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Notizie 16-31 maggio 2021


Gaza piange i morti e Hamas spende un milione di dollari in un albergo di lusso

Soggiorno a 5 stelle al “Mandarin Oriental” di Doha per il leader Ismail Hanyeh

di Davide Racca

Mentre Gaza piange i morti Hamas spende 1 mln di dollari in un albergo di lusso Gaza piange e i miserabili leader di Hamas spendono 1 milione di dollari in un albergo di lusso di Doha grazie ai complici occidentali e arabi. L’analista indipendente di geopolitica e sicurezza, Lion Udler, avrebbe ottenuto una copia della fattura relativa alle spese sostenute al “Mandarin Oriental” Hotel di Doha dalla delegazione di Hamas guidata da Ismail Hanyeh.
   Durante gli 11 giorni di permanenza, secondo il documento, la delegazione del gruppo terroristico avrebbe speso in Qatar 1,045,604,70 dollari per le spese di soggiorno, massaggi, Spa, e…altri servizi. Molti si chiedono che fine fanno tutte le generose elargizioni in favore dei cittadini di Gaza, gravati da “un assedio implacabile” e costretti a condizioni di vita fatiscenti. In parte, questa fattura potrebbe fornire qualche risposta.
   Pur tenendo in debito conto che i qatarioti finanziano con 30 milioni di dollari al mese le famiglie bisognose della Striscia, e un ulteriore impegno per 500 milioni di dollari è già stato preso per la ricostruzione, atteso che le delegazioni di Hamas sono in continuo movimento non certo per motivi diplomatici, ma piuttosto per sfuggire alla caccia di eventuali droni delegati alla loro neutralizzazione, qualche dubbio sul reale beneficiario degli “aiuti” ci sfiora.
   Dubbio che trova fondamento anche nelle corrispondenze da Israele di cui abbiamo riferito, in specifici reportage, la reale situazione in Cisgiordania, non troppo differente da quella in cui si trova Gaza.
   Testimonianze dirette da parte di alcuni abitanti della zona, tracciavano un panorama desolante della situazione sotto l’amministrazione dell’Anp, così come delle continue violente coscrizioni da parte dei gruppi terroristici, Hamas, Jihad Islamica sino ai non dimenticati miliziani del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, che vengono imposte da Ramallah a Betlemme, da Jerico a Hebron per finire a Nablus e nella stessa Capitale di Israele, Gerusalemme.
   Arruolamenti forzosi compiuti con l’inganno della paga per ogni “volontario” e in quelli devoluti alle famiglie dei “martiri”. E tutto ciò viene sponsorizzato dagli aiuti per la Palestina, devoluti generosamente dai Paesi complici di questo meccanismo. Così come l’arricchimento delle leadership dei veri gruppi terroristici a discapito della popolazione sottoposta a un “grande inganno”.
   Non mancherebbero i fondi per intraprendere attività commerciali o, soprattutto, nel campo del turismo e delle infrastrutture, ma i fomentatori di odio preferiscono seguire la strategia degli “oppressi ad ogni costo”, pur di continuare nella lucrosa attività di manager del terrore. Il capo dell’intelligence egiziana, Abbas Kamel, a margine della sua visita nella Striscia di Gaza, dopo aver incontrato la leadership di Hamas, avrebbe dichiarato: “Non aspettatevi molto, qui c’è un’organizzazione terroristica crudele e bugiarda che è ubriaca di vittoria. Negoziare con loro sarà difficile e per nulla certo il successo”.
   In tutto ciò, mentre può considerarsi “irresponsabile ma comprensibile” il flusso di finanziamenti da parte dei fomentatori qatarioti, molto meno chiaro è quello proveniente dalle casse dei contribuenti americani la cui amministrazione dedita “all’esportazione di democrazia non richiesta”, si dimostra una volta di più completamente perniciosa per la stabilizzazione del Medio Oriente.
   In Nord America, infatti, l’odio antisemita esplode con innumerevoli atti di violenza contro le comunità ebraiche stanziate, da sempre, sul territorio. Alla nuova ondata anti-israelita, partecipano attivamente i movimenti di estrema sinistra e i black lives matter, che non si sa bene cosa c’entrino, ma va bene lo stesso. Tanto per sopire gli animi, il rinomato New York Times, in vena di genialate, ha pubblicato venerdì scorso, sulla prima pagina, le foto dei minorenni, ovviamente solo palestinesi, rimasti uccisi nei combattimenti tra Hamas e Israele, protrattisi per 11 lunghi giorni.
   Pare che ai fenomeni da baraccone di parte dell’editoria statunitense, la causa delle rivendicazioni territoriali infondate supportate da organizzazioni terroristiche riconosciute, sia da abbracciare in toto, in totale spregio alla storica alleanza con Israele e al diritto alla difesa di Gerusalemme.
   In aggiunta, Antony Blinken, inviato Usa in Medio oriente, ha annunciato pochi giorni fa lo stanziamento di 75 milioni di dollari in favore dello sviluppo e per l’assistenza economica ai palestinesi, la riapertura del consolato degli Stati Uniti a Gerusalemme, la fornitura di 5,5 milioni di dollari come assistenza immediata in caso di calamità a Gaza e 32 milioni di dollari all’Agenzia delle Nazioni Unite, Unrwa.
   A Ramallah sono subito esplosi i festeggiamenti, così come a Gaza dove la popolazione è impegnata a piangere i morti e a ricostruire gli edifici distrutti, riempiendo gioiosamente le spiagge del litorale della Striscia, sotto l’occhio attento dei suoi “difensori” di Hamas.

(ofcs.report, 31 maggio 2021)


Tempio romano di 2.000 anni rinvenuto ad Ascalona – è il più grande in Israele

I resti di un magnifico tempio romano, il più grande in Israele, sono stati scoperti ad Ascalona (Ashkelon), poco a nord della Striscia di Gaza, in uno scavo condotto dall’Autorità Archeologica di Israele (IAA) per un progetto di sviluppo del Parco Nazionale locale e sarà presto accessibile al pubblico, hanno annunciato le autorità del Paese.

Per la verità, la struttura, situata a pochi metri dalle rive del mare, era stata scoperta negli anni ’20 dall'archeologo britannico John Garstang che guidò una spedizione per conto del Palestinian Exploration Fund, ma poi coprì i resti scoperti per continuare a preservarli, ha spiegato la dott.ssa Rachel Bar Nathan, direttrice degli scavi dell'IAA insieme a Saar Ganor e Federico Kobryn.
L'area non era poi stata più trattata per quasi un secolo, fino quando dei lavori erano ripresi tra il 2008-2012 e poi nel 2016-2018, quando l'Ente per la Natura e i Parchi ha deciso di valorizzare la zona e recuperare il prezioso bene archeologico.
   Durante i lavori è stato scoperto anche un piccolo teatro, un odeon, poco lontano dal tempio.
“Garstang aveva già calcolato le dimensioni dell'edificio, e vedendo i resti delle colonne di marmo, realizzate con materiali importati dall'Asia Minore, aveva suggerito che il tempio risalisse al tempo di Erode il Grande, poiché lo storico Giuseppe Flavio descrisse come in quella zona questi avesse fatto costruire una sala colonnata e altre importanti strutture", ha detto Bar Nathan.
L’edificio pubblico era suddiviso in tre sezioni, una sala principale e due parti laterali. Secondo gli archeologi, la sala principale era circondata da massicce colonne di marmo alte fino a 13 metri e ornata di capitelli elaborati, con ricchi adorni e in alcuni casi un'aquila, simbolo romano.

 IL REGNO DI ERODE
  Nominato dai romani re di Giudea nella seconda metà del I secolo a.C., Erode il Grande, noto ai cristiani per la descrizione che ne fa Matteo nel suo Vangelo e per la ‘Strage degli Innocenti’, storicamente fu effettivamente un tiranno sanguinario. Tuttavia, forse proprio per soddisfare la propria megalomania, fu anche un grande costruttore.
   A Gerusalemme fece costruire un ippodromo, un anfiteatro e, soprattutto fu l’artefice della terza ricostruzione del Tempio, nonostante non fosse di religione ebraica.
   Palazzi, fortezze, ricostruzione di città in rovina, centri portuali e, appunto templi e arene, non solo in tutta la Giudea, che egli amministrava per conto di Roma, ma anche in altre città al di fuori di questa.
"Il nostro progetto è iniziato nel 2016", ha detto Bar Nathan. "Dopo aver riportato alla luce il tempio ci siamo resi conto che, mentre la struttura originale risaliva al tempo di Erode, come pensava Garstang, gli elementi più grandiosi, i marmi, le colonne, furono aggiunti più tardi, intorno al II-III secolo d.C., il tempo dello stile dell'imperatore Settimio Severo".
Sono state trovate, oltre a preziose monete dell'epoca, anche diverse sculture in marmo massiccio dell'era di Severo, alcune delle quali raffiguranti divinità pagane, tra cui Iside – un’altra divinità egizia chiamata Tyche, la dea della fortuna della città - e Nike, la dea della vittoria.
   Un terremoto distrusse Ascalona e il tempio nel 363 d.C., quando era già stato trasformato in basilica romana. I suoi resti sarebbero stati poi riutilizzati nei periodi abbaside e fatimide - VIII-XII secolo d.C. - per costruire installazioni produttive nell'area.
   Un'operazione per preservare e restaurare il complesso, compresi la basilica e il teatro, è attualmente in corso da parte dell'IAA.

(Sputnik Italia, 31 maggio 2021)


Israele, pronto il governo di unità nazionale. Senza Netanyahu

Arriva l'annuncio dell'alleanza tra la destra nazionalista Yamina di Naftali Bennett e l'opposizione centrista Yesh Atid guidata da Yair Lapid. La reazione del premier: "E' la frode del secolo"

di Sharon Nizza

TEL AVIV - L'uomo che ha iniziato la carriera politica da capo dello staff di Netanyahu quando era leader dell'opposizione potrebbe essere lo stesso che rispedirà il più longevo premier della storia del Paese tra gli stessi banchi della Knesset, dopo 12 anni ininterrotti di governo. Dopo aver congelato i negoziati durante gli 11 giorni di conflitto con Hamas, Naftali Bennett, leader della destra nazionalista di Yamina, ieri ha ufficialmente sciolto la riserva su quella che ha definito in un discorso in prime time "la decisione più difficile della mia vita": appoggiare il "governo del cambiamento", una compagine che riunisce otto liste che spaziano dalla destra nazionalista al partito islamico che hanno come comune denominatore principale la volontà di voltare pagina rispetto all'era Netanyahu.
   Se tutto filerà liscio, ossia se entro mercoledì sarà presentato al Capo dello Stato e dopo una settimana giurerà alla Knesset, sarà un governo dai molti precedenti. Primo tra tutti: il mandato è nelle mani dell'attuale capo dell'opposizione Yair Lapid (17 seggi) ed è lui a gestire le trattative tra le varie componenti, ma la premiership spetterà a Bennett per i primi due anni, mentre Lapid ricoprirebbe il ruolo di ministro degli Esteri e premier "alternato". Bennett sarà poi il primo capo di governo legittimato da soli 7 seggi (ridotti ora a 6 per una defezione), nonché il primo premier religioso, già leader della Moetzet Yesha, il movimento per gli insediamenti. Il tutto alla guida di una coalizione sostenuta con forza dai partiti di sinistra, Labour e Meretz che tornano al governo dopo anni.
   Seppure la divisione dei ministeri sia quasi ultimata, c'è molta cautela nel parlare di "era post-Netanyahu", che anche in questi momenti non accenna a farsi da parte. "Naftali, la tua è la truffa del secolo, porti i voti degli elettori di destra a un governo di sinistra", Netanyahu ha risposto a Bennett in diretta. Rilanciando l'offerta di un governo di rotazione addirittura a tre, guidato per primo da Gideon Saar (ex ministro del Likud, che però ribadisce che non siederà mai più a fianco di Netanyahu).
   La carta sulla quale punta nei prossimi 10 giorni è quella dei disertori, partendo dalla laica Ayelet Shaked, l'altra costola dirigenziale di Yamina, che digerisce meno bene l'alleanza con la sinistra che le impedirebbe di portare avanti il suo cavallo di battaglia, la sfida alla riforma del sistema giudiziario. Shaked rimane forse l'ultima speranza di Netanyahu di mandare in frantumi "il governo del cambiamento", in cambio le viene offerto il posto bloccato nelle file del Likud in vista di nuove elezioni.
   La pressione esercitata è altissima, con manifestazioni sotto casa che la bollano come "traditrice" se andrà con la "sinistra", mentre il sostegno inaspettato arriva dai presidi che traslocano dalla residenza di Netanyahu per chiederle di non arrendersi all'incitamento e chiudere il governo del cambiamento. E, se i tentativi di sabotaggio non andassero in porto, esattamente a 25 anni dalla vittoria su Peres che gli conferì la presidenza del consiglio per la prima volta, Netanyahu si troverebbe all'opposizione, da dove ha tutte le intenzioni di sfidare l'eterogenea maggioranza per tornare a elezioni quanto prima.

(la Repubblica, 31 maggio 2021)

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Nasce in Israele un “governo del cambiamento” senza Netanyahu. Ma reggerà?

di Ugo Volli

Israele si avvia alla formazione di un nuovo governo, il primo dal 2009 non presieduto da Benjamin Netanyahu e senza la presenza del suo partito di maggioranza relativa, il Likud. Dopo che Gideon Saar, leader del partito Tikva Hadasha (“nuova speranza”) e Naftali Bennett, presidente di Yamina (“A destra”), hanno rifiutato le ultime offerte del Likud per arrivare a un ministero insieme ai partiti religiosi, sembra ormai sicura la costituzione di un governo trasversale, incentrato sul secondo partito del parlamento israeliano, Yesh Atid (“C’è un futuro”) e sul suo leader Yair Lapid, che ne ha avuto l’incarico dal Presidente di Israele, Reuven Rivlin, di costituire il governo. Il prossimo primo ministro però non sarà Lapid, ma proprio Bennett, almeno fino all’autunno del 2023, quando dovrebbe subentrargli proprio Lapid. È una delle molte anomalie di questo nuovo governo in formazione. Un’altra, molto vistosa, è la sua estrema trasversalità. Bennett e Saar fanno parte dell’ala destra dello schieramento politico israeliano, in teoria più a destra del Likud, e così anche Lieberman, leader di Israel Beitenu (“Israele, la nostra casa); ma tutti e tre hanno deciso di fare un governo con Lapid e Gantz (centro-sinistra) e soprattutto col Partito Laburista e con Meretz (“Forza”) che sono all’estrema sinistra. La maggioranza politica evidente, che l’elettorato israeliano ha confermato in quattro elezioni negli ultimi due anni, è di centro destra (in questa legislatura i deputati di questo orientamento sono 72 su 120), ma un governo che la rispecchi non si è potuto fare, perché Bennett, Saar e Lieberman si rifiutano di partecipare a qualunque ministero che sia presieduto da Netanyahu, anche con alternanze nella posizione di primo ministro.
   Dunque quel che emerge è un “governo del cambiamento” di destra-sinistra, assai disomogeneo al suo interno, ma in cui vi è un predominio numerico e politico della sinistra. Un governo che fra l’altro non ha una maggioranza autonoma costituita dai partiti che ne fanno parte. Infatti se si sommano i 17 deputati di Yesh Atid, gli 8 del Kahol Lavan (“Blu e bianco”) di Gantz, i 7 ciascuno di Yamina, Laburisti e Israel Beitenu, i 6 ciascuno di Meretz e di Tikva Hadasha, si arriva a 58 voti, mentre la maggioranza parlamentare è di 61 voti. Bisogna aggiungere almeno i 4 voti della lista araba islamica conservatrice Ra’am per arrivare alla quota prevista, superandola appena di un seggio, il che ne rende molto fragile la maggioranza di fronte a qualunque dissenso. E anche qui c’è una contraddizione, perché il leader di Ra’am, Mansour Abbas, pur condannando le violenze, ha ripetutamente espresso negli ultimi giorni “solidarietà” alle proteste di piazza degli arabi israeliani contro le “provocazioni di Gerusalemme”, cioè la presenza della polizia sul Monte del Tempio e la causa di sfratto degli occupanti abusivi arabi di case ebraiche nel sobborgo di Sheik Jarrah, mentre Bennett ne ha chiesto la repressione.
   Dunque il governo che nasce non ha un programma o un’ideologia comune, ma solo la decisione di “superare il regime di Natanyahu”, ha forti tensioni al suo interno ed esclude una parte significativa socialmente ma anche elettoralmente della popolazione ebraica: i tre partiti religiosi, che insieme fanno 22 seggi e il Likud che ne ha 30. Già si profilano nuove proteste, anche all’interno dei partiti che lo compongono. I sondaggi dicono per esempio che il 70% degli elettori di Yamina non sono d’accordo con le scelte di Bennett, che ha più volte dichiarato di essere consapevole del dissenso e di assumersene la responsabilità.
   Chi ama Israele non può che sperare che ci sia un governo che funzioni e possa guidare il paese in un periodo pieno di insidie, fra l’ostilità di buona parte dei democratici americani, le agitazioni che continuano in seno a palestinesi e arabi israeliani, le minacce militari che provengono dall’Iran e dai suoi satelliti, la ripresa terribile dell’antisemitismo in tutto il mondo. Ma bisogna chiedersi onestamente se un gabinetto così disomogeneo, una volta consumato il parricidio di Netanyahu, potrà reggere alle sfide, che cosa accadrebbe se per esempio ripartissero le violenze nelle città miste come Lod e Acco o se nuove provocazioni da parte di Hamas e Hezbollah sfidassero la deterrenza israeliana, o se Biden riattivasse l’accordo con l’Iran, come sembra molto probabile. Insomma, a un’analisi spassionata appare ragionevole che la crisi politica di Israele non sia purtroppo conclusa con la formazione del nuovo governo, ma anzi che questo purtroppo ne sia solo un nuovo episodio.

(Shalom, 31 maggio 2021)


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La congiura degli (dis)eguali Uniti solo dall'odio verso Bibi

Estrema destra, centro, sinistra. Con l'appoggio arabo. Accozzaglia con un unico scopo: eliminare il premier.

IMPREPARATI
In caso di conflitto con Gaza come agirebbe la nuova coalizione?
SIMBOLO INTERNAZIONALE
Il primo ministro ha avuto gli Accordi di Abramo e la vittoria sul Covid

di Fiamma Nirenstein

Bennett l'ha ripetuto giustificando la sua scelta, come tutti si aspettavano, e presentandola come un sacrificio politico e personale: è per evitare le quinte elezioni in due anni che accetto di far parte del «governo del cambiamento» di cui sarò il primo ministro, dato che Netanyahu non ha i numeri. Ma non è vero: la destra avrebbe avuto i numeri, ma ha fatto i capricci, si è spaccata, si è abbandonata all' estremismo di Smotrich che ha dichiarato che con l'appoggio arabo non avrebbe mai accettato, e poi, e soprattutto, all'ambizione personale di Naftali Bennett, capo di Yemin, la Destra, e di Gideon Sa'ar; e sempre a destra, anche l'odio inveterato di Lieberman ha bloccato quella che era la scelta degli elettori. Bennett, Sa'ar, Lieberman e anche Benny Gantz: tutti avevano un conto aperto con Netanyahu.
  Così adesso Bennett il giovane, capace tecnocrate, ufficiale di valore, critico sì, ma fino a ieri da destra, farà il primo ministro a rotazione, prima di Yair Lapid. Sarà il primo anche se ha meno uomini per il maggiore sacrificio ideologico: a lui il premio più grande, e anche l'accusa di aver tradito e venduto tutto il suo patrimonio ideale. La sua base ribolle, e difficilmente accetterà che la metta in gioco col partito Meretz, ultrapacifista e amico di Abu Mazen, o con Yair Lapid, che non può soffrire i religiosi, appena un po' meno di Lieberman che li vuole tutti coscritti. Ma Bennett ha ceduto a due spinte che il suo carattere ambizioso gli ha imposto: l'occasione unica di essere il premier del piccolo Stato a cui il mondo intero guarda dicendogli ogni giorno «non posso vivere né con te né senza di te», e soprattutto far fuori lo statista che da 12 anni siede in Rehov Balfour, riconosciuto come un leader storico da chi lo ama e da chi lo odia, come Sa'ar, come Lieberman, come tanti altri che lo accusano di arroganza, noncuranza, prepotenza.
  Ma Bennett aveva promesso ai suoi elettori di non fare alleanze con Lapid, di restare fedele al guscio della destra. È un impegno che adesso sarà difficile mantenere: significa liberalismo economico accentuato, apparato della difesa forte e deciso di fronte ai pericoli, fedeltà al sionismo delle origini, compresa la questione dei territori disputati e dei cosiddetti «coloni» di cui Bennett è stato sempre un sostenitore, tanto quanto altri membri del nuovo governo li detestano. Ma la proposta della rotazione con Lapid lo affascinava da tempo, e adesso vi è tornato dopo il breve ripensamento durante le operazioni a Gaza e gli scontri con gli arabi israeliani. Quando avranno realizzato il sogno «chiunque fuorché Bìbì» cosa resterà a questo gruppo? La verità è che Netanyahu, che sembra potere uscire indenne anche dall'assalto giudiziario, sarà un macigno sulle spalle dei partitini al governo lontani fra di loro e senza un leader in comune.
  Netanyahu è il primo ministro che parla, d'accordo o no, a tutto il mondo e a tutta Israele. e che tutti considerano anche per la severità nel considerare la sicurezza di Israele e insieme per la disponibilità a condividerne i risultati col mondo minacciato dal terrorismo; è, oggi soprattutto, il leader che ha salvato con un'azione unica, il suo Paese dalla pandemia.
  Adesso come potranno Yair Lapid, C'è un futuro, Blu e bianco di Benny Gantz, Israele casa nostra di Avigdor Lieberman, Gideon Sa'ar con Nuova speranza, fin qui di destra o di centrosinistra, Meerav Michaeli, laburista, Ramar Zandberg del partito radicale estremista, e il futuro primo ministro con 5 o 6 seggi di Yemina, la Destra, parlare con una voce forte a fronte della nuova ipotesi di accordo con l'Iran cui Joe Biden tiene moltissimo e che Netanyahu aveva reso una battaglia principale dello Stato d'Israele? Il recupero dell'economia dopo il Covid, l'eventuale guerra a Gaza se Hamas dovesse attaccare di nuovo, o in Libano con gli Hezbollah, o il rapporto con Abu Mazen, la politica verso gli insediamenti, gli Accordi di Abramo ... Tutti temi su cui dei convegnisti possono discutere a lungo. Ma in Israele spesso la decisioni si prendono al volo, pena la vita.

(il Giornale, 31 maggio 2021)

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Israele, ora è ufficiale: governo Bennett-Lapid. Netanyahu: imbroglioni

Bibi vicino alla caduta dopo 12 anni al potere: «E' una truffa». Mercoledì incontro con Rivlin

TEL AVIV - Naftali Bennett alla fine ha scelto il centrista Yair Lapid: Israele è a un passo dalla svolta, ovvero da un governo senza Benjamin Netanyahu dopo 12 anni di dominio ininterrotto. «Farò un governo di unità nazionale con Lapid per far uscire Israele dalla voragine», ha annunciato in serata il leader della destra nazionalista di Yamina. «Chi dice che c'è un governo tutto di destra a portata di mano si sbaglia. Non c'è, chi lo dice mente», ha aggiunto attaccando Netanyahu. Un'accusa alla quale il premier uscente ha subito replicato, ribaltandola su di lui: «Bennett vi imbroglia - ha detto rivolto agli israeliani - questa è la truffa del secolo. Aveva detto in campagna elettorale che non avrebbe appoggiato Lapid, di essere un uomo di destra, attaccato ai suoi valori, ma i suoi valori hanno il peso di una piuma. E ora il governo della sinistra rappresenta un pericolo per il nostro Paese».
  Se tutto andrà come sembra però, l'era Netanyahu in Israele volge al termine. E non è un caso che alla fine a spodestarlo siano stati proprio coloro che Netanyahu, spesso in malo modo, ha via via allontanato dal suo cerchio magico. Dall'ex delfino del Likud Gideon Saar, detestato da Sarah Netanyahu, al premier alternato bistrattato e avversario in quattro elezioni Benny Gantz; da Avigdor Lieberman, ministro della Difesa dimessosi per protesta nel 2018, allo stesso Naftali Bennett, un tempo fedele alleato e ora destinato a diventare premier al posto suo, seppure in rotazione con Lapid.
  Insomma Netanyahu ha finito per unire contro di lui quanti in realtà hanno pochissimo in comune. Destra (Bennett, Saar, Lieberman), centro (Lapid, Gantz) e sinistra (Laburisti, Meretz) formeranno così una maggioranza che con tutta probabilità avrà l'appoggio - attivo o esterno - dei partiti arabi. Lapid entro mercoledì dovrà comunicare al presidente Rivlin di poter sciogliere positivamente la riserva sull'incarico. Poi ci sarà un settimana di tempo per convocare la Knesset, che dovrà votare il nuovo governo. Se il duo Lapìd-Bennett avrà dalla sua i 61 seggi necessari in aula - o un'altra formula parlamentare in grado di assicurargli la maggioranza - allora Israele eviterà le quinte elezioni in due anni che sembravano dietro l'angolo e che Netanyahu è sembrato perseguire nel calcolo di poterle vincere.

(Il Messaggero, 31 maggio 2021)


Israele senza sbocco, per ora

Nessuna delle due parti ha avuto interesse ad arrivare a una sistemazione definitiva

di Dario Rivolta

Il riaprirsi del conflitto tra Israeliani e palestinesi non è la conseguenza dello sfratto di una famiglia palestinese da una casa in Gerusalemme est. Quello è stato solo l'ultimo pretesto. Lasciamo a parte il fatto che quella casa era da anni occupata abusivamente, senza titolo alcuno di proprietà o pagamento di affitto, e che la Corte Suprema doveva ancora emettere una sentenza definitiva sulla questione, il vero motivo della recrudescenza del conflitto va ricercato in una questione tutta interna ai gruppi palestinesi. In particolare, tutto nasce con la decisione di Abu Mazen di rinviare a data da destinarsi le elezioni legislative che avrebbero dovuto tenersi il 22 maggio prossimo. Ufficialmente la ragione del rinvio, così come dichiarato da Ramallah, era stata l'impossibilità, causa l'opposizione di Israele, di far votare anche i palestinesi che ancora abitano Gerusalemme Est ma Tel Aviv ha smentito di averlo mai proibito. Ora la questione è diventata del tutto insignificante. È dal 2014 che i palestinesi non votano i loro rappresentanti presso la loro Autorità Nazionale (ANP) e ogni volta che lo si doveva fare sono stati trovati nuovi pretesti. Anche questa volta, come in precedenza la vera ragione è la divisione interna al gruppo di Al Fatah e la conseguente probabilità che Hamas p ossa ottenere una vittoria elettorale schiacciante. Senza contare che per luglio sarebbero previste le elezioni presidenziali e le previsioni danno una sconfitta pressoché sicura per Abu Mazen. Anche Giordania ed Egitto non gradirebbero una vittoria di Hamas e sembra che rappresentanti dei loro Servizi abbiano contribuito alla decisione del rinvio. Persino a Tel Aviv l'idea che Hamas conquistasse la leadership in Cisgiordania (ora controllata da Al Fatah con cui è più facile-almeno teoricamente- dialogare) oltre che nella Striscia di Gaza non era certo benvenuta ma i Servizi israeliani avevano già lanciato un allarme: se non si terranno queste elezioni, è molto probabile che Hamas reagisca con il lancio di nuovi missili da Gaza verso il territorio israeliano. Cosa che è puntualmente avvenuta.
   La vera ragione che impedisce ogni realistica soluzione del perenne conflitto tra israeliani e palestinesi è che nessuna delle due parti ha interesse ad arrivare a una sistemazione definitiva che riesca ad accontentare entrambi. L'odio che tutti invitano a seppellire è ormai troppo radicato e gli obiettivi delle due parti sono totalmente inconciliabili. Gli integralisti religiosi ebraici non hanno mai avuto, né hanno, alcuna volontà di accettare una pacifica convivenza con i palestinesi, abitino essi all'interno dell'attuale Stato di Israele o nei Territori. Costoro, interpretando alla lettera la Sacra Scrittura, sono profondamente convinti che tutta la regione che fece parte del Protettorato inglese spetti loro per diritto divino e che i palestinesi che la abitano siano degli abusivi.
   Ancora peggiore si prospetta la situazione se guardiamo nell'altro campo, quello palestinese. I politici stranieri che invitano alla pace ed al rispetto reciproco probabilmente non sono mai stati sul posto o, se lo hanno fatto, si sono limitati agli incontri e alle chiacchiere ufficiali. Non va dimenticato che Arafat era uso dare due diverse narrazioni se parlava per gli occidentali o se si rivolgeva al mondo arabo. Alcuni anni orsono ho potuto visitare Israele, i Territori e anche Gaza e la cosa che più mi colpì fu quando, proprio a Gaza, potei visitare una scuola finanziata e gestita da un'organizzazione dell'ONU il cui direttore, se non ricordo male, era un norvegese. Le pareti di tutte le aule portavano dei manifesti, alcuni a stampa altri scritti manualmente dagli studenti, che più o meno recitavano così: "Odio gli ebrei perché hanno rubato la mia terra". Come si può pensare di pretendere che cessi l'odio se perfino in una scuola gestita e finanziata dall'ONU si insegna proprio a odiare gli israeliani fin dalla giovine età? È malafede o solo ipocrisia?
   D'altra parte, Hamas, che si dichiara "branca" dei Fratelli Musulmani, ha sempre negato ogni soluzione pacifica e nel suo proprio Statuto, all'art. 13 scrive esplicitamente: "Le iniziative di pace, le cosiddette soluzioni pacifiche, le conferenze internazionali per risolvere il problema palestinese contraddicono tutte le credenze del Movimento di Resistenza Islamico. In verità, cedere qualunque parte della Palestina equivale a cedere una parte della religione..." e l'obiettivo dichiarato è la sparizione di Israele come Stato.
   Durante la mia visita assistetti anche a cosa significa il lancio di missili che piombano a sorpresa su case ed edifici pubblici senza alcun preavviso.
   L'equivoco di fondo sta nella soluzione ufficiale proposta dalla Comunità internazionale: Due popoli — Due Stati. Purtroppo, anche se questa ipotesi sembrerebbe accontentare tutti, nessuno la vuole davvero ed è diventata totalmente impraticabile. Già sette anni fa John Kerry, allora Segretario di Stato americano, aveva avvertito che se fossero passati altri due anni senza realizzarla, quella possibilità sarebbe diventata impraticabile. Nel 2016 la Risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza dell'ONU chiedeva di "salvare la soluzione dei due Stati" e imponeva la fine immediata di nuovi insediamenti israeliani nei Territori. Ciò nonostante, i coloni ebrei che vivono oggi fuori dai confini ufficiali dello Stato sono tra 500.000 e 700.000 ed è impossibile immaginare un futuro Stato palestinese che accetti di avere quegli insediamenti al proprio interno. Al contrario, se essi fossero considerati parte integrante di Israele, la nuova Palestina diventerebbe un mosaico ingestibile e senza collegamenti diretti tra una parte e l'altra. Occorre avere il coraggio di ammetterlo: pensare a due Stati autonomi in quell'aerea è un'idea ormai tramontata. Non lo vuole la maggior parte dei politici israeliani e non lo vogliono né Hamas né la sempre più debole ANP. Che fare dunque? Anche le uniche soluzioni ipotizzabili oggi sono ugualmente, se pur per motivi diversi, irrealizzabili.
   Una consisterebbe nel congiungere i territori attualmente abitati dalla stragrande maggioranza dei palestinesi con la Giordania e favorirvi il trasferimento di tutti i palestinesi che lo desiderano. Questa ipotesi è oggettivamente irrealistica e il primo a rifiutarla sarebbe il Regno hascemita di Amman. Già oggi il Regno fatica a tenere insieme il gran numero di palestinesi già presenti in Giordania (il 45% della popolazione) con l'etnia araba locale e nemmeno il matrimonio del re con una giovane e bella palestinese, Ranja, è stato sufficiente per superare tutte le contrapposizioni. Il conglobare all'interno della Giordania un grande numero di nuovi palestinesi, metterebbe sicuramente a rischio la tenuta della monarchia con le conseguenti nuove forme di instabilità regionale. La seconda soluzione sarebbe quella di un unico Stato israeliano che includesse tutti i Territori e la popolazione ivi residente come cittadini con uguali diritti, indipendentemente dalla loro etnia o religione. A questa ipotesi si contrappongono due ostacoli insormontabili. Il primo è la pretesa palestinese del cosiddetto "diritto al ritorno", in base al quale tutti i profughi palestinesi e i loro discendenti attualmente presenti in Libano, in Giordania e in Egitto, potrebbero tornare a vivere nella zona d'origine loro o dei loro avi. Ciò causerebbe un totale cambiamento nel rapporto numerico tra le due etnie facendo diventare maggioranza quella araba sopra quella ebraica. Qualcuno immagina che sia una proposta accettabile da parte di un qualunque ebreo israeliano che emigrò in Israele proprio cercando una propria "Patria"?
   Il secondo grande ostacolo è nel provvedimento (incluso nella cosiddetta "Legge Fondamentale", essendo Israele priva di Costituzione) fatto approvare nel 2018 da Netanyahu che statuisce essere Israele uno stato "ebraico", non tanto della nazione israeliana bensì del "popolo ebraico". Nella legge non si cita il fatto religioso come discriminante ma resta evidente che un cittadino che non sia etnicamente ebreo, pur restando cittadino, non è niente più che un "ospite". Rispettato magari e soggetto di diritti, ma pur sempre "ospite". Sarebbero molti i palestinesi disponibili ad accettare quella che qualcuno definisce già una "discriminazione" o perfino novello "apartheid"?
   Come si può vedere, almeno sul breve e medio termine, la situazione appare senza via di sbocco: né due Stati né un solo Stato che comprenda tutti sembrano praticabili.
   Tutti i politici avveduti lo sanno bene ma ammetterlo significherebbe anche accettare l'idea che lo scontro, seppur a fasi intermittenti, continuerà senza fine. Lo hanno ben capito gli Stati arabi del Golfo che hanno riaperto le relazioni ufficiali con Tel Aviv ed era chiaro anche a Trump quando decise che l'Ambasciata americana dovesse trasferirsi a Gerusalemme.
   Ovviamente, tutti auspichiamo che il conflitto attualmente in atto si fermi, che Hamas non lanci più altri missili e che Israele non reagisca, che non ci siano più morti e distruzioni ma, se non vogliamo continuare a raccontarci delle favole, dobbiamo sopportare l'idea che lo status quo (si spera più pacifico) continuerà ancora a lungo.

(Avanti!, 31 maggio 2021)


«... se non vogliamo continuare a raccontarci delle favole, dobbiamo sopportare l'idea che lo status quo (si spera più pacifico) continuerà ancora a lungo.» E questo Netanyahu l'aveva capito. Alla soluzione dei due stati probabilmente non aveva mai creduto, ma da un certo momento in poi aveva anche smesso di sperare che si arrivasse, durante la sua vita, ad un unico stato ebraico dal Giordano al mare. Si è barcamenato cercando di mantenere un equilibrio tra le parti il più pacifico possibile in uno stato il più ebraico possibile. Forse il suo torto è stato di pensare che una cosa simile poteva farla soltanto lui e di non preparare un ricambio nella guida del paese che si mantenesse su questa linea. L'ambizione politica per lui si è espressa e si esprime ancora nel cercare di voler mantenere a tutti i costi nelle proprie mani il potere gestito per tanti anni, mentre per gli emergenti l'ambizione politica si esprime nel tentare di mettere le mani su un potere politico che hanno sempre desiderato di avere, ma ancora non hanno. Con la differenza che il primo ha mostrato di "saperci fare", mentre i secondi devono ancora dimostrarlo. Israele è davvero in grandi difficoltà. M.C.


Adolfo Ottolenghi, il rabbino vittima dell'Olocausto ad Auschwitz

di Alberto Toso Fei

Fu un uomo di dialogo e di cultura, ancorato profondamente alle sue radici antiche e capace di lottare con veemenza per i suoi ideali; fu rabbino capo della comunità ebraica veneziana nel periodo più buio della storia, durante l'olocausto; fu deportato assieme ai suoi concittadini ad Auschwitz, da dove non fece più ritorno. Adolfo Ottolenghi, arrivato in laguna dalla natìa Livorno, fu rabbino dal 1911 al 1919, per diventare Rabbino Capo di Venezia dal 18 maggio 1919, quando fu eletto dopo la scomparsa del suo predecessore, Moisè Coen-Porto, fino alla morte avvenuta nel 1944.
  Figlio di Abramo Avraham e di Amalia Ventura, era nato dunque nel capoluogo labronico il 30 luglio 1885 e dopo gli studi al collegio rabbinico di Livorno aveva conseguito il titolo di procuratore legale alla facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Pisa, intenzionato e intraprendere la carriera legale. Nel contempo aveva ricevuto il diploma di “Rav Maskil” nel 1907 e quello di “Hakham” quattro anni più tardi, situandosi nel solco della tradizione ebraica e preparandosi ad assumere compiti da “sapiente” all'interno delle Comunità che lo avrebbero accolto. Fu alla fine di quello stesso anno, il 1911, che a 26 anni ricevette l'incarico di segretario della “Fraterna Generale di Culto e Beneficienza” da parte del Comune di Venezia, assumendo nel contempo il ruolo di rabbino.
  Con lui arrivò a Venezia la moglie Regina Tedeschi, sposata a Livorno. Furono anni intensi, trascorsi fra l'altro a occuparsi dei profughi della prima guerra mondiale, dalla quale era stato dispensato per una gravissima miopia che stava rapidamente degenerando verso la cecità. Il suo impegno tra le due guerre fu esclusivamente religioso e culturale: da un lato produsse una serie di opere destinate a recuperare il rapporto storico tra Venezia e la comunità ebraica, con studi sui luoghi e sui personaggi, come quello scritto nel 1932 per i quattrocento anni della Scuola Canton o quello del 1928 sull'antico cimitero ebraico di San Nicolò del Lido, realizzato con Riccardo Pacifici dopo aver decifrato le iscrizioni tombali, passando poi per la figura di Leon da Modena, di Abraham Lattes e suoi rapporti con la Repubblica di Daniele Manin e sul Governo democratico di Venezia e l'abolizione del Ghetto.
  Nel contempo, nel 1932, riuscì dopo lunghi anni di insistenze a ottenere la nascita della Scuola ebraica elementare e, l’anno successivo, il riconoscimento della Scuola media. Sempre nel 1933, per i suoi servizi alla città di Venezia e alla sua cultura, fu eletto socio dell’Ateneo Veneto. Ma i tempi erano quelli che erano: pochi anni più tardi le scuole servirono ad accogliere quegli studenti di religione ebraica che – a causa delle leggi razziali – non poterono più accedere alle scuole dello Stato.
   Diversi ebrei della Comunità veneziana fuggirono dalla città prima dell'occupazione nazifascista; altri, inclusa Regina Tedeschi Ottolenghi e il figlio più giovane del rabbino, Eugenio, riuscirono a procurarsi documenti falsi grazie a un notaio, Elio Gallina, che aiutò centinaia di persone accogliendo in casa anche l'altro figlio di Ottolenghi, Carlo, con la moglie Annamaria Levi Morenos e i figli Alberto ed Elisabetta, i due nipoti di Adolfo, riuscendo poi a portarli in Svizzera con il nome “Vianello”.
  Adolfo Ottolenghi – malgrado la cecità – rimase al suo posto, subentrando anche nell'incarico di presidente della Comunità quando Giuseppe Jona, dopo aver distrutto le liste richieste dalle SS, si suicidò nel settembre del 1943 per evitare di poter tradire i suoi concittadini sotto tortura. Ciò non gli evitò la deportazione a Como con parte degli ebrei veneziani, e un mese in prigione. Solo agli ultra settantenni fu permesso di tornare a Venezia all'inizio del 1944, dove furono rinchiusi nella Casa di Ricovero Israelitica. Gli altri furono deportati nel campo di Fossoli. Ma era solo questione di tempo: il 17 agosto 1944, Ottolenghi fu prelevato insieme agli anziani ospiti della Casa per essere deportato, ultimo atto di una barbarie ignobile. Il 2 settembre il convoglio diretto nel campo di concentramento di Auschwitz partì da Trieste. La data esatta della morte non è conosciuta.

(Il Gazzettino, 31 maggio 2021)


Israele verso un governo senza Netanyahu

Accordo fra Lapid e Bennet per la formazione dell'esecutivo: si alternerebbero alla guida del Paese. Decisivo il ruolo del partiti arabi

Il cosiddetto "blocco del cambiamento" va dai laburisti alla destra religiosa Bibi è in carica dal 31 marzo del 2009, ma aveva governato anche fra il 1996 e il 1999

di Fabiana Magrì

TEL AVIV - La svolta è nell'aria, manca solo l'annuncio e poi per la prima volta dopo oltre un decennio, il governo israeliano non sarà guidato da Benjamin Netanyahu. E il suo Likud non sarà nemmeno nella compagine di maggioranza. Ieri le voci di un'intesa fra le forze anti-Bibi si sono rincorse per tutte la giornata. E in serata pareva mancasse solo l'annuncio ufficiale da parte di Yair Lapid e di Naftali Bennett. ll primo, il leader centrista del partito Yesh Hatid (C'è Futuro), è incaricato di formare un governo dal presidente Reuven Rivlin, entro mercoledì 2 giugno. Prima di lui, non c'era riuscito il premier uscente Netanyahu.
   Il secondo, alla guida della destra religiosa nazionalista Yamina, è stato l'ago della bilancia fin dai risultati delle ultime elezioni. Capace di restare in equilibrio per non precludersi nessuna decisione, Bennett è andato ripetendo: «Sono disposto a fare tutto il necessario per evitare alla popolazione nuove elezioni». Sarebbero le quinte in poco più di due anni. Il momento è arrivato e la scelta sembra l'unica possibile. Unirsi all'ampia e variegata coalizione - il cosiddetto ''blocco del cambiamento" - messa su, pezzo dopo pezzo, da Lapid.
   E proprio Bennett, stando alle ricostruzioni dei media e alle informazioni lasciate trapelare da fonti anonime all'interno dell'alleanza, dovrebbe essere il prossimo premier israeliano, secondo lo schema - già proposto ma mai portato a termine da Netanyahu e Gantz - di un'alternanza con Lapid, dopo due anni.
   Il resto del mosaico comprende le sinistre dei laburisti di Havoda e di Meretz, il centro di Kakol Lavan (Blu Bianco) di Benny Gantz, la destra di Tikva Hadasha - Nuova Speranza, cioè l'alter ego del Likud di Gideon Sa'ar senza Netanyahu - e la destra laica e nazionalista Yisrael Beytenu (Israele Casa Nostra) di Avigdor Liberman.
   Con alcuni partiti, l'accordo è già nella fase due, ovvero si sta ragionando sui posti nell' esecutivo. La Sanità potrebbe andare a Nitzan Horowitz (Meretz), le Finanze a Liberman, la Giustizia a Sa'ar. Bennett e Lapid si alternerebbero alla premiership e agli Esteri.
   In complesso la coalizione arriverebbe a 58 seggi, in realtà tre sotto la maggioranza. Decisivo l'appoggio, più o meno passivo, dei partiti arabi. I 4 seggi di Ra'am e i sei della Lista Araba unita porterebbero il totale a 68 seggi, ben più dei 61 su 120 necessari alla Knesset.
   Proprio il ruolo dei partiti arabi era stato il muro contro cui erano andati a sbattere i negoziati durante il conflitto con Gaza e, soprattutto, quando si sono accese le violenze interne nelle città israeliane arabo-ebraiche. Nei primi giorni specialmente, quelli di massima tensione a Lod, Ramle, Akko e poi a Giaffa e a Bat Yam e nei villaggi lungo la linea del Wadi 'Ara, sembrava proprio che ogni larga intesa, con l'inclusione dei parlamentari arabi, dovesse naufragare.
   Mentre Netanyahu tornava a indossare i panni di "Mister Sicurezza", il pensiero era subito andato al suo cilindro da Mago - "HaKosem" è un altro dei soprannomi di Benjamin "Bibi" Netanyahu - capace di trasformare le crisi in opportunità. Invece l'operazione "Guardiano delle Mura" sembra essersi rivelata un boomerang per la sua popolarità interna. L'incantesimo di stregare gli avversari, questa volta, forse non riuscirà. E neanche quello di trattenere gli alleati più prossimi al suo Likud. Sembra avviata alla conclusione, dopo oltre un decennio, la premiership più lunga dei 70 anni dello stato di Israele.

(La Stampa, 30 maggio 2021)


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Israele verso la Grande coalizione anti-Netanyahu

Secondo indiscrezioni, il "governo del cambiamento" dovrebbe riunire 8 delle 13 liste presenti in Parlamento, incluse la sinistra e la formazione islamica di Mansour Abbas. Come premier, prevista una staffetta tra il nazionalista Naftali Bennett e, dal 2023, il centrista Yair Lapid. Si riaprirebbe così la prospettiva che sembrava sfumata con la guerra a Gaza e si scongiurerebbe il ritorno alle urne.

di Sharon Nizza

TEL AVIV - A tre giorni dalla scadenza del mandato, l'attuale capo dell'opposizione Yair Lapid sembra più vicino che mai alla formazione di una coalizione alternativa a Netanyahu che porrebbe fine allo stallo politico in cui naviga Israele dal novembre 2018, nonché a 12 anni ininterrotti di governo dell'attuale premier, il più longevo della storia del Paese. Tutto dipende dalle imminenti decisioni dei due uomini chiave – ai due poli opposti dello spettro politico – affermatisi dopo le elezioni del 2 marzo scorso, le quarte in meno di due anni: Naftali Bennett, leader della destra nazionalista di Yamina, e Mansour Abbas, a capo del partito islamista Ra'am.
    Secondo indiscrezioni riportate da Amit Segal, il sempre ben informato commentatore politico di Channel 12, Bennett a stretto giro annuncerà l'adesione al "governo del cambiamento" – una compagine eterogenea che riunisce ben 8 delle 13 liste che hanno superato la soglia di sbarramento per ottenere una maggioranza di 61 seggi su 120. Secondo l’accordo di coalizione, Bennett – con soli 6 seggi – diventerebbe premier di un governo paritetico di rotazione che vedrebbe Lapid (17 seggi) alla presidenza del consiglio solo nel 2023, mentre nella prima fase ricoprirebbe il ruolo di ministro degli Esteri (e premier “alternato”).

 La trattativa con il partito arabo
  In sostanza Bennett rientra nelle trattative di governo abbandonate il 13 maggio all’apice dell’ultimo conflitto tra Israele e Hamas, che si è placato il 21 maggio con un fragile cessate il fuoco le cui condizioni sono tuttora in discussione. Anche Mansour Abbas aveva congelato i negoziati relativi ai suoi 4 seggi alla luce dei gravi scontri che hanno sconvolto le città a popolazione mista musulmana ed ebraica nelle ultime settimane.
    Per entrambi i kingmaker – gli unici partiti che non avevano mai escluso a priori l’adesione a qualsiasi governo – le rivalità ideologiche passano in secondo piano nel momento in cui si riaffaccia la prospettiva di quinte elezioni che potrebbero penalizzarli per scelte impopolari tra le proprie sacche di consenso. Secondo fonti vicine a Ra’am, la trattativa di Abbas con Lapid prevede un accordo non su ruoli di governo, ma sulla presidenza della potente commissione per gli Affari Interni della Knesset, nonché su una commissione ad hoc per affrontare le questioni più stringenti per i cittadini arabo-israeliani (in primis, contrasto alla criminalità e moratoria sulle costruzioni abusive).

 L'ultimo coniglio
  Bennett potrebbe sciogliere la riserva oggi stesso, al termine della riunione del gruppo parlamentare di Yamina, che conta solamente 6 legislatori, dopo la defezione del parlamentare Amichai Chikli che si oppone a una coalizione con esponenti della sinistra. La riunione, prevista per questa mattina, all’ultimo è stata rimandata al pomeriggio, per valutare l’ultimo coniglio che Netanyahu ha estratto nel corso della notte dal suo cilindro dalle mille risorse: un governo a rotazione addirittura a tre, con Gideon Saar (ex Likud), Netanyahu e infine Bennett.
    In generale, c’è ancora cautela nel cantare vittoria perché qualsiasi ulteriore defezione comprometterebbe la formazione del nuovo, risicato governo, che si prospetta instabile fin dalla nascita, dal momento che riunisce formazioni che vanno dalla destra di Avigdor Lieberman, di Gideon Saar e di Bennett stesso – considerati più falchi di Netanyahu – alla sinistra del Labour e del Meretz, oltre che al partito islamico, in un momento in cui la questione palestinese e il rapporto con la minoranza araba del Paese sono in cima all’ordine del giorno. Sono in molti a credere che il collante del “tutto tranne Bibi” non sarà sufficiente a garantire la tenuta di questa maggioranza, soprattutto dal momento che Netanyahu, come capo dell’opposizione, farà di tutto per metterle i bastoni tra le ruote.

 "Unità e rispetto della legge"
  Solo giovedì, in un lungo post su Facebook, Yair Lapid si era detto incerto circa la possibilità di formare un governo nei tempi prestabiliti. Ma aveva specificato che, nonostante le difficoltà e le differenze tra le varie anime, “questo è il governo di cui abbiamo bisogno, proprio in questo momento: destra, centro e sinistra, religiosi e laici, ebrei e arabi, per dire ad alta voce che crediamo nella coesistenza e nel rispetto della legge e per promuovere nuovamente il concetto di unità”.
    Le prossime ore saranno critiche per stabilire se Yair Lapid riuscirà a presentarsi con un governo dal Capo dello Stato Reuven Rivlin entro mercoledì – giorno in cui peraltro si svolgerà alla Knesset l’elezione del successore di Rivlin, che il 9 luglio terminerà il suo mandato settennale (Isaac Herzog, ex leader del Labour e attualmente a capo dell’Agenzia ebraica, è dato come favorito rispetto all’altra unica candidata, Miriam Peretz, figura pubblica benvoluta dalla nazione, ma lontana dagli “intrighi di palazzo” che determinano il voto a scrutinio segreto).

 Il futuro di Bibi
   Se Lapid riuscirà nell’impresa, è degno di nota che l’uscita di scena del re indiscusso della politica israeliana sarà stata resa tecnicamente possibile proprio grazie a due recenti “creature” frutto della lotta alla sopravvivenza di Netanyahu: il governo paritetico di rotazione – ideato l’anno scorso per consentire l’alleanza con l’arcirivale Benny Gantz – e, soprattutto, lo sdoganamento di un partito islamista come possibile alleato di governo – una manovra messa a punto dal capo del Likud, ma fallita a causa del veto dell’estrema destra di Betzalel Smotrich.
    I commentatori sono ancora cauti nel celebrare le esequie della carriera politica di “King Bibi”: in molti credono che, dai banchi dell’opposizione – e dell’aula di tribunale dove ancora per almeno un paio d’anni andrà avanti il processo che lo vede imputato per corruzione – Netanyahu non cesserà di studiare la prossima mossa.

(la Repubblica online, 30 maggio 2021)


Il declino di Fatah tra i palestinesi. “Ora vogliamo votare”

A Ramallah il potere di Abu Mazen è sempre più in discussione. E le elezioni cancellate aumentano le divisioni.

Il movimento che fu di Arafat si è diviso in tre tronconi "Il presidente ha 85 anni. E' arrivato il momento di cambiare leadership"

di Vincenzo Nigro

RAMALLAH — Il presidente peggiora. Quando pochi giorni fa ha ricevuto il segretario di Stato Antony Blinken alla Muqata, nel palazzo del governo che fu di Yasser Arafat, il leader palestinese Abu Mazen ha iniziato così: “Nel nome di Allah, il misericordioso e compassionevole, vogliamo salutare il segretario Clinton che ci fa visita in questi giorni…”. Si sente la voce di qualcuno dello staff che corregge “Blinken…”. E allora Abu Mazen “scusate, Blinken che ci fa visita in questi giorni”. E Blinken. “Molto meglio così!”. Risate. Lo scambio è finito sul sito del Dipartimento di Stato, fra i transcript ufficiali. Mentre sull’account Twitter di un oppositore politico sono finite le ingiurie, le male parole, i vaffa che in preda all’ira Abu Mazen aveva lanciato contro tutto il mondo in una seduta del Consiglio generale di Fatah. “Vaffa… alla Cina, alla Russia, agli Stati Uniti, vadano a farsi fottere...”. L’audio è del 19 aprile, e continua con altre farneticazioni varie.
   «Sorridiamo, cosa dobbiamo fare? Io ho ancora rispetto per un uomo di 85 anni, ma ormai è chiaro a tutti: questa dirigenza palestinese deve andarsene, deve cambiare, deve cambiare profondamente perché altrimenti il popolo palestinese continuerà a soffrire». Chi parla è Nasser Al Kidwa, 68 anni. Ex ambasciatore all’Onu, ex vice di Kofi Annan nella mediazione Onu per la Siria, Nasser è anche nipote di Yasser Arafat, il fondatore dell’Olp. È figlio di una sorella, il che gli assegna un’aura di rispettabilità qui a Ramallah, nella Cisgiordania in cui la Anp di Abu Mazen ancora controlla quasi tutto.
   Non sono tanto le condizioni fisiche (ma anche quelle) a preoccupare, ma la paralisi politica che da anni viene imputata ad Abu Mazen. A gennaio scorso il presidente, finalmente, dopo 15 anni aveva annunciato elezioni politiche e presidenziali. I palestinesi per la prima volta dopo 15 anni avrebbero votato, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza governata da Hamas. Lui si sarebbe ripresentato presidente alla testa di Fatah, il partito che fu di Arafat.
   Nasser Al Kidwa prese la sua decisione: annunciò che anche lui si sarebbe presentato, con un nuovo partito, “Libertà”, assieme a Marwan Barghouti, il leggendario leader dell’ala militare di Fatah da anni in carcere in Israele, condannato a 4 ergastoli. «Subito qualcuno mi ha minacciato », dice Nasser, «poi Abu Mazen mi ha espulso da Fatah, il partito che io ho ancora nel cuore. Quello che è accaduto dalla mia espulsione, fino al congelamento delle elezioni voluto da Abu Mazen conferma che non c’è alternativa: bisogna andare al voto perché sono l’unico modo per cambiare la nostra leadership ». Perché infatti il 29 aprile, con la scusa che Israele ostacolava il voto dei palestinesi a Gerusalemme Est, Abu Mazen ha sospeso le elezioni. Hamas aveva presentato la sua lista, “Gerusalemme è la nostra promessa”, un nome che è tutto un programma. E da Fatah assieme alla lista “Libertà” di Kidwa/Barghouti, era nato anche “Futuro” il partito di Mohammed Dahlan. L’uomo è l’ex capo della Sicurezza di Fatah a Gaza, messo in fuga dalla Striscia da Hamas e poi espulso dallo stesso Abu Mazen, di cui aveva messo in dubbio l’autorità. Da anni Dahlan vive ad Abu Dhabi, è consigliere dell’emiro Mohammed Bin Zayed. Con i soldi dei suoi sostenitori emiratini, Dahlan fa politica in Palestina, finanziando ad esempio la sopravvivenza di almeno 5.000 famiglie e clan di Gaza, dove era nato. Tutti voti sicuri.
   Fatah, insomma si è spaccato in 3 tronconi, prima di elezioni che nessuno sa più quando si terranno. Abeer Alwahaidi, 52 anni, è stata una combattente del movimento. Una feddayn. Nel 1992 Israele la arrestò perché aveva guidato una cellula militare del movimento, aveva compiuto alcune azioni contro Israele. Aveva 23 anni, rimase in carcere solo 5 anni perché nel 1997, dopo gli accordi di Oslo, tutte le donne palestinesi prigioniere vennero rilasciate. Anche lei ha abbandonato Fatah/ Abu Mazen, e si è schierata con “Libertà”.
   Abeer è una donna molto, molto energica e attiva, è in continuo movimento nelle città, nei villaggi della Cisgiordania: «Io credo ci siano due modi per provare ad avere rispetto per i diritti dei palestinesi: la lotta armata oppure un vero processo politico. Ho escluso la lotta armata. Ma la politica ha bisogno di elezioni, ha bisogno che il popolo scelga i suoi rappresentanti e li sostenga nella battaglia politica».
   In questi anni di pace fredda con Israele, in cui la polizia della Anp ha collaborato con Israele tanto da essere accusata di essere al servizio del “nemico”, Ramallah è riuscita a sopravvivere economicamente. La popolazione rimane in condizioni difficilissime, sotto l’occupazione israeliana e con un reddito medio in caduta libera. Ma la cittadina è ben tenuta, società e banche in prima linea riescono a mantenersi in vita. Maher Masri è il presidente della “Palestinian Islamic Bank”, la seconda banca dell’Autorità. È stato ministro dell’Economia per 9 anni, dal 1996 al 2005. «Abbiamo 12 uffici a Gaza, conosciamo benissimo la situazione della Striscia, ed è catastrofica. Parliamo con i nostri clienti, l’assedio israeliano sta soffocando l’economia, la Striscia sta diventando un’enorme area sovvenzionata da finanziatori stranieri, qualsiasi iniziativa autonoma è quasi impossibile».
   Masri è un signore che con Fatah ha vissuto il meglio della sua carriera. Anche lui, senza attaccare o nominare nessuno, dice che adesso è il momento di un cambio. «I palestinesi vogliono le elezioni perché vogliono il cambiamento. Un processo politico per il passaggio di poteri è possibile, è fattibile. Dobbiamo percorrere quella strada». I palestinesi di Ramallah ci credono, sperano che la fine del lungo inverno di Abu Mazen sia vicina, che ci sia un cambiamento. Cosa potrà portare al futuro dei loro rapporti con Israele, quella sarebbe un’altra storia.

(la Repubblica, 30 maggio 2021)


L'impossibilità di non essere ebrei

Esce in una nuova traduzione «La famiglia Karnovski», romanzo che Israel Joshua Singer scrisse poco prima della morte. Un capolavoro sull'identità dalla sapienza tecnica clamorosa.

di Alessandro Piperno

Temo di non essere abbastanza esperto di religioni monoteiste da mettermi a disquisire sui tratti salienti che distinguono l'una dall'altra. Non senza imbarazzo - guidato dal buonsenso, dall'esperienza, dall'infarinatura erudita - mi domando se, tra le suddette confessioni, non sia l'ebraismo quella più consapevolmente esposta ai rischi dell'assimilazione.
   Comprendo che, dal punto di vista del pio osservante, affrontare certe questioni da una prospettiva storica, e quindi scettica, profana, sorvolando su aspetti devozionali, liturgici, dottrinari, possa apparire un esercizio ozioso e sconsiderato. Il fedele ha diritto di diffidare il miscredente dal mettere il naso in questioni che, in virtù del suo rifiuto di Dio, non dovrebbero riguardarlo. Ma, anche in questo, mi pare che l'ebraismo autorizzi un discorso alternativo. Conosco parecchi atei di origine ebraica che faticano a sbarazzarsi dei propri atavismi. Se li interroghi sulla faccenda, ti rispondono che il giudaismo ha smesso da tempo di essere una religione come le altre. Anzi, forse non lo è mai stato. E allora cosa? Non una razza, per l'amor del cielo, e nemmeno un'etnia; più che altro un humus, un brodo, uno state of mind: tremila e passa anni di resistenza che, oltre a lusinghieri successi mondani e a indicibili tribolazioni, ha garantito ai suoi adepti di non scomparire e, nei casi più fausti, di affermarsi e prosperare.
   È così - tanto per fare un esempio che mi sta a cuore - che la pensa mio padre. E con lui parecchi suoi omologhi. Qualsiasi ebreo praticante, per non dire dell'ortodosso, potrebbe accusarlo di aver inferto un bel colpo all'ebraismo sposando una cattolica e mettendo al mondo un paio di meticci dalle idee confuse, privi sin dal principio del privilegio di un'identità sicura e di una patria morale codificata. Resta comunque il fatto che l'ebreo è, per natura e destino, lusingato dalle sirene dell'ibridismo e del mimetismo. Gli piace essere ebreo, ma spesso e volentieri preferisce far finta di essere altro. Che non sia questa contraddizione irrisolvibile (faccio mia la possibile contro-obiezione di mio padre) uno degli aspetti più affascinanti dell'ebraismo?

È a questo genere di cose che pensavo compulsando - armato di un lapis ben temperato - La famiglia Karnovski, il capolavoro che Israel Joshua Singer scrisse a ridosso dalla morte prematura. L'occasione mi è stata offerta dalla nuova edizione Bompiani che si avvale della spigliata e bellissima traduzione di Elena Loewenthal. A dire il vero lo avevo letto anni fa, ma lasciatemi dire che questa rilettura, chissà perché - forse per il fatale incalzare degli anni - mi ha deliziato e tormentato in un modo del tutto inedito. Dico subito che era da un pezzo - da quando, con analogo slancio, divorai Verso la libertà di Arthur Schnitzler - che non m'imbattevo in un'opera narrativa che desse conto, con piglio altrettanto drammatico, dello scandalo legato all'inesorabile diluizione del sangue di Abramo.
   A prima vista, infatti, La famiglia Karnovski è la storia di un'integrazione fallita. Il desiderio del patriarca David Karnovski, un colto ebreo galiziano, di abbracciare l'illuminismo giudaico trasferendo armi e bagagli a Berlino e consacrando la propria vita agli affari e alla conoscenza, trova un tragico contrappasso nelle idee e nel destino del nipote Jegor: figlio di un matrimonio misto, durante le purghe naziste, umiliato dai compagni di classe e dalle istituzioni scolastiche, sceglie di ripudiare il ramo ebraico di sé, ormai rinsecchito, abbracciando - ah, con quanto giudaico fervore! - la causa antisemita. Il punto di contatto tra questi due mondi inconciliabili-quello del nonno orgoglioso e austero e quello del nipote caratteriale e rabbioso - è Georg Karnovski, figlio di David e padre di Jegor.
   È lui il primo a sentire quanto l'ebraismo, in Germania, la sua patria, gli stia stretto. È il primo ad avvertire il rifiuto per il mondo degli avi galiziani. Se la sua non è vergogna, certo le somiglia parecchio. «Cantava sì tutte le strofe di Frau Wirtin e beveva più birra di quanta non ne reggesse, ma non era spensierato perché non riusciva a liberarsi di un'ansia inconfessabile, la paura di lasciar trapelare la propria identità che aleggiava sopra il tavolaccio e tra i muri della stanza. Vigeva una sorta di omertà sulla propria discendenza, in presenza di cameriere e servitù, quasi fosse stata una tara, un'onta da tenere nascosta».

Immagino che il romanzo possa essere stato concepito da Singer come una requisitoria, un'invettiva contro l'assimilazionismo. La morale è presto detta: ogni ebreo abbastanza incauto da fidarsi dei Gentili, da mettere la propria vita nelle loro infide mani, è destinato alla dissoluzione di sé e, nei casi peggiori, al disastro e persino al martirio.
   In realtà, non ho idea di quali fossero i propositi di Singer: se, nei primi anni Quaranta, quando l'entità dei massacri compiuti dai nazisti era inimmaginabile persino agli ebrei più pessimisti, fosse necessario fornire un resoconto dei guai provocati dalla degiudaizzazione ebraica. D'altronde, dato che un romanzo riuscito trova sempre il modo di emanciparsi dalle tesi del suo autore, non ho intenzione di stare qui a scervellarmi sulla faccenda. Tanto più che tutto si può dire di Singer tranne che sia ansioso di giudicare i suoi personaggi, e men che meno di manipolarli ad uso dei suoi principi. Tutt'altro: ne è avvinto al punto da lasciarsene dominare. Ogni eroe ha una voce così diversa dalle altre, e corrisponde a un tipo umano talmente specifico da impressionare anche il lettore sospettoso e navigato. Oltre ai Karnovski, c'è Solomon Buruk, l'ex ambulante che si è fatto da sé, con la sua parlantina, i suoi proverbi, la straordinaria capacità di vendere qualsiasi cosa a chiunque; c'è reb Efraim Walder, il libraio pio e erudito che ha la tentazione di vedere la luce del Signore nei suoi volumi rarissimi e nelle cose meravigliose che essi contengono; c'è Fritz Landau, medico infaticabile e pietoso, animato da un igienismo tanto irriducibile quanto irragionevole; c'è la di lui figlia, la bellissima Elsa Landau, talmente sensibile alla causa socialista da consacrarvisi anima e corpo. Eppoi c'è l'ebreo germanizzato, che per questo solo fatto si sente al sicuro dai nazisti, così come è certo di farcela Rudolf Moser, l'editore ripulito dalla conversione al cristianesimo, dai soldi e da frequentazioni illustri e altolocate.
   Sono tutti così ingenui e creduloni! Singer li muove con mano svelta, suadente, amorosa. Per farlo si avvale di una sapienza tecnica impressionante capace di mescolare con spregiudicatezza il romanzo sociale di stampo balzachiano, la saga familiare alla Thomas Mann, l'opera modernista infarcita di idee generali e dialoghi eruditi, i feuilleton zeppi di coincidenze irrealistiche e di colpi di scena, il melodramma più melenso e patetico, e finanche il giallo così come lo avrebbe inteso Dostoevskij.
   Solo approssimandomi alla fine del romanzo - quando i Kamovski trovano asilo nell'ebraico Upper West Side newyorchese e il dramma familiare si avvia all'epilogo tragico -, solo allora ho capito che l'assimilazione, così come la mette in scena Singer, così come la immagina, non va intesa come un germe che minaccia la salute dell'ebraismo, ma come una delle tante vitamine che da millenni la corroborano. È allora che mi è tornato alla memoria ciò che George Steiner ha scritto sull'identità ebraica, un passo che sottolineai anni fa e che da allora mi capita spesso di rileggere: «Il rapporto di un ebreo, uomo o donna che sia, con la propria identità può essere talmente opaco, così logorante e gravido di ambiguità storiche, sociali e psicologiche, che è proprio tutto questo a definire la condizione dell'ebraicità, se è ammissibile includere l'indecidibilità nella definizione».
   Fermo restando che non è mai saggio trarre la morale da un romanzo, né fondarci sopra una qualche filosofia da strapazzo, sto qui a chiedermi se Singer, a pochi passi dalla tomba, mentre buona parte della famiglia in Europa rischia la pelle, non voglia celebrare l'ebraismo nella sua forma più dannatamente vile e autolesionista. Forse essere ebrei significa anche questo: provare a non esserlo e scoprire quanto ciò sia impossibile.

(Corriere della Sera, 30 maggio 2021)


Volantini antisemiti, chiediamo l’intervento del sindaco

Lettera aperta al sindaco di Livorno

Egr. Sig. sindaco Salvetti, le nostre Associazioni vorrebbero salvaguardare e testimoniare la tradizione di tolleranza e di accoglienza che una città come la nostra Livorno ha nei secoli rappresentato.
Purtroppo abbiamo assistito al verificarsi di un crescendo di episodi manifestamente antisemiti negli ultimi mesi, dall’aggressione al Rabbino, ai più recenti volantini antisemiti rinvenuti in Via degli Ebrei Vittime del Nazismo, passando all’esposizione della bandiera palestinese su di un residuo del ventennio, quale il rudere del Mausoleo a Ciano.
Tutti atti conseguenti ad una distorta e superficiale interpretazione del conflitto israelo-palestinese e dell’aggressione terroristica ad uno Stato sovrano come Israele (che vota spesso), alla quale ha conseguito l’inevitabile e legittima risposta difensiva di quest’ultimo.
L’autore di questa aggressione ha un nome preciso, e non è il popolo palestinese (che non vota da 17 anni), ma un’associazione terroristica riconosciuta a livello internazionale, quale Hamas e la sua strategia di sopravvivenza che impedisce il raggiungimento della pace in Medioriente.
Ricordiamo a questo proposito il gemellaggio di Livorno con la città israeliana di Bat Yam, raggiunta nei giorni scorsi dai missili di Hamas, e la lungimiranza del Consiglio Comunale che ha adottato la nuova definizione di antisemitismo IHRA (International Holocaust Rememberence Alliance) che stabilisce il diritto di Israele ad esistere e che l’antisionismo equivale all’antisemitismo.
Le chiediamo, in nome della continuità di queste scelte e della tradizione di tolleranza della nostra città, di intervenire tempestivamente, assumendo ogni iniziativa necessaria a stigmatizzare e prevenire i prodromi di questo pericoloso rigurgito antisemita che sta interessando anche la nostra città.
Le nostre Associazioni, quali parte attiva e culturale della città, rimangono a Sua disposizione per un eventuale incontro di riflessione e proposte.»
Confidando in una sua riposta, porgiamo i nostri cordiali saluti.

Celeste Vichi (Presidente Associazione Italia-Israele di Livorno)
Maurizio Vernassa (Presidente Circolo di Cultura Politica G.E. Modigliani)
Riccardo Voliani (Presidente Circolo Einaudi Livorno)
Ennio Weatherford (Presidente Congregazione Olandese Alemanna di Livorno)
Enea Santaniello Corrado (Direttore Centro Studi Internazionale Le Livornine)
Associazione Amicizia Ebraico Cristiana

(Qui Livorno, 29 maggio 2021)



Chi è il servo del Signore?
  1. “Un angelo del Signore parlò a Filippo così: «Alzati, e va’ verso mezzogiorno, sulla via che da Gerusalemme scende a Gaza. Essa è una strada deserta».
  2. Egli si alzò e partì. Ed ecco un etiope, eunuco e ministro di Candace, regina di Etiopia, sovrintendente a tutti i tesori di lei, era venuto a Gerusalemme per adorare,
  3. e ora stava tornandosene, seduto sul suo carro, leggendo il profeta Isaia.
  4. Lo Spirito disse a Filippo: «Avvicinati, e raggiungi quel carro».
  5. Filippo accorse, udì che quell’uomo leggeva il profeta Isaia, e gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?»
  6. Quegli rispose: «E come potrei, se nessuno mi guida?» E invitò Filippo a salire e a sedersi accanto a lui.
  7. Or il passo della Scrittura che egli leggeva era questo: «Egli è stato condotto al macello come una pecora; e come un agnello che è muto davanti a colui che lo tosa, così egli non ha aperto la bocca.
  8. Nella sua umiliazione egli fu sottratto al giudizio. Chi potrà descrivere la sua generazione? Poiché la sua vita è stata tolta dalla terra».
  9. L’eunuco, rivolto a Filippo, gli disse: «Di chi, ti prego, dice questo il profeta? Di sé stesso, oppure di un altro?»
  10. Allora Filippo prese a parlare e, cominciando da questo passo della Scrittura, gli comunicò il lieto messaggio di Gesù.” (Atti, cap.8).
Il ministro della regina di Etiopia di cui si parla in questo passo del libro degli Atti stava cercando la risposta a un quesito che resterà di vitale importanza nei secoli futuri: chi è il “servo del Signore” di cui si parla nel capitolo 53 del profeta Isaia? Il diacono Filippo diede una spiegazione che a molti ebrei oggi appare, oltre che sbagliata, piena di terribili conseguenze per il loro popolo. Isaia, spiegò Filippo, in questo passo parla del Messia, e questo Messia è Gesù, la cui morte nella Scrittura non è presentata come una catastrofe ma come un lieto messaggio, perché proprio attraverso la sua morte, e con la sua successiva risurrezione, gli uomini possono ottenere il perdono dei peccati.
  I rabbini oggi rifiutano questa interpretazione “cristiana” di Isaia 53 e ribattono che lì non si parla di una persona, ma del popolo ebraico. La cosa interessante però è che l’attuale interpretazione rabbinica non è affatto quella tradizionale ebraica, anzi è piuttosto recente. In un certo senso, il passo degli Atti sopra riportato lo conferma, perché il ministro di Candace chiede se Isaia parli di sé o di un’altra persona, e non se intenda il popolo. Anche dopo la venuta di Gesù, per molti secoli ancora, all’incirca fino all’anno 1000 d.C., l’interpretazione tradizionale rabbinica sosteneva che il servo di cui si parla in Isaia 53 è il Messia, anche se naturalmente non era identificato con la persona di Gesù.
  Non si può negare, tuttavia, che attribuire al popolo ebraico la figura del servo del Signore, nell’ambito del libro di Isaia nel suo complesso, non è una cosa priva di fondamento, perché è innegabile che in diversi passaggi il servo di cui parla il profeta è effettivamente il popolo. Si prenda, per esempio, il primo passo, nella seconda parte del libro d’Isaia, in cui Dio usa l’espressione “mio servo”:
    “Ma tu, Israele, mio servo, Giacobbe che io ho scelto, discendenza di Abraamo, l’amico mio, tu che ho preso dalle estremità della terra, che ho chiamato dalle parti più remote di essa, a cui ho detto: «Tu sei il mio servo, ti ho scelto e non ti ho rigettato»” (Isaia 41:8-9).
E’ chiaro che qui si parla del popolo d’Israele nella sua realtà storica e profetica, il quale viene presentato in opposizione vittoriosa ai popoli pagani:
    “Ecco, tutti quelli che si sono infiammati contro di te saranno svergognati e confusi; i tuoi avversari saranno ridotti a nulla e periranno; tu li cercherai e non li troverai più. Quelli che litigavano con te, quelli che ti facevano guerra, saranno come nulla, come cosa che più non è; perché io, il Signore, il tuo Dio, fortifico la tua mano destra e ti dico: Non temere, io ti aiuto! Non temere, Giacobbe, vermiciattolo, e Israele, povera larva. Io ti aiuto», dice il Signore. «Il tuo salvatore è il Santo d’Israele. Ecco, io faccio di te un erpice nuovo dai denti aguzzi; tu trebbierai i monti e li ridurrai in polvere, e renderai le colline simili alla pula. Tu li ventilerai e il vento li porterà via; il turbine li disperderà; ma tu esulterai nel Signore e ti glorierai del Santo d’Israele.” (Isaia 41:11-16).
Subito dopo, nel capitolo successivo, si parla ancora del servo del Signore, ma con altri accenti:
    “Ecco il mio servo, io lo sosterrò; il mio eletto di cui mi compiaccio; io ho messo il mio spirito su di lui, egli manifesterà la giustizia alle nazioni. Egli non griderà, non alzerà la voce, non la farà udire per le strade. Non frantumerà la canna rotta e non spegnerà il lucignolo fumante; manifesterà la giustizia secondo verità. Egli non verrà meno e non si abbatterà finché abbia stabilito la giustizia sulla terra; e le isole aspetteranno fiduciose la sua legge” (Isaia 42:1-4).
E’ difficile armonizzare questa tranquilla figura di servo, a cui le “isole”, cioè i popoli pagani, guardano con fiducia, con il servo guerriero “dai denti aguzzi” che si scaglia vittoriosamente contro i suoi avversari. Pur tuttavia si potrebbe pensare che si tratti ancora del popolo in un momento diverso della sua storia. Ma la prosecuzione del passo non rende possibile questa spiegazione:
    “Così parla Dio, il Signore, che ha creato i cieli e li ha spiegati, che ha disteso la terra con tutto quello che essa produce, che dà il respiro al popolo che c’è sopra e lo spirito a quelli che vi camminano. «Io, il Signore, ti ho chiamato secondo giustizia e ti prenderò per la mano; ti custodirò e farò di te l’alleanza del popolo, la luce delle nazioni, per aprire gli occhi dei ciechi, per far uscire dal carcere i prigionieri e dalle prigioni quelli che abitano nelle tenebre»” (Isaia 42:5-7).
Questa figura di servo avrà dunque relazione sia con il popolo ebraico, sia con le nazioni pagane, e per incarico di Dio diventerà “l’alleanza del popolo” e “la luce delle nazioni”. E’ chiaro allora che non può coincidere né con l’uno né con l’altro dei soggetti con cui entrerà in relazione. Per il popolo ebraico egli costituirà il patto, perché Dio a suo tempo ha parlato con Abraamo e si è impegnato incondizionatamente con lui e con la sua discendenza; e per le nazioni pagane egli sarà luce, perché esse giacciono nelle tenebre, non essendo stata rivolta a loro direttamente la parola di Dio. Si tratta dunque di una persona, come anche i rabbini sono disposti a riconoscere, e il Vangelo di Matteo la identifica chiaramente nella persona di Gesù (Matteo 12:18-21).
  Sempre nel capitolo 42 del libro di Isaia, pochi versetti più avanti, si parla ancora del servo del Signore, ma stavolta in modo diverso:
    “Ascoltate, sordi, e voi, ciechi, guardate e vedete! Chi è cieco, se non il mio servo, e sordo come il messaggero inviato da me? Chi è cieco come colui che è mio amico, cieco come il servo del Signore? Tu hai visto molte cose, ma non vi hai posto mente; gli orecchi erano aperti, ma non hai udito nulla” (Isaia 42:18-20).
Evidentemente questo non può essere il servo di cui Dio si compiace, come invece si dice in Isaia 42:1. Contro questo servo il Signore manifesta la sua ira abbandonandolo nelle mani dei suoi nemici:
    “Chi ha abbandonato Giacobbe al saccheggio e Israele in balia dei predoni? Non è stato forse il Signore? Colui contro il quale abbiamo peccato, nelle cui vie non si è voluto camminare e alla cui legge non si è ubbidito? Perciò egli ha riversato su Israele la sua ira furente e la violenza della guerra; la guerra l’ha avvolto nelle sue fiamme, ed egli non ha capito; l’ha consumato, ed egli non se l’è presa a cuore.” (Isaia 42:24-25).
E’ chiaro allora che il servo di cui qui si sta parlando è il popolo. E tuttavia è proprio a questo servo testardo e infedele che Dio rivolge, nei versetti immediatamente seguenti:
    “Ma ora così parla il Signore, il tuo Creatore, o Giacobbe, colui che ti ha formato, o Israele! Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome; tu sei mio!” (Isaia 43:19).
Bisogna prendere atto allora che nel libro di Isaia il servo del Signore è presentato in due forme: il servo-popolo e il Servo-Messia. E l’autore del libro passa con disinvoltura, senza avvertire, dall’una all’altra forma, come a testimoniare che agli occhi di Dio le due figure sono indissolubilmente collegate. La storia degli uomini invece le ha scollegate, e proprio in questo innaturale scollegamento si nascondono le radici del drammatico contrasto tra ebraismo e cristianesimo. Se molti ebrei rifiutano di riconoscere nel servo di Isaia 53 la figura del Messia, perché di conseguenza dovrebbero ammettere che la persona di Gesù vi aderisce nel modo più preciso, molti cristiani d’altra parte si riferiscono al libro di Isaia soltanto per richiamare il capitolo 53 e si meravigliano quando si accorgono che nella Bibbia si parla anche di un servo del Signore che è il popolo d’Israele. Delle diciannove volte in cui si nomina il servo del Signore nella seconda parte del libro di Isaia, dodici si riferiscono al servo-popolo e sette al Servo-Messia.
  Particolarmente importante è il passo del capitolo 49. Il servo prende direttamente la parola, e rivolgendosi ai “popoli lontani” dichiara:
    “Il Signore mi ha chiamato fin dal seno materno, ha pronunziato il mio nome fin dal grembo di mia madre” (Isaia 49:1).
Chi è il servo che qui sta parlando, il popolo o il Messia? Il seguito sembrerebbe dare una risposta:
    “Egli ha reso la mia bocca come una spada tagliente, mi ha nascosto nell’ombra della sua mano; ha fatto di me una freccia appuntita, mi ha riposto nella sua faretra, e mi ha detto: «Tu sei il mio servo, Israele, per mezzo di te io manifesterò la mia gloria».” (Isaia 49:2-3).
Il servo dunque sembrerebbe essere il popolo d’Israele. E tuttavia poco dopo questo servo dice:
    “Ora parla il Signore che mi ha formato fin dal seno materno per essere suo servo, per ricondurgli Giacobbe, per raccogliere intorno a lui Israele” (Isaia 49:5).
Come può Israele raccogliere intorno a lui Israele e ricondurlo a Dio? E’ chiaro allora che qui si parla della persona del Messia, che da una parte è talmente identificato con il popolo da essere chiamato da Dio “Israele” e dall’altra è così intimamente legato al Signore da accettare il compito di riportare a Lui il popolo disubbidiente. Per quanto riguarda il versetto di Isaia 49:3, in un commentario è stata data la seguente spiegazione:
    “Perché il Servo qui viene chiamato Israele? Non può riferirsi alla nazione, perché il Servo deve riportare quella nazione a Dio. Il Messia viene chiamato Israele perché egli adempie ciò che Israele avrebbe dovuto fare. Nella sua persona e opera egli simboleggia la nazione”.
La spiegazione è soddisfacente, ma può essere ulteriormente approfondita. Anche se è vero che qui si parla del Servo-Messia, questo non significa che il servo-popolo non ha parte alcuna nel discorso. Le parole «Tu sei il mio servo, Israele, per mezzo di te io manifesterò la mia gloria» sono rivolte alle isole e ai popoli lontani, cioè alle nazioni pagane che probabilmente assisterebbero volentieri alla caduta ingloriosa del “popolo eletto”. Ma Dio ha collegato la sua gloria a quella di Israele, e quindi un’eventuale definitiva caduta del popolo che Egli si è formato (Isaia 43:21) non potrebbe che gettare ombra su Dio stesso.
  Nel deserto di Paran, quando Dio manifestò la sua intenzione di distruggere il popolo che si rifiutava di entrare in Canaan e offerse a Mosè la possibilità di fare di lui “una nazione più grande e più potente di lui”, il profeta attirò l’attenzione del Signore su quello che avrebbero detto i popoli vicini:
    “E Mosè disse al Signore: «Ma lo verranno a sapere gli abitanti dell’Egitto, da cui tu hai fatto uscire questo popolo per la tua potenza, e la cosa sarà risaputa dagli abitanti di questo paese. Essi hanno udito che tu, o Signore, sei in mezzo a questo popolo e gli appari faccia a faccia, che la tua nuvola si ferma sopra di loro e che cammini davanti a loro di giorno in una colonna di nuvola, e di notte in una colonna di fuoco. Ora, se fai perire questo popolo come un sol uomo, le nazioni che hanno udito la tua fama, diranno: “Il Signore non è stato capace di far entrare questo popolo nel paese che aveva giurato di dargli, perciò li ha scannati nel deserto”. Ora si mostri, ti prego, la potenza del Signore nella sua grandezza, come tu hai promesso” (Numeri 14:13-17).
Dio accolse la preghiera di Mosè perché sapeva di aver legato il suo nome a quello di Israele. Ma come avrebbe potuto Dio manifestare la sua gloria fra le nazioni attraverso un popolo che con la sua condotta vergognosa profanava il suo nome invece di santificarlo? Tristi sono le parole che prima della distruzione del tempio Dio rivolge al profeta Ezechiele:
    “Figlio d’uomo, quando quelli della casa d’Israele abitavano il loro paese, lo contaminavano con la loro condotta e con le loro azioni; la loro condotta era davanti a me come l’impurità della donna quando ha i suoi corsi. Perciò io riversai su di loro il mio furore a motivo del sangue che avevano sparso sul paese e perché l’avevano contaminato con i loro idoli; li dispersi fra le nazioni ed essi furono sparsi per tutti i paesi; io li giudicai secondo la loro condotta e secondo le loro azioni. E, giunti fra le nazioni dove sono andati, hanno profanato il nome mio santo, poiché si diceva di loro: “Costoro sono il popolo del Signore, e sono usciti dal suo paese” (Ezechiele 36:17-20).
Il Servo-Messia sarà Colui attraverso cui Dio manifesterà la sua gloria, ma affinché questo non appaia come una sconfessione del suo popolo è indispensabile che la gloria espressa dal Messia sia considerata come gloria che Dio ottiene attraverso Israele, e quindi anche come gloria di Israele. Per questo è necessario che le due figure di servo del Signore restino indissolubilmente collegate. Dio fa questo presentando al mondo il Messia come un Germoglio che spunta dall’arido suolo del popolo d’Israele.
    “In quel giorno, il germoglio del Signore sarà lo splendore e la gloria degli scampati d’Israele, e il frutto della terra sarà il loro vanto e il loro ornamento” (Isaia 4:2).
    “Ecco, i giorni vengono», dice il Signore, «in cui io farò sorgere a Davide un germoglio giusto, il quale regnerà da re e prospererà; eserciterà il diritto e la giustizia nel paese” (Geremia 23:5)
    “In quei giorni e in quel tempo, io farò germogliare per Davide un germoglio di giustizia, ed esso eserciterà il diritto e la giustizia nel paese” (Geremia 33:15).
    “Egli è cresciuto davanti a lui come una pianticella, come una radice che esce da un arido suolo; non aveva forma né bellezza da attirare i nostri sguardi, né aspetto tale da piacerci” (Isaia 53:2).
Significative sono le parole con cui il vecchio Simeone, israelita giusto e timorato di Dio che aspettava la consolazione d’Israele, accoglie nelle sue braccia il bambino Gesù:
    “Ora, o mio Signore, tu lasci andare in pace il tuo servo, secondo la tua parola; perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, che hai preparata dinanzi a tutti i popoli per essere luce da illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele” (Luca 2:29-32).
Molti sono disposti a riconoscere che Gesù ha avuto il compito di illuminare le genti, ma ben pochi credono che Gesù sia stato inviato anche per essere gloria del popolo d’Israele. Si crede piuttosto il contrario: cioè che Gesù illumina le genti anche mostrando loro quanto sia tenebroso e perfido Israele, un popolo a cui è concesso di rimanere in vita soltanto per giocare la parte dell’eterno “cattivo” che deve obbligatoriamente essere tenuto a distanza, se non anche combattuto e distrutto.
  Ma in Isaia 49:5 si legge che il primo compito per cui Dio ha formato fin dal grembo materno il suo Servo-Messia è quello di ricondurgli Giacobbe e raccogliere intorno a lui Israele. E questo Gesù ha cercato di fare all’inizio del suo ministero:
    “Dopo che Giovanni fu messo in prigione, Gesù si recò in Galilea, predicando il vangelo di Dio e dicendo: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; ravvedetevi e credete al vangelo»” (Marco 1:14-15).
Con questo lieto annuncio dell’imminenza del regno di Dio, Gesù si è rivolto al suo popolo, e non genericamente all’umanità, non alle nazioni che del regno di Dio promesso a Israele non sapevano assolutamente nulla. Gesù sapeva che come Servo-Messia il suo primo compito era di ricondurre a Dio Giacobbe, e questo spiega le istruzioni che diede ai dodici quando li delegò a trasmettere ad altri il suo annuncio:
    “Questi sono i dodici che Gesù mandò, dando loro queste istruzioni: «Non andate tra i pagani e non entrate in nessuna città dei Samaritani, ma andate piuttosto verso le pecore perdute della casa d’Israele. Andando, predicate e dite: “Il regno dei cieli è vicino” (Matteo 10:5-7).
Ai discepoli che lo invitavano a esaudire una donna pagana che insistentemente chiedeva il suo aiuto, Gesù rispose bruscamente: «Io non sono stato mandato che alle pecore perdute della casa d’Israele» (Matteo 15:24).
  Gesù però sapeva che nella sua prima missione non sarebbe riuscito nel suo compito di raccogliere Israele, non per sue proprie mancanze ma per il rifiuto del popolo, perché il profeta Isaia aveva previsto questo fallimento e il conseguente scoraggiamento del Servo del Signore:
    “Ma io dicevo: «Invano ho faticato; inutilmente e per nulla ho consumato la mia forza; ma certo, il mio diritto è presso il Signore, la mia ricompensa è presso il mio Dio»” (Isaia 49:4).
Alla fine del suo ministero Gesù ammise pubblicamente di non essere riuscito a raccogliere intorno a Dio Giacobbe:
    “Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che ti sono mandati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come la chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali; e voi non avete voluto! (Luca 13:34-35).
Gesù però non maledisse il suo popolo, non minacciò, non promise vendetta: Gesù pianse.
    “Quando fu vicino, vedendo la città, pianse su di essa, dicendo: «Oh se tu sapessi, almeno oggi, ciò che occorre per la tua pace! Ma ora è nascosto ai tuoi occhi. Poiché verranno su di te dei giorni nei quali i tuoi nemici ti faranno attorno delle trincee, ti accerchieranno e ti stringeranno da ogni parte; abbatteranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché tu non hai conosciuto il tempo nel quale sei stata visitata»” (Luca 19:41-44).
Solo due volte i Vangeli riferiscono che Gesù pianse: in questa occasione e davanti alla morte di Lazzaro. Si possono fare interessanti paralleli fra i due casi. Alla vista di Gesù piangente davanti alla tomba del suo amico i giudei dicevano: “Guarda come l’amava!” (Giovanni 11:36). Ed era così, sia per Lazzaro sia per Israele. In entrambi i casi Gesù ha pianto per amore, e in entrambi i casi la conseguenza del pianto è stata una risurrezione. Quella di Lazzaro è avvenuta immediatamente, quella di Israele avverrà negli ultimi tempi, quando il popolo riconoscerà in Gesù il suo Messia e accoglierà pentito il suo ritorno in terra con le parole di giubilo con cui la folla l’aveva salutato il giorno della sua entrata in Gerusalemme sul dorso di un’asina:
    “Le folle che precedevano e quelle che seguivano, gridavano: «Osanna al Figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nei luoghi altissimi!” (Matteo 21:9).
    “Infatti vi dico che da ora in avanti non mi vedrete più, finché non direte: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore!” (Matteo 23:39).
Di fronte a Gerusalemme Gesù non si è adirato, non ha usato parole dure, come altre volte aveva fatto con gli scribi e i farisei; non ha detto: “Adesso mi uccidete e mi fate sparire dalla circolazione, ma un giorno mi rivedrete e sarete terrorizzati per quello che vi accadrà nella mia vendetta?” Cose di questo tipo sono state dette non da Gesù, ma da coloro che si sono proclamati suoi seguaci e hanno creduto di dover annunciare ed eseguire la vendetta di Dio verso il suo popolo. Dio non è arrabbiato contro Israele: Dio è addolorato. E questo dolore è espresso dal pianto di Gesù davanti a Gerusalemme.
    “Mentre lo portavano via, presero un certo Simone, di Cirene, che veniva dalla campagna, e gli misero addosso la croce perché la portasse dietro a Gesù. Lo seguiva una gran folla di popolo e di donne che facevano cordoglio e lamento per lui. Ma Gesù, voltatosi verso di loro, disse: «Figlie di Gerusalemme, non piangete per me, ma piangete per voi stesse e per i vostri figli. Perché, ecco, i giorni vengono nei quali si dirà: “Beate le sterili, i grembi che non hanno partorito e le mammelle che non hanno allattato” (Luca 23:26-29).
Quello che è accaduto a Israele dopo aver rifiutato il suo Messia non rappresenta la vendetta di Dio, ma la conseguenza della scelta fatta dal popolo. Israele ha consegnato il suo Re nelle mani dei nemici pagani, e quello che essi hanno fatto al Re d’Israele, pochi anni dopo fu fatto anche al suo popolo. E anche in questo si conferma l’indissolubile legame tra il Servo-Messia e il servo-popolo. Nelle tremende sventure che hanno colpito gli ebrei nei secoli successivi non è stata la mano di Dio a colpire il popolo. Dio ha ritirato la sua mano protettiva, come aveva già fatto nel passato, e l’odio dei suoi nemici si è abbattuto spietatamente su Israele. Dopo la distruzione del primo Tempio, il salmista Asaf si rivolge a Dio con queste parole accorate:
    “Fino a quando, o Dio, ci oltraggerà l’avversario? Il nemico disprezzerà il tuo nome per sempre? Perché ritiri la tua mano, la tua destra? Tirala fuori dal tuo seno, e distruggili!” (Salmo 74:10-11).
Il profeta Isaia aveva preannunciato quello che sarebbe accaduto a Israele, la vigna del Signore, in conseguenza della sua ribellione:
    “Ebbene, ora vi farò conoscere ciò che sto per fare alla mia vigna: le toglierò la siepe e vi pascoleranno le bestie; abbatterò il suo muro di cinta e sarà calpestata. Ne farò un deserto; non sarà più né potata né zappata, vi cresceranno i rovi e le spine; darò ordine alle nuvole che non vi lascino cadere pioggia. Infatti la vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele, e gli uomini di Giuda sono la sua piantagione prediletta; egli si aspettava rettitudine, ed ecco spargimento di sangue; giustizia, ed ecco grida d’angoscia!” (Isaia 5:5-7).
Rigettando il Messia, il popolo di Israele si è consegnato nelle mani dei suoi nemici. Dio ha tolto la siepe che proteggeva la sua vigna e questo ha fatto risaltare sia la disubbidienza del suo popolo, sia la malvagia ferocia dei suoi nemici. L’antisemitismo perdurante nella storia manifesta il peccato di tutti, del giudeo prima e poi del greco. La superbia dei gentili che attribuiscono agli ebrei stessi la causa dei loro mali e di quelli di tutto il mondo sarà un giorno severamente punita. Arriverà prima o poi “il giorno della vendetta del Signore, l’anno della retribuzione per la causa di Sion” (Isaia 34:8). Dio ha temporaneamente tolto la siepe di protezione intorno alla sua vigna, ma guai a quelle bestie feroci che si sono avventate su quel terreno per colpire e distruggere. Un giorno ci sarà la resa dei conti; e delle anticipazioni storiche possono fin d’ora essere riconosciute nelle sciagure che hanno invariabilmente colpito le nazioni che si sono scagliate contro gli ebrei, a cominciare dal caso a noi più vicino della Germania nazista.
  Il rigetto del Messia inviato da Dio è stato indiscutibilmente un gravissimo peccato che la generazione di Gesù ha compiuto e per le cui conseguenze il popolo d’Israele ancora oggi soffre. Ma dire che gli ebrei subiscono le conseguenze di un peccato commesso dai loro padri non significa dire che il popolo ebraico porta ancora oggi la colpa di quel peccato e che per questo si trova sotto la maledizione di Dio. E’ bene sottolineare, ancora una volta, che su Israele grava la responsabilità del rifiuto del Messia, non della sua morte, che invece è stata voluta da Dio-Padre e accettata da Dio-Figlio. A nessuno Dio rinfaccerà mai di avergli ucciso il Figlio; a molti invece rinfaccerà un giorno di non aver creduto in quel Figlio che Egli ha dato per il perdono dei loro peccati. E uno dei peccati che Dio rinfaccerà a molti gentili non ravveduti sarà la superbia che li ha condotti a maledire il popolo da Lui destinato ad essere benedetto e fonte di benedizione (Genesi 12:1-3).
  Israele ha raggiunto il culmine della sua ribellione rigettando il suo Messia, su questo non c’è alcun dubbio. Ma come già accaduto altre volte nella storia del popolo eletto, Dio ha glorificato il suo nome trasformando il peccato del suo servo-popolo in un’opera di salvezza e benedizione compiuta a favore di tutti attraverso il suo Servo-Messia. E’ proprio nella crocifissione di suo Figlio che Dio raggiunge il culmine della sua gloria, perché nella croce di Gesù si rivela il massimo del peccato dell’uomo e il massimo della potenza d’amore di Dio.
    “Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disubbidienza per far misericordia a tutti. Oh, profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto inscrutabili sono i suoi giudizi e ininvestigabili le sue vie!” (Romani 11:32-33).
In Isaia 49 sta scritto che il Servo del Signore, che fin dal grembo materno aveva ricevuto da Dio il compito di ricondurgli Giacobbe, riconosce di avere faticato invano. E tuttavia si sente onorato agli occhi del Signore perché ha ricevuto anche un altro compito:
    “Egli dice: «É troppo poco che tu sia mio servo per rialzare le tribù di Giacobbe e per ricondurre gli scampati d’Israele; voglio fare di te la luce delle nazioni, lo strumento della mia salvezza fino alle estremità della terra»” (Isaia 49:6).
Fin dall’inizio Dio aveva detto ad Abraamo: “… in te saranno benedette tutte le famiglie della terra”(Genesis 12:3), e proprio per questo il popolo d’Israele ha sempre avuto la consapevolezza, anche se spesso vaga e indistinta, di dover essere luce delle nazioni. La benedizione promessa in Abraamo arriverà alle genti attraverso il servo del Signore nella sua duplice forma di Servo-Messia e servo-popolo, e sarà realizzata in due forme e in due tempi diversi: 1) come luce spirituale che fuga le tenebre prodotte dal peccato, offrendo agli uomini il perdono e la pace con Dio; 2) come governo politico che salva il mondo dal disastro portando giustizia e pace sociale.
  In modo inaspettato per tutti, la prima parte del programma è iniziata con un doloroso, anche se momentaneo, distacco tra il Servo-Messia e il servo-popolo. I capi di Israele hanno rifiutato di riconoscere e accogliere il loro Messia, ma Dio, attuando un piano che aveva preordinato fin dall’eternità, ha trasformato questo rifiuto nella possibilità per tutti gli uomini di essere perdonati dei loro peccati.
    “Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture: La pietra che i costruttori hanno rifiutata è diventata pietra angolare; ciò è stato fatto dal Signore, ed è cosa meravigliosa agli occhi nostri?»” (Matteo 21:42).
    “Per voi dunque che credete essa è preziosa; ma per gli increduli «la pietra che i costruttori hanno rigettata è diventata la pietra angolare, pietra d’inciampo e sasso di ostacolo». Essi, essendo disubbidienti, inciampano nella parola; e a questo sono stati anche destinati. Ma voi siete una stirpe eletta, un sacerdozio regale, una gente santa, un popolo che Dio si è acquistato, perché proclamiate le virtù di colui che vi ha chiamati dalle tenebre alla sua luce meravigliosa; voi, che prima non eravate un popolo, ma ora siete il popolo di Dio; voi, che non avevate ottenuto misericordia, ma ora avete ottenuto misericordia.” (1 Pietro 2:7-10).
Il Servo-Messia viene onorato dal Signore nell’incarico che riceve di essere luce delle nazioni e strumento di salvezza fino alle estremità della terra. Sarà infatti proprio questa parola di Isaia che l’apostolo Paolo citerà agli increduli giudei della sinagoga di Antiochia di Pisidia, prima di annunciare che, in conseguenza del loro rifiuto, il Vangelo della salvezza da quel momento sarebbe stato predicato anche ai gentili.
    “Allora Paolo e Barnaba, parlando con franchezza, dissero: “Era necessario che fosse annunziata a voi per primi la parola di Dio; ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna ecco, noi ci rivolgiamo ai gentili. Poiché così ci ha comandato il Signore: “Io ti ho posto come luce delle genti perché tu porti la salvezza fino all’estremità della terra. I gentili, udendo queste cose, si rallegrarono e glorificavano la parola del Signore; e tutti coloro che erano preordinati alla vita eterna credettero. E la parola del Signore si diffondeva per tutto il paese” (Atti 13:46-49).
(Da "La superbia dei Gentili", di Marcello Cicchese)

 


La tela di Al Sisi Al Cairo, via al negoziato tra Israele e Hamas

di Vincenzo Nigro

TEL AVIV — Hamas e Israele si preparano a negoziare al Cairo. Saranno negoziati indiretti: al centro ci saranno gli attivissimi mediatori egiziani, che faranno la spola fra le due delegazioni. Se non ci saranno sorprese dell’ultima ora, le due delegazioni saranno di alto livello. Il capo dei negoziatori di Hamas sarà Ismail Haniyeh, leader del movimento all’esterno della Striscia di Gaza. Il capo- negoziatore israeliano sarà invece Gabi Ashkenazi, ministro degli Esteri, ex capo di Stato maggiore, un uomo in grado di interpretare ogni elemento nelle posizioni della politica, della diplomazia e anche della visione militare israeliana sul conflitto. Ancora ieri l’Egitto ha fatto entrare dentro Gaza una delegazione di alto livello del servizio di intelligence esterno, quello a cui il generale Sisi ha affidato il dossier. La guidava il generale Ahmad Abd al-Halek, responsabile per le questioni palestinesi; nelle prossime ore il generale e i suoi uomini ritorneranno a Tel Aviv a incontrare ancora una volta gli israeliani e poi passeranno a Ramallah, a vedere i dirigenti dell’Autorità palestinese.
   Per Israele gli obiettivi “dichiarati” di questa nuova fase negoziale sono riuscire ad ottenere il rilascio dei due cittadini israeliani prigionieri da mesi nella Striscia e la restituzione dei corpi di due soldati israeliani uccisi anni fa in combattimento. Ma Israele vuole capire anche quale “patto col diavolo” sia possibile costruire per offrire pace e sicurezza al Paese nei prossimi anni.
   Hamas vuole consolidare la tregua e trovare una modalità per far affluire nella Striscia le centinaia di milioni di dollari promesse da mezzo mondo per ricostruire le infrastrutture e aiutare la popolazione. Yahia Sinwar, il capo del movimento all’interno della Striscia, ha già detto «noi non toccheremo un centesimo di quei soldi, vogliamo che vadano tutti alla ricostruzione». Questo perché Israele vuole che Gaza sia ricostruita, ma chiede innanzitutto a Usa e Unione europea di non far arrivare soldi che potrebbero servire ad Hamas per ricostruire il suo parco-missili. Hamas accetta, perché i suoi finanziamenti militari arrivano in altro modo dall’Iran. In tutto questo l’Egitto si sta consolidando in Medio Oriente come la “potenza necessaria”. Il presidente Al Sisi, col capo del servizio esterno Abbas Kamal, da mesi ha preparato la tela dei rapporti con il Mossad, con le forze armate e con la politica israeliana da una parte e dall’altra con tutte le fazioni palestinesi, nessuna esclusa.
   L’altro giorno, lasciando Il Cairo dopo la breve visita di ringraziamento ad Al Sisi, il segretario di Stato Antony Blinken ha detto che «l’Egitto si è confermato un partner reale ed efficace, ho avuto ampi e ottimi colloqui con il presidente Al Sisi. Abbiamo un partner influente in Egitto nella gestione degli eventi e lavoriamo insieme in modo positivo».
   Solo 4 mesi fa Biden aveva lanciato segnali di gelo al presidente egiziano: nessuna telefonata, addirittura la proposta di alcuni deputati democratici di tagliare gli aiuti militari di 1,3 miliardi di dollari l’anno che gli Usa pagano al Cairo. Biden adesso ha cambiato rotta. La guerra di Gaza ha accelerato un cambio che l’Egitto era pronto a raccogliere come un frutto maturo.

(la Repubblica, 29 maggio 2021)


L'inutile guerra degli 11 giorni e la necessità della pace

L'impegno per la pace sarà un dovere anche per il governo israeliano

di Giancarlo Elia Valori

Nella storia del conflitto arabo israeliano (e anche israelo palestinese) che si avvia verso il settantacinquesimo anno di età, è rimasta famosa la guerra del 1967, nota a tutti come “la guerra dei sei giorni”, che prese avvio quando l’esercito israeliano dopo una serie di provocazioni del leader egiziano Gamal Abdel Nasser, che era arrivato a chiudere con le sue navi da guerra lo stretto di Tiran e a espellere le “forze di Pace” delle Nazioni Unite dalla penisola del Sinai, sferrò il 6 giugno un’offensiva militare contro Egitto, Giordania e Siria, che si erano coalizzati per realizzare l’antico sogno di “ributtare gli ebrei in mare”.
   L’obiettivo strategico della guerra preventiva scatenata da Israele era quello di mettere in sicurezza i suoi confini e, se possibile, ampliarli a spese dei suoi nemici storici.
   Sappiamo come è andata: dopo pochi giorni Israele aveva conquistato il Sinai e la Striscia di Gaza a spese dell’Egitto, tolto tutta Gerusalemme e la Cisgiordania al regno hascemita e occupato l’altipiano del Golan e il monte Hermon espellendone i siriani.
   Con la “guerra dei sei giorni”, Israele si era dato un obiettivo strategico e l’aveva conseguito.
   Quando Hamas, il 10 maggio, ha scatenato il primo attacco di missili contro le città israeliane, a partire da Gerusalemme e Tel Aviv, Israele era impegnato a celebrare il “Jerusalem Day” (la giornata dedicata al ricordo della “liberazione” della città santa) e a fronteggiare una nuova ondata di proteste popolari provocate da una serie di sfratti ai danni di palestinesi residenti nel quartiere di Sehikh Jarra di Gerusalemme Est.
   Un attacco missilistico contro la capitale di uno stato sovrano è indubbiamente un atto di guerra e quindi siamo autorizzati a chiederci: qual è stato l’obiettivo strategico di Hamas nel momento in cui ha deciso di sferrare un’offensiva militare contro il suo nemico storico?
   I lettori e i telespettatori dei media occidentali non hanno avuto che risposte confuse su questo argomento, in quanto i media europei e americani hanno preferito concentrare l’attenzione sulla sproporzione tra le vittime palestinesi dei bombardamenti israeliani attuati in risposta all’offensiva
I 74 bambini morti a Gaza sono stati vittime non solo delle bombe israeliane ma anche di chi ha deciso di collocare le rampe di lancio dei suoi razzi nei cortili delle case della città o di installare i suoi centri di comando militare all’interno di ospedali, scuole e di grattacieli abitati da centinaia di persone.
missilistica lanciata da Gaza (243, di cui 74 bambini), rispetto a quelle provocate dai razzi di Hamas (12 adulti e un bambino, ai quali si deve aggiungere un ebreo linciato dai dimostranti palestinesi a Lydda).
   L’aspetto umanitario di una guerra è sempre importante e degno di attenzione, ma non può essere il solo criterio di analisi delle motivazioni e delle responsabilità del conflitto.
   I 74 bambini morti a Gaza sono stati vittime non solo delle bombe israeliane ma anche di chi, come la leadership di Hamas, ha deciso di collocare le rampe di lancio dei suoi razzi nei cortili delle case della città o di installare i suoi centri di comando militare all’interno di ospedali, scuole e di grattacieli abitati da centinaia di persone.
   Il conto delle vittime non è sufficiente a stabilire le responsabilità di una guerra inutile, perché le vittime, tutte le vittime, “hanno sempre ragione”. Il conto dei morti, tuttavia, può essere utile per comprendere il livello di spregiudicatezza di chi, come i vertici di Hamas e della Jihad Islamica Palestinese, ha deciso di attaccare un avversario enormemente più forte, senza apparentemente speranza di vittoria o almeno un chiaro obiettivo, ancorché limitato.
   Analizzando le prime dichiarazioni dei vertici palestinesi di Gaza, sembra chiaro che, attaccando Israele e subendone poi l’inevitabile ritorsione militare, gli estremisti palestinesi speravano, nell’ordine: di suscitare un’ondata di indignazione in tutto il mondo musulmano, mobilitando le “masse arabe” contro quei governi che hanno cercato un appeasement con Israele. Questa strategia è fallita; il secondo ipotizzabile obiettivo potrebbe essere stato quello di coinvolgere in modo più massiccio Turchia e Iran nel confronto militare con Israele. Se questo era un obiettivo il risultato non è stato raggiunto perché, per quanto riguarda Ankara, il sostegno ai palestinesi non è andato oltre le frasi di circostanza, anche perché la Turchia non dimentica di essere stata la prima nazione musulmana a riconoscere nel 1949 lo Stato di Israele e il suo diritto all’esistenza.
   Per quel che attiene all’Iran, per comprendere la sua sostanziale presa di distanza dall’iniziativa di Hamas è sufficiente rilevare che dal Libano gli Hezbollah che sono espressione diretta dei Pasdaran iraniani si sono limitati al lancio puramente dimostrativo di tre razzi verso le campagne del nord della Galilea,
L’idea di suscitare un guerra civile nelle città di Israele a popolazione mista ebraica e palestinese non è andata a buon fine. Anche sul fronte interno palestinese gli estremisti di Gaza con i loro missili non sembra abbiano guadagnato particolare consenso.
nell’ultimo giorno di guerra.
   Al termine della “guerra degli undici giorni”, Hamas e la Jihad Islamica Palestinese escono fortemente indebolite sul piano militare e politico da un’avventura militare senza senso e senza prospettive.
   Anche l’idea di suscitare un guerra civile nelle città di Israele a popolazione mista ebraica e palestinese non è andata a buon fine. Anche sul fronte interno palestinese gli estremisti di Gaza con i loro missili non sembra abbiano guadagnato particolare consenso. Il conflitto, poi, ha riportato al centro dello scacchiere mediorientale l’Egitto di Al Sisi che è riuscito nell’opera di mediazione che ha portato alla cessazione delle ostilità.
   In definitiva, la “guerra degli undici giorni” non può essere considerata un successo militare e politico delle frange più oltranziste del movimento palestinese.
   Ma, nonostante il successo sul piano dell’autodifesa, Israele non può permettersi di dormire sugli allori, come fece dopo la “guerra dei sei giorni”, ma deve tornare ad affrontare il nodo della pacificazione della regione e della convivenza con la realtà palestinese, evitando innanzitutto di offrire il fianco alle accuse di razzismo e di apartheid provenienti dall’intellighenzia filo palestinese (per non dire antisemita) europea e americana.
   L’impegno per la pace sarà un dovere per il nuovo governo israeliano, quale uscirà dalle consultazioni di questi giorni o da nuove elezioni politiche e dovrà partire da un nuovo dialogo con la componente di Abu Mazen che finora si è dimostrata la più realistica e pragmatica nel movimento palestinese. Ma, arrivare alla pace in Palestina non è solo difficile per l’intransigenza degli estremisti, ma è anche pericoloso per l’incolumità di chi la persegue.
   È di questi giorni la notizia dell’allontanamento, o meglio dell’espulsione violenta, dalla Moschea di Al Aqsa della massima autorità religiosa della città, il Gran Muftì di Gerusalemme Mohammed Al Husseini, accusato di eccessiva moderazione e di vicinanza ad Abu Mazen. Insomma In Palestina oggi più che mai, dopo l’inutile “guerra degli undici giorni”, c’è bisogno di un momento di respiro e di riflessione alla ricerca, anche con l’aiuto degli esponenti più moderati del mondo arabo, degli Usa, dell’Europa e di nuovi protagonisti dello scenario globale come la Cina, di un modello di convivenza civile e politica tra i contendenti di quella che rischia altrimenti di diventare una nuova “guerra dei cent’anni”.
   In Palestina occorre cercare la pace, anche se chi ha cercato la pace, troppo spesso ha trovato la morte.

(Gazzetta di Parma, 29 maggio 2021)


In Israele primi turisti dopo lo stop di un anno

Israele ha accolto il suo primo gruppo di turisti stranieri da quando ha in gran parte interrotto i viaggi aerei a causa della pandemia da coronavirus più di un anno fa. II ministro del Turismo, Orit Farkash-Hacohen, ha dato il benvenuto a un gruppo di studenti di teologia cristiana del Missouri, dicendo loro: «Qui è tutto aperto, dai ristoranti agli hotel, dai resort ai luoghi santi».
Israele ha vaccinato circa l'85% della sua popolazione adulta e ha meno di 500 contagi attivi. La maggior parte dei locali ha riaperto negli ultimi mesi, compresi i ristoranti al coperto, le palestre e le sedi di eventi sportivi e concerti. Ma Israele aveva esitato ad accogliere i turisti stranieri, in parte per la preoccupazione per le nuove varianti. Ultimamente un altro rinvio, a causa del conflitto a Gaza e la tregua che ne è seguita.

(Avvenire, 29 maggio 2021)


La questione chiave di Hamas contro Israele

Ci sarà una quinta fase di combattimenti? Intervista a Daniel Pipes

Global Review - Quali sono le cause più importanti del recente conflitto tra Hamas e Israele? E perché è avvenuto proprio ora?
Daniel Pipes - Sembra che Hamas abbia cercato di approfittare di un passo falso di Mahmoud Abbas (convocare le elezioni politiche, per poi annullarle) allo scopo di rafforzare la sua popolarità in Cisgiordania. Altri fattori probabilmente includono lo sfruttamento di una questione immobiliare locale a Gerusalemme, il fatto di voler testare l'amministrazione Biden, trarre profitto dall'incertezza politica in Israele e ottenere il favore di Teheran.

- Hamas ha davvero guadagnato popolarità in Cisgiordania a spese dell'Autorità Palestinese guidata da Abbas. Questo significa che il movimento potrebbe prendere il potere lì e completare l'anello di fuoco contro Israele?
  No. Il governo israeliano farà tutto il possibile per impedire a Hamas di prendere il potere in Cisgiordania. E questo dovrebbe essere sufficiente per tenerlo lontano.

- Lei è d'accordo con chi dice che Israele ha vinto la guerra militarmente e Hamas l'ha vinta politicamente?
  Lo sono in parte. Il successo militare di Israele è indiscutibile. Il campo di battaglia politico è molto meno chiaro. Ma la questione più importante è se questo quarto round di combattimenti porterà gli israeliani ad assicurarsi che non ce ne sia un quinto. Penso che sia probabile, nel qual caso Hamas sarebbe il grande perdente.

- È la prima volta che Hamas è riuscito a mobilitare gli arabi israeliani. Cosa significa questo per Israele?
  Nel complesso, vedo questo come qualcosa di positivo per Israele, perché permette ai cittadini ebrei di prendere coscienza della crisi che incombe sulle loro teste con i loro compatrioti musulmani, un problema che ho da tempo previsto, ma che i cittadini ebrei non vogliono affrontare.

- In Israele, la Destra afferma che il precedente blocco di Gaza era troppo lassista e deve essere rafforzato. La Sinistra sostiene che Israele dovrebbe conquistare la popolazione di Gaza migliorando le sue condizioni di vita, portando così a una rivolta e al rovesciamento di Hamas. Quale opzione, tra queste e altre, preferisce?
  Sono favorevole al punto di vista della Destra. La visione della Sinistra venne messa alla prova nel 1993: questa opzione viene chiamata Accordi di Oslo e fallì miseramente. I palestinesi si sono impegnati un intero secolo a perseguire le loro passioni antisioniste anziché migliorare la propria vita. Costituiscono la popolazione più radicalizzata della Terra.

- Hamas cerca esplicitamente di eliminare lo Stato ebraico, ma come può farlo? La conquista militare appare illusoria. L'obiettivo è terrorizzare Israele, innescare conflitti tra ebrei e arabi israeliani, porre fine agli investimenti stranieri, demoralizzare gli ebrei israeliani e farli fuggire da Israele?
  Sì, è proprio questo l'obiettivo, vessare gli ebrei israeliani al punto che essi abbandonino il Paese. Purtroppo per Hamas, questa tattica è completamente fallita, con gli israeliani che hanno ottenuto punteggi molto alti nelle classifiche di felicità, che beneficiano di un'economia sviluppata, dello Stato di diritto, della democrazia e di un alto livello di sicurezza personale. Hamas, nel suo fanatismo, sembra inconsapevole di questa situazione e continua a utilizzare gli stessi metodi, futili e abominevoli.

- La maggior parte delle potenze esterne sostiene una soluzione a due Stati, così come la Sinistra israeliana e l'AP. Tale opzione ha ancora rilevanza quando né la Destra israeliana né Hamas lo vogliono?
   A breve termine, no. La soluzione dei due Stati non ha rilevanza per le ragioni che lei afferma: la maggior parte degli israeliani la teme e la maggior parte dei palestinesi vuole eliminare Israele. Ma a lungo termine, la soluzione dei due Stati continua a offrire l'unica soluzione potenzialmente soddisfacente di uno dei conflitti più insolubili del globo. Quando i palestinesi subiranno la sconfitta e smetteranno di credere che possono eliminare lo Stato ebraico di Israele, allora si aprirà la prospettiva per una soluzione a due Stati. Ma questo potrà accadere tra molti anni o decenni.

- Se non una soluzione a due Stati, allora cosa? La situazione odierna prevarrà in un lontano futuro, si avrà una soluzione a uno Stato, il ritorno dell'Egitto a Gaza e della Giordania in Cisgiordania, o qualcos'altro
  Quelle sono esattamente le alternative a breve termine. Personalmente, io preferisco l'opzione Egitto e Giordania.

- Il numero degli israeliani che vivono in Cisgiordania è arrivato a toccare i 450 mila. Sono un ostacolo a una soluzione a due Stati?
   Niente affatto, presumendo che gli ebrei possano vivere in uno Stato palestinese proprio come i palestinesi vivono nello Stato ebraico, tale ipotesi è d'obbligo. Aspettarsi il contrario, ossia che quasi mezzo milione di israeliani debba fare i bagagli e lasciare la Cisgiordania, implica che gli ebrei non sono stati ancora accettati, e nel qual caso il conflitto continuerà.

- Le richieste di sanzioni contro Israele per fermare i suoi insediamenti in Cisgiordania sono fondamentalmente antisemite?
   Sì, certo, dal momento che coloro che fanno tali richieste non avanzano pretese simili riguardo al Marocco nel Sahara Occidentale, alla Turchia nel nord di Cipro o alla Cina in Tibet e nel Turkestan orientale.

- La prego di spiegare il progetto di Israel Victory (Vittoria di Israele) da lei creato e che il Middle East Forum promuove.
   Le guerre finiscono quando una delle parti si arrende. Affinché il conflitto israelo-palestinese finisca, Israele deve perseguire politiche che convincano i palestinesi della futilità dei loro obiettivi. Farlo, ovviamente, gioverebbe agli israeliani, ma ancor di più ai palestinesi, che potranno finalmente iniziare a costruire il loro sistema politico, la loro economia, la loro società e la loro cultura.

(Gatestone Institute, 29 maggio 2021 - trad. di Angelita La Spada)


La memoria dimenticata dei fantasmi del Kindertransport

Tra il 1938 e il 1940, un’iniziativa umanitaria trasferì nel Regno Unito circa diecimila profughi minorenni non accompagnati, in gran parte ebrei, provenienti da Germania, Polonia, Austria, Olanda e Cecoslovacchia. Uno di questi era il padre di Jonathan Lichtenstein, che in “L’ombra di Berlino” fa il percorso a ritroso.

di Jonathan Lichtenstein

Quand’ero piccolo, mio padre non parlava mai direttamente della sua infanzia e non faceva mai il minimo riferimento alle sue radici tedesche. Pareva quasi che non fosse mai stato bambino. Non parlava mai dei suoi genitori né dei suoi nonni. Non nominava mai gli amici né i luoghi dove giocava, viveva o andava a scuola e non forniva notizie di alcun tipo sugli anni della sua formazione.
   Toccò a mia madre dirmi un giorno, nella cucina di casa nostra, quando avevo otto anni, che mio padre, poche settimane dopo il suo dodicesimo compleanno, era partito da solo da Berlino con una piccola valigia. Più di questo neanche lei avrebbe saputo dire: neanche a lei mio padre aveva mai raccontato l’intera storia. Come disse mia madre, mentre io ero lì in calzini sul pavimento freddo e grigio di ardesia, «non gli piace parlarne».
   Barlumi di informazione sul suo passato emergevano nei casi in cui qualche altro parente fuggito dalla Germania veniva a trovarci in Galles, ma queste visite erano rare e fugaci, e l’immancabile risposta alle mie domande era: «Fatti gli affari tuoi».
   Di tanto in tanto, qualche dettaglio emergeva inaspettatamente anche in famiglia: una volta, mentre mia madre serviva un pan di Spagna, mio padre si ricordò della consistenza della torta di semi di papavero che faceva sua madre; in un altro caso rievocò la capacità di sua madre di tenere tutti i piatti caldi quando serviva la cena, mentre mia madre già faticava a servire su piatti freddi il cibo che cucinava.
   Una volta, arrivò a casa nostra una grossa cassa piena di posate rotte. Avevano la lettera “L” incisa sui manici: un residuo dell’argenteria di famiglia. Fu messa nel garage, e per mio padre diventò un evidente motivo di agitazione, anche se io da bambino non capivo perché.
   C’erano anche altri comportamenti che non capivo: l’odio per le Volkswagen e il disprezzo per le Mercedes, al punto che quando vedeva passare un’auto di queste due marche – evento insolito, perché all’epoca sulle strade del Galles praticamente ne giravano pochissime – sbottava, quasi sputando le parole: «Auto schifosa!». Pretese che nessuno dei suoi figli studiasse tedesco a scuola e che non entrassero in casa nostra libri sulla Seconda guerra mondiale; non fece mai riferimento a Hitler né all’Olocausto e ci invitava spesso a «stare alla larga dalla folla».
   La madre di mio padre, nonna Ruth, era sopravvissuta alla guerra. Dato che i genitori di mia madre erano morti entrambi prima che io compissi due anni, nonna Ruth era l’unica, tra i nonni, che fosse ancora viva, ma viveva a Berlino Est e non poteva “passare il Muro”, e dato che mio padre non la sopportava e parlava con lei solo una volta all’anno, al telefono, d’inverno, io l’ho incontrata solo tre volte: la prima quando avevo tredici anni e mio padre mi portò a trovarla a Berlino Est, e poi altre due volte in Galles, quando avevo poco più di vent’anni, e a lei era stato concesso di uscire dalla Germania Est per far visita a mio padre.
   In quei casi, avrò passato un paio d’ore con lei, ma mai da solo. Lei se ne restava zitta perché non sapeva l’inglese e io non sapevo il tedesco. All’epoca, le domande che avevo bisogno di porle non avevano ancora preso pienamente forma, nel senso che non sarei riuscito a farle domande utili neanche se avessimo avuto una lingua in comune.
   L’effetto dell’assenza di mia nonna e del silenzio di mio padre su quelle questioni è stato che, come famiglia, abbiamo stupidamente abitato per lunghissimo tempo in un mondo ignoto e inspiegabile pieno di silenzi e di lutto inespresso.

da “L’ombra di Berlino. Vivere con i fantasmi del Kindertransport”, di Jonathan Lichtenstein, Mondadori, 2021

(LINKIESTA, 29 maggio 2021)


Gaza: la faziosità dell’ONU e il miraggio del disarmo di Hamas

di Gianandrea Gaiani

La risoluzione del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite sulle violazioni nei Territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme Est e in Israele, adottata con 24 voti favorevoli, 9 contrari e 14 astensioni getta benzina sul fuoco della difficile tregua tra Israele e Hamas mediata dall’Egitto.
   La risoluzione, marcatamente anti-Israele, prevede l’istituzione con urgenza di una commissione d’inchiesta internazionale permanente per indagare sulle violazioni delle norme del diritto internazionale precedenti e successive al 13 aprile 2021 e su tutte le cause profonde alla base delle tensioni, inclusa la discriminazione e la repressione sistematiche basate sull’identità nazionale, etnica, razziale o religiosa
   Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha denunciato l’iniziativa come “un altro esempio della palese ossessione anti-Israele del Consiglio dei Diritti Umani.
   “Ancora una volta un’immorale maggioranza automatica al Consiglio ha coperto una organizzazione terrorista genocida che prende deliberatamente di mira i civili israeliani trasformando i civili di gaza in scudi umani”, ha scritto su Twitter.
   “Questo viene fatto dipingendo come ‘parte colpevole’ una democrazia che agisce legittimamente per proteggere i suoi cittadini da migliaia di attacchi indiscriminati con i razzi. Questa farsa ridicolizza la legge internazionale e incoraggia i terroristi nel mondo”, ha aggiunto
   Il ministero degli esteri palestinese ha detto che riflette la “determinazione della comunità internazionale ad andare avanti sulla strada della responsabilità, dell’applicazione della legge e della protezione dei diritti umani palestinesi”. Hamas, nel frattempo, ha chiesto “misure immediate per punire” Israele.
   Per comprendere quanto possa essere paradossale il dibattito in alcuni consessi dell’ONU vale la pena sottolineare che al Consiglio dei Diritti Umani sono emerse anche accuse all’Italia per la “vendita di armi a Israele”.
   E’ “inconcepibile – si legge nel resoconto della discussione in seno al Consiglio dei diritti umani – che Stati tra cui Stati Uniti, Germania e Italia, forniscano ancora armi e assistenza militare al governo israeliano, nonostante il chiaro rischio di gravi violazioni del diritto internazionale dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario”.
   Resta difficile comprendere come i sottomarini realizzati nei cantieri tedeschi in dotazione alla Marina israeliana o gli addestratori Leonardo M-346 dell’Aeronautica abbiano avuto un ruolo nelle operazioni belliche a Gaza.
   Ci si sarebbe dovuti aspettare che le Nazioni Unite trovassero “inconcepibile” che a Gaza siano penetrati clandestinamente tra i 30 mila e i 50 mila razzi, incluse le forniture iraniane
   Semmai di fronte ai numeri di armi impiegate (quasi 4.500 razzi lanciati contro Israele e centinaia di incursioni israeliane a Gaza), l’ONU avrebbe dovuto ringraziare Israele per le perdite estremamente limitate considerando la massa di armi e la potenza di fuoco impiegata.
   A conferma che Israele ha ben difeso il suo territorio e ha colpito quasi sempre in modo “chirurgico” il nemico evitando carneficine tra i civili usati come “scudi umani” dai miliziani palestinesi.
   Il bilancio delle operazioni rende difficile attribuire la vittoria in modo netto e incontrovertibile. Hamas ha subito perdite rilevanti in termini di uomini e comandanti ma che potrà rapidamente compensare con nuovi arruolamenti e nomine mentre i razzi utilizzati, a cui aggiungerne alcune centinaia distrutti dai raid aerei israeliani nei depositi potrebbero rappresentare un sesto o addirittura in decimo dei 30 mila o forse 50 mila che secondo fonti d’intelligence israeliane e statunitensi sarebbero presenti a Gaza.
   Difficile quindi definire sconfitte Hamas e Jihad Islamica palestinese, che dispongono ancora in ogni momento delle capacità militari per riaprire le ostilità cercando di bersagliare le città israeliane.
   Gerusalemme sembra puntare oggi su un accordo internazionale che garantisca il disarmo di Hamas, impossibile però da accettare per i miliziani sostenuti dall’Iran ma anche da Turchia e Qatar.
   Inutile farsi illusioni che una missione internazionale possa raggiungere un simile obiettivo, specie tenendo conto che lo stesso ONU con le sue agenzie “terzomondiste” ha sempre mostrato massima severità nei confronti di Israele e mano morbida mista a tolleranza verso l’insurrezione e il terrorismo palestinese.
   Meglio ricordare che i 12 mila caschi blu schierati in Libano meridionale dal 2006 di UNIFIL 2 avevano tra i loro compiti previsti dalla Risoluzione dell’ONU il disarmo delle milizie presenti nel Sud del Libano (soprattutto quelle di Hezbollah) che a oggi non è mai stato neppure tentato su vasta scala e che, quando accennato dai caschi blu in sporadiche occasioni, ha visto energiche reazioni da parte di Hezbollah.
   Il disarmo di milizie così radicate sul territorio e che hanno il totale controllo della popolazione, volontario o basato sul terrore, si può concretamente attuare solo dopo aver inflitto loro una decisiva sconfitta militare.
   Nel caso di Hamas a Gaza l’unica possibilità di scongiurare nuovi lanci di razzi contro le città israeliane è riposta in un’operazione militare su vasta scala che permetta alle Israeli Defence Forces (IDF) di conquistare la Striscia di Gaza metro dopo metro eliminando ogni sacca di resistenza, distruggendo tutti i depositi di armi e razzi e catturando o uccidendo miliziani e comandanti dei due gruppi armati palestinesi.
   Certo Israele avrebbe difficoltà a giustificare alle cancellerie e all’opinione pubblica internazionale una durissima campagna militare casa per casa (resa ancor più feroce dalla resistenza che opporrebbero miliziani consapevoli di non avere scampo) e ancor di più il ripristino di quell’occupazione della Striscia che mantenne fino al ritiro del 2005.
   Un ritiro, giova ricordarlo, voluto dal premier (il “falco”) Ariel Sharon in base all’illusione che Israele avrebbe potuto barattare la pace con i vicini (Hamas ed Hezbollah) cedendo il controllo del sud del Libano (effettuato nel 2000 col premier laburista Ehuid Barak) e da Gaza cinque anni dopo.
   In realtà i fatti degli ultimi 15/20 anni hanno dimostrato il fallimento strategico di quel piano basato sul principio “terra in cambio di pace” che di fatto ha solo consentito ai nemici di Israele di godere di postazioni ravvicinate (la Striscia di Gaza e la Blue line di confine col Libano, per colpire il territorio dello Stato ebraico.
   Oggi anche un’opzione bellica tesa ad annientare i miliziani palestinesi, dovrebbe prevedere che Israele ceda successivamente il controllo del territorio di Gaza all’Autorità Nazionale Palestinese di Abu Mazen o a una forza neutrale.
   Liquidando ancora una volta l’ipotesi di un intervento dell’ONU, che non sarebbe né neutrale né in grado di tenere in pugno Gaza) l’unica possibile soluzione è riposta in un’intesa tra Gerusalemme e il Cairo che preveda la consegna di una Gaza “ripulita” da miliziani e razzi alle forze egiziane.
   Il Cairo, già alle prese con le milizie jihadiste del Sinai, avrebbe tutto l’interesse a stabilizzare Gaza ma potrebbe non essere disposta a schierare migliaia di soldati e poliziotti all’interno del territorio abitato da 2,5 milioni di palestinesi.
   Certo si tratta solo di ipotesi e opzioni che per ora non sembrano essere all’ordine del giorno. Tuttavia, se è vero che il disarmo di Hamas costituisce il primo passo verso la pace, è altrettanto vero che non potrà essere effettuato se non utilizzando con determinazione strumenti militari adeguati.

(Analisi Difesa, 28 maggio 2021)


Attacchi antisemiti allarme negli Usa Biden: “Devono cessare”

Aggressioni fisiche e vandalismi aumentati del 75% con il conflitto tra Israele e Hamas

222 - GLI EPISODI

Da quando è esploso il conflitto tra Israele e Hamas si sono verificati 222 episodi di violenza
59 - PRIMA DEL CONFLITTO

Tra il 26 aprile e il 2 maggio gli attacchi antisemiti sono stati 59
2024 - L'ANNO SCORSO

Nel 2020 I'Anti-Defamation League ha registrato negli Usa 2.024 episodi di violenza

di Anna Lombardi

NEW YORK — Il mattone contro la finestra di una sinagoga a Skokie, Illinois. Le minacce contro un’intera famiglia: «Muori ebreo, ti violentiamo moglie e figlia» a Bal Harbour, Florida. E poi la gang di sei persone che in pieno giorno ha attaccato a MidTown, Manhattan, Joseph Borgen, 29 anni e la kippah sulla testa, spruzzando gli spray al pepe in faccia e pestandolo poi con una stampella di metallo urlandogli: «Hamas vi farà fuori tutti» (due di loro sono stati arrestati). Episodi non isolati. E se nella sola New York gli attacchi a persone, negozi e sinagoghe sono stati così numerosi da spingere il sindaco Bill de Blasio a rinforzare la sorveglianza di luoghi di culto e centri ebraici, l’allarme riguarda l’intero il paese. Fra il 10 e il 22 maggio, nei giorni più caldi del conflitto esploso fra Israele e Gaza dove 267 persone sono morte (254 palestinesi, 13 israeliani) violenze antisemite sono state infatti registrate a Los Angeles, Chicago, Salt Lake City, Tucson e molte altre città. Tanto che perfino Joe Biden è intervenuto: «L’odio antisemita non ha diritto di cittadinanza né qui né altrove». A pure il leader progressista Bernie Sanders, il senatore del Vermont autore pochi giorni fa di un editoriale sul New York Times dove affermava «Palestinian Lives Matter», le vite dei palestinesi contano, lo ha ribadito: «Condanniamo uniti le violenze antisemite» ha detto intervenendo al Congresso.
  «In coincidenza con le due settimane di conflitto, abbiamo registrato in America 222 episodi di violenza antisemita. Un aumento del 63 per cento rispetto alle due settimane precedenti, quando erano stati 127. E se compariamo i 124 attacchi della settimana fra 17 e 23 maggio, ai 59 di quella fra 26 aprile e 2 maggio, l’aumento è addirittura del 75 per cento» dice a Repubblica Jessica Reaves, direttore editoriale del Center on Extremism della Anti-Defamation League, no profit che dal 1913 monitora gli episodi di odio antiebraico in America. «L’antisemitismo qui c’è sempre stato ma torna prepotente ogni volta che c’è un conflitto in Medio Oriente. È un odio meno ideologico di quello radicato in Europa, più “ignorante”, perché si fa una gran confusione fra ebrei americani, spesso liberal e con simpatie dem, e governo israeliano. Ma non per questo è meno grave». Sono i social a fare da traino: «E non piattaforme come 4Chan e Telegram dove gli estremisti sono di casa. Ma Twitter, Facebook, YouTube. I network dovrebbero assumersi più responsabilità. Insieme ai politici: giacché l’odio è cavalcato da destra come da sinistra. In America oggi tutti odiano tutti. Purtroppo, l’intolleranza scatena solo violenza. Non serve a nessuno. Ecco perché non possiamo far passare gli ultimi episodi sotto silenzio». Anche per questo quattro deputati dem, Josh Gottheimer, Elaine Luria, Katy Manning e Dean Phillips hanno scritto una lettera a Biden chiedendogli di nominare una sorta di ambasciatore generale che monitori e combatta l’antisemitismo. Mercoledì sera, alla Casa Bianca, c’è stato un incontro con 5 no profit cui ha partecipato pure il “second gentleman” Douglas Emhoff, marito di Kamala Harris che è appunto ebreo. «Col cessate il fuoco gli attacchi gradualmente diminuiranno» conclude Reaves. «Ma non illudiamoci. Pure quando non finisce in prima pagina l’antisemitismo cova. Dobbiamo fare di più».

(la Repubblica, 28 maggio 2021)


Guerra a Gaza, l'Onu indaga solo sugli israeliani

Aperta un'inchiesta su come Netanyahu si è difeso. Dal 1949 il Palazzo di Vetro ha condannato gli ebrei 70 volte. Gli arabi zero.

di Giovanni Longoni

L'Onu non si smentisce e parla di possibili crimini di guerra per gli attacchi israeliani in risposta ai lanci di razzi di Hamas. Ieri Michelle Bachelet, alto commissario del Palazzo di Vetro per i diritti umani, ha messo in questione la proporzionalità della risposta di Tsahal, le Forze armate israeliane.
   L'ex presidente cileno ha tenuto il discorso di apertura di una sessione speciale del Consiglio per i diritti umani richiesta dal Pakistan. Fra gli altri Paesi presenti attualmente nell'Ohchr ci sono la Cina, la Russia e l'Ucraina; non il massimo quanto al rispetto dei diritti umani.
   La Bachelet ha dichiarato di non aver visto prove finora che gli edifici civili colpiti a Gaza nei raid fossero usati per scopi militari (deve essere un'esperta di guerriglia). Ha criticato gli attacchi nelle aree urbane della Striscia, le più densamente popolate della Terra, con l'alto numero di caduti civili, fra cui 63 bambini, che la cosa ha comportato. La colpa è di Netanyahu, non di Nasrallah e soci che usano i civili arabi come scudi umani. E si è pure scagliata, la Bachelet, contro lo Stato ebraico per le azioni di polizia nei Territori occupati e persino per i tentativi di sedare gli scontri etnici intestini. «Se ritenuti sproporzionati, tali attacchi potrebbero costituire crimini di guerra», ha sentenziato l'esponente socialista. Subito dopo, il Consiglio ha deciso di avviare un'inchiesta internazionale sulle violazioni commesse nei territori palestinesi occupati e in Israele dal mese di aprile.

 «EVITATE DI SPARARE»
  E i terroristi di Hamas che hanno scatenato la guerra con la pioggia di razzi gentilmente fomiti da Teheran? Bachelet è rammaricata per i 13 morti israeliani, fra cui due bambini, ma non può evitare di notare che loro hanno l'Iron Dome che li protegge.
   Il punto di vista della Bachelet e dei funzionari del Palazzo di Vetro in genere traspare bene quando la cilena esorta Hamas «ad evitare i lanci indiscriminati di razzi», come se questo fosse un comportamento riprovevole e non il mezzo principale con cui il gruppo jihadista cerca di realizzare il suo scopo: l'annientamento di Israele.
   Ma c'è poco di cui stupirsi. Dal 1949 le Nazioni Unite si rifanno al principio dei due pesi, due misure come aveva notato Nikki Haley, ambasciatore Usa al Palazzo di Vetro ai tempi di Trump. Si contano una settantina di risoluzioni e prese di posizione Onu contro Israele, fra le quali anche recise condanne delle esecuzioni mirate di noti capi terròristi. Di contro, si fa fatica a trovare anche solo velate critiche alla dirigenza palestinese o agli Stati arabi alleati.
   È chiaro che l'alto numero di vittime innocenti ha choccato l'opinione pubblica israeliana. Ieri Haaretz; il principale quotidiano della sinistra, ha pubblicato i volti e le storie dei 67 ragazzini morti a Gaza. Il titolo: «Questo è il prezzo della guerra». E anche se le forze armate sostengono che non pochi di quei bambini sono rimasti vittime degli stessi razzi di Hamas, Israele si trova ancora una volta di fronte agli orrori del terrorismo. Finiti i conflitti tradizionali ed eroici con i vicini arabi, dagli anni '80 si susseguono le guerre sporche contro movimenti islamisti - Hamas, Hezbollah, Jihad islamica - poco ferrati sulle convenzioni di Ginevra e dell'Aja.

 NUOVE MINACCE
  Per capire come a Gaza intendono la tregua attuale, è utile quanto ha detto Yahya Sinwar, il più alto dirigente di Hamas nella Striscia, in un'intervista all'agenzia di stampa turca Anadolu: Hamas infrangerà il cessate il fuoco se Israele dovesse «profanare» la moschea di Al Aqsa o se le famiglie palestinesi di Sheikh Jarrah, sobborgo di Gerusalemme Est, dovessero essere «sfrattate». I razzi sono pronti sulle rampe.

(Libero, 28 maggio 2021)


Inchiesta Onu su Gaza. Ira di Israele: vergogna

Faro dopo i razzi lanciati sui palestinesi, «Potrebbero essere dei crimini di guerra» Netanyahu attacca: «Ossessione delle Nazioni Unite contro di noi»

di Anna Guaita

NEW YORK - La guerra delle bombe e dei razzi è ferma per il momento, ma quella delle parole continua anche più infiammata. Il Consiglio dei Diritti Umani dell'Onu, che ha sede a Ginevra in Svizzera, è entrato fermamente nella lotta fra palestinesi e israeliani, decidendo di aprire un'inchiesta sulla sanguinosa battaglia che si è fermata lo scorso 21 maggio dopo un inteso lavorio diplomatico internazionale. La presidente del Consiglio, Michelle Bachelet, ha preso posizione di condanna sui razzi lanciati da Hamas contro Israele, che ha definito «una chiara violazione della legge umanitaria internazionale», ma è stata più dura nei confronti di Israele e delle sue bombe, rivelando che gli agenti Onu in loco «non hanno trovato prove che le costruzioni colpite fossero usate a scopi militari o ospitassero gruppi armati». Bachelet ha ammonito che se l'inchiesta aperta dimostrasse che effettivamente gli attacchi di Israele a Gaza sono stati «indiscriminati e sproporzionati, potrebbero costituire crimini di guerra», e ha concluso che «non ci sono dubbi che Israele abbia diritto a difendere i propri cittadini e residenti. E tuttavia i palestinesi hanno anch'essi diritti. Gli stessi diritti».

 BOTTA E RISPOSTA
  La reazione di Israele è stata immediata e arrabbiata. Il premier Benjamin Netanyahu ha accolto la decisione del Consiglio per i Diritti Umani sostenendo che deriva da «una chiara ossessione anti Israele». Netanyahu ha sostenuto che ancora una volta «un'immorale maggioranza automatica al Consiglio ha coperto una organizzazione terrorista genocida (Hamas) che prende deliberatamente di mira i civili israeliani trasformando i civili di Gaza in scudi umani». Secondo il premier, il Consiglio attribuisce automaticamente la colpa «a una democrazia che agisce legittimamente per proteggere i suoi cittadini da migliaia di attacchi indiscriminati con i razzi». E ha concluso che l'apertura dell'inchiesta non è che una farsa che «ridicolizza la legge internazionale e incoraggia i terroristi nel mondo». Una certa disapprovazione è venuta anche dagli Usa, la cui missione a Ginevra ha rilasciato una dichiarazione in cui si esprime rammarico per la decisione del Consiglio. E' bene ricordare che gli Usa non fanno parte del Consiglio sui Diritti Umani dell'Onu e quindi sono presenti a Ginevra solo come osservatori.
   La seduta di ieri è stata convocata su richiesta. del Pakistan, uno dei.47 Paesi che formano il Consiglio. A sua volta, il Pakistan agiva . per conto dei palestinesi e dell'Organizzazione della Cooperazione Islamica. I palestinesi hanno chiesto all'assemblea dei Paesi riuniti che venga condotta un'indagine sulla «sistematica violazione dei diritti civili» che sarebbe compiuta da Israele sui palestinesi nei territori occupati. E' stata ascoltata anche una attivista venuta dal quartiere di Sheìkh Jarrah, dove decine di famiglie palestinesi vengono sfrattate da case che secondo la legge appartenevano a israeliani e devono essere restituite a loro: «Non vogliamo la vostra simpatia - ha detto Muna El-Kurd -. Vogliamo che fermiate questa pulizia etnica ai danni dei palestinesi». Sono accuse pesantissime, che Israele rintuzza categoricamente, come ha rifiutato la denuncia di «apartheid», attribuita al ministro degli Esteri di Parigi Jean-Yves Le Drian che, in un'intervista dei giorni scorsi, ha parlato appunto di un «rischio apartheid» nello Stato ebraico a causa delle violenze tra arabi e ebrei durante il conflitto. Il ministro degli Esteri israeliano Gabi Ashkenazi ha espresso forte contrarietà: «Quelle di Le Drian - ha detto- sono parole inaccettabili che distorcono la realtà. Ci aspettiamo dagli amici che non si esprimano in maniera irresponsabile».

(Il Messaggero, 28 maggio 2021)


L'ultimo sfregio dell'Onu, «Crimini di guerra i raid di Israele su Gaza»

Ne discute il Consiglio per i diritti umani. Avviata un'inchiesta internazionale

PREMESSE E DIMENTICANZE
Ma Hamas usa i civili come scudi umani e ha lanciato 4500 missili
CAMPAGNA CONTRO
Intanto pure il quotidiano «Haaretz» mostra solo i bimbi palestinesi uccisi

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Non è un giocattolo, qualcuno dovrebbe dire al Consiglio dell'Onu, non sono roba vostra i diritti umani tanto che possiate usarli a vostro piacimento per delegittimare Israele con una risoluzione, una commissione, un'accusa insensata. L'accusa è facile da gestire, «crimini di guerra»: poiché ci sono dei civili morti anche se su 283, 254 sono, secondo l'Idf, in realtà guerriglieri o leader di Hamas. Il fatto che fossero in edifici civili, ha dato legittimazione tecnica per sostenere che Israele ha agito contro degli innocenti. Anche se è ovvio che nella guerra di Hamas i civili sono gli scudi umani che il gruppo terrorista usa per difendere le sue postazioni da cui partono missili progettati e programmati per lo scopo di colpire i civili israeliani. È impossibile, quando il nido di missili che ti spara è dentro una casa o un ufficio, far finta di niente per compiacere l'Onu, ignorare i tuoi cittadini. Se non fermi il missile, verranno feriti o uccisi.
   Il nominalismo è il genitore legittimo della menzogna, e la menzogna serve, in questo caso, alla legittimazione dell'odio contro Israele. Stavolta il movimento di odio è più vasto del solito. Attenzione, vorremmo avvertire la presidente signora Bachelet: il giuoco è vasto, come è stato spesso nel passato quando ci si avventura nell'anti-semitismo. La religione dei diritti umani mostra una grave crisi poiché vuole incriminare uno Stato, lo Stato ebraico aggredito per motivi ideologici con 4500 missili da un'organizzazione terrorista. Questo rischia di creare una valanga ideologica: la religione dei Diritti Umani infatti è quella dominante dalla fine della Seconda Guerra Mondiale: dopo che la Storia d'Europa, della grande civilizzazione occidentale, franò sulle ceneri create dall'odio contro gli ebrei. La civiltà dei diritti umani, il Palazzo di Vetro, brucia oggi sulle menzogne che costruisce sullo Stato del Popolo Ebraico, ovvero su Israele, ovvero sugli ebrei. Certo, ci sono ebrei parte della medesima cultura, come quelli del giornale Ha'aretz che ha pubblicato ieri in prima pagina le foto dei bambini morti a Gaza. Un'accusa non a caso copiata dal New York Times, che ha condotto per tutta la guerra una campagna contro Israele. Che Ha' aretz lo segua non stupisce: la sacrosanta moralità ebraica è sovente preda di confusione, e la delegittimazione dell'impresa del popolo ebraico di tornare alla sua terra è oggetto di molti fanatismi, da quello ultrareligioso a quello comunista, ambedue antisionisti. Oggi Israele è fra gli oppressori nella testa malata di chi ha bisogno di nemici.
   Ieri è accaduto di nuovo, un altro mattone della delegittimazione dello Stato Ebraico, della speranza di vederlo sparire nel disprezzo dei suoi nemici: l'Unhrc, ovvero il Consiglio per i diritti umani dell'Onu ha messo all'ordine del giorno addirittura un embargo di armi a Israele mentre stabilisce una commissione, una delle tante che esistono solo per Israele, per investigare quelli che già definisce «crimini di guerra contro i palestinesi». La Risoluzione è di iniziativa palestinese e pakistana, a nome dell' Organizzazione della Cooperazione Islamica. Sarebbe la prima volta che l'Unhrc crea una sua commissione permanente dedicata a uno Stato. Deve essere davvero uno Stato molto pericoloso.
   D'altro canto quando nel 2006 la «Commissione» fu rinominata «Consiglio» proprio per cercare di mettere un velo sull'odio antisraeliano che ne aveva sempre permeato il lavoro, dei 191 Stati membri, compresi l'Iran e la Cina, nessuno fu dichiarato violatore dei diritti umani, e Israele lo fu 27 volte. L'Onu è fatta tutta così: un terzo e più di tutte le sue risoluzioni di condanna sono dedicate a Israele, le maggioranze sono un'automatica costruzione islamico-terzomondista, col contributo dell'opportunismo, della paura dei Paesi Occidentali. Compresa l'Italia, anche questa volta.
   Crimine di guerra indagato sarebbe dunque difendere la propria gente da un'aggressione terrorista, operata da un gruppo omicida che domina due milioni di persone con una ideologia omicida dedicata non solo agli ebrei, ma a tutto l'Occidente. Crimine di guerra è difendere la popolazione, apartheid stabilire un confine come farebbe qualsiasi Paese specie se il vicino vuole ucciderti. Il disegno è chiaro: delegittimare fino a distruggere. Ma è un disegno stantio, inutile, Israele ha tutti i mezzi per impedirlo.

(il Giornale, 28 maggio 2021)


I messaggi da Pavia e una manciata di terra nelle fosse

L'addio in Israele ad Amit, Tal e Tom. L'ambasciatore italiano: grande emozione

Il villaggio è intitolato a Israel «Aviel» Epstein che nel 1946 fu inviato in Italia dall’Irgun, il movimento di resistenza della destra ebraica, e in Italia fu ucciso. Aviel è un moshav, una piccola comunità agricola tirata su nel nord del Paese dove la piana lungo il mare sale tra le colline della Galilea: chi vive qui non condivide tutti gli stipendi e le spese come in un kibbutz, di sicuro spartisce il dolore e la forza per provare a sopravvivere. Amit, Tal e il piccolo Tom sono stati seppelliti ieri e tutti hanno voluto partecipare. I genitori e i fratelli hanno letto il messaggio inviato dagli amici di Pavia prima di gettare una manciata di terra nelle fosse, come vuole la tradizione. «Un blocco umano unico. Una sensazione di unità che è difficile incontrare. Per me un'emozione fortissima» dice Gianluigi Benedetti, l'ambasciatore italiano in Israele, all'agenzia Ansa. A lui gli abitanti hanno raccontato di questi «figli del villaggio», dei legami tra la famiglia di Tal e l'Italia, le radici riscoperte a Livorno. «Molti anni dopo la morte della bisnonna - spiega - hanno ritrovato per caso in un armadio il suo passaporto e tutte le foto del passato. Da lì hanno ricostruito la cittadinanza di quel ramo. Tal era italiana e, storia nella storia, Amit è andato a studiare medicina in ' Italia per la moglie». La mamma di Amit gli ha parlato «di un destino, dovevano assolutamente vivere nel nostro Paese. Tom era nato lì. Ed Eitan, mi ha detto il nonno, è considerato dai famigliari un italiano: per come si comporta e per come è cresciuto». Oggi si svolgono i funerali di Itzhak e Barbara, i nonni di Tal, anche loro deceduti sulla funivia del Mottarone. D.F.

(Corriere della Sera, 28 maggio 2021)


*


Gli zii di Eitan: "Siamo distrutti, presto in Italia per avere giustizia"

Parlano da Israele Ron e sua moglie Gali Peleg, gli zii di Eitan unico sopravvissuto della tragedia del Mottarone

di Cristina Palazzo

"Mia moglie è devastata. Hanno cercato di risparmiare sulla manutenzione della funivia e il costo da pagare, adesso, è la vita delle persone che erano su quella cabina. E delle loro famiglie. È un disastro. Quando il momento più difficile sarà passato, faremo tutto il possibile affinché i responsabili paghino per le loro azioni". Sono parole di rabbia e dolore quelle di Ron e sua moglie Gali Peleg, la zia di Eitan, unico sopravvissuto della tragedia del Mottarone. Entrambi si trovano Israele dove ieri si sono celebrati i funerali della famiglia Biran/Peleg. La comunità ha dato l'ultimo saluto ad Amit, Tal e Tom, padre, madre e fratellino di Eitan e dei bisnonni Barbara e Itzhak Cohen.
    Si susseguono intanto i bollettini sulle condizioni di salute del bimbo che nel lettino dell'ospedale Regina Margherita di Torino da martedì sta iniziando il lento risveglio e ieri ha parlato con l'altra zia Aya, sorella di Amit che si è precipitata in Italia per accudirlo e confortarlo. Resta in prognosi riservata per i traumi riportati.

- I medici dicono che presto dalla Rianimazione sarà trasferito in reparto. Cercherete di esserci anche voi?
   "Se sarà possibile saliremo sul primo aereo per essergli vicino. Noi vogliamo aiutarlo per tutto quel che possiamo. Sappiamo che la situazione sta migliorando ma è ancora sotto terapia. Ci dicono che è sveglio ma ancora non del tutto cosciente".

- Ogni giorno ci sono sviluppi anche sull'inchiesta sull'incidente. State seguendo?
   "Purtroppo in questo momento non abbiamo la forza di leggere le notizie e non possiamo davvero seguire quanto sta succedendo. Da quel che abbiamo sentito, però, il proprietario della funivia avrebbe fatto tutto di proposito".

- Come avete saputo della tragedia?
   "Abbiamo ricevuto una telefonata alle 21,30 da mia sorella che ci informava di aver sentito al tg che in Italia era successo qualcosa di brutto. Sapeva che la nostra famiglia era in viaggio in quella zona. Subito dopo il padre di Tal ci ha detto che aveva brutte notizie per noi. È un disastro".

- Due giorni fa ci sono stati degli arresti. Siete stati informati?
   "Sì ma non abbiamo ancora approfondito la notizia. È stata una giornata molto dura con i funerali di Tal, Amit e Tom e anche oggi sarà una giornata difficile con i funerali di Barbara e Itzhak. Ora siamo concentrati su questo e sulla preghiera per la salute di Eitan".

- Preghiere di speranza che da tutto il mondo stanno arrivando per il bimbo. Percepite questa vicinanza?
   "Sì, la comunità israeliana è molto colpita da questo disastro. Stiamo ricevendo continui messaggi di conforto. Tutti in Israele la stanno vivendo come se Eitan fosse un figlio e vogliono che stia bene. Riceviamo messaggi continui dall'Italia. Ci scrivono da Francia, Stati Uniti, Islanda, Sud Africa. Stiamo chiedendo a tutti di pregare per Eitan affinché esca sano e salvo da questo".

(la Repubblica, 28 maggio 2021)


"Israele non ha alcun interesse a muover guerra"

di Claudio Maruzzi

L’eterno e irrisolto conflitto tra arabi ed ebrei (oggi tra Hamas e Israele) ha motivazioni assai complesse e ha dato luogo nel mondo e nei decenni a contrapposizioni ideologiche anche violente, in gran parte originate da una confusa, quindi, fallace conoscenza della storia. Al di là del suggestivo problema della titolarità originaria di quei territori, il corto circuito politico che sembra impossibile da sciogliere si incentra sul tema “due popoli, due Stati”, con reiterati equivoci sui responsabili della mancata realizzazione di questo scenario. Ebbene, pochi sanno che per ben cinque volte Israele ha accettato questa soluzione e che per ben cinque volte i palestinesi hanno opposto un rifiuto. Eppure ce lo dice la storia. Vediamo d’appresso:
  1. Dopo la dissoluzione dell’Impero Ottomano dopo la prima guerra mondiale, la Gran Bretagna ha preso il controllo di gran parte del Medio Oriente compresa l’area che costituisce l’Israele moderno. Nel 1936, gli arabi si ribellarono contro gli inglesi e contro i loro vicini ebrei. La Commissione Peel istituita dagli inglesi propose di creare due Stati indipendenti, offrendo l’80% del territorio conteso agli arabi e agli ebrei il restante 20%. Gli ebrei accettarono la proposta, gli arabi no e ripresero la loro violenta ribellione.
  2. Nel novembre 1947 l’Onu votò per la creazione di due Stati. Anche in questo caso gli ebrei accettarono, gli arabi no: Giordania, Egitto, Iraq, Libano e Siria lanciarono un’offensiva a tutto campo contro la nascente Israele, ma furono clamorosamente sconfitti e nel maggio 1948 nacque lo Stato d’Israele. Cisgiordania e Gerusalemme Est divennero territori occupati, non da Israele, ma dalla Giordania.
  3. Nel 1967 Egitto, Siria e Giordania, cercarono ancora una volta di distruggere lo stato ebraico, nella “guerra dei sei giorni” che si concluse con una sorprendente vittoria per Israele, che conquistò Gerusalemme, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Metà del governo voleva restituire la Cisgiordania e Gaza all’Egitto in cambio della pace, l’altra metà voleva cederlo agli arabi della regione, nella speranza che alla fine vi avrebbero costruito il loro Stato. La Lega Araba dopo qualche mese sancì: nessuna pace, nessun riconoscimento, nessun negoziato con Israele.
  4. Nel 2000 il premier israeliano Barak, con la mediazione del presidente Usa Clinton, offrì al capo dell’Olp Arafat uno stato palestinese e il 94% della Cisgiordania con Gerusalemme Est come capitale. Arafat rifiutò l’offerta e i palestinesi lanciarono una sanguinosa ondata di attentati suicidi con migliaia di morti.
  5. Altro no nel 2008 di Abbas a Olmert. Tre anni prima, nel 2005, il premier Sharon decise unilateralmente il ritiro da Gaza, lasciando ai palestinesi il completo controllo della zona, che ne hanno fatto una base terroristica, dalla quale hanno lanciato migliaia di razzi su Israele. Nella continua diatriba che si scatena ogni qualvolta si riaccendono i fuochi della guerra in quel territorio, con assurdi e sterili scontri ideologici su chi aggredisce chi, su chi sono i buoni e chi sono i cattivi, su chi sono gli aggressori e chi gli aggrediti, basterebbe fermarsi alla semplicissima, quasi banale, considerazione che Israele non ha alcun interesse a fare guerra ai palestinesi.
Quindi, sembra innegabile che sia Israele l’aggredito, che abbia tutto il diritto di difendersi e che “l’accensione della miccia” in quella parte di mondo venga periodicamente organizzata da chi ha interesse a rimodulare dinamiche geopolitiche di volta in volta incombenti. Riconoscere queste realtà di fondo favorirebbe sicuramente un dibattito meno fazioso e più fedele alla realtà.

(il Resto del Carlino - Ferrara, 28 maggio 2021)


Usa: in 23.000 partecipano alla manifestazione online contro l'antisemitismo

Hanno partecipato in 23.000 giovedì 27 maggio alla manifestazione virtuale contro l’antisemitismo organizzata dall’Anti Defamation League (ADL) sulla scia di un aumento dell’antisemitismo a livello nazionale dopo il recente conflitto fra Israele e Gaza. Gli ebrei sono stati aggrediti e sinagoghe e altri luoghi ebraici vandalizzati nelle città di tutto il paese.
   Come riporta JTA, l’evento ha visto un raro accordo tra i leader repubblicani e democratici al Congresso sulla necessità di combattere l’odio per gli ebrei. Un rappresentante del presidente Joe Biden ha pubblicizzato le azioni della sua amministrazione per combattere l’odio, e i repubblicani hanno menzionato un disegno di legge che avevano proposto per combattere l’antisemitismo, ma nessuna delle due parti ha menzionato l’altra.
   Invece, il presidente della Camera Nancy Pelosi, il leader della minoranza alla Camera Kevin McCarthy, il leader della maggioranza al Senato Chuck Schumer (che è ebreo) e il leader della minoranza al Senato Mitch McConnell hanno tutti denunciato l’antisemitismo usando messaggi in gran parte simili.
   “Nelle ultime settimane abbiamo assistito a un picco preoccupante di fanatismo e violenza contro le comunità ebraiche in tutto il paese e nel mondo”, ha detto Pelosi. “Questo odio è orribile e straziante. Non dobbiamo esitare a chiamarlo per quello che è: antisemitismo “.
   McCarthy ha promesso che “i mostri che stanno attaccando gli ebrei americani [affronteranno] una giustizia rapida e duratura”. Schumer ha detto che “l’antisemitismo è vile, riprovevole e contrasta tutto ciò che l’America rappresenta”. McConnell ha detto che “il mondo moderno sa fin troppo bene cosa succede quando questo male si scontra con il silenzio”.
   L’evento ha visto la partecipazione di un’ampia platea di politici, celebrità e leader religiosi, dal Hall-of-Famer dell’NBA Ray Allen a Timothy Dolan, l’arcivescovo cattolico di New York, che ha parlato stando in piedi accanto a una menorah.
   C’erano rappresentanti di organizzazioni che rappresentavano neri, latini, cinesi, musulmani e indiani d’America, tra gli altri. Molti degli oratori hanno sottolineato la necessità di sradicare tutte le forme di odio, un approccio che alcuni hanno criticato per aver attenuato il problema unico dell’antisemitismo.
   L’evento ha ricordato la marcia dello scorso anno contro l’antisemitismo a New York City, che ha portato 25.000 persone a camminare sul ponte di Brooklyn per protestare contro una serie di attacchi alla fine del 2019 contro gli ebrei nell’area di New York.
   "Vorrei che non dovessimo essere qui, a manifestare in difesa delle comunità ebraiche in tutto il mondo e proprio qui nel nostro paese”, ha detto il rappresentante della Florida Ted Deutch, che è ebreo. “Ma lo facciamo. Lo facciamo sempre, perché nessuno di noi rimarrà in silenzio mentre gli ebrei vengono intimiditi, minacciati, attaccati e persino uccisi a causa di ciò che siamo “.

(Bet Magazine Mosaico, 28 maggio 2021)


Il bimbo col mitra di Hamas è il terrorismo in culla

di Fiamma Nirenstein

Le immagini valgono spesso più di molte parole, e la foto di Yehie Sinwar, capo di Hamas che brandisce, davanti alla folla festante un bambino cui ha messo in mano un mitra, ha un messaggio multiplo: noi gestiremo le vostre vite e i vostri figli, sto tenendo questa creatura in braccio davanti a me come scudo, proprio come abbiamo usato i vostri bambini per farne scudi umani in difesa dei nostri missili. Qui a Gaza, sappiate che proseguiremo nella nostra educazione omicida fin dalla prima infanzia, la riteniamo vincente, getteremo Israele in mano, anzi sarà questo bambino che lo farà. Dei bambini non faremo scienziati, o tecnocrati, o musicisti. Ne faremo terroristi a caccia di ebrei, shahid della causa della conquista islamista prima di Israele e poi dell'intero mondo occidentale.
   Voi che avete marciato nelle strade europee per difendere la cosiddetta causa palestinese e contro gli ebrei, dice qui Sinwar, tenetelo a mente: questo bambino è nelle mie mani, quindi adesso mi impossesso della sua innocenza, domani della sua vita. Avrà un mitra in mano come me perché ho il potere di insegnarglielo, come detta la nostra Carta che disegna come scopo la cancellazione dello Stato di Israele, l'uccisione degli ebrei, la Guerra Santa contro l'Occidente infedele. Leggete. Questo, sappiatelo, dice Sinwar alla folla sua, e a quella che ha marciato con slogan come «non devi essere mussulmano per difendere la Palestina, devi solo essere umano» ( questo si è visto a Roma) oltre a «Palestina dal fiume al mare», cioè senza ebrei, nelle strada in questi giorni a Parigi, a Londra, A New York. Una solidarietà confusa e ignorante, che immagina che Gaza sia occupata, che non sa che è Hamas ad aver attaccato senza ragione la popolazione civile di Israele con più di 4000 missili forniti o costruiti d'accordo con l'Iran. Oppure, che è semplicemente antisemita.
   Adesso, dopo la guerra degli 11 giorni, molti cercano di immaginare una strada per curare le ferite: il presidente degli Stati Uniti Joe Biden e il suo segretario di Stato Blinken, in queste ore in visita in Medio Oriente, parlano di aiuti che devono «ricostruire» Gaza senza passare dalla mani di Hamas. Ma non è possibile: Hamas ha le sue mani su Gaza e sul popolo palestinese esattamente come le mani di Yehie Sinwar, capo di Hamas, ghermiscono quel povero bambino e lo scaraventano davanti a un microfono con un mitra in mano.
   Ci sarà molto presto un'altra guerra se uomini come Sinwar potranno mettere le mani sugli aiuti che si preparano già nei corridoi dell'Ue e del Congresso americano per Gaza, anche se si pensa che debbano passare per la strada di Ramallah. Ramallah non ha né la forza né la voglia, adesso di contrapporsi a quella che è una mentalità di maggioranza nel mondo palestinese. Si affidino gli aiuti ai Paesi arabi dei Patti di Abramo.

(il Giornale, 27 maggio 2021)


Non c’è pace senza la fine del suprematismo arabo-islamico

Alla base del conflitto non c’è una questione territoriale, come dimostra la storia dei costanti rifiuti palestinesi. Il cuore è l’idea che il Tempio di Salomone non sia mai esistito, un rifiuto radicale che alimenta la propaganda dei fondamentalisti e che ha prodotto migliaia di morti. Vi è un a priori religioso, finalistico, teologico che impedisce la fine della guerra.

di Carlo Panella

L’ultima guerra di Gaza, iniziata da Hamas e subìta da Israele, come tutti gli scontri sanguinosi tra israeliani e palestinesi iniziati nel 1921 ben prima che gli ebrei avessero uno Stato e un esercito, è stata scatenata da duri scontri sulla Spianata delle Moschee, detta anche Haram al Sharif o di al Aqsa.
   È divampata su un nodo sconosciuto all’Occidente: il suprematismo arabo-islamico nega che su quella Spianata fosse eretto, come indubbiamente fu eretto, il Tempio di Salomone, epicentro dell’ebraismo. I palestinesi che vi accorrono testimoniano nei loro slogan l’odio implacabile per gli ebrei che pretendono, a ragione, il rispetto della memoria di un luogo per loro sacro.
   Una negazione radicale, quanto falsa, che produce la negazione arabo-islamica del rapporto intrinseco tra Gerusalemme e l’ebraismo. Caposaldo religioso della negazione della legittimità stessa dello Stato di Israele. È questa la dimostrazione che quello non è un conflitto solo per la terra, non è e non è mai stata solo una guerra tra il nazionalismo israeliano e il nazionalismo palestinese. È un conflitto nella quale la molto invocata soluzione “due popoli, due stati” si è rivelata impraticabile perché il suprematismo religioso arabo-islamico impedisce da un secolo la pace.
   Il super ego arabo-islamico afferma non solo che su quella Spianata non si ergesse per nulla il Tempio degli ebrei, ma anche che la Palestina è sempre stata storicamente solo degli arabi, mai degli ebrei. Questo Islam nega incredibilmente quanto veementemente il rapporto storico e intrinseco degli ebrei con Gerusalemme e la terra di Israele.
   La sintesi vincente tra i palestinesi è quella di Hamas che afferma nel suo Statuto che la Palestina «è un Waqf, deposito legale, terra islamica affidata alle generazioni dell’Islam fino al giorno della resurrezione. Non è accettabile rinunciare a nessuna parte di essa. Nessuno Stato arabo, né tutti gli Stati Arabi insieme, nessun re o presidente, né tutti i re e i presidenti messi assieme, nessuna organizzazione né tutte le organizzazioni arabe unite hanno il diritto di disporre o di cedere anche un solo pezzo di essa». E Hamas è oggi egemone sia a Gaza sia in Cisgiordania.
   Dunque vi è un a priori religioso, finalistico, teologico di parte palestinese e islamica che è il vero sostanziale nodo della irresolvibilitá del conflitto con gli ebrei.
   E questa non è la posizione solo di Hamas, ma è la base sostanziale e diffusa in tutta la Umma islamica che ha prodotto infiniti conflitti e guerre dal 1921 a oggi. L’Occidente non comprende questo punto discriminante e da questo equivoco nasce buona parte della simpatia dell’opinione pubblica per i palestinesi “oppressi da un invasore”.
   Sia chiaro: l’elemento nazionalista e il tema della “terra”, sin dal 1921, erano presenti e dominanti in una parte consistente, ma minoritaria, della leadership arabo palestinese, che faceva capo al clan palestinese dei Nashashibi, al re dell’Iraq Feisal e ai suoi successori sino al 1958 e al re di Giordania Abdullah.
   Questa componente nazionalista araba è sempre stata incline e disponibile a un accordo, a un compromesso sulla spartizione del territorio. Non le riportiamo qui, ma molteplici sono le dichiarazioni e le azioni di Feisal al Hashemi e dei suoi successori alla guida dell’Iraq sino al 1958, come di suo fratello il re di Giordania Abdullah al Hashemi, come del leader palestinese Raghib Nashashibi a favore di una pacifica spartizione territoriale tra sionisti e palestinesi. Ma non è un caso fortuito che sia Raghib Nashashibi, nel 1941, sia re Abdullah, nel 1951, siano stati uccisi da sicari dell’islamista Gran Muftì di Gerusalemme.
   Sta di fatto che si impone una verità innegabile: tutte le leadership palestinesi e quelle arabe hanno marginalizzato questa componente nazionalista e hanno rifiutato tutte le soluzioni del conflitto basate sulla partizione concordata tra ebrei e arabi del territorio della Palestina.
   È bene ricordare l’elenco impressionante di questi rifiuti, sempre dimenticati in Occidente:
  • 1936: la dirigenza palestinese del Gran Muftì Haji Hussein rifiuta la proposta avanzata dalla Commissione Peel della formazione di uno Stato Arabo esteso per i quattro quinti della Palestina e di un mini Stato ebraico esteso solo su un quinto del territorio della Palestina su soli 5.000 chilometri quadrati (un quarto dell’attuale Israele).
  • 1939: la dirigenza palestinese del Gran Muftì rifiuta il Libro Bianco di Londra che esclude totalmente la nascita di uno Stato ebraico in Palestina e che prevede la formazione solo di uno Stato arabo su tutto il territorio della Palestina. La motivazione del rifiuto palestinese è l’immigrazione prevista di 75.000 ebrei dall’Europa nell’arco di 5 anni.
  • 1947: la Lega Araba e la dirigenza palestinese del Gran Muftì, accusato dagli Alleati di collaborazionismo con Hitler, rigettano la decisione dell’Onu di fondare uno Stato arabo in Palestina accanto a uno Stato ebraico esteso su un territorio molto minore. Se avessero accettato, lo Stato arabo di Palestina esisterebbe da 74 anni e non sarebbe deflagrata la guerra del 1948, disastrosamente persa dagli arabi nonostante il rapporto di forze militari fosse di 10 a 1 a loro favore.
  • 1949: dopo la sconfitta della guerra contro Israele, la Lega araba e la dirigenza palestinese, che è sempre del Gran Muftì nonostante si sia alleato con Hitler, rifiuta la proposta del governo israeliano di Ben Gurion di trasformare la linea dell’armistizio (Linea Verde), che esclude Cisgiordania e Gaza, in confini definitivi e riconosciuti ufficialmente dello Stato Ebraico. Questo riconoscimento avrebbe escluso la possibilità di Israele di impiantare colonie ebraiche nei Territori dopo la conquista del 1967.
  • 1967: dopo la vittoria di Israele nella Guerra dei sei giorni, il governo di Gerusalemme propone ai paesi arabi il Piano Allon che, in cambio del riconoscimento arabo e palestinese dello Stato ebraico, prevede la restituzione di tutti i territori occupati, fatta salva una fascia di 10 chilometri nei siti più esposti di Israele (ad esempio l’aeroporto di Lod). La Lega Araba e l’Olp rifiutano la proposta ribadendo nella conferenza di Khartoum del 2 settembre 1967: nessun riconoscimento di Israele, nessun accordo con Israele, nessuna pace con Israele.
  • 1979: Anwar el Sadat viene espulso dalla Lega Araba su istanza di Yasser Arafat (e poi assassinato dai prodromi di al Qaida) per avere firmato con Israele e con Menahem Begin gli Accordi di Camp David basati esclusivamente sul reciproco riconoscimento statuale in cambio della fine dell’occupazione israeliana del Sinai.
  • 2000: Yasser Arafat, nonostante gli Accordi di Oslo del 1993, rifiuta la restituzione del 97% dei Territori occupati da Israele, inclusa, si badi bene, Gerusalemme Est, proposta dal premier israeliano Ehud Barak, grazie alla mediazione di Bill Clinton e lancia la disastrosa e sanguinaria Intifada delle Stragi, per i palestinesi Intifada di al Aqsa.
Questo ultimo, cruciale, rifiuto di Arafat, che troppi oggi dimenticano, che ha dell’incredibile, e che Abu Mazen riconoscerá come un errore, contiene in sé non solo la conferma del fatto che il dato territoriale, la restituzione della terra araba occupata, è da sempre secondario per la dirigenza palestinese, ma rimanda al carattere insuperabilmente religioso del conflitto.
   L’unica motivazione che può spiegare l’incredibile rifiuto di Arafat di accettare la restituzione da parte di Israele di praticamente tutti i Territori occupati è infatti data dal suo risvolto religioso: accettandola Arafat avrebbe sigillato il riconoscimento definitivo della sovranità ebraica su Israele (confusamente implicito negli accordi di Oslo) e quindi negato il carattere di esclusiva unicità arabo-islamica della Palestina.
   Insomma, avrebbe violato il codice sacro all’Islam, di puro suprematismo religioso, imperniato sulla sacralità islamica e solo islamica di Gerusalemme.
   Si rivela, in quel rifiuto, la duplicità ambigua di un Arafat che in inglese parlava il lessico del nazionalismo e che subito dopo, in arabo, eccitava al Jihad, agli assassini kamikaze col lessico del suprematismo islamico. Alla morte di Arafat, nel 2004, il suo successore, poi eletto da una votazione popolare nel 2006, fu Abu Mazen, che aveva criticato come avventurista la Intifada delle Stragi (di al Aqsa per i palestinesi) e che rappresentava e rappresenta la componente minoritaria nazionalista, meno obbediente al diktat islamico, del movimento palestinese.
   Ma la nuova leadership nazionalista fu subito ridimensionata nello stesso 2006 dalla vittoria piena di Hamas nelle elezioni politiche a Gaza. Seguì nel 2007 una guerra civile inter palestinese a Gaza con centinaia di vittime nella quale Hamas espulse o massacrò i seguaci di Abu Mazen
   Da allora, la Palestina vive un dualismo di leadership nel quale, come sempre da un secolo in qua, la componente nazionalista disponibile alla trattativa risulta sempre più minoritaria (e nel caso di Abu Mazen corrotta e inconcludente nelle sue richieste e trattative), mentre anche in Cisgiordania si impone e acquista consensi e forza politica la componente religiosa intransigente di Hamas che nel 2008, nel 2014 e oggi ha scatenato a freddo guerre di aggressione a Israele proprio da Gaza, sempre incentrate su Gerusalemme.
   Noto che Gerusalemme viene definita terza città Santa dell’Islam, ma è assolutamente ignoto ai più che in essa, nella Spianata delle Moschee, è contenuta la legittimità stessa della narrazione, del Verbo del Corano. È anche poco noto un fatto che invece, come si è detto, è fondamentale: i palestinesi e gli islamici sostengono l’incredibile, il falso, ovvero che il Tempio di Salomone di Gerusalemme non è mai esistito, al massimo era collocato in un area ben diversa dalla Spianata delle Moschee.
   Questo perché Maometto ha definito nella XVIIa sura del Corano la piena continuità della sua profezia con quella di Abramo, quindi il suo essere il sigillo della profezia, descrivendo appunto il suo “viaggio notturno” sulle braccia dell’arcangelo Gabriele dalla Mecca alla Roccia di Gerusalemme (sulla quale si doveva consumare il sacrificio di Isacco) che si trova al centro della Spianata delle Moschee e da lì la sua preghiera assieme a Abramo, Mosé e al Cristo, quindi la sua ascensione per i sette cieli sino all’iperuranio, sino al Loto del Limite, sede della conoscenza assoluta in sella al cavallo alato al Buraq (secondo la Tradizione). Dunque, a Gerusalemme e in Gerusalemme, Maometto vede riconosciuta la validità del suo superamento, nella piena continuità, della profezia ebraico-cristiana che parte da Abramo, passa per i profeti della Bibbia e per Gesù e si conclude trionfalmente appunto col suo Corano.
   La legittimità della profezia di Maometto, riconosciuta dalla volontà di Allah, decade se Gerusalemme e se la Spianata non sono connaturate solo e unicamente con la narrazione coranica, se non hanno nulla a che fare col Tempio degli ebrei e quindi con l’Arca di Mosè, se non viene negata, espulsa l’impronta ebraica di Gerusalemme. E per estensione questo vale per una Palestina nella quale, negando la Storia e i riscontri archeologici, si vuole che i filistei (in realtà di origine cretese) fossero arabi (che vi giunsero solo nel 630 dopo Cristo).
   Dunque, per la Umma islamica, la meta-storia coranica prevale sulla Storia. La annienta. E la meta storia-coranica nega il legame storico e intrinseco tra il popolo ebraico e Israele. Prova ne sia che dal 1948 al 1967, la Giordania che esercitava sovranità piena sulla Spianata del Tempio proibì tassativamente agli ebrei di pregare davanti al Muro Occidentale.
   Prova ne sono le due risoluzioni del 2016 e del 2017 proposte dai paesi arabi e purtroppo e incredibilmente approvate dalla assemblea dell’Unesco con le quali si nega ogni rapporto tra l’ebraismo e la Spianata delle Moschee o Haram al Sharif, quindi con Gerusalemme.
   Prova ne sono le centinaia di palestinesi morti negli scontri con le forze di sicurezza israeliane nelle proteste scatenate da Arafat per lo scavo archeologico israeliano lungo la base del muro del Tempio che dimostra fattualmente l’esistenza del Tempio di Salomone, distrutto dai romani nel 70 dopo Cristo. L’islamista Arafat definì quello scavo “una profanazione”.
   Tutta la dirigenza palestinese e araba, incluso Abu Mazen, per quanto riguarda Gerusalemme considera la ricerca storica pura e i fatti storici acclarati un nulla, anzi una sanguinosa offesa se contrastano o inficiano il racconto coranico.
   Questo suprematismo arabo islamico in spregio dei fatti e della Storia è misconosciuto e incredibilmente sottovalutato dalla opinione pubblica occidentale e da quasi tutti gli analisti. Ma è invece di importanza capitale perché su questo terreno, sulla Rivelazione, sul testo coranico, il compromesso è impossibile. E infatti il compromesso, come si è visto, sempre accettato dalla parte ebraica, è sempre stato rifiutato da quella araba.
   «Il Tempio? Ma io non vedo nessun Tempio!»: così nel 2000 Saeb Erekat, negoziatore palestinese degli accordi falliti di Camp David e Taba, rispondeva ironico agli interlocutori israeliani. Pure, Israele, nel 1967, riconquistata la Spianata delle Moschee, vi riconobbe la titolarità del culto islamico, riconobbe l’esclusiva titolarità sull’Haram al Sharif e sulla Moschea di al Aqsa al Dipartimento degli Affari Religiosi della Giordania e proibì agli ebrei di pregarvi, nel vano tentativo di subire una menomazione di parte ebraica per non innescare una reazione islamica.
   Reazione che ciononostante si è sempre innescata e sempre per iniziativa e volontà palestinese. Basti pensare che la camminata di Ariel Sharon sulla Spianata (dove si guardò bene dal pregare) fu presa a pretesto per la Intifada delle Stragi del 2000 che provocò migliaia di morti da ambo le parti.
   Da un secolo, dalle rivolte arabe scatenate dal Gran Muftì nel 1921, sino a oggi, sino ai razzi da Gaza, il suprematismo islamico, oggi egemone in tutti i Territori con Hamas, chiama al jihad contro gli ebrei per vendicare presunte profanazioni israeliane della Spianata delle Moschee. È questo il fulcro del contendere. È questo il nodo vero, di fondo, irrisolvibile della questione israelo-palestinese.

(LINKIESTA, 27 maggio 2021)


Israele e la nuova frontiera di difesa

di Fiamma Nirenstein

Non ci proverò ancora una volta a insistere nello spiegare le buone ragioni di Israele, nel raccontare la storia, nell'insistere sulla evidente vicenda dei compromessi e patteggiamenti, sulla ricerca di pace sempre elusa dai palestinesi. Non c'è logica che possa convincere coloro che marciano nelle strade contro Israele con le bandiere di Hamas, come non c'è mai stata logica, nella storia, che abbia potuto convincere chi odia, o disprezza, o biasima il popolo ebraico. La guerra è stata, nelle sue ragioni e nel suo svolgimento, molto semplice: Hamas ha attaccato i cittadini nella sua guerra di distruzione terroristica, Israele ha risposto. Anche la storia del popolo ebraico nel suo ritorno a casa è semplice: Israele è l'unico Paese che da tremila anni abbia avuto la medesima capitale, ideale o reale. Ma ambedue vengono, insieme, messe in discussione, e il diritto a difendersi viene travestito da apartheid, occupazione, pulizia etnica... Ogni elemento è parte della cucina nel calderone della delegittimazione di un popolo indigeno, per la gran parte strappato dalla sua terra, che ha sofferto nel mondo persecuzioni incomparabili, fino a costruire il proprio ritorno in una terra contestata, ma mai abbandonata del tutto. Chi sa la storia sa che Gerusalemme è stata una città a maggioranza ebraica già dall'800, che gli ebrei pur cacciati, non hanno mai abbandonato il presidio di molte città, e anche che Gerusalemme è rimasta la stella polare, morale, culturale, religiosa dell'ebraismo così come la lingua ebraica ha seguitato a essere una lingua viva alle più diverse latitudini, fino alla grande rinascita di Eliezer Ben Yehuda. Questa convinzione, ovvero quella della legittimità nazionale di Israele è stata di nuovo contestata proprio mentre qui la gente correva nei bunker per ripararsi dalla pioggia di missili: quando si sente gridare dalla folla a Londra o a Roma "from the river to the sea Palestine will be free" non è libertà di opinione. “Free” vuol dire libera: libero, vuol dire finalmente se stesso; nella interpretazione più estrema dell'antisemitismo: un mondo privo di ebrei, privo di Israele delegittimato della sua presenza fondamentale in quanto Stato del Popolo ebraico. Questo si sente adesso: il rifiuto di consentire a Israele il palese diritto all'autodifesa di ogni popolo, perché il popolo ebraico non l'ha mai avuto nei secoli. Quando l'Unione Europea insinua che Israele agisca senza moderazione, prima di tutto non conosce i numeri e non sa quindi che Hamas ha sparato 4340 missili di cui kipat Barzel ha bloccato il 90 per cento, ma che hanno distribuito terrore, distruzione, feriti e 12 morti in tutta Israele, fino nella capitale e fino a Tel Aviv, e che ogni nido di missili era nascosto secondo i piani di guerra di Hamas, ben preparato, in una struttura civile, case, scuole, ospedali. Israele ha messo un'immensa cura nel cercare di evitare, nell'impossibile situazione, la perdita di civili, tanto che sui 200 morti circa 160 sono terroristi, con nome e cognome. L'IDF non poteva altro che ottemperare all'indispensabile dovere di fermare i missili: ogni esitazione, ogni ritardo, sarebbe stata semplicemente complicità con un nemico che ha giurato nella sua stessa Carta costitutiva di uccidere gli israeliani e gli ebrei in generale.
  Le risoluzioni dell'UE, per fortuna bloccata dal gesto coraggioso dell'Ungheria che ha posto il veto, chiedeva un immediato cessate il fuoco. Sarebbe stata un'altra forma di delegittimazione del diritto di Israele alla vita in quanto Paese libero nei suoi confini: è chiaro a chiunque che una guerra giuocata da Hamas mettendo a difesa dei suoi missili i due milioni di cittadini di Gaza non può essere conclusa lasciando in piedi il sistema terroristico che spara nelle vite delle persone. Questo significa che Israele non avrebbe potuto, neppure secondo il diritto internazionale, abbandonare i suoi cittadini alla strategia di Hamas che fa proprio della casualità terrorista dei suoi attacchi, per altro coordinati e finanziati nell'ambito della strategia di dominio islamista dell'Iran, il nocciolo della sua Guerra Santa. Adesso possiamo solo sperare che i risultati ottenuti dalla legittima difesa di Israele blocchi il fuoco per un tempo lungo. Che gli aiuti umanitari non si trasformino in potere e armi per Hamas.
  Ma qui interviene l'elemento della delegittimazione, che ha tante strade diverse, e che abbiamo visto all’opera sul tema del diritto alla vita. L'Italia ha diritto a difendersi, ce l'ha la Francia e ce l'hanno gli USA: se qualcuno ne bombardasse la capitale, finché l'esercito non fermasse la fonte del danno bloccando i nidi dei missili, questi Paesi non si fermerebbero. Israele ha accettato la tregua assediata dalla pressione internazionale, pur consapevole che sarebbe stato in suo potere distruggere il nemico se l'avesse voluto, certa che l'odio e la propaganda nemica avrebbe immaginato subito la prossima puntata, avrebbe proseguito sulla stessa strada. D'altra parte, c'è ormai, come si è visto anche nell'atteggiamento di Biden, la chiara sensazione che a causa della strategia islamista guidata dall'Iran, non solo Israele ma l'intero mondo occidentale corra un pericolo senza precedenti. Sono due pensieri antagonisti e compresenti, che in questi giorni si scontrano a Vienna dove si discute il ripristino del folle accordo JCPOA con l'Iran. Gli USA in una deriva insensata lo perseguono, rischiando la destabilizzazione di tutto il Medio Oriente. La prossima guerra di difesa si combatte su questa frontiera.

(Shalom, 27 maggio 2021)


Israele circondato da calunnie, minacce e campagne di odio antiebraico

jDa Iran, Qatar, Fatah, Jihad palestinese: la “bugia” della Shoà per dominare il mondo, ebrei falsi e traditori nei libri di testo, tubi a Gaza usati per i razzi anziché per l’acqua, la minaccia di nuovi attentati stragisti.

Un video trasmesso dalla televisione iraniana intitolato La grande bugia sostiene che i sionisti hanno sfruttato quello che viene definito “il mito dell’Olocausto” per istituire lo stato d’Israele come prima fase del piano per dominare il mondo. Il video è andato in onda su Aftab TV il 7 maggio, la data in cui l’Iran celebrava “Il giorno di al-Quds” (Gerusalemme) per manifestare la sua opposizione a Israele e al sionismo. Nel video, la voce narrante afferma che l’obiettivo della fondazione di Israele era quello di creare una “zona sicura” per l’Occidente nel cuore del mondo musulmano, sfruttando “la storia inventata del massacro di 6 milioni di ebrei durante la seconda guerra mondiale”. Fu così che “sullo sfondo della guerra mondiale, iniziò la prima fase del progetto sionista di conquistare il mondo”. “A causa dell’oppressione dei sionisti [sic] da parte del mondo cristiano – continua il video – essi hanno dovuto trasferirsi altrove. E quale posto migliore dell’Asia occidentale e della Palestina? Dal punto di vista dei sionisti, l’istituzione dello stato d’Israele è il risultato della immaginaria oppressione che avevano patito”....

(israele.net, 27 maggio 2021)


Neutralizzati Covid e jihadisti: Israele pronto a ripartire (ma in realtà non si è mai fermato)

di Jonathan Pacifici*

«Chi osa, vince. Tuttavia, qualcuno deve osare per approvare le operazioni che coloro che osano gli presentano, il che diventa sempre più difficile. Ogni operazione è più audace, fantasiosa e folle di quella precedente. James Bond è un fesso davanti a voi. Apriremo i cinema tra pochi giorni ma nessun film d'azione si avvicina a quello che fa il Mossad». Con queste parole il Premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha annunciato lunedì la nomina di David «Dedi» Barnea a nuovo capo dei Servizi Segreti. Barnea è considerato l'architetto di alcune delle più spettacolari e importanti operazioni del Mossad, la maggior parte delle quali resteranno segrete per i decenni a venire. Sostituisce Yossi Cohen di cui è stato vice negli ultimi anni, e avrà il compito di proiettare nel futuro l'intelligence israeliana. Ma assieme al Mossad a dire il vero, in queste ore è tutto Israele a guardare avanti. Da giugno, infatti, non verranno prorogate le limitazioni Covid. Riapertura totale del mercato: niente più numeri chiusi, distanziamenti e protocolli. Qualche giorno dopo cadrà l'ultimo ricordo della pandemia e non saranno più richieste le mascherine, nemmeno al chiuso. La campagna vaccinale più audace di sempre ha vinto il virus, ma non si ferma. In parallelo alla riapertura totale inizia la vaccinazione della fascia 12-15 dopo il via libera dell'Fda: altri 800mila adolescenti ridurranno ancora lo spazio di manovra di quel poco che resta del Covid.
   Archiviata per il momento la crisi con Gaza è tempo di assestement. Possiamo dire che il futuro ha vinto sul passato, la tecnologia sulla barbarie. L'avveniristico sistema antimissile Iron Dome non solo ha intercettato oltre il 90% dei razzi lanciati dai terroristi sulla popolazione civile, ma a differenza delle precedenti occasioni si è cimentato con centinaia di lanci simultanei, salvando decine di migliaia di vite umane. La tecnologia made in Israel ha permesso d'individuare e neutralizzare centinaia di chilometri di tunnel del terrore usati dagli jihadisti. lntelligence fantascientifica e precisione chirurgica nell'eliminazione di depositi d'armi, centri operativi ed eminenti terroristi hanno fatto il resto. La novità geopolitica ed economica di queste ultime settimane è stata però la tenuta degli Accordi di Abramo. Mentre le linea aeree europee cancellavano i voli, Emirates ed Etihad hanno continuato a fare la spola tra Golfo e Tel Aviv. Così, mentre sui quotidiani europei piovevano feroci critiche verso Israele ( alcune apertamente antisemite), i network del golfo si sono dimostrati molto più obiettivi e pragmatici. Può sembrare incredibile per chi in questi giorni si è informato sui media italiani: veniva descritta una realtà parallela, frutto di pregiudizio, malafede e totale incomprensione dei fatti. Eppure, a differenza di un'Europa stanca e insabbiata nel suo passato, il Medioriente guarda a un futuro di progresso e innovazione in cui non c’è spazio per i terroristi di Hamas, ma ci sono opportunità senza fine per chi è disposto a guardare avanti.
   Il terrore è perdente perché non capisce la forza del futuro che è poi anche la forza di Israele. Qualsiasi altro Paese sarebbe finito paralizzato da una pioggia di missili sui suoi centri economici e questa era esattamente l'intenzione degli jihadisti. Cos'è successo nella realtà? Basta guardare i numeri. Mentre iniziavano a piovere razzi su Tel Aviv, a Wall Street veniva completata l'Ipo di Sirnilar Web (deal da 1,6 miliardi di dollari), il colosso Ntt apriva un nuovo innovation hub nel Paese e Google annunciava il primo X Moonshot lab in Israele, l'unico fuori dagli Usa. Continuano le ostilità e l'israeliana Global-e completa una quotazione al Nasdaq da 3,55 miliardi di dollari. Cisco si compra Sedona per 100 milioni, Valmont lndustries conquista l'agritech Prospera Technologies per 300 milioni, la fintech Liii raccoglie 55 milioni e l'israeliana Ceva fa sua Intrinsix per 33 milioni. Ancora missili e Ipo da 4 miliardi per WalkMe al Nasdaq, round da 75 milioni per Explorium e da 31 milioni per ThetaRay, mentre Zeekit (tecnologia nata per le mappe 3D dell'aviazione per trovare la taglia giusta dei capi comprati online) viene comprata da Walmart. Altri missili, Ipo da 4 miliardi per monday. com (piattaforma per gestione team) e una Spac da 3,5 miliardi per StoreDot (leader nelle batterie di nuova generazione per l'automotive). S'inizia a parlare di tregua: Ipo da 350 milioni al TelAviv StockExchange per Glassbox e Spac da un miliardo per Memie Innovative Surgery. La disoccupazione torna sotto il 5%, il tabellone del Ben Gurion Airport si riempie di voli e i centralini delle agenzie turistiche sono intasati. Il futuro sarà anche straordinario, ma il presente è una meritata vacanza nelle isole greche.

* Presidente del Jewish Economie Forum e general partner di Sixth Millennium Venture Partners

(MF, 27 maggio 2021)


Un Giro d’Italia indimenticabile. Daniel Martin, impresa ad alta quota

Israele scrive un altro pezzo di storia

di Adam Smulevich

Un Giro d’Italia indimenticabile per la Israel Start-Up Nation, che dopo la maglia rosa vestita per due tappe da Alessandro De Marchi nella prima settimana di corsa, festeggia in queste ore una nuova straordinaria impresa: la vittoria della frazione alpina più dura, la Canazei-Sega di Ala, grazie al suo capitano Daniel Martin.
   “Non mi sono mai sentito così forte” aveva detto l’esperto corridore irlandese, 35 anni, in maglia ISN dal 2020, alla partenza del Giro. Tra gli obiettivi che si era posto quello di arrivare tra i primi tre della classifica generale. Quasi impossibile che ce la faccia, perché alcune giornate storte gli hanno fatto accumulare minuti importanti di ritardo dai big (attualmente è undicesimo, a tredici minuti dal leader Egan Bernal e a dieci dal podio). Martin è stato però sempre protagonista. Tra i migliori nelle prime tappe di montagna, dove ha conquistato piazzamenti importanti. Ma bravo (e umile) a mettersi in gioco anche con alcune coraggiose fughe da lontano.
   Qualche giorno fa gli è andata male. Oggi invece l’impresa è riuscita. Un metro dopo l’altro gli altri contrattaccanti di giornata hanno dovuto cedere. Fino all’ultima durissima salita, con pendenza media del dieci per cento e punte del venti, praticamente un muro, dove Martin, rimasto solo, ha saputo gestirsi e resistere al ritorno dei più forti.
   Un’impresa storica per il team israeliano, che alla quarta partecipazione al Giro conquista il suo primo e forse inatteso “tappone”. Ma anche per Martin: con il successo odierno entra infatti nella ristrettissima élite di chi può vantare una vittoria di tappa in tutti e tre i grandi giri (Tour, Giro, Vuelta). Le vittorie a Giro e Vuelta, entrambe con i colori di Israele.
   “Non ho parole per descrivere questo successo. Sono venuto al Giro per fare bene e vincere una tappa”, ha affermato, stremato ma entusiasta, al traguardo. “Oggi volevo andare in fuga, non credevo che il gruppo mi avrebbe lasciato andare all’attacco. La mia squadra ha fatto un grande lavoro: devo ringraziarli. Avevo bisogno di una salita come questa e del sole per fare bene”.
   Sylvan Adams, il patron del team, ci conferma a caldo: “Ieri Dan ci aveva annunciato un suo attacco. Questa salita la conosceva già, l’aveva affrontata alcuni anni fa al Tour of the alps. Sono orgoglioso di quel che ha fatto. Per la Israel Start-Up Nation questo è un Giro incredibile”.

(moked, 26 maggio 2021)


Arriva Blinken: «Ai palestinesi 15 milioni di dollari»

di Valeria Robecco

New York Il segretario di stato americano Antony Blinken vola in Medio Oriente per consolidare la tregua tra Israele e Hamas dopo 11 giorni di conflitto. La visita, la prima del titolare di Foggy Bottom da quando è iniziata l'amministrazione di Joe Biden, è partita da Gerusalemme, per poi proseguire a Ramallah e quindi al Cairo e ad Amman. Gli Usa daranno «contributi significativi» alla ricostruzione di Gaza, ma «lavoreranno per garantire che Hamas non tragga beneficio» dagli aiuti, ha assicurato il capo della diplomazia americana dopo l'incontro con il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Blinken ha ribadito che «il presidente Joe Biden è da sempre un sostenitore di Israele»: «Lavoreremo insieme per una maggiore sicurezza e per ridurre le tensioni in Cisgiordania e a Gerusalemme». Netanyahu, da parte sua, ha avvertito: «Se Hamas attaccherà di nuovo, reagiremo con potenza». Per Blinken «occorre espandere le opportunità per i palestinesi in Cisgiordania e a Gaza», inclusi investimenti per «favorire un ambiente migliore».
   Nella girandola di incontri a Gerusalemme ci sono anche quelli con il ministro degli Esteri, Gabi Askenazì, il presidente Reuven Rivlin e il leader centrista Yair Lapìd, incaricato dal presidente Rivlin di formare il nuovo governo israeliano e il cui mandato scade il prossimo 2 giugno. Da Ramallah, invece, il segretario di stato ha affermato che intende chiedere al Congresso di sbloccare 75 milioni di dollari di aiuti per il popolo paleshttps://www.amazon.it/ordinitinese. Dopo il colloquio con il presidente dell' Anp Abu Mazen, Blinken ha assicurato che da Washington arriveranno 5,5 milioni di dollari per un aiuto immediato a Gaza e 32 milioni all'Unrwa, l'agenzia dell'Onu per i rifugiati palestinesi. Gli Usa si oppongono «ad azioni unilaterali che possano minare le prospettive per una giusta e durevole pace» in Medio Oriente: che siano «attività di colonie, demolizioni di case, annessioni di territori, istigazione alla violenza o compensi per atti di terrore». Gli Usa «procederanno con il processo di riapertura del consolato a Gerusalemme Est» per i rapporti con i palestinesi.
   «Ringraziamo Washington per il sostegno allo stato di Palestina», ha affermato Abu Mazen: «Speriamo che il futuro sia pieno di attività diplomatiche guidate dagli Usa e dal Quartetto» (incluse Onu, Ue e Russia) «al fine di raggiungere una soluzione giusta e basata sul diritto internazionale».

(il Giornale, 26 maggio 2021)


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Blinken da Netanyahu e Abu Mazen: “I soldi per Gaza passino dall’Anp”

La strategia Usa per indebolire Hamas. Oggi il segretario di Stato sarà al Cairo e ad Amman per rinforzare la tregua.

di Sharon Nizza

GERUSALEMME — Nessuna dichiarazione pomposa sul futuro della regione emerge finora dal primo tour mediorientale del Sottosegretario di Stato Anthony Blinken, che ha invece un obiettivo mirato: consolidare la tregua raggiunta giovedì tra Israele e Hamas dopo 11 giorni di conflitto. Il metodo: rafforzare l’Autorità Palestinese e veicolare tramite essa i fondi per la ricostruzione di Gaza. Gli israeliani ci stanno: inviare i contanti del Qatar via Ramallah è una delle raccomandazioni del Capo di Stato maggiore. Abu Mazen, che nel 2019 aveva interrotto il passaggio dei fondi per via del perpetuo conflitto Fatah-Hamas, si dichiara disponibile, e la questione sarà al centro dei colloqui con gli egiziani – Blinker sarà oggi al Cairo e ad Amman - che gestiscono il contatto diretto con Hamas. Per rafforzare l’Anp, durante l’incontro ieri con il presidente Abu Mazen – che inaugura la ripresa dei rapporti dopo tre anni di rottura sotto Trump – Blinken ha annunciato la prossima riapertura del Consolato Usa a Gerusalemme, a oggi incorporato nell’Ambasciata che la precedente amministrazione aveva trasferito da Tel Aviv. E un pacchetto di aiuti di oltre 100 milioni di dollari per Gaza e Unrwa. A Netanyahu Blinken ha ripetuto il fermo sostegno «al diritto di Israele a difendersi».
   Ma al centro delle due ore di colloquio con il premier c’era il dossier Iran, nel giorno in cui riprendevano a Vienna i negoziati sul rientro americano nell’accordo sul nucleare Jcpoa. Netanyahu ha pubblicamente ribadito la speranza che gli Stati Uniti non si impegnino nuovamente nel Jcpoa, e che Israele «si riserva il diritto di difendersi di fronte a un regime che minaccia la nostra distruzione».
   Ma, a porte chiuse, sembra che lo sforzo sia ora concentrato non tanto sul “se”, ma sul “come”, con la richiesta di puntare su un “Jcpoa- plus”, ovvero l’allargamento dell’intesa anche ai missili balistici e all’interventismo regionale dell’Iran. Parlando della necessità di «promuovere libertà, sicurezza e prosperità per israeliani e palestinesi » (prosperità è un termine che ha ripetuto più volte e rievoca il piano trumpiano “Peace to prosperity”), Blinken ha ottenuto dagli israeliani un impegno a incrementare i rapporti economici e la cooperazione di sicurezza con Ramallah.
   Ma la situazione rimane tesa in Cisgiordania, come nelle città israeliane, dove la polizia ha avviato una massiccia operazione di arresti di arabi coinvolti negli scontri recenti «per recuperare la deterrenza», ottenendo ferma condanna dell’Anp: un terreno fertile per iniziative di lupi solitari –lunedì si è verificato un accoltellamento a Gerusalemme- che potrebbero riaccendere la miccia esplosiva.

(la Repubblica, 26 maggio 2021)


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Vertice Blinken-Netanyahu: "La ricostruzione di Gaza non sarà a beneficio di Hamas"

Prima tappa della missione in Medioriente del segretario di Stato americano che, dopo Gerusalemme, visiterà Ramallah, Il Cairo e Amman. Obiettivo: consolidare la tregua. La richiesta del premier israeliano: "Gli Usa non rinnovino l'accordo sul nucleare con l'Iran"

di Sharon Nizza

GERUSALEMME - Il segretario di Stato americano Anthony Blinken è atterrato questa mattina in Israele per la prima tappa del tour mediorientale che, dopo Gerusalemme, lo condurrà anche a Ramallah, il Cairo e Amman. La visita - la prima del Sottosegretario dall'insediamento dell'Amministrazione Biden - ha lo scopo principale di consolidare la tregua raggiunta giovedì scorso tra Israele e Hamas dopo 11 giorni di conflitto.
   Al termine del primo colloquio di due ore con il premier israeliano Benjamin Netanyahu, Blinken ha specificato che la sua missione nell'area affronterà quattro questioni, secondo il mandato conferitogli da Biden: "La riaffermazione dell'impegno Usa alla sicurezza d'Israele; iniziare a lavorare per creare una maggiore stabilità in Cisgiordania e a Gerusalemme; sostenere l'urgente ricostruzione e assistenza umanitaria a Gaza a beneficio della popolazione palestinese e non di Hamas; continuare a ristabilire le nostre relazioni con l'Autorità Palestinese". Blinken ha ripetuto il sostegno "cristallino del presidente Biden al diritto di Israele a difendersi dagli attacchi indiscriminati di Hamas con il lancio di migliaia di missili sulla popolazione civile". Un impegno che ha definito "personale, dimostrato dai rapporti diretti che Biden ha intrattenuto con tutti i premier israeliani per 50 anni, a partire da Golda Meir fino a Netanyahu".
   Come atteso, anche il dossier Iran è stato al centro del colloquio, mentre vanno avanti i negoziati di Vienna sul rientro americano nell'accordo sul nucleare Jcpoa. Blinken ha detto che gli Usa "si consultano costantemente con Israele sulla materia".
   Netanyahu ha ringraziato il sostegno americano - menzionando anche il rifornimento di batterie per il sistema antimissilistico Iron Dome annunciato da Biden nei giorni scorsi - e ha ribadito la speranza che gli Stati Uniti non si impegnino nuovamente nel Jcpoa, e che Israele "si riserva il diritto a difendersi di fronte a un regime che minaccia la nostra distruzione".
   In Israele il segretario di Stato incontrerà anche il ministro degli Esteri Gabi Ashkenazi, il ministro della Difesa Benny Gantz, il presidente Reuven Rivlin. Un incontro meno conforme al protocollo di questo genere di visite di Stato sarà con il capo dell'opposizione Yair Lapid, che attualmente detiene il mandato - ancora per 8 giorni - per la formazione di un nuovo governo.
   Nel pomeriggio Blinken incontrerà il presidente dell'Anp Mahmoud Abbas e il premier Mohammed Shtayyeh. Si tratta della prima visita di Stato a Ramallah dopo tre anni di interruzione dei rapporti con la precedente amministrazione Trump, a seguito del trasferimento dell'ambasciata americana a Gerusalemme, un'azione non ritrattata dall'amministrazione Biden.
   Blinken ha parlato della necessità di contribuire con azioni concrete al rafforzamento economico e del settore privato in Cisgiordania e per questo incontrerà a Ramallah anche diversi esponenti della società civile.
   La missione di Blinken, motivata dagli eventi delle ultime settimane e non da un piano estensivo per la ripresa dei colloqui di pace tra israeliani e palestinesi, si prefigura mirata all'obiettivo di breve-medio termine di stabilizzare l'attuale fragile tregua in corso, affrontando in primis il nodo critico della ricostruzione di Gaza attraverso un meccanismo di monitoraggio che prevenga l'impiego dei fondi internazionali da parte di Hamas per alimentare il proprio arsenale.
   La volontà principale degli Stati Uniti è convogliare i fondi tramite l'Anp e così facendo, riaprire un canale tra Cisgiordania e Gaza che da anni sono disconnesse a causa del conflitto interno tra Hamas e Fatah.
   Anche in Israele aumentano le voci secondo cui è necessario che l'Anp prenda nuovamente presa del territorio a Gaza, compresa quella del capo di stato maggiore Aviv Kohavi. Un'impresa difficile che già diversi portavoce di Hamas rigettano.
   Questo si prefigura il vero obiettivo della missione Usa, che necessiterà il coordinamento di tutte le forze in campo, in primis dei vicini egiziani e giordani, ma anche di altri attori regionali coinvolti da remoto, come Qatar ed Emirati Arabi Uniti.

(la Repubblica online, 25 maggio 2021)


Chi c’è dietro a Hamas? Il suo nome è Al Qaradawi

Chi decide per armi e fondi contro ebrei e israeliani? L’eminenza grigia è Yusuf al-Qaradawi, leader dei Fratelli Musulmani, che ha dichiarato di voler morire “completando il lavoro di Hitler”. Intervista a Lorenzo Vidino, esperto di jihadismo.

di Nathan Greppi

Quando si parla della guerra tra Israele e Gaza, bisogna sempre tenere a mente che Hamas non è un movimento autonomo, ma è il ramo palestinese dei Fratelli Musulmani: un movimento che in poco meno di un secolo, partendo dall’Egitto, si è diramato in molti Paesi per diffondere una versione radicale dell’Islam che si lega in maniera indissolubile alla politica. Chi ha studiato a fondo questo fenomeno è il politologo Lorenzo Vidino, milanese trapiantato in America dove dirige il Programma sull’Estremismo della George Washington University. Vidino è tra i massimi esperti a livello mondiale di estremismo islamico, compresa la Fratellanza Musulmana alla quale ha dedicato il suo ultimo libro, Islamisti d’Occidente (Bocconi Editore).

- Cosa distingue Hamas e la Fratellanza da altri movimenti jihadisti (ISIS, Al Qaeda…)?
  Tutti appartengono a una stessa macro-famiglia, quella dell’islamismo. Ma nonostante abbiano un’ideologia e degli scopi simili, scelgono delle tattiche diverse: storicamente, gruppi come Al Qaeda e lo Stato Islamico nascono da una frattura in seno ai Fratelli Musulmani, nati nel 1928 al fine di islamizzare la società e di creare un regime islamico. Questi ultimi lo fanno attraverso due tattiche: da un lato l’islamizzazione della società attraverso strumenti pacifici, quali l’educazione e le elezioni, e dall’altro l’uso della violenza, scegliendo un metodo piuttosto che l’altro a seconda delle circostanze.
  Il movimento jihadista invece nasce negli anni ’70, come una branca dei Fratelli Musulmani, che vede nella violenza l’unico strumento per ottenere risultati, mentre i metodi pacifici secondo loro richiederebbero troppo tempo.
  A volte ci sono momenti di sinergia, e altri di forte rivalità.

- Negli ultimi anni, a Gaza, Hamas ha investito molto nei missili e nella costruzione di tunnel. Chi sono i loro finanziatori?
  Come ho spiegato in un recente articolo su La Repubblica, sono soprattutto tre paesi: Qatar, Turchia e Iran. Ma Hamas riesce a raccogliere fondi anche con altre modalità: alcune arrivano da ONG legate alla Fratellanza, che si spacciano per onlus caritatevoli, o da governi occidentali, che danno soldi che dovrebbero essere investiti nell’educazione e che invece Hamas investe nelle armi. Ma anche quando le investono in attività educative sono comunque propedeutiche agli scopi di Hamas, che per governare deve fornire una serie di servizi alla popolazione locale.

- Anche se Hamas è sunnita, sono appoggiati dall’Iran che è sciita. Perché?
  L’Iran sostiene loro e altri gruppi palestinesi come la Jihad Islamica perché l’odio per l’America e Israele trascende le divergenze tra sciiti e sunniti. A volte hanno delle tensioni tra di loro, tanto che all’inizio della Guerra in Siria Hamas non ha appoggiato il presidente siriano Bashar al-Assad, al contrario dell’Iran. Ma queste tensioni spariscono quando devono combattere Israele, il loro nemico principale.

- La Fratellanza musulmana è molto attiva anche in Europa.
  Esatto. In generale dall’Occidente arrivano molti fondi a Hamas, anche se non sempre è facile provarli. Ci sono state delle indagini in vari Paesi, compresa l’Italia, sulle reti che portano loro i soldi, ma non sempre è facile, perché molte si nascondono dietro donazioni umanitarie.

- La sua presenza in Europa può essere un rischio per le comunità ebraiche?
  Sì, perché prende una posizione molto decisa ed estremista sul conflitto israelo-palestinese, e chiaramente spinge le comunità islamiche su posizioni che non sono solo antisraeliane, ma anche antisemite. Faccio un esempio: Yusuf al-Qaradawi, il leader spirituale della Fratellanza Musulmana a livello globale, ha ripetutamente lodato gli attentatori suicidi, sottolineando come quello tra Hamas e Israele è un conflitto religioso più che politico. Quindi sono contro gli israeliani in quanto ebrei. È celebre il suo discorso in cui dichiarava di voler morire “finendo il lavoro non completato da Hitler”. E questo è il leader indiscusso della Fratellanza, citato come punto di riferimento religioso da tutti i suoi affiliati, anche in Italia.

(Bet Magazine Mosaico, 26 maggio 2021)


Allarme antisemitismo in USA - intervista ad Oren Segal

di Claudio Pagliara

A Times Square, nel cuore di Manhattan, un ragazzo ebreo è stato malmenato da manifestanti filo palestinesi violenti. Un episodio analogo a Brooklyn. A Los Angeles, aggrediti alcuni ebrei in un ristorante. In un’altra parte della metropoli, le telecamere di sicurezza hanno mostrato un ortodosso in fuga, inseguito da un corteo di auto sulle quali sventolavano bandiere palestinesi. A Chicago danneggiata una sinagoga. Il conflitto tra Israele e Hamas ha portato alla luce un fenomeno allarmante. L’antisemitismo ha fatto breccia anche negli Stati Uniti, che si credevano se non immuni almeno migliori dell’Europa. L’appello a condannare gli episodi di antisemitismo, lanciato da diverse organizzazioni ebraiche, è stato accolto dal presidente degli Stati Uniti, Joe Biden. “Gli attacchi agli ebrei sono deprecabili e devono cessare” – ha scritto in un tweet -. “L’odio non deve avere diritto di cittadinanza, né all’estero né in patria”.
    L’impennata di casi di antisemitismo non è stata un fulmine a ciel sereno per chi monitora costantemente il fenomeno. Oren Segal, vice presidente del Centro sull’Estremismo dell’Anti Defamation League, da tempo punta l’indice sul ruolo che i social media giocano nel fare da cassa di risonanza ai messaggi di incitamento all’odio.

- Lo abbiamo intervistato.
   Da quando è esploso il conflitto, l’Anti Defamation League ha registrato un aumento del 63 per cento di incidenti antisemiti rispetto al periodo precedente.

- È un balzo spaventoso. È accaduta la stessa cosa in passato o è un fenomeno nuovo?
   Storicamente, ogni volta che c’è stato un conflitto tra Israele e i suoi vicini, Hamas, Libano, sono state organizzate manifestazioni e cortei di protesta nel Paese e in alcuni casi ci sono stati episodi di antisemitismo. In una certa misura, ciò che è accaduto in questi giorni ha similitudini con il passato. Ma ci sono due importanti differenze. In primo luogo, questa volta ci sono stati aperti atti di violenza. A New York, ad esempio, ebrei sono stati malmenati in strada. Lo stesso è accaduto a Los Angeles. In secondo luogo, il ruolo giocato dai social media è stato maggiore che in passato. Twitter, Facebook, TikTok hanno veicolato una campagna di antisemitismo di ampiezza mai vista. Sono stati coinvolti un numero maggiore di internauti e un numero maggiore di piattaforme.

- L’antisemitismo è una piaga ben nota in Europa. Ma finora sembrava che interessasse solo marginalmente gli Stati Uniti. Non è più così?
   L’antisemitismo è ovunque. L’America probabilmente è ancora il posto più sicuro per gli ebrei nel mondo. Ma ciò non significa che questo antico morbo non si sia diffuso anche qui. L’Anti Defamation League da anni registra un aumento degli episodi di antisemitismo. L’America resta differente dall’Europa. Ed è differente dal Medio Oriente. Ma i social media non hanno confini, non hanno nazionalità. E i messaggi di odio che veicolano hanno un impatto sui comportamenti della gente.

- Durante l’ultimo conflitto, alcuni leader dell’ala sinistra del Partito democratico hanno preso le distanze dal presidente Biden per il suo rifiuto di dare il disco verde alla risoluzione dell’Onu che chiedeva il cessate il fuoco immediato. In alcuni casi, il linguaggio usato ha riecheggiato quello che si sente spesso in Europa, la negazione del diritto di Israele di difendersi. C’è il rischio che il consenso bipartisan di cui ha sempre goduto negli Stati Uniti lo stato ebraico si stia indebolendo?
   Intendiamoci. Non c’è nulla di male nell’esprimere critiche a specifiche politiche di un governo, compreso quello israeliano. Ma è inquietante sostenere che Israele non abbia il diritto di difendersi dal terrorismo. È inaccettabile il rifiuto di condannare episodi di antisemitismo in nome della libertà di criticare Israele. Si può criticare Israele. Ma non si può tacere di fronte all’aumento dell’antisemitismo.

- Lei sostiene che i social media giocano un ruolo decisivo nella diffusione dell’antisemitismo. Cosa si può fare?
   Le società che gestiscono i social media devono impedire che le loro piattaforme vengano utilizzate per diffondere l’odio. Durante l’ultimo conflitto, abbiamo contato 17 mila tweet con l’hashtag “Hitler aveva ragione”. Mi sembra ragionevole pretendere la rimozione di questi post. Ed è importante che la sorveglianza sia costante, che non si limiti solo ai periodi di crisi. L’incitamento all’odio ha un impatto. I social devono fare di più. E se sono incapaci di farlo di loro spontanea volontà, è necessaria una iniziativa legislativa, sono necessarie delle regole. Governo e Parlamento hanno il dovere di intervenire.

(Shalom, 26 maggio 2021)


Il Capo della AIEA lancia un preoccupante allarme sul programma nucleare iraniano

Il capo della AIEA denuncia che l’Iran arricchisce l’uranio al 60% ed è arrivato a un punto di non ritorno. È gravissimo il grido d’allarme che lancia Rafael Grossi anche se potrebbe essere un elaborato tentativo di accelerare un accordo con Teheran.

di Franco Londei

Il programma nucleare iraniano è “molto preoccupante”. A definirlo così non è stato uno qualsiasi ma lo ha detto Rafael Grossi, cioè il Direttore Generale della AIEA, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica.
   Il capo della AIEA lo ha detto in una intervista pubblicata oggi sul Financial Times ed è un vero e proprio grido d’allarme quello lanciato da Rafael Grossi, proprio mentre a Vienna le potenze mondiali stanno negoziando con l’Iran il ritorno al JCPOA, l’accordo sul nucleare iraniano.
   Secondo il capo della AIEA l’Iran starebbe arricchendo l’uranio al 60%, cioè a un grado di arricchimento che viene usato solo se si vogliono costruire armi atomiche.
   «Un paese che arricchisce l’uranio al 60% è una cosa molto seria» ha detto Grossi al Financial Times. «Solo i paesi che producono bombe raggiungono quel livello. Il sessanta per cento è quasi a livello di armi, l’arricchimento commerciale è del 2,3 per cento» ha poi concluso il capo della AIEA.
   Il grido d’allarme è molto serio perché fino a ieri si parlava del fatto (già di se allarmante) che l’Iran arricchiva l’uranio al 20 percento.
   Con un arricchimento al 60 percento dovrebbero suonare tutte le sirene di allarme, altro che trattare un ritorno al JCPOA.
   Secondo Grossi tornare indietro per l’Iran sarebbe relativamente semplice però «non puoi rimettere il genio nella lampada», nel senso che il livello di conoscenza raggiunto dall’Iran è tale che ormai è impossibile tornare indietro.
   Ed è proprio questa la cosa veramente grave che emerge da queste rivelazioni del capo dell’organismo di controllo delle Nazioni Unite, cioè il fatto che l’Iran abbia raggiunto una sorta di punto di non ritorno.
   A questo punto, sembra di capire, qualsiasi cosa si faccia sarebbe inutile. L’Iran raggiungerebbe comunque l’obiettivo di dotarsi di armi nucleari.
   Personalmente non sono d’accordo. Quello del capo della AIEA sembra tanto un invito a chiudere velocemente un accordo con l’Iran più che un vero e proprio grido d’allarme.
   Anzi, se fossi nei capi israeliani valuterei con ancora più attenzione una pesante azione militare sulle centrali atomiche iraniane, senza escludere nessuna opzione visto che ormai è chiaro che Biden non darà mai a Israele le necessarie bombe anti-bunker. Se non le puoi distruggere, seppelliscile.

(Rights Reporter, 26 maggio 2021)


L'Iran dietro i missili di Hamas

Il Jerusalem Day iraniano vuole la distruzione di Israele e la «liberazione» di Gerusalemme. Teheran ha alzato la cresta dopo le aperture di Biden

di Federico Ponzi

Hamas ha disseminato postazioni di lancio e depositi di missili nei centri abitati di Gaza. E ricordiamo che secondo la Convenzione di Ginevra è un crimine di guerra non solo colpire deliberatamente la popolazione e obiettivi civili senza alcun valore militare o strategico, ma anche lanciare attacchi da aree residenziali e trasformare in depositi di armamenti ospedali, scuole e luoghi di culto, rendendoli così obiettivi militari.
Una pioggia di quasi mille missili si è abbattuta in poco più di 24 ore su Israele dalla Striscia di Gaza, controllata da 15 anni da una organizzazione terroristica: Hamas. Prese di mira città importanti e popolate, tra cui Gerusalemme e Tel Aviv. La maggior parte dei missili è stata intercettata dal sistema di difesa Iron Dome, che numerosi video condivisi sui social mostrano in azione sui cieli israeliani. Solo grazie a questo sistema, Israele ha evitato di contare un più alto numero di vittime, ma dal punto di vista militare il numero impressionante di lanci ha una logica precisa: mandare in tilt le difese israeliane e penetrare lo scudo. Nei pochi casi in cui ciò è accaduto, i missili di Hamas (e della Jihad Islamica Palestinese) - i meno rudimentali di fabbricazione e provenienza iraniana - hanno mostrato tutta la loro potenza distruttiva, smentendo chi si ostina a considerarli poco più che giocattoli. Hanno distrutto case, scuole, autobus, provocato morti e feriti.
L’aggressione di Hamas si qualifica come doppiamente criminale. Da un lato, perché i suoi missili non sono diretti su obiettivi militari, ma prendono di mira indiscriminatamente i centri abitati. In secondo luogo (forse persino più grave) perché Hamas ha disseminato postazioni di lancio e depositi di missili nei centri abitati di Gaza. E ricordiamo che secondo la Convenzione di Ginevra è un crimine di guerra non solo colpire deliberatamente la popolazione e obiettivi civili senza alcun valore militare o strategico, ma anche lanciare attacchi da aree residenziali e trasformare in depositi di armamenti ospedali, scuole e luoghi di culto, rendendoli così obiettivi militari.
  La differenza tra uno Stato democratico come Israele e un'organizzazione terroristica senza scrupoli come Hamas, purtroppo spesso ignorata nelle cronache e nelle analisi, è propria questa: Israele difende i suoi cittadini e fa di tutto per evitare vittime civili nei suoi attacchi, mentre Hamas fa di tutto per uccidere civili israeliani e usa i palestinesi, ancora meglio se bambini, come scudi umani, per lucrare un successo propagandistico dirottando su Israele l'indignazione internazionale per le vittime civili. Tra parentesi, Jack Dorsey ha cacciato Donald Trump da Twitter, ma il leader di Hamas, Ismail Haniyyeh, è libero di celebrare il bombardamento di Tel Aviv e chiamare alla jihad nelle strade sulla sua piattaforma ...
  Parte della strategia di Hamas sembrano essere le rivolte che sono divampate - stile Black Lives Matter e Antifa negli Usa - in diverse città israeliane (Lod, Rahat, Qalansawe, ma anche Haifa e Gerusalemme). Militanti palestinesi organizzati hanno attaccato e dato alle fiamme, usando anche molotov e armi automatiche, centrali di polizia, sinagoghe e quartieri ebraici. Purtroppo, come sempre, nelle dichiarazioni arrivate dalle capitali occidentali che invitano «entrambe le parti» alla de-escalation, o nei titoli dei servizi dei media mainstream, riecheggia una odiosa equivalenza morale, si stenta a riconoscere una distinzione tra aggressore e aggredito che si difende, non viene correttamente ricostruita la catena causale degli eventi.
  La pianificazione della duplice offensiva (dall'esterno, missilistica, e dall'interno, jihadista) da parte di Hamas appare evidente.
  Quando il presidente dell'Autorità palestinese Abbas ha annunciato la decisione di rinviare le elezioni (le prime in 15 anni) a data da destinarsi, Hamas ha chiamato i palestinesi, in particolare di Gerusalemme Est, alla rivolta contro Israele, allo scopo di mostrare con i fatti la sua leadership e la debolezza di Abbas, approfittando di alcune circostanze favorevoli: le proteste in corso per lo sfratto di alcune famiglie palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah e la esplosiva concomitanza di tre eventi estremamente conflittuali il 9 maggio scorso. Il Jerusalem Day, festività nazionale in cui Israele celebra la riunificazione di Gerusalemme nel 1967; la ricorrenza della Rivelazione del Corano per i musulmani al termine del Ramadan; e, come se non bastasse, il Jerusalem Day» iraniano, che rinnova l'appello alla distruzione di Israele e alla "liberazione" di Gerusalemme.
   Non a caso, Hamas intendeva candidarsi alle elezioni poi rinviate con una lista denominata «Gerusalemme è il nostro destino». Sperava di fare di Gerusalemme il tema principale della sua campagna elettorale, promettendo di proseguire la lotta contro Israele «fino alla liberazione» della città santa. Una volta rinviato il voto, non ha rinunciato al suo proposito e ha fatto di tutto per presentarsi come paladina della Gerusalemme palestinese e della Moschea di Al-Aqsa, unico gruppo a mantenere la sua promessa di combattere per Gerusalemme mentre l'Autorità palestinese guidata da Fatah si dimostrava incapace di farlo.Hamas si è così ripresa il centro della scena, accendendo la miccia delle ostilità e dettando i tempi dell'escalation.Gli scontri nei pressi della Moschea di Al-Aqsa tra forze dell'ordine israeliane e palestinesi, in gran parte militanti di Hamas, come si può constatare dalle bandiere visibili nei filmati, sono stati solo un pretesto abilmente preconfezionato. I «prevalentemente pacifici» fedeli musulmani erano arrivati, oltre che con le bandiere di Hamas, con pietre, spranghe e molotov, hanno trasformato la Spianata in un campo di battaglia e la moschea in una fortezza.
  Ma la lettura degli eventi in corso sarebbe incompleta senza considerare il contesto regionale. Principale sponsor e fornitore di armi ad Hamas e alla Jihad Islamica Palestinese è l'Iran, che l'amministrazione
   Biden ha rilegittimato come interlocutore aprendo senza pre-condizioni al rientro degli Usa nell'accordo sul programma nucleare. Il presidente turco
   Erdogan che soffia sul fuoco e si erge a paladino della causa palestinese per intestarsi la leadership del mondo musulmano sunnita e riaffermare la centralità di Ankara guidando gli sforzi diplomatici per far tacere le armi.
  E’ impensabile che dietro un attacco di così vasta scala di Hamas (e della Jihad Islamica Palestinese) non ci sia il via libera di Teheran. L'Iran usa i missili da Gaza per colpire Israele, come usa i missili dallo Yemen per colpire l'Arabia Saudita. Quanto sta accadendo nella regione è fin troppo evidente: l'amministrazione Biden nei suoi primi giorni ha mandato segnali di allontanamento dagli alleati - Israele e Arabia Saudita - e l'Iran ne ha approfittato. Chiaro che sotto i missili di Hamas e i raid israeliani su Gaza rischia di finire affossato anche il promettente processo degli Accordi di Abramo, favorito dall'amministrazione Trump e da Riad e ovviamente sgradito alla leadership di Teheran, perché dimostra che la pace tra Israele e paesi arabi è possibile anche se la questione palestinese resta aperta, strumentalizzata dagli iraniani. Come ha osservato Nikki Haley, rappresentante Usa all'Onu nei primi due anni della presidenza Trump, la mancanza di sostegno a Israele e l'apertura a Teheran del presidente Biden hanno incoraggiato i gruppi terroristici che vogliono distruggere lo Stato ebraico. I leader di Hamas - e iraniani dietro di essi - stanno «testando» Biden perché ritengono - non a torto - che il presidente Usa non sosterrà Israele con la determinazione e le azioni necessarie.

(ItaliaOggi, 25 maggio 2021)


Oltre 80 jihadisti di Hamas ancora sepolti nei tunnel bombardati dall’IDF

Sarebbero ancora 80 i jihadisti di Hamas ancora sepolti nella “metropolitana di Gaza” bombardata dall’IDF a seguito di un inganno perpetrato usando i media e che sarebbe costato ad Hamas almeno 200 vittime.

di Haamid B. al-Mu’tasim

Sarebbero almeno 80 i jihadisti di Hamas ancora sepolti nei tunnel bombardati dall’IDF a seguito di un trappola eseguita per mezzo di una falsa informazione.
   Secondo l’intelligence israeliana oltre 200 miliziani di Hamas sarebbero stati uccisi, sepolti dai bombardamenti seguiti all’inganno perpetrato dall’esercito israeliano che usando cinicamente i media diffuse la notizia dell’inizio di una operazione di terra nella Striscia di Gaza.
   La notizia non era vera ma Hamas ci credette, tanto da riempire i tunnel della cosiddetta “metropolitana di Gaza” con combattenti pesantemente armati pronti a fare agguati contro la “forza di invasione” israeliana.
   Quando l’IDF fu sicuro che i miliziani di Hamas erano dentro i tunnel bombardò pesantemente la rete di cunicoli con centinaia di attacchi aerei usando bombe anti-bunker e seppellendo centinaia di terroristi di Hamas.
   Oggi Hamas parla di 80 morti ma secondo l’intelligence israeliana le vittime tra i terroristi di quella brillante operazione sarebbero oltre 200 di cui 80 ancora seppelliti sotto le macerie. Una discrepanza piuttosto evidente.
   Ieri le squadre di ricerca di Hamas erano ancora impegnate nella ricerca dei sepolti nella “metropolitana di Gaza”. Probabilmente il numero esatto delle vittime non lo sapremo mai.

(Rights Reporter, 25 maggio 2021)


Disarmare Hamas a Gaza è solo un miraggio

Dopo il breve conflitto di Gaza, Israele punta alla soluzione internazionale: un accordo che garantisca il disarmo di Hamas. Ma il partito armato islamico, come Hezbollah in Libano, è troppo radicato sul territorio per lasciarsi disarmare. L'Onu risulterebbe, anche a Gaza, impotente. L'unica opzione sarebbe la conquista di Gaza. Ma chi ne ha il coraggio?

di Gianandrea Gaiani

Mentre il cessate il fuoco mediato da Egitto e Qatar sembra reggere all’indomani della fine delle e ostilità a Gaza è tempo di bilanci e anche se tutti si dichiarano a loro modo vincitori al termine di dieci giorni di scontri non mancano gli elementi su cui riflettere.
   Dall’inizio dell’operazione israeliana “Guardiano delle mura” le Brigate Ezzedin al-Qassam (braccio armato di Hamas) e il Movimento della Jihad Islamica hanno lanciato contro Israele 4.340 razzi, 640 dei quali abortiti al momento del lancio o caduti all’interno della Striscia mentre il sistema di difesa anti missile Iron Dome ha abbattuto circa 3600 razzi, pari al 90% di quelli sparati contro Israele; i missili non intercettati hanno invece colpito le città di Nevit Haasara, Sderot, Ashkelot, Ashdod e Lod, le periferie di Gerusalemme, Nazareth, Beersheba, Holon e la stessa Tel Aviv. Tredici le vittime in Israele tra cui un militare con 117 i feriti gravi (114 civili e tre militari) mentre la risposta militare israeliana ha causato la morte di almeno 248 persone, più della metà delle quali appartenenti alle milizie e oltre 1900 feriti. I bombardamenti israeliani avrebbero distrutto o danneggiato 2mila edifici e 500 rampe di lancio dei razzi oltre a depositi di armi e oltre 100 chilometri di tunnel che collegano la Striscia di Gaza con il territorio del Sinai egiziano.
   Da questi numeri si possono trarre alcune valutazioni che rendono però difficile attribuire la vittoria in modo netto e incontrovertibile. Innanzitutto le perdite sono state in generale molto limitate considerando la massa di armi e la potenza di fuoco impiegata, a conferma che Israele ha ben difeso il suo territorio e ha colpito quasi sempre in modo “chirurgico” il nemico evitando carneficine tra i civili usati come “scudi umani” dai miliziani palestinesi. Hamas ha subito perdite rilevanti in termini di uomini e comandanti ma che potrà rapidamente compensare con nuovi arruolamenti e nomine mentre i razzi utilizzati, a cui aggiungerne alcune centinaia distrutti dai raid aerei israeliani nei depositi potrebbero rappresentare un sesto o addirittura in decimo dei 30mila o forse 50mila che secondo fonti d’intelligence israeliane e statunitensi sarebbero presenti a Gaza.
   Questo significa che è difficile proclamare la sconfitta di Hamas e Jihad Islamica palestinese se possono in ogni momento disporre delle capacità militare di riaprire le ostilità cercando di bersagliare le città israeliane. Non è certo un caso che Gerusalemme punti oggi a un accordo internazionale che garantisca il disarmo di Hamas, impossibile però da accettare per i miliziani sostenuti dall’Iran ma anche da Turchia e Qatar. Inutile farsi illusioni che una missione internazionale (dell’ONU) possa raggiungere un simile obiettivo, Basti ricordare che i 12 mila caschi blu schierati in Libano meridionale dal 2006 avevano tra i loro compiti il disarmo delle milizie (soprattutto quelle di Hezbollah) che a oggi non è mai stato neppure tentato su vasta scala. Il disarmo di milizie così radicate sul territorio e che hanno il totale controllo della popolazione, volontario o basato sul terrore, si può concretamente attuare solo dopo aver inflitto loro una decisiva sconfitta militare.
   Nel caso di Hamas a Gaza l’unica possibilità di scongiurare nuovi lanci di razzi contro le città israeliane è riposta in un’operazione militare su vasta scala che permetta di conquistare la Striscia di Gaza metro dopo metro eliminando ogni sacca di resistenza e distruggendo tutti i depositi di armi e razzi. Certo Israele avrebbe difficoltà a giustificare alle cancellerie e all’opinione pubblica internazionale una durissima campagna militare casa per casa (resa ancor più feroce dalla resistenza che opporrebbero miliziani consapevoli di non avere scampo) e ancor di più il ripristino di quell’occupazione della Striscia che mantenne fino al ritiro del 2005.
   Per questo, anche un’opzione bellica tesa ad annientare i miliziani palestinesi, dovrebbe prevedere che Israele ceda il controllo del territorio di Gaza all’Autorità Nazionale Palestinese di Abu Mazen e alle forze egiziane. Il Cairo, alle prese con le milizie jihadiste del Sinai, avrebbe tutto l’interesse a stabilizzare Gaza ma potrebbe non essere disposta a schierare migliaia di soldati e poliziotti all’interno del territorio abitato da 2,5 milioni di palestinesi.
   Certo si tratta solo di ipotesi e di opzioni che per ora non sembrano essere all’ordine del giorno. Tuttavia, se è vero che il disarmo di Hamas costituisce il primo passo verso la pace, è altrettanto vero che non potrà essere effettuato se non utilizzando con determinazione strumenti coercitivi militari.

(La Nuova Bussola Quotidiana, 25 maggio 2021)


La nuova ondata di antisemitismo negli Stati Uniti

di Donato Moscati

Sulla scia del conflitto tra Israele e Hamas gli Stati Uniti si trovano a fare i conti con una nuova ondata di antisemitismo.
    Giovedì a New York nel corso della manifestazione pro Israele alcuni ebrei sono stati aggrediti per strada, nei giorni seguenti altri hanno denunciato di aver ricevuto minacce sui social media e a livello nazionale l'Anti-Defamation League ha registrato un aumento dell’antisemitismo nella prima settimana di combattimenti.
    Il presidente Biden ieri ha twittato: “I recenti attacchi alla comunità ebraica sono spregevoli e devono cessare. Condanno questo comportamento odioso in patria e all'estero: sta a tutti noi non dare all'odio un porto sicuro.”
    Andrew Cuomo, governatore di New York, con un tweet ha chiesto alla polizia l’aumento dei controlli nei siti sensibili ebraici: “L'odio non ha posto nel nostro stato. Mi rivolgo alla New York State Police, chiedo di aumentare le pattuglie nelle sinagoghe, nelle scuole e in altre strutture della comunità ebraica a seguito di un picco di attacchi violenti. Faremo tutto il possibile per garantire che i newyorkesi ebrei - e i newyorkesi di tutte le fedi - siano al sicuro.”
    Nella nota di Cuomo si legge che i controlli interesseranno le strutture educative e religiose ebraiche nelle contee di New York City, Westchester, Rockland, Orange, Nassau e Suffolk.
    Attacchi a sinagoghe e siti ebraici anche in Florida, Arizona e Illinois tanto che alcuni cittadini ebrei stanno evitando di indossare la kippah o altri simboli religiosi per paura di essere aggrediti.
    A far fronte alla nuova ondata di antisemitismo è scesa in campo anche l’NBA, molte squadre hanno postato nelle loro pagine social messaggi di condanna.
    "Siamo nel mezzo di un aumento devastante e spaventoso di attacchi antisemiti contro la comunità ebraica nel nostro paese. Questi atti odiosi e pericolosi DEVONO cessare ed essere condannati." hanno scritto domenica i Milwaukee Bucks sul loro account ufficiale.
    “Basta con l'odio. L'incitamento all'odio e la violenza contro gli ebrei e gli atti vili antisemiti commessi contro i nostri amici e vicini ebrei qui nel sud della Florida devono finire" il messaggio dei Miami Heat, mentre i Dallas Mavericks hanno scritto "Siamo contrari all'antisemitismo, al pregiudizio, alla discriminazione e al razzismo di qualsiasi tipo".

(Shalom, 25 maggio 2021)


Cambio al Mossad, arriva Barnea Israele si rafforza contro l'Iran

Nominato il nuovo direttore dei servizi dello Stato ebraico. A giugno prenderà il posto di Yossi Cohen

TEL AVIV - Cambio al vertice del Mossaci. Dal prossimo primo giugno il nuovo direttore dei servizi israeliani sarà David Barnea. Si dice che sia stato un abile reclutatore di agenti in tutto il mondo, con particolare riguardo all'Iran e agli Hezbollah libanesi, ma non solo. David Barnea, 56 anni, sposato e padre di 4 figli, arriva al vertice al posto di Yossi Cohen di cui era il numero due. Un cambio che appare nel solco della continuità rispetto alla gestione di Cohen, uno dei più stretti collaboratori del premier Benjamin Netanyahu.
   Allo stesso modo del suo predecessore, il nuovo direttore si è fatto le ossa in incarichi operativi. Dopo l'ingresso nell'Istituto, ha fatto parte - come Cohen - della sezione 'Tzomet', responsabile dell'individuazione, del reclutamento e della gestione degli agenti. Nel 2018 è diventato vice di Cohen: Haaretz ha ricordato che una delle maggiori operazioni attribuite al Mossaci in quell'epoca è stato l'assassinio del capo del programma militare dell'Iran Mohsen Fakhrizadeh. Dopo aver annunciato la sua nomina Netanyahu ha anche indicato il compito principale del nuovo direttore: «Impedire all'Iran di avere armi nucleari».

(Nazione-Carlino-Giorno, 25 maggio 2021)


Da Israele al futuro a Pavia. I sogni spezzati dei Biran

Amit e la moglie Tal erano da anni in Italia. Gli studi in medicina e psicologia. Si mobilita la comunità ebraica

di Alberto Giannoni

PAVIA - «Preghiamo che possa essere forte come il nome che porta». Significa proprio forte e tenace, in ebraico, la parola Eitan, l'eredità più importante del piccolo (6 anni non ancora compiuti) unico sopravvissuto di una famiglia distrutta in un attimo nell'assurda tragedia della funivia del Mottarone. Sicuramente è stato forte il suo papà, Amit Biran, il trentenne - di origini ebraiche polacche - che l'ha probabilmente salvato in un ultimo straziante abbraccio protettivo, che durerà in eterno. Non c'è stato niente da fare per l'altro bambino, Tom, 2 anni, e per la mamma, Tal, 26 anni anch'essa nata in Israele ma da qualche anno in Italia. Con loro, nello schianto, sono morti anche i nonni della ragazza, Itzhak e Barbara Cohen, arrivati per trascorrere un po' di tempo coi nipoti, a Pavia, dove Tal e Amit stavano studiando per specializzarsi, lui in medicina alla Maugeri e lei in psicologia. Vivevano in una casa a due passi dal fiume, come racconta «Il Ticino», e progettavano di trasferirsi in un appartamento più grande.
   I bisnonni erano ospiti della sorella di Amit. «Cosa mai può succedere in Italia?» avevano pensato, partendo da Israele due giorni fa dopo le vaccinazioni anti-Covid. E tutti insieme avevano organizzato questa gita, mentre a Gerusalemme era giunta la fragile tregua che ha fatto seguito agli attacchi di Hamas e alla reazione israelia - na. «Non avevo idea di cosa fosse successo e all'inizio ho pensato che fosse caduto un altro missile in Israele» ha raccontato Aya, la sorella di Amit ricostruendo i drammatici istanti in cui ha ricevuto i messaggi i primi increduli messaggi degli amici che anticipavano le notizie ufficiali sulla tragedia di Stresa. Il profilo social Tal è quello di una giovane donna felice.
   In quello di Amit campeggia una splendida foto col figlio in Duomo a Milano poi un'altra sul Lungoticino di Pavia. Sei giorni fa aveva condiviso un intervento pro Israele di Nikky Haley, rappresentante Usa all'Onu. La Comunità ebraica di Milano è sconvolta. «Era un bel ragazzo, generoso, arrivato in Italia per studiare Medicina. Nel frattempo lavorava da noi» ricorda il presidente Milo Hasani. Tutti ricordano Amit per il suo servizio - curava la sicurezza per le scuole e per il tempio - e per la gentilezza. La scuola ha aperto una raccolta di fondi per il piccolo. Ieri sono arrivati a Torino il papà di Tal, Peleg accompagnato dai fratelli di lei e lei. I funerali saranno celebrati domani in Israele: le salme partiranno da Torino Caselle con un volo di Stato. «Il nostro cuore è infranto» ha scritto il ministro degli Esteri israeliano Gabi Ashhkenazi. E Pavia ha proclamato il lutto cittadino. «Che una carezza dal cielo conforti», ha scritto l'arcivescovo di Milano Mario Delpini.

(il Giornale, 25 maggio 2021)


E Macron non difende Israele per non innervosire gli islamici

di Gianluca Mazzini

La dodicesima guerra in 70 anni tra israeliani e palestinesi è stata molto diversa dalle precedenti. Questa volta non è stato necessario schierarsi con una delle tifoserie contrapposte per essere coinvolti. La guerra di Gaza ha investito direttamente Italia ed Europa. Fino a un recente passato le guerre "lontane" in Asia, Medio Oriente, Caucaso riguardavano solo la politica estera. Oggi si stanno trasformando, drammaticamente, in questioni di politica interna. Questo a causa della forte ondata immigratoria che ha investito il Vecchio Continente negli ultimi decenni e che non sembra destinata a calare. Anzi. L'assenza di una linea europea sul problema e l'idea tutta italiana dei "porti aperti" accrescerà il rischio "travaso" di crisi internazionali all'interno dei singoli stati europei. Non hanno avuto grande rilevanza mediatica le manifestazioni di piazza a favore della Palestina che ci sono state in queste ultime settimane in tutta Europa. Anche in Italia migliaia di persone sono scese in piazza da Milano a Palermo passando per Roma. I manifestanti, sventolando bandiere palestinesi, chiedevano la fine dei bombardamenti su Gaza dove sono state uccise centinaia di persone tra cui 70 bambini.

 STRANIERI IN PIAZZA
  Il fatto curioso è che anche da noi nessun partito politico ha preso ufficialmente posizione a favore della causa araba. Anzi. Tutti i partiti presenti in Parlamento, da destra a sinistra, hanno sostenuto il diritto alla difesa dello Stato d'Israele. Chi erano i manifestanti pro-Palestina nelle nostre piazze? Gruppuscoli extra-parlamentari di destra e sinistra? No. Si trattava, in gran parte, di giovani immigrati o di italiani di seconda e terza generazione. Ad organizzarle sono state le comunità di immigrati che risiedono da noi. Ecco la guerra israelo-palestinese da scontro politico che negli anni '70 divideva e infiammava i partiti, con la destra filoisraeliana e la sinistra filopalestinese si è oggi trasformata in una questione religiosa ed etnica che mobilità musulmani e arabi (in parte minore israeliani). Manifestazioni di piazza che non possono non creare un condizionamento politico anche dell' approccio internazionale che i singoli governi europei devono tenere.

 VARIANTE ERDOGAN
  Ma c'è di più: la variante Erdogan. Da anni Vincenzo Sofo europarlamentare dei Conservatori Riformisti europei denuncia il problema. «Il leader turco è divenuto a tutti gli effetti un interlocutore interno all'Ue e ai singoli stati in virtù della sua astuta e inquietante strategia geopolitica. Erdogan si muove su tre direttrici. Controlla la rotta balcanica e in parte i flussi migratori dalla Libia. Insomma controlla i nostri confini. Gioca una partita energetica cercando di porsi come dominus nel Mediterraneo, da Cipro al Mar libico. Favorisce la diffusione dell'islamismo radicale in Europa. La sua strategia è ancor più significativa perché la Turchia è membro della Nato. Purtroppo a Bruxelles tutti fingono di non vedere il problema. Anche nella partita israelo-palestinese Erdogan ha giocato le sue carte ponendosi come difensore della causa palestinese ma anche come possibile mediatore all'interno dei paesi europei dove la presenza massiccia di comunità islamiche condiziona pesantemente i governi. In Francia Macron è stato costretto a esprimersi con cautela sul conflitto preoccupato dalle possibile reazioni di gruppi musulmani».

(Nazione-Carlino-Giorno, 25 maggio 2021)


Lo scopo di Netanyahu è arrivare a uno Stato senza palestinesi

Il conflitto è vecchio di 70 anni, ma la fine è lontana.

di Tahar Ben Jelloun

Il conflitto in corso fra Israele e Hamas non assomiglia all'ultimo in ordine di tempo, quello del 2014. La guerra attuale è nata sulla Spianata delle Moschee a Gerusalemme Est il 10 maggio, in seguito al tentativo di soldati israeliani di sgomberare famiglie palestinesi dalle loro case a favore di nuovi coloni. Niente a che vedere con Hamas.
   Sono stati degli arabi israeliani a opporsi a questi tentativi di espulsione. Le ostilità si sono estese alla Cisgiordania, dove scontri con l'esercito israeliano hanno fatto venti morti in pochi giorni. Le tensioni restano forti nelle città cosiddette "miste", dove ebrei e arabi israeliani vivono fianco a fianco.
   La minoranza araba che vive in Israele è il 20% della popolazione (1,8 milioni di persone). Sono arabi, palestinesi e anche israeliani di seconda fascia, perché spesso discriminati. Hanno diritto di voto (12 deputati su 120 alla Knesset), ma non hanno mai preso parte al governo.
   È la prima volta che questa popolazione si batte contro l'esercito israeliano. È a questo punto che si inserisce Hamas, il movimento islamista finanziato dal Qatar e in parte dall'Iran, che sa benissimo che lanciando dei razzi sul Nord di Israele subirà rappresaglie. Hamas, che ha rotto i ponti con l'Autorità Palestinese, che governa la Cisgiordania, cerca così di ritagliarsi un ruolo di primo piano nella lotta contro l'occupante.
   Questa volta, più Israele bombarda Gaza, più la solidarietà tra palestinesi si rinsalda. Lo sciopero generale del 16 maggio nelle città arabe ha dimostrato che la lotta contro Israele viene prima delle divergenze fra palestinesi. A Nazareth, la più grande città araba, ha risuonato l'inno palestinese.
   Altro elemento nuovo è la mobilitazione di una gioventù che non aveva partecipato all'ultima Intifada, nel settembre del 2000. Una gioventù non necessariamente riconducibile a un partito politico.
   Questo ha spinto al-Fatah, il primo movimento nazionale palestinese, a tornare al centro della scena per impedire ad Hamas di trarre profitto dalla situazione.
   È stato Hamas, però, a lanciare 3.350 razzi sul territorio israeliano, nella maggior parte dei casi intercettati da Iron Dome, il sistema antimissile israeliano. Razzi che hanno fatto 12 morti fra la popolazione israeliana, mentre i bombardamenti su Gaza hanno ucciso 227 persone, di cui 59 bambini. Un elemento rilevante di questa nuova guerra è la volontà della destra e dell'estrema destra israeliane, rappresentate dal primo ministro Benjamin Netanyahu, di rifiutare qualsiasi compromesso.
   Come ha detto un manifestante il giorno dello sciopero: «Per Israele, i palestinesi sono indesiderabili, ovunque vivano». Lo scopo di Netanyahu è di arrivare a un giorno in cui non ci siano più palestinesi. Il 19 luglio 2018 il Parlamento israeliano ha adottato una legge che proclama Israele «Stato-nazione del popolo ebraico», con l'ebraico come unica lingua ufficiale e Gerusalemme unita come capitale. Gli insediamenti ebraici sul territori palestinesi sono considerati "rilevanti per l'interesse nazionale". Questo vuol dire anche che quel 20% di israeliani arabi dovranno andare via, un po' come nel 1948!
   Questa nuova guerra si svolge dopo gli accordi di Abramo, con i quali alcuni Paesi arabi hanno riconosciuto Israele e accettato di allacciare relazioni con TelAviv.
   Ciononostante, nella maggior parte delle città arabe ci sono state manifestazioni di solidarietà con il popolo palestinese.
   Le due parti ora hanno accettato una tregua, grazie alla diplomazia egiziana e americana, ma nulla garantisce che la pace durerà. Hamas grida vittoria mentre le famiglie seppelliscono i loro morti. La speranza del movimento islamista è di diventare interlocutore di Israele. Qualcuno ha detto: «Alla fine anche gli americani hanno negoziato con i talebani, perché non dovrebbe succedere lo stesso con Hamas?»
   Ma tutto questo fa parte di un ingranaggio che un giorno o l'altro ripartirà, perché la maggioranza israeliana rifiuta la negoziazione: quello che esige è che non ci sia più nessun palestinese a contrariare i progetti di uno Stato-nazione ebraico e Gerusalemme unita come capitale. Questo conflitto vecchio di oltre 70 anni è ancora lontano da una conclusione.

(la Repubblica, 24 maggio 2021)


Davvero pieno di falsità questo articolo di Ben Jelloun, presentato come il più famoso scrittore marocchino noto per i suoi saggi contro il razzismo (che con queste parole sta alimentando).
“La speranza del movimento islamista è di diventare interlocutore di Israele... Alla fine anche gli americani hanno negoziato con i talebani”. Ha dimenticato i negoziati con Hitler, e il quadro sarebbe stato completo. Hamas non nutre questa speranza, come evidente dalla lettura del suo statuto che vuole la guerra di annientamento di Israele con l’uccisione fino all’ultimo ebreo che si nasconde... Tra le altre falsità, il 10 maggio non i soldati israeliani, ma la giustizia israeliana non ha voluto favorire nuovi coloni, ma legittimi proprietari (fin dal 1875) che non ricevono i canoni di locazione concordati. L’Iran non “finanzia solo in parte” Hamas, giacché sono gli stessi terroristi che ringraziano gli ayatollah per aver fornito loro tutte le armi. Hamas non ha solo “rotto i ponti” con Fatah, ma ha ucciso i suoi rappresentanti, e se nel momento della lotta con Israele le divergenze si accantonano, appena la lotta col nemico finisce, come sempre riparte quella col “fratello musulmano”. Farei poi osservare a Ben Jelloun che il numero di morti in assoluto è bassissimo se si considerano le distruzioni subite da Gaza, e questo è dovuto al fatto che Israele è l’unico paese al mondo che avvisa prima di colpire per permettere a tutti di allontanarsi e magari anche filmare lo spettacolo. E di sicuro i morti sarebbero stati ancora molto meno numerosi se degli oltre 4000 razzi e missili lanciati dalla Striscia, almeno 500 non fossero caduti su Gaza senza preavvisare gli abitanti.
Comprendo il dovere di dare la parola a tutti, ma forse si potrebbero mettere dei paletti prima di pubblicare articoli come questo che, ripeto, alimentano l’antisemitismo. Emanuel Segre Amar



In quello stesso tempo alcuni vennero a riferirgli il fatto dei Galilei, il cui sangue Pilato aveva mescolato coi loro sacrifici. Gesù rispose e disse loro: Pensate voi che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei perché hanno sofferto tali cose? No, vi dico; ma se non vi ravvedete, tutti similmente perirete. O quei diciotto sui quali cadde la torre in Siloe e li uccise, pensate voi che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico; ma se non vi ravvedete, tutti al par di loro perirete.
Dal Vangelo di Luca, cap. 13

 

Israele riapre la Spianata, tornano i visitatori ebrei. L' Anp: «Una provocazione»

Regge la tregua coi palestinesi ma continuano gli attriti. A TelAviv contestato Netanyahu

di Chiara Clausi

BEIRUT - La tregua tra Israele e palestinesi regge ma le turbolenze e gli attriti non sono finiti, anche all'interno di Israele, dove Benjamin Netanyahu appare in difficoltà. Nello stesso tempo il segretario di Stato americano Antony Blinken ha ribadito che «gli Stati Uniti sono impegnati per una soluzione a due stati». Ieri il Monte del Tempio, Spianata delle moschee per i musulmani, è stato riaperto ai visitatori ebrei dopo che era stato chiuso negli ultimi 19 giorni, prima per la fine del Ramadan e poi per la guerra sanguinosa, oltre 205 morti, con Hamas. Quasi 100 visitatori ebrei sono saliti al luogo sacro, in momento di tensione massima, tanto che le autorità israeliane hanno proibito l'ingresso a tutti i palestinesi di meno di 45 anni. Il timore è che una minima scintilla possa innescare una nuova fiammata, ma il provvedimento è contestato e rischia di riaprire un nuovo ciclo di accuse e controaccuse. Il Waqf, l'organizzazione islamica giordana che ha l'autorità religiosa sull'area, ha protestato. L'Autorità Nazionale Palestinese ha condannato l'accaduto, e ha parlato di «provocazioni» che potrebbero causare una nuova «escalation». Il portavoce della polizia israeliana, Micky Rosenfeld, ha spiegato che l'area è stata messa in sicurezza per «prevenire incidenti».
  La preghiera ebraica sul Monte del Tempio è in teoria proibita dalla polizia, ma negli ultimi anni si è sempre chiuso un occhio, sebbene i fedeli debbano essere senza gli scialli di preghiera, i tefillin, ossia le due scatolette di cuoio che si legano sul braccio sinistro e sulla testa che gli ebrei portano durante la preghiera del mattino e l'uso di rotoli della Torah. Itamar Ben-Gvir, capo del partito di estrema destra Otzma Yehudit che fa parte del nuovo Religious Zionist Party di Bezalel Smotrich, ha però descritto la situazione per i visitatori ebrei del sito come "discriminazione incessante". Ogni eccessiva apertura verso i fedeli ebrei è però destinata a riaccendere la rabbia palestinese. Come alla fine di questo Ramadan quando le preghiere dei giovani arabi sono degenerate in scontri, con lancio di pietre e molotov. La polizia è intervenuta per sgomberarli, anche all'interno della moschea di Al-Aqsa. Allora Hamas ha iniziato a lanciare razzi su Gerusalemme e tutto è precipitato.
  Alla fine di undici giorni di battaglia sia Hamas che Netanyahu hanno proclamato la vittoria». Ma il premier israeliano sembra in difficoltà. Migliaia di israeliani hanno marciato a Te! Aviv sabato sera in una dimostrazione di sostegno alla pace e alla convivenza tra ebrei e arabi. I manifestanti hanno espresso il loro sostegno al recente cessate il fuoco tra Israele e Hamas e chiesto al governo di agire per porre fine all'occupazione israeliana in Cisgiordania e per raggiungere la pace con i palestinesi. La marcia di massa da piazza Rabin si è diretta verso piazza Habima; tra i relatori c'era lo scrittore israeliano David Grossman, il leader della Joint List Ayman Odeh e Tamar Zandberg di Meretz.
  «Ci sono due popoli che vivono qui ed entrambi meritano il diritto all'autodeterminazione», ha esordito Odeh. «Questi ultimi giorni ci hanno mostrato come la vita in questo Paese possa diventare un incubo», ha aggiunto invece Zandberg. Sempre sabato, centinaia di persone si sono radunate davanti alla residenza di Netanyahu a Gerusalemme, chiedendogli di dimettersi, sostenendo che ha esteso le operazioni militari senza motivo se non per interesse personale.

(il Giornale, 24 maggio 2021)


Hamas e l’inutile guerra degli undici giorni

Un attacco missilistico contro la capitale di uno Stato sovrano è indubbiamente un atto di guerra: qual è stato l’obiettivo strategico di Hamas nel momento in cui ha deciso di sferrare un’offensiva militare contro il suo nemico storico? Al termine della “guerra degli undici giorni”, Hamas e la Jihad Islamica Palestinese escono fortemente indebolite sul piano militare e politico da un’avventura militare senza senso e senza prospettive.

di Giancarlo Elia Valori

Nella storia del conflitto arabo-israeliano (e anche israelo-palestinese) che si avvia verso il settantacinquesimo anno di età, è rimasta famosa la guerra del 1967, nota a tutti come “la guerra dei sei giorni”, che prese avvio quando l’esercito israeliano dopo una serie di provocazioni del leader egiziano , che era arrivato a chiudere con le sue navi da guerra lo stretto di Tiran e a espellere le “forze di Pace” delle Nazioni Unite dalla penisola del Sinai, sferrò il 6 giugno un’offensiva militare contro Egitto, Giordania e Siria, che si erano coalizzati per realizzare l’antico sogno di “ributtare gli ebrei in mare”.
    L’obiettivo strategico della guerra preventiva scatenata da Israele era quello di mettere in sicurezza i suoi confini e, se possibile, ampliarli a spese dei suoi nemici storici.
    Sappiamo come è andata: dopo pochi giorni Israele aveva conquistato il Sinai e la Striscia di Gaza a spese dell’Egitto, tolto tutta Gerusalemme e la Cisgiordania al regno hascemita e occupato l’altipiano del Golan e il monte Hermon espellendone i siriani.
    Con la “guerra dei sei giorni”, Israele si era dato un obiettivo strategico e l’aveva conseguito.
    Quando Hamas, il 10 maggio, ha scatenato il primo attacco di missili contro le città israeliane, a partire da Gerusalemme e Tel Aviv, Israele era impegnato a celebrare il “Jerusalem Day” (la giornata dedicata al ricordo della “liberazione” della città santa) e a fronteggiare una nuova ondata di proteste popolari provocate da una serie di sfratti ai danni di palestinesi residenti nel quartiere di Sehikh Jarra di Gerusalemme Est.
    Un attacco missilistico contro la capitale di uno Stato sovrano è indubbiamente un atto di guerra e quindi siamo autorizzati a chiederci: qual è stato l’obiettivo strategico di Hamas nel momento in cui ha deciso di sferrare un’offensiva militare contro il suo nemico storico?
    I lettori e i telespettatori dei media occidentali non hanno avuto che risposte confuse su questo argomento, in quanto i media europei e americani hanno preferito concentrare l’attenzione sulla sproporzione tra le vittime palestinesi dei bombardamenti israeliani attuati in risposta all’offensiva missilistica lanciata da Gaza (243, di cui 74 bambini), rispetto a quelle provocate dai razzi di Hamas (12 adulti e un bambino, ai quali si deve aggiungere un ebreo linciato dai dimostranti palestinesi a Lydda).
L’aspetto umanitario di una guerra è sempre importante e degno di attenzione, ma non può essere il solo criterio di analisi delle motivazioni e delle responsabilità del conflitto.
    Gli storici che hanno studiato la Seconda guerra mondiale non si sono concentrati soltanto sul destino dei bambini e dei civili tedeschi morti durante i bombardamenti alleati, ma ne hanno in caso ascritto giustamente la responsabilità alla follia di chi, come Hitler e i suoi accoliti, ha trascinato i civili tedeschi in una tragedia sanguinosa, la cui drammatica sorte va addebitata non solo a chi ha sganciato le bombe ma a chi, con avventurismo criminale, li ha coinvolti e li ha resi di fatto corresponsabili passivi in una guerra di aggressione.
I 74 bambini morti a Gaza sono stati vittime non solo delle bombe israeliane ma anche di chi, come la leadership di Hamas, ha deciso di collocare le rampe di lancio dei suoi razzi nei cortili delle case della città o di installare i suoi centri di comando militare all’interno di ospedali, scuole e di grattacieli abitati da centinaia di persone.
    Il conto delle vittime non è sufficiente a stabilire le responsabilità di una guerra inutile, perché le vittime, tutte le vittime, “hanno sempre ragione”.
    Il conto dei morti, tuttavia, può essere utile per comprendere il livello di spregiudicatezza di chi, come i vertici di Hamas e della Jihad Islamica Palestinese, ha deciso di attaccare un avversario enormemente più forte, senza apparentemente speranza di vittoria o almeno un chiaro obiettivo, ancorché limitato.
    Analizzando le prime dichiarazioni dei vertici palestinesi di Gaza, sembra chiaro che, attaccando Israele e subendone poi l’inevitabile ritorsione militare, gli estremisti palestinesi speravano, nell’ordine: di suscitare un’ondata di indignazione in tutto il mondo musulmano, mobilitando le “masse arabe” contro quei governi che hanno cercato un appeasement con Israele, primi tra tutti i firmatari del “Patto di Abramo” che normalizza dallo scorso anno le relazioni tra Israele e Marocco, Tunisia, Emirati Arabi, Bahrein e Sudan. Questa strategia è fallita perché, a parte qualche scontata protesta di strada, il mondo arabo non si è “sollevato” per protestare contro i “crimini” di Gerusalemme e i suoi governi hanno atteso con pazienza che la mediazione egiziana portasse Hamas a più miti consigli; il secondo ipotizzabile obiettivo potrebbe essere stato quello di coinvolgere in modo più massiccio Turchia e Iran nel confronto militare con Israele. Se questo era un obiettivo il risultato non è stato raggiunto perché, per quanto riguarda Ankara, nonostante gli accesi toni propagandistici del presidente Erdogan nelle espressioni di condanna dell’”aggressione israeliana”, il sostegno ai palestinesi non è andato oltre le frasi di circostanza, anche perché la Turchia non dimentica di essere stata la prima nazione musulmana a riconoscere nel 1949 lo Stato di Israele e il suo diritto all’esistenza.
    Per quel che attiene all’Iran, per comprendere la sua sostanziale presa di distanza dall’iniziativa di Hamas (alla quale non sarebbero state estranee discrete ma efficaci pressioni del governo cinese), è sufficiente rilevare che dal Libano gli Hezbollah che sono espressione diretta dei Pasdaran iraniani si sono limitati al lancio puramente dimostrativo di tre razzi verso le campagne del nord della Galilea, nell’ultimo giorno di guerra.
    Se Teheran avesse voluto seriamente sostenere l’offensiva militare di Hamas avrebbe potuto ordinare a Hezbollah di intervenire dal Libano, mettendo in seria difficoltà le forze armate e il governo di Gerusalemme.
    Al termine della “guerra degli undici giorni”, Hamas e la Jihad Islamica Palestinese escono fortemente indebolite sul piano militare e politico da un’avventura militare senza senso e senza prospettive.
    Anche l’idea di suscitare un guerra civile nelle città di Israele a popolazione mista ebraica e palestinese non è andata a buon fine, perché, dopo le violente proteste dei primi giorni la situazione si è rapidamente calmata e addirittura nelle principali città israeliane nei giorni scorsi si sono tenute manifestazioni “miste” con cortei di arabi ed ebrei che hanno invocato la ripresa della convivenza civile.
    Anche sul fronte interno palestinese gli estremisti di Gaza con i loro missili non sembra abbiano guadagnato particolare consenso.
    I palestinesi della West Bank non sono scesi in piazza in massa per solidarietà con “i fratelli” della Striscia e il leader dell’Autorità Nazionale Palestine, Abu Mazen non è andato, con le sue reazioni, al di là di qualche frase di circostanza.
    Ciò che più conta, Abu Mazen si è ben guardato dall’indire nuove elezioni politiche in Cisgiordania, sospese ormai da anni, proprio per evitare il rischio di dare ad Hamas nei seggi, quella vittoria che le è mancata sul campo.
    Il conflitto, poi, ha riportato al centro dello scacchiere mediorientale l’Egitto di Al Sisi che, grazie anche al sostegno discreto e riservato della Cina (Pechino ha ottime relazioni con Israele) al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, è riuscito nell’opera di mediazione che ha portato alla cessazione delle ostilità.
    In definitiva, la “guerra degli undici giorni” non può essere considerata un successo militare e politico delle frange più oltranziste del movimento palestinese.
    Ma, nonostante il successo sul piano dell’autodifesa, Israele non può permettersi di dormire sugli allori, come fece dopo la “guerra dei sei giorni”, ma deve tornare ad affrontare il nodo della pacificazione della regione e della convivenza con la realtà palestinese, evitando innanzitutto di offrire il fianco alle accuse di razzismo e di apartheid provenienti dall’intellighenzia filo palestinese (per non dire antisemita) europea e americana.
    L’impegno per la pace sarà un dovere per il nuovo governo israeliano, quale uscirà dalle consultazioni di questi giorni o da nuove elezioni politiche e dovrà partire da un nuovo dialogo con la componente di Abu Mazen che finora si è dimostrata la più realistica e pragmatica nel movimento palestinese.
    Ma, arrivare alla pace in Palestina non è solo difficile per l’intransigenza degli estremisti, ma è anche pericoloso per l’incolumità di chi la persegue.
    È di questi giorni la notizia dell’allontanamento, o meglio dell’espulsione violenta, dalla Moschea di Al Aqsa della massima autorità religiosa della città, il Gran Muftì di Gerusalemme Mohammed Al Husseini, accusato di eccessiva moderazione e di vicinanza ad Abu Mazen.
    L’allontanamento del Gran Muftì, ci ricorda i sacrifici di chi, su qualsiasi fronte, si sia schierato per la pace negli ultimi settantaquattro anni a cominciare dal conte Folke Bernadotte caduto a Gerusalemme sotto i colpi dei terroristi ebrei del Gruppo Stern, il 16 settembre del 1948, mentre cercava per conto dell’Onu di mediare tra le fazioni in lotta, seguito due mesi dopo dall’egiziano Mahmoud Nokrashy Pascià che, per aver tentato di tenere fuori l’Egitto dalla guerra contro Israele, venne assassinato dai Fratelli Musulmani, gli stessi che il 6 ottobre 1981 assassineranno al Cairo il presidente Anwar El Sadat, colpevole ai loro occhi di aver fatto la pace con Israele.
    Anche Itzak Rabin, eroe israeliano di tre guerre e primo ministro di Israele, per aver stretto la mano a Yassir Arafat e siglato gli accordi di pace del 1993, è caduto sotto i colpi di un estremista ebreo, mentre sulla morte nel 2004 del capo storico dell’Olp si sono addensate voci attendibili di un avvelenamento al polonio ad opera di chi intendeva eliminare un esponente della pacificazione.
    Insomma in Palestina oggi più che mai, dopo l’inutile “guerra degli undici giorni”, c’è bisogno di un momento di respiro e di riflessione alla ricerca, anche con l’aiuto degli esponenti più moderati del mondo arabo, degli Usa, dell’Europa e di nuovi protagonisti dello scenario globale come la Cina, di un modello di convivenza civile e politica tra i contendenti di quella che rischia altrimenti di diventare una nuova “guerra dei cent’anni”.
    In Palestina occorre cercare la pace, anche se chi ha cercato la pace, troppo spesso ha trovato la morte.

(Formiche.net, 24 maggio 2021)


Il vero conflitto ora è nel campo palestinese

di Ugo Volli

L’evento più significativo accaduto dopo la fine dei combattimenti a Gaza non ha attirato l’attenzione della gran parte dei giornali italiani. Eppure è importante. Si tratta di questo. Venerdì, sul Monte del tempio, un gruppo consistente di musulmani ha cacciato dalla moschea di Al Aqsa il muftì di Gerusalemme (successore dunque del famigerato Haj Amin al-Husseini, l’amico di Hitler), Sheikh Mohammed Hussein, impedendogli di completare la sua predica. La sua colpa è di essere un alto funzionario dell’Autorità Palestinese, nominato al suo posto dal presidente di questa Muhammed Abbas, dunque un avversario politico di Hamas. Che la spianata delle moschee, come la chiamano, sia la sede di gruppi estremisti è molto chiaro. Ricordiamo l’assassinio a sangue freddo di due poliziotti drusi, avvenuto nel luglio 2017, gli incidenti di fine Ramadan, anche in questo caso con assalti ai poliziotti, che hanno dato il pretesto al tentativo di bombardamento di Gerusalemme, all’inizio di questo ciclo di scontri. E ancora, l’assalto a un altro poliziotto, tre giorni fa, buttato giù dalle scale che portano alla “Cupola della roccia” (il responsabile è stato arrestato ieri). E infine le aggressioni agli ebrei che osano recarsi sul monte, le pietre buttate dall’alto sullo spiazzo del Kotel, gli striscioni con le foto dei capi di Hamas esposti durante i combattimenti. Vedremo come reagiranno alla riapertura del Monte ai fedeli ebrei, deciso ieri dopo venti giorni di chiusura.
   Ma questa azione è diversa, perché non è rivolta contro ebrei o forze dell’ordine dello Stato di Israele, bensì contro un alto dirigente, per di più religioso, dell’Autorità Palestinese. Essa ci mostra insomma l’obiettivo vero dell’aggressione militare di Hamas, che era certamente rivolta contro Israele sul piano militare, ma il cui fine politico immediato era mettere fuori gioco i concorrenti dell’Autorità Palestinese. E i dirigenti di Hamas pensano di avere vinto, ma non perché siano stati in grado di sconfiggere Israele sul piano militare: è anzi evidente a tutti, anche a loro e ai loro militanti, che l’esito è stato esattamente il contrario: hanno perso pesantemente. Ma proprio per il fatto di aver tolto dalla scena Fatah e Muhammed Abbas.
   Ce lo conferma il discorso celebrativo del leader di Hamas Ismail Haniyeh: "Questa battaglia ha sconfitto le illusioni dei negoziati, ha sconfitto l'accordo del secolo, ha sconfitto la cultura della sconfitta, ha sconfitto i progetti di disperazione, ha sconfitto i progetti di insediamento, ha sconfitto i progetti di convivenza con l'occupazione sionista, ha sconfitto i progetti di normalizzazione [delle relazioni ] con l'occupazione sionista, e quindi la resistenza è la migliore scelta strategica per la liberazione e il ritorno."
   In sostanza per Hamas chi ha perso sono coloro dentro il mondo arabo che accettano, in maggiore o minor misura, la convivenza con Israele. Non è detto che sia così. Le parole di Hanyeh sono chiaramente strumentali ed esagerate. Sul piano internazionale non hanno certo vinto Iran e Hezbollah, finanziatori e fornitori d’armi a Hamas, capofila della “resistenza”; si è dimostrato che le loro armi non sono in grado di impensierire l’esercito israeliano. Invece Egitto, Emirati e perfino l’Arabia, che hanno tenuto un atteggiamento prudente mantenendo buoni rapporti con Israele e riconoscendo chi più chi meno la responsabilità di Hamas, non hanno affatto perduto. Anzi, gli Accordi di Abramo ne escono rafforzati.
   Sul piano interno a Israele, la rivolta promossa da Hamas ha colpito molto l’opinione pubblica, ma non si è generalizzata e non è detto che risulti vincente agli occhi degli arabi israeliani. Non è affatto scontato che essi preferiscano vivere in uno stato di disordine permanente che toglie loro risorse economiche, tranquillità e sicurezza. Non è nemmeno sicuro che questi incidenti impediscano alla lista araba Ra’am, diretta da Mansour Abbas, di entrare nella nuova maggioranza di governo, quale che sia. Mansour Abbas si è mosso molto prudentemente in queste settimane, manifestando solidarietà a Gaza ma rifiutando di appoggiare i tentativi di guerra civile, andando perfino a manifestare solidarietà alle vittime della violenza araba a Lod. È possibile che questo atteggiamento, sincero o strumentale che sia, gli assicuri un ruolo importante.È presto per sapere se ciò avverrà e se sarà un fatto positivo. Ma certamente questa è una novità che va in direzione opposta ai piani di Hamas.
   Dove Hamas sembra aver vinto è nello spazio politico dell’Autorità Palestinese, dove certamente la popolarità di Muhammed Abbas e di Fatah è ai minimi storici. Ma Abbas ha, molto opportunamente dal suo punto di vista, annullato le elezioni previste e continuerà a governare nel prossimo futuro. Biden ha dichiarato che gli aiuti che intende assegnare a Gaza dovranno passare dall’Autorità Palestinese, che avrà dunque molti fondi a disposizione per cercare di recuperare consenso. Certamente però Abbas è vecchio, malato, privo di eredi chiari e governa su un sistema corrotto e impopolare. È possibile che in un modo o nell’altro Hamas riesca a prendere il potere dopo di lui. Questo è certamente un grande problema: Israele si troverebbe ad avere a fianco, non solo a Gaza che è ben circondata da una barriera di sicurezza, ma anche nel territorio assai più frastagliato di Giudea e Samaria, un’organizzazione apertamente terrorista e altrettanto apertamente contraria a ogni compromesso. Se ciò accadesse, ci potrebbe essere un periodo molto difficile sul piano della sicurezza. Certamente sarebbero smascherati alcuni equivoci, come quello del “processo di pace” e dei “due stati” propugnati dalla sinistra europea e americana. Ma non è affatto detto che l’appoggio al palestinismo da parte di queste forze cesserebbe. E forse anche Hamas dovrebbe riaggiustare il suo ruolo e inserirsi nella politica dell’ambiguità che è stata la linea di Abbas e prima di lui di Arafat. Sono scenari ancora vaghi, ma senza dubbio bisogna iniziare a pensarci.

(Shalom, 24 maggio 2021)


A Gaza con l’Onu: “Vano ricostruire se non c’è accordo Israele-Hamas”

Philippe Lazzarini: "Calma illusoria se non risolviamo le cause del conflitto". La spola degli emissari di Al Sisi per consolidare la tregua.

di Vincenzo Nigro

GAZA — L’Onu vuole ricostruire Gaza. Ma vuole anche che il gioco cambi, che riparta un negoziato politico fra Israele e i palestinesi. «Non dobbiamo soltanto ricostruire Gaza per l’ennesima volta. Altrimenti sarebbe ancora una follia: Gaza viene bombardata, poi si ricostruisce, viene bombardata ancora, e poi si ricostruisce ancora…». Philippe Lazzarini è da un anno capo dell’Unrwa, l’agenzia Onu per i palestinesi. Da tre giorni il diplomatico svizzero è rientrato a Gaza per capire lo stato della Striscia dopo la guerra degli 11 giorni. E soprattutto quali sono le necessità delle città e della popolazione.
  Ha terminato una conferenza stampa, ora parla con Repubblica al centro della base Onu, sotto un grande tendone azzurro, il colore delle Nazioni Unite. «Gaza è stata riportata indietro ancora una volta di anni. È un altro episodio insensato di violenza estrema, che ha ucciso civili, distrutto infrastrutture».
  E poi ripete la parte politicamente più dura del suo messaggio: «Senza affrontare le cause profonde del conflitto, l’occupazione, i profughi, di cui abbiamo avuto un forte segnale a Gerusalemme Est e Sheikh Jarrah, senza discutere il blocco di Gaza e il continuo ciclo di violenza, questa tregua sarà solo un’illusione fino alla prossima guerra».
  A Gaza la popolazione è ancora inebriata dalla fine della guerra. Le strade sono piene a ogni ora, i negozi, le bancarelle, il lungomare. «Arriverà in tutti quanti noi il momento della depressione, quando anche chi ha la casa ancora in piedi si accorgerà che siamo ancora in prigione, qui a Gaza», dice Alì Al Masri, un piccolo imprenditore. I danni sono importanti, si aggiungono all’eterna catastrofe delle strutture, della sanità, delle scuole. Oltre 300 palazzi distrutti, fra cui mille abitazioni. Altre centinaia danneggiati. Centomila sfollati sono nelle scuole o altrove, e 600 mila studenti dovrebbero tornare a scuola. Sei ospedali e un centro medico per le emergenze danneggiati, 800mila persone non hanno acqua potabile.
  Tutti i “gazawi” sono anche analisti politici, e nel futuro dei giochi palestinesi per Gaza vedono solo nebbia. «Cambia tutto nel rapporto fra i movimenti palestinesi», dice ancora Alì, «Abu Mazen e il suo Fatah sono sempre più in difficoltà, per la prima volta è stata Hamas a rispondere all’appello dei palestinesi di Gerusalemme Est. Sono loro i difensori della nostra capitale, della moschea di Al Aqsa».
  Ieri sulla Spianata delle moschee è andata in scena un’altra puntata dell’eterna contesa fra ebrei e palestinesi. Vogliono il controllo di pietre, muri, edifici che sono sacri a entrambi. La polizia israeliana al mattino presto ha aperto cancello laterale di quello che gli ebrei chiamano il “Monte del tempio” per fare entrare un piccolo gruppo di fedeli. I palestinesi hanno protestato, e dal governo del moderato presidente Abu Mazen è arrivato un attacco al governo di Bibi Netanyahu: «Ancora una volta è stata una brutale e irresponsabile provocazione dei sentimenti dei musulmani».
  A Gaza tutti, anche i laici, i più liberali, o quelli vicini al Fatah di Abu Mazen, aggiungono che a questo punto Hamas si è anche assegnata un posto al tavolo dei grandi, quello dove si negozierà per il futuro. «La scintilla è poco conosciuta: sono stati i poliziotti israeliani che sono entrati nella moschea di Al Aqsa il 10 maggio per staccare i fili degli altoparlanti del mufti», dice il professor Mkaihar Abu Sada, che insegna scienze politiche all’università di Al Azhar a Gaza, quella fondata da Yasser Arafat. «In basso al muro del pianto stava per parlare il presidente israeliano Rivlin, e i poliziotti non volevano che la voce del mufti gli desse fastidio». Da allora tutto è precipitato. Gli “esplosivi”, il rancore che cresceva fra i palestinesi da mesi, sono esplosi come una santabarbara.
  A che punto siamo? Uno dei risultati politici è che da giorni gli inviati del presidente egiziano Al Sisi fanno la spola, entrano a Gaza e volano a Gerusalemme per consolidare ancora meglio la tregua. L’Egitto ha fatto crescere il suo ruolo rapidamente: ha un rapporto di intesa profonda con Hamas. Il movimento negli ultimi anni ha progressivamente abbandonato (perlomeno a parole) la sua ideologia di appartenenza ai Fratelli musulmani. Il Cairo è il paese arabo che confina per un terzo con Gaza, al quale Israele non può che ricorrere di continuo in questi casi, con la supervisione degli Stati Uniti di Joe Biden. Vedremo come andranno avanti nei loro passi. Ma come dice l’uomo dell’Onu, per ricostruire Gaza bisognerà ricostruire anche un nuovo “grande gioco” del Medio Oriente.

(la Repubblica, 24 maggio 2021)


Il destino di Amit e Tal via da Israele col sogno di dimenticare i razzi

La coppia era tornata da poco in Italia. Vivevano a Pavia e lui studiava per diventare medico. Con loro i due figli e due parenti: tutti morti eccetto il piccolo Eitan.

di Alessia Gallione e Cristina Palazzo

TORINO - Erano appena rientrati da Israele, dalla guerra, dai razzi e dai lutti senza fine. Anche se il cuore e la testa di Amit erano sempre là, su quel conflitto che ha anche riempito gli ultimi post del suo profilo Facebook. Hanno trovato la morte in una giornata di sole, durante «una gita in montagna che — racconta Milo Hasbani il presidente della comunità ebraica di Milano — avrebbe dovuto restituire a tutti un po’ di spensieratezza ». Un’intera famiglia annientata: Amit Biran, 30 anni, che si era trasferito a Pavia nel 2018 per studiare Medicina, la moglie, Tal Peleg, di 27, e Tom, il figlio più piccolo di appena due anni, che era nato proprio in Italia, nella città che la coppia aveva scelto per vivere. Con loro, anche due parenti venuti da Israele a trovarli. L’unico sopravvissuto, il bambino più grande di cinque anni. Che sta ancora lottando. Quando è arrivato, in condizioni molto gravi, all’ospedale infantile Regina Margherita di Torino, dicono i medici, piangeva disperato e continua a ripetere solo: «Lasciatemi stare, lasciatemi stare». Per lui non c’era nessuno.
   La casa di Pavia in cui erano arrivati nel 2018, Amit e Tal l’avevano appena lasciata: «Avevano traslocato un mese fa, in un appartamento più grande e più vicino al centro perché l’alloggio era diventato troppo piccolo da quando la famiglia si era allargata», racconta un vicino. A Pavia, Amit studiava medicina e stava facendo il tirocinio. Ma la sua vita era legata a doppio filo a Milano. Qui, sorride ancora dalla foto grande della copertina del suo profilo Facebook: lui, con il figlio sulle spalle e sullo sfondo, il Duomo. Qui, per arrotondare, collaborava con la comunità ebraica. «Anche se, negli ultimi tempi, lo vedevamo meno spesso perché doveva concentrarsi per terminare l’università — racconta ancora il presidente Hasbani — I suoi figli frequentavano la nostra scuola e, proprio per questo, si occupava della sicurezza della scuola e di un servizio che noi chiamiamo protezione civile. Un ragazzo stupendo, sempre sorridente. Siamo increduli. Ci mancava solo questa dopo la terribile situazione di Israele ».
   Nel loro Paese, Amit e Tal, che era originaria di Tel Aviv, tornavano spesso per andare a trovare la famiglia. L’ultimo viaggio, qualche settimana fa. Anche se questa volta, erano stati i loro parenti a raggiungerli. Un’occasione speciale da festeggiare con una gita su quel lago e su quel monte che per i milanesi sono una seconda casa. Un modo per spezzare l’angoscia che si respira in Medio Oriente. Ma anche Barbara Cohen Koninsky, 71 anni e Itshak Cohen, di 82, sono morti su quella stessa funivia. Fino a tarda sera, era ancora da chiarire esattamente il loro legame con la giovane coppia. Un’intera famiglia, comunque, distrutta.
   A Torino, adesso è attesa la sorella di Amit. È lì, dove si trova il nipote di sei anni che, dicono, sta andando. Il bambino sta ancora combattendo e, ormai, è l’unico sopravvissuto non solo della sua famiglia, ma dello stesso incidente della funivia. Al Regina Margherita, infatti, sono stati subito trasportati gli unici due estratti ancora vivi dal groviglio di lamiere e metallo. Anche se per Mattia Zorloni, sei anni, nonostante i tentativi di salvarlo non c’è stato niente da fare. Quando il figlio maggiore di Amit e Tal è arrivato in ospedale era terrorizzato. Solo quelle poche parole — «lasciatemi stare» — il pianto a dirotto e l’angoscia di non capire dove fossero i suoi genitori. Anche per questo, i medici hanno deciso di sedarlo subito, ancora prima di portarlo in sala operatoria per un intervento iniziato prima delle 18 e durato cinque ore.
   «Abbiamo lavorato per stabilizzare le fratture che ha riportato a gambe e braccia. C’è anche un grave politrauma», spiega Fabrizio Gennari, direttore della chirurgia pediatrica dell’ospedale torinese. La prognosi è riservata e le prossime ore saranno decisive per capire come risponderà alla cure. Adesso è lui, l’unica speranza.

(la Repubblica, 24 maggio 2021)


"Con il conflitto a Gaza, cresce l'antisemitismo. I governi tutelino il mondo ebraico”

“Temiamo che il modo in cui il conflitto è stato usato per amplificare la retorica antisemita, incoraggiare attori pericolosi e attaccare gli ebrei e le comunità ebraiche avrà ramificazioni ben oltre queste ultime due settimane. Noi la esortiamo a parlare con forza contro questa tendenza pericolosa e a stare al fianco della comunità ebraica di fronte a questa ondata di odio prima che peggiori”.
    È la lettera inviata da diverse organizzazione ebraiche americane al Presidente degli Stati Uniti Joe Biden nella giornata di venerdì. Un appello affinché la Casa Bianca prenda decise contromisure per combattere l’antisemitismo, riemerso attraverso una serie di attacchi a ebrei in tutto il paese legati al conflitto tra Israele e il movimento terroristico di Hamas. Violenze che si sono avute anche in Europa, dalla Gran Bretagna alla Germania.
    “Alcune persone pro-palestinesi negli Stati Uniti hanno deciso che un canale appropriato per le loro frustrazioni e la loro rabbia per il conflitto tra Hamas e Israele è quello di aggredire gli ebrei americani e in qualche modo ritenerli responsabili di ciò che sta accadendo in Israele. … È un comportamento offensivo e francamente non è diverso da quello degli asiatici americani che vengono aggrediti a causa di idee sbagliate sul coronavirus o dei musulmani americani che vengono aggrediti a causa dell’11 settembre”, ha detto Nathan Diament della Orthodox Union.
    “È sinceramente doloroso che finora i leader eletti sembrano essere lenti nel riconoscere e denunciare la violenza antiebraica con la stessa rapidità con cui hanno adeguatamente denunciato la violenza contro altre minoranze”.
    Il consolato d’Israele a New York, proprio mentre entrava in vigore il cessate il fuoco con Gaza, ha segnalato come l’ondata di proteste anti-israeliane è stata più violenta di quanto visto in precedenza nella zona, anche quando le tensioni erano alte.
    “Le manifestazioni sono più grandi, più tossiche e purtroppo anche più violente. C’è una connessione diretta tra l’agenda dichiarata di Hamas che promette la distruzione di Israele e gli slogan dei manifestanti che minano la legittimità di Israele come stato-nazione ebraico”, l’analisi del consolato in una nota dai toni allarmati per i violenti episodi antisemiti e contro Israele.
    Proprio a New York un uomo con la kippah è stato ricoverato in ospedale dopo essere stato attaccato da un gruppo di persone che urlavano insulti antisemiti vicino a una protesta anti-israeliana, ha riferito la polizia della città. Un uomo haredi è stato inseguito a Los Angeles da una macchina carica di persone che sventolavano bandiere palestinesi.
    “C’è un linguaggio usato per descrivere Israele che porta verso la delegittimazione, verso l’idea che Israele non dovrebbe esistere, che il problema è che esiste”, l’analisi di Joel Rubin, direttore esecutivo dell’American Jewish Congress.
    “Si stanno usando parole su Israele che sono incredibilmente inquietanti per la comunità ebraica, che vanno oltre, e in una direzione che fa sentire la comunità molto vulnerabile. E questa vulnerabilità non è un buon posto dove stare”.
    Intervenendo a una conferenza con i Presidenti delle principali organizzazioni ebraiche negli Stati Uniti, il Presidente israeliano Reuven Rivlin ha evidenziato come “i governi devono fare tutto ciò che è in loro potere, dal salvaguardare la sicurezza dei propri cittadini e far rispettare la legge all’investire nell’educazione e adottare la definizione di antisemitismo dell’IHRA per combattere queste minacce”.

(moked, 23 maggio 2021)


Il ritorno di Sinwar. Il capo di Hamas si mostra e sfida Israele

Regge la tregua, ma riappare in pubblico il leader scampato alle bombe Il declino dell’Anp, mentre nella Striscia si rafforzano gli estremisti

di Vincenzo Nigro

BEIT LAHIA (STRISCIA DI GAZA) — Se erano nascosti nei tunnel, sono tornati a farsi vedere alla luce del sole. Se erano stati sconfitti, sono stati riesumati dai loro capi, si sono organizzati e marciano marziali e meccanici, incappucciati di nero come soldati pronti ancora a un nuovo martirio. I militanti di Hamas ma anche quelli della super-segreta Jihad Islamica, la formazione ancora più radicale che a Gaza viene sostenuta dall’Iran, tornano nelle strade.
   Ieri hanno celebrato la tregua dopo l’ennesima guerra con Israele. L’hanno organizzata, propagandata, venduta come una vittoria: le loro armi, i loro missili sono stati distrutti. Ma loro ci sono, Hamas e Jihad ancora controllano Gaza.
   Il più clamoroso è Yahiha Sinwar, l’ex capo militare che è diventato da anni il capo politico del movimento islamico nella Striscia. Durante gli 11 giorni dei bombardamenti israeliani, mentre ordinava di lanciare razzi a pieno ritmo contro le città israeliane, Sinwar si è nascosto in un luogo che nessun sistema di intelligence di Israele è riuscito a scovare per eliminarlo.
   Sinwar si è presentato al funerale di uno dei suoi comandanti, Bassam Hissa, capo di una delle unità di lancio dei missili. Circondato da guardie del corpo, difeso da decine di miliziani neri. Di sicuro i droni che ronzano ininterrottamente sulla striscia lo avranno individuato: ma Israele ha firmato una tregua, e come dice Joe Biden, «io mi fido della parola di Bibi Netanyahu».
   Gli slogan sono i soliti, quelli di morte e vendetta contro Israele. La sfida è chiara: siamo ancora qui, e siamo più forti perché siamo il movimento militare e politico che ha messo nell’angolo la Anp dell’anziano presidente Abu Mazen Ma ieri è stata una giornata di ritorno anche per la segretissima Jihad Islamica. Nata come costola dei Fratelli musulmani egiziani, Jihad Islamica palestinese negli anni è diventato il primo movimento a inventare e organizzare in massa gli attentati suicidi nel cuore di Israele, a Tel Aviv come in altre città centrali del paese. A Gaza ha trovato terreno fertile per crescere, e i finanziamenti dell’Iran per rafforzarsi.
   Ieri a Beit Lahia, pochi chilometri a Nord di Gaza City, la Jihad ha organizzato il funerale di uno dei suoi miliziani. Hisham el Shurafa 28 anni, era uno dei lanciatori di razzi colpiti dai missili di Israele nelle notti dei combattimenti. All’ingresso una lunga fila di incappucciati neri, tutti con kalashnikov in mano, erano i suoi camerati. All’interno di un cortile le sedie dei parenti, di qualche attivista medio del movimento. Da un altoparlante gli slogan di vendetta e aggressione contro Israele. Se possibile, la Jihad vorrebbe cancellare Israele “dal fiume Giordano al mare” ancora più velocemente di quanto vorrebbe fare Hamas. A Gaza Jihad palestinese è tornata ad essere la pedina decisiva di Teheran.
   La Repubblica islamica sostiene anche Hamas, ma negli ultimi anni anche fra loro c’è stata una seria divergenza, Hamas da movimento rivoluzionario, ha appoggiato i ribelli che nel 2011 diedero il via alla rivolta per cacciare il siriano Assad. L’Iran ha combattuto per Assad, ha perduto decine di uomini delle sue forze d’élite. Un riavvicinamento è nelle cose, anche se adesso Hamas avrà un elenco di “donatori” pronti a puntare su questo movimento che ha le carte per guidare la resistenza palestinese. I suoi sostenitori più concreti sono diventati il Qatar dello sceicco Al Thani e la Turchia dei fratelli musulmani del presidente Erdogan.
   I militanti della Jihad ieri al funerale non accettavano domande di politica. Anche perché una grande nebbia è scesa sul futuro di questa galassia di milizie armate e violente. È un grande gioco di influenza attorno alla questione palestinese. In cui l’unica fazione moderata, quella del vecchio presidente Abu Mazen, ormai sembra in declino irreversibile.
   Tutto questo sulla pelle dei cittadini di Gaza. La Striscia è riemersa con gioia dalle case, dagli scantinati in cui le famiglie si sono nascoste per 11 giorni di bombardamenti. Anche ieri ristoranti, mercati, bancarelle aperte, passeggiate di famiglie, di coppie, mandrie di giovani irruenti per tutto il lungomare e attorno ai palazzi bombardati, da visitare per un selfie. Ma Gaza ha bisogno di tutto. La guerra ha fatto 150 milioni di dollari di danni. All’Ansa l’Onu dice che «77mila sfollati sono stati distribuiti in 58 scuole e nei rifugi segnati come tali nelle carte dell’esercito israeliano, e quindi protetti». Ma 600 mila studenti devono tornare a scuola. Le case distrutte sono centinaia. Settanta strade principali sono state bloccate dalle bombe, per 130 chilometri, ci sono 7 chilometri di tubatura d’acqua e 11 chilometri della rete fognaria saltati per aria.
   Adesso nell’aria, quasi dappertutto c’è il tanfo putrido delle fogne che rigurgitano i liquami in strada. L’odore della guerra è questo, la puzza delle fogne .

(la Repubblica, 23 maggio 2021)


Cacciato il Muftì di Gerusalemme. “Troppo vicino ad Abu Mazen”

Il diktat di Hamas anche nella Moschea di Al Aqsa: la folla contro il capo religioso.

di Sharon Nizza

GERUSALEMME — Tra Gaza, Ramallah e Gerusalemme continuano le trattative sulle condizioni della fragile tregua raggiunta giovedì notte. Yahya Sinwar, il leader di Hamas a Gaza, si mostra in pubblico per la prima volta dopo la guerra degli 11 giorni, in un chiaro segnale di sfida alla “ripristinata deterrenza” annunciata da Israele, che venerdì, con il ministro della Difesa Gantz, aveva esplicitato che «Sinwar e Deif sono ancora nel nostro mirino». Ancora prima di entrare nei dettagli della ricostruzione di Gaza, gli egiziani sono impegnati a non fare riesplodere la situazione, così come il Consiglio di Sicurezza Onu urge «il rispetto completo della tregua». Hamas chiede garanzie per l’immunità dei propri leader, Israele è interessata a slegare tutta la trattativa su Gaza dagli eventi a Gerusalemme. Ma fuori dalle stanze dei colloqui segreti, i fatti descrivono la nuova dimensione che potrebbe governare le dinamiche dell’area. Il Mufti di Gerusalemme, lo sceicco Mohammed Hussein, con una mossa senza precedenti, è stato cacciato con la forza dalla Moschea di Al Aqsa dai fedeli che lo contestavano per la sua vicinanza ad Abu Mazen.
    Le bandiere di Hamas sventolano come non accadeva da tempo in Cisgiordania e a Gerusalemme e tutto indica che il movimento fondamentalista è riuscito a riconquistare la piazza palestinese senza bisogno di elezioni. Quelle elezioni che si sarebbero dovute tenere proprio ieri, le prime in 15 anni, rinviate il 30 aprile a data da destinarsi dal presidente dell’Anp Abu Mazen, con grande disappunto di Hamas. «Per mesi abbiamo allertato del rischio che avrebbe comportato la cancellazione delle elezioni: ora siamo arrivati al punto in cui non è più possibile ignorare Hamas», ci dice Dimitri Diliani, portavoce di una delle liste fuoriuscite da Fatah, legata a Mohammed Dahlan. «E come essere nell’epoca post-Abu Mazen, mentre è ancora in vita», ci dice un commentatore da Ramallah.
    Gli Usa tentano il soccorso: Biden ha specificato che la ricostruzione di Gaza, sulla quale riverserà milioni, passerà solo dall’Anp; il segretario di Stato Blinken, in arrivo mercoledì, lo incontrerà a Ramallah. In Israele molti analisti militari dicono che urge aiutare l’Anp a rimettere piede a Gaza, mentre il “campo della pace” sfila a Tel Aviv rispolverando lo slogan “due popoli, due Stati”.

(la Repubblica, 23 maggio 2021)


Medioriente, l'ambigua strategia di Biden: dichiara amore a Israele ma flirta con l'Iran

Il presidente fa il duro con i palestinesi, ma li finanzia e apre agli ayatollah

di Fiamma Nirenstein

Medioriente, l'ambigua strategia di Biden: dichiara amore a Israele ma flirta con l'Iran Ha anche alzato il dito indice e scandito ben chiaro: «Finché la regione non riconosce senza equivoci il diritto all'esistenza dello Stato d'Israele come Stato Ebraico indipendente, non ci sarà pace. Non c'è cambiamento nel mio impegno verso lo Stato d'Israele. Nessuno. Punto». Poi, Joe Biden ha aggiunto dell'altro, certo: che ha parlato con Abu Mazen, che si è impegnato sugli aiuti e sulla situazione di Gerusalemme, che è per due stati per due popoli, ma non si è lasciato andare alle condanne che gli venivano richieste con insistenza da una parte del partito democratico. Attenzione tuttavia: a fianco di questo atteggiamento ci sono due questioni divergenti. La prima: il sentimento personale di Biden, cui il padre insegnò il dettato morale fondamentale «never again» appena immigrato in America: ha incontrato nel '73 Golda Meir e nell'82 Menahem Begin, sa in che pericolo Israele vive sempre, ha impedito a George H. W. Bush di condizionare i fondi per l'immigrazione dalla Russia a Israele, conosce Bibi e gli ha detto «ti voglio bene anche se la pensiamo diversamente». Però vuole molto bene anche a Obama, gli deve la Presidenza, è parte della sua squadra: con lui disapprova al massimo la politica di delegittimazione della questione palestinese, e per ragioni di squadra vuole ristrappare dagli abissi dell'oblio l'accordo con l'Iran, costi quel che costi. Che peccato.
   Ha ripristinato i fondi per i Palestinesi senza condizionarli agli stipendi ai terroristi come fece Trump, ha ridato vita all'Unrwa, l'organizzazione per i profughi, di fatto una serra di sopravvivenza delle idee più estreme e antisraeliane. Adesso Biden cerca di riportare alla superficie Abu Mazen promettendogli aiuti e riaprendo la questione dei Territori e dei «Due Stati». Ma riuscirà solo a dare più potere ad Hamas, che ormai gode del consenso palestinese più entusiasta a spese di Fatah. In febbraio Biden ha anche restituito diritti e denaro agli Houty, togliendo dalla lista delle organizzazioni terroriste la fazione armata dall'Iran in Yemen, che ha ringalluzzito Hamas che vuole a sua volta essere riabilitata in America.
   Adesso, punto centrale del rapporto fra Israele e gli Stati Uniti, Biden, idealmente siede oggi a Vienna e promette di riesumare rapidamente un accordo con l'Iran degli ayatollah, che hanno armato Hamas e dato 130mila missili agli hezbollah, che approntano l'atomica avendo come obiettivo dichiarato la distruzione di Israele. Eppure Biden ama Israele. Misteri della psiche. Durante la guerra ha resistito a pressioni, ha rifiutato la mediazione francese gestendo in prima persona il rapporto con Netanyahu. Ad agosto Biden disse che gli accordi fra Israele e gli Emirati erano «un passo storico per attraversare il ponte che divide il Medio Oriente». Sarà coerente? Intanto mercoledì Anthony Blinken comincia un giro in Israele e in Medio Oriente.

(la Repubblica, 23 maggio 2021)


Il difficile equilibrio nella terra di Abramo

Come spesso accade in Medio Oriente la tregua è un modo per definire nuovi equilibri di forza

di Maurizio Molinari

Gli undici giorni di violenti combattimenti fra Hamas e Israele hanno innescato cambiamenti significativi in Medio Oriente con cui ora tutti gli attori regionali, a cominciare dal presidente Usa Joe Biden, devono fare i conti.
   La prima e più evidente novità è la ritrovata energia del fronte anti-israeliano che era stato politicamente indebolito dagli Accordi di Abramo firmati nel 2020 dallo Stato ebraico con Emirati, Bahrein, Sudan e Marocco. Dietro gli oltre quattromila razzi lanciati dalla Striscia di Gaza controllata da Hamas ci sono infatti le forniture tecnologiche-militari di Teheran e il sostegno politico-economico di Ankara (e Doha). Iran e Turchia sono stati i Paesi più ostili agli Accordi di Abramo - temendo il patto strategico fra Israele e Stati arabi sunniti - ed ora sono riusciti grazie ad Hamas a impossessarsi della carta palestinese puntando a spingere il pendolo della regione ancora una volta verso il conflitto permanente contro lo Stato ebraico. Si tratta di una nuova versione del fronte del rifiuto anti-israeliano: se dal 1948 ha avuto per protagonisti successivi Stati arabi - dall'Egitto di Gamal Abdel Nasser alla Siria di Hafez Assad fino all'Iraq di Saddam Hussein - ora è guidato invece dall'Iran sciita di Ali Khamenei e dalla Turchia di Tecep Rayyip Erdogan che, pur con interessi ed obiettivi diversi, puntano entrambi sull'ostilità più radicale nei confronti dello Stato ebraico al fine di perseguire la leadership regionale. Dietro le manifestazioni di giubilo a Gaza dopo il cessate il fuoco per la "vittoria" di Hamas c'è dunque un dato eloquente: a dispetto dei pesanti colpi subiti dalla struttura militare dei miliziani fondamentalisti a Gaza, il fronte anti-israeliano sente di aver riguadagnato terreno strategico. E dunque potrebbe essere tentato da nuove, pericolose, prove di forza. Come spesso avviene in Medio Oriente la tregua è un metodo per definire nuovi equilibri di forza.
   È una sfida che investe in primo luogo gli Stati Uniti perché il presidente Biden sostiene gli Accordi di Abramo ereditati da Donald Trump - vedendovi un elemento di stabilità strategica nel lungo termine, come avvenuto con gli accordi di pace del 1979 con l'Egitto, del 1993 con i palestinesi di Yasser Arafat e del 1994 con la Giordania - e dunque ora il Segretario di Stato Antony Blinken in arrivo nella regione dovrà riuscire ad armonizzare questa posizione con la necessità di consolidare la fragile tregua di Gaza. Una possibile strada per procedere, spiegano fonti diplomatiche a Washington, può essere tentare di includere l'Autorità nazionale palestinese (Anp) di Abu Mazen negli Accordi di Abramo sfruttando questa cornice per tentare di arrivare ad una composizione definitiva del conflitto israelopalestinese, proprio come auspicato dall'Arabia Saudita di re Salman. Il motivo per cui Riad non ha ancora aderito alle intese di Abramo è proprio l'irrisolta questione palestinese e ciò può creare le premesse per un più vasto accordo regionale con Israele. Anche la critiche saudite a Israele sul contenzioso sulle case di Sheik Jarrah a Gerusalemme Est - la miccia dell'ultima crisi - lascia intendere che Riad vuole giocare questa partita. Ma la strada per Biden è tutta in salita in quanto il nuovo fronte del rifiuto si sente rafforzato al punto da volersi insediarsi in Cisgiordania, sfruttando la scarsa popolarità di Abu Mazen dopo l'ennesimo rinvio delle elezioni palestinesi. I disordini avvenuti ieri nella moschea di Al Aqsa a Gerusalemme, con il gran mufti Mohammed Hussein allontanato dai sostenitori di Hamas perché considerato espressione dell'Anp, lasciano intendere che l'obiettivo del fronte del rifiuto è adesso strappare ad Al Fatah il controllo della Cisgiordania, dove però la maggioranza della popolazione è laica, preferisce il business al fondamentalismo e dall'indomani della seconda Intifada ha scelto la convivenza di fatto con Israele. Come conferma il dato che durante gli undici giorni di combattimenti Israele-Hamas gli scontri in Cisgiordania sono stati limitati.
   Ma non è tutto perché anche all'interno di Israele le conseguenze si faranno sentire: solo due settimane fa tanto il premier uscente Benjamin Netanyahu che il suo avversario Yair Lapid immaginavano di creare una coalizione di governo coinvolgendo - per la prima volta dalla nascita dello Stato - uno o più partiti araboisraeliani ma i gravi disordini inter-etnici avvenuti da allora a Lod, Akko, Giaffa, in Galilea e nel Negev hanno drammaticamente capovolto la situazione. Israele ora deve affrontare il problema senza precedenti di come impedire violenze da parte - o contro - gli araboisraeliani, ovvero circa il 20 per cento della popolazione. Come spiega Hillel Frish, politologo della Bar Ilan University, "questa oggi è la priorità assoluta" e minaccia la democrazia israeliana dal di dentro, assai più dei razzi di Hamas o di Hezbollah. Che Israele vada o meno incontro alle quinte elezioni anticipate, il nuovo premier dovrà tentare di ricostruire l'indispensabile convivenza con gli araboisraeliani. E non sarà facile.
   Infine, ma non per importanza, c'è l'impatto di tutto ciò sull'Europa. L'Ue finora ha sostenuto timidamente gli Accordi di Abramo ma ora si tratta di definire un comune approccio con l'America di Joe Biden al complesso di sfide che incombono in Medio Oriente: dal nucleare dell'Iran al delicato equilibrio con Ankara, dalla possibilità di riaprire il negoziato israelopalestinese fermo dal 2014 fino alla necessità di aiutare i civili di Gaza senza però foraggiare Hamas considerata - da Usa, Ue, Gran Bretagna e Canada - un'organizzazione terroristica. A rendere ancora più delicata la posizione dell'Ue ci sono le violente dimostrazioni avvenute nell'ultima settimana in Germania, Gran Bretagna, Francia ed anche a Milano dove l'ostilità verso Israele è spesso degenerata in avversione nei confronti degli ebrei. Spingendo il presidente del Bundestag, Wolfgang Schäuble a parlare di "insopportabile antisemitismo da parte di manifestanti pro palestinesi".

(la Repubblica, 23 maggio 2021)


Un gioco tragico destinato a ripetersi

Siamo agli accordi finali per garantire un pareggio onorevole. È un gioco terribile che si ripete. Ancora una volta contiamo i morti, le case e le infrastrutture distrutte a Gaza. Proprio come accadde nel 2018, nel 2014 e nel 2008.

di Zvi Schuldiner

«Ci sarà la ricostruzione, interverrà la comunità internazionale, con il sostegno di..». Un alto generale israeliano ha spiegato al popolo che l'esercito ha assicurato un futuro di cinque anni di tranquillità. Nel sud del paese, molti cittadini chiedevano di continuare l'operazione militare «perché le promesse di anni di pace si susseguono ma siamo noi a pagare il prezzo». Commentatori e politici hanno sottolineato più e più volte gli errori di Israele che hanno portato all'escalation e alla guerra. È necessario ricordare alcuni elementi molto più importanti che forse permettono di vedere meglio gli aspetti tragici delle mini-guerre che riprenderanno tra poco.
   Nel 2005, quando il premier Ariel Sharon annunciò il ritiro da Gaza, la destra si oppose con veemenza: ottomila coloni israeliani erano già insediati su un quarto del territorio di Gaza, occupata militarmente, e si accaparravano il 30% dell'acqua disponibile. La destra era furiosa, i liberali e i moderati festeggiavano; a sinistra solo noi, quattro gatti «folli», ci opponevamo al ritiro. Perché? Semplicemente perché lo stesso entourage di Sharon lo considerava la mossa migliore per assicurare l'annessione della Cisgiordania. E si profilava come inevitabile la vittoria elettorale di Hamas, la quale si intestava il ritiro da Gaza: «Lo abbiamo ottenuto grazie alla forza e all'eroismo della nostra organizzazione».
   Per la destra israeliana, Hamas è una garanzia. «Non trattare con i terroristi» è una formula che piace anche all'Occidente. E l'organizzazione islamista dopo aver cacciato la leadership locale dell'Olp da Gaza ha potuto stabilire un governo senza antagonisti, sostenuto da vari attori internazionali e da forti gruppi estremisti. Hamas non aveva interesse ad alimentare l'escalation che ha portato alla guerra, nondimeno i passi compiuti da Israele e la cancellazione delle elezioni da parte di Abu Mazen hanno fruttato all'organizzazione un vantaggio politico che ora non solo l'Autorità palestinese ma anche Giordania, Marocco e altri cercheranno di contenere. Déjà-vu: fondamentalisti di tutto il mondo unitevi! Tutto è già stato detto e tutto si ripete. Israele: «I nostri risultati sono formidabili, abbiamo distrutto migliaia di razzi, eliminato 200 terroristi fra i quali diversi leader; fra le donne uccise c'erano di sicuro diverse militanti, e quanto alle decine di bambini, sono in realtà vittime di Hamas e della Jihad che piazzano le loro basi militari in mezzo alla popolazione civile ... ». Governo ed esercito sono «tanto umani», il nostro premier esalta l'esempio di quel pilota che, avendo individuato alcuni bambini intorno al bersaglio obiettivo, è tornato alla base senza bombardare. Dal canto suo, Hamas gonfia il petto: «Abbiamo lanciato migliaia di missili. Abbiamo tenuto alto l'onore. È stato un risveglio, gli israeliani hanno visto che siamo i veri difensori della moschea di al Aqsa, i nostri razzi sono arrivati fino a Tel Aviv, abbiamo impedito la confisca delle case a Gerusalemme, siamo stati il detonatore di forze latenti anche nella società palestinese in Israele».
   Il premier Netanyahu era disposto ad andare avanti con la mini-guerra, ma la forte reazione internazionale lo ha frenato. Non è stata abbastanza forte da impedire l'azione militare o da fermarla in un giorno o due, ma avrà un impatto di lungo termine. Joe Biden ha già scontentato il governo israeliano, per via dell'iniziativa che ha portato al ripristino dell'accordo sull'Iran nonché del suo atteggiamento freddo nei confronti del premier Netanyahu. L'opinione pubblica mutevole e l'ala progressista del suo partito hanno fatto pressione sul presidente statunitense, il quale avrebbe voluto in realtà concentrare i propri sforzi sull'enorme piano di ricostruzione e sulla politica interna. Netanyahu, che pure conosce bene l'inglese, non aveva capito bene i primi due appelli di Biden che lo esortava a moderare l'attacco e ad arrivare al cessate il fuoco. Poi da Washington sono stati più chiari. La fine delle operazioni militari è diventata inevitabile quando Biden e i Paesi arabi- Giordania, Egitto, Emirati hanno detto basta. Certo, Hamas avrebbe voluto un cessate il fuoco con condizioni stringenti che però non solo Israele ma nemmeno Giordania, Marocco e Arabia Saudita potevano accettare senza veder sminuito il proprio ruolo rispetto ai luoghi sacri dell'islam. Follia è ripetere più e più volte gli stessi errori.
   I governanti israeliani sono disposti a continuare la linea che porta periodicamente a sanguinosi e tragici scontri armati, una politica anti-pace che possa rendere inevitabile l'annessione graduale della Cisgiordania. L'alternativa sarebbero negoziati seri con i palestinesi: la via politica. Quanto ad Hamas, i danni e i morti non sono così gravi dal momento che l'organizzazione esce apparentemente rafforzata da tutte le guerre passate e presenti. La sua presenza si consolida anche in Cisgiordania. Il sostegno internazionale porterà a un po' di ricostruzione, debole palliativo in una situazione che vede decine di migliaia di persone senza casa, senza acqua e senza elettricità, senza cibo - per non parlare delle famiglie uccise dagli attacchi israeliani. L'unica alternativa a questo scenario è un accordo palestinese-israeliano che, tuttavia, sembra molto lontano, in questi giorni cupi.

(il manifesto, 23 maggio 2021)


Forse è vero che Sharon ha voluto abbandonare Gaza nella speranza di tenersi tutta la Giudea-Samaria (chiamata oggi Cisgiordania), come è vero che sia Hamas che Fatah volevano tenersi l'una e l'altra insieme a tutto Israele. L'autore sembra rimpiangere il sogno della sinistra "buona" che avrebbe voluto veder compiersi il "progetto di pace" degli Accordi di Oslo. In mesti accenti l'autore riconosce che "in questi giorni cupi" l'accordo palestinese-israeliano sembra molto lontano; e nel dichiarare che "solo le pressioni internazionali possono favorirlo" non fa che dimostrare l'irresolubilità del problema per questa via. M.C.


Perché dobbiamo valorizzare gli arabi che amano Israele

Le Brigate Ezzedine al-Qassam, braccio militare di Hamas, sfilano a Gaza (ansa) Gli scontri nelle città con popolazione mista hanno scioccato gli israeliani, ma ci sono voci diverse tra i palestinesi. A Gaza la "politica" dei missili di Hamas annienta le speranze della popolazione.

di Meir Ouziel

L’ultimo attacco da Gaza contro Israele sembra giunto a una conclusione, ma il sentimento che descrive quello che provano molti israeliani è la delusione. Innanzitutto, per il comportamento dei cittadini arabi d’Israele. L’esplosione di una violenza mai vista che ha compreso il linciaggio di ebrei, gli stessi vicini di casa nella quotidianità, è arrivata come una sorpresa. Tutto ciò che stavamo vivendo, dimostrava esattamente l'opposto. Tanti segnali di una pacifica convivenza tra ebrei e arabi israeliani si sono rafforzati proprio negli ultimi anni. La campagna di vaccinazione contro il Covid in Israele, elogiata in tutto il mondo, è stata possibile in gran parte grazie agli arabi israeliani, che rappresentano una altissima percentuale del personale sanitario israeliano, medici, infermieri, farmacisti. E’ del tutto comune essere curati in ospedale da un medico o consultarsi con una farmacista che appartengono al 21% della minoranza araba in Israele. Così è stato anche per l’infermiere che mi ha inoculato qualche mese fa il vaccino, con cui ci siamo fatti, un po’ come tutti, il selfie più gettonato dell’anno della pandemia. Routine.
   Arabi israeliani ed ebrei sono in costante interazione sotto a innumerevoli aspetti della vita in Israele. Il giorno prima che scoppiassero le rivolte nelle città a popolazione mista, io e mia moglie siamo andati ad acquistare un po’ di piante per il nostro piccolo giardino. Siamo andati in un villaggio arabo dove ci sono diversi ottimi vivai e le piantine costano quasi un quarto dei prezzi nell’area di Tel Aviv. Come sempre, abbiamo fatto il nostro giro in totale armonia, abbiamo fatto i nostri acquisti tra i sorrisi reciproci e nessun timore relativo alla nostra sicurezza personale ci ha sfiorato. Routine.
   Nei primi giorni dell’operazione a Gaza, lo scoppio di manifestazioni violente di cittadini arabi d’Israele, che in diversi casi scioccanti si è tradotta in una vera e propria caccia all’ebreo, con tanto di razzie di sinagoghe e case vandalizzate, ha come aperto il vaso di pandora. Il primo ministro Netanyahu ha detto che i facinorosi non rappresentano tutti gli arabi, e nemmeno la maggior parte di essi, e so che è vero. Si tratta di una minoranza di arabi israeliani, e forse anche di una piccola minoranza. Ma come può sapere oggi un ebreo, quando compra o affitta un appartamento in una città mista in cui ebrei e arabi vivono fianco a fianco, come a Giaffa, Lod, Haifa, Acri, quando questa piccola minoranza gli brucerà l’auto, o il negozio, o peggio, quando lui o sua moglie o i suoi figli saranno violentemente attaccati, fino al colpo mortale?
   Ci sono stati migliaia di rivoltosi arabi, i danni sono stati principalmente a proprietà, ma c'è stato anche un israeliano ucciso a seguito di un linciaggio da parte di arabi. Dall’altra parte ci sono stati anche alcuni casi, due o tre casi, in cui gli ebrei hanno attaccato arabi e che hanno scioccato l'intera società ebraica e sono stati immediatamente condannati dall'intera società e dai media israeliani. Va anche ricordato che negli ultimi anni la criminalità sta dilagando nella società araba in Israele, con un picco di omicidi in una guerra tra bande criminali legate a diverse famiglie arabe contrapposte, contribuendo ad aumentare le tensioni all'interno della società araba. Sembra che ora questo linguaggio violento sia stia rivolgendo anche contro gli ebrei.
   In ogni caso, atti di violenza contro gli ebrei da parte degli arabi israeliani è una situazione del tutto nuova in Israele. Specularmente, è importante segnalare anche un altro fenomeno cui si tende a dedicare meno attenzione mediatica: il costante aumento di voci all’interno della società araba israeliana che esprimono il loro amore per Israele e non hanno paura di esprimerlo. Sono ancora pochi, ma sono la mia speranza. Ne menzionerò due con cui sono in costante contatto. Una giovane donna e un uomo. Lei si chiama Dema Taya, ed è anche attivista tra le file del Likud, è stata la prima candidata musulmana alle ultime primarie del partito. Quando è iniziata la guerra e i missili hanno iniziato a volare verso Tel Aviv e altre città israeliane, ho notato che aveva aggiunto la bandiera d’Israele alla sua foto profilo su Facebook, con la scritta: "Io sto con Israele". Le ho chiesto se sarebbe stata disposta a parlarne apertamente e ha risposto che ne sarebbe stata felice e che, nonostante le minacce contro di lei, non ha paura di dire la sua. Ho contattato il direttore della più grande rete televisiva in Israele (Canale 12) chiedendogli di farla partecipare ai numerosi dibattiti in corso. Devo ammettere che non mi aspettavo mi avrebbe risposto, anche se sa bene chi sono, e invece ha accettato subito. Dema è apparsa in tv per perorare il diritto di Israele a difendersi, dibattendo peraltro anche con Tamar Zandberg del partito di sinistra Meretz. Purtroppo, il Likud e il primo ministro Netanyahu non valorizzano a sufficienza le importanti prese di posizioni di Dema.
   La seconda persona è un beduino che ha di recente cambiato il proprio nome all’anagrafe in “Essere umano universale” (Ben Adam Universali). Il suo sogno è che la società araba diventi più pluralista, umanista, femminista, democratica. Parla senza remore del suo amore per lo Stato e non risparmia condanne alla leadership politica araba. Dema e il nostro Uomo Universale sono solo due voci tra molte altre che si stanno facendo sempre più sentire e mi riempiono della speranza che si possa realizzare il mio sogno per cui la pace emergerà dall’amore. Non mi basta che gli arabi smettano di uccidere gli ebrei. Un accordo di pace non è sufficiente: io voglio anche che ci amino.
   Siccome, tra le altre cose, sono l’autore di una colonna satirica nel quotidiano Maariv e spesso uso la cifra dell’umorismo per raccontare la realtà, molti pensano che io scherzi anche su questo. Ma non è così: spero davvero in una relazione d'amore con il mondo arabo. Mi aspetto davvero che anche i Paesi arabi, come in Europa o in America, si fondino su società che diffondono l'amore verso il prossimo. Per questo la recente violenta spaccatura con gli arabi israeliani mi ha deluso così profondamente.
   Rispetto ai palestinesi, in particolare quelli che vivono a Gaza sotto il dominio di Hamas, molti israeliani, me compreso, provano una delusione non meno dolorosa. Nel 2005, Israele si è ritirato completamente da tutta la Striscia di Gaza, espellendo dalle loro case tutti gli ebrei che vivevano lì in villaggi fioriti. Il giorno del disimpegno, 16 anni fa, mi trovavo in una di queste località, come giornalista. È stato difficile osservare come la polizia israeliana prelevasse una famiglia ebrea che ha vissuto in quella casa per molti anni per allontanarla da lì per sempre. Li hanno messi su dei bus e portati via tra le lacrime. Non vedranno più le case che hanno costruito. Da allora, non ci sono più ebrei nella Striscia di Gaza. Il disimpegno ha rappresentato l’apice del pensiero politico secondo cui il ritiro d’Israele dai Territori conquistati nel 1967 dopo la Guerra dei Sei giorni (Gaza dall’allora dominazione egiziana e la Cisgiordania e Gerusalemme Est da quella giordana) avrebbe posto fine o quantomeno indebolito la violenza palestinese contro lo Stato ebraico. È successo il contrario. La visione di Shimon Peres e della sinistra israeliana dell’epoca (ma non solo della sinistra, perché ad attuare il disimpegno fu Ariel Sharon), secondo cui la Striscia di Gaza sarebbe diventata la "Singapore del Medio Oriente" non si è realizzata. E ciò nonostante i fondi provenienti da tutto il mondo abbiano continuato ad arrivare nella Striscia. Il prof. Dan Shiftan, noto mediorientalista dell’Università di Haifa, sostiene che i terroristi arabi che lanciano missili riparandosi dietro la propria popolazione civile in sostanza abbandonano il destino dei bambini palestinesi agli europei e agli americani. È una situazione complessa da capire per la mentalità occidentale. Se i palestinesi della Striscia di Gaza non fossero governati da leader che preferiscono uccidere gli ebrei e programmare la distruzione d’Israele, oggi la Striscia fiorirebbe: non ci sarebbe l’embargo, ma al contrario, commercio, turismo anche attraverso un porto sul litorale mediterraneo. C’è chi sostiene che l’Olp e Abu Mazen rappresentino una linea di pensiero diversa. È possibile. Ma il problema è che, se si tenessero le elezioni, tutte le previsioni, ahimè scoraggianti, è che prevarrebbe Hamas, come accaduto nel 2005.
   Per molti israeliani, le speranze di pace si infrangono di fronte alla pioggia di missili verso le loro città, che è il vero obiettivo di Hamas. Per gli israeliani e per chi sostiene Israele nel mondo, la sintesi dei fatti recenti è questa: più di quattromila missili sono stati lanciati dalla Striscia di Gaza contro le abitazioni civili israeliane. Ognuno di questi missili viene sparato accompagnato dalla preghiera dei terroristi alle rampe di lancio: “Speriamo che questo missile colpisca, danneggi, esploda su una casa di ebrei e li uccida. Speriamo che il missile ci renda ancora più felici se cadesse in una scuola piena di bambini ebrei per ucciderne a centinaia”. Solo grazie al sistema di difesa antimissilistico israeliano Iron Dome - per il cui sviluppo e manutenzione Israele investe miliardi - il 90% dei missili sono stati intercettati in aria fermando la loro traiettoria omicida rivolta contro i civili israeliani.
   La convinzione di molte persone ingenue, in Israele e in tutto il mondo, secondo cui la pace arriverà se i palestinesi avranno un migliore tenore di vita e Israele non controllerà il territorio, si è frantumata. La Striscia di Gaza è rigorosamente palestinese, libera dall'occupazione e purificata dagli ebrei. L'errore è stato provato sul campo, e la prova è dolorosa. L'ostilità araba che dura da oltre cento anni non cessa.
   Il 10 maggio alle 18:00, quando è iniziato l'attacco missilistico da Gaza, la Knesset stava celebrando la ricorrenza della vittoria del mondo libero sulla Germania nazista. Attivatesi le sirene, la sessione parlamentare è stata interrotta all’improvviso. I missili di Hamas verso Gerusalemme hanno costretto anche i parlamentari a cercare rifugio. Quanto è significativo il fatto che fino al giorno della resa della Germania nazista nel 1945, il leader palestinese di allora, il Gran Mufti di Gerusalemme Haj Amin al-Husseini, che notoriamente si schierò in favore della Germania nazista, rimase a Berlino. Fuggì poco dopo rifugiandosi in Medioriente, da dove ha continuato a guidare i palestinesi con la visione di sterminare gli ebrei, con lo stesso spirito con cui ha operato per più di quattro anni nella Berlino nazista accanto ai gerarchi più autorevoli. Ecco, questo Mufti è un eroe e un martire agli occhi della leadership di Hamas. Riflettiamo.

(la Repubblica online, 23 maggio 2021 - trad. di Sharon Nizza)



Il segno del profeta Giona (8)

di Marcello Cicchese

Dopo la tremenda tempesta di mare provocata dall'Eterno, sulla nave pagana che veleggiava da Giaffa a Tarsis il viaggio era ripreso tranquillo. La ritrovata calma del mare favoriva a bordo un nuovo clima spirituale che induceva l'equipaggio a offrire sacrifici di culto al vero ”Dio del cielo, che ha fatto il mare e la terra asciutta” che avevano imparato a conoscere dall'ebreo Giona.
   Giona però non era più con loro. Perché? E' stato lui a trasmetterci la conoscenza del vero Dio - potevano pensare i marinai - e adesso non è qui per continuare a comunicarci altre cose di quel Dio che lui conosceva personalmente. Chi ha calmato il mare è stato certamente Dio, ma Giona sapeva che l'avrebbe fatto; noi invece abbiamo messo in dubbio le sue parole. Non sarebbe stato meglio che fosse rimasto qui con noi: avremmo potuto offrire insieme sacrifici di lode all'unico vero Dio creatore del cielo e della terra. Perché ha dovuto essere gettato in mare?
   A bordo dunque, insieme alla gioia dello scampato pericolo e della nuova vita spirituale, restava in piedi l'«enigma Giona». E' indubbio che a Tarsis avrebbero raccontato a tutti dello straordinario fatto che avevano vissuto in mare; ed è altrettanto indubbio che gli uditori avrebbero fatto la stessa domanda: ma perché? Perché Dio ha voluto assolutamente che quell'ebreo fosse gettato in mare? Aveva confessato di essere entrato in contrasto con Dio, ma questo significa che era comunque in rapporto con Lui; non poteva Dio accontentarsi della sua pubblica ammissione e perdonarlo, placare il mare e consentire a tutti di celebrare insieme, d'amore e d'accordo, un culto al suo Nome?
  Effettivamente, qualcuno forse avrebbe preferito che le cose si fossero svolte così: Giona rivela per filo e per segno la sua disubbidienza a Dio davanti ai marinai; riconosce pubblicamente il suo peccato e chiede pubblicamente perdono al Signore; avverte i pagani che anche loro sono peccatori come lui e che anche loro possono essere ugualmente perdonati ; i marinai, compunti, riconoscono tutti di essere peccatori e chiedono perdono al Signore; il Signore concede a tutti il suo perdono e per mostrarlo chiaramente calma il mare; grida di alleluia a bordo e conclusione della storia con un esultante culto di ringraziamento a Dio. Quanti bei sermoni edificanti avremmo potuto ricavarci, noi predicatori evangelici, da una storia come questa!
   E invece niente. Sulla nave nessuno chiede perdono: né Giona, né i marinai. Saranno i Niniviti a farlo, ma questa è una storia di terra avvenuta a Ninive che potrebbe essere del tutto distinta dalla storia di mare avvenuta sulla nave, se non fosse per l'«enigma Giona», che indubbiamente le collega. E' dunque su questo centrale mistero che bisogna puntare l'attenzione.

Capitolo 2
  1. E l'Eterno fece venire un gran pesce per inghiottire Giona; e Giona fu nel ventre del pesce tre giorni e tre notti.
  2. E Giona pregò l'Eterno, il suo Dio, dal ventre del pesce, e disse:
  3. Io ho gridato all'Eterno dal fondo della mia distretta, ed egli m'ha risposto; dal grembo dello sheol ho gridato, e tu hai udito la mia voce.
  4. Tu m'hai gettato nell'abisso, nel cuore del mare; la corrente mi ha circondato e tutte le tue onde e tutti i tuoi flutti mi son passati sopra.
  5. E io dicevo: io son cacciato via lontano dai tuoi occhi! Vedrò ancora il tuo Tempio santo?
  6. Le acque m'hanno attorniato fino all'anima; l'abisso m'ha avvolto; le alghe mi si sono attorcigliate al capo.
  7. Io son disceso fino alle radici dei monti; la terra con le sue sbarre mi ha rinchiuso per sempre; ma tu hai fatto risalire l'anima mia dalla fossa, o Eterno, Dio mio!
  8. Quando l'anima mia veniva meno in me, io mi son ricordato dell'Eterno, e la mia preghiera è giunta fino a te, nel tuo Tempio santo.
  9. Quelli che onorano le vanità bugiarde abbandonano la fonte della loro grazia;
  10. ma io t'offrirò sacrifizi, con canti di lode; adempirò i voti che ho fatto. La salvezza appartiene all'Eterno.
  11. E l'Eterno diede l'ordine al pesce, e il pesce vomitò Giona sull'asciutto.
Dopo essere stato buttato fuori dalla nave, Giona non arriva subito nella bocca del pesce. Il mare non si calma immediatamente, come si può desumere dalla sua preghiera, e la violenza delle onde che si erano abbattute sulla nave adesso si rivolge contro di lui. Il mare in tempesta è la voce minacciosa di Dio che prima ha imposto ai marinai di gettarlo in mare e adesso si avventa contro di lui. In tutto questo Giona avverte su di sé un fatto per lui tremendo: il rigetto di Dio. Con determinazione era fuggito lontano dalla faccia dell'Eterno e adesso sperimenta che è Dio ad allontanarlo. Dopo che i marinai l'hanno gettato in mare, l'azione di Dio non si presenta subito come una misericordiosa opera di soccorso per impedire che anneghi; al contrario: ”tutte le tue onde e tutti i tuoi flutti mi sono passati sopra”, dice poi nel ventre del pesce. Dio non gli si presenta come il soccorritore che impedisce che vada a fondo; al contrario: Tu m'hai gettato nell'abisso, nel cuore del mare”. Giona sente Dio che lo spinge in basso: "io sono disceso fino alle radici dei monti", e poi sempre più giù, fino a raggiungere "il grembo dello sheol”. Quest'ultima espressione è tradotta in vari modi in italiano: profondità del soggiorno dei morti, profondo degli inferi, viscere del soggiorno dei morti, ventre del sepolcro. In ogni espressione si riconosce comunque un riferimento alla morte, più precisamente al luogo dove risiedono le anime dei morti. Ed è in questo senso che in effetti viene usato nella Bibbia il termine ebraico sheol (שאול). Volendo restare letterali, si deve dire allora che Giona è passato per l'esperienza della morte, e la sua anima è andata ad abitare per un certo tempo nello sheol. E poiché nello sheol le anime non perdono coscienza, è proprio da lì che Giona ha cercato di far arrivare la sua voce a Dio.
   Ma è possibile una cosa simile? Se lo sarà chiesto anche Giona, e tuttavia ci ha provato. "Io ho gridato all'Eterno dal fondo della mia distretta, ed egli m'ha risposto”, esperimento riuscito dunque. Giona lo ricorda nella preghiera mentre si trova nel ventre del pesce, e aggiunge, rivolgendosi direttamente a Dio: dal grembo dello sheol ho gridato, e Tu hai udito la mia voce”.
   Quando si trovava sulla nave nel mare in tempesta, Giona non si era mai rivolto a Dio; i marinai avevano prima invocato i loro dei, poi avevano gridato all'Eterno, ma Giona niente: muto come un pesce. Considerava rotti i suoi rapporti con Dio, e quando una coppia è in stato di litigio, spesso i due smettono di parlarsi e ciascuna delle due parti s'impone di non essere la prima a rompere il silenzio. Giona aveva voluto fuggire lontano dalla faccia dell'Eterno proprio per non dover più interessarsi di Lui; la circostanza della tempesta lo aveva costretto sulla nave a parlare di Dio, ma non aveva manifestato nessuna intenzione di parlare con Lui. Nella situazione di contesa, Giona non sarebbe stato il primo a rompere il silenzio. Così aveva deciso.
  Il fatto è che una cosa simile doveva averla decisa anche Dio. Si sarà notato infatti il suo silenzio in tutta la prima parte della fuga di Giona: nessuna riprensione al fuggiasco, nessuna correzione a quello che aveva detto di Lui ai marinai. Il primo a riprendere il colloquio interrotto doveva essere Giona. E così è stato: Io "ho gridato all'Eterno dal fondo della mia distretta”. Dunque Dio ci è riuscito: Giona rompe il silenzio per primo; "ed Egli m'ha risposto", e Dio per secondo. Ma quanta fatica deve fare il Signore per esercitare la sua grazia verso i servitori che ama!
   Molti stentano ad accettare che Giona sia fisicamente morto e la sua anima sia scesa nello sheol, e considerano queste parole come un linguaggio poetico; ma se si comincia qui a parlare di poesia, non c'è motivo per non estendere la poesia anche al pesce, al mare, alla nave e così avanti, fino a dire che tutto il racconto è solo una favola poetica a fini didascalici. E così fanno molti, anche tra ebrei e cristiani di tutti i tipi. Se invece si considera il racconto come un fatto storico di cui Dio vuole spiegarci il significato, allora la morte fisica di Giona in mezzo al mare, la discesa della sua anima nello sheol e il successivo ritorno in vita provocato dalla voce di Dio possono e devono essere visti come un fatto inusuale, certo, ma realmente avvenuto. Se si accettano fatti inusuali come il rapimento in cielo di Enoc ed Elia, senza che i loro corpi conoscessero la morte fisica, perché deve dar problemi la singolarità di quello che è successo a Giona? Non potrebbe essere che proprio attraverso la singolarità di un fatto inusuale come questo Dio voglia comunicare agli uomini qualcosa di Se stesso e del suo modo di agire nella storia?
   Tornando a Giona, la novità di quando si trova nello sheol è che si decide, per la prima volta dopo la sua fuga, ad aprire la sua bocca e a gridare all'Eterno. Era fuggito lontano dalla faccia dell'Eterno con il programma di andare a Tarsis, e si ritrova nel grembo dello sheol, non come uno che fugge volontariamente in un posto che lui ha scelto, ma come uno che si sente sospinto a forza in un posto che Dio ha scelto. Ed è in questo luogo che avviene la riconciliazione: nel grembo dello sheol. Nel ventre del pesce Giona ricorda quello che è avvenuto: un'esperienza di entrata nella morte in conseguenza della sua scelta e di uscita dalla morte in conseguenza della misericordia di Dio in risposta al suo grido. Proprio questo il Signore voleva, e questo è riuscito ad ottenere. Rientra nella volontà di Dio l'esercitare amorevole misericordia verso le sue creature, ma la misericordia di Dio ha le sue regole.
  Quello che Giona ha provato fuori della nave è tremendo: è stato attorniato fino all'anima” dalle acque, avvolto dall'abisso; aveva voluto allontanarsi da Dio, e si è sentito "cacciato via lontano dai suoi occhi". Dio non mi vuole più vedere - avrà pensato - e io non potrò più vedere il suo ”Tempio santo”. Ha vissuto l'intero fatto come un'esperienza di non ritorno: non avrebbe più potuto risalire: La terra con le sue sbarre mi ha rinchiuso per sempre”. Non c'è più nulla da fare, avrebbe detto chiunque.
  Giona invece può dire qualche altra cosa sul proseguimento della sua esperienza: "Quando l'anima mia veniva meno in me, io mi sono ricordato dell'Eterno, e la mia preghiera è giunta fino a te, nel tuo Tempio santo”. Giona si era volutamente allontanato dal Tempio, ma adesso gli è concesso di riavvicinarsi a quel luogo santo in una preghiera che è il riconoscimento di quello che Dio ha fatto per lui: Tu hai fatto risalire l'anima mia dalla fossa, o Eterno, Dio mio!
  Si può dire dunque che l'esperienza di Giona porta il segno di quella che è la caratteristica fondamentale del popolo ebraico: la risurrezione dai morti.
  Dopo questa esperienza, Giona fa nel ventre del pesce quello che sulla nave, a differenza dei marinai, non aveva fatto: offre all'Eterno sacrifici in forma di canti di lode. E come i marinai fa dei voti che promette di adempiere. Ma quando? Non si deve dimenticare che Giona eleva il suo inno di lode al Signore non dopo essere stato scaricato sano e salvo sulla terra ferma, ma quando si trova ancora nel ventre del pesce. E neppure eleva a Dio un'esplicita richiesta di farlo uscire da quella biologica prigione, ma si limita a confessare una realtà in cui fermamente crede: "Il salvare appartiene all'Eterno".
  "E l'Eterno diede l'ordine al pesce, e il pesce vomitò Giona sull'asciutto".

(8) continua

(Notizie su Israele, 23 maggio 2021)


 

“Vittoria” a Gaza

Hamas ha fatto dieci giorni di guerra con l’obiettivo politico della mostrificazione di Israele

di Daniele Raineri

ROMA - Hamas ha calcolato in anticipo che questa guerra di dieci giorni e otto ore contro Israele avrebbe portato alcuni vantaggi. Non si tratta di vantaggi materiali, anzi da quel punto di vista è un disastro. I raid aerei israeliani hanno distrutto quasi cento chilometri di tunnel scavati nel corso di molti anni, hanno ucciso alcuni leader importanti e hanno demolito alcune infrastrutture preziose. Le scorte di razzi prodotti in casa oppure contrabbandati con lentezza dall’esterno sono state dilapidate. Il gruppo palestinese non ha guadagnato nemmeno un metro di territorio e sapeva che non sarebbe successo fin dall’inizio, esce dal conflitto in condizioni molto peggiori rispetto a come ci era entrato. L’accordo di tregua entrato in vigore ieri notte prevede soltanto la sospensione dei raid aerei israeliani in cambio della sospensione dei lanci di razzi. E’ un accordo a somma zero che non tocca nessuna delle questioni che stanno a cuore ai palestinesi e anzi peggiora la situazione. Adesso alcune questioni importanti come l’allentamento del blocco imposto da Israele e dall’Egitto sulla Striscia di Gaza saranno ancora più difficili da negoziare.
    Se non ha guadagnato territorio e non ha cambiato nulla a Gerusalemme est, entrambi obiettivi fuori portata, il gruppo palestinese tuttavia ha ottenuto vantaggi politici. L’opinione pubblica mondiale che spesso vede doppiezza e complotti ovunque e non si fida dei vaccini durante una pandemia è cieca di fronte allo schema ripetitivo delle guerre di Hamas. Accetta queste fiammate di guerra a intervalli regolari come se fossero genuine. Lanciare migliaia di razzi contro le città israeliane vuol dire costringere gli israeliani a reagire con una campagna emergenziale di raid aerei contro la Striscia di Gaza, dove la densità della popolazione è altissima e le fazioni armate condividono gli stessi pochi chilometri quadrati con i civili. I raid israeliani sono troppo deboli per fermare in fretta i lanci di razzi e infatti anche nel decimo e ultimo giorno di guerra Hamas è riuscita a lanciare circa 400 razzi. Sono allo stesso tempo troppo forti per non fare vittime fra i civili di Gaza. I raid aerei israeliani evitano il più possibile la popolazione: in dieci giorni hanno colpito circa duemila bersagli e hanno ucciso 232 palestinesi e di questi 130 sono combattenti di Hamas. Ogni singola morte è orrenda, ma sono numeri completamente diversi e molto più bassi rispetto alle guerre convenzionali. Il gruppo armato di Gaza riesce a sfruttare questa situazione per fini politici e fa campagna per mostrificare Israele, con qualche risultato. In America una parte del Partito democratico si è sollevata contro l’Amministrazione Biden per l’appoggio al governo israeliano. Hamas ha toccato un picco di 800 razzi lanciati in un giorno solo, mentre la media di razzi lanciati durante la guerra precedente nel 2014 era di 90 al giorno. Ha lanciato 170 razzi contro Ashkelon nel giro di poche ore e 130 contro Tel Aviv in una sera – è un volume di fuoco mai visto prima e spiega perché ci sono state più vittime fra i civili israeliani rispetto alle altre guerre. Il margine di vantaggio militare degli israeliani su Hamas è enorme, ma si sta riducendo e la cosa sarà molto discussa in questi giorni nell’establishment israeliano, magari non in pubblico.

Il Foglio, 22 maggio 2021)


Ma la vera vittoria sarà disarmare Hamas

Un conflitto destinato a durare. Sul piano militare Israele stravince. Ma la propaganda premia i palestinesi.

IL BILANCIO DI TEL AVIV
Distrutti mille obiettivi militari e uccisi quasi duecento terroristi
A GAZA
Anche il gruppo islamista esulta: l'obiettivo è la guerra santa perenne

di Fiamma Nirenstein

Chi ha vinto? La parola vittoria non è stata pronunciata nel sobrio discorso di conclusione dell'operazione «Difesa delle mura» che ieri Benjamin Netanyahu ha pronunciato. Quel che ha annunciato è che «ciò che è stato, non è quello che sarà». Ovvero: «Non osate di nuovo». Ma la spiegazione dice che Hamas, che ancora forse non ne è consapevole, è ferita fatalmente nelle sue strutture belliche.
   La sua «metro» ovvero il labirinto sotterraneo che ha portato gli attentati terroristici dentro i confini di Israele, nei kibbutz, sotto le case, la grande impresa mimata dagli Hezbollah coi soldi iraniani, è stata distrutta; mille obiettivi militari sono stati colpiti, fra cui 430 lanciamissili; gli edifici che ospitavano le strutture di Hamas, di cui 9 a molti piani, sono in rovina; fra i 230 morti almeno 160 sono terroristi, e l'IDF ha i nomi e i cognomi. Vale la pena qui di fare un cerchio a matita rossa sul fatto che su 1000 lanci 60 civili, fra cui purtroppo alcuni bambini fra gli scudi umani di Hamas, sono rimasti uccisi, considerato anche che dei 4340 lanci di Hamas, 640 sono caduti dentro la Striscia colpendo i palestinesi stessi.
   Netanyahu sapeva molto bene, ieri, accettando la richiesta del presidente americano e interrompendo le operazioni belliche che annunciando la tregua avrebbe incontrato la protesta, la paura, lo sguardo sconcertato della gente del sud: è vera pace? Quanto può durare? Perché non distruggiamo l'incubo? Ma Bibi ha spiegato che non ha voluto rischiare la vita dei soldati entrando nella gabbia della tigre, come nel 2014; può solo promettere che adesso ogni lancio, ogni pallone infuocato, ogni fuoriuscita di terroristi da Gaza troverà una durissima risposta. Ma Israele non vuole occupare Gaza. La vittoria non può certo essere controllare a prezzo del sangue un'area di cui Abu Mazen, l'Egitto che ha mediato la tregua, il mondo intero sono bravi a sottolineare la povertà, ma non a denunciarne la causa: Hamas.
   D'altra parte Israele sa bene che mentre vittoria è pace per Hamas è la leadership della Guerra Santa, il grande disegno internazionale di distruzione dello Stato d'Israele. Hamas si disegna al mondo come il vincitore della guerra sostenendo che ha guidato la guerra santa della difesa di Al Quds, Gerusalemme, e delle Moschee; che ha conquistato e reso di nuovo shahid combattenti i cuori addormentati da Abu Mazen nell'Autonomia Palestinese e degli arabi israeliani; che ha fatto correre tutti gli ebrei nei bunker per 11 giorni; che ha ridisegnato il conflitto con Israele come centro dello scontro che coinvolge Iran, Turchia, Siria e che deve dimostrare che gli accordi di Abramo sono falliti.
   Israele ha di fronte un nemico che non rinuncerà mai alla distruzione del significato stesso di Israele come Stato legittimo del Popolo Ebraico. Cioè Hamas, un gruppo di terroristi classificati come tali quasi da tutti i Paesi occidentali del mondo, che ha preso il potere buttando dai tetti i suoi nemici di Fatah e che giustizia i suoi nemici per strada. Dunque, chi ha vinto? Israele ha lo scopo di fermare la guerra, perché la sua essenza di stato occidentale glielo impone; Hamas quella di rinnovare la sua battaglia esistenziale per il predominio, perché la sua natura glielo impone. E poiché la scelta di Israele non è e non può essere quella di schiacciare il nemico, Hamas seguiterà per la sua strada. É la sua ragione di vita, al contrario di quella di Israele.
   Anche se Israele ha i motivi tecnici descritti da Netanyahu per proclamare una vittoria, pure la situazione resta incerta: Hamas ha potuto contare sulla sua narrativa vittimista pure essendo il gruppo palestinese a bombardare i civili con i missili. Questo ha fatto passare l'idea dell'occupazione anche se Israele si è ritirata 16 anni fa. Per vedere la conclusione della guerra, si deve solo puntare a un obiettivo: la demilitarizzazione di Hamas e l'uso dei fondi umanitari per il loro vero fine. Questo soltanto può decidere chi vince e chi perde.

(il Giornale, 22 maggio 2021)


Tra Israele e Hamas regge la tregua. Incognite sul futuro

Il “mediatore” Al Sisi rilancia la sua immagine. Hanyeh ringrazia l’Iran Ora negoziato per la fase 2 della pace. Gli Usa: ricostruire Gaza

di Sharon Nizza

GERUSALEMME — Il giorno dopo l’entrata in vigore del cessate il fuoco tra Israele e Hamas, il frastuono della guerra è sostituito da una serie infinita di speculazioni intorno alla domanda “cosa succederà ora?”. Regge per ora la tregua, «reciproca e senza condizioni», mediata dagli egiziani (che consente ad al-Sisi si riaccreditarsi sullo scacchiere internazionale). Completata la fase uno con il silenzio delle armi, i mediatori egiziani hanno già iniziato a muoversi tra la Striscia e Israele per tastare il terreno sulla fase due, che riguarda questioni critiche come l’avvio della ricostruzione di Gaza, l’ampliamento della zona di pesca, l’apertura dei valichi, che hanno ripreso a funzionare a intermittenza per il passaggio di aiuti umanitari e giornalisti. La grande incognita resta la fase tre, quella che dovrebbe portare a intese di più ampio respiro riguardo a progetti civili, concessione di permessi di lavoro verso Israele e l’ingresso delle valige di contanti per i funzionari pubblici, un ruolo che è spettato al Qatar negli ultimi anni dopo la chiusura dei canali tra Ramallah e Gaza. I discorsi di febbraio sull’estensione del gasdotto israeliano dal giacimento Leviatano fino a Gaza sembrano ora molto lontani.
   A Gaza, tra le macerie, si festeggia la vittoria divina di cui parla Ismail Hanyeh in un discorso pubblico da Doha (nel quale ringrazia tra gli altri anche l’Iran per il «sostegno economico e gli armamenti »). Anche in Cisgiordania e a Gerusalemme est ci sono manifestazioni con fuochi di artifici e canti che inneggiano a Mohammad Deif. Di nuovo sventolano bandiere di Hamas non lontano dalla Muqata a Ramallah e sulla Spianata, dove si registrano tensioni nel pomeriggio quando, nella Moschea di Al Aqsa, l’Imam vicino a Fatah, viene contestato da una folla dopo un sermone troppo mite, e poi scoppiano nuovi scontri con la polizia israeliana che portano a 20 arresti.
    La tregua regge però anche questo primo banco di prova, ma ci si interroga cosa accadrà tra due settimane quando la Corte suprema israeliana dovrà discutere nuovamente la questione degli sfratti di quattro famiglie palestinesi da Sheikh Jarrah, di cui Hamas si è fatto portavoce. Il ritratto della vittoria dipinto da Netanyahu è dibattuto molto dai media: Hamas è stato colpito duramente, oltre 100 km della “metro” sono stati distrutti, ma si tratta solo di un terzo del sistema di tunnel che collega la Striscia sottoterra. La deterrenza è stata ripristinata, ma nessuno sa dire se si tratta di un colpo come quello inflitto al Libano nel 2006 — un fronte che a oggi non si è ancora riaperto salvo incidenti sporadici.
    Netanyahu dice che non ci sarà più tolleranza per i lanci di razzi da Gaza che hanno colpito periodicamente il sud del Paese e che da ora «le cose cambiano», ma è attaccato per non aver sollevato la questione degli ostaggi a Gaza (2 corpi di soldati e 2 civili israeliani entrati per errore nella Striscia e detenuti da anni). «È arrivato il momento delle azioni politiche: sulle macerie delle case dei leader di Hamas e dei tunnel, dobbiamo costruire una nuova realtà» è un passaggio del discorso di Gantz che delinea la necessità di rimettere in discussione le dinamiche cicliche che governano il triangolo infernale Israele-Gaza- Cisgiordania dalla spaccatura Hamas-Fatah del 2007. Molto di quanto potrebbe succedere dipende dalle azioni che vorrà o non vorrà intraprendere Biden, che si trova catapultato nel pantano israelo- palestinese prima del previsto.
   Per ora la Casa Bianca si limita a dire che «la ricostruzione di Gaza è prioritaria, non per Hamas ma per la popolazione palestinese» e che non ha in programma di cambiare l’assistenza per la sicurezza a Israele.

(la Repubblica, 22 maggio 2021)


Razzi contro i civili è un doppio crimine

di Dror Eydar *

Una controversia privata su alcune abitazioni nella nostra capitale Gerusalemme è stata definita una “provocazione” dai portavoce palestinesi, e questa, agli occhi di molti palestinesi, giustifica il lancio di 4.000 missili contro le città israeliane e la minaccia alla vita di decine di migliaia di israeliani.
   Molto umano. Sebbene siamo riusciti a intercettare il 90% dei razzi, questi sono stati lanciati tutti a un solo scopo: uccidere ebrei ovunque si trovino. Che cosa farebbero i lettori, se Roma fosse minacciata con anche solo cinque razzi? Hamas commette un doppio crimine di guerra: prende di mira i civili, e lo fa usando la gente di Gaza come scudi umani. Nasconde depositi missilistici in asili nido, case private e ospedali. Inoltre circa 1.000 dei razzi lanciati da Hamas sono caduti nella stessa Striscia di Gaza, uccidendo civili, bambini compresi! Hamas uccide i suoi cittadini e poi accusa Israele, spalleggiata dall’Autorità Palestinese. Che vergogna morale!
   Nel 2006-2007 Hamas ha preso il controllo della Striscia di Gaza, uccidendo decine di membri di Fatah, compiendo linciaggi e uccidendo bambini di membri dell’Autorità Palestinese. Hamas non lascerà mai la presa. Al contrario, Hamas vuole conquistare l’intera Autorità Palestinese. Questa è la ragione per cui Mahmoud Abbas ha annullato le elezioni. Lo Statuto di Hamas si concentra su due principi: la distruzione totale di Israele e l’uccisione degli ebrei ovunque si trovino. Una “Soluzione finale” alla questione degli ebrei nella loro antica terra, con Hamas che nega la nostra storia. Nel 2005 Israele si è ritirata da Gaza. Il mondo ha riversato miliardi di denaro a Gaza, che si sarebbe potuta trasformare in una Singapore del Medioriente, assicurando una vita migliore ai suoi abitanti. Hamas ha rubato la maggior parte dei soldi, a beneficio dei propri leader e per trasformare Gaza in un complesso militare sotterraneo. Ora, con il cessate il fuoco, il mondo inizierà a far fluire soldi per la ripresa della Striscia. Ma, come sempre, Hamas ruberà la maggior parte del denaro. L’Europa si sveglierà una buona volta, per controllare dove va a finire il denaro che elargisce a questa organizzazione terroristica?

* Ambasciatore di Israele in Italia

(la Repubblica, 22 maggio 2021)


Gaza, la tregua resta fragile. Nuovi scontri sulla Spianata

La polizia disperde i manifestanti a Gerusalemme. Netanyahu: tolleranza zero

di Giordano Stabile

Le bandiere verdi di Hamas sventolavano ieri sui tetti della moschea di Al-Aqsa e sulla Cupola della roccia. I manifestanti che si erano arrampicati le brandivano in segno di vittoria, assieme a quelle con i colori della Palestina, meno numerose. All’interno centinaia di giovani gridavano in coro «il popolo vuole la caduta del raiss», cioè di Abu Mazen, una rivisitazione dello slogan delle primavere arabe e un messaggio al presidente e a tutta la dirigenza dell’Autorità nazionale palestinese. Il verde dilagava anche a Ramallah, il bastione di Al-Fatah in Cisgiordania. Segno che la «battaglia per Gerusalemme» aveva dato i suoi frutti al movimento estremista padrone della Striscia di Gaza dal 2007 e che adesso sogna di prendersi tutti i Territori. Il primo giorno di tregua ha visto la fine dei raid ma non delle tensioni. Sulle macerie dei palazzi distrutti Hamas ha celebrato «la vittoria della resistenza contro l’occupazione», con migliaia di persone scese nelle strade per festeggiare la fine dell’incubo, e la possibilità di tornare a vivere, almeno sopravvivere. Sull’altro il premier Benjamin Netanyahu ha proclamato «lo straordinario successo» delle operazioni.
   La diplomazia è riuscita a fermare il massacro, 243 morti palestinesi, 12 israeliani. Il conflitto rimane però lì, con tutta la sua forza. La polizia israeliana ha disperso la manifestazione nella Spianata delle moschee, Monte del Tempio per gli ebrei, a colpi di lacrimogeni e granate assordanti. Sui tetti attorno al complesso erano piazzati i cecchini e sono partiti proiettili di gomma. I giovani sono usciti con aria di sfida, più che di rabbia, e gridato: «Siamo tutti Mohammed Deif», il capo militare di Hamas. Era tempo di andare a consumare il pasto della fine di Ramadan, rimandato di una settimana, adesso con un sapore più dolce. Da Doha, in Qatar, il leader politico Ismail Haniyeh è apparso in televisione, ha ringraziato l’Egitto per gli aiuti umanitari e l’Iran per l’invio di «armi e tecnologia». Da Gerusalemme è arrivata la risposta di Netanyahu. Un bilancio in tinte trionfalistiche degli undici giorni di campagna aerea. «Abbiamo cambiato l’equazione con Hamas – ha sintetizzato -. Non tutto è stato rivelato al pubblico. Se pensano che tollereremo nuovi lanci di razzi, si sbagliano. Risponderemo con un altro livello di forza». La nuova dottrina prevede, secondo anticipazioni del ministro dell’Intelligence Eli Cohen, rappresaglie molto più dure al minimo attacco, anche perché i militanti avrebbero le infrastrutture difensive a pezzi, con «100 chilometri di tunnel distrutti o danneggiati».
   Non tutti sono convinti. L’analista militare Amos Harel sottolinea come la risposta si sia concentrata sulle gallerie ma non abbia gestito al meglio i razzi in arrivo. Sulle lacune della campagna si è soffermato anche il capo dell’opposizione, il centrista Yair Lapid, che da ieri ha ripreso il suo tentativo di formare una maggioranza alternativa a Netanyahu. L’offensiva «non ha dato risposte alle comunità vicino alla frontiera, terrorizzate dai razzi», ha sottolineato: «Si è fermata troppo presto: il premier ha fallito, è tempo che vada via».
   Per il premier è una spina nel fianco. Si ritrova al punto di partenza, con la prospettiva di un processo per corruzione e che gli avversari riescano a mettersi d’accordo per sloggiarlo dalla premiership dopo dodici anni. Con la tregua almeno ha recuperato il sostegno del presidente americano. Joe Biden lo ha chiamato «per ringraziarlo» e ribadire il «diritto di Israele di difendersi». Questo conflitto, ha però aggiunto, «ha condotto alla morte di molti civili, compresi bambini». A giorni arriverà il segretario di Stato Anthony Blinken per «lavorare insieme a un futuro migliore per israeliani e palestinesi». Sulle 243 vittime a Gaza, 66 sono minori, ha confermato l’Unicef. Cinquanta scuole sono state danneggiate. Ci sono oltre centomila sfollati. E’ una vittoria amara, chiunque la rivendichi.

(La Stampa, 22 maggio 2021)


La guerra tra Hamas e Israele è stata un test per conto dell’Iran

di Sarah G. Frankl

La lettera di congratulazioni inviata dal grande Ayatollah Khamenei ad Hamas svela diversi punti interessanti e allo stesso tempo inquietanti
  Se serviva una ulteriore prova del coinvolgimento iraniano nella recente esplosione di violenza tra Israele e Hamas, è arrivato in queste ore il messaggio dell’Ayatollah Khamenei nel quale oltre a congratularsi con Hamas parla chiaramente di “test”.
  «Il recente test di questi giorni ha onorato la nazione palestinese. Il selvaggio nemico simile a un lupo ha capito correttamente di essere impotente di fronte alla rivolta unificata della Palestina» ha scritto Khamenei nel suo messaggio ad Hamas.
  «Questo test» dice ancora l’Ayatollah Khamenei «cioè la cooperazione tra Quds (non è chiaro se parla della forza Quds oppure del nome persiano di Gerusalemme) i campi palestinesi nella West Bank e Gaza ha mostrato la futura soluzione ai palestinesi».
  Poi torna sull’effetto scatenante della violenza, il quartiere di Shimon HaTzadik (quello che gli arabi chiamano Sheikh Jarrah) per incitare nuovamente alla violenza.
  «L‘esperienza (nuovamente il test) di Sheikh Jarrah nel resistere all’aggressione del regime e degli abitanti mercenari degli insediamenti dovrebbe diventare un piano d’azione perpetuo per il coraggioso popolo palestinese».
L’intero mondo dell’Islam ha responsabilità e obblighi religiosi rispetto alla causa palestinese
  E poi la chiamata alle armi rivolta all’intero mondo islamico: «l’intero mondo dell’Islam ha responsabilità e obblighi religiosi rispetto alla causa palestinese».
  Infine l’Ayatollah Khamenei chiede che il mondo islamico sostenga finanziariamente la causa palestinese e che quello occidentale condanni e punisca Israele per quelli che secondo lui sono “i crimini del regime sionista” contro i Palestinesi.
  La lettera di questo criminale internazionale indirizzata ai terroristi palestinesi è quindi interessante sotto diversi aspetti.
  Il primo, quello più evidente, è che Hamas ha condotto un test per conto dell’Iran e che anche in Giudea e Samaria l’Iran controlla i movimenti palestinesi attraverso uomini di Hamas.
  Il secondo, meno evidente ma non meno importante, è che l’Iran non considera l’Autorità Palestinese (Abu Mazen) un interlocutore valido. Nemmeno la nomina nella lettera.
  Non sono due cose da nulla e spiegano anche i motivi di questa improvvisa fiammata di violenza scattata per un motivo poco più che risibile.
  Hamas è chiaramente finito sotto l’orbita iraniana e non sappiamo se Turchia e Qatar ne sono complici consapevoli o inconsapevoli.
  Propendiamo decisamente per la prima, il che cambierebbe in maniera evidente la prospettiva perché prefigurerebbe una “santa alleanza” tra i Fratelli Musulmani (Turchia e Qatar sunniti) e l’Iran (sciiti) contro Israele.
  Vale la pena ricordare che la Turchia è membro della NATO e che finanzia e probabilmente arma insieme all’Iran Hamas, cioè un gruppo riconosciuto come terrorista anche dall’Europa dove Ankara vorrebbe entrare.
  Quindi, prima di urlare contro Israele ci si pensi bene e si pensi bene a chi c’è dietro ai terroristi islamici di Hamas.

(Rights Reporter, 22 maggio 2021)


Il Gran Mufti di Gerusalemme cacciato dalla moschea al-Aqsa con slogan filo-Hamas

Mohammed Hussein, Gran Muftì di Gerusalemme è stato 'cacciato' dai fedeli che, a suon di proteste e slogan filo-Hamas, gli hanno di fatto impedito di concludere il sermone della preghiera del venerdì.
È il Jerusalem Post a raccontare stamani quello che viene definito come un episodio senza precedenti dopo i video circolati nelle scorse ore sui social media e dopo che, come riportava ieri Haaretz, Hussein è stato accusato di non aver citato Gaza nel suo sermone, con alcuni fedeli che lo hanno invitato a "tornare" da Mahmoud Abbas.
A qualche ora dall'entrata in vigore della tregua tra Hamas e Israele, hanno intonato slogan a sostegno del movimento e contro Hussein, sostenuto dall'Autorità palestinese e che - ha ricordato il Jerusalem Post - è spesso al fianco di Abbas durante gli eventi. "Siamo gli uomini di Mohammed Deif", hanno intonato in centinaia con un riferimento al leader del braccio armato di Hamas, mentre le guardie del corpo trascinavano Hussein fuori dalla moschea.

(globalist, 22 maggio 2021)


Mr. Iron Dome

Daniel Gold è l’ingegnere che ha inventato il sistema antimissile che difende Israele. Storia di un visionario e del suo mantra: salvare vite

Quando Daniel Gold spiegò la sua idea di un missile che annienta un altro missile gli risposero: "Non giochiamo a guerre stellari". Nel 2011 l' Idf dichiara l'Iron Dome operativo. Avrebbero voluto chiamarlo Golden Dome, ma non volevano sembrasse sfacciato.
Durante la pandemia l'ingegnere dirotta la sua squadra sulla sanità: "Per portare a termine una missione ci si comporta come in guerra". Figlio di ebrei ungheresi sopravvissuti all'Olocausto, è cresciuto con l’idea che Israele fosse un posto meraviglioso, ma bisognava renderlo anche sicuro.

di Micol Flammini

Gli ultimi undici giorni in Israele hanno avuto un suono e un colore. Il suono è il lamento della sirena che avverte che i missili sono in arrivo e che bisogna correre, più rapidamente possibile, negli shelter, nei rifugi. Dopo il lamento, uno scoppio, è l’Iron Dome che ha colpito i razzi lanciati da Hamas dalla Striscia di Gaza. Il suono dell’esplosione poi genera una fiammata di luce e un cielo di un rosso sfrontato, chimico, innaturale, “è il colore della guerra”, dice una voce al telefono da Kfar Aza, kibbutz a sud di Israele. L’Iron Dome è il sistema antimissile israeliano che vede i razzi palestinesi partire, ne calcola la traiettoria e decide se sparare un controrazzo per annientarli o se lasciarli cadere. Tutto è rapidissimo e se non ci fosse stato questo sistema, le perdite per lo stato ebraico durante queste due settimane in cui Hamas ha lanciato più di quattromila missili sarebbero state molte di più, sono state dodici, non erano mai morti tanti civili israeliani. “L’abitudine al senso del pericolo non si perde, la provi una volta e ti rimane addosso. Te la porti dietro sempre, è una compagnia costante. Un fluido più denso del sangue che ti senti scorrere nelle vene. Per cui, l’Iron Dome è stato importante, tutti qui a Kfar Aza lo sappiamo e proviamo a ripeterci che possiamo stare più tranquilli, ma di quel senso del pericolo già provato non c’è modo di liberarsi”. Sono le ferite che non si vedono di questa guerra, ma si spera che non rimarranno addosso alle generazioni più giovani e in questo l’Iron Dome gioca un ruolo importantissimo.
  Idearlo, promuoverlo e realizzarlo è stato una battaglia, che ha deciso di intestarsi un ingegnere con due dottorati di ricerca – uno in ingegneria elettronica, l’altro in Business management – che oggi è a capo della Defense Research and Development Directorate del ministero della Difesa. Si chiama Daniel Gold, di origini ungheresi, nato in Israele e cresciuto con un’idea: che lo stato ebraico fosse un posto meraviglioso in cui vivere, ma andava reso anche sicuro. Ha deciso di applicare i suoi studi a una missione: salvare il più alto numero di vite e “mantenere la continuità della vita in Israele”. Quando si presentò la prima volta davanti all’establishment della Difesa con la sua proposta di annientare i missili con altri missili ultra precisi, tutti pensavano che fosse un esaltato, un pazzo, “non siamo qui a giocare a guerre stellari”, gli hanno risposto. Ma Daniel Gold aveva tutta l’intenzione di rendere possibile una cosa impossibile. L’idea gli era venuta durante la Guerra del golfo, lui era a Tel Aviv, contro la quale Saddam Hussein scagliò i razzi Scud. Di quei giorni gli è rimasta in testa la sensazione di una città immobilizzata, vuota. All’epoca aveva da poco finito l’università e pensò che non si doveva permettere che gli israeliani vivessero nella paura.
  Dopo il primo fallimento davanti ai capi della difesa, Gold non ha aspettato il via libera da parte dei vertici politici e militari e per evitare che il suo progetto, che ancora era soltanto un’idea, rimanesse impigliato nei vortici delle battaglie istituzionali, aveva già iniziato a muoversi per conto suo. Già nel 2004 aveva creato un comitato per studiare le varie opzioni per la tecnologia antimissile, continuò con le sue ricerche in palese violazione di una direttiva del ministero della Difesa, per il quale il progetto non meritava di essere mandato avanti. Gold, che non aveva intenzione di rinunciare alla sua idea – oggi dice di non aver infranto regole, ma di aver semplicemente eluso la burocrazia – cercò un investitore privato. Era risultato un tipo eccentrico, troppo entusiasta, e sapeva che, senza un risultato concreto da mostrare, i vertici della Difesa non avrebbe cambiato opinione sui suoi contromissili. Eppure, due anni dopo, anche i più scettici si erano convinti. Il maggior promotore del sistema era diventato il ministro Amir Peretz, l’allora tenutario della sicurezza che viene da Sderot e ben conosce la priorità di rispondere a una pioggia di razzi, era appena finita la guerra del Libano. Nonostante Peretz avesse contro tutti, Gold ricevette i fondi per andare avanti, il progetto fu assegnato alla Rafael, con la quale l’ingegnere era già in contatto, e altre due società collaborarono per sviluppare il software e il radar. Gold volle una squadra ampia, “il meglio del paese”, esperti di missili di settant'anni ormai in pensione e ingegneri venticinquenni, donne e uomini. In un’intervista a Yisrael Hayom ha raccontato: “E’ stato come gestire contemporaneamente quindici start-up diverse, che devono lavorare in armonia tra di loro e farlo in tempi da record. Nessuna gerarchia, un lavoro orizzontale”. Il progetto non era semplice, bisognava trovare il modo di scansionare costantemente tutta Gaza, di rilevare il missile lanciato e soprattutto di creare un centro di controllo in grado di calcolare la traiettoria in quindici secondi massimo. Ci sono voluti anni, c’era zero margine di errore, e il governo israeliano aveva bisogno di soldi. Peretz provò a rivolgersi al presidente americano Bush, la risposta fu negativa. Agli occhi degli americani il sistema pensato da Daniel Gold era “qualcosa che non si può fare”. Fu Barack Obama a credere nel progetto e a sostenerlo con 200 milioni di dollari. Le ricerche di Gold andavano sempre meglio, il sistema diventava sempre più rapido e preciso, per il design gli sviluppatori si ispirarono a un modello di macchinine per bambini. Era ormai arrivato il momento di dargli un nome. Al sistema e ai missili, anzi ai contromissili.
  Se Gold è il padre, l’ideatore, il promotore, il Don Chisciotte dell’Iron Dome, non è stato lui a scegliere il nome. I razzi si sarebbero dovuti chiamare anti Qassam, dal nome dei razzi di Hamas, ma alla fine decisero di chiamarli Tamir, acronimo di Til Meyaret, missile intercettore. Rimaneva da trovare un nome per il sistema, la prima proposta fu Golden Dome, cupola d’oro. Ma il nome venne bocciato, sembrava troppo pretenzioso, sfacciato. Il sistema doveva davvero rappresentare un’idea di sicurezza solida, non doveva risultare un vezzo, meglio Iron Dome, cupola di ferro, in ebraico: kipat barzel. Nel 2011, l’Idf dichiara il sistema operativo.
  E’ un sistema composto in tre parti: un radar, un centro di controllo e i missili intercettori. Il radar percepisce il razzo, il centro di controllo ne calcola la traiettoria, il Tamir lo disintegra, ma parte soltanto se c’è il pericolo che vengano colpiti centri abitanti. Oggi in Israele ci sono circa dieci batterie dispiegate in tutto il paese, ciascuna con tre o quattro lanciatori che sono in grado di sparare venti missili intercettori. E’ un’operazione costosa e queste furono le prime critiche che si trovò a dover affrontare Daniel Gold, una volta dimostrato che il sistema funzionava. Ogni batteria costa cento milioni di dollari, ogni razzo cinquantamila, mentre la produzione dei razzi utilizzati da Hamas a livello economico è molto meno onerosa. Per il momento non si è trovato il modo di abbattere i costi, ma i benefici risultano superiori e durante gli scontri di queste settimane Iron Dome ha intercettato oltre 1400 razzi lanciati dalla Striscia. Un numero altissimo che ha messo sotto pressione il sistema.
  Nel 2012 Gold riceve un importante premio da parte del ministero della Difesa, da pazzo era diventato un visionario. Lui sostiene sia un passo molto breve in realtà, che il suo più grande orgoglio sia stato quello di aver trasformato la fantascienza, le “guerre stellari” in una realtà. Nessuno avrebbe scommesso che un razzo potesse essere neutralizzato da un altro razzo, in volo e in pochi secondi. Lo scontro produce strisce di luce, quel colore della guerra visto dal kibbutz di Kfar Aza, che è anche una sfumatura di sicurezza difficile da introiettare dopo aver conosciuto l’ansia del pericolo.
  All’inizio è stata una lotta contro i mulini a vento, ha detto Gold, che nonostante i primi successi, la fiducia di Obama, e la dimostrazione dell’utilità dell’Iron Dome continuava a essere trattato come l’ingegnere stravagante, quello che aveva violato una direttiva del ministero, con un sorriso sempre impresso sul volto e la voce calma. Nel 2014, durante l’operazione Margine di protezione, diventa un eroe nazionale, le persone lo fermano per strada, si fanno fotografare con lui: è il padre dell’Iron Dome.
    I genitori di Daniel Gold sono sopravvissuti all’Olocausto, e lui è convinto che sia stato questo, il dolore comune di tutto il popolo ebraico, ad averlo spinto a pensare alla sopravvivenza, a ogni costo. Lo ha descritto come un moto forte, interno, la necessità di essere sempre un passo davanti al nemico. E lo scorso anno ne è arrivato un altro di nemico: il coronavirus. La pandemia deve avergli ricordato la rabbia provata nel vedere Tel Aviv sola e vuota durante la Guerra del golfo. Da marzo dello scorso anno, il suo dipartimento dentro al ministero della Difesa ha completamente cambiato campo e si è dedicato alla ricerca contro il virus. “In Israele – ha detto al New York Times – se c’è da portare a termine una missione ci si comporta come in guerra. Tutti smettono di fare quello che stavano facendo e mettono energia e creatività sul nuovo obiettivo”. La sua squadra, sempre ampia, sempre con persone da vari settori, sempre orizzontale, si è concentrata su tre questioni: la produzione di ventilatori, aiutare gli ospedali a gestire il sovraffollamento e i test, i veri “game changer”. Ha studiato un tipo di tampone che si basa su respiro, olfatto e intelligenza artificiale con il risultato in sessanta secondi. Come con l’Iron Dome, il tempo e la velocità erano i fattori da incrementare. Contro i razzi e contro il virus. Le circostanze e le motivazioni che hanno portato Gold a sviluppare il sistema antimissile e a cercare il modo di frenare la pandemia sono simili. La rabbia nei confronti della paura, la voglia di libertà, di salvare la vita, il senso di frustrazione di fronte al suo paese vuoto e paralizzato. Il desiderio di fare di Israele non soltanto un paese meraviglioso, ma anche sicuro. Ma questa volta Gold non ha dovuto lottare contro dei vertici politici ostili, non è più l’ingegnere fuori dagli schemi, accusato di violare le direttive del ministero della Difesa, ottimista in modo ostinato e dalle pretese fantascientifiche. E’ il garante della sicurezza in Israele, che parla poco di sé, tanto del suo paese, infinitamente di quello che ancora bisogna fare per proteggerlo, contro tutto, in modo instancabile. A marzo dello scorso anno è stato convocato dal premier Benjamin Netanyahu, ha capito subito che la pandemia era una minaccia difficile e seria. Si è messo al lavoro, sotto agli occhi fiduciosi degli israeliani, che ormai lo riconoscono e con lui si sentono sicuri.
  Daniel Gold continua a lavorare sull’Iron Dome, che assicura sia in evoluzione continua, a maggior ragione dopo l’ultima guerra che ha messo a dura prova la sua resistenza. “Quello di oggi non è certo l’Iron Dome del 2013. Hamas si evolve e noi non possiamo stare fermi”. Al nemico bisogna sempre stare un passo avanti. Israele vive nell’esaltazione dell’Iron Dome che in questi giorni ha fatto vedere di nuovo la sua imprescindibilità. E’ talmente parte della vita del paese, che negli anni è diventato anche un modellino per macchinine, o meglio è tornato a esserlo visto che era stato un giocattolo a ispirarne il design, e i missili Tamir sono diventati un cartone per bambini. Il protagonista è un razzo, Tili, che spiega come funziona, perché esiste, perché scoppia, perché fa rumore e perché dopo il rumore non bisogna avere paura: “Se vedi il fumo nel cielo, se senti il rumore, sono io, il tuo Tili”. Il sistema antimissile è entrato anche nella cultura pop della nazione, parte di quella quotidianità complessa che però non deve fermare il futuro. Tili serve ad allontanare il senso del pericolo costante, quel liquido più pesante del sangue che una volta entrato nelle vene non esce più, per preservare le ultime generazioni, che sono la garanzia, come ha detto Gold, della continuità di Israele.
  Ma oltre all’Iron Dome c’è il resto su cui lavorare, un nemico alla volta, e uno dei punti fermi dell’ingegnere, che viene spesso chiamato nelle università israeliane per raccontarsi, è: scegli il tuo campo, approfondiscilo, diventa il migliore in quello, ma non affezionartici, occupati anche di altro, reinventati, fa cose nuove, se studi, studia e lavora, se hai studiato e lavori, prendi un’altra laurea, mescolati, ascolta, lavora in gruppo, fianco a fianco, zero ego e soprattutto salva vite.

Il Foglio, 22 maggio 2021)


Gaza, Israele e Hamas concordano il cessate il fuoco

Il gabinetto di sicurezza israeliano ha votato per accettare il cessate il fuoco. Hamas ha confermato che il cessate il fuoco con Israele è «simultaneo e reciproco» ed entra in vigore dalle 2 del mattino di venerdì.

di Davide Frattini

GERUSALEMME — Gli operai dell’azienda elettrica israeliana dicono di non voler riparare le linee che dal porto di Ashkelon vanno verso la Striscia, sono state danneggiate dai lanci di razzi palestinesi. In cambio della luce a Gaza chiedono che Hamas restituisca i resti di due soldati uccisi nella guerra di 7 anni fa e lasci andare un civile che dall’altra parte della barriera ci è andato di sua volontà. Neppure il governo di Benjamin Netanyahu ha posto queste condizioni. Una fonte anonima ha spiegato al New York Times che il ritorno di Adera Menghistu e dei corpi Hadar Goldin e Oron Shaul è previsto in trattative successive. Che non sono cominciate, neppure indirette attraverso i mediatori egiziani.
   Per ora quello che il consiglio di sicurezza, ristretto ad alcuni ministri, ha votato giovedì sera è un cessate il fuoco. I capi di Hamas confermano lo stop «reciproco e simultaneo». Il governo israeliano vuole la fine del bersagliamento sulle città — oltre 4400 tra razzi e colpi di mortaio in 11 giorni, quanti quelli sparati nei due mesi di confitto del 2014 —, che Hamas smetta di costruire tunnel verso i villaggi israeliani e fermi le proteste sul confine, compresi i lanci di aquiloni incendiari. È possibile che in futuro venga permesso l’ingresso di aiuti e materiali, soprattutto sia concesso il via libera alla ripresa delle erogazioni da parte del Qatar, centinaia di milioni di dollari in contati consegnati ai capi fondamentalisti dall’ambasciatore del piccolo emirato.
   Di fatto si torna alla situazione di prima. Prima della distruzione, dei 232 morti palestinesi e dei 12 israeliani. Con un avvertimento lanciato dal ministro Tzahi Hanegbi, da sempre molto vicino a Netanyahu: «Non accettiamo più la formula calma per la calma, adesso pretendiamo che Hamas rinunci a ricostruire gli arsenali, altrimenti riprenderemo gli attacchi». A Heiko Maas, il ministro degli Esteri tedesco, arrivato a Gerusalemme per premere a favore di una tregua, Netanyahu ha mostrato nel pomeriggio il drone armato di esplosivo e ha accusato i Pasdaran iraniani di averlo telepilotato dalla Siria dentro l’area di Beit Shean. È stato il primo segnale che il premier vuole riportare l’attenzione e la retorica bellica verso il nemico di sempre: gli ayatollah.
   È quello gli ricorda Yair Lapid, il capo dell’opposizione: «Non possiamo permetterci di ignorare il presidente Joe Biden. Avremo bisogno del sostegno americano di fronte a sfide più grandi di Gaza: il programma atomico e l’espansionismo iraniani». Dalla Casa Bianca il presidente parla degli sforzi fatti per raggiungere la calma, ringrazia l’Egitto e promette che continuerà a impegnarsi perché «israeliani e palestinesi possano vivere in sicurezza». Precisa che gli aiuti a Gaza arriveranno attraverso Abu Mazen e non Hamas. Già giovedì Biden aveva alzato la pressione — i portavoce di Netanyahu assicurano non la voce — e aveva chiesto una «riduzione da subito del conflitto verso una tregua». I bombardamenti dell’aviazione e i lanci di razzi dalla Striscia non sono diminuiti nella notte: come in passato, quando cominciano a circolare le voci di una possibile fine delle ostilità i due contendenti intensificano le operazioni per dimostrare di essere arrivati in fondo da vincitori.

(Corriere della Sera, 21 maggio 2021)


Israele e Hamas dopo 11 giorni scatta la tregua

Vince il negoziato per il cessate il fuoco condotto da Usa, Onu ed Egitto Prima dell'annuncio dell'accordo ancora scontri tra le due parti.

di Sharon Nizza

TEL AVIV - Israele e Hamas hanno concordato una tregua che è entrata in vigore alle due della notte e ha messo fine a undici giorni di conflitto. Una tregua che per ora ha più le sembianze di un cessate il fuoco umanitario che di un accordo di lungo periodo. Lo scopo chiaro è innanzitutto fermare le armi, mentre i parametri di una tregua duratura sono in discussione e richiederanno ancora giorni per essere definiti.
  A lavorare assiduamente all'obiettivo di fermare il fuoco, l'inviato dell'Onu Tor Wennesland, che dagli uffici di Gerusalemme è volato a Doha, in Qatar, per incontrare il leader di Hamas Ismail Haniyeh, nonché i mediatori egiziani e qatarioti che parlano di una trattativa più difficile rispetto a tutte le precedenti crisi. Jen Psaki, portavoce della Casa Bianca, riferisce di un colloquio «incoraggiante» tra il presidente Usa Joe Biden e l'omologo egiziano Abdel Fatah al-Sisi sul procedere della mediazione.
  I nodi principali riguardano quella che per entrambe le parti è la "linea rossa", Gerusalemme. Hamas ambirebbe a sollevare nelle trattative la questione di Sheikh Jarrah- il quartiere Est della città dove ci sono le case contese che sono all'origine della crisi - e dello status della moschea Al Aqsa, terzo luogo sacro dell'Islam. E domandare una partecipazione economica israeliana alla ricostruzione di Gaza, stimata intorno ai 320 milioni di dollari. Israele non intende mutare i parametri che finora hanno governato le crisi con Hamas ed estenderli al di fuori del perimetro dei 365 km quadrati della Striscia di Gaza.
  «Hamas sa benissimo che c'è un'asimmetria totale qui: l'esercito ha inferto un colpo durissimo alle organizzazioni terroristiche nella Striscia di Gaza», ci dice il generale Yaakov Amidror, già a capo della Sicurezza Nazionale israeliana. «Hamas non ha nessuna leva per esercitare pressioni su Israele. Se continua a insistere nel mischiare le due questioni, Israele è pronto a continuare a colpire gli obiettivi terroristici di Hamas». Il gabinetto di sicurezza israeliano giustifica il cessate il fuoco con dichiarazioni secondo cui «Israele ha ripristinato la deterrenza».
  Tutto questo mentre la spirale della violenza è ancora in corso. Per gli esperti militari sono le «ultime note dello spartito» con cui ognuna delle parti scrive la propria narrativa della vittoria. Nelle tesissime ore che si profilano in vista di una definizione dei passi successivi, il rischio che la situazione sfugga di mano rimane alto (nel conflitto del 2014 vi furono quattro cessate il fuoco in 51 giorni). L'aviazione israeliana ha continuato ieri a bombardare rampe di lancio, tunnel sotterranei e abitazioni dei leader di Hamas e della Jihad Islamica, mentre la situazione umanitaria a Gaza degenera, con oltre 60mila sfollati e un bilancio di 232 vittime, tra cui 65 minorenni, secondo i dati del ministero della Salute palestinese. Per l'Idf, almeno 160 tra le vittime sarebbero operativi di Hamas e della Jihad Islamica, che dall'inizio delle ostilità hanno sparato 4.340 razzi diretti alle città israeliane, provocando 12 morti, tra cui due minorenni.
  Netanyahu è combattuto tra la pressione incrociata della popolazione civile nel Sud del Paese, quella più colpita dai lanci di razzi negli anni, che chiede di portare avanti l'operazione «per mettere fine all'aggressione di Hamas» e quella della diplomazia internazionale, che dopo dieci giorni di bombardamenti senza precedenti, non concede più margine operativo al governo israeliano. La telefonata di Biden a Netanyahu mercoledì, in cui il leader americano ha chiesto un cessate il fuoco a stretto giro, sta producendo gli effetti desiderati. Arriva anche la notizia che Thomas Nides, già vicesegretario di Stato nell'era Obama, sarebbe il prossimo ambasciatore a Gerusalemme, carica rimasta vuota da mesi e che prefigura un rinnovo dell'impegno americano nell'area. L'Assemblea Generale dell'Onu è riunita in un dibattito infuocato «sulla situazione in Palestina». Netanyahu mostra ai ministri degli Esteri tedesco, ceco e slovacco in visita in Israele un drone made in Iran caduto nei giorni scorsi nel nord d'Israele: «La prova che senza il sostegno di Teheran, Hamas e Jihad Islamica collasserebbero in due settimane».
  E mentre la situazione di anarchia nelle città israeliane sembra stare tornando sotto controllo le unità di polizia di frontiera che erano state dislocate a Lod, Acri, Umm al Fahm si dispiegano nuovamente in Cisgiordania, dove il rischio di nuova tensione è alto. Il portavoce di Hamas per Gerusalemme, Mohammad Hamada, invita i palestinesi a presentarsi alla Moschea di Al Aqsa per la preghiera del venerdì e a unirsi per trasformare la "Spada di Al Quds" (il conflitto in corso) in una nuova Intifada.

(la Repubblica, 21 maggio 2021)


Dopo 11 giorni di guerra la svolta di Netanyahu: «Sì al cessate il fuoco»

Telefonata di Biden ad Al Sisi sblocca l'impasse Altri 300 razzi da Gaza, ma il premier si ferma

FRAGILE TREGUA
Lo stop alle ostilità in vigore dalle 2 del mattino I timori che non regga
TEL AVIV COL FIATO SOSPESO
Gli israeliani chiedono al premier di finire il lavoro Bibi sceglie di fermarsi

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Dopo undici giorni di scontro spietato, brutta come tutte le guerre, si è conclusa anche questa: ieri sera alle 10,30 il gabinetto di sicurezza di Israele, dopo tre ore di riunione ha stabilito che oggi ha inizio un cessate il fuoco. Non contiene condizioni, non prevede accordi. Come si dice da due giorni, l'atteggiamento di appoggio di Joe Biden si è consumato nel dissenso della sua parte politica e nelle manifestazioni antisraeliane di questi giorni, e Benjamin Netanyahu, costretto ad apprezzare tuttavia la costanza con cui per parecchi giorni Biden ha garantito l'appoggio al diritto all'autodifesa di Israele, adesso ha ceduto alla logica dei buoni rapporti con quello che resta pur sempre il suo migliore alleato. Biden a sua volta ha spinto il presidente egiziano al Sisi, con una rara telefonata, a gettare tutto il suo peso nell'arrivare al passo conquistato ieri sera. E adesso ci siamo, anche se non è affatto sicuro che le cose andranno bene.
   Hamas arriva al cessate il fuoco pompata di illusioni islamiste, convinta che la guerra, per quanto distrutta possa essere la Striscia, la rende il fiammeggiante vessillo della lotta antisraeliana in tutto il mondo che combatte la Guerra Santa contro l'Occidente e punta alla distruzione di Israele, come è scritto nella sua Carta. D'altra parte, è chiaro che Hamas in realtà ha ancora una volta, come nella guerra del 2014, ha usato la sua popolazione come una povera massa di ostaggi, usata con le sue case, le sue strutture pubbliche, la sua vita, per diventare il presidio labirintico di due milioni di persone che nascondono in realtà solo un disegno di guerra, spesso non loro, che è indispensabile distruggere per non esserne distrutti. Così, non c'è dubbio, Hamas ha perso: le sue case sono rovine, le sue armi sono distrutte, quasi tutta la leadership della Jihad Islamica è stata eliminata, quella di Hamas nascosta sotto terra o in fuga all'estero, impossibilitata a comunicare. La grande invenzione bellico-tecnologica delle gallerie sotterranee di Hamas è stata distrutta: solo domani, quando i capi potranno ispezionare il danno, vedranno che non esiste quasi più niente.
   La domanda adesso, per Israele, è se il prezzo pagato da Hamas è sufficiente per garantire ai cittadini disperati dello Stato ebraico di poter interrompere i giorni e le notte nei rifugi, la pratica di strappare i bambini dal letto per metterli al riparo, di correre all'ospedale.
   Ieri il finale è stato brutto, ancora pieno di sangue, esplosioni, rovine, per il Medioriente. Hamas ha bombardato furiosamente tutto il giorno. Ma ancora più brutto per il mondo intero, che non ha saputo fare altro che balbettare qualcosa di incerto sul diritto di autodifesa di Israele, senza andare al cuore dell'attacco terrorista che da 11 giorni impazza, privo di ragioni, parte del programma del delirio della sua Guerra Santa antisemita. La bandiera palestinese trasformata in simbolo di Hamas è diventata legittima mentre Hamas bombardava le case di Tel Aviv. Israele, sola, contentandosi del «diritto all'autodifesa», vuoto di condanne del terrorismo omicida di Hamas, ha seguitato a combattere per snidare i missili. In Israele almeno si è vista una delegazione di diplomatici europei, guidata dal ministro tedesco Heiko Maas, che ha visitato gli edifici colpiti dai mortai. Trasmesse dalla tv di Tel Aviv anche le immagini delle bandiere israeliane sventolate dal gruppo della Lega a Montecitorio.
   Se Israele è riuscito a distruggere abbastanza delle armi e a eliminare i responsabili di Hamas, lo vedremo nelle prossime settimane. La situazione è delicata, difficile fare previsioni. La TFV israeliana chiede alla gente di restare vicino ai rifugi. Non è una festa di pace. È un obbligo, una necessità. Hamas ha speso la giornata, alla vigilia della tregua difficile e fragile, a gonfiare le penne lanciando 300 missili su tutto il Sud d'Israele dopo otto ore di intervallo, ha preso di mira le zone vicine coi missili più piccoli per lasciarsi i migliori per le ultime ore. Kipat Barzel, il sistema antimissile, ha sventato centinaia di morti.
   Israele ha dimostrato grandi capacità di colpire, e di colpire nei posti giusti e nel momento giusto: tecnicamente ha vinto. Adesso occorre una strategia che la costringa a tenere il capo basso.
   La responsabilità è anche adesso del mondo occidentale. La verità è che la doverosa presa di posizione per cui Israele ha «diritto all'autodifesa» è stata venata di un'ambiguità che si nota bene nel momento in cui, mentre i missili continuano a piovere, tale diritto non è stato più sostenuto. La gente d'Israele colpita, ha insistito lo stesso fino all'ultimo davanti alle rovine: non smettere, diceva a Netanyahu, finché le garanzie di silenzio non siano di lunga durata. Siamo pronti a sacrifici, ma non torniamo allo status quo concesso in questi anni permettendo l'ingresso di denaro e beni destinati a scopi umanitari e poi utilizzati da Hamas per costruire la sua sofisticata potenza militare.
   Israele nonostante la pura aggressione d'odio e distruzione ricevuta ha accettato di nuovo la moderazione. Senza scortesie né a Biden né agli europei, seguiterà a usare il suo «sproporzionato» sistema di difesa. Sproporzionato davvero: dura da migliaia di anni.

(il Giornale, 21 maggio 2021)


Da Israele via libera al cessate il fuoco con Hamas

Dopo 11 giorni di raid su Gaza e 4 mila razzi sulle città israeliane, l'intesa c'è ma incerta.

di Michele Giorgio

GERUSALEMME Si è chiusa ieri sera con un via libera unanime al cessate il fuoco con Hamas la riunione del gabinetto di sicurezza israeliano. Lo ha annunciato il Jerusalem Post aggiungendo che i punti dell'intesa mediata dall'Egitto sarebbero stati definiti nel corso della notte. Si sono rincorse per tutta la serata le indiscrezioni sulla disponibilità data da Israele ai mediatori egiziani per un cessate il fuoco unilaterale. Mentre Tom Wennesland, l'inviato Onu per il Medio Oriente, è andato in Qatar per strappare il sì alla tregua dei dirigenti di Hamas, tra cui Ismail Haniyeh, che vivono a Doha.
   Che morte e distruzione stiano per avere fine dopo oltre dieci giorni, è tutto da dimostrare. Il quadro è fluido e incerto. Alle Nazioni Unite il ministro degli Esteri palestinese Riad al Malki e l'ambasciatore israeliano Gilad Erdan si sono scambiati accuse durissime, anche di genocidio. Poco dopo è intervenuta anche l'ambasciatrice americana Linda Thomas-Greenfield. «Non siamo stati in silenzio. Non credo ci sia un Paese che lavori più urgentemente e con fervore degli Stati uniti per la pace tra israeliani e palestinesi», ha detto in risposta a chi ha accusato Washington di aver avallato l'offensiva militare israeliana contro Gaza.
   Il gabinetto di sicurezza israeliano, presieduto dal premier Netanyahu, si era riunito alle 18 locali sotto l'onda delle pressioni giunte da più parti, dagli Usa all'Onu, dall'Unione europea alle agenzie umanitarie. Mentre i raid aerei su Gaza proseguivano seppur con minore intensità. E così i lanci di razzi - circa 300 (in totale oltre 4000 dal 10 maggio) - di Hamas e dei suoi alleati verso le città adiacenti a Gaza e del sud di Israele. La sirena dell'allarme ha riecheggiato più volte durante tutto il giorno. Decine di migliaia di persone ad Ashkelon, Ashdod, Sderot e nel Negev hanno dovuto trascorrere ore nei rifugi. A Beer Sheva nella zona industriale è stato centrato un edificio ma senza feriti.
   Secondo le previsioni che si facevano ieri, gli egiziani avrebbero comunicato nel corso della notte l'ora in cui oggi dovrebbe scattare il cessate il fuoco. Non c'è certezza che le cose andranno nella direzione auspicata da molti nonostante l'annuncio del cessate il fuoco. Netanyahu — che ha incontrato il ministro degli esteri tedesco Maas - e il ministro della difesa Benny Gantz ieri mattina insistevano ancora per intensificare le operazioni militari. A spingere per il cessate il fuoco è stato invece il leader dell'opposizione, il centrista Yair Lapid, a cui il capo dello stato Rivlin ha affidato l'incarico di formare il nuovo governo. Lapid ha avvertito che Israele non poteva ignorare l'appello di Joe Biden per una tregua immediata. «Il presidente Usa - ha spiegato - vuole una fine delle operazioni dopo 11 giorni, quando l'esercito ha già raggiunto i suoi obiettivi. Israele non può ignorare questa richiesta». Contro la fine dell'attacco a Gaza è schierata la maggioranza dei cittadini di Israele. Un sondaggio citato dalla tv Channel 12, rivela che il 72% degli intervistati vuole che la guerra ad Hamas continui. Solo il 24% ritiene che Israele «debba concordare» un cessate il fuoco. Il 66% delle persone interpellate pensa che l'esercito israeliano abbia ottenuto importanti risultati con la sua campagna di attacchi aerei.
   Non mancano voci che chiedono che Israele cessi unilateralmente le operazioni senza giungere a una tregua, per lasciarsi la possibilità di tornare a colpire in futuro senza dover violare accordi. Una situazione di totale incertezza in cui la ripresa dello scontro sarebbe inevitabile in breve tempo.
   I raid aerei ieri hanno ucciso altri due palestinesi di Gaza a bordo di auto e ferito almeno altri quattro. Per Israele erano miliziani armati. Il primo attacco è avvenuto a Jabalya nel nord della Striscia, il secondo a Beit Hanoun nel nord est. Israele afferma di aver colpito la cellula di Hamas che qualche ora prima aveva sparato un razzo anticarro Komet contro un bus militare israeliano ferendo un soldato. E ha centrato, sempre secondo la versione dell'esercito, le imboccature di due tunnel di Hamas.
   Intanto aumentano gli sfollati. Sono 75mila le persone in fuga dai bombardamenti israeliani, avvertono le Nazioni unite. Di questi, circa 47.000 sono stati accolti in 58 scuole gestite dall'Unrwa, l'agenzia dell'Onu per i profughi palestinesi, mentre altri 28.700 sono stati accolti in case private. L'Onu e le ong internazionali premono per ottenere corridoi umanitari ma Israele continua ad aprire a intermittenza i valichi con Gaza anche, spiega, a causa dei lanci di razzi. Un team di Medici senza frontiere (Msf) si è visto negare l'autorizzazione a entrare e non ha potuto consegnare materiali e attrezzature destinati al vacillante sistema sanitario palestinese.

(il manifesto, 21 maggio 2021)


Cessate il fuoco

Molti più razzi di Hamas e più civili israeliani morti che nelle guerre di Gaza precedenti

di Daniele Raineri

ROMA - Israele e Hamas accettano il cessate il fuoco a partire da venerdì. Hamas e gli altri gruppi armati di Gaza (sono almeno sedici) sono riusciti a lanciare più razzi contro le città israeliane in undici giorni che in ciascuna delle tre guerre precedenti. Durante l’ultimo conflitto nel 2014 avevano lanciato più di 3.300 razzi in quarantadue giorni, questa volta ne hanno lanciati più di 4.400 in un quarto del tempo. Il sistema di difesa israeliano Iron Dome non aveva mai dovuto intercettare così tanti razzi, più di millequattrocento contro i meno di seicento della guerra precedente che come abbiamo visto era stata più lunga. I sensori automatizzati delle batterie Iron Dome sono la fonte di questi dati, perché per intercettare in volo i razzi palestinesi prima li individuano e li contano.
   Non erano mai morti così tanti civili israeliani; dodici. Il numero dei palestinesi uccisi nei bombardamenti è di 230, un decimo rispetto alla guerra precedente che aveva visto 2.300 morti dentro la Striscia di Gaza. Non è possibile per ora disaggregare il numero dei civili uccisi da quello dei combattenti di Hamas uccisi perché il gruppo armato esercita un controllo strettissimo su questo genere di informazioni e su tutte le informazioni che escono da Gaza. Non circolano foto di combattenti colpiti, ma soltanto di civili. Non circolano foto di bersagli militari colpiti, come tunnel, rampe di lancio o centri di comando, ma soltanto fotografie di edifici civili colpiti. L’idea alla base della campagna di Hamas è massimizzare lo scandalo globale per i palestinesi uccisi e ridurre di molto l’impronta del gruppo armato nei media. Fonti di Israele hanno dichiarato in questi giorni di avere ucciso leader di spicco e di avere colpito infrastrutture importanti come la cosiddetta “metro”, il sistema di gallerie di Hamas nel nord della Striscia, ma il gruppo non ha mai menzionato i leader uccisi o nessun altra perdita. Secondo il ministero della Sanità di Gaza, controllato da Hamas, il numero dei bambini uccisi è di 58.
   Due giorni fa Abu Marzouq, uno dei leader del gruppo Hamas che si trova al sicuro a Doha nel Qatar ed è a conoscenza dei negoziati mediati dall’intelligence egiziana, ha detto che le condizioni per il cessate il fuoco non menzionano Sheikh Jarrah, il quartiere di Gerusalemme est dove otto famiglie palestinesi potrebbero essere espropriate e che è all’origine di questa escalation. La tregua non cita nemmeno Gerusalemme, che però dava il nome alla campagna di Hamas, battezzata “Battaglia della Spada di Gerusalemme”. E’ possibile che le condizioni siano identiche a quelle delle tregue precedenti, vale a dire il cosiddetto “calma in cambio di calma”, zero lanci di razzi in cambio di zero raid aerei israeliani. Se fosse così, è la conferma che questi undici giorni di conflitto e le centinaia di morti non hanno migliorato le condizioni dei palestinesi, come si sapeva fin dall’inizio.
   Un numero enorme di razzi di Hamas è caduto dentro la Striscia di Gaza per colpa di malfunzionamenti e secondo fonti israeliane – i dati sono sempre del sistema Iron Dome, che segue le traiettorie di tutti i razzi per decidere quali abbattere e con quale priorità – sono seicentoquaranta e hanno ucciso almeno venti palestinesi. Le bombe di Hamas hanno ucciso direttamente più palestinesi che israeliani.
   Questo volume di fuoco da parte di Hamas, che prende finanziamenti e armi dall’Iran, per saturare e bucare il sistema di difesa di Israele è anche un gigantesco test militare a vantaggio di Hezbollah, un altro gruppo sponsorizzato dall’Iran ma molto più forte, meglio equipaggiato e attestato sul confine nord. Questo spiega perché l’11 maggio abbiamo visto centotrenta razzi quasi tutti assieme arrivare su Tel Aviv: non era mai successo prima. Dai dati pubblici si vede che il sistema di difesa fa un lavoro egregio ma non è impenetrabile al cento per cento per i razzi.

Il Foglio, 21 maggio 2021)


Israele – Palestina: il cessate il fuoco fallimentare dei falliti

Un cessate il fuoco arriverà, e però facilmente sarà il preludio a una nuova guerra di logoramento a bassa intensità, sarà un cessate il fuoco fallimentare realizzato da soggetti 'falliti': Israele, l'Autorità Palestinese, Gaza e Hamas, i cittadini palestinesi di Israele, Gerusalemme e la religione.

di Gabriella Peretto

20 maggio 2021 - Si sta procrastinando di ora in ora il cessate il fuoco tra Israele e Hamas. Ieri Hamas aveva ipotizzato potesse partire oggi. Oggi, ‘Walla‘, richiamando fonti israeliane, sostiene che «un possibile cessate il fuoco con Gaza potrebbe essere raggiunto nelle prossime 24 ore». Ipotesi confermata anche da Hamas attraverso ‘CNN‘, sottolineando il «sostegno dei nostri fratelli egiziani e del Qatar». E’ il gioco della ridda di voci, sussurri, e trattative. Poi il cessate il fuoco arriverà. Per quanto a nessuno dei due contendenti al momento sembri interessare per davvero. Non interessa al Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, e lo ha detto chiaramente, non ha detto, certo, che per lui ogni giorno di guerra è un giorno di speranza per la sua salvezza politica. Non interessa ad Hamas, il cui arsenale evidentemente ancora non ‘piange’. Non interessa ai due belligeranti presi insieme per lo stesso motivo: la reputazione di duro, ciascuno dei due deve apparire più duro della controparte. Un cessate il fuoco al momento interessa solo a Joe Biden, la cui assenza dalla scena palestinese si è notata pesantemente e ora cerca di correre ai ripari, e a qualche altra capitale occidentale, preoccupata dell’opinione pubblica e soprattutto di provare a salvare lo status quo. Interesserebbe, alla popolazione, ma come in ogni guerra, quella è l’ultimo degli elementi presi in considerazione dai belligeranti.
   Alla fine un cessate il fuoco arriverà, ma il problema è che facilmente sarà il preludio a una nuova guerra di logoramento a bassa intensità, come afferma Anthony H. Cordesman, analista strategico del Center for Strategic and International Studies (CSIS). Sarà un cessate il fuoco fallimentare realizzato da soggetti ‘falliti‘, avverte Cordesman. E la ragione di fondo è molto semplice: non ci sono le condizioni storico-politiche per l’unica soluzione possibile: due Stati. «L’idea che una soluzione a due Stati -la creazione di un Paese effettivo e vitale chiamato Palestina, insieme a un Israele fisicamente sicuro- sia l’unico modo per risolvere finalmente questo conflitto molto lungo e sanguinoso può sembrare ovvia. Ma vale la pena ribadirlo perché è una verità che tutti i leader chiave -in Israele, negli Stati Uniti, nell’Autorità Palestinese (AP) e nel mondo arabo in generale- hanno recentemente dimenticato o semplicemente ignorato», afferma Jonathan Tepperman dalle pagine di ‘Foreign Policy‘. Come hanno dimostrato Paesi l’Irlanda piuttosto che l’India, «il desiderio di autodeterminazione nazionale non può essere ignorato o soppresso per sempre, non importa quanto le potenze dominanti possano tentare di farlo». Ora siamo nella fase in cui questa aspirazione ha probabilmente raggiunto il culmine e però a breve «nessuna delle due parti ha la capacità o è in vena di concludere un simile accordo in questo momento». Ecco perché il dopo cessate il fuoco sarà probabilmente quella che viene definita una ‘guerra a bassa intensità’, più o meno quella che hanno vissuto fino ad ora i palestinesi.
   La speranza di una ‘soluzione a due Stati’, afferma Cordesman, ha prodotto, nel tempo, «cinque aree chiave di tensione e conflitto israelo-palestinese che sono diventate l’equivalente di cinque ‘Stati falliti». «Ognuna è una delle principali fonti di divisione e tensione che sembra probabile che bloccherà indefinitamente nel futuro qualsiasi accordo funzionale duraturo tra ebrei israeliani e palestinesi».

 Il primo ‘Stato fallito‘ è Israele,
  Israele è fallimento per non essere riuscito dare ai palestinesi «l’equità e gli aiuti che potrebbero portare stabilità e compromessi su qualcosa di equivalente a una soluzione a due Stati. La politica israeliana è passata da una democrazia efficace a qualcosa che comincia ad avvicinarsi a un ‘caos-crazia‘, concentrandosi sempre di più sull’annessione opportunistica e sulle forze di sicurezza scelte e sull’uso della forza nel processo di pace».
   «Il potere economico di Israele è grande quanto il suo potere militare, e in qualche misura ha abusato di questa forza nel trattare con i palestinesi. La versione online del ‘CIA World Factbook‘ stimava nel maggio 2021 che Israele avesse un PIL reale di 363 miliardi di dollari nel 2019; un PIL di 395 miliardi di dollari al tasso di cambio ufficiale; e un PIL pro capite di 40.195 dollari. Al contrario, ha stimato che la Cisgiordania palestinese -molto più ricca di Gaza- avesse un PIL reale inferiore a 30 miliardi di dollari nel 2019; un PIL di 395 miliardi di dollari al tasso di cambio ufficiale; e un PIL pro capite di 6.318 di dollari -solo il 16% di quello di Israele.
  I dati demografici sono un’altra ‘arma’. La popolazione ebraica di Israele domina chiaramente Israele vero e proprio. Per mettere in prospettiva i dati demografici coinvolti, l’attuale sezione ‘CIA World Factbook‘ su Israele stima che la popolazione totale di Israele, le alture del Golan o sottodistretto del Golan e Gerusalemme Est (che è stata annessa da Israele dopo il 1967) sarà 8.787.045 a metà 2021. Cita una stima del 2018 secondo cui questa popolazione è il 74,4% ebrea, il 20,9% araba e il 4,7% altra. Si stima che le loro credenze religiose siano il 74,3% ebraiche, il 17,8% musulmane, l’1,9% cristiano, l’1,9%, l’1,6% drusi, l’1,6% e il 4,4% altro.
  Questa popolazione ebraica beneficia dei successi economici di Israele e del suo status di Stato più sviluppato nella regione MENA. Israele è un grande successo economico ed è uno degli Stati più urbanizzati del mondo: 92,7%. Tuttavia, il progresso di Israele ha costantemente ampliato gli standard di vita degli ebrei israeliani senza fornire miglioramenti corrispondenti negli standard di vita dei cittadini palestinesi di Israele, tanto meno quelli della Cisgiordania e di Gaza.
   La discriminazione sul lavoro e la disoccupazione palestinese in Israele, Cisgiordania e Gaza sono un problema pratico molto più critico per la maggior parte dei palestinesi rispetto alla conquista dello Stato, specialmente per una popolazione palestinese molto giovane che ha disperatamente bisogno di opportunità di lavoro. Mentre la violenza palestinese è una scusa parziale, Israele ha fatto relativamente poco per migliorare gli standard di vita dei palestinesi nelle aree dell’Autorità Palestinese in Cisgiordania, e ancor meno per fermare il costante declino dei redditi e delle condizioni di vita a Gaza. Ha anche creato grossi problemi economici, di viaggio, di flusso di aiuti, di entrate e di importazione, sebbene anche la corruzione palestinese e il cattivo governo siano stati fattori importanti.
   Allo stesso tempo, la politica israeliana e le profonde divisioni politiche hanno portato a un costante cambiamento negli atteggiamenti ebraici israeliani, portandoli lontano dal sostegno alla soluzione dei due Stati Hanno favorito un costante aumento di quello che potrebbe essere chiamato nazionalismo ebraico, nel sequestro della proprietà occupata dai palestinesi , negli sforzi per trasformare Israele in uno Stato ebraico a spese dei palestinesi, e in una pressione politica più dura per espandere i diritti degli ebrei in aree come l’area del Monte del Tempio e per condurre manifestazioni pubbliche apertamente ostili.
   Israele ha chiaramente adottato politiche che spostano i fatti sul campo a favore della sua popolazione ebraica sia in Israele vera e propria -in particolare Gerusalemme Est e le aree palestinesi vicino alla città vecchia – sia in Cisgiordania. Le stime differiscono, ma uno studio della CIA nel 2017 ha rilevato che c’erano 380 siti civili israeliani nelle aree palestinesi in Cisgiordania nel 2017, inclusi circa 213 insediamenti e 132 piccole comunità di avamposti in Cisgiordania e 35 siti a Gerusalemme est.
   La CIA stima inoltre che circa 418.600 coloni israeliani vivessero in Cisgiordania entro il 2018; che 215.900 coloni israeliani vivevano a Gerusalemme Est entro il 2017. Questi numeri sono costantemente aumentati da allora, e la CIA stima che la popolazione totale della Cisgiordania (ebraica e araba) fosse solo di 2,95 milioni nel 2021».

 Il secondo ‘Stato fallito‘ è l’Autorità Palestinese
  L'Autorità Palestinese «si è dimostrata altrettanto riluttante a scendere a compromessi, ha cercato di usare la violenza quando aveva poche possibilità di successo e non è riuscita a fornire la leadership e il governo di cui il suo popolo ha bisogno. Sebbene l’Autorità Palestinese e Fatah abbiano molti funzionari e voci competenti e onesti, troppa di questa leadership è debole, invecchiata, corrotta e incompetente. Non avanza più con alcuna autorità e non può raggiungere una popolazione molto giovane e spesso disoccupata sotto i trent’anni».
  «L’Autorità Palestinese svolge ancora molte delle funzioni di uno Stato a pieno titolo in circa il 40% della Cisgiordania, sebbene abbia perso il controllo di Gaza a favore di Hamas nel 2006-2007. L’Autorità Palestinese sostiene formalmente una soluzione a due Stati, sebbene non abbia mai raggiunto un compromesso significativo con Israele sul territorio e condividendo Gerusalemme come capitale, ed è diventata costantemente più corrotta e incompetente.
  Le forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese sono, tuttavia, un’eccezione parziale e spesso hanno lavorato bene con le forze di sicurezza israeliane prima dell’attuale ondata di violenza, proteggendo nel frattempo l’accesso della Cisgiordania agli aiuti, al commercio e ai posti di lavoro in Israele. Secondo l’edizione 2021 del Bilancio Militare IISS, erano divisi in una forza di sicurezza presidenziale da 3.000 persone; 1.200 forze speciali; 10.000 forze di sicurezza nazionale(9 battaglioni); 4.000 forze di sicurezza preventive; 1.000 forze di protezione civile più una forza politica di Fatah delle brigate di Al-Aqsa».
   «L’Autorità Palestinese governa la maggioranza dei palestinesi che non sono cittadini israeliani in Israele vero e proprio. Anche in questo caso, le stime differiscono, ma la CIA e l’Israel Central Statistics Bureau stimano che la popolazione araba palestinese collettiva totale di Israele, Cisgiordania e Striscia di Gaza fosse di circa 5,79 milioni di persone nel 2017. Circa 2,16 milioni di arabi vivevano in Cisgiordania, 1,84 milioni di arabi vivevano in Israele e 1,79 milioni di arabi vivevano nella Striscia di Gaza.
   La popolazione palestinese è molto giovane per gli standard internazionali e cresce in tempi relativamente brevi. L’US Census Bureau stima che la popolazione in Cisgiordania sia passata da circa 690.000 nel 1970 a 1.250.000 nel 2000 a 252.000 nel 2010. Si stima che la popolazione a Gaza sia passata da circa 340.000 nel 1970 a 1.130.000 nel 2000 a 1.600.000 nel 2010. Questi aumenti hanno trasformato una popolazione in gran parte agricola in una popolazione urbana che ha molto meno successo economico e opportunità di lavoro rispetto agli ebrei israeliani e che agisce come una pressione costante aumentando la tensione tra ebrei e arabi -e una che può solo peggiorare come risultato del i combattimenti in corso e l’impatto del Covid-19.
   La popolazione palestinese in Cisgiordania ha sofferto di un governo povero ed egoista; Sostegno israeliano agli insediamenti e all’annessione; Procedure di sicurezza israeliane che influenzano il movimento e l’occupazione palestinesi; e tutti i cicli di violenza dalla conquista israeliana di Gerusalemme e della Cisgiordania nel 1967. Tuttavia, la popolazione palestinese in Cisgiordania ha perso notevolmente meno della popolazione palestinese a Gaza.
   Uno studio della Banca mondiale nell’aprile 2021 ha rilevato che il tasso di disoccupazione in Cisgiordania e Gaza era al 23,4% alla fine del quarto trimestre del 2020. A Gaza, era al 43%, mentre la Cisgiordania ha registrato un tasso di solo 15 %. Circa il 22% dei palestinesi in Cisgiordania e Gaza viveva al di sotto della soglia di povertà del reddito medio-alto nel 2016/17. Al contrario, il 46% della popolazione di Gaza era al di sotto della soglia di povertà nel 2016/17 e solo il 9% in Cisgiordania».
  «Questi fattori materiali interagiscono con tutte le questioni storiche, religiose e politiche che dividevano i palestinesi da Israele. Una parte considerevole di questi problemi è colpa del fallimento della leadership palestinese, ma non c’è dubbio che Israele abbia compiuto solo sforzi limitati per migliorare la situazione, ed è improbabile che i palestinesi che vivono in queste condizioni siano obiettivi nel giudicare il grado di responsabilità di Israele».
  «È improbabile che un cessate il fuoco o una soluzione al conflitto in corso porti una stabilità duratura senza un governo migliore e una leadership più dinamica e competente e senza gli sforzi del governo israeliano per limitare le provocazioni da parte dei gruppi israeliani anti-palestinesi».

 Il terzo ‘Stato’ fallito è Gaza e Hamas
  Gaza è il centro degli attuali combattimenti. Ora fa parte solo nominalmente dell’Autorità Palestinese, in competizione diretta con Fatah».
   «Il Bilancio militare IISS per il 2021 stima che la forza di Hamas fosse composta da circa 15.000-20.000 persone nelle sue Brigate Izz al-Din al-Qassam. Aveva un 6 ° brigata sedi regionali; 1 unità commando Nukhba; 27 battaglioni paramilitari; 100 compagnie paramilitari; alcune unità ingegneristiche e logistiche; e 600 polizia marittima. Non era equipaggiato con armi pesanti, ma acquisì o assemblò circa 10.000 razzi; aveva un vasto assortimento di mortai; e le armi anticarro a guida leggera russa 9K11 Malyutka (AT-3 Sagger ) e Dehlavieh ( Kornet )».
   «Hamas è in una certa misura una ferita palestinese autoinflitta. Da tempo si è concentrato sulla lotta politica, l’ideologia e la preparazione al conflitto con Israele a scapito dello sviluppo. I suoi spostamenti verso un accordo politico sia con Fatah che con Israele sembrano essere stati più politici che reali. Ciò ha portato a una lunga lista di problemi nel finanziamento del governo e nell’ottenere aiuti, e Gaza è stata soggetta a molte restrizioni israeliane, statunitensi ed egiziane a causa della sua violenza e del rafforzamento militare». Gaza ha sofferto molto di più della Cisgiordania o dei cittadini palestinesi di Israele. In una certa misura è un enorme campo profughi ammassato in un’area grande circa il doppio del Distretto di Columbia. Alcuni rapporti indicano che la sua popolazione è così giovane che quasi la metà sono bambini, che il 95% non ha accesso all’acqua pulita e che le forniture di elettricità sono limitate e irregolari. Ha un tasso di disoccupazione eccezionalmente alto -43% Gaza- e quasi la metà della popolazione dipende almeno da qualche forma di aiuto internazionale.
   «Il problema pratico per il futuro è che non ci sono prove chiare che un nuovo cessate il fuoco cambierebbe il comportamento di Hamas in modo duraturo, indipendentemente da qualsiasi dichiarazione contraria, o condurrebbe a qualche tipo di cambiamento economico globale e sviluppo in grado di soddisfare le esigenze della sua gente».

 Il quarto ‘Stato‘ fallito sono i cittadini palestinesi di Israele
  «Ancora una volta, le stime differiscono, ma l’ Ufficio centrale di statistica israeliano ha stimato che la popolazione palestinese di Israele era 1.890.000 nel 2019, pari al 20,95% della popolazione del Paese. Il numero esatto di palestinesi che si qualificano come cittadini a pieno titolo di Israele come cittadini non è chiaro, ma rappresentano un blocco importante in qualsiasi potenziale accordo di pace o nelle tensioni politiche palestinesi con Israele.
   Questi cittadini palestinesi non hanno fatto alcun tentativo di creare il proprio approccio al governo nazionale o una struttura politica importante, e ci sono poche prospettive che potrebbero guadagnare in tal modo o che un tale sforzo sarebbe tollerato da Israele. Tuttavia, hanno generalmente mantenuto un’identità palestinese – piuttosto che etichettarsi come israeliani – e hanno sviluppato più coesione politica e coordinamento nel tempo.
   A differenza di Gaza e della Cisgiordania, non hanno creato alcuna seria resistenza violenta a Israele, sebbene ci siano stati molti incidenti individuali nel corso degli anni. C’è stato, tuttavia, un grado significativo di separazione, con i palestinesi che vivono nelle proprie comunità e sezioni di aree urbane, in parte per motivi di affinità e in parte per motivi economici e di sicurezza. È più conveniente e le reti sociali funzionano molto meglio nelle aree palestinesi, anche se a volte queste possono essere ulteriormente separate in aree cristiane e musulmane, nonché per setta. Alcuni altri elementi -i beduini della Galilea, i beduini del Negev e i drusi- tendono a identificarsi più come israeliani rispetto ad altri cittadini arabi di Israele.
   Allo stesso tempo, i cittadini palestinesi di Israele presentano un blocco separato, e questo solleva questioni separate di qualsiasi tipo di pace duratura. In genere hanno avuto molti dei vantaggi della piena cittadinanza israeliana, ma sono presi di mira dalla sicurezza israeliana e non hanno avuto molti vantaggi chiave che causino tensioni tra loro e Israele.

 Il quinto ‘Stato‘ fallito sono Gerusalemme e la religione
  «Come i cittadini palestinesi di Israele, le divisioni religiose che dividono ebrei israeliani e palestinesi sono molto meno ‘statali‘ rispetto alle questioni che riguardano Israele, Cisgiordania e Gaza. Allo stesso tempo, la contesa religiosa su qualsiasi diritto palestinese di una capitale a Gerusalemme, sulla divisione delle aree vicine della città vecchia e su altre aree religiose sensibili al controllo ebraico o palestinese è stata una barriera chiave a qualsiasi accordo di pace ed è stata una delle cause principali dell’ultima esplosione di violenza.
   Nessuno che abbia studiato la storia recente delle divisioni religiose sul controllo di Gerusalemme e dei luoghi santi della zona o che abbia assistito al tipo di manifestazioni e violenze che possono verificarsi improvvisamente a Gerusalemme può ignorare la tragica storia della rabbia religiosa, della violenza, e la competizione per controllare i santuari di Israele. In un certo senso anche la minuscola area della Moschea di Al Aqsa (Haram esh-Sharif) o del Monte del Tempio è stata una causa di violenza tanto grave quanto le divisioni sul resto della Cisgiordania o su Gaza».
   In questi cinque fallimenti si evidenziano bene le ragioni per cui quel che al momento il cessate il fuoco prospetta altro non è che il proseguimento del conflitto che abbiamo visto negli scorsi decenni, con la prospettiva che possa essere peggiore di quello del passato. Per quanto triste possa essere dirlo, conclude Anthony H. Cordesman, «i cinque‘stati‘ falliti possono bloccare il progresso reale, non importa quanta retorica e dichiarazioni di buone intenzioni ciascuna parte e la comunità internazionale inseriscano nel processo». Dunque,«la soluzione ‘nessuna soluzione‘ sembra essere l’esito più probabile nel mondo reale dell’attuale tragedia violenta».

(L'Indro, 20 maggio 2021)


Finalmente a qualcuno viene il sospetto che la soluzione del problema mediorientale sia "nessuna soluzione", cioè che il problema sia irresolubile. E' quello che sul nostro sito si sostiene da anni. In diversi momenti abbiamo scritto che il problema "Israele" nei suoi rapporti coi vicini è un problema di verità, non di modalità, riguarda il what non il know how. Le domande sono del tipo "è vero che...? e non "come si fa a...?" Riportiamo di seguito un estratto da un articolo del 2004.


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Il problema della verità

di Marcello Cicchese

Luglio 2004 - Qualche mese fa ho partecipato a un convegno sul tema del Medio Oriente organizzato da un'associazione cattolica. Per l'occasione avevano invitato un venerando ebreo francese, il quale, nello stile ecumenico tipico di questi incontri, aveva insistito molto sull'importanza di volersi bene, di come sarebbe bello se i popoli vivessero in pace fra di loro e andassero sempre d'amore e d'accordo. Bei richiami ai buoni sentimenti, che certo fanno piacere in un mondo in cui si vede in giro tanta violenza e tanto odio, ma che tuttavia lasciano nella mente molte domande. Verso la fine del discorso finalmente l'oratore ha detto qualcosa: «Se Dio vuole che ebrei e arabi si dividano quella terra, dobbiamo lavorare perché questo avvenga".
   Al momento delle domande ho fatto la mia: "Come fa a sapere che è volontà di Dio che ebrei e arabi si dividano quella terra? Glielo ha rivelato Dio in persona? Sta scritto nella Bibbia? A me non risulta.» Nessuna risposta.
   A molti non piace che il problema sia posto in questi termini perché - dicono - è proprio questa pretesa di verità che spinge le parti a litigare fra loro. Gli uni dicono che Dio ha dato la terra agli ebrei, gli altri che Allah l'ha data ai musulmani, e così si scannano fra loro. Bisogna essere ragionevoli e dialogare, cercare di arrivare a un accordo.
   Chi è convinto della giustezza di questo modo di procedere deve allora avere il coraggio di dichiarare la sua verità: "Non c'è nessun Dio che ha parlato, nessun Dio che ha espresso la sua volontà su quella terra. Siamo noi uomini che possiamo e dobbiamo decidere come vogliamo regolare tra noi i nostri rapporti". E' questa la verità? La si dica allora, la si esprima con chiarezza attraverso una dichiarazione esplicita. Così un giorno potrà essere falsificata, cioè riconosciuta come falsa.
   Perché soltanto le proposizioni linguistiche possono essere falsificate, gli esperimenti pratici no. Si può continuare a ripetere tentativi di soluzione del problema mediorientale attraverso accordi di pace e non riuscirci mai, ma essere comunque convinti che prima o poi si troverà una soluzione. E se fosse vera la proposizione: "Non è possibile trovare una soluzione pacifica in Medio Oriente che divida in due parti quella terra contesa?" Come se ne accorgerebbero i volenterosi sperimentatori? Il problema mediorientale è come la quadratura del cerchio: si può passare una vita a tentare di costruire con riga e compasso un quadrato di area equivalente a un cerchio dato e non riuscirci mai, eppure essere convinti che prima o poi un tentativo riuscirà. Come si potrà far capire al testardo sperimentatore che i suoi sforzi sono destinati all'insuccesso? C'è un solo modo: sottoponendogli una dimostrazione teorica dell'impossibilità logica di ottenere il risultato voluto per quella via. Se non vorrà leggere la dimostrazione, se rifiuterà di impossessarsi degli strumenti culturali necessari per capirla, sarà condannato a ripetere i suoi tentativi per tutta la vita e a rimanere sempre deluso.
   Se un problema è risolubile, si può sperare di trovarne prima o poi la soluzione, magari per vie traverse, con po' di fortuna e fantasia. Ma se un problema è irresolubile, per convincersene non c'è che un modo: leggere una dimostrazione teorica della sua irresolubilità.
   Bene, nella Bibbia è scritta la dimostrazione dell'irresolubilità del problema mediorientale con mezzi umani. E impossibile ottenere la pace in quella martoriata regione manovrando la riga ebraica e il compasso arabo. C'è di mezzo qualcosa di trascendente, come nel caso del famoso pi greco.
   Ed è qui che interviene l'ONU, il quale dice: il trascendente sono io. Sono io che con i miei strumenti sovranazionali, come la Corte Internazionale di Giustizia dell'Aia, ho la possibilità di quadrare il cerchio del problema mediorientale. Israeliani e palestinesi non possono da soli raggiungere quello scopo.
   A questo punto il problema si aggrava, perché il male da umano diventa diabolico, come accade tutte le volte che un'istituzione umana si arroga il diritto di risolvere un problema la cui soluzione Dio ha riservato a Sé. Nella sua origine, nella sua struttura e nelle sue intenzioni, l'ONU è un ente di natura diabolica, come tutti gli enti e i personaggi che hanno avuto la pretesa di risolvere alla radice i problemi del mondo.
   Ecco perché si accanisce contro Israele. Sarebbe strano che non fosse così. Basti pensare al fatto che davanti alla sede dell'ONU a New York c'è una statua che raffigura un fabbro nell'atto di trasformare una spada in una lama d'aratro. Sul basamento è inciso un versetto del profeta Isaia:
    "Essi trasformeranno le loro spade in vomeri e le loro lance in falci; una nazione non alzerà più la spada contro un'altra, e non impareranno più la guerra" (Isaia 2:4).
Dunque l'ONU cita la Scrittura e si assume il compito di portare la pace sulla terra e, stranamente, proprio Israele sembra essere l'ostacolo più grande a questo ambizioso programma di pace. Ma poche righe sopra questo versetto del libro di Isaia sta scritto:
    "Avverrà, negli ultimi giorni, che il monte della casa del SIGNORE si ergerà sulla vetta dei monti, e sarà elevato al di sopra dei colli; e tutte le nazioni affluiranno a esso. Molti popoli vi accorreranno, e diranno: «Venite, saliamo al monte del SIGNORE, alla casa del Dio di Giacobbe; egli ci insegnerà le sue vie, e noi cammineremo per i suoi sentieri». Da Sion, infatti, uscirà la legge, e da Gerusalemme la parola del SIGNORE." (Isaia 2:2-3).
E' questa la verità? O ce n'è un'altra? O non c'è nessuna verità? Si può dire che il nodo di tutti i problemi politici mondiali sta sul monte Sion? E in ogni caso si può sperare di capire che cosa c'è di così importante intorno a quel monte senza interessarsi di quello che sta scritto nel libro che più di tutti ne parla: la Bibbia? Nell'Antico Testamento il termine "Sion" viene ripetuto 162 volte, e 7 volte nel Nuovo. E' ragionevole, anche da un punto di vista puramente umano, trascurare questo fatto? Dopo tanti tentativi infruttuosi non solo di risolvere, ma anche soltanto di capire il problema mediorientale, non sarebbe ragionevole chiedersi se non sia il caso di esaminare quello che sta scritto nella Bibbia per verificare se in essa è veramente dimostrata l'irresolubilità di quel problema per via politica? e di conseguenza cercare di capire tutto quello che la Bibbia dice sull'argomento? e essere attenti a tutto il resto che ha da dirci?

(Notizie su Israele 249, 23 luglio 2004)


Israele valuta la tregua. Biden chiama Netanyahu «De-escalation da oggi»

Diplomazie al lavoro, ma le pressioni Usa irritano Tel Aviv. L'ipotesi dello stop da domani

SOLIDALI CON LO STATO EBRAICO
In arrivo una larga delegazione di ministri degli Esteri europei
PROTAGONISTA
All'Egitto il nulla osta per cercare una pausa difficile ma indispensabile

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - La sorpresa è venuta dal nord con quattro spari dal Libano, dopo una giornata bollente di missili al sud: i razzi sono stati sparati da organizzazioni palestinesi collaterali a quella di Hassan Nasrallah, gli Hezbollah. È una finta diplomatica, ma è solo lui che può permetterlo, e l'Iran, il suo boss, che può chiedere di creare un rumore di applausi per l'uscita dalla guerra di Hamas, peraltro molto desiderata a Gaza, ormai semidistrutta negli uomini e nelle cose. È la terza volta che il nord d'Israele viene attaccato dal Libano per segnalare che Hamas non è solo. È un tentativo di disegnare una uscita in pompa magna, con Hezbollah infuriato, gli arabi israeliani in sciopero, attentati terroristici dall'Autonomia Palestinese, l'Europa e gli Stati Uniti percorsi da manifestazioni in cui Israele viene condannato. Ma non funziona: per quanto si sia seguitato anche ieri a correre nei rifugi, Israele ha distrutto l'attuale potere di Hamas. E non ha ancora del tutto finito.
  Ieri Netanyahu ha ribadito l'intenzione definitiva di bloccare il terrorismo dei missili in maniera decisa, di lunga durata. L'ha detto di nuovo alla stampa anche dopo la telefonata, arrivata sullo sfondo del rumore delle armi, di Biden: la quarta dall'inizio del conflitto, in cui però il presidente ha segnalato che l'operazione «Muro di difesa» ha esaurito il credito del governo democratico: «Dato il progresso di Israele nel distruggere le strutture terroristiche di Hamas - ha detto il presidente - ci aspettiamo una de-escalation oggi stesso». Netanyahu ha ringraziato gli Usa per il sostegno al diritto di autodifesa ma secondo la tv israeliana Channel 12, funzionari delle autorità israeliane avrebbero riferito all'amministrazione Usa che le pressioni statunitensi hanno il solo effetto di allontanare una tregua.
  La via d'uscita è a portata di mano, ma non è facile da trovare. Si parla già della data, oggi, ma c'è chi dice non prima di domani, venerdì. Il labirinto mediorientale contiene norme drammatiche e bizzarre, svolte improvvise, varianti. Israele ha passato una giornata difficile nonostante sia evidente che Hamas ha urgenza di trovare la tregua. Sarebbe facile entrare e distruggere la struttura di potere dell'organizzazione islamista terrorista: ma non è questo che Israele cerca, né spera che Abu Mazen possa prendere il posto a Gaza. Nessuno vuole questa gatta da pelare.
  Domani, a fianco dei movimenti europei per la pace, c'è in arrivo oltre che il ministro degli Esteri tedesco anche una delegazione larga di ministri degli esteri europei sostanzialmente solidali con Israele. Il governo israeliano pur senza aspettarsi una «foto opportunity» della vittoria, tuttavia deve distruggere la prospettiva almeno immediata di una ripresa della violenza, deve bloccare i terroristi, ottenere una situazione in cui sia la Jihad Islamica che Hamas, debbano cessare di concordare i tiri a turno (i lanci più vicini quelli della Jihad Islamica, diretti nel vicino sud, quelli che si spingono fino alla costa di Tel Aviv nelle mani di Hamas ). Se non ci saranno fatti nuovi, l'interesse dovrebbe spingere in questo senso.
  I leader di Hamas che non sono all'estero sono tutti nei nascondigli, molti sono stati eliminati, altri probabilmente lo saranno. Ieri la giornata ha portato il segno della caccia al simbolo più evidente della Guerra Santa di Hamas, Mohammed Deif, la primula rossa che ha lanciato tutte le varie fasi della lotta armata, azzoppato, semi cieco a causa degli attacchi israeliani, esperto in attacchi agli autobus di Gerusalemme, mandante di almeno cinque terroristi suicidi uccisi. I servizi israeliani hanno fatto sapere che l'hanno quasi trovato per due volte in questi giorni, ma per ora Deif è al largo. Anche qui, niente foto della vittoria. L'Egitto sembra abbia ormai il nulla osta per cercare una pausa difficile quanto indispensabile, con due sfondi in realtà inconciliabili, quelli da cui si riaffaccia la guerra di religione dell'Islamismo nei secoli.

(il Giornale, 20 maggio 2021)


Perché Hamas continua le aggressioni, in attesa del cessate il fuoco

di Ugo Volli

Il conflitto fra le forze terroriste di Gaza e l’esercito israeliano continua, anche se si parla con insistenza di cessate il fuoco. La ragione è che gli obiettivi reali delle due parti non sono stati ancora raggiunti. Sono obiettivi asimmetrici. Quello israeliano è militare, consiste nello smantellamento sistematico dell’apparato terrorista, costruito da Hamas e dalla Jihad Islamica in anni di lavoro: i lanciamissili, i depositi d’armi, le fabbriche chimiche e meccaniche che producono i razzi, la rete di informazione, i tunnel che servono da rifugio, collegamento, centro di comando, base d’attacco, deposito, i quadri tecnici e militari che controllano l’organizzazione, le squadre terroriste. Israele non ha in progetto l’attacco di terra, che sarebbe estremamente costoso, né la distruzione di Hamas, che è radicata e diffusa nella popolazione, dunque difficile da eliminare completamente e capace di riprodursi anche se ridotto a poche cellule. Potrebbe entrare nella Striscia se vi fosse costretto, e Hamas sarebbe ben contento di attivare le trappole che ha preparato dappertutto, i cecchini, gli agguati e farsi pagare cara la sconfitta. Ma per ora la campagna funziona bene così e i terroristi, come ha detto Netanyahu, vengono rigettati indietro di parecchi anni nella loro preparazione bellica.
   Hamas non si illude di sconfiggere Israele, anche se spera sempre in un colpo fortunato che passi oltre le difese di Iron Dome e faccia molte vittime, per vantarsene come di una vittoria. L’obiettivo è politico: mostrare al mondo di essere i soli combattenti attivi contro Israele, tagliar fuori la vecchia guardia di Ramallah, mostrare l’impotenza di Muhammad Abbas, meritarsi il sostegno anche economico di Iran e Turchia, vincere le elezioni palestinesi se e quando ci saranno o più probabilmente giustificare un colpo di stato contro Abbas o vincere la guerra civile che ci sarà alla sua morte. L’obiettivo più generale l’ha spiegato il leader di Hamas Ismail Haniyeh in un discorso tenuto a Doha in Qatar l’altro ieri e reso pubblico dalla solita meritoria agenzia di informazione Memri (https://www.memri.org/tv/ismail-haniyeh-hamas-politburo-brothers-borders-1948-defending-al-aqsa-waging-intifada-trampling-coexistence): “Gerusalemme ci unisce. Le barriere geografiche all'interno della Palestina storica sono state rimosse. Oggi, la Palestina sta conducendo un'intifada da Rosh HaNikra a Umm Al-Rashrash [Eilat] e da Rafah ai punti più lontani a nord, est e ovest della Palestina. Sì, hanno pensato che 70 anni o più avrebbero potuto uccidere lo spirito di appartenenza del nostro popolo all'interno della terra occupata nel 1948. Oggi alcune teorie crollano e altre vengono ricostruite. La teoria della convivenza tra i due popoli entro i confini del 1948 - una teoria che coltivano da 70 anni - è oggi calpestata dai nostri figli e fratelli a Lod, a Ramla, a Umm Al-Fahm, a Nazareth, a Baqa Al-Gharbiyye, in Galilea, nel Negev, a Rahat, a Beer-Sceba e a Safed ... Lasciatemi ribadire: a Safed! In Safed! Safed è nostra! Safed è nostra! Safed appartiene a noi e a nessun altro!”
   Al di là della retorica, l’obiettivo è chiaro: recuperare gli arabi israeliani al progetto terrorista, unificare le “tre Palestine” (Gaza, territori dell’Autorità Palestinese, arabi israeliani) sotto il comando di Hamas. Questa è la scommessa e questo spiega gli incidenti che nei giorni scorsi hanno devastato località miste come Lod, Haifa, Acco e la stessa Gerusalemme. Si tratta non solo di eliminare i concorrenti di Fatah a Ramallah, ma soprattutto di trasformare la “simpatia” espressa dai quadri politici e religiosi degli arabi israeliani (personaggi come i deputati Zuabi e Tibi della lista araba o il leader del movimento islamico Kamal al-Khatib) in guerra terroristica aperta. Hamas ha impegnato in questa operazione tutti i quadri che aveva in Israele e anche la sua organizzazione in Giudea e Samaria. I risultati sono stati definiti erroneamente da molti osservatori come una “guerra civile”, ma in realtà per fortuna siamo ben lontani da questa catastrofe e la situazione si va normalizzando. Vi sono stati incidenti, incendi, tumulti, qualche crimine terribile, come i linciaggi di Acco e Lod. Ma la maggioranza della popolazione non è stata coinvolta.
   Il fatto è che la popolazione araba di Israele è profondamente divisa. Non solo perché ci sono settori, come i drusi e certi gruppi beduini, che sono fedeli a Israele e partecipano alle sue forze armate. Ma anche perché parte crescente della popolazione vede i vantaggi che le offre il sistema sociale, economico, tecnologico e talvolta anche politico di Israele, non uguagliati da nessuno stato arabo. Altri che sono portatori di stili di vita o religioni che sarebbero oppressi da uno stato islamista. E poi vi è il gruppo dirigente dell’Autorità Palestinese, che ha uno status politico ed economico garantito dalla loro ambiguità: antisraeliani quanto possono, finanziatori dei terroristi, ma in sella grazie ai compromessi che sotto sotto fanno con Israele e al sostegno internazionale che cesserebbe se prendessero posizioni come quelle di Hamas.
   Insomma, non è affatto detto che la strategia politica dei terroristi di Gaza funzioni sul lungo termine; ma per ora essi percepiscono un appoggio crescente della popolazione araba in Israele e in Giudea e Samaria (probabilmente non quella di Gaza, che però è sottoposta a un giogo molto duro e può solo adeguarsi o ribellarsi per davvero, non esprimere dissenso). E dunque perseguono a fare i gradassi, avanzando minacce e vantando successi senza rapporto con la realtà, atteggiandosi a eroi capace di resistere alla forza di Israele.
   Dunque il cessate il fuoco ritarda, siamo ormai al decimo giorno di operazioni. Ma il conflitto del 2014 durò 42 giorni. Le pressioni internazionali continuano, ma ancora la trattativa non sembra entrata nel vivo. Perché Hamas cercherà di trattare e insieme di colpire per ultima, per sostenere il bluff della “vittoria” che vanterà. Israele ha capito che, se non accadono errori e incidenti, il costo diplomatico e politico (anche interno) dell’operazione non sarà molto grave e procede sistematicamente a colpire obiettivi scelti con cura, pensando a garantirsi un periodo di pace futuro, che sarà tanto più lungo e integrale quanto più sarà riuscito a distruggere le fabbriche di morte di Hamas.

(Shalom, 20 maggio 2021)


“Chi tollererebbe quello che vive Israele?”

Ci scrive l’ambasciatore, mentre suonano le sirene

di Dror Eydar

1. Da lunedì della scorsa settimana Hamas ha lanciato migliaia di razzi e missili contro le città israeliane. Un milione di bambini israeliani non sta andando a scuola e deve correre nei rifugi al suono dell’allarme, soprattutto di notte. Hamas ha profanato la santità di Gerusalemme lanciandole contro dei missili. Nelle moschee sul Monte del Tempio sono stati ammassati sassi, oggetti in metallo e bottiglie molotov, per essere lanciati sui fedeli ebrei sottostanti e contro i residenti israeliani della zona. Hamas lancia intenzionalmente i suoi missili dal cuore della popolazione civile, usando donne e bambini come scudi umani. Usa anche i mezzi di informazione stranieri e sfrutta gli edifici dei media a Gaza come base per la sua macchina da guerra. In tal modo Hamas sta commettendo un doppio crimine di guerra, poiché, oltre a quanto detto, spara anche migliaia dei suoi missili deliberatamente contro la popolazione civile in Israele.

2. I miliardi di dollari ed euro, che i paesi occidentali hanno riversato nella Striscia di Gaza per aiutarla, sono stati utilizzati per la maggior parte a fini terroristici e per trasformare Gaza in un avamposto militare, e i suoi residenti in ostaggi di un regime crudele manovrato dall’Iran e dal regime degli ayatollah. Hamas ha utilizzato il cemento portato a Gaza a fini civili per costruire invece tunnel; i fertilizzanti agricoli che gli venivano forniti, li ha utilizzati per assemblare munizioni; il ferro che gli veniva dato per costruire case per gli abitanti, lo ha utilizzato per la produzione di missili. Sebbene Gaza sia una zona formalmente nemica, Israele fornisce elettricità a Gaza dalla centrale elettrica Rotenberg di Ashkelon. Israele fornisce anche acqua a Gaza, dalla centrale Simcha nel Negev vicino a Sderot. Inutile dire che entrambi gli impianti sono stati regolarmente attaccati da missili provenienti da Gaza.

3. E’ anche importante sapere che finora più di 600 missili lanciati da Hamas sono caduti all’interno della stessa Striscia di Gaza, uccidendo bambini e civili e, ovviamente, distruggendo molte case. Hamas uccide i propri cittadini e, ovviamente, poi accusa Israele per questo.
  Per il popolo della pace in mezzo a noi: Hamas cerca di indebolire l’Autorità Palestinese, per poi ereditarla, proprio come fece nel 2006 a Gaza. Ciò significherebbe chiudere ogni possibilità di qualsiasi accordo. Qualsiasi sostegno o anche comprensione nei confronti di questa organizzazione terroristica serve solo a rafforzare il suo status tra i palestinesi e a premiare e incoraggiare il terrorismo.

4. Finché Israele è stato bersagliato da missili, abbiamo sentito molte voci di sostegno. Dal momento in cui Israele ha lanciato un attacco alle basi militari, al quartier generale, agli arsenali missilistici, alle rampe di lancio di Hamas e ai suoi tunnel, allora si sono sentite voci “razionali” che chiedevano un cessate il fuoco e il dialogo con Hamas. Magari il razionalismo occidentale potesse essere la base per la condotta politica nella nostra regione! Ma i nostri vicini del sud hanno una visione del mondo completamente diversa, che chiunque pensi di poter scendere a compromessi con essa, mette in pericolo non solo l’esistenza di Israele ma anche quella del mondo libero.

5. Per capire chi è Hamas e con che cosa abbiamo a che fare, vale la pena tornare allo statuto costitutivo di questa organizzazione terroristica: la Carta di Hamas, redatta nel 1988 dal famigerato Ahmad Yassin. E’ il documento ideologico più importante di Hamas, e le sue copie vengono regolarmente distribuite al pubblico palestinese. Uno dei leader di Hamas, Mahmoud al-Zahar, ha ribadito in un’intervista alla stampa la piena adesione del suo movimento al suo statuto. Ha sottolineato che il movimento non cambierà una parola di quello statuto. Simili dichiarazioni sono condivise e ribadite anche da parte di altri portavoce di Hamas.

6. Il motto di Hamas, all’art. 8 del suo Statuto, recita: “Allah come scopo [del movimento], il Profeta come capo, il Corano come costituzione, il jihad come metodo, e la morte per la gloria di Allah come più caro desiderio”.
  Lo Statuto afferma che Hamas è uno dei bracci dei Fratelli musulmani (e del jihad globale) e cita ḤAsan al-Bannā, il fondatore del movimento: “Israele sorgerà, e rimarrà in esistenza finché l’islam non lo ponga nel nulla, così come ha posto nel nulla altri che furono prima di lui”. Hamas considera sé stesso “Uno degli anelli della catena del jihad nella sua lotta contro l’invasione sionista”. Uno dei passi più tristemente noti nello Statuto è tratto dalla tradizione orale musulmana dei cosiddetti ḥadīth e dice: “O musulmano, o servo di Allah, c’è un ebreo nascosto dietro di me, vieni e uccidilo”. Già con quanto detto fin qui si possono vedere due obiettivi principali di Hamas: la distruzione dello Stato di Israele e l’assassinio degli ebrei ovunque si trovino. Non per niente i commentatori liberali hanno definito questo documento “nazista”.

7. Ancora, ecco alcuni degli obiettivi del movimento scritti a chiare lettere nello Statuto: “Combattere il male, schiacciarlo e vincerlo, cosicché la verità possa prevalere; le patrie ritornino ai loro legittimi proprietari; la chiamata alla preghiera si oda dalle moschee, proclamando l’istituzione di uno Stato islamico”. Si riferiscono forse soltanto alla Striscia di Gaza o alla West Bank? La risposta è all’articolo 11 dello Statuto: “Il Movimento di Hamas crede che la terra di Palestina sia un waqf (sacro deposito islamico), terra islamica affidata alle generazioni dell’islam fino al giorno della resurrezione. […] Questa è la regola nella legge islamica (shari’a), e la stessa regola si applica a ogni terra che i musulmani abbiano conquistato con la forza, perché al tempo della conquista i musulmani l’hanno consacrata come terra di waqf per tutte le generazioni dell’islam […] Ma il waqf durerà fino a quando dureranno i Cieli e la Terra. Ogni decisione presa con riferimento alla Palestina in violazione di questa legge islamica è nulla e senza effetto, e chiunque dovesse prendere tale decisione dovrà un giorno ritrattarla”.

8. Ed ecco l’articolo 13 dello Statuto, riguardante le iniziative di dialogo: “Le iniziative [politiche], le cosiddette soluzioni di pace, le conferenze internazionali per risolvere il problema palestinese contraddicono tutte le credenze del Movimento di Hamas. In verità, cedere qualunque parte della Palestina equivale a cedere una parte della religione. […] Non c’è soluzione per il problema palestinese se non il jihad. Quanto a iniziative e conferenze internazionali, sono perdite di tempo e giochi da bambini”.
  L’atteggiamento di Hamas verso Fataḥ (l’Autorità Palestinese) è come quello che si ha nei confronti di un fratello che sbaglia e che ha plasmato la propria ideologia secolare sotto l’influenza dell'Occidente. Difatti lo Statuto sottolinea che “Pertanto, nonostante il nostro rispetto per l’Olp […] ci rifiutiamo di servirci del pensiero laico per il presente e per il futuro della Palestina, la cui natura è islamica. La natura islamica della questione palestinese è parte integrante della nostra religione […] Quando l’Olp avrà adottato l’islam come il suo sistema di vita, diventeremo i suoi soldati e la legna per i suoi fuochi che bruceranno i nemici”.

9. Ed ecco la parte umanistica dello Statuto, che invita tutti noi a non opporci alla rivoluzione islamica, e a rifugiarci invece sotto le ali misericordiose dell’islam: “Il Movimento di Hamas è un movimento umanistico. Si occupa dei diritti umani, e si impegna a mantenere la tolleranza islamica nei confronti dei seguaci di altre religioni. […] All’ombra dell’islam, è possibile ai seguaci delle tre religioni – islam, cristianesimo ed ebraismo – coesistere in pace e sicurezza. Anzi, pace e sicurezza sono possibili solo all’ombra dell’islam”. Commovente. In breve, conclude lo Statuto, “Il jihad è l’unica via alla liberazione [della Palestina …] e “Solo la vera fede dell’islam può sconfiggere la loro [degli infedeli] credenza falsa e corrotta”.

10. Israele sta facendo del suo meglio per colpire solo i terroristi di Hamas e di altre organizzazioni, tra cui la Jihad islamica. Evitiamo il più possibile di colpire la popolazione civile. Hamas la usa come scudo umano, e, come ho detto sopra, gran parte dei missili che lancia cade sulla sua stessa gente, uccidendola. Questo crimine non disturba per niente l’Organizzazione.
  La scorsa notte ho portato più volte mia figlia al rifugio, a causa delle sirene che annunciavano attacchi missilistici. Abbiamo sentito gli echi delle esplosioni sopra di noi, e poi ho sentito anche un’altra cosa: i denti della mia figlioletta battere dalla paura. E’ così che vivono da anni centinaia di migliaia di bambini israeliani. E’ una situazione intollerabile. Nessun paese che cerca la vita consentirebbe che al suo interno possa esistere una simile realtà. Il popolo ebraico è tornato a casa dopo migliaia di anni in cui è stato senza una casa, per non doversi più nascondere per la paura. A questo scopo abbiamo istituito uno stato il cui imperativo categorico supremo è quello di proteggere i propri cittadini. E così sarà.
  In questo momento chiunque abbia davvero a cuore la libertà in Occidente, deve sostenere Israele, affinché completi il lavoro a Gaza e abbatta le infrastrutture terroristiche ivi presenti, altrimenti ci ritroveremo presto nuovamente con questo bagno di sangue nella nostra regione.

Il Foglio, 20 maggio 2021)


Hamas occupa Gaza per perseguire la distruzione d’Israele

I palestinesi hanno diritto a uno Stato: ma non basato sulla tirannia. Non uno Stato assassino che prende in ostaggio il popolo

di Bernard Henry-Lévy

La pioggia di razzi che Hamas ha iniziato a lanciare sulle città israeliane nella notte dell’11 maggio suscita una domanda semplice, che è impossibile non farsi: che cosa pretendeva? che cosa vuole? qual è l’obiettivo della sua guerra?
  Di certo non “la fine dell’occupazione israeliana”, perché dal 2005 — e il ritiro lo decise Ariel Sharon — non c’è più nemmeno l’ombra di un soldato israeliano a Gaza, di conseguenza non esiste occupazione di sorta, né colonizzazione o disputa territoriale di alcun tipo.
  Tenuto conto della guerra fratricida che combattono l’uno contro l’altro da quando Hamas, due anni dopo, ha avuto il sopravvento a forza di seminare il terrore, l’obiettivo dell’organizzazione non è nemmeno di esprimere una qualche forma di “solidarietà” all’Autorità Nazionale Palestinese di Mahmoud Abbas, a capo, a Ovest del Giordano, del territorio “fratello”, la Cisgiordania.
  L’obiettivo non è nemmeno quello di rompere il cosiddetto “blocco”, accusato di asfissiare il territorio, poiché:
  a) Gaza non ha un’unica frontiera con il resto del mondo, ma due e, nel caso, bisognerebbe tenere d’occhio anche l’Egitto, che sì mette il chiavistello alla sua frontiera Sud;
  b) se proprio si vuol parlare di frontiere, la frontiera con Israele è di gran lunga la meno dotata di serrature a tenuta stagna, perché è proprio da lì che passano, ogni giorno e persino in tempo di guerra, non solo acqua, luce e gas, ma anche centinaia di camion che riforniscono di merci, quotidianamente, l’enclave; inoltre, in senso di marcia opposto, viaggiano centinaia di civili palestinesi, che vanno a farsi curare, quotidianamente anche loro, negli ospedali di Tel Aviv;
  c) in quanto al blocco dei prodotti che servono a fabbricare materiali militari come quelli che si utilizzano nell’aggressione di questi giorni, basterebbe che finisse l’aggressione e il blocco cesserebbe d’immediato; l’aggressione, invece, non fa che rafforzarlo.
  No.
  Hamas non ha un obiettivo chiaro, quando invece dialogo e impegno potrebbero incarnare un obiettivo in sé. O, per essere più esatti e usare il linguaggio militare prussiano di Clausewitz, “obiettivo” può essere inteso in due modi: in questo caso non esiste uno “Ziel”, un obiettivo concreto, razionale, intorno al quale un cessate il fuoco permetterebbe di confrontarsi e di trovare un accordo; esiste invece uno “Zweck”, ossia un obiettivo strategico, uno solo, che non è altro se non la riaffermazione dell’odio cieco, implacabile e dichiarato all’“entità sionista”, di cui Hamas esige l’annientamento.
  Mi faccio anche una seconda domanda molto semplice, che in realtà dovremmo farci ogni volta che vediamo migliaia di manifestanti scendere in piazza a Parigi, Londra o Berlino per «difendere la Palestina». È la morte dei civili palestinesi a ripugnarli? Allora non si capisce perché non aprano bocca quando sono i palestinesi a perseguitare, torturare, mutilare con armi da fuoco, assassinare o attaccare con l’artiglieria pesante altri palestinesi, sospettati di collaborare con Israele o con chissà chi. Hanno davvero cura di appellarsi ai diritti umani in ogni luogo e in ogni circostanza? Ci si stupisce del fatto che, senza dover risalire fino al genocidio dei Tutsi in Ruanda o allo sterminio dei musulmani in Bosnia o nel conflitto del Darfur, non facciano mai sentire la loro voce in difesa degli Uiguri, “fatti fuori” dalla dittatura cinese; dei Rohingya, “invitati a sloggiare” dalla giunta birmana; o dei cristiani della Nigeria, sterminati da Boko Haram o dai gruppi di fulani islamici; e che non aprano bocca nemmeno a proposito delle colossali violazioni dei diritti umani in Afghanistan, in Somalia, nel Burundi, sulle montagne di Nuba, tutti posti che conosco abbastanza bene e dove non sono qualche centinaio ma migliaia, anzi, decine o centinaia di migliaia i civili che muoiono sotto i colpi delle armi da fuoco.
  Sono dunque ripugnati dall’indifferenza complice dell’Occidente, che permette i bombardamenti a Gaza, contro una città e contro dei civili musulmani? Allora non si spiega perché non siano scesi in piazza a manifestare la loro solidarietà ai curdi del Kirkuk, aggrediti, nell’ottobre del 2017, dagli squadroni assoldati dai Guardiani della Rivoluzione Islamica dell’Iran; o non si siano mostrati solidali con i civili che, l’anno dopo, furono bombardati a tappeto da Erdogan a Ovest del Rojava; oppure, sia prima che dopo, con le città della Siria bombardate dagli aerei del dittatore arabo Bashar al Assad, che dispiegò attacchi di un’atrocità inaudita, con l’appoggio, anche bellico, di Vladimir Putin.
  Comunque la si giri o la si volti, non rimane che constatare che in Francia, negli Stati Uniti, in Gran Bretagna ci sono tantissime persone che non hanno veramente a cuore né i diritti umani, né le guerre dimenticate e nemmeno i palestinesi, e che si prendono la briga di manifestare solamente quando mobilitarsi consente loro di prendere due piccioni con una fava e gridare, en passant , «morte a Israele» o «morte agli ebrei».
  Io, dal canto mio, di fronte a tanto fariseismo non ho mai cambiato giacca, negli ultimi cinquant’anni. Il numero di vittime civili causate da questa guerra assurda, criminale e voluta da Hamas mi sbriciola il cuore, indiscutibilmente. E pur essendo piuttosto recenti le loro rivendicazioni a livello di nazione e anche se mi dispiace che i loro dirigenti politici non abbiano usato i cospicui aiuti e le sovvenzioni economiche internazionali degli anni scorsi per creare anche solo l’abbozzo di un’amministrazione degna di questo nome, ritengo che i palestinesi abbiano diritto a uno Stato.
  Ma non a uno Stato basato sulla tirannia.
  Non a uno Stato assassino che prende in ostaggio il proprio popolo, lo costringe a vivere in una prigione a cielo aperto e, ogni tre o quattro anni, quando il suo assetto politico vacilla, manda al sacrificio un contingente di scudi umani per poi ostentarne il martirio e lavare l’immagine della propria legittimità perduta.
  Infine, non a uno Stato la cui essenza è servire da rampa di lancio ai missili che puntano a distruggere Israele.

(la Repubblica, 20 maggio 2021)


A sinistra anche i moderati da sempre odiano Israele

«Ebrei fottuti», «stuprate le loro figlie». Sono le gentili parole di alcuni manifestanti che, a Manchester, sono scesi in piazza in nome di "Palestina libera". Ma questa è solo una delle tante sfilate che stanno intrattenendosi per le piazze di Europa e di America da quando i terroristi di Hamas hanno cominciato a lanciare razzi iraniani sui civili israeliani e il governo di Gerusalemme, guarda un po', ha risposto con le armi.
    Nella manifestazione di Manchester non saranno mancati i militanti se non i dirigenti dei Labour, partito che con la gestione Corbyn si è macchiato di atti e parole antisemiti. Ma in genere è proprio tutta la sinistra mondiale che è scesa in piazza, virtualmente o fisicamente, a protestare contro Israele, quindi di fatto a sostenere le ragioni di Hamas, senza rendersi conto, o quasi, come ha scritto su queste colonne Giovanni Sallusti, che l'agenda islamista non coincide esattamente con quella politicamente corretta.
    Che novità, si chiederà il lettore. In effetti, noi che abbiamo di poco superato il mezzo secolo, non ricordiamo un tempo in cui non girassero le Kefiah, tra l'altro esteticamente discutibili. Ma attenzione, c'è una novità e non è positiva. Fino a non pochi anni fa, a urlare contro Israele era soprattutto la estrema sinistra cosiddetta radicale, mentre i partiti socialisti o di centro sinistra, sempre tendenzialmente pro palestinesi, erano molto più attenti a trovare soluzioni realistiche ed equilibrate.

 LETTA CONTINUA
  Oggi invece il pesce cattivo si è mangiato quello che lo era meno: e, toni a parte, tutta la sinistra è ora schierata sulle posizioni "Free Palestine". Due esempi. Enrico Letta che chiede alla Ue (non all'Italia, lui non si sente italiano) di intervenire contro Israele. Poi i dem americani, da sempre filo israeliani, anche perché la comunità ebraica Usa è tendenzialmente a sinistra, oggi invece schierati nettamente per le ragioni dei palestinesi: proprio nel conflitto aperto dai missili dei terroristi islamisti contro donne e bambini.
    Se prima potevamo dire che solo gli estremisti odiavano Israele, ora dobbiamo riconoscere che è la sinistra tutta, anche quella moderata e riformista (qualsiasi cosa voglia dire questa parola) ad esserlo. In genere si tende a spiegare il sorgere dell'antisemitismo a sinistra con la percentuale di islamici tra i suoi militanti: nel Regno Unito, in Belgio, in Olanda, ormai vi prevalgono di gran lunga. E' una spiegazione empiricamente corretta, soprattutto per determinati partiti come il labour in cui l'antisemitismo è così in evidenza. Ma che non tiene conto della storia della sinistra, tutt'altro che una vicenda edificante di sostegno agli ebrei.

 RADICI PROFONDE
  Lasciando da parte che i primi socialisti all'inizio dell'Ottocento erano antisemiti (pensiamo a Charles Fourier) tanti storici recentemente hanno mostrato come la sinistra sia stata fredda se non ostile prima alla questione ebraica poi allo stesso Israele (da ultimo per l'Italia, basta leggere il libro di Alessandra Tarquini, "La sinistra italiana e gli ebrei"). Sta quindi nel dna della sinistra se non l'odio, la scarsa simpatia per Israele.
    Gerusalemme è rea durante la guerra fredda di essersi schierata con gli Usa contro l'amata Urss, rea di aver edificato una democrazia borghese in mezzo a regimi che si definivano (ed erano) "socialisti", rea soprattutto di avercela fatta.
    Mentre la sinistra voleva tenere gli ebrei nell'eterno stato di vittime, quando questi si sono emancipati, hanno abbandonato il ruolo passivo, sono diventati protagonisti, allora i progressisti hanno cominciato a guardarli con minore simpatia. Per la sinistra, infatti, l'unico ebreo buono è quello morto oppure quello che si fa ammazzare: se reagisce legittimamente, come Israele in questi giorni, diventa un carnefice.

Libero, 20 maggio 2021)


Trombe e rombi di carri armati: una svolta decisiva a Gaza?

di Richard Kemp*

Durante un'operazione lanciata a Gaza la scorsa settimana, le Forze di Difesa Israeliane hanno attaccato un complesso di tunnel di Hamas con 12 squadroni di 160 aerei da combattimento che hanno colpito oltre 150 obiettivi con centinaia di JDAM [Joint Direct Attack Munitions, bombe guidate con precisione dal GPS] distruggendo i bunker sotterranei in meno di un'ora. Sebbene la valutazione dei danni in battaglia sia ancora in corso, il raid ha distrutto forse l'elemento chiave delle infrastrutture di Hamas, spazzando via riserve massicce di munizioni e probabilmente uccidendo dozzine, se non centinaia di combattenti. Questa è stata una mazzata per Hamas e potrebbe rivelarsi un punto di svolta nel conflitto. Ha anche inviato un forte messaggio all'Iran e a Hezbollah sulle conseguenze che subirebbero se attaccassero Israele utilizzando il loro arsenale di decine di migliaia di missili stoccati nei depositi nel Libano meridionale.
   L'operazione dell'IDF è stata una combinazione attentamente coordinata di intelligence, monitoraggio, conoscenza delle tattiche nemiche, inganno, sorpresa e di una forza schiacciante precisamente mirata. Di tutto questo, l'inganno e la sorpresa sono stati gli elementi chiave. Il fattore sorpresa è un principio di guerra nelle forze americane, britanniche e in molte altre. Il Manuale USA per la condotta delle operazioni militari definisce il fattore sorpresa come "colpire il nemico in un momento, in un luogo o in un modo per il quale è impreparato". Il manuale prosegue dicendo: "L'inganno può contribuire alla probabilità di sfruttare il fattore sorpresa". Nel corso della storia della guerra, la sorpresa ottenuta con l'inganno ha portato a molte vittorie militari sbalorditive, spesso contro ogni previsione.
   L'operazione d'inganno dell'IDF ricorda il famoso stratagemma utilizzato dal personaggio biblico e giudice israelita Gedeone contro i Madianiti, Gedeone chiese ai suoi soldati di suonare le trombe, accendere le torce e lanciare gridi di battaglia, simulando una forza molto più numerosa e facendo così fuggire dal campo l'esercito nemico di gran lunga superiore.
   Giovedì scorso, l'IDF ha ammassato carri armati, artiglieria e veicoli da combattimento di fanteria al confine di Gaza, con i motori che rombavano come le trombe di Gedeone. L'operazione non è sfuggita a Hamas ed è stata ampiamente riportata dai media internazionali come un'imminente invasione di terra. Come i Madianiti, centinaia di combattenti di Hamas si sono precipitati a rifugiarsi all'interno della rete di tunnel detta "metro". Costruiti da Hamas dopo il conflitto del 2014 per ospitare strutture di comando, immagazzinare armi e facilitare il movimento protetto, questi tunnel coprono dozzine di chilometri sotto la Striscia di Gaza. Lì i combattenti sono rimasti intrappolati quando le bombe JDAM tuonavano dall'alto. Emergendo per combattere l'invasione che non è mai avvenuta, le squadre anticarro e quelle mortai sopravvissute sono state colpite dal cielo.
   Questo capolavoro di sincronizzazione tattica, con tutti i suoi elementi complessi, simboleggia gli attacchi di precisione dell'IDF lanciati durante questa campagna, denominata Operazione Guardiano delle Mura, che hanno già inflitto danni dai quali Hamas non si riprenderà per anni. L'IDF ha imparato molte lezioni dai precedenti scontri a Gaza e dal 2014 raccoglie con determinazione informazioni e lavora per sviluppare piani di battaglia e soluzioni tecnologiche per affrontare Hamas e la Jihad Islamica Palestinese, suo partner.
   Hamas non può competere con l'IDF e potrebbe essere sconfitto rapidamente e a minor costo da una forza militare bruta e schiacciante, se non fosse per una cosa: la necessità israeliana di ridurre al minimo la perdita di vite civili. E Hamas questo lo sa. Sa che non può prevalere sull'IDF e non intende nemmeno provarci. La sua strategia è quella di attaccare i centri abitati israeliani usando razzi, droni kamikaze e tunnel, al fine di attirare contrattacchi dell'IDF che uccideranno i loro stessi civili per diffamare e isolare Israele in tutto il mondo e ottenere il sostegno internazionale per la propria causa. Con gli scudi umani come elemento fondamentale di ogni operazione, Hamas è il primo "esercito" nella storia a usare le vite della propria popolazione civile come armi da guerra.
   La strategia di Hamas ha avuto un triste successo. Nel corso dei numerosi anni di conflitti a Gaza, la maggior parte dei media mondiali ha riportato con entusiasmo la morte di civili palestinesi come se fossero l'oggetto deliberato del modo insensibile e indifferente della guerra di Israele. Questa propaganda palesemente falsa è stata ripresa dai sostenitori di Hamas e dagli "utili idioti" in Occidente. In tutto il mondo, i gruppi per i diritti umani hanno fatto lo stesso.
   Questa propaganda palesemente falsa è stata ripresa dai sostenitori di Hamas e dagli "utili idioti" in Occidente. La scorsa settimana, negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Europa, abbiamo visto centinaia di manifestanti anti-israeliani brandire striscioni palestinesi, bruciare bandiere israeliane, sputare il loro odio per lo Stato ebraico e gridare contro i baby-killer dell'IDF. Le calunnie di Hamas offrono un ricco filone di materiale agli accademici nelle università e ai docenti nelle scuole superiori occidentali che detestano Israele e che utilizzano le false accuse di Hamas allo scopo di indottrinare generazioni di studenti.
   I gruppi per i diritti umani in tutto il mondo hanno fatto lo stesso. Ci sono state decine di risoluzioni anti-israeliane all'ONU, che spesso hanno attinto alla narrazione di Hamas, stravolgendo ogni aspetto dei conflitti a Gaza. Il premio è stato la decisione di quest'anno della Corte Penale Internazionale di avviare un'indagine approfondita con la speranza di trascinare soldati, funzionari e politici israeliani sul banco degli imputati dell'Aja.
   Negli ultimi 15 anni, ho preso parte a tutte le sessioni del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite e ai dibattiti di emergenza sui conflitti di Gaza. La deliberata ignoranza combinata con la malevolenza è sempre stata sorprendente. Ogni commissione d'inchiesta ha determinato la colpevolezza di Israele prima ancora che si riunisse per la prima volta. Ogni dibattito e voto hanno affermato in modo schiacciante e ovviamente falso i presunti crimini di guerra di Israele e quelli contro l'umanità. Mentre i molteplici e attuali crimini di guerra di Hamas sono stati accantonati.
   La realtà è molto diversa dalle menzogne che provengono da queste moderne Torri di Babele. L'attacco della scorsa settimana lanciato dall'IDF alla rete di tunnel detta "metro" è dipeso da un blitz e dal coordinamento di 160 aerei che hanno attaccato una piccola area in un brevissimo lasso di tempo. Accanto a queste incredibili complessità, l'IDF ha fatto tutto il possibile per garantire la minima perdita di vite umane selezionando obiettivi in ​​cui livello minimo di innocenti sarebbe stato danneggiato, come le strade vuote sotto le quali passavano i tunnel, e mantenendo una stretta sorveglianza per accertarsi che un autobus carico di civili apparisse all'improvviso. L'IDF ha finora distrutto diversi grattacieli contenenti infrastrutture militari chiave di Hamas, nonché uffici e appartamenti civili. Sorprendentemente, tutti questi sono stati abbattuti senza che siano state riportate vittime civili.
   Come nei precedenti conflitti a Gaza, l'IDF ha fatto trasmissioni radio in arabo, ha inviato messaggi SMS e ha perfino telefonato ai civili all'interno della Striscia per avvertirli di imminenti attacchi, avvertendoli dove recarsi per essere al sicuro e su quali strade prendere. Gli abitanti di Gaza hanno rilasciato interviste che lo confermano.
   Quando i civili non lasciano l'edificio designato come bersaglio, talvolta l'IDF rilascia munizioni a bassa esplosività appositamente progettate (dette "bussare sul tetto") per incoraggiarli a uscire. Con un'accurata vigilanza delle zone bersaglio, l'aviazione israeliana interrompe frequentemente le sortite pianificate se c'è il rischio di perdite civili.
   In un conflitto pianificato da Hamas per massimizzare le morti civili, alcune sono inevitabili. È troppo presto per valutare accuratamente il numero delle vittime o il rapporto tra civili e combattenti uccisi, ma le valutazioni attuali stanno a indicare che l'IDF ha avuto ancora più successo nel ridurre al minimo le vittime civili durante questa campagna rispetto ai precedenti scontri a Gaza.
   Molti nei media, nei gruppi per i diritti umani e negli organismi internazionali si sono affrettati a definire tutte le perdite tra i civili (diverse da quelle inflitte da Hamas, ovviamente) come crimini di guerra. Ma le Convenzioni di Ginevra non sono d'accordo. Infliggere perdite civili non è illegale a condizione che un'operazione militare sia necessaria per il proseguimento di una guerra, che tali perdite non siano sproporzionate rispetto ai vantaggi militari pianificati e che i comandanti combattenti non prendano di mira intenzionalmente i civili, facendo tutto il possibile per evitare di colpirli.
   I media considerano autorevoli e obiettivi i rapporti del Ministero della Salute di Gaza. Questo è falso e loro lo sanno. Il Ministero della Salute è controllato da Hamas e segue ogni suo ordine. Ad esempio, dei circa 2.000 razzi lanciati finora da Hamas in questo conflitto, circa 400 non sono riusciti a raggiungere il bersaglio, atterrando all'interno di Gaza. Alcuni di questi hanno ucciso civili e il Ministero della Salute ha attribuito tutte queste perdite all'azione dell'IDF.
   Il mezzo più efficace per salvare vite civili di Gaza è stato il sistema antimissile israeliano Iron Dome. Nonostante gli sforzi di Hamas per sopraffarlo, l'Iron Dome ha avuto un tasso di successo del 90 per cento nell'impedire ai missili di Gaza di colpire i loro obiettivi. Non solo esso ha salvato la vita di innumerevoli civili israeliani, ma ha anche permesso alla campagna dell'IDF di essere più deliberata, discriminante e precisa. Se centinaia di israeliani fossero morti sotto i razzi di Hamas, l'IDF non avrebbe avuta altra scelta che colpire Gaza con molta più ferocia e le forze di terra sarebbero già entrate nella Striscia di Gaza, causando inevitabilmente molte più vittime civili di quelle che abbiamo visto finora.
   Ciononostante, come ci mostrano incessantemente i media, le vere vittime di questa campagna sono state proprio i civili di Gaza. Ma di solito i media hanno torto a determinare la causa. Tutte le vittime sono state provocate dall'aggressione immotivata di Hamas contro Israele. Non ce ne sarebbero state, altrimenti. Una volta terminato questo conflitto, Hamas lavorerà per recuperare meglio la prossima volta, ossia rigenerando le proprie capacità militari piuttosto che le infrastrutture civili. Se i governi occidentali, gli organismi internazionali e i gruppi per i diritti umani sono sinceramente interessati a evitare la sofferenza a Gaza, dovrebbero iniziare adesso, sforzandosi di porre fine al regno del terrore di Hamas piuttosto che sostenerlo ripetendo a pappagallo la loro narrazione funesta.

*Il colonnello Richard Kemp è stato comandante delle forze britanniche. È stato anche a capo della squadra internazionale contro il terrorismo nell'Ufficio di Gabinetto del Regno Unito e ora è autore e conferenziere su questioni internazionali e militari.

(Gatestone Institute, 19 maggio 2021 - trad. di Angelita La Spada)


Nakba Day

di Fulvio Canetti

La Nakba (distruzione), viene celebrata dagli arabi palestinesi ogni anno il 15 di Maggio, in contrapposizione alla nascita della Nazione ebraica avvenuta il 14 Maggio 1948 in seguito alla dichiarazione 181 delle Nazioni Unite (ONU) del 29 Novembre 1947.
La commemorazione ufficiale del Nakba Day è stata voluta da Yasser Arafat, un egiziano naturalizzato palestinese, per contestare la nascita dello Stato ebraico con lo scopo di cacciare gli ebrei da questa terra per fare di Gerusalemme la capitale di un nuovo Califfato mondiale.
Nella visione politica palestinese, il Nakba Day è diventato il certificato morale dell'antisionismo occidentale e il cavallo di Troia per far breccia nelle politiche delle democrazie del mondo libero.
Il Sabeel Center che opera in Israele e sostenuto dalla Chiesa americana, ha rielaborato una nuova versione della teologia della sostituzione, in cui l'unico popolo legittimo ad abitate questa terra sarebbe il nuovo Israele palestinese con un Gesù fatto diventare tale.
E' qui che si annida ancora l'antica dottrina antigiudaica, dove i circoli cattolici progressisti sono diventati un fertile terreno per l'antisionismo militante.
I pellegrini cristiani che arrivano in Terra Santa (Israele) sono un esempio chiaro e macroscopico di questa aberrante teoria. Costoro rifiutano di conoscere la storia d'Israele, abbracciano i Palestinesi ad occhi chiusi anche se sono dei terroristi, che pretendono di distruggere lo Stato ebraico, nato dalla Risoluzione 181 dell' Assemblea Generale della Società delle Nazioni (ONU) il 29 di Novembre 1947.
Il Nakba Day celebrato quest'anno in sordina a causa del conflitto israelo-palestinese, è diventato un mito che fornisce agli arabi palestinesi un sostegno materiale e morale da una parte dell'Occidente, accendendo l'odio nel mondo musulmano, che è già sul piede di guerra verso Israele.
La Nakba ricordata in questa forma di ingiustizia di cui gli arabi di Palestina sarebbero stati vittime, è una menzogna che attacca l'esistenza stessa dello Stato d'Israele, che per nascere avrebbe espropriato i palestinesi della loro terra, per prenderne il posto.
Questa teoria semplicista nel più puro stile ideologico , è diventata oggi la base decisiva dell'antisionismo, di cui si giustifica l'esistenza, in nome del peccato originale d'Israele. La storia in verità è andata molto diversamente da come viene raccontata dalla narrativa palestinese.
Con l'inizio delle ostilità, nel maggio del 1948, gli Stati arabi confinanti dichiararono guerra al nascente Stato ebraico, credendo di vincere la partita e fare degli ebrei piazza pulita.(Judenrein di triste memoria). Invitarono pertanto la popolazione palestinese a fuggire e in molti lasciarono il territorio per vedere da lontano e in sicurezza l'annunciato massacro degli ebrei, in attesa di impossessarsi dei loro beni e proprietà. Ma tutto questo, grazie a D-o Benedetto, che ama il suo popolo eletto, non è accaduto.
La sconfitta degli eserciti arabi (Davide contro Golia) e il fallimento della loro politica, che aveva rifiutato la spartizione della Palestina Mandataria, fanno nascere nelle loro menti l'ingiustizia di cui sarebbero state vittime con la nascita dello Stato ebraico. Pertanto capovolgendo la storia a loro tornaconto, gli arabi palestinesi, insieme ai loro compari, da aggressori diventano vittime, che hanno oggi la capacità, i mezzi e il benestare di buona parte del mondo, di lanciare missili contro la Nazione ebraica, a cui sarebbe vietato difendersi.

(Nuovo Monitore Napolitano, 19 maggio 2021)


Negoziato tra le bombe. In attesa della tregua si cerca il colpo del ko

Dalla Striscia ancora razzi su Israele: due vittime. Almeno 217 morti a Gaza Netanyahu:“I terroristi portati indietro di anni”. Grande sciopero nei Territori.

di Sharon Nizza

GERUSALEMME — C’è una grande discrepanza in queste ore tra quello che succede sotto e sopra al tavolo negoziale, nel tentativo di raggiungere una tregua tra Israele e Hamas. Sottobanco, continua il lavoro dei mediatori internazionali, mentre alla luce del sole le parti cercano di creare la propria “immagine della vittoria” in vista di un cessate il fuoco che, secondo più fonti, potrebbe arrivare nel giro di 48 ore. Continuano i bombardamenti, i più intensivi sul quartiere di Rimal di Gaza City, dove i caccia israeliani mirano alle residenze dei leader di Hamas e ai tunnel sotterranei, e mettono fuori uso anche quella che era l’unica clinica di test Covid dell’area. Da Gaza non cessa il lancio di razzi contro le città israeliane, sono oltre 3.500 dall’inizio degli scontri. Due lavoratori thailandesi, centrati da un razzo della Jihad Islamica, si aggiungono al bilancio delle vittime dalla parte israeliana, 12 finora, tra cui 2 minorenni. Il deterioramento della situazione umanitaria a Gaza — il ministero della Salute locale riporta 217 vittime tra cui 63 minorenni, oltre a decine di migliaia di sfollati — incrina il sostegno della comunità internazionale all’operazione israeliana. Ieri, in quello che doveva essere un gesto distensivo in vista della tregua, durante il passaggio di forniture umanitarie dal valico di Kerem Shalom — chiuso per giorni — sono stati lanciati dei razzi contro i camion degli aiuti. Il valico è stato richiuso.
   L’Idf ha affermato di poter dimostrare che «tra le vittime 130 erano combattenti di Hamas e 30 della Jihad Islamica», nonché di aver presentato all’esercito Usa le prove della presenza di «obiettivi militari di Hamas» all’interno della torre Al-Jalaa, che ospitava anche le sedi di Al Jazeera e Ap, ridotta in macerie sabato. Biden reitera il sostegno di Israele a difendersi, ma preme per raggiungere un cessate il fuoco. Netanyahu recepisce il messaggio: incontrando i sindaci delle città del Sud del Paese, dove la gente ormai vive all’interno dei rifugi, dice che la capacità di «Hamas è stata riportata indietro di anni». Promette che «dopo l’operazione, risponderemo con forza a ogni lancio da Gaza ».
   Dopo aver ristabilito una parvenza di deterrenza, per Israele la sfida più importante ora è placare la tensione nelle strade israeliane e in Cisgiordania, e separare nuovamente i tre fronti che Hamas dice di aver riunito, in quella che considera la sua vittoria strategica più importante, che infatti porta in serata un portavoce a dichiarare «che Hamas è pronto alla tregua ». Ieri la leadership araba israeliana ha indetto uno sciopero nazionale in sostegno a “Sheikh Jarrah, Al Aqsa e Gaza”. Di fatto, la maggior parte ha aderito per protestare contro il pugno di ferro della polizia nella gestione degli scontri violenti che nelle ultime settimane hanno sconvolto le città a popolazione mista, musulmana ed ebraica. In Cisgiordania si sono svolte manifestazioni a sostegno di Hamas. Negli scontri violenti con la polizia a Ramallah sono rimasti uccisi 4 palestinesi. Al Nord manifestanti pro-Hamas minacciano nuovamente di varcare il confine, dopo che lunedì sono stati sparati dei razzi dal Libano. L’Idf si è affrettato a dire che non erano di Hezbollah. Nelle ore critiche in vista della tregua, non c’è nessuna necessità di nuovi focolai.

(la Repubblica, 19 maggio 2021)


Badran, il portavoce di Hamas: “Abbiamo unito i fronti palestinesi”

Parla il membro del politburo: "Risultati per il nostro popolo da Gaza a Gerusalemme: è la prima volta che accade. Stiamo trattando un cessate il fuoco".

di Sharon Nizza

GERUSALEMME - Parla da Doha Husam Badran, membro del politburo di Hamas con sede in Qatar. È da qui che la branca palestinese della Fratellanza Musulmana decide le sorti del conflitto che sta infiammando ancora una volta Israele e Gaza. È considerato da Israele uno dei terroristi di più alto profilo rilasciati nel 2011 nel "Gilad Shalit deal", il rilascio di 1.027 prigionieri palestinesi, molti dei quali "con sangue sulle mani", in cambio di un solo soldato, tenuto ostaggio per 6 anni da Hamas. In questa rara intervista con la stampa occidentale, svoltasi per corrispondenza senza possibilità di replica, fornisce elementi sulla nuova strategia di Hamas nelle trattative per una tregua in corso.

- Sono in corso negoziati per un cessate il fuoco?
   "Dal primo giorno, tutti i giorni, gestite dal capo del movimento, Ismail Haniyeh".

- Chi sono i mediatori con cui Hamas comunica?
   "I principali sono Egitto, Onu e Qatar, attivi costantemente, oltre ad altre parti attive in misura minore".

- Che condizioni ponete per la tregua?
   "Vogliamo fermare l'aggressione dell'occupazione contro il nostro popolo e la gente di Gaza, così come a Gerusalemme e nella Moschea di Al-Aqsa".

- Che obiettivi vi siete posti quando avete lanciato sei razzi su Gerusalemme avviando l'operazione "Spada di Al Quds"?
   "Abbiamo ottenuto dei risultati non solo per Hamas, ma per tutto il nostro popolo: in primis la connessione dei diversi fronti delle forze di resistenza a Gaza, a Gerusalemme e ad Al Aqsa: è la prima volta che ciò accade. Poi, la creazione di una deterrenza nei confronti dell'occupazione. E l'unificazione del popolo palestinese a Gaza, Gerusalemme, in Cisgiordania e nei Territori occupati nel 1948 (Israele nei confini della linea verde, ndr) intorno alla resistenza, l'unica soluzione reale per liberarci dell'occupazione".

- Non credete che la decisione di inserire per la prima volta la questione di Gerusalemme per fermare il conflitto a Gaza si stia rivelando controproducente e a pagarne caro prezzo sia la popolazione civile di Gaza?
   "No comment"

- Come valutereste una richiesta da parte d'Israele di mettere sul piatto negoziale il rilascio degli ostaggi (2 corpi di soldati e 2 civili detenuti a Gaza da anni, ndr)?
   "Questo è un dossier a parte, non ha a che vedere con l'attuale aggressione a Gaza. Noi abbiamo più di 5.000 prigionieri palestinesi, comprese donne, bambini e malati, alcuni detenuti da 40 anni. Vanno rilasciati perché sono combattenti per la libertà".

- Nell'analisi dei fatti, il tempismo di questo conflitto ha a che vedere con il rinvio delle elezioni palestinesi da parte del presidente Mahmoud Abbas. Cosa dite in merito?
   "Questo è un argomento che non discutiamo ora perché la battaglia in corso prevale sull'agenda politica interna palestinese. In linea generale abbiamo dichiarato il nostro rifiuto assoluto di rinviare le elezioni perché sono un diritto del nostro popolo che non ne può essere privato".

- Il presidente Erdogan ha dichiarato che "la comunità internazionale deve dare a Israele una forte lezione". Vi aspettate che assuma un ruolo di leadership a vostro sostegno?
   "La posizione di Erdogan è apprezzata e rispettata, e lo Stato occupante merita di essere punito e scoraggiato dalla comunità internazionale, perché l'occupazione commette crimini contro il nostro popolo e viola tutte le leggi e le alleanze internazionali, e continua a farlo perché la comunità internazionale glielo permette ogni volta. Chiediamo a tutte le persone e ai paesi liberi, in particolare agli Stati europei, di proteggere la nostra gente dai crimini dell'occupazione".

- Dopo gli accordi di normalizzazione tra diversi Paesi arabi e Israele, Iran e Turchia rimangono i principali alleati di Hamas?
   "Hamas intrattiene relazioni politiche con molti Paesi e partiti a livello arabo, islamico e internazionale. Non siamo politicamente isolati e il conflitto in corso ci permette di ampliare la portata delle relazioni estere del nostro movimento".

(la Repubblica, 19 maggio 2021)


È la guerra mossa e voluta dall'Iran Ad Hamas missili e soldi da Teheran

La conferma dell'alto ufficiale palestinese della Jihad islamica: «Il denaro e le armi in uso oggi vengono tutte dagli ayatollah»

MILIONI DI DOLLARI
Da decenni il regime foraggia i movimenti della Striscia di Gaza
IL MOMENTO PERFETTO
La scelta dell'attacco ora che Trump se n'è andato e Israele è in crisi politica

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Ma non era così misera Gaza? oppressa, «occupata» anche se gli israeliani se ne sono andati già nel 2005? E allora da dove vengono le centinaia di missili al giorno con cui Israele è stata irrorata da una settimana? Lo spiega bene un alto ufficiale palestinese della Jihad Islamica, Ramez al Halabi: «I missili con cui bombardiamo Tel Aviv, le nostre armi, i nostri soldi, il nostro cibo, sono tutte forniture iraniane». Anche il segretario di Hamas, Yahya Sinwar, l'aveva già detto nel 2017: «Senza assistenza iraniana, non potremmo sparare i missili, il generale Soleimani ha messo a nostra disposizione la forza della Guardia Rivoluzionaria». Ovvero, dell'esercito di conquista iraniana.
   Le altre testimonianze del continuo e buon uso delle centinaia di milioni di dollari che il regime degli Ayatollah fornisce alla guerra di Gaza coprono decenni. E non si tratta di aiuti umanitari: per esempio una complessa operazione di trasferimento dei potenti missili Kornet tramite Hezbollah è stata curata da Kassem Soleimani stesso nel 2020, la sua diretta supervisione del training militare di Gaza è certificata dalla tv iraniana Al Alam nel 2021, il capo di Hamas stesso,
   Ismail Haniya, nel maggio 2020 ripete: «L'Iran non ha mai esitato nel sostegno della resistenza, finanziariamente, militarmente ed economicamente». Al funerale di Soleimani, Hanye aveva un posto d'onore e Al Arouri, suo vicecapo, disegna l'obiettivo: presto ci sarà una nuova Intifada. Sinwar chiarisce lo scopo: «È per la battaglia per Gerusalemme». La Guerra Santa unisce sciiti e sunniti sul campo di battaglia. Già prima della guerra, da Teheran la si annuncia, in un giorno in cui le marce d'odio e i roghi di bandiere con la Stella di David sono il leitmotiv.
   Teheran è la prima a dichiarare guerra, ma dopo averci pensato bene. Hamas è pronta? In Iran se ne discute, si valuta e si soppesa. Ma sì, Hamas deve colpire, sta per conquistare tutto il campo palestinese, Israele ha una crisi politica, Trump è andato a casa, la botta della Pace di Abramo è meno consistente: la guerra lancerà una forte messaggio a chi deve capire, mentre è in corso la trattativa per il rinnovamento del Jcpoa a Vienna, col nuovo presidente americano. Il lancio di missili è smisurato anche rispetto alle altre guerre, mai si è toccato le vette raddoppiate e triplicate di questo scontro. Ma dopo una settimana con la leadership decimata, la Striscia in rovina, gli assetti strategici fondamentali distrutti, Hamas ha seguitato a sparare: l'Iran non gradisce, sembra, che i mallevadori possano essere l'Egitto e il Qatar, vuole tenere le redini. E i missili sono ancora tanti, Fajr 3 e 5, M302, i più grossi con la gittata fino ai 250 chilometri dello «Ayash». La guerra preparata molto a lungo e nell'ambito della grande strategia iraniana ha riempito Hamas di nuove tecnologie e le ha fornito la grande risorsa, ora distrutta, delle gallerie sotterranee, come agli Hezbollah.
   È responsabilità di tutti spezzare la catena per cui la forza incendiaria dell'Iran mette a ferro a fuoco palestinesi tenuti come popolo ostaggio, Siria, Libano, Yemen e usa la guerra contro la popolazione civile di Israele come arma d'elezione. La guerra, però, la si può perdere, e Israele ha già insegnato questa lezione due o tre volte ai suoi nemici. Adesso sempre di più inoltre molti Stati arabi vedono Hamas per quello che è. Uno strumento del loro peggiore nemico.

(il Giornale, 19 maggio 2021)


Gli Stati Uniti condannano i "commenti antisemiti" di Erdogan sul popolo ebraico

Gli Stati Uniti condannano fermamente "i recenti commenti antisemiti del presidente Erdogan sul popolo ebraico" e inoltre "li trovano riprovevoli". Lo ha detto il portavoce del dipartimento di Stato Usa, Ned Price. "Esortiamo il presidente Erdogan e altri leader turchi ad astenersi da osservazioni incendiarie, che potrebbero incitare ulteriori violenze.
   Chiediamo alla Turchia di unirsi agli Stati Uniti nel lavorare per porre fine al conflitto", si legge in una nota ufficiale. "Il linguaggio antisemita - prosegue il comunicato - non ha posto da nessuna parte. Gli Stati Uniti sono profondamente impegnati nella lotta all'antisemitismo in tutte le sue forme. Prendiamo sul serio la violenza che spesso accompagna l'antisemitismo e le pericolose bugie che lo sottendono"
   La reazione dopo il duro affondo del presidente turco Recep Tayyip Erdogan contro Joe Biden. Il capo della Casa Bianca ha "le mani sporche di sangue", ha attaccato Erdogan in un discorso tv, criticando il sostegno dato dall'Amministrazione Usa a Israele. "Stai scrivendo la storia con le tue mani sporche di sangue. Ci hai costretti a dirlo. Non possiamo fare un passo indietro", ha aggiunto rivolgendosi direttamente al leader democratico.

(la Repubblica, 19 maggio 2021)


Così la causa palestinese diventa più forte sui social

Il legame con Black Lives Matter, il peso degli influencer e una generazione che non ha visto la seconda intifada: il dibattito cambia nella sinistra americana.

di Viviana Mazza

Il New York Times e il Washington Post raccontano come, di fronte alle ultime violenze in Israele e a Gaza, qualcosa è cambiato — al Congresso e sui social media — nel modo in cui la sinistra americana parla dello Stato ebraico.
«Fino a pochi anni fa sarebbe stato impensabile per politici americani eletti esprimere apertamente solidarietà nei confronti dei palestinesi. Ora i progressisti nel partito democratico capiscono che se restano in silenzio potrebbero pagare un prezzo. È un cambiamento enorme. Non ho mai visto una tale espressione di solidarietà nei confronti della Palestina sui social e nelle strade», dice al Corriere Ben Ehrenreich, giornalista di origini ebraiche che ha vissuto in Cisgiordania.

- I diritti dei palestinesi
  Da almeno un decennio il focus degli attivisti pro-palestinesi si è spostato dalla creazione di uno Stato palestinese alla difesa dei diritti dei palestinesi. Ora a far sentire la propria voce li ha aiutati la nascita di Black Lives Matter, che ha posto l’accento sulla giustizia sociale e razziale. Già nel 2014 le proteste di afroamericani e palestinesi coincisero durante l’uccisione di Michael Brown in Missouri e l’operazione israeliana «Protective Edge» a Gaza; poi nel 2020 la morte di George Floyd fu accostata a quella di Iyad Halak, un uomo palestinese autistico ucciso da un soldato israeliano, con l’hashtag #PalestinianLivesMatter. Non è un’alleanza nuova: Malcolm X incontrò i leader dell’Olp nel 1964. Ma c’è una differenza enorme: la velocità e la penetrazione dei social media.

- Bella Hadid e Gal Gadot sui social
  Le piazze arabe sono relativamente silenziose, sui social si grida forte. La modella Bella Hadid, 24 anni, origini palestinesi, 42 milioni di follower, ha contribuito a rendere «mainstream» la causa palestinese, e il figlio del premier israeliano Netanyahu lamenta che l’unica che possa controbilanciare, Gal Gadot (Wonder Woman), ha twittato in modo troppo neutrale, «quasi fosse svizzera». Ci sono anche celebrità che scrivono e dopo poche ore cancellano, come Paris Hilton, Kendall Jenner, Ayesha Curry. Domenica scorsa Hadid ha gridato ad una manifestazione: «Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera»; l’account ufficiale dello Stato ebraico l’ha accusata di voler «buttare a mare gli israeliani e sostenere l’eliminazione dello Stato ebraico». I suoi fan sono insorti a difenderla, ma poi l’hanno criticata per aver pubblicato un appello alla pace e alla coesistenza con le due bandiere, israeliana e palestinese. Su @diet_prada, un account che non vuole occuparsi solo di moda e che cavalca le polemiche, c’è un fumetto in cui il nome di Israele appare sempre tra virgolette (altri lo scrivono con un asterisco). La rivista socialista americana Jacobin titola: «Israele non ha diritto ad esistere, gli israeliani e i palestinesi sì».

(Corriere della Sera, 19 maggio 2021)


I timori di Israele

Fra guerra civile e missili, ho paura per lo stato ebraico”. Intervista a Yossi Klein Halevi

di Giulio Meotti

ROMA - Nel 1991 Saddam Hussein lanciò 39 scud su Tel Aviv. Il comandante dell’aeronautica israeliana dell’epoca, Avihu Ben-Nun, dirà che “solo una testata è stata colpita dai missili Patriot”. Da dieci anni sopra Israele c’è Iron Dome e a oggi ha intercettato 2.500 missili che sarebbero caduti sulle case israeliane. Eppure, c’è la sensazione che Israele sia ormai sulla difensiva e che Hamas abbia preso le misure di Iron Dome. Ieri altri due morti israeliani (dieci in totale) colpiti dai mortai da Gaza, mentre Israele faceva sapere che è di 150 terroristi uccisi il bilancio dei suoi strike (su 212 vittime totali). Tremila i missili lanciati da Gaza in meno di una settimana. Ma i funzionari della Difesa israeliana stimano che Hamas e altri gruppi terroristici islamici a Gaza abbiano 30 mila tra razzi e missili. Compresi gli M-75 e i J-80, che hanno una portata di 70 chilometri e che i funzionari della Difesa israeliana ritengono che siano stati fabbricati a Gaza sulla base di un progetto iraniano. “Vedo molti disastri in questi giorni”, dice al Foglio Yossi Klein Halevi, intellettuale israelo-americano, autore di “Letters to My Palestinian Neighbor”, senior fellow allo Shalom Hartman Institute di Gerusalemme e columnist del New York Times. “Hanno colpito l’area di Tel Aviv, molto più efficacemente di altri nemici prima di oggi. E Hamas dovrebbe essere il nemico più debole. Cosa possono fare Hezbollah e l’Iran? Questo round di combattimenti tra Israele e Gaza è solo l’ultima fase di una guerra contro l’esistenza di uno stato a maggioranza ebraica.
   L’intento dei nostri nemici è lo stesso: destabilizzare i nostri confini, demoralizzare i nostri cittadini e, infine, provocare il disfacimento dello stato ebraico”. Politicamente è un disastro, perché Hamas ha preso la guida degli interessi palestinesi. “Hamas è stato molto bravo. Abbiamo dato loro un pretesto, perché avremmo dovuto essere più attenti durante il Ramadan. Abbiamo consentito a Hamas di lanciare la guerra che voleva. Hamas non è ideologia, è teologia, per loro è ‘tutto o niente’. Loro vogliono la distruzione di Israele. Abu Mazen è pragmatico, ma ha paura, ha avuto due possibilità di fare la pace, ma si è sempre ritirato, atterrito. La fazione moderata non ha il coraggio e la volontà di accettare un compromesso”. L’altro disastro è l’opinione pubblica mondiale, non tanto le cancellerie, ma l’umore popolare. “Quando veniamo denunciati come criminali di guerra per aver difeso le nostre case da un attacco terroristico, respingiamo le accuse con disprezzo, considerando i nostri detrattori come ignoranti o maligni” continua al Foglio Yossi Klein Halevi.
   “C’è sempre la stessa stupida reazione: anziché riconoscere che Israele non ha scelta nel fermare i missili e accettare che Israele ha di fronte un nemico assassino che richiede di essere forti, il mondo reagisce in maniera emotiva, ignorando le circostanze”.
   Ma il peggior disastro per Yossi Klein Halevi è quello che succede all’interno del paese, fra arabi ed ebrei. “E’ la minaccia della guerra civile dentro lo stato ebraico. Non era mai successo dopo il 1948. Una settimana fa, Israele era sul punto di formare il suo primo governo ebraico-arabo congiunto, rompendo lo stallo politico che ha causato quattro elezioni inconcludenti in due anni. Ora, all’improvviso, stiamo vivendo la peggiore violenza arabo-ebraica della nostra storia. Non in Cisgiordania ma a Haifa, Acri, Lod, il cuore di Israele. Gli israeliani sanno come convivere con gli attacchi missilistici sulle nostre città. Ma non sappiamo come affrontare le folle ebraiche e arabe che vagano per le nostre strade, attaccano sinagoghe e moschee e linciano i concittadini”.
   Tutti questi missili nella testa del mainstream israeliano hanno definitivamente sepolto l’idea di ritiro. “Non ci sarà più alcun ritiro unilaterale, come a Gaza nel 2005, ma spero ancora in un accordo con i palestinesi. Sono a favore dei due stati, ma tremo anche all’idea. Cosa succederebbe se ci ritirassimo dalla Cisgiordania e questa diventasse una nuova Gaza? Io vedo la West Bank dalla mia finestra. Vedrò un’altra Gaza dalla mia finestra? Le persone nel mondo non possono capire”.
   Ma la sua più grande paura è un’altra. “E’ un Iran nuclearizzato”. Ieri, tanto per rassicurare Yossi Klein Halevi, Mohammad-Hossein Sepehr, il generale delle Guardie della rivoluzione che finanziano e armano Hamas e la Jihad Islamica, ha detto: “Abbiamo un dovere religioso di annichilire Israele”.

Il Foglio, 19 maggio 2021)


Gli ebrei sono bianchi?

di Hannes Stein

Secondo un triste stereotipo, due ebrei che si incontrano hanno come minimo tre opinioni diverse. Su cosa possono concordare? Sul fatto che si debba avere la possibilità di discutere.
    È un idea profondamente radicata nella tradizione ebraica: nel primo secolo avanti Cristo esistevano due scuole di pensiero ebraico – una seguiva l’insegnamento del grande Hillel, l’altra quello del grande Schammai. Non c’era questione che trovasse d’accordo i due rabbini.
    Ad esempio alla domanda se a una sposa brutta il giorno delle nozze si debba dire che è bella, anche se non è vero, Rabbi Schammal rispose che neppure in quel caso era permesso mentire. Rabbi Hillel controbattè: tutte le spose sono belle in giorno delle nozze. Allora secondo il Talmud si udì una voce dal cielo: “Le parole di entrambe le scuole sono la voce del Dio vivente”.
    Nell’ebraismo non esistono dogmi assoluti cui tutti debbano ubbidire. La legge religiosa seguì poi l’opinione di Rabbi Hillel – ma solo perché l’aveva sostenuta con modi cortesi e umili.

 “Lettera a noi ebrei”
   Questa introduzione forse un po’ troppo lunga serve a contestualizzare nella secolare tradizione ebraica una lettera che ha innescato un acceso dibattito. È intitolata ‘Lettera a noi ebrei sulla eguaglianza e i valori liberali’ e critica, in maniera implicita, le esasperazioni della "Critical race theory".
    Secondo questa teoria, esistono solo due gruppi – oppressori e oppressi. L’appartenenza a un gruppo piuttosto che all’altro è determinata dalla fascia di popolazione in cui si è nati – non importa se al presente si sia effettivamente oppressi o meno. E solo gli appartenenti al gruppo degli oppressi (in America quindi i neri) godono del diritto di libertà di opinione. La lettera dice che questa teoria porta all’idea pericolosa che gli ebrei siano dei privilegiati, implicandoli addirittura nel "suprematismo bianco".
    Si comprende il senso di tutto questo solo sullo sfondo della storia degli ebrei negli Stati Uniti. A fine Ottocento in America vivevano circa 150.000 ebrei, in massima parte provenienti dalla Germania, molti dalla Baviera. Nella guerra civile americana gli ebrei combatterono su entrambi i fronti – circa 3000 per i sudisti, 7000 per i nordisti.
    Gli "Stati confederati d’America" erano razzisti, ma non antisemiti. Ventavano persino un ministro della Guerra e degli Esteri ebreo: Judah Benjamin. (Dopo che le truppe dell’Unione ebbero occupato gli stati del Sud, Benjamin fuggì in Gran Bretagna).
    Tre quarti degli ebrei degli Stati del Sud avevano schiavi neri e si facevano servire da loro durante la Pesach, la festa che celebra la liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù in Egitto. Non erano né migliori né peggiori degli americani di altre confessioni.

 La lezione della "St. Louis"
   Si potrebbe essere portati a credere che gli ebrei in America fossero annoverati tra i bianchi. Ma non è proprio così: nella seconda guerra mondiale gli Stati uniti tennero chiusa la porta agli ebrei fin quasi alla fine del conflitto. Nel 1939 alla "St. Louis", una nave passeggeri proveniente da Amburgo, fu negato il permesso di attraccare ovunque in America e dovette rientrare in Europa con 937 profughi a bordo, che vennero per metà rintracciati e assassinati dai nazisti.
    Non va dimenticato neppure che in seno al movimento per i diritti civili degli anni Sessanta gli ebrei erano rappresentati in misura notevole. La metà dei "Freedom Riders" del 1961 erano bianchi. (I Freedom Riders erano gli attivisti che negli Stati del Sud si sedevano in autobus nei posti loro vietati per via del colore della pelle e subivano pestaggi razzisti). Molti di quei bianchi erano ebrei.
    Nonostante questi dati di fatto recentemente in certe componenti della comunità nera in America si è sviluppata la tendenza a considerare gli ebrei alla stregua di oppressori bianchi. Tra i membri di Nation of Islam, un’organizzazione religiosa estremista nera il cui guru, Louis Farrakhan è un ammiratore di Hitler, circola dal 1991 un libro dal titolo "Il rapporto segreto tra neri e ebrei" di autore anonimo, che accusa gli ebrei di aver controllato la tratta transatlantica degli schiavi. Una menzogna. (Gli ebrei erano una piccola minoranza dei trafficanti di schiavi, per lo più cristiani o musulmani).

 Suprematismo bianco?
   Curiosamente a diffondere questa falsità non solo sono i membri di Nation of Islam ma anche quelli del Ku-Klux-Klan. Al di là della propaganda apertamente antisemita i sostenitori della "Critical race theory" considerano gli ebrei parte della "struttura del potere bianco", nientemeno. Ai loro occhi lo Stato di Israele è uno stato razzista di apartheid che deve sparire dalla faccia della terra.
    “In questo modo impongono a molti ebrei scelte politiche impossibili”, scrivono gli autori della lettera pubblicata su "Harper’s Magazine", tipo
  (a) sostenere politici alla Donald Trump oppure
  (b) rinunciare al proprio ebraismo.
    La lettera non nega affatto l’esistenza negli Stati Uniti di una lunga e infame tradizione di violenza razzista contro i neri. I firmatari lamentano però che nel mondo ebraico americano esistono "gruppi potenti" che in nome della "Critical race theory" impediscono qualsiasi dibattito: “In alcuni casi i leader ebraici hanno addirittura condannato gli ebrei per aver espresso opinioni impopolari”.
    La lettera si conclude con queste parole: “A seguito della morte di John Floyd molti americani, ebrei americani compresi, hanno raddoppiato gli sforzi per dar vita a una società più equa. Ma… non si combatte il razzismo interrompendo la discussione e il dibattito. Sarebbe in antitesi rispetto agli ideali americani e all’ebraismo. Il razzismo si combatte insistendo sulla nostra comune appartenenza al genere umano e impegnandoci al dialogo anche con chi la pensa diversamente. Questo esige da noi l’ebraismo”.

 L'attacco del giornale della sinistra ebraica
   La maggioranza dei primi firmatari della lettera si colloca poco più a destra del centro. Ma tra loro non c’è neppure un sostenitore di Trump – anzi, molti (Bret Stephens, Mona Charen, Eliot Cohen) lo hanno osteggiato da giornalisti a partire dall’annuncio della sua candidatura alla presidenza nel 2015. È evidente che la religione non conta: hanno firmato la lettera sia Steve Pinker, ateo dichiarato, che David Wolpe, l’influente rabbino del Sinai Temple di Los Angeles.
    La lettera aperta è in pratica il manifesto dell "Istituto ebraico per i valori liberali" appena creato da David L. Bernstein. "Forward", giornale ebraico di sinistra, ha subito reagito insinuando che l’Istituto sia finanziato dalla destra repubblicana, senza però poterne dare dimostrazione.
    Del resto chi da sinistra critica il "Jewish Institute for Liberal Values" agisce proprio nelle intenzioni dell’Istituto: partecipa a un dibattito.

Copyright Die Welt/Lena-Leading European Newspaper Alliance. Traduzione di Emilia Benghi

(Notizie - MSN Italia, 19 maggio 2021)


Gli attacchi antisemiti in crescita in Occidente. Merkel: «Vergognoso»

Aumentano le aggressioni fisiche e verbali. E negli Usa critiche dei Dem alla linea Biden

di Roberto Fabbri

Su entrambe le sponde dell'Atlantico, in questi giorni dolorosamente segnati dal conflitto tra Israele e le fazioni palestinesi più estremistiche, in Occidente aumentano le manifestazioni anti israeliane, in molti casi coincidenti con la bestia nera dell'antisemitismo. In Europa, e in Germania in particolare, l'odio verso gli ebrei non è più un'esclusiva dell'estrema destra nazistoide e nemmeno dell'ultra sinistra filopalestinese, ma viene sempre più spesso gridato nelle strade da gruppi organizzati di immigrati musulmani, spingendo i governi a prendere chiare posizioni contro questa deriva violenta ( aggressioni fisiche e verbali contro singoli ebrei o israeliani e assalti alle sinagoghe stanno diventando pratica frequente) da qualsiasi parte essa provenga. Negli Stati Uniti, invece, l'ostilità ideologica contro Israele e la aperta simpatia verso la causa palestinese dell'ala sinistra del partito democratico oggi al governo stanno creando difficoltà al presidente Joe Biden: la sua politica di sostegno a Israele - per quanto più critica rispetto a quella della precedente Amministrazione - viene ogni giorno più esplicitamente contestata da figure di primissimo piano dei dem.
   «Non possiamo avere la stessa linea di Trump», ripetono a Biden il vecchio leader socialista Bernie Sanders, la senatrice Elizabeth Warren e la giovane pasionaria newyorkese Alexandra Ocasio-Cortez, che definisce Israele «uno Stato di apartheid non democratico». Essi pretendono la fine della «relazione speciale» tra Washington e Gerusalemme (anzi, il solo fatto che la Casa Bianca riconosca la Città Santa per eccellenza come capitale dello Stato ebraico è per loro intollerabile) e vorrebbero un ritorno alla politica di sostanziale equidistanza tra le parti, ma sarebbe meglio dire di distacco, che aveva caratterizzato gli otto anni di Barack Obama: Ocasio-Cortez si spinge ben oltre, e invita a organizzare «boicottaggio, disinvestimenti e sanzioni» contro Israele. Biden non è certo il filoisraeliano integrale Donald Trump, ma non intende per questo abbandonare un alleato cardinale degli Stati Uniti.
   Tornando in Europa, le autorità di Londra e di Berlino in particolare hanno preso posizione contro lo spirito antisemita di manifestazioni in cui si assiste - esattamente come nelle piazze dei Paesi musulmani - ali' espressione dell'odio contro gli ebrei accanto a quello contro Israele, con tanto di bandiere con la stella di Davide date alle fiamme e aggressioni a persone di religione ebraica. Nella sola Londra in questi giorni sono stati contati ben 63 episodi di attacchi contro ebrei e sinagoghe, il più grave dei quali ha portato all'arresto di quattro persone accusate di aver fatto parte di un corteo di auto con bandiere palestinesi dal quale, usando un megafono, si esortava a uccidere e violentare ragazze e donne ebree. Sia il premier Boris Johnson che il leader laburista Keir Starmer hanno escluso che nella società britannica possa esserci posto per l'antisemitismo. Stefan Seibert, portavoce della Cancelliera tedesca Angela Merkel, ha definito particolarmente grave che una giornalista israeliana sia stata aggredita a Berlino nel corso di una manifestazione. «Questo fa molta rabbia - ha detto Seibert in conferenza stampa -. Ciò che e successo in questi giorni in termini di manifestazioni di antisemitismo e di odio verso gli ebrei è vergognoso». E nei giorni scorsi, lo stesso presidente federale Frank-Walter Steinmeier aveva promesso che in Germania l'odio antisemita ( «da qualsiasi parte provenga») non sarebbe stato tollerato, dopo che in manifestazioni in cui erano state esibite bandiere turche e algerine erano stati urlati insulti contro gli ebrei ed era stata tentata una minacciosa marcia verso una sinagoga nella città di Gelsenkirchen.

(il Giornale, 18 maggio 2021)


L'Occidente in corteo per Hamas odia Israele e coccola i terroristi

Quell'odio contro gli ebrei che non passa mai

di Fiamma Nirenstein

Ditemi dunque, che cosa dovrebbe fare Israele? Voi che marciate nelle strade italiane o inglesi o tedesche con le bandiere palestinesi e urlate slogan che accusano Israele di crimini contro l'umanità, di essere uno stato d'apartheid, di pulizia etnica, voi che difendete Hamas a Parigi, a Berlino, a Londra e a Roma, che inondate Israele di accuse storiche e fattuali sui social media; che, persino, con demenziali teorie della cospirazione suggerite che Netanyahu, diabolico principe del male, avrebbe scatenato la guerra d' accordo con Hamas per ragioni di potere. Voi che finché i terroristi bombardano le case, i kibbutz, le scuole, Gerusalemme e Tel Aviv non uscite per strada per denunciare i palesi crimini contro l'umanità contenuti nel prendere di mira la popolazione civile; voi che quando il terrorismo suicida fece duemila morti nelle strade di Israele con la Seconda Intifada trovaste il tempo, paradossalmente, solo per condannare, anche allora, il diritto alla difesa contro l'omicidio di massa della gente d'Israele che saltava per aria negli autobus e nelle pizzerie, ditemi se avete un'idea su come fermare Hamas che non prendere di mira le strutture e gli uomini di chi progetta e opera i bombardamenti.
   Hamas ha attaccato Israele senza nessuna ragione, un altro round in cui tortura l'intera popolazione civile prendendola a caso di mira, senza altro obiettivo che quello di terrorizzare, uccidere, distruggere. Lo fa tenendo in ostaggio la sua popolazione: due milioni di persone. Quando la usa come scudi umani, sta lanciando missili o organizzandosi per farlo: se l'esercito israeliano si ferma proprio in quel momento, il missile di Hamas parte. E quale governo, quale esercito, ha il diritto di decidere di abbandonarsi all'eventualità che quel missile colpisca i suoi concittadini? Sarebbe pura complicità con il crimine. La verità è nella semplicità di questa vicenda e la sua manipolazione ha un carattere ideologico, è frutto di un pregiudizio contro lo Stato d'Israele come stato delegittimato, indegno di esistere e di battersi per la sua esistenza. È antisemitismo. Proprio come gli ebrei erano considerati indegni di esistere e battersi per la propria esistenza e quella dei figli. Nessun Paese ha dovuto sopportare più a lungo i colpi che il terrore gli ha inflitto.
   La scelta ideologica di Hamas è definitiva, la stessa di Haj Amin al Husseini, l'amico di Hitler, negli anni '30. Israele ha opposto in prima linea uno scudo mondiale di protezione anche morale con la forza della legge, della moralità delle armi, e di una società aperta. Se si trattasse di scontro territoriale, l'Onu non si baloccherebbe dal 1975 con risoluzioni che ripropongono l'idea che «sionismo è uguale razzismo». È vero il contrario: il sionismo di un qualsiasi israeliano, e anche di Netanyahu che da ignorante presuntuoso, un ministro e vicepresidente del Pd, Provenzano, accusa di essere un reazionario, è fiducia nella apertura della propria casa, come provano le tante offerte di pace sempre rifiutate dai palestinesi, nella democrazia così costosa, ma è anche identificazione chiara del nemico che ti vuole uccidere. Delegittimando Israele dal suo diritto alla difesa, si sottintende la legittimità, per converso, dell'eliminazione del popolo ebraico. Israele deve fermare Hamas, anche se la guerra asimmetrica è terribile e dolorosa: fingere di non capirne il significato evidente significa alla fine condividere almeno in un angolo del proprio cuore l'idea che nella parola ebreo esista un contenuto di illegittimità, specie nel momento dell'autodifesa contro l'aggressione e la violenza armata.

(il Giornale, 18 maggio 2021)


L’America e l’Europa ora premono per la tregua

Cresce la spinta della comunità internazionale per il cessate il fuoco tra israeliani e palestinesi. Proseguono gli scontri, almeno 212 vittime tra cui 61 minori. Oggi il vertice dei ministri degli Esteri Ue.

di Sharon Nizza

TEL AVIV - Aumentano le pressioni internazionali per mettere un freno al conflitto tra Israele e Hamas, che entra oggi nella seconda settimana di scontri. Gli sforzi della diplomazia messi in campo non si traducono ancora in risultati concreti e la spirale della violenza continua: non cessano i razzi sulle città del Sud d’Israele, né i bombardamenti dei caccia israeliani. Nella notte di domenica, Israele effettua il terzo bombardamento a massima intensità – 50 caccia coinvolti per 35 minuti – per colpire altri 15 chilometri della “metro”, la rete di tunnel sotterranei utilizzati dagli uomini di Hamas per muoversi in sicurezza.
   L’obiettivo è fare uscire allo scoperto le figure chiave delle organizzazioni fondamentaliste nella “lista dei target” dell’esercito israeliano. Tra questi, Hussam Abu Harbeed, uno dei comandanti della Jihad Islamica, eliminato ieri nel campo profughi di Jabalia. E mentre i tentativi di raggiungere un cessate il fuoco non maturano, a pagare un prezzo altissimo è la popolazione civile: a Gaza sono 38mila gli sfollati, i morti 212, tra questi 61 minorenni, secondo i dati riportati dal ministero della Salute di Hamas. Israele replica che almeno 80 tra loro sono operativi delle organizzazioni integraliste responsabili del lancio di missili verso la popolazione civile israeliana, tra le quali si contano 10 vittime.
   Gli Stati Uniti hanno posto il veto a una dichiarazione promossa al Consiglio di Sicurezza dell’Onu da Cina, Turchia e Norvegia, che non menzionava il lancio di missili verso Israele. Il presidente turco Erdogan - che ieri ha avuto un colloquio con il Papa invitando la comunità internazionale a «punire Israele con sanzioni per mettere fine al massacro dei Palestinesi» – ha inveito contro il presidente Usa Biden per il sostegno a Israele: «Ha il sangue sulle mani». Oggi si riuniranno i ministri degli Esteri dell’Ue per prendere una posizione sull’escalation con una richiesta di tregua.
   È un susseguirsi di telefonate e incontri tra tutti i principali attori internazionali. Hady Amr, inviato da Biden a mediare tra le parti, è al suo terzo giorno di colloqui sul campo. Dopo aver parlato con la parte israeliana, ieri a Ramallah ha conferito con il presidente palestinese Abu Mazen, un incontro volto anche a sanare i rapporti dopo tre anni di rottura tra l’Autorità Nazionale Palestinese e gli Usa di Trump. Jake Sullivan, a capo della Sicurezza nazionale della Casa Bianca, ha parlato con il suo omologo israeliano e con gli egiziani, specificando che «gli Stati Uniti sono attivi in sforzi diplomatici intensivi e silenziosi». Molto di quanto accade in queste ore avviene lontano dall’occhio dei media.
   Netanyahu ha ringraziato pubblicamente la Merkel «per il sostegno al diritto d’Israele a difendersi», evitando di segnalare la parte del colloquio in cui la cancelliera tedesca ha espresso «speranza perché gli scontri finiscano quanto prima, alla luce delle numerose vittime civili da entrambe le parti». La posizione ufficiale d’Israele è “andiamo avanti”. In realtà sa che il margine di manovra si sta stringendo sempre di più alla luce delle immagini di distruzione che arrivano da Gaza, che hanno coinvolto anche la sede di Al Jazeera e Ap, ridotta in macerie. Qatar ed Egitto, tra i mediatori più attivi (Al Sisi ha visto Macron a Parigi), riferiscono di «trattative particolarmente dure rispetto a crisi passate», secondo fonti citate dalla stampa israeliana.
   I nodi principali: Hamas continua a voler legare una tregua a concessioni su Gerusalemme – una nuova clausola mai presente in passato che costituisce al momento il loro asset strategico più importante. Israele potrebbe richiedere di inserire nelle trattative la questione degli ostaggi (due corpi di soldati e due civili entrati per errore nella Striscia) detenuti a Gaza da anni – evitando di concedere rilasci di prigionieri palestinesi come accaduto in passato. L’obiettivo d’Israele nelle prossime ore è continuare a colpire duro per portare Hamas ad accettare un cessate il fuoco senza condizioni. Resta da vedere se gli Stati Uniti glielo concederanno.

(la Repubblica, 18 maggio 2021)


L’ambasciatore iraniano: "Israele fa strage in Palestina"

Confronto sul Medio Oriente. L'intervento dell'ambasciatore della Repubblica islamica dell'Iran in Italia, Hamid Bayat

di Hamid Bayat*

Il viaggio a Roma del ministro degli Esteri della Repubblica islamica dell'Iran Mohammad Javad Zarif è nato innanzitutto per un aggiornamento sui colloqui per la ripresa del Jcpoa (il Piano d'azione congiunto globale) di Vienna. Ma si è svolto sotto il segno dell'ennesima, violenta aggressione del regime di Israele messa in atto in questi giorni nella Palestina occupata.
    La possibilità di un accordo sul nucleare con gli Stati Uniti offre la speranza che con la revoca delle sanzioni Usa anche i rapporti tra Iran e Italia si possano consolidare in vari settori, dall'economia alla politica. Quest'anno festeggiamo i 160 anni delle relazioni diplomatiche fra Iran e Italia, e vogliamo che questo rapporto cresca e si rafforzi come è naturale per i nostri popoli.
    Tornando ai negoziati di Vienna, a nostro avviso un accordo dipende dalla serietà degli Stati Uniti nell'accettare i propri impegni per l'attuazione del Jcpoa e in particolare dalla revoca di tutte le sanzioni imposte dall'amministrazione Trump. Come ha ripetuto più volte il ministro Zarif, l'Iran è pronto a rientrare immediatamente nell'accordo, in tutti i suoi aspetti, se gli Stati Uniti aboliranno tutte le sanzioni.
    Il regime sionista guarda con preoccupazione all'eventuale successo dei colloqui di Vienna e al ritorno degli Usa all'accordo. Anche in passato, questo regime ha fatto di tutto per impedire il successo del Jcpoa. L'insicurezza nella regione favorisce gli interessi del regime israeliano, che quindi non promuove pace, stabilità e sicurezza nell'area.
    In queste ore nella Palestina occupata donne, uomini, bambini innocenti vengono massacrati con le armi più sofisticate. Vengono demolite abitazioni, viene colpito quello che rimane delle infrastrutture di Gaza, incluse gli impianti per l'elettricità e l'acqua. Siamo di fronte alla continua, sfacciata violazione dei diritti umani. Il massacro dei palestinesi di questi giorni segue un periodo di presunta "normalizzazione".
    Israele comprende solo il linguaggio della resistenza, e per questo il popolo della Palestina è pienamente legittimato al diritto di difendersi e di sfidare l'atteggiamento provocatorio di questo regime razzista. Gli atti barbarici a cui stiamo assistendo in queste ore ci provano ancora una volta che l'unico percorso pacifico per la Palestina sarebbe quello di tenere un referendum fra tutti i cittadini residenti in Palestina, per permettere loro di scegliere il futuro della loro terra.
    La Repubblica islamica dell'Iran ha intenzione di lavorare con le Nazioni Unite: chiederemo una convocazione dell'Assemblea generale dell'Onu per affrontare questo tema drammatico. E devo dire che l'assurdo approccio di alcuni governi occidentali, quello di equiparare vittime e carnefice, è qualcosa che ci convince che sia assolutamente necessario agire a livello della comunità internazionale. Dovremmo lanciare una campagna di mobilitazione internazionale contro il regime dell'apartheid instaurato da Israele. Dovremo agire a livello internazionale per far riconoscere il regime di Israele come un regime dell'apartheid. L'Iran sarà sempre vicino alla Palestina.

* Ambasciatore della Repubblica islamica dell'Iran in Italia

(la Repubblica, 18 maggio 2021)


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L’ambasciatore israeliano: "È l’Iran che arma l’odio"

Confronto sul Medio Oriente. L'intervento dell'ambasciatore di Israele in Italia, Dror Eydar

di Dror Eydar*

Salve, signor ministro degli Esteri iraniano Zarif, mentre lei era in visita nella meravigliosa Roma, io mi trovavo in Israele con le mie figlie piccole, sotto il fuoco dell'attacco terroristico che Hamas ha scatenato su Israele, con i vostri finanziamenti, il vostro incoraggiamento e la vostra guida.
    Nell'ultima settimana Hamas ha lanciato circa 3.300 razzi contro città israeliane e obiettivi civili, inclusa Gerusalemme, violando così la sua santità. Il tutto su ispirazione e incoraggiamento vostri. Il Medio Oriente è instabile da anni a causa della vostra ingerenza sovversiva. Ovunque vi sia caos, troveremo tracce del vostro regime. È il caso di Siria, Iraq, Libano e Yemen, così come di Gaza. La vostra economia è al collasso, ma voi state investendo il resto dei vostri soldi nella diffusione del terrorismo e nel finanziamento del vostro programma missilistico nucleare. Per chi? Dalla mattina alla sera dichiarate il vostro desiderio di distruggere Israele e gli Stati Uniti. Tutta la civiltà giudaico-cristiana è minacciata dal vostro regime sanguinario.
    Adesso lei è giunto a elargire sorrisi a Roma, mentre Gaza brucia per colpa vostra. Da un anno e tre mesi il mondo lotta contro un virus che minaccia la salute della popolazione mondiale. Israele sta collaborando con l'Italia alla ricerca e allo sviluppo di farmaci per curare la malattia a beneficio del mondo intero. Voi però, invece di unirvi agli sforzi per sradicare la malattia, preferite investire i vostri sforzi per incoraggiare omicidi e uccisioni, e per incitare contro l'unico Stato ebraico al mondo. Quello che abbiamo udito solo ottant'anni fa in Europa in tedesco, oggi voi lo dite in farsi, anche se lei ha un buon inglese. Contrariamente a quanto afferma la vostra falsa propaganda, voi non siete soltanto contrari all'esistenza dello Stato di Israele, ma vi opponete alla nostra stessa esistenza come popolo indipendente nel mondo. Avete anche l'onore di essere l'unico Paese al mondo ad organizzare un festival di vignette antisemite. Complimenti.
    Qualunque elemento moderato in Medio Oriente cerchi di attuare la normalizzazione con Israele, voi lo minacciate e gli tramate contro. Israele non ha confini con l'Iran, né alcuna disputa su alcun possedimento. Israele si trova a più di mille chilometri dall'Iran. Perché non riconoscete il diritto di esistere di Israele? Smettetela di diffondere odio.
    Il popolo ebraico ha un'esperienza storica positiva con l'impero persiano. 2.500 anni fa, il re Ciro riconobbe il diritto degli ebrei in esilio alla loro terra e in particolare a Gerusalemme, e invitò gli ebrei del mondo a ritornare e costruire il tempio a Gerusalemme. Allora non c'era la Palestina, ma c'erano i regni di Giuda e Israele.
    Ma da quando avete preso il controllo dell'Iran e avete preso in ostaggio il popolo iraniano, non avete alcun pudore a mostrare a tutti che la vostra ragion d'essere è la distruzione dello Stato di Israele. E adesso viene a elargire sorrisi a Roma.
    È bene che sappia che la campagna a Gaza vi è andata male. Israele restituisce la guerra ai vostri emissari del terrore, e ristabiliremo la sicurezza e la pace per i nostri cittadini.
    Il 2021 non è il 2015, quando ancora credevano alle vostre menzogne. Nel frattempo, abbiamo scoperto il vostro archivio nucleare, e le bugie su cui si basava il Jcpoa (Piano d'azione congiunto globale) sono ormai evidenti a tutti. Non si può più tornare a un accordo dalla durata limitata, al termine del quale il vostro regime assassino sarà in grado di ottenere armi nucleari. Io credo alle minacce che muovete mattina e sera, riguardo al vostro desiderio di distruggere Israele, ma noi ci assicureremo che non vi dotiate di armi nucleari, e lo faremo assieme alla comunità internazionale o da soli. Quando si renderà conto l'Occidente che dietro agli abiti eleganti, le cravatte e i sorrisi si nasconde un'ideologia assassina che cerca di cancellare tutta la civiltà occidentale? È necessario svegliarsi.

* Ambasciatore di Israele in Italia

(la Repubblica, 18 maggio 2021)


Di Maio ai piedi del ministro che odia Israele

Il titolare degli Esteri italiano incontra l'omologo iraniano Zarif, che parla di «atti brutali del regime sionista». La Lega protesta. Divisi anche i dem Usa, dove l'ala filo palestinese preme mentre la Casa Bianca vende missili a Tel Aviv. Biden chiede il cessate il fuoco.

di Stefano Graziosi

Mentre continua a infuriare lo scontro tra Israele e Hamas, il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, è stato ricevuto ieri alla Farnesina da Luigi Di Malo. « Vanno fermati i lanci di razzi, sono inaccettabili. È doveroso adottare immediate misure di de-escalation», ha dichiarato il nostro ministro degli Esteri. «Il conflitto tra Palestina e Israele sta causando la morte di troppe persone innocenti e tutti devono lavorare per far riprendere il tavolo dei negoziati tra le parti», ha aggiunto. Secondo una nota della Farnesina, Di Maio «ha confermato che l'intesa nucleare resta un pilastro per la non proliferazione e la stabilità regionale». Zarif, dal canto suo, ha condannato gli «atti brutali del regime sionista».
   Nonostante fosse programmata da alcune settimane e si sia concentrata anche su questioni di cooperazione economica, la visita ha comunque innescato delle forti polemiche politiche, soprattutto perché in coincidenza con l'escalation mediorientale. Dura la posizione della Lega. «Da che parte sta l'Italia? Mentre su Israele piovono razzi lanciati dalla Striscia di Gaza dai terroristi di Hamas [ ... ]. Di Maio, ha incontrato il ministro degli Esteri dell'Iran Zarif, Paese sponsor sia di Hamas che di Hezbollah. La Lega è chiara da sempre: Israele ha non solo il diritto ad esistere, a differenza di quanto afferma l'Iran, ma anche di difendersi», hanno affermato in una nota i deputati Paolo Formentini ed Eugenio Zoffili. «Gli accordi di Abramo sono l'unica via d'uscita per costruire su nuove basi un futuro di pace in Medio Oriente», ha detto lo stesso Formentini alla Verità. «Difendere Israele», ha aggiunto, «vuol dire difendere anche la nostra libertà». La posizione del Carroccio rischia di accentuare le divisioni interne al Pd: un partito che vede filo israeliani come Andrea Marcucci e critici di Benjamin Netanyahu come Laura Boldrinì, A farne le spese è stato alla fine il segretario, Enrico Letta, che si è ritrovato nel mirino delle acuminate critiche dalemiane per aver di recente partecipato assieme a Matteo Salvini a una manifestazione in favore dello Stato ebraico.
   Un'interessante analogia con gli Stati Uniti, dove il Partito repubblicano, con Donald Trump in testa, è tendenzialmente compatto nel sostenere Israele. Non altrettanto si può invece dire dei dem.
   L'ultima fonte di attrito è in tal senso la notizia, riportata ieri dal Washington Post, secondo cui la Casa Bianca avrebbe dato il suo assenso a una vendita di armi ad alta precisione a Israele, dal valore complessivo di 735 milioni di dollari. In particolare, la vendita sarebbe stata notificata al Congresso lo scorso 5 maggio e il Campidoglio ha da allora quindici giorni di tempo per esprimere un'eventuale contrarietà. Le fibrillazioni interne all'asinello, neanche a dirlo, sono già in corso. «Permettere a questa proposta di vendita di bombe intelligenti di andare avanti senza esercitare pressioni su Israele affinché accetti un cessate il fuoco consentirà solo ulteriori massacri», ha detto al Washington Post un parlamentare dem rimasto anonimo.
   Ricordiamo che i democratici si siano drammaticamente spaccati sul sostegno a Israele. Se gli esponenti di area centrista si sono schierati a favore dello Stato ebraico, importanti rappresentanti della sinistra (come le deputate Dhan Omar e Alexandria Ocasio-Cortez) hanno preso le difese dei palestinesi. Una situazione che sta portando la Casa Bianca a dare segnali contraddittori. Giovedì, dopo giorni di tentennamenti, Joe Biden aveva infine riconosciuto il diritto di Israele all'autodifesa. E ieri sera, in una telefonata avvenuta dopo che La Verità è andata in stampa, il leader Usa avrebbe chiesto il cessate il fuoco al collega israeliano. Eppure, i rapporti con Netanyahu erano tornati a irrigidirsi, dopo che, sabato scorso, gli israeliani avevano abbattuto un palazzo che ospitava Al Jazeera e l'Associated press: circostanza che ha portato i vertici della stessa agenzia statunitense a invocare l'apertura di un'inchiesta indipendente. Ieri il segretario di Stato americano, Tony Blinken, ha chiesto a Israele di fornire prove che, in quel palazzo, operassero agenti di Hamas.
   Nel complesso, la linea statunitense non è insomma chiarissima: una situazione dettata non soltanto dalle faide interne all'asinello, ma anche da una politica mediorientale problematica. Negli ultimi mesi, Biden ha infatti avviato una distensione con l'Iran, rilanciando il controverso accordo sul nucleare del 2015, e raffreddato i rapporti con l'Arabia Saudita: una strategia che ha isolato Israele, rafforzato indirettamente Hamas e messo pesantemente a rischio l'eredità trumpista degli accordi di Abramo. Quegli accordi che avevano contribuito a stabilizzare lo scacchiere mediorientale. In questo caos continua a cercare di inserirsi Recep Tayyip Erdogan che ieri, prima di attaccare pesantemente Biden per le sue «mani sporche di sangue» palestinese, in una telefonata con papa Francesco, ha invocato sanzioni della comunità internazionale contro Israele. Una posizione, questa, tenuta anche dal ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, in un colloquio con l'omologo britannico Dominic Raab.
   Gli scontri sono intanto proseguiti nelle scorse ore, con le forze di difesa israeliane che hanno annunciato di aver ucciso il comandante della Jihad islamica, Hussam Abu Harbeed in un attacco aereo, mentre sono stati lanciati almeno 190 razzi dal fronte palestinese.

(La Verità, 18 maggio 2021)


Israele incassa il sostegno internazionale su Gaza

Negli ambienti diplomatici israeliani serpeggia soddisfazione per il modo in cui il mondo sta reagendo alla guerra nella Striscia. Gli Stati Uniti fanno da schermo alle pressioni del Consiglio di sicurezza dell'Onu.

di Davide Lerner

ROMA - Nessuna minaccia di revocare gli accordi diplomatici con i paesi arabi conseguiti lo scorso anno, con Emirati Arabi Uniti Bahrein, Sudan e Marocco. Sostanziale appoggio per l'operazione su Gaza, chi più chi meno, dai paesi dell'Unione europea con Repubblica ceca e Austria che addirittura espongono bandiere israeliane nelle sedi istituzionali. Stati Uniti granitici nell'esprimere sostegno al diritto di Israele a difendersi e poi blandi nel condannare i bombardamenti con vittime civili a Gaza.
  Il Presidente turco Tayyip Erdogan al solito tagliente nelle dichiarazioni pubbliche contro Israele, ma restio a prendere provvedimenti che intacchino i solidi rapporti commerciali della Turchia. Eitan Naeh, l'ambasciatore israeliano che aveva espulso nel giorno dell'inaugurazione dell'ambasciata americana a Gerusalemme nel 2018 (circa 60 i morti nelle proteste a Gaza) se l'è d'altronde ritrovato rappresentante ad Abu Dhabi - una volontaria ripicca israeliana.

 Soddisfazione
  Insomma, mentre si entra nella seconda settimana di guerra fra Israele e miliziani della striscia di Gaza, nei corridoi delle ambasciate e del ministero degli esteri israeliano serpeggia soddisfazione per le reazioni sul piano globale. «Ha aiutato molto il fatto che le ostilità siano iniziate dopo il lancio di razzi di Hamas verso Gerusalemme lunedì scorso, piuttosto che da un raid israeliano sulla Striscia di Gaza», dice un ambasciatore israeliano all'estero che richiede l'anonimato. Sull'impatto della guerra sui cosiddetti accordi di Abramo con i paesi arabi commenta; «Li abbiamo siglati dopo tante guerre, non sarà una in più a cambiare le cose”.
  Yigal Palrnor, a lunghissimo portavoce del ministero degli esteri israeliano e architetto della comunicazione istituzionale israeliana si dice soddisfatto della tenuta degli accordi «Per il momento, e sottolineo per il momento, abbiamo ricevuto alcune condanne dai paesi arabi, ma nulla di particolarmente grave. Nessuna minaccia di rottura dei rapporti diplomatici, l'Arabia Saudita continua silenziosamente a permettere ai voli israeliani diretti verso il Golfo di transitare nel proprio spazio aereo.
  In Giordania ci sono proteste ma le autorità non lasciano che si avvicinino alla frontiera israeliana Dal punto di vista delle reazioni governative possiamo dirci soddisfatti, mentre è più complesso il fronte dell'opinione pubblica», dice.
  Palmor ricorda bene come la prima apparente ondata di normalizzazione fra Israele e il mondo arabo si fosse vista negli anni Novanta, nell'ambito degli accordi di Oslo che dovevano portare alla pace coi palestinesi.
  Dal Marocco alla Mauritania, dalla Tunisia al Qatar e all'Oman tanti paesi avevano aperto canali diplomatici preliminari con Israele. Nel 1993 Shimon Peres, il ministro degli Esteri di Gerusalemme, si lanciava nella pubblicazione di un libro intitolato Il nuovo Medio Oriente, ma i nuovi legami furono recisi con l'avvento della seconda intifada e in ultimo con il conflitto con la striscia di Gaza del 2009, nel caso di Qatar e Mauritania. Una dinamica che per ora oggi ancora non si vede.

 Manifestazioni in Europa
  In Europa Israele incassa critiche moderate dalla Francia (dove 22.000 persone sono scese in piazza in solidarietà con i palestinesi), comunicati comprensivi da Germania e Regno Unito, critiche un po' più severe ma attese da Irlanda e Spagna, mentre dal Giappone arriva un tweet di sostegno dal ministero della Difesa. Quanto alla nuova amministrazione americana di Joe Biden, le pressioni per un cessate il fuoco non sembrano per ora efficaci.
  «Ancora prima dello scoppio della guerra di Gaza era chiaro che il medio oriente non fosse una priorità per la nuova amministrazione di Washington», dice sempre Palmor, «basti pensare che non hanno neppure nominato un ambasciatore in Israele. I loro obiettivi principali sono contrastare l'influenza cinese e il ritorno alle politiche multilaterali».
  A indispettire Israele rimane comunque la posizione dell’Onu, generalmente vissuta come un'istituzione ostile. Il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres ha definito i combattimenti «completamente scioccanti» e aggiunto che «le Nazioni unite stanno spingendo su tutti i fronti per un cessate il fuoco immediato».
  Dice un rappresentante israeliano: «Guterres ha fatto commenti molto duri anche su quanto sta succedendo dentro Israele, facendo riferimento agli scontri fra arabi ed ebrei nelle città miste, divenuti gravi a partire da martedì scorso, Di solito quando ci sono conflitti interni agli stati la diplomazia tace, per rispetto della sovranità».

 Resistenze all'Onu
  Nel frattempo gli Stati Uniti si sono opposti alla pubblicazione di un comunicato del Consiglio di sicurezza Onu per la terza volta in una settimana - l'ultima versione secondo la stampa israeliana chiedeva un cessate il fuoco e l'annullamento sfratti dalle case contese del quartiere di Sheikh Jarrah senza citare il lancio di razzi palestinese.
  Sul terreno i mediatori delle Nazioni Unite cercano di trovare un accordo fra le parti insieme agli egiziani, che tradizionalmente fanno da tramite fra Israele e i miliziani di Gaza Ma il sospetto è che sia ancora di là da venire.

(Domani, 18 maggio 2021)


Immagina i palestinesi senza Hamas

Se la piazza capisse che i fanatici di Gaza ottengono soltanto guerre e bloccano ogni soluzione

di Daniele Raineri

ROMA - Tra poche ore o tra pochi giorni, ancora non lo sappiamo, anche questa guerra tra Israele e Hamas finirà senza alcun risultato. Anche questa volta, come nei tre round di violenza precedenti nel 2008, nel 2012 e nel 2014, Hamas ha fatto molti annunci grandiosi ma non ha ottenuto nulla. Anche questa volta è chiaro il dato di fatto, non fazioso, che la posizione dei palestinesi migliorerebbe di molto se non ci fosse Hamas. “Se non ci fosse Hamas” sarebbe un slogan per tutti i movimenti e le piazze filopalestinesi. “Se non ci fosse Hamas” sarebbe anche una constatazione ovvia, dopo quattordici anni di governo di Hamas a Gaza che non hanno portato a nulla se non a quattro guerre identiche e inutili. E invece siamo qui, ad aspettare che i mediatori egiziani annuncino il cessate il fuoco. Che durerà per un po’ e poi sarà rotto da un nuovo conflitto. E così via, almeno fino a quando “se non ci fosse Hamas” non diventerà la politica della maggioranza dentro e fuori i territori palestinesi. Forse mai, quindi.
    Alla fine di questo conflitto i palestinesi non hanno guadagnato un solo metro di terra in più. Non uno dei problemi che i palestinesi denunciano – l’espansione delle colonie, il trattamento come persone di serie B, la brutalità delle forze di sicurezza israeliane, le restrizioni oppressive – sarà stato risolto e nemmeno si sarà avvicinato alla risoluzione. Anzi, è il contrario: qualsiasi discussione è stata spazzata via. Prendiamo il caso del blocco della Striscia di Gaza imposto da Israele ed Egitto per contenere Hamas e frenare la sua ascesa militare. Com’è possibile negoziare con Israele un allentamento delle restrizioni se Hamas dopo anni di isolamento riesce a sparare tremila razzi sulle città israeliane in una settimana? Un movimento politico palestinese e di successo riuscirebbe a negoziare il ritorno alle condizioni di prima del 2007, quando il blocco non c’era. Quello è tutto territorio che Israele aveva dato ai palestinesi nel 2005 – e prima aveva trasferito altrove tutti i cittadini israeliani, anche con la forza – quando ancora l’idea era che Gaza diventasse un modello di successo di contiguità fra ebrei e palestinesi. Cosa che sarebbe accaduta se, appunto, non ci fosse Hamas.
    La “Battaglia Spada di Gerusalemme”, come Hamas ha chiamato questa campagna di bombardamenti incrociati con Israele, non ha migliorato in nulla le condizioni dei palestinesi di Gerusalemme est. I soli risultati sono le perdite fra i civili, in stragrande maggioranza dalla parte dei palestinesi di Gaza – i palestinesi uccisi dai bombardamenti sono ora 220 e tra loro 58 minori – e le distruzioni materiali, anche in questo caso per la maggior parte dentro la Striscia di Gaza. Ci sono anche le perdite ingenti tra i combattenti delle fazioni armate – che però per ora sono tenute nascoste e in parte mischiate con quelle civili. E c’è il consumo di migliaia di missili delle batterie di Iron Dome, il sistema di difesa israeliano, e adesso le scorte dovranno di nuovo essere rifornite. Se un qualsiasi altro gruppo palestinese avesse conseguito questi risultati disastrosi avrebbe dovuto lasciare il posto a qualcun altro.
    Ma non potrà succedere perché la situazione a Gaza è bloccata. Finché c’è Hamas non c’è possibilità di miglioramento per i palestinesi, ma Hamas non se ne andrà. E quello a cui stiamo assistendo in questi anni è la sua progressiva normalizzazione e la normalizzazione di tutto quello che fa.
    Ieri i due gruppi armati della Striscia, Hamas e il Jihad islamico, hanno pubblicato due video. Quello di Hamas dedicava il lancio di alcuni razzi a Shaher Abu Khadija, un palestinese che due giorni fa ha tentato di investire alcuni militari israeliani a Gerusalemme ed è stato ucciso. Quello del Jihad islamico celebrava il lancio di un razzo Qasim, che di speciale ha una testata con 400 chilogrammi di esplosivo.
    Questo sabato in teoria era il giorno delle elezioni palestinesi per decidere la composizione dell’Assemblea. Le ultime sono state nel 2006 e c’era molta attesa. I sondaggi a fine marzo dicevano che Fatah era sopra al quaranta per cento e che Hamas era attorno al trenta, vuol dire che avrebbero dovuto trovare un compromesso per governare, o fra loro oppure con partiti minori. Però per Fatah c’era l’incognita di un paio di fuoriusciti di rango, Mohammed Dahlan e Nasser al Qidwa, che avrebbero potuto presentarsi con le loro liste e prendere voti di Fatah, che a quel punto sarebbe scesa al trenta per cento come Hamas. Non sapremo chi vincerà perché l’Autorità nazionale palestinese ha sospeso le elezioni perché vuole far votare anche i palestinesi di Gerusalemme est, che stanno con Fatah, ma ancora deve ottenere il via libera da Israele. Hamas, che è pronta a bombardare Israele per i palestinesi di Gerusalemme est, invece non era d’accordo sull’aspettare il loro voto. Questa è la ragione ufficiale. L’altra ragione è che l’Autorità nazionale palestinese, ora in mano a Fatah, non vuole rischiare una vittoria di Hamas, che peggiorerebbe ancora la vita di tutti i palestinesi e non soltanto di quelli della Striscia.

Il Foglio, 18 maggio 2021)


"Bombardiamo, bombardiamo Tel Aviv”

Rabbini aggrediti, monumenti alla Shoah profanati, parole di morte contro gli ebrei in Europa

di Giulio Meotti

ROMA - Domenica, mentre dal Canada arrivava il video di un ebreo picchiato da manifestanti filopalestinesi, un rabbino veniva aggredito a Londra. La sinagoga ortodossa di Chigwell, fuori dalla capitale, ha fatto sapere che il rabbino Rafi Goodwin è stato colpito alla testa e agli occhi mentre gli urlavano slogan antisemiti. Intanto un convoglio di auto con bandiere palestinesi e megafoni appariva nelle aree ebraiche del nord di Londra, la strada che attraversa Hampstead e Golders Green. Nel video gli abitanti si sentono ansimare di paura mentre per strada gridano “F**k gli ebrei, violentate le loro figlie”. In risposta al convoglio, il premier Boris Johnson ha detto: “Non c’è posto per l’antisemitismo nella nostra società”. E mentre la sinagoga Adat Yeshua a Norwich veniva profanata e un ufficiale della sicurezza ebraica di Londra suggeriva che gli ebrei non dovessero andare da soli alla sinagoga, la polizia doveva impedire ai manifestanti di raggiungere l’ambasciata israeliana, punto di arrivo di una marcia iniziata a Hyde Park e che gli organizzatori dicono abbia visto la partecipazione di 100 mila persone. C’era anche un enorme manichino raffigurante Israele come un ebreo degno di Der Stürmer, completo di naso adunco, lineamenti sinistri e corna. Si è marciato al grido di “Khaybar, khaybar ya yahud, jaish Muhammad saya’ud”.
   La traduzione è “Khaybar, Khaybar, o ebrei, l’armata di Maometto ritornerà”. Khaybar è il nome dell’oasi abitata da ebrei che Maometto conquistò nel 628. Il luogo ha assunto un significato leggendario nella prospettiva islamista di una sottomissione finale e violenta degli ebrei.
   Lo stesso grido usato da Hamas nella sua guerra contro Israele oggi risuona da Bruxelles a Vienna. Ad Amsterdam il motto della manifestazione, condannata dal premier Mark Rutte, è stato “dal mare al fiume, la Palestina sarà liberata”, evoluzione del vecchio “gettare gli ebrei in mare” che equivale alla distruzione di Israele.
   A Stoccolma cori per “schiacciare il sionismo”. A Parigi, dove le autorità hanno vietato le manifestazioni per non veder ripetere le scene del 2014 con gli assalti alle sinagoghe (la peggior ondata di antisemitismo dalla Seconda guerra mondiale), manifestanti hanno marciato sopra le bandiere israeliane, come si fa in Iran.
   Un reporter del quotidiano berlinese B.Z. ha seguìto la manifestazione nella capitale tedesca. “Ho sentito una canzone terribile ma purtroppo molto popolare nel mondo arabo: ‘Udrub Udrub Tal Abib’ (bombardiamo, bombardiamo Tel Aviv)”. Uno striscione chiedeva una “Palestina libera dal fiume Giordano al Mediterraneo”, senza Israele.
   “Molti immigrati musulmani e un milieu di sinistra condividono la convinzione che gli israeliani in qualche modo meritino gli attacchi missilistici”, ha scritto sulla Welt Jacques Schuster, capo degli editorialisti del celebre quotidiano tedesco. “A una folla urlante è permesso di salire sulle barricate di fronte alle sinagoghe, esplodere di odio per gli ebrei, bruciare le stelle di David e tutto questo senza conseguenze”. Bandiere algerine, palestinesi e turche e duecento manifestanti davanti alla sinagoga di Gelsenkirchen al grido di “ebrei di merda”. Una bandiera israeliana issata sul municipio della città di Solingen è stata data alle fiamme, riferisce la Bild, con Tim Kurzbach, socialdemocratico e sindaco di Solingen, che parla di “atto vergognoso”. La città di Hagen alla fine ha rimosso la bandiera israeliana per non offendere parte della popolazione. A Berlino, una bandiera israeliana rubata dall’ufficio della Cdu della cancelliera Angela Merkel. Manifestanti hanno dato alle fiamme il memoriale della Grande sinagoga di Düsseldorf, distrutta dai nazisti nel 1938 durante la “Notte dei cristalli”. Un’altra bandiera israeliana bruciata a Münster fuori da una sinagoga.
   L’ex premier francese e socialista Manuel Valls domenica ha detto che c’è una parte della sinistra filo Hamas, mentre a Milano abbiamo sentito in piazza Duomo “Allahu Akbar”. “Questo incontro tra islamismo radicale ed estrema sinistra è potenzialmente esplosivo”, ha detto ieri in televisione Bernard-Henri Lévy. Nessun cittadino di colore è inseguito per le strade di Londra e picchiato. Gli ebrei sì. Ma sono invisibili alla doppia morale dell’antirazzismo che, in nome della Palestina, flirta con l’antisemitismo. Surreale, si rifiutano di condividere una piattaforma con le femministe che pensano che il sesso biologico sia reale, ma marciano assieme a chi invoca l’uccisione degli ebrei.

Il Foglio, 18 maggio 2021)


Il giorno più sanguinoso della guerra Israele-Hamas. Ma si tratta sulla tregua

Nella Striscia 45 morti, tra cui molti bambini. Pioggia di ordigni su Tel Aviv. Attentato a Gerusalemme. L’esercito accusa l’Iran: “È dietro l’arsenale di razzi e droni”. L’appello dell’Onu. Convocata riunione Ue

di Sharon Nizza

TEL AVIV — È il giorno più sanguinoso quello che ieri ha segnato il conflitto tra Israele e Hamas, apertosi una settimana fa con l’attacco missilistico a Gerusalemme, degenerando in fretta in uno dei confronti più intensi che le parti abbiano mai affrontato. Nella notte di sabato, poco dopo una nuova pioggia di missili che ha colpito l’area metropolitana di Tel Aviv, per un’ora interminabile l’aviazione israeliana bombarda senza sosta il quartiere di Al-Wehda a Gaza City. Il conteggio dei corpi sepolti tra le macerie non è ancora definitivo: sarebbero almeno 45 le vittime, 33 uccise in un unico raid, tra cui 8 bambini e almeno 13 persone appartenenti a un unico nucleo famigliare, Al-Kulk. Secondo i dati del ministero della Salute palestinese, il bilancio dall’inizio delle ostilità è di 197 vittime palestinesi di cui 52 minorenni. Secondo fonti citate dalla stampa israeliana, almeno 75 sarebbero combattenti delle diverse fazioni fondamentaliste palestinesi e almeno 8 sono stati uccisi da un razzo esploso all’interno della Striscia.
   Il Consiglio di Sicurezza Onu si è riunito in serata per cercare di fermare le ostilità, e quantomeno raggiungere un accordo per una tregua volta a creare un corridoio umanitario di 12 ore ed evacuare le zone colpite più duramente, mentre migliaia di palestinesi sono stati costretti a lasciare le proprie case per trovare rifugio dalle bombe. Più di 200 palestinesi sono stati trasferiti in ospedali egiziani. E l’Ue ha convocato per martedì un Consiglio straordinario dei ministri degli Esteri.
   Non cessa il lancio di missili sul Sud d’Israele, dove la gente è ancora costretta a non allontanarsi dai rifugi. Sono 3.200 dall’inizio delle ostilità, intercettati al 90% da Iron Dome. Dopo una nottata tra le sirene, l’allarme antimissile non scatta invece nel corso della giornata nell’area di Tel Aviv. Mentre gli israeliani iniziano le celebrazioni, più contenute del solito, per la festività di Shavuot, il premier Netanyahu comunica «andiamo avanti con l’offensiva». Ma alcuni segnali sul campo sembrano indicare diversamente: il fatto che l’esercito abbia dato indicazioni di allentare le restrizioni ai cittadini nel centro del Paese, consentendo la riapertura delle scuole per i bambini con bisogni speciali. Netanyahu stesso in un’intervista alla Cbs dice «vogliamo danneggiare la capacità di Hamas di riprovare ad attaccarci. Ci vorrà ancora del tempo. Spero non troppo», e sembra così prendere sempre più credito l’ipotesi sollevata dagli analisti da giorni, secondo cui «i prossimi due giorni sono critici per raggiungere una tregua».
   La valutazione dell’Idf è che il colpo inflitto all’arsenale di Hamas è pesante e sufficiente a ripristinare la deterrenza: secondo fonti militari, le infrastrutture locali per la produzione dei razzi sono danneggiate e ci vorrà tempo per recuperare. Non è un segreto che venga dall’Iran buona parte del know how che ha consentito a Hamas e alla Jihad Islamica di produrre autonomamente il proprio arsenale nella Striscia di Gaza. L’Idf ha intercettato in questi giorni di combattimenti diversi droni suicidi sofisticati che a Gaza hanno denominato Shahab, considerati la versione locale dei Qasef utilizzati dagli Houti in Yemen. Entrambi riproducono gli Ababil T iraniani. L’Arabia Saudita guarda con grande attenzione ai comunicati con cui l’Idf annuncia che il sofisticato sistema antimissilistico Iron Dome ha intercettato anche tre droni suicidi di questo genere. «È la prima volta che succede», fa sapere il portavoce militare. Si tratta della prima applicazione sul campo di guerra di un upgrading della Cupola di Ferro sviluppata nel corso dell’ultimo anno.
   Ancora allerta per un deterioramento della situazione in Cisgiordania, dopo che, nelle manifestazioni per il Giorno della Nakba dei giorni scorsi, 13 palestinesi sono rimasti uccisi dalle forze armate israeliane. Il presidente Abu Mazen ieri ha riunito l’apparato delle forze di sicurezza chiedendo di evitare una situazione di fauda , il caos che potrebbe prendere il sopravvento anche in Cisgiordania, contenendo le minacce di Hamas che vuole accendere le fiamme anche lì, come a Gerusalemme, dove un autista investe intenzionalmente e ferisce 7 soldati.

(la Repubblica, 17 maggio 2021)


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Issacharoff: “Sul fuoco da Gaza ci vuole tolleranza zero o scoppierà un nuovo conflitto”

di Sharon Nizza

TEL AVIV — Israele è nel pieno di una “Fauda” su tutti i fronti. Ne parliamo con Avi Issacharoff, coautore della serie israeliana di successo, giornalista di punta sulle questioni palestinesi prima per Haaretz e oggi per Walla!.

- Issacharoff, come siamo arrivati a questa situazione?
   «Hamas ha iniziato questo conflitto lanciando sei razzi su Gerusalemme per stabilire una nuova equazione che va inquadrata nell’ambito degli interessi interni palestinesi. Nel momento in cui Abu Mazen ha annullato le elezioni, precludendo ad Hamas la possibilità di rilegittimarsi in Cisgiordania, Hamas ha intrapreso un’operazione ambiziosa per presentarsi come il vero padrone di casa in Cisgiordania, a Gerusalemme e persino tra gli arabi israeliani. Gli è riuscito solo in parte, ma ha dimostrando che ha il potenziale per farlo e questa è la sua vittoria strategica».

- Che cosa si aspetta succeda?
   «Credo che si andrà verso una tregua a stretto giro. A Israele non rimangono molte opzioni: la maggior parte degli obiettivi operativi sono stati raggiunti, ha inferto alcuni duri colpi a Hamas, ma la vittoria rimane sul livello tattico e nel frattempo pagano il prezzo i civili».

- Netanyahu dice che durerà a lungo.
   «Senza farne cospirazioni, in un certo senso c’è una coalizione informale tra Netanyahu e Hamas: si salvano a vicenda. I missili di Hamas hanno congelato i negoziati politici israeliani, mentre Netanyahu negli ultimi 12 anni ha lasciato che Hamas si rafforzasse militarmente, permettendo che producesse missili non stop, facendo entrare i milioni dal Qatar, concedendo agevolazioni umanitarie ed economiche che sperava avrebbero comprato la quiete. Allo stesso tempo indebolendo Abu Mazen, che non è detto potrà o avrà l’interesse di mantenere l’ordine ancora per molto in Cisgiordania. Se l’operazione a Gaza si dovesse prolungare, c’è il rischio di una nuova intifada».

- Le immagini di interi palazzi distrutti, compresi sedi di media, e il coinvolgimento di vittime civili, giustificano il colpo che Israele vuole infliggere a Hamas?
   «Nella mia valutazione, tutto è dettato dal modus operandi di Hamas: se lanci razzi da una zona abitata, vuoi che Israele reagisca colpendo innocenti e fare sì che tutti condannino gli israeliani. Ma Israele ha il dovere di agire contro le rampe di lancio, i tunnel e i terroristi. Immaginiamo che un’organizzazione da un territorio limitrofo lanci razzi su Roma, qualcuno si porrebbe domande su come reagire? Stiamo parlando di un’organizzazione terroristica che sfrutta la propria popolazione nella maniera più cinica possibile: perché Hamas se ne sta sottoterra mentre i civili non sanno dove andare? Pochi giorni fa il ministero degli Interni di Hamas a Gaza ha mandato un sms a tutti i cittadini avvertendo di non pubblicare video di lanci di razzi. Gli interessa che non venga svelato dove sono i lanciarazzi, perché sanno bene che sparano da quartieri densamente popolati».

- Che cosa deve succedere perché le cose cambino?
   «Israele deve cambiare la sua politica: significa contemplare anche mosse offensive nei momenti di apparente tranquillità, appena parte un solo razzo. Zero tolleranza verso l’arricchimento dell’arsenale di Hamas. O ci ritroveremo in un nuovo scontro a breve».

(la Repubblica, 17 maggio 2021)


Le ragioni del buon diritto di Israele sulla sua terra

COMUNICATO EDIPI

Da parte di EDIPI (Evangelici D'Italia Per Israele) inviamo una lettera di solidarietà all'UCEI, sottolineando che supportiamo la causa di Israele, nell'attuale momento di grave conflittualità che si è creato a causa del terrorismo di Hamas.
Siamo convinti che gli ebrei abbiano un diritto BIBLICO e storico di vivere nella loro madrepatria Israele e di vivere in quella terra con uno Stato sovrano, in libertà e dignità. Crediamo che una subdola forma di antisemitismo sia proprio l'antisionismo: il non voler riconoscere quel diritto!
Un diritto alla vita più volte minacciato, altrettanto boicottato, attaccato, e rifiutato, non solo sul piano militare, economico e politico, ma anche su quello legale e diplomatico.
L'antisionismo non è altro che un antisemitismo giuridico, l'attuale transmutazione genetica del virus dell'antisemitismo: partito come antigiudaismo religioso (il popolo deicida), per poi mutare geneticamente nell'antiebraismo razziale (la razza degenere) e con l'attuale mutazione in antisionismo su base giuridica con l'obbiettivo di distruggere lo Stato di Israele.
Per questa ragione è necessario continuare a spiegare le ragioni del buon diritto di Israele sulla sua terra.
  • E' un dato storico e antropologico, basato sulla storia antica del popolo di Israele, che 3000 anni fa ha fondato il primo stato unitario e autonomo sulla terra fra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo.
  • E' un dato politico e militare, perché lo Stato di Israele è stato ininterrottamente attaccato con le armi di eserciti confinanti e del terrorismo per tutti i 73 anni della sua esistenza.
  • E' un dato morale e ancora politico, perché deriva dal diritto all'autodeterminazione del popolo ebraico, sottoposto da secoli alle persecuzioni tanto in Europa che nel mondo musulmano.
  • E' un dato teologico, radicato nel patto della Bibbia, in quanto siamo convinti che Dio ha assegnato per sempre ai figli di Giacobbe la terra promessa, in vista della completa restaurazione di Israele.
  • Ed infine è anche un dato giuridico, ben radicato nel diritto internazionale, che proprio il recente 101° anniversario della Risoluzione di Sanremo del 25 aprile 1920 ha ricordato con una serie di valide manifestazioni, anche se caratterizzate da una certa retorica di circostanza.
Purtroppo in questa occasione se da un lato tutti i commentatori hanno ricordato che la Risoluzione di Sanremo ha riconosciuto i diritti nazionali ed esclusivi del popolo ebraico per la Terra di Israele, in forza della legge internazionale e della connessione del popolo ebraico con il territorio in precedenza noto come Palestina, dall'altro non hanno evidenziato come un evento determinante come la Conferenza di Sanremo del 1920 sia stato dimenticato e ignorato dalla comunità delle nazioni, e che i diritti che conferiva al popolo ebraico sono stati limitati, ignorati e negati. Infatti il Mandato per la Palestina del 24 aprile 1920 indicava i confini della terra in cui la nascente Nazione Ebraica (Jewish National Home) su un territorio di 120.466 Kmq, mentre già il 16 settembre 1922, la Gran Bretagna, tradendo il suo impegno di mandatario, convincendosi progressivamente di avere la convenienza a favorire l'antisemitismo arabo, ne riduceva il territorio del 77%, creando la Transgiordania (Palestina araba), lasciandone solamente 28.166 Kmq alla Palestina ebraica.
Il prosieguo delle vicende storiche delle nazioni sottoscriventi a Dichiarazione di Sanremo (Gran Bretagna, Francia, Italia e Giappone), trova un significativo riscontro nel verso del profeta Giole:
"...le chiamerò in giudizio a proposito della mia eredità, il popolo di Israele, che esse hanno disperso tra le nazioni, e del mio paese, che hanno spartito fra loro" (Gioele 3:2).

Infine il nostro coinvolgimento come EDIPI, se da un lato riconosce che una pace giusta e duratura, determinante l'accettazione di confini sicuri e riconosciuti tra tutti gli stati nella regione, può esser raggiunta solo riconoscendo i diritti di Israele da tempo sanciti nella legge internazionale, dall'altro si impegna a PREGARE continuamente per la Pace di Gerusalemme (Salmo 122:6), PROVVEDERE ad un impegno economico per sostenere l'economia di guerra israeliana (un missile dell'IRON DOME costa 50.000$ contro le poche centinaia di dollari per i missili Qassam dei terrorismo islamico),

PORTARE una corretta informazione in tutte le occasioni che ci coinvolgono e soprattutto nelle nostre chiese, al fine che nasca un forte sentimento di sionismo cristiano. Le 3 "P" di EDIPI: P di pregare, P di provvedere, P di portare per arrivare alla quarta P ....P di PACE!

Ivan Basana

(EDIPI, 17 maggio 2021)


E nel caos Netanyahu torna centrale

Con il conflitto naufraga il governo destra sinistra con gli arabi. Bennett non più disposto a lavorare con Abbas. Ipotesi di rotazione proprio con Bibi

di Fiamma Nirenstein

Nella paura e nella speranza, mentre in Israele ci si interroga su strategia e sopravvivenza, si apre una strana vicenda politica: Bibi Netanyahu riemerge dopo la fallita formazione del governo, e Lapid, che ha ancora due settimane di tempo, sembra affondare. Intanto, nell'Autonomia Palestinese, perde contorno la figura di Abu Mazen, ormai né consultato né considerato a fronte di un Hamas fiammeggiante che incita alla guerra senza tregua.
   Lunedì scorso, alla tv israeliana appariva cosa fatta il governo che avrebbe spodestato Netanyahu dopo dodici anni da premier: un governo di cambiamento, di sinistra e di destra, di leader uniti da sentimenti politici e personali: chiunque fuorché Bibi. I due leader, uno di destra Naftali Bennett («La destra») e uno di centrosinistra Yair Lapid («C'è un futuro») si erano accordati per un governo di rotazione di cui erano stati già fissati persino i ministri. Bennett avrebbe avuto il primo turno nella rotazione poi destinata a Lapid, ambedue sarebbero stati ministri degli esteri, Gantz alla difesa, e Avigdor Lieberman alle finanze. Il punto finalmente risolto con infinite discussioni era quello sui partiti arabi: il king maker sarebbe stato il religioso islamico della Fratellanza Musulmana, astuto e realista Mansour Abbas, con un partitino capace di far raggiungere al gruppo i 61 seggi necessari per il governo. A quel punto, proprio di lunedì, si è aperto l'inferno con la conseguente secessione di Bennett: Hamas ha scatenato la guerra prima alla spianata delle Moschee, poi con la spettacolare salva di missili proprio sulla capitale Gerusalemme e sul sud di Israele, su Tel Aviv e la costa superpopolata.
   Il conflitto ha rivoluzionato la politica, seguito da violenze e linciaggi dalla parte araba, peraltro fomentata dalla risposta di gruppi estremisti di ebrei. E qui che la formula Lapid-Bennett si è rotta, ed è tornato in gioco Netanyahu. A fronte di una guerra con Gaza e un fronte interno allargato al West Bank e ai confini con il Libano, un governo come quello in fase di organizzazione avrebbe difficilmente trovato una linea comune. Bennett ha ammesso che - dopo la chiamata alle armi per Gerusalemme di Abbas -, non gli era più possibile immaginare un'azione comune. Adesso, mentre le trattative sono rallentate dalla festa ebraica di Shavuot, la destra di Bennett e anche quella più secessionista di Gideon Saar torna al tavolo, e si fa strada l'idea della rotazione di Bennett come numero uno, ma con Netanyahu. Così, mentre Israele soffre, la discussione su Netanyahu torna ai toni da campagna elettorale. I critici gli imputano di aver cercato lo status quo quando ha permesso ad Hamas di ricevere fondi dal Qatar e missili dall'Iran. E sostengono che avrebbe invece dovuto essere più deciso, eliminando una volta per tutte il nemico che tiene due milioni di palestinesi prigionieri a Gaza. Paradossalmente, l'accusa di non aver cercato (e di non cercare neppure oggi), una guerra definitiva ma solo la distruzione dell'apparato bellico, gli viene dalla sinistra. Per la quale non è stato abbastanza guerrafondaio: non ha voluto cancellare la leadership di Hamas e non ha convinto gli arabi della bontà dell'integrazione.
   Ne sentiremo di ben altre nei prossimi giorni, quando il rumore delle esplosioni sarà meno forte e si capirà se si va di nuovo a un governo di destra o alle elezioni. Intanto, qui Hamas deve essere fermata: questo è lo scopo, e Netanyahu lo ripete ogni giorno.

(il Giornale, 17 maggio 2021)


Ebrei e arabi, rischio guerra civile. L'orrore dei linciaggi scuote Israele

Non solo i razzi di Gaza, esplodono violenze nelle città a popolazione mista. Colpiti anche i bambini

Gli islamici moderati hanno promesso che contribuiranno alla riparazione delle sinagoghe Hamas vuole sfruttare anche la rabbia degli arabi d'Israele per scalzare al Fatah del debole Abu Mazen

di Aldo Baquis

GERUSALEMME - Più ancora degli attentati, più dei serrati lanci di razzi, in questi giorni si è profilato in Israele l'incubo più grave: quello dell'apertura di un fronte interno che contrapponga la popolazione ebraica alla minoranza araba. Ci sono state giornate di estese violenze nelle città a popolazione mista (Jaffa, Lod, Ramleh, San Giovanni d'Acri, Tiberiade), con tanto di molotov lanciate nelle case degli arabi, senza neanche risparmiare i bambini. Per reprimere i disordini la polizia ha dovuto mobilitarsi e il premier Benjamin Netanyahu ha fatto intervenire anche lo Shin Bet, il servizio di sicurezza interno specializzato nell'intercettare gli attentati e nel soffocare sul nascere le rivolte dei palestinesi nei territori.
   Alla vista di quelle violenze Hamas ha esultato. Il progetto era utilizzare l'ondata di sdegno seguita ai gravi incidenti (centinaia di feriti) di una settimana fa alla Spianata delle Moschee di Gerusalemme nel Laylat al-Kader - la solennità conclusiva del digiuno del Ramadan - per sferrare a Israele un potente attacco di razzi. Voleva così dimostrare ai palestinesi che, mentre la figura di Abu Mazen e al Fatah diventa sempre più evanescente, proprio Hamas sarebbe ormai la forza trainante della loro causa nazionale. Per questo era necessario coinvolgere nel confronto violento con Israele non solo i palestinesi di Gerusalemme, ma anche quelli della Cisgiordania e gli arabi cittadini di Israele, il 20% della popolazione.
   Con l'ingresso sulla scena delle Brigate Ezzedin al-Qassam, l'ala militare di Hamas (un miniesercito ben addestrato forte di 20-30mila uomini) in alcune località arabe di Israele la febbre è salita. Folle di facinorosi sono comparse nelle strade a Lod attaccando passanti ebrei, appiccando il fuoco ad auto in sosta, devastando appartamenti e poi anche attaccando sinagoghe. Il contagio è stato veloce. Scene simili si sono avute anche a Jaffa e ad Akko. La reazione degli estremisti ebrei è stata altrettanto rapida ed irruente. A Bat Yam, amena località turistica vicina a Tel Aviv, un gruppo di teppisti ebrei ha linciato un tassista arabo di passaggio, malgrado in quel momento l'attacco fosse ripreso dalla tv di Stato e trasmesso in diretta per mezz'ora. Episodi di brutalità di arabi a danno di ebrei, e di ebrei a danno di arabi, sono proseguiti per giorni, prima che la polizia riuscisse a riprendere un controllo almeno precario della situazione. Adesso i servizi segreti sono impegnati a cercare di comprendere se dietro alle giornate di anarchia ci fosse una regia. L'arresto di un dirigente del movimento islamico nel nord di Israele ha evocato il sospetto che la frazione massimalista del Movimento islamico (che in passato ha avuto contatti con Hamas, a livello di associazioni di beneficenza) abbia ispirato le agitazioni di piazza. Ad esse potrebbero essersi uniti elementi arabi della criminalità, che dispongono di riserve di armi e non temono la polizia. D'altra parte l'ala moderata del Movimento islamico, guidata dal deputato Mansur Abbas, ha promesso che parteciperà alla riparazione delle sinagoghe danneggiate.
   Ad accrescere il timore di un'escalation l'intervento nei disordini di elementi della estrema destra ebraica, legati al movimento dei coloni. Erano giunti dalla Cisgiordania in rinforzo di 'Nuclei religiosi' di ebrei nazionalisti insediatisi negli ultimi anni nei rioni omogenei arabi di quelle città, col finanziamento di enti governativi israeliani. La loro presenza aveva generato fra gli arabi il timore che dietro ai 'Nuclei religiosi' ci fosse un progetto politico a loro ostile. Israele si è così trovato vicino a un baratro forse più minaccioso di quello prospettato dagli attacchi dei razzi lanciati da Gaza (3.000 in una settimana): ossia che gruppi avversi per religione e per politica, entrambi in possesso di grandi riserve di armi, si confrontassero a viso aperto sul territorio. Di fronte al baratro i leader politici e religiosi si sono mobilitati. Decine di ex deputati hanno firmato un appello per la amicizia arabo-ebraica e molte iniziative di riconciliazione sono state organizzate in tutto il Paese. La fiammata improvvisa di violenza ha comunque creato sbigottimento: anche perché negli ultimi mesi ebrei e arabi avevano lottato spalla a spalla e con grande determinazione contro il Covid, ottenendo risultati che avrebbe destato ammirazione nel mondo.

(Nazione-Carlino-Giorno, 17 maggio 2021)


Crolla tribuna in sinagoga alle porte di Gerusalemme: almeno due morti e oltre 160 feriti

E' successo a Givat Ze'ev, insediamento in Cisgiordania. L'incidente arriva poco dopo il crollo sul monte Meron, con 45 vittime Tweet Israele: tragedia al raduno religioso a Meron, nella calca almeno 45 morti 16 maggio 2021.

Il crollo della tribuna di una sinagoga a Givat Zee'v, insediamento in Cisgiordania alle porte di Gerusalemme, ha provocato due vittime. A morire in conseguenza del crollo sono stati un ragazzo di 12 anni e un uomo di 40 anni, riferisce il Times of Israel, citando fonti del Magen David Adom rescue service. Sono in tutto 167 le persone ricoverate in ospedale per le ferite riportate nel crollo, di cui 5 in condizioni molto gravi.
    Un video pubblicato su Twitter mostra una sinagoga piena di gente e una gradinata che crolla improvvisamente in seguito a quello che pare essere un cedimento strutturale.
    L'incidente, avvenuto nel giorno in cui si celebra la festività ebraica di Shavuot, una delle tre feste bibliche di pellegrinaggio nota come Festa delle Settimane in italiano e come Pentecoste in greco antico, arriva solo poche settimane dopo che 45 persone erano rimaste uccise in un crollo simile in un santuario sul monte Meron, nel nord di Israele.
    Erano oltre 600 i fedeli all'interno del luogo di culto quando la tribuna ha ceduto. La zona, ha spiegato la polizia, è stata evacuata ed è stata aperta un'indagine.
    I media israeliani hanno pubblicato documenti dai quali risulta che la polizia e il Consiglio comunale di Givat Ze'ev avevano tentato di vietare cerimonie all'interno della sinagoga, proprio per il rischio che la struttura rappresentava, ma non mettendosi d'accordo su chi dovesse farlo.
    La sinagoga non era stata completata e non aveva ancora le autorizzazioni per essere utilizzata. Dalle carte emerge che la polizia aveva avvertito l'assemblea comunale del rischio di incidente. Tuttavia, quando quest'ultima ha chiesto alla polizia di intervenire per chiuderla, la stessa polizia ha risposto che spettava all'assemblea comunale farlo.

(RaiNews, 16 maggio 2021)


Antisemiti sotto mentite spoglie

di Giuseppe Veltri

Gelsenkirchen è una cittadina della Vestfalia in Germania, che non registra storicamente una presenza ebraica continua prima dell’800, e anche all’inizio del ventesimo secolo aveva raggiunto appena ca. 1100 anime, ma con una grande sinagoga officiata dagli ebrei riformati. La consolidazione numerica e sociale della comunità avvenne poco prima della presa di potere di Hitler e fu annientata seguendo il destino orribile di molte altre nei campi di concentramento. Dopo la shoah la sinagoga venne ricostruita solo nel 1958, come centro di una sparuta comunità di ebrei. Essi furono oggetto di attacchi individuali antisemiti già nel passato, ma adesso Gelsenkirchen è nella cronaca per una consistente manifestazione avvenuta il 12 Maggio scorso con urla di Scheissjuden e Kindermöder Israel (“Israele, assassini di bambini”). I manifestanti sventolavano bandiere palestinesi, turche, algerine. Sono arrivati in gruppo di circa 180 persone davanti alla sinagoga, osteggiati da poliziotti esterrefatti che non credevano alle loro orecchie.Il 14 maggio una ben nutrita folla di cittadini si è riunita davanti alla sinagoga per dimostrare il proprio appoggio, sostegno e conforto alla comunità ebraica.
   Non è il solo episodio violento avvenuto in questi giorni. Leggendo la stampa tedesca si ha un’immagine poco rassicurate. Cito lo Spiegel, da cui ho attinto le notizie seguenti. A Münster i manifestanti hanno bruciato una bandiera israeliana davanti alla sinagoga, e a Bonn, dei giovani hanno lanciato pietre contro la vetrata di un luogo di culto ebraico. A Würzburg, uno sconosciuto ha strappato la bandiera israeliana dal palo di fronte all'ufficio del distretto e l'ha fatta a pezzi. Nella capitale berlinese, la situazione si è aggravata dopo una manifestazione pro-palestinese a Berlino-Neukölln. Manifestanti e forze dell’ordine si sono scontrati. I dimostranti hanno bloccato la strada e lanciato pietre e bottiglie contro la polizia. Sedici agenti sono stati feriti e decine di persone sono state arrestate. Ad Hannover, una chiamata anonima ha minacciato di incendiare i luoghi della comunità ebraica. L’elenco potrebbe essere esteso.
   L’attuale guerra di Israele contro Hamas ha ridestato o rinsaldato l’astio contro gli ebrei, un alibi politico per gli antisemiti per non farsi riconoscere come tali, ma facendo alleanza con islamisti radicali. La situazione è preoccupante. Un documento federale del 2014 parlava di 573 atti violenti nei confronti di ebrei o istituzioni ebraiche, in relazione, più o meno diretta, con il conflitto israeliano-palestinese. Nel 2020 sono già diventate 2351, anche a causa delle dimostrazioni contro le misure provocate dalla pandemia del COVID-19. Gli ebrei sono additati come facenti parte della lobby che ne avrebbe solo tornaconto. Il governo tedesco federale e regionale, delle Länder, è stato duro contro gli attacchi antisemiti recenti. Dall’inizio della guerra ad oggi, in pochissimi giorni, si son moltiplicate le prese di posizione di quasi ogni ministero e responsabile stampa e di partito, e il ministro federale dell’interno Seehofer ha minacciato misure draconiane.
   La comunità ebraica ha timore di attacchi molto più mirati e terroristici, che non sono solo da ricondurre a gruppi arabi e musulmani, ma anche e forse soprattutto a simpatizzanti che usano la guerra attuale come scintilla per riaccendere il combustibile dell’inveterato odio contro gli ebrei. Sono tuttavia piccoli gruppi e la maggioranza tedesca non solo è contraria, ma si vergogna di assistere a questi atti vandalici e terroristici. A parte le manifestazioni di solidarietà, bisognerebbe far di più, come ha criticato la presidente della comunità ebraica di Monaco, Charlotte Knobloch che vede nell’ascesa del partito radicale di destra, Alternative für Deutschland, uno dei pericoli di estremismo, ma anche nella crescita di attacchi antisemitici in internet, un veleno che si diffonde celermente. Molti giovani ebrei, afferma la Knobloch, stanno pensando seriamente di lasciare la Germania.
   Anche se sono sparuti gruppi, sono in continua ascesa. Internet ha dato loro una piattaforma facile dove iniettare il proprio veleno. Ed è un nuovo antisemitismo che usa tattiche antiche perché dà indiscriminatamente la colpa agli ebrei di ogni elemento stimato contrario a se stessi e al proprio concetto di libertà e nazione. La loro posizione la chiamano giustificata critica di Israele, ma attaccano gli ebrei in Europa, la denominano difesa della libertà di opinione, ma non accettano altri modi di pensiero. Si ergono a paladini della lotta per la libertà ed invece lottano verbalmente e fisicamente contro ogni presenza e istituzione ebraica. Affermano che non è antisemitismo insinuando che gli ebrei abusino del termine, usandolo come “Moralkeule” (la clava della morale) contro i tedeschi, a causa del passato. Censurano chi li invita ad una visione più realista della causa medio-orientale, accusandoli di sionismo. È il nuovo antisemitismo, che usa la tattica ben conosciuta di far la vittima essendo carnefice, di accusare di violenza gli altri violentandoli e di vendere come verità la loro falsità, tacciando gli altri di menzogna. Vino nuovo in otri vecchi, oppure una nuova forma di razzismo e antisemitismo a larga fascia?

(Shalom, 16 maggio 2021)


Difende Israele e va in piazza: lo minacciano anche di morte

di Alberto Giannoni

Gianmarco Senna, consigliere regionale leghista, è stato minacciato per aver partecipato a un sit-in di solidarietà con Israele davanti alla sinagoga di via Guastalla. Ha deciso di denunciare tutto. E da amico dello Stato ebraico e degli ebrei fa sapere che questo inquietante episodio ha solo rafforzato la sua convinzione.
    E va detto che la Lega in questi giorni, da Matteo Salvini in giù, sta tenendo con straordinaria convinzione il punto, dimostrando una straordinaria vicinanza allo stato d'Israele, una vicinanza che va oltre ogni possibile calcolo. Torna alla mente la bandiera con la stella di David che è comparsa nel pratone di Pontida sede dello storico raduno leghista.
    Senna a Milano incarna perfettamente questa sensibilità: lo scorso anno aveva presentato e fatto approvare una mozione pro Israele in Regione. In quest'ultima crisi mediorientale, ancora in corso, l'amicizia della Lega per Israele si è rafforzata ulteriormente. A Milano, il presidente del Municipio 4, Paolo Bassi, ha esposto la bandiera sulla finestra del suo ufficio. E Senna, con altri, ha partecipato al sit-in al tempio di via Guastalla. «A seguito della mia presa di posizione - racconta - sono stato inondato su tutti i miei social di gravi insulti alla mia persona ed alla mia famiglia. Questi attacchi infami da chi si nasconde dietro falsi profili, rafforzano ancor di più le mie convinzioni. In ogni caso, quest'oggi mi sono recato nelle sedi opportune per denunciare questo scempio. Ringrazio ancora il personale della questura per il loro supporto. Non sono certo questi tipi di messaggi a fermarmi».

(il Giornale, 16 maggio 2021)


Gerusalemme, una coppa di stordimento per tutti i popoli

Riceviamo da un fratello in fede la segnalazione di un suo articolo pubblicato oggi sul "Nuovo Monitore Napoletano". Riportiamo la segnalazione e ringraziamo l'autore per il suo prezioso contributo. NsI

di Tommaso Todaro

Correva l’anno terzo del regno di Osea, Re di Israele, quando Ezechia, all’età di 25 anni, cominciò a regnare da Gerusalemme su tutta la Giudea.
Le dodici tribù a quel tempo non formavano più un unico regno ma, a seguito della scissione avvenuta dopo la morte di Salomone, circa nell’anno 930 e.v., avevano formato due regni: il Regno di Giuda, comprendente le tribù di Giuda e di Beniamino e a nord il Regno di Israele, che comprendeva le ulteriori dieci tribù.1
Il secondo libro dei Re ci fa sapere che Ezechia «fece ciò ch’è giusto agli occhi dell’Eterno, interamente come aveva fatto Davide suo padre».2
All’epoca la nazione era assoggettata al re d’Assiria ma Ezechia, fidando nell’aiuto di Faraone, si ribellò affrancando il popolo dalla servitù.3
La vendetta non tardò a venire. Al quarto anno del regno di Ezechia, Shalmaneser salì contro Samaria e la conquistò dopo un assedio durato tre anni (il settimo del regno di Ezechia), deportando gli abitanti in Assiria. Si volse poi contro il Regno di Giuda e ne conquistò le città fortificate, giungendo infine sotto le mura di Gerusalemme.
Dovette però togliere l’assedio avendo ricevuto la notizia della minaccia proveniente dall’Etiopia e rientrò precipitosamente a Ninive, dove trovò la morte di spada per la congiura ordita dai suoi figli.
Gerusalemme venne conquistata da Nabucodonosor nel 586 e.v. e il Tempio devastato e incendiato.

(Nuovo Monitore Napoletano, 16 maggio 2021)


Raid israeliano a Gaza abbattuta la torre dei media Razzi di Hamas su Tel Aviv

Centrati gli uffici di "Ap" e "Al Jazeera" Biden sente al telefono Netanyahu e Abu Mazen

di Sharon Nizza

TEL AVIV — Nella quinta giornata di combattimenti tra Israele e Hamas, l’aviazione israeliana continua a bombardare senza sosta la Striscia di Gaza, mentre il 75% della popolazione dello Stato ebraico si trova nel raggio dei missili di Hamas e vive accanto ai rifugi. Nella notte di venerdì, le bombe israeliane colpiscono il campo profughi Shati a nord della Striscia. Tra le vittime ci sono anche 8 bambini e 2 madri della famiglia Abu Hatab. Nella giornata di sabato i caccia israeliani riducono in macerie il Burj al-Jalaa, un palazzo di 15 piani che ospitava anche gli uffici di Al Jazeera e dell’agenzia stampa Ap. Secondo Israele «dal Burj al-Jalaa operava l’intelligence militare di Hamas». L’edificio si aggiunge ad altri quattro palazzi distrutti negli ultimi cinque giorni con le stesse modalità. Agli inquilini era stata data un’ora di tempo per evacuare. In un video trasmesso dai media è riportata la trattativa telefonica tra un ufficiale israeliano e il proprietario del palazzo che supplica i militari di fornire dieci minuti in più per consentire ai giornalisti di recuperare attrezzature, imbattendosi nel rifiuto: «Vi abbiamo dato un’ora per evacuare, che nessuno rientri, è per loro, non per me, ne va della vostra vita». La risposta di Hamas non si fa attendere. A mezzanotte suonano le sirene a Tel Aviv. Sulla città riprende il lancio di razzi da parte di Hamas, mentre Netanyahu annuncia che le operazioni militari nelle Striscia «continueranno per il tempo necessario».
   Le sirene, nel corso della giornata di ieri si sono riattivate più volte anche nel centro del Paese, 100 km a nord della Striscia. Un missile ha colpito direttamente un’abitazione a Ramat Gan, alla periferia di Tel Aviv, facendo una vittima e portando a 10 il bilancio dei morti israeliani. Sono oltre 2.500 i razzi lanciati dalla Striscia da lunedì. Il ministero della Salute di Gaza riferisce di 145 vittime palestinesi finora, tra cui 41 bambini. Israele sostiene che almeno 75 tra le vittime siano operativi di Hamas e della Jihad Islamica, di cui almeno 20 comandanti i cui nomi sono stati resi pubblici nei giorni scorsi e ai quali ieri si è aggiunto Khalil al-Hayya, il numero 2 di Yahya Sinwar, il capo di Hamas a Gaza, la prima figura appartenente alla dirigenza politica dell’organizzazione presa di mira dall’inizio delle ostilità. Israele addossa a Hamas la responsabilità del coinvolgimento di vittime civili perché «deliberatamente li utilizza come scudi umani». Fatou Bensouda, la procuratrice capo della Corte Penale Internazionale ha annunciato l’intenzione di estendere le indagini alle violenze in corso nell’ambito dell’inchiesta aperta a marzo «sulla situazione in Palestina a partire dal giugno 2014».
   Monta la tensione per Israele anche sul fronte nord: manifestanti libanesi hanno continuato anche sabato a riversarsi sul confine, dopo che venerdì militanti di Hezbollah erano entrati in territorio israeliano-secondo le indagini - per commettere un attentato. Uno di loro è stato ucciso dalle forze israeliane. Israele per ora si concentra su Cisgiordania e città arabe israeliane, dove la tensione è alta con il ricorrere della giornata della Nakba, "la catastrofe", come definiscono i palestinesi quella che per gli israeliani è la data civile dell’indipendenza dello Stato. Venerdì 11 palestinesi sono rimasti uccisi dall’Idf in manifestazioni organizzate da Hamas.
   Il presidente palestinese Abu Mazen, che ha ricevuto ieri la prima telefonata dal presidente Biden (che ha sentito anche Netanyahu), ha dimostrato preoccupazione per il ruolo svolto da Hamas nell’escalation in corso in Cisgiordania. L’organizzazione che governa Gaza cerca di trascinare nella spirale delle violenze anche le aree amministrate da Fatah, per porsi come il vero leader e vendicarsi dell’annullamento delle elezioni palestinesi da parte di Abu Mazen. Un attacco a Hamas arriva anche dagli Emirati Arabi Uniti, nuovi alleati degli israeliani. «Se Hamas non si impegna a mantenere la calma, condanna gli abitanti della Striscia a una vita di sofferenza. I suoi leader devono capire che le loro politiche stanno prima di tutto danneggiando la gente di Gaza», ha detto un funzionario emiratino citato dal Times of Israel. Hady Amr, l’inviato di Biden atterrato venerdì, ha iniziato gli incontri con le parti per raggiungere una tregua. Al momento senza risultati.

(la Repubblica, 16 maggio 2021)


La città sotterranea di Hamas bombe sul quartier generale

Nel mirino la "metro": gallerie e uffici, parcheggi e rifugi

TEL AVIV — Il più devastante bombardamento israeliano su Gaza dall’Operazione Margine Protettivo del 2014 avvenuto giovedì notte svela i primi dettagli su quella che le forze armate israeliane chiamano metro. Metropolitana, o metropoli: il quartier generale di Hamas, la rete di uffici e tunnel per centinaia di chilometri sotto la Striscia di Gaza. I soldati israeliani vi hanno familiarizzato la prima volta nei 51 giorni della guerra del 2014, quando ancora era limitata al quartiere Shuja’iyya di Gaza City, roccaforte di Hamas. Allora l’obiettivo dell’invasione di terra era la distruzione dei più noti tunnel di infiltrazione che dalla Striscia penetravano all’interno d’Israele, tramite i quali Hamas ha realizzato alcune delle sue azioni più riuscite, come il rapimento del caporale Gilad Shalit nel 2005 o, nel 2014, l’agguato a un presidio militare all’ingresso del Kibbutz Nahal Oz, uccidendo 5 soldati. Durante la battaglia di Shuja’iyya, la più sanguinosa di quel conflitto, le truppe israeliane furono sorprese dalle imboscate dei miliziani di Hamas partite dai tunnel che in diversi casi sboccavano all’interno di abitazioni civili. Il cadavere del soldato Shaul Oron fu trascinato nella galleria sotterranea e da allora è "merce di scambio" (insieme a un altro corpo di soldato e a due israeliani da anni ostaggio nella Striscia) che ciclicamente emerge nelle trattative sottobanco tra Israele e Hamas, con mediazione qatariota ed egiziana.
   Hamas ha investito milioni di dollari dal 2014 per ampliare la «Gaza sotterranea». Secondo una fonte di intelligence, oggi tutte le città della Striscia, da Rafah a sud a Beit Lahia a nord, sono collegate da questo sistema, considerato uno dei principali asset strategici di Hamas. Nella metro si muovono armi e combattenti e trova rifugio la leadership di Hamas; diversi tratti diventano gallerie in cui viaggiano auto, ci spiega un ufficiale che ha contribuito a mappare la città sotterranea.
  L’operazione di giovedì, in cui per 40 minuti 160 aerei e corazzati a ridosso del confine hanno bombardato Beit Lahia e Beit Hanoun, era in studio dal 2016. Il piano prevedeva di trasformare i tunnel in una trappola mortale per gli uomini di Hamas. A oggi, non è chiara la stima delle vittime: fonti palestinesi riferiscono di 13 civili, numeri contrastanti con la potenza dell’attacco. Per gli analisti militari è il fiore all’occhiello della strategia israeliana contro l’organizzazione fondamentalista, la mossa che avrebbe dovuto infliggere il «colpo più duro» per ripristinare la deterrenza e cominciare a parlare di tregua. Il danno è circoscritto a una porzione della rete, ma secondo il corrispondente militare di Haaretz, Amos Harel, l’operazione mina Hamas «nella sua capacità di operare clandestinamente sottoterra, dove i suoi leader si sentivano immuni dai colpi inflitti da Israele».

(la Repubblica, 16 maggio 2021)


Tel Aviv: sirene, razzi e fuga dalle spiagge. La città ora si scopre vulnerabile

Colpito il quartiere di Ramat Gan: morto un cinquantenne, sventrato un palazzo. Gli islamisti: «Continueremo a bersagliarvi»

di Fabiana Magrì

TEL AVIV. Alle sirene d’allarme è seguito il boato. Poi sono divampate le fiamme, nei negozi chiusi di Shabbat, negli appartamenti e sulle auto parcheggiate in strada. Hamas alza il tiro e minaccia di continuare a bersagliare il territorio israeliano. E nel mirino mette Tel Aviv e gli insediamenti in Cisgiordania, razzi sono caduti vicino a Tulkarem e Ramallah. Ma è il segnale della volontà delle milizie islamiche della Striscia di estendere il conflitto nei Territori.
    A Tel Aviv le schegge di un razzo hanno perforato la porta della casa di un uomo di 50 anni. L’hanno sorpreso lì dietro, mentre in novanta secondi provava a reagire, guadagnare l’uscita, cercare quel rifugio che, dentro il suo appartamento, non c’era. La decima vittima israeliana da quando sono iniziati i combattimenti a Gaza - l’ottava persona uccisa direttamente dai razzi - è morta nel sobborgo residenziale di Ramat Gan, tra condomini di ebrei ortodossi e ville di diplomatici stranieri. Quella dell’ambasciatore italiano Gianluigi Benedetti dista appena un chilometro e mezzo. «Tutto questo deve finire immediatamente» scrive su Twitter l'ambasciatrice austriaca in Israele Hannah Liko dopo che uno dei razzi lanciati dal Nord della Striscia di Gaza è caduto vicino alla sede diplomatica di Vienna. «Fortunatamente stiamo tutti bene», ha aggiunto. Ma l’esclamazione, sincera e poco diplomatica, rivela come la paura si sia impossessata anche di aree della città che mai si sono davvero sentite in pericolo, nonostante tutto quello che, da decenni, succede a pochi chilometri di distanza.

 Il fatalismo che vacilla
   Anche nella Tel Aviv più disinvolta, quella che commenta il conflitto con un bicchiere di vino in mano, il fatalismo inizia a vacillare. Tutti ripetono, anche a se stessi, che l’Iron Dome, il sistema antimissile israeliano, fa il suo dovere: il 90% dei missili, ma è quel buco del 10 per cento che inizia a preoccupare. E chi scappava dalla spiaggia, in costume da bagno, al suono delle sirene, si è sentito vulnerabile, in pericolo. E lo choc va molto al di là del bilancio, pure grave: 46 feriti, sette dei quali raggiunti dalle schegge dei razzi, in 33 sono stati colpiti mentre cercavano di raggiungere i rifugi, ormai diventati un luogo familiare per migliaia di persone.
   Interviene il sindaco Ron Huldai, con ogni mezzo, a ricordare ai concittadini che il sistema di sirene funziona correttamente, ed è costantemente controllato; a consigliare di scaricare la applicazione per gli smartphone “Home Front Command” per ricevere aggiornamenti sui possibili attacchi in arrivo dalla Striscia di Gaza; e a invitare i condomini a lasciare aperti portoni, per offrire rifugio ai passanti. Ma anche a ribadire la necessità di «fare di tutto per fermare l'incitamento, l’agitazione e la violenza», che è l’altro volto minaccioso di questo conflitto. Giaffa è sorvegliata dalla polizia.

 Molotov contro gli arabi
   Venerdì sera ad Ajami una bottiglia molotov ha scatenato un incendio nell’appartamento di una famiglia araba. Un bambino di 12 anni, ustionato in maniera grave, è ricoverato all’Ospedale Sheba. Sembra la trama di un film israeliano del 2009 - Ajami appunto - in cui le diverse realtà dei quattro protagonisti - ebrei, arabi, cristiani e musulmani - si scontravano tragicamente dopo un omicidio che provocava un cruento effetto domino. L’ombra della guerra civile ormai viaggi di pari passo alla paura dei razzi.

(La Stampa, 16 maggio 2021)


Israele ha fretta di finire Ma Hamas vuole la Jihad

Opposti scopi: da un lato il conflitto-lampo, dall'altro proseguire fino alla guerra santa

QUANDO FINIRÀ?
L'obiettivo di Netanyahu è bloccare le potenzialità belliche degli integralisti
A CACCIA DELLA LEADERSHIP
Eppure mai si è sentita così forte nell'area l'influenza del movimento islamista

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Nelle ultime ore, al quinto giorno di guerra, gli attacchi a Israele si sono moltiplicati e differenziati: provengono ormai non solo da Gaza, da cui sono seguitati a piovere i missili fino a Te! Aviv, ma dai territori dell'Autonomia Palestinese, dal Libano, dalla Siria, e assumono la veste di grandi manifestazioni in molte parti del mondo, come a Londra, con bandiere palestinesi e odio antisraeliano e antisemita.
   Ci sono due strategie opposte sugli scopi da raggiungere. Da una parte, Israele ha un obiettivo relativamente chiaro: togliere a Hamas la possibilità di costringere i suoi cittadini nei rifugi, fra perdite umane e rovine. Non scalzarlo dal potere, ma bloccare le potenzialità belliche dell'organizzazione terrorista per un pezzo. Per questo usa le forze aeree in modo da distruggere i nidi di missili, gli uomini che li comandano e operano. Una volta raggiunto questo obiettivo, come ripetono gli israeliani, la guerra è finita. È una scelta strategica molto costosa, Hamas nasconde le sue armi e i suoi leader fra i civili: così a volte la scelta è fra permettere che lancino ancora un missile contro una casa o una scuola, oppure colpire, ieri, il ricco quartiere di Rimal di Gaza, sede di Hamas e la Jihad Islamica, anche se non prima di aver avvertito gli abitanti. Altrove, come nel caso di Khalil Haya, un importante militare, solo la sua casa è stata distrutta. I grandi capi Yehje Sinwar e Muhammad Deif, poi, sono al largo. Ma Israele procede a grandi passi, e l'impresa di mercoledì, per cui sono state distrutte le gallerie che entrano in Israele e nascondono strumenti tecnici sofisticati, può accorciare i tempi e far felice il Qatar e l'Egitto che si danno da fare per il cessate il fuoco.
   Dall'altra parte però, e questo aumenta l'impegno anche bellico di Israele, la strategia di Hamas non è affatto di concludere. Può, sì, offrire un cessate il fuoco finché le convenga di nuovo spedire i cittadini di Israele nei bunker. Ma alla lunga Hamas ha uno scopo strategico scritto in tutti i suoi documenti e i suoi discorsi e azioni, che è quello della Guerra Santa. Su questo lavora da quando ultimamente gli se ne è presentata la possibilità. Mi dice un palestinese da Ramallah, sotto Abu Mazen: «Mai si è sentita così forte l'influenza di Hamas, i suoi uomini fanno arruolamenti continui, e quello che era un tempo di Fatah sta cadendo nelle mani di Hamas», Ieri nel «giorno della Nahba», il «giorno della distruzione», manifestazioni pro-Gaza molto numerose, per esempio a Sahnin, ovunque aggressioni con sassi, attacchi terroristi nei confronti di insediamenti e di soldati isolati, hanno ingaggiato gli israeliani e causato 10 morti fra i palestinesi. Dal Libano, una piccola folla di libanesi ha scavalcato il confine a Metulla ed è stata ricacciata indietro dai soldati, mentre dalla Siria piovevano tre missili. Anche ieri sera, sul confine libanese, una massa di auto e di uomini, forse Hezbollah, hanno manifestato e danneggiato strumenti tecnici al confine, e si dice che è per evitare reazioni di Hezbollah che Israele ha lasciato tornare i libanesi a casa senza danno. L'apertura di un fronte con Hezbollah significherebbe una pioggia di centinaia di migliaia di missili su tutta Israele.
   Intanto, da nord a sud si sgretola la convivenza dei cittadini israeliani e arabi in quasi tutte le città sotto la sferza di folle che invadono le strade, gettano bottiglie molotov, aggrediscono, appiccano il fuoco. Il coprifuoco e la polizia non ce la fanno a fermare la rabbia. Anche gruppi estremisti israeliani soffiano sul fuoco con gesti inconsulti. La polizia li cerca, la legge, il governo, Netanyahu li condannano. Invece, l'origine dell'odio arabo ha una dimensione strategica, che vede lo Stato Ebraico come illegittimo, coloniale, non come il Paese di un popolo indigeno.
   Abu Mazen e i leader dei partiti arabi israeliani che siedono alla Knesset hanno soffiato sul fuoco per paura di perdere il consenso della loro base su temi ideologici e religiosi senza i quali Hamas li spazzerebbe. L'islamismo ha un fine strategico di lunga durata, l'ambasciata americana a Gerusalemme e poi i patti di Abramo sono stati una sconfitta ideologica di cui rifarsi. Adesso, questo per Hamas è il momento, condiviso con l'Iran e con la Turchia, di recuperare lo spazio perduto. Hamas, nonostante il vittimismo delle manifestazioni che accusano Israele, cerca con questa guerra un allargamento strategico della guerra santa e di religione che è una maledizione per tutti, musulmani ebrei e cristiani.

(il Giornale, 16 maggio 2021)


Siate coerenti fino in fondo. Una risposta ai “dissociati”

"Giovani ebrei italiani" si dissociano pubblicamente da Israele. NsI

di Dario Sanchez

In queste ultime ore sta girando in Italia una lista di "giovani ebrei italiani“, che, senza tra l’altro essere cittadini israeliani, si sono sentiti in obbligo di prendere le distanze dalle politiche dello Stato di Israele – dunque, non del Paese di cui sono cittadini o residenti – , impegnato in queste ore a difendere la vita e la sicurezza dei suoi cittadini arabi, drusi, circassi ed ebrei. Questi giovani ebrei ne approfittano, tra l’altro, per lamentarsi del fatto che vorrebbero tanto scendere in piazza assieme agli odiatori di Israele, ma si sentono a disagio a scendere in quelle piazze perché piene di antisemiti.
   C’è chi, in queste ore, nelle comunità ebraiche italiane ne sta facendo un dramma, ricercandovi qualcosa di politico. Ebbene, non vi è nulla di politico in tutto questo, men che mai nel loro odio verso Israele.
   Ma facciamo un passo indietro. Chi sono, grosso modo, i firmatari? Il fior fiore di certi ambienti borghesi: perfettamente integrati nella società italiana, con più amici cristiani che ebrei, istruiti, laici, con parecchie esperienze di vita all’estero – anche in Israele, eggià. Sarebbero a tutti gli effetti indistinguibili dalla maggioranza cristiana della popolazione italiana – quella più ricca, colta e istruita – , se non fossero ebrei: un ebraismo – sia in senso di identità nazionale , che di identità religiosa – del tutto marginale delle loro vite, talvolta da esibire come elemento esotico in sofisticate conversazioni da salotto con i loro amici non ebrei, ma nulla di più.
   In parole povere: se non esistesse Israele, a ricordagli di tanto in tanto di essere ebrei – e mai per ragioni positive, ma sempre e solo luttuose – questi ragazzi sarebbero, come i Cristiani del Natale, gli Ebrei del Kippur.
   Ma Israele esiste, ahimè per loro: e i loro “amici” ogni volta che Israele – lo Stato degli Ebrei – compare sulle prime pagine dei giornali, chiedono spiegazioni. Chiedono di scegliere tra la loro amicizia e il sostegno ai cattivi sionisti: cercano l’ebreo buono che gli dica che il loro antisemitismo, sebbene sbagliato, è giustificato dai fatti, dall’enorme sofferenza che i cattivi israeliani infliggono ai palestinesi.
   Dunque? Proverei soltanto pena per queste persone, e gli suggerirei onde risolvere il loro dramma personale – il peso dell’identità ebraica – di fare tutto il possibile per smettere di esserlo, di seppellirla per sempre questa identità e di diventare a tutti gli effetti parte della “maggioranza” degli italiani, né più e né meno come i loro amici belli e ricchi esattamente come loro – ma non ebrei. Glielo suggerirei , se non fosse che per un antisemita un ebreo è sempre un ebreo: anche se odia Israele, prega Gesù e mangia maiale.
   Ho detto che proverei soltanto pena. Ma non la provo. Come mai? Perché capisco il loro dramma terribile – sono ironico – e il terrore di essere accostati ai crimini di noi sionisti solo perché nati dalla vagina sbagliata – sono ancora più ironico – ma non ho alcuna pietà per la loro ipocrisia.
   Odiate Israele? Siete Anti-Sionisti? Avete un problema con una identità ebraica non cercata e non voluta, ma capitata in sorte quando eravate solo un ammasso di cellule in un utero ebreo? Benissimo. Ma allora, siate coerenti. Smettetela di avere interessi in Israele.
   Smettete di acquistare proprietà a Tel Aviv. Vendete le case che i vostri genitori hanno comprato come forma di speculazione immobiliare, e date il ricavato alla chiesa cattolica palestinese: contribuirete a rendere felice un bambino arabo rimasto senza famiglia per via dei raid che il mio esercito si è trovato costretto a lanciare su dei terroristi islamici.
   Con quello che vale uno dei vostri appartamenti, a Gaza potreste costruire due palazzi di tre piani, o una scuola.

(Kolòt, 16 maggio 2021)


«Trenta milioni al mese da Teheran per l'arsenale dei miliziani»

Ogni missile sparato costa 600 dollari e i combattenti stipendiati regolarmente sono diecimila. I nuovi droni-kamikaze esplosivi progettati in Iran e i vettori che ora possono raggiungere bersagli a 250 chilometri di distanza

di Francesco Palmas

Ha un legame speciale con l'Iran Hamas. Grazie a una collaborazione d'intelligence è riuscito a ottenere un pacchetto premio, fatto di addestramento, nuove armi e fondi aggiuntivi. Se fino a pochi anni fa beneficiava di 100 milioni di dollari l'anno, da spartire con gli altri gruppi della guerriglia islamista, dal 2019 ha ottenuto un aumento. Incasserebbe 30 milioni di dollari al mese. In cambio trasmetterebbe informazioni sulle capacità missilistiche del nemico. Hamas ha le sue carte da giocare.
    Avrebbe messo le mani su un intercettore israeliano da 40mila dollari, lo scudo Tamir dell'Iron Dome. Avrebbe addirittura passato il 'gioiello' agli iraniani perché lo studino e ne carpiscano i segreti, in modo da congegnare nuove spade più capaci di eluderlo. Grazie a quel colpaccio, Hamas ha incamerato cespiti aggiuntivi, si è procurata esplosivi, armi e si è permessa di pagare 10mila miliziani permanenti. Dispone di un arsenale di migliaia di razzi e ha perfezionato le sue capacità di colpire non solo da terra, ma anche dall'aria e dal mare. Ha una flotta di "quadricotteri" commerciali e di droni iraniani, che ha trasformato in bombe volanti. Ne produce di suoi, servendosi sempre di elettronica persiana. Sta infoltendo le linee di uomini-rana, i sommozzatori delle unità anfibie, utili per infiltrarsi in territorio israeliano e colpire di soppiatto, sabotando le strutture nemiche. I soldi di Teheran servono soprattutto per far girare a pieno ritmo le fabbriche di ordigni improvvisati e di razzi, ormai repliche perfette dei migliori modelli forniti dall'Iran e dalla Siria, come gli R-160, che attraverso mille triangolazioni sono partiti dalla Cina. Parliamo di razzi di una certa complessità, che richiedono competenze balistiche, buoni propellenti e addestramento. Si mettono in batteria in cinque minuti, con due uomini, spesso dissimulati sui tetti degli edifici civili. Colpiscono fino a 150 chilometri di distanza. I nuovissimi Ayyash 250 arrivano a 250. Nonostante tutti gli sforzi e l'isolamento internazionale, il blocco di Gaza non è ermetico. L'Iran ormai è di casa in Siria. Riesce a contrabbandare le armi attraverso il Libano.
    Il passaggio a Gaza avviene via mare. Sarebbero filtrati così missili "spalleggiabili" antiaerei, obici per mortaio, 10 tonnellate di esplosivi, milioni di cartucce, centinaia di razzi a carica cava e pezzi anticarro, imprescindibili per la guerriglia urbana. Sono capacità offensive che si sdoppiano in abilità difensive emerse già nel 2014. Un'infrastruttura sotterranea, parzialmente distrutta dai raid di Israele dell'altra notte, corre sotto Gaza, proteggendo i centri di comando di Hamas, i magazzini di armi e parte dei combattenti, suddivisi in settori autonomi di difesa, ben organizzati e interconnessi. E la nuova tecno-guerriglia del XXI secolo, che Hamas combatte a costi "accessibili". I razzi che piovono su Israele valgono in media 500-600 dollari l'uno. Per intercettarli, gli israeliani bruciano in pochi secondi 80mila dollari circa, perché sparano in media due anti-missili contro ogni vettore. E un'asimmetria deleteria, anche in termini di costi economici indiretti. Nel 2014, la minaccia di Hamas, ha comportato per Israele un miliardo di dollari in meno di ricchezza nazionale e un esborso di 40 milioni di dollari in premi assicurativi.

(Avvenire, 16 maggio 2021)


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