di questa iniziativa sono stati affrontati la scorsa settimana durante la mia visita ad Amman con il re Abdullah II”, ha annunciato il Primo ministro Yair Lapid nel corso della tradizionale riunione di gabinetto di inizio settimana. “Si tratta di un progetto che aumenterà l’occupazione in entrambi i Paesi, farà progredire le nostre relazioni economiche e diplomatiche e rafforzerà la pace e l’amicizia. Creerà iniziative congiunte nel commercio, nella tecnologia e nell’industria locale”.
  L’emittente israeliana Canale 14 spiega che negli ultimi anni l’Ufficio per la cooperazione regionale, in collaborazione con il Consiglio regionale di Emek HaMaayanot, ha promosso i piani per lo sviluppo del parco industriale, lavorando per rimuovere i diversi ostacoli procedurali, aggiornare la pianificazione, compresa la costruzione nell’area di un ponte che collega Israele e la Giordania.
  L’ulteriore passo, con il via libera governativo, rappresenta nelle parole del ministro per la Cooperazione regionale Esawi Frej la chiusura di un cerchio. “Fa parte dei grandi progressi che abbiamo compiuto nel rafforzamento dei legami con la Giordania lo scorso anno, prima nel quadro di un accordo per esportare acqua in cambio di elettricità solare, e ora con questa decisione che fa avanzare ulteriormente la visione della pace, non solo tra i paesi, ma tra i popoli. La pace tra noi – ha affermato Frej – non è completa senza una cooperazione economica e civile che permetta ai cittadini dei paesi di goderne i frutti”.

(moked, 31 luglio 2022)

........................................................


L’Iran dà il via libera a Hezbollah contro Israele. E Hamas si accoda

Il 2022 rischia di chiudersi con l’apertura di un nuovo esteso fronte di guerra

di Davide Racca

L’Iran dà il via libera a Hezbollah contro Israele. E Hamas si accoda. Il 2022, infatti, rischia di chiudersi con l’apertura di un nuovo esteso fronte di guerra.
  In Medio Oriente il clima si fa rovente e non solo per il meteo. Uno dei protagonisti, non certo insoliti, è l’Iran che avrebbe concesso a Hezbollah il via libera per le operazioni contro Israele dal Libano e dalla Siria.
  In particolare, Hasan Nasrallah leader dell’organizzazione terroristica, ha affermato che tutti i giacimenti di gas e petrolio israeliani sono nel mirino delle milizia “minacciati”, sia con l’utilizzo di droni, come già avvenuto alcune settimane fa, sia con il lancio di razzi da rampe montate su motoscafi.
  Sullo sfondo delle minacce di Nasrallah, l’Idf (Israel Defence Force) aumenterà ulteriormente le forze a difesa della piattaforma estrattiva  Shark rig con l’impiego di più pattugliatori marini e di caccia dell’aviazione dello Stato ebraico.
  Negli ultimi mesi, la Marina israeliana, ha condotto esercitazioni su larga scala simulando diversi scenari, tra cui un attacco missilistico di Hezbollah contro obiettivi economici israeliani nel Mar Mediterraneo, mentre l’aviazione israeliana ha acquisito l’aereo spia più avanzato del mondo, l’Oron capace di monitorare un vasto territorio elaborando enormi quantità di informazioni tramite intelligenza artificiale.
  Inoltre, il Gabinetto della Difesa di Gerusalemme terrà un’importante riunione domenica per discutere dei possibili scenari che dovessero presentarsi sia dal fronte di Hezbollah sia da quello di Hamas.
  Il Ministero della Difesa, di recente, ha anche iniziato la costruzione di un muro lungo la linea di demarcazione nell’area di Jenin, ma i funzionari della sicurezza temono che con l’avanzare dei lavori, che di fatto impedirebbero a molti palestinesi di entrare illegalmente in Israele, la violenza e il terrorismo possano aumentare.
  La costruzione era stata ritardata a causa delle pressioni palestinesi-americane sullo sfondo della visita del presidente Joe Biden, ma a fronte di nuovi attacchi perpetrati in Israele da parte di terroristi provenienti proprio da Jenin, è stata data una decisa accelerazione alla costruzione del muro di protezione.
  E’ un dato concreto che, comunque, l’Anp stia gradualmente perdendo il controllo della sicurezza nelle città di Jenin e di Nablus, dove dilagano terrorismo e violenza, e teme di doversi confrontare militarmente contro la Jihad islamica e Hamas proprio per lo stato di diffusa anarchia che si sta diffondendo.
  Funzionari della sicurezza dell’Anp affermano che nelle ultime settimane si è verificato un forte aumento dell’uso delle armi da fuoco durante eventi di parate, matrimoni e funerali, Ma anche diversi tentativi di omicidio contro sindaci, capi di consigli locali e alcuni avvocati.
  A Nablus, in particolare, si segnala un considerevole aumento della potenza di fuoco delle “Brigate Martiri di Al-Aqsa”, che appartiene all’ala militare del movimento Fatah, e collabora con un gruppo armato omonimo di Jenin e con il “Battaglione Jenin” che appartiene all’ala militare della Jihad islamica.
  Le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, braccio del movimento Fatah, alcuni giorni fa, hanno rivendicato un attacco effettuato contro una postazione dell’Idf vicino a Nablus. 
  Una squadra armata di terroristi è arrivata con un veicolo nei pressi di  uno dei varchi presidiati della città e ha aperto il fuoco contro i militari posti a vigilanza che hanno risposto. Non ci sono state vittime e le forze dell’Idf sono riuscite a colpire diversi terroristi e ad arrestarne uno, rimasto gravemente ferito e successivamente identificato come membro della “polizia palestinese”.

- Nel frattempo Hamas non perde l’occasione fomenta gli animi nella Striscia di Gaza
  Mentre sui maggiori social media si chiede la rimozione del presidente dell’Anp Abu Mazen da ogni incarico politico, il braccio militare di Hamas, le Brigate Az ad-Din al-Qassam, ha presentato gli Uav in suo possesso, nel corso di una cerimonia in memoria di uno dei terroristi uccisi durante Wall Guard.
  Uno di questi è stato sviluppato dall’ingegnere Muhammad al-Zawari, eliminato in Tunisia, al quale il drone è stato intitolato.   
  A Gaza, dove il livello di tassazione della popolazione è salito a livelli vertiginosi, non tanto per supportare le infrastrutture e i servizi, ma a beneficio della leadership e dei bellicosi programmi contro Israele, l’Idf ha rivelato, in una dettagliata presentazione il sistema di  tunnel terroristici, siti per la produzione di esplosivi e depositi di razzi vicino a edifici pubblici. Ospedali, scuole e moschee fino ad una fabbrica per la produzione di bibite si trovano ad essere posti a rischio da un’incomprensibile strategia di Hamas che, comunque, è presagio di un innalzamento della tensione con Israele.
  E la strategia potrebbe concretizzarsi con l’apertura di due fronti,  da Gaza con la sancita alleanza tra Hamas e la Jihad islamica e dal nord in collaborazione con Hezbollah e la Siria.
  Negli ultimi mesi sono aumentate le pressioni interne all’interno di Hamas per rinnovare i legami con il regime di Bashar al-Assad al fine di rafforzare la lotta comune contro Israele. 
  Questa linea è stata adottata dal presidente dell’ufficio politico Ismail Haniyeh, e sostenuta da Yahya Sinwar, leader di Hamas nella Striscia di Gaza, e da Muhammad Daf, comandante supremo dell’ala militare di Hamas.
  Perseguendo la strategia adottata, Hamas ha bisogno di rinnovare i legami con la Siria perché è interessata anche ai finanziamenti di Damasco e alle forniture di armi provenienti dall’Iran, oltre che ad aprire l’auspicato fronte contro Israele anche dal territorio siriano mentre è già operante dal Libano  dove, in collaborazione con gli sciiti di Hezbollah, ha stabilito un’infrastruttura militare nei campi profughi e ha lanciato diversi razzi verso Israele.

- Ma la decisione di Hamas non è priva di ostacoli
  Di recente, un’alta delegazione della “Fratellanza Musulmana” ha incontrato il leader di Hamas Ismail Haniyeh chiedendogli di astenersi dal rinnovare i rapporti del movimento con il regime di Bashar al-Assad. Haniyeh, impegnato a chiedere finanziamenti e armi proprio a Damasco, ha comunque promesso di portare la questione al tavolo dell’Ufficio Politico di Hamas.
  Il movimento dei “Fratelli Musulmani” si oppone alla decisione del movimento di cui è mentore, dopo la rottura delle relazioni a causa della decennale guerra civile siriana.
  La decisione di staccarsi dal regime siriano fu presa all’epoca da Khaled Meshaal all’epoca capo dell’ufficio politico del movimento, in seguito alla decisione di spostare la sede del movimento da Damasco a Doha, la capitale del Qatar.
  La motivazione principale fu il massacro da parte del presidente Assad di decine di migliaia di musulmani sunniti con l’assistenza iraniana e dei miliziani sciiti di Hezbollah.

(ofcs.report, 31 luglio 2022)

........................................................


Gantz: “Israele è in grado di colpire seriamente il programma nucleare iraniano”

di Francesco Paolo La Bionda

Benny Gantz, attuale ministro della Difesa israeliano, in un’intervista rilasciata a Channel 13 il 27 luglio, ha dichiarato che Israele ha la capacità di causare seri danni al programma nucleare iraniano, ritardandone gli avanzamenti, e ha definito i negoziati per il ripristino del JCPOA come una mera tattica iraniana per temporeggiare.
  La dichiarazione sembra una risposta indiretta a quanto due giorni prima l’ex primo ministro israeliano Ehud Barak aveva scritto in un articolo a firma sul TIME, in cui ha argomentato che l’Iran è ormai prossimo alla capacità di costruire armi nucleari e che una volta che ciò sarà accaduto non basteranno eventuali azioni militari per fermarlo.
  Secondo Barak, che è stato anche ministro della Difesa dello Stato ebraico nel corso della sua carriera politica, già durante l’estate Teheran potrebbe raggiungere la latenza nucleare, la condizione in cui un paese possiede la tecnologia per costruire rapidamente armi nucleari, senza averlo ancora fatto. A quel punto, eventuali attacchi militari mirati non saranno più in grado di cambiare la situazione.
  Paragonando la situazione dell’Iran a quella dell’Iraq e della Siria, che avevano entrambi portato avanti programmi di sviluppo di testate nucleari finché i loro siti non erano stati colpiti da incursioni israeliane, il politico ha sostenuto che quei programmi non fossero così avanzati come quello iraniano.
  “È ora di guardare in faccia la realtà”, ha sostenuto Barak, proponendo di iniziare a pensare e prepararsi per la vera nuova fase con l’Iran come stato nucleare. A quel punto suggerisce come linee d’azione uno sforzo diplomatico regionale insieme agli Stati Uniti, piani d’attacco israeliani nel caso iniziasse l’effettivo assemblaggio di un ordigno e l’attesa che il regime possa essere rovesciato dal popolo iraniano.

• Il rafforzamento dell’intesa con la Russia incoraggia l’Iran
  Russia e Iran, che già da più di un decennio collaborano per sostenere il regime di Bashar al-Asad in Siria, hanno recentemente rafforzato la propria intesa in virtù della comune ostilità verso gli Stati Uniti, che a Mosca è esplosa in virtù del sostegno incondizionato di Washington al governo ucraino.
  Il 19 luglio scorso Putin ha incontrato il presidente iraniano Ebrahim Raisi per un vertice tripartito che ha incluso anche il presidente turco Erdogan. Sebbene ufficialmente non si sia discusso di Israele, a Gerusalemme il meeting è stato osservato con una certa ansia, date le inevitabili conseguenze negative di un maggior supporto russo alla Repubblica Islamica.
  Anche perché in parallelo la guerra in Ucraina ha raffreddato notevolmente i rapporti tra la Russia e Israele. La presa di posizione di Gerusalemme contro l’invasione russa non è piaciuta a Mosca, che tra crescenti toni antisemiti e giri di vite contro il mondo ebraico  potrebbe utilizzare anche la politica mediorientale per mettere Israele sotto pressione.

(Bet Magazine Mosaico, 31 luglio 2022)

........................................................


Abraham Bachar: “La Nato è stata troppo timida. Putin non si fermerà al Donbass”

Il generale israeliano: «Biden ha fatto capire subito che non voleva un coinvolgimento diretto, un errore. Il Cremlino è convinto che l’Alleanza non invierà mai soldati e avanza, la Cina potrebbe presto imitarlo»

di Francesco Semprini

Abraham Bachar
Il generale Abraham Bachar, fondatore e amministratore delegato di IsraTeam, già capo di stato maggiore dell’Home Front Command, la Difesa civile nazionale israeliana, e alla guida della Agenzia nazionale per la gestione delle emergenze, analizza la guerra in Ucraina dal punto di vista di chi è abituato a gestire le crisi.

- Come vede la situazione sul campo?
  «Non sarò politically correct. A mio parere, tenendo da parte l’evidente emergenza umanitaria e la tragedia che la popolazione civile sta vivendo, appare sempre più chiaro che la Nato e in particolare gli Stati Uniti hanno dimostrato di non voler intervenire veramente per salvare Paese».

- Che cosa intende?
  «Questo atteggiamento non si riflette solo nell’amministrazione Biden, ma è stato un atteggiamento costante condiviso anche da Obama e da Trump. Washington non è disposta a intervenire e a farsi coinvolgere in eventuali conflitti. Non vuole più boots on the ground nelle guerre in corso».

- Ma gli Usa hanno fatto grandi pressioni su Putin, prima che scoppiasse la guerra.
  «Le dichiarazioni del presidente degli Stati Uniti prima dell’invasione non hanno impedito a Vladimir Putin di cominciare la guerra. È lo stesso approccio adottato dagli Stati Uniti in Medio Oriente, per esempio spingendo i Paesi sunniti della regione a firmare accordi con Israele, in funzione anti-iraniana. Per quanto ho capito, Biden, nel suo ultimo viaggio, ha cercato di coinvolgere altri Paesi, usando la minaccia di un nemico comune, Teheran. Ciò è stato fatto per consentire agli Stati Uniti di costruire un fronte contro la Repubblica islamica, ma senza inviare le truppe nell’area. Non vuole coinvolgimenti diretti, come si è visto con il ritiro non pianificato dall'Afghanistan. L’attenzione si sposta dal Medio Oriente alla regione indo-pacifica».

- Quindi la preoccupazione di Washington è più forte rispetto alla Cina che rispetto alla Russia?
  «Il mondo ha visto chiaramente che l’Occidente non è più desideroso di combattere, nonostante tutte le affermazioni dei Paesi Nato che in caso di aggressione russa a un membro dell’Alleanza sarebbero intervenuti. Gli Usa non vogliono essere coinvolti in alcun conflitto e questo vale per tutti gli altri Stati europei, come la Germania, la cui dipendenza dal gas russo è fortissima. In questo quadro la prossima aggressione potrebbe essere quella contro Taiwan».

- Pensa che gli Stati Uniti non stiano facendo abbastanza per l’Ucraina, attraverso la consegna di armi e armi?
  «Finora, decisamente non abbastanza. Ma come ho detto, le persone negli Stati Uniti non vogliono essere coinvolte, il presidente lo capisce. Se mi chiedete come andrà a finire questa guerra, vi dico che finirà con l’occupazione russa di una parte dell’Ucraina. A causa dell’inerzia sia della Nato che dell’Europa».

- Soltanto il Donbass o anche il Sud?
  «Se l’atteggiamento di Mosca che abbiamo visto negli ultimi mesi può dirci qualcosa, penso che cercheranno di spingersi più a Ovest e non concentrarsi solo sulle regioni orientali. Credo che Putin sappia che la Nato non interverrà più di tanto, e questa convinzione è rafforzata dalla fiducia che i suoi generali hanno sulla loro capacità di conquistare, con il tempo, l’intera Ucraina, o per lo meno tutto l’Est.

- Se gli Stati Uniti e l’Europa decidessero di intervenire in Ucraina, potrebbe innescare un nuovo conflitto globale. Che cosa potrebbe fare di più la Nato?
  «Prima di tutto, avrebbe dovuto pensarci prima, quando la Russia mostrava già atteggiamenti espansionistici. Gli Stati Uniti si sono sempre sentiti guardiani intoccabili dell’ordine mondiale ma non hanno mostrato la giusta preoccupazione. Avere questo ruolo autoproclamato significa anche che devi pagare un prezzo e inviare i tuoi soldati dove è necessario. È lo stesso atteggiamento che hanno usato nella guerra all’Isis, inviando aerei e addestratori militari ma quasi nient'altro. Se sei una superpotenza devi agire come tale».

- Putin ha attaccato l’Ucraina guidato da questo atteggiamento americano?
  «Questa è la mia idea. I russi non si fermeranno, vedremo che nei prossimi mesi i Paesi occidentali faranno ancora meno perché si occupano di altro; l'aumento dei prezzi dell'energia, l'inflazione, con la prospettiva di un inverno rigido e nessuna reale alternativa in vista».

- È un periodo tumultuoso per il mondo come abbiamo visto. Come lo affronterà nel Forum internazionale della resilienza di Cannes, a ottobre?
  «Stiamo cercando supporto internazionale per questo evento. Il Forum rappresenta un momento per parlare e discutere dei rischi che il nostro mondo sta affrontando, dalla pandemia ai disastri naturali e al cyberterrorismo. Stiamo cercando di rendere la maggior parte delle nazioni del mondo pronte ad affrontare qualsiasi crisi si presenti, fornendo loro gli strumenti tecnologici, politici ed economici per poterlo fare».

(La Stampa, 31 luglio 2022)

........................................................


Tel Aviv, inaugurato il più grande pronto soccorso al mondo

di Jacqueline Sermoneta

FOTO
È stato inaugurato presso il Sourasky Medical Center - Ichilov di Tel Aviv il più grande pronto soccorso al mondo. Una struttura di ben 8mila metri quadrati, predisposta per gestire tutte le situazioni d'emergenza, anche le più critiche in caso di guerra o attacchi terroristici.
  Come scrive il Times of Israel, presenti alla cerimonia di apertura il Presidente Isaac Herzog, il Primo ministro Yair Lapid, il ministro della Salute Nitzan Horowitz e il sindaco di Tel Aviv Ron Huldai. A tagliare il nastro, il filantropo israelo-canadese Sylvan Adams, che ha donato 28 milioni di dollari all’ospedale Ichilov per la fondazione del pronto soccorso, intitolato in suo onore. Il Presidente Herzog, dopo aver ringraziato Adams per il suo generoso sostegno, lo ha definito “un vero ambasciatore della società israeliana”.
  “Sono felice di fornire ai cittadini dello Stato di Israele il più grande e moderno pronto soccorso qui all’ospedale Ichilov - ha affermato Adams - La tecnologia innovativa, l’attenzione primaria nei riguardi del paziente e l’alto livello delle infrastrutture creano un servizio e un trattamento avanzato a beneficio dello Stato ebraico”.
  All'ingresso i pazienti, se sono in grado, possono eseguire direttamente l’autotriage grazie a una innovativa tecnologia: sistemi automatizzati scansionano i loro documenti d’identità o il certificato medico, controllano la loro temperatura e la pressione sanguigna, prima di essere assegnati a un dottore per la cura. In ogni fase, risultati anomali o critici vengono inviati immediatamente al personale medico. Previsti anche reparti specializzati per pazienti con disturbi psichiatrici e una sezione dedicata alle vittime di aggressione sessuale.
  Robot mobili accolgono e accompagnano le persone nei vari reparti dell’ospedale. Le tecnologie sono progettate per semplificare la valutazione del paziente nel triage, ridurre i tempi di attesa e portare a cure mediche più efficienti ed efficaci.
  La struttura è dislocata su tre piani: al piano terra si trova un reparto di degenza con 100 posti letto, più di qualsiasi altro pronto soccorso israeliano. In caso d’emergenza il numero può essere raddoppiato.
  Un’ala ambulatoriale, al primo piano, comprende 30 sale per esami e trattamenti con consulenti professionisti di cardiologia, neurologia e dermatologia.
  All’ultimo piano, reparti di ricovero a breve e a lungo termine mentre una grande sala d’attesa è predisposta in cima all’edificio.
  “Questo pronto soccorso – ha affermato il ministro Lapid - coniuga il meglio che lo Stato di Israele è in grado di offrire: il nostro incredibile capitale umano, che produce i migliori medici, infermieri ed équipe mediche del mondo e la tecnologia di una nazione high-tech che fornisce gli strumenti più avanzati allo scopo di lottare per la salute”.

(Shalom, 31 luglio 2022)

........................................................


Israele, nuovo trattamento per il long COVID sviluppato all’Università di Tel Aviv

Un trattamento efficace con ossigeno ad alta pressione è ora disponibile per milioni di persone che soffrono di sintomi di long COVID. I pazienti con sintomi long COVID sono esposti a terapia iperbarica (ossigeno ad alta pressione) (HBOT) intensiva mostrano un miglioramento significativo delle funzioni cognitive, neurologiche e psichiatriche.

A seguito di un nuovo studio rivoluzionario presso l’Università di Tel Aviv (TAU), i trattamenti sono stati accompagnati da imaging a risonanza magnetica (MRI) avanzata del cervello dei pazienti, identificando i danni del virus COVID19 e collegando le immagini con i risultati clinici prima e dopo Trattamento HBOT. Primo nel suo genere al mondo, lo studio ha introdotto un trattamento promettente per i sintomi di long COVID basato sull’HBOT avanzato. Il long COVID, che colpisce fino a un terzo dei pazienti che sono stati infettati dal virus COVID19 per settimane o mesi dopo la guarigione, è caratterizzato da una serie di sintomi cognitivi debilitanti come incapacità di concentrazione, nebbia cerebrale, dimenticanza e difficoltà a ricordare parole o pensieri. Questi sintomi continuano per più di tre mesi e talvolta fino a due anni.Finora non è stata suggerita alcuna terapia efficace, lasciando milioni di malati in tutto il mondo senza soluzione. I ricercatori hanno affermato che lo studio “è il primo studio randomizzato e controllato a dimostrare una vera soluzione per il long COVID. I pazienti esposti a un protocollo intensivo di trattamenti HBOT hanno mostrato un miglioramento significativo rispetto al gruppo di controllo. Per milioni di persone che soffrono di sintomi di long COVID, lo studio offre una nuova speranza di guarigione”.
  Lo studio, appena pubblicato sulla prestigiosa rivista Scientific Reports con il titolo “L’ossigenoterapia iperbarica migliora le funzioni neurocognitive e i sintomi della condizione post-COVID: studio controllato randomizzato”, è stato condotto dall’Università di Tel Aviv e dallo Shamir Medical Center (Assaf Harofeh). È stato guidato dal Prof. Shai Efrati, capo del Sagol Center e membro della facoltà della Sackler School of Medicine e Sagol School of Neuroscience della TAU, e dal Dr. Shani Itskovich Zilberman del Sagol Center for Hyperbaric Medicine e della Sackler School of Medicine della TAU . Altri contributori principali sono stati il dottor Merav Catalogna, capo scienziato dei dati dello Shamir Medical Center, e il dottor Amir Hadanny del Sagol Center e della Sackler School of Medicine della TAU.“Oggi capiamo che in alcuni pazienti il virus COVID19 penetra nel cervello attraverso la placca cribriforme, la parte del cranio situata appena sopra il nostro naso, e provoca lesioni cerebrali croniche, principalmente nelle regioni cerebrali del lobo frontale e responsabili per la funzione cognitiva, lo stato mentale e l’interpretazione del dolore”, ha spiegato Efrati. “Di conseguenza, i pazienti affetti sperimentano un declino cognitivo a lungo termine, con sintomi come nebbia cerebrale, perdita di concentrazione e affaticamento mentale. Inoltre, poiché il lobo frontale è danneggiato, i pazienti possono soffrire di disturbi dell’umore, depressione e ansia”.
  Questi sintomi clinici, identificati in pazienti di tutto il mondo, sono stati corroborati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) in una definizione ufficiale del cosiddetto ” long COVID ” emessa nell’ottobre 2021, includendo la disfunzione cognitiva come uno dei sintomi comuni. Un recente studio delle Università di Cambridge ed Exeter ha riportato che il 78% dei pazienti con long COVID aveva difficoltà di concentrazione; Il 69% ha riportato la “nebbia del cervello”; e il 68% si è lamentato di dimenticanza. Pertanto, gli effetti a lungo termine del COVID19 possono essere molto dannosi per la qualità della vita del malato e non è stato ancora trovato alcun trattamento efficace. Nel nuovo studio condotto dalla TAU, hanno utilizzato l’HBOT, che si è già dimostrato efficace nel trattamento di altre forme di danno cerebrale tra cui ictus, traumi, declino cognitivo correlato all’età e PTSD resistente al trattamento, per lo sforzo globale di trovare una soluzione per il long COVID.Lo studio, concepito come uno studio clinico prospettico, randomizzato, in doppio cieco e controllato con placebo, ha incluso 73 pazienti con sintomi cognitivi post COVID19 segnalati come incapacità di concentrazione, confusione mentale, dimenticanza e difficoltà a ricordare parole o pensieri, persistenza per più di tre mesi dopo un test RT-PCR che conferma l’infezione da COVID19. I partecipanti sono stati divisi in due gruppi: 37 pazienti hanno ricevuto un trattamento HBOT, mentre 36 pazienti sono stati sottoposti a un gruppo controllato con placebo. Sia i pazienti che i ricercatori non erano a conoscenza del protocollo di trattamento designato. Il protocollo unico consisteva in 40 sessioni HBOT, cinque sessioni a settimana in un periodo di due mesi, in cui i pazienti entravano in una camera HBOT multiposto e respiravano ossigeno al 100% mediante maschera a due atmosfere assolute (ATA) per 90 minuti con ossigeno fluttuazioni. Il gruppo di controllo ha ricevuto un trattamento con placebo, respirando aria normale.Inoltre, tutti i partecipanti sono stati sottoposti a un test cognitivo computerizzato e a un imaging cerebrale avanzato ad alta risoluzione in due momenti: quando entrare nel processo e dopo il suo completamento.

• RISULTATI INCORAGGIANTI PER IL LONG COVID
  I risultati sono stati molto incoraggianti. I pazienti trattati con HBOT hanno mostrato un miglioramento significativo, mentre nel gruppo di controllo i sintomi long COVID sono rimasti sostanzialmente invariati. Nei pazienti trattati con HBOT, i maggiori miglioramenti sono stati mostrati nella funzione cognitiva globale, nell’attenzione e nelle funzioni esecutive (la capacità di pianificare, organizzare, avviare, auto-monitorare e controllare le proprie risposte al fine di raggiungere un obiettivo). Altri vantaggi riguardano una migliore velocità di elaborazione delle informazioni, un miglioramento dei sintomi psichiatrici, una maggiore energia mentale, una migliore qualità del sonno e meno dolore corporeo. Tutti i risultati clinici sono stati correlati con le immagini del cervello dei partecipanti, indicando un cambiamento significativo nelle parti del cervello correlate a ciascuna funzione, che erano state visibilmente danneggiate dal virus COVID19.Itskovich Zilberman ha affermato che “sappiamo che l’HBOT ripara i danni cerebrali attraverso un processo di rigenerazione, generando nuovi neuroni e vasi sanguigni. Riteniamo che gli effetti benefici del protocollo di trattamento unico in questo studio possano essere attribuiti a una rinnovata neuroplasticità e a una maggiore perfusione cerebrale nelle regioni associate a ruoli cognitivi ed emotivi”.
  “Per la prima volta, il nostro studio propone un trattamento efficace per la lunga sindrome debilitante del COVID, riparando le lesioni cerebrali con un protocollo intensivo di HBOT”, ha concluso Efrati. “Inoltre, lo studio rivela il danno biologico molto reale ai tessuti cerebrali indotto dal virus COVID19 e come riparare questo danno riduca i sintomi e possa eventualmente portare alla guarigione. Da una prospettiva più ampia, questi risultati possono anche suggerire che altre sindromi neurologiche e psichiatriche potrebbero essere innescate da agenti biologici come i virus, aprendo nuove possibilità per trattamenti futuri”.

(com.unica, 30 luglio 2022)

........................................................


Le Beatitudini di Gesù (9)

di Marcello Cicchese

BEATI I PERSEGUITATI PER CAGION DI GIUSTIZIA
    "Beati i perseguitati per cagion di giustizia, perché di loro è il regno dei cieli" (Matteo 5:10).

La serie delle beatitudini si conclude con un crudo richiamo alla possibilità della persecuzione. A questo punto Gesù lascia i toni generali e si rivolge direttamente ai discepoli: "Beati voi, quando vi oltraggeranno e vi perseguiteranno e, mentendo, diranno contro di voi ogni sorta di male per causa mia" (5:11). I "perseguitati per cagion di giustizia" saranno i discepoli. E lo saranno non per nobili ideali, ma "per causa mia".
  E' un finale che forse disturba un po' noi discepoli, sia perché l'accenno all'opposizione violenta può suonare leggermente stonato dopo le precedenti beatitudini che sembrano evocare un quadro di pace e dolcezza, sia perché facciamo sempre un po' di fatica ad accettare l'idea che "dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni" (Atti 14.22). In fondo qualcuno si potrebbe chiedere: ma perché chi vuole vivere secondo i principi d'amore, di pace e di giustizia predicati da Cristo deve sempre aspettarsi difficoltà e persecuzioni? Non è possibile far crescere in questo mondo il seme del vangelo con gradualità e senso della misura, evitando quelle incomprensioni e reazioni violente che provocano tante sofferenze e spesso danneggiano la giusta causa per cui si lavora?
  Forse anche molti ascoltatori di Gesù si aspettavano un Messia che avrebbe finalmente portato un po' di pace, di giustizia, di prosperità al popolo d'Israele e a tutto il mondo, e che avrebbe messo fine ai soprusi, alle violenze, alle angherie di cui soprattutto i più deboli e i più pii erano vittime. Non aveva forse detto il profeta:

    "In quei giorni e in quel tempo, io farò germogliare a Davide un germe di giustizia, ed esso farà ragione e giustizia nel paese. In quei giorni, Giuda sarà salvato, Gerusalemme abiterà al sicuro, e questo è il nome con cui sarà chiamato: 'l'Eterno, nostra giustizia"' (Geremia 34:15 )?

Gesù invece non soltanto non dichiara apertamente che avrebbe posto fine alle ingiustizie dei prepotenti, ma addirittura prepara i suoi seguaci a subire nuove ingiustizie, e proprio per cagione sua. Non è certo un programma che possa far esaltare le folle. Nessuna persona onesta e ragionevole può rallegrarsi al pensiero che i malvagi possano continuare a spadroneggiare, e che proprio i più onesti debbano continuare a subire le loro soperchierie. Quando si parla di lotta all'ingiustizia, s'intende proprio lo sforzo che si fa o si deve fare per ridurre le sopraffazioni dei prepotenti.
  Non c'è dunque da meravigliarsi se i discepoli credettero di vedere in Gesù lo strumento di cui Dio si sarebbe servito per raddrizzare tutto quello che era storto. Giacomo e Giovanni, sempre zelanti e in prima fila, avrebbero voluto cominciare subito, e a Gesù che si avviava a morire in croce a Gerusalemme chiesero il permesso di far scendere del fuoco dal cielo per consumare gli eretici samaritani colpevoli di aver vietato il transito alla comitiva del Messia che - secondo le aspettative dei discepoli - andava ad insediarsi sul trono a Gerusalemme (Luca 9:51-56). Eppure Gesù aveva detto loro chiaramente che “il Figlio dell’uomo sta per essere dato nelle mani degli uomini” (Luca 9:44), ma “essi non capivano quelle parole che erano per loro coperte da un velo, in modo che non lo intendevano” (Luca 9:45).
  Del resto, come avrebbero potuto? Non rientrava nei loro schemi mentali che un Dio giusto e potente potesse permettere una così enorme ingiustizia. Non sta forse scritto che “Egli non permetterà che il giusto sia smosso" (Salmo 55:22)?
  Quando per la prima volta Gesù comincio a parlare della sua uccisione, l’apostolo Pietro, il più deciso di tutti, "trattolo da parte, cominciò a rimproverarlo dicendo: Dio te ne scampi, Signore; questo non ti avverrà mai" (Matteo 16:22).
  Totale fu dunque lo sconcerto che ebbero i discepoli nel vivere i fatti che portarono dall’arresto di Gesù alla sua uccisione sulla croce.

    "Si è confidato in Dio; lo liberi ora, se lo gradisce" (Matteo 27:43).

Queste parole di scherno dei sacerdoti e degli scribi ai piedi della croce devono aver avuto un effetto lacerante sugli animi di coloro che avevano messo la loro fiducia in Gesù come Messia. Com'è possibile che Dio non gradisca Gesù? che lo abbandoni nelle mani dei suoi nemici?
  Forse i dubbi dei discepoli sono anche i nostri dubbi. Se neppure un uomo giusto e buono come Gesù ha trovato aiuto e protezione da Dio, sarà dunque vero che la terra è destinata a rimanere nelle mani dei prepotenti, e che ogni speranza di giustizia è destinata a rivelarsi come pura e semplice illusione?
  Se siamo persone sensibili alla giustizia, disposte a lavorare affinché si instaurino tra gli uomini rapporti più giusti, siamo naturalmente portati a considerare come sconfitte tutte le situazioni in cui la menzogna e gli interessi illegittimi hanno il sopravvento. Forse siamo persone tenaci e non ci lasciamo abbattere, ma in fondo quello che ci aspettiamo è soprattutto una rivincita, un'occasione in cui la causa della giustizia possa finalmente trionfare in modo pubblico e manifesto.
  Gesù però non esorta a tenere duro nei momenti difficili aspettando con fiducia tempi migliori: Gesù invita quelli che per cagion di giustizia soffrono oltraggi e persecuzioni a rallegrarsi e considerarsi beati. E anzi aggiunge:

    "Guai a voi quando tutti gli uomini diranno bene di voi" (Luca 6.26).

E’ forse insana bramosia di persecuzione? Naturalmente quello che nella persecuzione deve spingere i discepoli a rallegrarsi non è la sofferenza, ma il fatto di essere partecipi dell'azione di Dio nel mondo. La pazzia della croce sta nel fatto che Dio ha scelto di porre fine alle ingiustizie del mondo accettando di subire in Gesù la più grande ingiustizia che gli uomini potessero mai perpetrare. Le parole di Gesù sulla croce:

    "Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno" (Luca 23.34)

costituiscono il giudizio più netto che sia mai stato pronunciato sulla malvagità e l'ingiustizia degli uomini; ma nello stesso tempo costituiscono l'inizio di una nuova giustizia, fondata in modo così radicale sull'amore di Dio per gli uomini che per sua natura deve essere priva di quei mezzi di difesa più o meno violenti che gli uomini considerano indispensabili.

    "Egli che non commise peccato, e nella cui bocca non fu trovata alcuna frode; che oltraggiato, non rendeva gli oltraggi; che, soffrendo non minacciava ma si rimetteva nelle mani di Colui che giudica giustamente" (1 Pietro 2.23).

Oggi si parla molto di giustizia, e non si può dire che non ci sia chi sinceramente si dia da fare per migliorare le cose; né si può negare che in molti settori della vita sociale si siano fatti innegabili progressi. Si può dire però che nel complesso il mondo si presenta come un sistema chiuso: i progressi verso migliori forme di giustizia in certi settori e in certi momenti finiscono quasi sempre per essere bilanciati da nuove forme di ingiustizia che nascono in altri settori e in altri momenti. La soluzione radicale al problema dell'ingiustizia nel mondo può venire soltanto dall'esterno, ed essa è venuta da parte di Dio per mezzo di Gesù Cristo. Egli ha introdotto sulla terra un regno che "non è di questo mondo", ma aspetta di essere pienamente compiuto nei tempi stabiliti da Dio. Questo regno è presente già oggi sulla terra, ma può essere riconosciuto ed in esso si può entrare soltanto accogliendo con piena fiducia la persona e la parola di Gesù.
  Se il regno di Dio non è "di questo mondo", è chiaro che anche i suoi annunciatori e testimoni devono avere canoni di comportamento che "non sono di questo mondo". Gesù infatti dice ai suoi discepoli:

    "Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi" (Matteo 10.16).

E nessuno, in questo mondo, si comporta così. Mandare le pecore in mezzo ai lupi è come invitare questi ultimi a dare sfogo alla loro aggressività. Chi lavora per la giustizia - si pensa - dovrà costruire robusti steccati per dividere le pecore dai lupi, oppure munirà le pecore di artigli e denti aguzzi in modo da dissuadere i lupi dal passare all'attacco.
  Gesù invece prevede chiaramente che i suoi discepoli saranno processati e flagellati, e non considera questo come una vittoria dell'ingiustizia, ma anzi come un'occasione di testimonianza (Matteo 10:18). La persecuzione che i discepoli dovranno conoscere non è un incidente, una dolorosa battuta d'arresto nell’avanzamento verso la giustizia: essa è parte integrante del programma; in essa, o meglio, nella giusta sopportazione della persecuzione, deve risplendere la luce della nuova giustizia portata nel mondo da Gesù Cristo.

    "Se il mondo vi odia, sapete bene che prima di voi ha odiato me” (Giovanni 15.18);
    "Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi" (Giovanni 15:20) ;
    "Diletti, non vi stupite della fornace accesa in mezzo a voi per provarvi, come se vi avvenisse qualcosa di strano. Anzi, in quanto partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevene, affinché anche alla rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi giubilando" (1 Pietro 4:12-13).

Per i discepoli di Cristo la persecuzione per il nome di Gesù è un privilegio, ma anche una prova, che può trasformarsi in tentazione. In effetti può essere più difficile "soffrire facendo il bene, anziché facendo il male" (I Pietro 3.17). La fede nella giustizia e nell'amore di Dio viene messa duramente alla prova quando una condotta tesa a fare il bene ha come risultato sofferenze e delusioni. La tentazione di uscire dalla situazione semplicemente cessando di fare il bene e adeguandosi ai sistemi normalmente in uso è certamente molto grande. Ma sono proprio questi i momenti in cui Dio ci chiama a seguire le orme di Cristo:

    "Poiché anche Cristo ha sofferto una volta per i peccati, egli giusto per gli ingiusti, per condurci a Dio" (1 Pietro 3:19);
    "Beato l'uomo che sostiene la prova; perché essendosi reso approvato, riceverà la corona della vita" (Giacomo 1.12).

Si deve dire però che le sofferenze patite come cristiano non devono mai essere cercate: non sarebbero più le sofferenze di Cristo, ma sarebbero le "nostre" sofferenze. Sapendo come la persecuzione può diventare una tentazione, il discepolo di Cristo deve sempre chiedere al Padre: non esporci alla tentazione. E quando il momento della prova arriva, il discepolo non deve temere i suoi persecutori, ma colui che attenta alla sua fede in Dio:

    "E non temete coloro che uccidono il corpo, ma non possono uccidere l'anima; temete piuttosto colui che può far perire e l'anima e il corpo nella geenna" (Matteo 10:28);
    "Simone, Simone, ecco, Satana ha chiesto di vagliarvi come si vaglia il grano; ma io ho pregato per te affinché la tua fede non venga meno" (Luca 22.31-32).

Sopportare la persecuzione come seguaci di Cristo, "non rendendo male per male, od oltraggio per oltraggio, ma al contrario, benedicendo" (1 Pietro 3.9), amando i propri nemici e pregando per quelli che ci perseguitano (Matteo 5.44), non è dunque una sconfitta della giustizia o una tolleranza dell'ingiustizia, ma una vittoria del bene sul male (Romani 12.21). Dio ci chiama a partecipare personalmente a questa vittoria.
  Venendo a noi e ai nostri giorni, c'è da chiedersi come mai la predicazione del vangelo nel mondo occidentale provoca oggi un'opposizione così scarsa. Alcuni diranno che l'Occidente è ormai "cristianizzato"; altri sosterranno invece che ciò dipende dagli ordinamenti democratici dei nostri paesi. Ma si può davvero sostenere che i paesi occidentali sono più degli altri vicini al vangelo? oppure che il messaggio di Cristo è più facilmente trasmissibile e attuabile all'interno di strutture democratiche piuttosto che in regimi totalitari? A parte il fatto che ciò non è confermato dall'esperienza della chiesa dei primi secoli, crediamo davvero che il messaggio di Cristo abbia bisogno dei binari preparati dalle nostre democrazie per viaggiare più spedito?
  Le persecuzioni contro i cristiani si verificano quando i poteri costituiti avvertono che il vangelo ha delle implicazioni sociali e politiche che vengono giudicate pericolose. La mancanza di persecuzioni non potrebbe allora dipendere dal fatto che il messaggio che portiamo viene sentito come del tutto privo di ogni implicazione sociale e politica? La libertà di professare la fede non è forse la libertà che viene concessa a tutte le idee personali? La libertà di predicazione del vangelo non viene forse fatta rientrare fra le libertà di propaganda ideologica e commerciale che tutte le costituzioni democratiche liberali concedono? Ma la fede in Cristo è forse una delle tante idee personali che si possono avere? La predicazione del vangelo è forse uno dei tanti tentativi di conquistare uomini alle proprie idee per farli entrare nei ranghi del proprio gruppo? E il messaggio di Cristo è davvero privo di implicazioni sociali e politiche?
  Sono domande che dobbiamo porci. Certamente non dobbiamo avere nessuna nostalgia della persecuzione, ma dobbiamo vegliare affinché "il sale non diventi insipido".

    "E d'altronde tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati" (2 Timoteo 3.12).
(da "Credere e Comprendere", marzo 1982)


........................................................


"All’arco di Tito. Un ambasciatore d'Israele nel Belpaese"

Il primo libro in italiano di Dror Eydar

“Vedere questo libro oggi vuol dire realizzare di aver lasciato le mie tracce qui, in Italia”. È questo il modo in cui l’ambasciatore uscente dello Stato di Israele, Dror Eydar, presenta il suo libro All’arco di Tito. Un ambasciatore d'Israele nel Belpaese durante un incontro organizzato nella sua residenza. “Questo libro", dice Eydar "è un grande dono per me, il mio primo in italiano”, e raccoglie riflessioni ed eventi che hanno segnato i suoi tre anni di mandato di ambasciatore in Italia. 
  All’evento, moderato dalla giornalista Annalisa Chirico, sono intervenuti anche il segretario della Lega, Matteo Salvini, Lucio Malan di Fratelli d’Italia, Gennaro Migliore di Italia Viva, la presidente della comunità ebraica di Roma Ruth Dureghello, il rabbino capo rav Riccardo Di Segni, l'ex vicepresidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane David Meghnagi e l’editore Guido Guastalla.
  Nel libo l’ambasciatore racconta il viaggio nel nostro Paese, la sua esperienza diplomatica e i mesi del lockdown. Un periodo in cui racconta di aver cercato di dar voce non solo a Israele e alle relazioni con l’Italia, ma anche alla civiltà ebraica. Su queste pagine raccoglie le sue riflessioni sul valore della Memoria della Shoah e della necessità di un impegno contro l’antisemitismo, le descrizioni dei precetti della tradizione ebraica e le analisi sui riferimenti biblici legati all’Italia. 
  Come quelli nella Divina Commedia di Dante Alighieri che Eydar ha studiato tra i banchi di scuola. “Alighieri, Petrarca, Boccaccio sono stati alla base della mia cultura in Israele, senza neanche sapere che un giorno avrei fatto l’ambasciatore qui”, ricorda. L’importanza della parola come strumento della diplomazia e dello sviluppo della vita democratica lega i diversi capitoli del libro.
  “Non pensavo che avrei mai parlato italiano. Spero che i miei lettori porteranno con sé qualcosa delle mie parole, anche grazie a contenuti non abitudinari per un diplomatico”, conclude l’ambasciatore che promette di tornare in Italia da turista per scrivere il suo romanzo. 

(la Repubblica, 30 luglio 2022)

........................................................


“Offensivo, non parteciperemo alla cerimonia del 50°”

I parenti delle vittime di Monaco ’72 criticano il rimborso della Germania.

Le vittime israeliane dell’attacco terroristico alle Olimpiadi di Monaco del 1972
Un risarcimento “offensivo”: così le famiglie degli atleti israeliani trucidati alle Olimpiadi di Monaco del 1972 hanno definito l’ulteriore rimborso proposto dal governo tedesco mercoledì 27 luglio. Lo riporta l’AP.
  I parenti degli atleti hanno a lungo criticato il modo in cui le autorità tedesche hanno gestito l’attacco e le sue conseguenze. Le richieste di ulteriore risarcimento hanno minacciato di oscurare l’evento commemorativo pianificato per il 50° anniversario del massacro.
  “Era prevista un’offerta di ulteriori riconoscimenti ai parenti sopravvissuti delle vittime dell’attacco”, ha detto il ministero all’agenzia di stampa tedesca Idpa, aggiungendo che “la cerimonia commemorativa del 50° anniversario dovrebbe essere l’occasione per una chiara classificazione politica del eventi del 1972”.
  Il governo tedesco non ha rivelato pubblicamente quanti soldi ha offerto, ma, stando a quanto riportato dal quotidiano RedaktionsNetzwerk Deutschland, la Germania aveva offerto alle famiglie 10 milioni di euro, che includerebbero i pagamenti già effettuati in passato.
  “L’offerta è degradante e manteniamo la nostra posizione di boicottaggio della cerimonia (dell’anniversario)”, ha detto Ilana Romano, la vedova di Yossef Romano, un sollevatore di pesi fra i primi israeliani uccisi, all’emittente pubblica Kan, aggiungendo che la Germania “ci ha gettato ai cani. Ci hanno maltrattato per 50 anni.  “Hanno deciso di assumersi la responsabilità – molto bello dopo 50 anni”, ha detto Romano, chiedendo un adeguato risarcimento per le famiglie, “non centesimi”.
  Anche Ankie Spitzer, vedova di Andre Spitzer, allenatore di scherma della squadra olimpica israeliana, ucciso nell’attacco, ha rifiutato la somma offerta dalla Germania. “La somma che ci è stata offerta è offensiva”, ha detto al  RedaktionsNetzwerk Deutschland. “Siamo arrabbiati e delusi”. “Non abbiamo mai voluto parlare pubblicamente di denaro”, ha detto Spitzer, “ma ora siamo costretti a farlo”.
  Se l’offerta attuale rimarrà invariata, i parenti non verranno a Monaco per la commemorazione del 50° anniversario dell’attacco all’inizio di settembre, ha detto Spitzer.

• L’attentato alle Olimpiadi di Settembre Nero
  I membri del gruppo palestinese Settembre Nero fecero irruzione nel Villaggio Olimpico e presero in ostaggio gli atleti della squadra nazionale israeliana il 5 settembre 1972, con l’obiettivo di forzare il rilascio dei prigionieri detenuti da Israele e di due estremisti di sinistra nelle carceri della Germania occidentale.
  Undici israeliani e un agente di polizia della Germania occidentale rimasero uccisi durante l’attacco, anche durante un fallito tentativo di salvataggio.
  Immediatamente dopo l’attacco, la Germania ha effettuato pagamenti ai parenti delle vittime per circa 4,19 milioni di marchi (circa 2 milioni di euro o 2,09 milioni di dollari), secondo il ministero dell’Interno. Nel 2002, i parenti sopravvissuti hanno ricevuto altri 3 milioni di euro. Una richiesta di risarcimento per un importo di circa 40 milioni di marchi citava gravi errori nell’operazione di polizia, ma è stata respinta a causa della prescrizione.

(Bet Magazine Mosaico, 29 luglio 2022)

........................................................


Cavallerizza austriaca rappresenterà Israele alle olimpiadi di Parigi

di Jacqueline Sermoneta

Nicola Louise Ahorner
Ha fatto l’aliyah proprio questa settimana la ventiduenne austriaca Nicola Louise Ahorner, che gareggerà per lo Stato ebraico nei tornei di equitazione ai Giochi Olimpici di Parigi 2024. “Essere ebrea e rappresentare Israele è un onore per me. Me lo sento proprio nel cuore” ha detto in un’intervista a Israel Hayom.
  Nella sua carriera, la giovane amazzone ha già conquistato 38 vittorie nelle 215 competizioni a cui ha partecipato. Ahorner racconta di amare Israele e di aver visitato il Paese molte volte in passato, per incontrare la famiglia e gli amici che vi risiedono.
  Tuttavia, la maggior parte della sua formazione l’ha conseguita in Austria. “Voglio ringraziare la Federazione austriaca – ha affermato Ahorner – per il sostegno che mi ha dato in questi ultimi dieci anni. Sono orgogliosa di aver rappresentato un Paese che amo”.
  “Ringrazio anche la Federazione israeliana che ha permesso una transizione così agevole – ha aggiunto – Non vedo l’ora di iniziare questo straordinario nuovo capitolo e lavorare per arrivare agli obiettivi condivisi. Mi impegnerò più che mai ad essere un’ottima cavallerizza, continuando ad imparare tutto ciò che posso e a dare il massimo sotto questa nuova bandiera”.

(Shalom, 29 luglio 2022)

........................................................


Si infiamma la lotta per la successione ad Abu Mazen

Diversi esponenti di Fatah e dell'Anp non hanno accettato la nomina di Hussein Sheikh a segretario generale dell'Olp, di fatto il numero due palestinese. Sullo sfondo c'è la popolazione lontana dalle lotte di potere.

di Michele Giorgio

Hussein Sheikh
Insegnante 67enne in pensione e militante di Fatah sin dalla sua fondazione, Saleh è uno dei tanti, troppi, sostenitori delusi e frustrati di quello che era il più importante movimento palestinese. «Le cose vanno sempre peggio e parlarne in pubblico può costarti molto caro» ci dice parlando di quanto accade in Fatah, chiedendoci di non rivelare il suo cognome. «Abu Mazen ormai non controlla più nulla, è troppo vecchio e la lotta per la presidenza e le altre poltrone che contano già infuria mentre i nostri ragazzi vengono uccisi ogni giorno dall’occupazione militare e i coloni israeliani sono sempre più aggressivi», prosegue Saleh riferendosi ad Amjad Abu Alia, il palestinese 16enne ucciso ieri dall’esercito israeliano nel villaggio di Al Mughayer, a qualche chilometro da Ramallah. Qualche ora prima altri tre palestinesi erano stati feriti dal fuoco dei soldati nei pressi di Huwara dopo, secondo il portavoce militare, aver sparato contro una postazione dell’esercito. «Fatah dovrebbe guidare il nostro popolo e liberarlo dall’occupazione ma come tanti ho perduto ogni speranza, con questi leader (Fatah) non potrà mai riprendersi. A causa loro (il movimento islamico) Hamas si rafforza, anche in Cisgiordania», conclude l’ex insegnante che non manca di prevedere «tempi persino più brutti» per i palestinesi.
  A Ramallah, fuori e dentro la Muqata, il quartier generale di Abu Mazen, non si parla altro che dei preparativi di «alcuni» in vista dell’uscita di scena dell’87enne presidente palestinese. Qualcuno starebbe addirittura mettendo da parte armi e munizioni per i giorni in cui più di ogni altra cosa conterà la forza per conquistare i vertici di Fatah e dell’Anp. Abu Mazen ne sarebbe consapevole ma non può intervenire. D’altronde è stato proprio lui ad accendere la miccia dello scontro interno imponendo a Fatah la nomina, avvenuta al recente (contestatissimo) Comitato centrale dell’Olp, di Hussein Sheikh, 61 anni, alla carica di segretario generale dell’organizzazione che, almeno formalmente, rappresenta tutti i partiti palestinesi (tranne Hamas e Jihad). Noto per i suoi buoni rapporti con Israele, stabiliti grazie ai suoi incarichi ministeriali, e con gli Stati uniti, Sheikh di fatto è il successore non designato di Abu Mazen. Una scelta che va bene a Tel Aviv e Washington ma che non è stata digerita da due esponenti di primo piano di Fatah – Jibril Rajoub e Tawfiq Tirawi – che, nonostante l’età avanzata, non nascondono le loro ambizioni. Soprattutto non sembrano preoccupati dal fatto che dalla parte di Hussein Sheikh ci sia Majd Faraj, il potente capo dell’intelligence dell’Anp che vanta ugualmente ottime relazioni con i servizi israeliani e la Cia. Anche altri esponenti dell’Anp e di Fatah si preparano al cambio al vertice provando a tessere alleanze e accordi. Mentre il reietto della politica palestinese, Mohammed Dahlan, ex capo dei servizi di sicurezza ed esponente di primo piano di Fatah – da tempo presidente negli Emirati (suoi sponsor) – sogna di rientrare da protagonista assoluto nei giochi politici palestinesi.
  Movimenti dietro le quinte che non interessano in alcun modo alla popolazione dei Territori occupati, cosciente della inutilità e dannosità di questa lotta per il «potere», perché chi decide la vita dei palestinesi è sempre l’occupazione militare israeliana. A farsi interprete, almeno in parte, dei sentimenti della società palestinese è stato un gruppo di 65 personalità – tra le quali Hanan Ashrawi e Hani al Masri – guidato da Nasser al Kidwa, nipote di Yasser Arafat ed ex ministro degli esteri dell’Anp e inviato alle Nazioni Unite. Martedì Al Kidwa ha annunciato la National Rescue Initiative per importanti riforme nel sistema politico palestinese. Al Kidwa l’anno scorso è stato espulso da Fatah dopo aver formato una propria lista per le elezioni legislative che avrebbero dovuto svolgersi nel maggio 2021 ma furono annullate da Abu Mazen assieme alle presidenziali previste a luglio. «I palestinesi – scrive il gruppo – stanno vivendo uno stato di declino senza precedenti dalla Nakba (catastrofe, nel 1948). Occorre affermare subito che il popolo palestinese è il popolo indigeno che possiede il diritto naturale e storico allo Stato».
  «Questa come le iniziative di altri esponenti palestinesi non raggiungeranno alcun risultato» commenta sconsolato Saleh. «Le riforme – aggiunge – non sono possibili, chiunque sarà al potere non accetterà cambiamenti. L’unica soluzione sono le elezioni, democratiche e trasparenti, ma Abu Mazen non le convocherà più perché sa che le perderebbe a vantaggio di Hamas».

(il manifesto, 30 luglio 2022)
____________________

Tutto il mondo è paese.

........................................................


Tottenham-Roma, i giallorossi in visita a Gerusalemme

Gli uomini di Mourinho, in Israele per la partita di domani contro gli Spurs di Antonio Conte, si sono recati presso il Muro del Pianto

Video
Il ministro del Turismo Yoel Razvozov ha accolto ieri 29 luglio i giocatori e gli allenatori della squadra di calcio Roma, e decine di tifosi che li scortavano, durante la visita al Muro Occidentale di Gerusalemme. 
  La squadra, che è in Israele per giocare in data odierna  contro la squadra inglese del Tottenham Hotspur  una partita amichevole presso lo stadio della città di Haifa, con fischio iniziale alle 20.15, ha visitato il Muro Occidentale e i siti archeologici della Città Vecchia, come ospiti del Ministero del Turismo di Israele.
  Il ministro del Turismo Yoel Razvozov, che ha invitato la squadra e il loro allenatore Jose Mourinho e tutto il team a tornare in Israele per una visita più lunga, ha dichiarato:
«Decine di milioni di tifosi e seguaci delle stelle della Roma di tutto il mondo potranno condividere, attraverso i social media, questa visita speciale, avendo così la possibilità di conoscere la bellezza e l’unicità della nostra Israele. Ci auguriamo che le amichevoli in Israele diventino una tradizione e che molte altre squadre di calcio vengano a giocare nel nostro bellissimo Paese».
Un bellissimo fuori programma ha poi portato molti atleti a visitare anche il Santo Sepolcro, offrendo loro una grandissima emozione.

(Italiavola & Travel, 30 luglio 2022)
........................................................


Israele dovrebbe essere cauto con la Russia, dicono gli esperti

"La Russia vuol dire a Israele: 'Se fai una mossa sbagliata, possiamo farti del male. Abbiamo un mezzo di pressione.'”

di David Isaac

Amos Gilad
Le tensioni tra Russia e Israele sono aumentate negli ultimi giorni perché Mosca sembra voler forzare lo "scioglimento" dell'Agenzia ebraica per Israele nel Paese. Una delegazione israeliana che intende recarsi a Mosca per risolvere la questione è in attesa di visto russo, mentre il primo ministro israeliano Yair Lapid ha incaricato il suo governo di preparare una serie di contromisure se la Russia metterà in atto la sua minaccia.
  "La comunità ebraica in Russia è strettamente legata a Israele", ha affermato Lapid il 21 luglio in un incontro con funzionari del ministero degli Esteri e del Consiglio di sicurezza nazionale israeliani. "Continueremo ad intervenire attraverso i canali diplomatici affinché la funzione vitale dell'Agenzia Ebraica non venga interrotta".
  Secondo un rapporto dell'agenzia di stampa russa Interfax, il tribunale distrettuale Basmanny di Mosca ha ricevuto dal ministero della Giustizia russo una richiesta di chiusura dell'Agenzia ebraica. Il tribunale avrebbe dovuto esaminare il caso il 28 luglio.
  Sebbene Interfax non abbia fornito una spiegazione per la mossa, l'Associated Press ha riferito che il Dipartimento di Giustizia ha accusato l'agenzia di aver violato le leggi sulla privacy raccogliendo informazioni personali di persone interessate a immigrare in Israele.
  Il General Maggiore in pensione Amos Gilad, ex capo dell'Ufficio politico militare del ministero della Difesa israeliano, ha detto al JNS [Jewish News Sindacate] che Gerusalemme dovrebbe evitare il linguaggio duro contro la Russia che potrebbe peggiorare la situazione. Gilad, ad esempio, ha definito "inutile" l'avvertimento di Lapid di domenica secondo cui la chiusura dell'Agenzia ebraica in Russia "potrebbe avere un grave impatto" sulle relazioni bilaterali con Mosca.
  "Sono sempre contro le minacce che non sono supportate da azioni concrete", ha detto. “Inoltre, i russi non sono così colpiti dalle minacce. Sono imperterriti davanti a quelle degli Stati Uniti e degli europei occidentali. Israele può fare di meglio?"
  Ha insistito sul fatto che la questione dovrebbe essere risolta attraverso "diplomazia segreta basata su interessi comuni".
  Gilad, attuale direttore esecutivo dell'Istituto per la politica e la strategia (IPS) presso l'Università Reichman di Herzliya, non è sorpreso dall'attuale corso della Russia, osservando che il presidente russo Vladimir Putin non ha mai nascosto la sua opposizione di lunga data all'emigrazione fatta dagli ebrei .
  "Putin è contrario all'aliyah perché vede gli ebrei come un'élite", ha detto Gilad.
  Gilad ha fatto ipotesi sulle "ragioni immediate" delle azioni della Russia, ma ha riconosciuto la possibilità che la spiegazione corretta prevalente possa essere che Mosca disapprovi la posizione di Israele sulla guerra con l'Ucraina.
  Israele ha tentato di camminare su una linea sottile in questo senso, astenendosi dal fornire armi a Kiev, nonostante le ripetute richieste di tale materiale dal presidente ucraino Volodymyr Zelenskyy. Né Gerusalemme ha imposto sanzioni alla Russia.
  D'altra parte, forse la critica più aspra all'invasione russa è venuta da Lapid, che, in qualità di ministro degli Esteri, ha accusato Mosca di aver commesso “crimini di guerra”.
  Anna Geifman, ricercatrice presso il dipartimento di scienze politiche dell'Università Bar-Ilan, ha detto al JNS che Putin vuole punire Israele per essersi schierato con l'Occidente, e vuole impedire a Gerusalemme di compiere ulteriori passi a sostegno di Kiev.
  La Russia vuol dire a Israele: 'Se fai una mossa sbagliata, possiamo farti del male. Abbiamo un mezzo di pressione", ha detto.
  Tuttavia, ha definito autodistruttiva la decisione della Russia di prendere di mira l'Agenzia ebraica. "Penso che a loro faccia male perché perdono un'altra connessione", ha detto Geifman. "Se vogliono rovinare ancora di più le cose, vadano avanti.
  Tuttavia, ha sottolineato che Israele ha poche opzioni per fermare la Russia: “Non c'è molto che possiamo fare. È il loro paese", ha detto. "
  Sarebbe molto peggio se la Russia decidesse di agire contro Israele in Siria", ha aggiunto Geifman. “Dobbiamo stare molto attenti con la Russia perché è lì che noi dobbiamo operare. È una questione militare. Dobbiamo assicurarci di poter continuare a distruggere le spedizioni di armi iraniane”.

(israel heute, 29 luglio 2022 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

........................................................


Israele sfiora i numeri record del 2019

Il Ministero del Turismo di Israele ha annunciato che i dati relativi agli arrivi nel Paese, per la prima volta dopo due anni, stanno raggiungendo i numeri record dell’estate 2019. Grazie alla riapertura ai viaggiatori internazionali senza obbligo vaccinale avvenuta a marzo, la curva è tornata a crescere.
  Un ulteriore contributo è giunto dall’inaugurazione di nuovi hotel e ristoranti, dal ripristino di molti siti di interesse storico-culturale, da un’offerta di tour più ampia portando così a una domanda turistica distribuita in ogni regione di Israele.
  Come riporta prnewswire.com, negli ultimi quattro mesi vi è stata un’impennata di visitatori mese su mese. Il mercato nordamericano - per esempio - ha fatto registrare oltre 112mila arrivi a giugno contro i quasi 132mila dello stesso mese del 2019.

(TTG Italia, 29 luglio 2022)


*


Israele – Cosa mettere in valigia

Israele è un paese indubbiamente all’avanguardia e se state pensando di venirci a trovare, che sia per vacanza o per lavoro, sappiate che potete acquistare quello che vi serve anche qui, se per caso ve lo siete dimenticati a casa.
  La visita d’Israele in estate “impone” vestiti leggeri, comodi come magliette a maniche corte e quanto esattamente portereste per una vacanza in una località marittima italiana. Certo, dipende anche dove andrete in Israele, se starete nella zona centrale o a sud, nel periodo estivo è sufficiente un abbigliamento leggero, ma se pensate di andare un po’ al nord, in Galilea o nel Golan, magari può aver senso mettere in valigia un maglioncino leggero che magari la sera può essere un po’ fresco, cosi come nel deserto se vi va di fare escursioni serali/notturne.
  La visita invernale impone ovviamente un abbigliamento più caldo. Israele non è un paese freddo come l’Italia in inverno, ma decisamente da Dicembre ad Aprile può avere senso portare con sè un abbigliamento caldo, impermeabile (possono capitare nubifragi di tanto in tanto).
  Un accessorio fondamentale è uno zaino, lo troverete estremamente utile per portarvi dietro la classica bottiglia d’acqua, e magari un paio di costumi per farsi un tuffo in mare, o nelle splendide riserve in Galilea.

(Israele 360, 29 luglio 2022)
........................................................


I parenti delle vittime di “Monaco ‘72” pensano di rinunciare per protesta alla cerimonia commemorativa della strage

di Ugo Volli

• La strage
  Non è stata la strage terrorista palestinese più sanguinosa, visto che ha ucciso “solo” 11 israeliani (a Buones Aires, vent’anni dopo, furono assassinati 85 ebrei). Ma senza dubbio è stata quella con maggior impatto sull’opinione pubblica mondiale, perché si è svolta durante un grande evento mediatico come le Olimpiadi e in un luogo (la periferia di Monaco di Baviera, a pochi chilometri dal campo di Dachau), che suscita ricordi terribili. All’inizio di settembre saranno passati cinquant’anni da quei due terribili giorni di Monaco, quando undici atleti israeliani vennero presi in ostaggio nel villaggio olimpico di Monaco di Baviera e massacrati da un commando terrorista palestinese.

• Le colpe tedesche
  Le autorità di sicurezza tedesche sono state accusate di aver ignorato gli avvertimenti di un attacco durante i Giochi Olimpici, provenienti dai servizi segreti di Israele e da altre fonti. La risposta della polizia è stata gravemente inadeguata. I tre terroristi al tentativo di bloccare la fuga del commando palestinese, sono stati liberati pochi mesi dopo l’arresto, a seguito di un dirottamento. La Germania ha anche rifiutato di fornire pieno accesso ai documenti dell'attacco terroristico. Dalle carte riservate entrate in possesso dieci anni fa del settimanale “Der Spiegel” risulta che il governo federale tentò addirittura una trattativa di ampio respiro con i terroristi, proponendo loro una specie di Lodo Moro, cioè la garanzia che non avrebbero più colpito obiettivi tedeschi, in cambio di un riconoscimento politico e di sostegno economico: un’offerta rifiutata dai terroristi. I terroristi arrestati e poi liberati ricevettero però una somma equivalente a una decina di milioni di euro attuali.

• Il tentativo di consegnare la strage alla storia
  Nelle ultime settimane, in occasione dell’anniversario dell’evento, il governo tedesco ha deciso di fare una rivalutazione politica e giuridica dell’attentato, perché vede il prossimo evento commemorativo come "un'occasione per una chiara classificazione politica degli eventi del 1972", come ha affermato il ministero dell'Interno. Ciò comporterebbe anche la nomina di una commissione di storici tedeschi e israeliani "per esaminare in modo completo gli eventi". Si tratta evidentemente del tentativo di chiudere una ferita ancora dolorosa nei rapporti fra Israele e la Germania e di consegnare gli eventi alla storia, togliendoli all’attualità. Ma anche in questo tentativo di “storicizzare”, eliminando il senso ancora attuale e le responsabilità della strage c’è molta leggerezza da parte tedesca. Uno degli ostacoli è il fatto che ancora non vi sia stata una piena ammissione delle responsabilità delle forze di sicurezza e anche del governo. Dal punto di vista tedesco la commissione di storici dovrebbe probabilmente servire a questo, ma la sua istituzione non è certo quel riconoscimento di colpa di cui c’è bisogno. Semmai è un modo di evaderne.

• La questione del risarcimento
  Poi c’è la questione dei parenti delle vittime e del risarcimento dei loro danni, che non è stato affatto trattato in maniera adeguata. Secondo il principale giornale di Monaco (la Süddeutsche Zeitung) il governo tedesco avrebbe ora deciso di pagare un risarcimento alle famiglie degli atleti vittime del massacro, dopo aver versato già negli anni successivi due volte delle piccole cifre di “soccorso umanitario”. Le famiglie hanno dichiarato che la somma proposta è indecorosa, inferiore a quanto a suo tempo pagato ai terroristi come riscatto.

• La posizione delle famiglie
  Ankie Spitzer, vedova di Andre Spitzer, allenatore di scherma della squadra olimpica israeliana e portavoce delle famiglie in lutto - ha definito l'offerta "insultante" e inaccettabile. Ilana Romano, la vedova del sollevatore di pesi israeliano Yossef Romano, ha fatto eco alla disapprovazione di Spitzer per l'offerta tedesca, definendola "umiliante" e respinta dai sopravvissuti delle vittime. "Siamo stati maltrattati per tutto questo tempo e ora, dopo 50 anni, decidono di volersi assumere la responsabilità", ha detto Romano. La Spitzer, ha detto che non metterà piede sul suolo tedesco finché la questione del risarcimento rimarrà irrisolta. Spitzer ha anche fatto sapere che, se non ci saranno novità, le famiglie delle vittime probabilmente boicotteranno la principale cerimonia di commemorazione a Monaco il 5 settembre.

(Shalom, 29 luglio 2022)

........................................................


Allenamento Roma al Netanya Stadium in vista della sfida col Tottenham

Dybala e Mourinho
La Roma ha proseguito oggi la sua preparazione in vista della partita amichevole di domani contro il Tottenham, ma soprattutto dell’inizio del campionato.
  La squadra giallorossa oggi è scesa in campo al Netanya Stadium, in Israele, dove domani sera affronterà gli inglesi guidati da Antonio Conte nell‘amichevole “clou” di questo precampionato.
  In gruppo tutti i giocatori convocati da Mourinho. La squadra ha lavorato sulla rapidità e reattività. Regolarmente in gruppo Dybala, uno dei giocatori più attesi per la sfida di domani.

(Giallorossi.net, 29 luglio 2022)

........................................................


«Egli abbatte, e non si può ricostruire» (Giobbe, cap. 12)

E' caduto! Il Banchiere è caduto. E con lui è caduto il suo governo infame. Quando il fatto è stato ufficialmente confermato, in famiglia abbiamo ringraziato Dio. Anche se dopo di lui le cose dovessero peggiorare, il crollo pubblico di questa funesta figura politica era necessario e deve restare emblematico. Dalle ceneri del suo governo sale ancora un grido che molti non hanno voluto sentire e di cui molti vorrebbero che se ne disperdesse anche l'eco. Per evitare che questo avvenga, riportiamo i lamenti degli "Invisibili", che il giornale "La Verità" ha inserito sulle sue pagine nei mesi di febbraio e marzo scorsi.
L'intera raccolta può essere scaricata qui. Ne stralciamo un esempio per ogni giorno di pubblicazione. Si consiglia di leggerli con attenzione: si tratta di persone, non di idee. Il risalto in colore è di redazione.

___

8 FEBBRAIO 2022

• Ho dovuto cedere ma mi vergogno di mostrare la card
  Sono sempre stato favorevole alla vaccinazione, ma mi sento offeso nella dignità ogni volta che mi tocca esibire il green pass, essendo stato costretto a cedere al ricatto della terza dose. Per evitarla, ho provato a convincere il mio medico mostrandogli il referto di un esame sìerologico che mostrava la positiva presenza di anticorpi contro la proteina Spike, ma non c'è stato verso. E allora cosa avrei potuto fare? Senza non potrei accedere agli uffici giudiziari e come avvocato una tale inettitudine si riverbererebbe a discapito dei miei assistiti; non potrei entrare in piscina, attività per me di importanza vitale in quanto necessaria a combattere seri problemi di schiena, tanto che il primo sciagurato lockdown generalizzato mi costò un'ernia del disco con lesione del nervo sciatico, un mese allettato con dolori inenarrabili, tre mesi di riabilitazione, 2.000 euro di spese mediche.
  Ogni volta che esibisco il green pass mi vergogno un po' della mia vigliaccheria, mi spiace per quelli che sono segregati, mi sovvengono le miserie inflitte non solo ai lavoratori dipendenti rimasti senza paga, ma anche ai commercianti abbandonati da clienti insensatamente spaventati o incattiviti dalla propaganda di regime. Non ne possiamo più di questo ossessivo tracciamento, è incostituzionale.

___

10 FEBBRAIO 2022

• Da vaccinata mi rifiuto di discriminare
  Sono vaccinata ma non mi considero sì vax, però a essere pignola sono anche un po' no vax visto che non ho ancora fatto le terza e sono passati ben 129 giorni dalla seconda. Non mi interessa sapere che tipo di trattamento sanitario le persone che conosco hanno o non hanno scelto. Le persone mi piacciono o mi stanno antipatiche a prescindere dal vaccino. Non essendo né pro né contro e non volendo in nessun modo alimentare questo gioco perverso di odio, discriminazione e disubbidienza, mi ritrovo in una specie di auto lockdown . Non mi piace l'idea che la mia libertà sia legata a un Qr code, strumento discriminatorio, ed evito tutte le attività in cui viene richiesto. Evito di incontrare parenti e amici perché non ci sono più argomenti di conversazione, tutto gira intorno a questa pandemia. Il mio problema non è il vaccino ma la mancanza di vera normalità. Stiamo perdendo la nostra umanità.

___

12 FEBBRAIO 2022

• Per fare i tamponi ho dovuto sborsare ben 750 euro
  Vi scrivo da Codogno, dove questo disastro ha avuto inizio. Non ho ancora ceduto al ricatto ma purtroppo, come tanti italiani, ho una famiglia, una figlia da crescere e un mutuo da pagare. Fino a oggi mi sono sacrificato e sono andato puntualmente tre volte a settimana in farmacia pagando 15 euro ogni volta per poter lavorare. E solo questo di per sé dovrebbe far pensare a come ci hanno ridotto. Pagare per poter lavorare. Assurdo. Ho proseguito fino a oggi facendo circa 50 tamponi e sborsando di tasca mia più o meno 750 euro. E nonostante questo contro la mia volontà mi costringono a farmi inoculare un vaccino che non voglio. Sono un cittadino privato della libertà di scelta. Un invisibile vittima dell'indifferenza e della rabbia di tanti. Questo mi porta a pensare che l'unica soluzione sia abbandonare il Belpaese.

___

15 FEBBRAIO 2022

• Mi sono piegato ma mi sento davvero avvilito
  Non sono più un invisibile. Compiuti i 61 anni a inizio gennaio, dopo quattro mesi di resistenza, tamponi e connesse code, momenti di rabbia mitigata dalla speranza che alla fine nessun obbligo vaccinale sarebbe stato imposto e sarebbe finita la farsa del green pass, sotto ricatto normativo mi sono dovuto arrendere. Tengo famiglia, due mutui da pagare, un lauto stipendio che non posso perdere neanche per qualche mese. E comunque ogni due settimane devo prendere l'aereo che altrimenti - quale paria non inoculato - mi sarebbe stato vietato. Ho fatto la prima dose e a giorni mi aspetta la seconda. Mi siederò quieto offrendo il braccio, con quella sensazione di avvilimento che ti prende quando sei ingiustamente costretto a ciò che non ti va, quando sai che la libertà è persa. Costretto da scelte assurde imposte dal governo. E, se nulla cambia, entro sei mesi farò pure la terza di dose.

___

17 FEBBRAIO 2022

• Così è impossibile frequentare dal vivo l'università
  Sono la mamma di una ragazza alla quale è stato tolto il diritto di viaggiare per recarsi all'università e di continuare a vivere in una residenza universitaria, nella città di Torino. Dopo aver vissuto quasi due anni chiusa nella sua camera perché la sua classe del liceo era in Dad, a settembre 2021 si è trasferita in una residenza torinese per poter frequentare le lezioni presso la facoltà di lettere. A gennaio, a seguito dell'ennesimo decreto, mia figlia è stata «invitata» a lasciare la sua camera, perché il green pass base non era più sufficiente. Domenica scorsa siamo andate a recuperare i suoi effetti personali. Adesso non sa come continuare le lezioni in presenza poiché non viviamo in Piemonte e, non potendo neanche prendere i mezzi, è costretta a rimanere a casa, nella sua camera, ancora. Mentre rimettevo i vestiti e tutte quelle cosette da ragazza di quasi 20 anni nelle valigie, avevo le lacrime agli occhi. «Abbiamo perso tutti», ho pensato. Ha perso la residenza. Ho perso io, come mamma, perché non posso più immaginare mia figlia vivere il periodo più bello della vita, quando, alla sera, ci si addormenta con gli occhi ancora pieni di sorrisi e di freschezza. Ma soprattutto ha perso mia figlia che, nonostante tutto, continua a sorridere e a guardare avanti, ma, in cuor mio so cosa prova e di quante esperienze è stata ingiustamente privata.
  Chi le restituirà questo tempo? Qualcuno dovrebbe mettersi una mano sulla coscienza e fermare questo scempio insensato prima che la tristezza, la rabbia e la solitudine si trasformino in disagio sociale e depressione. Prima che sia troppo tardi.

___

19 FEBBRAIO 2022

• È il periodo peggiore della mia vita fra rabbia e paura
  Ho 80 anni e, come tanti altri, da martedì devo subire la sospensione dal lavoro in quanto deciso a non cedere al ricatto del governo. Premetto che la mia è una famiglia monoreddito e che ho un mutuo a carico, lavoro come autista in un'azienda di trasporto pubblico in Abruzzo, felicemente sposato con un figlio. Quindi potrei sembrare pazzo a non adeguarmi alle nuove regole, ma non riesco ad accettare un sopruso del genere. Mi preparo ad attraversare il periodo più brutto della mia vita, sono arrabbiato e allo stesso tempo spaventato di come siano repentinamente cambiate le persone. Tutti siamo diventati giudici e carnefici del nostro prossimo e io sarei «colpevole» di aver fatto una scelta diversa da quella che il governo si aspettava, per cui la mia pena è quella della persecuzione e dell'annullamento sociale.

___

22 FEBBRAIO 2022

• Facciamo morire i nostri vecchi nella solitudine
  Ho dovuto portare mio papà di 92 anni in una casa di riposo nel mese di novembre 2021 e dal 30 di dicembre non sono più potuta andare a trovarlo. È stato ricoverato e nessuno è potuto andare a salutarlo o a fargli compagnia. Ora si trova in una situazione abbastanza grave e ancora non posso andargli a stringere la mano o a visitarlo. Non posso nemmeno rivolgermi ai carabinieri perché, per quanto sia ingiusta, questa è la legge. So già che probabilmente non lo vedrò più e se dovesse verificarsi la peggiore delle ipotesi non so nemmeno se potrò andare al suo funerale. Il nostro governo ha voluto proteggere gli anziani dal virus ma li ha lasciati morire di solitudine.

___

24 FEBBRAIO 2022

• In banca mi restano appena 1.110 euro per i prossimi mesi
  Da un anno vivo in una casa popolare, ho due figli di 6 e 2 anni e una compagna. Lavoravo in una azienda agricola e agriturismo, ma dal 15 ottobre 2021 sono a casa perché vogliono solo persone vaccinate e non con tampone. Scadenza contratto 31 dicembre 2021, speravo nella fine dello stato di emergenza e nel rientro lavoro a gennaio 2022. No, vogliono solo gente vaccinata ... Ho come tutti bollette da pagare, figli da mantenere, affitto e appena 1.110 euro sul conto corrente. Fra un mese cosa faccio? Vado a rubare? Siamo disperati, non si trova lavoro, tutti vogliono gente immunizzata. Io in famiglia ho persone vaccinate che hanno subito eventi avversi e provo paura: se mi succede qualcosa, ai miei figli chi ci pensa? Siamo isolati in una società che comunque da me vuole tasse e soldi. Spero che a marzo cambi tutto, non solo qualcosa, altrimenti qui si fa la fame.

___

24 FEBBRAIO 2022

• Sfrutto il congedo. Quando finirà perderò lo stipendio
  La mia storia è comune a quella di tanti altri insegnanti a casa perché non vaccinati. Da circa due mesi non vado a lavorare e sono in congedo parentale non retribuito, al termine del quale però non potrò tornare a scuola, non avendo ceduto al ricatto del vaccino. Come me, anche mio marito è un insegnante e anche lui da due mesi a questa parte è a casa senza percepire lo stipendio. Mio figlio ha avuto recentemente il Covid. L'ho curato da vicino, non perché cercavo di contrarre la malattia, come hanno fatto molti, ma poiché avendo 14 anni aveva bisogno di una mano. Non sono risultata infetta e dunque non ritornerò al lavoro come i miei colleghi guariti. Insomma, da sana non mi è permesso lavorare. Le giornate le passiamo a combattere silenziosamente contro questo ricatto, continuando a informarci e sperando che il prima possibile queste misure folli cessino e la discriminazione finisca. Ho sempre avuto la sensazione di essere percepita dai vaccinati, non teneri con i resistenti al vaccino, come un fantasma. Ma adesso so con certezza che i governanti, che impediscono di lavorare a persone sane, innamorate della propria occupazione e che di quello vivono, sono a tutti gli effetti dei fantasmi.

___

1 MARZO 2022

• Stiamo costruendo una società basata sull'odio
  Attraverso l'introduzione del green pass rafforzato i diritti degli adolescenti sono stati calpestati per una scelta politica e non sanitaria. Ai giovani non vaccinati è vietato vivere, salire sui mezzi pubblici, entrare in biblioteca e nei bar, viaggiare, praticare sport e fare shopping. Gli è rimasta la scuola ma non le gite. Questi ragazzi formeranno la società del domani, come cresceranno? Uomini e donne a cui è stato impedito socializzare, fare esperienze, potersi confrontare in un mondo libero. Si stanno ammalando di depressione perché vivono quotidianamente il disagio di sentirsi rifiutati pur essendo nel giusto e sani.
  Questo per cosa? Perché il governo ha deciso di perseguitare coloro che hanno deciso di non vaccinarsi e di far valere un proprio diritto. l vaccinati trasmettono il virus come i non vaccinati, allora perché la discriminazione? Questi giovani sono stati messi alla gogna. Spero che si decida di intervenire per aiutare i ragazzi a riconquistare i loro diritti e per fermare l'odio sociale che sta dilagando. Attualmente sono stati condannati a disperazione, tristezza, apatia, esclusione, solitudine e odio. Dovreste guardare i loro occhi tristi e spaventati, colmi di lacrime, per capire il male che gli stanno facendo. Sono la società del futuro, non fateli crescere con il cuore carico di odio verso le istituzioni, il prossimo e la legge.

___

3 MARZO 2022

• A 21 anni ho perso la fiducia in medici e istituzioni
  Scrivo perché mi sono resa conto che nella mia famiglia ci sono, credo, tutti i casi possibili di difficoltà dovuti alla misura del green pass, all'imposizione del vaccino, alla pandemia. Mi spiego meglio. Mio padre ha dovuto fare il vaccino per motivi di lavoro la scorsa estate e qualche giorno dopo la prima dose ha cominciato ad avere male al cuore; gli è stata diagnosticata un'aritmia dovuta a ipertiroidismo e innescata - secondo alcuni - o provocata - secondo altri - dal vaccino (Moderna). Dalla scorsa estate si sta curando privatamente e, se tutto andrà bene, questo problema dovrebbe essere risolvibile con un'operazione. Nel frattempo lui, 53 anni e sportivo da tutta la vita, ha il fiatone anche quando sale due gradini. Mia madre ha scelto di non vaccinarsi. Farmacista, figlia di un medico, non crede nella bontà dell'imposizione di questa tipologia di vaccini a tutti (non solo ai soggetti fragili}, vaccini la cui completa sperimentazione deve essere terminata e progettati per combattere un virus altamente mutageno. Sarebbe per implementare i protocolli di cura e incoraggiare la prevenzione stimolando il sistema immunitario in modo aspecifico. Inutile dire che da qualche mese ormai non ha una vita: lavora da casa, non può uscire a prendersi un caffè con un'amica, non può nemmeno più comprarsi due vestiti o mangiare una pizza. Mio fratello minore ha 13 anni e non è vaccinato. Quest'anno non ha potuto fare sport e spesso scherziamo sul fatto che è diventato come i vecchietti che si stancano subito. Nemmeno lui va più al giapponese a mangiare con gli amici, al cinema e agli allenamenti di calcio. Mio fratello maggiore sta facendo le Mad (messa a disposizione) in una scuola media e la prossima settimana ha prenotata la terza dose. Anche se è spaventato, vista l'esperienza di nostro padre, deve farlo se vuole continuare a lavorare.
  Voi pensereste che le nostre sfortune siano finite qua. Invece purtroppo mio nonno, medico per tutta la vita, è morto a causa del Covid il 13 aprile 2020. La sua morte non è dovuta solo alla malattia, ma anche alla malasanità, perché io sono convinta che potesse essere salvato. Ma non posso arrabbiarmi troppo, perché eravamo all'inizio e la situazione era tragica. Prima della morte di mio nonno, io credevo che tutti i medici fossero come lui: competenti, disponibili, fortissimi, indipendenti. Non lo credo più. Prima della pandemia, io credevo che le istituzioni fossero al servizio dei cittadini, che adottassero linee d'azione lineari, condivisibili. Non lo credo più. Questa pandemia mi ha prepotentemente mostrato, a 21 anni, che c'è molta ingiustizia e pochissima tutela per le persone, che la Costituzione vale poco (io ho studiato diritto e credo fortemente nel costituzionalismo), che i medici possono essere inaffidabili, che si può essere abbandonati. E mi ritengo fortunata ad avere «scoperto» tutto questo alla mia età, so che poteva andarmi molto peggio. Volevo condividere con voi la mia storia e quella della mia famiglia perché apprezzo sempre molto i vostri articoli e i vostri interventi nelle trasmissioni. Speriamo che il domani sia migliore!

___

5 MARZO 2022

• Sono felice di non aver ceduto al ricatto
  Orgogliosa di essere invisibile, è così che mi sento. Over 50, sospesa dal lavoro dopo 35 anni nella stessa azienda da sana e praticamente impossibilitata a fare qualsiasi cosa, sono felice di avere la possibilità di non cedere al ricatto perpetrato da questo governo. Mi dispiace per loro ma «l'offerta che non potrai rifiutare» molti di noi, con fatica, la stanno rifiutando. Siamo dalla parte della ragione perché un governo che discrimina i suoi cittadini, da cui però continua a pretendere le tasse, è un abominio. Dell'ostracismo sociale non mi importa nulla perché chi lo mette in pratica non vale neanche mezzo pensiero. La sola cosa che mi dispiace è che, per la prima volta, mi vergogno di essere italiana, vorrei essere nata altrove e sto pensando di scappare da questo Paese. E di questo ringrazio anche tutti quei connazionali che girano la testa dall'altra parte o la mettono sotto la sabbia.

___

8 MARZO 2022

• Mio marito Denis ha deciso di lasciare il lavoro
  Ho 46 anni e ho perso il lavoro da più di un anno. Attualmente mi dedico alla nostra fattoria: io e mio marito siamo appassionati di animali e stare in mezzo alla natura ci rilassa e ci fortifica. Il mio adorato marito si chiama Denis, ha 59 anni e lavorava presso una ditta come ragioniere contabile. A fine novembre ha preso la decisione di licenziarsi perché dal 15 febbraio non si sarebbe più potuto presentare sul luogo di lavoro perché non vaccinato, come me. Inizialmente, già quando c'era stata l'introduzione del green pass base, aveva chiesto ai titolari di essere sospeso fino a gennaio ma a causa della sua posizione di rilievo nell'azienda gli è stata presentata una lettera di Confindustria dove si argomentava il rischio di incorrere in una multa salata se avessero deciso per la sospensione e cosi mio marito è andato avanti a lavorare sottoponendosi alle lunghe code presso le farmacie per un tampone, fuori al freddo per ore con il rischio vero di ammalarsi.
  A seguito della decisione del governo di introdurre l'obbligo vaccinale per i cinquantenni, ha fatto la scelta a mio avviso più giusta: noi non abbiamo grandi esigenze, cercheremo di arrangiarci eliminando il superfluo e godendo del tempo più a disposizione, ma almeno avremo agito secondo coscienza, con dignità. Noi ci siamo informati e molte cose non ci appaiono chiare, il governo ha fatto tante affermazioni sul vaccino per poi smentirle successivamente, ha tenuto all'oscuro dati importanti e non ha operato con trasparenza. A prescindere dal fatto che una persona deve essere libera di scegliere se vaccinarsi o no perché il corpo è solo suo e anche perché se viene colpita da un evento avverso, grave o meno grave che sia, è solo lei che poi dovrà farci i conti per tutta la vita. Io e mio marito siamo fortemente contrari al green pass. Siamo nati liberi e vogliamo restare liberi.
  Io parlo di ipnosi collettiva raggiunta con la paura e con i piccoli passi. Intorno a me vedo tanta miseria, persone che per non stuprare il loro corpo si trovano senza nessuna fonte di reddito. Mi piange il cuore ma non posso fare nulla. Mi stupisco che la maggior parte dei vaccinati non abbia un briciolo di sensibilità verso queste tematiche sociali. E mi chiedo dove siano i nostri magistrati. Dovremmo fare tutti insieme una class action contro il green pass e coloro che lo sostengono?

___

11 MARZO 2022

• La libertà di scelta esiste soltanto a parole
  Sono una over 50, sospesa dal 15 febbraio. Ho due figlie e sono monoreddito, quindi lo stipendio è essenziale per me e per loro, ma lo Stato mi ha privata del mio lavoro dopo 32 anni, lasciandomi «libera» di scegliere per modo di dire! Il super green pass al lavoro è una follia pura con ripercussioni gravi sul piano sociale ed economico. È così che si tutelano i cittadini tutti e si pensa al loro bene?

___

12 MARZO 2022

• Cacciata dall'oratorio nel silenzio
  Sono una donna di 40 anni, con un marito bravo e in gamba, mamma di due figli, in attesa di una bambina e con un lavoro a tempo pieno. Ho vissuto una gravidanza terribile, caratterizzata solo dall'ansia che ho provato, costantemente in attesa delle decisioni del governo riguardo all'imposizione forzata dei vaccini e all'alienazione dei diritti fondamentali dell'uomo. Un episodio tra i tanti. A settembre ho iscritto la mia bambina di 5 anni a un corso di ginnastica. Erano primi giorni del green pass per le palestre e onestamente non avevo colto che l'obbligo si applicasse anche a me, in quanto io semplicemente entravo in oratorio, all'aperto, e poi sulla porta del corridoio che conduce alla palestra cambiavo le scarpe a mia figlia. La signora che tiene il corso mi ha chiesto il documento, le ho detto che l'avrei avuto la volta successiva. A quel punto mi ha aggredita: dovevo uscire dall'oratorio (eravamo all'aperto), mi avrebbe subito riportato fuori dalla palestra la bambina che, entusiasta, era già corsa dentro. L'ho pregata di lasciar stare mia figlia, di non toglierle serenità, Le ho fatto presente che poteva chiedermi il green pass per l'accesso alla palestra, ma non per il cortile dell'oratorio. A quel punto ha chiamato l'aiutante del parroco e ha fatto ripetere anche a lui che io lì senza green pass non potevo stare. Ha puntualizzato che non potevo nemmeno entrare al bar dell'oratorio. Ho risposto a entrambi che nulla di ciò che dicevano era vero. Potevo stare all'aperto, potevo consumare al bar senza sedermi. .. Mi sono sentita vessata e umiliata in quella che dovrebbe essere la casa di Dio. Quale Dio? Le altre mamme del corso di ginnastica hanno assistito a tutta la scena tenendosi a distanza. Non una parola in mia difesa, né in quel momento né dopo. Distanza e silenzio.

(Notizie su Israele, 28 luglio 2022)

........................................................


Israele lancia “avvertimenti forti” a Hezbollah tra le minacce ai giacimenti di gas

di Tacito Udinese

Israele ha inviato “forti avvertimenti” a Hezbollah attraverso canali diplomatici e militari tra le ripetute minacce del leader del movimento, Hassan Nasrallah, secondo un rapporto pubblicato martedì.
  I messaggi – passati attraverso gli Stati Uniti e la Francia – avvertono il gruppo terroristico che qualsiasi azione intrapresa contro il giacimento di gas offshore di Karish si tradurrebbe in una forte risposta da parte dell’esercito israeliano, ha riportato Channel 12.
  In un’intervista lunedì al quotidiano pro-Hezbollah Al-Mayadeen, Nasrallah ha avvertito che tutti i “bersagli” terrestri e navali israeliani erano entro la portata dei missili del suo gruppo, l’ultima di una serie di minacce contro lo stato ebraico nel mezzo di un conflitto navale in corso.
  Ha detto che Hezbollah avrebbe agito se Israele avesse portato avanti i piani per estrarre gas dal giacimento di gas di Karish, un giacimento di gas naturale situato nel Mediterraneo orientale.
  Israele e Libano, che non hanno relazioni diplomatiche, sono stati coinvolti in colloqui indiretti mediati dagli Stati Uniti sui diritti dei giacimenti di gas offshore e per delimitare il confine marittimo tra i due paesi.
  Secondo Channel 12, Israele sta facendo pressioni su Washington affinché cerchi di raggiungere un accordo con il Libano nelle prossime settimane, prima che inizi a estrarre gas da Karish a settembre. Nasrallah lunedì ha messo in guardia Israele dal portare avanti tali piani in assenza di un accordo marittimo che soddisfi le sue richieste sui diritti sul gas nelle acque contese. Ha detto: “Abbiamo fissato i nostri obiettivi … e non esiteremo o ritireremo dal raggiungerli”.
  La scorsa settimana, il primo ministro israeliano Yair Lapid ha sorvolato Karish con un’apparente mossa per affermare la sovranità israeliana sul sito.
  Hezbollah ha intensificato La sua retorica e le sue azioni sulla disputa sul confine da quando Israele ha spostato una nave per l’esplorazione del gas sul campo, che il Libano afferma essere un’area contesa. Nella sua mossa più audace, Hezbollah ha inviato quattro droni verso la piattaforma Karish alla fine del mese scorso, tutti intercettati dall’IDF.
  Nasrallah all’epoca avvertì che i droni inviati a Karish erano “solo l’inizio” e che il suo gruppo avrebbe combattuto una guerra campale.
  Lunedì, Nasrallah ha affermato che l’attacco con i droni di Hezbollah è iniziato in risposta alle “violazioni” dello spazio aereo libanese da parte di Israele. Ha affermato che tali abusi da parte di Israele erano stati ridotti dall’operazione con i droni del movimento.
  Tra le crescenti tensioni, l’esercito israeliano ha istituito un rigoroso circuito di sicurezza attorno a Karish e alle più ampie acque territoriali di Israele, con regolari pattugliamenti navali, secondo Channel 12. Anche l’aviazione israeliana e l’IDF di stanza lungo il confine libanese sono state messe in atto.
  Il presidente libanese Michel Aoun incontra l’inviato statunitense per l’energia Amos Hochstein e l’ambasciatore degli Stati Uniti in Libano Dorothy Shea al palazzo presidenziale di Baabda, Beirut est, Libano, 9 febbraio 2022. (Dalati Nohra) / Libanese funzionario governativo tramite AP)
  L’ex capo del Consiglio di sicurezza nazionale Yaakov Amidr ha detto a Channel 12 che Israele deve ancora prendere sul serio gli avvertimenti di Nasrallah. “Se non c’è accordo [on Karish]. Quando arriverà il momento di estrarre gas dal mare, si deve presumere che ci sarà la guerra. Spero che non ci sia, ma non può essere questo il presupposto”, ha detto.
  L’inviato statunitense per l’energia Amos Hochstein ha visitato la regione il mese scorso ed è riuscito a convincere il Libano a fare marcia indietro da una precedente rivendicazione su un’enorme area offshore che include Karish, che Israele cerca di sviluppare mentre cerca di posizionarsi come fornitore di gas naturale per l’Europa .
  Nasrallah ha detto, lunedì, che “gli americani hanno distratto il Libano” con i negoziati mentre Israele ha iniziato gli sforzi per estrarre gas dal Mediterraneo orientale. Ha anche affermato che gli Stati Uniti hanno “fatto pressione” sul Libano affinché accetti le richieste di Israele riguardo al confine marittimo.
  Nasrallah ha detto: “Lo stato libanese non è in grado di prendere la decisione giusta che protegga il Libano e la sua ricchezza, e quindi la resistenza deve prendere questa decisione”.
  Il leader di Hezbollah ha spiegato che le sue accuse non riguardano solo Karish, ma sono legate a tutti i giacimenti di petrolio e gas che Israele ha saccheggiato nelle acque della Palestina.

(SDI Online, 27 luglio 2022)

........................................................


Israele visto da Hollywood: un nuovo libro su film e autori che si sono occupati dello Stato ebraico

di Roberto Zadik

Da sempre il rapporto fra cinema americano e mondo ebraico è stretto, ma come Hollywood ha rappresentato Israele e quali sono stati i migliori film collegati allo Stato ebraico? A rispondere a questo interrogativo il nuovo libro Hollywood and Israel. A History, realizzato da due autorevoli storici come il britannico Tony Shaw, docente di Storia Contemporanea presso l’Università dell’Hertfordshire, e il suo collega israeliano Giora Goodman, capo del dipartimento degli Studi Multidisciplinari al Kinneret College in Galilea.
  Ne parla un articolo sul Times of Israel firmato dal giornalista Rich Tenorio.
  Il testo, estremamente documentato e coinvolgente, uscito lo scorso 8 marzo e pubblicato dalla Columbia University Press, mette in luce, in oltre trecento pagine, come Israele sia stata costante fonte d’ispirazione per il cinema statunitense soprattutto a partire dalla seconda metà del ventesimo secolo; questo elemento si evidenzia non solo in classici come Exodus, unico film ebraico del regista ebreo galiziano naturalizzato americano Otto Preminger, ma in una lunga serie di pellicole analizzate dagli autori; i due studiosi citano anche una serie di aneddoti, curiosità e testimonianze di registi ed attori.
  In queste preziose pagine vengono trattate non solo le trame dei film, da Exodus, a Zohan con Adam Sandler, ma molte altre tematiche; si inizia analizzando il rapporto fra l’industria dell’intrattenimento americana ed Israele, passando poi a citare le attività di solidarietà e difesa dello Stato ebraico promosse da alcune star, per arrivare alle sequenze cinematografiche che descrivono i fatti in questione.
  Nel testo vengono rievocati momenti decisamente intensi e scene di film veramente toccanti. Ad esempio gli storici ricordano quando, nel 1978, l’attrice e cantante americana Barbra Streisand, in occasione del trentesimo anniversario dalla fondazione dello Stato, intonò l’inno nazionale Hatikwa davanti al Primo Ministro israeliano di allora Golda Meir; così come rievocano sequenze forti, firmate dal grande regista Steven Spielberg, come il finale di La lista di Schindler quando i sopravvissuti ai lager arrivano in Israele cantando Yerushalaim shel zahav (Gerusalemme d’oro) una delle canzoni più famose della musica israeliana. Nel suo Munich del 2005, Spielberg ricostruì i tragici accadimenti del massacro degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco di Baviera, mezzo secolo fa, nel settembre 1972 da parte dei terroristi palestinesi del gruppo Settembre Nero.
  Nel testo viene inoltre evidenziato l’impegno a favore di Israele di Elizabeth Taylor e Sammy Davis jr così come il sacrificio di coloro che riuscirono a sostenere il Sionismo nel decennio fra gli anni ’20 e ’30 del Novecento come opposizione alla crescente presa di potere da parte di Hitler. Il libro, estremamente piacevole nella narrazione e dettagliato nelle informazioni, elenca anche pellicole rare e poco conosciute, interpretate da grandi star hollywoodiane, come I perseguitati, con l’istrionico interprete di origine ebraica bielorussa Kirk Douglas, soffermandosi però sui film importanti come Exodus a cui viene dedicato un intero capitolo. “Una pellicola estremamente attuale anche oggi” come ha ribadito il coautore Tony Shaw, perché “incoraggia la gente ad ammettere la legittimità dello Stato d’Israele inquadrandolo come Paese sovrano nato in seguito all’Olocausto”.
  Ma gli argomenti non finiscono qui; gli autori raccontano anche di star pro-Israele come Robert De Niro, Arnold Schwarzenegger e il celebre cantante italoamericano Frank Sinatra che visitò per la prima volta Israele nel 1962, innamorandosene, esibendosi per ben sette volte in svariate città e diventando sostenitore estremamente fedele dello Stato ebraico, così come gli attori di religione ebraica Kirk Douglas e Danny Kaye.
  Accanto a questo gli autori approfondiscono anche le star pro-palestinesi come Vanessa Redgrave così come citano film arabi che denunciano il terrorismo come il bellissimo Paradise Now, diretto nel 2005 da Hany Abu Assad, incentrato sulle vicende di due terroristi suicidi e il più recente Omar su un ragazzo arabo accusato di collaborare con Israele.
  Analizzando il rapporto fra lo star system hollywoodiano e lo Stato ebraico, Shaw e Goodman notano un rafforzamento dei legami, con un crescente numero di attori israeliani, da Natalie Portman a Gal Gadot che lavorano a Hollywood anche se “rispetto agli anni ’70, il clima si è decisamente inasprito nonostante ancora oggi – come ha affermato Shaw – la maggioranza della gente sia molto pro Israele”.

(Bet Magazine Mosaico, 27 luglio 2022)

........................................................


Uomo e Natura, la sfida della consapevolezza

Una Sukkah nel quartiere di Rehavia a Gerusalemme
La Giornata Europea della Cultura Ebraica del prossimo 18 settembre avrà in Ferrara la città capofila per l’Italia e nel Meis, il Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah, una delle realtà che più saranno protagoniste. Anche attraverso una nuova edizione, ricca di ospiti prestigiosi, della Festa del Libro Ebraico. In queste settimane il Museo è al lavoro anche su una nuova mostra: “Sotto lo stesso cielo”, dedicata alla ricorrenza di Sukkot. Una delle tre solennità dette “Shalosh Regalim” in cui era prescritto in antichità il pellegrinaggio a Gerusalemme. Secondo il rav Jonathan Sacks, quella più votata a un messaggio sia particolare che universale.
  Curata dal direttore del Meis Amedeo Spagnoletto e da Sharon Reichel, la mostra si dedicherà in particolare “agli aspetti religiosi, tradizionali e alla stretta connessione tra Natura ed espressioni artistiche che questa ricorrenza genera”. Ancora oggi, ricorda infatti il Meis, le famiglie costruiscono nei giardini delle sinagoghe o nelle terrazze delle loro case la sukkah: la tipica capanna con il tetto coperto da frasche. Un rito che si rinnova da millenni e dal riverbero sempre attuale. “Idee come precarietà, rispetto della natura e delle persone sono al centro del discorso contemporaneo. Affrontare contenuti religiosi non è un compito facile, ma un museo che concentra la sua indagine sull’ebraismo non può esimersi dal farlo”, sottolineano i curatori. Da qui la decisione di fare del pubblico un soggetto attivo della mostra. Un mezzo “per rompere la barriera dell’alterità”.
  Tra le storie che si andranno a raccontare quella dei cedri della Calabria, dove si coltiva la varietà più pregiata di tale agrume. Una video installazione mostrerà poi il rito di una comunità italiana durante Hoshanah Rabba, il settimo giorno di Sukkot. Nell’occasione, si evidenzia, “i suoni dei lulavim mossi durante la preghiera si fondono con il suono della pioggia, per trasmettere ulteriormente la consapevolezza di una festa che include il riconoscimento dell’importanza dell’acqua”. È proprio dal giorno seguente a Hoshanah Rabba, non a caso, “che gli ebrei riuniti in sinagoga aggiungono nella liturgia una formula che auspica l’arrivo della pioggia”. Un ulteriore collegamento, in questa estate di afa e siccità, “a temi tristemente attuali”.

(Pagine Ebraiche, 27 luglio 2022)

........................................................


Vita di Shimon Peres, un racconto per capire meglio Israele

Su Netflix il documentario sull’ex presidente è interessante per ricostruire i negoziati con la Giordania, gli accordi di Oslo, la cooperazione tra arabi ed ebrei.

di Aldo Grasso

Su Netflix è possibile vedere «Il talento di sognare: la vita e gli insegnamenti di Shimon Peres» («Never Stop Dreaming: The Life and Legacy of Shimon Peres»), un documentario sulla vita dell’ex presidente dello Stato d’Israele. Prodotto dal regista Richard Trank, sorretto dalla voce narrante di George Clooney, il film è un insieme di interviste con l’ex presidente israeliano e con i membri della sua famiglia, ma anche con i suoi amici più cari e una lunga lista di leader mondiali che lo hanno conosciuto. Tra loro, l’ex primo ministro britannico Tony Blair, l’ex premier israeliano Benjamin Netanyahu e gli ex presidenti degli Stati Uniti Bill Clinton, George W. Bush e Barack Obama.
  Nato nell’attuale Bielorussia, emigrato con la famiglia nella Palestina mandataria (governata dagli inglesi), ebraicizza poi il suo nome Persky (letteralmente «persiano»: l’attrice Lauren Bacall, all’anagrafe Betty Persky, era sua cugina) in Peres, fonda il suo kibbutz e inizia la sua lunga attività politica, ora falco ora colomba: attivista nel movimento socialista dei lavoratori, formidabile organizzatore della difesa ebraica Haganà, a 27 anni direttore generale del ministero della Difesa, a 36 deputato della Knesset, quindi leader della sinistra, ministro della Difesa (fu lui ad autorizzare l’Operazione Entebbe) e degli Esteri e delle Finanze e dei Trasporti e dell’Informazione e dell’Immigrazione e di molte altre cose, infine due volte premier e presidente d’Israele.
  Il film è molto interessante per ricostruire i negoziati di pace tra Israele e Giordania nel 1994, gli accordi di Oslo con il leader palestinese Yasser Arafat e, più ingenerale, la cooperazione tra arabi ed ebrei. Shimon Peres (1923-2016), la cui vita si intreccia con quella dello Stato Ebraico fin dalla sua fondazione nel 1948, è riuscito grazie al suo carisma a diventare un modello per le future generazioni, un leader amato e rispettato.

(Corriere della Sera, 27 luglio 2022)

........................................................


Ad Angelo Di Veroli la medaglia d’argento per il ciclismo alle Maccabiadi in Israele

di Giorgia Calò

FOTO
Ha gareggiato per la nazionale israeliana, ma porta sempre l’Italia nel cuore. Alle Maccabiadi che si sono svolte in questi giorni in Israele, Angelo Di Veroli, campione israeliano di ciclismo, originario di Roma, ha vinto la medaglia d’argento nella categoria time trial: una gara che si è tenuta nella città di Hedera, in cui gli atleti hanno dovuto percorrere un tracciato di 25 km nel minor tempo possibile.
  Con un tempo di 33 minuti e 59 secondi e lo scarto di un solo secondo rispetto all’avversario che è arrivato primo, Angelo Di Veroli è riuscito a piazzarsi sul podio e a vincere la medaglia d’argento.
  “Mi spiace un po’ per il secondo posto, perché essendo il campione nazionale in carica, avrei voluto vincere l’oro, ma sono comunque contento – ha raccontato Angelo Di Veroli a Shalom - La medaglia d’argento ha rappresentato per me il risultato per tutti i miei sforzi”.
  Nonostante abbia gareggiato per la nazionale israeliana, Angelo è originario della Comunità Ebraica di Roma, di cui conserva moltissimi ricordi d’infanzia, legati alla vita comunitaria. Dieci anni fa ha fatto l’Alyah ed è stato proprio grazie al ciclismo che è riuscito ad ambientarsi in Israele. “Il ciclismo mi ha aiutato molto ad inserirmi: tra noi sportivi c’è stato subito un sostegno reciproco, quindi abbiamo fatto amicizia rapidamente, il che mi ha aiutato ad entrare nella comunità sportiva e anche ad imparare la lingua” racconta ancora Angelo Di Veroli.
  Una passione nata per caso nel 2009 e che, pedalata dopo pedalata, ha permesso ad Angelo di fare nuove amicizie e praticare questo sport in maniera agonistica:
  “Sono dodici anni che pedalo: ho iniziato a gareggiare prima in mountain bike, poi corsa su strada - spiega Angelo - Da quando sono venuto in Israele ho vinto ogni anno il campionato nazionale e quest’anno per la prima volta, oltre ad essere campione nazionale di mountain bike, ho vinto anche il Campionato Nazionale di time trial, la gara a tempo che mi ha permesso di vincere la medaglia d’argento alle Maccabiadi”.

(Shalom, 27 luglio 2022)

........................................................


Israele minaccia la Russia con pressioni politiche e militari e pieno sostegno all'Ucraina

Israele ha iniziato a presentare minacce alla Russia.

Israele intende cambiare radicalmente il suo status neutrale in un'operazione militare speciale condotta dalla parte russa sul territorio dell'Ucraina, al fine di creare gravi conseguenze per la Russia. Secondo i rappresentanti israeliani, l'attuale posizione neutrale può essere cambiata drasticamente, il che probabilmente implica, tra le altre cose, la fornitura di armi israeliane all'Ucraina.
  Israele ha reagito in modo estremamente negativo al tentativo di fermare le attività dell'agenzia ebraica Sokhnut in Russia, osservando che se la parte russa farà un passo del genere, Mosca dovrà affrontare gravi conseguenze.

“Il primo ministro Yair Lapid sabato ha incaricato il ministero degli Affari esteri di preparare una serie di misure politiche contro la Russia, che saranno attuate in caso di liquidazione della filiale russa dell'agenzia ebraica Sokhnut, un'organizzazione senza scopo di lucro che promuove immigrazione in Israele. I legislatori si sono incontrati sabato per discutere la questione, durante la quale alcuni hanno persino suggerito che Gerusalemme inverta la sua politica sul conflitto",

- riporta l'edizione israeliana di "Israel Hayom".

Al momento, la parte israeliana non ha preso una decisione definitiva, tuttavia, secondo l'ex ambasciatore israeliano in Russia e Ucraina, Zvi Magen, Israele ha significative opportunità di esercitare pressioni sia politiche che militari sulla Russia.

“Israele potrebbe cambiare la sua posizione de facto neutrale riguardo al conflitto in Ucraina. Naturalmente, ciò potrebbe avere conseguenze negative da parte russa, ma è comunque un'opzione. Inoltre, Israele potrebbe aderire alle sanzioni occidentali contro la Russia, a cui attualmente non sta partecipando. Il complesso complesso politico e militare in cui si trovano i russi consente a Israele di esercitare più liberamente pressioni su Mosca",

- ha detto alla pubblicazione l'ex ambasciatore israeliano in Russia e Ucraina, Zvi Magen Israele Hayom.
  Mosca non ha ancora commentato le minacce israeliane, tuttavia si prevede che il conflitto sorto tra Russia e Israele possa ancora essere risolto.

(AVIA.PRO, 26 luglio 2022)


*


Cremlino, il caso dell'Agenzia ebraica non sia politicizzato

'La questione non deve avere impatto su relazioni con Israele'


- La questione della sezione russa dell'Agenzia ebraica per Israele, di cui il ministero della Giustizia di Mosca ha chiesto la chiusura per non meglio precisate violazioni della legge, "non deve essere politicizzata o estesa all'intero spettro delle relazioni tra Russia e Israele".
  Lo ha detto il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, citato dall'agenzia Interfax.
  La questione deve essere affrontata con "un approccio molto prudente", ha aggiunto Peskov. La richiesta di chiusura della sezione russa dell'agenzia, che si occupa del trasferimento di ebrei in Israele, sarà presa in esame da un tribunale di Mosca giovedì.

(ANSA, 26 luglio 2022)

........................................................


Israele, trovata rara moneta romana di 1850 anni fa

di Jacqueline Sermoneta

FOTO
Una rara moneta romana di bronzo, risalente a circa 1850 fa, è stata ritrovata al largo della costa del Carmelo, ad Haifa, durante un’indagine condotta dall’Unità di Archeologia Marina dell’Israel Antiquities Authority (IAA).
  Dalle analisi numismatiche è emerso che la moneta, perfettamente conservata, fu coniata ad Alessandria d’Egitto nell’’ottavo anno’ del regno dell’imperatore romano Antonino Pio (138-161 e.v.). Su un lato è raffigurato il profilo dell’imperatore, sull’altro l’effige della dea Luna con un granchio, simbolo zodiacale del Cancro. La moneta faceva parte di una serie di tredici esemplari, dodici dei quali raffiguranti i singoli segni zodiacali e uno il cerchio zodiacale completo.
  “Questa è la prima volta che una moneta del genere viene scoperta al largo delle coste israeliane ed è una rara aggiunta alla collezione dei tesori nazionali. – ha spiegato Jacob Sharvit, direttore dell’Unità di Archeologia Marina – La costa mediterranea d’Israele ha originato molti siti e reperti archeologici, che attestano i collegamenti in antichità tra i porti del Mediterraneo e i Paesi dell’area”.
  “Le acque d’Israele possiedono risorse naturali e beni culturali, che devono essere esplorati e protetti alla luce dei vari interessi e del potenziale sviluppo. - ha aggiunto lo studioso - Alcuni reperti sono estremamente rari e la loro scoperta completa parti del puzzle storico del passato del Paese”.

(Shalom, 26 luglio 2022)

........................................................



Viaggio in Israele, novembre 2022

Il Gruppo Sionistico Piemontese organizza un viaggio in Israele
nei giorni dal 20 al 27 novembre 2022,
con la presenza di Giulio Meotti.
Per informazioni: segreamar@gmail.com
PROGRAMMA

(Gruppo Sionistico Piemontese, 26 luglio 2022)

........................................................


26 luglio 1950: missione dei pescatori chioggiotti in Israele

I pescatori chioggiotti
La data del 26 luglio, in realtà è abbastanza simbolica. Nell’estate del 1950 un gruppo di pescatori chioggiotti si recò in Israele per consegnare un bragozzo e due babele e, al tempo stesso, per insegnare agli uomini del posto l’arte della pesca. Dalle testimonianze raccolte dal giornalista-scrittore Sergio Ravagnan, del quale in quella spedizione era presente il papà, si dice che le barche partirono da Chioggia a metà luglio del 1950 ed arrivarono ad Haifa all’incirca una decina di giorni dopo.
  Ma perché un gruppo di pescatori chioggiotti si recò allora in Israele, stato appena nato dopo la seconda guerra mondiale?
  Nel 1950 giunse a Chioggia un armatore ebreo, tale Messaud Haggiag, che poteva contare anche su molti appoggi governativi. Il suo intento era quello di avviare un’attività di pesca massiva nel Mediterraneo con base logistica nel nuovo stato di Israele. Fu così che prese contatto con alcuni imprenditori ittici di Chioggia che si occupavano di vallicoltura e di pesca e trovò l’accordo per l’acquisto di tre barche: il bragozzo “Alfredo I°” e le due babele “Samp II” e “Samp IV”, complete di armamento e di reti.
  Non solo, ma l’equipaggio, oltre al trasporto delle barche, avrebbe garantito direttamente sul posto l’avvio dell’attività di pesca, insegnando il mestiere a giovani ebrei, fermandosi in Israele dai 6 ai 12 mesi, anche se poi alla fine i pescatori rimasero ad Haifa per 18 mesi.
  Le barche partirono da San Domenico e fecero subito tappa a Venezia per il disbrigo di alcune pratiche burocratiche. Poi partirono alla volta di Israele, costeggiando la costa italiana fio a Brindisi, quindi arrivando in Grecia a Patrasso, poi a Rodi e a Cipro e approdando infine ad Haifa. Giunto sul posto le barche pescavano con la “saccaleva” (grande rete trainata da due lance) ed attiravano le alacce, una sorta di sardine grandi, e gli sgombri aiutati da delle lampare alimentate a petrolio.
  Tra i pescatori che fecero parte della spedizione si ricordano: il coordinatore Francesco Ballarin; il capobarca Italo Ravagnan (“Teresin”), Albino Penzo (“Tanfa”), Luigi Perini (Botta); i motoristi Giorgio Bullo, Renato Camuffo, un certo Clito; i fanalisti Giovanni Doria, Amleto Bighin, Luciano Bonaldo e tra i marinai Armando Baruffaldi, i fratelli Bruno e Livio Sartori.
  Il rientro in Italia avvenne nel 1952 a bordo del traghetto “Artsa” che, partito da Haifa, sbarcò al porto di Napoli i pescatori, che poi proseguirono alla volta di Chioggia.

(ChioggiaNews24, 26 luglio 2022)

........................................................


Sarà Israele a fornire gas al Libano, ma non si deve sapere

Per aggiungere un ulteriore livello di assurdità, tutto ciò avverrà mentre la leadership di Hezbollah minaccia Israele di guerra se estrarrà gas dal vicino giacimento di Karish.

di Jonathan Spyer

Il 21 giugno, presso il Ministero dell’Energia libanese a Beirut, Libano, Siria ed Egitto hanno firmato un accordo per la fornitura di gas naturale egiziano al Libano, attraverso la Siria. Secondo l’accordo, l’Egitto esporterà 650 milioni di metri cubi di gas naturale all’anno alla centrale elettrica di Deir Ammar in Libano. Il gas arriverà in Libano attraverso l’Arab Gas Pipeline (AGP), che attraversa la Giordania e la Siria.
  Questo accordo, che richiede l’approvazione definitiva della Banca Mondiale, che lo finanzierà parzialmente, e degli Stati Uniti, è significativo da diversi punti di vista.
  In primo luogo, se attuato, contribuirà ad alleviare la situazione dei cittadini libanesi, per i quali le interruzioni di corrente e le lunghe ore senza elettricità sono diventate parte della vita quotidiana. Secondo un rapporto del Center for Strategic and International Studies, l’accordo promette di generare altri 450 megawatt di elettricità. Ciò dovrebbe garantire alle case libanesi quattro ore di elettricità in più al giorno. Negli ultimi mesi il generatore statale in Libano ha funzionato a malapena, lasciando i cittadini dipendenti da generatori privati alimentati a gasolio.
  In secondo luogo, l’accordo rappresenta un risultato significativo per il regime di Assad in Siria. È ancora necessaria l’approvazione degli Stati Uniti, perché l’accordo è in contrasto con il Caesar Act statunitense, che mantiene le sanzioni finanziarie sul regime siriano, a causa delle uccisioni di massa di civili che ha compiuto nel periodo della guerra civile siriana.
  Prima della guerra, il gas veniva pompato dall’Egitto al Libano, ma questo processo è stato interrotto nel 2011 a causa dell’instabilità e degli attacchi al gasdotto in Siria. L’accordo consentirà quindi al regime siriano di aggirare le sanzioni e di proiettare un’immagine di ritorno alla normalità, oltre a ottenere una modesta iniezione di reddito dal trasferimento del gas.
  L’accordo ha anche implicazioni geopolitiche. Se gli Stati Uniti daranno il via libera definitivo, sarà almeno in parte per contrastare gli sforzi dell’Iran e del suo proxy locale Hezbollah di utilizzare la fornitura di carburante dall’Iran come un modo per cementare ulteriormente la presa di Teheran sul Paese.
  Da settembre, tre petroliere iraniane che trasportavano gasolio si sono dirette dall’Iran al porto siriano di Baniyas. Da lì, il gasolio è stato trasportato su camion attraverso un passaggio di frontiera informale a Qusayr. Sebbene le quantità finora portate dall’Iran siano ben lontane da quelle necessarie per affrontare la crisi energetica, hanno rappresentato una sorta di vittoria propagandistica per gli interessi iraniani in Libano. L’accordo di giugno serve a ribaltare la situazione, legando la fornitura di energia elettrica a livello strategico agli Stati allineati all’Occidente, piuttosto che all’Iran.

• IL GAS ARRIVERÀ DA ISRAELE?
  A questo proposito, e forse in modo più significativo di tutti, sembra che una parte o tutto il gas che raggiungerà la centrale di Deir Ammar attraverso il gasdotto sarà israeliano, estratto dal giacimento di gas Leviathan nel Mediterraneo orientale.
  La probabilità che il gas da trasferire attraverso l’AGP provenga dal giacimento Leviathan è stata indegnamente smentita dal governo libanese, dopo un servizio di Channel 12 pubblicato a gennaio.
  Il Ministero dell’Energia libanese ha rilasciato una dichiarazione in seguito al servizio di Channel 12, in cui si affermava che il resoconto era “totalmente e completamente falso” e che “l’accordo di fornitura di gas che è in corso di elaborazione tra il governo libanese e il governo egiziano stabilisce chiaramente ed esplicitamente che il gas dovrebbe provenire dall’Egitto”.
  La difesa del Ministero dell’Energia libanese è comprensibile. La legge libanese vieta qualsiasi contatto con Israele e gli israeliani. Hezbollah, che è rappresentato nel gabinetto provvisorio che attualmente governa ufficialmente il Libano, vuole la distruzione di Israele. Se si scoprisse che il fabbisogno energetico del Paese è soddisfatto in larga misura dall’importazione di gas israeliano, queste posizioni potrebbero essere oggetto di scherno. Tuttavia, numerose prove vanno in questa direzione.
  Amit Mor, amministratore delegato di EcoEnergy Financial Strategic Consulting e docente senior all’Università di Reichman, è inequivocabile nella sua valutazione.
  “L’accordo commerciale è con la compagnia del gas egiziana”, ha dichiarato Mor al Jerusalem Post. Ma “il gas stesso sarà proveniente dal giacimento Leviathan, come il gas israeliano sta scorrendo in questi giorni nel gasdotto arabo attraverso la Giordania verso l’Egitto”.
  Un’osservazione più attenta dell’andamento del consumo di gas egiziano e dell’infrastruttura del gasdotto che fornirà il gas al Libano sembra avvalorare questa tesi.
  L’Egitto utilizza quasi tutto il gas estratto localmente per il consumo interno. Secondo un recente rapporto del sito web egiziano Mada Masr (associato all’opposizione egiziana), l’attuale produzione locale giornaliera di gas è compresa tra i 7 e i 7,5 miliardi di piedi cubi. Il consumo locale è attualmente di 6 miliardi di piedi cubi al giorno. Il governo egiziano prende 5 miliardi, mentre la società di scavo partner prende il resto; il governo egiziano acquista poi un miliardo dalla società per coprire il fabbisogno interno. Al momento, quindi, l’Egitto non possiede un grande stock di riserve estratte a livello nazionale e disponibili per l’esportazione. L’Egitto esporta parte del gas in Europa, dai due impianti di liquefazione di Idku e Damietta. Parte di questo gas esportato viene a sua volta importato da Israele.
  Più nello specifico, la struttura dei gasdotti attualmente in uso non consentirebbe di convogliare il gas estratto localmente dall’Egitto verso la Giordania e poi verso la Siria e il Libano utilizzando l’AGP. Questo gasdotto si interseca con quelli israeliani in due punti: ad Arish, in Egitto, e con un gasdotto israeliano proveniente dal giacimento Leviathan, che incontra l’AGP in un punto della città di Mafraq, in Giordania. Affinché l’Egitto possa convogliare il gas verso la Giordania utilizzando l’AGP, dovrebbe interrompere l’importazione di gas israeliano o costruire un nuovo gasdotto per trasportare il gas estratto localmente da Port Said ad Arish, che verrebbe poi trasferito all’AGP. Nessuna delle due azioni sarebbe praticabile, e nessuna sembra essere in corso.
  Appare quindi chiaro che il gas che raggiungerà il Libano attraverso la Giordania e la Siria, se e quando l’accordo del 21 giugno riceverà l’approvazione finale, sarà effettivamente estratto da Israele dal giacimento Leviathan.
  Quindi l’accordo, se attuato, rappresenterà un notevole risultato per il regime di Assad nei suoi sforzi per porre fine al suo isolamento. Inoltre, introdurrà una situazione in cui la leadership di Hezbollah sarà in grado di illuminare e riscaldare (o raffreddare) i propri bunker a sud di Beirut (dove presumibilmente stanno pianificando la prossima guerra contro Israele) il tutto grazie all’estrazione israeliana di gas dal Mediterraneo orientale.
  Per aggiungere un ulteriore livello di assurdità, tutto ciò avverrà mentre la leadership di Hezbollah minaccia Israele di guerra se estrarrà gas dal vicino giacimento di Karish. Il Medio Oriente non manca mai di ricordare “l’uomo del sottosuolo” di Dostoevskij, che definiva l’essere umano come una “creatura che cammina su due gambe e non ha il senso della gratitudine”.

(Rights Reporter, 24 luglio 2022)

........................................................


Le Beatitudini di Gesù (8)

di Marcello Cicchese

BEATI I FACITORI DI PACE

    "Beati quelli che s'adoperano alla pace, perché essi saranno chiamati figli di Dio" (Matteo 5.9).

Usare l'espressione "figlio di Dio" per indicare un singolo credente è oggi un fatto abbastanza normale e diffuso; ma non era così nei tempi antichi. In ambiente pagano l'espressione "figlio di Dio" era riservata ai Faraoni, ai monarchi ellenistici, agli imperatori, cioè a coloro che per la loro dignità regale erano reputati di natura quasi divina. Nell'Antico Testamento è invece il popolo d'Israele che viene considerato figlio di Dio:

    "Così dice l'Eterno: Israele è il mio figlio" (Esodo 4.22);

oppure sono delle creature celesti:

    "Or accadde un giorno che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno" (Giobbe 1.6);
    "Chi, nei cieli, è paragonabile all'Eterno? Chi è simile all'Eterno tra i figli di Dio (Salmo 89.6).

Gesù stesso parla di "figli di Dio" in questo secondo senso quando, riferendosi a coloro che saranno partecipi della risurrezione, dice:

“… non possono più morire, giacché sono simili agli angeli e sono figli di Dio, essendo figli della risurrezione" (Luca 20.36).

Ciò che Gesù promette è dunque la possibilità per l'uomo di accedere a una posizione nuova davanti a Dio, paragonabile a quella che ora occupano soltanto le creature celesti. Una promessa simile viene ripetuta nell'Apocalisse:

    "Chi vince erediterà queste cose; e io gli sarò Dio, ed egli mi sarà figlio" (Apocalisse 21. 7);
ciò dimostra che anche questa beatitudine, come tutte le altre, ha un preciso riferimento agli ultimi tempi che sono iniziati con Gesù e si compiranno alla sua seconda venuta.
  Ma ogni promessa di Gesù riguardante il futuro ha una sua forma di realizzazione nel presente. Per questo l'apostolo Paolo può dire che

    "tutti quelli che sono condotti dallo Spirito di Dio, sono figli di Dio" (Romani 8.14).
Di qui viene lesortazione a comportarsi da "figli di Dio senza biasimo in mezzo a una generazione storta e perversa" (Filippesi 2.15). E poiché Dio è “l’Iddio della pace" (Romani 15.33), è naturale aspettarsi che i suoi figli si comportino da "facitori di pace". Resta da capire che cosa intende dire la Bibbia quando parla di pace.
  Il termine "pace" è largamente diffuso nella Scrittura ed ha un significato pieno, positivo: esprime lo stato di buona salute, benessere, prosperità di una persona, di una famiglia, di un popolo. La ricchezza di significato del termine ebraico "shalom" ne rende talvolta difficile la traduzione. Per fare soltanto un esempio, la Riveduta traduce il passo di Isaia 45.7 con "io do il benessere (shalom), creo l'avversità”, mentre la Diodati traduce, più letteralmente, con "io ... faccio la pace, e creo il male".
  Essendo un bene reale, positivo, la pace non viene soltanto augurata e sperata, ma anche data, portata, cercata:

    “… e io darò pace e tranquillità a Israele" (1 Cronache 22.9);
    “… e gli dissero: ‘Porti tu pace?' Ed egli rispose: 'Porto pace"' (1 Samuele. 16.4);
    “… cerca la pace e procacciala" (Salmo 34.14).

Per poter dare la pace, naturalmente bisogna averla: e chi può averla è in ultima istanza soltanto Dio, che è il creatore e il dispensatore di tutto ciò che è veramente buono. A Dio soltanto compete, secondo i suoi piani, dare la pace o ritirarla:

    "O Eterno, tu ci darai la pace" (Isaia 26.12);
    "Dice l'Eterno, io ho ritirato da questo popolo la mia pace" (Geremia 16.5).

La pace è salute. Salute dell'anima e della società.
  Il contrario della pace è malattia. Malattia dell'anima e della società, Le crisi esistenziali, le ingiustizie, le guerre sono espressioni della malattia profonda di cui soffre l'umanità. Ma mentre la guerra è soltanto una conseguenza della malattia, la pace non è soltanto una conseguenza della salute: la pace è guarigione.
  La pace nella Bibbia è sostanzialmente salvezza (o "salute", come traduce la Diodati), cioè intervento salvifico di Dio nella storia degli uomini. Dicendo questo non si restringe il concetto di pace, ma piuttosto si allarga il concetto di salvezza, L'opera di Dio guarisce a fondo i mali dell'umanità e quindi porta con sé serenità, gioia, giusti rapporti tra gli uomini:

    "Il regno di Dio non consiste in vivanda né in bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo" (Romani 14.17).

Proprio questa comprensione dell'opera di Dio conduce l'apostolo Paolo all'esortazione di cui i Romani (e non soltanto loro) avevano particolarmente bisogno:

    "Cerchiamo dunque le cose che contribuiscono alla pace e alla mutua edificazione" (Romani 14.13).

Proprio perché la pace è salvezza portata da Dio sulla terra , nell’Antico Patto non si ha la realizzazione piena della pace di Dio. La vera pace deve ancora venire: essa è annunziata (Isaia 52.7), promessa (Isaia 66.12), attesa (Geremia 8.15). La pace viene con il Messia annunciato dai profeti; egli "sarà chiamato … Principe della pace" (Isaia 9.5) e "sarà lui che recherà la pace" (Michea 5.4). Il coro degli angeli che a Betlemme canta: "Pace in terra fra gli uomini che Egli gradisce" (Luca 2.14) annunzia con queste parole il compimento delle profezie: il Messia è giunto; in lui la pace di Dio è portata sulla terra.
  In un mondo che vive in una posizione di distacco dal suo creatore, cioè in un mondo che ogni giorno esperimenta nelle discordie, nelle contese, nelle guerre le conseguenze di quella primordiale lacerazione tra l'uomo e Dio, il termine biblico "pace" non indica uno stato di cose presente e osservabile oggi sulla terra, ma piuttosto un'azione di rappacificazione di tutto il creato con il Creatore.
  La pace biblica è dunque "riconciliazione". Riconciliazione con Dio, prima,  e tra gli uomini, poi. E’ attraverso Gesù Cristo che Dio compie la sua universale opera di riconciliazione:

    "Poiché in lui si compiacque il Padre ... di riconciliare con sé tutte le cose per mezzo di lui, avendo fatto la pace mediante il sangue della croce d'esso" (Colossesi 1.20).

Per chi crede nell'opera di riconciliazione di Dio dovrebbe essere impossibile parlare di pace senza riferirsi a Cristo, e, viceversa, dovrebbe essere impossibile parlare di Cristo senza annunziare la pace vera, profonda, concreta che in lui è possibile oggi sulla terra. Può accadere invece, e in parte accade, che coloro che parlano di pace e coloro che parlano di Cristo costituiscano due gruppi distinti e separati di persone. C'è da chiedersi allora: quale pace? e quale Cristo?
  Davanti alla possibilità di una distruzione del mondo per mezzo delle armi atomiche, molti invocano la pace, rifacendosi a varie ideologie. Ma non è necessario avere un concetto molto elevato della pace per provare repulsione di fronte a una simile follia, così come non è necessario avere un concetto molto elevato della vita per essere invogliati a tenersi lontani dal ciglio di un burrone. La pace non è soltanto un “no” alla guerra, così come la vita non è soltanto un “no” al suicidio. La pace è un "sì". Ma molti non sanno a che cosa.

    “Non hanno conosciuto la via della pace. Non cè timor di Dio dinanzi agli occhi loro" (Romani 3.17-18).

Gli uomini conoscono invece molto bene la via della guerra: della guerra santa, della guerra giusta, della guerra di liberazione. Sembra che all’uomo riesca più facile trovare dei motivi nobili per sparare e uccidere, piuttosto che per sanare, guarire, costruire. Durante la Resistenza, per esempio, era presente una forte carica ideale che spingeva gli uomini a tenere duro e a combattere. Ma che cosa è accaduto dopo la liberazione, quando questa carica ideale doveva trasformarsi in forza propulsiva di una società nuova e più giusta? L’idealismo è stato molto presto sostituito dal realismo politico; e di realismo in realismo siamo arrivati a trovarci invischiati in una quantità di problemi inestricabili, con il timore angoscioso di una catastrofe che prima o poi ci potrebbe cadere addosso senza che neppure riuscissimo a sapere da quale parte. Non abbiamo saputo costruire la pace, e ora ci troviamo sull'orlo della guerra. Ma una pace che ha come sbocco la guerra, non è vera pace.
  La pace degli uomini ha davanti a sé il timore della guerra. La pace di Dio ha dietro di sé la consapevolezza della guerra vinta.

    "Non cercherai né la loro pace, né la loro prosperità, finché tu viva, in perpetuo" (Deuteronomio 23.6);
    "Io vi lascio pace; vi do la mia pace. Io non vi do come il mondo dà" (Giovanni 14.27).

Sarebbe bene allora che i cristiani si mantenessero sobri e desti davanti ai molteplici inni alla pace che si stanno levando e probabilmente si leveranno ancora proprio perché forse ci troviamo davanti alla guerra. La partecipazione agli sforzi che si fanno per evitare di cadere nel baratro di un conflitto atomico può essere un compito in cui alcuni cristiani dovranno impegnarsi, così come altri cristiani dovranno impegnarsi, per fare un esempio, nell'opera di ricostruzione di qualche comune disastrato, ma non è certo necessario consegnarsi anima e corpo a qualche movimento per la pace considerato come arca di salvezza dell'umanità.
  La pace di Dio non è entrata nel mondo attraverso un movimento di liberazione di dimensioni mondiali, ma nella particolarità dell'uomo Gesù, in cui Dio si è abbassato e ha fatto la pace con gli uomini. La pace di Dio può essere ancora oggi presente nella particolarità di piccoli e insignificanti gruppi di persone che si lasciano condurre dallo Spirito di Dio e portano in mezzo ai loro simili quella pace profonda che non si lascia dividere in pace personale, pace sociale, pace politica, perché è un'unica realtà di salvezza offerta da Dio all'uomo.
  Offrire questa pace, testimoniare di questa pace, può certo contribuire a migliorare le sorti dell'umanità, ma non è detto che sia sempre così. Gesù ha avvertito:

    "Non sono venuto a mettere pace, ma spada" (Matteo 10.34).

perché sapeva che l'uomo può rifiutare la pace di Dio in nome della sua propria pace. Se la vita di Gesù è cominciata con il coro degli angeli che canta "Pace in terra", ed è finita con l'urlo della folla che grida "Crocifiggilo", crediamo forse che noi, suoi servitori, possiamo ottenere qualcosa di diverso e, secondo i nostri metri di valutazione, di migliore?
  Dio ci chiama, come figli suoi, ad essere facitori di pace. Ma della Sua pace, non della nostra.

(da "Credere e Comprendere", febbraio 1982)


........................................................


Marocco-Israele: i ministri della Cooperazione e della Giustizia israeliani in visita da domani a Rabat

Questa settimana i due Paesi hanno consolidato la loro alleanza strategica e militare in occasione della visita del capo di Stato maggiore dell'esercito israeliano Aviv Kochavi.

Issawi Frej
I ministri della Cooperazione regionale e della Giustizia dello Stato di Israele, rispettivamente Issawi Frej e Gideon Saar sono attesi domani e il 25 luglio in Marocco sulla scia della prima visita ufficiale del comandante delle Forze di difesa israeliani, Aviv Kochavi, che ha visitato questa settimana il Paese nord Africano. Il ministro della Cooperazione regionale Frej, un musulmano arabo-israeliano, si recherà in visita ufficiale dal 24 al 28 luglio, secondo quanto riferisce in una nota l’ufficio di collegamento di Israele a Rabat. L’ex parlamentare del partito di sinistra Meretz, sarà accompagnato da una delegazione di giornaliste ebree e arabe israeliane nell’ambito di un forum regionale da lui creato con l’obiettivo di “rafforzare la voce delle donne nei media”.
  L’iniziativa rientra nel nuovo dibattitto sulle donne e sui media scaturito dalla morte lo scorso 11 maggio a Jenin, in Cisgiordania, della giornalista palestinese con cittadinanza statunitense Shireen Abu Akleh, uccisa mentre copriva l’irruzione delle forze di sicurezza israeliane all’interno di un campo profughi. Frej, citato nel comunicato stampa, ha definito il Marocco come “un modello di convivenza tra individui di diverse religioni”. Il ministro ha spiegato che si sarebbe recato in Marocco per “sviluppare iniziative comuni nel campo della cultura, della comunicazione, dello sport”. Separatamente, il vice primo ministro e ministro della Giustizia Gideon Saar sarà in Marocco a partire dal 25 luglio e resterà nel Paese quattro giorni. La missione sarà incentrata sulla cooperazione legale, la prima nel suo genere dalla ripresa dei rapporti diplomatici tra Israele e Marocco alla fine del 2020.
  Le due visite si aggiungono a un flusso sempre più regolare di delegazioni israeliane nel regno del Marocco. Questa settimana i due Paesi hanno consolidato la loro alleanza strategica e militare in occasione della visita del capo di Stato maggiore dell’esercito israeliano Aviv Kochavi che è stata organizzata nel pieno di nuove tensioni a livello regionale. Israele e Marocco hanno ristabilito le relazioni diplomatiche nel dicembre 2020 nell’ambito degli Accordi di Abramo, un processo tra lo Stato ebraico e diversi Paesi arabi, sostenuto da Washington. Secondo il ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid, citato dai media israeliani, il Marocco dovrebbe inaugurare la sua ambasciata a Tel Aviv durante l’estate.

(Nova News, 23 luglio 2022)

........................................................


Minacciarono Pacifici: condanne definitive per gli estremisti neri Boccacci e Schiavulli

L'ex presidente della comunità ebraica romana aggredito all'interno del tribunale: "Ci vediamo presto". Confermata l'aggravante della discriminazione e dell'odio religioso.

di Clemente Pistilli

Estremisti neri e antisemiti. Sono stati condannati in via definitiva Maurizio Boccacci, 65 anni, storico leader di estrema destra dei Castelli Romani, e Stefano Schiavulli, 37 anni, a lungo ritenuto il suo braccio destro, che minacciarono l’ex presidente della Comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici.
  Boccacci, con un passato in Avanguardia nazionale, fondatore del Movimento politico occidentale, sciolto in base alla legge Mancino, e poi diventato leader di Militia, non è nuovo a processo e accuse di apologia del fascismo. Amico di Fabrizio Piscitelli, detto Diabolik, il 65enne ha tatuati sul corpo i simboli dei Nar e in passato andò anche a innalzare la bandiera della Rsi davanti al Parlamento. Sulla stessa scia Schiavulli, diventato uno dei leader di Forza Nuova e tra quelli che hanno solidarizzato con gli arrestati per l’assalto alla sede della Cgil.
  Il 5 marzo 2014, nel corso di un processo per scritte antisemite fatte in diverse zone di Roma, in cui era imputato anche Boccacci, Schiavulli disse a Pacifici: "Ci vediamo presto". Il presidente della Comunità ebraica gli chiese se fosse una minaccia e lui aggiunse: "Lo vedrai, ci vediamo presto, lo vedrai". Lo stesso giorno poi Boccacci contattò una giornalista e venne intercettato mentre le diceva di voler attentare alla vita di Pacifici.
  I due sono stati condannati dal Tribunale di Roma a un anno e due mesi di reclusione per minaccia, aggravata per avere commesso il fatto per finalità di discriminazione e di odio religioso. Una sentenza confermata dalla Corte d’Appello e resa ora definitiva dalla Cassazione, che ha dichiarato inammissibili i ricorsi di Boccacci e Schiavulli.
  I giudici hanno specificato che si è trattato di una condotta “certamente idonea a provocare un gravissimo timore coinvolgente beni essenziali della persona”.

(la Repubblica, 23 luglio 2022)
____________________

NsI: "Minacce agli ebrei, rissa sfiorata in tribunale fra Pacifici e l'imputato di Militia, Schiavulli"

........................................................


Ebraismo in Polonia: ieri, oggi. E domani?

di Sarah Tagliacozzo

FOTO
TSKZ è l’Associazione Sociale e Culturale degli ebrei in Polonia. Fondata nel 1950, TSKZ è la più importante organizzazione ebraica del paese, con quasi 2000 membri. L’associazione ha vissuto i numerosi cambiamenti politici e storici del paese con l’obiettivo di salvaguardare e perpetrare la vita ebraica e la memoria ebraica. «La Polonia è stato il centro della vita ebraica ed è poi diventata la tomba degli ebrei europei» spiega Aron Hoffman, rappresentante di TSKZ secondo cui «è importante ricordarlo».
  Hoffman vive tra Varsavia e Bruxelles, dove lavora alla Commissione Europea. Secondo il World Jewish Congress, oggi in Polonia vivono meno di 10.000 ebrei.  «È una questione molto delicata, dopo i cambiamenti del 1989 statisticamente sembrava che in Polonia vivessero moltissimi ebrei. Il numero aumentava in modo strano, soprattutto perché la vita religiosa era pressoché inesistente dopo il 1969, quando c’è stata una seconda ondata di immigrazione ebraica in Israele. In Polonia non c’era più una vera vita ebraica. Avevamo solo cimiteri e una vita culturale ebraica, ma secolare. Diventare ebrei in Polonia, sorprendentemente, ha cominciato ad essere qualcosa considerato quasi esotico. È diventato nel tempo quasi nobilitante trovare lontane radici ebraiche. Così, almeno ufficialmente, ancora oggi le persone che si dichiarano di religione ebraica sono di molto superiori a coloro che lo sono realmente da generazioni» racconta Hoffman.
  Nel 2023 a Varsavia sarà inaugurato il Museo del Ghetto di Varsavia, in occasione degli 80 anni dalla rivolta del ghetto, spiega Hoffmann, che evidenzia l’importanza dell’avvenimento, auspicando una grande partecipazione dal momento che per timore della guerra nella vicina Ucraina «tutte le commemorazioni che gli ebrei americani stavano progettando in Polonia sono state rimandate».
  La Polonia si è subito attivata per aiutare i rifugiati ucraini in fuga dal paese dilaniato dall’occupazione russa. La stessa comunità ebraica polacca ospita molte famiglie. «La nostra associazione ha messo a disposizione dei rifugiati una struttura originariamente riservata agli anziani della comunità. Per ora sono 50 famiglie, soprattutto donne e bambini. Stiamo monitorando la situazione e siamo pronti ad ospitare ancora più persone» spiega Hoffman, secondo cui «i polacchi, ebrei e non ebrei, condividono un sentimento ambivalente nei confronti degli ucraini. Da un lato vogliamo tutti aiutare, e gli siamo vicini, però abbiamo ancora tutti una cicatrice provocata dal passato, quando molti ucraini erano collaboratori dei nazisti durante la seconda guerra mondiale. Furono molto, molto crudeli con i polacchi ebrei e non ebrei».
  La Polonia è finita in fondo alla classifica sulla qualità della vita ebraica nei paesi europei considerati dal rapporto pubblicato dalla European Jewish Association. Hoffman, tuttavia, ritiene che «la Polonia è un paradiso per gli ebrei. A Varsavia, tornando da Bruxelles, mi dimentico a volte di cosa significhi essere rilassato del proprio ebraismo. In Polonia non sono stanziati budget per garantire la sicurezza di luoghi ebraici, perché non ne abbiamo bisogno. Non abbiamo bisogno della sicurezza fuori dalle sinagoghe. In Polonia gli ebrei non sono discreti. Non serve».
  I problemi con l’antisemitismo sembrano al momento relegati al passato.  Hoffman spiega che, a differenza di altri Paesi, non sono emersi problemi per quanto riguarda né la circoncisione né la macellazione rituale (schehità). La Polonia esporta carne kasher anche in Belgio, dove invece sono state imposte restrizioni sulla macellazione rituale ebraica. Hoffman ricorda anche però che in Polonia «c’è una situazione paradossale. Da un lato c’è un grande risentimento antiebraico in seno alla popolazione generale, ma molti non hanno neanche mai conosciuto un ebreo in tutta la loro vita. Ci sono credenze cattoliche di vecchia data, come l’uccisione di Gesù da parte degli ebrei. È qualcosa di percepibile soprattutto nella popolazione più ignorante e non si sente veramente nelle grandi città. Non gli importa veramente di Israele e non sono antisionisti, anzi vorrebbero che gli ebrei si trasferissero tutti in Israele così da lasciare la Polonia».

(Shalom, 22 luglio 2022)

........................................................


Arrestato il saudita che ha aiutato l’israeliano ad entrare a Makkah

Le autorità saudite hanno diramato un dispaccio dove indicano dell’arresto di un uomo saudita che ha aiutato il giornalista israeliano Gil Tamari ad entrare a Makkah e visitare i luoghi santi dell’Islam nel periodo dell’Hajj.
  Il giornalista nel servizio sulla televisione israeliana, Canale13, ha ammesso di essersi infiltrato con un taxi e non specificando all’autista la sua identità, dato che egli parlava in inglese al guidatore, dicendo: “Questa città è chiusa ai non musulmani, e semplicemente non è possibile entrarvi”, mostrando AlHaram e successivamente il monte Arafat.
  Inaspettatamente ieri il canale ha rilasciato le sue scuse ufficiali, riportate ampiamente dai media di regime e dai social del governo, come a rassicurare il governo saudita e inorgogliendosi, ostentando al mondo arabo, la capacità di scuse dei suoi media.
  La polizia saudita ha affermato che il cittadino arrestato è stato trasferito nelle caserme saudite per ricevere l’accusa di aver facilitato l’arrivo di un giornalista israelo-americano a Makkah, il luogo più sacro dell’Islam e in cui solo i musulmani sono autorizzati ad entrare.
  Inoltre la polizia ha diramato un comunicato affermando e avvertendo che “coloro che vengono nel Regno devono rispettare le leggi e rispettare, specialmente per quanto riguarda le due sacre moschee e i luoghi santi, e che qualsiasi violazione di questo tipo è considerata un crimine che non sarà tollerato e le sanzioni saranno applicate ai suoi autori in base ai regolamenti pertinenti”.

(Daily Muslim, 23 luglio 2022)

........................................................


Leggere le Scritture con i maestri di Israele

Torna l’antologia del rabbino Jakob Petuchowski sull'esegesi ebraica: quella cristiana non tardò ad accorgersi del valore dei suoi commenti.

di Massimo Giuliani

Vi fu un tempo, i primi secoli del secondo millennio, in cui i teologi e gli esegeti cristiani riconoscevano senza imbarazzo la grande competenza dei rabbini in materia di comprensione della Bibbia. Sapendo che i testi sacri sono stati pensati e tramandati in ebraico, i conoscitori di quella lingua non potevano che essere i naturali custodi dei loro significati. Ciò divenne ancor più evidente dacché il mondo ebraico della penisola iberica riscoprì, nel solco dell’islam e del movimento caraita ( VIII-XIX secolo), la centralità del testo biblico e approntò le prime grammatiche della lingua sacra, che stimolarono uno studio che oggi chiamiamo storico-filologico ma che altro non era che un’inedita sensibilità alla bellezza delle lingue semitiche, povere in concettualità ma ricche di immagini, simboli ed espressioni colorite. Quelle prime grammatiche vennero scritte, a cavallo tra i due millenni, in arabo ossia nella lingua colta dell’epoca, alla quale però le nuove comunità ashkenazite (in Francia e in Germania) non avevano accesso. La svolta venne con il rabbino e poeta poliglotta Menachem ben Saruq, nel X secolo, che scrisse uno dei primi dizionari biblici con annessa grammatica appunto in ebraico, opera che esercitò nei decenni successivi un’enorme influenza su Shlomò ben Itzchaq, noto come Rashi, il maggior commentatore ebreo della Torà e del Talmud di tutti i tempi.
  L’esegesi cristiana non tardò ad accorgersi del valore di quei commenti, che cercavano anzitutto il “senso letterale” dei testi sacri, e che solo a partire dal valore storico della lettera si avventuravano alla ricerca di sensi ulteriori: i significati allegorici, morali e mistici. Il biblista francescano Niccolò di Lira tra XIII e XIV secolo fu fortemente impressionato dai commenti di Rashi il quale, suo tramite, influenzò anche importanti traduzioni della Bibbia come quella di Wycliffe e persino quella di Lutero. Durante il Rinascimento gli umanisti cristiani, da Marsilio Ficino a Pico della Mirandola fino a Johannes Reuchlin, cercavano affannosamente studiosi ebrei che traducessero per loro manoscritti e testi sacri dall’ebraico in latino. Non è un caso che il primo libro stampato in ebraico (a Reggio Calabria, nel 1475) sia stato un commento di Rashi al Pentateuco...
  Questi e altri istruttivi fatti nella storia dell’esegesi sono ricordati dal rabbino riformato Jakob Petuchowski (1924-1991) nella sua antologia di letture ebraiche tradizionali della Bibbia, appena riedita da Morcelliana con il titolo Leggende rabbiniche, che fa seguito e che completa la sua raccolta di pagine talmudiche, pubblicata dallo stesso editore l’anno scorso, con il titolo Storie rabbiniche. I nostri maestri insegnavano. Entrambi i volumi hanno presentazioni di Paolo De Benedetti, il biblista astigiano che contribuì a far conoscere questo studioso in Italia. Petuchowski appartiene all’ultima generazione dei grandi maestri ebrei nati a Berlino alla vigilia dell’ascesa del nazismo e che riuscì a scampare alla Shoà fuggendo in Scozia, a 14 anni, ma lasciandosi dietro la madre che morirà in un campo di sterminio. Cresciuto ortodosso, si formò accademicamente nelle istituzioni del giudaismo riformato degli Stati Uniti, all’Hebrew Union College di Cinninnati, dove insegnò poi liturgia e teologia ebraiche. Come Abraham Joshua Heschel prima di lui, anche Petuchowski comprese la necessità di tornare alla spiritualità dei classici della tradizione ebraica, tra cui i suoi testi liturgici, e di gettare un ponte tra ebraismo e cristianesimo attraverso queste antologie dei commenti e di midrashim rabbinici alle Scritture. In tal modo continuava, come detto, una lunga storia che risale al medioevo e all’umanesimo europeo. E in ciò può essere accostato a Martin Buber, forse il primo ad aprire i tesori del chassidismo e dell’esegesi ebraica al pensiero occidentale moderno. Ma mentre Buber preferì rivolgersi soprattutto al mondo filosofico e laico, Petuchowski si propose di riappassionare lo stesso mondo ebraico ai temi centrali della tradizione: la fedeltà all’alleanza sinaitica, il recupero dell’osservanza delle mitzwot (i precetti), lo studio diretto della liturgia riscoperta come sorgente di pensiero teologico. Tutto ciò senza comunque rinunciare ai valori della soggettività e della libertà di coscienza tipici dell’età contemporanea. Ha scritto questo rabbino: «Se il XIX secolo ha sentito la necessità di dire all’ebreo quel che non doveva più fare al fine di sentirsi come tutti gli altri uomini, il XX secolo ha dinanzi a sé il compito di riportare l’ebreo alle fonti del giudaismo, al fine di renderlo consapevole della specificità della propria tradizione». Far conoscere questa tradizione anche al mondo cristiano è stata una delle missioni di Petuchowski, che nelle sue Leggende rabbiniche (dove per “leggende” si devono intendere le letture creative e più audaci dei maestri di Israele) non esita ad affrontare anche quei passi difficili, dinanzi ai quali le interpretazioni cristiane divergono radicalmente da quelle ebraiche, come il Salmo 2 oppure il famoso passo di Isaia 7, secondo il quale una vergine darà alla luce un figlio (vergine è alma in ebraico, tradotta in greco come parthenos e in latino virgo).
  Per il mondo ebraico si tratta solo di “una giovane donna”, essendo altro in ebraico il termine tecnico per vergine. Solo uno studio scientifico dei testi, disponibile all’ascolto reciproco, può illuminare quei versetti che per secoli sono stati causa di conflitto teologico tra le due fedi. Non ultimo, tra i meriti di Jakob Petuchowski c’è quello di aver accorciato le distanze tra ebrei e tedeschi, in anni in cui la memoria del nazismo condizionava ancora pesantemente i rapporti tra quei due mondi. Fu un uomo capace di studi rigorosi, di fedele osservanza e di sincero dialogo, cose che non tutti riescono a fare simultaneamente.

(Avvenire, 22 luglio 2022)

........................................................


Israele prosegue il lavoro con Usa ed Emirati per la convivenza interreligiosa in Medio Oriente

Funzionari israeliani si sono riuniti martedì 19 luglio nell’ambito di un’iniziativa trilaterale con gli Stati Uniti e gli Emirati Arabi Uniti (EAU) per contrastare l’estremismo religioso e promuovere la convivenza interreligiosa in Medio Oriente. Lo riporta The Algemeiner.
  I funzionari dei tre paesi si sono incontrati a Washington nell’ottobre 2021 per annunciare il gruppo di lavoro congiunto, circa un anno dopo che gli accordi di Abramo  hanno formalmente normalizzato le relazioni tra gli Emirati Arabi Uniti e Israele.
  “Sono felice di guidare un’iniziativa storica e importante per promuovere la convivenza e combattere l’odio religioso”, ha affermato il ministro dell’intelligence israeliana Elazar Stern. “Gli Accordi di Abraham hanno infranto le percezioni di lunga data e il gruppo trilaterale continuerà ora a promuovere l’importante dialogo tra i popoli”.
  Il team israeliano per il gruppo di lavoro sulla coesistenza è guidato da Shuli Davidovich, Direttore della Divisione Diaspora e Religioni al Ministero degli Esteri israeliano, e Yaron Tzvick, Direttore della Divisione Politica del Ministero dell’Intelligence.
  Tzvick e Tania Berg-Rafaeli, Direttore del Dipartimento delle Religioni del Ministero degli Esteri, hanno presentato piani per aumentare la tolleranza interreligiosa, promuovere la libertà di culto e elaborare nuove idee per la cooperazione tra i paesi sulla base degli Accordi.
  Si prevede che il team si concentrerà sull’istruzione e sulla programmazione giovanile, tra le altre aree.
  “Questo gruppo di lavoro unico tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti rappresenta un’altra pietra miliare significativa nell’ampliamento del cerchio della pace e nell’avvicinare le religioni e i popoli della regione”, ha affermato Davidovich.
  Inaugurato a marzo, a Dubai, il mese scorso il gruppo ha tenuto il suo primo incontro virtuale con i rappresentanti degli Emirati Arabi Uniti e degli Stati Uniti. È stata istituita una divisione del lavoro, con gli Stati Uniti a capo di un sottogruppo per aumentare la tolleranza religiosa; il gruppo degli Emirati Arabi Uniti incaricato di promuovere la libertà di pratica religiosa; e Israele assume la guida dell’innovazione per la coesistenza e la cooperazione, compresa la giovane leadership.

(Bet Magazine Mosaico, 22 luglio 2022)

........................................................


Biden sperava di creare un Medio Oriente anti Putin. Se lo ritrova anti Usa

La visita del presidente Usa in Arabia Saudita già mezza vanificata dai patti tra Mosca, Riad, Ankara e Teheran. E pure Pechino sventola in faccia a Washington le sue amicizie arabe.

di Amedeo Lascaris

FOTO
La missione del presidente degli Stati Uniti Joe Biden in Medio Oriente già si scontra con la reazione della Russia e, indirettamente, della Cina, che, a dispetto di quanto affermato dall’inquilino della Casa Bianca al vertice di Gedda, hanno forse già riempito “il vuoto” lasciato da Washington. Il leader del Partito democratico è stato costretto a ripercorrere la scorsa settimana i passi del suo odiato predecessore, Donald Trump, recandosi ben un anno e mezzo dopo il suo insediamento nel gennaio 2021 in Israele e Arabia Saudita, sperando che gli alleati storici degli Stati Uniti corressero in aiuto di un Occidente in difficoltà.
  Biden ha ottenuto un unico successo, quello di accelerare il processo di normalizzazione delle relazioni tra Arabia Saudita e Israele, confermato dall’accordo per la cessione delle isole di Tiran e Sanafir dall’Egitto alla monarchia del Golfo e dall’apertura dello spazio aereo saudita ai voli israeliani; mentre ha fallito nel convincere i sauditi a schierarsi dalla parte di Washington contro la Russia, aumentando la produzione di petrolio. Da vedere anche come andrà l’alleanza di difesa contro l’Iran che vedrebbe Riad incline ad avvalersi dei sistemi di difesa antimissile israeliano, ma lasciando comunque aperta la strada diplomatica per evitare un’escalation con l’Iran.

• La Russia «parte integrante» dell’Opec+
  Al netto delle dichiarazioni di facciata, Riad sembra non aver dimenticato lo sgarro di Biden all’erede al trono saudita Mohammed bin Salman accusato della responsabilità dell’omicidio di Jamal Khashoggi. Argomento affrontato, per ammissione dello stesso Biden durante la visita, per ragioni di politica interna con l’obiettivo di calmare i critici in vista delle elezioni di medio termine. Come spesso accade, il diavolo si nasconde nei dettagli. Due indizi in particolare indicano la cautela di Riad davanti all’idea di girare le spalle a Mosca e Pechino: il primo sono le parole del ministro degli Esteri saudita, Faisal bin Farhan, dal Giappone, il secondo è il commento caustico dell’ambasciatore cinese in Cina Chen Weiqing sulle pagine del più prestigioso quotidiano saudita di livello internazionale, Asharq al Awsat.
  Il 19 luglio – pochi giorni dopo il vertice di Gedda tra i leader del Consiglio di cooperazione del Golfo, Egitto, Giordania e Iraq – il ministro degli Esteri dell’Arabia Saudita, il principe Faisal bin Farhan, ha ribadito durante un viaggio in Giappone la posizione della Russia «come parte integrante dell’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio e dei suoi alleati», nota come Opec+, aggiungendo che «senza l’alleanza sarebbe impossibile garantire adeguatamente forniture di petrolio al mercato. Non vediamo una mancanza di petrolio nel mercato, c’è una mancanza di capacità di raffinazione». Con queste parole il pragmatico e defilato ministro degli Esteri ha messo nero su bianco la vera posizione saudita: la Russia resta un alleato strategico e Riad non vuole una nuova guerra per i prezzi come avvenuto nel 2015.

• “Incontro di civiltà” tra cinesi e arabi
  Il secondo “affondo” che contraddice Biden giunge dal quotidiano edito a Londra Asharq al Awsat, considerato “portavoce” della politica internazionale di Riad. Nell’articolo Chen Weiqing ha solleticato la cultura arabo-islamica con una serie di puntuali citazioni del Corano e di grandi pensatori e personaggi, come il viaggiatore berbero Ibn Battuta (considerato il Marco Polo islamico) e il navigatore cinese Zheng He, lanciando un attacco all’Occidente moderno, ritenuto colpevole di una «brutale aggressione contro i paesi di Asia, Africa e America Latina». Il diplomatico ha fatto notare il contrasto tra l’atteggiamento occidentale e le relazioni sino-arabe, definite «modello per scambi amichevoli tra diversi paesi e civiltà».
  Chen ha ricordato inoltre la necessità di «rispetto, non di sottomissione» nei confronti di due aree del mondo che rappresentano «la culla della civiltà umana», accusando l’Occidente di avere sempre avuto una percezione distorta dei popoli orientali. A questo proposito, il diplomatico ha preso a esempio le parole di Biden a Gedda, dove il presidente degli Stati Uniti ha affermato che il suo governo non intente alcun modo lasciare in Medio Oriente campo libero a Cina, Russia e Iran («Lasciatemelo dire chiaramente: gli Stati Uniti rimarranno un partner attivo e impegnato in Medio Oriente. Non ce ne andremo lasciando un vuoto che verrebbe riempito da Cina, Russia e Iran»).

• La crescente indipendenza di Riad
  Questi due indizi – le parole del ministro degli Esteri di Riad e lo spazio offerto all’ambasciatore cinese su uno dei principali quotidiani di proprietà saudita – mostrano come la partita degli americani nella regione sarà molto difficile, trovandosi di fronte un’Arabia Saudita diversa e capace di fare una propria politica internazionale. In questo contesto la visita di Vladimir Putin in Iran (la prima fuori dai confini dell’ex Urss dall’inizio della guerra in Ucraina) si conferma come una risposta ai tentativi di Washington di rilanciare la propria influenza nella regione, risposta rafforzata anche dal fallimento dei tentativi di rilancio dell’accordo sul nucleare iraniano, di cui la Russia fa parte, e che Putin sta usando anche come arma di ricatto nei confronti di Teheran, di fatto costretta a schierarsi con Mosca e Pechino.
  A Teheran, Putin, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e l’iraniano Ebrahim Raisi si sono riuniti nel cosiddetto formato di Astana per la risoluzione della crisi in Siria. Il messaggio lanciato a Washington – nonostante forti divergenze sui tentativi di Ankara di intraprendere operazioni militari contro i curdi – è l’esplicita richiesta del ritiro Usa dai territori a est dell’Eufrate. Nella capitale iraniana il leader russo ha dunque incontrato faccia a faccia dall’inizio del conflitto in Ucraina Erdogan, primo leader di un paese Nato ad avere un colloquio di persona con il capo del Cremlino.
  Come ammesso dallo stesso Erdogan, i colloqui sono stati molto positivi, nonostante le immagini diffuse dalla stampa internazionale e turca che mostrano Putin attendere per oltre 50 secondi il presidente turco, il quale secondo diversi osservatori avrebbe voluto mandare in questo modo un messaggio all’omologo russo, reo di aver compiuto lo stesso gesto in passato. Nonostante ciò, quanto accaduto a Teheran ridimensiona la portata reale del viaggio di Biden in Israele e Arabia Saudita, o comunque complica ulteriormente l’azione di Washington, e non solo, in una regione cruciale per consentire di affrontare la crisi energetica.

• Sponde iraniane e turche per Putin
  Come sottolinea il New York Times, Putin si è mostrato determinato a respingere i tentativi di punire e isolare la Russia, stringendo i legami con altri avversari degli Stati Uniti come l’Iran e con altri paesi come la Turchia (membro Nato ma sicuramente non in rapporti idilliaci con Washington). In particolare, Putin ha sfruttato la messa all’angolo dell’Iran per strappare un’approvazione della guerra da parte di Khamenei, che nel colloquio con il presidente russo ha difeso la Russia e la sua decisione di agire in Ucraina.
  Intanto Gazprom, il colosso energetico russo, ha firmato un accordo non vincolante da 40 miliardi di dollari per aiutare l’iraniana National Oil Company (Nioc) a sviluppare i giacimenti di gas e petrolio nel suo territorio, sancendo una partnership mai avvenuta fino ad oggi tra Mosca e Teheran sul fronte energetico. Come rivelato dallo stesso consigliere per la sicurezza nazionale Usa, Jake Sullivan, la Russia sta cercando di acquistare dall’Iran i droni da combattimento tanto necessari in Ucraina, una questione che non è stata affrontata pubblicamente negli incontri del 19 luglio, ma che sicuramente avrà sviluppi in futuro, dato che l’Iran da tempo cerca acquirenti di spicco per le sue attrezzature militari.

(Tempi, 22 luglio 2022)

........................................................


Il mondo fantasma: gli ebrei invisibili

Che ne è rimasto del mondo ebraico che viveva nell’est Europa alla vigilia della seconda guerra mondiale? Un libro ripercorre la storia delle terre più duramente colpite dalla shoah.

di Massimo Ricci

Qualcosa è rimasto tra le pagine scure della storia dell’Europa orientale. Una presenza ebraica ridotta, spesso autocensurata, rimasta in una terra dove vivevano quasi dieci milioni di ebrei ed oggi ne rimangono poche migliaia.
  Ciononostante questo spirito aleggia, si percepisce, torna ad animare quei campi anche se ancora per anni dopo la guerra l’antisemitismo è rimasto come una piaga incomprensibile e dove ancora adesso il sovranismo, il fascismo, il vecchio revanscismo rimette ancora in discussione quella radice comune che è stata il seme dell’Europa.
  Gabriele Eschenazi, giornalista specializzato in politica e cultura israeliana e Gabriele Nissim, saggista, entrambi milanesi, lo raccontano nel libro edito per gli Oscar Storia Mondadori “EBREI INVISIBILI, i sopravvissuti dell’Europa orientale dal comunismo ad oggi”. Un documento ricco di riferimenti e documenti e per fortuna anche di carte geografiche di riferimento, di mappe in grado di localizzare termini spesso rimasti oscuri cartelli nella memoria collettiva, difficili da individuare. Bessarabia, Bucovina, Rutenia. Terre dell’Est dove ancora non si sono fatti i conti per intero con le responsabilità della Shoah e che proprio per questo restano nell’aria come fantasmi in cerca di pace.
  Come ha invece fatto Safran Foer in “Ogni cosa è illuminata”. Come dimostra financo la guerra in Ucraina qui nulla è stato fino in fondo illuminato: troppe cose non sono state chiarite, rappacificate. Partendo dall’Ungheria e dalla Polonia, ogni paese è esaminato dalla fine del secondo conflitto mondiale ad oggi attraverso l’esperienza comune comunista e di contrapposizione all’Occidente in questi paesi dove rischia di scoppiare il terzo conflitto mondiale.
  E se per l’ex Rdt una sorta di espiazione e di elaborazione del reato sembra compiuta (“nonostante la presenza di gruppi naziskin molto attivi i partiti di estrema destra stanno perdendo consensi” nella Germania dell’est come nel resto del paese, affermano gli autori) in altri paesi molto resta da fare. In tutta la Germania vi sono centri sulla Shoah e musei, si possono visitare in molte città i centri dove la Gestapo interrogava gli arrestati.
  Per il resto il rapporto fra ebrei e comunismo nell’Europa centrorientale non ha resistito alle politiche antisemite di molti governi comunisti.
  A partire quasi subito verso Israele furono gli ebrei di Bulgaria nonostante le radicate tradizioni filosemite del passato di Sofia. Il libro analizza l’antisemitismo delle masse, spesso tenute incolte e con un’impronta feudale che ha fatto comodo alla borghesia dell’est europeo. Sentimento che si sposa subito con la politica hitleriana negli anni Trenta e talvolta addirittura se ne serve anche quando politicamente non si sarebbe del tutto allineati, come accaduto in Ungheria. E sul dopoguerra, su una mancata riconciliazione in cui entra in campo anche la responsabilità dei dirigenti comunisti, anche di quelli ebrei, gli autori ricordano le parole di Primo Levi in merito alla mancata reazione dei tedeschi di fronte al genocidio: avrebbero potuto sapere molto di più circa quanto avveniva nei campi, osservano ma non lo facevano per non sentirsi colpevoli. “Non la chiamerei rimozione – afferma Levi – perché la rimozione è interna. Si rimuove una cosa che si conosce. Qui invece si chiudono i battenti prima di conoscerla”.
  Il non credere alle atrocità, spiegano Eschenazi e Nissim , ”diventa un escamotage per non vedere e non assumersi delle responsabilità di fronte alla propria coscienza”. Viene analizzato il rapporto tormentato degli ebrei con la Polonia, con la disputa sulla memoria della sofferenza, sull’identità stessa di Auschwitz (nel campo 1 fu praticamente annientata l’elite politica e culturale polacca nel 1940 prima della destinazione ‘esclusiva’ a campo di sterminio quasi per intero per l’eliminazione degli ebrei) e sul volere equiparare l’Olocausto al programmato sterminio dei polacchi da parte dei tedeschi, non avvenuto solo per priorità temporali anche se il destino della Polonia nella follia del Fuhrer era di renderla schiava non di eradicarla completamente, non figurava il concetto di judenrein.
  Ma su questo dolore comune che appare ancora impossibile da condividere si alimenta ancora oggi un reciproco risentimento. Tutto viene riassunto dal pensiero del filosofo Stanislaw Krajewski riportato dagli autori nel libro: “i polacchi si considerano per lunga tradizione la nazione che più ha sofferto in tutta la storia umana, sono il Cristo delle nazioni, che si è immolato per la salvezza di tutta l’umanità. Diventa allora impossibile accettare che altri abbiano sofferto di più, e ancora più difficile accettare che altri siano perseguitati proprio dai polacchi”. Per questo scatta quasi automatico il bisogno di impadronirsi o di condividere i luoghi simbolici del genocidio ebraico, ad iniziare da Auschwitz-Birkenau. Afferma Adam Michnik citato nel libro: “Il ricordo della Polonia per gli ebrei sopravvissuti che hanno lasciato il paese, ha scritto acutamente la Krall, è la memoria di un ‘rifiuto”.
  Un israeliano citato nel testo sintetizza lo stato d’animo reciproco: “gli ebrei non sono ancora venuti a capo della loro questione polacca. Di quella tedesca sì, ma era più facile. Si perdona più facilmente chi ci ha dato la morte di chi ci ha umiliato. La questione aperta con i polacchi è una questione di umiliazione e di sentimenti respinti. Niente genera maggiore aggressività e un rancore più tenace di un amore respinto, sprecato”.

(riflessi Menorah, 22 luglio 2022)

........................................................


Perché votare il 25 settembre non è un problema per gli ebrei. Parla Bendaud

Il coordinatore del tribunale rabbinico: “Positivo che la politica si interroghi sul voto agli ebrei e le relative limitazioni. Così si rispettano le minoranze. Ma la concomitanza con il capodanno ebraico non è un problema perché…”

di Federico Di Bisceglie

Dopo la liquefazione di un governo e la prospettiva di elezioni imminenti ci si pongono sempre due ordini di interrogativi: i primi di carattere politico e i secondi – interconnessi – di carattere pratico. Stamattina le agenzie di stampa avevano rilanciato l’interrogativo che alcuni politici si erano posti circa l’opportunità di indire le votazioni il 25 settembre. Ossia in concomitanza con il capodanno ebraico.
  Dunque, si è detto, impedendo agli ebrei italiani osservanti, in Italia o immigrati in Israele e con cittadinanza italiana, di poter esercitare un diritto fondamentale. Sì perché “durante Rosh haShana, vigono, per le persone osservanti, molte delle limitazioni che valgono per lo Shabbat, il sabato. Tra le quali non scrivere”.
  A dirlo è Vittorio Robiati Bendaud saggista e coordinatore del tribunale rabbinico del Centro-Nord Italia, che ci spiega la posizione espressa dall’Unione delle Comunità Ebraiche la quale ha chiarito che “la data non pone ostacoli”.
  “Il capodanno ebraico – spiega Bendaud – a differenza di altre festività, sia in diaspora che in Israele, dura due giorni. Dunque, Rosh haShana durerà dal tramonto del 25 (che è il giorno in cui ‘entra’ la festività) fino al sorgere delle stelle del 27”. Uno dei riferimenti biblici si trova nel computo dei giorni nella Genesi: “E fu sera e fu mattina, giorno uno”. Peraltro, questo elemento accomuna liturgicamente la religione ebraica e quella cristiana, derivata dalla prima.
  “Non è un caso – riprende il saggista – che la messa del sabato, celebrata dopo i vespri o “Intra vesperas”, sia quella della domenica, che, invece, termina con i ‘secondi vespri’, ossia la sera. A ogni modo, il fatto che, comunque, la politica si sia interrogata, premurandosi di garantire a tutti il diritto al voto “è un segnale positivo – chiarisce il coordinatore del tribunale rabbinico – , che si muove nel solco dell’intesa che intercorre tra l’Unione delle Comunità Ebraiche e lo Stato Italiano”. Ma c’è qualcosa di più profondo, che ha a che fare con il concetto stesso di democrazia.
  “La forza della democrazia – riprende Robiati Bendaud – consiste anche nella garanzia dei diritti delle minoranze. E quella ebraica è una minoranza che in Italia c’è da sempre ed è fondativa”. E a chi storce il naso alludendo all’esiguità della presenza ebraica in Italia? “Prima di tutto costui si dovrebbe interrogare sul proprio concetto di Stato democratico e di democrazia partecipativa – risponde – e, oltre a questo, dovrebbe documentarsi e approfondire. L’apporto degli ebrei per la ‘causa Italia’, soltanto considerando dal Risorgimento a oggi, è stato preziosissimo e vastissimo. Inversamente proporzionale al loro numero. Siamo orgogliosamente cittadini italiani”. Pare che, dissipati questi dubbi, la propensione sia quella di andare a votare proprio il 25.
   

(Formiche.net, 21 luglio 2022)

........................................................


18 settembre: si inaugura a Ferrara all’insegna del “Rinnovamento” la XXIII Giornata Europea della Cultura Ebraica

ROMA - Domenica 18 settembre avrà luogo la ventitreesima edizione della Giornata Europea della Cultura Ebraica, la manifestazione che apre alla cittadinanza le porte di Sinagoghe, musei e altri siti ebraici, con centinaia di appuntamenti, quest’anno in centodue località distribuite in sedici regioni, da nord a sud alle isole.
  L’iniziativa, coordinata e promossa nel nostro Paese dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e alla quale aderiscono ventisei Paesi europei, ha quale tema a fare da fil rouge tra tutti gli eventi il “Rinnovamento”. Un invito a pensare nuovi modelli di convivenza e di sviluppo, di fronte alle grandi e difficili sfide del nostro tempo.
  “In un periodo storico in cui è urgente un cambio di passo, sia sotto il profilo della tutela e la preservazione dell’ambiente a livello globale sia per quanto riguarda le relazioni internazionali e in particolare la gestione del conflitto scatenato della Russia contro l’Ucraina, che porta con sé rischi terribili per tutta l’umanità, il Rinnovamento è un tema cruciale”, dichiara la presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Noemi Di Segni. “Soltanto attraverso un profondo e radicale mutamento, in termini di capacità di convivenza tra i popoli e in direzione della ricerca di una pace ancora possibile tra le forze in campo, sia nella direzione di una decisa attenzione verso la tutela dell’ambiente e della Terra, potremo passare alle giovani generazioni il giusto e necessario testimone di vita e di valori, accompagnati e sostenuti da una tradizione millenaria. Un messaggio che lanciamo in occasione della Giornata Europea della Cultura Ebraica”.
  “Città capofila”, il luogo dove la mattina di domenica 18 settembre sarà inaugurata ufficialmente la manifestazione alla presenza di autorità nazionali e locali, sarà quest’anno Ferrara, sede di un’antica e importante comunità ebraica, che oggi inoltre ospita uno dei più importanti musei ebraici italiani, il MEIS – Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah. A Ferrara si svolgerà un fitto programma di iniziative, tra visite guidate nell’ex ghetto e nei principali luoghi ebraici e momenti di incontro e di approfondimento. In quei giorni (15-18 settembre), organizzata dal MEIS proprio in concomitanza con la Giornata, si terrà anche la Festa del Libro Ebraico, che proporrà iniziative con scrittori, artisti ed esponenti del mondo della cultura nazionali e internazionali.
  La Giornata Europea della Cultura Ebraica è un appuntamento ormai consolidato, che nel nostro Paese, come sostenuto dall’AEPJ, l’Associazione europea per la preservazione e la valorizzazione del patrimonio ebraico e organizzazione “ombrello” della Giornata, vanta il primato di edizione più ampia e riuscita in Europa. Ogni anno infatti partecipano nella sola Italia decine di migliaia di visitatori, che aderiscono all’invito a scoprire un patrimonio culturale di notevole interesse storico, archeologico, architettonico, artistico, che per un giorno diventa fruibile all’unisono, grazie alla virtuosa collaborazione tra Comunità Ebraiche, Istituzioni, Enti locali e Associazioni attive sul territorio.
  La Giornata Europea della Cultura Ebraica gode del patrocinio del Ministero della Cultura e dell’Associazione Nazionale Comuni Italiani. È inoltre riconosciuta dal Consiglio d’Europa.
  Ulteriori informazioni sono disponibili sul sito dell'Ucei e sui canali social della Giornata Europea della Cultura Ebraica.
  In Europa la Giornata è coordinata dall’AEPJ - The European Association for the Preservation and Promotion of Jewish Culture and Heritage. I programmi dei singoli Paesi sono consultabili sul sito jewisheritage.org.

(aise, 22 luglio 2022)

........................................................


Il settore israeliano dell'ortofrutta inizia a beneficiare dello storico accordo di libero scambio con gli Emirati Arabi Uniti

Il Ministro dell'economia e dell'industria di Israele e il Ministro dell'economia degli Emirati Arabi Uniti
In Israele, dopo lo storico accordo di libero scambio sottoscritto di recente fra Israele e gli Emirati Arabi Uniti (UAE), esportatori e produttori stanno iniziando a vedere un incremento delle attività d’esportazione, che sperano continui nelle prossime stagioni. L’accordo fa seguito agli altrettanto storici accordi di pace di Abramo, firmati nel settembre 2020, che hanno stabilito relazioni diplomatiche e commerciali tra Israele e molti dei suoi Paesi arabi vicini.
  Il Ministro dell'economia e dell'industria di Israele, Magg. Gen. (Ris.) Orna Barbivay e il Ministro dell'economia degli Emirati Arabi Uniti, Abdullah bin Touq Al Marri. Michael Amar, direttore marketing della Kibbutz Alumim in Israele, afferma di essere riusciti a esportare piccoli volumi di carote e patate negli Emirati Arabi Uniti, nella stagione appena conclusa. "Richiedono parte della nostra frutta, oltre a verdure e carote. Hanno anche iniziato a importare anche le nostre patate. Questa stagione è stato solo l’inizio, ma mi aspetto che i volumi siano sempre più grandi. Molte aziende israeliane li aiutano a realizzare aziende, magazzini, e tutto quello che è necessario. Spero che il commercio sarà migliore e più intenso fra 1 o 3 anni. Anche se pagano prezzi bassi, se saranno sufficienti a coprire i costi, potremo essere competitivi".
  Dall'istituzione degli Accordi di pace di Abramo, il commercio tra gli Emirati Arabi Uniti e Israele è notevolmente aumentato, raggiungendo 885 milioni di dollari nel 2021. Con l'Accordo di libero scambio, un ulteriore 2% dell'elenco di articoli importati (152) ha usufruito di un vantaggio doganale. Tra l'altro, le tariffe su frutta e verdura sono state ridotte.
  Tuttavia, Amar dice: "Tutto dipende dai costi di trasporto e dalla velocità con cui possiamo portare i nostri prodotti su questi mercati. C'è un piccolo problema nel trasporto. Poiché non abbiamo una relazione istituzionale che ci consente l’utilizzo dei camion per il trasporto dei prodotti, ad esempio via Giordania, il costo del trasporto sarà alto, per via degli elevati costi del carburante, ma sarà molto più veloce. Pertanto, dobbiamo spedire i nostri prodotti negli Emirati Arabi Uniti, che impiegano 3 settimane per arrivare a destinazione. Proprio come nel resto del mondo, dobbiamo fare i conti con tanti problemi, come l’aumento del costo della benzina, dei piloti e di tutto il resto".
  Secondo Amar, gli esportatori con sede in Israele sono stati in grado di commerciare con aziende nella vicina Giordania, dove hanno buoni rapporti commerciali. Tuttavia, l'Egitto è un concorrente diretto. "I giordani prendono da noi ciò di cui hanno bisogno, anche se hanno un piccolo settore agricolo, e noi compriamo gli uni dagli altri. In Egitto, i prezzi di mercato sono troppo bassi. Non compenseranno i nostri costi. Sono concorrenziali con noi anche in Europa. La scorsa stagione hanno fatto un buon lavoro con patate e carote".
  "Gli Emirati Arabi Uniti sono un posto bellissimo da visitare. Anch'io sono stato a Dubai. La loro ospitalità è fantastica. Sono aperti al commercio con tutti, non ci sono problemi con Israele. Spero che andrà bene e che potremo commerciare con loro sempre di più nelle prossime stagioni", conclude Amar.

(Fresh Plaza, 21 luglio 2022)

........................................................


Un Consiglio per fare da ponte fra Israele e Europa? Non proprio. Ma i rapporti importanti sono altri

di Ugo Volli

• PARERE FAVOREVOLE AL CONSIGLIO
  I ministri degli esteri dell’Unione Europea hanno dato parere favorevole alla convocazione del Consiglio di Associazione con Israele, il massimo organo per i rapporti fra Europa e Stato ebraico, che non si riuniva da dieci anni. La notizia sembra positiva, tanto da essere stata annunciata dal primo ministro israeliano Lapid come una vittoria. Se si guardano le cose più da vicino, però l’impressione cambia un po’. In primo luogo nel 2012 fu Israele a lasciare il Consiglio, che non si è più riunito. La ragione era una protesta contro la distinzione che l’Europa iniziò allora a fare nei trattamenti economici e politici fra il territorio delimitato dalle linee armistiziali del 1948 (la linea verde) e la Giudea e Samaria. L’Europa non ha cambiato posizione anzi ha utilizzato da allora molti strumenti economici e diplomatici per cercare di sostenere il “carattere arabo” di quei territori. E’ Lapid che già da Ministro degli esteri aveva stabilito che questa convocazione doveva essere “un obiettivo primario” dell’azione diplomatica di Israele.

• IL PROGETTO DELL’UNIONE EUROPEA
  La seconda ragione di dubbio emerge da un dettaglio tecnico. In realtà i ministri degli esteri hanno fatto una dichiarazione di principio, che accoglie una richiesta israeliana, ma nessuna data è stata stabilita. La ragione è stata spiegata dal “Ministro degli esteri dell’Europa”, lo spagnolo Josep Borrell: “la data per la nuova riunione del Consiglio sarà concordata con Israele solo dopo che gli stati dell’Unione Europea avranno concordato una posizione comune sulla ‘questione palestinese’.” Come dire: i rapporti dell’Europa con Israele non dipendono da quel che fa lo stato ebraico sulle relazioni bilaterali con la Comunità Europea, quindi dal commercio, dalla cultura dalla scienza, dalle sue posizioni sui temi europei del momento, come l’Ucraina. Ma viene valutato invece a partire dai suoi rapporti con una terza entità, l’Autorità Palestinese. Ciò è confermato dal seguito della dichiarazione di Borrell: “Sappiamo che la situazione nei territori palestinesi si sta deteriorando e credo che i ministri si siano trovati d’accordo sul fatto che il Consiglio di associazione costituisce una buona opportunità per dialogare con Israele sul tema”, aggiungendo che “la posizione dell’Unione Europea rispetto al processo di pace in Medio Oriente non è cambiata” rispetto al vecchio slogan dei due stati. Che questa impostazione non funzioni, come ormai è chiaro da decenni di sforzi falliti, e che nel frattempo siano emerse altre linee, come quella dei “patti di Abramo” all’Unione Europea non importa: “la posizione non è cambiata”.

• L’antisemitismo europeo
  Questo atteggiamento si è visto anche nel fallimento, avvenuto sempre nei giorni scorsi, di una delegazione della Commissione Diritti umani del Parlamento europeo, che voleva venire in Israele a parlare con Marwan Barghouti, terrorista che sta scontando 5 ergastoli nelle prigioni israeliane per aver organizzato altrettanti sanguinosi attentati: una strana pretesa, fare una missione in uno stato straniero per parlare con un criminale. Ma poi è venuto fuori che la delegazione includeva anche l’eurodeputato Jaak Madison, del partito conservatore e membro dell’Ekre, partito populista di estrema destra estone, che ha espresso negli ultimi anni spesso posizioni negazioniste e filofasciste. Di fronte al rifiuto di Israele di accogliere un personaggio del genere. la missione è stata annullata.

• La collaborazione
  Ma in realtà la situazione non è tutta così negativa. Israele è da sempre più vicina culturalmente e politicamente agli Stati Uniti, ma la distanza geografica dall’Europa è molto minore, il che comporta chiare convergenze di interessi geopolitiche e commerciali; e inoltre buona parte della popolazione israeliana ha radici europea. L’Europa ha poi nella sua memoria la Shoà e le persecuzioni degli ebrei nei secoli; inoltre il contributo culturale ebraico è stato determinante almeno a partire dall’Ottocento. Vi sono dunque temi comuni che vanno oltre la volontà politica della Commissione Europea o possono anche modificarne la posizioni. In questo momento un problema decisivo per l’Europa sono i rifornimenti energetici e per ciò il gas israeliano è un possibile legame decisivo. Altri temi sono più immateriali, ma importanti: la tecnologia israeliana (per esempio quella agricola, importante per combattere la desertificazione), la cultura condivisa (romanzi, film, serie, arte), l’organizzazione politica democratica e anche il ponte delle comunità ebraiche europee è importantissimo. Insomma, lo spazio della collaborazione non è politico, ma sociale, umano, artistico ed economico.

(Shalom, 21 luglio 2022)

........................................................


I ragazzi oncologici ‘Rachashey Lev’ d’Israele in visita dal sindaco di Verona

FOTO
VERONA - Sono stati accolti nella mattinata di martedì 19 luglio, in sala degli Arazzi, dal sindaco Damiano Tommasi, una trentina di bambini e ragazzi israeliani, malati oncologici.
  Ad accompagnarli le loro famiglie e lo staff di medici e volontari dell’Associazione Rachashey Lev.
  Insieme al sindaco hanno partecipato all’incontro l’assessore alle Politiche giovanili Jacopo Buffolo e la vice presidente del Consiglio Comunale Veronica Atitsogbe.
  Il gruppo, composto complessivamente da una cinquantina di persone, sta partecipando in questi giorni ad un viaggio culturale in Italia, con tappa speciale a Verona. L’organizzazione di vacanze e viaggi in tutto il mondo è infatti uno dei progetti sostenuti dall’associazione israeliana, che assiste i bambini malati di cancro e le loro famiglie.
  “È un piacere – ha sottolineato il sindaco Tommasi – accogliere nella nostra città questo speciale gruppo di bambini e ragazzi. Nonostante le difficoltà di salute attraversate, il loro entusiasmo ed energia rappresentano una forza vitale contagiosa ed emozionante. Li ringrazio per questa visita e per aver inserito la nostra città fra le tappe del loro viaggio”.
  Al termine dell’incontro con il sindaco Tommasi il gruppo ha proseguito con un tour della città, con tappa all’Arena, alla Casa di Giulietta e alla Sinagoga.

(Verona News, 21 luglio 2022)

........................................................


“Batteri ingegnerizzati” dai molti potenziali sviluppati dai ricercatori israeliani

di Michael Soncin

I ricercatori della Facoltà di Biotecnologie e Ingegneria Alimentare del Technion di Haifa hanno messo appunto dei “batteri bionici”, al fine di essere sfruttati nel campo dell’industria. Le possibilità d’impiego sono tante e vanno dal rilascio mirato di farmaci nel corpo, al rilevamento di sostanze pericolose per l’ambiente, fino alla produzione di combustili.
  Come si legge dal Jerusalem Post, lo studio è apparso nell’edizione internazionale della rivista tedesca Angewandte Chemie, che ha definito l’articolo “carta calda” vista l’importanza delle potenzialità applicative; le cui ricerche citate, sono state condotte dal prof. Omer Yehezkeli, dai dottorandi Oren Bachar e Matan Meirovich, e dalla studentessa di master Yara Zeibaq.
   “Il nostro obiettivo è di eliminare le attuali barriere fra le diverse discipline, e principalmente tra i nanomateriali ed i sistemi biologici quali i batteri, per creare sistemi bionici in grado di funzionare sinergicamente”, ha spiegato Yehezkeli: ossia, un lavoro frutto della fusione tra ingegneria, biotecnologie e nanotecnologie.
  “L’uso di proteine ingegnerizzate per l’autocrescita di nanomateriali è una strategia promettente che apre nuovi orizzonti scientifici per combinare materia inanimata e vivente“, ha aggiunto Yehezkeli.
  Oggi sappiamo che questi minuscoli organismi possono essere riprogrammati per essere trasformarti in piccole fabbriche utili a produrre materiali importanti per la popolazione e la salvaguardia del globo. Un ulteriore passo in avanti risiede nel comprenderli maggiormente, per ridurre il grosso problema dell’antibiotico resistenza.
  Ne è dunque stata fatta molta di strada da quando nel lontano 1969 lo scienziato italiano ebreo di nome Salvador Luria (1912-1991) vinceva il premio Nobel per la fisiologia o la medicina. Quello fu un passo ciclopico, poiché i suoi lavori pionieristici sui fagi e sui batteri lo includono de iure nell’olimpo dei padri fondatori della genetica batterica e della biologia molecolare. Assieme a Max Delbrück (1906-1981), con il famoso test di fluttuazione, dimostrò che i meccanismi di adattamento dei batteri agli attacchi dei virus batteriofagi rispondevano al principio darwiniano della selezione naturale.
  Per le loro capacità adattive questi organismi unicellulari si possono trovare ovunque, compresi i luoghi più ostili del pianeta: li troviamo nell’aria, nelle piante, negli animali, nel suolo e anche nell’uomo. Alcuni sono buoni, altri possono essere la causa di malattie pericolose come: salmonella, polmonite, meningite, tetano e botulismo. Come spiega bene anche il recente volume divulgativo, Atlante dei batteri – Un mondo di bellezza contagiosa, edito da Marsilio, illustrato da Falk Nordmann e scritto da Ludger Wess: i batteri sono tra le prime forme di vita conosciute sulla terra e ne esistono di migliaia di tipi. Non esistono solo batteri “cattivi”, molti sono anche “buoni”, come quelli che compongono il microbiota intestinale dell’essere umano.
  Una “bellezza” da conoscere sempre più: “Ci sono prove della fattibilità di un nuovo paradigma che può contribuire notevolmente a migliorare le prestazioni in molte aree, tra cui energie, medicina e ambiente”, ha concluso Yehezkeli.

(Bet Magazine Mosaico, 21 luglio 2022)
___________

No comment.

........................................................


Da nord a sud, Israele invasa dalle meduse

Enormi gruppi di meduse avvistate al largo della costa settentrionale di Israele. La Israel Nature and Parks Authority afferma che le meduse nella regione sono aumentate grazie alle attività come l’inquinamento degli oceani, i cambiamenti climatici e il danneggiamento dei suoi predatori naturali.

Martedì, nella baia di Haifa, al largo della costa settentrionale di Israele, sono state avvistate gigantesche meduse, molte delle quali si sono arenate.
  L’orda di meduse è stata avvistata appena al largo della costa della città settentrionale dal direttore generale dell’Autorità per i parchi e la natura israeliana (INPA) Raya Shuraki e dalla Marine Enforcement Unit dell’agenzia. L’Inpa ha affermato che le popolazioni di meduse nella regione sono esplose grazie alle attività umane.
  “In molte cose che gli esseri umani contribuiscono all’espansione incontrollata delle meduse, tra cui lo scavo del Canale di Suez, l’inquinamento degli oceani con le acque reflue, i cambiamenti climatici, il danneggiamento dei predatori delle meduse – come il pesce luna oceanico e le tartarughe marine – e lo smaltimento dei rifiuti solidi”, hanno detto i funzionari. Secondo Meduzot Baam, un progetto di scienza dei cittadini e un’app che monitora sciami di meduse attraverso i rapporti degli utenti, le famigerate gelatine di mare possono essere trovate sparse sulla maggior parte delle spiagge israeliane da nord a sud.
  Negli ultimi giorni, l’app ha ricevuto decine di segnalazioni da parte degli utenti sugli avvistamenti di meduse intorno ad Haifa. Ci sono state anche segnalazioni di meduse spiaggiate ad Hadera, Netanya, Tel Aviv, Bat Yam e nella città meridionale di Ashdod.

(Israele 360, 21 luglio 2022)

........................................................


Parlamentare negazionista e Barghouti, salta la missione europea in Israele

La commissione Diritti umani del Parlamento europeo ha annullato la missione prevista per il 21 luglio in Israele e nei territori gestiti dai palestinesi.
  Le cause sono due.
  La prima va ricercata nella presenza di Jaak Madison, eurodeputato del partito conservatore e membro dell’Ekre, partito populista di estrema destra estone, che negli anni ha spesso ridimensionato i crimini della Germania nazista e inneggiato il fascismo.
  Nei giorni scorsi il governo di Gerusalemme aveva fatto sapere alla presidente della commissione, la socialista belga Maria Arena, che Israele non avrebbero avuto incontri con politici, le cui “opinioni (sono) ispirate alla visione nazista”.
  Madison ha deciso di non rinunciare alla missione, che già in precedenza aveva subito scricchiolii. Scricchioli che ci portano alla seconda causa: all’interno della missione del Parlamento europeo era previsto un incontro Marwan Barghouti, terrorista che sta scontando 5 ergastoli in Israele.
  Entriamo nel dettaglio e vediamo chi sono Jaak Madison e Marwan Barghouti.
  Madison nel 2015 scrisse questo post sul suo blog personale.

    “È vero che c’erano campi di concentramento, campi di lavoro forzato, giochi con camere a gas… ma allo stesso tempo un ordine così “rigoroso” fece uscire la Germania da un profondo buco nero, perché lo sviluppo, principalmente dell’industria militare, ha portato nel giro di un paio d’anni a fare del Paese uno dei più potenti d’Europa”.

Posizioni che non cambiò neanche nel 2019, anno in cui in un’intervista al Guardian, in merito ai rifugiati siriani, parlò di “soluzione finale è necessaria” (Die endgültige Lösung ist erforderlich), la stessa espressione utilizzata dalla Germania nazista per risolvere l’inesistente “problema ebraico”. Poco dopo definì il fascismo “un’ideologia cha ha sfumature positive e necessarie per preservare lo stato nazione”.
  Marwan Barghouti è un terrorista e uno dei leader della prima e seconda intifada, che ha seminato il terrore in Israele. È in carcere per scontare 5 ergastoli per essere stato l’artefice di attentati, tra gli altri, a Gerusalemme e Tel Aviv.
  Veramente la commissione Diritti umani del Parlamento europeo voleva dialogare con Israele “servendosi” di un negazionista e un terrorista palestinese?

(Progetto Dreyfus, 19 luglio 2022)

........................................................


Reporter israeliano 'si infiltra' alla Mecca, proteste sul web

TEL AVIV - Sulla scia di una recente apertura dell'Arabia Saudita verso Israele, un reporter della televisione commerciale israeliana Canale 13 è entrato di nascosto alla Mecca e ha registrato un servizio dal monte Arafat. Ieri, dopo la trasmissione di quelle immagini, sul web sono giunte dall'Arabia Saudita reazioni molto negative.
  Nel suo servizio il giornalista Gil Tamari ha ricordato che "la Mecca è una città sacra all'Islam e l'ingresso è vietato ai non musulmani". Ha anche ripreso un cartellone stradale che, alla periferia della città, indica un percorso alternativo per i non musulmani. Tuttavia il suo conducente ha proseguito nel flusso principale del traffico, superando un posto di blocco della polizia. "Sono il primo giornalista israeliano a trasmettere da qua, e perfino in ebraico", ha esclamato Tamari.
  Fra le prime reazioni di irritazione giunte dall'Arabia Saudita c'è quella del blogger Muhammad Saud, che pure mantiene contatti regolari con giornalisti israeliani. "Cari colleghi - ha scritto Saud -, Tamari ha filmato senza pudore. E' come se io fossi entrato in una sinagoga e avessi letto la Torah. Vergogna.
  Avete offeso l'Islam, siete sfacciati". Canale 13 non ha ancora commentato la vicenda.

(ANSAmed, 20 luglio 2022)

........................................................


Il gas naturale dà speranza al Libano, Hezbollah chiede che venga sperperato

Meno di due anni dopo che un'esplosione catastrofica ha quasi raso al suolo intere parti della capitale del Libano, Beirut, facendo precipitare il paese nella rovina economica e nella disperazione sociale, la guerra in Ucraina e il gas naturale hanno dato al Libano la possibilità di ricostruirsi. Tuttavia, come accade quasi ininterrottamente da quasi due decenni, il gruppo sciita Hezbollah, strettamente alleato con l'Iran e considerato da molti un'organizzazione terroristica, minaccia il Libano di perdere tale opportunità.
  In un discorso straordinario alla nazione il 12 luglio, il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha ammesso che la sua organizzazione aveva inviato tre droni da ricognizione nel Mar Mediterraneo per molestare e ostacolare gli sforzi israeliani per sviluppare reperti di gas naturale nell'area vicino al confine marittimo israelo-libanese. Sebbene i droni fossero apparentemente disarmati e furono abbattuti facilmente dalle forze israeliane, Nasrallah ha usato questo incidente per chiedere ai negoziatori libanesi che cercano di delimitare quel confine di assumere una posizione aggressiva, minacciando una guerra totale con Israele se le sue richieste non saranno soddisfatte.
  “Petrolio e gas sono l'unica via d'uscita per il Libano dalla crisi che sta attraversando”, ha implorato Nasrallah. "La situazione è terribile e il denaro fornito dalla Banca Mondiale non risolverà questa crisi".
  “La leva del Libano e la sua unica fonte di potere nei negoziati marittimi [con Israele] è la sua resistenza e forza. Dobbiamo usarlr", ha continuato Nasrallah.
  Il discorso non è andato molto bene nei circoli politici libanesi, che sono intimiditi dal gruppo sostenuto dall'Iran e immensamente amareggiati nei suoi confronti e nel suo puro radicalismo.
  Molti sono preoccupati che il discorso possa porre fine alla possibilità del Libano di raggiungere un accordo con Israele sul confine marittimo tra i due paesi per quanto riguarda il giacimento di gas di Karish e l'adiacente giacimento di Qana, da dove il gas sarà sviluppato e convogliato in Europa, si spera compensando parte della diminuzione a seguito del boicottaggio internazionale delle forniture russe come conseguenza della guerra in Ucraina.
  Particolarmente sensibile a molti libanesi è stata la richiesta di Nasrallah che i negoziatori libanesi devono dire ai mediatori americani che il governo libanese “non ha alcun controllo su di noi”, confermando la posizione di Hezbollah come uno stato canaglia virtuale all'interno di uno stato.
  In effetti, è proprio quella posizione intransigente che porta molti libanesi a sospettare che il nitrato di ammonio che ha innescato la massiccia esplosione del 4 agosto 2020 al porto di Beirut fosse in realtà il risultato dell'incauta immagazzinamento di quell'esplosivo da parte di Hezbollah al porto, cercando di usarlo contro i suoi presunti nemici in un momento futuro.
  Il Libano ora è così debole che l'elettricità è accesa solo per poche ore al giorno.
  In effetti, molti credono che le luci che la ripresa economica potrebbe alla fine riaccendere in modo permanente dipendano interamente dalla stessa fornitura di gas israeliana al Libano tramite intermediari, costringendo in effetti i due paesi a raggiungere un livello di cooperazione contrario alle minacce di lunga data di Hezbollah e richieste.
  Ma resta la domanda scottante: se Hezbollah dovesse iniziare un'altra guerra con Israele, cosa resterà allora del Libano, già un guscio?
  In tutta questa disperazione è ora entrata la prospettiva dei diritti d'autore sul gas naturale, poiché sono stati scoperti giacimenti di gas nei giacimenti di gas Karish e Qana, territorialmente contesi, situati al largo tra Libano e Israele. In modo tipico, secondo molti libanesi, Israele ha studiato lo sviluppo della sua porzione di campo e ha raggiunto un accordo con le nazioni europee in tal senso, ma il Libano ha fatto poco per eguagliare la proazione di Israele. Ora, con il gas programmato per essere esportato da Israele a partire da settembre, il Libano non vuole disperatamente essere escluso. Ha sostanzialmente cambiato la sua posizione negoziale riguardo al confine definitivo, sembrando aprire la strada a un accordo con Israele. Nel frattempo, un impianto di perforazione del gas proveniente da Singapore ha raggiunto il sito conteso a fine maggio, rendendo la prospettiva di uno sviluppo del gas naturale abbastanza reale, se non imminente.
  Era troppo per Nasrallah, che si aggrappa al potere quasi interamente su una piattaforma di distruzione dello Stato ebraico, anche quando ciò è autodistruttivo per lo stesso Libano. Forse a causa della persistente amarezza del disastro economico che ora è Beirut e dell'esplosione che ha strappato il cuore a tanti libanesi, il vetriolo di Nasrallah ha portato molta più paura e trepidazione nel Paese di quanta ne abbia generato spaccone e sostegno.
  Nel frattempo, è improbabile che Israele accetti un sostanziale ritardo nell'estrazione di gas dal giacimento di gas di Karish a causa delle richieste di Nasrallah. Riuscirà quindi a far precipitare il Libano in un'altra brutale guerra, come ora sembra minacciare? Purtroppo, la risposta potrebbe essere sì, e tutto lo sviluppo economico che potrebbe aver luogo in questo piccolo ma bellissimo paese sarà sostituito da ancora più devastazione, morte e distruzione.
  Tale è la logica distorta del Medio Oriente. Una risorsa che fa presagire così tante potenziali promesse potrebbe, invece, finire per causare così tanta morte e disperazione. Ancora una volta, il progresso e la sicurezza economica che giustamente appartengono a un paese longanime nel mondo arabo potrebbero non verificarsi, a causa della gelosia, dell'odio, della vendetta e del puro desiderio di potere che, ironia della sorte, quasi certamente la maggioranza del Libano non può supportare. Sfortunatamente, è una storia triste che si è ripetuta più e più volte per decenni, se non secoli. E così continua senza fine.

(bitcoinethereumnews.com, 20 luglio 2022)

........................................................


Energia, ponte verso l'Europa

Diversificare gli approvvigionamenti energetici e limitare la dipendenza in questo ambito dalla Russia. Con l'invasione di Mosca dell'Ucraina, l'Europa è da mesi impegnata in questa sfida complicata. I suoi leader cercano ovunque nuove intese per portare nel continente abbastanza gas per soddisfare i fabbisogni nazionali. Lo sguardo si è soprattutto rivolto a Oriente con Israele a ritagliarsi un suo significativo ruolo. Non è un caso infatti se negli stessi giorni a Gerusalemme siano arrivati il Presidente del Consiglio Mario Draghi e la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen. In cima alle loro agende c'era il tema energetico. "Lavoriamo insieme nell'utilizzo delle risorse di gas del Mediterraneo orientale e per lo sviluppo di energia rinnovabile. Vogliamo ridurre la nostra dipendenza dal gas russo e accelerare la transizione energetica verso gli obiettivi climatici che ci siamo dati" ha dichiarato Draghi, stringendo la mano a Gerusalemme a Naftali Bennett, in quel momento ancora Primo ministro d'Israele. Ora non lo è più e il paese si avvia a una nuova instabilità politica con all'orizzonte le quinte elezioni in meno di quattro anni. Bennett aveva promesso l'apertura dei rubinetti del gas israeliano e i giornalisti italiani al seguito di Draghi si sono chiesti quanto peso potessero avere le parole di un Premier con i giorni contati.
  La risposta è arrivata pochi giorni dopo dal Cairo, dove Egitto, Israele ed Unione europea hanno firmato un memorandum per esportare in Europa il gas naturale israeliano estratto dal Mar Mediterraneo. Le quantità esportate saranno minime rispetto a quelle importate dai paesi Ue dai gasdotti russi, ma rappresentano comunque un passaggio importante. "Oggi facciamo la storia", aveva commentato la ministra dell'Energia israeliana Karine Elharrar, parlando dal Cairo. "È una dichiarazione a coloro che vedono nella nostra regione solo forze negative come la divisione e il conflitto. Questo memorandum attesta che stiamo aprendo una nuova strada, quella del partenariato, della solidarietà e della sostenibilità. Non stiamo solo cambiando i paradigmi della nostra regione, ma anche il modo in cui gli altri percepiscono noi e il nostro futuro regionale", le parole di Elharrar. "Insieme ai nostri partner europei, Egitto e Israele stanno inviando il messaggio che si può essere competitivi nel mercato del gas naturale e allo stesso tempo cercare un futuro ambientale migliore".
  Nello specifico, il gas sarà inviato verso l'Egitto attraverso i gasdotti e trasformato in gnl presso gli impianti di liquefazione egiziani di Idku e Damietta, prima di arrivare in Europa via nave. "Questo contribuirà alla sicurezza energetica europea", il commento di von der Leyen. Secondo il ministero dell'Energia israeliano, l'intesa firmata al Cairo riconosce il ruolo chiave che il gas naturale svolge sempre di più e continuerà a svolgere nei prossimi anni nei mercati energetici dell'Unione europea, in vista anche degli obiettivi di emissioni zero entro il 2050. L'accordo è valido da oggi per tre anni. Dopodiché sarà automaticamente rinnovato per altri due anni. L'intesa prevede una serie di passi che dovrebbero accelerarne l'attuazione, come una clausola che incoraggia le aziende europee a partecipare a procedure competitive e a investire in progetti di esplorazione e produzione di gas naturale sia in Israele che in Egitto. Inoltre è prevista la formulazione di un piano per l'utilizzo ottimale delle infrastrutture legate all'estrazione, alla liquefazione e al trasporto del gas naturale.

(Pagine Ebraiche, luglio 2022)

........................................................


Il Consiglio di associazione Unione europea-Israele tornerà a riunirsi dopo un decennio

di Francesco Paolo La Bionda

Lunedì 18 luglio, i ministri degli Esteri degli stati membri dell’Unione Europea hanno votato a favore della riconvocazione del Consiglio di associazione con Israele a dieci anni dall’ultima riunione formale.
  Nato a seguito di un accordo del 1995 per definire le relazioni tra lo Stato ebraico e l’organismo sovranazionale europeo, il Consiglio è stato abbandonato unilateralmente da Israele nel 2013, dopo che gli europei avevano deciso di operare una distinzione tra gli insediamenti in Cisgiordania e Israele ai fini dell’applicazione degli accordi stretti.
  L’annuncio è stato dato dall’Alto Commissario europeo per gli Affari Esteri, Josep Borrell, che ha spiegato che la data per la nuova riunione del Consiglio sarà concordata con Israele solo dopo che gli stati dell’Unione Europea avranno concordato “una posizione comune” sulla questione palestinese. L’obiettivo resta comunque di fissare l’appuntamento prima delle elezioni israeliane previste per il 1 novembre prossimo.
  “Sappiamo che la situazione nei territori palestinesi si sta deteriorando e credo che i ministri si siano trovati d’accordo sul fatto che il Consiglio di associazione costituisce una buona opportunità per dialogare con Israele sul tema” ha specificato Borrell, aggiungendo che “la posizione dell’Unione Europea rispetto al processo di pace in Medio Oriente non è cambiata “, facendo riferimento a un documento del 2016 a supporto della soluzione a due stati.
  La decisione fa seguito a una lettera firmata l’11 luglio da 158 membri del Parlamento europeo che esortava Borrell, la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e il Commissario europeo Olivér Várhelyi a riconvocare il Consiglio per “affrontare congiuntamente sfide comuni come la crisi energetica, l’incombente insicurezza alimentare e le continue e pericolose tensioni in Medio Oriente” e “lodare e incoraggiare i recenti ed epocali sviluppi seguiti agli Accordi di Abramo, che rafforzano la pace e la stabilità nella regione”.
  Negli ultimi mesi, anche il governo israeliano con Yair Lapid nel ruolo di ministro degli Esteri si era speso per far ripartire l’organismo. Lapid, da poco avvicendatosi con l’alleato Bennet alla posizione di primo ministro, ha commentato la decisione definendola “una prova della forza diplomatica di Israele e della capacità di questo governo di creare nuove opportunità nella comunità internazionale”.

(Bet Magazine Mosaico, 20 luglio 2022)

........................................................


L’Iran dichiara: “Siamo uno stato alla soglia dell’arma atomica”

di Ugo Volli

• LA DICHIARAZIONE NUCLEARE
  “In pochi giorni siamo stati in grado di arricchire l’uranio fino al 60% e possiamo facilmente produrre uranio arricchito al 90% … L’Iran ha i mezzi tecnici per produrre una bomba nucleare ma non c’è stata alcuna decisione da parte dell’Iran di costruirne una.”

• IL SENSO
  L’Iran sta già arricchendo massicciamente il suo uranio fino al 60%, molto al di sopra del tetto del 3,67% previsto dall’accordo nucleare di Teheran del 2015 con le potenze mondiali. L’uranio arricchito al 90% è il combustibile necessario per una bomba nucleare. Il processo di arricchimento è qualcosa di simile a un filtraggio, anche se si fa col minerale ridotto in forma gassosa, per mezzo di una serie di centrifughe molto sofisticate. Chi ha i mezzi per arrivare al 60% può senza troppo difficoltà raffinare ulteriormente l’uranio fino ad arrivare al 90% dell’isotopo 235 che alimenta la reazione a catena da cui viene l’esplosione nucleare. Per realizzarla bisogna anche risolvere complessi problemi tecnologici sulla forma e la struttura della bomba. La dichiarazione dice che l’Iran ha la capacità di produrre l’esplosivo e anche di trasformarlo in una bomba efficiente. Biden vorrebbe ritornare all’accordo del 2015, ma è escluso ormai che gli ayatollah cedano il loro esplosivo atomico. Le trattative sull’accordo sono ormai futili.

• IL CONTESTO
  La dichiarazione è arrivata in un momento molto significativo, appena la fine della visita di Biden in Medio Oriente, in cui il presidente americano ha dichiarato più volte che non avrebbe permesso all’Iran di ottenere armi nucleari. Ed ha una fonte estremamente autorevole: Kamal Kharrazi, qualificato come il primo consigliere della “guida suprema” dell’Iran per le questioni di sicurezza. Insomma viene dal vertice politico/religioso dello stato.

• BISOGNA CREDERCI?
  Purtroppo sì. Che l’Iran fosse a poche settimane dalla costruzione della Bomba era già stato annunciato negli ultimi mesi da Israele, dai servizi americani e anche dall’AIEA, l’agenzia atomica dell’Onu. La novità consiste nella rivendicazione da parte dell’Iran stesso. Questa dichiarazione cambia profondamente il gioco in Medio Oriente. La repubblica islamica si è iscritta al club dei “nuclear treshold states”, degli stati che stanno alla soglia del nucleare. Possono avere le armi nucleari molto velocemente, dipende solo da loro. Basta che decidano.

• LE CONSEGUENZE
  Innanzitutto vengono le conseguenze militari. Uno stato-soglia nucleare non può essere attaccato in maniera convenzionale, come per esempio è accaduto con l’Iraq durante le due guerre del Golfo. Mentre si accumula la forza di invasione, farebbe in tempo a preparare la sua bomba atomica e a usarla contro di loro. Basta una singola arma nucleare, anche di quelle più piccole, a distruggere una città o una grande base militare. La sola possibilità di fermare l’Iran è oggi un bombardamento massiccio e improvviso, che distrugga completamente la catena dell’armamento nucleare. E’ dubbio che Israele da solo abbia i mezzi per farlo, anche perché gli iraniani sanno da sempre di questa minaccia e hanno fatto il possibile per prevenirla disperdendo il loro apparato nucleare nel paese, costruendo dei doppioni, usando come schermi di protezione tunnel nel profondo delle montagne e anche in zone fittamente popolate. Potrebbe probabilmente riuscirci l’America, ma è disposta a farlo? Biden ha parlato dell’opzione nucleare come “ultima possibilità”, ma che cosa vuol dire? Per gli Usa la minaccia è lontana e molti credono che questa cautela usata da Biden significhi che l’America colpirebbe solo se avesse prova dell’uso imminente delle atomiche: certamente troppo tardi per fermare l’aggressione nucleare.

• LE REAZIONI
  L’amministrazione americana non ha replicato alla dichiarazione di Kharazi. Il capo di stato maggiore israeliano ha detto che le forze armate si stanno preparando intensamente a colpire l’armamento atomico iraniano. Ma non è detto che basti e poi la decisione dovrebbe essere presa da un governo debole, senza fiducia parlamentare, guidato da un leader con scarsa esperienza come Lapid. Ma in Israele anche questo è possibile. Non sappiamo che cosa si siano davvero detti i leader israeliani e Biden; è possibile che sotto la visita di cortesia sia nascosto un coordinamento di emergenza. Una cosa è certa: dopo la dichiarazione di Kharazi (o meglio: dopo ciò che l’ha resa possibile, lo sforzo pluridecennale degli Ayatollah per costruire la Bomba, ritardato nei limiti del possibile dagli sforzi segreti di Israele), il mondo è un posto molto meno sicuro.

(Shalom, 19 luglio 2022)

........................................................


Maxi accordo da 40 miliardi tra compagnie del petrolio russe e iraniane

E Putin vola a Teheran insieme a Erdogan

FOTO
Nel giorno in cui Vladimir Putin vola in Iran per un trilaterale con il presidente turco Recep Tayyp Erdogan, diventato ormai il grande mediatore tra Mosca e il blocco internazionale alleato con Kiev, e il presidente iraniano Ebrahim Raisi, si registra una nuova importante stretta di mano nel settore energetico tra aziende russe, tra cui Gazprom, e iraniane. Si tratta di un accordo che prevede investimenti russi per 40 miliardi di dollari nell’industria del petrolio iraniano, numeri che, spiega l’agenzia locale Irna, rappresentano il maggiore investimento di sempre da parte di un Paese straniero in Iran.
  L’accordo strategico tra la National Iranian Oil Company (Nioc) e Gazprom “è il più grande investimento nella storia dell’industria petrolifera iraniana e comprende investimenti per lo sviluppo del giacimento di gas North Pars e di sei giacimenti petroliferi”, ha dichiarato il direttore generale della compagnia iraniana, Mohsen Khojasteh-Mehr, sottolineando che Teheran ha bisogno di almeno 160 miliardi di dollari di investimenti per aumentare la produzione di petrolio e gas.
  Con questa mossa di Mosca, la Repubblica Islamica sembra così definitivamente uscire dal gruppo di Paesi con i quali gli Stati Ue mirano a stringere nuovi accordi in nome di una maggiore indipendenza dal combustibile russo. Detto che la strada che portava a Teheran era già di per sé piuttosto difficile da percorrere, dato che sia la Russia che l’Iran sono sottoposti a pesanti sanzioni.
  Nel frattempo, il governatore della Banca centrale iraniana Ali Salehabadi ha dichiarato che oggi l’Iran ha lanciato il simbolo di negoziazione della coppia valutaria Rial-Rublo nel suo mercato valutario integrato. “Gli studenti e gli esportatori iraniani, così come gli Stati dell’Asia centrale, possono utilizzare questo mercato”, ha aggiunto.

(il Fatto Quotidiano, 19 luglio 2022)

........................................................


Il flop di Biden, lo Zar allunga le mani

La visita a Teheran per consolidare un legame. Col rischio atomica.

di Fiamma Nirenstein

Ci sono pochi dubbi che la visita di Putin a Teheran per incontrare Ebrahim Raisi e Recep Tayyp Erdogan sia un modo di guardare minacciosamente negli occhi Joe Biden subito dopo il tour in Medioriente, a Gerusalemme e a Gedda. Gioco frontale, con l'intenzione di aprire un largo confronto geopolitico che si somma a quello fatale del faccia a faccia Russia-Occidente liberale. E’ solo la seconda volta che Putin lascia i suoi confini dall'inizio della guerra. Da questo, si capisce che importanza dia al potere in Medioriente dopo l'isolamento e le sanzioni. Non ha futuro in Occidente, cerca spazio altrove, forza, energia, territorio, controllo sul mondo islamico, apertura verso il Sud globale. Grande strategia, nuova storia che gli americani cercano di fronteggiare in difesa: può portare a scontri immensi, ben oltre la capacità politica e perfino l'immaginazione dei leader occidentali attuali.
  Lo si è visto adesso dalla maniera fragile e sostanzialmente inerte, nonostante lo sforzo, con cui Biden ha pilotato i suoi incontri a Gerusalemme e a Gedda. Ha detto: «Siamo in Medio Oriente e non abbiamo nessuna intenzione di andarcene». Ma non ha convinto. I due scopi del viaggio erano il petrolio saudita e un'apertura strategica del maggiore Paese mediorientale, ampia, sancita chiaramente con un'adesione ai Patti di Abramo, e non sotto il tavolo. Ma l'Arabia Saudita, non si è sentita rassicurata né liberata pubblicamente dal disprezzo di Biden per il principe Muhammed Bin Salman; non si è sentita dire, come del resto nemmeno Israele, che il nemico iraniano adesso deve temere un'alleanza d'acciaio, pronta ad agire con le armi in pugno e non con chiacchiere diplomatiche, alla prospettiva ormai immediata dell’arma atomica degli ayatollah. Biden, un gentiluomo pieno di buona volontà e di affetto, ha fallito la regola fondamentale della cultura mediorientale: qui, chi si mostra debole non ottiene rispetto, né obbedienza, né alleanza.
  Putin di certo è meno gentile in queste ore coi suoi onorati interlocutori musulmani, uno sciita e l'altro della Fratellanza Musulmana. Da tempo ha già stabilito un rapporto di preminenza sulla Siria, seguitando a investire nella presenza militare nonostante le forze dislocate in Ucraina; conosce bene le regole del rapporto con l'Iran. con cui è stato in guerra cinque volte dal 1.600, e con Erdogan, che gioca troppo astutamente con lui e pretende il ruolo di mediatore in Ucraina. Putin mostra al mondo oggi l'arma iraniana e turca pretendendo di riassettare la povera Siria fatta a pezzi, consente a Erdogan di farsi grande col mercato del grano, non disdegna la vendita di armi, nega che l'Iran gli venda i droni che possono evitare che i suoi aviatori vengano colpiti nei cieli Ucraini. Si posiziona.
  Ieri il capo di Stato Maggiore israeliano Aviv Kohavi ha detto quello non è stato detto in pubblico: «L'esercito continua a prepararsi vigorosamente, a preparare l'opzione militare contro il programma nucleare iraniano è un obbligo morale e una necessità per la sicurezza nazionale». Un commento pronunciato subito dopo che l'ayatollah Khamenei aveva detto a Al Jazeera che la Repubblica Islamica è capace di produrre la bomba atomica, ma non ha ancora deciso di procedere. Si tratta di giorni? Di ore? Biden ha ripetuto che per lui l'opzione militare esiste in casi estremi, ma che punta alla diplomazia. Il fatto è che l'uranio arricchito al 90% non può servire a niente altro che per la bomba, e Kharrazi ha detto che aspetta solo il via. Biden sa che le condizioni poste dall'Iran sono impossibili. Un suicidio confermato dalla storia e dall'ideologia iraniana. Putin oggi a Teheran ha in mano una pistola carica. Israele resta il punto di riferimento più affidabile per i Paesi mediorientali che non sanno se gli Usa saranno con loro nel momento cruciale.

(il Giornale, 19 luglio 2022)
____________________

Il flop di Biden in Medioriente è il segno evidente del flop degli Usa nel loro tentativo di sbarazzarsi con la guerra ucrainica di quello che vede oggi come il principale ostacolo al mantenimento del suo imperialismo ideologico (impero del bene contro impero del male), finanziario e militare. L'impero Usa sta sfaldandosi, coinvolgendo in modi diversi sia Europa sia Israele. Qualcosa di più netto e grave si dice nell'articolo seguente. M.C.


*


Medio Oriente: nulla di positivo per Israele con Biden alla Casa Bianca

Il viaggio del Presidente Joe Biden in Medio Oriente è stato un fallimento completo, sperando che non abbia fatto danni irreparabili.

di Franco Londei

Parliamoci chiaro, il viaggio di Joe Biden in Medio Oriente è stato per Israele una vera calamità. Ha rinvigorito la causa palestinese, ha allontanato qualsiasi ipotesi di normalizzazione tra lo Stato Ebraico e l’Arabia Saudita e infine non ha rassicurato nessuno su come si comporterà con l’Iran.
  Israele puntava molto sul fatto che Biden riuscisse attraverso la conferenza di Jeddah a catalizzare il mondo arabo contro l’Iran. Il risultato finale è stato l’esatto opposto.
  Mai come ora il mondo arabo si è visto disunito, sia per quanto riguarda i rapporti con Israele sia per quanto concerne l’atteggiamento da tenersi con l’Iran.
  Il vertice di Jeddah ha riunito i capi di governo degli stati che producono circa il 50% del petrolio mondiale ed era una occasione imperdibile per rassicurare il mondo arabo che Washington era sempre al suo fianco e nel contempo chiedere un cospicuo aumento della produzione di petrolio al fine di calmierarne il prezzo.
  Nulla di tutto questo è avvenuto perché Biden si è fatto condizionare dalla sua sinistra e ha tenuto un atteggiamento che sfiorava il disgusto con l’uomo più potente a quel tavolo, il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman.
  A quel tavolo c’erano Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Giordania e Iraq. L’intero consiglio di cooperazione del Golfo con il quale Biden doveva semplicemente interloquire e rassicurare che l’America non avrebbe lasciato soli gli alleati arabi nelle mani dell’Iran e rafforzare la cosiddetta NATO araba a partire dal patto di difesa aerea MEAD – Middle East Air Defense – al quale avrebbero potuto e dovuto aderire anche Arabia Saudita e Iraq.
  Invece il risultato è stato un forte e del tutto inaspettato irrigidimento dei sauditi i quali si sono affrettati a dire che qualsiasi ipotesi di una normalizzazione dei rapporti con Israele non era praticabile senza la soluzione della cosiddetta “causa palestinese”.
  L’Iraq dal canto suo ha fatto sapere che non c’è nessuna ipotesi di adesione da parte di Baghdad al patto di difesa aerea con Israele e gli altri Stati arabi, né ci sono ipotesi che l’Iraq si schieri in qualche modo contro l’Iran.
  «La politica dell’Iraq è quella di essere equidistante da tutte le parti. La situazione politica e di sicurezza dell’Iraq non gli permette di giocare un ruolo in questa regione stringendo alleanze contro qualcuno» si legge in una dichiarazione della diplomazia di Baghdad.
  «Non è stata annunciata alcuna alleanza o azione militare o di sicurezza contro l’Iran a causa dell’assenza di qualsiasi coordinamento o omogeneità tra i Paesi che hanno partecipato al vertice, e ci sono molte differenze politiche, dato che alcuni di essi hanno relazioni politiche ed economiche con l’Iran»: ha detto il Maggiore Generale iracheno in pensione Majid al-Qubaisi.
  Ed è questo il punto vero: qual era lo scopo della visita di Biden in Medio Oriente? Se era quello di unire i paesi arabi contro l’Iran allora ha fallito completamente. Se era quello di rassicurare Israele allora ha fallito. Se era quello di dimostrare che l’America supporta gli Stati del Golfo allora ha fallito.
  In compenso con l’improvvida visita a Gerusalemme Est ha rivitalizzato la cosiddetta “causa palestinese” che persino i sauditi davano per persa prima del viaggio di Biden in Medio Oriente.
  La verità è che questa Amministrazione americana non può fare nulla di positivo né per il Medio Oriente né per Israele e c’è solo da sperare che almeno non faccia danni.

(Rights Reporter, 18 luglio 2022)
____________________

"La verità è che questa Amministrazione americana non può fare nulla di positivo né per il Medio Oriente né per Israele e c’è solo da sperare che almeno non faccia danni." Così scrive l'autore dell'articolo, che è uno dei tanti amici di Israele postisi sfegatatamente a sostegno dell'Ucraina e contro il "criminale Putin", al quale concedeva due sole possibilità: o la resa o la sconfitta. Tutto fa pensare che non avverrà né l'una né l'altra delle due cose previste. Mentre forse né avverranno altre non previste, e piuttosto dolenti per molti. Una semplice domanda può essere posta, in modo provocatorio: tra Putin e Biden, chi dei due oggi avrebbe fatto meglio a scegliere Israele? M.C.

........................................................


Nel cimitero ebraico via libera al recupero del monumento a Pico Cavalieri dello scultore Minerbi

Finanziamento congiunto dal ministero della Cultura, Amministrazione comunale e Meis.

FOTO
FERRARA - Ministero della Cultura, Comune di Ferrara e Museo Nazionale dell’ebraismo italiano e della Shoah uniti per il recupero del monumento all’aviatore ferrarese Pico Deodato Cavalieri, firmato dal celebre scultore Arrigo Minerbi e presente nel cimitero israelitico secentesco di via delle Vigne. Il dicastero ha infatti recentemente dato il via libera al progetto congiunto che dispone un proprio stanziamento di circa 20mila euro, a cui si uniranno circa 10mila euro finanziati dal Comune e 2mila euro dal Meis, per il restauro dell’opera dell’aviatore, decorato di due medaglie d’argento al valore militare, che morì a causa di un incidente aereo nel gennaio del 1917. 
  La tomba dell’ufficiale pilota porta la firma del celebre scultore Arrigo Minerbi (1881-1960), anch’egli ferrarese e noto ben oltre i confini di Ferrara, e della sorella Anita Cavalieri, scultrice e poetessa; è ornata di aquile bronzee e di una cancellata con motivi decorativi. Da anni il monumento versa in condizioni critiche.  
  Alla morte di Pico Cavalieri, la famiglia ha donato al Comune le sue divise e i suoi cimeli di guerra, le sue collezioni etnografiche, un ampio patrimonio documentale e, soprattutto, il palazzo in Corso Giovecca 165, perché ospitasse la “Casa della Patria Pico Cavalieri” e le associazioni patriottiche. L’edificio, attualmente oggetto di un esteso progetto di riqualificazione, è destinato ad ospitare anche il riallestito Museo del Risorgimento e della Resistenza.

Siamo felici di questa cooperazione con il Comune di Ferrara ed il Ministero – entrambi Enti partecipanti della Fondazione Meis – che mira alla salvaguardia di un monumento dai profili artistici e simbolici di rilievo», dice Amedeo Spagnoletto, direttore del MEIS.
  «La figura di Pico Cavalieri – spiega – è emblematica nel rappresentare i sentimenti che animavano gran parte degli ebrei italiani nei primi decenni del XX secolo. Forte senso di partecipazione e di identificazione con le imprese e le sfide politiche e militari del Paese che aveva riconosciuto loro la parità dei diritti solo meno di mezzo secolo prima. L’entusiasmo lo si evince dall’impegno in guerra di Pico, morto tragicamente. Lo si percepisce dalle decisioni della famiglia che destina un palazzo in una delle vie più importanti di Ferrara, a beneficio dei cittadini. Recuperare il monumento significa per il Meis tornare a porre l’accento e stimolare la riflessione e la ricerca storica su quel periodo. Un approfondimento che si concretizzerà in eventi culturali collaterali nel corso dei mesi prossimi e culminerà con la grande mostra sugli ebrei italiani nel ‘900 che progettiamo di allestire nel 2024».

«Il finanziamento destinato al monumento è una notizia molto positiva e che rappresenta il compimento di un percorso che abbiamo costruito insieme al Meis, che ringrazio. Il Comune comparteciperà convintamente alle spese per questo tipo di intervento che rappresenta, oltre che un progetto di riqualificazione, di recupero e di valorizzazione di un’opera scultorea di grande pregio, anche un progetto legato alla memoria di una figura centrale in un’epoca fondamentale della stagione post-risorgimentale», dice il sindaco Alan Fabbri, sottolineando che «Ferrara, cuore dell’ebraismo italiano, ha a cuore la tutela del patrimonio, la valorizzazione della cultura ebraica e dell’importante contributo che questa ha dato alla storia e alla vita di comunità».

L’assessore Marco Gulinelli sottolinea che «per il Comune di Ferrara la salvaguardia di questo patrimonio è di particolare interesse. Il monumento sepolcrale a Pico Cavalieri è una testimonianza materiale e simbolica del rilievo della sua figura e della sua famiglia nel contesto storico-culturale ferrarese e nazionale tra Risorgimento e Prima Guerra Mondiale. È un’opera di grande pregio che conferma il ruolo non secondario della produzione di Minerbi nello sviluppo delle poetiche delle arti plastiche tra simbolismo e classicismo».
  Gulinelli ricorda inoltre che il progetto di valorizzazione della memoria di Cavalieri, in piena coerenza con le volontà della famiglia, continuerà anche oltre il restauro del monumento, soprattutto con la riapertura dell’omonima Casa della patria. 

(Ferrara24ore, 19 luglio 2022)

........................................................


A Barcellona il primo ristorante kosher stellato Michelin al mondo

di Michael Soncin

È in Spagna nella cosmopolita Barcellona che si trova il primo e unico ristorante stellato kosher del pianeta. Xerta è riuscito a guadagnarsi la tanto ambita stella nella Guida Michelin, diventando un punto di riferimento per il piccolo nucleo di ebrei della città.
  Eppure, guardando il menù troverete piatti proibiti secondo le regole della kasherut: aragoste, calamari ed ostriche. Com’è possibile? Nessun malinteso. L’ormai celebre locale, con un piccolo preavviso preparerà le pietanze secondo le regole alimentari dettate dalla Torah, in una cucina separata, per evitare la contaminazione con i cibi non kasher, sotto la stretta sorveglianza di un rabbino Chabad-Lubavitch del posto. A riportarlo è il Jewish Telegraphic Agency.
  Non è l’unico posto che ambisce a diventare un punto di riferimento per il numero crescente di turisti ebrei che visitano la città. Barcellona sta facendo molto in termini di campagne pubblicitarie per attirare i visitatori ebrei di tutto il mondo, e di Israele. Lo testimoniano insegne come Shalom Barcelona o Barcelona Connects Israel, che sono anche una spinta per attirare le persone a visitare anche Girona, altra città catalana, situata nel nord della nazione, conosciuta per avere uno dei quartieri ebraici meglio conservati e più caratteristici della penisola iberica.
  Nel 2019, poco prima della pandemia, Alexandra Marcò, direttore marketing dell’Ufficio del Turismo di Barcellona ha spiegato che il suo gruppo aveva osservato un aumento del 4% del numero di turisti ebrei. Numeri che possono sembrare piccoli, ma che in verità “sono significativi”, ha detto Marcò, una realtà che li ha portati a creare un pacchetto turistico ad hoc per i visitatori ebrei. “Visto il valore del patrimonio ebraico della città, ci è sembrato un peccato non avere un pacchetto turistico specifico per questo tipo di mercato, che è particolarmente affezionato a questo patrimonio culturale”.
  Il consiglio comunale di Barcellona per creare le campagne pubblicitarie ha collaborato con Talma Travel, la più grande agenzia viaggi israeliana, e con il gruppo Issta Active che possiede oltre 60 uffici nello Stato Ebraico. La volontà è di promuovere un “nuovo mercato sefardita”, con un ricco ventaglio di offerte per far conoscere presente e passato della cultura ebraica spagnola.
  Tornando a parlare di Xerta, il ristorante ha ottenuto la certificazione kosher durante la pandemia da coronavirus, unendosi agli altri tre già presenti ristoranti kosher di Barcellona, oltre ai negozi che vendono cibi kasher, senza dimenticare i sempre presenti centri Chabad che servono pasti kosher.
  A differenza degli altri che servono cibi tipici della tradizione ebraica e israeliana, Xerta offre un menù alternativo che si ispira alla cucina locale del fiume Ebro. Una delle specialità citate è il piatto a base di crema di carciofi con pesce marinato. Se Barcellona è una delle vostre prossime mete, questa potrebbe essere un’esperienza alternativa.

(Bet Magazine Mosaico, 19 luglio 2022)

........................................................


Biden ha incontrato Abbas. Promessi 200 milioni di dollari ai palestinesi tramite l’UNRWA

di Paolo Castellano

Dopo aver incontrato i rappresentanti del governo israeliano, il presidente americano Joe Biden si è recato a Betlemme per incontrare il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas. Durante il loro incontro avvenuto il 15 luglio, Abbas ha chiesto che “i responsabili della morte di Shireen Abu Akleh facciano giustizia”.
  Il riferimento è alla giornalista dell’emittente Al Jazeera, uccisa l’11 maggio mentre stava seguendo un’operazione dell’esercito israeliano in un campo a Jenin, nel Nord della Cisgiordania. Tra le altre cose, Abu Akleh possedeva la cittadinanza americana.
  «È necessario impedire a Israele di sentirsi al di sopra del diritto internazionale», ha aggiunto Abbas. Lo ha riportato Ansa.
  Come era prevedibile, la questione israelo-palestinese è stata al centro del colloquio tra Biden e Abbas. Al termine dell’incontro, il presidente degli Stati Uniti ha dichiarato che i palestinesi meritano uno Stato indipendente. Inoltre, Biden si impegnerà per portare avanti la soluzione a due Stati proposta nel 1967.
  «Il popolo palestinese merita un proprio Stato che sia indipendente, sovrano, vitale e contiguo», ha sottolineato Biden, prendendo le distanze dalle dichiarazioni fatte in passato dal suo predecessore Donald Trump.
  Tuttavia, Biden ha realisticamente osservato che è difficile affrontare la questione quando in gioco ci sono le preoccupazioni per “la sicurezza dei tuoi figli”. Il recente incontro tra palestinesi e americani dunque rappresenta l’inizio di un nuovo dialogo sul futuro della Regione.
  Per di più, il presidente USA ha annunciato che aumenterà il sostegno a economia, sicurezza e assistenza sanitaria dei palestinesi. 200 milioni di dollari verranno depositati nelle casse dell’UNRWA (l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e il lavoro per i rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente) e altri 100 milioni per l’assistenza sanitaria dei residenti a Gerusalemme Est.
  Infine, Biden ha chiesto ai rappresentanti dell’Autorità Palestinese più trasparenza e lotta alla corruzione.

(Bet Magazine Mosaico, 18 luglio 2022)

........................................................


Israele ricorda che contro il nucleare Iran c'è anche l'opzione militare

Gen. Kochavi: 'Prepararsi a ogni evenienza è dovere morale'

Aviv Kochavi
TEL AVIV, - "La preparazione di una opzione militare contro il nucleare iraniano è per noi un dovere morale, oltre che un imperativo di sicurezza nazionale": lo ha affermato ieri il capo di Stato maggiore, gen. Aviv Kochavi.
  "Israele continua a preparare attivamente un attacco in Iran per essere in condizione di far fronte a ogni evenienza. I nostri preparativi per una azione militare contro il progetto nucleare iraniano - ha aggiunto - sono al centro di tutti i nostri progetti militari in generale".
  Il gen Kochavi ha precisato che i preparativi israeliani "includono una gamma di operazioni, di dislocazione di riserve, di rifornimenti di mezzi di combattimento adeguati, di intelligence e di addestramenti".
  Il capo di Stato maggiore israeliano si è così espresso poche ore dopo che da Teheran erano giunte le dichiarazioni di Kamal Kharazi, presidente del Consiglio strategico per le relazioni internazionali, secondo cui "l'Iran ha le capacità tecniche per realizzare una bomba atomica", anche se in merito, ha aggiunto, "non ha ancora preso alcuna decisione definitiva".
  Secondo alcuni analisti israeliani, l'intervento del gen. Kochavi era diretto anche al presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, che durante la visita compiuta a Gerusalemme ha ribadito che la diplomazia resta l'opzione preferibile per bloccare i progetti nucleari iraniani, riferendosi in particolare ai negoziati in corso per ripristinare l'accordo sul nucleare del 2015, affossato dall'uscita dell'America di Donald Trump nel 2018.

(ANSAmed, 18 luglio 2022)

........................................................


La “soluzione dei due Stati” per eliminare Israele

di Khaled Abu Toameh

Mentre l’amministrazione Biden continua a parlare del suo impegno per la “soluzione dei due Stati”, la maggioranza dei palestinesi afferma di sostenere il gruppo terroristico islamista di Hamas e vuole che ci siano più attacchi terroristici contro gli ebrei.
  L’amministrazione Biden vive nell’illusione che la “soluzione dei due Stati”, che vedrebbe la creazione di uno Stato palestinese indipendente e sovrano accanto a Israele, sia l’unico modo per raggiungere la pace, la sicurezza e la stabilità in Medio Oriente.
  La stragrande maggioranza dei palestinesi, tuttavia, afferma molto chiaramente che non crede nella “soluzione dei due Stati” e preferirebbe che Hamas, il gruppo terroristico sostenuto dall’Iran il cui statuto chiede l’eliminazione di Israele, sostituisse l’Autorità Palestinese guidata da Mahmoud Abbas.
  Il 30 giugno, il segretario di Stato americano Antony Blinken ha parlato con Abbas per discutere dell’imminente viaggio del presidente Joe Biden in Medio Oriente.
  “Il segretario Blinken ha sottolineato l’impegno degli Stati Uniti finalizzato a migliorare la qualità della vita del popolo palestinese in modi concreti e ha rilevato il sostegno offerto dall’amministrazione per una soluzione negoziata a due Stati”, ha dichiarato il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price.
  Alla vigilia della visita di Biden in Israele, in Cisgiordania e in Arabia Saudita, un sondaggio d’opinione condotto dal Palestine Center for Policy and Survey Research ha mostrato un calo significativo del sostegno tra i palestinesi alla “soluzione dei due Stati” e un sostegno più ampio a favore del ritorno all’intifada armata (rivolta) e agli attacchi terroristici all’interno di Israele.
  Secondo i risultati del sondaggio, l’opposizione al concetto di “soluzione dei due Stati” è del 69 per cento. Un altro 75 per cento degli intervistati ha anche espresso opposizione all’idea di una soluzione con un unico Stato, in cui israeliani e palestinesi vivrebbero insieme e godrebbero di pari diritti.
  Il sondaggio ha rilevato che il 55 per cento dei palestinesi è a favore della recrudescenza degli scontri armati e dell’intifada, un aumento rispetto al 51 per cento degli intervistati che tre mesi fa sosteneva un ritorno alla violenza.
  Inoltre, la maggioranza del 59 per cento ha detto di essere favorevole agli attacchi terroristici compiuti dai palestinesi negli ultimi mesi all’interno di Israele.
  Anche la stragrande maggioranza dei palestinesi (il 69 per cento) è contraria a una ripresa incondizionata dei negoziati di pace israelo-palestinesi. Un altro 65 per cento non è favorevole al dialogo con l’amministrazione Biden.
  Il sondaggio ha rilevato che la maggioranza dei palestinesi non ha fiducia in Abbas, con cui l’amministrazione Biden ha a che fare.
  Se oggi si tenessero nuove elezioni presidenziali, il leader di Hamas Ismail Haniyeh riceverebbe il 55 per cento dei consensi, mentre Abbas otterrebbe soltanto il 33 per cento, secondo il sondaggio.
  Il 73 per cento dei palestinesi ha espresso insoddisfazione per l’operato di Abbas, mentre un altro 77 per cento ha dichiarato di volere che si dimetta.
  La maggior parte dei palestinesi ha affermato che Hamas è il più meritevole di rappresentare e guidare il popolo palestinese.
  La crescente popolarità di Hamas tra i palestinesi implica che lo Stato palestinese che l’amministrazione Biden sta cercando di stabilire accanto a Israele sarà presto governato da un gruppo islamista la cui Carta o Statuto afferma che “Israele esisterà e rimarrà in esistenza finché l’Islam non lo annienterà, così come ha annientato altri prima di lui”
  Dal momento che la maggioranza dei palestinesi vuole sostituire Abbas con un leader di Hamas, ciò significa che lo Stato palestinese proposto si unirà al patto del gruppo terroristico, che non crede nel diritto di Israele di esistere.
  Nel caso in cui l’amministrazione Biden e il resto della comunità internazionale non siano a conoscenza del programma di Hamas, devono dare un’occhiata a ciò che dice il patto del gruppo terroristico.
  L’art.11 dello Statuto afferma: “Il Movimento di Resistenza Islamico crede che la terra di Palestina sia un waqf (sacro deposito islamico), terra islamica affidata alle generazioni dell’Islam fino al giorno della resurrezione. Non è accettabile rinunciare ad alcuna parte di essa. Nessuno Stato arabo, né tutti gli Stati arabi nel loro insieme, nessun re o presidente, né tutti i re e presidenti messi insieme, nessuna organizzazione, né tutte le organizzazioni palestinesi o arabe unite hanno il diritto di farlo.
  Lo Statuto (all’art.7) rammenta ai musulmani il famoso hadith (detto) attribuito al profeta Maometto: “L’Ultimo Giorno non verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei, e fino a quando gli ebrei si nasconderanno dietro una pietra o un albero, e la pietra o l’albero diranno: ‘O musulmano, o servo di Allah, c’è un ebreo nascosto dietro di me – vieni e uccidilo’”.
  Lo Stato palestinese per il quale l’amministrazione Biden sta spingendo sarà senza dubbio utilizzato da Hamas e dai suoi sostenitori in Iran come trampolino di lancio per cancellare Israele.
  I leader di Hamas sono sempre stati chiari e coerenti sulla loro intenzione di eliminare Israele e uccidere gli ebrei.
  Durante una recente visita in Libano, Haniyeh, il candidato alla presidenza preferito dai palestinesi, ha affermato che “non c’è futuro” per Israele nella “terra di Palestina”.
  Haniyeh ha annunciato che Hamas si sta preparando per una “battaglia strategica” con Israele. “L’entità sionista sta affrontando un futuro oscuro a causa della resistenza islamica”, ha detto il leader dell’organizzazione, elogiando i palestinesi che compiono attacchi terroristici contro Israele.
  Haniyeh ha affermato  che in caso di un nuovo confronto militare con Israele, Hamas annienterà “l’entità sionista” in pochi minuti. “L’entità sionista sarà colpita con 150 razzi in meno di cinque minuti”, ha minacciato.
  Durante la sua visita in Libano, il leader di Hamas ha partecipato a un incontro della cosiddetta Conferenza Islamica Nazionale insieme ai capi della milizia terroristica di Hezbollah, appoggiata dall’Iran. Alla conferenza hanno partecipato anche rappresentanti di diversi Paesi arabi, tra cui Egitto, Libia, Kuwait, Siria, Marocco, Giordania, Yemen, Libano e Algeria.
  La conferenza ha espresso pieno sostegno a Hamas e al terrorismo contro Israele e si è scagliata contro i Paesi arabi che hanno deciso di normalizzare le relazioni con Israele.
  “La conferenza prende atto dei successi e degli eroismi compiuti dalla resistenza palestinese contro il nemico sionista”, si legge in una dichiarazione rilasciata dai partecipanti al termine dell’incontro. “La conferenza sostiene tutte le forme di resistenza di fronte al nemico sionista”.
  La conferenza ha condannato gli sforzi compiuti da alcuni Paesi arabi “per normalizzare le relazioni con il nemico sionista e per aprire i loro Paesi al suo esercito, alla sua economia, ai coloni e ai politici”. Ha inoltre denunciato i tentativi dei Paesi arabi “di stringere alleanze militari con il nemico sionista” e ha chiesto l’annullamento degli accordi di Oslo firmati nel 1993 tra Israele e l’OLP. La conferenza ha asserito che “afferma il diritto del popolo palestinese alla sua terra storica dal fiume [Giordano] al Mar [Mediterraneo]”.
  Tale affermazione è un forte impulso per Hamas dal momento che la conferenza ha di fatto approvato l’impegno del gruppo terroristico di eliminare Israele e sostituirlo con uno Stato islamista sostenuto dall’Iran e guidato da Haniyeh e dai mullah di Teheran.
  Hamas e i suoi sostenitori non credono nella “soluzione dei due Stati” di Biden né in qualsiasi processo di pace con Israele. L’unica soluzione che vogliono è quella che veda Israele e gli ebrei sparire da questo mondo. Purtroppo, la maggioranza dei palestinesi (come evidenziato dall’ultimo sondaggio) condivide l’ideologia di Hamas e vuole vedere uccisi ancora più ebrei.
  L’amministrazione Biden deve capire che, nelle circostanze attuali, portare avanti l’idea di una “soluzione dei due Stati” equivale a sostenere lo spargimento di sangue e la violenza in Medio Oriente.
  L’amministrazione deve anche capire che Abbas, il leader palestinese che cerca di coinvolgere e su cui fa affidamento per fare la pace, non ha assolutamente il sostegno della maggioranza del suo popolo per qualsiasi piano di pace con Israele.

(Gatestone Institute, 18 luglio 2022 - trad. di Angelita La Spada)

........................................................


Sbloccati senza condizioni i finanziamenti europei, l’Autorità Palestinese canta “vittoria”

La dirigenza di Ramallah dice d’aver ricevuto un messaggio chiaro: l’Europa condona e addirittura sostiene la politica di premiare i terroristi e insegnare odio e antisemitismo nelle scuole.

Il recente annuncio dell’Unione Europea che rinnoverà l’aiuto finanziario all’Autorità Palestinese significa che l’Europa accetta che l’Autorità Palestinese continui a premiare economicamente i terroristi e a insegnare nelle scuole l’odio verso Israele e verso gli ebrei. Questa l’interpretazione che ne ha dato il ministro per edilizia e lavori pubblici dell’Autorità Palestinese, Muhammad Ziyara, definendo la decisione europea una “vittoria politica” più importante dello stesso aiuto finanziario...

(israele.net, 18 luglio 2022)

........................................................


Intesa Sp investe nella cybersecurity di ultima generazione in Israele

Neva SGR (controllata al 100% da Intesa Sanpaolo Innovation Center) ha finalizzato tramite il proprio Fondo Neva First due investimenti in Cyberint e Coro, società israeliane altamente innovative, entrambe operative nel cruciale settore della Cybersecurity.
  Da gennaio 2022, Neva SGR ha investito in Israele oltre 20 milioni in cinque start-up in settori eterogenei: oltre alla Cybersecurity con Cyberint e Coro, si segnalano l’IT con vFunction; il Quantum Computing con Classiq; l’Agri-Foodtech con Seed-X .
  Cyberint sviluppa soluzioni di Digital Risk Protection, Threat Intelligence e Attack Surface Monitoring che proteggono le aziende dalle minacce informatiche grazie a un controllo ad ampio spettro sull’esposizione ai rischi esterni.
  Coro ha realizzato una piattaforma all-in-one basata su un proprio motore di Intelligenza Artificiale che rileva i principali attacchi informatici come malwareransomwarephishing e bot ed è in grado di fornire una mitigazione automatica delle minacce senza interazione umana.
  Intesa Sanpaolo ha focalizzato da molti anni la propria attenzione sull’ecosistema dell’innovazione israeliano e con Intesa Sanpaolo Innovation Center e Neva SGR partecipa con continuità alle principali iniziative dedicate alle nuove tecnologie realizzate nel Paese. Le relazioni instaurate consentono alla Banca di cogliere le migliori opportunità per potenziare i servizi alla clientela e, al contempo, di essere un riferimento per le aziende italiane che vogliono entrare in contatto con alcune delle start-up più innovative a livello mondiale.
  Israele è centrale nello sviluppo della strategia d’investimento di Neva SGR, che collabora con i principali fondi di venture capital per investire nelle start-up di origine israeliana che possono generare impatto positivo per l’economia italiana e importanti ritorni d’investimento per gli investitori dei fondi gestiti.

(market insight, 18 luglio 2022)

........................................................


All’oligarca indiano Adani il porto di Haifa

Assegnato a un consorzio controllato al 70% dal gruppo indiano lo storico porto pubblico da cui passa gran parte delle merci. L’anno scorso ne era già stato aperto un secondo privato gestito dai cinesi dello Shanghai International Port Group. Obiettivo di Israele farne un grande hub per le merci sul Mediterraneo. E si parla già di una “gara” per il collegamento su rotaia verso il Golfo.

Il porto di Haifa
HAIFA– Il governo israeliano ha deciso l’assegnazione del porto di Haifa a un consorzio formato dall’israeliana Gadot Chemical Terminals e dalla compagnia indiana Adani Ports and Special Economic Zone Ltd, dell'oligarca indiano Gautam Adani, molto vicino al premier di New Delhi Narendra Modi. Il consorzio - in cui l’azienda indiana detiene il 70% del capitale - si è aggiudicato la gara con un’offerta da 1,18 miliardi di dollari (1,17 miliardi di euro), di molto superiore a quanto il governo israeliano aveva previsto di incassare. La concessione durerà fino al 2054.
  Quello al centro di questa privatizzazione è lo storico porto di Haifa, la principale porta di ingresso via mare in Israele per passeggeri e merci. Si inserisce in un piano più ampio di sviluppo che ha visto l’anno scorso l’apertura nella stessa baia di Haifa di un secondo porto privato, l’Haifa Bay Port, gestito dal cinese Shanghai International Port Group (SIPG). Una presenza, quest’ultima, fortemente osteggiata da Washington, per il timore che la Sesta flotta della marina Usa, che attracca di tanto in tanto al porto di Haifa, possa risultare vulnerabile ai sistemi di spionaggio e sorveglianza dell’intelligence del Dragone.
  Israele ha puntato molto sull’apertura ai privati del settore portuale, che è strategico per il Paese: dalla baia di Haifa passa il 90% del traffico merci del Paese e l’obiettivo è quello di aumentare l’efficienza riducendo le tariffe per l’attracco. Ma Haifa si candida ad acquisire ulteriore importanza anche alla luce degli sviluppi delle relazioni e degli scambi commerciali tra Israele e i Paesi del Golfo, legati agli Accordi di Abramo. Da tempo si parla di un progetto di un collegamento su rotaia tra il porto israeliano e la Giordania, che diventerebbe così il primo tratto di una direttrice ben più ampia per il trasporto delle merci. Ed è probabile che anche a questo disegno guardi il gruppo Adani, in aperta competizione con i cinesi. Il progetto è però osteggiato dall'Egitto, che lo vede come un pericoloso concorrente del canale di Suez. 
  Ed è significativo che l’annuncio dell’accordo per la privatizzazione del porto di Haifa sia giunto proprio nelle stesse ore in cui - durante la tappa in Israele del suo viaggio - il presidente degli Stati Uniti Joe Biden prendeva parte insieme al premier israeliano Yair Lapid a un vertice virtuale con Narendra Modi e Mohammed bin Zayed dell’I2U2, un forum di cooperazione economica e politica lanciato lo scorso anno che vede insieme Israele, Stati Uniti, India ed Emirati Arabi Uniti. Israele è già oggi il maggiore partner dell’India nel settore della sicurezza, ma la cooperazione economica sta avanzando anche in molti altri campi.
  Da parte sua Gautam Adani non ha mancato di condire l’operazione per l’acquisizione del porto di Haifa di una venatura nazionalista. In un tweet ha infatti ricordato la battaglia di Haifa del 1918 nella quale furono i reggimenti indiani - allora al servizio di Londra - a conquistare quel porto, aprendo la strada alla sconfitta ottomana.

(Asia News, 18 luglio 2022)

........................................................


Vittime del vaccino, nasce la rete mondiale

Si chiama Jab injuries global e raccoglie le testimonianze delle persone colpite da effetti collaterali in tutto il pianeta. Incredibile il riproporsi degli stessi dati e delle stesse storie. Sarà più difficile per le autorità continuare a non dare risposte.

di Marianna Canè

Il vaso di Pandora è stato scoperchiato. Ormai sarà sempre più difficile ignorare i danneggiati dal vaccino contro il Covid. La domanda di verità si sta alzando in tutto il mondo e non può essere più ignorata come polvere da scacciare sotto il tappeto. Centinaia di migliaia di persone, che da perfettamente sane si sono trovate malate dopo l'inoculazione, hanno deciso infatti di riunirsi all'interno di una grande rete internazionale chiamata Jab injuries global.
  Obiettivo? Chiedere a gran voce delle risposte su tutto quello che è accaduto e che continua ad accadere, perché, Jab injuries global «è un ponte per collegare tutto il mondo, per mostrare che quando ci sono dei rischi, ci deve anche essere la possibilità di scelta e la dimostrazione dei rischi sono proprio le vittime del vaccino». Una comunità che è cresciuta sempre di più in questi mesi, uno slancio partito dall'Australia che si è propagato a macchia d'olio con l'unico scopo di abbattere a colpi di testimonianze di «persone reali, storie reali, danni reali» il muro dell'omertà sugli effetti avversi e aumentare la consapevolezza globale.
  «Jab injuries global è presente in 31 nazioni, dagli Stati Uniti a Singapore, dalla Germania all'Indonesia», ci spiega Roberto Baima del direttivo del Comitato Ascoltami, che in Italia si occupa di chiedere diagnosi e cure, tanto da aver persino chiesto ufficialmente l'apertura di una commissione d'inchiesta parlamentare sui vaccini, «Mi hanno contattato pochi giorni fa, vogliono farci gestire la sezione italiana», ci spiega Baima, «stanno creando un coordinamento che unisce tutti i danneggiati. Loro raccolgono storie di effetti avversi, un po' come noi stiamo facendo in Italia e la cosa più impressionante è che i loro dati e le loro testimonianze sono simili a quelli che abbiamo qui». Una straordinaria convergenza in tutto quello che sta emergendo, l'Italia è proprio come il resto del mondo. Ci sono malati abbandonati dalle istituzioni la cui unica colpa è voler essere ascoltati.
  Nel riportare quella che definiscono «la voce del ferito», i membri di Jab injuries global sottolineano i dati che uniscono tutte le nazioni: l'elevata percentuale di donne colpite (circa il 75% secondo l'organizzazione), e la maggior frequenza di problemi cardiaci nelle fasce più giovani, tra i 18 e i 35 anni, soprattutto maschi. E poi ci sono le esperienze di vita, pubblicate quotidianamente nelle sezioni di ogni Paese. Leggendole sembra che si riproponga un racconto già sentito qui in Italia, quello che abbiamo descritto più volte anche su La Verità. Il dolore, l'isolamento, l'abbandono e la mancanza di cure. Le istituzioni che ignorano completamente il fenomeno. «Tutto il mondo è Paese»: sembra proprio che sia così. Rhys è un ragazzo australiano di 31 anni, prima di vaccinarsi era un atleta di brazilianjiujitsu, si allenava cinque volte a settimana. Non ha mai avuto problemi di salute, è sempre stato molto forte. Dopo la prima dose di vaccino ha accusato solo qualche dolore, ma poi tutto è passato. La seconda però, gli ha stravolto la vita. Ha iniziato ad avere forti fitte al petto, spasmi muscolari in tutto il corpo. E così si è rivolto al suo medico di famiglia, che ha minimizzato, rimandandolo a casa. Ma i dolori sono peggiorati ed è iniziata anche la mancanza estrema di forze, così Rhys è andato da un cardiologo. Lo specialista non ha voluto porre la correlazione con il vaccino, ha subito negato la reazione avversa. E iniziato il calvario di Rhys, le visite con gli specialisti per capire cosa gli stesse succedendo e ottenere una esenzione per la terza dose. Proprio come è accaduto qui in Italia a chi come lui ha iniziato a stare male dopo l'inoculazione. Solo dopo quattro mesi gli è stata diagnosticata una miocardite acuta, dalla quale non è ancora guarito.
  Un percorso molto simile è capitato anche a Erin, 35 anni, canadese. Lei ci ha messo un anno per raccontare la sua storia per paura di essere giudicata o non creduta. Perché un altro filo che unisce i danneggiati di tutto il mondo è proprio questo: l'essere considerati dei «malati immaginari» e la paura che il solo far sapere che qualcosa con il vaccino è andato storto possa compromettere il loro lavoro, il loro posto nella società. Erin escursionista e maratoneta, insegnava in una scuola materna. Oggi ha perso anche la sua occupazione perché la scuola l'ha licenziata, l'istituto vuole solo personale con il ciclo completo di vaccinazione, ma Erin si è fermata alla prima dose. Oggi a distanza di mesi ha ancora la miocardite ed è terrorizzata all'idea di vaccinarsi ancora.
  Tra le esperienze che vengono pubblicate in tutto il mondo, non ci sono solo quelle relative ai problemi al cuore, che sono comunque le più diffuse. C'è anche chi brucia completamente, assalito da questo fuoco all'interno del corpo. Come racconta Cord, dalla Germania. Nonostante siano passati otto mesi, continua a bruciare, la vista le è molto peggiorata, alcune volte ha delle paralisi. «La cosa triste di questa storia è che non c'è riconoscimento, nemmeno da parte dei medici», scrive nella sua testimonianza , «e veniamo etichettati come no vax, ma se fosse stato così non ci saremmo vaccinati. Non sento più la parola "solidarietà", perché chi è solidale con noi adesso? Nessuno. Nel nostro caso la stigmatizzazione quasi insopportabile, ma ora basta. Non staremo più in silenzio, andremo avanti finché non saremo ascoltati. Vogliamo solamente riavere indietro le nostre vite».

(La Verità, 18 luglio 2022)

........................................................


Dopo Biden Lapid convoca il suo consiglio di difesa

'E' stata visita storica, rafforzerà Israele per molti anni' TEL AVIV, 17 LUG - Il consiglio di difesa del governo israeliano è stato convocato oggi da Yair Lapid - per la prima volta da quando ha assunto la carica di primo ministro - per analizzare in maniera approfondita la portata della missione condotta nei giorni scorsi dal presidente Usa Joe Biden in Israele, nei territori palestinesi ed in Arabia saudita.
   "E' stata una visita storica - ha affermato Lapid, in un comunicato - che ha portato con sé successi sia di carattere politico, sia economico, sia di sicurezza, che rafforzeranno Israele per molti anni ancora".
   Lapid ha rilevato che la autorizzazione saudita ai voli commerciali israeliani di attraversare il suo spazio aereo avrà ripercussioni economiche notevoli. Ha anche precisato che la 'Dichiarazione di Gerusalemme' da lui sottoscritta con Biden "garantirà ad Israele la superiorità qualitativa di sicurezza'' nella Regione.
  Sui programmi nucleari iraniani, Lapid ha sottolineato che per contrastarli Israele intende garantirsi anche in futuro "una piena libertà di azione".
  Riferendosi infine al lancio di razzi da Gaza verso Israele, avvenuto nella notte di venerdì, Lapid ha ribadito che la politica israeliana non cambia e che ad ogni lancio offensivo dalla Striscia seguirà una adeguata reazione di Israele.

(ANSAmed, 17 luglio 2022)


*


Dopo la visita di Biden in Medio Oriente, i vecchi giochi riprendono

di Ugo Volli

Si è conclusa ieri la visita di Biden in Medio Oriente, prima a Gerusalemme, poi a Ramallah, infine a Jeddah, dove ha sia incontrato i governanti sauditi, sia ha partecipato a una conferenza di stati arabi filo-occidentali, fra cui Egitto, Giordania, Emirati. L’aereo del presidente, l’ Air Force One, è decollato dall’Arabia Saudita dopo una catena assai fitta di eventi formali, colloqui, incontri, manifestazioni pubbliche, che si sono svolte in maniera regolare, senza le proverbiali gaffes di Biden, che solo è apparso disorientato in un paio di occasioni, e soprattutto senza incidenti. Perfino Hamas ha manifestato la sua esistenza nel solito modo terroristico, sparando i suoi razzi sul territorio israeliano, solo dopo la partenza di Biden dall’aeroporto Ben Gurion.

• Un successo di immagine
  Biden ha avuto un ovvio successo fra i suoi interlocutori. Anche se certamente segnato dall’età, è un uomo gradevole con enorme esperienza del mondo e anche del Medio Oriente. I suoi primi incontri nella regione risalgono ai tempi di Golda Meir e di Nasser. E ovviamente è il presidente degli Stati Uniti, che tutti cercano di compiacere e di farsi amico, se proprio non sono la Russia, l’Iran, la Corea del Nord. Per quel che conta oggi, Biden può tornare a Washington vantandosi di aver ristabilito personalmente la presenza americana in una delle regioni più strategiche del mondo, anche grazie alla sua relazione personale coi leader.

• Le buone parole per tutti
  Volendo piacere, il presidente americano ha detto a tutti quello che volevano sentirsi dire: a Israele (con una pomposa “Dichiarazione di Gerusalemme”) che non lascerà l’Iran diventare potenza nucleare e che il rapporto fra Usa e Israele è strettissimo e durerà per sempre. Ad Abbas che è per lo stato palestinese, anzi per la convivenza di due stati secondo quello che loro chiamano “confini del 1967”, ma che in realtà sono le linee armistiziali del ‘48-49, con scambi condivisi di territorio (ma sembra che su questo tema dei due stati abbia trovato anche l’eco di Yair Lapid, per quel che vale la parola di un primo ministro provvisorio). Ai sauditi ha parlato cordialmente, il che è già un riconoscimento dopo aver minacciato di trattarli da paria in seguito al caso Kashoggi, e addirittura ha dichiarato che il rapporto con gli Usa è una “partnership strategica”, aggiungendo anche quello che aveva già detto a Israele, cioè che l’Iran non avrà l’atomica. Agli stati arabi riuniti ha detto che l’America non ha affatto voglia di andarsene dal Medio Oriente, che possono far conto su di essa; cioè che non li lascerà diventare satelliti dell’Iran. Ai nemici di Israele e dell’Arabia in America ha detto di aver sollevato il caso dei diritti umani e dello stato di Palestina.

• Le contraddizioni
  Ma la promessa per uno è la delusione per l’altro. Ad esempio, per i palestinesi è una provocazione il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele e dell’amicizia fra Usa e stato ebraico; per gli israeliani il fatto che Biden abbia tolto la bandierina israeliana dal frontale della sua macchina per far visita a un ospedale arabo nella città di Gerusalemme è sembrato un tradimento e a molti non è piaciuto l’irrealistico discorso dei due stati. Soprattutto nella “Dichiarazione di Gerusalemme” e in quella con l’Arabia Biden non ha voluto dare garanzie concrete sul rapporto con il nemico di tutti gli stati che ha visitato, cioè l’Iran. Ne ha parlato certamente con tutti e ha promesso che l’Iran non avrà l’arma atomica fino a che lui sarà presidente; ma si è rifiutato di prendere impegni sul solo modo realistico per bloccare questo pericoloso sviluppo, cioè la minaccia dell’uso della forza. Anzi ha ripetutamente spiegato di preferire la “via diplomatica” a quella militare, intendendo con questo il rilancio del trattato di Obama, che tutti giudicano un fallimento. E questo è sembrato troppo poco a tutti i suoi interlocutori, senza ovviamente dare soddisfazione all’Iran che lo considera comunque un nemico.

• Le radici delle difficoltà
  Questi problemi non derivano dalla scarsa lucidità personale di Biden, sono il frutto di un atteggiamento ben stabilito della sua amministrazione, che cerca sistematicamente di conciliare l’inconciliabile: l’amicizia per Israele e quella per i palestinesi, l’appoggio ai paesi che vogliono conservare l’assetto filo-occidentale del Medio Oriente e la volontà di fare la pace con l’Iran, anche a condizioni economiche e politiche molto dispendiose, il rifiuto dell’antisemitismo e il finanziamento dell’UNRWA... Volendo risultati incompatibili, l’amministrazione Biden agisce in maniera confusa: fa un gesto e poi subito lo contraddice, appoggia una parte nel conflitto e poi subito esprime amicizia all’altra. E’ un atteggiamento che si vede bene anche nella guerra in Ucraina, dove Biden appoggia gli aggrediti, ma non tanto da permettere loro di vincere. Un colpo al cerchio e uno alla botte.

• E poi?
  Adesso il Medio Oriente riparte dal punto in cui era prima della visita presidenziale: Hamas cerca di affermare la propria esistenza con scoppi di violenza, Israele si difende dall’Iran ma non ha la dimensione sufficiente per fermare del tutto i suoi attacchi, il processo dei “patti di Abramo” prosegue con sviluppi importanti, come l’apertura dello spazio aereo saudita, ma certo troppo lentamente per una situazione di emergenza, l’Autorità Palestinese coltiva il rancore dei perdenti e si occupa soprattutto di chi sostituirà prima o poi il vecchio Abbas, non certo perché costui intenda mettere in palio il suo posto in libere elezioni, ma perché prima o poi la morte vincerà anche la sua inerzia. La politica israeliana è l’esatto opposto, tutta immersa nelle fibrillazioni della quinta campagna elettorale in meno di quattro anni, ma anche questa coazione a ripetere non è un buon segno, come dicono tutti i politici e commentatori. Insomma i vecchi giochi continuano, Biden non ha risolto nulla e probabilmente neanche lo sperava, oggi è già di nuovo a Washington a occuparsi di un’economia affetta da un’inflazione preoccupante, di una politica sempre più divaricata, del braccio di ferro con la Russia e soprattutto della minaccia immobile ma incombente della Cina. Ma almeno questa, deve aver pensato, è fatta.

(Shalom, 17 luglio 2022)

........................................................


Germania, opera antisemita alla fiera d'arte di Kassel: si dimette la direttrice

Le proteste nella famosa rassegna d'arte 'Documenta' andavano avanti da settimane. Il murale riportante simboli antisemiti era stato prima coperto, poi rimosso.

KASSEL - Dopo lunghe polemiche riguardo la presenza - nella prestigiosa rassegna quinquennale internazionale d'arte contemporanea di Kassel, 'Documenta' - di un'opera con contenuti smaccatamente antisemiti, la direttrice, Sabina Schormann, si è alla fine dimessa. 
  La bufera, innescata già all'apertura della rassegna, andava avanti da settimane e, prima che la direttrice optasse per lasciare, l'opera accusata di contenere simboli e disegni antisemiti era stata coperta con un telo e successivamente rimossa. L'opera, di denuncia politica, del collettivo di artisti indonesiano Taring Padi è un grande disegno murale su uno striscione, intitolato 'Peoplès Justice' (la giustizia popolare). Secondo gli artisti, citati dalla rivista ArtNet, voleva ricordare le vittime del sanguinario dittatore indonesiano Suharto, al potere fino al 1998. Ma una delle grottesche figure che popola l'affollata scena ritrae un maiale in uniforme militare con al collo una sciarpa con la Stella di David e sull'elmetto l'insegna 'Mossad', il servizio d'intelligence estero israeliano. Nello stesso affollato murale di critica politico-sociale, un'altra delle figure ha un volto feroce, una bombetta in testa con il simbolo delle 'Ss' dalla quale spuntano i 'payot', i riccioli portati ai lati della testa dagli ebrei ultraortodossi.

'DOCUMENTA' E LE PROTESTE
  Documenta è la più importante rassegna d'arte contemporanea in Europa insieme alla Biennale di Venezia. Ogni cinque anni, dal 1955, anima la tranquilla cittadina tedesca di Kassel, nell'Assia. Sono oltre 1.500 per ogni edizione gli artisti esposti. Quest'anno a curare la 15/ma edizione è stato Ruangrupa, un collettivo di artisti e creativi nato nel 2000 in Indonesia, come l'opera incriminata e il suo gruppo di autori. Fatta salva la libertà di espressione nell'arte, quella immagine si era spinta troppo oltre, hanno protestato tanto il governo tedesco che le organizzazioni ebraiche tedesche e internazionali. I contenuti antisemiti non sono sfuggiti in primis al consiglio di amministrazione di Documenta, che ha espresso subito dopo l'inaugurazione il suo "profondo sconcerto", affermando di voler terminare il contratto con la direttrice responsabile Schormann.
  Dopo la protesta dell'ambasciata d'Israele in Germania, che ha espresso 'disgusto', l'opera incriminata è stata coperta. Poi, dopo alcuni giorni, è stata rimossa. Ma questo gesto riparatore, assieme alle scuse della direttrice Schormann e degli stessi autori del lavoro, sono stati giudicati tardivi, come ha contestato la comunità ebraica tedesca. E la rimozione non è bastata a chiudere la polemica che aveva iniziato a montare già prima dell'inaugurazione di Documenta 15, quando è stata notata la partecipazione alla fiera d'arte di un collettivo di artisti palestinesi chiamato The Question of Funding (La questione dei finanziamenti), collegato al movimento internazionale per il boicottaggio di Israele Bds. Quest'ultimo è stato bandito dai finanziamenti federali nel 2019 su voto del Bundestag, il parlamento federale tedesco.
  Un colpo al prestigio di una delle più importanti fori dell'arte contemporanea al mondo, che ha reso inevitabili le dimissioni, annunciate oggi, di Schormann.

(RassegnaStampaNews, 17 luglio 2022)

........................................................


Per cercare di stabilizzare la Libia il partner ideale dell'Italia è Israele

Roma dovrebbe inserirsi nel Trattato di Abramo, siglato da Gerusalemme ed Emirati arabi sotto la spinta di Trump. Per «estenderlo» poi a Tripoli, Algeria e Marocco. Portando in dote acqua dolce, cibo e tecnologie.

di Carlo Pelanda

Nel confronto globale tra blocchi sinorusso ed euroamericano, la convergenza dell'area islamica è fattore chiave per la vittoria dell'uno o dell'altro. Il dilettantismo dell'Amministrazione Obama che intervenne nella guerra civile entro l'Islam sunnita a favore delle correnti antisaudite e attuò una politica molle verso l'Iran sciita, creò una frattura tra Stati Uniti e Arabia. Questa fu riparata dall'Amministrazione Trump, che favori il Trattato di Abramo tra Israele ed Emirati più altri arabi, con il consenso saudita, ma solo in parte perché non si ingaggiò pienamente nella difesa militare contro la minaccia iraniana.
  Il caotico disingaggio statunitense dall'Afghanistan da parte dell'Amministrazione Biden, precorso però da una postura non più combattente di quella Trump, fissò l'immagine di un'America inaffidabile. Ora l'Amministrazione Biden, dove il ticket presidenziale è debole ma la componente ministeriale connessa con la burocrazia imperiale è solida, cerca di riparare la relazione con Arabia-Emirati. La visita di Biden nell'area non conclude questa riparazione, ma segna il passaggio dalla fase negoziale preliminare, che prese accelerazione nel Forum del Negev (Israele) qualche mese fa, a una successiva più strutturata. Pertanto è ora che l'Italia connetta più decisamente il proprio interesse nazionale a questo sviluppo. I veri negoziati sono segreti. Ma nel 2019 chi scrive partecipò al convegno panarabo organizzato dallo Emirates policy center (Abu Dhabi) a cui parteciparono rappresentanti di Israele e Stati Uniti e si fece un'idea delle tendenze che aiutano le interpretazioni della situazione corrente, ovviamente con lo status di ipotesi soggettive.
  Il punto è chi assicura all'Arabia che l'Iran venga dissuaso e, eventualmente, venga sostenuta da armi di superiorità? Spifferi segnalano che l'America potrebbe fornire ad Israele armi e energia di nuova generazione. Pertanto c'è una base per pensare che l'America, riluttante ad ingaggi diretti (pur non ritirista) e a fornire superarmi, tra cui l'atomica, al mondo arabo nonché non del tutto convinta ad abbandonare il negoziato con l'Iran, dia a Gerusalemme lo status di difensore del mondo sunnita.
  Cosa che Israele accetterebbe sia come rafforzamento della coalizione antiiraniana, sia come vantaggio geopolitico per convergere con il mondo arabo stesso. Probabilmente l'America armerà i sunniti per la loro difesa da attacchi convenzionali, ma per minacce non convenzionali darà un mandato di raggio regionale a Israele. Tale configurazione è, di fatto, già in atto nelle relazioni tra Israele ed Emirati sotto l'occhio benevolo dei sauditi. Ma il blocco saudita vuole di più dall'America per non cedere al corteggiamento sinorusso e sta segnalando che si comporterà nella sua politica petrolifera in modo convergente se Washington glielo darà e sarà affidabile. Qui l'Amministrazione Biden è in difficoltà per perfezionare la seconda fase della riparazione, ma per lo meno ha ottenuto che il blocco sunnita (30% del petrolio mondiale) ci pensi due volte prima di prendere una posizione neutralista, di fatto favorevole a Cina e Russia.
  Infatti il negoziato procede via iniziativa I2U2, cioè Israele, India, Arabia, Emirati. L'America, cioè, segue la strategia di creare alleanze regionali caratterizzate da convergenze con l'America stessa, ma anche con autonomia propria, tipo il Quad nell'Indo-Pacifico. Non è detto che funzioni, ma è improbabile che il blocco sunnita diverga troppo dall'America.
  Chi scrive immagina che la funzione estera italiana segua con molta attenzione questo scenario. Roma ha una presenza militare rilevante nel Golfo. Ma, più importante è l'eventuale connessione degli sviluppi abbozzati con le aree di interesse primario per l'Italia per il rifornimento di petrolio e gas a prezzi sostenibili: Libia e Algeria. Il clima di convergenza entro il blocco sunnita, in cui va incluso l'Egitto, potrà aiutare la stabilizzazione della Libia?
  La recente elezione di un presidente del Noc (l'Eni libico) e l'annuncio della ripresa della piena produzione/esportazione di energia è connessa con il nuovo clima politico? Sarà d'aiuto per il negoziato con l'Algeria? Potenzialmente sì. Ma cosa dovrebbe fare di più l'Italia man mano che lo scenario detto trovi conferme? A chi scrive sembra evidente che Israele, in cointeressenza con l'Egitto, sia l'interfaccia tra Mediterraneo costiero e profondo (orientale, cioè il Golfo).
  Le relazioni andrebbero approfondite con l'obiettivo di portare stabilità alla striscia costiera dove ci sono Libia, Algeria e Marocco e il Mediterraneo profondo occidentale (il Sabei). Come? Puntando a diventare partner del Trattato di Abramo. Con quali doni da scambiare? L'Italia ne ha pochi geopolitici, ma molti industriali ed economici. Primo tra tutti l'acqua dolce: una «politica di partenariato per i dissalatori» visto che anche l'Italia a rischio di desertificazione dovrà iniziare a costruirli.
  Poi una politica di garanzia per la fornitura di cibo {in cambio di energia) ed altro del genere. Cruciale, infine, un ampliamento degli accordi bilaterali esistenti tra Italia ed Israele in materia di tecnologie civili e militari. Quando nel 2001-2005 chi scrive fu consigliere del ministro della Difesa Antonio Martino, seguì un accordo bilaterale tra Italia ed Israele e ricorda che l'interlocutore israeliano disse che l'Italia era l'unico Paese dell'Ue di cui Israele si fidava. Sembra razionale rinforzare questa relazione nel contesto qui tratteggiato.

(La Verità, 17 luglio 2022)

........................................................


L’anima yiddish di Chagall in mostra a Milano

In esposizione al Mudec di Milano le opere di Chagall legate al retaggio yiddish e culturale degli ebrei dell’Europa orientale

di Andrea Rapino

Intorno ai retaggi familiari e religiosi, ai luoghi del cuore e all’amore per la moglie Bella Rosenfeld, si dipana un Marc Chagall meno noto, meno colorato e forse più intimista: è quello in mostra al Museo delle culture (Mudec) di Milano, dove fino al 31 luglio sono esposte oltre cento opere dell’artista originario di Vitebsk, oggi città di 350mila abitanti nel nordest della Bielorussia, ma un tempo popoloso shtetl della zona in cui nella Russia zarista era consentito l’insediamento degli ebrei.

• LA MOSTRA
  “Marc Chagall, una storia di due mondi” è il nome della pregevole esposizione realizzata grazie all’Israel Museum di Gerusalemme. È composta da opere donate in gran parte da familiari e amici del pittore, ed è divisa in quattro aree: ‘Cultura ebraica e yiddish’, ‘Nostalgia’, ‘Fonti di ispirazione’ e ‘Francia, la nuova patria’. Acqueforti, acquarelli, inchiostri, stampe, oli e pastelli a cera portano il visitatore, attraverso disegni e dipinti in alcuni casi tra i meno celebri, dentro il forte legame tra Chagall e la sua più profonda anima ebraica che ne è stata costante fonte di ispirazione.

• IL PICCOLO EBREO DI VITEBSK
  “Io sono un piccolo ebreo di Vitebsk. Tutto ciò che dipingo, tutto ciò che faccio, tutto ciò che sono, altro non è che il piccolo ebreo di Vitebsk”: con queste parole, che campeggiano su un muro della prima sala della mostra, Chagall evocava la sua anima yiddish. Un’anima che si presenta subito con forza all’inizio dell’esposizione, che introduce un artista insolito se si è abituati a pensarlo come quello colorato che sboccia invece nelle parte conclusiva.
  Questa “storia di due mondi” evoca la nostalgia, il ritorno ideale al paese natale e alle atmosfere dello shtetl, il villaggio tipico degli ebrei dell’Europa orientale spazzato via dall’Olocausto. D’impatto nella prima sala sono gli oggetti rituali esposti che si ritrovano nei disegni, le gigantografie di strade e sinagoghe, e soprattutto la musica in sottofondo che contribuisce all’immersione in un ambiente che era parte organica ma, per altri versi, estraneo o comunque parallelo alla Russia zarista.

• TRA LA RUSSIA E PARIGI
  Ripercorrendo alcune fasi della vita artistica di Chagall, che morirà in Provenza nel 1985, le radici della Vitebsk yiddish si intrecciano con la storia d’amore con Bella, scrittrice per la quale illustrò i libri “Burning Lights” e “First Encounter”, pubblicati dopo la morte prematura della donna amata dal pittore. Ecco allora i disegni che ritraggono il loro primo incontro o il negozio di famiglia dei Rosenfeld, che si alternano alla misera casa natale dell’artista o ai ritratti di genitori e nonni nel costante ritorno alle origini.
  Il “piccolo ebreo” nelle sale del Mudec diventa infine l’artista al quale vengono commissionate opere per illustrare “Le anime morte” di Nikolaj Gogol’ e le “Favole” di Jean de La Fontaine, quest’ultime finalmente colorate che, non senza sollevare polemiche, gli affidò l’editore francese Ambroise Vollard. L’esposizione si chiude con la Francia, nuova patria del pittore, e a corollario di tutto un’installazione multimediale di fiori lavorati a tombolo e a fuselli si tinge man mano, sprigionano i vitali colori della tavolozza dell’ultimo e più noto Chagall.

(East Journal, 17 luglio 2022)

........................................................


Le Beatitudini di Gesù (7)

di Marcello Cicchese

BEATI I PURI DI CUORE

    "Beati i puri di cuore, perché essi vedranno Dio” (Matteo 5:8).

"Vedere la faccia del re" significava nell'Antico Testamento avere accesso alla sua presenza, essere accolti con favore e benevolenza dal sovrano. Era un privilegio che naturalmente non tutti potevano avere, e che il re poteva espressamente negare anche ai suoi più intimi familiari, quando voleva esprimere la sua ira e il suo giudizio contro di loro. Illustrativo può essere il caso di Absalom, che dopo aver fatto uccidere il fratello Ammon cerca il perdono del padre, il re Davide, ma per due anni deve dimorare in Gerusalemme "senza vedere la faccia del re" (2 Samuele 14:28). Fino a che, stanco di aspettare, implora l'aiuto del suo amico Joab, dicendogli:

    "Or dunque fa' ch'io veda la faccia del re! e se v'è in me qualche iniquità, che mi faccia morire"  (2 Samuele 14:23).

Non si poteva dunque vedere il sovrano senza essere degno di lui, senza avere ottenuto da lui un giudizio positivo e favorevole.
  Se queste erano le condizioni per vedere un re umano, tanto più ardua doveva apparire la possibilità di vedere la faccia di Dio. A Mosè che chiede all'Eterno: "Deh, fammi vedere la tua gloria" (Esodo 33:18), Dio risponde:

    "Tu non puoi vedere la mia faccia, perché l'uomo non mi può vedere e vivere" (Esodo 33: 20).

Questo principio viene ripetutamente espresso nella Bibbia e sta a significare che l'uomo, nella sua posizione di peccato e impurità, non può comparire davanti alla maestà e alla santità di Dio senza restarne annientato. Per questo è detto che

    "Mosè si nascose la faccia, perché aveva paura di guardare Dio” (Esodo 3:6)

Le poche persone che in qualche modo hanno fatto l'esperienza di vedere Dio, si considerano oggetto di una particolare grazia da parte dell'Eterno che li ha mantenuti in vita. Giacobbe, dopo la sua lotta con l'angelo, esclama:

    "Ho veduto Dio a faccia a faccia, e la mia vita è stata risparmiata" (Genesi 32:30).

E Isaia che ha potuto vedere "il Signore assiso sopra un trono alto, molto elevato", esclama:

    "Ahi, lasso me, ch'io son perduto ! Poiché io sono un uomo dalle labbra impure ... e gli occhi miei hanno veduto il Re, l'Eterno degli eserciti! " (Isaia 6:5).

Secondo le Scritture, l'impossibilità che l'uomo ha di vedere il Signore non dipende dai limiti delle sue facoltà conoscitive che secondo schemi filosofico-speculativi non gli consentirebbero di investigare un essere infinito come Dio, ma dipende invece dal fatto che l'uomo è peccatore, e quindi non può reggere ad un contatto diretto con la santità di Dio. La contrapposizione insanabile non è tra "infinito" e "finito" o, come piace dire ai filosofi, tra trascendenza di Dio e immanenza dell'uomo, ma tra santità di Dio e peccato dell'uomo. E se un giorno l'uomo potrà vedere Dio, ciò non avverrà mediante un processo di elevazione dal finito all'infinito, ma per un'opera di giustificazione e di santificazione.

    "Poiché l'Eterno è giusto; egli ama la giustizia; gli uomini retti contempleranno la sua faccia"(Salmo 11:7).
    "Procacciate pace con tutti e· la santificazione senza la quale nessuno vedrà il Signore"(Ebrei 12:14).

Ma il peccato, secondo la Bibbia, non è la somma delle trasgressioni di tutti gli uomini, ma è piuttosto uno stato in cui tutta la creazione è caduta in conseguenza di un originario atto di ribellione dell'uomo a Dio. Per causa dell'uomo "il suolo è stato maledetto" (Genesi 3:17). Per il popolo d'Israele questo significava che in determinate zone della realtà erano presenti e attive potenze malefiche alle quali non ci si poteva avvicinare senza rimanerne contaminati. Si poteva quindi diventare impuri entrando in relazione, anche in modo esclusivamente fisico, con la morte, la lebbra, le deformità corporali, i culti a divinità straniere. Chi aveva contratto simili impurità rituali non poteva in nessun modo avvicinarsi alle cose sante, cioè agli oggetti relativi al culto di Dio, senza prima assoggettarsi alle relative pratiche di purificazione.

    "E se uno toccherà qualcosa d'impuro, una impurità umana, un animale impuro o qualsivoglia cosa abominevole, immonda, e mangerà della carne del sacrificio di azioni di grazie che appartiene all'Eterno, quel tale sarà sterminato di fra il suo popolo" (Levitico 7:21).

In questo modo doveva essere sempre mantenuto vivo il ricordo del fatto che l'uomo è immerso in una realtà di peccato e che in tale posizione non può accedere direttamente alla santità di Dio, ma ha bisogno di essere prima purificato, santificato.
  Il problema della purezza rituale era molto sentito al tempo di Gesù. I Farisei, in particolare, erano rigidissimi nel seguire le pratiche di purificazione. Si può quindi immaginare il ribrezzo che provarono nel venire a sapere che Gesù prendeva i cibi senza lavarsi le mani e addirittura toccava i lebbrosi che, dopo i cadaveri, erano quanto di più impuro ci potesse essere.
  Ma i Farisei si comportavano come tutte le persone religiosissime di tutti i tempi: erano scrupolosi in tutto fuorché nelle cose essenziali. E Gesù li attacca con grande durezza. "Voi - dice in sostanza Gesù - filtrate le vostre bevande per evitare di ingerire qualche eventuale moscerino impuro, ma con grande tranquillità siete capaci di ingerire un cammello. Voi rassomigliate a sepolcri dipinti di bianco, che dal fuori sembrano puri nel loro candore, ma dentro sono pieni dell'impurità delle ossa dei morti e di ogni altra immondizia. Voi siete impuri dentro. E' il vostro cuore che ha bisogno di essere purificato. Ma se il vostro cuore resta impuro, tutto il vostro corpo ne è contaminato, e nessuna abluzione potrà purificarlo" (cfr. Matteo 15:1-20; 23:13-36).
  L'atteggiamento di Gesù nei confronti della purezza rituale costituisce un attacco frontale all'intero sistema religioso dei suoi contemporanei. Non sorprende quindi che da una parte i discepoli riferiscano preoccupati a Gesù che "i Farisei, quando hanno udito questo discorso, ne sono rimasti scandalizzati" (Matteo 15: 12), e dall'altra che una schiera di persone irrimediabilmente impure, come i pubblicani, le prostitute, i lebbrosi, i ciechi, gli storpi, veda in Gesù un'insperata possibilità di essere accolti, perdonati, guariti.
  Resta tuttavia valido il fatto che per comparire alla presenza di Dio bisogna effettivamente essere puri; ma puri di cuore, sottolinea Gesù. Ma chi può esserlo? E che cosa significa, esattamente, essere puri di cuore?
  Come nell'antico patto i "puri" che potevano accedere alle cose sante di Dio erano in realtà dei "purificati", così anche nel nuovo patto i "puri di cuore" di cui parla Gesù non sono delle persone che possiedono in se stesse una loro propria purezza, ma sono piuttosto persone la cui coscienza è stata purificata da Dio (Ebrei 9:14). Gesù non promette una ricompensa a chi è in se stesso puro, ma offre Egli stesso la purificazione insieme con la relativa conseguenza: poter "vedere Dio". Nella lettera agli Ebrei l'opera di Cristo è presentata come la "purificazione dei peccati" (Ebrei 1:3) mediante un unico sacrificio di cui Gesù Cristo è contemporaneamente sommo sacerdote e vittima espiatoria.
  La purificazione compiuta da Dio in Cristo ha un carattere cosmico. Per mezzo della croce, Egli ha vinto le potenze della morte (Colossesi 2:15), e ha "purificato le cose" (Atti 10:15); d'ora in poi "nessuna cosa è impura in se stessa" (Romani 14:14), e di conseguenza non è più il caso di lasciarsi imporre precetti come "non toccare, non assaggiare, non maneggiare" (Colossesi 2:21 ), perché le cose non possono più trasmettere impurità all'uomo. Sembra piuttosto che sia vero il contrario: è l'uomo che in un certo senso può trasmettere la sua impurità alle cose che lo circondano.

    "Tutto è puro per quelli che sono puri; ma per i contaminati ed increduli niente è puro; anzi tanto la mente che la coscienza loro sono contaminate" (Tito 1:15).

Se la purezza che consente all'uomo di comparire alla presenza di Dio è un dono di Dio stesso, cioè una purificazione dei peccati, è anche vero che all'uomo viene chiesto di avere un "cuore onesto e buono" (Luca 8:15) affinché l'opera di Dio possa portare frutto in lui. L’onestà che Dio richiede è essenzialmente la disposizione a restare nella luce della parola di Dio quando questa illumina la nostra coscienza e ci rivela per quello che siamo: dei peccatori. Se ci chiudiamo alla luce di Dio e "diciamo di essere senza peccato" allora "inganniamo noi stessi", e quindi la nostra coscienza non può essere purificata, ma anzi si carica di una nuova doppiezza, dovuta allo sforzo di negare la realtà che ci viene presentata. E così "la verità non è in noi" (1 Giovanni 1:8); ma anzi è in noi la falsità di una coscienza ingannata. Se invece "confessiamo i nostri peccati", cioè diciamo "si" al giudizio di Dio su di noi e cessiamo di nasconderci come Adamo, allora ci riconciliamo con la verità, anche se è una verità triste e penosa per noi, e ritroviamo una forma di semplicità che Dio trasforma, per la sua grazia, in uno stato di purezza:

    "Se confessiamo i nostri peccati, Egli è fedele e giusto da rimetterci i peccati e purificarci da ogni iniquità" (1 Giovanni 3:9).

Gesù promette che i puri di cuore vedranno Dio. Se riconosciamo che per la grazia del Signore possiamo essere annoverati tra coloro che sono stati purificati in Cristo, allora, in preparazione all'evento promesso da Gesù, dobbiamo cominciare ad abituare i nostri occhi. Dobbiamo abituarci a guardare gli uomini e le cose con occhi limpidi, chiari, dobbiamo imparare a ricercare rapporti semplici, leali con tutti, a smettere di dividere la nostra coscienza in tanti scompartimenti ben isolati l'uno dall'altro, a deporre le nostre maschere con cui ci presentiamo agli altri.
  Bisogna dire che gli ambienti di chiesa non sempre favoriscono quegli atteggiamenti di sincerità, schiettezza, linearità, dirittura, integrità che forse dovrebbero essere collegati alla purezza di cuore di cui parla il vangelo. La necessità di apparire "buoni" spinge sovente alle mezze parole, alle vie indirette, ai silenzi diplomatici, alle sorridenti malignità. E quando qualcuno comincia a cedere nella sua fedeltà al Signore, molto spesso invece di cambiare in modo aperto e pubblico il suo comportamento preferisce elevare, nei confronti degli altri e di se stesso, una serie di muri protettivi che gli evitino di doversi porre con onestà davanti a Dio e davanti al prossimo. La realtà si separa dall'apparenza; la coscienza si divide. Troppo spesso il primo frutto della infedeltà è la perdita della purezza di cuore.

    "Nettate le vostre mani, o peccatori; e purificate i vostri cuori, o doppi d'animo" (Giacomo 4:8).

Avendo creduto in Cristo, siamo stati purificati; essendo stati purificati abbiamo ricevuto la promessa di poter un giorno vedere il Signore nella sua santità; ed essendo destinati a vedere il Signore nella sua santità siamo chiamati a purificarci nella nostra coscienza e nelle nostre azioni.

    "Diletti, ora siamo figli di Dio; e non è ancora reso manifesto quello che saremo. Sappiamo che quando Egli sarà manifestato saremo simili a lui, perché lo vedremo come Egli è. E chiunque ha questa speranza in lui, si purifica, com'esso è puro" (1 Giovanni 3:2-3).
(da "Credere e Comprendere", gennaio 1982)


........................................................


Draghi alza il prezzo per avere poteri alla Erdogan

di Ruggiero Capone

Mario Draghi non poteva e non deve (per mandato) salvaguardare gli interessi economici e sociali della classe media e nemmeno del proletariato: lui ha assolto al suo compito, ovvero far rispettare le normative europee e rafforzare il controllo sulle attività economiche dei cittadini. Ovviamente Draghi è un corpo estraneo alla politica classica, e non ha mai detto di essere l’ultimo frutto dell’albero che ha prodotto nel Novecento rappresentanti nella logica della partecipazione e rappresentatività. Ora, nel vuoto della classe dirigente italiana, Supermario può agevolmente ergersi a De Gaulle che passa la staffetta alla politica, e dire “après nous, le déluge”: dopo di me il diluvio per via della scarsa autorevolezza istituzionale degli eletti in Parlamento, dello scarso peso della classe dirigente italiana nei salotti finanziari europei e mondiali, della labile preparazione storica, economica, filosofica e giuridica di chi agita la politica politicante. In più di centocinquant’anni quante volte il parlamentarismo è stato accusato di rivelarsi il male dell’Italia? Non certo per lo strumento, che rimane il sempre auspicabile (al Parlamento non si può rinunciare), ma per il livello infingardo della classe dirigente politica. L’Italia s’è ritrovata con Draghi amministratore di sostegno per colpa dell’ignavia politico-parlamentare, la stessa che in precedenza aveva varato il Governo Mario Monti e prima ancora Giuliano Amato.
  Il depotenziamento dell’autorevolezza (e cultura) parlamentare e la scarsa formazione della classe dirigente tornano a rivelarsi la vera emergenza politica italiana: un male atavico, ben più radicato di qualsivoglia perniciosa malattia. Oggi è difficile porci rimedio, perché da troppo tempo l’Italia ha messo in soffitta l’idea d’una democrazia rappresentativa ed anche partecipata. La formazione della “classe dirigente politica” è da troppo tempo lasciata a fenomeni consensuali da “reality show”, o bagni di folla per ragazzotti improbabili od investiture di gente con percorsi del tutto simili alla formazione lavorativa a distanza, alle tele-elezioni, all’università virtuale: la cernita della classe dirigente dopo il 1992 ha premiato in politica i rappresentanti dell’impreparazione generalizzata, autodidatti senza vita lavorativa (non certo artigiani ed operai) ed ugole d’oro. Così nel 1992 siamo passati dai discepoli di Calamandrei, Andreotti, Fanfani e Moro ai nuovi modelli istituzionali, tutti suppergiù a mezzo tra Luigi Di Maio ed Antonio Razzi con digressioni tra Scilipoti, Renzi e Salvini. Per farla breve, è stato abbassato il livello culturale della classe dirigente. Mandando in frantumi tutta l’operazione egemonica dei cosiddetti “formatori politici” con solide basi sulla cultura italiana del Novecento, che si svolgeva attraverso il metodo filosofico della “critica” e del confronto nelle sezioni come nelle scuole di formazione. Un approccio formativo che metteva d’accordo tutti i filosofi (e formatori) sull’esigenza di costruire la coscienza politica della cosiddetta “classe dirigente” dello Stato. Caratteristiche che vediamo totalmente assenti nell’Italia sorta sulle ceneri della Prima Repubblica, al punto che per evidenti deficit culturali la politica è stata sempre più appaltata all’alta burocrazia di Stato: ai Draghi, ai Monti, agli Amato, ed a ragionieri ed avvocati dello Stato.
  Il vuoto di rappresentanza parlamentare e l’incapacità degli eletti di condizionare la politica sono il motivo che ha portato a protestare per strada gli animi irrequieti, gli insoddisfatti, i precari, i disoccupati, artigiani e commercianti e, non ultimi, i tassisti. Il senso anarcoide di una primordiale violenza politica è stato ridestato a causa del vuoto parlamentare. E poi dai proclami alla Bava Beccaris dei ministri dell’Interno che si sono alternati dal 2012 al 2022.
  Questa presunta classe dirigente eletta purtroppo manca di pratica e lavoro. Parlano tanto e hanno letto poco: Ennio Flaiano direbbe di loro “è gente che parlato e scritto più di quanto abbia letto”. Così abbiamo una classe politica che ha poco riflettuto sulla propria missione sociale, e questo è il problema. Somigliano non poco ai falsi preti che non hanno mai frequentato il seminario o servito messa, agiscono come i truffatori di paese che vestono talare (abbigliamento del sacerdozio) per recitare una parte in commedia e guadagnarsi la pagnotta con vari espedienti. Se invece di giocare con i “social” avessero letto qualche opera di Benedetto Croce o qualche testo formativo forse si sarebbero posti qualche problema, avrebbero cercato di fare proprio il realismo della “classe dirigente”, comprendendo come la politica sia figlia dell’animo borghese e quindi forza di mediazione tra popolo e potere. Ma la classe parlamentare di oggi somiglia troppo a colui che si specchia e si domanda “ma io chi sono veramente?”. Non sono aristocrazia borghesia, né proletariato contadino e operaio, né tantomeno conoscono le regole del sottoproletariato e poi degli stenti e della miseria. Sono il nulla, il vuoto coscienziale pneumatico, che crea buchi neri nell’universo dell’animo elettorale grazie all’uso compulsivo della rete.
  Poi l’inganno, i progetti dei partiti nati dopo il 1992 sin dal loro sorgere hanno badato alla riduzione (nel numero e nell’autorevolezza) della classe dirigente italiana. L’esempio ultimo i grillini, che hanno raccolto consensi come tagliatori di teste: badando bene a poter dimezzare sia per via politica che giudiziaria l’intera classe decisionale. Non è un caso che nel progetto del “Nuovo Ordine Mondiale” si parli dell’Italia ridimensionata nell’identità e nell’autorevolezza dirigenziale. Al Bilderberg ed a Davos (frequentati da Vittorio Colao) è stato predicato che gran parte della popolazione dovesse accettare la riduzione della qualità della vita in prospettiva di una visione minimalista del lavoro, del reddito delle varie aspettative. Ecco a cosa è servito dimezzare il grande corpo intermedio, che ha dilatato negli ultimi decenni la borghesia italiana, a distruggere il vivaio della classe dirigente, a ridurre la cernita a Draghi e dintorni.
  Il depotenziamento parlamentare, l’insipienza della classe dirigente partitica, ha favorito l’uso smodato dei decreti con disposizioni impopolari, che hanno solo minato la pace sociale. Queste logiche hanno fortificato nell’elettorato la disaffezione dalla democrazia, convincendo la gente che Parlamenti e Governi rappresentino un potere contrapposto al popolo. E l’“efficienza normativa” di cui parlano gli ultimi governi s’è dimostrata una sorta di piano inclinato verso la dittatura. Poi l’elettorato è sovente più preparato dei parlamentari: così il cattolico ricorda che Don Sturzo sosteneva che “solo il Parlamento rappresenta il Paese”, il socialista rammenta i motivi che nel 1953 scatenarono l’aspro conflitto parlamentare contro la “legge truffa”, a cui veniva imputato di snaturare proprio la sacralità della rappresentanza parlamentare, mentre l’uomo di destra si domanda a cosa serva una classe dirigente che non tutela la tradizione italiana ed il suo primato culturale ed industriale.
  Il Parlamento è il brodo ancestrale della democrazia politica, si può modificare infinite volte il quadro di governabilità, ma mai i rappresentati devono venire meno alle loro prerogative di salvaguardia dei diritti del popolo. Oggi, non solo ci dicono che non c’è alternativa a Draghi, ma anche che con la riduzione dei parlamentari molte prerogative democratiche verranno meno. Questo futuro è chiaro a Draghi, come anche l’insipienza ed ignavia parlamentare, quindi gioca a fare l’irremovibile, certo che il presidente Sergio Mattarella lo premierà con poteri ben più ampi. Del resto Joe Biden vorrebbe un secondo Recep Tayyip Erdoğan nel Mediterraneo, e Draghi si prepara a mostrare autorevolezza ed autorità degne della tradizione riformatrice e militare turca. Il Parlamento non sa che fare, il popolo dissente in maniera silente e scomposta, come il gregge che aspetta solo il bastone del pastore per mettersi in riga.

(l'Opinione, 16 luglio 2022)

........................................................


Missili su Israele per contestare la normalizzazione con Arabia Saudita

L'IDF risponde colpendo fabbrica di missili a Gaza. Hamas contesta molto duramente l’avvicinamento tra Israele e Arabia Saudita che dovrebbe portare alla normalizzazione dei rapporti tra i due ex nemici, una normalizzazione che significa la fine della cosiddetta “causa palestinese”.

di Sarah G. Frankl

L’esercito israeliano ha effettuato diversi attacchi nella Striscia di Gaza dopo che dall’enclave palestinese erano partiti alcuni razzi verso il sud di Israele.
  Ad essere colpiti, secondo un portavoce dell’IDF, sono stati diversi siti per la produzione di razzi è in particolare una struttura sotterranea di Hamas per la produzione di materiali per razzi nella Striscia di Gaza centrale.
  I palestinesi hanno riferito che diversi attacchi si sono verificati vicino a Gaza City poco prima delle 5. Video e foto sui social media hanno mostrato grandi palle di fuoco che si alzavano in seguito agli attacchi contro obiettivi non specificati.
  «Il sito preso di mira era uno dei più grandi e importanti siti della Striscia per la produzione di materiali di base per i razzi da parte dei gruppi terroristici», ha dichiarato l’esercito affermando che l’attacco avrebbe significativamente ridotto la produzione di razzi.
  In totale sono stati sparati quattro razzi contro Israele, uno intercettato dal sistema Iron Dome in quanto diretto verso obiettivi civili, mentre gli altri tre sono caduti in campo aperto.
  Nessuno ha rivendicato il lancio dei razzi ma Israele ritiene Hamas responsabile di tutto quanto avviene all’interno della Striscia di Gaza.
  Si ritiene che il lancio di missili sia avvenuto per dimostrare il disappunto dei gruppi terroristici che tengono in ostaggio la Striscia di Gaza a seguito dell’importante avvicinamento tra Israele e Arabia Saudita.
  Nella notte Hamas ha condannato l’annuncio di ieri secondo cui l’Arabia Saudita consentirà ai voli israeliani di utilizzare il suo spazio aereo. «Siamo profondamente addolorati», ha detto un portavoce del gruppo terrorista che tiene in ostaggio la Striscia di Gaza.
  «I tentativi del governo americano di ricostruire la regione coinvolgendo lo Stato di Israele, fornendogli sicurezza e creando alleanze tra esso e i governi arabi, falliranno» ha detto il leader politico di Hamas Ismail Haniyeh a dimostrazione del fatto che i palestinesi vedono la normalizzazione dei rapporti tra Gerusalemme e Riad come la loro fine.

(Rights Reporter, 16 luglio 2022)

........................................................


Lapid e Biden firmano la Dichiarazione di Gerusalemme. Teheran minaccia ritorsioni

Gli Stati Uniti, ha spiegato Biden, sono pronti, come vuole Israele, ad usare anche la forza per impedire all'Iran di dotarsi di armi nucleari. Oggi l'incontro a Betlemme con il presidente palestinese Abu Mazen.

di Michele Giorgio

La firma della Dichiarazione di Gerusalemme da parte di Biden e Lapid
I tamburi di guerra hanno riecheggiato un po’ ovunque durante il secondo giorno della visita di Joe Biden in Israele. Non solo in Medio oriente. La Russia ad esempio, con tono deciso, ieri ha detto di aspettarsi che Israele «agisca in modo saggio e corretto» se gli Usa dovessero chiedergli di inviare armi all’Ucraina. Poco prima il presidente americano e il premier israeliano Lapid avevano firmato la Dichiarazione di Gerusalemme, in cui si afferma che Stati uniti e Stato ebraico sono preoccupati «per gli attacchi in corso contro l’Ucraina» e si ribadisce l’impegno «per la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina». Toni da guerra ha usato ieri anche l’Iran, pronto, afferma, a dare una «dura risposta» agli Stati uniti e a Israele se «metteranno a rischio la sicurezza della regione». Parole pronunciate dal presidente Ebrahim Raisi in un discorso alla televisione pubblica iraniana. Prima dei suoi ammonimenti, il leader di Hezbollah (alleato di Teheran), Hassan Nasrallah, da Beirut aveva sostenuto che la crisi economica e finanziaria che devasta il Libano sarebbe causata anche delle politiche israeliane, specie nello sfruttamento dei giacimenti di gas naturale situati nelle acque contese tra i due paesi. Ha quindi avvertito che la guerra potrebbe essere l’unica strada percorribile per i libanesi.
  A mettere in allarme Teheran è stato l’impegno degli Stati uniti, sottoscritto da Biden e Lapid nella Dichiarazione di Gerusalemme, «a non permettere mai all’Iran di acquisire l’arma nucleare» e di «essere preparati ad usare tutti gli elementi del suo potere nazionale per assicurare questo obiettivo». È la stretta partnership strategica che Israele cercava per colpire militarmente l’Iran anche se non ha la bomba atomica: a scatenare un attacco, anche congiunto se necessario, basterà solo un’intenzione dell’Iran di dotarsi di ordigni nucleari (che da parte sua nega di puntare all’arma di distruzione di massa). È la realizzazione della «dottrina Netanyahu», l’ex premier israeliano. Ribadita ieri dallo stesso Netanyahu, probabile vincitore delle elezioni israeliane del 1 novembre. «Senza una opzione militare credibile, non è possibile fermare l’Iran», ha detto Netanyahu incontrando, da capo dell’opposizione, il presidente americano. «Di fronte all’Iran – ha poi spiegato alla stampa – non bastano le sanzioni economiche e nemmeno un assetto militare di carattere difensivo. C’è piuttosto bisogno di una opzione militare offensiva credibile. Se poi questa opzione non avrà effetto deterrente, allora bisognerà attivarla. Questo è quanto farò – ha promesso – se e quando tornerò nell’ufficio del primo ministro». Poco prima era stato il premier Lapid a lanciare lo stesso avvertimento: «Occorre sul tavolo una minaccia militare credibile». «L’Iran – ha continuato – non è solo una minaccia per Israele ma per il mondo intero». Biden ha ripetuto che la diplomazia resta lo strumento preferito ma intanto la sua Amministrazione si prepara ad estendere il Memorandum of Understanding (MOU) da 38 miliardi di dollari, firmato nel 2016 sotto l’amministrazione Obama (Biden era vicepresidente), per dare maggior sostegno, con fondi del contribuente americano, alle forze armate israeliane (che da tempo si addestrano, e non lo nascondono, a un attacco all’Iran). Biden e Lapid ieri hanno anche avuto un incontro virtuale con il presidente degli Emirati, Mohamed bin Zayed – firmatario degli Accordi di Abramo per la normalizzazione dei rapporti tra paesi arabi e Israele, esaltati nella Dichiarazione di Gerusalemme – e il primo ministro indiano Narendra Modi. Si tratta del nuovo forum di paesi che la Casa Bianca ha etichettato I2U2 e che consentirà agli alleati degli Usa di lavorare insieme sui temi economici. In realtà si tratta della formalizzazione di un’altra alleanza strategica tra paesi che già da tempo cooperano nella sicurezza e il militare.
  La questione palestinese non è stata inclusa nei punti principali della Dichiarazione di Gerusalemme. Biden e Lapid, con toni diversi, si sono espressi a favore della soluzione a Due Stati (Israele e Palestina). Ma è il solito rituale che dagli Accordi di Oslo di 29 anni fa non ha mai prodotto nulla di serio. Di concreto c’è che il presidente palestinese Abu Mazen e Biden rilasceranno dichiarazioni separate oggi dopo l’incontro che avranno a Betlemme. Le due parti sono così lontane che non sono state in grado di concordare una dichiarazione congiunta. Gli Usa non andranno oltre qualche aiuto economico ai palestinesi. A Betlemme sono apparsi cartelloni con la scritta «Mr. President, questa è l’apartheid» e nella città e a Ramallah oggi si terranno manifestazioni con bandiere nere e foto della giornalista Shireen Abu Akleh uccisa l’11 maggio durante un blitz a Jenin di reparti militari israeliani.

(il manifesto, 16 luglio 2022)

........................................................


Sfugge per un soffio al Velodromo d'Inverno e termina il suo viaggio in Svizzera

Nella notte tra il 15 e il 16 luglio 1942, 9'000 poliziotti e ufficiali francesi arrestarono 12'884 ebrei a Parigi e nei suoi sobborghi, tra cui 4'051 bambini. Furono tutti portati nei campi di Drancy.

Pithiviers e Beaune-la-Rolande prima di essere deportati ad Auschwitz
La Francia commemora oggi l'80° anniversario del rastrellamento al Velodromo d'Inverno, il più grande arresto di massa di ebrei in Francia durante la Seconda guerra mondiale. Edmond Richemond si salvò per un pelo, prima di partire per la Svizzera e i suoi campi di transito. Ecco il suo racconto.
  Edmond Richemond, 93 anni, si recherà sabato a Sarcelles, nella regione di Parigi, per le commemorazioni del rastrellamento al Velodromo d'Inverno. Nonostante l'ondata di caldo, nonostante l'emozione. Esattamente 80 fa, di buon mattino, la polizia francese gli portò via la madre, che non rivedrà mai più, e sconvolse la sua esistenza.

• Solo ebrei "stranieri" o "di origine straniera"
  Nel giugno 1942, Adolf Eichmann, responsabile della logistica della "Soluzione finale", e il suo delegato in Francia, Theodor Dannecker, chiedono la deportazione di 30'000-40'000 ebrei di età compresa tra i 16 e i 45 anni, di cui circa 20'000 devono essere deportati dalla regione di Parigi.
  Le autorità francesi, ripiegate a Vichy, che collaborano con la forza occupante e ne condividono più o meno l'antisemitismo, si allineano. A condizione che questi ebrei "siano stranieri (o di origine straniera) e che le forze dell'ordine di Vichy agiscano in totale autonomia", come riassume lo storico Laurent Joly nella sua recente sintesi La Rafle du Vel d'Hiv (Il rastrellamento del Velodromo d'Inverno, edizioni Grasset).
  La polizia francese si occuperà dunque di tutto. Al padre di Edmond, Rachmil Richemond, nato Reichman in Polonia nel 1897, gli ispettori di polizia assicurano che donne e bambini non rischiano nulla. Rachmil e il figlio maggiore Jack lasciano quindi la loro casa di rue Braille, nel 12° arrondissement di Parigi, e si nascondono. Lasciano Edmond e sua madre Rachel da soli nell'appartamento.

• L'inferno del Velodromo d'Inverno
  La polizia si presenta il 16 luglio 1942. Chiede alla signora Richemond di preparare cibo e vestiti per tre giorni. Edmond, 13 anni, finge di raccogliere le sue cose e scappa dai vicini, i Richard. Rachel, invece, viene portata al Velodromo d'Inverno, uno stadio coperto vicino alla Torre Eiffel.
  In due giorni sono arrestate 12'884 persone, di cui più di 8'000 sono mandate al Velodromo d'Inverno (le altre al campo di Drancy). Una giovane assistente sociale descrive al padre le condizioni dantesche dello stadio. "È qualcosa di orribile, di demoniaco (...) che ti prende per la gola e ti impedisce di urlare (...). Quando entri, il respiro ti viene prima tolto dall'atmosfera stantia e poi ti ritrovi in questo grande velodromo gremito di gente stipata. I pochi servizi igienici sono intasati. Non c'è nessuno che li ripara. Tutti sono costretti a fare i propri bisogni lungo i muri...".
  Vichy non mantiene nemmeno la promessa di consegnare agli occupanti solo gli "ebrei stranieri o apolidi". Come rammenta Laurent Joly, circa 3'000 bambini del Velodromo d'Inverno "avevano la nazionalità francese, erano autentici piccoli parigini di nome Albert, Janine, Henri, Marie...".
  Circa due terzi delle persone ricercate riescono a sfuggire alle retate. Tra le molte spiegazioni fornite da Laurent Joly c'è la relativa compiacenza degli agenti, che non sono molto zelanti e a volte avvertono addirittura gli ebrei. Sfortuna vuole che nel 12° arrondissement, dove vivono i Richemond, il commissario Boris sia un fervente petainista. Potrebbe congratularsi con sé stesso per il suo tasso di "successo" record, con il 61% degli ebrei arrestati.

• La folle corsa attraverso il confine

Edmond Richemond
Edmond rimane per un mese con i Richard, il cui coraggio sarebbe poi valso loro il titolo di Giusti tra le nazioni. In settembre, l'adolescente viene accolto da organizzazioni clandestine ebraiche, in particolare la Colonia scolastica, che si occupano di portare i giovani ebrei nella "zona libera" e poi in Svizzera.
  "Eravamo quindici bambini a camminare da Annemasse verso Ginevra. Cantavamo 'Maréchal nous voilà' per evitare ogni sospetto", ricorda Edmond Richemond. "Abbiamo seguito la strada lungo il confine e la sua doppia fila di filo spinato alta due metri e mezzo. Avevo ben presente le istruzioni: superare il filo spinato all'altezza della grande quercia".
  Attraversata la recinzione, i bambini vedono avvicinarsi un soldato tedesco. "Eravamo in trappola. 'Ma no', grida il più giovane di noi, 'guardate bene, c'è una croce bianca sulla sua uniforme'. Era una guardia di confine svizzero-tedesca. Al posto di controllo di Veyrier, gli uomini stanno ascoltando una partita di calcio. Che contrasto e che sollievo!".
  Edmond viene mandato nel campo di smistamento delle Cropettes, a Ginevra. Da questa scuola requisita dalle autorità, durante la guerra transiteranno in totale 2'526 persone, tra cui 1'622 rifugiati ebrei. Di questi, 80 sono stati respinti. Nell'agosto 1942, la Divisione di Polizia emana una circolare confidenziale in cui si afferma che i disertori, i prigionieri di guerra e altri militari, nonché i rifugiati politici, devono essere accolti in Svizzera. Tuttavia, specifica che "coloro che sono fuggiti solo a causa della loro razza, come gli ebrei, non devono essere considerati dei rifugiati politici".

• Incontri con i re in Svizzera
  Edmond, ancora bambino, rimane in Svizzera e soggiorna in diversi campi dalle condizioni "molto dure". In quello di Varembé, "ho scritto al rabbino capo di Berna chiedendogli di inviarci un pacco di cibo. Il risultato: abbiamo ricevuto cinque Bibbie e 5 franchi svizzeri...".
  Trasferito all'hotel Dents du Midi di Champéry, Edmond teme di essere mandato in un campo di lavoro. Si offre quindi di pulire le stanze per il quartiermastro, un certo signor Turini. Quest'ultimo, felice, gli propone di raggiungerlo nella sua casa di Crans-sur-Sierre e di lavorare nel settore alberghiero, all'hotel Golf.
  "È stato magico, straordinario. Non avevo mai visto nulla di simile in vita mia. La spensieratezza, la pace", racconta Richemond in Opa, il bellissimo film dedicatogli dal nipote Simon Maller. "Ho incontrato dei re, il principe di Monaco", confida. E il grande diplomatico e storico svizzero Carl Jacob Burckhardt.
  "Le sue figlie mi insegnarono a sciare. Sorpreso, Burckhardt mi convocò nella sua stanza e mi chiese informazioni sul mio passato". Il vicepresidente del Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) gli promette di chiedere alle autorità tedesche informazioni sui suoi genitori. La promessa è mantenuta. 

• Direzione Auschwitz
  All'inizio di settembre, proprio mentre Edmond si dirige verso la Svizzera e la libertà, i suoi genitori e il fratello vengono deportati dal campo di Drancy. Direzione: la Polonia occupata. Rachmil e Jack vengono arrestati nel campo di lavoro di Blechhammer, dove torneranno alla fine della guerra. Rachel viene invece portata ad Auschwitz, dove il 9 settembre, al suo arrivo, viene uccisa in una camera a gas.
  Delle 12'884 persone arrestate il 16 e 17 luglio 1942 nella regione di Parigi, 12'400 furono deportate. Solo un centinaio sopravviverà ai campi nazisti.
  Molto più tardi, per il suo matrimonio, Edmond Richemond ha fatto ritorno all'hotel Golf. È stato contento di essere servito da un impiegato antisemita, che nel 1944 gli disse: "Rubi il lavoro di uno svizzero!".

(swissinfo.ch, 16 luglio 2022)

........................................................


Maccabiadi a cinque cerchi

Linoy Ashram e Artem Dolgopyat
Due ospiti d'eccezione per le maccabiadi in programma a partire da metà luglio in Israele. In questa edizione speciale all'insegna della nuova "normalità" post restrizioni pandemiche l'onore di accendere la torcia è andato infatti a una coppia di atleti che ha fatto emozionare il Paese la scorsa estate: Artem Dolgopyat e Linoy Ashram, entrambi vincitori di una medaglia d'oro alle Olimpiadi di Tokyo.
  Che sono state magiche per i colori azzurri, come molti ricorderanno nel riverbero sempre fresco delle imprese dei vari Jacobs e Tamberi, ma anche per una delegazione israeliana che mai come in Giappone si è distinta per risultati e soddisfazioni nel medagliere. Le Maccabiadi incontrano le Olimpiadi, quindi. E non è certo la prima volta nella storia di questi Giochi aperti alla gioventù ebraica internazionale che hanno avuto tra i protagonisti del passato lontano e recente figure del calibro di Mark Spitz, il leggendario nuotatore che fu mattatore di un'epoca il cui lustro non si è spento, e la ginnasta pluripremiata Aly Raisman. Oltre 10mila gli sportivi in lizza. Quarantadue le discipline in cui si sfideranno per due settimane, con 80 Paesi rappresentati (tra cui l'Italia) e oltre 2mila medaglie in palio.
  L’attenzione sarà anche per i tanti nomi illustri coinvolti, a partire proprio da Dolgopyat e Ashram. Il primo, nato a Dnipro in Ucraina ed emigrato in Israele dodicenne, si era imposto nel corpo libero al termine di una lotta serrata con un collega spagnolo: arrivò a pari punti, ma vittoria per Dolgopyat in ragione dell'esercizio più difficile svolto. La seconda, fresca di ritiro malgrado la giovane età, aveva invece trionfato nella ginnastica ritmica individuale all-around. Un pizzico d'Italia nel suo successo visto la precedente militanza nell'Associazione Sportiva Udinese (2016). Ora che Ashram ha raggiunto il suo traguardo, ora che il suo sogno di un trionfo a cinque cerchi ha spezzato il decennale monopolio est-europeo nella ritmica, ha scelto di dedicarsi alla carriera di allenatrice. Sia Dolgopyat che Ashram sono passati dalle Maccabiadi, dando prova anche qui del loro talento. Nell'edizione 2017 Dolgopyat aveva vinto due medaglie d'oro e un bronzo, mentre Ashram cinque ori. Chiari indizi di una carriera che li avrebbe portati ancora più in alto. A portare la torcia saranno invece Avishag Semberg, altra beniamina israeliana, bronzo olimpico nel taekwondo; la nuotatrice Anastasia Gorbenko; i nuotatori paralimpici Mark Maliar e Lyad Shalabi; il giocatore di baseball Ian Kinsler,
  Sarà un'edizione "diffusa", con ben 17 città in campo con accoglienza e impianti. Tra le più sollecitate Gerusalemme, Haifa, Netanya e Tel Aviv. Ma tutta Israele sarà, di fatto, sede di gara. Racconta Arik Ze'Evi, chairman della ventunesima Maccabiade: "La competizione è cresciuta nel corso degli anni. Non sarebbe possibile, ad oggi, delimitarla in un singolo villaggio olimpico. Per questo, in questa edizione, tutto lo Stato d'Israele sarà il nostro villaggio".
  Un'edizione intrecciata a un importante anniversario: i cento anni dall'istituzione della Maccabi World Union, festeggiati in primavera alla presenza tra gli altri del Capo dello Stato Isaac Herzog. Non di solo sport si parla quando le Maccabiadi sono sulla scena, aveva ricordato Herzog declinando le caratteristiche peculiari di un torneo in cui, da sempre, si incontrano gioco, valori e identità

(Pagine Ebraiche, luglio 2022)

........................................................


Notizie archiviate



Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse liberamente, citando la fonte.