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Notizie 1-15 maggio 2015


Chi salva una vita, salva il mondo intero». Piccola grande storia di Sobuj Khalifa

di Paolo Sassi

 
Sobuj Khalifa col permesso umanitario
Di lui si stanno occupando i quotidiani italiani (e non solo) da qualche giorno: Sobuj Khalifa, 33 anni, originario di un sobborgo di Dacca, in Bangladesh, immigrato in Italia ed entrato da qualche tempo nel novero degli "irregolari", vive a Roma, sulle banchine del Tevere, nei pressi dell'antica Cloaca Maxima.
Vive poveramente, come può: vende fiori ai visitatori del centro di Roma, ombrelli quando piove, aiuta gli automobilisti tra gli introvabili parcheggi cittadini in cambio di una piccola mancia.
   Martedì scorso, il 12 maggio, vede il corpo di una donna precipitare nel Tevere; capisce che è ancora in vita - «apriva e chiudeva gli occhi», ha dichiarato ad una televisione - si getta nel fiume e la porta in salvo, intercettando i soccorsi della polizia fluviale.
   A quel punto, però, succede una cosa paradossale: mentre la donna è condotta d'urgenza in ospedale, all'uomo che l'ha salvata viene contestata l'"irregolarità" del soggiorno. Le procedure di polizia prevederebbero (forse) il rimpatrio del povero eroe, ma sembra davvero troppo e questa volta la dote del "cuore tenero" - di cui cantava Fabrizio de André - si impossessa delle forze dell'ordine. Si apre così uno spiraglio ed a qualcuno viene in mente che a Sobuj Khalifa potrebbe ben essere concesso un permesso di soggiorno breve, per "motivi umanitari". Un anno di tempo, poi si vedrà.
   Sobuj Khalifa diventa così - suo malgrado - protagonista insolito delle cronache cittadine: lo intervistano giornali e TV e lui si presta generosamente, piccolo uomo dall'italiano incerto e con una maglietta a righe un po' fuori misura, con la quale viene ritratto dalle macchine fotografiche.
   La donna che lui ha salvato ha 55 anni, è ebrea e cittadina israeliana: e questo apre infine una finestra inattesa nella vita di Sobuj Khalifa.
   A chi gli faceva notare come lui - musulmano - avesse salvato un'ebrea, ha sempre risposto con stupore: «l'avrei fatto per chiunque». Così, Progetto Dreyfus, un gruppo attivo all'interno dell'ebraismo italiano, lancia una inedita iniziativa: annoverare Sobuj Khalifa tra i giusti delle nazioni, piccolo Schindler del nostro tempo, come per quanti salvarono gli ebrei dallo sterminio negli anni tragici della Shoah.

«Ha diritto ad essere aiutato, inserito nella società - dichiara per l'associazione a il Messaggero Marco Scaffardi - e noi intendiamo trovargli un lavoro, non può continuare a dormire sotto un ponte […]. Ci sono le condizioni per aiutare Sobuj […]. Ha salvato una vita ebrea israeliana e per la nostra religione ora è un giusto, è degno d'esser cittadino d'Israele».

   Sarebbe la prima volta che la riconoscenza ebraica viene estesa dalle vicende della Shoah ad un contesto del tutto diverso: una bella apertura, in linea con lo spirito che animò ad esempio la manifestazione al Colosseo - lo scorso anno - di solidarietà ai cristiani perseguitati nel mondo. E sarebbe una bella lezione anche per Roma, che ha davvero bisogno di ritrovare - in questo tempo fosco, dopo le ruspe a Ponte Mammolo - una radice di accoglienza e di universalità.

(Notizie Italia News, 15 maggio 2015)


La normativa antiebraica del 1938 in Italia

di Giuseppe Olocco

Nel 1938 il volto totalitario del fascismo è ormai evidente: il regime decide di rivolgere l'attenzione della popolazione italiana contro il "nemico interno" e avvia la campagna antiebraica.


Nel 1938 il regime di Mussolini è nel pieno della sua evoluzione più totalitaria: elemento fondamentale, che segna in parte continuità e in parte un forte momento di rottura con il precedente atteggiamento del regime e della società italiana, è la serie di leggi rivolte contro la minoranza ebraica italiana.

 Gli ebrei in Italia.
  
La popolazione ebraica italiana ammontava in quel periodo a circa 40'000 individui, ben assimilati ed integrati: era sicuramente visibile e riconoscibile la presenza ebraica più praticante, come oggi, ma nel corso del tempo dopo l'emancipazione definitiva del 1848 sancita da Carlo Alberto gli ebrei si erano lentamente integrati tra la popolazione non ebraica al punto che i matrimoni misti erano ormai sempre più frequenti senza però che per questo la coesione all'interno della comunità venisse meno; la percezione di appartenere ad una tradizione comune spingeva infatti alla preferenza per i rapporti all'interno del gruppo nelle occasioni della vita quotidiana, dalla scelta del medico all'artigiano di fiducia. Geograficamente erano concentrati quasi tutti nel nord della penisola mentre al sud erano quasi assenti ancora in conseguenza dell'espulsione dai territori sotto controllo spagnolo avvenuta nel XVI secolo.

 Il nemico interno.
  Colpire gli ebrei sembra dunque a primo avviso una stranezza poiché il regime non si era mai rivolto ad essi con particolari attenzioni: la presenza antisemita nel Partito Nazionale Fascista c'era ma era minoritaria ed era tenuta in disparte mentre tra gli ebrei vi era chi aveva appoggiato il fascismo fin dall'inizio. C'erano infatti fascisti antisemiti ma anche ebrei fascisti e la leggera penalizzazione subita dopo i patti lateranensi, che dichiaravano la religione cattolica religione dello Stato e le altre "culti ammessi", non poneva l'ebraismo più in difficoltà di altre confessioni religiose. L'attacco deciso agli ebrei rientra dunque in una più ampia strategia tesa a mantenere in mobilitazione la popolazione italiana, rivolgendola in questo caso, dopo il nemico esterno in Spagna, dopo l'avventura coloniale in Etiopia, contro un nemico più infido, quello interno. Considerare la svolta antiebraica come risultato di un condizionamento o di una forzatura della Germania sul regime italiano o di una pressione personale di Hitler sull'alleato Mussolini è sbagliato poiché non solo i teorici dell'antisemitismo italiano, tra cui lo stesso Mussolini, posero più volte l'accento sulla diversità del razzismo fascista da quello nazista, ma anche perché la questione ebraica non fu mai prima dell'armistizio dell'8 settembre 1943 al centro del dialogo tra i due regimi.

 Mussolini e il razzismo.
  Nello studiare lo sviluppo dell'atteggiamento del regime contro la popolazione ebraica è interessante andare ad osservare come Mussolini sia arrivato nel suo percorso a ritenere necessari provvedimenti razzisti e quali siano state le reazioni degli italiani e in particolare degli ebrei, che erano già ben presenti all'interno della storia del fascismo, come oppositori ma anche come sostenitori e convinti fascisti. I teorici del razzismo più apprezzati dal regime, e da Mussolini in particolare, erano quelli, come Julius Evola, che presentavano il razzismo fascista come completamente diverso da quello, più rozzo, del nazismo: ne criticavano infatti l'applicazione puramente biologica e presentavano il proprio come invece basato sull'idea di una pura matrice culturale italica da preservare. La realtà dei fatti fu naturalmente ben diversa poiché le leggi, e la loro applicazione, saranno esclusivamente su base biologica. Un primo segnale della presenza dell'antisemitismo nell'ideologia fascista era emerso quando nel 1934 di fronte all'arresto di alcuni antifascisti torinesi in gran parte ebrei una esplosione di antisemitismo aveva interessato i giornali: tutto era poi stato messo a tacere. Da parte del mondo ebraico invece vi fu grande sforzo per rassicurare il regime della fedeltà della popolazione ebraica: alcuni ebrei torinesi addirittura giunsero a dichiararsi fascistissimi dalle pagine del giornale periodico "La nostra bandiera" e criticarono le posizioni sioniste come inaccettabili.
  La posizione di Mussolini stesso su questo tema come su altri cambiò considerevolmente nel corso del tempo e si espresse anche con evidenti contraddizioni: innanzitutto l'antisemitismo non era cardine dell'ideologia fascista come invece lo era per il nazionalsocialismo hitleriano e addirittura nel 1936 all'avvicinamento dell'Italia alla Germania seguito alle sanzioni della Società delle nazioni come pressione contro l'intervento in Etiopia gli ebrei rimasero fuori dalle discussioni. Non si può dunque ricercare esclusivamente le radici delle leggi del 1938 nel rapporto con la Germania, che fu d'esempio invece per la capacità di mantenere costantemente in mobilitazione la popolazione dietro le parole d'ordine che di volta in volta il regime elaborava. Il razzismo antisemita è una precisa scelta politica di Mussolini che la ritenne utile a mantenere attenta la popolazione alle indicazioni del fascismo. Quella antisemita si può intendere come la terza forma di razzismo fascista: la prima era stata quella natalista intesa a favorire l'espansione della razza italiana con l'incremento demografico e la sua conservazione, la seconda era stata quella colonialista contro le popolazioni africane in occasione della conquista d'Etiopia.

 La normativa antiebraica.
  Nel luglio del 1938 la normativa antiebraica fu preannunciata dalla pubblicazione del "Manifesto della razza", subito accolto e diffuso con entusiasmo dalla stampa, che tracciava le linee guida di quello che doveva essere il razzismo fascista. Fu poi creata all'inizio di agosto la "Direzione generale per la demografia e la razza", nuovo organismo che si sarebbe dovuto occupare esclusivamente della campagna e dell'applicazione dei successivi provvedimenti antiebraici. Il primo atto della "Demorazza" fu un censimento di tutti gli ebrei italiani, che non si configurò come una semplice statistica della presenza ebraica ma come una completa schedatura di ogni singolo individuo di "razza ebraica", nell'organizzazione del quale si dimostrò particolarmente efficace. Iniziative di esclusione ed espulsione interne all'apparato statale nei settori a cui il regime teneva di più, la scuola e l'esercito, arrivarono ai primi di settembre, e infine il 17 novembre iniziò la promulgazione dei "Provvedimenti per la difesa della razza".

 L'aspetto totalitario della normativa antiebraica.
  Nonostante i "Provvedimenti per la difesa della razza" fossero di stampo diverso da quelli nazisti si rivelarono comunque molto incisivi e opprimenti: l'indicazione "discriminare non significa perseguitare" significò nei fatti il divieto di matrimonio con "ariani", l'esclusione degli ebrei dalle scuole, dall'esercito, da tutti gli uffici pubblici, dal Partito Nazionale Fascista; furono inoltre introdotte limitazioni al possesso di beni immobili e allo svolgimento di attività economiche, molti ebrei stranieri a cui era stata data la cittadinanza la videro revocata e furono espulsi. La "discriminazione", istituita per diminuire il peso della normativa antiebraica su coloro che si fossero distinti per meriti verso la patria e il regime fu concessa a pochi e si rivelò una pratica degradante e umiliante, così come l'arianizzazione, per ottenere la quale bisognava dimostrare di non essere figli di ebrei. Dunque se la legislazione non prevedeva la reclusione fisica nei ghetti non fu per questo meno dura, poiché gli ebrei si ritrovarono esclusi in quanto tali dalla vita della società. Proprio in questo aspetto emerge particolarmente la spinta totalitaria del fascismo del triennio 1936-1939: obiettivo del regime, oltre a colpire gli ebrei, era indirizzare i comportamenti degli altri cittadini in modo che fossero essi stessi ad emarginarli escludendoli dalla propria vita quotidiana. Fu un successo: gli ebrei non erano ben presenti nell'immaginario degli italiani in quanto tali perciò il negoziante vicino casa o l'impiegato nell'ufficio accanto assunsero il ruolo del nemico interno infiltrato un po' in tutti i settori della società e si venne a creare un clima di diffidenza e sospetto.

 Dopo l'armistizio.
  L'armistizio dell'8 settembre del 1943 segnò una svolta drammatica: la maggior parte degli ebrei italiani si trovava infatti nella zona occupata dall'esercito tedesco e in quelli della nuova Repubblica Sociale Italiana. Nel corso dell'occupazione tedesca quasi 8000 ebrei furono catturati e deportati nei campi di sterminio. È fondamentale analizzare il ruolo del fascismo e degli italiani nelle deportazioni poiché settori della storiografia hanno cercato di sminuirne il ruolo nella collaborazione insistendo sulla mancanza di documenti e testimonianze dirette di accordi espliciti tra RSI e occupanti: innanzitutto la RSI era totalmente subalterna all'autorità tedesca e non c'era dunque nemmeno bisogno di accordi scritti, inoltre la prova della collaborazione esiste ed è fattuale, cioè il campo di Fossoli, vicino Modena, luogo di transito e smistamento degli ebrei arrestati in Italia e avviati "verso ignota destinazione". Il ruolo del campo era questo già dal 1943 quando era sotto controllo italiano e lo rimase poi quando fu preso in carico dai tedeschi che affidarono agli italiani il compito di occuparsi di rifornimenti e del controllo dei trasporti.

 La colpa degli Italiani.
  Da parte italiana vi fu certo, soprattutto dopo l'8 settembre, chi decise di rischiare anche la propria vita per aiutare i perseguitati dalla RSI e dai tedeschi occupanti, e nella resistenza la presenza ebraica fu consistente anche se la questione delle deportazioni non fu mai presa in considerazione come a se stante: ciò è però più che comprensibile poiché in una tale situazione di confusione i problemi da affrontare erano molti e pur senza particolari attenzioni o differenze rientrarono tutti a pieno titolo nella lotta partigiana antifascista. Per quanto riguarda invece gli italiani che decisero di schierarsi dalla parte della Repubblica di Salò non bisogna tentare assoluzioni né di sminuirne le colpe: le autorità fasciste a partire dal 1938 decisero di colpire gli ebrei esclusivamente per finalità politiche usandoli come strumento per aumentare la pressione totalitaria sulla società tutta, mentre dal 1943, quando si trovarono rette solo dalla presenza militare tedesca, collaborarono con tutte le risorse possibili, dalla delazione di singoli cittadini alle forze militari della RSI fino a vere e proprie bande armate semi-indipendenti, alle deportazioni degli ebrei catturati verso i campi di sterminio.

(Retrò Online, 15 maggio 2015)


Figuraccia storica di Barack Obama a Camp David, bidonato dagli sceicchi

L'Arabia Saudita ha avviato il suo programma atomico

di Matteo de' Paoli

15 maggio 2015 - Riuscire a salvare la faccia questa volta, per Barack Obama, potrebbe essere davvero difficile dopo il summit con i Paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo, che si è appena concluso a Camp David. Certamente Obama non verrà ricordato come il migliore Presidente Usa per le sue doti in politica estera. Sono tante le domande alle quali il presidente Usa non ha saputo dare una risposta netta e decisa, dalla Cina alla Russia. Ma il problema più grosso è rappresentato dal Medio Oriente, che rimane una vera polveriera. Le minacce sono rappresentate dalla Siria, dall'Iraq, dallo Yemen e dalla Libia. La situazione oggi è aggravata anche dal fatto che i vecchi alleati dell'America non stanno più seguendo il Presidente, mentre si allunga l'ombra dell'Iran.
Ieri a Camp David la figuraccia non si è potuta nascondere, perché quello che è accaduto è sfacciatamente troppo pesante: l'80% dei membri arabi che dovevano partecipare al vertice alla fine hanno disertato. C'è chi si è giustificato con delle malattie improvvise, chi ha dichiarato di avere impegni di Stato non procrastinabili. E poi c'è il caso clamoroso di Re Hamad bin Isa al-Khalifa del Bahrein, il quale ha bidonato Obama per andare a un concorso di cavalli a Palazzo Windsor su invito della Regina Elisabetta.
  I Paesi alleati del Golfo Persico, che da tanto tempo chiedevano un incontro con il leader della Casa Bianca, alla fine stanno pensando di risolvere da soli le questioni che li angosciano. Perché non ci sono soltanto le situazioni irrisolte dei conflitti, ma c'è anche un vicino che sta diventando fin troppo temibile. Si tratta dell'Iran che sta continuando il suo programma nucleare nonostante le pesanti sanzioni statunitensi e dopo l'ultimo tentativo di riconciliazione proposto da Obama (molto criticato sia dai repubblicani che dagli alleati arabi). Teheran sta arrivando sempre più vicina all'atomica. Di tutta risposta ora anche l'Arabia Saudita vuole fare altrettanto e ieri ha dichiarato che continuerà il suo programma nucleare, facendosi forse aiutare dal Pakistan.
Si tratta di una vera e propria polveriera, gli stati alleati sono sunniti, l'Iran è invece di fede sciita. Gli stati islamici del Golfo vedono la politica iraniana aggressiva e in fase di espansione, quindi cercano oggi delle sicurezze che il vecchio alleato americano sembra non essere più in grado di dare. E' vero, alla fine del summit, Obama ha speso parole solenni di impegno, soprattutto militare. Ma non si è firmato alcun trattato vincolante, e sappiamo tutti che Obama sarà presidente soltanto per meno di due anni.

(Italia - 24news.it, 15 maggio 2015)


Berlino - Figlia di ebrei discute la tesi a 102 anni: durante il nazismo le fu vietato

di Stefania Piras

Una donna di 102 anni ha discusso la sua tesi di dottorato, a Berlino, mercoledì scorso: l'aveva consegnata all'università negli anni '30, ma non aveva potuto farlo perché figlia di una ebrea.
Era il 1938. All'epoca Ingeborg Rapoport aveva 25 anni e voleva diventare medico ad Amburgo. Dovette fare le valigie e trasferirsi negli Stati Uniti. Oggi è Ingeborg Rapoport, ed è una neonatologa in pensione e a distanza di oltre 70 anni è arrivato il suo riscatto nel vecchio continente. O meglio, una questione di principio come l'ha definita lei stessa.
"L'ho fatto per principio, non per me", ha spiegato Ingeborg Rapoport intervistata dal Tagesspiegel. "Non ho discusso la tesi per me, la situazione complessivamente non è stata facile a 102 anni. L'ho fatto per le vittime" ha aggiunto.
Era una tesi sulla difterite.
E come è andata? "Insomma, non sono rimasta troppo soddisfatta. All'epoca avrei risposto meglio. Ma i professori sono stati molto carini e tolleranti e sono stati contenti del mio esame".

(Il Messaggero, 15 maggio 2015)


A Tel Aviv nasce il World jewish economic forum

di Carlo Marroni.

 
Jonathan Pacifici
Dalla montagna incantata al wadi. Dalla conca svizzera di Davos ai canaloni desertici scavati da fiumi ormai prosciugati da secoli. Evidentemente i tempi erano maturi perché nella "Silicon Wadi", la scintillante enclave israeliana dove si concentra un numero crescente di imprese tecnologiche e start-up, prendesse corpo un foro di incontro mondiale sul futuro dell'economia (ma non solo). È di pochi giorni fa la nascita a Tel Aviv del World Jewish Economic Forum, la "Davos" ebraica, appunto.
   Promotore è Jonathan Pacifici, italiano di 36 anni trasferitosi in Israele quando ne aveva 19, e da tempo attivo nel campo del venture capital con la Wadi Venture, società molto attiva nella Silicon Valley israeliana, che rappresenta la massima concentrazione pro-capite al mondo di imprese hi-tech, circa cinquemila su otto milioni di abitanti. «Ci siamo resi conto che rappresentasse un'anomalia il fatto che non ci fosse un forum ebraico legato al progresso e ai cambiamenti, c'era bisogno di un super-connettore dei temi più economici che legasse il mondo ebraico nella sua complessità» dice Pacifici.
   Insomma, l'idea di fondo è dare corpo e voce agli "stakeholder" dell'economia e della società globale in un foro aperto alle esperienze interessate a dialogare con l'universo economico ebraico, e non solo israeliano. Anzi, qui l'ambizione del Wjef è quello di rafforzare le condizioni affinché Israele possa fungere da hub per una vasta area del mondo. L'ecosistema israeliano delle start up nel campo dell'hi-tech è un fenomeno che cresce del 20-25% annuo, che arriva dritto fino alla borsa Nasdaq di New York e che nel 2014 ha raccolto 3,4 miliardi di euro.
   Pacifici prevede che il primo evento possa tenersi entro un anno: intanto partirà un road show in Europa e Usa per presentare l'iniziativa e raccogliere le adesioni, che già stanno arrivando dalla gran parte delle imprese israeliane e dalle sedi delle multinazionali, che sono in questo caso oltre cinquanta.
   Ma perché un Forum ebraico? Non può essere scambiato come un club chiuso e di natura strettamente religiosa, il che sarebbe quasi una contraddizione quando si parla di libero mercato? «Al contrario… Il mondo è globale, e questo non è uno slogan. Per noi è un punto importante l'identità, e questo rappresenta un punto di raccolta delle esperienze, per poterle poi condividere. Eppoi perché nessuno si stupisce dell'esistenza di reti di tutti i tipi, da quelle geografiche a quelle delle etnie? Noi crediamo che quello identitario sia un aspetto non solo legittimo ma di forte valore aggiunto. E poi delle nostre innovazioni, e sono tante, ne beneficia il mondo intero, non certo solo gli ebrei, che sono stati i primi al mondo a praticare le regole della globalizzazione. Nel Medio Evo erano infatti i tribunali rabbinici che giudicavano le controversie commerciali nelle varie parti dell'Europa e del Mediterraneo, con le stesse regole ovunque, in rispetto quindi della certezza del diritto. Regole che in seguito divennero di uso comune».
   Nella presentazione ufficiale del Forum sono riportati dei numeri che rappresentano l'idea di fondo della "connettività": negli ultimi 112 anni delle circa 800 persone che hanno vinto il premio Nobel il 20% è ebreo. E nel business? Nella lista stilata da Forbes l'11% dei miliardari al mondo è ebreo, con un patrimonio stimato di 812 miliardi di dollari. «Ma quelle attuali, come quelle passate, non sono mai state delle ricchezze chiuse: hanno fatto la prosperità dei rispettivi paesi, dalla Spagna medioevale ai paesi dove si sviluppò la Rivoluzione industriale. Non solo. In Israele c'è una fitta rete di organizzazioni assistenziali e filantropiche, collegate ad un network internazionale: la nostra ambizione è creare un incontro tra imprese e assistenza per innescare investimenti e occupazioni, attraendo giovani da tutto il mondo».
   Il board dei governatori del Wjef deve essere ancora creato, ma per il momento l'organismo è guidato da un gruppo ristretto, di cui fanno parte oltre a Pacifici - presidente - anche Mycol Benhamou, giovane direttore generale in Israele della banca svizzera Cbh, e Daniele Moscati, country manager di Intercash in Israele, in qualità di vice presidenti, e Moty Rucham, fondatore del Tamuz Group, che ricopre la carica di chief operating officier. Ma Pacifici ha anche una storia alla spalle che ci riporta a quel 9 ottobre 1982, all'attentato alla Sinagoga di Roma dove perse la vita Stefano Gaj Tachè, di due anni e dove rimasero ferite 37 persone. Una di queste era Jonathan, che allora aveva quattro anni: nel suo ufficio è appesa la foto in bianco e nero di quel giorno, la foto di una vigilessa romana che lo tiene in braccio.

(Il Sole 24 Ore, 15 maggio 2015)


Lettera di un'ebrea a Francesco

"Santità, aspetti a firmare l'intesa con i palestinesi".

di Fiamma Nirenstein

Caro Papa, Eccellenza, è con umiltà ma guardandola negli occhi che mi permetto di scriverle per spiegarle quale grande tristezza mi abbia colto, da giornalista che da decenni si occupa di Medio Oriente e anche da ebrea, quando ho dovuto leggere che il Vaticano, il suo Vaticano, riconosce lo Stato palestinese con un nuovo trattato.
   Si dice che ancora il documento non è firmato. Papa Francesco, ci pensi ancora un poco. Sospenda la firma. Il Vaticano non è uno dei tanti Stati nazionali che compongono la comunità europea. Agli occhi della Storia esso è depositario di una memoria e di una responsabilità tutte particolari del rapporto fra ebrei e cristiani. Mi lasci ricordare che il Vaticano ha una storia difficile con Israele, da rivoluzionario Giovanni Paolo si decise a riconoscerlo vent'anni dopo che gli egiziani lo avevano già fatto. Non è ora che si annaffi come una pianta preziosa questo piccolo Paese che ha cura dei suoi cristiani e li difende a differenza di tutto il Medio Oriente?
   Il Vaticano non ignora che il mondo palestinese è una voragine di incessante e propagato antisemitismo nei libri di testo, nelle vignette, nella tv, persino nell'incitamento a uccidere gli ebrei. Da quando Fatah e Hamas sono alleate nel governo dei palestinesi, è ancora peggio. Lei Santo Padre, non vorrà di certo avallare uno Stato antisemita dato che una sua parte fondamentale, Hamas, obbliga a uccidere gli ebrei nella sua carta. Papa Francesco, lei sa bene che a Betlemme i cristiani sono fuggiti discriminati e maltrattati, e sa che a Gaza i cristiani subiscono persecuzioni. Non si tratta di un epifenomeno che Fatah potrà cancellare, perché secondo le indagini più recenti alle elezioni che prima o poi Abu Mazen dovrà concedere (fu eletto per quattro anni nel 2005, e basta) Hamas avrà due terzi dei voti. Santità, la pace non si ottiene, dato che certo è questo che vuole, promettendo a una parte tutto senza trattare.
   La pace si fa in due, soprattutto quando la materia è davvero controversa. È ingeneroso pensare che una parte sola possa disegnare i confini fra due Paesi di cui uno, Israele, è minacciato quanto nessun altro. Dovrebbe ormai essere ben consapevole, caro Papa, di quanto l'odio islamista sia pertinace e aggressivo. Israele è stato aggredito fin dalla sua nascita non per ragioni strettamente territoriali, ma perché rappresenta una cultura democratica nel cuore della umma islamica. È uno straniero da eliminare. Per sopravvivere ha sempre dovuto difendersi duramente, come potrebbe farlo senza avere la parola sui confini, che invece i palestinesi identificano con quelli del '67, a due metri dall'aeroporto internazionale, a uno da Gerusalemme.
   Santo Padre, si è accorto che dopo il suo annuncio l'Autorità palestinese ha fatto sapere che non ricomincerà a negoziare se non si stabilisce un termine dell'«occupazione» israeliana? Inoltre Francesco, lei ama la democrazia: come se lo immagina il nuovo Stato? Che riconosca pari diritti dei suoi cittadini, anche se sono dissenzienti, omosessuali, donne? La Freedom House scrive che è vero tutto il contrario, purtroppo. E Hamas usa a Gaza un codice penale shariatico. Lei, vorrebbe uno Stato palestinese senza pena di morte? Non è così. Inoltre, le milizie tuttavia uccidono per strada nemici e sospetti di collaborazionismo. E i giornalisti non sono liberi. La realtà economica è piagata dalla corruzione e sostenuta dall'enorme sussidio internazionale. Sarebbe bene aiutare a costruire lo Stato prima di riconoscerlo.
   Caro Papa, sappiamo che lei è molto preoccupato per la sorte dei cristiani in Medio Oriente. Giusto, ma non è così che guadagnerà loro più protezione e simpatia, anche se magari Abu Mazen gliel'ha promesso e vorrebbe farlo: l'onda è grandissima, l'idea che l'instabilità del Medio Oriente abbia a che fare col conflitto israelo-palestinese è finita, i confini e gli Stati crollano e si ridisegnano secondo l'Isis e gli sciiti guidati dall'Iran. La mossa del Vaticano eccita e non placa l'antagonismo verso cristiani ed ebrei perché è una mossa di appeasement prima che di pace. Inviti semmai le parti alla trattativa bilaterale, e i palestinesi alla cessazione della denigrazione antisemita. Questo aiuterà la pace.
   Sua con rispetto.

(il Giornale, 15 maggio 2015)


Il patto del popolo ebraico con l'Europa è rotto
     Articolo OTTIMO!


di Shmuel Trigano

 
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Il riconoscimento da parte del Vaticano dell'immaginario Stato di Palestina ha gettato una luce cruda sul senso della mistica palestinese dell'Unione Europea e in particolare della Francia. Sappiamo bene che il modello assoluto del rapporto tra cristianesimo ed ebraismo è la teologia della sostituzione, cioè l'affermazione che non sono più gli ebrei ad incarnare la figura salvifica di Israele, ma i cristiani, un "nuovo Israele". Gli ebrei hanno creduto, in modo particolare con la dottrina di Giovanni Paolo II che ha definito gli ebrei come "fratelli maggiori", che il papato avesse abbandonato questa dottrina.

 La nuova teologia della sostituzione
  Il riconoscimento della Palestina oggi fa capire che sono stati davvero ingenui. L'Europa metafisica ha trovato nel meraviglioso "popolo palestinese" la possibilità di una nuova teologia della sostituzione, proprio nel momento massimo della sua crisi d'identità, perché adesso la Chiesa incarna il nuovo Israele soltanto per procura, eleggendo i palestinesi. Questo significa che la Chiesa continua a respingere il popolo ebraico, la cui installazione sovrana sulla Terra di Israele è per lei sempre qualcosa di spiritualmente e teologicamente inaccettabile, fino al punto che, scegliendo la Palestina, cerca pateticamente di minare Israele nella sua identità metafisica e politica. Il punto massimo è raggiunto nel sostegno alla spartizione di Gerusalemme, che vedrebbe il Muro Occidentale del Tempio di Gerusalemme diventare il muro di Al Buraq. Pateticamente però, perché l'Autorità Palestinese in realtà caccia sistematicamente gli arabi cristiani di Palestina con la stessa insofferenza che è all'opera oggi nel mondo musulmano.

 Lo Stato concorrente
  Sullo scacchiere simbolico e politico, il riconoscimento della Palestina, a differenza del mantra e della programmata illusione di "due popoli, due Stati", rappresenta la scelta di uno Stato concorrente di Israele sulla stessa terra, di una degradazione dello stato sovrano del popolo ebraico, di un simbolico abbassamento della sua statura storica. Non ci vuole certo un genio per capirlo. E' già quello che dichiara il nazionalismo palestinese, il quale nega la legittimità di Israele su basi derivanti da una guerra di religione condotta contro il mondo ebraico su tutto il pianeta ("Boicottaggio" e altro). Ma ancor più grave sarebbe la conseguenza che avrebbe questo ipotetico stato sul piano geopolitico, e questo mostra il disegno criminale del progetto europeo, che installerebbe una potenza ostile e terrorista nel cuore del territorio israeliano, dividerebbe il suo territorio nazionale con il corridoio di Gaza, sposterebbe 400.000 ebrei di Giudea e Samaria, condannerebbe qualsiasi forma di vita urbana a Gerusalemme, risveglierebbe l'irredentismo degli arabi israeliani. E 'in questa situazione di stallo che l'Occidente vuole condurre gli israeliani. Non vedo in questa follia niente altro che una sorta di irresponsabile vendetta metafisica.

 La sostituzione "laica"
  Nella risoluzione del parlamento francese, approvata in piedi tra le acclamazioni dei parlamentari, si tratta di un'altro tipo sostituzione.
   Quegli applausi danno a quella seduta l'intensità insostenibile di un momento da fine dei tempi. Anche lì bisogna vedere la sostituzione, ma questa volta è "laica" e politica. Lo status simbolico e politico del destino collettivo degli ebrei in Francia dopo la seconda guerra mondiale ne è la chiave. Gli ebrei sono stati esclusi dalla nazione e da una cittadinanza considerata individuale, in massa, come popolo. Se la vita ebraica è ripresa in Francia alla fine della Shoah è in forza di un patto silenzioso, riconosciuto al livello di tutta l'Europa, che ha ridefinito questo destino collettivo non più in termini tragici e al di fuori della legge, ma in termini di riconoscimento politico e simbolico. Il riconoscimento dello Stato di Israele ne fu il simbolo, almeno agli occhi degli ebrei europei.
  Il voto favorevole alla creazione di uno Stato concorrente e visceralmente ostile allo Stato ebraico rompe questo patto, non solo in una Unione Europea compiacente davanti alla fiammata antisemita che mette Israele al bando della moralità e dell'umanità, ma anche attiva a livello internazionale, con l'ignobile minaccia di sanzioni e boicottaggio, degna degli anni '30, se Israele non ottempera ai dettami di un potere che amoreggia - la Francia ne ha dato un esempio - con le dittature e il commercio di armi, gettando già gli occhi sui mercati interessanti di un Iran nucleare che dichiara apertamente la sua volontà di sterminare gli ebrei.
  L'Europa qui si gioca la sua anima. Bisogna sperare che il popolo ebraico sovrano sappia dimenticarlo, soprattutto sappia resistere a coloro che nel suo seno ripetono questa ingiunzione al suicidio, e si rivolga risolutamente verso il continente asiatico, privo dei fantasmi identitari dell'Europa.

(Desinfos, 14 maggio 2015 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


Il mondo semplicemente non sopporta che Israele possa essere considerato, in qualsiasi modo, la nazione di un “popolo eletto”. Le posizioni che si oppongono a questo sono due:
    1) Laica - Non esiste alcun popolo eletto, siamo tutti uguali (universalismo);
    2) Religiosa - Esiste un popolo eletto, ma non è Israele. Anzi è contro.
Oggi il mondo si divide tra queste due posizioni e si direbbe proprio che nella versione religiosa il nuovo popolo eletto sia quello palestinese. Il filopalestinismo si sta lentamente avviando a sostituire il vecchio cristianesimo. E il Papa, che sa di avere come compito primario quello di mantere la Chiesa Cattolica sempre al centro dell’attenzione del mondo, sta abilmente occupando la posizione più in vista di questo “nuovo cristianesimo”, il quale contiene già pronto al suo interno il “nuovo Israele” che sostituisce il solito, detestabile, mille volte reietto “vecchio Israele”. M.C.


Il Mossad respinse la richiesta di uccidere Khomeini

Nel gennaio 1979 l'allora premier iraniano, laico, Shapur Bakhtiar, chiese al Mossad di eliminare l'ayatollah Khomeini, che era in esilio a Parigi. Ma la richiesta fu respinta.
La rivelazione - scrive "Yediot Ahronot" - è giunta ieri da un ex dirigente del Mossad (un servizio segreto dello Stato di Israele), Yossi Alpher, durante la presentazione di un suo libro all'Università di Tel Aviv.
Secondo Alpher, Bakhtiar convocò il rappresentante del Mossad a Teheran, Eliezer Zafrir, e gli chiese esplicitamente che i servizi segreti di Israele eliminassero Khomeini. La sua richiesta - ha aggiunto Alpher - fu presa in seria considerazione dal capo del Mossad, Yitzhak Hofi. Nel corso di una consultazione ad alto livello Hofi si disse contrario in principio a quella uccisione, ma disposto a sentire anche pareri diversi. Anche Alpher espresse un parere contrario perché, spiegò, in quel momento il Mossad non disponeva di informazioni sufficientemente dettagliate su Khomeini. "Adesso però provo grande rammarico per non aver appoggiato la richiesta", ha ammesso ieri Alpher.
Costretto a sua volta all'esilio, Bakhtiar fu assassinato da tre sicari iraniani nel 1991, a Parigi.

(swissinfo.ch, 15 maggio 2015)


Barack Obama premia una startup israeliana

Tre imprenditori israeliani Ran Korber, Ziv Lautman ed Emil Fisher hanno ricevuto un premio alla Casa Bianca per il contributo fondamentale fornito dalla loro startup BreezoMeter alle questioni ambientali, primo dei quali la lotta contro l'inquinamento.
Nel 2014 la startup ha sviluppato una applicazione per determinare il grado di inquinamento di un territorio. Per fare ciò BreezoMeter prende in considerazione sia i dati forniti dalle agenzie governative in materia di inquinamento sia le informazioni di un luogo specifico come la temperatura, la direzione del vento e l'umidità, sintetizzando questi dati in modo chiaro e conciso all'interno di una applicazione per smartphone.
Tutto iniziò quando il CEO di BreezoMeter, Ran Korber, decise di acquistare una casa per la sua famiglia con la moglie incinta in una zona con poco inquinamento atmosferico. Korber iniziò così a cercare informazioni per poter effettuare la giusta scelta, fino ad arrivare alla strada precisa di suo interesse. I risultati delle sue ricerche erano così sparse, impersonali e disorganizzate, che hanno ispirato gli inizi della BreezoMeter.
Secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), nel 2012 circa 7 milioni di persone nel mondo sono decedute a causa della troppa esposizione all'inquinamento. Responsabile di malattie cardiache, ictus, asma e cancro, l'inquinamento è oggi la principale causa di morte nei paesi occidentali, superando gli incidenti stradali. Nel 2010, nei paesi membri dell'OCSE, la gestione dell'inquinamento a causa dei malati è costata oltre 1,700 miliardi di dollari.
A novembre del 2014, la startup BreezoMeter ha vinto un premio a Dublino al Web Summit. Ha poi vinto il primo premio assegnato dalla Global Entrepreneurship Network durante la Startup Open Global Competition, che ha riunito più di 600 startup da 38 paesi. Ad aprile 2015 la Commissione delle Nazioni Unite per l'Europa ha descritto BreezoMeter come:
Una società in grado di affrontare le sfide ambientali e sociali con un'idea straordinaria.
Tutto ciò è stato sufficiente per attirare l'attenzione degli americani all'interno del 6o Summit mondiale sull'ambiente, organizzato dall'ONU in Kenya, in cui ha partecipato il Presidente americano Barack Obama.
Il giorno della cerimonia, gli imprenditori hanno commentato sul loro blog:
È un grande onore per noi partecipare a questo evento nella Casa Bianca. 50 anni fa Israele e altri paesi lanciarono la rivoluzione dell'acqua; è tempo di lanciare la rivoluzione della qualità dell'aria. Siamo fieri di essere i primi a fornire dati accurati sulla qualità dell'aria.
(SiliconWadi, 14 maggio 2015)


Al Arabiya stronca Obama: "Non ci fidiamo delle sue promesse"

Al vertice di Camp David pesano i grandi assenti

di Giulia Belardelli

"I paesi arabi del Golfo non si fidano più delle promesse del presidente americano Barack Obama". La sentenza arriva da un durissimo editoriale pubblicato oggi dalla tv satellitare al Arabiya, di proprietà saudita, proprio nel giorno in cui il presidente americano - già "schiaffeggiato" dalle grandi assenze di re Salman Bin Abdulaziz e dei leader di Bahrain, Emirati e Oman - cerca di ricucire il rapporto con le petromonarchie in un vertice a Camp David con i membri del Consiglio di cooperazione del Golfo (che comprende Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar).
   Non c'è bisogno di attendere la conferenza stampa - fissata per le 23, ora italiana - per avere un'idea della tensione sorta tra Washington e le potenze sunnite del Golfo, dopo i passi in avanti registrati dall'accordo sul nucleare iraniano. Un accordo che Riad e gli altri paesi del Golfo considerano - in una singolare convergenza d'intenti con Israele - un errore madornale, una minaccia da contrastare con ogni mezzo. Il vertice, voluto direttamente Obama, dovrebbe servire a tranquillizzare i leader del Golfo. Ma, a giudicare dall'editoriale di al Arabiya, Riad è tutt'altro che disposta ad addolcire il suo giudizio.
   Secondo l'emittente, il presidente americano "ha disatteso" quello che viene chiamato "il principio Eisenhower", dal nome del presidente Usa dal 1953 al 1961. Un principio "non scritto" in base al quale la grande potenza "garantiva una mutua assistenza economica e militare da parte di Washington in caso di minaccia" alle ricche monarchie arabe. Ebbene, per al Arabiya, l'attuale amministrazione sarebbe venuta a meno a questo principio almeno tre volte negli ultimi tempi: "si è ritirata dall'Iraq consegnando il Paese arabo all'Iran"; "non ha voluto intervenire in Siria"; e per ultimo "ha ignorato i gravi fatti dello Yemen dopo il golpe delle milizie sciite Houthi", legate proprio a Teheran.
   "Tutti questi avvenimenti - prosegue l'editoriale - hanno dimostrato che la Casa Bianca guidata da Obama non vede alcun pericolo per il Golfo da parte dell'Iran". Secondo l'emittente, è stata la politica di Obama a spingere l'ambasciatore degli Emirati Arabi a Washington, Qassim al Attiya, a dichiarare alla vigilia del vertice che questa volta i Paesi del golfo "vogliono garanzie scritte per la propria sicurezza".
   Per Obama la strada sembra tutta in salita. I sei paesi vogliono dagli Stati Uniti nuove garanzie sulla sicurezza e sull'assistenza militare nel caso in cui l'Iran dovesse minacciarli. E Obama, per cercare di calmare le acque, dovrebbe accettare alcune delle richieste dei sovrani dei paesi del Golfo. In cambio la Casa Bianca chiederà un sostegno all'accordo con l'Iran che gli Stati Uniti e altre cinque potenze occidentali dovrebbero chiudere entro il 30 giugno. Nel summit dovrebbe essere decisa, tra l'altro, la creazione di un sistema integrato di difesa dai missili balistici (uno scudo spaziale arabo) così come l'incremento di esercitazioni militari congiunte per aumentare le capacità di reazione a minacce marittime, aeree e missilistiche e terroristiche.
   L'assenza del re Salman a Camp David è stata interpretata come un chiaro segnale di insoddisfazione del sovrano saudita per il disgelo americano con l'Iran, principale sostenitore politico dei miliziani Houthi yemeniti, contro cui Riad ha avviato una campagna militare. Ma anche il Bahrein, l'Oman e gli Emirati Arabi Uniti hanno deciso di inviare delegazioni di più basso profilo. Ieri Obama ha elogiato i leader sauditi, dicendosi pronto a contribuire a un cessate il fuoco in Yemen. Dello stesso segno le dichiarazioni rilasciate da Obama al quotidiano saudita Asharq al Awsat alla vigilia del summit. Nell'intervista il presidente ha assicurato che resterà "vigile" di fronte all'Iran, la cui crescente influenza regionale inquieta comprensibilmente i paesi del Golfo. Questi paesi, ha spiegato l'inquilino della Casa Bianca, "hanno ragione ad essere profondamente preoccupati per le attività dell'Iran, in particolare per il suo sostegno a gruppi violenti all'interno delle frontiere di altri stati".
   "L'Iran è chiaramente impegnato in comportamenti pericolosi e destabilizzanti nella regione", ha insistito Obama, evocando la Siria, il Libano e lo Yemen, per poi rimarcare la necessità dell'accordo sul programma nucleare di Teheran. "Possiamo immaginare quanto l'Iran possa essere più provocatorio con l'arma atomica", ha detto Obama. "Questa è una delle ragioni per cui l'accordo" con l'Iran sul nucleare "è così importante: impedendo che l'Iran si doti della bomba atomica, sopprimeremo una delle principali minacce alla sicurezza di questa regione", ha aggiunto il presidente Usa. Un punto su cui difficilmente le potenze sunnite del Golfo potranno mai essere d'accordo.

(L'Huffington Post, 14 maggio 2015)


Ingerenze che non aiutano la pace

E' legittimo che paesi europei donino milioni a organizzazioni locali impegnate a delegittimare e demonizzare lo stato di Israele?

Lo scorso 25 aprile un teatro di Haifa ha messo in scena uno spettacolo che può essere interpretato come una manifestazione di solidarietà verso un terrorista che nel 1984 sequestrò e assassinò il soldato israeliano Moshe Tamam. Uno degli organizzatori della rappresentazione è "Coalizione delle Donne per la Pace", un gruppo che sostiene il boicottaggio contro Israele e che è finanziato da Unione Europea, Germania, Svezia e Paesi Bassi....

(israele.net, 15 maggio 2015)


Le sfide per la sicurezza di Israele nella regione, fra Stato islamico ed egemonia iraniana

 
Ron Tira
GERUSALEMME - Stato islamico e possibile rientro dell'Iran nella comunità internazionale pongono lo Stato di Israele davanti a nuove sfide nel campo della sicurezza. La lotta contro i terroristi islamici sunniti nel nord del Libano, sulle alture del Golan e in Iraq ha spinto al riarmo Hezbollah che ha aumentato sempre di più il suo ruolo strategico di esercito parallelo alle forze armate libanesi. Nella Striscia di Gaza serpeggia invece lo spettro dello Stato islamico, come dimostrano i continui attacchi nella Penisola del Sinai, compiuti, secondo l'intelligence egiziana, da terroristi provenienti dall'enclave palestinese. In questo contesto il terrorismo palestinese di Hamas risulta solo una delle minacce a cui dovrà far fronte Israele nei prossimi anni. In merito il quotidiano israeliano "Jerusalem Post" ha pubblicato un estratto di un'analisi scritta da Ron Tira, ufficiale dell'aviazione israeliana (Iaf) e riservista del Dipartimento per la pianificazione dell'Aif. In un recente documento pubblicato dall'Istituto per gli studi sulla sicurezza nazionale (Inss), l'ufficiale rivela le possibili future strategie difensive di Israele. Secondo l'esperto la regione sta cambiando radicalmente in quanto molti paesi che erano una delle principali preoccupazioni di Israele sono scomparsi o sono in procinto di scomparire. Al momento intorno allo stato a maggioranza ebraica sono entrati nuovi giocatori, molto più forti di quelli precedenti. Ad oggi l'Iran che si appresta a rientrare nel novero della comunità internazionale è nettamente più forte della Siria del passato, anche se più lontano geograficamente. In questo contesto per Tira è necessario per superare la tempesta che "infuria nella regione" una strategia difensiva seguendo il metodo del "muro", mescolata ad una capacità di attacco a lungo raggio maggiore, cooperando con i sopravvissuti delle potenze arabe ancora stabili.
  Tira ha messo in guardia le autorità di Israele rispetto a "costose avventure" militari per tentare di modellare a suo favore la politica nelle regioni arabe. L'ufficiale dell'aviazione ha tuttavia precisato la necessità di eliminare gli obiettivi militarmente tangibili o possibili minacce, in particolare in Iran, attraverso raid mirati preventivi. Secondo l'esperto, Israele deve iniziare a cooperare con chi ha il potere di frenare le scosse provenienti dai paesi più a rischio, approfondendo inoltre le manovre per contrastare l'egemonia iraniana nella regione. A livello operativo le autorità militari dovrebbero impostare una forza militare senza troppe pretese, limitandosi a contrastare le minacce concrete nelle regioni in cui il paese ha interessi vitali. In vista di un accordo fra Iran e paesi del gruppo 5+1 (Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Cina, Russia e Germania), Teheran aumenterà anche di più la sua influenza nell'area, già profondamente radicata in Iraq, Yemen, Siria e Libano. Pertanto per l'esperto militare è fondamentale che Israele rafforzi i rapporti con l'Egitto, la Giordania e l'Arabia Saudita, al fine di mantenere la stabilità nella Striscia di Gaza e nella Cisgiordania, collaborando per la realizzazione degli interessi comuni. Il rafforzamento dell'Iran ha avvicinato le posizioni di Israele e le monarchie sunnite, che ormai non considerano più la risoluzione della questione palestinese come un prerequisito per avere rapporti o collaborazioni con Gerusalemme.
  La disintegrazione del sistema statale arabo ha creato due sfide per Israele: instabilità lungo i confini, con la conseguente penetrazione di gruppi estremisti come Fronte al Nusra e gruppi legati allo Stato islamico nel Golan, e la capacità dell'Iran di penetrare direttamente e indirettamente nelle aree più sensibili per Israele come Libano e Siria meridionale. Per quanto riguarda il problema degli estremisti islamici nelle alture del Golan, Tira non esclude il raggiungimento di un equilibrio anche se fragile con il fronte al Nusra, che nel breve periodo potrebbe fungere da deterrente rispetto alla presenza di Hezbollah, più pericoloso dal punto di vista militare. Ovviamente in caso di un avanzamento dello Stato islamico, lo stesso Hezbollah potrebbe rivelarsi un interlocutore adatto per definire accordi di breve durata, ma in grado di mantenere comunque stabili i confini. Per Tira il movimento sciita, in vista anche di un nuovo corso della politica estera iraniana, sta espandendo la sua portata e l'organizzazione agisce ormai ben al di fuori dei confini del Libano, come dimostrano le recenti operazioni nelle alture del Qalamoun, in territorio siriano, e nella provincia irachena di Salah el Din. Quindi Israele deve modificare la propria strategia difensiva che deve essere in grado di prevenire incursioni o attacchi missilistici, anziché puntare su azioni meramente reattive.
  Dal punto di vista operativo Israele ha condotto in questi mesi diversi test di nuovi sistemi difensivi, che si aggiungono alla già collaudata Cupola di Ferro "Kipat Barzel". Il più importante è sicuramente La Fionda di Davide missile studiato per sistemi di difesa anti-aerea e anti-missile, sviluppato con l'appoggio degli Stati Uniti, che dovrebbe essere operative già a partire dal 2016. Il sistema è progettato per abbattere missili con una gittata che va dai 100 ai 200 chilometri, aerei da guerra e missili da crociera a bassa quota. Il nuovo impianto va ad integrare alcune delle lacune del già esistente sistema Cupola di Ferro, specializzato nell'intercettazione di razzi a corto raggio, e del missile intercettore Freccia, utilizzato per abbattere vettori balistici. In marzo funzionari israeliani hanno chiesto agli Stati Uniti un finanziamento supplementare di 317 milioni di dollari per proseguire nello sviluppo del sistema di difesa, che si aggiungono ai 158 milioni stanziati per il 2016 dall'amministrazione Usa. Un altro sistema ancora in fase di test è il razzo vettore Cometa, "Shavit", ufficialmente nato per inviare satelliti nello spazio, ma che secondo gli analisti potrebbe essere il risultato del programma per lo sviluppo di missile balistici. Il Shavit sarebbe infatti un nuovo prototipo uscito dal programma Jericho, il cui più potente vettore è ad oggi il Jericho 3, razzo balistico in grado di portare carichi fino a 1,3 tonnellate e con una gittata di oltre 5 mila chilometri.

(Agenzia Nova, 14 maggio 2015)


Ebrei svizzeri in assemblea

Il presidente della FSCI Herbert Winter
Il dialogo interreligioso è impegnativo ma essenziale, specialmente in tempi difficili come quelli attuali: lo afferma la Federazione svizzera delle comunità israelitiche (FSCI), che oggi a Basilea ha tenuto la sua assemblea dei delegati.
Gli attacchi perpetrati contro gli ebrei in Europa hanno reso insicuri anche molti israeliti svizzeri, ha affermato il presidente della FSCI Herbert Winter, stando a quanto informa un comunicato. Per contrastare questo fenomeno l'organizzazione chiede al mondo politico e alle autorità un rafforzamento delle misure di sicurezza. Ma serve anche il dialogo, considerato "non la più facile, ma la più duratura risposta all'insicurezza, alla tensione e all'antisemitismo".
Winter ha espresso anche soddisfazione per il fatto che le altre religioni vedano la comunità israelita come un importante attore della società elvetica. Il dialogo interreligioso - ha però messo in guardia il presidente della FSCI - "non è una passeggiata". Occorre anche affrontare i punti critici che sussistono ad esempio in relazione all'Islam. Il fatto che gli islamisti radicali abbiano simpatizzanti in Svizzera è preoccupante: con costoro non è possibile un'intesa. Ancora più importante e preziosa diventa quindi la discussione con la maggioranza dei musulmani, che è contraria all'ideologia dell'integralismo.
Secondo Winter vi sono però anche punti critici nei rapporti con i cristiani, ma sono differenze di opinioni che affiorano sempre fra partner. Danno origine a malumori che vengono poi però risolti in un'atmosfera di reciproco rispetto.
Ebrei, cristiani e musulmani devono inoltre in parte lottare contro problemi analoghi: per esempio contro il crescente scetticismo della maggioranza della società nei confronti delle religioni in sé, ha affermato Winter.
Nell'ambito dell'assemblea è stato organizzato anche un dibattito che ha visto protagonisti il cardinale Kurt Koch e il rabbino David Rosen, presidente onorario del Consiglio internazionale dei cristiani e degli ebrei. Al centro delle discussioni sono stati i 50 anni della dichiarazione "Nostra aetate", un documento del Concilio Vaticano II pubblicato nel 1965 che tratta del dialogo fra chiesa cattolica e fedi non cristiane.

(Bluewin, 14 maggio 2015)


Quello che non sappiamo del "giorno della nakba"

Venerdì 15 maggio è la data indicata dai capi palestinesi come "giorno della nakba", che commemorerebbe la "catastrofe" rappresentata per essi dalla fondazione di Israele. Sono previste marce, raduni e dimostrazioni. Non mancheranno le televisioni ma probabilmente esse ometteranno alcuni aspetti del conflitto arabo-israeliano, ignoti al grande pubblico. Ad esempio:
1) oltre 800.000 ebrei furono messi in fuga dalle loro abitazioni nei paesi arabi durante e dopo la Guerra di Indipendenza israeliana del 1948-49. È un dato equivalente se non superiore ai rifugiati arabi generato dal conflitto. Israele ha assorbito tutti gli immigrati mentre i rifugiati palestinesi sono stati segregati per decenni in campi profughi, e usati dai leader arabi come arma da usare nei confronti dello stato ebraico.

(Il Borghesino, 15 maggio 2015)


Rubio sostiene Netanyahu: oggi non esistono le condizioni per una soluzione a due Stati

GERUSALEMME - Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha incassato il sostegno del senatore della Florida e candidato alla presidenza degli Stati Uniti, Marco Rubio, il quale concorda sull'impossibilità di perseguire al momento una soluzione a due Stati per risolvere la questione mediorientale. "Non credo che oggi esistano le condizioni per questo scenario", ha detto Rubio. Il senatore ha elencato i motivi per i quali non ci sono i presupposti necessari, citando la mancanza di unità tra il popolo palestinese, la cattiva gestione del governo, l'incitamento continuo all'odio contro Israele e il rifiuto di due offerte israeliane volte a raggiungere una soluzione definitiva. "Le condizioni semplicemente non esistono", ha affermato. "Penso che il massimo che possiamo sperare nel breve termine è che l'Autorità nazionale palestinese sia in grado di fornire un livello di stabilità nel territorio", ha aggiunto Rubio.

(Agenzia Nova, 14 maggio 2015)


Adin Steinsaltz: ho "rubato" il Talmud agli ebrei per donarlo a tutto il mondo

di Monica Mondo

 
Rav Adin Steinsaltz
Secondo Time "studioso del millennio", rabbi Adin Steinsaltz, filosofo, scienziato noto in tutto il mondo per aver tradotto l'intero Talmud in ebraico e nelle principali lingue occidentali, è tra gli ospiti illustri del Festival delle Religioni di Firenze, incontro itinerante nei luoghi più belli della città per dialogare sull'oltre della ragione e delle ragioni che portano allo scontro, all'opposizione. Per riflettere innanzitutto sulla fede, come scusante per crearsi nemici, e sulle possibilità non ireniste di guardarsi come uomini, a darsi una mano a vicenda davanti alle tragedie del mondo.
   Arriva caracollando, rav Steinsaltz, con la kippah che scivola sui fili di capelli bianchi. Sorride sotto i baffi, come uno che ne ha viste tante, e conosce da viandante tutte le strade della terra. Ha promesso di intraprendere la traduzione del talmud anche in italiano, "così voi italiani diventerete un po' più seri, chissà", scherza. E' dal 1965 che lui e il centro Studi a suo nome di Gerusalemme si impegnano in questa impresa impossibile, portar via il testo più importante dell'ebraismo dalle mani degli esperti e regalarlo a tutti, tradurlo cioè dall'aramaico all'ebraico moderno, l'inglese, lo spagnolo, il francese.
   "Il Talmud è il pilastro centrale della cultura ebraica — spiega —. È un libro grosso, sono circa 5700 pagine, non c'è un altro libro simile al mondo, eppure credo di aver letto abbastanza. È un libro sulla legalità, sulla vita, sulla storia della persona, sulle questioni più bizzarre del quotidiano, e sui problemi alti della teologia. È un oceano e io ho inventato una barca per aiutare le persone ad attraversarlo".
   Un libro di dubbi, di questioni, dalle più alte a quelle minime che sgorgano dalla quotidianità. Un libro di pratiche, non di regole, e di curiosità, altissime o semplicissime.
   "E' un libro pieno di domande: cui vuole la libertà e ci vuole l'intelligenza di fare delle domande per trovare delle risposte. A volte a domande semplici seguono risposte sbalorditive, altre volte domande importanti non trovano risposte adeguate... le domande si pongono domande a vicenda!"
   Da maestro perenne, non solo abituato ad educare, ma appassionato dell'educazione, Rav Steinsaltz ha fondato diverse scuole, in Israele, in America, in Russia e ci tiene che i giovani non imparino solo la lingua e il pensiero: "voglio che una rosa diventi una pianta di rose, che una ghianda diventi una quercia. Bisogna studiare i giovani, vedere in loro non quel che tu vuoi, ma capire chi sono. Io stranamente amo le persone, le trovo simpatiche. So che è più facile per molti amare gli animali. Eppure le persone sono buffe, hanno due sole gambe, parlano troppo... sì, sono amabili. Io cerco non di farle diventare delle montagne, ma di aiutarle a diventare più grandi, simpatiche, forti".

(ilsussidiario.net, 14 maggio 2015)


A Expo il mais cresce in verticale

Israele è l'ultima frontiera delle coltivazioni verticali. Obiettivo: risparmiare acqua e spazio

di Tommaso Cinquemani

Expo 2015 - Il Green Wall al padiglione di Israele
Non solo giardini ornamentali verticali, ma anche veri e propri campi con piante ad uso alimentare. È questa la sfida di Green Wall Israel, azienda che ha sviluppato un innovativo sistema per creare "pareti viventi" adatte sia per ricoprire gli edifici, sia per decorare i muri interni di uffici e abitazioni.
La tecnica, unica al mondo per efficacia, è visibile e toccabile con mano da tutti i visitatori di Expo2015. Il padiglione di Israele è infatti ricoperto da un muro alto dodici metri su cui cresce mais, grano e altri tipi di cereali.
Sono due le parole d'ordine per Green Wall Israel: risparmio di acqua e di spazio. Il clima secco di Israele ha costretto gli agricoltori a inventare sistemi di irrigazione estremamente efficienti, in grado di risparmiare la maggior quantità di acqua possibile, pur garantendo il benessere della pianta. Non a caso Israele è leader mondiale nei sistemi di irrigazione a goccia, utilizzati anche per le pareti verticali.
"Arriviamo a risparmiare fino a cinque sesti dell'acqua utilizzata in altre tipologie di pareti verdi - spiega Giusi Ferone, l'architetto che ha curato il progetto di Expo2015 - Utilizziamo un sistema ad ala gocciolante e una micro-riserva che permette alle piante di crescere senza sprechi".
L'irrigazione viene controllata da un software che ottimizza la distribuzione a seconda dell'esigenza delle piante. L'altro segreto dell'azienda israeliana è l'utilizzo di un terriccio speciale che nonostante lo spessore estremamente limitato è in grado di fornire nutrimento a quasi qualunque tipologia di vegetale.
Nata nel 2007, la Green Wall Israel impiega un sistema a moduli, facilmente intercambiabili, che permette alle piante di migrare da una cella all'altra, occupando gli spazi lasciati liberi da piante morte o che non hanno attecchito.
"La prospettiva - spiega Ferone - non è solo quella di avere pareti ornamentali stupefacenti, ma anche quella di rendere la coltivazione di piante edibili possibile in ogni ambiente urbano, dove le costruzioni si sviluppano nella dimensione verticale".

(AgròNotizie, 14 maggio 2015)


Lo Stato d'Israele per il palestinesi è una "catastrofe"

14 maggio 2015 - I palestinesi in Cisgiordania e striscia di Gaza hanno celebrato la "Giornata della Nakba" (catastrofe) che tengono ogni anno in coincidenza con la ricorrenza della nascita di Israele (quest'anno anticipata perché cade di venerdì, quando uffici e scuole palestinesi sono chiusi, dunque non mobilitabili per le manifestazioni). A Ramallah centinaia di palestinesi hanno marciato scandendo slogan per il "diritto al ritorno" dei profughi (e dei loro discendenti) all'interno di Israele (una rivendicazione che non viene avanzata per nessuno dei grandi flussi di profughi della seconda metà degli anni '40 come tedeschi orientali, indù e pakistani, italiani d'Istria e Dalmazia, ebrei da Europa e paesi arabi ecc.). Esponenti dell'Autorità Palestinese hanno tenuto comizi per ribadire la rivendicazione del "diritto al ritorno". Manifestazioni simili si sono svolte nella striscia di Gaza, dove i rappresentanti di Hamas hanno ribadito che "la lotta armata" è l'unico mezzo per conseguire il "diritto al ritorno". Una manifestante palestinese ha proclamato alla tv: "Torneremo, anche se dovremo aspettare altri 67 anni. Se non lo faremo noi, lo faranno i nostri figli e nipoti. Noi insegniamo ai nostri figli che la Cisgiordania non è la loro patria. La loro patria è là, in Palestina. Israele non esiste. Quella è la terra di Palestina". La Governatrice di Ramallah, Leila Ghannam, parlando a nome del presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) che si trova all'estero, ha detto che i palestinesi non cederanno mai sul "diritto al ritorno", un diritto che "non cessa di esistere con il passare del tempo". "Gerusalemme deve tornare ai suoi proprietari a prescindere dai piani volti a giudaizzare la città", ha aggiunto Ghannam. Zakariya al-Agha, capo del "dipartimento profughi" dell'Olp, ha condannato l'insistenza di Israele ad essere riconosciuto come "stato ebraico" che a suo dire mira ad impedire il "ritorno" di "cinque milioni di profughi" palestinesi. Fatah, il movimento che fa capo ad Abu Mazen, ha scritto in un comunicato che il "diritto al ritorno è sacro" e che nessuna forza al mondo può costringere i palestinesi a "capitolare", giurando che continuerà la lotta fino alla creazione di uno stato palestinese indipendente e sovrano con Gerusalemme come capitale "sulla terra storica e naturale della Palestina, patria eterna dei palestinesi".

(israele.net, 14 maggio 2015)


Le sorelle Bucci, memoria di chi è stato dentro l'abisso

di Elena Loewenthal

Le sorelle Bucci negli anni '40
TORINO - Al Salone ci sono quest'anno l'Italia delle Meraviglie, un Peese ospite vicino e lontano al tempo stesso, c'è la solita - meravigliosa anch'essa - festa del libro. Ma c'è anche un filo rosso che lega molti incontri fra voci e parole e che non è certo casuale: la Shoah come passato che non passa. Presenza scomoda in un presente che tutti ci riguarda. Più che mai quest'anno in cui l'incontro con un'altra lingua e un altro mondo letterario vede per protagonista la Germania. Ma la Shoah non è soltanto storia tedesca né tanto meno del popolo ebraico: è storia di tutti e la condivisione di quel passato comincia e ha per protagonisti le parole, i libri.
   Pagine di memoria. Storie, voci e racconti da Auschwitz-Birkenau è un ciclo di tre incontri dal tenore e dai protagonisti diversi, un invito all'ascolto che non mancherà di dare i suoi frutti. Si comincia giovedì alle 14 in Sala Azzurra con la presentazione del libro di Halina Birenbaum, La speranza è l'ultima a morire. Sabato alle 13,30 allo spazio Book incontro con Bogdan Bartnikowski, autore de L'infanzia dietro il filo spinato, dove interverrà fra gli altri il Sindaco Fassino. Lunedì alle 14 in Sala Blu Se chiudo gli occhi muoio, instant book frutto della collaborazione fra La Stampa e il Museo del campo di sterminio.
   Ma la memoria della Shoah non è ormai soltanto racconto diretto, dalla viva voce di chi è stato dentro l'abisso ed è tornato. Ricordare significa anche narrare, tentare di scendere a patti con quell'esperienza storica estrema attraverso il racconto. In Mi ricordo Paola Capriolo (giovedì alle 17 al Caffè Letterario) si accosta a quella memoria in un romanzo d'intimità, dove l'inesprimibilità dell'orrore sta tutta nel non detto, in ciò che la scrittura nasconde.
   Più che mai su temi come questi la scrittura è inevitabile mediazione fra l'indicibile e l'imperativo della memoria. Del resto Primo Levi diceva che l'esperienza «vera» di Auschwitz è di quei milioni che vi sono rimasti sommersi: abisso di silenzio. La sua condizione di salvato è però per tutti noi il canone della narrazione e del ricordo: venerdì alle 10,30 in Sala Rossa si parolerà di Primo Levi tradotto e traduttore, con Ann Goldstein e Domenico Scarpa.
   Tatiana e Andra sono invece viva voce della memoria: avevano 4 e 6 anni nell'aprile del 1944, quando entrarono ad Auschwitz, e oggi alle 16,30 saranno in Sala Rossa insieme a Mario Calabresi e a Umberto Gentiloni Silveri, autore di Bombardare Auschwitz. Un tema che ancora oggi, a settant'anni di distanza, brucia tremendamente. Questi ed altri fra gli incontri al Salone dedicati alla memoria della Shoah formano uno dei tanti possibili percorsi di lettura e visita fra i libri. Sono soprattutto un'istanza di riflessione che, in questa edizione con la Germania per paese ospite, sfugge provvidenzialmente alla retorica della celebrazione (quanto è giusto parlare di Shoah non soltanto nel Giorno della Memoria!) e propone invece un utile cammino di approfondimento.
   
(La Stampa, 14 maggio 2015)


Israele e il deserto del Negev

Lungo l'antica Via dell'Incenso, crateri scenografici, vigneti, olivi e ghepardi.

di Ivana Gabriella Cenci

 
Immaginate un altipiano nel deserto dove d'estate non serve l'aria condizionata perchè il clima è piacevolmente secco e ventilato. Un deserto dal cuore verde e generoso dove spuntano coltivazioni di olivi da cui spremere un olio denso e dal sapore intenso e fruttato, dove filari di vigneti regalano un vino rosso profondo che ricorda il nostro appassionato amarone. Dove per incanto in primavera - e solo per alcuni giorni - il suolo arido e polveroso veste un manto di fiori dai colori intensi e specie rare come The Petra Iris (Iris Petrana), un vero miracolo della natura. Dove di notte si aggirano stambecchi, lupi, iene, ma con un po' di fortuna si possono incontrare anche i ghepardi... Siamo nel deserto del Negev, ai confini del Sinai. Lungo la strada n. 12 che porta da Eilat a Tel Aviv il paesaggio è prevalentemente e roccioso, con la presenza di formazioni di vario tipo, un alternarsi di rocce granitiche, calcaree e sedimentarie, a formare una splendida tavolozza dai caldi colori ella terra.
  Mitzpe Ramon è una piccola città incastonata nel cuore del deserto, giusto a metà strada tra Tel Aviv ed Eilat, luogo di pace e lontano da ogni frastuono cittadino. Qui è possibile sostare qualche giorno scegliendo tra un lussuoso lodge o una suggestiva tenda con un tetto a cupola di mille stelle, per godere l'atmosfera del deserto, la pace del silenzio e la magnifica vista sul Cratere Ramon. Per gli amanti della natura c'è solo l'imbarazzo della scelta: trekking nel deserto, a piedi o in bici, safari in jeep anche notturni per avvistare e studiare il comportamento degli animali, visite guidate per ammirare lo spettacolo della volta celeste ed imparare a conoscere le costellazioni... e per chi vuole vivere un'esperienza indimenticabile, c'è la possibilità di trascorrere qualche giorno con i beduini nel deseerto condividendo con loro abitudini, riti e tradizioni.
  Osservare il Cratere di Ramon dalla terrazza panoramica di Mitzpe Ramon è uno spettacolo meraviglioso: ci si trova di fronte ad un imponente bacino, uno degli unici i sette crateri al mondo di origine erosiva, formato originariamente da uno strato inferiore morbido di arenaria ed uno superiore calcareo. La forza della natura ed il tempo hanno fatto un gran bel lavoro: i movimenti tettonici e l'erosione delle acque hanno regalato a questo lembo di deserto elementi paesaggistici rari e suggestivi, vallate dalla bellezza straordinaria con effetti multicolori comparabili alla Death Valley.
  All'interno di questo paesaggio l'Avdat National Park è senza ombra di dubbio uno dei luoghi naturalistici più suggestivi di Israele: si tratta di un imponente canyon scavato nella roccia bianca dalla potenza delle acque del fiume Zin. La valle può essere ammirata dall'alto, con scorci mozzafiato sugli strati calcarei modellati da secoli di acque impervie, oppure percorsa a piedi dal basso verso l'alto con un trekking di un paio d'ore circa. Ai piedi della valle il fiume dà origine ad un'oasi in pieno deserto, con cascatelle e piscine dove gli stambecchi vengono ad abbeverarsi.
  Fonte di sostentamento per animali e piante, la valle dello Zin ha ospitato migliaia di anni fa - fin dal periodo nabateo, un importante insediamento urbano, primo nucleo di quella che sarebbe stata poi la città di Avdat. Ora città abbandonata e in rovina, l'arroccata Avdat - Patrimonio dell'Unesco - conobbe i fasti tra il II secolo a. C ed il VII secolo d. C., quando era la seconda città più importante lungo la via dell'Incenso - dopo Petra - e dove stagionalmente sostavano le carovane che viaggiavano percorrendo l'antica strada. Una rotta carovaniera lunga 2.400 km che partiva dall'Oman attraversando lo Yemen, l'Arabia Sudita e la Giordania, per arrivare al Negev e terminare presso il porto di Gaza.
  I 65 km che vanno da Moa ad Avdat sono i più ricchi di testimonianze dove si trovano forti, caravanserragli, antiche cisterne d'acqua, pietre miliari e resti di città come Avdat, Haluza, Shivta e Mamshit. Luoghi i sosta e rifornimento per le Carovane che per oltre 700 anni trasportarono con i cammelli incenso, mirra e altre spezie tanto apprezzate dagli antichi romani...

Info Utili
Per raggiungere Israle abbiamo volato con la compagnia di bandiera El Al www.elal.com
La nostra guida di riferimento in loco: Uri Bar-El www.israeleturismo.com
Safari nel deserto diurni e notturni: Dr. Haim Berger www.negevjeep.co.il
Info sui tour nel deserto Negev: www.negevtour.co.il

(Vera Classe, 14 maggio 2015)


ll Papa rompe un tabù diplomatico e riconosce lo Stato Palestinese

di Franca Giansoldati

CITTÀ DEL VATICANO - Papa Francesco rompe un altro muro diplomatico, una specie di tabù, accelerando il percorso di riconoscimento dello Stato Palestinese.
   Al termine di una riunione tra le delegazioni palestinese e vaticana, è stata raggiunta l'Intesa di un testo di prossima firma riguardante un accorgo globale tra le parti. Al centro il riconoscimento dello Stato di Palestina. "Le parti hanno concordato che il lavoro della commissione sul testo dell'accordo è stato concluso", si legge in un comunicato congiunto, "e che l'accordo sarà sottoposto alle rispettive autorità per l'approvazione prima di fissare una data nel prossimo futuro per la firma".
   Sebbene siano due eventi "indipendenti", ha precisato il portavoce vaticano, padre Lombardi, il Papa riceverà sabato mattina il presidente palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen), che domenica assisterà alla canonizzazione, in San Pietro, delle prime due sante palestinesi. Immediata la reazione di Israele che ha espresso "profonda delusione" per la decisione del Papa di concludere un accordo con lo Stato di Palestina.
   Le fonti, citate dalla stampa israeliana, si attendono chiarimenti dalla Segreteria di Stato. «Israele - proseguono le fonti - è deluso di sentire della decisione della Santa Sede di concordare un testo finale di accordo con i palestinesi che comprenda il termine "lo Stato di Palestina". Questa mossa non fa avanzare il processo di pace e non contribuisce a riportare la leadership palestinese al tavolo delle trattative bilaterali. Israele esaminerà l'accordo e soppeserà conseguentemente le proprie azioni».
   La prima intesa raggiunta, nel 2000, era stata firmata tra Santa Sede e Olp; oggi la Santa Sede ha siglato un'intesa, in vista di un accordo bilaterale, con lo "Stato di Palestina". La grande novità. L'accelerata diplomatica voluta dal Papa. "Il 29 novembre 2012 - spiega monsignor Antoine Camilleri, sotto-segretario per i Rapporti con gli Stati - è stata adottata da parte dell'Assemblea generale dell'Onu la risoluzione che riconosce la Palestina quale Stato osservatore non membro delle Nazioni Unite, e lo stesso giorno la Santa Sede, che ha anch'essa lo status di osservatore presso l'Onu, ha pubblicato una dichiarazione. Questa ha accolto con favore il risultato della votazione, inquadrata nei tentativi di dare una soluzione definitiva, con il sostegno della comunità internazionale, alla questione già affrontata con la risoluzione 181 del 29 novembre 1947".
   Il testo, sottolinea ancora il vice-ministro vaticano degli Esteri, "ha un preambolo e un primo capitolo sui principi e le norme fondamentali che sono la cornice in cui si svolge la collaborazione tra le parti. In essi si esprime, ad esempio, l'auspicio per una soluzione della questione palestinese e del conflitto tra israeliani e palestinesi nell'ambito della Two-State Solution e delle risoluzioni della comunità internazionale, rinviando a un'intesa tra le parti".
   Anche se in modo indiretto per il Vaticano è chiaro che l`accordo raggiunto in aiuterà i palestinesi nel vedere stabilito e riconosciuto uno "Stato della Palestina indipendente, sovrano e democratico che viva in pace e sicurezza con Israele e i suoi vicini, nello stesso tempo incoraggiando in qualche modo la comunità internazionale, in particolare le parti più direttamente interessate, a intraprendere un`azione più incisiva per contribuire al raggiungimento di una pace duratura e all`auspicata soluzione dei due Stati".

(Il Messaggero, 13 maggio 2015)


Può essere deluso soltanto chi si era illuso. Che lo "Stato Palestinese" e lo Stato Vaticano si trovino in sintonia non è affatto strano: hanno in comune l’atteggiamento di odio verso Israele, il falso richiamo alla pace e il linguaggio biforcuto con cui ne parlano. Papa Francesco e Yasser Arafat da questo lato non sono diversi. M.C.


Un po' troppa fretta, Santa Sede

Il Vaticano dovrebbe aspettare a riconoscere lo "Stato di Palestina".

E' dal 2012 che il Vaticano, Papa Ratzinger regnante, nei suoi documenti ufficiali parla di "Stato di Palestina". Dunque la decisione di ieri della Santa Sede di nominare questo stato in un documento bilaterale è l'esito di un percorso iniziato addirittura nel 2000 da Giovanni Paolo II. Il trattato è comunque il primo documento in cui il Vaticano parla di "Stato di Palestina" e non più di "Organizzazione per la Liberazione della Palestina" (Olp): si tratta, di fatto, di un riconoscimento ufficiale. Una svolta simbolica di un certo peso, proprio mentre i palestinesi sono impegnati in una campagna internazionale per il riconoscimento del loro stato senza passare dai negoziati con Israele, anzi disconoscendone le ragioni, e da ultimo, l'esistenza. E questo è il problema. Quando il Vaticano riconobbe Israele, agli inizi degli anni Novanta, lo fece all'interno della cornice degli accordi di Oslo: Israele riconosce l'Olp e la chiesa cattolica in cambio apre allo stato ebraico. Un baratto cinico, ma comprensibile nella cornice di politica estera realista da sempre seguita dal Vaticano, che pure deve tenere conto della fragile condizione degli arabi cristiani.
   Oggi la situazione è ben diversa: i palestinesi stanno internazionalizzando il conflitto con Israele, mentre il mondo arabo islamico è percorso da un odio ipnotizzante verso "i sionisti" e vaste masse di cristiani sono cacciati dalle terre islamiche, palestinesi comprese. Oggi il Vaticano poteva permettersi di prendere tempo, adducendo numerose ragioni, prima fra tutte l'esposizione globale di Israele alla tagliola della umma islamica. Per sessant'anni, dopo che lo stato ebraico ottenne l'indipendenza nel 1948, il Vaticano ha adottato una politica diplomatica che non prescindesse dal raccordo anche con i nemici di Israele: non riconoscimento totale della statualità ebraica. Va detto che nel lungo contenzioso ha pesato la questione, estremamente sensibile per entrambi, dello status dei Luoghi santi. Nonostante l'accettazione da parte di tutte le nazioni occidentali, compreso all'inizio il blocco comunista, il riconoscimento reciproco tra Israele e Vaticano è avvenuto solo nel 1993. La chiesa cattolica ieri ha avuto un po' troppa fretta nel riconoscere questo fantomatico "Stato di Palestina". Si tratta di qualcosa in più di un semplice errore politico.

(Il Foglio, 13 maggio 2015)


Lo "Stato di Palestina" è una finzione giuridica messa in piedi e sostenuta al solo scopo di far sparire lo Stato d’Israele. Sostenere, appoggiare, riconoscere questa innaturale entità ha il solo obiettivo di mandare avanti il “processo di distruzione” di Israele. Molti ne sono ben consapevoli, altri no. I secondi sono più disastrosi dei primi. M.C.


Le Chiese cristiane svizzere chiedono una migliore protezione degli ebrei

BERNA - La Chiesa cattolica svizzera e quella riformata, preoccupate per l'aumento dell'antisemitismo, chiedono al Consiglio federale di adottare misure per rafforzare la protezione degli ebrei.
Gli episodi di terrorismo avvenuti in Francia, Danimarca e Belgio rappresentano un attentato contro la vita e i diritti umani e contro una società basata sulla libertà, la sicurezza e la tolleranza, scrivono in una lettera le commissioni per il dialogo con gli ebrei della Chiesa cattolica e della Federazione delle Chiese protestanti.
Siccome anche in Svizzera gli episodi di antisemitismo sono aumentati, esse esigono che il governo federale adotti misure concrete per accrescere la protezione delle comunità ebraiche, delle sinagoghe e delle scuole.

(tio.ch, 13 maggio 2015)


La nave svedese che vuole violare il blocco israeliano alla Striscia

Marianne di Gothenburg è salpata da un porto nei pressi di Stoccolma alla volta di Gaza.

di Maurizio Molinari

 
La nave svedese "Marianne di Gothenburg"
GERUSALEMME - La nave svedese "Marianne di Gothenburg" è salpata da un porto nei pressi di Stoccolma alla volta di Gaza nel dichiarato tentativo di violare il blocco economico israeliano alla Striscia controllata da Hamas.
Acquistata da "Ship to Gaza Sweden" e "Ship to Gaza Norway", la nave svedese affronta un viaggio di circa 5000 miglia marine ed è la prima imbarcazione della "Freedom Flottilla III" che punta a migliorare i risultati delle due precedenti spedizioni: nel 2010 un commando israeliano abbordò la "Mavi Marmara" turca mentre si avviava ad entrare nelle acque di Gaza e nel 2012 un analogo tentativo venne respinto.
In questa occasione, le 13 persone a bordo della nave svedese - cinque membri dell'equipaggio e otto passeggeri - contano di riuscire nel tentativo facendo leva sul recente, formale, riconoscimento dello Stato di Palestina da parte del governo di Stoccolma. La nave porta il nome di Marianne Skoog, veterana del Movimento di solidarietà pro-palestinese in Svezia morta nel 2014, ed ha a bordo fra gli altri l'israelo-svedese Dror Feiler, il musicista Henry Ascher, il regista Lennart Berggren, la femminista Maria Svensson e Mikael Karlsson, presidente di "Ship to Gaza Sweden".

(La Stampa, 13 maggio 2015)


Israele - Eccellenze italiane in nuova edizione Iati Biomed

Principale manifestazione israeliana di biotecnologie

TEL AVIV, 13 mag - In concomitanza con l'inaugurazione del Padiglione Israeliano ad Expo Milano 2015, ha preso il via a Tel Aviv la quattordicesima edizione della Fiera IATI Biomed 2015, principale manifestazione israeliana nel settore delle Biotecnologie. Organizzata con cadenza annuale dalla IATI (Israeli Advanced Tecnologies Industries), Biomed rappresenta un evento di grande richiamo internazionale per la presenza di imprese, istituti e Centri di ricerca provenienti dai Paesi leader nel settore delle biotecnologie.
A questa edizione partecipano operatori di settore ed espositori tra i quali scienziati, ricercatori, imprenditori, opinion leader settoriali, venture capital e investitori privati da Paesi quali Gran Bretagna, Stati Uniti, Canada, Danimarca, Francia e Cina.
Lo stand ICE-Agenzia e' stato inaugurato dall'Incaricato d'Affari Italiano in Israele, Gianluigi Vassallo, che si e' intrattenuto con i partecipanti italiani, alcuni dei quali hanno preso parte anche alle scorse edizioni della manifestazione.
Seguendo un andamento ormai consolidato, la partecipazione italiana di quest'anno, organizzata dall'Ufficio Partenariato Industriale e Rapporti con gli Organismi Internazionali di ICE-Agenzia in collaborazione con ICE Tel Aviv, conta una delegazione di quattro imprese, un'Universita' e un primario gruppo bancario italiano con una divisione dedicata alle scienze della vita.
Obiettivo della manifestazione e' la promozione di forme di partenariato tecnologico tra soggetti italiani e controparti israeliane nell'ambito dei trasferimenti di tecnologia, progetti di ricerca e innovazione congiunti e sviluppo di prodotti.
Anche quest'anno l'ICE-Agenzia ha allestito uno Spazio Italia per ospitare le proprie imprese e tutti gli altri italiani presenti all'evento dove si svolgeranno circa 50 incontri B2B organizzati dall'ICE-Agenzia e in collaborazione con gli Organizzatori della manifestazione. L'evento offrira' ai visitatori nel corso di tre giorni un fitto programma di Conferenze, Seminari, incontri B2B / R2B ed attività di networking. I settori protagonisti della Biomed sono: attrezzature medicali; farmaci, vaccini e terapia genetica; bioinformatica; nano biotecnologia e bio-elettronica; prodotti biologici; e strumenti per laboratori.

(ANSAmed, 13 maggio 2015)


Riapre in Turchia storica sinagoga

A Edirne, un segno di pacificazione.

La Sinagoga di Edirne restaurata
La Sinagoga prima del restauro
La rinascita della sinagoga nella città turca di Edirne, completamente restaurata con fondi pubblici (2,5 milioni di dollari; 2,2 mln di euro) dopo anni di abbandono, è un fatto storico per gli ebrei della Turchia dove la religione prevalente è l'islamismo. E viene vissuta come un segno di pacificazione.
Ancor più dopo le tensioni degli anni scorsi fra Turchia e Israele e alcune prese di posizione antiebraiche del governo di Erdogan. Del resto, è la prima volta che viene riaperto un luogo di culto degli ebrei dai tempi della proclamazione della repubblica turca, nel 1923, come ha sottolineato il gran rabbino di Turchia, Ishak Haleva, alla testa di una piccola comunità composta da circa 25 mila fedeli distribuiti prevalentemente fra Istanbul e Smirne. Edirne (anticamente Adrianopoli) si trova a due ore di auto da Istanbul, non lontana dal confine con la Bulgaria e la Grecia, incrocio culturale con l'Europa: contava 13 sinagoghe, appartenenti a comunità ebraiche differenti, e tutte distrutte nell'incendio del 1905. L'anno seguente, nel 1906, il sultano Abdulhamid chiese a un architetto francese di costruirne soltanto una. La nuova sinagoga diventò il simbolo della modernità e dell'integrazione della società mosaico turca. Poteva accogliere fino a 1.200 fedeli. Ma nel 1934, in conseguenza delle sommosse antisemite, gli ebrei fuggirono verso Istanbul e dopo la guerra in Israele. Ridotta la comunità ebraica, la sinagoga di Edirne fu abbandonata nel 1983, chiusa e ridotta un campo di rovine dal degrado. La rinascita, e l'inaugurazione ufficiale il 26 marzo scorso, con oltre mille persone e alla presenza di un uomo dell'entourage di Erdogan, significa molto per la comunità ebraica che ha bisogno di essere rassicurata.

(ItaliaOggi, 13 maggio 2015)


Expo - Inaugurato il padiglione di Israele

Maroni: un onore essere qui

RHO, 12 mag - "E' un piacere e un onore essere qui, a conferma dell'amicizia che c'è tra Israele e la Regione Lombardia. Sono stato in Israele poche settimane fa per incontrare la comunità israeliana e vedere e capire come e quanto investono nella ricerca, per trarne utili insegnamenti anche per noi". Lo ha spiegato il presidente della Regione Lombardia Roberto Maroni, nel corso della presentazione del padiglione di Israele nel sito Expo. "Nel corso della mia visita in Israele ho incontrato Shimon Peres e l'ho invitato qui in Lombardia a fine settembre - ha ricordato Maroni -: in quell'occasione firmeremo un accordo di collaborazione tra la Regione Lombardia e la sua fondazione per aiutare i bambini palestinesi a curarsi meglio di quanto oggi possono fare".
  "La scritta che accoglie chi visita questo splendido padiglione, 'Fields of tomorrow', 'i campi del domani', rappresenta la sintesi perfetta tra la tradizione agricola della terra del latte e del miele e la propensione all'innovazione. In oltre 60 anni, grazie allo studio, alla dedizione, al lavoro e grazie a ingenti investimenti in ricerca, Israele ha saputo trasformare un Paese arido in un terreno fertile". Lo ha spiegato il presidente della Regione Lombardia Roberto Maroni nel corso della presentazione del Padiglione di Israele, questo pomeriggio, nel sito Expo. "Per questo Israele è un Paese all'avanguardia nelle tecnologie per l'agricoltura e l'irrigazione - ha proseguito Maroni -, detiene il primato mondiale nel riutilizzo di acqua agricola ed è l'unico Paese al mondo in cui alberi e vegetazione sono aumentati negli ultimi 50 anni. Per tutti questi motivi Israele può contribuire in modo determinante a raggiungere gli obiettivi che si prefigge questa Esposizione universale ovvero 'Nutrire il pianeta'. E per questo voglio stabilire una collaborazione con Israele, non solo nel campo della ricerca e dell'innovazione, di cui Israele è leader, ma anche in quello delle tecniche per migliorare la produzione agricola e diminuire il consumo dell'acqua, cose che ho visto fare durante la mia visita in Israele alcune settimane fa".

(mi-lorenteggio.com, 12 maggio 2015)

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L'ambasciatore Gilon confonde Maroni con Monti

di Gianni Beraldo

 
            Il pubblico presente                                  Naor Gilon                                         Moran Atias
Moran Atias
RHO - «Saluto il presidente Monti» una gaffe clamorosa quella dell'ambasciatore israeliano in Italia Naor Gilon presente oggi all'inaugurazione ufficiale del padiglione di Israele a Expo 2015. In realtà i saluti erano rivolti al presidente della regione Lombardia Roberto Maroni, seduto in prima fila; errore subito corretto in corsa dal rappresentante in Italia dello Stato di Israele.
Maroni ha sorriso anche quando poco prima era stato presentato ancora come onorevole dal presentatore dell'avvenimento, svoltosi nello spazio attiguo all'ingresso del padiglione davanti a un pubblico selezionato.
Padiglione che in realtà è stato stato concluso a tempi record, aprendo i battenti fin dal giorno di apertura. Da allora, il 1 maggio, questo padiglione è già stato visitato da ben 100.000 persone, attratti anche da una originale serie di campi seminati (veri) posti su tutta la parete esterna ma in verticale. Un progetto davvero suggestivo che richiama l'armonia della natura con l'ambiente.
«Siamo e saremo sempre presenti a ogni edizione di Expo dove porteremo il nostro messaggio culturale così importante per il nostro Paese» continua l'ambasciatore che aggiunge «siamo felici che questa edizione di Expo si tenga a Milano, l'Italia infatti per noi è un Paese amico e un partner commerciale strategicamente molto importante, il secondo in Europa per volumi di affari».
Prima delll'intervento di Gilon una breve comparsata della splendida attrice ed ex modella Moran Atias, nota anche nel nostro Paese e scelta dal ministero degli Esteri israeliano come testimonial di Expo. Con un ottimo italiano la Moran ha evidenziato le particolarità di Israele invitando tutti a visitarlo. Un bel biglietto da visita che la dice lunga sui buoni rapporti tra Italia e Israele.

(Varese7Press, 12 maggio 2015)

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Netanyahu potrebbe venire a Milano

RHO - Benjamin Netanyahu potrebbe visitare l'Expo milanese in occasione del tradizionale incontro bilaterale tra il governo israeliano e quello italiano che si tiene ogni anno. Ad annunciarlo è l'ambasciatore israeliano in Italia, Naor Gilon, a margine dell'inaugurazione del padiglione di Israele a Expo 2015.
L'ambasciatore spiega che la data potrebbe essere scelta "già dalla prossima settimana" quando si conosceranno i dettagli dell'incontro bilaterale che "si tiene un anno in Israele, un anno in Italia. Siamo in attesa di organizzare quest'anno l'incontro in Italia, proprio qui a Milano", aggiunge Gilon. L'ambasciatore dice che fino a ora "abbiamo avuto qualche difficoltà a causa delle elezioni in Israele, ma già dalla prossima settimana - assicura - contiamo di poter decidere una data".

(Adnkronos, 12 maggio 2015)


La nostra croce in Medioriente

Parla Bat Ye'or: poche speranze per i cristiani in terra islamica, l'Europa non difende nemmeno se stessa.

di Giulio Meotti

 
George Habash (1926-2008), padrino del terrorismo mediorientale. Era un cristiano greco-ortodosso che cantava in chiesa come chierichetto.
Disastri naturali come lo tsunami o i terremoti provocano sempre straordinari movimenti di solidarietà in tutto l'occidente, mentre la scomparsa di intere popolazioni cristiane, della loro civiltà antica duemila anni, non commuove mai nessuno". A colloquio con il Foglio, Bat Ye'or (pseudonimo di Gisele Littman) è a dir poco disincantata su questo che a suo avviso è uno dei massimi rivolgimenti demografici e religiosi della storia dell'umanità: la fine della presenza cristiana nel mondo arabo-islamico. Un cataclisma dalle proporzioni che verranno comprese soltanto a ciclo compiuto.
  Lei è la storica inglese-svizzera, nata in Egitto, che per prima ha narrato la storia della "dhimmitudine", ovvero l'assoggettamento, la mutilazione, l'inferiorità e la debolezza dei non musulmani (ebrei e cristiani) all'interno dell'islam sovrano, che li ha condannati in quanto semenzaio di menzogne ed eresie.
  La prima volta che Bat Ye'or ne scrisse fu sulla rivista parigina Commentaire, fondata da un gruppo di discepoli liberali di Raymond Aron. Da allora, Bat Ye'or ha scritto saggi come "Les Juifs en Egypte", "Le Dhimmi: profil de l'opprimé en Orient et en Afrique du nord depuis la conquète arabe" e di "Les chrétientés d'Orient" con la prefazione del teologo protestante Jacques Ellul, per citarne soltanto alcuni.
  "La situazione della cristianità orientale è una tragedia di proporzioni immense", dice la storica al Foglio. "Anche coloro, come il presidente egiziano al Sisi che vorrebbero aiutare, sembrano impotenti in queste circostanze drammatiche. Per quanto riguarda l'occidente, le scelte strategiche e ideologiche che ha compiuto nel secolo scorso lo rendono incapace di comprendere la tragedia. Forse è un altro segno della decadenza dell'occidente, di una politica deliberata di cancellazione dell'identità cristiana attraverso la
Abbiamo visto decine di migliaia di persone sfilare nelle strade a favore dei palestinesi mentre sommergeva- no i civili israeliani di missili gridan. do 'morte a Israele e agli ebrei', ma l'agonia cristiana nelle terre islami- che porterebbe appena cinquecento persone nelle strade di Parigi.
globalizzazione e l'islamizzazione, e con esse il rifiuto dei valori giudeo-cristiani che emergono nell'attuale cultura occidentale che esecra Israele. Abbiamo tutti visto decine di migliaia di persone sfilare nelle strade delle capitali d'Europa a favore dei palestinesi mentre stavano sommergendo i civili israeliani di missili e gridavano 'morte a Israele e agli ebrei', ma l'agonia cristiana nelle terre islamiche porterebbe appena cinquecento persone nelle strade di Parigi. Dagli anni Settanta, tutti i partiti politici europei hanno sostenuto i palestinesi e gli interessi arabo-islamici. I cristiani d'oriente divennero l'avanguardia della politica europea antisionista e persone come Edward Said i detrattori della civiltà occidentale che magnificavano la superiorità di quella musulmana'' .
  La lista è impressionante. George Habash (1926-2008), "il padrino del terrorismo mediorientale", era un cristiano greco-ortodosso che cantava in chiesa come chierichetto. E' la stessa storia di Wadie Haddad (1927-1978), cristiano e spietato organizzatore di azioni terroristiche. Il Baath, partito al potere in Iraq e in Siria, è stato fondato dal cristiano Michel Aflaq (1910-1989). L'invenzione della parola "nakba", per indicare la "catastrofe" della nascita di Israele, si deve al cristiano Constantin Zureiq (1909-2000). In Libano, i movimenti dei cristiani Michel Aoun e Suleiman Frangieh sono alleati di Hezbollah. "Ovviamente fu il disperato tentativo di comunità cristiane vulnerabili sotto una spada di Damocle, una popolazione che avrebbe potuto sopravvivere nell'oceano islamico soltanto sostenendo il potere che li avrebbe poi distrutti", ci dice Bat Ye'or.
  La storica non si abbandona a falsi distinguo sullo Stato islamico (Is). "Oggi l'ls applica le leggi jihadiste che hanno portato alla conquista del medio oriente cristiano. I massacri, le schiavitù, le espulsioni, il ricatto, la distruzione di monumenti, libri e retaggi di antiche civiltà, sono descritti in migliaia di libri nei secoli. Ma a partire dal secolo scorso, a causa della storia d'amore dell'Europa con i palestinesi, questa storia è stata proibita e sostituita con la visione islamica della tolleranza musulmana e della natura maligna di Israele. Oggi le sofferenze umane dei cristiani, che richiederebbero aiuto internazionale, sono aggravate dalla perdita della memoria storica, di secoli di tesori e di tradizioni di passate generazioni immortalate in vecchi libri. E' la storia della dhimmitudine, che è stata negata dal consenso politico".
  Non vede alcun futuro per i cristiani in medio oriente. "E' difficile prevedere l'evoluzione di questo caos provocato da una Europa cieca e dal presidente americano Barack Obama, entrambi sedotti dai loro consiglieri preferiti: i musulmani radicali e i Fratelli musulmani. E' chiaro che qualunque cosa succederà, i
Oggi il carattere cristiano del Libano è scomparso come conse- guenza della Guerra civile del 1970-80 e del sostegno dato dall'Europa e dalla Francia ai palestinesi contro i cristiani. L'Eu- ropa ha smesso di difendere se stessa, come potrebbe difendere qualcun altro?
cristiani emigreranno. Forse una esigua comunità copta resterà in Egitto, ma la presenza cristiana si affievolirà in altre regioni. Già oggi il carattere cristiano del Libano è scomparso come conseguenza della Guerra civile del 1970-80 e del sostegno dato dall'Europa e dalla Francia ai palestinesi contro i cristiani. L'Europa ha smesso di difendere se stessa, come potrebbe difendere qualcun altro? Da presidente della Commissione europea, Romano Prodi biasimò il diritto di Israele all'autodifesa dandoci un esempio dell'Europa compiacente che incoraggiava l'immigrazione. I cristiani emigreranno, ma non come fecero gli ebrei. Gran parte degli ebrei sono tornati alla loro terra natia dove hanno restaurato una antica civiltà. Gli ebrei avevano una visione che li univa nonostante le divisioni e le differenze. La proclamazione della libertà e della dignità dell'essere umano, la liberazione dalla schiavitù hanno costituito il certificato di nascita di Israele che ha preservato la sua identità e anima nei millenni".
  Israele è odiato proprio perché ha vinto la dhimmitudine, la sottomissione all'islam. "I cristiani invece sono stati le vittime della rivalità politica europea. Divisi, traumatizzati dai genocidi ottomani, i cristiani d'oriente non hanno potuto farcela senza aiuto esterno. E' stata una tragedia cristiana".
  E una tragedia in cui l'occidente ha una responsabilità impressionante. "Sì, e in molti modi. Inghilterra e Francia hanno diviso l'identità cristiana persuadendo i cristiani che erano arabi e che dovevano militare con i musulmani per formare una nuova ideologia: il nazionalismo arabo che avrebbe sconfitto il sionismo. C'erano arabi cristiani, è vero, ma gran parte dei cristiani erano cristiani arabizzati dalla conquista araba delle loro terre. Inoltre, molti cristiani non erano antisraeliani e si vedevano come gli abitanti indigeni del medio oriente. Su pressione delle due potenze coloniali, i cristiani divennero più arabi degli arabi, i mercenari cristiani delle cause islamiche, in particolare dei palestinesi. La militanza dhimmi a favore dell'islam e del suo dominio in espansione ha alterato la coscienza storica cristiana. Minoranze vulnerabili vennero usate per diffondere in occidente odio antiebraico. Dovevano seppellire la loro storia dhimmi per abbracciare la tolleranza islamica. A livello politico, Francia, Inghilterra e America hanno rifiutato di concedere ad assiri e armeni regioni autonome dopo la Prima guerra mondiale, temendo le popolazioni islamiche delle loro colonie. Rifiutarono anche la protezione dei cristiani dopo la fine dei mandati, suggerendo loro di integrarsi con gli arabi. Il risultato fu un genocidio di Assiri negli anni 30. Avvenne lo stesso con la richiesta curda di autonomia. Soltanto la falsa identità palestinese basata sul jihad e creata dalla Francia nel 1969 ha creato consenso nella guerra dell'Unione europea contro Israele".
  Bat Ye'or conclude con una triste premonizione: "Avendo negato la storia della sottomissione, l'Europa oggi vive senza conoscerla, insicura sotto la minaccia jihadista. L'estinzione della cristianità orientale potrebbe prefigurare il futuro stesso dell'Europa". Sarà questa la punizione per la nostra cupidigia da dhimmitudine?

(Il Foglio, 12 maggio 2015)


Israele ha ricevuto quattro batterie di Patriot dalla Germania

Il ministro della Difesa israeliano, Moshe Ya'alon, ha annunciato ieri che la Germania ha fornito quattro batterie di missili Patriot in Israele come parte di un programma di aiuti militari. Ya'alon ha riferito la notizia durante una conferenza stampa congiunta con il ministro della Difesa tedesco, Ursula von der Leyen, al complesso militare di Kirya, a Tel Aviv. Israele ha ricevuto le batterie Pac-2 nel corso degli ultimi anni, come parte di un accordo tra i due paesi. Il ministero della Difesa israeliano - scrive "Haaretz" - ha annunciato di aver firmato un contratto da 430 milioni di euro con l'azienda tedesca ThyssenKrupp Marine Systems, per l'acquisto di quattro pattugliatori lanciamissili destinati alla protezione delle piattaforme di trivellazione israeliane nel Mediterraneo, considerate potenziali obiettivi degli attacchi di Hezbollah. Il comunicato specifica che i fondi destinati all'acquisto delle imbarcazione non verranno attinti dal bilancio della Difesa, ma costituiscono uno stanziamento ad hoc approvato dal governo per garantire la sicurezza della zona economica esclusiva israeliana.

(Agenzia Nova, 12 maggio 2015)


Il "pastore" che portò il suo gregge alla Biennale

Il gallerista Ermanno Tedeschi ricorda Menashe Kadishman, l'artista israeliano innamorato della natura e della Bibbia

di Elena Loewenthal

 
Menashe Kadishman
TORINO - «A volte per sentire il profumo di un fiore bisogna chinarsi», sta scritto in calce al dipinto del museo di Tel Aviv accanto al quale è stata deposta la sua bara: la giraffa si piega dolcemente per accostare le narici a un piccolo fiore blu. E lui, Menashe Kadishman, grande artista israeliano morto qualche giorno fa, era proprio così. Con quella sua gentilezza profonda dietro un'aria ispida da sabra, nativo israeliano come i fichi d'India che sono spinosi fuori e dolcissimi dentro. Era difficile, se non impossibile, non volergli bene. Ermanno Tedeschi, il dealer torinese che ha curato molte sue mostre, di bene gliene voleva tanto e l'ha conosciuto a fondo.

- Kadishman non era solo un artista, era anche una persona speciale, non è vero?
  «Certo. A incominciare dall'apparenza. Aveva sempre addosso pantaloncini corti e camicia bianca. Tipica tenuta degagé all'israeliana... ma lui la camicia la portava abbottonata all'interno: diceva che l'avrebbe rivoltata per il verso giusto il giorno in cui verrà la pace. E' morto con la camicia abbottonata all'interno… ma era davvero e innanzitutto un uomo di pace, nel senso più pieno del termine. Comunque mi ricordo quando andammo in visita ufficiale in Campidoglio, in occasione di una sua mostra: neanche allora rinunciò alla sua tenuta classica. Era un grande uomo, per me è una grande perdita. Andavo spesso a trovarlo nella sua casa di Tel Aviv, dove dipingeva non di rado dal letto, se si trattava di piccole tele. La stanza era piena di pelouche e balocchi: collezionava giocattoli e condividevamo questa passione. C'era sempre un grande viavai in quella casa, come capita dove abita un maestro, una persona che è importante nella vita di tanti».

- Come tratteggia in poche righe un profilo di questo artista certamente fuori dagli schemi?
  «A incominciare dalla sua biografia… Nasce a Tel Aviv nel 1932 ma facendo il servizio militare in fanteria viene "folgorato" dall'incontro con le pecore, nelle campagne del kibbutz Mayan Baruch. Fa il pastore per alcuni anni, studia arte in Israele, nel 1959 va a Londra a frequentare la Saint Martins, ma vi resta fino al 1972. In quel periodo entra nel giro di Andy Warhol, Rauschenberg e Christo. Nel 1978 porta alla Biennale di Venezia il suo gregge - vivo, vero e colorato: straordinaria performance di living art che viene ricordata anche nel film Vacanze Intelligenti di Alberto Sordi. Kadishman è stato pittore ma anche scultore. Al museo ebraico di Berlino c'è una sua straziante installazione: teste di ferro che il visitatore calpesta producendo un rumore che è un lamento viscerale. Un approccio "esperienzale" alla Shoah che turba profondamente il visitatore».

- La sua firma, la sua icona è però la pecora. Che cosa può raccontare di questo leitmotiv?
  «Innanzitutto che non ce ne sono due uguali! Ricordo la prima mostra che allestimmo in Italia. Erano circa centocinquanta dipinti, tutti di pecore, ma tutte diverse. Kadishman guardava con nostalgia a quel momento fondamentale della sua vita in cui aveva fatto il pastore di gregge. La pecora è simbolo della terra, della natura, del nostro bisogno di natura. Ma è anche l'animale sacrificale per eccellenza: in questo il suo ruolo è, per così dire, interreligioso. Le pecore di Kadishman hanno poi un volto schiettamente umano, anche se non sono delle semplificazioni per raffigurare l'umanità. Ne ha fatte davvero di tutti i colori: la pecora talebana, quella fiorata, quella triste. Ci sono pecore materiche, perché lui amava molto le tecniche miste, inseriva terra, sassi, sostanza nei suoi quadri. Accanto a questa produzione, c'è quella "pesante", di scultore: opere monumentali, come "Uprise", una statua di 15 metri nella piazza del Teatro nazionale, a Tel Aviv. Quando papa Giovanni Paolo II andò in visita in Israele, gli fu donata una sua scultura. In un certo senso, la sua opera era l'anima d'Israele».

- E aveva radici molto profonde, proprio come Israele, «Altneuland», terra vecchia e nuova dove si rinasce e si torna alle origini bibliche, non è così?
  C'è molta materia biblica nei suoi lavori. Il sacrificio di Isacco è un tema ricorrente. Così come la colomba che torna all'arca di Noè per annunciare che il diluvio è finito. C'è tutta una sua serie di installazioni intitolata "motherland", rappresentazione di Israele. E anche le sue pecore ci riportano a un paesaggio remoto, quello delle origini: prima di diventare re, Davide faceva il pastore, giusto per citare un esempio fra i tanti. Declinato da questo artista, il messaggio biblico ha tanta forza quanta dolcezza. Mancherà alle sue pecore e a tutti noi, Menashe Kadishman».

(La Stampa, 12 maggio 2015)


Israele - Primo sì alla legge sull'aumento dei ministri

Passa in prima lettura la legge. Giovedì forse l'esecutivo di Netanyahu

La Knesset la notte scorsa ha approvato in prima lettura la proposta di legge del premier Benyamin Netanyahu per l'aumento dei ministri (da 18 a 20) nel prossimo governo. I voti a favore 61, quelli contrari 59: l'esatta corrispondenza della composizione attuale del parlamento. Ora la legge dovrà passare la seconda e la terza lettura con la stessa maggioranza, pena la bocciatura. Netanyahu potrebbe presentare il nuovo governo solo giovedi' prossimo.

(ANSA, 12 maggio 2015)


Il re di Lampedusa

di Josephine Bacon

Lampedusa - Via Roma
Lampedusa, una piccola isola al largo delle coste della Sicilia, ha fatto notizia in Europa ultimamente. È qui infatti che sono fatte sbarcare le navi colme di immigrati clandestini provenienti dall'Africa, spesso dalla Libia.
Lampedusa è piccola, così piccola che talvolta non compare nemmeno sulle mappe, ma allo stesso tempo costellata di campi profughi che ne occupano il territorio. È così affollata che il cimitero è ormai pieno e non c'è più spazio per seppellire i corpi di chi, in queste traversate, ha trovato la morte.
L'isola di Lampedusa ha anche una storia ebraica. E sì, è una storia straordinaria.
Giugno 1941: il sergente Sydney Cohen, un pilota della Royal Air Force britannica, cerca di fare ritorno nella base di Malta a bordo del suo biplano Swordfish. Finito fuori rotta, è costretto a un atterraggio di emergenza a Lampedusa. Cohen e l'equipaggio decidono di arrendersi agli italiani ma, prima che possano prendere alcuna decisione, la guarnigione di 4300 soldati di stanza sull'isola manifesta la stessa intenzione.
"Un gruppo di italiani ci venne subito incontro. Noi eravamo pronti ad arrenderci, ma constatammo immediatamente che, con sé, portavano delle lenzuola bianche". Fu così che Syd Cohen, sarto di Clapton, sobborgo ebraico di Londra, divenne comandante di Lampedusa. Un atto che notificò anche a Malta, dove consegnò l'atto di resa degli italiani.
I fatti ebbero una significativa eco mediatica in Gran Bretagna e contribuirono a tenere alto il morale del paese, preoccupato per l'annunciata invasione nazista dell'isola. "Un sarto londinese è il re di Lampedusa", titolò il News Chronicle. Ad esserne conquistato anche un drammaturgo in lingua yiddish, S.J. Charendorf, che ne curò una trasposizione teatrale - "Il re di Lampedusa" - andata in scena nel 1943, prima al New Yiddish Theatre di Adler Street, e poi al Grand Palais in Mile End Road. Tra gli attori il decano del teatro yiddish di Londra, Meier Tzelniker, e sua figlia Anna. La BBC curò a sua volta una traduzione dell'opera, con protagonista il noto attore ebreo Sidney Tafler.
La popolarità dello spettacolo raggiunse la Germania tanto che ad essa William Joyce, simpatizzante nazista di origine britannica noto anche come "Lord Haw-Haw", dedicò non poche attenzioni nelle sue trasmissioni di propaganda per il Terzo Reich fino a minacciare una prossima visita della Lutwaffe (visita che non sarebbe mai arrivata: il teatro sarà costretto a chiudere alcuni anni dopo per mancanza di fondi e sarà incorporato nel Queen Mary College dell'Università di Londra).
La storia del "re di Lampedusa" si concluse in tragedia. Il 26 agosto del 1946, volando sul Canale della Manica, l'aereo su cui viaggiava Cohen scomparve dai radar e non vi fece più ritorno. Il sergente, il cui corpo non fu mai ritrovato, ebbe comunque la consolazione di assistere allo spettacolo mentre nel 1944 si trovava in congedo ad Haifa, nell'allora Palestina mandataria.
Nel 2001 sono circolate alcune voci su una possibile trasposizione cinematografica dei fatti, anche se con un finale diverso: la realizzazione del sogno di Cohen di emigrare in Australia (dove voleva diventare pastore di pecore). Purtroppo, da allora, niente si è mosso.


Da www.algemeiner.com, traduzione e adattamento di Adam Smulevich

(moked, 12 maggio 2015)


Israele spiega "l'irrigazione a goccia"

Incontro al Scienze Park di Lodi promosso da Federalimentare

LODI - Anche in un territorio arido e con poco spazio per le coltivazioni può nascere un'agricoltura sostenibile e di qualità. Lo dimostra Israele che per Expo porta in Italia la propria esperienza nella tecnica di irrigazione a goccia e ha realizzato il suo padiglione in funzione appunto di questa tecnica. La "coltivazione a goccia" è stata spiegata al Parco Tecnologico Science Parka di Lodi per l'inaugurazione di 'Demo field', il parco dimostrativo delle tecniche di agricoltura sostenibile che anticipa nei fatti l'agricoltura del futuro.
   Quella dell'irrigazione a goccia "è una tecnica esportabile in tutto il mondo, basta adattarla al territorio - ha spiegato a Lodi il commissario del padiglione israeliano di Expo, Elazar Cohen -. Il pianeta soffre di scarsità d'acqua ed è necessario sviluppare nuove tecniche che danno alle coltivazioni l'acqua di cui necessitano, senza sprechi. L'acqua deve essere vista come bene economico e non solo naturale".
   Nel mondo la tecnica dell'irrigazione a goccia si utilizza nel 3% delle aree irrigate. In Italia si arriva al 20%, ma in certe colture come frutta e pomodori si sale anche all'80 per cento. "Obiettivo dell'agricoltura italiana deve essere quello di introdurre questa tecnica nelle coltivazioni in cui c'è più spreco di acqua, come quelle dei cereali", ha detto il presidente di Innovagri, Mario Vigo.
   
(ANSA, 11 maggio 2015)


Israele negherà l'ingresso a Gaza a navi non autorizzate

GERUSALEMME - Israele non consentirà a delle imbarcazioni non autorizzate di entrare nelle sue acque territoriali: è quanto ha detto un portavoce del ministero degli Esteri, Emmanuel Nachshon, alla notizia che un peschereccio ha lasciato la Svezia domenica sera con l'intenzione di rompere il blocco navale di Gaza. Il portavoce ha spiegato che "se le cosiddette flottiglie di Gaza sono veramente interessate al benessere della popolazione avrebbero dovuto inviare i loro aiuti attraverso Israele; con questo atto dimostrativo vogliono solo provocare una reazione", ha ribadito Nachshon. La nave Marianne è la prima della Freedom Flotilla III a partire per Gaza, secondo il sito web "Ship to Gaza Svezia". L'imbarcazione per ora si fermerà nei porti di Helsingborg, Malmo e Copenaghen, mentre gli altri scali verranno annunciati in seguito.

(Agenzia Nova, 12 maggio 2015)


Chi boicotta Israele nei campus
       Articolo OTTIMO!


Nelle università d'America cresce l'isolamento dello stato ebraico.

Mentre le università europee da quindici anni si contraddistinguono per l'inimicizia verso Israele e per numerosi casi di antisemitismo, quelle americane erano state finora isole felici del liberalismo accademico. Finora. Un'inchiesta del New York Times rivela che "adesso ci sono gruppi di boicottaggio di Israele all'Università del Michigan, Princeton, Cornell e nella maggior parte dei campus della University of California. Le proposte stanno avendo un successo misto: approvate in sette campus e respinte in otto". Se in Europa la guerra a Israele la fanno gli islamisti e una certa sinistra antagonista, in America è un misto di gruppi di pressione delle minoranze: neri, latini, asiatici, nativi americani, gay e femministe. Chi ha da recriminare qualcosa alla società o alla natura se la prende con lo stato ebraico. Quale migliore capro espiatorio? Le minoranze e i loro gruppi di pressione, fortissimi nel politicamente corretto americano, sono schierate oggi apertamente contro gli ebrei. Al Barnard College, "Studenti per la giustizia in Palestina" hanno diffuso una mappa della regione senza Israele. Israele è uno stato grande quanto il New Jersey e i suoi abitanti ammontano a un millesimo della popolazione mondiale.
  Ai boicottatori delle università non interessa che sia l'unico paese del medio oriente dove vige il pluralismo accademico e dell'informazione, dove i giornalisti con le loro inchieste sono in grado di far traballare i governi e i professori delle università possono permettersi il lusso di boicottare il proprio stesso paese. Il problema è la natura ebraica di quello stato che copre lo 0,0001 per cento della superficie terrestre. E' stato elevato a simbolo dell'ingiustizia, del furto, dell'oppressione. Che fare? Quello che ha fatto il fisico e premio Nobel Steven Weinberg, che insegna all'Università del Texas. Ha rispedito al mittente un invito a tenere una conferenza all'Imperial College di Londra con questa spiegazione: "Vista la storia degli attacchi contro Israele, e la natura ferocemente repressiva e aggressiva di altri paesi in medio oriente e altrove, boicottare Israele denota una cecità morale per la quale è difficile trovare una spiegazione diversa dall'antisemitismo". E' così che si risponde all'odio. All'offensiva.

(Il Foglio, 12 maggio 2015)


A Expo spopola il picnic israeliano

A Milano scoppia la moda della pausa pranzo all'Esposizione universale. E c'è chi ne approfitta.

di Maria Sorbi

E a Milano scoppia la moda della pausa pranzo ad Expo. Chi ha un accredito o qualche convenzione per entrare all'Esposizione universale, ne approfitta per assaggiare ogni giorno il menù di un paese diverso: dalle specialità emire a un lunch messicano, dallo street food europeo ai piatti regionali italiani.
A mezzogiorno il sito si riempie di visitatori mordi e fuggi. E c'è perfino chi trova il tempo di arrotolarsi i pantaloni e sdraiarsi al sole per prendere un po' di tintarella e schiacciare un pisolino.
Una delle idee più originali le ha avute il padiglione israeliano che sembra aver letto nella mente dei milanesi. Propone pic nic all'ombra con tanto di tovaglia a quadrettoni e cesti di vimini con tutto il necessario. Ovviamente non ci sono panini ma hummus, falafel e pita. La gente sembra gradire e si sdraia volentieri all'ombra degli alberi a fianco del corridoio Expo. E non mancano i turisti che, a digestione finita, chiedono allo stand di Israele di provare i sali del mar morto, in una sorta di area benessere improvvisata.

(il Giornale, 11 maggio 2015)


Hamas e Israele, speranze per una tregua duratura?

Ne scrivono soprattutto i media arabi, secondo cui i negoziati vanno avanti da mesi. Ci sarebbero contrasti tra l'ala politica e quella militare del partito palestinese.

di Lucio Di Marzo

Potrebbe portare a una novità significativa nel conflitto israelo-palestinese, ma tutto è ancora da farsi.
Da tempo proseguono negoziati sottotraccia tra Israele e Hamas, che nella migliore delle ipotesi potrebbe risultare in un accordo sul lungo periodo per una tregua tra i due nemici dichiarati.
Lo scrive La Stampa, ma lo ripetono da qualche tempo soprattutto i media del mondo arabo, sostenendo che non è escluso si arrivi a una stretta di mano, per quanto riluttante, che cambierebbe molto nell'equilibrio di poteri tra Tel Aviv, la Strisca di Gaza e l'autorità palestinese.
Un accordo ribalterebbe la situazione anche per quanto riguarda i rapporti con l'Egitto, alleato di Israele, che al momento ha chiuso le frontiere con i territori palestinesi, bloccando anche i tunnel che passavano da un lato all'altro del confine, fulcro del contrabbando di merci dal Paese arabo.
I negoziati vanno avanti a intermittenza da mesi, secondo i media. Sarebbero coinvolti - scriveva una decina di giorni fa l'israeliano Haaretz - funzionari di diverse organizzazioni, dalle Nazioni Unite all'Europa, al Qatar. In cambio di un cessate il fuoco che potrebbe durare dai tre ai dieci anni (i numeri sono vaghi tanto quanto lo sono, per ora, le informazioni), Israele consentirebbe di levare in parte il blocco a cui è sottoposta Gaza e forse persino la costruzione di un porto.
Ancora il quotidiano israeliano sosteneva che dalla mossa potrebbe trarre giovamento anche il nuovo governo Netanyahu, costretto sì a una sorta di riconoscimento di Hamas, ma con la possibilità di relegare a un ruolo di secondo piano Mahmoud Abbas.
Dall'idea ai fatti il passo è naturalmente lunghissimo. Da convincere c'è anche e soprattutto l'ala militare di Hamas, che su una tregua con Israele potrebbe non essere particolarmente d'accordo e che rimane molto vicina alle posizioni iraniane. L'avvicinamento dell'ala politica all'Arabia Saudita potrebbe invece favorire un accordo, sulla base di un riconoscimento nell'Isis e negli iraniani di due nemici comuni.

(il Giornale, 11 maggio 2015)


La marcia annuale potrà passare nel quartiere musulmano di Gerusalemme

La Corte suprema israeliana ha respinto una petizione contro il fatto che l'annuale marcia in occasione del "Giorno di Gerusalemme" - che quest'anno ricorre il 17 maggio - possa passare nel quartiere musulmano della Città Vecchia.
Al tempo stesso - secondo i media - ha impegnato la polizia ad arrestare e incriminare qualunque partecipante gridi slogan razzisti.
"Con il cuore che pesa - ha detto uno dei giudici, Elyakim Rubinstein - respingiamo la petizione". Quest'ultima era stata avanzata dall'organizzazione non governativa "Ir Amin" che si batte contro il razzismo e che ha presentato alla Corte alcuni video che testimoniavano slogan anti-arabi gridati nel corso delle ultime manifestazioni.
Un altro giudice della Corte ha ammonito gli organizzatori della marcia di avvisare i partecipanti sulle conseguenze penali di slogan anti-arabi.

(swissinfo.ch, 11 maggio 2015)


Il governo israeliano vicino a un compromesso per rompere il monopolio del gas

 
La piattaforma di gas naturale Tamar davanti alla costa d'Israele, gestita dalla texana Noble Energy
GERUSALEMME - Il governo israeliano sembra aver trovato un accordo per porre fine a mesi di dispute sullo sviluppo del giacimento offshore Leviathan. I negoziatori dell'esecutivo israeliano s'incontreranno con i rappresentanti delle compagnie Delek e Noble energy questa settimana nel tentativo di attuare un nuovo piano per contrastare il "monopolio" del gas nel paese. Le due compagnie, che hanno in gestione i giacimenti di gas Leviathan e Tamar, in precedenza avevano già respinto un piano messo a punto dal governo nel mese di febbraio. Secondo la nuova proposta, Delek - la società israeliana controllata dal magnate Yitzhak Tshuva - dovrebbe vendere tutte le sue holding del gas, senza rinunciare alla partecipazione del 45 per cento nel giacimento del Leviathan, che è ancora in fase di sviluppo. Le condizioni e le tempistiche per la cessione delle altre aziende, in particolare quella di gestione del Tamar - attualmente il più grande sito offshore d'Israele - saranno meno stringenti.
  La texana Noble Energy, che ha in concessione anche giacimenti di gas ciprioti, sarebbe sottoposta invece a meno restrizioni sul mercato del gas israeliano. Noble Energy dovrebbe ridurre la sua partecipazione nel Tamar dal 36 al 25 per cento e cedere le sue quote nei siti più piccoli di Karish e Tanin, mantenendo quindi il controllo di una parte del Leviathan. Attualmente Delek e Noble controllano il 70 per cento delle riserve di gas israeliane (712 miliardi di metri cubi), mentre in base alla nuova proposta del governo arriverebbero al 60 per cento. Il restante 9,5 per cento verrebbe distribuito tra altre aziende.
  Secondo quanto riferisce il quotidiano "Haaretz", tuttavia non c'è accordo tra gli esponenti dell'esecutivo sulla nuova soluzione trovata per contrastare il monopolio del gas. Lo stesso commissario antitrust, David Gilo, il quale si è occupato del processo fin dal dicembre corso, è fortemente contrario alla nuova proposta. Fonti consultate da "Haaretz" suggeriscono che Gilo potrebbe anche non firmarla e disertare l'incontro previsto con i rappresentanti delle due compagnie. Gilo potrebbe quindi presentare un'istanza alla Corte antitrust e chiedere che venga attuata la soluzione proposta nel febbraio scorso, ma per ora non avrebbe comunque intenzione di agire perché starebbe aspettando l'insediamento del nuovo governo e la nomina dei ministri delle Finanze e dell'Energia.
  L'Authority a febbraio aveva invitato Delek e Noble a vendere le loro azioni sia nel giacimento Leviathan, sia nel Tamar o di porre fine alla partnership. Il giacimento israeliano Leviathan, con riserve stimate di 621 miliardi di metri cubi di gas, si trova proprio accanto al sito di Afrodite, un bacino conteso da greco e turcociprioti che dovrebbe contenere fra i 100 e i 170 miliardi di metri cubi di gas.
  Per il quotidiano economico israeliano "Globes", se le due società dovessero accettare la nuova proposta del governo, rimarrebbe comunque un'incognita legata alla bassa crescita della domanda di gas nello Stato di Israele. La domanda di elettricità in Israele è infatti in fase di stagnazione. "Le aziende israeliane non si stanno convertendo al gas come previsto - aggiunge il "Globes" - e tanto meno il gas ha soppiantato la benzina come carburante per i mezzi di trasporto".
  Israele quindi dovrebbe optare per l'esportazione del suo gas, in Egitto, in Giordania o in Europa. L'ipotesi di vendere gas al Cairo è ancora sul tavolo secondo indiscrezioni del quotidiano turco "Hurriyet". Il Cairo sta attraversando la peggiore crisi energetica degli ultimi decenni ed è alla ricerca di nuove fonti di gas naturale, in Algeria, Russia e Cipro. Già ad agosto scorso il ministro del Petrolio egiziano, Sharif Ismail, si era dichiarato favorevole ad autorizzare la multinazionale British Petroleum, operativa in Egitto, ad importare gas da Israele per evitare sanzioni o cause di arbitrato internazionale.
  Israele, da parte sua, non sarebbe sfavorevole ad un accordo con l'Egitto per l'esportazione di gas, nonostante le divergenze tra i due paesi sul piano politico. Le trattative tra Tel Aviv e Amman per l'esportazione del gas israeliano verso la Giordania per un periodo di 15 anni sono infatti in fase di stallo. La Giordania ha annunciato a febbraio scorso la decisione di sospendere i negoziati con Tel Aviv per l'importazione di gas dal sito del Leviathan, subito dopo la proposta del governo israeliano di rompere il monopolio Noble-Delek.
  Non va dimenticato inoltre che lo scorso novembre il gruppo energetico Delek aveva annunciato la possibilità che l'azienda israeliana del gas desse vita a un investimento fra il miliardo e mezzo e i due miliardi di dollari per aumentare la produttività del giacimento Tamar e realizzare una conduttura sottomarina fino all'impianto della spagnola Union Fendosa Gas (Ufg), sulla costa egiziana. Lo scorso maggio la società che gestisce il Tamar aveva firmato un contratto con Ufg per fornire 4,5 miliardi di metri cubi di gas per 15 anni dal giacimento. A Damietta, in Egitto, Ufg possiede uno stabilimento per la liquefazione del gas, partecipato al 50 per cento dall'italiana Eni.
  Noble Energy, invece, (che gestisce sia il giacimento di Tamar che quello cipriota di Afrodite) dovrebbe iniziare a pompare gas verso l'Egitto nel 2017 grazie al nuovo gasdotto sottomarino che dovrebbe collegare entrambi i siti del Mediterraneo orientale alle coste del paese africano. Il presidente della Compagnia del gas naturale egiziana Egas, Khaled Abdul Badea, ha detto recentemente che il costo del progetto dovrebbe essere suddiviso tra i fornitori, ovvero Cipro e Noble Energy, e il paese importatore, insieme a British Gas e Union Fenosa gas, gli operatori degli impianti di Damietta ed Edco.
  L'ipotesi che il Cairo possa quindi importare gas da Israele si fa sempre più probabile. Recentemente il ministro del Petrolio egiziano, Sharif Ismail, in un'intervista al settimanale di proprietà statale "Al Mussawar", aveva confermato che il Cairo avrebbe potuto siglare accordi sul gas con Israele, un paese che gli egiziani guardano ancora con sospetto. "Tutto può succedere - aveva detto Ismail -. Qualunque cosa riguardi gli interessi dell'Egitto e dell'economia egiziana o del ruolo dell'Egitto nella regione. Questo determinerà la decisione di importare gas da Israele".

(Agenzia Nova, 11 maggio 2015)


Israele da scoprire: Eilat, una perla tra Mar Rosso e deserto del Negev

Un tour alla scoperta degli angoli naturalistici più suggestivi di Israele

 
Immaginate una destinazione a medio raggio, con temperature miti d'inverno, estati piacevolmente calde e per niente umide. Una città che si affaccia sul ramo nord orientale del Mar Rosso, dove si possono fare incontri ravvicinati con timidi camaleonti ed osservare migliaia di uccelli che qui sostano durante la grande migrazione.
Il nostro tour alla scoperta del volto paesaggistico e naturalistico di Israele inizia da Eilat, una perla sul Mar Rosso incastonata nell'estremità meridionale di Israele. Nota destinazione balneare che ha molto da offrire agli appassionati di natura e paesaggi insoliti, dove lo sguardo panoramico si perde su rilievi di arenaria e roccia calcarea, una tavolozza di caldi colori che si staglia nel blu intenso di un cielo terso. Ed alla domanda: ma il cielo qui è sempre così azzurro? Mi rispondono che sì, alcune persone qui sentono la mancanza delle nuvole, che sono così rare... cominciamo bene!
Il nostro incontro con il cuore verde di Israele inizia così- ai margini estremi del deserto - un lembo affacciato sul Mar Rosso a confine tra Giordania ed Egitto, con una bella spiaggia attrezzata ed un lungomare curato... paradiso per amanti della tintarella e degli sport acquatici. Ma anche dei birdwatcher provenienti da tutto il mondo che qui si danno appuntamento ogni anno a marzo, quando 500 milioni di uccelli migratori sostano qualche giorno, volteggiando tra i cespugli e specchiandosi sulle saline che riflettono l'azzurro del cielo. Si alzano presto all'alba, bardati di tutto punto con abbigliamento mimetico, cappellino zaino occhiali e guanti, armati di potentissimi cannocchiali, pure questi mimetizzati, e fotocamere sofisticate alta precisione con teleobiettivi potentissimi. Si appostano presso le saline, attendono con silenzio religioso ed osservano con ammirazione stupita le danze degli uccelli.
Per chi, invece, avesse voglia di fare simpatici incontri ravvicinati con piccoli e timidi esseri preistorici, c'è la possibilità di "avventurarsi" nel il Desert Dragon Land. Si tratta di un curioso sentiero guidato che si può percorrere in bici o a piedi, dove si incontra con molta facilità il Mastigure Egiziano, una lucertola dalle grandi dimensioni che può raggiungere la lungezza di 80 cm ed arrivare ad un peso di oltre 3 kg. Si aggira con fare circospetto alla ricerca di cibo soprattutto durante le ore calde della giornata....
Per raggiungere Israle abbiamo volato con la compagnia di bandiera El Al www.elal.com
La nostra guida di riferimento in loco: Uri Bar-El www.israeleturismo.com

(Vera Classe, 11 maggio 2015)


Israele acquista quattro navi da guerra tedesche per difendere i giacimenti di gas

GERUSALEMME - Il ministero della Difesa israeliano ha annunciato l'acquisto di quattro corvette tecnologicamente avanzate dalla Germania del valore totale di 430 milioni di euro. Secondo un comunicato del dicastero israeliano, il contratto d'acquisto è stato firmato ieri a Tel Aviv durante una cerimonia per i 50 anni di relazioni diplomatiche fra Germania e Stato di Israele. Nell'accordo è previsto l'assunzione da parte della Germania di 115 milioni euro come parte dei risarcimenti legati all'olocausto, sistema già utilizzato in passato per altri acquisti di attrezzature militari. Fonti della Marina israeliana hanno riferito che le corvette saranno di classificate come "Sa'ar6", navi lancia missili, con il doppio della capacità offensiva delle attuali navi di classe "Sa'ar 5". Per il direttore generale del ministero della Difesa israeliano, le quattro navi rappresentano un "enorme salto di qualità nelle capacità difensive della Marina israeliana". Le quattro imbarcazioni saranno fornite nel corso dei prossimi cinque anni e avranno il compito di pattugliare le coste israeliane e di difendere i giacimenti di gas offshore presenti nell'area. Israele ha già acquistato in questi anni quattro sottomarini Dolphin, anch'essi di produzione tedesca, in grado di lanciare testate nucleari.

(Agenzia Nova, 11 maggio 2015)


Dialetto ebraico con Dionigi Roggero, Elio Botto e Giorgio Nebbia

"La gran battaja d'j abrei d'Moncalv"

CASALE MONFERRATO — Il linguaggio è qualcosa di vivo, capace di raccontare della storia di un popolo ben oltre il significato delle parole. E' un po' questo il senso della conferenza "Il dialetto casalese e il mondo ebraico" che si è svolta domenica 10 maggio nella sala Carmi della Comunità Ebraica di Casale Monferrato. Protagonisti tre Casalesi che si sono sempre occupati di storia e di lettere del loro territorio: Dionigi Roggero, Elio Botto e Giorgio Nebbia. E' stata una lezione ben argomentata, ricca di curiosità, ma anche da una raccolta minuziosa di testi.
E' se già il lavoro del filologo è difficile per una lingua "ufficiale" immaginiamoci cosa deve essere chi si occupa di studiare i dialetti o, come in questo caso, le particolarità di più dialetti. Si perchè stiamo parlando di più vere e proprie lingue che si modificano velocemente nel tempo e nello spazio di pochi chilometri di distanza, tramandate oralmente, che quando vengono messe per iscritto sono traslitterate in modo differente. In tutto questo si introduce un doppio scambio: parole ebraiche di uso comune che finiscono per "piemontesizzarsi" e parole piemontesi che in qualche modo entrano nella tradizione ebraica delle fiorenti comunità locali in un processo che ha le sue radici già ai primi del '500. Il campionario più bello è fornito da un testo che ormai i frequentatori degli incontri culturali ebraico monferrini conoscono bene: "La gran battaja d'j abrei d'Moncalv". Tema anche dell'opera di Luzzati che spiccava dietro i relatori e su cui i fini dicitori di dialetto hanno deliziato il pubblico.

(Il Monferrato, 11 maggio 2015)


Oltremare - Salita a Gerusalemme

di Daniela Fubini, Tel Aviv

L'autista chiede "prendo a destra o diritto?" e un coro di israeliani per nulla indispettiti risponde d'un fiato "a destra, poi scendi lì vedi la fermata dell'autobus? La superi e da lì tutto dritto". Il coro tace e io mi domando quando mai diventerò una vera e totale israeliana. Perché per adesso in situazioni come queste prevale ancora la sorpresa, anche se l'assurdo di dover essere noi viaggiatori a insegnare la strada all'autista, già non mi urta.
Eccoci qui, in autostrada con un guidatore che non sa uscire da Tel Aviv e vedremo se sa entrare in Gerusalemme. Il verde delle colline già ci accompagna. Fosse un nuovo immigrato sarebbero partite domande a onde, da un capo all'altro dell'autobus, con signore che propongono uno shidduch e altri che scoprono parentele e luoghi in comune, a spasso per generazioni e paesi nel mondo.
Invece questo autista è israeliano per nascita, si sente dall'accento, ed è concentratissimo nella guida. È anche paziente con il bus che fa un po' fatica mentre si inerpica per la salita decisa verso Gerusalemme: scala le marce ma quello non risponde, e arranchiamo. Intorno, stanno costruendo un treno (superveloce, narra la leggenda, che ci porterà a santificarci al Kotel in quaranta minuti netti dal centro di Tel Aviv), e intanto che il treno rimane leggenda stanno raddoppiando quasi tutta la mulattiera che vorremmo un giorno chiamare autostrada.
È durante le mie rarissime salite a Gerusalemme, che rifletto sulle contraddizioni di questo paese, tutto lanciato verso il futuro, tutto un pullulare di start-up e centri di sviluppo di ogni tecnologia, mentre per raggiungere la capitale si viaggia ancora con fatica non giustificata. Sogno l'apertura di una linea di elicotteri, o di una funivia, ma in certi momenti di sconforto e di ingorgo anche una fionda formato gigante farebbe miracoli.


(moked, 11 maggio 2015)


Il re saudita non incontrerà Obama

l re dell'Arabia Saudita e altri tre monarchi del Golfo non parteciperanno al vertice tra Stati Uniti e i sei Paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo, organizzato da Barack Obama per il 13 e 14 maggio alla Casa Bianca e a Camp David con l'obiettivo di rafforzare i legami con questi Stati preoccupati dalle trattative in corso tra Washington e Teheran sul nucleare iraniano.

WASHINGTON - Il re dell'Arabia Saudita e altri tre monarchi del Golfo non parteciperanno al vertice tra Stati Uniti e i sei Paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo, organizzato da Barack Obama per il 13 e 14 maggio alla Casa Bianca e a Camp David con l'obiettivo di rafforzare i legami con questi Stati preoccupati dalle trattative in corso tra Washington e Teheran sul nucleare iraniano. Solo gli emiri di Qatar e Kuwait hanno confermato la propria partecipazione al summit.

 Delegazione guidata dal principe ereditario Mohammed
  In assenza del re Salman, la delegazione saudita sarà guidata dal principe ereditario Mohammed bin Nayef e comprenderà anche il figlio minore del re e attuale ministro della Difesa, Mohammed bin Salman, regista dell'offensiva militare in corso in Yemen. Stando a quanto riferito dal ministro degli Esteri saudita, il re Salman non parteciperà all'evento perchè coincide «con il previsto cessate il fuoco umanitario in Yemen e l'inaugurazione del Centro per gli aiuti umanitari intitolato al re Salman».

 Assenti per malattia
  Anche il re del Bahrein, Hamad bin Issa al-Khalifa, sarà sostituto dal principe ereditario, stando a quanto riferito da fonti ufficiali. Saranno assenti per malattia, invece, il sultano dell'Oman, Qaboos, che sarà rappresentato dal suo vicepremier, e il presidente degli Emirati arabi uniti, Sheikh Khalifa bin Zayed al-Nahyan, che sarà sostituito dal principe ereditario di Abu Dhabi, Sheikh Mohammed bin Zayed al-Nahayan.

 Preoccupati per l'accordo con l'Iran
  Al vertice, gli Stati Uniti cercheranno di rassicurare gli Stati del Golfo, preoccupati per il crescente disimpegno di Washington nella regione e per l'eventualità di un accordo entro giugno tra America e Iran. Alcuni diplomatici del Golfo hanno espresso in privato forte timore per la crescente influenza iraniana nella regione. Per questo motivo i leader del Golfo chiederanno agli Stati Uniti forniture di armi sofisticate, come il caccia F-35, e nuovi accordi di difesa per definire i termini e gli scenari in cui sarebbe richiesto l'intervento militare di Washington in caso di minacce da parte di Teheran.

 Strutture di difesa comune nel Golfo
  Stando a quanto riferito da un funzionario americano, uno degli obiettivi principali di questo summit dovrebbe essere comunque la creazione di una struttura di difesa comune nel Golfo, riguardante «l'anti-terrorismo, la sicurezza marittima, la sicurezza informatica e i sistemi di difesa contro i missili balistici». Washington e gli Stati del Golfo dovrebbero anche discutere dei conflitti in corso in Iraq, Libia e Siria.

(askanews, 11 maggio 2015)


La strage dimenticata del popolo siriano

I massacri di Assad. Il cattivo silenzio sulla Siria.

 
Bashar Assad
Intanto, nel silenzio internazionale, Bashar Assad sta portando a termine la sua missione: lo sterminio del popolo siriano. Lo documenta Lorenzo Cremonesi sul nostro giornale: in Siria è in corso una mattanza infinita, mentre l'attenzione del mondo è concentrata sui crimini dell'Isis. Non è la prima volta che l'Occidente, l'Europa, le democrazie assistono impotenti alle stragi e al massacri che i tiranni consumano nella devastazione dei più elementari diritti umani. Ciò che è nuovo è l'imperativo del silenzio, l'obbligo strategico di tacere sulle nefandezze di Assad, l'accondiscendenza verso un nostro «alleato». O comunque un bastione necessario per arginare le malefatte del fanatismo jihadista.
   Anche in passato, per la verità, la teoria del «male minore» alimentò alleanze con i peggiori dittatori, con i fondamentalisti, con I nemici dei nostri nemici. O meglio con quelli che, in un particolare momento, apparivano, come i nemici di chi sembrava, ed era, il nemico principale. E così l'Occidente appoggiò talebani in funzione antisovietica. E così stabili un asse con Saddam Hussein per contrastare i guerrieri dell'ayatollah Khomeini. Oggi l'Occidente, l'Europa, gli Stati Uniti, le democrazie compiono un passo di più. Dimenticano completamente l'uso acclarato delle armi chimiche da parte di Assad, Aleppo rasa al suolo, la carneficina dei civili, i migliaia e migliaia di bambini morti sotto le bombe, per la fame, uccisi dagli squadroni del terrore del regime, perché ora Assad ci «serve».
   II dramma è tutto in questo collasso dell'attenzione internazionale per la difesa dei diritti umani. Rimpiangiamo Gheddafi perché, anche se con uso terroristico del potere, «stabilizzava» l'area. Facciamo finta di non vedere i crimini di Assad per non indebolire il fronte anti Isis. Nell'agosto del 2013 Obama stava addirittura per invocare l'intervento armato contro il regime di Damasco che aveva usato le armi chimiche per massacrare il popolo siriano. Sembra passato un secolo.
   L'ondivaga, ambigua, zigzagante politica americana, con il silenzio impotente dell'Europa che non riesce a costruire nemmeno un abbozzo di politica estera comune e credibile, ha finito per dissolvere ogni coerenza di intervento.
   Se Assad «serve», bisogna che il compimento del massacro del popolo siriano avvenga senza nemmeno una protesta verbale. Se per danneggiare l'espansionismo dell'Isis, bisogna chiudere un accordo al ribasso con gli «alleati» dell'Iran, allora bisogna far finta di non vedere che a Teheran si inneggia all'Olocausto per colpire «l'entità sionista».
   Ma se la politica internazionale ha le sue durezze, se il realismo richiede anche una buona dose di cinismo, non è neanche possibile che l'opinione pubblica sia tenuta all'oscuro di ciò che sta accadendo in Siria mentre tutti, tutti, giriamo la testa dall'altra parte.
   La carneficina del popolo siriano non è cessata solo perché magicamente, non occupandocene più, pensiamo che sia finita. Oppure ci pensiamo solo quando arrivano i barconi di famiglie intere che scappano dalla Siria e che rischiano la morte in mare, l'ecatombe nel Mediterraneo, per scappare dagli orrori di laggiù. I nostri «alleati» occasionali intanto completano il loro lavoro sporco. Una macchia che resterà indelebile sulla coscienza dell'Occidente.
   
(Corriere della Sera, 11 maggio 2015)


Questo conferma la vergognosa ipocrisia di tutti coloro che manifestano indignazione morale soltanto quando ad essere colpiti sono “i poveri palestinesi”. Ma solo quelli di Gaza, perché quelli che si trovano in Giordania o in Siria, non essendo colpiti da Israele, non interessano. M.C.


Comunicato EDIPI

Questa notte è tornato alla Casa del Padre il caro fratello in Yeshua Lance Lambert, apprezzato conferenziere a livello internazionale sulle temantiche inerenti ad Israele e alla attuale realtà messainica.
Evangelici d'Italia per Israele lo ha fatto conoscere alla Chiesa Italiana fin dai primi anni della propria attività congressuale. Infatti è stato relatore principale nel 3o Raduno Nazionale EDIPI a Scalea nel 2004, ma il suo ricordo più significativo riguarda le relazioni sulle "Feste Ebraiche" presentate a Milano nel novembre 2005 durante il 4o Raduno Nazionale EDIPI.
In collaborazione con l'editore Anastasis EDIPI ha pubblicato anche due libri di Lance Lambert: "Il carattere spirituale" e "Chiamati alla sua gloria eterna"; quest'ultimo suo libro, pubblicato nel 2009, può esser considerato il suo testamento spirituale.
Lance Lambert è stato uno dei pù autorevoli insegnanti della Bibbia dei nostri tempi. La sua profonda conoscenza dei testi biblici, unita alla sua incomparabile capacità di esposizione dei medesimi, ha fatto di Lance Lambert uno dei relatori più ricercati nell'ambito cristiano dell'età moderna. Avendolo conosciuto personalmente non solo in Italia ma anche a Gerusalemme, abitava a Yemin Moshè nei pressi del primo insediamento ebraico fuori dalle mura costruito da Sir Moses Montefiore, ho sempre prestato particolare attenzione alla profonda sapienza di questo saggio ebreo messianico dei nostri tempi.
I libri "Il carattere spirituale" e "Chiamati alla sua eterna gloria", nonché il cofanetto con due DVD del 4o Raduno EDIPI 2005 "Le Feste Ebraiche", possono esser richiesti direttamente in sede (info@edipi.net).

(EDIPI, 11 maggio 2015)
 

Il governo israeliano offre condizioni migliori per porre fine al cartello del gas

GERUSALEMME - I negoziatori del governo israeliano s'incontreranno con i rappresentanti delle compagnie Delek e Noble energy questa settimana nel tentativo di attuare un nuovo piano per porre fine al cartello del gas naturale nel paese. Le due compagnie, che hanno in gestione i giacimenti di gas Leviathan e Tamar, in precedenza avevano già respinto un piano messo a punto dal governo nel mese di febbraio. Secondo la nuova proposta, Delek - la società israeliana controllata dal magnate Yitzhak Tshuva - dovrebbe vendere tutte le sue holding del gas, senza rinunciare alla partecipazione del 45 per cento nel giacimento del Leviathan, che è ancora in fase di sviluppo. Le condizioni e le tempistiche per la cessione delle altre aziende, in particolare quella di gestione del Tamar - attualmente il più grande sito offshore d'Israele - saranno meno stringenti.

(Agenzia Nova, 11 maggio 2015)


"I palestinesi sono allevati nella menzogna"

Colloquio a Ginevra con Mosab Hassan Yousef, ex "talpa" dello Shin Bet israeliano. Inquietante.

Mosab Hassan Yousef
Principe Verde. Questo era il suo soprannome nello Shin Bet, il servizio di intelligence per l'interno di Israele. Figlio di uno dei leader di Hamas in Cisgiordania, di cui è stato anche il segretario privato, Mosab Hassan Yousef è stato dal 1997 al 2007 una "talpa" da shock, perché forniva informazioni che hanno permesso di sventare molti attacchi e hanno consentito di arrestare in particolare Ibrahim Hamid, un capo militare del movimento islamista, e Abdallah Barghouti, esperto di esplosivi. Eroe per alcuni, traditore per altri, quest'uomo con gli occhi penetranti è stato l'ospite d'onore mercoledì sera a Ginevra, alla cena di gala della ONG ebraica UN Watch.
Rifugiato negli Stati Uniti dal 2010, grazie alla testimonianza in suo favore di Gonen Ben Yitzhak, suo ex agente di collegamento per lo Shin Bet, Mosab Hassan Yousef si è convertito al cristianesimo. Con la sua famiglia ha tagliato i legami. "Per non metterli a disagio o in pericolo." Incontro con un palestinese che non è tenero con i suoi.

- Lei dice che siete stati allevati nella menzogna... La causa palestinese è dunque soltanto un'illusione?
  Ascolti, il vero nemico della società palestinese è sé stessa. Come la maggior parte delle persone, sono stato allevato in un delirio di persecuzione. Ci hanno detto che Israele, gli Stati Uniti, l'intero Occidente, odiano i musulmani e cercano di distruggere l'Islam. Sono cresciuto nella teoria del complotto. A questo si aggiunge il complesso di superiorità islamica. Ogni altra religione o ideologia è necessariamente sbagliata. Ivi compresi quelli che vogliono la separazione tra moschea e stato. O quelli che non credono nella violenza. Che paraocchi! non c'è niente di peggio. Anche se ci si vuole far credere che i leader di Fatah e Hamas sono in lotta per la causa palestinese, sappiamo che in realtà sono in gran parte guidati dalla loro brama di potere. Hanno una tipica mentalità tribale...

- Arrivare al potere è anche lo scopo della politica, no? Non avrebbe potuto tentare di cambiare le cose dall'interno? C'era soltanto la via del tradimento?
  Queste domande, me le pongo ogni giorno. Sa, io non sono più la persona che ero. A volte faccio fatica a capire nei particolari il mio percorso. Quello che so è che nella mia mente non stavo lavorando per Israele, ma per me stesso. Volevo vedere la realtà in faccia, senza ideologia: dei giovani attentatori suicidi palestinesi erano inviati in Israele per uccidere persone innocenti. Fornendo informazioni, ho cercato di salvare vite umane, ecco tutto. Mi rendo conto che questo non è un affare di questo o quel movimento nazionalista. Ma quello che contava per me non era la politica. Per me il problema è lo stato di asservimento dei musulmani. Vorrei che fossero in grado di trascendere la propria cultura per pensare in termini di villaggio globale. Non è sufficiente agire sulla loro coscienza; questo è precisamente quello che i terroristi credono di fare!

- Lei vede una soluzione per israeliani e palestinesi?
  Personalmente, ho accettato di lavorare con un agente Shin Bet con l'idea di ucciderlo alla prima occasione. Poi mi sono trovato nel suo salotto, tenendo il suo bambino in braccio. Questo, era proprio reale. La convivenza è possibile, ne sono convinto. Ma quale strada prendere per raggiungere questo obiettivo? Quanta violenza e quanta sofferenza ci sarà ancora da soffrire? La storia d'Europa dimostra che l'evoluzione può essere lunga e dolorosa ...

- La violenza non è stata un successo per i palestinesi. Perché l'attivismo nonviolento non mobilita le folle?
  Ci sono, naturalmente, i palestinesi illuminati, ma non hanno potere. Nel complesso, la società palestinese è molto violenta. I mariti picchiano le mogli, i genitori i loro figli, le controversie tra vicini degenerano, quando poi non sono fra tribù!

- Quindi, lei non ha realmente speranza per la pace ...
  Dipende da cosa si intende con questo. Al momento non ci sono razzi lanciati contro Israele. Hamas combatte i jihadisti salafiti per fermarli. Questo significa soltanto che il movimento approfitta della tregua per riarmarsi? O finalmente è diventato più pragmatico? Sa, molte persone in Medio Oriente cominciano a rimpiangere i "mostri" creati per combattere i fini dell'Occidente. Guardate quello che Hamas ha inflitto agli abitanti di Gaza, Al-Qaida a yemeniti, iracheni e siriani Daesh ... Musulmani stanno cominciando a vedere che questi movimenti non li hanno emancipati. Al contrario! E questa menzogna è sempre meno vendibile ...

- E Israele? Non potrebbe svolgere un ruolo più costruttivo?
  Israele offre un modello di democrazia in una regione che ne è gravemente carente. E 'imperfetta, naturalmente, ma garantisce la libertà di espressione e di religione, di cui godono anche arabi israeliani, compresi gli islamisti. E' affascinante. E inquietante per molti palestinesi.

- La nuova coalizione di governo si basa sul partito molto nazionalista Naftali Bennett. Questo la preoccupa?
  La pace non dipende da un partito o da un uomo. Credo nello sviluppo delle coscienze.

- (Tribune de Genève, 7 maggio 2015 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


A Netanyahu servono più ministri

di Daniel Reichel

La nuova coalizione di Benjamin Netanyahu, Primo ministro di Israele, è chiamata al primo importante esame. Domani i 61 parlamentari della nuova maggioranza - faticosamente riunita da dal leader del Likud dopo le elezioni vinte a marzo - dovrà infatti votare compatta la decisione approvata oggi dal governo uscente, sempre guidato da Netanyahu, di abolire il tetto massimo per le nomine di ministri e viceministri. Una decisione nata dalla necessità di soddisfare le richieste dei partiti di coalizione (Kulanu, HaBayt HaYehudi, Shas e Yahadut HaTorah) ma soprattutto dalla volontà del Premier di non scontentare gli uomini del Likud, per cui altrimenti non ci sarebbero abbastanza posizioni di rilievo da ricoprire. Tolto il limite introdotto nella scorsa legislatura di 18 ministri e 4 viceministri, Netanyahu avrebbe mano libera nella distribuzione degli incarichi, potendo così accontentare i suoi, rimasti scottati dalla nomina a ministro della Giustizia della pupilla di Naftali Bennett (HaBayt HaYeudi) Ayelet Shaked. Per abolire il tetto sarà però necessario il voto alla Knesset di tutta la risicata maggioranza (61 su 120 parlamentari totali) raccolta attorno al premier. Senza l'approvazione di questo emendamento, che andrà a modificare la Legge fondamentale israeliana, il Paese si troverà con ogni probabilità di fronte alla dissoluzione della coalizione e quindi, a distanza di tre mesi dalle elezioni, senza un governo.
   Per questo il passaggio di domani sarà un esame chiave per la maggioranza e per Netanyahu, che, secondo quanto affermano i quotidiani israeliani, ha deciso di tenere per sé il ministero degli Esteri con la speranza affidarlo a qualcuno tra l'ex alleato Avigdor Lieberman, l'avversario laburista Isaac Herzog o il suo ex ministro alle Finanze Yair Lapid e allargare in questo modo la sua maggioranza. Il primo si è svincolato all'ultimo, decidendo, dopo essere stato a lungo il braccio destro di Netanyahu, di tenere il suo Israel Beitenu fuori dalla coalizione. Un suo rientro in seconda battuta non è da escludersi, vista soprattuto la profonda crisi di consensi in cui versa il suo partito, caratterizzato da posizioni di destra oltranziste e il cui intento era rappresentare l'elettorato dell'ex Unione Sovietica (circa un milione di persone).
   Continua invece a negare ogni eventualità di entrare nelle fila del governo, il leader del centro sinistra Herzog: "Non salverò Netanyahu dalla fossa che si è scavato da solo", la sua dichiarazione sulle voci di un possibile governo di unità nazionale. Difficile vedere anche Lapid, che pure aspirava al ministero degli Esteri, fare retromarcia e appoggiare il suo ex primo ministro. Il rapporto tra i due si è rotto in modo fragoroso a dicembre, quando Netanyahu ha messo alla porta il leader di Yesh Atid, accusandolo di aver cospirato contro di lui. Era stato proprio Lapid, peraltro, il primo sostenitore della legge che aveva introdotto in Israele il limite alle nomine dei ministri. E oggi l'ex ministro delle Finanze ha annunciato che farà ricorso alla Corte di Giustizia israeliana contro il provvedimento preso dal governo uscente, perché secondo lui illegittimo (un governo in scadenza non avrebbe la competenza per proporre la modifica della Legge fondamentale israeliana, la tesi di Lapid).

(moked, 10 maggio 2015)


Cosa ci fa una vecchia Topolino dentro la sinagoga?

Armati di metro, matite e istruzioni per l'uso, i collaboratori di Erik Kessels hanno posizionato sul pavimento e affisso alle pareti le straordinarie foto dei due progetti che saranno visibili al pubblico dal 15 maggio al 26 luglio

REGGIO EMILIA - Manca davvero poco all'inaugurazione di Fotografia Europea. Il conto alla rovescia è partito e gli allestimenti delle mostre sono iniziati. Ma cosa avviene "dietro le quinte"? Ecco che abbiamo deciso di raccontarvi ciò che di solito non si vede del festival che accenderà la città il 15, 16 e 17 maggio, dedicato nella sua decina edizione al tema Effetto Terra, che tra l'altro strizza l'occhio a Expo 2015, l'esposizione universale partita da poco a Milano.
In questi giorni la macchina organizzativa reggiana è all'opera con foto da incorniciare e appendere alle pareti, con pannelli illustrativi da sistemare. Con oggetti e materiali arrivati da tutte le parti del mondo. Compresa una Fiat 500 Topolino…
Siamo entrati nella Sinagoga di via dell'Aquila e ci si è aperto un mondo: abbiamo trovato scatoloni custoditi come scrigni preziosi contenenti le fotografie delle mostre curate da Erik Kessels, direttore creativo dell'agenzia KesselsKramer di Amsterdam, e la famosa auto d'epoca incompiuta appartenuta al padre dell'artista pronta a essere sistemata dalle abili mani degli addetti ai lavori.
Armati di metro, matite e istruzioni per l'uso, i collaboratori hanno poi posizionato sul pavimento e affisso alle pareti le straordinarie foto dei due progetti che saranno visibili al pubblico dal 15 maggio al 26 luglio. Il tutto secondo le direttive dello stesso Kessels.
Ha così preso forma "Unfinished Father", il progetto toccante che Kessels ha voluto dedicare al padre, appassionato restauratore di Fiat 500 Topolino e colpito pochi anni fa da un ictus. Quella Topolino incompiuta accoglierà il pubblico all'entrata in Sinagoga e diventerà l'oggetto clou dell'esposizione, nonché il simbolo di un uomo che - come la macchina - rimarrà "non finito". Trasportata negli spazi della Sinagoga, l'automobile è esposta assieme alle foto che documentano le fasi del restauro e che la circondano.
Protagoniste in via dell'Aquila anche tante belle foto che i reggiani hanno tirato fuori dagli album di famiglia. Per l'occasione in molti hanno aperto i cassetti, hanno guardato nei bauli della nonna, negli scaffali di casa e hanno risposto alla chiamata dello stesso Kessels che mesi fa invitava a inviare gli scatti più belli a bordo della Fiat 500 Topolino.
Lui, che ha fatto della fotografia amatoriale e vernacolare il suo terreno di studio e ricerca, restituendo visibilità a foto scartate e abbandonate, in questo modo ha voluto metterle al centro della seconda mostra, "La Topolino a Reggio Emilia", le foto di "casa nostra".
Il tutto arricchito anche da dodici scatti, con scorci della città, della Fototeca della Biblioteca Panizzi. Si possono così ammirare volti sorridenti, ragazze in posa, bambini e genitori immortalati a bordo dell'auto prodotta dal 1936 al 1955, che deve il suo soprannome alla somiglianza tra il muso e il famoso personaggio Disney. È una fra le auto italiane più famose al mondo e ha interessato collezionisti internazionali.
Insomma, in Sinagoga la storia di una delle macchine più amate dagli italiani, la storia della famiglia di Kessels e la storia dei Reggiani dialogano tra loro e diventano protagoniste a Fotografia Europea.

(Gazzetta di Reggio, 10 maggio 2015)


Roma - Comunità ebraica, il 14 giugno al voto per il post Pacifici

Quattro candidati in lizza, di cui tre donne

di Vanda Sarto

La Comunità ebraica romana è chiamata, il 14 giugno prossimo, a rinnovare Consiglio (composto da 26 consiglieri più il presidente) e Consulta.
  Sono quattro le liste e i candidati alla presidenza per il post Pacifici (che conclude tre mandati). A volere la norma che vieta di ricoprire l'incarico per più di tre volte proprio l'attuale presidente. E ora, il futuro della comunità potrebbe essere rosa: in lizza, infatti, ci sono tre donne.
  Le liste in corsa alle elezioni sono 'Israele siamo noi', che candida come presidente Fiamma Nirenstein, giornalista, scrittrice ed ex parlamentare del Pdl. "Rinnovamento e ascolto sono le parole chiave della mia lista perché la comunità possa ritrovare la propria magnifica identità - ha spiegato all'Adnkronos - quello ebreo è un popolo coraggioso e audace e merita il meglio e con i componenti della mia lista vorrei lavorare proprio su questo. Il desiderio, l'auspicio è quello di aiutare, con una certa urgenza, le persone della comunità che si trovano in difficoltà sia dal punto di vista materiale, considerando la crisi, che spirituale - continua - e per questo serve 'l'ascolto'. Comprendere di cosa hanno bisogno e andare incontro alle persone per aiutarle a risolvere i problemi e superare le difficoltà".
  La seconda lista è 'Menorah' che candida Maurizio Tagliacozzo, imprenditore di 52 anni. "La mia lista - racconta Tagliacozzo - vuole rappresentare la trasversalità di professionisti, commercianti, ambulanti e imprenditori di ogni settore nonché la trasversalità anagrafica". "Principalmente il mio obiettivo è quello di tenere sotto controllo l'emergenza sociale, - spiega Tagliacozzo - in particolare i piccoli commercianti colpiti da questi anni difficili. Poi vorrei rilanciare la scuola ebraica, in particolare nei gradi inferiori vorrei allungare l'orario per facilitare i genitori che lavorano e che magari vivono lontano dalla scuola che si trova nel quartiere ebraico. E poi vorrei fare in modo di abbassare l'esposizione mediatica della comunità ebraica di Roma: - prosegue - credo sia necessario un momento di riflessione e introspezione, nonché ristabilire un poco i ruoli con l'Unione delle comunità ebraiche italiane che dovrebbe occuparsi di temi più nazionali. E infine essere l'unico uomo candidato non lo considero né un vantaggio né uno svantaggio la nostra è una comunità cresciuta e matura"
  Terza lista in campo, 'Per Israele', candida Ruth Dureghello, negoziante, vicina a Pacifici. "Non sono una new entry - afferma - e quindi conosco bene le dinamiche e le problematiche della comunità. Sostanzialmente con la mia lista intendo intervenire sulla scuola, sull'organizzazione del settore sociale e sul lavoro per migliorare quanto possibile la situazione della comunità e lavoreremo con alacrità e con lo spirito di sempre".
  L'ultima lista in lizza per le prossime elezioni è la 'Binah' la cui candidata presidente è Claudia Fellus, vedova dello scrittore e giornalista Mario Pirani, scomparso il mese scorso. "Vorremmo dare un'impronta diversa nel mantenimento delle nostre tradizioni. - spiega Fellus - La sensazione che abbiamo è che ci siano state forti tensioni interne alla comunità e noi vorremmo invece una comunità aperta all'accoglienza per tutti più osservanti o meno osservanti, di destra o di sinistra: non ci devono essere stigmi ma un'apertura al dialogo e all'accoglienza per tutti. Uno degli obiettivi poi della mia ista è la scuola: abbiamo progetti seri di innovazione della nostra scuola sia dal punto di vista dell'apprendimento sia dal punto di vista dell'insegnamento, ritengo sia necessario sin dalle classi dell'infanzia inserire materie che possano formare i ragazzi all'utilizzo della tecnologia in maniera intelligente".

(Roma Capitale News, 10 maggio 2015)


Due matematici nella Storia

 
        Vito Volterra                                    Guido Castelnuovo
VENEZIA - Due grandi matematici. Due grandi ebrei italiani. L'Istituto di Scienze Lettere e Arti di Venezia si inchina alla memoria di Vito Volterra (1860-1940) e Guido Castelnuovo (1865-1952) dedicando loro due prestigiosi convegni internazionali con l'obiettivo di mettere in luce e comprendere la loro eredità scientifica e le qualità umane insite nel loro impegno. Non solo scientifico, ma anche culturale e civile.
Organizzato in collaborazione con l'Ercole Normale Superieure di Parigi, il convegno "Vito Volterra e le sorti post-unitarie della Scienza italiana", si terrà a Palazzo Loredan dall'11 al 13 maggio. Sempre a Palazzo Loredan, il 15 e 16 maggio, l'evento "In onore di Guido Castelnuovo" co-finanziato dal progetto PRIN "Geometria delle Varietà Algebriche" (entrambe le iniziative hanno il patrocinio dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane).
Nato ad Ancona, Volterra fu uno dei 12 professori universitari che si rifiutarono di prestare giuramento di fedeltà al fascismo e che pagò sulla sua pelle questa scelta con la progressiva emarginazione, l'isolamento e l'oblio. Prima di allora era stato un personaggio chiave della cultura e della politica italiana. Matematico di fama internazionale, fu anche senatore del Regno (in questa veste si impegnò in difesa della libertà di scienza) e fondatore di importanti organi di promozione della ricerca (tra cui il CNR).
Nato a Venezia, Castelnuovo fu anch'egli matematico di fama mondiale, famoso per i risultati conseguiti nello sviluppo della geometria algebrica ma anche per lo studio di altri settori quali calcolo delle probabilità e questioni di fondamenti e didattica. Straordinaria la pagina di umanità e di coraggio scritta al tempo delle persecuzioni razziali quando, in clandestinità, si fece promotore di corsi di livello universitario per studenti ebrei. Il 5 dicembre del '49 la sua nomina a senatore a vita della Repubblica italiana.

(moked, 10 maggio 2015)


BBC: a Gaza non ci sono scudi umani. Anzi, sì!

Durante la guerra di Gaza della scorsa estate, Orla Guerin della BBC ha confezionato un servizio filmato. Siamo stati sconcertati nell'apprendere da questa testimonianza, trasmessa da "News at Ten" sulla BBC One, e poi resa disponibile sul sito; che secondo lei non ci sarebbero prove di impiego abituale da parte di Hamas di scudi umani, malgrado le prove rese disponibili.Abbiamo in passato pubblicato un video, il quale all'opposto dimostra come in effetti vi siano prove numerose e schiaccianti di questa ripugnante pratica. Abbiamo sollecitato gli utenti a denunciare le argomentazioni fuorvianti prodotte sulla BBC dalla giornalista con le sue dichiarazioni.
Bene: la BBC ha preso atto dei rilievi. L'emittente britannica ha ammesso che l'affermazione «non ci sono prove dell'utilizzo di scudi umani» sia errata. Ecco come si sono espressi...

(Il Borghesino, 10 maggio 2015)


Manuela Dviri: dall'Italia a Israele, dalle guerre al pacifismo

La scrittrice alla presentazione del nuovo libro: "Netanyahu? Vorrei essere più ottimista, ma sono molto perplessa".

di Federica Pezzoli

Manuela Dviri
Manuela Dviri, nata a Padova nell'immediato dopoguerra e trasferitasi in Israele nel 1968, dove si è sposata e ha avuto tre figli e sette nipoti, doppia cittadinanza italiana e israeliana, fa fatica a concepire l'identità come qualcosa di univoco: "questa cosa dell'identità mi sfugge, non vedo perché qualcuno debba essere una sola cosa alla volta". "Io sono totalmente italiana e israeliana, parlo, penso e sogno in italiano, ma anche in israeliano, cerco di aprirmi il più possibile a ciò che mi circonda, perciò la mia identità è fatta di molte cose".
Lo si capisce bene leggendo il suo libro "Un mondo senza noi" (Piemme Voci, 2015), presentato venerdì pomeriggio nella sala Alfonso I del Castello Estense dall'Istituto di Storia Contemporanea in collaborazione con l'Associazione "Il Fiume": non il 'classico' testo sulla Shoah, ma la ricostruzione di un mosaico famigliare, il diario di bordo di un viaggio che, come scrive Gad Lerner nella prefazione, infrange le barriere temporali e geografiche: partendo dall'antica Ragusa (oggi Dubrovnik) per arrivare a Tel Aviv, dall'Italia di ieri per arrivare all'Israele di oggi. "Mi sono trovata a fare il vigile", scherza Manuela, "fra una gran quantità di personaggi": "visi per lo più sconosciuti, che mano a mano mi rivelavano le loro storie, hanno cominciato ad arrivarmi foto, racconti di parenti, trascrizioni di colloqui, pagine di diari, lettere e così si è formato uno straordinario mosaico di memorie".
   In questi mille rivoli, che unendosi e intrecciandosi vanno a comporre un'unica grande narrazione, c'è spazio anche per Ferrara: qui i Vitali Norsa, il ramo paterno della grande tribù famigliare di cui scrive Manuela, avevano un banco di credito "talmente ricco da possedere la Scola Farnese di Ferrara", donata poi alla comunità quando il banco è fallito, con grande rammarico del bisnonno Israel e del nonno Beppi. Chissà se è la sinagoga che tutti i ferraresi conoscono come Scola Fanese. Difficile dirlo, perché "l'archivio della comunità ebraica di Ferrara durante la Seconda Guerra Mondiale servì a scaldare le membra intirizzite delle truppe marocchine aggregate alle forze alleate", scrive l'autrice.
   A loro volta queste vicende famigliari vengono stravolte dagli eventi tra il 1938 e la fine della Seconda Guerra Mondiale, una pagina poco onorevole della nostra storia a cui viene dato molto spazio nel volume. "Forse - spiega Dviri con un velo di malinconia - l'idea che la giustizia ha vinto non è vera fino in fondo: tante vite sono state sconvolte e qualcosa dentro queste persone si è rotto. La ditta farmaceutica dei Russi non si è ricostituita dopo la guerra, mamma non ha potuto fare medicina come avrebbe voluto, papà si è laureato, ma non ha mai potuto fare l'avvocato o il giudice come desiderava e ha fatto il pellicciaio tutta la vita pur odiandolo".
   Poi c'è Israele: "sono andata per la prima volta nel 1966 e sulla nave ho conosciuto il ragazzo che sarebbe poi divenuto mio marito, ma forse sarei emigrata comunque perché la mia famiglia è sempre stata molto sionista". Manuela ha vissuto l'aliyah (l'emigrazione in Israele) come "una sfida": "Israele era un progetto che nasceva e a cui si poteva prendere parte, mi sono detta perché no? E non me ne sono mai pentita: certo non è come l'avrei fatto io e non è come l'avevo sognato". Dal 1968 sono passati "46 anni, 4 guerre, 2 intifada e 2 operazioni militari", come scrive nel libro, "è la triste verità - afferma durante la presentazione - e alcune mi hanno fatto veramente paura, come quella dei Sei Giorni e quella dello Yom Kippur, altre invece sono state veramente inutili e si potevano evitare". Manuela non lo dice, ma è chiaro che il suo pensiero corre all'operazione del 1998 in Libano, quando ha perso Ioni, il suo figlio più giovane, a soli 21 anni mentre prestava servizio nell'esercito israeliano.
   Quell'anno è iniziata la sua seconda vita: quella dell'impegno pacifista. "Ho imparato a protestare" e due anni dopo, grazie alla campagna delle "Quattro madri", Israele ha ritirato le proprie truppe dal confine libanese. Inoltre, in collaborazione con il "Centro Peres per la Pace", ha dato vita al progetto "Saving Children" che si occupa dei bambini palestinesi malati che non possono essere curati dalla sanità palestinese e che "in 12 anni ha curato più di 10.000 bambini" in ospedali israeliani. Da poco "abbiamo iniziato anche un progetto per far specializzare medici palestinesi in strutture israeliane". Quando le chiediamo come vede la situazione in Israele e in Medio Oriente dopo le elezioni di marzo e la riconferma di Netanyahu ci risponde: "il governo appena formato è chiaramente di destra e anche se vorrei essere più ottimista, sono molto perplessa. In realtà tutto il Medio Oriente sta vivendo una situazione molto delicata e complessa e finalmente si può capire come il problema non sia solo il conflitto arabo-israeliano".
   
(estense.com, 10 maggio 2015)


Israele, l'unico Paese con più alberi rispetto al secolo scorso

di Emanuele Vena

Palme nella zona di Ein Gedi
Oltre 240 milioni di alberi piantati, 150 mila acri di foreste e boschi, centinaia di bacini idrici. Sono i considerevoli risultati registrati dal Jewish National Fund (KKL), il fondo nazionale ebraico creato nel 1901 per l'acquisto e la gestione dei terreni di quello che, in seguito, sarebbe diventato lo Stato di Israele. Risultati che fanno del Paese l'unico ad avere un incremento netto di alberi nel XXI secolo rispetto al '900.
Il fondo è un ente no-profit dell'Organizzazione Sionista, creata da Theodor Herzl alla fine del XIX secolo e divenuta "Mondiale" dal 1960. La mission dell'associazione si è rivelata sin da subito ambiziosa: combattere la desertificazione e favorire il rimboschimento massiccio di un'area geografica tradizionalmente arida, se si esclude la pianura fertile di HaShefela, in cui vivono più di 2 israeliani su 3.
La tradizionale carenza idrica del Paese - caratterizzato dalla presenza di un fiume principale, il Giordano, e bagnato dal Mar Morto soltanto nella zona più orientale, ha spinto il KKL ha portare avanti per oltre 110 anni una politica variegata, volta non solo al rimboschimento dell'area ma anche al potenziamento del settore idrico.
Oltre ai tantissimi alberi piantati, infatti, il KKL ha contribuito alla costruzione di oltre 240 bacini idrici e dighe, che arrivano a fornire quasi la metà del fabbisogno idrico dell'intero Paese, oltre ovviamente a favorire l'irrigazione e l'itticoltura. Anche perché Israele è anche il Paese in cui sono state sviluppate e perfezionate particolari tecniche di irrigazione, come la cosiddetta "irrigazione a goccia", introdotta negli anni Trenta dalla famiglia Blass, perfezionata nei decenni successivi ed esportata persino in Australia e nelle Americhe.
Lo sviluppo dell'irrigazione e il massiccio rimboschimento vanno di pari passo anche con un'opera di tutela continua dello stesso sistema idrico, con la pulizia sistematica di torrenti, sorgenti e fiumi e ripetuti e l'utilizzo di tecniche avanzate di fitodepurazione, nonché tempestivi interventi di regolazione del drenaggio e di riparazione dei danni causati dalle alluvioni.
La solida struttura del KKL vanta anche un capillare processo di formazione dei giovani israeliani - favorendone l'integrazione sociale - nonché cospicui investimenti nei settori di ricerca e sviluppo e nel turismo, favorito anche dalla creazione di oltre 7 mila chilometri di strade ed itinerari forestali.
Quello del KKL è dunque un processo che va avanti con successo da oltre cento anni. E che oggi può presentare con orgoglio i frutti di quanto seminato anche all'esposizione internazionale Expo2015, a cui il fondo ha deciso di presenziare attivamente, colorando di verde il Padiglione di Israele e mostrando al mondo intero che la cura attiva del territorio e la lotta alla desertificazione e ai cambiamenti climatici non sono sfide impossibili da fronteggiare.

(International Business Times, 10 maggio 2015)


Israele nazionalizza l’oleodotto condiviso con l'Iran

GERUSALEMME - Il presidente della compagnia Eilat-Ashkelon pipeline (Eapc), Yossi Peled, ha confermato che Israele ha nazionalizzato la società che in passato gestiva un oleodotto in partnership con l'Iran. Lo riporta il quotidiano israeliano "Haaretz". Peled si è detto a favore della divulgazione delle informazioni sulla società, in contrasto con la politica attuata finora. Eilat Ashkelon Pipeline Company (Eapc) è stata fondata nel 1968 come joint venture israelo-iraniana al fine di trasportare petrolio asiatico da Eilat all'Europa, attraverso una rete di condotte che uniscono Eilat a Ashkelon. In seguito alla rottura dei rapporti diplomatici tra Iran e Israele, l'oleodotto è servito per trasportare greggio all'interno del paese e viene gestito interamente da Epac, che controlla una rete di 750 chilometri di condotte in tutto il paese.

(Agenzia Nova, 10 maggio 2015)


Malamud: L'uomo di Kiev, storia di uno sconcertante caso giudiziario

 
"L'uomo di Kiev" (traduzione infedele di "the Fixer"), romanzo dello scrittore americano di origine ebraica Bernard Malamud, pubblicato nel 1966, vincitore del premio Pulitzer e del National Book Award.
   Ambientato nella Russia zarista di inizio Novecento, corrotta e antisemita, si riferisce alla vicenda realmente accaduta nel 1911 a Menahem Mendel Beilis, nota come il "caso Beiliss". Lo stesso Malamud ricostruisce la genesi del romanzo, questo uno stralcio:
   «Ero alla ricerca di una storia che fosse accaduta in passato e che forse sarebbe potuta succedere di nuovo. Volevo la connessione storica che mi permettesse di inventare un mito. In altre parole, volevo mostrare quanto alcune delle nostre sfortunate esperienze storiche siano ricorrenti, quasi inopinate, quasi ritualistiche».
   Il protagonista è un ebreo di umile estrazione, Yakov Bok, che lascia il suo shtetl (villaggio ebraico dell'Europa orientale, di lingua e cultura yiddish) nella pro?vincia di Kiev, abbandonando la moglie adultera e il suocero per recarsi in città, portando con se i pochi averi: i suoi attrezzi, un po' di cibo, qualche libro tra cui i "Brani scelti" di Spinoza, filosofo maledetto e scomunicato dalla comunità ebraica nel 1600. Si lascia tutto alle sue spalle nella speranza di una vita migliore.
   Per aver soccorso un ricco esponente delle Centurie Nere, un'organizzazione antisemita, riverso sulla strada ubriaco, si vede offrire un posto come sovrintendente nella fabbrica di mattoni nel quartiere di Kiev proibito agli ebrei e per ottenerlo si spaccia per russo, assumendo un nome falso.
   In una caverna, vicino la fabbrica, viene ritrovato il corpo di un bambino barbaramente ucciso, le Centurie Nere accusano gli ebrei dell'assassinio.
   In un suo secondo atto di soccorso difende un ebreo preso a sassate da alcuni bambini, tradito da false testimonianze, Yakov viene scoperto mentre lo nasconde nella sua stanza all'interno della fabbrica, ed è arrestato dalla polizia segreta di Kiev con l'accusa dell'omicidio. Viene rinchiuso in carcere senza un processo.
   È un ebreo, solo questo basta per ritenerlo l'assassino, nonostante contro di lui non vi siano prove, se non quelle costruite ad arte da testimoni falsi e un pubblico ministero tutt'altro che obiettivo. Per loro: «nessun ebreo è innocente», perché «gli ebrei dominano il mondo, e noi sentiamo il peso del loro giogo».
   Dopo il prologo iniziale, più dei due terzi, il romanzo narra la storia dei due anni e mezzo che il protagonista trascorre in carcere, durante i quali cerca di resistere alle terribili pressioni fisiche, alla fame e alle torture psicologiche del pubblico ministero Grubershov per costringerlo a confessare un omicidio che non ha commesso. Quale era la sua colpa? Essere ebreo e lui era stato scelto come capro espiatorio, condannato senza nessuna prova.
   In prigione non perde mai la speranza, si sente vicino a Spinoza, legge i Vangeli e si identifica con la figura di Cristo, vittima innocente sacrificata come capro espiatore. Attraverso i colloqui con la moglie e il suocero si riavvicina alla famiglia e si riappropria anche dell'identità ebraica.
   Grazie al sacrificio del giudice istruttore e del gesto eroico di una guardia, riesce a salvarsi e diventa un campione della causa ebraica al suo processo che finalmente può avere luogo.
   Il caso Beiliss, unico processo per "accusa del sangue" dell'era moderna ai danni di un ebreo di Kiev, fu istituito nella città russa nell'anno 1913. Si riproponeva ai danni di un ebreo l'accusa cattolica che riteneva gli ebrei degli assassini di bambini cristiani, col cui sangue impastavano il pane azzimo in occasione della Pasqua ebraica.
   Malamud ha scelto un episodio realmente accaduto per rammentarci che Hitler non è stato né il primo né l'unico a concepire l'insana idea di annientare milioni di uomini per il solo fatto di essere ebrei. Perché la persecuzione degli ebrei è stata un susseguirsi di umiliazioni, violenze e assassini, di cui l'Olocausto è solo l'espressione più eclatante, per dimensioni e follia.
   Nelle pagine dedicate alla prigionia troviamo un uomo che lotta contro solitudine, contro lo scorrere del tempo e nella perenne attesa che qualcosa possa cambiare, un'attesa popolata da attimi di speranza e giorni di disperazione. Yakov, in carcere, messo sotto torchio, incatenato, perde la libertà, tranne quella di esistere, ma scopre di non essere più l'uomo che era stato:
   «Una cosa ho imparato... Non puoi restare con le mani in mano di fronte alla tua distruzione. [...] dove non c'è lotta per la libertà, non c'è libertà. Che cosa dice Spinoza? Se lo stato agisce in maniera incompatibile con la natura umana, il male minore è distruggerlo».

(Accento, 10 maggio 2015)


A Tel Aviv il «Reuccio» della MTB è un romano

Giunto per amore, il campione d'Israele della bici da cross è italianissimo. Sono centinaia gli sportivi, tornati grazie alla Aliyah dai loro paesi d'origine, che ora gareggiano a vari livelli per la nazione ebraica.

di Massimo Arcidiacono

 
Angelo in azione
Quattro volte alla settimana da Tel Aviv a Gerusalemme. È il «menù» di Angelo Di Veroli, romano de Roma, ma ormai israeliano. Solo che Angelo quel centinaio di chilometri li percorre in sella alla sua bici da cross e tutti attraversando boschi e sentieri. Questa, premettiamo, non è una storia di star dello sport come le altre di questo Speciale. Ma è una storia che ne racconta altre, una specie di matrioska del rifarsi una vita.
   Anche Di Veroli, però, è un campione. Di preciso: Campione d'Israele XCM Marathon 2015 e XCO Cross-country 2015. Angelo non andrà all'Olimpiade, seppure quasi imbattibile nella Terra Promessa, è un Masters Pro (non è un giovincello, cioè). A suo modo, però, è un atleta senza confronti. Fino a pochi anni fa, pesava 100 e più chili e la MTB sapeva a stento cosa fosse, ma era una star del web e il suo blog - geekissimo.com - il terzo più seguito d'Italia. «Poi la svolta: iniziai ad appassionarmi alla bici da cross, a vincere gare» racconta. Infine, un invito di matrimonio a Tel Aviv, il colpo di fulmine con Avigail, marocchina-yemenita ed ebrea come lui. C'è sempre una storia d'amore dietro ogni cosa. Angelo è cresciuto a Trastevere, ma non è stato difficile piantare tutto e trasferirsi a Jaffa. Qui entra in gioco l'Aliyah: il ritorno in Israele che il governo incentiva. «All'inizio - racconta Angelo - ciò che mi spaventava erano gli allarmi che si sentono nelle città, quando da Gaza lanciano i razzi. C'è persino un'app sui telefonini che ti avverte. Oggi non ci faccio più caso: uso la sirena come suoneria».
   Come Angelo sono tanti gli olim, gli ebrei che hanno lasciato i Paesi d'origine (600 tra artisti e atleti nel solo 2014) e che hanno «rinforzato» lo sport israeliano, dai cestisti del Maccabi David Blu e Sylven Landesberg ai canoisti Michael Kolganov e Ilya Podpolnyy, il velocista Donald Sanford. Ma il boom è nello sport praticato: corsa e ciclismo sono una vera «febbre» di massa. Favorita dalle migliaia di ettari di verde realizzati dal KKL, il Jewish National Fund, grazie alle donazione ricevute. È tradizione ebraica, infatti, che ogni bimbo nato, ogni occasione di festa, si pianti un albero. Sono cresciute intere foreste, oggi attraversate da 1300 km di percorsi ciclabili. Gli stessi dove si allena Angelo. «Ho appena partecipato alla Cape Epic, una delle più dure maratone di mountain bike al mondo. Ma ho avuto tanti problemi tecnici» dice.
   Ora si prepara alla Epic Israel, nata tre anni fa per iniziativa di Gal Tsachor (altro olim, ma francese) e già divenuta un appuntamento importante, grazie alla nuova passione per la bicicletta. L'edizione 2016 partirà dal villaggio di Ein Rafa sulle colline di Gerusalemme: qui ebrei e arabi insieme hanno realizzato una singletrack che lo attraversa. Lo sport aiuta.

(Gazzetta dello Sport, 10 maggio 2015)


Menashe Kadishman - Il sacrificio di Isacco
Addio a Menashe Kadishman, l'artista israeliano delle pecore

È morto a Tel Aviv, a 82 anni, l'artista Menashe Kadishman. Tra i più noti in Israele, era molto apprezzato anche all'estero: le sue «pecore colorate» e le sue sculture (nell'immagine) fanno parte delle grandi collezioni in molti musei del mondo. Dopo avere vissuto per 12 anni a Londra, dove era assiduo di AndyWarhol, Robert Rauschenberg e Christo, nel 1978 fu scelto per rappresentare Israele alla Biennale di Venezia. Tra le sue sculture più famose quella di ferro alta 15 metri collocata a Tel Aviv in piazza Habima.

(La Stampa, 10 maggio 2015)


Tel Aviv, gli ultimi giorni dell'umanità Tamar

Chiude il mitico caffè ritrovo dell'élite intellettuale e politica di sinistra: rispecchiava i valori di rinascita ebraica della città.

di Elena Loewenthal

Difficile immaginare un locale meno accogliente: tavoli spaiati e per lo più traballanti, ricoperti di formica dagli angoli immancabilmente scrostati, con il compensato a vista. Sedie disposte casualmente qua e là. Mensole con ninnoli ricoperti di polvere ristagnata e umidiccia. Bancone spoglio e così largo che sembra più da macellaio che da bar. Generi di conforto in esposizione? Poco o nulla. Qualche pezzo di pasticceria che ricorda la mitica bignola «Lui sona» del Bar Sport di Stefano Benni, quella che sta lì da decenni finché un incauto rappresentante di passaggio la agguanta e se la mangia giusto per accusare un prevedibile e preoccupante malore alle prime avvisaglie di mancata digestione. Vetri opacizzati da una pulizia approssimativa per quanto decorosa, un dehors a dir poco minimalista.
  Eppure il caffè Tamar, al numero 57 di via Shenkin, Tel Aviv, è un'icona non solo della città ma di tutto Israele. O meglio, di una certa parte di Israele, che è un Paese tanto piccolo quanto variegato, carico di realtà in perpetua opposizione fra loro. E almeno negli ultimi 59 anni, il caffè Tamar è stato il simbolo nonché il luogo di ritrovo della sinistra israeliana, di un mondo intellettuale tutto telaviviano, a mezza strada tra il pionierismo e lo snobismo, tra l'impegno e il sogno.

 Scalcinato e riverito
  Merito soprattutto della sua patronessa che oggi, alla bella età di novant'anni, ha deciso di chiudere il locale e ritirarsi. «Così avrò più tempo per i miei pronipoti», ha dichiarato Sarah Stern all'indomani della annunciata chiusura, assediata dalla stampa nazionale che di questa vicenda ha riempito prime pagine, e giustamente perché è una notizia che conta, che nel suo piccolo cambierà un poco il mondo. Se non altro il volto di Tel Aviv, città sempre più godereccia e (forse) meno intellettuale, sempre più avveniristica e meno nostalgica.
 
  Sarah Stern alle prese con gli
  avventori del caffè Tamar
  Prima che il caffè Tamar chiuda davvero c'è ancora qualche settimana di tempo per fare un salto in Shenkin angolo Ahad Haam, nel cuore della Tel Aviv storica e storicamente bohémienne, là dove il grande Yaakov Shabtai faceva le sue solitarie passeggiate. Sarah Stern vale davvero il viaggio, con quel suo volto intenso e l'espressione arcigna - mai che ti regali un sorriso, ma quello è il suo bello. Le labbra sempre dipinte di un rosso vivo, gli occhi con un fondo di ebraicissima malinconia, Sarah è una via di mezzo fra una balabuste, l'imperiosa massaia yiddish, e la benevola tenutaria di quelle case che non esistono più. Conobbe suo marito Abraham nei ranghi dell'esercito britannico, fra le sabbie dell'Egitto, durante la seconda guerra mondiale. Il caffè Tamar aveva aperto già nel 1941, ma la coppia lo rilevò nel 1956. Dieci anni dopo Abraham non c'era più e da allora il locale ha riempito la vita di questa donna tenace e poco loquace ma con la testa e il cuore e gli occhi sempre vigili. Qui venivano e vengono ancora scrittori - Yoram Kaniuk, Dudu Busi - attori, giornalisti, artisti. Anche il giudice Hanan Efrati, che nel 10- cale e fra le braccia di Sarah si è sentito a casa per decenni.
  Ma la figura più presente in questo locale «scalcinato, stigmatizzato, elogiato, riverito e patetico», come scrive Maoz Azaryahu nella sua Mitografia di Tel Aviv, è certamente il compianto Yitzhak Rabin. Che è ricordato in tutta una iconografia fatta di immagini del suo volto e stickers in memoria, primo fra tutti il «Shalom Chaver», «Salve Compagno», con cui è stato pianto da milioni di israeliani. La sua vedova, Leah, veniva anche lei non di rado al caffè Tamar.

 «Qui si decidono destini»
  Difficile tentare una biografia collettiva della realtà umana che si ritrovava qui, a discutere, leggere i giornali, fumare, sperare e arrabbiarsi. Soprattutto, a ritrovare Sarah e quella atmosfera terribilmente trasandata che sembra dire: «Non badate all'apparenza ma alla sostanza. Qui c'è vita vera. Qui si decidono destini». Oggi il vintage va di moda, ma il caffè Tamar lo è sempre stato, con la naturalezza di un'identità inconfondibile. L'élite intellettuale e artistica che lo frequentava era snob e spartana al tempo stesso. Si riconosceva pienamente nei valori di rinascita ebraica che Tel Aviv esprime con la sua stessa esistenza: la città è venuta al mondo una mattina d'aprile del 1909 sulla sabbia, e da allora ha saputo costruirsi non solo una storia ma anche e forse soprattutto una sua straordinaria mitologia vivente, fatta di angoli di strade, del primo lampione a gas impiantato su viale Rothschild, di pigri e immensi Ficus benjamina.
  
Il caffè Tamar è stato un mito nel mito: un luogo dall'apparenza insignificante, anzi respingente - non ha alcun appeal estetico né tanto meno gastronomico e la faccia di Sarah è tutto fuorché rassicurante -, eppure cruciale nella vita della città. Però è un posto dove si può star seduti tutto il giorno al prezzo di un acquoso caffè, dove si ha la certezza di orecchiare una discussione sui massimi sistemi, su Dostoevskij, sull'ultima malefatta del governo - o, più probabilmente, su tutti e tre gli argomenti insieme.

 Gli «orfani» si attrezzano
  Nell'era degli smartphone e della connessione continua, il caffè Tamar è uno strano luogo dove si parla e si ascolta. Anche se i suoi futuri orfani si stanno attrezzando con un gruppo Whatsapp intitolato «I profughi del Tamar» - non si capisce se di autoaiuto, consolazione o tentativo di soluzione. Ma è certo che, qualunque cosa succeda in futuro in quell'angolo di strada - c'è già chi paventa macerie edilizie e cantiere per l'ennesimo grattacielo, vista la posizione -, il caffè Tamar resta un pezzo di storia della città, un luogo imperdibile che senza Sarah Stern non sarà mai più lo stesso, con buona pace di intellettuali nostalgici, artisti disorientati, esponenti della sinistra in crisi di identità.

(La Stampa, 10 maggio 2015)


Rinascere in Puglia - Un viaggio alla ricerca delle origini

Il documentario di Yael Katzir ricostruisce la storia di migliaia di ebrei che tra il 1945 e il 1947 passarono per il Salento dopo essere sopravvissuti alla Shoah.

di Antonio Capellupo

Un viaggio alla ricerca della città natia, di un posto tanto importante quanto per molti anni completamente sconosciuto.
Tra il 1945 e il 1947 furono migliaia gli ebrei che trovarono riparo e salvezza in Puglia dopo essere sopravvissuti alla Shoah. Diverse centinaia di bambini nacquero nel Salento, ma dopo poco tempo ripartirono per la terra di Israele, lasciandosi alle spalle le origini, se pur passeggere, italiane.
Tre "figlie del Sud Italia", Shuni, Esther e Rivka, sono le protagoniste del documentario "Rinascere in Puglia - Shores of Light (Salento 1945-7)" di Yael Katzir, che racconta il ritorno in Italia delle tre donne a distanza di molti anni.
Muovendosi nel meraviglioso scenario di Santa Maria di Leuca e nei piccoli comuni circostanti, prosegue la ricerca di informazioni, testimonianze e documenti scritti e fotografici che possano aiutarle a ricostruire la storia della loro infanzia.
Si scopre così, grazie anche all'interssante materiale d'archivio, che i profughi ebrei trovarono un ambiente del tutto accogliente e familiare, aiutati dai cittadini ad integrarsi nella comunità e da medici e suore per la nascita e crescita dei propri figli.
Katzir sceglie di adottare differenti stili di regia, scelta che non convince fino in fondo, ma riesce al tempo stesso a creare dei momenti di profonda commozione e documentazione storica, riportando alla luce un avvenimento del secolo scorso forse poco ricordato, ma dal grande valore umano.

(cinemaitaliano.info, 10 maggio 2015)


Io, ebreo a caccia delle mie radici

Sul numero di maggio del giornale dell'ebraismo italiano «Pagine Ebraiche» appare un testo sullo scrittore Patrick Modiano, premio Nobel per la Letteratura nel 2014, ispirato anche da alcune dichiarazioni raccolte dal critico letterario e conduttore televisivo francese Bernard Pivot in una video-intervista pubblicata dalla casa editrice Gallimard; lo riprendiamo qui sotto. Si tratta di un tuffo nell'infanzia inquieta di un bambino solitario, con una mamma attrice e ballerina, un papà impegnato in strani traffici e un fratello come unico vero punto di riferimento, scomparso troppo presto.

di Ada Treves

Cammina, PatrickModiano, per le strade di Parigi. Cammina da sempre per le vie, per le piazze, sin da quando riesce a ricordare. Era con suo padre, ancora bambino quando lo accompagnava a quei suoi appuntamenti misteriosi che si tenevano spesso nei saloni dei grandi alberghi, luoghi dall'arredamento lussuoso, ma marchiati dal loro essere sempre solo ambienti di passaggio. Incontravano personaggi mai troppo chiari, allora, partner in affari probabilmente un po' loschi, non ben definiti, in incontri a cui veniva portato forse come copertura. Ma forse, invece, era il solo modo che suo padre aveva trovato per stare con il proprio figlio.
   Un figlio «male amato», come racconta lo scrittore francese, premio Nobel per la letteratura nel2014 che ha ricevuto quest'anno a Ferrara il Premio Pardes. Un padre che non ha pronunciato mai la parola «ebreo», e che non ha mai fatto riferimento alla propria identità ebraica, nonostante proprio per questo fosse stato ricercato sia dalla polizia francese che da quella tedesca, e arrestato per ben due volte durante l'occupazione. La prima era riuscito a scappare, e la seconda era stato liberato grazie all'intervento di una persona misteriosa ...
   Cammina fra le strade del suo arrondissement, questo scrittore amato sia dal pubblico che dalla critica' con la parlata lenta e intensa, mentre racconta che di essere ebreo lo ha scoperto per caso, quasi adolescente. Ma ha dovuto fare lui stesso la domanda giusta al momento giusto, al portiere del palazzo dove abitava allora, che già vi lavorava durante l'occupazione. È molto «rnodianesco», allora, questo scoprire la propria vera identità grazie a un nome falso, usato da suo padre nei suoi affari loschi. Un'atmosfera irreale che pervade tutti i suoi ricordi, da quegli am pi saloni che hanno poi influenzato le ambientazioni dei suoi romanzi al ricordo dei teatri che frequentava quando vi lavorava sua madre, con il palcoscenico polveroso, le luci irreali e i tendaggi di velluto rosso. Una madre assente, molto spesso in tournée, grazie alla quale, però, ha avuto l'occasione di ascoltare intere pièce osservando il pubblico, da dietro le quinte.
   «Di solito i ricordi d'infanzia bastano a se stessi, ci si ricorda di cose molto semplici. I miei ricordi d'infanzia invece erano sempre macchiati da qualcosa che non riuscivo a comprendere pienamente, da qualcosa di enigmatico ... penso che questo abbia favorito la mia voglia di scrivere». Racconta di aver sofferto tutta la vita per qualcosa che non ha vissuto, a cui come suo padre è scampato quasi per caso, e tutto sembra tornare in ondate di ricordi, a volte non suoi. «La mia memoria precede la mia nascita», aveva detto a Raymond Quenau. E scrivere, per questo autore che passa il suo tempo a pensare, a cercare un pensiero, a scavare la frase giusta ma riesce a mettere in fila le parole al massimo per un'ora al giorno, serve a creare «una specie di senso di realtà, a combatte la sensazione di non esistere».
   È strettissimo il legame fra Modiano e la sua città, una città che conosce e che ama profondamente, anche se ha dichiarato che, forse, gli dispiace di non avere nella sua storia un paesaggio di campagna, dove forse avrebbe «funzionato meglio». Ma il legame con la sua Parigi non è fatto solo di ricordi, e questo è evidentissimo al varcare la porta di casa sua, sulla rive gauche, una casa abitata da centinaia di libri, a creare un paesaggio luminoso ma interamente ricoperto di volumi, con i libri che sono ovunque, appoggiati sui tavolini, coprono le sedie, invadono divano e davanzali. E non solo di libri si tratta: «Non sono mai stato un collezionista - spiega - ma raccolgo cose che possono aiutarmi: elenchi telefonici, cartine, fotografie, immagini, per dare concretezza a cose che negli anni cambiano, per vedere dove abitavano le persone, quello che è successo in quella determinata strada, per costruire il mio personale atlante di persone che certamente sono sparite».
   A costruire che quello che Bernard Pivot, autore di un formidabile documentario sullo scrittore, definisce «un incredibile bric à brac della memoria, un bazar da archivista». In un'intervista di molti anni fa aveva spiegato che questa sua mania per la ricostruzione precisa non ha nulla a che fare con il gusto per il passato, ma si tratta piuttosto di una sorta di droga che gli permette di andare avanti, mescolando ricordi e racconti, e frammenti di realtà per costruire la vita di un luogo, e abitarlo di quel mistero che è necessario donare anche ai posti, agli avvenimenti più banali: «Perché questo è il dovere di un romanziere: rendere giustizia alle cose». Non è il passato quello che interessa a Modiano, ma ciò che il tempo e la memoria ne hanno fatto.

(Avvenire, 10 maggio 2015)


540 anni fa veniva stampata in Calabria la prima Bibbia in lingua ebraica del mondo

di Kasia Burney Gargiulo

Pagina del Pentateuco stampato in Calabria
Per la sua posizione geografica di ponte fra Oriente e Occidente, il Sud Italia è stato fra le prime terre del continente europeo ad annoverare la presenza di comunità ebraiche fin dal tempo dell'Impero Romano, senza trascurare il fatto che regioni come la Puglia hanno svolto un ruolo centralissimo nello sviluppo della stessa cultura ebraica. Qui si sono infatti concentrate alcune fra le comunità più antiche della diaspora, considerato che già l'Imperatore Tito, all'indomani dell'abbattimento del secondo Tempio di Gerusalemme nel 70 dopo Cristo, vi deportò i primi ottomila ebrei nei secoli poi raggiunti da altri a formare realtà culturali in cui operarono alcune delle maggiori personalità del mondo rabbinico, come ad esempio Shabbetai Donnolo, medico, alchimista e astronomo medievale nato ad Oria, nel brindisino, e morto a Rossano, in Calabria. Ed è proprio in Calabria che ci ha portati la nostra curiosità facendoci scoprire che a Reggio - città dell'estrema punta dello Stivale, affacciata sul suggestivo Stretto di Messina - spetta uno primato straordinario, ma pressoché sconosciuto: quello di aver dato alle stampe nel 1475 la prima Bibbia in lingua ebraica edita con data certa, considerata anche il primo libro stampato in ebraico in assoluto.
   A scoprirlo fu Giovanni Bernardo De Rossi, presbitero, orientalista e bibliografo piemontese, docente alla Facoltà Teologica di Parma dal 1769 al 1821, come egli stesso scrive nel volume Io del suo "Dizionario storico degli autori ebrei e delle loro opere", edito dalla Reale Stamperia di Parma nel 1802. De Rossi illustrò più ampiamente la scoperta nella sua opera "Annali ebreo-tipografici", nella parte dedicata al XV secolo. Il volume contiene il commento al Pentateuco ad opera del talmudista Šelomoh ben Yişhah (1040-1105). Non è purtroppo dato sapere come sia arrivato a Parma dalla Calabria.
   Certo è che questo volume venne alla luce a Reggio Calabria nel quartiere della Giudecca, zona a residenza ebraica della città, presso la bottega tipografica di Avrhaham ben Garton. Già nel 1450, in Germania, Johann Gutenberg, tipografo inventore della stampa a caratteri mobili, aveva stampato la prima Bibbia in latino, con una tiratura di 180 copie: un primato che dal 2001 figura inserito dall'UNESCO nell'elenco delle memorie del mondo. L'altro primato, però, come abbiamo visto, spetta alla Calabria, e non sarebbe una cattiva idea se anche il volume stampato a Reggio vent'anni dopo figurasse nell'elenco dell'UNESCO, vista la sua unicità.
   La realizzazione a stampa della prima Bibbia in ebraico fu resa possibile grazie ai finanziamenti dei commercianti di seta ebrei della città. Il prezioso incunabolo si trova oggi custodito presso la Biblioteca Palatina di Parma. Dopo la scoperta del De Rossi, il volume, insieme ad altri importanti documenti della cultura ebraica in Italia, venne infatti acquistato nel 1816 da Maria Luigia d'Austria per donarla alla Regia Bibliotheca Parmense ed ora, come dicevamo, è esposto alla Palatina: formata da 115 carte, la Bibbia "calabrese" presenta legatura in cuoio, titolo, dati editoriali e fregi impressi in oro, rivelandosi preziosa testimonianza di un'antica arte della stamperia ebraica che ebbe in Calabria il suo centro di diffusione. L'incunabolo è incompleto di due pagine che si trovano esposte al Jewish Theological Seminary di New York (Rare Book Room) e pur tuttavia è considerato un esemplare di inestimabile valore, oggi assicurato per oltre un milione di euro.

(Fame di Sud, 9 maggio 2015)


Ilan Halimi: per non dimenticare

di Deborah Fait

Serata evento nel nome della lotta ai fondamentalismi e all'antisemitismo: giovedì 7 maggio 2015, ore 21,15, Rai 2.

 
Ilan Halimi
Grandissima, eccezionale serata di Rai 2 in collaborazione con i ragazzi del Progetto Dreyfus, sempre puntuali e bravissimi cui va il mio personale plauso per il grande lavoro fatto.
  La programmazione del film sul rapimento, la lunga tortura e la morte di Ilan Halimi è stato un percorso nella memoria dell'orrore che nel 2006 colpì ancora una volta la Francia e il mondo ebraico.
  L'orrore, la rabbia nel sentir negare dalla Polizia francese la matrice antisemita del crimine, sono perfettamente raccontati nel film, riuscendo a dare, come dice Porro, un pugno nello stomaco di chi guarda e a far capire esattamente la realtà dei fatti.
  Ruth Halimi, la madre di Ilan: "Hanno voluto portarci via anche la verità, hanno ucciso Ilan due volte negando l'antisemitismo. Ilan è stato ucciso perché ebreo, se non fosse stato ebreo sarebbe ancora vivo".
  Ilan Halimi fu rapito il 21 gennaio 2006 a Parigi e torturato per 3 settimane (24 jours) in modo orribile, inenarrabile, folle. Fu ritrovato nudo e agonizzante, con bruciature sull'80% del corpo, lungo un binario ferroviario, morì nel tragitto verso l'ospedale.
  L'autopsia non rilevò nessun colpo mortale ma l'insieme delle torture, i tagli, il freddo, (fu tenuto per tre
L'autopsia non rilevò nessun colpo mortale ma l'insieme delle torture, i tagli, il freddo, tutto questo portò alla morte. I suoi torturatori hanno dichiarato al processo di averlo ra- pito perché ebreo, quindi, secondo loro, ricco!
settimane sempre nudo al gelo), tutto questo portò alla morte. I suoi torturatori hanno dichiarato al processo di averlo rapito perché ebreo, quindi, secondo loro, ricco! Un delitto antisemita basato quindi sul più stupido, sul più idiota e elementare dei pregiudizi antisemiti, odio puro, ignoranza, l'ebreo ricco parte di una comunità solidale, "gli ebrei sono tutti ricchi e si aiutano tra loro" dirà ridendo il capo della banda assassina, Yussuf Fofana, che, entrando in aula per il processo, griderà col pugno alzato: "Allah vincerà".
  Nel covo dei torturatori furono trovati scritti di Hamas e di organizzazioni pro palestinesi.
   La Francia e l'Europa non hanno ancora fatto i conti con il feroce antisemitismo che, risvegliatosi dalle ceneri mai spente di Auschwitz, attraversa la società occidentale. Qualche anno prima di Ilan Halimi un altro ragazzo ebreo, Sebastien Selam, un dj di Parigi di 23 anni, uscito dall'appartamento dei genitori per andare al lavoro, venne aggredito nel garage da un vicino di casa musulmano, Adel, che gli ha tagliato la gola, quasi decapitandolo, gli ha squarciato il volto e gli ha cavato gli occhi. Ad abominio terminato, Adel è corso su per le scale del condominio, grondando sangue e urlando: "Ho ucciso il mio ebreo. Andrò in paradiso".
  Il caso di Ilan Halimi fece particolarmente scalpore perché decine di persone sapevano, sentivano le sue urla strazianti e, alla notizia che l'ostaggio era un ebreo, raccontano che vi fu una corsa per partecipare alla sua tortura. Questo sta accadendo nell'Europa del dopo Shoah, un odio rinato , mai morto, mai sopito che aspetta soltanto una scusa per tornare ad avvelenare il mondo. L'antisemitismo non è soltanto islamista, spiegava ieri sera Bernard-Henrì Levy, l'odio per gli ebrei è il cibo preferito delle anime diaboliche della destra estrema, della sinistra estrema, e del fondamentalismo islamico, tutti uniti in unico orrore che nessuno riesce a combattere, nessuno vuole farlo, nessuno ha il coraggio di farlo.
  Perché parlavo di un percorso nella Memoria?? perché la Tragedia di Ilan, diffusa all'inizio su basso profilo per non far arrabbiare i musulmani, è stata poi dimenticata per anni e sono convinta che fino alla serata di giovedì, la maggior parte delle persone non sapeva chi fosse. Il suo rapimento e il suo assassinio furono fatti passare per delinquenza comune per una serie di motivi: negazione dell'odio antisemita, cecità politica e umana, paura di offendere i musulmani come denuncia nel suo libro Ruth Halimi, per questo motivo quel crimine orrendo fu quasi messo a tacere arrivando, scandalosamente, a negare l'identità islamica dei torturatori.
  Per la prima volta la Rai, in prima serata, ha avuto il coraggio di affrontare il tema dell'antisemitismo alla presenza di personalità del mondo della politica e dello spettacolo, l'indice di ascolti è stato del 4,71%, significa che quasi un milione e mezzo di persone ha guardato il film e ascoltato il dibattito, significa che quasi un milione e mezzo di persone ha capito, ha saputo, è stata informata. Nicola Porro e Rav Riccardo di Segni hanno collegato l'odio antisemita che sta invadendo pericolosamente l'Europa e tutto il mondo
Nicola Porro e Rav Riccardo di Segni hanno collegato l'odio antisemita che sta invadendo pericolosamente l'Europa e tutto il mondo occidentale, alla politica ferocemente antisionista creata dalle destre, dalle sinistre estre- miste e dal mondo islamico: Israele ritenuto responsabile di tutto il male del mondo.
occidentale, a Israele e alla politica ferocemente antisionista creata dalle destre, dalle sinistre estremiste e dal mondo islamico: Israele ritenuto responsabile di tutto il male del mondo, Israele accusato di delitti e colpe non sue, l'odio contro Israele si è aggiunto all'odio contro gli ebrei creando una forza pericolosa che sta attraversando l'Europa al grido di Morte a Israele, Morte agli ebrei!
In Italia abbiamo avuto l'esempio del 25 aprile e della vergogna vissuta nelle principali città dove alla brigata ebraica fu impedito di sfilare o fu obbligata a farlo tra insulti, violenze e bandiere palestinesi. La serata di Rai2 organizzata in modo serio e professionale, è stata importante perché, per una volta, finalmente, nessuno ha osato parlare dell'islam come religione di pace e di amore, YahYa Pallavicini si è tenuto intelligentemente lontano da dichiarazioni false, buoniste e banali, esattamente come Monsignor Paglia.
  Un grande momento di commozione si è avuto quando è stato chiamato sul palco Gadi Gaj Tachè, fratello di Stefano Gaj Tachè, che nel 1982, a due anni, fu ucciso dai feddayin di Arafat. Per la prima volta Gadi, con occhi sereni e lucidi di commozione ha potuto finalmente parlare di quel giorno maledetto in cui "stranamente" non c'era nessuna camionetta della Polizia davanti al Tempio maggiore di Roma, strano molto strano... e ha potuto dire, incalzato intelligentemente da Porro, che gli assassini fuggirono in Tunisia....aiutati da chissà chi... strano anche questo fatto... quindi nessuno pagò per quel delitto. Molte stranezze da imputare all'Italia brutalmente filopalestinese dell'epoca, molti segreti di un'Italia schiava del mito di Arafat, considerato eroe della libertà anziché odioso e feroce terrorista, molte porcherie di un'Italietta ammiratrice del terrorismo, se palestinese, imbevuta di un'ideologia antisemita di matrice cattocomunista.
  La Rai, il Progetto Dreyfus e Virus ci hanno regalato una importante serata in onore e in memoria di Ilan. "Abbiamo portatto Ilan a Gerusalemme perché non vogliamo che a Parigi qualcuno vada a sputare sulla sua tomba", questo ha detto Ruth Halimi, la Mamma di Ilan.
  Riposa finalmente in pace, Ilan, all'ombra dell'albero che in ebraico porta il tuo nome. Riposa in pace a Gerusalemme, Ilan, e che il mondo finalmente sappia, capisca e incominci a ragionare.

(Inviato dall'autrice, 9 maggio 2015)

*
    «È una settimana, giorno dopo giorno, che Han è sequestrato e il rapitore sta impazzendo, allora perché non cambia strategia? Perché non si immagina neanche per un istante che il rapitore ucciderà mio figlio. Ecco il grave errore degli inquirenti. Si sono drammaticamente sbagliati sul profilo di quest'uomo. Hanno creduto di aver a che fare con uno di questi pilastri della criminalità organizzata, dotato d'esperienza e di un certo senso morale, quando invece avevano a che fare con un volgare delinquente da quattro soldi senza né Dio né legge. Hanno immaginato che fosse esclusivamente una questione di soldi, mentre si trattava innanzitutto di antisemitismo. Riconoscere la dimensione antisemita di questo rapimento non era un dettaglio. Al contrario, avrebbe consentito loro un approccio diverso nei confronti del rapitore, di inquadrarne la psicologia e di misurare i rischi che Han correva.
    Capire l'odio di questi uomini significava capire che Ilan poteva morire. Ma gli inquirenti non hanno colto questo odio. Né i propri limiti. Nonostante i loro fallimenti a ripetizione, rimanevano convinti di poter incastrare il rapitore. Si credevano i più forti. Ma le loro indagini non avanzavano molto....»
Ruth Halimi e Émilie Frèche, 24 giorni. La verità sulla morte di Ilan Halimi
ed. Salomone Belforte & C., € 14,00, Livorno 2010.


A Bagneux è stata perfino deturpata la targa posta a ricordo di Ilan. L'odio per gli ebrei continua anche dopo che sono morti.


Gaza - Gruppo affiliato a Daesh rivendica un attacco contro una base di Hamas

di Roberta Papaleo

Un gruppo di militanti jihadisti recentemente emerso nella Striscia di Gaza ha rivendicato la responsabilità di un attacco a colpi di mortaio contro una base appartenente al movimento palestinese Hamas.
In una dichiarazione diffusa su internet, il gruppo, che si fa chiamare Sostenitori di Daesh (ISIS) a Gerusalemme, ha dichiarato di aver sparato colpi di mortaio contro la base usata dal braccio armato del movimento, le Brigate Ezzedine al-Qassam, situata a Khan Kunis a sud della Striscia.
Militanti jihadisti gazawi avevano già promesso la loro fedeltà a Daesh in passato, ma l'organizzazione non ha mai ufficialmente confermato la propria presenza nell'enclave.

(ArabPress, 8 maggio 2015)


Che fine hanno fatto i figli dell'Olocausto?

di Ottavia Spaggiari

Per aiutare i migliaia di orfani sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti, nel 1946 la BBC trasmetteva appelli radio per aiutare i minori a ritrovare membri della propria famiglia ancora in vita. In occasione delle celebrazioni dei 70 anni dalla fine della guerra, un documentario rintraccia quelli che erano i bambini dell'unico appello conservato negli archivi
E' una storia quella raccontata da Lost Children of the Holocaust, documentario radio della BBC, lunga 70 anni, iniziata nel cuore devastato dell'Europa nell'immediato dopoguerra, che arriva fino a noi, nel giorno delle celebrazioni della fine del secondo conflitto mondiale.
E' il 1945 ed è sempre più chiaro che tra i sopravvissuti dei campi di concentramento e di sterminio nazisti ci sono anche migliaia di bambini e ragazzi. La maggior parte ha perso i genitori e i fratelli e l'unica speranza per cercare di tornare ad una quotidianità stabile, è quella di trovare qualche membro della famiglia ancora in vita. E' così che nel 1946 la BBC inizia a trasmettere degli appelli radio, cercando di ricongiungere i minori soli ai parenti che si pensava potessero trovarsi in Gran Bretagna. Il risultato erano lunghi elenchi che includevano i nomi e l'età dei minori, specificando i nomi degli adulti che si cercava di raggiungere. Di quelle trasmissioni, nell'archivio della BBC ne è rimasta soltanto una: un appello che recitava i nomi dei dodici minori sopravvissuti all'Olocausto, trovati in diversi campi nazisti, tra cui Auschwitz, Muhldorf, Kauferng, Theresienstadt, Belsen e Dachau. 70 anni dopo, il giornalista della BBC, Alex Last, si è messo sulle tracce di quelli che allora erano solo bambini, per capire se fossero riusciti a trovare i parenti sopravvissuti e raccontare come le loro vite fossero continuate dopo gli orrori della guerra, quando finalmente era arrivata la pace.
Una ricerca, quella portata avanti da Last, che l'ha portato in Germania, in Israele e negli Stati Uniti, per tracciare i commoventi ritratti degli unici sopravvissuti oggi ancora vivi.

(Vita, 8 maggio 2015)


Soragna - Il mistero dell'antico violoncello

Maria Caruso
Proseguono le iniziative del Museo ebraico Fausto Levi di Soragna, atteso a un fitto calendario di impegni fino al prossimo autunno. "Frammenti ebraici e strumenti musicali: un'insolita relazione": questo il titolo dell'incontro, in programma domenica alle 16.30, che avrà come punto di partenza la recente scoperta, nell'ambito di una ricerca d'archivio riguardo la liuteria ad arco del XVI-XVII secolo, di una viola da gamba, l'antenato dell'attuale violoncello, che recava al suo interno strisce di pergamena provenienti da codici ebraici. Particolarità che ha generato una serie di domande e considerazioni riguardo il significato di queste presenze, l'eventuale datazione dell'inserimento, la provenienza del liutaio che ha realizzato la viola. A parlarne saranno due ricercatrici, Donatella Melini e Roberta Tonnarelli.
   "Gli studi che si sono succeduti - spiegano - hanno dimostrato che questa viola da gamba non è l'unico strumento portatore di frammenti ebraici ma che ne esistono anche altri ed il loro numero è destinato ad aumentare. Si delinea quindi un fenomeno appassionante, ricco di aspetti ancora da chiarire".
   Ad accompagnare la conferenza alcuni intermezzi musicali curati dai Silentia Lunae, ensamble ed associazione di musica antica di Parma. I due fondatori, Maria Caruso e Richard Benecchi, non solo mostreranno, ma suoneranno copie fedeli di quegli stessi strumenti musicali raccontati nell'incontro, in un appassionante viaggio tra storia e musica, tra antichi manoscritti e misteriosi liutai. Tra i brani in programmai Ballo di Mantova di Celestino del Biabo - che ha dato lo spunto tematico per l'attuale Inno di Israele e un madrigale dal Primo Libro de' Madrigali di Salomone Rossi, compositore ebreo mantovano attivo alla corte dei Gonzaga a Mantova nel tardo Rinascimento.

(moked, 8 maggio 2015)


Vueling: novità voli per Tel Aviv da Firenze dall'estate 2015

Vueling ha annunciato delle novità in partenza dall'aeroporto di Firenze. La compagnia aerea spagnola ha ampliato il proprio network dall'Italia, introducendo nuove rotte in vista della prossima estate. A partire dal mese di luglio, infatti, si potrà partire dal capoluogo della Toscana alla volta di Tel Aviv. I nuovi collegamenti di Vueling per volare in Israele avranno una frequenza settimanale, con partenza programmata nei giorni di sabato.
L'introduzione della rotta Firenze-Tel Aviv sarà inaugurata il 4 luglio 2015. Si partirà alle ore 23:40 da Firenze e si arriverà alle ore 4:00 a destinazione, il ritorno da Tel Aviv sarà alle ore 5:00 con rientro in Italia alle ore 7:50. I voli per Tel Aviv da Firenze saranno serviti da un Airbus A319 da 150 posti. I biglietti aerei sono già disponibili all'acquisto con tari!e a partire da 108,41 euro a persona per tratta, tasse incluse, con possibilità di portare con sé un bagaglio a mano.

(Viaggi OK, 8 maggio 2015)


Un preoccupante quadro di complicità Onu coi crimini di guerra palestinesi

Il rapporto Onu sulla guerra a Gaza rivela abusi e incompetenze delle sue agenzie, e pone inquietanti interrogativi

La settimana scorsa l'Ufficio del Segretario Generale delle Nazioni Unite ha pubblicato una sintesi dell'atteso rapporto della Commissione di inchiesta sulla guerra di Gaza dell'estate 2014. La Commissione era incaricata di indagare gli incidenti che hanno coinvolto sedi e strutture delle Nazioni Unite durante i 50 giorni di conflitto.
Il mandato della Commissione era generalmente imparziale, non presupponeva in anticipo la colpevolezza di Israele e la Commissione stessa era composta da persone che apparivano esenti da pregiudizi. Di conseguenza, il governo israeliano ha pienamente collaborato con la missione.
Sia la composizione che l'origine della Commissione spiccano in netto contrasto con l'inchiesta tuttora in corso da parte del Consiglio Onu per i Diritti Umani, che è invece viziata da un mandato fazioso, da conclusioni predeterminate sulle violazioni israeliane e da uno staff decisamente prevenuto. Inoltre, questa seconda missione si svolge nella cornice del Consiglio Onu per i Diritti Umani, un organismo controllato dall'Organizzazione della Cooperazione Islamica e da molti altri fra i peggiori violatori di diritti umani nel mondo. Al momento in cui scriviamo siamo ancora in attesa dei risultati di questa seconda indagine su Gaza, ma stando alle esperienze del passato è estremamente probabile che essa non affronterà in modo serio l'uso da parte palestinese delle strutture Onu nel quadro della loro strategia di combattimento dietro scudi umani....

(israele.net, 8 maggio 2015)


In molti villaggi palestinesi della Cisgiordania torna l'energia elettrica

Notizia appena confermata da fonti israeliane e palestinesi: i villaggi palestinesi in Cisgiordania che da tempo erano privi di energia elettrica hanno ricevuto dalle autorità israeliane il permesso di collegarsi alla rete elettrica immediatamente dopo la conclusione del convegno internazionale su un possibile Piano Marshall, USA-UE, per il Mediterraneo e il Medio Oriente organizzato alla Farnesina il 26-27 febbraio scorso, in collaborazione con l'EURISPES, da "Prospettive Mediterranee": istituto che, dalla sua costituzione presso il Consolato Generale d'Italia a Gerusalemme nel 2000, promuove iniziative di dialogo e valorizzazione delle identità nazionali, culturali e religiose nel Mediterraneo.
   La seconda giornata del convegno, dedicata al ruolo dell'integrazione dei sistemi energetici per la cooperazione multilaterale e lo sviluppo sostenibile nel Mediterraneo, con la presenza di relatori ad alto livello israeliani, palestinesi e di altri Paesi mediorientali, oltre che di aziende italiane del settore come Eni e Med-TSO, s' era concentrata proprio sul fabbisogno energetico palestinese: soprattutto nella Gaza postbellica, con l'auspicio che un Piano Marshall USA-UE consenta il pacifico sfruttamento dei nuovi giacimenti di gas a Gaza Marine.
   "Siamo felici d'aver contribuito al miglioramento della vita quotidiana di molti villaggi palestinesi", commenta Enrico Molinaro, presidente di Prospettive Mediterranee, "e questo significativo risultato c' incoraggia a proseguire su questa strada di confronto tra élites stataliste e glocaliste nell'area: per contribuire a una soluzione di compromesso, che permetta alle popolazioni mediterranee e mediorientali d'avviare un vero Rinascimento economico e culturale, in una rinnovata armonia con l'Europa".

(Agenzia Fuoritutto, 8 maggio 2015)


Israele - La "cerbiatta" riformerà la giustizia

TEL AVIV
- All'età di 39 anni - festeggiati oggi assieme con la nomina a ministra della giustizia - Ayelet ("cerbiatta") Shaqed emerge come uno dei personaggi più significativi del nuovo governo di Benyamin Netanyahu, come esponente di primo piano della destra nazional-religiosa. Un partito di elevato profilo ideologico che si prefigge di plasmare le strutture del Paese a sua immagine e somiglianza. Alla Shaqed viene adesso affidata dal partito la delicata revisione della magistratura e dei tribunali.
Paradossalmente, la Shaqed è cresciuta come incarnazione della Tel Aviv laica, in una famiglia di sionisti idealisti immigrati dalla Romania alla fine dell'Ottocento per dissodare la terra della Galilea.
La madre, insegnante, ostentava una accesa fede laburista. Ayelet avrebbe mosso i primi passi nei boy scouts, e poi nella Brigata di fanteria Golani, come educatrice. Ha incontrato il futuro marito - un pilota dell'aviazione militare, membro di un Kibbutz - durante un lungo viaggio in America Latina.
Laureata in ingegneria elettronica e di scienza del computer, nella scorsa legislatura ha lasciato ammirati anche gli avversari politici per le doti analitiche e per la volitività. È così emersa come una delle parlamentari migliori, assieme con la "rossa" Stav Shafir, una pasionaria laburista dalla capigliatura fiammeggiante.
Ad ingaggiare in questi giorni con Netanyahu un drammatico braccio di ferro affinché fosse nominata ministra della giustizia (in sostituzione di Tzipi Livni) è stato il leader del suo partito, Naftali Bennett. Shaqed e Bennett hanno frequentato assieme una "scuola di alta politica" con un docente di eccezione: lo stesso Netanyahu che nel 1996, mentre era all'opposizione, aveva bisogno attorno a sé di collaboratori promettenti.
Bennett era un intraprendente, Shaqed l'incarnazione dell'efficienza. Due anni dopo Netanyahu e la moglie, Sarah, si resero però conto che "quei due" rappresentavano un pericolo potenziale. Fu l'inizio di una rottura lacerante, definitiva.
Con un volto ad acqua a sapone e con un abbigliamento castigato (per non urtare la sensibilità dei rabbini di Focolare ebraico) Shaqed facilmente potrebbe trarre in inganno, essere sottovalutata. Ma chi ha imparato a conoscerla sa che punta lontano. Ad esempio alla futura fusione del Likud con il nazionalismo-religioso dei coloni,
per far breccia davvero - assieme a Bennett - nella stanza dei bottoni di Israele.

(Corriere del Ticino, 7 maggio 2015)


Cinque domande su Israele

di Maurizio Molinari

- Il governo Netanyahu ha una maggioranza di appena 61 seggi su 120, durerà?
  È una maggioranza risicata che rende vulnerabile il governo. Basti pensare che un deputato druso del Likud chiede un ministero minacciando altrimenti di far durare il governo poche ore. Per questo Netanyahu vuole nella coalizione il centrosinistra di Herzog, offrendogli gli Esteri - che al momento tiene per sé - e la carica di vicepremier. Ma Herzog sente aria di rivincita e ribatte: «Sarà guerra totale».

- Perché un governo così debole dopo la netta vittoria del Likud?
  È l'ex alleato Avigdor Lieberman ad aver fatto lo sgambetto al premier levandogli i 6 voti di «Yisrael Beitenu». Ha temuto di sparire politicamente e ha scelto l'opposizione da destra.

- Chi sono i ministri più importanti dell'esecutivo?
  Moshe Kachlun alle Finanze è l'uomo su cui Netanyahu punta per sanare lo scontento sociale, e Naftali Bennett all'Istruzione è l'alleato strategico, guidando l'ala destra della coalizione, mentre la conferma di Moshe Yaalon alla Difesa rassicura i militari ma il volto più nuovo è Ayelet Shaked, alla Giustizia, accusata di voler indebolire la Corte Suprema.

- Che scelte farà sui rapporti con i palestinesi e sull'Iran?
  «Il presidente Rivlin chiede di riprendere il negoziato e i contatti segreti con Hamas suggeriscono che Netanyahu tenterà strade nuove. Abu Mazen non si fida. Il suo Saeb Erakat parla di un «governo estremista con cui non c'è spazio per trattare». Sul nucleare dell'Iran l'opposizione di Israele resterà netta.

- Ricucirà il rapporto con Obama?
  «La Casa Bianca dice di voler lavorare col nuovo governo. Netanyahu vuole andare alla Casa Bianca. Vi sarà presto un tentativo di riconciliazione».

(La Stampa, 8 maggio 2015)


Il linguaggio della filosofia. Metafisica e antisemitismo.

POSITANO - Dal 9 al 10 maggio a Scala, la Fondazione Meridies ospita un seminario sul rapporto tra teologia politica e antisemitismo nel pensiero tedesco moderno e contemporaneo In collaborazione con l'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, il 9 e 10 maggio presso l'Auditorium di Scala, la Fondazione Meridies ospita un seminario di alto profilo filosofico sul rapporto tra Teologia Politica e Antisemitismo. L'occasione di questo incontro di due giorni è suggerita dalla recente pubblicazione del dibattutissimo volume di Donatella Di Cesare «Heidegger e gli ebrei. I quaderni neri» (Torino 2014) e dall'ultimo numero della rivista "Il Pensiero", dedicato alla Teologia Politica (a cura di Giulio Goria e Giacomo Petrarca). Interverranno l'autrice e i curatori dei volume sopra menzionati oltre che alcuni tra i maggiori esperti e tra i più promettenti studiosi del pensiero tedesco classico e contemporaneo. Tra questi meritano certamente menzione Vincenzo Vitiello, Massimo Adinolfi, Ernesto Forcellino, Gaetano Rametta e Paolo Vinci. I lavori saranno aperti Sabato 9 alle ore 10.00 dal Direttore della Fondazione Meridies, Mico Capasso, che ha fortemente voluto questo seminario affinché lo spazio di Scala in Costiera possa diventare sempre più luogo privilegiato di confronto intorno ai principi e agli esiti ultimi e più drammatici del pensiero occidentale. E' un problema di cui va della filosofia stessa (e dunque del nostro modo di abitare la terra) comprendere come la lingua che ha prodotto il pensiero più alto abbia potuto essere la stessa lingua parlata dagli aguzzini della Shoah. Informazioni più dettagliate sulla scuola sono disponibili sul sito della fondazione: www.fondazionemeridies.it

(Positano News, 8 maggio 2015)


Israele laboratorio Ict per l'agricoltura del futuro

Yoram Kapulnik, direttore del Volcani Center: "Con l'online si possono risparmiare risorse e ottenere risultati migliori nel rispetto delle biodiversità".

di Antonello Salerno

 
Yoram Kapulnik, direttore del Volcani Center
E' la mancanza di risorse ad aver portato alla nascita dell'ingegnosità israeliana in agricoltura. La necessità di produrre tanto con pochi mezzi a disposizione: poco terreno, poca acqua, poche persone a lavorare la terra. Una sfida iniziata per la sopravvivenza, su una superficie di 22mila kmq per la maggior parte desertica, ma che ha portato oggi il Paese a esportare parte della propria produzione.
   Solo per citare alcuni dati: dal 1948 la produzione agricola israeliana è aumentata di più di 12 volte, mentre nello stesso lasso di tempo l'uso di acqua si è moltiplicato soltanto per tre. Delle 300 aziende agricole del Paese, 200 sono esportatori, mentre secondo l'Israel Export & International cooperation institute il fatturato dell'agrotecnologia è ormai di circa 4 miliardi di dollari l'anno. Oggi Israele, una delle aree più aride al mondo, utilizza i metodi di irrigazione più tecnologicamente avanzati a disposizione, e conta sulla percentuale più alta di riutilizzo delle acque di scarto.
   "All'expo di Milano 2015 il padiglione di Israele è accanto a quello dell'Italia - afferma Naor Gilon, ambasciatore di Israele in Italia - e mette in mostra tutti i risultati innovativi raggiunti dal nostro Paese. Per noi l'agricoltura è un business, dove coesistono la produzione insieme all'R&D, con la costante della scarsità delle risorse: la necessità, infatti, è la madre di tutte le invenzioni".
   Ad anticipare l'Expo si è svolta nei giorni scorsi a Tel Aviv la 19esima edizione di Agritech Israel, conferenza internazionale dell'agricoltura. Una vetrina anche per il Volcani Center, l'agricolural research organization israeliana nata nel 1921, prima della formazione dello Stato di Israele, e che oggi su mandato del Governo coordina tutte le attività di ricerca nel settore.
   Se nel 1955, spiegano dal Volcani Center, un agricoltore era in grado di assicurare nutrimento a 15 persone, nel 2000 si è passati a 90 e nel 2015 a 400. Se si pensa poi che circa l'80% dell'acqua utilizzata in agricoltura nel Paese è acqua riciclata, questo rende chiaro quanto siano fondamentali ricerca e nuove tecnologie.

(Corriere delle Comunicazioni, 8 maggio 2015)


Cosa si muove in Israele dietro i numeri risicati del governo Netanyahu

di Rolla Scolari

Naftali Bennett
MILANO - Benjamin Netanyahu ha vinto alle elezioni di marzo trenta seggi nella Knesset, contro ogni pronostico e contro una campagna, anche internazionale, piuttosto aggressiva nei suoi confronti. Da allora sono passati quarantadue giorni di trattative delicate per creare una coalizione e garantirsi la maggioranza del Parlamento. E mercoledì sera, a due ore dalla scadenza del tempo concesso a un premier per le consultazioni, Netanyhau ha trovato i numeri per una colazione invero risicata: 61 seggi su 120. Una vignetta del sito del quotidiano Haaretz dipingeva ieri mattina un esausto Netanyahu che barcollante arriva alla porta del presidente per presentare la sua squadra con l'abito a brandelli, le ginocchia e i gomiti sbucciati. "Il quarto governo Netanyahu - ha scritto Yossi Verter sul quotidiano - è stato messo assieme nel sangue, nel sudore, nelle lacrime: quelle del premier e del Likud", il suo partito.
   "Netanyahu conosce meglio degli altri le debolezze del sistema politico israeliano - spiega al telefono da Tel Aviv Sefy Hendler, giornalista di Haaretz e professore universitario - ma il sistema israeliano sa usare le debolezze di Netanyahu. Mentre guardavo la partita ieri pensavo a questo: lui ha giocato tutti gli schemi che aveva a disposizione per vincere le elezioni, ma nel secondo tempo è arrivato il peggior risultato possibile, anche perché in campo giocatori della sua stessa squadra hanno agito contro di lui". Ad aver complicato i calcoli del primo ministro sono stati due alleati con cui i rapporti sono stati spesso tesi: Avigdor Lieberman, ex ministro degli Esteri e leader del partito Yisrael Beitenu, e Naftali Bennett, capo del gruppo Focolare ebraico e vincitore di questa ultima trattativa politica. Soltanto lunedì, con l'accorciarsi dei tempi per formare un governo, Lieberman, già nell'esecutivo uscente e un tempo considerato addirittura un possibile successore di Netanyahu, ha lasciato le consultazioni portandosi via sei seggi e abbandonando il destino della coalizione nella mani di Naftali Bennett. Con soli otto seggi, il partito di destra radicale contrario alla formazione di uno stato palestinese ha potuto fare richieste di peso, costringere Bibi a un compromesso duro da digerire: ministeri dell'Istruzione, dell'Agricoltura, ma soprattutto la poltrona della Giustizia alla giovane Ayelet Shaked. Il ministro della Giustizia in Israele siede nello strategico consiglio ristretto per la sicurezza del premier. La concessione è importante visto che le cronache politiche israeliane non parlano soltanto di tensioni, ma addirittura di odio da parte di Netanyahu e della potente moglie Sara nei confronti di Shaked e Bennet fin dai tempi in cui, dal 2006 al 2008, lui era capo del gabinetto di un Bibi leader dell'opposizione e lei suo assistente.
   In Israele c'è chi ha già governato con così pochi seggi di maggioranza: Yitzhak Rabin lo ha fatto con 62. Allora però, spiega ancora Hendler, c'era coesione ideologica. Questo manca oggi in una coalizione composta da cinque partiti tra cui un gruppo centrista, movimenti religiosi, la destra più tradizionale e quella più radicale, soprattutto sulla questioni dei rapporti tra stato e religione. Il premier Netanyahu ha già deciso che manterrà lui stesso il controllo del ministero degli Esteri, hanno fatto sapere dal Likud, nella speranza di poter solidificare la propria coalizione allargandola ad altri partiti, e in molti anche a destra ritengono che stia riservando quella poltrona al rivale laburista Isaac Herzog. "61 è un buon numero - ha detto il premier - 61+ è meglio". La volontà di Netanyahu "è quella di rimanere primo ministro - dice Hendler - Per farlo e per 'uccidere' ancora una volta l'opposizione la migliore mossa politica per lui sarebbe proprio quella di mettere dentro Herzog, facendogli perdere credibilità davanti alla sua base". A pochi mesi dalle primarie laburiste.

(Il Foglio, 8 maggio 2015)


Ayelet, la super-soldatessa che guarda oltre Netanyahu

Il nuovo ministro della Giustizia guida la linea dura anti-palestinese

di Maurizio Molinari

 
Ayelet Shaked
GERUSALEMME - Istruttore di commando e ingegnere hi-tech, laica e fondatrice di un partito nazionalreligioso, per gli insediamenti e contro i terroristi: Ayelet Shaked, 39 anni, è il nuovo ministro della Giustizia di Israele, volto di spicco di una destra che guarda al dopo-Netanyahu. Sul suo nome è avvenuta l'ultima trattativa che ha portato alla nascita del Netanyahu IV. Naftali Bennett, leader del partito «Bayt HaYehudi» (Casa Ebraica), ha esitato a entrare nella coalizione per strappare al premier l'avallo a Shaked alla Giustizia. Il motivo per cui il premier non voleva Ayelet è lo stesso per cui Bennett l'ha imposta: è il volto più brillante e popolare di una nuova destra che va oltre il nazionalismo laico del Likud e l'ortodossia dei partiti religiosi.

 La carriera nell'esercito
  Shaked nasce nel 1976 a Bavli, uno dei quartieri più laici e progressisti di Tel Aviv Nord. Dove la maggioranza dei resistenti è ashkenazita mentre la sua famiglia viene dall'Iraq. La madre insegna Bibbia, il padre è un tradizionalista e a casa non si parla di politica ma quando, a 8 anni, vede in tv il duello elettorale fra Shimon Peres e Yitzhak Shamir si sente d'istinto vicina al leader del Likud. «Ho scelto in quel momento da che parte stare» ricorda, spiegando che per «destra» intende «amare il mio Paese». Quando si arruola va nei «Golani», i commando che rischiano di più, e ne diventa istruttore. Lasciata la divisa si laurea in ingegneria informatica, andando a lavorare per Texas Instruments, e per marito sceglie un pilota di caccia, con cui ha avuto due figli. Entra nel Likud, dove grinta e curriculum la fanno entrare nel team dei consiglieri di Netanyahu, già premier. È qui che incontra Bennett, con cui nel 2010 fonda il movimento «My Israel» e nel 2012 il partito «Bayt Hayehudì». Li accomuna la volontà di dare voce alla «Start Up Nation» dell'hitech, alle famiglie degli insediamenti in Giudea e Samaria - la West Bank dei palestinesi - ai religiosi che ne hanno abbastanza dei partiti ortodossi e ai nazionalisti in cerca di nuove idee e sfide. A distinguerla sono posizioni tutte d'attacco: contro i clandestini africani «minaccia per l'economia», contro la radio dell'esercito «che fa propaganda di sinistra», contro il «rnachismo» per i diritti delle donne e contro i terroristi «da braccare ovunque».

 Lo scontro con Erdogan
  È scettica sulla soluzione dei due Stati ma crede nella convivenza con i palestinesi, vuole definire Israele «Stato ebraico» non ritenendolo in contrasto con l'identità democratica. Idee forti, look avvenente e ostilità per i compromessi ne fanno una star per i media. Il leader turco Erdogan nel 2014 le si scaglia contro accusandola di «perseguire il terrorismo di Stato» a causa di un post su Facebook risalente al2002 ed è Netanyahu a difenderla da «accuse antisemite». Come ministro della Giustizia avrà un palcoscenico di prim'ordine per rafforzare una destra che considera Netanyahu il leader del Likud più a sinistra di sempre.

(La Stampa, 8 maggio 2015)


Israele celebra la sua indipendenza

di Paola Pisa

Naor Gilon con la moglie Orly
ROMA - Duemila invitati al ricevimento in occasione della Festa per i 67 anni dell'Indipendenza dello Stato di Israele. Le grandi sale di un sontuoso albergo in via Veneto sono gremite mentre l'ambasciatore Naor Gilon, che ha accanto la moglie Orly, dà il suo benvenuto. Sul palco ci sono il ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni, il ministro della Difesa Roberta Pinotti. «I più sentiti ringraziamenti alle autorità italiane e a gran parte della società per l'impegno nella lotta ad ogni fenomeno di antisemitismo e per il loro sostegno alla Comunità ebraica italiana», dice l'ambasciatore. Parla poi delle «salde relazioni dei due governi che riflettono la vicinanza dei due popoli». Un messaggio del Presidente dello Stato di Israele Reuven Rivlin, che doveva essere qui, raggiunge i presenti. E' Claudio Di Segni a intonare gli inni. Bandiere, una grande Stella di David, una immensa torta dai colori di Israele. Tra i presenti il Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Renzo Gattegna, il Rabbino Capo di Roma Riccardo Di Segni, il rabbino Riccardo Pacifici. Ci sono Corrado Passera, Gianfranco Fini e la moglie Elisabetta Tulliani, Maurizio Gasparri, il presidente Rai Anna Maria Tarantola, il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, Giovanni Maria Flick, l'ambasciatore di Israele presso la Santa Sede Zion Evrony, l'ambasciatore inglese Christopher Prentice.

(Il Messaggero - Roma, 8 maggio 2015)


Fiumicino, incendio in aeroporto. Scalo chiuso

ROMA, 7 mag - L'aria è ancora impregnata dell'acre odore del fumo. Chi può si protegge con una mascherina, qualcun altro invece con la maglietta o un foulard di fortuna. Migliaia di passeggeri spaesati provano a cercare il proprio volo in un viavai ininterrotto tra un terminal e l'altro. Mentre il sole cala sul mare all'orizzonte, l'aeroporto di Fiumicino prova a risvegliarsi da una lunghissima nottata illuminata dal bagliore delle fiamme che hanno avvolto e distrutto gran parte del Terminal 3.
Centinaia di metri quadrati andati completamente in fumo, l'area commerciale sventrata con le vetrine dei negozi irriconoscibili e i gate trasformati in varchi sul nulla. Per tutta la mattinata lo scalo è rimasto chiuso al traffico in partenza, solo dopo pranzo i primi aerei hanno ricominciato ad alzarsi in cielo, mentre forze dell'ordine e vigili del fuoco continuavano a lavorare senza sosta tra le macerie. Per il momento l'unica cosa che appare certa è che non si sia trattato di un episodio doloso, come ribadito anche da Aeroporti di Roma, ma molto probabilmente di un guasto tecnico, un cortocircuito.

(Il Secolo XIX, 7 maggio 2015)

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I precedenti - Chiuso soltanto per le bombe arabe

Lo scalo internazionale della Capitale fu interdetto per ore a causa di due attentati. Nel 73 '85 gli atti terroristici di matrice palestinese: 42 morti e 95 feriti. Entrambi i colpi a ridosso delle vacanze natalizie. Sei gli italiani che persero la vita nella prima carneficina.

di Luca Rocca

Non è la prima volta che l'aeroporto di Fiumicino viene chiuso. Ma se ieri la causa è stata un incendio che ha provocato il panico e il conseguente blocco dei voli, più indietro nel tempo, nel 1985 e nel 1973, a scatenare il caos al Leonardo da Vinci furono due drammatici attacchi terroristici, uno dei quali, il secondo, troppo spesso dimenticato.
   Sono le nove del mattino del 27 dicembre del 1985, anno di enormi tensioni internazionali, soprattutto in Medio Oriente, quando allo scalo romano, colmo di gente in partenza per il Capodanno, un commando di quattro estremisti del gruppo di Abu Nidal, fondatore del Consiglio Rivoluzionario di al-Fatah, si dirige verso i banchi d'accettazione della compagnia aerea israeliana El AI e di quella americana Twa. La loro missione è suicida: impadronirsi degli aerei, costringere il pilota a decollare e poi schiantarsi su Tel Aviv. Gli estremisti palestinesi sono armati fino ai denti. Sotto i cappotti, infatti, nascondono i loro Kalashnikov, ma addosso, nelle tasche, hanno anche bombe a mano. Gli agenti di sicurezza israeliani, messi a protezione degli sportelli della El Al, li individuano anche perché poche ore prima i servizi segreti li hanno avvisa ti e messi in allarme su possibili attentati. Ragion per cui, appostati ci sono anche alcuni tiratori scelti. Quel giorno, a Fiumicino, si scatena l'inferno. Il Leonardo da Vinci, infatti, si trasforma in un teatro di guerra. Lo scontro a fuoco è tragico: i terroristi lanciano le bombe e sparano verso i passeggeri in coda per il ceck-in e in attesa vicino al bai adiacente. I poliziotti israeliani e le forze dell'ordine italiane rispondono al fuoco. Il bilancio è tremendo: dieci persone vengono colpite a morte, circa ottanta restano ferite e a perdere la vita sono anche tre terroristi. Resta vivo solo il quarto, il diciottenne Khaled Ibrahim Mahmoud.
   L'attacco, però, è duplice. Nelle stesse ore, infatti, il copione si ripete all'aeroporto di Vienna. Una strage, quella di Fiumicino del 1985, che una sentenza ha definito «inevitabile», assolvendo i responsabili della sicurezza processati. Ma dodici anni prima, anche se l'episodio è stato praticamente rimosso, o quasi, Fiumicino aveva già fatto da scenario per un attacco di terroristi palestinesi, conclusosi ancora più
Il giovane finanziere Antonio Zara agonizzante sulla pista di Fiumicino
tragicamente. È la tarda mattinata del 17 dicembre del 1973 quando cinque (o forse più) estremisti islamiei, appena atterrati con un volo proveniente da Madrid, entra in azione nello scalo romano. Non appena messo piede all'aeroporto, infatti, il commando, provvisto di bombe a mano e mitra, si dirige verso gli sportelli del controllo passaporti. I terroristi imbracciano subito le armi e prendono in ostaggio sei agenti di polizia. I loro nomi: Fortuna, Lillo, Muggiano, Tomaselli, Di Lattanzio ed Estrino. Con in mano la merce di scambio per il loro piano criminale, il commando si divide: alcuni terroristi cominciano a sparare sulle vetrine dell'aeroporto per farsi strada verso la pista, altri imboccano il corridoio in direzione della rampa numero quattordici. Il primo gruppo si dirige verso un Boeing 707 dell'americana Pan Am. L'intenzione è quella di uccidere. I terroristi, infatti, sfruttando la scala mobile agganciata, salgono sull'aereo e lanciano dentro alcune bombe al fosforo. Il Boeing, in procinto di partire, prende fuoco, provocando la morte, per ustione e soffocamento, di 30 passeggeri, tra cui quattro italiani: l'ingegnere Raffaele Narciso e poi un'intera famiglia romana: Giuliano De Angelis, 43 anni, la moglie Emma Zanghi, 34 anni e la loro figlia Monica, sette anni. Intanto gli altri terroristi, che hanno in mano gli ostaggi, vanno verso un Boeing della Lufthansa, ma trovano sulla loro strada un militare della Guardia di finanza, Antonio Zara, appena 20 anni, che si rifiuta di salire a bordo. Gli estremisti palestinesi prima lo bloccano, poi gli ordinano di allontanarsi e infine gli sparano una raffica di mitra nella schiena, uccidendolo. Subito dopo i due gruppi salgono sul velivolo tedesco e costringono l'equipaggio a decollare. Una volta a bordo, fanno fuoco su un tecnico italiano, Domenico Ippoliti, e dopo essere atterrati ad Atene, abbandonano il suo corpo, e quello di altri ostaggi feriti, sulla pista. Poco dopo il velivolo si dirige su Damasco e infine verso la destinazione finale, Kuwait City, dove gli ostaggi vengono liberati in cambio della fuga garantita ai terroristi (catturati, però, poco tempo dopo). Nella strage muoiono 32 persone, di cui sei italiani. Quindici i feriti. Due anni, il 1973 e il 1985, che misero in ginocchio l'aeroporto di Fiumicino. Ieri le fiamme hanno provato a fare lo stesso.

(Il Tempo, 8 maggio 2015)


L'antisemitismo è tra noi: atto d'accusa di Bernard Henry Levi

Riportiamo l'intervento fatto dal filosofo francese Bernard-Henry Levy nella serata evento ospitata all'Auditorium della Conciliazione di Roma mercoledì 6 maggio. NsI

«Ricordiamo che la Francia è il Paese in cui, come Daniel Pearl a Karachi - dico bene Karachi - un uomo può essere rapito sotto gli occhi di un intero quartiere, trasportato da un luogo all'altro, affamato, assassinato lentamente, torturato per 24 giorni, senza che nessuno si accorga di nulla, o meglio faccia finta; nessuno che abbia il coraggio di avvertire, fare una chiamata, ascolti le sue urla. Rendendosi in questo modo complici di un atto così atroce, 24 giorni, dico bene 24 giorni, cioè un'eternità. Ricordiamo che nessuno ebbe questo riflesso elementare di umanità. Youssef Fofana, il capo della gang, è un antisemita della più semplice, della più pura, della più stupida e bestiale specie: ha detto: "Io sono nato il giorno in cui è morto Ilan".
L'antisemitismo di oggi dice tre cose. Può operare su vasta scala solo se riesce a proferire e ad articolare tre enunciati odiosi. Ovvero:
  1. Gli ebrei sono sostenitori di uno Stato malvagio, illegittimo e assassino: è il delirio antisionista.
  2. Il secondo fondato sul negazionismo, gli ebrei fonderebbero tutto su una sofferenza esagerata: è l'ignobile, atroce negazione della Shoah.
  3. Infine, ultimo, l'antisemitismo più pericoloso e attuale che sta prendendo piede anche in altri paesi, compresi gli Stati Uniti, dove c'è gente che dice: "Io non ho nulla contro gli ebrei ma loro evocano instancabilmente la memoria dei loro morti, soffocando le altre memorie, mettendo a tacere gli altri morti, eclissando gli altri martiri che gettano nel lutto il mondo odierno: antisemitismo pericoloso e imbecille che si chiama competizione tra vittime.
Il nuovo antisemitismo ha bisogno di questi tre enunciati. È come una bomba atomica morale con tre componenti. Riconoscerlo significa cominciare a vedere quel che vi spetta fare per lottare contro questa calamità».

(Fonte: "Il Nuovo Corriere di Roma e del Lazio", 7 maggio 2015)


Cinque App israeliane che hanno rivoluzionato l'impegno civico

Durante lo scorso mese di marzo Israele è andato alle urne per scegliere i 120 membri della Knesset, il parlamento israeliano. Milioni di cittadini hanno affollato i diversi seggi di tutto il paese per svolgere il diritto democratico di votare il prossimo governo.
I dati di affluenza ai seggi sono stati eclatanti: 71,8% degli elettori si è recato alle urne, il più alto dato dalle elezioni del 1999.
Israele ha guadagnato fama internazionale per le innovazioni tecnologiche all'avanguardia. Nel corso dei mesi che hanno preceduto le elezioni, numerose startup hanno dato vita a applicazioni per invogliare il cittadino al dovere civico, in questo modo il voto politico è sbarcato su tablet e smartphone.
Con il termine inglese "civic engagement" si intendono quelle pratiche di coinvolgimento nella vita civile, politica e sociale che contribuiscono alla crescita e al benessere di una società democratica.
È evidente che il progresso tecnologico ed il crescente uso degli smartphone permette agli individui di tutto il mondo di unirsi. In questo caso la tecnologia ha sposato perfettamente l'impegno pubblico.
Ecco le 5 applicazioni che hanno dato voce ai cittadini israeliani ed hanno spostato l'attivismo politico dalle piazze agli smartphone:
  1. Elections 2015 App
    L'Israeli E-Gov Unit ha sviluppato una applicazione per fornire al pubblico informazioni aggiornate in tempo reale sulle elezioni generali.
  2. iVote App
    Si tratta di una applicazione per mobile senza scopo di lucro che si propone di incoraggiare le persone a discutere di questioni politiche, consentendo il libero scambio di opinioni.
  3. WePowerApp
    L'applicazione si propone di dare voce ai cittadini consentendo loro di esprimere le personali frustrazioni e di collaborare al fine di raggiungere gli obiettivi comuni.
  4. Goodnet
    I portale web israeliano Goodenet, Gateway to Doing Good, connette persone in tutto il mondo accomunate da un unico obiettivo: fare del bene. Volontariato, microfunding, tecnologia verde, conservazione dell'acqua e consumo consapevole.
  5. Give2gether
    L'azienda mira a migliorare la vita delle persone mediante una piattaforma di raccolta fondi. La piattaforma migliora la vita di chi dona, di chi riceve e di coloro che ispirano gli altri a fare del bene.
(SiliconWadi, 7 maggio 2015)


Le elezioni britanniche viste dagli ebrei di Londra

Il voto visto da un quartiere di Londra dove il 40 per cento della popolazione è di religione ebraica, raccontato dal giornalista italiano Davide Lerner.

 
C'è in gioco tantissimo in queste elezioni inglesi, in corso oggi. Potrebbe riproporsi prepotentemente la questione scozzese, con il partito nazionalista che nonostante la sconfitta nel referendum del settembre scorso è in poderosa ascesa.
  Potrebbe prospettarsi una resa dei conti sul rapporto inglese con l'Europa, che non è mai stato sereno dai tempi del tardivo ingresso nell'allora Comunità Europea, nel 1973, e che il primo ministro in carica David Cameron vuole mettere ai voti.
  C'è in gioco l'ulteriore assottigliamento dello stato britannico e del suo welfare, che Ed Miliband e il partito da lui guidato, il Labour, vogliono salvare da un'estinzione dettata dalla necessità di ridurre il deficit.
  Ci sono numerose questioni aperte in vista del voto, come la crisi abitativa, il calo di consensi dei partiti principali che potrebbe mettere in discussione la legge elettorale in vigore che da sempre li avvantaggia, e l'incognita dei nazionalisti xenofobi dello United Kingdom Independence Party (Ukip), arrivati primi alle scorse elezioni europee.
  Nessuno di questi temi, però, sarà decisivo nella circoscrizione londinese di "Finchley and Golders Green", dove The Post Internazionale è andato a scovare la sua storia. Finchley-Golders Green è la circoscrizione un tempo feudo elettorale di Margaret Thatcher, la lady di Ferro idolo dei liberal-conservatori e spauracchio dei socialisti (non pochi celebrarono la sua morte al grido di "the witch is dead" - la strega è morta - nell'aprile 2013).
  Oggi la campagna elettorale di questa zona benestante nel nord della capitale si sviluppa su temi del tutto inusitati per un'elezione politica britannica, per di più di quest'importanza. Non l'Europa, non la Scozia, non l'economia: a tenere banco e far discutere i candidati è la politica medio-orientale, la situazione in Israele, e questioni come la macellazione kosher o lo stato delle sinagoghe.
  A Fincheley e Golders Green, infatti, la presenza ebraica è così significativa da non avere eguali nel paese: il 40 per cento dei residenti sono ebrei. Le comunità ebraiche, quelle più laiche come anche quelle più ortodosse, sono politicamente attive e rappresentano un bacino elettorale appetibile ai principali candidati del collegio, Sarah Sackman (Labour) e Mike Freer (Tory).
  "Non credo che non essere ebreo possa danneggiarmi", dice a The Post Internazionale Mike Freer, 54 anni, parlamentare uscente di Fincheley e Golders Green con tanta voglia di essere riconfermato, "anzi mi renderebbe più facile il compito di rappresentare le comunità, nessuno potrà dire che farne parte mi rende fazioso".Freer ha dato battaglia, nell'ottobre scorso, per scongiurare il riconoscimento simbolico della stato palestinese da parte di del parlamento britannico, poi nondimeno verificatosi.
  Il settimanale Jewish Chronicle lo ha inserito nella lista delle cento persone più influenti nell'ambito della comunità ebraica inglese, che conta circa 300mila persone.La scelta è stata in parte determinata dal ruolo che Freer ricopre all'interno dei Conservative Friends of Israel, un potente gruppo di pressione legato al partito di David Cameron che promuove gli scambi fra Regno Unito e Israele. Tutto questo, gli chiedo, è frutto del caso o è figlio di un calcolo elettorale legato alla sua circoscrizione?"Io penso a dar voce alle mie idee, se poi queste coincidono con quelle degli abitanti di Finchley, tanto meglio, ma non sono strumentale", si schermisce Freer.
  "Israele è la terra santa dove affondano anche le nostre radici, e comunque io mi faccio spesso vivo con l'ambasciatore israeliano per criticare le politiche del governo di Netanyahu, e sono contro l'occupazione dei territori palestinesi". "Rimane il fatto", continua Freer, mentre l'avversaria Sackman (che invece è ebrea) fa campagna in una sinagoga qualche isolato più in là, "che se mi chiedessero si scegliere un Paese mediorientale dove andare a vivere non avrei dubbi: fossi bianco o nero, gay o etero, cristiano, buddista o hindu… andrei in Israele". Nell'elenco, giunto quasi al vattelappesca, si dimentica dei musulmani. "Anche loro", si corregge subito, "anche loro stanno meglio lì".
  Un sondaggio suggerisce che il 69 per cento degli elettori ebrei sosterrà i Tories alle elezioni del 7 maggio. Se a livello nazionale conterà poco, potrebbe invece risultare decisivo per Freer a Golders Green.
  Proprio qui, nella zona di Londra che sembra Gerusalemme e si colora per le festività ebraiche di Hannukah, Sukkot e Purim, Freer è stato aggredito e minacciato al grido di "maiale omosessuale ebreo". "Delle vere schiappe", commenta lui ridendo ora che lo spavento è passato, "ne hanno azzeccate solo una su tre".
  Gay, e sposato da gennaio con l'italiano Angelo Crolla, Freer è stato infatti determinante nello spingere il partito conservatore di Cameron verso la legalizzazione dei matrimoni gay.Celebre in questo senso è il suo discorso in parlamento e il suo "se non ora quando", guardando negli occhi i colleghi che avevano definito il provvedimento "nauseante solo all'idea".
  Ora Mike si prepara alla prossima battaglia: riconquistare Westminster, nel nome di Israele.

(The Post Internazionale, 8 maggio 2015)


Gli studenti arabo-israeliani scelgono la lingua ebraica

La quasi totalità degli intervistati in un sondaggio del ministero dell'Istruzione lo ritiene «decisivo per il proprio futuro».

di Maurizio Molinari

GERUSALEMME - Agli studenti arabo-israeliani piace studiare l'ebraico. A rivelarlo è un sondaggio del ministero dell'Istruzione, basato su colloqui con gli studenti arabo-israeliani, secondo il quale il 90 per cento degli intervistati ritiene «importante» conoscere l'ebraico e il 93 per cento arriva a definirlo «decisivo per il proprio futuro». Si tratta di una fotografia della nuova generazione che lascia intendere una forte volontà di integrazione nella società nazionale.
Gli arabo-israeliani sono circa il 20 per cento della popolazione dello Stato ebraico, metà degli alunni afferma di essere entrato in contatto con l'ebraico "fuori di scuola", il 61 per cento «ascolta canzoni in ebraico», il 48 «lo parla fuori della scuola» e il 43 guarda in tv programmi in ebraico mentre la percentuale di chi legge libri in ebraico scende al 39. A conoscere meglio la lingua ebraica sono in particolare gli alunni drusi - con percentuali del 40 per cento superiori agli altri gruppi arabi - mentre nel complesso sono le ragazze ad ottenere migliori risultati a scuola, tanto nelle grammatica che nella lettura. Il gruppo arabo che registra attenzione e risultati più bassi nello studio della lingua ebraica è invece quello dei beduini del Negev.

(La Stampa, 7 maggio 2015)


«Je suis Ilan». Anteprima da red carpet

Serata evento all'insegna della lotta al fondamentalismo con il filosofo Levy.

di Valeria Arnaldi

Ilan Halimi aveva 23 anni quando è stato rapito e torturato per tre settimane dalla 'banda dei barbari" di Youssouf Fofana per essere alla fine massacrato e ucciso perché era ebreo.
Parigi, 29 aprile 2009 - Ruth Hamili, madre di Ilan, si reca in tribunale con il suo avvocato
Buio in sala. Poi, la luce puntata sulla prima fila per immortalare volti noti, ma soprattutto sottolineare voci. "Je suis Ilan", recita Massimo Ghini. "Je suis Ilan", ripete Beppe Fiorello. E così via, da Lucrezia Lante della Rovere a Elena Sofia Ricci, di artista in artista, a spezzare un silenzio che non è, ovviamente, solo quello della platea.
   Si è aperta così, ieri sera, con una sorta di performance corale che ha visto protagonisti alcuni grandi del cinema, la serata dedicata alla lotta ai fondamentalismi, ospitata all'Auditorium della Conciliazione, che sarà trasmessa oggi, in prima serata, su Rai2, con la prima visione tv del film di Alexandre Arcady, "24 jours, la vérité sur l'affaire Han Halimi" seguita da uno speciale dibattito condotto da Nicola Porro con Greta Mauro.
   Molti i nomi noti del mondo di Cultura, Spettacolo e Informazione che hanno voluto prendere parte alla serata, sfilando in un significativo red carpet, che ha assunto quasi il sapore di una simbolica marcia contro le violenze di ogni colore. Tra i primi ad arrivare, Giorgio Pasotti, Federico Scianna, Maria Rosaria Omaggio, Tosca d'Aquino, Ilaria Spada, Irene Ferri e Franco Nero. E ancora, Vinicio Marchioni, Roberta Capua, Sebastiano Somma, Livia Azzariti, Alessandra Martinez, Giulio Scarpati, David Zard e Fulvio Lucisano.
   Ad accoglierli, ideali padroni di casa, Anna Maria Tarantola, presidente Rai, Luigi Gubitosi, direttore generale, Costanza Esclapon, direttore della comunicazione Rai e motore dell'iniziativa, in collaborazione con Progetto Dreyfus.
   Han Halimi fu rapito nel 2006 nella regione di Parigi e torturato per tre settimane perché ebreo, morendo poi per le violenze subite. È stata la sua storia lo spunto per il dibattito che ha portato sul palco la madre, Ruth Halimi, l'Imam della comunità islamica parigina Hassen Chalgoumi, il filoso Bernard-Henry Levy e Gadi Gaj Taché, fratello di Stefano, vittima dell'attentato alla Sinagoga di Roma del 1982.
   E poi, protagonisti del dibattito, l'iman Yahya Pallavicini, presidente Coreis, Riccardo Di Segni, rabbino capo della Comunità ebraica di Roma e monsignor Vincenzo Paglia, presidente del Pontificio consiglio per la famiglia. Un'occasione per parlare di pace e tolleranza. Di più, un approfondimento per educare alla cultura dell'Altro. "Ci limitiamo a fare il nostro mestiere, anzi, la nostra missione, il servizio pubblico", commenta Gubitosi. In sala, anche lo chef Gianfranco Vissani, Giulio Base, Eliana Miglio. Tutti insieme per sostenere i diritti di espressione e credo, più in generale la libertà di essere, sentire e pensare.

(Il Messaggero, 7 maggio 2015)


La verità, finalmente, su Ilan Halimi, martire ebreo

di Giulio Meotti

Va in onda stasera su Raidue alle 21 il film "24 giorni", dedicato al caso Ilan Halimi. Ieri, all'auditorium di via della Conciliazione, c'è stata la prima nazionale della pellicola-choc. Meritevole l'impegno del Progetto Dreyfus, Alex Zarfati, Barbara Pontecorvo, Johanna Arbib e di tanti altri che stasera porteranno sullo schermo di tutti gli italiani questa mattanza antisemita multiculturale.
E' stata una Arancia Meccanica in salsa islamica. E' stato il più terribile episodio di antisemitismo francese dalla Seconda guerra mondiale. La stanza in cui venne tenuto Halimi è stata descritta come un "campo di concentramento fatto in casa". L'omicidio di Ilan era il prodromo di una "tendenza", e i mezzi di comunicazione amano le tendenze. Eppure tutti, il governo, la polizia, i media, cercarono di declassare quell'assassinio rituale a "criminalità" e "disagio suburbano". Nessuno sembrava voler nominare la verità delle cose. Nessuno voleva riconoscere che l'antisemitismo era vivissimo e in grande spolvero. Che era tornato di moda uccidere ebrei in quanto ebrei. E che la Francia, di nuovo, si era voltata dall'altra parte.
"Come ha fatto questo clima disumano a infiltrarsi nel paese che ha dato al mondo libertà, uguaglianza e fratellanza?", ha chiesto Judea Pearl, il padre del giornalista del Wall Street Journal decapitato perché ebreo. E' questa la domanda su Halimi a cui la Francia repubblicana e l'Europa tutta deve ancora una degna risposta.
E la morte di Ilan lancia rimpalli nei nostri giorni. A Bagneux è stata appena vandalizzata la targa che ricorda quel povero ragazzo ebreo dal sorriso contagioso e bruciato vivo perché non sapevano più che farsene. Nemmeno dei morti ebrei si ha rispetto. Che la gente veda, stasera su Raidue.

(Il Foglio, 7 maggio 2015)


Nasce il Cern del Medio Oriente: israeliani e palestinesi insieme nel nome della scienza

di Marzio Bartoloni

 
Si chiama Sesame, il primo acceleratore che entrerà in funzione nel 2016 in Giordania, con la partecipazione anche di Israele, Iran e autorità nazionale palestinese. Il direttore scientifico è un italiano, coinvolti Istituto nazionale di fisica nucleare, la Sapienza di Roma e la Città della scienza di Napoli.
A volte anche la scienza si mette al servizio della pace. È il caso del super-microscopio Sesame in via di completamento in Giordania, vicino ad Amman, e la cui entrata in funzione è prevista per il 2016. Si tratta di una maxi struttura di ricerca, la prima di questo tipo in questa area, tanto da essere ribattezzata subito il Cern del Medio Oriente, come il laboratorio europeo per la fisica delle particelle in Svizzera. Sesame è diventata subito un simbolo di collaborazione internazionale all'insegna della scienza e della pace visto che unisce sotto una stessa partnership scientifica paesi come Israele, Iran e anche l'autorità nazionale palestinese. E con l'Italia che avrà un ruolo fondamentale, sia per gli investimenti (5 milioni in tutto)?che nella parte scientifica, visto che il direttore di questo acceleratore è un italiano.

 Il Cern del Medio Oriente
  Sesame (Synchrotron-light for Experimental Science and Applications in the Middle East) è stato presentato ieri a Roma alla Sapienza. L'Italia contribuisce al progetto infatti con l'Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) e con la prima università romana e con la Città della Scienza di Napoli. Importante anche il contributo economico italiano, con 1,8 milioni già stanziati fra 2013 e 2014 e 500mila euro dal ministero per l'Istruzione, l'Università e la Ricerca per il 2015. «La promessa è di arrivare complessivamente a 5 milioni di euro», ha spiegato il presidente dell'Infn, Fernando Ferroni, presentando il progetto. Italiano è anche il direttore scientifico della struttura, Giorgio Paolucci. Oltre ad Autorità Nazionale Palestinese e Israele, vi partecipano Bahrain, Cipro, Egitto, Iran, Giordania, Pakistan e Turchia. Inoltre, vi collaborano Italia, Francia, Spagna, Brasile, Cina, Germania, Grecia, Giappone, Kuwait, Russia, Svezia, Svizzera, Stati Uniti e Gran Bretagna. Il progetto sarà anche uno stimolo e un'occasione per l'industria locale e avrà un importante impatto sul territorio e con un solido e intenso programma di formazione, che prevede scuole, meeting, borse di studio, e che ha già consentito di sviluppare le capacità scientifiche e tecniche necessarie alla costruzione e all'utilizzo della nuova macchina.

 Le applicazioni
  Sesame è il primo acceleratore del Medio Oriente progettato per produrre la luce di sincrotrone. Al suo interno gli elettroni vengono accelerati a velocità vicine a quella della luce e la radiazione che si ottiene in questo modo funziona come un potentissimo microscopio che permette di studiare strutture infinitamente piccole, come quelle di cellule, proteine e nanomateriali. Le applicazioni riguardano numerosi ambiti: dall'archeologia alla biologia, dalla chimica alla fisica, alla medicina. Nel mondo esistono 60 strutture simili, ma nessuna finora in Medio Oriente. La struttura «è un esempio di scienza al servizio della pace e come ministero degli Affari esteri appoggiamo questa iniziativa», ha detto l'ambasciatore Andrea Meloni. Anche per il presidente di Sesame, Chris Llewellyn Smith dell'università britannica di Oxford, «Sesame è un'organizzazione scientifica al servizio della pace e, come il Cern, è nata sotto l'ombrello dell'Unesco».

(Il Sole 24 Ore, 7 maggio 2015)


Alla sinagoga di El Ghriba

Tra rigide misure di sicurezza il tradizionale pellegrinaggio ebraico in Tunisia.

TUNISI - Si sta svolgendo tra rigide misure di sicurezza il pellegrinaggio ebraico alla sinagoga di El Ghriba, sull'isola tunisina di Djerba, che tradizionalmente si compie in occasione della festività ebraica di Lag Ba-'omer (che quest'anno si celebra il 7 maggio). Centinaia sono i pellegrini giunti sull'isola per visitare la sinagoga più antica del continente africano, un numero nettamente inferiore, comunque, rispetto alle migliaia di persone che prendevano parte al rito negli anni precedenti all'attentato kamikaze dell'n aprile 2002, rivendicato da Al Qaeda e costato la vita a ventuno turisti.
   Quest'anno a far paura è l'instabilità nella regione e il ricordo del recente massacro compiuto il 18 marzo al museo nazionale del Bardo di Tunisi da un commando terroristico che ha ucciso ventiquattro persone, tra le quali ventuno turisti.
   Nei giorni scorsi il Governo israeliano ha sconsigliato ai propri cittadini di recarsi in Tunisia in occasione della festa di Lag Ba-'omer (conosciuta anche come la festa dei fuochi), a fronte di «minacce concrete» di attentati contro israeliani ed ebrei. Il Governo di Tunisi ha invece rassicurato, affermando che non esiste alcuna minaccia per il pellegrinaggio alla sinagoga di El Ghriba. Oltre ai pellegrini tunisini ne sono attesi circa cinquecento da Israele, Italia, Francia e Gran Bretagna. Il pellegrinaggio prevede la visita alle tombe di famosi rabbini. Sull'isola di Djerba vive una delle ultime comunità ebraiche del mondo arabo (millecinquecento in tutto gli ebrei in Tunisia).
   La sinagoga di El Ghriba è stata fondata nel 586 avanti Cristo da ebrei fuggiti dopo la distruzione del tempio di Salomone a Gerusalemme.

(L'Osservatore Romano, 7 maggio 2015)


Israele e la Siria: se da Quneitra non arrivano più solo mele

di Emanuele Rossi

 
Non c'era bisogno di essere un raffinato analista per capire che la crisi siriana ? poi diventata guerra civile ? potesse coinvolgere, a grado di approfondimento variabile, anche Israele. Ufficialmente la posizione del governo di Netanyahu è sempre stata la stessa: "nessun coinvolgimento", ma ci sono una serie di ragioni per cui Tel Aviv vive (e ha vissuto fin dai primi periodi) la situazione in Siria in modo diretto.
   Lungo è l'elenco degli episodi che possono fare da testimonianza: si va dagli scambi di colpi sulle zone contese del Golan, ai bombardamenti in territorio siriano, agli aiuti medici forniti negli ospedali delle città di confine israeliane ? e in quelli da campo che l'esercito (IDF) ha allestito per l'occorrenza ?, e via dicendo. Ci sono ragioni di continuità geografica che spiegano il ruolo israeliano ? la Siria confina con Israele ? e proprio da queste, dalle alture del Golan, vengono anche ragioni di un'avversità lunga decenni. In più gli attori coinvolti in territorio siriano, sono tutti, a vario titolo, nemici dello stato ebraico: oltre ai siriani, ci sono i loro alleati, a cominciare dal deus ex machina Iran, nemico esistenziale degli ebrei, e dalla sua emanazione Hezbollah (partito/milizia sciita libanese, che ha chiuso l'ultima guerra ufficiale con Israele nel 2006, e tutti pensano già a una nuova edizione). Poi ci sono quelli sull'altro fronte, che sono anche nemici Assad, e che su carta, però, sono anche nemici israeliani: vedi per esempio lo Stato islamico (che è nemico di tutti), o altri gruppi più potabili che comunque si accomunano nell'odio profondo contro gli ebrei che è insito nel radicalismo islamico.
   Più o meno. Perché la guerra è guerra, e come è noto ognuno fissa le proprie priorità e di conseguenza combatte ? il pragmatismo, in guerra, lascia la linea dottrinale à la Obama, e prende configurazioni ancora più pratiche.
   In questi giorni una coalizione di gruppi ribelli siriani sta combattendo a Quneitra Jaysh al Jihad, un affiliato locale dello Stato islamico. La coalizione è composta da varie unità, tra cui entità islamiste come la qaedista Jabhat al Nusra, il Fronte Islamico e Jaysh al Islam e Jaysh al Yarmouk. La scorsa settimana hanno preso il controllo del compound con cui Jaysh al Jihad (che vale a dire l'IS) controllava la collina strategica di al Qahtaniha, pochi chilometri a sud-est di Quneitra.
   La cittadina sul Golan è da tempo contesa tra le forze governative e i ribelli; si trova all'interno della fascia di sicurezza istituita dall'Onu dopo la guerra dei Sei Giorni (il conflitto del 1967 con cui nel giro di meno di una settimana Israele si prese, oltre al Golan soffiato alla Siria, la penisola del Sinai e la Striscia di Gaza dall'Egitto, la Cisgiordania e Gerusalemme Est dalla Giordania). Di fatto è una città abbandonata da dopo il '67, ma conserva una vitalità strategica (e simbolica). A fine agosto scorso, fu oggetto dell'offensiva denominata "The Real Promise", con cui i ribelli presero il controllo di gran parte del governatorato: il Quneitra Crossing, non è solo un varco buono per il commercio dei coltivatori di mele drusi siriani, ma è considerato anche un corridoio per arrivare rapidamente a Damasco da ovest (ed è inutile aggiungere che la capitale è uno dei grossi obiettivi degli ant-Assad).
   Israele è stata già coinvolta varie volte in scontri nell'area, mai completamente ufficializzati ? in un attacco di due elicotteri israeliani a gennaio, rimasero uccisi Jihad Mughnyeh, appena nominato responsabile delle operazioni militari sul Golan da Hezbollah e un generale iraniano.
   Da qualche tempo si assiste a un politica molto tollerante di Tel Aviv nei confronti dei ribelli, e il dato è ancora più interessante, se si considera che tra quei ribelli oggetto dell'apertura c'è pure un temibile gruppo affiliato ad al Qaeda (che considera Israele nemico). Gli israeliani ne sopportano la presenza per ragioni di mero interesse: al Nusra è militarmente il gruppo più forte tra i ribelli siriani, e coordina le campagne anti-Assad e anti-IS (di cui è tuttora nemico giurato), che sono pure nemici israeliani. In questo momento è un vettore accettabile per tenere gli altri due pericoli lontani dai confini dello stato ebraico.
   L'infiltrazione di uomini del Califfato sul suolo israeliano potrebbe avere conseguenze tragiche, e dunque i ribelli che li combattono e li tengono lontani dal confine sono ben accetti ? e sembra che venga fornita pure assistenza medica in background. Allo stesso tempo, questi combattenti lottano contro l'esercito di Assad (SAA): Israele non teme le forze di Damasco in quanto tali, ma più che altro ha paura che possano esserci passaggi di armi diretti a Hezbollah, se SAA dovesse riprendersi il controllo dell'area.
   Ultimamente Tel Aviv teme che l'Iran possa utilizzare il conflitto siriano per rifornire, senza troppi scrupoli e in modo relativamente libero, gli alleati libanesi di armamenti importanti, come missili a lunga gittata, che poi potrebbero essere usati contro Israele. Sotto quest'ottica vanno inquadrati i raid aerei della scorsa settimana contro veicoli che trasportavano armamenti (si pensa diretti a Hez). Questi bombardamenti non sono avvenuti sul Golan, ma più a nord: nella giornata di martedì è stato segnalato un altro attacco aereo presumibilmente ascrivibile ad Israele, più lontano ancora dal Golan. Nel mirino è finito un convoglio di armamenti nei pressi di Khartoum. Può sembrare strano che la capitale del Sudan rientri tra i luoghi d'interesse di questa storia, ma il legame tra lo stato africano e la Repubblica Islamica è molto forte fin dai tempi (1989) del presidente sudanese Omar al Bashir: in cambio del sostegno militare, gli iraniani ottengono dagli africani maglie larghe sui traffici, e così le rotte sudanesi sono diventate un'importante via per i passaggi segreti di Teheran (quelli diretti ad Hamas e Hezbollah).
   La neutralità israeliana ribadita in mille occasioni dal premier Netanyahu è un concetto assolutamente relativo, perché ammesso che Israele non voglia interessarsi al conflitto in Siria, è il conflitto che si si è interessato di lui.

(formiche.net, 7 maggio 2015)


Congratulazioni a Leo Messi!

La serata di ieri ha rappresentato l'apoteosi di Leo Messi, stella del Barcellona e del calcio mondiale, che ha messo a sedere i difensori e l'intera squadra del Bayern Monaco nella semifinale di andata di Champions' League. Ma la "pulce" argentina ha altri motivi per gioire: presto diventerà padre per la seconda volta, e al nuovo arrivato sarà assegnato l'impegnativo nome ebraico di "Benjamin"....

(Il Borghesino, 7 maggio 2015)


Troppi interventi dall'esterno, in Medio Oriente ora è anarchia

di Maurizio Molinari

Amr Moussa, ex Segretario generale della Lega Araba , al Cairo: islamisti sostenuti da poteri regionali, ma che errore Bush. Com'è stato possibile far arrivare da Siria e Iraq fino in Libia 3000 uomini benarmati? Bisogna interrogarsi sugli attori esterni.

  «Il mondo arabo è in preda a una stagione di anarchia». È tagliente l'espressione con cui Amr Moussa riassume gli sconvolgimenti in atto fra Mosul e Bengasi. L'ex ministro degli Esteri egiziano ed ex Segretario generale della Lega Araba somma oltre un quarto di secolo di diplomazia e ora si parla di lui come possibile protagonista delle elezioni per il Parlamento. Lo incontriamo all'ambasciata d'Italia, luogo di dibattito fra intellettuali vivaci dall'editore Mohammed Salmawy allo scrittore Alaa Al Aswani, dall'attrice Mona Zaki all'artista Farid Fadel.

- Da dove nasce questa stagione di anarchia?
  
«Dagli interventi di troppi attori, esterni e interni. In Occidente c'è chi ha lavorato per questo, chi reagì alle proteste del 2011 parlando di "anarchia creativa" e di un "nuovo Medio Oriente". Ma vi sono anche attori interni, penso a Turchia e Qatar nel loro approccio al Califfato. Dentro e fuori il Medio Oriente c'è chi tenta di ridisegnare la regione a proprio vantaggio».

- Quale aspetto delle molte crisi in atto teme di più?
  
«La faida fra sciiti e sunniti. In questa regione sappiamo che Imperi e occupazioni prima o poi hanno fine. Ma quanto sta avvenendo fra sunniti e sciiti è diabolico, ci minaccia tutti, è il pericolo più grande. In Egitto re Faruk sposò la persiana Fawzia figlia dello Shah Mohammed Reza Pahlevi. Siamo cresciuti senza sapere o chiederci se il vicino di casa era sciita o sunnita».

- Cosa ha innescato la sanguinosa guerra inter-religiosa?
  
«L'intervento del 2003 in Iraq. È stato allora che l'America ha fatto leva sugli sciiti contro i sunniti per deporre Saddam dando vita a un'occupazione che ha alimentato tali divisioni e poi, complici le sanguinarie politiche del premier iracheno Al-Maliki, ha contagiato la Siria. Il Daesh (acronimo arabo di Isis, ndr) e il suo Califfato sono il risultato di questa faida».

- Che con i jihadisti in Libia bussa alle porte dell'Egitto...
  
«Anche qui dobbiamo interrogarci sugli attori esterni. Come è stato possibile far arrivare da Siria-Iraq fino in Libia 3000 uomini ben armati, a soli 50 km da noi? Chi ha pagato questo?».

- Vi sono Stati intenzionati a ridisegnare la mappa del mondo arabo?
  
«Bisogna dire con chiarezza che un nuovo Sykes-Picot è impossibile. Eppure c'è chi pensa di farlo. C'è una risoluzione in discussione al Congresso Usa che ipotizza forniture di armi a sunniti e curdi senza passare per Baghdad. Riprende l'idea del vicepresidente Biden di sostituire l'Iraq con tre Stati etnici. È un ulteriore contributo all'anarchia rappresentata dal moltiplicarsi di "No-State Actors", soggetti non statuali, come una recente risoluzione dell'Onu li definisce».

- Quanto conta il negoziato in corso sul nucleare dell'Iran?
  
«Sono a favore del negoziato e spero che porti a un accordo fra Occidente e Iran. Ma subito dopo servirà un'intesa sulla denuclearizzazione del Medio Oriente, coinvolgendo Israele. Altrimenti, altri Stati acquisiranno il nucleare».

- Come porre fine all'attuale fase di anarchia?
  
«Non dobbiamo dimenticarci che le rivolte iniziate nel 2011 nel mondo arabo furono sollevazioni contro il malgoverno. Non possiamo tornare allo status quo. Servono Costituzioni capaci di interpretare il XXI secolo. E serve una nuova visione della regione, espressa dagli Stati che ne fanno parte».

- A cosa si riferisce in particolare?
  
«Nel discorso di insediamento, Al Sisi si è riferito all'Egitto come nazione non solo araba e africana ma anche parte della Comunità del Mediterraneo. Nessun altro presidente egiziano lo aveva fatto. Servono nuove forme di cooperazione nel Mediterraneo per accrescere prosperità e sicurezza. Per questo ho apprezzato ciò che ha detto il vostro premier, Renzi, al summit di Sharm».

- Quale futuro vede per la Lega Araba?
  
«Fra gli attori più attivi in questa fase ci sono Iran e Turchia, hanno interessi propri. Dobbiamo chiederci se questa regione non ha bisogno di forme di aggregazione più ampie. Penso a una Lega Araba allargata, includendo Iran e Turchia, per gestire assieme le crisi aperte e ricomporle, ponendo fine all'anarchia distruttiva».

(La Stampa, 6 maggio 2015)


Israele, testato nuovo sistema di propulsione a razzo

Il ministero della Difesa israeliano ha testato un nuovo sistema di propulsione a razzo da una base nel centro del Paese. La notizia, riferita dai media, è stata confermata da fonti della difesa secondo cui quel lancio era previsto da tempo e «si è svolto in maniera regolare».
Il missile si è spinto in cielo accompagnato da un forte boato, alle ore 7.30 locali, quando le città sono già abbastanza affollate. La sua scia è stata notata in una vasta area del Paese, da Ashdod a Sud fino a Petach Tikwa, a nord di Tel Aviv. Finora non sono stati forniti dettagli sul missile che, secondo alcuni media, sarebbe utilizzato anche per il lancio in orbita di satelliti.

(La Stampa, 6 maggio 2015)


Ora Hamas se la deve vedere con lo Stato islamico a Gaza

I baghdadisti annunciano un ultimatum (scade oggi) contro il gruppo palestinese che "opprime gli abitanti della Striscia".

di Daniele Raineri

ROMA - Oggi scade un ultimatum di tre giorni contro Hamas annunciato da un gruppo palestinese che si fa chiamare "I sostenitori dello Stato islamico a Gerusalemme" e fa riferimento esplicito allo Stato islamico, il gruppo comandato da Abu Bakr al Baghdadi che ha già fazioni satellite in Nigeria, Egitto, Libia e Yemen. L'ultimatum chiede la liberazione di alcuni palestinesi salafiti - appartenenti quindi a un frangia particolarmente rigida dell'islam - arrestati nei giorni scorsi da Hamas dentro la Striscia (non che Hamas non sia rigida; ma in tutto questa durezza ci sono differenze, se non altro di tattica e visione militare). L'ultimatum dello Stato islamico è stato annunciato poche ore dopo una esplosione contro un comando della polizia di Hamas. Un account su Twitter legato al gruppo dice che i palestinesi di Gaza devono sopportare "arresti, torture e fughe dalle loro case" per colpa di Hamas. Un video dello stato islamico messo lunedì su internet mostra un combat- tente a Yarmouk, il quartiere palestinese di Damasco, in Siria, mentre dice: "Hamas sostiene di proteggere quella gente, ma in nome di Dio, non hanno nulla a che vedere con i nostri musulmani in Palestina".
   L'organizzazione che dal 2007 governa la Striscia di Gaza arresta salafiti a intervalli regolari per evitare di essere contestata da gruppi islamisti che si pongono fuori dalla sua autorità. E' successo anche negli anni passati ed è una conseguenza (anche) della tensione tra al Qaeda - che ispira i gruppuscoli salafiti - e Hamas, che invece ha per modello la Fratellanza musulmana. Il capo di al Qaida, l'egiziano Ayman al Zawahiri, in passato ha accusato la Fratellanza e Hamas di accettare lo strumento democratico del voto e quindi di tradire i princìpi del vero islam, che non tollera poteri superiori sull'uomo che non siano quelli di Dio. Inoltre, per uno di quegli intrecci mediorientali che ingarbugliano l'intera situazione, Hamas riceve finanziamenti dall'Iran, quindi dal potere sciita, e per questo risulta ancora più odiosa agli occhi dei jihadisti sunniti Quest'anno però, a differenza che in passato, il fermento salafita sta prendendo un colore diverso e potenzialmente anche più pericoloso, con la conversione al Califfato di alcune cellule nella Striscia, che ora espongono la bandiera di Baghdadi, pubblicizzano i contatti che hanno con alcuni combattenti in Siria e Iraq e organizzano raccolte fondi per espandersi dentro alla Striscia. Secondo un sondaggio di marzo del Palestinian Center for Policy and Survey Research, l'86 per cento degli abitanti di Gaza pensa che "lo Stato islamico non rappresenta il vero islam". E' ancora molto prematuro parlare di "competizione" fra i due gruppi come fa Foreign Policy, ma in passato sottovalutare la capacità di penetrazione e persuasione dello Stato islamico s'è dimostrato un errore.

(Il Foglio, 6 maggio 2015)


Comunità ebraica di Roma al voto per il dopo Pacifici. Quattro in corsa, tre le donne

II 14 giugno la comunità ebraica rinnoverà il proprio consiglio (da cui uscirà il presidente) e anche la propria Consulta.

di Gabriele Isman

Tre donne e un uomo in corsa per la presidenza, ma non è l'unica sorpresa nelle liste per le elezioni del consiglio della comunità ebraica romana che si terranno domenica 14 giugno. Saranno le prime consultazioni dal 1993 senza l'attuale presidente Riccardo Pacifici, giunto al limite dei tre mandati. Ieri si sono chiusi i termini per presentare le liste, che saranno quattro. L'ultima a completare le formalità è stata "Israele siamo noi" che candida come presidente la giornalista ed ex parlamentare Pdl Fiamma Nirenstein. «Sono stata consigliere a Roma quasi 30 anni fa, e così ho anche detto a Pacifici che poteva esservi un progetto comune per queste elezioni, ma lui aveva già la sua lista e la sua candidata», dice. Con lei, tra i vari nomi, anche Raffaele Pace, in passato vicino all'ex sindaco Gianni Alemanno. ma non siamo una lista di destra - garantisce - . lo credo che siano da curare settori come la scuola e il sociale: vorrei una comunità ebraica ancora più agguerrita, fiera di sé, più al centro dell'innovazione..
   La candidata sostenuta da Pacifici è l'attuale assessore alla Scuola Ruth Dureghello nella lista "Per Israele" dove corrono diversi esponenti della giunta attuale come Gianni Ascarelli, Ruben Della Rocca, Giacomo Moscati, Giordana Moscati oltre a Serena di Nepi curatrice della mostra su Elio Toaff e Gadiel Gaj Taché, fratello del piccolo Stefano ucciso nell'attentato alla Sinagoga nell'ottobre 1982. «Siamo il gruppo di persone che conosce meglio la comunità - spiega Dureghello - perché molti hanno già lavorato all'interno, assieme a volti giovani. Si, siamo il nuovo che continua insieme a costruire».
   La terza donna a correre per la presidenza post Pacifici è Claudia Fellus, esperta nei settori della sanità e della scuola e per 28 anni moglie di Mario Pirani scomparso da poche settimane. La sua lista "Binati" è tutta la femminile: «Tre donne candidate? È già una nostra vittoria. Siamo giovani, imprenditrici, madri, mogli che in una giornata fanno mille cose: è questo il nostro ritratto». E tra i suoi nomi anche Stella Serrnoneta, nipote di Angelo detto Baffone, anima del circolo Ragazzi del '48 ed estremamente popolare nella comunità.
   L'unico uomo a correre per la presidenza è l'imprenditore Maurizio Tagliacozzo con la lista "Menorah" che comprende anche Guido e Roberto Coen, Fabrizio Fiano, David Meghnagi, Ruben Spizzichino e Serena Terracina. «Spero - dice il candidato presidente - che la comunità sia così moderna da non vedere il genere come un fattore elettorale. Dobbiamo concentrare tutte le energie nelle scuole e abbassare l'esposizione mediatica perché c'è bisogno di un momento di introspezione, di riflessione».

(la Repubblica, 6 maggio 2015)


L'Islam e San Nicola

Il pasticcio islamico al corteo di San Nicola.

di Enrica Simonetti

Non sappiamo ancora se si tratti di un «pasticcio» o di una folata di scirocco carica di pace. Certo è che un piccolo caso interreligioso nasce in queste ore all'ombra di San Nicola e non poteva essere diversamente, dato che il Nicola di cui parliamo, santo patrono di Bari, si pone proprio tra Oriente e Occidente.
   Ma partiamo dai fatti: domani sera sfila a Bari il corteo storico di San Nicola, la cui regia quest'anno è affidata a un uomo di cinema e di teatro come Sergio Rubini. Il quale ha pensato di inserire comparse non solo baresi doc, ma pure cittadini ucraini, russi, rumeni, etiopi, bulgari, armeni, eritrei.
   E gli islamici? Ci saranno anche loro, dopo qualche ora di tensione non dovuta - udite udite - a motivi dottrinali, bensì al fatto che la richiesta di individuare comparse non sia materialmente giunta ai responsabili della Comunità islamica. Insomma, San Nicola non avrebbe fatto il miracolo di far giungere la mail o la telefonata all'indirizzo giusto, provocando per qualche ora sintomi di polemica, poi spenta e sfociata per fortuna in pace aperta. E così trionfa l'ecumenismo, trionfa il vero spirito mediterraneo di Nicola: sì, gli islamici saranno domani al corteo storico. «È vero - ha detto il vicepresidente della Comunità islamica di Puglia, Sharif Lorenzini - nella nostra religione non si adorano i santi ma gli islamici di Puglia avrebbero gradito e sarebbero stati onorati di prendere parte alla rievocazione della traslazione delle ossa del Santo di Myra, in nome di quel dialogo interreligioso al quale la stessa Comunità islamica di Puglia non si è mai sottratta» .
   Il santo è di tutti, la tradizione pure, la storia e le leggende appartengono al tessuto di una regione di un Paese e non ci sono muri nel nostro mare Mediterraneo. Figuriamoci poi se può dividere il mondo un santo internazionale come il Nicola da Myra, che da secoli viene raffigurato con il volto scuro e che sempre da secoli - secondo la tradizione - risulta nato a Patara, in Turchia, in una terra in cui mare e sole si baciano come fanno qui da noi. Una terra a cui siamo legati da ciò che hanno scritto gli storici nicolaiani, con le tante leggende legate ai miracoli e a quell'avventuroso «furto» di reliquie dalla città di Myra.
   Viaggiare, pure soltanto con la mente e con i libri, serve. Anche in occasione di una festa patronale, se questa diventa «preghiera comune», o per chi voglia coglierne il lato laico, un evento di coesione cittadina, sociale, internazionale. Se poi si viaggia anche in senso geografico, si scoprono altre incredibili verità. Myra, da dove provengono le reliquie venerate a Bari da pellegrini di mezzo mondo, è l'attuale Demre, una vera città islamica, in cui è affascinante camminare vedendo le scritte in turco che sovrastano le teste delle donne avvolte nei foulard neri. La religione è diversa, ma tutti conoscono Nicola. Chi scrive queste righe non dimenticherà mai la «spedizione» in barca a vela compiuta nel 2008, da Bari a Myra, sulle orme dei 62 marinai per il progetto «Ex Oriente lumen» realizzato con il fotografo Vincenzo Catalano e voluto dalla Basilica di San Nicola. Ad ogni tappa, sia su piccoli scogli della Grecia ortodossa che nelle città e nei porti della Turchia musulmana, abbiamo trovato tracce di quel Nicola: chiese o targhe, nomi di isole o di barche. Abbiamo navigato tra mari e religioni, senza mai trovare muri. Appunto. Non esistono.

(La Gazzetta del Mezzogiorno, 6 maggio 2015)


Su la Repubblica di ieri la situazione tra Rubini e la comunità islamica si presentava in modo diverso. Il regista aveva respinto la richiesta islamica in nome della religione cattolica (gli islamici non adorano i santi), poi ha cambiato parere ed ha accettato la richiesta in nome di un’altra religione: la multiculturalità. Ma LA genuina fede cristiana basata sugli scritti biblici donati da Dio al mondo attraverso il popolo ebraico non ha nulla a che vedere con queste forme di multicolore paganesimo. M.C.


Serata speciale rai sulla morte del giovane Ilan Halimi, torturato e ucciso perché ebreo

Giovedì 7 maggio su Rai2. Una serata dedicata alla tragica vicenda di Ilan Halimi, il giovane francese rapito nel 2006 e torturato per tre settimane fino alla morte, solo perché ebreo. In prima visione tv sarà trasmesso il film di Alexandre Arcady - "24 jours, la vérité sur l'affaire Ilan Halimi".

 
Una serata nel nome della lotta all'antisemitismo e a tutti i fondamentalismi, ripercorrendo la tragica vicenda di Ilan Halimi, il giovane francese rapito nel 2006 e torturato per tre settimane fino alla morte, solo perché ebreo. "Je suis Ilan", questo il nome della serata speciale, andrà in onda giovedì 7 maggio su Rai2 a partire dalle 21,15 con la prima visione tv del film di Alexandre Arcady - "24 jours, la vérité sur l'affaire Ilan Halimi".
  A seguire lo Speciale Virus (@VirusRai2) con Nicola Porro dall'Auditorium Conciliazione di Roma per un dibattito sulla tolleranza e il dialogo che vedrà protagonisti Imam Yahya Pallavicini, presidente Coresi, comunità araba italiana, Riccardo Di Segni, rabbino capo della Comunità ebraica di Roma e Monsignor Vincenzo Paglia, presidente del Pontificio consiglio per la famiglia. Tra gli ospiti anche la mamma di Ilan, Ruth Halimi, l'esponente della comunità araba di Parigi Imam Hassen Chalgoumi, il filoso Bernard-Henry Levy e Gadi Gaj Taché, fratello di Stefano, vittima dell'attentato alla Sinagoga di Roma del 1982.
  Il film "24 jours" racconta la tragica storia di Ilan Halimi, un giovane rapito e imprigionato alla periferia di Parigi, nella zona di Bagneux, il 20 gennaio 2006 solo perché ebreo, torturato senza tregua per ventiquattro giorni. Scoperto nudo ed agonizzante il 13 febbraio 2006 lungo un binario ferroviario a Sainte-Geneviève-des-Bois nel Dipartimento di Essonne, è deceduto all'ospedale poco dopo l'arrivo. L'autopsia, effettuata il 14 febbraio, ha rilevato bruciature sull'80 per cento del corpo, numerosi ematomi e contusioni, una ferita da taglio alla guancia e due alla gola. A causare la morte di Halimi, sottolineano i medici, non è stato un colpo solo ma l'insieme delle violenze e delle torture subite durante i 24 giorni e anche la fame e il freddo (è stato tenuto nudo in un appartamento senza riscaldamento in pieno inverno).
  La Rai, dunque, in collaborazione con il progetto Dreyfus, scende in campo contro tutti i fondamentalismi in favore del dialogo e della pace. "Un pugno allo stomaco in perfetto stile Virus" dice Nicola Porro nel corso della conferenza stampa, convinto che "guardare le immagini di un orrore vuol dire conoscere per deliberare". Il direttore generale Luigi Gubitosi sottolinea: "Ci limitiamo a fare il nostro mestiere, anzi: la nostra missione, il servizio pubblico. La paura del diverso e l'odio nascono dall'ignoranza e il ruolo della Rai deve anche essere quello di diffondere la cultura dell'inclusività per stimolare ragioni che non partoriscano più mostri".

(RaiNews, 5 maggio 2015)


Gli ebrei, l'egoismo e la solidarietà

di Barbara Di Salvo

Sono tra i primi ad essere intervenuti in aiuto del Nepal. Secondo la Cnn, Israele ha inviato subito 260 soldati, quasi 100 tonnellate di aiuti umanitari ed attrezzato un ospedale con 122 medici, infermieri e paramedici. Gli altri Paesi: Regno Unito, 68 persone, Cina 62, Stati Uniti 54, Corea del Sud 40, Taiwan 20, Italia 15 e Francia 11. Paesi arabi non pervenuti.
  Israele ha surclassato tutti per numeri e rapidità di azione, soprattutto in proporzione al numero di abitanti, solo 8 milioni, dello Stato più insultato del mondo, ma capace di dimostrare una solidarietà che i loro detrattori nemmeno si sognano e che non stupisce solo chi comprende come il popolo ebraico sia da millenni la migliore espressione dell'egoismo sociale. È la sua forza, quella che lo ha fatto sopravvivere alle persecuzioni ed anche, temo, il motivo per cui gli altri popoli hanno cercato di sterminarlo.
  È il popolo che meglio di ogni altro ha capito che gli egoismi dei singoli non dovessero essere repressi in favore di una società fine a se stessa, ma che al contrario fosse la società ad essere al servizio dei suoi membri perché l'unica che ci permette di soddisfare tutti gli egoismi. L'egoismo "sociale" è, infatti, una forma strumentale a quelli interiori ed esteriori, nato negli uomini per soddisfare il loro istinto di sopravvivenza in tutte le forme in cui si è sviluppato nei millenni. È ciò da cui prende vita la suddivisione dei compiti, sperimentata con successo nella cellula fondamentale della famiglia e via via allargatasi a tribù, nazioni, continenti, fino ad abbracciare l'intero genere umano.
  È paradossale, peraltro, che coloro che più avversano l'egoismo siano i primi ad esaltare la preminenza della società sul singolo, senza rendersi conto che senza egoismo la società non servirebbe a nulla, non sarebbe forse neppure nata e non si sarebbe sviluppata come oggi la conosciamo. Sono gli egoismi a renderla indispensabile. È tutta questione di tempo, capacità e libero scambio. Perch? la societ? funzioni, infatti, tutti i suoi membri devono fare la loro parte, suddividendosi i compiti, producendo quei beni e fornendo quei servizi utili a soddisfare i desideri degli altri membri. Se io occupo il mio tempo a produrre abiti, devo avere modo di acquistare con il ricavato il cibo, le scarpe, e tutti i beni che soddisfano i miei bisogni, altrimenti salta il sistema.
  Sono ancora gli ebrei che, meglio di ogni altro popolo, hanno saputo coniugare e favorire gli egoismi dei singoli, ma andare oltre i loro individualismi, giungendo a comprendere l'immensa forza dell'unione di un popolo che vale molto di più della somma dei suoi membri. Il singolo non è più solo un individuo, ma parte integrante di un organismo che acquista vita autonoma. L'istinto di sopravvivenza si espande, così, dall'individuo alla società di cui fa parte, dalla più piccola associazione fino all'intero genere umano, e lo induce a fare quanto possibile per garantirne l'immortalit?.
  Che sia stata la cultura millenaria, la combinazione tra spirito di sopravvivenza dei memi e dei geni, collegherei piuttosto l'istinto, tutto umano, di aiutare il prossimo alla consapevolezza di far parte di un organismo vivente, una società. Al fine di garantirne la perpetuazione, non si può che partire allora dalla sopravvivenza di tutti i suoi componenti. Ognuno sa che il suo benessere dipende da quello di ogni parte del suo corpo, che il dolore ad un dito implica la sofferenza dell'intero essere umano, così come un'infezione non curata può portare alla setticemia, un'arteria ostruita può causare un infarto. Ugualmente, la perdita di un parente, di un figlio, è una tragedia per l'intera famiglia, in cui i membri sono indotti ad aiutarsi per garantire la sopravvivenza di geni e memi comuni, della cultura e della storia che li uniscono. Ebbene, allo stesso modo, il singolo sente di non essere solo un individuo, ma parte di una comunità vivente, che può sopravvivere solo se tutti i componenti collaborano tra loro, la fanno funzionare, permettendo di sopravvivere a tutti i memi e geni dei loro membri.
  La principale differenza tra un individualista ed un egoista è tutta in una rinuncia, perché il vero egoista è colui che, grazie all'egoismo sociale, rinuncia all'appagamento autonomo di un egoismo e condivide con altri le proprie risorse (tempo, energie o beni), per il perseguimento in forma associata degli egoismi di ciascuno, che siano gli stessi a cui ha rinunciato, oppure altri a cui dà un superiore grado di priorità. Si tratta, dunque, di una rinuncia relativa perché ciò che mettiamo in comune ci viene restituito in proporzione maggiore. In realtà è un investimento di un egoismo attuale in vista del perseguimento di un egoismo ulteriore o successivo di maggior valore.
  Perché una società possa, quindi, dirsi positiva da un punto di vista egoistico, il risultato, l'appagamento degli egoismi, ottenuto da ogni membro deve essere superiore a quello che avrebbe ottenuto impiegando le proprie risorse per se stesso. In caso contrario, o si ha uno sfruttamento ingiustificato delle risorse altrui, oppure la società è in perdita e non ha nessuna ragione di esistere, meglio scioglierla. È il principio base dell'egoismo sociale, che può essere applicato a qualsiasi attività umana, ma la cui valutazione non può che essere soggettiva, perché solo il singolo è in grado di decidere a quali egoismi rinunciare, quali perseguire, quale ordine di priorità dar loro e valutare, per ogni caso concreto, se il risultato ottenuto lo appaghi in misura superiore o inferiore a ciò a cui ha rinunciato. E lo può fare solo attraverso un libero scambio, senza alcuna imposizione da parte dello Stato, che si deve occupare solo di far rispettare le regole, non certo di sottrarre ad alcuni per dare ad altri.
  Siamo noi occidentali, soprattutto europei, forse per colpa dell'assistenzialismo cattolico, ad aver stravolto il significato di altruismo, mettendolo in contrapposizione con l'egoismo, dimenticando che invece nasce proprio dall'egoismo sociale, perché è funzionale al benessere di tutti. Se si contrappone, infatti, la società al singolo è inevitabile che questi regredisca allo stadio pre-sociale e ricominci ad essere un individualista che non si cura del prossimo perché non ha più nessun motivo egoistico per farlo. Quando si perde il sentimento di appartenenza ad un popolo, ad una nazione, ad una Patria, viene meno l'egoismo sociale anche nei confronti del genere umano e la solidarietà verso chi non riconosciamo più come parte del medesimo organismo.
  E la colpa, mi spiace, non è dell'individualista, ma di chi lo ha reso tale obbligandolo a preferire gli egoismi altrui al proprio, perché ha violato il principio base dell'egoismo sociale ed il singolo non ha più nessun interesse al benessere di una società che non gli dà nulla in più, ma al contrario gli toglie risorse contro la sua volontà per regalarle a chi non ha fatto nulla per meritarsele. Cianciare di solidarietà, di accoglienza, portando all'esasperazione un popolo ed accusarlo di razzismo solo perché chiede di essere tutelato è quanto di peggio si possa fare per distruggere una nazione, annientarne la naturale predisposizione ad aiutare il prossimo, quando è veramente in difficoltà e non quando se ne vuole solo approfittare. Anteporre gli interessi delle minoranze o degli estranei a quelli della maggioranza dei membri di un popolo che si è unito proprio per poter soddisfare al meglio i propri bisogni significa stravolgere il concetto stesso di nazione. E permettersi di modificare impunemente l'inno nazionale non è altro che l'ennesima dimostrazione di una totale mancanza di rispetto verso un popolo, la sua storia ed il sentimento di Patria, quale territorio lasciatoci in eredità dai nostri padri a prezzo di enormi sacrifici.
  Perché diciamoci la verità, queste società politicamente corrette, stataliste, dove lo Stato, ossia i potenti di turno, si occupa di tutti i bisogni dei suoi sudditi dalla culla alla tomba, sembrano una bella utopia che affascina tanti, ma è solo cecità dettata dalla pigrizia, perché non possono né potranno mai funzionare. È facile fare i parassiti, aspettarsi che lo Stato elargisca pensioni, appalti, sussidi, stipendi, contributi come se le risorse piovessero dal cielo. Peccato che le risorse vengano tolte ai pochi che continuano a produrre e vedersi sottrarre impunemente il frutto del proprio lavoro non con un libero scambio, ma con un furto legalizzato sotto forma di tasse esorbitanti senza ottenere nulla in cambio. E davvero vi aspettate solidarietà da un derubato? Davvero vi stupisce che ad un certo punto torni all'individualismo e mandi al diavolo la società che lo ostacola, lo deruba anziché aiutarlo?
  L'altruismo non si impone, lo si incentiva solo rispettando gli egoismi dei singoli ed il principio base dell'egoismo sociale, solo allora le persone potranno tornare a credere nella società, a partire dalla propria, e poter quindi riscoprire la forza della solidarietà anche nei confronti di chi non fa parte della stessa società. Se uccidi un popolo, se distruggi l'idea stessa di nazione, se dimentichi perché quei membri stanno insieme da secoli, se non da millenni, se anteponi gli interessi degli estranei a quelli di quel popolo, non avrai niente se non la disgregazione della società e l'individualismo.
  Non è un caso allora che il popolo ebraico abbia saputo sopravvivere alle persecuzioni proprio di chi non tollerava che gli ebrei non si annullassero nelle società in cui vivevano, che mantenessero la loro coesione senza divenire sudditi sottomessi ai potenti di turno, perché la forza della loro unione ha sempre spaventato chi non era in grado di crearla al proprio interno. Un popolo che trova in se stesso la forza di crescere e di prosperare è un popolo che non si sottomette ai potenti e che mostra un pericoloso esempio per gli altri cittadini, che potrebbero comprendere anche la propria forza e ribellarsi alla sudditanza. Molto più facile elargire briciole, soggiogare con l'assistenzialismo, impigrire ogni spirito egoistico nei propri cittadini, accusarli di mancanza di altruismo se non si fanno derubare del frutto delle proprie fatiche, affinché non comprendano di non essere liberi e magari ringrazino pure per quel poco che ricevono in cambio. Non stupisce affatto, quindi, che in Nepal il popolo ebraico abbia surclassato in solidarietà tutti i professionisti dell'assistenzialismo.

(L'Opinione, 6 maggio 2015)


Microsoft compra l'israeliana N-trig per gli stylus del Surface 3

Dopo anni di collaborazione, Redmond ha deciso di acquisire definitivamente l'azienda di Kfar Saba, che già realizzava penne e controller per i tablet Surface. L'accordo economico dovrebbe aggirarsi intorno ai trenta milioni di dollari e permetterebbe a Ms di espandere ulteriormente lo sviluppo delle tecnologie in questo settore.

La penna non muore mai. Anche se oggi è rinata in versione digitale, senza cartucce d'inchiostro, è comunque destinata a rimanere ancora a lungo nelle nostre mani. Soprattutto in quelle dei possessori di tablet, che trovano più comodo utilizzare le apposite penne per prendere appunti, piuttosto che digitare alla velocità della luce su imprecise e scomode tastiere elettroniche. Microsoft lo sa bene ed è per questo che ha deciso di comprare l'azienda israeliana N-trig, con cui ha avviato diverse collaborazioni ormai da molti anni. La società di Kfar Saba, infatti, forniva già a Redmond le tecnologie implementate nei tablet Surface Pro 3. In effetti, perché continuare a spendere per le licenze d'utilizzo quando è possibile acquistarle una volta per tutte e chiudere così la partita?
La cifra si aggirerebbe intorno ai trenta milioni di dollari e le trattative si sarebbero dilungate per mesi, con quotazioni societarie differenti a seconda delle fonti. Il quotidiano israeliano Haaretz, lo scorso febbraio, puntava a un valore massimo di dieci milioni. Mentre Calcalist ne aveva sparati addirittura duecento.
N-trig ha sviluppato finora sia il pennino che il controller necessari al funzionamento dell'hardware, con il secondo in grado di abilitare l'utilizzo di penne digitali multi-touch e dotato di una tecnologia di riconoscimento avanzato del palmo della mano. Il chip è supportato dai sistemi Windows, Android e iOs. A quanto dichiarato da N-trig, la sua tecnologia implementa oltre cento brevetti specifici, che consentono di migliorare le performance di scrittura e permettono un'esperienza più naturale.
I nuovi tablet Surface 3 di Microsoft, da poco svelati al mondo, verranno commercializzati a partire dalla prossima settimana e saranno già dotati sia della penna N-trig che del controller dedicato. Il nuovo dispositivo di Redmond ha uno schermo da 10,8 pollici, con risoluzione massima di 1.920 per 1.280 pixel, e un processore Intel Atom X7-Z8700 da 1.6GHz.

(ictBusiness.it, 5 maggio 2015)


"L'accoglienza è una mitzvà"

Le tragedie del mare e il fermo impegno dell'ebraismo italiano a presidio dei valori della solidarietà e della fratellanza. L'educazione all'accoglienza e al rispetto. Il dialogo, la sfida culturale e l'impegno per un'umanità più consapevole. Questi i temi dell'intervista che il presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna ha rilasciato all'autorevole settimanale berlinese Jüdische Allgemeine, considerato tra le testate ebraiche più autorevoli del mondo e tradizionalmente molto ascoltato dalla Cancelleria federale, che la riporta integralmente sulla sua prima pagina sotto il titolo "L'accoglienza è una mitzvà".

- Come reagisce la comunità ebraica italiana alle tragedie dei rifugiati nel Mediterraneo?
Una nuova tragedia del mare, a pochi chilometri dalle coste italiane. Sangue innocente, vite e speranze di libertà infrante. Viviamo questi avvenimenti con dolore e commozione nel ricordo delle vittime, sollecitando un impegno concreto affinché episodi analoghi non abbiano a ripetersi in futuro. Siamo inoltre inorriditi nei confronti di chi non perde l'occasione di speculare su questa tragedia riversando il proprio rancore xenofobo sui media e nell'opinione pubblica.

- C'è un sentimento di vicinanza con il destino dei rifugiati sulla base dell'esperienza vissuta degli ebrei?
  I tragici fatti di cronaca di questi mesi evocano, nei diversi scenari di crisi, un passato terribile che ha avuto negli ebrei le sue prime vittime. Ci sono forti analogie con altre tragedie del passato: ideologie di morte, un clima di terrore, intere comunità perseguitate in ragione della loro etnia e religione. Oggi come allora tutti i cittadini democratici sono chiamati a far sentire la loro voce e a non volgere lo sguardo altrove. L'indifferenza non è un'opzione contemplabile.

- Esistono in Italia iniziative ebraiche per prendersi cura dei rifugiati?
  Nel mondo ebraico l'accoglienza è un valore sacro e da sempre, nelle nostre Comunità, ci si adopera per venire incontro a chi è in condizioni di disagio. Penso ad esempio ad alcune recenti iniziative, come a Firenze, dove la Comunità ha aperto le porte di un proprio immobile per accogliere alcuni immigrati giunti dall'Africa. La solidarietà deve essere un imperativo categorico, specialmente in questo momento di crisi. E gli ottimi rapporti intrattenuti con alcune sperimentate realtà del mondo del volontariato sia religioso che laico che hanno grandi competenze sul tema fanno sì che si possano raggiungere risultati concreti.

- Come si potrebbe fare per impedire queste tragedie?
  Serve una maggiore incisività e una maggiore cooperazione tra gli Stati. Agire affinché la crisi libica possa trovare una soluzione e allo stesso tempo usare il pugno di ferro contro gli scafisti e le loro vergognose speculazioni sulla pelle di migliaia di innocenti. L'Italia non può essere lasciata da sola ad affrontare situazioni di questa portata e drammaticità.
Cosa dovrebbero fare, secondo Lei, i politici europei per impedire il ripetersi queste disgrazie?
Prendere consapevolezza che è una sfida che riguarda tutti quanti, nessuno escluso. Il Mar Mediterraneo è il mare d'Europa e una culla di civiltà. Esiste l'obbligo morale di impegnarsi affinché questi lutti non vengano più pianti e affinché la regione torni ad essere sicura.

- L'Italia è il paese dell'Unione europea che riceve il maggior numero di rifugiati provenienti dall'Africa. Che effetto ha l'alto numero di rifugiati sulle comunità ebraiche?
  Nessun effetto. Sono persone cui guardiamo con profondo rispetto ed empatia.

- È necessario cambiare il diritto all'asilo, rendendolo meno difficoltoso?
  È una strada possibile. Ma naturalmente devono essere i responsabili politici ad esprimersi con proposte e progettualità efficaci. Ricordiamoci però che sarebbe di grande aiuto applicare rigorosamente le norme che già esistono utilizzando le strutture in maniera snella ed efficace.

- La congiuntura in Italia continua a non essere buona. E spesso crisi e tolleranza/apertura sono due temi che non vanno d'accordo. Con quali iniziative proprie o anche di concerto con altre organizzazioni religiose la Comunità ebraica italiana lavora per sviluppare il tema dell'accoglienza e del rispetto per l'altro?
  In genere le iniziative del mondo ebraico, siano esse locali o nazionali, siano esse più squisitamente culturali o meno, sono finalizzate non solo a divulgare quelle che sono le caratteristiche peculiari di questa realtà ma anche i valori universali che la caratterizzano. In quest'ottica ad esempio i temi dell'integrazione e del dialogo sono al centro di vari progetti sviluppati nelle scuole italiane, grazie anche all'eccellente collaborazione instauratasi con il ministro dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca Stefania Giannini in un percorso che parte dal Giorno della Memoria e si sviluppa lungo tutto l'anno. Eccellenti sono anche i rapporti con le altre realtà religiose e con i leader islamici moderati con cui non di rado organizziamo iniziative congiunte.
Di dialogo e integrazione si parla anche, con ricchezza di contenuti, in occasione dei tanti festival che si organizzano nelle diverse stagioni. Da Jewish and the City (Milano) al Balagan Cafè (Firenze), da Lech Lechà (Puglia) a Nessiah (Pisa) - per fare alcuni esempi. Per arrivare alla Giornata Europea della Cultura Ebraica, dedicata quest'anno al tema "ponti", da intendersi in una prospettiva sia interna che esterna. Il mondo ebraico italiano è piccolo ma decisamente attivo e impegnato su questo fronte.

(moked, 5 maggio 2015)


Open House Festival a Tel Aviv

Un'occasione unica per scoprire una Tel Aviv inedita visitando edifici e case solitamente chiusi al pubblico.

Appartamenti nascosti e sconosciuti, interessanti esempi di architettura e design saranno tutti in mostra durante il Tel Aviv Open House Festival, dal 14 al16 Maggio p.v. Una volta all'anno, Tel Aviv apre spazi privati, loft di design, ville urbane, edifici pubblici architettonicamente significativi, cantieri curiosi, piazze e giardini. Durante il fine settimana dell'evento il pubblico potrà visitare, esplorare e approfondire la conoscenza di questi siti. Molte persone hanno contribuito in modo da realizzare questo evento per esplorare Tel Aviv "dal di dentro" nel corso di questo fine settimana, tra cui architetti, proprietari di immobili, amministratori istituzionali e molti altri che vivono e "respirano" la città.

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Da un tour degli studi seminterrati di registrazione alle spettacolari terrazze di Tel Aviv, dai panifici ai laboratori per la preparazione di piastrelle ad oltre 90 altri luoghi che sono, di solito, tenuti come segreti a porte chiuse fino alle Case da Tel Aviv; questo il programma in grado di attirare turisti di tutte le età. Anche se le visite saranno in ebraico, il sito di riferimento è in inglese e molti degli eventi saranno semplicemente "Case aperte" in cui ogni partecipante potrà fruire di uno sguardo in un altro mondo….. non importa in che lingua: l'ispirazione per l'evento è arrivata da Open House Londra e Open House New York.

(Vera Classe, 5 maggio 2015)


Israele collauda il razzo vettore Shavit per l'invio in orbita di satelliti

GERUSALEMME, 5 mag - Israele ha condotto questa mattina il test per il lancio di un nuovo sistema di propulsione balistica per il lancio in orbita di satelliti. Lo riferisce un comunicato del ministero della Difesa israeliano. Il lancio del vettore è effettuato nell'area centrale dello Stato di Israele. Secondo il quotidiano locale "Haaretz", il nome del razzo che verrà utilizzato per inviare satelliti nello spazio è "Shavit" (Cometa) ed è basato sulla tecnologia del vettore Jericho. Negli ultimi mesi, Israele ha compiuto diversi test di lanci missilistici in gran parte concentrati sulla difesa dello spazio aereo. In aprile, il ministero della Difesa ha comunicato il completamento del programma di test del razzo intercettore "Fionda di Davide", che potrebbe già entrare in funzione all'interno dei sistemi anti-missile già nei prossimi mesi.

(Agenzia Nova, 5 maggio 2015)


Beautiful Israel, la rete si allarga

 
Beautiful Israel Italia, associazione di tutela dell'ambiente che valorizza l'eccellenza israeliana in campo di agricoltura, ecologia e salvaguardia del pianeta, è pronta a crescere. Apriranno infatti domani e dopodomani due nuovi sedi nelle città di Livorno e di Milano. "Quando abbiamo deciso di esportare l'associazione in Italia quello che ci siamo proposti era di diffonderla in tutto il territorio; proprio per questo gli eventi di Livorno e Milano assumono così tanta importanza. E le prossime mete che abbiamo in programma di raggiungere sono Napoli e Venezia" spiega il presidente di Beautiful Israel Italia Dario Coen.
   Domani si terrà a Villa Cassuto il primo appuntamento livornese, coordinato da Ariela Cassuto (il via ai lavori alle 17). "Il mio interesse per l'ambiente - ci spiega - si è accresciuto con gli anni e si è sposato perfettamente con la mission di Beautiful Israel, che fa conoscere il progresso del paese e la sua sfida in difesa dell'ecosostenibilità. Questa associazione vuole portare un messaggio di positività". L'incontro d'apertura 'Il giardino dell'Eden tra mito e attualità' sarà dedicato a sua madre, Denise Leghziel. "Mia madre, molto attiva nella comunità ebraica, aveva un giardino di rose celebre a Livorno e ogni anno organizzava un incontro proprio lì. In suo onore è stata dedicata persino una rosa ibridata appositamente e chiamata 'Denise tempesta'".
   "Durante l'evento - prosegue Cassuto - insieme all'architetto paesaggista Paola Talà ci interrogheremo sul ruolo dell'uomo rispetto alla natura. Come impariamo dalla Torah, infatti, D-o ha creato per prima cosa un giardino e poi l'uomo; proprio per questo dobbiamo capire quale sia il nostro ruolo rispetto all'ambiente. La natura è autonoma mentre noi dipendiamo da essa, e abbiamo il dovere di custodirla".
   Beautiful Israel sbarca anche a Milano il 7 maggio (ore 21.30) con una serata che animerà il Centro Noam. "Per far conoscere l'associazione - racconta Daniel Fishman, responsabile di sezione - abbiamo preparato un omaggio alla cultura ebraica persiana che si sposerà per l'occasione con la festività di Lag BaOmer". Nell'occasione verrà inoltre presentato il libro di Fishman, 'Il grande nascondimento', edito da Giuntina e dedicato alla storia degli ebrei della comunità di Mashad, seconda città dell'Iran, che per la prima volta escono allo scoperto; in una cornice suggestiva che porterà un po' di Persia in città. Spezie si mescoleranno a tappeti, foto d'epoca e sapori tradizionali. "Beautiful Israel - sottolinea Fishman - ha già suscitato molto interesse in città e si sposa perfettamente con l'Expo che ha portato nuova consapevolezza in merito alla tutela ambientale".

(moked, 5 maggio 2015)


Tel Aviv Bootcamp, sfida d'innovazione per le startup di 21 Paesi

I vincitori del contest internazionale parteciperanno all'evento che si svolgerà nella città israeliana dal 6 al 10 settembre durante il Digital life Design festival.

di A.S.

Al via la seconda edizione di Startup Tel Aviv Bootcamp, organizzato dal ministero degli Affari esteri israeliano, Google Israel, la città di Tel Aviv e Campus Tel Aviv. Il contest è promosso in Italia dall'Ambasciata d'Israele e da Luiss Enlabs - la fabbrica delle startup. Le migliori startup di 21 Paesi del mondo parteciperanno al Bootcamp di Tel Aviv, che si svolgerà dal 6 al 10 settembre 2015, a margine del Dld Festival.
  Lo "Startup Bootcamp Tel Aviv" è un concorso internazionale aperto alle startup di Svezia, Regno Unito, Irlanda, Italia, Germania, Danimarca, India, Vietnam, Grecia, Giappone, Lituania, Norvegia, Spagna, Serbia, Finlandia, Peru, Chile, Colombia, Korea del Sud, Canada, Russia. Il premio consiste nel viaggio in Israele e nella partecipazione al Bootcamp di Tel Aviv: i founder delle 21 startup vincitori provenienti da tutto il mondo avranno la possibilità di intervenire a un intenso programma di conferenze, workshop, e incontri con imprenditori, professionisti e investitori israeliani leader nel settore. "Startup Bootcamp Tel Aviv 2015" si terrà durante la settimana del Dld Festival (Digital Life Design), e costituisce un'importante opportunità di formazione e networking all'interno dell'ecosistema startup di Tel Aviv.
  Al contest possono candidarsi i founder o i ceo delle startup attive nei settori web, mobile o security tra i 25 e i 35 anni, che abbiano già ricevuto un primo finanziamento e siano in possesso di un prototipo del loro prodotto. Le iscrizioni si chiuderanno alle 24 del 21 giugno.
  "Israele e Tel Aviv - si legge nel comunicato di presentazione dell'iniziativa che motiva la scelta della capitale Israeliana - sono luoghi leader nell'innovazione, con un ecosistema locale di talenti tecnologici a livello mondiale, decine di multinazionali leader di mercato e centinaia di startup tecnologiche di primaria importanza. La città è stata definita il 'tech hub' leader d'Europa dal Wall Street Journal, ed è stata classificata da Startup Genome al secondo posto nel ranking tra le città più favorevoli per l'apertura di startup. Inoltre Israele attrae annualmente una quota di investimenti in venture capital notevolmente superiore rispetto agli Stati Uniti e a tutti i Paesi europei".
  Della giuria esaminatrice fanno parte Naor Gilon, Ambasciatore d'Israele in Italia, Paolo Boccardelli, professore di Economia e Strategia d'impresa dell'Universit? Luiss, Roberto Magnifico, board member di Lventure Group, Giuseppe Di Piazza, direttore di Corriere Innovazione, Stefano Parisi, presidente di Chili Tv, Massimo Russo, direttore di Wired Italia, Aurelio Mezzotero, direttore dell'Imi Fondi Chiusi, e Massimo Rossi, fondatore di H-Farm.

(Corriere Comunicazioni, 05 maggio 2015)


Israele e India, straordinario accordo di cooperazione

Durante una visita all'Univesità di Tel Aviv avvenuta lo scorso 27 aprile il Capo di Stato del Maharashtra, in India, Devendra Gangadharrao Fadnavis, ha chiesto la creazione di un parco industriale israelo-indiano che servirà per combinare i vantaggi della tecnologia israeliana con la mano d'opera qualificata disponibile nel suo paese.
Israele è un paese con il quale l'India può sviluppare numerosi contatti. Ha la tecnologia e capacità intellettuali e l'India ha capacità di produzione e volontà di collaborare. Questa collaborazione può creare un ambiente globale fantastico cercando di raggiungere obiettivi comuni.
Popolato da circa 112 milioni di abitanti, secondo una stima del 2011, il Maharashtra è il secondo Stato più grande dell'India. La sua capitale, Bombay, è considerata come il cuore industriale e finanziario del paese e contribuisce al 15% del PIL nazionale e al 30% delle esportazioni indiane. Secondo Fadnavis:
Bombay ha l'opportunità di diventare un centro finanziario globale che servirà come base per tutti i principali operatori del mercato internazionale.
Fadnavis è considerato un astro nascente della politica indiana. Durante la sua visita all'Università di Tel
Da sinistra: Joseph Klafter, Presidente dell’Università di Tel Aviv, Devendra Gangadharrao Fadnavis, Primo Ministro del Maharashtra
Aviv, con i membri della Camera di Commercio, Industria e Agricoltura dell'India e della Confederazione dei produttori indiani, ha incontrato il Presidente dell'università di Tel Aviv, il Prof. Joseph Klafter, i ricercatori e rappresentanti delle compagnie israeliane, e gli studenti.
Dopo aver salutato le attività del nuovo Primo Ministro dell'India, Narendra Modi, in favore della promozione dell'economia, ha preso la parola sulla cooperazione economica tra Israele e il Maharashtra, ponendo l'accento su agricoltura, informatica, comunicazioni e difesa:
Siamo aperti alla cooperazione in materia di città intelligenti, gestione dell'acqua e costruzione di un ambiente globale. Questo è il momento giusto per una collaborazione tra Israele e India.
Secondo il Prof. Klafter, l'Università di Tel Aviv si sta muovendo verso l'est anche se tradizionalmente si ha la tendenza a guardare verso l'Occidente, verso l'Europa. Ha elogiato l'accordo di cooperazione accademica e lo scambio di studenti tra l'Università di Tel Aviv e l'Università NMIMS di Bombay, considerata una delle più importanti istituzioni accademiche indiane in materia di gestione aziendale e ingegneria.
L'Ambasciatore dell'India in Israele, Jaideep Sarkar, ha sottolineato l'importanza della collaborazione tra i due paesi attraverso la comprensione della cultura indiana in generale. Ha rilevato in particolare l'importanza delle attività congiunte nel settore dei servizi, ovvero quello in più rapida crescita sia in Israele sia in India.
Il Console Generale d'Israele a Bombay, David Wachovia, ha sottolineato il potenziale delle relazioni tra i due paesi in settori quali l'agricoltura, la promozione di città intelligenti, la salute, la sicurezza interna e l'informatica.
Il direttore della Società per lo Sviluppo del Maharashtra, Bhushan Gagrani, ha ribadito che una lunga lista di società israeliane tra cui Naan, Amdocs, Taldor e Rad sono già presenti in India.

(SiliconWadi, 5 maggio 2015)


La grande abiura di Israele

Per Israele si battevano tutti, da Bobbio a Montale, mentre la vedova De Gasperi raccoglieva sangue.
Poi, negli anni Ottanta, giornali e intellettuali abbandonarono gli ebrei. Pubblichiamo un estratto del libro di Giulio Meotti "Muoia Israele. La brava gente che odia gli ebrei" (Rubbettino, 12 euro, prefazione di Roger Scruton, in uscita domani)

Durante la Guerra dei sei giorni nel 1967, Giovanni Spadolini, uno dei pochi autentici amici di Israele nella politica italiana di quegli anni, scrisse che attorno al destino del popolo ebraico si stata consumando "il censimento delle coscienze". Oggi sembra impossibile quanto accadde in quell'anno.
   Dall'Italia partirono decine di volontari, ebrei e non ebrei, alla volta di Israele. Volevano prestare servizio civile per aiutare il piccolo Paese minacciato di sterminio. Le richieste e le offerte da tutta Italia giunsero ininterrotte all'ambasciata israeliana, alle comunità ebraiche, all'Agenzia Ebraica, al Keren Hayesod. Un industriale piemontese, che chiese di restare anonimo, donò un milione di lire. Arrivarono denaro, medicinali, attrezzature sanitarie, cibo. Anche il sindaco di Torino, Giuseppe Grosso, inviò la propria solidarietà.
   E a Roma, donna Francesca de Gasperi, moglie del grande statista democristiano, organizzò una raccolta di sangue da inviare a Israele. Di fronte alla sinagoga di Roma non c'era alcun pudore nel ringraziare Israele e il cielo per "la liberazione di Gerusalemme" dopo venti secoli.
   Il 1967 fu lo spartiacque anche nella comunità di intellettuali, politici, scrittori e giornalisti. In gioco, scriveva Spadolini, c'era "la solidarietà verso il piccolo e martoriato Paese che si difendeva in casa sua, contro la minaccia di soffocamento dell'accesso al mare". Il filosofo francese Raymond Aron lo disse così: "Tutto ricomincia. Non la persecuzione; solo la malevolenza. Non il tempo del disprezzo; però il tempo del sospetto". Fu da un giudizio prepolitico, di natura morale, imperioso e condizionante come tutti i giudizi che scaturiscono irresistibili dal fondo della coscienza, che nacque l'odio per Israele e per gli ebrei, e che
Fin dal 1956, intellettuali come Albert Camus, Jean-Marie Domenach e Marguerite Duras avevano chiesto che in una manifestazione per i caduti di Budapest fossero ricordati anche i soldati arabi di Suez. Fu l'inizio di un'oscena equivalenza morale che oggi domina il discorso pubblico su Israele.
riprese vita l'oscuro, irrazionale, primitivo appello alla loro sopraffazione. L'alba della pace per gli ebrei doveva rimanere ben al di sotto dell'orizzonte.
Fin dal 1956, intellettuali come Albert Camus, Jean-Marie Domenach e Marguerite Duras avevano chiesto che in una manifestazione per i caduti di Budapest fossero ricordati anche i soldati arabi di Suez. Fu l'inizio di un'oscena equivalenza morale che oggi domina il discorso pubblico su Israele. In Italia Elio Vittorini e Franco Fortini firmarono un manifesto di solidarietà agli insorti magiari solo a condizione che la protesta fosse estesa all'aggressione israeliana all'Egitto.
E pensare che nell'aprile del 1967 l'intellettuale usignolo della sinistra italiana, Pier Paolo Pasolini, scrisse un eccezionale saggio sulla rivista Nuovi Argomenti, diretta da Alberto Moravia. "Nel Lago di Tiberiade e sulle rive del Mar Morto ho passato ore simili soltanto a quelle del '43 e '44: ho capito, per mimesi, cos'è il terrore dell'essere massacrati in massa" - scriveva Pasolini. Eppure sempre nel 1967 Aldo Capitini, oggi veneratissima icona dei pacifisti italiani, sosteneva che Israele avrebbe dovuto lasciare entrare gli eserciti arabi che premevano da tutti i lati, e battere gli occupanti con la non violenza. Oggi questo sogno inconscio di veder scomparire Israele anima grandi segmenti dell'opinione pubblica internazionale. Se Israele fosse invaso, il mondo assisterebbe a un genocidio di proporzioni mostruose. Questo Paese minuscolo, otto milioni di abitanti giunti dai quattro angoli della terra a costruire una sorta di enclave illuminata in un mare islamico, è tutto un esercito, uomini e donne, giovani e anziani. E la "Yeshuv", la comunità di Terra Santa, si trova ancora a dover sostenere la lotta più spietata. E' la grande paura, la coscienza quasi ossessiva d'un pericolo reale alimentata dai ricordi d'un vicino e tragico passato. Israele è un piccolo popolo su un piccolo territorio, e ha quasi tutto il mondo contro di lui.
   Nel 1967 Zubin Mehta, il grande direttore d'orchestra, riuscì a raggiungere Israele a bordo di un aereo della El Al, sedendo su casse zeppe di munizioni, perché voleva stare vicino a Israele in un momento in cui tutti gli artisti del mondo avevano cancellato le date israeliane. Ma ci fu anche chi, come il grande Eric Leinsdorf, senza dir niente a nessuno, mentre nel 1967 la radio riportava lo slogan egiziano invece di andare al teatro per le prove prende un taxi per l'aeroporto e torna a casa. Leinsdorf se ne andò così rapidamente che lasciò perfino lo smoking nello spogliatoio dell'Opera House di Tel Aviv. Sta ancora lì, a ricordarci l'abbandono di Israele. Da allora è diventato troppo facile dimenticarsi le ragioni dell'esistenza dello Stato d'Israele. Troppo facile dimenticarsi che gli israeliani sono ebrei, ed ebrei in pericolo. Però negli anni Settanta, gli intellettuali italiani avevano ancora il coraggio di schierarsi per Israele. Senza infingimenti, senza distinguo, senza ambiguità. Eminenti personalità della cultura, delle arti e dello spettacolo si impegnarono quell'anno, un anno dopo la fatale Guerra dello Yom Kippur, a non collaborare con l'Unesco, l'agenzia dell'Onu per la cultura e l'educazione, fino a che non avesse disconosciuto le misure d'emarginazione ai danni d'Israele.
   Durante il Kippur del 1973, mentre le famiglie israeliane si trovavano al tempio o in casa, digiune e assorte in preghiera, lo Stato ebraico viene attaccato da nord e da sud e a malapena si svincola dalla tenaglia. Fu una guerra vinta con la forza della disperazione, mentre il mondo e l'Onu, e con esso l'Unesco, cingevano d'assedio il piccolo Davide. "L'Unesco è un organismo delle Nazioni Unite che ha per compito quello di difendere l'educazione, la scienza e la cultura" - si leggeva nel manifesto degli intellettuali italiani. "Quanto è avvenuto rappresenta una perversione: uno stravolgimento del suo ruolo. I sottoscritti rifiutano di collaborare a questo organismo sino a che non abbia provato nuovamente, nei riguardi di Israele, d'essere fedele ai propri fini".
   Firmarono la dichiarazione Ignazio SiIone, Vittorio Zevi, Silvio Bertoldi, Valentino Bompiani, Carlo Casa legno, Arnoldo Foà, Vittorio Gassman, Franco Lucentini, Eugenio Montale, Giovanni Raboni, Leonardo Sciascia, Mario Soldati, Giorgio Strehler e Franco Zeffirelli. È impressionante leggere i nomi di quella lista di sostenitori di Israele.
   Dalla Germania fece sentire la sua voce il premio Nobel, Heinrich Boll; in Francia insorsero intellettuali di sponde opposte come Jean-Paul Sartre ed Eugène Ionesco; in Italia si trovarono sulla stessa linea il
"Di fronte all'aggressione araba contro Israele e alla mortale minaccia che a venti anni dalla fine della guerra e delle persecuzioni razziali incombe sul popolo israeliano noi, anti- fascisti democratici, fedeli ai valori della libertà, della indipendenza e della giustizia, testimoniamo uniti il nostro sentimento di piena solidarietà alla Repubblica di Israele".
cattolico Arturo Carlo Jemolo e il laico Montale. Si potevano leggere appelli come questo: "Di fronte all'aggressione araba contro Israele e alla mortale minaccia che a venti anni dalla fine della guerra e delle persecuzioni razziali incombe sul popolo israeliano noi, anti- fascisti democratici, fedeli ai valori della libertà, della indipendenza e della giustizia, testimoniamo uniti il nostro sentimento di piena solidarietà alla Repubblica di Israele". Venne firmato, fra gli altri, da Alessandro Galante Garrone, Nicola Adelfi, Alberto Ronchey, Norberto Bobbio, Alessandro Passerin d'Entrèves, Leone Cattani, Elena e Alda Croce (figlie del filosofo). Un appello al mondo civile perché "compia immediatamente ogni sforzo per proteggere il popolo e lo Stato d'Israele" venne lanciato da Guido Calogero, Walter Binni, Vittorio De Sica, Alberto Lattuada, Federico Fellini.
   Il clima antiebraico che oggi respiriamo in Europa gettò invece i primi semi dopo la Guerra del Libano nel 1982. Fu allora per la prima volta che nella società civile si manifestarono i segni di recrudescenza antisemita. Manifestazioni spontanee e pervase di antisemitismo presero vita nel mondo della cultura, del sindacato, delle università, dei giornali.
   A Napoli il direttore d'orchestra israeliano, Daniel Oren, venne contestato da una parte del pubblico non appena apparve sul podio del Teatro San Carlo. I contestatori si avvicinarono al leggio e ostentatamente chiusero lo spartito al grido di "ebrei nazisti, ebrei assassini". A Venezia e a Modena gli assessorati alla Cultura eliminarono Freedonia, la rassegna di cinema comico ebraico-americano che avrebbe dovuto svolgersi nelle due città. A Milano la direzione dell'hotel Michelangelo decise di annullare un ricevimento organizzato da una famiglia ebraica. Intanto, la Cgil, la più grande confederazione sindacale italiana, promosse il boicottaggio delle navi e degli aerei da e per Israele. Volevano strangolare gli ebrei, costringerli a buttarsi a mare.
   E così avvenne. Per otto giorni non partirono voli di linea per Tel Aviv dagli aeroporti italiani. Furono boicottate le due navi israeliane ormeggiate nel porto di Livorno. Quando un volo della compagnia israeliana El Al atterrò a Fiumicino, i passeggeri dovettero raggiungere a piedi il terminale, percorrendo 500 metri sulle piste. Così avevano deciso i delegati del settore movimento carico e scarico della società aeroporti di Roma. Fu allora per la prima volta che i rappresentanti dei sindacati e delle organizzazioni operaie israeliane vennero esclusi come appestati da innumerevoli iniziative internazionali della sinistra, subendo il ricatto arabo-islamico che preconizzava la distruzione dello Stato ebraico.
   Fu allora, negli anni Ottanta, che il mondo della sinistra, della cultura liberale azionista e di certa stampa cattolica, a causa della propria vocazione terzomondista e sostanzialmente antagonista rispetto al sentimento filoccidentale, ha iniziato a guardare a Israele con occhi obnubilati dall'ideologia. Fu allora che giornali, personalità della politica, della cultura e del mondo sindacale hanno rappresentato per la prima volta la questione mediorientale in forme sommarie e ideologizzanti, prescindendo dai fatti, così che i palestinesi hanno finito per essere identificati con il bene e la verità, mentre gli israeliani con la menzogna e il male. Israele, piccolo Stato santuario che raccoglie profughi di tre continenti, diventa il simbolo della violenza, dell'aggressione e del colonialismo; ogni errore del suo governo è una colpa inescusabile. Il diritto e la giustizia stanno interamente dall'altra parte; la pietà umana diventa alleanza politica senza riserve; laici o cattolici, i progressisti si sentono tutti amici dei palestinesi.
   Questa rappresentazione manichea non poteva non alterare stati d'animo di più o meno latente antisemitismo nell'opinione pubblica. E ne abbiamo avuto la prova in certi cortei, in certi dibattiti, in non pochi articoli di giornali e riviste.
   Fu allora, in quel clima, che dalla sinagoga parigina di Copernico a quella di Vienna, dal ristorante Goldonberg di Rosiers nel quartiere ebraico di Parigi alla sinagoga di Roma, un identico filo e identici metodi legarono le azioni dei terroristi. Si inizia a sparare nel mucchio, si uccidono bambini, uomini e donne inermi, tutti ebrei: non per follia, ma seguendo uno spietato disegno, una strategia dell'odio che si
Fu allora che sui giornali italiani si arrivò a punti giustificabili solo dall'ansia di porre fine al senso di colpa dell'Occidente: "Israele s'inebria del vino dei forti. Il suo futuro sarà inevitabilmente scritto con lettere di sangue"; "Israele tenta il genocidio"; "La soluzione finale è solo rinviata"; "L'ebreo vede la violenza come giustifica- zione di Dio"; "Lo stesso metodo, lo stesso linguaggio di cui si erano serviti i governanti nazisti per porre fine alla questione ebraica".
sarebbe poi riversata nelle strade, nei caffè e nei ristoranti di Israele durante la Seconda intifada e con i missili di Hamas sulle città e i kibbutz nel profondo e fragile sud israeliano.
Fu allora che sui giornali italiani di destra e di sinistra si arrivò a punti giustificabili solo dall'ansia di porre fine a un senso di colpa che l'Occidente non aveva mai placato dentro di sé dopo la fine della Seconda guerra mondiale: "Israele s'inebria del vino dei forti [ ... ] Il suo futuro sarà inevitabilmente scritto con lettere di sangue" (Luigi Firpo, La Repubblica); "Israele tenta il genocidio" (il manifesto); "La soluzione finale è solo rinviata" (Giuseppe Josca, Il Corriere della sera"), "L'ebreo vede la violenza come giustificazione di Dio" (Gianni Baget Bozzo); "Lo stesso metodo, lo stesso linguaggio di cui si erano serviti i governanti nazisti per porre fine alla questione ebraica" (il Secolo XIX).
In quel periodo il direttore e fondatore de la Repubblica, Eugenio Scalfari, riuscì a suggerire che si era verificata una "mutazione" del carattere del popolo ebraico, che "da vittima sacrificale si è trasformato in aguzzino, da popolo inerme è diventato Stato guerriero e conquistatore".
   Fu allora che la grande stampa italiana si schierò apertamente contro il popolo ebraico per la prima volta dopo l'Olocausto. Sull'Espresso, Antonio Gambino paragonò le Fosse Ardeatine alla politica di Israele sui palestinesi. Sul Corriere della Sera, invece, spiccarono gli articoli di Maurizio Chierici che paragonò più volte l'assedio di Beirut alla liquidazione del ghetto di Varsavia e i comandanti militari israeliani a Hans Frank, il governatore nazista della Polonia occupata.
   Erano anni in cui il giornalismo in Italia poteva però anche vantare figure come quella di Carlo Casalegno, assassinato dalle Brigate Rosse anche per scritti come quelli in difesa degli ebrei e di Israele. "Israele fu lasciata pressoché sola per un'esplicita discriminazione antisemita ... " - scriveva il giornalista de La Stampa riferendosi al dirottamento di un aereo israeliano con cento ostaggi a Entebbe. "Partiti di sinistra e intellettuali piansero sulla sovranità ugandese violata".
   Casalegno prese di mira gli intellettuali antisraeliani: "Nella loro passione progressista, gli avvocati del terzomondismo e delle democrazie popolari talvolta trascurano la fedina penale dei loro clienti. Per costoro, l'invasione cinese del Tibet è una misura energica per portare il socialismo in una terra feudale (ed è di buon gusto tacerne), la manomissione sovietica della Cecoslovacchia è un errore, l'occupazione israeliana di Gaza è un delitto. I terroristi croati sono criminali fascisti, forse manovrati dalla Cia, i terroristi Palestinesi (e tedeschi, venezuelani, giapponesi che li aiutano) sono patrioti spinti dalla disperazione. I massacri in Cambogia sono le sbavature d'una palingenesi rivoluzionaria, la mano pesante dei militari inglesi contro i dinamitardi dell'Ira è un'offesa all'umanità. Ai dirottatori d'aerei si chiede il passaporto: delinquenti se scappano da un paese d'oltre cortina, guerriglieri se chiedono la liberazione dei massacratori di Lod".
   Erano ancora anni in cui anche in un giornale come la Repubblica si potevano trovare firme come quella della signora di ferro delle pagine culturali, Rosellina Balbi, che nel 1982, dopo l'intervento israeliano nel Libano, condusse una polemica molto aspra con chi, a sinistra, e anche fra gli ebrei italiani, trasformò la critica a Israele in una indiscriminata ostilità per il sionismo in generale. Atteggiamento di cui Rosellina Balbi non esitava a cogliere il lato antisemita.
   Fu negli anni Ottanta che emerse la parificazione perversa di Hitler e Israele e la trasformazione dello stato ebraico in una "base imperialista" con la causa araba identificata con la libertà, la giustizia e il progresso, e che è all'origine di quella spaccatura etica, prima che politica, aperta all'interno dell'intellighenzia europea sullo stato ebraico. Nel 1986 il professor Alberto Asor Rosa, critico letterario e docente all'Università La Sapienza di Roma, scrisse che "nel 1948 compare improvvisamente un nuovo Stato, creato ex abrupto (...) in seguito all'accordo tra le grandi potenze occidentali (...) sorto per un atto d'imperio (...) giustificato agli occhi dell'opinione pubblica dall'Olocausto (...) fatto mostruoso tutto interno alla cultura e alla tradizione politica dell'Occidente (...) l'Occidente risolve la questione ebraica appioppandola ad altri (...) l'Olocausto ebraico viene a rispecchiarsi nell'esodo palestinese, il campo di sterminio nel campo profughi, la soluzione finale hitleriana nel sogno militarista israeliano".
   In un libro pubblicato durante la Seconda Intifada, Asor Rosa fece scalpore scrivendo che "gli ebrei, da razza deprivata, perseguitata e decisamente diversa sono diventati una razza guerriera, persecutrice e perfettamente omologata alla parte più consapevole e spregiudicata del sistema occidentale". E già ai tempi della Prima guerra del Golfo, Asor Rosa aveva scritto in "Fuori dall'occidente" (Einaudi) che "gli ebrei hanno avuto una patria e perduto una religione" e che questa patria (Israele) si è specializzata nella pratica "sempre più raffinata e arrogante della violenza" per mezzo della "mostruosa ma inevitabile affermazione della superiorità razziale ebraica".
   Contro il popolo ebraico riecheggiano oggi, sinistre, le frasi della propaganda nazista di settant'anni fa. Sui giornali, nelle scuole, nei libri, nelle aule universitarie e dei Parlamenti d'Europa. In Occidente si riaffaccia lo spettro di Joseph Goebbels quando diceva che la Danimarca era una minaccia per il Terzo Reich. Oggi al suo posto c'è Israele.
   Sta tornando la nebbia del '39.

(Il Foglio, 5 maggio 2015)


Ebrei in fuga. In Europa ritorna l'antisemitismo

di Antonio Panzeri*

In Europa siamo abituati a considerare l'immigrazione come un problema, ma esiste un Paese, dall' altra parte del Mediterraneo, che incoraggia l'arrivo di persone da tutto il mondo. Si tratta di Israele, che fin dalla sua fondazione ha avuto fra le priorità nazionali quella di accogliere e dare una casa sicura a tutti gli ebrei. L'Aliyah, ovvero il ritorno alla terra promessa, avviene grazie alla Agenzia Ebraica per Israele.
   Il 2014 è stato un anno difficile per gli ebrei in Europa: l'attacco al museo ebraico di Bruxelles e le vicende di Parigi hanno sollevato un'ondata di paura comprensibile nelle comunità ebraiche. Il sentimento di insicurezza è stato in parte cavalcato anche dal primo ministro israeliano Netanyahu, che all'indomani delle uccisioni di ebrei francesi al supermercato kosher di Parigi ha rimarcato che Israele era pronto ad accogliere a braccia aperte chiunque volesse emigrare in un luogo sicuro.
   Secondo i dati forniti dall'Agenzia Ebraica per Israele fino a oggi sono ancora relativamente pochi gli ebrei europei che hanno deciso di preparare l'Aliyah e cambiare radicalmente vita. Tuttavia si tratta di numeri significativi: nel 2014 la Francia è diventato il primo Paese di emigrazione, con 7000 ebrei che hanno scelto di stabilirsi in Israele.
   Se è vero che la crisi economica ha giocato un ruolo e che molti sono partiti alla ricerca di una vita migliore, non va neppure sottovalutata la paura sempre più diffusa che l'Europa torni a diventare una terra ostile agli ebrei. Non si può negare che da diversi anni il vecchio continente sia percorso da rigurgiti nazionalisti e razzisti, che non di rado tornano a tingersi di un preoccupante antisemitismo.
   Chi crede in un'idea di Europa aperta e basata sui diritti oggi non può che guardare con preoccupazione all'aumento dell'emigrazione ebraica verso lo Stato di Israele.
   Dopo gli orrori del nazismo e del fascismo, per settant'anni l'Europa ha costituito un focolare sicuro per il popolo ebraico. Occorre lavorare sul piano politico e culturale affinché continui a esserlo anche in futuro.

* Eurodeputato PD

(Libero, 5 maggio 2015)


"Djerba è più sicura di Israele"

Il Presidente della comunità ebraica dell'isola tunisina non condivide i timori israeliani.

 
La sinagoga di Djerba
TUNISI - Dopo le rassicurazioni delle autorità tunisine sulla sicurezza riguardo al tradizionale pellegrinaggio alla sinagoga di Ghriba in programma il 6 e 7 maggio all'isola di Djerba, arrivano anche le parole del presidente della comunità ebraica dell'isola, Perez Trabelsi, che alla stampa ha dichiarato che non esiste alcuna minaccia alla sicurezza o alla vita degli ebrei in Tunisia e che Djerba è piu' sicura che Israele, sottolineando di aver fiducia nella sicurezza tunisina. Attesi quest'anno per il pellegrinaggio almeno 2500 visitatori. L'ufficio anti-terrorismo israeliano aveva emesso un avviso di allarme per la Tunisia, preannunciando la possibilità di attacchi agli ebrei e ai turisti israeliani in viaggio per la sinagoga dell'isola di Djerba per la festa religiosa ebraica di Lag Ba'omer che ricorre questo mercoledi'.
Nell'avviso era stata segnalata - secondo i media - una minaccia di attacco imminente di alto livello.

(ANSAmed, 5 maggio 2015)


L'America sceglie l'ipocrisia per non irritare i musulmani

Troppa paura di essere sospettati di islamofobia. Così Obama e i media si piegano ai terroristi.

di Fiamma Nirenstein

L'aria negli Usa è ormai questa: smussare gli angoli, lasciar perdere, consentire che l'islamismo estremo, gli attentati stessi vengano affrontati con un desolato ma non ostile scuotere del capo chiamando un attentato islamico «attentato di origine religioso», una religione qualunque; gli episodi di violenza sono, nel Paese che ha subito l'11 di settembre, random, casuali, isolati come definì Obama gli eccidi di Charlie Hebdo e del supermarket Hyperkosher di Parigi. E del resto Obama al corteo di tutti i capi di stato per protestare contro il terrorismo non c'è andato. E i giornali americani non hanno pubblicato le vignette di Charlie Hebdo: sia la Cnn che il New York Times hanno seguito la strada del presidente: non irritare l'islam, non pubblicare le vignette, non farsi sospettare, Dio non voglia, di islamofobia. Anche se era del tutto evidente che i poveri dodici uccisi in redazione erano le vittime di un attentato di odio islamista, Obama è rimasto fedele al programma: al primo inizio del suo mandato annunziò che avrebbe cambiato il rapporto fra gli Stati Uniti e l'islam, sempre da lui ritualmente definita «religione di pace» anche quando gli attacchi si dimostravano decisamente preparati e studiati in nome del jihad, come quello di Boston o quello in cui un ufficiale nel 2009 uccise 4 commilitoni a Bagdad.
   Adesso l'attacco di Dallas, cui la polizia ha risposto all'americana uccidendo i due che avevano attaccato la gara di vignette su Maometto, segna un'altra tappa nel dichiarare, in certo modo, fuori della corrente principale del Paese perché non ritenuta abbastanza politically correct: l'organizzazione aveva preso in affitto un'area del Culwell Center e aveva dovuto pagare 10mila dollari di tasca propria per la sicurezza. L'ha detto la sua presidente, la ferrigna signora Pamela Geller: la sua organizzazione e il suo blog «American Freedom Defense Initiative» propugna la lotta contro l'estremismo islamico. Geller aveva anche invitato il deputato olandese Geert Wilders, famoso per la sua lotta contro quella che vede come un'aggressione del mondo occidentale. Il consiglio del distretto aveva ritenuto che la Geller dovesse pagare di tasca sua, dunque perché riteneva provocatoria la manifestazione: e può essere ma il contenuto era perfettamente americano, in quanto vigorosa dichiarazione della libertà di espressione. Si sa, quando mette alla berlina santi e persino Gesù Cristo e la Madonna non è un problema; lo diventa quando mette in giuoco Maometto e scorre il sangue a rivoli, come accadde nel 2005 col Jilland Posten e adesso a Parigi.
   Il distretto di Garland ha rifiutato di difendere come fatto normale di libera espressione la manifestazione della Geller, come se la libertà di espressione fosse confinata al di qua del recinto islamico. Ma l'esempio più eclatante è stato quello del premio Pen per il coraggio, che verrà consegnato oggi con una serata di gala, il top della letteratura. Il premio è stato assegnato a Charlie Hebdo, scelta assai ragionevole per chiunque creda nella libertà di pensiero, anche se magari le vignette possono urtare il gusto di qualcuno: di fatto tutti quei musulmani, preti, rabbini disegnati come mostri non sono mai piaciuti a tutti, ma qui che importava? Invece come è noto sei importanti letterati hanno annunciato che non avrebbero partecipato alla premiazione, anche personaggi famosi come Francine Prose o Taiye Selasi. Lo hanno spiegato talvolta con assurde osservazione, la Prose ha paragonato l'Hebdo a Goebbels. Per fortuna e per coraggio il grande disegnatore e letterato vincitore di Art Spiegelmann, l'inventore di «Maus», storia della Shoah a fumetti ha accettato insieme altri cinque di sostiture i virtuosi assenti. Anche Salman Rushdie e Paul Auster si sono associati al gesto «contro la corrente fanatica dell'islam che cerca di spaventarci tutti». Fanatica sì, ma random, per favore.
   
(il Giornale, 5 maggio 2015)


Israele: immigrazione più 40%

di Martino Pillitteri

Nei primi tre mesi di quest'anno, 6.499 ebrei sono emigrati in Israele. La maggioranza proviene dalla Russia e dall'Ucraina.

Cresce il numero degli europei ebrei che emigrano in Israele. Secondo i dati forniti dalla Ong Jewish Agency for Israele, l'immigrazione ebraica tra gennaio e marzo di quest'anno è salita del 40% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente.
Dei 6.499 nuovi arrivati, la maggioranza proviene dall'Est Europa: 1.971 ebrei sono giunti dall' Ucraina (un aumento del 215% rispetto ai 625 dell'anno scorso) mentre 1.515 sono arrivati dalla Russia; l'aumento rispetto all'anno precedente è stato del 50%.
Il paese che invece ha registrato un modesto aumento (+11%) di partenze è stata la Francia. Sono 1.414 i francesi che hanno abbandonato il loro paese. Da notare che nel 2014 furono 7.000 i francesi che si sono traferiti in Israele.
Tra nuovi arrivi anche 166 inglesi (su un totale di 300mila ebrei britannici) e 478 dal Nord America.

(Vita, 4 maggio 2015)


Israele - Il premier riceve il soldato che ha subito violenza dalla polizia

Il premier israeliano Benyamin Netanyahu ha ricevuto in udienza, davanti alle telecamere, il soldato di leva Damas Fikadeh, nei giorni scorsi vittima di un trattamento aggressivo e razzista da parte della polizia che ha sollevato un'ondata di proteste in tutto il paese.
"Mi dispiace che la manifestazione di domenica sia finita in violenza tra polizia e civili, ma io sostengo questa protesta, sono con loro. Spero che questo aiuti a capire che la comunità ebraica di Etiopia faccia parte di Israele".
Domenica, dopo che un video diffuso su internet aveva mostrato il trattamento subito dal soldato etiope, erano scoppiate manifestazioni di protesta a Gerusalemme e Tel Aviv, che hanno causato decine di feriti e non meno di 15 arresti.
Sulla vicenda è intervenuto anche il capo dello Stato, Rivlin, per il quale Israele nei confronti degli ebrei etiopi, "ha sbagliato".
I membri della comunità ebraica d'Etiopia, conosciuti anche come falascià, sono circa 110mila e vivono concentrati in alcune località.
Da tempo lamentano un trattamento differenziato, considerato equivalente a una discriminazione.

(euronews, 4 maggio 2015)


“Video del pestaggio” è stato chiamato il film che avrebbe provocato l’ira dei falascià. La protesta potrà avere i suoi buoni motivi, ma guardando il video si può davvero dire che è un “pestaggio”?


Gaza - Tensioni tra Hamas e i salafiti filo Isis

Moschea rasa al suolo da Hamas. Arresti.

GAZA - Un clima di tensione si avverte nella Striscia in seguito agli arresti da parte di Hamas di attivisti salafiti locali seguaci dello Stato Islamico.
L'episodio che ha inasprito gli animi e' avvenuto la scorsa notte a Dir el-Ballah, nel settore centrale della Striscia, quando da una moschea salafita ancora in fase di costruzione e' stata lanciata una bomba a mano verso agenti di Hamas, che sono rimasti illesi. La moschea e' stata rasa al suolo e subito dopo sono iniziati gli arresti di salafiti. In reazione a questi episodi, anonimi sostenitori dello Stato Islamico hanno diffuso a Gaza via internet un minaccioso volantino in cui condannano gli arresti di attivisti salafiti da parte di Hamas e stabiliscono un ultimatum di 72 ore entro il quale tutti dovranno essere rimessi in liberta'. ''Altrimenti - avvertono - tutte le opzioni sono aperte''. Fonti di Deir el-Ballah, aggiungono che nella notte agenti di sicurezza di Hamas hanno compiuto decine di arresti. Negli ambienti salafiti si aggiunge che nei loro confronti Hamas avrebbe praticato sevizie. Hamas finora ha ignorato queste accuse.

(ANSAmed, 4 maggio 2015)


K.it, mangiare casher made in Italy

 
Jacqueline Fellus
"Expo? Sarà una ottima occasione per entrare in contatto con nuove aziende e far conoscere il neonato marchio K.it a livello internazionale".
   A raccontare le novità di K.it, il marchio di garanzia della certificazione casher Made in Italy, il cui progetto è stato sviluppato e portato avanti dall'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e sta per diventare operativo, è l'assessore alla Casherut UCEI Jacqueline Fellus: "Dietro a K.it, l'iniziativa avviata nel 2014 e che ha avuto l'endorsement del ministero dello Sviluppo Economico, c'è fondamentalmente una forte impostazione etica". "L'idea di partenza - continua Fellus - è quella di fare in modo che tutte le 21 Comunità ebraiche italiane possano mangiare alimenti che rispettino le norme della casherut senza dover scendere a compromessi dato il costo non indifferente che i prodotti certificati hanno avuto fino adesso nel paese. Vogliamo inoltre favorire una distribuzione capillare degli alimenti casher, in modo che anche le piccole comunità con meno strutture e senza negozi casher possano acquistare direttamente in grandi supermercati delle loro città. In definitiva il progetto portato avanti dall'UCEI mira soprattutto a garantire e rendere accessibili a tutti i membri delle comunità i prodotti che rispettano le norme ebraiche. E il nostro successo più grande è quello di aver avuto l'appoggio unanime dell'Ari, l'Assemblea rabbinica italiana".
   Indipendentemente dall'appartenenza religiosa, la svolta del nuovo marchio porterà a far scoprire di più il valore della casherut: "Dietro la denominazione di 'casher', si celano infatti dei valori universali la filosofia di non far soffrire l'animale e di rispettarlo in primis: oltre che per il consumo della carne, non vengono infatti utilizzate componenti dell'animale per gelatine o coloranti; non si uccide certo un essere vivente per abbellire un genere alimentare. Ma non solo, le norme dell'ebraismo in fatto di casherut sono una risorsa fondamentale per chi ha allergie o segue una certa politica in fatto di cibo: un vegetariano sa che al 100% un prodotto parve non contiene alcuna traccia animale e chi è celiaco potrà mangiare tranquillamente i cibi casher le Pesach, la Pasqua ebraica. Casher significa sempre sicurezza e trasparenza".
   Ma come agirà operativamente K.it? "Innanzitutto abbiamo avuto bisogno di rintracciare un referente, un'autorità in ambito di casherut che garantisca per il nostro marchio e lo faccia accettare da tutti i diversi gruppi religiosi all'interno dell'ebraismo, dai più ortodossi ai meno, e a ricoprire il ruolo è stato identificato il rabbino Yitzchak Ilovtsky impegnato da anni in tema di casherut internazionale. Dopo di ciò l'idea è quella di formulare una lista dei prodotti permessi presenti in Italia consultabile da qualsiasi utente. Ovviamente la speranza è quella di ampliare il più possibile questa lista entrando anche in contatto con il resto dell'Europa. Vogliamo essere un ente forte e il modello che ci ispirerà sarà quello della Orthodox Union, la certificazione più influente d'America".
   La sfida di K.it si concentrerà principalmente su due fronti: "Per quegli alimenti che richiedono un controllo continuo come formaggio, vino e carne vogliamo essere presenti e fare in modo che il prezzo scenda e inoltre vogliamo aprirci ai mercati esteri: è ovvio che se la richiesta sale e i pezzi che devono essere prodotti passano da 300 a 300.000 i costi di produzione verranno abbattuti.
   Come già raccontato a Pagine Ebraiche faremo e stiamo già facendo una grande operazione di marketing per far sì che le aziende alimentari capiscano la grande risorsa che è la casherut e richiedano il marchio K.it. Marchio che non sarà obbligatoriamente visibile ma che farà in modo che questi alimenti vengano segnalati puntualmente nella lista che redigeremo: d'altra parte vogliamo essere riconosciuti dal mondo ebraico come un marchio sicuro, dando valore ai nostri rabbini". r.s.
   
(Pagine ebraiche, 4 maggio 2015)


Israele-Marocco: Peres annulla la visita a Marrakesh

Invitato da Clinton Foundation, la rinuncia dopo le polemiche.

RABAT - Alla fine, ha desistito. Simon Peres, l'ex presidente israeliano, non verrà a Marrakech, nonostante l'invito della Clinton Foundation che l'avrebbe voluto tra i relatori della Conferenza su Medioriente e Africa.
La decisione fa seguito alle polemiche seguite all'annuncio della sua partecipazione, inizialmente prevista per domani.
Molte associazioni e una gran parte della società civile schierata a favore della Palestina infatti hanno levato gli scudi contro l'ingresso in Marocco dell'ex leader politico israeliano. Tanto che Hamas ha invitato il Marocco a riconsiderare l'invito.
L'appuntamento di domani salta dunque dal carnet della Fondazione presieduta dall'ex presidente Usa, Bill Clinton e dalla figlia Chelsea. Le iniziative in cantiere fino al 7 maggio prevedono appuntamenti con leader dell'area e personalità del mondo della cultura e dell'imprenditoria, sia africani che mediorientali: l'obiettivo è quello di fare il punto sullo stato delle relazioni e sul potenziale sviluppo. Il Marocco e Israele non hanno più rapporti diplomatici dal 2000, da quando cioè il Regno ha chiuso gli uffici di Casablanca e Tangeri. Peres è già stato in Marocco due volte, nel 1986, in visita ufficiale quando era Primo ministro e regnava Hassan II e nel 1993, subito dopo la firma degli Accordi di Oslo, di cui è stato uno degli artefici e che gli sono valsi il premio Nobel per la pace insieme a Yasser Arafat e Yitzhak Rabin.

(ANSAmed, 4 maggio 2015)


Expo 2015: il "green wall" dell'Israele, simbolo della lotta alla desertificazione

L'Israele si tinge di "verde" per l'Esposizione Universale: il suo padiglione richiama l'eccellenza del paese nell'agroalimentare e dei sistemi di irrigazione all'avanguardia studiati per combattere la desertificazione.

di Valentina Ferrandello

 
Il cuore del padiglione è senza dubbio il campo agricolo verticale denominato green wall che fornisce una prospettiva rinnovata e unica sul metodo di produzione e di fornitura del cibo nel mondo. Composto di piastre modulari di coltivazione, tale elemento è in appoggio su una struttura metallica sopraelevata rispetto al terreno. Interamente realizzato con telai in acciaio opportunamente controventati, il padiglione presenta impalcati con lamiera grecata e pannelli in legno appoggiati su reticoli di travi.
  I solai di copertura sono invece costituiti da pannelli sandwich coibentati e dal pacchetto di completamento per il tetto verde. Il fabbricato showroom ed il muro verticale hanno in comune la stessa struttura portante. La parete ha lunghezza complessiva di circa 68 m e larghezza variabile da 10,34 m a 14,87 m. L'altezza della copertura della zona espositiva è di 8,8 metri, mentre quella della parete verticale varia in funzione della sua inclinazione, raggiungendo il livello massimo di 12,4 m. Dal punto di vista strutturale, showroom e green wall sono caratterizzati da un lato da colonne in HEA, dall'altro da travature reticolari costituite da tubolari quadrati impiegati sia come correnti superiori e inferiori che come diagonali.
  Le medesime travi reticolari sono state utilizzate per realizzare anche la copertura di questa porzione di edificio. Il padiglione israeliano è stato progettato come una costruzione ecologica assemblata interamente con elementi leggeri in acciaio montati a secco, privi di getti di calcestruzzo o similari. le informazioni tecniche sono note grazie alla Fondazione Promozione Acciaio che col progetto Steel Feeds Innovation ha riunito 19 realtà aziendali del comparto in occasione di Made Expo e ha presentato significativi progetti di Expo Milano 2015 per i quali è stata fondamentale la scelta dell'acciaio. Il padiglione è diviso in quattro aree. L'elemento caratterizzante ideato dall'architetto David Knafo è il "giardino verticale". Un impatto visivo di forte spettacolarità, per dar modo al Paese di affrancarsi dall'immagine di un territorio arido. Il richiamo alla vegetazione simboleggia la posizione d'avanguardia del Paese nel settore agroalimentare e nella lotta contro la desertificazione.
  Negli anni sono stati raggiunti dei grandi risultati grazie all'utilizzo di soluzioni innovative e tecnologicamente avanzate, all'ottimizzazione delle risorse idriche e alle opere di bonifica dei terreni incolti. Il Padiglione è costruito per offrire al visitatore un'esperienza avvolgente divisa in due fasi. Nel primo spazio, attraverso film 3D ed effetti multidirezionali, è illustrata la storia dell'agricoltura israeliana dai suoi inizi al giorno d'oggi. Uno dei film presentati racconta il piano di rimboschimento di Israele portato avanti dal Fondo Nazionale Ebraico (KKL). Nel secondo spazio, una tappezzeria luminosa di led danza in ogni direzione.
  Con la cucina a vista, all'interno del ristorante dai vividi colori e dal sottofondo musicale tradizionale, Israele conferma la volontà di stupire con i frutti della terra, la tradizione e l'ingegno.

(MeteoWeb.eu, 4 maggio 2015)


Rivolta in Israele: Netanyahu riceve gli ebrei etiopi

Il Premier israeliano Netanyahu ha incontrato la delegazione di ebrei etiopi, all'indomani delle proteste di Tel Aviv. Intanto, Rivlin ammette: "Rivolte colpa nostra, non abbiamo ascoltato le loro voci".

La zona degli scontri
Il Premier Israeliano Benyamin Netanyahu ha ricevuto la delegazione della comunità ebrea etiope, all'indomani delle violente contestazioni che hanno interessato Tel Aviv, facendo della città un vero e proprio campo di guerriglia urbana. Tra i membri del comitato accolto dal Primo Ministro di Israele figurava anche Demas Pekada, soldato di leva che si era trovato, suo malgrado, a subire le violenze gratuite di due ufficiali di polizia durante la scorsa settimana; un avvenimento che ha contribuito in maniera determinante a far scoppiare le rivolte, aumentando il clima di tensione tra gli agenti ed i falashà (gli ebrei etiopi).
Pekada era stato ripreso mentre veniva percosso e picchiato da due poliziotti israeliani grazie ad una telecamera a circuito chiuso. Il filmato ha fatto sì che i due agenti venissero sospesi, ed è stato al contempo la goccia che ha fatto traboccare il vaso, poiché gli ebrei etiopi d'Israele erano già da tempo ai ferri corti con le forze dell'ordine. Queste ultime infatti si sono dimostrate particolarmente solerti nel perseguitare la comunità nera ebraica, tant'è che il motivo dell'ondata di proteste è uno soltanto, riconducibile alle spregiudicate esibizioni di razzismo da parte dei poliziotti.
A riferire dell'incontro avvenuto quest'oggi è stata l'emittente televisiva Canale 2. Netanyahu, fiutando il pericolo di una vera e propria sommossa popolare (e ieri le avvisaglie c'erano tutte), ha così ritenuto opportuno scendere in campo in prima persona, per assicurare agli etiopi d'Israele che verrà fatta giustizia. Anche il Capo di Stato Reuven Rivlin si è espresso in merito alla vicenda, affermando pubblicamente: "Con gli ebrei etiopi abbiamo sbagliato".
"Non abbiamo visto e non abbiamo ascoltato abbastanza: tra chi protesta nelle strade, ci sono alcuni dei nostri più eccellenti figli e figlie, studenti dotati, e coloro che servono nell'esercito" ha poi sottolineato Rivlin. Un mea culpa che potrà forse essere il primo passo verso il risanamento dei rapporti tra due fazioni, quella della comunità falashà e quella dei poliziotti, oramai in aperto conflitto tra loro come mai prima d'ora.

(fidelityhouse, 4 maggio 2015)


Casale Monferrato - I sapori della Tripoli ebraica

di Alberto Angelino

 
Il cibo è cultura nel senso più largo del termine: è l'essenza di storia, tradizioni e persino geopolitica. Lo hanno capito bene alla Comunità ebraica di Casale Monferrato, dove una rassegna dedicata a Gusto e cultura nell'ebraismo sta analizzando non solo le contaminazioni tra i sapori e i popoli del Mediterraneo, ma qualcosa di più profondo. Ne è un esempio l'ultimo appuntamento dedicato a Tripoli di domenica che ha visto protagonisti Yoram Ortona e Teresa Scrinzo Carandini. Entrambi sono nati proprio nella città libica: Ortona, ebreo il cui nonno Moisè era originario di Casale Monferrato, ha dovuto lasciare Tripoli in concomitanza del pogrom antiebraico del 1967; Carandini ha vissuto parte del periodo coloniale e il dopoguerra fino all'avvento di Gheddafi che costrinse tutti gli ebrei e gli Italiani all'immigrazione.
Al di là del cous cous alle verdure e dell'ottimo stufato di carne, proposti non solo in ricetta ma anche al pubblico in degustazione, quello che ne emerge è una contaminazione di gusti che racconta di un territorio dove coesistevano pacificamente anche identità diverse.
Come la cucina ebraica di ogni parte del mondo anche quella tripolina assimila nelle preparazioni, specie quelle per le feste tutti gli ingredienti locali tipici della zona. Ci sono i sapori del magreb, quelli del mediooriente e naturalmente l'Europa e l'Italia, che dal 1911 occupava l'area.
Ortona, ben preparato sulla politica estera, non ha difficoltà a tracciare un parallelismo tra la cucina e la dissoluzione di quel mondo. Carandini, oltre ad essere autrice del menzionato cous cous, è stata la preziosa testimone di un mondo dimenticato che lei definisce fantastico. Insomma la morale è facile: a tavola non ci sono divisioni.

(moked, 4 maggio 2015)


Icone della sinistra: Yasser Arafat

MILANO - Yasser Arafat, nome di battaglia Abu Ammar, nome reale Mohammed Abd al-Rahman Abd al-Raouf Arafat, è una delle massime icone della sinistra, seppur insignito del premio Nobel per la pace, è stato un uomo politico egiziano le cui gesta, con la pace (se non quella eterna) non hanno nulla a che fare. Arafat, osannato come uomo di pace e del dialogo nella realtà è stato uno dei più sanguinari terroristi islamici del XX secolo, responsabile direttamente, quanto indirettamente, di numerosi stragi contro cristiani, israeliani e talvolta addirittura contro quel popolo che lui diceva di rappresentare: i palestinesi.
Sosteneva di essere palestinese, di sostenere il popolo palestinese ma nella realtà, considerato che la Palestina non è mai esistita come paese e nessun leader palestinese è nato in Palestina, anche lui non è da meno. Yasser Arafat, infatti, nasce a Il Cairo il 4 Agosto 1929 da genitori che vivevano a Gerusalemme, discendente della famiglia Husseini di cui la storia ricorda il famoso Gran Muftì di Gerusalemme Amin Al-Husseini, zio di Arafat e, durante la II Guerra Mondiale, il più fedele alleato di Hitler....

(Milano Post, 4 maggio 2015)


Paramedica israeliana con l’aiuto di un traduttore locale esamina una donna che lamenta dolori al petto
Chabad del Nepal distribuisce cibo a nepalesi nel bisogno
Nepal - Israele "adotta" un villaggio

Un villaggio nepalese da "adottare". Ricostruendolo dalle fondamenta, ripristinando i servizi di base e anche quelli accessori, prestando soccorso alla popolazione, mostrando il volto di un'umanità che non torce lo sguardo altrove ma è impegnata per alleviare le sofferenza di chi ha perso tutto in pochi secondi. È la nuova sfida di Israele, già in prima fila da giorni nell'azione di assistenza straordinaria attivata poche ore dopo il sisma.
"Quando nella storia recente si sono verificati cataclismi naturali Israele c'è sempre stato. Siamo stati ad Haiti, in Giappone e in Turchia. Siamo e resteremo ancora a lungo in Nepal" ha affermato il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman.
L'adozione del villaggio nepalese, che verrà individuato nei prossimi giorni, prevede un'azione intensiva sul territorio che si svolgerà nell'arco di alcuni mesi, concertata direttamente con il governo centrale di Katmandu. "Appena la situazione sarà maggiormente stabilizzata, ci confronteremo con il governo e con i nostri professionisti così da individuare la strada più efficace da percorrere", conferma il direttore generale del ministero Nissim Ben Shitrit.

(moked, 3 maggio 2015)


Il Sinai e la teoria dell'accordo segreto tra Usa e Fratelli Musulmani

di Paul Attallah

Ci sarebbe stato un accordo segreto tra amministrazione Obama e Fratelli Musulmani per porre il Sinai sotto il controllo di Hamas. Lo proverebbe un documento sequestrato a Morsi ora al centro di un'inchiesta della magistratura egiziana.

La liberazione del Sinai fu completata nel 1988 quando il presidente Hosni Mubarak issò la bandiera egiziana a Taba, l'ultima zona della penisola ancora occupata. Era il 25 aprile.

 L'ipermarket di Obama
  Obama, nel nome di Israele con i dollari del popolo Americano, aveva aperto un ipermarket in Medio Oriente e cominciato il suo nuovo business comprando il 40% del Sinai per soli 8 miliardi di dollari affinché venisse annesso a Gaza. Secondo la fonte di questa notizia, Obama aveva versato già questa cifra ai Fratelli Musulmani, prima che gli egiziani li mandassero al diavolo. Sta di fatto che il Sinai è rimasto territorio egiziano. Che fine hanno fatto, dunque, quei dollari? Questo spiegherebbe perché l'amministrazione Obama non sostiene la guerra contro i terroristi in Sinai con il pretesto che c'è stato un golpe in Egitto. La questione non è il golpe, il problema sono quei dollari scomparsi. Dollari che proverebbero che Obama avrebbe spinto affinchè i terroristi si impossessassero con la forza del Sinai.

 Riscontri e video
 
  L'amministrazione Obama siglò un accordo segreto con I Fratelli Musulmani (non con il governo egiziano) per ottenere il 40% del Sinai affinchè fosse annesso a Gaza questa parte del territorio egiziano. L'obiettivo era facilitare la conclusione di un accordo di pace tra Israele e Palestinesi. L'accordo fu firmato da Khairat al Shater (numero 2 della Fratellanza), da Mohammed Morsi e dalla Guida suprema del movimento. Alla Fratellanza fu versata la cifra di 8 miliardi di dollari. Il documento fu sequestrato dall'esercito dopo la deposizione di Morsi. Ed è l'esercito che ha diffuso la notizia. Su questa circostanza è in corso un'indagine su Morsi e al Sheter. E un ordine di arresto è stato spiccato nei confronti della Guida suprema della Fratellanza e di altri esponenti del suo ufficio. I firmatari dell'accordo rischiano la pena di morte per alto tradimento. L'amministrazione Obama avrebbe negoziato con l'attuale presidente al Sisi (che è capo del Consiglio Supremo delle Forze Armate), promettendo il riconoscimento della legittimità del "golpe" in cambio del silenzio sull'accordo segreto. Ma al Sisi si sarebbe mostrato più interessato a punire la Fratellanza e al discredito dell'organizzazione, che è la principale fonte di danno per il paese. I membri repubblicani del Congresso si stanno occupando seriamente del caso. E c'è chi sostiene che, se confermato da riscontri, potrebbe portare alla richiesta di impeachment per Obama.
  Secondo il canale arabo di informazione Channel TV14, ripreso dal Daily News egiziano, i rapporti di Obama con il deposto presidente islamico Mohammed Morsi sarebbero andati al di là di un mero sostegno concesso a un capo di stato democraticamente eletto. Secondo TV 14 Obama avrebbe condotto trattative segrete con Morsi e con la Fratellanza fuori dei normali canali diplomatici e avrebbe trasferito 8 miliardi di dollari alla Fratellanza - non al governo egiziano - a garanzia del trasferimento del controllo del Sinai ad Hamas, nemico giurato di Stati Uniti e Israele. L'accordo segreto sarebbe stato siglato dal deposto presidente Morsi e dal suo secondo in comando Khairat al Shater. Non è chiaro chi ha firmato l'accorto da parte americana e da dove Obama avrebbe preso gli 8 mld di dollari. Quando Morsi fu deposto e arrestato, l'accordo venne scoperto e sequestrato.
 
  Se verrà confermata l'autenticità dell'accordo segreto di Obama con i Fratelli Musulmani, questo potrebbe decretare la fine della sua amministrazione. Obama potrebbe essere accusato di avere stornato illegalmente denaro del Tesoro americano nel tentativo di assicurare terra a un gruppo nemico degli Stati Uniti, che ha come obiettivo quello di cancellare gli ebrei dalla faccia della terra. Se il malefico piano fosse stato realizzato e il Sinai fosse stato posto sotto il controllo di Hamas Israele si sarebbe venuta a trovare in una posizione indifendibile e avrebbe rischiato un secondo olocausto. Se verrà confermata l'autenticità del piano, questo costituirebbe ben più che la base di partenza, secondo la Costituzione americana, per richiedere l'impeachment. L'accusa per Obama potrebbe essere quella di alto tradimento, un crimine che prevede l'ergastolo e anche la pena capitale. Hillary Clinton sarebbe stata sorpresa a lavorare con la moglie del deposto presidente Morsi al tentativo di rovesciare l'attuale leadership egiziana. "Naglaa Mahmood ha apertamente ammesso che le sue relazioni con c Clinton risalgono agli anni Ottanta e che possiede centinaia di file registrati delle conversazioni telefoniche con Hillary e con altri funzionari dell'amministrazione americana". "C'è anche l'accusa che Zero e Hillary avessero tentato di corrompere i Fratelli Musulamani con quegli 8 mld di dollari per dare il Sinai ad Hamas e poi far sì che essi attaccassero Israele".
  Durante la Primavera araba, il popolo egiziano si è ribellato e ha rimosso il presidente Hosni Mubarak. Nel vuoto di potere che ne è seguito i Fratelli Musulmani hanno conquistato il controllo dell'Egitto. Gli egiziani hanno subito capito di aver sbagliato a permettere che ciò avvenisse e hanno rovesciato il regime militare. Il presidente Obama, le cui ingerenze in politica estere sono avvenute sempre dal lato sbagliato, ha offerto sostegno ai Fratelli con l'esercito, i carri armati, i caccia e il denaro. Ma i Fratelli Musulmani sono stati equiparati a un'organizzazione terroristica in Egitto, e questo ha fatto sì che gli aiuti di Obama si trasformassero in finanziamenti al nemico, e gli Egiziani non hanno dimenticato che Obama, o l'ex Segretario di stato Hillary Clinton avesse aiutato la Fratellanza. Secondo Western Journalism, accuse sarebbero state formulata dalla magistratura egiziana anche nei confronti della Clinton e di Obama per cospirazione e complicità con i Fratelli Musulmani in numerosi crimini. (H/T Conservative Tribune). Il Presidente Obama sarebbe stato citato come complice dei crimini commessi dai Fratelli Musulmani in Egitto. Crimini che includono l'omicidio, la violenza, lo stupro, la tortura, l'estorsione, la riduzione in schiavitù, la pulizia etnica dei cristiani copti.

(Futuro Quotidiano, 3 maggio 2015)


Aviareps Gsa italiano di Arkia

La compagnia israeliana opererà due voli da Firenze e uno da Bologna verso Tel Aviv

La compagnia aerea israeliana Arkia Israeli Airlines ha scelto Aviareps come nuovo General sales agent (Gsa) per il mercato italiano. La nomina, con effetto immediato, affida ad Aviareps la gestione dello sviluppo vendite, delle prenotazioni e dei servizi di biglietteria, oltre a un supporto diretto al trade italiano. Da metà maggio il vettore opererà due voli settimanali Firenze Peretola-Tel Aviv con aeromobile Embraer 190 da 110 posti. Inoltre, Arkia lancerà dal 16 giugno un volo settimanale Bologna-Tel Aviv a bordo di Embraer 95 da 120 posti. "Offrendo nuovi collegamenti aerei tra alcune importanti città italiane e Tel Aviv - dichiara Ezer Shafir, vp commercial d Arkia - conseriamo l'Italia un mercato strategico di grande importanza, che contribuirà fortemente alla nostra crescita nel corso degli anni a venire".
Arkia offre poi voli domestici diretti a Eliat, oltre a una vasta scelta di pacchetti pensati per i turisti che desiderano visitare Israele. "Siamo molto onorati ed entusiasti di essere stati scelti da un vettore ambizioso, affidabile e dinamico come Arkia - afferma Giulio Santoro, general manager Aviareps Italia - per consolidare il proprio marchio sul mercato italiano e incrementare le vendite, grazie a un'azione mirata, proattiva ed efficace".

(Guida Viaggi, 3 maggio 2015)


«Nascosta fra le suore in un manicomio braccata dai fascisti»

Adele Segre racconta la sua storia e quella della famiglia. La scuola all'Uccellis, il padre alle Weissenfels. Poi la fuga.

di Vincenzo Delle Donne

 
Adele Segre
UDINE - Adele Segre, classe 1920, nata da un'abbiente famiglia ebrea piemontese fu "scaraventata" a Udine dove visse con la famiglia dal 1931 al 1938 frequentando l'Uccellis. Il padre fu sostenitore convinto dell'irresistibile ascesa di Benito Mussolini.
Adele Segre fu testimone oculare del fascismo in Friuli e in Italia, e ha vissuto sulla propria pelle le drammatiche ripercussioni delle leggi razziali e la persecuzione ad opera dei nazifascisti.
Dopo l'8 settembre del 1943, insieme alla madre, fu costretta a nascondersi in un manicomio di Racconigi dove ci rimase fino alla fine della guerra.
Il fratello, Vittorio Dan Segre, che aveva frequentato lo Stellini, si rifugiò a 17 anni in Palestina e si guadagnò fama internazionale come diplomatico dello stato d'Israele, giornalista e scrittore con l'autobiografia "un ebreo fortunato".
Lo zio Guido Segre, invece, fu uno degli uomini d'affari italiani più importanti degli anni trenta e amico di Mussolini. Nel 1938 anch'egli dovette nascondersi sotto il falso nome Giovanni Fabbri in Vaticano. Guido Segre cambiò addirittura nome assumendo il cognome della moglie austriaca Metz, italianizzato poi in Melzi.

- Adele Segre, ci vuole raccontare qualcosa della sua famiglia?
  «Vivevamo a Torino, quando papà ebbe un crack finanziario che ci costrinse a cambiare il paese e a venire a Udine. Papà aveva trovato lavoro vicino Tarvisio, alle accaierie Weissenfels. Noi abitavamo a Udine e ci siamo rimasti per quasi 10 anni, fino all'emanazione delle leggi razziali».

- Che aria si respirava a Udine allora?
  «Allora era una città molto tranquilla, si viveva molto bene. Mia madre sera molto inserita nella società. S'impegnava molto nel volontariato».

- La sua famiglia era praticante?
  «Era una famiglia un po' particolare. Mia madre era molto vicina alla religione cattolica, fin da ragazza, A Torino frequentava delle persone che non erano israelite. Mio padre invece era cresciuto in una famiglia ebraica molto tradizionale. Io e mio fratello siamo cresciuti consci di essere ebrei. Non siamo stati molto educati perché papà non professava molto la religione ebraica».

- Andavate a Udine in sinagoga?
  «A Udine la sinagoga era in un piccolo appartamento al piano terra. Veniva ogni tanto un rabbino da Venezia e lì facevano le feste ebraiche. Inoltre questo rabbino aveva istituito una specie di corso per insegnare ai 5 o 6 ragazzi ebrei di Udine della famiglia Ferro e della famiglia Gentile con cui eravamo naturalmente molto amici. Questo rabbino che era un ungherese e si chiamava Schreiber ci insegnava a commentare la bibbia e celebrava le grandi solennità: Pasqua, Kippur …».

- E sua madre che ne pensava?
  «Mia mamma si è convertita alla religione cattolica quando la guerra era scoppiata. Papà, che l'adorava, le aveva permesso il battesimo ufficiale».

- Ci racconti dell'Uccellis?
  «L'Uccellis era un ambiente borghese con ragazze di buona famiglia che venivano da fuori, soprattutto dall'Istria, da Fiume, da Spalato, Abbazia, Portorose. Sono entrata nel 1931 e sono uscita nel settembre del 1938».

- Sentiva come peso il fatto di essere ebrea?
  «No, non me lo hanno mai fatto sentire. Mai. Mi son sempre trovata bene e avevo amicizie più cattoliche che ebree, anche perché gli ebrei erano pochi».

- Poi c'è stata l'ascesa del fascismo.
  «Le devo dire che mio padre era molto fascista. Lui era entrato nella milizia a Udine. E la domenica, in qualità di senior, partiva. Certe volte con dei gruppi e osservavano tutti i confini con l'Austria, la Slovenia. Questo a lui piaceva molto. Queste riunioni lui le adorava perché era un fascista convinto».

- Che sostegno aveva il fascismo a Udine?
  «Ricordo in particolare che quando Mussolini dichiarò la guerra all'Abissinia, in quella che oggi è piazza Primo Maggio c'era una folla oceanica».

- Poi Mussolini, però, prese la sciagurata decisione di emanare le leggi razziali…
  «Noi eravamo a Fusine, vicino la fabbrica dove lavorava mio padre. Mio zio Guido Segre, il fratello di mio padre che a Trieste era una persona molto importante, quel giorno chiamò immediatamente papà. Ricordo che mio zio era distrutto, mio padre era distrutto. Eravamo tutti distrutti perché non sapevamo a cosa saremmo andati incontro. Mio zio lasciò tutto in mano ai vari direttori d'aziende. Mio padre fu costretto a lasciare il lavoro. Ed io dovetti lasciare la scuola anche se speravo fino all'ultimo che così non sarebbe stato. Io mi sono disperata e mio fratello con me: era il primo della classe. I suoi professori allo Stellini erano molto dispiaciuti che lui andasse via».

- Quali i presagi?
  «Alcuni ci mettevano in guardia. L'anno prima in cui fossero emanate le leggi razziali avevamo ospite un ragazzo ebreo che scappava dall'Ungheria che ci aveva già aperto gli occhi. Quel ragazzo è stato nostro ospite per un mese, poi è scappato in Palestina».

- Cosa fecero invece gli altri amici ebrei dopo l'emanazione delle leggi razziali?
  «Molti della nostra famiglia avevano già pensato ad andarsene dall'Italia. Sono andati nell'America del Sud, molti nell'America del Nord. Altri sono andati in Svizzera. Papà, invece, che era fascista era ottimista. "Ah - diceva - a noi non succederà niente. A noi, no!" E siamo rimasti in Italia. Quando appresi dell'uccisione di oppositori e delle loro famiglie in Austria ad opera di Hitler, capì che le cose si sarebbero messe male. Poi abbiamo incominciato a vedere e sentire che qualcosa sarebbe successo anche da noi in Italia. Ma papà insisteva e a noi non è rimasto altro da fare che rimanere in Italia».

- Forse suo padre contava anche suoi meriti guadagnati durante la Prima Guerra Mondiale.
  «Sì! Lui, in quel periodo, era ottimista anche perché aveva combattuto durante la Prima Guerra Mondiale sul Carso. Lui era stato un'ufficiale addetto al Generale Cadorna. Aveva il grado di capitano e si sentiva molto italiano».

- Poi le cose però sono cambiate.
  «Dopo il 1938, mio padre ha spedito a Torino me e mio fratello. Vittorio poi s'imbarcò a Trieste su una nave del Lloyd per la Palestina. Ci sarei dovuta finire anch'io, infermiera in uno degli ospedali. Papà mi aveva trovato un posto in una scuola dell'ospedale di Gerusalemme. Era la fine del 1940 ed ero disperata: non volevo lasciare i miei genitori. "Abbiamo salvato un figlio, salveremo anche te", ripetavano. "Noi siamo vecchi e accettiamo la vita che ci sarà qua in Italia". Ma il 10 giugno del 1940 Mussolini dichiara guerra alla Francia al fianco di Hitler. Furono bloccate le frontiere e non sono più partita».

- Arriviamo al settembre del 1943...
  «Nella notte tra l'8 e il 9 settembre del 1943 venne il parroco di Govone a suonare alla nostra porta, erano le quattro del mattino. Papà era stato sindaco e poi Podestà di quel paese. Tutti gli volevano bene. Papà per precauzione aveva comprato per noi tre le tessere false pagandole con lingotti d'oro. Il parroco ci disse che era arrivato l'ordine di arrestarci, ma il maresciallo dei carabinieri avrebbe fatto finta di non aver ricevuto l'ordine per 48 ore. Ci disse di scappare. La mamma si rivolse al Cottolengo: "Venite al manicomio. Vi mettiamo nel reparto delle suore, qui nessuno vi tocca!". Papà si nascose nella casa di Govone. Tutti lo sapevano in paese, ma nessuno lo denunciò. Quando c'erano i rastrellamenti si nascondeva in una grotta del giardino. Noi, invece, abbiamo vissuto 20 mesi nel manicomio di Racconigi».

- Che vita facevate in manicomio?
  «La mamma era stata messa in un reparto dove rammendava e io invece vivevo in mezzo ai pazzi. Poi sono diventata l'aiuto della suora che faceva da segretaria e ho imparato a scrivere a macchina. Avevo il grembiule da pazza e passavo le mie giornate con loro. Solamente una volta alla settimana io uscivo con le ragazze pazze perché dicevano "è giovane e deve uscire".

- Ci furono mai rastrellamenti in manicomio?
«Due volte ho dovuto mettere, assieme a mia madre, l'abito da suora: i tedeschi entravano anche in manicomio e ci mettevano tutti in fila; anche le suore. Per fortuna è sempre andato tutto liscio».

- Quale insegnamento ha tratto dalla sua storia?
«Non bisogna dimenticare quello che abbiamo passato, quello che abbiamo sofferto. Sono cose tremende che ci portiamo dentro e che ci porteremo fino alla morte. Cose del genere non devono più ripetersi. Tantissima gente è morta senza colpa e nelle maniere più tragiche. Impariamo da questa storia a costruire un mondo dove cose del genere non si ripetano più».

(Messaggero Veneto, 3 maggio 2015)


Israele: "Pericolo di attentati anti-ebrei sull'isola di Gerba il prossimo 7 maggio"

Tunisi smentisce, ma da Gerusalemme avvertimento agli israeliani: "Per la festa di Lag BaOmer rischio di attacchi terroristici come quelli del 2002"

GERUSALEMME - L'ufficio di Benjamin Netanyahu ha rivelato di aver avuto notizia di "minacce concrete" di attacchi contro ebrei sull'isola di Gerba (già colpita da un sanguinoso attentato di al Qaeda nel 2002) in Tunisia in vista della festività ebraica di 'Lag BaOmer' che cade giovedì prossimo 7 maggio. Minacce la cui attendibilità è stata smentita dal governo di Tunisi che sta ancora tentando di riconquistare la fiducia dei turisti dopo il tragico attentato al museo del Bardo a Tunisi, lo scorso 18 marzo, in cui morirono 21 persone tra cui 4 italiani.
In una dichiarazione, l'ufficio del primo ministro israeliano rendo noto di aver ricevuto "informazioni che indicano l'esistenza di piani di attacchi terroristici contro obiettivi israeliani o ebrei in Tunisia".
La festa di 'Lag BaOmer' prevede la visita alle tombe di famosi rabbini, inclusa una sull'isola tunisina di Gerba, dove risiede ancora una delle poche comunità ebraiche del mondo arabo.
A Gerba nel 2002 vennero massacrate 19 persone (14 tedeschi, un francese e 4 tunisini) quando l'11 aprile un'autocisterna di benzina venne lanciata conro la sinagoga di El Ghriba.

(la Repubblica, 3 maggio 2015)


Teoria iraniana sulla morte del procuratore argentino Nisman

di Pio Pompa

ROMA - Mentre le trattative sul nucleare iraniano tra Teheran e Washington dovrebbero chiudersi a fine giugno con la firma di un accordo definitivo sulla base di quello provvisorio siglato a Losanna in Argentina l'ombra del regime degli ayatollah si allunga su un'altra storia, quella della morte del procuratore di Buenos Aires Alberto Nisman, avvenuta il 18 gennaio scorso. Nisman, di origine ebraica, aveva osato accusare il presidente argentino, Cristina Kirchner, e il suo ministro degli Esteri, Héctor Timerman, di aver coperto le responsabilità dell'Iran nell'attentato che, nel 1994, colpì la comunità ebraica di Buenos Aires provocando la morte di 85 persone. Secondo il procuratore, le autorità argentine occultarono le responsabilità di Teheran in cambio di accordi economici favorevoli nel settore degli idrocarburi. Nisman accusò di cospirazione Kirchner e Timerman, con un'inchiesta monstre che sottolineava lo straordinario livello di penetrazione dell'intelligence iraniana e di Hezbollah in Argentina e altri importanti paesi dell'America latina, ma è stato trovato morto in casa sua nel giorno in cui sarebbe dovuto andare a discutere della sua indagine davanti al Parlamento argentino. La sua morte - le indagini non hanno ancora dimostrato se si tratta di suicidio o di omicidio - ha provocato un enorme scandalo in patria, ma la settimana scorsa un giudice, tra molte polemiche, ha sollevato la presidente e il ministro Timerman da ogni accusa.
   Ma c'è anche chi non la pensa così, come il sito di intelligence Debka, che di recente ha pubblicato un'inchiesta in cui ipotizza che Nisman sia stato ucciso, e che l'ordine sia partito da Teheran. Debka è una fonte di intelligence controversa che ad informazioni notevoli alterna teorie del complotto, e la pista iraniana è interessante quanto scivolosa. Ad assassinare Alberto Nisman, scrive Debka, sarebbe stato un sicario iraniano che, spacciandosi come dissidente sotto il falso nome di Abbas Haqiqat-Ju, frequentava da quattro anni il procuratore. Quando, a indagine ormai finita, Haqiqat-Ju riceve l'ordine di eliminare Nisman, pianifica con cura l'operazione. Dice a Nisman che c'è un secondo dissidente, già alto funzionario dei servizi iraniani, fuggito dal suo paese con una imponente documentazione in grado di corroborare le sue accuse. Nell'occasione avverte Nisman che il dissidente in questione è disposto a consegnargli personalmente la documentazione a condizione che egli si liberi della scorta, composta da dieci uomini, e lo riceva a casa sua. Quando il 18 gennaio il magistrato sente bussare all'uscio di casa pensa di incontrare il dissidente descrittogli dal suo amico e confidente. Invece, scrive Debka, gli si presenta proprio Haqiqat-Ju. Mentre il magistrato, in attesa di avere spiegazioni sul mancato appuntamento gli prepara da bere, il sicario entra in azione. Sapendo dove Nisman custodiva una pistola calibro 22, chiesta in prestito a un suo collaboratore, Haqiqat-Ju impugna l'arma e uccide il procuratore. Poi lascia l'edificio sapendo che i suoi complici dentro ai servizi argentini avevano disattivato le telecamere di sicurezza. Si reca all'aeroporto e con un passaporto falso raggiunge prima Montevideo, in Uruguay, poi Dubai e, infine, Teheran. "Inoltre - puntualizzano le nostre fonti - alla riuscita della missione affidata a Haqiqat-Ju hanno contribuito in maniera determinante, specie sotto il profilo dell'assistenza materiale e logistica, agenti di Hezbollah da anni infiltrati in Argentina e in altri paesi dell'America latina, tra cui l'Uruguay dove, non a caso, il sicario ha fatto la sua prima tappa raggiungendo Montevideo".
   La teoria esposta da Debka presenta molti punti oscuri, e secondo i magistrati argentini la soluzione più probabile resta quella del suicidio. Ma secondo Debka, se qualcuno vuole trovare l'assassino di Nisman, bussi alle porte di Teheran.

(Il Foglio, 3 maggio 2015)


Gli Ebrei? Scorpioni

di Giulio Busi

Si vanno a cacciare nei posti più impensati. Ma non sono timidi, anzi. Li diresti dei simpatici esibizionisti, se non fosse per le tenaglie, l'aculeo e quella fama velenosa che li circonda. Nel Miracolo dell'ostia profanata di Paolo Uccello a Urbino, ecco uno scorpione che campeggia nello stemma sul camino. Un altro si aggrappa alla casacca del soldataccio che spinge con la lancia Gesù lungo la Via crucis. Gialla la veste, nero lo scorpione, perfido il milite. il quadro, questa volta, è di Giovanni Boccati, alla Galleria nazionale di Perugia.
E cosa vogliono dire, di grazia, siffatti scorpioncini invadenti? Servono da segnaposto, per far capire agli spettatori che i personaggi ritratti sono ebrei.
Sono solo alcuni tra i tanti esempi di pittura infamante, raccolti e spiegati da Giuseppe Capriotti in un bel saggio sulle immagini antiebraiche nell'arte marchigiana e umbra del Rinascimento.
Increduli e infedeli, velenosi come scorpioni, o scuri come demoni: l'arte al servizio della teologia di polemisti e predicatori deforma e deride gli ebrei. È un'aggressione visiva in punta di pennello. E come se non bastasse il pregiudizio, ci si mette l'abilità e l'inventiva dei pittori, a renderegli stereotipi ancora più grevi e minacciosi.
L'intolleranza fa capolino dappertutto, anche nei luoghi prestigiosi. Sugli altari allora, nei musei oggi, il disprezzo per figure va censito e studiato. L'odio peridiversièunabestiacosìbruttache, in confronto, il più tenebrosodegli scorpioni vi sembrerà un animaletto da salotto.


Giuseppe Capriotti, Lo scorpione sul petto. Iconografia antiebraica tra XV e XVI secolo alla periferia dello stato pontificio, Gangemi, Roma, pagg. 208, € 22.

(Il Sole 24 Ore, 3 maggio 2015)


La Germania ricorda i 70 anni dalla liberazione di Dachau, il primo lager nazista

 
Max Mannheimer, 95 anni, sopravvissuto all'Olocausto, ha sposato una combattente tedesca della Resistenza e si è stabilito nei pressi di Dachau dopo che il campo è stato liberato.
La Germania ricorda domani i settant'anni della liberazione di Dachau, primo lager aperto dai nazisti il cui nome rimane uno dei simboli degli orrori del regime di di Adolf Hitler. Alla cerimonia, nel sito vicino a Monaco di Baviera, saranno presenti il cancelliere tedesco Angela Merkel, ex prigionieri e veterani americani della divisione Rainbow che li liberarono.
   Hilbert Margol, 93 anni, fu uno dei quei soldati. Oggi racconta che quel giorno del 29 aprile 1945, prima di arrivare al campo, furono accolti da uno spaventoso fetore. Lui e il fratello gemello furono mandati in avanscoperta per capirne l'origine e si trovarono davanti a pile di cadaveri abbandonati nell'infermeria e davanti ai forni crematori. I nazisti erano fuggiti qualche giorno prima, portando con sè circa 7mila prigionieri in una "marcia della morte" verso le Alpi, che costò la vita a centinaia di persone. Gli altri internati erano stati abbandonati nel lager. I soldati americani si trovarono davanti oltre 30mila persone denutrite, ammassate nelle baracche, che non riuscivano a credere alla loro liberazione. A poco a poco si riunirono al centro del campo, abbracciandosi fra grida e pianti di gioia.
   Dachau fu il primo lager aperto dai nazisti, ben prima che fosse decisa la "soluzione finale" per sterminare gli ebrei. I primi prigionieri vi arrivarono il 22 marzo 1933, poche settimane dopo l'avvento di Hitler al potere. Da allora vi furono rinchiuse più di 200mila persone. Per primi i prigionieri politici tedeschi: comunisti, socialisti e sindacalisti. Poi sacerdoti cattolici e protestanti, testimoni di Geova, ebrei, omosessuali, rom e sinti, membri della resistenza dei paesi occupati.
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   Secondo i documenti ritrovati, almeno 32mila persone morirono nel campo, ma si ritiene che siano state almeno 40mila le vittime. Molte esecuzioni, come quelle di migliaia di prigionieri russi, non furono mai registrate.
   Come primo campo lager nazista, Dachau fu una sorta di orribile palestra di addestramento per le SS che vi impararono "a considerare inferiori chi pensava in modo diverso da loro e ad assassinarli a sangue freddo", come sottolinea un saggio sul lager dello storico Wolfgang Benz e della ex direttrice del suo museo, Barbara Distel.
   I prigionieri erano costretti a lavorare in condizioni inumane per la costruzione di strade o nelle industrie di armamenti. E ogni giorno uscivano dal campo passando sotto la terribile scritta "Arbeit macht frei" (il lavoro rende liberi), che sarà poi replicata all'ingresso di altri lager nazisti. Della scritta, rubata da ignoti lo scorso novembre, è stata realizzata una copia per le cerimonie di domani. I gruppi di lavoro furono distribuiti nei paraggi del lager, creando una serie di 169 campi satellite.

(Adnkronos, 2 maggio 2015)


Giovani arabi che hanno scelto di far parte di Israele

Ma la maggior parte dei politici arabi israeliani preferisce alimentare alienazione, ostilità e pregiudizio.

Non invidio Lucy Aharish. Non è facile né semplice essere all'avanguardia. Lucy Aharish viene attaccata sia dalla destra estremista ebraica che dagli estremisti palestinesi: ancora una volta, l'alleanza di fatto fra estremisti ha espresso una posizione uniforme. Per i primi, Lucy Aharish è troppo palestinese perché sostiene la battaglia per l'eguaglianza, la riconciliazione e la pace. Per i secondi è troppo israeliana, perché ha scelto la strada dell'integrazione.
Aharish è all'avanguardia perché si rifiuta di giocare secondo le regole del branco. Il branco esige odio e sobillazione. Il branco è contro il riconoscimento di diritti ai palestinesi o il riconoscimento di diritti agli ebrei. Il branco è molto potente nel settore arabo, ma dobbiamo ammettere che è presente anche in una parte della élite ebraica d'Israele e anche da qui sono arrivati degli attacchi contro Lucy Aharish....

(israele.net, 2 maggio 2015)


Germania - Neo-nazi assaltano il raduno del Primo maggio a Weimar

Si è concluso con l'arresto di 29 militanti di estrema destra il raduno del Primo maggio a Weimar, nella regione tedesca della Turingia.
In cinquanta, hanno assaltato il palco da cui parlavano rappresentanti sindacali ed esponenti politici, aggredendo il sindaco Stefan Wolf e altri manifestanti: quattro le persone ferite.
Nessuna conseguenza, tranne lo spavento, per il deputato socialdemocratico Carsten Schneider che stava tenendo un discorso al momento dell'attacco. Il politico, che si è detto sotto choc, ha raccontato che gli aggressori gli hanno strappato dalle mani il microfono per urlare slogan nazisti.
Il raduno, a cui partecipavano duecento persone, era stato organizzato per protestare contro l'erosione del salario minimo.

(euronews, 2 maggio 2015)


L'Ucraina antisemita fa più paura del pericolo Jihadista

L'ultimo rapporto dell'Agenzia Ebraica mondiale

di Umberto De Giovannangeli

In fuga da Putin, e dall'antisemitismo che imperversa in Ucraina, piuttosto che dai jihadisti che hanno portato il "verbo" e la pratica terroristica dello Stato islamico nel Vecchio Continente. La memoria torna ai giorni successivi al duplice attacco terroristico di Parigi, contro il settimanale satirico Charlie Hebdo e il super market kosher nel cuore della capitale francese. Subito dopo altre azioni terroristiche di matrice antiebraica si ebbero in Danimarca, con il sanguinoso attacco alla sinagoga di Copenaghen, e, in misura minore, in altre parti dell'Europa del Nord. Supito dopo l'attentato di Copenaghen, il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, rivolse un accorato appello agli ebrei europei perché si trasferissero in Israele: "Degli ebrei sono stati uccisi di nuovo in Europa solo per il fatto di essere ebrei - affermò Netanyahu . Questa ondata di attentati si teme che possa durare a lungo, dando luogo a sanguinosi attacchi antisemiti. Naturalmente gli ebrei meritano di essere protetti in ogni Paese, ma noi diciamo ai fratelli e alle sorelle ebrei: Israele è la vostra casa. Ci stiamo preparando ad assorbire una immigrazione di massa dall'Europa". A tutti gli ebrei d'Europa dico che Israele vi attende a braccia aperte", assicurò il primo ministro, "Il terrorismo dell'islam fondamentalista ha di nuovo colpito in Europa. Di nuovo un ebreo europeo è stato ucciso in quanto ebreo e questo genere di attentati può nuovamente verificarsi". Netanyahu aggiunse che il suo esecutivo intende adottare un piano per incentivare l'immigrazione di giovani ebrei della Francia, dal Belgio e dall'Ucraina, per un ammontare complessivo di circa 45 milioni di dollari.

 La "chiamata" di Netanyahu
  All'appello-denuncia di Netanyahu, Il presidente francese François Hollande rispose che non permetterà "che le dichiarazioni rilasciate in Israele convincano gli ebrei di non poter più restare in Europa e in particolare in Francia". In Danimarca il capo rabbino Jair Melchior rimproverò Netanyahu, sottolineando che "il terrorismo non è una buona ragione per trasferirsi in Israele". John Mann, presidente della commissione del parlamento britannico contro l'antisemitismo, criticò con queste argomentazioni le dichiarazioni del primo ministro israeliano ."Netanyahu ha pronunciato le stesse parole dopo Parigi. È solo propaganda. Non è un caso che Israele si prepari alle elezioni generali. Non siamo disposti a tollerare che in questo Paese o in un altro Paese europeo gli ebrei si sentano costretti a partire". In quei giorni così drammatici, titoli a tutta pagina evocavano un esodo di massa degli ebrei francesi, inglesi, danesi, italiani….per timore di non essere sufficientemente protetti dagli epigoni di al-Baghdadi in azione nel Vecchio Continente.

 Fuga dall'Ucraina più che dalla Francia
  Ora, le parole lasciano il passo ai fatti. O per meglio dire, ai dati. Quelli forniti dall'Agenzia Ebraica, di cui l'Huffington Post ha preso visione. Ebbene, quei dati raccontano un'altra storia, e offrono altri titoli. Il dato complessivo, anzitutto: nei primi quattro mesi del 2015, l'immigrazione in Israele, garantita dalla "Legge del Ritorno", è aumentata del 41% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente, il 2014. E la grande maggioranza di coloro che hanno compiuto l'Aliyah (Salita) proviene dall'Ucraina e da altre repubbliche dell'ex Unione Sovietica. All'incirca un terzo delle 6.499 persone "sbarcate" all'aeroporto Ben Gurion per l'Aliyah, rileva il rapporto dell'Agenzia Ebraica, provenivano dall'Ucraina, e un'altra parte significativa da altre repubbliche dell'ex pianeta sovietico. Nel dettaglio: nei primi quattro mesi del 2015, l'immigrazione ebraica dall'Ucraina in Israele, ha riguardato 1.971 persone nei primi quattro mesi del 2015 in rapporto alle 625 registrate nei primi tre mesi del 2014: un incremento percentuale del 215%. Alla base di questo incremento, rileva il rapporto, c'è la situazione di instabilità e di aperto conflitto che ha destabilizzato l'Ucraina dopo la rivolta che ha portato alla defenestrazione del presidente (filorusso) Viktor Yanukovych e alla successiva ribellione armata delle regioni a maggioranza russa dell'Ucraina.
  Tutto ciò ha provocato una crisi economica e finanziaria che, unita al rischio di essere coinvolti nella guerra, ha spinto molti gli ebrei ucraini ad affrontare la "Salita" verso Israele. Ricordava Daniele Raineri sul "Foglio" che il primo a sollevare la questione dell'uso spregiudicato dell'antisemitismo da parte del governo Yanukovich in occidente è stato Timothy Snyder, uno storico specializzato sull'Ucraina, che sulla "New York Review of Books" ha scritto che Kiev contemporaneamente chiede al mondo di schierarsi contro i rivoltosi antisemiti del Maidan e chiede alla polizia di sventare il complotto ebraico. Nei mesi cruciali della rivoluzione di "Piazza Maidan" ci sono stati atti antisemiti in Ucraina. Ebrei attaccati, sinagoghe imbrattate con svastiche. "Qualcuno ha dipinto svastiche su una sinagoga a Sinferopoli, in Crimea, lo stesso giorno dell'inizio dell'occupazione russa. Per vent'anni non era mai successo nulla - annota Zissels - In Crimea i nazionalisti ucraini sono praticamente assenti e gli ebrei di Crimea hanno relazioni cordiali con i tatari musulmani. Il rabbino di quella sinagoga pensa che questa sia stata una provocazione e io sono d'accordo perché le uniche forze interessate a destabilizzare la situazione in Crimea sono quelle filorusse. Il rabbino di quella sinagoga imbrattata con le svastiche ha poi firmato un messaggio aperto al mondo chiedendo protezione contro l'invasione russa. Non abbiamo prove concrete su quanto è successo, perché laggiù non ci sono state indagini, hanno altre cose a cui badare ora. Ma ci siamo fatti un'opinione al riguardo e corrisponde con l'opinione del rabbino, a proposito di questi atti d'aggressione". "Condanniamo tutte le espressioni di estremismo e intolleranza religiosa, incluso l'antisemitismo".
  Così si era espresso il segretario di Stato americano John Kerry in conferenza stampa dopo l'incontro internazionale a Ginevra sulla crisi ucraina, il 17 Aprile di un anno fa. In quel frangente, Kerry ha fatto esplicito riferimento alle "minacce" di deportazione e confisca dei beni rivolte agli ebrei ucraini nella città Donetsk, nell'Est del Paese, dai militanti filo-russi. "Questo tipo di comportamento - ha detto Kerry - non è solo grottesco, ma non sarà tollerato". Kerry ha poi aggiunto che nell'Est dell'Ucraina i "gruppi di militanti devono essere disarmati, così come le strade e gli edifici occupati illegalmente devono essere liberati". Negli stessi giorni, una richiesta urgente di aiuti veniva rivolta al premier israeliano Benyamin Netanyahu e al ministro della Difesa Moshe Yaalon dal direttore generale dell'Associazione delle organizzazioni ebraiche in Europa, il rabbino Menachem Margolin, in seguito al moltiplicarsi di episodi di antisemitismo in Ucraina. In particolare, riferivano i media israeliani, viene richiesto l'invio urgente in Ucraina di guardie di protezione. In parallelo il rabbino Margolin aveva chiesto all'Unione europea di insistere con gli attuali responsabili della sicurezza a Kiev affinché impedissero gli attacchi contro la minoranza ebraica. In Ucraina, concludeva il rabbino Margolin, per gli ebrei "si è creata una situazione di emergenza" . E' passato un anno da quell'accorato appello, ma l'emergenza antisemita denunciata dal rabbino Margolin non solo non è finita ma, come dimostrano i dati dell'Agenzia Ebraica, si è ulteriormente aggravata.

 Fuga dalla Russia
  Quella della "Salita" verso Israele è scelta compiuta anche da tanti ebrei russi. L'Aliyah dalla Russia, evidenzia il rapporto dell'Agenzia Ebraica mondiale, ha avuto una drammatica impennata, passando (il rapporto è sempre fra i primi quattro mesi del 2015 e l'analogo periodo del 2014), da 1.016 a 1.515. A pesare in questo caso, è la crisi economica che ha investito la Federazione Russa, una crisi esacerbata dalle sanzioni imposte dall'Occidente a Mosca dopo l'annessione, avvenuta lo scorso anno, della Crimea. Quanto ai Paesi segnati dagli attacchi jihadisti, per ciò che concerne la Francia, dal Gennaio a Marzo di questo anno, sono 1.413 gli ebrei francesi che hanno deciso di emigrare in Israele, a fronte dei 1.271 dello stesso periodo dell'anno precedente. Una variazione minima, anche se resta la gravità della ragione primaria che ha motivato questa scelta, e che fa riferimento non solo alla paura di essere bersaglio dei jihadisti ma anche per le violenze antisemite che hanno segnato precedentemente la Francia. Un rapporto pubblicato dal ministero per gli Affari della Diaspora e realizzato dal «Forum per il coordinamento contro l'antisemitismo», sottolinea come nel 2014 vi è stato "un aumento del 400% di incidenti antiebraici» dovuto in gran parte a gruppi arabo-musulmani che in Europa hanno sfruttato il conflitto a Gaza per lanciare ogni sorta di attacchi ed aggressioni.
  In questo contesto, "è la Francia la nazione dove oggi è più pericoloso essere ebrei» recita il rapporto, attestando un aumento del 100% degli "attacchi razzisti": da aggressioni con coltelli a bottiglie molotov, da stupri a danneggiamenti alle proprietà fino alla strage al minimarket kosher parigino. "È l'antisemitismo di matrice islamica a generare la maggior parte degli incidenti antisemiti - aggiunge il rapporto - che avvengono in Paesi occidentali dove vivono numerose comunità di musulmani". In Europa, il 40% degli ebrei confessa di tenere nascosta la propria fede, secondo una ricerca condotta dal Centro rabbinico europeo e dall'European Jewish Association. L'Anti-Defamation League (gruppo che combatte la diffamazione nei confronti degli ebrei, fondato nel 1913 negli Usa) ha condotto un'indagine secondo la quale il 24% dei cittadini europei nutre sentimenti antisemiti.

 Memoria e futuro
  Un tema, quello dell'antisemitismo, che va affrontato anche in termini di mantenimento in vita di una memoria storica che rischia di cancellarsi nell'oblio. "Sono preoccupato - annota Abraham Yehoshua, tra i più affermati scrittori israeliani - del fatto che, purtroppo, il virus dell'antisemitismo non è stato debellato. Si è indebolito, oggi non può mostrarsi in tutta la sua virulenza perché considerato inadatto, sconveniente, ma nelle sue nuove mutazioni continua ad essere presente e a lanciare anatemi e accuse spesso ingiuste contro Israele. Io sono il primo a sollevare critiche sugli errori dei governi israeliani, ma nello stesso tempo individuo spessissimo in molti degli attacchi portati a Israele cose che con le divergenze politiche non hanno nulla a che fare e che riportano invece a meccanismi che vorremmo cancellati. So che debellare completamente l'antisemitismo è un obiettivo proibitivo. Ma non lo è il combatterlo sotto ogni sua forma. L'Europa lo deve combattere con tutta la sua forza. Non per il bene degli ebrei ma per il proprio bene. Per la salute delle proprie società. Per non permettere che questo virus si espanda e colpisca le parti vitali del proprio organismo". La memoria dell'Olocausto sembra smarrirsi: c'è chi afferma che ciò è un bene, che ricordare serve solo a perpetuare antiche divisioni.
  Di questo avviso non è Elie Wiesel, il grande scrittore Premio Nobel per la Pace, sopravvissuto ai lager nazisti. "Dimenticare le vittime - afferma -significa null'altro che infliggere loro una seconda morte! Una vera riconciliazione, inoltre, non può avvenire che a partire dal ricordo, preservando la memoria di ciò che furono quegli anni. È vero: oggi c'è chi esalta l'oblio, chi ritiene giunto il momento di archiviare il passato. A questa operazione sento il dovere morale di ribellarmi, ieri come oggi: perché per nessuna ragione al mondo è possibile cancellare la distinzione tra il carnefice e la sua vittima. Ed ancor oggi l'Olocausto insegna che quando una comunità viene perseguitata tutto il mondo ne risulta colpito". Senza memoria non c'è futuro. Soprattutto quando il presente è ancora marchiato da indicibili sofferenze: "Guardiamoci attorno - invita Yehoshua : gli orrori presenti non hanno toccato i vertici della seconda guerra mondiale, ma gli avvenimenti del Biafra, del Bangladesh o della Cambogia, la pulizia etnica in Bosnia, la guerra in Siria che ha provocato centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi, non sono poi così lontani dalla violenza del massacro nazista.
  E allora, noi ebrei, in quanto vittime del microbo nazista, dobbiamo essere portatori degli anticorpi di questa malattia tremenda, da cui ogni popolo può essere affetto. E in quanto portatori di anticorpi dobbiamo anzitutto curare il rapporto con noi stessi. Dobbiamo farlo, per scongiurare il rischio di restare indifferenti al male. Poiché dietro di noi c'è una sofferenza così terribile, potremmo essere indifferenti a ogni sofferenza meno violenta della nostra".

(L'Huffington Post, 2 maggio 2015)


Così i droni di Hezbollah aiuteranno il regime di Assad

Per gli analisti, il drone più probabilmente indicato per l'utilizzo nella base nella libanese Valle della Bekaa è l'Ababil-3, di fabbricazione iraniana.

Drone Ababil-3 di fabbricazione iraniana
Secondo gli analisti dell'inglese IHS Jane's, una stimata azienda che raccoglie notizie sugli armamenti, nuove foto satellitari della libanese Valle della Bekaa - una zona controllata dai miliziani sciiti di Hezbollah (il "Partito di Allah") - dimostrerebbero chiaramente che il gruppo dispone di moderni droni militari, mini-aerei senza pilota capaci di colpire bersagli molto distanti.
Hezbollah, secondo i punti di vista, o è una pericolosa formazione terroristica (la visione Usa) o sostanzialmente un movimento sociale che a tempo perso appoggia in maniera un tantino pesante l'indipendenza del popolo palestinese (l'opinione di buona parte della sinistra europea).
Ad ogni modo, le foto in questione mostrano la recente costruzione di una piccola pista d'atterraggio in una zona brulla e impervia della Valle. La precisa destinazione a uso dei droni è confermata dalle dimensioni in miniatura - è larga solo venti metri - nonché la posizione molto isolata.
Nella versione dell'arma fornita da Teheran a Hezbollah, senza un sistema di guida satellitare, la portata è limitata a circa 100 km, una caratteristica che - insieme con la presenza della pista vicino al confine con la Siria - suggerisce che gli Ababil verranno utilizzati per la difesa di posizioni controllate dalle truppe del presidente siriano, Bashar al-Assad, appoggiato nella guerra civile in corso dal Partito di Allah.
Dal sito attuale, i droni islamici non possono raggiungere bersagli in Israele né in Occidente. Meno male.

(formiche.net, 2 maggio 2015)


Expo: «Un'occasione unica per raccontare la nostra tradizione»

Grandi chef, eventi, dibattiti, corner gastronomici… Ma anche accoglienza, cena e pranzo dello Shabbat e un info point su funzioni, orari, itinerari e prodotti kasher. La comunità ebraica di Milano sarà anche presente a "Expo in città", in ottobre, con numerose iniziative. Ne Parlano i due Copresidenti di Milano, Milo Hasbani e Raffaele Besso.

MILANO - Fresco di nomina, insediatosi nello scorso aprile al governo della Comunità Ebraica di Milano, il Consiglio formato da 17 membri, ha espresso due Copresidenti, Milo Hasbani e Raffaele Besso. L'operatività del mondo ebraico milanese è quindi ripartita anche per quanto riguarda il coinvolgimento all'Expo, a livello istituzionale.
   «Per l'ebraismo italiano, Expo è un'ottima occasione per farsi conoscere, con le sue peculiarità, la sua tradizione, il suo genius loci, diverso non solo da regione a regione, ma da città a città. Abbiamo tanto da offrire in termini di percorsi culturali: dagli itinerari culinari kasher a quelli religiosi (pensiamo solo alle splendide sinagoghe del nord Italia), passando per la storia dell'ebraismo italiano, assai poco conosciuta all'estero», spiega il Copresidente della Comunità Raffaele Besso. E prosegue: «è un'occasione anche per creare nuovi contatti e nuove opportunità - magari anche di lavoro - per i nostri iscritti. Insomma, abbiamo un'occasione per farci conoscere: e fare in modo che il visitatore di Expo voglia poi tornare una seconda e una terza volta ad approfondire il nostro patrimonio culturale.
   Expo può anche essere un momento di incontro locale: potremo infatti organizzare eventi interreligiosi per rafforzare i legami con le altre confessioni, e impostare nuovi modelli di dialogo. Imbandendo anche una tavola interreligiosa - ebrei, cristiani, musulmani -, che degustando insieme cibi peculiari delle diverse tradizioni, rifletta ad alta voce circa i diversi approcci, significati e filosofie religiose rispetto al tema del cibo. Siamo ciò che mangiamo, non dimentichiamolo; e ciò che mettiamo nel piatto ci caratterizza e ci dà identità».
   Restando in attesa che il Comune di Milano assegni la location adatta, è in dirittura d'arrivo il calendario della settimana di eventi (prevista nel mese di ottobre), che la Comunità di Milano sta preparando nell'ambito di Expo In Città, il cosiddetto "fuori salone" della kermesse milanese.
   Una serie di incontri e proposte culturali che avranno come tema centrale non solo la cultura del cibo, le performance dei grandi chef, le diverse tradizioni della gastronomia ebraica da conoscere e da gustare (giudeo-italiana, sefardita e giudeo-araba, ashkenazita), ma anche momenti di confronto e riflessione su alcuni temi fondamentali come il rapporto con la terra e il suo riposo (la schmità), o con gli animali, o sull'atto stesso del nutrirsi, con le sue implicazioni filosofiche.
   «La Comunità ebraica mette a disposizione per tutti i visitatori l'opportunità di avere una vasta scelta di Sinagoghe di diverso rito, visto che è una comunità composta da ebrei di varie provenienze: Libano, Libia, Turchia, Persia, Egitto, Est Europa…
   Durante i kiddushim, si potranno assaporare le varie prelibatezze. Stiamo pensando di organizzare uno sportello informazioni per poter guidare gli ospiti nella Milano ebraica. Ci sarà inoltre la possibilità di avere su prenotazione i pasti kasher per shabbat, in via Guastalla .
   L'ufficio Rabbinico potrà dare indicazioni su come poter certificare nuovi prodotti italiani.
   Speriamo di poter avere come ospiti persone che hanno vissuto a Milano e frequentato la scuola, per magari coinvolgerli in nuovi progetti», spiega il neo eletto Copresidente della Comunità, Milo Hasbani.
   «La Comunità ebraica apre le sue porte ai turisti, ma soprattutto agli ebrei che da tutto il mondo visiteranno Milano in occasione dell'Expo. Quindi cultura ma anche accoglienza concreta, servizi - dai pasti di shabbat al mikvé alle funzioni religiose - e informazioni». Sara Modena, assessore al culto della Comunità, assicura che il Centro ebraico della Sinagoga di via Guastalla è pronto. «Offriremo a partire dalle prossime settimane e per tutti i sei mesi di Expo un info point telefonico e telematico presso l'Ufficio Rabbinico, per rispondere a tutti coloro che vogliono sapere gli orari delle funzioni nei vari oratori della città, dove trovare i prodotti kasher, gli itinerari ebraici di Milano e dintorni.
   Sono previste visite guidate su prenotazione che comprendono, oltre alla visita della Sinagoga Centrale, l'oratorio sefardita, il tempietto di Fiorenzuola d'Arda e un percorso culturale espositivo.
   Offriremo inoltre un servizio pasti kasher per il Venerdì sera e il Sabato a pranzo, su prenotazione».
   
(Mosaico, 1 maggio 2015)


Jazz e musica ebraica, le note di Gabriele Coen

di Ludovica Amoroso

 
Gabriele Coen
ROMA - Gabriele Coen è uno dei musicisti italiani più apprezzati nel panorama del jazz. E proprio in chiave jazzistica l'artista continua a dare prova di saper rivisitare il repertorio popolare ebraico. Il progetto s'intitola "Electric Klezmer Night" e arricchisce un percorso iniziato qualche anno fa con "Jewish Experience" prima, e con "Yiddish melodies in Jazz" poi. Era l'estate del 2010, precisamente a New York, quando avvenne l'incontro con John Zorn - paladino del connubio tra jazz contemporaneo e musica ebraica - a cui Coen dedicò un concerto nel 2013 all'Auditorium Parco della Musica, in occasione dei 60 anni dell'artista che gli permise di incidere ben due dischi per la sua etichetta Tzadik. Ora, in questo stesso luogo, Coen ritorna per presentare al pubblico romano il suo ultimo lavoro che unisce alcuni classici del suo repertorio accanto a brani inediti, sempre tratti dal mondo musicale ebraico. Ma la vera novità è che lo proporrà per la prima volta in chiave elettrica, ispirandosi alle sonorità introdotte dal grande Miles Davis a partire dalla fine degli anni Sessanta, ma anche da altri mostri sacri del jazz-rock, come Herbie Hancock o John McLaughlin. Il musicista sarà accompagnato sul palco da Lutte Berg alla chitarra elettrica, da Pietro Lussu al piano elettrico, da Marco Loddo al basso elettrico, da Luca Caponi alla batteria e da Pierpaolo Bisogno alle percussioni.

(la Repubblica - Roma, 2 maggio 2015)


Negoziati segreti tra Hamas ed Israele?

Secondo il quotidiano israeliano progressista Haaretz, sarebbero in corso dei negoziati tra Israele e il movimento islamista palestinese Hamas. L'obiettivo delle trattative sarebbe quello di trovare un accordo capace di modificare gli equilibri di forza in Medio Oriente e troverebbe la mediazione delle monarchie del Golfo.
   Per il giornale di Tel Aviv, i colloqui avrebbero avuto inizio con il cessate il fuoco che ha posto fine all'operazione Margine Protettivo a Gaza della scorsa estate. Le trattative, condotte attraverso diversi canali, coinvolgerebbero oltre ad Arabia Saudita, anche Qatar, Nazioni Unite ed Unione Europea. I vari attori si prefiggerebbero di raggiungere il traguardo di un "cessate il fuoco umanitario", garantito da una parte terza.
   Nel caso di accordo, Hamas si assumerebbe la responsabilità di bloccare qualsiasi azione aggressiva nei confronti di Israele per un periodo di tre-cinque anni. Tel Aviv, in cambio, dovrebbe interrompere parzialmente il blocco navale su Gaza e intraprendere delle iniziative volte al rilancio economico della Striscia. In ballo ci sarebbe anche la costruzione di un porto nei territori presidiati da Hamas, sotto la supervisione di un attore esterno. Tuttavia, quest'ultima ipotesi viene definita "improbabile" da Haaretz.
   Entrambe le parti si gioverebbero di un'intesa. Benjamin Netanyahu potrebbe dimostrare al mondo che Margine Protettivo è servito ad ottenere "risultati di lungo periodo", offuscando così le conseguenze della devastante operazione militare condotta nella Striscia. Inoltre, la leadership israeliana avrebbe l'occasione di scavalcare il Presidente dell'Anp, Abu Mazen, mettendolo in una situazione di debolezza. Chiusa la partita con Hamas, infine, Tel Aviv potrebbe concentrarsi sul fronte libanese, dove il movimento sciita Hezbollah è diventato sempre più aggressivo.
   Hamas, per parte sua, avrebbe contemporaneamente l'opportunità di riorganizzarsi, di intestarsi, a scapito di Abu Mazen, la ripresa economica nella Striscia e di evitare un quarto conflitto con Israele. Khaled Meshaal, capo dell'ufficio politico del movimento, sarebbe a favore di un'intesa dopo aver ammorbidito la propria politica in seguito al riavvicinamento all'Arabia Saudita. Riavvicinamento obbligato, visto che Hamas necessita di alleati contro lo Stato Islamico.
   Ricordiamo, a tale riguardo che i miliziani dell'Isis hanno recentemente messo in atto un vero e proprio massacro nel campo profughi di Yarmouk contro i palestinesi vicini al gruppo islamista palestinese. Tra le vittime ci sarebbero anche molti bambini.

(Polisblog, 2 maggio 2015)


"Muoia Israele. La brava gente che odia gli ebrei"

 
Esce per Rubbettino "Muoia Israele. La brava gente che odia gli ebrei", un graffiante pamphlet di Giulio Meotti sul pericoloso antisemitismo di ritorno. È appena scomparso il grande scrittore tedesco Günter Grass. La sua ultima polemica pubblica risale a due anni fa, quando una poesia di Grass fece il giro del mondo e accusava Israele di essere un pericolo per la pace mondiale e di voler annichilire il popolo iraniano. I versi di questo importante scrittore, in cui il popolo ebraico assumeva il ruolo di carnefice, erano il sintomo di un più vasto antisemitismo europeo post-Auschwitz che domina il mondo dell'alta cultura, dell'arte e del giornalismo.
   Il libro di Giulio Meotti "Muoia Israele. La brava gente che odia gli ebrei" ripercorre per la prima volta trent'anni di questo nuovo antisemitismo e "terrorismo culturale". I più accaniti denigratori del popolo ebraico oggi sono gli intellettuali e le classi abbienti dello show buz europeo, sono i tanti Premi Nobel come Grass che vantano specchiate credenziali socialdemocratiche, compresi molti "cattivi maestri" in Italia. Il loro obiettivo non è cambiare la politica di Israele e non esprimono semplicemente una critica legittima a quello stato. No, vogliono inchiodare il popolo ebraico a un destino oscuro e tragico. Sono coloro che, con un colpo di matita o di penna, cancellano Israele dalla mappa geografica.

TRAMA
C'era un tempo in cui in difesa dello Stato di Israele e degli ebrei si schieravano i migliori intellettuali europei come Pablo Picasso e Eugene lonesco, e in Italia personaggi come Norberto Bobbio ed Eugenio Montale. La piccola repubblica israeliana era considerata un pegno della nostra libertà, che il mondo arabo-islamico voleva ghermire per la gola e annegare nel Mediterraneo. Oggi Israele è ancora sotto assedio ma è rimasto solo, delegittimato e condannato a morte dalle classi dirigenti intellettuali, dai giornalisti, dagli scrittori, dai registi, dai Premi Nobel, dai musicisti, elevato a sentina del male. Contro il popolo di Israele riecheggiano oggi, sinistre, le frasi della propaganda nazista di settant'anni fa. Il libro di Giulio Meotti ripercorre l'odio per Israele degli ultimi trent'anni. È il racconto di una grande abiura, un nuovo caso Dreyfus con il tradimento dei chierici e l'abbandono degli ebrei da parte dell'opinione pubblica europea. Uno scandalo che le falangi dei "progressisti" accolgono in silenzio. I peggiori antisemiti oggi li trovi fra la brava gente. I buoni. I rispettabili. I vanitosi dello star system. Le firme dei giornali. Gli intellettuali. Gli artisti. I filantropi. Il loro annullamento spirituale e culturale di Israele giustifica in anticipo la sua soppressione fisica. E se Israele scomparisse oggi, il popolo ebraico non potrebbe sopravvivere. Che fare allora? Solidarietà. È l'unica arma che abbiamo.

(ilLametino.it, Hoepli.it, 2 maggio 2015)


Jimmy Carter incontra il presidente Mahmoud Abbas

di Roberta Papaleo

L'ex presidente USA Jimmy Carter incontrerà oggi il leader palestinese Mahmoud Abbas in Cisgiordania. Carter sarebbe dovuto arrivare in Palestina giovedì 30 aprile per incontrarsi sia con Abbas che con i leader del movimento Hamas per cercare di mediare la riconciliazione tra le due fazioni palestinesi.
Tuttavia, il viaggio dell'ex presidente americano è stato rimandato di qualche giorno in seguito ai commenti del presidente israeliano Reuven Rivlin, il quale lo scorso 20 aprile aveva dichiarato che si sarebbe rifiutato di incontrare Carter per via della sua posizione "anti-Israele".

(ArabPress, 2 maggio 2015)


Molti non sanno che Jimmy Carter nel 2009 annunciò il suo abbandono della chiesa evangelica battista in cui è cresciuto in un articolo dal titolo “Losing my religion for equality” (Abbandono la mia religione per l’uguaglianza). Nell'articolo si dice scandalizzato per l’inuguaglianza subita dalle donne in nome della religione, e conclude dicendo che in questo trattamento vede una chiara violazione non solo della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, ma anche dell’insegnamento di Gesù Cristo, dell’Apostolo Paolo, di Mosè e del profetta Maometto, fondatori di altre grandi religioni”. E' interessante questa ammucchiata di "fondatori di grandi religioni". Sarà per questo che adesso vuol parlare con Mahmoud Abbas, seguace di Maometto, grande difensore delle donne. Forse però in questo caso gli inuguali non sono le donne, ma i palestinesi. E pensare che una persona così è stata eletta a suo tempo come Presidente degli Stati Uniti d’America! M.C.


Da Auschwitz non ci si libera mai

Esce in Italia da Bollati Boringhieri il libro della scenografa francese Marceline Loridan-Ivens, sopravvissuta alla Shoah. La memoria e lo sgomento: una ex deportata scrive al padre morto nel lager nazista.

di Paolo Giordano

Non restano che i più giovani fra i sopravvissuti ai campi di sterminio. Coloro che al momento della cattura avevano 15 anni, la soglia dell'età della ragione, e oggi ne hanno quasi 90, come Marceline Loridan-Ivens. I deportati bambini venivano eliminati subito, inabili al lavoro com'erano. Perciò, fra altri quindici, vent'anni al massimo, non ci sarà più nessuno al mondo in grado di ricordare. Scomparirà anche l'ultimo superstite - una soglia che verrà attraversata dall'umanità in silenzio, forse non ce ne accorgeremo, eppure si tratta di un confine quanto mai pericoloso. Sarà come perdere il contatto con una navicella che s'inabissa sempre più nel buio del cosmo, fino a trovarsi fuori portata. Ma a bordo di quella navicella ci saremo noi tutti, orfani di un passato orribile che per decenni ci ha forse protetti da noi stessi.
   Anche Marceline Loridan-Ivens teme l'oblio. Nelle interviste ribadisce che «bisogna testimoniare». Incessantemente. Dopo una vita come cineasta che l'ha portata a seguire ovunque nel mondo le nefandezze dell'uomo - Cina, Vietnam, Algeria - quasi che dopo lo sterminio non potesse staccare lo sguardo dall'Arancia meccanica della civiltà, Marceline torna al campo. Ci ritorna perché è là che vide per l'ultima volta suo padre. Lei fu destinata a Birkenau, lui ad Auschwitz, tre chilometri appena li separavano, ma «erano come migliaia».
   Un giorno, tornando da una giornata in cui avevano spaccato sassi, si rincontrarono, padre e figlia. I commando rispettivi sfilarono uno accanto all'altro e loro si corsero incontro per abbracciarsi. Le guardie trattarono lei come una puttana e picchiarono lui. L'indomani, sfiorandosi di nuovo, non osarono avvicinarsi. Solo, un giorno Schloìme riuscì a far recapitare a Marceline una cipolla e un pomodoro.
   Un'altra volta, «un mot», un biglietto. Marceline ha dimenticato che cosa ci fosse scritto, estirpati com'erano i sentimenti dalle sue viscere già nel momento in cui lo lesse. Rammenta solo che cominciava con le parole «Ma chère petite fille» e terminava con la firma. Nient'altro. Al contrario di lei, il padre non sopravvisse. Morì a Gross-Rosen o forse a Dachau, durante gli spostamenti nevrotici da un campo all'altro, gli ultimi spasmi del nazismo ormai pressato dall'avanzata russa.
   In tutti questi anni Marceline non aveva risposto al biglietto. Ha deciso di farlo oggi, ottantaseienne, per raccontare al padre la vita che dal giorno in cui il treno li inghiottì insieme ha, quasi suo malgrado, vissuto. Cento pagine appena, limpide e fatalmente necessarie, redatte con l'ausilio della scrittrice Judith Perrignon e che portano il titolo E tu non sei tornato. «Era un altro modo di invocarti. Io ero la tua cara figlioletta. Lo si è ancora a quindici anni. Lo si è a tutte le età. Io ho avuto così poco tempo per fare scorta di te». Con
 
Marceline Loridan-Ivens
questo tono nudo e affezionato, che appartiene alla quindicenne e insieme alla donna matura, Marceline racconta tutto al genitore che le è mancato, gli racconta del campo sì, ma soprattutto del dopo, di ciò che lui non ha visto: come Birkenau-Auschwitz non sia mai finito per lei, e mai potrà finire.
   Riteniamo, forse, che il nostro immaginario riguardo ai campi di sterminio sia pressoché saturo. Abbiamo letto e visto molto; ricostruzioni più o meno meticolose sono impresse in noi a partire dal giorno in cui, ognuno a proprio modo, abbiamo fatto conoscenza con quell'abisso della storia, un abisso così incredibile, che apprenderne l'esistenza costituisce un trauma di per sé. Come perdere d'un tratto una fiducia aprioristica nell'uomo, oppure in Dio. Eppure, la descrizione stringata che Marceline L.I. fa del campo è ancora nuova, ancora scioccante: i cumuli di vestiti, le ispezioni di Mengele, i tradimenti e i sotterfugi - dettagli che devono averle insidiato la mente ogni giorno e ogni notte, da allora.
   Ciò che scuote maggiormente la coscienza del destinatario della lettera, tuttavia, riguarda la vita oltre il campo. È il resoconto di come Marceline, libera, viene infine reintegrata nella propria famiglia, in Francia. Lo zio Charles, che l'attende sulla banchina della stazione, l'ammonisce subito: «Ero ad Auschwitz. Non raccontarlo a nessuno, non capiscono niente». Ma non c'è il rischio di raccontare, perché nessuno fa domande. La madre di Marceline si accerta esclusivamente che la figlia non sia stata violentata, che sia ancora buona per prendere marito. Quanto al fratello minore Michel, Marceline ha l'impressione che avrebbe preferito veder tornare il padre piuttosto che lei. Morirà suicida. «Aveva la malattia dei campi senza esserci andato».
   Lo sterminio non finisce ad Auschwitz. Lo sterminio si propaga nello spazio e nel tempo. «Mi sarebbe piaciuto darti delle buone notizie, dirti che, dopo essere caduti nell'orrore e aver atteso invano il tuo ritorno, ci siamo ripresi. Ma non posso. Sappi che la nostra famiglia non è sopravvissuta a quello che è successo». Non è sopravvissuta la famiglia e non è sopravvissuta l'umanità tutta. L'ultima parte del libro esprime lo sgomento di una donna - una donna che credeva di avere saggiato la malvagità dell'uomo in ogni suo raccapricciante anfratto - mentre guarda in televisione i grattacieli di New York sbriciolarsi al suolo. È lo sgomento di chi, dopo tutto ciò che è stato, vede le illusioni cadere «come pelli morte», l'antisemitismo riaccendersi ovunque nel mondo e la propria appartenenza rafforzarsi, come unica difesa. «Non so se l'orrore abbia risvegliato l'orrore, ma a partire da quel giorno, ho sentito quanto ci tenessi a essere ebrea. È come se fino a quel momento ci avessi girato intorno, ma in fin dei conti essere ebrea è quello che di più forte c'è dentro di me».
   È bene che mi fermi. Mentre scrivo, avverto quanto sia sconveniente versare parole sopra un libro tanto parsimonioso, che economizza su ogni frase, su ogni pensiero e soprattutto sul dolore, che nondimeno è soverchiante in certi passaggi.
   Nei giorni successivi alla lettura di E tu non sei tornato, cercavo d'immaginare come debbano apparire certi frangenti, gravi oppure futili, agli occhi pieni di amarezza di Marceline Loridan-Ivens. Mi sembrava di riuscirei, almeno in parte. Per questo le sono riconoscente. Il suo libro è uno fra gli ultimi segnali diretti che riceveremo dai campi di sterminio degli ebrei. Mano a mano che i testimoni scompaiono, il peso della memoria grava sempre di più su chi rimane - ben presto sarà per loro insopportabile. E noi, perduti gli ormeggi, ce ne andremo piano piano alla deriva nella dimenticanza, forse nell'incredulità. Leggete questo libro.

(Corriere della Sera, 1 maggio 2015)


Gli ayatollah ci prendono in giro: l'Iran cerca uranio per la bomba

Secondo il governo inglese Teheran, attraverso due società sotto sanzioni, avrebbe tentato a più riprese approvvigionamenti di materiale radioattivo per scopi bellici.

di Leonardo Piccini

Nel corso dell'ultimo anno, l'Iran avrebbe a più riprese cercato di acquistare tecnologia nucleare (centrifughe), e uranio arricchito per uso militare. Una notizia confermata dal governo inglese (e a Libero da fonti di intelligence) che potrebbe costituire un'evidente violazione delle risoluzioni imposte dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. In un rapporto ufficiale Onu, redatto dal gruppo di esperti incaricato del servizio di monitoraggio sul nucleare iraniano, si leggono le seguenti parole: «Il governo inglese ha informato il nostro team, in data 20 aprile 2015, che gli iraniani hanno attivato un vero e proprio network incaricato di procurarsi materiale e tecnologia nucleare... con esperti e personale collegati direttamente all'Iran Centrifuge Tecnology Company (Tesa), e alla Kalay Electric Company (Kec)». La Kec è sotto sanzioni economiche decretate dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, mentre la Tesa è nella black list di Stati Uniti e Unione Europea, ed entrambe sono sospettate di essere coinvolte nell' acquisto e nell'assemblaggio di centrifughe per arricchire l'uranio e servirsene per scopi militari. Il gruppo di esperti delle Nazioni Unite aggiunge pert, che «il rapporto inglese è troppo recente, e non c'è stato quindi il tempo per valutarlo in modo attento e in modo indipendente...». Il governo inglese conferma tutto con un portavoce, e aumenta le sue pressioni sull'Iran: «Finché non ci sarà una nuova risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, rimangono le sanzioni contro la Repubblica iraniana, e tutti i Paesi membri hanno la responsabilita di applicare le sanzioni, incluse accurate indagini su possibili violazioni».
   Mark Fitzpatrick, esperto di proliferazione di armi nucleari, docente all'Institute of Strategic Studies, non sembra particolarmente sorpreso da questi ultimi sviluppi, e non ritiene nemmeno che le rivelazioni inglesi possano portare ad una rottura del negoziato tra l'Iran e il Gruppo dei 5+1, incaricato di valutare la revoca delle sanzioni e dell'embargo contro l'Iran: «Non è certo una novità che l'Iran abbia continuato in gran segreto ad operare nel suo programma nucleare, anche durante le sanzioni decise dall'Onu; ma questo non ha nulla a che fare con l'affidabilità dell'Iran, o con il rispetto di un accordo internazionale che limiti il suo programma di armamento nucleare. L'Iran si sentirebbe in ogni caso obbligato a rispettare un accordo internazionale imposto dal Gruppo dei 5+1, invece che sottostare alle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che considerano come ingiuste». Secondo l'accordo provvisorio firmato a Losanna il 2 aprile scorso, l'Iran accetta un taglio del 70% della capacità di arricchimento dell'uranio, e una contestuale riduzione del 97% delle scorte di materiale nucleare, in cambio della revoca delle sanzioni economiche a livello internazionale. Il problema delle verifiche che spettano al gruppo di esperti nominati dall'Onu, non è pert, di facile soluzione anche perché gli iraniani si guardano bene dal concentrare tutte le loro attività in un unico sito. I centri che fanno capo al programma nucleare sono infatti sparsi in tuno il Paese. Alcuni siti sotterranei secondo quanto riportato dai servizi di intelligence inglese, operano a grandi profondità, circondati da batterie antiaeree. L'Iran fino a pochi anni fa si procurava le centrifughe da Paesi come il Pakistan, poi ha imparato a fabbricarne da solo; a intervalli regolari, secondo l'MI6 inglese (il controspionaggio), sarebbero giunti nella Repubblica Islamica ingenti forniture di uranio, centrifughe, componenti elettroniche e pezzi di ricambio.
   
(Libero, 1 maggio 2015)


Milano Expo 2015 - Israele subito protagonista

L'ambasciatore Naor Gilon in visita al Padiglione israeliano di Expo 2015
"Veramente molto interessante e ben fatto". Il commento semplice ma significativo dell'ambasciatore di Israele in Italia Naor Gilon, in merito a Fields of Tomorrow (I campi di domani) ovvero il Padiglione israeliano realizzato per Expo 2015. L'ambasciatore infatti è stato uno dei primi oggi ha visitare assieme al Commissario generale israeliano per Expo Elazar Cohen, il Padiglione: un progetto che sin dalla sua struttura esterna colpisce l'occhio dei visitatori. Centinaia infatti le persone che si sono fermate per immortalare il "campo verticale", una avveniristica distesa coltivata con cereali, sezionata in diverse aeree, dal forte impatto visivo e che nel corso dei mesi cambieranno colore (seguendo il ritmo della stagione). Un esempio della capacità israeliana di coniugare l'agricoltura tradizionale alle tecniche più innovative.
   Ma tutto il Padiglione, come spiegava Cohen, è concepito per rappresentare "la natura stessa del popolo israeliano, mai rassegnato alla realtà ma teso a fare tutto il possibile per migliorarla". E lo storytelling che si sviluppa all'interno del Padiglione - che trova posto nel cuore di Expo, all'incrocio tra Cardo e Decumano, arterie principali della grande esposizione di Milano - ha riscosso l'apprezzamento delle centinaia di persone che in queste ore hanno deciso di visitare la struttura. "Ho scoperto cose che non sapevo", spiega una giovane visitatrice, "non avevo idea che il pomodorino fosse una creazione israeliana". Oltre alle rappresentazioni interne, in questi mesi il Padiglione sarà anche un luogo di cultura, di concerti, di incontri sul cibo e sulle innovazioni tecnologiche israeliane, e anche il fulcro per creare nuovi legami, economici e non, tra le realtà israeliane e italiane.

(moked, 1 maggio 2015)


Expo 2015, l'ambasciatore di Israele sceglie la cucina sarda

Naor Gilon e l'addetto commerciale hanno pranzato con gli assessori regionali al turismo e all'industria. Elisabetta Falchi: «Questa è una vetrina di rilievo vitale per la Sardegna che produce».

 
L'ambasciatore Naor Gilon e la moglie a pranzo con Francesco Morandi ed Elisabetta Falchi
MILANO. "Questa è una vetrina di rilievo vitale per la Sardegna che produce". Secondo l'assessore regionale dell'Agricoltura, Elisabetta Falchi, che assieme al collega Morandi ha partecipato all'inaugurazione dell'Expo, la Sardegna deve cogliere l'occasione al meglio.
La responsabile di questo settore chiave per una manifestazione dove il cibo è protagonista ha potuto pranzare sulla terrazza che sovrasta lo stand dell'isola con l'ambasciatore d'Israele, Naor Gilon e l'addetta commerciale israeliana, grandi amanti della cucina sarda.
Con lei l'assessore Morandi e il capo di gabinetto dell'Industria, in rappresentanza dell'assessore regionale Maria Grazia Piras, impossibilitata a prendere parte all'inaugurazione a causa di un grave lutto (la scomparsa della madre) che l'ha recentemente colpita. "A ogni modo lavoreremo in tutti questi mesi per mettere in risalto tutte le potenzialità delle nostre risorse", ha voluto sottolineare ancora l'assessore Elisabetta Falchi.

(La Nuova Sassari, 1 maggio 2015)


I Nobel contro la bibbia dell'élite medica che tacciò Israele di "massacro"

Pubblicò un duro appello dopo la guerra di Gaza. Ora è la rivista inglese a rischiare il boicottaggio se non ritratta.

di Giulio Meotti

ROMA - "An open letter for the people of Gaza" è stata pubblicata la scorsa estate durante la guerra di Israele contro Hamas. A ospitarla la più prestigiosa rivista medica del mondo, Lancet, che da 192 anni è la bibbia dell'élite scientifica in occidente. A firmarla un gruppo di ventiquattro medici, psichiatri e ambientalisti, in gran parte italiani. Vi si accusava Israele di "massacrare" i palestinesi "con il pretesto di punire i terroristi" e di aver "insultato l'umanità". Infine, si accusavano i medici israeliani di collusione: "Registriamo con sgomento che solo il cinque per cento dei nostri colleghi accademici israeliani ha firmato un appello al loro governo per fermare l'operazione militare contro Gaza. Con l'eccezione di questo cinque per cento, il resto degli accademici israeliani è complice nel massacro di Gaza".
   La lettera era firmata in gran parte da accademici italiani, come la genetista Paola Manduca, lo zoologo Andrea Balduzzi, il pediatra Bruno Cigliano, il nefrologo Carmine Pecoraro, lo psicologo Guido Veronese e il neonatologo Luca Ramenghi. La lettera venne rilanciata in Italia da Repubblica senza rendere conto delle dure critiche al documento.
   Una lettera che ha trascinato Lancet nella sua peggiore crisi. Numerosi premi Nobel e cinquecento fra medici e scienziati minacciano di boicottare Lancet se non ritratterà quella lettera e accusano la rivista di "incitamento all'odio e alla violenza". Gli accademici tacciano Reed Elsevier, proprietario di Lancet, di "fallimento abietto", di "falsità volutamente infiammatorie, omissioni e disonestà". Fra i firmatari ci sono i premi Nobel Aaron Klug, Sydney Brenner, Roger D. Kornberg, Michael Levitt e Bruce Beutler. Già nel febbraio 2009, Lancet aveva pubblicato un articolo del dottor Swee Ang di Oxford, dal titolo "Le ferite di Gaza", in cui accusava Israele di prendere "deliberatamente di mira i bambini disarmati". Intanto però le riviste mediche si schierano con i colleghi di Lancet. Parlando all'Independent, Fiona Godlee, direttore del British Medical Journal, ha detto: "Lancet non dovrebbe ritrattare la lettera aperta". E' nato anche un sito web a sostegno della rivista (handsoffthelancet.com). Il direttore di Lancet, Richard Horton, alla guida della rivista da venticinque anni, aveva visitato Israele lo scorso ottobre, nel tentativo di minimizzare i danni. Invano. Allora c'è stato chi, come il professor David Bernstein sul Washington Post, ha chiesto a Horton di dimettersi.
   A screditare la rivista è stata anche la presenza, fra i firmatari, di un famoso medico norvegese, Mads Gilbert, che dopo gli attacchi dell'11 settembre dichiarò al Dagbladet: "Gli oppressi hanno il diritto morale di attaccare con qualsiasi arma".

(Il Foglio, 1 maggio 2015)


Gerusalemme - Gli ebrei etiopi in piazza: agenti razzisti

Dopo un pestaggio

di Maurizio Molinari

 
GERUSALEMME - «Uniti contro il razzismo», «Gerusalemme come Baltimora», «Tutti contro la polizia»: sono oltre mille gli etiopi che si ritrovano sulla French Hill, vicino all'università, per denunciare la «brutale aggressione di uno di noi» avvenuta poche ore prima a Holon. La protesta monta perché le tv trasmettono le immagini del pestaggio di Demas Fekadeh, soldato israeliano di origine etiope, da parte di due poliziotti nella cittadina di Holon. Uno degli agenti gli aveva chiesto di fermarsi, lui non lo ha fatto ed è stato quindi aggredito e picchiato.
   A French Hill c'è il quartiere generale della polizia, gli etiopi che vi arrivano spontaneamente prima sono piccoli gruppi poi crescono fino a superare i mille. Sfidano gli agenti a viso aperto ritmando «Faremo come a Baltimora» e marciano verso il centro della città, attraversandolo e paralizzando il traffico. Nel tentativo di smorzare la protesta da parte degli immigrati arrivati dall'Etiopia a partire dalla fine degli Anni 80, interviene il presidente Reuven Rivlin invitando nel pomeriggio un gruppo di giovani etiopi nel suo ufficio privato: «Israele è uno Stato di Diritto, puniremo i responsabili di ogni violenza, avete gli stessi diritti di tutti gli altri israeliani». Ma i disordini continuano e tocca al premier Benjamin Netanyahu dare la promessa richiesta dai manifestanti: «Su quanto avvenuto a Holon vi sarà un'indagine e gli agenti dovranno rispondere del loro operato». Per l'opposizione laburista non basta. I portavoce del leader Isaac Herzog accusano la polizia di «razzismo» perché «nei confronti di un ashkenazita - un ebreo di origine mitteleuropea - qualcosa del genere non sarebbe mai avvenuto». E oggi alla manifestazione del Primo Maggio a Tel Aviv i sindacati sfileranno per sostenere le ragioni della minoranza etiope, ovvero degli unici israeliani neri.

(La Stampa, 1 maggio 2015)


Apple espande il suo centro R&D in Israele

La multinazionale americana ha deciso di ampliare il suo centro di Ricerca e Sviluppo a Herzliya, inaugurato nel febbraio 2015. Prima della fine dell'anno i dipendenti avranno maggiore spazio al fine di rendere più facile il lavoro.
Attualmente l'azienda è concentrata a migliorare il nuovo prodotto Apple Watch. Gli ingegneri stanno risolvendo problemi legati all'interfaccia e alla durata della batteria.
Durante una visita in Israele, nel mese di febbraio per inaugurare il Centro R&D di Herliya, il CEO di Apple Tim Cook ha espresso la sua ammirazione nei confronti dei lavoratori israeliani.
Apple è in Israele perché il talento ingegneristico qui è incredibile
Attualmente non si è a conoscenza di quando l'espansione avrà luogo, ma alcune indiscrezioni rivelano che si tratti di un nuovo edificio più rispettoso dell'ambiente:
  • pannelli solari sul tetto forniranno energia sufficiente a soddisfare i bisogni di acqua calda di tutto l'edificio;
  • sistema di illuminazione intelligente che ridurrà del 25% il consumo energetico rispetto ad altri edifici simili;
  • condizionatori che consumeranno il 40% in meno rispetto ad altri sistemi comparabili.
Il rapporto tra Apple e Israele per ciò che concerne l'ambito della Ricerca e Sviluppo risale al 2012, quando il colosso statunitense acquistò Anobit, un'azienda israeliana specializzata nella progettazione di memoria flash. Questo investimento ha segnato l'inizio di Apple nel campo dello sviluppo tecnologico in Israele. Successivamente, nel 2013, l'azienda portò a termine l'acquisizione di PrimeSense, specializzata nello sviluppo di hardware e software in grado di rilevare il movimento in 3 dimensioni.
Apple ufficialmente ha circa 700 dipendenti in Israele, ma circa 6.000 israeliani collaborano quotidianamente nel programma di sviluppo di nuove applicazioni Apple.

(SiliconWadi, 1 maggio 2015)


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