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Notizie 15-31 maggio 2017


Non solo con Trump: papa Francesco non sorride più nelle foto con i leader politici

 
 
Papa triste con Trump
Che Donald Trump non sia stato l'ospite in Vaticano preferito di Papa Francesco era fin troppo evidente dalle espressioni durante l'udienza privata del presidente degli Stati Uniti con la sua famiglia. Anche se, va detto, in quell'occasione Melania e Ivanka ci avevano messo del loro nell'incupire il Pontefice con un look da 'Famiglia Addams'.
Le foto di Trump e Papa Francesco hanno ovviamente fatto il giro del mondo: il primo con sorrisi forse eccessivi, il secondo con delle espressioni serie e sconsolate. Inevitabili le accuse da parte dei sostenitori di Trump, che hanno iniziato a tirare in ballo le simpatie politiche di Jorge Bergoglio, vere o presunte. Per questo motivo il Papa avrebbe deciso di optare per un nuovo codice in occasione delle udienze con gli altri leader di Stato: niente sorrisi nelle foto ufficiali, per par condicio.
La conferma arriva dalle foto con il premier candese Justin Trudeau: negli scatti ufficiali Papa Francesco appare, se possibile, ancora più serioso rispetto alla visita di Trump. Durante la visita in Vaticano di Trudeau e sua moglie, tuttavia, Papa Francesco ride e sorride, dimostrando di preferire decisamente la compagnia di un leader di Stato di uno schieramento decisamente opposto rispetto a quello statunitense.

(Leggo, 31 maggio 2017)


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Chi ha detto che il papa non sorride nelle foto con i leader politici?


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Sarà forse perché non lo considera un vero leader politico?


(Notizie su Israele, 31 maggio 2017)


La Cina pronta ad assumere un ruolo attivo nel "processo di pace" in Medio Oriente

RAMALLAH - La Cina è disposta a svolgere un ruolo attivo per promuovere l'avanzamento del processo di pace tra Israele e i palestinesi: lo ha riferito martedì l'agenzia ufficiale di stampa palestinese "Wafa", citando l'inviato speciale per il Medio Oriente di Pechino, Gong Xiaosheng. Il funzionario cinese ha incontrato lunedì sera a Ramallah il presidente dell'Autorità nazionale palestinese (Anp), Mahmoud Abbas. Durante l'incontro, Abbas ha informato Gong degli sviluppi seguiti alla sua visita a Washington, lo scorso aprile, a quella in Russia, all'inizio di maggio, e del suo incontro con il presidente degli Stati Uniti Donald Trump la scorsa settimana a Betlemme. Pechino aveva già espresso la volontà di partecipare più attivamente alla soluzione delle crisi nel Medio Oriente durante il Forum internazionale sulla nuova Via della seta che si è tenuto questo mese a Pechino.

(Agenzia Nova, 31 maggio 2017)


Una sanità d'intesa tra cattolici ed ebrei

Siglata una convenzione fra la casa di cura Assunzione di Maria e l'Ospedale Israelitico di Roma. Per meglio studiare le malattie neurodegenerative senili tipo Alzheimer.

di Antonino D'Anna

Dal Medico in famiglia di Rai1 alla prima collaborazione in Italia nel campo della sanità tra ebrei e cattolici. Con un ponte futuro tra Italia e Israele. È stata siglata nei giorni scorsi la convenzione tra la Casa di cura Assunzione di Maria Santissima e l'Ospedale Israelitico di Roma, che permetterà di studiare e diagnosticare meglio le malattie neurogenerative, in particolare Parkinson, Alzheimer e demenza senile; e allargare il raggio d'attività dei medici dell'Israelitico. La Casa Assunzione, gestita dalle Serve di Maria Riparatrici, è famosa per milioni di telespettatori: in passato i suoi esterni hanno «recitato» nella parte della clinica Villa Aurora della serie "Un medico in famiglia" con Lino Banfi, Giulio Scarpati e Milena Vukotic.
Al centro della collaborazione il centro di ricerca Ebri Euroepan brain research institute fondato da Rita Levi Montalcini: presso la Casa verrà aperto un laboratorio per la diagnosi delle malattie neurodegenerative. Le attrezzature di ricerca saranno messe in comune da Israelitico e Casa Assunzione, insieme con il personale, a disposizione del medico che sarà inviato dall'Ebri. In questo modo sarà possibile diagnostica Alzheimer, Parkinson e demenza senile sia all'Israelitico nella sede di via Fulda a Roma, che presso la Casa Assunzione.
Ma la Casa Assunzione è solo l'inizio. Nella convenzione tra le due realtà è previsto, in futuro, il coinvolgimento della Hebrew University di Gerusalemme. L'Hb ha infatti un centro di ricerca, all'interno della sua facoltà di Medicina, dedicato ai problemi cerebrali: una macchina avviata nel 2014 e che dispone di 50 laboratori per studiare i problemi neurologici quali trauma, Alzheimer, Parkinson, sclerosi multipla e così via (la specialità dell'Israelitico, in Italia, è infatti la geriatria e le malattie geriatriche che si manifestano in fase acuta). In futuro sarà possibile allargare la collaborazione ad altre istituzioni scientifiche israeliane per approfondire gli studi sulle patologie neurodegenerative.

(ItaliaOggi, 31 maggio 2017)


Effetto Trump: gli ebrei americani affollano le sinagoghe

 
Dal Muro del Pianto alle sinagoghe degli States. Gli ebrei americani tornano ad affollare le sinagoghe. È una sorta di "effetto Trump" scrive oggi Haaretz, secondo il quale la partecipazione dei fedeli è aumentata fin dal primo venerdì dopo le elezioni presidenziali di novembre, con maggior fervore nella preghiera e partecipazione alle attività sociali. «Vengono ragazzi di 20 o 30 anni, magari con una cresta di capelli rosa, e gente di 60 e 70 anni. Dicono che prima non erano interessati ma ora vogliono far parte di qualcosa di buono e grande», afferma Michael Adam Latz, un rabbino di Minneapolis molto attivo nella protezione degli immigrati. Il fenomeno, specie nelle sinagoghe più liberal, si è registrato in tutto il paese, dalla California a New York, da Washington alla Florida.
«Da quando ci sono state le elezioni, i riti dello shabbat sono la mia fonte di ossigeno», ha confidato un fedele alla rabbina Sharon Brous di Los Angeles. Jared Kushner, genero di Trump, è ebreo. E lo è anche Ivanka, che si è convertita alla religione ebraica, proprio per sposarsi. Durante il recente viaggio in Medio Oriente, tutta la famiglia Trump si è ritrovata a pregare al Muro del Pianto.

(Il Messaggero, 31 maggio 2017)


Chiesa, potere temporale e la Donazione di Costantino: un falso clamoroso

di Marco Ammendola

L'esistenza del potere temporale della Chiesa, ossia il fatto che il Papa fosse sovrano dello Stato Pontificio oltre che governatore di anime, ha permesso ai pontefici di governare su un regno terreno fino al 1870 (quando con la famosa breccia di Porta Pia, Roma fu annessa al nuovo Regno d'Italia divenendone capitale). Bene, la Chiesa ha sempre addotto a giustificazione del potere terreno un documento col quale si dimostrava la legittimità di tale potere che fu concesso al papa dall'imperatore Costantino I; il pontefice che per primo poté godere di una tale concessione fu Silvestro I nell'anno del Signore 315 d.C. E fin qui tutto regolare, o almeno sembrerebbe… Già, perché verso la metà del quindicesimo secolo qualcuno decise di prendere in mano quel documento ad analizzarne forma e contenuto, scoprendo che in quello scritto qualcosa (in verità ben più di qualcosa) non quadrava. Vediamo nel dettaglio.
   Come sopra accennato, il documento in questione è la cosiddetta Donazione di Costantino, la riproduzione di un editto imperiale risalente all'anno 315 d.C. col quale l'Imperatore Costantino I avrebbe concesso a papa Silvestro I ed a i suoi successori il primato sui cinque patriarcati (Roma, Costantinopoli, Antiochia, Gerusalemme ed Alessandria d'Egitto), nonché la sovranità su Roma, l'Italia e l'Occidente. Il tutto come ricompensa al pontefice per aver guarito l'imperatore dalla lebbra grazie ad un miracolo.
   "In considerazione del fatto che il nostro potere imperiale è terreno, noi decretiamo che si debba venerare ed onorare la nostra santissima Chiesa Romana e che il Sacro Vescovado del santo Pietro debba essere gloriosamente esaltato sopra il nostro Impero e trono terreno. Il vescovo di Roma deve regnare sopra le quattro principali sedi Antiochia, Alessandria, Costantinopoli e Gerusalemme e sopra tutte le chiese di Dio nel mondo. Finalmente noi doniamo a Silvestro, papa universale, il nostro palazzo e tutte le province, palazzi e distretti della città di Roma e dell'Italia e delle regioni occidentali".
   Insomma, l'imperiale gratitudine fu dimostrata in maniera generosa ed inequivocabile, e permise alla Chiesa di far valere per secoli il proprio diritto a regnare sull'Occidente, così tanto ad occidente che la Donazione fu tirata in ballo anche da papa Alessandro VI nel 1493, quando pretese di avere voce in capitolo nella disputa tra Spagna e Portogallo riguardo la spartizione del Nuovo Mondo; in questo caso però il concetto di occidente fu preso dal pontefice un po' troppo alla larga, dato che ai tempi di Costantino I ben difficilmente si sarebbe potuto fare riferimento ad un continente di cui non si sospettava nemmeno dell'esistenza. E vabbè, largheggiamo…
   Nel 1440 però accadde che uno studioso italiano di nome Lorenzo Valla (1405-1457) decise di prendere in mano la Donazione ed analizzarla in veste di filologo (la filologia è la disciplina che studia i testi letterari al fine di ricostruirne la forma originaria). Valla si accorse che quel documento conteneva un gran numero di contraddizioni e perfino di anacronismi (come ad esempio il riferimento a Costantinopoli, città fondata nel 330 d.C., in un documento redatto nel 315 d.C., ossia quindici anni prima della fondazione della città stessa), nonché il fatto che il latino col quale il testo era riprodotto non potesse assolutamente essere quello in uso ai tempi di Costantino, ma era decisamente più recente dati gli elementi barbari un esso contenuti. Il lavoro di Valla fu pubblicato per la prima volta nel 1517 col titolo di "Discorso sulla Donazione di Costantino, contraffatta e falsamente ritenuta vera", ed in esso vi si affermava che il documento era stato redatto nell' VIII secolo d.C. dalla cancelleria pontificia stessa, ossia ben quattro secoli dopo Costantino I. Giusto per la cronaca, nel 1559 lo scritto del Valla fu incluso nell'indice dei libri proibiti, ossia l'elenco delle opere vietate dalla Chiesa (soppresso solo nel 1966!), comprendenti lavori di Dante, Boccaccio, Ariosto, Machiavelli, Erasmo da Rotterdam, Dumas padre e figlio, Hugo, Montesquieu, Voltaire, Kant, Alfieri, Beccaria, Croce, D'Annunzio, Foscolo, Copernico, Galilei, Gentile, Guicciardini, Bruno, Gioberti, Leopardi... Ovviamente, il Discorso del Valla ebbe invece grande seguito in ambiente protestante.
   Comprensibile che la Chiesa abbia messo alla gogna il testo del Valla, dato che lo studioso italiano aveva dimostrato senza possibilità di dubbio alcuno che il potere temporale, ossia l'esistenza di un regno terreno governato dai papi, nonché la pretesa del primato papale su quello imperiale (si pensi alla secolare lotta tra papato ed Impero in epoca alto medievale sulla questione delle investiture), erano giustificate da un documento assolutamente falso, un vero e proprio imbroglio creato ad arte per dare alla Chiesa un potere che non le spettava.
   Bisogna poi precisare che, prescindendo dalle questioni sull'originalità del documento, la Donazione ha sempre sollevato forti dubbi di validità giuridica, dato che per le leggi romane il titolo di imperatore assegnava a chi lo deteneva il compito di accrescere l'Impero; per tale ragione l'atto di Costantino, determinando una diminuzione dell'Impero dovuta alla cessione di una parte di esso alla Chiesa, violava le prescrizioni imposte dalla legge al detentore del titolo imperiale. Tra l'altro, il precedente di aver provocato una diminuzione della giurisdizione imperiale, ammetteva la possibilità di ulteriori diminuzioni, che portate avanti una dopo l'altra avrebbero potuto ridurre tale giurisdizione a zero, il che sarebbe stato illogico.
   Anche Dante, ovviamente molto prima di Valla, aveva affrontato l'argomento nel De Monarchia (premettiamo però che il Poeta non nutriva alcun dubbio sull'autenticità della Donazione, semplicemente ne contestava la validità giuridica e morale), sottolineando come non fosse lecito per un imperatore recare danno all'Impero alienandone una parte, compiendo così un atto d'ufficio contrario all'ufficio stesso. Né, sempre secondo Dante, la Chiesa aveva facoltà di accettare il dono imperiale, essendo tale gesto esplicitamente contrario al precetto neotestamentario che le imponeva di non possedere alcunché di temporale e di vivere nel rispetto dell'obbligo alla povertà.
   In conclusione, la pretesa dei papi di aver ricevuto in dono quei beni terreni, potendone quindi esercitare il governo sottratto illegalmente alla giurisdizione imperiale, ha fornito alla Chiesa quel potere temporale al quale non ha mai avuto diritto.

(La Voce, 31 maggio 2017)


Palestina: oltre un miliardo di dollari in quattro anni per pagare i terroristi

La cosiddetta Palestina ha speso oltre un miliardo di dollari negli ultimi quattro anni solo per pagare stipendi e vitalizi ai terroristi e alle loro famiglie. E' quanto emerge dalla audizione dell'ex capo dei servizi segreti israeliani, Gen. Yossi Kuperwasser, davanti al Comitato affari esteri e difesa della Knesset.
Il quadro delineato dal Generale Yossi Kuperwasser, ex capo dei servizi segreti nonché ex Direttore generale del Ministero degli affari strategici, è tanto chiaro quanto disarmante. La cosiddetta Palestina paga regolarmente cifre importanti ai terroristi detenuti in Israele e alle famiglie dei terroristi morti durante gli attacchi, cifre che cambiano a seconda del tipo di attacco e della lunghezza della detenzione dei terroristi....

(Right Reporters, 30 maggio 2017)


Il grande ritorno in Germania degli odiosi stereotipi contro gli ebrei
   Articolo OTTIMO!


Più ci si allontana dagli anni orribili della Shoah più ritornano a galla gli stereotipi più odiosi nei confronti degli ebrei, non solo degli israeliani. La denuncia in un libro-inchiesta. Perché non è solo xenofobia.

di Antonio Donno

"Io non sono antisemita, è soltanto Israele che aborrisco", afferma l'antisemita di oggi per difendersi dall'accusa di antisemitismo. In realtà, come i fatti dimostrano, giudeofobia e anti-israelismo sono ormai praticamente indistinguibili, cioè a dire che la "questione ebraica" e la "questione israeliana" sono perfettamente sovrapponibili. Ciò comporta uno sviluppo dell'antisemitismo in Europa come mai si era avuto nei decenni dopo la Shoah. Gli antisemiti odierni "hanno reindirizzato la 'Soluzione Finale' dagli ebrei allo stato di Israele, che considerano l'incarnazione del male". Questa orrenda constatazione ben esprime il senso della fondamentale opera di Monika Schwarz-Friesel e Jehuda Reinharz, Inside the Antisemitic Mind: The Language of Jew-Hatred in Contemporary Germany, pubblicato in Germania nel 2013 e quest'anno negli Stati Uniti dalla Brandeis University Press. Il libro non è uno studio teorico sull'antisemitismo; i due ricercatori tedeschi hanno vagliato, a partire dal 2002, migliaia di email, lettere, cartoline postali e fax inviati da tutte le regioni della Germania al Central Council of Jews tedesco e all'Ambasciata di Israele a Berlino. Si tratta, quindi, di un libro fondato su una massa imponente di documentazione, di dati empirici che rivelano il permanere, e anzi il rafforzarsi, di un odio irrazionale e ossessivo verso gli ebrei, coniugato con la ripresa di antichi stereotipi, erroneamente ritenuti ormai estinti dopo la Shoah.
  Invece, sta avvenendo il contrario. L'antisemitismo non è più tipico della destra; la sua modificazione nella critica verso Israele è oggi propria della sinistra, a livello popolare come dei circoli più elitari. All'interno di questo contesto, il conflitto tra Israele e il mondo arabo, che risale alla fondazione stessa dello stato ebraico, è oggi rinverdito dagli antisemiti nella forma più "accettabile" di un'opposizione alla politica del governo di Israele, ma si nutre quasi sempre degli stereotipi più odiosi della tradizionale giudeofobia. Così, scrivono gli autori, oggi si è di fronte a una "israelizzazione della moderna giudeofobia", moderna all'apparenza, antica nella sostanza. Più ci si allontana dagli anni orribili della Shoah - pare di capire - più ritornano a galla gli stereotipi più odiosi nei confronti degli ebrei, non solo degli israeliani. Non si tratta di pura e semplice xenofobia, come alcuni affermano al fine di alleggerire il peso dell'accusa di antisemitismo, ma di un odio specifico contro gli ebrei, demonizzati come espressione assoluta del male. Ritorna in auge uno degli aspetti più radicati della civiltà occidentale, una sua componente sempre viva e vitale, che si diffonde non solo tra la gente comune, ma ora anche nelle componenti più elitarie del mondo politico internazionale.
  Il caso della Germania è assunto dagli autori come l'esempio probante di questo ritorno massiccio dell'antisemitismo. Secondo Schwarz-Friesel e Reinharz, per i quali la demonizzazione degli ebrei prescinde oggi dall'esperienza atroce della Shoah, si è andato definendo un codice linguistico antisemita, che si serve di termini che una volta erano utilizzati per condannare gli antisemiti e che oggi, invece, gli antisemiti usano per bollare gli ebrei e i loro sostenitori. Il web è la sede principale in cui gli argomenti e le stesse forme linguistiche si ripetono ossessivamente, creando un circuito imitativo che si riproduce continuamente. Così, in questo nuovo codice il termine "nazista" ha subìto un rovesciamento d'attribuzione: sono gli antisemiti e i sostenitori del terrorismo anti-israeliano a servirsene per condannare Israele e i suoi amici, definendoli nazisti. Nel caso tedesco, ciò può attenuare il senso di colpa legato al passato nazista: "L'argomentazione giudeofobica nella Germania odierna combina il rigetto della condanna per il passato con l'attribuzione della condanna agli ebrei per il presente (grazie al rovesciamento assassino/vittima)".
  "Il linguaggio - concludono gli autori - deve perciò essere considerato uno strumento di manipolazione". Considerazione ovvia, ma che assume connotati di estrema rilevanza per lo specifico caso dell'antisemitismo, una piaga che attraversa i secoli senza soluzione di continuità. Allo stesso modo, nei paesi che non hanno avuto un passato nazista i libri intrisi di antisemitismo sono spacciati per critica nei confronti di Israele e l'ostilità verso lo stato ebraico è giustificata in questi termini. In questo modo, l'odio verso Israele e verso gli ebrei si coniuga concettualmente e verbalmente; la conseguenza è che "oggi Israele è condannato come un ebreo collettivo" e perciò si tende "a escluderlo dalla comunità dei popoli o delle nazioni".

(Il Foglio, 31 maggio 2017)


«... la "questione ebraica" e la "questione israeliana" sono perfettamente sovrapponibili». È una tesi che condividiamo pienamente e ripetiamo da anni. La sua negazione costituisce oggi la viscida premessa di un atteggiamento antisemita. M.C.


Donald Trump e Israele: abbozzo di un bilancio temporaneo

di Niram Ferretti

 
Festosamente ricevuto in Israele, Donald Trump è ripartito portandosi appresso molti sorrisi, benevolenze, auspici. La sintonia con Benjamin Netanyahu è ottima. A vederli insieme sembrano due vecchi compagni di liceo felici di essersi ritrovati dopo molti anni e tutto questo fa piacere, soprattutto fa piacere vedere Trump, primo presidente americano nella storia che, nella sua veste istituzionale, visita il Kotel e si raccoglie in preghiera nel luogo più santo per l'ebraismo.
   Riguardo ai contenuti della visita, il presidente americano ha esplicitamente indicato che ci sono condizioni favorevoli alla ripresa del processo di pace in stallo da tre anni, spiegando che a Riad, dove si è recato prima di arrivare a Gerusalemme, "c'è molto amore". Ecco sì, l'amore è un ingrediente essenziale per portare a casa la pace, anche se c'è ragionevolmente da avanzare qualche dubbio sullo slancio affettivo wahabita nei confronti dello Stato ebraico. Ma Trump è così, lessicalmente saccarino con chi percepisce affine. Lancia il cuore oltre l'ostacolo, anche se poi non lascia trapelare nulla sui modi in cui l'amore (All you need is love), sì concreterà nell'empiria.
   Di fatto non vi è un solo fattore specifico che indichi che da parte dell'Autorità Palestinese, per non parlare della popolazione palestinese, vi sia un mutato atteggiamento nei confronti di Israele. Anzi. Abu Mazen continua a essere assai impopolare e Hamas non ha retrocesso di un millimetro nella sua intenzione di liberare tutta la Palestina dall' "usurpatore" sionista. All'interno dello stesso Fatah la retorica anti-israeliana non si discosta molto da quella del gruppo rivale che controlla Gaza, e con il quale ormai da tempo si è giunti ai ferri corti. Per non parlare della cultura dell'odio per l'ebreo e il sionista, che da decenni l'OLP, Fatah e Hamas hanno instillato nelle giovani generazioni palestinesi, partendo dalla prima educazione in cui ai bambini vengono forniti libri di testo nei quali la mappa della Palestina è priva di Israele per proseguire con l'esaltazione dei terroristi come martiri, meritevoli di strade intitolate a loro nome.
   Da parte israeliana la vecchia volpe Netanyahu, assai sollevata dal feeling con l'amico americano dopo otto anni di frizioni con Obama, sa benissimo che fuori dalla retorica ottimista, dalle parole alate, la realtà suona un'altra musica, meno carezzevole e piena di dissonanze timbriche.
   La domanda che ci si inizia a porre è, quanto sarà veramente vantaggioso per Israele, Donald Trump? Non ci sono dubbi che, rispetto al suo predecessore, le dichiarazioni di affetto e vicinanza siano notevolmente più marcate, ma al momento, di concreto Israele non porta a casa nulla. L'ambasciata americana che da Tel Aviv doveva essere spostata a Gerusalemme resta dove è, gli insediamenti permangono nello status quo e di annessioni non è nemmeno il caso di parlarne.
   L'ottimismo non è un obbligo ma una scommessa assai azzardata in questa situazione irta di complessità estreme e di ostacoli a ogni angolo. Israele intanto incassa la benevolenza di Trump, ed è già qualcosa rispetto all'ostilità di Obama ma è ancora assai poco per pensare che sia fatto un reale passo avanti. Il rischio grande è uno, che la politica americana nei confronti di Israele si incanali sui binari arrugginiti degli ultimi trent'anni. E i segnali, a meno di eventi positivamente clamorosi, sembrano essere esattamente questi.

(La Voce, 31 maggio 2017)


Israele - Gli autobus elettrici si ricaricano su strade speciali tramite wifi

Grazie alla tecnologia della startup ElectRoads, Israele avrà la sua prima linea di trasporto pubblico alimentata da un sistema wireless

di Sara Moraca

 Il primo esperimento
I veicoli elettrici rappresentano da tempo un'opzione per la mobilità sostenibile, anche se spesso pongono problemi di ordine pratico legati al costo e all'ingombro delle batterie. Israele sta cercando di aggirare questo ostacolo, grazie alla realizzazione di strade che alimentano i bus elettrici tramite tecnologia wifi.
Il governo israeliano sta collaborando con la startup ElectRoad per realizzare il primo prototipo di sistema wifi per la ricarica di autobus elettrici a Tel Aviv. La tecnologia, che prevede l'allocazione di sistemi di trasmissione wireless sotto la pavimentazione stradale, eliminerebbe il bisogno di creare delle stazioni di ricarica plugin per i mezzi di trasporto. Al momento, il progetto è in fase iniziale e - per poter essere adottato su larga scala - ElectRoad dovrà dimostrare che la sua tecnologia è scalabile.

 Linea attiva entro il 2018
Finora, l'unico banco di prova per la startup è stato un percorso di 80 metri nella propria sede di Cesarea. La tecnologia ha però convinto il ministero dei trasporti israeliano, che ha deciso di investire 120.000 dollari nella startup per installare la tecnologia su una parte del percorso cittadino effettuato dagli autobus. Il primo tratto sarà ultimato entro il 2018 e sarà lungo circa 800 metri. Se questo primo tentativo darà risultati positivi, l'intenzione è quella di realizzare una seconda linea che colleghi la città di Eliat all'aeroporto internazionale di Ramon.
Il meccanismo alla base della tecnologia prevede l'allocazione di inverter a lato della carreggiata, che caricano le piastre di rame poste sotto la pavimentazione stradale. Altre piastre di rame sono installate sotto l'autobus. Quando il veicolo passa sopra la carreggiata, i due campi interagiscono e generano potenza. L'ausilio di alcune piccole batterie si rende ancora necessaria per l'avviamento del veicolo, che prevede una quantità di energia maggiore rispetto a quella che serve per il movimento dell'autobus lungo la carreggiata, e per quei tratti di strada su cui non è stata ancora installata la tecnologia di ElectRoad.

 Energie rinnovabili
Israele si unisce così a quel gruppo di paesi che sta cercando di sfruttare le potenzialità delle reti wireless, come la Corea del Sud, che vanta percorsi wireless per autobus su tutto il territorio nazionale. Alcuni esperti hanno osservato che - data la progressiva diminuzione del prezzo delle batterie - la tecnologia di ElectRoads potrebbe presto rivelarsi obsoleta; la startup ha però precisato che la propria tecnologia è stata realizzata per poter essere adatta più a un'infrastruttura di trasporti che al singolo veicolo. L'obiettivo della startup è ora quello di aumentare le sinergie esistenti tra la propria tecnologia ed eventuali fonti di energia rinnovabile.

(Corriere della Sera, 31 maggio 2017)


Netanyahu: "Il mondo arabo sta mutando il suo atteggiamento su Israele"

Il premier dello Stato ebraico: "Stanno capendo che non siamo nemici ma alleati potenziali contro l'Isis e l'Iran"

di Luana Pollini

"In alcuni settori del mondo arabo c'è un cambiamento nei confronti di Israele, dovuto alla comprensione che non siamo suoi nemici ma anzi alleati potenziali di fronte all'Iran e all'Isis". Lo ha detto il premier Benyamin Netanyahu alla radio militare israeliana. "Forse - ha aggiunto - una riconciliazione avverrà dall'esterno verso l'interno", ossia saranno appunto Paesi arabi a spronare i palestinesi ad un accordo con Israele. I palestinesi, secondo Netanyahu, in questa fase sono ancora "prigionieri delle loro concezioni" tese a negare la legittimità di Israele. La assenza di pace - ha rilevato - è da imputarsi a questo atteggiamento palestinese e non al controllo da parte di Israele dei Territori, o alla costruzione di colonie: "Prima del 1967 non c'erano né l'uno né le altre eppure cercarono di sloggiarci da Tel Aviv e da Jaffa". Netanyahu ha infine osservato che se Israele rinunciasse al controllo militare sulla Cisgiordania essa presto diventerebbe "una rampa di lancio di missili" verso la fascia costiera israeliana.
   Intanto un reportage di Haaretz riporta che migliaia di palestinesi sono fuggiti negli ultimi anni da Gaza ed ora vivono in condizioni precarie ad Atene, nella speranza di ricevere asilo. La fuga da Gaza è costosa, hanno detto questi profughi, sia che si passi dal valico di Rafah, sia che si scelgano i tunnel di contrabbando scavati sotto al confine verso il Sinai. Nel primo caso, hanno aggiunto, occorre corrompere funzionari di Hamas perché mettano i loro nomi all'inizio della lista di quanti avranno accesso in Egitto con la sporadica apertura del valico. Attualmente la lista di attesa include 25 mila nomi, e chi non ha risorse finanziarie comprende che non avrà possibilità di entrare in Egitto anche perché - secondo i profughi - una volta varcato il valico di Rafah occorre corrompere anche i militari egiziani. Egualmente esosa, la opzione del tunnel di contrabbando. Secondo stime ufficiose, i palestinesi fuggiti da Gaza sono in Grecia 4.500-6.000. Alcuni profughi hanno spiegato a Haaretz di aver deciso la fuga avendo patito sevizie nelle prigioni di Hamas.

(In Terris, 31 maggio 2017)


La protagonista è l'israeliana Gal Gadot: il Libano vuole vietare «Wonder Woman»

La modella, 32 anni, ha prestato servizio nell'esercito quando aveva 18 anni e ha più volte ribadito le sue posizioni anti Hamas. Le autorità di Beirut avevano già cercato di bloccare «Batman vs Superman» perché l'attrice appare in qualche scena.

di Davide Frattini

 Il precedente
 
Gal Gadot in «Wonder Woman»
  Gadot è stata incoranata Miss Israele tredici anni fa, è una delle modelle più famose, ormai vive tra Tel Aviv e Los Angeles, Wonder Woman è il primo ruolo da protagonista. Le autorità libanesi avevano già cercato di bloccare Batman vs Superman perché l'attrice appare in qualche scena, il film era uscito nelle sale - anche se per pochi giorni - nonostante le proteste.

 La legge e il boicottaggio
  Le leggi impongono di boicottare i prodotti israeliani, ma secondo Ayman Mhanna, direttore dell'organizzazione libanese SKeyes per le libertà mediatiche e culturali, il bando voluto dal ministro sarebbe valido solo se Gadot non avesse ancora ricevuto tutto il compenso e dovesse guadagnare dagli incassi in Libano. Perché il film venga bloccato è necessario il voto di un comitato composto da sei ministri e alla fine è possibile che la pellicola venga proiettata, le copie pirata - scrive l'agenzia Ansa - sono già in vendita al mercato per un euro.

 Il messaggio di Gal
  I gruppi che sostengono la campagna per il boicottaggio ricordano che Gald Gadot, durante il conflitto tra Israele e Hamas nell'estate del 2014, ha scritto un messaggio su Facebook per sostenere le operazioni dell'esercito: «Il mio amore e le mie preghiere vanno ai ragazzi e alle ragazze che stanno rischiando la vita per proteggere la nazione dagli attacchi orrendi di Hamas, i cui miliziani si nascondono come vigliacchi dietro a donne e bambini».

(Corriere della Sera, 31 maggio 2017)


La delegazione israeliana al vertice della Comunità economica dei paesi dell'Africa occidentale

GERUSALEMME - Il Marocco non è la sola a voler affermare la sua presenza al vertice della (Cedeao) di Monrovia il 4 giugno prossimo tra i paesi non membri. Israele ha lanciato un'offensiva diplomatica in Africa negli ultimi anni e vuole promuovere la cooperazione con i quindici paesi della regione. Netanyahu stesso sarà nella capitale liberiana. Mentre il premier israeliano è ai ferri corti con il Senegal sulla questione palestinese, Israele è in buoni rapporti con la maggior parte degli altri 14 paesi della Comunità economica degli Stati dell'Africa occidentale. Netanyahu non vuole perdere una tale opportunità di sedersi con i 15 capi di stato africani. L'obiettivo sarà quello di vendere la sua proposta di cooperazione nei settori dell'agricoltura e della lotta contro il terrorismo. Il primo ministro israeliano può riuscire nel suo intento secondo la stampa marocchina, anche se quasi tutti i paesi dell'Africa occidentale sono a maggioranza musulmana e molto sensibili alla causa palestinese. In molti però preferiscono la "realpolitik" alla questione dei diritti umani nei Territori palestinesi e sono due i temi di interesse: uno è una soluzione per l'insicurezza alimentare e l'altro aiutare a superare il terrorismo nel Sahel. Negli ultimi anni, Israele ha moltiplicato le attività di avvicinamento verso i paesi africani. L'anno scorso, i rapporti con la Guinea sono stati ristabiliti dopo decenni di congelamento.

(Agenzia Nova, 31 maggio 2017)


Cooperazione scientifica fra Italia e Israele: un futuro da sviluppare

di Gabriele Caramellino

Alcuni dei relatori del convegno Italia - Israele. Guidati dal futuro. Da sinistra: Olga Dolburt (Ministro Consigliere per gli Affari Economici e Scientifici dell'Ambasciata di Israele in Italia), Eugenio Cipolla (collaboratore e co-organizzatore del convegno Italia - Israele. Guidati dal futuro), Silvia Fregolent (deputata PD, membro della Commissione Finanze della Camera dei Deputati, membro dell'Intergruppo Parlamentare Amici di Israele), Antonio Palmieri (deputato Forza Italia, membro della Commissione Cultura, Scienza, Istruzione della Camera dei Deputati, membro dell'Intergruppo Parlamentare sull'Innovazione Tecnologica, membro dell'Intergruppo Parlamentare Amici di Israele). Roma, 30 maggio 2017, Camera dei Deputati, sala della Lupa.

Una mattinata di riflessioni importanti, oggi a Roma, alla Camera dei Deputati, durante il convegno Italia - Israele. Guidati dal futuro, organizzato dall'Intergruppo Parlamentare sull'Innovazione Tecnologica su iniziativa di Antonio Palmieri (deputato Forza Italia, membro della Commissione Cultura, Scienza, Istruzione della Camera dei Deputati, membro dell'Intergruppo Parlamentare sull'Innovazione Tecnologica, membro dell'Intergruppo Parlamentare Amici di Israele), in collaborazione con Mario Pagliaro (chimico al CNR - Consiglio Nazionale delle Ricerche di Palermo e fondatore del Polo di ricerca sull'Energia Solare in Sicilia).
La collaborazione scientifica fra Italia e Israele ha margini di sviluppo rilevanti, e ancora poco noti.
Certamente, il sistema della ricerca in Israele ha una struttura diversa da quello italiano.

Mario Pagliaro (chimico al CNR - Consiglio Nazionale delle Ricerche di Palermo e fondatore del Polo di ricerca sull'Energia Solare in Sicilia) ha spiegato: "Durante gli anni Novanta, ho svolto il mio dottorato di ricerca in Israele, a Gerusalemme. La capacità di innovazione di Israele è dovuta ad alcuni fattori strategici, come il mix fra ricerca di base e applicata, e la competizione per l'ottenimento di finanziamenti per la ricerca. In epoche diverse, Italia e Israele sono stati Paesi pionieri dell'energia solare. Il futuro della collaborazione fra Italia e Israele può continuare nell'area della formazione internazionale congiunta".

Olga Dolburt (Ministro Consigliere per gli Affari Economici e Scientifici dell'Ambasciata di Israele in Italia) ha affermato: "In Israele, la ricerca e l'economia sono molto collegate. L'Italia è il nono partner commerciale per l'export israeliano. Fra Italia e Israele ci sono potenzialità ancora da sviluppare. Fra le duecentocinquanta aziende non israeliane che hanno un innovation office in Israele, ce ne sono soltanto due italiane: Enel e Intesa Sanpaolo. L'Ambasciata di Israele in Italia è disponibile a dialogare con le aziende italiane, anche con quelle piccole, per favorire rapporti di ricerca e di business".

Silvia Fregolent (deputata PD, membro della Commissione Finanze della Camera dei Deputati, membro dell'Intergruppo Parlamentare Amici di Israele) ha dichiarato: "In Italia, ancora non si comprende appieno la cultura israeliana. Bisogna fare conoscere alle imprese italiane le opportunità offerte da Israele".

Antonio Palmieri (deputato Forza Italia, membro della Commissione Cultura, Scienza, Istruzione della Camera dei Deputati, membro dell'Intergruppo Parlamentare sull'Innovazione Tecnologica, membro dell'Intergruppo Parlamentare Amici di Israele) ha affermato: "Il Piano Industria 4.0 ha aumentato i benefici fiscali per chi investe in startups, ed è un passo in avanti per cercare di rendere lo Stato più amico di chi vuole fare impresa. Stiamo vivendo una era di cambiamento".

Fra Italia e Israele, dunque, c'è un futuro da sviluppare.

(Il Sole 24 Ore, 31 maggio 2017)


Dall'Arabia Saudita arriva lo spot anti-terrorismo

La compagnia telefonica 'Zain' vuole combattere il terrore con "canzoni d'amore"

Quest'anno la compagnia telefonica 'Zain', dell'Arabia Saudita, dedica la sua pubblicità per l'inizio del mese del Ramadan alla lotta al terrorismo.
La canzone canta di «bombardare la violenza con la misericordia» e «venerare il tuo dio con amore e non con il terrore», mostrando un terrorista pronto a farsi esplodere che incontra le famiglie e le vittime degli attacchi passati. Nel video è presente anche un attore che interpreta Omran Daqneesh, il bambino sopravvissuto al bombardamento di Aleppo la cui foto è diventata virale.
L'endorsement arriva anche da Hussain al-Jassmi, cantante pop degli Emirati Arabi Uniti. «Dirò tutto ad Allah», recita la voce di un bambino mentre il terrorista prepara l'esplosivo, «che hai riempito i cimiteri con i nostri bambini, e vuotato le nostre scuole, che hai provocato il caos e gettato le nostre strade nell'oscurità, che hai mentito. Allah conosce tutti i segreti dei nostri cuori».
«Reagiremo ai loro attacchi con canzoni d'amore. Da adesso fino alla felicità», si legge nel messaggio conclusivo del video della compagnia telefonica.

(L'Indro, 31 maggio 2017)


L'Anp non ci sta: «Israele si prende Gerusalemme»

Proteste per la riunione al Muro del Pianto. Reazione palestinese alla seduta del governo Netanyahu nel luogo sacro. Ad acuire lo scontro l'annuncio di una funivia nell'area.

di Luca Geronico

Indiscrezioni, fatte filtrare ad arte, e subito smentite dalla controparte. Salgono, al di sotto dell'ufficialità diplomatica, i segnali di tensione fra Israele a Autorità nazionale palestinese (Anp) dopo la visita di Donald Trump. l'incontro avvenuto la scorsa settimana a Betlemme fra Donald Trump e Abu Mazen, si apprende dalla stampa israeliana, ha avuto momenti di forte contrapposizione. Il presidente degli Stati Uniti avrebbe anche alzato la voce con il presidente dell'Anp, perché lo avrebbe «ingannato». È questa la ricostruzione dell'incontro di lsrael ha-Yom e Maariv, subito smentita da un portavoce del presidente dell'Anp. Trump, secondo i giornali israeliani, si è detto «ingannato» da Abu Mazen per la sua proclamata volontà di pace mentre, avrebbe lamentato ad alta voce, l'Anp paga i familiari di palestinesi catturati da Israele per attività violente legate all'Intifada. Da parte sua, un collaboratore di Abu Mazen, Taleb a-Sana, ha replicato che Trump ha effettivamente criticato durante la sua visita l'Anp per il sostegno economico alle famiglie dei detenuti, ma anche ribadito che Abu Mazen è un partner di pace per Israele. Queste le ultime scintille dopo una domenica già di forte tensione tra Israele e Anp. Il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu, infatti, domenica ha voluto celebrare il 50esimo anniversario della Guerra dei sei giorni con una riunione del suo governo all'interno del tunnel del Muro del Pianto.
   «Rafforzeremo» Gerusalemme, ha promesso Netanyahu, citando diversi progetti di sviluppo fra cui una funicolare per portare turisti e fedeli al muro del Pianto, il luogo più santo dell'ebraismo. Cinquant'anni fa, nel 1967, Israele sconfisse i Paesi arabi che l'avevano attaccato nella Guerra dei Sei Giorni, conquistando Gerusalemme est e la Cisgiordania. Israele considera Gerusalemme sua capitale «eterna e indivisa». la comunità internazionale non riconosce, però, la sovranità israeliana su Gerusalemme est, che i palestinesi rivendicano come loro futura capitale.
   Il tunnel archeologico dove si è riunito domenica il governo israeliano fu aperto nel 1996 su ordine di Netanyahu, quando diventò per la prima volta capo del governo israeliano. Gli scavi provocarono violente proteste palestinesi, come accade per ogni intervento che riguarda l'area. E come si verifica ora con l'annunciata funivia che collegherà un rione residenziale alla porta della Città Vecchia più vicina al Muro del Pianto. Dura reazione domenica del negoziatore capo palestinese Saeb Erekat. «Il governo israeliano - ha affermato ancora il dirigente palestinese, citato dal Jerusalem Post - ha deciso di celebrare i 50 anni di occupazione e l'inizio del mese islamico del Ramadan inviando al popolo palestinese un chiaro messaggio, ossia che le violazioni sistematiche dei suoi diritti sono destinate a continuare». Con queste azioni, ha affermato il ministero degli Esteri palestinese, Israele «mira ad ebraicizzare» Gerusalemme est e di conseguenza «mina alla base ogni speranza per una pace basata sulla soluzione dei Due Stati». L'Anp ha inoltre fatto appello al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite affinché costringa Israele a bloccare i suoi progetti di «espansione dei rioni ebraici a Gerusalemme est».
   Nel corso della seduta di domenica Netanyahu ha annunciato che il suo governo ha approvato ingenti finanziamenti per lo sviluppo di Gerusalemme.

(Avvenire, 30 maggio 2017)


“Gerusalemme è capitale unica e indivisibile dello Stato d’Israele”. E’ questo il nodo, è questo lo spartiacque. Chi non accetta questo, è contro l’esistenza di Israele. M.C.


Quando Jeremy Corbyn portava fiori ai terroristi di Monaco '72

Il "commovente" viaggio in Tunisia sulla tomba di uno degli assassini degli israeliani ai Giochi Olimpici.

di Giulio Meotti

Jeremy Corbyn, leader del Labour inglese,
ROMA - Prima ha collegato il massacro di Manchester, in cui 23 inglesi sono stati trucidati dall'islamista Salman Abedi, alle "guerre che il nostro governo ha sostenuto o combattuto". Poi su Jeremy Corbyn, leader del Labour inglese, è caduta una tegola a dir poco imbarazzante. Nel weekend, il Sunday Times ha scoperto che, un anno dopo la sua elezione alla guida del Partito laburista, Corbyn ha deposto una corona di fiori sulla tomba di uno dei terroristi palestinesi responsabili del massacro degli atleti israeliani a Monaco nel 1972.
  Nell'ottobre 2014, Corbyn fece visita in Tunisia per commemorare l'anniversario dell'attacco di Israele nel 1985 alla sede centrale dell'Organizzazione di liberazione della Palestina, omaggiando anche il cimitero. "Dopo che le corone furono poste sulle tombe dei morti di quel giorno (a Sabra e Shatila, ndr) e sulle tombe di altri uccisi dagli agenti del Mossad a Parigi nel 1991, ci trasferimmo alla statua nel viale principale della città costiera di Ben Arous", scrisse Corbyn dopo il viaggio. Il riferimento è alla tomba del funzionario dell'Olp, Atef Bseiso, capo dell'intelligence palestinese negli anni Settanta, ritenuto un importante pianificatore del massacro di Monaco in cui furono trucidati gli atleti israeliani alle Olimpiadi. Non esiste alcuna prova che l'agenzia di intelligence di Israele abbia effettuato un assassinio nella capitale francese a quel tempo, ma l'uccisione di Bseiso a Parigi nel giugno del 1992 è stata da molti attribuita allo stato ebraico.
  Ma il nome di Atef Bseiso è anche legato a una vicenda tutta italiana. Il 5 ottobre 1973 vengono arrestati in un appartamento di Ostia cinque palestinesi. C'erano anche due missili terra-aria Sam-7 di fabbricazione sovietica. Dalla terrazza dell'appartamento si dominava il "corridoio aereo" di accesso all'aeroporto di Fiumicino. Lo scopo dei cinque terroristi era quello di centrare un velivolo della El Al, la compagnia di bandiera israeliana, in fase di decollo. Atef Bseiso fu uno tre arabi "accompagnati" dagli uomini dei servizi segreti fuori dal territorio italiano. Corbyn ha definito come "commovente" la deposizione della corona di fiori sulla tomba del terrorista palestinese.
  Non è la prima volta che a Corbyn viene imputata una responsabilità diretta nel sostenere l'incitamento all'odio contro Israele. C'era stato il caso di Interpal, Palestinian Relief and Development Fund, la ong inglese finanziata da Corbyn, che è apparso anche in numerose sue serate di raccolta fondi. Questa ong ha finanziato il "Festival palestinese per l'infanzia e l'istruzione" nella Striscia di Gaza, dove fu girato un video di propaganda in cui si vedono numerosi bimbi palestinesi con indosso la mimetica che simulano l'uccisione di soldati israeliani con coltelli e mitragliatrici giocattolo. Nel 2013 Corbyn e consorte accettarono pure un tour a Gaza finanziato da Interpal con tremila sterline. Uno dei migliori amici di Corbyn, Ibrahim Hewitt, è il portavoce di Interpal. Corbyn ha anche difeso il fratello Piers, reo di aver detto che "i sionisti non tollerano nessuno che difenda i diritti dei palestinesi". E non si contano più i politici e consiglieri comunali del Labour che danno voce al peggior sentimento antiebraico. Come il parlamentare Vicki Kirby, secondo cui Hitler era "un dio sionista", gli ebrei "hanno grandi nasi" e che si è chiesto perché lo Stato islamico non attacchi Israele. Jennifer Gerber, a capo del gruppo di parlamentari laburisti Amici di Israele, ha dichiarato: "È quasi incredibile che un deputato del Labour possa partecipare a una cerimonia per onorare un uomo coinvolto nell'omicidio di atleti israeliani innocenti". Sajid Javid, ministro inglese delle Attività produttive, ha puntato il dito contro "le cene antisemite", un fenomeno tipico dei dinner parties nei quartieri benestanti di Londra, animate da "persone rispettabili della classe media che avrebbero un sussulto di orrore se fossero accusate di razzismo sono molto felici di ripetere calunnie sugli ebrei". E ora, si scopre, anche di portare fiori sulla tomba di chi ha castrato Yossef Romano, una delle undici vittime del commando di Monaco, torturato prima di essere ucciso. Perché ebreo israeliano.

(Il Foglio, 30 maggio 2017)


Cari Manconi e Locatelli, chiamateli terroristi, non prigionieri politici

L'ambasciatore israeliano scrive ai due parlamentari

 
Ofer Sachs
Egregia Presidente On. Pia Locatelli,
Egregio Presidente Sen. Luigi Manconi,
Con la presente, faccio seguito alla Vostra lettera inviatami il 10 maggio scorso, relativamente allo sciopero della fame dichiarato da alcuni prigionieri palestinesi, detenuti nelle carceri israeliane.
   In primis, ci tengo a precisare che, i prigionieri di cui stiamo parlando, non sono detenuti per reati derivati dalle loro posizioni politiche o di coscienza. Ci riferiamo a persone coinvolte in tragiche azioni terroristiche che, purtroppo, hanno portato alla morte di centinaia di israeliani. Il primo di questi è proprio Marwan Barghouti, autoproclamatosi leader di questa protesta.
   Come credo Voi saprete già, Marwan Barghouti è un terrorista che si è reso responsabile di atti criminali gravissimi tra il 2001 e il 2005, determinando la morte di civili innocenti. Per queste ragioni, Barghouti è stato condannato a cinque ergastoli, da cinque Tribunali israeliani differenti. A riprova dell'imparzialità dei processi svolti nei suoi confronti, faccio qui presente che lo stesso Barghouti è stato assolto da 21 dei 33 capi di imputazione per omicidio di cui è stato accusato, per insufficienza di prove.
   Per quanto concerne la situazione dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane, la lettera di Marwan Barghouti pubblicata dal New York Times, contiene una serie di falsità e di affermazioni prime di fondamento. Ai detenuti incarcerati nelle prigioni israeliane, infatti, vengono garantiti tutti i diritti previsti dalle normative internazionali. Anzi, in diversi casi, i prigionieri palestinesi godono di diritti che vanno oltre quanto previsto dalla Convenzione di Ginevra. Lo stesso Marwan Barghouti, ad esempio, ha completato proprio nelle carceri israeliane, il suo dottorato di ricerca accademico.
   Parlando di numeri, quelli forniti da Barghouti relativamente alla situazione dei prigionieri palestinesi, sono completamente falsi. Barghouti sostiene che almeno duecento palestinesi sono morti nelle carceri israeliane dal 1967 ad oggi. Un numero inventato: da quella data, infatti, un solo detenuto palestinese è morto nelle carceri israeliane per motivazioni legate alla violenza (un decesso accaduto durante una protesta). Ancora: Barghouti sostiene che, in cinquant'anni, 800 mila palestinesi sono stati detenuti in Israele, una media di 16 mila detenuti l'anno. Nuovamente, si tratta di un numero inventato: nella Seconda Intifada, periodo che ha fatto registrare il maggior numero di fermi, i palestinesi arrestati da Israele per reati legati alla violenza sono stati 9.516.
   Infine la questione politica: la protesta dichiarata da Marwan Barghouti ha ben poco a che vedere con i diritti umani e con il processo di pace. Barghouti, dipinto da una minoranza estremista in occidente come un nuovo Nelson Mandela, è un terrorista senza scrupoli, che non ha mai mostrato alcun rimorso per le sue spregevoli azioni. Peggio, non ha mai dimostrato alcun interesse verso la pace, avendo pubblicamente descritto Israele come "una potenza occupante da 70 anni" (ovvero dal 1948, anno di nascita dello Stato ebraico di Israele). Affermazione che chiaramente prova come Marwan Barghouti disconosca lo stesso diritto di Israele ad esistere. Lo sciopero della fame dei detenuti palestinesi, invece, andrebbe letto alla luce della lotta di potere interna all'establishment palestinese per la prossima successione ad Abu Mazen.
   Piuttosto, se veramente s'intende favorire la pace tra i due popoli, è necessario smettere di restare indifferenti davanti all'incitamento all'odio da parte delle fazioni politiche e armate palestinesi, primariamente della stessa Autorità nazionale palestinese. In particolare, è necessario condannare la decisione dell'Anp di versare un salario mensile ai prigionieri palestinesi, spesso pagato anche dai contribuenti di numerosi paesi democratici. Soldi donati con intenti positivi che, invece di essere usati per favorire lo sviluppo economico delle aree sotto amministrazione dell'Anp, finanziano coloro che si sono macchiati di reati di sangue, favorendo la perpetuazione dell'educazione all'odio e alla violenza.
   Ritengo che sia soprattutto su questo punto che le forze politiche e le opinioni pubbliche occidentali devono riflettere attentamente.
   Distinti saluti
   Ofer Sachs
   Ambasciatore di Israele in Italia

(Il Foglio, 30 maggio 2017)


La casa dei viventi

di Rav Alberto Moshe Somekh

 
Adamo ed Eva cacciati dal Paradiso. The Jewish Museum, New York
Una ventina d'anni fa fui fermato dalla polizia all'esterno del cimitero ebraico di Acqui Terme. La Comunità di Torino me l'aveva segnalato fra quelli soggetti alla sua giurisdizione e aspettavo i partecipanti a una cerimonia prima di Rosh ha-Shanah. Più della mia carta d'identità fece fede il tesserino dell'Assemblea Rabbinica che portavo con me. Gli agenti se ne andarono. L'indomani lessi sul giornale di messe nere nel sacro recinto: evidentemente avevo convinto la pattuglia che ero il padrone di casa. Casa? Si fa per dire. Una sceneggiatura da Harry Fotter accoglieva i visitatori che, in mancanza di un viottolo, erano costretti a farsi largo fra le sterpaglie anche solo per raggiungere il cancello d'ingresso. I cimiteri sono la voce più difficile dei nostri bilanci. Le spese di manutenzione sono chessed shel emèt, "misericordia autentica". Sono a fondo perduto, se si eccettua un fondamentale ritorno d' immagine: evitare la "profanazione del Nome" conseguente allo spettacolo non sempre edificante fornito ai non ebrei di passaggio. La perpetuità delle sepolture non fluidifica certamente la situazione. In presenza di famiglie direttamente interessate, siamo loro grati per il contributo che danno al decoro dei cimiteri: esempi notevoli si trovano anche in Piemonte. Ma dove le famiglie sono ormai estinte, di tombe talvolta secolari deve farsi carico la Comunità.
   Più che alla scarsità di uomini e mezzi la vera responsabilità va attribuita alla mancanza di cultura e di spiritualità. La battuta: "se l'Ebraismo avesse coltivato una fede nell'Aldilà avrebbe avuto molti più clienti" ha reso famoso l'ultimo film di Woody Allen. Molti credono infatti che l'idea della vita ultraterrena sia uno degli elementi che contrappongono i cristiani agli ebrei e invece non è così. La resurrezione dei morti è postulata da Maimonide fra i tredici principi della fede d'Israele. Il cimitero è significativamente chiamato Bet ha-Chaim, "casa della vita" o "dei viventi": lungi dall'essere un semplice eufemismo, tale denominazione riflette la visione ebraica della morte come preludio alla "vita del Mondo a Venire". I cimiteri antichi sono autentici famedi, per merito delle figure che vi sono sepolte e che hanno alimentato il prestigio di cui l'ebraismo italiano ha goduto per secoli. In alcune Comunità la consapevolezza di questo lustro, associato a un eccellente rapporto con le istituzioni cittadine, ha dato risultati degni di nota nella conservazione di queste tombe. A Livorno, per esempio, una recente pubblicazione ("Il Cimitero Ebraico Monumentale di Livorno - Beth ha-Chaim: primi interventi di restauro e di catalogazione", Debatte Editore, 2014) testimonia il lavoro intrapreso. La prefazione è addirittura affidata alla penna del sindaco della città. Nell'esprimere la propria soddisfazione per "aver contribuito a finanziare i rilevanti lavori adesso completati dalla Comunità Ebraica", il primo cittadino di Livorno si dichiara consapevole che "il restauro interessa un'area sepolcrale dove il ricordo di personalità livornesi illustri, primi fra tutti i numerosi rabbini come Elia Benamozegh, esorta a proseguire in un'opera di miglioramento sociale e culturale". In Emilia-Romagna un gruppo di studiosi si è dedicato alla schedatura dei piccoli cimiteri del Finale e di Lugo, inaugurando l'assai ambizioso progetto di pubblicare un "Corpus Epitaphiorum Hebraicorum Italiae" ("Sigilli di eternità", La Giuntina, Firenze, 2011). Ma non è dato trovare dappertutto una simile coscienza.
   Nel suo Responsum n. 56 R. Menachem 'Azaryah da Fano tratta della qedushah delle nostre sepolture. In una città del Nord Italia la pubblica autorità aveva requisito il terreno del cimitero e si cercava di trovare una soluzione di compromesso. Il Rav risponde che la pietra tombale appartiene al morto e che anche sul terreno di riporto che ricopre la fossa molti pensano che non si possa più invocare il principio per cui "la terra è universale" (qarqa' 'olam), Di più, al cimitero pubblico si applica la stessa qedushah della Sinagoga, per cui non vi sono ammessi comportamenti frivoli o men che rispettosi: non vi si mangia né si beve e ci si deve vestire in modo acconcio. Non può essere destinato a pascolo (occorre una solida recinzione!), né lo si può sfruttare come terreno di transito per lavori di canalizzazione. Procedure speciali sono previste per il taglio dell'erba e per l'eventuale piantagione d'alberi. Persino quelle aree già individuate ma non ancora materialmente servite per l'inumazione sono soggette a queste norme. In alcune Comunità si rinnova tuttora a ogni nuova sepoltura l'uso di stampigliare nel terreno alcune lettere ebraiche e di collocare tale contrassegno sotto la protezione di una tegola, a scanso di vilipendi (R.I. Lampronti, Pachad Itzchaq s.v. qevurah). In linea di principio le nostre sepolture sono perpetue e inalienabili. Per una tragica ironia della sorte proprio l'antico cimitero ebraico di Mantova che ospitava la tomba di R. Menachem 'Azaryah sembra destinato a una "riqualificazione" a quasi quattrocento anni dalla sepoltura del grande talmudista e cabalista (morì nel 1620). La notizia ha suscitato il più che giusto sdegno di tutto il mondo ortodosso. Che posizione prendono le nostre istituzioni comunitarie al riguardo? Prima di perorare una simile causa presso la pubblica autorità è tuttavia d'uopo portare a termine il censimento delle aree cimiteriali ebraiche esistenti nel nostro paese e verificare le loro effettive condizioni. Domandiamoci se gli interventi di "pulizia" non siano la conseguenza del degrado delle aree medesime. Come insegnava Reish Laqish: "rimprovera (lett. adorna) te stesso prima di rimproverare gli altri" (Sanhedrin 19a).

(Pagine Ebraiche, giugno 2017)



I sadducei e la risurrezione

Poi vennero a lui dei Sadducei, i quali dicono che non v'è risurrezione, e gli domandarono: Maestro, Mosè ci lasciò scritto che se il fratello di uno muore e lascia moglie senza figli, il fratello ne prenda la moglie e susciti progenie a suo fratello. Or v'erano sette fratelli. Il primo prese moglie; e morendo, non lasciò progenie. E il secondo la prese e morì senza lasciar progenie. Così il terzo. E i sette non lasciarono progenie. Infine, dopo tutti, morì anche la donna. Nella risurrezione, quando saranno risuscitati, di chi di loro sarà ella moglie? Poiché tutti i sette l'hanno avuta per moglie. Gesù disse loro: Non errate voi per questo, che non conoscete le Scritture né la potenza di Dio? Poiché quando gli uomini risuscitano dai morti, né prendono né danno moglie, ma sono come angeli nei cieli. Quanto poi ai morti ed alla loro risurrezione, non avete voi letto nel libro di Mosè, nel passo del «pruno», come Dio gli parlò dicendo: Io sono l'Iddio d'Abramo e l'Iddio d'Isacco e l'Iddio di Giacobbe? Egli non è un Dio di morti, ma di viventi. Voi errate grandemente.
Or uno degli scribi che li aveva uditi discutere, visto che avea loro ben risposto, si accostò e gli domandò: Qual è il comandamento primo fra tutti? E Gesù rispose: Il primo è: Ascolta, Israele: Il Signore Iddio nostro è l'unico Signore: ama dunque il Signore Iddio tuo con tutto il tuo cuore e con tutta l'anima tua e con tutta la mente tua e con tutta la forza tua. Il secondo è questo: Ama il tuo prossimo come te stesso. Non v'è alcun altro comandamento maggiore di questi. E lo scriba gli disse: Maestro, ben hai detto secondo verità che v'è un Dio solo e che fuori di lui non ve n'è alcun altro; e che amarlo con tutto il cuore, con tutto l'intelletto e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso, è assai più che tutti gli olocausti e i sacrifici. E Gesù, vedendo ch'egli avea risposto avvedutamente, gli disse: Tu non sei lontano dal regno di Dio. E nessuno ardiva più interrogarlo.
Evangelo di Marco, cap . 12

 


Da Gerusalemme all'Olimpico

"Il nostro omaggio a Totti"

 
Son venuti fino da Israele per l'ultimo omaggio al Capitano. In curva, all'Olimpico, c'erano anche loro. I ragazzi del Roma Club Gerusalemme, guidati da Fabio Sonnino e Samuele Giannetti. Un appuntamento immancabile, per questo club che ha fatto dell'attaccamento ai colori giallorossi e di innumerevoli progetti per il dialogo un motivo di vanto. Anche al fianco e nel nome di Francesco Totti, la grande bandiera che alla soglia dei 41 anni ieri ha detto addio al calcio giocato.
Il ritiro del 10 romanista ha fatto parlare anche la stampa israeliana. Tra gli altri, il quotidiano Yediot Ahronot ha oggi titolato: "Accidenti a te, tempo!".

(moked, 29 maggio 2017)


*

Totti spleen

di Paola Caridi

 
...che poi per me (e per un buon pezzo della mia generazione) il calcio è finito nello stadio di Heysel. Da quel momento, l'incantesimo si è rotto, l'età dell'innocenza è finita e siamo diventati grandi.
Totti, però, è un'altra storia. O meglio, lo è diventata con gli anni, con l'assommarsi degli anni, uno sopra all'altro. Anni sempre più pesanti sulle spalle di un ragazzo romano che ha incarnato molte cose. Una certa Roma, anzitutto. Quella che fu, la Roma di provenienza, e la Roma difficile di oggi. Francesco Totti ce l'ha ricordata con il suo dialetto, la cadenza, i modi di dire: veri, soprattutto popolari senza ostentazione.
Cosa avrebbe dovuto significare Totti per me, che dalla mia Roma me ne sono andata via presto, che il mio rapporto col calcio si è concluso seccamente allo Heysel, che poi mio padre (immigrato) era laziale? Un campione, certo. Un figlio di Roma, per quella bella dose di ironia che solo i veri romani hanno. L'ottavo re di Roma, una delle poche icone rimaste in una città slabbrata.
Poi è la vita a decidere per noi. E mio figlio è nato il 27 settembre. Non sapevo fosse anche il compleanno di Totti. L'ho scoperto anni dopo, quando vivevo a Gerusalemme. Lo ha scoperto, anzi, mio figlio che porta lo stesso nome, Francesco. Nome dettato da un santo e da un papà. Coincidenza nella coincidenza. Data di nascita e nome di battesimo. E a complicare le cose, la vita a Gerusalemme. 'Come si chiama tuo figlio?', mi hanno chiesto più di una volta a Gerusalemme. 'Francesco!', rispondevo prontamente con tanto di punto esclamativo. Ero sicura che chi mi aveva posto la domanda avrebbe apprezzato la scelta di un nome così legato alla storia della città e alla presenza dei francescani.
Non bisogna, però, mai prendersi troppo sul serio. E l'ho capito quando, invece, i miei interlocutori, israeliani o palestinesi, si aprivano in un gran sorriso. 'Francescooo? Totti!' altro che San Francesco!
Suo malgrado, er Capitano ci ha aggiunto riferimenti culturali.
E un po' ha commosso pure me, nel suo addio così vero a un pezzo fondamentale della sua vita, e della vita della sua città.

(Invisible Arabs, 29 maggio 2017)


Altro che san Francesco! Altro che papa Francesco! A Roma de Francesco ce n’è uno solo: Totti!


Tre prospettive sul moderno Stato d’Israele nelle profezie bibliche

Presentiamo qui un estratto dell’articolo “Il moderno Stato di Israele nella profezia biblica” di Arnold Fruchtenbaum, tratto dal sito “Ariel Ministries”. L’articolista si pone la domanda: lo Stato di Israele di oggi ha un posto nella profezia biblica o è un puro incidente della storia senza nessun riferimento alla Bibbia? L’autore inizia elencando tre risposte, che nomina soltanto per scartarle. La sua tesi, ampiamente documentata biblicamente, si trova nel resto dell’articolo.

di Arnold G. Fruchtenbaum

 La prima prospettiva: Teologia della sostituzione
  La prima prospettiva è il punto di vista della Teologia della sostituzione, in particolar modo l’Amillenarismo, che considera il moderno Stato ebraico come un mero incidente storico, del tutto scollegato da ogni tipo di profezia biblica. Questa prima veduta crede che quando Israele rigettò il Messia Gesù, Dio chiuse con il popolo d’Israele. Quindi non ci sono profezie incompiute per il popolo ebraico e non c’è un futuro ristabilimento finale. Quando Israele respinse il Messia, tutte le promesse del patto di Dio furono trasferite alla Chiesa; dunque è una teologia di trasferimento. Si può anche dire in altro modo: da quando Israele respinse il Messia, la Chiesa ha sostituito Israele davanti a Dio; dunque è una teologia della sostituzione. La Chiesa quindi sta adempiendo le promesse d’Israele. Se si chiede qualcosa su tutte quelle profezie che parlano di una riunificazione mondiale del popolo ebraico, la risposta è che queste non devono essere interpretate alla lettera, ma che lì si parla in modo allegorico degli eletti che sono entrati nella Chiesa, fino a che non sia completa. Gli ebrei oggi possono essere salvati, ma questo significa semplicemente che sono amalgamati nella grande Chiesa. Dio non pensa a un futuro per Israele come popolo etnico, quindi quello che succede oggi riguardo a Israele non è in nessun modo collegato con le profezie. Per Israele non c’è alcun futuro profetico, quindi, ancora una volta, il moderno Stato ebraico non è altro che un incidente della storia.

 La seconda prospettiva
  La seconda prospettiva presenta il punto di vista opposto, perché in essa si crede che ci sarà una restaurazione finale di Israele. Si prendono alla lettera le profezie che parlano di una riunificazione mondiale del popolo ebraico e si crede che ci sarà una futura restaurazione finale di questo popolo nella Terra promessa. Tuttavia, quando si guarda al moderno Stato ebraico, si ha difficoltà a collocarlo nelle profezie bibliche. La ragione è che queste profezie presentano la riunificazione finale di Israele come una nazione che crede nel Messia. La successione cronologica delle profezie sarebbe questa: pentimento nazionale seguito da restaurazione nazionale. Quando si guarda al presente Stato ebraico, si vede che la grande maggioranza della popolazione è costituita da persone che non credono nel Messia; infatti, dei 5.1 milioni di ebrei che sono presenti oggi nel paese [qualche anno fa, ndr], soltanto da quattro a cinquemila al massimo sono ebrei credenti. A peggiorare la cosa c’è anche il fatto che in grande maggioranza gli Israeliani non sono neppure ortodossi; preferiscono autodefinirsi secolari, sia gli atei che gli agnostici. Questo però non si accorda con le profezie, per come vanno lette. Tra le profezie che parlano chiaramente di una salvezza nazionale che precede una restaurazione nazionale nel paese si trovano: Deuteronomio 30:1-5; Isaia 27:12-13; ed Ezechiele 39:25-29, fra le altre.
Questo secondo punto di vista non concorda con il primo, perché crede che ci sarà una futura restaurazione finale, ma concorda con esso nel fatto di ritenere che il moderno Stato ebraico è un incidente della storia, di nessuna importanza per la profezia biblica.

 La terza prospettiva
  La terza prospettiva sostiene che quello che oggi accade è la restaurazione finale d’Israele: è l’inizio del compimento di tutte quelle profezie. Ci saranno sempre più ebrei che ritorneranno nella loro terra fino al momento in cui saranno ritornati tutti. Ad un certo punto passeranno per un processo di rigenerazione e salvezza nazionale, e in quel momento ritornerà il Messia. Se si chiede qualcosa sulle profezie che parlano di un periodo di ira divina e tribolazione che precede questo tempo, si risponde che le profezie sulla Tribolazione si sono già avverate durante l’Olocausto nazista. Dunque non ci sarà una Tribolazione futura, perché c’è già stata, e quello che si vede oggi è la restaurazione finale.
I sostenitori di questa veduta girano per il mondo e incoraggiano gli ebrei a ritornare. Vanno ad invitare anche gruppi di ebrei credenti, comunità e congregazioni messianiche, e mettono in loro complessi di colpa, dicendo che se non ritornano subito in Israele vivono nel peccato. Dicono che Dio adesso sta chiamando tutti gli ebrei, in particolare quelli che credono nel Messia, a ritornare nella loro terra. Vivere fuori di Israele, come “nelle pentole di carne dell’America”, significherebbe vivere nel peccato. Se si chiede di provare questo punto di vista con brani biblici, si fa riferimento a quelle profezie in cui i profeti invitano gli ebrei a lasciare Babilonia. Si interpretano i passi su Babilonia non come la reale Babilonia del passato o del futuro, ma come la Babilonia rappresentata dagli Stati Uniti d’America.
Se si fa notare che queste profezie menzionano il fiume Eufrate, che è in Babilonia, si risponde che quel fiume non è realmente l’Eufrate, ma il fiume Hudson della città di New York! Questo certamente sorprenderebbe profeti come Geremia, tra gli altri.
Quindi, nella terza prospettiva è questa la restaurazione finale, è questo il compimento di quelle profezie, almeno allo stadio iniziale.
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(Notizie su Israele, 29 maggio 2017)


Gal Gadot: modella, soldato e attrice

 
Rara foto di Gal Gadot arruolata nelle Forze di Difesa Israeliane
Gal Gadot
Decretata dalla rivista Shalom life una tra le 50 donne più talentuose, intelligenti, divertenti ed attraenti al mondo. Molte sono le curiosità su Gal Gadot in quanto la sua è una vita costellata da colpi di scena. Ma impariamo a conoscerla meglio.

 Gal Gadot : biografia di una vera guerriera
  Nasce in Israele nel 1985 da una famiglia molto comune e che non fa parte del mondo dello spettacolo.
Appassionata di molti sport tra cui Karate Shotokan riesce sempre a gareggiare a livello agonistico. Il suo corpo statuario le è d'aiuto per partecipare al concorso nazionale di Miss Israele. Vince il titolo a soli 19 anni e vola in Ecuador lo stesso anno per partecipare a Miss Universo.
Non rientrando in finale rientra in patria e cambia totalmente settore.
La biografia di Gal Gadot infatti è ricca di sfaccettature contrastanti tra loro. In Israele si arruola presso le Forze di Difesa Israeliana e diventa istruttrice di combattimento. Nel frattempo fa la modella dato che ciò le è permesso per legge in Israele.
Il sogno nel cassetto dell'attrice però è quello di diventare un'avvocato e di iscrive a legge. Però non terminerà mai gli studi perché comincia ben presto la sua carriera da attrice.

 Gal Gadot : TV e Cinema
  Nel 2007 inizia la carriera da attrice della Gadot con un ruolo nella miniserie israeliana Bubot. La sua gavetta però non dura molto e la filmografia di Gal Gadot si arricchisce ben presto di pellicole importanti. Passa dalla Tv al cinema.
Affronta un provino andato male per interpretare la Bond Girl in 007 Quantum of Solace accanto a Daniel Craig. Nell'occasione viene notata dal direttore di casting e proposta per un'altra pellicola hollywoodiana: Fast & Fourious. Grazie alle sue doti militari, la Gadot ottiene la parte ed entra nel cast.
Si susseguono una serie di pellicole tra commedie e film d'azione. Ricordiamo Innocenti Bugie e Fast & Fourious 5 e 6 oltre a partecipazioni in serie televisive.
Nel 2016 è la volta della vera svolta con il suo ruolo di Wonder Woman in Batman VS Superman. Gal si appresta nel 2017 a recitare nel ruolo di Diana Prince per un film totalmente a lei dedicato. Sempre nei panni di Wonder Woman vedremo l'attrice nel 2017 nel film Justice League.

(PlayMovie4, 30 maggio 2017)


La ferrovia Gerusalemme Tel Aviv diventa un caso diplomatico

Gli ambasciatori europei hanno declinato l'invito a visitare i cantieri del percorso, pronto per l'anno prossimo perché il tracciato è sulle terre catturate agli arabi durante la Guerra dei sei giorni.

di Davide Frattini

Il treno da Gerusalemme a Jaffa impiegava sei ore, quando fu inaugurato la Palestina era ancora parte dell'impero ottomano. La vecchia stazione verso il porto sul Mediterraneo, rinnovata durante il mandato britannico, è diventata un parco commerciale con ristoranti e negozi. La fermata adesso è alla periferia di Tel Aviv, i vagoni viaggiano più lenti delle auto in corsa sulle autostrade che salgono dal mare verso le montagne.

 L'evento
  Da nove anni gli ingegneri e le scavatrici lavorano alla nuova linea veloce che taglia i tempi ma taglia anche attraverso la roccia della Cisgiordania: parte dei trentotto chilometri di gallerie perforano le terre catturate agli arabi nella Guerra dei Sei giorni. In particolare passano attraverso l'Area C, la zona che secondo gli accordi di Oslo è sotto il controllo civile e militare degli israeliani, territori che la comunità internazionale considera occupati. Così gli ambasciatori europei - rivela il quotidiano Haaretz - hanno declinato l'invito a visitare i cantieri del percorso, pronto per l'anno prossimo, perché considerano il tracciato un problema diplomatico. Il ministero dei Trasporti ha preferito cancellare l'evento che avrebbe dovuto svolgersi agli inizi di giugno, a pochi giorni dalle celebrazioni organizzate dagli israeliani per il cinquantesimo anniversario della vittoria. Laars Faaborg-Andersen, ambasciatore dell'Unione Europea, avrebbe precisato che i Paesi non intendono boicottare il progetto della ferrovia. Nel 2011 la società tedesca Deutsche Ban ha interrotto la partecipazione ai lavori perché il tragitto «è controverso da un punto di vista politico».

(Corriere della Sera, 29 maggio 2017)


Il futuro delle tecnologie automobilistiche è Israele

 
Macchine autonome, batterie per auto che si caricano in cinque minuti, un sensore in grado di analizzare l'ambiente circostante e auto che "dialogano" tra loro sulle condizioni stradali. Questi sono solo alcuni dei progetti a cui stanno lavorando le aziende tecnologiche israeliane per migliorare l'esperienza di guida.
  La reputazione di Israele come l'hub high-tech del Medio Oriente si è consolidata ormai dal alcuni anni, ma le sue recenti innovazioni nel settore automotive sono un fenomeno relativamente nuovo.
  Nel mese di marzo, la statunitense Intel ha acquistato la startup Mobileye per circa 15 miliardi di dollari, diventando così il più grande affare concluso nella storia dell'high-tech israeliano.
  Altre aziende di tecnologia stanno facendo incetta di investimenti. Otonomo ha recentemente raccolto 20 milioni di dollari per la sua tecnologia che consente il passaggio di dati tra macchine. Foresight Autonomous Holdings, che realizza videocamere per la sicurezza in auto, ha recentemente ricevuto 12 milioni di dollari, secondo Globes.
  Secondo Lior Zeno-Zamansky, direttrice esecutiva di Ecomotion, che promuove in Israele le imprese di trasporto intelligente, ha rivelato che gli investitori negli ultimi 4 anni hanno speso 4 miliardi di dollari in tecnologie automobilistiche israeliane.
  Questo il commento di Zeno-Zamansky:
Negli ultimi 12 mesi, l'interesse globale verso la tecnologia israeliana è in aumento. Ognuno è alla ricerca del prossimo Mobileye.
  La tecnologia israeliana è diventata un punto di riferimento globale, Drive ad esempio è un centro e un incubatore per l'innovazione automobilistica in Israele, fondata a febbraio con l'aiuto delle case automobilistiche Honda e Volvo.

(SiliconWadi, 29 maggio 2017)


La guerra dei sei giorni

Viaggio nei luoghi di Israele dove cinquant'anni fa morì il nazionalismo arabo. Dopo i conflitti con gli Stati ora le minacce arrivano dai gruppi islamici

di Domenico Quirico

Governo riunito al Muro del Pianto
Il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu ha voluto celebrare il cinquantenario della «riunificazione» di Gerusalemme con una riunione del suo governo all'interno del tunnel del Muro del Pianto. «Rafforzeremo» Gerusalemme, ha promesso Netanyahu, citando diversi progetti di sviluppo fra cui una funicolare per portare turisti e fedeli al muro del Pianto, il luogo più santo dell'ebraismo. Cinquant'anni fa, nel 1967, Israele sconfisse i Paesi arabi che l'avevano attaccato nella Guerra dei Sei Giorni, conquistando Gerusalemme est e la Cisgiordania. Israele considera Gerusalemme sua capitale «eterna e indivisa».

    
TEL AVIV - Passata avanti la guerra non si possono riconoscere i luoghi. Ai luoghi restano i nomi della geografia, e alle battaglie la data.
Quello che conta non sono le battaglie, ma i giorni e i mesi e gli anni che sono durate con gli uomini aggrappati alla terra, alla sabbia, alle pietre in una lotta sepolta. Qui cinquanta anni fa, sei giugno 1967, una data densa della storia del mondo, tutto durò appena sei giorni. Una guerra breve, un lampo, eppure in un tempo così breve molte cose che sembravano eterne morirono: il nazionalismo arabo, innanzitutto, sconfitto e archiviato. Su quelle rovine l'Islam politico iniziò a costruire i suoi disegni. E anche Israele cominciò a morire: sì, il trionfatore. Quello eroico dei pionieri, degli irriducibili sopravvissuti fondatori di uno Stato, nel momento della vittoria, come spesso il ghigno della Storia decide, raggiunsero l'apogeo e iniziarono il declino. Israele invincibile peccò della greca hybris, l'arroganza.
Mezzo secolo fa Israele sconfisse alcuni Stati, la Siria l'Egitto la Giordania. Oggi combatte con Daesh, Hamas, Hezbollah, Al Nusra, gente che prescrive e dogmatizza, perseguita e punisce, dà degli esempi. Messi, investiti, scomunicatori, giustizieri: l'abiezione fanatica. Con gli Stati, seppure autocrazie spietate, si poteva trattare, fare la pace come è accaduto, faticosamente. Ma oggi?
   Percorro luoghi delle guerre di ieri per capire le ragioni di quelle di oggi. Il tempo si vendica come si vendica di chi non riesce ad adoperarlo o lo usa per uccidersi. La guerra è purtroppo la cosa più semplice del mondo. Se non fosse così, se i soldati dovessero conservare a giustificarla un'ombra solo dei discorsi e delle polemiche, gli resterebbe in mente di aver patito il più grande sopruso, l'inganno più scellerato. Ma alla guerra si dimentica tutto. Gli israeliani 50 anni fa, rialzando il capo dopo la mischia breve e crudele, guardando il Canale e l'Egitto davanti a loro, e il Muro di Gerusalemme riconquistato, e Damasco laggiù nella bruma calda a un passo dal monte Hermon, dissero: è finita. E invece le nazioni, vinte e vincitrici, hanno i loro fornitori di miserie e di illusioni e dopo quella vennero altre guerre, il '73 il giorno più lungo di Israele, e Beirut, e ancora il Libano e l'intifada. La guerra così diventa un mestiere e una obbedienza.
   Salgo dalla Galilea verso il Golan, sfioro il monte delle beatitudini e il lago di Tiberiade folgorato dalla luce sciancata dell'alba. Il Golan è paese proprio alla guerra. Non ci sono distrazioni di cieli, albe e tramonti vi sono lenti, le acque se le bevono le rocce e i calcari, le quote si allineano per lungo e per largo guardate dalle nevi ormai minime del monte Hermon e dalla rocca crociata di Nimrud, castello ariostesco tra boschi fitti e piantagioni. È un paese che permette soltanto lontani orizzonti di pianura di mare e di montagne, privo di vicinanze. Quel che fa l'idea di andare sono le strade. Qui le strade spariscono alle svolte oppure lontane conducono a quei luoghi di orizzonte, borghi di cui si chiede il nome con cautela. Lì comincia il Libano laggiù è Siria qui la Galilea con la sua campagna sfruttata di tutti i suoi succhi. Paese adatto a viverci nelle pietre fino al mento e che nasconde due eserciti l'uno all'altro. Sembra fatto da dio con i sassi avanzati dalla fabbrica del mondo, mi ha detto un kibuzzin guardando soddisfatto l'opera sua che ha corretto e fecondato quella distratta di dio.
   «Il confine è a un passo» mi hanno avvertito, venti minuti a piedi e sei davanti alla Siria. E pure quando il dirupo finisce e mi affaccio sulla pianura siriana mi manca il respiro. La valle a perdita d'occhio ben spezzata di campi segnati e macchie di verde e di giallo, è piena di aria cruda, di estraneità e di sofferenza. In quello spazio stanno palesi le ragioni di una tragedia infinita. Sotto di me, li tocco, due villaggi con grida di bimbi e minareti. E poi, di colpo, in mezzo a un gregge, un uomo comincia a gridare e a fare segni verso di me, sì verso di me, agita uno straccio per richiamare l'attenzione, le sue parole arabe me le porta via il vento. Rispondo agitando la mano e allora lui grida grida con gioia e ripete, e stavolta lo sento, in inglese grazie grazie.
   In quei villaggi, nel mistero che li avvolge, non c'è l'esercito siriano ma le sigle nere del califfato. Ogni tanto qualche colpo che scambiano con i soldati di Bashar Assad cade per errore nella zona controllata di Israele. Per sbaglio: non hanno tempo per occuparsi dei sionisti, devono regolare i conti tra loro. E forse il calcolo israeliano è questo e non so se sia segno di lungimiranza. Ogni guerra sosta di tanto in tanto. Il sole accolto risale e trabocca dai sassi del Golan. Colonne di blindati candidi, i mezzi della annosa missione Onu di interposizione, risalgono le strade degli escursionisti e dei gitanti, salutano con larghi cenni chi accosta per lasciarli passare.
   Oltre questa frontiera di guerra sospesa è diventato indebito il mio contegno con gli uomini e le cose di questa parte di mondo. L'appello di quel pastore siriano oltre la griglia di questo confine di odio mi spoglia di guerra e di passione, anzi di umanità di qua e di là del fronte troppo stanca. Come loro non saprei dire cosa mi duole, come loro, ebrei e arabi, ho nella mia costituzione il dolore.
   Appena dentro la frontiera dell'armistizio c'è il moshav, che è una versione addolcita del kibbuz, di Majdal Shams. Religiosi, anche se non ultra-ortodossi che ormai hanno in ostaggio la politica di Israele. Questa era Siria fino al '67, l'unico confine dove la guerra non è mai finita con un accordo di pace. Ci aspetta Rifka, Rebecca, che è arrivata bambina da Parigi. E ha vissuto prima in una colonia a Hebron, terra dura e feroce di scontro. Mi parla con entusiasmo goloso del fatto che sta per iniziare la raccolta delle fragole, la stagione è buona e ricca, e dice che non lascerà mai questo posto perché qui può ascoltare gli uccelli e il vento. E capisci che non potrebbe mai accettare la relegazione in un altro posto che la escluda dalla cornice dei frutteti, dei poggi e delle casette del moshav con il suo rifugio antibombe. Poiché ha compreso che quei contorni sono i soli, gli unici a poter racchiudere i suoi giorni futuri.
   Ora pieghiamo di nuovo verso Ovest e questa è frontiera del Libano, che ormai per gli israeliani equivale a Hezbollah, il partito-esercito sciita. Siamo al punto 105, ogni sezione della frontiera è segnata per consentire in caso di infiltrazione ai soldati di intervenire più rapidamente. Solo qui ho sentito voci preoccupate, sguardi farsi attenti scrutando i villaggi sciiti sulle colline di fronte. Hezbollah è l'unico nemico di cui Israele ha rispetto, forse paura: più dell'Isis, più dei siriani. Davanti a me c'è Marum Harash dove nel 2006 i combattimenti costarono a Israele molti inutili morti. Le montagne fitte di boschi impenetrabili sono come scalpate dalle scavatrici, affiorano ferite larghe, lingue di terra rossa e nuda al sole. Non sono cave o disboscamenti. Israele scoperchia gli angoli morti della frontiera dove possono passare gli uomini di Hezbollah senza essere scorti, li costringe al terreno aperto. Un muro anche questo, fatto di amputazioni e non di reticolati o blocchi di cemento.
   Scendiamo di nuovo verso il mare, si sente la cadenza delle onde del Mediterraneo, delle onde che battono contro la Palestina come contro una parete, il bordo estremo della grande vasca d'acqua fra Europa Asia e Africa. Penso che non ci sia Paese al mondo lungo come Israele, lungo nel tempo intendo, non nello spazio. Non esiste Paese i cui lineamenti abbiano la lunghezza di tempo che va dalla nascita di Abramo alle biotecnologie. Lineamenti concreti limpidi vivi da toccare con il dito: vivo il vecchio Testamento con le sue valli coperte di erbe e di fiori, con le colline fitte di agrumeti e di viti; e viva la modernità più avanzata e audace. Mi raccontano di un progetto di quindici miliardi di dollari per costruire l'auto robot, di ricerche per creare serre dove per risparmiare energia si scalderanno solo le radici delle piante e ahimè anche di nuovi carri armati e cannoni. Se il tempo è davvero una dimensione non esiste paese più esteso di Israele. Dove la fisica e la biologia fino alla partenogenesi convivono con chi vuole ricostruire il sinedrio e il terzo tempio di Salomone (spianando le moschee musulmane!).
   Il deserto nasconde i fatti di guerra, il tempo fa alla memoria quello che gli anni fanno al vino. Nasconde i morti. La sabbia è gialla e monda, come la cenere, come la polvere antica. I morti son troppo lontani e vicini qui, al confine con Gaza e Hamas.
   Al kibbuz di Nirim oggi è iniziata la stagione dei bagni, ha aperto la piscina, incontri ragazzi forti. Come tutti i contadini del mondo hanno il viso bruno, meta carne e metà cuoio, lo sguardo duro, le mani nodose, come tutti i contadini del mondo parlano con frasi corte secche e hanno risate profonde.
   Adel, americana, fragile e antica, con un gran cappello di paglia contro il sole mi racconta la regola dei dieci secondi: il tempo in cui bisogna esser pronti a fuggire, in caso di allarme per il lancio di razzi di Hamas, nella stanza blindata di casa o rannicchiarsi a terra come le mani serrate attorno ala testa. Sono gesti che conosco, come conosco luoghi dove le vittime non hanno nemmeno la possibilità dei dieci secondi perché nessuno farà mai suonare la sirena o un appello sul telefonino. Gaza è lì, appena oltre il reticolato e i campi di grano: due minareti come matite verdi puntate verso il cielo. Gaza con i suoi ventimila combattenti ormai ben addestrati e armati, dove il radicalismo politico religioso si insinua e fa proseliti e non rispetta la tregua tacita con Israele: la prova di come la guerra di 50 anni fa non risolse nessun problema.
   Sui confini Israele dei pionieri che esportavano il comunismo, un comunismo puramente empirico al di fuori di ogni enunciato razionale, anche se le punte di collettivismo integrale sono state uccise dal tempo, pare ancora vitale. Giovani famiglie, a decine, fanno domanda per venire nel kibbuz. Nel resto del Paese, invece, ho l'impressione di una sorta di smobilitazione dell'animo degli ebrei in Israele: alla fine della loro alta tensione. Non so quanto sia giusto rimproverarli per non essere rimasti se stessi come avremmo voluto, quelli della epopea del 1948, quelli che abbiamo ammirato increduli nel '67: rimproverarli per l'arroganza, per aver scambiato la potenza per virtù. In fondo la perdita della loro eccezionalità per forza maggiore, al loro ingresso nella media di virtù e difetti comuni a tutti i popoli che hanno una patria, è inevitabile. Il male di cui soffrono, la mediocrità della classe politica rispetto alla vivacità della società e alla grandezza dei problemi, è il difetto di tutto quello che un tempo chiamavamo Occidente.
   Adele, che mi racconta come è sopravvissuta ai razzi, aggiunge: «Perché dovrei odiare i palestinesi? Non sono miei nemici sono miei fratelli». L'eterna, splendida ragionevolezza delle minoranze che sono ahimè! minoranze.
   Se devii dalla autostrada che porta al Mar Morto verso il tranquillo confine giordano in pochi minuti arrivi alla tomba di Ben Gurion, sul ciglio di una montagna che guarda il deserto. Gazzelle brucano l'erba senza paura, un battaglione di giovani soldati seduti all'ombra ascolta la lezione di storia del suo ufficiale. Tagliato dal sole a picco il paesaggio offre il fascino triplo della bellezza, del mistero e della minaccia. Forse qui si comprende che la forza di questo popolo, con i suoi innumerevoli errori, è in questa pazienza inesauribile, tessuta, intrecciata nel corso dei secoli con il destino nemico, le sue ombre, il suo frastuono che ritmano l'esistenza. Una pazienza di cui nessuno è riuscito ad avere ragione, che niente ha potuto incrinare. Sanno soffrire come nessun popolo ha sofferto e sanno sperare contro ogni speranza.

(La Stampa, 29 maggio 2017)


Quando Ibrahim costrinse Avraham all'esilio

Con la cacciata degli ebrei il nazionalismo arabo si è condannato a un destino di intolleranza permanente.

di Piero Di Nepi

 
Partita a scacchi tra un ebreo e un musulmano - Andalusia XIII sec.
Damasco, 5 febbraio 1840: il Superiore del convento francescano e il suo domestico scompaiono. Sulla fiorente comunità ebraica della città si abbatte l'accusa di omicidio rituale. Del tutto estranea, peraltro, alla periodica intolleranza antigiudaica dell'Islam caratterizzata da altre forme e altre radici. L'accusa del sangue l'avevano portata in Siria, purtroppo, gli occidentali. Tredici maggiorenti ebrei vengono arrestati, tre muoiono sotto tortura, uno si converte all'Islam. Le autorità imperiali turche lasciano fare, bisogna dare qualcuno in pasto alla violenza che già cova sotto il nascente nazionalismo arabo e lo segnerà per i successivi 170 anni, fino a noi. Le potenze europee intervengono. Il caso si risolve, i superstiti vengono liberati e riabilitati. L'Impero Ottomano è già "il grande malato" destinato a dissolversi sotto i colpi di Lawrence d'Arabia e del patto Sykes-Picot.
   Nulla è fuorviante in materia quanto l'attuale dibattito sul Corano e sulla vita stessa del Profeta. Anche le vicende legate ai rapporti dell'Islam delle origini con le tribù ebraiche della Penisola Arabica vengono sottoposte a interpretazioni di parte condizionate dall'attualità. Senza sfumature, tutto bianco o tutto nero. I testi sacri delle grandi religioni contengono passi in apparenza contraddittori, e l'analisi è soggetta alle più diverse correnti di pensiero. Se il testo è anche fonte di diritto, la legislazione e l'applicazione giurisprudenziale di essa risultano ovviamente legate alle concrete condizioni storiche.
   Nel secolo passato il nazionalismo arabo fu incoraggiato dalla Germania hitleriana in funzione antibritannica. Durante il mezzo secolo della guerra fredda l'Unione Sovietica decise di alimentarlo in modo assolutamente dissennato. In tale contesto la nakba degli ebrei, dalla Libia all'Irak passando per l'Egitto e per la Siria, cominciò molto presto. Cominciò con i massacri del 1945, a guerra già conclusa in Europa. Con la parola "nakba" (catastrofe, distruzione) gli arabi palestinesi definiscono l'indipendenza dello Stato di Israele proclamata nel 1948. Ma la nakba degli ebrei nelle terre arabe aveva avuto inizio tre anni prima e certo non fu determinata dalla spartizione del mandato britannico votata all'ONU il 29 novembre del 1947.
   Una nakba che non si fermò fino a quando 850.000 ebrei non furono espulsi, spogliati di tutto. Costretti a fuggire in circostanze terribili, incalzati dai pogrom. Neppure la Russia degli Zar aveva assistito alle persecuzioni antiebraiche con l'impassibilità che invece contraddistinse le borghesie arabe. Nazisti e fascisti, oltre naturalmente ai francesi di Vichy, avevano seminato molto bene immediatamente prima della Seconda guerra mondiale, e poi nel corso delle campagne di Graziani e di Rommel sulle coste nordafricane tra l'estate del 1940 e la primavera del 1943. Ma l'odio antiebraico mai aveva caratterizzato le società islamiche in qualità di elemento strutturale e fattore identitario per contrapposizione. Sicuramente l'Islam non aveva creato per gli ebrei il paradiso che qualche storico ha voluto raccontare. Non fu neppure l'inferno che le società organizzate d'Europa - le grandi monarchie cristiane d'Inghilterra, Francia, Spagna e Portogallo - scatenavano periodicamente contro le comunità ebraiche. Solo con i fermenti di libertà dell'ultimo Seicento l'Europa protestante avviò un dibattito sulla condizione degli ebrei, che gradualmente si estese ai paesi cattolici e all'impero asburgico, cerniera decisiva tra Roma e i luterani, in attrito permanente con il Turco. Che i propri ebrei li proteggeva, e molto bene. Anche se, come tutti i regnanti, il Sultano di Istanbul ogni tanto scaricava su di loro le tensioni interne.
   Gli ebrei in fuga dalla Spagna dei Re Cattolici preferivano gli Ottomani, quando in Italia i profughi ebrei potevano finire bruciati sul rogo come i marrani di Ancona. Roma era ridotta a un borgo di 15.000 abitanti, al tempo di Carlo Magno, mentre nella cosmopolita Baghdad si poteva leggere e commentare liberamente il Talmud Babilonese sotto il forte governo di Harun al-Rashid (766-809, e il nome vale Aron il Giusto). Jehuda Ha-Levi completò in arabo il suo Kuzarì (1140), mentre Rambam Maimonide dovette abbandonare Cordova quando gli Almohadi introdussero proprio in Al-Andalus l'Islam dei fondamentalisti, come oggi si direbbe, precursore di Isis-Daesh. Rambam non fuggì verso Roma, era il 1148, e neppure a Parigi o Bologna, bensì prima a Fez e poi al Cairo.Per la storia degli ebrei nel mondo islamico sono stati versati torrenti d'inchiostro, e molti ne scorrono tuttora.
   Inquinati, come è naturale e inevitabile, da innumerevoli dibattiti sul conflitto arabo-israeliano, sulla difficile coabitazione dello Stato di Israele con i Palestinesi e sui conflitti fratricidi tra Gaza e Ramallah, sul terrorismo islamista, sull'emigrazione di milioni di musulmani in Europa. Parlare di ebrei nel mondo islamico è materia da specialisti, materia che non si piega alle semplificazioni giornalistiche e neppure alla divulgazione degli instant-books.
   La maggioranza del mondo islamico oggi nulla ha in comune con i paesi arabi, se non la fede. E anche questa segnata dalla spietata rivalità che contrappone sunniti e sciiti. Sono oggi soltanto quattro i paesi islamici che conservano minoranze ebraiche autoctone: la Repubblica di Turchia (18.000), la Repubblica Islamica dell'Iran (10.000), il Regno del Marocco (6.500) e la Repubblica Tunisina (1.500). Inutile addentrarsi nell'analisi di paradossi e situazioni molto particolari. Chi vuole può emigrare, anche dall'Iran. In Marocco il Re Mohammed VI, che vanta nella propria dinastia alawide una discendenza diretta da Maometto, fa delle garanzie offerte agli ebrei un pilastro della politica interna e internazionale. Naturalmente nel 2001 ha interrotto i rapporti diplomatici con Israele, avviati dopo gli accordi di Oslo, in segno di appoggio alla cosiddetta seconda intifada in Giudea e Samaria. Tuttavia le periodiche visite del sovrano presso istituzioni e sinagoghe lasciano forse intendere che una lettura corretta del Corano deve garantire agli ebrei tutti i privilegi riservati al popolo del Libro (la Torà) e non la condizione giuridicamente discriminatoria del dhimmi (letteralmente "persona protetta", suddito non musulmano). Bisogna infine notare che la Turchia di Erdogan si è oggi trasformata in baluardo dell'Islam sunnita, mentre gli ayatollah di Teheran alimentano il risentimento sciita contro le maggioranze ortodosse che fanno oggi capo alla monarchia di Riyad. Ed è un risentimento vecchio di 1.400 anni, caratterizzato dalla più sanguinosa e reciproca intolleranza.

(Shalom, maggio 2017)


"Insultato dai manifestanti contro Israele mentre ero con mia figlia: non hanno proprio dignità"

Esemplare di arte filopalestinese
Quello che mi è successo ieri mi ha lasciato davvero basito. Stavo accompagnando mia figlia al Palazzo dei Congressi per vedere sua sorellina cantare al coro della conferenza Svizzera Israele, mentre i manifestanti dicevano di tutto a chi entrava con insulti di ogni genere.
Francamente sono abbastanza neutrale su quanto succede in Israele anche perché non ne so molto, mi chiedo però come si possa fare i pacifisti o quelli dalla parte della ragione, se poi il massimo che sai fare è insultare le altre persone, incuranti del fatto che magari ci siano i propri figli a sentire.
Ma non hanno un po' di dignità? Ma non hanno altro di meglio da fare la domenica pomeriggio?

(mattinonline, 29 maggio 2017)


Ordinata la chiusura del centro di stoccaggio di ammoniaca di Haifa Chemicals

GERUSALEMME - La Corte suprema israeliana ha stabilito la chiusura del centro di stoccaggio di ammoniaca di Haifa Chemicals entro la fine di luglio. Lo scorso febbraio la municipalità di Haifa aveva chiesto la chiusura dell'impianto, dopo che un rapporto aveva rivelato gravi deficit strutturali che metterebbero a rischio la vita di decine di migliaia di persone. Da anni attivisti e politici si battono per la chiusura dell'impianto. Sebbene, secondo la Corte, la probabilità di una perdita della cisterna sia minima, il danno che potrebbe provocare è elevato. La sentenza dovrebbe esser eil capitolo finale di una saga durata circa dieci anni, evidenzia il quotidiano israeliano "Times of Israel". Nel documento prodotto dai giudici, infatti, si legge che "la cisterna non ha avuto la licenza edilizia e Haifa Chemicals funziona senza una licenza d'impresa".

(Agenzia Nova, 29 maggio 2017)


Chiedevano alla Regione 42 milioni per cure odontoiatriche: mai fatte

Lo dice il tribunale. Era l'ultima richiesta dell'ex direttore dell'Israelitico Mastrapasqua.

di Ilaria Saccehttoni

 
Era solo l'ultimo escamotage: è stato disinnescato.
Al grido di: «Facciamo un po' di Cinecittà» gli ex vertici dell'Ospedale israelitico avevano dato l'abbordaggio alle casse regionali. Almeno fino all'arresto il 21 ottobre 2015 dell'ex direttore Antonio Mastrapasqua impegnato, secondo la procura, con altri dirigenti e funzionari, nella manipolazione quasi sistematica della contabilità e degli spazi a disposizione pur di lucrare sui rimborsi regionali.
   Ora, tempo dopo, con una sentenza ampiamente motivata i giudici della seconda sezione civile del Tribunale di Roma hanno respinto la pretesa, avanzata all'epoca, di ottenere altri soldi pubblici.
   Stavolta si trattava di una richiesta monstre di 42milioni di euro di rimborsi per operazioni odontoiatriche teoricamente effettuate fra il 20o6 e il 2011, ma in realtà, così scrive il giudice Alfredo Matteo Sacco, mai erogate.
   La richiesta era solo uno dei vecchi azzardi dell'ex manager che però ora rischia di aggravare la sua posizione, perché i pubblici ministeri Corrado Fasanelli e Maria Cristina Palaia, a questo punto, potrebbero depositare questa sentenza al processo nei suoi confronti.
   Sfrontate le anomalie e le carenze della documentazione contabile allegata alla causa.
   Per dirne una i giudici si sono trovati alle prese con ricevute dai codici sballati che contrassegnavano le teoricamente avvenute prestazioni con il codice 36 anziché 35, ossia quello comunemente utilizzato per l'ortopedia anziché per le cure dentistiche. Non bastasse il tribunale fa notare anche in merito all'accreditamento una serie di inadempienze da parte dei vertici ospedalieri: «Quanto al rapporto di accreditamento l'ospedale non è stato in grado di dimostrarne la sussistenza in relazione alle prestazioni di natura odontoiatrica e di natura odonstostomatologica erogate in regime di ricovero ospedaliero (day hospital». E ancora: «La sistematica trasmissione dei dati utilizzando un codice branca non appropriato e l'altrettanto sistematica fatturazione di servizi medico assistenziali diversi da quelli effettivamente erogati (se effettivamente erogati) costituiscono anomalie indicative di condotte certamente non informate a criteri di legalità».
   Insomma gli ex vertici dell'ospedale hanno inanellato una vistosa serie di anomalie e omissioni, trascurando di far presente, fra l'altro, l'assenza di accordi con la Regione Lazio in merito all'accreditamento. Stupefatti i giudici che concludono così: «Invero l'Ospedale Israelitico non soltanto non è stato in grado di dimostrare l'effettiva ed esatta esecuzione qualitativa e quantitativa delle prestazioni sanitarie in discussione ma neppure è stato in grado di individuarle e indicarle analiticamente». Non solo il tribunale ha rigettato le richieste ma ha anche condannato l'ospedale a «pagare immediatamente in favore delle convenute Regione Lazio, Asl di Roma A e Asl D le spese processuali liquidate per ciascuna in euro 85mila». Soldi che però a questo punto ricadono sulle casse della nuova gestione ospedaliera.
   La richiesta di processo per truffa nei confronti di Mastrapasqua e di altre sedici persone, risale a fine 2016. L'ex manager dai molti incarichi era accusato fra le altre cose di aver depistato sistematicamente gli ispettori della sanità nel corso delle verifiche. Secondo gli approfondimenti dei carabinieri del Nas: «in qualità di direttore generale e amministrativo di aver alterato lo stato dei luoghi, la destinazione degli ambienti e le attività sanitarie, per indurre in errore il personale ispettivo circa la rispondenza del presidio ospedaliero alle prescrizioni impartite nell'ambito della procedura di conferma dell'autorizzazione». L'udienza preliminare è prevista a giorni.

(Corriere della Sera - Roma, 29 maggio 2017)


Gaza - Hamas: 'niente cani in spiaggia'

GAZA - Con un provvedimento che ha colto di sorpresa la popolazione, da questo mese Hamas ha deciso di impedire che i cani siano portati a passeggio sul lungomare di Gaza. Quanti ancora lo fanno sono fermati da agenti che per il momento si limitano ad illustrare la nuova norma, senza fare multe ne' confiscare animali. Fonti locali aggiungono che il passeggio con cani - di tutte le dimensioni - è impedito anche nella centrale via Omar al-Mukhtar, mentre è tollerato nelle strade secondarie e nei quartieri periferici, dove è più raro imbattersi in agenti. Nelle famiglie di Gaza la presenza di cani non è diffusa, anche perché negli ultimi anni mantenere condizioni igieniche nelle abitazioni è divenuto più difficile. Tuttavia nei negozi di animali si afferma che, oltre ad uccellini e gatti, adesso anche i cani vengono richiesti con maggiore frequenza da clienti in cerca di distrazione, dato che la maggior parte del giorno manca loro la corrente elettrica.

(ANSAmed, 28 maggio 2017)


La società Energean sigla un contratto per forniture da giacimenti offshore di Tanin e Karish

ATENE - La società greca Energean ha siglato un contratto per fornire fino a 23 miliardi di metri cubi di gas naturale dai giacimenti offshore israeliani di Tanin e Karish. L'accordo è stato siglato oggi dalla società Energean con Dalia Power, compagnia che opera nella più grande stazione energetica privata di Israele, e con Or Power, che sta pianificando la creazione di nuovi impianti nel paese. Lo riferisce oggi un comunicato della società greca Energean, che aggiunge di contare di poter avviare la produzione a Tanin e Karish nel 2020. "L'accordo è un passo sostanziale verso la concorrenza e per rendere più economica l'energia sul mercato a beneficio dei consumatori israeliani e per l'economia del paese", ha dichiarato l'amministratore delegato di Energean Mathios Rigas. Energean è una società privata greca, molto attiva anche in Montenegro, a Cipro e Israele. Per quanto riguarda Israele, Energean ha trovato alla fine del 2016 un accordo per la cessione dei giacimenti di gas naturale di Karish e Tanin; tale intesa prevede il versamento di 150 milioni di dollari alle società del consorzio, Noble Energy e Delek Group. I giacimenti di Karish e Tanin contengono circa 60 miliardi di metri cubi di gas.

(Agenzia Nova, 28 maggio 2017)


Giugno 1967, la settitnana che abbatté il mondo arabo

Comunicazioni, addestramento, logistica Così Israele vinse la Guerra dei sei giorni. Le pressioni dell'Egitto e dei suoi alleati erano insostenibili. E la risposta fu poderosa e fulminea.

di Matteo Sacchi

 
La guerra dei sei giorni
Per il mondo la Guerra dei sei giorni iniziò con un rombo cupo e improvviso. Quello dei cacciabombardieri israeliani che, dopo un lungo volo radente, salivano di quota per buttarsi in picchiata sopra gli aeroporti militari egiziani, alle 7 e 45 (ora israeliana) del 5 giugno del 1967 (siamo quasi al cinquantenario). Era l'operazione Moked che l'Idf, le forze di difesa israeliane, avevano pianificato in ogni dettaglio per cinque anni.
  Per gli avieri egiziani che correvano verso i veicoli fu questione di pochi secondi prima di essere investiti dal fuoco nemico. Per l'aviazione israeliana invece quella manciata di attimi fu il coronamento di una lunga progettazione. Era iniziata con il dispendiosissimo (200 milioni di dollari) acquisto dall'aviazione francese di 76 Dassault Mirage IIICI. La «J» che stava per juif, ebreo in francese, indicava speciali modifiche. L'aggiunta di due cannoni da 30 millimetri e di agganci subalari per bombe da attacco al suolo. Lì andavano agganciate le speciali bombe a razzo pensate per distruggere le piste degli aeroporti nemici. La progettazione era poi proseguita con un addestramento forsennato dei piloti (nel deserto del Negev bombardavano a ripetizione perfette copie delle basi aeree egiziane) e del personale di terra, che riusciva a riarmare e rimettere in volo un aereo in soli 10 minuti. In pratica ogni aereo poteva così svolgere otto missioni al giorno. Per fare un confronto, in condizioni normali, gli egiziani erano in grado di fare alzare in volo soltanto il 30 per cento dei loro aerei.
  Ma anche così le cose avrebbero potuto andare storte: i giordani, dotati di un sistema radar avanzato ed efficiente, acquistato dagli inglesi, cercarono di avvertire gli egiziani del fatto che da Israele si erano alzati in volo quasi tutti gli aerei. Ma gli egiziani avevano appena cambiato i loro codici di trasmissione segreti senza avvertirli e il messaggio non poté essere decifrato. Il risultato fu che la forza aerea del più potente dei Paesi arabi che circondano Israele fu annientata in meno di mezz' ora. Ogni base subì tre attacchi in meno di 20 minuti. Poi seguì una seconda ondata. Nello spazio di due ore e mezza gli egiziani persero 293 aerei. Gli israeliani soltanto 16, abbattuti o gravemente danneggiati. Intanto anche nel Sinai le truppe di terra di Tel Aviv avevano iniziato ad avanzare. Ma era soltanto una delle direttive d'azione di questa macchina bellica precisa come un cronometro. Alle 12 e 45 l'aviazione israeliana iniziò a colpire Giordania, Siria e Irak. In breve vennero distrutti altri 119 aerei. A quel punto restava da combattere quello che sarebbe stato un duro scontro di terra, uno scontro ormai completamente sbilanciato. Come dimostrano anche i numeri: alla fine del conflitto i morti israeliani furono 679, quelli arabi circa 21mila.
  Di come si sia svolto il conflitto, di come si sia originato e di quali siano state le sue conseguenze si discute oggi alle 15 sotto la tenda Erodoto al festival goriziano è Storia. A farlo saranno Ahron Bregman, storico del conflitto arabo-israeliano che insegna studi strategici a Londra ed è autore de La vittoria maledetta. Storia di Israele e dei Territori occupati (appena pubblicato da Einaudi), e Simon Dunstan, storico militare autore de La Guerra dei sei giorni. 1967: Sinai, Giordania e Siria (Leg). Dunstan nel suo lavoro ha ricostruito in maniera certosina i motivi che portarono alla guerra. Perché, se l' attacco partì da Israele, il livello delle pressioni da parte dell'Egitto e dei suoi alleati era diventato davvero intollerabile. Anche a causa degli errori della diplomazia internazionale. Nel maggio 1967 Nasser aveva ricevuto falsi rapporti dall'Unione Sovietica secondo cui Israele - che aveva subito non pochi attacchi contro i civili sui confini con l'Egitto e la Siria - stava ammassando truppe al confine settentrionale. I rapporti erano gonfiati, ma gli egiziani non se ne accorsero. Il presidente egiziano, anima del panarabismo, fece la voce grossa e chiese l'allontanamento delle forze di interposizione internazionali da Gaza, dal Sinai e da Sharm el-Sheikh. Era più che altro una mossa propagandistica. Però il segretario generale dell'Onu, il birmano Maha Thray Sithu U Thant, lo accontentò a sorpresa, incastrando il presidente egiziano nella sua stessa propaganda militarista e impedendogli di fare marcia indietro. Il 22 maggio Nasser chiuse alle navi israeliane gli stretti di Tiran, azione che, sin dal 1957, Israele aveva dichiarato che sarebbe stata considerata né più né meno che un atto di guerra. E a quella mossa l'attacco israeliano rispose. Gli arabi vennero travolti non perché l'armamento israeliano fosse di molto superiore, anzi, in certi settori, come i carri armati, era addirittura abbastanza obsoleto (mezzi della Seconda guerra mondiale un po' modernizzati). Ma perché Israele aveva investito in comunicazioni, addestramento e logistica. Per citare le parole del brigadiere generale egiziano Tahsin Zaki, «Israele si era preparato per anni a questa guerra mentre noi ci preparavamo alle parate. Le esercitazioni per la parata annuale del giorno della rivoluzione duravano settimane ... ma non si parlava di prepararsi alla guerra».
  Ma basta vincere? È questo il tema su cui si interroga invece Bregmano. Forse quella guerra era inevitabile, ma il retaggio dei Territori occupati ha avvelenato per anni, e non ha ancora smesso di avvelenare, la vita quotidiana degli israeliani. Lo sapeva bene l'uomo che fu comandante in capo dello stato maggiore durante quella guerra, Yitzhak Rabin, ecco perché continuò sempre a perseguire una pace sostenibile. Gli costò la vita e forse potremmo considerarlo una delle vittime di quella grande e spettacolare vittoria di cui fu, assieme a Moshe Dayan, tra i principali artefici.

(il Giornale, 28 maggio 2017)


Finito lo sciopero della fame palestinese. Una farsa nella farsa

E' finita ieri mattina la farsa dello sciopero della fame palestinese, o meglio, del finto sciopero della fame palestinese (almeno per quanto riguarda Barghouti) perché a quanto pare il capo dei terroristi lo sciopero della fame lo faceva fare agli altri.
Comunque, Fatah e i terroristi palestinesi gridano alla grande vittoria sul "terribile" sistema detentivo israeliano e dichiarano di interrompere lo sciopero della fame in quanto avrebbero raggiunto i loro obiettivi, che per essere chiari erano questi....

(Right Reporters, 28 maggio 2017)


Israele, vivere in questa terra da italiano: cosa significa ?

di Riccardo Palleschi

Lo Stato di Israele è stato creato dopo la Seconda Guerra Mondiale nel 1948, in una zona da sempre luogo di scontro e contatto fra diverse culture e religioni, visto che questa terra ha avuto un ruolo chiave per giudaismo, cristianesimo ed islamismo. Israele però è anche meta di emigrazione per alcuni italiani, siamo riusciti ad intercettare una signora italiana che ci vive da tantissimo tempo, Mirella.

- Ciao Mirella, grazie per aver accettato l'intervista, raccontaci un po' di te e delle tue origini.
  Sono nata a Roma il 5/10/1944 a Trastevere le mie origini molto modeste, 7 figli mamma e papa' abitavamo insieme ai nonni materni. Anche la mia famiglia ha subito le leggi razziali e 4 miei zii deportati sei quali una zia diciottenne incinta di 5 mesi nessuno di loro ha fatto ritorno… scomparsi nel nulla. Questa immane tragedia influi' molto nel modo di vivere della mia famiglia, sarebbe troppo lungo spiegare. Alla fine degli anni 50 ci furono rigurgiti di antisemitismo molto violenti, per ben tre volte sono stata aggredita umiliata e percossa per il mio essere ebrea. Nel 1963 iniziai a pensare di andarmene ero troppo delusa e amareggiata, iniziai a frequentare il movimento di giovani ebrei italiani di dottrina socialista e non religiosa. Nel 1965 emigrai in Israele insieme ad in gruppo europeo a Maghen, kibbutz al sud di Israele sul confine di Gaza. Dopo soli tre mesi ci arruolarono, non finii il mio servizio militare perche' mi sposai ma feci in tempo a dare il mio piccolo aiuto durante la mia permanenza sulla linea di demarcazione esattamente 400 metri dall'allora ostile Egitto.
  1967 la Guerra dei sei giorni, ero incinta di 8 mesi, ero a Maghen, ho vissuto quei momenti molto da vicino. Dopo poco tempo lasciammo il Kibbutz, mio marito si arruolo' in polizia e ne e' uscito con il grado di colonnello. Abbiamo vissuto amare esperienze, attentati, uno dei quali nel 1972, salto' in aria in autobus accanto a noi. Mio marito si e' trovato in situazioni molto difficili che non sto a spiegare, insomma di tutto e di più, guerre, attentati, missili, ecc. ecc. eppure non mi e' mai sfiorata l'idea di andarmene, e' vero non e' facile ma non impossibile, amo Israele e questo e' tutto.

- So che vivi da tantissimi anni in Israele, perché hai scelto di vivere qui ? Solo motivi religiosi ?
  No, non sono religiosa anzi il contrario, sento di appartenere a questo popolo e questo popolo deve vivere qui, senza se e senza ma. Volente o nolente il mondo dovra' capirlo, boicottassero quanto vogliono, finito il tempo "Dell'ebreo errante". Forse sembrerò arrogante e se cosi fosse me ne scuso, una cosa e' certa credo molto alle istituzioni mi sento tutelata e difesa, e questo non e' poca cosa.

- Israele è un territorio che balza agli onori della cronaca spesso per i brutti fatti che avvengono lungo il confine con la Palestina. Come la vivi questa situazione ?
  Di orrori ce ne sono stati tanti da ambo le parti e me ne dolgo, ormai Israele e' stato etichettato come "Il male assoluto". Ok ce ne faremo una ragione... solo una precisazione, gli Israeliani non vanno nelle pizzeria, nelle discoteche, nei cinema, negli autobus, nelle scuole e si fanno saltare in aria, noi amiamo la vita, la loro dottrina spargere sangue crocifiggere i cattolici tagliare le teste e cosi via, differenza di pensiero e di civiltà, se poi difendersi equivale ad essere "Il male assoluto"!
Beh non posso farci niente, il tempo e' galantuomo prima poi l'occidente si ricrederà. I primi bagliori cominciano a fare strada... gli attentati in Europa, non ne gioisco perché ci sono vittime innocenti, ma anche qui sono stati colpiti e uccisI civili inermi, meditate gente!!!!

- Qual è il costo della vita in Israele? Affitto, utenze, cibo, etc..
  Il costo della vita e' abbastanza caro ma badate bene che la maggior parte delle tasse va alla sicurezza, quasi tutti hanno una casa comprata perché il governo aiuta sia gli emigranti che I giovani con una sorta di punteggio si prende il muto a lungo distanza e cosi invece di pagare l'affitto si paga il mutuo.

- Un italiano che volesse emigrare in Israele per motivi lavorativi deve per forza conoscere l'ebraico moderno ?
  Sarebbe preferibile parlare l'ebraico ma se parla l'inglese va bene anche così quasi tutti lo parlano, nelle scuola si inizia ad insegnarlo dalla terza elementare. I giovani hanno quasi tutti la maturita' classica poi vanno per 3 anni militare e dopo tantissimi vanno all'università, si punta molto sulla cultura.

- Quali sono per te le differenze principali, aspetti positivi e negativi, tra Italia e Israele ?
  Positivi per l'Italia molto volontariato, ottima cucina, paese pieno di cultura, ma ahime' da come vedo dalle trasmissioni in italiano via satellite i cittadini non si sentono tutelati e questo lo dico con profondo dispiacere. Ogni nazione ha la sua piaga sociale ma quello che vedo in TV mi rattrista, come dire "Ad ognuno il suo, noi circondati da nemici che giurano di cancellare Israele dalla carta geografica e l'Italia con l'ondata emigratoria che ha portato gli italiani a sentirsi insicuri e allo sbando".

Grazie Mirella per averci dedicato il tuo tempo, ti auguro di proseguire la tua strada con pace e serenità. A presto.

(Il portale degli italiani emigrati, 27 maggio 2017)


Il presidente Trump ribadisce volontà dei leader israeliani e palestinesi di raggiungere la pace

ROMA - Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha ribadito la volontà dei leader palestinesi e israeliani di raggiungere la pace e porre fine al conflitto israelo-palestinese. In un discorso pronunciato oggi davanti ai militari statunitensi nella base aerea di Sigonella al termine del G7 di Taormina, Trump ha ripercorso le tappe del suo primo viaggio all'estero dall'insediamento come presidente Usa. Parlando della tappa in Terra santa, seconda visita del suo viaggio iniziato in Arabia Saudita, Trump ha sottolineato di aver ribadito "il legame indistruttibile con lo Stato di Israele". "Qui ho proseguito la mia discussione (iniziata a Riad, ndr) riguardo alla lotta contro il terrorismo, alla distruzione di queste organizzazioni e al sradicamento della loro ideologia", ha detto Trump. "Sono andato al Muro occidentale - ha continuato - un monumento della perseveranza del popolo ebraico o anche pregato nella Chiesa del Santo sepolcro. Ho visto la bellezza della Terra Santa e la fede delle persone che vi vivono, persone che desiderano un futuro di sicurezza e prosperità. Tutti i bambini di tutte le fede meritano un futuro di speranza e pace". In merito Trump ha ricordato la visita a Betlemme e l'incontro con il presidente dell'Autorità nazionale palestinese Mahmoud Abbas il quale ha "assicurato la sua volontà di raggiungere una pace con Israele, in buona fede". "Anche il premier israeliano Benjamin Netanyahu mi ha assicurato che è pronto a raggiungere una pace", ha aggiunto Trump ricordando l'amicizia che lo lega al capo del governo israeliano.

(Agenzia Nova, 27 maggio 2017)


Giro d'Italia 2018: Israele sorpassa la Polonia

Gerusalemme vuole la partenza della corsa rosa. Poi Sicilia e lo Zoncolan, che per l'occasione raddoppierà

di Antonio Simeoli (inviato ad Asiago)

 
La partenza del Giro da Pordenone
ASIAGO - Giro 2018, più di qualcosa si muove. Intanto la partenza. Tutti gli indizi fino a poche settimane fa portavano in Polonia, l'invito (tecnicamente alquanto misterioso) della Ccc Sprandi alla corsa rosa e le dichiarazioni dell'ex pro Lang, sembravano più di un accordo firmato. Invece le carte si sono mescolate nelle ultime settimane e per la prossima edizione sta salendo vertiginosamente la candidatura di Israele e in particolare di Gerusalemme quale sede di partenza della prossima corsa rosa. Sarebbe la prima volta nella sua storia che il Giro parte da fuori Europa.
   Dopo gli abboccamenti con gli Usa e in particolare con Washington, una decina d'anni fa quando il padrone del vapore di Rcs era Angelo Zomegnan e il quasi-accordo con il Giappone, per una partenza dal Sol Levante e quattro giorni di gara, l'ultimo dei quali con arrivo in quota sul Monte Fuji, ecco la Terra Santa. Una location altamente suggestiva, capace, come vuole il nuovo capo di Rcs, Urbano Cairo, di dare visibilità mondiale alla corsa e di lanciare il turismo israeliano nel mondo.
   Si deciderà entro giugno, ma la pista è molto calda. Come anche quella che porta, anzi, riporta la carovana in Sicilia, a soltanto 12 mesi dalla due giorni appena conclusa sull'isola. La carovana, quindi, da Israele si trasferirebbe sull'isola per una frazione della memoria, dedicata al ricordo delle vittime del terremoto della valle del Belice. Il prossimo anno sarà passato mezzo secolo da quella tragedia.
   Ma c'è un altro anniversario pesante che incombe sulla corsa rosa 2018: quello della vittoria della Grande Guerra. Per ricordare quel successo nel 1988 il Giro si concluse nella città della vittoria, Vittorio Veneto. Accadrà anche nel 2018? Al momento non è stato ancora deciso perché restano calde le sedi finali di Milano con anche però la suggestione di Roma, dopo il mancato accordo per l'arrivo nella capitale dell'edizione 100. E le salite? Pratonevoso in Piemonte e, a proposito di Grande Guerra, le Sorgenti del Piave. Una salita che strizza l'occhio da anni alla corsa rosa e un arrivo all'origine del fiume Sacro alla Patria sarebbe sportivamente un modo impeccabile per ricordare il sacrificio di milioni di soldati.
   Vicino alle Sorgenti del Piave c'è un'altra salita che preme per tornare, a 4 anni di distanza nella mappa della corsa rosa. È la salita: lo Zoncolan. Enzo Cainero, il patron che quella salita micidiale l'ha esportata nel mondo, è ritornato alla carica con Mauro Vegni, il direttore della corsa rosa: vuole riproporre il piano 2014, quello saltato all'ultimo momento per il "gran rifiuto" dei corridori, la doppia scalata allo Zoncolan. Previsto il debutto del terzo versante, inedito, ma micidiale almeno quanto quello da Ovaro, di Priola.
   Salita dalla frazione di Sutrio, Duron, Sella Valcalda e arrivo classico sullo Zoncolan una ipotesi di percorso. Pensate a un clamoroso toboga di salite e i tifosi (nel 2007 furono oltre centomila) saliti in quota che potrebbero vedere la corsa in diretta per ore con gruppi che si intravedono nella vallate ed elicotteri delle riprese che impazzano in cielo.
   Cainero si fa forte del successo della tappa di venerdì a Piancavallo. Un trionfo anche per la Rai (nonostante alcune discutibili scelte di palinsesto con programmi inutili) che ha fatto registrare uno share per la tappa friulana del 24,29% pari a 2.613.542 telespettatori nel minuto medio. Il programma, che ha realizzato con picchi del 27,15% di share e 2.863.485, è stato l'evento tv più visto nella propria fascia di messa in onda.
   Niente a che vedere con il record di 4,5 milioni di telespettatori registrato nel 2010 per la cavalcata di Basso guarda caso sempre sullo Zoncolan ma un grande risultato. Anche perché il pubblico è stato correttissimo sul percorso, specie sulla salita finale. Ricordate il tifoso-teppista che nel 2014 fece mettere il piede a terra al malcapitato Manuel Buongiono sullo Zoncolan nel 2014.
   Bene, per evitare sorprese del genere Cainero nei punti più stretti e critici della salita del Piancavallo ha piazzato una sorta di "task force" di vigilantes in incognito pronti a mettere fuori uso i tifosi più irrequieti. Un nuovo metodo che ha fatto centro e ha aperto una via sulle strade del giro, proprio come fecero gli alpini messi a guardia dei ciclisti nell'ultimo km dello Zoncolan dieci anni va. Gira e rigira la Carnia fa scuola al Giro d'Italia insomma.

(il mattino di Padova, 27 maggio 2017)


Ute Lemper, la tedesca che accusa i tedeschi

"Non abbiamo mai fatto i conti con il nostro vergognoso passato". Intervista alla cantante e attrice tedesca che per la prima volta porterà in Italia "Songs for Etemity", spettacolo toccante sulle canzoni composte dagli ebrei nei campi di concentramento

 
Ute Lemper
Si intitola "Songs for Eternity", "Canzoni per l'Etemità" ed è uno degli spettacoli più toccanti e coinvolgenti che offra attualmente il panorama mondiale. Perché quelle canzoni capaci di sfidare il tempo che passa, prima di giungere sui palcoscenici di tutto il mondo hanno sfidato la prigionia e le camere a gas, la privazione di ogni dignità umana e il gelo della follia criminale dei campi di concentramento nazisti. Sono infatti le canzoni scritte dagli ebrei deportati ad Auschwitz e negli altri lager nazisti, molti dei quali morirono nelle camere a gas. Canzoni struggenti ma anche piene di speranza, ninne nanne e brani di ribellione, che ora arrivano per la prima volta in Italia insieme con la loro straordinaria interprete, Ute Lemper, cantante e attrice tedesca, famosa per le sue intense interpretazioni delle Canzoni del Cabaret di Berlino, delle opere di Kurt Weill e della canzone francese e per le sue performance a Broadway e nel West End di Londra. Questo spettacolo, però, è un'altra cosa perché quelle parole sono incise nel suo animo grazie al senso di responsabilità e alla caparbia volontà di non dimenticare. Come donna, come tedesca. Tiscali.it l'ha raggiunta al telefono nella sua casa di New York dove vive insieme con i suoi quattro figli.

- Ute Lemper, perché ha scelto di far conoscere queste canzoni?
  "È la mia missione, come donna e come artista, quella di far conoscere un repertorio così difficile e imbarazzante per il passato tedesco. È cominciata negli anni Ottanta quando ho registrato l'intero catalogo di Kurt Weill, un catalogo vietato e bandito dai nazisti che sopravvisse grazie all'emigrazione del suo autore all'estero. Ora, attraverso "Songs for Etemity" esploro l'altro lato di questo divieto. Questi compositori ebrei avevano infatti la stessa storia e la stessa fede religiosa e non avrebbero potuto credere di finire assassinati, dopo essere stati rinchiusi nei ghetti e deportati nei campi di concentramento. "Songs for Etemity" è anche uno spaccato della vita all'interno dei ghetti nei quali erano costretti a vivere. Piccole canzoni cantate nelle strade mentre si emigrava, oppure nelle case mentre si aspettava la cena, o ancora sussurrate ai bambini spaventati durante la notte".

- Qual è la canzone tra quelle che canta in questo spettacolo che la tocca in maniera più profonda?
  "Ce n'è una che racconta il momento in cui le mamme nel ghetto cercavano delle famiglie non ebree per affidare i loro bambini e per dare a questi bimbi una possibilità di sopravvivenza. È una canzone straziante. Descrive una mamma che nella notte esce dal ghetto con il suo bimbo sapendo che non lo avrebbe mai più rivisto. E gli dice non parlare mai più la lingua ebrea: "Da ora tu non sei più ebreo, da ora in poi avrai dei nuovi genitori e giocherai che dei nuovi fratelli e sorelle. Ora tu devi dirmi arrivederci e cercare di sopravvivere anche per me". C'è poi un'altra canzone che si chiama "Auschwitz Tango" basata su un vecchio tango polacco. Le parole invece descrivono la tortura e la vita miserabile dentro i campi di concentramento, ma allo stesso tempo anche il coraggio di ribellarsi e di non lasciarsi umiliare dalle guardie e dai soldati nazisti. L'unico modo di ribellarsi era quello di non soccombere alla speranza".

- Lei è tedesca. Immagino che per lei occuparsi di Olocausto e di crimini nazisti abbia un significato ancora più profondo e tormentato. Sente un senso di colpa? Sente l'imperativo di fare qualcosa?
  "Per me è molto importante parlarne sempre e non dimenticare mai. È stato un crimine talmente enorme in brutalità e in sofferenza che è davvero difficile immaginarne la reale portata. È quasi impossibile rendersi conto che i nazisti hanno ucciso un milione di bambini, cinque milioni di adulti, donne, anziani. Non si può immaginare l'enorme peso di questo crimine organizzato e burocratizzato dai nazisti. lo non trovo nemmeno le parole e tantomeno le risposte: come una nazione abbia potuto seguire un profeta nero come Hitler nel suo antisemitismo che era diffuso ovunque nella popolazione. Non trovo risposte e continuo a soffrire che una nazione abbia potuto fare questo. La mia missione nella vita come artista è di non fermare mai il dialogo e "Songs for Etemity" è una continuazione di questa missione".

- In Germania, secondo voi, com'è vissuta la memoria dell'Olocausto dai tedeschi? Si cerca di dimenticare o c'è al contrario la voglia di ricordare e di fare qualcosa rispetto a ciò che si è vissuto durante la seconda guerra mondiale?
  "Ci sono diversi capitoli nel lavoro che i tedeschi hanno fatto sulla memoria. lo sono nata negli Anni Sessanta, quando la memoria rispetto all'Olocausto era pressoché morta e paralizzata. Mi ricordo che i genitori non ne parlavano con i figli, era troppo vergognoso e terribile farlo Era una società molto nazionalista, con i primi emigrati che giungevano soprattutto dall'Italia, malgrado lo Stato fosse occupato dagli inglesi, dai francesi e dagli americani con una Guerra Fredda che era già stabilita attraverso la costruzione del Muro di Berlino. Allora si parlava di quella situazione lì, piuttosto che di Olocausto. Poi la Germania ha fatto tutto ciò che si doveva fare per ricompattarsi ma ciò che mi è mancato come essere umano è il dolore. È la sofferenza personale di capire ciò che si era compiuto come popolo. Il mio primo marito era ebreo, il mio secondo marito è ebreo. lo ho lasciato la Germania negli Anni Ottanta. Poi finalmente nel 1989 un nuovo capitolo è cominciato, il Muro è caduto. A quel punto si sono trovati nuovi colpevoli, la persone della Stasi, della polizia della Germania dell'Est con i crimini contro l'umanità che si sono perpetrati in quello Stato. Negli Anni Duemila, ci siamo messi alle spalle anche quel periodo e francamente penso che le giovani generazioni abbiano messo sotto il tappeto la grande questione, quella dell'Olocausto con la grande sofferenza e il confronto personale. Di sicuro non si sono mai trovate delle risposte. lo sono certa che i tedeschi sapevano ciò che accadeva nei campi di concentramento. In molti continuano a ripetere che non si sapeva niente. Ma non è così. Forse nelle campagne si poteva ignorare Ma di sicuro chi viveva nelle città sapeva benissimo cosa stava accadendo. Ecco, io trovo che anche in Germania sia arrivato il momento di parlarne".

- Come è cominciata la sua ricerca delle canzoni composte nei campi di sterminio?
  "Tre anni fa, proprio mentre si celebrava il 70o anniversario della liberazione di Auschwitz. Ho preso in mano un libro che mi era stato regalato dieci anni prima dalla mia cara amica Orly Beigel, che è per metà messicana e per metà israeliana e figlia di una persona sopravvissuta all'Olocausto. Si tratta della raccolta di canzoni di Vevel Pasternak e di quella di lise Weber, pubblicata dal marito negli anni Novanta, dopo essere sopravvissuto ad Auschwitz. Si racconta della sofferenza, si racconta dei bambini nei campi di concentramento, si racconta dei viaggi in treno. E poi ho continuato la ricerca grazie a un italiano che si chiama Francesco Lotoro, un musicista che ha dedicato la sua vita alla ricerca delle canzoni e delle musiche scritte nei campi di concentramento. E così è venuta fuori una straordinaria raccolta di canzoni che meritano di essere cantante e conosciute per l'etemità".

(Tiscali, 25 maggio 2017)


I detenuti palestinesi terminano sciopero della fame dopo l'accordo con le autorità israeliane

GERUSALEMME - È terminato oggi lo sciopero della fame iniziato lo scorso 17 aprile da parte dei prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. La protesta è terminata dopo che 30 detenuti, su oltre 800 che hanno presto parte allo sciopero, sono stati condotti in ospedale nei giorni scorsi in gravi condizioni di salute. Secondo quanto riferito dal responsabile del Club dei prigionieri palestinesi, Qaddura Fares, un accordo è stato raggiunto tra gli scioperanti e le autorità israeliane per migliorare le condizioni di detenzione. L'accordo è stato confermato anche dal Servizio israeliano per i prigionieri, secondo cui l'intesa sarebbe stata raggiunta non con i rappresentanti dei prigionieri ma con l'Autorità palestinese e il Comitato internazionale della Croce Rossa. Le autorità israeliane hanno concesso una delle principali richieste dei detenuti: la possibilità di due visite familiari al mese invece di una. La fine della protesta coincide inoltre con l'inizio del mese sacro musulmano del Ramadan.
   Il presidente dell'Autorità palestinese, Mahmoud Abbas, ha sollevato la questione delle condizioni dei detenuti durante l'incontro avvenuto a inizio settimana con il capo dello Stato statunitense Donald Trump, in visita in Israele e Territori palestinesi, invitandolo ad affrontare il tema con il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Abbas è inoltre tornato sul tema delle condizioni dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane durante una riunione con l'inviato del presidente Usa, Jason Greenblatt, avvenuta lo scorso 25 maggio a Ramallah. In oltre 30 giorni di sciopero della fame, la popolazione palestinese ha organizzato diverse manifestazioni a sostegno dei detenuti in Cisgiordania, molte delle quali sfociate in scontri con le forze di sicurezza israeliane.

(Agenzia Nova, 27 maggio 2017)


In bici dall'Italia ad Israele

Il viaggio per non dimenticare del ciclista della Memoria

di Valeria Arnaldi

 
Giovanni Bloisi
«Quando sono arrivato In Israele, mi sono emozionato. Ho pensato: ce l'ho fatta. Sono anni che vado nei luoghi della memoria per il bisogno personale di rendere omaggio alle vittime. Pedalando, ho raccontato storie e le persone si sono fermate ad ascoltare». Giovanni Bloisi, "ciclista della memoria" come si definisce, ha affrontato diverse "pedalate" nei luoghi della Shoah. L'ultima, incentrata sulla vicenda di Sciesopoli, colonia fascista a Selvino che alla fine della guerra è stata convertita in struttura di accoglienza per i bambini ebrei rimasti orfani. Circa ottocento i bimbi che furono ospitati, una sessantina quelli ancora vivi. Un viaggio di quasi 2400 chilometri, dal 19 marzo al 24 aprile, attraverso Italia, Grecia, Israele, nei luoghi di Shoah, guerra, resistenza.
   «Ho raccontato una storia di accoglienza - spiega Bloisi, in un incontro a Roma ospitato dall'ambasciatore di Israele in Italia, Ofer Sachs, nella sua residenza - Io non so parlare, so pedalare. Un docente universitario di Perugia, però, mi ha detto che aveva tentato tutti i mezzi e le strategie di comunicazione per sollecitare attenzione sul tema ma non pensava che una bicicletta potesse suscitare tanto interesse. La gente vede e chiede, si ferma, vuole sapere».
   «Tra pochi anni - dice l'ambasciatore Sachs - non ci sarà più nessuno che ricorda la Shoah e ci sono molti, in Israele, che non sanno cosa accadde in Italia dopo la guerra. Grazie all'impresa di Giovanni, hanno studiato la storia di Sciesopoli».
   Bloisi è partito da Tradate, passando poi per Magenta, Milano e ovviamente Selvino. E ancora Cremona, Reggio Emilia, Modena, Fossoli, Nonantola, Ferrara, Piangipane, Colfiorito, Casoli, Casacalenda, Gioia del Colle, Manfredonia, Santa Maria al Bagno. Poi da Brindisi la partenza per Patrasso, dove ha avuto problemi con la bici - «Avevo consumato le ruote», ricorda - e l'arrivo in Israele, dove ha dovuto trovare una nuova bici, perché la sua, imbarcata, era stata persa. Nel mezzo, incontri, emozioni e altri "traguardi". A Casoli, sentita la storia di Bloisi, la proprietaria di un Palazzo usato per internare ebrei ha deciso di trasformare la dependance in Palazzina della Memoria. A Gioia del Colle, su un ex-mulino pastificio, anche questo usato per l'internamento, si è deciso di apporre una targa. Per non dimenticare.

(Il Messaggero, 27 maggio 2017)


Il credo wahabita. La radice dell' odio è nella loro fede

Anche Stati «presentabili» come Arabia e Pakistan perseguitano chi non è musulmano

di Carlo Panella

In un mondo devastato dagli attentati, la strage dei copti di Anba Samuel colpisce per la sua incredibile ferocia. Abbiamo negli occhi la strage dei ragazzini di Manchester e ora ci dobbiamo confrontare con il racconto da incubo del commando jihadista che blocca due autobus di fedeli cristiani, quanto di più pacifico e mite si possa dare, vi sale e con sventagliate di mitra ad alzo d'uomo ne uccide 35 - di nuovo, anche bambini - e ne ferisce decine. n tutto nel nome di Allah, per punire con una morte atroce chi non venera il vero, unico, dio e anzi professa la «idolatria» del culto dei santi.
  Solo i nazisti sono stati capaci di simili e folli atrocità nel nome della loro ideologia e della loro «purezza». Questa strage e le sue vittime, ci dicono tutto sugli autori, venga o non venga una rivendicazione ufficiale: sono i membri di quella non piccola parte dell'Islam che si rifà agli insegnamenti di Mohammed Wahab, che considera i cristiani «nemici della Vera Fede», apostati e degni di morte per il loro culto dei santi, della Madonna e della Santa Trinità. Un Islam egemone in Arabia Saudita, dove sei arrestato e condannato se solo porti una croce al collo, ma anche in Pakistan e Afghanistan, come pure in Indonesia, nello Stato di Anceh. Un Islam che non è sicuramente maggioritario, ma che ha centinaia di migliaia di seguaci nel mondo. Un Islam che è causa della persecuzione dei cristiani nel mondo islamico che fa una media di tre nostri - e uso volutamente questo termine - martiri ogni giorno. In Egitto poi, e in specie nell'Alto Egitto, dove si è consumata la strage, queste follie islamiche si intrecciano con millenarie tensioni etniche, tra le popolazioni autoctone, appunto i copti, e le successive migrazioni di ceppi arabi.
  Ma queste stragi si ripetono anche perché è totalmente fallita la promessa del presidente Fattah al Sisi di proteggere i cristiani e sconfiggere il terrorismo. Quella stessa arrogante e crudele inefficienza dei dirigenti delle forze di sicurezza, degli uomini di maggior fiducia di al Sisi, che abbiamo visto operare nel «caso Regeni», caratterizza l'azione dell'antiterrorismo egiziano. A tre anni dalla presa del potere, al Sisi non è minimamente riuscito a sradicare i gruppi di jihadisti che non solo fanno saltare l'una via l'altra le chiese cristiane durante le sacre funzioni, ma che tengono in scacco l'esercito egiziano nelle poche e delimitate zone abitate del Sinai, provocando la morte in attentati e persino in combattimenti diretti di più di 500 militari egiziani. Regime corrotto, come quelli precedenti, nonostante il suo autoritarismo, nel contrasto al jihadismo quello di al Sisi si dimostra uguale o peggiore di quello di Hosni Mubarak, o di quello dei Fratelli Musulmani di Mohammed Morsi, che ha detronizzato. Un'inefficacia, una debolezza, che hanno dello spaventoso e che ci riportano al dato drammatico: questo terrorismo jihadista nasce dentro un Islam che non ha in sé la forza, la capacità e la determinazione per espellerlo dal suo corpo, anche se a parole lo condanna.

(Libero, 27 maggio 2017)


Quella chiesa convertita in moschea dove pregava il kamikaze di Manchester

Parla Scruton: "Il cristianesimo scende, l'islam sale".

di Giulio Meotti

ROMA - Ogni giorno, entrando in quella che un tempo era la Albert Park Methodist Chapel, consacrata nel 1883 e sconsacrata negli anni Sessanta, durante la grande ondata di secolarizzazione, Salman Abedi poteva ancora osservare l'architettura tipica di una chiesa anglicana, dal campanile alle vetrate. Ma anziché l'altare, ora c'è un mihrab, la nicchia che nella moschea indica la direzione della Mecca. Il pulpito è rimasto. Però lo usa un imam per lakhutba, l'allocuzione islamica. Fuori dalla chiesa-moschea di Didsbury c'è un grande cartellone che annuncia: "Vuoi saperne di più sull'islam? Vieni a socializzare". Su YouTube, un'organizzazione islamista la celebra come "The church converted to a mosque". Fuori, la moschea che si affaccia su Burton Road ricorda ancora la chiesa metodista che era fino agli anni Sessanta, quando venne acquistata dalla comunità musulmana locale per farne un luogo di culto islamico. Anziché gli orari per la messa, oggi c'è un'altra insegna: "Sala da preghiera per gli uomini". Nella chiesa-moschea, rivela ieri la Bbc, viene distribuito materiale sul fatto che "la modestia, il pudore e l'onore non hanno posto nella civiltà occidentale".
  Qui pregava Salman Abedi, il ventiduenne inglese che ha massacrato venti due coetanei alla Manchester Arena. La chiesa venne abbandonata in un momento di fervore secolarista, quando in Inghilterra scomparvero d'improvviso grandi masse di fedeli cristiani. La diocesi cattolica di Salford ha appena annunciato che altre venti chiese nell'area di Manchester saranno chiuse. Lord Carey, ex arcivescovo di Canterbury, ha detto che la Church ofEngland è "a una generazione" dall'estinzione. "In vent'anni, i musulmani praticanti saranno più dei cristiani praticanti", ha spiegato Keith Porteous Wood, direttore della National Secular Society, Dal 2001, cinquecento chiese della sola Londra sono state trasformate in case private. Nello stesso periodo, le moschee sono proliferate fino alle 423 di oggi. I fedeli cristiani stanno diminuendo a una tale velocità che entro una generazione il loro numero sarà tre volte inferiore a quello dei musulmani che vanno in moschea di venerdì.
  "La storia della chiesa di Didsbury convertita in moschea è la storia del mio paese, l'Inghilterra", dice al Foglio da Parigi Roger Scruton, saggista e filosofo britannico, fellow della British Academy e della Royal Society of Literature. "Stiamo perdendo la nostra fede cristiana, la nostra cultura, e una nuova fede la sta soppiantando, l'islam. E' il momento di parlare e agire. E' la perdita della pratica cristiana, debolissima, per cui la gente non si relaziona più in nome di una cultura comune, ma di una cultura pop. Molti laici non comprendono questo a causa della illusione della prosperità e della sicurezza. Ma la religione è parte della condizione umana".
  Lo ha detto anche il cardinale Béchara Boutros Raì, Patriarca di Antiochia dei maroniti: "I musulmani sono convinti che conquisteranno l'occidente, anche quelli fra loro che non sono jihadisti o estremisti. Gliel'ho sentito dire molte volte: 'Conquisteremo l'Europa con la fede e con la fecondità'. Quando vengono in Europa e vedono le chiese vuote, immediatamente pensano che loro riempiranno quel vuoto". Forse è questo che deve aver pensato anche Salman Abedi, prima di macellare ventidue adolescenti.

(Il Foglio, 27 maggio 2017)


Germoglio di speranza per Israele in una selva di dubbi

La visita del presidente degli Stati Uniti scatena pareri contrastanti tra scetticismo e potenzialità imprevedibili.

di Maurizio Ribechini

Il Jerusalem Post ha pubblicato un ampio resoconto della visita in #Israele effettuata dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump ed emergono luci e ombre. Il quotidiano riferisce che Trump ha rassicurato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in merito agli sforzi americani per impedire che l'Iran si doti di una bomba nucleare, ha ribadito che senza contrasto al terrorismo non ci sarà pace e ha commemorato i sei milioni di vittime dell'#Olocausto rendendo omaggio all'ente nazionale per la memoria della Shoa Yad Vashem, ma sembra scansare i temi più caldi.

 Strategia americana e israeliana a confronto
  Netanyahu apprezza che Trump non spinga in favore della soluzione dei due stati, come il predecessore Barack Obama, considerando il ruolo chiave esercitato da Hamas nell'influenzare le scelte politiche palestinesi in funzione antisraeliana, ma la speranza di un patto tra ebrei, cristiani e musulmani per costruire la pace stroncando il terrorismo islamista, sembra sia prioritaria nell'amministrazione americana, rispetto alla proposta di un piano di pace più concreto.
  Il premier israeliano non condivide però l'idea di Trump che auspica un accordo bilaterale diretto tra israeliani e palestinesi, a causa dei frequenti arroccamenti sulle rispettive posizioni. Di conseguenza, privilegia la tattica opposta per coinvolgere un certo numero di paesi arabi moderati a supporto dei negoziati, esercitando una "moral suasion", specie sui palestinesi, e forgiare un patto duraturo.

 Punti di contatto e nodi da sciogliere
  Il Jerusalem Post sottolinea lo scetticismo di molti in Israele sulle reali intenzioni saudite di seguire l'invito di Trump a cacciare i terroristi e far parte seriamente di una coalizione internazionale, ma si apprezza che il presidente abbia escluso un'azione diretta statunitense per forzare le tappe, considerando che la trattativa israelo-palestinese deve svilupparsi in ambito mediorientale.
  Il quotidiano israeliano sottolinea però che Netanyahu e il presidente dell'autorità nazionale palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) non sono così pronti a fare la pace come Trump afferma. In effetti, i nodi da sciogliere restano molti, a partire dalla sicurezza, gli insediamenti in Cisgiordania e il controllo politico e militare di Hamas sulla striscia di Gaza.

 La svolta di Donald Trump al Muro del Pianto
  La giornalista e scrittrice ebrea Fiamma Nirenstein, inviata in Medio Oriente di lungo corso, offre una narrazione molto particolare della visita del presidente americano al Muro del pianto che definisce un gesto semplice ma rivoluzionario perché quel biglietto di preghiera, che tradizionalmente i fedeli inseriscono nel muro, non è solo un gesto rituale ma acquista significato politico se lo compie il primo presidente americano che si avventura in quella zona di Gerusalemme.
  Fiamma Nirenstein afferma che l'iniziativa di Trump può cambiare la storia mediorientale e forse quella del mondo, nonostante il presidente degli Stati Uniti abbia agito con la prudenza del caso, rinunciando all'accompagnamento di Netanyahu per sottolineare l'aspetto religioso ed evitare il riconoscimento esplicito della sovranità israeliana su Gerusalemme, città che le Nazioni Unite considerano oggetto di disputa dal 1967.
  In ogni caso, i discorsi di Trump hanno messo al centro Gerusalemme, cardine del patrimonio storico, religioso e culturale per il popolo ebraico.
  Nirenstein conclude sostenendo che il gesto di Trump è altrettanto rivoluzionario al pari della visita ai Sauditi con l'offerta al mondo arabo di una solida alleanza contro il terrorismo e nel contrasto alle mire espansionistiche iraniane. I due aspetti sono quindi strettamente legati e forse possono gettare le basi di un terreno comune nella lotta al terrorismo, con l'avvio di un processo di pace realistico per l'intera area anche se ancora tutto da definire.

(blastingnews, 26 maggio 2017)


Mara Carfagna in missione nella Striscia di Gaza

A faccia a faccia con il "mostro islamico"

 
Mara Carfagna
Il dramma di Israele e della Palestina l'ha visto in faccia, Mara Carfagna, nella lingua di terra più calda del mondo. La big di Forza Italia ha indossato di nuovo i panni della reporter per il Tempo e ha trascorso alcuni giorni nella Striscia di Gaza, il luogo in cui i musulmani palestinesi alimentano il loro odio per gli ebrei e gli israeliani imparano a difendersi con le unghie e con i denti. "I leader di Hamas non vogliono un deserto senza alberi, ma senza ebrei", le spiega un abitante locale, mentre a Gaza, scrive la Carfagna, "i bambini imparano già sui libri di scuola che Israele è un nemico da abbattere".
Tra i tanti giovani israeliani arruolati nell'esercito per difendere la Patria ci sono tanti ragazzi e ragazze arrivati qui da altri Paesi. La Carfagna ne ha incontrate due, entrambe italiane, Lea Calderoni e Micol Debash. "Hanno deciso di arruolarsi e hanno ottenuto addirittura il più alto riconoscimento che lo stato ebraico riconosce ai suoi militari più valorosi". Sognano di lavorare nella cooperazione internazionale e nella sicurezza nazionale anti-terrorismo. "Oggi questa è casa nostra - le raccontano -. E se qualcuno minaccia di abbattere la tua casa, non stai lì a pensarci. Devi difenderla e basta". A chi accusa Israele di segregare gli arabi e i musulmani, la deputata forzista risponde con le parole di un ebreo di Tel Aviv: "Qui vivono tanti arabi (ce ne sono un milione e mezzo in tutto il Paese, ndr). Siedono in Parlamento, dirigono aziende, fanno i medici o gli avvocati. E ricevono gli stessi servizi degli israeliani, a cominciare dagli ospedali. Chi dice che qui c'è l' apartheid, non sa di che parla". La speranza ora si chiama Donald Trump: "Riavviare il processo di pace per garantire sicurezza e libertà, verso la costituzione di due Stati per due popoli. Questa è la grande sfida che attende Trump dopo gli anni bui di Obama", è l'auspicio della Carfagna.

(Libero, 26 maggio 2017)


Italia e Israele puntano sulla ricerca e tecnologia

ROMA - Una cooperazione già oggi intensa e proficua: nove laboratori congiunti, quasi 200 fra ricercatori, manager e imprenditori italiani che ogni anno prendono parte alle conferenze organizzate dall'Ambasciata italiana in Israele nei più svariati settori della scienza e della tecnologia, il 14% di medici israeliani che ha studiato o si è specializzato in Italia. Al primo dei due panel previsti per il convegno prendono parte: Stefano Dambruoso, Silvia Fregolent e Antonio Palmieri dell'Intergruppo Parlamentare 'Amici di Israele'; Olga Dolburt, ministro consigliere per gli affari economici e scientifici dell'Ambasciata di Israele; Francesco Nicoletti, direttore per l'innovazione e la ricerca del Ministero degli affari esteri e della cooperazione Internazionale. Il secondo panel vedrà gli interventi di: Mario Cunial, presidente della Cunial; Antonio Israel Artile Rooof, che in uno stabilimento nella regione del Negev produce tegole ad elevate prestazioni energetiche; Paola Vita-Finzi Zalman, professore emerito di Chimica organica all'Università di Pavia, membro dell'Associazione italiana Amici dell'Università di Gerusalemme; Maurizio De Rosa del Cnr, responsabile italiano del nuovo Laboratorio congiunto di ottica non lineare fra Cnr e Università di Tel Aviv; Paolo De Natale, direttore a Firenze dell'Istituto nazionale di ottica del Cnr; Mario Pagliaro, chimico e docente di nuove tecnologie dell'energia, che al Cnr di Palermo coordina un Gruppo di ricerca sulla nanochimica per lo sviluppo delle tecnologie della bioeconomia e dell'energia solare, in collaborazione anche con importanti scienziati israeliani.

(Prima Pagina News, 26 maggio 2017)


Galeazzi: "ad Ay dovrebbe piacere Israele..."

Questa domenica, ospite dello Swiss Israel Day, ci sarà l'ex ministra Israeliana Tzipi Livni, sul cui arrivo il Partito comunista (Pc) ha interrogato il Governo, chiedendo di "dichiarare Tzipi Livni persona non grata sul nostro territorio". Il granconsigliere Udc Tiziano Galeazzi ha risposto al granconsigliere Pc Massimiliano Ay, criticando il suo atto parlamentare e spiegando i motivi per cui l'ex ministra debba essere la benvenuta, e perché, secondo lui, anche ad Ay potrebbe piacere Israele...

 
                                    Tzipi Livni                                                                       Massimiliano Ay
Il prossimo 28 maggio a Lugano, in occasione dello Swiss Israel Day, promosso dall'Associazione Svizzera Israele, si svolgerà a Lugano una conferenza che avrà quale ospite l'ex ministro e parlamentare israeliana Tzipi Livni. L'arrivo della politica israeliana ha recentemente suscitato la disapprovazione del granconsigliere del Partito comunista Massimiliano Ay, che con un'interpellanza al Consiglio di Stato ha chiesto di "dichiarare Tzipi Livni persona non grata (probabilmente il segretario del Pc intendeva "persona non gradita", ndr) sul nostro territorio", poiché "la ex-ministra Livni era parte del consiglio di guerra di Tel Aviv durante l'aggressione militare israeliana alla Striscia di Gaza nell'inverno 2008/09".
   A rispondere ad Ay, con un post pubblicato su Facebook, era stato fra glia altri il granconsigliere Udc Tiziano Galeazzi, che aveva dichiarato che lui alla conferenza avrebbe presenziato. "Parteciperò", ci dice Galeazzi, "prima di tutto perché sono stato invitato, come lo sono stati probabilmente altri deputati, e perché mi interessa sempre sentire, sapere e conoscere". "Mi è dispiaciuto", ci dice il granconsigliere, "che un parlamentare, seppur di un'area molto chiara, interroghi il Consiglio di Stato per un evento che da quanto ne so, nasce da un invito privato. Il ministro Livni può essere criticata, come altre leader mondiali, ma è comunque una persona e va rispettata".
   Tiziano Galeazzi, che precisa che esprime la sua posizione a titolo strettamente personale, e non per il partito in cui milita, ci dice che non parteggia "né per Israele, né per la Palestina". "Credo che quello israelo-palestinese sia un conflitto che è da 2000 anni che sussiste, in cui non si è mai riusciti a trovare un'intesa". "Sappiamo che Israele, a differenza della Palestina", dichiara Galeazzi, "è riuscito dal nulla a creare uno Stato, mentre dall'altra parte non è stato così. Sappiamo anche che la Palestina è sotto il giogo di altre nazioni che non vedono di buon occhio, e che da questi Paesi è stata utilizzata come una sorta di 'fanteria'". Israele tuttavia, facciamo notare noi, è il Paese con più risoluzioni di condanna da parte dell'Onu. "Bisognerebbe vedere quali altre nazioni che hanno commesso dei crimini non hanno mai ricevuto delle sanzioni", ci risponde Galeazzi. "Il mondo è pieno di guerre e ci sono molte altre nazioni su cui nessuno ha mai detto nulla. Ricorderei inoltre ad Ay che la massima applicazione del socialismo in termini pratici sono i Kibbutz della comunità ebraica".
   Ma non pensa Galeazzi che parte dell'ostilità verso l'Occidente del mondo islamico sia dovuta anche al conflitto israelo-palestinese, gli chiediamo. "Addebitare le colpe ad Israele a mio giudizio non è corretto", ci dice. "Fino ad oggi non c'è stato un attentato dell'Isis in Israele. L'Isis combatte l'Occidente in territorio europeo. Probabilmente hanno capito che con Israele non possono alzare troppo la cresta. Il terreno molle l'hanno trovato in Europa, con le nostre politiche migratorie e con le nostre politiche troppo permissive".

(Ticino Today, 26 maggio 2017)


Albania: L'importanza della "besa" e i precetti del Kanun

di Stefania Morreale

Norman H. Gershman (a sin.)
La besa rappresenta uno dei principi cardine del Kanun, il più importante codice consuetudinario albanese. Il lemma besa potrebbe essere tradotto in 'parola d'onore' o 'promessa' o ancora 'parola data'. In realtà si tratta di un termine così strettamente legato al contesto all'interno del quale è nato e si è diffuso, da non poter essere trasposto in maniera chiara in nessun'altra lingua.
   Per gli albanesi besa ha un significato molto preciso: non si tratta di una semplice promessa, ma piuttosto di una garanzia di veridicità, un comportamento attraverso il quale chiunque voglia liberarsi da un debito, deve dare un segno di fede, chiamando il Signore a testimonianza della verità' (Kanun, III capitolo). Se si considera che la società albanese è stata una società regolata dall'oralità, che ha tramandato oralmente le proprie regole invece di affidarsi alla scrittura, è facile immaginare quanto peso doveva avere la parola data. Soprattutto nei piccoli villaggi tra le montagne del nord dell'Albania, la besa aveva e ha tutt'oggi un grande valore; si tratta di una parola irrevocabile che presuppone l'assumersi un impegno che dovrà essere portato a termine ad ogni costo.
   Il concetto di besa, indissolubilmente legato ad un alto senso dell'onore e della giustizia umana, può trascendere le leggi statali o religiose. Grazie a questo codice morale l'Albania ha salvato numerosi ebrei durante l'Olocausto e gli albanesi sono stati insigniti del titolo di 'Giusti delle Nazioni'. Al legame tra besa e deportazione ebraica si è ispirata la mostra fotografica di Norman H. Gershman, allestita per la prima volta nel 2008. Il fotografo americano, che per cinque anni è stato in Albania recuperando le testimonianze del salvataggio di duemila ebrei, ha ripercorso un viaggio nella memoria attraverso i suoi suggestivi scatti.
   L'idea di besa è così presente all'interno del sentire comune albanese che compare in diverse fiabe popolari, che ne spiegano al meglio l'importanza e il significato. La più famosa tra queste storie è quella che vede come protagonista la famiglia Vranaj, composta da una madre vedova, una figlia (Doruntina) e nove fratelli (tra cui uno, il più piccolo, di nome Costantino). La storia racconta del matrimonio di Doruntina, voluto dal fratello Costantino, con un uomo che viveva molto lontano dalla madre della ragazza. L'anziana vedova fa promettere al figlio che ogni volta in cui sentirà il bisogno di vedere Doruntina, lui gliela riporterà. In realtà poco dopo Costantino e i suoi fratelli moriranno in una sanguinosa battaglia. La madre allora maledice il giovane figlio, ricordandogli di non aver tenuto fede alla sua besa. Dopo questo rimprovero, Costantino uscirà dalla tomba e riporterà Doruntina dalla anziana madre.
   Il noto scrittore albanese Ismail Kadare si ispira a questo racconto popolare per scrivere 'Chi ha riportato Doruntina?', romanzo giallo che narra delle indagini del Capitano Stres, incaricato di trovare chi ha riportato la fanciulla dalla madre. Al termine delle indagini Stres affermerà: "Ecco perché affermo e ribadisco che Doruntina non è stata riportata da altri che dal fratello Costantino, in virtù della parola data, della sua besa. Quel viaggio non si spiega né potrebbe spiegarsi altrimenti […] Ciascuno di noi ha la sua parte in questo viaggio, perché la besa di Costantino, colui che ha riportato Doruntina, è germogliata qui fra noi. E dunque, per essere più precisi, si può dire che, attraverso Costantino, siamo stati noi tutti, voi, io, i nostri morti che riposano nel cimitero accanto alla chiesa, a riportare Doruntina."

(East Journal, 26 maggio 2017)


Italia-Israele: guidati dal futuro

 
Si terrà la mattina di martedì 30 maggio presso la Sala 'Aldo Moro' di Montecitorio il convegno 'Italia-Israele: Guidati dal futuro'. Organizzato dall'Intergruppo Parlamentare per l'Innovazione su iniziativa dell'on. Antonio Palmieri, il convegno si propone di offrire uno sguardo orientato al futuro della cooperazione scientifica e tecnologica fra i due paesi, attraverso la testimonianza di ricercatori, rappresentanti dell'imprenditoria, parlamentari e funzionari diplomatici. Una cooperazione già oggi intensa e proficua: nove laboratori congiunti, quasi 200 fra ricercatori, manager e imprenditori italiani che ogni anno prendono parte alle conferenze organizzate dall'Ambasciata italiana in Israele nei più svariati settori della scienza e della tecnologia, il 14% di medici israeliani che ha studiato o si è specializzato in Italia.
   Al primo dei due panel previsti per il convegno prendono parte: Stefano Dambruoso, Silvia Fregolent e Antonio Palmieri dell'Intergruppo Parlamentare 'Amici di Israele'; Olga Dolburt, ministro consigliere per gli affari economici e scientifici dell'Ambasciata di Israele; Francesco Nicoletti, direttore per l'innovazione e la ricerca del Ministero degli affari esteri e della cooperazione Internazionale. Il secondo panel vedrà gli interventi di: Mario Cunial, presidente della Cunial; Antonio Israel Artile Rooof, che in uno stabilimento nella regione del Negev produce tegole ad elevate prestazioni energetiche; Paola Vita-Finzi Zalman, professore emerito di Chimica organica all'Università di Pavia, membro dell'Associazione italiana Amici dell'Università di Gerusalemme; Maurizio De Rosa del Cnr, responsabile italiano del nuovo Laboratorio congiunto di ottica non lineare fra Cnr e Università di Tel Aviv; Paolo De Natale, direttore a Firenze dell'Istituto nazionale di ottica del Cnr; Mario Pagliaro, chimico e docente di nuove tecnologie dell'energia, che al Cnr di Palermo coordina un Gruppo di ricerca sulla nanochimica per lo sviluppo delle tecnologie della bioeconomia e dell'energia solare, in collaborazione anche con importanti scienziati israeliani.
   "I risultati della collaborazione scientifica fra Italia ed Israele sono tanto rilevanti quanto poco noti", dice l'on. Palmieri. "Con questo incontro fra l'altro li vorremmo diffondere anche al di fuori della comunità scientifica". "Nella lunga e proficua collaborazione scientifica tra Italia e Israele il Cnr ha un ruolo di primo piano - afferma il presidente del Consiglio nazionale delle ricerche, Massimo Inguscio. "Molte delle nostre migliori ricercatrici e molti dei nostri migliori ricercatori, che lavorano presso diversi istituti del Cnr presenti sul territorio, hanno vinto bandi e attratto finanziamenti europei per laboratori e progetti congiunti con i colleghi delle università e centri di ricerca in Israele, in aree fondamentali per la salute delle persone e dell'ambiente, nel campo dell'innovazione. Si va dalle neuroscienze all'ottica non lineare, in temi di qualità alimentare, alle tecnologie per la protezione dell'acqua e il suolo, alla cyber security, alla farma-genetica. In particolare nel quadro dei bandi accademici, il Cnr risulta l'Ente di ricerca italiano con il maggior numero di progetti finanziati con Israele negli ultimi tre anni".
   La partecipazione alla Giornata di studi è libera e gratuita. Per partecipare occorre registrarsi online alla pagina web eventbrite.it

Per informazioni:
Mario Pagliaro
Istituto per lo studio dei materiali nanostrutturati, Ismn-Cnr Palermo
mario.pagliaro@cnr.it

(Consiglio Nazionale delle Ricerche, 26 maggio 2017)


Il 78 per cento degli israeliani non crede alla pace, ma vuole la ripresa dei negoziati

GERUSALEMME - Circa il 78 per cento dei cittadini israeliani crede che non esista alcuna possibilità di raggiungere un accordo di pace definitivo con i palestinesi, nonostante gli sforzi profusi dal presidente statunitense Donald Trump: lo rivela un sondaggio effettuato dal quotidiano israeliano "Maariv". Solo il 18 per cento pensa che sia possibile raggiungere un accordo, mentre il 4 per cento ancora non si sbilancia. Il sondaggio è stato effettuato su un campione di 542 adulti israeliani, con un margine di errore statistico del 4,3 per cento. Anche tra gli israeliani che si definiscono di sinistra, solo il 21 per cento ha dichiarato di ritenere possibile un accordo di pace, mentre il 76 per cento sostiene che non vi sia alcuna possibilità e il 3 per cento non sa rispondere. Nonostante lo scetticismo sul successo dei negoziati, la maggior parte degli israeliani vuole che i colloqui riprendano: il 58 per cento afferma di essere favorevole, il 33 per cento si oppone e il 9 per cento sostiene di non sapere. Alla domanda se il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu sia obbligato a raggiungere un accordo diplomatico con i palestinesi, gli intervistati si sono divisi: il 46 per cento si è detto a favore, il 46 per cento non ha saputo rispondere, mentre l'8 per cento si è detto contrario.

(Agenzia Nova, 26 maggio 2017)


Tra le nuove generazioni d'Israele. Attese e sogni al confine con Gaza
      Articolo OTTIMO!


Il reportage di Mara Carfagna. «Nella lotta al terrorismo speriamo in Trump».

Le italiane arruolate
«Questo Paese ci ha accolto. È nostro dovere difenderlo»
L'alta natalità
«Si fanno tanti figli perché ognuno ha subito lutti improvvisi»

di Mara Carfagna

La strada che da Tel Aviv porta a Sderot è un esempio di quell'efficienza israeliana che, in meno di un secolo, è riuscita a costruire infrastrutture all'avanguardia dove prima c'era il deserto. E pare incredibile che al posto della terra arida e brulla, quella che agli occhi di De Amicis appariva come una landa desertica e paludosa, ci siano oggi coltivazioni rigogliose, campi fioriti, palme e alberi di ogni genere.
  Arrivati a Sderot, a fare da padrone di casa è un ufficiale dell'esercito israeliano che nel 2002, dopo sette anni in Cile, è ritornato in Israele ed è diventato vicesindaco di questa cittadina al confine con Gaza. «Era mio dovere ritornare per dare speranza al mio popolo»,
  Da lontano si intravede benissimo quella striscia di terra da cui nel 2005 gli israeliani furono fatti evacuare su decisione di Ariel Sharon, nella speranza che questo potesse aiutare gli accordi di pace. Ma la storia purtroppo ci racconta che servì a poco. «I leader di Hamas (che governa la striscia di Gaza) non vogliono un deserto senza alberi, ma senza ebrei», ci racconta Shai mentre ci indica una valle desolata che fino a qualche anno fa era talmente ricca di vegetazione da rendere impossibile la vista di Gaza.
  I kibbutz che arrivano quasi fino al valico di Erez sono circondati da filo spinato e difese elettroniche per scongiurare il rischio di assalti e da lontano è facile intravedere un muro alto sette metri che separa Israele da Gaza, costruito dopo che «dalla Striscia i missili venivano puntati direttamente sulle scuole e sugli asili».
  E mentre i bambini a Gaza imparano già sui libri di scuola che Israele è un nemico da abbattere, i bambini israeliani imparano l'importanza di servire la Patria e difenderla da chi in tutti questi anni ha provato a cancellarla dalle cartine geografiche.
  Accanto a loro, anche tanti stranieri e tanti italiani che, arrivati in Israele per un periodo di vacanza, per studiare o lavorare, restano affascinati da questo Stato giovane, dinamico e accogliente e sentono il dovere di arruolarsi per difendere il diritto a esistere della Nazione che li ha accolti come figli.
  Lea e Micol sono due ragazze italiane che, arrivate in Israele per completare un percorso di studi, hanno deciso di arruolarsi e hanno ottenuto addirittura il più alto riconoscimento che lo stato ebraico riconosce ai suoi militari più valorosi.
  Hanno gli occhi di chi ha vissuto quella che definiscono un'esperienza indimenticabile, ma faticosa. «L'addestramento dura tre mesi ed è una palestra di vita. Sveglia all'alba, flessioni e solo un'ora al giorno per mangiare, farsi la doccia e parlare con i propri cari». Lea oggi studia Business all'Idc di Herzliya, Tel Aviv, sperando di lavorare un giorno nell'ambito della cooperazione internazionale. «Il servizio militare mi ha fatto capire molte cose su me stessa e che direzione prendere nel futuro» racconta Lea, che ha avuto la responsabilità di comandare, in diverse basi militari, gruppi di volontari provenienti da tutto il mondo.
  Micol, invece, è ancora in servizio e terminerà tra pochi mesi. Arrivata in Israele per fare un tirocinio in un giornale israeliano, sogna di continuare a occuparsi di difesa e sicurezza nazionale e inizierà un master in sicurezza e controterrorismo all'Idc di Herzliya. Le guardi, due facce belle e solari, e ti chiedi cosa le abbia spinte a indossare una divisa dell'esercito israeliano per due anni. «Oggi questa è casa nostra. E se qualcuno minaccia di abbattere la tua casa, non stai lì a pensarci. Devi difenderla e basta». Servire la Patria è una missione per tutti i figli legittimi o adottivi di questa terra. «Mio figlio Nassim partirà tra sei mesi, ma noi non siamo preoccupati, anzi, siamo orgogliosi di questo» dice David, che dalla Francia si è trasferito in Israele nel 2010, con moglie e quattro figli, sull'onda di quell'antisemitismo che ha costretto molti ebrei in Europa e soprattutto in Francia a fare l'aliya (il ritorno in Israele). «Noi vogliamo vivere in pace, abbiamo subito guerre di aggressione sin dal 1948, ogni volta ci siamo difesi e siamo riusciti a sopravvivere, nonostante volessero annientarci. A Tel Aviv vivono tanti arabi (ce ne sono un milione e mezzo in tutto il Paese, ndr). Siedono in Parlamento, dirigono aziende, fanno i medici o gli avvocati. E ricevono gli stessi servizi degli israeliani, a cominciare dagli ospedali. Chi dice che qui c'è l'apartheid, non sa di che parla».
  In effetti, non è difficile imbattersi per le strade di Tel Aviv in donne con il velo islamico. «Per noi è normale. Qui vivono ebrei, musulmani e cristiani. Questo Paese accoglie tutti e anche l'ultimo arrivato ha opportunità che in Italia si sognerebbe» racconta Alan, arrivato due anni fa con moglie e due bambine. «Mia moglie vorrebbe almeno altri due figli, dice che rispetto alle famiglie numerose che ci sono qui, siamo sotto la media».
  Viene da chiedersi come mai qui si facciano così tanti bambini. E i sussidi che il governo riconosce per ogni figlio, indipendentemente dal reddito, così come i tanti spazi verdi attrezzati per loro, non possono essere l'unica spiegazione. «No, qui si fanno tanti figli perché in tante famiglie si piange il lutto di chi è morto per difendersi dal terrorismo», Tutto questo mentre Donald Trump sceglie proprio Israele come prima tappa al suo esordio sulla scena internazionale. «Speriamo che Trump ci dia una mano. Non è possibile che dopo settant'anni ci sia ancora qualcuno che vuole cancellarci dalla faccia della Terra», dice Sassi, di origine libica, residente qui da più di quarant'anni.
  Riavviare il processo di pace per garantire sicurezza e libertà, verso la costituzione di due Stati per due popoli. Questa è la grande sfida che attende Trump dopo gli anni bui di Obama. «È un'intesa difficile» ha detto il presidente americano «ma alla fine ci arriveremo». Questo è il messaggio di speranza che Micol, Lea, Alan, Nassim e tutti quelli come loro vogliono ascoltare. Perché per loro, servire il Paese significa costruire la pace, non preparare la guerra.

(Il Tempo, 26 maggio 2017)


Chi salvare? O cosa? La lezione del rabbino durante l'alluvione

Un ricordo del 1966

di Adam Smulevich

 
Fernando David Shlomò Belgrado
«Quando ho visto che l'acqua cresceva, da ebreo mi sono posto il problema se prima dovevo salvare la Torah, la Legge, oppure i miei figli. Però ho avuto un istinto primario e ho salvato i rotoli. Dio mi ha illuminato, e mi ha dato la forza per salvare anche i miei figli». Novembre 1966. Nella città colpita al cuore dall'alluvione, le parole pronunciate dal più esperto rabbino aprono la mente del giovane viceparroco di San Salvi, che lo incontra nel giardino della sinagoga. Il viceparroco era Gualtiero Bassetti, da mercoledì guida dei vescovi italiani. Quelle parole gli sono rimaste cucite addosso. La traccia viva, ha detto incontrando i giornalisti in Vaticano, «di un uomo di eccezionale spiritualità». Quell'uomo, quel Maestro, si chiamava Fernando Belgrado. Nato a Firenze nel 1913, ne fu a lungo rabbino capo e in questa veste fu anche un simbolo del commovente tentativo di salvataggio intrapreso dalla Comunità ebraica per sottrarre il proprio patrimonio, sia liturgico che documentale, alla devastazione. In prima linea, in quell'azione di soccorso, c'era proprio lui. Stanco, stravolto, lo sguardo provato dall'incessante lavoro fisico. Ma, raccontano testimoni dell'epoca, mai piegato del tutto. Molto andò perduto, con l'alluvione. Tra gli altri diversi rotoli della Torah, poi seppelliti nel cimitero ebraico. Ma se tanto pure fu salvato, lo si deve al suo esempio. L'esempio di un uomo che aveva già dato prova di saper superare ostacoli e diversi livelli di emergenza. Nei giorni delle retate antiebralche, Belgrado è infatti al fianco dell'allora rabbino capo Nathan Cassuto (poi deportato nei campi di sterminio, da cui non farà ritorno) nella rete di assistenza clandestina ai perseguitati. Sarà poi lui, nell'agosto del '44, a riaprire i luoghi e le istituzioni della Firenze ebraica. Già vicerabbino con Cassuto, con la vacanza della cattedra assume quindi le funzioni di rabbino capo. Lascerà l'incarico nel 1978, restando fino alla morte (avvenuta nel 1998) un punto di riferimento per tutti gli iscritti.

(Corriere Fiorentino, 26 maggio 2017)


«Uccisero capo di Hamas»

Messi a morte a Gaza i tre palestinesi accusati

GAZA CITY - In un'installazione di Hamas a Gaza ieri sono state eseguite, davanti un folto "pubblico" di "invitati", le condanne a morte di tre palestinesi giudicati responsabili dell'uccisione, a marzo, di un comandante militare di Hamas, Mazen Fuqaha, che aveva scontato una lunga detenzione in Israele. Uno dei condannati è stato impiccato, mentre gli altri due sono stati fucilati da un plotone di esecuzione. I tre palestinesi, che secondo Hamas hanno agito per conto di Israele erano stati condannati a morte dopo che - secondo la versione ufficiale - avevano confessato le proprie responsabilità.
   Alle esecuzioni hanno assistito un migliaio di persone, fra cui i familiari di Fuqaha e dei tre condannati (di cui non sono state divulgate ufficialmente le generalità), nonché alti ufficiali, funzionari e giornalisti. Nei giorni scorsi i condannati avevano chiesto, ma invano, che le esecuzioni fossero rinviate fino al termine del Ramadan, ormai imminente.
   Una Ong locale, "PchrGaza", ha denunciato il fatto che le condanne a morte sono state emesse (il 21 maggio) dalla "Corte militare Al Maydan" dopo sole quattro udienze, che si sono concluse nel giro di una settimana. I tre condannati, secondo "PchrGaza", non hanno dunque avuto la possibilità di difendersi in maniera adeguata. Un documento di forte critica a queste condanne è stato emesso nei giorni scorsi anche dalle rappresentanze a Gerusalemme e a Ramallah dell'Unione Europea.
   Intanto, Hamas ha indetto per oggi in Cisgiordania una "Giornata di collera" contro Israele in sostegno con lo sciopero della fame ad oltranza intrapreso il 17 aprile scorso - su iniziativa del dirigente di al-Fatah Marwan Barghouti - da un migliaio di palestinesi reclusi in Israele per reati legati all'Intifada. Hamas ha fatto appello ai palestinesi della Cisgiordania a «scontrarsi con gli occupanti israeliani». (R.E.)

(Avvenire, 26 maggio 2017)


Oltre ad Avvenire, questa notizia è stata riportata in poche righe soltanto dal Corriere della Sera, senza nessun commento. Ovviamente. Perché Hamas non si discute. Ad Hamas non si chiede niente. Da Hamas non si pretende niente. Ad Hamas non si rinfaccia niente. Hamas è. Hamas non è mai colpevole, non può per sua natura essere colpevole. Per i benpensanti di sinistra Hamas è come la grandine e Netanyahu è come il governo. Si può accusare la grandine di qualcosa? Ovviamente no. Si può accusare il governo per non aver saputo limitarne i danni? Ovviamente sì. Si cerchino dunque le colpe del governo di Netanyahu. Qualcuno certamente le troverà. M.C.


Saluzzo ebraica, il giorno del ricordo

La sinagoga di Saluzzo
Commosso ricordo questa mattina, nella sinagoga di Torino, al termine della preghiera mattutina dello Shachrit, degli ebrei saluzzesi deportati nei campi di sterminio. L'ultimo gruppo partì da Fossoli il 16 maggio del 1944, allora Rosh Chodesh Sivan (il primo giorno del mese ebraico di Sivan, come oggi).
Gli ebrei deportati da Saluzzo furono 30, 29 uccisi ad Auschwitz. "Tornò, unica dai lager, con il corpo e l'anima piagati, Natalia Tedeschi, sopravvissuta ad una via crucis tremenda attraverso Birkenau, Bergen Belsen, Dessau, Terezienstadt, suo fratello Vittorio aveva perso la vita a Mauthausen il 25 aprile 1945, mentre tendeva la mano alla libertà" ha scritto la storica Adriana Muncinelli.
Fu una pagina terribile per una piccola Comunità quale quella saluzzese che rimase letteralmente distrutta e piegata dalla furia nazista: un tributo enorme se si pensa che il nucleo ebraico nella città contava una cinquantina di membri all'inizio della guerra.
Nel dopoguerra si consumerà il declino della Comunità con la caduta in disuso dal 1964 della sinagoga, il cui patrimonio librario fu trasferito nel 1983 all'Archivio Terracini di Torino. Resta a Saluzzo, oltre alla splendida sinagoga ottocentesca, restaurata di recente, un cimitero ebraico, acquistato nel 1795 e nel quale furono trasportate anche le vecchie lapidi di due precedenti cimiteri.

(moked, 26 maggio 2017)


Delera e la solitudine degli ebrei di sinistra

di Goffredo Fofi

Poche sere fa, nella Casa della cultura di Milano, si sono radunati diversi amici per ricordare un giornalista molto amato, morto due anni fa. Roberto Delera è stato in gioventù un militante di Lotta continua che, per la militanza (soprattutto in Sicilia) rinunciò a proseguire gli studi e si laureò già adulto, mentre si occupava di esteri al Corriere della sera. Non ha scritto molto, fuori dal mestiere, ma la sua tesi, che si spera di veder presto pubblicata e di cui nella serata in questione erano stampate copie destinate agli amici, mi è parso un testo appassionante e attualissimo. Il tema: «La solitudine degli ebrei di sinistra in Italia, dal dopoguerra all'attentato a Rabin», il titolo: L'asinello di Elisha, da un testo di Martin Buber presente nel Midrash che vale la pena di citare: un rabbi «pilastro dell'ortodossia, aveva per maestro di teologia un eretico» noto come Asher, che significa "lo straniero". Discutono muovendosi l'eretico in groppa un asino e il rabbi, essendo sabato, a piedi, fino a un confine che gli osservanti non potevano attraversare nel giorno di festa, ma l'eretico prosegue, lo attraversa. Questo aneddoto appassionò Isaac Deutscher e di esso hanno scritto Arnaldo Momigliano e Alberto Cavaglion. Delera parla dell' «uomo di frontiera che rompe con il passato, dell'ebreo che supera la tradizione e che s'incammina a esplorare nuovi orizzonti». Roberto non era ebreo, ma aveva sposato un' ebrea e ha avuto di conseguenza un figlio ebreo. La sua tesi si sofferma soprattutto su due episodi cruciali per la storia degli ebrei post-Shoah: la "guerra dei sei giorni" (1967) che vide il trionfo di Israele ma anche la crisi e fine della speranza sionista, di uno stato socialista, e l'uccisione di Rabin, fautore della pace con i palestinesi e dell'incontro tra i due popoli, per mano di un giovane fanatico ebreo (1995). La solitudine degli ebrei di sinistra (ben rappresentata dal gruppo italiano che prese il nome da Martin Buber) e che al fondo di un libro recente di Enzo Traverso (Feltrinelli) che si interroga sul ruolo fondamentale avuto dagli intellettuali ebrei nella storia delle sinistra, un ruolo caduto in crisi con l'avvento dello stato di Israele, ha una lunga storia che Delera ricostruisce con ammirevole precisione e misura, con la sapienza dello storico vero e originale. La solitudine di cui parla, è stato detto da Luigi Manconi e Gad Lerner nella serata che lo ha ricordato, non è affatto diversa oggi da quella di chi «non ha sbrigativamente voltato le spalle ai valori in cui aveva creduto».

(Avvenire, 26 maggio 2017)


Israele: non solo storia e spiritualità, ma anche mare e relax.

Eilat, con la sua posizione sul Mar Rosso è una delle località balneari più esclusive del Medio Oriente. Ingresso gratuito in tutte le spiagge e grande rispetto dell'ambiente.

di Carlo Sacchettoni

 
 
 
Eilat
Con 360 giornate di sole all'anno e quasi tre milioni di visitatori in tutte le stagioni, Eilat è una vivace cittadina balneare che conta 12.500 camere nei suoi hotel di ogni livello, 150 ristoranti e una ventina di spiagge perfettamente attrezzate. Oltre ad essere un paradiso per gli amanti del mare e del divertimento, Eilat è molto conosciuta per la sua ricca offerta di attività, svago ed escursioni. La sua posizione a metà fra il deserto e il mare e il suo habitat naturale si prestano a numerose attività turistiche e sportive, nei dintorni, in mare e anche sott'acqua. Molte sono le attività sportive acquatiche che vi si possono praticare: kayak, windsurf, sci nautico. Tutte offerte dai prezzi molto accessibili che rendono la vacanza esclusiva. Per i più dinamici, è da provare una lezione di moto d'acqua o un'immersione, per esempio seguendo un corso nello splendido centro ubicato all'interno dell'hotel Yam Suf, proprio il luogo dove è nata la tradizione che consente di ottenere il brevetto Padi.
   Il Mar Rosso, così invitante, consentirà a chiunque lo desideri ed abbia i minimi requisiti fisici di conseguire questo brevetto in breve tempo e in tutta sicurezza. Per chi invece ama la vita comoda, ci sono crociere nei luoghi vicini della durata di due ore, adatte alle famiglie o romantici tour privati in barca, perfetti per le coppie innamorate.
   Ci sono poi anche altri modi per godersi la città. Tra le altre attività più popolari all'aria aperta, spiccano i tour sui quattro ruote, le escursioni in quad e gli eventi culturali, come il Red Sea Jazz Festival, un importante festival internazionale di jazz che si svolge dal 27 al 30 agosto 2017. Il programma completo è online. Tre delle principali attrazioni di Eilat da non perdere, ci sono la Marina di Eilat: una bellissima spiaggia con ottimi ristoranti, bazar di sera e un'atmosfera vivace. La Coral Beach Natural Reserve: una barriera corallina lunga 1200 metri popolata da numerose specie di pesci, coralli e altre forme di vita marina da ammirare durante le immersioni o facendo snorkeling, noleggiando le attrezzature in loco.
   E infine, il Giardino Botanico di Eilat, con cascate e altalene in legno: perfetto per i più piccoli. Agli amanti del deserto, Eilat offre la possibilità di fare escursioni al tramonto, sui cammelli, gite in fuoristrada e camminate. La cittadina è rinomata per l'elevata qualità dei servizi e per la grande varietà di sistemazioni, adatte per tutte le tasche dei viaggiatori: dalle piccole pensioni più economiche fino agli hotel più eleganti.
   La balneazione non comporta costi aggiuntivi e questo è un vantaggio unico al mondo e premiati con la Bandiera Blu da parte della FEE, la Foundation for Environmental Education, l'ente preposto alla verifica della eccellenza ambientale. Tra le spiagge prescelte possono essere ricordate, tra le altre, quella di Hukuk; la spiaggia Dado ad Haifa; Chanz, Onot, Amfy, Herzl, Sironit Nord, Sironit Sud, Laguna-Argaman e le spiagge Poleg a Netanya; le spiagge Metzizim e Gerusalemme a Tel Aviv; la spiaggia HaKachol a Rishon Lezion; Mei Ami, Oranim, Lido, Kshatot, Yod Alef, Riveria ad Ashdod e la Hash'hafim Beach a Eilat. Anche i porti turistici di Herzeliya e di Tel Aviv sono stati premiati da EcoOcean con la Bandiera Blu.
   Le spiagge di Netanya e Herzliya sono dotate di ascensori per l'accesso al mare sotto le scogliere. Per la conservazione dell'ambiente e nel pieno rispetto della natura, non sono ammesse né moto d'acqua né barche in prossimità delle rive, e non è consentita la circolazione con veicoli a motore sulle spiagge e sul lungomare, così come l'accensione di falò. La balneazione è vietata qualora non sia presente un bagnino o la bandiera nera sia stata issata.
   Ci sono 13 spiagge lungo la costa di Tel Aviv-Jaffa, con oltre 8 milioni di bagnanti che si godono ogni anno le rive sabbiose e l'acqua pulita. Ci sono quattro spiagge con accessi speciali per le persone con disabilità: Tzuk, Tzuk Nord, Metzizim e Hilton, tutte nella parte settentrionale della città. Tel Aviv-Jaffa vanta un tratto di 8,7 miglia con ampie vedute, orizzonti blu, spiagge di sabbia bianca attrezzate con ombrelloni e lettini, ristoranti, palestre all'aperto, giochi per bambini e una passeggiata sul lungomare percorsa continuamente da chi desidera camminare, correre o semplicemente godersi dei paesaggi. Le spiagge della città sono ben equipaggiate con spogliatoi, docce e servizi igienici e non c'è pericolo di annoiarsi.

(Turismo Informazioni, 26 maggio 2017)


Adebi, strana parabola. Ministeri, ambasciate e i legami con gli ebrei

Il clan uno dei più noti della Cirenaica. Sempre conservatori, mai estremisti.

di Daniel Mosseri

Alcuni membri della famiglia avevano preso da tempo le distanze da Salman Abedi, il 22enne di origine libica responsabile della strage di Manchester. Nelle ore successive all'esplosione suo padre e un fratello sono stati arrestati con l'accusa di essere affiliati all'Isis. Intanto è iniziata la corsa sui giornali a prendere le distanze dagli Abedi, indicati come «molto religiosi» poiché originari di Derna, sulle Montagne Verdi, «una delle zone più conservatrici della Cirenaica». Conservatori non significa estremisti: al contrario, con re Idris al-Senussi (1951-'69) prima, e con Muammar Gheddafi ('69-2011) poi, gli al-Abedi si sono distinti come servitori dello Stato.
   Lo ricorda qualcuno che li conosce da tempo. «Quando il capo dei capi della tribù, Alì Pascia Abedi, morì, mio padre inviò un telegramma di condoglianze al figlio». Lo racconta al Giornale Samuel Zarrugh, ebreo libico bengasino che ha lasciato il suo Paese natale nel 1967, sull'onda dei pogrom riesplosi in Libia dopo la Guerra dei Sei Giorni. Il telegramma, della fine degli anni '50, è la prova dei rapporti rispettosi che esistevano fra la tribù e la comunità ebraica della Cirenaica: un concetto lontano anni-luce dal fanatismo dell'Isis e degli estremisti islamici in genere. Quella degli «Abeidat» - questo il nome arabo della tribù - non era l'eccezione che conferma la regola: «La loro non era forse la più importante, ma di certo la tribù più numerosa della Cirenaica». Alla morte di Alì Pascià, il figlio Hamed assunse la leadership degli Abeidat, continuando a servire il sovrano islamico moderato, aperto all'Occidente. Fra i numerosi incarichi ricoperti da Hamed al-Abedi ci fu anche quello di ministro dell'Agricoltura. «Sarà stato il 1957 o il 1958, quando al-Abedi concesse a una famiglia ebraica bengasina il monopolio della produzione del vino rosé di Sussa Apollonia, imponendo una sola condizione: non venderlo a fedeli islamici». La regolare frequentazione fra ebrei e musulmani in Cirenaica non era invece monopolio di nessuno: anche Abdelhamid El Aabbar, capo degli Awaghir - premiato con la presidenza del Senato da re Idris per aver combattuto contro gli italiani - «era sempre ospite della famiglia Bidussa». Zarrugh, già presidente della comunità ebraica di Livorno, continua a coltivare l'antica amicizia e parla al Giornale dopo aver fatto gli auguri ai suoi amici libici di Manchester per l'inizio del Ramadan. «L'imbarazzo è grande, e grande la condanna nei confronti di questo ragazzo e della famiglia che non l'ha educato bene». La rete di contatti con la diaspora libica, ebraica o musulmana, intessuta da Zarrugh è fitta: «Anche i Barata sono contrariatissimi», racconta menzionando il nome di un'altra tribù di Cirenaica, il cui leader era stato capo della polizia sotto re Idris.
   Lo sguardo di Zarrugh sulla Libia copre anche tempi molto più recenti. Nel 2004, con altri ebrei libici in Italia, incontra a Perugia Saadi Gheddafi, terzo figlio del Colonnello. La Libia subisce le sanzioni per Lockerbie, e Gheddafi cerca di migliorare la propria immagine invitando i suoi ex connazionali ebrei a discutere con lui di riparazioni per le violenze e le espropriazioni subite. A organizzare l'incontro è l'allora ambasciatore a Roma Abdelati Laabedi, esponente della stessa tribù tornata alla ribalta per i fatti di Manchester. L'incontro con il volubile Colonnello non ci sarà mai, ma la carriera di Laabedi non si interrompe. Nel 2011, poco prima del golpe anti Gheddafi, è ministro degli Esteri. Incarcerato e processato, a marzo 2015 Laabedi è stato prosciolto da ogni accusa, «è adesso è tornato a vivere sulle Montagne Verdi in Cirenaica».

(il Giornale, 26 maggio 2017)


L'amico ritrovato di Israele

In Arabia Saudita Donald Trump ha chiamato i musulmani a ribellarsi al terrorismo. A Tel Aviv ha confermato che l'America non tradirà lo Stato ebraico. E così, spiega una corrispondente da Gerusalemme, il presidente americano ha trasformato una visita piena d'incognite in un inatteso successo diplomatico.

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Le chiome bionde scintillanti sotto il sole dell'Arabia Saudita sono il segno della visita del presidente americano Donald Trump in Medio Oriente: le teste delle donne non sono stare coperte come dalla tradizione musulmana, il re ha persino stretto la mano della first lady Melania (e le donne non si possono toccare in pubblico).
   Era sbarcato non solo Trump, ma lo stile trumpiano: affermativo, diretto, rivoluzionario rispetto agli accattivanti toni del predecessore Barack Obama, che in Arabia Saudita è stato quattro volte, sempre con la scelta strategica di mostrare una sua amicizia incondizionata verso il mondo arabo e, sullo sfondo, il disegno di fare dell'Iran e quindi degli sciiti persiani, la sua chiave di volta di rapporto con l'Islam. Invece l'amicizia di Trump è rude, diretta e si è dimostrata piena di scopi espliciti. Primo fra questi: una lotta senza quartiere al terrorismo arruolando un vero e proprio esercito musulmano, con lo scopo sottinteso anche di battere le interferenze iraniane. L'accoglienza è stata entusiasta sia a Riad il 21 maggio, sia il giorno dopo a Gerusalemme.
   Anche in Israele l'atterraggio è stato simbolico, una full immersion immediata nella cultura occidentale: oltre al primo ministro Benjamin Netanyahu e a tutti i suoi ministri, fuori dall'aeroporto lo aspettava con iniziativa propria una processione di moto Harley Davidson, la passione di Trump.
Il milionario punta a un accordo fra palestinesi e israeliani e ha intrapreso una strada in gran parte nuova rispetto a quella tentata da Obama, il quale pensava che una terribile pressione avrebbe piegato Netanyahu ad abbandonare i territori in favore di uno Stato Palestinese. Ignorava del tutto il pericolo che ne sarebbe derivato a fronte di un'Autonomia Palestinese in cui il terrorismo è considerato ancora un'arma strategica e la determinazione a non riconoscere lo Stato ebraico altrettanto definitiva. Trump dà segni di capire questo problema anche se vuole da Netanyahu dei segnali di buona volontà che consentano di riprendere le trattative di pace.
   Il presidente ha chiesto al mondo arabo sunnita moderato di dichiarare guerra al terrorismo definendo i terroristi «barbari e delinquenti» e riabilitando cosi l'insieme della religione musulmana: in campagna elettorale aveva disegnato un Islam aspro e aggressivo, stabilendo poi che l'ingresso in America fosse vietato ai cittadini di parecchi Stati. Il presidente Obama aveva proposto un rapporto basato sulle scuse del mondo occidentale per i torti fatti agli arabi: con molti inchini, molti salamelecchi, molti errori aveva individuato un possibile alleato nella Fratellanza Musulmana, nominando l'Iran il suo interlocutore per eccellenza. L'accordo di Obama con Teheran per frenare la corsa al nucleare è stato definito da Trump il peggiore mai firmato. Adesso fra un tintinnare di cristalli nelle sale sfarzose della reggia saudita e poi la calorosa accoglienza di Netanyahu è un totale rovesciamento della politica del predecessore: l'alleanza con un mondo finora in bilico fra l'integralismo islamico e l'Occidente per una guerra senza quartiere contro il terrorismo. «Buttateli fuori dai centri di studio, dalle loro case, dai vostri Paesi», ha ruggito Trump, C'è qualche garanzia che questo appello all'insurrezione dell'Islam contro il terrore che nasce nel suo seno non resti una pura aspirazione: l'accordo per la vendita di armi americane ai sauditi, e l'altolà molto serio all'Iran perché non minacci con una nuova corsa sotterranea all'atomica tutto il mondo, e in particolare Israele. Qui, nonostante la difficoltà del processo di pace coi palestinesi e gli ostacoli nel realizzare la promessa di trasportare a Gerusalemme l'ambasciata degli Stati Uniti, Trump porta un cambiamento: quello di un presidente che ha un evidente affetto per Israele. Da questo deriva un sincero desiderio di creare una pace effettiva fra le due parti e di un coinvolgimento del mondo arabo moderato.
   
(Grazia, 25 maggio 2017)


Egitto: chiusi siti web e quotidiani legati ai Fratelli musulmani

IL CAIRO - Le autorità egiziane hanno chiuso temporaneamente 21 siti internet e quotidiani per aver pubblicato contenuti inneggianti al terrorismo e all'estremismo. Lo riferisce l'agenzia di stampa statale "Mena". I siti interessati dal provvedimento includono "al Jazeera Net", "Sharq Channel", "Misr al Arabia" "al Shaab" "Arabi 21", Rasd", "Hamas Online" e "Mada Misr", il cui reporter investigativo Hossam Bahgat ha ricevuto il premio Anna Politkovskaya nel 2016 dalla rivista italiana "Internazionale". Molti di questi siti sono riconducibili ai Fratelli musulmani o a reti che li sostengono contro il governo del presidente Abdel Fatah al Sisi. Le attività della Fratellanza in Egitto sono state bandite nel settembre del 2013, dopo la deposizione dell'ex presidente Mohammed Morsi, esponente di spicco del gruppo islamico. Nell'ottobre dello stesso 2013 il governo ha formato un comitato "ad hoc" incaricato di gestire i fondi e le proprietà della Fratellanza. Tale organismo ha sequestrato finora decine di strutture - come aziende, scuole e centri islamici - del valore di miliardi di sterline egiziane come parte del giro di vite contro il gruppo considerato ormai fuorilegge. I Fratelli musulmani egiziani hanno respinto qualsiasi ipotesi di avviare un processo di riconciliazione con il governo del presidente Abdel Fatah al Sisi.

(Agenzia Nova, 25 maggio 2017)


25 maggio 1944 - Il Vaticano non accetta la proposta Usa di un'azione comune verso gli ebrei

di Enrico Gregori

In Vaticano, monsignor Domenico Tardini risponde a nome della segreteria di Stato alla proposta americana di un'azione comune a favore degli ebrei, scrivendo: "Non è opportuno che la S. Sede si metta su questa strada: la Santa Sede non si deve legare (né comunque apparire legata) al carro americano, soprattutto sulla questione ebraica. L'azione della Santa Sede deve essere indipendente e sua propria".
Dal 1923 al 1929 Tardini fu assistente dell'Azione Cattolica, per poi ritornare nel 1929 alla Congregazione per gli Affari Ecclesiastici Straordinari quale Sotto-Segretario, dal 1937 come Segretario. Insieme con mons. Montini (il futuro Paolo VI) fu Sostituto Segretario di Stato e dal 1944 Pro-Segretario.

(Il Messaggero, 25 maggio 2017)


Gigante dell'aeronautica Airbus progetta l'apertura di un centro di ricerca in Israele

 
Gigante dell'aeronautica Airbus progetta apertura di un centro ricerca in Israele. Airbus, il gigante mondo dell'aeronautica ha annunciato l'intenzione di aprire un centro di ricerca e sviluppo in Israele. Questo centro non sarà dedicato solo ai velivoli, ma anche alla ricerca e allo sviluppo di soluzioni di intelligenza artificiale e informatica, due aree in cui Israele eccelle a livello globale.
L'annuncio è stato comunicato durante la conferenza Innovatech 2017 che si è recentemente tenuta a Parigi, da François Auque, a capo di Airbus Ventures. L'obiettivo è quello di individuare le più innovative startup nel settore ed incoraggiare la cooperazione tecnologica tra Francia e Israele in termini di innovazione.
François Auque non ha ancora rilasciato la data di inizio lavori, ma fonti anonime sottolineano che il progetto si svilupperà a breve.
Airbus non è il primo costruttore di velivoli a scegliere Israele. Nel 2014, la società americana Lockheed Martin ha aperto un centro di ricerca e sviluppo a Beersheva.

(SiliconWadi, 25 maggio 2017)


Quando l'Egitto cacciò le truppe Onu e ammassò truppe nel Sinai

Sei giorni, cinquant'anni fa: il secondo video che ripercorre passo dopo passo gli avvenimenti che nel maggio 1967 portarono allo scoppio della guerra.

L'11 maggio 1967 le Nazioni Unite avevano condannato gli attacchi arabi contro Israele come deprecabili e una minaccia alla pace. Ma anziché calmare la situazione, gli stati arabi stavano per imprimere un'escalation al conflitto.
Il 14 maggio il presidente egiziano Nasser iniziò a spostare truppe e carri armati nella penisola del Sinai, unico cuscinetto fra Egitto e Israele. Dopo la guerra di Suez del 1956 questa area era già stata smilitarizzata, con truppe Onu schierate lungo il confine israelo-egiziano per contribuire al mantenimento della pace. La decisione iniziale di Nasser di spostare truppe e mezzi corazzati nel Sinai fu in parte alimentata da false informazioni fornite dall'Unione Sovietica, la potenza alleata e sponsor dell'Egitto, che sosteneva che Israele stava per invadere la Siria. Entro un giorno Nasser seppe che l'informazione era falsa, ma decise di continuare con il concentramento di forze militari che minacciavano Israele....

(israele.net, 25 maggio 2017)


Gli Usa aggiungono altri 75 milioni di dollari al programma missilistico di Israele

GERUSALEMME - Gli Stati Uniti hanno aggiunto altri 75 milioni di dollari al pacchetto di aiuti militari per rafforzare il programma missilistico dello Stato di Israele. A dare l'annuncio è stato il premier israeliano Benjamin Netanyahu in un discorso pronunciato oggi in occasione della cerimonia per i 50 anni dalla Guerra dei sei giorni. Il primo ministro ha sottolineato l'importanza degli aiuti di Washington al settore della difesa israeliana, osservando la volontà degli Stati Uniti di mantenere il vantaggio strategico dello Stato ebraico in Medio Oriente. "Abbiamo appena terminato la visita del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, il nostro più grande alleato", ha dichiarato Netanyahu facendo riferimento alla visita dell'inquilino della Casa Bianca nel paese avvenuta dal 22 al 23 maggio scorso. "Tre giorni fa - ha aggiunto Netanyahu - gli Stati Uniti hanno aggiunto al pacchetto di aiuti altri 75 milioni per il nostro programma di difesa missilistica. Noi apprezziamo questo aiuto che rappresenta un importante sostegno e voglio ancora sottolineare che la storia dimostra che la sicurezza di Israele dipende dalla nostra abilità nel difenderci con le nostre forze contro tutte le possibili minacce". Ieri durante il suo discorso pronunciato all'Israel Museum, Trump ha promesso di sostenere Israele di fronte alla minaccia iraniana: "I leader dell'Iran chiedono continuamente la distruzione di Israele. Non con Donald Trump, credetemi".

(Agenzia Nova, 24 maggio 2017)


Israele sulla sinagoga di Vercelli: "Non fu odio razziale"

Il giudice ha ritenuto che la protesta di due antagonisti non rappresentasse un caso di antisemitismo

di Federica Cravero

Lo striscione al centro della polemica
Il tribunale di Vercelli ha assolto dall'accusa di incitamento all'odio razziale Alessandro Jacassi e Sergio Caobianco, due vercellesi che nel luglio 2014 avevano appeso uno striscione sulla sinagoga di via Foa con le scritte "Stop bombing Gaza", "Free Palestine" e "Israele Assassini". Assistiti dagli avvocati Gianluca Vitale e Laura Martinelli, i due avevano rivendicato la protesta, che era avvenuta nei giorni dell'operazione Margine protettivo condotta dall'esercito israeliano contro Hamas ma avevano anche spiegato che "l'azione non era a sfondo razzista: era un grido di dolore di fronte al bombardamento di Gaza. Non aveva assolutamente niente a che fare con il popolo ebraico, la cui storia amiamo e rispettiamo più di chiunque altro".
La procura, invece, aveva chiesto per loro quattro mesi di reclusione. La Comunità ebraica di Vercelli, assistita dall'avvocato Tommaso Levi, si era costituita parte civile. All'indomani dell'episodio i responsabili della sinagiga avevano presentato una denuncia per diffamazione, mentre il reato contestato dalla procura era stato di istigazione all'odio razziale. "Dal nostro punto di vista - spiega la presidente della comunità, Rossella Bottini Treves - non è mai stato un processo di natura politica né un processo sul conflitto israelo-palestinese, ma il gesto è ritenuto grave perché possibile oggetto di pericolose strumentalizzazioni. Riteniamo, infatti, che il tempio israelita sia un luogo sacro e inviolabile e quindi sarà nostro compito tutelarne l'integrità, la sicurezza e denunciare qualsiasi tipo di oltraggio si dovesse verificare in futuro".

(la Repubblica - Torino, 24 maggio 2017)


Festival Viktor Ullmann 2017: musica liturgica ebraica alla Sinagoga di Trieste

TRIESTE - Secondo appuntamento per la quarta edizione del Festival Viktor Ullmann - rassegna dedicata, unica in Europa, alla musica concentrazionaria, degenerata e dell'esilio - che, dopo un prologo al Kulturni Dom di Gorizia (in un appuntamento organizzato in collaborazione con l'ERT (Ente Regionale Teatrale del Friuli Venezia Giulia) prosegue domenica 28 maggio, alle ore 18.00, spostandosi alla Sinagoga di Trieste (via San Francesco, 19) con un concerto, in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste, dedicato alla musica liturgica ebraica con l'esecuzione - in prima assoluta per l'Italia - del Servizio Sacro per Coro, Orchestra, Baritono solista e Narratore, servizio del sabato mattina e preghiere del venerdì sera di Darius Milhaud.
   Saranno di scena l'Orchestra Giovanile San Giusto e il Coro Nuovo Accordo con la partecipazione del Gruppo Vocale Femminile Polivoice (Baritono: Eugenio Leggiadri, Narratore: Nathan Neumann, Maestro del Coro: Andrea Mistaro). Direttore: Davide Casali.
   Il Servizio Sacro è un brano di musica religiosa scritta da Darius Milhaud nel 1947 e commissionato dalla Congregazione Emanu-El, una sinagoga di San Francisco. La cantata è in ebraico e il testo del narratore è stato tradotto in italiano. Il brano fu eseguito per la prima volta il 18 maggio del 1949, sotto la direzione dello stesso compositore, dall'Università della California, il Berkeley coro e la San Francisco Sinphony.
   Darius Milhaud (1892 - 1974), dopo avere studiato musica a Parigi, si trasferì per due anni in Brasile come segretario dell'ambasciatore Paul Claudel a Rio de Janeiro. Rientrato nella capitale francese, conobbe Claude Debussy, Erik Satie e Jean Cocteau ed entrò a far parte del Gruppo dei Sei (con Honegger, Auric, Tailleferre, Durey e Poulenc). La sua produzione creativa, intensa dal 1920 in poi, andò progressivamente affrancandosi dalla poetica del "gruppo", accogliendo in una sintesi del tutto inedita diverse suggestioni musicali, da quelle del folklore sudamericano, che il musicista aveva avuto modo di studiare, a quelle del jazz, dalla musica politonale al neoclassicismo.
   Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, Milhaud, di religione ebraica, dovette fuggire dalla Germania nazista e si trasferì negli Stati Uniti, dove rimase fino al 1947. Nel 1956 fu nominato presidente dell'Académie du Disque Français. La sua vastissima produzione comprende anche venti opere teatrali.
   Organizzato dall'Associazione Musica Libera di Trieste, il Festival Viktor Ullmann è l'unico festival in Europa dedicato alla musica concentrazionaria (così definita perché composta nei campi di concentramento e nei ghetti), alla musica degenerata (la musica proibita nella Germania nazista e nell'Italia fascista perché ritenuta decadente e dannosa) e alla musica d'esilio. L'intento del festival è riscoprire quelle pagine musicali per far rivivere il genio creativo dei loro compositori e riflettere sulla Shoah da un diverso punto di osservazione.

(fvgNews.net, 24 maggio 2017)


Chi deve pagare per la sicurezza degli ebrei in Svizzera?

Gli ebrei svizzeri hanno paura di essere vittime di un attentato. Garantire la sicurezza nelle sinagoghe, nelle scuole e in altri edifici costa milioni di franchi alle comunità ebree. Ma ci sono anche altri motivi che potrebbero favorire la loro emigrazione dalla Svizzera.

di Sibilla Bondolfi

Una famiglia ebrea a Zurigo celebra il Sukkot
Gli ebrei hanno un futuro in Europa? È questo l'interrogativo a cui cercheranno di dare una risposta i delegati della Federazione svizzera delle comunità israelite (FSCI) durante la loro assemblea del 24-25 maggio. «La sicurezza è un tema molto sentito dagli ebrei svizzeri», spiega Herbert Winter, presidente della FSCI.
I motivi della loro crescente paura: di recente, in Europa alcuni gravi attentati terroristici hanno preso di mira edifici ebrei, per esempio una sinagoga a Copenaghen, una scuola a Tolosa, il museo ebreo a Bruxelles e un supermercato kosher a Parigi.

 Neonazisti e islamisti
  Negli ultimi anni, in Svizzera non si sono verificati avvenimenti tanto drammatici. Tuttavia gli ebrei svizzeri sono preoccupati. «Vediamo ciò che avviene all'estero. E la Svizzera non è un'isola felice», dice Winter. «In generale, la Svizzera è più a rischio rispetto al passato».
Stando al Rapporto sull'antisemitismo 2016, il pericolo maggiore per gli ebrei svizzeri è rappresentato attualmente da neonazisti e islamisti. Dal terrore di matrice palestinese degli anni Settanta, le comunità ebree in Svizzera hanno adottato varie misure per garantire la sicurezza nelle sinagoghe, nelle scuole, nelle case anziani e in altri edifici. A questo proposito hanno installato camere di sorveglianza, impiegato personale addetto alla sicurezza e realizzato accessi più sicuri.
Tali misure sono state rafforzate negli ultimi anni. Finora, gli stessi ebrei si sono accollati i costi di questi provvedimenti preventivi. «La spesa è diventata astronomica», rileva Winter. La fattura annuale per tutta la Svizzera supera i cinque milioni di franchi. A ciò, a scadenze irregolari si aggiungono opere di ristrutturazione che ammontano a diversi milioni di franchi. «I costi per la sicurezza sono quasi raddoppiati negli ultimi due anni e vengono assunti dai singoli membri delle comunità, tramite le quote di adesione».

 La Confederazione liquida gli ebrei con un consiglio finanziario
  Winter chiede che sia lo Stato ad assumersi parte dei costi. Nel 2016, la Confederazione ha indicato in un rapporto che sebbene gli ebrei siano particolarmente a rischio, «al momento non esiste né una base costituzionale né una base legale per la partecipazione della Confederazione ai costi delle misure di sicurezza per le istituzioni ebraiche». Inoltre liquida la questione con un consiglio: «Le organizzazioni ebraiche potrebbero istituire una fondazione per il finanziamento delle loro spese».
Il rapporto, afferma Winter, ha ampiamente deluso gli ebrei in Svizzera. «Molti si sono sentiti abbandonati». Per il presidente della FSCI rimane un mistero come la creazione di una fondazione possa migliorare la situazione. Stando al rapporto sarebbero le stesse comunità ebraiche a finanziare la fondazione, le stesse che già ora saldano le fatture per la sicurezza.
Le comunità ebraiche non sono quasi più in grado di assumersi questa spesa. Tra l'altro, anche perché il numero di membri continua a diminuire a causa di matrimoni misti, assimilazione e defezioni. È un fenomeno analogo a quello che stanno vivendo le comunità cristiane in Svizzera. Per questo motivo, durante l'assemblea della FCSI si parlerà anche di «Demografia e sicurezza».

 Protezione delle minoranze
  In occasione di grandi eventi, come l'anniversario del congresso sionista (previsto anche quest'anno), viene allestito sempre un enorme dispositivo di sicurezza, mentre le autorità lasciano a sé stessi i cittadini ebrei. Lo stesso discorso vale anche per i musulmani che a loro volta vivono momenti difficili a causa dell'islamofobia o dell'estremismo di destra. Per esempio, lo scorso dicembre un uomo ha sparato a caso in una moschea a Zurigo.
Di recente si sono registrate alcune novità. Il 10 aprile, la Confederazione ha comunicato che intende proteggere meglio le minoranze a rischio, come ebrei e musulmani. Per questo motivo intende elaborare entro la fine del 2017 un relativo piano d'azione nel quale affronterà anche l'argomento del finanziamento della sicurezza.
«Sembra di essere vicini a una svolta rispetto al passato», dice Winter. La Confederazione si è resa conto che ha un obbligo di coordinazione. «Spero in una soluzione in tempi brevi e in una sensata ripartizione dei costi».

 Gli ebrei hanno un futuro in Svizzera?
  In Francia dopo gli attentati si è registrata un'emigrazione record di ebrei verso Israele. L'Ufficio federale di statistica non è in grado di quantificare il numero di ebrei che di recente ha lasciato la Svizzera. Stando al presidente della FSCI non c'è stata un'emigrazione a causa del timore di attentati. In Svizzera si può ancora vivere. C'è qualcos'altro che lo preoccupa. «Se la Svizzera, come a volte si discute, introdurrà il divieto di portare il velo, di circoncidere i ragazzi o di importare carne kosher, allora un numero maggiore di ebrei lascerà il nostro paese».

(swissinfo.ch, 24 maggio 2017)


Associazioni Ungheria-Israele. La delegazione italiana al congresso di Szekszard

Il sesto congresso della "Federazione delle Associazioni ungheresi di amicizia con Israele" si è svolto nel bell'edificio ottocentesco della ex sinagoga di Szekszard, ristrutturato dal comune della città ungherese ed adibito a centro culturale cittadino. Nella mattinata si è svolta, a porte chiuse, l'assemblea della Federazione con la partecipazione dei rappresentanti di 15 associazioni su 23 associate, la presenza di una delegazione composta da 3 persone dell'associazione pro Israele serba di Subotica (gemellata con la contigua associazione ungherese di Seghedino) e della delegazione della Federazione italiana composta da Edmondo Monti (membro dell'Ufficio di Presidenza) e Judit Gal (rappresentante della Federazione italiana presso quella ungherese)....

(Italia Israele Today, 24maggio 2017)


Roma e Vaticano, il giorno dei Trump. E per Ivanka è toto-ristorante

La domanda che corre sulla bocca di molti è: e stasera, dove mangerà?
   Dal Cortile di San Damaso, nel cuore del Vaticano, a Sant'Egidio, l'Onu di Trastevere. Centinaia di giornalisti alla ricerca di uno spunto per raccontare la visita dei Trump a Roma, oltre le note e i comunicati ufficiali emessi. Grande protagonista lei, Ivanka, la figlia del presidente degli Stati Uniti.
Ieri, come noto, è stata con il marito Jared in un noto locale a due passi dal Pantheon dove è stata loro riservata una sala apposita. Ma stanotte, quando Donald e gli altri saranno a Bruxelles, dove si recherà? E così, immancabile, è toto-ristorante.
   Nel quartiere ebraico qualche speranza c'è. Tanto che goliardicamente c'è già chi, tra ristoratori e addetti ai lavori di 'Piazza', afferma sicuro che sarà il prescelto. La fama di alcuni esercizi è nota anche negli States, e già in passato sono stati serviti fior di ospiti. In fondo, anche per questa ragione, una visita di un'ebrea osservante come Ivanka (anche se qualche dubbio sul suo rispetto delle norme della Casherut sembra esserci) non sarebbe così sorprendente.
   Ma intanto i fatti. "La pace in Medio Oriente è uno degli accordi più duri da raggiungere, ma sento che ci arriveremo" ha detto Trump in occasione della sua recente visita in Israele. Un tema su cui, a quanto trapela dalle stanze vaticane, lo stesso The Donald e Bergoglio si sarebbero lungamente soffermati questa mattina. "C'è stato uno scambio di vedute su alcuni temi attinenti all'attualità internazionale e alla promozione della pace nel mondo tramite il negoziato politico e il dialogo interreligioso, con particolare riferimento alla situazione in Medio Oriente e alla tutela delle comunità cristiane" riporta una nota della Sala Stampa. Temi che, a quanto si apprende, sarebbero stati centrali anche nei successivi vertici con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni.
   Mentre il marito accompagnava il padre nei suoi diversi incontri con le autorità dello Stato italiano, Ivanka si recava invece in Trastevere per incontrare la Comunità di Sant'Egidio. Al centro, un confronto sul tema della lotta al traffico di esseri umani e un dialogo con un gruppo di donne africane strappate a questa piaga. "Faremo di tutto per combatterla" ha assicurato Ivanka, incontrando la stampa per qualche istante in giardino. Ad accoglierla i vertici di Sant'Egidio, in testa l'attuale presidente Marco Impagliazzo e il fondatore Andrea Riccardi.

(moked, 24 maggio 2017)

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Trump: Ivanka e marito a cena in un ristorante al centro Roma

La coppia è andata al ristorante "Le cave di Sant'Ignazio", locale a due passi dal Pantheon

La figlia del presidente degli Stati Uniti, Ivanka Trump, ed il marito, Jared Kushner, hanno cenato in un ristorante nel cuore di Roma, a piazza di Sant'Ignazio. La coppia è stata al ristorante "Le cave di Sant'Ignazio", locale a due passi dal Pantheon. I due sono arrivati ieri nella Capitale insieme con Donald Trump e la first Lady Melania in occasione della visita in Italia dell'inquilino della Casa Bianca.
Le strade adiacenti a piazza di Sant'Ignazio, dove erano a cena Ivanka Trump ed il marito Jared Kushner, sono state chiuse dai vigili urbani. La coppia avrebbe cenato all'interno del ristorante, in una saletta a loro dedicata.

(ANSA, 24 maggio 2017)


Asse con Israele, spiraglio per i colloqui di pace

Il presidente Usa ribadisce il legame tra ebrei e Gerusalemme. Ma apre al dialogo con i palestinesi.

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Sostegno incondizionato a Israele, promessa che l'Iran non avrà nessuna bomba atomica, apertura di un fronte antiterrorista comune col mondo arabo che porti a un nuovo tipo di processo di pace coi palestinesi. È valsa la pena per Benjamin Netanyahu di resistere con determinazione a otto anni di punizione da parte della presidenza Obama senza fare passi indietro: Trump ha rovesciato la posizione americana con una visita in Medio Oriente. L'opinione pubblica internazionale, l'Onu, l'Ue, erano stati plasmati dagli stilemi obamiani, quelli di un mondo islamico in cui la Fratellanza Musulmana è un alleato, mentre l'Arabia Saudita, l'Egitto e i Paesi del Golfo venivano messi da parte; in cui l'Iran era l'alleato strategico dell'Occidente; e soprattutto Israele veniva trasformato in uno stato paria.
   Trump ieri prima che i tappeti rossi venissero riarrotolati e Air Force One riprendesse, enorme e azzurrino, il volo, ha tenuto al Museo d'Israele un discorso che ha esordito con il cordoglio per l'attentato di Manchester per avventurarsi di nuovo nel tema del terrorismo: è il grande nemico del mondo intero, senza nessuna differenza fra l'Inghilterra o il suo stesso Paese e Israele, e nemmeno il mondo islamico tormentato dal continuo bagno di sangue. La guerra contro l'Isis è comune, come deve esserla quella contro Hamas e gli Hezbollah. Inoltre, l'Iran ambizioso e violento trascina il mondo sciita verso la nuclearizzazione e un ruolo imperiale. Trump ha giurato sia a Ryiadh che in Israele che l'Iran non avrà la bomba. Lo sfondo strategico sul quale si costruisce il disegno della nuova amministrazione americana è quello di un'alleanza onnicomprensiva di tutti gli uomini di buona volontà contro le forze del male. C'è per Trump un mondo che ama la morte e che deve essere battuto.
   «Not with D. J. Trump», ha detto il presidente, un'uscita fra Iohn Wayne e Lawrence d'Arabia: l'unica licenza trumpiana. Per il resto ha usato toni da pacificatore e da statista: Israele, che si è sentito ripetere senza sosta che Gerusalemme non gli appartiene, ha goduto per la prima volta di una ricostruzione storica realistica. La Gerusalemme che Trump ha descritto con toni incantati è tornata ad essere la patria ideale, religiosa, storica di quattromila anni di storia del popolo ebraico. Nel discorso del presidente è stata disegnata per ciò che è, con le sue strade, con la gente di tutto il mondo che visita tranquilla e rispettata il Santo Sepolcro, le Moschee, il Muro del Pianto: una città dove le tre religioni possono finalmente vivere nel rispetto reciproco, nell'educazione pluralistica. La prospettiva di pace fra Israele e i Palestinesi non è stata disegnata nei particolari: è apparsa piuttosto come una prospettiva, un comma della generale guerra appena dichiarata contro il terrorismo.
   Abu Mazen, che Trump ha incontrato durante la mattinata a Betlemme, è stato descritto come un leader che vuole la pace. E così Netanyahu. Probabilmente i leader si sono promessi molte cose, molti accordi sono intercorsi di cui ancora non si sa: probabilmente Trump punta a ottenere una riapertura dei colloqui fra le due parti in cambio di facilitazioni economiche e di sicurezza, consolidando intanto lo sfondo del sostegno del mondo arabo sunnita al progetto generale.

(il Giornale, 24 maggio 2017)


Cyber security, in Israele un nuovo studio del CcdCoe Nato

ROMA - Un nuovo report del Nato Cooperative Cyber Defence Centre of Excellence (CcdCoe), il centro Nato per la difesa dagli attacchi informatici situato in Estonia e che ha tra i suoi membri anche l'Italia, ha preso come oggetto di studio le strutture israeliane deputate alla sicurezza informatica e gli ultimi sviluppi in materia. Il documento, intitolato 'National Cyber Security Organization: Israel' descrive una tendenza verso una maggiore trasparenza e un'innovazione istituzionale in atto nella sicurezza informatica del Paese.Nell'ultimo, spiega l'analisi, Israele è diventata sempre più una nazione all'avanguardia nell'innovazione digitale e nella cyber security. Infatti, l'implementazione di misure e istituzioni nazionali in materia di sicurezza cibernetica è avvenuta relativamente in anticipo e con maggiori vigore ed efficacia rispetto ad altri Paesi. Le banche israeliane, le istituzioni finanziarie, le società di servizi pubblici e altre infrastrutture critiche sono tra quelle più frequentemente oggetto di attacchi cyber a livello mondiale.L'autrice dello studio, Deborah Housen-Couriel, sottolinea che "in generale, l'attuazione degli obiettivi e delle priorità nazionali in materia di cyber sicurezza in Israele è caratterizzata da una maggiore trasparenza pubblica, un'innovazione istituzionale e un investimento governativo sia negli obiettivi a breve sia a lungo termine".Israele è stato anche tra i pionieri della cooperazione nazionale multi-stakeholder in tema di sicurezza, con il coinvolgimento e l'interazione tra diversi attori come governo, università e settore privato. Ad ogni modo, per il Paese, la cooperazione nel campo della cyber security rappresenta secondo gli esperti un'estensione naturale del paradigma di collaborazione già esistente in altre aree.

(askanews, 24 maggio 2017)


Attacco alle culle della nostra civiltà

Parla Abdel-Samad. "Il 'fascismo islamico' all'assalto della cultura occidentale. Stiamo perdendo".

di Giulio Meotti

ROMA - Alcuni giorni fa, le autorità turche hanno raso al suolo il night club Reina di Istanbul, teatro della strage di Capodanno rivendicata dall'Isis, in cui furono uccise 39 persone. "Violazione della normativa edilizia". Questa la motivazione. Quasi che le autorità neoislamiche della Turchia non aspettassero altro per liberarsi di quella sentina del vizio. Dall'11 settembre, i terroristi islamici hanno colpito una dopo l'altra le sale da ballo. Il Bataclan di Parigi, il Pulse di Orlando, le discoteche di Bali, il Dolphinarium di Tel Aviv. "Sono puro occidente ed è questo che i terroristi vogliono distruggere, la società aperta", dice al Foglio Hamed Abdel-Samad, scrittore egiziano che vive sotto scorta in Germania e che in Italia ha appena pubblicato il suo libro più noto, "Fascismo Islamico" (Garzanti), dove spiega che l'islam soddisfa i quattordici punti dell'Ur-Fascismo di Umberto Eco. E dell'ideologia islamista è vittima lui stesso da quando, per un discorso tenuto al Cairo il 4 giugno 2013, un gruppo terroristico chiese la sua morte. "I terroristi colpiscono questi luoghi, come le discoteche, perché sono i soft target. Ma sono anche i luoghi dove gli occidentali si godono la vita". Ilterrorismo islamico è sempre più all'offensiva. "In passato, da un grande attacco a un altro, passavano uno, due anni. Un anno dopo l'11 settembre ci fu Bali. Due anni dopo ci fu Madrid e poi Londra un anno dopo. Adesso passano una, due settimane fra un attacco e l'altro. Prendiamo gli ultimi sei mesi: Berlino, Londra, Stoccolma, Parigi e ora Manchester. L'Isis è sotto pressione e, perdendo terreno, porta la sua guerra al cuore dell'occidente.Non possono sconfiggere gli eserciti, ma possono sconfiggere la cultura occidentale. Così attaccano l'Europa che considerano 'decadente' e moralmente debole. Sperano di far collassare il sistema".
  Secondo Hamed Abdel-Samad, l'occidente porge il suo volto peggiore dopo ogni attacco. "Ogni volta so esattamente quale sarà il rituale politico in tv e sui giornali. Una organizzazione islamica che si presenta per dire che 'questo non è il vero islam'. I politici che ci ripetono che 'no, non cambieranno il nostro stile di vita'. Ma l'Europa non ha aperto gli occhi sull'ideologia islamica. L'Inghilterra ha ospitato tanti terroristi fuggiti dai paesi arabi e paesi come Stati Uniti e Germania stringono ora grandi patti militari ed economici con l'Arabia Saudita. Stiamo tollerando questi attentati perché l'establishment pensa nel breve termine, cinque sei anni. E' nel lungo periodo che pagheremo il prezzo più terribile. Intanto parliamo di 'valori valori valori'. Ma stiamo perdendo la guerra. E' vero che preveniamo molti attacchi, ma altri saranno messi a segno. Perdiamo la guerra ideologica. L'islam radicale avanza ovunque, pure in Indonesia. Con l'11 settembre, il mondo islamico si aspettava risposte ma noi abbiamo tradito pure i dissidenti, i liberali nell'islam, abbracciando il mantra dell'islam 'religione di pace' e quello sullo 'stile di vita"'.
  Il fondatore dell'islam radicale è un egiziano come Hamed Abdel-Samad, lo scrittore e pedagogista Sayyid Qutb. Trascorse un lungo periodo in America, dove si convertì al fondamentalismo. "La sala da ballo era decorata con luci gialle, rosse e azzurre", scriveva Qutb. "La stanza era terremotata dalla musica febbrile che usciva dal grammofono. Gambe nude in movimento riempivano lo spazio, le braccia allacciavano le vite, i petti incontravano i petti, le labbra incontravano le labbra, e l'atmosfera era satura d'amore". Il martire islamico come "testimone" della fine della città moderna, del brechtiano "Im Dickicht der Stàdte", della Nuova Canaan di Dvorak che Qutb, padre del fondamentalismo islamico contemporaneo, vide a New York "satura di lussuria". Qutb rimase sconcertato dalla donna americana, "che conosce benissimo le bellezze del suo corpo: il volto, gli occhi ammiccanti, le labbra piene, il seno florido, le natiche rotonde e le gambe lisce. Si veste con colori vivaci che risvegliano istinti sessuali primitivi, non nasconde niente, e aggiunge al tutto la risata eccitante e lo sguardo ardito".
  "Sayyid Qutb è il simbolo dei musulmani occidentali di oggi", continua al Foglio Hamed Abdel-Samad, intellettuale egiziano sotto scorta in Germania e che in Italia ha appena pubblicato per Garzanti il libro "Fascismo islamico". "Quando andò in America, Qutb era un egiziano laico. Ma entrò in contatto con il materialismo dell'occidente ed ebbe paura della libertà. Qutb si sentì sconfitto. La sua storia si ripete oggi con i musulmani europei. Le famiglie non li preparano al mondo, dicono loro che 'gli occidentali dormono con più donne, usano droghe, bevono, non hanno valori'. Questi musulmani non riescono a gestire questa tensione e proteggono la loro visione del mondo ricorrendo spesso alla violenza. Il problema dell'occidente è di non credere invece in se stesso. L'Isis è molto onesto nel suo odio per i valori occidentali. Poi c'è Erdogan, quello che chiamo il 'fascismo light', e che dietro ha lo stesso odio. Tutti questi musulmani vogliono morire per il loro Dio e per purificare il mondo".
  Intanto, proliferano i veli islamici in Europa, scompaiono le vignette dai giornali e nei tribunali torna in auge il delitto d'opinione sull'islam. "Oggi sono l'unico in Germania a pubblicare libri critici sull'islam, e per questo ho sempre con me dei poliziotti, non ho più una casa e anche quando devo comprare il pane sono protetto", continua Abdel-Samad al Foglio. "Ma la sinistra liberal è concentrata a denunciare la 'islamofobia'. In Francia la casa editrice Piranha ha rifiutato il mio libro dopo averlo acquistato, come tre case editrici tedesche si sono rifiutate (il libro a Parigi è uscito di recente per la casa editrice Grasset, ndr). E' ovvio che la maggioranza dei musulmani è pacifica, ma anche i tedeschi lo erano nel 1933. La maggioranza non conta".
  Secondo Abdel-Samad, il problema non è la falla dell'intelligence o le bombe intelligenti, ma il nostro fronte interno. E' lì che l'occidente deve vincere la sua guerra con l'islam radicale. "Non siamo pronti a difendere i nostri valori così come i terroristi sono pronti a uccidere per i loro. All'islam radicale è stato consentito di crescere fino a diventare un mostro, con l'Europa che ha relativizzato il pericolo. Cosa altro deve accadere? Ho paura che sia troppo tardi. Che abbiano già considerato come chiusa questa partita".

(Il Foglio, 24 maggio 2017)


Il lodo Moro-Arafat per ora ci protegge

Quell'intesa siglata da Moro che fino ad ora ha protetto l'Italia.

di Franco Bechis.

Il nome per cui è passato alla storia è "lodo Moro", perché a parlarne fu lo stesso presidente della Democrazia cristiana durante i giorni di prigionia nelle mani delle Brigate Rosse. Qualche conferma è arrivata da dirigenti palestinesi dell'epoca - sia pure molti anni dopo - e qualche altra traspare dalle carte solo parzialmente desecretate del "Lawrence D'Arabia" italiano, vale a dire il colonnello Stefano Giovannone, agente segreto italiano assai attivo sul fronte arabo fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta. Il lodo Moro sarebbe l'intesa che a livello alto sarebbe stata raggiunta fra l'Italia e l'Olp di Yasser Arafat per evitare attentati sul suolo della penisola dopo la strage di Fiumicino del 1973. Un accordo che avrebbe resistito decenni, anche se non poche ombre ancora persistono su stragi e regie che hanno visto negli anni di piombo ufficialmente protagonisti terrorismo nero e rosso nostrano. Ma sarebbe quell'accordo che per decenni avrebbe reso l'Italia immune dal sangue delle stragi medio-orientali. In cambio di un appoggio politico ai palestinesi che ufficialmente in effetti arrivò nel 1980, e della possibilità di utilizzare per loro e per altri gruppi di fuoco medioorientali l'Italia come una sorta di terra di passaggio immune per loro e anche per il passaggio di soldi e armi per operazioni di altro tipo.
  Quel lodo è stato ricostruito da indizi e testimonianze anche autorevoli negli anni, e pare illuminato dai pizzini di Giovannoni ora in mano ai membri della commissione di inchiesta su Moro, che ha potuto leggerle ma non renderle pubbliche. Secondo autorevoli fonti di intelligence sarebbe ancora oggi alla base di una sorta di immunità italiana, proseguita sia negli anni di Al Qaeda che in quelli dell'Isis: nessuna strage si è svolta dentro questi confini, e l'unica che abbia espressamente riguardato gli italiani è stata quella di Nassiriya. Certo il terrorismo arabo è profondamente mutato da quelle origini, in cui la componente politica era assai prevalente rispetto a quella religiosa. Ma secondo le stesse fonti di intelligence l'Italia ha continuato al di là di eventuali patti taciti, ad essere considerata dai gruppi terroristici arabi una sorta di hub ideale dove riparare, organizzarsi e restare sotto copertura prima di compiere attentati altrove. Un paese in cui è facile arrivare, in cui si può dispone di una rete efficiente per essere sostenuti e nascosti, dove gruppi etnici della stessa origine sono riusciti a stringere accordi con la criminalità organizzata nazionale che rendono abbastanza sicura la permanenza anche di terroristi sotto copertura. E dove un eventuale attentato metterebbe fortemente a rischio questa relativa tranquillità di cui la loro rete organizzata può oggi godere. Sarebbe in questa la radice della lunga immunità dalle stragi arabe di cui l'Italia fin qui ha goduto. Una convenienza temporanea - a lungo temporanea - su cui però non si può contare all'infinito. Gran parte degli attentati che si sono verificati nell'ultimo biennio sono infatti stati compiuti da lupi solitari che non po ano stabilmente sulla organizzazione dell'Isis, e che quindi fanno ben pochi calcoli. Vero che per molte ragioni storiche e forse anche per quel lodo, la capacità di infiltrazione dei servizi italiani è alta in quel mondo, e non sono pochi i successi nel reclutamento e nella strutturazione di tunisini, marocchini ed egiziani assai vicini alla rete Isis. Ma azioni di singoli come quella di Manchester sono difficilmente evitabili anche dall'intelligence. Per quelli non c'è lodo che tenga...

(Libero, 24 maggio 2017)


Lugano - Una serata per parlare di Israele.

"Ma Tzipi Livni sia dichiarata persona non gradita sul nostro territorio". L'ex Ministra di Israele sarà presente a Lugano, i comunisti non sono d'accordo: "In numerosi paese è accusata di crimini di guerra, la Svizzera non ne ha il coraggio."

 
Tzipi Livni
BELLINZONA - Una giornata per parlare di Israele e per celebrare i 69 anni della fondazione dello Stato di Israele e i 68 anni delle relazioni diplomatiche tra Svizzera e Israele. Denominato "Swiss Israel Day", si terrà il 28 maggio al Palazzo dei Congressi di Lugano. Il momento clou sarà un'intervista da parte di Marcello Foa di Tzipi Livni, definita nel comunicato degli organizzatori "un personaggio di spicco della politica israeliana. Una carriera militare alle spalle, è stata ministro degli Esteri e della Giustizia, vice Primo ministro e per un breve periodo primo ministro ad interim. Oggi è leader del partito HaTnuah, da lei stessa fondato, e membro della Knesset"
Una presenza che non piace ai comunisti, i quali in un comunicato che il Consiglio di Stato la dichiari persona non gradita sul territorio svizzero.
"Ricordiamo che la ex-ministra Livni era parte del consiglio di guerra di Tel Aviv durante l'aggressione militare israeliana alla Striscia di Gaza nell'inverno 2008/09. In quell'occasione furono sganciate 1500 tonnellate di bombe in centri abitati, furono usate armi al fosforo bianco e, secondo l'ONU, circa mille civili rimasero uccisi, fra cui 400 bambini", scrive il Partito Comunista. "Contro questa "ospite d'onore" in numerosi paesi sono stati aperti procedimenti giuridici per crimini di guerra e Livni ha dovuto rinunciare in passato a viaggiare in Gran Bretagna e in Belgio per evitare il rischio di finire agli arresti. Evidentemente in Svizzera non si ha questo coraggio".
Inoltre, "tramite una interrogazione urgente del proprio deputato Massimiliano Ay, chiederà che la Banca dello Stato del Canton Ticino ritiri il proprio sostegno a questo evento, che rappresenta una grave provocazione nei confronti della comunità palestinese e araba che vive nel nostro Paese, costretta alla fuga spesso proprio dai crimini perpetrati dal governo di cui Livni faceva parte".
Nel corso della serata interverranno anche il sindaco di Lugano, Marco Borradori, e il consigliere di Stato Christian Vitta.

(Ticino Libero, 24 maggio 2017)


Usa-Israele-Sunniti: il fragile asse contro l'Iran

di Stefano Magni

Può apparire stonata, a molti, la scelta del paese per la prima visita di Stato di Donald Trump all'estero: l'Arabia Saudita. Ma come? - diranno i delusi - proprio lo Stato islamico per eccellenza, quello che esporta da decenni la variante più radicale dell'islamismo in tutto il mondo, deve essere il primo paese con cui dialoga il presidente eletto proprio per la sua durezza anti-islamista? La scelta è politicamente e moralmente discutibile. Gli Usa mantengono salda l'alleanza con l'Arabia Saudita dalla Seconda Guerra Mondiale e non l'hanno mai mollata, a dispetto di tutto: della tirannia assoluta che gli Al Saud impongono ai loro sudditi, del rifiuto saudita anche formale dei diritti umani e di tutti i valori di cui gli Usa si fanno promotori nel mondo. Non è stata scalfita nemmeno dopo l'attacco dell'11 settembre 2001, organizzato da un saudita imparentato con il re e condotto materialmente da un commando costituito quasi interamente da sudditi del regno arabo. Trump non fa eccezione, non viola una regola seguita (per convenienza strategica ed economica) da tutti i suoi predecessori e "paga" il suo tributo ai sauditi. Accetta i loro onori e promette accordi per 380 miliardi di dollari, 110 in aiuti militari.
   Per tutti coloro che si aspettavano una scelta diversa, è arrivato il contentino il giorno dopo, con la visita dello stesso Trump in Israele. In questo caso, la discontinuità con i predecessori, è arrivata sin dal primo momento: per la prima volta un presidente degli Stati Uniti si reca a Gerusalemme Est, cioè quella parte della Città Santa che per la diplomazia europea dovrebbe essere ceduta alla futura Palestina. E visita il Muro Occidentale, il cuore dell'ebraismo mondiale. Sempre a proposito di Israele, non deve neppure sfuggire un "dettaglio" che troppo dettaglio non è: sia in Arabia Saudita che in Israele, al seguito di Trump c'erano la figlia Ivanka e il marito Jared Kushner, entrambi ebrei osservanti. Normalmente, in Arabia Saudita, gli ebrei non possono neppure passare la dogana. Anche un turista che voglia andare in Israele, sa che poi non potrà entrare in Arabia Saudita, che tuttora non riconosce lo Stato ebraico. Nel caso dei familiari di Trump, al contrario, non si è letta neppure una riga di commento. E quindi, si tratta di puro opportunismo diplomatico, ipocrisia, schizofrenia culturale? Non proprio. La strategia americana per il Medio Oriente era già abbastanza chiara ai tempi della seconda amministrazione Obama, è diventata più esplicita con il (meno diplomatico) successore. Si tratta di saldare nuovamente la storica alleanza fra Usa, Israele e monarchie arabe del Golfo. Unico comun denominatore di questa alleanza: l'inimicizia con l'Iran. Non a caso, se c'è un argomento che caratterizza i discorsi di Trump in Arabia Saudita e in Israele, questo è proprio la condanna netta della Repubblica Islamica, additata come nemico pubblico numero uno.
   L'asse Usa-Israele-Sunniti non è una novità di quest'anno. E' stata preparata nel corso degli anni, è nata quasi spontaneamente sul terreno, su una molteplicità di fronti. Gli Stati Uniti di Obama si sono ritrovati quasi per caso alleati del fronte sunnita (dunque anche saudita) allo scoppio della guerra civile siriana nel 2011. Gli Usa hanno premuto sin da subito per un allontanamento di Bashar al Assad, il dittatore sostenuto dagli iraniani. Nel 2011, per chi non ha la memoria cortissima, doveva essere l'anno dello sdoganamento definitivo di Assad e dell'Iran, secondo le previsioni della Casa Bianca. Le primavere arabe hanno mandato all'aria il programma e ribaltato le alleanze. Sul campo, gli Usa mettevano già a disposizione dei sunniti, nemici di Assad (e degli iraniani), la loro consulenza militare e, indirettamente, anche armi. Tre anni dopo, fallita la mediazione per una transizione pacifica dalla dittatura alla democrazia, anche nello Yemen scoppiava la guerra civile. Pure qui, si ripetevano gli stessi schieramenti della Siria: da una parte i sauditi, sostenuti dagli americani, dall'altra le potenti milizie Houthi, armate e sostenute dagli iraniani. L'Iraq è l'eccezione che (parzialmente) conferma la regola. Gli iraniani, su questo fronte, sono gli unici veri alleati del governo di Baghdad, riconosciuto anche dagli Usa. Visto che la maggioranza degli iracheni è sciita, gli Usa hanno tollerato una forte presenza iraniana nel paese per combattere contro il nemico peggiore nell'immediato: l'Isis. Anche per questo motivo, Obama è riuscito a tenere i piedi in due scarpe. Dividendo idealmente in due lo scacchiere mediorientale, ha sostenuto i sunniti a Ovest (Siria e Yemen) e gli sciiti iraniani a Est (Iraq), stando sempre, "democraticamente", dalla parte delle maggioranze locali. Ma ora che l'Isis appare sconfitto anche a Mosul, la sua roccaforte principale nel paese, anche in Iraq le milizie sciite a guida iraniana tornano ad essere la principale forza di destabilizzazione. Ed è soprattutto questa la preoccupante situazione ereditata da Trump.
   Infine, ma non da ultimo, c'è il problema numero uno, il Medio Oriente propriamente inteso. Grazie alla guerra civile siriana, Hezbollah si è rafforzato sul Golan, dove non era mai arrivato e ha consolidato il suo dominio nel Libano meridionale. Non solo: Hezbollah, che è una diretta emanazione del regime iraniano, ha imposto al Libano, nella sua interezza, il suo candidato presidente, il generale Aoun, cristiano e alleato con gli sciiti. Israele, che ricorda ancora come un trauma la guerra del 2006, teme di assistere alla calata di Hezbollah da Siria e Libano. Gerusalemme considera questa evenienza come il pericolo strategico numero uno, molto più dell'Isis e del terrorismo interno palestinese. Essere al fianco di Israele, dal punto di vista americano, vuol dire essenzialmente: aiutare Israele a far fronte all'Iran e ai suoi alleati locali.
Ecco dunque come, su vari fronti (Siria, Iraq, Yemen, Libano, Israele) si è formata sul campo, dal basso, la strana alleanza fra gli islamici più intransigenti fra tutti i sunniti, lo Stato ebraico e la nazione guida delle democrazie occidentali. Quanto è fragile un'alleanza simile? Può durare solo finché persiste il timore di un nemico comune. E se non salta prima su un altro "piccolo" problema: l'Iran è il partner mediorientale principale della Russia. Sarà difficile che Trump riesca a tenere assieme, a lungo, la sua amicizia con la Russia e la sua inimicizia con l'Iran. Prima o poi dovrà fare una scelta.

(L'Opinione, 23 maggio 2017)


Il Mein Kampf italiano, edizione critica di Pinto

di Gabriella Brugnara

In anteprima nazionale, la Biblioteca Archivio del Csseo organizza l'incontro-dibattito dal titolo Una battaglia persa? in occasione della presentazione dell'edizione critica de La mia battaglia (Mein Kampf) di Adolf Hitler, curata da Vincenzo Pinto (che ne è stato anche il traduttore, con Alessandra Cambatzu). Pinto — storico del sionismo e dell'antisemitismo, che ha all'attivo diversi saggi su questi temi e dirige la rivista Free Ebrei — interverrà domani alle 17,30 presso la Sala degli affreschi della Biblioteca comunale di Trento. In dialogo con lui ci sarà Gustavo Corni, introduzione di Massimo Libardi.
   Fino allo scorso anno in Germania era proibito ristampare il Mein Kampf di Hitler. Alla fine della seconda guerra mondiale, gli Alleati avevano assegnato i diritti d'autore del volume al Land della Baviera, che ne vietò la riedizione. Il 31 dicembre 2015 scorso sono passati 70 anni dalla morte di Hitler, e quindi i diritti d'autore sono entrati nel pubblico dominio. Così, all'inizio di gennaio 2016 è stata pubblicata una imponente edizione critica, due volumi, quasi 2000 pagine, a cura dell'autorevole l'Institut für Zeitgeschichte di Monaco di Baviera. Con grande sorpresa dell'editore, non appena giunto in libreria, la prima edizione di 4.000 copie è andata immediatamente esaurita Come per l'edizione tedesca dello scorso anno (85mila copie vendute), il primo volume raccoglie i due tomi scritti da Hitler tra il 1924 e il 1926: Eine Abrechnung (Resa dei conti), pubblicato nel luglio 1925, mentre Die nationalsozialistische Bewegung (Il movimento nazional-socialista), nel dicembre 1926. Hitler voleva un altro titolo, Quattro anni e mezzo di lotta contro menzogna, stupidità e codardia, ma Max Amane, l'editore, lo convinse a scegliere Mein Kampf. A questo primo volume farà seguito a breve uno successivo in cui autori italiani e stranieri approfondiranno i principali problemi del Mein Kampf.
   «L'edizione uscita lo scorso anno in Germania — spiega Pinto — si poneva tre grandi obiettivi: ricostruire la genesi del testo, verificare la veridicità delle affermazioni fatte dall'autore; stabilire un confronto tra la teoria e i fatti. Il nostro lavoro si ricollega all'edizione tedesca perché fa uso di alcune note, ma si discosta sia dal punto di vista metodologico sia deontologico — prosegue — nel senso che il nostro scopo è stato di capire come è stato costruito il testo e qual è il suo funzionamento. Si tratta quindi di un lavoro di tipo semiologico e "storico-culturale"». Un saggio, quello di Pinto, che prende spunto da suoi precedenti studi in cui si era occupato di un precursore del nazismo, analizzando come i testi popolari venissero diffusi in Germania a fine Ottocento e perché ottenessero un grande consenso di pubblico. «Partendo da questi lavori sul mito nella Germania di fine Ottocento, mi sono dedicato all'analisi di Mein Kampf dal punto di vista della retorica e della logica, giungendo alla conclusione che il testo di Hitler sia molto innovativo nei due ambiti suddetti».
   Per compiere questo passaggio, Pinto utilizza il cosiddetto «paradigma indiziario» — studiato da alcuni storici come Carlo Ginzburg, ma anche da Umberto Eco — e lo applica allo studio del panorama politico. «Riprendo questi studi — continua Pinto — per dimostrare che il libro è un capolavoro di logica abduttiva a uso strumentale, una specie di romanzo criminale in cui l'autore dissemina di tracce il testo per dimostrare che il colpevole è il nemico storico della Germania, cioè l'ebreo. Lo scopo è di mettere in luce come la fortuna di movimenti come questo antisemita si basi proprio sul recupero di paradigmi interpretativi e semiologici che erano ampiamente diffusi, e quindi condivisibili dalle masse». Un testo quello di Hitler che ricalca il tipico modello dei romanzi di appendice di fine Ottocento. «L'aspetto interessante dell'uso di tale modello da parte di una persona non molto preparata e poco colta — specifica — è che ha applicato un paradigma molto diffuso all'epoca, e che tutto sommato oggi ha preso il sopravvento, cioè quello della non rilevanza dell'argomentazione razionale a vantaggio della rilevanza dell'argomentazione analogica. L'abduzione è un paradigma utilizzato in ambito scientifico — nota ancora — Il problema è che nel caso specifico di Hitler gli indizi disseminati e i casi studiati non sono reali, ma costruiti in modo strumentale al fine di dimostrare quello che voleva dimostrare. Non una scoperta scientifica che nasce dal raffronto tra dati e realtà, ma un modo per incastrare lo stereotipo, nel caso specifico l'ebreo, e condannarlo alla demonizzazione».
   
(Corriere del Trentino, 23 maggio 2017)


La “logica abduttiva a uso strumentale” che senza un “raffronto tra dati e realtà” riesce ad “incastrare lo stereotipo”, usata nel passato in modo egregio da Hitler per applicarla allo stereotipo ebreo, oggi viene usata in modo altrettanto egregio da quasi tutto il mondo per incastrare lo stereotipo Israele “e condannarlo alla demonizzazione”. M.C.


Trump è arrivato a Betlemme, lo accoglie Abu Mazen

Il Presidente palestinese è impegnato per il successo dell'incontro

 
Donald Trump è arrivato al palazzo presidenziale di Betlemme, in Cisgiordania, dove è stato accolto dal presidente palestinese Abu Mazen (Mahmoud Abbas). A breve, dopo la cerimonia di benvenuto, comincerà l'incontro tra i due leader a cui poi seguiranno le dichiarazioni alla stampa. Trump in questa occasione, non è accompagnato dalla moglie Melania.
"Mi impegnerò perché l'incontro col presidente Donald Trump sia coronato da successo": lo ha dichiarato il presidente dell'Anp Abu Mazen alla agenzia di stampa ufficiale Wafa. "E' nostro preciso dovere lavorare per portare avanti la nostra causa", ha aggiunto. Il presidente palestinese ha anche rilevato che "gli incontri con Trump, sia che avvengano a Washington, a Riad o a Betlemme sono tutti utili e necessari.
Speriamo che siano fruttuosi e benefici". Hamas ha invece criticato Trump per essere stato da lui incluso nella lista delle organizzazioni terroristiche "negando così il diritto del popolo palestinese a resistere all'occupazione". "Denunciamo inoltre - ha affermato in un comunicato - le parole insultanti con cui egli ha paragonato il legame fra Gerusalemme e l'ebraismo a quello fra l'Arabia Saudita e l'Islam". Solo i palestinesi e i musulmani - secondo Hamas - hanno diritto sulla Palestina. A Betlemme è in corso una manifestazione di solidarietà con i detenuti palestinesi impegnati in uno sciopero della fame nelle carceri israeliane.

(ANSAmed, 23 maggio 2017)


50 anni dalla guerra dei sei giorni

Israele, diventato più forte, smise di essere simpatico

di Roberto Giardina

GERUSALEMME - È un gran balagan, dicono a Gerusalemme, un gran casino, tradotto fedelmente, a causa di Trump. A me, venendo da Roma, non sembra. Traffico bloccato, ma la città vecchia è piccola, e si va a piedi. E a guardare le facce sembra che in fondo non dispiaccia. L'Hotel King David, dove l'ospite dorme in una suite da 5.700 euro a notte, è stato trasformato in un fortino inespugnabile.
Migliaia di soldati pattugliano la città, ma i militari scherzano e giocano con i cellulari. Il presidente americano non gode di buona stampa in patria e all'estero, ma in Israele lo guardano con speranza, dopo i pasticci del predecessore Obama. Caso mai si teme che Donald voglia fare troppo. Per fortuna, si commenta, si è dimenticato della promessa di spostare l'ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, come è stato deciso già nel lontano 1995, ma nessuno aveva mai osato compiere sul serio il trasloco. Provocherebbe solo le reazioni degli arabi, creando dei pericoli per un atto simbolico. Meglio che l'ambasciatore e i suoi colleghi continuino a fare la spola.
   Qualche giorno fa, dalla Casa Bianca qualcuno aveva dichiarato che il Muro del Pianto fa parte del West Bank, cioè i territori giordani occupati. Una gaffe di cui Donald era incolpevole. Ieri si è recato al Muro con la kippah in testa, ed è stata la prima volta per un presidente americano. Un gesto che è piaciuto agli ebrei. Gerusalemme è in festa per i 50 anni della guerra dei sei giorni. Cominciò il 5 giugno del 1967, ma il calendario ebraico è in anticipo di un paio di settimane. Fu il punto di svolta. Nelle prime ore, nessuno credeva che il piccolo paese attaccato da tutti i fronti, da Siria, Giordania ed Egitto, avrebbe potuto resistere. I pochi milioni di ebrei sarebbero stati spazzati via. E invece, contrattaccarono, respinsero i nemici, e conquistarono ampi territori. E un Israele forte cominciò a perdere simpatie. Gli ebrei piacciono solo come vittime?
   Dopo mezzo secolo i territori occupati sono sempre contesi. Si chiede di tornare ai vecchi confini, il che è impossibile. La linea passerebbe a poco più di 5 chilometri dall'aeroporto di Tel Aviv, ma le armi moderne sono ben più micidiali, basterebbe un ragazzino a paralizzare il paese. Nelle guerre, chi vince ha sempre ottenuto territori per garantire la sua sicurezza. La Germania ha perso enormi territori all'Est, ora diventati polacchi, e noi abbiamo perso Pola e Fiume. Perché per Israele dovrebbe essere diverso?
   A chi appartiene Gerusalemme? Dovrebbe rispondere la storia, ma anche la storia è un gran balagan, zeppa di fake news, e ognuno ha la sua versione. Abbiamo seguito il grande archeologo Dan Bahat nella visita dei vecchi resti. Anche le pietre mentono? Gli arabi accusano gli ebrei di distruggere le loro memorie per dimostrare che Gerusalemme appartiene solo a loro. Ma non è vero. I resti della dominazione ottomana vengono portati alla luce.
   Per motivi di sicurezza la città vecchia è stata chiusa anche ai pedoni per diverse ore. Gerusalemme si è svuotata, a parte i militari. Una sensazione straniante andare a piedi lungo le mura orientali, quelle ottomane, ai cui piedi si trova il cimitero arabo, e più oltre in fondo si scorgono le tombe ebraiche, sotto il Monte degli Ulivi. E si rientra per la Porta dei Leoni. Da qui passò Moshe Dayan, il generale vittorioso, a fianco di Rabin, 50 anni fa. Gerusalemme tornava unita. Io non sono un esperto. Degli esperti si dovrebbe diffidare. A Gerusalemme la verità si sente, ma non si spiega.

(ItaliaOggi, 23 maggio 2017)


Donald fa le prove di pace in Palestina

Il presidente degli Stati Uniti a Gerusalemme propone un patto a tre con l'Arabia e Israele.

di Carlo Panella

Nella scelta della destinazione del suo primo viaggio all'estero, Donald Trump ha deciso di privilegiare, non a caso, Israele, preceduto, di nuovo non a caso, dall'Arabia Saudita. Una scelta che sottolinea un dato poco citato dai media: tra Gerusalemme e Ryad è in atto da anni non solo un riavvicinamento, ma addirittura una stretta cooperazione in funzione anti iraniana . Due anni fa, non smentito, era addirittura emerso un accordo «segreto» in base al quale l'Arabia Saudita avrebbe permesso ai jet israeliani di passare sul proprio spazio aereo nel caso fosse indispensabile bombardare i siti nucleari di Teheran a fronte di un immediato pericolo che fossero in procinto di produrre le bombe atomiche ( destinate, nella logica degli ayatollah, tanto a colpire Israele, quanto i sauditi, considerati «indegni custodi delle Città Sante»). Accordo che ci risulta essere sempre in vigore.
   Questa successione di visite prefigura dunque il ritorno degli Usa a uno schieramento e a un forte impegno, anche militare, lungo le tradizionali strategie americane in Medio Oriente, in totale ribaltamento delle confuse e perdenti strategie di Barack Obama. Con una novità di rilievo, sottintesa nell'intenso lavoro degli sherpa di Trump e -in Israele- di Jared Kushner, ebreo e marito di Ivanka, figlia del presidente, che ha portato nelle ultime settimane a un mutamento sensibile della posizione dell'Arabia Saudita nei confronti della questione palestinese, un suo forte avvicinamento alle posizioni israeliane e quindi a forti pressioni di Ryad su Abu Mazen perché cessi la sua politica massimalista, basata su inutili condan - ne in sede Onu, si sieda al tavolo delle trattative e concluda un accordo anche a costo di rompere con Hamas.
   Il tutto all'insegna di un'alleanza tra Usa, Israele e «trincea sunnita» (della quale fa parte anche l'Egitto) non solo contro il terrorismo islamico, ma anche contro l'Iran, considerato da Trump il grande finanziatore e fomentatore del terrorismo mediorientale: «L'addestramento e il finanziamento di gruppi terroristici e milizie da parte dell'Iran deve cessare immediatamente. Stati Uniti e Israele sono chiamati in questo momento storico a rafforzare la loro cooperazione perché affrontano sfide comuni, tra cui lo Stato islamico, altri gruppi terroristici e l'Iran, che è uno Stato che parla apertamente di sterminio di massa, invocando la distruzione di Israele e degli Stati Uniti d'America, e la rovina per molti leader e paesi riuniti oggi in questa stessa stanza», ha detto Trump a Netanyahu.
   All'inizio della visita, Trump ha voluto anche compiere un gesto assolutamente inedito e -come mai nessun presidente Usa in carica aveva fatto- si è recato al Muro del Pianto. Scelta clamorosa, perché, in pura teoria, il Muro fa parte dei Territori Occupati (dopo la guerra del 1967) e questa visita suggella il totale appoggio americano alla sua totale appartenenza a Israele. Proprio quella appartenenza all'ebraismo che - su sollecitazione di Abu Mazen - recentemente le risoluzioni approvate dall'Unesco, agenzia dell'Onu, hanno scandalosamente negato.
   Trump, ha anche visitato la basilica del Santo Sepolcro, un ospedale in cui si curano ebrei come arabi senza chiedere loro chi siano e si è incontrato Reuven Rivlin, il suo omologo israeliano e con Bibi Netanyahu con i quali ha parlato con chiarezza: «Nel mio primo viaggio all'estero come presidente, sono venuto in questa terra sacra e antica per riaffermare l'indissolubile legame tra gli Stati Uniti e lo Stato di Israele, una nazione costruita sull'impegno che non permetteremo mai di ripetere gli orrori del secolo scorso. Adesso costruiamo un futuro nel quale le nazioni della regione siano in pace e tutti i nostri figli possano crescere forti e liberi dal terrorismo e dalla violenza. Durante i miei viaggi nei giorni scorsi ho trovato nuove ragioni per sperare. Ho appena concluso una visita in Arabia Saudita, nel corso del quale abbiamo raggiunto un accordo storico per perseguire una maggiore cooperazione contro il terrorismo».

(Libero, 23 maggio 2017)


“ ... sono venuto in questa terra sacra e antica per riaffermare l'indissolubile legame tra gli Stati Uniti e lo Stato di Israele”. E’ quell’«indissolubile» che preoccupa.
“Adesso costruiamo un futuro nel quale le nazioni della regione siano in pace...” E’ quella «pace» che preoccupa. M.C.


Andrea's Version

Donald Trump è arrivato all'HaKotel HaMa'aravi (il Muro del Pianto) accompagnato dalla moglie Melania. Insieme a lui, le figlia Ivanka e il genero Jared Kushner. Melania e Ivanka si sono dirette nello spazio riservato alle donne. Il presidente Usa, con la kippà sulla nuca, si è avvicinato al Kotel, ha appoggiato la mano destra sulle pietre millenarie in raccoglimento e ha infilato un biglietto in una delle fessure del Muro, come vuole la tradizione. Trascorsa un'ora, trascorse due, e l'agente russo non era ancora passato a ritirarlo.

(Il Foglio, 23 maggio 2017)


Armenia. Wagner, le foto del genocidio

Al Memoriale della Shoah di Milano fino a domani un percorso per immagini ricorda e racconta il massacro etnico perpetrato nel 1915 dai Giovani turchi. La testimonianza del Giusto tedesco.

di Giuseppe Matarazzo

Al memoriale della Shoah di Milano è spuntato un non ti scordar di me. Nel luogo simbolo del ricordo dell'Olocausto, al Binario 21 della Stazione Centrale da cui transitarono fra il 1943 e il 1945 quindici convogli Rsha - carri bestiame sui quali furono stipati migliaia di ebrei diretti alle camere a gas di Auschwitz- Birkenau - si rilegge un altro drammatico genocidio. Quello armeno, perpetrato nel 1915 dal governo dei Giovani turchi. Il primo genocidio del XX secolo, tragedia spesso dimenticata e sino a oggi negata dalla Turchia. Il non ti scordar di me è il simbolo scelto per la commemorazione del centenario. Un fiore che evoca subito la memoria, il dovere di ricordare, ma con cui sboccia anche la speranza nel futuro. La memoria del genocidio armeno si compie dunque con un fiore, e attraverso le fotografie che, senza bisogno di troppi commenti, vanno dritte al cuore. Fa una certa impressione muoversi negli spazi ricavati nella Stazione centrale per non dimenticare la Shoah, entrando da Piazza Edmond J. Safra, muoversi fra le carrozze delle deportazioni naziste e scorrere gli scatti veri, crudi, ma necessari del dramma del popolo armeno. Due tragedie contro l'umanità, contro la dignità degli uomini, che si parlano e ci parlano. E che sempre di più oggi vengono accomunate nella riflessione collettiva. Perché figlie della stessa, identica, cieca follia. «Ogni storia ha un punto di partenza e uno di arrivo. Ogni storia è un viaggio», si legge entrando nel Memoriale milanese. E così comincia il viaggio (doppio) nella memoria.
   Dal 27 aprile (e fino a domani) si sono susseguiti appuntamenti e incontri (a cominciare dalla lectio magistralis di Cyril Aslanov), per accompagnare "Metz Yeghern", la mostra fotografica sul genocidio armeno promossa da Adei Wizo di Milano, Casa Armena- Hay Dun, Fondazione Memoriale della Shoah. Fotografie, alcune anche inedite, raccolte dal padre mechitarista di Venezia Vahan Ohanian ed esposte già all'isola di San Lazzaro, in un percorso didattico assai interessante, insieme a ottanta scatti, emblematici, del Giusto Armin T. Wegner (ricordato nel memoriale dello Yad Vashem a Gerusalem - me, ma anche a Tsitsernakaberd, il monumento di Yerevan sul genocidio armeno), intellettuale e poeta tedesco (nato a Elberfeld nel 1886), testimone «inascoltato» del genocidio armeno nei deserti dell'Anatolia. Memorabili il suo appello al presidente degli Stati Uniti Wilson nel febbraio del 1919 per chiedere una patria per gli armeni e la famosa lettera a Hitler nell'aprile del 1933 per invocare la fine dei comportamenti antiebraici del regime. Wegner pagò la sua condotta anticonformista rispetto al Terzo Reieh con la tortura, con la permanenza in un campo di concentramento, e con l'esilio, in Italia dal 1936 (una figura che Gabriele Nissim, presidente di Gariwo, ha fatto conoscere al pubblico italiano con la biografia La lettera a Hitler. Storia di Armin T. Wegner, combattente solitario contro i genocidi del Novecento, Mondadori, 2015).
   Allo scoppio della Prima guerra mondiale, nell'inverno tra il 1914 e il 1915, Wegner si arruolò come infermiere volontario in Polonia. Nell'aprile del 1915 a seguito dell'alleanza militare tra la Germania e la Turchia fu inviato in Medio Oriente. Qui ha visto con i propri occhi e documentato direttamente quello che i dittatori turchi stavano com - piendo nei confronti del popolo armeno. «Negli ultimi tempi ho scattato molte fotografie - annotava Wegner -. Mi hanno raccontato che Gemal Pascià, il carnefice siriano, ha proibito, pena la morte, di scattare fotografie nei campi dei profughi. Io conservo immagini di terrore e di accusa legate sotto la mia cintura. Nei campi di Meskene e di Aleppo ho raccolto molte lettere di supplica che tengo nascoste nel mio zaino in attesa di consegnarle all' ambasciata americana a Costantinopoli, perché la posta non le avrebbe inoltrate. Io so di commettere in questo modo un atto di alto tradimento, e tuttavia la consapevolezza di avere contribuito per una piccola parte ad aiutare questi poveretti, mi riempie di gioia più di qualsiasi altra cosa che abbia fatto». Wegner scrive da Aleppo, è il 19 ottobre del 1916. Ha visto devastazioni di villaggi e città, ha incontrato innocenti orfani abbandonati e spaesati; si è imbattuto nelle carovane della morte, ha assistito a esecuzioni sommarie e visto veri e propri lager nel deserto, «ragazzi e giovani armeni morti per la fame ammassati all' esterno delle mura di un villaggio arabo».
   Erano circa due milioni gli armeni che abitavano il Paese. «Sono stati tutti cacciati via - si legge nei suoi appunti -. Mezzo milione di persone sono state annientate o sono morte di fame. Il deserto li ha divorati», in quella strada del «non ritorno» che Wegner ha percorso. C'è la foto di una madre armena sulle alture dei monti del Tauro assai simbolica: «Suo marito è stato ucciso o abbattuto, buttato in prigione o portato ai lavori forzati. Sulle spalle tutto il suo avere che ha potuto prendere con sé, una coperta per dormirci dentro e farne una tenda per proteggersi dal sole, bastoni di legno, e sopra il suo piccolo. Le teste sono protette dal sole con fazzoletti. Per quanto potrà ancora portare questo peso?».
   Il reportage del Wegner-fotografo è potente. Le sue foto «non sono soltanto preziosissimi documenti: non vogliono impressionare, né convincere - commentava la scrittrice Antonia Arslan nelle pagine di Armin T.Wegner e gli Armeni in Anatolia, 1915 (Guerini e Associati, 2005), catalogo della mostra che ha toccato più di 100 città in Italia e all'estero -. Con amorosa compassione, gentilezza e virile pietà esse consegnano a noi le reliquie di una civiltà scomparsa, la nuda essenza di una tragedia immane, testimoniano l'incredulo stupore della gente che la attraversò, chiedendosi "perché?". Salviamo questi visi, questi uomini (pochi, la maggior parte venne uccisa subito) e queste donne, questi vecchi sparuti, questi bambini, dal gorgo della cancellazione e dall'oblio. Dalle mani di questo prussiano giusto noi riceviamo così uno dei riscatti più nobili dai peccati orribili della nostra epoca: qualcosa che ci rende più umili e che ci aiuta a guardarci dentro, affrontare con minore sfiducia questo secolo che si chiude, e a perdonarci».
   Proprio la Arslan sarà fra i protagonisti della serata conclusiva di domani alle 18, insieme alla filosofa Siobhan Nash Marshall, alla superstite di Auschwitz Liliana Segre, al professore David Meghnagi, al deputato Irene Manzi e al presidente della Fondazione Memoriale della Shoah, Ferruccio De Bortoli, sul tema «Le vittime e le aguzzine. Storie delle martiri armene ed ebree e delle loro persecutrici». Un ultimo spaccato di memoria e di umanità, un'ultima riflessione a corredo del percorso fotografico di Wegner. «Molti appuntava l'intellettuale tedescoconoscevano tutte le lingue della terra, e le loro donne e figlie erano più abituate a sedere in una sedia a dondolo davanti a una tavola linda apparecchiata piuttosto che rannicchiate in un buco scavato nella terra del deserto ... ». Abituate a raccogliere un fiore, forse. E a riceverlo. Con i colori di un non ti scordar di me.

(Avvenire, 23 maggio 2017)


Ute Lemper, "Songs for Eternity", quelle canzoni degli ebrei deportati

di R. Sp.

Ute Lemper
"Eine kleine Sehnsucht"
Ute Lemper, grande cantante e artista tedesca universalmente applaudita per le sue intense interpretazioni delle Canzoni del Cabaret di Berlino, delle opere di Kurt Weill e della canzone francese e per le sue performance a Broadway e nel West End di Londra, porta per la prima volta a Roma (al Teatro Brancaccio sabato 27 maggio alle ore 21) "Songs for Eternity", un progetto a lei molto caro che prevede un repertorio di canzoni scritte nei campi di concentramento da musicisti ebrei deportati, molti dei quali morirono nelle camere a gas. Sono canzoni di grande bellezza, con parole struggenti, spesso scritte da poeti.

Atmosfere
«Ci sono canzoni dai tratti molto diversi: alcune sono art songs, altre sono impressionistiche e avventurose, altre nello stile di Kurt Weill, ci sono canzoni con atmosfere alla Klezmatics (il celebre gruppo newyorkese di klezmer guidato dal grande trombettista Frank London) e dal forte sentimento ebraico, ma anche ninne nanne, pagine di ribellione e speranza e altre d'irrimediabile disperazione. Il modo in cui cerco di renderle è semplice, sincero e diretto. In questo caso sono più una medium che altro e mi concentro su lacrime, energia e protesta verso il mondo», spiega Ute Lemper e aggiunge «Come tedesca nata in Germania dopo la guerra, sento la responsabilità e la necessità etica di testimoniare la storia dell'Olocausto, alla quale sono molto sensibile e che mi tormenta. Voglio così non solo rendere omaggio alla cultura ebraica, ma anche stimolare il dialogo su questo terribile passato. Il 27 gennaio 2015, a 70 anni dalla liberazione di Auschwitz, sono stata invitata a cantare canzoni del ghetto ebraico e dei campi di concentramento per commemorare l'Olocausto di Roma ed è in quest'occasione che ho conosciuto Francesco Lotoro, musicista che ha dedicato la sua vita alla ricerca delle canzoni e delle musiche scritte nei campi di concentramento: ne esiste una collezione enorme ed è importante che sia ricordata per l'eternità. È un impegno che ho assunto già nel 1987 quando sono stata protagonista di una grande serie Decca dal titolo "Entartete Music" che presentava i compositori ebrei e la loro musica bandita dai nazisti. Con "Songs for Eternity", continuo questa missione, che raggiunge così la sua massima estensione emozionale. Col procedere della ricerca sono stata sopraffatta dalle storie che stavano dietro i brani scritti nei ghetto e nei campi di concentramento. Alla fine ho messo insieme una raccolta unica, la collezione di canzoni di Vevel Pasternak del 1948, e quella di Ilse Weber, pubblicata dal marito negli anni Novanta, molto dopo essere sopravvissuto ad Auschwitz. Entrambe le collezioni mi sono state donate dalla mia cara amica Orly Beigel, che è per metà messicana e per metà israeliana e figlia di una persona sopravvissuta all'Olocausto.»

(Messaggero, 23 maggio 2017)


Casale, in sinagoga per Salone Off. Un weekend tra musica ed emozioni

di Alberto Angelino

 
È stato un lungo fine settimana quello vissuto dalla Comunità ebraica di Casale Monferrato, inserito nel programma di iniziative collaterali del Salone del libro di Torino cominciato nella sera di sabato 20 maggio dopo il tramonto, quando il tenore Michele Ravera ha intonato la "Cantica del mare di Miriam". Un momento toccante, non solo musicale: la luce che illuminava il solo volto del cantore davanti all'Aron, lasciando nella semioscurità la sala, la melodia per la sola voce che si snodava lenta e ieratica, secondo le modalità della liturgia ebraica, la lingua antica della Torah, in cui era possibile tuttavia cogliere i protagonisti di questa storia antica in cui si ringrazia l'Onnipotente per aver salvato il suo popolo, erano tutti elementi capaci di rendere la spiritualità di questo canto antichissimo e diverso da tutti. Un'idea sicuramente in linea con l'occasione per cui è stata allestita questa rappresentazione che sotto il titolo di "Superare il mio confine" si univa idealmente a un altro evento al parco Eternot e a una serata ricca di cultura a Casale, con lo stesso Museo Ebraico aperto che accoglieva visitatori fino alle 24.
   Domenica pomeriggio, la porta di vicolo Salomone Olper era chiusa in quanto la Sinagoga ha ospitato un evento privato, ma domenica sera è stata di nuovo la musica a risuonare tra gli stucchi dorati del tempio. È iniziata infatti la stagione musicale, diretta dal maestro Giulio Castagnoli che ormai da anni accompagna gli eventi culturali della Comunità. Il concerto di debutto, dei 5 previsti, aveva per titolo "Strumenti nella bibbia".
   "Non sono molti gli strumenti menzionati nella Torah - spiega lo stesso Castagnoli - ma tra di essi il flauto e l'arpa sono sicuramente i più presenti". E così a imbracciare lo strumento di Re David nella sua forma contemporanea ci ha pensato Marta Facchera, mentre l'erede del "chalil" menzionato dalla scritture era ad appannaggio di Giuseppe Nova. Due eccezionali virtuosi per un programma che forse non era molto bibblico, ma che ha spaziato tra autori dell'800 di una vasta letteratura per questi due strumenti, compresi quelli meno conosciuti al di fuori degli addetti ai lavori, perchè se è vero che la celebre aria sulla IV corda di Bach acquista in leggiadria e nella fantasia sulla Traviata ogni tema è un gorgheggio di usignolo, è proprio in brani come il Nocturne sulla Tyrolienne del Guglielmo Tell di Rossini di due sconosciuti compositori che si trovano certe chicche, specie ascoltando con attenzione il fraseggio dell'arpa. Anzi, se di Giuseppe Nova si può concordare con quanto scritto dai più famosi giornali mondiali, circa la validità delle interpretazioni, bisogna dare giuste lodi anche alla sua partner, davvero difficile trovare un arpa dai suoni così distinti e perfettamente udibili, come la sua, per non parlare comunque della capacità tecnica che la rende tutt'altro che una semplice accompagnatrice. E' capace dare spessore anche un brano tutto sommato "di studio" come "Berceuse per arpa sola" di Oberthur.
   Tra i brani degni di menzione anche "Entr'acte" di Ibert ricco di atmosfere esotiche che però non scadono mai nel kitsch e l'andante del concerto op 56 di Luigi Hugues, anche qui c'è una meditazione, ma è di Castagnoli: Hugues è forse il compositore casalese più eseguito al mondo: in ogni conservatorio o scuola di musica si insegna il flauto con il suo metodo: meriterebbe una rassegna a suo nome".
   Il concerto si conclude con le variazioni sull'Habanera della Carmen e un giusto tributo di applausi e richieste di bis.
   Domenica 28 maggio in occasione della "Pasqua delle rose" la Sala Carmi della Comunità Ebraica ospita alle 17 l'inaugurazione della mostra del Collettivo Italiancode, dedicata proprio a questa peculiare festività ebraica. La mostra, a cura di Luciano Bobba durerà fino al 18 giugno.
   La giornata prosegue con il secondo appuntamento della rassegna musicale, in sinagoga il trio formato da Marco Norzi, violino, Luca Magariello violoncello, Cecilia Novarino, pianoforte per un programma che va da Mendelssohn a Bloch.

(moked, 22 maggio 2017)


Trump arrivato a Tel Aviv accolto dal premier Netanyahu

Il presidente Usa: possibile arrivare alla pace in Medioriente

 
Il presidente Usa Donald Trump accolto dal premier Benyamin Netanyahu all'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv
«Da 69 anni, Israele lotta contro tutti gli estremismi»: queste le prime parole del premier israeliano, Benjamin Netanyahu, accogliendo in aeroporto il presidente americano, Donald Trump, appena atterrato in Israele.
   Netanyahu ha ricordato il discorso tenuto domenica da Trump dinanzi ai leader del mondo arabo: «Lei -ha detto - ha fatto un discorso di chiarezza e convinzione: ha fatto appello alle nazioni chiedendo di lottare contro gli estremisti, alle forze della civiltà di lottare contro la barbarie. Da 69 anni, Israele fa esattamente questo, è in prima linea contro il terrorismo».
   In Israele «abbiamo costruito un Paese moderno, vibrante, proteggiamo tutte le sedi, musulmana, cristiana. In tutto il Medioriente le minoranze sono perseguitate, i cristiani decimati, qui crescono e prosperano», ha detto Netanyahu al presidente Usa Donald Trump. «Garantiamo i diritti a tutti», ha aggiunto.
   Dal canto suo il presidente Trump si è detto fiducioso sulla possibilità di arrivare a un accordo fra israeliani e palestinesi. «Nel mio viaggio in questi giorni ho trovato nuove ragioni di speranza». Lo ha detto il presidente Donald Trump nel suo discorso all'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv. «Abbiamo un'opportunità rara di portare stabilità e pace nella regione», ha aggiunto Trump. «Sono venuto per ribadire il legame che non può essere spezzato tra Stati Uniti e Israele».
   E sarà proprio il conflitto israelo-palestinese il tema centrale della «due giorni» in Terra Santa del presidente americano, Donald Trump che, lasciata l'Arabia Saudita e prima di arrivare in Europa, è arrivato a Tel Aviv alle 11.30 (12.30 in Israele).
   Trump avrà un faccia a faccia con il premier Benjamin Netanyahu oggi alle 18 e domani a Betlemme inconterà il leader dell'Autorità nazionale palestinese, il presidente Abu Mazen. L'ambizione è riattivare il negoziato di pace e arrivare dove nessuno dei suoi predecessori è giunto, «l'accordo più difficile da raggiungere», come ha detto egli stesso, la pace tra israeliani e palestinesi. Oltre agli incontri istituzionali, il presidente americano visiterà il memoriale dell'Olocausto, Yad Vashem, il Santo Sepolcro, che è il luogo più sacro del cristianesimo, e poi sempre nella Città Vecchia di Gerusalemme, a pochi centinaia di metri di distanza, sarà il primo presidente americano in carica a visitare il Muro del Pianto.
   Appena atterrato da Riad dove ha fatto appello ai Paesi arabi a fermare il terrorismo, il presidente Trump ha lasciato a casa una serie di problemi, prima tra tutti l'inchiesta sulle possibili collusioni tra la sua campagna elettorale e la Russia. In Terra Santa cercherà il rilancio della sua immagine, ma dovrà chiarire i segnali confusi mandati negli ultimi mesi e che hanno prima illuso il governo di Netanyahu e poi hanno rassicurato i palestinesi: abituato a cambi repentini di posizione, Trump ha infatti promesso nei mesi scorsi di riconoscere Gerusalemme come la capitale di Israele e di trasferirvi l'ambasciata americana che attualmente è a Tel Aviv, ma poi ha anche mostrato aperture ad alcune delle preoccupazioni palestinesi, esortando Israele a fermare la colonizzazione dei territori occupati.
   Con un programma che ha subito l'ennesimo cambio all'ultimo minuto e che potrebbe subire ancora cambiamenti, la visita è circondata da enormi misure di sicurezza messe in piedi dallo Shin Bet, il servizio di sicurezza interna israeliano, e dai servizi segreti americani per garantire l'incolumità del presidente, della moglie Melania, della figlia Ivanka e del genero, oltreché delle centinaia di funzionari che li accompagnano. Il faccia a faccia con il premier Netanyahu dovrebbe cominciare intorno alle 18, dopo che Trump sarà stato ricevuto dal presidente Reuven Rivlin e dopo il tour nella Città Vecchia.

 Il «giallo» dei ministri in aeroporto
     Un infuriato Benjamin Netanyahu avrebbe letteralmente dovuto ordinare ai suoi ministri di recarsi all'aeroporto Ben Gurion per accogliere il presidente Donald Trump. Secondo quanto rivela il Jerusalem Post i ministri non volevano partecipare alla cerimonia per non dover affrontare una lunga attesa sulla pista sotto il sole. L'ordine del premier israeliano è arrivato durante una riunione dei capi dei partiti della sua coalizione di governo. Dopo che il ministro delle Finanze, Mosche Kahlon, della Cultura e Sport, Miri Regev e del Turismo, Yariv Levin avevano detto che non intendevano cancellare precedenti impegni di lavoro per andare all'aeroporto, Netanyahu si sarebbe arrabbiato e avrebbe interrotto la riunione, ricostruisce ancora il giornale israeliano. Poi ha chiesto al suo capo dello staff di inviare un nuovo invito ai ministri alla cerimonia, in cui si indicava la partecipazione come obbligatoria.

 La figlia Ivanka
  «Fantastica e storica visita in Arabia Saudita. Sono emozionata di continuare il nostro viaggio in Israele». Così la figlia del presidente americano, Ivanka Trump, ha scritto su Twitter dopo la partenza da Riad.

(La Stampa, 22 maggio 2017)


A Netanyahu e Abu Mazen Trump chiederà passi pace

Oggi il presidente Usa in Israele, domani a Betlemme


di Massimo Lomonaco

TEL AVIV - Il messaggio è chiaro: Netanyahu e Abu Mazen intraprendano "passi decisivi per la pace". Prima ancora di arrivare oggi in Israele e in Cisgiordania, Donald Trump ha indicato, secondo la Casa Bianca, l'obiettivo del suo viaggio, pur consapevole che il percorso per riavviare i negoziati è ancora agli esordi. E quali siano questi passi sembra essere oramai assodato: da una parte Israele - secondo fonti Usa - deve "frenare gli insediamenti" e attuare mosse che portino al "miglioramento dell'economia palestinese". Dall'altra, per i palestinesi, si tratta di "mettere fine all'istigazione e alla violenza" verso lo Stato ebraico.
Una prima risposta è arrivata da Gerusalemme, dove il premier Benyamin Netanyahu ha convocato una riunione di governo in vista dell'arrivo del capo della Casa Bianca. Con Trump "parlerò di pace", ha detto, aggiungendo di voler discutere "le maniere per rafforzare ancora di più la nostra alleanza e i nostri legami di sicurezza. Ma anche i modi per far avanzare la pace". La replica di Abu Mazen arriverà domani, quando incontrerà il presidente Usa a Betlemme in Cisgiordania, ma già ieri a Riad, dove era presente tra gli altri leader arabi al discorso di Trump, ha ascoltato in diretta la posizione americana sulla necessità di riavviare i negoziati e la conferma della scomunica come organizzazione terroristica di Hamas (che l'ha respinta).
Delle misure economiche in favore dei palestinesi il governo di Israele ha parlato ieri. Sul tavolo ci sono l'apertura continua del valico di Allenby, tra Cisgiordania e Giordania, in modo da consentire un più facile transito, il miglioramento dei passaggi della Cisgiordania al fine di facilitare i lavoratori palestinesi e lo sviluppo delle aree industriali a Tarkumia, nei pressi di Hebron, e a Jalma, vicino Jenin. Inoltre, sono previste azioni per facilitare le condizioni dei commercianti di Gaza. Ora, in mancanza di un incontro a tre che invece sembrava possibile nelle scorse settimane, starà a Trump far passare le parti dalle parole ai fatti. Intanto Israele si appresta a ricevere il presidente Usa con ferree misure di sicurezza che hanno blindato tutta Gerusalemme.
Trump, giunto in Israele proveniente dall'Arabia Saudita, e' stato accolto all'aeroporto Ben Gurion da Benyamin Netanyahu e dagli altri ministri. Da lì, secondo un programma che cambia in continuazione, Trump andrà in elicottero a Gerusalemme per vedere il presidente Reuven Rivlin.
Nel pomeriggio alle 18 primo incontro con Netanyahu, quindi cena di gala alla residenza del primo ministro.

(ANSAmed, 22 maggio 2017)


A Gerusalemme il congresso Udai, organismo italiano pro Israele

Si apre domani in occasione della riunificazione della città dopo il '67

Si apre domani a Gerusalemme il congresso dell'Udai, l'Unione della Associazioni pro Israele che per la prima volta si svolge nello stato ebraico. L'assise, che si terrà nei locali del Tempio Italiano della città, sarà aperta - fanno sapere gli organizzatori - da Iris Ambor direttrice per l'Europa sud del ministero degli affari esteri israeliano e vedrà la partecipazione tra gli altri la partecipazione della giornalista Fiamma Nirenstein, ex vicepresidente per Forza Italia - prima del trasferimento in Israele - della Commissione affari esteri della Camera. Oltre a lei Manfred Gerstenfeld, l'ex ambasciatore Zvi Mazel e Benjamin Weinthal. Tra i temi in discussione, il terrorismo e la sicurezza, la relazione Europa-Israele, il mondo arabo e lo stato ebraico, il movimento per il boicottaggio di Israele (Bds) e l'antisemtismo. L'Udai ha associazioni a Lecce, Roma, Firenze, Livorno, Milano, Lodi, Brescia, Torino, Cuneo, Alba, Asti, Bolzano, Trieste.

(ANSAmed, 22 maggio 2017)


Le dichiarazioni di Trump contro Hamas sono una dichiarazione di guerra contro i palestinesi

Il Jihad islamico palestinese ha affermato che le dichiarazioni del presidente USA Donald Trump contro Hamas "sono una dichiarazione di guerra contro le fazioni palestinesi".
"Le minacce che Donald Trump ha lanciato contro Hamas, definendo questo movimento come un gruppo terroristico di fronte ai leader arabi in Arabia Saudita, è una pugnalata alla schiena e una dichiarazione di guerra contro il popolo e fazioni della resistenza palestinese", ha affermato domenica Adnan Khader, uno dei leader del movimento del Jihad islamico in Palestina.
Nel corso di un incontro con i leader arabi a Riyadh, il presidente degli Stati Uniti ha definito il Movimento della Resistenza islamica palestinese (Hamas) un'organizzazione terroristica che pratica crimini come le bande estremiste dell'ISIS (Daesh, in arabo) e al-Qaeda.

(Fonte: InfoPal, 22 maggio 2017)


E' promettente vedere che il Presidente degli Stati Uniti prende in considerazione Hamas, considerandolo per quello che è: "un'organizzazione terroristica che pratica crimini come le bande estremiste dell'ISIS". Hamas però governa, insieme a Fatah, quello che dovrebbe diventare uno “Stato palestinese”. Ha senso allora chiedere a Israele di trattare e fare la pace con un’«entità palestinese» bicefala, dove uno dei due capi è un gruppo terroristico? M.C.


Arabia, svolta di Trump: «Lotta a Iran e terrore, l'islam è nostro alleato»

Il presidente si rivolge proprio ai musulmani «: Voi le prime vittime degli estremisti, isolateli»

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Ne è passato del tempo da quando Trump, in campagna elettorale, disse che l'Islam era di per sé una religione portatrice di odio e quindi di terrorismo, tanto da dover vietare l'ingresso negli Usa a chi venisse Paesi Islamici. Ieri, a Riad, di fronte a un paludato consesso di una cinquantina di leader musulmani da tutti i Paesi Arabi (di fronte a teste coronate come quella di Abdullah di Giordania, presidenti forti come Al Sisi d'Egitto, deboli come Saad Hariri del Libano, e soprattutto di fronte alla cipigliosa benevolenza del vecchio re Salman) Trump ha appassionatamente dichiarato alleati di primaria importanza i musulmani in una guerra spietata e definitiva contro il terrorismo. Ha usato toni drastici e definitivi: buttateli fuori dalle comunità, dai luoghi di culto, dalla vostra Terra ... I musulmani sono le principali vittime, ha detto, di questi mostri «barbari criminali», perseguitati dal terrore estremista come i cristiani e, udite udite, perché mai presidente ha osato denunciarlo davanti a una folla di leader islamici, ebrei. Forse Trump, che è stato accolto con fasto da mille e una notte, in una sala da sogno, con regali e riverenze (per altro ricambiate) non ha resistito come tanti politici speranzosi prima di lui, e non solo americani, alla consueta tentazione di fondare un nuovo Medio Oriente.
   Ma il suo discorso, che disegna un passaggio dalla preferenza obamiana per l'Iran a una scelta pragmatica filo sunnita e a una ripetuta messa in guardia della Repubblica Islamica, unita all'esasperazione generale verso il terrorismo, è nuovo: lo è cioè l'idea di fondo di Trump di formare una coalizione moderata capeggiata dall'Arabia Saudita (di cui con un colpo di spugna ha cancellate le violazioni dei diritti umani e i finanziamenti alle madrasse estremiste) ha due grandi garanti. Il primo si chiama convenienza economica, e Trump è specializzato in questo campo: le possibilità di riuscire sono legate agli accordi miliardari firmati per la vendita di armi americane che, come ha detto il presidente, porteranno molti posti di lavoro e ai sauditi porteranno armi micidiali capaci di tenere a bada l'Iran. Trump ha parlato della necessità dei giovani mediorientali di vivere in un universo moderno, ricco, avanzato: dunque, business e pace. Ma il secondo garante della linea Trump è la necessità di contenere l'Iran: non gli ha lesinato critiche e persino minacce, ha parlato di sanzioni e di tagliare le finanze a chiunque ne faccia uso contro la pace e per sostenere il terrorismo, cioè l'Iran; ha ricordato l'intenzione di Teheran distruggere Israele; poi, ha disegnato l' orrore morale di chi sostiene Assad che ha ucciso i suoi cittadini col gas nervino. Insomma l'Iran è uscito dal suo discorso come un nemico che porta instabilità e violenza.
   Trump ha anche molto innovato la definizione dei primi nemici da battere aggiungendo all'Isis anche gli Hezbollah e, novità che parifica il terrorismo che Israele subisce a quello del resto del mondo, di Hamas. Trump così facendo ha creato un problema non piccolo per Abu Mazen, che tuttora ambisce a unificarsi con questi fratelli dichiaratamente terroristi.
   Trump, nonostante la grande tempesta domestica, ha avuto coraggio, e si è mostrato in ottima forma persino ballando la danza tradizionale dei guerrieri sauditi. Ha anche portato Ivanka e Melania a sventolare le chiome sotto i nasi vetusti dei dignitari sauditi e sotto lo sguardo smaliziato di tutti quei giovani principi palestrati che nella sala tutta scintillante spippolavano i telefonini e ridacchiavano sotto la kefia ben stirata. Questo prima che entrassero il re e il presidente, si capisce. In generale questo incontro, che ha avuto in comune con quelli di Obama solo la ripetizione del mantra che nessuno si sogna di dettare a quel mondo come deve vivere e in che cosa deve credere, apre davvero se non un'era, un momento nuovo. Naturalmente Trump, in partenza per Israele, ha anche annunciato la sua intenzione di portare la pace fra israeliani e palestinesi. Beh, si dice sempre così. Oggi comincia questo capitolo.

(il Giornale, 22 maggio 2017)


Editorialista egiziano: la "Nato araba" normalizzerà il rapporti tra il Golfo e Israele

IL CAIRO - La nuova "Nato" dei paesi arabi rilanciata dall'amministrazione Usa di Donald Trump si fonderà sulla collaborazione d'intelligence con Israele, portando a una graduale normalizzazione dei rapporti con Tel Aviv. Lo ha detto ad "Agenzia Nova" Amr Gouda, editorialista del quotidiano egiziano "Youm7" specializzato in affari del Medio Oriente. "La Nato araba degli Stati Uniti sarà fondata sulla cooperazione d'intelligence con Israele (attraverso la collaborazione con gli Usa), che avrà il riconoscimento di questi Stati come parte di un piano per una piena normalizzazione dei rapporti", ha detto Gouda, sottolineando tuttavia che la questione "potrebbe suscitare disordini sociali, perché la maggioranza degli arabi rifiuta questa possibilità". Secondo l'editorialista, inoltre, "l'accordo tra Stati Uniti e paesi del Golfo garantirà una forte presenza nella regione alle forze armate Usa, in modo da evitare qualsiasi futuro attacco iraniano e ridurre la crescente influenza di Teheran".

(Agenzia Nova, 22 maggio 2017)


Israele: nuovo studio sullo sviluppo di tumori in età pediatrica

Israele: nuovo studio sullo sviluppo di tumori in età pediatrica. I bambini nati da madri che hanno subìto trattamenti di fertilità hanno un maggiore rischio di sviluppare vari tipi di tumori pediatrici, secondo i ricercatori dell'Università Ben Gurion.
Secondo l'American Cancer Society, le neoplasie più comuni nei bambini sono la leucemia, i tumori al cervello e del midollo spinale, neuroblastomi, tumori di Wilms e i linfomi, inclusi sia Hodgkin sia non-Hodgkin.
Lo studio, pubblicato nel numero di marzo del Journal of Obstetrics & Gynecology, è un'analisi sulla popolazione di bambini nati tra il 1991 e il 2013 al Soroka University Medical Center di Beersheva, con un follow-up a 18 anni.
Queste le parole del Prof Eyal Sheiner:
In Israele, tutti gli interventi di fertilità, che includono la fecondazione in vitro e l'induzione dell'ovulazione, sono integralmente coperti da assicurazione, consentendo a tutti i cittadini l'accesso a questi trattamenti.
Dei 242,187 neonati studiati, 237.863 (98,3 per cento) sono stati concepiti spontaneamente; 2.603 (1,1 per cento) sono stati concepiti dopo la fecondazione in vitro, e 1.721 (0,7 per cento) sono stati concepiti dopo trattamenti di induzione dell'ovulazione.
Durante il periodo di follow-up di circa 10,6 anni, sono stati diagnosticati 1.498 tumori (0,6 per cento). Il tasso di incidenza per i tumori è stata più alta tra i bambini dopo la fecondazione in vitro e un po' più bassa per le nascite avvenute con induzione dell'ovulazione, rispetto a quelle dei bambini concepiti naturalmente.
Il Prof. Sheiner quindi conclude che l'associazione tra questi trattamenti e la comparsa di neoplasie in età pediatrica è significativa, e con un numero crescente di prole concepita dopo questi trattamenti, è importante monitorare la salute dei piccoli.

(SiliconWadi, 22 maggio 2017)


I cristiani del medio oriente, i nuovi ebrei

Stanno scomparendo: ne approfitterà l'islam radicale

da Wall Street Journal (12/5)

Come gli ebrei prima di loro, i cristiani stanno fuggendo dal medio oriente, svuotando delle sue antiche religioni quella che una volta era una delle regioni più diversificate del mondo". Così il Wall Street Journal racconta uno smottamento senza precedenti nella regione in una inchiesta ricca di storie e statistiche.
   Secondo Todd Johnson, direttore del Centro per lo studio del cristianesimo globale presso il Seminario teologico di Gordon Conwell a Hamilton, Massachusetts, entro il 2025 i cristiani dovrebbero rappresentare poco più del tre per cento della popolazione del medio oriente, dal 4,2 per cento che erano nel 2010. Un secolo prima, nel 1910, erano il 13,6 per cento.
   "L'esodo lascia il medio oriente dominato in gran parte dall'islam, le cui divisioni rivali spesso si scontrano, aumentando la prospettiva che il radicalismo nella regione si acuisca. 'La scomparsa di tali minoranze mette i gruppi più radicali in condizione di dominare la società', ha dichiarato Johnson. 'Le minoranze religiose hanno un effetto moderatore'. Lo scoppio della guerra civile in Siria nel 2011 ha spinto circa la metà della popolazione cristiana di 2,5 milioni di persone a fuggire dal paese, secondo le organizzazioni cristiane che seguono il flusso. Molti sono scappati nel vicino Libano, un'anomalia nella regione, dove i cristiani esercitano potere politico e praticano il culto liberamente. In Iraq, l'instabilità che ha avuto inizio nel 2003, quando un'invasione americana ha rovesciato il leader iracheno Saddam Hussein, si è approfondita più di un decennio più tardi quando lo Stato islamico ha preso possesso di circa un quarto del paese. Dei cristiani del paese ne rimane solo un quinto: erano all'incirca un milione e mezzo nel 2003. Per la prima volta in quasi due millenni, la seconda città irachena, Mosul, una volta sede di antiche religioni, manca di una popolazione cristiana".
   Oggi sono più numerosi i cristiani arabi che vivono al di fuori del medio oriente di quelli rimasti nella regione. "Circa venti milioni - spiega ancora il Wall Street Journal - vivono all'estero, contro i 15 milioni di cristiani arabi che rimangono nel medio oriente, secondo un rapporto dell'anno scorso di un trio di charities cristiane e dell'Università di East London. Nel 1971, i cristiani copti egiziani avevano due chiese negli Stati Uniti. Oggi ci sono 252 chiese copte, secondo Samuel Tadros del Centro per la libertà religiosa dell'Istituto Hudson. Tadros stima che circa un milione di copti siano fuggiti dall'Egitto fin dagli anni Cinquanta".
   Per altro verso, nota il giornale, "la diaspora araba cristiana negli Stati Uniti è già emersa come una potenza nella politica e negli affari. Dina Powell, l'influente membro del consiglio di sicurezza nazionale di Trump, è di origine copta egiziana".

(Il Foglio, 22 maggio 2017)


L'auto futura ha il cervello sardo: ecco gli ingegneri che conquistano i grandi marchi

Nei giorni scorsi una delegazione dell'azienda sarda Abinsula è stata a Tel Aviv per partecipare ad Ecomotion, appuntamento annuale della comunità del settore automotive.

 
Pierluigi Pinna, Antonio Solinas e Andrea Sanna di Abinsula
Nei cervelli delle Bmw, delle Jaguar e delle Land Rover, delle Fiat-Chrysler, delle Peugeot, delle Citroen e delle auto del gruppo General Motors c'è un pezzo di Sardegna.
I software che gestiscono i sistemi di infotainment e sicurezza, ormai imprescindibili in ogni macchina, li ha progettati Abinsula, azienda isolana con 70 dipendenti e sedi a Cagliari, Sassari, Torino e Barcellona.
Fondata nel marzo del 2012 da Andrea Sanna, Pierluigi Pinna, Paolo Doz, Stefano Farina e Andrea Madau, ingegneri con solida formazione tra Cagliari, Pisa e Torino e specializzazioni in giro per il mondo nell'information technology e nell'automotive, da piccola start up Abinsula è cresciuta costantemente sino a ritagliarsi uno spazio di nicchia sul mercato internazionale.
Quest'anno fatturerà sei milioni di euro raddoppiando i tre milioni di due anni fa. Lo scorso maggio l'azienda è entrata a far parte del consorzio Genivi, una associazione di cui fanno parte importanti produttori di auto (quelli citati sopra) e di componentistica per auto come Bosch e Magneti Marelli. Lavora inoltre per marchi di lusso come Lamborghini e per progetti avveniristici di auto intelligenti (smart e connected cars).

 Missione in Israele
  Nei giorni scorsi una delegazione della società è stata a Tel Aviv per partecipare ad Ecomotion, appuntamento annuale della comunità del settore automotive. "Israele è leader nelle funzionalità innovative per l'auto siamo andati lì per trovare clienti e collaborazioni", spiega Pinna.
"Nel settore dell'auto partiamo da codici open source e realizziamo programmi che gestiscono sistemi multimediali e di controllo delle diagnosi", racconta. "Una delle cose che stiamo sviluppando in questo periodo è un modulo emergency call che in caso di incidenti gravi chiama automaticamente i soccorsi. In Russia è già obbligatorio, in Europa lo diventerà a breve. Accadrà grazie a una sim di cui alcune auto sono già dotate e che sarà sempre più diffusa grazie alla quale le auto diventeranno smartphone a quattro ruote e i produttori potranno vendere un'infinità di servizi".
Ma più le auto saranno connesse e più presteranno il fianco ai cyber pirati. Pensate alla guida autonoma i cui prodromi si intravedono in molti modelli attuali: i cervelli che la gestiranno saranno vulnerabili come tutti i computer. E qui l'azienda sardo-piemontese entra in ballo con i sistemi di protezione.

(L’Unione Sarda, 22 maggio 2017)


L'islam del corteo. Senza muri alza muri con donne e Israele

I Giovani musulmani incontrano un imam dell'odio. In piazza nomi discussi e striscioni discriminatori.

di Alberto Giannoni

La campagna
Fra le bandiere comuniste spuntano i boicottatori dello Stato ebraico
Il personaggio
Sheykh Rajab Zaki è stato accusato di sostenere i fondamentalisti

«Tantissimi, tutti allegri e colorati». Ma è andata proprio così? I partecipanti al corteo di sabato erano tutti pervasi da un universale afflato irenista contro tutti i muri? Non si direbbe proprio a giudicare da certi striscioni, da alcuni volti, da diversi nomi e da qualche sigla. Per esempio dell'islam politico. Non sfuggirà ai più attenti che la Comunità ebraica non ha aderito alla marcia, al contrario dell'Ucei.
   La manifestazione non è stata (solo) una sfilata folkloristica: cancellare contraddizioni e ambiguità non è possibile. Vale per esempio per le contestazioni, che non possono essere ridotte alle escandescenze di qualche scalmanato dei centri sociali. Politicamente parlando c'era mezzo corteo che sfilava contro il Pd, cioè contro le politiche e i provvedimenti che il suo governo ha concepito e messo in atto in materia di sicurezza e immigrazione.
   Ma come detto non è questa l'unica contraddizione, l'unico motivo di inquietudine. Nei resoconti per immagini della marcia, intanto, si nota uno striscione del Bds, il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni contro Israele. Campeggiava, perfettamente a suo agio, fra le bandiere falce&martello di Rifondazione Comunista. Il consigliere comunale Matteo Forte, proprio sul Giornale aveva avvertito: «La manifestazione è il saldarsi a sinistra di un'alleanza tra il laicismo intollerante al fattore religioso e l'islam politico», per poi mettere il dito nella piaga con domande rimaste senza risposta: «Che c'entrano i "Sentinelli", con Islamic Relief, realtà legata alla Fratellanza musulmana che propaganda odio contro Israele? Che c'entra il Checcoro coro Lgbt con Rassmea Salah, ex consigliera Pd a Bresso che il 2 agosto 2014 postava su Fb indignata con Renzi che chiedeva dall'Egitto il rilascio di un soldato israeliano rapito: "Sono schifata. Non so se vergognarmi di più per l'Egitto, l'Italia o il Pd'? Che c'entra l' Arigay Milano con il Progetto Aisha, la cui presidente condivide post "per bloccare i finanziamenti al terrorismo israeliano" ed è figlia di Mohamed Bahà el-Din Ghrewati sostenitore della legalizzazione della poligamia?». Nel corteo c'era la sigla dell'Ucoii, c'erano le Donne musulmane, i Giovani musulmani e molte delle sigle del Caim milanese.
   Islamic Relief ha smentito in passato legami coi Fm. Comunque una ricostruzione entusiastica va bene forse per i promotori e per i loro fervidi supporter. Qualche problema, nella pancia del corteo, c'è eccome. I Giovani musulmani di Milano, per esempio, hanno aderito e lavorato per la marcia. Lo hanno definito un «sabato scoppiettante» perché subito dopo, in collaborazione con Islamic Relief, sono andati ad accogliere nella sede dell'Alleanza islamica d'Italia (sigla inserita nella black list degli Emirati arabi) l' «onorevole ospite» Sheikh Rajab Zaki.
   Rigorosamente separati (donne da una parte, uomini dall'altra) hanno ascoltato un importante messaggio, che ha infuso loro «una grande carica spirituale in vista del sacro mese di Ramadan». E quello di Zaki è un nome che torna dopo qualche anno, quando fu definito predicatore d'odio e accusato di sostenere i movimenti fondamentalisti contro Israele. «La guerra santa islamica - le sue parole ricordate allora - è un obbligo imprescindibile per tutti i musulmani e le musulmane da espletare in tutti i modi, sacrificando la propria vita o con il denaro, la parola o il cuore».

(il Giornale, 22 maggio 2017)


Trump con Melania (senza velo) in Arabia

Concluso con i reali l'accordo per la fornitura di armi: commessa da 110 miliardi. Oggi l'atteso discorso sulla lotta al terrorismo. Presa di distanze dall'Iran.

di Fiamma Nirenstein

 
GERUSALEMME - Melania Trump il velo non se l'è messo nemmeno a Riad, prima tappa della maratona fra le tre religioni che porterà il marito in Israele e poi fino dal Papa. La sua chioma bionda brillava audacemente sotto il sole saudita anche in presenza dell'81enne re Salman. Ma è l'unico segno della superata esibizione di occidentalismo del presidente degli Stati Uniti. Adesso il mondo arabo è amico. Donald Trump e sua moglie sono scesi dall'Air Force One; il re, che cammina col bastone, ha lasciato la sua macchinetta da golf per incontrarlo ai piedi dell'areo. I due si sono scambiati gentilezze mentre nel cielo sfrecciavano i jet che lasciavano scie rosse, bianche e blu. Una volta a corte, raggiunta con una scorta di guardie a cavallo, Trump ha ricevuto la maggiore onorificenza civile, il collare Abdulazzis Al Saud. La motivazione: «L'impegno a realizzare sicurezza e stabilità nella regione e nel mondo». Ma non guasta certo che fra gli accordi raggiunti, uno riguardi la vendita di armi americane per l'enorme somma di 110 miliardi di dollari. Oggi Trump incontra tutti i rappresentanti del Paesi sunniti moderati, e terrà un discorso. Il presidente punterà su un'alleanza che batta il terrorismo, riduca Assad ai minimi termini, blocchi il disegno egemonico dell'Iran e le ambizioni russe nell'area, realizzi con Israele e i palestinesi almeno un po' di pace. Anzi, si dice che Trump otterrà da Israele la promessa di non avviare nuovi progetti nei «territori» in cambio di trattative della durata di un anno. Ma si vedrà.
   Intanto Trump disegna la sua strategia per il mondo musulmano tutta al contrario di quella di Obama. Obama pensava di conquistare il Medio Oriente avvicinandosi simpateticamente all'Islam, riconoscendo le colpe del colonialismo e dell'imperialismo, confinando il terrorismo a una zona marginale della sua strategia e soprattutto scegliendo alla fine l'Iran come partner strategico; fra i sunniti, si è disegnato alcune forze moderate di sua scelta, come la radicalissima ma travestita Fratellanza Musulmana, e ha pensato di condurle per mano verso la sua scelta di promuovere a partner il mondo sciita dominato dall'Iran, con cui ha firmato un accordo. Il risultato è stato molto pesante, con l'estendersi della guerra in Siria e la sfacciataggine iraniana che si è trasformata in imperialismo. Trump può, agli occhi dei sauditi, ricostruire l'equilibrio perché è un partner pragmatico che subito ha messo l'Iran «in guardia» dal violare il trattato contro il nucleare e ha minacciato la ripresa delle sanzioni. Dice l'analista Ali Shihabi sul New York Times che l'accento sulla guerra al terrorismo, che oggi Trump metterà al centro del suo discorso è la chiave: serve a mostrare che il Califfato è anche acerrimo nemico dei sauditi eliminando così il sospetto di essere una delle fonti principali del terrorismo. Ora Trump li sceglie come partner, un contrappeso alla scelta putiniana che preferì servirsi dell'Iran e degli Hezbollah, nemici giurati dei sunniti che considerano infedeli e che ormai controllano Siria, Irak, Libano, e che finanziano gli Houti nella guerra in Yemen. Trump ha bisogno dei sauditi per i droni che uccidono i leader terroristi fra cui il feroce Anwar al Awlaki. Trump il pragmatico viene guardato come colui che definì l'accordo con l'Iran «il peggiore mai stipulato» e che intende rimettere mano alle sanzioni. Salman ha bisogno di navi americane che difendano lo stretto fra lo Yemen e l'Africa. E anche che gli Usa riconoscano che anche se i diritti umani lasciano molto a desiderare, pure c'è qualche cambiamento sospinto da Mohammed Bin Salman, principe della corona, che cerca di limitare i poteri della polizia religiosa mentre conferisce per la prima volta a una donna la direzione dello stock exchange.
   È chiaro che si parla anche di Israele e dei palestinesi: anche se è evidente l'interesse saudita, egiziano, dei Paesi del Golfo a un'amicizia strategica, tecnica, economica con Israele, pure il grande totem palestinese si erge come il simbolo maggiore del rifiuto arabo, forse l'unico tratto che ha unificato fino a oggi tutto il mondo musulmano. Ma Trump ci proverà, da businessman.

(il Giornale, 21 maggio 2017)


«Le bimbe ebree sottratte alle SS»

di Giovanna Querci Favini

Nella primavera 1944, il cardinale Elia Dalla Costa mandò a chiamare in gran segreto la Madre generale dell'educandato e convento delle Serve di Maria. Prima di spiegarle il motivo della convocazione, anticipò le eventuali riserve della suora: «Chiedo una cosa molto grave che metterà la vita sua e delle consorelle in pericolo, ma non voglio se o ma. Non abbiamo scelta. È arrivato dalla Polonia e dal Belgio un gruppo di donne e bambine ebree. Ora sono rifugiate alla SS Annunziata (il convento era maschile), e, come capirà, lei deve accoglierle nel suo convento». La risposta della Madre fa tuttora parte della mitologia del convento. Si arrivò a dicembre e, per volontà della Madre, le bambine ebree erano andate a messa e a pregare come tutte le altre. Ma il pericolo di una spiata era tanto. Nel mezzo di una notte le suore furono svegliate da forti colpi al portone: cinque SS percuotevano il portone con gli stivali e il calcio dei fucili. Il comandante impose che le ragazze si disponessero in fila e ordinò di recitare il «Pater Noster» una per una. Tutte lo recitarono. Non contento, l'SS intimò di cantare una canzone di Natale religiosa, cioè in latino, e mentre le bambine cantavano, lui passava attraverso le file per controllare la dizione: tutte cantavano «Adeste Fideles» in un latino perfetto. L'SS urlò qualcosa in tedesco e i soldati se ne andarono, accompagnati da un coro celestiale, al quale si erano unite anche le suore.

(Corriere della Sera, 21 maggio 2017)


Lo scienziato ebreo che organizzò corsi clandestini

Guido Castelnuovo, matematico, fu il primo senatore a vita della Repubblica

di Stefano Gattei

Guido Castelnuovo
Nell'ottobre del 1912 si tiene a Genova il III Congresso Nazionale di Mathesis, società fondata nel 1895 per valorizzare le scienze nella scuola. Nella relazione introduttiva Guido Castelnuovo, che sarà molti anni dopo il primo senatore a vita della Repubblica, pronuncia parole controcorrente: «L'insegnamento astratto della matematica porta a diffidare dell'approssimazione, che è realtà, per adorare l'idolo della perfezione, che è illusoria. Occorre accostare a ogni passo la teoria all'esperienza, la scienza alle applicazioni. Si eviterà così di perdere quel senso del reale che è tanto necessario nella vita e nella scienza».
   Dieci anni più tardi, con la riforma Gentile, viene ridotto il numero di ore dedicato all'insegnamento della matematica a favore delle discipline letterarie e filosofiche. Poco o nulla può fare Castelnuovo. Quando però, nel 1938, le leggi razziali escludono gli ebrei dalla scuola pubblica, si adopera per consentire ai ragazzi di proseguire gli studi. Nel 1941 apprende che l'Institut Technique Supérieur di Friburgo accetta iscrizioni al primo anno, anche senza obbligo di frequenza, e dopo una fitta corrispondenza con l'ateneo svizzero Castelnuovo crea a Roma, sotto il nome discreto di «Corsi integrativi di cultura matematica», una sorta di succursale di quel Politecnico, con corsi identici a quelli tenuti in Italia per il primo biennio di Ingegneria e di Matematica. Per due anni, l'università clandestina di Castelnuovo funziona a pieno ritmo, con gli esami sostenuti dagli studenti convalidati dal Politecnico di Friburgo. L'occupazione tedesca del settembre 1943 costringe alla chiusura, ma alla liberazione di Roma i corsi tenuti fino ad allora in clandestinità vengono legalizzati, e nell'autunno del 1944 Castelnuovo presenta i propri allievi al corpo accademico dell'Istituto che, un anno dopo la morte, porterà il suo nome.
   Castelnuovo nasce nel 1865 a Venezia (il padre Enrico è un apprezzato autore di romanzi e novelle), dove frequenta il liceo Foscarini. Qui ha come professore di matematica Aureliano Faifofer, noto per le sue straordinarie capacità didattiche e autore di celebri manuali, tradotti anche all'estero. Castelnuovo rivede gli esercizi di uno di essi, e Faifofer, regalandogliene una copia, gliela dedica scrivendo: «Al più bravo dei miei mille scolari».
   Si laurea a Padova nel 1886 con Giuseppe Veronese, ed è alle ricerche di geometria degli spazi multidimensionali del grande matematico di Chioggia che sono ispirati i suoi primi lavori. Vince una delle poche borse di perfezionamento disponibili in Italia - molto meno numerose, oggi come allora, rispetto a quelle all'estero - e parte per Roma. Nell'autunno del 1887, grazie a Corrado Segre, ottiene un posto di assistente all'Università di Torino: tra i due si avvia un'importante collaborazione scientifica su tematiche legate alla geometria delle curve algebriche. Nel corso di quotidiane conversazioni sotto i portici di via Po, Segre gli suggerisce letture, lo stimola a nuove ricerche, ne rilegge i lavori e lo mette in contatto con altri matematici.
   Nell'autunno del 1891 Castelnuovo vince la cattedra di Geometria analitica e proiettiva all'Università di Roma. Qui rimarrà fino alla pensione, nel 1935, quando la Scuola di Matematica passa dalla sede storica, presso la chiesa di San Pietro in Vincoli (dove era stata fondata nel 1873), alla nuova città universitaria. Non è un caso se in piedi davanti alla classe, con la lunga barba e le mani tranquille, al suo allievo Oscar Zariski Castelnuovo ricorderà l'austero Mosè di Michelangelo - con «un dolce sorriso», tuttavia, «che improvvisamente trasformava il suo volto».
   Il trasferimento a Roma coincide con l'avvio delle ricerche nell'ambito della teoria delle superfici algebriche, tema che appassiona anche un altro giovane matematico, Federigo Enriques, di cui nel 1896 Castelnuovo sposerà la sorella Elbina. Insieme, nel corso di «interminabili passeggiate per le vie di Roma» (come lui stesso rammenterà molto tempo dopo), pongono le basi della teoria dei sistemi lineari di curve di una superficie algebrica, secondo l'indirizzo italiano.
   Con la scomparsa, a distanza di pochi anni, di Eugenio Beltrami e di Luigi Cremona, prende corpo l'idea di costituire a Roma una grande scuola di matematica: al posto di Beltrami verrà chiamato da Pisa Vito Volterra, e con gli anni a lui e a Castelnuovo si affiancheranno Enriques, Giuseppe Lauricella, Orso Mario Corbino, Tullio LeviCivita, Francesco Severi e Giuseppe Bagnera. La matematica italiana - e più tardi la fisica - si guadagna in quegli anni un posto di primo piano nel panorama internazionale.
   Nel 1905 la classificazione di tali superfici è sostanzialmente compiuta e Castelnuovo volge altrove i propri interessi, forse convinto che nuovi approcci - da quello più decisamente algebrico del francese Emile Picard, a quello topologico inaugurato da Henri Poincaré e sviluppato da Solomon Lefschetz - stessero facendosi strada. Dedica molte energie anche alla formazione degli insegnanti e all'aggiornamento dei percorsi di studio all'Università di Roma: l'obiettivo, come ha scritto Pietro Nastasi, è quello «di completare il progetto risorgimentale di rendere la capitale il centro della vita scientifica nazionale».
   Con le leggi razziali del 1938 Castelnuovo decade dall'Accademia dei Lincei, dove era stato ammesso fin dal 1901, e avvia un periodo di forte impegno civile. Durante i mesi dell'occupazione nazifascista di Roma vive sotto falso nome. Dopo la Liberazione, è nominato commissario straordinario del Cnr e membro della Commissione per la ricostituzione dell'Accademia dei Lincei secondo le regole precedenti il 1935 (data della fascistizzazione degli Istituti di Cultura). Nel 1946 è eletto presidente dell'Accademia, e nel 1949 Luigi Einaudi lo nomina senatore a vita: conserverà anche la prima carica fino alla morte, nel 1952.

(Corriere della Sera, 21 maggio 2017)


Arriva a Bolzano Tariq Ramadan, proteste della Comunità ebraica

Polemiche per la conferenza del docente islamico. Il sindaco Caramaschi si rifiuta di incontrarlo: «Non gli stringerò la mano e non lo incontrerò». Le accuse di antisemitismo.

di Paolo Campostrini

Tariq Ramadan double face
BOLZANO - Il sindaco non accoglierà l'ospite invitato a Bolzano dal "suo" Centro Pace. È forse la prima volta. E accade con Tariq Ramadan, studioso, una cattedra a Oxford, esperto islamista, definito dal Centro Pace anche "scrittore svizzero" nella presentazione della sua conferenza prevista per l'inizio della settimana prossima. In realtà, "personaggio controverso" come ha spiegato ieri Renzo Caramaschi mentre comunicava di aver deciso di "non stringergli la mano" in municipio, disattendendo in questo modo alla scaletta del programma definito dal Centro Pace di Francesco Comina.
   Poco prima che il sindaco si risolvesse al gran rifiuto, era stata la presidente della Comunità ebraica Elisabetta Rossi Innerhofer, a dirsi "colpita dal fatto che giunga a Bolzano accolto con tutti gli onori in municipio, un esponente del fronte che ha sempre attaccato lo Stato di Israele, noto per le sue posizioni antisemite e antisioniste e che parlando alla tv francese nel 2003 in un dibattito con Sarkozy aveva difeso la legge islamica che prevede la lapidazione per le donne, solo per le donne si badi bene, accusate di adulterio. Immagino che da allora non abbia cambiato idea in proposito, almeno io non l' ho sentito ...». Elisabetta Rossi chiede poi "almeno un po' di coerenza a chi il 25 aprile o nel giorno della Memoria stringe le mani a noi in ricordo dei sei milioni di ebrei morti e poi accoglie persone che definisco "lupo travestito da agnello", il quale in Occidente parla di democrazia e poi in Medio Oriente non dice nulla contro il terrorismo».
   Per Renzo Caramaschi la decisione di non accogliere Ramadan è definitiva. «La nostra condivisione nei confronti di posizioni alternative - spiega ancora il sindaco - e comunque tolleranti anche nei confronti di persone di cui non si condivide totalmente il pensiero ha dei limiti. E in questo caso Ramadan, che so essere stato accolto tempo fa anche a Trento senza problemi, è comunque per me un personaggio border line, molto controverso». Ma del Centro Pace, che dice? «Guardate, non voglio aumentare il tasso di polemica intorno alla conferenza - risponde a questo proposito Caramaschi - ma devo ammettere che mi sono un po' arrabbiato con loro. Il racconto del personaggio che mi è stato inviato lo giudico vagamente incompleto... Questo per non dire di più».
   Insomma, Ramadan parlerà a Bolzano ma non avrà gli "onori" della stretta di mano di chi rappresenta la città. Prima della decisione del sindaco era stato diffuso un duro comunicato di Carlo Vettori, a proposito della conferenza "Vivere con l' Islam" di Ramadan, in cui l'esponente della Lega Nord chiedeva alla giunta di "distanziarsi nettamente da questo incontro con uno dei più strenui propagatori dell' antisemitismo e nemico dello stato di Israele», preannunciando una eventuale manifestazione di protesta.
   Anche l' associazione Italia-Israele ha affermato in una nota che "Ramadan rientra in quella categoria di predicatori apparentemente accettabili per il mondo occidentale ma che poi parlano in altro modo nel mondo musulmano. E questo mentre Francia, Usa e paesi islamici moderati hanno pensato di bandirlo dai loro territori "per collegamenti col terrorismo"». A sua volta Gabriele Giovannetti, consigliere comunale di Uniti per Bolzano chiede di «rivedere il ruolo del Centro Pace e gli incarichi e i finanziamenti elargiti dal Comune. Scriveremo una lettera al ministero degli Interni - aggiunge - chiedendo perchè un soggetto respinto da così tanti Paesi a noi alleati , qui da noi possa pontificare».

(Alto Adige, 21 maggio 2017)


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"Ramadan è un soggetto pericoloso, grazie al sindaco per rifiuto ad incontrarlo”

Riceviamo e volentieri diffondiamo la nota con cui l'UDAI (Unione delle Associazioni pro Israele) contesta la visita del subdolo nemico dello Stato d’Israele.

Apprendiamo grazie al Consigliere Vettori dell'arrivo martedì prossimo a Bolzano dell'intellettuale islamista Tariq Ramadan, un personaggio noto alle cronache internazionali, di grande peso nel mondo culturale islamico, annoverato sia da numerose Istituzioni del mondo occidentale che del mondo arabo, tra coloro che utilizzano la tattica che "doppiogiochismo", parlando agli occidentali in un modo ed ai musulmani in un altro.
Ramadan rientra proprio nella categoria dei predicatori islamisti più pericolosi, quelli apparentemente accettabili per l'Occidente, talvolta troppo radicali per il mondo occidentale e troppo moderni per il mondo radicale islamico. In realtà i servizi d'intelligence e per la sicurezza di Stati Uniti, Francia e Mauritania (Paese musulmano), come di altri Paesi musulmani moderati, hanno ben pensato di bandirlo dai loro territori nazionali "per collegamenti con il terrorismo", come scrive il giornale inglese Sun. Nel 2003 durante una trasmissione tv con l'allora Ministro degli interni francese Nicolas Sarkozy, Ramadan si rifiutò di condannare la lapidazione femminile.
Il nonno di Ramadan è il fondatore della Fratellanza musulmana in Egitto e lui stesso è considerato dai media occidentali un amico di Hamas, antisemita, che non riconosce il diritto d'Israele ad esistere.
Si è scontrato duramente con intellettuali ebrei del peso di Bernard-Henri Levy, André Glucksmann e Bernard Kouchner. "Le Monde" e altri giornali importanti hanno pubblicato su di lui inchieste davvero pesanti. Ma per Ramadan tutto questo è la prova della correttezza delle sue posizioni e dell‘innata ostilità dell‘occidente all‘islam.
Dopo il nostro tempestivo intervento, il sindaco Renzo Caramaschi, che ringraziamo, e consideriamo un amico d'Israele, ha deciso di non partecipare all'evento organizzato dall’associazione “Centro per la pace”.
Esprimiamo in ogni caso, in condivisione con la Comunità ebraica di Merano, preoccupazione per questo evento propagandistico.
Siamo fermamente convinti che a Ramadan dovrebbe essere negato l'ingresso in Italia per motivi di sicurezza nazionale e che in ogni caso l'evento organizzato da un'associazione finanziata anche con denari pubblici non debba essere il palcoscenico per veri maestri del doppiogiochismo, nonché per venditori di profumato e mascherato islamismo radicale.
Auspichiamo pertanto che l'Associazione in questione faccia mea culpa e annulli l'evento e prenda le distanze, e che le autorità di pubblica sicurezza possano intervenire.
Cordiali saluti.
Alessandro Bertoldi
Vicepresidente nazionale
UDAI - Unione delle Associazioni pro Israele
Presidente Associazione Italia - Israele
Alto Adige Süditirol

(UDAI, 20 maggio 2017)


Gerusalemme, una serata ai Mercati di Traiano a Roma per i 50 anni della riunificazione

Gli ebrei lo chiamano Yom Yerushalaim, il Giorno di Gerusalemme, ovvero la "riunificazione" della storica città sotto il controllo israeliano avvenuto nel giugno del '67 con la Guerra dei sei giorni. Per il cinquantesimo anniversario, l'Unione delle comunità ebraiche italiane (Ucei), la Comunità ebraica romana e l'Ambasciata di Israele hanno deciso di festeggiare la ricorrenza cercando di narrare la forza storica ma anche attuale di un centro caro a tutte le culture e le religioni del mondo, al di là delle divisioni del conflitto arabo-israeliano.
   Al centro delle celebrazioni una grande serata, martedì 23 maggio ai Mercati di Traiano, con video, musica, danza e performance sotto il titolo "Yom Yerushalaim - Suoni e luci di Gerusalemme sotto il cielo di Roma". Il programma coordinato da Eyal Lerner comincia alle 21 con la proiezione del cortometraggio "Jerusalem" di Emanuele Luzzati e Giulio Gianini, seguita da uno spazio musicale con il Coro Nizzanim dei bambini degli Asili israelitici Rav Elio Toaff e il Coro Ha-Kol, e dalla danza col maestro Mario Piazza e lo spettacolo "Yerushalaim Golden Roots" degli studenti dell'Accademia Nazionale. In chiusura performance live di Ilana Yahav, l'artista della sabbia che crea scene spettacolari con le dita.
«Cinquant'anni quando si parla di Gerusalemme sono un battito di ciglia - ha detto l'ambasciatore israeliano in Italia Ofer Sachs - tutti, ebrei o no sentono la sensazione di questa città unica, la connessione con Roma è immediata quando si viene qui. Ma è anche una città che guarda al futuro, in cui c'è continuo cambiamento». Ruth Dureghello, presidente della Comunità ebraica romana, ha ricordato che «esiste un legame profondo, che ricorda la storia del popolo ebraico attraverso il suo esilio e l'arrivo a Roma. Entrambe le città rappresentano un esempio di come un luogo possa rappresentare un modello di coesistenza e rispetto tra le fedi». Per Noemi Di Segni, presidente Ucei, «Gerusalemme va celebrata per la vita che afferma e per la luce che irradia all'insieme della comunità umana. Perché, per quanto nota, è in realtà ai molti sconosciuta».
   Le celebrazioni continuano mercoledì 24 maggio alle 21 e sabato 27 alle 22 al "Pitigliani" il Centro ebraico italiano in via Arco de' Tolomei con "Gerusalemme nel cinema". Domenica 28 maggio "Gerusalemme: dalla cima del Monte Scopus", una giornata per affrontare vari argomenti scientifici e culturali. L'incontro sulla "Hebrew University, da Einstein all'avanguardia hi tech", moderato da Viviana Kasam, vedrà la partecipazione di Hillel Bercovier (Hebrew University). Nel pomeriggio "Gerusalemme nelle pagine del Talmud" con i rabbini Riccardo Di Segni e Gianfranco Di Segni, modera Clelia Piperno; a seguire "Archeologia, Arte e Architettura a Gerusalemme" e in serata proiezione del film inedito: "Ben Gurion, Epilogue" di Yariv Mozer, presentato da Ariela Piattelli, direttrice artistica del Pitigliani Kolnoa Festival. Per partecipare a tutti gli eventi (gratuiti) bisogna registrarsi su yerushalaim@ucei.it o telefonare al numero 06.45542296.

(Il Messaggero, 20 maggio 2017)


La guerra che Israele non avrebbe dovuto vincere

di Niram Ferretti

Il cinquantesimo anniversario della riunificazione di Gerusalemme che cadrà il 23 di maggio e coinciderà con l'attesa visita di Donald Trump in Israele dal 22 al 23, riporta inevitabilmente alla memoria la Guerra dei Sei Giorni che permise a Israele di catturare Gerusalemme Est allora sotto dominio giordano. La fotografia in bianco e nero di David Rubinger dei tre paracadutisti israeliani immortalati davanti al Kotel (Muro del Pianto) è una delle immagini simbolo della vittoria israeliana. Vittoria che è entrata nella leggenda e che ci permetterà qui di svolgere alcune considerazioni.
   La Guerra dei Sei Giorni del 1967 prese il via in virtù dall'aggressione araba determinata dalle ambizioni smisurate di Gamal Abdel Nasser, l'allora dittatore egiziano il quale voleva proporsi come il conducator dell'intero mondo arabo. L'intento di Nasser e dei suoi alleati, la Giordania, la Siria, l'Iraq, il Libano e l'Arabia Saudita, era quello di distruggere Israele. Si trattava, in altre parole, di risolvere in modo drastico la « questione ebraica » in Medioriente. Missione che già agli albori dell'impresa sionista si era incaricato di assolvere con solerzia e sotto benedizione hitleriana Amin Al Husseini. Ciò che invece accadde, la cocente sconfitta subita, costituì un trauma profondo per l'orgoglio arabo nonché la fine delle ambizioni panarabe del Ra'is.
   Ma da questa sconfitta sarebbe nata la più pervasiva e incessante demonizzazione di uno stato sovrano che la storia ricordi. Incapaci di annientare Israele sul terreno, si è provveduto a farlo in effige attraverso la propaganda. Una propaganda che dura da 50, predisposta a tavolino dagli arabi allora in combutta con l'Unione Sovietica.
   Lo Stato ebraico, trasformato in un mostro "genocida", "nazista", "razzista", "colonialista", "imperialista, non è altro che l'effetto di uno spostamento semantico. Tutta la negatività attribuita agli ebrei in quanto tali è stata trasferita al loro Stato. Non godendo più l'antisemitismo manifesto dell'ampio consenso collettivo di cui godeva un tempo, si è provveduto a riciclarlo in forma antisionista. E c'è qui un evidente discrimine tra una legittima critica a uno Stato e alle sue politiche e la narrativa nera che lo criminalizza. Gli israeliani "nazisti" sono esattamente la stessa cosa degli ebrei "deicidi", gli israeliani "genocidi" sono la stessa cosa degli ebrei che venivano accusati di omicidi rituali di bambini, gli israeliani "razzisti","violenti" e "oppressori" sono ulteriori esempi del paradigma della colpa, l'assunto cardine di ogni forma di antisemitismo.
   E' stata la guerra che Israele non avrebbe dovuto vincere l'evento che ha rimesso in moto a pieno ritmo le rotative dell'avversione per gli ebrei, in una forma aggiornata e più accettabile, trasformando gli israeliani in carnefici e i palestinesi in vittime. Una volta fissato questo codice tutto il resto ne è conseguito inesorabilmente.
   Nasser, alla viglia della guerra, mentre ammassava le sue forze in attesa di attaccare Israele, cercava il pretesto per potere trasformare la sua volontà di distruzione dello Stato ebraico, in legittima difesa contro una aggressione israeliana inesistente. Fu Israele a prevenirlo con la memorabile azione deterrente che, all'alba del 5 giugno 1967, gli permise di distruggere l'aviazione egiziana prima che questa potesse mettersi in volo. Il "misfatto" di Israele è stato, per la seconda volta, la sua vittoria in una guerra che, come quella del '48, avrebbe dovuto essere nelle intenzioni dei suoi iniziatori, annichilente.
   I cinquant'anni della riunificazione di Gerusalemme e della vittoria "miracolosa" nella Guerra dei Sei Giorni sono qui per ricordarci contemporaneamente cinquanta anni senza sosta di assedio propagandistico contro lo Stato ebraico.

(L'informale, 20 maggio 2017)


Manifestazione disertata a Imperia a sostegno dei prigionieri politici palestinesi

Scarsa affluenza e poco interesse, questo pomeriggio in piazza De Amicis a Imperia, alla manifestazione proposta da Khalid Rawash, portavoce del movimento a favore dei diritti dei prigionieri politici palestinesi reclusi in Israele e attualmente in sciopero della fame.

(Fonte: Focus Imperia, 20 maggio 2017)


Israele - Paesi arabi, la rivoluzione del Golfo

di Lorenzo Vita

 
La visita di Stato del Presidente Trump in Arabia Saudita
"Do ut des", io do qualcosa a te affinché tu dia qualcosa a me. Si potrebbe sintetizzare così l'accordo segnalato dal Wall Street Journal sulle trattative tra Israele e Paesi arabi. Il mondo arabo ha deciso di intraprendere dei passi in avanti per la normalizzazione dei rapporti con Israele, ma, in cambio, pretende garanzie sul comportamento del governo israeliano nei confronti della causa palestinese.
La rivelazione del Wsj arriva a pochi giorni dal viaggio di Donald Trump in Medio Oriente, e non sembra essere casuale. Da sempre il presidente degli Stati Uniti ha il pallino di voler risolvere la questione israelo-palestinese e vuole riuscire in tutti i modi a mettere fine a un conflitto che è ormai endemico nella regione. La sua vicinanza con Netanyahu e l'incontro con Abu Mazen a Washington sono elementi che portano a credere che l'impegno del presidente sia effettivo. Bisognerà vedere, adesso, quanto sarà efficace.
   Le monarchie del Golfo, in questo processo di normalizzazione della regione, possono avere un ruolo fondamentale. Per questo motivo sembrano intenzionate a dimostrare, loro per prime, di esser in grado di concedere qualcosa al governo israeliano. Secondo fonti d'informazione del quotidiano americano, i settori in cui avverrebbero questi rapporti sarebbero quelli dell'aviazione civile, delle telecomunicazioni e degli scambi commerciali.
   Per quanto riguarda l'aviazione, i cieli del Golfo Persico sarebbero finalmente aperti agli aerei civili israeliani, cui l'area era interdetta. Vi sarebbe poi l'eliminazione di una serie di sanzioni commerciali che vietano lo scambio di alcune merci tra le monarchie e Tel Aviv così come un complesso sistema d'integrazione telematica e di società di telecomunicazione, che investirebbero in entrambi i Paesi creando collegamenti sempre migliori.
L'avvicinamento tra i Paesi arabi e Israele è sponsorizzato dal presidente Trump, che vede in quest'unione d'intenti quanto di più utile per fermare il suo acerrimo nemico, suo, di Israele e dei sunniti: l'Iran.
   
Ma non è certo soltanto a lui che si deve questo rinvigorito interesse per i buoni rapporti diplomatici fra Tel Aviv e il Golfo Persico.
   Al contrario, le relazioni diplomatiche stanno migliorando, e di molto, già da diversi anni. Già durante la riunione della Lega Araba in Giordania di quest'anno, i Paesi della Lega, all'unanimità, avevano affermato come vi fosse l'intenzione di riconoscere lo Stato di Israele in cambio di un riconoscimento da parte israeliana di uno Stato palestinese, così come richiesto da buona parte della comunità internazionale. Inoltre, alcuni scenari di guerra offrono gli spunti per comprendere come possano esserci già da tempo rapporti eccellenti fra arabi e israeliani in tema di sicurezza e di controllo di armi nei territori siriano e yemenita.
   
Le questioni energetiche e delle infrastrutture dimostrano come vi siano sempre più rapporti amichevoli fra Israele e Paesi arabi. Ad aprile, il ministro dell'energia israeliano, Yuval Steinitz, ha dichiarato che in Medio Oriente fosse in atto una vera "rivoluzione" in termini di rapporti di vicinato fra Israele, Emirati Arabi Uniti, Qatar e Arabia Saudita. Lo stesso ministro, a margine di queste dichiarazioni, aveva visitato Abu Dhabi per inaugurare una missione diplomatica israeliana, che serviva come base per mettere in atto gli accordi sulle tecnologie in materia di produzione dell'energia elettrica e delle fonti rinnovabili.
Yisrael Katz, ministro dei trasporti israeliano, sempre ad aprile, aveva invece annunciato l'iniziativa del corridoio ferroviario "Rails for Regional Peace", un progetto che dovrebbe collegare Israele, Giordania, Arabia Saudita e Golfo Persico. Un progetto di fondamentale importanza anche secondo l'amministrazione americana. I consiglieri di Trump hanno più volte detto al presidente americano di sostenere con forza questo progetto, come segnale di profondo avvicinamento e di sinergia fra queste due aree del mondo. Anche a livello commerciale, vi sarebbero delle enormi potenzialità di guadagno da questa infrastruttura, se si pensa soltanto che invece di circumnavigare la penisola arabica, le merci passerebbero dal Golfo Persico al Mediterraneo via terra.
   
In tutto questo, i messaggi politici sono tantissimi, e tutti quanti gli attori in gioco hanno da guadagnare da questo avvicinamento. Innanzitutto gli Stati Uniti che, come detto, porterebbero a casa una vittoria diplomatica fino a poco tempo fa insperata, e cioè l'accordo sulla Palestina e la fine delle ostilità tra arabi e Stato ebraico. Per le monarchie del Golfo, si tratterebbe di un'apertura a livello mondiale e di capacità di attrazione d'investimenti bancari e finanziari molto importanti, ma soprattutto s'imporrebbero quali attori chiave di tutto l'area mediorientale.
   Per Israele, un accordo in tal senso significherebbe da un lato trovare alleati fondamentali nella questione palestinese, ma soprattutto, dall'altro lato, significherebbe creare un patto con gli acerrimi nemici del loro più grande avversario, in altre parole Teheran e i suoi alleati.

(il Giornale, 20 maggio 2017)


Riprende al ritmo di +50% il turismo in Israele

Superano i 30mila gli arrivi dal nostro mercato nel primo quadrimestre

Riparte con ritmi di crescita che sfiorano il 50% il turismo in Israele: ad aprile 2017 i turisti italiani sono stati 10200 (+47%) mentre se si considera il primo quadrimestre (gennaio - aprile) sono 30700 (+34%).
La direttrice dell'ente del turismo, Avital Kotzer Adari, esprime la sua soddisfazione dopo anni difficili: "Siamo orgogliosi e soddisfatti dei risultati di questo primo trimestre e del mese di aprile, in maniera particolare. Il mercato italiano è di grande importanza per Israele e l'attrazione che la nostra terra esercita sugli italiani si conferma forte e in continua crescita".
L'andamento del nostro mercato riflette quello complessivo. Ad aprile il Paese ha registrato l'arrivo di 349mila viaggiatori, con un aumento del +38% rispetto all'anno precedente. Nel periodo gennaio-aprile, invece, sono poco più di un milione gli ingressi, per una progressione 28% rispetto al 2016. Da inizio anno, il comparto ha generato un miliardo e mezzo di euro nelle casse dell'economia israeliana.

(Guida Viaggi, 19 maggio 2017)


«Gerusalemme indivisibile»: e vestito di Cannes scatena proteste e ironia

di Davide Frattini

Mentre all'aeroporto Ben Gurion i cerimonieri srotolano il tappeto rosso da 8o metri che lunedì accoglierà Donald Trump, la ministra della Cultura israeliana ha trasformato la passerella porpora di Cannes in una cavalcata politica. Miri Regev si è presentata all'inaugurazione del Festival cinematografico con un vestito disegnato dallo stilista Aviad Arik Herman, tagliato su misura della sua ideologia oltranzista e nazionalista. La gonna che sfiorava la moquette calcava pesante sulla questione più complessa del conflitto israelo-palestinese con la veduta panoramica di Gerusalemme stampata nel tessuto, la cupola dorata sulla Spianata delle Moschee e le mura della Città Vecchia in bella vista. Se il presidente Trump esita a mantenere la promessa proclamata in campagna elettorale («sposterò l'ambasciata americana a Gerusalemme»), Regev si è cucita addosso quello che il Parlamento israeliano ha sancito con un voto nel 1980: la città è «la capitale unica e indivisibile» dello Stato israeliano, comprese le zone arabe catturate ai giordani nel giugno del 1967. Queste aree sono ancora considerate contese dal Dipartimento di Stato a Washington e dalla diplomazia internazionale, lo status di Gerusalemme da definire in un accordo di pace con i palestinesi, anche loro la pretendono come futura capitale.
   La ministra spiega che il manifesto stilisticopolitico è anche una reazione alle decisioni dell'Unesco: l'organismo delle Nazioni Unite ha votato una serie di risoluzioni che negano i legami di Gerusalemme con l'ebraismo e non citano il Muro del Pianto «liberato cinquant'anni fa» ricorda Regev. Quando il 7 giugno i paracadutisti raggiunsero gli antichi macigni incastrati uno sopra l'altro, quelle pietre che puntellano da un paio di millenni la speranza e la volontà degli ebrei di tornare a pregare qui e che sorreggono anche la Spianata, il terzo luogo più sacro per l'Islam. L'abito monumentale è stato attaccato sui social media dai palestinesi (che hanno diffuso i fotomontaggi dove al posto di Gerusalemme sono riprodotti i bombardamenti di Gaza o il muro eretto dall'esercito che taglia i quartieri arabi della città) e dalla sinistra israeliana. I sostenitori del premier Benjamin Netanyahu l'hanno invece celebrato come «il miglior vestito dell'anno».
   
(Corriere della Sera, 20 maggio 2017)


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Signora Ministra, ma come si veste?

 
L'abito con cui Miri Regev si è presntata a Cannes
I genitori immigrati dal Marocco, la lunga carriera nell'esercito e poi l'ingresso in politica dopo il congedo. Ecco chi è Miri Regev, la politica israeliana che con l'abito indossato al Festival di Cannes ha scatenato polemiche nel mondo arabo.
Si è presentata sul red carpet del Festival di Cannes indossando un vestito di Aviad Herman che, in basso, mostrava il panorama di Gerusalemme, con il Muro occidentale, la Torre di Davide, la Cupola della Roccia. Nel 50esimo anniversario della liberazione e unificazione di Israele, una dimostrazione di grande patriottismo da parte di Miri Regev, attuale ministra della Cultura e dello Sport. O una grave provocazione, secondo i palestinesi. Che sui social si sono sbizzarriti con fotomontaggi dal dubbio gusto. Questioni di punto di vista: di sicuro, Miri Regev voleva attirare l'attenzione e c'è riuscita. Ecco chi è la ministra che sulla Croisette ha sfoggiato l'abito della discordia.

 A lungo nell'esercito
  Nata il 26 maggio 1965 a Kiryat Gat in una famiglia ebrea emigrata dal Marocco in Israele, Miriam Siboni (questo il cognome da nubile) ha alle spalle una lunga carriera nell'esercito, iniziata quando nel 1983 ha partecipato al Gadna, il programma militare israeliano che prepara i giovani alla leva obbligatoria. Nell'esercito è arrivata a raggiungere il grado di generale di brigata, assumendo anche l'incarico di portavoce delle Forze di Difesa di Israele e di responsabile della censura militare.

 Dal 2008 in politica
  Dopo il congedo, nel 2008 si è unita al Likud, il partito nazionalista di Benjamin Netanyahu, e l'anno successivo è stata eletta al Knesset, il parlamento israeliano. Confermata per un altro mandato nel 2015, nel nuovo governo è stata nominata ministra della Cultura e dello Sport. A suo agio negli scenari di guerra, nel corso degli anni Miri Regev ha messo nel mirino diversi obiettivi. Nel 2012, ad esempio, durante una manifestazione a Tel Aviv ha definito gli immigrati africani «un cancro nel corpo della nazione», scusandosi poco dopo. Nel 2016 ha invece attaccato gli «ipocriti, ingrati, complottisti, presuntuosi» artisti israeliani, che si erano lamentati perché aveva minacciato di cancellare le sovvenzioni a due teatri di Haifa: in uno recitavano bambini ebrei e palestinesi, nell'altro era in scena un'opera che parlava di un soldato israeliano ucciso da un palestinese.

(Lettera Donna, 19 maggio 2017)


"Si occupa solo di ebrei"

di nahum נחום

 
 
C'è antisemitismo nell'Università italiana? Ma ovviamente no! Ti dice chi ci lavora, spesso allievo di allievi, o magari nipote biologico, legittimo o meno, di qualcuno andato in cattedra grazie alle leggi razziali che han tirato via di mezzo lo scomodo competitore israelita.
Ma suvvia, tutta o quasi l'Italia è stata fascista, le leggi razziali non incontrarono grande opposizione, sarebbe poi sbagliato ed antistorico aspettarsi che l'accademia sia diversa dal resto della società, e a questo punto il discorso si fa personale, su quegli italiani che hanno salvato gli ebrei. Deliziosa distinzione, quella tra ebrei e italiani, vero? Come se gli ebrei non fossero italiani completi. E difatti ad un certo punto venne dichiarato che non lo erano.
E il resto fu una conseguenza, camere a gas incluse. E a questo punto del discorso ci sarà sempre quello che parla degli ebrei fascisti.
Eppure c'è una cosa curiosa. Quando ero nell'Università italiana, dottorato, post dottorato ecc, mi veniva spesso consigliato di occuparmi "di altro, non solo di ebrei". Ho seguito il consiglio, eh. Oltre a pubblicazioni sulla storia degli ebrei ho pubblicato qualcosa sugli zingari.
C'era questa diffusa opinione che se ti occupi solo di ebrei, allora non sei abbastanza bravo. Si diceva di concorsi persi perché, a giudizio della commissione, il candidato o la candidata "si occupa solo di ebrei". Non so se fosse vero. Giovani studiosi ebrei, non importa quanto giovani, ripetevano questa faccenda. A prescindere se fosse vera o meno, mi sembra un buon esempio di pregiudizio interiorizzato.
Se ci pensate è curioso. Nessuno sognerebbe mai di dire a uno studioso di storia che è sbagliato occuparsi esclusivamente di Eretici italiani del Cinquecento, di Nobili nella Lucca del Quattrocento, di donne o di classi subalterne. Gli ebrei sono l'unico gruppo che non bisogna studiare troppo. E' sbagliato (moralmente? umanamente? strategicamente?) occuparsi di storia degli ebrei. E' un argomento che va diluito occupandosi di altro. Boh, si vede che alte concentrazioni di ebraismo sono pericolose. Non si riesce a, quale è la parola? assimilarle. Bisogna occuparsi anche di altro.
I soliti privilegiati, questi ebrei. L'unico gruppo di cui si teme una invasione nell'accademia, e pertanto bisogna tenerne fuori quelli che non si occupano anche di altro Questa, almeno, la mia esperienza. Chissà se le cose sono cambiate.

(allegrofurioso, 19 maggio 2017)


Venezuela: Maduro paragona i chavisti agli ebrei sotto il nazismo

La Comunità ebraica protesta

di Ilaria Myr

Nicolas Maduro
Noi chavisti siamo i nuovi ebrei del XXI secolo che Hitler ha perseguitato. Non portiamo la stella di David, ma i cuori rossi pieni di desiderio di combattere per la dignità umana. E li sconfiggeremo, i nazisti di questo secolo». Questa la dichiarazione shock del presidente venezuelano Nicolàs Maduro riguardo agli attacchi ricevuti da suoi famigliari fuori dal Venezuela. Nelle ultime settimane, infatti, alcuni venezuelani, trasferitisi all'estero per il caos economico che vige nel paese hanno attaccato verbalmente rappresentanti politici e membri della sua famiglia che si erano recati in visita nel paese dove si trovano, accusandoli di spendere soldi in viaggi all'estero mentre in Venezuela si muore di fame e di mancanza di medicine. L'ultimo episodio è avvenuto in Australia, dove alcuni militanti venezuelani hanno attaccato la figlia di Jorge Rodriguez, uno dei membri del governo del precedente presidente Chavez, che si trova in Australia per gli studi in un'università molto elitaria e che conduce lì una vita molto lasciva, senza interessarsi in nessun modo della sorte del suo paese, in profonda crisi.
   Maduro, inoltre ha commentato in una trasmissione televisiva che le manifestazioni avvenute a Caracas contro il suo governo ricordavano i cortei durante il nazismo e fascismo prima della seconda guerra mondiale.
   Gli oppositori di Maduro, infatti, che lo accusano di essere un dittatore che posticipa le elezioni e cerca di riscrivere la costituzione, organizzano manifestazioni di protesta tutti i giorni dai primi di aprile. A oggi più di 40 partecipanti sono stati uccisi dalla polizia.
   Immediata la reazione della Comunità ebraica venezuelana, che in un comunicato stampa ha dichiarato: "La CAIV (Confederación de Asociaciones Israelitas) ripete la propria posizione di rigetto di qualsiasi paragone o menzione inadeguata che stimola una campagna di banalizzazione e negazione della Shoah, così come il processo di revisionismo che tanto danneggia la ricerca storica, offende la memoria delle vittime e di tutti coloro che hanno subito un lutto in questo tragico episodio dell'umanità".
   La confederación rifiuta inoltre qualsiasi manifestazione di intolleranza, aggressione verbale o fisica da qualsiasi direzione arrivi. "Questo episodio della storia, che spense la vita di 6 milioni di ebrei, di cui 1 milione di bambini, resta unico e incomparabile. Menzionarlo e utilizzarlo costituiscono una banalizzazione di ciò che è successo".
   Già Chavez, predecessore di Maduro, nei suoi 14 anni al potere in Venezuela, era stato più volte accusato di dichiarazioni poco rispettose nei confronti degli ebrei (vedi anche l'inchiesta del Bollettino sull'antisemitismo in Sud America del 2014), che però aveva sempre respinto come accuse della destra.

(Mosaico, 19 maggio 2017)


Tacus Arte Integrazione Cultura: "Shalom. Ebrei a Palermo"

 
Si terrà sabato 27 maggio, a partire dalle ore 16, Shalom. Ebrei a Palermo, il tour organizzato e proposto dall'associazione di promozione sociale TACUS Arte Integrazione Cultura, all'interno dell'antico quartiere ebraico di Palermo.
   «Il tour vuole essere un'occasione - spiegano gli organizzatori - per conoscere e approfondire uno spaccato di storia lungo secoli, che racconta di una città cosmopolita e multietnica. Nella storia della comunità ebraica è possibile ritrovare le radici di un'identità culturale che fa dell'integrazione e dell'intercultura due dei suoi tanti punti di forza. Un'unicità culturale, tutta siciliana, raggiunta già ai tempi dell'impero romano e interrotta nel 1492 quando, l'idiosincrasia nei confronti degli infedeli, infervora Ferdinando II d'Aragona "il Cattolico" che stabilisce la definitiva cacciata degli ebrei dai territori della corona spagnola. L'editto di Granada segna la fine di un'era, di un pavimento interraziale e interreligioso alla base di una prolifica, seppur delicata, convivenza.»
   Botteghe, giardini, bagni rituali, una sinagoga, un ospedale, un macello e, nelle immediate vicinanze del centro urbano un cimitero. Flavia Corso e Valentina Molozzu, guida turistica autorizzata, accompagneranno i partecipanti sulle tracce di un tassello fondamentale di quel grande e complesso mosaico che è la cultura palermitana ripercorrendo, nel cuore del centro storico, i luoghi della comunità ebraica che, al tempo di Federico II, raggiungeva il punto di massima prosperità e integrazione. Partendo dalla visita dell'antico bagno ebraico, il Mikveh, sito nei locali ipogei di Palazzo Marchesi, l'itinerario proseguirà verso la Guzzetta e la vecchia Meschita alla riscoperta della storia, della cultura, dei riti propri del popolo giudaico.
   Il raduno dei partecipanti è fissato, alle ore 15:45 presso l'ingresso di Palazzo Marchesi a Piazza SS. Quaranta Martiri al Casalotto. Il contributo a sostegno dell'iniziativa è di € 6 per i soci TACUS ed € 8 per i non tesserati, comprensivo della guida turistica autorizzata. L'evento organizzato da TACUS è aperto a tutti previa prenotazione obbligatoria da effettuarsi telefonicamente contattando la segreteria al numero 320.2267975.

(Oggimedia.it, 19 maggio 2017)


Trump in Medio Oriente ed Europa per presentare la nuova visione di Washington

ROMA - La tappa in Israele, prevista dal 22 al 23 maggio è un altro punto molto delicato del tour di Trump e della sua agenda di politica internazionale che mira a rafforzare il ruolo dello Stato ebraico nella regione, aprendo al tempo stesso la possibilità di un trasferimento dell'ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, ma soprattutto fornendo garanzie di protezione dalla minaccia iraniana, come dimostrato dall'imposizione nei giorni scorsi di nuove sanzioni contro due funzionari della difesa iraniani legati al programma missilistico. La visita del presidente Usa nello Stato ebraico, attesa soprattutto per i rapporti di collaborazione e cordialità con il premier Benjamin Netanyahu, sostenitore dell'ex "tycoon" durante la campagna elettorale, è stata in parte messa in ombra dalle forti polemiche legate alle presunte rivelazioni di informazioni segrete sullo Stato islamico alla Russia cedute a Washington dall'intelligence israeliana.

(Agenzia Nova, 19 maggio 2017)


Gerusalemme, la città è unita. La festa per celebrarla

Una celebrazione che renda omaggio alla città tutta, alla sua storia millenaria, ai luoghi sacri, allo sviluppo dei suoi quartieri, abitanti e popolazione, al suo essere centro di pensiero, sviluppo, cultura e innovazione e quello che la città rappresenta oggi per se stessa, per Israele e per il mondo intero. Perché per quanto nota, Gerusalemme (specialmente in Italia) è in realtà ai molti sconosciuta. Al di là della cronaca politica, incentrata sul conflitto arabo-israeliano e sul riconoscimento dei luoghi sacri, c'è infatti una Gerusalemme vibrante che sfida e dimostra che la convivenza tra religioni ed etnie pur complessa e difficile è possibile.
   Risponde a questa esigenza il programma di iniziative pensato da Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Comunità ebraica di Roma, Ambasciata d'Israele in Italia e Chevrat Yehudei Italia per festeggiare il cinquantesimo anniversario della riunificazione di Gerusalemme, presentato ieri in occasione di una conferenza stampa convocata al Centro Bibliografico UCEI con la partecipazione della Presidente dell'Unione Noemi Di Segni, della Presidente della Comunità ebraica capitolina Ruth Dureghello e dell'ambasciatore israeliano Ofer Sachs.
   Al centro delle iniziative per il Cinquantenario una grande serata, martedì 23 maggio, ai Mercati di Traiano: "Suoni e luci di Gerusalemme sotto il cielo di Roma". Il simbolico incontro, nel segno della musica, delle parole e della luce, tra due città che hanno fatto la Storia e che insieme vogliono costruire un futuro di pace, libertà, progresso. Ma in calendario anche altri eventi, tra cui una densa giornata di approfondimento (domenica 28) che spazierà dall'arte alla letteratura, dalle nuove tecnologie al cinema.
   "Gerusalemme è una città che per la sua proiezione universale non è soltanto la capitale di un giovane Stato che solo nella storia ha saputo garantire il complesso intreccio della convivenza nei suoi quartieri, ma anche punto di riferimento imprescindibile per miliardi di persone in tutto il mondo" ha sottolineato la Presidente Di Segni. "Celebriamo quindi tutti insieme la Gerusalemme che afferma la vita e che irradia la sua luce all'insieme della collettività umana. È quella - ha aggiunto - la Gerusalemme che vogliamo raccontare e condividere con tanti amici che, sono certa, verranno a trovarci nelle prossime intense giornate di celebrazione".
   Gerusalemme e Roma, un legame speciale. "Entrambe le città - riflette la Presidente Dureghello - rappresentano un esempio di come un luogo possa rappresentare un modello di coesistenza e rispetto tra le fedi e la celebrazione dei cinquanta anni di Gerusalemme ne ricorda la sua riunificazione e la possibilità finalmente di potervi accedere per i fedeli di tutte le religioni". Con riferimento alla serata del 23, Dureghello osserva: "Artisti israeliani e italiani si alterneranno dando vita ad una serata sensoriale, fatta di luci, storie e immagini per festeggiare la capitale eterna del popolo ebraico".
   Roma e Gerusalemme: il legame tra due città, ma anche un rapporto di profonda amicizia tra due paesi che recentemente ha raggiunto nuove vette". "Negli ultimi mesi infatti - ha ricordato l'ambasciatore Sachs - è giunto in visita un numero notevole di esponenti di primo piano, tra cui il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il Ministro degli Esteri Angelino Alfano, il Ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda, alti funzionari del Ministero della Difesa e molti altri". Una serie di visite che, ha sottolineato il diplomatico, testimoniano "quanto stretti siano i rapporti fra i due Paesi".
   Ad aprire la conferenza stampa, introdotta dal direttore della redazione e comunicazione UCEI Guido Vitale, la proiezione di un filmato che il rav Jonathan Sacks, tra le più autorevoli figure rabbiniche al mondo, ha dedicato recentemente a Gerusalemme. A presentare il programma di iniziative, evento per evento, Raffaella Di Castro.
   Tra i protagonisti della serata del 23, che sarà condotta dall'artista Eyal Lerner, i cori musicali Ha-Kol e Nizzanim, i danzatori dell'Accademia Nazionale che porteranno in scena lo spettacolo Yerushalaim Golden Roots di Mario Piazza, l'artista Ilana Yahav con una live performance molto attesa. Sarà inoltre proiettato il cortometraggio Jerusalem di Emanuele Luzzati e Giulio Gianini.
   La giornata del 28, al Centro Ebraico il Pitigliani, è stata intitolata "Gerusalemme: dalla cima del monte Scopus".
   Si partirà alle 11, con ouverture e intermezzi musicali per pianoforte di Antonio Cama. Seguirà una conversazione su "Hebrew University, da Einstein all'avanguardia hi tech" moderata da Viviana Kasam (Presidente BrainCircle Italia) e con la partecipazione di Hillel Bercovier (Hebrew University) e dell'ambasciatore Sachs. Alle 16, "Gerusalemme nelle pagine del Talmud": una discussione moderata da Clelia Piperno, direttrice del Progetto Talmud, con interventi di rav Riccardo Di Segni e di rav Gianfranco Di Segni. Alle 16 si parlerà di "Il nome di Gerusalemme", con Barbara Notaro che intervisterà Clelia Piperno e Alberto Melloni. Alle 17.30 focus su "Archeologia, Arte e Architettura a Gerusalemme" introdotto da Tamar Milo, direttore del Dipartimento Italia, The Jerusalem Foundation, moderato da Davide Spagnoletto e con interventi di Dan Bahat, Giorgia Calò, David Cassuto, Tania Coen e Raffaella Frascarelli. Concluderà la serata la proiezione del film inedito "Ben Gurion, Epilogue" presentato da Ariela Piattelli, direttrice artistica del Pitigliani Kolnoa Festival. Sarà presente la produttrice Yael Perlow.
   Da segnalare inoltre, nella stessa sede, due serate dedicate a "Gerusalemme nel cinema" (mercoledì 24 e sabato 27).
   
(moked, 19 maggio 2017)


In cargo dagli Usa a Israele con cambio nave a Salerno

 
Salerno porto di scambio nave per i passeggeri dagli Stati Uniti verso Israele, viaggio transatlantico con CMA CGM, e Transmed con Grimaldi Lines
Con un aumento del numero di navi cargo che portano passeggeri e lavorano sul servizio a quattro CMA CGM Amerigo Express Transatlantic , Salerno è diventato il nuovo porto di scambio per i passeggeri verso Israele che arrivano dagli Stati Uniti.
Il tempo di transito con CMA CGM da Miami a Salerno è di 17 giorni e Grimaldi Lines opera quindi viaggi settimanali da Salerno a Ashdod che impiegano 9 giorni. Le navi Grimaldi tornano da Ashdod a Salerno in 5 giorni e CMA CGM prende quindi 19 giorni da Salerno a New York e un altro 7 per tornare a Miami via Norfolk e Savannah.
La nave battente bandiera britannica CMA CGM Amber è una delle quattro navi che collega i porti di Miami a Med e includono Salerno, e torna via New York
Il servizio transatlantico è gestito dalla nave CMA CGM Amber e CMA CGM Coral, con cinque passeggeri ciascuno in una cabina Owners e tre singole, mentre la CMA CGM Florida e CMA CGM Georgia trasportano ciascuno sei passeggeri in due doppie e una cabina doppia. Queste navi offrono anche una connessione con il Marocco sbarcando a Algeciras e prendendo il traghetto per Tangeri.
La nave battente bandiera italiana di Grimaldi Line,la Grande Ellade e le navi sorelle forniscono il collegamento tra Salerno e Ashdod
Il collegamento Transmed è fornito dal servizio euro-med Grimaldi Lines che si collega anche con Southampton e porti in Scandinavia e Nord Europa. Cinque navi: la Gran Bretagna, la Grande Ellade, la Grande Europa, Grande Mediterraneo e Grande Scandinavia portano fino a dodici passeggeri ciascuno in una cabina Owners, una cabina esterna e quattro cabine interne.

(Paradiso del crocierista, 19 maggio 2017)


Se soltanto il Venezuela si chiamasse Palestina..

di Bianca M. Bertini

MILANO - Se solo il Venezuela si chiamasse Palestina e non fosse invece uno stato fondamentale per i loschi affari di Teheran e dei suoi alleati di Hezbollah, a quest'ora il mondo pacifista avrebbe messo sottosopra tutto il pianeta.
   Invece i poveri venezuelani non sono i privilegiati palestinesi, per loro il mondo pacifista non ci pensa proprio a muoversi, forse perché quello stesso mondo preferisce difendere i regimi corrotti e violenti ma anti-americani e anti-israeliani, forse perché prima con Hugo Chavez e adesso con Nicolas Maduro il mondo pacifista si è sempre schierato dalla parte del regime in Venezuela prendendolo addirittura ad esempio e infischiandosene delle sofferenze del popolo venezuelano. Forse perché se non c'è di mezzo Israele il cosiddetto mondo pacifista se ne infischia di tutto.
   Da settimane il popolo venezuelano scende in piazza per chiedere a Maduro di andarsene e lasciare libero il Paese, un Paese letteralmente alla fame nonostante le immense ricchezze di cui dispone. In questo lungo periodo di manifestazioni oceaniche una quarantina di persone sono state uccise dagli sgherri del regime, migliaia i feriti, centinaia di ragazzi e ragazze sono stati incarcerate, persino gli anziani vengono picchiati dalle squadre della morte di Maduro, eppure il mondo pacifista non se ne accorge o, peggio ancora, fa finta di non vedere. Preferisce star dietro al finto sciopero della fame dei terroristi palestinesi piuttosto che cercare di aiutare un popolo veramente oppresso.
   Non so nemmeno se sia più corretto chiamare questo strano mondo con l'appellativo di "pacifista" vista la loro predilezione per i dittatori e gli assassini di bambini.
   Dove sono i vari Vauro, le Morgantini, i Manlio Di Stefano? Dove sono le testate di estrema sinistra sempre pronte a condannare Israele se un palestinese scivola su una buccia di banana, sempre pronti a chiamare "resistenti" i terroristi palestinesi e a fare manifestazioni per difendere il loro diritto a uccidere innocenti?
   Il Venezuela, purtroppo per i poveri venezuelani, non è la Palestina e allora se l'idolo della sinistra estrema, Nicola Maduro, vuole massacrare (finire di massacrare) quei poveretti che protestano per un tozzo di pane lo può fare tranquillamente sicuro com'è che non ci sarà nessuna sollevazione internazionale, nessun movimento di boicottaggio, nessuna attenzione sui media fascio-sinistri.
   Il Venezuela è la prova vivente della ipocrisia e della malafede di coloro che dicono di lottare per i Diritti Umani ma difendono dittatori, terroristi e assassini di bambini, quelli che si autodefiniscono "pacifisti" e che qualcuno a giustamente ribattezzato "pacivendoli".

(Milano Post, 19 maggio 2017)


Stop dell'Unione Europea alle colonie israeliane

Lo schiaffo di Strasburgo: chiede di arrestare l'espansione in Cisgiordania. Tutti d'accordo. La risoluzione adottata in seduta plenaria.

di Dimitri Buffa

Federica Mogherini - Anche stavolta c'è il suo zampino visto che la proposta risulta presentata «a seguito di una dichiarazione del vicepresidente della Commissione/alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri».
«La costruzione e l'espansione delle colonie israeliane in Cisgiordania si deve fermare in quanto «illegale»" e «ostacolo agli sforzi di pace» e la soluzione «a due Stati è l'unica strada per mettere fine al conflitto israelo-palestinese».
Presentata il 15 maggio su proposta dell'Unesco e approvata ieri a maggioranza dal parlamento ecco pronta l'ennesima risoluzione europea contro Israele. Negli ultimi quattro anni ne hanno approvate oltre 400 (ma ne sono state richieste forse seimila). E sempre a tempo di record. Anche stavolta c'è lo zampino della Mogherini visto che risulta presentata «a seguito di una dichiarazione del vicepresidente della Commissione/alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza a norma dell'articolo 123, paragrafo 2, del regolamento».
Materia del contendere? Sempre le colonie, o gli insediamenti, come si preferisce definirli usando il linguaggio ipocrita del politically correct.
Nelle motivazioni si richiamano tutte le più recenti risoluzioni contro Israele, a cominciare da quella Unesco di maggio 2017 sulla «Palestina occupata». Poi c'è una sfilza di «considerando che».
Il primo dei quali fa riferimento al fatto che, «cinquanta anni dopo la guerra del 1967, Israele continua ad occupare la Palestina, in violazione del diritto internazionale e di tutte le pertinenti risoluzioni del Consiglio di sicurezza e dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, e che lo Stato palestinese, secondo i confini del 1967 e con Gerusalemme Est come capitale, deve ancora diventare membro a pieno titolo dell'ONU, ai sensi della risoluzione ONU del 1948 ... ».
Nel punto D si esplicita che «l'Unione e la comunità internazionale non hanno mai accettato l'annessione unilaterale di Gerusalemme Est da parte di Israele».
Si fa riferimento persino alla «Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, adottata mediante la risoluzione n. 39/46 dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, del 10 dicembre 1984».
Poi si afferma, proditoriamente, che «i palestinesi di Gerusalemme Est continuano a soffrire per la mancanza di uno status giuridico sicuro di residenti, per la confisca delle loro terre e per la discriminazione sistematica nell'accesso ai servizi pubblici, alla pianificazione e all'edilizia, come pure nell'accesso ai luoghi e ai siti di culto, in ragione delle politiche del governo israeliano intese a modificare la composizione demografica della zona».
In realtà l'accesso alle zone di culto proprio come il Tempio di Salomone è negato anche archeologicamente proprio agli israeliani e addirittura l'Unesco si è spinta a dire che non vi sarebbe prova del retaggio ebraico in Gerusalemme Est.
Segue la condanna la cui sintesi è nelle tre righe su citate. Trasmesse dall'Ansa ieri alle 13 e 30.

(Il Tempo, 19 maggio 2017)


"Israele continua ad occupare la Palestina, in violazione del diritto internazionale...”. Antisemitismo giuridico, così l’abbiamo definito. E’’ultima forma di antisemitismo in senso cronologico e probabilmente l’ultima in senso biblico-profetico. Non soltanto un popolo, non soltanto una nazione, ma tutte le nazioni del mondo con le loro organizzazioni si pongono contro la realtà del popolo ebraico non per motivi religiosi, o razziali, o economici, ma giuridici: si nega alla nazione di Israele il DIRITTO di risiedere nella terra che Dio ha assegnato al SUO popolo etnico contestandole precisamente il punto più significante della sua essenza e della sua storia: la città di GERUSALEMME. Come si fa a non vedere che la storia si sta muovendo velocemente sul binario tracciato dalla Bibbia? M.C.


*


Una crociata a colpi di mozioni per conquistare Gerusalemme

Negli ultimi quattro anni approvate oltre quattrocento risoluzioni. Per archiviarle tutte il sito del Parlamento ha bisogno di 690 pagine.

di Dimitri Buffa

Se uno fa una ricerca sul sito del parlamento europeo rispetto alle proposte di risoluzione contro Israele per fattori che vanno dalla guerra di Gaza del 2014 agli insediamenti "illegali" in West Bank e Gerusalemme passando per le questioni sul monte del Tempio, appannaggio Unesco, e per le centinaia di diatribe coi palestinesi, vedrà che escono fuori oltre 690 paginate. Se poi la ricerca si restringe rispetto a quelle approvate le paginate che vengono fuori sono 40. Che con una media di dieci link a pagina fanno pur sempre quasi quattrocento "issues". E parliamo degli ultimi tre anni. L'Onu forse supera questo record, ma recentemente anche il governo italiano, da quando si segue più o meno la linea della Federica Mogherini, che nell'Unione europea è praticamente la ministra degli esteri, ha cambiato posizione. Salvo ricambiarla di nuovo quando, come nel caso del voto all'Unesco sul monte del Tempio, Renzi diede il contrordine pochi mesi prima di lasciare la presidenza del consiglio. Fatto sta che anche le campagne più odiose relative ai boicottaggi dei prodotti agricoli di Giudea e Samaria, considerate colonie, hanno sempre visto in prima fila la Ue e il Parlamento europeo nel prendere sempre e comunque posizione contro Israele. Anche nell'appoggiare di fatto le campagne di boicottaggio di quei prodotti all'interno dei supermercati Ue. E questo nonostante che in quei campi a raccogliere i datteri lavorino migliaia di palestinesi pacifici che invece con gli israeliani hanno buoni rapporti. E che rischiano costantemente il posto di lavoro a causa della visione ideologizzata anti Israele di gran parte dei paesi europei.
Con l'Italia il caso più clamoroso del passato prossimo è stato proprio il voto di astensione dello scorso settembre 2016 nel rapporto Unesco che condannava gli insediamenti illegali degli israeliani a Gerusalemme Est.
Ma anche il 30 novembre di quello stesso anno, senza che nessun media se ne accorgesse, proprio l'Italia aveva votato altre sei soluzioni di condanna stavolta dell'Onu sempre per gli insediamenti illegali e dintorni.
Praticamente i palestinesi sono le vittime preferite da tutelare da parte dell'Europa. Sia da parte del parlamento che della Commissione. E anche il popolo più finanziato a livello di cooperazione, benchè i miliardi di euro stanziati ogni anno spesso finiscano ad armare i miliziani di hamas e a pagarne lo stipendio.
Prima di oggi, solo nel 2017, su proposta della Mogherini, il parlamento europeo aveva condannato lo stato di Israele per ben tre volte, il 6febbraio, il 25 febbraio e il 7 aprile per tematiche concernenti i nuovi insediamenti in Cisgiordania o a Gerusalemme Est.
Non tutte le condanne espresse nelle dichiarazioni vengono poi "regolarizzate" con un voto, ma poco ci manca. E quando non è il Parlamento a farlo allora subentra la commissione Ue, cioè la governance europea. Ma, come si dice a Roma, «se non è zuppa è pan bagnato».
Proprio la nomina della Mogherini e le sue dichiarazioni sempre ostili o quasi contro Israele portarono nel novembre 2015 il premier Benjamin Nethanyahu a un gesto estremo: escludere l'Europa dalle proposte di mediazione di pace tra israeliani e arabo palestinesi. Insomma il premier non voleva sedersi a tavolo con la Ue a parlare di pace. La notizia pubblicata anche sul nostro giornale creò il primo serio incidente diplomatico della nuova responsabile degli esteri europea. Anche se poi pian pianino la ferita si rimarginò. L'Italia da parte sua dopo essersi astenuta nel settembre 2016 nel voto Unesco che negava agli ebrei qualunque retaggio su Gerusalemme, lasciando insoluta la questione del tempio di Salomone, e dopo la sfuriata diRenzi che parlò di «voto inconcepibile», all'Onu fece di peggio. Infatti a dicembre di quello stesso anno confermò la risoluzione Onu che ricalcava quella Unesco e stavolta votò addirittura a favore. La giustificazione fu quella banalissima degli «automatismi in seno alla Ue», che è come dire che siccome Francia, Spagna e Germania votano a favore finisce che lo dobbiamo fare pure noi. Più di qualcuno invece ipotizzò l'ennesimo sgambetto della stessa Mogherini a Renzi.

(Il Tempo, 19 maggio 2017)


Eccidio di Isolabona, nuovi particolari sul "volenteroso" carnefice di Hitler

Proseguono le ricerche del professor Carlo Gentile e dello storico locale Paolo Veziano sui fatti accaduti nel marzo del 1945.

di Maurizio Vezzaro

 
La lapide che ricorda i partigiani fucilati a Isolabona
ISOLABONA - Dalle nebbie del passato affiorano, come spaventosi spettri, nuovi brandelli di verità sull'identità di Josef Fellermeier, l'ufficiale nazista presunto responsabile delle torture e dell'uccisione inflitte a otto ostaggi partigiani in quel di Isolabona, nel lontano ma mai dimenticato 4 marzo 1945. Dalle ricerche partite dagli spunti storici dello studioso locale Paolo Veziano che è andato scandagliare gli archivi, trovando documenti riportanti l'esito di interrogatori di soldati tedeschi prigionieri, e approfondite dal professor Carlo Gentile, originario di Dolcedo e docente di storia contemporanea dell'Università di Colonia, la figura di Josef Fellermeier comincia a delinearsi in tutti i suoi freddi, brutali contorni. Si conosce che nacque nel 1918 a Kreissing in Bassa Baviera e per quanto se ne sappia potrebbe essere teoricamente ancora in vita: avrebbe oggi 99 anni. Un'età avanzata ma che non gli garantirebbe nessuno sconto in materia giudiziaria in quanto le stragi come quella di Isolabona non finiscono in prescrizione. L'ultimo domicilio è stato individuato a Pfaffenberg, sempre in Bassa Baviera. È ancora là?
   Stiamo parlando di un sottotenente derivante dai ranghi dei sottufficiali che prima lavorava come funzionario nel Reichsarbeitsdienst (Servizio del lavoro: un'organizzazione interna al partito nazionalsocialista). «Ulteriore conferma dell'identità - scrive il professor Gentile - è il fatto che Fellermeier, nell'estate del 1942, fu ferito e perdette l'occhio sinistro». E in effetti, nel resoconto degli interrogatori condotti dai partigiani, i soldati tedeschi riferiscono tutti il particolare dell'occhio mancante.
   Difficile poter dire se la Procura militare di Verona oggi competente, a distanza di così tanto tempo e con sì labili elementi (non sono sufficienti quelli già a disposizione), possa decidere di aprire un fascicolo penale. Veziano e Gentile gli spunti li hanno forniti. Si vedrà.
   Per quanto riguarda l'estremo Ponente, l'unità maggiormente responsabile di eccidi di resistenti e civili fu il «Grenadier-regiment 253 comandato dal maggiore Geiger. Un elenco di persone trucidate dai tedeschi nell'area di Ventimiglia contempla, oltre alle 12 vittime della strage di Grimaldi, i nomi di 41 persone assassinate nel circondario nel periodo in cui la famigerata squadra era di stanza a Ventimiglia. Il 21 marzo 1945, al forte San Paolo a Ventimiglia furono passati per le armi otto ragazzi tra i 16 e i 24 anni, in parte collaboratori delle formazioni partigiane, rastrellati a Bordighera e Dolceacqua. Giudicati da una corte marziale presieduta dallo stesso Geiger, prima di essere giustiziati furono picchiati dal maresciallo Rudolf Przibilla, un altro dei volenterosi carnefici di Hitler.

(La Stampa, 19 maggio 2017)


"Joseph Rabinowitz, il Theodor Herzl del movimento messianico"

Con questo titolo è di prossima uscita un libro che sarà presentato dall'associazione evangelica EDIPI in occasione suo prossimo Raduno Nazionale a Milano del 2-3 giiugno 2017. La presentazione sarà fatta da Marcello Cicchese, che ne ha scritto la prefazione. Ne riportiamo qui alcuni estratti.

«Questo libro racconta la storia di un ebreo che si è convertito a Cristo. Formulata così, una frase simile provoca immediatamente due reazioni di tipo opposto: di accoglienza gioiosa fra i cristiani e di repulsione disgustata fra gli ebrei. Tenuto conto che per secoli cristianesimo ed ebraismo sono stati vissuti come due campi teologicamente e socialmente contrapposti, il passaggio di qualcuno da un campo all'altro, sempre nella stessa direzione, è stato considerato un tradimento dagli ebrei e una vittoria dai cristiani.
   La storia di cui si parla in questo libro si svolge in modo diverso. Un ebreo russo, un vero ebreo di famiglia e tradizione, si converte a Cristo, come tanti altri prima di lui, ma il contesto dei due campi contrapposti in cui questo avviene è fortemente scosso in modo inusuale. E' bene dunque avvicinarsi a questo libro con curiosità e disponibilità a ripensare e mettere in discussione, se necessario, schemi mentali forse ben collaudati perché provenienti da una lunga tradizione, ma non adatti a capire l'imprevedibilità dell'agire di Dio.
   Joseph Rabinowitz (1837-1899) è un nome pressoché sconosciuto in Italia. Nasce a Rezina, un piccolo paese della Bessarabia, attuale Moldavia, da genitori appartenenti entrambi a famiglie rabbiniche. Da ragazzo fu affidato per la sua formazione a uno zio materno, un pio e zelante ebreo appartenente ai chassidim, un devoto movimento ebraico molto diffuso a quel tempo nell'Europa dell'Est. Joseph imparò dallo zio a conoscere ed amare la Torà e il Talmud, ma durante l'adolescenza si familiarizzò anche con gli scritti di Moses Mendelssohn, famoso esponente dell'illuminismo ebraico e nonno del compositore Felix Mendelssohn Bartholdy. Le idee dell'ebraismo riformato fecero breccia nella mente vivace del giovane, e come lui stesso dichiarò in seguito, la chiarezza del pensare logico lo fece risvegliare dal sogno talmudico in cui era cresciuto. Pur essendo nato in una famiglia di rabbini e cresciuto in un ambiente chassidico, dall'età di 19 anni Rabinowitz diventò dunque un ebreo "illuminato", cioè aperto al mondo esterno, alla sua cultura e ai suoi costumi.
   Il passaggio dallo chassidismo al libero pensiero potrebbe essere detta la prima conversione di Rabinowitz. Fu in questo periodo di travaglio che ricevette dalle mani di un altro ebreo, che in seguito diventerà suo parente, un Nuovo Testamento nell'edizione tradotta in ebraico dal noto teologo ed ebraista protestante Franz Delitzsch. Non si sa di preciso che cosa ne fece Rabinowitz negli anni seguenti, ma è quasi sicuro che nella sua nuova apertura mentale lo abbia letto, almeno in parte, se non altro per il desiderio di accrescere le sue conoscenze. E' certo comunque che non se ne distaccò mai, anche se per molti anni non diede alcun segno di essere stato convinto o influenzato dal suo contenuto.
   Era un ebreo illuminato, ma ben presto arrivò a capire che le luci del progresso non avrebbero fugato le tenebre dell'odio contro gli ebrei: i pogrom che si susseguivano nell'Impero russo ne erano una continua e drammatica conferma. Rabinowitz allora non abbandonò il suo popolo, per cercare soluzioni personali ai suoi problemi. Al contrario, proprio la sua apertura mentale e la sua cultura lo spinsero a cercare per i suoi fratelli una via d'uscita dalla misera situazione in cui si trovavano, e si adoperò affinché questo avvenisse. Anche lui, come Herzl ma prima di lui, era "torturato" dal pensiero di trovare la soluzione della "questione ebraica".
[...]
Torniamo allora al momento della sua suggestiva conversione a Gerusalemme. "Sul Monte degli Ulivi ho trovato Gesù" scrisse Rabinowitz a un suo amico qualche anno dopo. E tuttavia, quando Franz Delitzsch lesse la bozza della sua autobiografia gli fece notare che non aveva scritto nulla sul momento della sua conversione. Rabinowitz disse soltanto che la cosa era intenzionale. Perché questa reticenza? La storia di Gesù nei Vangeli dovrebbe far capire che in certi casi anche i silenzi parlano, ma chi non ha orecchie per udire non intende neanche quelli. Chi ascolta il racconto di una conversione spesso è desideroso di sentire quello che già si aspetta, che ha già sentito dire da altri, che forse lui stesso ha detto quando "ha dato la sua testimonianza". Probabilmente Rabinowitz aveva capito che se avesse detto in modo chiaro e preciso tutto quello che aveva sperimentato in quell'occasione, e soltanto quello, molti cristiani avrebbero detto che la sua non era una vera conversione.
[...]
Un uditore di uno dei pochi racconti che Rabinowitz fece della sua esperienza riporta per iscritto alcune parole: "«Improvvisamente una frase del Nuovo Testamento, che avevo letto 15 anni prima senza prestarvi attenzione, trafisse il mio cuore come un raggio di luce: 'Se il Figlio vi farà liberi, sarete veramente liberi' (Giovanni 8:36)». Da quel momento la verità che Gesù è il Re, il Messia, l'unico che salva Israele, prese forza sulla sua anima. Profondamente commosso, tornò immediatamente al suo alloggio, afferrò il Nuovo Testamento, e mentre leggeva il Vangelo di Giovanni fu colpito da queste parole: '... senza di me non potete fare nulla' (Giovanni 15:5). In questo modo, per la provvidenza di Dio Onnipotente, fu illuminato dalla luce del Vangelo. 'Yeshua Achinu' (Gesù nostro fratello) rimase da allora lo slogan, con cui ritornò in Russia."
   La formula "Gesù nostro fratello" caratterizzò immediatamente la forma in cui la fede di Rabinowitz si manifestò in pubblico nei primi tempi. In ambito cristiano era indubbiamente nuova; qualcuno la trovò interessante, altri la criticarono, perché sembrava svalutare la grandezza del Signore Gesù. Quel "nostro" evidentemente si riferiva agli ebrei, e questo poteva apparire riduttivo ed esclusivo a chi non è ebreo. Qualcuno poi fece notare a Rabinowitz che non basta confessare Gesù come figlio di Davide, Messia e redentore d'Israele, bisogna riconoscere in Lui l'Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo. A questo Rabinowitz arrivò molto presto; infatti le sue predicazioni in seguito conterranno sempre pressanti inviti al ravvedimento e alla fede in Gesù per il perdono dei peccati. Ma questo aspetto della salvezza per fede in Gesù, pur essendo fondamentale, non fu il primo a toccare Rabinowitz: come prima cosa per lui ci fu l'inaspettata scoperta dell'amore di Gesù per il suo popolo. Era venuto a Gerusalemme per trovare il modo in cui aiutare gli ebrei di Russia ad uscire dalla miseria senza vie d'uscita in cui si dibattevano, e non lo trovò. Ma trovò Gesù. Era venuto per alleviare le sofferenze dei suoi fratelli ebrei, e nel momento in cui disperava di poterlo fare trovò il "nostro fratello Gesù". Questo gli aprì la mente e il cuore, rendendolo attento a tutte le parole di Gesù, anche quelle che all'inizio non l'avevano colpito, cioè la sua morte, la sua risurrezione e il perdono dei peccati per tutti coloro che credono in Lui. Pochi anni dopo la sua conversione ebbe a dire: "Per prima cosa ho onorato Gesù come grande essere umano con cuore compassionevole, poi come colui che ha desiderato il bene del mio popolo, e alla fine come colui che ha portato i miei peccati".»
[...]


Kai Kjaer Hansen, "Joseph Rabinowitz, il Theodor Herzl del movimento messianico", traduzione di Fiorella Ghirlanda, revisione di Nicla Costantino, ed. The New Thig - Padova, maggio 2017 - pp. 304, €25,00.
In offerta a 20 euro al Raduno di EDIPI a Milano.

(Notizie su Israele, 19 maggio 2017)


Oliverio scrive a Franceschini per riavere in Calabria il primo libro stampato in ebraico

di Giovanni Durante

Fu sicuramente il Sud Italia ad ospitare le prime comunità della diaspora ebraica conseguente alla distruzione del Tempio di Gerusalemme - 70 DC - sotto l'imperatore romano Tito. I primi ottomila ebrei difatti giunsero in Puglia già pochi anni dopo il triste evento e qui operarono alcune delle maggiori personalità del mondo rabbinico, come ad esempio Shabbetai Donnolo, medico, alchimista e astronomo medievale nato ad Oria, nel brindisino e morto a Rossano in Calabria.
Ma è a Reggio Calabria - quindi nella nostra regione - che spetta il primato di aver dato alle stampe il 18 febbraio del 1475 la prima opera in lingua ebraica - si tratta del saggio scritto dal rabbino francese Salomone Isaccide, il "Commento al Pentateuco" - stampata nella Giudecca della città dello stretto presso la bottega di Avrhaham ben Garton, tipografo reggino di origine tedesca, grazie ai finanziamenti dei commercianti di seta ebrei della città.
Una scoperta che si deve alla ricerca di Giovanni Bernardo De Rossi, presbitero, orientalista e bibliografo piemontese, docente alla Facoltà Teologica di Parma dal 1769 al 1821, descritta nel suo "Dizionario storico degli autori ebrei e delle loro opere", edito dalla Reale Stamperia di Parma nel 1802. L'opera venne poi citata anche nella "Storia di Reggio Calabria" di Domenico Spanò Bolani e nelle "Memorie delle Tipografie Calabresi " di Vito Capialbi
Dopo la scoperta del De Rossi, il volume, insieme ad altri importanti documenti della cultura ebraica in Italia, venne infatti acquistato nel 1816 da Maria Luigia d'Austria per donarla alla Regia Bibliotheca Parmense, città dove ancora oggi si trova esposto. Il suo valore ammonterebbe a circa un milione di euro, giacché ne esiste una sola copia.
Una scoperta eccezionale se si pensa che Gutenberg aveva stampato la prima Bibbia in latino, in Germania, nel 1450, cioè appena un quarto di secolo prima.
Un opera che però non si trova in Calabria, circostanza che ha spinto il presidente della Regione Calabria, Mario Oliviero a chiederne il ritorno al ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini. Sarebbe intenzione del governatore Oliviero inserire questo ritorno nell'ambito di un progetto per il rilancio della presenza storica degli ebrei in Calabria, territorio che presenta numerose mete di interesse turistico e culturale, come i resti della grande sinagoga di Bova Marina, le numerose giudecche a Lamezia Terme, Nicotera e Vibo Valentia.

(MediterraneiNews, 19 maggio 2017)


Roma - Gerusalemme show e meeting per i 50 anni da città riunita

 L'evento
"Rallegratevi con Gerusalemme e giubilate in essa, o voi tutti che l'amate", esortava il profeta Isaia. Si celebrano martedì 23 ai Mercati di Traiano i 50 anni della città riunificata con la serata "Yom Yerushalaim, suoni e luci di Gerusalemme sotto il cielo di Roma", che marca un simbolico incontro nel segno delle parole e della musica tra due città "al centro del mondo". Il programma coordinato da Eyal Lerner comincia alle 21 con la proiezione del cortometraggio "Jerusalem" di Emanuele Luzzati e Giulio Gianini, seguita da uno spazio musicale con il Coro Nizzanim dei bambini degli Asili israelitici Rav Elio Toaff e il Coro Ha-Kol, e dalla danza col maestro Mario Piazza e lo spettacolo Yerushalaim Golden Roots degli studenti dell'Accademia Nazionale. In chiusura performance live di liana Yahav, l'artista della sabbia che crea scene spettacolari con le dita.

 Programma
Per quanto nota al mondo, Gerusalemme, specialmente in Italia è poco conosciuta. Se ne parla per la cronaca, per il conflitto arabo israeliano sul riconoscimento dei luoghi sacri, quasi mai per raccontare la convivenza tra religioni ed etnie diverse. È per questo che l'unione delle Comunità ebraiche italiane e la Comunità di Roma insieme con l'Ambasciata d'Israele in Italia e con l'associazione Chevrat Yehudei Italia hanno messo in piedi un ricco programma nell'anniversario della liberazione di Gerusalemme, avvenuta con la Guerra dei sei giorni nel giugno '67.
Le celebrazioni continuano mercoledì 24 alle 21 e sabato 27 alle 22 al "Pitigliani" in via Arco de' Tolomei con Gerusalemme nel cinema.
Infine domenica 28 "Gerusalemme: dalla cima del Monte Scopus: da Einstein all'hi-tech", su scienza e cultura. L'incontro sulla Hebrew University con Hillel Bercovier, moderato da Viviana Kasam presidente di BrainCircle Italia: ci sarà l'ambasciatore di Israele Ofer Sachs. Nel pomeriggio "Gerusalemme nelle pagine del Talmud" con i rabbini Riccardo Di Segni e Gianfranco Di Segni, modera Clelia Piperno.
In serata proiezione del film inedito: "Ben Gurion, Epilogue" di Yariv Mozer, presentato da Ariela Piattelli, direttrice artistica del Pitigliani Kolnoa Festival.

(Il Messaggero, 19 maggio 2017)


La festa dei Giudei a San Fratello

di Mario Avagliano

 
San Fratello - Festa dei Giudei
L'antigiudaismo ha profonde radici nella cultura occidentale. Lo testimoniano, fra l'altro, feste popolari che si celebrano tuttora in Italia, come la "Festa dei Giudei", che ogni anno anima il bel borgo di San Fratello, in provincia di Messina.
   In quel borgo, in occasione della Pasqua cristiana, si tiene un corteo nel quale i giovani del paese indossano sgargianti costumi, di colore giallo e rosso, ricamati di perline, impersonando "i giudei che percossero e condussero Gesù al Calvario". Così vestiti, con urla e suoni di tromba, essi cercano di irridere e disturbare il dolore dei cattolici per la passione di Cristo.
   I figuranti "giudei" hanno un cappuccio in testa, come quello che la Santa Inquisizione obbligava ad indossare a gruppi di ebrei durante le rappresentazioni della settimana santa per ridicolizzarli e identificarli come simboli del male e del demonio.
   Il rito nasce probabilmente nel Medioevo, nel Trecento, quando in varie città spagnole, soprattutto quelle dove erano presenti le più importanti comunità ebraiche, come Barcellona, Girona e Valencia, a seguito delle celebrazioni del venerdì santo si verificavano atti di violenza, ai limiti del linciaggio, nei confronti degli ebrei, considerati responsabili della morte di Gesù.
   I cosiddetti "disordini pasquali" erano frequenti anche in città italiane, con saccheggi, danneggiamenti e sassaiole contro gli ebrei e i loro beni. Appena un secolo dopo, nel marzo del 1492, i sovrani di Spagna, Isabella di Castiglia e Ferdinando d'Aragona, emanarono due editti per l'espulsione degli ebrei rispettivamente dalla Spagna e dalla Sicilia. A San Fratello tra il 16 e il 18 aprile, si ripete quel corteo. A chi in passato ha protestato contro la festa, è stato risposto che si tratta soltanto di una tradizione popolare.
   Sarà. Ma puzza di antiche persecuzioni. E non mi piace.

(Nuovo Monitore Napoletano, 18 maggio 2017)


Israele-Usa: funzionari d'intelligence a confronto

GERUSALEMME - Ron Dermer, ambasciatore d'Israele negli Stati Uniti, e funzionari di intelligence israeliani hanno condotto da martedì colloqui con la Casa Bianca e gli operatori d'intelligence statunitensi per determinare se e quali informazioni sensibili condividere, dopo le polemiche per la presunta condivisione di informazioni riservate da parte del presidente Usa, Donald Trump, con il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov. Un funzionario israeliano citato dal quotidiano "Haaretz" ha riferito che Israele intende concludere il confronto con gli statunitensi prima della visita ufficiale di Trump a Israele, la prossima settimana. Secondo l'alto funzionario, Gerusalemme auspica che il problema venga chiarito al livello di lavoro di intelligence tra i due paesi, senza sconfinare nell'ambito del confronto tra i vertici politici dei due paesi. Stando ad "Haaretz", Trump ha chiamato al telefono il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, martedì scorso, dopo la pubblicazione delle indiscrezioni sul colloquio Trump-Lavrov da parte della stampa Usa; la Casa Bianca non ha reso nota la chiamata. L'ufficio di Netanyahu ha chiarito ieri che al centro della conversazione vi è stata soltanto la visita dell'inquilino della Casa Bianca nello Stato ebraico, nei prossimi giorni.

(Agenzia Nova, 18 maggio 2017)


«A Gerusalemme tutto è pronto per l'ambasciata americana»

Il sindaco Barkat si aspetta l'annuncio del trasferimento da Tel Aviv il 22 maggio, in occasione della visita di Trump.

di Marco Venlura

 
Nir Barkat, sindaco di Gerusalemme
GERUSALEMME - Sposterò l'ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme» aveva promesso Donald Trurnp prima di essere eletto. E il sindaco di Gerusalemme, Nir Barkat, 57 anni, imprenditore high tech amante dell'Italia (sua moglie Beverly, pittrice, espone alla Biennale di Venezia), candidato alla leadership del Likud dopo Benjamin Netanyahu, prende The Donald in parola. «Credo e penso che Trump annuncerà il trasferimento dell'ambasciata nella prossima visita in Israele, il 22 maggio. Quale occasione migliore!».

- Nessun ripensamento da parte di Trump?
  La decisione è stata presa decenni fa dal Congresso americano e mai messa in pratica. Credo e spero che questa volta il presidente non abbia esitazioni. Meglio tardi che mai. Trump è un negoziatore, probabile che voglia concedere qualcosa ai palestinesi per addolcire la decisione.

- Che cosa?
  Se i palestinesi sono svegli si concentreranno sulla crescita economica, nell'interesse loro e di tutto il Medio Oriente. C'è un nesso evidente tra benessere economico e stabilità.

- Nessun problema a spostare la rappresentanza?
  Il consolato americano si trova già nel cuore della città. Basta cambiare la targa, insediare l'ambasciatore e pian piano spostare i servizi da Tel Aviv a Gerusalemme. Sbaglia chi vuole rendere complicata una cosa semplice.

- Non ha paura che il trasferimento scateni nuove violenze?
  L'ondata di violenze un anno e mezzo fa non aveva ragione. In Medio Oriente la violenza può avere tutte le ragioni o nessuna. Noi dobbiamo fare ciò che è giusto per assicurarci che la violenza non paghi. Questo gesto sarebbe un riconoscimento molto chiaro di Gerusalemme come capitale del popolo ebraico. È giusto così. A Gerusalemme basta infilare una sonda nel terreno e si trovano radici ebraiche fino a 3000 anni fa.

- In gennaio ha autorizzato nuovi insediamentì a Gerusalemme Est...
  Quando il popolo di Israele arrivò dall'Egitto, dove era in schiavitù, le 12 tribù si distribuirono ovunque, ma a nessuna fu assegnata Gerusalemme. È scritto nella Bibbia che Gerusalemme rende tutti amici. Questa città deve restare aperta e inclusiva, con libertà di religione, movimento, pensiero, parola ... Siamo la sola democrazia in Medio Oriente, l'unico posto in cui i cristiani si sentano al sicuro. Non come in Siria, Egitto, nella stessa West Bank. Come città divisa, Gerusalemme non funzionerebbe.

- Allora perché dividere, autorizzando nuovi insediamenti?
  Immagini di essere il sindaco di Roma. Non accetterebbe mai che nella sua città vi fossero alcune aree solo per ebrei o musulmani o neri o cinesi. Questo è illegale a Gerusalemme, come lo sarebbe a Roma o in qualsiasi altra città europea. Io non interferisco nelle compravendite, in Israele non c'è discriminazione.

- Ma per i palestinesi voi occupate la loro terra ...
  Terre occupate ... Ma da chi? Dai giordani? Dagli inglesi? Dai turchi? Gerusalemme è ebraica più di qualsiasi altra città. Legalmente non è occupata. Infatti non li definisco coloni, ma residenti che hanno come chiunque il diritto di acquistare un terreno e una casa, secondo la legge.

- Sindaco, come si rende sicura una città come Gerusalemme?
  Questa è la bellezza e l'unicità. Qui convivono musulmani ed ebrei, ebrei secolari e ultra ortodossi. Gerusalemme ha tutte le differenze che si possano immaginare. E se non ci fossero perderemmo qualcosa. Il mio compito è assicurare un compromesso sociale che permetta di vivere sotto il tetto di una stessa città.

- Come ci riesce?
  Su 900 mila residenti, gli arabi sono più di un terzo. Per la maggioranza persone per bene che vogliono una vita pacifica, buona istruzione per i figli, buoni servizi sanitari. Ma c'è chi è violento. Gerusalemme ha la migliore polizia e la migliore intelligence del mondo. Lavoriamo con la maggioranza della popolazione contro i cattivi. La nostra filosofia è quella di essere buoni con i buoni e molto cattivi con i cattivi.

- Tutto qui?
  Quando c'è un attacco terroristico, in tutto il mondo la gente scappa via, mentre noi corriamo verso il luogo dell'attacco. La responsabilità degli uni verso gli altri deriva dal servizio militare ed è fortissima a Gerusalemme. Superiamo subito l'emergenza. In Europa chiudete le strade per giorni, noi le riapriamo in un'ora. Perché i cattivi non I devono influenzare la nostra vita. Non vogliamo farci errorizzare né cambiare i nostri programmi. E chiunque li aiuti deve sapere che pagherà un prezzo altissimo.

- Fino a spianare le case dei familiari?
  Liberi di pensare diversamente. La nostra filosofia è che chi li aiuta è cattivo quanto loro. Noi diciamo: non cercate di cambiare il modo in cui viviamo. E poi, suggerirei ai nostri amici europei di non usare mai contro il terrorismo l'esercito, ma come noi la polizia. Trattare un problema di ordine pubblico come emergenza militare è esattamente ciò che vogliono i terroristi.

- Usate anche molto la tecnologia ...
  Io sono un imprenditore nel settore dell'high tech. Per difenderci da eserciti molto più numerosi del nostro dobbiamo essere più intelligenti, più coraggiosi, più uniti. La mia start-up nel 1988 aveva quattro soci. lo e mio fratello venivamo dall'esercito, i! terzo era uno dei migliori decrittatori dell'Intelligence, il quarto aveva scritto il programma per le riprese dagli aerei oltre le linee nemiche. L'eccellenza, stare sempre tre passi avanti, per noi è questione di vita o di morte.

(Panorama, 18 maggio 2017)


L'ambasciata americana in Israele resta a Tel Aviv

Il presidente Donald Trump escluderebbe per ora l'ipotesi di uno spostamento dell'ambasciata americana in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme. Lo afferma un funzionario della Casa Bianca, spiegando che si tratta di uno sforzo per non provocare i palestinesi. Trump sarà in Israele la settimana prossima e incontrerà il premier israeliano Benjamin Netanyahu e, a Betlemme, il presidente dell'autorità palestinese Abu Mazen.

(La Stampa, 18 maggio 2017)


Mossad furioso, Netanyahu no. Israele si divide

Gerusalemme si interroga sulle relazioni con gli Usa alla vigilia della visita. Il governo Netanyahu ribadisce il legame speciale con Washington

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - In Israele ci si preoccupa, qualcuno laggiù dalle parti di Raqqa forse a causa delle rivelazioni di Trump sta rischiando la vita o è già stato fatto fuori; forse mesi, anni di lavoro sono andati in fumo, forse il rapporto fra i servizi segreti israeliani e americani, essenziale per tutto il mondo, porterà i segni di una ferita. E questo avviene alla vigilia della visita di Trump in Medio Oriente che inizia il 22, la sua prima uscita, una visita caricata di aspettative sia dall'amministrazione americana sia da Israele. Israele adesso discute sulla credibilità, sulla prevedibilità dell'interlocutore tanto atteso, mentre l'opposizione che punta a un fallimento della visita, spara a zero. Ma da parte del governo si tace e si placano le acque: è impensabile, dice il commentatore militare Allon Ben David che i rapporti fra Israele e gli Usa si sciupino per questo.
   La storia è nota: il New York Times ha riportato che all'origine dell'informazione ultrasegreta che Donald Trump ha rivelato al ministro degli esteri Sergej Lavrove all'ambasciatore russo Sergey Kyslyak la settimana scorsa c'è Israele. Ovvero: Trump avrebbe rivelato durante uno scambio di informazioni sulla guerra contro lo Stato Islamico, che una fonte israeliana riporta che l'Isis ha intenzione di fare esplodere arei americani introducendo esplosivo nel laptop. Perché l'ha detto? Tutti dicono la loro: per vantarsi, perché ancora gli sfuggono le regole della segretezza, perché i russi sono per Trump molto importanti. Come è uscita fuori la faccenda? Perché negli Stati Uniti, dopo la cacciata di James Comey certo è immaginabile una vendetta che viene da dentro l'Fbi e punta all'impeachment. Una vicenda più complicata nei rapporti Usa-Israele non avrebbe potuto essere escogitata neppure dallo sceneggiatore di House of cards. L'ambasciatore israeliano a Washington Ron Dermer ha riaffermato la totale fiducia nello scambio di informazioni con il partner americano, e la speranza di approfondirlo durante la visita; Netanyahu ieri ha parlato al telefono 20 minuti con il presidente americano e ha fatto sapere che non si è discusso affatto della vicenda, ma solo del programma della visita. Anche Putin ha cercato di calmare le acque negando la storia e dicendo di avere una registrazione dell'incontro.
   Si dice che il Mossad fumighi di rabbia. Un ex capo di questa organizzazione, Shabtai Shavit, spiega che per costruire un polo di informazione in una situazione come quella di Raqqa ci vuole un lavoro di anni; che forse l'informazione non proviene da persone ma da un sistema elettronico che adesso potrebbe venire individuato. È logico, dice Shavit, che si informi l'interlocutore interessato, come gli Usa minacciati nei loro aerei. Oltretutto se io dico una cosa a te tu ne dici una a me: esiste, fra Stati amici, un indispensabile mercato. Ma se colui che ha ricevuto la notizia intende passarla a una terza parte, è legge indispensabile che si chieda il permesso a chi ha fornito l'informazione originale. Se non lo fa, la fiducia si incrina. Secondo Haaretz, catastrofista e anti Netanyahu, quindi anti successo della visita, il disastro potrebbe essere triplo: la messa a rischio della fonte; la messa in forse della possibilità di prevedere i prossimi attacchi terroristi; e il rischio che la Russia, ormai informata, usi quel che sa per passarlo al suo alleato iraniano. Pessimista? Gesti di boicottaggio ce ne sono stati già diversi, fra cui una dichiarazione di un funzionario del governo americano che ha detto che Trump non si decideva a spostare l'ambasciata a Gerusalemme perché Netanyahu gli aveva segretamente fatto sapere di non gradirla. Falso: Netanyahu ha ribadito con tutto il cuore di non desiderare altro.
   Ma intanto l'altra ombra è legata al formato che avrà la visita di Trump al Muro del Pianto, in Città Vecchia: visita privata? Da solo? Con gli israeliani, a ribadire che Gerusalemme deve restare unita come capitale d'Israele? Non si sa ancora. Però si sa che Trump ha un atteggiamento di fondo positivo, amichevole, e che fa la sua prima visita proprio qui. Non è poco, dato i precedenti obamiani.
   
(il Giornale, 18 maggio 2017)


In Israele la prima smart road che ricarica i veicoli elettrici

 
Smart road
Israele è uno stato in rapida espansione, soprattutto dal punto di vista tecnologico. Proprio lì sono nate alcune delle start-up che oggi sono tra i punti di riferimento per quanto riguarda la guida autonoma e la mobilità elettrica: un esempio su tutti è Mobileye. Il progresso, però, non si ferma alle auto e a Cesarea, a nord di Tel Aviv, hanno pensato di rivoluzionare anche le infrastrutture, creando una smart road capace di ricaricare i veicoli elettrici che la percorrono.

 11 chilometri entro il 2018
  Electroroad, questo il nome della società che creerà la prima strada intelligente nei dintorni di Tel Aviv, ha ideato un particolare sistema di ricarica induttiva da integrare nell'asfalto, così da permettere ai mezzi elettrici di ricaricarsi viaggiando. Niente di nuovo, visto che prototipi di strade con queste caratteristiche sono stati già realizzati. Qui, però, per la prima volta questa tecnologia avrà un impiego reale. Nei prossimi mesi verrà infatti realizzato un tratto, della lunghezza di 800 metri, sulla strada tra la città di Eilat e l'aeroporto internazionale di Ramon, posizionando degli elettromagneti nell'asfalto che interagiranno con delle placche di rame montate sotto a bus e altri mezzi di trasporto, alimentandoli induttivamente.

 Finanziamenti governativi
  Dietro al progetto di Electroroad c'è il governo israeliano che, tramite il ministro dei Trasporti, ha stanziato un fondo di 120 mila dollari (107.644 euro, al cambio attuale) per la realizzazione del primo chilometro di strada sul quale provare l'effettivo funzionamento del sistema. Se tutto andrà secondo i piani e l'impianto di ricarica si dimostrerà affidabile, Electroroad avrà i permessi necessari per la realizzazione della prima smart road, della lunghezza complessiva di 17 km.

 Presto anche in Europa
  Electroroad ha già nei propri piani un'espansione oltre i confini israeliani. La società ha già parlato con diversi enti governativi, anche in Europa. Tra questi vi sono la Francia, la Spagna, la Svezia e la Germania oltre agli Stati Uniti d'America.

(Quattro Ruote, 18 maggio 2017)


Addio a Goldenberg, l'ebreo narrante che fece di Bartali "Gino il Giusto"

Nel giorno in cui la carovana rosa omaggia Ginettaccio nella sua Ponte a Ema arriva la notizia della morte dell'ultimo testimone, il salvato che ha permesso allo Yad Vashem di "riconoscere" il campione.

di Adam Smulevich

Può confermare quanto mi ha appena detto con una testimonianza scritta?». «Certo, è davvero il minimo che possa fare». Dicembre 2010: la grande memoria corre sul filo della cornetta tra Firenze e Kfar Saba (Israele). All'altro capo del telefono c'è Giorgio Goldenberg, allora 78enne di origine fiumana che ha appena finito di raccontare una storia incredibile, mai svelata. La storia di come Gino Bartali nascose lui, la sorellina e i genitori in un suo appartamento in via del Bandino, nel quartiere Gavinana. La testimonianza decisiva, la prima giunta direttamente da un salvato, per fargli tributare il riconoscimento di Giusto tra le nazioni da parte dello Yad Vashem. L'intervista a Goldenberg viene pubblicata su "Pagine Ebraiche", il mensile dell'Ucei. Pochi giorni e Giorgio, aiutato dai suoi cari e da Nardo Bonomi, un esperto di genealogia che ci ha messi in contatto, si reca a Gerusalemme per dare ufficialità ai suoi propositi. Il fascicolo Bartali aperto in quella sede alcuni anni prima dall'insegnante Angelina Magnotta si arricchisce di un nuovo fondamentale capitolo nella strada verso il riconoscimento (che arriverà nel settembre del 2013). Giorgio purtroppo non c'è più. È accaduto poche settimane fa, all'improvviso. Era l'ultimo testimone oculare di quei giorni drammatici, l'ultimo a poter affermare «È stato Gino a salvarmi». Una perdita gravissima, in una primavera segnata da tanti impegni per ricordare quello che Bartali fece per i perseguitati (ebrei e non) dal regime nazifascista. Contributo quanto mai attuale come ricordano le numerose iniziative delle scorse ore, più o meno direttamente collegate alla tappa del Giro d'Italia che ieri ha reso omaggio a Ginettaccio partendo dalla sua Ponte a Ema (ad imporsi sul traguardo di Bagno di Romagna lo spagnolo Omar Fraile, che ha battuto in volata i compagni di fuga Rui Costa e Volland, la maglia rosa resta a Tom Dumoulin). Era un uomo straordinario, Giorgio Goldenberg. Veniva da Fiume, città in cui non è quasi più tornato: troppo forte il dolore, il ricordo dell'infanzia spezzata. A Firenze era arrivato grazie al padre Giacomo, che nel momento del bisogno non aveva esitato a mettersi in contatto con un vecchio amico su cui sapeva di poter contare: Gino, appunto. «Ci serve una mano, puoi aiutarci?» Bartali annuì, non ci pensò più di un attimo, pur consapevole del pericolo che già lo aveva sfiorato più volte nei suoi viaggi in bicicletta per portare documenti contraffatti tra Firenze e Assisi. Con la fine della guerra, per Giorgio ebbe inizio una nuova vita nel nascente Stato di Israele. Lo raggiunse in nave, partendo dal Sud Italia insieme a centinaia di altri giovanissimi. Tutto è in salita nella nuova patria, tutto va costruito da zero o quasi. Ma Giorgio è un inguaribile ottimista, ne ha già viste tante nella sua breve ma tormentata esistenza, sa che non bisogna mai arrendersi di fronte alle avversità. Al suo fianco, fino all'ultimo respiro, l'amata Mina. Ad accompagnarlo anche una radicata consapevolezza: «Tutto quello che ho, a partire da una famiglia meravigliosa, lo devo anche a Gino».

(Avvenire, 18 maggio 2017)


A Tel Aviv e Haifa il Leonardo di Finazzer Flory

 
Massimiliano Finazzer Flory
TEL AVIV - Il genio di Leonardo, icona mondiale dell'Italia, è andato in scena ieri sera al Jaffa Theater di Tev Aviv grazie allo spettacolo diretto ed interpretato da Massimiliano Finazzer Flory. Sul palcoscenico hanno così preso forma il Leonardo della scienza e della tecnologia con le sue macchine, i suoi studi sull'acqua: un mix che ha sempre affascinato Israele, paese dall'hi-tech all'avanguardia e innamorato di un personaggio alla continua ricerca del nuovo. Ma anche - come ha mostrato lo spettacolo, con sovra titoli in inglese, realizzato grazie al sostegno dell'Ambasciata italiana e degli Istituti di cultura italiana di Tel Aviv e Haifa (dove è stato rappresentato il 16 maggio al Museo delle scienze) - la bellezza del Bel Paese raffigurata da Leonardo in opere inestimabili e senza tempo. Il tutto esaltato da una scenografia scenica digitale attraverso la proiezione delle principali, scoperte, invenzioni di Leonardo in rapporto alla natura, all'ambiente che ne hanno fatto il primo eco-designer della storia. Lo spettacolo racconta la biografia di Leonardo ripercorrendo in lingua rinascimentale, i principali avvenimenti e temi della sua vita, della sua arte e della sua poetica: dall'infanzia alle sue attività in campo civile e militare, su come si fa a diventare "bono pittore"" sul rapporto tra pittura e scienza, pittura e scultura, pittura e musica. Il Leonardo di Finazzer Flory - ha sottolineato l'Istituto di Tel Aviv - commenta "il Cenacolo e le figure degli apostoli, accenna al suo rapporto con la religione, parla della Milano dell'epoca e dell'Uomo di Vitruvio, affronta il tema dell'acqua in tutte le sue molteplici forme, risponde agli attacchi dei nemici passati e presenti, indica e spiega i moti dell'animo, offre profezie sul volo dell'uomo e infine dispensa sentenze e concede aforismi per vivere il nostro tempo".

(ANSAmed, 18 maggio 2017)


Alla scoperta del ghetto ebraico di Firenze

Visite guidate per un viaggio nella memoria

Un piccolo viaggio nella memoria, un'occasione per scoprire i luoghi e la storia della comunità ebraica a Firenze. Costruito per volere di Cosimo de' Medici nel 1571 e demolito fra il 1888 e il 1898,1'antico ghetto ebraico fiorentino sarà infatti al centro di due appuntamenti promossi dalla Sinagoga e dal Museo ebraico di Firenze per oggi (ore 17) e domenica 21 maggio (ore 11), in collaborazione con CoopCulture. il ghetto occupava un' area centrale della città, delimitata dall' attuale piazza della Repubblica (allora del Mercato Vecchio), via Roma, via del Campidoglio e via Brunelleschi. Una sorta di città murata alla quale si accedeva attraverso due porte, e che racchiudeva al suo interno anche due sinagoghe. Gli ebrei ci rimasero fino alla metà del Settecento, quando gli fu permesso di trasferirsi anche in altre zone della città. Con Firenze capitale ne fu poi deciso 1'abbattimento per fare spazio a piazza della Repubblica. Non tutto il patrimonio del ghetto però è andato perso. Parte del materiale lapideo è conservato nei cortili del Museo Archelogico, che è una delle tappe del tour dopo la partenza dal Tempio di via Farini Il percorso termina in piazza della Repubblica e in via delle Oche.

(la Repubblica - Firenze, 18 maggio 2017)


Sindacati antisemiti

La più grande confederazione della Norvegia boicotta Israele. E i poveri lavoratori qatarioti e sauditi?

di Giulio Meotti

ROMA - Non più un boicottaggio mirato dei prodotti che Israele fa uscire dai territori post 1967, La Confederazione norvegese dei sindacati, la più grande della Norvegia, al congresso ha approvato la messa al bando totale di tutto ciò che proviene dallo stato ebraico, E' un voto senza precedenti e di non poca rilevanza, considerato che questo sindacato rappresenta un milione di lavoratori, un quarto di tutta la forza lavoro della democrazia scandinava, 193 voti a favore del boicottaggio, 117 contrari. "E' una risoluzione immorale che affonda nel doppio standard verso lo stato ebraico", ha detto l'ambasciatore israeliano a Oslo, Raphael Schutz. Facendo notare che i sindacati hanno anche chiesto lo smantellamento della barriera antiterrorismo eretta da Israele, Schutz ha affermato che "adottando queste posizioni il sindacato si allea ai peggiori nemici di Israele", Pure il governo norvegese, non certo simpatetico verso Israele, è dovuto intervenire, affermando che Oslo non approva la risoluzione e di essere a favore della "cooperazione e del dialogo", Il paese dei fiordi e del Nobel per la Pace, oltre a lenire le ferite del Terzo mondo, è molto impegnato a delegittimare Israele, Mesi fa, la terza città della Norvegia, Trondheim, ha votato per il boicottaggio di beni e servizi israeliani. Una città "deisraelizzata", come ci sono i comuni denuclearizzati in Italia.
  Ma sono i sindacati di tutta Europa ad avere non pochi problemi di antisemitismo e di pregiudizio nei confronti di Israele, L'Irish Congress of Trade Unions ha approvato il boicottaggio d'Israele, come il Trade Union Congress in Inghilterra e lo Unite, il più importante sindacato britannico con un milione e mezzo di iscritti. Negli anni, contro Israele, si sono schierate quasi tutte le grandi sigle del lavoro nel Regno Unito, dagli insegnanti agli architetti persino, fino alla Transport and General Workers Union (900 mila membri), Molto attiva in Francia la Confédération générale du travail, una delle più importanti sigle, che si è persino schierata per il rilascio di Marwan Barghouti, il leader palestinese della Seconda Intifada, che sconta cinque ergastoli per la partecipazione a diversi attentati. In Germania, il boicottaggio è ufficialmente partito nella città di Oldenburg, quando il sindacato degli insegnanti ha votato contro i colleghi dello stato ebraico, Stessa modalità in Spagna, dove cinque sindacati in Galizia, a cominciare dalla Uniòn general de trabajadores, hanno votato per boicottare Israele, Il sindacato francese della Cgt scuola ha rotto le relazioni con l'Histadrut, il sindacato israeliano, Il Congresso dei sindacati scozzesi ha votato per il boicottaggio di Israele, così la Fédération Autonome Collégial, sindacato di insegnanti del Québec, In Italia, sigle sindacali come la Fiom e i Cobas hanno firmato l'appello di trecento organizzazioni per il boicottaggio di Israele in Europa.

 Quanti diritti fra Marrakech e Islamabad?
  E' naturale l'impegno internazionale dei sindacati. Ma anziché boicottare Israele, l'unica democrazia nella mezzaluna che va da Marrakech a Islamabad, dove i lavoratori israeliani e arabi stanno benissimo e i palestinesi godono di paga e diritti che si sognano sotto l'Autorità palestinese, i sindacalisti dal cuore tenero potrebbero iniziare con la lista messa a punto dalla International Trade Union Confederation. Ci sono i lavoratori bielorussi, maltrattati sotto il regime del satrapo Lukashenko; ci sono la Cina e la Colombia, dove sono stati uccisi ventidue sindacalisti; c'è l'Egitto, anche per rendere onore a Giulio Regeni, che lavorava con i sindacati; ci sono soprattutto il Qatar e l'Arabia Saudita, due paesi che non riconoscono Israele, un vero inferno per i lavoratori, regimi questi sì di apartheid e che edificano il loro lusso ipocrita sulla fatica degli operai non musulmani discriminati.
  Oppure i sindacalisti europei possono volare a Ramallah e bruciare anche loro un po' di merce israeliana, Manca soltanto che appongano la stella gialla.

(Il Foglio, 18 maggio 2017)


Rivoluzione nei media dello stato ebraico

Cambio nel sistema pubblico radio-televisivo israeliano. Da pochi giorni è entrato in funzione Kan, il nuovo ente che rimpiazzerà la storica Iba (Israel Broadcasting Authority). Così, dopo 49 anni di trasmissione, Mabat, lo storico telegiornale del canale di stato israeliano, è stato cancellato. Anche i programmi di radio Gerusalemme sono stati sospesi in attesa che il nuovo ente pubblico diventi operativo.
La decisione di chiudere l'Iba è avvenuta una settimana fa con un voto del parlamento, la Knesset, anche se il progetto risale a circa tre anni fa. Il nuovo servizio, guidato dal giornalista Geoula Even, sarà composto da almeno 240 repoter, tecnici e funzionari amministrativi. Un taglio netto rispetto ai 1200 impiegati dell'Iba.
Il voto è arrivato al termine di una lunga battaglia politica. La creazione della Kan è stata promossa soprattutto dal primo ministro, Benjamin Netanyahu, che dal 2015 detiene anche la delega per le telecomunicazioni. Molte le critiche sul piano politico: gli avversari di Netanyahu affermano che il premier sta cercando di influenzare i media a suo vantaggio mettendo la parola fine a un ente che ha fatto la storia del paese e che rappresenta un patrimonio culturale e civile.

(L'Osservatore Romano, 18 maggio 2017)


La pedalata degli israeliani sulla strada del coraggio

Firenze-Assisi, l'omaggio a un giusto

di Adam Smulevich

 
L'ultimo a lasciarci, appena poche settimane fa, è stato Giorgio Goldenberg. Il giovane ebreo fiumano nascosto insieme alla sorella e ai genitori in un appartamento in via del Bandino, nel quartiere di Gavinana. L'uomo la cui testimonianza, l'unica diretta su questi fatti assieme a quella del cugino Aurelio Klein, si è rivelata decisiva per l'attribuzione del titolo di Giusto tra le Nazioni.
   Hanno corso anche per lui, nel suo nome, gli atleti della «Israel Cycling Academy» (la prima squadra professionistica israeliana di ciclismo) che ieri hanno affrontato la «strada del coraggio». E cioè il movimentato tratto da Firenze ad Assisi che Gino Bartali affrontò più e più volte per portare assistenza agli ebrei perseguitati dal nazifascismo, offrendo loro la speranza di un possibile espatrio grazie ai documenti di identità falsi che nascondeva nella bicicletta e che venivano prontamente smistati tra Liguria, Toscana e Umbria.
   Un omaggio a pedali, quello dei ciclisti israeliani, che non è una novità. Avevano già affrontato questa sfida lo scorso anno, ma non hanno resistito all'idea di tornare. Troppo stimolante la prospettiva di esserci alla vigilia della tappa del Giro d'Italia del Centenario che proprio oggi partirà da Ponte a Ema, il paese di Gino. «Oggi siamo qui per onorare un grande uomo. Un uomo il cui ricordo deve essere con noi in ogni pedalata, in ogni goccia del sudore che verseremo», dice Ran Margaliot, il team manager della squadra, chiamando a raccolta i propri atleti nell'ultimo briefing improvvisato in via delle Terme, nel retro dell'hotel dove hanno alloggiato a Firenze dopo la solenne accoglienza ricevuta lunedì pomeriggio a Palazzo Vecchio. Un ultimo incoraggiamento e via, si parte. Naturalmente, prima di affrontare la lunga tratta, ci si ferma al museo dedicato a Bartali nella sua Ponte a Ema.
   In via Chiantigiana, la squadra è accolta dall'assessore comunale allo Sport Andrea Vannucci, dal direttore del museo Andrea Bresci e da Lisa Bartali, una delle nipoti di Gino. La squadra osserva ammirata le vestigia di Ginettaccio, le bici d'epoca, il certificato dello Yad Vashem con cui è stato riconosciuto Giusto.
   Immancabile foto di rito e poi si parte verso Assisi. Stavolta per davvero. La meta è lontana e il vento contrario, molto intenso a momenti, rende pesante la pedalata. La comitiva è così costretta a una deviazione. Salta l'idea di sostare qualche minuto a Terontola, a metà percorso, dove Bartali spesso si fermava e dove a salutarli i ciclisti avrebbero trovato Ivo Faltoni, che di Gino non fu solo meccanico ma anche amico e geloso custode di tanti segreti.
   Eccolo finalmente, dopo tante ore di fatica, il maestoso sfondo di Assisi. L'ultima salita, le ultime energie chiamate a raccolta. Sorride Ron Baron, il proprietario della squadra, che guida i suoi in bici. Sorridono gli atleti, tutti. Sorride Jonathan Freedman, che a New York ha fondato un «Team Gino Bartali» per la solidarietà: non è un professionista ma per molti chilometri è stato in coda al gruppetto. Sorride Aili McConnon, giornalista e autrice nel 2012 del libro «La strada del coraggio». Anche lei, per un tratto importante, ha pedalato e sudato per Bartali.
   Caparbietà, passione, un messaggio profondo da testimoniare. «Per Gino - dice Ran - il nostro eroe».

(Corriere Fiorentino, 17 maggio 2017)


Il presidente Usa Trump si prepara ad attraversare un "campo minato diplomatico"

WASHINGTON - La Casa Bianca, già alle prese con una gravissima crisi interna - le accuse di collusione con la Russia, alimentate dal licenziamento del direttore dell'Fbi James Comey - si appresta ad imbarcarsi in una sfida ancor più ardua: proporsi come mediatore di un accordo in grado di superare l'annosa crisi mediorientale. La scorsa settimana, scrive il quotidiano "Washington Post", il presidente Usa Donald Trump ha ricevuto alla Casa Bianca l'ex segretario di Stato Usa, Henry Kissinger. La visita non è casuale: Trump sta infatti per intraprendere il suo primo viaggio ufficiale all'estero, "un tour de force" di nove giorni che lo porterà a visitare quattro paesi, inclusi Arabia Saudita e Israele. Per l'occasione, scrive il quotidiano, l'Ufficio ovale si è trasformato in una sala conferenze, con un flusso continuo di esperti di diplomazia e politica estera impegnati a preparare il presidente. O almeno - scrive la "Washington Post", "questo era il piano originario", perché "come spesso accade attorno a Trump, le distrazioni si sono moltiplicate". La visita di Kissinger, ad esempio, "si è presto trasformata in una seduta fotografica, con l'ex segretario zitto in disparte mentre Trump distribuiva i primi commenti pubblici sul licenziamento di Comey". Trump, comunque, avrebbe trovato il tempo di "prepararsi per un viaggio che potrebbe divenire un trionfo, oppure trasformarsi in un disastro al minimo errore".
  Trump "dovrà destreggiarsi in un campo minato diplomatico", provando a negoziare il riavvio del processo di pace tra Israele e palestinesi, rassicurando gli alleati europei sul fronte del commercio e della difesa, e "provando a rispettare il protocollo dei saluti con papa Francesco". Trump sarà "sotto i riflettori, osservato al microscopio" per dieci giorni, e il mondo avrà la prima occasione di vederlo davvero all'opera, sottolinea Richard N. Haass, presidente del think tank Council on Foreign Relations. Lo staff di Trump afferma che il presidente sia perfettamente consapevole delle sfide che lo attendono, e che negli ultimi giorni abbia sfoltito la propria agenda pubblica proprio per prepararsi al meglio. A confermare l'insidiosità dell'imminente viaggio di Stato, però, è la prima, vera polemica intercorsa tra la sua amministrazione e il governo israeliano: quest'ultimo ha chiesto spiegazioni alla Casa bianca, dopo che un funzionario diplomatico, impegnato proprio in un briefing al presidente, ha definito il Muro del Pianto e Gerusalemme vecchia parti dei territori della Cisgiordania occupati da Israele
  Una posizione che risponde alla visione della comunità internazionale, ma che Washington si guarda bene dal rimarcare, e che Tel Aviv respinge in toto, avanzando rivendicazioni sull'intera città di Gerusalemme come capitale indivisibile dello Stato ebraico. Trump potrebbe trovare una sponda negli Stati del Golfo; ieri questi ultimi hanno offerto di intraprendere passi concreti verso la normalizzazione delle relazioni con Israele, in cambio di sforzi significativi da parte di Tel Aviv per il rilancio dei negoziati di pace coi palestinesi. Stando al "Wall Street Journal", le monarchie del Golfo sono pronte a consentire il sorvolo dei loro spazi aerei all'aviazione civile israeliana, a creare connessioni dirette nel campo delle telecomunicazioni e a revocare sanzioni commerciali, in cambio di misure concrete come lo stop ai lavori di espansione degli insediamenti in alcune aree della Cisgiordania e la revoca di alcune limitazioni commerciali nei territori palestinesi occupati.

(Agenzia Nova, 17 maggio 2017)


Così l'America tradisce i suoi alleati

Le informazioni spifferate ai russi da Trump arrivano dagli israeliani (se lo sentivano che finiva così)

di Daniele Raineri

ROMA - A meno di una settimana dal primo viaggio in Israele del presidente americano Donald Trump, il New York Times aggiunge una rivelazione micidiale a uno scoop già micidiale del Washington Post uscito lunedì sera: la fonte delle informazioni segrete che il presidente ha rivelato ai russi è Israele. A gennaio, una settimana prima dell'inaugurazione a Washington, un analista militare israeliano dalla reputazione solida, Ronen Bergman, scrisse sul quotidiano Yedioth Ahronot che gli agenti dell'intelligence americana avevano avvertito i colleghi israeliani: attenti a condividere informazioni con noi quando Trump sarà presidente, perché potrebbero essere passate ai russi. Considerato il fatto che in questo momento la Russia è il partner strategico dell'Iran, a causa dell'intervento militare in Siria, il rischio - avvertivano le spie americane - era che gli israeliani avrebbero potuto passare le loro informazioni d'intelligence ai loro nemici in Iran. Quello scenario potenziale oggi suona plausibile. Israele non conferma la notizia e Ron Dermer, ambasciatore negli Stati Uniti, dice via mail al NewYorkTimes che i due paesi manterranno una stretta collaborazione nel campo dell'antiterrorismo. Ma è indubbio che il meccanismo di condivisione dell'intelligence fra paesi alleati esce scosso dalle ultime 24 ore di rivelazioni e il clima non sereno spinge un funzionario senza nome di un servizio segreto europeo a dichiarare all'Associated Press che il suo paese potrebbe smettere di scambiare informazioni con gli Stati Uniti. Burkhard Lischka, un parlamentare tedesco della commissione Intelligence, dice che se Trump rivela informazioni d'intelligence allora "è diventato un rischio per la sicurezza del mondo occidentale".
   Il 16 febbraio il Wall Street Journal aveva scritto che alcuni funzionari dell'intelligence americana non davano tutte le informazioni in loro possesso al presidente nel timore che sarebbero state passate ad altri o svelate. L'Amministrazione Trump è nata sotto il segno di una grande sfiducia, ricambiata, per i servizi segreti americani e quell'articolo arrivò pochi giorni dopo le dimissioni dell'ex generale Mike Flynn dall'incarico di consigliere per la Sicurezza nazionale. In particolare, gli uomini delle agenzie di intelligence avevano deciso di non dire a Trump le fonti e i metodi usati per raccogliere le informazioni.
   Non è chiaro (e non lo sarà mai?) come Israele si è procurato le informazioni sullo Stato islamico rivelate da Trump ai russi. L'America ha un vantaggio tecnologico enorme sugli altri paesi quando si tratta di intercettazioni e sorveglianza elettronica, quindi non è sicuro al cento per cento che stiamo parlando di spionaggio da lontano. C'è anche l'ipotesi che Israele abbia informatori infiltrati dentro lo Stato islamico - la cosiddetta Humint, le informazioni raccolte da persone sul campo, un settore nel quale gli israeliani sono specializzati da tempo. Nel marzo 2015 lo Stato islamico pubblicò il video dell'esecuzione di un arabo di Gerusalemme est che era partito per la Siria quattro mesi prima e che confessava di essere un informatore assoldato dai servizi di Israele (ma la confessione potrebbe essere il risultato delle torture). Lo Stato islamico è in generale molto meno schizzinoso di al Qaida quando si tratta di arruolare nuovi membri, anche perché negli ultimi cinque anni ha accettato in massa circa trentamila stranieri-quindi il procedimento di selezione all'ingresso e di controspionaggio, che si chiama tazkiya, non poteva essere troppo accurato.
   A fine ottobre il generale Stephen Townsend, che comanda le operazioni americane contro l'Isis, disse che lo Stato islamico stava complottando un attentato in occidente da Raqqa, "non sappiamo dove vogliono colpire e quando, ma dobbiamo sbrigarci a prendere quella città" (l'offensiva di terra al momento è prevista per l'estate). Raqqa, assieme alla città siriana di al Bab (che però ormai è in mano ai curdi) e alla zona di Deir Ezzor (dove avvengono a ripetizione i raid delle forze speciali), è la culla di molti piani dello Stato islamico contro i paesi occidentali, incluso il massacro di Parigi nel novembre 2015. Potrebbe esserlo anche di questo piano, citato da Trump con i russi, che prevede l'uso di computer portatili riempiti con esplosivo.
   Il 21 marzo scorso l'Amministrazione americana ha vietato a tutti i passeggeri che partono da alcuni aeroporti a rischio di portare i computer portatili in cabina. La settimana scorsa si è parlato dell'estensione del divieto anche ai passeggeri che arrivano dagli aeroporti europei. Le informazioni ricevute dall'intelligence americana sono quindi abbastanza specifiche ed è probabile che Trump intendesse questo quando si è vantato davanti ai russi di ricevere "great intelligence" tutte le mattine. Ha anche citato il luogo di provenienza delle informazioni (il Washington Post lo sa ma non lo ha scritto). Raqqa è la città indiziata numero uno. Vale la pena notare come tra agosto e dicembre in quell'area c'è stata una moria di capi dello Stato islamico, incluso il direttore dei media, un leader molto importante che si chiamava Abu Mohamed al Furqan, ma nella lista ci sono anche tunisini e francesi coinvolti nella pianificazione di attacchi all'estero. Le uccisioni mirate con i droni hanno registrato un'accelerazione improvvisa - come se le informazioni fossero divenute più precise.

(Il Foglio, 17 maggio 2017)


Sull'antiterrorismo decidete da che parte stare, intima Nuriel

Il generale israeliano guru della sicurezza dice che l'Italia è naif, la Germania è miope e la Turchia è un rischio per l'UE. Nella sua dottrina antiterrorismo, Nuriel non mette polizia e intelligence al primo posto, ma i sindaci, che conoscono il territorio e hanno interessi diretti affinché tutto funzioni bene in termini di sicurezza. "I terroristi non vinceranno mai: noi siamo attaccati alla vita, loro no".

di Daniel Mosseri

 
Il generale Nitzan Nuriel
BERLINO - Il terrore cerca un nuovo 11 settembre, un colpo forte da assestare all'occidente. Eppure Nitzan Nuriel, research fellow all'Istituto internazionale per l'antiterrorismo di Herziliya, si dice ottimista. "I terroristi non vinceranno mai: noi siamo attaccati alla vita, loro no". Star della lotta all'insicurezza globale, il generale di brigata israeliano è impegnato in un tour europeo e al suo pubblico propone un mix di soluzioni pragmatiche "che in Israele ci ha permesso di azzerare il numero degli attentati suicidi". Oggi Nuriel teme un attentato su grande scala con armi chimiche contro il Vecchio continente: "E' questione di mesi". Il suo non è un racconto di fantascienza, mette in chiaro, ma storia: nel 1995 Aum Shinrikyo attaccò la metropolitana di Tokyo con il sarin, e anche oggi è più facile spostarsi con alcune fialette di agente paralizzante che con un bazooka. A spingere l'Isis verso una nuova azione spettacolare non c'è solo la progressiva perdita di posizione in Siria e Iraq. "Dalle Torri gemelle in poi i terroristi non sono più riusciti a mettere a segno un attacco di grandi dimensioni in occidente". Il generale vede l'Europa come il ventre molle della sicurezza globale per "i troppi errori dei politici, per la presenza di ampie comunità islamiche presso le quali i terroristi possono trovare sostegno, e non ultimo per il nostro rapporto con la Turchia", descritta da Nuriel come un hub del jihad globale.
   Per il generale l'immigrazione islamica è un problema, ma è gestibile. Nel maggio del 2000, ricorda, Israele si ritirò dal Libano portandosi dietro "oltre seimila cittadini libanesi preoccupati del possibile ritorno al potere di Hezbollah". Parte di loro erano persone che Israele conosceva, con altre aveva combattuto. Nuriel ricorda che i libanesi furono sistemati e rifocillati, "ma nel giro di tre mesi li avevamo intervistati uno per uno con l'aiuto della nostra intelligence e alla luce delle informazioni ricavate da ciascuno degli ospiti". Gli intervistatori stabilirono chi poteva restare e chi doveva lasciare il paese: il contrario di quanto successo, per esempio, fra il 2015 e il 2016 in Germania. In quel periodo la Repubblica federale ha accolto un milione di rifugiati mediorientali senza filtri. "Eppure noi già nel 2010 avevamo sollecitato l'Europa a stabilire procedure e creare strutture per la selezione degli immigrati: l'ospite non ideale, abbiamo suggerito, doveva poter restare per cinque anni al massimo". Secondo Nuriel di recente l'approccio di Berlino è cambiato, ma ci vorrà tempo per riparare agli errori.
   In Italia il generale vede invece una contraddizione: "Avete servizi di intelligence e di polizia preparati, ma siete un paese molto naif', dice al Foglio. Il generale critica la tendenza italiana a trattare "un criminale o un innocente allo stesso modo". Poi parla fuori da denti: "Dovete decidere da che parte stare". A cominciare dal rapporto con Erdogan, "che secondo me è parte del problema, mentre molti in Europa pensano sia parte della soluzione".
   E' anche per sfiducia verso i politici confusi e relativisti che al primo posto nella sua dottrina antiterrorismo Nurie! non mette polizia e intelligence, ma i sindaci. Il primo cittadino, osserva, conosce il territorio e i cittadini, e vuole essere rieletto. E' con il sindaco di Cannes che l'ufficiale classe 1950 ha pianificato la sicurezza del Festival del cinema all'indomani della strage sul lungomare di Nizza. Perché è il sindaco e non l'intelligence "che sa se nei pressi del Festival ci sono appartamenti vuoti" che potrebbero risultare utile ai terroristi; ed è ancora il sindaco "che in poche ore mi può fornire dei camion per bloccare l'accesso ad alcune strade, facendo da barriera contro eventuali tir in corsa". Da cui il suo auspicio affinché i primi cittadini "siano sempre meno politici, e sempre più leader".
   Il suo vademecum impone pragmatismo nella reazione a un attentato: "Non chiediamoci perché il terrorista l'ha compiuto, ma come ci sia riuscito; occupiamoci di logistica". Quanto al rischio dei cosiddetti lupi solitari attivi sui social media, Nuriel consiglia di andarli a trovare a casa, di farli sentire osservati. "Molto meglio che metterli in carcere dove fanno rete con altri come loro". Importante poi è il "desk concept", un tavolo al quale ogni agenzia si sieda con l'altra, guardando a ogni problema da un'angolatura diversa. Anche l'esistenza di una catena comando chiara e ininterrotta si rivela fondamentale: "In Francia ho fatto notare a un sindaco che nella stazione della sua città c'erano quattro ufficiali armati di quattro forze diverse, slegati gli uni dagli altri". Davanti al terrore ogni protagonismo è bandito:
   "In Israele un militare non può chiederti i documenti, ma se ha un sospetto avvertirà un poliziotto che lo farà per lui". E la tecnologia di punta spesso non serve: "E' più importante sapere quali sono le nostre debolezze, e porvi rimedio, anziché affidarsi alle telecamere".

 Attività sotto copertura e resilienza
  Ecco perché Nuriel chiede più esercitazioni per incidenti su larga scala assieme all'impiego del "red team": una squadra che pensa e agisca da terrorista per mettere in luce i gap del piano di sicurezza preparato dall'altra. Il generale chiede anche più attenzione contro le minacce interne: "Occorrono piani per controllare chi dall'interno delle nostre agenzie decida di passare dall'altra parte". Last but not least, Nuriel menziona due misure "delicate" e difficili da implementare, "che spesso richiedono nuove procedure legali", ma che danno frutti importanti: il monitoraggio dei social media e le attività sotto copertura nel campo del nemico. Ogni attività, avverte, perde efficacia se non è supportato dalla volontà di vincere. E cita un termine spesso abusato ma molto calzante in questo caso: la resilienza. "Anni fa in Israele ci volevano otto ore per far sparire le tracce di un attentato per strada e tornare alla normalità". Quella normalità che i terroristi vorrebbero fare fuori. "Oggi invece ci bastano tre ore". E conclude: "La vittoria più grande dei terroristi in Belgio si è verificata dopo l'attentato all'aeroporto di Bruxelles, quando lo scalo restò chiuso per tre settimane".

(Il Foglio, 17 maggio 2017)


Finto moderato contro vero duro: povero Iran

Il duello Roubant-Raisi non inganni, il regime islamico non ammette candidati fuori linea. Unico motivo d'interesse: il vincitore sarà probabilmente il successore della Guida suprema Ali Khamenei, che ha già 77 anni.

di Fiamma Nirenstein

                                    Hassan Rouhani                                                                        Ebrahim Raisi
Le elezioni in Iran, che si terranno venerdì 19, sono uno spettacolo per il pubblico internazionale, un dibattito sui candidati che a Firenze si risolverebbe con la poco aristocratica formula «accidenti al meglio». Sono, insomma, uno di quei fraintendimenti per cui il mondo intero, invece di starsi a chiedere chi è il più «moderato» dei candidati è autorizzato a dubitare della democrazia nella sua massima espressione, «una testa, un voto». In ogni caso chi vincerà non dovrà contentarsi del potere legato al suo ruolo, ma sarà anche decisivo circa l'identità (e forse lui stesso il successore) del prossimo supremo leader, Ali Khamenei, che ha 77 anni.
   Stavolta dopo una selezione preventiva che ha eliminato la clownesca ipotesi di rivedere al potere Ahmadinejad, due candidati occupano la scena sotto il manto nero di Khamenei. Lui, un maestro della politica dello Stato Islamico, capace di mandare avanti l'accordo con gli Usa e il resto del mondo mentre incita le folle in piazza a mantenere vivo Io slogan «morte all'America e a Israele» in vista di sfilate di missili balistici, sembra alla fine tenere per un candidato che la stampa internazionale individua come il peggiore: il durissimo ayatollah Ebrahim Raisi. Tenendosi sul vago, Khamenei ha anche detto che non gli piace chi lascia entrare la cultura occidentale in casa sciita, ovvero, così si è letto, Rouhani. Che in realtà usa con noi le buone maniere giocando come il gatto col topo. Una zampatina morbida e poi l'unghiata.
   Raisi probabilmente non è più integralista dell'attuale presidente, ma almeno lui dichiara chiaramente le sue credenziali di duro e ne viene premiato. Fu membro del comitato che sorveglia l'esecuzione di migliaia di dissidenti nel 1988. È stato pupillo alla scuola teologica del supremo leader per 14 anni sin dall'inizio degli anni Novanta, l'indubbia fedeltà a Khamenei intanto gli ha fruttato la presidenza di una fondazione religiosa multimiliardaria, la Astan Qods Razavi. Ma la sua caratteristica fondamentale e politicamente, per lui, promettente è quella di essere il candidato preferito delle Guardie Rivoluzionarie e dei Basiji, la milizia che tiene l'Iran sotto il suo tallone, che ne controlla i cittadini uno a uno cosicché non deviino dalla santità loro richiesta, che schiaccia la piazza fino a uccidere (come fece con il famoso assassinio pubblico di Neda durante la rivolta contro Ahmadinejad), che organizza i migliori soldati per le campagne imperialiste di cui ormai l'Iran, a partire dalla Siria, è campione. L'Irgc è interessata alla presidenza, al suo potere, ai suoi interessi economici. Ma ancora di più secondo gli esperti al controllo del prossimo Supremo Leader eliminando tutti i personaggi, definiti «tecnocrati», che ne ostacolano il potere assoluto.
   Hassan Rouhani, presidente da 4 anni, è l'altro grande polo del dibattito. I commentatori scrivono che con la Guardie Rivoluzionarie ha frequenti scontri a causa di interessi economici divergenti: e si tratta, per l'Irgc, di questioni miliardarie. Rouhani agli occhi dell'Occidente è un'icona moderata, proprio come lo fu Khatami che è stato presidente battendo il record dell'eliminazione fisica degli intellettuali, arresti di massa, supporto del terrorismo internazionale, espansione del progetto nucleare. Rouhani, con quel sorriso da volpe innamorata, andò al potere avendo sulla testa la mano di Obama: ma ha avuto, come scrive l'intellettuale dissidente Amir Taheri, il primato assoluto in esecuzioni e reclusioni, in sostegno del terrorismo internazionale, esportazione di uomini armati e armi per disegni imperialisti in Medio Oriente.
   Non serve fantasticare sulla «moderazione» del prossimo presidente iraniano: l'unica speranza è che l'affluenza sia così bassa (e lo fu alle ultime elezioni) da certificare davanti al mondo il desiderio del popolo di voltar pagina, e indurre un cambiamento. Ma le Guardie Rivoluzionarie sono là per questo.

(il Giornale, 17 maggio 2017)


Migliaia di pellegrini ebrei a Djerba alla Sinagoga della Ghriba

Grande festa insieme a musulmani e cristiani

di Giovanni Bosi

 
DJERBA / TUNISIA - Sono arrivati a migliaia da vari luoghi del mondo: dall'Europa, da Israele, dagli Stati Uniti. Sono gli ebrei che in Tunisia hanno partecipato - tra eccezionali misure di sicurezza - al pellegrinaggio 2017 alla sinagoga di Ghriba, centro dinamico del giudaismo nell'odierno mondo musulmano, per celebrare la festa ebraica di Lag Ba'omer. E questo antichissimo luogo santo è anche una delle principali attrazioni dell'isola di Djerba, dove le 3 religioni monoteiste convivono in pace da sempre. Siamo venuti a vedere.
   L'atmosfera è quella della festa condivisa. Della gioia di vivere e soprattutto della gioia di esserci, nonostante i tempi cupi in cui un evento come questo richiede il massimo sforzo per garantire la sicurezza a chi partecipa, con polizia ed esercito schierati in campo. Ben presenti, ma discreti nel loro lavoro. Per la Tunisia una prova di maturità importante dal punto di vista dell'azione anti-terrorismo: un modo per ribadire che questa è una terra sicura e che i turisti possono tornare per le loro vacanze come un tempo neppure troppo lontano.
   Anche questo è il senso del pellegrinaggio annuale della Ghriba, il cui culmine in questo 2017 si è avuto domenica 14 maggio con la grande festa nel villaggio di Erriadh (Hara Sghira), una delle due città ebraiche sull'isola, e poi la chiassosa processione con la Torah di bronzo. Ma prima ancora, è stato il tempo della preghiera nella sinagoga, l'accensione delle candele e la simbolica deposizione di gusci d'uovo - su cui vengono scritte preghiere per invocare la guarigione di disturbi o invocare la fertilità - in una cavità nella parte più antica dell'edificio sacro, che secondo la leggenda è stato costruito intorno al 500 a.C. da ebrei fuggiti da Gerusalemme dopo la distruzione del Tempio di Salomone.
   Migliaia i partecipanti, tra i quali anche musulmani e cristiani, perché qui a Djerba le tre grandi religioni monoteiste vivono e convivono insieme in uno spirito di reciproco rispetto e fraterna amicizia. "Siamo cugini" ha detto Rabbi Raphael Cohen Zfat, arrivato dal nord di Israele: nel suo abito nero e con una lunga barba bianca, ha lodato la Ghriba come un "simbolo di tolleranza e di coesistenza pacifica" tra musulmani ed ebrei e ha accolto con favore quella che ha definito "una presenza di sicurezza rassicurante". Tra i presenti, anche i ministri tunisini del turismo Salma Elloumi Rekik e della cultura Mohamed Zine el-Abidine, l'ambasciatore di Francia in Tunisia, Olivier Poivre d'Arvor e la delegazione diplomatica degli Stati Uniti.
   Nell'edificio prospiciente la sinagoga, una sorta di caravanserraglio deputato ad accogliere i pellegrini visita, si svolge il momento più gioioso della festa, con canti e balli tradizionali a cui tutti partecipano. E come detto, non solo ebrei. Poi verso il tardo pomeriggio, ci si prepara alla processione, con la formazione di un lungo serpentone multicolore e rumoroso. Le donne, incluse le bambine, sono vestite con il loro abito migliore, il sorriso è sulla bocca di tutti.

(turismoitalianews, 16 maggio 2017)


Il nuovo ambasciatore Usa presenta le credenziali al presidente Rivlin

Il presidente israeliano Reuven Rivlin con l'ambasciatore Usa David Friedman
GERUSALEMME - Il nuovo ambasciatore Usa, David Friedman, ha presentato oggi le credenziali al presidente israeliano, Reuven Rivlin. Parlando ai giornalisti al termine della cerimonia, Friedman ha detto che farà di tutto per rafforzare il "legame indissolubile" esistente fra Stati Uniti ed Israele. "Ringrazio il presidente Trump per la nomina e per avermi dato un mandato chiaro nell'aiutare Israele in ogni modo possibile", ha detto Friedman. Il diplomatico ha definito il sostegno di Trump ad Israele come una "solida roccia". Parlando del suo mandato, il diplomatico Usa auspica di poter collaborare in diversi settori, dall'istruzione alla scienza, alla tecnologia informatica, senza tralasciare gli scambi commerciali e la strategica partnership in ambito militare. Da parte sua, Rivlin si è detto pronto a lavorare con la nuova amministrazione Usa per "trovare nuove soluzioni e nuove idee per costruire fiducia fra israeliani e palestinesi". Friedman è giunto ieri in Israele, dove si è subito recato al Muro del pianto. L'insediamento di Friedman a Tel Aviv giunge a pochi giorni dalla visita di Trump, prevista il 22 maggio.

(Agenzia Nova, 16 maggio 2017)



Un'agenda per il nuovo ambasciatore italiano in Israele

I rapporti tra Roma e Gerusalemme si sono ulteriormente rafforzati in epoca recente. Purtroppo le potenzialità non vengono messe a regime. C'è bisogno di un nuovo approccio

di Jonathan Pacifici*

Il voto negativo dell'Italia sull'ultima scandalosa risoluzione Unesco contro Israele è sicuramente indice dei solidi rapporti tra Roma e Gerusalemme che si sono ulteriormente rafforzati in epoca recente. È certamente doveroso ringraziare l'Ambasciatore uscente Francesco Maria Talò per l'ottimo lavoro svolto in questi anni. Il Consiglio dei Ministri ha recentemente designato il nuovo Ambasciatore italiano in Israele, Gianluigi Benedetti al quale vanno i nostri più sinceri auguri. Si tratta di un ruolo estremamente importante che va ben oltre la diplomazia.
  Nel quadro della crisi economica che attraversa l'Europa, Israele rappresenta un'isola felice di sviluppo, innovazione, crescita ed ottimismo. L'Italia si trova in posizione strategica sia culturalmente che geopoliticamente per essere il ponte naturale d'Israele verso l'Europa. Viceversa in Israele l'Italia può trovare una grande fonte d'ispirazione per il suo rilancio.
  Il dramma, a mio modesto avviso, è che le potenzialità non vengono messe a regime. Si fanno delle belle visite, le delegazioni arrivano e ripartono, i trattati vengono firmati ma poco si muove. C'è necessità di mettere la palla a terra. Vorrei quindi provare a tracciare alcuni criteri che dovrebbero guidare questo nuovo approccio.
  • Italia ed Israele sono complementari. È inutile come alcuni propongono cercare di duplicare il modello Israele in Italia, non funziona. Concentriamoci sul competitive advantage che abbiamo. Le aziende israeliane sono assetate di una sponda di mercato. In Israele c'è la tecnologia e l'innovazione, in Italia un'infrastruttura industriale di tutto rispetto. La formula dovrebbe essere: tecnologia israeliana + sistema industriale italiano. Da qui la possibilità di Joint Ventures e collaborazioni industriali e commerciali. È una formula che funziona e che nel medio e lungo termine permette di valorizzare le aziende italiane rendendole più competitive sui mercati globali.
  • Questi vettori non si muovono nel vuoto. C'è bisogno di ecosistema. In Israele il Sistema Paese Italia è sottorappresentato. Ci sono le banche americane, francesi, inglesi e asiatiche, perché non le nostre? I fondi di Private Equity Italiani non ci sono così come non ci sono i centri di ricerca e sviluppo delle grandi aziende. L'universo degli R&D centers è uno dei volani dei rapporti bilaterali tra multinazionali ed Israele. Cisco, Intel, Microsoft e Google hanno importanti centri in Israele così come i colossi Cinesi e molte aziende Europee. Perché le aziende italiane non ci sono? Un importante dirigente mi disse una volta "è assurdo che Finmeccanica non abbia un centro in Israele". Finmeccanica (che pure già ha fatto buoni affari qui, non ultima la vendita degli aerei da addestramento all'aviazione militare per oltre un miliardo di Euro) non ha nemmeno scalfito la punta dell'iceberg rispetto al potenziale difesa/tecnologia/telecomunicazioni.
  • Le persone. C'è bisogno di personaggi-ponte. La vivace comunità degli ebrei italiani in Israele è un asset da valorizzare. Le success stories hanno sempre dietro imprenditori o figure binazionali. Bisogna coinvolgere il crescente numero di italiani (soprattutto giovani) che vengono qui: sono una risorsa straordinaria per le aziende italiane che vogliano avere una persona in loco. L'immigrazione italiana in Israele dovrebbe essere vista non come una "fuga dei cervelli" quando come un'incredibile opportunità per costruire ponti.
  • Energia. Dopo le recenti scoperte Israele sta diventando un importante snodo energetico. È considerata una delle partite energetiche più importanti a livello internazionale e l'Italia può e deve giocare un ruolo.
  • Trasporti. Volare tra Italia ed Israele è ancora troppo caro. Firmati trattati a non finire ma 500 E per un volo di tre ore tra FCO e TLV, sono una mannaia sui rapporti bilaterali. Gli israeliani viaggiano molto ed alla fine vanno in Turchia e Grecia per via dei prezzi. Perché non facilitare dei voli verso lo splendido Sud? Tanti amici mi dicono - volevo andare in Italia ma i biglietti sono troppo cari. È un bottleneck da rompere.
  • Food - l'industria alimentare italiana è molto apprezzata qui in Israele. La questione della certificazione kasher è però una 'giungla' che frena. C'è necessità di lavorare con l'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane sulla certificazione nazionale che razionalizzi il tutto. È un mercato enorme se si pensa alla dimensione del kasher negli USA. Come per altri discorsi, Israele è il trigger per partite più ampie.
* Presidente del Jewish Economic Forum

(Il Foglio, 16 maggio 2017)


L'offerta dei Paesi del Golfo a Israele

Relazioni normali in cambio del congelamento degli insediamenti. Arabia Saudita ed Emirati pronti ad aprire lo spazio aereo, collegamenti telefonici e scambi commerciali

di Giordano Stabile

BEIRUT - A quattro giorni dal summit fra i Paesi arabi e il presidente americano Donald Trump, Arabia Saudita ed Emirati mettono sul piatto la loro proposta per far ripartire i colloqui di pace fra Israele e i palestinesi, e portare stabilità in tutta la Regione.

 Passi senza precedenti
S  econdo indiscrezioni riportate dal Wall Street Journal, i Paesi del Golfo sono pronti a fare passi senza precedenti verso la normalizzazione dei rapporti con Israele, con cui non hanno ancora relazioni diplomatiche dirette.

 Scambi diretti
  Riad e Dubai, in particolare, stanno per offrire, con la mediazione americana, l'apertura del loro spazio aereo ai voli israeliani, linee telefoniche e di telecomunicazioni dirette, visti per gli atleti e gli uomini d'affari israeliani, fine delle limitazioni negli scambi commerciali diretti.

 La visita di Trump
  In cambio i Paesi arabi chiedono il congelamento dei nuovi insediamenti in parti della Cisgiordania, in particolare al di fuori dei blocchi già costruiti, e la fine delle restrizioni ai commerci fra la Striscia di Gaza e il resto del mondo. In questo modo sperano di rilanciare le trattative di pace fra il premier Benjamin Netanyahu e Abu Mazen, obiettivo principe della visita di Trump in Medio Oriente.

 Il mega summit
  Il presidente americano è l'ospite d'onore al grande summit, oltre 50 Paesi, organizzato a Riad per questo fine settimana. La questione palestinese, la Siria, e lo Yemen, saranno al centro dei colloqui. Riad punta anche a concludere mega accordi economici, compreso quello per l'acquisto di 300 miliardi di armi avanzatissime.

(La Stampa, 16 maggio 2017)


Insieme Vaticani e Museo ebraico per la Menorà: culto, storia e mito

Due sedi, una mostra: la storia di un simbolo inseguito da mille leggende. Centotrenta pezzi in arrivo da Louvre, National Gallery, lsrael Museum, Albertina

di Paolo Conti

I graffiti di William Kentridge lungo i muraglioni del Tevere
Difficile che una mostra sia, nello stesso tempo, scientificamente ineccepibile e anche profondamente significativa di una svolta storico-culturale. Capita qui a Roma con «La Menorà/ Culto, storia e mito» che si apre oggi (per restare aperta fino al 23 luglio) in due sedi: il braccio di Carlo Magno in piazza San Pietro e il Museo Ebraico di Roma in via Catalana, nel cuore dell'antico Ghetto romano.
   Si tratta di 130 straordinari pezzi (120 esposti in Vaticano, e dieci nel Museo ebraico) che vanno dall'antichità ai disegni preparatori per «Triumphs and Laments», i graffiti di William Kentridge lungo i muraglioni del Tevere. Mezzo mondo culturale si è mosso per prestare opere che grondano storia, bellezza, religione: dal Louvre di Parigi alla National Gallery di Londra passando per l'Israel Museum, l'Albertina di Vienna o il Museo Sefardì di Toledo (www .lamenora.it ).
   Al centro la Menorà, «alla romana», senza l'«h», perché siamo nella città della comunità ebraica più antica della Diaspora, con presenze attestate dal II secolo avanti Cristo. Qui a Roma la Menorà apparve nell'anno 70 dell'era moderna dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme decisa dall'imperatore Tito, la traccia più celebre è nel suo arco trionfale al Foro. Era il simbolo del popolo ebraico, fatto forgiare in oro puro da Mosè «su ordine del Signore». Poi sparì, di nuovo qui a Roma, dopo il sacco dei Vandali di Genserico nel 455, inseguita da mille leggende: trasferita a Costantinopoli, o forse a Cartagine, oppure riportata segretamente a Gerusalemme, o magari finita nei fondali del Tevere o sepolta addirittura sotto san Giovanni in Laterano. Infatti al Museo Ebraico è esposta la Tabula Magna Lateranensis (1288-1292) in cui si elencano i tesori conservati a san Giovanni e si cita il «candelabro aureo». Dunque, una mostra «romana» che apre ( ecco la svolta) un capitolo completamente nuovo nei rapporti tra cattolicesimo ed ebraismo: due istituzioni come i Musei Vaticani e il Museo Ebraico ( diretti da due donne, Barbara Jatta e Alessandra di Castro, in magnifica sintonia tra loro) che aprono nelle due sedi un'unica mostra dedicata a un simbolo identitario ebraico e che poi ha avuto, nel cristianesimo e soprattutto nel cattolicesimo romano, mille declinazioni figlie del prototipo biblico. La mostra ( curata e diretta da Alessandra Di Castro, da Arnold Nesselrath, delegato per i dipartimenti scientifici e i laboratori di restauro dei Musei Vaticani, e da Francesco Leone, professore associato di Storia dell'Arte Contemporanea all'università di Chieti-Pescara) segue un suggestivo itinerario ispirato ai rotoli della Torà, ideato da Roberto Pulitani dei Servizi tecnici del Vaticano. Barbara Jatta e Alessandra di Castro, legate da un'evidente sintonia culturale e personale, hanno insistito molto sul significato non solo documentaristico e artistico della mostra.
   Nei Musei Vaticani sono esposti le splendide Mappah ottocentesehe provenienti dal Museo Ebraico, il quale a sua volta espone non solo la Tabula Magna Lateranensis ma anche due epitaffi marmorei del IV secolo dopo Cristo dei Musei Vaticani.
   Tra i capitoli imperdibili, oltre alla Tabula Magna, la Pietra di Magdala ritrovata durante una campagna di scavi del 2009 che ha permesso di ritrovare una delle più antiche Sinagoghe della Galilea, un magnifico busto di Tito dell'anno 75, l'incredibile Bibbia di san Paolo Fuori le Mura del IX secolo, straordinariamente moderna nel suo racconto iconografieo. E altri tesori da studiare e capire tra arte, letteratura, preghiera, alle radici della cultura giudaico-cristiana. Una mostra che ci riguarda e ci appartiene.

(Corriere della Sera, 16 maggio 2017)


Risplende la Menorah perduta

Da Israele è arrivata la Pietra di Magdala in marmo del 66 d.c. Il simbolo ha ispirato anche molte opere d'arte cristiane.

di Franca Giansoldati

 La mostra
 
La Pietra di Magdala
  Il simbolo dei simboli che si fa metafora e poi rappresentazione. E' potente e suggestiva la mostra allestita per metà in Vaticano e per l'altra metà nel museo della Sinagoga di Roma. Dopo quasi due millenni fa risorgere la Menorah d'oro perduta, indicando la via. Illuminandola. Come se la Menorah della leggenda e del mito riprendesse vita in altra forma. Un segno di pace in un momento in cui attorno tutto sembra insinuare che le guerre di religione siano un destino ineluttabile.
  A realizzare questa mostra straordinaria - che segna un passo in avanti nelle relazioni culturali tra Santa Sede e Israele - sono state due donne: Barbara Jatta, direttrice dei Musei Vaticani e Alessandra Di Castro, a capo del Museo Ebraico di Roma. La loro determinazione ha avuto la meglio su tutto, persino sui tanti problemi di carattere logistico o diplomatico. Come per esempio il complicatissimo trasporto a Roma, su un volo della El Al. di uno dei pezzi più suggestivi e unici, la Pietra di Magdala, un basamento di marmo scolpito del 66 dopo Cristo, praticamente quando la Menorah d'oro si trovava collocata nel Secondo Tempio di Gerusalemme. L'artista che la scolpì vide con i propri occhi la magnificenza di quel candelabro enorme e interamente d'oro che brillava da lontano. I pezzi che rimarranno esposti dal 15 maggio al 23 luglio sono 130. Incunaboli, manoscritti antichi, pergamene, marmi romani, iscrizioni, dipinti, reperti archeologici, oggetti di arte orafa. Ci sono voluti quattro anni a metterli assieme.

 La storia
  E' nel periodo della Roma imperiale che la Menorah divenne definitivamente il simbolo dell'ebraismo, e questo proprio mentre prendevano forma i simboli della cristianità. Era l'evocazione tangibile della luce divina, dell'ordine cosmico della creazione, dell'Antica Alleanza, del cespuglio rovente, dell'albero della vita. La si trova nelle catacombe ebraiche, nei sarcofaghi, sulle lapidi, incisa sui muri, nelle monete, nelle decorazioni dorate sui vetri, sui calici e sui gioielli, e - ovviamente - nelle sinagoghe. Nel Libro dell'Esodo è narrato che Dio ordinò a Mosè di costruire un candelabro capace di illuminare il cammino del popolo eletto. Doveva essere fatto in una colata unica. Un talento d'oro, l'equivalente di 34 chilogrammi. Nel Levitico è scritto anche che il Signore ordinò che le sette lampade ardessero perennemente di un olio puro di olive schiacciate e che a preparalo dovesse essere Aronne. Quell'incredibile candelabro era lavorato a sbalzo e martello, raffigurava un albero di mandorlo con i boccioli e le corolle. Quando veniva acceso quei grandi bracci rifulgevano, promanando luce attorno. Tutto era un bagliore. La Menorah di Gerusalemme (Menorà nella dizione romana) fu rubata dai romani e portata trionfalmente a Roma come bottino di guerra, nel 70 dopo Cristo, sotto Tito, l'imperatore che ordinò la distruzione del Secondo Tempio di Gerusalemme. Le fonti dicono che venne collocata ed esposta, almeno fino ad un certo periodo nel tempio della Pace fatto erigere da Vespasiano. Lo storico ebreo Flavio Giuseppe (37-105), attendibile testimone oculare, ne riserva una descrizione accurata. Poi arrivarono i barbari, e dal sacco di Genserico in poi, nel 455, non se ne saprà più nulla. La leggenda prese così a circolare. Un po' come le fake news di oggi. Tra le voci anche quella che il candelabro sia ancora in Vaticano, custodito segretamente da qualche parte. Nel 2004 durante un incontro tra Giovanni Paolo II e i due Rabbini Capo di Israele, quello Ashkenazita e quello Sefardita, il tema della Menorah perduta fece capolino nei loro colloqui. Naturalmente il Papa rassicurò che si trattava di una leggenda.

 Le ricerche
  Esposto nel Braccio di Carlo Magno c'è il calco di una lunga iscrizione risalente a Niccolò V (XIII secolo) che riferisce che tra le reliquie custodite nella basilica Lateranense ci fosse ali' epoca anche la Menorah. «Gli archeologi recentemente hanno fatto scavi approfonditi ma naturalmente non trovarono nulla» spiega il professore Arnold Nesselrath che aggiunge: «Molto probabilmente il candelabro venne fuso, ecco perché se ne persero le tracce». Il simbolo dell'identità ebraica nel corso dei secoli è stato anche fonte d'ispirazione per molte opere d'arte cristiane, e usato liturgicamente in numerose chiese. Una Menorah immensa decora il duomo di Milano, altre sono presenti nel santuario di Mentorella, nel duomo di Prato, nel duomo di Pistoia, di Palma di Maiorca, di tante chiese tedesche. Simbolo, feticcio , leggenda, identità e luce per tutti.

(Il Messaggero, 16 maggio 2017)


Eppure avevamo detto: «Mai più». Il fumo di un camino rievoca il baratro

Ora l'Europa, terra della tragedia di Auschwitz, ha il dovere di mobilitarsi.

di Donatella DI Cesare

Non avremmo voluto più né pronunciare né scrivere queste due parole «forni crematori», se non per tenere a mente e ricordare alle nuove generazioni il crimine efferato compiuto dai nazisti nei lager dello sterminio. È accaduto solo qualche decennio fa in Europa. Giustamente abbiamo detto tante volte «mai
SEDNAYA

La prigione di Sednaya è un carcere militare a pochi chilometri da Damasco, noto per essere il luogo dove sono stati incarcerati dal regime di Assad migliaia di oppositori. Sednaya secondo Amnesty International, negli ultimi quattro anni è stata la tomba di 13 mila persone giustiziate. Secondo il Diparti- mento di Stato Usa tra le 65 mìla e le 117 mila persone sono state detenute in Siria tra il 2011 e il 2015 perché ritenute dissidenti. Oltre 400 mila i morti in guerra.
più». Perché il forno crematorio è l'apice della disumanizzazione. Vuol dire togliere l'umanità all'altro, al punto da poterlo non solo uccidere con intenzionalità, in una catena di montaggio, ma anche bruciare e ridurre a cenere. In modo che non resti traccia, che chi ha commesso possa negare davanti al mondo, possa sostenere che il crimine non c'è stato. In modo che il boia possa, anzi, negare persino che la vittima sia mai esistita. E invece in questa età in cui i campi di internamento sono diventati quasi la norma, in cui si torturano e si seviziano i nemici, in cui si ripetono le esecuzioni di massa, in cui si ricorre ai gas tossici contro le popolazioni inermi, contro donne, anziani, bambini, giunge la notizia di «forni crematori».
Il responsabile del Dipartimento di Stato per il Medio Oriente Stuart Jones accusa apertamente Bashar Assad. Le immagini satellitari diffuse per supportare questa terribile accusa mostrano la costruzione, vicino alla prigione di Sednaya, a nord di Damasco, adibita a cremare i corpi dei detenuti. Il nome di quella prigione è riemerso più volte, anche di recente, grazie alle denunce di Amnesty International. Soprusi, violenze, atrocità di ogni genere a cui sono stati sottoposti gli oppositori politici, i «ribelli», i «terroristi». Sappiamo - ma abbiamo spesso fatto finta di non sapere - che molti, soprattutto negli ultimi mesi, quando il conflitto ha preso una nuova piega, sono scomparsi nel nulla.
   Una crudele guerra civile, durata sei anni, si è consumata non lontana dalla vecchia Europa che, per prima, avrebbe dovuto impedire quella serie infinita di efferatezze. Oggi apprendiamo che la «depravazione» - questa è la parola usata da Stuart Jones nella conferenza - ha raggiunto «nuovi livelli», ha toccato l'apice.
   Il nulla in cui sono scomparsi i nemici di Assad è un forno crematorio. Cinquanta impiccagioni al giorno. Forse più. Che fare allora per evitare le fosse comuni, che potrebbero essere scoperte un domani? Che fare per sbarazzarsi di corpi ingombranti, che potrebbero essere una scomoda prova dell'eccidio? Inserirli in un forno, renderli cenere.
   Non c'è insulto più grande alla dignità umana: offendere persino la morte. L'idea che il cadavere meriti rispetto, l'idea della sepoltura, fa parte del patrimonio etico dell'umanità. L'odore nauseabondo che usciva dai camini dei forni crematori è stato il segno dell'oltraggio supremo che Auschwitz ha inferto alla dignità dei mortali. Non avremmo mai immaginato che un camino funzionasse di nuovo nel mondo.
   Auspichiamo che l'Europa, che nella sua storia recente porta la macchia indelebile dei forni crematori, non resti inerte. Le istituzioni e il popolo europeo hanno, più degli altri, il dovere di mobilitarsi.

(Corriere della Sera, 16 maggio 2017)


Siria - Il Governo smentisce esecuzioni di massa

Ministro israeliano: è ora di eliminare Assad

AGENPRESS - Il governo siriano nega "categoricamente" le accuse degli Usa sulle esecuzioni di massa nel carcere e sul crematorio per bruciare le vittime.
L'agenzia ufficiale governativa siriana Sana cita una non meglio precisata "fonte responsabile al ministero degli esteri", secondo cui "le asserzioni dell'amministrazione americana sul cosiddetto crematorio della prigione di Saydnaya fanno parte di una storiella ideologica staccata dalla realtà".
"E' giunto il tempo di eliminare Bashar Assad", a parlare è il ministro israeliano dell'edilizia Yoav Galant, ex generale dell'esercito, intervenendo ad una manifestazione.
Quello che accade in Siria, ovvero, "gente deliberatamente colpita da armi chimiche, i loro corpi bruciati, è qualcosa che non si è visto negli ultimi 70 anni. E' stata passata una linea rossa". "Ciò che avviene lì - ha spiegato poi alla Radio Militare - è un genocidio sotto tutti gli aspetti". Galant ha quindi paragonato l'eliminazione di Assad al "taglio della coda del serpente. Dopo questo ci possiamo concentrare sulla testa, che si trova a Teheran".

(AgenPress, 16 maggio 2017)


Ebrei perseguitati, le testimonianze «Giovani, siate sentinelle di libertà»

di Raffaele Puglia

BOLZANO - La persecuzione degli ebrei ha toccato anche la nostra terra. Una barbarie che sembrava ormai dimenticata, rimossa, ma che in seguito alle ricerche eseguite da Sabine Mayr e Joachim Innerhofer, autori del libro «Quando la patria uccide. Storie ritrovate di famiglie ebraiche dell'Alto Adige», è stata riportata l'attenzione su un evento tanto disumano, quanto importante da ricordare. La presentazione del libro - ieri sera al Centro Trevi - è stata l'occasione per ascoltare le storie dei testimoni e dei loro discendenti, nonché i pensieri dello scrittore viennese Doron Rabinovici e degli autori del libro.
   «Da bambino sentivo parlare sempre con molto interesse i miei nonni di quella che era la loro vita a Merano - ha spiegato Daniele Gronich, testimone, nipote del chimico Emilio Gronich - mio bisnonno Wolfgang aprì uno studio di batteriologo a Merano. E qui visse anche mio padre. Nel 1938 mio padre venne buttato fuori dalla scuola , la pasticceria dove andava a mangiare le pastine non aveva più pastine per lui. Passarono per Trento, Verona. Mio nonno con i pochi soldi rimasti comprò una pistola con tre proiettili in caso i nazisti li avessero raggiunti. La prima per mio padre, l'altra per mia nonna e l'ultima per lui. Con l'aiuto della Resistenza andarono in Svizzera. Mia zia, bionda con occhi azzurri, non venne uccisa, solo sterilizzata».
   L'incontro ha visto una nutrita partecipazione di autorità politiche e civili, tutte con la stessa idea: rendere consapevoli le nuove generazioni.
   «L'atto del testimoniare, del raccontare, è un dovere morale, ce lo ha insegnato Primo Levi - esordisce il presidente Arno Kompatsche:r - in una democrazia non c'è il divieto di pensare, c'è il dovere di pensare per insegnare».
   «Mai dare per scontato la libertà e la democrazia di cui godiamo oggi - afferma il presidente di Anpi Bolzano Orfeo Donatini - sono valori che dobbiamo difendere tutti. La nostra presenza al fianco della comunità ebraica sarà continuativa e permanente».
   Secco il sindaco Renzo Caramaschi: «Non dobbiamo più aver paura di approfondire i nostri errori. Italiani e tedeschi hanno creato un modello virtuoso. Ma occorre studiare di più la nostra storia».
«La nostra prima preoccupazione è alle nuove generazioni, che devono essere sentinelle di democrazia - ha detto il vicepresidente provinciale Christian Tommasini - è importante trasmettere la conoscenza per quando i testimoni non ci saranno più».

(Corriere dell'Alto Adige, 16 maggio 2017)


Bambine rom e tombe ebraiche, "ma non è razzismo"

Lettera a Furio Colombo

Caro Furio Colombo,
nella nostra cronaca cittadina tutto è incerto, nella prima battuta di brutte notizie, la causa, le modalità, la responsabilità e se l'evento possa considerarsi dannoso o colposo. E tutto rimane in sospeso, penso anche per cautela legale, finché le autorità non danno il primo verdetto. Di solito promettono indagini più approfondite. Non in due casi romani appena accaduti: il rogo dei bambini rom e la distruzione delle tombe ebraiche al Verano. Sono stupito dalla curiosa sicurezza delle fonti e dei cronisti: né un caso né l'altro hanno motivazione razziale.
Adriano



Le ripetute narrazionI del terribile rogo che ha distrutto parte della famiglia Halilovic (in 13 dormivano in un camper, in zona Casilina a Roma, qualcuno ha incendiato il camper di notte, tre bambini sono morti bruciati) si sono aperte subito, alla seconda o terza riga di ciascun articolo di cronaca, con l'assicurazione perentoria che se qualcuno dà fuoco a un camper rom mentre tutti dormono, non può essere che un altro rom. E cominciata la caccia, esclusivamente fra i rom. Sfortunatamente il rom assassino, dato per "identificato" dalle telecamere fin dall'inizio della storia, non è stato trovato, e le possibilità che la storia si allontani dalla nostra attenzione prima di sapere che cosa è successo davvero, sono più alte ogni giorno.
Segue la notizia che, nella civile città di Roma, una signora ha parcheggiato la sua auto in modo da schiacciare fiori, pupazzi e lettere ai bambini bruciati (un piccolo memoriale spontaneo come spesso accade sul luogo di un delitto così grave e penoso) e ha dichiarato orgogliosa: "Io parcheggio dove voglio". Subito dopo il rogo dei piccoli rom, un'altra sconvolgente notizia nella cronaca di Roma: decine e decine di tombe nel cimitero del Verano sono state scoperchiate e profanate. Le tombe sono ebraiche (tutte) nella prima narrazione. Nelle successive, si aggiungono "croci" senza precisare dove e come tombe cristiane e tombe ebraiche possano mischiarsi in una stessa scorribanda di vandali. Ma i vandali, già dalla seconda narrazione dei fatti, diventano "ragazzini". Infatti uno risulta quattordicenne. Ma non ci viene detta mai l'età del più adulto. Segue la certezza che, pur sollevando e spaccando pietre tombali ebraiche, difficilmente confondibili, i "ragazzini" non hanno mai pensato di agire per ragioni razziali. Una tale ipotesi viene esclusa all'inizio e alla fine di ogni articolo. È una bambinata, ci dicono i colleghi cronisti (pensate al peso delle lastre, divelte e spaccate a decine nella notte) di cui adesso sia "i ragazzini" sia i genitori si vergognano, tanto che "i ragazzini" vengono tenuti in casa, e i loro nomi, come da prescrizione di legge, restano "di fantasia" in ciascun articolo.
Non sappiamo nulla e non sapremo nulla delle loro famiglie e delle loro scuole. Risulta ai cronisti che, forse, "un videogioco" può avere motivato questa idea (così tipicamente da "ragazzini") di farsi chiudere di notte in un grande cimitero e - per caso - fra le tombe ebraiche del Verano, proprio mentre avevano gli attrezzi per spaccare tutto.

(il Fatto Quotidiano, 16 maggio 2017)


La metamorfosi di Israele secondo Avital Kotzer Adari

Israele da record. Nel mese di aprile in Terra Santa non si erano mai visti così tanti turisti, 390mila, prima d'ora. Un ritmo di crescita che ha segnato +40%, a giovamento anche della ricaduta economica che ha visto i viaggiatori spendere sul territorio 1,5 miliardi di euro tra gennaio e aprile di quest'anno. Numeri estremamente positivi cui ha contribuito anche l'Italia anch'essa mai così presente nel Paese con un +34% di crescita nei flussi turistici.
«Già alla Bit avevamo avuto l'impressione che il trend fosse in salita - spiega Avital Kotzer Adari, direttore dell'ufficio del turismo israeliano in Italia - il nostro stand era sempre pienissimo e non solo durante gli eventi, ma soprattutto negli orari dedicati agli appuntamenti».
A qualche settimana di distanza possiamo affermare che Israele piace e convince tanto che gli operatori confermano a loro volta un 25-30% in più di prenotazioni. Non solo le compagnie aeree fanno sapere che i posti sui voli diretti verso la destinazione sono quasi tutti venduti. A cosa si deve questo momento di grande slancio lo abbiamo chiesto direttamente alla direttrice Adari (VIDEO).

(L’agenzia di viaggi, 16 maggio 2017)


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