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Notizie 1-15 maggio 2016


Ebraismo: Gattegna (Ucei) conclude il suo mandato

ROMA - ''Non sono né stanco né deluso, al contrario sono sereno e orgoglioso del lavoro svolto, ma sono certo che sia giunto il momento migliore per facilitare e assecondare un tranquillo e democratico ricambio al vertice dell'Unione e ritengo che abbia un preciso e positivo significato che il ricambio non avvenga sotto la pressione di fattori esterni, ma per una mia precisa scelta di chiudere una stagione della mia vita, favorendo un avvicendamento nella continuità e anteponendo così il bene dell'Unione e dell'ebraismo italiano a qualsiasi altra considerazione''. Così il presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna in occasione dell'ultima riunione dell'attuale Consiglio UCEI svoltasi oggi a Roma. Le elezioni del nuovo Consiglio si svolgeranno il 19 giugno.
  Nell'intervento che ha concluso un decennio di impegno alla guida dell'Unione, pubblicato integralmente sul portale www.moked.it, Gattegna ha preferito evitare la rivendicazione dei traguardi raggiunti per lasciare piuttosto all'ebraismo italiano un bilancio dei grandi temi affrontati nell'ambito della sua lunga esperienza e soprattutto delle sfide che attendono nel futuro le realtà ebraiche italiane.
  ''Sarebbe - ha affermato fra l'altro il Presidente - un'illusione antistorica, un errore fatale, la perdita di un'occasione unica, e forse irripetibile, se ci sottraessimo all'apertura e al confronto che, si badi bene, sono cose ben diverse, anzi opposte, all'assimilazione; sono infatti prove di fiducia in noi stessi e stimoli al rafforzamento della nostra cultura e della nostra identità per poter essere all'altezza di qualsiasi sfida o confronto e in tal modo sconfiggere, una volta per tutte, quell'insegnamento del disprezzo che non è ancora completamente debellato".
  "Per noi - ha proseguito - è opportuno e necessario uscire dai porti, solo apparentemente sicuri, staccarci dagli ormeggi fissi e statici e affrontare coraggiosamente il mare aperto guidati con prudenza e con saggezza dai nostri Maestri; navigare nel mare aperto può sempre comportare rischi e riservare sorprese, ma non esistono alternative se si vuole continuare a partecipare e contribuire, come protagonisti, all'evoluzione della civiltà contemporanea e al tempo stesso riscoprire continuamente la nostra forza interiore''.
  ''Estremismo e demagogia - ha quindi osservato Gattegna - sono figli della paura e si nutrono di banali, arbitrarie e volgari semplificazioni, alterano le relazioni umane, inducono al pregiudizio e all'odio nei confronti del diverso, stimolano alla continua e perenne ricerca di nemici veri o immaginari, alla diffidenza verso gli amici, all'alterata visione di una realtà sempre e solo bianca o nera, senza sfumature".
  "Fondamentalismo e integralismo - ha infine notato - non sono termini equivalenti, anche se frequentemente vengono abbinati e confusi. La differenza emerge chiaramente se si risale alla loro origine storica ed etimologica. Nonostante le differenze, sia il fondamentalismo che l'integralismo, aspirano alla costruzione di società e di stati teocratici nei quali tutti i poteri, legislativo, esecutivo e giurisdizionale siano ispirati e sottomessi a un solo potere religioso. Appare ogni giorno più evidente quali siano le drammatiche conseguenze che derivano dal rifiuto dei principi di democrazia e di laicità dello Stato, i soli che possono assicurare parità di diritti e dignità fra maggioranze e minoranze, fra credenti e non credenti, fra cittadini e stranieri".

(ANSAmed, 15 maggio 2016)


Resistenza Iraniana

L'accordo sul nucleare iraniano non riesce a fare la differenza.

"Dalla conclusione dei colloqui sul nucleare tra il regime iraniano e le sei potenze mondiali, la scorsa estate, il regime iraniano ha compiuto almeno cinque provocatori tests sui missili balistici, in aperta sfida alle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell'ONU", ha ammonito Ali Safavi del Comitato Affari Esteri del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana (CNRI).
  "Ogni test è stato seguito da commenti boriosi dei più alti esponenti del regime, compreso il leader supremo Ali Khamenei, la massima autorità in tutte le questioni di politica estera e interna del regime iraniano", ha scritto il Dr. Safavi mercoledì su Independent Journal Review.
  "Safavi ha precisato che in un suo recente discorso Khamenei ha dichiarato: "Quelli che dicono che il futuro è nei negoziati, e non nei missili, sono ignoranti o traditori".
  "Questi tests sono una componente cruciale per sviluppare la capacità di lanciare testate nucleari su lunghe distanze, verso obbiettivi distanti migliaia di miglia", ha puntualizzato Safavi. Il ministro degli esteri di Hassan Rouhani, Javad Zarif, li ha difesi dicendo in pratica che Tehran ha il diritto di difendersi. Zarif ha omesso di menzionare che la frase "Israele deve essere spazzato via", è stata scarabocchiata sulla maggior parte dei missili testati recentemente.
  "E che dire della "clamorosa vittoria dei moderati" alle recenti elezioni parlamentari, come riportato dalla stampa occidentale? Purtroppo quei "moderati" sono gli stessi politici che dirigono il programma iraniano sui missili balistici, che sono stati determinanti nell'ingannare gli ispettori nucleari e che continuano a scatenare il caos in tutta la regione", ha proseguito Safavi.
  "L'Iran non è cambiato, né prima dell'accordo sul nucleare, né dopo. Questo è stato sottolineato dal Generale Lloyd Austin, comandante uscente del Comando Centrale americano, nelle sue dichiarazioni di fronte al Congresso del 9 Marzo: "Dall'accordo sul nucleare, l'Iran non ha ancora cambiato il suo atteggiamento nella regione… L'Iran è il maggior fattore di instabilità nella regione".
  "E questo è vero in Iraq, dove sponsorizza le milizie settarie più violente, in Siria dove fomenta le atrocità del regime di Assad e nello Yemen dove istiga alla ribellione, catapultando il paese nel caos e nei massacri e dove continua ad armare i ribelli houthi, come dimostrano le navi cariche di armi catturate dai francesi e dagli americani".
  "Il cosiddetto "moderato" Rouhani il 10 Maggio si è vantato dicendo che: "L'IRGC è pioniere per il sacrificio e la difesa dei luoghi sacri in Iraq e Siria, del popolo oppresso della Palestina, del Libano e delle altre nazioni che cercano l'aiuto iraniano. Speriamo che l'IRGC e i vittoriosi Bassij trionfino in ogni scenario…".
  "Se questi sono i moderati, siamo in guai grossi", ha avvertito Safavi.
  "Ed ha aggiunto: "In patria il regime continua a giustiziare gli oppositori impiccandoli alle gru, a torturare gli appartenenti alle minoranze e chiunque consideri suo oppositore. Almeno 66 persone sono state impiccate dal 10 Aprile e quasi 1000 sono state giustiziate nel 2015, secondo Amnesty International".
  "La pratica perversa di Tehran di utilizzare le gru dei cantieri per uccidere le persone è in paradossale contrasto con gli altri paesi, nei quali le gru simboleggiano progresso, nuovi progetti edilizi, crescita economica e la speranza di migliorare le condizioni di vita".
  " "Quelli che vogliono un vero cambiamento in Iran, e non sono stati uccisi per questo, sono costretti a vivere sotto costante minaccia di violenza o in esilio. Ogni estate oltre 100.000 attivisti politici iraniani in esilio si ritrovano nei pressi di Parigi per dimostrare che la totale repressione non è riuscita a soffocare la lotta per porre fine alla dittatura religiosa iraniana".
  "Gli Stati Uniti e il loro alleati europei devono abbandonare la loro politica di accondiscendenza. Ciò di cui c'è bisogno è molto semplicemente una politica che riconosca queste realtà: che non ci sono moderati nel regime di Tehran, che non c'è bisogno di prevedere un'azione militare contro l'Iran, ma che c'è bisogno di basarsi sull'azione, non semplicemente su parole dure e molto meno sull'ignoranza consapevole".
  "Il popolo iraniano vuole che il suo futuro governo democratico sia laico, libero dal nucleare e rispettoso dei diritti umani. Vuole un Iran reintegrato a membro pacifico della comunità internazionale. Non vuole un regime considerato come il primo stato del mondo sponsor del terrorismo".
  " "La leader dell'opposizione Maryam Rajavi personifica la verità che le donne ricoprono un ruolo cruciale in questo attivismo. Il movimento che guida prevede una democrazia trasparente e moderna, una visione che nessuno degli attuali teocratici 'moderati' oserebbe neppure menzionare".
  "L'Iran ha una forte forza di opposizione. E allora perché non riceve il riconoscimento che merita?".
  "Il prossimo presidente americano dovrà confrontarsi con il vero volto del regime iraniano. È ora che diciamo qual è la differenza tra gli amici e i nemici della libertà", ha aggiunto.

(Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, 16 maggio 2016)


La Danimarca mette al bando la macellazione religiosa

Preparazione kosher e halal sono vietate da ieri in tutto il Paese: le reazioni delle comunità religiose.

Il governo della Danimarca ha vietato - dopo anni di campagne da parte degli attivisti del "welfare" - la macellazione religiosa di animali per la produzione di carne halal e kosher. La modifica alla legge che farà molto discutere è stata annunciata in questi giorni ed è in vigore da di ieri. La messa al bando di queste procedure che non rispetterebbero il benessere degli animali è stata già definita da alcuni leader ebrei una vera e propria manifestazione di antisemitismo oltre che una "palese interferenza nella libertà religiosa" da parte di alcune associazioni no-profit danesi.
  Le normative europee prevedono che gli animali vengano storditi prima della macellazione, ma concede esenzioni per motivi religiosi. Per la carne kosher secondo la legge ebraica e halal per la legge islamica, l'animale deve essere cosciente mentre viene ucciso. Ma in difesa della sua decisione il governo danese che ha deciso di rimuovere questa esenzione, il Ministro per l'Agricoltura e l'Alimentazione Dan Jørgensen intervistato da TV2 ha detto che "i diritti degli animali vengono prima di qualunque religione".
  Commentando il cambiamento, il vice ministro israeliano delle funzioni religiose rabbino Eli Ben Dahan ha detto al Jewish Daily Forward: "Non solo l'antisemitismo sta mostrando il suo vero volto in tutta Europa, ma viene anche incoraggiato dalle istituzioni di governo". Al Jazeera ha citato il gruppo di monitoraggio danese Halal, che ha lanciato una petizione contro il divieto, dicendo che appare come "una chiara ingerenza nella libertà religiosa limitare i diritti dei musulmani e gli ebrei di praticare la loro religione in Danimarca".

 Il Paese che uccide le giraffe
  Il divieto - come era prevedibile - ha diviso l'opinione pubblica nel paese, in particolare dopo che lo Zoo di Copenaghen ha macellato considerandolo "surplus" il giovane maschio di giraffa Marius suscitando reazioni di sdegno e indignazione in tutto il mondo. Su Twitter, David Krikler ha scritto: "In Danimarca anche la macellazione di una giraffa sana di fronte ai bambini è considerata lecita, ma un pollo kosher o Halal ora è illegale."
  Il leader della comunità islamica scandinava Byakuya Ali-Hassan ha detto che è "disgustoso che lo stesso paese che ha macellato una giraffa in pubblico per alimentare i leoni metta al bando la carne halal". Mai vista così grande coesione tra ebrei e musulmani, verrebbe da dire.
  L'anno scorso fece scalpore in Gran Bretagna la diffusione di un video dell'organizzazione Animal Aid che documentava i maltrattamenti inflitti alle pecore in un mattatoio halal dello Yorkshire. Ma la campagna lanciata dall'Associazione Britannica dei Veterinari e altri attivisti ha avuto come unica risposta l'assicurazione - da parte del premier inglese David cameron - che il Governo avrebbe fatto il possibile perché il benessere degli animali venisse rispettato.
Tuttavia - aveva precisato il leader britannico - "il nostro Governo intende rispettare anche il diritto delle comunità ebraiche e musulmane di mangiare carne preparata secondo le convinzioni religiose. Pertanto nel Regno Unito non ci sarà alcun divieto di macellazione religiosa".

(BlastingNews, 15 maggio 2016)


Hezbollah scagiona Israele: non ha ucciso il nostro capo

Il mistero di Mustafa Badreddine. Il gruppo terrorista aveva accusato Gerusalemme per la morte del suo leader in Siria. Ora ci ripensa: «Sono stati jihadisti sunniti. Un segnale di debolezza.

di Carlo Panella

 
Mustafa Badreddine
Hezbollah non può ammettere che l'odiata "entità sionista" sia in grado di eliminare nell'arco di 8 anni i due suoi massimi dirigenti militari, due miti per gli sciiti libanesi, ammantati dell'aurea dell'invincibilità. Quindi ha scelto la strada del minor danno d'immagine possibile e - smentendo le sue prime dichiarazioni che accusavano Israele - ieri ha emesso un comunicato in cui ha accusato dell'uccisione di Mustafa Badreddine, colpito da un missile tre giorni fa - i jihadisti siriani' spregevolmente chiamati «takfiri», apostati: «Un'indagine ha mostrato che l'esplosione che ha colpito una delle nostre posizioni nei pressi dell'aeroporto internazionale di Damasco e portato al martirio del fratello comandante Mustafa Badreddine è stata causata da un bombardamento realizzato dai gruppi takfiri».
  È lo stesso, identico scenario già inventato da Hezbollah nel 2008, quando fu ucciso a Damasco il suo primo, mitico, comandante militare, l'iraniano Imad Mughnyeh, decapitato da una bomba inserita nel poggiatesta della sua auto a tarda notte, appena uscito dalla casa di una donna con cui aveva una relazione clandestina. Un colpo magistrale, di cui Hezbollah accusò «Paesi arabi nemici», ma che con tutta evidenza -e come si appurò in seguito- era stato portato a segno con una operazione raffinatissima, dal Mossad israeliano. Altrettanto magistrale è stata l' operazione che ha portato l'aviazione israeliana a individuare il nascondiglio super segreto di Badreddine e a violare la rete di protezione del più importante generale delle forze che combattono per difendere il regime macellaio di Beshar al Assad. Tutte le milizie di Hezbollah in Siria, i Pasdaran iraniani (inclusi molti generali), così come l'esercito di Assad erano infatti sotto gli ordini di Badreddine che aveva la massima responsabilità operativa. Sopra di lui era solo il generale dei Pasdaran iraniani Qassem Suleimaini, dirigente della Brigata al Qods, con un ruolo eminentemente politico. La decisione di Israele di eliminare Badreddine, che stava dirigendo la cruciale battaglia per riprendere il controllo di Aleppo, dimostra che Gerusalemme ritiene molto pericolosa per la propria sicurezza l'evoluzione dei combattimenti in Siria. Sino ad oggi infatti, Israele si era limitato a bombardare più volte postazioni di Hezbollah in Siria che potevano minacciare con nuovi missili e armi fornite dall'Iran, il proprio territorio nazionale. Mai era intervenuta per modificare i rapporti di forza nel conflitto siriano. Ora, invece, eliminando il più capace cervello militare del fronte pro Assad e infliggendo una pesante umiliazione a Hezbollah, dimostra che non intende permettere al fronte siro-irano-russo-libanese di proseguire nella controffensiva vittoriosa contro i ribelli siriani, iniziata mesi fa col determinante appoggio dell'aviazione e dei militari russi. Una svolta.
  Il mito di Badreddine 55 anni, che è stato anche uno sfrenato play boy nella Dolce Vita di Beirut, è legato ad una devastante biografia criminale: nel 1983, organizzò il clamoroso attentato kamikaze che uccise 241 Marines e 180 parà francesi nelle basi del corpo internazionale a Beirut. Una strage mai punita, che segnò il trionfo di Hezbollah nella guerra civile libanese. Badreddine si spostò poi in Kuwait, dove organizzò sanguinati attentati pro sciiti nel 1983, ma fu arrestato e condannato a morte. Liberato da Saddam Hussein dopo l'invasione irachena del Kuwait nel 1990, si trasferì in Iran e poi in Libano dove organizzò nel 2005 l'attentato che uccise a Beirut l'ex premier libanese Rafik Hariri. Per questo era sotto processo in contumacia davanti al Tribunale Speciale per il Libano dell'Onu. Una carriera che ne ha fatto nel 2008 il successore naturale di lmad Mugnyeh, suo cognato. E che ne ha segnato l'identica fine.

(Libero, 15 maggio 2016)


Israele non commenta la morte del comandante di Hezbollah

Badreddine era vertice di Hezbollah dal 2008, era succeduto a Imad Mughniyeh, assassinato in un bombardamento a Damasco. Eppure Mustafa Badreddine conduceva a Beirut una vita da nuovo ricco che voleva ostentare, non nascondersi: feste, uno yacht ancorato nel golfo, le amanti che chiamava dagli stessi telefonini usati per organizzare gli attentati. Secondo le prime confuse ricostruzioni il 55enne sarebbe rimasto ucciso in una misteriosa esplosione nei pressi dell'aeroporto di Damasco.
Confermandone la morte la morte, Hezbollah ha confermato in una dichiarazione che Badreddine Amine "ha preso parte nella maggior parte delle operazioni della resistenza islamica dal 1982".
Non mancano fonti che lo dipingono con tratti ben diversi da quelli di un "latitante", proprietario di una gioielleria e amante della movida di Jounieh. Nawar al-Saheli, deputato di Hezbollah ha parlato di "guerra aperta". L'emittente libanese vicina agli Hezbollah Al-Mayadeen TV ha poi precisato che sarebbe morto in un raid aereo israeliano. Un ruolo di primo piano che gli ha consentito di potersi sedere fianco a fianco con il presidente Bashar al Assad e i generali iraniani.
Badreddine era uno dei cinque 'latitanti' di Hezbollah incriminato dal Tribunale speciale per il Libano per l'uccisione nel febbraio 2005 in un attentato a Beirut dell'ex premier libanese Rafiq Hariri insieme ad altre 21 persone. Cosa che non è stata più possibile da allora. In precedenza alcuni media libanesi avevano parlato di un raid israeliano, ma nessun commento è arrivato da Tel Aviv.
Da Mugniyeh aveva ereditato il sapere alchemico dei bombaroli e il ruolo di comandante militare del movimento sciita filo-iraniano. Lo fa colpendo la caserma degli Hezbollah, che combattono a sostegno dell'esercito siriano, alla periferia di Damasco, capitale della Siria.
Il coinvolgimento di Hezbollah in Siria ha creato un nuovo divario tra sciiti e sunniti in Libano.

(NSG Magazine News, 14 maggio 2016)


L'otto per mille, sistema da cambiare

di Alessandro Giacomini

Il miracoloso otto per mille è un meccanismo sistematico di iniquità e inganni: molti confondono tale sistema con il democratico e meritevole 5 per mille che finanzia le centinaia di associazioni con finalità sociali dove certamente il contribuente si identifica in una di esse e che potrebbe, integralmente, sostituire l'8 per mille. Ogni cittadino che presenta la dichiarazione dei redditi può scegliere la destinazione dell'8 per mille tra sette opzioni, sei delle quali a favore di confessioni religiose, la restante allo Stato. il ministero delle Finanze ha reso pubblici i dati della dichiarazione dei redditi del 2014 dai quali si evince che circa il 35% della popolazione ha espresso di destinare 1'8 per mille alla chiesa cattolica. Fin qui tutto chiaro, nulla di ambiguo, ma se guardiamo i dati della distribuzione della quota spettante agli enti opzionabili, risulta che la chiesa cattolica divora 85% dell'ammontare delle entrate. Come è possibile? Lo è perché il 60% dei contribuenti non esprime una scelta. Trovo vergognoso che un ateo debba sostenere una comunità religiosa con le proprie tasse, anzi è consono e caritatevole che una qualsivoglia associazione religiosa debba autofinanziarsi con i propri adepti e non con una coatta e miracolosa questua. Assurda poi è la scelta allo Stato, l'unica opzione non religiosa, il quale non ha fatto un uso razionale: finanziando ulteriormente la chiesa di Roma, ha finito per utilizzare i fondi per finanziare con una quota del budget a lavori di abbellimento di chiese, sedi arcivescovili, monasteri e confraternite della conferenza episcopale italiana. Ritengo più opportuno aggiungere opzioni per finanziare sul nostro territorio il sostentamento al reddito dei disoccupati, sicuramente più consono in questo periodo di prolungata crisi. Cosi strutturato 1'8 per mille è agli antipodi della democrazia: se non fai una scelta, ogni anno si devolvono le proprie tasse alla chiesa cattolica; quel che è peggio, molti non lo sanno.
Il meccanismo deve essere basato sulla volontarietà. La ripartizione delle scelte inespresse viola, di fatto, questo principio. Le scelte dei contribuenti non sono rispettate e le risorse destinate vengono distorte dalla finalità originaria.

(Corriere dell'Alto Adige, 15 maggio 2016)


*


Certi nodi si ripresentano periodicamente, ma sembra che non arrivino mai al pettine. Negli anni '80 la discussione era più di fondo: si discuteva seriamente sull'abrogazione del Concordato stipulato tra Vaticano e Stato fascista. Poi venne nel 1984 la revisione del Concordato, con l'apertura della prima Intesa con la Chiesa Valdese, e poco dopo ci fu l'introduzione "a sorpresa" dell'otto per mille. Perché è stato introdotto questo nuovissimo sistema di uso del denaro pubblico? Perché era necessario far arrivare alla Chiesa Cattolica Romana i soldi che prima ricevevano i preti ad personam dal governo di Mussolini attraverso la congrua statale. Dopo la revisione del 1984 sembrava strano ed era imbarazzante, soprattutto per la sinistra, che in uno Stato democratico si dessero soldi pubblici soltanto a una confessione religiosa, che non era più religione di Stato. Allora qualcuno ebbe l'idea di estendere "democraticamente" la forma assunta dalla nuova congrua anche ad altre confessioni. La discussione si accese anche nelle chiese evangeliche, perché i soldi fanno sempre gola, e in effetti ci fu chi colse la palla al balzo e fu tra i primi ad approfittarne. Il movimento evangelico in cui ha vissuto e vive spiritualmente questa redazione è sempre stato contrario al Concordato, alle Intese e a maggior ragione all'appropriazione di parte dell'otto per mille. Chi scrive fu tra coloro che si opposero energicamente ad ogni forma di commistione di questo tipo. Riportiamo un articolo risalente al 1990, quando per le prima volta i cittadini italiani dovettero scrivere nella dichiarazione dei redditi a chi volevano dare il "loro" otto per mille. M.C.

Lasciamo a Cesare quel che è di Cesare

Considerazioni sull'otto per mille.

di Marcello Cicchese

Maggio 1990 - Dopo tanto parlarne, l'otto per mille esce dalla sfera nebulosa dei discorsi teorici e si materializza in una scelta precisa che dobbiamo fare davanti al modulo della dichiarazione dei redditi. Forse adesso anche i più ostili ai discorsi tecnici e poco "spirituali" si renderanno conto che si tratta di cose reali, e che per agire da cristiani avveduti è assolutamente necessario avere le idee chiare.
   Non mi sembra che abbia le idee chiare chi, per esempio, davanti a questa scelta si pone soltanto il problema di come verranno spesi i soldi e cerca di capire chi li spenderà meglio. "Piuttosto che metterli nel calderone...", si sente dire, "è meglio darli a questo o a quest'altro". Ma non sta qui il problema.
   Supponiamo infatti che un giorno arrivi a casa nostra un gruppo di amici, e che uno di loro tiri fuori un grosso pacco di banconote e dica: "Abbiamo qui un bel po' di soldi e vogliamo destinarli a fin di bene, ma non abbiamo ancora deciso che cosa fare. C'è chi propone di darli all'infanzia abbandonata, chi all'ospizio dei vecchi, chi al centro di recupero per drogati. Tu, che ne pensi?" Io credo che prima di rispondere prudentemente ci informeremmo: "Ma, da dove arrivano questi soldi?". E supponiamo che qualcuno candidamente ci risponda: "Beh, li abbiamo trovati nel cortile del cavalier Giacobetti". Non credo che, a questo punto, ci addentreremmo nella nobile e appassionata diatriba se siano da preferire i minori abbandonati o i vecchi bisognosi. Credo invece che, molto sobriamente, diremmo agli amici: "Andiamo a riportare i soldi al cavalier Giacobetti".
   Fuor di metafora: sui soldi dell'otto per mille non avremmo dovuto avere niente da decidere per il semplice fatto che non sono soldi nostri. Sono soldi dello Stato. E' vero che lo Stato incassa anche le "nostre" tasse, ma lo fa per svolgere dei servizi a favore di tutta la comunità civile di cui facciamo parte. I soldi delle tasse sono dovuti allo Stato, e quindi non sono soldi nostri, come non sono nostri i soldi che dobbiamo al medico che ci cura.
   Ma in Italia c'è il Vaticano. Il quale prima della revisione del Concordato pagava il sostentamento dei suoi preti con fondi che venivano direttamente dallo Stato; di questo, tutti gli evangelici si scandalizzavano. Adesso invece è tutto come prima, ma con un sistema diverso; e molti non si scandalizzano più. Perché? Perché adesso il sistema consente di far arrivare un po' di soldi anche ad alcune istituzioni evangeliche.
   Sì, dispiace che siano stati proprio gli evangelici ad allargare per primi la situazione di privilegio in cui, fino a poco tempo fa, viveva da sola la chiesa cattolica. E' un grave cedimento, che non si può certo mascherare dicendo che con quei soldi si faranno opere buone, in modo più onesto di quanto farebbe lo Stato. Come già detto, non è questione di buon uso, ma di diritto. Se davanti a Dio non abbiamo diritto a toccare quei soldi, è un'illusione pensare di poterli usare per la Sua gloria.
   E ripeto, non sono soldi nostri.
   L'otto per mille non è una tassa speciale per persone religiose, i cui proventi lo Stato ridistribuisca tra tutti quelli che hanno pagato tale tassa. L'otto per mille è un'aliquota di tutte le imposte che lo Stato percepisce da tutti i cittadini. In un primo tempo essa era stata prevista per finanziare esclusivamente la chiesa cattolica; solo in un secondo momento, con l'approvazione della legge 222/85, questa possibilità di finanziamento è stata estesa anche alle chiese che avrebbero firmato le Intese dopo l'approvazione di tale legge. Questo è il motivo per cui assemblee di Dio e avventisti, che hanno firmato le loro Intese dopo quella data, hanno potuto automaticamente accedere all'uso di tali fondi, mentre valdesi ed ebrei, che avevano già le loro Intese, avrebbero dovuto richiedere esplicitamente l'accesso alla ripartizione; cosa che per il momento non hanno fatto.
   Il fatto che il contribuente possa indicare in un'apposita casella della sua dichiarazione dei redditi la destinazione dell'aliquota dell'otto per mille, gli può dare l'impressione di stare destinando i suoi soldi. Ma è un'illusione. Dirò di più: è un sottile invito alla complicità. Il contribuente che non destina l'otto per mille allo Stato, condivide la responsabilità di sottrarre alla comunità civile una parte dei fondi che le appartengono per dirottarli verso enti religiosi privati. Diventa egli stesso "autorità", e si assume il peso della responsabilità dell'operazione.
   Per concludere, ricordo che per l'otto per mille le possibilità di scelta sono cinque: 1) lo Stato; 2) la chiesa cattolica; 3) la chiesa avventista del settimo giorno; 4) le assemblee di Dio in Italia; 5) nessuna scelta. In quest'ultimo caso, la legge prevede che la cifra ottenuta dai contributi per i quali non è stata operata una scelta sia divisa in parti proporzionali alle scelte espresse. E poiché le chiese avventiste e le assemblee di Dio hanno rinunciato a partecipare alla suddivisione di tali contributi, la spartizione della "torta" residua avverrà soltanto tra lo Stato e la chiesa cattolica. E' chiaro allora che chi non farà una scelta esplicita, in realtà sceglierà di far arrivare una buona parte dell'otto per mille delle sue imposte alla chiesa cattolica romana.
   Quindi, fermo restando che ciascuno dovrà decidere in base alla propria coscienza, per me la scelta è una sola: lasciare allo Stato quello che è già suo, e che nessuna chiesa cristiana avrebbe mai dovuto reclamare, né con Concordati né con Intese.

(Notizie su Israele, 15 maggio 2016)


Sellano - "Gli ebrei nella terra di Montesanto"

Domenica 15 maggio un incontro di studi vede la partecipazione di Andrea Yaakov Lattes in collegamento da Tel Aviv.

SELLANO (PG) - "Gli Ebrei nella terra di Montesanto". È questo il titolo dell'incontro di studi che si svolgerà domenica 15 maggio 2016 alle ore 10:30 nel Centro studi per la scienza di Montesanto, frazione del comune di Sellano.
Dopo i saluti del sindaco di Sellano, del Soprintendente archivistico e bibliografico dell'Umbria e delle Marche, del Presidente dell'Associazione israeliana per lo studio della storia degli ebrei in Italia e il Presidente dell'Associazione Italia Israele di Perugia, sono previsti gli interventi di Alessandro Bianchi (I "capituli dell'ebreo" di Montesanto del 1537: una comunità nella comunità"); di Andrea Yaakov Lattes in collegamento da Tel Aviv (Fonti per la storia degli Ebrei in Umbria presenti in archivi, biblioteche, istituti culturali d'Israele); di Bernardino Sperandio (Note sulla struttura urbanisticao-architettonica di Montesanto); di Maria Luciana Buseghin (Permanenze ebraiche nella cultura tra Umbria e Marche).
In occasione dell'incontro saranno esposte nella pieve di Santa Maria alcune delle tovaglie umbre della collezione di Amleto Morosini di Spoleto.
La presenza degli ebrei è documentata in Valnerina dove, tra l'altro, nell'archivio storico comunale di Norcia è conservato un frammento della Toseftà, manoscritto ebraico, risalente al X secolo. Si tratta del più antico fra gli oltre diecimila frammenti ad oggi censiti nelle legature italiane. La scoperta di questi frammenti ebraico ha suscitato e continua a suscitare interesse crescente negli ambienti scientifici di tutto il mondo. In Umbria sono stati rinvenuti 76 frammenti. Il frammento della Toseftà di Norcia, tesoro del giudaismo, era stato riusato come copertina di un protocollo notarile del XVII secolo, appartenente al notaio Giovan Girolamo Vertecchi.

(Umbria Domani, 14 maggio 2016)


Iran - Arrestato un Pastore protestante

TEHERAN - Il Pastore cristiano Yousef Nadarkhani, della comunità protestante "Chiesa dell'Iran", assolto nel 2012 dall'accusa di apostasia, è stato arrestato ieri, 13 maggio, in Iran insieme alla moglie, Tina Pasandide Nadarkhani, e a un fedele della sua comunità, Yasser Mosayebzadeh, per ragioni ancora ignote. Come riferito a Fides dall'Ong "Christian Solidarity Worldwide" (CSW), che monitora la situazione dei cristiani in Iran, non è la prima volta che il Pastore Nadarkhani viene nuovamente tratto agli arresti, dopo il suo rilascio dal carcere avvenuto nel settembre 2012.
Il pastore Nadarkhani era stato inizialmente arrestato nel 2009 dopo aver messo in discussione il monopolio dell'istruzione musulmana nelle scuole, che aveva definito "incostituzionale". È stato accusato di apostasia e condannato a morte nel 2010, decisione confermata dalla Corte suprema nel 2011. Al Pastore è stato più volte chiesto di rinunciare alla fede durante il processo, per evitare la pena di morte, ma ha rifiutato. L'8 settembre 2012 è stato rilasciato dopo l' assoluzione dall'accusa di apostasia, anche se è stato riconosciuto colpevole di "evangelizzare i musulmani", e condannato per questo a tre anni di carcere.
Dopo il rilascio del Pastore Nadarkhani, anche il suo avvocato, Mohammed Ali Dadkhah, eminente avvocato e difensore dei diritti umani, è stato imprigionato per dieci anni e radiato dall'albo a settembre 2012 per "azioni e propaganda contro il regime islamico"
Nella nota giunta a Fides, CSW manifesta "profonda preoccupazione per il Pastore" e chiede "chiarimenti sulle ragioni del nuovo arresto", invitando le istituzioni a "rispettare pienamente gli obblighi costituzionali e internazionali sui diritti umani, assicurando giustizia e uguaglianza davanti alla legge per tutti i cittadini, a prescindere dal loro credo".

(Agenzia Fides, 14 maggio 2016)


I sessantotto anni dello Stato di Israele

di David Harris (*)

Si celebra questa settimana il sessantottesimo anniversario dell'Indipendenza di Israele, e lasciatemelo dire sinceramente: quando si tratta di Israele, mi lascio trascinare dalle passioni. La fondazione dello Stato nel 1948; il coronamento della visione del ruolo di Israele come casa e rifugio per gli ebrei di tutto il mondo; l'aver abbracciato a piene mani la democrazia e lo stato di diritto; i risultati impressionanti ottenuti nella scienza, nella cultura, nell'economia - è andato tutto ben oltre le più rosee aspettative.
  Per secoli, gli ebrei di tutto il mondo hanno pregato per poter ritornare a Sion. Noi siamo tra i fortunati che hanno visto accolte le loro preghiere. Sono grato di poter essere testimone di questo periodo straordinario per la storia e la sovranità ebraiche. Nelle parole dell'inno nazionale israeliano, siamo "un popolo libero nella nostra terra, la terra di Sion e di Gerusalemme".
  E se aggiungiamo l'elemento cruciale, e cioè che tutto questo è accaduto non nel medio occidente ma nel Medio Oriente - dove i vicini di Israele decisero sin dal primo giorno di distruggerla con qualunque mezzo: dalla guerra vera e propria alla guerra di logoramento; dall'isolamento diplomatico alla delegittimazione internazionale, dai boicottaggi di prima, seconda e terza categoria; dal terrorismo alla diffusione dell'antisemitismo, spesso maldestramente velato dall'antisionismo - allora la storia dei primi 68 anni di Israele diventa ancora più importante. Nessun altro Paese ha dovuto affrontare sfide costanti al proprio diritto di esistere, malgrado l'antichissimo legame biblico, spirituale e fisico tra il popolo ebraico e la terra di Israele, che è un fatto unico negli annali della Storia.
  È anzi un legame completamente diverso da quello, per esempio, su cui si basano la nascita degli Stati Uniti, dell'Australia, del Canada, della Nuova Zelanda o della maggior parte dei Paesi dell'America Latina, fondati da europei che non avevano nessun diritto legittimo su quelle terre, e che hanno sterminato le popolazioni indigene mentre proclamavano la propria autorità su quei luoghi. È un legame diverso anche da quello dei Paesi dell'Africa settentrionale, conquistati e occupati da invasori arabo-islamici che ne hanno completamente stravolto il carattere nazionale. Nessun altro Paese ha dovuto combattere probabilità di sopravvivenza tanto sfavorevoli, né ha dovuto affrontare lo stesso livello di incessante demonizzazione internazionale da parte di troppe nazioni pronte a gettar via la propria integrità e la propria moralità e piegarsi alla volontà dei paesi Arabi, più numerosi e ricchi di petrolio. Eppure gli israeliani non si sono mai lasciati andare alla mentalità dell'assedio, non hanno mai abbandonato il loro profondo desiderio di pace con i loro vicini e la loro volontà di accollarsi grossi rischi per poterla ottenere (come è successo con Egitto e Giordania, e con il ritiro unilaterale da Gaza, ad esempio), non hanno mai perso la voglia di vivere e non si sono mai lasciati distogliere dalla determinazione di costruire uno Stato vivace e democratico.
  Il racconto della costruzione di questa nazione è un racconto senza precedenti. È il racconto di un popolo che si trovava sull'orlo dell'annientamento totale a seguito delle politiche di genocidio della Germania nazista e dei suoi alleati. È Il racconto di un popolo che si è trovato completamente impotente nel cercare di persuadere un mondo in gran parte indifferente a fermare, o almeno a rallentare, la Soluzione Finale. Ed è il racconto di un popolo di neanche 600mila persone, che vivevano in quella che era allora la Palestina Mandataria fianco a fianco ai vicini arabi spesso ostili, che vivevano sotto una occupazione britannica incurante della loro situazione, in una terra difficile, senza nessuna risorsa naturale se non il capitale umano. Sembra ancora incredibile che a soli tre anni dalla fine dell'Olocausto, e con il supporto di una maggioranza decisiva alle Nazioni Unite, si sia potuta piantare la bandiera blu e bianca di una Israele indipendente su questa terra, terra alla quale il popolo ebraico è intimamente legato sin dai tempi di Abramo. E per di più, che questa piccola comunità di ebrei - tra cui sopravvissuti dell'Olocausto che erano riusciti ad arrivare nella Palestina Mandataria nonostante il blocco navale britannico ed i campi di detenzione britannici a Cipro - si sarebbe potuta poi difendere con successo contro l'aggressione contemporanea di cinque eserciti permanenti arabi, è quasi oltre ogni immaginazione.
  Per capire l'essenza del significato di Israele, basta chiedersi come sarebbe stata diversa la storia del popolo ebraico se fosse esistito uno Stato ebraico nel 1933, nel 1938, o nel 1941. Se Israele, invece del Regno Unito, avesse potuto controllare i propri confini e il diritto d'ingresso nel Paese, se Israele avesse avuto ambasciate e consolati in tutta Europa, quanti altri ebrei sarebbero potuti fuggire e ricevere asilo? E invece, gli ebrei poterono solo affidarsi alla buona volontà delle ambasciate e dei consolati di paesi terzi che purtroppo, se non con poche eccezioni, non ebbero ne la volontà né l'umanità di assisterli. Ho visto con i miei occhi cosa può significare un'ambasciata o un consolato israeliano per gli ebrei attratti dal richiamo di Sion o dalla spinta dell'odio degli altri verso di loro. Mi trovavo nel cortile dell'ambasciata israeliana a Mosca e ho visto migliaia di ebrei che cercavano di fuggire al più presto da un'Unione Sovietica in preda a cambiamenti epocali, impauriti dal fatto che questi cambiamenti potessero manifestarsi in una rinascita dello sciovinismo e dell'antisemitismo. Sono rimasto colpito quando ho visto da vicino come Israele non ha vacillato neanche un istante, quando evacuava gli ebrei sovietici verso la patria ebraica, anche mentre i missili Scud lanciati dall'Iraq traumatizzavano la nazione, nel 1991. La dice lunga sulle condizioni che si lasciavano alle spalle questi ebrei che continuavano a salire sugli aerei diretti a Tel Aviv, mentre i missili cadevano nei centri abitati israeliani. E infatti, in due occasioni mi sono trovato nei rifugi assieme a famiglie di ebrei sovietici che arrivavano in Israele sotto una pioggia di missili. Non hanno messo mai in discussione la loro decisione di rifarsi una vita nello Stato ebraico. E la dice lunga anche su Israele, che nel bel mezzo di questa crisi della sicurezza nazionale, riusciva ad accogliere nuovi immigrati senza battere ciglio.
  E come potrò mai dimenticare il sentimento d'orgoglio - orgoglio ebraico - che mi ha sopraffatto 40 anni fa, nel luglio del 1976, quando ho sentito l'incredibile notizia del coraggioso salvataggio di 106 ostaggi ebrei che erano nelle mani di terroristi arabi e tedeschi ad Entebbe in Uganda, a più di 3mila chilometri da Israele? Il messaggio era chiaro: ovunque si trovassero, gli ebrei in pericolo non sarebbero mai più rimasti soli, rimasti senza speranza, e completamente dipendenti da altri per la propria sicurezza. E poi ricordo ancora come se fosse ieri la mia prima visita in Israele. Era il 1970, e non avevo ancora compiuto 21 anni. Non sapevo cosa aspettarmi, ma ricordo quanta emozione provai dall'istante in cui salii sull'aereo della El Al fino a quando posai lo sguardo sulla costa israeliana che cominciava a intravedersi dal finestrino. Mentre sbarcavo, sorpresi me stesso nel rendermi conto che volevo baciare la terra. Nelle settimane che seguirono, rimanevo incantato da tutto quello che vedevo. Per me, era come se ogni condominio, ogni fabbrica, ogni scuola, ogni aranceto e ogni autobus fossero un vero e proprio miracolo. Uno Stato, uno Stato ebraico, si stava materializzando davanti ai miei occhi. Dopo secoli di persecuzioni, di pogrom, di esili, di ghetti, di inquisizioni, di calunnie del sangue, di conversioni forzate, di leggi discriminatorie e di restrizioni all'immigrazione - ma anche dopo secoli di preghiere, di sogni e di desiderio - gli ebrei erano tornati a casa ed erano padroni del proprio destino.
  Ero sopraffatto dalla varietà delle persone, della loro provenienza, delle loro lingue e delle loro abitudini, e dall'intensità della vita stessa. Sembrava che ognuno avesse una storia importante da raccontare. C'erano sopravvissuti dell'Olocausto con i racconti strazianti degli anni passati nei campi di concentramento. C'erano ebrei dei Paesi arabi, le cui persecuzioni in Paesi come l'Iraq, la Libia e la Siria erano allora ancora poco note. C'erano i primi ebrei che venivano dall'Urss per trovare una nuova patria nella terra ebraica. E c'erano i sabra - gli Israeliani nati sul posto - le cui famiglie avevano vissuto in Palestina per generazioni. C'erano gli arabi locali, sia cristiani che musulmani. C'erano i Drusi, le cui pratiche religiose vengono tenute nascoste al mondo esterno, ed altri ancora.
  Non posso descrivere la commozione che ho provato quando ho visto Gerusalemme ed il fervore con cui gli ebrei di ogni provenienza pregavano al Muro del Pianto. Io venivo da una nazione che all'epoca era profondamente divisa e demoralizzata, mentre i miei compagni israeliani erano palesemente fieri del loro Paese, pronti a servirlo nelle forze armate e in molti casi, determinati ad offrirsi volontari per le truppe d'élite. Si sentivano coinvolti personalmente nell'impresa della costruzione di uno Stato ebraico, a più di 1800 anni da quando i romani soffocarono la rivolta di Bar Kochba, l'ultimo tentativo di ottenere la sovranità ebraica su quella terra.
  Di certo la costruzione di una nazione è un processo enormemente complesso. Per Israele, è iniziato tra le tensioni con la popolazione araba del posto che accampava diritti sulla stessa terra, e che rifiutò tragicamente la proposta delle Nazioni Unite di dividere la terra in due Stati, uno arabo ed uno israeliano. È un processo iniziato mentre il mondo arabo cercava di isolare, di demoralizzare, e in definitiva, di distruggere Israele. È un processo iniziato mentre la popolazione israeliana raddoppiava nei primi tre anni dalla sua fondazione, mettendo a dura prova le già scarse risorse. È un processo iniziato mentre il Paese è stato costretto a dirottare gran parte del proprio già limitato budget nazionale alle spese per la difesa nazionale. Ed è un processo iniziato mentre il Paese cercava di forgiare una identità nazionale e un consenso sociale tra popoli che non avrebbero potuto essere geograficamente, linguisticamente, socialmente e culturalmente più diversi.
  C'è poi la difficile e poco apprezzata questione dello scontro potenziale tra la caotica realtà di uno Stato da un lato e, in questo caso, tra gli ideali e la fede di un popolo dall'altro. Per un popolo una cosa è vivere la propria religione da minoranza. Cosa ben diversa è esercitare la sovranità in quanto popolazione maggioritaria rimanendo allo stesso tempo fedeli ai propri standard etici. Inevitabilmente, ci saranno tensioni tra l'auto-definizione spirituale o morale di un popolo e le esigenze della costruzione di uno Stato, tra la concezione più alta della natura umana e la realtà quotidiana di individui che devono prendere decisioni pratiche ed esercitare il potere mentre provano a districarsi ed a bilanciarsi tra gruppi di interessi diversi in competizione tra loro. Nonostante questo, le nostre aspettative devono per forza essere così alte da fare in modo che Israele - un piccolo Stato ancora in pericolo, che deve operare nel mondo duro e moralmente ambiguo della politiche e delle relazioni internazionali - non ne sarà mai all'altezza? Eppure, che Israele possa mai diventare eticamente indistinguibile da qualunque altra nazione, che si rifugia automaticamente dietro la facile giustificazione della realpolitik per spiegare i propri comportamento, è egualmente inaccettabile.
  Gli israeliani, a soli 68 anni dalla nascita del proprio Stato, sono tra i nuovi praticanti dell'arte politica. Pur avendo ottenuto grandi successi, provate a pensare alle difficilissime sfide politiche, sociali ed economiche che hanno dovuto affrontare gli Stati Uniti a 68 o anche a 168 anni dall'indipendenza, o alle sfide che si trovano ad affrontare ancora oggi, tra cui ad esempio le persistenti disparità sociali. E non dimentichiamoci che gli Stati Uniti, al contrario di Israele, si trovano in un vasto territorio ricco di risorse naturali, con oceani ad est e ad ovest, un vicino gentile al nord ed uno più debole al sud. Come ogni vivace democrazia, l'America è un cantiere sempre attivo. E la stessa cosa vale per Israele. Amare Israele come lo amo io, però, non vuole dire chiudere un occhio di fronte ai suoi difetti, tra cui l'eccessiva e poco sacra intrusione della religione nella politica, l'imperdonabile emarginazione delle correnti religiose diverse dall'ebraismo Ortodosso, i pericoli posti dagli zeloti politici e religiosi e il compito - innegabilmente arduo e ancora incompleto - della piena integrazione degli arabi israeliani. Ma tutto questo non deve oscurare i notevoli risultati ottenuti da Israele, come ho detto, in circostanze difficilissime.
  In soli 68 anni, Israele ha costruito una fiorente democrazia, unica nella regione, la cui Corte Suprema può - quando lo ritiene necessario - porre veti alle decisioni prese dal premier o dalle forze armate; e ha costruito un parlamento esuberante - al cui interno troviamo l'intero spettro delle ideologie politiche -, una robusta società civile e una stampa energica e libera. Ha costruito una economia sempre più basata sull'innovazione e sulle nuove tecnologie, il cui PIL pro capite è più alto di quello dei suoi quattro vicini messi insieme - l'Egitto, la Giordania, il Libano e la Siria. Ha costruito università e centri di ricerca che hanno contribuito all'avanzamento delle frontiere della conoscenza mondiale in innumerevoli modi, vincendo nel contempo una gran quantità di Premi Nobel. Ha costruito uno degli eserciti più potenti del mondo - esercito che rimane sempre sotto il controllo civile, vorrei aggiungere - per assicurare la propria sopravvivenza in una regione violenta e pericolosa. Ha mostrato al mondo come una piccola nazione, non più grande del New Jersey o del Galles può, tramite la forza dell'ingegno, della volontà, del coraggio e della determinazione, difendersi contro chi la vorrebbe distruggere con eserciti convenzionali o con eserciti di terroristi suicidi. E tutto questo, mentre ha fatto di tutto per aderire ad un severo codice di condotta militare che ha pochi rivali nel mondo democratico, per non parlare del resto del mondo, affrontando un nemico pronto a mandare bambini in prima linea ed a rifugiarsi nelle moschee, nelle scuole e negli ospedali. Ha costruito una qualità di vita che la pone tra i Paesi più salutari al mondo e con un'aspettativa di vita particolarmente alta, addirittura più alta di quella degli Usa. Ha costruito una cultura fiorente i cui musicisti, scrittori e artisti sono ammirati in luoghi ben lontani dai propri confini. E in tutto ciò, ha preso con amore un'antica lingua - l'ebraico - rendendola moderna in modo da ospitarvi il vocabolario del mondo contemporaneo.
  Nonostante le voci intolleranti di qualche estremista, ha costruito un clima di rispetto per le altre fedi tra cui i baha'i, i cristiani e i musulmani, e per i loro luoghi di culto. C'è forse qualche altro Paese nella regione che può dire altrettanto? Ha costruito un settore agricolo che ha molto da insegnare ai Paesi in via di sviluppo per quanto riguarda trasformare terre aride in campi di frutta, di vegetali, di cotone e di fiori. Allontaniamoci un attimo dall'enorme flusso di informazioni che arriva di continuo dal Medio Oriente e consideriamo la portata degli ultimi 68 anni, a quanti anni luce di distanza siamo arrivati dal buio dell'Olocausto, e rimaniamo meravigliati da un popolo decimato che è ritornato su un piccolo fazzoletto di terra - la terra dei nostri antenati, la terra di Sion e di Gerusalemme - sfidando ogni probabilità e costruendo su queste antiche fondamenta un moderno e vibrante Stato.
  In ultima analisi, la storia di Israele è una stupenda realizzazione di un legame che dura da 3500 anni tra una terra, una lingua, una fede, un popolo ed una visione. È una storia impareggiabile di tenacia e determinazione, di coraggio e di rinnovamento. In definitiva, è un metafora del trionfo della durevole speranza sulle tentazioni della disperazione.
(*) Direttore Esecutivo dell'American Jewish Committee

(L'Opinione, 13 maggio 2016)


A proposito di cultura ebraica

La comunità ebraica milanese celebra con un festival i suoi 150 anni: incontri, musica e cucina.

di Paola D'Amico

Torna per il terzo anno il Festival internazionale della cultura ebraica e cade nel 150esimo della Comunità ebraica milanese. Cambia nome: «Jewish in the City#150» invece di «Jewish and the City», perché, spiegano gli organizzatori, «dalla serie televisiva "Sex and the City" volevano farci causa». E anche stagione. Da settembre migra a fine maggio. Tre giorni (dal 29 al 31) che avranno come protagonisti 73 relatori italiani e internazionali i quali animeranno sedici eventi, tra convegni e incontri, e otto spettacoli, di cui tre a conclusione di ciascuna delle giornate del festival: proiezioni, eventi, reading, una mostra, al Teatro Parenti, al Teatro Dal Verme e al Cinema Anteo.
   L'apertura si terrà domenica 29 alla Rotonda della Besana, con la Tavola di Comunità, un invito aperto alla città. Si chiude martedì 31 maggio all'Anteo Spazio Cinema con «Silent Quartet di Yuval Avital». Rav Roberto Della Rocca, direttore scientifico del festival, ha manifestato l'auspicio che il festival diventi un appuntamento fisso, riprendendo un concetto giuridico del Talmud: «Quando una cosa viene ripetuta per tre volte non è più una consuetudine ma una norma». Questa edizione in tre giorni animerà quattordici sedi cittadine, pubbliche e private, la Sinagoga Centrale, dove sarà affissa una targa per i Giusti di tutto il mondo, Sala Alessi a Palazzo Marino, la Biblioteca Ambrosiana, Fondazione Corriere della Sera, il Memoriale della Shoah. E anche Eataly Smeraldo, perché nel corso del festival si svolgerà il primo corso di cucina kasher, realizzato sotto stretta osservanza rabbinica, curato da Daniela di Veroli. Gadi Schoeneit, responsabile del progetto per la Comunità ebraica, ha chiarito che «il focus sull'attualità internazionale si coniuga con i contenuti e la storia delle tante anime della Comunità» radicate in città, dal Cdec (il Centro di documentazione ebraica)all'Associazione Donne Ebree d'Italia, che presenteranno nove eventi dell'articolato programma che si può consultare sul sito: www.jewishinthecity.it.

(Corriere della Sera, 14 maggio 2016)


Fiabe al rogo in Svezia, per reato di leso multiculturalismo.

La colpa di Jan Lööf, condannato moralmente per vilipendio del multiculturalismo e diffamazione del Terzo mondo, è aver chiamato Abdullah il protagonista della sua storia e Omar la sua nemesi, un perfido pirata. A quando la censura de "La Idiota" di Dostoevskij?

di Giulio Meotti | 14 Maggio 2016 ore 06:22

L'illustrazione di una favola di Jan Lööf
ROMA - Jan Lööf non avrebbe mai immaginato che il proprio libro di maggior successo, "Mio nonno è un pirata", distribuito anche presso i McDonald's svedesi, un giorno avrebbe ricevuto un ultimatum dalla casa editrice. Lo scrittore è stato messo di fronte a una scelta: o cancella alcuni disegni "razzisti" da quel libro per bambini del 1966 o subirà il blocco delle pubblicazioni. E' quanto è appena accaduto all'autore di libri per l'infanzia di maggior successo in Svezia, che ha ricevuto il premio Schullströmska comminato dall'Accademia di Stoccolma. Bonnier Carlsen, la casa editrice, ha già ritirato cinquemila copie del libro ancora in commercio, in attesa della riedizione che va purgata degli "stereotipi culturali". "Mi hanno dato un ultimatum", ha detto Jan Lööf al quotidiano Dagens Nyheter. "Ho 76 anni e non ho la briga di cambiare. Non farò più libri illustrati per i bambini".
   La colpa di Jan Lööf, condannato moralmente per vilipendio del multiculturalismo e diffamazione del Terzo mondo, è aver chiamato Abdullah il protagonista e Omar la sua nemesi, un perfido pirata. Sotto accusa anche un altro libro, "Catch Fabian", in cui compare un suonatore di bongo vestito da selvaggio. L'editore respinge l'accusa di censura, spiegando che "serve rispetto per i giovani lettori", fra cui vi sono molti immigrati. "Si tratta di rappresentazioni stereotipate di altre culture". Due anni fa, la televisione svedese ha deciso di tagliare alcune scene dell'adattamento televisivo del bestseller di Astrid Lindgren, "Pippi Calzelunghe". Via la frase "il re dei negri", resta "il re", come la scena in cui Pippi "fa il cinese". L'Autorità di vigilanza sulla tv ha deciso che sono immagini "offensive": "Viviamo in una società multiculturale con bambini di etnia differente", ha detto Paulette Rosas Hott, a capo dei programmi della televisione. Anche Saltkråkan AB, che detiene i diritti di "Pippi Calzelunghe", ha approvato i tagli perbenisti.
   Per protestare sul caso Jan Lööf, un lettore ha scritto alla casa editrice suggerendo di "mandare al rogo duemila anni di letteratura". Per gli attuali canoni, in cui come scrisse Saul Bellow "la rabbia è diventata prestigiosa", anche Cenerentola è troppo ubbidiente, subordinata, rassegnata, e "La piccola fiammiferaia" non può certo morire di freddo. La "magia nera" diventi "magia cattiva" e il "vecchio cinese" della "Pastorella e lo spazzacamino" va convertito nel "vecchio uomo". Via anche gli Oompa Loompa della "Fabbrica di Cioccolato". Nessuna pietà per Tintin in Congo, il ragazzino con il ciuffo color carota e i calzoni alla zuava creato da quello sciovinista di Georges Remi. Anche la "Lampada di Aladino" è da censurare, perché i buoni della storia parlano un perfetto inglese, mentre i cattivi hanno accenti arabi. Tempi duri per il lupo di "Cappuccetto Rosso": andrà restituito alla sua identità di nobile animale. "Pinocchio" va condannato in quanto stigmatizza i disabili, perché nella favola di Collodi una volpe zoppa e un gatto cieco fanno la parte dei due malfattori. E come ha suggerito qualcuno, "L'idiota" di Dostoevskij va rinominato in "La idiota", in omaggio alla teoria del gender. Sono avvisati i nuovi scrittori trendy come Nick Hornby, che domani non potranno più scrivere: "Fanculo i senzatetto!".

(Il Foglio, 14 maggio 2016)


Sono cattolico, ma prima viene la Costituzione, poi il Vangelo

di Marcello Cicchese

Non ha detto proprio così, il nostro Presidente del Consiglio, ma è questa l'interpretazione che si può dare alle parole con cui ha difeso la legge sulle unioni civili tra omosessuali dichiarati. Secondo i giornali avrebbe detto: "Ho rispetto di tutti, sono cattolico ma faccio politica da laico: ho giurato sulla Costituzione e non sul Vangelo". Se le autorità cattoliche fossero davvero interessate alla verità del Vangelo, ci sarebbero gli estremi per scomunicarlo. Ma non accadrà, perché il nostro Presidente è un vero cattolico, nel senso che fa coincidere il Vangelo con quello che dicono i preti, e come i preti adatta il Vangelo agli interessi della politica. La Chiesa Cattolica Romana (CCR) ha sempre fatto così (i singoli cattolici non si offendano, tra di loro ci sono persone rispettabilissime). Il cattolico Renzi dice in sostanza alle autorità religiose: lasciatemi fare, adesso bisogna agire così, anche nell'interesse della CCR. E la CCR, oggi guidata dal mediatico, simpatico, popolare Francesco, farà un po' di resistenza ma presto troverà i "distinguo" adatti per ritagliarsi uno spazio anche all'interno di questa legislazione. Magari chiedendo di riservare a sé la benedizione degli omosessuali cattolici che si vogliono unire civilmente. I cattolici arrabbiati non si illudano: i vescovi non daranno battaglia, perché da quando la CCR ha cominciato a perdere battaglie frontali nella polis, ha prudentemente assunto la via più conveniente ai suoi interessi: quella diplomatica.
   Il nostro Presidente però ha parlato di Vangelo, non di Diritto Ecclesiastico. E il Vangelo non è proprietà della CCR, ma di Dio, Creatore del cielo e della terra, come recita anche il catechismo della sua chiesa. Quindi in sostanza ha dichiarato che a quello che dice Dio, lui antepone quello che dicono gli uomini. Ottimo! Ne renderà conto. Non davanti alle autorità religiose, ma davanti all'Autore del Vangelo. E non soltanto lui ne renderà conto, ma anche tutti coloro che hanno approvato le sue parole e le decisioni prese da questo parlamento.
   L'innaturale omofilia orgogliosamente dichiarata e rabbiosamente imposta alla società è un abominio che fa il paio speculare con quell'altro abominio che è l'antisemitismo. In entrambi i casi la natura di fondo non è né psicologica, nè sociale, né politica, ma spirituale, cioè è un agire in contrasto diretto e dichiarato con il Dio creatore del cielo e della terra, e anche degli uomini e dei popoli.
   E adesso, dopo questa prima omo-vittoria aspettiamocene altre ancora più decise e radicali. E naturalmente anche una legge che istituisca il reato di "omofobia", speculare a quella di "islamofobia", con relative pene per chi dice cose come quelle scritte in quest'articolo. Prepariamoci!

(Notizie su Israele, 14 maggio 2016)


Shakespeare a Gerusalemme e il teatro diventa ponte tra i popoli

"Amleto a Gerusalemme", in scena alle Fonderie Limone, Torino, dal 29 marzo

di Anna Bandettini

 
TORINO - Fra le case popolari di Moncalieri, nelle ex fonderie trasformate in teatro, da qualche giorno vivono e lavorano cinque ragazzi arrivati dalla Palestina. Artisti tra i 22 e i 28 anni stanno provando Amleto a Gerusalemme, in cui Shakespeare incrocia le loro storie "vere" dolorose, incredibili, echi di una realtà feroce, confusa, greve che i telegiornali e i giornali da laggiù raccontano a spicchi ogni giorno. Nidal Jouba rievoca il dolore della madre che nella Guerra dei sei giorni ha perso la propria casa ma ne conserva ancora le chiavi, Mohammad Basha Alaa il complesso, tortuoso viaggio quotidiano da Hebron a Gerusalemme, spesso sotto le fogne per evitare i ceck point. Un altro racconta la sua storia di disperazione e droga, qualcuno la difficoltà di amare una donna, tutti, Nidal, Mohammad, Ivan Azazian, Abu Gharbieh e Bahaa Sous hanno parenti e amici uccisi o scappati.
   A guidare e "osare" una lavoro così sono Gabriele Vacis e Marco Paolini, tornati insieme dai tempi del celeberrimo Vajont del '94 il capostipite di tanto teatro-narrazione. Regista uno, attore l'altro, non credevano nemmeno loro alle possibilità di riuscire a fare lo spettacolo: perché per far arrivare i cinque ragazzi dalla Palestina ci sono state difficoltà su difficoltà nonostante il sostegno del nostro ministro degli Esteri, perché sono arrivati due settimane dopo l'avvio stabilito delle prove, e perché adesso lo sforzo di tutti è di non trasformare la presenza dei ragazzi «in una bandierina pro-Palestina», come dice Paolini, «perché così li freghi. Loro sono qui con la stessa voglia che porta tanti calciatori del sud del mondo nell'olimpo del calcio. Sono qui a mostrare di essere bravi attori, non solo palestinesi sfigati».
   Amleto a Gerusalemme debutterà il 29 marzo, alle Fonderie Limone, con il Teatro Stabile di Torino e a vederlo in prova l'impressione è forte. Si recita in arabo, inglese, italiano, nella bella scena di Roberto Tarasco, dove l'intero palcoscenico è occupato da 2500 bottiglie di plastica che formano la mappa di Gerusalemme, con Moschea, Santo Sepolcro, e Sinagoghe, distrutta e ricostruita molte volte nel corso dello spettacolo, su cui si profilano minacciosi suoni di aerei e esplosioni. Ivan che è musicista e cantante, intona una bellissima canzone, gli altri recitano pezzi di Amleto come una nenia, accanto a loro recitano Khaled Elsadat, egiziano, Anwar Odeh, una giovane palestinese di Torino, e poi Matteo Volpengo e Giuseppe Fabris attori italiani, e Paolini.
   Non è casuale l'occasione di questo incontro a più voci. «Nel 2008 fu l'Eti a propormi di fondare una scuola di teatro finanziata dalla cooperazione italiana a Gerusalemme, al Palestinian National Theatre, che era l'unica sala pubblica della Palestina, 350 posti nel El-Hakawati Theatre a Gerusalemme Est», spiega Vacis. Il Palestinian Theatre, nato nell'84, oggi non c'è più: conflitti interni tra i giovani e i veterani, debiti... è finita che lo spazio è tornato all'autorità israeliana. Ma prima della chiusura la scuola era stata fatta: 36 allievi tra cui i cinque artisti oggi a Torino. «Era un patto d'onore verso di loro fare lo spettacolo», dice Paolini. E Vacis: «È bello lavorare con loro perché sono attori presenti a se stessi. Si vede che sono abituati a stare sempre all'erta, attenti a quello che succede intorno: hanno una presenza di vita rara nei nostri attori». Amleto l'hanno voluto loro perché, spiega, fa capire, dà speranza alla loro vita. «Ha tutte le sfaccettature delle vite complicate di chi sta in Palestina. Quei ragazzi sono tutti Amleto, anche loro devono decidere quotidianamente se agire o non agire. Agire contro qualcuno o per fare qualcosa? Questo è il problema. Sono sottoposti a un quotidiano impedimento, a partire dai check point e poi la situazione palestinese interna non aiuta. Come in Amleto: hai Fortebraccio alle porte che spinge, ma poi hai i tuoi problemi interni ».
   A qualcuno ciò darà un senso di grande attualità (che non si può negare), molti lo leggeranno come un valore polemico nei confronti di Israele. «Se si ragiona così sono fregati in partenza - dice Paolini - Prendiamo in giro i ragazzi ogni volta che insistono sul loro essere palestinesi o quando raccontano troppe sfighe. Né è un progetto dello spettacolo essere contro Israele». «Non vogliamo nemmeno entrare nella questione israelo-palestinese, ma solo raccontare storie ancora non raccontate - spiega Vacis - Io stesso ho programmato produzioni importanti e prestigiose israeliane, dalla danza al teatro. La Palestina non ha narrazione, eppure vivere con loro fa capire quanto complessa sia la realtà mediorientale: per esempio c'è una differenza tra la gente di Israele e il governo Netanyahu. Ho visto con i miei occhi israeliani ai check point a controllare che non vengano fatte violenze sui palestinesi, così come giovani palestinesi considerare il vero nemico l'Isis. Credere di possedere la verità, in quella zona del mondo, produce solo dolore per tutti». E alla fine, dice Paolini: «Se per andare a vedere cinque attori palestinesi, mi devo poi leggere almeno un libro di Amos Oz per sentirmi la coscienza a posto, bene: hai fatto due cose buone invece di una».

(la Repubblica, 14 maggio 2016)


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L'unica voce triestina contro l'Amleto palestinista

di Deborah Fait

TRIESTE - Un'esperienza inaspettata vissuta giorni fa a Trieste mi ha convinta, pur non avendone bisogno, che in tanti anni niente è cambiato riguardo all'idea dei poveri palestinesi, eterne vittime innocenti e di Israele da odiare comunque. Questo mantra rimasto immutato nel corso degli anni, fa ancora parte del comune pensare della gente. La programmazione di uno spettacolo recitato da giovani palestinesi e italiani dal titolo Amleto a Gerusalemme e dal lacrimevole sottotitolo "Palestinian Kids want to see the Sea"..."ovvero la condizione di essere arabi in Israele quindi discriminati...." scrive Maria Cristina Vilardo sul Piccolo (4 maggio 2016), è stato l'esempio triste e tragico di un rancore sempre vivo e sempre più inspiegabile.
   Il progetto vergognosamente patrocinato dal Ministero degli Affari Esteri e dalla Cooperazione Internazionale, prodotto dal Teatro Stabile di Torino, è stato presentato giorni fa all'Antico Caffè San Marco davanti a un pubblico di un centinaio di persone. Non parlerò dello spettacolo che, fortunatamente e per la salute del mio fegato, non ho visto, voglio però raccontare la reazione del pubblico all'incontro cui ho partecipato per sapere come veniva trattata la questione e avere un quadro reale dello spirito dello spettacolo andato in scena al Politeama Rossetti, storico teatro triestino.
   Naturalmente, conoscendomi, ero conscia che la mia partecipazione non sarebbe stata passiva. Infatti, neanche a dirlo, a due minuti dall'inizio del dibattito, appena sentito che lo spettacolo, che si svolgeva a Gerusalemme, era parlato in arabo con alcuni pezzi in inglese, non ho potuto fare a meno di intervenire per chiedere "Sarà certamente parlato anche in ebraico visto che Gerusalemme è la capitale di Israele!". Brusio poco amichevole in sala, tutti che si guardavano con aria interrogativa come a chiedersi "e questa chi è?" infine ecco la la risposta sorpresa di Marco Paolini, attore e regista, un po' biascicata "No perchè gli attori sono tutti palestinesi... ma lei ha visto lo spettacolo?" Rispondo "No, mi è bastato leggere la locandina e l'articolo esaltante sul Piccolo, lo spettacolo in sè non mi interessa" (in seguito ho sentito critiche poco positive su un lavoro molto superficiale e scorretto nel trattare un argomento così complesso come il conflitto tra Israele e palestinesi). A questo punto il brusio si è trasformato in risata di scherno nei miei confronti, una mia vicina di tavolo diventata improvvisamente molto nervosa, continuava a sbuffare guardandomi con rabbia, io le sorridevo con aria innocente pensando divertita "aspetta il mio prossimo intervento". Infatti, dopo pochi minuti ecco presentarsi Anwar, l'araba strappalacrime, una giovane nata a Torino da genitori arabi di Betlemme, quindi perfettamente padrona di entrambe le lingue. E qui ha inizio il momento del pathos, della commozione, della presa per i fondelli (lasciatemelo dire perchè questo è stato) del pubblico presente.
   "Noi palestinesi non possiamo andare in Israele, i ragazzi palestinesi dei territori occupati non possono vedere il mare perchè non li lasciano entrare in Israele. Sognano la spiaggia, il mare, le onde!". Emozione in sala, tutti pendevano commossi dalle labbra di Anwar quindi tutti gli sguardi si sono posati scandalizzati su di me che alzavo nuovamente la mano per intervenire, guardandomi con lo stesso odio di chi viene risvegliato da un bellissimo sogno. La mia vicina nervosetta a questo punto non è più riuscita a trattenere la sua rabbia, ha battuto il pugno sul tavolo sibilando "e bastaaa". Io, imperturbabile, dopo averle risposto con un "è la democrazia signora!", mi sono fatta dare il microfono e, rivolta alla giovane araba ho precisato "Lei ha dimenticato un particolare non indifferente, ha dimenticato una semplice parola" "Quale? cosa sta dicendo?" ha chiesto lei sempre più aggressiva. E io "Terrorismo, signorina". Il brusio a questo punto diventa protesta plateale, c'è chi quasi grida "basta con questa storia", chi bofonchia, la mia vicina di tavolo dice al suo accompagnatore "vengono solo per disturbare". Chissà perchè quel "vengono" dal momento che ero solissima, forse perché nell'immaginario collettivo dell'antisemitismo storico gli ebrei sono considerati un corpo unico alla conquista del mondo, chissà... L'araba intanto, nella confusione generale risponde "io non sono una terrorista"..., applauso scrosciante... con lanci di occhiate rabbiose verso di me e io "Credo che lei non lo sia ma deve passare i controlli come chiunque dal momento che il terrorismo palestinese esiste. Una volta in Israele, dopo i controlli necessari, lei e i suoi ragazzi potrete vedere il mare, le onde e le spiagge israeliane che sono accessibili a tutti, ebrei, arabi, drusi, beduini e chi più ne ha più ne metta. Se invece io, ebrea, venissi a Betlemme da sola, sarei molto probabilmente linciata."
   Altre risate... sarcastiche questa volta... Beh alla fine dell'incontro mentre uscivo, quasi incenerita dalle occhiate fiammeggianti di odio dei presenti, sono passata davanti al tavolo di Marco Paolini dicendogli "Complimenti la propaganda serve come vede". All'araba ho detto Shalom con un grande sorriso sapendo di farle un dispetto e me ne sono andata. Tutto questo mi ha fatta riflettere perchè mi sembrava persino impossibile che in mezzo a un centinaio di persone non ve ne fosse una sola ad essere solidale con me, non una, e non ho potuto fare a meno di pensare ai giorni di moltissimi anni fa in cui andavo a parlare nelle scuole e venivo accolta da un'atmosfera da tagliare con il coltello, da volti rabbiosi avvolti nella kefiah, da insegnanti isteriche che venivano a urlare davanti al mio tavolo colla bava alla bocca e gli occhi iniettati di sangue che noi israeliani eravamo assassini.
   Eppure Israele riesce ad essere felice nonostante tutto l'odio che suscita. Abbiamo festeggiato 68 anni, siamo vivi, non solo vivi, siamo anche felici! Ogni anno passiamo dalla disperazione paralizzante di Yom HaShoah, il giorno della Memoria della Shoah, alle lacrime di Yom haZikaron, il giorno del ricordo dei nostri caduti e, nel giro di 24 ore, ecco la felicità di Yom Hazmauth, la festa dell'Indipendenza. Qualcuno parla di schizofrenia ed è vero nel senso positivo del termine, è la nostra storia, siamo un popolo di folli che ha creato un paese moderno dal nulla, che ha coltivato il deserto, che vive sotto il pericolo costante dell'annientamento senza farsi distruggere dalla paura, che sopporta il terrorismo senza pensare alla vendetta ma alla difesa. Siamo il popolo che ha fatto rivivere una lingua antica di 2000 anni trasformandola in parlata quotidiana, in lingua di un popolo unico che non si lascia intimidire e gusta la felicità dello svegliarsi vivo giorno dopo giorno e di saper creare la bellezza della natura e la tecnologia che permette a tutti uno stile di vita più comodo e facile. Posso concludere facendo mie le parole del Rabbino Pinhas Punturello: Buon compleanno Israele, paese di folli che vivono in maniera sana!

(Inviato dall'autrice, 14 maggio 2016)


Iran: inaugurata la mostra di vignette anti-sioniste

Vignetta iraniana "antisionista"
Anche quest'anno, in coincidenza con la proclamazione dello Stato ebraico, l'associazione iraniana "Rivoluzione e Santa Difesa" ha inaugurato stamane a Teheran una mostra dal titolo "Olocausto" che espone 105 vignette e caricature "anti-sioniste".
Le opere sono frutto del lavoro di artisti di 50 paesi del mondo, tra cui la Francia. Stavolta però gli organizzatori, in una conferenza stampa, hanno ripetuto più volte che lo scopo dell'esibizione non è mettere in discussione l'Olocausto, ma denunciare l'uso che ne è stato fatto dall'"entità sionista per perpetrare a sua volta una politica nazista nei confronti dei palestinesi", come ha sottolineato Mohammad Habibi direttore della associazione non governativa.
A vincere il primo premio di 12 mila dollari, è stato un artista indonesiano; dal suo disegno è tratto il manifesto della mostra: una croce nazista fatta da muri da cui cerca di fuggire un aquilone con la bandiera palestinese. Tutte le vignette propongono il parallelismo tra nazismo e politica israeliana.

(swissinfo.ch, 14 maggio 2016)


Sicurezza. Ora Israele è diventato un modello da imitare

Tutti guardano all'aeroporto di Tel Aviv: un esempio su come gestire grandi flussi di viaggiatori, effettuando controlli antiterrorismo fuori e dentro il terminal.

di Mario Del Monte

In seguito agli attentati terroristici di Bruxelles del 22 Marzo, che hanno colpito anche l'aeroporto di Zaventem, si è parlato molto del modello israeliano di sicurezza. Giornali, radio e TV si sono concentrati sulle meticolose misure di sicurezza messe in piedi al Tel-Aviv Ben-Gurion Airport, lodandole per i risultati raggiunti nel corso degli anni. Si parla ora di "modello Israele" per scacciare il fantasma ISIS ma in realtà si comprende poco la logica dietro le decisioni prese dalle autorità dello Stato ebraico.
   E' bene chiarire innanzitutto che gli aeroporti, così come le metropolitane e le stazioni ferroviarie, sono diventati gli obiettivi primari per i jihadisti perché sono estremamente difficili da controllare: milioni di persone utilizzano ogni giorno questi mezzi di trasporto per muoversi da un posto all'altro ed è irrazionale pensare di controllare singolarmente ogni individuo con il rischio che l'obiettivo degli esplosivi diventi l'interminabile coda all'ingresso. L'altro aspetto preliminare da considerare è quello psicologico: infondere timore nell'utilizzare le infrastrutture significa paralizzare una società rendendola prigioniera anche senza la presenza fisica di un carceriere. Considerate queste due linee guida ci sono delle precauzioni che possono essere intraprese per limitare i danni, cosa che gli israeliani hanno capito per primi.
   Come ha magistralmente evidenziato nel suo blog personale Loretta Napoleoni, economista e scrittrice fra i massimi esperti di ISIS in Italia, gli israeliani hanno ideato il loro aeroporto come un bunker le cui misure di sicurezza iniziano all'esterno dei terminaI con le auto e i passeggeri che vengono scrutinate dai militari prima che possano scaricare i bagagli davanti all'ingresso. Niente zone" kiss&go" per dirla con un linguaggio familiare a chi ha preso almeno una volta un volo da Fiumicino. Inoltre agenti in borghese stazionano costantemente davanti agli ingressi su cui è apposto un primo metal detector, persone addestrate che avrebbero sicuramente fermato gli attentatori con un guanto che sono divenuti l'immagine simbolo di quella terribile giornata.
   In Occidente tutto questo è inconcepibile, i nostri aeroporti più che bunker sono dei veri e propri templi del consumismo. All'interno dei terminal si staziona per almeno due o tre ore, passando il tempo acquistando souvenir nei duty free o mangiando nei ristoranti. Quello stesso tempo che al Ben Gurion i passeggeri lo spendono ai successivi due controlli di sicurezza, che comprendono anche un'intervista che ha lo scopo di creare un profilo psicologico del viaggiatore per individuare rapidamente i potenziali attentatori. Solo a quel punto si può accedere all'area shopping prima dell'imbarco.
   Ovviamente l'aeroporto di Tel-Aviv muove un numero di passeggeri nettamente inferiore a quello di Roma, Madrid o Londra ma ciò che può fare la differenza è il principio "prima la sicurezza poi il business". In parole povere: il modello israeliano è certamente un punto di riferimento ma la mera imitazione non basta, urge un serio ripensamento del nostro modo di concepire i trasporti altrimenti il terrorismo dello Stato Islamico avrà sempre vita facile.

(Shalom, maggio 2016)


Israele critica Parigi alla vigilia della visita a Gerusalemme del ministro francese Ayrault

GERUSALEMME - Ieri, 12 maggio, in occasione delle celebrazioni del Giorno dell'indipendenza israeliano, Netanyahu ha affermato che "i colloqui diretti sono l'unico modo per raggiungere una pace duratura tra israeliani e palestinesi" e ha precisato che manterrà il suo impegno per la creazione di due Stati, uno israeliano e uno palestinese. Sempre ieri, il direttore generale del ministero degli Esteri israeliano, Dore Gold, ha detto in un'intervista rilasciata al quotidiano "Jerusalem Post" che "ci sono molti problemi nell'iniziativa francese, uno di questi è la mancanza del riconoscimento dello Stato di Israele". Gold ha precisato che "anche se questa posizione - quella della Francia - cambiasse, non modificherebbe quella di Israele". Secondo Gold, quindi, il suo paese si opporrà al piano francese. "Sarebbe più facile che Abbas venisse a Gerusalemme per incontrare Netanyahu, invece che programmare incontri internazionali a Parigi, che non credo ci faranno fare passi avanti nei negoziati" ha detto Gold, che ha precisato come di fatto i negoziati siano sempre più lontani. Il diplomatico ha anche paragonato l'iniziativa francese agli accordi di Sykes-Picot, che cento anni fa hanno riorganizzato il Medio Oriente, in seguito alla disgregazione dell'impero ottomano. Infine, Gold ha sottolineato l'importanza di mantenere sotto la sovranità israeliana le alture del Golan.

(Agenzia Nova, 13 maggio 2016)


Perché Israele ha ucciso Mustafa Badreddine

Centrato da un missile vicino all'aeroporto di Damasco, il capo di Hezbollah era il referente dell'organizzazione libanese nel governo Assad

di Luciano Tirinnanzi

 
La conferenza stampa di Hezbollah e dei parenti dopo la morte di Badreddine
Israele colpisce duro i miliziani libanesi, uccidendo Mustafa Badreddine, nemico giurato di Gerusalemme e ricercato internazionale. Lo si apprende da fonti internazionali che, sebbene non possano confermare ufficialmente il ruolo di Tel Aviv nell'operazione, concordano nell'attribuirgli il risultato.
Intanto, lo Stato Islamico prosegue l'offensiva più importante dell'anno, scatenando attacchi su tutti i fronti di guerra. Mentre la Russia dimostra di non poter controllare tutto e ha ormai scelto da quale parte stare: il regime di Damasco e non oltre, con grave disappunto degli iraniani.
Il colpo messo a segno contro Mustafa Badreddine è in ogni caso un segnale preciso: Israele non dimentica la sua lotta per la difesa del paese e il suo impegno contro i nemici dello stato ebraico non conosce soste. Soprattutto adesso che i confini con il Libano e la Siria pullulano di jihadisti sunniti e di milizie sciite.

 Chi era Mustafa Badreddine
  Badreddine sarebbe stato centrato da un missile (o, secondo alcuni, da un colpo d'artiglieria) presso l'aeroporto di Damasco. Era ricercato tra gli altri anche da Stati Uniti, Francia e Kuwait, ma soprattutto era nel mirino israeliano sin da quando, negli anni Ottanta, il terrorista aveva imbracciato il fucile per punire Israele, in relazione all'occupazione del Libano.
Da allora si era distinto per un ruolo di crescente importanza all'interno del "partito di Dio", soprattutto in seguito alla morte di un altro leader di Hezbollah, Imad Mugniyeh che, prima di essere ucciso nel 2008, aveva insegnato tutto ciò che sapeva a Badreddine con il quale era imparentato.
Alcune fonti lo dipingono come un uomo tutt'altro che in fuga, ma anzi dedito alla bella vita sotto falso nome: Sami Issa, ricco gioielliere cristiano. Vera o meno che sia questa ricostruzione, da oggi Hezbollah ha un dirigente in meno nella guerra siriana.
Già perché Bareddine sarebbe stato una pedina importante: ad esempio, avrebbe guidato la riconquista di Qusayr del giugno del 2013, che ha sancito ufficialmente l'entrata in guerra di Hezbollah al fianco del regime di Damasco e degli iraniani, saldando così l'alleanza sciita contro lo Stato Islamico e le forze ribelli del paese.
Bareddine, secondo alcune fonti, sedeva persino nel consiglio di guerra insieme con il presidente siriano Bashar Al Assad, i consulenti russi e i generali iraniani, che avevano formato una sorta di coordinamento centrale per le operazioni militari. Il leader libanese avrebbe organizzato e coordinato anche l'attentato che nel 2005 uccise il premier libanese Rafik Hariri, il politico di origine sunnita che voleva un Libano libero da Hezbollah. Cosa che non è stata più possibile da allora.

 Chi è e come agisce Hezbollah
  Hezbollah ha, come noto, il pieno controllo del sud del paese e de facto governa una larga fetta di popolazione, nonostante la presenza dell'esercito libanese sul territorio. Beirut ha inoltre da anni un governo debole, quello di Tammam Salam, formato da una coalizione di otto ministri provenienti dall'alleanza sunnita e filo-occidentale "14 marzo" e di altri otto vicini alle posizioni di Hezbollah.
Hezbollah, nato come movimento di resistenza all'invasione israeliana nel 1982, nel corso degli anni è riuscito nell'obiettivo di conquistare la parte più povera del Libano. La forza del partito, che non può essere considerato semplicisticamente come un'organizzazione terroristica, è stata la capacità di sostituire lo Stato - spesso assente - nell'offrire servizi e as-sistenza alla popolazione: scuole, ospedali, abitazioni, servizi sociali. Uno Stato nello Stato, insomma, con il sostegno non solo della comunità sciita ma anche di quella sunnita.
La morte del premier Hariri segna la prima profonda spaccatura all'interno del mondo musulmano libanese. Con la primavera araba e lo scoppio della guerra civile in Siria, Hezbollah corre in aiuto di Assad, sponsor e alleato (insieme all'Iran) del movimento sin dalle prime fasi della sua costituzione, inviando come noto le proprie milizie a combattere a fianco dell'esercito governativo contro l'opposizione sunnita.
Il coinvolgimento di Hezbollah in Siria ha creato un nuovo divario tra sciiti e sunniti in Libano. Nel nord del Paese, gruppi appartenenti a entrambe le correnti religiose si fronteggiano tuttora in una guerriglia a bassa intensità, con i sunniti che appoggiano i ribelli e gli sciiti che parteggiano per il regime. Le conquiste militari di Hezbollah in Siria rischiano però di trasformarsi nella perdita di quello status di forza di liberazione nazionale che ne ha consentito la trasformazione in realtà politica di primo piano.
Tra la popolazione non sciita, infatti, si sta diffondendo sempre più l'idea che il Partito di Dio sia estraneo al Libano e molti cominciano a vedere i suoi militanti come agenti stranieri infiltrati da Damasco o, meglio da Teheran. Non a caso, negli ultimi mesi Hezbollah è in crescente difficoltà e non riesce a sostenere gli oneri della guerra e le perdite inflitte dal nemico. Il Partito di Dio rischia così di restare definitivamente schiacciato dalla crisi siriana.

 La situazione generale in Siria
  Per il resto, la situazione in Siria resta molto fluida e la morte "eccellente" di Bareddine racconta anche di una frattura all'interno di questo coordinamento centrale. Se da una parte, infatti, la Russia ha permesso alle forze sciite di tamponare le perdite e di mantenere il controllo su Damasco e Aleppo, dall'altro lato è pur vero che Mosca ha già raggiunto il suo obiettivo e non può spendersi per fare di più.
Ed ecco allora che gli israeliani sono liberi di fare incursioni in territorio siriano, così come lo Stato Islamico può condurre continuare a premere nel nord della Siria (sono di oggi nuovi attacchi intorno a Palmira), mentre gli iraniani e i miliziani di Hezbollah hanno subito numerose perdite e Teheran è costretta sempre più spesso a far affluire rinforzi con un ponte aereo a Latakia, la "città russa" di Siria.
Lo Stato Islamico, intanto, non resta a guardare. Da quando ha lanciato l'Operazione Al Anbari, in memoria del defunto comandante, le operazioni sono triplicate, soprattutto quelle in Iraq, dove ISIS ha colpito i quartieri sciiti a Baghdad (88 morti), ha lanciato attacchi intorno a Ramadi e Abu Ghraib. Mentre continuano senza sosta attacchi suicidi e schermaglie tra milizie in Libia e persino in Yemen.

(Panorama, 13 maggio 2016)


Diciottomila stranieri sciti combattono con Assad

Circa 18.000 miliziani sciiti stranieri combatterebbero in Siria al fianco del regime di Bashar al-Assad. E' quanto si legge in un dossier dell'agenzia turca Anadolu, basato sul resoconto di fonti locali anonime. Gran parte di questi miliziani, circa 9.000, sarebbe schierata nella provincia settentrionale di Aleppo.
Altri 5.000 combatterebbero sul cosiddetto 'fronte meridionale', formato da Damasco, Daraa e Quneitra, e 2.000 nelle aree orientali delle province di Homs e Lattakia.
La Anadolu parla di una massiccia presenza di iraniani (400 ne sarebbero morti in Siria dall'inizio del conflitto) e soprattutto di sciiti libanesi legati a Hezbollah, che sfiorerebbero i 10.000.
Altri 5.000 miliziani sciiti sarebbero arrivati all'Iraq e in particolare dalle zone di Baghdad, Najaf e Bassora. A nord di Aleppo ci sarebbe una brigata di circa 500 pakistani, mentre 2.000 afghani sarebbero schierati tra Aleppo, Damasco e Daraa.
Agli stranieri si aggiungono le milizie sciite locali o 'shabiha', che secondo la Anadolu conterebbero circa 24.000 uomini e che nel corso degli anni avrebbero colmato i numerosi vuoti lasciati dai disertori dell'esercito regolare.

(Adnkronos, 13 maggio 2016)


Kaspersky, guru della cyber-sicurezza: "A Gerusalemme apriremo nuovo centro"

Kaspersky, guru della cyber-sicurezza: "A Gerusalemme apriremo nuovo centro". Le cose vanno male nel mondo della cyber-sicurezza, e stanno peggiorando, secondo Eugene Kaspersky, capo della società internazionale di sicurezza informatica Kaspersky Lab, uno dei massimi esperti mondiali sulla cyber-criminalità.

Ogni anno, gli hacker diventano sempre più audaci ed i loro attacchi diventano sempre più pericolosi, e molte aziende, enti, amministrazioni e ospedali sono vulnerabili. Ciò che serve è un "esercito" che avrà le armi per combattere i cyber-criminali - e abbiamo intenzione di costruire l'esercito a Gerusalemme.

Questo "esercito" farà parte di un nuovo Expert Center Kaspersky che aprirà a Gerusalemme. La decisione di aprire questo centro è nata in occasione di una conferenza sulla sicurezza informatica tenutasi nella città nei giorni scorsi. Dopo le consultazioni con il sindaco di Gerusalemme Nir Barkat e altri funzionari, Kaspersky ha sottolineato che ancora non è stata stabilita una data ufficiale.
  La necessità di una tale istituzione è di enorme importanza, ha detto Kaspersky, perché i ricercatori
 
Eugene Kaspersky
aiutano a scoprire i principali cyber-attacchi come Stuxnet e Flame.
  Con il termine CaaS (acronimo di crime as a service) si indica una vera e propria industria della cyber-criminalità in cui chiunque può trovare un gruppo di hacker online ed ingaggiarli ad esempio per razziare il server di una banca.
  Negli ultimi anni le truffe online stanno aumentando in modo esponenziale a cui vanno aggiunti anche gli attacchi effettuati da hacktivisti (termine che deriva dall'unione di due parole, hacking e activism e indica le pratiche dell'azione diretta digitale in stile hacker) a danno di governi e istituzioni.
  Il problema più grande, però, è ciò che viene chiamato SCADA (Supervisory Control and Data Acquisition) ovvero quei sistemi automatizzati che controllano macchinari, sistemi di trasporto, stazioni di servizio, sistemi di pubblica utilità e molto altro. Tra gli scenari che hanno già avuto luogo: gli hacker entrano con successo nei sistemi e rubano denaro.
Come sottolineato da Kaspersky:

Loro non si preoccupano dei dati della carta di credito o di un bancomat per rubare denaro, ma attaccano direttamente i bancomat stessi.

Un altro scenario descritto da Kaspersky è la rottura dei codici per i sistemi di sicurezza nei porti marittimi, al fine di consentire il carico illecito ed eludere i controlli di sicurezza.
  In un caso recente, Kaspersky ha commentato, "gli hacker hanno cambiato il protocollo di sicurezza al porto di Anversa e casse contenenti cocaina sono state dichiarate automaticamente come ispezionate".
  Fortunatamente questi attacchi possono essere prevenuti. Come centro di tecnologia di sicurezza informatica, Israele è il luogo ideale per un progetto come questo, ha detto Kaspersky.
  L'obiettivo di Kaspersky è quello di istruire il personale che lavorerà al nuovo centro di Gerusalemme donando la capacità di operare su conoscenze ingegneristiche, prodotti, strategie e conoscenze tecniche per proteggere i sistemi.

(SiliconWadi, 13 maggio 2016)


Israele: l'esercito nazional-religioso dei rabbini

Dal 1948, anno di fondazione dello Stato israeliano, esercito e governo sono stati due organi laici e prettamente di sinistra. Da qualche anno a questa parte però una nuova matrice nazional-religiosa ha preso prepotentemente piede. Nel 2016 per la prima volta i capi del Mossad, dello Shin Bet e della polizia sono sionisti religiosi.
Per i sionisti religiosi l'intervento bellico è un dovere morale e religioso prima che politico. Combattere in Cisgiordania è un modo per ricostituire uno Stato ebraico sulle ceneri della cultura ebraica.
Non tutti ovviamente sono d'accordo: il primo ministro Benjamin Netanyahu è stato interpellato da politici e rabbini che fortemente si stanno opponendo a questa inversione di tendenza. Sebbene il governo Netanyahu stia dando una notevole sterzata a destra, il primo ministro è pur sempre un laico e non può ignorare l'appello di una parte della popolazione che costituisce una fetta importante del suo elettorato.
Già da diverso tempo i rabbini sono coinvolti nella vita militare israeliana prettamente con funzioni religiose di tipo pratico come far osservare ai soldati il rispetto delle "norme alimentari" previste dall'ebraismo. Da circa un decennio però i rabbini sono entrati nella vita militare dando corsi di leadership, cameratismo e insegnamenti religiosi, rendendo fortemente "promiscua" la loro presenza tra le truppe.
Secondo Reuven Gal, presidente dell'Associazione Israeliana di Studi Civili e Militari, la metà dei soldati dell'esercito sono sionisti religiosi. "Un numero troppo alto" secondo Gal, intervistato dall'agenzia Reuters; "L'Idf è l'esercito israeliano, non l'esercito ebraico. Al suo interno ci sono soldati osservanti e laici. Se i suoi valori provengono dal rabbinato, c'è qualcosa di sbagliato".

(Termometro politico, 13 maggio 2016)


Sholem Aleichem, quasi Mark Twain

Sholem Aleichem
Sholem Aleichem, ovvero Sholem Naumovich Rabinovič , nacque in Ucraina il 2 marzo 1859 e morì a New York, 13 maggio 1916. Scrittore di racconti umoristici in yiddish, il dialetto di origine ebraica nato in Europa centro orientale e approdato negli States con le migrazioni, fu il primo a comporre in quella lingua anche testi per bambini. Nelle novelle, nei romanzi e nei testi teatrali raccontava la vita nei villaggi e nei piccoli centri ucraini nonché quella di coloro che emigrarono in America.
  Probabilmente il suo nome non vi dirà niente finché non menzionerò il film Il violinista sul tetto che, nel 1971, grazie al regista Norman Jewison portò sullo schermo parte delle sue storie. Jewison, regista di Jesus Christ Superstar, aveva in realtà ripreso il precedente e omonimo musical del 1964, che raccontava di Teyve, un suonatore di violino che, ad inizio secolo, decide di abbandonare la sua patria, l'Ucraina e dirigersi oltre oceano per paura di un progrom.

 La passione di Sholem Aleichem per lo yiddish
  Torniamo al nostro Sholem Aleichem, che aveva scelto come pseudonimo un'espressione colloquiale molto conosciuta. Tradotta letteralmente significa la pace sia su di voi, ma è un saluto comune, che va quasi a sostituire il classico ciao come stai. La sua decisione di dedicarsi alla scrittura, nacque poco dopo la morte di sua madre, quando aveva appena quindici anni. Altrettanto velocemente si manifestò il suo spirito ironico, visto che una delle sue prime composizioni constava degli insulti usati abitualmente dalla seconda moglie del padre.
  Precoce com'era, si ritrovò a fare da precettore a soli diciassette anni e a sposare successivamente la fanciulla da lui istruita, che gli diede sei figli di cui alcuni, neanche a dirlo, divennero scrittori. La sua prima produzione letteraria si manifestò attraverso le lingue russa ed ebraica, ma quando esplose la sua passione per lo yiddish, quasi dieci anni dopo i suoi esordi, in pochi anni produsse ben quaranta opere, posizionandosi tra le figure di spicco della letteratura yiddish.
  Il suo impegno nel tramandare la tradizione letteraria ebraica si manifestava non solo nella stesura di racconti e romanzi, ma anche nel sostegno ad altri autori e nella ferma volontà di essere ricordato con un sorriso e non con un pianto. Le sue opere, che pure, in vita, non gli garantirono grandi ritorni economici, sono tradotte in tutte le lingue. Negli Stati Uniti venne considerato come il Mark Twain di lingua ebraica.
  Per cominciare a conoscerlo, potreste partire dal catalogo Adelphi con Storie di uomini e animali, Cantico dei cantici e Un consiglio avveduto, ma molte altre opere potete trovarle edite da Marietti, Feltrinelli, Bompiani, Belforte Salomone.

(GraphoMania, 13 maggio 2016)


Germania, è boom di conversioni. «Profughi via dall'Islam per l'asilo»

Chi diventa cristiano non può essere rimpatriato: rischierebbe la morte. In un anno 500 battezzati tra gli evangelici di Amburgo. "Test" per provare la fede.

di Andrea Fontana

QUANTO vale un esame per dimostrare che si ha fede? Eppure è la sola strada che la Germania può imboccare, per fronteggiare l'aumento delle conversioni al cristianesimo chieste dai migranti islamici che raggiungono la terra teutonica, dopo la storica apertura di Angela Merkel. Il dubbio che attraversa le Chiese protestanti tedesche è lo stesso che è ben radicato nella mente dei funzionari statali: potrebbero essere conversioni di comodo, per ottenere lo status di rifugiato e quindi l'asilo. Peccando di apostasia, infatti, i neo cristiani rischierebbero - tornando in paesi come Iran e Afghanistan - anche la pena di morte. Il battesimo come passaporto, insomma, ora che la politica dei muri sta rendendo l'Europa centrale un flipper sulle sui sponde, avvolte di filo spinato, rimbalzano profughi e migranti fino a tornare al punto di partenza, in Medio Oriente.
I numeri parlano chiaro, e li ha raccolti il settimanale Stern: ad Amburgo, la Comunità evangelica iraniana ha battezzato in questi primi cinque mesi del 2016 ben 196 musulmani, e si prevede di arrivare a 500 entro la fine dell'anno. Il rito avviene per immersione in grandi piscine. A Berlino, la chiesa evangelica luterana della Santissima Trinità ha battezzato 185 rifugiati nel 2015, e i corsi di catechismo organizzati per quest'anno sono pieni. In altri centri della Germania si registrano fenomeni analoghi.

«Conversioni di comodo? Possibile, ma ci stiamo attenti - ha spiegato a Stern il pastore Albert Babajan, della chiesa evangelica iraniana di Amburgo - il percorso di preparazione per il candidato è lungo e non è semplice. I corsi biblici durano mesi. E poi i neocristiani finiscono emarginati nelle loro stesse famiglie, e minacciati dai connazionali. Alcuni vengono a messa in tuta, perché uscendo di casa per recarsi in chiesa dicono a parenti e conoscenti di andare a fare jogging. Non è una scelta facile. Certo, ci sono anche i furbi che puntano a conversioni di comodo: a molti ho negato il battesimo. E da loro, dopo, ricevo anche minacce».
Ma se non è per finta, come mai tante conversioni da un anno a questa parte? «Molti si dicono delusi dall'Islam - risponde Babajan - Affermano che nell'Islam hanno sempre vissuto nella paura: paura di Dio, del peccato e della punizione, e che in Cristo hanno invece scoperto il volto di un Dio d'amore».
Ma lo Stato tedesco vuole vederci chiaro. La conversione, di per sè, non elimina per legge il rischio di rimpatrio: l'asilo per questioni religiose è automatico solo per chi era cristiano, e minacciato, già prima di lasciare il paese d'origine. Con rigore tutto tedesco, la Germania chiede garanzie alla frotta dei nuovi adepti fulminati sulla via di Damasco, o meglio di Berlino. In qualche caso, serve la firma di trenta membri tedeschi della comunità cristiana alla quale apparterrà il candidato. Per non parlare dei 'test di fede' a cui sono sottoposti i migranti neo cristiani che chiedono asilo: una sfilza di domande tipo «quanti giorni intercorrono fra Pasqua e Pentecoste», o «quali sono i dieci comandamenti».

Le chiese sono contrarie: «Roba che non dimostra nulla - si arrabbia Babajan - io chiedo piuttosto in che modo la fede cristiana ha cambiato il loro modo di pensare e la loro visione del mondo». Per il pastore berlinese Martens, «è problematico che l'attività principale della Chiesa sia sottoposta agli organismi governativi. Come se fossimo giudicati non abbastanza attenti nel somministrare un sacramento». La Chiesa protestante tedesca si è dotata di una serie di linee guida che dovrebbero aiutare i pastori ad affrontare il fenomeno delle conversioni in modo responsabile. Con la dovuta cautela, però: perché «molti uomini proclamano la propria bontà; ma un uomo fedele chi lo troverà?» (Proverbi 20,6).

(Nazione-Carlino-Giorno, 13 maggio 2016)


L'Associazione Imprese di Puglia racconta la Puglia allo Stato d'Israele

di Antonio Curci

Una delegazione di Imprese di Puglia ha incontrato nei giorni scorsi una delegazione del dipartimento economico e scientifico dell'Ambasciata di Israele a Roma.
La delegazione salentina, capeggiata dal presidente dell'associazione Salvatore Calcagnile e dagli imprenditori Sergio Casciaro, Nevio D'Arpa e Ivan Simonetto, ha infatti "raccontato" alla delegazione israeliana il modello associazionistico di IdP, basato su un preciso codice etico, dati utili accessibili a tutti gli iscritti attraverso i principali canali di comunicazione "social", la condivisione sistematica delle idee innovative e delle innumerevoli opportunità di business, e non solo, in corso.
Ha suscitato però grande interesse anche il racconto delle novità prodotte di recente dalla Puglia in campo turistico, della comunicazione, dell'hi-tech, del medical device e della ricerca; informazioni che hanno incontrato un interesse concreto e immediato della delegazione israeliana, soprattutto nel campo del turismo e dei possibili investimenti nel settore in Puglia e nel Salento.
Nell'ultimo anno, infatti lo scambio commerciale tra Italia e Israele è arrivato a 4,2 miliardi di dollari, mentre oscilla intorno al 5% la percentuale di cittadini israeliani che scelgono il nostro Paese per fare turismo.
Imprese di Puglia - che conta già oltre cento iscritti in pochi mesi di attività, tra aziende medio-grandi e singoli professionisti operanti nei settori del turismo, dei servizi, dell'hi-tech, della formazione e degli impianti - ha garantito alla delegazione israeliana puntuale supporto alle iniziative in questione, che produrranno possibilità occupazionali diffuse e contribuiranno alla valorizzazione a 360 gradi del territorio pugliese. A breve, infatti, l'arrivo di una delegazione israeliana nel Salento.

(il Messaggero Italiano, 12 maggio 2016)


Israele: competizione internazionale per il settore edilizia abitativa

Il Governo israeliano apre il settore dell'edilizia abitativa alla competizione internazionale, nel tentativo di sopperire alle gravi carenze di abitazioni a costi contenuti, soprattutto per le giovani famiglie. L'obiettivo e' quello di incrementare di oltre 1 milione le unita' abitative residenziali nei prossimi dieci anni, di ridurre il prezzo delle case di
almeno il 20% rispetto al valore attuale, di aumentare il livello tecnologico dei metodi di costruzione, utilizzando manodopera specializzata. E' stata per questo lanciata una prima gara per selezionare sei imprese estere che verranno inserite in una banca dati. Le aziende, cosi' preselezionate, potranno partecipare a futuri bandi per la costruzione di complessi residenziali. Per essere inclusi nella banca dati, i criteri stabiliti dal Ministero per l'Edilizia sono: comprovata esperienza nel settore delle costruzioni abitative, un'adeguata capacita' finanziaria, possesso di metodi di costruzione industrializzati e innovativi, alti livelli di produttivita'. Le aziende straniere preselezionate, dovranno occuparsi del "design" di intere aree residenziali, comprensive di servizi commerciali, educativi e di infrastrutture necessarie, e poi della realizzazione e costruzione del progetto. Le compagnie straniere potranno avvalersi di 1.000 operai propri e lavorare in partnership con aziende israeliane. L'autorizzazione ad operare in Israele sara' concessa per 5 anni, estendibili per altri 3 anni. La data limite di presentazione delle domande di ammissione alla banca dati e' stata fissata al 15 luglio prossimo.

(Tribuna Economica, 12 maggio 2016)


L'insospettabile felicità di Israele

Perché un popolo assediato è in alto nelle classifiche sulla soddisfazione?

Come è possibile che in tutte le classifiche internazionali il popolo israeliano sia uno dei più felici del mondo? Israele è quinto tra i paesi Ocse per soddisfazione dello stile di vita, davanti a Inghilterra e Stati Uniti (l'Italia è indietro anni luce), undicesimo nel World Happiness Report dell'Onu. Né i dati economici, che pure sono eccellenti, né quelli sulla sicurezza personale - che riflettono la situazione che tristemente tutti conosciamo, in cui i cittadini israeliani sono assediati in casa loro, devono guardarsi quotidianamente da attacchi e attentati in patria e dall'odio dei vicini all'estero - giustificano questo tasso di felicità altissimo. Perché un paese assediato, pugnalato e spesso maltrattato nelle sedi internazionali - si pensi al flusso continuo di risoluzioni contrarie proveniente dalle sale dell'Onu - è tra i più felici del mondo? Secondo Avinoam Bar-Yosef del Jewish People Policy Institute, che ne ha scritto sul Wall Street Journal, la felicità insospettabile di Israele risiede in dati non considerati dai sondaggi. Per esempio l'idea, rivelata in alcune indagini proprio dell'organizzazione di Bar-Yosef, che la nazionalità israeliana è un tratto importante per l'identità di oltre l'80 per cento dei cittadini, così come lo sono la cultura e la tradizione ebraiche. Israele è uno stato costruito "contro tutti gli ostacoli" e con una precisa raison d'être, e questo dà un senso di scopo e di orgoglio ai suoi cittadini che non esiste altrove nel mondo civilizzato. E' una sfaccettatura in più dell'eccezionalismo di Israele, terra di democrazia, sviluppo e sì, anche di felicità, in quel calderone sempre più pericoloso che ormai è diventato il medio oriente a tendenza islamista.

(Il Foglio, 12 maggio 2016)


Israele inaugura la stagione balneare con 21 Bandiere Blu

 
Si apre questa settimana in Israele la stagione balneare 2016: turisti e visitatori potranno così beneficiare di accesso gratuito a tutte le spiagge di Israele, definite lo scorso anno da Usa Today tra le migliori al mondo per il relax. Ben 21 spiagge sono state inoltre premiate con la Bandiera Blu dalla Foundation for Environmental Education, l'ente preposto alla verifica dell' eccellenza ambientale. Tra le spiagge prescelte possono essere ricordate, tra le altre, la spiaggia Hukuk del Lago Kinneret; la spiaggia Dado ad Haifa; Chanz, Onot, Amfy, Herzl, Sironit Nord, Sironit Sud, Laguna-Argaman e le spiagge Poleg a Netanya; le spiagge Metzizim e Gerusalemme a Tel Aviv; la spiaggia HaKachol a Rishon Lezion; Mei Ami, Oranim, Lido, Kshatot, Yod Alef, Riveria ad Ashdod e la Hash'hafim Beach a Eilat. Anche i porti turistici di Herzeliya e di Tel Aviv sono stati premiati da EcoOcean con la Bandiera Blu. Le spiagge di Netanya e Herzliya sono anche dotate di un ascensore per l'accesso alle spiagge situate sotto le scogliere. Per la conservazione dell'ambiente non sono ammesse moto d'acqua né barche in prossimità delle rive, e non è consentita la circolazione con veicoli a motore sulle spiagge e sul lungomare, così come l'accensione di falò. La balneazione è vietata qualora non sia presente un bagnino o la bandiera nera sia stata issata. In alcune spiagge attrezzate sarà possibile anche trascorrere momenti di relax in compagnia dei propri amici animali. «Dalla costa mediteranea fino ad Eilat sul Mar Rosso, Israele è assolutamente perfetta per una vacanza balneare. Nel periodo estivo il Paese si arricchisce poi di eventi culturali che renderanno indimenticabile una vacanza splendida» ha dichiarato Avital Kotzer Adari, direttore dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo in Italia. Ci sono 13 spiagge lungo la costa di Tel Aviv-Jaffa, con oltre 8 milioni di bagnanti che si godono ogni anno le rive sabbiose e l'acqua pulita. Quattro offrono accessi speciali per le persone con disabilità: Tzuk, Tzuk Nord, Metzizim e Hilton, tutte nella parte settentrionale della città. Tel Aviv-Jaffa vanta un tratto di 8,7 miglia con ampie vedute, orizzonti blu, spiagge di sabbia bianca dotate di sedie a sdraio, ristoranti, palestre all'aperto, giochi per bambini e una passeggiata sul lungomare percorsa continuamente da chi desidera camminare, correre o semplicemente godersi dei paesaggi. Le spiagge della città sono ben attrezzate con spogliatoi, docce e servizi igienici.

(Travel Quotidiano, 12 maggio 2016)


Visto Turistico per Israele: dove richiederlo, costi e durata

Il visto turistico per Israele viene rilasciato alle persone che si recano nel Paese per motivi turistici, d'affari o studio per periodi brevi. Il visto è valido per tre mesi dalla data del rilascio e la durata del soggiorno è stabilita dalla polizia di frontiera. Nel caso si volesse prolungare il periodo di permanenza in Israele è necessario presentare domanda su apposito modulo all'ufficio di amministrazione regionale del Ministero dell'Interno. Prima di fare richiesta del visto è bene conoscere quali sono i documenti da presentare e quali sono i requisiti per ottenerlo e recarsi in vacanza in Israele.
   Per presentare la domanda bisogna avere a disposizione il documento di viaggio, il modulo di visto di ingresso, due foto tessera, il passaporto con validità di almeno sei mesi, la lettera dell'agenzia di viaggio con indicata la prenotazione del volo di andata e ritorno e l'assicurazione medica per l'intero periodo del soggiorno. Si ricorda che il Consolato può chiedere la presentazione di altri documenti a seconda dei casi. Ai cittadini italiani non occorre il visto per andare in vacanza in Israele grazie ad accordi speciali tra i governi. Per informazioni ci si può recare all'Ambasciata Italiana a Gerusalemme o Tel-Aviv.
   Tutti i paesi che appartengono alla lista dei non-esentati dal visto di ingresso devono necessariamente richiederlo. Ricordiamo inoltre che all'arrivo in territorio israeliano potrebbero esservi rivolte molte domande per motivi legati alla sicurezza e per sapere esattamente quali sono i motivi per cui ci si reca in questo Paese. Tra le prassi c'è anche la perquisizione. Sappiate che non è possibile fare ingresso nei paesi musulmani se sul passaporto si ha un visti israeliano; per ovviare a questo inconveniente occorre farsi stampare il visto su un cartoncino.
   All'aeroporto di Tel-Aviv invece consegnano al turista una piccola tessera con la data di ingresso e la propria foto che deve essere obbligatoriamente presentata al momento dell'uscita dal Paese. Il visto per Israele viene sempre rilasciato al momento, in aeroporto. Pertanto ricordatevi di procurarvi tutti i documenti necessari per poi richiederlo una volta arrivati lì e passati i controlli della frontiera israeliana. E' ovvio che per ottenere il visto voi non stiate trasportando sostanze stupefacenti, armi e materiale incendiario.

(Si Viaggia, 12 maggio 2016)


Studiare in Israele: Il Weizmann Institute

Studiare in Israele: Il Weizmann Institute. Il Weizmann Institute of Science è uno dei principali istituti di ricerca al mondo. Si compone di 250 gruppi di ricerca sperimentali e teorici attraverso cinque facoltà:
  1. Biologia;
  2. Biochimica;
  3. Chimica;
  4. Matematica e Informatica;
  5. Fisica.
 
Le intuizioni che emergono dai suoi laboratori contribuiscono a fornire una comprensione fondamentale del corpo umano e dell'universo, favorendo il progresso in medicina, tecnologia e ambiente.
Gli scienziati del Weizmann Institute sono famosi per l'invenzione dell'amniocentesi, dei farmaci più venduti per combattere la sclerosi, per i composti ad uso industriale e medico, ma anche per la creazione di tecnologie informatiche avanzate.
Ogni giorno gli scienziati studiano la complessità del sistema immunitario per la comprensione di patologie genetiche rare, lo sviluppo di nuove razze di piante e chiarire le proprietà fisiche dell'universo.
La ricerca sul cancro ha portato a molte scoperte, tra cui una proteina che innesca la leucemia mieloide cronica la quale ha fornito la base per lo sviluppo di Imatinib (noto come Gleevec). Le indagini hanno anche portato allo sviluppo del farmaco Erbitux per il trattamento del tumore del colon-retto e molti altri spunti di riflessione per combattere il cancro al seno e il cancro ovarico, cancro alla prostata e molto altro ancora.
I neuroscienziati hanno rivelato "segreti" sul cervello e come si sviluppa il sistema nervoso, con approfondimenti sulle malattie neurodegenerative come l'Alzheimer, il Parkinson, l'autismo, la depressione e la schizofrenia. Uno dei punti di forza dell'Istituto è lo sviluppo di strumenti di ricerca di base, come la risonanza magnetica nucleare per lo studio di materiali biologici e non biologici.
La Prof. Ada Yonath del Dipartimento di Biologia Strutturale ha ricevuto il premio Nobel per la Chimica nel 2009, per aver decifrato la struttura del ribosoma, che ha implicazioni sullo sviluppo di nuovi antibiotici. Inoltre, ha chiarito le modalità di azione di molti antibiotici che colpiscono il ribosoma e i meccanismi che si nascondono dietro la resistenza ai farmaci, aprendo la strada alla progettazione di nuove cure.

 Informatica
  l Weizmann Institute ha storicamente aperto la strada nel campo della ricerca informatica; nel 1970 sviluppò l'algoritmo che consente le transazioni informatiche sicure e protette.
E la lista è ancora molto lunga. Nessuno di questi risultati sarebbe possibile senza le persone: gli scienziati, i borsisti post-dottorato e gli studenti che pensano fuori dagli schemi al fine di trovare nuove soluzioni ai pressanti problemi. Gli studenti diventano parte di una grande rete internazionale di scienziati che collaborano su una varietà di progetti.
Il Weizmann Institute, come si legge sul sito ufficiale:
Ha la ferma convinzione che la sua risorsa più importante è la sua gente.

(SiliconWadi, 12 maggio 2016)


Nancy Spielberg, film-verità sui piloti eroi d'Israele

La produttrice di «Above and Beyond»: così ho ricostruito una vicenda poco nota del 1948.

di Paolo Conti

 1948 - Piloti volontari israeliani
Oggi, 12 maggio, la tv israeliana ha deciso di festeggiare il 68esimo anniversario dell'indipendenza di Israele trasmettendo il docu-film Above and Beyond, diretto da Roberta Grossman e prodotto da Nancy Spielberg, sorridente e comunicativa sorella di Steven (si somigliano molto), in questi giorni a Roma per trattare i diritti di trasmissione con alcuni gruppi televisivi italiani.
È la minuziosa ma spettacolare ricostruzione di un capitolo poco noto della storia dello Stato ebraico: l'avventurosa nascita dell'aviazione israeliana, che nel 1948 letteralmente non esisteva (mentre l'attacco dei Paesi arabi procedeva senza tregua) e si formò grazie a una pattuglia di piloti volontari in gran parte americani, non tutti ebrei, decisi a battersi per un Paese che non era il loro per difendere la libertà di un popolo appena uscito dalla tragedia della Shoah. Testimonianze degli ultimi eroi sopravvissuti si alternano a documenti storici e a pezzi di fiction. Grande intrattenimento e, insieme, materia di riflessione e memoria. Si ritrovano i primi passi della democrazia israeliana, gli arrivi degli scampati allo sterminio, i volti e le parole di Ben Gurion, di Golda Meir, e quelle di Shimon Peres di oggi che definisce quegli aviatori «un dono di Dio».
È qui il punto da cui è partita Nancy Spielberg, imprenditrice di successo, impegnata nella raccolta di fondi a scopri filantropici, e che recentemente ha imboccato la strada della produzione di documentari storici: «Questa storia mi è capitata per caso tra le mani, mi ha colpito profondamente e ho subito pensato che la memoria può sbiadirsi, perdersi con la morte di chi ha vissuto momenti irripetibili. Mi è sembrato essenziale, per le nuove generazioni abituate a confrontarsi con la storia grazie all'audiovisivo e non più sui libri, registrare testimonianze uniche e consegnarle al futuro. È ciò che ha fatto mio fratello con la «Survivors of the Shoah Visual History Foundation», l'archivio audiovisivo della memoria dei sopravvissuti allo sterminio.
   Ma perché non ha pensato a una fiction, con tanti spunti narrativi? «Ho preferito prima compiere un'operazione doverosa, raccontare un capitolo di storia contemporanea e inviare un messaggio forte sulla storia di Israele, sui pericoli che corse all'inizio della sua storia. Ma posso anticipare che, da pochi giorni, una grande casa di produzione mi ha chiesto i diritti per la realizzazione di un film, l'accordo già c'è». C'è da chiedersi se una fiction riuscirà a restituire la stessa emozione che regalano le testimonianze di questi anziani eroi, ancora così pieni di vita e di energie interiori.
   Inevitabile chiederle del suo rapporto col fratello star: «Per me, prima è mio fratello, poi è Steven Spielberg. Siamo da sempre legatissimi ma ultimamente stiamo passando un periodo denso di nostalgie comuni, pensiamo spesso al passato con tenerezza e dolcezza. Abbiamo la fortuna di avere ancora vivi mio padre, 99 anni, e mia madre, 96. L'ultima Pasqua l'abbiamo trascorsa noi quattro figli con loro, chiedendo in prestito ai nuovi inquilini la vecchia casa della nostra infanzia in Arizona. Siamo stati insieme solo noi sei per una settimana, senza coniugi né figli, un'esperienza straordinaria».
Davvero una fiction… «Davvero una fiction».
   E cosa ha detto del suo lavoro? «Mi ha proposto di aiutarmi, suggerendomi un compositore, ma io ho voluto fare tutto da sola. Ero molto in ansia per il suo giudizio. Gli è piaciuto, si è commosso. E cosi gli ho detto: ti ricordi quando da bambino tentavi di spaventare noi fratelli mettendoti una maschera col teschio, apparendo al buio e ci facevi piangere? Beh, adesso siamo pari».

(Corriere della Sera, 12 maggio 2016)


I cristiani fuggono dal medio oriente ma non dalle persecuzioni

Un report sulle violenze nei centri profughi tedeschi

ROMA - "Si, gli attacchi e le violenze contro i cristiani nei campi profughi hanno motivazioni religiose". A dirlo al Foglio è Ado Greve, portavoce dell'ufficio tedesco di Open Doors, una missione internazionale che dal 1955 si occupa di dare supporto ai cristiani perseguitati nel mondo. In una conferenza stampa tenuta domenica scorsa a Berlino, Open Doors ha presentato il rapporto sugli atti di violenza contro i cristiani rifugiati nei campi profughi in Germania. Greve dice al Foglio: "I leader politici e quelli della società civile finora non si sono resi conto di quanti casi ci sono, perché probabilmente c'è carenza di informazioni, o forse nessuno è andato a cercarle, quelle informazioni".
   Nelle 36 pagine del rapporto, Open Doors ha elencato i casi di violenze e vessazioni cui sono stati sottoposti i profughi appartenenti alle minoranze cristiane, quando sono stati ospitati nei campi profughi tedeschi. Ne viene fuori un quadro inquietante: i cristiani che arrivano in Germania cercando un rifugio sicuro, spesso sono aggrediti e discriminati non solo dagli altri rifugiati musulmani, ma anche dal personale della sicurezza degli alloggi di prima accoglienza. Nel report, Open Doors ha studiato e verificato 200 casi di violenza, avvenuti in Germania tra il febbraio e l'aprile di quest'anno. Tra questi, almeno 86 casi di violenza fisica. Secondo Open Doors, gli incidenti inclusi nel rapporto sono solo "la punta di un iceberg".
   Ma perché il governo di Angela Merkel, che ha protetto a lungo la politica dell'accoglienza in Germania, non si accorge delle discriminazioni cui sono sottoposte le minoranze religiose all'interno dei campi profughi? "Accade spesso che le autorità ricevano notizie di incidenti senza che sia specificato il movente religioso, dunque il governo non ha motivo di intervenire. Inoltre, vi è una generale riluttanza, da parte della società, della chiesa, del governo, di dire qualcosa di negativo sull'islam e i musulmani. E questo è generalmente un atteggiamento positivo, ma ignorare i fatti non è utile a nessuno. E alcuni fatti sono stati ignorati decisamente per troppo tempo".
   Avete ricevuto accuse di islamofobia: "Noi stiamo semplicemente riportando dei fatti. Solidi, concreti. Non possiamo e non dobbiamo ignorarli. Altrimenti i miglioramenti saranno impossibili. E' facile provare che tutte le violenze [nei confronti dei cristiani] provengono da altri rifugiati musulmani o dallo staff della sicurezza. La missione ha anche delle risposte concrete. Nel report si suggerisce al governo di organizzare dei settori, nei centri di accoglienza, adibiti solo per le minoranze religiose. Di formare staff preparato, e di aumentare la quota di personale non musulmano: "Se avranno modo di accogliere le nostre richieste, qualcosa cambierà".
   Open Doors - che si occupa delle minoranze cristiane in tutto il mondo ed è una missione di stampo protestante-evangelico - ha un ufficio anche in Italia: "Noi non abbiamo lo stesso sostegno economico che possiede l'ufficio tedesco per fare un lavoro statistico e di ricerca simile nei centri di accoglienza italiani", dice al Foglio Cristina Merola di Porte Aperte: "Qui è difficile avere informazioni". E aggiunge: "Noi continuiamo a fare quello che possiamo, sostenendo le comunità cristiane nei paesi di provenienza, perché la chiesa non venga cancellata in medio oriente". Ma come mai alcune minoranze non riescono a far sentire la propria voce? "Il mondo in cui le persecuzioni si sviluppano e si manifestano", dice Ado Greve, "ha molto a che fare con il modo in cui reagiscono i gruppi perseguitati. Le varie chiese cristiane hanno reazioni diverse. La chiesa in un paese può essere omertosa e nascondere, la chiesa in un altro paese può reagire alle violenze e resistere, con il perdono - penso alla chiesa egiziana, per esempio. Una chiesa tollerante e misericordiosa ha un grande impatto sulla società".

(Il Foglio, 12 maggio 2016)


Il fondatore di Human Rights Watch prende a schiaffi le ong dei diritti umani

Le memorie controcorrente dell'editore Robert Bernstein, nel suo libro "Speaking Freely"

di Giulio Meotti

L'editore e fondatore di Human Rights Watch Robert Bernstein
ROMA - Cosa hanno in comune gli americani William Faulkner e Toni Morrison con il russo Andrei Sacharov e il cinese Harry Wu? Sono stati tutti pubblicati da Robert Bernstein durante i suoi venticinque anni alla guida della Random House, la più grande casa editrice americana. Ma questo prima che Bernstein facesse conoscere in occidente la vita e le opere di Jacobo Timerman, Natan Sharansky e Vàclav Havel, per citare alcuni dei più grandi prigionieri politici del Novecento. Adesso Bernstein, a novantatré anni, se ne esce con un libro di memorie, "Speaking Freely". Emerge un gigante del secolo scorso, a proprio agio con Truman Capote e i funzionari sovietici cui chiedeva un po' di libertà per i propri assistiti. Bernstein ha fondato Human Rights Watch, una delle più influenti e importanti organizzazioni dei diritti umani. Aveva già alle spalle una vocazione editoriale umanitaria. Era stato lui a portare in America "Prisoner Without a Name, Cell Without a Number", le memorie dal carcere di Jacobo Timerman, il direttore dell'Opinión torturato dalla giunta argentina. Bernstein fece la storia dei dissidenti russi che per anni lottarono contro l'oscurantismo comunista.
  Nel libro, Bernstein racconta che "i diplomatici europei non volevano parlare di diritti umani con i russi". Si convinse così dell'importanza di sostenere coloro le cui voci erano soppresse nei gulag e nei manicomi, mobilitando autori del calibro di Robert Penn Warren e Arthur Miller. Durante un incontro con Mikhail Gorbaciov nel 1987, Bernstein chiese al premier sovietico quando avrebbe scarcerato gli scrittori il cui "crimine" era di parlare liberamente. Gorbaciov era indignato che un ospite fosse così sfacciato, rovinando l'atmosfera accogliente di quell'incontro altrimenti perfettamente inutile e di facciata.
  Ma Bernstein non ha cessato di essere un dissidente una volta che la lotta sovietica si è conclusa. E ora nel libro accusa apertamente l'organizzazione che ha fondato, Human Rights Watch, e altre ong dei diritti umani, di essere un cavallo di troia dell'islamismo e dei regimi autoritari. Scrive Bernstein che "c'è pressione in queste organizzazioni a ricevere l'attenzione dei media" e questo porta a individuare il capro espiatorio più prelibato. "Ogni guerra in cui Israele è coinvolto riceve più attenzione dalle organizzazioni dei diritti umani rispetto agli orribili conflitti nella Repubblica democratica del Congo e in Sudan", scrive Bernstein. "Mentre Human Rights Watch chiedeva ad Hamas di fermare i bombardamenti, la ong poneva maggiore enfasi nel denunciare il blocco israeliano di Gaza".
  Bernstein ne ha anche per "le commissioni dell'Onu che raramente hanno l'aspetto neutrale" e con le ong che confondono le dittature con le società aperte, le democrazie "che hanno meccanismi di auto-correzione" che le prime non hanno. Un genocidio in medio oriente non può ricevere la stessa attenzione di Guantanamo e Abu Ghraib. La conclusione è tragica: "Human Rights Watch e altre organizzazioni dei diritti umani sono usate come armi di propaganda dagli autocrati dei paesi arabi". A novantatré anni, Robert Bernstein non ha ancora perso lo smalto che mostrò in quel piccolo appartamento nel cuore di Mosca, dove ospitava gli scrittori del dissenso e da cui aiutò a far cadere la cortina di ferro. Con una macchina da scrivere.

(Il Foglio, 12 maggio 2016)



Parashà della settimana: Emor (Parla)

Continuiamo nella presentazione di due commenti alla parashà della settimana, uno di parte ebraica (Fulvio Canetti), l'altro di parte evangelica (Marcello Cicchese). Come in tutti gli altri casi, il nome della parashà è tratto dal primo versetto del brano biblico in esame: "Parla (emor) ai sacerdoti..."

Levitico 21:1-24:23

 - Prima di iniziare la spiegazione di Emor voglio ringraziare l'amico Marcello per la sua collaborazione sui temi della Bibbia che stiamo studiando. Voglio anche dire che il termine goy significa ''popolo'' ma spesso viene usato per indicare il non-ebreo. Preferisco usare il termine di re'ehà (il tuo prossimo) come scritto nella Torah.
Nella parashà di Kedoshim è scritto: ''Siate santi perché I-o sono Santo''.
La nozione di santità appare spesso nella Bibbia ed ora verrà approfondita nella spiegazione della parashà di Emor che letteralmente significa ''parla'' riferito al profeta Moshè. Questi difatti riceve l'ordine da D.o di "parlare'' ai sacerdoti figli di Aronne riguardo alle regole sulla santità (Levitico 21.1).
E' bene precisare che nell'ebraismo non è santo colui che si isola dal mondo per una vita da asceta, ma colui che si libera dai propri limiti, dalla propria prigione. Pertanto il concetto di ''santità'' è legato a quello di'' libertà.''
Nella Torah la parola Kedushà appare per la prima volta nel libro della Genesi 2.3 in riferimento al Sabato. ''Il Signore benedisse il settimo giorno e lo santificò''.
Esiste dunque un legame tra santità e libertà che andremo a chiarire.
Perché D.o Benedetto ha reso santo il giorno del Sabato? Perché Egli si è liberato dal suo lavoro. Il popolo ebraico è chiamato'' goy kadosch'' dopo l'uscita dalla terra d'Egitto, perché D.o lo aveva liberato dalla casa di schiavitù (Esodo 13.14).
Pertanto il significato esatto di Kedushà non è santità, ma libertà. E' santo colui che è libero di agire. Quando D.o ha terminato l'opera della Creazione ed ha consacrato il Sabato ha voluto insegnare all'uomo che egli non è prigioniero nel determinismo della natura consistente nel lavorare, mangiare, dormire, ma con la Kedushà egli può aprire nuovi orizzonti nella sua Storia. Però attenzione!
Nella lingua ebraica la parola Kedushà è formata dalle stesse lettere della parola Kedeshà, con significato del tutto diverso. Kedeshà significa ''prostituzione''.
C'è un legame tra Kedushà (libertà) e Kedeshà (prostituzione) perché in ambedue i casi siamo in presenza di una liberazione, ma un conto è liberarsi da ogni etica per distruggere (Kedeshà), un conto è usare la libertà per costruire (Kedushà).
Fabbricare il vitello d'oro per adorarlo significa distruzione morale, mentre costruire il Tabernacolo significa portare D.o nel mondo per fare la Sua Volontà.
A questo punto è doveroso chiedersi cosa intende la Torah per la libertà.
Una libertà vissuta in solitario in una torre d'avorio o in un convento è una pura illusione. Ogni vera libertà viene vissuta insieme. La Torah insegna che l'uomo è libero solo quando costruisce la sua esistenza insieme al suo prossimo sia esso sua moglie, sia la sua famiglia, sia la società in cui vive.
Prendiamo il caso di un uomo che vuole realizzare i suoi ideali. Se egli agisce per se stesso rifiutando l'azione in comune egli finirà per opprimere gli altri, facendo solo il proprio interesse. Al contrario se avrà la Kedushà per unirsi al suo prossimo con fraternità ed amore nel costruire un ideale comune allora verrà realizzato l'insegnamento della Torah. Al di fuori di questo regna l'egoismo, la menzogna e l'oppressione.
Maimonide spiega che il peccato del singolo può ricadere su tutta la Comunità, come descritto nel Talmud nella parabola della barca.
''Durante la navigazione, un passeggero pretende di praticare un buco nella barca, dove è situata la sua sedia sostenendo che è ''libero'' di fare della proprietà del suo posto quello che crede. Certo - gli rispondono - i suoi compagni, ma nel momento in cui tu farai un ''buco'' l'acqua penetrerà nella barca e tutti andremo a fondo.''
Viene a delinearsi quello che potremmo chiamare il ''Pensiero della Torah'' cioè un messaggio squisitamente antropologico: ogni uomo è responsabile dell'altro. La kedushà-libertà dunque per costruire un mondo al disopra del determinismo naturale, che secondo la Tradizione biblica significa ricostruire Gerusalemme!
Riassumo brevemente gli altri argomenti trattati nella parashà. Sono descritte le leggi riguardanti i sacerdoti e la particolare disciplina che essi sono obbligati a rispettare. Non possono prendere in moglie una donna divorziata. Esiste per il sacerdote il divieto di avvicinarsi ad un morto e il divieto di offrire sacrifici nel Tempio in caso di imperfezioni fisiche. Il capitolo 23 è consacrato alle festività ebraiche. La parashà si chiude con l'episodio del bestemmiatore, che viene condannato alla pena di morte. F.C.


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 - Ringrazio anch'io l'amico Fulvio per aver avuto l'idea di proporre una lettura parallela di testi biblici che senza dubbio appartengono di diritto al popolo ebraico, ma che per volontà dell'Autore sono diventati nei secoli patrimonio dell'umanità. Confrontarsi di fronte a un testo che si considera ispirato da Dio, senza l'intenzione di combattersi ma con il desiderio sincero di capire meglio il testo, anche alla luce di quello che ne dice l'altro, è una valida forma di convivenza.
  Dico subito, per esempio, che mi fa riflettere il concetto di santità (kedushà) che significa libertà; mi fa venire in mente una frase di Gesù che esprime la stessa cosa in negativo: «In verità, in verità vi dico che chi commette il peccato è schiavo del peccato» (Giovanni 8:34). Interessante, e purtroppo molto attuale, è anche la pericolosa vicinanza kedushà-kedeshà, cioè libertà-prostituzione.
  Ai giorni nostri nella lettura di un testo biblico si tende sempre a privilegiarne gli aspetti etici del vivere insieme. Geniale, a questo proposito, è la parabola di Maimonide sul passeggero che fa un buco nella barca per manifestare la sua libertà. Ma se è questo il valore istruttivo del testo, se la sua funzione è quella di aiutarci a esercitare la nostra libertà per fare il bene e costruire insieme un mondo migliore, a che servono i sacerdoti, con tutti i loro annessi e connessi di tabernacolo, paramenti, sacrifici e riti vari? Il testo di oggi ne parla abbondantemente, in due interi capitoli. Che valore avevano a quel tempo? Che valore hanno oggi?
  In ogni caso, quali che siano le nostre preferenze interpretative, le parole che leggiamo nel testo non possono essere interpretate come un messaggio puramente antropologico. Esse hanno a che fare con Dio, e quindi trattano questioni di vita e di morte, e non solo di comportamento interpersonale più o meno saggio. Dio non può essere visto come un sommo istruttore che dall'alto della sua insuperabile sapienza, ma anche della sua irraggiungibile altezza, fa piovere sugli uomini in terra foglietti sparsi contenenti ordini e consigli su come si deve vivere, lasciando a noi il compito di raccogliere i foglietti, scegliere quelli che vogliamo trattenere e quelli che invece preferiamo lasciar ricadere, riservandoci il diritto di mettere insieme a modo nostro i foglietti che conserviamo. "L'Eterno fa morire e fa vivere; fa scendere nel soggiorno dei morti e ne fa risalire" (1 Samuele 2:6). Con Dio non si gioca. Soprattutto, con Dio non si bara. Dio è santo e gli uomini sono peccatori. La santità di Dio non è compatibile con il peccato degli uomini.
  E tuttavia Dio vuole avvicinarsi agli uomini, anzi vuole abitare in mezzo a loro.
  Qui si pone allora una questione seria. Se Israele è il popolo eletto di Dio, qual è l'elemento fondamentale che distingue la sua storia da quella di tutti gli altri popoli? Molti diranno: il dono della legge, la Torah. Certo, quelle istruzioni furono date in esclusiva al popolo d'Israele e non ad altri, indipendentemente dal grado di fedeltà con cui sono state vissute. Questo è certamente un elemento di distinzione, ma non è il più importante.
  Anzitutto, la legge non si presenta come un grazioso dono di Dio al popolo, ma come un patto bilaterale tra Dio e il popolo, con impegni reciproci da entrambe le parti. Dio ha proposto un contratto al popolo, indicando attraverso Mosè gli impegni (promesse) che si era assunto e le condizioni (ordini) che poneva al popolo al fine di poter venire ad abitare in mezzo a loro. "Mi facciano un santuario, perché io abiti in mezzo a loro (ebr. 'betokhem')" (Esodo 25:8). "Abiterò in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio. Ed essi conosceranno che io sono l'Eterno, loro Dio, che li ho tratti dal paese d'Egitto per abitare tra loro. Io sono l'Eterno, loro Dio" (Esodo 29:45-46). Questo era l'obiettivo di Dio e questo è l'elemento principale di distinzione del popolo eletto: l'Eterno in mezzo a loro.
  Con la costruzione del vitello d'oro Israele rompe quel patto e il Signore, furente, dice a Mosè che li vuole distruggere. Ma Mosè intercede e convince Dio a cambiare idea. Il Signore non distrugge del tutto il popolo, ma non per questo si calma. A Mosè fa sapere che dopo la rottura del patto intende lasciar cadere un impegno fondamentale che si era preso. In sostanza dice a Mosè: va bene, conduci pure il popolo nella Terra che io ho promesso di dargli, ma "io non salirò in mezzo a te" (Esodo 33:3). Questo in pratica voleva dire: lascia perdere il tabernacolo e non affannarti a costruirlo secondo le istruzioni che ti ho dato sul monte, perché tanto io non ci verrò ad abitare. Perché - aggiunge - se venissi, vi dovrei distruggere (Esodo 33:5). E' come se dicesse: voi volevate partire senza di me, ebbene adesso fatelo: partite, ma senza di me, io non verrò.
  Il popolo è atterrito. A questo punto Mosè gioca l'ultima carta, fa l'ultimo tentativo di mediazione osando ancora una volta mettere Dio davanti a un bivio. Gli dice: "Se la tua presenza (in ebr. 'panim', faccia) non viene, non ci far partire di qui". In altre parole: senza di Te noi non ci muoviamo. E ne dice anche il motivo: "Perché, come si farà a conoscere che io e il tuo popolo abbiamo trovato grazia agli occhi tuoi? Non sarà forse dal fatto che tu vieni con noi? Questo distinguerà me e il tuo popolo da tutti i popoli che sono sulla faccia della terra".
  Ecco dunque l'elemento caratterizzante il popolo ebraico: non tanto il complesso di istruzioni con cui gli uomini devono imparare a comportarsi in modo da piacere a Dio, ma il fatto che Dio stesso si sia compiaciuto di venire ad abitare in mezzo agli uomini nel santuario di Israele.
  Ed è a questo punto che entrano in scena i sacerdoti. Essi hanno il compito di regolare con precise norme l'approccio al santuario, che è il luogo in cui Dio incontra il popolo. A Mosè infatti Dio aveva ordinato di portare l'olocausto perpetuo "all'ingresso della tenda di convegno, davanti all'Eterno, dove io v'incontrerò per parlare qui con te. E là io mi troverò coi figli d'Israele; e la tenda sarà santificata dalla mia gloria" (Esodo 29:42-43). Avere il santuario di Dio in mezzo al popolo è un privilegio unico, ma è estremamente rischioso. Se ne accorsero a loro spese due figli di Aaronne, Nadab e Abihu, che morirono fulminati per un colpevole errore di procedura commesso nel compimento di un sacrificio (Levitico 10:1-7). Quando si ha a che fare con Dio, si tratta sempre di questioni di vita e di morte. Per questo dovevano esserci i sacerdoti, che avevano continuamente a che fare con questioni di vita e di morte nella forma di sacrifici (non umani) che richiedevano spargimento di sangue e anche con rischi mortali per la propria pelle, come mostra l'esempio dei figli di Aaronne.
  Ma adesso che il santuario non c'è più, come si attualizzano quelle norme? Lascio aperto l'interrogativo. M.C.

(Notizie su Israele, 12 maggio 2016)


Cosa passa per la mente di un israelofobo?

Il BDS - acronimo di Boycott Divestment and Sanctions - è un movimento creato da un gruppo di esaltati sotto la guida di un qatariota del tutto spregevole e ripugnante dal nome di Omar Barghouti.
Spregevole, perché Omar Barghouti ha invocato il boicottaggio di Israele prima e durante la sua frequentazione dell'università di Tel Aviv, dove ha conseguito una laurea in filosofia; anziché completare gli studi in una università di Gaza, o del Qatar o di un altro stato arabo. Ma i principi del diritto e della democrazia si applicano a tutti in Israele; anche a coloro che ne invocano la distruzione. Immaginate se mai qualcuno lavorasse al boicottaggio del Qatar, dell'Arabia Saudita o degli Emirati, mentre fosse intento a frequentarne le università? bene che andasse, sarebbe incarcerato a vita; al peggio, sarebbe condannato a morte....

(Il Borghesino, 11 maggio 2016)


In Israele conta la competenza

Lavoriamo tutti insieme: ebrei, arabi, cristiani, drusi. Lo dice un israeliano, arabo, cristiano nominato a capo del Centro medico di Galilea.

di Andrea Brenta

 
Il dottor Masad Barhoum dal 2007 dirige il Galilee Medicai Center di Nahariya, in Israele
E questa sarebbe l'apartheid di Israele...
Nel 2007 il dottor Masad Barhoum è stato nominato a capo del Galilee Medical center (Gmc), alla periferia della città di Nahariya, nel Nord di Israele. Un ospedale pubblico con 700 letti, situato a soli 7 chilometri dalla frontiera con il Libano e che ospita attualmente numerosi rifugiati siriani. Era la prima volta che un arabo israeliano accedeva alla direzione di un importante ospedale pubblico. Oggi, nove anni più tardi, nessuno mette in discussione questa scelta.
  «In Israele solo la competenza conta. Lo dico in tutta umiltà, ma ne sono convinto», dichiara il dottor Barhoum in un'intervista al quotidiano francese Le Figaro. «Quando si è liberato il posto, ero il migliore dei sei candidati. Sono arabo israeliano, di confessione cristiana e, quando ho fatto domanda per il posto di direttore del Gmc, quello che ha pesato sulla bilancia era la mia esperienza sul campo».
  Prima di arrivare al Gmc, Barhoum ha diretto, per otto anni, l'ospedale della Sacra Famiglia a Nazareth: una piccola struttura, con 120 letti (il Gmc ne conta sei volte di più). «Era in difficoltà quando ne presi le redini, ma, oggi, va bene», spiega il dottor Barhoum, che aggiunge: «Quando ho lasciato l'ospedale alcuni membri dello staff piangevano, questo mi ha emozionato, perché dirigere un ospedale è un lavoro difficile, bisogna fare scelte difficili. Non dico di aver cambiato tutto in un solo giorno, ma ho, per esempio, mandato via molti medici che non facevano correttamente il loro lavoro. Nulla di personale, ma la mia priorità è l'interesse del paziente».
  Al Gmc, sottolinea Barhoum, «tutto il personale sa di essere lì per lavorare insieme, al servizio degli altri. lo credo che sia l'unico luogo in cui lavorano insieme degli ebrei, degli arabi, dei cristiani, dei drusi. Tutti uniti dietro il motto del Gmc: People caring far People (Persone che si prendono cura di persone, ndr)»,
Uno dei principi alla base del Galilee Medical Center, spiega il suo responsabile, è l'unità: «Nessuno lavora da solo, nemmeno il direttore».
  L'ospedale si trova a 7 chilometri dalla frontiera con il Libano e nel 2006, in pieno conflitto israelo-libanese, è stato anche colpito dai razzi.
«Nel 2006», racconta Barhoum, «non c'è stata nessuna vittima perché il mio predecessore era stato così lungimirante da prevedere delle installazioni sotterranee affinché l'ospedale potesse continuare a funzionare senza pericolo per il personale e le apparecchiature. Da parte mia», continua il dirigente del Gmc, «ho fatto rinforzare l'ospedale contro gli attacchi con anni convenzionali e non convenzionali (nucleari, radiologiche, biologiche, chimiche) e, naturalmente, tutte le nuove costruzioni prevedono delle strutture per proteggere il personale».
  Oggi il Centro accoglie anche dei rifugiati siriani che hanno bisogno di cure. «È solo una goccia nell'oceano, ma sono più che felice che noi possiamo prenderei cura di loro».
Ma soprattutto il Gmc, in caso di attacchi terroristici, può trasformarsi in pochi minuti da ospedale tradizionale a struttura in grado «di accogliere venti, trenta o quaranta vittime all'ora. Sia che si tratti di una bomba o di un incidente di bus. Spiace dover ammettere che noi abbiamo questa expertise», conclude il dottor Barhoum.

(Italia Oggi, 11 maggio 2016)


«Sono sionista»

E' uscito poche settimane fa il libro di Ariel Shimona Edit Besozzi, "Sono sionista", edito da Salomone Belfort, con presentazione di Ugo Volli e prefazione di Deborah Fait. Ne riportiamo la quarta di copertina.

Nel suo libro Edith descrive alla perfezione i sentimenti di chi si scopre sionista dopo essersi allontanato dagli antichi idoli, le organizzazioni della sinistra italiana, partiti e sindacati, strurture che non avevano nulla a che vedere con giustizia, equità, libertà individuale e collettiva ma che portavano all'appiattimento morale e sociale. Edith, durante una visita in Israele nel 2008, scopre il legame profondo e radicato del popolo ebraico con la Terra e capisce che questo amore avrebbe definitivamente distrutto quegli idoli fatti di odio, menzogne e appiattimento della società in cui viveva. In Israele Edith scopre una nazione giovane e antichissima, proiettata verso il futuro ma con profonde radici nel suo passato millenario. Scopre che in Israele si è realizzato, caso unico al mondo, il Socialismo vero e libero, che si mette in discussione, che lavora, dove chi è meritevole viene premiato e gratificato. Israele è il paese che non conosce la frustrazione, la noia e nemmeno la paura, perché vive ogni giorno come fosse l'ultimo, quindi dà il meglio di sé per il bene di tutti.

Ariel Shimona Edith Besozzi, nata nel 1973 a Milano, ha sempre orgogliosamente affermato il proprio essere ebrea e sionista. Amante della scrittura, lettrice instancabile, studiosa eclettica. Ha svariati interessi che spaziano dalla cultura orientale a quella naturale, alla corsa e alla vita all'aria aperta, oltre all'Ebraismo e a Israele. In costante ricerca della propria storia come parte del popolo ebraico, nell'estate del 2014, durante l'aggressione terroristica di Hamas ad Israele, inizia a scrivere commenti a ciò che avviene, a come le persone e l'opinione pubblica reagiscono alle dinamiche mediorientali e di Israele, a come sono percepiti Israele e il popolo ebraico in Europa e in tutto l'Occidente. Con uno stile che va oltre al giornalismo di cronaca, Edith Besozzi con tenacia, amore e gioia accompagna il lettore attraverso un tema sempre attuale nella storia contemporanea: Israele.

(Notizie su Israele, 11 maggio 2016)


Polemica sull'Unesco per una risoluzione senza i nomi ebraici dei luoghi contesi

La scelta del l'agenzia Onu ha acceso un aspro dibattito: e non è la prima volta.


Il testo
Il 14 aprile l'Unesco approva una risoluzione sui luoghi sacri di Gerusalemme: la scelta è quella di usare solo nomi arabi per i siti contesi dalle due religioni
Il voto
Si oppongono Stati Uniti, Germania, Regno Unito, Paesi Bassi, Estonia e Lituania. Astenuti 17 paesi tra cui l'Italia. Si schierano a favore 33 Stati, tra cui la Francia
Le critiche
La posizione di Parigi suscita polemiche: a criticarla è il gran rabbino di Francia e anche il ministro dell'Interno Bernard Cazeneuve


di Alberto Melloni

L'Unesco ha approvato a metà aprile una risoluzione proposta da Algeria, Egitto, Libano, Marocco, Oman, Qatar e Sudan. Conteneva una serie di deplorazioni e lamentele contro Israele «potenza occupante». Non costituiva un atto di compassione per le vittime palestinesi della politica di Hamas, della Autorità nazionale palestinese e del governo israeliano, ma un successo - l'ennesimo in sede Unesco - della diplomazia dell'Anp. che ha ottenuto il sì di 33 Stati (fra i quali la Francia), l'astensione di 17 paesi (fra i quali l'Italia) e il voto contrario di Stati Uniti, Germania, Estonia, Lituania, Paesi Bassi e Regnò Unito.
   Il voto però si è rivelato molto più che una scaramuccia fra delegazioni: perché interviene sulla definizione stessa dei luoghi santi. Sia quelli di Hebron, dove sono sepolti Abramo, Isacco e Giacobbe; sia soprattutto quelli di Gerusalemme, definiti nel solo quadro della tradizione islamica, come se la tradizione ebraica non esistesse. Cancellare dal vocabolario Unesco l'espressione "Monte del Tempio" e indicare la spianata solo come sede delle moschee di "al-Aqsa" e "al-Haram al-Sharìf", non significa infatti scegliere un codice linguistico ed escluderne un altro. Implica un tentativo di negare il punto del mondo che lega Israele alla Terra.
   Mina sul piano del vocabolario l'equilibrio fragilissimo che regge Gerusalemme anche oggi. Forse alla fine dei giorni Gerusalemme sarà davvero fondata sulle enormi e scintillanti colonne descritte dall'Apocalisse di Giovanni di Patmos: ma nella storia e nella storia di oggi certamente non è così. Gerusalemme è la casa in cui ciascuno considera l'altro un intruso nella propria ricerca dell'infinitamente Altro. E se questa distanza non diventa guerra è perché filiformi abitudini, patti taciti e convenzioni esili reggono la coabitazione in questo luogo che incorpora il monte dove il Dio di Abramo rifiutò il sacrificio di Isacco, il Sion cantato da Davide, le pietre del tempio di Salomone, i luoghi di predicazione di Gesù, la roccia da cui Maometto salì al cielo. Un groviglio inestricabile, che fa sì che anche chi non crede a nessuno di questi "racconti", senta la densità che secoli di preghiere e di violenze hanno iscritto nelle pietre della città e nei suoi tanti nomi.
   La sete di Dio, il tempo che scorre, il sangue che cola hanno creato gli equilibri impossibili di Gerusalemme. Così che potere dopo potere si è solidificato lo "status quo" per antonomasia: un insieme di convenzioni e convinzioni diventato immobile. Né il sultano, né i mandatari inglesi, né il regno Hashemita, né lo Stato d'Israele hanno infatti mai pensato di mutare destinazioni e confini di questo fazzoletto di mondo. Gerusalemme anche per questo non è un luogo particolarmente violento: Aleppo, Mosul. Grozny ci farebbero la firma a vivere in quella tensione che taglia l'aria fra Gerusalemme e il cielo; ma è il luogo in cui ogni calcolo o errore di calcolo diventa catastrofe.
   Un calcolo o un errore di calcolo fu quello di Ariel Sharon che il 28 settembre del 2000 volle traversare la Spianata delle moschee: non per rendere culto a quello che per gli ebrei è il Monte del tempio di Salomone, ma per un obiettivo politico puntualmente conseguito in quell'autunno della pace che seguiva alla uccisione di Rabin e alla fine del governo Peres. Quella passeggiata, però, segnò l'inizio della Seconda intifada, costata la vita a quasi 5mila persone e trasformò gli errori di Camp David in fossili.
   È stato un calcolo o un errore di calcolo quello che si è consumato da poco all'Unesco. Cancellare con una furbizia politico-diplomatica il ricamo linguistico e spirituale di Gerusalemme non è solo una goffa negazione delle evidenze storiche ma una forzatura che lede, sul piano lessicale, lo "status quo": lo hanno capito la Direttore generale Irina Bokova e la Cattedre Unesco del dialogo che su iniziativa del rabbino Aalon Goshen-Gottstein si sono mosse per ottenere una rettifica necessaria per impedire che dal luogo in cui Dio rifiutò il sacrificio di Isacco ricominci un altro rito di quel culto sanguinario che chiamiamo guerra.

(la Repubblica, 11 maggio 2016)


Siete pronti per la cannabis kosher?

di Marco Perduca

       Rabbi Chaim Kanievsky si convince
       che la cannabis è kosher
A ulteriore riprova che il mondo va a rovescio, e non da ieri, son oltre 50 anni che alcune delle piante medicinali millenari più efficaci, specie nella cura del dolore, sono vittime di un regime di strettissimo controllo internazionale che ne limita talmente tanto la produzione e distribuzione che solo il 15% della popolazione mondiale riesce a farne uso senza troppi problemi legali.
  Per quanto qualcosa stia iniziando a cambiare, anche grazie alle decisioni prese alla XXX sessione speciale dell'Assemblea Generale dell'ONU dedicata alle "droghe", nella lista delle medicine essenziali stilata dall'Organizzazione Mondiale della Salute, figura l'oppio ma non la cannabis. Un'assenza ancor più stupefacente se si pensa che in decine di paesi, e in particolare in 23 dei 50 Stati degli USA, la cosiddetta marijuana terapeutica è ormai una realtà da oltre 15 anni per oltre 1.1 milioni di pazienti.
  Le proprietà mediche del tetraidrocannabinolo e del cannabidiolo, i principio attivi della cannabis, son state scoperte in Israele dal chimico e biologo Raphael Mechoulam nella metà degli anni Sessanta. Da allora lo stato ebraico ha investito molto in ricerca scientifica e nel 1999 ha legalizzato l'uso terapeutico della cannabis. In modo molto prammatico, la ricerca in Israele viene finanziata a portata avanti per scoprire nuovi possbili impieghi terapeutici della pianta e non, come per anni è accaduto altrove, per dimostrarne gli effetti negativi.
  Al progresso scientifico in Israele ha fatto seguito, anche in questo campo, quello tecnologico e oggi lo Stato ebraico è all'avanguardia mondiale per ottimizzare la produzione delle piante e per promuovere l'uso terapeutico della cannabis in una crescente offerta terapeutica. Nel 215 il numero dei pazienti registrati era di 22mila e, per non creare disparità e non influenzare negativamente la competitività tra i produttori, il Ministero della Salute è passato da un sistema totalmente gratuito a uno programma per cui applica una "ticket" forfettario annuale di 100 dollari USA per paziente.
  Israele è oggi all'avanguardia nel mondo per la cannabis per tutto ciò che attiene le colture in serra, la "raffinazione" di derivati, molti degli utensili necessari per assumere la sostanza nel modo più efficace possibile. L'intraprendenza degli imprenditori canapari israeliani ha trovato il suo culmine nella primavera del 2015 con la prima fiera Cannatech che ha riunito esperti e operatori di tutti i settori relativi al "pianeta cannabis".
  Non si sarebbe in Israele se non ci si fosse posti il problema di offrire agli utenti un prodotto che fosse anche kosher, elaborato seguendo una serie di obblighi che devono esser certificati da un'apposita commissione rabbinica.
  Se coltivata in Israele, secondo la provvisioni della shmita - come l'uomo al settimo giorno, anche la terra dave riposare ogni sette anni deve riposare - la cannabis è automaticamente kosher, se coltivata fuori dallo Stato ebraico la shmita non vale e quindi occorre lo hechsher l'approvazione di coltivazione kosher.
  Mai nessuno si era posto il problema di calare anche la cannabis nelle necessarie certificazioni relative a cibo e bibite. La cannabis generalmente si fumava, e per questo il problema in Israele non si poneva - nelle parole di un rabbino al quotidiano Haaretz la "cannabis non è non-kosher" -, ma quando la pianta viene utilizzata per produrre derivati che possono anche includere l'ingestione, allora occorre seguire un preciso protocollo che non preveda l'uso di pesticidi, la possibile presenza di insetti, l'utilizzo di ingredienti impuri, di attrezzature dedicate e eccetera eccetera.
  Ora se in Israele la kasherut accompagna la vita della stragrande maggioranza degli israeliani, nel secondo stato al mondo per presenza di persone di origine ebraica dopo Israele, gli Stati Uniti, e in particolare lo stato di New York, certe regole son sì presenti ma non necessariamente vengon in mente per consumi fuori dalla tradizione. Per ovviare a tutto ciò la società Vireo Health di New York - uno dei cinque produttori autorizzati dallo stato di New York per la cannabis terapeutica - ha deciso di richiedere alla Orothodox Union la certificazione dei suoi prodotti a base di cannabis. Dall'inizio del 2016, la Vireo produrr? cartucce per vaporizzatori, oli e pastiglie a base di cannabis tutte debitamente certificate.
  Secondo Ari Hoffnung, direttore della Vireo "oltre a poter offrire i prodotti alla più grossa comunità ebraica degli USA, la certificazione servirà anche a togliere lo stigma che ancora accompagna la cannabis medica".
  La certificazione è molto laboriosa perché avviene nella fase di essiccaggio della pianta e occorre che tutti i prodotti che vengon utilizzati per estrarre i vari principi attivi siano a norma di legge kosher. Molto prammaticamente, le leggi della certificazione kosher non riguardano i farmaci salvavita ma a oggi la cannabis non è tra questi.
  Secondo le stime della Ackrell Capital, nel 2016 il business USA relativo alla cannabis per fini medici e non dovrebbe salire a 5.7 miliardi di dollari dai 4.4 di quest'anno. Per quanto i consigli rabbinici statunitensi non ritengano di dover certificare come kosher la marijuana non medica, chi primo arriverà a guadagnare il bollino della OU per quella terapeutica sicuramente si piazzerà in certe "nicchie" in modo privilegiato.
  In occasione del conferimento della certificazione il Rabbino Menachem Genack, direttore della Orthodox Union ha affermato d'esser "lieto di concedere la certificazione per prodotti di cannabis medica sviluppati per alleviare il dolore e la sofferenza in conformità con la legge dello Stato di New York sulle cure compassionevoli", ricordando come per "l'ebraismo la salute sia una priorità" e che quindi "incoraggia l'uso della medicina per migliorare la salute o ridurre il dolore. Utilizzando prodotti di cannabis medica consigliati da un medico non dovrebbe essere considerato come un chet, un atto peccaminoso, ma piuttosto come un mitzvah, un imperativo, un comandamento". Ci sarà qualche prete o imam pronto ad affermare altrettanto?

(L'Huffington Post, 11 maggio 2016)


HaTikvà, un inno da intonare senza remore e senza rincrescimenti

A differenza di altri stati, quando si tratta di Israele c'è chi taccia di "antidemocratico" tutto ciò che rimanda al suo carattere di stato nazionale ebraico.

L'inno nazionale d'Israele, HaTikvà ("La speranza"), è una delle canzoni ebraiche più note nel mondo ebraico, come Jerushalaim shel zahav ("Gerusalemme d'oro") ma molto più antica. Per generazioni è stata cantata da ebrei che non sapevano una parola di ebraico: una canzone con parole non tratte dalla Bibbia o dal libro delle preghiere ebraiche, e tuttavia una canzone profondamente ebraica.
   Ora alcuni parlamentari arabo-israeliani avanzano nuovamente la richiesta che le parole dell'inno vengano modificate o sostituite del tutto. Essi sostengono, a ragione, che si sentono scollegati dal contenuto di quel testo e che non si può chiedere loro di identificarvisi. Il che è perfettamente comprensibile. Onestamente, che connessione possono avere con "l'anelito dell'anima ebraica" che "volge lo sguardo verso Sion"? Anche la bandiera bianca e blu, ispirata ai colori dallo scialle di preghiera ebraico e con la stella di David, così come l'emblema dello stato, con al centro la menorah, il candelabro del Tempio, sono simboli lontani dal loro patrimonio. Che connessione possono avere con il secolare scialle di preghiera ebraico? O con re David? O con la menorah razziata dalle legioni romane al Tempio di Gerusalemme? Anche "Israele", il nome del paese e dello stato, menzionato più di duemila volte nella Bibbia, proviene dalla storia ebraica e non ha alcun collegamento con i cittadini arabi del paese....

(israele.net, 11 maggio 2016)


Firenze - Sinagoga e Museo Ebraico organizzano eventi family-friendly nel weekend

 
La sinagoga di Firenze Sinagoga e Museo Ebraico a misura di bambino in occasione dei Kid Pass Days, la grande maratona di eventi family-friendly nelle maggiori città italiane cui aderisce anche il Museo Ebraico. Creatività, un pizzico di fantasia e tanta voglia di divertirsi sono gli ingredienti dell'attività intitolata Caccia al tesoro: Shavuot e il dono dei dieci comandamenti, laboratorio per famiglie con bambini dai 6 ai 12 anni, in programma domenica 15 maggio. Dalle 15.30, una divertente caccia al tesoro per scoprire i segreti e le tradizioni di Shavuot, la festa ebraica che ricorre 49 giorni dopo la fine di Pesach (Pasqua ebraica) e ricorda la consegna dei dieci comandamenti a Mosè sul monte Sinai, l'inizio della stagione estiva e le primizie. La festa è associata a un evento di grande importanza della storia ebraica, il dono della Legge, ma è anche legata al momento della mietitura e del raccolto. Largo a sfide, indovinelli e lavoretti per arrivare a scovare un tesoro davvero speciale: in caso di bel tempo l'attività si svolgerà all'aperto, nella suggestiva cornice del giardino della Sinagoga. Sarà un modo divertente per scoprire la cultura ebraica, una più antiche e affascinanti del mondo provando gioia per la condivisione delle differenze.

(gonews.it, 11 maggio 2016)


Nirenstein ritira la candidatura ad ambasciatrice di Israele a Roma

Fiamma Nirenstein, ex parlamentare del Pdl, ha ritirato la sua candidatura al ruolo di ambasciatore di Israele in Italia. «Ragioni personali» ha spiegato lei stessa per motivare la sua decisione. «Ringrazio il primo ministro - ha scritto Nirenstein in una nota al premier Benjamin Netanyahu- per la sua fiducia in me. Voglio esprimere la mia volontà di continuare a contribuire allo stato di Israele al meglio delle mie possibilità». La rinuncia dell'ex vicepresidente della Commissione Esteri alla carica diplomatica a Roma arriva a quasi un anno dalla scelta nell'agosto 2015. Il presidente israeliano Reuven Rivlin, allora presidente della Knesset (Parlamento) aveva premiato Fiamma Nirenstein per la sua lotta all'antisemitismo nel dicembre 2009.

(il Giornale, 11 maggio 2016)


Sarebbe stato un bene avere Fiamma Nirenstein come ambasciatrice di Israele in Italia? Secondo il rabbino Giuseppe Laras, sì, come ha espresso pochi giorni fa in un articolo sul Corriere della Sera:
"Nirenstein ambasciatrice: una nomina positiva". Secondo altri invece no, e tra questi probabilmente i nemici di Israele sono in maggioranza. M.C.


Gerusalemme - Accoltellate due ottantenni. Caccia agli aggressori nell'area palestinese

GERUSALEMME - Due donne molto anziane sono state colpite con dei coltelli a Gerusalemme da alcuni aggressori che poi sono riusciti a fuggire. L'attacco è avvenuto mentre le donne, che passeggiavano con altre persone, si trovavano nella zona di confine tra Gerusalemme Ovest e Gerusalemme Est.
Le due vittime, ottantenni, sono state curate sul posto e poi trasportate in ospedale. Le loro ferite sono lievi, ha indicato l'ospedale Shaare Zedek. La polizia ha precisato che gli aggressori, presentati come «terroristi», sono poi fuggiti verso il quartiere palestinese adiacente di Iabal Mukaber. Due uomini palestinesi, arrestati e interrogati poco dopo, sono stati rilasciati perché estranei ai fatti.
I Territori palestinesi, Gerusalemme e in generale Israele sono in preda a un' ondata di violenze innescate dai palestinesi che sono costate la vita a 204 palestinesi, 28 israeliani, due americani, un eritreo e un sudanese dal primo ottobre scorso.

(Avvenire, 11 maggio 2016)


Il ritiro dell'Europa

Parla Gideon Rachman: "La crisi di Bruxelles accelerata dal declino demografico e dell'anglosfera"

di Giulio Meotti

Gideon Rachman
ROMA - "L'Unione europea sta collassando e il collasso potrebbe essere accelerato dal bail-out di un paese membro". Gideon Rachman, da dieci anni capo dei commentatori di politica estera del Financial Times, vede a dir poco nero. "La crisi dell'Unione europea ha a che fare con il progetto in sé, ma anche con una più generale crisi del vecchio mondo", dice Rachman al Foglio. "L'origine è economica, con la crisi della moneta unica. Ma il progetto europeo era fin dall'inizio troppo ambizioso e ha sottostimato la politica identitaria. L'economia doveva sempre essere forte e in crescita, così da non consentire di pensare ad altro. Vorrei che l'Inghilterra restasse nella Ue, ma non sappiamo come finirà il referendum sulla Brexit, l'opinione pubblica è molto volatile. E' in corso una vasta crisi di fiducia del progetto europeo. La Ue non ha più il sostegno della popolazione" .
   I migranti hanno come scosso il già fragile edificio europeo. "La crisi migratoria non sarà facile da risolvere, perché fa parte di una più vasta demografia che cambia, che preme da sud verso nord e che non c'entra con la pace in Siria. Nel XIX secolo, gli europei hanno popolato il mondo. Adesso il mondo popola l'Europa. E' un continente ricco che invecchia e la cui popolazione è stagnante. Al contrario le popolazioni di Africa, medio oriente e Asia meridionale sono giovani, povere e in rapida crescita. Al culmine dell'età imperiale, i paesi europei hanno rappresentato il venticinque per cento della popolazione mondiale. Oggi, le persone della Ue rappresentano il sette per cento della popolazione mondiale. Gli europei sono profondamente confusi su come rispondere a queste sfide. Nell'èra imperiale hanno giustificato lo stabilirsi in terre straniere con la convinzione fiduciosa che stavano portando i benefici della civiltà nelle parti più arretrate del mondo. Ma l'Europa post imperiale, post Olocausto, è molto più prudente nell'affermare la superiorità della propria cultura".
   Secondo Gideon Rachman, ci sono tre scenari oggi per capire questa crisi europea:
   "Quello drammatico, con la nascita di governi nazionalisti che non vogliono più stare alle regole di Bruxelles. Un misto di migrazione di massa, populismo e crisi monetaria. E' lo scenario più cupo. Quello fin troppo ottimista è una ripresa della fiducia. Quello più probabile sta a metà, con l'uscita di uno, due paesi dalla Ue e un riassesto. Il declino della 'anglosfera', che coinvolge Stati Uniti e Inghilterra, non aiuta il progetto europeo. Obama si è rivolto all'Asia e passerà alla storia come il primo presidente del Pacifico. Gli americani non vedono più l'Europa come strategica, come un player globale. Gli Stati Uniti sono stufi di una situazione in cui l'America da sola rappresenta circa tre quarti delle spese della Nato. Un giorno gli europei si sveglieranno per scoprire che l'esercito americano non è lì per far fronte a qualsiasi minaccia alle frontiere dell'Europa".
   Rachman ritiene decisiva la questione demografica. "L'Europa investe nelle pensioni e non più nella difesa militare. Mogens Glistrup, un politico danese di primo piano, divenne famoso per aver suggerito che il suo paese sostituisse le Forze armate con un messaggio registrato in russo che dicesse: 'Ci arrendiamo'. Glistrup non è più con noi, ma il suo approccio alla difesa guadagna terreno. La capacità dell'Europa di usare la forza militare sta diminuendo rapidamente, e con essa il potere degli europei nel difendere i loro interessi in tutto il mondo. La Russia sta cercando di riempire questo vuoto di potere, ma sono anche loro molto vulnerabili". La rinuncia alla libertà di espressione, conclude Rachman, è un altro sintomo. "La reazione alla strage di Charlie Hebdo è stata emotiva, nessun giornale ha più voluto ripubblicare le vignette. E lo stesso caso del comico tedesco Jan Bòhmermann lo vedo come un sintomo di questa debolezza europea. Il declino del potere del vecchio continente sarà riempito da poteri non europei. Sono dunque pessimista sul futuro dell'Europa, ma so anche che c'è un limite a ciò che può andare male. E' sicuro, però, che rispetto alle precedenti generazioni, quelle future non avranno lo stesso livello di pace e di benessere".

(Il Foglio, 11 maggio 2016)


I terroristi palestinesi? Criminali che vorrebbero passare per le vittime

La contraddizione di chi fa un uso politico della crudeltà per conquistare l'Occidente con il pretesto di subire ingiustizie e soprusi.

di Ugo Volli

Al momento in cui scrivo questo articolo (prima di Pesach), sembra abbastanza chiaro che la "intifada dei coltelli" sia fallita. Dai dieci o venti attacchi al giorno di ottobre e novembre, si è passati al ritmo "fisiologico" di cinque o sei alla settimana, condotti per lo più da manodopera terroristica tradizionale, ben diversa dai ragazzini col coltello preso nella cucina di casa che aveva colpito l'immaginazione sei mesi fa. Certo, la propaganda antisemita terrorista continua nei blog e nei social network, sui media dell'Autorità Palestinese e di Hamas, nelle scuole deU'UNRWA, nelle canzoni e nelle clip delle pop-star arabe. Non si può escludere purtroppo che nuovi eventi luttuosi accadano, anzi, è praticamente certo: il terrorismo è stato il costante strumento di lotta contro gli ebrei del movimento nazionalista arabo dai suoi inizi, un secolo fa, e non è stato mai davvero abbandonato. Ma il bilancio delle vittime degli assalti di questa versione "popolare" o diffusa o "a bassa intensità" del terrorismo è fermo a 35 in sei mesi - un dato
Sembrerebbe che il numero dei candidati attentatori suicidi si sia esaurito, che sia arrivato anche alle loro menti fanatiche il dato per cui attaccare a coltellate dei passanti scelti a caso non solo è immorale ma soprattutto è inutile.
terribile certamente, perché ogni vita è un mondo, ma statisticamente non davvero significativo su una popolazione non musulmana in Israele di 6,5 milioni. Sembrerebbe che il numero dei candidati attentatori suicidi si sia esaurito, che sia arrivato anche alle loro menti fanatiche il dato per cui attaccare a coltellate dei passanti scelti a caso non solo è immorale ma soprattutto è inutile, in Israele porta assai più facilmente alla morte dell'attentatore che del bersaglio. I leader palestinesi hanno forse capito che non ottenevano la risonanza sperata. O forse semplicemente - terribile da dire, ma realistico nel nostro mondo - è passata una moda e gli adolescenti inquieti trovano altri sistemi per sballare.
  Faccio queste considerazioni non per trionfalismo, ma perché ritengo sia arrivato il momento di innescare una riflessione critica sul comportamento nostro, dei sostenitori di Israele nella diaspora. Durante l'ondata terroristica, la pubblicistica che sostiene Israele ha raccontato i fatti, lamentato che la stampa non ne desse notizia, spiegato la minaccia, denunciato la violenza e l'illegalità degli attentati, richiamato l'attenzione sulle responsabilità delle organizzazioni palestinesi. Era tutto giusto, lo è ancora. I terroristi, anche i "terroristi popolari" o "miniterroristi" come questi, sono criminali, l'incitamento delle organizzazioni politiche, se non sempre il legame organizzativo con gli attentatori, è evidente, la volontà antisemita della caccia indiscriminata all'ebreo è visibile a tutti. Ma forse facendo queste giuste comunicazioni siamo caduti nella trappola dei terroristi e dei loro capi. Abbiamo enfatizzato una situazione di rischio che in Israele non è mai stata soverchiante, abbiamo dato nelle nostre analisi una dimensione sociologica a crimini che restano individuali. Non abbiamo soprattutto tenuto conto del contesto strategico. E' chiaro che in questo momento nessun paese o movimento arabo è in grado di impensierire Israele sul piano militare, sia per la grande e sanguinosa confusione che regna nei paesi arabi, sia per la minaccia in parte comune a Israele che viene dall'Iran, sia perché la tecnologia israeliana continua a progredire anche sul piano militare. Se ci limitiamo alle armi difensive, gli antimissili sono stati estesi dai razzi a breve raggio (Iron Dome) a quelli a medio e lungo (David sling e Arrows) , sta diventando operativo un radar contro i mortai, un'arma per la difesa dai droni, e qualcosa si inizia a vedere anche per i tunnel. Israele è anche inattaccabile sul piano economico e ha dimostrato di saper resistere alle diverse ondate terroristiche (e alle rispettive tattiche: irruzioni armate, dirottamenti, cinture esplosive, sassi, coltelli).
  La partita dunque non è militare e neppure economica (il BDS su questo piano non ha quasi effetti). E'
I terroristi non ammazzano gli ebrei perché pensano di sconfig- gerli. Lo fanno per sfogarsi, perché gli piace. Una volta speravano che gli israeliani si spaventassero e scappassero altrove, adesso forse sanno che questo non funziona.
politica. Cioè diplomatica, legale, mediatica, psicologica. I terroristi non ammazzano gli ebrei perché pensano di sconfiggerli. Lo fanno per sfogarsi, perché gli piace. Una volta speravano che gli israeliani si spaventassero e scappassero altrove, adesso forse sanno che questo non funziona. Mirano comunque ad attirare l'attenzione del mondo su di sé. Sanno che quando commettono dei crimini non sono condannati ma commiserati dalla stampa e dai politici occidentali ("vedi, poverini, a che punto sono arrivati... la situazione è intollerabile... lo status quo non può reggere").
  In generale i movimenti palestinesi si trovano di fronte a un'esigenza contraddittoria: devono apparire ai loro seguaci e al mondo arabo bellicosi, duri, violenti, perfino crudeli. (Maestro in questo uso propagandistica della violenza è lo Stato Islamico.) Solo praticando una violenza che agli occhi occidentali appare ottusa e disgustosa, contro i prigionieri, le donne, i bambini, i prigionieri, perfino gli animali, questi movimenti appaiono potenti e vittoriosi, "veri uomini", il che nel mondo arabo è ragione di legittimità. Dall'altro per l'Occidente devono sembrare vittime della violenza israeliana, oggetto di ingiustizia, di prigionia a cielo aperto, addirittura di nazismo. Le due cose, l'esercizio della violenza indiscriminata e il vittimismo, non stanno bene assieme. Per questo i discorsi che fanno in arabo e la loro propaganda interna sono ben diversi da quel che dicono all'esterno e in inglese. Ma è certo che andando ad accoltellare donne e anziani e facendosi fermare con le armi possono alimentare tutt'e due le linee propagandistiche.
  Se si insiste dunque sulla loro barbarie e crudeltà, se si dà rilievo al dato criminale del loro comportamento, dunque, si alimenta il loro orgoglio (e fra l'altro si proietta l'immagine di Israele come
Che fare dunque? Io credo che come accadde a suo tempo con le Brigate Rosse non bisogna dare spazio alle rivendicazioni del terrorismo e non bisogna fare l'errore di contribuire alla crea- zione del mito del "combattente".
paese insicuro e territorio bellico, il che non è affatto vero). Comunque poi l'autodifesa israeliana sarà usata per il solito vittimismo. Che fare dunque? Io credo che come accadde a suo tempo con le Brigate Rosse non bisogna dare spazio alle rivendicazioni del terrorismo e non bisogna fare l'errore di contribuire alla creazione del mito del "combattente". Bisogna sempre rappresentare la realtà, non censurarla; ma in questo caso essa non va neanche ingigantita e soprattutto ne va mostrato il lato patologico e vigliacco, la meschinità criminale nell'assalire donne incinte, anziani e bambini, nell'investire le persone in attesa alla fermata del mezzo pubblico, l'ignobile pratica di accoltellare le vittime sempre alla schiena. Bisogna cioè dipingere i criminali per quel che sono, e che erano i loro fratelli maggiori nel 2000-2003 e magari i loro nonni alleati di Hitler: dei vigliacchi macellai senza onore né dignità, che sfogano nella violenza un patologico razzismo.

(Shalom, maggio 2016)


I minareti di Erdogan che dominano i cieli d'Europa

Il presidente turco vuole costruire nuovi luoghi di culto in Italia e all'estero.

di Giulio Meotti

 
La Westermoskee, la mega moschea di Amsterdam
Recep Tayyip Erdogan ha una vecchia passione per le moschee. Da quando ha assunto il potere in Turchia ne ha fatte costruire 17 mila sulle 85 mila esistenti. La più grande al mondo sorge sulla collina di Camlica, a dominare la sponda asiatica di Istanbul, da dove l'oriente, per dirla con Cocteau, tende all'Europa "la sua vecchia mano ingioiellata". Il presidente turco è impegnato da tempo nella costruzione di grandi moschee anche nelle capitali europee (l'Economist parla di "diplomazia religiosa"). "Erdogan cerca di creare l'immagine di una civiltà islamica di nuovo in ascesa", sostiene Yuksel Taskin, politologo della Marmara University. "I turchi saranno l'avanguardia della rinascita". Come ha rivelato ieri il Times di Londra, "dieci moschee finanziate dai turchi sono già state aperte all'estero, dal Mali a Mosca; cinque solo nell'anno passato. Altre dieci sono in fase di progettazione, compresa una a Cambridge". Per quest'ultima, la Turchia ha sborsato diciassette milioni di sterline.
  Erdogan, che lo Spectator mette in copertina come "l'uomo più potente d'Europa", questa estate sarà ad Amsterdam all'inaugurazione della celebre "Westermoskee", la mega moschea nella parte occidentale della città olandese, una delle più maestose d'Europa. Duemila persone vi pregheranno ogni venerdì. Per vent'anni i lavori sono andati avanti fra mille polemiche, specie dopo che i Paesi Bassi sono stati scossi dall'omicidio di Theo van Gogh. Il minareto di quaranta metri andrà a dominare il fiume Amstel: "Sarà la più bella moschea d'Europa", dice con orgoglio Selemi Yuksel, uno dei responsabili. Nella cupola splenderanno luminose finiture blu e la scritta: "Non c'è altro dio che Allah e Maometto è il suo profeta". La moschea segue l'architettura ottomana, ma si adatta bene all'ambiente, utilizzando mattoni olandesi. Di recente, Erdogan ha finanziato la più grande moschea dei Balcani a Tirana, per poi volare negli Stati Uniti a inaugurare una mega moschea nel Maryland. A Gaza, Erdogan si è personalmente impegnato a ricostruire le moschee palestinesi danneggiate durante l'ultima guerra fra Israele e Hamas. Come rivela la SonntagsZeitung, il governo turco finanzia in Svizzera trentacinque luoghi di culto, mentre a Bucarest è dietro il progetto della grande moschea.
  Per costruire questi luoghi di culto, in patria come all'estero, Erdogan ha potenziato il Diyanet, il ministero degli Affari religiosi della Turchia, che ha un budget di due miliardi di euro, pari a dodici ministeri locali messi assieme, e 120 mila dipendenti (erano 72 mila nel 2004). Come rivela questa settimana la Frankfurter Allgemeine, la Turchia controlla 900 moschee in Germania, che rispondono al governo di Ankara assieme a 970 imam turchi inviati a Berlino e dintorni. Come rivela il caso del comico Jan Böhmermann, hanno anche sempre maggiore influenza sulla popolazione.
  A dicembre, al Jazeera ha girato un film sulla "Moschea di Amsterdam Ovest". Una coppia di anziani olandesi passa di fronte all'edificio e commenta, ridendo: "E' bellissima. La nostra chiesa invece sta chiudendo". E visto che anche Erdogan ha un grande senso dell'ironia, il presidente turco ha deciso di costruire la mega moschea di Amsterdam emulando la famosa cattedrale di Santa Sofia, estrema sentinella dell'occidente, cuore strappato alla cristianità quando Costantinopoli cadde nelle mani turche nel 1453. Per dirla con Erdogan, "i minareti sono le nostre baionette, le cupole i nostri elmetti, le moschee le nostre caserme".

(Il Foglio, 10 maggio 2016)


Israele, una macchina esporta format

Dai capostipiti 'BeTipul' e 'Hatufim' universalmente noti nella versione americana
di 'In Treatment' e di 'Homeland' un crescendo di serie, commedie, game, reality e talent sono stati adattati o doppiati dalle televisioni di mezzo mondo nell'ultima decade.


Haggal Levi, il creatore di 'BeTipul' che è stato un grandissimo successo alla tivù israeliana e di cui Hbo ha tratto la versione diventata nota in tutto il mondo come 'In Treatment' a cui sono seguiti tredici adattamenti in diversi Paesi. Il cast di 'BeTipul' nella versione israeliana e il cast italiano di 'In Treatment', la serie prodotta e trasmessa in Italia da Sky, con protagonista Sergio Castellitto.
La chiave di volta è stata la loro affermazione sulle prime serate dei network americani e da qui a cascata sono rimbalzati sulle televisioni europee, australiane e latino-americane. Tra i titoli, più trasmessi in vari Paesi ci sono, per esempio, il game 'Who's stili standing' da cui è ricalcato 'Caduta libera' in onda con successo sul preserale di Canale 5, i talent 'Rising star' e 'I can do thatl' che Rai 1 ha mandato in onda per due edizioni consecutive, il reality 'Connected', il thriller 'Hostagcs' di cui è andata in onda sul canale Action di Premium la versione americana della Cbs e la Bbc e Canal- hanno trasmesso l'originale israeliano con j sottotitoli.
L'ultima frontiera sembra essere il mercato asiatico e ne è una prova l'accordo deUa cinese Shixi Media con la Keshet lnternational. A testimonianza ulteriore della loro presa internazionale, la rete tedesca Prosieben e il super produttore scandinavo Strix hanno iniziato a lavorare con produttori e sceneggiatori israeliani.
   Ma come è stato possibile il miracolo israeliano? Che cos'è che fa sì che un'industria televisiva giovane (solo ora sta completando la transizione da un sistema pubblico a più piattaforme multicanale commerciali, via etere, via cavo e su satellite), di dimensioni ridotte e un'audience limitata (appena 7 milioni di israeliani di lingua ebraica) riesca a creare un prodotto capace di parlare a un pubblico globale? Se ne è discusso al seminario del ministero dello Sviluppo economico e dell'Apt (l'Associazione produttori televsivi: ndr) su 'Format Italia. Perché Israele esporta televisione e noi no?' svoltosi il 7 aprile alla Luiss e le risposte sono arrivate dalla ricerca presentata da Maurizio Mensi, docente di diritto della comunicazione alla Luiss, sull'atipico 'caso Israele'.
   "Il segreto risiede in un complesso intreccio di fattori ed è questa alchimia a creare un ambiente favorevole alla nascita dei format, la cui caratteristica dominante si può riassumere nel concetto chiave dell'internazionalizzazione", è in sintesi il senso dell'analisi di Mensi.
   Ma, prima e più degli imponenti meccanismi di incentivi a sostegno della produzione di casa, a dare quel particolare imprinting al mercato pesano fattori culturali e industriali e prima di tutto "la neutralità culturale per cui un formato frutto della elaborazione e della creatività locale è concepito da subito per una sua collocazione internazionale".
   È una questione di dna: la nostra industria, per esempio, è più portata a fare il prodotto casalingo. I produttori israeliani invece realizzano una parte importante di prodotto esclusivamente per il mercato mondiale e paradossalmente proprio la dimensione ristretta del loro mercato, che può assorbire un quota limitata di formati, costituisce un incentivo a guardare fuori. Tanto che i produttori, specie quelli medio piccoli e le startup trovano più conveniente cercare fortuna sul vasto mercato di lingua inglese.
   Va detto però che tutto questo è possibile in un mercato giovane molto tecnologizzato e digitalizzato e più di altri disposto a giocare la partita dell'innovazione. Oltretutto l'industria israeliana dimostra anche una spiccata propensione al rischio - essenziale nel volatile business dei format - una qualità che appartiene al corredo cromosomico di un Paese abituato da sempre a convivere con l'incertezza e l'imprevisto.
   C'è un ulteriore elemento poi che spiega questo boom estero. Basati su plot che collocano storie di 'real people' nei drammi sociali e nazionali, i format sono realizzati a budget contenuto a causa delle ristrettezze finanziarie del mercato interno. Al contempo però il pubblico di lingua ebraica è smart, esigente e americanizzato e richiede un prodotto mainstream ma originale e di qualità. Questo combinato disposto ha fatto sì che i produttori e gli sceneggiatori abbiano sviluppato il know how per essere creativi e a buon mercato.
   Il 60% dei programmi di intrattenimento trasmessi dalle reti è prodotto domestico, così come il 50% delle fiction. Sono dati di Eurodata Tv Worldwide che si riferiscono al 2013, ma questo è il trend,
   A determinare il risultato concorre un apparato regolatorio che vincola sia le reti pubbliche sia quelle private, incluse le tivù a pagamento, a quote di programmazione e di investimento molto prescrittive. Senza scendere nei dettagli, il fatto interessante è che gli obblighi sono declinati su specifiche categorie di prodotto, e cioè le produzioni locali realizzate in house dalle reti (Lp) e le produzioni locali acquistate sul mercato (Plp). A queste ultime sono destinati i maggiori finanziamenti prevedendo anche una speciale categoria di programmi denominati 'élite genre' che comprende documentari, fiction e serie a cui va riservata anche una quota del tempo di trasmissione, definendone la fascia oraria.

(Prima, 10 maggio 2016)


Usa, il delicato rapporto tra Israele e la comunità ebraica americana

di Andrea Bellelli (*)

Sono stati pubblicati quest'anno da Princeton University Press due libri molto interessanti sull'evoluzione del rapporto tra Israele e la comunità ebraica negli USA: The star and the stripes di M.N. Barnett e Trouble in the tribe di D. Waxman. Entrambi riferiscono di un calo di interesse e di supporto della comunità ebraica degli Usa nei confronti dello stato d'Israele, un fenomeno sociologico che era già stato notato.
   Non scriverò su questo blog una recensione dei due libri: ce ne sono parecchie sulla rete, sia favorevoli che contrarie ; farò invece una considerazione. Entrambi i libri sottolineano il processo (per ora allo stadio iniziale) di allontanamento della comunità ebraica degli Usa da Israele ed entrambi indicano una generale diminuzione del senso di appartenenza dei giovani alla comunità di riferimento. Mi pare che il fenomeno in corso nella comunità ebraica degli Usa sia parallelo al generale diminuire del senso di identità nazionale nei paesi occidentali. Anche noi ci sentiamo italiani in un senso blando e generico: sappiamo che sta scritto nel nostro passaporto, ma la retorica patriottica del libro Cuore ormai ci da fastidio, e penso che fenomeni analoghi si verifichino in tutti i paesi occidentali.
   I sentimenti di identità nazionali erano figli del romanticismo ottocentesco, e sono stati messi in crisi prima dall'idea dell'internazionalismo socialista e poi dalla globalizzazione. Questa evoluzione non esclude che possano verficarsi ancora episodi di razzismo, ma ne cambia la natura: possiamo diventare razzisti in senso campanilista, come la Lega Nord, che vorrebbe separare la Padania (se lo vuole ancora); oppure possiamo diventare razzisti per avarizia, nei confronti degli immigranti che sfuggono a situazioni di persecuzione nel loro paese d'origine.
   L'identità ebraica è sempre stata problematica e molti intellettuali si sono posti il problema non facile di definirla, spesso finendo per rinunciarvi . Senza andare troppo per il sottile, l'idea che esista un popolo scelto da Dio non fa più presa, ed anche l'identificazione del gruppo attraverso l'adesione ad un culto fallisce: esistono ebrei atei, convertiti, etc.; le identificazioni razziali, oltre ad essere insostenibili scientificamente, ci fanno orrore; quelle genealogiche, al modo della Bibbia, sono irrilevanti e ci annoiano.
   Il risultato è che il senso dell'identità di gruppo degli ebrei, come quella dei cattolici, degli italiani o dei francesi, si affievolisce: ciò che ne resta è che uno "si sente" ebreo o cattolico, italiano o francese, ma se minimamente si è posto il problema, sa che non è più possibile o significativo "essere" ebreo o cattolico, italiano o francese, e che queste categorie non appartengono al mondo dei fatti e dei dati scientifici, ma a quello delle opinioni e dei convincimenti. Come aveva scritto Karl Deutsch, un popolo è un gruppo di persone che condivide un errore comune sulla propria origine e una comune antipatia per i propri vicini.
   A fronte della generica caduta di interesse nei confronti delle identità nazionali, la politica di Israele verso il popolo palestinese, sanzionata più volte dall'Onu, non invoglia l'avvicinamento dei giovani ebrei americani, tanto più che molti intellettuali ebrei sia negli Usa che in Israele si sono pronunciati molto criticamente. E' possibile che la naturale caduta di interesse delle ideologie in senso lato nazionalistiche spinga Israele a rivedere la sua politica nei confronti della questione palestinese, se non altro allo scopo di recuperare il rapporto con la comunità ebraica degli Usa? E' presto per dirlo e non si vedono al momento indicazioni in questo senso; d'altra parte la pace si fa in due e un passo avanti sarebbe necessario anche da parte dei palestinesi e in genere del mondo arabo.
(*) Professore Ordinario di Biochimica, Università di Roma La Sapienza

(il Fatto Quotidiano, 10 maggio 2016)


Può essere che questo articolo descriva bene quello che è accaduto e sta accadendo nel mondo occidentale, ma purtroppo certi intellettuali occidentali che mostrano di saper fare acute analisi descrittive dei fatti storici credono, o vogliono far credere, che ne conoscono anche le radici dei mali e le proposte di soluzione. L’autore, come male che sta alla radice di tanti altri mali ne sa indicare soltanto uno: “la politica di Israele verso il popolo palestinese, sanzionata più volte dall'Onu”. Semplice, no? Resta un accenno di sfuggita al mondo arabo, sul quale si limita a dire che “un passo avanti sarebbe necessario anche da parte dei palestinesi e in genere del mondo arabo”. Un po’ poco, no? Il fatto è che mentre in occidente l”'idea che esista un popolo scelto da Dio non fa più presa”, in oriente l’idea che esista un popolo maledetto da Dio continua a fare presa. Ma questo, il nostro pensoso intellettuale occidentale, non lo commenta. M.C.


Torino - Il futuro del Medio Oriente tra sfide e complessità

di Alice Fubini

 
Emanuel Segre Amar presenta l'incontro del Gruppo Sionistico Piemontese con il direttore della Stampa Maurizio Molinari
 
Maurizio Molinari e Ariela Piattelli
Il direttore de La Stampa Maurizio Molinari torna al Circolo dei lettori per parlare di Medio Oriente, scenario più che mai in frenetico cambiamento, dove il fattore tempo viene schiacciato dagli eventi, dove la geopolitica è destinata all'instabilità perenne, dove ogni cambiamento genera un effetto domino con esiti difficili da prevedere in entità e durata.
   Tema dell'incontro, organizzato tra gli altri da Emanuel Segre Amar (Gruppo Sionistico Piemontese) assieme alle Comunità ebraiche di Torino e di Vercelli e all'Agenzia Ebraica per Israele e a cui ha partecipato anche Ariela Piattelli, "l'integrazione delle minoranze".
   La chiave di lettura secondo Molinari va ricercata nel pensiero del presidente dello Stato ebraico Reuven Rivlin, fondato sul concetto di democrazia israeliana radicata che si traduce in pienezza di diritti a tutte le minoranze.
   Cos'è rimasto oggi del negoziato per la fondazione di uno Stato palestinese? Molinari sostiene che il negoziato abbia subito una battuta d'arresto e si sia sostanzialmente arenato perché alla base vi sono due posizioni incompatibili: da un lato quella israeliana contraria allo smantellamento totale degli insediamenti (250 mila israeliani) a maggior ragione dopo l'esito di Gaza, caduta in mano ad Hamas. La controparte palestinese invece concorda con il diritto al ritorno dei profughi del 1948 e dei loro discendenti nei luoghi d'origine, perché qui luoghi sono sentiti di propria appartenenza familiare. Qualsiasi tipo di accordo si scontrerà sempre con questi due punti. È difficile che venga ammesso dalle leadership politiche perché ad oggi non c'è un'alternativa concreta. Se la politica non riesce a trovare un accordo, analizzando ciò che viene dal "terreno", sostiene il direttore, emerge un'altro dato: la maggioranza di israeliani e di palestinesi sono favorevoli alla convivenza. Di fatto i due popoli hanno già accettato di convivere assieme: si tratta di forme di convivenza orientali, sul modello della città di Gerusalemme. Questa concezione di convivenza cozza con la visione di stato della cultura europea e occidentale. "Ciò che conta è arrivare alla convinzione di convivere, ma senza imporre canoni di convivenza occidentale", conclude Molinari.
   Come la questione Isis di innesta in questo quadro? "L'Isis è una minaccia più per i palestinesi che per gli israeliani", spiega Molinari. La volontà dei sostenitori del Califfato è quella di radere al suolo gli oppositori e annettere nuovi territori. Il progetto jihadista cozza con il progetto di stato palestinese. "Il linguaggio che adoperano è sanguinoso, considerano le leadership palestinesi corrotte e infedeli". Se il nazionalismo scende e il jihadismo sale, israeliani e palestinesi si trovano a condividere di fatto lo stesso nemico.
   Piattelli mette sul tavolo un'altra questione: il disgelo d'Israele con la Turchia e il beneficio che trae l'Arabia Saudita in una prospettive di alleanza silenziosa. Molinari mette in luce l'anomala posizione dell'Arabia Saudita, al centro del conflitto tra sciiti e sunniti. In questa cornice di assedio tenta di aprire dei canali di comunicazione con lo Stato d'Israele. Una possibile conseguenza della convergenza tra Arabia Saudita e Israele potrebbe essere un nuovo ruolo dei sauditi come interlocutori degli israeliani con il popolo palestinese. "Attorno al riavvicinamento tra Arabia e Israele si aprono nuovi scenari da tenere attentamente sott'occhio".
   Altro scenario da monitorare è quello tunisino. La Tunisia acquista sempre più centralità per due motivi: innanzi tutto è l'unico stato assieme al Marocco ad avere nelle tradizioni la tolleranza per chi mussulmano non è e perché l'idea di cittadinanza prevale sull'idea di fede. Secondo elemento: abbiamo il Califfato in Libia che tenta di conquistare il sud della Tunisia. La Tunisia rischia così di essere vittima del potenziamento del Califfato. Nuove variabili geopolitiche entrano in gioco, stravolgendo gli scenari e le carte geografiche come oggi le conosciamo. La sfida è comprendere in che direzione andrà il prossimo cambiamento.

(moked, 10 maggio 2016)


Giorgio Nissim, "eroe normale" che sfidò l'ideologia del male

di Enrico Catassi

PISA - «La guerra incombeva sulle teste di tutti. E tutti si arrangiavano per conto proprio, come meglio potevano. Un uomo continuava, da solo in mezzo ai pericoli, alla corruzione degli uomini, al continuo farsi e disfarsi delle soluzioni, dei rifugi che improvvisamente diventano obiettivi militari, a cercare di dare un ordine organico alla resistenza». Scrive Alfredo De Girolamo nella recente pubblicazione "Giorgio Nissim.Una vita al servizio del bene" edito da Giuntina.
Nissim ebreo pisano guidò la Delasem in Toscana durante l'occupazione nazifascista. «Un uomo semplice che, nel baratro più buio del Novecento e forse della storia dell'umanità, seppe da che parte stare, con tutta la dignità, il coraggio e l'umiltà che dovrebbero sempre contraddistinguere ogni uomo». E grazie alla sua abnegazione salvò centinaia di persone dai lager della morte. In una lotta contro il tempo, mettendo in ogni istante a rischio la propria vita, sfidando l'ideologia del male. Prendendosi gioco degli adoratori di Hitler, quella razza che si definiva ariana e superiore ma che era generata dalla viscere del Diavolo.
Di questo eroe quasi sconosciuto al pubblico hanno parlato a Pisa oltre all'autore del libro, lo storico Michele Battini: "una storia di resistenza civile, dove il calvario della famiglia Nissim si intrecciava con quello degli altri". Il giornalista Adam Smulevich: "Giorgio Nissim è un paradigma nel paradosso della storia". Il Presidente della Comunità ebraica Maurizio Gabbrielli: "le vicende di Giorgio sono al tempo stesso un insegnamento e una speranza, la luce di un uomo che non ha piegato la schiena".
   Lo scrittore Davide Guadagni: "Nissim e quella generazione di ebrei sono i fiori più delicati esistiti". In Lungarno Gambacorti nella sala Baleari del palazzo comunale anche il Sindaco Marco Filippeschi ha voluto personalmente rendere omaggio alla memoria di questo straordinario concittadino: "Un eroe normale". Mentre il figlio Piero Nissim: "Mio padre non ha mai usato un arma, al massimo in una situazione pericolosa ha infilato la mano in tasca, aprendola e disegnando con le dita la sagoma della pistola dentro la giacca". Per poi chiedere in una dolcissima canzone dedicata al padre: "è valso a tanto quell'agire per il nostro domani?". A tantissimo.
   Eterna gratitudine a Giorgio Nissim un uomo eccezionalmente normale.

(StampToscana, 10 maggio 2016)


Iran: forze aeree ormai equipaggiate con il sistema russo S-300

Consente di fronteggiare un attacco a installazioni nucleari

TEHERAN - La forze anti-aeree iraniane sono ormai equipaggiate con il sistema russo S-300. "Informo il nostro popolo che siamo in possesso del sistema strategico S-300", che "è al servizio della nostra forza anti-aerea", ha confermato il ministro della Difesa, il generale Hassan Dehghan.
Una parte dell'equipaggiamento del sistema antimissile S-300 russo era stato mostrato il 17 aprile scorso durante una parata militare a Sud di Teheran.
Gli Stati uniti e Israele hanno criticato la Russia per questo contratto con Teheran: il sistema S-300 consentirà alla Repubblica islamica di difendersi da ogni eventuale attacco, in particolare contro le sue installazioni nucleari.
Il generale Dehghan ha ugualmente annunciato "l'inizio della produzione, quest'anno, di un sistema anti-aereo iraniano Bavar 373, capace di distruggere missili da crociera, droni, aerei da combattimento e missili balistici".

(askanews, 10 maggio 2016)


Netanyahu critica il vice capo di stato maggiore

In Israele, mentre si ricorda l'anniversario della fine della seconda guerra mondiale e la sconfitta del nazismo, infuria la polemica sulle dichiarazioni del vice capo di stato maggiore dell'esercito.
Il premier Benyamin Netanyahu ha criticato il generale Yair Golan, che giovedì, in occasione del Giorno della Shoah, aveva affermato: "Se c'è una cosa che mi spaventa nel ricordare l'Olocausto è riconoscere il processo nauseabondo avvenuto in Europa in generale e in particolare in Germania 70, 80, 90 anni fa e ritrovarne segnali anche qui tra noi oggi nel 2016."
"È un paragone oltraggioso" ha detto Netanyahu. "Sono parole del tutto infondate, che non avrebbero mai dovuto essere pronunciate (e men che meno in questa circostanza) e che oltretutto contribuiscono alla banalizzazione della Shoah."
Ma sull'aumento della xenofobia e sulle "esecuzioni extragiudiziarie" di palestinesi da parte di militari puntano il dito anche attivisti dei diritti umani. E mentre la destra attacca il generale Golan, alcuni esponenti dell'opposizione laburista lo difendono.

(euronews, 9 maggio 2016)


Oltremare - Beit Italia

di Daniela Fubini, Tel Aviv

Offerte per il KKL e per il Beit Italia dell'Adei-Wizo, cosí son cresciuta nel'Italia ancora molto poco colorata e di fine anni Settanta e inizio Ottanta.
Il KKL piantava alberi, questo era chiarissimo a tutti, anche a noi bambini che provavamo la buona calligrafia su quei cartoncini con il posto per il nome cui dedicare alberi e piccoli boschi. Dove esattamente non era noto, ma neanche ci importava: all'epoca Israele era quel paese caldo e secco di là del mare pieno di cugini mai conosciuti, da cui arrivavano inviati a insegnarci canzoncine in ebraico e qualche rudimento di sionismo.
Cosa facesse il Beit Italia era molto meno chiaro. Dove fosse poi, del tutto ignoto. Ma che "bait" volesse dir casa era evidente anche al più somaro degli alunni, quindi doveva trattarsi di una casa.
Ora questa casa in realtà è qualcosa a metà fra essere una scuola e un centro comunitario, e sorge oggi in un quartiere popolare di Jafo in cui è fondamentale togliere i ragazzini dalle strade dopo la scuola, e dar loro qualcosa di utile da fare, anche perché possano poi inventarsi un mestiere più avanti. Una buona quota di quei ragazzini è di origine etiope, e ha molta poca probabilità di arrivare all'università - questo ancora oggi, trent'anni dopo l'alyiah in massa. Il Beit Italia ospita corsi di computer, arte, matematica, musica e di leadership. Insegna a questi ragazzini israeliani di tutti i colori quello che la scuola non riesce ancora ad insegnare: a farsi strada nella vita, usando quel che si ha e quel che si può ottenere con lo studio.
Non so se gli scolari delle scuole ebraiche italiane di oggi scrivono ancora nomi sui cartoncini del KKL o regalano una paghetta settimanale ogni tanto al Beit Italia, ma se lo fanno farà piacere sapere che come gli alberi crescono, i ragazzini del Beit Italia imparano. Mica poco.


(moked, 9 maggio 2016)


Perché è liberticida la legge sul negazionismo
   OTTIMO!


di Pierluigi Battista

Pur animate dalle migliori intenzioni, le leggi che fanno diventare reato il negazionismo sulla Shoah hanno una duplice valenza negativa: sono liberticide e sono pure inutili. Perciò speriamo che la Camera ribalti il recente voto del Senato facendo prevalere un punto di vista liberale. Quando si trattò di contrastare i cialtroni che consideravano Auschwitz una menzogna, il grande storico Pierre Vidal-Naquet non si appellò ai tribunali ma smontò una dopo l'altra le fandonie costruite dagli «assassini della memoria» e ne dimostrò tutta l'inconsistenza, la disonestà, la spudorata smania manipolatoria. I negazionisti come Faurisson e seguaci persero ogni credibilità «scientifica», esposti al mondo per quello che erano: una combriccola di falsari. Così si combatte l'offensiva antisemita, non con la polizia.
   Leggi inutili. In Francia, dove da anni vige una legge anti-negazionista, il morbo antisemita non solo non è arretrato ma ha pericolosamente guadagnato posizioni, e gli ebrei francesi si sentono sempre più insicuri, bersaglio permanente del fanatismo antisionista e perciò antisemita. Leggi liberticide perché introducono un elemento di arbitrio affidato alla magistratura che dovrebbe stabilire cosa è perseguibile come reato e cosa no. Leggi liberticide, perché la censura è un mostro insaziabile: sposta continuamente i suoi confini sempre più in là, ingloba nell'universo del censurabile un numero sempre maggiore di opinioni bollate come reato, e che invece possono essere disgustose, ma non sono un reato. Leggi liberticide perché qualunque magistrato può considerarsi autorizzato a scorgere una notitia criminis in un libro, in un articolo, in un discorso: basti pensare che Oriana Fallaci in Francia, grazie a una legislazione restrittiva che trasforma un'opinione in un reato, è stata messa sul banco degli imputati per istigazione all'odio razziale: che sciocchezza colossale.
   Leggi liberticide, perché affidano alla dimensione giudiziaria, a quella penale, ciò che non sai combattere con le armi di Vidal-Naquet. Leggi ipocrite, visto che si srotolano tappeti rossi a potenze economiche e geopolitiche come l'Iran in cui il negazionismo antisemita è diffusissimo e in cui ogni anno si celebra una mostra per la migliore vignetta negazioni sta sull'Olocausto. Speriamo che la Camera ci ripensi, e che la legge sul negazionismo sia bloccata. Con le migliori intenzioni, si possono partorire i peggiori risultati.

(Corriere della Sera, 9 maggio 2016)


Gatteo, il lungomare del futuro: vince il progetto di un gruppo israeliano

Obiettivo: elaborare progetti di connessione del tessuto urbano al suo waterfront.

Il gruppo dei progettisti che hanno partecipato al progetto per il lungomare di Gatteo
La spiaggia di Gatteo Mare
E' stato il gruppo israeliano ad elaborare il progetto di rigenerazione urbana che più di ogni altro ha convinto la commissione dei docenti: venerdì a Gatteo Mare la cerimonia conclusiva del workshop "Redrawing the landscape - Gatteo 2016" ha visto trionfare cinque studenti dell'ateneo israeliano davanti all'intero gruppo di progettisti da tutto il mondo. Erano infatti oltre quaranta gli studenti di architettura, ingegneria edile e design in arrivo da cinque diverse Università del mondo (Turchia, Polonia, Israele e Russia, oltre ai giovani professionisti dell'Università di Pavia, impegnati per una settimana a progettare insieme un volto nuovo per il lungomare di Gatteo Mare.
Sotto il coordinamento del professor Sandro Parrinello dell'Università di Pavia, gli studenti hanno lavorato a gruppi di cinque, alternando rilevazione e raccolta dati con interviste mirate a turisti e residenti per approfondire richieste e percezioni sull'assetto di infrastrutture, trasporti e ambiente della località balneare. Obiettivo: elaborare progetti di connessione del tessuto urbano al suo waterfront. Durante la cerimonia conclusiva, svoltasi al Palazzo del Turismo in lingua inglese, tutti i progetti sono stati illustrati direttamente dai ragazzi anche tramite l'ausilio di slide e pannelli esplicativi.

(Cesena Today, 9 maggio 2016)


Giovane israeliana di 16 anni scopre nuovo teorema geometrico

Tamar Barbi, di Hod Hasharon, è in prima liceo, ma ha già raggiunto un successo sorprendente: sviluppare un nuovo teorema geometrico mentre faceva i compiti di matematica a casa.
Sean Gabriel-Morris, il suo insegnante di matematica alla scuola Lev Hasharon, è rimasto così colpito che ha lavorato anch'egli con la sua giovane studentessa per sviluppare il Three Radii Theorem (Teorema dei Tre Raggi).
Come se non bastasse Morris ha voluto anche presentare la grande scoperta della ragazza ai matematici del Massachusetts Institute of Technology e dell'Università di Haifa.
Queste le parole di un professore del MIT:

È bello vedere come il teorema di Tamar fornisca la prova utile anche per altri importanti teoremi matematici.

L'Università di Haifa ha invitato Tamar e Gabriel-Morris per tenere una conferenza sul Teorema dei Tre Raggi, chiamato anche Teorema di Tamar, di fronte ad alcuni dei migliori docenti di matematica in Israele.
Tamar, intervistata dal quotidiano Israel Hayom, ha risposto:

Ho chiesto ad alcuni miei parenti all'estero laureati in matematica, ho consultato i miei genitori ed infine ho realizzato che effettivamente il teorema che ho utilizzato non compare da nessuna parte, anche se è molto logico e semplice.

Secondo la teoria di Tamar, se tre o più linee si estendono da un singolo punto raggiungendo la circonferenza di un cerchio, il punto è il centro del cerchio e le rette sono i suoi raggi.
Tamar è incredula ed entusiasta di questa scoperta anche se afferma che i suoi interessi sono altri, come ballare, recitare, cantare e suonare il pianoforte.

Non penso che la matematica diventerà la mia professione. Spero di lavorare in teatro.

Eli Hurwitz, CEO della Fondazione Trump, che promuove matematica e scienze in Israele, ha sottolineato:

Ancora una volta è stato dimostrato che un grande maestro che sfida e sostiene i suoi studenti curiosi e ambiziosi, sono la combinazione vincente.

Hurvitz ha aggiunto che in futuro, gli studenti israeliani potrebbero usare la matematica per "sviluppare farmaci e tecnologie al fine di fare scoperte scientifiche".

(SiliconWadi, 9 maggio 2016)


Il teorema è formulato male e in un primo momento può trarre in inganno. Riguardandolo su altri siti è più chiaro, e può essere preso in considerazione, ma in ogni caso, come ho detto in un precedente commento, certamente non si può dire che sia una cosa nuova e quindi il clamore che se ne è dato non è appropriato. M.C.


I "pulcini" arabi ed ebrei nelle squadre multirazziali

di Ariela Piattelli

 
ROMA - Israel cammina che sembra un uomo. A 14 anni corre in campo come un fulmine. Prima di partire da Gerusalemme per Roma si è rotto un braccio durante l'allenamento. Ma i suoi genitori, che hanno lasciato l'Etiopia per Israele, lo hanno fatto andare. Così Israel si nasconde il gesso nella maglietta per giocare insieme alla sua squadra di «pulcini» arabi ed ebrei, palestinesi e israeliani. Le giovani promesse della Scuola di Calcio Roma Club Gerusalemme sono state a Roma per giocare il torneo organizzato dal Maccabi Italia e per incontrare rappresentati delle istituzioni (il Presidente del Senato Grasso) e del calcio (Tavecchio e la Roma).
   Il gruppo, accompagnato dal vice presidente dell'associazione Samuele Giannetti (il presidente è Fabio Sonnino), rappresenta un caso virtuoso di «convivenza pacifica», nel rettangolo verde, in cui l'esperienza sportiva diventa metafora della speranza per il futuro. A Gerusalemme si allenano due volte a settimana, il Club manda un pulmino con uomini della sicurezza a prendere i ragazzi. «Alcuni genitori hanno paura per la sicurezza dei bambini perché le prove di convivenza non piacciono a tutti - racconta Giannetti -. Quando vedo che qualcuno sta per gettare la spugna gli dico che rinunciare significa perdere già la partita. E intendo quella che si gioca tutti i giorni nelle strade, in un paese che non può cedere al ricatto del terrorismo. I programmi non devono cambiare».
   Nel gruppo dei 33 baby calciatori sbarcati a Roma c'è di tutto. Figli di avvocati e di disoccupati, bambini che parlano tre lingue e alcuni che non sanno scrivere il proprio nome. «La passione per lo sport li rende tutti uguali - continua Giannetti -. E attraverso il pallone passa il dialogo, l'aggregazione, al di là della diversità sociale e religiosa. In questi anni abbiamo strappato alcuni ragazzi alla strada: i loro genitori sono assenti, lavorano duro per garantire ai figli solo due pasti al giorno. Abbiamo preso quei ragazzi sotto la nostra ala indicandogli la strada da seguire». Ed è così che Amir, il ragazzino arabo che traduce le barzellette in tre lingue, vuole stare in camera con Israel e Dvir, ebrei israeliani, e Qais, palestinese. «Sono loro i miei amici, quando sono arrivato mi hanno aiutato ad inserirmi nel gruppo, dove non ci sono pregiudizi - dice Amir -. Conta solo come si gioca. Ma forse, al di là del campo di calcio, stiamo costruendo qualcos'altro».

(La Stampa, 9 maggio 2016)


Melanoma, intercettato il segnale che anticipa la trasformazione maligna

Finalmente una buona notizia in campo medico: un team di ricercatori israeliani di Tel Aviv, ha scoperto che con un mix di farmaci che già oggi sono presenti sul mercato farmacologico, s i può bloccare lo sviluppo del terribile tumore alla pelle, meglio noto come melanoma. Secondo i ricercatori con questi farmaci il tumore diverrebbe "non letale".
   A quanto pare, la ricerca è stata diretta da Carmit Levy della Sackler School of Medicine, grazie alla collaborazione dei ricercatori dell'Università di Tel Aviv, del Centro Medico Sheba, dell'Istituto Gustave Roussy e dell'Università di Gerusalemme. Levy ha spiegato che: "Per comprendere il melanoma abbiamo dovuto studiare approfonditamente la struttura e la funzione della pelle sana. Il melanoma è un tumore che ha origine nell'epidermide e, nella sua forma più aggressiva, invade il derma e gli strati sottostanti. Attraverso i vasi sanguigni e i linfonodi si diffonde a tutti gli altri organi, che vengono devastati dalle metastasi".
   Il ricercatore continua: "Doveva esserci qualcosa nel microambiente della pelle che permette alle cellule del melanoma di cambiare caratteristiche. Dovessi ragionare come fa un tumore mi domanderei il perché dover sprecare energia quando nel corpo ce n'è tanta a disposizione?".
   I ricercatori, dopo varie ricerche, hanno evidenziato che il tumore cresce e si diffonde al mutare del microambiente. Ecco le parole del responsabile: "Le normali cellule epidermiche non si spostano. Il melanoma invece prima si sposta verso gli strati superficiali della pelle e poi, solo in un secondo momento, invade gli strati inferiori. Potessimo riuscire a fermarlo quando si trova in superficie, prima della contaminazione dei vasi sanguigni, potremo fermare la progressione del tumore".
   Si ipotizza quindi che in futuro potrebbe essere una crema, quella che blocca la diffusione del tumore. Ecco la conclusione del dottore: "Siamo riusciti ad intercettare il segnale che precede la mutazione del melanoma. Ora dobbiamo soltanto comprendere come bloccare quel segnale. La cosa potrebbe sembrare complicata ma ci sono molti farmaci, già testati sull'uomo, che potrebbero interferire su quel segnale. In un futuro non troppo lontano potremo essere in grado di sviluppare una sorta di crema che funzionerà come una misura di prevenzione. Il melanoma è un tumore in genere lento. Se si riuscissero a sviluppare dei sistemi di analisi precoce potremo finalmente salvare migliaia di persone in tutto il mondo".
   Speriamo che il farmaco contro questo cancro sia presto disponibile.

(Newscronaca.it, 9 maggio 2016)


Una sinagoga a Ventimiglia

L'Associazione Italia Israele crea la comunità ebraica in provincia. Mariateresa Anfossi: "Una comunità ebrea nella nostra provincia ancora non esiste. Un luogo di culto ebraico è quindi un progetto rilevante per tutto il territorio ma anche per la vicina Francia".

di Silva Bos

Mariateresa Anfossi
VENTIMIGLIA - Contattare tutti gli ebrei che vivono da Ventimiglia ad Imperia per creare una comunità ebraica e aprire una sinagoga a Ventimiglia. Il forte appello arriva direttamente Mariateresa Anfossi, Presidente dell'Associazione Italia Israele, nata a Ventimiglia il 6 dicembre del 2014 nell'obiettivo di promuovere a ogni livello la realtà dello Stato d'Israele diffondendo amicizia e conoscenza.
"Una comunità ebrea nella nostra provincia ancora non esiste, la più vicina è a Genova. - spiega la Anfossi in un'intervista esclusiva rilasciata alla nostra redazione. - Attivarci per realizzare anche qui un luogo di culto ebraico è quindi un progetto rilevante per tutto il territorio ma anche per la vicina Francia". La costruzione, viene precisato, non comporterebbe alcun peso economico per la città poiché l'esborso sarebbe spalmato su tutti gli ebrei aderenti all'iniziativa.
   Il termine Sinagoga in ebraico si traduce con 'casa di riunione', ed è proprio quello che intende la Presidente: un posto dove 'ritrovarsi' e 'ritrovare' la propria e comune identità religiosa. Un'esigenza che, negli anni, ha visto sorgere in tutta Italia numerose sinagoghe a testimonianza di una presenza ebraica che risale all'epoca romana.
   La multicultura e la conseguente multireligiosità dettano ormai il passo di una società globale che cambia, che diventa sempre più crocevia di un pluralismo di etnie che, a parte alcuni casi dimostrati inaccettabili estremismi, ambiscono a vivere in pace nel rispetto delle proprie differenze. Un processo irrefrenabile che sta accadendo anche sulla nostra provincia; ne è esempio Sanremo che vede la presenza della Chiesa Valdese, dei Testimoni di Geova e della Luterana tedesca, passando per l'Avventista del 7o Giorno, la Rumena, la Chiesa Russa e, ultimamente, anche la Moschea.

(Riviera24, 9 maggio 2016)


La terra crolla attorno al terrorismo di Hamas

di Daniel Reichel

"Hamas sa che siamo sulle sue tracce", ha dichiarato recentemente il portavoce dell'esercito israeliano Peter Lerner, commentando la scoperta di un tunnel costruito dal gruppo terroristico per infiltrarsi dalla Striscia di Gaza in Israele. Poco dopo quest'ultima scoperta (il tunnel è stato distrutto ma non è chiaro se fosse nuovo o se sia stato ricostruito dopo l'operazione Zuk Eitan dell'estate del 2014), dalla Striscia sono partiti colpi di mortaio contro le forze di sicurezza israeliane. La risposta di Tzahal non si è fatta attendere ma secondo gli stessi vertici militari, Hamas si trova in difficoltà e non vuole in questo momento un'escalation di violenza. A sparare i razzi contro Israele non sarebbe stato il gruppo terroristico che controlla Gaza ma un movimento estremista minore. In ogni caso la situazione appare sotto controllo nel Sud, tanto che il Canale 10 ha riferito che gli agricoltori israeliani, a cui era stato impedito l'accesso ai campi nel raggio di un chilometro dalla Striscia per paura del fuoco dei cecchini, hanno avuto il via libera per tornarvi.
   Per Ron Ben-Yishai, analista militare di Yedioth Ahronoth, nella Striscia di Gaza, Hamas sta vivendo un dilemma: Tzahal ha trovato le contromisure ai suoi tunnel, asset considerato strategico dal gruppo, e gradualmente questi ultimi iniziano a crollare. Ora, spiega Ben-Yishai, i terroristi vorrebbero rispondere a Israele - da qui alcuni colpi esplosi contro il reparto che si occupa della distruzione delle gallerie - ma non hanno la forza militare per farlo dopo essere stati duramente colpiti durante l'operazione Zuk Eitan nel 2014. Inoltre, la popolazione di Gaza non potrebbe sopportare un nuovo conflitto, afferma la firma di Yedioth Ahronot secondo cui davanti a Hamas si potrebbe aprire una terza via, ovvero quella di trattare con Israele (le altre due sarebbero, attaccare Israele o non fare nulla in attesa di ricostruire le proprie infrastrutture).
   Domenica intanto è stato raggiunto un accordo generale tra Hamas e Israele per riportare la calma dopo le ultime tensione, un'intesa arrivata grazie alla mediazione da parte di soggetti internazionali. Gerusalemme ha accettato di far arretrare le sue forze militari nell'area di 100 metri lungo il confine e dentro al territorio di Gaza. In ogni caso, la distruzione dei tunnel è una priorità per cui le operazioni continueranno e questa zona cuscinetto potrebbe essere di nuovo varcata.

(moked, 8 maggio 2016)


Charles Aznavour: così salvammo tanti ebrei

Lo chansonnier rivela gli atti eroici dei genitori armeni: «Fino a 11 ricercati in casa nostra. Però mi duole che Israele invece non abbia mai riconosciuto il genocidio che ha subìto il mio popolo».

Charles Aznavour, 92 anni, di origini armene
Alcuni ebrei in fuga in una Parigi invasa dalle forze tedesche trovarono rifugio nel modesto appartamento di una famiglia di armeni, scampati a loro volta al primo genocidio del XX secolo. Quell'isola di sicurezza, sia pure precaria, si trovava nel rione Marais, dove ebrei ed armeni vivevano e lavoravano in buon vicinato. Là appunto abitavano gli Aznavourian - Micha il padre, Knar la madre - con due figli allora adolescenti: Aida e Charles, che in seguito avrebbe raggiunto celebrità mondiale come cantante e umanista. Ma che in tutte le biografie scritte su di lui finora ha sempre sorvolato sull'eroismo dei genitori. Solo adesso - all'età di 92 anni - ha raccontato assieme alla sorella Aida Aznavour-Garvarenz al ricercatore israeliano Yair Oron come i genitori si prodigarono per strappare armeni ed ebrei in fuga ai nazisti.
   La loro testimonianza è stata raccolta in un libro dal titolo Salvatori (Giusti) e Combattenti che uscirà questo mese in ebraico e che poi sarà tradotto in francese.
   In uno scambio di messaggi di posta elettronica con un giornalista di Haaretz, Aznavour ha spiegato che l'intreccio delle tragedie di ebrei ed armeni non deve stupire. «Veniamo dal medesimo dolore e dalla stessa sofferenza. Se non ci fosse stato il genocidio degli armeni negli anni 1915-18 non sarebbe stato possibile lo sterminio degli ebrei nella Shoah».
   Dopo aver perso in Armenia gran parte dei loro familiari diretti, gli Aznavourian avevano aperto una nuova pagina a Parigi. Con l'invasione tedesca non temettero per la propria incolumità perché, fu loro spiegato, agli occhi dei tedeschi gli armeni erano ariani. Ma a causa delle loro biografie personali non rimasero insensibili nel vedere ebrei e militanti armeni antifascisti costretti alla clandestinità. Con grande coraggio furono in grado di procurare loro documenti falsi e anche quando possibile offrire ospitalità nel loro appartamento, che aveva solo tre stanze. In un certo momento in casa c'erano fino a undici ricercati, consci peraltro del rischio della presenza di una vicina che ogni tanto faceva visita e che aveva reputazione di essere una ammiratrice di Hitler. A Haaretz Aznavour ha detto di non essere mai riuscito a sapere, dopo la guerra, se gli ebrei ospitati dai genitori si fossero salvati. Dopo un concerto a New York uno spettatore gli si avvicinò e gli parlò brevemente di un cugino «salvato dai suoi genitori», ma senza fornire ulteriori dettagli.
   «Sono molto fiero della nostra vicenda familiare, - ha detto Aznavour al giornale - della nobiltà e della bellezza umana di quei salvataggi. Non c'è niente che mi rende più felice del fatto che i miei cari genitori abbiano salvato esseri umani».
   Il grandissimo artista, che per decenni ha dominato anche la scena musicale italiana, ha aggiunto tuttavia di avere una amarezza: «Mi duole molto - ha precisato - che Israele non abbia riconosciuto il genocidio degli armeni, visto che quello fu il modello a cui i nazisti ricorsero per compiere il genocidio degli ebrei».

(La Gazzetta del Mezzogiorno, 8 maggio 2016)


Dimmi che kippah indossi e ti dirò chi sei

di Ada Treves

 
Si dice comunemente che l'abito non fa il monaco, ed è sicuramente vero che non è mai bene essere frettolosi nel giudicare le persone da quello che indossano, ma se ci si trova in Israele un'occhiata alla kippah del proprio interlocutore può effettivamente svelare parecchio. L'identificazione in un gruppo ma anche molto probabilmente opinioni politiche e posizione su questioni che da tempo sono entrate nel dibattito pubblico. Non è una novità, indossarne una in velluto nero non è la stessa cosa che avere in testa una kippah colorata fatta all'uncinetto, è così la scelta di se e cosa portare sul capo diventa un interessante indicatore delle varie anime di Israele. Al punto da interessare il Pew Research Center, l'istituto indipendente di ricerca basato a Washington che ha da poco reso pubblici i risultati di una grande ricerca sulle identità degli israeliani intitolata "Israel's Religiously Divided Society" condotta fra l'ottobre 2014 e il maggio 2015 su un campione composto da 5601 israeliani. Sono diverse infatti le risposte che i ricercatori hanno incrociato con i dati sul tipo di kippah indossata dalle persone contattate (ebrei maschi). Agli intervistati sono state mostrate delle immagini corrispondenti a un ventaglio di tipi di copricapo diversi. Alla domanda "Che tipo di copricapo usi abitualmente in pubblico, se lo usi?" le risposte possibili erano infatti ben dodici, da "grande, nera, non fatta all'uncinetto" a "fatta all'uncinetto con dei disegni", passando per lo shtreimel, il capello bordato di pelliccia dei chassidim e arrivando al capo scoperto. I dati, scomposti per appartenenza religiosa, età, livello di istruzione, origine ashkenazita o sefardita e luogo di residenza, associati poi alle altre risposte, hanno permesso ai ricercatori del Pew di avere un quadro complessivo chiaro di cosa si può dedurre vedendo indossare l'una o l'altra kippah. Innanzitutto: a indossare regolarmente un copricapo in pubblico è il 36 per cento della popolazione (maschi, ebrei): a capo scoperto non vanno mai i haredì (ultraortodossi), mentre lo sono praticamente sempre sempre gli hilonì (laici), solo il tre per cento dei datì (religioni) e il 57 per cento dei masortì (tradizionali). Molto semplice associare alle kippot la posizione politica: il 56 per cento di coloro che l'indossano grande, nera e di tessuto (il 58% dei haredì contro il 17 % dei datì e il 25% dei masortì) si ritengono di destra mentre il 41 per cento vota al centro. Il 47 per cento dei datì, contro il 27 per cento dei haredì e il 26 per cento dei masortì indossa una kippah piccola e nera, non fatta all'uncinetto. Fra di loro il 65 % vota al centro, contro un 35% che invece vota a destra. Suddivisi in maniera più equa fra masortì e datì coloro che usano l'ormai famosa kippah srugà, fatta all'uncinetto ma non nera - 54 % datì e 46 % masortì): poco meno del 60 per cento di chi la indossa si colloca a destra dello spettro politico, mentre se la kippah è fatta all'uncinetto ma è nera molto probabilmente a indossarla è un masortì, (59 %) mentre la componente datì si attesta al 28 per cento e i haredì al 14 per cento. Riassumendo, la kippah nera all'uncinetto è quella che corrisponde maggiormente a un'identificazione a destra nello spettro politico.
   In sostanza la grande maggioranza dei haredì e dei datì porta il capo coperto (alcuni haredì in pubblico preferiscono il cappello bordato di pelliccia o simile a un borsalino nero) mentre i masortì sono più divisi, con un 57 per cento di rispondenti che gira a capo scoperto. Indossare una kippah nella vita quotidiana è un atto con cui si afferma la propria identità religiosa, mentre il tipo, come risulta dai dati del Pew Research Center, appare come un'indicazione abbastanza forte delle proprie idee. Per esempio parlare della citata kippah srugà (fatta all'uncinetto, di solito non nera) significa in Israele fare riferimento ai sionisti religiosi. E i dati lo confermano: tra gli uomini che portano una kippah colorata fatta all'uncinetto ben il 63 per cento afferma di sentirsi descritta molto accuratamente dal termine "sionista", che invece non sentono come una descrizione accurata il 58 per cento di coloro che portano una kippah nera, grande e di tessuto (che in genere sono haredim). Il primo gruppo, inoltre, (le kippot srugot) ha una visione piuttosto chiara rispetto alla domanda più controversa del report: il 65 per cento si dice infatti d'accordo rispetto alla frase "Gli arabi dovrebbero essere espulsi o trasferiti al di fuori di Israele". Sono gli stessi che in grande maggioranza esprimono profondo scetticismo su una possibile coesistenza pacifica fra Israele e uno Stato palestinese ( il 75 per cento afferma che non è possibile).
   Dall'ideologia politica alle scelte sull'identità religiosa, molto può dire dunque una kippah, e che viene mostrato chiaramente dal lavoro dei ricercatori del Pew, ed è utile tenerne conto ma a patto - come per gli abiti del monaco - di non precipitarsi a giudicare.

(moked, 8 maggio 2016)


Lamezia, nel cimitero di Nicastro tomba ebrea sfregiata con vernice

Una tomba come altre, forse qualcosa di leggermente diverso. Una tomba con la stella di Davide, una tomba di una famiglia ebrea nel nostro cimitero di Nicastro, luogo dove le anime ed i corpi riposano in pace o dovrebbero riposare in pace.
Eppure qualcuno ha voluto macchiare quel simbolo, la croce e alcuni colombai di questa Cappella della famiglia Aliberti, che fu un prestigioso notaio e uomo di cultura della città di Nicastro.
Non sappiamo se per offesa, per sbaglio, per violenza, per cecità ideologica o religiosa.
Eppure gli ebrei sono parte della nostra storia e della nostra cultura, infatti abbiamo la stessa radice giudico cristiana, loro un popolo che ha già sofferto molto.
Le nostre foto mettono in evidenza lo sfregio del colore in parte cancellato, in parte ancora visibile.
Certo il cimitero è un luogo simbolico di riposo e meriterebbe una cura maggiore da parte di chi deve provvedere alla pulizia e alla protezione. L'erba andrebbe curata meglio ed i vandali tenuti lontani da questo luogo, che ci rimanda all'oltre, al divino, al paradiso, al purgatorio e forse anche all'inferno.
Ovviamente per chi crede in una nuova vita dopo la morte, ma anche chi non crede, forse vive un profondo rispetto per le tombe e per i resti umani che contengono. Un luogo che segna il passaggio, meriterebbe maggiore cura e maggiore tutela. Ai presenti il compito del rispetto verso tutti e verso tutte le religioni e verso tutte le tombe ed i simboli.

(Lamezia Live, 8 maggio 2016)


Ida Magli, l'antidoto al conformismo sull'Europa (e altro)

L'Unione è una fede e i media ogni giorno recitano il «credo». Quanto ci manca la studiosa che nel '97 già criticava Bruxelles ...


Unione Europea
Una finzione anti- storica imposta ai popoli
Omologazione
La distruzione dei confini cancella l'iden- tità delle Nazioni
Politicamente corretto
Un'autentica forma di lavaggio del cervello


I giornali, soprattutto quelli che rivendicano l'oggettività, traboccano di cronache sbilanciate in tema di Europa. Tonnellate di articoli deprecano qualunque fatto o persona o movimento metta in discussione, anche alla lontana, l'Unione europea. La fiducia sconfina nella fede e i media recitano il «credo». Anche se cresce la sensazione che i trattati siano stati una fregatura: non ci sentiamo tutti più poveri, meno liberi e meno sicuri? Non importa. Chi disapprova le politiche sull'immigrazione è sospettato di razzismo e xenofobia. Chi vorrebbe dire addio a Bruxelles è un populista. Chi segnala il deficit di democrazia nelle istituzioni comunitarie fa il gioco degli (s )fascisti. Insomma: su questo argomento, come su quello correlato dell'accoglienza indiscriminata il dibattito è sgradito.
  Per questo, si sente la mancanza di una libera pensatrice come Ida Magli, morta lo scorso 21 febbraio a 91 anni. L'antropologa aveva iniziato una solitaria battaglia contro l'Unione europea negli anni Novanta, dopo avere studiato il Trattato di Maastricht, firmatonel 1992 dai Paesi aderenti all'unione, tra cui l'Italia. Alla grande antropologa, l'Europa unita sembrava andare in direzione opposta alla storia, soprattutto nel caso dell'Italia, uno Stato ancora giovane, eppure già pronto a rinunciare alla sovranità. Inoltre, osservava la Magli, nel Trattato non c'è spazio alcuno per i popoli ma solo per l'economia. I tecnocrati della finanzae del sistema bancario sono i detentori del potere assoluto perché il Parlamento europeo è irrilevante nella sostanza. Il buon proposito è la pace universale, sulla scia di Kant ma senza tenere conto della realtà. L'obiettivo vero è l'allargamento (non la libertà) dei mercati, finoalla mondializzazione. Il passaggio obbligatorio è l'omologazione dei cittadini in una società di uguali. Ma si può essere uguali anche nella schiavitù ... Si legge in un intervento su Panorama nel 2011 in cui la Magli sintetizzava le sue tesi: «Per creare l'entità politica cui è stato imposto il nome di "Unione europea", i governanti hanno dovuto capovolgere la realtà storica mettendo in atto una finzione che passa sopra la testa dei popoli. Una finzione però contemporaneamente smentita dalla necessità di ammettere venticinque lingue diverse come lingue ufficiali dell'Unione. È evidente che laddove non esiste una lingua, non esiste né un popolo né una cultura». E ancora: «Lo scopo dell'operazione "Unione europea" è proprio quello di distruggere la peculiarità delle singole Nazioni e l'identità dei popoli, obbligando li a omologarsi con l'eliminazione dei confini territoriali e con l'imposizione di una "cittadinanza" che, oltre a non rispondere ai contenuti psicologici e affettivi del concetto di "patria" da cui nasce la cittadinanza, è di per sé invalida dato che l'Unione europea non è uno "Stato"». Uguaglianza, dunque. Peccato che la ricchezza dell'Europa sia «proprio quella di possedere al suo interno, formatesi durante un lunghissimo processo storico, in base a scambi, conflitti, invasioni, rivoluzioni, espressioni artistiche diversissime fra loro». Il risultato di quest'opera di ingegneria sociale, cui è funzionale anche l'immigrazione di massa, sarà tragico: «Una rapida agonia culturale, e a poco a poco la sparizione anche fisica di francesi, inglesi, tedeschi, italiani così come di tutti gli altri popoli. Resi debolissimi dalla decomposizione delle Nazioni, perseguita ad hoc dall'Unione europea, saranno presto sopraffatti dalle immigrazioni delle popolazioni africane le quali non hanno bisogno di diventare numericamente maggioranza per dominare coloro che sono stati allenati al pacifismo, alla tolleranza, al rispetto delle diversità, alla rinuncia a qualsiasi giudizio tramite la dispotica censura del "politicamente corretto"» (cito ancora da Panorama). Il tema dell'immigrazione, in particolare dai Paesi musulmani, fu affrontato dalla Magli nel 1996, quando uscì il libro-intervista Per una rivoluzione italiana a cura di Giordano Bruno Guerri. «È indispensabile una legislazione rigida per fare in modo che almeno non ne arrivino troppi. Ripeto: gli islamici sono una popolazione forte, con una religione forte, non possono in alcun modo essere integrati nel nostro contesto (come in nessun altro contesto: vedi l' esempio francese), anche se lo volessero, ma naturalmente non lo vogliono. L'integrazione è impossibile già al livello, che sarebbe indispensabile, delle leggi: perché il Corano è un codice sia civile sia religioso». Il prezzo della mancata integrazione, scriveva la Magli sul Giornale nel 2014, lo pagheranno le donne: «Da quanto abbiamo detto sullo statuto delle donne nell'islamismo è facile comprendere come questo rappresenti uno dei pericoli maggiori di disintegrazione per il tessuto della società italiana». Difficile non pensare al capodanno con molestie di Colonia.
  Queste idee furono portate all' estremo in pamphlet come Dopo l'Occidente, La dittatura europea o Difendere l'Italia. In quest'ultimo leggiamo:
    «L'uguaglianza finale non sarà soltanto quella delle idee, della lingua, della religione, della Patria, ma anche fisica. L'uguaglianza che si persegue, però, è il più possibile "indistinta", di cui il modello è il "trans", Si tratta, dunque, di preparare i giovani a non appartenere a nulla, a non identificarsi in nulla, a non sapere orientarsi sessualmente ma anche geograficamente, come è stato affermato con semplicità eliminando la geografia dagli insegnamenti scolastici: a che servirebbe visto che il pianeta appartiene a tutti?», Strumento per realizzare l'omologazione è il politicamente corretto, di cui la Magli dà una interpretazione originale: «La forma più radicale di "lavaggio del cervello" che i governanti abbiano mai imposto ai propri sudditi. La corrispondenza pensiero-linguaggio è infatti praticamente automatica. (...) Non sappiamo chi sia stato a ideare un tale strumento di potere per dominare gli uomini e indurii a comportarsi secondo la volontà dei governanti, un' evoluzione terrificante di quella che un tempo si chiamava "censura". Terrificante soprattutto perché la censura non è più visibile come tale, nessuno ne è più consapevole: è stata introiettata».
   Sono tesi radicali ma franche e controcorrente, come quelle di un'altra grande italiana del Novecento (e oltre): Oriana Fallaci. Non sarebbe il caso di parlarne?

(Giornale Controcultura, 8 maggio 2016)


Speranza ebraica

di Giulio Busi

Amiche-nemiche come lo sono notte e giorno, speranza e disperazione si contendono i cuori e le menti. Calore che rincuora è la speranza, umido manto di buio è la sua sorella germana, la disperazione. Yosef Hayyim Yerushalmi, il grande maestro scomparso nel 2009, si è chiesto perché l'ebraismo, nutrito di esilio e di sconfitte, abbia sperato per millenni. Se lo è domandato da storico, quale era, e non da teologo. Nelle lunga durata dello sperare di Israele, la fede è ingrediente importante, certo, ma non unico. Yerushalmi ha raccolto le prove documentarie di una speranza che entra in conflitto col divino, di un perdurare nell'attesa nonostante e al di là di Dio stesso. «Non esiste nessuno come Te fra i silenziosi, muto e costantemente silenzioso verso chi ci tormenta». Così si rivolge al Signore un poeta liturgico, ai tempi dei massacri di ebrei che accompagnano la prima crociata. Iddio è il Grande Silenzioso, che distoglie lo sguardo. Come sperare? Un altro poeta, davanti all'espulsione dalla Spagna, scrive: «Dal Dio della Compassione è venuto l'ordine di distruggere, uccidere, annientare l'intera casa d'Israele». E, si badi, il periplo nel negativo non si avvale della testimonianza di atei, miscredenti, eretici. Sono gli uomini di religione a dubitare, vacillare, disperare. Il contributo fondamentale di Yerushalmi a questa storia della speranza, ancora tutta da scrivere, è l'averla posta sotto il segno del "nonostante". Nonostante lo sconforto, a dispetto delle persecuzioni, sebbene la sopravvivenza del gruppo sia minacciata, il singolo spera in Israele. "In" vale qui sia l'oggetto della speranza sia il suo luogo. L'identità collettiva, l'esistere assieme sono alfa e omega dell'attesa e della fiducia. Poiché dispera collettivamente, di se stesso come popolo e del proprio futuro, Israele può anche sperare di sé, per sé.
Riuscite a immaginare una notte senza giorno? Se non ce la fate, pensate alla speranza ebraica, fuoco che dura di generazione in generazione. Nonostante tutto.


Yosef Hayyim Yerushalmi, Verso una storia della speranza ebraica, Traduzione di Paola Buscaglione Candela, introduzione di David Bidussa, Giuntina, Firenze, pagg. 85, € 10.

(Il Sole 24 Ore, 8 maggio 2016)


A Verona il murale sul Bartali che salvò gli ebrei

Domenica 8 maggio artisti di strada al lavoro su 400 metri quadri di superficie per ricordare il campione toscano e quanto fece durante la Seconda guerra mondiale.

 
Il muro di Gino Bartali pronto per il lavoro degli artisti l'8 maggio
Un Ginettaccio gigante, alto oltre 5 metri. È quello che farà compagnia a chi, a Verona, passerà per il percorso ciclopedonale dedicato proprio a lui, Gino Bartali. Il 5 maggio sono stati ricordati i 16 anni dalla sua scomparsa. Domenica 8 maggio il campione toscano viene celebrato su un muro della città veneta tra via Badile e via Pisano con un murale realizzato da una decina di artisti di strada provenienti dal nord Italia, da Torino a Treviso.

 Dai cittadini
  "I cittadini hanno proposto l'intitolazione e la ditta Siof che produce pigmenti ha offerto il suo muro che si trova nelle vicinanze del cimitero ebraico", spiega Pier Paolo Spinazzè, in arte ILPIER ("tutto alto") che ha realizzato alcune figure del murale ampio circa 400 metri quadri. Che, appunto domenica 8, viene ultimato da altri artisti di strada, tra cui Michele De Mori. L'opera, data anche la vicinanza proprio con il cimitero ebraico monumentale, riporta a quanto fatto da Bartali nella Seconda guerra mondiale che gli è valso nel 2006 la medaglia d'oro al Valore Civile, assegnata da Carlo Azeglio Ciampi, per aver salvato "circa ottocento cittadini ebrei". La cerimonia di intitolazione è fissata alle 10.30.

 Contenuti
  Tra le altre figure che compongono il murale, oltre a quella di Bartali, ci sono la medaglia d'oro, la maglia rosa (Bartali ha vinto il Giro d'Italia tre volte nel 1936, 1937 e 1946), una borraccia, un caschetto di pelle, la gabbia di un pedale.

(La Gazzetta dello Sport, 7 maggio 2016)


Sportinfiore, debutta il MamaNet: una nuova disciplina proveniente da Israele

Sabato mattina ha fatto il suo debutto anche il MamaNet, una disciplina sportiva proveniente da Israele e riservata esclusivamente alle mamme.

E' in pieno svolgimento a Riccione e Misano Adriatico la 22esima edizione di Sportinfiore, la manifestazione nazionale di Aics Associazione Italiana Cultura Sport che ha richiamato circa 2mila partecipanti provenienti da tutta Italia tra atleti, tecnici ed accompagnatori. Dopo le prime gare e la serata di ieri, che ha visto le esibizioni del Centro Danza Rimini "Le Sirene Danzanti" e la premiazione di numerosi campioni nazionali di danze folk, il programma odierno rimette al centro lo sport, con lo svolgimento dei Campionati Nazionali Aics di nuoto, judo e bocce: tanti gli incontri in programma, tutti aperti al pubblico e ad ingresso gratuito, ospitati fino alla giornata di domenica, negli impianti sportivi del territorio, dallo Stadio del Nuoto di Riccione al Palasport Rossini di Misano Adriatico.

(Rimini Today, 7 maggio 2016)


Il grande miracolo

Riprendiamo da Pagine Ebraiche questa interessante riflessione su lo Yom ha-'Atzmaut, l'anniversario dell'indipendenza israeliana che sarà festeggiato in Israele fra pochi giorni. L'avvenimento ricordato è indubbiamente politico, perché rappresenta il successo di un sionismo laico che in quel tempo s'interessava ben poco di religione e religiosità. Ed ecco allora la domanda: di questo fatto essenzialmente storico-politico è lecito farne anche un momento religioso? Risponde il rabbino Somekh. NsI

di Rav Alberto Moshe Somekh

 
 
Paradossalmente una rara occasione di incontro ideologico fra haredim
religiosi
e laici è data proprio dalla considerazione per lo Yom ha-'Atzmaut, l'anniversario dell'indipendenza dello Stato d'Israele. Lo scorso anno i miei allievi di Milano, tutti di stretta osservanza, mi domandarono se vi avrei o meno recitato i Tachanunim, le preghiere penitenziali come in un qualsiasi giorno feriale. Sotto i loro sguardi attoniti risposi che non solo non l'avrei fatto, ma avrei aggiunto i salmi del Hallel
Salmi di lode 113-117
come nelle feste, sia pure senza la relativa benedizione e soggiunsi che c'è nel mondo nazional-religioso anche chi dice la benedizione. Rientrato a Torino in un ambiente di orientamento completamente diverso mi fu chiesto all'improvviso: "Perché voi religiosi vi siete impossessati di Yom ha-'Atzmaut, che è una festa laica!" Insomma, su un punto tutti i miei interlocutori concordavano: Yom ha'Atzmaut non ha alcuna valenza halakhica
religiosamente normativa
. Entrambi sono kefuyyè tovah, "ingrati"! Non affronto qui una discussione approfondita sull'ebraismo "laico". Mi basti dire che parlando delle sciagure Maimonide, il grande razionalista, ci invita a non affidarle al caso, bensì a interpretarle come un monito da parte di H.
HaShem, il Nome (di Dio)
sul male da noi compiuto e come uno sprone a fare Teshuva
Pentimento
. Per questo i nostri Maestri istituiscono digiuni in occasione di disgrazie. Se così commemoriamo le ricorrenze tristi, tanto più dobbiamo festeggiare le occasioni liete come un atto di gratitudine al S.B.
Santo Benedetto
per i benefici che ci ha elargito. Va da sé che chi è credente e osservante vede nei passi della Storia, buoni o cattivi che siano, il segno di una Mano più grande che opera nell'interesse del Bene. Il fatto che talvolta Egli si serva di persone molto lontane da Lui per portare avanti i Suoi progetti, non è sufficiente a negare valore religioso alle Sue azioni: si pensi agli Assiro-Babilonesi, definiti dai Profeti shevet appì ("bastone dell'ira" del Santo Benedetto: Yesha'yahu
Isaia
10,5) in quanto investiti da H. di una missione punitiva nei confronti dell'antico Israele; in modo uguale e contrario gli stessi fautori "laici" del sionismo moderno hanno realizzato un sogno carico di significato religioso, sia pure senza riconoscerlo e senza essere riconosciuti!
   È quel sogno di cui oggi beneficiano largamente anche gli ortodossi. Quando venticinque anni or sono studiavo alla Yeshiva University di New York, ricordo che l'insegnante ottantenne, reduce dalle Yeshivot lituane dell'anteguerra spazzate via dal nazismo, interruppe un giorno la lezione di Talmud per esclamare:
   "Ai miei tempi non si studiava Torah: oggi sì che si studia Torah!" Quanto sono ancor più vere quelle parole oggi, un quarto di secolo dopo! Questa fioritura degli studi ebraici senza precedenti non sarebbe stata pensabile senza la Medinat lsrael
Stato d'Israele
, che torna dopo secoli a essere a tutti gli effetti il centro intellettuale e spirituale di tutto il popolo ebraico. Ecco che la fondazione dello Stato rivela sempre più il proprio carattere ruchanì
spirituale
. Perché non ringraziare il S.B. di un simile miracolo? Accennavo al fatto che i nostri Maestri hanno stabilito la recitazione del Hallel in giornate segnalate come forma di ringraziamento per i miracoli di cui abbiamo beneficiato da parte di H. Le più antiche attestazioni sono in alcuni Yamim Tovim
giorni buoni
indicati nella Torah: Pessach, Shavu'ot e Sukkot. Essi ricordano rispettivamente l'Uscita dall'Egitto, il Dono della Torah e la protezione accordataci durante i quarant'anni trascorsi nel deserto. Ma non solo. Recitiamo il Hallel con la relativa Berakhah
Benedizione
anche negli otto giorni di Chanukkah per commemorare gli eventi dei Chashmonaim: questa è una dimostrazione del fatto che la Halakhah ha saputo rinnovarsi in epoca post-biblica. Spiega infatti il Talmud (pessachim 117a) che "i Profeti stabilirono che il Hallel fosse recitato dopo la liberazione da qualsiasi sciagura" anche recente. Ne consegue che la recitazione dello Hallel è parimenti giustificata per lo Yom ha-'Atzmaut, che segna la proclamazione della nostra indipendenza nazionale dopo duemila anni di esilio e persecuzioni.
   Rimane materia di discussione se lo Hallel di Yom ha-'Atzmaut debba essere accompagnato dalla relativa Berakhah o meno. Chi esprime cautela si basa su diverse valutazioni. Le principali sono le due seguenti: 1) La proclamazione dello Stato d'Israele non ha segnato l'inizio di un'epoca di tranquillità. Al contrario: sono cominciate le guerre e il terrorismo. Vero. Ma anche per questo aspetto è istruttivo l'illustre precedente di Chanukkah. In quel caso il Hallel fu istituito sì dopo la prima vittoria, quella che portò alla liberazione di Yerushalaim dai Greci, sebbene questa sia stata seguita da una lunga fase di guerre in alcuni casi persino intestine. Nonostante ciò il Hallel di Chanukkah con la Berakhah è stato accettato come un obbligo fino a oggi. 2) Il Chidà (Resp. Chayim Shaal, 2,11) scrive che si può recitare la Berakhah sul Hallel solo se il miracolo riguarda tutta la collettività d'Israele. Finora la popolazione ebraica residente nella Terra dei Padri non raggiungeva il 50% del totale mondiale e questo ha rappresentato indubbiamente una difficoltà. Ma sappiamo che il momento del "sorpasso" è ormai vicino. Nel momento in cui la maggioranza degli Ebrei del mondo vivrà in Israele potremo affermare secondo la Halakhah che "la maggioranza equivale alla totalità" (rubbò ke-khullò) e verrà a cadere il principale motivo ostativo affinché Yom ha-'Atzmaut possa essere accolto fra le grandi festività del popolo d'Israele a pieno titolo.

(Pagine Ebraiche, maggio 2016)


Tappeto rosso a Cannes per il film che esalta i terroristi di Monaco '72

Le famiglie degli atleti israeliani boicottano la pellicola

di Giulio Meotti

 
Il regista Narsi Hajjaj con il terrorista Yasser Arafat
ROMA - Settembre 1972, villaggio olimpico di Monaco di Baviera, "blocco 31". Alcuni degli atleti israeliani erano sopravvissuti all'Olocausto. I terroristi palestinesi di Settembre nero che li presero in ostaggio chiedevano la liberazione di 234 terroristi detenuti nelle carceri israeliane. Ma Settembre nero non cercava lo scambio o la trattativa, cercava l'uccisione degli ebrei. Volevano i giovani rappresentanti del popolo israeliano ospitati dalla nazione che un tempo ne pianificò l'Olocausto (il villaggio olimpico si trovava a pochi chilometri da Dachau). Fu un sussulto spettacolare della guerra del movimento islamista per spazzare via Israele dalla faccia della terra. Furono i primi ebrei uccisi in quanto ebrei in Germania dopo il 1945.
   La prossima settimana il Festival del Cinema di Cannes stenderà un tappeto rosso a "Munich: A Palestinian Story", il film del regista libanese di origine palestinese Narsi Hajjaj. Ilana Romano, vedova del sollevatore di pesi Yossef Romano, assassinato nel massacro delle Olimpiadi di Monaco del 1972, ha rifiutato di collaborare a questa pellicola perché il regista ha insistito nel definire "combattenti per la libertà" i terroristi di Settembre nero che uccisero suo marito, mentre gli israeliani assassinati sono "i rappresentanti di un paese occupante".
   L'anno scorso, il regista Hajjaj aveva chiesto alla signora Romano di prendere parte al documentario per aiutarlo a presentare la versione israeliana. La vedova aveva posto come condizione che il regista definisse "terroristi" e non "combattenti per la libertà" gli assassini degli atleti israeliani. Hajjaj, cresciuto nel campo profughi di Ain al Hilweh in Libano e laureato all'Università di Middlesex a Londra, ha rifiutato. "Otto combattenti per la libertà palestinesi hanno attaccato il villaggio olimpico di Monaco di Baviera e hanno preso undici atleti israeliani in ostaggio", recita la brochure del film. Un anno fa è emerso che almeno uno degli atleti, Yossef Romano, venne castrato dai sequestratori palestinesi sotto gli occhi dei suoi compagni. "I terroristi hanno sempre sostenuto di voler solo liberare i loro compagni dalle celle in Israele", osserva Anide Spitzer. "Ma, evidentemente, non venivano in pace".
   Per il regista Hajjaj, la strage di Monaco non sarebbe un atto terroristico, ma un "incidente internazionale". Ancora meglio. Sul sito web del Fondo arabo per i Beni e le attività culturali, che ha finanziato il film, si legge che "tutto è finito quando le forze di sicurezza tedesche hanno fatto irruzione, uccidendo cinque palestinesi e undici israeliani". Si chiama negazionismo. Secondo Hajjaj, gli eventi saranno visti attraverso gli occhi degli ultimi due "fedayeen" (in arabo martiri), che hanno preso parte all'operazione e che sono ancora vivi. Clamoroso e deplorevole che il Festival di Cannes abbia accettato di ospitare e commercializzare il film.
   A questo punto si potrebbe suggerire di inserire nella giuria di Cannes Jean-Luc Godard, Oscar alla carriera, ammirato autore della Nouvelle Vague, che in una intervista del 1991 a Liberation definl Israele "un cancro sulla mappa del medio oriente" e che nel documentario del 1976 "Ici et Ailleurs" mette a raffronto le vite di due famiglie, una palestinese e l'altra francese, alternando immagini di Hitler e del premier israeliano Golda Meir, come due tiranni opposti. Nello stesso documentario, Godard parla così del massacro degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco nel 1972: "Prima di ogni finale olimpica dovrebbe essere diffusa una immagine dei campi profughi palestinesi". E' quello che avverrà la prossima settimana sulla leggendaria montée des marches di Cannes.

(Il Foglio, 7 maggio 2016)


Fa causa a... Dio per "maltrattamenti"

La surreale vicenda finisce davanti a un giudice israeliano

"Per tre anni mi ha trattato male ed è stato cattivo con me".
Con questa motivazione un uomo ha deciso di fare causa a... Dio.
L'incredibile vicenda è avvenuta in Israele e, ovviamente, è stata ripresa da numerosi giornali, locali e internazionali.
Secondo quanto riferito dal Times of Israel, che cita il sito di news Walla, l'uomo, di cui non sono state diffuse le generalità, ha presentato denuncia al tribunale della città di Haifa.
E il giudice ha deciso, altra cosa surreale, di chiamarlo in udienza per sentire le sue ragioni.
Al magistrato l'uomo ha spiegato che diverse volte l'Onnipotente avrebbe avuto nei suoi confronti un "comportamento negativo", anche se ulteriori dettagli non sono trapelati. Di certo si sa che l'uomo ha preteso l'emissione di un'ordinanza restrittiva che obbligasse Dio a stargli lontano.
Dal canto proprio, il giudice, Ahsan Canaan, dopo aver pazientemente ascoltato le rimostranze del querelante, le ha bollate come "ridicole", affermando di non avere il potere di fare nulla.
L'Onnipotente invece, come ha sagacemente commentato l'editorialista del Times of Israel Stuart Winer, ha deciso di avvalersi della facoltà di restare in silenzio.

(L’Unione Sarda, 6 maggio 2016)


Cinema israeliano, ciak sulla società

La rassegna da oggi all'Oberdan

di Silvio Danese

MILANO - L'impressione che "Rabin", l'ultimo film di Amos Gitai, presentato a Venezia l'anno scorso, sia il migliore dei film israeliani della scorsa stagione potrebbe essere smentita proprio da qualche sorpresa tra gli inediti della nona edizione della rassegna Nuovo Cinema Israeliano, a cura di Nanette Hayon e Paola Mortara della Fondazione CDEC, con Dan Muggia (per Israele) e Ariela Piattelli (per l'Italia), in cartellone all'Oberdan (da oggi all'11). Conosciamo ormai, anche grazie a questa puntuale manifestazione, la qualità e la varietà di una cinematografia capace di sorprenderei con titoli memorabili, come "Valzer con Bashir" (2008), "Il giardino dei limoni" (2006), "Lebanon" (2009), "La sposa promessa" (2012) o "Viviane" (2014), presentati e premiati a diversi festival internazionali.
   Ma è più a fondo che emergono autori e temi capaci sempre più, nel corso degli anni, di rispecchiare una società che, in contraddizione tra modernità e tradizione, è sempre in movimento, e in fondo, come si vede dai temi dei film, spesso vicina alle nostre preoccupazioni, alle nostre sensibilità. Divisa in modo netto tra commedie, drammi e documentari, la rassegna 2016 apre con "Zero Motivation", un esordio: Taliya Lavie ha ottenuto un enorme successo in Israele raccontando la vita militare femminile a partire dalla constatazione che in una base militare nel deserto le "missioni" di giovani soldatesse dell'esercito israeliano consistono nel servire caffè agli ufficiali uomini ... "The Farewell Party", diretto da Sharon Maymon e Tal Granit, è invece una commedia nera sull'eutanasia, mentre "Kicking out Shoshana" di Shay Kanot, viene presentata come "commedia brillante" di costume, fucile puntato su agenti sportivi, paparazzi, ebrei ultraortodossi, travestiti, drag queen, omofobi per indagare un mix sociale nel segno di una nuova tolleranza. Nei tre titoli più impegnati, si spendono domande sulla religione e l'educazione: "The Kindergarten Teacher" di Nadav Lapid, segnalato come uno dei più interessanti nella produzione della scorsa stagione, segue l'evoluzione di un bambino "poeta", sostenuto con sincera passione dalla sua insegnante, costretto però a difendersi per riconquistare la sua infanzia. "Vice Versa" di Amichai Greenberg è un melodramma da un racconto di Yehoshua Greenberg: un rapporto innocente tra un giovane studente ortodosso di Yeshiva (scuola di studi ebraici) e una ragazza di diciotto anni affetta da un tumore diventa man mano più intimo, fino a trascendere le regole della religione e della società "Mountain" di Yaelle Kayam, un'altra cineasta esordiente, racconta di una madre di famiglia che, insieme con il marito, insegnante ortodosso, vive al cimitero sul Monte degli Ulivi, luogo che di notte si trasforma in un mercato del sesso.
   Tra i film della sezione documentari, uno, "Hotline", di Silvina Landsmann, cronaca delle attività di una Ong dentro le dinamiche burocratiche affrontate oggi dai rifugiati, l'altro "Rinascere in Puglia", di Yael Katzir su un gruppo di donne israeliane ricondotte nei luoghi dove furono accolte le loro famiglie dopo la guerra, prima di salpare per Israele, spicca "Il Ghetto di Venezia, 500 Anni di Vita di Emanuela Giordano".

(Il Giorno, 7 maggio 2016)


Siena - Martedì 10 maggio doppio appuntamento con la musica del Franci

Alle ore 18 in istituto concerto per i 68 anni dalla Fondazione dello Stato d'Israele. Alle ore 19 appuntamento con "I concerti delle 7" in Sala Rosa.

SIENA - Martedì 10 maggio doppio appuntamento con la musica del Franci. Alle ore 18 l'auditorium dell'istituto senese ospita il concerto dedicato al Yom Azmauth per la ricorrenza dei 68 anni dalla Fondazione dello Stato d'Israele. Il programma della serata, organizzata in collaborazione con l'Associazione Italia-Israele di Siena Onlus, propone brani di Johann Sebastian Bach, Franz Liszt, Michail Ivanovic Glinka, Niccoló Paganini, Ernest Bloch e Fryderyk Chopin, eseguiti dai giovani talenti del Franci Giacomo Zumstein, Andrea Di Mauro, Elena Caroni, Maria Efenesia Baffa, Leonardo Ricci e Davide De Luca. Alle ore 19, infine, torna l'appuntamento con "I Concerti delle 7", in Sala Rosa. La rassegna musicale organizzata con l'Università di Siena, prosegue in piazzetta Silvio Gigli con il concerto di Andrea Vivi al pianoforte. L'allievo del prof. Hector Moreno, proporrà un programma che prevede importanti brani del virtuosismo pianistico: la Ciaccona di Bach-Busoni, la Parafrasi su "Rigoletto" di Franz Liszt e la Sonata n. 2 op.

(il Cittadino, 7 maggio 2016)


Ucciso attivista palestinese. La sua colpa: collaborava con gli israeliani

Baha Nabata, era un'attivista palestinese di 31 anni. Marito, e padre di due figli. È stato ucciso lunedì sera nel campo profughi di Shuafat, alla periferia di Gerusalemme, raggiunto da una pioggia di proiettili esplosa da sicari dileguatisi poi in sella ad una motocicletta.
La comunità locale piange una persona onesta, seria, e coraggiosa. Perché ha avuto l'ardire di tentare di migliorare le condizioni di vita degli ospiti del discusso campo profughi situato fra la periferia orientale della capitale israeliana, e il West Bank. Meir Margalit, ex consigliere del partito di estrema sinistra Meretz, e collaboratore di Baha Nabata, ha rivelato che l'attivista palestinese temeva per la sua vita, a causa delle numerose minacce subite: era accusato di tradimento, di collaborazionismo con il nemico. La sua colpa consisteva nei contatti che aveva istituito con la municipalità di Gerusalemme, con cui lavorava nel tentativo di risolvere i problemi del campo profughi, migliorando le condizioni di vita dei palestinesi ivi residenti: costruendo strade e via d'accesso, istituendo un pronto intervento sanitario e addestrando la popolazione a fronteggiare un'eventuale incendio, in collaborazione con i vigili del fuoco di Gerusalemme.
Una colpa grave, evidentemente. Perché i palestinesi devono vivere in condizioni disastrose, in luridi campi, senza prospettive di miglioramento, senza possibilità di riscatto; per costituire nelle mani della dirigenza palestinese una reale arma da impiegare cinicamente nei confronti del governo israeliano e della comunità internazionale.
Al tempo stesso, l'assassinio di Nabata costituisce un monito nei confronti di chi valuti di emularne le gesta: non si collabora con Gerusalemme; fosse anche per migliorare l'esistenza dei palestinesi.
Speriamo che l'inchiesta aperta riveli subito le generalità degli assassini. Le testimonianze, a quanto pare, non mancano.

(Il Borghesino, 5 maggio 2016)


Diecimila ebrei in corteo ad Auschwitz: è la Marcia dei viventi

Venuti da tutto il mondo, accompagnati da giovani polacchi

ROMA - Circa diecimila ebrei israeliani e di una quarantina di paesi diversi accompagnati da giovani polacchi, hanno partecipato all'annuale "March of the living", la Marcia dei viventi, in omaggio alle vittime dell'Olocausto nell'ex campo nazista di Auschwitz-Birkenau.
Yossi Fischer, ebreo di New York:
"E' terribile quanto successo qui e molto triste, ma è incredibile vedere così tanta gente e constatare che siamo ancora qui, dopo tutto quello che hanno tentato di fare".
I partecipanti hanno deposto delle tavolette di legno con dei messaggi lungo i binari per ricordare i loro cari. Justine Balin, di Vancouver, racconta:
"Non ho mai conosciuto la mia bisnonna ma all'improvviso venendo qui ho capito che resterà nel mio cuore e nei miei pensieri per sempre. Fa ormai parte di me".
L'organizzatore della Marcia Shmuel Rosenman spiega:
"Seriamente, ho paura che l'Europa e forse in altre parti del mondo non abbiano imparato tanto. Penso che tutti, ebrei e non ebrei, capi di Stato e parlamentari del mondo intero debbano creare delle leggi contro l'antisemitismo, il razzismo, il fascismo e altro".
Il sito che ha ospitato il campo di sterminio, dove la Germania nazista ha ucciso un milione di ebrei tra il 1940 e il 1945, è considerato il simbolo stesso dell'Olocausto.

(askanews, 6 maggio 2016)


Gaza: nuovi colpi di mortaio, l'esercito israeliano risponde

"L'ultimo anno è stato tranquillo, il più calmo degli ultimi 10. Invece questi due ultimi giorni, con la minaccia che viene da sottoterra, sono stati molto movimentati. A breve distanza da noi sono schierati in buon ordine gli uomini di Hamas. Non vi consiglio di procedere oltre".
   Nei campi di uno dei kibbutz israeliani della frontiera sud, ad un tiro di schioppo da Gaza, l'ufficiale della Brigata Golani è gentile ma perentorio con i cronisti dell'ANSA: "Andando oltre potreste essere raggiunti dai colpi dei mortai". Gli incidenti attuali - a quanto pare - sono da collegarsi all'accresciuta attività del Genio militare di Israele per localizzare e neutralizzare i tunnel di Hamas. "Siamo pronti a tutte le evenienze. In passato Hamas ha saputo preparare anche tunnel esplosivi. Il nostro incarico immediato - insiste con i cronisti - è di proteggere i kibbutz vicini e di consentire loro una vita normale".
   Sui due tunnel scoperti in questi giorni l'ufficiale non vuole pronunciarsi, ma ha ricavato l'impressione che "quelli di Hamas fanno sul serio. Sono un'organizzazione che ha appreso dall'esperienza passata, che ha sfruttato il periodo di calma per rafforzarsi. Di conseguenza non possiamo abbassare la guardia". Finora gli incidenti sono stati di portata contenuta "e anche le nostre reazioni - precisa l'ufficiale - sono state molto misurate ma la situazione resta esplosiva". Mentre nella zona si sono susseguiti gli incidenti, Israele era oggi a lutto nella Giorno della Shoah. "I nazisti volevano eliminare il popolo ebraico. Mia moglie ed io abbiamo tre figli e vorremmo averne altri. Questa - conclude l'ufficiale - è la nostra risposta, il nostro codice morale personale".

(ANSA, 6 maggio 2016)


«Sono qui per raccontare l'inferno»

Piero Terracina a «Memorie in Salone», incontri nelle case con i sopravvissuti.

di Natalia Distefano

Sono qui per raccontare «l'inferno». Piero Terracina ha quasi 88 anni ma ricorda con lucidità disarmante quell'«inferno» che stravolse per sempre la sua vita. Sfuggito al rastrellamento del 16 ottobre 1943 venne arrestato sei mesi più tardi con la sua famiglia, perché erano ebrei, su segnalazione: «Venduti per cinquemila lire». Pochi giorni rinchiusi a Regina Coeli e poi la deportazione ad Auschwitz.
   Piero Terracina fu l'unico dei suoi a rientrare in Italia. Ricorda date, nomi, luoghi, pensieri e il numero con cui fu «immatricolato» nel lager polacco, dove lui era semplicemente A- 5506. Ma soprattutto vuole che ricordi anche chi non ha vissuto lo sterminio razziale. «Perché solo conoscendo l'orrore è possibile scongiurare che si ripeta» ha detto ieri, seduto nel salotto di casa Di Porto al Ghetto in occasione della prima edizione italiana di «Zikaron BaSalon» (Memorie in Salone).
   Un'iniziativa nata in Israele nel 2010 con l'obiettivo di creare un contatto reale, fisico, con i sopravvissuti all'olocausto. «L'idea è trasmettere la memoria in maniera profonda innanzitutto ai ragazzi - ha spiegato Giordana Moscati, assessore alle Politiche giovanili della Comunità Ebraica - per scavare in una storia ancora viva, oltre i libri di scuola». «Zikaron BaSalon» apre le case private per ospitare l'incontro, di volta in volta, tra un sopravvissuto e una quarantina di persone.
   «Non una folla e non solo ebrei, stimolando un dialogo intimo - ha commentato Giorgia Calò, assessore alla Cultura della Comunità ebraica romana - affinché la testimonianza diventi un ricordo personale di chi ascolta, un'immagine indelebile da tramandare a sua volta».
   Nel solo 2015 il progetto ha coinvolto 80 case nel mondo e raggiunto 150 mila persone. Ieri, per la prima volta, si sono aperti anche cinque appartamenti romani, con il patrocinio della Comunità Ebraica, la Fondazione Museo della Shoah e Progetto Memoria. Dal Ghetto ai Parioli, con i racconti di Marika Venezia, Edith Bruck, Alberto Sed, Sami Modiano e Piero Terracina.

(Corriere della Sera - Roma, 6 maggio 2016)


Ricordare il ghetto? sì parola di ebreo

Incontro a Venezia con il grande studioso Simon Schama, che a 500 anni dalla creazione del quartiere ebraico ce ne racconta l'importanza. In tempi di xenofobie e nuovi muri.

di Lara Crinò

 
Simon Schama
 
Nel ghetto di Venezia
VENEZIA. Oggi il Campo del Ghetto Nuovo è, all'apparenza, una delle tante piazze dal fascino quieto con le quali Venezia sa stupire, all'uscita di una calle o di un ponticello, il visitatore che abbandoni San Marco e Rialto. I bambini giocano a calcio contro un portone. I camerieri dei bar servono cappuccini e spritz ai tavoli all'aperto. Lungo il Rio della Misericordia passa una chiatta che trasporta frutta e verdura. Ma qui le case sono più alte che altrove, più spoglie, con i soffitti insolitamente bassi: dovettero ospitare genti diverse, arrivate in fretta, e furono sopraelevate ancora e ancora. I negozi di souvenir non vendono maschere ma candelabri e mezuzah in vetro di Murano.
  Sotto un portico, l'architrave marmoreo di un portone reca la scritta Banco Rosso. Fu qui, al centro di un'isola minuscola dove nel Medioevo sorgeva una fonderia, che la Serenissima decise nel 1516 di relegare I'Universitas Judaeorum, la comunità ebraica di Venezia, creando di fatto il primo ghetto d'Europa. Il nome stesso non sarebbe altro che la storpiatura che gli ebrei d'origine tedesca, tra i primi a trasferirvisi, fecero del veneziano geto, ovvero fonderia. Per secoli, fino all'emancipazione napoleonica del 1797, quando le porte di legno che rinchiudevano i suoi abitanti «acciocché non vadino tutta la notte attorno» furono simbolicamente bruciate, il ghetto fu uno strano luogo: affollata prigione d'una minoranza vessata da tasse e limitazioni d'ogni tipo ma anche centro cosmopolita di commerci e cultura, straordinario melting pot di ebrei italiani, di askenaziti arrivati dal nord e dall'est Europa e sefarditi espulsi dalla cattolicissima Spagna, uniti dal credo nell'unico Dio ma diversi per abitudini, aspetto, lingue. «Non si può parlare di una celebrazione: non si celebra ovviamente la creazione di un ghetto. Ma è giusto commemorare i cinquecento anni di questo evento, perché è più vicino a noi di quanto si creda. Per gli storici contemporanei, l'universo einsteniano di un tempo che si ripiega su se stesso è più plausibile d'una traiettoria irreversibile verso il progresso».
  Appoggiato al pozzo che si erge al centro della piazza, Simon Shama mette a fuoco così l'importanza di questo rettangolo di terra nella città di mare che fu per secoli centro nevralgico dell'Occidente, come una sorta di aleph borgesiano che illumina il presente con connessioni nascoste.È il suo mestiere, del resto, e sa farlo splendidamente. Laureato a Cambridge, professore ad Harvard prima e oggi alla Columbia University di New York, Shama è una sorta di superstar degli storici. Ha scritto libri di successo come Gli occhi di Rembrandt o Paesaggio e memoria, ma soprattutto ha portalo la storia in tv: i suoi documentari per Bbc, Pbs, History Channel, che parlino della storia d'Inghiterra o della Rivoluzione americana, sono grandi successi di pubblico. È di origini ebraiche, askenazite per parte di madre e sefardite per parte di padre. «I miei trisavoli venivano da Smirne, in Turchia. Attraversarono l'Europa passando per la Moldavia e la Romania, poi si fermarono a Londra all'inizio del Novecento, perché erano troppo pigri per salpare per New York», ha appena ricordato mentre, pressato tra i turisti, si godeva il sole di primavera in vaporetto. Quando siamo sbarcati e abbiamo attraversato il basso sotoportego che porta all'antico quartiere ebraico, il suo sguardo si è alzato verso gli alti caseggiati che sembrano ancora, dopo tanti secoli, andare in cerca di aria pulita e luce allungandosi verso il cielo.
  È già stato qui altre volte: Venezia è una tappa del documentario in cinque puntate che ha dedicato all'epopea più difficile e affascinante che gli sia toccato di raccontare, quella ebraica. Si intitola History of the Jews ed è già stato trasmesso in Inghilterra: del progetto fa parte anche una monumentale La storia degli ebrei in due volumi, del quale solo il primo, che si conclude con la cacciata degli ebrei dalla Spagna e dal Portogallo alla fine del XV secolo, è stato pubblicato (in Italia, come le altre sue opere, da Mondadori). «Nonostante la storia ebraica sia un soggetto mollo trattato, scarseggiano le opere che la abbraccino nel suo dispiegarsi dall'antichità ai giorni nostri. L'ultimo grande sforzo organico è stato quello di Cecil Roth negli anni 60. Tuttavia credo che non sia mai stato così necessario raccontarla. Primo, perché non esiste una storia degli ebrei disgiunta da quella delle nazioni - in cui hanno vissuto. Poi, perché negli ultimi decenni l'archeologia e le fonti documentarie hanno aggiunto molto a ciò che sapevamo. E infine perché si rischia di appiattire una vicenda millenaria su due soli eventi: la Shoah e la nascita di Israele, con il conseguente conflitto arabo-israeliano».
  Ma c'è molto di più da narrare, e i vicoli stretti del Ghetto lo testimoniano: «Gli ebrei vivevano confinati qui, è vero, ma la loro era una clausura estremamente porosa. Durante il giorno potevano uscire e al tempo stesso i cristiani entravano per fare affari, per ascoltare i sermoni dei rabbini, per assistere alle recite di Purim, È vero che la vita degli ebrei era piena di limitazioni, dalla rotella gialla da portare sugli abiti al divieto di possedere proprietà. Ma c'erano medici ebrei stimati in tutta la città, maestri di danza e coreografia, rabbini che intrattenevano rapporti con studiosi cristiani, non solo banchi di prestito o strazzeria».
  La storia del Ghetto è peraltro costellata di personaggi singolari, dalla poetessa seicentesca Sara Copio Sullam, che ospitò un reputato salotto di letterati, intrattenne un epistolario con un nobile genovese e addirittura pubblicò un Manifesto sull'immortalità dell'anima, al celebre rabbino Leon Modena, colpito duramente dalla morte di un figlio ucciso da giovinastri veneziani, creatore di un'accademia musicale, giocatore d'azzardo e autore di un De ritii ebraici scritto, sfidando l'Inquisizione, per dissipare i pregiudizi cristiani. Per Leone, per la sua esperienza di vita così contraddittoria, Schama ha una predilizione particolare. Rappresenta la cifra con cui leggere questo pezzo di Storia, riportandola al presente: «Il Ghetto appartiene a noi oggi cosi come ci apparteneva cinquecento anni fa. Perché che cosa rappresenta, se non la possibilità o impossibilità per comunità diverse di coabitare, dividere uno spazio urbano senza paranoie, senza la necessità di far suonare una campana o chiudere i cancelli al tramonto?». In tempi di terrorismo, nuovi muri e frontiere siamo solo illusoriamente preparati alla complessità. «Internet ci dà l'illusione di avere a disposizione ciò che ci serve per conoscere il mondo. Ma è uno spazio che nutre comunità di credenze più che comunità di sapere. Per questo lo storico deve far conoscere il passato e non solo scrivendo libri ma con le conferenze, con i documentari, con tutto ciò che può servire a raggiungere le persone». Anche quando può essere complicato: il secondo volume della sua Storia degli ebrei doveva essere già pronto, ma Schama ci sta ancora lavorando.
  «L'ostacolo maggiore non è raccontare Venezia o gli ebrei di Amsterdam nel secolo d'oro, ma affrontare il Novecento. Non devo ripercorrere tutto l'Olocausto, esiste un'enorme letteratura su questo. Voglio piuttosto fissare dei punti, delle connessioni. Tra i pogrom in Europa orientale alla fine della prima guerra mondiale, ad esempio, e la dichiarazione Balfour sulla Palestina dello stesso periodo». Combattere i preconcetti, i sentito dire che passando un tempo di bocca in bocca e ora diffondendosi sui social network si tramutano in realtà, è uno degli obiettivi di Schama. Lo fa con l'affabulazione del letterato e il rigore dello studioso. Nelle immagini girate a Venezia per il suo Historv of the Jews lo si vede entrare nella Sinagoga Spagnola. Ha in testa una kippà di raso bianco e l'aria quasi commossa di chi osserva qualcosa di artisticamente notevole e insieme familiare. «Questo luogo riconcilia l'idea di rifugio e l'idea di bellezza. Se qualcuno ha dei cliché su cosa è stato il ghetto, basta portarlo qui. A vedere come anche la bellezza può essere una mitzvà, una buona azione».

(la Repubblica - Venerdì, 6 maggio 2016)


Blangino, gli eroi delle Langhe e un nuovo simbolico omaggio

In un angolo delle Langhe, affacciato su un paesaggio dichiarato nel 2014 Patrimonio Mondiale dall'Unesco (insieme ai paesaggi del Roero e del Monferrato) si è svolto il 25 aprile un evento di alto valore simbolico per la novità che racchiude: due piccoli Comuni, Novello e Manforte, hanno voluto lasciare in uno spiazzo panoramico nella Frazione Panerole, un segno imperituro, con un'installazione a ricordo dell'aiuto che Giovanni e Genoveffa Blangino vollero offrire alla famiglia ebraica torinese di Mario Nizza, a pochi passi dalla casa in cui abitarono tra l'autunno 1943 e la Liberazione. I due, a rischio della loro stessa vita e con il pieno appoggio dell'intera comunità di Panerole, offrirono la loro casa come nascondiglio e rifugio alla famiglia di Nizza, salvandola così dalle persecuzioni nazifasciste,
L'opera installata è un grande libro aperto con la riproduzione di una foto che ritrae i coniugi Blangino e la celebre frase del Talmud sull'uccisione di un singolo che equivale all'uccisione di una collettività e sulla salvezza di un singolo che corrisponde alla salvezza dell'intera umanità, La novità rispetto a manifestazioni in ricordo dei Giusti e di chi ha contribuito a salvare ebrei durante le persecuzioni sta nel fatto che la memoria di chi ha salvato può esser perpetrata anche attraverso installazioni fisse proprio nei luoghi dove gli ebrei si sono nascosti e la popolazione li ha salvati. Alla cerimonia, cui ha presenziato il vicepresidente UCEI, Giulio Disegni, hanno parlato i due sindaci di Manforte e di Novello, Roberto Passone e Livio Genesio, oltre ai deputati Chiara Gribaudo e Mariano Rabino e al presidente della Comunità ebraica di Torino, Dario Disegni. Presenti anche il figlio dei signori Blangino, Giuseppe, e Ferruccio Nizza, figlio di Mario Nizza e Benvenuta Dìena, che trascorse in quei luoghi i primi anni di vita e che ha ricordato come nel settembre 1944 era stato fatto trapelare alle truppe nazifasciste che suo padre, medico ebreo, curava i partigiani, cosicché la famiglia dovette fuggire dal proprio nascondiglio e cercò rifugio nella frazione Panerole del Comune di Novello. Qui furono nascosti in casa dei coniugi Blengino, che non esitarono a dividere con i Nizza la loro piccola dimora. Con la complicità di qualche sconosciuto funzionario furono compilati documenti falsi per i coniugi. Gli abitanti della frazione collaborarono a nascondere la famiglia e a far sì che, nonostante i frequenti rastrellamenti, la loro vera identità non venisse mai scoperta.

(Italia Ebraica, maggio 2016)


I veri amici sono la metà di quelli che crediamo di avere

Lo dice la "macchina dell'amicizia" messa a punto dai ricercatori dell'Università di Tel Aviv. Sarebbe capace di valutare la reciprocità del rapporto tra due persone.

C'è chi dice che i veri amici si contano sulle dita di una mano, ma forse ne bastano anche meno. A dimostrarlo è la "macchina dell'amicizia", messa a punto dai ricercatori dell'Università di Tel Aviv in Isreale in collaborazione con il Massachusettes Institute of Technology (Mit) di Boston.
Descritta per la prima volta sulla rivista Plos One, la "macchina dell'amicizia" altro non è che un algoritmo in grado di valutare la bidirezionalità dei rapporti sociali, ovvero la nostra capacità di giudicare le persone e riconoscere quelle che sono davvero lì per noi. Una volta messa in funzione, questa macchina infernale ha vomitato una sentenza senza appello: i veri amici pronti a ricambiare il nostro affetto sono solo la metà di quelli che crediamo di avere.
«E' emerso che non siamo poi così bravi a giudicare quelli che sono i nostri veri amici», commenta il coordinatore dello studio Erez Shmueli, dell'Università di Tel Aviv. «La nostra difficoltà a determinare la reciprocità di un rapporto d'amicizia condiziona pesantemente la nostra abilità nell'instaurare collaborazioni. Abbiamo imparato che non possiamo fidarci solo del nostro istinto o della nostra intuizione: serve un metodo oggettivo - precisa Shmueli - che permetta di valutare queste relazioni e quantificare il loro impatto».
Per raggiungere questo obiettivo, i ricercatori hanno condotto diversi esperimenti su gruppi di amici e hanno analizzato studi precedenti, tra cui sei indagini condotte sul tema dell'amicizia coinvolgendo 600 studenti fra Europa, Stati Uniti e Isreaele.
Con i dati raccolti, hanno quindi sviluppato un algoritmo che è in grado di distinguere fra rapporti amicali bidirezionali e monodirezionali, analizzando alcuni elementi oggettivi che contraddistinguono la relazione.
«Abbiamo scoperto che il 95% dei partecipanti pensava di essere ricambiato dagli amici, ma in realtà - afferma il ricercatore - solo il 50% dei casi analizzati rientrava nella categoria delle amicizie bidirezionali».
Questo risultato è importante perché «le relazioni reciproche determinano le influenze sociali. Nel nostro esperimento - continua l'esperto - abbiamo valutato ad esempio quali sono i migliori incentivi per spingere le persone a fare attività fisica, e abbiamo visto che l'amicizia è molto più efficace addirittura del denaro. Abbiamo dimostrato che le persone che ricevono pressioni per fare sport da amici veri, che ricambiano, fanno più attività fisica e fanno più progressi di chi invece ha amicizie unilaterali».

(OK Salute e Benessere, 6 maggio 2016)


«... la "macchina dell'amicizia" altro non è che un algoritmo in grado di valutare la bidirezionalità dei rapporti sociali». Riportiamo la notizia soltanto perché riguarda qualcosa che avviene in Israele. Certo però che per fare carriera i ricercatori devono proprio inventarsele tutte. C’è materiale per una nuova serie di barzellette. M.C.


"Con lo sguardo alla Luna"

Presentazione del libro del rabbino Roberto Della Rocca al Rettorato dell'Università Politecnica delle Marche.

Le relazioni che Ancona - città adriatica e mediterranea - ha intrattenuto con la sua componente ebraica sono storia e presente, luoghi, emergenze, appartenenze reali e simboliche, eredità legate ai dialoghi, alle tradizioni, alla lingua, alla conoscenza e al sapere che si tramanda.
Legami che hanno in Ancona, e in tutta la regione, forti corrispondenze, e che hanno portato la Comunità Ebraica in collaborazione con l'Università Politecnica delle Marche e l'Amministrazione Comunale ad organizzare - a cura di Cristiana Colli - la presentazione del libro di Rav Roberto Della Rocca Con lo sguardo alla luna, Giuntina Editore. Rav Della Rocca - che è stato Rabbino di Ancona, direttore scientifico e culturale di Zachor-Ricorda, il Festival di Cultura Ebraica evento dell'estate del 1999 a Senigallia - ha mantenuto nel tempo saldi rapporti di dialogo e amicizia con la regione e la Comunità. Una vicinanza che lo ha portato a condividere con la comunità marchigiana questa pubblicazione che raccoglie le riflessioni di un lungo percorso di vita e di studio. Con lo sguardo alla luna è un libro celebrato per l'ampiezza dello sguardo e dell'interpretazione, per la qualità sofisticata delle riflessioni, per la volontà di collocare il senso pieno dell'ebraismo dentro le sfide della società contemporanea chiamata ad essere multiculturale, interreligiosa, emancipata. Il libro di Della Rocca introduce alla scoperta e riscoperta di un ebraismo vivo, ricco di una tradizione millenaria che si rinnova infinitamente, capace di rimanere sempre attuale, fonte di inesauribile saggezza e insegnamento. Martedì 10 maggio alle 18, nella sede del Rettorato in Piazza Roma, la presentazione verrà introdotta dai saluti del Rettore dell'Università Politecnica delle Marche - Sauro Longhi - del Presidente della Comunità Ebraica di Ancona Manfredo Coen - e del Sindaco di Ancona - Valeria Mancinelli - e si svilupperà in forma di dialogo tra Rav Della Rocca e Alberto Melloni, uno dei più autorevoli e importanti storici della Chiesa italiani, con la conduzione di Sonia Brunetti, pedagogista e direttrice delle scuole ebraiche di Torino. Un appuntamento di forte caratura culturale che la Comunità Ebraica di Ancona ha scelto di organizzare con l'Università Politecnica e con l'Amministrazione comunale come segno di appartenenza e di dialogo tra soggetti chiamati a costruire conoscenza e cittadinanza, per le persone e le comunità.

(Vivere Ancona, 5 maggio 2016)



Il primo comandamento

Allora uno degli scribi che li aveva uditi discutere, visto che aveva loro ben risposto, si accostò e gli domandò: Qual è il primo comandamento fra tutti? Gesù rispose: «Il primo è: Ascolta, Israele: Il Signore Dio nostro è l'unico Signore: ama dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l'anima tua, con tutta la mente tua e con tutta la forza tua. Il secondo è questo: Ama il tuo prossimo come te stesso. Non v'è alcun altro comanda- mento maggiore di questi». E lo scriba gli disse: «Maestro, ben hai detto secondo verità che v'è un solo Dio e che fuori di lui non ve n'è alcun altro; e che amarlo con tutto il cuore, con tutto l'intelletto e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso, è assai più che tutti gli olocausti e i sacri- fici». E Gesù, vedendo che aveva risposto saggiamente, gli disse: «Tu non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno osava più interrogarlo.
dal Vangelo di Marco, cap. 12

 


Università australiana sviluppa una partnership strategica con Israele

 
L'ateneo australiano Swinburne University of Technology svilupperà nuove collaborazioni di ricerca con Israele in aree di interesse nel campo della scienza, tecnologia e innovazione.
Il Rettore Graham Goldsmith ha annunciato l'impegno a seguito di una visita in Israele effettuata insieme a dirigenti, ricercatori e rappresentanti dell'accademia.

 Concentrare la ricerca su scienza, tecnologia e innovazione
La delegazione giunta in visita in Israele ha come obiettivo lo sviluppo di una più stretta collaborazione con le università israeliane e con le industrie che operano nel settore dell'innovazione tecnologica avanzata, nella scienza dei dati, nella la ricerca e nell'imprenditorialità.
La delegazione ha incontrato alti funzionari e ricercatori di numerose università israeliane tra cui:
  • Università di Tel Aviv;
  • Technion di Haifa;
  • Weizman Institute;
  • Università di Ben Gurion;
  • Università Ebraica di Gerusalemme;
  • Tel-Aviv Jaffa college.
Il gruppo ha partecipato anche ad un briefing presso il centro R & D di Google con i responsabili di diverse grandi aziende in Israele.
Il programma è stato organizzato con il sostegno della Camera di Commercio Australia-Israele.
Queste le parole di Goldsmith:

Siamo stati deliziati con l'opportunità di incontrare, discutere e imparare con università e altre organizzazioni su indicazioni future nel campo della scienza, della tecnologia, dell'innovazione e dell'imprenditorialità.

L'obiettivo dell'Università di Swinburne è quello di stabilire partnership strategiche con le università israeliane al fine di sviluppare programmi di ricerca e sviluppo comune, in una serie di settori, tra cui big data, sicurezza informatica, salute digitale e trasferimento tecnologico.
I delegati della Swinburne University hanno anche speso profonde parole di apprezzamento verso Israele, la sua storia e la sua cultura. "Questa comprensione fornisce le basi per costruire le nostre relazioni", ha affermato Goldsmith.

(SiliconWadi, 5 maggio 2016)


Israele si ferma per ricordare la Shoah

Il Primo ministro Netanyahu e il Presidente Rivlin alla cerimonia al museo Yad Vashem di Gerusalemme

Al suono delle sirene Israele si è fermato per due minuti di raccoglimento in ricordo delle vittime dell'Olocausto. Il Paese celebra lo Yom ha-Shoah, la giornata di lutto nazionale per i sei milioni di ebrei uccisi. La cerimonia ufficiale allo Yad Vashem, il Sacrario della Memoria di Gerusalemme, alla presenza del primo ministro Benyamin Netanyahu e del presidente israeliano Reuven Rivlin.

(LaPresse, 5 maggio 2016)


L'esercito di Israele scopre un tunnel di Hamas da Gaza

Lo ha annunciato il tenente colonnello Peter Lerner

L'esercito israeliano ha scoperto oggi un nuovo tunnel costruito da Hamas che dalla Striscia di Gaza entra in Israele. Lo ha annunciato il tenente colonnello Peter Lerner spiegando che "il tunnel è stato scoperto da tre o quattro ore. Non sappiamo esattamente la sua lunghezza né quando sia stato costruito ma ha una profondità di 28-29 metri", ha spiegato il militare in una conferenza stampa con i principali media stranieri acccreditati in Israele. L'annuncio arriva dopo una giornata di scontri al confine con Gaza tra militanti di Hamas e l'esercito israeliano per la prima volta dopo la guerra del 2014.
Lerner, che non ha saputo precisare se vi siano altri tunnel, ha fatto sapere che la scoperta di oggi è il risultato di una ricerca degli ultimi mesi grazie all'utilizzo di nuove tecnologie. "Gli scontri contro le nostre forze in vari luoghi, tra cui quello dove è stato scoperto il tunnel, è prova che Hamas si rende conto che siamo sulle sue tracce", ha ribadito Lerner.

(LaPresse, 5 maggio 2016)


Raid israeliano a Gaza dopo i colpi di mortaio di Hamas sui militari

di Giordano Stabile

BEIRUT - Israele torna a colpire la Striscia di Gaza con l'aviazione, dopo che le sue pattuglie al confine sono state bersagliate da tiri di mortaio per sei volte nel giro di 24 ore. La tensione con Hamas è ai massimi livelli e nasconde una accanita battaglia sotterranea. Quella dei tunnel.
  Durante l'ultima offensiva di terra, Protective Edge dell'inizio del 2014, le gallerie che si spingevano dalla Striscia fin dentro al territorio israeliano avevano messo in seria difficoltà l'esercito dello Stato ebraico. Hamas ha continuato a scavarne a ritmi serrati, con squadre che lavorano a turno 16 ore al giorno, sei giorni alla settimana. Sono la sua arma strategica e un deterrente contro una nuova incursione.
  Ora Israele sembra aver sviluppato un sistema che permette di individuare i tunnel, anche a 30 metri di profondità, e di distruggerli. Dall'inizio dell'anno una serie di crolli sospetti hanno ucciso 12 fra combattenti e operai dentro le gallerie. Il 18 aprile l'esercito israeliano aveva annunciato di averne scoperto un altro, grazie alla «nuova tecnologia».
  Hamas sospetta che le pattuglie lungo il confine giochino un ruolo in questa offensiva. Fra martedì pomeriggio e ieri per sei volte colpi di mortaio hanno preso di mira i soldati. Non ci sono stati feriti ma due mezzi sono stati danneggiati.
  Prima hanno reagito i tank israeliani, che hanno colpito le postazioni palestinesi a Shujiaya, nel Nord della Striscia, e vicino a Rafah, nell'estremo Sud. Poi la tensione è salita ancora. Tutta la zona fra la Saad Junction e il kibbutz Nahal Oz è stata chiusa e dichiarata «zona militare».
  Dal lato palestinese, il ministero dell'Educazione ha ordinato l'evacuazione delle scuole nella zona di Shujaiya. Le lezioni del pomeriggio sono state cancellate. Poi, in serata, sono arrivati i raid dell'aviazione israeliana su una serie di postazione di Hamas, nel sud della Striscia, nella zona di Rafah. Senza fare vittime.
  Hamas ha avvertito Israele che «la pazienza ha un limite», ma non sembra cercare al momento l'escalation. Ha fatto capire di non essere direttamente responsabile dei colpi di mortaio, ma di aver «lasciato fare» alcuni «gruppi della resistenza» in risposta ai cannoneggiamenti di Tsahal.
  Fonti dalla Striscia citate dai media israeliani parlano di «una sorta di dialogo misurato attraverso mortai e artiglieria» senza che nessuna delle due parti abbia per ora l'intenzione salire di livello: «A Gaza non c'è un'atmosfera che anticipi un'escalation o cambiamenti nei comportamenti dei civili che la faccia presagire».
  Anche secondo l'esercito israeliano questi scambi di colpi «sono inusuali». Lo stesso esercito ha rivelato che Hamas ha creato «una polizia di frontiera» per evitare che gruppi minori lancino attacchi terroristi o razzi nel territorio di Israele. Ma la stessa Hamas sta sviluppando nuovi tipi missili e droni. E il tunnel scoperto il 18 aprile era stato appena rinnovato e doveva servire come «base per un attacco».

(La Stampa, 5 maggio 2016)


Il disarmo dell'Europa, Vichy e l'esodo dei quarantamila ebrei

Intervista al grande storico francese Georges Bensoussan. «Gli islamisti alla Tariq Ramadan come Goebbels, cui la Repubblica di Weimar fornì le armi per la propria disfatta».

di Giulio Meotti


Il palestinese è come il contadino cinese, il lavoratore cubano, il proletario russo. La sua liberazione annuncia il nuovo mondo Da decenni, in Francia, certi ambienti illuminati si ergono a polizia del pensiero. E' la resa dei professori della virtù antirazzista Nel mondo arabo anche soltanto la parola "ebreo" è una sconcezza di cui chiedere subito scusa. E' il bambino della morte Gli ebrei che rimarranno in Francia vivranno come i marrani sotto l'Inquisizione, docili, miti, sottomessi, nascosti
Poiché rifiutiamo la guerra, pensiamo allora che non ci sia nessuna guerra. Continuiamo a parlare il linguaggio dell'eufemismo L'abile Tariq Ramadan ha la perversione di appoggiarsi sulle debolezze della democrazia mettendone in luce le contraddizioni l benpensanti di sinistra, il padronato, i gollisti, sono tutti responsabili del fallimento delle politiche di integrazione La borghesia socialista ha esaltato il multuculturalismo pensando di trovare nelle città a forte immigrazione il bacino elettorale


 
Georges Bensoussan
«La controversia che mi ha coinvolto nello scorso autunno in Francia ha portato alla luce un gran numero di chiusure intellettuali che affliggono il mondo occidentale e, in particolare, la società francese».
  Georges Bensoussan vìola così il lungo silenzio che si era autoimposto dopo la trasmissione "Repliques" andata in onda su France 2, in cui era ospite lo storico di origini marocchine, direttore editoriale del Mémorial de la Shoah e della Revue d'histoire de la Shoah, docente sorboniano, intellettuale della gauche (ha firmato l'appello della sinistra ebraica Jcall) e fra i massimi studiosi di antisemitismo (i suoi libri sono pubblicati in Italia da Einaudi). Alla radio quel giorno Bensoussan parla di fallimento dell'integrazione nella banlieu: «Non ci sarà alcuna integrazione fino a quando non saremo liberati da questo antisemitismo atavico», dice. «Un sociologo algerino, Smaìn Laacher, con grande coraggio, ha detto che nelle famiglie arabe in Francia e in tutto il mondo, ma nessuno vuole dirlo, l'antisemitismo arriva con il latte materno». Bensoussan, che sul fallimento dell'integrazione ha curato il libro "Les Territoires perdus de la République", è subito travolto dalle accuse e dalle polemiche.
  Il Movimento contro il razzismo e per l'amicizia fra i popoli, che ha già fatto processare Oriana Fallaci e Michel Houellebecq, chiede la sua testa al Memoriale dell'Olocausto, così come Libération invoca misure per punirlo: "Il Memoriale della Shoah, finanziato dallo stato repubblicano e partner della Pubblica Istruzione, che organizza molte gite scolastiche ad Auschwitz ogni anno nel quadro della prevenzione dell'antisemitismo e del razzismo, deve prendere pubblicamente le distanze dalle dichiarazioni del suo direttore editoriale". Edwy Plenel e i giornalisti di Mediapart chiedono che venga interdetto anche dal Consiglio Superiore per gli Audiovisivi. "Che queste parole provengono da uno storico coinvolto nella missione educativa del Memorial è veramente sconcertante", scrive il giornale telematico dell'ex direttore del Monde. Un contrappello a favore di Bensoussan è stato firmato da numerose personalità come la femminista Elisabeth Badinter, Bernard-Henri Lévy e il Gran Rabbino di Francia, Haim Corsia.
  Bensoussan nei giorni scorsi è stato a Roma, ospite del ministro della Cultura Dario Franceschini, per parlare di Shoah. E con il Foglio di quanto sta accadendo in Francia e in Europa.

«Si è detta e ripetuta, in tutti i modi, la celebre formula di Charles Péguy sulla necessità 'di vedere ciò che vediamo' - spiega Georges Bensoussan al Foglio - Il rifiuto di vedere e di chiamare col proprio nome la realtà caratterizza la migliore epoca di Vichy o un regime comunista, e così hanno rivendicato la mia esclusione dall'istituto nel quale lavoro. Colui che pensa male è trasformato in paria. Pensate: un ebreo sefardita che denuncia l'antisemitismo dei paesi dai quali proviene. Di cosa parla? E soprattutto, di cosa si impiccia? E' vero che oggi le parole di Péguy sono più giustificate che mai, ma sono accecate, nello stesso tempo, dalla realtà, così spesso verificata, così che non si vede che ciò in cui si crede».

- Secondo Georges Bensoussan, oggi ci troviamo di fronte a tre tipi di antisemitismo.
  «Prima di tutto quello che esce dagli ambienti nazionalisti o dai milieux cattolici che è regredito, ma che non è sparito. Questo antisemitismo è stato incoraggiato dalla liberazione della parola 'antisemita' che imperversa da una ventina d'anni, uno sdoganamento portato soprattutto da alcuni ambienti dell'immigrazione musulmana, e, più specificatamente, dal Maghreb. Il secondo rifiuto viene dall'ultra sinistra che ha fatto del 'palestinese' la vittima, della quale la liberazione redentrice annuncerà finalmente un nuovo mondo. Il 'palestinese' ha preso il posto del contadino cinese delle comuni popolari, del Bo Doì vietnamita, del lavoratore cubano, del proletario russo. E' il nuovo volto del messianismo rivoluzionario. Nel contesto occidentale, tuttavia, non si può non separare questa figura da quella delle radici cristiane della giudeofobia. E' come se il 'palestinese' di oggi, vittima dei potenti, rimandasse a Gesù, quest'altro 'palestinese' che agonizza sulla Croce. Ne va delle immagini che ci strutturano al di là delle credenze proclamate, e questi schemi mentali sono ciò che rimane quando tutto il resto è sparito. Si farebbe un torto anche a dimenticare quanto la giudeofobia affondi molte delle sue radici a sinistra, come hanno dimostrato numerosi storici, da Léon Poliakov a, in tempi più vicini, Michel Dreyfus. In Francia l'affaire Dreyfus finisce per squalificare l'antisemitismo di sinistra per molti decenni. Ma questa diga sta cedendo sotto il pretesto dell''antisionismo' e della lotta contro la 'finanza internazionale'. Rimane una terza figura, la più recente, ma anche la più potente, la più numerosa e la più minacciosa. E' quella che uccide. Si tratta dell'antisemitismo arabo-musulmano che, in Francia, si concentra su una parte della popolazione di origine del Maghreb e talvolta di terza generazione. Guardate il profilo biografico dei terroristi francesi e belgi degli attentati del 13 novembre 2015 a Parigi e del 22 marzo 2016 a Bruxelles. Agli inquisitori che sorvegliano tutti gli 'amalgama', si ripete qui che si tratta di una parte, anche se significativa, dei nostri compatrioti francesi. In questa 'comunità' molti lottano contro questa pericolosa passione, ed è per questo che qualsiasi sorta di amalgama sarebbe stupido e ingiusto. Penso, tra gli altri, al professore di filosofia Sofiane Zitouni e alle sue dispute col liceo Averroé di Lille, penso a Zohra Bittan, a Myriam Ibn Arabi, professore di inglese, e a molti altri ancora».

- Eppure, è come se l'antisemitismo islamico restasse tabù, come dimostra il suo caso.
  «Perché da decenni, in Francia, certi ambienti illuminati si ergono a polizia del pensiero? Perché si dimostrano incapaci di sentire che l'antisemitismo è una referenza culturale in numerose famiglie che provengono dal Maghreb, quando sono molti francesi di origine del Maghreb che lo dicono loro stessi per primi, a cominciare dal fratello di Merah, Abdelghani Merah? E il sociologo francese di origine algerina, Smaìn Laacher? La metafora del 'latte materno', della quale mi sono servito al microfono di France Culture nell'ottobre del 2015, è appunto un'immagine culturale. La confermo e la ribadisco qui ancora una volta. Perché la resa dei professori della virtù 'antirazzista' ha cercato di far passare questa immagine culturale, frequente nella letteratura francese, da Du Bellay fino a Victor Hugo, passando per George Sand, per razzismo? Ma, al di là di questo, perché il solo sentir parlare di questo antisemitismo arabo-musulmano è, per loro, così insopportabile da ascoltare? A tal punto che, alla fine, non è più l'antisemitismo che suscita lo scandalo, ma colui che lo denuncia. Ci viene obiettato il pericolo di 'essenzializzazione', la deriva degli 'amalgami', come se ci fosse un'essenza maghrebina del rifiuto antiebraico. Non è così, evidentemente. Ma l'esistenza di schemi culturali antiebraici nelle società arabo-berbere del Maghreb, certamente sì, e anche in quantità. Gli schemi culturali non sono né il sangue, né la razza, non sono una assegnazione definitiva nel momento della nascita».

- La stupidaggine accademica, della quale la Francia è piena, fa a pezzi, nello scorrere dei tempi, ciò che lei definisce "culturalismo", cioè la storia culturale mascherata secondo lei in razzismo.
  «E' come se la cultura rilevasse dall'intangibile ('gli Arabi', 'gli Ebrei' ecc.) un'essenza come la razza» prosegue Bensoussan. «Questo procura ciecamente un profitto immediato, l'essere certi di figurare nel campo del bene e della verità. Alcuni di questi censori sono degli universitari. Molti sono ossessionati dal declino della loro posizione, pieni del risentimento di coloro che non vengono consultati e che non si ascoltano più. Questo ambiente è anche noto per le gelosie feroci che lo attraversano. Partecipa del prèt-à-penser francese che ha imbavagliato qualsiasi altra parola. Sono queste le persone che mi hanno intentato il processo nello scorso mese di ottobre. Senza bisogno di far ricorso alla lettura di 'Homo academicus' di Pierre Bourdieu, il rancore e il dispetto di questi piccoli maestri spiegano molto della loro collera e dei loro colpi bassi. A questo battaglione di persone amareggiate che difendono il loro piccolo orticello di 'specialisti', cioè di titolati di fronte alla gente comune, si aggiunge, alcune settimane dopo, l'ultra sinistra specializzata nella denuncia. E' lei che fa partire una petizione di interdizione professionale sul blog di uno dei suoi membri. Alla fine, tra i quindici firmatari, l'israeliano Shlomo Sand, che ci si chiede cosa venga a fare in questa querelle tutta francese. Schemi di pensiero rigidi li portano a vedere il mondo come dovrebbe essere. Da qui questa compassione a flusso continuo come quella che si è esibita (era il suo scopo) in occasione della tragica morte del ragazzino siriano (Aylan) su una spiaggia turca nel settembre del 2015. Si assistette allora a un autentico diluvio di buoni sentimenti. E' Dostojevski che scriveva che l'amore astratto dell'umanità altro non è che una forma di egoismo».

- E' nello stesso spirito che, all'inizio del 2015, dopo le stragi di gennaio a Parigi, un professore di storia e geografia dichiarava (per indignarsene) alla televisione francese che lei, nella sua lunga introduzione al libro "Territoires perdus de la République", aveva utilizzato più di trenta volte il termine "maghrebino".
  «Forse è vero, non l'ho verificato. E si è appunto verificato che dal 2012 gli assassini si chiamano Merah, Nemmouche, Kouachi, Abbaoud, Abdelslqm, El Bakraoui, Réda Kriket. Mi sono forse inventato l'origine di questi uomini? La seconda dimensione di questo affaire sta nella impossibilità di pensare in termini politici. Queste persone non stanno dentro la morale che è etica di responsabilità, ma nel moralismo, sinonimo di etica di convinzione, quella nella quale non si paga in prima persona. Il manipolo di virtuosi che si è levato contro di me non conosce né la storia del Maghreb, né quella del mondo arabo (fatta eccezione per Alain Gresh, editorialista del Monde diplomatique). Tuttavia, sul soggetto specifico dell'antisemitismo del mondo maghrebino, adottano questo tono perentorio e definitivo tipico di coloro che occupano una posizione accademica prevalente (forti per la loro carriera e poco per le loro opere) mentre sono privi di qualsiasi competenza in materia. L'essenza del politico è il conflitto. Se si rifiuta di pensarlo, ci si condanna a mal comprendere il mondo e a passare di sconfitta in sconfitta. E' la loro sorte».

- Lei fa riferimento alla sorte degli ebrei marocchini.
  «Una leggenda che oggi è ben presente vuole che loro abbiano sempre vissuto bene nel loro paese natale, che fu anche una delle più grandi comunità ebraiche in terra musulmana, qui al contempo araba e berbera. Gli storici, nella realtà della questione, sanno che la condizione ebraica in terra marocchina fu spesso difficile. Per capire, bisogna smetterla di tenere l'occhio puntato sulla realtà europea paragonando parola per parola, punto per punto, i pogrom in Ucraina e le violenze commesse nel Maghreb. Non si tratta né dello stesso substrato mentale (l'islam), né delle stesse condizioni storiche. Queste equiparazioni fanno pensare che esista una scala dell'orrore. Questo ragionamento impedisce di pensare alla natura politica di ciascuna situazione. In terra islamica, in particolare in Marocco e nello Yemen, due mondi nei quali l'influenza ottomana non è mai veramente penetrata, il soggetto ebreo è in una situazione di sottomissione. E questa ha, come corollario, il timore. E' necessario che 'l'ebreo' abbia paura, continuamente, e che questa paura si manifesti nel suo comportamento: parlare a bassa voce, guardare per terra, camminare senza scarpe fuori dal mellah, essere sempre vestito di nero. Queste misure, delle quali non diamo qui che un rapido cenno, non mirano a uccidere 'l'ebreo'. E, d'altra parte, esse non vedono nella sua esistenza l'incarnazione del male come, per lungo tempo, ha insegnato la tradizione anti-ebraica del cristianesimo. Esse mirano a mantenerlo in una attitudine di umiliazione. Non si tratta dunque della stessa economia psichica che nel mondo cristiano, anche se, su uno stretto piano teologico, esistono dei collegamenti poiché il giudaismo rimane la religione matrice dalla quale sorge tutta la violenza del rapporto all'origine. Per secoli il mondo musulmano non ha visto, nell"ebreo', il diavolo sceso in terra, o un suo rappresentante. Piuttosto vi ha visto un essere impuro e vile che ha tradito la parola dei profeti, del suo libro (egli rimane, per i musulmani, Ahl Al Kittab, il Popolo del libro) e il suo stesso messaggio. Nella lingua parlata, in Marocco, ad esempio, si dice di lui in ambiente popolare che è l"essere della paura', ma anche il 'bambino della morte'. Nelle società maghrebine tradizionali il pronunciare la parola 'ebreo' è considerato come una sconcezza. La si accompagna con l'espressione hashak, che possiamo tradurre con 'perdonatemi', o 'scusatemi', quasi come se la parola in sé fosse una impurità. E' questa economia psichica che è il fondamento dell'antigiudaismo nel mondo arabo-musulmano. E' su questa base che la nascita di Israele nel 1948 ha esacerbato la violenza del rifiuto degli ebrei fino a prendere oggi una dimensione demonologica, quasi genocidiaria. Questo perché nell'islam arabo rimane inconcepibile che gli ebrei possano beneficiare di un'autonomia politica, a fortiori, su una terra considerata come terra d'islam. Questo capovolgimento politico è assolutamente impensabile. Non sono dunque gli intrighi dello stato di Israele, la sua politica (compresa la presa di possesso di una parte delle terre palestinesi in Cisgiordania, ad esempio) a essere il cuore del problema. In tal caso, infatti, come si può spiegare l'odio del quale lo stato di Israele era fatto oggetto prima del 1967? La retorica attuale che cristallizza tutte le sventure del mondo nella 'colonizzazione israeliana' nasconde il fatto che la stato di Israele non fu mai accettato dal mondo arabo, questo almeno fino al trattato di pace israelo-egiziano del 1979. Anzi. Nonostante il riconoscimento diplomatico da parte di Egitto e Giordania, infatti, è il fatto israeliano a essere riconosciuto e non il suo diritto a esistere. E' uno dei nodi gordiani della giudeofobia planetaria della quale la situazione francese è un'esemplificazione».

- Ogni giorno, da Parigi, ebrei lasciano la Repubblica alla volta di Israele.
  «La situazione degli ebrei della Francia è ben grave perché si tratta della più grande comunità d'Europa che si sta liquefacendo dolcemente con l'abbandono del paese senza far troppo rumore per recarsi in Israele o verso altre destinazioni,tra le quali gli Stati Uniti o il Canada», prosegue Georges Bensoussan. «Perché la leggenda della convivialità senza nubi è tuttora mantenuta da un certo numero di ebrei marocchini? Perché la nostalgia del tempo perduto è avvolta da quella dei luoghi di altri tempi. Questo tempo antico, di una gioventù oramai ben lontana, è di questo, in realtà, che noi manteniamo il ricordo soleggiato e una nostalgia sognante. E questo tempo perduto che ha solamente il favore della nostra memoria, noi lo avvolgiamo con ciò che crediamo essere la nostalgia dei luoghi della nostra infanzia. A questo trompe l'oeil (inganno dell'occhio, ndr) della memoria aggiungete il semi-smacco dell'integrazione di una parte dell'immigrazione marocchina in Israele e la reale discriminazione della quale fu oggetto. Si poté perfino parlare di aperto razzismo di una parte della popolazione ashkenazita. L'immagine del 'marocchino col coltello', del delinquente, ha prevalso a lungo nella società israeliana. Restare attaccati alla nostalgia di un tempo felice nel quale ci si immagina di essere stati accettati. La ricostruzione mnemonica è rilassante. Il disprezzo rivolto alla cultura del mondo ebraico del Maghreb fu, per lungo tempo, una realtà israeliana, un disprezzo che riproduceva nello stesso modo lo sguardo portato dal mondo occidentale sul 'Terzo mondo' di allora».

- Lei ha parlato recentemente su un giornale della comunità ebraica (Actualités juives) di una "marranizzazione" della vita ebraica in Francia.
  «Questo ha suscitato l'incomprensione in coloro che devono tutto alla 'comunità' e che, vedendola sfilacciarsi sanno che, con essa, perderanno una posizione sociale invidiabile che nessuno avrebbe potuto offrire loro altrove. La lucidità, talvolta, appare ben fragile quando si tratta di difendere il proprio stato sociale. 47 mila ebrei hanno abbandonato la Francia per Israele dal 2000. In questi ultimi tre anni, dal 2013 al 2015, quasi 20 mila ebrei di Francia sono partiti verso lo stato di Israele. Per la prima volta dalla fondazione dello stato ebraico nel 1948, la Francia è stata, per due anni consecutivi, il primo paese di origine degli immigranti. E tuttavia non si può parlare di un esodo di massa. Si tratta solo di un esodo diffuso, ma reale, al quale si aggiungono i flussi inquantificabili verso altri cieli. Le partenze sono probabilmente destinate a proseguire, ma la vita comunitaria continuerà. Rischia di rallentare. Soprattutto si assisterà a una 'marranizzazione' dei comportamenti, magari degli stati d'animo. L'ebraismo francese diventerà più discreto, proprio quello che sembrava fiammante negli anni Ottanta, circondato di solidarietà come in occasione della grande manifestazione di protesta contro la profanazione del cimitero ebraico di Carpentras nel 1990. Questa solidarietà sembra essere svanita. Gli ebrei lo sanno o lo sentono. I segni di appartenenza rischiano di essere relegati nella sfera privata, in una discrezione imposta. Questo ritorno alla dolcezza, evidentemente simbolico, allo stato di dhimmi, ha per corollario ciò che sembrava ancora impensabile dieci anni or sono: la chiusura di classi di scuole ebraiche per mancanza di allievi, la chiusura di negozi kasher per mancanza di clienti». Ma questa situazione ha il suo equivalente in altri paesi europei? «Almeno in Belgio, certamente. Perché la situazione della comunità ebraica di Francia si è degradata a tal punto? Tra l'altro perché la Francia alloggia il 25 per cento dei musulmani europei, cioè la più grande comunità arabo-musulmana d'Europa. Questo dimostra che, anche se il vecchio antisemitismo europeo è ben lungi dall'essere sparito, il pericolo principale viene da una parte delle sue popolazioni da poco europee. Con, alla radice di questo antigiudaismo, uno sfondo culturale esacerbato dalla nascita di Israele e l'interminabile conflitto che conosciamo. Questa situazione porta in sé la fine delle comunità ebraiche d'Europa».

- La Francia si agita per la richiesta della cittadinanza del più noto islamista: Tariq Ramadan.
  «La posizione comune tra la retorica di Tariq Ramadan (e dei Fratelli musulmani che egli rappresenta), e di una parte della sinistra, e, in particolare, dell'ultra sinistra europea, riproduce l'accoglienza fatta alla rivoluzione islamica in Iran nel 1979 quando essa visse colà la rivincita dei dominati, dei poveri e dei 'dannati della terra'. L'ultra sinistra rimane prigioniera di un messianismo che è come una camicia di forza della comprensione. E' questo che la spinge a vedere nell'islam di oggi la religione degli oppressi. Sul piano sociale, i Fratelli musulmani accreditano questa credenza, in particolare in Egitto dove hanno realizzato una politica sociale che rimedia alle 'carenze' dello stato. E così l'assimilazione diventa facile, ci si precipita dentro; consiste nel credere che il messianismo rivoluzionario di oggi passi attraverso l'islam. E questo vale non solo in seno alle società musulmane, ma nel cuore del mondo diviso dai rapporti nord-sud, dominanti-dominati. Questa visione semplicistica spinge una parte della sinistra a fraternizzare con gli elementi più reazionari ed i più lontani dal secolo dei Lumi. Tariq Ramadan ha annunciato la sua intenzione di chiedere la nazionalità francese. Questo uomo abile ha la perversione di chi sa appoggiarsi sulle debolezze delle democrazie. Egli è esperto nel mettere in luce le loro contraddizioni nel momento nel quale il Parlamento francese dibatte sulla questione della revoca della nazionalità. Ramadan ha cercato di intrappolare la democrazia francese. La sua richiesta della nazionalità francese era carica di una provocazione politica della stessa natura di quella usata e abusata dai nazisti contro la democrazia di Weimar. La mossa di Ramadan è la continuazione, in versione islamista, della tattica nazista degli anni 1930-1932 che Goebbels riassumeva spiegando che la repubblica di Weimar aveva fornito lei stessa le armi della propria disfatta. E' quanto oggi succede di fronte a un'ideologia totalitaria che è, per definizione, seducente perché totalizzante. Cioè, è tranquillizzante dal momento che offre una risposta all'inquietudine. Di fronte a questa minaccia, la democrazia che riposa sul dibattito e il compromesso sembra male attrezzata. Bisogna dunque riflettere per trovare una risposta diversa».

- Dopo il 13 novembre 2015 la Francia si è ritrovata inebetita di fronte all'ampiezza e alla gratuità della carneficina.
  «Le manifestazioni di consenso e solidarietà che seguirono agli attentati del gennaio 2015 non furono all'ordine del giorno per delle ragioni logistiche, anche perché lo stato di emergenza le impediva. Tuttavia non credo che questa sia l'unica ragione. Una parte dell'opinione pubblica era disorientata di fronte a una realtà che abbatteva i suoi schemi di pensiero. E, come spesso succede, per evitare di distruggere le abitudini intellettuali che coincidono con il racconto di una vita intera, si è tentati di gettare un velo su una realtà che disturba. Di coloro che fanno una diagnosi diversa si dirà che la loro analisi è marcata di 'semplicismo' e dai 'cliché'. Questa parte dell'opinione pubblica è probabilmente minoritaria. Ma, parlando socialmente e mediaticamente, al contrario, essa è potente, dà il la, essa decreta, sempre in filigrana, ciò che bisogna pensare e dire in pubblico. Non è pronta a dire il vero, e, dal momento che rifiuta la guerra, ad esempio, giudica che non ci sia nessuna guerra. E' per questa ragione che continua a parlare il linguaggio dell'eufemismo. Alla violenza del 13 novembre 2015 a Parigi o a quella di Bruxelles nel marzo del 2016, lei risponde con delle formule del tipo: 'Méme pas peur', 'Tous en terrasse', 'Je suis Bruxelles' o 'Amis belges, nous vous aimons'. Questo atteggiamento compassionevole è patetico. Si situa agli antipodi di un pensiero politico, emana da una società edonistica che nega la realtà della guerra che le si fa, che le si muove contro. Vittima di un disarmo intellettuale e morale che sembra ben più temibile dell'impossibilità logistica di rispondere a un pugno di assassini determinati. E tuttavia io rimango convinto che questa smobilitazione intellettuale non è che la realtà di una parte del paese. Si tratta di quella frazione della classe mediatica e intellettuale che monopolizza i mezzi per essere ascoltati e che, al contrario dei suoi proclami di principio, detesta la libertà di espressione. Al di là dell'immagine convenuta di un paese abbattuto, esiste dunque un'altra Francia che è probabilmente maggioritaria. Essa ha coscienza del pericolo ed è pronta a battersi per difendere la civiltà nella quale è nata. Essa si mobilita per la 'laicità', parola 'attrappe-tout' che significa, nella realtà, una certa forma di società nata dalla cultura francese, dalla sua storia e, in particolare, dalla sua eredità, frutto della Rivoluzione e del secolo dei Lumi». A quale scopo? «Promuovere la ragione critica, l'accantonamento del religioso nella sfera privata, la difesa dello spazio della donna nell'ambiente pubblico; infine, il rifiuto di un antisemitismo atavico. E' questo che la parola 'laicità' significa. Va ben oltre la questione religiosa».

- Il mondo occidentale, e in particolare la Francia, possono forse rinnegare il multiculturalismo esaltato in questi ultimi quaranta anni?
  «Possono disconnettere il multiculturale dal multietnico e comprendere che si può integrare tutte le origini a due condizioni. Che ci sia il desiderio di integrazione, che non è l'assimilazione. Che ci sia la coscienza di un'eredità da difendere».

- Di chi è la colpa?
  «Affermare che una parte delle élites francesi ha la sua parte di responsabilità in questo cedimento è forse dar prova di 'populismo'? Cosa aveva fatto di diverso Mare Bloch ne 'L'Étrange défaite' nel 1941? Per delle ragioni ideologiche una parte delle élites di sinistra ha la sua parte di responsabilità, a fortiori se si pensa alle raccomandazioni di Terra Nova nel 2012 e al rapporto Tuot (2013) sulle 'politiche di integrazione'. Per delle ragioni di classe ereditate dal trauma del maggio del 1968, una parte delle élites di destra porta la responsabilità condivisa del caos attuale. Quando cito il maggio 1968, non faccio riferimento al movimento studentesco che fece da catalizzatore degli 'avvenimenti', ma allo sciopero generale iniziato il 13 maggio 1968. Sono quelle élites mescolate, énarques (ex allievi dell'Ena, ndr) del partito socialista e 'benpensanti' di sinistra che frequentano i rappresentanti della grande borghesia francese che hanno difeso l'immigrazione di popolamento. Coniugata al compimento della forte crescita alla fine degli anni Sessanta, questa immigrazione di massa ha contribuito a spezzare il mondo del lavoro e del sindacalismo. Ha disorientato, socialmente e identitariamente, le classi popolari già colpite dalla disoccupazione. Queste élites hanno esaltato un multiculturalismo sinonimo, in questo quadro, di difesa del forte e di schiacciamento del debole. Circoli importanti della borghesia francese tradizionale, e in particolare il mondo del grande padronato, hanno difeso questo modello demografico (raggruppamento familiare, 1976) e sociale che significava parallelamente lo schiacciamento delle classi popolari. A contatto con una immigrazione culturalmente diversa, a volte addirittura ostile (come nel caso di una parte della immigrazione algerina, per ragioni storiche), le classi popolari furono quelle che ebbero da soffrire maggiormente del malessere identitario, di una 'insicurezza culturale' coniugata all'insicurezza della disoccupazione e della precarietà del lavoro. Mentre, di fronte, ci si abbandonava al 'déni des cultures' della quale parlava il sociologo Hugues Lagrange. E' questo mondo, quello degli operai e degli impiegati, che è stato confinato ai margini e condannato al silenzio. E' questa 'Francia periferica', così denominata dal geografo Christopher Guilluy, una Francia popolare che nel passato votava in massa a sinistra e che oggi si ritrova, spesso, nel Front National. I responsabili di questa decadenza sono da ricercare in primo luogo nelle élites borghesi, finanziarie, accademiche e culturali, di sinistra come di destra, che hanno guidato il paese dopo la scossa del maggio 1968, che rimane una delle chiavi del dramma attuale. A questo proposito, la spaccatura sinistra-destra nel senso classico del termine sembra essere poco operativa: è la destra di Giscard, detta liberale, erede di Antoine Pinay del 1951, che impose nel 1976 il ricongiungimento familiare e il Collége unique. Da parte sua, la borghesia socialista del think tank Terra Nova ha esaltato il multiculturalismo pensando di trovare nelle città con forte immigrazione (o abitata da bambini immigrati) il nuovo bacino elettorale del partito socialista. Questi pseudo fratelli nemici hanno firmato insieme la disgrazia francese».

Ha collaborato Claudia Bourdin

(Il Foglio, 5 maggio 2016)


Il potere del melograno, il laser e le nanotecnologie. Così nasce il futuro della cosmesi

Un professore ha creato un olio anti-età tratto dal frutto. E anche le università sono impegnate nello studio degli antiossidanti.


Casareccio
Il professore Ephraim Lansky aveva iniziato con un torchio sul tavolo della sua cucina
All'avanguardia
Maya Ben-Yehuda Greenwald lavora sui meccanismi di difesa naturale del corpo


di Davide Frattini

 
Il melograno Rosh Pered che cresce vicino a Binyamina, a nord di Cesarea
Il dio Ade offre a Persefone i semi di melograno per trattenerla dopo averla rapita. I medici cinesi li offrono al pazienti fin dall'antichità per allontanare Il più possibile la stessa permanenza nell'Oltretomba: secondo la tradizione favoriscono la longevità.
   La passione del professor Ephralm Lansky per il frutto rosso dalla pelle lucida e a bozzi è nata invece quasi venticinque anni fa dopo aver letto i versi del cantico dei cantici: «Tu mi inizieresti all'arte dell'amore. Ti farei bere vino aromatico e succo del mio melograno». Ha cercato di risalire dalla Bibbia a citazioni scientifiche più recenti ed è riuscito a trovare solo uno studio egiziano del 1964 che attribuiva all'olio di melograno un'alta concentrazione di fitoestrogeni.
   Nato negli Stati Uniti, non ha più lasciato Israele dopo essere stato invitato dall'università di Haifa a condurre le ricerche sul Punica Granatum, che è uno dei simboli del Paese.
   All'inizio il tavolo della cucina di casa faceva parte del laboratorio: Lansky estraeva uno alla volta i semi da spremere con una pressa a freddo, ci vogliono 500 chili di melograno per produrre un chilo di olio. Adesso il processo è svolto dalla società che ha fondato, la Rimonest. «Creiamo un'emulsione concentrata che contiene tutte le parti della pianta oltre ai semi: le foglie, i fiori, la buccia. Può essere presa come integratore alimentare per abbassare il colesterolo o spalmata sulla pelle con effetti rigenerativi e anti-età».
   Secondo una ricerca condotta nel 2008 dall'università della California e dal Rambam Medicai Center israeliano, il melograno contiene la più alta concentrazione di antiossidanti se confrontato con il vino rosso, il succo di mirtilli o di ribes, l'açai brasiliano.
   Gli «incubatori» israeliani non allevano solo le start-up che creano l'ultima app da rivendere per miliardi di dollari. Le prime ricerche di Lansky sono state sponsorizzate dal centro per l'innovazione del Technion di Haifa, il politecnico della città sulla costa a noni, 400 mila dollari spesi anche per far fermentare un liquore di melograno, progetto per adesso accantonato anche se lo scienziato non ha rinunciato all'idea dell'elisir di lunga vita.
   Un'altra scoperta che potrebbe rivoluzionare i prodotti cosmetici è cresciuta all'università ebraica di Gerusalemme. Maya BenYehuda Greenwald ha lavorato per il dottorato di ricerca sulle nanotecnologie che aumentano i meccanismi di difesa naturale del corpo: sono gocce minuscole di una microemulsione da applicare sulla pelle per attivare la proteina antiossidante Nrf2 e riuscire così a ridurre la produzione di radicali liberi. «La nostra formula può essere usata come prevenzione o per trattare danni da sovraesposizione al sole o infiammazioni».
   In un Paese da sempre in guerra, la ricerca deve anche affrontare agenti più aggressivi dei raggi UV: la ricostruzione cutanea. gli interventi contro le ustioni, le protesi.
   L'esercito ha un suo capo dermatologo ed è a lui che si è rivolto Il dottor David Friedman. Esperto nella chirurgia al laser, ha offerto cli curare le vittime degli attacchi con i pugnali: dagli inizi dello scorso ottobre non si è mai fermata quella che è stata definita «intifada dei coltelli», gli assalti dei palestinesi contro i soldati e i civili, «I trattamenti con il Laser Co2 frazionato - spiega - sono i migliori per rimuovere le cicatrici. Così possiamo alleviare il trauma di chi potrebbe restare sfigurato».

(Corriere della Sera Beauty, 5 maggio 2016)


Israele apre un ufficio alla Nato. Sconfitta la Turchia

di Gianandrea Galani

Nel giorno in cui torna scaldarsi il confine con la Striscia di Gaza con scontri tra truppe israeliane e miliziani di Hamas e Iihad Islamica, Gerusalemme ottiene un importante successo diplomatico con l'invito della Nato ad aprire una rappresentanza permanente presso il proprio quartier generale a Bruxelles.
   «È un passo importante, un obiettivo al quale abbiamo lavorato da anni» ha detto Netanyahu nella riunione di governo di ieri. «Il mondo è interessato a collaborare con noi per la nostra determinazione nella lotta contro il terrorismo, per le nostre conoscenze tecnologiche, per la nostra copertura di intelligence e per alni motivi ancora».
   L'iniziativa si inserisce in un contesto che vede già da tempo rapporti molto stretti tra lo Stato Ebraico e molti membri dell'alleanza nel settore della difesa e sicurezza, specie ora che l'Europa si trova in prima linea contro la minaccia portata dallo Stato Islamico.
   Sul piano diplomatico l'invito a Israele costituisce un'importante apertura da parte della Turchia, il cui governo islamista sostiene apertamente Hamas e finora aveva posto il veto all'apertura dell'ufficio di Gerusalemme a Bruxelles.
   Le pressioni degli alleati sembrano quindi aver moderato la posizione di Ankara, che già dal dicembre scorso sta riallacciando rapporti con Gerusalemme. I due paesi sono stati a lungo legati da una robusta alleanza politica e militare. Il successo conseguito dal «lungo sforzo diplomatico» di Gerusalemme costituisce un successo politico personale per il primo ministro Benjamin Netanyahu, dopo una stagione di aspre critiche internazionali per la politica degli insediamenti ebraici e dopo il progressivo raffreddamento dell'alleanza storica con gli Stati Uniti determinatasi con l'Amministrazione Obama.
   Per Netanyahu l'invito della Nato è «un passo importante che migliorerà la sicurezza di Israele» mentre sul piano strettamente militare sarà ora più facile intensificare lo scambio reciproco di informazioni specie sul fronte del contrasto al terrorismo islamico. Fin da subito dopo gli attentati negli Stati Uniti dell'11 settembre 2001 la Nato ha schierato nel Mediterraneo Orientale la flotta dell'operazione Active Endeavour con lo scopo di monitorare il traffico marittimo e i movimenti di miliziani e terroristi in uno scacchiere che comprende anche Israele.
   I nuovi rapporti con la Nato non implicano una futura adesione dello Stato Ebraico all'Alleanza né doveri degli alleati per la difesa di Israele (sono 40 i Paesi legati alla Nato da rapporti di partenariato) ma rinsaldano la cooperazione nei settori di comune interesse.
   Israele è membro del Dialogo Mediterraneo della Nato fin dalla sua nascita, nel 1994, insieme a sei Stati arabi: Egitto, Algeria, Tunisia, Giordania, Mauritania e Marocco. Paesi con cui la Nato ha interesse a cooperare nella lotta al terrorismo. Ieri anche la Giordania è stata invitata ad aprire una rappresentanza presso il quartier generale della Nato.

(Libero, 5 maggio 2016)


L' Ospedale Israelitico Sanità funziona a pieno regime

Dopo la bufera è tornato il sereno. A circa un mese dal riaccreditamento effettuate 30.000 prestazioni. Salutare il cambio dei vertici voluto dalla Comunità Ebraica.

di Valentina Conti

 
ROMA - Riparte l'Ospedale Israelitico. A un mese dal riaccreditamento, quasi30.000 prestazioni ambulatoriali effettuate ed oltre 22.000 appuntamenti prenotati. Dopo la vicenda degli arresti che hanno coinvolto i vertici della struttura sanitaria, da parte della Comunità ebraica è arrivata, a novembre scorso, come noto, la nomina tempestiva di Alfonso a commissario straordinario al fine di riportare ordine. A fine gennaio è stato, poi, nominato il nuovo direttore sanitario Amalia Allocca, ex direttore al Policlinico Umberto I e new entry di prim'ordine e, a febbraio, è scattata anche la nomina del commissario prefettizio Narciso Mostarda per la gestione straordinaria e temporanea della struttura. Un connubio operativo che ha condotto a far decollare una «nuova era». A fine dicembre ha riaperto privatamente la sede dell'Isola Tiberina, successivamente le altre due di via Fulva e via Veronese. Dal 15 al 31 marzo sono state 106 le degenze ordinarie (il numero più alto raggiunto ad Ortopedia e Geriatria, reparti specialistici di spicco su cui punterà anche nei prossimi mesi), 311 i pazienti dimessi solo nel mese di aprile. L'otto marzo, in occasione della festa della donna, e il 13 marzo sono state offerte 441 visite ambulatoriali gratuite, quasi 200 di tipo dermatologico, 141 ginecologiche. Operatori si recheranno, inoltre, nelle scuole per effettuare test di celiachia e nei centri anziani per compiere attività di informazione e prevenzione. «L'Ospedale ha riaperto prima in privato e poi col riaccreditamento, da 40 giorni funziona e pieno regime; ha trovato una grande risposta nei pazienti, quelli che sono tornati e quelli che si sono aggiunti con nuove visite. Abbiamo le liste d'attesa piene; ancora, abbiamo avviato campagne promozionali mirate ed altre ne seguiranno a breve», evidenzia il commissario Celotto. «Il tutto grazie ad una buona sinergia tra i due commissari - il sotto scritto e Mostarda - che dimostra che è possibile prendere in mano una struttura in crisi e farla tornare alla vita, insomma una scommessa vinta per una struttura sanitaria importante. Le prossime novità? Stiamo preparando aperture serali, oltre a quella domenicale già esistente in rispetto alle tradizioni ebraiche che favorisce di certo gli afflussi in termini di agevolazione delle cure».

(Il Tempo, 5 maggio 2016)



Parashà della settimana: Kedoshim (Santi)
    Fulvio Canetti ci ha inviato da Gerusalemme un altro suo commento alla parashà della settimana, dichiarando la sua disponibilità a mandarcene ancora e a permettere che siano riportati sul nostro sito. Abbiamo accettato volentieri e con lui abbiamo concordato di presentare il suo commento, seguito da una nostra riflessione sul medesimo passo biblico. Non si tratterà di una lettura ecumenica e neppure di un dialogo, ma dell'accostamento di due diversi approcci al testo biblico, da entrambe le parti considerato come autorevole parola di Dio. Anche le diversità che certamente emergeranno potranno essere per il lettore un invito a interrogarsi sul proprio modo di intendere quel passo e, più in generale, di leggere la Bibbia. Se la legge. Per accogliere l'invito dunque la prima cosa da fare sarebbe di leggere davvero la Bibbia, a cominciare eventualmente dal testo di questa parashà, che riguarda i capitoli 19 e 20 del Levitico e porta il nome "Kedoshim" (santi), tratto dal primo versetto del capitolo 19.
Levitico 19:1-20:27

 - La parashà di questo sabato 7 maggio - 29 Nissan che verrà letta nella sinagoga è quella di Kedoshim. Cosa significa la parola Kedoshim? La Bibbia concordata traduce questa parola con ''santi''. Il vero significato di Kedoshim è quello di tenersi lontano dal "male'' per avvicinarsi alla ''santità'' in quanto solo D.o Benedetto è Santo. ''Siate santi perché I-o sono santo l'Eterno vostro D.o'' (Levitico 19.2).
Rashì nel suo commento alla Torah, riporta questa definizione della santità: "Allontanati dalla corruzione e troverai la santità''.
La parashà di Kedoshim è situata nel mezzo dei cinque libri di Torah e il suo invito alla santificazione della nostra vita rappresenta il punto culminante della tradizione biblica. La parashà è un faro di luce su questo ideale della santità a cui l'uomo deve dedicare la sua stessa esistenza.
Quali sono in sintesi gli argomenti principali della nostra parashà?
I doveri verso il povero e lo straniero, lasciando a costoro di usufruire dell'angolo del campo durante la mietitura, l'onestà sociale evitando la menzogna e la calunnia del prossimo, l'appello alla giustizia e il divieto di rapporti sessuali proibiti.
Solo percorrendo questo sentiero rettilineo l'uomo può mettere in pratica il comandamento di ''amare il suo prossimo'' avvicinandosi alla santità.
La parashà offre argomenti etici diversi come è stato detto, ma per semplicità di esposizione ne analizzerò soltanto alcuni.
''Non commettete iniquità nel giudizio, non aver riguardo al misero e non onorare il grande. Con equità giudicherai il tuo prossimo'' (Levitico 19:15).
La Torah comanda di non favorire i potenti nel giudizio né di aver riguardo del povero in tribunale, mostrando un grande rispetto per l'uomo e una grande sensibilità per la miseria umana.
Un giudice difatti in loro nome (ricchezza o povertà) potrebbe falsificare l'esito di un processo, alterando la verità.
Altro punto fermo della nostra parashà è il divieto di praticare l'idolatria.
''Non rivolgetevi agli idoli e non fatevi Dei di metallo fusi. I-o sono il Signore vostro D-o" (Levitico 19:5).
Il culto del Faraone verso il Nilo, considerato da questi una Divinità, consisteva nel praticare i suoi bisogni mattutini nel fiume. Questo rito religioso era ritenuto ''sacrosanto giusto'' dalla società egiziana, condizionata dal potere del Faraone.
Ancora oggi questo pensiero idolatra domina le nostre società. Le varie ideologie sul razzismo, sul terrorismo ecc. che pur essendo delle menzogne passano per verità. Sono in realtà espressioni manifeste di idolatria che vuole giustificare l'ingiustificabile per mantenere il suo potere liberticida sull'uomo.
Voglio ora analizzare un altro argomento riportato dalla parashà di Kedoshim, riguardo ai rapporti sessuali proibiti.
''E qualora un uomo commetta adulterio con la moglie di un altro, verrà fatto morire''. Lev. 20.10
Al posto di enunciare teorie come ad esempio "il matrimonio è un'istituzione divina che possiede un carattere sacro'' la Torah proclama una Legge etica il cui significato è quello di conferire un segno di santità all'insieme della morale sessuale.
Ed ancora sullo stesso tema. "Qualora un uomo si unisca con un maschio come con una donna ambedue avranno commesso una cosa abominevole (to'èvà)" Lev. 20.18
Ogni forma di depravazione sessuale viene condannata e l'omossessualità viene definita una cosa ''abominevole'' per la sua intrinseca immoralità. Elevare a legge l'omosessualità come accade nelle nostre società, per dare a questa una normalizzazione del tipo contratto matrimoniale è contro natura.
L'uomo in questo modo di fare pretende di trasformare i suoi difetti in ideologia morale per nascondere le sue ipocrisie e le sue menzogne.
Questi tre argomenti scelti dalla parashà di Kedoshim come la giustizia, l'idolatria e la depravazione sessuale non sono stati scelti a caso. Difatti queste regole morali sono presenti anche nel codice di Leggi noachite, la cui osservanza spetta ai figli di Noè. Sarebbe interessante un confronto e un dibattito su questi temi nell'intento di sviluppare un dialogo costruttivo tra esseri umani e non tra religioni. L'etica può unire, la religione può dividere. F.C.


*


 - Per leggere con attenzione un testo biblico e trarne profitto, un buon metodo è quello di porre attenzione ai verbi e abituarsi a distinguere tra forma imperativa e forma indicativa. Un testo come quello ora in esame è pieno di imperativi: osservate i miei sabati, non vi rivolgete agli idoli, non ruberete, non giurerete, non odierai, non ti vendicherai, ecc. Davanti a una tale mole di precetti, la reazione più spontanea è quella di cominciare a catalogarli e collocarli: questo sì, questo no, questo forse sì, questo assolutamente no, e così via. Se poi i lettori sono più di uno, sorgono subito interessanti e vivaci discussioni, in cui si raccomanda il massimo reciproco rispetto. Perché il bello del testo, secondo alcuni, sta proprio nel fatto che provoca dibattiti a non finire, dove naturalmente alla fine ognuno deve essere lasciato libero di pensare e fare quello che gli pare. E' l'imperativo categorico della moralità democratica.
  Ma ogni imperativo è sempre logicamente preceduto da un indicativo che ne rivela la ragione e ne costituisce il fondamento. Nel nostro caso, questo è evidente fin dal primo versetto: "Siate santi (imperativo), perché io, l'Eterno vostro, sono santo (indicativo)". E' su quell'indicativo, o meglio, sul soggetto di quell'indicativo (perché in ebraico il verbo essere all'indicativo non si esprime) che innanzi tutto dovrebbe rivolgersi l'attenzione, ed eventualmente la discussione. Più di quaranta volte in questi due capitoli è ripetuto, in un modo che noi moderni diremmo ossessivo, l'intercalare incessante: io sono l'Eterno, io sono l'Eterno vostro, io sono l'Eterno, io sono l'Eterno..." Se qualcuno mi si presentasse davanti e cominciasse a darmi degli ordini, come prima cosa non mi metterei a valutare se sono ordini ragionevoli o no, ma gli chiederei di brutto muso: ma tu chi sei? come ti permetti di darmi degli ordini? Con quell'indicativo ripetuto l'Eterno voleva rispondere preventivamente a una simile domanda che gli poteva essere rivolta dal popolo. Ma dicendo "Eterno" (il tetragramma che non si pronuncia), il Signore non si presenta al popolo per la prima volta, ma semplicemente gli ricorda chi è e quello che ha fatto per lui: "Io, l'Eterno vostro, vi ho separato dagli altri popoli" (19:24), "Mi sarete santi, poiché io, l'Eterno, sono santo, e vi ho separato dagli altri popoli perché foste miei" (19:26).
  Il popolo di cui qui si parla è indubbiamente il popolo ebraico. Si suppone allora che chi ne è membro ricordi sempre che appartiene a un popolo che esiste solo perché Qualcuno ha voluto separarlo dagli altri popoli. Dovrebbe quindi essere interessato prima di tutto a questo Qualcuno. Chi è? Perché ha fatto questo? Che cosa voleva? Che cosa vuole ora?
  Quanto a me che scrivo, so con certezza di non appartenere a quel popolo, quindi potrei dire come il Faraone: "Chi è l'Eterno? Io non conosco l'Eterno". Di conseguenza, pur non potendo per motivi tecnici fare quello che il Faraone ha tentato di fare molti secoli fa, potrei assumere l'atteggiamento dell'antisemita moderato di oggi e limitarmi a desiderare di essere liberato una volta per tutte da questo fastidioso popolo che non cessa mai di considerarsi "santo", cioè separato da me, come da tutti gli altri che non sono dei loro.
  Ma non è così. Leggendo le parole di questa parashà, avrei potuto sentirmi escluso, ingelosito, irritato per una strana, ingiustificata, sgradevole preferenza; e invece mi sento attratto. Attratto dalle parole di questo Dio. Perché ho imparato a conoscerlo. E quindi ad amarlo. Perché adesso so che l'amore nascosto in quella parola formalmente così esclusiva: "Io sono l'Eterno vostro", era destinato ad arrivare anche a chi, come me, non appartiene a quel popolo.
  Non è il caso di dire altro in questa sede, ma tra tutti gli ordini elencati in questo passo, dico che non mi sento particolarmente attratto dai "precetti noachici" che sarebbero indirizzati anche a me in quanto "goy", ma piuttosto da un particolare ordine rivolto non a me, ma ai membri del popolo: "Quando qualche forestiero soggiornerà fra voi nel vostro paese, non gli farete torto. Il forestiero che soggiorna fra voi, lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l'amerai come te stesso; poiché anche voi foste forestieri nel paese d'Egitto. Io sono l'Eterno vostro" (19:33-34). Grandioso! Un Dio che dà questi ordini al suo popolo mi fa capire che vuol essere anche il mio Dio. Ed è così. Per me e per tanti altri come me. Pur senza essere, né voler essere, di quel popolo. Ma amando quel popolo che Dio continua ad amare. M.C.

(Notizie su Israele, 5 maggio 2016)


Netanyahu allo Yad Vashem: la Shoah non si ripeterà

Che la luce prevalga sulle tenebre e la verità sulle menzogne

In un appassionato discorso pronunciato al Museo Yad Vashem di Gerusalemme nella giornata in cui Israele ricorda lo sterminio di sei milioni di ebrei da parte dei nazisti, Benyamin Netanyahu ha pronunciato il solenne impegno che ''non ci sarà una nuova Shoah''. ''Dobbiamo impedire che un disastro del genere possa mai ripetersi'' ha detto ancora il premier nel trarre un diretto parallelo tra le ''menzogne'' dirette allora contro gli ebrei e quelle che oggi sono addossate nei confronti dello Stato ebraico. ''Siamo rappresentati come una minaccia per l'umanità, ci accusano perfino di essere responsabili degli attentati di Parigi'' ha esclamato con indignazione Netanyahu, che non ha risparmiato parole di biasimo nei confronti non solo dell'Islam estremista, ma anche di quegli esponenti della cosiddetta ''umanità progressista'' che lo assecondano: in Gran Bretagna, in Svezia, e all'Unesco. Israele, ha proseguito Netanyahu, è determinato comunque ad ingaggiare battaglia" al fine che la luce prevalga sulle tenebre, che la verità sconfigga la menzogna''.

(ANSAmed, 4 maggio 2016)


L'ira di Israele per i funerali del palestinese Shehada

Scatenano l'ira di Israele i funerali del palestinese Ahmed Reyad Shehada che si sono svolti in Cisgiordania, a Bitunia. Il 36enne è stato ucciso ieri dai soldati israeliani dopo che si era scagliato con la sua automobile contro un posto di blocco vicino a Ramallah. Tre soldati sono rimasti feriti gravemente.
"Restituire i corpi degli aggressori alle famiglie è un errore grave che favorisce il prossimo attacco. Così come demoliamo le case degli assassini allo stesso modo dovremmo evitare di offrire loro la sepoltura. Non c'è motivo di fare un regalo alle loro famiglie", ha dichiarato il Ministro dell'Istruzione israeliano Naftali Bennet.
Pugno di ferro del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu contro la recente ondata di violenza. La demolizione delle abitazioni dei palestinesi responsabili di attentati contro israeliani è una delle misure rafforzate dal governo.

(euronews, 4 maggio 2016)


Centro Kantor: diminuiscono gli attacchi agli ebrei

Gli "attacchi violenti" contro le comunità ebraiche sono scesi ovunque nel 2015 "in modo significativo" (il 46% circa), nonostante un aumento dell'antisemitismo "istituzionale".
Lo segnala il rapporto annuale del Centro Kantor per lo studio dell'ebraismo europeo dell'Università di Tel Aviv, diffuso oggi alla vigilia in Israele del Giorno dedicato alla Memoria della Shoah.
Nel 2015 - secondo i dati - gli "attacchi violenti" registrati sono stati 410 rispetto ai 766 del 2014. L'antisemitismo "istituzionale" e "la diffamazione contro il popolo ebraico" - ha osservato Moshé Kantor, che è presidente del Congresso ebraico europeo - restano però "allo stesso livello" e "forse più alto".
A questo proposito Kantor ha sottolineato la recente vicenda dei laburisti inglesi, "ultimo esempio di un antisemitismo che rialza la testa". Il rapporto attribuisce la forte diminuzione degli attacchi anche "alle massicce misure di sicurezza adottate attorno alle comunità ebraiche" dopo gli attacchi di gennaio dell'anno scorso a Parigi.

(swissinfo.ch, 4 maggio 2016)


Monitor, sensori e droni nella centrale hi-tech di Israele

Cupola di Fuoco anti-attacchi

di Giordano Stabile

Si chiama Cupola di Fuoco il centro di comando più segreto di Israele, dove convergono milioni di informazioni, immagini, riprese in tempo reale da migliaia di sensori, telecamere e droni in volo sui confini più caldi. In particolare quelli con il Libano e la Siria. È da queste stanze iperconnesse che gli ufficiali danno l'ordine di colpire il nemico. E ora si trovano di fronte, sulle alture del Golan, la più pericolosa organizzazione terroristica, l'Isis.
   Dopo centinaia di intrusioni sventate, la Cupola di Fuoco ha subito un aggiornamento tecnologico che ora permette al comandante di turno di osservare anche la distruzione effettiva di dozzine di bersagli alla volta. E di poter reagire «nel giro di secondi». Il sistema di controllo computerizzato, con centinaia di monitor controllati 24 ore su 24, serve soprattutto a evitare infiltrazioni di terroristi. «La sfida non è solo identificare e neutralizzare singole cellule - ha spiegato di recente a "Ynet" il colonnello della Divisione Golan Guy Markizno -. Ma è anche quella di colpire un gran numero di obiettivi contemporaneamente».
   Il nuovo sistema computerizzato ha un'interfaccia semplice da usare che mostra le immagini su grandi schermi ad alta risoluzione, simile a quello di Facebook. Ma è solo la parte visibile. La parte tenuta segreta non ha un nome. Consiste in algoritmi in grado di calcolare in pochi secondi, e senza apporto umano, quali missili, proiettili o bombe sono i più adatti per a distruggere i bersagli. Il reparto «bersagli» della Divisione Golan, una delle forze d'élite dell'esercito israeliano, è stato costituito due anni fa. «La situazione nel Golan è molto più complessa che a Gaza o in Libano, dove è chiaro chi è il nemico - continua il colonnello Markizno -. Nel Golan ci sono molti "centri di potere". Un giorno si combattono, il giorno dopo si alleano. Bisogna analizzare le sfumature: per esempio la Brigata Martiri di Yarmouk, affiliata all'Isis, combatte per il territorio mentre Jabat al-Nusra (Al-Qaeda) combatte per l'ideologia».
   In questo caos, l'esercito israeliano si sta preparando a un attacco su larga scala. Due settimane fa la Divisione Golan si è esercitata sul terreno, con incursioni simulate in Siria, proprio a respingere questo tipo di minaccia che un computer, per quanto super, non potrebbe sconfiggere senza l'apporto umano.

(La Stampa, 4 maggio 2016)


Israele-Nato: rappresentanza israeliana ufficialmente riconosciuta dall’Alleanza atlantica

GERUSALEMME - La Nato riconoscerà un rappresentante ufficiale di Israele e garantirà una sede permanente al governo israeliano all'interno del quartier generale dell'Alleanza atlantica a Bruxelles. Questo è quanto riferisce un comunicato del Ministero degli Esteri di Tel Aviv
: "La Nato ha informato Israele che il paese potrà aprire un ufficio di rappresentanza presso il quartier generale di Bruxelles, e potrà completare le procedure di accettazione delle credenziali dei propri rappresentanti presso l'Alleanza atlantica". Come continua il comunicato, "questo annuncio arriva in seguito ai diffusi sforzi diplomatici di Israele, compiuti in particolare dal ministero degli Esteri, il ministero della Difesa e l'Agenzia di sicurezza nazionale. Israele ringrazia sentitamente tutti i suoi alleati in seno all'Alleanza, per il sostegno e l'impegno mostrati sul tema".

(Agenzia Nova, 4 maggio 2016)


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Nato: Israele avrà un ufficio permanente a Bruxelles

Netanyahu: "Passo importante, riconosce il nostro ruolo"

GERUSALEMME - Il premier Benyamin Netanyahu ha detto che Israele accetterà l'invito giunto ieri sera dalla Nato ad aprire un proprio ufficio permanente nel quartier generale dell'organizzazione a Bruxelles.
"E' un passo importante. E' un obiettivo al quale abbiamo lavorato da anni - ha detto Netanyahu nella riunione di governo di oggi -. Penso che sia importante per lo status di Israele nel mondo. I paesi del mondo sono interessati a collaborare con noi alla nostra determinata lotta contro il terrorismo, per le nostre conoscenze tecnologiche, per le nostra coperture di intelligence e per altri motivi ancora".
La mossa, hanno fatto notare i media, costituisce un significativo riconoscimento dei legami tra Israele e i 28 paesi della Nato, e finora era stata bloccata dalla Turchia dopo l'incidente della Mavi Marmara. Allo stato attuale Israele è partner nel Dialo Mediterraneo della Nato, insieme ad altri sei paesi: Egitto, Algeria, Tunisia, Giordania, Mauritania e Marocco.

(ANSAmed, 4 maggio 2016)


"L'etica non è una gara. E' un impegno"

di Daniel Reichel

 
Daniel Reichel
"Partiamo da un assunto. Israele è una democrazia e uno dei suoi fondamenti è la tutela della dignità umana. Un principio valido sempre, fondamentale anche all'interno dell'etica militare. Per questo il concetto di uccidere è da considerare, in linea generale, sempre sbagliato. Nello specifico, uccidere un terrorista è permesso solo nel caso in cui non vi sia un'altra alternativa efficace per renderlo inoffensivo. E l'extrema ratio" Anche quando si è di fronte a un terrorista si ha davanti un essere umano, spiega a Pagine Ebraiche Asa Kasher, filosofo e linguista israeliano, e i soldati ne devono tenere conto. Così è previsto nel Codice etico che l'esercito israeliano, Tsahal, si è dato e che è stato redatto nei primi anni Novanta dallo stesso Kasher. E il filosofo ha voluto ribadire questo concetto rivolgendosi in particolare a chi ha preso posizione sul caso del soldato di Tsahal che lo scorso marzo a Hebron ha ucciso un terrorista palestinese mentre era a terra disarmato. Il fatto è stato ripreso da un fotografo palestinese e diffuso sui media da un'organizzazione della sinistra radicale israeliana, B'Tselem, Ne è nato un dibattito pubblico in Israele - e non solo - con prese di posizione a favore del soldato che a Kasher non sono piaciute. "Quello che ha fatto è estremamente sbagliato; ha violato il protocollo, ha violato il codice etico e questo è stato appurato da un'inchiesta militare".
   "Nonostante ciò - scriveva proprio Kasher su un articolo pubblicato dall'americano Forward - il ministero della sicurezza interna, diversi membri della Knesset e molti partecipanti ai dibattiti pubblici hanno proposto una visione diversa delle circostanze: chiunque intenda uccidere o ferire ebrei in un atto di jihad dove sapere che lui o lei non ne uscirà vivo. Questa visione è sbagliata e pericolosa. Il generale Eizenkot, il capo di stato maggiore dell'esercito, ha correttamente detto un po' di tempo fa che non c'è giustificazione per svuotare un caricatore su una ragazzina che ha in mano un paio di forbici che ha intenzione di usare contro qualche passante ebreo. Persino un nemico combattente che ha appena ucciso i tuoi compagni deve essere catturato e trattato appropriatamente, perché non mette più a rischio la vita di nessuno, ed è una persona la cui dignità umana deve essere a questo punto protetta da mezzi ordinari. Noi non uccidiamo i prigionieri di guerra, che sono nemici combattenti professionisti, e ancora di più, non uccidiamo i terroristi una volta resi inoffensivi". Per il filosofo c'è stata un'errata interpretazione dei fatti: alcuni hanno pensato che la condanna arrivata dal ministro della Difesa e dal capo di Stato maggiore fosse legata alla diffusione del video. "Una idea errata" perché "una ONG che ha spesso cooperato con i nemici di Israele in campagne internazionali contro l'esercito" non può avere e non ha avuto un ruolo nelle valutazioni dei vertici della Difesa, ribadisce Kasher: "Le tensioni politiche nella società israeliana sono forti e significative, ma la loro manifestazione spesso si fonda su errori e incomprensioni, diventando rozza e rumorosa". E ad avere responsabilità in queste distorsioni vi si sono anche i vertici della politica: "Viviamo in una perenne campagna elettorale e questo genera una tensione insostenibile. Che i politici sotto elezioni dicano cose più estreme è normale, basta vedere le primarie americane. È un modo per attirare elettori. Ma la campagna elettorale a un certo punto finisce e arriva la calma. Qui no, Si vive in una costante atmosfera di divisione, polemiche e conflittualità. Il troppo stroppia. I politici devono cambiare questo atteggiamento". A preoccupare Kasher anche l'abuso di termini come "nazista, fascista, collaborazionista" usati come armi contro gli avversari politici all'interno del dibattito in Israele. "Queste espressioni forti non sono una novità ma credo indichino un fallimento del sistema educativo nazionale. Bisogna cambiare registro perché ci stiamo dirigendo verso una brutta china". E i social network ne sono una testimonianza: "Su quelle piattaforme le persone parlano senza filtri ma è un errore di prospettiva pensare che prima non esistessero". Ora parlano a sproposito ma da dietro una tastiera, il concetto espresso da Kasher che però mette in guardia dal ritenere debole il tessuto etico della società israeliana. "La nostra democrazia non è perfetta ma quale lo è? Qui non si tratta di competizioni ma di avere a cuore la dignità umana e Israele è impegnata giorno per giorno a rafforzarne la tutela. Anche per quanto riguarda il suo esercito: è inutile definire Tsahal il più etico del mondo perché non è una gara. Quello che è importante è aggiornare costantemente i nostri standard, migliorare, e il nostro esercito lo fa".

(Pagine Ebraiche, maggio 2016)


Bruciò un ragazzino palestinese. Tribunale israeliano lo condanna all’ergastolo

Yosef Ben David, l'uomo israeliano accusato di aver rapito e poi ucciso immolandolo il ragazzino palestinese Abu Khdeir, è stato condannato all'ergastolo da un tribunale israeliano.
Questa la notizia arrivata martedì 3 maggio da Gerusalemme, città in cui è avvenuta la tragedia.
Gli avvocati difensori di David avevano chiesto l'infermità mentale ma il tribunale ha negato questa eventualità e ha emesso il suo duro verdetto.
Oltre all'ergastolo, David è tenuto a un risarcimento di 150 mila shekel ai parenti della vittima e ha ottenuto una pena suppletiva di 20 anni di carcere.
Dopo aver appreso la sentenza, David si è rivolto ai genitori del ragazzino, implorando il loro perdono e dichiarando che ha sempre avuto rispetto per le persone di razza ed etnia diversa; il cruento atto nei confronti di Abu sarebbe stato compiuto poiché David si considera mentalmente instabile e quindi non responsabile delle sue azioni.
A questa dichiarazione, i genitori del ragazzino hanno risposto duramente, dichiarando che David resta un assassino e che merita la pena di morte per ciò che ha fatto.
Gli avvocati dell'accusa avevano inizialmente chiesto una pena record per David: 60 anni di carcere. La sentenza definitiva è stata comunque accolta positivamente dall'accusa, che ha scongiurato ogni possibilità di richiesta di una grazia da parte di David.

(Notizie.it, 4 maggio 2016)


Nessuno scandalo, è pieno di antisemiti

I laburisti cacciati sono in buona compagnia di Nobel e scrittori

Parlamentari e consiglieri comunali che suggeriscono di spostare Israele in America, che twittano sugli ebrei che bevono il sangue dei palestinesi o che dichiarano che lo stato ebraico è come il nazismo. Benvenuti nella più grande crisi politica recente del Labour inglese, dove cinquanta rappresentanti del partito sono stati sospesi a causa dell'antisemitismo. Ma nulla di eccezionale: è il nuovo mainstream europeo. Qual è l'unico paese la cui esistenza è contestata in tv, sui giornali, nei Parlamenti, nelle piazze del Vecchio continente? Non lo Zimbabwe, non Tuvalu, nemmeno il Tibet. Quel paese è Israele, l'unico che scrittori, giornalisti, intellettuali e premi Nobel demonizzano e criminalizzano ogni giorno. Tempo fa, su Repubblica, Dario Fo aveva parlato della "loro (gli ebrei, ndr) brutalità contro coloro che seguono altre religioni, come accade oggi". Quei laburisti sospesi dal partito non hanno detto nulla di peggio. E che dire di Jostein Gaarder, l'autore del "Mondo di Sofia", che si è augurato l'espulsione di tutto il popolo ebraico dalla loro terra? Che pensare di Giinter Grass, che ha pubblicato una poesia in cui definisce Israele l'istigatore di ogni tipo di caos? Vogliamo parlare di José Saramago, un altro Nobel che ha paragonato Ramallah ad Auschwitz, aggiungendo che il popolo ebraico non merita più "la simpatia per la sofferenza che ha attraversato durante l'Olocausto". Questo è il modo in cui milioni di europei sono stati persuasi a vedere Israele come l'aggressore e i terroristi palestinesi come le vittime. Sarebbe da chiedere scusa a quei laburisti cacciati dal partito: vox populi, altro che scandalo isolato.

(Il Foglio, 4 maggio 2016)


Ken Livingstone e l'antisemitismo di sinistra

di Michele Magno

Hanno suscitato scalpore le affermazioni di Ken Livingstone, ex sindaco di Londra e esponente di spicco del Labour (ora sospeso dal partito), sul protosionismo di Hitler. Non c'è da stupirsi. Si tratta dell'ennesimo esempio di quell'antisemitismo di sinistra che August Bebel, in un rapporto al congresso di Colonia della socialdemocrazia tedesca nel 1893, definì il "socialismo degli imbecilli". Quest'ultimo rispecchiò anche la cecità di una parte determinante del movimento operaio di fronte alla cittadinanza moderna e al libero mercato, a cui era legata l'emancipazione giuridica degli ebrei. Purtroppo, la storia del "socialismo degli imbecilli" non si è conclusa nella voragine dell'Olocausto, così come i meccanismi della falsificazione non si sono arrestati con la fabbricazione dei "Protocolli dei savi anziani di Sion". Al contrario, essi si sono rinnovati incessantemente fino ai nostri giorni attraverso la manipolazione della memoria e della verità storica.

(formiche.net, 4 maggio 2016)



Equivalenza politica

Gli ebrei di sinistra stanno a Netanyahu
come
Gli antisemiti di sinistra stanno a Israele
N.B. Come tutti sanno, in una equivalenza sono uguali i rapporti, non i termini. Non si dice quindi che gli ebrei di sinistra sono uguali agli antisemiti di sinistra. Però....

 


La Knesset discuterà una proposta di legge sul limite dei mandati del Primo Ministro

GERUSALEMME - Il parlamento israeliano, la Knesset, affronterà nella sessione estiva la discussione e l'eventuale voto su un disegno di legge che limiterebbe a due il numero di mandati per la carica di Primo Ministro. Il disegno di legge è stato proposto dall'Unione Sionista, partito di centrosinistra, ma starebbe causando diversi problemi all'interno del Likud, il partito del premier Benjamin Netanyahu. Come riferisce il sito israeliano "Yedioth", alcuni esponenti del Likud sarebbero intenzionati a votare a favore del disegno di legge, che è stato sottoscritto da tutti i partiti d'opposizione. Il primo nemico della legge in questione sarebbe invece lo stesso premier Netanyahu, impegnato ad impedire un accordo dei vari gruppi parlamentari in materia. Netanyahu, che al momento sta ricoprendo l'incarico di Primo Ministro per la quarta volta (e per la terza consecutiva), teme che l'approvazione della legge possa gettare discredito sulla sua figura politica. Il disegno di legge non andrebbe comunque ad interrompere l'attuale mandato del premier israeliano.

(Agenzia Nova, 3 maggio 2016)


Convegno su Israele, il rettore tira dritto: "Polemica pretestuosa, non è un talk show"

di Jacopo Ricca

Il rettore Gianmaria Ajani
«Una polemica pretestuosa che non ha nulla a che vedere col valore scientifico di un convegno ampio, dove si affronta un tema importante come il Medio Oriente». Il rettore Gianmaria Ajani respinge al mittente le accuse di guidare un ateneo «da tempo piegato su posizioni filopalestinesi» arrivate dal capogruppo della Lega Nord in consiglio comunale, Fabrizio Ricca, parole a cui si è unita la professoressa di Geografia Daniela Santus, che ha definito il convegno "Dal trattato Sykes-Picot al jihadismo stragista", organizzato dal dipartimento di Lingue da domani fino al 20 maggio, e in particolare il convegno del 16 sulla «colonizzazione» della Palestina, «un'iniziativa dal forte pregiudizio ideologico».

- Rettore, siete anti-israeliani o, peggio, antisemiti?
  
«Non scherziamo. Non c'è alcun pregiudizio ideologico da parte di questo ateneo e tacciarci di posizioni filopalestinesi perché ospitiamo un convegno, con decine di docenti da tutta Italia e non solo, non ha senso. È un evento organizzato da un nostro dipartimento e confermiamo la disponibilità degli spazi. Prima di dare giudizi simili bisognerebbe seguire gli incontri o almeno leggere gli atti pubblicati prima».

- Ci sarà contraddittorio?
  
«Un convegno non è un talk-show dove si offre una poltrona a ogni posizione politica. Ci sarà lo spazio per confutare le posizioni che si ritengono scorrette o criticare i dati che non sono esatti. Non si fa politica come in altri eventi che invece abbiamo ritenuto di non poter ospitare».

- Si riferisce alle conferenze per il boicottaggio del politecnico israeliano Technion?
  «Anche. Erano iniziative politiche a sostegno del boicottaggio di un accordo di collaborazione con un ateneo straniero. Noi quell'accordo l'abbiamo sottoscritto e lo riteniamo legittimo. Poi se singoli docenti o studenti vogliono contestarlo sono liberi di farlo, ma quelle sono posizioni politiche, non accademiche».

- Trova legittimo che docenti boicottino attività accademiche?
  «Sì, a titolo personale ciascuno può fare quello che ritiene più giusto. Ciò non toglie che, come istituzione, si vada avanti nelle partnership con gli atenei israeliani».

- L'università diventa terreno di scontro politico o ideologico. È giusto?
  «La questione israelo-palestinese è sempre stata un tema caldo, che agita gli animi. Non deve diventare pretesto per arrivare a degli scontri o, in casi come questo, a polemiche pretestuose, ma il convegno di cui parliamo è ampio. Affronta un tema vastissimo sul quale è importante continuare a studiare e confrontarsi».

(la Repubblica, 3 maggio 2016)


Da ebreo dico "no" al reato di negazionismo

di Roberto Della Seta

Il Parlamento sta per approvare in via definitiva l'introduzione nel codice penale del reato di "negazionismo": negare in tutto o in parte" la Shoah e in genere i crimini di genocidio, di guerra, contro l'umanità, diventerà una aggravante del reato di istigazione alla violenza e all'odio razziall, come tale sanzionabile con anni in più di carcere.
   L'idea di questa norma non è nuova.
   Per primo la lanciò nel 2007 l'allora ministro della giustizia Mastella, ma cadde nel vuoto anche perle numerose e autorevoli reazioni di contrarietà che suscito. Importanti storici italiani - da Carlo Ginzburg a Giovanni De Luna, da Sergio Luzzatto a Bruno Bongiovanni - promossero un appello in cui si affermava tra l'altro che «ogni verità imposta dall'autorità statale non può che minare la fiducia nel libero confronto di posizioni e nella libera ricerca storiografica e intellettuale».
   Posizioni analoghe vennero espresse da intellettuali europei come Paul Ginsborg e Thimoty Garton Ash: «La negazione delI'Olocausto - scrisse quest'ultimo - va combattuta nelle scuole. nelle università, sui nostri media, non nelle stazioni di polizia e in tribunale». Decisamente ostile a quella proposta si dichiarò anche Stefano Rodotà, che definì il reato di negazionismo «una di quelle misure che si rivelano al tempo stesso inefficaci e pericolose, perché poco o nulla valgono contro il fenomeno che vorrebbero debellare, e tuttavia producono effetti collaterali pesantemente negativi».
   Io trovo che tali argomentazioni restino del tutto valide anche oggi.
   Lo Stato non può e non deve intervenire in terna di libertà del pensiero, della parola, della ricerca storica; non può e non deve nemmeno davanti ad affermazioni miserabili e aberranti come la negazione o la minimizzazione di un fatto - lo sterminio pianificato e sistematico di milioni ebrei da parte del nazismo e dei suoi alleati - che solo persone in malafede o incapaci d'intendere possono mettere in discussione. Il negazionismo è un orrore da combattere ogni minuto compiendo tutti gli sforzi possibili per far vivere e per trasmettere la memoria della Shoah; da combattere con tutti i mezzi tranne uno: vietare per legge la negazione di questa evidente e terrificante verità storica.
   Ma oggi vi è anche una ragione in più, una ragione "empirica", per opporsi a questa scelta. Nei Paesi europei dove il negazionismo è reato da anni - Francia. Germania, Austria, Lituania, Romania, Slovacchia... - ciò non ha prodotto alcun effetto deterrente: non ha impedito il progressivo emergere di forze apertamente xenofobe e talvolta esplicitamente antisemite, e nemmeno il moltiplicarsi di suggestioni, talvolta di azioni contro gli ebrei collegate alla diffusione in molte società europee di forme di islamismo radicale.
   Infine. Lo dico da ebreo, da ebreo la cui famiglia ha lasciato dieci corpi nei forni di Auschwitz: io trovo avvilente che per affermare il carattere raccapricciante e "unico" della Shoah, per affermare dunque una verità di assoluta evidenza, si pensi di dovere ricorrere a una norma di legge. L'idea di una verità storica di Stato non solo è di per sé inaccettabile, ma in questo caso rischia di offrire un alibi all'incapacità che abbiamo tutti come corpo sociale - nella scuola, nella famiglia, nei media - di contrastare il negazionismo sull'unico terreno appropriato: il terreno dell'educazione, dell'informazione, della cultura. Insomma il terreno della società.

(l'Unità, 3 maggio 2016)


Israele: più fondi ai sopravvissuti dalla Shoah

Sono circa 200mila, circa 60 mila in stato indigenza

GERUSALEMME - Alla vigilia di 'Yom HaShoah', dedicato alla memoria dei 6 milioni di ebrei uccisi dai nazisti, il ministro delle finanze Moshe Kahlon ha annunciato che sarà aumentato di mezzo miliardo di shekel (nel 2015 è stato di 4.2 miliardi) il sostegno finanziario annuale per i sopravvissuti. Secondo dati del ministero dell'assistenza sociale, in Israele ci sono poco meno di 200.000 sopravvissuti e di questi 45/60 mila sono in stato di indigenza. Della cifra globale, il 57% è rappresentato da donne, l'età media è di 82 anni ma ci sono anche 619 centenari. "Più passano gli anni e più diminuisce il numero dei sopravvissuti che.... sono parte inseparabile del nostro paese. Il nostro desiderio - ha detto Kahlon - è metterli in condizione di diventare vecchi in dignità".

(ANSA, 3 maggio 2016)


Ebraismo - L'elogio della donna

Nella tradizione israelitica la figura femminile è fondamentale: lo dicono il Talmud, la preghiera per I'avvio dello Shabbat e il "Cantico dei cantici". Stralci dal libro "Semplicemente ebree" (Kogoi, pagine 135, euro 15,90) di Livia Genah e David Spagnoletto (prefazione di Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, introduzione di Roberto Della Rocca, direttore del dipartimento Educazione e cultura degli ebrei israeliani), in cui otto donne raccontano la loro spiritualità.

di Livia Genah e David Spagnoletto

 
Ogni ebreo, secondo le proprie possibilità, segue il principio del Tichun Olam: il processo di migliorare il mondo, un mondo imperfetto che ognuno di noi deve, anche in piccolissima parte, contribuire a migliorare. Molti non sono osservanti ma tutti sanno cosa sia la Torah, cosa sia il Kippur e cosa sia lo Shabbat. L'osservanza dello Shabbat in famiglia è qualcosa che parla di una spiritualità quasi tangibile. Le luci dello Shabbat riempiono le case del loro significato più bello e le famiglie riunite intorno alla tavola ripetono un rituale antico. Spesso alcune frasi della Torah vengono citate negativamente, come per esempio in una delle preghiere in cui l'uomo recita:« ... ti ringrazio per non avermi creato donna»; ma ogni parola della Torah va interpretata, non presa alla lettera come ci spiega il Talmud: «grazie per non avermi fatto donna perché io posso così onorarti con l'osservanza delle mitzvot» dal momento che alla donna, nel rispetto del suo ruolo, sono prescritte, invece, soltanto tre mitzvot.
   La Torah è piena di bellissime figure femminili: Miriam, la sorella di Mosè osa sfidare il Faraone; Sarah ha una profonda intesa con il marito e una immensa capacità di accoglienza (si dice che la tenda di Sarah fosse aperta da tutti e quattro i lati per poter accogliere i viandanti); Rachele e Lea hanno vissuto un intenso rapporto tra sorelle pur condividendo lo stesso uomo; Rebecca comprende l' anima dei propri figli e li asseconda; Deborah, profetessa e generalessa crea un esercito, vince e fa molto di più.
   Durante la preghiera per l'entrata dello Shabbat si usa leggere l'Eshet Chail, un vero e proprio inno alla donna, alle sue capacità, al suo ruolo essenziale per l'osservanza dello Shabbat; poi, per finire, il Cantico dei cantici in cui l'elogio alla donna raggiunge livelli di particolare apprezzamento.
Nel Talmud è scritto: «La donna è uscita dalla costola dell'uomo, non dai piedi perché dovesse essere pestata, né dalla testa per essere superiore ma dal fianco per essere uguale ... un po' più in basso del braccio per essere protetta e dal lato del cuore per essere amata».
   Ciò nonostante, il ruolo della donna è sempre "subordinato" all'utilità dell'uomo: questo però non è particolarità dell'ebraismo, è storia del mondo e delle sue religioni. Malgrado i loro importanti impegni professionali e sociali, il ruolo che le donne sentono di più nell'ebraismo è comunque quello di testimone e custode della tradizione.

(Avvenire, 3 maggio 2016)

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«Anche preparare un piatto kasher è gesto spirituale»

di Riccardo Di Segni

Spiritualità, in ebraico ruchaniùt, è un termine che troviamo abbastanza spesso nei commenti biblici classici o nelle opere di musàr, morale, ma il più delle volte sta a indicare un'essenza spirituale in contrapposizione a quella materiale. Non è precisamente quello che si intende ora nel linguaggio comune o nell'esperienza della religione maggioritaria in Italia. Il fatto è che l'esperienza religiosa ebraica, che parte dalla pratica dei precetti, rifugge dalla divisione manichea tra corpo e spirito e l'idea di religione come puro spirito ci è abbastanza aliena. La preparazione di un pasto kasher è già un'esperienza religiosa densa di significati e, per chi ci crede, occasione di crescita dello "spirito". Ognuno/a poi potrà trovare tra i tanti atti proposti e prescritti dalla tradizione un atto per lui/lei più appagante dal punto di vista dello spirito. Ma la ricerca di una spiritualità a prescindere dall'azione è una strada aliena e diversa dal modello tradizionale. Per questo lo spettro delle risposte alle domande sulla spiritualità dà veramente il polso della diversità della strada identitaria e del difficile rapporto con la tradizione: per alcune donne totalizzante e appagante, per altre indifferente, o non necessario, o elaborato in modo del tutto personale o molto selezionato. E questo aiuta di più a capire il pensiero di quanto lo possano fare le solite questioni e risposte sul ruolo della donna dell'ebraismo, della benedizione del mattino o altro.

(Avvenire, 3 maggio 2016)


Motorola apre un centro per l'innovazione in Israele

Il gigante americano Motorola Solutions ha annunciato che a breve stabilirà un centro per l'innovazione in Israele, che si occuperà di informatica, analisi, mobile e IoT (Internet Of Things).
La mossa sarà una spinta consistente per l'economia israeliana, perché fornirà posti di lavoro e contribuirà ad incoraggiare gli investimenti futuri nello stato ebraico.
Motorola Solutions ha osservato che vede questa iniziativa come un asset strategico e che l'istituzione del suddetto Centro esprime il suo costante impegno a lungo termine per Israele e per l'industria israeliana, che ha avuto inizio già nel 1970 con la costituzione - sempre in Israele - del primo centro di sviluppo della società al di fuori del Nord America.
Il nuovo sviluppo comporterà l'assunzione di lavoratori aggiuntivi al pool di talenti israeliani. A tal fine, l'azienda intende aumentare i propri investimenti in Israele, stabilendo il centro innovazione per produrre nuovi strumenti tecnologici da esportare.
Motorola Solutions ritiene che questa sia l'ennesima occasione per collegarsi con l'innovazione della Startup Nation e per sfruttare l'eccezionale talento locale.
Queste le parole di Netanyahu al CEO di Motorola Greg Brown, durante l'incontro che ha formalizzato l'annuncio:

Siete nel posto giusto, nel paese giusto e nel giusto business.

Brown, che ha ringraziato Netanyahu come "un caro amico", ha sottolineato come la sua azienda sia entusiasta di aumentare i propri investimenti in Israele, perché si tratta di una zona eccezionale per l'innovazione, gli incubatori e gli investimenti.

(SiliconWadi, 3 maggio 2016)


Ospedale israelitico a pieno regime, riaperte tutte le strutture

Già 24mila prestazioni ambulatoriali e 23mila le prenotazioni la svolta con il nuovo commissario dopo gli arresti dei vertici.

ROMA - Oltre 24mila prestazioni ambulatoriali a un mese dal riaccreditamento, quasi 23mila appuntamenti prenotati per i prossimi mesi (il 68% da parte di pazienti donne, il 34% prime visite). L'ospedale Israelitico è tornato a vivere, il modello di salvataggio è riuscito in tempi record. Dopo gli arresti che avevano coinvolto i vertici della struttura (la Comunità ebraica smembrò immediatamente il vecchio cda e nominò il commissario straordinario Alfonso Celotto), a fine dicembre ha riaperto privatamente la struttura dell'Isola Tiberina, un mese dopo le altre due, a via Fulda e via Veronese. La svolta con la nomina del commissario prefettizio Narciso Mostarda (amministratore per la gestione straordinaria e temporanea della struttura con l'obiettivo di ripristinare l'attività pubblica e tutelare i lavoratori attraverso un sistema basato sulla legalità). Da qui, con il riaccreditamento, è potuta ripartire anche la parte convenzionata (da cui proviene il 70 per cento del fatturato). L'Israelitico è salvo, un reparto alla volta, è ripartito e sta lavorando, grazie a una serie di operazioni congiunte tra Comunità ebraica, Regione, Ministero, Prefettura. Lo dicono i dati, a cominciare dalla parte ambulatoriale, passando per le visite programmate per i prossimi mesi. Le centosei degenze di marzo, il totale dei dimessi - 311 - ad aprile. Dal punto di vista sanitario inizia a essere vivo, la fase della sopravvivenza è alle spalle. L'8 marzo in occasione della festa della donna e il 13 marzo sono state offerte 441 visite ambulatoriali gratuite. Operatori andranno nelle scuole per effettuare test di celiachia, nei centri anziani per fare informazione e prevenzione.

(Il Messaggero, 3 maggio 2016)


Marocco - La comunità ebraica di Casablanca festeggia con cristiani e musulmani la Mimouna

RABAT - Si è svolta ieri a Casablanca la festa di Mimouna. Sono circa 4 mila gli ebrei sefarditi che risiedono ancora in Marocco e per l'occasione per aprire la loro casa a tutti i musulmani. La Mimouna è una grande festa di tradizione ebraica marocchina che ha luogo al termine del Pesach, la Pasqua ebraica, e comincia al tramonto dell'ultimo giorno della ricorrenza. Gli ebrei aprono le porte delle loro case, preparano una tavolata festiva per gli amici, i vicini e la famiglia. Per questo motivo la comunità locale ha organizzato una manifestazione pubblica alla quale hanno preso parte tutte le personalità culturali e politiche della città per celebrare questa ricorrenza insieme: cristiani, ebrei e musulmani. A fare gli onori di casa era presente il presidente della comunità ebraica marocchina, Sergio Berdego, nominato ambasciatore itinerante di re Mohammed VI, il quale ha affermato ai media locali che "questa festa rappresenta un'occasione per i marocchini di tutte le confessioni per partecipare ad una festa ebraica del Marocco che si tiene al termine di sette giorni di digiuno e è un'occasione per gli ebrei per aprire le porte delle loro case ai musulmani".

(Agenzia Nova, 3 maggio 2016)


Franceschini: via libera agli stanziamenti per il museo ebraico di Ferrara

In apertura convegno su 'Quale memoria per quale società'

 
Il ministro Dario Franceschini alla riunione del Cipe, insieme al ministro dell'Istruzione Stefania Giannini
ROMA - Importante annuncio per l'ebraismo italiano stamane dal ministro per i Beni e le Attività culturali Dario Franceschini: il Comitato interministeriale per la programmazione economica - ha reso noto - ha dato il via ai finanziamenti che mancavano all'appello per la realizzazione del grande Museo dell'ebraismo italiano e della Shoah (Meis) a Ferrara. L'annuncio dello stanziamento - 25 milioni di euro - è stato dal ministro questa mattina assieme al presidente del Meis Dario Disegni e al presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna, che del Museo è Consigliere, all'apertura dei lavori del convegno romano "Quale Memoria per quale società". Convegno che ha coinvolto anche Mario Venezia (Museo della Shoah di Roma), Roberto Jarach (Binario 21 Milano) e Giorgio Sacerdoti (Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea).
Per Franceschini, il progetto rappresenta un "tassello fondamentale per ricostruire la storia, i valori, il significato della bimillenaria presenza ebraica in italia". Per il presidente dell'Ucei Gattegna "un museo è testimonianza viva, un insieme di percorsi. Il Meis rappresenterà in questo senso un museo unico in Italia, l'unico a raccontare oltre 2mila anni di storia e cultura ebraica in Italia". Presente in sala anche la neo direttrice del Meis Simonetta Della Seta.

(ANSAmed, 2 maggio 2016)


L'Ayatollah Khamenei rinnova il sostegno dell'Iran alla causa palestinese

TEHERAN - Il leader supremo della Rivoluzione islamica, l'ayatollah Seyyed Ali Khamenei, in un incontro con il segretario generale del Jihad islamico palestinese, Ramadan Abdullah, ha detto che l'Occidente guidato dagli Stati Uniti sta cercando di controllare la regione attraverso una guerra su larga scala contro l'Islam. "La Repubblica islamica dell'Iran continuerà a sostenere la Palestina come ha fatto in passato", ha assicurato Khamenei. La guerra degli Stati Uniti, ha detto l'Ayatollah, è iniziata 37 anni fa contro l'Iran, e prosegue attraverso l'alimentazione dello scontro tra sunniti e sciiti; la questione palestinese rappresenta, a detta del leader supremo iraniano, il nucleo fondamentale di questo conflitto. Khamenei ha elencato una lista di decisioni ed espedienti politici, economici e militari che a suo dire rappresentano tentativi dell'occidente di "mettere in ginocchio la Rivoluzione islamica". In questo contesto di "guerra dell'Occidente al Medio Oriente", ha detto Khamenei, ergersi al fianco dei palestinesi significa "difendere l'Islam".

(Agenzia Nova, 2 maggio 2016)


Oltremare - Strategia

di Daniela Fubini, Tel Aviv

Ogni bella cosa finisce, dice il saggio. Un saggio pessimista, per quanto mi concerne, che però potrebbe avere ragione su di una cosa: la totale ed eccessiva libertà di cui fino a ieri abbiamo goduto noi ciclisti per le strade affollate di Tel Aviv.
La libertà è quella cosa che quando si ha non si valuta, e solo quando si perde ci si rende conto di quanto era preziosa. E dunque, da ieri, questa novità improvvisa di dover tenere le ruote della bicicletta dentro alle ri-dipinte strisce bianche che ora delimitano la zona ciclabile sui marciapiedi, e di dover per forza scendere sulla strada dove quelle strisce non ci sono, è un momento difficile per tutti noi.
Noi che fino a ieri scampanellavamo dietro a ogni pedone che non ci sentiva arrivare, e che magari sorridevamo e dicevamo anche grazie passando. Noi che mandavamo silenziosi insulti a chi pavimenta i marciapiedi ogni volta che dovevamo scendere da un gradino in corrispondenza di un semaforo perché nessuno aveva pensato alle nostre due ruote (e di certo, non al nostro osso sacro). Noi che zigzagavamo fra cani, passeggini, fermate degli autobus e bambini non per mano ai genitori, e il più delle volte la sfangavamo senza danni a noi e agli altri.
Finito. Dal primo maggio, che nel paese degli stakanovisti non è neanche festa, le due ruote sono relegate al rango di mezzo di trasporto qualunque. Manco fossimo motorini. Tutta colpa delle biciclette elettriche, che fanno danni davvero e ci hanno rovinato la piazza.
I maligni sostengono che la strategia sia stata mettere piste ciclabili ovunque possibile per aumentare l'uso delle biciclette, cosa ecologica ed economica, per poi - anni dopo - mettere regole che spingano i ciclisti a passare al trasporto pubblico perché andare in bicicletta è diventato impossibile. Siccome i telavivesi sono viziati ma anche snob, convincerli direttamente ad usare gli autobus non sarebbe stato possibile, di qui la strategia graduale. A volte i maligni sono geniali, e le amministrazioni locali pensano come campioni di scacchi.


(moked, 2 maggio 2016)


Google dona 700 mila dollari ad una iniziativa israeliana a supporto della disabilità

 
Google dona 700 mila dollari ad un'iniziativa tutta israeliana finalizzata alla produzione di tecnologia per aiutare le persone con disabilità.
La concessione del gigante dei motori di ricerca a favore di Tiqqun'Olam Makers (TOM), è stata recentemente annunciata come parte del Google Impact Challenge: Disabilities Campaign.
Secondo il comunicato di The Reut Group, l'associazione no-profit che ha avviato questa iniziativa:

Il finanziamento di Google ha l'obiettivo di sostenere un movimento globale di innovatori che creano soluzioni estremamente efficaci per le esigenze, spesso trascurate, delle persone con disabilità. La mission è quella di migliorare la vita di 250 milioni di persone entro un decennio.

 
Tiqqun'Olam Makers terrà una makeathon, una tre giorni in cui ingegneri e tecnici si riuniranno per inventare prodotti per aiutare le persone con disabilità, come ad esempio un deambulatore o una mano bionica
Una makeathon, è un evento per "creatori" i quali vengono chiamati ad usare oggetti comuni per la casa, computer o altri dispositivi, strumenti musicali, macchine fotografiche, stampanti o anche cibo e bevande, per creare un nuovo prodotto o una tecnologia.
In altri termini si usano oggetti già esistenti per creare un qualcosa di nuovo.
Tiqqun'Olam Makers (TOM), che sponsorizza gli eventi Maker in Israele e negli Stati Uniti, è dedicato alla tecnologia in via di sviluppo per aiutare gli altri. Tiqqun'Olam è il termine ebraico per "rendere il mondo un posto migliore".

(SiliconWadi, 2 maggio 2016)


Sguardi sul cinema israeliano

Apre oggi a Bari "Sguardi sul cinema israeliano dagli anni Ottanta ai nostri giorni", rassegna a cura di Marta Teitelbaum (Associazione Kaleidoscopio), promossa dalla Regione Puglia.
L'iniziativa è realizzata dall'Associazione Kaleidoscopio in collaborazione con il Cerdem (Centro di ricerche e documentazione sull'ebraismo nel mediterraneo "C. Colafemmina") e il Presidio del Libro musiche & arti ed è patrocinata dall'Ufficio culturale dell'Ambasciata di Israele a Roma e dall'Associazione di Amicizia Italia Israele di Bari.
La rassegna si svolge nell'ambito del seminario in "Lingua e cultura ebraica" condotto da Mariapina Mascolo nell'Università degli Studi di Bari, Dipartimento Lelia (via Garruba, 6, Aula C) e in collaborazione con la Soprintendenza archivistica della Puglia e della Basilicata.
Gli incontri, fino a venerdì 6 maggio, saranno completati dalla proiezione di film in lingua originale con sottotitoli in italiano (per penotarsi, scrivere alla mail cerdemcolafemmina@gmail.com).
Si comincia oggi, alle 15.30, nel Dipartimento Lelia. Oltre al Lettorato in ebraico con Marta Teitelbaum, interverranno Bernardo Kelz (Amicizia Italia-Israele - Bari), Asher Sala (Bezalel Academy of Arts, Gerusalemme). Nella giornata di domani, con Asher Sala interverrà Marisa Romano (Università degli Studi di Bari) (Dipartimento Lelia).
Nel contesto della cinematografia israeliana, saranno affrontati i temi dell'immagine della donna, della Shoah e del cinema yiddish.
Dopo l'incontro alla Soprintendenza Archivistica (Strada Sagges, 3, Bari Vecchia) di mercoledì 4 maggio, giovedì 5 si ritorna al Dipartimento Lelia con una giornata dedicata agli Archivi per l'ebraismo, alla ricerca e ai progetti in corso tra Università di Bari, Soprintendenza Archivistica e Cerdem. Chiusura il 6 maggio al Dipartimento Lelia.

(BariLive.it, 2 maggio 2016)


Hebron, la mia prima volta al fronte

di Daniel Recanati

 
Soldati israeliani pattugliano le vie di Hebron
La compagnia era pervasa da un'atmosfera di euforia ed eccitazione. Avevamo appena scoperto che quello non sarebbe stato uno dei soliti Shabat passati in caserma durante l'addestramento. Questa volta era diverso, eravamo stati selezionati per trascorrere quel fine settimana al fronte a supporto di un'unità di linea e il fronte non era un posto qualsiasi ma un luogo pericoloso e affascinante al tempo stesso così lontano dalla prospettiva degli israeliani che vivono lungo la costa eppure cosi vicino ai cuori e alla storia del popolo ebraico: Hevron, la città dei padri. Il viaggio in autobus trascorse all'insegna di un gran baccano fatto di canti prese in giro e risate, si sarebbe potuto pensare che ci stessero portando a Disneyland ma oltre i finestrini scorreva il paesaggio lunare delle montagne a sud di Hevron dove l'arido deserto del Negev incontra le brulle colline di Giudea. Bibliche suggestioni stuzzicavano la mia mente, non era difficile immaginare le tende di Abramo su q uella collina o il gregge del giovane re David ancora pastore su quell'altra. Arrivati nella città questa pareva smisurata. Estesa in modo convulso e disorganico su diverse colline e vallate inondate dal sole spietato d'agosto. Era spaventosa e affascinante allo stesso tempo. Il pullman corazzato sfrecciava attraverso quartieri fantasma di vecchie case abbandonate. Più tardi ci spiegarono che l'esercito aveva fatto evacuare molti anni prima, per motivi di sicurezza, tutte le case che si affacciavano sulla via principale così che quella parte della città appariva ormai spettrale e decadente. Proseguendo lungo il viale principale incontravamo diverse pattuglie e posti di blocco e la sensazione di essere all'interno di un servizio del telegiornale si faceva strada nelle nostre menti. Alla fine arrivammo all'avamposto che sarebbe stato la nostra casa per quel fine settimana. Si trattava di un piazzale stretto e lungo puntellato da container adibiti a dormitorio, una cucina, una mensa che poteva contenere al massimo dieci persone alla volta e un piccolo deposito di scorte. Seduti su un divano sudicio e malconcio incastonato in un angolo sedevano alcuni soldati distanziati in quel luogo. Riconobbi subito che erano paracadutisti. Avevano volti esausti e guardavano noi reclute giovani entusiaste e fresche con uno sguardo vano e vuoto pieno di stanchezza e indifferenza. Per prima cosa dopo aver scaricato i bagagli e gli zaini dal bus i comandanti ci radunarono in gruppi secondo il plotone di appartenenza e si misero a smistarci in gruppi più piccoli che a loro volta sarebbero stati mandati in altri avamposti più piccoli sparpagliati qua e là per la città. Mi ritenni fortunato quando capii che sarei rimasto in quello stesso avamposto nel quale l'autobus ci aveva lasciati perché mi dava la sensazione, e a ragione, di essere il migliore tra tutti quelli presenti in città e che sarebbe stato un ottimo punto di inizio per fare esperienza al fronte.
   Ci fu a malapena tempo di entrare in uno dei caravan adibiti a dormitorio e di scegliersi una branda che fummo subito chiamati a rapporto nel piazzale dal nostro sergente, che iniziò a istruirci su quelli che sarebbero stati i nostri compiti per quel fine settimana.
   In effetti non si trattava di niente di nuovo rispetto a quello che si faceva di solito quando si trascorreva lo Shabat in caserma: un circolo continuo di guardie inframezzate da tempi morti in cui riposare. Ormai eravamo già da alcuni mesi avvezzi a una routine che scandiva e avrebbe inesorabilmente scandito tutti i futuri weekend da trascorrere sotto le insegne di Tzahal. Ciononostante la sensazione era quella di fare qualcosa di nuovo, qualcosa di vero. In fin dei conti la maggior parte di noi si era arruolata con il desiderio di prestare un servizio che fosse "significativo" e "importante". Tre anni da dedicare alla difesa di quella che è la casa comune di tutto il popolo ebraico e non solo di coloro che vivono in Israele. Non tutti i miei commilitoni erano nati e cresciuti in Israele. Diversi, oltre a me, provenivano dagli angoli più disparati della diaspora: Stati Uniti, Italia, Cile, Russia, Inghilterra e Francia giusto per citarne alcuni. Tutti noi eravamo accomunati dall'idea di arruolarci per difendere Israele e dare il massimo contributo possibile alla sua sicurezza; e in quel preciso momento capimmo che saremmo stati accontentati. Il sergente ci istruì sulle postazioni di guardia, sugli orari dei turni e sulle regole di ingaggio e le procedure che avremmo dovuto seguire in caso di necessità. Poi selezionò quelli di noi che avrebbero dovuto montare la guardia per primi e i successivi che avrebbero dato loro il cambio quattro ore più tardi. lo fui scelto tra i primi. La mia postazione di guardia si trovava sopra il tetto di una casa non lontana dall'avamposto in cui eravamo alloggiati. La raggiunsi attraverso un percorso tortuoso che si dipanava tra i tetti di alcune abitazioni abbandonate. Ad attendermi trovai un soldato dei paracadutisti che aveva un'aria parecchio stanca e annoiata e che, appena mi vide, sembrò ravvivarsi nel vedere l'arrivo non solo del cambio ma anche di un volto nuovo, un volto diverso da tutti quelli che aveva visto nelle ultime settimane. Trascorremmo alcuni minuti chiacchierando dell'esercito e dei progetti che aveva per la sua vita dopo il congedo che per lui era ormai davvero vicino e infine dei luoghi nei quali aveva prestato servizio nel corso di tre anni. Alla fine mi cedette il binocolo e mi spiegò cosa avrei dovuto fare in caso avvistassi una situazione di minaccia e si allontanò con passo veloce lasciando me, per la prima volta al fronte, a compiere quel dovere che tanto avevo desiderato adempiere fin dall'infanzia: proteggere il popolo ebraico e difenderlo in Terra di Israele.

(Hatikwa, Unione Giovani Ebrei d'Italia, marzo, aprile 2016)


"Il bambino nella neve", la storia terribile negli occhi di un bambino

Racconto, saggio, riflessione problematica sull'essere ebrei nel XX secolo. Opera di un narratore sapiente che è anche giornalista di razza.

di Marco Belpoliti

Wlodek Goldkorn
Le di immagini di Neige De Benedetti illustrano 'Il bambino nella neve' di Wlodek Goldkorn
La zia Chaitele, cugina del padre, ebrea, durante la Seconda guerra mondiale si nasconde nei boschi. Un giorno arrivano i tedeschi e deve fuggire dal nascondiglio. Ha in braccio un bambino piccolissimo. Lo abbandona nella neve. Lei si salva. Così comincia il libro di Wlodek Goldkorn. Quel bambino è senza dubbio lui, il piccolo Wlodek cresciuto nella Polonia del dopoguerra da due genitori comunisti ed ebrei scampati alla strage fuggendo in Urss, dove è morta di stenti la loro prima figlia.
   Autobiografia, racconto, saggio, riflessione problematica sull'essere ebrei nel XX secolo, "Il bambino nella neve" è un'opera letteraria, almeno nelle prime cento pagine con la rievocazione della propria infanzia a Katowice, città di minatori e operai metallurgici, a breve distanza da Auschwitz, in una casa per i funzionari del partito comunista, cui appartiene il padre.
   Una genealogia famigliare con storie incredibili, meravigliose e terribili. Il punto di vista del narratore è quello rasoterra del bambino. Poi nel 1965 comincia l'antisemitismo di sinistra, se così possiamo dire, e un bel giorno del 1968 i Goldkorn partono con 5 dollari a testa e una valigia per Vienna. Vanno in Israele. Wlodek rimpara a vivere in quel paese che inizialmente crede la propria patria. Più rapida e meno dettagliata questa parte, certamente dolorosa, ma non come quella delle nevi polacche, perché intanto il bambino è cresciuto, è diventato un ragazzo, un contestatore.
   Dopo il servizio militare va in Germania, ma neppure lì si sente a casa propria. Arriverà, come un personaggio di "Se non ora, quando?" di Primo Levi in Italia, a Firenze. Nell'ultima parte del volume c'è il ritorno in Polonia, proprio come all'inizio del libro, non per trovare il sé bambino; ora ci va per visitare il cimitero di famiglia: Auschwitz. Lì ci sono le ceneri dei famigliari, la nonna, i cuginetti. A scrivere quelle pagine è il giornalista. Pagine ricche di storia che s'intervallano con ricordi e incontri.
   Va a visitare i Lager con una fotografa, Neige De Benedetti, le cui immagini arricchiscono di narrazioni il libro. Racconta la storia di questi luoghi. Meno struggenti e liriche, contengono tuttavia alcune perle. Come quando va a Treblinka con Marek Edelman, il leggendario comandante della rivolta del Ghetto di Varsavia, suo padre putativo. Si mangia le unghie per il nervosismo fino a ferirsi un dito. Marek lo vede sanguinare. «Niente, due gocce di sangue», risponde Wlodek conscio di dove si trovano.
   Un libro sulla memoria, personale e collettiva, che dà da pensare e si legge d'un fiato.

(l'Espresso, 2 maggio 2016)


Itzhak Herzog, il leader senza più partito

di Daniel Reichel

 
Itzhak Herzog
"Farsi doppiare in uno spot elettorale perché ti prendono in giro, perché dicono che hai una voce troppo acuta, non è un grande segno di leadership, diciamocelo". Non era andato per il sottile il famoso comico inglese John Oliver quando lo scorso anno, durante il suo seguitissimo programma tv Last Week Tonight in onda sull'americana Hbo, aveva preso in giro Itzhak Herzog, allora candidato laburista per guidare il governo d'Israele. Alla vigilia delle elezioni, Herzog aveva mandato in televisione uno spot elettorale in cui veniva doppiato con un'altra voce, facendo di fatto un autogol e ottenendo l'ironica attenzione di Oliver da oltreoceano. Nonostante quella gaffe, Herzog sembrava destinato a vincere le elezioni del marzo 2015 e invece, contro ogni previsione, le perderà. La sua Unione sionista (coalizione formata dalla sinistra laburista e dai centristi di Tzipi Livni) era in vantaggio nelle intenzioni di voto ma alla fine gli israeliani scelsero di nuovo la destra di Benjamin Netanyahu. Nonostante la bruciante sconfitta, Buji - soprannome di Herzog - era riuscito a rimanere in sella al suo partito, calmando i malumori interni. Malumori che sono riesplosi con forza nelle scorse settimane quando è uscita la notizia di un'indagine a carico di Herzog per presunti fondi illegali ricevuti durante la sua campagna per ottenere la leadership di HaAvoda, il Labour israeliano. "Sono tranquillo, tutto sarà chiarito", ha dichiarato Buji negando vi siano state irregolarità e spiegando di aver riferito quanto necessario alla polizia. Quest'indagine però, riportano i media israeliani, ha bloccato proprio sul finire le trattative con il Premier Netanyahu che aveva offerto al leader laburista il vacante ministero degli Esteri in cambio di un governo dalle larghe intese. Tutto si è fermato ora e la già traballante posizione di Herzog ha subito un altro colpo. I suoi avversari alla guida del partito, Amir Peretz e Shelly Yachimovich su tutti, affilano i coltelli in vista delle primarie (la data non è ancora stata definita) ma per Buji sembrano arrivati i titoli di coda.
   Sondaggi recenti, sottolinea il britannico Economist, fatti prima che le accuse nei confronti di Herzog fossero rese pubbliche, mostravano che l'Unione sionista rischia di perdere un terzo dei suoi seggi attuali alla Knesset in favore di Yesh Atid, il partito centrista guidato da Yair Lapid, popolare giornalista già ministro delle Finanze del penultimo governo Netanyahu. "Lapid - scrive l'Economist - è una sorta di peso leggero della politica e non è considerato da molti israeliani come un candidato credibile per la leadership nazionale; ma lui è riuscito dove l'onorevole Herzog ha fallito, ovvero nel mantenere una raffica di critiche costanti all'attuale governo".
   Negli ultimi vent'anni Israele ha avuto solo due leader, sottolinea il giornale britannico, ovvero Ariel Sharon e Benjamin Netanyahu. Entrambi uomini del Likud, della destra israeliana (seppur Sharon abbia poi fondato un suo partito più di centro). In vent'anni la sinistra non è riuscita a trovare le contromisure, a guadagnare la fiducia degli elettori e Herzog non sembra in grado di dare una svolta. Si vedrà quale sarà il nome che uscirà dalle prossime elezioni laburiste.

(moked, 1 maggio 2016)


Ha cinque ergastoli: candidato al Nobel per la pace

Il terrorista Barghuti è l'incredibile scelta dell'Autorità palestinese

di Livio Caputo

Terroristi palestinesi
Le proposte provocatorie nella storia del Nobel per la pace sono quasi una tradizione, ma stavolta l'Autorità palestinese ha dawero superato i limiti della decenza ha proposto di conferire il premio a Marwan Barghuti, l'ex capo della milizia terroristica Tanzim oggi detenuto nelle carceri israeliane con cinque ergastoli sulle spalle per altrettanti assassinii per cui è stata dimostrata la sua diretta responsabilità, oltre che per decine di altri morti provocati dalla sua organizzazione. L'obbiettivo dichiarato dell'iniziativa è di ottenere un riconoscimento internazionale della teoria secondo cui i palestinesi hanno il diritto di attaccare e uccidere civili israeliani in qualunque luogo e momento, e nel farlo compiono comunque qualcosa di eroico e positivo.
   A sostegno della candidatura di Barghuti, l'Autorità palestinese cita la risoluzione del Consiglio di Sicurezza 3236 del 1974, con cui le Nazioni Unite (dominate, da sempre, da una maggioranza filoaraba) «riconoscono il diritto del popolo palestinese di recuperare i propri diritti con tutti i mezzi». Peccato che, nell'interpretare queste parole come un'autorizzazione a usare la violenza e gli assassinii indiscriminati ignori la seconda parte della frase, che recita «purché siano conformi agli scopi e ai principi della Carta delle Nazioni Unite» (che, naturalmente vieta di prendere di mira i civili).
   Purtroppo la richiesta di premiare Barghuti è soltanto la punta di lancia di una campagna di istigazione all'odio e alla violenza da parte sia dell'Autorità palestinese di Abu Mazen, sia dei suoi rivali di Hamas. Una campagna che si traduce nella glorificazione di tutti coloro che hanno compiuto attentati contro cittadini israeliani: sono celebrati come martiri e a loro vengono intestate piazze, scuole e circoli sportivi. Proprio in questi giorni è stato celebrato l'anniversario di un attentato di 14 anni fa in cui una giovane donna, Andalib Takatka, si fece esplodere uccidendo 6 israeliani, è stata accolta come un'eroina dopo due mesi di detenzione in un carcere minorile israeliano la dodicenne Dima, che aveva cercato di accoltellare un israeliano, e a Gaza il capo di Hamas Haniyeh ha inaugurato in piazza una riproduzione dell'autobus israeliano fatto saltare di recente a Gerusalemme, a dimostrazione che «il popolo palestinese non ha rinunciato all'opzione della resistenza armata».
   Questa forma di lavaggio del cervello sembra avere successo soprattutto nelle scuole della Cisgiordania e di Gerusalemme Est, perché una proporzione sempre maggiore di protagonisti della "intifada dei coltelli", che in sette mesi è costata la vita a 30 israeliani, sono minorenni, uno su dieci addirittura di età inferiore ai 15 anni. L'ultimo caso è di ieri, quando due quattordicenni armate di pugnali sono state bloccate prima che aggredissero un soldato di guardia a un posto di blocco. II Jerusalem Post ha fatto notare come, mentre promuovono gli attacchi, i leader palestinesi, da Abu Mazen allo stesso Haniyeh, mandino sistematicamente i loro congiunti a farsi curare negli ospedali di Israele, il Paese che vorrebbero eliminare. Ma, soprattutto, gli israeliani non capiscono come l'Occidente non si renda conto che, fino a quando i palestinesi perseguono la violenza in questa misura, è impossibile riprendere con loro trattative di pace; e presentare, come ha fatto la Francia, al CDS risoluzioni che impongano una soluzione negoziata non fa che rafforzare le posizioni dei più intransigenti, che pretendono di ottenere un loro Stato senza neppure rinunciare all'obbiettivo della «eliminazione dell'entità sionista».

(il Giornale, 1 maggio 2016)


La festa della Liberazione e la Brigata Ebraica

Intervento del Professor Gino Malaguti, già Provveditore agli studi di Modena, intellettuale e storico.

 
Il Professor Gino Malaguti
 
Carro armato Usa in Via Ciro Menotti a Modena, il 22 aprile 1945
MODENA - "Contestazioni e momenti di tensione con insulti ed urla si sono ripetuti anche quest'anno il 25 Aprile festa della Liberazione a Milano durante il pasaggio della Brigata Ebraica all'interno del corteo per la celebrazione della festa della Liberazione.
Da parte di rappresentanti di movimenti filo palestinesi estremisti si sono levati fischi ed insulti. Questi comportamenti favoriscono lo sviluppo di un clima antisemita mentre al contrario occorrono comportamenti ed azioni di dialogo e di confronto.
L'estrema sinistra e l'estrema destra faticano a ricordare che l'Italia fu liberata dagli Alleati dopo una serie di lunghe e sanguinose battaglie dal 10 Luglio 1943 fino al 2 Maggio 1945 , giorno della resa incondizionata germanica in Italia.
Dobbiamo un debito di riconoscenza ai militari alleati (Americani, Inglesi, Polacchi, Canadesi, Indiani, Ebrei, Francesi, Sudafricani e Greci) che combatterono e morirono per cacciare l'invasore e far crollare la dittatura fascista della RSI. Fin dall'inverno del 1944 la Brigata Ebraica partecipò alla liberazione della Romagna: Alfonsine, Riolo Terme, Fusignano.
La Brigata Ebraica di Ebron costituita da tre battaglioni con un totale di 4.000 soldati volontari ebbe il battesimo del fuoco nella zona di Ravenna e prima dell'offensiva di primavera fu spostata nella zona appenninica Bolognese del fronte (Brisighella, Riolo Terme) dove sostenne gli scontri più sanguinosi contro i reparti nazisti.
Durante la campagna d'Italia subì oltre 500 perdite. I soldati Ebrei provenienti dalla Palestina vestivano la divisa Inglese con la bandiera di uno stato ancora inesistente: bianca con due strisce orizzontali azzurre ed in mezzo la stella di David.
Terminato il conflitto mondiale la Brigata Ebraica passò in parte il Brennero per aiutare gli Ebrei sopravvissuti ai campi di sterminio alla andata clandestina in Palestina.
Un gruppo della Brigata Ebraica si stabilizzò anche a Modena sempre per organizzare i sopravvissuti dallo sterminio nazista per la loro andata (salita) ad Israel.
Ripeto: dimenticare questi avvenimenti e lo spargimento di sangue Ebraico per la nostra libertà nazionale con un comportamento antidemocratico va condannato.

(Il Nuovo Giornale di Modena, 1 maggio 2016)


Energia: prospezioni del sito israeliano Hatrurim, stimati 7 milioni di barili di petrolio

GERUSALEMME - Il sito israeliano di Hatrurim, nel mar Morto, contiene riserve di petrolio del valore di 320 milioni di dollari secondo un rapporto pubblicato oggi dalle compagnie che hanno in concessione il giacimento. Le ultime trivellazioni nell'area confermano quindi la presenza di almeno 7 milioni di barili di petrolio, mentre la stima più alta era di 11 milioni di barili. La licenza Hatrurim si estende su un'area di oltre 94 chilometri quadrati nel mar Morto: il gruppo israeliano Delek ha scoperto petrolio nel sito nel 1995 a due chilometri di profondità. Si è trattato dell'ultima trivellazione fatta da Delek, Avner onshore, prima delle scoperte di gas fatte offshore. Nel 1995 si decise inizialmente di non estrarre petrolio dal sito perché i prezzi del barile erano troppo bassi. Lo scorso ottobre sono riprese le prospezioni dopo che la licenza è stata ceduta ad un consorzio di compagnie, tra cui la cipriota Cyprus Opportunity.

(Agenzia Nova, 1 maggio 2016)


Tensione tra Regno Unito e Israele dopo le frasi antisemite di esponenti del Labour

Jeremy Corbyn è al centro della bufera per le dichiarazioni antisemite che hanno portato alla sospensione di alcuni esponenti del suo partito del Labour.
La prima è stata la deputata Naz Shah che aveva proposto di "trasferire Israele negli Stati Uniti". Fuori dal partito anche Ken Livingstone, ex sindaco di Londra, che aveva detto "che Hitler quando vinse le elezioni era un sostenitore del sionismo".
Frasi che hanno indignato il leader del Partito Laburista israeliano Isaac Herzog che ha scritto una lettera a Jeremy Corbyn per invitare una delegazione del suo partito in Israele per visitare il Museo dell'Olocausto. "Le espressioni antisemite dei giorni scorsi non rappresentano il giusto esempio da dare ai giovani britannici, ai quali deve essere insegnato il valore della tolleranza e dell'accettazione di tutte le persone, a prescindere dalla fede", scrive Herzog.
Nonostante questo, Livingstone non ha nessuna intenzione di ritrattare le sue dichiarazioni, lo ribadisce all'emittente londinese LBC. "Non può semplicemente ritirare quello che ha detto?", lo incalza il cronista. "Non mi scuserò mai per aver detto la verità", è la sua replica.
Un atteggiamento che ha scatenato l'ira dei suoi compagni di partito come John Mann che gli dice: "Devi fare un passo indietro e andare a vedere quello che ha fatto Hitler, c'è un libro intitolato 'Mein Kampf' che non avrai mai letto e del quale non avrai mai sentito neanche parlare. Le tue sono solo frasi sbagliate e razziste".
Livingstone si è difeso dicendo che le sue esternazioni sono condivise dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.
Jeremy Corbyn ha, intanto, promesso che su Livingstone sarà aperta un'inchiesta. Il Labour è nei guai quando mancano giorni dalle elezioni amministrative.

(euronews, 1 maggio 2016)


La balla del successo «riformista» in Iran

II secondo turno delle elezioni nella Repubblica islamica. Rohani controlla solo 115 seggi su 290. E lui stesso, khomeinista di ferro, non è certo un modello di democrazia.

di Carlo Panella

Per comprendere i risultati delle elezioni politiche in Iran, bisogna innanzitutto intendersi sulle definizioni. I «riformisti» iraniani, o meglio, quelli che in Occidente così vengono definiti, sono quelli che hanno ordinato di bombardare i bambini ricoverati nell'ospedale di Médicins sans Frontières di Aleppo. Gli altri sono peggio. E non è una provocazione: il presidente «riformista» Rohani, infatti, ha inviato in Siria il generale dei Pasdaran Ghassem Suleimaini, che ha il comando generale di tune le operazioni militari a favore di Assad, inclusa l'aviazione che ha massacrato i 50 bambini di Aleppo.
   Ma in Occidente la brama di tomare a fare affari con l'Iran passa sopra queste quisquilie e si continua ad accreditare Rohani come «riformista» solo perché intende consolidare una fase di normalizzazione nelle relazioni con gli Usa e l'Europa, firmando il patto sul nucleare. Ma Rohani, in tutta la sua lunga carriera politica di fedelissimo a Khomeini, mai è stato tale. Sotto il suo governo le forche lavorano come non mai, gli oppositori sono incarcerati e uccisi e i Pasdaran continuano a fare stragi - anche di civili - in Siria, come in Iraq e nello Yemen. Ma dato che Barack Obama considera questo un problema secondario, non dirimente, la comunità occidentale degli affari - Italia inclusa - si accoda entusiasta a questa falsa narrazione e vola a Teheran a stipulare contratti. E mal gliene incoglierà da qui a qualche anno, perché in realtà Rohani non ha affatto vinto le elezioni, non è stabilissimo, nonostante i titoloni dei media occidentali: nel secondo turno elettorale concluso ieri, su 68 seggi in palio, i suoi «riformisti» hanno conquistato solo 29 seggi, i fondamentalisti, 21 seggi, gli indipendenti 16 e i moderati 2. Un risultato deludente per Rohani che complessivamente, su 290 seggi del Majlis, il Parlamento, ne controlla solo 115 (86 al primo turno e 29 al secondo), solo la maggioranza relativa, mentre i fondamentalisti raggiungono la quota di 90 (69 al primo turno e 21 al secondo) e gli indipendenti, tra primo e secondo turno, 85. Dunque un Parlamento sicuramente meno oltranzista di quello dell'era Ahmadinejad, ma per nulla di apertura alle riforme interne. Un voto segnato sostanzialmente dalla più piena e totale continuità con le linee guida segnate dall'ayatollah Khomeini, che di riformista non aveva nulla. Anche perché del blocco elettorale che fa riferimento a Rohani, dato il forte peso del candidato legato al sistema dei seggi uninominali, fanno parte molti conservatori, imbarcati senza problema da una lista che in realtà si deve definire «principialista» e per nulla riformista.
   Dunque il risultato elettorale permetterà a Rohani di mantenere un controllo instabile sul Parlamento, nettamente condizionato da alleanze con il blocco conservatore.
   Ma naturalmente, questo risultato tutt'altro che trionfale per Rohani non avrà alcun riscontro sui media occidentali, che già, con l'autorevole Le Monde, si esaltano per la «vittoria dei riformisti». I bambini di Aleppo ringraziano.

(Libero, 1 maggio 2016)


E poi, il fatto che l’Iran di Khomeini e Rohani continui a dire che vuole distruggere Israele non è un problema per gli occidentali. Anzi... M.C.


A Gerusalemme boom del 'turismo sotterraneo

In Città Vecchia, Pasqua ebraica di ressa in tunnel archeologici

 
 
In una Gerusalemme presidiata massicciamente questa settimana dalla polizia in occasione della Pasqua ebraica, migliaia di israeliani hanno scelto di accompagnare le preghiere rituali al Muro del Pianto con escursioni nelle viscere della terra.
    Varcati gli ingressi, si sono trovati immersi in un dedalo di tunnel millenari e suggestivi. Hanno potuto toccare con mano pietre scavate in epoca canaanea, o altrove deposte successivamente dal re Erode. In passato era possibile visitare solo alcuni tronconi, relativamente brevi. Nel frattempo gli itinerari si sono sensibilmente estesi e ramificati. Questa settimana Haaretz, in un dettagliato servizio, ha così annunciato la nascita di una sorta di 'Gerusalemme sotterranea', che desta crescenti ansietà nella popolazione palestinese della città. I tunnel - precisa Haaretz - non passano immediatamente sotto la Spianata delle Moschee, ma la lambiscono. Si tratta di uno dei maggiori luoghi sacri dell'Islam, ma e' sacra anche all'ebraismo perche' la' vi furono eretti il primo e il secondo Tempio di Gerusalemme.
   Politicamente, resta uno dei punti di massima frizione fra israeliani e palestinesi. Un migliaio di agenti sono stati dislocati in questi giorni nella Città Vecchia attorno alla contesa Spianata per impedire incidenti fra i fedeli islamici e quelli ebrei. Fra questi ultimi vi erano alcuni integralisti che speravano di poter celebrare la Pasqua con sacrifici rituali di capretti nella Spianata. Alcuni avevano cercato di nascondere i capretti in scatole di cartone, ma tutti sono stati egualmente intercettati. In superficie, dunque, c'era massima allerta. Intanto sotto terra, era un formicolio di gitanti israeliani - per lo più religiosi - elettrizzati al pensiero di passare attraverso pertugi forse utilizzati in epoca biblica da loro antenati.
    L'ingresso del 'Tunnel del Muro del Pianto' era affollato come il check-in di un aeroporto, con aggiornamenti costanti sulla partenza di escursioni guidate (a scelta in ebraico, in inglese o in russo) in un'area adibita a museo, o in una zona dove erano esposti reperti archeologici tornati alla luce di recente. Da quel varco e' peraltro possibile raggiungere una sinagoga sotterranea, piccola ma molto attiva. "Le visite nei sotterranei hanno un fascino speciale" ha spiegato una delle guide. "Perche' il mondo quotidiano scompare e presto si perde il senso dell'orientamento. Inoltre per un'ora anche i telefoni cellulari sono costretti a tacere. La guida può essere certa allora di monopolizzare l'attenzione dei visitatori".
Fra questi c'erano famiglie numerose, anche con bambini piccoli e passeggini: ormai quel tratto di tunnel e' ben lastricato ed illuminato, e non richiede particolare agilità. Gli escursionisti hanno potuto cosi' ammirare (sotto ad abitazioni del rione islamico della Citta' Vecchia) i resti di un 'mikve' dove - e' stato spiegato - i sacerdoti di due millenni fa erano soliti di mattina compiere abluzioni purificatrici, prima di entrare nel perimetro sacro del Tempio. Questo genere di attività tiene in grande apprensione i responsabili islamici della Spianata delle Moschee. Di recente il Movimento islamico ha diffuso un video in cui mette in guardia dalla eventualità che estremisti ebrei passino dai tunnel per far breccia nell'area della Moschea al Aqsa e compiervi attacchi. Anche se questi allarmi fossero infondati resta - secondo Haaretz - un problema di fondo: ossia stabilire di chi abbia autorità su questi vasti ambienti ricavati nelle viscere della terra, e quale assetto occorrerebbe per la 'Gerusalemme sotterranea' una volta che israeliani e palestinesi tornassero al tavolo di trattative.
   
(ANSA, 1 maggio 2016)


Rotem Sivan il jazzista venuto da Israele

di Fabrizio Zampa

Rotem Sivan
ROMA - Israeliano di Gerusalemme, il chitarrista Rotem Sivan ha cominciato a suonare a 8 anni con uno strumento regalato dal nonno, ma il suo obiettivo fin da ragazzo è sempre stato quello di ridisegnare l'eleganza nel jazz. Così, dopo essersi diplomato in composizione a Tel Aviv, si è trasferito a New York, ha suonato in tanti club (la sua musica, bel mix di diverse radici, culture e suoni, viene scherzosamente definita Falafel Jazz), ha vinto il suo 1 premio al festival di Montreux del 2009 e oggi ha tutte le carte in regola, a partire dagli album che ha inciso, prima Enchantes Sun e poi For Emotional Use Only. In tour europeo con il bassista Tamir Shmerling e il batterista Colin Strahahan, Rotem è tornato a Roma dopo l'autunno scorso per proporre dal vivo il materiale del III album A New Dance. Per la rivista Downbeat «Sivan ha talento ed è una nuova voce benvenuta sulla scena jazzistica».

(Il Messaggero - Roma, 1 maggio 2016)


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