Sulla possibilità di un accordo con Hamas che porti alla liberazione degli ostaggi, l’IDF è pronto a qualsiasi scenario.
Lo ha affermato domenica il capo dell’IDF, il Generale Herzi Halevi, in una conferenza stampa tenutasi presso la base aerea di Palmachim, nel centro di Israele.
“Un accordo per la restituzione degli ostaggi è un imperativo morale urgente per salvare vite umane” ha detto Halevi.
“L’IDF sta attuando tutte le pressioni necessarie per creare le migliori condizioni per un accordo di questo tipo, e questo è il modo in cui abbiamo agito dalla fine dell’accordo precedente”, ha sottolineato, in risposta al Primo Ministro Benjamin Netanyahu che sabato sera aveva scaricato sull’IDF la responsabilità del mancato accordo per la liberazione degli ostaggi a causa della “poca pressione militare su Hamas”.
“Per mesi non c’è stato alcun progresso [verso un accordo sugli ostaggi] perché la pressione militare non era abbastanza forte”, aveva detto sabato sera Netanyahu aggiungendo che la situazione è cambiata solo quando ha insistito affinché le IDF entrassero a Rafah. Il Premier israeliano è accusato da più parti di sabotare gli accordi.
• IDF PRONTO A QUALSIASI SCENARIO
“L’IDF saprà rispettare qualsiasi accordo approvato dai vertici politici e, anche dopo un cessate il fuoco, tornerà a combattere con grande intensità”, ha detto Halevi, che ha aggiunto: “L’IDF non smetterà di lavorare per liberare gli ostaggi, quelli per i quali il tempo passa con grande difficoltà, e non rinunceremo a continuare ad attaccare Hamas fino a quando questo obiettivo non sarà raggiunto e, naturalmente, non rinunceremo a raggiungere la sicurezza per i cittadini dello Stato di Israele”.
Per quanto riguarda l’attacco aereo di sabato nel sud della Striscia di Gaza, che aveva come obiettivo Muhammed Deif, il leader dell’ala militare di Hamas e una delle menti dietro il 7 ottobre, Halevi ha detto che è ancora troppo presto per determinare se Deif, che ha eluso numerosi tentativi di assassinio israeliani negli ultimi 30 anni, sia stato eliminato con successo.
“Muhammed aveva paura di morire, così si è nascosto in un modo che ha persino danneggiato la sua capacità di comando”. Si è nascosto e ha sacrificato con lui la sua gente e i civili che si trovavano nell’area, che erano in pericolo, pochi dei quali sono stati feriti”, ha detto Halevi. “Abbiamo trovato lui e troveremo anche i prossimi”. Secondo fonti accreditate dell’intelligence israeliana, Deif è morto nell’attacco anche se Hamas continua a negare.
“Questi omicidi mirati fanno parte della continua e mutevole pressione militare che l’IDF esercita in tutte le zone della Striscia di Gaza. Ogni giorno ci sono molti morti di Hamas… Questo è importante per lo smantellamento sistematico dell’organizzazione terroristica di Hamas. È anche molto importante per creare le condizioni per un accordo per la restituzione degli ostaggi”, ha aggiunto Halevi.
• I PREPARATIVI PER «LA PROSSIMA FASE» IN LIBANO
Tra le tante cose Halevi ha parlato anche della situazione sul fronte nord dove gli scontri con Hezbollah si sono intensificati.
Il capo dell’esercito ha detto che l’IDF è pronta per “la prossima fase” in Libano. “Siamo in combattimento ad alta intensità nel nord. Oltre ai crescenti risultati ottenuti nel degradare Hezbollah, non dimentichiamo nemmeno per un momento la situazione dei residenti del nord fuori casa da nove mesi e siamo sempre in lutto per i morti e i feriti degli attacchi di Hezbollah”, ha dichiarato.
“Negli ultimi giorni sono stato in una delle comunità vicine al confine, naturalmente non per la prima volta. Ho visto i danni, ho incontrato la leadership del luogo, ho sentito cose difficili da loro – traduciamo questa difficoltà in determinazione in combattimento, e poi in soluzioni reali e nel ritorno dei residenti in sicurezza alle loro case”, ha detto Halevi.
“Hamas ha trasformato l’intera città di Rafah in un gigantesco campo di battaglia, pieno di trappole esplosive e di tunnel da cui opera” ha affermato il comandante della brigata Nahal, il colonnello Yair Zuckerman, a Israel Hayom, sottolineando come sotto il Corridoio Filadelfia l’IDF sia stato trovato “il numero più alto di cunicoli” dall’inizio della guerra.
L’ufficiale dell’IDF ha parlato con il quotidiano israeliano delle operazioni in corso nella città al sud della Striscia di Gaza e lungo il Corridoio Filadelfia. “Le case sono piene di trappole esplosive e contengono piccole telecamere, tramite le quali seguono le nostre forze e cercano di danneggiarle” ha aggiunto, spiegando di averle trovate sugli stipiti delle porte, nelle moschee, nelle cliniche e nelle scuole.
“C’è una vera città sotterranea qui. Rafah è il primo posto in cui hanno fatto uso di tunnel”, ha rivelato Zuckerman. “Non ci sono molti nemici in superficie, sono per lo più sotterranei. Oltre il 50% di Rafah è nelle nostre mani, ma questo non significa che abbiamo ucciso tutti i terroristi e distrutto tutte le infrastrutture”.
Dei quattro battaglioni di Hamas a Rafah, almeno uno è stato completamente smantellato, mentre un secondo è solo parzialmente funzionante e gli ultimi due sono ancora operativi. Ma il vero obiettivo delle operazioni è la distruzione dei tunnel. “Ci vorranno dai due ai quattro mesi per trovare tutti i tunnel lungo il Corridoio ed esaminarli”.
Il Ministero della Salute premia l’impegno dei volontari
Il Ministero della Salute ha premiato l'organizzazione ZAKA, che ha contribuito all'identificazione dei corpi dopo il 7 ottobre. La decisione era stata presa ancora prima.
GERUSALEMME - Il Ministero della Salute israeliano ha premiato l'organizzazione di volontariato ZAKA con il "Premio Scudo 2023". Il riconoscimento premia il lavoro dei volontari nel settore sanitario.
ZAKA ha ricevuto uno dei cinque premi nella categoria "Organizzazioni". I dipendenti si adoperano affinché le vittime di un attacco terroristico, di un incidente o di un disastro naturale ricevano una sepoltura dignitosa.
I premi sono stati consegnati dal Ministro della Salute Rabbi Uriel Busso (Shass) e dal Direttore del Ministero Moshe Bar Siman Tov mercoledì all'ospedale Hadassah nel quartiere Ein Kerem di Gerusalemme. Busso ha detto ai premiati: "Siete mossi dalla compassione e da una missione. La presenza dei volontari garantisce il corretto ed efficiente funzionamento del sistema".
,• DOPPIAMENTE MERITATO DOPO IL 7 OTTOBRE"
A nome dei numerosi volontari, il direttore generale Rabbi Zvi Hesed ha accettato il premio a nome dello ZAKA, scrive il Jerusalem Post. Bar Siman Tov ha detto che i dipendenti lavorano 24 ore su 24 e tutti i giorni. "La decisione di assegnarvi il premio è stata presa prima del 7 ottobre. Ma ora i volontari lo meritano doppiamente". Dopo il massacro di Hamas, i dipendenti dello ZAKA hanno aiutato a identificare numerosi corpi di vittime sulle scene del crimine.
Al termine della cerimonia, il rabbino di Ramat Gan, Schneur Gol, ha recitato una preghiera. Ha chiesto a Dio di proteggere i soldati israeliani e di riportare gli ostaggi.
• DOTTORATO ONORARIO PER ZAKA
L'Università di Ariel, in Samaria, aveva già onorato lo ZAKA alla fine di giugno: aveva conferito una laurea ad honorem al rabbino Ejal Meschiach, che l'aveva accettata a nome dei numerosi aiutanti. L'università ha onorato gli sforzi di migliaia di volontari dopo il massacro di Hamas.
(Israelnetz, 15 luglio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Andrey Kozlov: “Per i primi due mesi sono stato sempre legato”
A più di un mese dal suo salvataggio dalla prigionia di Gaza, Andrey Kozlov racconta il suo viaggio di otto mesi dalla disperazione alla speranza, passando per lo studio del Corano, l’essere stato incatenato per settimane e mesi e il luogo peggiore in cui è stato detenuto.
Andrey Kozlov non aveva idea di essere portato a Gaza. “Mi ci sono voluti circa sette minuti di guida per capire che non venivo salvato ma rapito”, racconta. “Abbiamo guidato per sette minuti interi prima che mi rendessi conto che l’auto non era diretta verso Tel Aviv ma nella direzione opposta, verso Gaza. Prima di capire che l’uomo barbuto seduto dietro di noi con una pistola non era un uomo delle forze speciali israeliane venuto a salvarci, ma un terrorista”. Mentre racconta questo, fa un piccolo sorriso. È il sorriso di un ventisettenne che si prende gioco della propria ingenuità. Era abbastanza ottimista e innocente da credere che qualcuno sarebbe venuto a salvarlo dal massacro. Dopo otto mesi di prigionia, Kozlov non è più la stessa persona che era il 7 ottobre, quella che credeva che tutto sarebbe andato bene. Ha sopportato troppe cose in prigionia – percosse, umiliazioni, abusi fisici e psicologici – e ora è in guardia. Ma il 7 ottobre Kozlov era un giovane bello e affascinante, immigrato da San Pietroburgo da solo. I genitori e il fratello, a cui è molto legato, sono rimasti in Russia. Poiché aveva bisogno di mantenersi nell’appartamento che aveva affittato a Rishon LeZion, aveva accettato diversi lavori veloci che non richiedevano la conoscenza dell’ebraico. Per esempio, lavori di sicurezza, come al festival musicale Nova. Dopo il suo rapimento, descrive ciò che ha visto oltre il confine. “Quando abbiamo attraversato il muro, abbiamo visto campi pieni zeppi di gazani, alcuni in bicicletta, altri su asini, altri a piedi, e stavano festeggiando”, racconta. “Era la festa della loro vita. La loro gioia era così selvaggia e barbara. Ricordo un volto in particolare. Sembrava un predatore. Aveva gli occhi spalancati. Cercavano di entrare nella nostra macchina, sbattendo con forza sui finestrini. Abbiamo cercato di coprirci il volto con le mani. Il “cattivo” con noi dietro – a questo punto ho capito che era lui il “cattivo” – ha cambiato posto con Shlomi e ha iniziato a guidare. Non so, forse i gazani di solito non prendono la patente, perché lui guidava come un pazzo. Sbandava a destra e a sinistra. Sono convinto di averlo visto investire un bambino in una delle curve, ma il terrorista non si è fermato”. Alla fine l’auto si è fermata da qualche parte alla periferia di Gaza. Il terrorista alla guida ci ha consegnati a diversi altri uomini armati ed è scomparso; non l’hanno più visto. “Ci hanno portato al secondo piano di un edificio, ci hanno legato le mani dietro la schiena con delle corde e ci hanno messo a terra. Hanno iniziato a parlare tra di loro, e tutto quello che riuscivo a pensare era dimostrare loro che ero un cittadino russo, che avevano preso l’uomo sbagliato. La mia mente era concentrata su una sola cosa: dovevo sopravvivere a tutto questo”. La maggior parte dei maltrattamenti è stata inflitta loro all’inizio, ma anche più tardi, durante la prigionia, ci sono stati molti delinquenti che non hanno resistito a dimostrare quanto fossero più duri di loro. “I primi giorni sono stati davvero orribili. Ci sono voluti due giorni per portarmi in bagno. Prima mi davano solo una bottiglia d’acqua vuota e mi dicevano di usarla con le mani legate. Poi mi hanno portato a urinare come se fossi un cane, con una corda come guinzaglio, gridando “go-go-go”. Ho detto loro: “Devo abbassarmi i pantaloni per andare in bagno e ho le mani legate”, e loro hanno risposto: “Non ci interessa”. Era così terribile. Non potevo fare nulla. Mi picchiavano, mi davano ginocchiate nello stomaco. Per tutto il tempo ho continuato a pensare: “Fate di me quello che volete, ma per favore non toccate le mie parti intime””. Kozlov ha trascorso otto mesi a Gaza, cambiando nascondiglio non meno di sette volte. In alcuni luoghi si sono fermati per un solo giorno, mentre in altri sono rimasti per una o tre settimane. A dicembre, sono stati trasferiti nella loro posizione finale, nel campo profughi di Nuseirat, nel centro di Gaza, dove hanno vissuto per sei mesi fino al loro salvataggio. “In ogni luogo, le condizioni e le persone erano diverse”, racconta. “C’era il nostro primo appartamento, con un ragazzo che giocava a carte con noi e ci mostrava le notizie da Israele. Così abbiamo saputo che la situazione in Israele era molto grave e che c’erano molti ostaggi. Alcuni fornivano cibo a sufficienza, ma c’erano posti in cui avevamo solo un pasto al giorno. Ho perso quasi 10 chili”. Qual è stato il posto peggiore? “Un cantiere che non era ancora stato completato, una sorta di rudere abbandonato. Hanno rotto la maniglia della porta dall’interno, hanno spento le luci e ci hanno lasciato lì con le mani legate dietro la schiena per tutta la notte. C’eravamo solo noi e i rumori della gente che parlava nel quartiere sottostante. Non c’erano coperte, né cuscini, solo un pavimento coperto di polvere e noi dovevamo dormire. Io sono allergico alla polvere e riuscivo a malapena a dormire. Dopo due settimane ci hanno spostato al primo piano della casa. Eravamo nella cucina di un panificio, circondati da congelatori e da alcune macchine impastatrici. Ho preso un materasso e ho dormito sul pavimento, vicino alle macchine”. Avevi sempre le mani legate? “Sì. Per i primi due mesi sono stato sempre legato, con corde o catene di ferro con lucchetti. Sia le mani che i piedi”. Sembra un film dell’orrore. “Era un film davvero brutto, del tipo peggiore. C’è stato solo un giorno in cui è stato un bel film: il giorno del salvataggio”. Questo ci porta all’ultimo appartamento in cui Almog Meir Jan, Shlomi Ziv e Kozlov hanno soggiornato, il famoso appartamento da cui sono stati salvati in un’eroica operazione in cui anche Noa Argamani è stata liberata da un appartamento vicino. Durante l’operazione, l’ufficiale delle forze speciali della polizia Arnon Zamora é stato ucciso e l’operazione ha preso il suo nome. Solo dopo la liberazione abbiamo appreso che la persona che teneva in ostaggio i nostri ostaggi in quell’appartamento era Abdallah Aljamal, un giornalista palestinese che collaborava, tra gli altri, con Al Jazeera. Anche suo padre, uno stimato medico di famiglia, ha partecipato al rapimento. Kozlov dice di non sapere che il suo sequestratore fosse un giornalista palestinese. “Non sapevo nemmeno che si chiamasse Abdallah. L’ho sentito solo da dietro le coperte, mentre di tanto in tanto scriveva al computer”. Gli ostaggi erano tenuti in una casa famiglia, dove vivevano anche i figli piccoli della famiglia Aljamal. All’inizio, Kozlov e gli altri ostaggi sentivano solo i bambini. L’appartamento è stato diviso in due parti con coperte e pezzi di stoffa. Una sezione apparteneva alla famiglia, che non interagiva con gli ostaggi, e l’altra era per gli ostaggi. C’erano due stanze: una per gli ostaggi e una per le guardie armate. “Verso febbraio o marzo, i bambini hanno iniziato a visitare la nostra area”, racconta. “Si spostavano dalla loro parte per andare a trovare i loro padri – le nostre guardie – e giocavano con loro. Era surreale: da un lato c’erano AK-47, dall’altro RPG, e nel mezzo i bambini giocavano”. Kozlov dice che questo appartamento apparentemente aveva condizioni migliori, ma non ci sono buone condizioni quando non ci si sente al sicuro nemmeno per un attimo. “Prima di tutto, non ci hanno più legato”, dice. “Ci hanno tolto le catene e ci hanno detto: “Se fate qualcosa di sbagliato, vi puniremo o vi spareremo”. Questo è stato un avvertimento sufficiente per loro. Così eravamo relativamente liberi. Anche se non vedevamo la luce del sole perché le finestre erano coperte di cartone, non dovevamo chiedere il permesso per andare in bagno. Il messaggio era: “Finché vi comportate bene, saremo buoni con voi”. Ci davano del cibo, ma era sempre freddo perché a Gaza non c’è elettricità di notte, quindi non poteva essere riscaldato. Tuttavia, parlavamo sempre di cibo. Fantasticavo costantemente sulla cucina di mia madre, sulle sue polpette e sulla sua zuppa di pollo”. Sua madre Evgeniia, seduta accanto a lui nell’hotel in cui alloggia nel centro di Israele, gli sorride di nuovo. “È buffo”, spiega, “perché mio figlio ha sempre odiato la mia zuppa di pollo e la mia cucina”. “Ma a Gaza ci ho fantasticato sopra”, sorride Andrey. Cosa facevate tutto il giorno? “Stai in questo piccolo spazio e cerchi di tenerti occupato. Avevo alcuni mantra che ripetevo a me stesso. Il primo: “Sei ancora vivo”, il secondo: “Ogni giorno è un dono” e il terzo: “La mia famiglia aspetta che io ritorni vivo, integro e in salute”. L’ultima parte di questo mantra, “vivo, integro e in salute”, continuavo a ripetermi in russo. Per ricordarmi che dovevo tornare dai miei genitori e dalla mia famiglia viva. Integro. E in salute”. Ha pensato alla sua fidanzata Jennifer? “Certo. È stato strano perché stavamo insieme solo da un mese e mezzo prima del rapimento, quindi per lei è stato come dire: “Wow, ho appena conosciuto questo ragazzo ed è scomparso come se la terra lo avesse inghiottito”. Tuttavia, ho pensato a lei. Ma per la maggior parte del tempo ho pensato a mia madre, a mio padre e a mio fratello. E per il resto del tempo disegnavo molto. Ho fatto parecchi disegni lì; purtroppo non ho potuto portarli con me durante l’operazione di salvataggio”. Abdallah Aljamal non era così cattivo? Alcuni sostengono di sì. “Era una delle nostre guardie, armata di pistola, con cui parlavo e che vedevo ogni giorno”, racconta Kozlov. Ma non lo chiamavamo “Abdallah”. A differenza dei luoghi precedenti, dove le nostre guardie indossavano maschere per impedirci di identificarle, qui giravano liberamente senza maschere, ma si rifiutavano di dirci i loro veri nomi. Si sono presentati tutti come “Mohammed”. Per distinguerli, abbiamo iniziato a dare a ogni Mohammed un soprannome appropriato. C’era Mohammed alto, Mohammed grande, Mohammed dagli occhi grandi e Mohammed dalle guance paffute”. Con le guance paffute, come se volessi dargli un pizzicotto sulle guance? “Sì. E Mohammed dalle guance paffute era Abdallah, il giornalista. A volte andava bene, a volte no. Per esempio, una notte ho osato spegnere la radio da solo. Le guardie dormivano nella stanza accanto e la radio era costantemente accesa, trasmettendo versetti coranici. Non riuscivo a dormire con il rumore delle preghiere, ma le guardie dormivano e non volevo svegliarle. Mohammed dalle guance paffute si è svegliato e ha iniziato a urlarmi: “Che cosa stai facendo? Torna subito a dormire”. “La mattina dopo è venuto e ha iniziato a picchiarmi. Ho cercato di spiegargli che non volevo svegliarlo e che per questo avevo toccato la radio, ma lui mi ha detto: “Abbiamo una bomba molto grande qui, possiamo distruggere metà dell’edificio con essa, quindi non osare toccare le mie cose”. Era molto arrabbiato. In generale, aveva un notevole problema di rabbia. Un’altra volta, Abdallah mi promise che mi avrebbe messo in una tomba. Non gli piacevo e non mi rispettava perché sono un immigrato. Sono venuto in Israele per scelta, a differenza di Shlomi e Almog che sono nati qui”.
Autore di un fumetto dedicato a come sono percepiti gli ebrei in Francia, al loro rapporto con Israele e all’antisemitismo, Volia Vizeltzer «sta facendo un lavoro straordinario in un mondo in cui la parola “ebreo” è usata come un insulto». Sono parole di Joann Sfar, altro fumettista e autore francese, molto più noto, che ha rilanciato in questi giorni un testo del collega intitolato “Lettre d’un français juif épuisé, à son pays et à la gauche” (ossia Lettera di un ebreo francese esausto al suo Paese e alla sinistra), aggiungendo che Sender Vizel – o sender vizel, il nome che compare sulla sua biografia, dove si definisce “militante ebreo di sinistra” – diversamente da lui riesce a mantenere un senso di speranza. Ma aggiungendo: «Il nostro Paese merita di meglio che un voto fascista. Merita di meglio dell’odio diffuso contro i musulmani da una parte lato e contro gli ebrei dall’altra».
La lettera rilanciata da Sfar si apre così:
«Alla fine di questa campagna, vorrei condividere alcune cose. Come ebreo socialista democratico francese e come attivista contro l’antisemitismo. Vorrei che le persone si rendessero conto dell’incredibile violenza contro il popolo ebraico di questa campagna. Siamo stati messi al centro di tutto, abbiamo visto ovunque ipocriti vantarsi di essere dei campioni della lotta contro l’antisemitismo. Li abbiamo visti uno dopo l’altro, dai centristi alla sinistra (per non parlare dell’estrema destra, chiaramente antisemita) fare gran dichiarazioni contro l’antisemitismo, proclamando la propria purezza, rifacendosi l’immagine».
Continua poi spiegando che come parte di quei pochi che militano attivamente contro l’antisemitismo non li ha mai visti lottare al suo fianco, non li ha mai sentiti dire nulla contro l’esplosione di antisemitismo di sinistra dell’ultimo anno. E ora non solo bisogna sopportare tale malafede, ma pare sia necessario difenderli, «come se dovessimo loro qualcosa».
Gli ebrei costituiscono circa lo 0,6% della popolazione francese e circa lo 0,1% dell’elettorato. In termini di voti è un numero insignificante, e lo è anche demograficamente, nonostante la percezione comune. Eppure agli ebrei francesi è stato detto che avrebbero pesato sul risultato delle elezioni, che «sarebbero state le parole di un rabbino o la critica degli ebrei di sinistra a far vincere l’estrema destra». Un peso irreale, un potere immenso che non esiste nella realtà. Sender Vizel continua con un appello accorato:
«Mi sento schiacciato da un Paese intero, che si è permesso di sfruttare tutte le nostre forze, le nostre speranze, i nostri bisogni e le nostre paure a proprio vantaggio. Ma da quello che vedo a nessuno, davvero a nessuno, importa niente di noi ebrei. Vorrei sbagliarmi, vorrei che il movimento sociale, la sinistra, mi dimostrasse che ho torto. Ma ne siamo lontani. È anche peggio di prima».
Sono tanti quelli che dichiarano che l’accusa di antisemitismo con loro non può funzionare, e sempre più persone si sentono giustificate non solo nel negare l’antisemitismo, ma soprattutto nel negare il diritto degli ebrei a testimoniare l’antisemitismo che sperimentano. Gli ebrei sono visti ancora una volta come uno strumento di potere, come il potere stesso. È esplicito, Sender Vizel:
«Continuo a credere che questa lotta contro l’antisemitismo debba assolutamente avere un posto reale a sinistra. Non accetterò mai ‘regali avvelenati’ dalla destra, e ancor meno da fascisti e neonazisti… Ma questo è il problema. Di fronte agli antisemiti siamo chiamati a chiudere un occhio sugli altri antisemiti».
Col risultato che tutti parlano tutto il giorno di strumentalizzazione, e intanto gli ebrei l’antisemitismo lo vivono nel quotidiano. L’atmosfera in Francia è irrespirabile per gli ebrei, che sono delle persone reali, con vite vere, reali, e problemi reali. Non è possibile fare una classifica degli antisemitismi. L’antisemitismo è uno solo, non ne esistono versioni diverse o peggiori.
«Veniamo usati e poi gettati via, trasformati in un’arma politica e, alla fine dei conti, disumanizzati. Era da tempo che in Francia non si parlava così tanto di antisemitismo, eppure gli ebrei non si sono mai sentiti così soli. (…) La cosa peggiore è che da qualche parte ci siamo abituati. Ci abituiamo alla solitudine, ci abituiamo alla violenza, ci abituiamo alla disperazione. Appena apriamo la bocca ci viene ordinato di chiuderla, immediatamente. Quindi abbiamo finito per accettare l’idea che questa sia ormai la politica, in Francia. Non solo la sinistra o la destra o non so cosa. Se la politica francese e la società civile nel suo insieme si fossero preoccupate sinceramente di noi, penso che ce ne saremmo accorti. Ne abbiamo così bisogno che la cosa non sarebbe passata inosservata, credetemi».
Nel chiudere il suo accorato appello sender vizel scrive di non poter più utilizzare eufemismi, e che gli ebrei sono costretti ad osservare da bordo campo una partita di ping-pong mediatico tra un partito antisemita pieno di nazisti, e un partito che certamente non ha un programma politico/legislativo antisemita, ma che è pieno di idee antisemite. Non ci sono stati segni di rispetto né di empatia, e ora che la campagna elettorale è terminata non c’è da stare tranquilli, il dolore e la rabbia non spariscono così facilmente. La storia ebraica esiste, è esistita, ed è ora necessario che gli ebrei francesi vengano riconosciuti, anche nel loro diritto di non sentirsi ignorati, e abbandonati.
Chiude così: «Siamo qui, vi vediamo, vediamo tutto quello che sta succedendo. Sarebbe ora che anche voi ci vedeste».
Deif: chi è il numero due di Hamas e cosa potrebbe significare la sua eliminazione per Israele
di Ugo Volli
• L’eliminazione del capo terrorista Con quattro bombe di grande potenza, lanciate con straordinaria precisione da un aereo su una costruzione in una zona boscosa della città di Khan Yunis, nella striscia di Gaza meridionale, Israele ha inferto ieri mattina un colpo molto importante a Hamas. Anche se “non ve n’è ancora la certezza assoluta”, come ha ammonito il primo ministro Netanyahu in una conferenza stampa tenuta subito dopo la fine del sabato, le forze armate israeliane ritengono di aver eliminato il numero due di Hamas a Gaza Mohammed Deif e il suo vice, oltre che comandante delle truppe terroriste di Khan Younis, Rafa Salama, con la loro scorta di parecchie decine di terroristi.
• Chi è Deif Nato a Khan Yunis una sessantina d’anni fa, Mohammad Deif per l’anagrafe si chiamava Mohammed Al Mizri, cioè “l’egiziano”: un nome non raro, che la dice lunga sulla provenienza dei “palestinesi”; bisogna ricordare che anche Arafat era in realtà nato in Egitto e non a Gerusalemme come pretendeva. Membro del gruppo dagli anni Novanta del secolo scorso, Deif fu fra i promotori del terrorismo suicida della cosiddetta seconda intifada; dal 2002 divenne il capo assoluto dell’apparato militare di Hamas, le “Brigate Ezzedin al-Qassam”. In questo ruolo aveva organizzato e diretto l’armamento del gruppo, la costruzione dei tunnel e dei missili, il contrabbando dei materiali, gli assalti continuamente portati contro i civili israeliani. In particolare è stato il primo responsabile della strage del 7 ottobre. Dal 2015 fa parte della lista dei più pericolosi terroristi compilata dal Dipartimento di Stato americano. Spesso se ne parla come di un imprendibile, perché è sfuggito, pare a sette tentativi di eliminazione da parte israeliana. In un’azione del 2014 oltre che un occhio e forse una gamba, perse tutta la famiglia, mentre il più recente tentativo conosciuto di eliminarlo risale alla penultima operazione a Gaza nel 2021. Nonostante questi colpi, Deif ha continuato a comandare da solo le truppe di Hamas e le ha portate al livello di pericolosità che si è visto il 7 ottobre e nella guerra successiva.
• Le conseguenze Tutto ciò ne ha fatto una potenza dentro a Hamas e un mito per i suoi sostenitori, ancor più di colui che teoricamente è il suo capo, cioè Yahya Sinwar, che pure viene da Khan Yunis ed è più o meno suo coetaneo. Se davvero è stato eliminato, questo è un colpo durissimo per l’organizzazione e per il morale di Hamas. Non solo per la perdita di un capo dotato di grande autorità, che grazie al suo prestigio e all’esperienza accumulata poteva organizzare la tattica di guerriglia dei terroristi, reclutarne di nuovi ed eventualmente riorganizzare le bande di Hamas dopo il cessate il fuoco di cui tutti parlano. Ma anche perché evidentemente la sua esecuzione è frutto di una soffiata di alto livello, che mostra come nell’organizzazione terrorista si inizino a vedere crepe importanti anche sul piano della sicurezza. E poi perché evidentemente i dirigenti del terrorismo non possono più starsene nascosti nelle fortificazioni sotterranee, per sviluppare la battaglia devono esporsi, diventando vulnerabili agli attacchi israeliani. Sembra proprio che il lungo lavoro di questi mesi possa portare al collasso dell’organizzazione terrorista a Gaza e aprire una nuova pagina nella guerra di difesa (che, ricordiamolo, non si svolge solo a Gaza ma anche al Nord e sugli altri fronti aperti per decisione dell’Iran).
• Le trattative Anche se l’Egitto si è affrettato ad ammonire Israele a non compiere azioni che possano danneggiare le trattative in corso per uno scambio fra gli ostaggi e i terroristi condannati e imprigionati in Israele, è chiaro che ha ragione Netanyahu a spiegare, come ha fatto nella conferenza stampa, che la sola speranza di vincere la resistenza di Hamas e di arrivare a un accordo sostenibile, è la pressione militare che renda urgente per i terroristi trovare una via di fuga. Da questo punto di vista l’azione di oggi è importantissima, perché toglie ai capi terroristi l’illusione dell’impunità, mostra loro che il tempo lavora contro di loro e insomma rende urgente un possibile compromesso. Nella conferenza stampa Netanyahu ha anche accennato al contenuto delle trattative, assicurando tutti che la liberazione dei rapiti è il suo primo pensiero e il compito prioritario delle forze armate. Ma ha anche spiegato che rispetto allo schema concordato con gli americani, che comunque contiene molte concessioni, i negoziatori di Hamas avevano chiesto 28 ulteriori modifiche e che la sicurezza di Israele richiede di non andare oltre al testo concordato.
(Shalom, 14 luglio 2024)
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Netanyahu: la morte di Deif nell'attacco a Gaza non è ancora confermata
"Voglio assicurarvi che in un modo o nell'altro raggiungeremo l'intera leadership di Hamas", dice il primo ministro israeliano.
di Joshua Marks
Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato sabato sera che non è confermato che il terrorista di Hamas Mohammed Deif e il suo vice Rafa'a Salameh siano stati uccisi in un attacco a Gaza.
In una conferenza stampa presso il quartier generale militare di Kirya a Tel Aviv, il primo ministro ha dichiarato: "Non c'è ancora la certezza assoluta che siano stati uccisi, ma voglio assicurarvi che in un modo o nell'altro raggiungeremo l'intera leadership di Hamas".
Deif è il secondo comandante a Gaza dopo Yahya Sinwar, il principale obiettivo dell'IDF dopo che i due uomini hanno guidato la pianificazione e l'esecuzione del massacro di oltre mille persone nel sud di Israele il 7 ottobre. Il 58enne Deif, leader del braccio armato di Hamas, le Brigate Qassam, è anche responsabile della pianificazione di diversi attentati agli autobus negli anni '90 e 2000.
Netanyahu ha detto che le "mani di Deif sono intrise del sangue di molti israeliani" e ha descritto la sua approvazione dell'operazione, che gli è stata presentata dal capo dei servizi di sicurezza israeliani, Ronen Bar.
"Volevo sapere tre cose: Primo, volevo sapere che secondo l'intelligence non c'erano ostaggi nelle vicinanze. In secondo luogo, volevo sapere quanto sarebbe stato alto il danno collaterale. In terzo luogo, ho chiesto il tipo di munizioni che sarebbero state utilizzate", ha dichiarato il Primo Ministro.
Quando ho ricevuto risposte soddisfacenti, ho autorizzato l'operazione e ho detto: "Che sia un grande successo. Questo successo libererà il Medio Oriente e il mondo intero da questi arci assassini", ha aggiunto.
Deif e Salameh, il comandante della Brigata Khan Younis del gruppo terroristico, si trovavano in un edificio fuori terra vicino alla zona umanitaria di Al-Mawasi e alla città di Khan Younis.
Fonti di Hamas hanno confermato che Salameh è stato ucciso nell'attacco israeliano, mentre si sono rifiutate di confermare o smentire la morte di Deif, ha riferito domenica mattina il quotidiano panarabo Asharq Al-Awsat.
L'emittente televisiva israeliana KAN 11 ha riferito sabato sera che alti funzionari della sicurezza hanno riferito in un briefing a livello politico che Deif era stato ferito nell'attacco e che erano in attesa della conferma finale, che potrebbe richiedere del tempo. I funzionari della sicurezza hanno anche confermato che Salameh è stato ucciso.
Se Deif fosse stato ucciso nell'attacco, Muhammad Sinwar, comandante delle brigate meridionali di Hamas e fratello di Yahya Sinwar, lo avrebbe sostituito alla guida delle Brigate Qassam, hanno dichiarato sabato fonti di Hamas ad Asharq Al-Awsat.
Oltre all'"eccellente lavoro di intelligence e operativo", Netanyahu ha anche lodato il fatto che sia stata scongiurata la "grande pressione interna ed esterna per porre fine alla guerra prima che tutti gli obiettivi siano stati raggiunti".
"All'inizio della guerra ho stabilito una regola: Gli assassini di Hamas sono condannati dal primo all'ultimo. Regoleremo i conti con loro. L'eliminazione dei leader di Hamas ci avvicina al raggiungimento di tutti i nostri obiettivi: l'eliminazione di Hamas, il rilascio di tutti i nostri ostaggi e la rimozione di future minacce a Israele da Gaza. Ci fa avanzare anche in altre aree, perché invia un messaggio di deterrenza a tutti i proxy iraniani - e all'Iran stesso", ha detto Netanyahu.
(Israel Heute, 14 luglio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Israelofobia, la parola che non c'èRiceviamo direttamente da un ex magistrato la segnalazione di un suo interessante articolo che molto volentieri riportiamo, ringraziando per la preziosa collaborazione. NsI
di Guido Salvini
Dopo il 7 ottobre, una violenza sconvolgente in cui i civili non sono stati vittime collaterali ma volute e dirette, una violenza che sembra essere stata presto rimossa dalle coscienze, una ondata di antisemitismo ha investito buona parte del mondo occidentale. Non solo una critica politica ma una avversione combattiva e rabbiosa che sembra spinta da un odio indicibile.
Poche e semplici considerazioni che guardano al passato e a quello che sta accadendo oggi, consentirebbero di dare un giudizio razionale e non ossessivo su quello che stiamo attraversando.
Eccone solo qualcuna.
Dal 1949, dopo la fine della prima guerra con la quale i Paesi arabi cercarono di cancellare il neonato Stato di Israele, sino al 1967, la guerra dei 6 giorni, Giordania ed Egitto ebbero la piena sovranità su Gerusalemme est, della Cisgiordania e di Gaza cioè il cuore dello Stato palestinese. La usarono in quei 18 anni di pace per creare uno Stato palestinese? Niente affatto. Continuarono a mantenere la loro sovranità su quei territori, abitati da palestinesi con i quali rapporti furono sempre conflittuali, fino a sfociare in Giordania nel 1970 nel Settembre nero, un massacro di palestinesi che però non fa testo perché non ne furono responsabili gli israeliani
E’ quindi di Israele interamente la colpa del fatto che non esista Stato palestinese ? No, senza dimenticare che fu il leader dell’OLP Arafat e non il governo israeliano a rifiutare l’intesa che era stata quasi raggiunta nel 1995 con gli accordi di Oslo che profilavano nella sostanza due stati.
Nel sud del Libano si è installato Hezbollah, non solo un gruppo terroristico ma un esercito potente armato dall’Iran che si muove in modo del tutto indipendente in uno Stato sovrano senza subire dal governo di questi alcuna conseguenza per il fatto di bombardare il paese confinante e cioè Israele. E’ come se vi fosse un esercito di un partito estremista schierato entro i confini del nostro paese e impegnato quotidianamente a lanciare razzi e a attaccare in vario modo i vicini, la Svizzera o l’Austria, ad esempio. Una situazione impensabile salvo in Medioriente e che nessuno ha il buon gusto di rilevare. Una polveriera che può causare l’allargamento incontrollabile del conflitto con la diretta discesa in campo dell’Iran.
Nel Sud Sudan, a poca distanza dal teatro di guerra di Gaza, infuria da più di un anno una feroce guerra civile tra due fazioni militari, una delle quali d’ispirazione radicale islamica. Questo conflitto ha già provocato centinaia di migliaia di vittime, ben più che a Gaza, carestie, malattie e l’evacuazione di milioni di persone dalle loro abitazioni. Ma non se ne parla, salvo qualche organizzazione umanitaria, o quasi. Quanto sta avvenendo in quel paese non è spendibile politicamente e quindi non interessa a nessuno. Non ci sono né cortei né mobilitazioni di studenti né appelli contro il genocidio. Questo silenzio dimostra l’ipocrisia della campagna contro Israele che si gonfia ogni giorno.
Nelle università Usa sono ormai banditi i professori e i corsi di studio in materie storiche in cui non si parli di una Palestina “dal fiume al mare” cioè con la cancellazione completa dello Stato ebraico. Una censura che non è altro che un’espressione del credo woke. Anche in alcune nostre Università si è giunti perfino a chiedere l’annullamento degli accordi scientifici con le università israeliane, il primo passo verso una vera e propria discriminazione razziale che ricorda le leggi degli anni ‘30.
E’ questo quello che resta della libertà di pensiero che è uno dei pilastri fondamentali del nostro mondo ?
Certamente in alcuni casi durante la guerra di Gaza vi sono state da parte dell’esercito israeliano eccessi di ritorsione. Ma non dimentichiamo che in tali situazioni i militari responsabili possono essere sanzionati, conseguenza questa impensabile nel campo opposto, quello di Hamas. Così come in Israele si può liberamente manifestare contro la politica del governo, comportamento anche questo impossibile ad esempio per i civili di Gaza i quali vivono sotto il tallone di quella organizzazione criminale. È questa la differenza radicale, insormontabile tra i due mondi, una democrazia per quanto imperfetta come molte democrazie e una teocrazia terroristica
Tutto ciò anche senza indulgere nei confronti dell’attuale primo ministro Netanyahu che si appoggia agli ebrei ultraortodossi la cui mentalità non è molto differente da quella dei radicali islamici anche se, a differenza questi ultimi, per fortuna non intendono conquistare e soggiogare il mondo intero.
Nel linguaggio politico e nei mass media è di casa il termine islamofobia, usato quasi sempre a sproposito. È indubbio che gli attentati di Al Qaeda dalle Torri gemelle in poi, in seguito gli eccidi compiuti anche in Europa dall’Isis, i talebani afghani e la politica dittatoriale all’interno e aggressiva all’esterno dell’Iran abbiano provocato una diffusa paura nei confronti del mondo islamico. Ma certo non un razzismo generalizzato o una volontà di distruggerlo. E’ un’espressione quindi inventata, una violenza linguistica, e la violenza peggiore, come insegnava Ludwig Wittgenstein, è il cattivo uso delle parole. Islamofobia è un gioco di parole che fa solo il gioco appunto delle componenti più radicali di quel mondo e consente loro di passare da vittime e di soffiare sul fuoco anche quando decine di milioni di musulmani sono cittadini, regolarmente residenti o ospitati nei paesi europei.
Piuttosto quello che sta succedendo e che potrebbe anche di più grave accadere dovrebbe legittimare l’uso di una espressione ben diversa che però è tenuta fuori dal linguaggio comune : israelofobia, che non coincide con l’antisemitismo perché riguarda oggi proprio lo Stato di Israele.
L’idea in sostanza che Israele non abbia diritto di esistere, purtroppo molto diffusa anche tra un buon numero di occidentali esaltati, nel peggiore dei casi, o sprovveduti, nel migliore dei casi che non si accorgono così di odiare anche sé stessi.
Perché non cominciare a riconoscerla e a usarla? In fondo il linguaggio è uno strumento di educazione civica e imparare ad usarlo aiuta a modificare in meglio il mondo in cui dobbiamo vivere e se possibile convivere.
E navigarono verso il paese dei Geraseni che è dirimpetto alla Galilea.
E quando egli fu smontato a terra, gli si fece incontro un uomo della città, il quale era posseduto da demonî, e da lungo tempo non indossava vestito, e non abitava a casa ma stava nei sepolcri.
Or quando ebbe veduto Gesù, dato un gran grido, gli si prostrò dinanzi, e disse con gran voce: Che v'è fra me e te, o Gesù, Figlio dell'Iddio altissimo? Ti prego, non mi tormentare.
Poiché Gesù comandava allo spirito immondo di uscire da quell'uomo; molte volte infatti esso se n'era impadronito; e benché lo si fosse legato con catene e custodito in ceppi, avea spezzato i legami, ed era portato via dal demonio ne' deserti.
E Gesù gli domandò: Qual è il tuo nome? Ed egli rispose: Legione; perché molti demonî erano entrati in lui.
Ed essi lo pregavano che non comandasse loro di andare nell'abisso.
Or c'era quivi un branco numeroso di porci che pascolava pel monte; e quei demonî lo pregarono di permettere loro d'entrare in quelli. Ed egli lo permise loro.
E i demonî, usciti da quell'uomo, entrarono nei porci; e quel branco si avventò a precipizio giù nel lago ed affogò.
LUCA, cap. 13
Or egli stava insegnando in una delle sinagoghe in giorno di sabato.
Ed ecco una donna, che da diciotto anni aveva uno spirito d'infermità, ed era tutta curvata e incapace di raddrizzarsi in alcun modo.
E Gesù, vedutala, la chiamò a sé e le disse: Donna, tu sei liberata dalla tua infermità.
E pose le mani su lei, ed ella in quell'istante fu raddrizzata e glorificava Iddio.
Or il capo della sinagoga, sdegnato che Gesù avesse fatta una guarigione in giorno di sabato, prese a dire alla moltitudine: Ci son sei giorni nei quali s'ha da lavorare; venite dunque in quelli a farvi guarire, e non in giorno di sabato.
Ma il Signore gli rispose e disse: Ipocriti, non scioglie ciascun di voi, di sabato, il suo bue o il suo asino dalla mangiatoia per portarlo a bere?
E costei, che è figlia di Abramo, e che Satana avea tenuta legata per ben diciott'anni, non doveva esser sciolta da questo legame in giorno di sabato?
2 CORINZI, cap. 9
E perché io non avessi ad insuperbire a motivo della eccellenza delle rivelazioni, m'è stata messa una scheggia nella carne, un angelo di Satana, per schiaffeggiarmi ond'io non insuperbisca.
Tre volte ho pregato il Signore perché l'allontanasse da me;
ed egli mi ha detto: La mia grazia ti basta, perché la mia potenza si dimostra perfetta nella debolezza. Perciò molto volentieri mi glorierò piuttosto delle mie debolezze, onde la potenza di Cristo riposi su me.
2 CRONACHE, cap. 18
E Micaiah replicò: 'Perciò ascoltate la parola dell'Eterno. Io ho veduto l'Eterno che sedeva sul suo trono, e tutto l'esercito celeste che gli stava a destra e a sinistra.
E l'Eterno disse: - Chi sedurrà Achab, re d'Israele, affinché salga a Ramoth di Galaad e vi perisca? - E uno rispose in un modo e l'altro in un altro.
Allora si fece avanti uno spirito, il quale si presentò dinanzi all'Eterno, e disse: - Lo sedurrò io. - L'Eterno gli disse: - E come? -
Quegli rispose: - Io uscirò, e sarò spirito di menzogna in bocca a tutti i suoi profeti. - L'Eterno gli disse: - Sì, riuscirai a sedurlo; esci, e fa' così. -
La sala di comando di Hamas si trovava nella sede della UNRWA di Gaza. Lo ha scoperto l’esercito israeliano quando ha fatto irruzione nel complesso all’inizio di questa settimana nell’ambito di una nuova operazione condotta dalla 99a Divisione nei quartieri occidentali e meridionali di Gaza City.
Il quartier generale dell’UNRWA non era stato utilizzato negli ultimi mesi. L’IDF aveva già fatto irruzione nel complesso all’inizio di quest’anno, scoprendo una grande rete di tunnel di Hamas che passava sotto di esso.
I commando hanno dovuto combattere contro cellule di uomini armati che si erano asserragliati all’interno della struttura.
Un drone di Hamas trovato dalle truppe dell’IDF presso il quartier generale dell’UNRWA a Gaza City, in una foto pubblicata il 12 luglio 2024. (IDF)
Una volta eliminate le cellule di Hamas i commandos israeliani hanno potuto verificare che all’interno della struttura dell’ONU c’erano armi di ogni tipo comprese parti di un drone.
La sala di comando di Hamas serviva per controllare i movimenti delle truppe israeliane per poi riferirle a chi doveva compiere agguati o ai leader di Hamas per continuare a sfuggire alla cattura.
Mentre i commandos israeliani facevano irruzione nella struttura dell’ONU a Gaza, il vice comandante del battaglione Shejaiya di Hamas, Ayman Shweidah, è stato ucciso da un attacco aereo mirato.
Secondo l’IDF, Shweidah aveva condotto numerosi attacchi contro le truppe israeliane a Gaza ed era coinvolto nella pianificazione e nell’esecuzione del massacro del 7 ottobre.
Quanto avvenuto è una ulteriore conferma dei legami tra Hamas e la UNRWA oltre ad essere l’ennesima conferma dell’uso spregiudicato che fa Hamas dei luoghi considerati “intoccabili” come appunto le sedi dell’ONU, le scuole e gli ospedali.
E a proposito di UNRWA, è di poche ore fa l’appello del suo direttore, Philippe Lazzarini, ai donatori affinché provvedano a rimpinguare i conti dell’organizzazione che si spaccia per ONU. Secondo Lazzarini la UNRWA non potrà proteggere Hamas oltre la fine di settembre. Secondo Israele molti dipendenti della UNRWA hanno partecipato al massacro del 7 ottobre e almeno 13.000 di loro, tra Gaza e Cisgiordania, hanno vincoli stretti con Hamas.
Non è un’ipotesi, ma un fatto, che gli autori e i mandanti dei massacri del
7 ottobre
si rifugino nelle strutture civili di
Gaza,
vale a dire nelle case, nelle scuole, nelle moschee, negli ospedali. Neppure è un’ipotesi, ma ancora un fatto, che quei macellai li usino come bunker non per la “libertà della Palestina”, bensì in attuazione del diverso programma liberatorio rivendicato dai loro capi: “Distruggere Israele e uccidere tutti gli ebrei, senza lasciarne vivo nemmeno uno”. Chi volesse trovare una denuncia di questa pratica, tuttavia, invano la cercherebbe nella corposa e inesausta produzione comunicazionale di “
Medici Senza Frontiere”,
l’organizzazione umanitaria che il mese scorso deplorava l’uccisione del “collega”
Fadi Al-Wadiya,
part time medico e per il resto terrorista, e che l’altro giorno annunciava di dover chiudere una propria clinica a causa dell’ordine di evacuazione diffuso dall’esercito israeliano.
• L’ordine di evacuazione Naturalmente è ben possibile, diremmo anzi probabilissimo, che l’ordine di evacuazione sia stato impartito per completare l’azione di
sterminio dei civili
privandoli dell’assistenza sanitaria: una misura di irriducibile necessità per il caso, fastidiosamente imponderabile, che le bombe e la carestia possano risultare insufficienti al compimento del
genocidio.
Ma almeno per ipotesi di scuola potrebbe anche darsi che l’esercito israeliano abbia chiesto l’evacuazione perché deve dare la caccia ai terroristi, i quali non per ipotesi ma di fatto stanno tra quei civili – che usano come sacchi di sabbia – razzolando tra i banchi di scuola e, appunto, le corsie degli ospedali.
• Il limite delle agenzia umanitarie Costretti a dover operare in una situazione tanto drammatica, i signori di “
Medici Senza Frontiere”
potrebbero – non si dice ogni volta, ma anche una volta sola in nove mesi – sfogare la propria indignazione nei confronti dei tagliagole embedded, assai felici di proclamare che un ulteriore mucchio di carne palestinese (preferibilmente infantile) è stata utilmente offerta in sacrificio. Invece, macché. E macché pure
l’Unrwa,
l’agenzia Onu inconsapevolmente locatrice di spazi sicuri per i server di
Hamas
che – ancora l’altro giorno – lamentava l’assenza a
Gaza
di zone sicure. Cosa probabilmente e drammaticamente vera, salvo che a rendere insicure quelle che potrebbero essere tali c’è – immeritevole di qualsiasi denuncia dell’Unrwa – l’abitudine dell’esercito degli sgozzatori di fare capolino dai tunnel che sbucano a trentacinque metri dall’entrata dell’ospedale o a dodici dalla cattedra dell’insegnante, stipendiato dalla cooperazione internazionale, che illustra agli alunni il loro futuro da martiri. Ma per occuparsi di simili dettagli queste agenzie umanitarie hanno prospettive troppo ampie: dal fiume al mare, diciamo.
Ha un «cuore per essere vicino agli ultimi» e delle «emozioni forti», prosegue Ovadia nella sua arringa per Cecilia, proprio come lo avevano i nazisti, anche loro stavano dalla parte degli «ultimi», dei poveri tedeschi ridotti in miseria dalla «cospirazione giudaica». Dobbiamo dare retta al naso di Moni, la Parodi non è antisemita, no, lei ama gli ebrei, li vorrebbe abbracciare, stringere a sé, saldamente. Come un nodo scorsoio.
Non vorremmo occuparci di Moni Ovadia, anche se occasionalmente ci è capitato di farlo. Si tratta di un vecchio arnese della propaganda propalestinese, uno che considera l’ideologo Ilan Pappé di cui anni fa un vero storico come Benny Morris, fece polpette, “un grande storico”, e per il quale l’esercito israeliano a Gaza ha commesso le maggiori efferatezze dal “secondo dopoguerra”, e ancora, per il quale Benjamin Netanyahu sta attuando “un progetto genocidiario”, e via di questo passo.
Sono cose che ha già detto e che ha ripetuto nel corso di un breve video in difesa dell’attivista filopalestinese Cecilia Parodi, recentemente assurta alle cronache perché in un video ha affermato il suo odio per tutti gli ebrei e tutti gli israeliani e il desiderio di vederli impiccati, nessuno escluso.
Con personaggi come Ovadia il confronto non è mai possibile, perché esso presuppone che tra due interlocutori che la pensano diversamente ci sia tuttavia una condivisione tacita, ovvero che essi abitino la stessa realtà. Se manca questo presupposto, il confronto non può nemmeno cominciare. La realtà in cui dimorano gli Ovadia e i Pappé nulla ha a che vedere con quella in cui dimorano i fatti, dove, tra parola e oggetto sussiste un rapporto di corrispondenza, ma è quella in cui questi rapporti vengono annientati e sostituiti con uno schema ideologico, in questo caso quello per cui i palestinesi sono sempre vittime e gli israeliani sempre dei carnefici, tertium non datur.
E dunque perché occuparci di nuovo di Ovadia?, semplice, perché da Chomsky de noantri quale egli è, è corso in soccorso di Cecilia Parodi, esattamente come il linguista e guru dell’estrema sinistra, anni fa corse in soccorso del negazionista Robert Faurisson nel nome della libertà di espressione. Chomsky, tuttavia, non si spinse così avanti da dichiarare che Faurisson non era antisemita, mentre a Ovadia è toccato dire che la Parodi, donna dal cuore sanguinante a causa delle spaventose sofferenze del “popolo gazawi”, sì, il popolo gazawi, ovvero una sotto-etnia del “popolo palestinese”, scoperta da lui stesso, non è antisemita, e lui che è ebreo e gli antisemiti li nasa a vista, lo può garantire.
Cecilia Parodi è una vittima degli odiatori, lei è solo una donna sensibile a cui hanno ceduto un po’ i nervi, capita, soprattutto quando si assiste a quello che di mostruoso [secondo gli odiatori,NsI]hanno fatto i soldati israeliani a Gaza, altro che Srebrenica, altro che Anfal, altro che Ruanda. Cecilia Parodi per la quale gli ebrei “hanno rovinato il mondo”, e per i quali ci vorrebbe, per impiccarli tutti, Piazza Tiananmen, va capita, il problema vero è Netanyahu, è il suo progetto genocida.
Allarme negli atenei italiani per atteggiamenti antisemiti: molti lasciano gli studi e vanno in Israele
Secondo l’Ugei due giovani su tre hanno assistito o sono stati vittime di antisemitismo
di Flavia Amabile
ROMA. L’antisemitismo è in crescita. Soprattutto nelle università. Lo certificano i dati dell’Ugei, l’Unione giovani ebrei italiani e le voci di studentesse e studenti. Ad affermarlo sono più di otto giovani ebrei su dieci, di età compresa fra i 18 e i 35 anni, residenti in Italia. Accade oggi come sei mesi fa, subito dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, quando un primo sondaggio aveva già reso evidente la profonda preoccupazione presente tra i giovani ebrei italiani. Gli atenei italiani sono diventati l'epicentro di un crescente clima di odio e intolleranza, con il 71% degli studenti ebrei che non si sente sicuro nell'esprimere la propria identità ebraica, e un 86% riferisce timore nell'esprimere opinioni relative a Israele. Inoltre, più di due terzi dei partecipanti alla ricerca ha assistito o è stato vittima di atteggiamenti antisemiti da parte dei compagni di corso, mentre il 35% ha osservato tali comportamenti persino da parte dei docenti. Il sondaggio registra poi una forte insoddisfazione verso la risposta delle istituzioni italiane agli episodi di antisemitismo, con il 39% del campione che la ritiene insufficiente e il 33% scarsa.
Anna Agnotti
frequenta il primo anno di magistrale al Politecnico di Milano ed è consigliera dell’Ugei. «Sono ebrea e italiana al cento per cento: voglio sentirmi libera di avere un legame forte con Israele e di dire che l’Italia è il mio Paese. In questi mesi ho conosciuto tantissimi studenti israeliani che non sono andati più a lezione, alcuni hanno deciso di smettere di studiare, altri sono tornati in Israele a causa del pesante clima che si respira nelle università italiane per chi è ebreo.
• Meloni: "Blocco collaborazioni con Israele, scelta preoccupante dal Senato accademico UniTo" Tutti gli studenti ebrei italiani con cui ho parlato mi hanno raccontato di aver evitato di indossare segni di identità come la kippah e di essere molto a disagio quando durante gli esami vengono chiamati davanti a tutti se hanno nomi e cognomi che possono rendere evidente la loro origine. È la conseguenza di questo clima difficile: prima del 7 ottobre i casi di antisemitismo esistevano ma erano isolati, ora sono ripetuti». Ioel Roccas ha 24 anni, studia Discipline Etnoantropologiche alla Sapienza di Roma ed è vicepresidente dell’Ugei. «Sono stati mesi complicati, soprattutto gli ultimi. Bisogna abbandonare l'idea che l’antisemitismo sia solo una questione razziale, in realtà è una questione ormai culturale, un fiume carsico che scorre senza quasi che ce ne rendiamo conto e la sua contaminazione è trasversale, va da destra a sinistra. È antisemitismo citare come avviene in molte manifestazioni la frase “from the river to the sea” perché è una frase che nega l’autodeterminazione del popolo ebraico ma non tutti lo sanno. Spesso si parla sulla base di pregiudizi che pensavamo che fossero sconfitti e che invece sono ancora dominanti. Prima identifichiamo le diverse forme di antisemitismo prima saremo in grado di trovare una soluzione a una piaga che la società ha difficoltà ad estirpare».
• L’Ugei ha messo a disposizione di studentesse e studenti una linea dedicata Hanno raccolto 60 casi di antisemitismo. Si va dalla bacheca dell’Università Roma Tre dove a gennaio è apparso un cartello in cui si definiva Israele «uno stato occupante, discriminatorio, violento che porta l’apartheid in Palestina e porta avanti una terribile pulizia etnica», racconta Roccas. Oppure - continua Roccas - « le storie pubblicate sui social da una studentessa dell’università Unicamillus che inneggiavano a Hitler e al genocidio oppure altre, sempre sui social, in cui uno studente scriveva “sporca la tua razza ebreo”. E poi a dicembre fuori dall’università di Firenze è apparsa una stella di David equiparata a una svastica».
«Il quadro che emerge è di una crescente preoccupazione tra i giovani ebrei italiani, che si sentono giudicati e discriminati a causa della loro identità. Chiediamo un impegno concreto e immediato da parte di tutte le componenti della società per combattere l'antisemitismo in ogni sua forma», commenta Luca Spizzichino, presidente dell’Ugei. «Non possiamo permettere che l'odio e la discriminazione diventino la norma, è fondamentale infatti garantire la sicurezza e la libertà di espressione di tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro fede», aggiunge, sottolineando come l'Ugei «continuerà a lottare per i giovani ebrei affinché possano esprimere liberamente la propria identità».
La sinistra israeliana è in declino da lungo tempo. Il Partito Laburista, erede del Mapai di Ben-Gurion e Levi Eshkol, può vantare solo quattro membri alla Knesset su un totale di centoventi eletti. Potrebbero stare, letteralmente, dentro un taxi o una cabina telefonica.
Il crollo della sinistra israeliana è attribuibile, essenzialmente, a tre fattori: in primo luogo, al disastroso e suicida «processo di pace» di Oslo, che ha rafforzato il terrorismo e minato la sicurezza dello Stato ebraico; in secondo luogo, ai successi economici ottenuti dalla destra con le riforme liberali, che hanno marginalizzato l’istituzione collettivista del kibbutz; infine, alla crescita dell’immigrazione ebraica proveniente dai Paesi dell’ex URSS, elettoralmente orientata in senso conservatore.
Dal 7 ottobre, la sinistra ha avuto un ulteriore tracollo. Secondo Nimrod Nir, psicologo politico dell’Università Ebraica di Gerusalemme, la strage di nove mesi fa «ha causato un crollo completo della vecchia sinistra israeliana». I cittadini d’Israele, stanchi di subire passivamente il terrorismo arabo-musulmano, si sono spostati sempre più a destra, consapevoli dell’impossibilità di una convivenza pacifica col vicino arabo-musulmano. Il Washington Free Beacon ha riportato un’interessante confessione post-7 ottobre di Debbie Sharon, avvocato penalista di Yated ed ex uomo di sinistra:
«La gente di destra ci aveva avvertito che i palestinesi non la pensano come noi: non gli importa della pace per i loro figli. Gli importa solo di eliminarci. Ma non ci abbiamo creduto. Abbiamo detto: “Sono tutti pazzi. Sono tutti estremisti di destra”».
Potrebbe sembrare una buona notizia, peccato però che il sistema elettorale israeliano favorisca la proliferazione dei partiti politici, che frammentano l’elettorato di «centrodestra» disperdendolo in una pluralità di gruppi «moderati» come Yesh Atid di Lapid o Tikvah Hadasha di Gideon Sa’ar.
Inoltre, il complesso mediatico-accademico e soprattutto il sistema giudiziario rimangono, saldamente, in mano alla sinistra. La Corte Suprema, saltata a causa della guerra la riforma proposta da Netanyahu, ha mantenuto il suo potere ipertrofico. La recente decisione degli alti giudici di arruolare forzosamente gli studenti ortodossi delle yeshivot è orientata a mettere in crisi la coalizione presieduta da Netanyahu, generando una tensione tra il Likud e i partiti religiosi al governo.
In Israele, come capita sempre più spesso nelle moderne democrazie, esiste uno scollamento tra il paese «reale», generalmente conservatore, e quello «legale», presidiato dalle forze progressiste; così come tra i ceti popolari e le élite intellettuali e politiche. Una frattura rivelatasi per la prima volta nel 1981, quando, durante un comizio elettorale del Partito Laburista a Tel Aviv, che sperava di sconfiggere il premier uscente Menachem Begin, la star televisiva Dudu Topaz disse: «È un piacere vedere la folla qui, è un piacere vedere che non ci sono chahchahim (termine dispregiativo che allude agli ebrei israeliani di origine mediorientale ) che rovinano le riunioni elettorali. I chahchahim sono a Metzudat Ze’ev (edificio dove ha sede il Likud)».
Oggi, proprio come ieri, i membri progressisti della società si lamentano della «plebe», degli ebrei mediorientali «Mizrahi», dei «coloni» e degli ebrei ortodossi «Haredi», che rifiutano di diventare la merce di scambio del loro demenziale «processo di pace». Ogniqualvolta la «plebe» elegge un governo conservatore, la litania benpensante si fa più intensa: Israele, insistono, si troverebbe allora sull’orlo del fascismo e della teocrazia. Alla destra israeliana non si perdona neanche un decimo di quello che si accetta dalla parte araba, da sempre dedita alla distruzione dello Stato ebraico.
Da un lato vi sono gli «ebrei di sinistra» della Diaspora e i ricchi progressisti israeliani, attentissimi agli umori del Partito Democratico statunitense; dall’altro gli israeliani «comuni» che ogni giorno rischiano di saltare in aria con l’autobus che li porta a lavoro.
Mentre i primi, per l’Italia si segnalano, Piero Fassino, Gad Lerner o Emanuele Fiano, scrivono i loro sentiti articoli su come facciano fatica a convivere con un governo che annovera Smotrich e Ben-Gvir tra i suoi ministri, gli israeliani cercano di non farsi sparare lungo la strada che li riporta a casa o di evitare che le loro auto di seconda mano vengano rubate e portate nel territorio controllato dalla «Autorità Palestinese».
Questo Israele popolare e patriottico, pio e lavoratore, è stanco di sentirsi dire di rimanere in silenzio quando i suoi bambini vengono uccisi, quando il suo bestiame viene rubato, quando i suoi campi e i suoi frutteti, coltivati con fatica, sono ridotti a un oceano di cenere dai palloncini incendiari palestinesi. Questo Israele non sa cosa farsene di un «processo di pace» che gli ha sottratto terra e sicurezza; le sue «relazioni socio-culturali» con gli arabi non assomigliano a quelle auspicate da Lerner o da Ovadia, ma riguardano la crescente violenza di strada arabo-musulmana all’interno della «linea verde». La sua preoccupazione circa i rapporti con l’Amministrazione Biden ruota attorno alla carenza di alloggi a Gerusalemme o in Giudea e Samaria causata dalla pressione diplomatica della Casa Bianca a non ampliare gli «insediamenti».
Se gli ebrei e gli israeliani progressisti, laici, pacifisti, socialisti, che trascorrono le loro giornate rannicchiati a leggere David Grossman, fossero stati più attenti alle esigenze degli israeliani «normali» e meno intossicati dalla loro ideologia internazionalista, oggi, con tutta probabilità, non avrebbero un Itamar Ben-Gvir al governo.
I progressisti hanno perso la loro battaglia. Ecco perché così tanti «ebrei di sinistra» sono arrabbiati e indispettiti. A essere minacciata non è la democrazia israeliana, solida come non mai, ma un potere oligarchico consolidato che si vede, per la prima volta, seriamente intaccato.
L’organizzazione terroristica palestinese, all’angolo nella Striscia di Gaza, potrebbe attaccare dalla Cisgiordania,
di Tommaso Alessandro De Filippo
La prospettiva di un cessate il fuoco temporaneo tra Israele ed Hamas nella striscia di Gaza, volto a favorire il rilascio degli ostaggi, potrebbe essere stravolta da una nuova escalation del conflitto. L’organizzazione terroristica palestinese non ha alcuna convenienza strategica a fermare le ostilità: la prosecuzione dei combattimenti, infatti, le consente di utilizzare l’arma della guerra psicologica contro l’avversario, sfruttando le vittime civili.
Accusando Israele di commettere un genocidio ed impedendo l’evacuazione degli abitanti dal territorio, Hamas si assicura la possibilità di utilizzarne la morte come carta mediaticamente utile a manipolare l’opinione pubblica internazionale in proprio favore. Se Hamas decidesse di accettare una soluzione negoziale, che arresti il conflitto e le imponga di liberare i rapiti ancora in vita, rischierebbe di compromettere la sua strategia.
Inoltre, complicherebbe il piano dell’Iran che è volto a creare caos nella regione. L’Iran manovra Hamas e la usa da sempre per indebolire Israele. La mediazione di Stati Uniti ed alcuni paesi arabi ha rilanciato le trattative sul cessate il fuoco temporaneo a cui Hamas finge di essere interessata, incolpando Gerusalemme per ogni mancato raggiungimento degli accordi. Tuttavia, nelle scorse settimane da Washington sono stati intensificati gli sforzi per chiudere in fretta un accordo, rendendo più complesso per Hamas abbandonare le trattative nascondendo le proprie responsabilità.
• Hamas punta al fallimento dei negoziati Da quì la probabilità che i suoi leader scelgano di utilizzare la forza per provocare il fallimento delle negoziazioni: la probabilità di un nuovo attacco contro strutture sensibili o civili israeliani è infatti in costante aumento, denunciata dai servizi segreti di Gerusalemme. Potrebbe avvenire proprio dalla Striscia di Gaza o dalla Cisgiordania. Nel primo caso, l’eventualità appare più complessa perché la quasi totalità del teatro geografico è ormai sotto il controllo dell’esercito israeliano (IDF). Per i miliziani di Hamas ancora attivi agire con precisione al punto da infiltrarsi in territorio israeliano e compiere un attentato di grosse proporzioni appare complesso.
È più probabile invece che si limitino a compiere nuovamente piccole imboscate ai danni di soldati e proseguire nel lancio di attacchi con razzi contro lo stato ebraico. Uno scenario che intensificherebbe la violenza dell’IDF ma non stravolgerebbe il volto del conflitto.
• Hamas vuole il fronte Cisgiordania Diverso è il discorso relativo alla Cisgiordania: lì Hamas è efficacemente infiltrata nei campi profughi (in particolare quello della zona di Jenin), in sintonia con la Jihad Islamica Palestinese (PIJ). In loco non soffre di una pressione militare quotidiana esercitata da Israele nei suoi confronti. Inoltre, si giova dell’incapacità della corrotta Autorità Nazionale Palestinese (ANP), secondo report dell’intelligence occidentale destinata ad implodere entro fine estate, di contrastarla. Il territorio della Cisgiordania potrebbe rivelarsi utile all’espansione ulteriore del conflitto per i miliziani palestinesi. Da lì potrebbero colpire Israele con maggiore efficacia o infiltrarsi in discreto quantitativo al di là dei suoi confini, al fine di compiere un attentato terroristico di eclatanti proporzioni.
Questo scenario comporterebbe l’immediato stop delle trattative diplomatiche e l’apertura di un nuovo fronte di guerra ad alta intensità. Israele dovrebbe necessariamente reagire con l’inizio di un’operazione su larga scala nel territorio, volta ad estirpare la minaccia. Dal canto suo, Hamas otterrebbe benzina mediatica condurre la sua guerra psicologica. In più, favorirebbe l’incremento di tensioni e caos in Medio Oriente, in linea con gli interessi del suo burattinaio, il regime degli ayatollah iraniani.
La grande paura degli ebrei: “In Europa attacchi antisemiti sono aumentati del 400%”
La denuncia di 12 organizzazioni: dopo il 7 ottobre violenze e molestie online e offline sono esplose.
di Paolo Brera
PARIGI — Dopo il 7 ottobre la percezione dell’antisemitismo è esplosa: 12 organizzazioni ebraiche hanno segnalato un aumento del 400% degli attacchi in Europa. «Metà della popolazione ebraica è preoccupata per la sicurezza sua e della famiglia, e oltre il 70% nasconde occasionalmente la propria identità ebraica», afferma Sirpa Rautio, direttrice dell’Agenzia Ue per i Diritti fondamentali (Fra) che monitora il fenomeno e segnala «piccoli progressi», ma in un quadro preoccupante: «I conflitti in Medio Oriente possono portare a picchi di incidenti. Gli ebrei sono più spaventati che mai»
L’80% dei 7.992 ebrei europei ascoltati dal sondaggio della Fra ritiene che l’antisemitismo in Europa sia ulteriormente aumentato. La buona notizia è che il dato è in calo, rispetto all’88% del 2018: l’antisemitismo è sempre un’emergenza, ma sì è raffreddato. La cattiva è che il sondaggio è stato realizzato prima del 7 ottobre, tastando la febbre antisemita percepita negli ultimi 5 anni: dopo il 7 ottobre il termometro è schizzato verso l’alto, mostrano le appendici.
La cronaca conferma: la statua di Anna Frank nel parco di Merwedeplein — nel Rivierenbuurt di Amsterdam, in cui la ragazzina martirizzata dall’odio e dalla follia nazista visse due anni con la famiglia prima di trasferirsi a Prinsengracht, nell’abitazione condivisa con i Van Pels durante l’occupazione — è stata vandalizzata con la scritta “Gaza”. Come se il dramma di una bambina potesse pareggiare quello di altri bambini, invece di sommarsi.
La premessa indispensabile, in tempi inquieti di opinioni polarizzate, è che l’Agenzia (Fra) è organo ufficiale Ue, nato nel 2007 e costituito da ricercatori; ma i suoi lavori sull’antisemitismo sono stati contestati con l’accusa di non fare differenza tra «antisemitismo nei confronti degli ebrei o di Israele».
È un fatto che 1,3 milioni di ebrei residenti nella Ue percepiscano ostilità: 8 su 10 ritengono sia aumentata nei 5 anni prima del 7 ottobre e della reazione israeliana. Il sondaggio è stato effettuato tra adulti (oltre 16 anni) che si definiscono “ebrei” nei 13 Paesi Ue in cui vive il 96% della popolazione ebraica europea: considerano l’antisemitismo un problema da affrontare tutti i giorni. I sondaggisti chiedevano esperienze vissute, «incidenti antisemiti, violenze e molestie online e offline», e le «preoccupazioni di diventare vittima».
Il 96% dice di avere subito antisemitismo nell’ultimo anno: «Stereotipi che accusano gli ebrei di detenere il potere e controllare finanza, media, politica o economia» (85%); «negando a Israele il diritto di esistere come Stato» (79%); «ritenendo gli ebrei collettivamente responsabili delle azioni di Israele», «negando o banalizzando l’Olocausto» e «confrontando la politica di Israele con quella nazista» (78%). Alcuni di questi punti restano controversi. Ma il 90% dice di avere incontrato personalmente il mostro: online (90%) più che nella vita in carne e ossa (77%). Più di metà lo ha visto però in colleghi e conoscenti (56%).
I jihadisti brutalizzano le donne non musulmane e le femministe rimangono in silenzio
La violenza sessuale come strategia militare è stata comunemente utilizzata in tutto il mondo dai terroristi islamici sin dal VII secolo. Per quanto riguarda il gran numero di donne israeliane che sono state brutalmente stuprate il 7 ottobre dai terroristi di Hamas e dai loro sostenitori, molte organizzazioni per i diritti delle donne hanno totalmente ignorato l'atrocità di tali abusi. Nella foto: Naama Levy, una 19enne israeliana rapita e portata a Gaza dai terroristi di Hamas il 7 ottobre 2023. È ancora tenuta in ostaggio da Hamas.
Naama Levy, una 19enne israeliana rapita e portata a Gaza dai terroristi di Hamas il 7 ottobre 2023. È ancora tenuta in ostaggio da Hamas
I terroristi di Hamas, sostenuti dall'Iran, hanno invaso Israele il 7 ottobre 2023. Hanno massacrato più di 1200 persone; hanno bruciato vive intere famiglie, torturato e violentato donne, bambini e uomini, e hanno preso in ostaggio circa 250 persone, tra cui bambini e neonati.
Dall'attacco di ottobre, tuttavia, le donne israeliane hanno dovuto affrontare interrogativi e dubbi espressi dalle opinioni pubbliche sulle brutalità e sulle violenze sessuali subite per mano di uomini musulmani di Gaza.
Nonostante il silenzio, e talvolta anche la totale negazione, da parte di molte organizzazioni femministe in tutto il mondo, i crimini sessuali di Hamas sono ben documentati. L'Associazione dei centri di crisi sullo stupro in Israele ha pubblicato a febbraio il report "Grido silenzioso – Crimini sessuali nella guerra del 7 ottobre".
Centinaia di donne israeliane e non solo, ha riportato l'associazione, hanno subito le aggressioni sessuali più raccapriccianti, tra cui stupri, anche di gruppo, mutilazioni e smembramenti, spesso seguiti da uccisioni per mano dei miliziani di Hamas. Molte di queste aggressioni sono avvenute in presenza di amici, partner o familiari delle vittime e numerosi cadaveri sono stati trovati decapitati. Anche la mutilazione degli organi sessuali sia degli uomini che delle donne è stata una pratica comune.
Il rapporto non solo fornisce testimonianze sugli abusi sessuali, le torture e gli omicidi inflitti a uomini, donne e bambini israeliani da Hamas durante l'invasione del 7 ottobre, ma precisa altresì che crimini simili continuano ad essere commessi contro gli ostaggi ancora detenuti a Gaza. Anche il New York Times ha pubblicato il 28 dicembre scorso un rapporto, basato su 150 interviste a testimoni e primi soccorritori, riprese video e prove fotografiche.
Il 19 giugno, le Nazioni Unite celebrano l'annuale Giornata internazionale contro la violenza sessuale nei conflitti armati. Eppure, le Nazioni Unite hanno impiegato cinque mesi per documentare e condannare i crimini sessuali perpetrati da Hamas il 7 ottobre.
Il 4 marzo, l'ONU ha finalmente pubblicato un report di 23 pagine contenenti le prove del fatto che Hamas ha di fatto commesso diffusi crimini sessuali. Pramila Patten, rappresentante speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite per la violenza sessuale nei conflitti armati (e sottosegretario generale delle Nazioni Unite), ha condotto un'indagine di due settimane in Israele dal 29 gennaio al 14 febbraio. Durante questa visita, il suo team ha esaminato più di 5 mila foto e ha passato in rassegna 50 ore di riprese audio e video. Il team ha inoltre intervistato più di 30 sopravvissuti e testimoni oculari.
Secondo il report delle Nazioni Unite:
"Le interviste alle parti interessate e il materiale esaminato dal team della missione delineano una campagna indiscriminata finalizzata a uccidere, infliggere sofferenze e rapire il massimo numero possibile di uomini, donne e bambini – soldati e civili – nel minor tempo possibile. Le persone venivano freddate, spesso a distanza ravvicinata; bruciate vive nelle loro case mentre cercavano di nascondersi nelle loro safe room; uccise a colpi di arma da fuoco o dalle granate lanciate nei rifugi contro le bombe dove cercavano riparo; e braccate nell'area in cui si stava svolgendo il Nova Music Festival così come nei campi e nelle strade adiacenti al sito del festival. Altre violazioni includevano la violenza sessuale, il rapimento di ostaggi e cadaveri, l'esposizione pubblica di prigionieri, sia morti che vivi, la mutilazione di cadaveri, compresa la decapitazione, e il saccheggio e la distruzione di proprietà civili...
"Il team della missione ha riscontrato informazioni chiare e convincenti sul fatto che sono state commesse violenze sessuali, tra cui stupri, torture sessualizzate, trattamenti crudeli, inumani e degradanti nei confronti di alcune donne e bambini durante il loro periodo in prigionia e ha ragionevoli motivi per ritenere che queste violenze possano essere ancora in corso....
"Sulla base della totalità delle informazioni raccolte, ci sono ragionevoli motivi per ritenere che le violenze sessuali legate al conflitto siano avvenute in diverse località".
Tali crimini riportano alla mente quelli commessi dall'ISIS (Stato Islamico) contro cristiani e yazidi durante e dopo la conquista violenta di gran parte dell'Iraq e della Siria nel 2014.
La violenza sessuale come strategia militare è stata comunemente utilizzata in tutto il mondo dai terroristi islamici sin dal VII secolo.
Dieci anni fa, l'ISIS attaccò yazidi e cristiani in Iraq e Siria, perpetrando massacri e costringendo con la forza a fuggire centinaia di migliaia di non musulmani. Nel giugno 2014, lo Stato Islamico prese il controllo della città irachena di Mosul, per poi proclamare, il 29 giugno di quello stesso anno, un califfato islamico nelle aree controllate dall'organizzazione in Iraq e Siria.
La brutale occupazione dell'ISIS a Mosul e nel territorio più ampio fu accompagnata da uccisioni di massa, esecuzioni sommarie, sparizioni, rapimenti, torture e diffuse demolizioni di case di migliaia di residenti, mentre veniva applicata la rigida legge della sharia. I terroristi dello Stato Islamico hanno ucciso, rapito e minacciato un gran numero di persone appartenenti a minoranze etniche e religiose, tra cui cristiani, turkmeni, shabak e yazidi.
Nel 2021, il Center for Holocaust and Genocide Studies of the University of Minnesota ha pubblicato un report intitolato "Violenza di massa e genocidio per mano dello Stato Islamico/DAESH in Iraq e Siria". Secondo il documento:
"Dopo la conquista di Mosul da parte dell'ISIS, nel giugno del 2014, ai cristiani venne data la possibilità di convertirsi, pagare le tasse (jizya), andarsene o essere uccisi. Lo Stato Islamico contrassegnò le case cristiane con la lettera araba 'N' che sta per Nasrani, ossia cristiano, che divenne rapidamente un simbolo globale di solidarietà con i cristiani perseguitati. Pochi mesi dopo, nell'agosto del 2014, l'ISIS prese il controllo di tutte le città assire nella Piana di Ninive, provocando una seconda ondata di sfollamenti di massa.
"Oggi, una delle maggiori sfide che i cristiani in Iraq devono affrontare è la questione del ritorno. Anche se la Piana di Ninive è stata liberata dall'ISIS, molti cristiani esitano a ritornarvi e temono di farlo, menzionando le rinnovate tensioni tra le varie comunità etnico-religiose".
Proprio come Hamas ha rapito israeliani e non, lo Stato Islamico ha altresì rapito cristiani e yazidi in Iraq e Siria.
Nel febbraio 2015, i miliziani dell'ISIS attaccarono circa 35 villaggi di cristiani assiri che vivevano in una serie di comunità agricole sulle rive del fiume Khabur in Siria. L'ex diplomatico statunitense Alberto M. Fernandez osservava nel 2016:
"... 232 di questi assiri, 51 dei quali bambini e 84 donne, sono stati rapiti. La maggior parte di loro rimane prigioniera e pare che l'ISIS abbia chiesto 22 milioni di dollari (circa 100 mila dollari a persona) per il loro rilascio. Chi non è stato rapito è terrorizzato ed è stato espropriato delle proprie case".
Un rapporto dell'UNICEF e dell'UNAMI (Missione delle Nazioni Unite di assistenza in Iraq), intitolato "Bambini nati da stupro e bambini nati da padri dell'ISIS", documenta gli stupri e la schiavitù sessuale delle donne appartenenti a minoranze religiose da parte dello Stato Islamico:
"Le donne appartenenti a minoranze religiose hanno subito gravi violazioni, tra cui rapimenti, privazione della libertà, trattamenti crudeli e conversioni forzate a un'altra religione, ma la più pericolosa di tali violazioni è stata la schiavitù sessuale, che ha preso di mira in particolare le donne di religione yazida.
"Nel luglio 2014, l'Ufficio dell'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani (OHCHR) ha segnalato 11 casi di stupro contro donne cristiane commessi dall'ISIS. Altri rapporti hanno indicato che quasi 300 donne cristiane e musulmane sciite (per lo più turkmene) sono state trattenute dai miliziani dello Stato Islamico. Uno studio accademico condotto presso l'Università di Baghdad, riguardante un campione di 200 donne sopravvissute al sequestro da parte dell'ISIS, ha mostrato che 169 donne del campione sono state violentate, comprese 39 donne cristiane e 39 donne musulmane (turkmene sciite)."
Una delle donne cristiane rapite dallo Stato Islamico è Carolyn, di etnia assira e residente nel villaggio di Tel Jazera, nella Siria orientale. Nel 2022, Knox Thames, già inviato speciale per le minoranze religiose presso il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti durante le amministrazioni Obama e Trump, raccontò il calvario di Carolyn:
"Ha sofferto orrori inimmaginabili come 'moglie' dell'ISIS da quando è stata rapita all'età di 15 anni. (...) I genitori di Carolyn hanno detto che la figlia gridava di terrore mentre veniva trascinata fuori di casa nell'aprile 2015. Pur sapendo il luogo dove è stata portata, al momento non è possibile salvarla.
"Alla richiesta della sua famiglia e di altri di sensibilizzare l'opinione pubblica sul suo caso, i genitori della ragazza mi hanno detto tramite un interprete: 'Abbiamo saputo da molte fonti che si trova nel campo di Al-Hol dal 2017'. Al-Hol è un campo per sfollati ubicato in un'area desertica, nella parte orientale della Siria. Si tratta di un campo di prigionia per oltre 60 mila persone, molte delle quali sono famiglie sospettate di avere legami con l'ISIS o altri simpatizzanti.
"Secondo quanto riferito, le condizioni del campo sono dure e la criminalità è dilagante.
"Le maggiori potenze internazionali hanno preferito ignorare questo problema. (...) La famiglia sa che Carolyn è stata comprata e venduta almeno quattro volte. Informazioni indicano che è arrivata ad Al-Hol nell'aprile 2019. Ora ha due figli da questi uomini, un maschio e una femmina. Chi è riuscito a fuggire da Al-Hol ha detto che Carolyn è molto legata ai suoi figli e non se ne andrà senza di loro...
"'Lei è la nostra amata figlia, e sappiamo che è una ragazza innocente perché è stata costretta ad andarsene', mi hanno detto. 'La riaccoglieremo a casa in qualsiasi momento con i suoi figli. Viviamo per quel giorno, per abbracciare lei e i suoi figli'".
Circa due mesi dopo la presa di Mosul, l'ISIS invase Sinjar, la patria degli yazidi in Iraq. Come gli assiri, gli yazidi sono una minoranza non musulmana autoctona e perseguitata in Medio Oriente. Gli yazidi affermano di essere stati esposti a un'ondata di 74 attacchi genocidi per mano dei musulmani. L'ultimo, iniziato nel 2014, ha avuto conseguenze devastanti che le vittime continuano ancora oggi a vivere sulla propria pelle.
Durante l'occupazione di Sinjar, i terroristi dello Stato Islamico hanno ucciso migliaia di yazidi perpetrando vere e proprie esecuzioni capitali o lasciandoli deliberatamente morire di fame e di sete.
Altre migliaia di donne e bambini yazidi sono stati rapiti, violentati e trasformati in schiavi del sesso. A Sinjar, ci sono ancora più di 80 fosse comuni contenenti corpi di yazidi in attesa di essere portate alla luce. E più di 2.600 donne e minori yazidi rapiti aspettano ancora oggi di essere salvati dalle mani dei terroristi dell'ISIS. Più di 180 mila yazidi sono senza casa e cercano di sopravvivere nei campi profughi nel Kurdistan iracheno.
Ragazze e donne yazide sono state brutalizzate dai terroristi dell'ISIS. Le adolescenti rapite dai terroristi dello Stato islamico in Iraq e in Siria sono state vendute nei mercati degli schiavi "per meno di un pacchetto di sigarette", ha affermato l'inviata delle Nazioni Unite per i crimini sessuali nella zone di conflitto, Zainab Bangura.
Nel 2015, Radio Free Europe/Radio Liberty riportava quanto segue:
"'Quando conquistano le aree territoriali rapiscono le donne, pertanto, hanno... no, non voglio definirle una nuova fornitura, hanno nuove ragazze', ha dichiarato la Bangura. Le ragazze vengono vendute 'per meno di un pacchetto di sigarette' o per diverse centinaia di dollari, fino ad arrivare a un migliaio di dollari.
"Dopo aver attaccato un villaggio, l'ISIS separa le donne dagli uomini, giustiziando questi ultimi e tutti i ragazzi di età superiore ai 14 anni. Ragazze e madri vengono divise, le ragazze denudate, testate per la verginità, esaminate per le dimensioni del seno e classificate per la bellezza. Le vergini più giovani, e quelle considerate più belle, ottengono prezzi più alti e inviate a Raqqa, roccaforte dell'ISIS.
"In base alla gerarchia dello Stato Islamico, gli sceicchi hanno la prima scelta, seguiti dagli emiri e poi dai miliziani. Spesso se ne prendono tre o quattro ciascuno e le tengono un mese o giù di lì, fino a quando non si stufano e le rispediscono al mercato. Le schiave vengono vendute all'asta, gli acquirenti mercanteggiano sul prezzo, deprezzando il prezzo se le ragazze sono piatte o poco attraenti.
"'Abbiamo saputo di una ragazza che è stata venduta 22 volte e di un'altra, fuggita una prima volta, che ci ha raccontato che uno sceicco dopo averla riacciuffata le ha scritto il suo nome sul dorso della mano per mostrare che lei era di sua proprietà', ha detto Bangura".
Il trattamento delle donne yazide, in particolare, è stato caratterizzato da disprezzo e ferocia, ha affermato l'inviata dell'ONU.
"Vengono commessi stupri, schiavitù sessuale, prostituzione forzata e altri atti di estrema brutalità", ha raccontato Bangura. "Siamo venuti a conoscenza del caso di una ragazza di 20 anni che è stata bruciata viva perché si era rifiutata di compiere un atto sessuale estremo".
In un'intervista al Gatestone Institute, Pari Ibrahim, direttore esecutivo della Free Yezidi Foundation, ha dichiarato:
"Non è stato compiuto alcuno sforzo a livello mondiale per aiutarci a identificare e riportare a casa gli oltre 2600 yazidi rimasti dispersi per dieci anni dopo l'inizio del genocidio yazida da parte dell'ISIS. Sappiamo che molti dei dispersi potrebbero essere già morti, ma alcuni sono ancora in vita. Si trovano nel campo di Al Hol, in altre parti della Siria e in alcune zone della Turchia. La comunità internazionale si è però arresa, ma noi della comunità yazida non possiamo arrenderci.
"Sappiamo che molti si trovano in alcune parti della Turchia. Questo perché, purtroppo, la Turchia si è trasformata in un rifugio sicuro per i membri dello Stato Islamico. Probabilmente è l'unico posto, al di fuori di alcune aree della Siria e dell'Iraq, dove si possono trovare miliziani dell'ISIS. Sappiamo anche che alcuni sopravvissuti si trovano in varie località della Siria e nel campo di Al Hol, ma attualmente non disponiamo di informazioni su quanti siano vivi e quanti altri siano stati già uccisi, e informazioni del genere richiedono molto impegno e duro lavoro. Purtroppo, il resto del mondo ha fatto poco per aiutare. Credo che la società civile yazida, inclusa la mia organizzazione e altre, potrebbero fare dei progressi su questo argomento se gli interlocutori di tutto il mondo potessero darci una mano. Credo che qualcuno si preoccupi di questo e ci sono alcuni individui che danno il loro contributo, tra cui qualcuno in Iraq e in Siria, ma il più delle volte la comunità internazionale ha pressoché ignorato gli yazidi scomparsi".
Mentre gran parte del mondo ha abbandonato le vittime yazide e cristiane dell'ISIS, alcune organizzazioni e individui sono rimasti al loro fianco. Uno di questi è l'imprenditore canadese Steve Maman, un ebreo di origine marocchina e fondatore della The Liberation of Christian and Yazidi Children of Iraq (CYCI Foundation).
Grazie ai suoi sforzi per aiutare a salvare gli yazidi e i cristiani dalla prigionia dell'ISIS, Maman è diventato noto come "lo Schindler ebreo". L'imprenditore ha documentato le storie di 25 mila vittime yazide e cristiane dello Stato Islamico, prestando loro aiuto e contribuendo alla liberazione di 140 prigionieri yazidi in Iraq nonostante le enormi sfide e i grandi ostacoli affrontati.
Steve Maman, partecipando a un panel di relatori ed esperti internazionali nell'ambito della conferenza "The Global Women's Coalition Against Gender-Based Violence as a Weapon of War", tenutasi il 20 maggio alla Knesset, il Parlamento israeliano, ha detto nel suo discorso:
"Dopo il 7 ottobre, i media hanno soppresso la vostra storia [di israeliani], arrivando addirittura a sostenere che i [raccapriccianti] fatti non sono mai accaduti, mentre altri li hanno giustificati come necessaria resistenza all'oppressione israeliana. Qualcuno per favore mi dica dove i bambini che sono stati legati e sgozzati costituiscono una resistenza necessaria. L'integrità dei fatti e della verità è stata compromessa, mentre la bussola morale ha puntato in un'altra direzione. Viviamo in un'epoca in cui le persone intelligenti vengono messe a tacere in modo che quelle stupide non vengano offese. C'è un modello deliberato e riconoscibile in gioco qui.
"I media stanno attivamente sopprimendo i fatti del 7 ottobre per riscrivere la storia secondo la narrazione da loro scelta. Il problema sta nel fatto che la difficile situazione di un ebreo deceduto non cattura l'attenzione delle masse come fanno le storie sensazionalistiche. Per loro, tutto si riduce a likes, visualizzazioni ed introiti.
"[Il 7 ottobre], durante quegli stupri hanno avuto luogo umiliazioni, mutilazioni e omicidi. Donne stuprate davanti ai loro cari e poi uccise. Coltelli conficcati nelle loro parti intime. Teste scalpate. Chiodi inseriti nelle vagine delle donne. Un dolore indescrivibile deve aver avuto luogo prima della morte. E altro ancora. Ho visto le foto e i video reali. Attaccare persone innocenti e sottoporre ostaggi alla tortura non è un atto di lotta per la libertà né costituisce una guerra degna della collaborazione da parte di coloro che sopprimono la verità in merito a tale violenza disumana.
"L'obiettivo di Hamas era quello di causare immenso dolore e sofferenza nel perseguimento del suo jihad, consentendo agli orrori di rimanere impressi nella nostra memoria collettiva e nella nostra storia. Il loro successo garantisce che quanto accaduto sarà raccontato per le generazioni a venire. La risposta globale alle vittime dell'Islam radicale è stata costantemente caratterizzata dal silenzio, consentendo che tali atrocità continuassero impunite, perpetuando un ciclo di violenza".
I relatori della conferenza, organizzata dal membro della Knesset Shelly Tal Meron, hanno ascoltato le testimonianze dei familiari degli ostaggi che hanno condiviso storie di violenza sessuale. Il Jerusalem Postha riportato:
Sasha Ariev, la cui sorella minore Karina è tenuta in ostaggio a Gaza, ha parlato del terrore che prova nel disconoscere le condizioni della sorella e di essere a conoscenza delle violenze sessuali in corso nella prigionia di Hamas: "Non abbiamo informazioni sullo stato di salute attuale di Karina, ma siamo consapevoli che la violenza sessuale, compreso lo stupro, viene perpetrata sugli ostaggi. Chiedo a tutti voi, in ogni parte del mondo, di unirvi nel dichiarare che l'uso della violenza sessuale come arma di guerra è inaccettabile e che Hamas deve rilasciare immediatamente tutti gli ostaggi: donne, uomini e bambini.
Simona Steinbrecher, la madre di Doron, 30 anni, anche lei presente alla conferenza, ha detto al panel che sua figlia "ha bisogno di farmaci quotidiani, che probabilmente non riceve". Ha asserito che gli ostaggi liberati hanno parlato di mancanza di privacy, anche nell'utilizzo del bagno e nel fare la doccia, e di una stretta sorveglianza 24 ore su 24, sette giorni su sette.
Mandy Damari, la cui figlia Emily, 27 anni, è ancora prigioniera, ha espresso i suoi timori per lo stato psicologico di Emily:
"Mi chiedo quali pensieri attraversino la mente di Emily sotto il totale controllo delle sue guardie terroristiche, sapendo che le potrebbe accadere da un momento all'altro qualcosa se loro volessero. Che tipo di minaccia psicologica o fisica di reale tortura sessuale e terrore sta subendo? Ne so abbastanza da rendermi conto che ciò che sta vivendo non sarà mai cancellato dalla sua memoria".
Shari Mendes, che faceva parte di una squadra forense che ha esaminato i corpi delle donne uccise il 7 ottobre ha dichiarato che è "chiaro che queste donne sono morte agonizzando".
"A volte è stato loro sparato un colpo di arma da fuoco alla testa ma non c'era traccia di sangue, pertanto, probabilmente sono state colpite dopo la morte. Sembra che si sia voluto intenzionalmente distruggere i volti di queste donne, cancellarli, in modo che i loro genitori o i loro cari non potessero riconoscerle".
In un articolo apparso sul Jerusalem Post, Mendes ha parlato dello sdegno che ha provato a causa del fatto che nei confronti delle donne israeliane non è stata mostrata quella stessa empatia, rabbia e preoccupazione globale riservate alle altre donne, affermando che "l'indignazione [era evidente in] tutti i precedenti casi di violenza sessuale commessi nel mondo". La Mendes ha scritto:
"Noi donne israeliane siamo rimaste stupite del silenzio della maggior parte delle nostre sorelle [in tutto il mondo]. La maggior parte dei gruppi che si battono per i diritti delle donne deve ancora condannare la violenza perpetrata lo scorso 7 ottobre contro le nostre madri, figlie, zie, cugine, nonne e vicine di casa. Solo in questo caso, nella recente storia della sorellanza moderna, noi donne israeliane siamo state abbandonate: siamo sole. Anche se ho marciato per sostenere i diritti delle donne, la maggior parte delle donne rimaste in silenzio in tutto il mondo ora non riesce né a vedere me né il nostro dolore. Alcune arrivano addirittura a negare che la violenza sessuale sia avvenuta anche qui. È difficile comprendere il livello di odio necessario per rinunciare alla sorellanza, soprattutto in un momento in cui noi donne israeliane (di tutte le religioni, tra l'altro) ne abbiamo più bisogno".
Nonostante gli orrori vissuti dalle donne ebree, cristiane e yazide per mano dei jihadisti dell'ISIS, di Hamas, della Jihad Islamica e di Fatah, la maggior parte delle organizzazioni per i diritti delle donne in Occidente è rimasta apatica e in silenzio. Purtroppo, nessuna attivista è scesa nelle strade per far sentire la propria voce e denunciare la condizione di quelle donne e quei minori non musulmani che sono stati e continuano ad essere violentati, straziati e tenuti in ostaggio da uomini musulmani. Per quanto riguarda il gran numero di donne israeliane che sono state brutalmente stuprate il 7 ottobre dai terroristi di Hamas e dai loro sostenitori, molte organizzazioni per i diritti delle donne hanno totalmente ignorato l'atrocità di tali abusi, rifiutandosi di credere alle donne israeliane e a tutte le prove davanti ai loro occhi. Nel caso di altre organizzazioni, ci sono voluti mesi per rilasciare una semplice dichiarazione che condannasse gli stupri e le aggressioni sessuali contro gli israeliani.
I veri difensori dei diritti delle donne non discriminerebbero le vittime in base alla loro religione o etnia e avrebbero documentato quei casi di stupro di massa e tortura sessuale. Purtroppo è avvenuto il contrario.
Grazie al silenzio totale o all'apatia di quelle organizzazioni nel condannare gli stupri, i propagandisti anti-israeliani hanno costruito una narrazione pro-Hamas e hanno facilmente indotto gran parte dell'opinione pubblica a ignorare o negare che la guerra di Israele contro gli stupratori e gli assassini di Hamas è necessaria per salvare più di 250 ostaggi.
L'odio verso Israele da parte di questi gruppi ha reso questi ultimi indifferenti alle sofferenze delle donne che sono ebree. Di fatto, il loro silenzio e la loro negazione non hanno fatto altro che nascondere e favorire i crimini di Hamas e di altri gruppi terroristici. Nell'aprile scorso, la ONG CyberWell ha pubblicato un report sulla diffusa negazione online della violenza sessuale perpetrata da Hamas il 7 ottobre. Man mano che la documentazione riguardante le aggressioni sessuali contro gli israeliani continuava ad affluire dopo il 7 ottobre, scrive la professoressa Stacy Keltner, le organizzazioni internazionali sono rimaste misteriosamente in silenzio. La Women's Alliance for Security Leadership, ad esempio, non ha ancora rilasciato alcuna dichiarazione.
Numerosi gruppi per i diritti umani e femministi, come Amnesty International e l'Organizzazione Nazionale per le Donne, hanno detto poco in merito ai crimini sessuali commessi dagli abitanti di Gaza contro gli israeliani. L'Entità delle Nazioni Unite per l'Uguaglianza di Genere e l'Empowerment femminile (nota anche come UN-Women) ha aspettato fino al 1° dicembre, quasi due mesi dopo il massacro del 7 ottobre, per rilasciare una superficiale dichiarazione di condanna.
Tra le altre cose, il 13 ottobre, UN-Women ha diffuso una dichiarazione in cui equipara le brutalità di Hamas all'autodifesa di Israele. Allo stesso modo, il Comitato delle Nazioni Unite per l'Eliminazione della Discriminazione contro le Donne (CEDAW) non ha esplicitamente condannato le atrocità di Hamas. E il movimento internazionale #MeToo non ha assolutamente menzionato Hamas né le vittime israeliane. Per le altre organizzazioni che sono rimaste in silenzio o hanno speso pochissime parole in merito agli stupri degli israeliani da parte dei terroristi palestinesi, si veda questo report.
Quando si tratta di donne israeliane vittime di abusi e stupri, le organizzazioni per i diritti delle donne e i diritti umani hanno scelto di stare dalla parte degli stupratori e degli assassini e di favorire il terrorismo jihadista.
*Uzay Bulut, una giornalista turca, è Distinguished Senior Fellow presso il Gatestone Institute.
(Gatestone Institute, 11 luglio 2024 - trad. di Angelita La Spada)
Un sondaggio condotto su ottomila ebrei provenienti da tredici paesi europei ha rilevato che il 96 per cento degli intervistati dice di incontrare l’antisemitismo nella propria vita quotidiana, ha riferito l’Agenzia per i diritti fondamentali della Ue, che ha condotto il più approfondito sondaggio dopo il 7 ottobre. Il 76 per cento degli intervistati ha riferito di nascondere la propria identità ebraica “almeno occasionalmente” e il 34 per cento di evitare eventi o siti ebraici “perché non si sente sicuro”. Intanto ogni giorno si assalta un simbolo della Shoah.
A maggio, il muro dei Giusti presso il Memoriale dell’Olocausto di Parigi è stato vandalizzato con le mani rosse, riferimento diretto al massacro da parte della folla palestinese di due riservisti israeliani a Ramallah il 12 ottobre 2000, all’inizio della Seconda intifada. Ieri, rettangoli gialli con scritto “Palestina libera” sono stati attaccati sulla targa che ricorda la deportazione di diciannove bambini ebrei da Saint-Denis ad Auschwitz-Birkenau. “La profanazione di un monumento commemorativo è di una gravità senza precedenti”, ha reagito il sindaco Mathieu Hanotin. “Saint-Denis è una città multiculturale”. Una scritta in vernice rossa, “Gaza”, è stata lasciata sul piedistallo in marmo della statua di Anne Frank nel parco del quartiere in cui viveva con la famiglia ad Amsterdam. “Davvero vergognoso che qualcuno pensi di attirare l’attenzione sulla causa palestinese imbrattando l’immagine di Anne Frank”, ha dichiarato Stijn Nijssen, consigliere della città olandese.
Nelle scorse settimane, anche il memoriale della Shoah di Berlino veniva vandalizzato, mentre sempre ad Amsterdam migliaia di manifestanti in nome di Gaza e della “pace” assediavano con mezzi poco pacifici il nuovo museo della Shoah e fischiavano il re dei Paesi Bassi e il presidente israeliano Isaac Herzog. Una conferenza in Olanda nel campo di transito nazista di Westerbork è stata cancellata a causa delle minacce. A Londra, a Hyde Park, la polizia ha coperto con un grande telo blu la stele commemorativa della Shoah per timore di attacchi, come è successo alla statua di Winston Churchill davanti a Westminster. Sempre a Berlino, la cupola di al Aqsa di Gerusalemme è stata disegnata sul monumento al Kindertrasnport, che commemora il salvataggio di diecimila bambini ebrei dalla Germania nazista. A Fléron, in Belgio, ecco comparire la scritta “Gaza Free” sulla porta di casa di un sopravvissuto alla Shoah. Lo stesso avviene negli Stati Uniti, da Philadelphia a Seattle, dove il museo dell’Olocausto è stato vandalizzato con la scritta “genocidio a Gaza”.
Non è occasionale vandalismo, è una strategia di brutalizzazione e appropriazione dello sterminio degli ebrei dopo il 7 ottobre. E’ come quando gli ayatollah iraniani negano la “menzogna” della Shoah per annunciare la distruzione del “tumore sionista”. Lo ha scritto sui social l’ex presidente della Malesia, Mahathir Mohamad: “Il potere degli israeliani sui palestinesi è lo stesso che avevano i nazisti sugli ebrei”.
Chiunque sappia qualcosa di Shoah deve impegnarsi molto per trovare paralleli con Gaza. Ma il consigliere Nijssen si sbaglia: un’immagine di Anne Frank con la kefiah palestinese è molto popolare in Europa. E’ sufficiente scorrere quanto ha scritto la stampa dopo il 7 ottobre. “Ricordiamo la Shoah pensando a Gaza” (il Secolo XIX), “La Shoah dopo Gaza” (London Review of Books), fino ai vari circoli dell’Anpi che organizzano convegni su “Shoah e genocidio a Gaza”. Non offende il volto di Anne Frank negli account di X del Bds, il boicottaggio di Israele. O il film palestinese “Anne Frank: then and now”, proiettato durante la guerra a Gaza del 2014.
Il fallimento dell’educazione sulla Shoah è stato osservato con maggiore acutezza da Dara Horn, in particolare in un saggio preveggente per l’Atlantic la scorsa primavera e prima ancora in un libro, People Love Dead Jewish, la gente ama gli ebrei morti (ora neanche quelli, a quanto pare). Dopo aver visitato numerosi musei e aver parlato con gli educatori che insegnano i programmi sulla Shoah, Horn concludeva: “Il presupposto fondamentale che dura da quasi mezzo secolo è che conoscere l’Olocausto vaccina le persone contro l’antisemitismo. Ma non è così”. Per questo attaccano i memoriali in Europa. Se Anne Frank fosse viva, non potrebbe oggi girare con una stella di David al collo per le vie di Amsterdam e di molte altre città europee.
Fra le vignette premiate dal regime iraniano, una mostra Anne Frank a letto con Hitler, che le dice: “Scrivi questo nel tuo diario”.
Arrivati a Kadèsh, il popolo si lamentò con Moshè e Aharon per mancanza d’acqua dicendo: “Perché avete condotto il popolo dell’Eterno in questo deserto per fare morire noi e il nostro bestiame?” (Bemidbàr, 20:4). L’Eterno parlò con Moshè e gli disse di prendere il suo bastone e di andare con Aharon a parlare alla roccia e di farne uscire acqua alla presenza del popolo. Arrivati alla roccia Moshè disse al popolo: “Ora ascoltate, o ribelli; vi faremo uscire dell’acqua da questa roccia? E Moshè alzò la mano, percosse la roccia col suo bastone due volte, e ne uscì acqua in abbondanza; e la comunità e il suo bestiame bevvero. Poi l’Eterno disse a Moshè e ad Aharon: Siccome non avete avuto fiducia in me per dar gloria al Mio santo nome agli occhi dei figli d’Israele, voi non condurrete questa comunità nel paese che do a loro”(ibid., 10-12).
Nella Torà non è specificato quale fu la mancanza di Moshè e di Aharon che fu causa della grave punizione di non entrare nella Terra Promessa. Così tutti i commentatori offrono diverse spiegazioni.
Rashì (Troyes, 1040-1105) spiega che la mancanza di Moshe e di Aharon fu di colpire col bastone invece di parlare alla roccia. Il Maimonide (Cordova, 1138-1204, Il Cairo), sostiene che la mancanza di Moshè fu di adirarsi con il popolo. R. Chananel (Tunisia, 990-1053) afferma che il peccato fu di dire “faremo” invece di dire “Il Signore farà uscire acqua da questa roccia”. R. Bachya ben Asher (Spagna, 1255–1340) sostiene che le spiegazioni fornite da questi commentatori non sono soddisfacenti. Ed egli trova modo di giustificare il comportamento di Moshè e di Aharon.
R. Yechiel Ya’akov Weinberg (Polonia, 1884-1966, Montreux) in Lifrakìm (pp. 74-84) cita una lezione del suo maestro, r. Nathan Tzvi Finkel (Lituania, 1849-1927, Gerusalemme) fondatore della Yeshiva di Slobodka e influente insegnante di etica ebraica. Per gettare un po’ di luce sull’episodio egli cita i Maestri che nel trattato talmudico Yevamòt (121b) affermano che il Santo Benedetto è assai esigente con i giusti che gli sono vicini, così che anche lievi deviazioni possono suscitare una severa punizione. La punizione di Moshè e di Aharon non derivava da quello che avevano fatto, ma dall’aver perduto l’opportunità di far meglio e di avere un effetto sulla storia futura.
Citando la lezione di r. Finkel, r. Weinberg scrive: Immaginiamo per un momento se Moshè, non appena il popolo avesse iniziato a lamentarsi, fosse uscito di fretta e avesse detto al popolo: ascoltatemi miei cari fratelli. Il Santo Benedetto ha visto la vostra sofferenza; mi ha rimproverato per il fatto che non sono uscito da voi prima per annunciare che la salvezza dell’Eterno arriva in un attimo. Presto avrete acqua in abbondanza per voi, per i vostri figli e per il vostro bestiame. Se Moshè avesse fatto così gli israeliti avrebbero iniziato a danzare di gioia e avrebbero circondato il loro fedele leader baciandogli le mani e gli angoli della sua tunica. Dopo avere bevuto e avere calmato la figliolanza, il leader fedele si sarebbe avvicinato a loro dicendo: cari fratelli, ora ringraziamo l’Eterno per la sua benevolenza. Hodu’ laShem ki tov ki le’olam chasdò (Lodate l’Eterno perché è buono, perché perenne è la Sua bontà). Gli anziani ed il popolo sentendo queste parole dalla bocca del grande profeta si sarebbero prostrati a terra dicendo: Benedetto il Nome del Suo glorioso regno in eterno. Queste voci sarebbero arrivate fino in cielo e avrebbero avuto un effetto su tutti gli abitanti della terra, se Moshè nostro maestro avesse fatto così…
Ma Moshè non fece così e questo grande momento storico fu sprecato.
Israele – Ancora missili ma si guarda al dopo-Hamas
A nord e al sud d’Israele sono tornati a suonare gli allarmi antimissile. Nel kibbutz Kabri, nella Galilea occidentale, un drone di Hezbollah è esploso ferendo gravemente una persona. Nel sud Hamas ha sparato da Rafah, uno dei luoghi al centro delle operazioni di Tsahal, sette razzi contro Israele. Sono stati tutti intercettati e la postazione di lancio è stata distrutta, ha reso noto l’esercito.
In questo quadro di guerra – il 279esimo giorno –, qualche spiraglio per una tregua arriva dai negoziati indiretti tra Gerusalemme e Hamas. Le parti hanno trovato un’intesa su un punto centrale del piano in tre fasi per il cessate il fuoco: il controllo di Gaza. Secondo l’analista del Washington Post David Ignatius, nella seconda fase la gestione della sicurezza sarà affidata a una nuova forza palestinese, sostenuta da alcuni paesi arabi moderati, composta da 2500 uomini legati all’Anp e verificati da Israele. Sarebbe un cambiamento radicale per l’enclave, in mano a Hamas dal colpo di stato del 2007. L’intesa su questo punto, avverte Ignatius, è un passo avanti, ma ci sono ancora molti ostacoli per arrivare alla tregua in cambio del rilascio degli ostaggi.
Una soluzione apertamente auspicata dal capo delle forze armate israeliane Herzi Halevi. Un accordo per riportare a casa i rapiti, ha affermato, «incarna i valori fondamentali di una società che dà valore alla vita». Intervenendo a una cerimonia presso l’accademia militare di Gerusalemme, Halevi si è soffermato sulla complessità del conflitto a Gaza. «È una guerra diversa dalle altre, contro un’idea estremista e distruttiva, che ha origine in Iran e nelle sue ambizioni di cancellare Israele, con i suoi alleati che si estendono intorno a noi». Per sconfiggere gruppi terroristici «che santificano la morte e si nascondono tra la popolazione» servono operazioni «prolungate, che devono essere gestite con determinazione, pazienza e una visione globale delle risorse militari e civili» in campo. Secondo Halevi sarà possibile sconfiggere «l’ideologia di Hamas smantellando i suoi meccanismi militari e governativi. La vittoria sarà ottenuta attraverso partenariati regionali e globali a lungo termine, con chi capisce che l’Iran» è una minaccia per tutti.
In questo futuro, in particolare a Gaza, Israele vorrebbe vedere ridotta, se non smantellata la presenza dell’Unrwa, l’agenzia Onu per i palestinesi. Il primo ministro Benjamin Netanyahu lo ha auspicato a più riprese, in particolare dopo aver denunciato come diversi dipendenti dell’agenzia siano affiliati a organizzazioni terroristiche. Dall’Unrwa sono arrivate smentite, ma negli scorsi giorni il ministero degli Esteri israeliano ha inviato al capo dell’agenzia, Philippe Lazzarini, una documentazione con i nomi di 108 persone legate a Hamas e Jihad islamica. «Israele si aspetta da voi e dalla vostra organizzazione di porre immediatamente fine all’impiego di qualsiasi membro di Hamas o Jihad islamica, compresi gli individui specifici che appaiono nella lista allegata», si legge nella lettera diffusa in queste ore dai media israeliani.
«Con il Fronte popolare al governo gli ebrei rischiano persecuzioni»
La comunità romana in ansia per la Francia. Dati allarmanti anche nel nostro Paese
di Matteo Ghisalberti
I cittadini francesi di religione ebraica sono sempre più preoccupati per l'evoluzione della situazione politica d'Oltralpe dopo le elezioni legislative anticipate. Anche in Italia ci sono segni di inquietudine, in particolare nella comunità ebraica di Roma. Ieri su Radio Libertà, Johanna Arbib, assessore ai rapporti internazionali della comunità ebraica di Roma, ha evocato i rischi che corrono gli ebrei di Francia nell'eventualità che nasca un governo guidato o formato anche dall'estrema sinistra del Nuovo fronte popolare. «Dopo l'affermazione alle urne di Jean-Luc Mélenchon gli ebrei vivono con grande timore», ha dichiarato Arbib. «Mélenchon al potere oggi per un ebreo in Francia crea un grande problema. Domenica sera abbiamo visto in piazza più bandiere palestinesi che francesi e questo non va bene. Credo che dobbiamo prepararci, e anche Israele si deve preparare. Nei prossimi mesi ci sarà un'emigrazione in massa di ebrei dalla Francia verso Israele». Secondo l'esponente della comunità ebraica romana, ci sono dei precedenti che lasciano pensare che la partenza degli ebrei dalla Francia rappresenterebbe un terremoto per il Paese. «In Nord Africa», ha dichiarato ancora Arbib, «c'erano oltre un milione di ebrei. Oggi non ce ne sono più, e dopo la partenza delle comunità ebraiche questi Paesi sono caduti nell'abisso. E’ questo che si rischia: se parte la comunità ebraica francese, la Francia cade nell'abisso. E’ importante che la comunità ebraica sia salda, aiuta il Paese, fa da deterrente».
I timori di Johanna Arbib sono stati confermati a La Verità da Arié Bensemhoun, ceo di Elnet France, un' organizzazione attiva nell'ambito della collaborazione tra vari Paesi europei e Israele. «Per gli ebrei francesi la situazione è peggiorata già dall'inizio degli anni 2000, con la seconda Intifada e il World Trade Center», spiega Bensemhoun, anche se «dopo i massacri del 7 ottobre 2023, il numero degli atti antisemiti o contro le comunità ebraiche è stato moltiplicato per 1000. Questi atti sono compiuti da persone di estrema sinistra». Secondo il ceo di Elnet France i cittadini francesi di religione ebraica «hanno l'impressione di rivivere ciò che abbiamo vissuto negli anni Venti e Trenta», e quindi decidono di lasciare il Paese. Ma Bensemhoun avverte: «Si dice che dopo il sabato c'è la domenica. Ciò significa che prima si attaccano gli ebrei e poi gli altri». Il responsabile di Elnet usa una metafora preoccupante. «Gli ebrei possono essere paragonati al canarino della miniera», spiega a La Verità, «i minatori tenevano questi uccellini in gabbia perché percepivano le emissioni di gas tossici prima dell'uomo. Quindi se il canarino moriva, i minatori capivano che dovevano andarsene in fretta. Gli ebrei hanno memoria e non possono più fidarsi delle autorità che non sono più in grado di garantire la pace sociale e la sicurezza delle persone. In ogni caso non sono solo gli ebrei a partire per Israele e a fare l'Alyah». Bensemhoun pensa che dopo che gli ebrei se ne saranno andati «assisteremo a una fuga delle élite. Anche loro lasciano la Francia perché si chiedono cosa si potrebbe fare con un governo composto da persone di estrema sinistra come queste». Il nostro interlocutore è convinto però anche di un'altra cosa: «Sono tanti gli ebrei in partenza per Israele o altrove, ma non intendiamo abbassare la testa».
Tornando all'Italia, ieri a Roma sono stati presentati davanti alla Commissione Segre i dati che confermano un aumento impressionante di atti antisemiti nel nostro Paese dopo il 7 ottobre, che passano da 98 a 406. Sempre ieri la senatrice Liliana Segre ha rilasciato un'intervista al quotidiano Frankfurter Allgemeine dichiarando che il premier Giorgia Meloni «ha capito di aver sbagliato su Fanpaqe».(La Verità, 11 luglio 2024)
Servizio militare: il rabbino Dov Landau ordina agli ultraortodossi di "non recarsi agli uffici di reclutamento”
"I tribunali hanno dichiarato guerra al mondo della Torah, e sono loro che hanno aperto un fronte e sono venuti a cambiare un accordo che esiste da anni", scrive il rabbino
Il rabbino Dov Landau
, uno dei principali leader degli ebrei ultraortodossi ashkenaziti in Israele, ha chiesto agli studenti delle yeshiva di non "presentarsi agli uffici di reclutamento dell'IDF".
L'ordine di Landau appare sulla prima pagina dell'edizione odierna di Yated Ne'eman, un giornale affiliato alla fazione non hassidica Degel HaTorah del partito Unified Torah Judaism, un partner chiave della coalizione del Primo Ministro Benjamin Netanyahu.
I tribunali hanno dichiarato guerra al mondo della Torah, e sono loro che hanno aperto un fronte e sono arrivati a cambiare un accordo che esisteva da anni, ordinando all'esercito di iniziare il processo di reclutamento effettivo dei membri delle yeshiva", scrive il rabbino, riferendosi alla recente sentenza della Corte Suprema.
Aggiunge che "poiché le mani dell'esercito sono legate con catene di ferro dai giudici, e poiché qualsiasi adeguamento agli ordini del tribunale equivale a una capitolazione [dei giovani, ndt] nella guerra [dei giudici, ndt] contro Dio e la sua Torah, ai membri delle yeshiva è stato ordinato di non recarsi affatto agli uffici di reclutamento e di non rispondere a nessuna convocazione".
(i24, 11 luglio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Il generale Angelosanto alla Commissione Segre: “Casi di antisemitismo aumentati del 400%. Odio antiebraico minaccia alla sicurezza nazionale”
di Luca Spizzichino
“La minaccia antisemita mira a colpire una parte della popolazione, la minoranza ebraica, incidendo sulla coesione politico-sociale fino a mettere a rischio i principi fondamentali della Repubblica garantiti dalla costituzione, come l’esercizio dei diritti del cittadino”. Con queste parole il generale Pasquale Angelosanto, Coordinatore Nazionale per la lotta contro l’antisemitismo, ha definito di fronte alla “Commissione Segre” la recente recrudescenza dell’odio antiebraico.
Nel corso del suo intervento, l’ex comandante dei ROS dei Carabinieri, ha illustrato i vari dati in merito, citando in particolare i numeri dell’OSCAD, l’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori del Viminale, e del CDEC, il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea. “Dal 7 ottobre sono stati segnalati 406 casi di antisemitismo a fronte dei 98 del periodo precedente, i casi sono quadruplicati, aumentati del 400%” ha affermato il coordinatore, sottolineando che in media si stanno registrando circa 90 casi al mese, contro i 20 cristallizzati nel passato. E ancora, cita i dati sul sentimento antisemita nella nostra società. Secondo il CDEC, “un quinto della popolazione italiana è antisemita”. Mentre secondo la ricerca fatta da Eurispes: il 16% degli intervistati sminuisce la portata della Shoah, il 14% la nega. Di fatto, “Il 30% di italiani minimizza la Shoah”, ha aggiunto il generale.
Il Coordinatore Angelosanto ha inoltre spiegato che “in tempi celeri” verrà presentato il suo piano per contrastare l’antisemitismo puntando in particolare su una migliore raccolta dei dati, concependo “un sistema analitico innovativo, un unico punto di raccolta delle informazioni per ricomporre un’analisi di scenario in grado di elaborare un quadro complessivo da sottoporre al decisore politico insieme a varie opzioni di intervento”.
Per fronteggiare al meglio il crescente clima d’odio, ha sottolineato Angelosanto, è importante considerare l’antisemitismo come un attentato ai fondamenti della Repubblica. Questo, spiega, darebbe “una maggiore concretezza al contrasto dell’antisemitismo, perché dichiarare che è una questione di sicurezza nazionale significa attribuirle una importanza centrale per lo Stato, che quindi dovrebbe adottare provvedimenti adeguati e strumenti repressivi per combattere questa minaccia”.
Al termine dell’audizione ha preso la parola anche la senatrice a vita Liliana Segre. “Quello che mi resta, nel più profondo di me stessa, è un’angoscia che non si ferma mai, uno scoramento profondo. – ha commentato la sopravvissuta alla Shoah – Dopo un secolo c’è un’ignoranza profonda della storia che non mi fa dormire”.
Dopo il 7 ottobre la maggioranza degli israeliani all'estero è affetta da sintomi di PTSD
Secondo uno studio dell'Università di Haifa, oltre il 66% degli israeliani che vivono all'estero soffre di disturbo post-traumatico da stress, con gli intervistati in Italia e nel Regno Unito che sono i più colpiti.
Due israeliani su tre che vivono all'estero hanno sofferto di sintomi di disturbo post-traumatico da stress (PTSD) nei due mesi successivi allo scoppio della guerra contro Hamas nella Striscia di Gaza, secondo uno studio pubblicato martedì dall'Università di Haifa.
Secondo lo studio, redatto dai dottori Yael Mayer e Yael Enav, più del 66% degli israeliani che vivono all'estero soffre di stress post-traumatico, con gli intervistati in Italia e nel Regno Unito che soffrono maggiormente di ansia.
Alla domanda sulle ragioni della loro ansia, il 43% degli intervistati ha dichiarato di essere preoccupato per il benessere dei propri parenti in Israele che hanno prestato servizio nell'IDF, mentre il 33% si è detto preoccupato per la propria famiglia in generale.
Altri studi citati dagli autori mostrano che le cifre sono molto più basse per gli israeliani che vivono nel Paese. Qui, rispettivamente, solo il 15% e il 35% ha dichiarato di aver accusato sintomi di disturbo da stress post-traumatico dopo il 7 ottobre.
Lo studio ha anche rilevato che il 91% degli israeliani residenti all'estero si è trovato di fronte a dichiarazioni anti-israeliane e antisemite nei due mesi successivi al 7 ottobre. Il 66% ha dichiarato di aver avuto paura di recarsi in alcuni luoghi riconoscibili come ebraici o israeliani. Il 56% ha dichiarato di temere per la propria sicurezza e per quella dei propri figli e il 40% ha affermato di sentirsi insicuro a scuola o al lavoro a causa della propria identità israeliana.
"Il nostro studio dimostra che molti israeliani che vivono all'estero provano una serie di sentimenti complessi legati agli eventi del 7 ottobre e alle loro conseguenze, e molti di loro riferiscono alti livelli di traumatizzazione che superano persino alcuni dati di studi condotti su israeliani nel Paese", hanno dichiarato gli autori dello studio.
Lo studio, condotto due mesi dopo l'inizio della guerra e che ha coinvolto 506 persone, non ha riportato un margine di errore.
(JNS)
(Israel Heute, 11 luglio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Il boicottaggio contro Israele si allarga e comincia a pesare
di Anat Peled
Anni di campagne pro-palestinesi per un boicottaggio globale contro Israele hanno trovato un sostegno limitato. Ma nei mesi successivi all’inizio della guerra a Gaza, il sostegno all’isolamento di Israele è cresciuto e si è allargato ben oltre lo sforzo bellico di Israele.
Il cambiamento ha il potenziale di alterare lo sviluppo israeliano, danneggiare le imprese e pesare sull’economia di un Paese di nove milioni di persone che dipende dalla cooperazione internazionale e dal sostegno per la difesa, il commercio e la ricerca scientifica.
Quando a fine maggio un comitato etico dell’Università di Gand in Belgio ha raccomandato di interrompere tutte le collaborazioni di ricerca con le istituzioni israeliane, il biologo computazionale israeliano Eran Segal non se l’aspettava.
Le scienze avevano avuto un impatto limitato dai movimenti di boicottaggio globali, anche a mesi dall’inizio della guerra, e il lavoro di Segal non aveva nulla a che fare con lo sforzo militare israeliano. Le collaborazioni di ricerca dell’università, ha sottolineato il comitato di Gand, includono ricerche sull’autismo, sul morbo di Alzheimer, sulla purificazione dell’acqua e sull’agricoltura sostenibile.
“Le istituzioni accademiche sviluppano tecnologie per i servizi di sicurezza che vengono poi utilizzate in modo improprio per le violazioni dei diritti umani e forniscono formazione ai soldati e ai servizi di sicurezza, che poi utilizzano in modo improprio queste conoscenze per le violazioni dei diritti umani”, ha scritto il comitato.
La dichiarazione è “molto allarmante, molto inquietante”, ha detto Segal, il cui laboratorio presso il Weizmann Institute of Science, a sud di Tel Aviv, ha una partnership di ricerca con l’Università di Gand che si concentra sui fattori che guidano l’obesità. Ha detto di non sapere ancora se il progetto verrà interrotto.
Il comitato ha anche chiesto una sospensione a livello europeo della partecipazione di Israele ai programmi di ricerca e di istruzione, che spesso dipendono dai finanziamenti dell’Unione europea.
Se i partner europei aderissero all’appello, “sarebbe un colpo tremendo alla nostra capacità di fare ricerca scientifica accademica”, ha detto Segal.
L’ondata di nuove iniziative politiche e legali contro Israele è senza precedenti, ha dichiarato Eran Shamir-Borer, ex capo del dipartimento di diritto internazionale dell’esercito israeliano. Esse includono iniziative contro Israele e i suoi leader presso la massima corte delle Nazioni Unite e la Corte penale internazionale.
“Penso che ci sia sicuramente motivo di preoccupazione per Israele”, ha detto Shamir-Borer, ora collaboratore dell’Israel Democracy Institute. “Diventare uno Stato paria significa che, anche se le cose non accadono formalmente, meno aziende sentono di voler investire in Israele, meno università vogliono collaborare con le istituzioni israeliane. Le cose accadono solo quando si ottiene questo status simbolico”.
Gli israeliani si accorgono di non essere più i benvenuti in molte università europee, anche per quanto riguarda la partecipazione a collaborazioni scientifiche. La loro partecipazione alle istituzioni culturali e alle fiere della difesa sta diventando sempre più un tabù. Lidor Madmoni, amministratore delegato di una piccola startup israeliana del settore della difesa, si è preparato per mesi a una fiera internazionale di armi che si terrà a giugno a Parigi. La conferenza, Eurosatory, sarebbe stata una rara opportunità per il suo piccolo staff di espandere la propria attività, ha detto. Poi è arrivata un’e-mail che lo informava che, a causa di una decisione del tribunale francese, alla sua azienda era vietato partecipare.
“Abbiamo l’obbligo di bloccare il vostro accesso alla mostra a partire da domani”, hanno dichiarato gli organizzatori alla vigilia dell’evento, citando le ordinanze del tribunale che hanno fatto seguito al divieto del Ministero della Difesa francese emesso in risposta alle operazioni militari israeliane a Rafah, la città di Gaza dove più di un milione di persone ha cercato rifugio.
Le decisioni francesi hanno “scioccato l’intera comunità” delle aziende israeliane di tecnologia della difesa, ha dichiarato Noemie Alliel, amministratore delegato in Israele di Starburst Aerospace, una società di consulenza internazionale che sviluppa e investe in startup nel settore aerospaziale e della difesa. Gli organizzatori della conferenza hanno dichiarato di aver fatto appello per ribaltare la decisione del tribunale e hanno comunicato alle aziende israeliane in un’e-mail che stavano facendo tutto il possibile per consentire loro di partecipare.
Dopo l’apertura della conferenza, un tribunale francese ha annullato il divieto, ma per Madmoni era troppo tardi. Molte aziende israeliane si erano già ritirate.
Il movimento Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni, formato nel 2005 da organizzazioni della società civile palestinese, ha chiesto per anni di usare la pressione internazionale su Israele per promuovere i suoi obiettivi, che includono la creazione di uno Stato palestinese indipendente e la conquista del diritto dei rifugiati palestinesi e dei loro discendenti a vivere in Israele. Ma il movimento ha trovato un sostegno limitato.
L’ambiente è cambiato dopo che Israele ha risposto all’attacco guidato da Hamas del 7 ottobre, che ha ucciso più di 1.200 persone, per lo più civili, con circa 250 ostaggi portati a Gaza.
Alcuni obiettivi di lunga data del BDS e di altre organizzazioni pro-palestinesi si stanno realizzando come risultato della guerra. Mesi di combattimenti, il tributo umano e le immagini di devastazione a Gaza hanno alimentato l’opposizione internazionale al modo in cui Israele ha condotto la guerra.
“Quando le aziende e le istituzioni israeliane saranno isolate, Israele troverà più difficile opprimere i palestinesi”, afferma il BDS sul suo sito web.
Quando è iniziata la guerra, sono iniziati nuovi boicottaggi, soprattutto da parte di dipartimenti di scienze umane e sociali, ha detto Netta Barak-Corren, una professoressa di legge che dirige una task force antiboicottaggio formata durante la guerra all’Università Ebraica di Gerusalemme.
I boicottaggi hanno iniziato ad allargarsi circa due mesi fa, estendendosi alle scienze dure e al livello universitario: “movimenti a livello universitario e soprattutto decisioni di tagliare tutti i legami con le università israeliane e gli accademici israeliani”, ha detto.
Più di 20 università in Europa e in Canada hanno adottato tali divieti.
Una studentessa israeliana che si stava preparando a studiare all’Università di Helsinki ha detto che stava già cercando un alloggio in Finlandia, quando a maggio la scuola non le ha comunicato di aver sospeso gli accordi di scambio con le università israeliane.
L’Università di Helsinki ha smesso di inviare studenti in Israele dopo il 7 ottobre e ha deciso di sospendere gli scambi a maggio per esprimere la sua preoccupazione per il conflitto, ha dichiarato Minna Koutaniemi, responsabile dei servizi di scambio internazionale della scuola. L’università non intende limitare la collaborazione dei suoi ricercatori con gli israeliani.
I boicottaggi stanno prendendo piede in tutto lo spettro accademico. A maggio, Cultural Critique, una rivista pubblicata dalla University of Minnesota Press, ha comunicato a un sociologo israeliano che il suo saggio non era stato preso in considerazione perché, a loro avviso, era affiliato a un’istituzione israeliana.
La rivista ha detto allo studioso che segue le linee guida del BDS, “che includono il ‘ritiro del sostegno dalle istituzioni culturali e accademiche di Israele'”.
Cultural Critique si è successivamente scusata per aver escluso l’articolo sulla base dell’affiliazione accademica dello studioso e ha modificato il suo sito web per dire che i contributi sarebbero stati valutati “senza considerare l’identità e l’affiliazione dell’autore”. Ha invitato lo studioso a ripresentarsi.
I leader israeliani hanno a lungo criticato le iniziative di boicottaggio. A maggio il presidente Isaac Herzog ha dichiarato a una conferenza economica che i nemici di Israele “stanno cercando di isolarci per danneggiarci”.
“Il nemico, l’impero del male dell’Iran e i suoi proxy, insieme a vari promotori di boicottaggi, stanno tentando in tutti i modi di danneggiare le connessioni [commerciali] attraverso una campagna internazionale aggressiva e cinica contro di noi”, ha detto.
Tra le crescenti pressioni su Israele, a maggio la Corte internazionale di giustizia dell’ONU ha ordinato a Israele di interrompere le operazioni militari a Rafah e il procuratore della Corte penale internazionale ha richiesto un mandato di arresto per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, il ministro della Difesa Yoav Gallant e i leader di Hamas, accusandoli di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. L’amministrazione Biden ha criticato la mossa del procuratore della CPI.
Gli Stati Uniti, alleati convinti di Israele, hanno imposto sanzioni non a Israele, ma ai gruppi israeliani che si ritiene agiscano illegalmente per danneggiare i palestinesi, tra cui i coloni coinvolti in attacchi violenti in Cisgiordania e i gruppi estremisti coinvolti nell’interruzione delle consegne di aiuti a Gaza.
Il settore delle esportazioni israeliane nel settore della difesa – fiorente prima della guerra, con un record di 13 miliardi di dollari di vendite nel 2023 – ha avuto il sentore a marzo di poter essere un bersaglio, quando il Cile ha impedito alle aziende israeliane di partecipare alla più grande fiera aerospaziale dell’America Latina. A giugno è seguito il divieto della Francia.
Gli Stati Uniti forniscono a Israele più di 3 miliardi di dollari in aiuti militari ogni anno e hanno fornito un’ondata di spedizioni di armi dopo il 7 ottobre. I funzionari statunitensi hanno dichiarato che da allora le spedizioni sono rallentate perché molte armi sono già state inviate e il governo israeliano ha presentato un numero inferiore di nuove richieste. Alcune organizzazioni non governative sono andate in tribunale per contestare la vendita di armi a Israele da parte dei governi, tra cui Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Francia e Danimarca.
Alla luce della guerra a Gaza, il Canada ha dichiarato che non venderà armi a Israele.
In Europa, i gestori di fondi stanno rivedendo le loro posizioni alla luce della guerra, ha dichiarato Kiran Aziz, che controlla le partecipazioni del più grande fondo pensionistico privato norvegese, il KLP, alla ricerca di attività contrarie alle sue linee guida etiche.
“So che questo è un aspetto che tutti stanno esaminando”, ha detto.
Il KLP ha scaricato oltre 68 milioni di dollari in azioni della società statunitense Caterpillar alla fine di giugno, citando una dichiarazione della commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite che affermava che i trasferimenti di armi a Israele potevano violare i diritti umani e le leggi umanitarie internazionali e invitava 11 multinazionali – tra cui Caterpillar – a porre fine alle esportazioni verso Israele.
Le collaborazioni internazionali di Israele continuano comunque. Più di 1.000 artisti scandinavi hanno firmato una petizione, non andata a buon fine, per bandire Israele dall’Eurovision Song Contest. La cantante Eden Golan ha rappresentato Israele alla finale in Svezia a maggio, classificandosi quinta dopo aver eseguito una canzone che ha detto essere ispirata all’attacco del 7 ottobre a Israele. Un membro della giuria norvegese ha dichiarato di non aver assegnato alcun punto a Israele a causa delle sue azioni a Gaza, una violazione delle regole dell’Eurovision che vietano ai giudici di assegnare punti in base alla nazionalità di un artista.
Ma alcuni artisti creativi all’estero stanno tagliando i ponti con Israele. Dall’inizio della guerra, alcune decine di autori, la maggior parte dei quali americani, hanno rifiutato di far tradurre i loro libri in ebraico e di venderli in Israele, ha dichiarato Efrat Lev, direttore dei diritti esteri presso l’agenzia letteraria Deborah Harris Agency in Israele.
Un autore che aveva lavorato con l’agenzia e aveva scritto un libro per giovani adulti incentrato sull’accettazione dei queer ha rifiutato di pubblicare un secondo libro in Israele, sebbene fosse già stato firmato un contratto e fosse in corso una traduzione in ebraico, ha detto Lev.
“Sentivo che era un libro importante per i ragazzi israeliani che stanno vivendo esperienze simili”, ha detto Lev. “Questo mi ha spezzato il cuore”.
Due fatti di cronaca recente confermano molto bene il corto circuito che ha colpito il mondo ebraico italiano da molto tempo a questa parte. Il primo è relativo ad un video diffuso da Fanpage, che ha documentato, il mai superato antisemitismo di una parte della destra rappresentata dal partito FdI. L’altro è un video di tale Cecilia Parodi che, al limite di un isterismo delirante, vomita auguri di morte per impiccagione a «tutti gli ebrei e ai loro amici». Questa “performer” si scopre poi essere una assidua frequentatrice di iniziative legate al PD. Mentre il primo video ha causato una levata di scudi generale con tanto di richiesta – legittima – di indagine da parte della Commissione Segre sull’antisemitismo, il secondo è passato in sordina senza che nessuno richiedesse l’intervento della Commissione, senza che se ne parlasse sui giornali (ad esclusione di Libero) o in TV. La stessa senatrice Segre, che dopo aver visto il video dei giovani neofascisti, ha dichiarato «dovrò essere cacciata nuovamente dal mio paese?» esprimendo così tutta la sua preoccupazione, non ha rilasciato nessuna dichiarazione in merito all’augurio di impiccagione di tutti gli ebrei rilasciata dalla “performer” in odore di PD. Perché questo doppio standard?
Si ha la netta sensazione che la autoproclamata “società civile” e il mondo ebraico italiano, in maggioranza legato alla sinistra, siano vittime di una dissonanza cognitiva che non permetta loro di cogliere il pericolo rappresentato dall’antisemitismo assai diffuso a sinistra e sempre meno mascherato da antisionismo.
L’attuale situazione ricorda molto da vicino la crisi del mondo ebraico del 1939, quando l’Unione Sovietica di Stalin si alleò con la Germania nazista di Hitler, o quella del 1967 quando sempre l’Unione Sovietica (e tutti i partiti comunisti europei) girò le spalle, definitivamente, a Israele e divenne il fulcro della propaganda antiebraica ammantata di antisionismo per renderla più credibile ai seguaci dei “diritti umani” à la carte. In tutti questi casi il mondo ebraico non reagì al pericolo rappresentato dall’antisemitismo di sinistra e gli effetti si vedono molto bene oggi.
Oggi, il vero pericolo antisemita si è sedimentato soprattutto nella sinistra e non nella destra dello schieramento politico. È la sinistra oggi che detiene quella “supremazia culturale” che negli anni Trenta era esercitata dalla destra: si ha la convinzione che l’antisemitismo dei fascisti e dei nazisti venisse dal basso, fosse, cioè, una prerogativa della classe meno scolarizzata ma non era così; l’antisemitismo era propagandato nelle università, nei giornali, alla radio o al cinema. Fu l’influenza di numerosi cattivi maestri nelle università, nei salotti buoni che permise all’antisemitismo di avere la possibilità di diventare istituzionalizzato, di diventare legge di Stato e non perché circoli di fanatici analfabeti esprimessero il loro odio antiebraico. In Italia è grazie a persone come Agostino Gemelli, come Gaetano Azzariti, o professori universitari come Lidio Cipriani, Sabato Visco e moltissimi altri, che si è arrivati al “Manifesto della razza” o alle leggi razziali e non per la volontà di esponenti poco scolarizzati di qualche federazione giovanile. Allo stesso modo si possono ricordare Martin Heidegger in Germania e Louis-Ferdinand Céline in Francia per citare solo i casi più eclatanti.
È la propaganda nelle università e nei mass media, ora come allora, il pericolo maggiore per la diffusione dell’odio antisemita. Perché è questo tipo di antisemitismo quello che penetra come il veleno nel corpo della società civile e lo altera e lo corrompe. I giovani universitari di oggi saranno le élite di domani: professori, avvocati, magistrati, insegnati, medici ecc. e il loro trascorso universitario li seguirà nelle mansioni future con il riverbero antisemita respirato negli atenei.
Dalla reazione delle comunità ebraiche italiane a questa diffusione di odio, sembra che non ci sia consapevolezza di questo ma si stigmatizza unicamente l’odio della destra, che per quanto odioso e rozzo non è altrettanto pericoloso come quello di sinistra. Questo perché oggi l’antisemitismo di destra è “incapsulato” in sacche che non incidono nell’opinione pubblica, sono una minoranza residuale e fisiologica che va combattuta anche se non è contagiosa come quella di sinistra. Perché l’antisemitismo di sinistra è molto più pericoloso?
Perché ha accesso alla televisione, ai giornali e soprattutto nelle università. Poi, nel corso degli anni si è diffuso nelle ONG, che sono diventate le indiscusse paladine dei diritti umani, e infine, nelle istituzioni internazionali come l’ONU, il Tribunale Penale Internazionale o la Corte di Giustizia Internazionale. Cioè è stato sdoganato a tutti i livelli fino a diventare istituzionalizzato. Come è potuto accadere?
È potuto accadere con l’operazione semantica di sostituire termini come “popolo ebraico” con “Israele” e “antisemita” con “antisionista” per poi potere accusare gli ebrei di qualche malefatta e arrivare a “performer” come Cecilia Parodi che si augura di vedere tutti gli ebrei e loro amici impiccati. In questo modo l’antisemitismo di sinistra diventa “credibile” e perfino “rispettabile” perché utilizza termini sensibili come “diritti umani violati”, “genicidio”, “apartheid” ecc. Così antiche forme di antisemitismo vengono reintrodotte, modernizzate e legittimate nelle università, nei media e nelle manifestazioni.
Purtroppo molti esponenti ebrei di sinistra, anziché, condannare questa deriva, negano la sua natura antisemita spostando soprattutto l’attenzione alla “legittima critica a Netanyahu” non capendo, o fingendo di non capire, che il vero obiettivo da delegittimare e in ultima analisi da eliminare è Israele o in altri termini il popolo ebraico.
Quando non ci sarà più Netanyahu da colpevolizzare l’odio antisemita non cesserà affatto ma assumerà altre forme di “critica legittima” che molti ebrei giustificheranno in una sorta di eterna sindrome da ghetto.
La storia di come Abeed Shtayyeh, che ha ucciso due soldati israeliani, sia sfuggito alla giustizia è la storia dell’Autorità Palestinese (AP) in miniatura. Ha profonde implicazioni per il Medio Oriente. Il 29 maggio, Shtayyeh si è avvicinato al checkpoint israeliano fuori Nablus, ha investito due soldati ed è fuggito a Nablus. I soldati Eliya Hilel e Diego Shvisha Harsaj hanno riportato ferite critiche e sono stati dichiarati morti. Dopo che l’IDF ha lanciato una caccia all’uomo, Shtayyeh si è consegnato alla polizia palestinese. Gli accordi di Oslo stabiliscono cosa sarebbe dovuto accadere dopo: Le forze di sicurezza dell’Autorità palestinese, che ricevono addestramento e finanziamenti dagli Stati Uniti e da altri governi stranieri, avrebbero dovuto consegnare Shtayyeh a Israele per essere processato. Questo processo è stato creato per prevenire le incursioni israeliane nelle aree controllate dall’Autorità Palestinese e per smorzare le tensioni dopo gli atti di terrorismo, consentendo all’Autorità Palestinese di costruire una credibilità come partner per la pace. Se Shtayyeh avesse creduto che tutto questo sarebbe accaduto davvero, è improbabile che si sarebbe costituito. Ma aveva tutte le ragioni per credere che lui, come centinaia di terroristi prima di lui negli ultimi 30 anni, sarebbe stato protetto dall’AP. Nei primi anni del quadro di Oslo, l’Autorità palestinese ha compiuto gesti sommari, detenendo i terroristi per settimane o addirittura mesi prima di rilasciarli. Con il passare del tempo, anche questa farsa è stata abbandonata. Shtayyeh rimase sotto la custodia delle forze di sicurezza dell’AP solo per poche ore. Più di un mese dopo il duplice omicidio, è ancora in libertà. Il caso di Shtayyeh non è insolito. L’Autorità palestinese non si preoccupa più di spacciare il mito della partnership contro il terrorismo. A marzo il think tank israeliano Regavim ha identificato quasi 80 ufficiali delle forze di sicurezza dell’AP che sono stati uccisi o arrestati mentre compivano attacchi terroristici contro gli israeliani solo negli ultimi tre anni. La stessa AP si vanta di avere più di 2.000 “martiri”. Molti ufficiali delle Forze di Sicurezza dell’AP sono anche membri di organizzazioni terroristiche designate a livello internazionale e sono attivamente impegnati nel terrorismo. Se questo è sempre stato il caso, oggi l’Autorità Palestinese incoraggia, finanzia ed esalta con orgoglio questo terrorismo. Ciò include il suo famigerato programma “paga per uccidere” per i terroristi e le famiglie dei terroristi che attaccano gli israeliani – compresi gli autori di Hamas del massacro del 7 ottobre. È ora di smettere di nascondere la testa sotto la sabbia. L’Autorità palestinese e le sue forze di sicurezza non sono partner nella lotta contro il terrorismo, sono terroristi al pari di Hamas. L’AP non è mai stata una forza moderatrice. Nei decenni successivi a Oslo, ha affinato le sue abilità come forza omicida. Israele non può permettersi di stare al gioco e l’opinione pubblica israeliana non se la beve più. La nuova grande idea della sinistra per il futuro, dare potere all’Autorità palestinese e consegnarle uno Stato sovrano nel cuore di Israele e della Striscia di Gaza, è la stessa che ha ucciso israeliani per decenni. Se mi freghi una volta, vergognati; se mi freghi due volte, vergognati. Non ci faremo fregare di nuovo.
Sondaggio: Netanyahu si indebolisce, ma la destra israeliana resta forte
L'opinione pubblica israeliana è favorevole a un governo conservatore di destra, ma non necessariamente guidato da Netanyahu.
di Ryan Jones
GERUSALEMME - Le manifestazioni settimanali antigovernative, per lo più di sinistra, in Israele sono ampiamente trattate dai media, dando l'impressione che l'umore politico nello Stato ebraico sia cambiato radicalmente a seguito della guerra.
Tuttavia, un nuovo sondaggio mostra ancora una volta che, sebbene l'opinione pubblica israeliana sia fortemente di destra, il mandato di Benjamin Netanyahu come primo ministro potrebbe essere giunto al termine.
In primo luogo, va sottolineato che se gli israeliani hanno perso fiducia in Netanyahu in generale, questo vale anche per tutti gli altri leader dei partiti presenti alla Knesset.
Nel sondaggio condotto da i24News, la maggioranza degli intervistati ha dichiarato di non essere particolarmente entusiasta di nessuno degli attuali candidati a primo ministro.
- Tra Benjamin Netanyahu e il leader del Partito di Unità Nazionale Benny Gantz, il 31% sceglierebbe Gantz, il 27% Netanyahu e il 42% nessuno dei due.
- Tra Netanyahu e l'attuale leader dell'opposizione Yair Lapid: il 31% preferisce Netanyahu, il 29% Lapid e il 40% nessuno dei due.
L'unico candidato in netto vantaggio su Netanyahu è l'ex premier Naftali Bennett, che però si è ritirato dalla politica.
• LA COALIZIONE SI SGRETOLA, MA LA DESTRA RESTA FORTE
Se le elezioni si tenessero oggi, la prossima Knesset avrebbe questo aspetto, secondo il sondaggio di i24News:
Unità Nazionale (Benny Gantz): 22 seggi
Likud (Netanyahu): 21 seggi
Yesh Atid (Yair Lapid): 15 seggi
Israel Beiteinu (Avigdor Liberman): 14 seggi
Shas (partito ultraortodosso): 11 seggi
Otzma Yehudit (Itamar Ben-Gvir): 10 seggi
United Torah Judaism (partito ultraortodosso): 8 seggi
I Democratici (Partito laburista-Alleanza di sinistra Meretz): 8 seggi
Ra'am (Mansour Abbas): 6 seggi
Lista Araba Unita: 5 seggi
Il Sionismo Religioso (Bezalel Smotrich) e Nuova Speranza (Gideon Sa'ar) non supererebbero la soglia percentuale.
Per quanto riguarda l'attuale coalizione, un'analisi superficiale di questi risultati (come offerti dai media mainstream) suggerisce cattive notizie per il governo Netanyahu, che viene dipinto come rappresentante della destra religiosa.
50 seggi per gli attuali partiti della coalizione (Likud, Shas, Laburisti ebrei, UTJ, Sionismo religioso)
65 seggi per l'attuale opposizione (Unità Nazionale, Yesh Atid, Israel Beiteinu, I Democratici, Ra'am)
5 seggi per la Lista araba comune (che non parteciperà a nessun governo "sionista").
Ma c'è altro da considerare.
In primo luogo, nonostante tutte le diffamazioni contro Itamar Ben-Gvir, il suo partito ultranazionalista Otzma Yehudit (Forza Ebraica) si sta rafforzando e passerà dagli attuali 6 seggi a 10 seggi nella prossima Knesset.
E sebbene Otzma Yehudit sia considerato il più religioso dei partiti nazionalisti di destra, anche la sua controparte laica, Israel Beiteinu di Avigdor Lieberman, passerà dagli attuali 6 seggi a 14 seggi nella prossima Knesset.
Ma chi diventerà primo ministro?
Secondo questo sondaggio, i partiti attualmente disposti a sostenere Netanyahu come primo ministro otterrebbero solo 50 seggi. Gantz farebbe quindi quasi certamente il primo tentativo di formare il prossimo governo. Potrebbe anche riuscire a formare una coalizione di maggioranza. Ma quanto durerebbe?
In base ai risultati di cui sopra, la coalizione di Gantz sarebbe composta da partiti con opinioni molto opposte su questioni critiche, in particolare Israel Beiteinu da un lato e i Democratici e Ra'am dall'altro.
Il precedente governo di Lapid e Bennett era altrettanto frammentato e fallì dopo un solo anno.
• L’ALTRA OPZIONE DI DESTRA
È chiaro che l'opinione pubblica israeliana vuole un governo di destra. Se si esclude Netanyahu e ci si limita a considerare i partiti, i risultati dei sondaggi di cui sopra assegnerebbero 64 seggi ai partiti apertamente di destra e/o religiosi (Likud, Israel Beiteinu, Otzma Yehudit, Shas, UTJ).
Considerando che l'Unità Nazionale di Gantz è un partito centrista con parecchi membri saldamente radicati nel campo della destra, la preferenza per una leadership conservatrice diventa ancora più chiara.
Ciò si riflette anche in un'ipotetica opzione presentata nel sondaggio di i24News: una nuova alleanza di destra tra Israel Beiteinu di Liberman, Nuova Speranza di Gideon Sa'ar, un nuovo partito guidato da Bennett e il popolare ex capo del Mossad Yossi Cohen.
In un'elezione che coinvolgesse questa ipotetica fazione, il risultato sarebbe il seguente:
Alleanza Liberman-Sa'ar-Bennett-Cohen : 33 seggi
Likud : 17 seggi
Campo Nazionale : 14 seggi
Yesh Atid : 11 seggi
La distribuzione dei seggi per gli altri partiti rimane sostanzialmente invariata.
Ciò lascia 76 seggi, più o meno, ai partiti apertamente di destra e/o religiosi e altri 14 seggi al centrista Campo Nazionale.
Gli israeliani sono favorevoli a un governo di destra o conservatore, ma non necessariamente con Netanyahu al timone.
• QUANDO SI TERRANNO LE PROSSIME ELEZIONI?
Solo il 42% degli intervistati è favorevole a elezioni anticipate, come richiesto dai manifestanti contro il governo.
Il 55% degli intervistati ritiene che le elezioni dovrebbero svolgersi solo dopo la guerra (33%) o nella data prevista dell'ottobre 2026 (25%).
(Israel Heute, 10 luglio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
E’ stata deturpata la statua di Anna Frank ad Amsterdam. Con la vernice rossa è stato scritto sul monumento della giovane vittima della Shoah “Gaza”. L’episodio è stato condannato dai politici olandesi che hanno chiesto agli eventuali testimoni di denunciare l’accaduto.
“La statua di Anna Frank sulla Merwedeplein nel Rivierenbuurt è stata deturpata con la scritta ‘Gaza’ da un vandalo. È davvero vergognoso che qualcuno pensi di attirare l’attenzione sulla causa palestinese imbrattando l’immagine di Anna Frank, simbolo internazionale della Shoah” ha detto su X il Consigliere comunale Stijn Nijssen.
“Questa giovane ragazza, brutalmente assassinata dai nazisti all’età di 15 anni, ricorda ogni giorno a noi e alla nostra città l’umanità e la gentilezza nelle circostanze più difficili”, ha scritto il sindaco della città Femke Halsema – Chiunque sia stato, si deve vergognare!”
Il Centro per l’informazione e la documentazione israeliana CIDI ha sottolineato sui social media che il vandalismo della statua è un altro esempio di “antisionismo”.
Il Centro Islamico “Iqraa” di Bologna è diventato un trampolino di lancio per continui attacchi contro ebrei, Israele, Stati Uniti e per dichiarazioni a sostegno di Hamas, tutti perpetrati dal locale predicatore pakistano Zulfiqar Khan.
Il vicepremier Matteo Salvini ha suggerito la procedura di espulsione per Khan, mentre due deputati del partito di Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia), Marco Lisei e Sara Kelany, hanno presentato un’inchiesta parlamentare al ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi.
Il Console Onorario di Israele per Lombardia, Emilia-Romagna e Toscana, Marco Carrai, ha annunciato che intenterà una causa contro Khan per le sue dichiarazioni cariche di odio.
Contro ogni logica e buon senso da parte di chi è sotto l’attenzione dei media e delle autorità nazionali, Khan ha risposto in modo aggressivo attaccando pubblicamente, dal pulpito della sua moschea, il vicepremier Salvini, il sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri, Alessandro Morelli, l’eurodeputata Isabella Tovaglieri e la giornalista Federica Orlandi del Resto del Carlino di Bologna.
Come se non bastasse, la pagina Facebook dell’Iqraa Islamic Center ha pubblicato due video di Khan che attacca il giornalista e scrittore italo-egiziano Magdi Cristiano Allam (ex caporedattore del Corriere della Sera), ex musulmano convertito al cristianesimo.
Magdi Allam vive da anni sotto la protezione della polizia, a causa delle numerose minacce di morte ricevute da estremisti islamici.
Negli ultimi due video postati sulla pagina Facebook di Iqraa, Khan ha accusato Allam di “vomitare tutto la sua cattiveria contro l’Islam e il Corano”.
Khan ha inoltre affermato: “Questo Magdi Cristiano Allam, egiziano, era musulmano. In che modo? Non ho bisogno di dire (per fare pubblicità) che tipo di musulmano fosse. Oggi lo conosciamo come Cristiano…”; accusandolo inoltre di essere “lontano dalla religione” e “lontano dalla verità”.
Vale la pena ricordare che Khan ha affermato in più occasioni che, poiché vive in Italia e non in Israele, ha il diritto di dire quello che vuole perché la Costituzione italiana glielo consente; continuerà quindi a “dire la verità”.
Nel novembre 2023, Khan ha dichiarato: “…In Italia, grazie ad Allah, siamo al sicuro e abbiamo il diritto di parola”.
Tuttavia, la “verità” di Khan è piuttosto inquietante, considerando le dichiarazioni che ha fatto, come quella del 26 maggio quando, durante un sermone, ha detto:
“Questi piccoli guerrieri, un gruppo di persone chiamato Hamas. Hanno reso chiaro al mondo che questi sono codardi (Israele, i sionisti), non possono fare nulla contro gli uomini, possono solo agire contro i bambini, contro le donne, contro i civili”. (12:58)
“Abbiamo visto che così tanti fratelli hanno paura di dire che Hamas è un gruppo sincero, mujaheddin, perché hanno bombardato tutti i musulmani in Europa, che devo necessariamente dire che Hamas è un’organizzazione terroristica. Ci hanno provato con me anche dal 7/10 in poi, abbiamo sempre avuto questa posizione secondo cui Hamas non è un’organizzazione terroristica. Stanno difendendo il loro territorio”. BR>
“Ringraziamo Allah attraverso questi guerrieri mujaheddin di Hamas che hanno scoperto questa realtà, questa verità, che questi (israeliani, americani) sono terroristi, sono assassini…” (53:54)
Questa non è la prima volta che Khan esprime punti di vista simili; ad esempio, il 19 aprile, ha affermato che “Hamas, Hezbollah, Siria, Iran e Yemen non vogliono uccidere, non vogliono danneggiare i civili” e successivamente ha invocato: “Quella punizione che aspettiamo arrivi da Allah, con le mani di Hamas e Hezbollah…” (19:29).
Nel maggio 2021, durante un discorso di piazza nella piazza principale di Bologna, “Piazza Maggiore”, citando il Vangelo di Giovanni, Khan ha affermato che “…Gesù Cristo, invece di andare in Giudea, andò in Galilea, perché gli ebrei volevano ucciderlo. Questi ebrei, non dico tutti, ma parte degli ebrei, sono crudeli, sono crudeli, usano l’intelligenza per danneggiare gli altri”.
Durante un altro sermone tenuto il 24 maggio, Khan ha dichiarato:
“Hanno costruito una parola, Semitismo. Il semitismo non esiste. Nessun libro parla di semitismo, di antisemitismo. Questa parola si diffuse dopo il 1781…Poi dopo il 1870 costruirono la parola antisemitismo venuta dalla Germania…”.
E di seguito:
“Semitismo, anche se crediamo che il semitismo esista, questi sionisti non sono semiti…Per questo hanno cancellato [sic] che volevano portare una legge, un regolamento, che deve costituire il DNA di tutti coloro che vivono sulla terra di Israele. Quando si sono resi conto che il DNA non sarebbe andato come volevano”.
Nel novembre 2023, durante il programma televisivo mainstream italiano “Dritto e Rovescio”, Khan ha dichiarato: “Gli israeliti sono terroristi e ingannatori secondo la Bibbia”, aggiungendo che “l’inganno con l’obiettivo dell’interesse personale fa parte della fede ebraica”.
Khan ha anche ripubblicato diverse immagini di terroristi di Hamas con il volto coperto, fasce e armi.
Ieri, martedì 9 luglio 2024, il Ministro dell’Interno italiano ha finalmente risposto all’inchiesta della deputata Sara Kelany su Khan:
“Il suddetto (Khan) risulta essere presidente dell’associazione culturale islamica “IQRAA” con sede a Bologna e, nel ruolo di “esperto” dei precetti della religione islamica, partecipa a numerosi incontri (anche televisivi), dove ha spesso espresso posizioni intransigenti sulle questioni riguardanti l’Occidente, l’omosessualità, il ruolo delle donne e, dopo gli attentati del 7 ottobre, anche sul popolo palestinese e sul governo israeliano, manifestando apprezzamento per l’azione portata avanti da Hamas.
Tali dichiarazioni, riportate anche sui profili social e sul web, sono già state oggetto di informativa presso l’Autorità Giudiziaria, volta a consentire a quest’ultima di effettuare proprie valutazioni in merito all’eventuale rilevanza penale dei contenuti espressi”.
La dichiarazione del Ministro indica che le autorità italiane stanno monitorando e valutando la situazione di Khan.
Il Ministro deve però capire che le dichiarazioni di Khan (comprese quelle sopra menzionate) non sono “posizioni intransigenti”, ma attacchi alla religione ebraica e agli ebrei (non importa se “non tutti”, come spesso Khan sostiene). Sono dichiarazioni di sostegno a Hamas, un’organizzazione terroristica inserita nella lista nera dell’Unione Europea.
Vale anche la pena ricordare che lo scorso aprile un cittadino algerino di 58 anni residente nella città di Udine è stato espulso per aver postato sui social contenuti pro-Hamas e filo-jihadisti palestinesi.
Inoltre, è noto che un cospicuo numero di persone che pubblicavano contenuti pro-Isis sono stati espulsi. Hamas è diverso dall’Isis?
Nella replica di ieri Piantedosi precisa che “dal 1° gennaio 2023 al 5 luglio sono state arrestate 22 persone legate ad ambienti di terrorismo/estremismo religioso”. Non è chiaro cosa significhi il termine “religioso”… Erano tutti islamisti? Se sì, perché non dirlo chiaramente?
È difficile capire perché Khan abbia potuto finora utilizzare il pulpito del suo centro islamico come palcoscenico per una narrazione così pericolosa. Il fatto che Khan ricopra la carica di imam (in una grande città del nord Italia) non fa altro che rendere il suo caso ulteriormente problematico, perché la sua narrazione potrebbe influenzare qualcuno disposto ad agire.
Piantedosi ha citato la sorveglianza dei siti ebraici e israeliani di Bologna, ma ciò non basta. Se c’è un problema alla fonte, è lì che bisogna affrontarlo, e finora ciò non si è verificato, almeno in questo caso specifico. Perché gli ebrei di Bologna (e d’Italia in generale) devono vivere nella paura? Perché una moschea dovrebbe diventare un trampolino di lancio per la narrativa estremista?
Masoud Pezeshkian, il nuovo presidente eletto dell’Iran, è considerato una figura moderata, ma con la sua elezione non cambierà l’ostilità viscerale del regime verso Israele.
Di etnia mista azera e curda, sessantanove anni, già cardiochirurgo, Pezeshkian è un politico di lungo corso, che ha ricoperto nel tempo diversi incarichi politici, compreso un periodo come Ministro della sanità. Eletto presidente il 5 luglio scorso, nelle elezioni seguite alla morte di Ebrahim Raisi in un incidente in elicottero, il presidente eletto ha vinto ai ballottaggi contro il favorito Saeed Jalili, considerato un esponente dell’ala dura, e assumerà ufficialmente l’incarico a inizio agosto.
• Un riformismo di facciata per allentare le sanzioni Pezeshkian è considerato un riformista, ma sempre nell’alveo del regime. Egli stesso si è definito come un “riformista principalista”, vale da dire che colloca la volontà di cambiamento nel quadro dei principi cardine della rivoluzione islamica che ha dato vita all’attuale assetto politico del paese. Così, ad esempio, se in campagna elettorale ha criticato i metodi brutali con cui la polizia religiosa applica le leggi sul vestiario, si è però ben guardato dal criticare l’obbligo stesso di indossare il velo per le donne.
Inoltre, anche se il presidente eletto dovesse effettivamente promuovere alcuni dei cambiamenti promessi, come l’allentamento delle restrizioni sull’uso del web, dovrà scontrarsi con l’approvazione della Guida Suprema Ali Khamenei, che deve validare ogni decisione presa dal capo di stato.
Il ruolo di Pezeshkian sarà invece soprattutto quello di ricucire i rapporti con l’Europa, per cercare di dividere lo schieramento occidentale, soprattutto nell’ipotesi di una rielezione di Trump alla presidenza statunitense il prossimo autunno. L’obiettivo è quello di ottenere un allentamento delle sanzioni, possibilmente nel quadro di un ritorno ai negoziati sul nucleare iraniano, dato che, come ha ammesso lo stesso presidente eletto, l’economia del paese non può funzionare finché restano in vigore.
• Israele resta il nemico giurato Per quanto riguarda invece i rapporti con lo Stato ebraico, l’elezione di Pezeshkian non sembra destinata ad alimentare alcuna distensione. Già in campagna elettorale, aveva promesso che se avesse vinto, avrebbe cercato “di avere relazioni amichevoli con tutti i paesi, tranne Israele”.
E pochi giorni dopo il voto si è infatti affrettato a inviare un messaggio ad Hassan Nasrallah, leader degli Hezbollah libanesi, nel quale ha affermato che “la Repubblica islamica ha sempre sostenuto la resistenza dei popoli della regione contro l’illegittimo regime sionista” e che “sono certo che i movimenti di resistenza della regione non permetteranno a questo regime di continuare le sue politiche guerrafondaie e criminali contro il popolo oppresso della Palestina e di altre nazioni della regione”.
Il regime iraniano è da sempre il principale sponsor della milizia libanese, a cui, secondo il Dipartimento di Stato americano, fornisce ogni anno armamenti, addestramento e liquidità per centinaia di migliaia di dollari. Un supporto che nel corso dell’ultimo decennio Teheran ha esteso anche ad Hamas, nonostante le differenze dottrinali, fornendogli almeno 222 milioni di dollari tra il 2014 e 2020, secondo documentazione recuperata dalle forze israeliane a Gaza.
Settimo leader della dinastia Chabad Lubavitch, celebrato dai suoi discepoli come “il Rebbe” per lo slancio dato all’ebraismo post-Shoah, Menachem Mendel Schneerson è considerato uno dei rabbini e pensatori ebrei più influenti del Novecento. Nato nel 1902 a Nikolaev, nell’allora Russia zarista, il Rebbe è morto a New York nel 1994, nel giorno 3 del mese ebraico di Tammuz. Cioè oggi. Trent’anni dopo la sua eredità resta viva anche in Italia. Qui la rete di shlichim (“emissari”) del movimento chassidico opera ininterrottamente dal 1958, con sedi in varie città.
Uno dei protagonisti di questo impegno a Roma è rav Menachem Lazar, figura di riferimento della sezione Chabad nell’area di Piazza Bologna. «Ho avuto la fortuna di incontrarlo più volte quando ero un bambino, tra gli 8 e i 12 anni. Alcuni sono ricordi più definiti, altri meno, ma sono tutti importanti nel mio bagaglio formativo. Come quando, nel giorno del mio compleanno, con una benedizione mi augurò di avere successo nella vita», spiega Lazar. «Per noi Chabad il Rebbe non è mai stato solo una persona fisica. Il suo lascito è un patrimonio spirituale immenso, il motore che ci dà la forza di andare avanti, di dare continuità a quello slancio. Il Rebbe ha creato una sorta di “esercito” nelle sue idee e nei suoi valori. È uno dei suoi grandi meriti. D’altronde gli uomini non li cambi affidandogli degli oggetti, ma degli insegnamenti, a partire dalla fedeltà ebraica allo studio della Torah». Per il Rebbe, racconta Lazar, «ogni azione, anche piccola, aveva valore; un’azione in sé è già lo scopo». Altro messaggio da custodire «è l’idea che non esistano differenze tra una persona e l’altra: di ognuno dobbiamo cogliere l’essenza, andare a fondo della sua anima senza fermarci alla superficie».
«Il Rebbe ha sempre cercato di garantire che ogni singolo ebreo potesse avere un luogo in cui sentirsi come a casa, un luogo in cui prendere consapevolezza di ciò che è e in cui crescere nella sua identità e responsabilità. Non a caso i nostri centri si chiamano Beit Chabad, la Casa dei Chabad», sottolinea il responsabile della missione toscana Levi Wolvovsky. Nato a Brooklyn, a Firenze da 12 anni insieme alla moglie Sonia, anche lui ha avuto l’opportunità di incontrare il Rebbe in gioventù, nella casa newyorkese di Shneerson gremita di allievi. «Ricordo l’ambiente che lo circondava, l’intensità di quell’esperienza. Si toccava con mano l’importanza del suo compito», racconta Wolvovsky. «Noi allievi cerchiamo di continuare quell’opera, dando forza all’ebraismo in prima istanza e poi, in senso più universalistico, portando luce al mondo intero». In questo senso «Beit Chabad è un laboratorio non solo teorico ma di vita: tanta gente ci cerca, ha sete di ebraismo, vuole coltivarlo». In onore del Rebbe, a trent’anni dalla scomparsa, Wolvovksy ha organizzato a fine giugno un concerto per esplorarne il messaggio attraverso alcuni brani musicali. «Abbiamo imparato tanto», spiega l’emissario. «Ma il segno del Rebbe è ovunque: nei video, nei libri. Vive ancora con noi».
Di recente la casa editrice Giuntina ha dato alle stampe Lezioni di Torà, un libro antologico con alcuni discorsi del Rebbe per lo Shabbat adattati dall’ex rabbino capo d’Inghilterra e del Commonwealth Jonathan Sacks (1948-2020). Secondo Sacks, dalle riflessioni del Rebbe emergerebbe la convinzione «che ognuno di noi possa lasciarsi alle spalle la confusione attuale» per seguire «lo splendore senza tempo della Torah, la luce infinita». a.s.
Perché si ricomincia a parlare di trattative con Hamas
di Ugo Volli
• Israele vince sul campo ma non basta Dopo nove mesi di guerra, Israele ha ormai il controllo di tutta la Striscia di Gaza. Questo non vuol dire che occupi tutta Gaza continuamente: le truppe israeliane sono presenti sul 20% circa del territorio, ma sono in grado senza problemi di entrare dove si riscontra un’attività terroristica. In una guerra normale ciò avrebbe comportato da tempo la vittoria, ma in questo caso non è così. Hamas e gli altri gruppi terroristici hanno ancora risorse importanti dalla loro parte e le usano bene. Ecco le principali: 1. Controllano ancora tutte le fortificazioni sotterranee che non sono state scoperte e distrutte, con le armi e le truppe che vi hanno accumulato e la possibilità di usarle per agguati alle spalle degli israeliani. 2. Godono dell’appoggio di buona parte della popolazione di Gaza (e anche degli arabi di Giudea e Samaria) e sono in grado di reprimere violentemente le sporadiche manifestazioni di insofferenza che vi si manifestano (ma che non sono mai diventate opposizione politica vera e propria). 3. Sono appoggiati militarmente e logisticamente da uno schieramento vicino (Iran e i suoi satelliti Hezbollah, Houti, sciiti iracheni, Qatar) e lontano (Turchia, Russia, Cina – a questo proposito bisogna dire che non è mai stata smentita la notizia di cui pochi parlano che nei tunnel di Hamas Israele ha catturato e prontamente riconsegnato al loro stato due ingegneri militari cinesi). 4. Sono appoggiati dalla burocrazia internazionale delle corti di giustizia e delle commissioni dei diritti umani dell’Onu. 5. Hanno sponde politiche in buona parte dell’Occidente, in particolare fra i democratici americani, la sinistra europea inclusi i vincitori delle recenti elezioni in Francia e Gran Bretagna. 6. Detengono ancora molte decine di rapiti israeliani che i servizi di informazione non sono stati in grado di localizzare, come non hanno potuto individuare i capi più importanti di Hamas.
• Perché Israele accetta la trattativa Gli ultimi due punti sono decisivi per la strategia israeliana verso Gaza. Israele potrebbe in teoria continuare per tutto il tempo certamente lungo necessario a distruggere completamente l’apparato militare terrorista e per quello ancora maggiore per eliminare il controllo politico di Hamas sulla popolazione. Il fronte del nord resterebbe caldo, ma è chiaro che Iran e Hezbollah non hanno interesse per il momento a una guerra vera e propria. In Occidente però quasi tutti ormai vogliono un cessate il fuoco che chiuda (o piuttosto lasci in sospeso) in un modo o nell’altro la guerra fra Israele e Hamas: prima di tutti gli Stati Uniti, che hanno già mostrato di voler usare le potenti armi di pressione di cui dispongono, innanzitutto i rifornimenti militari necessari a Israele che da tempo rallentano pericolosamente e i voti al consiglio di sicurezza dell’Onu. Inoltre, il tentativo di ottenere la liberazione dei rapiti per via di scambio, dato che non si riesce a salvarli con le armi, è sia un imperativo morale da tutti sentito in Israele; sia una necessità per i rapporti internazionali di Israele; sia la posta in gioco di una pericolosa lotta politica interna per eliminare il governo Netanyahu che si sta ripresentando tanto in piazza che nelle burocrazie statali, inclusa la magistratura e lo stato maggiore.
• Un ammorbidimento di Hamas? Volente o nolente, il governo israeliano ha dunque da tempo dovuto accettare di trattare con Hamas per la liberazione degli ostaggi. Consapevoli della loro posizione di forza (politica, non militare) i terroristi hanno sempre chiesto, come precondizione per discutere di uno scambio fra i rapiti e i loro galeotti assassini detenuti nelle carceri israeliane, addirittura il ritiro preventivo delle truppe israeliane e l’impegno a cessare la guerra lasciandoli al potere a Gaza. Il fatto che Israele sia riuscito a occupare Rafah nonostante l’opposizione di Usa e della “comunità internazionale” e che abbia preso pure il “corridoio Filadelfia” che mette in contatto Gaza con l’Egitto bloccando buona parte del contrabbando di armi, sembra averli ammorbiditi. Dopo aver rifiutato per qualche settimana le trattative, ora annunciano di rinunciare alla precondizione della conclusione della guerra per aprire la trattativa sui rapiti, accontentandosi di una sospensione “per tutta la durata dei negoziati, per cui però non vogliono un limite temporale in modo da poterle trascinare all’infinito. Dunque questo annuncio non segna una grande differenza pratica, ma è bastato perché Netanyahu fosse obbligato a mandare una delegazione in Qatar per partecipare alle pre-trattative indirette non con Hamas ma con i mediatori.
• Le linee rosse di Israele Al tempo stesso Netanyahu ha chiarito quali sono le condizioni irrinunciabili per Israele. Questa è la dichiarazione: “La ferma posizione del Primo Ministro contro il tentativo di fermare l’operazione dell’IDF a Rafah è ciò che ha portato Hamas ad avviare i negoziati. Il Primo Ministro continua a sostenere fermamente i principi già messi nero su bianco da Israele: 1 – Qualsiasi accordo consentirà a Israele di tornare e combattere fino al raggiungimento di tutti gli obiettivi della guerra. 2 – Non sarà possibile contrabbandare armi ad Hamas dal confine di Gaza verso l’Egitto. 3 – Il ritorno di migliaia di terroristi armati nel nord della Striscia di Gaza non sarà possibile. 4 – Israele massimizzerà il numero di ostaggi vivi che verranno restituiti dalla prigionia di Hamas”.
• Gli ostacoli Vi sarà dunque lo scambio e il cessate il fuoco? Non bisogna farsi troppe illusioni. Le esigenze fondamentali di Israele e di Hamas sono antagonistiche. L’Iran, ben deciso a combattere Israele col sangue dei suoi satelliti arabi, farà il possibile per impedire ogni accordo. Hamas considera i rapiti israeliani come il suo bene più prezioso e l’assicurazione sulla vita dei suoi capi: difficile che li lasci andare in cambio di una tregua che non sia in pratica una vittoria. Israele sa che se si ferma ora dovrà combattere di nuovo in poco tempo e riconquistare di nuovo Gaza; il 7 ottobre ha mostrato che la convivenza con Hamas e gli altri gruppi terroristici è impossibile. Anche se le trattative procedessero oltre la fase preliminare e indiretta in cui sono, è molto improbabile che si concludano con un accordo se non provvisorio e parziale. Tutto il resto, purtroppo, sono manovre propagandistiche.
Stavo a 700 metri di distanza da Gaza - e non ho provato niente
"Mi sono resa conto che quando guardavo la maledetta "altra parte", il pensiero degli ostaggi non mi è passato mai nemmeno per la testa. E questo mi ha “preoccupata”.
Vista di Gaza dal lato israeliano del confine dopo l'intervento delle truppe dell'IDF contro Hamas.
GERUSALEMME - Non sono mai stata vicino al confine con Gaza. Lo so, è strano, no? Anche se Gaza si trova a soli 100 chilometri a sud-ovest da me, mi è sempre sembrato un "Paese arabo", lontano da me, come una terra mitica in cui regna il terrore e i draghi sputano fuoco. Oppure, una descrizione più realistica: una città dove sembra non esserci ordine o struttura, una popolazione densa stipata in edifici di cemento, hooligan di Hamas e caos. Cosa la distinguerebbe dal Libano, dalla Siria o dalla Giordania? Un osservatore casuale come me non saprebbe dirlo. Ovunque sia, non è "abbastanza vicino per farmi del male", o così almeno pensavo.
Quello che mi ha portato più vicina a Gaza è stata mia sorella maggiore, che ha prestato servizio come Tatspitanit (osservatrice) e ha sofferto di ripetuti attacchi di tendinite controllando Gaza e il confine da Nachal Oz. Stando a quello che ha raccontato, le sue telecamere ad alta tecnologia potevano zoomare sui drammi familiari attraverso le finestre aperte, osservare i pastori sodomizzare nei campi e, naturalmente, catturare i terroristi che cercavano di infiltrarsi nel confine o di piazzare esplosivi. La sua base militare è stata attaccata da razzi, sirene d'allarme e colpi diretti, che hanno lasciato le ragazze con le orecchie che fischiano e un forte nervosismo ancora mesi dopo il loro congedo dall'esercito.
Molte giovani soldatesse israeliane prestano servizio come guardie di frontiera
Non sono andata spesso nel sud di Israele, ma dopo il 7 ottobre ho voluto visitare la zona della Striscia di Gaza e soprattutto avvicinarmi il più possibile al confine con Gaza per guardare negli occhi il male e incontrarlo. Forse era il mio modo di elaborare il sangue delle vittime e di non lasciarlo asciugare (in senso figurato) prima di avere l'opportunità di bruciare i loro ultimi momenti nel mio essere: dovevo modificarmi.
Quando un amico si è offerto di portare me (e un piccolo gruppo) al sud per vedere le conseguenze del 7 ottobre, ho colto al volo l'occasione. Dopo una lunga giornata di visite ai vari monumenti commemorativi dove erano avvenuti i massacri, la nostra ultima tappa è stata il punto panoramico su Gaza da Sderot.
Tramonto arancione a Gaza. Tramonto sulla terra desolata di Gaza il 4 giugno 2024
Siamo arrivati proprio quando il sole stava tramontando e il cielo si colorava di un ricco arancione e di un blu sbiadito, mentre il Mediterraneo scintillava in lontananza. Il punto panoramico è un memoriale dei quattro soldati che hanno combattuto i terroristi che sono usciti da un tunnel a 700 metri da lì per compiere un attacco di massa a Kibutz Nir-Am e Sderot nel 2014.
Socchiudendo gli occhi per vedere Gaza per la prima volta, tutto ciò che riuscivo a distinguere era una lunga fila di edifici, sagome sfocate, il profilo sbiadito di una recinzione e di un muro. "Tutto qui?", ho pensato. Che delusione!
Non avevo idea di cosa avrei provato, ma di certo non mi aspettavo di non provare niente. Forse "niente" non è la parola giusta; forse"vuoto, cavo” sono parole più adatte. Era forse una sorta di reazione ritardata a un giorno intero di rimbalzi tra atrocità e sette mesi di guerra. Avrei voluto tornare a casa con qualche tipo di rivelazione profonda, o con un "mai più" di sfida, ma "niente". Faceva freddo, c’era troppo vento, c'era troppa gente e volevo soltanto rimanere sola, provare qualcosa, qualsiasi cosa.
Fumo denso dopo un attacco aereo israeliano a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza
Ho speso cinque shekel per guardare attraverso il binocolo pubblico e avere così una visione più ravvicinata; la mia piccola esperienza di "Tatspitanit". A parte alcuni edifici all'estrema sinistra, l'intera prima fila era distrutta come se una bomba nucleare avesse colpito e lasciato un'apocalisse di strutture scheletriche, a riprova del fatto che Hamas era pronta ad andare in fiamme e a portare tutti con sé.
Solo l'eco dei "boom" e delle esplosioni ricordava inequivocabilmente che la guerra era ancora in corso, che l'IDF era appena entrato a Rafah.
• Dove sono gli ostaggi?
Mentre il sole scompariva nel mare, ho intravisto un giovane e una ragazza seduti sul bordo del monumento commemorativo, che chiacchieravano con disinvoltura. Dopotutto, Sderot è la loro casa e questo è solo un ritrovo casuale con una buona vista, anche se si tratta di Gaza.
Lo paragono alla vista della terra di Giordania che posso avere da casa mia. Nelle giornate limpide si possono vedere le luci delle montagne che brillano come diamanti in un cielo notturno nero: un mondo misterioso a pochi chilometri di distanza. Potrei fissarlo per ore e chiedermi quanto sia diversa la loro vitadalla mia. Dal loro punto di vista, però, la mia casa non suscita lo stesso timore reverenziale, perché a differenza della mia famiglia e della mia educazione culturale, loro hanno imparato a odiare.
Al di là di una recinzione, di un muro o di un confine invisibile sul Mar Morto, persone completamente diverse vivono sullo stesso suolo, con lo stesso clima, sotto la stessa costellazione e con ideologie completamente opposte. Come può il destino di una persona dipendere dal lato del confine in cui è nata?
Per le vittime del 7 ottobre che vivevano nei kibbutzim e nelle città della Striscia di Gaza, Gaza era la loro "Giordania". Un momento prima Gaza era la vista che avevano dalle loro tranquille case, e dopo pochi minuti sono stati fatti sfilare in pigiama come trofei in mezzo a una strada di Gaza e picchiati da barbari violenti e sanguinari. Alcuni degli ostaggi erano addirittura attivisti per la pace, che ironia.
Le conseguenze dell'attacco di Hamas alla casa di una famiglia nel Kibbutz Beeri.
Quello che è successo alla famiglia che viveva all'interno è stato ancora peggio
Sorprendentemente, solo quando sono tornata a casa a tarda sera mi sono resa conto che quando guardavo la maledetta "altra parte", il pensiero degli ostaggi non mi è mai passato per la testa, e questo mi ha preoccupata. Potevo immaginare città fantasma, campi profughi, scontri nella Striscia di Gaza, combattenti dell'IDF: tutto tranne gli ostaggi. Dopo tutto, chi può anche solo immaginare o elaborare 252 civili come ostaggi in tunnel sotterranei?
Ma questo è ciò che fa l'anima: ci protegge dalla dura realtà e dalle amare verità. "Niente" è solo il sintomo del cuore per dire "sento tutto insieme, e fa troppo male".
Fa troppo male la disperazione di Shiri Bibas che stringe i suoi due figli piccoli in mezzo agli assassini. Fa troppo male la violenza sessuale subita da Amit Soussana da parte del suo rapitore. Fa troppo male il video di propaganda di Hamas che ritrae Keith Siegel, 64 anni, sequestratore, un uomo distrutto che trattiene le lacrime.
Non mi lascio ingannare: ovunque il diavolo stabilisca il suo regno, la distruzione lo segue. Gaza passerà alla storia come un esempio di ciò che accade quando le ideologie di morte fanno il lavaggio del cervello alla società e di come ne provocano la fine. Più ancora della pietà, provo disgusto per il modo in cui sono riusciti a ingannare il mondo facendo credere che i loro aiuti e i loro soldi faranno la differenza, o che "terra in cambio di pace”, o una soluzione a due Stati sia una strategia legittima per porre fine alle loro sofferenze.
Sono delusa dai cristiani internazionali che dimenticano l'ebraicità di Yeshua e la lotta spirituale per questa terra, e sono irritata dagli arabi cristiani in Israele che dimenticano che senza Israele il loro destino sarebbe la persecuzione e la morte per mano dell'Islam.
Mi rattrista il mio Paese, che ha dimenticato in un batter d'occhio come i conflitti interni lo indeboliscano e lo rendano vulnerabile di fronte ai suoi nemici. Sono anche triste per i politici che hanno dimenticato di servire il loro Paese e perseguono invece il loro orgoglio e i loro programmi.
Forse Gaza mi ha toccato più di quanto pensassi.
(Israel Heute, 9 luglio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Francia – Il Gran Rabbino: Nuovi modi di lavorare insieme
Impossibile dirsi «sollevati» con il Rassemblement National alla conquista di spazi sempre più significativi nella scena pubblica nonostante la sconfitta e la France Insoumise «che grida vittoria, pur avendo ottenuto meno parlamentari della passata legislatura». Invita comunque alla speranza, una speranza incarnata nella difesa senza quartiere dei valori repubblicani, il Gran Rabbino di Francia Haim Korsia. Parlando ai microfoni dell’emittente ebraica Radio Shalom che l’ha interpellato per un commento sulle elezioni, la più importante autorità rabbinica del paese riconosce: «Ci attende un tempo di incertezza». Eppure, ciò premesso, «non c’è nessun motivo per lasciarsi prendere dal panico». Il cauto ottimismo del rav deriva soprattutto dalla convinzione che «nessuno si alleerà con la France Insoumise» del populista di sinistra Jean-Luc Mélenchon, figura invisa ai suoi stessi alleati.
Korsia prevede che «il governo nascerà dall’accordo tra persone ragionevoli, con a cuore la Repubblica». Non menziona in modo esplicito l’assetto auspicato, ma rileva comunque la presenza nell’assemblea nazionale di «330-340 deputati» appartenenti a forze non estreme e sul quale il futuro esecutivo potrà contare. Considerazione dalla quale si deduce la speranza del rav di una larga intesa tra macroniani, sinistra non estrema, destra gollista. Fuori da questo perimetro un blocco populista in cui, denuncia Korsia, siederanno riconosciuti antisemiti e persone «che non sono state capaci di qualificare come atti terroristici gli attacchi del 7 ottobre».
Il rischio di un governo a trazione Mélenchon non sembra concreto. Ma guai a sedersi sugli allori per lo scampato pericolo, fa capire il rav. Il tema della “ribellione” è d’altronde una costante della storia umana, non sempre alimentata a fini nobili come si evince dal riferimento fatto dal rav alla parashah di Korach letta nelle sinagoghe lo scorso Sabato. Fu la demagogia, altro tema senza tempo, a nutrire allora l’azione di Korach e altri notabili contro la leadership di Mosè e Aron. Tornando al presente, il rav osserva: «Bisogna rifondare un sistema, trovare nuovi modi di lavorare insieme. E quindi rafforzare la discussione, la mediazione, l’ascolto dell’altro. Questo migliorerà la vita dei francesi».
Dopo Napoli, Roma e Milano, l’Unione Giovani Ebrei d’Italia in collaborazione con il Forum delle Famiglie degli Ostaggi lancia il suo flash mob anche a Firenze. Di fronte al Palazzo della Regione Toscana in Piazza Duomo, il 7 luglio una cinquantina di persone si sono riunite per mandare un forte segnale di solidarietà e vicinanza a tutti gli ostaggi israeliani ancora nelle mani dei terroristi di Hamas dopo oltre 9 mesi.
“Non possiamo permettere che cali il silenzio su questa tragedia. Andremo avanti con queste iniziative fino a quando tutti gli ostaggi saranno liberi”, afferma il presidente UGEI Luca Spizzichino. “È un dovere morale, in particolare delle nuove generazioni, mantenere alta l’attenzione dell’opinione pubblica sulla questione.”
Un messaggio importante, che ha commosso molti dei partecipanti, giunti anche dagli Stati Uniti o Israele, alla luce delle numerose manifestazioni anti-israeliane che da mesi nascondono, banalizzano o giustificano le atrocità perpetrate il 7 ottobre.
Per circa un quarto d’ora, tra le note delle canzoni israeliane dedicate al rilascio degli ostaggi, i partecipanti hanno esposto le foto dei rapiti e un grande striscione con il motto “Bring them home now”.
Presenti anche il presidente della Comunità ebraica di Firenze, Enrico Fink, l’Associazione Fiorentina Amici di Israele, l’associazione Setteottobre e Sinistra per Israele.
(Bet Magazine Mosaico, 9 luglio 2024)
L’Hapoel Ironi Kiryat Shmona non potrà giocare nel proprio stadio per molto tempo. La struttura è stata colpita direttamente da un razzo lanciato dal Libano, rendendola inagibile.
Una doccia gelata per i tifosi, che speravano di tifare i propri beniamini in casa dopo diversi mesi di attesa. Infatti, dallo scoppio della guerra la squadra, ha dovuto giocare le partite casalinghe a Netanya.
“La situazione al nord peggiora ogni giorno”, ha detto il dirigente della squadra. “Purtroppo non vediamo il nostro ritorno al nord nel prossimo futuro. La città di Kiryat Shmona viene bersagliata ogni giorno”. Fino ad oggi ci sono stati anche cinque attacchi al complesso di allenamento della squadra, ha sottolineato l’Hapoel Ironi Kiryat Shmona.
Al momento dell’attacco non c’erano persone presenti nello stadio, lo riferisce Ynet sul proprio sito.
Manifestanti protestano contro Benjamin Netanyahu e l'attuale governo israeliano davanti alla base di Hakirya a Tel Aviv, 22 giugno 2024
GERUSALEMME - Il post di un riservista israeliano, Bar Sadeh, che mia figlia mi ha inviato, mi ha toccato profondamente. È uno dei tanti post che sono diventati virali nelle reti e nei media israeliani nelle ultime settimane e mesi. I soldati parlano dal profondo dei loro cuori. Giovani che hanno combattuto a Gaza per mesi e che sono pronti a sacrificare la loro vita per il loro popolo. Giovani che hanno già perso molto, ma non vogliono arrendersi. Ma ciò che li ferisce di più è l'entroterra: il popolo e i suoi leader. Israele è in guerra e la gente, i media e i politici si azzuffano mentre i soldati difendono la biblica patria. A dire il vero, è semplicemente incredibile. Tra amici parliamo spesso di questa situazione e delle difficoltà in cui siamo caduti di nuovo tutti. Come è possibile che all'ombra della guerra non riusciamo ad unirci e a mettere da parte le nostre proteste e i nostri disaccordi? Forse perché, come nella storia di Core contro Mosè e Aaronne, tutto il popolo è santo. “Tutta la comunità è ovunque santa e il Signore è in mezzo a loro! Perché vi innalzate sulla comunità del Signore?"
Come Mosè e Aaronne, anche Core apparteneva alla tribù di Levi e ha costituito, per così dire, la prima opposizione tra il popolo d'Israele. Core si disse: "Se Dio dichiara che tutto il popolo è una nazione santa, chi dà a Mosè il diritto democratico di guidare il popolo? Insieme a Datan e Abiram, guidò la prima rivolta politica contro Mosè e Aronne, e a questo scopo scelse 250 uomini tra il popolo, capi della comunità, leader dell'assemblea, uomini rispettati. Perché Datan e Abiram erano così importanti per Core nella sua coalizione contro il partito levita? Perché entrambi provenivano dalla tribù di Ruben, il primogenito di Giacobbe. I discendenti hanno sempre avuto un peso maggiore nella famiglia, nella tribù e nel popolo, e Core voleva sfruttarlo politicamente. Forse erano anche gelosi dell'influenza dei figli di Levi. Pensavano che Mosè fosse l'unico a voler governare su di loro. Questo è ingiusto. Dal loro punto di vista, Mosè è come un dittatore sacerdotale e politico. Esatto, un dittatore scelto da Dio.
Anche l'attuale capo del governo israeliano, Benjamin Netanyahu, è visto come un dittatore da molti cittadini. È stato eletto dagli israeliani con elezioni democratiche. E questo ad alcuni non piace, così come non piaceva ad alcuni abitanti del deserto il fatto che fosse sempre Mosè a decidere tutto. C'è sempre malcontento dove la gente vive, e questo si manifesta più del solito in particolari momenti. Anche se nel paese oggi non c'è il sacerdozio, la divisione politica tra il popolo è una conseguenza della visione spirituale del mondo. Una parte della popolazione oggi ha perso la fiducia in Bibi e non crede che egli voglia davvero solo il meglio per il suo popolo, che prima o poi porrà fine alla guerra e che accetterà un accordo con gli ostaggi. Dal loro punto di vista, Bibi sta governando solo per sopravvivere politicamente - fiducia zero. E questo porta a una profonda divisione tra la gente.
Anche gli avversari di Mosè hanno perso la fiducia nel loro leader. E di cosa accusano Mosè? "Non stai facendo abbastanza per condurci nella terra in cui scorrono latte e miele. Tu ci vuoi far morire tutti nel deserto. Vuoi governare su di noi?". Poi continua cinicamente: “Ottimo, ci hai proprio condotto in una terra dove scorrono latte e miele! E ci hai dato campi e vigne in eredità! E adesso vuoi chiuderci gli occhi? Non arriveremo a destinazione!". Dal loro punto di vista, Mosè governa soltanto per sopravvivere politicamente: fiducia zero.
Alla fine Core e il suo partito, la comunità, persero. "Allora la terra si squarciò sotto di loro. La terra aprì la sua bocca e li inghiottì, insieme alle loro case e a tutte le persone che erano con Core e a tutti i loro beni". Posso ben immaginare che il primo ministro israeliano avrebbe voluto una soluzione simile per sbarazzarsi dei suoi avversari politici tra il popolo.
Non credo che si possa paragonare Mosè con Bibi, ma si può paragonare l'incidente biblico con quello politico, perché è un sintomo del popolo d'Israele che si ripete continuamente. Chi ne soffre è in ultima analisi il popolo, sia a quel tempo sulla via del deserto verso la Terra Promessa, sia oggi dentro la Terra Promessa. Nelle conversazioni con i miei figli, con amici e colleghi negli ultimi mesi continuo a ricordare che abbiamo il privilegio di vivere nella Terra Promessa. In tutta la storia del popolo d'Israele degli ultimi 3.500 anni, il popolo ebraico ha vissuto per oltre il 90% del tempo soltanto in diaspora, cioè per 3.200 anni il popolo d'Israele è stato disperso in esilio. Ora sono 76 anni che viviamo sotto il governo ebraico nella biblica patria. Questo è sempre stato qualcosa di raro nella storia biblica ed ebraica. E nonostante tutti i disaccordi politici, dobbiamo con fermezza tenerlo stretto per non perderlo di nuovo.
È in questo contesto che ho deciso di tradurre la lettera di Bar Sadeh, che riassume la nostra situazione. Se non siamo uniti come popolo, forse la terra non si spaccherà di nuovo, ma ci sono abbastanza modi per punire il popolo.
Messaggio di Bar Sadeh:
«Ho perso me stesso. Sono cambiato, spento, il dolore ha sopraffatto la mia voglia di vivere e mi sento a pezzi. Lo vedo nei miei occhi e mi fa male. Non ho scelto questa guerra, ma non me ne pento, sono grato.
Quel giorno ero pronto a fare qualsiasi cosa per riportare a casa un altro bambino, una donna, un cittadino, anche se io stesso non sarei tornato.
Non ero preparato ad accettare quello che i miei occhi hanno visto. Mi ha colpito e col tempo distrutto. Volevo solo vendicarmi e fare in modo che si pentissero - e così è stato.
Ho perso molto in questa guerra. Amici, fidanzate, combattenti, un cugino, un comandante leggendario. È brutto, è difficile e fa male, ma lo supererò e ne uscirò più forte e migliore, per me stesso e per coloro che mi circondano, e il tempo farà la sua parte.
Non cerco pietà, non sono nemmeno un eroe, continuiamo a combattere, non abbiamo pause, non abbiamo vacanze, anche se sono molto stanco e ferito.
Quindi, a tutti i leader là fuori, indipendentemente dalla destra o dalla sinistra, riunitevi e ricordate i valori veri, onesti e buoni, parlate con pieno rispetto e con la massima attenzione. Fate tutto il possibile per riportare a casa i vostri cari, sia militarmente che diplomaticamente, ma parlate tra di voi, preoccupatevi e trovatevi l'un l'altro, e finché questo non accadrà, dimenticate le vostre vacanze (la pausa estiva della Knesset). Questo è prendersi cura, questo è ebraismo e questo è unità. Purtroppo, al momento non siete sulla strada giusta.»
(Israel Heute, 8 luglio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Netanyahu accusato di boicottare i colloqui per gli ostaggi
Il comunicato con le condizioni di Netanyhu diffuso all'ultimo momento di domenica sera ha spiazzato e irritato i negoziatori e i famigliari degli ostaggi
Hanno scatenato la rabbia dei negoziatori israeliani e delle famiglie degli ostaggi in mano ad Hamas le quattro richieste aggiunte all’ultimissimo momento dal Premier israeliano, Benjamin Netanyahu. Domenica sera, poco prima della partenza del team negoziale israeliano per ulteriori colloqui sugli ostaggi al Cairo e a Doha, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha presentato un elenco di quelle che ha definito richieste israeliane non negoziabili. L’elenco si basa su quattro punti non negoziabili. L’accordo dovrà:
consentire a Israele di tornare e combattere finché non saranno raggiunti tutti gli obiettivi della guerra
garantire che l’accordo non consentirà il contrabbando di armi dall’Egitto a Gaza
garantire che l’accordo non consentirà il ritorno di migliaia di terroristi di Hamas nel nord della Striscia di Gaza
consentire a Israele di massimizzare il numero degli ostaggi vivi che verranno rilasciati da Hamas
“Il piano concordato da Israele e accolto con favore dal presidente Biden consentirà a Israele di liberare gli ostaggi senza violare gli altri obiettivi della guerra” si legge nel comunicato rilasciato ieri sera dall’ufficio del Primo Ministro. La dichiarazione di Netanyahu, in una fase cruciale prima della ripresa dei colloqui, ha scatenato la rabbia sia in Israele che tra i mediatori, alcuni dei quali lo hanno accusato di tentare di sabotare i progressi ottenuti con tanta fatica. La ripresa dei negoziati sia in Egitto che in Qatar è stata possibile dopo che sabato il gruppo terroristico Hamas ha dichiarato di essere pronto a discutere un accordo sugli ostaggi e la fine della guerra a Gaza senza un impegno anticipato da parte di Israele a un “cessate il fuoco completo e permanente”, rompendo con la posizione che ha mantenuto in tutti i precedenti negoziati da novembre. La nuova posizione di Hamas in merito alla proposta sostenuta dagli Stati Uniti per una tregua graduale e uno scambio di ostaggi a Gaza potrebbe potenzialmente aprire la strada alla prima pausa nei combattimenti dallo scorso novembre, sebbene tutte le parti abbiano avvertito che un accordo non è ancora garantito. Tuttavia parlando domenica con l’AFP, un alto funzionario di Hamas rimasto anonimo, ha confermato che il gruppo terroristico non stava più cercando un impegno immediato per un cessate il fuoco completo, in quanto ha spiegato che “questo passaggio è stato aggirato, poiché i mediatori hanno promesso che finché fossero continuate le negoziazioni [per gli ostaggi], sarebbe continuato anche il cessate il fuoco”. Il capo del Mossad David Barnea, che porta avanti i negoziati, ha tuttavia smentito che nelle trattative ci fosse una “eventualità del genere” meno che meno un impegno scritto in tal senso. La rabbia dei mediatori e delle famiglie degli ostaggi La dichiarazione dell’ufficio di Netanyahu è stata accolta con rabbia dai famigliari degli ostaggi, dai funzionari della sicurezza e dai mediatori israeliani che, non per la prima volta, hanno accusato il primo ministro di aver tentato di sabotare l’accordo. “Netanyahu finge di volere un accordo, ma sta lavorando per affossarlo”, ha detto un anonimo funzionario della sicurezza a Channel 12. “Sta trascinando il processo, cercando di allungare i tempi fino al suo discorso al Congresso [il 24 luglio] e poi alla pausa [della Knesset]”. Secondo un funzionario arabo che segue le trattative, la richiesta non negoziabile di riprendere i combattimenti dopo la prima fase dell’accordo di cessate il fuoco e di rilascio degli ostaggi, pubblicizzata dall’ufficio di Netanyahu, tocca l’aspetto più delicato dei negoziati in corso, poiché Hamas sta cercando rassicurazioni dai mediatori sul fatto che Israele non riprenderà i combattimenti dopo la fase iniziale. Il funzionario ha affermato che i mediatori sono riusciti a far sì che Hamas abbandonasse la precedente richiesta di un impegno anticipato da parte di Israele a porre fine alla guerra all’inizio della prima fase dell’accordo. Hanno invece mantenuto un linguaggio relativamente aperto riguardo alla transizione dalla fase uno alla fase due, che consente sia a Israele di sentirsi sufficientemente tranquillo da avere la possibilità di riprendere a combattere se Hamas cessa di negoziare in buona fede, sia ad Hamas di sentirsi sufficientemente tranquillo dal fatto che i mediatori impediranno a Israele di riprendere la guerra invece di attuare il cessate il fuoco permanente che è la fase due dell’accordo. “Dichiarazioni come quella fatta dal primo ministro danneggiano gravemente gli sforzi per mantenere questa ambiguità”, ha affermato il funzionario arabo. “Non si può fare a meno di concludere che sono state fatte per scopi puramente politici”, ha aggiunto il funzionario, riferendosi al desiderio di Netanyahu di compiacere i partner della coalizione di estrema destra che si oppongono all’accordo sugli ostaggi. Lo schema redatto da Israele per un accordo sugli ostaggi e una tregua a Gaza, presentato da Biden alla fine di maggio, proponeva un accordo graduale che avrebbe incluso un cessate il fuoco “totale e completo” di sei settimane che avrebbe visto il rilascio di numerosi ostaggi, tra cui donne, anziani e feriti, in cambio del rilascio di centinaia di prigionieri di sicurezza palestinesi. Durante questi 42 giorni, le forze israeliane si ritireranno anche dalle aree densamente popolate di Gaza e consentiranno il ritorno degli sfollati alle loro case nel nord di Gaza. In quel periodo, Hamas, Israele e i mediatori avrebbero negoziato anche i termini della seconda fase che avrebbe potuto vedere il rilascio degli ostaggi maschi rimasti, sia civili che soldati, in cambio, Israele avrebbe liberato altri prigionieri e detenuti palestinesi. La terza fase avrebbe visto il ritorno di tutti gli ostaggi rimasti, compresi i corpi dei prigionieri morti, e l’inizio di un progetto di ricostruzione per Gaza.
Mercoledì incontro a Doha fra Usa, Qatar, Egitto ed Israele
di Valentino Garavani
La guerra in Medio Oriente compie nove mesi. In questa ricorrenza, il Gruppo palestinese Hamas, che controlla la Striscia di Gaza, ha fatto sapere che accetterà di negoziare con Israele il rilascio degli ostaggi, anche in assenza di un cessate il fuoco permanente da parte di Tel Aviv, che continua l'operazione militare in varie parti della Striscia, in particolare al sud, presso il valico di Rafah, al confine con l'Egitto. A tal riguardo, il capo della Central Intelligence Agency (Cia), lo statunitense William Burns, il suo omologo israeliano del Mossad David Barnea, il capo dell'intelligence egiziana Abbas Kamel, ed il primo ministro del Qatar, Mohammed bin Abdulrahman bin Jassim Al Thani, dovrebbero incontrarsi a Doha (Qatar), nella giornata di mercoledì 10 luglio 2024, per negoziare un possibile accordo fra Hamas ed Israele per un cessate il fuoco a Gaza in cambio del rilascio degli ostaggi. Intanto, i mediatori hanno chiesto nuovamente al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di accettare la tregua o dimettersi. Accade a nove mesi dall'inizio della guerra: il 7 ottobre 2023 cominciò l'attacco di Hamas, il 7 ed 8 luglio 2024 nelle due principali città di Israele i manifestanti hanno bloccato le strade, con decine di migliaia di persone che chiedono di fermare le ostilità.
Negoziare con Hamas è sbagliato, negoziare con il terrorismo è sbagliato, punto.
di Giovanni Giacalone
Negoziare con i terroristi è sempre sbagliato, per diverse ragioni: perché le negoziazioni permettono all’organizzazione terroristica di acquisire legittimità politica, elevandola a interlocutore legittimo, sia a livello nazionale che internazionale. Una volta che ciò accade, diventa più difficile ridurlo a ciò che sono veramente, assassini che prendono deliberatamente di mira i civili per raggiungere i loro fini politici. Hamas ne rappresenta un chiaro esempio. Nel 2006 l’organizzazione terroristica palestinese è stata sdoganata ed elevata a “legittima espressione politica del popolo palestinese” e quale è stato il risultato? Il genocidio del 7 ottobre 2023. L’impiego di milioni di dollari nella costruzione di tunnel e basi terroristiche sotterranee, nascoste sotto scuole, ospedali, moschee e centri umanitari (spesso collusi con Hamas), attacchi missilistici contro la popolazione israeliana. Oggi, molti nella comunità internazionale vedono ancora Hamas come un attore politico legittimo, e i suoi leader, Ismail Haniyeh e Khaled Meshaal, sono ancora liberi e ai loro posti, mentre dovrebbero essere rinchiusi. L’ideologia di Hamas si è diffusa nei campus universitari degli Stati Uniti, del Regno Unito e dell’Europa. Anche questo è il risultato della legittimazione politica. In secondo luogo, la negoziazione incentiva i terroristi a ripetere le atrocità commesse, magari alzando la posta, consapevoli del fatto che la strategia è funzionale ai loro obiettivi e alla loro causa. In terzo luogo, i terroristi sono criminali, assassini per natura. Non esitano ad uccidere qualcuno se credono che possa servire alla loro causa. Nel caso di Hamas, si va ben oltre l’essere assassini in nome di una causa, perché l’odio cieco e il fanatismo prendono il sopravvento indipendentemente dalla causa. Lo si è visto il 7 ottobre con le atrocità commesse contro i civili israeliani indifesi: donne, bambini, anziani. Soltanto l’idea di negoziare con loro è qualcosa di aberrante. Ma al di là di questo, è fondamentale tenere presente che Hamas, proprio per ciò che rappresenta e commette, è assolutamente inaffidabile. La parola di Hamas conta meno di zero. Raggiungere un accordo con Hamas significherebbe consegnare la vittoria all’organizzazione terroristica, e questo è qualcosa che Israele non può permettersi di fare. Inoltre, è ingenuo credere che Hamas libererà gli ostaggi, perché sono la sua unica garanzia di sopravvivenza. Come ha affermato l’analista della sicurezza nazionale statunitense, Irina Tsukermann:
“Sono particolarmente preoccupata perché gli ostaggi sono l’ultima leva rimasta a Hamas e non hanno alcun motivo reale per consegnarli, quindi questa proposta potrebbe essere una trappola. Hamas ha bisogno che Israele lasci Gaza, e soprattutto Rafah, per riottenere l’accesso ai tunnel, al contrabbando e al riarmo. Hamas continuerà il reclutamento e il raggruppamento nelle parti sgomberate di Gaza, ma con meno armi”.
E di nuovo:
“È estremamente ingenuo fidarsi di Hamas su qualsiasi questione o pensare che una pausa per il rilascio degli ostaggi possa trasformarsi in un cessate il fuoco permanente, considerando quante volte Hamas ha violato i precedenti “cessate il fuoco permanenti”.
Hamas vuole essere sicuro di restare al potere a Gaza, che Israele lasci la Striscia e che i leader non vengano braccati. In effetti, Israele non può permettersi nessuna di queste opzioni, perché significherebbe cedere la vittoria a Hamas. Esiste una cosa chiamata “ragione di Stato” e non può essere messa da parte per disaccordi politici interni né per altri motivi. L’ingenuità emotiva e le false speranze devono essere messe da parte. Vale la pena ricordare che Hamas, lo scorso 7 ottobre, ha perpetrato il peggior pogrom contro gli ebrei dai tempi della Shoah. Centinaia di soldati dell’IDF sono morti nelle operazioni per sradicare Hamas. Negoziare non ha senso e non porterà a nulla di buono, perché Hamas lo rifarà, e lo hanno dichiarato. Israele deve fare ciò che è necessario per sradicare Hamas, soprattutto ora che l’IDF è pienamente a Rafah. Non importa se l’Amministrazione Biden vuole un accordo con Hamas. È la guerra di Israele e sì, Hamas può essere sconfitto, sia fisicamente che ideologicamente. Questa non è solo una guerra tra Israele e Hamas; questa è una guerra contro l’antisemitismo, contro il fanatismo islamista e riguarda da vicino tutti, non solo Israele. Abbiamo tutti assistito all’ondata di estremismo che si è verificata in Europa, negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Australia. Come possiamo invocare l’unità contro questi fanatici se Israele è il primo a negoziare con loro?
Ho ritrovato “tra le mie carte”(così si diceva una volta, oggi invece si dice “nel mio computer”) gli appunti di una mia conferenza tenuta nel marzo 1990, pochi mesi dopo la caduta del muro di Berlino, che molti videro come la vittoria del mondo “libero” sull’opposto mondo di “oppressione”. Forse è in questo clima di euforica acclamazione della libertà che mi venne l’idea di affrontare questo tema in una conferenza. Dagli appunti ritrovati volevo in un primo momento trarre
materiale per un nuovo articolo, ma poi ho pensato che potrebbe essere più utile (e anche meno faticoso) presentarli così come sono, nella loro forma concisa, necessariamente tronca,
collegata a un tempo che non è più quello attuale. Al lettore non mancherà la possibilità di completare in mente sua le inevitabili lacune, migliorarne le espressioni, modificarne “liberamente” se crede le deduzioni. Buona lettura.
di Marcello Cicchese
"Se perseverate nella mia parola, siete veramente miei discepoli; e conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi" (Giovanni 8.31-32).
- Verità e libertà: un legame non tanto chiaro. Siamo più abituati a coniugare "giustizia e libertà". Nella nostra società di oggi è preponderante il concetto di libertà: libertà di pensiero, libertà di coscienza, libertà di religione, libertà di cultura, libertà di stampa. Il crollo delle società comuniste è visto come un trionfo della libertà.
- In altri momenti e in altri luoghi il concetto dominante è stato quello di giustizia. Esempio: la "dittatura del proletariato”. Nel '68 i giovani contestatori irridevano un concetto di libertà che serviva a coprire l’ingiustizia.
- Anche il concetto di verità ha avuto importanza in certe società e in certi momenti della storia: nelle società comuniste (l'internamento in manicomi di chi dissentiva), nelle società musulmane, nelle società cristiane del passato (una volta i dissidenti religiosi erano perseguitati perché si opponevano alla verità).
- La società di oggi garantisce che ciascuno possa cercarsi o costruirsi la sua verità. Il mondo delle idee sembra meno pericoloso di quello dei fatti.
- Tutto sommato, sul piano politico non ho niente da obiettare: non ho nostalgia di stati teocratici che poi diventano clericali. Accetto questa libertà politica come un dono che Dio fa agli uomini e di cui dovranno rendere conto. Ma vorrei solo che si riflettesse sull'ideologia diffusa che la accompagna. La perdita di importanza del concetto di verità porta prima o poi a nuove forme di schiavitù.
- Abbiamo usato il termine "libertà" nel significato più usuale che è quello di libertà dall'uomo, cioè la possibilità di non essere limitato, costretto da altri uomini. Questo è il concetto politico di libertà.
- Nel Nuovo Testamento il termine greco per "libero" significa "appartenente al popolo", cioè avente i diritti civili. Il termine mantiene quindi il ricordo di questo significato politico, ma nel Nuovo Testamento quando si parla di libertà non si intende mai quella politica. Non troverete mai, per esempio, delle esortazioni a difendere la libertà, a combattere per la libertà.
- Gesù davanti a Pilato: "Il mio regno non è di questo mondo... altrimenti ... i miei servi avrebbero combattuto perché io non fossi dato nelle mani dei Giudei; ma ora il mio regno non è di qui". "Ma dunque sei re? Sì, lo sono, e sono venuto nel mondo per testimoniare della verità. Chiunque è per la verità ascolta la mia voce". "Che cos'è la verità?" (Giovanni 18).
- Si capisce allora perché oggi abbiamo tanta possibilità di parlare, ma pochi ci ascoltano: c'è libertà per tutti, ma a nessuno interessa la verità.
- Che cos'è la verità? Una vecchia domanda che ha un sapore intellettuale, aristocratico. Appartiene alla gnoseologia, all’epistemologia, alla teoria della conoscenza. Noi comuni mortali abbiamo altri problemi.
- Aristotele e Tommaso d’Aquino: "Veritas est adaequatio rei et intellectus". La cosa, l'intelletto. L'oggetto, il soggetto. La realtà, la razionalità.
- Nel pensiero moderno il soggetto ha preso il sopravvento. Nella ricerca scientifica l'oggetto è sempre più sfumato. Predomina il soggetto ordinatore. Nella scienza non si parla di verità, ma di correttezza, di adeguatezza di una teoria.
- Anche quando dalle "cose" si passa all'uomo e a Dio, il soggetto che indaga resta al centro. Il parlare di Dio resta un'attività puramente umana, che viene protetta da una libertà garantita dagli uomini.
- Nessuno obietta se noi parliamo di Dio, ma sorgono grandi resistenze se diciamo che è Dio a voler parlare e dire qualcosa a noi.
- Diciamo quindi che il concetto di libertà oggi si è andato espandendo a scapito del concetto di verità. Mentre Gesù dice: "la verità vi farà liberi", l'uomo moderno dice: "nella libertà io costruirò la mia verità".
- Non voglio svalutare tutti i movimenti che hanno innalzato la bandiera della libertà, ma "quando una cosa giusta viene motivata con ragioni sbagliate, prima o poi alla cosa giusta segue una cosa sbagliata" (di nuovo: è una questione di verità).
- Nella Bibbia il contrario di verità è menzogna: ”hanno mutato la verità di Dio in menzogna" (Romani 1:25), e in qualche caso ingiustizia: ”hanno soffocato la verità nell'ingiustizia" (Romani 1:18). Quindi, la verità non è un fatto puramente speculativo, teoretico, ma fattuale, morale.
- La verità è anche autenticità, genuinità (domandi all'oste: questo vino è veramente vino? Risposta: che cos'è verità?)
- Chi non mi dice la verità, m'inganna. E questo fa capire che la verità in senso biblico è legata alla fiducia, cioè alla fede.
- Per far capire come la libertà è legata alla verità, e questa alla fiducia, farò un esempio quasi banale. Sto male e mi faccio ricoverare in ospedale; mi accolgono con grande democrazia e con grande rispetto della mia libertà: mi permettono di fare quello che voglio... Ma a me non interessa la libertà, io cerco la verità.
- Immaginiamo che all'ospedale si introduca il libero mercato della cura: tanti stand in cui vengono offerti, a pagamento, i rimedi adatti a ogni male. Sono libero di "cercare" quello che voglio, ma a me interessa "trovare" il rimedio vero: cerco la verità. E se chi mi dovrebbe curare mente, io divento schiavo della menzogna.
- Forse ora siamo convinti che il concetto di libertà come possibilità puramente formale di fare quello che si vuole, di non subire costrizione esterne, è un concetto molto debole, superficiale.
- E' libero colui che è nelle condizioni di ottenere l'obiettivo che si propone. Ma ciascuno di noi si propone la felicità, nel senso più ampio del termine. La domanda è: ci riusciamo? E se no, perché? che cos'è che ci impedisce di ottenere quello che vogliamo? Perché non siamo liberi?
- Cercare la felicità, in sé non è male: ci ricorda che l'uomo è stato creato per la gioia. La ricerca della felicità è quindi inconsapevole ricerca di Dio.
- E quando, pur volendola, non la troviamo, abbiamo un'inconsapevole intuizione del peccato. Infatti pensiamo: "io soffro, di chi è la colpa?" Qualcuno ha sbagliato, e deve pagare.
- Vogliamo essere liberi di cercare dove vogliamo la nostra felicità, ma poi ci accorgiamo che non siamo liberi di trovarla, perché non ne conosciamo la vera via.
- Dall'attaccamento alla propria personale libertà forse adesso siamo spinti a cercare la verità, cioè a cercare di capire come stanno veramente le cose.
- La libertà è un dono che Dio aveva fatto all'uomo alla creazione ("mangia pure liberamente…“), ma il Creatore aveva posto un limite alla libertà della creatura.
- Che cosa ci sarà oltre quel limite? Dio aveva detto: "Nel giorno che ne mangerai certamente morirai”. Ma sarà questa la verità? Oppure la verità è quella del serpente che dice: "Oltre quel limite avrete una libertà ancora maggiore". Torna in gioco la verità e la fede, a cui si oppongono la menzogna e la ribellione.
- Oltre il limite posto da Dio, gli uomini trovano sempre una restrizione della loro iniziale libertà. Usciranno da quel giardino di Eden dove potevano mangiare liberamente.
- L'uomo non è libero, perché muore. La morte è il fatto più evidente che l'uomo non è libero. Essa è una conseguenza del peccato, e anche di questo l'uomo è schiavo. L'uomo può decidere liberamente di cominciare a peccare, ma non può decidere liberamente di smettere: "chi commette peccato è schiavo del peccato” (Giovanni 8:34).
- Sono forse generiche affermazioni religiose, queste? O sono descrizione della realtà?
- Una legge generale: l'uso sbagliato della libertà porta alla diminuzione, fino alla perdita totale, della libertà (es. dei drogati, del capitale male usato, del figliuol prodigo).
- Abbiamo ancora molte libertà sul piano umano, ma tutte si perdono con la morte.
- Ce n'è una, una libertà fondamentale, che invece ci apre orizzonti sconfinati di libertà: la libertà di scegliere Gesù Cristo, di credere e perseverare nella Sua parola.
- Gesù fa con noi uomini peccatori l'esatto contrario di ciò che fece il serpente con gli uomini innocenti: il serpente sedusse gli uomini con la menzogna e li portò alla schiavitù e alla morte; Gesù vuole sedurci con la verità per portarci alla libertà e alla vita.
- Gesù dice il vero, Gesù non inganna. Gesù è la verità: "Io sono la via, la verità, la vita” (Giovanni 14:6).
- Se Gesù è la verità, perché non tutti vi credono? Perché esiste anche la menzogna passiva, l'atteggiamento menzognero in chi ascolta, la predisposizione ad essere ingannati: Giovanni 8:43-47.
- In questo mondo corriamo il rischio di essere imbrogliati, ma se ci imbattiamo in Colui che dice la verità e non gli crediamo, allora gli imbroglioni siamo noi. Perché non potete credere? chiede Gesù. Risposta: perché non volete credere (Giovanni 10:24-30).
- La parola della verità è quella che salva, ma per far questo deve essere accolta in un cuore "onesto e buono" (Luca 8:15), cioè sincero. Chi non è intimamente onesto, non può credere alle parole di Gesù.
- Finché viviamo, abbiamo in dono da Dio una certa porzione di libertà. L'invito è ad accrescere in misura infinita questa libertà accogliendo la verità della parola di salvezza di Gesù Cristo.
- Credere nella parola di Gesù come autentica verità significa rientrare in quella comunione con il Dio Creatore e Signore che rende la vita piena e vera.
- Non perdiamo questa possibilità: lasciamoci inserire nella dimensione eterna dalla parola di Cristo.
Spotlight presenta: "Le valigette. I soldi di Hamas"
Un'inchiesta di Giulia Bosetti sulla rete di finanziamenti dei terroristi
La strage perpetrata in Israele il 7 ottobre 2023 – almeno 1.200 vittime e duecentocinquanta ostaggi – ha svelato un apparato militare e una capacità organizzativa di Hamas che ha superato ogni previsione e segnato il fallimento dei servizi di intelligence israeliani, tra i più potenti al mondo. Un massacro che ha cambiato per sempre la storia contemporanea e ha dato il via alla guerra a Gaza e alla strage di oltre 36mila civili palestinesi.
Per capire che cosa ha portato al 7 ottobre e alle scelte strategiche di Hamas, Spotlight, il programma di inchiesta di Rainews24, ha deciso di seguire i soldi: investimenti internazionali e reti di finanziamento. Dal 2018, valigette piene di contanti hanno attraversato alcuni dei confini più controllati del mondo, dal Qatar a Israele, per arrivare a Gaza. Chi ha voluto quelle operazioni e quali servizi segreti hanno garantito il trasferimento di contanti? Perché chi aveva previsto il massacro del 7 ottobre non è stato ascoltato?
“Le valigette”, in onda sabato 6 luglio alle 11.30 e alle 20.30, e domenica 7 luglio alle 13.30 e alle 20.30 su Rainews24, è un’inchiesta sulle relazioni di Hamas con il Qatar e l’Iran, ma anche su quelle con il governo Netanyahu. Spotlight ha intervistato alti funzionari dell’intelligence israeliana e americana, passando per i servizi segreti europei e le unità antiriciclaggio giordane. Un viaggio tra investimenti finanziari e oscuri interessi politici, una storia ripresa il 2 luglio 2024 dal Jerusalem Post, sulla quale Spotlight è ora in grado di mostrare nuovi documenti esclusivi e testimonianze inedite.
Israele deve porre fine al regno del terrore di Hezbollah nel nord di Israele. Hezbollah sta bruciando le riserve naturali israeliane, i pascoli, i campi e i frutteti. Più di un migliaio di abitazioni sono state distrutte. Circa 80 mila israeliani sono stati sfollati dalle loro case. L'obiettivo finale del gruppo sciita libanese è lo stesso del suo padrone iraniano: l'annientamento di Israele.
Incendi provocati dai razzi di Hezbollah lanciati dal Libano bruciano la vegetazione vicino alla città di Tzfat, nel nord di Israele, il 12 giugno 2024
Hezbollah sta devastando il nord di Israele. Le riserve naturali, i pascoli, i campi e i frutteti stanno andando a fuoco. Le basi militari, tra cui diversi asset strategici, stanno subendo gravi danni. Più di un migliaio di abitazioni sono state distrutte. Le aziende e le imprese chiudono i battenti. E circa 80 mila sfollati israeliani vivono in alberghi senza sapere quando potranno tornare a casa.
Nelle ultime settimane il gruppo paramilitare sciita ha intensificato notevolmente il ritmo e la letalità dei suoi attacchi lanciati contro l'Alta Galilea, la Galilea occidentale e le alture di Golan, oltre ad estendere i suoi attacchi all'area del Monte Carmelo e alla valle di Jezreel.
Haifa, Acri e Tiberiade sono state tutte oggetto di attacchi missilistici, con droni e razzi. Mercoledì 12 giugno, durante la festività di Shavuot, Hezbollah ha lanciato più di 200 razzi verso Israele. Giovedì 13, ne sono stati lanciati più di un centinaio estendendo gli incendi, e intensificando caos e distruzione.
Le Forze di Difesa Israeliane (IDF) sostengono che le azioni di Hezbollah non hanno rotto lo schema degli attacchi del tipo "tit-for-tat" ("occhio per occhio") che il gruppo libanese e Israele si sono sferrati a vicenda negli ultimi otto mesi. Martedì 11 giugno, l'Aeronautica israeliana ha condotto un attacco aereo contro l'unità Nasser del comando meridionale di Hezbollah. L'unità Nasser è una formazione delle dimensioni di una divisione ed è responsabile delle operazioni di Hezbollah lungo il confine con Israele.
Il comandante dell'unità, Taleb Sami Abdullah, e altri tre suoi miliziani sono stati uccisi nel raid. L'affermazione dell'IDF, secondo cui le possenti raffiche di missili, droni e razzi lanciate da Hezbollah il 12 e il 13 giugno, e proseguite fino a venerdì 14, sono una tattica del "tit-for-tat", rafforza la linea di Hezbollah secondo cui la sua massiccia aggressione è una reazione legittima all'assassinio di Abdullah.
Quanto affermato dall'IDF è certamente controproducente. Ma non è questo il problema principale.
Il problema principale di quanto asserito dalle Forze di Difesa Israeliane è che viene ignorata la logica strategica delle operazioni di Hezbollah, che non lancia attacchi in risposta a nessuna specifica operazione israeliana, ma lo fa meramente per raggiungere i propri obiettivi strategici. Hezbollah non è solo offensivo: sta conducendo una guerra strategica con chiari obiettivi strategici a lungo e a medio termine.
Il movimento sciita libanese ha iniziato a bombardare Israele con droni, razzi anticarro e missili l'8 ottobre 2023. Da allora ha continuato gli attacchi, intensificandoli lentamente. Lungi dall'essere effimere, le mosse di Hezbollah sono guidate da obiettivi finali. Da un assalto all'altro, il gruppo sciita impara di più su come penetrare le difese di Israele. L'escalation dei suoi attacchi è una funzione della sua curva di apprendimento.
• Consentire il controllo di Hezbollah sul Libano Quali sono gli obiettivi che Hezbollah intende conseguire con le sue raffiche di razzi? L'obiettivo finale del movimento sciita libanese è lo stesso del suo padrone iraniano: l'annientamento di Israele. Ma Hezbollah ha altresì degli obiettivi intermedi. Il primo è quello di ottenere il controllo operativo sul nord di Israele. Tale controllo, secondo Hezbollah e l'Iran, costringerà Israele a capitolare sul campo di battaglia strategico. Se i razzi anticarro, i droni e i missili lanciati dal gruppo libanese riusciranno a vanificare le capacità dello Stato ebraico di difendere il nord del Paese, allora Israele sarà costretto a capitolare sulla questione della sovranità formale al tavolo dei negoziati per ottenere la "tranquillità".
Lo specifico "accordo" che Hezbollah intende raggiungere prevede la resa formale da parte di Israele della sua sovranità sul Monte Dov, una vasta area sulle alture del Golan che controlla tutto il nord di Israele, compresa la baia di Haifa.
Hezbollah è in grado di portare avanti le proprie operazioni perché è protetto da una serie di attori sia in Libano che sulla scena internazionale. Come sostiene da anni in modo convincente l'esperto di affari libanesi Tony Badran, Hezbollah è la legione straniera libanese dell'Iran. È anche il Libano stesso.
Il gruppo sciita controlla tutti gli aspetti della politica e degli affari di sicurezza nel Paese e gran parte dell'economia. Gli organi ufficiali del Libano, le sue istituzioni statali (comprese le Forze Armate libanesi), il Parlamento, la Banca Centrale e il governo sono tutte foglie di fico il cui scopo è nascondere questa verità fondamentale. L'UNIFIL, la forza militare delle Nazioni Unite incaricata di tenere Hezbollah lontano dal confine con Israele, agisce a piacimento del movimento sciita. Il suo personale vive (e muore) a compiacenza di Hezbollah. Di conseguenza, non solo l'agenzia è incapace di svolgere il proprio mandato, ma, come per le Forze Armate Libanesi, la continua presenza dell'UNIFIL lungo il confine protegge le forze e le risorse di Hezbollah dall'IDF.
Sotto il controllo di Hezbollah, il Libano non è un vero e proprio Paese. È la base militare avanzata dell'Iran contro Israele che si dà il caso conti 5,5 milioni di residenti. Il compito dei residenti è quello di negare di vivere in una base missilistica iraniana.
Le Nazioni Unite, gli Stati Uniti e l'Unione Europea sono perfettamente in grado di riconoscere questa verità fondamentale. Ma si rifiutano ostinatamente di farlo. Piuttosto, essi consentono il controllo costante di Hezbollah unendosi ai libanesi nel continuare a far credere che il Libano è ancora un Paese con istituzioni statali che operano indipendentemente da Hezbollah, che sono in grado di opporsi alle azioni del movimento sciita e pertanto degne del sostegno finanziario e militare statunitense e di quello internazionale. Tale posizione consente loro di agire diplomaticamente e di mediare gli accordi di resa israeliani all'aggressione genocida di Hezbollah, evitando al tempo stesso scontri diretti con Hezbollah o con l'Iran stesso.
Di fronte agli attacchi di Hezbollah e alla protezione di cui esso gode da parte dei suoi sostenitori sia in Libano che sulla scena mondiale, Israele si trova di fronte a un dilemma. Permettere a Hezbollah di raggiungere i suoi obiettivi sarebbe un suicidio nazionale. Ma per impedire al gruppo sciita di raggiungere tali obiettivi Israele dovrà ancora una volta combattere una grande guerra contro un altro nemico protetto dal sistema internazionale.
C'è anche la sfida militare. Nella generazione passata, i Capi di Stato maggiore dell'IDF che si sono avvicendati hanno abbracciato l'idea che l'era delle grandi guerre convenzionali fosse finita. Sulla base di questa valutazione falsa, ma popolare, per 20 anni, lo Stato Maggiore ha ridotto drasticamente le forze di terra israeliane e ha concentrato la maggior parte delle risorse militari israeliane nell'Aeronautica e in altre unità ad alta tecnologia. Queste forze non erano finalizzate a sviluppare piani per sconfiggere Hamas e Hezbollah, ma ad attaccare gli impianti nucleari iraniani, preferibilmente come parte di una forza guidata dagli Stati Uniti. L'idea che Israele potesse indebolire la propria indipendenza strategica in cambio di garanzie strategiche da parte degli Stati Uniti ha dominato il discorso sulla sicurezza nazionale israeliana.
Tuttavia, dal 7 ottobre, Israele si è trovato coinvolto in una grande guerra convenzionale su sette fronti: Gaza, Libano, Giudea e Samaria, Mar Rosso, Iran e Iraq/Siria.
Mentre Israele si preparava per la guerra che voleva combattere – una guerra a basso costo e ad alta tecnologia combattuta principalmente da centri operativi climatizzati lontani dai campi di battaglia – i suoi nemici si preparavano per la guerra che volevano combattere. Vale a dire, questa è la loro guerra per eliminare Israele. Israele ha addestrato hacker, e Hamas e Hezbollah hanno addestrato eserciti di terroristi jihadisti costituiti da assassini e stupratori e hanno formato squadre per lanciare missili, droni e razzi.
Combattere questi eserciti con le forze ad alta tecnologia israeliane si sta rivelando estremamente difficile. Anche la convinzione di Israele di contare sul sostegno statunitense ha subito un duro colpo. A dire il vero, Washington è disposta a sostenere gli sforzi di Israele per difendersi dall'aggressione lungo i sette fronti presidiati dall'Iran e dai suoi proxies. Si oppone però all'azione offensiva israeliana e ha lavorato attivamente per indebolire la capacità di Israele di condurre operazioni offensive prolungate. Tra le altre cose, gli Stati Uniti si rifiutano di condividere informazioni satellitari e di altro tipo relative a obiettivi offensivi, e stanno imponendo embarghi o rallentando il trasferimento di munizioni offensive alle forze terrestri e aeree israeliane.
• Porre fine al regno del terrore di Hezbollah Dato l'imperativo strategico di sconfiggere Hezbollah e impedirgli di raggiungere il controllo operativo o strategico sul nord di Israele, e alla luce della debolezza diplomatica di Israele rispetto a Hezbollah (e Hamas) e delle sue debolezze operative, la domanda è: come dovrebbe procedere Israele?
La risposta inizia con l'imperativo strategico. Israele deve porre fine al regno del terrore di Hezbollah nel nord di Israele. Deve indebolire la capacità militare di Hezbollah al punto che quest'ultimo non sarà più in grado di colpire Israele a piacimento. Per raggiungere questo obiettivo, Israele deve prendere il controllo del lato libanese del confine, distruggere le forze di Hezbollah a sud del fiume Litani e poi restare nel Libano meridionale per il prossimo futuro.
Un simile obiettivo è, ovviamente, facile da dichiarare. Ma è molto più difficile da conseguire. Realisticamente, per raggiungerlo, Israele ha bisogno di aumentare notevolmente le dimensioni delle sue forze permanenti e di riserva, e possedere la capacità militare-industriale per armare le sue forze in modo indipendente. Israele sta già lavorando per raggiungere entrambi questi obiettivi. Tuttavia, l'indipendenza industriale e l'ampliamento delle forze militari richiedono tempo. E il tempo è essenziale. Non si può pretendere che gli 80 mila sfollati residenti nel nord, ora sparsi negli hotel di tutto il Paese, aspettino anni per tornare nelle proprie case.
La decisione presa nel maggio 2000 dall'allora primo ministro Ehud Barak di cedere a Hezbollah la zona di sicurezza nel sud del Libano è la ragione per cui l'organizzazione terroristica è stata in grado di costruire le sue forze al punto da rappresentare una minaccia esistenziale alla sopravvivenza di Israele. Impegnandosi a invertire la sua decisione, Gerusalemme imboccherà la strada della vittoria. Il governo israeliano preparerà psicologicamente l'opinione pubblica alla strada da percorrere e fornirà allo Stato Maggiore e ai gradi inferiori dell'IDF la guida necessaria per sviluppare e portare a termine missioni tattiche che promuoveranno l'obiettivo finale di Israele.
Se Israele invadesse il Libano con una forza pari a un vero e proprio corpo militare indurrebbe la comunità internazionale guidata dagli Stati Uniti a mobilitarsi contro di esso. Ma se si muovesse lentamente, con battaglie discrete contro obiettivi specifici, Israele potrebbe rimanere al di sotto degli schermi radar delle capitali occidentali e delle istituzioni globali ostili. In apparenza, Israele può presentare le sue operazioni come semplici risposte agli attacchi di Hezbollah. Ma proprio come Hezbollah utilizza ogni attacco missilistico come mezzo per sondare e imparare come penetrare le difese di Israele per portare avanti il proprio obiettivo strategico, anche collegando ogni azione all'obiettivo strategico di ripristinare la zona di sicurezza nel Libano meridionale, le operazioni di Israele saranno pietre per pavimentare la strada che conduce alla vittoria strategica.
Ogni mossa renderà il nord più sicuro. Ed ogni mossa minerà gli obiettivi di Hezbollah. Agendo lentamente e deliberatamente, Israele può imparare man mano che procede, adattando le sue operazioni alle condizioni che scopre sul terreno, espandendole quando le realtà politiche lo consentono e limitandole quando quelle realtà sono più scoraggianti.
Ad oggi, la maggior parte delle azioni di Israele in Libano ha comportato l'uccisione di comandanti militari di Hezbollah come Abdullah. Tuttavia, come ha osservato l'Alma Research and Education Center, specializzato nell'osservazione delle operazioni e delle capacità di Hezbollah, in un'analisi dell'operazione in questione e di altre simili: "Ognuno ha un successore".
"Un tentativo di rimuovere gli alti funzionari può essere solo uno sforzo coadiuvante. È vitale e giusto, ma in fin dei conti è uno sforzo tattico privo di significato strategico".
Un'operazione in lenta escalation in Libano finalizzata all'obiettivo strategico di porre fine all'assalto di Hezbollah al nord di Israele e garantire la sovranità dello Stato ebraico consentirà a Israele di intensificare gradualmente le sue operazioni man mano che le sue forze saranno preparate e l'indipendenza militare-industriale sarà ampliata. Fornirà un mezzo per evitare una diffamazione internazionale più grave che Israele sicuramente subirebbe nel caso di un'invasione di massa, spingendo allo stesso tempo lo Stato ebraico verso un obiettivo strategico in grado di garantirgli gli interessi vitali, e la sopravvivenza. Caroline Glick è un'acclamata columnist e autrice di The Israeli Solution: A One-State Plan for Peace in the Middle East.
(Gatestone Institute, 5 luglio 2024 - trad. di Angelita La Spada)
“Odio tutti gli ebrei”: il video shock che inchioda la giovane Dem
Sta facendo molto discutere un video pubblicato da una ragazza di fronte alle immagini della distruzione di Gaza. Le sue parole sono diventate virali in poco tempo.
A pochi giorni di distanza dal caso di Gioventù Nazionale, i giovani di Fratelli d’Italia, e dalle dimissioni di due militanti dopo l’inchiesta di Fanpage, c’è un nuovo video che sta facendo molto discutere sul web e questa volta non riguarda un esponente della maggioranza o del partito guidato dal premier Meloni.
Al centro della bufera è finita Cecilia Parodi, una scrittrice invitata al convegno dei giovani dem. Le sue parole rilasciate in un video davanti alle distruzioni di Gaza da parte di Israele ha fatto il giro del web in davvero poco tempo. Anche in questo caso abbiamo insulti antisemiti nei confronti degli ebrei, ma non c’è stata nessuna reazione politica della sinistra. Una vicenda destinata a far discutere ancora per diverso tempo.
• Il video incriminato Come detto in precedenza, a far discutere è un video pubblicato sui social dalla stessa scrittrice. Nel filmato, come riportato da Libero, si sente la Parodi reagire in modo molto duro davanti alle immagini che mostrano le distruzioni avvenute nella Striscia di Gaza proprio a causa di Israele.
“Odio tutti gli ebrei, odio tutti gli israeliani, dal primo all’ultimo. Odio tutti quelli che li difendono. I giornalisti, tutti i politici, tutti i paraculi. Spero di vederli impiccati. Giuro che sarò la prima della fila a sputargli addosso“, le parole della scrittrice diventati virali nel web in davvero poco tempo. Naturalmente si tratta di dichiarazioni molto dure e che hanno dato vista ad una vera bufera sui social.
• Il silenzio della sinistra Se sulla vicenda di Gioventù Nazionale la sinistra aveva immediatamente attaccato il governo chiedendo lo scioglimento dell’ala giovanile di FdI, in questo caso da parte del Partito Democratico c’è stato silenzio. Una scelta che sta provocando non poche polemiche se si pensa che la scrittrice è stata ospite delle iniziative dei giovani della forza politica guidata proprio da Elly Schlein.
Vedremo se nelle prossime ore ci sarà una presa di posizione da parte della segretaria dem oppure si manterrà una linea del silenzio che, come già successo in passato, rischia ad essere un’arma a doppio taglio.
Venti di cambiamento nel Regno Unito. Trionfo dei laburisti: Starmer nuovo Primo Ministro
La Comunità ebraica tra speranze e attese
di Marina Gersony
Ieri, giovedì 4 luglio, le elezioni generali nel Regno Unito hanno rinnovato i 650 seggi della Camera dei Comuni, la camera bassa del Parlamento. I primi exit poll hanno rivelato una vittoria schiacciante del Partito Laburista, che ha ottenuto il 33,8% dei voti e 411 seggi, raggiungendo la maggioranza parlamentare. Questo risultato rappresenta la peggiore sconfitta nella storia per i conservatori, guidati da Rishi Sunak, che hanno ottenuto solo 119 seggi e il 23,7% dei voti. Seguono i centristi Lib-Dem e l’estrema destra entra in Parlamento con i sovranisti di Reform UK di Nigel Farage, eletto deputato dopo sette tentativi falliti.
Keir Starmer, ex pubblico ministero che ha assunto la guida del Partito Laburista nel 2020 sostituendo Jeremy Corbyn, diventa così il nuovo Primo Ministro: «Ce l’abbiamo fatta! Il cambiamento inizia ora», ha dichiarato nel suo discorso di vittoria. Buckingham Palace ha confermato che re Carlo III ha ricevuto Starmer e gli ha chiesto di formare una nuova amministrazione.
Il premier uscente, Rishi Sunak, ha ammesso la sconfitta e ha presentato le sue dimissioni a re Carlo III. «Il Partito Laburista ha vinto queste elezioni generali e ho chiamato Sir Keir Starmer per congratularmi con lui per la sua vittoria», ha detto Sunak nel suo ultimo discorso.
• IL RITORNO DEGLI EBREI AL LABOUR Questa tornata elettorale rappresenta una svolta cruciale per la comunità ebraica del Regno Unito, che negli ultimi anni ha vissuto un rapporto complesso con i principali partiti politici. L’agenda antisionista di Corbyn e lo scandalo antisemita associato avevano spinto quasi metà degli ebrei britannici a dichiarare l’intenzione di lasciare il Paese in caso di vittoria laburista, alienando anche un più ampio elettorato. Di conseguenza, la comunità ha accolto favorevolmente la vittoria del “nuovo” Partito Laburista di Sir Keir Starmer, seppure con qualche riserva, osservando attentamente gli sviluppi. I leader ebraici hanno elogiato Starmer per il suo successo e ringraziato il governo conservatore uscente per il sostegno fornito dopo l’attacco del 7 ottobre.
Il rabbino capo Ephraim Mirvis, considerato la massima autorità spirituale e morale ebraica ortodossa in Gran Bretagna, ha sottolineato che Starmer diventa Primo Ministro in un periodo di «polarizzazione, estremismo e conflitto». Phil Rosenberg, presidente del Consiglio dei deputati degli ebrei britannici, ha dichiarato a sua volta che nessuno nella comunità ebraica dimenticherà lo stato in cui si trovava il Partito Laburista quando Starmer ne prese il controllo nel 2020, caratterizzato da antisemitismo e inadeguatezza a governare. Rosenberg ha anche ringraziato Rishi Sunak e il Partito Conservatore per il loro sostegno alla comunità ebraica negli ultimi 14 anni, tra cui l’adozione della definizione di antisemitismo dell’IHRA e la proscrizione di Hamas e Hezbollah.
Sotto la guida di Keir Starmer, il Partito Laburista ha fatto notevoli sforzi per affrontare l’antisemitismo, un problema che aveva causato profonde fratture durante la leadership di Jeremy Corbyn. Il Jewish Labour Movement (JLM) ha espresso rinnovata fiducia nel partito, affermando che i suoi membri sentono nuovamente il Labour come un luogo sicuro e accogliente per gli ebrei. Starmer ha assicurato alla comunità ebraica che i cambiamenti all’interno del partito sono permanenti e ha promesso di continuare a finanziare il Community Security Trust (CST).
• CHI È KEIR STARMER Nato nel 1962 a Southwark, un borough di Londra, figlio di una infermiera e un costruttore di utensili, Sir Keir Rodney Starmer è stato il primo della sua famiglia a frequentare l’università, studiando legge a Leeds e Oxford. Ex pubblico ministero, dopo la pesante sconfitta dei laburisti nelle elezioni generali del 2019 e le dimissioni di Corbyn, il 4 gennaio 2020 ha annunciato la sua candidatura alla leadership del Partito Laburista il 4 aprile 2020, battendo le rivali Rebecca Long-Bailey e Lisa Nandy. Eletto capo del partito con il 56,2% dei voti al primo turno, è stato lodato per la sua imparzialità e professionalità. Definito serio, moderato e centrista, ha ereditato un partito afflitto da lotte interne e accuse di antisemitismo, che ha affrontato con determinazione espellendo gli elementi antisemiti e presentando pubbliche scuse alla comunità ebraica. «Ho cambiato il partito laburista e, se avrò il privilegio di essere eletto, cambierò anche il Paese», aveva promesso.
• LADY VICTORIA: LA PRIMA FAMIGLIA EBRAICA A DOWNING STREET
Dopo la vittoria elettorale, i media hanno subito acceso i riflettori su Lady Victoria, l’affascinante moglie di Keir Starmer chiamata affettuosamente anche Vic o Vicky. Nata a Londra nel settembre 1973 (ma chi dice nel 1974) con il nome di Victoria Jane Alexander, è cresciuta a Gospel Oak, nel nord-ovest della città. Suo padre Bernard, un docente di Economia, è un ebreo osservante nato da una famiglia ebreo-polacca emigrata nel Regno Unito prima della Seconda guerra mondiale. Sua madre, Barbara Moyes, convertitasi all’ebraismo e morta nel 2020, ha lavorato come medico della comunità e ha prestato servizio come Executive Coach presso la NHS Leadership Academy. Vic ha una sorella maggiore, Judith.
Descritta dalle cronache come elegante, misteriosa e riservata, ammirata soprattutto per il low profile, Lady Victoria è un’ex avvocata, proprio come suo marito, e attualmente lavora come manager nella Sanità pubblica britannica. Di lei si dice anche che sia «simpatica, intelligente e straordinaria». La coppia vive con i loro due figli, Toby di 13 anni e Victoria di 11, in una casa da 1,75 milioni di sterline a Camden, nel nord di Londra. Si racconta che sia molto amica di Amal e George Clooney e che frequenta la sinagoga londinese liberale di St John’s Wood con i suoi cari. Per la prima volta, una famiglia ebraica si appresta dunque a risiedere al numero 10 di Downing Street. Anche se non è del tutto certo. Estremamente attenta alla privacy della sua famiglia, fonti interne al partito laburista la descrivono come la «First Lady riluttante», talmente riluttante che, si dice, potrebbe non essere affatto entusiasta di trasferirsi nella residenza ufficiale prevista, preferendo rimanere nell’attuale dimora nel Nord di Londra.
• IL SUPPORTO A ISRAELE E GLI ATTACCHI DEI PRO-PAL La fede di Lady Victoria è diventata più evidente a livello politico dopo gli attacchi del 7 ottobre. Starmer ha dichiarato che metà della famiglia di sua moglie è ebrea, sia nel Regno Unito che in Israele, e ha espresso sostegno alle comunità ebraiche e a Israele. Ha criticato la BBC per non aver etichettato Hamas come un’organizzazione terroristica e ha sottolineato l’importanza di combattere l’antisemitismo.
Durante la campagna elettorale, la famiglia di Starmer è stata bersaglio di proteste pro-Palestina. Lady Victoria è stata costretta a lasciare la sua casa a causa delle proteste fuori dalla loro residenza a North London. Combattere l’antisemitismo e sostenere la comunità ebraica sono stati elementi chiave del “nuovo” Partito Laburista sotto la guida di Starmer, portando a un notevole aumento di consensi tra gli elettori ebrei.
Starmer ha spesso evidenziato l’importanza dell’ebraismo nella sua vita familiare, definendo lo Shabbat un «punto di riferimento granitico nella settimana» e sottolineando come queste tradizioni siano fondamentali per mantenere vive le radici religiose della famiglia. Recentemente, Rishi Sunak lo ha criticato per aver dichiarato che, anche come Primo Ministro, avrebbe mantenuto libera la serata del venerdì per celebrare lo Shabbat. Starmer ha risposto definendo questa critica insensibile e con sfumature antisemite, sottolineando come il venerdì sera sia un momento significativo per molte religioni.
• RINNOVAMENTO E COOPERAZIONE Diversi osservatori ritengono che il nuovo governo non apporterà cambiamenti significativi alla linea seguita sulla Brexit, ma c’è speranza che possa portare maggiore stabilità e migliorare i rapporti con l’Unione Europea. La leadership di Starmer potrebbe segnare un’era di pragmatismo e moderazione. Il nuovo premier avrà presto l’opportunità di confrontarsi con le principali figure politiche europee al vertice NATO negli Stati Uniti dal 9 all’11 luglio.
La schiacciante vittoria dei laburisti potrebbe segnare l’inizio di una fase di rinnovamento e consolidamento, sia sul fronte interno che nelle relazioni con gli alleati europei e transatlantici. Resta da vedere come Starmer e il suo governo affronteranno le sfide future, ma la speranza è che possano inaugurare un periodo di maggiore stabilità e cooperazione.
• RIFLESSIONI E CONSIDERAZIONI La vittoria del Partito Laburista rappresenta dunque non solo un cambiamento politico, ma anche un momento di riflessione per la società britannica. L’affermazione di una famiglia ebraica a Downing Street è un segnale di inclusività e progresso, dimostrando come la diversità possa arricchire il tessuto sociale e politico di una nazione. Tuttavia, questo cambiamento porta con sé anche delle sfide. La comunità ebraica, sebbene abbia accolto positivamente la vittoria di Starmer, mantiene una vigilanza costante contro l’antisemitismo, consapevole che le parole devono essere seguite da azioni concrete.
Il ritorno della comunità ebraica al Partito Laburista non è solo simbolico, ma rappresenta un atto di fiducia verso un leader che ha dimostrato impegno e determinazione nel combattere l’odio e i pregiudizi. Questo riavvicinamento è una vittoria per la giustizia e l’uguaglianza, e un monito per tutti i partiti politici: il rispetto e la dignità umana non sono negoziabili.
Starmer, con le sue radici nella classe operaia e la sua esperienza come pubblico ministero, porta una prospettiva unica al ruolo di Primo Ministro. La sua capacità di navigare tra le complessità del diritto e della politica, unita alla sua empatia personale per le tradizioni ebraiche, potrebbe rivelarsi una combinazione vincente per un governo che aspira a unire piuttosto che dividere.
In questo contesto, la politica estera del Regno Unito potrebbe vedere un nuovo corso. La posizione ferma di Starmer a favore di Israele e contro il terrorismo è un indicatore di come il nuovo governo potrebbe affrontare le tensioni internazionali. Tuttavia, l’equilibrio tra supporto incondizionato e diplomazia cauta sarà cruciale per mantenere la stabilità in Medio Oriente e per la credibilità del Regno Unito sulla scena globale.
La comunità ebraica, e più in generale tutti i cittadini del Regno Unito, guardano con attenzione e speranza a questa nuova fase della politica britannica, con l’auspicio che possa portare stabilità, progresso e giustizia per tutti.
Come mai media ed enti internazionali ignorano i crimini di Hamas contro i palestinesi?
"Tanti abitanti di Gaza hanno cercato di protestare e sono stati arrestati e torturati. Sono uno di loro e so cosa significa essere abbandonati da coloro a cui interessa solo dare addosso a Israele".
Dall’inizio della guerra in corso tra Israele e Hamas, Hamas ha commesso innumerevoli atrocità contro il suo stesso popolo a Gaza, cosa che accadeva anche prima della guerra. Eppure, per qualche motivo, nonostante Hamas abbia di fatto preso in ostaggio la striscia di Gaza e tutti i suoi abitanti e li terrorizzi regolarmente, questi crimini non vengono mai riportati dai media arabi e occidentali, né dalle organizzazioni internazionali per i diritti umani, tutti inclini a dipingere Hamas come un legittimo gruppo di resistenza che sta cercando di “liberare” i palestinesi....
Il sergente Aleksandr Iakiminskyi, autista del 71° Battaglione della 188a Brigata, è rimasto ucciso a causa delle ferite riportate durante l’attacco terroristico di mercoledì nel centro commerciale di Karmiel. L’attentatore è stato neutralizzato dallo stesso Iakiminskyi, prima che perdesse i sensi.
Le immagini delle telecamere di sorveglianza mostrano il terrorista prima pugnalare al collo il sergente, e successivamente aggredire il secondo. Nel giro di pochi secondi, Iakiminskyi cade a terra per le ferite da taglio, ma quando il terrorista si è voltato per pugnalare di nuovo il suo collega, il soldato è riuscito ad armare il fucile e a sparare, neutralizzandolo. Successivamente Iakiminskyi è stato portato d’urgenza al Galilee Medical Center di Nahariya, ma non ce l’ha fatta a causa delle ferite riportate.
Successivamente le forze dell’ordine hanno identificato il terrorista con Jawwad Omar Rubia, un cittadino israeliano della vicina città araba di Nahf.
Iakiminskyi lascia i genitori Olga e Nikolai e il fratello undicenne Ilya. “Sono molto orgogliosa di ciò che ha fatto” ha affermato la madre a Ynet. “All’inizio è stato duro per lui nell’esercito, ma di recente si era abituato alla struttura ed era felice di dare il suo contributo. Sarebbe dovuto tornare a casa domani” ha aggiunto. “Era sempre in giro, quindi ero sempre preoccupata. Ma ogni volta che gli mandavo un messaggio, lui rispondeva sempre che andava tutto bene”.
“Per me è importante che le persone ricordino che era una persona meravigliosa e gentile, amata da molti”, ha detto.
Il capo della polizia del distretto settentrionale, Shuki Tahauko, ha spiegato alla stampa che il terrorista era arrivato al centro commerciale a piedi. “Siamo a conoscenza di questo tipo di attacchi, ma escludiamo la possibilità che ci siano altri terroristi nelle vicinanze”, ha affermato.
Il sindaco di Karmiel, Moshe Koninski, ha dichiarato all’emittente Kan: “È la prima volta che viviamo un evento del genere” sottolinea Moshe Koninski, sindaco di Karmiel, all’emittente televisiva Kan.
Non accenna a diminuire l’intensità del conflitto tra il gruppo terrorista sciita Hezbollah e l’esercito israeliano al confine tra lo stato ebraico e il Libano. Tra la dirigenza israeliana torna a venire ventilata l’ipotesi di invasione del limitrofo paese arabo. Una decisione di tale portata rischia però di far precipitare definitivamente la regione in una più ampia e devastante guerra regionale, mettendo così a rischio l’intero equilibrio geostrategico già in sofferenza dallo scoppio della guerra tra Hamas e Israele.
Vediamo quindi quali sono le opzioni e i possibili scenari di un eventuale conflitto.
Dallo scoppio del nuovo conflitto aperto tra il gruppo terrorista Hamas e lo stato ebraico, Hezbollah ha iniziato una campagna di bombardamenti ai confini settentrionali di Israele. Il gruppo sciita ha sentito il dovere di intervenire per mostrare solidarietà all’alleato palestinese, pur cercando sempre di non entrare direttamente in guerra con Israele, preferendo limitarsi ai bombardamenti tramite droni e missili.
Pur sfoggiando una retorica massimalista e bellicosa, anche dopo l’invasione di terra della Striscia di Gaza, il Partito di Dio non ha voluto impegnarsi in uno scontro aperto con l’esercito israeliano. Le ragioni sono molteplici. Innanzitutto, Hezbollah, a differenza di Hamas, è un proxy diretto di Teheran, che non vuole logorare un asset fondamentale del proprio Asse della Resistenza in un conflitto che non considera esistenziale e di primario interesse nazionale. Inoltre, la stessa dirigenza sciita deve mediare tra le proprie aspirazioni ideologiche e di potenza e le dinamiche interne del proprio paese. Un conflitto aperto contro Israele rischierebbe di far precipitare il Libano in uno scenario quasi apocalittico, considerando la già precaria situazione economica del paese. I leader di Hezbollah sanno anche che la propria posizione oltranzista contro Israele non è condivisa dalle comunità cristiane del paese e nemmeno completamente dalla fazione sunnita. Avendo acquisito maggiore rilevanza e peso politico negli ultimi anni, devono calcolare le proprie mosse attentamente per evitare di perdere influenza nello scenario politico interno libanese.
Con il prolungarsi del conflitto nella Striscia, la dirigenza israeliana ha iniziato a dividersi al suo interno. La componente centrista del gabinetto di guerra, rappresenta dal leader Benny Gantz, ha abbandonato l’esecutivo, essendo in disaccordo con le modalità con cui Benjamin Netanyahu sta conducendo l’offensiva nell’exclave palestinese. In questo modo, però, potrebbero aumentare le pressioni da parte degli alleati estremisti del Likud, i quali vogliono la completa rioccupazione della Striscia e spingono per un’invasione di terra del Libano meridionale. Nonostante alcune componenti dell’esercito non siano favorevoli all’apertura di un secondo fronte, lo stesso Bibi potrebbe valutare come utile per la propria sopravvivenza politica una campagna militare contro il nemico settentrionale.
Un conflitto contro Hezbollah avrebbe le caratteristiche di una guerra totale vera e propria con il rischio di intervento dell’Iran e delle milizie sciite del Siraq in soccorso al proprio alleato libanese. Inoltre, a differenza di Hamas, Hezbollah detiene un ingente arsenale e può contare su decine di migliaia di miliziani forgiati anche dalle esperienze belliche in Siria e del know-how militare iraniano e russo. La stessa configurazione del territorio del Libano meridionale facilita la guerriglia, essendo collinare e boschivo. Dopo la guerra del 2006, Hezbollah ha ampliato il proprio arsenale, che può contare decine di migliaia di razzi, diverse migliaia di missili a corto raggio e alcune centinaia a medio e lungo raggio. Qualora venisse dispiegata al suo massimo potenziale, la potenza di fuoco è in grado di disturbare l’aviazione israeliana e di creare difficoltà allo stesso sistema antimissilistico Iron Dome, aumentando quindi i danni alle infrastrutture e le vittime tra la popolazione civile. Alla luce di questi fattori di rischio, l’esercito israeliano farebbe largo uso dei bombardamenti aerei per fiaccare le capacità di fuoco dell’avversario, aumentando a dismisura il livello delle devastazioni. Israele avrebbe comunque ulteriori difficoltà nel confronto con Hezbollah. Il gruppo sciita ha costruito una rete di tunnel ancora più estesa di quella presente a Gaza e, a differenza di Hamas, può godere di una linea di rifornimenti diretta e continua dall’Iran attraverso la Siria e l’Iraq.
Dall’inizio della primavera l’intensità dello scontro tra i due attori è aumentata, da entrambi i lati della frontiera decine di migliaia di civili sono stati costretti ad abbandonare le proprie dimore per essere sfollati verso le regioni interne dei rispettivi paesi. Le parti in conflitto devono quindi fare i conti con alcuni incentivi ad innalzare il livello dello scontro e i rischi di una devastante guerra regionale.
A seguito della schiacciante vittoria dei laburisti nelle elezioni parlamentari nel Regno Unito, Keir Starmer, leader del partito dal 2020, si appresta a entrare a Downing Street come Primo Ministro. Fermo sostenitore del diritto di Israele a difendersi, appoggia la fine della guerra solo quando gli ostaggi saranno liberati.
Gli analisti prevedono che Starmer possa diventare più critico nei confronti del governo di Netanyahu, rispetto al suo predecessore Rishi Sunak, ma, al contrario di quanto sta avvenendo in diversi governi sinistra in Occidente, il leader laburista ha affermato che il governo riconoscerebbe uno Stato palestinese solo come parte di un processo di pace globale e non ha stabilito un programma per tale mossa.
Da ottobre 2023 Starmer ha più volte sottolineato la sua ferma convinzione nel diritto di Israele all’autodifesa e si è rifiutato per molto tempo di chiedere la fine dei combattimenti. Solo dopo pressioni interne ha accettato di sostenere tale richiesta, a condizione che vengano liberati tutti ostaggi ancora nelle mani di Hamas.
Starmer, 61 anni e con una lunga carriera in legge, pur considerato un politico poco carismatico, ha permesso al suo partito di registrare una delle più grandi vittorie elettorali della storia e di tornare al potere dopo 14 anni di governi conservatori. Ha preso le redini del suo partito nel 2020 dopo che Jeremy Corbyn l’aveva praticamente distrutto, con un crescente antisemitismo che si respirava all’interno. Il processo di cambiamento dei Labour è partito proprio con l’estromissione di Corbyn e con le scuse pubbliche di Starmer per la deriva antisemita presa dal partito. Negli anni successivi inoltre ha allontanato dal partito circa 300 sostenitori del suo predecessore.
Nel 2019, con Corbyn che si era dichiarato “amico” di Hamas e Hezbollah, solo l’11% degli ebrei britannici aveva votato Labour. I sondaggi questa volta hanno mostrato che tra il 30% e il 50% della comunità ebraica lo ha fatto.
Il rapporto di Starmer con il mondo ebraico parte già dalla sua famiglia: la moglie Victoria, infatti, ha origini ebraiche ashkenazite e la coppia ha rivelato di recente di aver cresciuto i figli con un’enfasi sulla loro eredità ebraica. La famiglia, quasi ogni settimana, si riunisce per un pasto di Shabbat e spesso partecipa alle funzioni in sinagoga.
Venerdì mattina, il presidente israeliano Isaac Herzog si è congratulato con Keir Starmer per la vittoria alle elezioni nel Regno Unito sul suo account ufficiale X. Nel post si legge che attende di lavorare con lui “per riportare a casa i nostri ostaggi, costruire un futuro migliore per la regione e approfondire la stretta amicizia tra Israele e il Regno Unito”. Ha inoltre espresso la sua gratitudine al primo ministro uscente del Regno Unito, Rishi Sunak.
Francia: 88enne aggredita e insultata. “Sporca ebrea, questo è ciò che meriti”
Una donna di 88 anni è stata aggredita fuori Parigi da due aggressori che l’hanno spinta a terra, presa a calci e chiamata “sporca ebrea”, mentre la tensione per il crescente antisemitismo continua a ribollire in Francia.
L’aggressione è avvenuta la settimana scorsa e la donna ha sporto denuncia alla polizia locale lunedì, secondo quanto riportato dal quotidiano francese Le Figaro. Le forze dell’ordine stanno indagando sull’attacco, avvenuto nella Val-d’Oise, a nord di Parigi.
L’anziana donna ha raccontato che si stava recando a una visita medica quando due aggressori l’hanno attaccata alle spalle. L’hanno colpita con un pugno in faccia, l’hanno spinta a terra e l’hanno presa a calci mentre le lanciavano insulti antisemiti, tra cui “sporca ebrea, questo è ciò che ti meriti”.
Secondo la denuncia, l’anziana donna indossava una collana con la Stella di Davide, che ha permesso agli aggressori di identificarla come ebrea. “Credo che abbiano visto la mia collana, altrimenti non l’avrebbero capito”, ha detto la donna.
La vittima, 88 anni, ha riportato la rottura di un dente, dolori alla schiena e al polso, oltre ad angoscia mentale e incubi.
La parlamentare israeliana Sharren Haskel ha riferito giovedì che la vittima era sua nonna e ha descritto gli aggressori come due “teppisti arabi”. “Ha cercato di nascondere l’accaduto alla mia famiglia perché era imbarazzata e si vergognava, ma non ci è riuscita”, ha detto Haskel a JNS. “Avrebbe potuto finire molto peggio. Oggi si è recata in ospedale per essere visitata nell’ambito della presentazione di una denuncia alla polizia”.
In un post su X/Twitter, Haskel ha scritto di non avere “alcuna speranza nelle autorità francesi”, sostenendo che il governo “permette che vengano diffuse diffamazioni di sangue contro Israele, e di conseguenza la comunità ebraica subisce violenze, stupri e omicidi”.
Haskel ha invitato il governo israeliano a “guidare la lotta contro l’esplosione dell’antisemitismo”, aggiungendo che le comunità ebraiche di tutto il mondo sono “inseparabili” da Israele.
“Invito gli ebrei della diaspora, come mia nonna, a tornare nella loro casa nazionale, culturale e storica”, ha concluso.
• IMPENNATA DI ANTISEMITISMO DAL 7 OTTOBRE L’attacco in Val-d’Oise è avvenuto nel contesto di un’impennata dell’antisemitismo a livelli record in tutta la Francia.
Secondo le autorità francesi, in un attacco particolarmente grave che ha attirato l’attenzione dei media internazionali, una ragazzina ebrea di 12 anni è stata violentata da tre ragazzi musulmani in un sobborgo di Parigi il 15 giugno. La bambina ha raccontato agli investigatori che gli aggressori l’hanno chiamata “sporca ebrea” e le hanno rivolto altri commenti antisemiti durante l’aggressione.
I tre presunti aggressori sono stati arrestati dalla polizia francese due giorni dopo lo stupro. Due di loro sono stati incriminati per stupro di gruppo, minacce di morte, violenza antisemita, tentata estorsione e violazione della privacy. Il terzo ragazzo è stato accusato come testimone.
Dopo l’attacco, il Presidente francese Emmanuel Macron ha “denunciato la piaga dell’antisemitismo” che sta invadendo la società francese e ha parlato della necessità di combattere l’odio verso gli ebrei nelle scuole.
L’incidente ha scatenato l’indignazione nazionale e le massicce proteste contro l’antisemitismo sono scoppiate in Francia.
L’organo di rappresentanza degli ebrei francesi, il Crif, ha condannato i due recenti attacchi, osservando che gli ebrei non sono stati risparmiati dalla violenza, anche se bambini o anziani.
“Questo atto spregevole mette in evidenza la realtà dell’antisemitismo in Francia, dove le vittime di età compresa tra i 12 e gli 88 anni vengono attaccate quotidianamente a causa della loro identità ebraica”, ha twittato Crif.
La Francia ha registrato un’impennata record di antisemitismo sulla scia del massacro del gruppo terroristico palestinese Hamas del 7 ottobre nel sud di Israele. Gli episodi di antisemitismo sono aumentati di oltre il 1.000% negli ultimi tre mesi del 2023 rispetto all’anno precedente, con oltre 1.200 incidenti segnalati – più del numero totale di incidenti in Francia nei tre anni precedenti messi insieme.
Il mese scorso, a una famiglia israeliana in visita a Parigi è stato negato il servizio in un hotel dopo che un addetto ha notato i loro passaporti israeliani. Mentre in aprile, una donna ebrea è stata picchiata e violentata in un sobborgo di Parigi come “vendetta per la Palestina”.
Parashat Korach. Un leader deve sapere distinguere le critiche al suo ruolo da quelle alla sua persona
Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Quando leggiamo la storia di Korach, la nostra attenzione tende a concentrarsi sui ribelli. Non riflettiamo tanto sulla risposta di Mosè. Era giusta? Era sbagliata? È una storia complessa.
Come spiega il Ramban, non è un caso che la ribellione di Korach sia avvenuta all’indomani della storia delle spie. Finché il popolo si aspettava di entrare nella Terra Promessa, rischiava di perdere più di quanto potesse guadagnare sfidando la leadership di Mosè. Egli aveva superato con successo tutti gli ostacoli in passato. Era la loro migliore speranza. Ma ora un’intera generazione era condannata a morire nel deserto. Ora non avevano nulla da perdere. Quando le persone non hanno nulla da perdere, si ribellano.
Esaminiamo la tipologia dei ribelli stessi. Dalla narrazione emerge chiaramente che non si trattava di un gruppo uniforme o unificato. Il Malbim (rabbino ucraino 1809-1879) spiega che c’erano tre gruppi diversi, ognuno con le proprie rimostranze e il proprio programma. Il primo era Korach stesso, un cugino di Mosè. Mosè era figlio del figlio maggiore di Kehat, Amram. In quanto figlio del secondogenito di Kehat, Yitzhar, Korach si sentiva in diritto di ricoprire il secondo ruolo di guida, quello di sommo sacerdote. Il secondo gruppo era quello formato da Datan e Aviram, che sentivano di avere diritto a posizioni di comando in quanto discendenti di Ruben, il primogenito di Giacobbe. Terzo gruppo erano le altre 250 persone, descritte dalla Torà come “principi dell’assemblea, famosi nella comunità, uomini di fama”. Sentivano di essersi guadagnati il diritto di essere leader per motivi meritocratici, oppure – come suggerisce il Ibn Ezra – erano primogeniti che si erano risentiti del fatto che il ruolo di ministri di Dio era stato tolto ai primogeniti e dato ai Leviti dopo il peccato del Vitello d’oro. Abbiamo così coalizione di diversi scontenti e in genere è così che tendono a nascere le ribellioni.
Qual è stata la reazione di Mosè alla loro ribellione? La sua prima risposta fu quella di proporre una prova semplice e decisiva: “Che tutti portino un’offerta di incenso e che Dio decida chi accettare”. La risposta derisoria e insolente di Datan e Aviram sembrò innervosirlo. Così Mosè si rivolse a Dio e disse: “Non accettare la loro offerta. Non ho preso a nessuno di loro nemmeno un asino e non ho fatto torto a nessuno”. (Numeri 16:15) Ma loro non avevano detto che l’aveva fatto. Questa è la prima nota stonata.
Dio minacciò allora di punire l’intera comunità. Mosè e Aronne intercedettero a loro favore. Dio disse a Mosè di separare la comunità dai ribelli, in modo che non fossero coinvolti nella punizione, cosa che Mosè fece. Ma poi annunciò una cosa senza precedenti. Dice: “Così saprete che il Signore mi ha mandato a fare tutte queste cose e che non è stata una mia idea: se questi uomini muoiono di morte naturale e subiscono la sorte di tutto il genere umano, allora il Signore non mi ha mandato. Ma se il Signore farà accadere qualcosa di totalmente nuovo, e la terra aprirà la sua bocca e li inghiottirà, con tutto ciò che appartiene loro, ed essi scenderanno vivi nel regno dei morti, allora saprete che questi uomini hanno trattato il Signore con disprezzo”. (Numeri 16:28-30)
Questa è stata l’unica volta in cui Mosè chiese a Dio di punire qualcuno e l’unica volta in cui lo sfidò a compiere un miracolo. Dio fece quello che chiese Mosè. Naturalmente ci aspetteremo che questo ponesse fine alla ribellione: Dio inviò un segno inequivocabile che Mosè aveva ragione e i ribelli torto. Ma non fu così. Lungi dal porre fine alla ribellione, le cose si aggravarono: Il giorno dopo, l’intera comunità israelita brontolò contro Mosè e Aronne. “Avete ucciso il popolo del Signore”, dissero. (Numeri 17:6)
Il popolo si radunò intorno a Mosè e Aronne come se stessero per attaccarli. Dio inizia a colpire il popolo con una piaga. Mosè chiese ad Aronne di fare l’espiazione e alla fine la piaga cessò. Ma circa 14.700 persone morirono. Solo quando si verificò una dimostrazione del tutto diversa – quando Mosè prese dodici verghe che rappresentano le dodici tribù, e quella di Aronne germogliò, fiorì e portò il segno del frutto – la ribellione ebbe finalmente fine.
È difficile evitare la conclusione che l’intervento di Mosè, che sfidò Dio a far sì che la terra inghiottisse i suoi avversari, sia stato un tragico errore. Se così fosse, di che tipo di errore si trattò?
L’esperto di leadership di Harvard, Ronald Heifetz (1951-…) sottolinea che è essenziale per un leader distinguere tra ruolo e sé. Il ruolo è una posizione che ricopriamo. Il sé è ciò che siamo. La leadership è un ruolo. Non è un’identità. Non è ciò che siamo. Pertanto, un leader non dovrebbe mai prendere sul personale un attacco alla sua leadership: “È uno stratagemma comune quello di personalizzare il dibattito sui problemi come strategia per mettervi fuori gioco… Si vuole rispondere quando si è attaccati… Si vuole saltare nella mischia quando si è mal interpretati… Quando le persone vi attaccano personalmente, la reazione riflessa è quella di prenderla sul personale… Ma essere criticati dalle persone a cui si tiene è quasi sempre parte dell’esercizio della leadership… Quando si prendono sul personale gli attacchi, si cospira involontariamente in uno dei modi più comuni in cui si può essere messi fuori gioco: si diventa il problema”.
Mosè prese due volte sul personale la ribellione. In primo luogo, si difese da Dio dopo essere stato insultato da Datan e Aviram. In secondo luogo, chiese a Dio di dimostrare in modo miracoloso e decisivo che lui – Mosè – era il leader scelto da Dio. Ma non è Mosè il problema. Aveva già intrapreso la strada giusta proponendo la prova dell’offerta di incenso. Questo avrebbe risolto la questione.
Per quanto riguarda la ragione di fondo che ha reso possibile la ribellione, non c’era nulla che Mosè potesse fare per impedirla. Il popolo era devastato dalla consapevolezza che non sarebbe vissuto così a lungo per entrare nella Terra Promessa.
Mosè si lasciò provocare dall’affermazione di Korach: “Perché vi mettete al di sopra dell’assemblea del Signore” e dall’osservazione offensiva di Datan e Aviram: “E ora volete comandare su di noi!”. Si trattava di attacchi profondamente personali, ma prendendoli come tali, Mosè permise ai suoi avversari di definire i termini dell’ingaggio. Il risultato fu che il conflitto si intensificò invece di disinnescarsi.
È difficile non vedere in questo il primo segno del fallimento che alla fine sarebbe costato a Mosè la possibilità di guidare il popolo nella terra. Quando, quasi quarant’anni dopo, disse al popolo che si lamenta della mancanza di acqua: “Ascoltate, ribelli, dobbiamo forse farvi uscire l’acqua da questa roccia?”. (Numero 20:10), mostra la stessa tendenza a personalizzare la questione (“dobbiamo portarvi l’acqua?”) – ma non si trattava mai di “noi”, bensì di Dio.
La Torà è in modo devastante onesta su Mosè, come su tutti i suoi eroi. Gli esseri umani sono solo umani. Anche i più grandi commettono errori. Nel caso di Mosè, la sua più grande forza è stata anche la sua più grande debolezza. La sua rabbia per l’ingiustizia l’ha reso famoso come leader. Ma si lasciò provocare dalla rabbia del popolo che guidava e fu questo, secondo il Rambam (Otto capitoli, cap. 4), a fargli perdere la possibilità di entrare nella Terra d’Israele. Heifetz scrive: “Ricevere la rabbia. … è un compito sacro… Prendere la rabbia con grazia comunica rispetto per i dolori del cambiamento”.
Dopo l’episodio delle spie, Mosè si trovò di fronte a un compito quasi impossibile. Come si fa a guidare un popolo quando sa che non raggiungerà la sua meta nel corso della sua vita? Alla fine, ciò che sedò la ribellione fu la vista della verga di Aronne, un pezzo di legno secco, che riprese vita, portando fiori e frutti. Forse non si trattava solo di Aronne, ma degli stessi israeliti. Dopo aver pensato a se stessi come condannati a morire nel deserto, probabilmente ora si rendevano conto che anche loro avevano portato frutti – i loro figli – e che sarebbero stati loro a completare il cammino iniziato dai loro genitori. Questa, alla fine, fu la loro consolazione.
Tra tutte le sfide della leadership, non prendere sul personale le critiche e mantieni la calma quando le persone che guidi sono arrabbiate con te, potrebbe essere la prova più difficile di tutte. Forse è per questo che la Torà vuole fermarci a riflettere su quello che disse di Mosè, il più grande leader mai vissuto. È un modo per avvertire le generazioni future: se a volte siete addolorati dalla rabbia della gente, consolatevi. Pensate a ciò che fece Mosè e ricordate il prezzo che ha pagato. Mantenete la calma.
Anche se può sembrare il contrario, la rabbia che dovete affrontare non ha nulla a che fare con voi come persona, tutto a che fare con ciò che rappresentate e rappresenta. Spersonalizzare gli attacchi è il modo migliore per affrontarli. Le persone si arrabbiano quando i leader non riescono a far scomparire magicamente la dura realtà. I leader in queste circostanze sono chiamati ad accettare la rabbia con grazia. Questo è davvero un compito sacro. Redazione Rabbi Jonathan Sacks zzl
L’intervista al rabbino capo Riccardo Di Segni su La Stampa
di Michelle Zarfati
“I nodi vengono sempre al pettine e alla fine, invariabilmente, il fascismo si dimostra antisemita. E come se rivelasse la sua vera natura, la maschera cade” queste parole del Rabbino Capo di Roma Riccardo Di Segni, durante un’intervista rilasciata in data odierna [4 luglio] a La Stampa, in cui il Rabbino ha commentato il preoccupante risveglio di un forte sentimento antiebraico. Un odio che sembra essersi destato a partire dal 7 ottobre e che ha radici profonde. “Doppio standard, amnesie, totale asimmetria di giudizio, propaganda. L’ondata di antisemitismo si allarga a tutti gli ebrei, a loro come persone e a loro come cultura. Un passante riconoscibile come ebreo che viene malmenato, una casa di ebrei che viene segnata, persino pietre di inciampo che vengono deturpate” racconta il Rav Di Segni durante l’intervista.
Un antisemitismo che arriva da destra e da sinistra e che di nuovo rivede nell’ebreo il capro espiatorio di qualsiasi misfatto. “L’antisemitismo e l’ostilità contro gli ebrei assumono oggi, schematicamente, almeno tre forme differenti. Tre matrici emergono: quella dei nazisti e di chi li piange, quella veterocattolica e quella di sinistra, di cui si nega l’evidenza perché mescolata alla politica. Una sinistra neppure estrema che abbraccia acriticamente la causa palestinese negando più o meno apertamente il diritto all’esistenza di Israele” continua Di Segni nell’intervista.
Una minaccia nera, che si cela dietro il conflitto israelo-palestinese aprendo agli ebrei italiani molte ferite mai rimarginate. “Determinati pregiudizi riaffiorano e si aggravano a seconda dei momenti, come le forme religiose veterocattoliche di antisemitismo. In questo periodo, per esempio, è riemersa l’idea antica dell’ebreo vendicativo, dell’ebreo che uccide i bambini. È il genere di fantasmi usciti fuori dopo il 7 ottobre” aggiunge il Rabbino Capo di Roma. Ma ciò che preoccupa maggiormente di questo antisemitismo multiforme è ciò a cui potrebbe portare: impossibile non ricordare l’analoga situazione che portò al terribile attentato alla Sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982. “Ricordo tutto, incluso l’attentato mortale alla sinagoga di Roma del 1982. Già alcune volte negli ultimi decenni periodiche recrudescenze del conflitto mediorientale che hanno coinvolto Israele hanno scatenato reazioni antiebraiche – spiega Di Segni nell’intervista – Un commando palestinese che spara contro una Sinagoga, come successe a Roma nel 1982, non fa distinzioni: il nemico è l’ebreo ovunque si trovi. Per alcuni aspetti sembra un dejà vu, ma molte cose sono cambiate. Il quadro storico è mutato e i confronti sono difficili ma la condizione attuale è preoccupante. Rispuntano le categorie teologiche dell’occhio per occhio. “Noi” siamo i buoni e gli amanti della pace, e “voi” siete i cattivi, i vendicativi”.
Israele-Hezbollah, omicidi mirati e pioggia di missili. Il fronte s'infiamma
Si infiamma il Fronte Nord. Hezbollah ha scagliato uno sciame di ordigni contro Israele con una potenza mai vista prima: almeno duecento razzi e venti droni sono stati lanciati in pochi minuti. Mentre lo scudo di Iron Dome fermava gran parte dei razzi, le Israeli Defence Forces sono intervenute in modo massiccio con l’aviazione. Gli intercettori hanno dato la caccia ai velivoli teleguidati; i bombardieri si sono accaniti contro le postazioni da cui è partito l’attacco, prendendo di mira altri obiettivi legati alla milizia sciita filoiraniana nelle località di Ramyeh and Houla.
Il bilancio dei danni non è ancora chiaro. La bordata di Hezbollah si è concentrata su alcuni insediamenti del Golan e della Galilea: i resti di un ordigno sono caduti su un centro commerciale, provocando un piccolo incendio. Molti razzi sono finiti su una zona disabitata sulle sponde del lago di Tiberiade e altri roghi sono stati segnalati in Galilea. I jet israeliani hanno sorvolato la periferia di Beirut, superando il muro del suono con una serie di boati sinistri che hanno fatto ricordare la micidiale promessa pronunciata dal ministro della Difesa Yoav Gallant: “Se Hezbollah non interrompe le aggressioni, faremo in Libano il copia-incolla di Gaza”.
Il movimento sciita ha scatenato l’offensiva di questa mattina 4 luglio come ritorsione per l’uccisione di Muhammad Naama Nasser, uno dei leader della sua organizzazione militare. Nasser era il comandante della divisione Aziz, uno dei tre raggruppamenti che presidiano il territorio sotto il loro controllo nel Libano meridionale. Lo scorso 11 giugno era stato ammazzato Sami Abdullah Taleb, numero uno di un’altra divisione, la Nasr. Dalla metà di ottobre Israele sta mettendo a segno una lunga serie di raid per decapitare le unità combattenti di Hezbollah e bloccare il flusso di armamenti sofisticati dall’Iran.
• Il fronte nascosto Ci sono state numerose incursioni contro figure influenti – per esperienza bellica, rango familiare o ruolo operativo – che ogni volta hanno causato reazioni crescenti da parte delle forze sciite libanesi. Forse la più importante il 9 gennaio ha ucciso Wissam Al Tawal, capo dei commandos del battaglione Radwan addestrati per colpire all’interno di Israele. Si tratta di azioni messe a segno da aerei, droni, missili e – almeno in un’occasione – da agenti segreti, che alla periferia della capitale hanno assassinato l’uomo d’affari che avrebbe distribuito fondi di Teheran ad Hamas.
La parte meno visibile di questa campagna riguarda le fabbriche e i depositi di missili, il cuore dell’arsenale accumulato dal movimento sciita grazie al sostegno iraniano. Gli F35 israeliani li hanno bersagliati soprattutto nella valle della Bekaa, a ridosso del confine siriano: uno dei magazzini era a pochi chilometri dalle vestigia romane di Balbeek.
• La risposta di Hezbollah A ognuna di queste azioni, Hezbollah ha risposto con attacchi di vario tipo. Dall’8 ottobre al primo luglio il think tank Alma ha contato il lancio di 2.295 ordigni contro Israele, in massima parte per opera del movimento sciita. Ci sono state rappresaglie simboliche, con raffiche di razzi che sono state facilmente bloccate da Iron Dome, e altre ritorsioni molto più incisive, riuscendo a penetrare le difese con l’utilizzo di missili controcarro e droni molto evoluti. Grande attenzione è stata dedicata al Monte Dov, l’altura che ospita radar e sensori di sorveglianza, e contro le installazioni del sistema di protezione Sky Dew nella zona di Tiberias: in pratica, c’è un tentativo di chiudere gli occhi elettronici di Israele che spiano il Libano. Al Jazeera ha diffuso una statistica diversa: parla di 6.142 attacchi israeliani in Libano, che hanno causato 543 morti mentre Hezbollah e le formazioni jihadiste avrebbero colpito 1258 volte, provocando 21 vittime nello Stato ebraico. Come accade sempre nelle guerre, è difficile ricostruire la verità. L’analisi di Alma sostiene in particolare che il 94 per cento degli attacchi sono partiti da una fascia che si trova entro cinque chilometri dalla frontiera. Non a caso, ieri il ministro Gallant ha detto che i tank impegnati a Gaza “possono arrivare fino al Litani”: il fiume che si trova circa quindici chilometri a nord del confine. Israele ha chiesto che Hezbollah si ritiri da questa fascia, la stessa dove dal 2006 operano i caschi blu della missione Unifil, tra cui mille italiani. “Noi preferiamo un accordo – ha sottolineato Gallant – ma se la situazione ci obbligherà ad agire, sapremo come combattere”.
• I tavoli di negoziato Ci sono diversi tavoli di negoziato aperti. La Casa Bianca ha incaricato Amos Hochstein di lavorare per fermare le armi e impedire una nuova guerra in Libano. Altri colloqui sono condotti dall’intelligence tedesca e dalla diplomazia francese. Ieri Naim Kassem, il numero due del movimento sciita, ha dichiarato in un’intervista all’Ap che se ci sarà un cessate il fuoco a Gaza anche Hezbollah interromperà le ostilità. Sembra però difficile convincere i miliziani a rinunciare alle posizioni a sud del fiume Litani, dove hanno allestito tunnel e fortificazioni preparandosi a un nuovo conflitto.
Il leader Hassan Nasrallah finora ha cercato di evitare iniziative clamorose perché teme di trascinare l’intero Libano in una guerra disastrosa, che potrebbe aprire uno scontro interno con la comunità sunnita e con parte di quella cristiana: il Paese è in una profonda crisi economica, che diventerebbe inarrestabile. L’ala dura però spinge per prendere l’iniziativa prima che le IDF diminuiscano l’attività all’interno della Striscia di Gaza, in modo da obbligarle a combattere su due fronti. Anche il governo Netanyahu pare diviso: dopo i massacri del 7 ottobre, tutti condividono l’esigenza di creare una fascia di sicurezza sulla frontiera settentrionale, ma molti temono che un’offensiva in territorio libanese possa avere un costo umano altissimo.
Nord d’Israele: morto un giovane soldato in un attentato in un centro commerciale
di Anna Balestrieri
Mercoledì 3 luglio un attacco terroristico in un centro commerciale a Karmiel, nel nord di Israele, ha provocato la morte di una persona e il ferimento di un’altra, secondo quanto riportato dai media ebraici. L’incidente è stato segnalato dal servizio di risposta medica d’emergenza israeliano, Magen David Adom (MDA), che ha inizialmente comunicato che due persone erano rimaste ferite nell’attacco.
• LA VITTIMA Il sergente Aleksandr Iakiminskyi, un autista di 19 anni del 71° battaglione, 188a brigata, è stato identificato dall’IDF come l’individuo ucciso nell’attacco a coltellate. Un suo compagno, anch’egli soldato dello stesso battaglione, ha riportato gravi ferite. Una volta arrivato sul posto, il paramedico dell’MDA Ran Moskowitz ha osservato due uomini sui vent’anni con ferite penetranti che giacevano vicino alle bancarelle al secondo piano del centro commerciale. Uno era privo di sensi ed in condizioni critiche, mentre l’altro era cosciente ma gravemente ferito. Il paramedico di United Hatzalah Arik Barel ha raccontato di aver eseguito la RCP su una delle vittime e di aver fornito assistenza medica all’altra, che aveva ferite da moderate a gravi. Entrambi sono stati successivamente trasportati al Galilee Medical Center.
Testimoni oculari hanno raccontato che l’aggressore ha prima pugnalato uno dei giovani, provocandogli ferite gravi. Il sergente Iakiminskyi, che era armato, è riuscito a disarmare e sparare all’aggressore, ma è rimasto ferito a morte.
Il vicedirettore del dipartimento di sicurezza del comune di Karmiel ha descritto la scena come molto angosciante, sottolineando che l’area era stata messa in sicurezza per facilitare il trattamento dei feriti e per calmare la popolazione. La squadra di sicurezza è rimasta sul posto per assistere le forze di sicurezza secondo necessità.
• L’ATTENTATORE L’aggressore, identificato come Javad Rabia, 21 anni, di Kfar Nahaf vicino a Karmiel, è stato ucciso nello scontro.La polizia ha arrestato i familiari di Rabia, compresa la sorella, che era presente nell’edificio e sospettata di aver comunicato con lui prima dell’aggressione. Le forze dello Shin Bet stanno valutando la possibilità di demolire la loro casa come parte della reazione. La sicurezza nel nord d’Israele è tuttora in uno stato di massima allerta.
4 luglio 1976: in questo giorno l’IDF si cimentò in una delle operazioni più eroiche della sua storia contro il terrorismo internazionale. Protagonista un volo Air France decollato il 27 giugno da Tel Aviv e diretto a Parigi. Dopo lo scalo ad Atene, fu dirottato da un gruppo terroristico del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (coadiuvato da alcuni terroristi tedeschi): una sosta in Libia, poi l’atterraggio nell’aeroporto internazionale di Entebbe, in Uganda, nell’Africa centro-orientale. Il Paese africano era sotto la presidenza di Idi Amin Dada, uno dei dittatori più sanguinari della storia del continente. Inizialmente, questi aveva avuto un buon rapporto con Israele: vi si era recato per i suoi studi negli anni ’60, quando i due Paesi avevano stretti legami economici. Nel 1971 andò al potere con un colpo di stato, quasi senza spargimento di sangue. Il contesto però mutò rapidamente: quando il governo di Amin Dada assunse toni sempre più autoritari e decise di dichiarare guerra alla Tanzania, Israele negò gli aerei da combattimento e gli altri aiuti richiesti per l’invasione. I rapporti mutarono radicalmente e la posizione anti-israeliana del dittatore africano emerse anche nella storia del dirottamento. Amin, infatti, supportava i terroristi: l’aereo e gli ostaggi erano sorvegliati, oltre che dai dirottatori, anche dall’esercito ugandese.
I passeggeri vennero sbarcati nel terminal e, sotto il vigile controllo dei terroristi, furono divisi tra ebrei e non ebrei. Fu in questo tragico contesto che Israele, dopo alcuni giorni di negoziati, mise in piedi una delle operazioni antiterrorismo più complesse e delicate della storia. Il governo israeliano inviò un commando: in poche ore il piano fu attuato e i paracadutisti israeliani liberarono gli ostaggi, neutralizzarono i terroristi e riportarono in Israele quasi tutti. I terroristi e i 45 soldati ugandesi vennero uccisi in pochissimo tempo; persero la vita anche tre ostaggi e un militare israeliano, Jonathan Netanyahu, fratello dell’attuale premier, comandante dell’operazione.
Questa vicenda ha costituito anche un modello di studio per il diritto internazionale, che si è interrogato sulla liceità dell’intervento israeliano in uno stato straniero. Atti coercitivi, come la cattura di un criminale, la liberazione di ostaggi, l’invio di truppe nel territorio di uno Stato, infatti, sono ammessi, ma solo su richiesta dello Stato territoriale. Non fu questo il caso di Entebbe, visto che l’Uganda non solo non diede alcun consenso, ma supportò i terroristi. Tuttavia, l’episodio non è comunque considerato una violazione del diritto internazionale, in quanto può rientrare nella prassi valida per la Legittima Difesa, prevista dall’articolo 51 della Carta ONU e dall’articolo 21 del Progetto della Commissione di Diritto Internazionale del 2001, oltreché dal diritto internazionale consuetudinario. In quell’occasione, il Consiglio di Sicurezza, benché investito da due progetti di risoluzione – uno avanzato da Tanzania, Libia e Benin prevedeva la condanna di Israele per violazione della sovranità e dell’integrità territoriale dell’Uganda, l’altro, avanzato da Gran Bretagna e Stati Uniti, conteneva una chiara condanna dei dirottamenti aerei e degli atti che minacciano la sicurezza dell’aviazione civile internazionale – non adottò alcuna decisione. La prassi tende inoltre a considerare casi come questo consentiti dal diritto consuetudinario anche in virtù della norma sulla protezione dei cittadini all’estero.
Turisti ebrei e Davos, un decalogo contro i “malintesi”
Una task force ha elaborato dieci misure per garantire il rispetto reciproco dopo la “crisi” innescata a febbraio da un ristoratore che aveva negato il noleggio di materiale alpino agli ospiti.
COIRA - Un'unità operativa appositamente convocata a Davos ha elaborato un catalogo di misure per accogliere al meglio gli ospiti ebrei. Si mira alla comprensione reciproca tra la popolazione di Davos e i visitatori internazionali, allo scopo di prevenire eventuali malintesi.
Le misure sono una reazione alle "incomprensioni" tra i gruppi di popolazione, secondo quanto si legge nel comunicato odierno dell'unità operativa denominata "Processo di comunicazione a Davos".
L'ultimo scandalo si è verificato lo scorso inverno, quando un ristorante di montagna a Davos ha deciso di non più noleggiare attrezzature per sport sulla neve agli ospiti ebrei, citando «incidenti fastidiosi» come motivazione, stando a un cartello in ebraico affisso nei pressi del ristorante.
La reazione della Federazione svizzera delle comunità ebraiche (FSCI) era stata molto dura. Il segretario generale Jonathan Kreutner aveva parlato di un nuovo «livello di sfacciataggine» e aveva annunciato azioni legali. La FSCI aveva criticato anche altre strutture turistiche di Davos, alberghi, ristoranti e negozi, che non avevano accolto gli ospiti ebrei. L'organizzazione turistica aveva persino messo in pausa un progetto di dialogo congiunto.
Un nuovo tentativo - Ora la FSCI e i rappresentanti locali si sono incontrati di nuovo. L'unità operativa, guidata da un consulente esterno per i negoziati, ha concordato dieci punti che dovrebbero garantire nuovamente l'accoglienza e l'integrazione degli ospiti ebrei a Davos:
Durante l'estate verrà creato un punto di consulenza per loro, dove saranno disponibili informazioni e altri servizi. Il centro svolgerà anche un ruolo di mediatore in caso di conflitti
Dietro le quinte i rabbini garantiranno una consulenza.
A Davos si sta ampliando un progetto di prevenzione della FSCI denominato "Likrat Public". I mediatori si rivolgeranno attivamente agli ospiti e agli abitanti del luogo.
Il materiale informativo sulle regole di comportamento è in fase di revisione.
Gli ospiti stranieri devono essere informati sulle regole vigenti in Svizzera già prima del loro arrivo.
Ricerche storiche serviranno per approfondire il dialogo con la storia ebraica a livello locale.
Saranno organizzati eventi per spiegare alla popolazione locale i limiti dell'antisemitismo.
Per evitare il sovraccarico di visitatori, nei prossimi anni verrà sviluppato e implementato un sistema di controllo.
Le strutture turistiche saranno sensibilizzate a trattare tutti gli ospiti in modo equo attraverso nuove linee guida.
L'organizzazione turistica Davos Klosters assumerà il ruolo di mediatore (ombudsman).
• IL DIALOGO CONTA
«In futuro, i potenziali conflitti dovrebbero essere risolti immediatamente attraverso il dialogo prima che sfuggano di mano», ha dichiarato a Keystone-ATS Reto Branschi, ex direttore dell'organizzazione turistica Davos Klosters.
Ha citato, quale esempio, i codici di abbigliamento per le varie attività. Invece di un divieto di noleggio agli ebrei degli equipaggiamenti sportivi, si potrebbero imporre delle condizioni di utilizzo che non abbiano un effetto discriminatorio.
Durante la stesura delle misure ci sono state «discussioni dure ma anche costruttive». Ora è molto fiducioso che le linee guida possano prevenire problemi futuri. Anche la FSCI è ottimista sull'impatto delle misure decise, ha dichiarato il Segretario generale Jonathan Kreutner interpellato da Keystone-ATS.
Le misure sono ora implementate come progetto pilota per l'attuale stagione estiva, periodo in cui, basandosi sull'esperienza, si è constatato un maggiore bisogno di intervento. «Le esperienze raccolte durante l'estate potrebbero essere utili anche per le altre stagioni», ha dichiarato il sindaco di Davos, Philipp Wilhelm, a Keystone-ATS.
L’ONG ginevrina UN Watch sostiene che Francesca Albanese, relatrice speciale per i Territori palestinesi, abbia ricevuto donazioni per viaggi all’estero da parte di gruppi pro-Hamas che hanno influenzato i suoi rapporti sui diritti umani e le sue posizioni anti-israeliane.
L’ONU ha avviato un’indagine nei confronti di Francesca Albanese, relatrice speciale dell’organizzazione per i Territori palestinesi, responsabile di redigere rapporti sulla situazione dei diritti umani nell’area.
L’indagine mira a determinare se Francesca Albanese, che accusa costantemente Israele di violazioni dei diritti umani, abbia ricevuto illegalmente 20.000 dollari di finanziamenti da organizzazioni sostenitrici di Hamas per pagare il suo viaggio in Australia e Nuova Zelanda, durante il quale ha fatto pressioni su un fondo pensionistico locale per disinvestire da Israele.
Albanese ha affermato che le Nazioni Unite hanno pagato il suo viaggio in Australia, ma un portavoce delle Nazioni Unite ha rifiutato di confermare la sua affermazione. Un’organizzazione australiana pro-Hamas si è inizialmente vantata di aver “finanziato” il viaggio della rappresentante ONU.
Albanese è stata in precedenza consulente legale dell’UNRWA ed è stata la prima ad essere condannata per antisemitismo da Francia e Germania come rappresentante ONU incaricata di redigere e archiviare rapporti sui diritti umani.
Nel 2022, Albanese è stata condannata anche dall’Inviato speciale degli Stati Uniti per il monitoraggio e la lotta all’antisemitismo dopo che è stato rivelato che aveva lanciato un appello per la raccolta di fondi per l’UNRWA, sostenendo che “l’America è soggiogata dalla lobby ebraica”. L’anno scorso, un gruppo di 18 legislatori di entrambi i principali partiti statunitensi ha condannato il rifiuto di Albanese di denunciare il terrorismo contro gli israeliani.
L’indagine, che sarà condotta dall’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani Volker Turk, è stata avviata a seguito di una denuncia presentata a giugno da United Nations Watch, una ONG indipendente con sede a Ginevra. L’organizzazione ha chiesto la rimozione di Albanese dalle Nazioni Unite.
Il direttore esecutivo di UN Watch, Hillel Neuer, ha chiesto al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite di rimuovere Albanese dalla sua posizione a causa della sua cattiva condotta finanziaria e delle sue ripetute dichiarazioni che incitano all’antisemitismo e giustificano il terrorismo di Hamas.
Solamente due o tre persone conoscono il luogo esatto in cui si trova il leader di Hamas Yahya Sinwar. È quanto rivela il quotidiano londinese di proprietà saudita Asharq Al-Awsat, che ha parlato con alcuni funzionari del gruppo terroristico palestinese.
“Una cerchia molto ristretta di non più di due o tre persone al massimo conosce i suoi spostamenti e si occupa delle sue varie necessità, oltre ad assicurare la sua comunicazione con i leader del movimento all’interno e all’esterno”, ha detto una fonte al giornale.
I funzionari di Hamas hanno affermato inoltre che Sinwar è aggiornato su tutte le questioni discusse nei negoziati per un cessate il fuoco a Gaza. “Si consulta persino con i leader di Hamas all’estero in vari modi e dopo l’uccisione dei figli di Ismail Haniyeh in un attacco dell’IDF il mese scorso, Sinwar ha chiesto di sostenerlo”.
Il quotidiano non ha specificato se Sinwar si nasconda in superficie oppure nei tunnel. Le ultime immagini del capo di Hamas risalgono al 10 ottobre, in cui si vede una figura, che l’esercito israeliano sostiene essere Sinwar, che camminava in un tunnel di Gaza con diversi membri della sua famiglia.
Le fonti hanno affermato inoltre che Sinwar non stia prendendo in considerazione l’esilio. Il leader di Hamas, riporta il giornale, sta pensando a due opzioni: trovare un accordo che soddisfi le sue condizioni oppure la morte.
Non è il primo rapporto che afferma che Sinwar è in comunicazione con il resto della leadership di Hamas. Il mese scorso il Wall Street Journal ha pubblicato alcune delle sue comunicazioni, compresi messaggi che rivelavano che era sorpreso dai risultati del massacro del 7 ottobre, in particolare la crudeltà della sua forza terroristica e dalle atrocità e dai saccheggi compiuti dai cittadini di Gaza che avevano seguito i terroristi in Israele.
La base della logica aristotelica, e probabilmente di tutto il pensiero filosofico occidentale, è il sillogismo. Afferma, semplicemente, che se A è uguale a B e B è uguale a C, allora A è uguale a C. E ciò che era fondamentale per Aristotele nell’antichità è a dir poco un incubo per gli israeliani di oggi. Siamo intrappolati in un sillogismo mortale in cui il rifiuto di un’organizzazione terroristica di porre fine alla guerra con Israele significa che anche un’altra organizzazione terroristica rifiuterà, pungolando Israele in un conflitto regionale potenzialmente di portata esistenziale. Come è avvenuto che ci siamo trovati in una trappola così letale? Quali fattori hanno contribuito al nostro intrappolamento sillogistico? E come può, se può, Israele venirne fuori? Le origini di questo sillogismo risiedono nella convinzione del leader di Hamas Yahya Sinwar che, nonostante la devastazione di Gaza e la morte di molte migliaia di cittadini, il tempo lavora a suo vantaggio. La conclusione è tutt’altro che irrazionale. Nonostante la sua prestazione storica in condizioni mai affrontate prima da un esercito moderno, l’IDF deve ancora raggiungere il suo obiettivo primario di distruggere Hamas. Abbandonando gli attacchi frontali per tattiche di guerriglia di retroguardia, i terroristi si stanno radicando sempre più nella popolazione civile, esigendo un tributo quasi quotidiano da parte dell’IDF. Gran parte del mondo continua a raccogliersi attorno alla causa palestinese e a isolare e criminalizzare Israele. In molti dei campus più importanti d’America, Hamas è acclamato come eroico. La cosa più incoraggiante per Hamas, tuttavia, è il costante logoramento dell’iniziale unità interna di Israele mentre i manifestanti antigovernativi scendono ancora una volta in strada e bloccano le autostrade. I nostri soldati sono a corto di morale e di munizioni. Ancora più incoraggianti per Hamas sono state le politiche assunte degli Stati Uniti. Da una posizione iniziale di schieramento al fianco di Israele nel tentativo di sradicare Hamas, i responsabili delle decisioni americane hanno successivamente stabilito che gli obiettivi di Israele erano irrealistici e che, nel perseguirli, l’IDF stava uccidendo arbitrariamente i palestinesi. La Casa Bianca è arrivata al punto di ritardare la fornitura di munizioni vitali per la difesa di Israele. Queste misure hanno alimentato le richieste globali di un cessate il fuoco permanente e di un ritiro totale di Israele da Gaza, proprio ciò che Sinwar perseguiva. Anche Israele ha contribuito ad alimentare fiducia in se stesso di Sinwar. Oltre a cedere alle pressioni americane affinché si astenessero dal lanciare una incursione massiccia nell’ultima grande ridotta di Hamas a Rafah, il governo Netanyahu ha accettato il piano dell’amministrazione statunitense per una graduale fine della guerra a Gaza. La prima fase prevede un cessate il fuoco di sei settimane e un ritiro parziale dell’IDF in cambio del rilascio delle donne, degli anziani e degli infermi tenuti come ostaggi, ma la seconda fase prevede il rimpatrio di tutti gli ostaggi, vivi e morti, in cambio del completo ritiro israeliano e di un cessate il fuoco illimitato. Sebbene fortemente depotenziato, Hamas sopravvivrebbe. Sinwar emergerebbe sicuramente dal suo tunnel facendo il segno della vittoria, dichiarando una vittoria jihadista e quindi inizierebbe a prepararsi per il prossimo 7 ottobre. L’accordo non avrebbe potuto essere più favorevole per Sinwar, ma ancora una volta lo ha rifiutato. È convinto che la fase due del piano, ritiro totale dell’IDF e cessate il fuoco permanente, possa diventare la fase uno. Perché no? L’Amministrazione Biden sta già modificando la formulazione e i termini del piano per andare incontro a Hamas. Tenete duro, conclude ragionevolmente Sinwar, impedite che gli aiuti umanitari raggiungano la popolazione di Gaza, continuate a usarli come scudi umani, e le condizioni diventeranno ancora più favorevoli. Le critiche americane e la pressione internazionale su Israele, il peggioramento della situazione dei civili palestinesi, l’approfondimento delle divisioni all’interno dello Stato ebraico, tutto contribuisce all’ottimismo di Sinwar. Il sillogismo che intrappola fatalmente Israele è quasi completo. Manca solo la chiave del trionfo finale di Hamas: la guerra tra Israele e Hezbollah. Poco dopo il 7 ottobre, in segno di solidarietà con Hamas, Hezbollah ha iniziato a bombardare il nord di Israele. Da allora, i terroristi sostenuti dall’Iran hanno lanciato migliaia di razzi e innumerevoli droni contro soldati e civili israeliani. Decine di persone sono state uccise e ferite, circa 10.000 campi da calcio e frutteti sono stati ridotti in cenere, e quasi 100.000 israeliani sono rimasti senza casa. In tal modo, Hezbollah ha realizzato lo scenario peggiore per Israele, una guerra di logoramento che ogni giorno si sposta verso sud, con razzi che cadono sulla Galilea meridionale e sulle città israeliane di Safad, Tiberiade e persino Nazareth. Se uno di questi proiettili dovesse colpire una base militare o una scuola, il governo israeliano, già sotto crescente pressione per agire, ordinerebbe un massiccio contrattacco. Israele, Libano, Iran e i suoi rappresentanti iracheni e Houthi, e potenzialmente anche gli Stati Uniti, si troverebbero tutti in guerra e Sinwar non potrebbe essere più felice. Il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha affermato che le sue forze non accetteranno un cessate il fuoco a meno che non lo faccia Hamas. Ma Sinwar, ovviamente, non lo farà. Sa che anche se dovesse prevalere in uno scontro con Hezbollah, Israele sarebbe devastato da decine di migliaia di missili, il suo esercito logorato e logisticamente impoverito, e sarebbe ulteriormente isolato a livello mondiale. Gli Stati Uniti farebbero concessioni di più ampia portata a Hamas, forse anche includendolo nel governo postbellico di Gaza, qualsiasi cosa pur di raggiungere il cessate il fuoco essenziale per evitare l’Armageddon. Ecco quindi il sillogismo: Nasrallah dice no al cessate il fuoco senza Sinwar, Sinwar dice no al cessate il fuoco, punto, e Israele entra in guerra con Hezbollah. Quindi quello che per Aristotele era un esercizio di logica per Israele diventerebbe una trappola mortale. Come possiamo uscirne? La diplomazia, certamente, sarebbe la soluzione preferibile. Sfortunatamente, è difficile immaginare quale leva gli Stati Uniti potrebbero esercitare su Hezbollah per costringerlo a ritirarsi dal confine israeliano in conformità con la risoluzione ONU del 2006 che Nasrallah violò il giorno stesso in cui fu emanata. Nessuna strada alternativa sembra praticabile se non quella militare. Pertanto, l’Amministrazione Biden deve smettere di impedire a Israele, e il governo israeliano deve smettere di lasciarsi frenare, di distruggere ciò che resta delle capacità militari di Hamas a Gaza e di salvare gli ostaggi. Nel peggiore dei casi, ciò aumenterà la pressione su Sinwar. Nella migliore delle ipotesi, lo ucciderà. Un Hamas ampiamente depotenziato e senza leader sarà molto più disposto ad accettare un cessate il fuoco. Allo stesso tempo, gli Stati Uniti devono impegnarsi nel dichiarare “Non fatelo”. Queste sono state le uniche parole che il presidente Biden e il segretario di Stato Blinken hanno rivolto a Hezbollah e all’Iran lo scorso ottobre. Allora il significato era chiaro: nessuno di voi due osi approfittare dei combattimenti a Gaza per aprire un secondo fronte nel nord. L’avvertimento venne rafforzato dall’invio di due gruppi di portaerei, ciascuno in grado di infliggere ingenti danni ai nemici di Israele. Da allora, però, il “Non fatelo” appare meno rivolto all’Iran e a Hezbollah e sempre più rivolto nei confronti di Israele. “Anche se vieni preso a pugni ogni giorno”, sembra dire la Casa Bianca, “non pensare a lanciare un contrattacco. Stai comodo, piuttosto, e incassalo finché gli intercettori dell’Iron Dome si esauriranno”. Presumibilmente i ritardi nelle spedizioni di munizioni all’IDF non solo riflettono l’opposizione degli Stati Uniti alle attuali tattiche di Israele a Gaza, ma anche alle sue future operazioni in Libano. La Marina americana potrebbe tuttavia assistere passivamente Israele, abbattendo i razzi di Hezbollah proprio come ha fatto con quelli lanciati dall’Iran contro Israele lo scorso aprile. Tuttavia, nessuna squadra ha mai vinto una partita esclusivamente giocando in difesa. L’Iran e Hezbollah non si lasceranno scoraggiare a meno che “Non fatelo” significhi che entrambi pagherebbero un prezzo proibitivo, richiesto dagli Stati Uniti, per avere attaccato Israele. Senza concludere la battaglia principale contro Hamas, senza garantire un cessate il fuoco a Gaza esercitando pressioni su Sinwar o eliminandolo, e senza scoraggiare efficacemente l’Iran e Hezbollah, Israele rimarrà intrappolato nel brutale sillogismo. Sarà necessaria un’azione coraggiosa e concertata per rompere questa equazione e sostituirla con una radicalmente diversa: il cessate il fuoco a Gaza equivale al cessate il fuoco in Libano, equivale alla fine dei combattimenti sia sul fronte settentrionale che su quello meridionale. Israele, gli Stati Uniti e il mondo avranno evitato una guerra incalcolabilmente devastante.
Ecco il nuovo piano pandemico. Basta con lockdown e obblighi
Seppellita l’era dei diritti asfaltati con la scusa dell’emergenza sanitaria. Messo nero su bianco che ogni intervento deve essere proporzionato e rispettoso di libertà e dignità individuali. L'informazione dovrà essere trasparente e non avere toni disperati atti a generare discriminazioni e stigma sociale. Sì alle cure, no ai dpcm.
di Maurizio Belpietro
La sintesi delle 213 pagine del nuovo piano pandemico, che il governo si appresta a varare e che La Verità è in grado oggi di anticipare in esclusiva, si riassume in due parole: mai più. Anche se l'Italia dovesse essere colpita da una nuova epidemia (facciamo gli scongiuri) non ci saranno altri lockdown o decisioni prese aggirando il Parlamento, ma non saranno neppure varati altri green pass o emanate circolari che prevedano «vigile attesa» senza alcuna cura. In altre parole, non rivedremo i grossolani errori compiuti da Roberto Speranza e dai cosiddetti tecnici nel periodo compreso tra il 2020 e il 2022.
Da tempo in redazione ci chiedevamo quando il ministero della Salute avrebbe messo a punto le misure di prevenzione nel caso in cui un virus si diffondesse nel Paese, come è accaduto quattro anni fa. Il piano per fronteggiare le emergenze è una delle raccomandazioni dell'Organizzazione mondiale della sanità e, come molti lettori ricorderanno, nel 2020 scoprimmo all'improvviso e con sgomento che il governo Conte (ma anche quello precedente) si era dimenticato di aggiornarlo. Dunque, ci trovammo in piena pandemia senza che i vertici sanitari italiani sapessero che cosa fare e soprattutto senza che tecnici e politici sapessero che cosa consigliare. Ciò che seguì, credo che lo ricordino tutti. Dopo una serie di banali frasi tranquillizzanti ( «Il coronavirus non arriverà mai qui perché abbiamo vietato l'atterraggio degli aerei dalla Cina», «siamo preparati, non c'è nulla di cui preoccuparsi», eccetera), scattò il panico e con esso una serie di provvedimenti spacciati per dogmi scientifici, a cominciare dal divieto di uscire di casa e alla proibizione di comprare al supermercato qualche cosa di diverso dal cibo. Stop alle passeggiate all'aperto (il noto comico Vincenzo De Luca minacciò di inseguire con i droni chiunque si fosse avventurato sulla spiaggia), alt all'acquisto di bicchieri o qualsiasi altro strumento da usare in cucina, anche se ai fornelli erano stati relegati 60 milioni di italiani. Che tutela della salute offrissero queste misure lo abbiamo scoperto poi, quando abbiamo capito che nessuno dei diktat imposti aveva basi mediche, ma erano frutto di improvvisazione e di incapacità di una banda di burocrati e politici senza nessuna competenza.
Eppure in quelle settimane i dpcm, ovvero i decreti del presidente del Consiglio dei ministri, adottati senza passare dal Consiglio dei ministri, ma senza neppure essere soggetti all'approvazione del Parlamento come i normali decreti, erano il verbo. Ve lo ricordate Giuseppe Conte, che sul calar della sera, quando gli italiani erano riuniti davanti al focolare e al televisore, annunciava che ci avrebbe rinchiuso ancora un po' dopo aver detto che tutto era passato? E vi ricordate quando Mario Draghi diceva che vaccinarsi era garanzia di non contagiare e non essere contagiati, dando dunque dell'untore a tutti quelli che non avevano offerto il braccio alla patria? E la decisione di impedire a quanti non si erano punturati di salire sui mezzi pubblici, ma anche di bere un caffè al tavolo di un bar all'aperto? Beh, mai più.
In nome dell'emergenza e della tutela della Salute pubblica si sono violati, con buona pace del presidente della Repubblica e della Corte costituzionale, un certo numero di diritti, a cominciare dalla libertà di circolare a quella di lavorare o di scegliere come essere curati. In nome dell'urgenza sono stati asfaltati i diritti individuali e oltre al coprifuoco si è imposto l'obbligo di cura, con il ricatto di perdere lo stipendio. Un piano che dunque metta da parte le follie di Conte e Draghi, per tornare a provvedimenti razionali e scientifici, è dunque un passo avanti, in quanto si eliminano le coercizioni della libertà personale e la compressione dei diritti. Non ci saranno provvedimenti amministrativi decisi all'imbrunire. Ma se misure d'emergenza dovessero rendersi necessarie, sarà il Parlamento, con un regolare dibattito, a decidere e non quattro esperti pressati dalla politica. La lettura dei verbali del Cts è stata agghiacciante, per la leggerezza con cui sono state prese alcune decisioni. Beh, il piano pandemico dovrebbe scongiurare che tutto ciò si ripeta.
(La Verità, 3 luglio 2024)
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Il nuovo piano pandemico spazza via dpcm, lockdown e terrorismo mediatico
Ogni misura, vagliata dal Parlamento, sarà proporzionata e rispettosa della dignità personale. Stop al dogma dei vaccini e a toni utili a generare discriminazioni e stigma.
di Francesco Borgonovo
Mai più «cieca disperazione». Mai più pensiero magico e ideologia spacciati per scienza. Mai più guru in camice bianco. Mai più obblighi inutili e discriminazioni. Sono obiettivi più che ambiziosi, come no, e sono anche piuttosto complicati da raggiungere. Ma già il fatto che vengano posti rende il nuovo piano pandemico più utile e rilevante di quasi tutti gli interventi di sanità pubblica messi in atto fin qui. Già: habemus piano. Per la precisione il documento che il governo si prepara a licenziare si intitola «Piano strategico operativo di preparazione e risposta ad una pandemia da patogeni a trasmissione respiratoria a maggiore potenziale pandemico 2024-2028», si articola per oltre 200 pagine e contiene alcune sostanziali (e positive) novità che La Verità è in grado di anticipare in esclusiva.
Tanto per cominciare, questo piano arriva a colmare un clamoroso vuoto e a sanare almeno in parte la prima, brutale ferita da cui poi è derivato il massacro pandemico degli anni passati. Come noto, quando il Covid si è presentato eravamo privi di un piano di preparazione e risposta. O, meglio, ne avevamo uno vecchio e non abbiamo applicato nemmeno quello. Per mesi e mesi i vertici della sanità italiana, a partire dall'ex ministro Roberto Speranza, hanno mentito sull'argomento, tentando di nascondere l'evidenza. Poi la verità - anche grazie al lavoro matto e disperatissimo di questo giornale e di parlamentari come Galeazzo Bignami e altri - è venuta a galla. I danni, però, erano ormai fatti. Un piano pandemico, infatti, serve proprio a evitare le azioni disperate e folli che i nostri presunti esperti hanno compiuto a partire dal 2020. Un piano ben fatto non serve a ordinare le chiusure: serve a evitarle. Prevede che le risorse siano inventariare e rese disponibili per tempo, stabilisce che si debbano curare i pazienti nel più breve tempo possibile invece di rinchiuderli e lasciarli in vigile attesa. Prevede che ogni decisione emergenziale venga poi vagliata e riesaminata, così da capirne l'effettiva utilità. Prevede, insomma, tutto quello che le nostre autorità non hanno fatto.
Ora però un nuovo piano c'è, dopo le vergognose lungaggini dei precedenti governi e dopo un brutto passo falso compiuto mesi fa dall'attuale gestione. E che questo documento sia diverso si comprende fin dalle premesse, che sono parecchio dettagliate e fissano alcuni principi fondamentali di cui in futuro si dovrà tenere conto (anche perché i piani vanno applicati più o meno come se fossero leggi). Prendiamo ad esempio uno dei primi paragrafi. Vi si legge che «tra i principi fondamentali del Piano vi è l'efficacia. Gli interventi sono fondati su un solido razionale scientifico e metodologico supportato da dati rappresentativi della popolazione alla quale verranno applicati, in modo da rispettare anche il principio di giustizia e di equità nell'accesso alle risorse. Gli interventi sono, inoltre, motivati da una condizione di necessità. Per tale motivo, ogni intervento è guidato anche dal principio di responsabilità». Non sono frasi di circostanza: l'efficacia dei provvedimenti è esattamente ciò di cui non si è tenuto conto negli anni passati.
Leggiamo ancora. «Il conflitto che potrebbe eventualmente insorgere tra la sfera privata e quella collettiva rende necessario operare in ottemperanza al principio di trasparenza. Le informazioni saranno divulgate dalle istituzioni preposte, tanto al personale medico-sanitario quanto ai non addetti ai lavori, in maniera tempestiva e puntuale, attraverso piani comunicativi pubblici e redatti in un linguaggio semplice e chiaro. Ogni persona deve essere informata sulla base di evidenze scientifiche in merito alle misure adottate, in modo da poter comprendere il significato e il valore delle azioni che ciascuno può compiere per la promozione della propria salute e di quella collettiva. Dopo aver debitamente informato la popolazione, si procede alla raccolta del consenso delle persone, in modo che queste possano compiere una scelta autonoma e consapevole». Informazione, trasparenza, consenso: antidoti alla tirannia sanitaria. Poi la chiosa decisiva: «E’ inoltre opportuno aggiornare o modificare le decisioni o le procedure qualora emergano nuove informazioni rilevanti e fondate su evidenze scientifiche». Tradotto: se si scopre che le mascherine non servono, che i lockdown sono inutili o che un farmaco causa problemi, si cambia rotta. Perché errare è umano, perseverare è totalitario.
Il nuovo piano spiega poi che «ogni intervento deve essere proporzionato alle condizioni cliniche del paziente, del quale è riconosciuta l'autonomia decisionale e tutelata la dignità». E qui si pone una pietra angolare: la dignità dei pazienti, i loro diritti, devono restare al centro dell'azione sanitaria che è anche politica. Ecco perché, qualche pagina dopo, troviamo la prima fra le novità più rilevanti.
«Di fronte ad una pandemia di carattere eccezionale», dice il piano, «si può presentare la necessità e l'urgenza di adottare misure relative ad ogni settore e un necessario coordinamento centrale, valutando lo strumento normativo migliore e dando priorità ai provvedimenti parlamentari. È escluso l'utilizzo di atti amministrativi per l'adozione di ogni misura che possa essere coercitiva della libertà personale o compressiva dei diritti civili e sociali. Solo con legge o atti aventi forza di legge e nel rispetto dei principi costituzionali possono essere previste misure temporanee, straordinarie ed eccezionali in tal senso». Queste righe stabiliscono che non si possano ordinare lockdown e restrizioni a piacere: bisogna passare dal Parlamento e agire nel rispetto della Costituzione. Sono limiti nuovi, e decisivi, volti a impedire gli abusi che tutti abbiamo purtroppo conosciuto.
Già questo basterebbe a rendere obiettivamente buono il nuovo piano pandemico, al netto delle criticità che si potranno eventualmente individuare nel tempo e che per precauzione non escludiamo. Ma c'è un ulteriore passaggio che merita di essere illuminato, e che a nostro giudizio è ancora più confortante.
Inizia così: «Nel contrasto ad un evento pandemico vanno individuati protocolli di cura efficaci». Ed ecco come prosegue: «I vaccini approvati e sperimentati risultano misure preventive efficaci, contraddistinte da un rapporto rischio-beneficio significativamente favorevole, ma non possono essere considerati gli unici strumenti per il contrasto ai patogeni infettivi. Risulta assolutamente centrale la sensibilizzazione delle persone attraverso una comunicazione semplice ed efficace dei benefici e dei rischi correlati a tale atto, contrastando la disinformazione e fornendo risposte adeguate alle preoccupazioni e alle incertezze».
Ora, sul fatto che il rapporto rischio-beneficio sia significativamente favorevole, soprattutto in alcune fasce di età, potremmo obiettare. E non ci sfugge la concessione al «sanitariamente corretto». Tuttavia la tolleriamo in virtù delle frasi che compaiono appena dopo e che suonano balsamiche: «Nella comunicazione di una eventuale campagna vaccinale pandemica, devono altresì essere opportunamente chiariti i limiti della vaccinazione, che deve essere comunque affiancata dall'adozione di buone norme di prevenzione volte al contenimento del contagio. In nessun modo la campagna di informazione dovrà utilizzare toni disperati, generare discriminazioni e stigma sociale».
Basta terrorismo, basta discriminazioni, basta razzismo, basta insulti. Finalmente e scritto nero su bianco, in un documento ufficiale. Per qualcuno non sarà abbastanza, e di sicuro molto, molto di più si potrebbe e dovrebbe ancora fare. Ma se si considera la base di partenza, e se si ripensa al passato, tutto questo appare quasi incredibile. E ci restituisce una evidenza: la dittatura sanitaria non è un destino, non è inevitabile. Si può provare a combatterla, arginarla, prevenirla. Basta volerlo.
(La Verità, 3 luglio 2024) ____________________
Come “no vax” della prima ora, l’unico sentimento di “persecuzione” che ho provato durante il periodo pandemico è stato quando davanti a un bar ho letto sul cartello che nella mia posizione mi era preclusa la possibilità di entrare. Verboten. Escluso. Gli altri dentro, io fuori. Poca cosa, certo, soprattutto se paragonato a quello che hanno dovuto soffrire tanti altri in questo dannato periodo (ved. Gli invisibili). Il giro di pensieri generali che però ha provocato in me quella piccola esperienza, continua ancora oggi a destare in me due sentimenti: sdegno e delusione. SDEGNO, per l’arroganza con cui le autorità italiane hanno prevaricato sui cittadini facendo un uso sfacciato della menzogna, dell’intimidazione e del ricatto per costringere i cittadini alla sottomissione diffondendo paura, facendo minacce, ordinando punizioni. DELUSIONE davanti al comportamento collettivo di due mondi a me cari: il mondo evangelico e il mondo ebraico. Nessuno prenda queste considerazioni come rivolte a sé personalmente, perché i motivi individuali possono variare enormemente da caso a caso, ma qualunque sia la posizione personale assunta, ritengo sia lecito,anzi doveroso, esprimere valutazioni collettive di quanto è accaduto. Gli evangelici si sono in gran parte adeguati alle norme prescritte con la sbrigativa motivazione della “sottomissione alle autorità”.Un conformismo così rapido e tranquillo di fronte a menzogne di così enorme gravità, nella prospettiva di un futuro di rischi sempre maggiori per la testimonianza evangelica in un mondo che si sta sempre più diabolizzando, è spiritualmente preoccupante. Gli ebrei sono rimasti silenziosi osservatori della discriminazione operata su una categoria di cittadini, senza avvertire in questo un timido ma chiaro accenno a esperienze di quel tipo subite in altri tempi e in altre occasioni dalla “categoria” degli ebrei. Al contrario, è emerso il rifiuto netto di qualsiasi forma di paragone: guai a fare qualche accenno agli ebrei, senza riflettere che quando si considera normale la discriminazione tra cittadini, prima o poi si arriva a discriminare gli ebrei. M.C.
Il rabbino capo di Parigi: "Ai giovani dico di andarsene. Non sappiamo chi ci odia di più".
di Giulio Meotti
Il rabbino Moshe Sebbag consiglia ai giovani francesi di andarsene. Non sa più chi sia il pericolo peggiore, mentre gli attacchi e le profanazioni si moltiplicano. Non c'è un futuro per gli ebrei francesi.
Solo in una settimana, arresti per un complotto terroristico contro gli ebrei, uno stupro di gruppo antisemita e una aggressione ad adolescenti ebrei fuori da un cinema di Parigi. “Oggi è chiaro che non c’è futuro per gli ebrei in Francia”, ha detto il rabbino Moshe Sebbag al Jerusalem Post. “Dico a tutti i giovani di andare in Israele o in un paese più sicuro”. Sebbag, rabbino capo della Grande sinagoga di Parigi, continua: “Molte famiglie ebree ashkenazite qui da prima della Seconda guerra mondiale non potevano pensare di votare per il Rassemblement, eppure la sinistra è stata antisemita negli ultimi tempi. Gli ebrei sono nel mezzo perché non sanno chi li odia di più”.
Il presidente del concistoro ebraico delle Alpi-Provenza, Zvi Ammar, confessa a CNews che “per non vivere più nascosti e insicuri”, sempre più ebrei sono pronti all’aliyah, a trasferirsi in Israele. “Nella bocca delle persone di ogni casa ebraica arriva la domanda: ‘Noi abbiamo ancora un futuro in Francia?’. Fa molto male. Quando una persona si sente minacciata e in pericolo, pensa di andare altrove. Oggi le persone si sentono più sicure in Israele, nonostante sia un paese in stato di guerra”.
L’anno scorso, 1.100 ebrei francesi sono partiti per Israele. Quest’anno saranno 4.500, secondo le stime. Dal 1972, oltre centomila ebrei francesi sono partiti per Israele (su mezzo milione). Prima del 2012, cinquecento ebrei lasciavano la Francia ogni anno. Numeri decuplicati.
I leader delle comunità ebraiche hanno sostenuto Emmanuel Macron al primo turno, ma al secondo sono nell’angoscia di una scelta tra la sinistra antisemita di Jean-Luc Mélenchon e la destra lepenista che cerca di darsi una ripulita. Serge Klarsfeld, una vita nel fronte antifascista e democratico, cacciatore di nazisti, che i neonazisti provarono a uccidere con una bomba, con la moglie Beate ha denunciato il passato nazista dell’allora cancelliere tedesco Kurt Georg Kiesinger, ha fatto catturare l’ufficiale delle SS responsabile dello sterminio di tremila ebrei polacchi Joseph Schwammberger e processare Maurice Papon, il prefetto che fu funzionario di Vichy, ha fatto scalpore per aver detto di votare la destra lepenista. Come lui, il filosofo Alain Finkielkraut.
Una settimana fa, una ragazzina di dodici anni ha subìto uno stupro di gruppo a Courbevoie, un quartiere vicino alla Defense. E’ stata trascinata in un capannone da una banda che, secondo la polizia, “l’ha costretta a penetrazioni anali e vaginali, fellatio, mentre pronunciavano minacce di morte e commenti antisemiti”. C’era anche il fidanzato.
Non solo, rivela la madre della vittima: dopo averla violentata l’hanno costretta a convertirsi all’islam e a “giurare su Allah” che non lo avrebbe detto a nessuno. La “logica” del 7 ottobre è uscita dai confini di Israele per entrare nei “territori perduti” della République.
L‘Idf ha colpito siti di lancio razzi a Khan Yunis
Da dove ieri ne erano stati tirati circa 20
TEL AVIV – L’esercito israeliano ha confermato di aver colpito durante la notte a Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza, i siti da cui ieri sono stati lanciati circa 20 razzi dalla Jihad islamica verso le comunità israeliane a ridosso della Striscia. Lo ha fatto sapere il portavoce militare secondo cui tra i siti c’erano anche "depositi di armi e infrastrutture del terrore". Prima del raid l’Idf ha chiesto ai residenti dei quartieri orientali di Khan Yunis di spostarsi nelle zone umanitarie sulla costa.
Benjamin Netanyahu informa i cadetti dell'Israel National Defense College sulla guerra contro Hamas nella Striscia di Gaza, 1 luglio 2024
GERUSALEMME - Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha dichiarato lunedì che le Forze di Difesa Israeliane sono sul punto di distruggere l'esercito terroristico di Hamas, un obiettivo chiave della guerra durata quasi nove mesi.
"Sono tornato ieri da una visita alla divisione di Gaza. Ho visto successi molto significativi nei combattimenti a Rafah. Ci stiamo avvicinando alla fine della fase di eliminazione dell'esercito terroristico di Hamas; continueremo ad attaccare i suoi resti", ha detto Netanyahu durante un incontro con i cadetti dell'Israel National Defence College.
"Sono rimasto molto colpito dai successi ottenuti in superficie e sotto terra e dallo spirito combattivo dei comandanti. Con questo spirito raggiungeremo i nostri obiettivi: Il ritorno dei nostri ostaggi, l'eliminazione delle capacità militari e governative di Hamas, la garanzia che la Striscia di Gaza non sia più una minaccia e il ritorno sicuro dei nostri residenti alle loro case nel sud e nel nord", ha aggiunto il Primo Ministro.
Erano presenti anche cadetti delle forze armate di Germania, Singapore, Giappone, Italia, Repubblica Ceca e Corea del Sud.
Domenica Netanyahu ha espresso le sue condoglianze alle famiglie dei soldati uccisi nella Striscia di Gaza e in Giudea e Samaria e ha sottolineato che Israele raggiungerà i suoi obiettivi di guerra.
"Chiunque sia chi dubita della realizzazione di questi obiettivi, ripeto: non c'è alternativa alla vittoria", ha dichiarato.
Facendo riferimento alla porzione settimanale della Torah "Shlah Lecha", che afferma che Israele è un "Paese straordinariamente buono", Netanyahu ha aggiunto: "Il nostro Paese è straordinariamente buono. I nostri cittadini sono eccezionalmente buoni. I nostri combattenti sono eccezionalmente bravi. Con la loro forza e il loro valore, sconfiggeremo i nostri nemici. Con l'aiuto di Dio, combatteremo insieme e insieme vinceremo".
(Israel Heute, 2 luglio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Idf, 'determinati a continuare battaglia contro Hamas'
Portavoce commenta un articolo New York Times su esercito 'pronto a una tregua'
TEL AVIV - Il portavoce militare israeliano ha detto che l'esercito è determinato a continuare la sua battaglia contro Hamas a Gaza.
Il portavoce si è riferito a un articolo del 'New York Times' - citato da Ynet -, secondo cui gli alti comandanti dell'Idf sarebbero interessati a un cessate il fuoco a causa della mancanza di armamenti.
"Finora - ha spiegato - sono stati raggiunti risultati significativi nella lotta a Gaza, l'Idf continuerà a combattere Hamas ovunque nella Striscia di Gaza, oltre a continuare a promuovere la preparazione alla guerra nel nord e la difesa a tutti i confini".
Le forze armate israeliane - ha continuato il portavoce - sono determinate a continuare "a combattere per raggiungere gli obiettivi della guerra, per distruggere le capacità militari e governative di Hamas, per riportare a casa gli ostaggi e condurre di nuovo sani e salvi i residenti del nord e del sud alle loro case".
La Hebrew Book Week in Israele è un evento molto atteso e popolare che celebra la cultura della lettura e l’amore per i libri nel Paese. Anche quest’anno, nonostante il conflitto in corso, le continue tensioni e la situazione politica complessa, nei giorni centrali di giugno, gli israeliani si sono nuovamente riuniti per partecipare a una serie di eventi letterari, fiere del libro e attività legate alla letteratura e alla creatività ebraica.
La tradizione della “Settimana del Libro Ebraico” risale agli anni ’20, quando a Tel Aviv la pionieristica editrice Bracha Peli, insieme alla sua Masada Press, organizzò una fiera di strada per vendere libri. Da allora, l’evento è cresciuto e si è trasformato in una grande fiera del libro che attira migliaia di visitatori ogni anno. In Israele vengono acquistati annualmente circa 34 milioni di libri da una popolazione composta da 9,9 milioni di persone.
Durante questa settimana, i visitatori possono partecipare a eventi letterari, incontri con autori, spettacoli musicali, laboratori di scrittura creativa e molto altro. Le fiere del libro si svolgono in diverse città, tra cui Gerusalemme e Tel Aviv, e offrono ai partecipanti l’opportunità di acquistare libri a prezzi scontati e di scoprire nuovi titoli e autori.
Per molte persone, come ad esempio gli Haredim, questa settimana rappresenta un’opportunità per rifornire la loro libreria, mentre per autori come Gil Troy e Natan Sharansky è un’occasione per promuovere i loro nuovi libri. Inoltre, l’Hebrew Book Week è stata caratterizzata da alcuni dibattiti tra quattro importanti autori israeliani, tra cui Haim Be’er e Yaniv Itzikowitz.
Anche in luoghi come la Biblioteca Nazionale d’Israele (NLI) e Yad Vashem sono stati organizzati eventi speciali in onore della “Settimana del Libro Ebraico”. Nella prima sono state celebrate alcune figure della letteratura israeliana come Naomi Shemer e Yehuda Amichai, con concerti commemorativi per il 20° anniversario della morte di Shemer e il centenario della nascita di Amichai, mentre Yad Vashem ha invece offerto sconti del 40% per tutto il mese su molti dei titoli nella sua libreria online.
L’Hebrew Book Week coincide con il Mese della Lettura, durante il quale il Ministero della Cultura israeliano ha inviato numerosi scrittori nei centri comunitari delle zone periferiche come KiryatGat, Yeruham, Netivot e Ariel per condurre workshop di scrittura creativa per bambini e adulti. Anche a Sderot questa settimana ha rappresentato una sorta di “fuga momentanea dalla realtà” per le famiglie che sono tornate nelle loro case di fronte a Gaza pochi mesi fa.
Eventi musicali e presentazioni di libri sono dunque solo alcune delle attività che hanno coinvolto il pubblico e celebrato la cultura della lettura e della letteratura.
Nonostante le difficoltà e le tensioni che caratterizzano la vita in Israele nell’ultimo periodo, la “Settimana del Libro Ebraico” continua a essere un momento di gioia, celebrazione e scoperta per gli amanti dei libri e della cultura. Attraverso eventi come questi, la comunità israeliana dimostra il suo impegno per la conoscenza, la creatività e la condivisione delle storie che definiscono la propria identità e il proprio patrimonio culturale.
Turchia: negato rifornimento a un volo El-Al atterrato in emergenza
Un volo El Al proveniente da Varsavia e diretto a Tel Aviv non ha potuto fare rifornimento dopo aver effettuato un atterraggio di emergenza ad Antalya, in Turchia, domenica 30 giugno per evacuare un passeggero che necessitava di cure mediche. Lo riporta il Times of Israel.
I lavoratori turchi dell’aeroporto di Antalya si sono rifiutati di rifornire il volo LY5102 prima che potesse decollare per Israele, ha dichiarato El Al in un comunicato.
“I lavoratori locali si sono rifiutati di rifornire l’aereo della compagnia, anche se si trattava di un caso medico”, ha dichiarato, aggiungendo che il passeggero è stato evacuato. L’aereo è poi decollato verso Rodi, in Grecia, dove “farà rifornimento prima di decollare verso Israele”, ha dichiarato la compagnia aerea.
Fonti diplomatiche turche hanno confermato che l’aereo ha potuto effettuare un atterraggio di emergenza per evacuare un passeggero malato. “Il carburante doveva essere fornito all’aereo a causa di considerazioni umanitarie, ma mentre la relativa procedura stava per essere completata, il capitano ha deciso di partire di sua iniziativa”, ha dichiarato una fonte diplomatica turca.
Secondo i media ebraici, il Ministero degli Esteri aveva ricevuto dalle autorità turche l’assicurazione che l’aereo sarebbe stato autorizzato a fare rifornimento, ma in pratica ciò non è avvenuto. Poiché l’aereo stava bruciando carburante sulla pista per mantenere in funzione l’aria condizionata e altri sistemi, si è deciso di decollare per Rodi, a 40 minuti di volo, e di rifornirsi lì, prima che anche questo breve volo diventasse impossibile.
L’aereo sarebbe dovuto atterrare all’aeroporto Ben-Gurion più tardi, domenica.
A seguito delle crescenti tensioni al confine settentrionale, provocate dai continui lanci di missili da parte dei terroristi di Hezbollah armati dall’Iran, gli ospedali nel Nord di Israele si stanno preparando per una possibile guerra con il Libano.
I piani varanti sinora, come illustra un articolo di YNet News, sono per due scenari: interruzione di corrente e limitazione agli accessi a strade e aree sicure. Al momento non ci sono istruzioni, ma il Ministero della Salute israeliano ha parlato con le amministrazioni ospedaliere per verificare che sia tutto pronto, chiedendo di accumulare scorte di sangue per sei giorni anziché quattro. È inoltre possibile che medici e altri operatori sanitari vengano chiamati in prima linea.
Ma la guerra a Gaza non è stata voluta da Israele, che la combatte a pieno diritto
di Paolo Salom
[Voci da lontano occidente] La guerra andrà avanti, dice il governo di Israele, almeno fino alla fine dell’anno. Comprensibile, per quanto terribile: quello che è accaduto il 7 ottobre, nonostante la lunga serie di atti di terrorismo da parte degli arabi-palestinesi nell’ultimo secolo, è senza precedenti per atrocità e scopo. Di conseguenza non ci stupiamo che lo Stato ebraico abbia intenzione di chiudere la partita senza ambiguità o mezze misure. Quello che invece ci sorprende, ancora, è lo stato di isteria in cui si trova il lontano Occidente. Passi per le società arabe, dove l’odio per gli ebrei è nella “tradizione” e antico come l’Islam. Ma le democrazie passate attraverso l’esperienza della Seconda guerra mondiale, del nazifascismo, della persecuzione degli ebrei, della Shoah? Come è possibile che l’antisemitismo, giustificato naturalmente con le “atrocità” commesse (a loro dire) da Tsahal contro gli “innocenti” abitanti di Gaza, sia tornato a mettere in pericolo la permanenza sul suolo europeo (e anche degli Stati Uniti) delle comunità ebraiche, dopo due millenni di antisemitismo religioso e nazionale che doveva essere scomparso? Come è possibile che università, centri di ricerca, Ong, chiedano di boicottare le istituzioni scientifiche israeliane allo stesso modo dei nazisti negli anni Trenta del secolo scorso? Come è possibile che all’Eurofestival, una manifestazione canora – il Sanremo d’Europa – la concorrente israeliana e il suo entourage siano stati costretti a restare chiusi nell’albergo assediato da facinorosi, per evitare attacchi e violenze? Per non parlare del momento dell’esibizione della bravissima Eden Golan, fischiata e sommersa di “booo” dal pubblico presente a Malmö, Svezia, dall’inizio al termine della sua commovente canzone?
E come è possibile, ditemi, che Spagna, Irlanda e Norvegia riconoscano lo “Stato di Palestina”, uno Stato inesistente (e non per causa di Israele ma solo e soltanto per la scelleratezza dei suoi leader), di fatto premiando la violenza terrorista del 7 ottobre e, infatti, guadagnandosi il plauso e la riconoscenza di Hamas? La Spagna che nel 1492 cacciò mezzo milione di sudditi ebrei? L’Irlanda che inviò le condoglianze alla Germania per la morte di Hitler? La Norvegia che non perde occasione per ergersi a paladina degli oppressi e fa finta di non vedere che gli oppressori sono gli sgherri islamisti?
Il mondo all’incontrario. Questo è il lontano Occidente oggi. Dove si spargono lacrime per il “massacro di innocenti palestinesi” – per lo più inventato dalla propaganda di Hamas. E si aggrediscono gli israeliani (e gli ebrei ovunque si trovino) perché hanno osato reagire al massacro – questo vero e documentato – del 7 ottobre 2023. Intendiamoci, è chiaro a tutti che molti civili, a Gaza, siano finiti vittime delle operazioni di guerra, è certo che molti bambini (anche uno è troppo) siano stati colpiti da proiettili israeliani, ed è terribile.
Ma in una situazione come quella nata dall’attacco di Hamas contro le comunità del Sud di Israele, con 1.200 civili inermi uccisi barbaramente e, soprattutto, volendolo fare, migliaia di missili lanciati sulle città e villaggi israeliani, che cosa si aspettava il mondo? Che altro avrebbe potuto fare lo Stato di Israele per difendere i propri cittadini? Nulla di diverso da quello che è stato deciso.
Tutto è criticabile, tutto si può fare meglio. Ma è ipocrita accusare lo Stato ebraico, come ha fatto ripetutamente il Tribunale penale internazionale – sobillato dai soliti Paesi-complici di Hamas – di “genocidio” e “crimini di guerra”. Nulla di tanto efferato si può imputare a Tsahal, un esercito i cui principi e regole di ingaggio sono improntate a una eticità assoluta e insindacabile. Chi lo fa è spinto da una cosa sola: l’odio verso gli ebrei.
Perché sappiamo bene che la guerra, qualsiasi guerra, è un atto terribile, un aspetto estremo della cultura umana che trasforma chi la subisce (e anche chi la conduce) in un recipiente (o strumento) di morte e dolore. Ma è anche una costante nella Storia di tutte le civiltà, dall’alba dei tempi. Dopo la Seconda guerra mondiale in tanti hanno detto: “Mai più”. E forse anche per questo ora criticano Israele, e noi vogliamo concedere che qualcuno lo faccia in buona fede. Ma “mai più” era stato detto anche agli ebrei, inseguiti e uccisi dalla furia nazifascista. Ed è proprio in virtù di quel “mai più” che gli ebrei – e per primi i nostri fratelli israeliani – hanno deciso di difendersi da soli senza contare che sul nostro diritto a farlo. La guerra a Gaza non è stata voluta da Israele. Ma la combatte con pieno diritto, dalla parte del giusto e di una moralità perseguita malgrado incidenti ed errori. Ora, per chiuderla, basterebbe che i nemici di Hamas ne accettino l’unico risultato possibile: liberino gli ostaggi nelle loro mani e si arrendano. Perché noi non rinunceremo mai all’indipendenza, alla dignità, alla libertà.
(Bet Magazine Mosaico, 1 luglio 2024) ____________________
Ottimo! Articolo chiaro, sintetico, completo. Quello che sorprende, dice l'autore "è lo stato di isteria in cui si trova il lontano Occidente". Ma non doveva essere proprio Israele il baluardo dell'Occidente contro l'invasione dei barbari antioccidentali? Sorpresi dal fuoco amico. Come mai? Forse tra i redattori di pensosi giornali superoccidentali come "Il Foglio" si troverà la risposta. Aspettiamo di conoscerla. M.C.