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Notizie 1-15 maggio 2023


«Covid, la verità sulle cure boicottate»

Il medico elogiato da Malone (uno dei padri dell'mRna) in un convegno all'Europarlamento: «Sì potevano salvare 190.000 vite, ma per ottenere il via libera ai vaccini bisognava dire che non esistevano trattamenti».

di Angela Camuso

Due anni fa
La scorsa settimana, in una sede istituzionale come l'Europarlamento, lo scienziato americano Robert Malone, nel corso del terzo «International Covid Summit» che ha riunito medici e scienziati da tutto il mondo, ha elogiato l'operato del dottor Andrea Stramezzi durante la pandemia, per aver curato e guarito con terapie domiciliari precoci diverse migliaia di malati di Covid utilizzando farmaci già esistenti, sottolineando tra l'altro la circostanza (raccontata all'opinione pubblica da chi scrive nell'inchiesta andata in onda due anni fa a Fuori dal Coro che ha svelato appunto lo scandalo «tachipirina e vigile attesa») che in Italia le autorità sanitarie già da marzo 2020 erano a conoscenza che il Covid fosse una malattia curabile. Eppure nel nostro Paese, incredibilmente, si è continuato a negare la cura del Covid e sembra che nulla sia cambiato, neanche adesso.

- Dottore, come si sente ad essere, da una parte, elogiato da rappresentanti del Ghota della scienza e dall'altra denigrato e punito in patria? Proprio lei che ha salvato oltre settemila vite umane?
  «Da un lato mi inorgoglisce il fatto che nel mondo stiano riconoscendo l'importanza di ciò che io e molti altri colleghi abbiamo fatto e ciò che abbiamo cercato di raccontare per salvare vite umane. Dall'altro lato però c'è tanta rabbia, una rabbia interiore, profonda, in quanto, come ho detto a Bruxelles all'Europarlamento, 190.000 vite potevano essere salvate. Il fatto cioè che venga riconosciuta la bontà del nostro operato acuisce la rabbia, perché è certo che le persone siano morte a causa di cure negate».

- Lei parla di 190.000 vite che potevano essere salvate. Parliamo del totale delle morti di Covid registrate in Italia. Vuole dire che l'efficacia delle cure precoci rasenta il cento per cento?
  «Assolutamente sì. Io il 15 marzo del 2020 ho cominciato ad avere i primi pazienti che guarivano con una terapia che non era inventata sul nulla, bensì derivava dalle evidenze scientifiche che già all'epoca ci suggerivano che fosse quello l'approccio giusto. In particolare c'era la pubblicazione del professor Anthony Fauci sulla Sars e c'erano gli studi in vitro del professor Didier Raoult. Infatti fin da gennaio 2020, quando il Covid già girava in Italia anche se da noi ufficialmente non avevamo registrato casi e c'era il ministro Speranza che ostentava sicurezza affermando che '' eravamo pronti", io da medico curioso mi sono messo leggere la letteratura scientifica che esisteva sulla Sars. In particolare, in una pubblicazione Fauci affermava come l'idrossiclorochina - come è noto poi criminalizzata - fosse la molecola che aveva risolto la Sars e scrisse pure che questa molecola sarebbe stata la chiave di volta per risolvere future epidemie da coronavirus. Poi ho trovato i lavori del professor Raoult di Marsiglia che aveva appena svolto una ricerca in vitro sul virus di Whuan, evidenziando che l'associazione di idrossiclorochina e azitromicina eliminava il virus. Quindi, basandomi su queste premesse e sulle mie conoscenze di medico che mi portavano a ritenere che l'antinfiammatorio fosse la prima cosa da somministrare in un'infezione perché l'infiammazione spalanca le porte al virus, e tenendo presente anche quanto scoperto da qualche mio collega con cui lavoravo al ministero della Salute che aveva ventilato l'ipotesi che ci fosse un problema di tempesta citochimica, considerato pure che c'era stata la prima autopsia che aveva scoperto che i micro-trombi erano causa di morte, io ho somministrato al mio primo paziente idrossiclorochina, azitromicina, cortisone ed eparina ed è guarito in pochi giorni. A questo punto ho avvertito l'Ordine dei medici e ho scritto al professor Burioni e ho cercato insomma di diffondere questa notizia. Non solo. Pochi giorni dopo l'azienda socio-sanitaria territoriale di Bergamo - siamo sempre a marzo del 2020 - scrive le stesse cose, in una circolare che ho mostrato a Bruxelles: cioè che i medici sul territorio dovevano somministrare ai malati di Covid a domicilio idrossiclorochina, azitromicina ed eparina prima che finissero in ospedale. All'epoca in Italia c'erano solo seicento morti».

- Che fine ha fatto poi quella circolare? Perché non è stata più presa in considerazione?
  «Perché è partita la campagna mediatica suggerita dalle autorità sanitarie che affermavano che gli antinfiammatori non andavano dati, che non andava dato l'antibiotico perché in un'infezione virale l'antibiotico non serviva a niente, che l'idrossiclorochina era inefficace sulla base del famoso lavoro pubblicato da The Lancet e finanziato da Big Pharma e da Bill Gates, poi risultato farlocco tant'è che la pubblicazione fu poi ritirata. Poi, fu detto che il cortisone non andava dato perché inibiva le difese immunitarie senza capire che il cortisone era essenziale nel Covid severo perché si innescava una reazione auto-immune, cioè la tempesta citochimica in cui il nemico non è più la malattia virale respiratoria ma il problema è appunto la reazione anomala e distorsiva del sistema immunitario. Anche l'eparina fu sconsigliata quando invece era essenziale per salvare vite, perché la tempesta citochimica faceva sviluppare i micro-trombi che andavano ad otturare, letteralmente, i piccoli vasi che portano l'ossigeno dal polmone ai globuli rossi. Per questo era inutile aumentare la pressione dell'ossigeno, quindi mettere il casco e intubare le persone se prima non si scioglievano i trombi».

- Invece ancora oggi non sono sostanzialmente cambiate le linee guida, fatto salvo per gli antinfiammatori. Ancora si sconsigliano antibiotico ed eparina a domicilio e ancora si ricorre in ospedale a un utilizzo massiccio della ventilazione meccanica ad alti flussi e alle intubazioni ...
  «Quello che io ho detto a Bruxelles durante l'International Covid Summit è stato chiaro. Le autorità sanitarie hanno sconsigliato le cure perché aspettavano che arrivasse dalle case produttrici dei sieri anti-Covid la richiesta a Ema e Fda dell'autorizzazione in emergenza di questi farmaci non sperimentati adeguatamente, che poteva essere data, come è stata data, proprio in virtù dell'assunto che non esistessero cure e che eravamo in emergenza. Se avessero ammesso che c'erano le cure questi vaccini non sarebbero stati mai autorizzati perché questo c'è scritto nei regolamenti a proposito delle autorizzazioni condizionate».

- Ciò che afferma è gravissimo ...
  «Questa è l'unica spiegazione all'ostruzionismo feroce nei confronti delle cure e alle aggressioni contro i medici che salvavano vite curando in scienza e coscienza da parte degli ordini professionali.

- E infatti lei, dottor Stramezzi, è alla terza convocazione disciplinare. Sembra una persecuzione ...
  «Suppongo sia arrivata dai piani alti una richiesta di farmi radiare anche se per ora mi hanno comminato solo una sospensione di dodici mesi che però non è ancora operativa perché io ho diritto di appellarmi alla Ceps, una commissione nominata, però, da Speranza e da Draghi e quindi non mi aspetto nulla di buono».

- Le autorità, anche ora che il governo è cambiato, continuano a sostenere che la vaccinazione sia stata fondamentale per far calare il numero dei morti e però non dicono che i morti sono stati causati da cure precoci domiciliari negate e cure ospedaliere sbagliate ...
  «Un virus a Rna muta continuamente e quindi non può esistere una vaccinazione efficace e questi cosiddetti vaccini, come ho detto a Bruxelles, non erano e non sono necessari, perché esisteva ed esiste la terapia: una terapia semplice, poco costosa e che tutti possono assumere perché praticamente non ha effetti collaterali. Inoltre questi vaccini sono inefficaci, perché non prevengono il contagio e neppure la malattia e poi sono dannosi, purtroppo, come stiamo vedendo con questa moltitudine di effetti collaterali amplificati da queste dosi ripetute che mandano in tilt il sistema immunitario, il quale non serve solo per prevenire le infezioni ma anche per isolare e distruggere le cellule cancerogene. E uscito in questi giorni un articolo sul Daily Mirror che evidenzia un eccesso di mortalità spaventoso registrato nel 2022 in Gran Bretagna e gli scienziati si chiedono il perché senza però neppure nominare i vaccini antiCovid e questa è una follia. Si dovrebbe sapere, piuttosto, in che misura questo eccesso di mortalità riguarda le persone vaccinate e in che misura riguarda le persone non vaccinate, ma questi dati non ci sono e però devono uscire fuori. Spero che il Parlamento europeo obblighi le autorità a dare risposte».

- Quali conseguenze avrà il summit che si è svolto a Bruxelles?
  «Noi abbiamo portato la verità al Parlamento europeo e non può essere ignorata e qualcuno si farà un esame di coscienza, perché qualcuno è stato finanziato da Big Pharma per raccontare certe cose e qualcun altro, invece, ci ha semplicemente creduto. Qualsiasi persona, indipendentemente dalla patologia che ha e dalla propria età - perché io ho curato anche due centenari e tantissimi novantenni e persone con patologie gravi - può essere curata e può guarire dal Covid, a patto che la terapia venga iniziata nei primi giorni. E’ chiaro che se la cura inizia tardi è più complicato ma anche in questo caso, con le terapie giuste, si può guarire e invece si continua a morire ancora oggi, anche ora che il virus è meno aggressivo di prima. Quanto è accaduto è stata la più grande mistificazione di questo millennio e il più grande omicidio di massa del secolo, che continua ad essere mascherato. La verità però emergerà e i responsabili dovranno pagare».

(La Verità, 15 maggio 2023)

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L’operazione “Scudo e freccia”: un risultato importante per Israele

di Ugo Volli

• UNA PERICOLOSA ROUTINE
  Quella appena terminata (se terrà il cessate il fuoco annunciato sabato notte) è l’ottava operazione di difesa condotta da Israele a Gaza dopo il disimpegno unilaterale del 2005. Le crisi precedenti avvennero a giugno 2006, febbraio e poi dicembre 2008/gennaio 2009; novembre 2012, luglio 2014, maggio 2021, agosto 2022: tutte hanno seguito più o meno lo stesso schema: si inizia con attacchi missilistici provenienti da Gaza più o meno in profondità sul territorio israeliano, sempre su obiettivi civili, parati in parte dal sistema Iron Dome ma comunque capaci di fare danni, vittime e di impedire la vita normale del paese; interviene l’aviazione israeliana che colpisce invece obiettivi militari, tunnel d’attacco, fabbriche d’armi, sistemi di lancio, gruppi e comandanti terroristi. Se l’aggressione contro il territorio israeliano prosegue in maniera intollerabile, diventa necessaria un’operazione di terra che Israele però cerca di evitare per non subire le perdite di militari nel combattimento diretto e per non coinvolgere la popolazione civile di Gaza. Alla fine comunque vi è un cessate il fuoco di solito mediato dall’Egitto, con alcune violazioni iniziali e poi una tenuta per qualche tempo. Si tratta ormai di una routine evidentemente insensata: i terroristi sanno bene che sparare migliaia di razzi contro Israele non li porterà certamente vicini alla vittoria, anche perché un quarto ricadono a Gaza, la metà vanno su terreni vuoti e il resto viene abbattuto da Iron Dome; per caso riescono a fare danni su qualche casa e ad assassinare qualcuno, possono sperare in un colpo fortunato, ma certamente non indeboliscono seriamente Israele, al massimo mostrano al loro pubblico e ai loro sponsor (prima di tutto l’Iran) che sono loro a combattere i sionisti. Israele naturalmente deve difendere la sua popolazione civile e mostrare di saper far pagare il prezzo del terrorismo, ma lo Stato Maggiore delle Forze Armate non crede di poter spiantare i terroristi da Gaza senza rioccupare il territorio, un’opzione esclusa perché troppo costosa in termini di perdite sia israeliane che dei civili di Gaza e che avrebbe un prezzo diplomatico intollerabile.

• LA DISSUASIONE FUNZIONA
  Questa operazione era nell’aria da qualche tempo. Israele temeva che fosse la prova generale della strategia d’attacco multifronti che l’Iran sta perseguendo da tempo. Ma ciò fortunatamente non è accaduto. Sia a Nord-Est (Hezbollah, Siria, l’Iran stesso), sia in Giudea e Samaria (Fatah), sia nelle città arabo-israeliane, sia infine all’interno della stessa striscia di Gaza (Hamas), le forze che avrebbero potuto unirsi all’aggressione terrorista rendendola molto più difficile da gestire hanno invece lasciato solo il movimento della Jihad Islamica, che aveva fatto partire l’attacco per vendicarsi della morte in carcere (peraltro autoinflitta il 2 maggio alla fine di un lungo sciopero della fame) del proprio dirigente Khader Adnan e poi ha subito solo gravi perdite. Ciò dimostra che la deterrenza israeliana continua ad essere molto forte: i nemici sanno che pagherebbero pesantemente ogni atto ostile, mentre se se ne astengono possono avere “calma in cambio di calma”. Come era già accaduto nell’ultima campagna, Israele ha sottolineato quest’impostazione attaccando a Gaza solo gli obiettivi della Jihad Islamica, senza toccare Hamas, che pure ha espresso solidarietà e certamente ha permesso i lanci della Jihad. E’ una scelta rischiosa, perché permette il rafforzamento politico e anche militare di Hamas, ma per il momento funziona, sia nel senso del provocare divisioni fra i nemici, sia esercitando una sorta di pedagogia della dissuasione. I nemici inattivi vedono qual è la sorte di chi attacca e possono immaginare quel che accadrebbe a loro.

• INNOVAZIONI TATTICHE
  Questa campagna ha sviluppato due innovazioni tattiche già sperimentate in parte con successo l’anno scorso. La prima è l’effetto sorpresa. Dopo il centinaio di razzi sparati dalla Jihad in seguito alla morte di Adnan, ci fu una risposta immediata, ma giudicata “molto debole” nelle comunità colpite dal terrorismo e anche nella maggioranza di governo israeliana. Era solo una finta, perché la risposta vera e propria è avvenuta alcuni giorni dopo. Essa è consistita nel colpire direttamente tre capi terroristi dell’organizzazione, cui poi la Jihad ha reagito con altri razzi. L’attacco ai capi terroristi è la seconda innovazione importante. L’aviazione israeliana ha preso come obiettivi non solo le infrastrutture militari (depositi, caserme, centri di avvistamento, tunnel) e i gruppi di fuoco, ma i quadri militari più elevati del terrorismo, eliminandone sei fra i più importanti, tutti direttamente responsabili del terrorismo missilistico, e spesso anche di altri crimini. Si tratta dunque di obiettivi militari legittimi. Per colpirli ha badato nei limiti del possibile che non vi fossero intorno a loro estranei, mirando con grande accuratezza ai locali dove si trovavano, senza abbattere le case di cui essi facevano parte e dunque senza quasi colpire altri abitanti: un grande risultato tecnico sia per i servizi segreti che per chi ha guidato le armi. Inoltre, con la solita procedura di avvertimento (“bussare sul tetto”, cioè mandare una bomba innocua per far fuggire gli abitanti e non colpirli), l’aviazione ha distrutto le case di una trentina di altri dirigenti dell’organizzazione terrorista. Un’altra innovazione importante è stato il primo uso operativo dell’antimissile “Fionda di Davide” che intercetta missili balistici a più lunga gittata di Iron Dome: un’arma di difesa contro armi che vengono da lontano, dunque, per esempio dallo Yemen o dall’Iran

• COSA ACCADE ORA
  Il risultato dell’operazione è molto positivo per Israele, al di là della solite condanne formali delle organizzazioni internazionali, di alcuni stati arabi e della sinistra, peraltro meno forti di qualche anno fa. Le dichiarazioni di “vittoria” che vengono da Gaza sono patetiche. Se gli ultimi mesi di contestazioni e proteste anche nell’aviazione potevano aver dato a qualcuno l’illusione che Israele fosse militarmente e socialmente in crisi, questa speranza è stata delusa. E magari anche all’interno dello stato ebraico molti hanno capito che i pericoli veri per il paese non sono quelli prospettati nelle manifestazioni e che la guida di Netanyahu che è stato il responsabile e il regista di questa operazione di autodifesa, resta una garanzia per la sicurezza del paese. Anche perché nel bel mezzo dei combattimenti ci sono stati dei manifestanti che agitavano bandiere palestiniste: una scelta sciagurata, che ha squalificato moralmente agli occhi di molti israeliani i responsabili.

(Shalom, 14 maggio 2023)

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Le notizie emerse dopo il cessate il fuoco concordato tra Israele e Gaza mediato dall’Egitto

di Letizia De Rosa

Secondo le informazioni emerse da entrambe le parti in contrasto, Israele e il gruppo militante palestinese della Jihad islamica a Gaza hanno concordato una tregua che è ufficialmente in vigore e riporta un minimo di stabilità per i cittadini che hanno vissuto cinque giorni consecutivi di attacchi devastanti.
  Questo evento segna la fine del più grave episodio di violenza transfrontaliera tra Israele e Gaza dal conflitto del 2021. L’Egitto, che ha svolto il ruolo di mediatore, ha invitato tutte le parti coinvolte a rispettare l’accordo, come riportato dal canale televisivo egiziano Al-Qahera News sabato.

• Tregua tra Israele e Gaza dopo un’escalation di violenza di cinque giorni
  Secondo un documento dell’accordo visto da Reuters, la notizia della conclusione dell’accordo riporta esattamente: “alla luce dell’accordo tra la parte palestinese e quella israeliana, l’Egitto annuncia che è stato raggiunto un cessate il fuoco tra la parte palestinese e quella israeliana”, con inizio alle 22:00. L’accordo prevede che entrambe le parti rispettino il cessate il fuoco, che includerà la fine dei attacchi ai civili, la demolizione di case e il prendere di mira le persone. La Jihad islamica ha confermato l’accordo e il portavoce del gruppo, Dawoud Shehab, ha dichiarato che “rispetteremo l’accordo fintanto che l’occupazione [Israele] si atterrà”.
  Come riportato anche da Al Jazeera, l’esercito israeliano ha confermato che ci sarà una valutazione della situazione per quanto riguarda il cessate il fuoco, che coinvolgerà probabilmente il primo ministro Benjamin Netanyahu, il ministro della Difesa Yoav Gallant e alcuni alti funzionari dell’intelligence militare, nel corso della prossime ore. L’esercito israeliano ha dichiarato che la determinazione del successo del cessate il fuoco sarà basata sulla presenza o meno di ulteriori lanci di razzi da Gaza.
  Poco prima dell’entrata in vigore della tregua alle 22:00, Israele ha riportato un forte lancio di razzi palestinesi verso il sud e il centro del paese, e ha affermato di aver attaccato obiettivi all’interno di Gaza. Dopo l’inizio del cessate il fuoco, Israele ha riferito di ulteriori lanci di razzi e i media israeliani hanno riferito che gli aerei da guerra stavano rispondendo.

• La posizione delle autorità israeliane e degli Usa dopo lo stop ai combattimenti
  Il ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen ha dichiarato che Israele non ha fatto alcuna concessione alla Jihad islamica palestinese come parte dell’accordo di cessate il fuoco che ha posto fine all’ultimo ciclo di violenze durato cinque giorni. Cohen ha affermato che Israele non ha promesso nulla, confermando il resoconto di un alto funzionario egiziano, secondo cui Israele non avrebbe firmato un accordo di cessate il fuoco che comportasse condizioni al di là del fatto che l’esercito israeliano tenesse il fuoco.
  Il ministro degli Esteri israeliano Cohen ha dichiarato anche che Israele ha ottenuto ciò che voleva con l’Operazione Scudo e Freccia dell’IDF e che coloro che tentano di danneggiare Israele saranno puniti. Ha affermato che Israele ha chiarito molto chiaramente la sua posizione e che ha saldato i conti con tutti coloro che minacciano Israele, come dimostrato dagli avvenimenti degli ultimi cinque giorni di violenze.
  Le autorità israeliane hanno ricevuto pressioni da paesi di tutto il mondo nell’ultima settimana, con gli Stati Uniti e diversi membri del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che hanno cercato di bloccare una dichiarazione congiunta che esprimesse preoccupazione per la violenza. Tuttavia, molti paesi hanno anche espresso preoccupazione per le vittime civili causate dagli attacchi aerei israeliani.
  La Giordania, l’Egitto, il Qatar e gli Emirati Arabi Uniti sono stati tra i paesi che hanno emesso condanne, anche se il contraccolpo è stato in gran parte mitigato al mondo arabo.
  Riguardo alla marcia della bandiera dei nazionalisti religiosi, prevista per giovedì prossimo, attraverso il quartiere musulmano della città vecchia di Gerusalemme, Cohen ha insistito sul fatto che la manifestazione si svolgerà come previsto, nonostante le pressioni internazionali contrarie.
  Come riportato anche in precedenza da Army Radio, Israele non ha intenzione di apportare modifiche alla marcia della bandiera dei nazionalisti religiosi prevista per giovedì attraverso il quartiere musulmano della città vecchia di Gerusalemme, nonostante le pressioni internazionali contrarie.
  Cohen ha sostenuto che Gerusalemme è la capitale di Israele e che il paese è orgoglioso di marciare con la bandiera israeliana e che la manifestazione avrà luogo come previsto giovedì.
  L’amministrazione Biden ha accolto con favore l’annuncio del cessate il fuoco tra Israele e la Jihad islamica palestinese e ha ringraziato l’Egitto e il Qatar per il loro coinvolgimento nella mediazione. Il segretario stampa della Casa Bianca Karine Jean-Pierre ha dichiarato che i funzionari statunitensi hanno lavorato a stretto contatto con i partner regionali per raggiungere la risoluzione delle ostilità e riportare la calma tra fazioni palestinesi e quelle israeliane.
  Il segretario di Stato Blinken ha personalmente ringraziato il ministro degli Esteri del Qatar Mohammed bin Abdulrahman Al Thani, durante una loro conversazione telefonica sabato sera, in cui hanno discusso anche di altre questioni regionali.
  Il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha ribadito il proprio impegno per la sicurezza di Israele e ha dichiarato che continuerà a promuovere la calma nelle settimane e nei mesi a venire. Gli Stati Uniti hanno anche espresso la volontà di migliorare la qualità della vita dei palestinesi e di garantire la consegna rapida di carburante e altri rifornimenti critici a Gaza.
  Nel frattempo, un nuovo sondaggio Maariv, pubblicato venerdì mattina, ha mostrato che il Likud del primo ministro Benjamin Netanyahu e la fazione di unità nazionale del parlamentare Benny Gantz hanno entrambi vinto 27 seggi se le elezioni si fossero tenute oggi. Questo rappresenta un aumento di due seggi per il Likud rispetto al sondaggio della scorsa settimana, probabilmente attribuibile ai successi militari ottenuti durante l’Operazione Scudo e Freccia a Gaza, sotto la guida del ministro della Difesa Yoav Gallant, che è un membro del Likud.
  La tregua sembra reggere per ora, ma è necessario valutare come procederanno le cose nei prossimi giorni. È stato essenziale il lavoro diplomatico svolto da Egitto e alleati arabi che hanno tempestivamente iniziato trattative per scongiurare che i combattimenti diventassero un nuovo conflitto reale, che avrebbe gettato l’intera regione nel caos e in una crisi economica e sociale ancora più marcata di quella attuale.

(nanopress, 15 maggio 2023)

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Salvò 38 ebrei dai nazisti: Capracotta ricorda Osman Carugno, Giusto tra le Nazioni

Il carabiniere molisano si rese protagonista di un gesto eroico durante la seconda guerra mondiale e la Shoah. Martedì cerimonia in suo onore

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Si terrà martedì 16 maggio la cerimonia per ricordare Osman Carugno, capracottese, maresciallo dei carabinieri, Giusto tra le Nazioni, unico molisano a essere riconosciuto tale dallo Yad Vashem (l’ente nazionale israeliano per la memoria della Shoah) per aver aiutato un gruppo di profughi ebrei tra il 1943 e il 1944.
  Nato a Capracotta, dove il padre era segretario comunale, Osman Carugno si arruolò poi nell’Arma dei Carabinieri, diventando Maresciallo comandante di stazione, prima nelle Marche e poi in Romagna.
  E proprio in terra romagnola, a Bellaria, dove comandava la locale stazione dell’Arma, si rese protagonista di un gesto eroico, salvando – insieme all’albergatore Ezio Giorgetti, anche lui riconosciuto tra i Giusti – un gruppo di trentotto profughi ebrei di origine slava, provenienti dal campo di Asolo, in provincia di Treviso.
  Lo scorso anno il suo paese natale, Capracotta, gli ha tributato un doveroso omaggio, intitolandogli una piazzetta e inaugurando il giardino dei Giusti, all’interno della Villa comunale, proprio in sua memoria.
  A distanza di un anno, su iniziativa del nuovo Prefetto di Isernia, Franca Tancredi, e dell’Amministrazione comunale, si terrà una cerimonia in suo onore.
  L’inizio è fissato per le ore 9.30 presso la Chiesa Madre di Capracotta: tra i momenti più significativi, il videomessaggio del nipote di Josef Konforti, uno dei profughi salvati da Carugno e Giorgetti, e la cerimonia di premiazione del concorso “Disegnare nella memoria il giardino dei Giusti”, oltre che il solenne ricordo dei fratelli Fiadino, martiri capracottesi fucilati dai tedeschi il 4 novembre del 1943 proprio a Capracotta.
  «Dopo un anno dall’inaugurazione del Giardino dei Giusti – dice il sindaco Paglione – torniamo doverosamente a celebrare uno dei nostri figli più illustri, autore di un gesto eroico. Non mi stancherò mai di sottolineare – conclude il sindaco – l’importanza di coltivare la memoria, soprattutto per ricordare alle giovani generazioni gli orrori di un passato che non deve ripetersi».

(il Quotidiano, 15 maggio 2023)

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In corso i preparativi per la visita storica in Israele di Re Carlo

di Luca Spizzichino

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Sono in corso i preparativi per la visita ufficiale di re Carlo III in Israele e in Cisgiordania. Questo è quanto hanno rivelato i media britannici domenica scorsa. Si tratterebbe di una visita storica perché sarebbe il primo sovrano del Regno Unito a visitare Israele. Secondo il Daily Mail Sunday, re Carlo dovrebbe aver programmato anche una visita all'Autorità palestinese per evitare critiche dal mondo arabo. Infatti, proprio il timore di ripercussioni ha frenato per oltre 70 anni la regina Elisabetta II. Tuttavia, prima di salire al trono, Carlo si era recato in Israele privatamente in tre occasioni. Mentre nel 2018, il principe William ha intrapreso un viaggio ufficiale in Israele e nell'Autorità palestinese.
  Lord Stuart Polak, che è stato direttore dell’associazione Conservative Friends of Israel per oltre 25 anni, ha dichiarato al tabloid britannico che “la preparazione è stata fatta dal suo team per aprire la strada a questa visita".
  Secondo quanto riferito dalle testate giornalistiche inglesi, il presidente Isaac Herzog ha svolto un ruolo significativo in questa decisione. Amici della corona, Isaac e Michal Herzog erano seduti in prima fila durante la cerimonia di incoronazione di re Carlo e hanno avuto la possibilità di parlare alla coppia reale della situazione in Israele, inclusa la revisione giudiziaria. Charles ha incoraggiato gli sforzi di Herzog per raggiungere un compromesso e il presidente lo ha rassicurato dicendo che "Israele è una democrazia vibrante". A causa dell’escalation nella Striscia di Gaza, tuttavia, Herzog ha deciso di posticipare la data per la visita reale.

(Shalom, 15 maggio 2023)

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“I Club non combattono abbastanza razzismo e antisemitismo negli stadi”

di Michele Sarfatti

"I club non combattono abbastanza razzismo e antisemitismo negli stadi. Creiamo un premio per chi lavora per un calcio più civile”. Le parole di Michele Sarfatti- studioso della persecuzione antiebraica e della storia degli ebrei in Italia nel XX secolo- agli Sky Inclusion Days intervistato dal direttore di Sky Sport Federico Ferri
  I dirigenti delle squadre di calcio non fanno abbastanza per combattere il razzismo e l’antisemitismo all’interno delle tifoserie. La parte ‘sana’ dei tifosi deve isolare le minoranze razziste e antisemite”, ha dichiarato il professor Michele Sarfatti, studioso della persecuzione antiebraica e della storia degli ebrei in Italia nel XX secolo, intervistato dal direttore di Sky Sport Federico Ferri nel corso dell'evento “SKY INCLUSION DAYS con FIGLI ≠ GENITORI”, organizzato da Sky in collaborazione con l’associazione non profit Lidia Dice.

• "Bisognerebbe istituire un premio per squadre che si adoperano contro razzismo"
  Il professor Sarfatti ha anche lanciato una proposta: “Alla fine di ogni campionato bisognerebbe creare un premio destinato alla squadra di calcio che fa di più contro il razzismo e l’antisemitismo, un riconoscimento a chi agisce per mantenere un clima di civiltà negli stadi”. L’evento è disponibile in diretta sul canale 501 di Sky e in streaming su skytg24.it. Collegamenti e aggiornamenti anche su Sky TG24 e su Sky Sport 24.

(Sky Sport, 15 maggio 2023)

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Considerazioni ebraiche e cattoliche sulla cura nella malattia terminale

Dal 2 al 4 maggio 2023 ha avuto luogo a Gerusalemme la 17a riunione della Commissione bilaterale delle Delegazioni del Gran Rabbinato d’Israele e della Commissione per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo della Santa Sede, sul tema: «Considerazioni ebraiche e cattoliche sulla cura nella malattia terminale: ciò che è proibito, consentito, obbligatorio». Riportiamo di seguito una traduzione dall’inglese del testo della Dichiarazione congiunta firmata dalle due Parti.

Commissione bilaterale del Gran Rabbinato d’Israele e della Commissione per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo della Santa Sede – XVII riunione
Considerazioni ebraiche e cattoliche sulla cura nella malattia terminale: ciò che è proibito, consentito, obbligatorio – Dichiarazione congiunta

Gerusalemme, 2-4 maggio 2023

  1. Il Rabbino Capo Arussi al ricevimento inaugurale ha dato il benvenuto alle delegazioni, osservando che da cinque anni gli incontri della Commissione bilaterale non si erano tenuti a motivo della pandemia di covid, manifestando quindi particolare gioia per la presente riunione. Le delegazioni hanno augurato al Rabbino Capo pronta guarigione dalla sua indisposizione ed il recupero della piena salute. Il Signor Yehudah Cohen, recentemente nominato Direttore generale del Gran Rabbinato d’Israele, ha egualmente espresso il suo benvenuto ed il suo apprezzamento per i lavori della Commissione bilaterale e l’importanza per l’intera società.

  2. Le riflessioni, iniziate il giorno seguente, hanno approfondito il tema che la Commissione bilaterale aveva trattato nella sua vi riunione sulla vita umana e la tecnologia, alla luce dei notevoli progressi della scienza medica.

  3. L’esposizione da parte cattolica ha illustrato i principi guida che riguardano la cura dei malati terminali, a partire dall’ammonimento di papa Francesco a proposito del «contesto socio-culturale contemporaneo che sminuisce progressivamente la comprensione del valore della vita umana».

  4. Perciò la dignità di ogni essere umano — che per ebrei e cattolici discende dall’affermazione della sacralità della vita umana — è stata nuovamente proclamata, in accordo con la dichiarazione della Commissione bilaterale rilasciata a Roma nel febbraio 2006 /Shevat 5766: «Noi affermiamo i principi delle nostre rispettive tradizioni religiose secondo le quali Dio è il Creatore e Signore di ogni vita, e la vita umana è sacra perché, proprio come insegna la Bibbia, la persona umana è creata secondo l’immagine divina (cfr. Genesi 1, 26-27). Per il fatto che la vita è un dono divino da rispettare e preservare, noi ripudiamo decisamente l’idea di un dominio umano sulla vita, e del diritto di decidere del suo valore o della sua durata da parte di qualsiasi persona o gruppo umano. Conseguentemente ripudiamo il concetto di eutanasia attiva (il cosiddetto mercy killing) in quanto illegittima pretesa dell’uomo sull’esclusiva autorità divina nel determinare il momento della morte della persona umana».
    Inoltre «A questo proposito ribadiamo gli insegnamenti delle nostre tradizioni, secondo i quali ogni conoscenza e capacità umana deve servire a promuovere la vita e la dignità dell’uomo, e perciò essere in accordo con i valori morali che derivano dai principi sopra menzionati. Di conseguenza bisogna che ci siano dei limiti nell’applicazione scientifica e tecnologica, riconoscendo il fatto che non tutto quello che è tecnicamente realizzabile sia anche etico».

  5. Rilievo particolare è stato dato all’importanza di cure palliative e di ogni possibile sforzo per alleviare dolori e sofferenze. Si è fatto inoltre riferimento alla storica Dichiarazione congiunta delle tre religioni abramiche, che rifiuta l’eutanasia attiva ed il suicidio medicalmente assistito, pubblicata in Vaticano il 28 ottobre 2019 / 29 Tishri 5780.

  6. Per ebrei e cristiani il prendersi cura dei malati terminali con fede, rispetto ed amore, significa veramente accendere una luce di fiducia e di speranza, in un momento contrassegnato da oscurità e da un senso di solitudine e di abbandono, tanto per il malato quanto per i suoi cari.

  7. La ii Sessione ha riguardato le linee guida relative ai malati terminali, legiferate in armonia con la tradizione ebraica, e le loro ramificazioni globali. È stata messa in rilievo la distinzione tra azioni che causano la morte e scelte di omissione al di là dei bisogni umani fondamentali; come pure tra eutanasia attiva e suicidio medicalmente assistito da una parte, e dall’altra la sospensione di trattamenti terapeutici continuati (come ventilazione e pacemaker) o che prolunghino la vita al di là dei bisogni umani fondamentali (come dialisi e chemioterapia).

  8. Le delegazioni riconoscono che le complessità etiche e religiose, implicate nelle situazioni di fine vita, esigono che ciascun caso sia preso in considerazione in rapporto alle proprie particolari circostanze e necessità.

  9. Le delegazioni sono state ricevute dal Direttore generale dell’Ospedale Shaare Zedeq, dove hanno potuto costatare le modalità di trattamento di malati terminali, in conformità ai principi sopra enunciati.

  10. I membri della delegazione ringraziano Dio Creatore, invocando la Sua benedizione su tutti i malati e su tutti coloro che sono impegnati nel curare e proteggere la vita.

Gerusalemme, 4 maggio 2023
/ 13 Iyyar 5783

Rabbino Rasson Arussi                                
Presidente della Delegazione ebraica

Rabbino Eliezer Simha Weisz
Rabbino Prof. Avraham Steinberg
Rabbino Gidon Shlush
Signor Yehudah Cohen
Signor Oded Wiener

Kurt Cardinale Koch
Presidente della Delegazione cattolica

Arcivescovo Pierbattista Pizzaballa o.f.m.
Arcivescovo Adolfo Tito Yllana
Vescovo Giacinto-Boulos Marcuzzo
Mons. Pier Francesco Fumagalli
Rev. P. Norbert J. Hofmann s.d.b.

(morasha, 15 maggio 2023)

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Oltraggio ad Auschwitz: spunta un chiosco dei gelati. "Questo non è un Luna Park"

Il carretto piazzato all’ingresso dell’ex campo di concentramento (ma in un terreno privato). Il Museo alle istituzioni: fate chiudere l’attività. "Scelta di cattivo gusto, offende i morti".

di Roberto Giardina

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Un cono gelato a Auschwitz. Un chiosco è stato aperto da qualche giorno innanzi al Lager, vende coni, e cialde, gelati industriali e fatti artigianalmente, assicura il gestore che si ripromette di fare buoni affari. Ogni giorno il campo di sterminio è visitato da migliaia di persone, in gran parte studenti in gruppi organizzati dalle scuole.
  Ma in Polonia sono cominciate le proteste, il Lager è il più grande cimitero al mondo, scrivono i giornali, un luogo della memoria, non per andare in vacanza. I nazisti vi uccisero un milione e centomila ebrei. Il portavoce del museo che gestisce il campo, Bartosz Bartyzel, dichiara che è cominciata la procedura per giungere alla chiusura del chiosco: “Sorge a 250 metri dall´ingresso, su un terreno privato su cui non abbiamo giurisdizione. Non abbiamo il potere di intervenire direttamente.” “Il proprietario del terreno e il gestore del chiosco hanno stipulato un contratto, “ dichiara a sua volta il portavoce del municipio di Oswiecim, Andrzej Skrzpinski, da cui dipende il Lager, ma stiamo controllando la situazione giuridica, forse non si ha il diritto di esercitare un´attività privata a Auschwitz.”
  Nel campo è vietato mangiare e usare i telefonini, ma ogni giorno i sorveglianti sono costretti a intervenire. I visitatori si comportano come se fossero in gita, mangiano i panini e bevono birra durante la visita. E si scattano selfies, innanzi alla scritta “Arbeit macht frei”, il lavoro rende liberi, posta all´ingresso. Alcune settimane fa, una ragazza italiana si è fatta fotografare in posa romantica dal fidanzato sui binari che conducono al campo, e ha messo la foto su facebook. I ragazzi fanno a gara a chi va più veloce in equilibrio sui binari, e più a lungo senza cadere, come se si trovassero in una Luna Park.
  “Vendere e comprare un cono a Auschwitz non è solo una dimostrazione di cattivo gusto, commenta Bartyzel, ma un oltraggio ai morti. Si viene fino al campo e si ignora la storia? O a molti non importa”. Avviene anche a Buchenwald, il Lager a otto chilometri da Weimar, nella foresta di faggi dove Goethe andava a passeggio. “In inverno, quando nevica, vengono a sciare e andare sugli slittini, ha denunciato il responsabile del campo Christian Wagner, sciano sul prato tra le tombe, sono tremila, ma le vittime furono 56mila. In primavera e estate vengono a fare pic-nic e grigliano wurstel.”
  A Buchenwald morì la principessa Mafalda di Savoia. A Berlino; tra i tre e quattro milioni di turisti visitano ogni anno il Denkmal per gli ebrei uccisi nella Shoah, inaugurato nel maggio del 2005, in pieno centro di fianco alla Porta di Brandeburgo. L´architetto americano di origine ebrea, Peter Eisenman, 90 anni oggi, ha costruito 2711 steli in cemento, di altezza variabile, fino a due metri, su 19mila metri quadrati, quasi due campi di calcio. Dall'alto sembrano onde. I ragazzi si aggirano tra le steli, come in un labirinto, saltano da una all´altra, ridono e gridano, le coppiette si baciano. Molti protestano per la mancanza di rispetto. “L´avevo previsto, commenta Eisenman, non si può proteggere il mausoleo come un lager, sarebbe una sconfitta. I giovani si sentono liberi ma spero che pensino dove si trovano e perché.”

(Quotidiano Nazionale, 15 maggio 2023)

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Dalla Miriam di Israele alle Miriam dei Vangeli (2)

di Gabriele Monacis

Quello di Luca è, tra i Vangeli, il più ricco di particolari che riguardano la vita di Miriam, nel periodo che precedette la nascita di suo figlio Gesù e negli anni che seguirono. Nel primo capitolo, Luca comincia la sua esposizione dei fatti con la storia di una famiglia di sacerdoti: lui si chiamava Zaccaria, sacerdote dell’ordine di Abiia; lei invece era Elisabetta, una discendente di Aaronne, nonché parente di Miriam (vedi Luca 1:36)
  Luca fa sapere ai suoi lettori che, al momento del racconto, Zaccaria ed Elisabetta erano in età avanzata e che lei era sterile. Ciononostante, mentre Zaccaria esercitava il suo sacerdozio nel tempio offrendo del profumo, un angelo del Signore gli apparve e gli annunciò che lui e sua moglie avrebbero avuto un figlio, cioè Giovanni Battista, il quale sarà grande davanti al Signore; non berrà vino né bevande inebrianti, sarà pieno di Spirito Santo fin dal seno di sua madre e ricondurrà molti figli d'Israele al Signore loro Dio. Gli camminerà innanzi con lo spirito e la forza di Elia, per ricondurre i cuori dei padri verso i figli e i ribelli alla saggezza dei giusti e preparare al Signore un popolo ben disposto». (Luca 1:15-17).
  Questi elementi riportati all’inizio del Vangelo, come il sacerdozio, la nascita di un figlio da genitori in età avanzata, la sterilità della donna, non hanno solo la funzione di informare il lettore su determinati fatti legati ai personaggi della storia; ma sono lì soprattutto per creare collegamenti nella mente del lettore. E questi collegamenti non possono che riportare il lettore del Vangelo di Luca alla storia di Israele dell’Antico Testamento: Abramo e Sara, che ebbero Isacco in età avanzata; le madri dei patriarchi – Sara, Rachele e Rebecca, tutte donne che ebbero almeno un figlio nonostante fossero sterili; l’istituzione di Aaronne e dei suoi discendenti come sacerdoti all’interno del popolo di Israele.
  Possiamo dunque dire che una certa continuità con la storia di Israele caratterizza l’inizio di questo Vangelo. Se a questo aggiungiamo che è proprio il vangelo di Luca quello che dedica più spazio alla madre di Gesù, risulta dunque pertinente ricercare continuità tra il personaggio di Miriam e il popolo di Israele, di cui lei fa parte.
  Ecco il racconto di Luca che introduce questo personaggio, qui chiamato Maria.

    Nel sesto mese, l'angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te». A queste parole ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto. L'angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell'Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine» (Luca 1:26-33).

Questo brano si collega al racconto precedente di Zaccaria ed Elisabetta attraverso l’espressione di tempo “nel sesto mese”. Si intende, evidentemente, nel sesto mese della gravidanza di Elisabetta, madre di Giovanni Battista. Il primo personaggio menzionato è l’angelo Gabriele, non certo nuovo ai lettori dell’Antico Testamento. È lo stesso angelo, infatti, che Dio mandò al profeta Daniele, come risposta alla sua preghiera (vedi Daniele 8:16, 9:21). 
  È interessante notare che la preghiera che Daniele rivolse a Dio prima che arrivasse l’angelo Gabriele, era una preghiera non solo per se stesso, ma per tutto il popolo di Israele; una confessione del proprio peccato, quello di Daniele, e del peccato tutto il popolo, visto che mentre Daniele pregava, Israele si trovava ancora in esilio a Babilonia. L’esilio in paesi stranieri era una conseguenza del peccato del popolo, secondo la Torah (vedi Levitico 26:33). 
  La risposta che Dio fece arrivare a Daniele attraverso l’angelo Gabriele, riguardava i tempi e i modi che l’Eterno aveva prestabilito per riportare il popolo di Israele a Gerusalemme, redimerlo dai propri peccati e salvarlo dai suoi nemici. Tra le altre cose, la profezia che Daniele ascoltò dall’angelo parlava dell’apparizione “di un unto, di un capo”, e che questo “unto sarà soppresso, nessuno sarà per lui”. (Daniele 9:25,26).
  Le parole dell’angelo Gabriele, rivolte a Miriam alcuni secoli dopo quelle rivolte a Daniele, preannunciano che lei diventerà madre pur senza l’intervento di un uomo, essendo vergine. Il figlio che nascerà si chiamerà Gesù. Egli “sarà grande e chiamato Figlio dell'Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine”. Questo figlio, dunque, sarà sia figlio dell’Altissimo, cioè di Dio, sia figlio del re Davide, l’unto che Dio ha scelto affinché sul suo trono sedesse un suo discendente per regnare per sempre. 
  Se i due messaggi rivolti a Daniele e a Miriam sono collegati, in quanto riportati dallo stesso messaggero, cioè l’angelo Gabriele, siamo davanti all’adempimento di quella profezia contenuta nel libro di Daniele, cioè la restaurazione che Israele stava aspettando da secoli, la quale avrebbe sì visto l’unto di Dio regnare su Israele, come figlio di Dio e figlio di Davide, ma anche che prima quest’unto sarebbe dovuto essere soppresso, senza che alcuno del suo popolo fosse per lui.
  Torniamo a Miriam, alla quale l’angelo Gabriele rivolse parole davvero particolari da parte di Dio. L’angelo esordì dicendo: “Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te”. Al che Miriam rimane piuttosto turbata, e si chiede cosa volessero significare quelle parole. Evidentemente aveva capito che quelle parole non erano da intendere come un generico saluto che si rivolge a qualcuno per augurargli qualcosa di buono. Visto il turbamento che l’aveva colta, Miriam deve aver intuito che dopo quella visita la sua vita non sarebbe stata più la stessa, e forse non solo la sua ma anche quella dei suoi conterranei.
  L’angelo la vede turbata, così la rassicura: “Non temere, Maria” e aggiunge “perché hai trovato grazia presso Dio”. L’espressione “trovare grazia presso Dio” merita una certa attenzione. Nell’Antico Testamento, l’espressione “trovare grazia agli occhi di qualcuno” non è inusuale. Trovare grazia è la condizione fondamentale per ricevere un favore immeritato da quella persona agli occhi della quale si è trovato grazia. E non è raro, come si diceva, trovare questa espressione in un contesto che parla di due persone. È piuttosto raro, invece, trovarla in riferimento alla grazia che una persona trova presso Dio, come nel caso di Miriam secondo le parole dell’angelo: “Non temere, Maria, poiché hai trovato grazia presso Dio”. Nell’Antico Testamento, è scritto esplicitamente che coloro che trovarono grazia agli occhi di Dio furono Noè, Mosè e Israele. Questa osservazione acquista un certo rilievo ai fini della ricerca di continuità, perché collega Miriam direttamente a questi personaggi che sono vissuti prima di lei.
  Noè trovò grazia agli occhi di Dio prima del diluvio (Genesi 6:8) e per questo, insieme alla sua famiglia, non perì sotto le acque del diluvio. Nel caso di Mosè, al trovare grazia presso Dio si aggiunge l’aspetto della sua relazione personale con Lui. Dio infatti dice a Mosè: “Io ti conosco personalmente e anche hai trovato grazia agli occhi miei” (Esodo 33:12). Nello stesso capitolo 33 di Esodo, da una domanda che Mosè pone a Dio, si capisce che anche il popolo di Israele ha trovato grazia agli occhi di Dio:

    Come si farà ora a conoscere che io e il tuo popolo abbiamo trovato grazia agli occhi tuoi? Non sarà dal fatto che tu vieni con noi? Questo distinguerà me e il tuo popolo da tutti i popoli che sono sulla faccia della terra” (Esodo 33:16).
In questo frangente molto delicato e teso della storia di Israele, cioè subito dopo il peccato del vitello d’oro da parte del popolo, Mosè intercede per loro, affinché Dio accetti di continuare ad essere presente in mezzo al popolo nel cammino verso la terra promessa. Secondo il versetto qui riportato, la presenza del Signore in mezzo al popolo è proprio ciò che lo contraddistingue dagli altri popoli. E da cosa dipende questa distinzione? Proprio dal fatto che Israele ha trovato grazia agli occhi di Dio.
  Avendo Dio accettato di essere presente con Mosè e con il popolo di Israele nel loro cammino nel deserto, Egli ha così dimostrato tangibilmente il fatto che essi hanno trovato grazia ai Suoi occhi. Se, infatti, Dio avesse deciso di non continuare ad essere presente in mezzo al popolo, non sarebbe stato più vero che questi hanno trovato grazia ai Suoi occhi. In sintesi, trovare grazia agli occhi di Dio e poter contare sulla Sua presenza sono due cose inscindibili. Non c’è l’una senza l’altra.
  Ecco che le parole dell’angelo Gabriele a Miriam acquistano una dimensione storica non indifferente: “Maria, il Signore è con te”. E poi: “Non temere, Maria, poiché hai trovato grazia presso Dio”. Proprio in questo binomio inscindibile – la presenza di Dio insieme al trovare grazia ai Suoi occhi – consiste la continuità di Miriam rispetto al popolo di Israele. Il personaggio di Miriam si trova sulla linea storica di questo popolo, che a sua volta continua la storia iniziata con Noè, che già prima del diluvio trovò grazia agli occhi di Dio. Con la visita dell’angelo Gabriele a Miriam, Dio continua a scegliere dei discendenti della casa di Giacobbe, proprio come la madre di Gesù, per poter portare a compimento i Suoi propositi.
  Partendo proprio dalla continuità storica tra Miriam e Israele riscontrata in questi brani della Scrittura, che cosa Dio ha promesso di adempiere per il popolo di Israele e per mezzo di lui? Nelle prossime occasioni cercheremo di trovare in cosa consiste questo adempimento, presente o futuro.

(2. continua)
(Notizie su Israele, 14 maggio 2023)


 

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Proseguono i bombardamenti di Israele a Gaza e il lancio di razzi palestinesi

Sono stati colpiti anche alcuni covi della Jihad islamica palestinese, incluso il quartier generale di Muhammed Abu al Ata

Proseguono oggi per il quinto giorno consecutivo i bombardamenti delle Forze di difesa israeliane (Idf) nella Striscia di Gaza e il lancio di razzi palestinesi contro Israele. Le Idf hanno attaccato per tutta la notte diversi obiettivi della Jihad islamica nella Striscia di Gaza, incluse alcune postazioni di lanciarazzi e di mortai. Colpiti anche alcuni covi della Jihad islamica palestinese, incluso il quartier generale di Muhammed Abu al Ata, uno dei leader del gruppo militante: egli sarebbe riuscito a sfuggire ai bombardamenti “rifugiandosi nell’ospedale di Shifa”, riferiscono le Idf.
  Da parte loro, i miliziani dell’organizzazione palestinese hanno risposto con il lancio di razzi verso la parte meridionale di Israele, la maggior parte dei quali intercettati dal sistema di difesa aerea “Iron dome” (cupola d’acciaio), mentre altri sono caduti all’interno della Striscia di Gaza. Una casa, ad esempio, è andata in fiamme nel quartiere Al Qasasib di Jabalia, a Gaza, colpita appunto da un razzo lanciato dalla Jihad Islamica.

(Nova News, 13 maggio 2023)

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Israele, Cipro e Grecia. Il triumvirato del gas guarda all’Italia

“Israele, Cipro e Grecia, insieme ai nostri amici americani, formano un’alleanza molto stabile e promettente. Dobbiamo continuare a costruirla: economicamente, in termini di intelligence, difesa e partenariato politico, anche nelle sedi internazionali”.
  Lo ha detto il premier israeliano Benjamin Netanyahu in un vertice bilaterale con il presidente cipriota Nikos Christodoulidis. Il passo diplomatico porta con sé una serie di ricadute legate, in primis, al gas ovvero in un gioco dove tra i protagonisti c’è senz’altro l’italiana Eni (tra Israele ed Egitto) e più in generale il peso specifico che ha l’Italia, come terra di “passaggio” per quelle risorse verso il centro e nord Europa.

• Più gas per tutti
  La cooperazione energetica è il tema principale comune ai tre Paesi, sotto l’occhio vigile degli USA e con l’interesse attivo dell’Italia: l’utilizzo congiunto israelo-cipriota del gas naturale è l’obiettivo centrale insieme al modus. Ovvero se creare adeguate infrastrutture a Cipro per il gas naturale, senza dimenticare il contenzioso pendente tra Cipro e Israele in merito al giacimento “Aphrodite” nella Zona Economica Esclusiva (ZEE) cipriota e al vicino giacimento “Isai”, per il quale ci sono rivendicazioni da Israele.
  Ma più in generale è l’iniziativa politica che va rafforzata: il riferimento è allo schema tripartito Cipro-Israele-Grecia, il cui prossimo vertice si terrà a settembre, da estendere alla presenza permanente di un rappresentante di gli Stati Uniti, con la possibilità di esprimere una componente anche rispetto al Forum del Negev, al quale partecipano insieme Israele, Usa e Stati arabi (con l’obiettivo di normalizzare i rapporti di Israele con gli Stati arabi). Inoltre, il colosso americano Chevron punta a nuove esplorazioni in quel fazzoletto di acque, e sta noleggiando una nave di perforazione per sostenere i lavori di esplorazione del gas naturale entro il 2024.

• Piombino+Ravenna
  Lo sfruttamento del gas naturale nella zona economica esclusiva dei Paesi coinvolti nel forum dovrebbe accelerare nel brevissimo periodo, come ammesso dal Ministro dell’Energia cipriota Giorgio Papanastasiou. L’obiettivo è favorire lo sfruttamento del gas naturale cipriota e di altri giacimenti di gas della regione: non solo per produrre energia localmente ma per esportare GNL in Europa, quindi attraverso l’Italia che, con Piombino e Ravenna, ha due snodi strategici sul proprio territorio. Una settimana fa, nel porto toscano, Eni ha avviato le prime operazioni di trasbordo di GNL nel nuovo terminal Snam: il carico è stato prodotto nell’impianto di liquefazione di Damietta, in Egitto, uno dei siti ad hoc su cui si è posato il cane a sei zampe. L’autocisterna GNL è stata ormeggiata presso la Golar Tundra da cui trasferirà il gas naturale liquefatto attraverso 6 tubi flessibili nei serbatoi FSRU e successivamente sarà riportato allo stato gassoso: da lì sarà convogliato nel trasporto nazionale rete.
  Golar Tundra ha una capacità di rigassificazione continua di 5 miliardi di metri cubi all’anno. Cresce, in sostanza, il ruolo oggettivo dell’Italia che, attraverso i due siti sul Tirreno e sull’Adriatico, assume lo status di essenziale snodo continentale.

• Cipro occupata
  Un altro elemento di dialogo tra Israele e Cipro riguarda gli investimenti nella parte occupata dai turchi. La mossa del governo di Nicosia non è estranea a quanto sta accadendo nell’area di Famagosta e alle informazioni secondo cui nei territori occupati sarebbero attivi investitori di vari paesi (tra cui Israele). Per cui si punta a fermare tali movimenti nei territori occupati a scapito dei beni greco-ciprioti, passo sollevato dal presidente Christodoulidis durante l’incontro avuto con il premier Netanyahu a Gerusalemme, con quest’ultimo che si è direttamente impegnato a evitare l’imbarazzo .

(ITALY24, 13 maggio 2023)

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Ebraismo e Israele nel Cinema

Pitigliani Kolno’a Festival – dal 19 al 22 giugno

ROMA - Torna dal 19 al 22 giugno 2023 a Roma, a ingresso gratuito fino a esaurimento posti, il Pitigliani Kolno’a Festival – Ebraismo e Israele nel Cinema, giunto alla sedicesima edizione, dedicato alla cinematografia israeliana e di argomento ebraico. Il festival si tiene in due location: dal 19 al 21 giugno alla Casa del Cinema mentre la serata finale, il 22 giugno, al Centro Ebraico Italiano Il Pitigliani.
  Prodotto dal Centro Ebraico Italiano Il Pitigliani e diretto da Ariela Piattelli e Lirit Mash, il PKF2023 propone, come sempre, un variegato assaggio dell’ultima produzione israeliana.
  Il festival apre con Matchmaking di Erez Tadmor (Premio alla carriera PKF2023), un film che rappresenta, scegliendo il genere della commedia, un affresco sul mondo dei giovani ebrei ortodossi di Gerusalemme che cercano, con l’aiuto dei sensali, l’amore della vita: un film dove si incontrano e si scontrano mondi diversi in quello che è già un microcosmo e in cui anche un fidanzamento può diventare un affare di stato.

EREZ TADMOR
Nato in Israele nel 1974, Erez Tadmor è sceneggiatore, regista e produttore. Si è laureato alla “Camera Obscurs Film School” di Tel -Aviv. Il suo primo cortometraggio “Moosh” ha vinto premi in più di 40 festival in tutto il mondo come Houston, Palm Springs e molti altri. Tra i film che ha diretto e di cui ha curato anche la sceneggiatura ricordiamo Magic Men, A Matter of  Size, The Art of Waiting e Homeport.

(Roma Daily News, 13 maggio 2023)

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Guardia rivoluzionaria iraniana: ‘Con i palestinesi fino al collasso di Israele’

TEHERAN – Il comandante della Quds Force – sezione per le operazioni estere della Guardia rivoluzionaria iraniana – Esmaeil Qaani ha avvertito che continuerà a sostenere le milizie palestinesi “fino al completo collasso di Israele”.
  Secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa iraniana Tasmin, Qaani ha sottolineato “l’aspetto eroico e forte” della “resistenza” palestinese che continuerà a sostenere il più possibile, “sia con le parole che con i fatti” fino a quando “il regime sionista crollerà completamente”.
  Il comandante iraniano ha reso omaggio ai giovani palestinesi che sono attivi in ​​Cisgiordania contro Israele e che compiono fino a 30 azioni in alcuni giorni. “Sono il fronte della resistenza e della mobilitazione islamica globale”, ha sottolineato, aggiungendo che sono un “asse estenso” che collega la resistenza di varie parti del mondo.

(Adnkronos, 13 maggio 2023)
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Frase strutturalmente simile: "Con gli ucraini fino al collasso della Russia". Chi l'ha detta?

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Sabato 13 maggio torna La notte dei Musei al Museo Ebraico di Roma

di Michelle Zarfati

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La cultura non dorme mai, e sabato 13 maggio è la notte perfetta per godere di musei, spettacoli dal vivo e concerti. Torna finalmente nella Capitale l'attesissimo appuntamento con “La Notte dei Musei”. Una notte di apertura straordinaria di musei, università, istituzioni e altri spazi espositivi e culturali con mostre, spettacoli, visite e laboratori. Roma si prepara ad accogliere una notte ricca di cultura. Per sabato sono previste infatti molte aperture straordinarie. Non solo musei civici, ma eccezionalmente anche istituzioni italiane e straniere e musei privati, tra questi anche il Museo Ebraico di Roma che sarà aperto dalle 21.30 all’1.30 (ultimo ingresso 1.00). Non solo, all’interno del Museo alle 22.00 i visitatori saranno guidati dai curatori Giorgia Calò e Davide Spagnoletto all’interno della Mostra, inaugurata lo scorso 26 aprile, “Roma 1948. Arte italiana verso Israele”. Un percorso espositivo per celebrare il rapporto tra Italia ed Israele all’indomani della nascita dello Stato Ebraico. All’interno della mostra sono infatti presenti opere di alcuni dei più importanti artisti, insieme a nomi emergenti nell'arte contemporanea di 75 anni fa, fra i quali Cascella, Guttuso, Capogrossi, Accardi, Fischer e molti altri.
  La Notte dei Musei è un evento che si svolge contemporaneamente in tutta Europa dal 2005. Con un biglietto simbolico di 1 euro sarà possibile visitare le attrazioni culturali più belli della città. La Notte dei Musei 2023, vedrà l’apertura di 80 spazi con 60 mostre e un calendario di circa 130 spettacoli, oltre a visite guidate e attività didattiche per tutte le età. “La Notte Dei Musei” è un'iniziativa che colora le notti romane ormai da anni, promossa da Roma Culture, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e organizzata da Zètema Progetto Cultura.

(Shalom, 12 maggio 2023)

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Alla ricerca dei padri d'Israele, tra i segreti dei Rotoli del Mar Morto

Dal leggendario ritrovamento al fascino senza fine di una delle maggiori scoperte archeologiche contemporanee. Che cosa ci dicono oggi i Manoscritti di Qumran e le ultime ricerche in merito? In un evento eccezionale a Milano, nella sede della Comunità ebraica, verrà esposto, presentato e commentato il Grande Rotolo di Isaia, l'unico arrivato intero fino a noi attraversando due millenni. Intervista allo studioso Marcello Fidanzio.

di Ilaria Ester Ramazzotti

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Una data reale e simbolica: il 29 novembre 1947. È il giorno in cui l'Assemblea delle Nazioni Unite vota la nascita dello stato d'Israele. Ed è lo stesso giorno in cui i Manoscritti del mar Morto rientrano in possesso di mani ebraiche, riconnettendo così le lettere dell'ebraico dei padri con la terra dei figli, l'ancestrale con il contemporaneo, l'utopia con la realtà, il popolo del Libro con la terra del Libro. Ammantati dall'aura sacrale con cui hanno attraversato i secoli, avvolti nelle suggestioni mistiche seguite ai loro ritrovamenti avvenuti dal 1947 al 1956 in undici grotte nel deserto della Giudea, i Rotoli di Qumran costituiscono una delle maggiori scoperte archeologiche contemporanee. Datati tra il III secolo a.C. e il 68 d.C. e scritti in ebraico antico, aramaico e greco comprendono i manoscritti biblici del testo masoretico e conservano la testimonianza della fine del tardo giudaismo del Secondo Tempio.
  Avventurose e talvolta rocambolesche, le vicende legate al ritrovamento dei primi manoscritti nella località vicina alla sponda nord-occidentale del Mar Morto, e alle successive compravendite, hanno spesso dato adito a leggende. Leggendario appare il ritrovamento casuale dei primi Rotoli in una grotta, da parte di un pastore della tribù beduina Ta'amìre, nell'inverno del 1947, mentre sta inseguendo una capra. Mesi dopo, dei membri della comunità beduina avrebbero venduto dei manoscritti ritrovati nella grotta, dentro delle giare, in un mercato di Betlemme, dove sarebbero stati acquistati dal mercante cristiano Khalil Iskandar Shahin, che li avrebbe rivenduti di lì a poco al metropolita Athanasius Yeshue Samuel a Gerusalemme. Samuel, dopo aver intuito la portata della scoperta ed essere andato alla ricerca della grotta del ritrovamento, aveva trasferito negli Stati Uniti quattro dei Rotoli in suo possesso, fra cui una copia del libro di Isaia, in attesa di un compratore. Nel frattempo, l'archeologo Eliezer Sukenik dell'Università Ebraica di Gerusalemme, una volta rintracciato il primo mercante di Betlemme, aveva a sua volta comprato altri manoscritti, frammenti e giare provenienti dalla grotta poi ufficialmente individuata solo nel 1949, quando sono iniziati i primi scavi. I lavori archeologici hanno poi rinvenuto, nel tempo, altri 70 manoscritti o frammenti, giare, vasi, pezzi di stoffa e in seguito i resti di mikve, abitazioni e case dell'antico insediamento di Qumran, mentre le università e gli enti del neo costituito Stato d'Israele si stavano lanciando nel recupero dei Rotoli finiti oltreoceano. Negli anni Cinquanta, l'archeologo e militare Yigael Yadin ha così rintracciato negli Stati Uniti il metropolita Samuel, riuscendo tramite un intermediario a ricomprargli i manoscritti. Intanto, siamo intorno al 1956, venivano individuate altre dieci grotte, per un totale di quasi un migliaio di manoscritti e altri materiali. Oggi i reperti sono conservati in parte al Museo d'Israele e al Museo Rockfeller di Gerusalemme, in parte ad Amman, alla Biblioteca Nazionale di Parigi e in altri musei e collezioni nel mondo.
  I Rotoli sono in pelle arrotolata e cucita, di dimensioni variabili, fra cui il Rotolo di Abacuc (13xl41 cm) e il Rotolo di Isaia (25 cm x 7,34 mt) che, con i suoi 66 capitoli redatti su una striscia di pelle lunga oltre sette metri, è il meglio conservato e l'unico Rotolo biblico completo. Un fac-simile è esposto al pubblico al Museo di Israele a Gerusalemme. Ed è proprio questo stupefacente Rotolo che verrà presentato a Milano il 24 maggio, nel corso di una serata speciale e unica, un evento organizzato dalla CEM, Comunità ebraica di Milano, spiegato e illustrato da Marcello Fidanzio, archeologo e professore all'Istituto di Cultura e Archeologia delle terre bibliche alla Facoltà di Teologia di Lugano - Università della Svizzera Italiana. I Rotoli del Mar Morto costituiscono oggi una collezione di quasi mille Rotoli e 25 mila frammenti. Abbiamo chiesto a Marcello Fidanzio un approfondimento storico e archeologico sulle ricerche in corso sui Manoscritti e sul Rotolo di Isaia ritrovati a Qumran.

- Come procedono gli studi su questo enorme patrimonio?
 «Con l'archeologia cerchiamo di conoscerlo meglio - introduce il professor Marcello Fidanzio - vogliamo capire perché i Rotoli sono stati deposti nelle grotte e da dove vengono. Per questo siamo tornati al luogo del loro ritrovamento e da lì, dalle grotte, cerchiamo di ricomprendere la storia dei Rotoli e di Qumran. Tra gli oggetti archeologici ci sono naturalmente i Rotoli. [aspetto innovativo delle nostre ricerche sui Rotoli sta nell'interesse per tutti gli aspetti non testuali. Il Rotolo è un manufatto. Se vogliamo capire qualcosa degli scopi con cui è stato prodotto, oltre a leggere il testo bisogna occuparsi di tutte le altre informazioni offerte da questi oggetti archeologici. La 'filologia materiale' viene sempre più applicata anche ai Rotoli del Mar Morto e lo studio del Grande Rotolo di Isaia, a motivo del suo stato di conservazione, ne offre un esempio di prima grandezza».

- Di che epoca parliamo?
 «Di una fase storica in cui la Bibbia è ancora nel periodo della sua formazione, seppur "all'ultimo chilometro". Questi manufatti, in generale, ma in particolare il Grande Rotolo di Isaia, che è un testo completo, ci permettono oggi di cogliere quale fosse il rapporto fra il testo di Isaia che conosciamo e i suoi antichi utilizzatori. Abbiamo la possibilità di guardare da vicino un Rotolo con i segni della sua preparazione e scrittura, ma anche del suo uso. Già nel primo anno della ricerca non sono mancate le sorprese e alcune le presenteremo per la prima volta in Italia il 24 maggio a Milano - annuncia Marcello Fidanzio -. Vogliamo lasciarci istruire dai segni di interazione (correzioni, integrazioni, restauri) che il Rotolo porta su di sé per comprendere che cosa fosse per gli uomini del tardo periodo del Secondo Tempio il Libro di Isaia e come vi si rapportassero. Per chi è interessato alla Bibbia è possibile scorgere dei tratti del suo processo di formazione e conoscerla meglio. Questo non si basa innanzitutto su speculazioni astratte, ma ne trova i segni nei Rotoli ora disponibili. Mi sembra efficace l'immagine sintetica che esprimo con il titolo "il corpo della Bibbia" Prima delle scoperte dei Rotoli del Mar Morto, ritornare alle origini del testo biblico significava spesso avere a che fare con speculazioni critiche anche molto rigorose, ma fatte su aspetti immateriali, che a volte trasmettevano più l'arte dello studioso che non la ricostruzione dell'antico. Ora, invece, abbiamo fra le mani dei concreti manufatti che, come dice Roland de Vaux, l'archeologo che ha scavato Qumran, "ci permettono di ricomporre il passato fra le nostre mani e farlo ridiventare presente". È un'esperienza entusiasmante e un privilegio da condividere».

• I SEGNI LASCIATI SUL ROTOLO DAGLI SCRIBI

- Quali sono i segni e le tracce materiali ritrovati sul Rotolo di Isaia?
 «Si tratta di segni lasciati dagli scribi che ne hanno prodotto le copie, correzioni effettuate ancora da amanuensi successivi e perfino annotazioni a latere o a margine. Ma anche segni lasciati da chi leggeva, studiava e quindi utilizzava il manufatto. «C'è chi ha scritto il Rotolo - sottolinea il professore -, poi c’è chi vi ha interagito con correzioni, nell'arco del secolo che passa fra la prima mano che ha scritto e l'ultima che ha corretto, infine ci sono altri segni marginali o sopra-lineari che ci parlano di ulteriori interazioni con il testo. Non si tratta di segni fatti una volta sola e nemmeno sempre sistematici, spesso occasionali, che interessano solo alcune parti del testo. Infine, ci sono importanti segni di restauro, cioè segni di cura apposti da mani diverse che fanno capire l'alto valore che veniva dato al Rotolo dagli antichi utilizzatori. Il grande Rotolo di Isaia ha una sua storia. E il nostro progetto di ricerca è di scrivere la biografia di questo oggetto eccezionale, una biografia che passi attraverso tutti gli elementi materiali, a partire dai materiali di produzione, dalle pelli trattate e preparate, cucite e più volte ricucite per fini di restauro, ma anche dai segni di riscrittura di alcune righe o parti di testo quasi cancellatesi per l'uso. Tutti segni di interazione che il Rotolo ha mantenuto nel tempo fino al momento della sua deposizione nella grotta. In sostanza, il Rotolo di Isaia è un corpo vivo che mostra tutte le interazioni intercorse con chi lo usava. E proprio "interazione" è la parola chiave nel corso di formazione del testo biblico, perché ci dà evidenza di un laborioso e prezioso processo di formazione che vede il Rotolo legato a doppio filo all'esperienza del popolo in cui è nato».

• TEORIA DEL NASCONDIMENTO DEI ROTOLI

Fra i percorsi di studio dei Rotoli di Qumran primeggia, insieme ad altre, la questione sul perché tutti quei preziosi testi si trovassero accumulati in quelle grotte. Una della ipotesi, poi da molti messa da parte, vedeva in quei luoghi una possibile ghenizah, un deposito per dei libri non più utilizzabili. Una delle teorie storiche elaborate al riguardo sostiene invece che l'antico insediamento di Qumran sia stato abbandonato di fronte alla minaccia delle armate romane di Vespasiano, in marcia verso Gerusalemme, nel 68 d.C., cosicché i suoi abitanti decisero di nascondere e proteggere il loro ricco patrimonio manuscripto e sapienziale nelle cavità fra le rocce. «Non sono certamente il primo a sostenere che i Rotoli sono stati nascosti - spiega Fidanzio -, ma la differenza nelle nostre ricerche sta nello spostare il centro dell'attenzione dal contenuto dei testi (che non raccontano la storia del loro uso e della loro deposizione), alle evidenze materiali raccolte nel loro luogo di ritrovamento, cioè le grotte. Precedenti studi si sono focalizzati sull'insediamento abitativo di Qumran, ma non sulla situazione dei Rotoli nelle grotte, dove sono stati effettivamente ritrovati. Nessun manoscritto è stato infatti ritrovato nell'insediamento, ma solo in cavità artificiali vicino a Qumran e in altre naturali più distanti. A partire dalla domanda su quale sia stata la funzione delle grotte in relazione al deposito, il contesto archeologico del ritrovamento svela delle evidenze per cui possiamo sostenere che i Rotoli sono stati portati nelle grotte naturali per essere nascosti. Abbiamo trovato nove caratteristiche distintive del deposito da cui si evince che qualcuno sia partito dall'insediamento di Qumran per andare a nascondere quei manufatti nelle grotte. A partire dallo studio delle grotte e dei Rotoli che vi erano contenuti, è possibile inserire un ulteriore passaggio che dal contesto deposizionale porta al contesto vitale, per arrivare a fare delle ipotesi anche sulla natura degli abitanti di Qumran».

• CHI ERANO GLI ABITANTI DI QUMRAN?

Molto si è parlato degli Esseni, il gruppo semita nato forse attorno alla metà del II secolo a.C. e organizzato a volte anche in comunità di tipo monastico. Erano davvero loro gli abitanti di Qumran e i detentori dei Rotoli? Un'altra linea di studi ha ipotizzato invece che si trattasse di un gruppo di Sadducei. Di certo, sappiamo che una parte importante dei manoscritti è espressione di una corrente del giudaismo del tardo periodo del Secondo Tempio. «Possiamo parlare più propriamente di Zadokiti - precisa Fidanzio a questo proposito -. Erano dei sacerdoti, praticavano una Halakhah Zadokita e non farisaica. Poi, andando più nel dettaglio, ad oggi c'è un buon numero di studiosi secondo cui si trattava degli Esseni, ma altri ritengono che fossero membri di una riforma interna all'ambito dell’essenismo. Altri ancora pensano che si trattasse di un gruppo sacerdotale scissionista zadokita, senza necessità o possibilità di identificazione con gli Esseni. C'è ancora molta discussione. Quello che noi oggi possiamo dire è che si trattava di una specifica corrente del giudaismo e che i Rotoli costituivano la collezione di un gruppo, di una élite che si confrontava al più alto livello con altre élite del tempo. Non sono infatti stati ritrovati nelle grotte solo dei documenti relativi a questo gruppo, ma anche della letteratura religiosa comune dell'epoca. Abbiamo la possibilità di conoscere un particolare punto di vista su un periodo fondamentale della storia del giudaismo: il volgere dell'era che prepara il passaggio al giudaismo rabbinico».

• LEGARE L'ANTICO AL CONTEMPORANEO

Sui Rotoli, eccezionale patrimonio ebraico e universale, si riversa l'interesse affascinato di diversi mondi nazionali e religiosi, un interesse intrecciato attorno a un filo che lega il passato antico con la storia contemporanea dei popoli, coinvolgendone persino l'identità dei singoli. «Senza mai trascurare la natura ebraica di questi testi, vediamo come la storia della scoperta dei manoscritti di Qumran nel ventesimo secolo coinvolga persone di diverse provenienze e di differenti convinzioni che si sono appassionati alla loro ricerca e al loro studio - sottolinea il professore -. Anche perché l'ebraismo è una ricchezza per tutti e non solo per gli ebrei. Molti si sono lasciati avvincere, alcuni addirittura "bruciare" dal valore del loro ritrovamento, impegnando tante energie fino a consumarsi e a volte affrontando concretamente il rischio della vita. I Rotoli non sono solo una grandiosa scoperta archeologica: è chiaro come ognuno dei protagonisti di questi studi e di queste ricerche alla fine cercasse qualcosa di sé stesso e della propria personale identità, ponendosi delle domande non solo di senso storico e archeologico, ma per trovare una direzione nella vita odierna. Che cosa può significare per un ebreo che torna nella Terra dei padri ritrovare dei manoscritti risalenti all'epoca di quei padri? Che cosa può significare per un cristiano, in un periodo in cui tante volte sono stati ritrovati dei manoscritti del Nuovo Testamento, poterli confrontare con un così grande patrimonio ebraico, che può contribuire a comprendere meglio anche il cristianesimo? Gli studiosi che hanno lavorato sui Rotoli hanno cercato sé stessi e il senso del loro agire. Oggi c'è molto interesse anche a livello di grande comunicazione. Mentre è difficile attirare l'attenzione sul testo biblico, i Rotoli del Mar Morto riempiono sempre le sale. Tuttavia, questo interesse viene spesso alimentato da annunci sensazionalistici ed emozioni a volte povere di contenuti. La parola "mistero" è sovente abusata. Personalmente, ho del tutto vietato di usare questo termine nella comunicazione relativa agli scavi nelle grotte, perché si presta a venire strumentalizzato o a diventare vuoto. Il nostro compito di studiosi è di riempire queste emozioni spontanee di contenuti adeguati, di educare a ricevere quelli che sono i contenuti di queste scoperte. E dobbiamo rivolgerci non solo agli studiosi, ma anche alle persone che pur non essendo specialiste nutrono un sincero interesse per questi temi, dando loro la possibilità di conoscere il contenuto degli studi. Per le comunità ebraiche la materia è particolarmente vicina e famigliare - evidenzia -, visto che in queste ricerche ci confrontiamo con delle pratiche religiose ebraiche di 2000 anni fa e oltre, con esigenze che sono le stesse degli ebrei religiosi di oggi. È come mettere i piedi nelle proprie orme. Si possono trovare consonanze o anche dissonanze rispetto agli specifici modi di declinare oggi la pratica religiosa, ma c'è il fascino di incontrare alcuni dei propri padri. Infine, si potrebbe tracciare la storia della ricerca su Qumran sottolineando come ogni svolta dell'odierno conflitto mediorientale corrisponda a una tappa della ricerca sui Rotoli. Questo è uno degli aspetti che rendono tanto vitale il lavoro e grande l'interesse - conclude Marcello Fidanzio -. Come ha scritto l'archeologo Ygal Yadin, "c'è qualcosa di simbolico nel fatto che i primi testi siano stati acquisiti dagli ebrei il 29 novembre 1947, lo stesso giorno in cui alle Nazioni Unite si votava la ri-creazione dello Stato ebraico in Israele. È come se questi manoscritti avessero aspettato 2000 anni per riemergere quando il popolo del Libro è tornato nella terra del Libro"».

(Bollettino della Comunità Ebraica di Milano, maggio 2023)

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Ripreso il lancio di razzi da Gaza contro Israele dopo pausa di 13 ore. Sirene attorno a Gerusalemme

Se ne contano circa 15, di cui uno è caduto in una serra senza procurare vittime, altri sono stati intercettati. Sono 31 i morti finora, oltre 90 i feriti. E Israele lascia i colloqui indiretti sulla tregua.

Israele ha lasciato i colloqui indiretti per un cessate il fuoco dopo i nuovi lanci della Jihad da Gaza. Lo ha annunciato un alto esponente israeliano, citato dai media secondo cui al termine di consultazioni è stato deciso di abbandonare i colloqui indiretti mediati dall'Egitto. E l'aviazione israeliana, dopo i lanci da Gaza, ha ripreso gli attacchi alle postazioni della Jihad islamica nella Striscia. Lo ha fatto sapere il portavoce militare. 
  Il lancio di razzi, circa 15, da Gaza verso le comunità israeliane a ridosso della Striscia era ripartito dopo una pausa di quasi 13 ore. Infatti dalle 22 di ieri sera (ora locale) era cessato il lancio di razzi da Gaza verso Israele da parte della Jihad islamica. Uno dei razzi- secondo il portavoce delle comunità di confine - è caduto su una serra ma senza procurare vittime. Gli altri - secondo la stessa fonte - o sono stati intercettati dall'Iron Dome o sono caduti in zone aperte. L'ultimo lancio dalla Striscia risale alle 22 (ora locale) di ieri sera.  E dopo il lancio di razzi da Gaza le sirene di allarme risuonano in diverse località vicine a Gerusalemme. In particolare le sirene a Beit Shemesh ed - in Cisgiordania - nella zona di insediamento ebraico del Gush Etzion e nella città-colonia prevalentemente ortodossa di Beitar Illit. Secondo la radio pubblica, si sentono echi di esplosioni. 

• IL BILANCIO
  Secondo la Wafa, i morti a Gaza sono ad ora, tra miliziani e civili (comprese donne e bambini) 31 e i feriti oltre 90. Secondo il portavoce militare Daniel Hagari - che ha confermato i colloqui in corso sul cessate il fuoco a livello politico - da Gaza sono stati lanciati dall'avvio del conflitto 876 razzi (di cui 163 ricaduti nella Striscia) con 260 intercettamenti da parte dell'Iron Dome, tranne quello che, per un malfunzionamento del sistema, ha causato la prima vittima israeliana a Rehovot. L'aviazione - secondo la stessa fonte - ha colpito 215 obiettivi della Jihad islamica nell'enclave palestinese. 

(RaiNews, 12 maggio 2023)

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Nuovi attacchi israeliani su Gaza: uccisi due dirigenti della Jihad. Un civile israeliano morto sotto i razzi

L'esercito ha detto che Ali Ghali era il responsabile del lancio di razzi. Con lui sono morti anche altri due miliziani. Oggi pomeriggio colpito anche Ahmed Abu Daka, vicecomandante dell'unità missilistica. Lo Stato ebraico: "Proiettili difettosi dei jihadisti hanno ucciso quattro civili palestinesi tra cui una bambina di dieci anni”.

di Rossella Tercatin

GERUSALEMME -  Si nascondeva in un rifugio ritenuto sicuro insieme ad altri miliziani, ma non è stato sufficiente. Oggi, alle prime luci dell'alba l'aviazione israeliana ha raggiunto ed eliminato Ali Ghali, il comandante della divisione missilistica della Jihad Islamica nella città di Khan Younis, a sud di Gaza. Nel corso della giornata una sorte simile è toccata al suo vice Abu Deka. Sale così a cinque il numero dei leader del gruppo eliminati nel corso dell'operazione denominata da Israele "Scudo e Freccia", dopo che nella notte tra lunedì e martedì erano stati uccisi Khalil Bahitini, Jahed Ahnam e Tarek Az Aldin. Una vera e propria decapitazione dei vertici dell'organizzazione.
  Jihad - che in una nota afferma "l'assassinio dei nostri comandanti incoraggia solo i combattenti a continuare la lotta e combattere il nemico" - a sua volta ha reagito sparando oltre 800 razzi contro il territorio israeliano. Se la maggior parte è caduta all'interno della Striscia o in aree disabitate, e dei rimanenti il 95 per cento sono stati intercettati dai sistemi di difesa antiaerei - l'Iron Dome e la nuova tecnologia "Fionda di Davide" contro i missili a medio raggio - quelli restanti sono riusciti comunque a provocare danni importanti, colpendo diversi edifici e veicoli in varie località di Israele, tra cui Rehovot, una città a una ventina di chilometri da Tel Aviv e sede del prestigioso istituto di ricerca Weizmann. Qui un razzo ha sventrato un edificio causando un morto e una decina di feriti.
  Così paiono allontanarsi le prospettive di un cessate il fuoco che mercoledì sera pareva vicinissimo, tanto da essere addirittura annunciato come concluso dai media del Cairo, che come in passato si occupa di mediare tra Israele e i gruppi armati palestinesi.
  Poco dopo però decine di razzi erano stati sparati contro il sud di Israele e anche contro Tel Aviv e i suoi sobborghi, e a stretto giro il premier israeliano Benjamin Netanyahu aveva annunciato in televisione che l'operazione militare proseguiva. Nelle ore successive, Israele ha continuato a colpire Gaza. In totale sono almeno 25 le vittime palestinesi dall'inizio delle ostilità, in maggioranza miliziani, ma anche diversi civili, compresi quattro bambini uccisi nei primi raid della settimana.
  Dopo il razzo a Rehovot, gli analisti suggeriscono che lo scontro è probabilmente vicino a un punto di svolta. La morte di un israeliano e le case distrutte potrebbero rappresentare l'obiettivo simbolico che la Jihad cercava per dichiarare vittoria e accettare poi la tregua, che Israele sarebbe interessata a raggiungere in virtù dei successi operativi conseguiti.
  Oppure, al contrario, la distruzione di Rehovot potrebbe causare un'escalation e magari spingere Hamas, il gruppo armato palestinese che controlla Gaza, a scendere in campo in un conflitto che finora ha appoggiato solo a parole, con il suo arsenale nettamente superiore a quello della Jihad. Uno scenario, quest'ultimo, guardato con grande preoccupazione dalla comunità internazionale, con Stati Uniti, Ue, Egitto e vari altri paesi che premono per il cessate il fuoco. A Tel Aviv intanto, non si è fermato il concerto all'aperto del musicista Aviv Geffen, con l'esercito che prima dello show comunica ai 40mila partecipanti le istruzioni di come comportarsi in caso di allarme aereo. Prove di normalità in un paese abituato a convivere con la guerra.  

(la Repubblica, 12 maggio 2023)

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Gaza: «Israele riapra i valichi per consentire l’assistenza umanitaria»

Non riescono a dormire e temono per la loro vita. Per i bambini della Striscia di Gaza la nuova ondata di violenza – che colpisce anche il sud di Israele – oltre a minacciare la loro sicurezza rischia anche di aggravare la crisi della loro salute mentale, che perdura da tempo. Basti pensare che l’80%  già viveva in condizioni di depressione prima degli attacchi ripresi dal 9 maggio, e in 800mila non hanno conosciuto altro che le ondate di violenza e terrore degli ultimi 16 anni.
  A lanciare l’allarme è Save the Children, ricordando che la nuova ondata di violenza arriva due anni dopo che un’analoga escalation di violenza aveva provocato la morte di 67 bambini palestinesi e di due bambini israeliani. Bambini e famiglie intrappolati nella Striscia, raccontano, si rifugiano nelle loro case, mentre scuole, università e strutture pubbliche e private sono chiuse. Non solo. In seguito al lancio di razzi da Gaza verso il sud di Israele, i cittadini che vivono nelle città lungo la barriera perimetrale di Gaza hanno ricevuto istruzioni per l’evacuazione o per proteggersi in luoghi sicuri.
  Si tratta della sesta escalation di violenza in 16 anni per i piccoli di Gaza, costretti a vivere sotto il blocco terrestre, aereo e marittimo imposto dal governo di Israele. Loro rappresentano il 47% dei due milioni di abitanti della Striscia e, dopo 15 anni di vita sotto il blocco, in «4 su 5 riferiscono di vivere con depressione, dolore e paura. È probabile – spiegano da Save the Children – che la nuova escalation scateni ricordi traumatici per molti bambini di Gaza che hanno sopportato ondate di morte e distruzione, hanno subito ferite che hanno cambiato la loro vita o hanno perso i loro cari in precedenti escalation».
  In più, ora, con la chiusura dei valichi di Erez e Kerem Shalom, controllati da Israele, il personale umanitario e i beni di prima necessità come medicinali, cibo e carburante non possono entrare a Gaza. Secondo il ministero della Sanità palestinese, la chiusura dei valichi ha finora impedito a 292 pazienti di accedere a cure mediche essenziali in ospedali al di fuori di Gaza, tra cui 15 pazienti che necessitano di cure urgenti e potenzialmente salvavita. Nel 2022, ricordano, almeno tre bambini sono morti a causa della negazione del permesso di ricevere cure in ospedali al di fuori della Striscia di Gaza.
  Jason Lee, direttore di Save the Children per il Territorio palestinese occupato, parla di un «momento inimmaginabilmente difficile per i bambini di Gaza. La nostra ricerca – dice riferito a un rapporto del 2022 – ha dimostrato chiaramente che la maggior parte dei bambini stava già soffrendo le conseguenze di così tanti anni di blocco e di incessanti cicli di violenza. Ogni ora che passa senza un cessate il fuoco, la sofferenza dei bambini rischia di aggravarsi, con conseguenze potenzialmente catastrofiche». Quindi l’appello: «Il governo di Israele deve aprire immediatamente tutti i valichi di Gaza per consentire l’assistenza umanitaria salvavita a coloro che ne hanno bisogno, compreso l’accesso a cure mediche specialistiche. I genitori ci dicono che i bambini non riescono a dormire la notte, che fanno fatica a confortarli, senza sapere se saranno vivi domani. Esortiamo la comunità internazionale a usare tutta la propria influenza per allontanare la situazione dall’orlo del baratro – aggiunge -. Deve esserci un’immediata cessazione delle ostilità per proteggere tutti i bambini».

(Romasette.it, 12 maggio 2023)

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Gazzini (lega): grave sgarbo Ue ad Israele, totale solidarietà

STRASBURGO – “Accolgo con piacere l’appello dell’amico Alessandro Bertoldi, Presidente di Alleanza per Israele, il quale ha chiesto che l’Italia ed i suoi Parlamentari europei protestino con l’Unione Europea per l’inaccettabile decisione di annullare la festa dell’Ue a Tel Aviv a causa della presenza del Ministro per la sicurezza d’Israele Ben Gvir.
  Secondo l’Ue le opinioni del Ministro contraddirebbero i valori europei. Trovo a dir poco sconvolgente ed inaccettabile che la nostra amicizia nei confronti di Israele subisca questo duro colpo a causa di una decisione dei soliti burocrati europei, peraltro proprio nel giorno dell’anniversario della nascita dello stato ebraico, 75 anni fa. È soltanto Israele a scegliere i suoi rappresentanti, in patria come all’estero, e non può di certo essere l’Ue a decidere con quali rappresentati dello stato ebraico intrattenere rapporti e con quali rifiutarsi, visto che l’Ue non lo fa nemmeno quando si tratta di interloquire con i peggiori dittatori. Voglio esprimere quindi la mia totale solidarietà al Ministro Gvir ed a Israele per questo odioso sgarbo, rassicurandoli circa la presenza in Europa di moltissimi veri amici sempre pronti a difendere l’Amicizia tra i nostri popoli, così come il diritto d’Israele ad esistere e difendersi.
  L’esistenza di Israele è sempre fondamentale per tutte le democrazie occidentali, come elemento essenziale per la nostra stessa civiltà, sicurezza ed esistenza in pace e libertà. Israele è l’unica vera democrazia che tiene alti i valori della civiltà occidentale in Medio Oriente, e per questo viene costantemente aggredita e minacciata da fondamentalisti islamici e terroristi che non ne tollerano l’esistenza. Oggi Israele gode di buone relazioni anche con molti Paesi arabi, come Bahrain, Marocco e Emirati Arabi Uniti, e nonostante questo grande passo avanti avvenuto grazie agli Accordi d’Abramo voluti dal Presidente Donald Trump, oggi è ancora più inaccettabile che sia l’Ue a commettere un così grave sgarbo diplomatico contro i nostri fratelli d’Israele. Il sottoscritto contribuirà sempre con convinzione e coerenza a far crescere e sostenere il rapporto con questo straordinario Paese amico: buon compleanno Israele!” – E’ quanto ha dichiarato il Parlamentare Europeo, Matteo Gazzini.

(Stampa Parlamento, 12 maggio 2023)

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La cantante in gara all’eurovision Mae Muller

Nipote di sopravvissuti alla Shoah, richiede il passaporto tedesco

di Jacqueline Sermoneta

Mae Muller
La cantautrice britannica Mae Muller, nipote di un sopravvissuto alla Shoah, ha richiesto l’acquisizione della cittadinanza tedesca, secondo quanto prevede la legge per i discendenti degli ebrei perseguitati e costretti a fuggire dalla Germania durante il nazismo. Lo riporta il sito Jewish News.
  In una recente intervista pubblicata sul quotidiano ‘The Times’, la pop star, rappresentante del Regno Unito all’Eurovision Song Contest, ha affermato che il passaporto dell'Unione Europea avrebbe facilitato le sue esibizioni in tutta Europa e ha aggiunto di aver avviato la richiesta non solo per sé, ma anche per la famiglia allo scopo di trasferirsi in Spagna.
  L’artista 25enne, nata e cresciuta a Kentish Town, a Londra, in precedenza aveva già raccontato la storia di suo nonno, Robert, che a 12 anni scappò dalla Germania per giungere in Galles, riuscendo così a mettersi in salvo dai nazisti. Nel luglio 2020, in risposta a provocazioni antisemite, Muller aveva pubblicato su Instagram: “A tutti i miei amici e follower ebrei, vi amo. Non c'è posto per l'antisemitismo in questo mondo. Sono molto orgogliosa delle mie radici ebraiche e dovreste farlo anche voi”. “Mio nonno è fuggito dalla Germania nazista nel Regno Unito quando aveva 12 anni da solo” ha aggiunto.
  Nella finale di sabato 13 maggio la cantante eseguirà il brano ‘I wrote a song’ all’Eurovision, manifestazione ospitata alla Liverpool Arena. La cantante ha detto di essere "onorata" di rappresentare il Regno Unito e che per lei è un evento "super speciale",

(Shalom, 12 maggio 2023)

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Parashà di Bechukkotày: La terra desolata

Nella parashà la Torà annuncia tutta una serie di punizioni per il popolo d’Israele se non osserverà il patto con l’Eterno. Una delle trasgressioni è quella di non osservare la mitzvà della shemità che prescrive di lasciare riposare la terra nel settimo anno. L’esilio è una punizione appropriata per la mancata osservanza di questa mitzvà. In conseguenza dell’esilio nella Torà è scritto: “Allora la terra compirà i suoi riposi, durante tutto il tempo che essa sarà deserta, quando sarete nel paese dei vostri nemici. Allora la terra riposerà, e compirà i suoi anni sabbatici. Tutto il tempo che sarà deserta riposerà quello che non riposò nei vostri anni sabbatici, quando era abitata da voi” (Vaykrà, 26: 34-35). 
              R. Joseph Beer Soloveitchik (Belarus, 1903-1993) in Mesoras Harav (p. 231) commenta: “Quando  uno pensa a dei peccati che causano l’espulsione dalla terra, vengono in mente idolatria, omicidio e rapporti sessuali proibiti. La Torà in questo passo ci insegna che vi è un’altra trasgressione che causerà l’espulsione degli abitanti dalla terra d’Israele: la violazione della mitzvà della shemità. La Torà dice che la terra deve riposare e non che chi la coltiva deva riposare negli anni della shemità. Cosi come l’uomo deve riposare nel suo Shabbàt, Eretz Israel deve riposare nel suo Shabbàt, ogni sette anni.  Eretz Israel è una cosa a sé. Al contrario di altri paesi, Eretz Israel può essere resa impura [dal comportamento dei suoi abitanti] proprio come gli esseri umani”.  
  Per questa trasgressione nella Torà è scritto: ”E renderò la terra desolata così che diverrà desolata anche dei vostri nemici che vi abitano” (ibid., 32). 
  Rashì (Troyes, 1040-1105) commenta che questa è una cosa positiva per Israele, perché i nemici non troveranno alcuna soddisfazione in Eretz Israel perché resterà desolata senza abitanti. 
  R. Soloveitchik aggiunge che “La terra d’Israele non può essere costruita da un popolo qualunque. Solo il popolo ebraico possieda la capacità di trasformarla in un paese abitabile e di fare fiorire una terra desolata. Questa promessa divina divenne un fatto miracoloso nella storia della terra d’Israele nel corso di vari periodo storici. Non dobbiamo dimenticare neppure per un momento che la terra d’Israele ha attratto le nazioni del mondo, cristiani e musulmani, come una calamita. Le crociate furono intraprese allo scopo di conquistare la terra d’Israele e di colonizzarla con una popolazione cristiana. Tutti gli sforzi dei crociati furono vani e non riuscirono a mettere radici nel paese. Perfino i musulmani che erano già nel paese non riuscirono a colonizzarla bene. Coloro che esiliano il popolo ebraico e li rimpiazzano per risiedere nella terra d’Israele abiteranno in una terra desolata. [...]. 
  I nostri nemici cacciarono i nostri antenati da Gerusalemme. Misero a fuoco e distrussero il Bet Ha-Mikdàsh ma non lo colonizzarono né lo popolarono. Il Monte Zion fu desolato per un lungo periodo e nonostante tutti i tentativi nessuna nazione e nessun altro popolo riuscì mai a stabilire uno stato in Eretz Israel. Molti popoli erano desiderosi e pronti a colonizzarla. Il paese è considerato sacro da musulmani e da cristiani. Fu occupato da molte potenze: Roma, Bisanzio, dai musulmani e dai crociati e poi nuovamente dai musulmani. Passò per diverse mani molte volte me nessuno sviluppò l’agricoltura, l’industria e le scienze in Eretz Israel. Nel 18esimo e all’inizio del 19esimo secolo continenti interi e estesi territori come Australia, Nuova Zelanda e Sud Africa furono colonizzati e popolati dagli inglesi. Essi trasformarono deserti e giungle in fiorenti giardini [...]. Ma anche gli inglesi non riuscirono a colonizzare Eretz Israel. È una terra speciale, Eretz Chemdà. Con l’eccezione di qualche colonia qua e là nessuno riuscì a colonizzare il paese in grande scala. Eretz Israel rimase una terra desolata. Al contrario Eretz Israel fiorisce grazie al Yishuv ebraico. Vediamo cosa sono riusciti a costruire in poco più di un secolo. Apparentemente vi è un senso di lealtà da parte della terra che non tradirà mai il suo popolo, non si darà mai a stranieri o a conquistatori. Rimarrà fedele solo al popolo al quale appartiene Eretz Israel”. 

(Shalom, 12 maggio 2023)
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Parashà della settimana: Bechukotài

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La cattura e il processo di Adolf Eichmann, il "tecnocrate della Shoah"

Era l’11 maggio del 1960 e a Buenos Aires in Argentina fu catturato uno dei maggiori responsabili dell’orrore del Terzo Reich, Adolf Eichmann, grazie all’operazione messa a segno dal Mossad. Dodici mesi dopo, a Gerusalemme, il processo contro lo “SS-Obersturmbannfuehrer” Eichmann ebbe inizio, rappresentando un capitolo imprescindibile nella vicenda dei crimini all’umanità perpetrati dalla Germania nazista. Eichmann non solo incarna la “banalità del Male”, ovvero il burocrate apparentemente dimesso che con puntigliosa precisione contribuisce a realizzare l’organizzazione dello sterminio hitleriano, ma anche il prototipo del tedesco che s’inscena come semplice ingranaggio di un meccanismo più grande di lui.

• LA CATTURA DI EICHMANN: UN'OPERAZIONE LEGGENDARIA DEL MOSSAD
  Nel 1960, il Mossad si mise alla ricerca di Eichmann, ritenuto uno dei maggiori criminali nazisti di sempre, grazie alla testimonianza di Lothar Hermann, un ex soldato delle SS. Lothar era convinto che Eichmann si trovasse in Argentina con una nuova identità: Riccardo Klement. L’operazione durò circa 10 mesi, durante i quali i membri del Mossad studiarono la vita di Klement e la sua famiglia, cercando informazioni su di lui in ogni modo possibile. Grazie alle informazioni raccolte, si riuscì a individuare l’uomo e il 10 maggio del 1960, un gruppo di agenti israeliani lo catturò in un sobborgo di Buenos Aires, dove viveva sotto falso nome.

• IL PROCESSO DI GERUSALEMME CONTRO EICHMANN
  L’11 aprile 1961, a Gerusalemme, ebbe inizio il processo contro Adolf Eichmann, uno dei maggiori responsabili dell’organizzazione dello sterminio degli ebrei. L’imputato, durante il processo, si presentò come un funzionario privo di potere reale, che non odiava affatto gli ebrei, ma che aveva semplicemente eseguito gli ordini. La sua difesa fu quella di essere stato soltanto un ingranaggio di un meccanismo più grande di lui e che avrebbe fatto soltanto il suo dovere, come un qualsiasi soldato avrebbe fatto durante una guerra.
  Il processo, che durò otto mesi, fu caratterizzato da momenti di grande tensione e da testimonianze commoventi da parte di sopravvissuti all’Olocausto. Nonostante la difesa di Eichmann, il tribunale lo riconobbe colpevole e lo condannò alla pena di morte per impiccagione.

• L'EREDITÀ DEL PROCESSO DI EICHMANN
  Il processo di Gerusalemme contro Eichmann rappresentò un evento senza precedenti nella storia giudiziaria. La sua importanza fu riconosciuta a livello mondiale, poiché Eichmann era stato uno dei maggiori responsabili dell’organizzazione dello sterminio degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale. Il processo venne celebrato in Israele nel 1961, 16 anni dopo la fine della guerra, e rappresentò un momento cruciale per il movimento per i diritti civili degli ebrei e per la memoria storica dell’Olocausto.
  Il processo fu seguito da milioni di persone in tutto il mondo, e venne trasmesso in televisione in molti paesi. Fu anche il primo processo penale trasmesso in diretta televisiva. Durante il processo, Eichmann fu accusato di crimini contro l’umanità, di aver organizzato il rapimento e la deportazione di milioni di ebrei verso i campi di concentramento, dove furono uccisi in massa.
  Il processo fu particolarmente importante perché rappresentò una rottura con la tradizione giuridica dell’epoca. Fu il primo processo in cui i crimini contro l’umanità furono riconosciuti come tali e il primo processo in cui la giurisdizione penale internazionale fu applicata. Inoltre, fu il primo processo che si occupò della questione dell’Olocausto, che era stata largamente ignorata durante i processi di Norimberga.
  Il processo di Gerusalemme rappresentò un momento fondamentale nella storia giudiziaria, non solo per l’importanza dei crimini che vennero giudicati, ma anche per il modo in cui venne condotto. Il processo dimostrò che i crimini contro l’umanità non potevano essere ignorati e che i responsabili dovevano essere portati alla giustizia. Fu un momento di giustizia e di riconciliazione, ma anche un momento di riflessione sulla condizione umana e sulla necessità di proteggere i diritti umani in futuro.
  Eichmann, dopo aver rifiutato l’ultimo pasto preferendo mezza bottiglia di vino rosso secco israeliano, morì per impiccagione pochi minuti prima della mezzanotte di giovedì 31 maggio 1962. Si narra che le leve della corda furono tirate contemporaneamente da due persone: nessuno doveva sapere con certezza per quale mano fosse morto il condannato.

(Culture, 11 maggio 2023)

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Gaza: eliminato altro importante comandante della Jihad Islamica

GAZA – Un attacco aereo israeliano ha ucciso un comandante militare della Jihad islamica palestinese, infliggendo un altro durissimo colpo al gruppo e smorzando ulteriormente le speranze di un cessate il fuoco.
  L’attacco aereo avvenuto all’alba nella città di Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza, ha ucciso Ali Ghali, il comandante delle forze missilistiche della Jihad islamica. Lo hanno dichiarato le Forze di difesa israeliane in un comunicato.
  Ghali si nascondeva in un rifugio al momento dell’attacco insieme ad altri due agenti della Jihad islamica, anch’essi uccisi, ha dichiarato l’IDF.
  “Ghali era responsabile della direzione e dell’esecuzione dei lanci di razzi contro il territorio israeliano, compresi i recenti sbarramenti durante l’operazione Shield and Arrow”, ha dichiarato l’IDF, riferendosi al nome dato da Israele all’operazione a Gaza di questa settimana.
  “Ghali era considerato una figura centrale dell’organizzazione e si occupava della sua gestione ordinaria”, ha dichiarato l’IDF.
  “L’attacco è stato portato a termine grazie a un lavoro di intelligence di successo, all’identificazione del nascondiglio nell’appartamento, un piano dove sono stati colpiti i terroristi – si è trattato di un attacco molto preciso da parte dell’aviazione”, ha dichiarato giovedì mattina il portavoce dell’IDF, il contrammiraglio Daniel Hagari, ai giornalisti.
  La Jihad islamica ha confermato la morte di Ghali dopo l’annuncio dell’IDF.
  “Ali Ghali… comandante dell’unità di lancio dei razzi… è stato assassinato nel sud della Striscia di Gaza insieme ad altri martiri”, si legge in un comunicato delle Brigate Al-Quds, il ramo armato del gruppo.
  L’Operazione Shield and Arrow è stata lanciata martedì con l’eliminazione di tre alti comandanti della Jihad islamica.
  Il gruppo terroristico ha risposto lanciando centinaia di razzi contro le comunità israeliane, causando ingenti danni materiali in tutto il sud di Israele.
  Case, edifici e automobili sono stati colpiti da schegge di razzi o dalla caduta di missili intercettori israeliani in città come Sderot, Ashkelon e Netivot, mentre alcuni razzi sono riusciti a penetrare le difese aeree di Israele.
  Non sono stati segnalati feriti, anche se un certo numero di persone ha cercato di farsi curare per le ferite riportate nel tentativo di raggiungere un riparo o per la forte ansia causata dagli impatti vicini.
  I razzi hanno raggiunto Tel Aviv e Beersheba.

(Rights Reporter, 11 maggio 2023)

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Nuovo attacco israeliano su Gaza: ucciso un dirigente della Jihad

L'esercito ha detto che Ali Ghali era il responsabile del lancio di razzi. Con lui sono morti anche altri due miliziani. Lo Stato ebraico: "Proiettili difettosi dei jihadisti hanno ucciso quattro civili palestinesi tra cui una bambina di dieci anni”.

di Rossella Tercatin

GERUSALEMME – Non si fermano i razzi sparati da Gaza contro Israele, proseguono i raid dell’aviazione contro la Striscia, e nella notte viene eliminato un altro leader della Jihad Islamica  – organizzazione finanziata dall’Iran e classificata come terrorista anche da Usa e Unione Europea –  allontanando le prospettive di una tregua che ieri sera pareva imminente.
  Abbiamo appena colpito Ali Ghali, il comandante della Forza di lancio di razzi della Jihad Islamica, insieme ad altri due miliziani dell’organizzazione a Gaza”, annuncia l’Idf. “Ghali era una figura centrale del gruppo, nonché il responsabile delle recenti serie di razzi lanciati contro Israele”. L’uomo era nascosto in una località ritenuta sicura a Khan Younis, a sud di Gaza.
  Secondo fonti citate dalla stampa israeliana, in serata era stato proprio il rifiuto di Israele a impegnarsi a non colpire la leadership della Jihad a rallentare le trattative per il cessate il fuoco mediato dagli egiziani. Un cessate il fuoco che era già stato annunciato dai media del Cairo verso le 19 ore locali. Poco dopo decine di razzi erano stati sparati contro il sud di Israele e anche contro Tel Aviv e i suoi sobborghi, in quello che secondo gli analisti è un copione quasi annunciato in questo tipo di conflitto – la Jihad che come già altre volte in passato tenta di lanciare un ultimo attacco prima della fine delle ostilità aperte, proprio come era accaduto la scorsa settimana, quando il gruppo aveva sparato oltre un centinaio di razzi in poche ore, compreso subito dopo l’annuncio di tregua. Stavolta però la dichiarazione ufficiale non arriva.
  Verso le nove di sera, il premier Benjamin Netanyahu e il ministro della Difesa Yoav Gallant vanno in televisione e ribadiscono che l’operazione militare – denominata da Israele “Scudo e Freccia” non è conclusa. Gli scontri proseguono. Dopo alcune ore di quiete, in mattinata diversi colpi di mortaio da Gaza colpiscono le comunità vicine al confine. In totale secondo l’esercito israeliano sono stati oltre 500 i razzi e altri tipi di colpi sparati dalla Striscia. Di questi, 368 hanno attraversato il confine, mentre 110 sono caduti a Gaza. I sistemi di difesa aerei – l’Iron Dome ma anche la nuova tecnologia “Fionda di Davide” per missili a medio-raggio, ne hanno intercettati 154, o il 95% degli attacchi diretti verso aree popolate, mentre il resto è finito in zone aperte. Alcune case e auto sono state colpite a Sderot, Ashkelon e Netivot, senza provocare vittime.
  Il nuovo capitolo del conflitto tra Israele e Gaza si era aperto la settimana scorsa, quando in seguito alla morte del leader della Jihad islamica Khader Adnan, deceduto in una prigione israeliana dopo 86 giorni di sciopero della fame, il gruppo aveva lanciato oltre cento razzi verso il territorio israeliano. Se Gerusalemme aveva risposto con raid aerei contro obiettivi militari a Gaza, i vertici politici e militari hanno iniziato a preparare un’azione di scala molto più ampia. Il piano si è concretizzato nella notte di lunedì, quando Khalil Bahitini, Jahed Ahnam e Tarek Az Aldin sono stati eliminati nel sonno mentre si trovavano nelle proprie case, in un’operazione elogiata dalle autorità israeliane come “di precisione” ma che ha comunque causato la morte di almeno dodici civili, tra cui diversi bambini.
  Se la Jihad e Hamas annunciano vendetta, per oltre 24 ore non succede nulla, con gli analisti che indicano come proprio il ruolo di Hamas e la sua volontà o meno di aprire un conflitto di vasta scala con Israele possano fare la differenza nella portata dello scontro imminente ritenuto certo e che puntualmente arriva. Con Hamas però che pare rimanerne fuori. In totale secondo fonti palestinesi sarebbero almeno 25 le vittime dei raid israeliani a Gaza.
  In mattinata poi un portavoce della Jihad ribadisce che l’organizzazione non è disponibile alla tregua senza che Israele si impegni a smettere di colpire la sua leadership. Gli scontri proseguono.

(la Repubblica, 11 maggio 2023)

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Israele-Gaza, una pioggia di razzi e di bombe. L’Egitto media ma Netanyahu: “Non è finita”

Continua l’operazione anti-Jihad islamica: rappresaglie su Tel Aviv e Giaffa. Salgono a 21 i morti palestinesi.

di Fabiana Magrì

TEL AVIV - Convivono, sul finire della seconda giornata dell’operazione «Scudo e Freccia», le contraddizioni che accompagnano la de-escalation di una campagna militare. Sono continuate, le raffiche di razzi della Jihad islamica palestinese su Israele, ben oltre gli annunci di un cessate il fuoco, che, di fronte all’evidenza, ancora appare traballante. E le misure di emergenza dell’esercito a tutela della popolazione sono state prorogate fino alle 12 (ora locale) di venerdì per le comunità che si trovano nel raggio di 80 km dalla Striscia.
  Anche Tel Aviv è stata presa di mira, nel mezzo della scarica di razzi. Due volte nella giornata di ieri. Qui, per la prima volta, Israele ha dispiegato il nuovo complesso sistema di difesa aerea a più strati, «Fionda di Davide» o «Bacchetta magica», capace di intercettare anche missili balistici, Arrow-2 e Arrow-3. A differenza del «vecchio» Iron Dome, concepito per neutralizzare colpi di mortaio, razzi Kassam e missili Grad, nonostante quanto potrebbe suggerire il nome, la «Fionda» è meno mobile. E, per adesso, da usare con parsimonia. Ogni suo impiego costa un milione di dollari.
  Mentre il ministro degli esteri Eli Cohen faceva sapere di aver ricevuto dall’Egitto la proposta di mediazione e di essere impegnato nella sua valutazione, il premier Benjamin Netanyahu, in un’apparizione in tv, si guardava dal pronunciare la parola tregua. Anzi, ha annunciato che «la campagna a Gaza ancora non è finita».
  La risposta della Jihad all’attacco con cui Israele ha eliminato tre dei suoi alti comandanti nella Striscia si è fatta attendere 36 ore. Poi la pioggia di razzi sulle comunità nel sud di Israele, lungo la costa sulle città di Ashkelon, Ashdod, Bat Yam e Giaffa, fino al centro del Paese è stata intermittente ma incalzante. Il portavoce militare ha riferito di oltre 270 razzi, con un 25% di fallimento dei lanci, che significa molti ordigni ricaduti nella Striscia o in mare aperto. Una reazione che Israele aveva ampiamente previsto. Nonostante due case siano state centrate, una a Sderot e una a Netivot, non ci sono state vittime. Entrambe erano disabitate al momento dell’impatto. La prima evacuata. I proprietari della seconda erano al riparo nel rifugio.
  Dall’inizio del conflitto, ha notificato il Ministero della Sanità palestinese, i morti a Gaza sono stati 21. Sei ieri, a Rafah, Khan Yunis e nell’area di Beit Hanun. Tra loro, una ragazza. Quattro sono stati identificati come esponenti del Fronte popolare per la liberazione della Palestina. 64 hanno riportato ferite.
  Anche sotto la pioggia di razzi, Israele non ha mai smesso di colpire dal cielo esponenti e postazioni militari della Jihad islamica. «L’operazione ha esclusivamente come obiettivo la Jihad islamica palestinese nella Striscia» è stato il mantra ripetuto dal portavoce militare israeliano Daniel Hagari in ogni briefing, in ogni intervista. E «Israele non è interessato a una guerra. Ma - ha aggiunto - siamo pronti per ogni scenario». Determinante per schivare l’escalation, a detta di tutti gli analisti, è l’astensione di Hamas dallo scontro armato. «Abbiamo motivo di credere che Hamas non sia coinvolta nei lanci di razzi - ha detto il generale - ma può certamente intervenire per fermarli». A fine giornata resta la speranza, espressa dal ministro della difesa Yoav Gallant, che l’operazione «Scudo e Freccia» si possa presto dichiarare conclusa.

(La Stampa, 11 maggio 2023)


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La scommessa di Gerusalemme: colpire al cuore la Jihad senza coinvolgere Hamas

Le fazioni armate palestinesi si muovono separatamente. Se unissero le forze, il conflitto sarebbe molto più sanguinoso

di Daniele Raineri

Quando un giornalista del sito Times of Israel ha chiesto in modo specifico al portavoce delle forze militari israeliane, l'ammiraglio Daniel Hagari, se i raid sulla Striscia di Gaza prendessero di mira anche le postazioni di Hamas, lui ha risposto che per adesso non sta succedendo: gli aerei israeliani continueranno a bombardare la Jihad islamica palestinese e soltanto "se le altre fazioni si uniranno risponderemo anche a loro".
  Perché Israele si sta sforzando di differenziare tra i gruppi armati della Striscia in queste ore di bombardamenti aerei e di lanci di missili da Gaza? La risposta breve è che vuole evitare che Hamas prenda ufficialmente la guida delle operazioni, perché è l'organizzazione più potente e dispone di molti più razzi da lanciare contro il territorio israeliano e di molte più squadre di fuoco. Quando Hamas comincia a usare le sue squadre di fuoco disseminate in tutta la Striscia, i lanci di razzi sono centinaia ogni giorno, arrivano fino a Tel Aviv e a Gerusalemme e i raid aerei per fermarli sono più intensi.
  La risposta più lunga è che Israele vorrebbe che questo round di scontri somigliasse all'operazione "Breaking Down" e non all'operazione "Spada di Gerusalemme". Breaking Down fu un confronto di sole cinquantasei ore nell'agosto 2022, fu lanciato dagli israeliani e riguardò soltanto la Jihad islamica palestinese. Nelle prime ventiquattr'ore i raid uccisero Tayseer Jabari e Khaled Mansour, i due capi militari più importanti. Dalla Striscia partirono circa millecento razzi contro le città israeliane, ma non fecero danni. Hamas assunse una posizione neutrale, non partecipò con i suoi arsenali e anche per questo la vampata di violenza si spense relativamente in fretta.
  "Spada di Gerusalemme" invece fu lanciata proprio da Hamas nel maggio 2021 e vide tutte le fazioni della Striscia combattere assieme per undici giorni. I razzi lanciati contro il territorio israeliano furono più di quattromila, ci furono raid aerei continui, morti fra i civili israeliani, devastazioni e per giorni si speculò persino su un possibile intervento di terra dell'esercito.
  Il finale di questi scontri è sempre lo stesso, il numero di razzi comincia a diminuire in modo fisiologico e si arriva a un cessate il fuoco di solito mediato dall'intelligence dell'Egitto, ma la differenza tra i due scenari è enorme. Ieri da Gaza c'è stato un comunicato del cosiddetto Comando operativo che prometteva una risposta di tutte le fazioni - il Comando operativo riunisce tutti i gruppi armati ed è diretto da Hamas con l'aiuto degli sponsor iraniani - ma Hamas non ha fatto annunci ufficiali e non ha dichiarato guerra.
  Lanciare un'operazione come "Spada di Gerusalemme" richiede anni di preparazione prima e anni di lavoro dopo, per recuperare le perdite e riempire di nuovo le scorte di razzi. Si tratta di una decisione strategica che prende in considerazione molti fattori, anche politici, e Hamas per ora non vuole farsela imporre da altri. Anche soltanto sistemare i razzi nelle loro postazioni di lancio sparse per tutta la Striscia richiede molto tempo e molte cautele perché è un'attività da svolgere sotto gli occhi dei droni israeliani, che prendono nota di tutte le posizioni. Può essere che per questa volta Hamas decida che due anni di pausa non sono abbastanza e che ha bisogno di più tempo per ricominciare.  

(la Repubblica, 11 maggio 2023)

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Democrazia, demografia ed economia: Israele compie 75 anni

I numeri e i dati che fotografano le trasformazioni dello Stato nel corso dei decenni

di  Claudio Vercelli

A settantacinque anni dalla sua nascita lo Stato d’Israele ha mantenuto alcuni caratteri d’origine ma ne ha mutati molti altri. Ha mantenuto le sue modestissime dimensioni, 22.072 chilometri quadrati, comprendendovi anche le alture del Golan. Continua ad essere formalmente in stato di guerra con alcuni suoi vicini, il Libano e la Siria, anche se la natura del confronto armato ai suoi confini ha conosciuto trasformazioni nel corso del tempo, essendo oggi condotto – perlopiù – da organizzazioni terroristiche o comunque paramilitari e non da eserciti nazionali. In molti campi il cambiamento è stato invece corposo e accelerato, quasi a volere accentuare il carattere di «paese laboratorio»che, dalla sua origine, porta con sé. Fino a non molto tempo fa avremmo parlato perlopiù dell’evoluzione economica. E a ragione, per molti aspetti. Ad oggi, tuttavia, quello che più risulta sorprendente, e spiazzante, è il grado di accesa polarizzazione politica. Ad un esecutivo di destra, dove sono presenti esponenti del più acceso radicalismo nazionalista, populista e sovranista, infatti si contrappone il resto del Paese, che non intende concedere alcunché a ciò che considera come una deriva non solo illiberale ma anche antidemocratica. Le manifestazioni di piazza, tanto plateali quanto partecipate, con centinaia di migliaia di persone costantemente mobilitate, soprattutto a partire dal sabato sera, sono il segno di questa contrapposizione. Che non è solo tra destra e sinistra, come altrimenti d’abitudine si afferma. Semmai è l’indice di una radicalizzazione del confronto tra quanti intendono garantire il rispetto delle regole nel sistema istituzionale, e di rappresentanza della collettività, e la vocazione, a tratti quasi eversiva, che si esprime in formazioni politiche, spesso votate da un numero non irrilevante di elettori, nei confronti degli assetti legali e del sistema di check and balance dei poteri. Ossia, del circuito di controllo e bilanciamento reciproco tra di essi. Ad oggi, la vera domanda su Israele rinvia, ancora una volta, alla sua futura sopravvivenza. Ma non solo per le persistenti minacce esterne (terrorismo, Iran e quant’altro) bensì per l’evidente stato di malessere che attraversa l’intera società nazionale e del quale i fermenti politici odierni sono solo l’epitome, la punta dell’iceberg, estrinsecandosi in un lungo periodo di ingovernabilità, dove ad esecutivi fragili, senza solide maggioranze parlamentari, si sono sovrapposte elezioni in successione.
  Più in generale, il Paese sembra trovarsi in una condizione di permanente stallo politico, dal quale i tanti non sanno come uscire. Mentre i vecchi partiti che, per settant’anni e più, ne hanno accompagnato l’evoluzione, si sono progressivamente dissolti (e con essi le culture politiche di cui erano espressione), ciò che si è in parte sostituita è la presenza di formazioni politiche (e ideologiche) dove l’estremismo delle concrete posizioni politiche fa il paio con il radicalismo ideologico di fondo. Se si fa eccezione per il Likud, tuttavia sotto l’oramai esclusivo controllo del suo leader Benjamin Netanyahu, che lo ha trasformato in una sorta di formazione politica personale, estromettendo, passo dopo passo, i suoi avversari interni, ciò che resta è quindi un’opposizione centrista, laica e liberale,  incapace tuttavia di formulare progetti politici alternativi e, ancor più, inabile nel costruire maggioranze di governo diverse da quella a tutt’oggi fortemente spostata a destra. La sinistra socialdemocratica, socialista e sionista, che tanta parte ha avuto nella genesi e nel consolidamento d’Israele, è oramai solo una pallida e residuale immagine dei suoi trascorsi.
  Più in generale, in un tale quadro, per nulla confortante, si raccolgono tutta una serie di questioni che il Paese, nei suoi recenti anni di pur tumultuoso sviluppo, non è riuscito ad affrontare e a risolvere consensualmente. Alle fenditure identitarie pregresse (secolarizzati versus religiosi; destra contro sinistra; ebrei ed arabi israeliani; modernisti cosmopoliti e tradizionalisti; abitanti d’Israele e residenti nei Territori della Cisgiordania e così via) si sono adesso sovrapposte nuove urgenze. La prima di esse è quella che demanda all’assenza di un Costituzione scritta, votata, promulgata e quindi vincolante per tutti. Si tratta di un tema annoso, che si trascina dalla nascita stessa del Paese, trovando in parlamento, durante le sue diverse legislature, sempre e comunque l’opposizione radicale dei partiti religiosi, altrimenti indispensabili per la formazione della coalizioni di governo di qualsivoglia colore politico. Se fino a un certo numero di anni fa poteva sembrare ancora un obiettivo da raggiungere, quanto meno in un qualche futuro a venire, oggi invece si manifesta soprattutto per i rischi istituzionali, oltreché politici, che la sua mancanza produce da subito. L’impossibilità di identificare con chiarezza dei perimetri all’azione dei soggetti istituzionali (soprattutto governo e Corte suprema, ma non solo essi), così come la permanente competizione aperta tra esecutivo, legislativo e giudiziario, rischia di minare non solo il già precario equilibrio dei poteri vigenti ma anche la loro separazione in sfere autonome, e come tali concorrenti, di iniziativa sovrana. La reciproca delegittimazione che da un tale stato di cose può derivare, è evidente a tutti, in Israele così come al di fuori del Paese stesso.
  Non di meno, posto che ad una crisi se ne legano altre, un ulteriore passaggio problematico è quello del destino della Cisgiordania. L’evoluzione, la crescita e il rafforzamento degli insediamenti ebraici sta incidendo pesantemente non solo sulle residue prospettive di autonomia delle popolazioni arabo-palestinesi autoctone ma anche, e soprattutto, nel quadro politico israeliano, dove la «rivendicazione della terra» – quindi dell’espansione delle colonie e, in prospettiva, di un’eventuale annessione dei territori – come fondamento di un progetto politico già in parte in essere, costituisce un potenziale rivolgimento anche per la democrazia israeliana. Il dibattito sul rapporto tra democrazia ed ebraismo, legge positiva e Torah, legislazione israeliana e legislazione ebraica, ruota quindi intorno a questi due nodi strategici. Non è il solo riproporsi di questioni non inedite ma il loro riformularsi alla luce dell’evoluzione di questi ultimi tre decenni, tra globalizzazione, digitalizzazione ed etnicizzazione delle identità collettive. A tali ordini di problemi, peraltro, altri se ne aggiungono, rimandano soprattutto al divario economico e sociale tra quella parte di popolazione che ha beneficiato dei processi di modernizzazione e quanti, invece, ne sono rimasti ai margini. Tra di essi, per intenderci, non solo le enclave tradizionalmente più fragili (ultraortodossi, arabi-israeliani, popolazione con un basso livello di scolarizzazione) ma anche e soprattutto in quella parte di ceto medio che in Israele, così come negli altri Paesi a sviluppo avanzato, è rimasta esclusa dai ritorni dell’accelerata modernizzazione del Paese.
  La demografia, così come la composizione sociale del Paese, costituiscono, dal punto di vista analitico, un aspetto imprescindibile di questo orizzonte. Ad oggi, Israele è forse l’unica democrazia occidentale con un elevato tasso di fertilità. Da ciò, per inciso, deriva la capacità di garantirsi una crescita economica nazionale senza dovere fare ricorso al lavoro degli immigrati (così come invece avviene in altri paesi, a partire dalla stessa Italia). A tale riguardo, secondo i dati del 2021 (proiettati sull’anno corrente), il tasso di fecondità della componente ebraica è di 3,13 nascite per donna, superiore quindi a quello arabo, pari al 2,85. In tale trend va tuttavia considerato il fatto che le famiglie ultraortodosse rimangono molto più prolifiche di quelle secolarizzate. La qual cosa, quanto meno in prospettiva, lascia intendere che la prima componente è destinata a crescere di numero e di peso (anche politico) negli equilibri del Paese. Per capire di che cosa stiamo parlando, si consideri che il tasso medio di fecondità OCSE è invece di 1,61 nascite per donna.
  Non di meno, nel 2023 Israele si trova dinanzi ad una potenziale ondata immigratoria di circa 500mila nuovi elementi (non tutti ebrei), provenienti perlopiù dall’Ucraina, dalla Russia, oltre che dalle ex Repubbliche sovietiche, così come – anche se in misura minore – dalla Francia, dalla Gran Bretagna, dalla Germania, dall’Argentina e dagli Stati Uniti. Una tale prospettiva, tuttavia non destinata obbligatoriamente a verificarsi appieno, fa comunque sì che il combinato disposto tra politiche dell’assorbimento degli Olim (i nuovi immigrati, provenienti dai più disparati paesi d’origine e con una concezione dell’essere ebrei estremamente eterogenea) e definizione di un’identità nazionale basata, al medesimo tempo, sull’«ebraicità» così come sulla cittadinanza giuridica di natura universalista, rimangano tra le priorità per un Paese che si è costruito, nel tempo, grazie anche ai flussi migratori.
  Sussiste da sé, comunque, un’evoluzione demografica in campo ebraico. Il numero di nascite di ebrei israeliani nel 2022 (137.566 elementi) è stato superiore del 71% rispetto al 1995 (80.400), mentre il numero di nascite di arabi israeliani, nel medesimo arco di tempo (43.417), è stato pari al 19% in più rispetto al 1995 (36.500). Nel 2022, le nascite ebraiche erano quindi il 76% delle nascite totali (180.983), rispetto al 69% del 1995. Le donne israeliane –  seconde solo all’Islanda per accesso nel mercato del lavoro – sono tra le poche a sperimentare una correlazione diretta tra un aumento del tasso di fertilità, da un lato, e incremento dell’urbanizzazione, dell’istruzione, della capacità reddituale individuale in età di matrimonio dall’altro. Parimenti, nel 2022, si sono registrati 45.271 morti tra gli ebrei israeliani, rispetto ai 31.575 del 1996. Si tratta di un aumento del 43% a fronte, tuttavia, del raddoppio della popolazione nazionale (da quattro a nove milioni). Il numero di morti tra gli ebrei israeliani è stato quindi del 33% rispetto alle nascite (nel 1995 era invece del 40%). Un indice che, nel suo insieme,  riflette lo sviluppo di una società sempre più giovane.
  Dopo di che, non la medesima cosa può essere dette tra gli arabi israeliani (6.314 morti nel 2022, di contro ai 3.089 del 1996, con un aumento del 104%, percentuale che riflette l’invecchiamento del gruppo). Nel 2021, l’aspettativa media di vita dei maschi israeliani era di 80,5 anni e delle donne di 84,6. Per la componente araba si colloca a 78 anni per gli uomini e a 82 per le donne. Anche qui, per dare un parametro di confronto, l’aspettativa di vita negli Stati Uniti è, per i maschi, di 73,2 anni mentre per la popolazione femminile di 79,1. In Cisgiordania, assomma a 74 per gli uomini e a 78 per le donne. L’occidentalizzazione della demografia araba in Cisgiordania – meno figli, maggiori investimenti sugli individui nella loro singolarità, prevalenza dei lavori nei settori dei servizi – è stata accelerata dalla radicale urbanizzazione (da una popolazione rurale del 70% nel 1967 si è passati ad un insediamento urbano del 77% nel 2022), così come dall’aumento dell’età media di nuzialità per le donne (dai 15 ai 24 anni), dall’uso consistente di contraccettivi (70% delle donne) così come dalla contrazione del periodo riproduttivo (dai 16-55 anni trascorsi agli attuali 24-45). L’età media degli arabi palestinesi è di 22 anni, rispetto ai 18 del 2005.
  Tali saldi vanno poi raffrontati con l’immigrazione ebraica che, in oltre trent’anni ha misurato una diminuzione media statistica annuale da poco più di 14mila soggetti a 10mila, a fronte del raddoppio della popolazione nazionale. In sostanza, Israele è sempre meno una nazione di Olim e sempre più composta da autoctoni. Così come va registrato il fatto che l’occidentalizzazione dei tassi di fecondità ha caratterizzato tutte le nazioni a prevalenza musulmana diverse da quelle della regione sub-sahariana: in Giordania si registrano 2,9 nascite per donna; in Iran 1,9; in Arabia Saudita 1,9; in Marocco  2,27; in Iraq 3,17; in Egitto 2,76 e così via. Al netto di molte altre considerazioni demografiche (e non solo) rimane la sequenza storica per la quale se, nell’area compresa tra l’attuale Stato d’Israele e la Cisgiordania, nel 1897 c’era una minoranza ebraica del 9%, nel 1967 si aggirava intorno al 47% mentre ad oggi è del 69% (7,5 milioni di ebrei, 2 milioni di arabi israeliani la parte restante composta di arabi della «Giudea e Samaria» stima, quest’ultima, tuttavia rigettata dalle autorità palestinesi).
  Rispetto al 1950, quando gli israeliani erano 1.370mila, al 2018 la popolazione era già aumentata di sei volte e mezza. Il tasso di crescita annua è oggi del 2%, quello delle nascite del 2,15%. La composizione dell’età indica che il gruppo che va dagli 0 ai 14 anni costituisce il 27,3% della popolazione (17% per la media europea), quello che raccoglie gli israeliani tra i 15 e i 64 anni è del 62,2% mentre per le classi d’età più anziane si arriva al 10,5% (il 15% in Europa). L’età media degli israeliani ebrei è di 31,6 anni, quella degli israeliani arabi è di 21,1 anni. La società israeliana è rigorosamente multietnica, essendo il prodotto dell’incontro tra individui e gruppi dalle più disparate origini. Non a caso si parla di un «paese mosaico».
  I trend di evoluzione della popolazione riflettono invece le condotte di tre grandi gruppi: gli ebrei non ultraortodossi, pari al 63,3% della popolazione (dati del 2018), quelli ultraortodossi, ossia l’11,7% e gli arabi israeliani, il 20,7%. Si tratta di categorie generalizzanti, discutibili anche dal punto di vista nominalistico (nel gruppo dei non ultraortodossi, ad esempio, sono compresi coloro che si autodefiniscono non credenti, i laici credenti, ma anche i molteplici modi di intendere le pratiche religiose ebraiche in chiave identitaria ma non per questo rigorosamente restrittiva, ossia secondo i canoni di una rigida interpretazione dei Sacri Testi). Tuttavia, nella loro generalizzazione, indicano le linee di sviluppo in questi ultimi anni. Se la componente arabo-musulmana è passata da un tasso di crescita di oltre il 3% annuo all’attuale 2,1%, la componente ebraica ha invece incrementato dall’1,4% all’1,7% in ragione, però, della crescita del gruppo più religioso (il cui tasso è del 5% di contro all’1,2% della parte restante degli ebrei). Rimane il fatto che Israele, a scapito del fatto che sia qualificato dal linguaggio corrente come «Stato ebraico», è uno dei paesi dove maggiore è stata la secolarizzazione (ottavo nella classifica mondiale dei tassi di laicità), sia a livello civile che nelle istituzioni politiche.
  La distribuzione geografica della popolazione israeliana nei sei distretti del paese è poi la seguente: il 24% nel distretto centrale; il 17% in quello metropolitano di Tel Aviv; il 17% in quello settentrionale; il 14% in quello meridionale; il 12% in quello metropolitano di Haifa; sempre il 12% in quello di Gerusalemme e, infine, la parte restante in Cisgiordania. Più di metà della popolazione israeliana è concentrata nei distretti del centro del paese, seguendo una linea che lega Haifa e Gerusalemme attraverso Tel Aviv (nella cui area metropolitana risiede un quinto degli israeliani). Il 45% della popolazione israeliana d’origine araba è invece residente in Galilea. Detto questo, il 77% della popolazione ebraica israeliana è nata nel Paese mentre il 16% proviene dall’Europa e dalle Americhe e il 7% dall’Asia e dall’Africa. Della componente autoctona, ossia «sabra», la metà proviene da famiglie di origine aschenazita, la parte restante è di origine sefardita o mizrachi. La propensione ai matrimoni intercomunitari tra ebrei “occidentali” e “orientali” ha raggiunto il 35% delle unioni (un quarto almeno dei giovani di oggi ne è quindi figlio).  Israele, in ciò,segue i trend delle società a sviluppo avanzato. Ci si sposa sempre più tardi: l’età media dei matrimoni si è spostata a 27 anni. Nel 2005 il 61% dei giovani maschi tra i 25 e i 29 anni risultavano celibi (di contro al 28% del 1970); le donne nubili della medesima coorte demografica erano non meno del 40% (13% nel 1970). Più è alto il livello di scolarizzazione e maggiore è l’urbanizzazione minore è la propensione a fare famiglia. A Tel Aviv la popolazione maschile non sposata è del 72%; quella femminile si aggira intorno al 62%. Le proiezioni per i tempi a venire indicano che entro il 2035 la popolazione israeliana raggiungerà gli 11,4 milioni (73% dei quali ebrei) e nel 2059 supererà i 18 milioni.
  L’economia israeliana è cresciuta, negli anni, ad un ritmo medio annuale del 3%. Al momento dell’ultima rilevazione a consuntivo, prima della grande crisi pandemica, secondo il Central Bureau of Statistics di Gerusalemme la crescita del Prodotto interno lordo era del 4,3%, sostenuta dall’incremento dei consumi privati, dal miglioramento del potere d’acquisto delle famiglie e da una generalizzata tendenza all’incremento degli investimenti (con una maggiorazione dell’11%). I fattori legati a quest’ultimo risultato, in sé sorprendente per le sue notevoli dimensioni, sono da ricercarsi nell’oramai costante crescita del settore delle nuove tecnologie, oltre al riconoscimento che gli operatori economici hanno tributato alle autorità politiche ed istituzionali rispetto alla creazione e al mantenimento di un habitat favorevole allo sviluppo, alla ricerca e all’implementazione dei processi di innovazione. Israele continua ad essere ancora visto come un paese stabile e promettente, malgrado gli ultimi eventi politici ne abbiano in parte minato la credibilità a livello internazionale. Ancora nel 2016 gli investimenti esteri avevano superato i cento miliardi di dollari, incidendo per oltre il 36% nella formazione della ricchezza nazionale. Un quarto di questi sono a tutt’oggi di origine statunitense. La struttura economica rimane, nel suo insieme, a regime misto (investimenti pubblici e privati, proprietà individuali e statali delle imprese), basandosi sulla costante evoluzione del settore della ricerca e dello sviluppo. Percentualmente, ogni anno vi viene investito il 5% del Pil (il doppio degli Stati Uniti, mentre l’Italia raggiunge a malapena lo 0,9%).
  Tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, peraltro, si è consumata una transizione nella struttura produttiva del Paese. Le basi della ricchezza nazionale si sono spostate dall’agricoltura e dall’industria ai servizi. In particolare modo l’attenzione continua a concentrarsi sulle telecomunicazioni, sull’informatica e l’elettronica, le biotecnologie, la difesa e tutto quanto ha a che fare con l’innovazione applicata. Da questo punto di vista lo scarto con i circostanti paesi arabi è gigantesco e, per questi ultimi, oramai incolmabile. Israele è l’unico paese al mondo con più di un quarto della popolazione in possesso di una laurea. Lo sviluppo dei settori ad alta tecnologia, in una terra povera o pressoché priva di materie prime (e di industrie di lavorazione, a parte il settore agroalimentare), è essenziale affinché i capitali stranieri continuino ad esservi investiti. Peraltro, senza un tale flusso in entrata, le prospettive di crescita sarebbero drasticamente ridimensionate. I processi migratori hanno alimentato, nel corso di almeno settant’anni, una complessa economia dell’assorbimento, basata sull’aumento della domanda di beni di consumo, sul soddisfacimento dei bisogni manifestati dai nuovi immigrati, sulla messa in opera delle loro competenze intellettuali e professionali (nel caso di alcuni flussi migratori, come quelli dall’Europa dell’Est, molto elevate), sull’offerta di occasioni di investimento favorevoli all’ingresso di capitali. Fondamentale è il ruolo svolto nell’economia dell’informazione, con la creazione, la commercializzazione e la diffusione di una serie di prodotti nazionali, soprattutto nel campo delle tecnologie informatiche e delle comunicazioni. Non a caso si parla del distretto industriale di Tel Aviv come di una «Silicon Wadi» (la «valle del silicio», unione tra la parola araba che indica il letto di un fiume e quella inglese che indica l’elemento chimico).
  Il rapporto tra percorsi di formazione, alta scolarizzazione, servizio militare e riversamento delle competenze maturate nel settore civile, rimane un elemento di eccellenza, che costituisce un fattore di alta competitività nel mercato mondiale. Anche in questo caso gli indici sono significativi: ogni 10mila lavoratori in Israele circa 140 sono ingegneri (70 negli Usa, 50 nell’Unione europea, 5 nei paesi arabi); gli investimenti per l’educazione raggiungono i 2.500 dollari all’anno per cittadino (un decimo, invece, nei paesi arabi). Il mercato del lavoro ha tuttavia beneficiato solo in parte dell’alta redditività di molti investimenti. Alla base della piramide sociale, non diversamente dalla totalità dei paesi occidentali, si pongono i lavoratori immigrati clandestini, irregolari o in possesso di permessi temporanei. Provenienti perlopiù dai paesi dell’Est, come dall’Africa e dall’Asia, si sono inseriti negli interstizi dell’economia sostituendosi ai palestinesi. Non solo svolgono i lavori meno ambiti ma subiscono l’aleatorietà della loro condizione giuridica. Ad una stima si calcolano in almeno 300mila i possessori di un visto temporaneo per motivi di lavoro, così come70mila i rifugiati. La presenza degli abitanti della Cisgiordania e di Gaza, tradizionale manodopera pendolare, si è drasticamente ridimensionata dopo la recrudescenza delle violenze a seguito della seconda Intifada (avviatasi nel 2000).
  Ai vertici della scala sociale, invece, si pongono quelle élite sociali, economiche e culturali che appartengono alla nuova borghesia globalizzata, che si sente «cittadina del mondo». Il ceto medio diffuso, a sua volta, ha beneficiato solo in parte della grande vivacità economica. Solo un sesto della popolazione lavora nei settori ad alto investimento tecnologico. La parte restante è legata invece alle attività più tradizionali, dalle manifatture ai commerci. Inoltre, lo sviluppo dell’economia dell’informazione e il sistema delle start-up, risultano premianti per creatori ed investitori ma si basano su un basso livello di coinvolgimento della manodopera. La vera redditività si registra non solo producendo i beni ma soprattutto commercializzando le licenze. Non è infrequente, quindi, che i giovani lavoratori, in possesso di alti titoli di studio, debbano svolgere contemporaneamente più attività per potere fare fronte all’elevato costo di certi beni fondamentali, come le abitazioni.
  La supremazia aschenazita, tale fino alla seconda metà degli anni Settanta, è andata attenuandosi nel corso degli ultimi tre decenni. Più che nel differenziale etnico, che pur ancora conta nella determinazione dello status delle singole persone, è l’accesso al sapere, ovvero al capitale culturale, che fa la differenza di sostanza, aprendo a coloro che ne sono detentori porte che per il resto della popolazione rimangono invece chiuse. Gli esponenti delle classi abbienti appartengono perlopiù a quel ceto di operatori economici che volgono il loro sguardo ad Oriente, sapendo che dal confronto con l’India e con la Cina (e, più in generale, con il Sud-Est asiatico) deriveranno le fortune proprie. In Israele, paese per sua natura poliglotta, la mobilità verso l’estero, ovvero la costruzione di profili di carriera professionale attraverso il ricorso agli stage in paesi stranieri, è un fatto comune che ha permesso, soprattutto all’ultima generazione, di rompere l’assedio dettato dall’essere cresciuta in un contesto regionale dove il senso dell’accerchiamento ha ancora un peso rilevantissimo e dove l’interscambio con i paesi limitrofi è pressoché nullo.
  L’intervento politico, soprattutto con i trascorsi governi Netanyahu, ha ridotto il peso economico dello Stato. Rimane fondamentale nel settore agricolo che, tuttavia, occupa non più dell’1,5% della popolazione (concorrendo per il 2% al Pil), con uno sfruttamento intensivo delle terre fortemente tecnologizzato. Di fatto, dall’originaria condizione di dipendenza dall’estero, Israele oggi riesce a soddisfare autonomamente i tre quarti del fabbisogno alimentare nazionale. È ancora aperto il capitolo dell’approvvigionamento idrico (destinato al 57% per l’agricoltura, al 31,5% per usi domestici e per la parte restante nell’industria), due miliardi di metri cubi per anno, poiché più del 50% delle risorse è reperito in falde o in depositi al di fuori della spazio sovrano nazionale. La costruzione di quattro impianti di desalinizzazione (Ashkelon, Hadera, Sorek e Palmahim) sta al momento soddisfacendo il 15% della domanda.
  In Israele la popolazione dovrebbe mantenere un tasso di crescita annuo intorno all’1,5% fino al 2050. Nello stesso periodo di tempo i Territori palestinesi potrebbero passare da 4.017.000 (stima palestinese) a 10.265.000 abitanti, con un tasso del 2,6%. Questo a patto che quelle terre rimangano separate da Israele. Nel caso, invece, di una loro annessione unilaterale si calcola che già tra il 2020 e il 2025, quindi ad oggi, la componente araba diverrebbe maggioritaria. Un carico demografico di tale misura è comunque destinato a pesare molto in una regione tendenzialmente scarsa di risorse idriche. Più in generale, la variabile ecologica, intesa in chiave non solo ambientalista ma, più in generale, nell’ottica del riequilibrio di rapporto tra espansione quantitativa delle popolazioni, uso qualitativo del territorio e natura dei consumi – soprattutto energetici – s’impone già da adesso come dirimente rispetto alle scelte politiche future. Detto questo, rimane l’eredità dei settant’anni trascorsi ma anche di ciò che li ha preceduti, a partire dall’esperienza dell’«Yishuv», l’insediamento sionista, tra il 1881 e il 1948, che ha dato origine al Paese per come lo conosciamo.

(JoiMag, 11 maggio 2023)

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Nuovo raid a Gaza, Israele ora teme ritorsioni

Colpiti leader islamisti, ma anche civili. Duemila ebrei pronti a lasciare il Sud del Paese 

di Stefano Graziosi 

Sale la tensione in Medio Oriente. Ieri pomeriggio, le Forze di difesa israeliane hanno condotto un attacco aereo a Khan Yunis contro una cellula della Jihad islamica palestinese che stava cercando di effettuare il lancio di un missile anticarro al confine israeliano. Secondo il ministero della Salute di Gaza (che è guidato da Hamas), sono rimaste uccise due persone. «I soldati delle Idf (Israel Defense Force, ndr.) hanno monitorato l'attività della cellula e l'hanno colpita mentre si dirigeva verso la piattaforma di lancio», hanno riferito le forze dello Stato ebraico. Le attività militari sono avvenute nel quadro dell'operazione Shield and Arrow, lanciata dalle truppe israeliane nelle primissime ore della giornata di ieri nella Striscia di Gaza contro i miliziani della Jihad islamica: ieri sera, la Bbc ha riportato che, secondo il ministero della Salute di Gaza, si contavano in totale almeno 15 vittime (miliziani, ma anche donne e bambini). 
  Stando al Times of Israel, l'operazione è scattata dopo che, lo scorso 2 maggio, la Jihad islamica aveva lanciato 104 razzi contro Israele. «L'esercito israeliano ha dichiarato l'inizio dell'operazione Shield and Arrow in risposta a mesi di attacchi della Jihad islamica», ha inoltre riportato la testata i24 News. « Il nostro principio è chiaro: a chi ci fa del male, noi facciamo del male a lui e con maggiore forza. Il nostro lungo braccio raggiunge ogni terrorista nel momento e nel luogo da noi scelto», ha dichiarato il premier israeliano, Benjamin Netanyahu. «Siamo nel bel mezzo di una campagna e siamo pronti a qualsiasi possibilità. Consiglio ai nostri nemici di non scherzare con noi», ha aggiunto, sostenendo che, a differenza dei terroristi, Israele cerca di non colpire i civili, e rivendicando l' eliminazione di tre alti esponenti della Jihad islamica. Ricordiamo che quest'ultima è un'organizzazione paramilitare islamista, designata come terroristica da Usa, Ue, Israele, Canada, Giappone e Regno Unito. Essa intrattiene inoltre solidi rapporti con l'Iran e con Hezbollah (che ieri le ha non a caso espresso «completa solidarietà»), Nel frattempo, circa duemila persone si sono preparate ad abbandonare il sud di Israele nel timore di lanci da Gaza, mentre a Tel Aviv sono stati aperti rifugi antiaerei. 
  Sono intanto arrivate delle reazioni internazionali rispetto all'escalation. «Stiamo seguendo da vicino gli attacchi aerei israeliani nella Striscia di Gaza che hanno ucciso tre leader della Jihad islamica palestìnese», ha detto un portavoce dell'ambasciata americana a Gerusalemme. «Siamo anche a conoscenza di notizie secondo cui dieci civili sono stati tragicamente uccisi negli attacchi israeliani», ha proseguito. «Chiediamo a tutte le parti una de-escalation per proteggere chi non combatte», ha aggiunto, per poi concludere: «L'impegno americano alla sicurezza di Israele resta incrollabile». Dal canto suo, l'Ue ha detto di «rammaricarsi profondamente per la perdita di vite civili, compresi i bambini, e chiede il rispetto del diritto umanitario internazionale».

(La Verità, 10 maggio 2023)


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Razzi su Gaza: uccisi tre capi della Jihad

di Fiamma Nirenstein

Si chiama «Scudo e freccia» l'operazione intrapresa alle due della notte di domenica con tre eliminazioni mirate, contornate da una decina di morti e feriti, e proseguita nella giornata di ieri con altri due morti. Anche questi terroristi della Jihad Islamica, presi di mira nella loro auto mentre stavano per sparare un missili teleguidato. Tutti gli obiettivi sono membri dell'organizzazione che dopo la morte in carcere di un jihadista, Khaled Arnan, di sciopero della fame, ha lanciato il 2 maggio 104 missili sul sud di Israele. I due eliminati ieri tentavano una delle possibili vendette per la morte di tre capi islamisti: Khalil al Bahtini, Tarek Izeldin e Jihad Ghannam. Fra i membri delle loro famiglie uccisi nell'attacco, anche purtroppo due bambini. Bahtini aveva nel suo curriculum l'organizzazione di innumerevoli attacchi suicidi, lanci di missili, bombe. Coordinava gli attacchi della fazione terrorista. Izerdin era il responsabile degli attacchi nell'West Bank, era lo stratega del terrore che usciva da Gaza. Condannato a vita, era stato rilasciato nello scambio per Gilad Shalit nel 2011. Ghannam era un assassino seriale: fra l'altro nel 2004 ammazzò a fucilate una donna incinta di otto mesi, Tali Hatuel, con i suoi 4 bambini.
  L'operazione di ieri è stata preparata con determinazione e precisione dopo un periodo di silenzio dall'attacco del 2 maggio: Netanyahu sembra aver voluto con questo rassicurare i cittadini che hanno sofferto, specie nel sud del Paese, nelle settimane delle manifestazioni nelle strade assieme alle violenze delle giornate di Ramadan; la decisione dell'operazione risponde alla Jihad e a Hamas che volevano dimostrare di essere i padroni delle Moschee. Duole pensare che in questi attacchi anche sangue innocente sia stato versato: ma l'operazione è una scelta di salvaguardia ritenuta necessaria.
  Adesso Israele ha il fiato sospeso: a parte le condanne internazionali (ma gli USA non si son sentiti) e le criminalizzazioni (Abu Mazen in volo verso Washington al Nakba Day, Erdogan,l'Egitto, la Giordania, il Qatar...) si teme la ritorsione. Per ora c'è solo una presa di posizione di Khaled Mashal, che dichiara che parteciperà alla grande vendetta. Nel sud del Paese le scuole sono chiuse, gli autobus e i treni fermi, i negozi chiusi, i rifugi aperti: ma la gente di Sderot, di Netivot, di Ashkelon, dei kibbutz, dice che è pronta a qualsiasi sacrificio per il cambiamento. Non ne può più. Ieri si è riunito il Gabinetto di Sicurezza.
  Certo, il fuoco di Hamas non brucia solo sul suo confine meridionale, certo l'Iran ha interessi prima di tutto legati alla Jihad islamica, certo Hamas siede oggi anche sul confine del Libano con Hezbollah. Ma il guanto è stato lanciato dopo averci pensato bene, scegliendo il nemico, solo la Jihad Islamica. Netanyahu ha detto: «Alla violenza, noi risponderemo tutti uniti. Sappiamo affrontare ogni rischio e vincere. Non ci mettete alla prova». Ma qualsiasi cosa può accadere nelle prossime ore. Di sicuro Israele ha cercato con questa operazione di ristabilire la deterrenza perduta nella supposizione del nemico che Israele fosse indebolita dallo scontro interno. I soldati delle riserve sono stati in parte richiamate, 200 famiglie sono state evacuate. Israele è pronta, può darsi che Hamas stia chiedendosi se stavolta la strada prescelta sia quella dell'eliminazione dei grandi capi.

(il Giornale, 10 maggio 2023)


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Chi erano i tre capi terroristi uccisi a Gaza

Israele colpisce i vertici del terrorismo, ma deve aspettarsi la consueta rappresaglia palestinese contro i civili israeliani

I tre capi terroristi uccisi nell’operazione di lunedì notte
In un’operazione lanciata a sorpresa nella notte fra lunedì e martedì, le Forze di Difesa israeliane hanno ucciso tre capi terroristi di alto livello della Jihad Islamica Palestinese, il gruppo sponsorizzato dall’Iran e principale responsabile una settimana fa del lancio di più di 100 razzi nell’arco di 24 ore sulle comunità civili del sud di Israele.
  I tre capi terroristi uccisi sono Khalil Bahitini, comandante delle Brigate al-Quds nel nord della striscia di Gaza, Tareq Ezzaldin, portavoce del gruppo nonché responsabile di attività terroristiche in Cisgiordania e da Gaza, e Jihad Ghanem, segretario del Consiglio militare del movimento.
  Khalil Bahitini, 44 anni, comandante delle Brigate al-Quds della Jihad Islamica Palestinese nel nord della striscia di Gaza, era il più alto comandante operativo del gruppo terrorista. Diretto responsabile del lancio di razzi sulle comunità civili israeliane nel mese scorso, stava pianificando ulteriori lanci di razzi per l’imminente futuro. Bahtini aveva supervisionato molteplici attacchi terroristici dalla parte nord di Gaza, compresi attentati mirati contro civili in profondità nel territorio israeliano tra cui attentati suicidi e con ordigni stradali.
  Tareq Ezzaldin, 49 anni, portavoce della Jihad Islamica Palestinese, era responsabile del coordinamento tra il gruppo con base a Gaza e le sue diramazioni in Cisgiordania, del trasferimento di fondi e degli sforzi per fomentare terrorismo in territorio israeliano. La sua eliminazione viene considerata una svolta giacché finora non erano stati presi di mira i terroristi che pianificano da Gaza gli attentati in Cisgiordania. Ezzaldin era stato scarcerato da Israele nel 2011 nell’ambito del ricatto per la liberazione dell’israeliano Gilad Shalit, trattenuto da Hamas in ostaggio a Gaza per cinque anni.
  Jihad Ghanem, 62 anni, segretario del Consiglio militare del gruppo terrorista, era uno degli operativi veterani di più alto livello e aveva ricoperto varie posizioni di comando nel gruppo filo-iraniano, tra cui quella di comandante delle Brigate al-Quds nel sud della striscia di Gaza. Nella sua ultima posizione, Ghanem era responsabile del trasferimento di fondi, armi e munizioni tra Jihad Islamica Palestinese a Hamas. Aveva anche contribuito a pianificare e realizzare numerosi attentati in Cisgiordania e all’estero, tra cui l’attacco compiuto nel maggio del 2004 in cui vennero assassinate a sangue freddo Tali Hatuel, 34enne incinta, e le sue quattro figlie Hila di 11 anni, Hadar di 9, Roni di 7 e Merav di 2 anni, nei pressi del kibbutz Kissufim, vicino al confine con la striscia di Gaza.
  La Jihad Islamica Palestinese ha confermato martedì la morte dei suoi tre alti comandanti, insieme ad alcuni loro famigliari.
  Il presidente d’Israele Isaac Herzog ha elogiato le operazioni anti-terrorismo delle Forze di Difesa israeliane a Gaza a difesa del paese e ha esortato i cittadini israeliani a seguire le istruzioni di sicurezza dal Comando Fronte interno. “Ci troviamo ad affrontare molte sfide di sicurezza che ci obbligano ad agire in modo responsabile e attenerci alle istruzioni del Fronte interno – ha detto Herzog – Tutti noi, con il cuore e con la mente, siamo con le Forze di Difesa, con le forze di sicurezza e con i residenti del sud” (vicini alla striscia di Gaza).

(israele.net, 10 maggio 2023)

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Risparmiare energia: Israele apre il primo impianto di produzione di sistemi di accumulo di energia termica

di David Fiorentini

L’azienda israeliana Brenmiller Energy ha annunciato l’apertura del primo impianto di produzione di sistemi di accumulo di energia termica al mondo, a Dimona nel deserto del Negev.
  L’accumulatore immagazzina energia proveniente da fonti rinnovabili o in generale dalla rete elettrica, in un mezzo di stoccaggio, in questo caso rocce del deserto frantumate, sotto forma di calore estremamente elevato, raggiungendo temperature fino a 750 °C. Dopodiché, al bisogno, viene fatta attraversare dell’acqua nel sistema, che, al contatto con le rocce roventi, si trasforma in vapore e quindi nuovamente in elettricità pronta per essere immessa in rete.
  La nuova fabbrica, che creerà decine di posti di lavoro, raggiungerà una produzione di 4 gigawattora entro la fine del 2023. Brenmiller, che ha già altri impianti in Italia, Stati Uniti e Brasile, ha dichiarato che la sede israeliana sarà il suo fiore all’occhiello, diventando il principale centro di produzione.
  “Per ridurre le emissioni nel settore industriale e del riscaldamento, è necessario un sistema di accumulo di calore che colleghi la disponibilità variabile di fonti di energia elettrica rinnovabile, come l’energia eolica e solare, alle esigenze che richiedono calore 24 ore su 24”, spiega Avi Brenmiller, fondatore e CEO di Brenmiller Energy.
  “L’inaugurazione della nostra fabbrica segna una pietra miliare nella storia della nostra azienda. Quello che è iniziato come un’impresa familiare è cresciuto fino a diventare una ditta che può aiutare gli sforzi dell’economia globale per la decarbonizzazione”.

(Bet Magazine Mosaico, 10 maggio 2023)

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“Le tre sorelle di Auschwitz”

di Michelle Zarfati

Tratto da un'incredibile storia vera “Le tre sorelle di Auschwitz” (Newton compton editori) di Heather Morris è il racconto del vero amore tra sorelle: un legame che supera tutto anche l’orrore della guerra. Non basterà infatti il lager, la fame, e la sofferenza a dividere Livi, Magda e Cibi che riescono a sopravvivere anche ad Auschwitz-Birkenau. Le tre sorelle sono riuscite a farcela difendendosi e supportandosi a vicenda nonostante la ferocia delle SS, eppure il peggio sembra non essere ancora finito per loro. Con la “marcia della morte” le sorelle si rendono conto di non essere ancora del tutto salve, il loro destino sembra essere segnato eppure un colpo di scena cambia la sorte improvvisamente.
Un testo emozionante, a tratti doloroso ma senza dubbio una preziosa testimonianza di una storia che merita di essere narrata.

(Shalom, 10 maggio 2023)

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Doppio standard dell’Ue su Israele

Annullata la serata a Tel Aviv. Tutto ok in Qatar e Arabia Saudita

L’Unione europea ha il piacere di invitarvi a un evento speciale per celebrare l’Europa Day in Qatar”. E ancora: “Ogni anno, il 9 maggio, celebriamo la dichiarazione Schuman. L’ambasciatore Ue in Arabia Saudita, Patrick Simonnet, ha organizzato un pranzo per celebrare la Giornata dell’Europa a Riad”. Stesso invito in Turchia. Qatar, Arabia Saudita e Turchia, tre paesi che nei report di Freedom House vanno dalla dittatura all’autocrazia. Nessuno di loro si avvicina, neanche lontanamente, alla democrazia pluralista e liberale israeliana, dove a differenza dell’Arabia Saudita che interdice l’ingresso alla Mecca a ebrei e cristiani, Gerusalemme si è fatta capitale delle tre fedi, tanto da impedire agli ebrei di pregare sul Monte del Tempio, per non scatenare rivolte islamiche.
  Eppure, l’Ue ha deciso quest’anno di annullare l’evento del 9 maggio a Tel Aviv, a causa della presenza nella delegazione israeliana del ministro Itamar Ben Gvir. Quest’ultimo non ha immacolate credenziali democratiche, non è un liberal, ma un nazionalista religioso con precedenti di razzismo antiarabo. L’Unione europea non ha esitato a cancellare l’evento in Israele, quando neanche lontanamente ha pensato di fare altrettanto in Qatar (dove i gay e gli apostati sono passibili di pena di morte secondo “costituzione”) o in Arabia Saudita, che detiene record mondiali di esecuzioni capitali. Nelle stesse ore in cui annullava la serata a Tel Aviv, l’Unione europea celebrava la “libertà di stampa” in Giordania. L’Europa ha diritto di far sentire la sua voce nei rapporti con gli alleati. Quello che non ha è il diritto di applicare il doppio standard su Israele. Lo avevamo già visto sulle merci dalla Cisgiordania: trattamento punitivo per gli insediamenti israeliani, niente sulla Cipro occupata dai turchi. E vista la storia degli ebrei europei piena di fantasmi e ombre oscure, per Bruxelles sarebbe saggio e prudente non indicare lo stato ebraico al pubblico ludibrio.

Il Foglio, 10 maggio 2023)


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L’ipocrisia dell’Ue: va dal dittatore Xi, ma boicotta i ministri di Israele

di Michel Sfaradi

Assurdo annullare il ricevimento diplomatico per impedire a Itamar Ben-Gvir di parlare. È anche un errore politico.

Per l’evento ‘La Giornata dell’Europa’ che doveva tenersi a Tel Aviv, l’Unione Europea ha scelto di annullare il ricevimento diplomatico pur di impedire la partecipazione, e di conseguenza il discorso, che avrebbe dovuto tenere il ministro della Sicurezza Nazionale di Israele, Itamar Ben-Gvir.

• Annullato il ricevimento
  La decisione è stata presa dopo le consultazioni tenutesi durante la giornata tra gli ambasciatori europei e il Servizio europeo per l’azione esterna a Bruxelles.
Una dichiarazione rilasciata dalla delegazione dell’Unione europea in Israele afferma: “Non vediamo l’ora di celebrare la ‘Festa dell’Europa’ il 9 maggio come ogni anno. Purtroppo quest’anno abbiamo deciso di annullare il ricevimento diplomatico perché non vogliamo dare una piattaforma a coloro le cui opinioni contraddicono i valori rappresentati dall’Unione europea. Tuttavia, l’evento culturale della ‘Giornata dell’Europa’ si terrà per celebrare con i nostri amici e partner in Israele”.

• La reazione israeliana
  Il ministro Ben Gabir ha risposto: “È un peccato che l’Unione europea, che pretende di rappresentare i valori della democrazia e del multiculturalismo, pratichi un bavaglio poco diplomatico. Per me è un onore e un privilegio rappresentare il governo israeliano, il suo eroico esercito e il popolo di Israele in ogni forum. Anche gli amici sanno esprimere critiche, ma certamente non mettono il bavaglio a chi non la pensa come loro”.
  Si è chiaramente trattato di un intervento a gamba tesa contro il governo israeliano, un intervento che ha dato subito modo all’opposizione di polemizzare nei confronti del Premier Netanyahu. Infatti il presidente dell’opposizione di sinistra Yair Lapid, non ha perso l’occasione per twittare in merito alla decisione degli europei: “Durante il periodo del cambio di governo, abbiamo portato le relazioni con l’Unione europea a un boom senza precedenti che ha contribuito all’economia israeliana e alla nostra forza politica. Invece di continuare la linea positiva, l’attuale governo ci ha portato a litigi inutili e ha creato una crisi solo per far sì che Ben Gvir ci metta ancora una volta in imbarazzo davanti al mondo con un discorso inutile”. Il ministro Ben Gvir avrebbe dovuto rivolgersi ai partecipanti all’evento e congratularsi con loro, ma pur di non farlo parlare, i rappresentanti dell’Unione Europea avevano addirittura considerato di annullare tutti i discorsi decidendo poi di annullare tout court l’evento diplomatico. Stefan Seibert, il rappresentante della Germania in Israele ha dichiarato: “Vorrei che non fosse necessario, ma lo è stato.”

• Cina e Iran sì, Israele no
  A questo punto la domanda sorge spontanea: cosa è stato necessario? Perché, bisogna ricordarlo, tutto questo circo mediatico è stato architettato solamente per impedire la partecipazione di un ministro eletto democraticamente in libere elezioni. E da quale pulpito arriva la predica? Da quello europeo, cioè da coloro che negli ultimi anni hanno incontrato la peggior specie politica esistente al mondo. A Bruxelles, ad esempio, non hanno mai avuto, non hanno e mai avranno, alcuna remora a incontrare i rappresentanti cinesi. Certo a Pechino si fanno buoni affari, ma non venissero a raccontare che nel paese del dragone esiste la libertà, la democrazia e libere elezioni. Abbiamo visto cosa è successo all’ultimo congresso del partito comunista cinese quando l’ex presidente Hu Jintao è stato portato via a forza davanti agli sguardi ipocriti dei presenti e a quello compiaciuto di Xi Jinping. Nessuno a Bruxelles si sognerebbe mai di tappare la bocca a uno dei ministri del Dragone.
  A Bruxelles, ad esempio, non hanno mai avuto, non hanno e mai avranno, alcuna remora a incontrare i rappresentanti della Repubblica Islamica dell’Iran, altro esempio di libertà e democrazia, dove i manifestanti vengono impiccati e le famiglie avvertite ad esecuzione avvenuta. Qualcuno crede che esista un funzionario dell’Unione Europea che abbia le palle per tappare la bocca a un ministro degli Ayatollah? Di esempi di questo tipo se ne potrebbero citare all’infinito.

• Perché l’Ue sbaglia con Israele
  Il ricevimento a Tel Aviv è stato annullato perché l’Europa non vuole dare una piattaforma a coloro le cui opinioni contraddicono i valori rappresentati dall’Unione europea. E in altri posti? In Turchia, ad esempio, è stato annullato? Eppure la cattedrale di Santa Sofia è stata trasformata in moschea, questo non contraddice nulla? Il punto è, o potrebbe essere, che l’Europa pensa di poter fare la voce grossa con i più deboli e, a causa delle divisioni interne allo Stato Ebraico, vede Israele indebolita e si permette ciò che ad altre latitudini si guarderebbe bene anche di pensare. Sbaglia chi ha fatto questa analisi, sbaglia due volte. La prima quando seguendo le notizie che arrivano dai media crede Israele divisa, e non lo è, la seconda quando non si rende conto di quanto l’Europa stessa sia divisa al suo interno.
  Con questa decisione l’Unione Europea ricorda molto un passaggio importante del Vangelo di Luca 6,41-42 quando Yoshua di Nazareth, mio famoso correligionario, durante il discorso della montagna, pronunciò: “Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio di tuo fratello, mentre non scorgi la trave che è nell’occhio tuo? Come puoi dire a tuo fratello: ‘Lascia che io tolga la pagliuzza che hai nell’occhio’, mentre tu stesso non vedi la trave che è nell’occhio tuo? Ipocrita, togli prima dall’occhio tuo la trave, e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza che è nell’occhio di tuo fratello”.

(Nicola Porro, 9 maggio 2023)

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Gaza, attacco israeliano nella notte

Tredici morti, uccisi tre capi della Jihad islamica (che promette vendetta)

Quaranta mezzi dell’aviazione in azione, colpiti edifici residenziali e centri di addestramento. Già annunciata la risposta delle milizie che la scorsa settimana avevano lanciato un centinaio di razzi contro lo Stato ebraico
  Un attacco condotto questa notte dall’esercito israeliano sulla striscia di Gaza ha provocato almeno 13 morti, tra cui tre comandanti della Jihad islamica, e oltre 20 feriti. Secondo le autorità palestinesi, tra le vittime ci sarebbero sei donne e quattro bambini.
  Il governo Netanyahu ha lanciato l’operazione con l’obiettivo di colpire i militanti, dopo la pioggia dei razzi caduti su Israele nel giorni scorsi. Le milizie di Gaza avevano risposto così alla morte di uno dei loro comandanti, Khader Adnan, che si era lasciato morire di fame in carcere israeliano dopo 87 giorni di sciopero. Era dal 1992 che nessun detenuto palestinese moriva dopo uno sciopero della fame in un carcere israeliano.
  Ora ci sia attende la risposta — già annunciata — della Jihad islamica e il lancio di razzi verso Israele da Gaza come vendetta. Tanto che gli ufficiali dell’esercito hanno fatto sapere che sono in corso i preparativi per giorni di guerriglia. La Jihad islamica è il più numeroso tra i gruppi di militanti della Striscia dopo Hamas. Negli anni ha bombardato più volte Israele e ha evocato la distruzione del Paese.
  Il raid di questa notte ha causato il numero di vittime più alto da quando, nell’agosto del 2022, si verificarono tre giorni di combattimenti. Israele ha mobilitato quaranta tra aerei ed elicotteri, attaccando Gaza in più ondate, colpendo diversi edifici residenziali.
  Le Brigate al-Quds, il braccio armato della Jihad, hanno confermato la morte di tre dei loro capi e delle loro famiglie: Jihad Shaker Al-Ghannam, segretario del Consiglio militare delle Brigate; Khalil Salah al-Bahtini, comandante nella regione settentrionale, che secondo l’esercito israeliano costituiva «una minaccia imminente per la sicurezza dei civili israeliani»; e Tariq Muhammad Ezzedine, identificato come uno dei leader delle operazioni militare delle al-Quds nella Cisgiordania controllata da Israele.
  Le forze armate israeliane, secondo i loro stessi comunicati, avrebbero anche centrato anche dieci siti per la fabbricazione di armi e sei centri di addestramento della Jihad. Il primo commento dal governo è arrivato dal ministro della Difesa, Yoav Gallant: «Faremo in modo che qualunque terrorista minacci i cittadini israeliani se ne penta».
  Questo attacco, e la risposta dalla Striscia, arrivano in un momento di difficoltà per l’esecutivo guidato da Benjamin Netanyahu, che da mesi deve affrontare vaste proteste in piazza per via della discussa riforma della giustizia (la cui approvazione è stata rimandata). E che deve fare i conti con alcuni ministri molto discussi, a partire dal leader di Potere Ebraico Itamar Ben-Gvir, che ha accusato il premier di aver risposto «troppo debolmente» dopo quanto accaduto la scorsa settimana.
  Sempre Ben-Gvir ieri ha acceso una polemica con l’Ue dopo che i rappresentati europei a Tel Aviv hanno annullato una cerimonia per evitare la partecipazione dello stesso Ben-Gvir, accusato di farsi portavoce di idee che «calpestano i valori fondanti dell’Unione». Ora una nuova escalation militare con i gruppi armati della Striscia di Gaza potrebbe ricompattare il Paese contro il nemico esterno e mettere in secondo piano le difficoltà di Bibi.

(Corriere della Sera, 9 maggio 2023)

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L'Ue boicotta il ministro israeliano Itamar Ben-Gvir: annullato il ricevimento

La Festa dell’Europa non vedrà la presenza del rappresentante della Sicurezza nazionale del governo di Netanyahu, accusato di razzismo. Bruxelles chiede di sostituirlo e mette il veto

di David Carretta

BRUXELLES - La delegazione dell’Ue in Israele ha deciso di annullare il ricevimento diplomatico per la Festa dell’Europa, dopo che il ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, ha annunciato la sua partecipazione e un discorso. “Non vogliamo offrire una piattaforma a qualcuno le cui opinioni contraddicono i valori che l’Ue rappresenta”, ha spiegato il portavoce dell’Alto rappresentante, Josep Borrell. A Bruxelles riconoscono che la decisione “non è comune”. Il problema non è Israele, ma Ben-Gvir. Il leader del partito di estrema destra Potere ebraico, è conosciuto per le sue opinioni razziste. È stato il governo di Netanyahu a decidere chi inviare.
  Il problema non è Israele, ma Ben-Gvir. Il leader del partito di estrema destra Potere ebraico, è conosciuto per le sue opinioni razziste. E’ stato il governo di Netanyahu a decidere chi inviare. I diplomatici dell’Ue hanno chiesto esplicitamente di sostituire Ben-Gvir, che invece ha insistito per partecipare e ieri ha accusato l’Ue di “silenziarlo”. I gruppi israeliani di difesa dei diritti umani hanno invece salutato la decisione dell’Ue di non concedere un palco a chi “promuove politiche razziste e discriminatorie”. Il leader dell’opposizione, Yair Lapid, ha risposto che “gestire le relazioni internazionali di Israele è una questione complessa che richiede esperienza e un approccio intelligente”. L’Ue ha confermato che la Festa dell’Europa andrà avanti senza ricevimento per “celebrare con i nostri amici e partner in Israele la relazione bilaterale forte e costruttiva”.

Il Foglio, 9 maggio 2023)
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"Il problema non è Israele", dice l'Europa. Sicuro? Il laicissimo Lapid sembra convinto. M.C.


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L'Ue in Israele cancella l'evento diplomatico con Ben Gvir

'Le sue opinioni contraddicono i valori dell'Europa'

La rappresentanza Ue in Israele ha cancellato la cerimonia diplomatica prevista per domani per la festa dell'Europa alla quale avrebbe dovuto partecipare il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir.
  "Sfortunatamente - ha scritto su Twitter - quest'anno abbiamo deciso di cancellare il ricevimento diplomatico poiché non vogliamo offrire una piattaforma a qualcuno le cui opinioni contraddicono i valori rappresentati della Ue".
  La Rappresentanza tuttavia ha scelto di mantenere "l'evento culturale dell''Europa Day' per il pubblico israeliano in modo da celebrare con i nostri partner e amici in Israele una forte e costruttiva relazione bilaterale".
  La presenza - su delega del governo di Benyamin Netanyahu - del leader del partito di estrema destra Otzma Yehudit , e ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir alla festa aveva provocato una serie di polemiche in Israele. Sia Yair Lapid, leader dell'opposizione, sia altri esponenti della stessa corrente avevano espresso forti riserve sulla partecipazione di Ben Gvir. Lapid aveva definito "un serio sbaglio professionale" il fatto di inviare Ben Gvir alla cerimonia, che "imbarazza un largo gruppo di Paesi amici, mettendo a rischio i voti futuri nelle istituzioni internazionali", a causa delle prese di posizione del ministro.
  E la risposta di Ben Gvir non si è fatta attendere: "E' una vergogna che la Ue, che dice di rappresentare i valori della democrazia e del multiculturalismo, ora non diplomaticamente tappi la bocca", ha detto il ministro, aggiungendo che "è un onore e un privilegio per me rappresentare il governo israeliano, gli eroici soldati israeliani e il popolo di Israele in ogni sede. Gli amici sanno come esprimere le critiche e anche i veri amici sanno come prenderle".

(ANSA, 8 maggio 2023)
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'Le sue opinioni contraddicono i valori dell'Europa'. Cosa gravissima. L'Europa è maestra di democrazia. L'Europa è antisovranista, e se riprende l'Ungheria di Orban può ben riprendere anche l'Israele di Netanyahu. M.C.

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Delegittimare lo Stato ebraico è la folle moda culturale di oggi

di Fiamma Nirenstein

È tempo di festa per l'aggressione verbale a Israele, per la disapprovazione, per l'indice levato, e anche per l'antisemitismo, sempre in crescita. Lo scontro interno ha solleticato la creatività di chi non può soffrire gli ebrei, specie nella loro più importante espressione: lo Stato ebraico. Di chi dice che ne critica le politiche, ma vorrebbe in realtà vederlo sparire dalla mappa. Israele è a pezzi come un piatto rotto, dicono contenti i cronisti e i teorici dello scontro. Guai a dirgli che sono antisemiti, anche se alla prova delle tre «D» non reggono: delegittimazione, demonizzazione, doppio standard. È il momento della delegittimazione. L'antisemitismo anti Stato ebraico è ormai codificato anche dall'IHRA, un comitato internazionale formato da 35 Stati che ha definito l'odierna declinazione dell'odio più antico. La tipologia precedente era codificata nella famosa vignetta in cui Ariel Sharon mangia bambini addentandoli per la testa in stile Goya. Questa vignetta è stata ripubblicata recentemente dal Guardian. È una forma di criminalizzazione: Israele è moralmente indegno di esistere. E torna ad affacciarsi la giornalista della CNN Christiane Amanpour, sempre antisraeliana: parlando della giornalista palestinese Shireen Abu Akleh ha affermato di nuovo che i soldati israeliani l'hanno ammazzata intenzionalmente anche se l'inchiesta ha escluso questa ipotesi. È un blood libel come quello di Mohammed al Dura, il bambino (forse) ucciso nel 2000 in uno scontro a fuoco: la demonizzazione ne attribuì a Israele l'omicidio, e non era vero; ma suscitò la seconda Intifada: 2000 morti per terrorismo.
  Stavolta la tempesta dei media nasce dalla frattura politica interna allo Stato ebraico sulla riforma giudiziaria. Scontro verticale fra destra e sinistra, uno dei tanti. Ma le piazze, molto più che dalla riforma (se chiedi a un dimostrante sa solo che è minacciata la democrazia, ma prova a chiedergli perché) sono state mobilitate dalla vittoria della destra nel novembre 2022 e dalla conseguente formazione di una coalizione guidata da Netanyahu, con la partecipazione di due partitini nazional religiosi guidati da Itamar Ben Gvir e Betzalel Smotrich, leader molto esibizionisti e vocali, ma di cui non si conosce nessuna tendenza fascista. La loro sola vista, il loro eloquio, le kippah sono insopportabili all'opinione pubblica laica di Tel Aviv. Non fino al punto di abbandonare il sionismo.
  Però, il capo dell'opposizione israeliana Yeir Lapid, spinto da Ehud Barak, suggerisce sempre che chi ha vinto regolarmente le elezioni è tuttavia illegittimo: lo fa dichiarando pregiudizialmente, sempre e comunque, Netanyahu indegno. La stampa internazionale lo segue; a questo si aggiunge, molto popolare, la denuncia di una tribù messianica, primitiva, al governo. Sarebbero fascisti religiosi incompatibili con la costruzione di uno stato democratico e moderno. Lapid, invece, starebbe col mondo avanzato che difende la democrazia. Questa teoria è sbagliata: Netanyahu è un leader democratico, lo dimostra come ha accolto, bloccando la riforma, le manifestazioni di piazza, considerandole parte del necessario consenso nazionale. Ma qui non parleremo di lui ma della frattura sociale. Gli stessi accusati, ebrei di origine orientale e non ashkenazita, hanno vittimisticamente cominciato a qualificarsi come trascurati, discriminati, «cittadini di seconda classe», alimentando il senso di rottura, mentre gli estremisti di sinistra hanno ripetuto le loro accuse. Gli uni e gli altri hanno torto, la forza della realtà, dell'esercito, dei pericoli ma anche dei continui successi e dell'ebraismo comunque lo si viva, li riporta sempre insieme.
  La spaccatura, più pesante di quella della proposta di riforma, ha prodotto una nuova delegittimazione dello Stato d'Israele. Piace molto ai giornali. Israele - si dice e si scrive - è destinato a affondare perché va a pezzi, è un patchwork artificiale che finalmente si sfalda. «Gli ebrei non sono un vero popolo», si ripete con entusiasmo e sollievo. La delegittimazione, dunque, una delle tre D, si annida nella classica teoria antisionista che Israele non esista, che il popolo ebraico non abbia sostanza storica e sociale, che sia solo una creatura virtuale. È la «creatura sionista», come la chiama il raffinato giornale italiano di politica internazionale Limes nel nuovo numero intitolato Israele contro Israele. È una tesi vecchia, la discussione se Israele sia una religione o una nazione ne è la copertina usurata dal tempo. Ma insomma chi sono questi ebrei? E la domanda classica di chi non capisce che sono tutte e due le cose, popolo e religione, in dosi diverse a seconda delle circostanze. Un popolo così unito da essere riuscito, parlando lingue diverse e vivendo in luoghi lontanissimi fra loro, a sopravvivere tremila anni sempre guardando a Gerusalemme. La scoperta che gli ebrei, spezzettati dalla politica, denunciano un'assenza di identità, è tipica delle corrente culturale postsionista, per cui l'identità sarebbe costruita a tavolino, non rifletterebbe una storia vera, sarebbe il frutto di scelte ideologiche da rettificare. Limes addirittura gioca sull'umanitarismo conservatore di Vladimir Zeev Jabotinsky per suggerire che anche lui alla fine non era quel sionista che si vuol credere.
  L'entusiasmo nato in seguito al duro scontro legato alla riforma giudiziaria rende molto attivi sul campo della delegittimazione non solo l'Iran, gli hezbollah e i palestinesi; oggi, in Europa e negli Usa, un vasto ventaglio di intellettuali e media si affanna a spiegare che Israele è un Paese la cui esistenza si è indebolita, non funziona più, forse non ha mai avuto senso.
  Finora la delegittimazione era stata giocata sul terreno morale. Ovvero: apartheid, genocidio, colonizzazione, razzismo... Israele deve essere cancellato perché è moralmente reprobo. I concetti di guerra e di oppressione sono i pilastri di questa accusa. Per questo tipo di teoria, tutte le oppressioni sono collegate, e gli oppressori sono i maschi, i bianchi, i poliziotti... e gli ebrei, ormai suprematisti bianchi. E in Medio Oriente, persecutori di Palestinesi. Molte manifestazioni che gridano «Kill the Jews» hanno marciato con le bandiere palestinesi.
  La costruzione fittizia intrapresa già nell'ambito della Guerra Fredda presuppone una storia palestinese nazionale e un oppressore coloniale storicamente inesistenti. Ma è stata accettata, né Israele ha mai deciso di fronteggiarla come si deve. Ha preferito dedicarsi a presentare le sue ragioni, e ha contato a lungo su una falsa premessa: che se la parola Ebreo in Europa dopo la Shoah si fosse collegata col senso comune antifascista, Israele avrebbe conquistato alla fine l'opinione pubblica. Invece la forza della politica ha fatto sì che il fiume scavalcasse gli argini, e di fatto l'antisemitismo si avvale invece da decenni dall'abbinamento fra la parola ebreo e del termine «occupazione» (prima dal 1948, poi dal 1967) per dimostrare che gli ebrei sono oppressori e non oppressi, attaccanti feroci e non assediati che si difendono. Una perfetta realizzazione della decisiva definizione di Robert Wistrich della «nazificazione di Israele», base nel nuovo antisemitismo. Con un triste rovesciamento dell'uso dei «diritti umani» di cui molto si è scritto.
  Oggi siamo a una svolta peggiore. Peggio ancora infatti dell'accusa di sbagliare è l'accusa al popolo ebraico di non esistere a partire dalle divisioni e dalle innegabili grandi differenze di opinioni. Si attribuisce l'accensione del falò alla prepotenza di Benjamin Netanyahu, ma il premier israeliano non ha niente di personale da guadagnare dalla riforma: il suo processo sta andando a pezzi per l'insostenibilità delle accuse e per la sua fragilità giuridica. Quindi, facilmente, non ci sarà condanna. Comunque se anche nel frattempo la riforma nel modo di eleggere i giudici fosse modificata, su quindici giudici solo cinque sarebbero eletti con la riforma, e dieci resterebbero al loro posto. Nessun giudice dovrebbe dimettersi. Ci vorrebbero forse dieci o venti anni prima che per raggiunta età di pensione o motivi vari la composizione della Corte Suprema fosse politicamente modificata. Ma la sicumera conoscitiva è tipica dell'attacco a Israele, Bibi è il suo oggetto assoluto, divenuto oggetto di ogni attacco e accuse di fascismo; di fatto oggi è un conservatore liberal.
  Ma Limes titola un pezzo del suo numero Israele contro Israele «Il sionismo religioso di Netanyahu», mentre nella prefazione si addentra nella delegittimazione dello Stato d'Israele con interpretazioni storiografiche complicate e molto malevole. L'editoriale del giornale intitolato «La sindrome ottomana», spinge il sionismo di destra e di sinistra nel ventre Turco, in una parte ritardata e un po' ottusa del già morente impero ottomano, un pasticcio in cui la sindrome espansionista si scontra con l'idea di tenere insieme egualitariamente gruppi etnico-religiosi occupando territori che poi devono confederarsi... Cioè, tutto sbagliato, socialismo e ottomanismo insieme, povero Ben Gurion, chissà come ha fatto a portare a casa il suo progetto imbevuto com'era di idee già definitivamente condannate allo sgretolamento. Insieme a questo troviamo qui molte sarcastiche ma dotte memorie della storia di Israele alle sue origini, da cui viene espunta, con l'accento sulla solita Uganda, la nobiltà e anche la realtà storica del ritorno alla casa dei padri fra mille impossibili aggressioni e proibizioni; espunta la presenza mai interrotta nei secoli, la maggioranza ebraica a Gerusalemme, inesistente la meraviglia della lingua ebraica ricostruita.
  È una collezione di fraintendimenti che tendono tutti a dimostrare che alla domanda «Chi è Israele?» si può rispondere che è un mosaico incomprensibile, certo non uno Stato del Popolo ebraico. Insomma, si può approfittare dello scontro politico in corso per stabilire che è un insieme di «Tribù che in terra promessa si agitano, si distinguono, si rimescolano». E Limes è diligente: quante cartine punteggiate di tutti i gruppi che vivono in Israele, religiosi, ashkenaziti, sefarditi, arabi... Ma non è magnifico proprio per questo: che la democrazia di Israele abbia garantito libertà a tutti alla faccia delle politiche e delle differenze etniche dell'unione delle diaspore? Chi disegna un'Israele destinata al caos vede tutto il contrario di ciò che si vede visitando il Paese, ricco, ordinato, pulito nonostante le incredibili difficoltà, il terrorismo, i conflitti politici.
  Ma il giornale spiega che «i confini non sono identificati perché se si delimitassero si spaccherebbero». Intanto non è spaccato, e i Territori sono una realtà che è semplicemente, oggi, sottratta così all'imperialismo terrorista palestinese finché ci sarà un accordo. Pensiamo a cos'è Gaza sgomberata: una rampa di lancio di missili. Ma poi, perché i confini non sono definiti? Se i palestinesi avessero concordato su una delle tante grandi proposte di pace, lo sarebbero. Non è andata così, gli insediamenti non si possono sgomberare di fronte a un doppio rifiuto (Hamas e Fatah), condito di minacce, oggi supportato dall'Iran.
  I paradossi non finiscono: la natalità è un guaio perché favorisce i religiosi, Israele non ha rappresentatività perché non ha diritto di rappresentare la diaspora. Ma Israele rappresenta i suoi cittadini e ogni ebreo può diventarlo se vuole. Ogni ebreo è parte del popolo ebraico: se vuole, diventa anche cittadino. Popolo, lo è di già, e anche religioso se gli pare. Se non gli pare, solo popolo.
  Ma quello che interessa è dimostrare che il popolo ebraico non c'è e la destrutturazione si svolge in molte pagine di asprezza linguistica rivelatrice: «Le acrobazie con cui Ben Gurion e successori hanno inventato e poi evoluto Israele in potenza regionale e avanguardia tecnologica non ne garantiscono il futuro». «La creatura sionista è scossa da una crisi identitaria»: Nasrallah si è espresso proprio così davanti alle manifestazioni dei giorni scorsi.
  Questa illazione, l'abbiamo letta declinata variamente ovunque: New York Times, Le Monde, El Pais, Guardian, Corriere della sera, la Repubblica. Al centro sempre le colpe di Netanyahu: il suo governo, scandalo immenso, ha proposto una legge di riforma di una vecchia struttura palesemente troppo potente e autoriferita. Ma allora è un fascista! Chi ha letto la proposta di legge, che gli piaccia o no e ormai comunque è in un cassetto, diventa il segnale certificato che Bibi intende trasformare Israele in un potere assoluto, e esserne il re. Bibi ha «strappato il sipario che celava la montante sofferenza delle tribù israeliane». Si dà per certa «la vena autocratica, lo scontro frontale imminente, la fusione del nocciolo della sicurezza, l'intelligence e l'esercito». Abbonda la citazione del discorso dell'ex presidente Reuven Rivlin sulle «quattro tribù»: arabi, laici, religiosi, ultraortodossi. Rivlin non parlava certo di destrutturazione di Israele, ma qui lo Stato Ebraico non ha futuro perché «è uno stato costruito sulla paura». Di nuovo, Hezbollah non avrebbe detto meglio. E pensiamo semplicemente: peccato che chi scrive non abbia mai vissuto in Israele, nel coraggio civile come forma di vita. Basta pensare alla gente di Sderot, dove fioccano i missili da Gaza, si corre in cantina coi bambini, e nessuno lascia le case. Non si sente mai parlare di fuga, di spostamento delle famiglie tormentate dalla persecuzione palestinese.
  Per il 75esimo l'Economist, più raffinato e subdolamente distruttivo, solleva dopo una descrizione delle fratture in corso la questione chiave: l'emarginazione della questione palestinese! Ecco che torna e viene di nuovo descritto il problema come una colpa di Netanyahu; né l'Economist, né le Monde, né il Guardian, né El Pais, né Repubblica né Limes, si accorgono della truffa bellicistica di Hamas sulla rottura dello status quo sulla Spianata delle Moschee; nessuno analizza la tragedia subita, mai voluta, che per Israele è stato il fallimento dei tentativi di pace; nessuno verifica il numero mostruoso degli attentati terroristi e della pervasività della propaganda dall'età scolare che rifiuta la presenza del popolo ebraico, che ha impedito la pace con l'incitamento che fa vittime fra i giovani «shahid» quanto lo stipendio che viene loro dato dall'Autorità Palestinese; nessuno ricorda mai che Ramallah e Gaza sono due, non una entità palestinesi, separati da odio e reciproci morti assassinati buttati dai tetti e fucilati per strada.
  Se Israele sia un popolo o una religione, dicevamo, è una questione vecchia come il mondo, se ne parla dall'esilio Babilonese. Se abbia al suo interno scontri e punti di vista che confliggono è una domanda addirittura ridicola. Certo che sì. Ben Gurion, socialista, ha un ruolo gigantesco nella storia del popolo ebraico, ma sono innumerevoli le sue reminiscenze bibliche nel costruire lo Stato e totale la sua convinzione che la tradizione ebraica sia la pietra angolare della nazione; Meir Dizengoff primo sindaco di Tel Aviv nel 1911, superlaico, si dette cura di costruire subito le sinagoghe. Gli ebrei religiosi nei secoli sono stati indispensabili per tenere accesa la fiaccola del popolo ebraico, senza la loro indefessa conservazione della lingua, della filosofia, del rito fino nei Campi di Sterminio, l'ebraismo sarebbe morto. Così è stato dopo la distruzione del Tempio nel 70 d.C. e anche nel XIII secolo, uno dei periodi peggiori della storia ebraica; così attraverso tutti i roghi, i pogrom, le cacciate, e poi la Shoah. Un popolo, una religione da ciascuno praticata a suo modo fra reciproche proteste e insulti. Dopo il ritorno in Francia nel 1360 solo dedicandosi al compito laico di rimettere insieme la comunità Rabbi Mattathia ben Jossef è riuscito a ricostruire il tessuto slabbrato dalla pestilenza con la conseguente ondata di antisemitismo. La comunità era laica, la religione ebraica. Gli ebrei religiosi e laici sono sempre stati indispensabili gli uni agli altri nella tessitura di quello che non si capisce quando le differenze si leggono alla rovescia: per gli ebrei le differenze sono la ricchezza che li ha aiutati a pensare e anche a vincere le guerre. Così è la mappa delle culture dei paesi democratici: un mosaico.
  L'Economist si avventura fino ai saggi consigli condivisi dal resto della stampa liberal: liberarsi di Netanyahu è il suo astuto obiettivo. «Il futuro è legato al sistema politico... in cui si disegni un riallineamento dei partiti che dia più forza alla maggioranza centrista ciò che richiede l'uscita di scena del divisivo mister Netanyahu». Ah, era così semplice? E allora perché dedicare a Israele tanto studio?
  La risposta purtroppo è nella interazione malata fra incontrollabile fastidio verso lo Stato degli ebrei, la sorpresa perdurante e stizzita per il suo incredibile successo, e la determinazione a ucciderne (politicamente) uno dei maggiori fautori. La delegittimazione di Israele va con quella di Netanyahu. Ma l'attacco cieco distrugge tutta la vera possibilità dell'osservazione critica effettiva sulla situazione mediorientale. Possibile che si sia così distratti da non capire che i Palestinesi sono i primi fautori del loro destino, e che Israele ha sempre cercato la pace, anche se una pace sicura, ovviamente? Meglio ricordare che ad ogni vigilia di guerra i Paesi arabi mentre si coalizzavano per battere lo Stato degli ebrei lo dichiaravano già finito, a pezzi, un mosaico insensato. E poi... Non è mai andata così.

(il Giornale, 9 maggio 2023)

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Israele-Italia, l’ambasciatore Bar: I rapporti tra i due Paesi non sono mai stati così forti

Dopo il vertice dello scorso marzo, in cui il primo ministro israeliano Benjamin Nethanyahu e il ministro delle Imprese e made in Italy Adolfo Urso hanno presentato i numeri dell’interscambio tra i due Paesi (che nel 2022 ha superato i 5 miliardi di euro) il rapporto di alleanza si consolida in occasione del 75° anniversario della nascita dello Stato d’Israele, in occasione del quale oggi, lunedì 8 maggio, si è tenuto a Roma un evento ospitato presso il Maxxi di Roma con l’ospitalità di Intesa Sanpaolo. Presenti il presidente della Knesset (parlamento di Gerusalemme), Amir Ohana, e il presidente del Senato, Ignazio La Russa. Di seguito il saluto dell’ambasciatore, Alon Bar.
  Dopo i saluti di rito, l’ambasciatore ha detto che «i rapporti tra Italia e Israele sono sempre stati ottimi, ma oggi sono migliori più che mai. Sia l’Italia che Israele si trovano di fronte a delle sfide. Sfide importanti, per la sicurezza -per esempio, nel contesto del Mediterraneo-, per l'ambiente e altro ancora».
  «Credo», ha aggiunto, «che affrontare in maniera congiunta queste sfide contribuirà a entrambi i Paesi e migliorerà la nostra capacità di gestire queste cose, a beneficio di entrambi i popoli». Come ha detto il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, durante la sua recente visita a Roma, «le nostre relazioni stanno per fare un vero e proprio salto quantico».

• L’importanza della relazione
  «È mio compito», ha concluso l’ambasciatore, «agire assieme agli amici qui presenti stasera, per trasformare in realtà il desiderio dei nostri due primi ministri e dei nostri due popoli. A tutti voi che siete qui oggi, a festeggiare assieme a noi questa importante ricorrenza: grazie di cuore, per la vostra presenza, per la vostra amicizia. Oggi e sempre: fa davvero bene al cuore vedervi qui con noi. A nome mio e a nome dello Stato di Israele, todà rabbà! Grazie!»
  I due Paesi, come emerso dal vertice tra Netanyahu e Urso, cooperano soprattutto nei campi in cui la tecnologia è la chiave per creare il mondo del futuro: sanità, energia, mobilità sostenibile, sicurezza alimentare, difesa cyber e tradizionale.

• Le parole di Ignazio La Russa
  «Mi rivolgo all'ambasciatore carissimo e al mio caro amico Amir. Ho avuto il piacere di essere ospitato da lui alla Knesset e con molto orgoglio l'ho ricevuto al Senato per celebrare i 75 anni della nascita di Israele e del Senato italiano. Ci lega l'affetto non solo come nazioni, ma anche come uomini e donne», ha detto il presidente del Senato, Ignazio La Russa.
«Tutta l'Europa», ha concluso, «deve molto alla cultura cristiano-giudaica. Senza cultura giudaico-cristiana non ci sarebbe nessuna cultura europea e non dobbiamo mai dimenticarlo. Settantacinque anni fa era un momento doloroso per Italia e per Israele. Era la fine di una guerra, anche civile in Italia, ed era una momento ancora più doloroso per chi aveva subito la più immane delle persecuzioni. Ma tutti e due i popoli volevano costruire, costruire in pace e in amicizia». (riproduzione riservata)

(Milano Finanza, 9 maggio 2023)

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Israele vuole solo la pace o di più?

La coalizione di governo, che è considerata il governo più di destra di tutti i tempi in Israele, non sta facendo molto di più dei governi di sinistra.

di Aviel Schneider

GERUSALEMME - L'attuale coalizione di governo, che è considerata il governo più di destra di tutti i tempi in Israele, non sta facendo molto di più dei cosiddetti governi di sinistra. Silenzio e, di tanto in tanto, un rumore di fondo, tutto qui.
  I palestinesi trovano ogni volta una scusa per disturbare la nostra pace, sia a causa degli ebrei nella Piazza del Tempio durante il Ramadan sia, come l'altro giorno, a causa di un prigioniero palestinese che ha iniziato uno sciopero della fame ed è morto dopo 83 giorni. Per questo motivo, la Jihad islamica ha lanciato oltre 100 razzi contro Israele. Il regime di Hamas nella Striscia di Gaza mantiene un basso profilo per motivi politici e invia invece i suoi colleghi terroristi. Negli ultimi mesi si sono avuti alcuni sviluppi che non possono essere ignorati e che rafforzano questa tendenza. Come qualche giorno fa, quando il presidente iraniano Ebrahim Raisi è stato ricevuto a Damasco. L'ultimo era stato Ahmadinejad 13 anni prima.
  Chi sta attivamente dietro a tutto questo è l'Iran. Quest'ultimo vede il punto debole di Israele e lo attacca alternativamente sui suoi quattro fronti: Libano meridionale, Siria, Giudea e Samaria e Striscia di Gaza. Per questo motivo, Israele risponde su questi fronti, ma solo per riportare la calma. Questo sta danneggiando il deterrente di Israele, che è già molto debole. Anche se il prigioniero palestinese e terrorista jihadista Khader Adnan non fosse morto nella prigione israeliana, l'Iran, in collusione con Hamas o Hezbollah, avrebbe trovato un altro motivo per attaccare Israele.
  La mente araba pensa in termini di causa ed effetto. "Non vedono un Israele offensivo, attivo e astuto, e questa è la più grande falla di Israele nella nostra strategia di difesa", ha detto una volta l'esperto di Medio Oriente Zwi Yeheskeli. Se l'obiettivo è la calma, compriamo la calma per altre due settimane, ma non di più. Altri la chiamano "gestione del conflitto", un termine che da anni viene attribuito al capo del governo israeliano Benjamin Netanyahu. Invece di risolvere il problema, il conflitto viene gestito. Questo comporta calma ed escalation. Nella sua forma attuale, Israele è incapace di risolvere il conflitto con un intervento chirurgico.
  Gli attacchi di rappresaglia mirati di Israele a Gaza in seguito agli attacchi missilistici non aiutano la deterrenza di Israele. Come ho scritto più volte: Israele ha bisogno di un ripensamento, ma purtroppo perché ciò accada, deve accadere qualcosa di brutto nel Paese. Senza questo, nessuno nel governo e nell'establishment della sicurezza cambierà. È vero, su alcuni punti il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir ha assolutamente ragione nel dire che Israele deve diventare più duro. Ma il fatto è che nessuno prende sul serio chi "grida". A volte è necessario gridare meno e rispondere con tatto e saggezza per ottenere le cose.
  Solo quando il disco sarà cambiato a Gerusalemme ci sarà la possibilità di riacquistare un reale potere di deterrenza. Anche se non siamo soli in questo tipo di guerra, Israele rimarrà solo in caso di guerra totale. Non è tanto la politica di sicurezza di una coalizione di governo, quanto piuttosto lo stato maggiore, l'esercito di Israele, che teme un'invasione di Gaza.
  Ad esempio, il ministro israeliano della Cultura e dello Sport Miki Zohar ha detto che c'è solo una soluzione agli infiniti attacchi missilistici nel sud: riprendere Gaza. "La Striscia di Gaza deve essere liberata dal regime di Hamas e smilitarizzata. Dopodiché, la Striscia deve essere consegnata all'Autorità Palestinese", ha affermato. "Non c'è altra soluzione, lo capiamo tutti. La questione è a che punto lo faremo e se lo faremo in accordo con i dettami di Hamas o meno". Le sue parole hanno sorpreso molti nel Paese, poiché Zohar è uno dei ministri relativamente miti della coalizione. Ma anche lui ha detto quello che tutti capiamo. L'esercito, d'altra parte, prevede centinaia di soldati morti se Gaza sarà attaccata, e la maggioranza non vuole pagare questo prezzo. Quindi le cose continueranno come negli ultimi anni, indipendentemente da chi governerà il Paese, la sinistra o la destra.

(Israel heute, 8 maggio 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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L'Ue cancella il ricevimento per la giornata dell'Europa a causa della presenza del ministro Ben Gvir

L'evento diplomatico è stato annullato per la prevista presenza dell'esponente dell'estrema destra, per non lasciare spazio "a opinioni che contraddicono i valori europei". E lui attacca: "Una vergogna che Bruxelles mi tappi la bocca”.

di Rossella Tercatin

GERUSALEMME – La missione dell’Unione Europea in Israele ha deciso di cancellare il ricevimento previsto domani per celebrare la Giornata dell’Europa dopo la decisione del governo israeliano di farsi rappresentare dal Ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir, leader del partito di estrema destra Otzma Yehudit (“Potere ebraico”).
  “La delegazione dell'Ue in Israele non vede l'ora di celebrare la Giornata dell'Europa il 9 maggio, come ogni anno. Purtroppo, quest'anno abbiamo deciso di annullare il ricevimento diplomatico, perché non vogliamo offrire una piattaforma a qualcuno le cui opinioni contraddicono i valori rappresentati dall’Unione Europea”, è scritto nel comunicato, che ha poi specificato che l’evento organizzato per il grande pubblico avrà luogo come da programma.

• Come è nato l'incidente
  Le polemiche montavano già da diversi giorni. Come spiegato dal quotidiano israeliano Yediot Ahronoth, la scelta di inviare Ben Gvir all’evento non è stata deliberata ma piuttosto frutto di normale rotazione diplomatica tra i diversi dicasteri. Allo stesso tempo, una volta assegnato l’incarico solo lo stesso ministro può decidere di rinunciare, con Ben Gvir che però già ieri aveva messo in chiaro che non lo avrebbe fatto, creando grande imbarazzo tra i diplomatici Ue, colti di sorpresa dall’accaduto.

• Chi è Itamar Ben Gvir
  Con un passato di attivista di estrema destra, noto per le sue posizioni anti-arabe, Ben Gvir è noto tra le altre cose per essere stato un membro di Kach, organizzazione classificata come terrorista da Israele, Usa e Ue. Negli ultimi anni, Ben Gvir ha affermato di essersi “ammorbidito”, sostenendo per esempio di non avercela più con gli arabi in generale ma soltanto con coloro che non sono “leali allo Stato ebraico”. Dall’entrata in carica del governo a dicembre è stato comunque protagonista di vari episodi incendiari, come il sostegno espresso agli esponenti del gruppo ultrà razzista “La Familia”.
  "È una vergogna che l'Unione europea, che afferma di rappresentare i valori della democrazia e del multiculturalismo, si metta a tappar bocche", la reazione di Ben Gvir alla cancellazione dell’evento.
  L’episodio tra l’altro arriva solo pochi giorni dopo l’incontro tra il Ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen e l’Alto Rappresentante Ue per la Politica Estera Joseph Borrell, che era volto proprio a imprimere una svolta in senso positivo tra Gerusalemme e Bruxelles.
  Mentre dal punto di vista politico, questa è solo una delle matasse da sbrogliare per il premier Benjamin Netanyahu procurata da Ben Gvir. Da giorni infatti, Otzma Yehudit sta boicottando i lavori di parlamento e governo per protestare contro quella che ha definito “una risposta debole” alla crisi con Gaza della settimana scorsa, quando dalla Striscia sono stati sparati un centinaio di razzi contro il territorio israeliano (e Israele ha condotto diversi raid contro obiettivi legati ad Hamas e alla Jihad). Una decisione, quella di Ben Gvir, che ha suscitato le ire degli alleati di governo. Al momento invano.

(la Repubblica, 8 maggio 2023)

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Riprendono le trattative per il libero scambio tra Israele e Cina dopo tre anni

di David Fiorentini

Ponte tra Oriente e Occidente, Israele ricopre un ruolo fondamentale nel commercio mondiale, aprendo i mercati europei e statunitensi ai Paesi del Golfo e intrattenendo rapporti multimilionari con l’Estremo Oriente. In questa ottica, dopo circa tre anni di silenzio, sono ripartite le trattative con la Cina per sancire un accordo di libero scambio tra i due paesi. Lanciate nel 2016, l’ultimo incontro risale al 2019, da allora i funzionari dei rispettivi ministeri degli affari esteri hanno avanzato nuove proposte per semplificare le procedure doganali velocizzando tempi di trasporto e riducendone i costi.
   L’accordo potrebbe spalancare le porte alla tecnologia agricola israeliana, dato che alcune regioni cinesi sono state devastate dalla siccità e dalle ondate di calore. In cambio, le aziende automobilistiche cinesi potrebbero beneficiare di un abbattimento dei dazi sui veicoli esportati in Israele.
   La Cina è il secondo partner commerciale di Israele dopo gli Stati Uniti, con un volume di scambi dal valore di 24,45 miliardi di dollari, in crescita dell’11,6% rispetto lo scorso anno. In particolare, Israele esporta in Cina 4,68 miliardi di dollari di beni.
   Il primo accordo di libero scambio di Israele è stato firmato nel 1985 con gli Stati Uniti d’America. Da allora, Israele ha firmato 14 “free trade agreements” con 46 Paesi e blocchi economici come l’Unione Europea e il Mercosur. I più recenti sono quelli con la Corea del Sud nel 2021 con gli Emirati Arabi Uniti nel 2022.

(Bet Magazine Mosaico, 8 maggio 2023)

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La Giordania bombarda la Siria per i traffici di armi e droga

Il regime di Damasco, appena rientrato nella Lega Araba, continua a rifornire le milizie filo-iraniane

La Giordania bombarda la Siria per i traffici di armi e droga. La visita di Benjamin Netanyahu ad Amman del gennaio scorso, dove con il Re Abdullah II erano state affrontate importanti questioni regionali relative alla cooperazione strategica, economica e di sicurezza fra i due Stati, è servita a convincere il sovrano a riconsiderare la sua posizione in merito al regime di Damasco.
  Netanyahu aveva insistito sul ruolo destabilizzante che Iran e Siria ricoprivano in seno alla regione mediorientale con i continui trasporti illegali di armi e munizioni da Teheran al Golan e Damasco, in favore dei miliziani sciiti di Hezbollah e dei Pasdaran impegnati a sfidare Gerusalemme con il lancio di razzi e droni verso il territorio israeliano.
  Ma oltre a questo, la Siria continua a rifornire la Giordania con il traffico di droga per mano di Maraj al Ramatan, tratto in arresto dalle autorità siriane nello scorso dicembre e rilasciato il 20 aprile, noto per la sua collaborazione proprio con le milizie legate al partito sciita libanese filo-iraniano Hezbollah alle quali devolve parte dei proventi del traffico di stupefacenti.
  L’aviazione giordana è quindi intervenuta per stroncare il traffico di stupefacenti bombardando questa mattina un deposito controllato dai trafficanti al confine con la Siria, nel villaggio di al Sha’ab, uno snodo essenziale per la rotta degli stupefacenti contrabbandati verso Amman.
  Ad aggravare la situazione siriana vi è poi la posizione dell’Iran che ha facilitato gli attacchi contro le truppe Usa in Siria, sempre attraverso l’invio nel Paese di armi nascoste all’interno degli aiuti umanitari che sono confluiti nella regione dopo il catastrofico terremoto di febbraio. Le indiscrezioni sono trapelate dalle carte segrete del Pentagono pubblicate di recente dal Washington Post I documenti avrebbero rivelato le movimentazioni di Teheran che da lungo tempo contrabbanda attrezzature militari verso la Siria, sfruttando convogli di aiuti umanitari inviati in Siria organizzati dalla Forza Quds, in particolare armi, munizioni e droni.

• LA SIRIA RIENTRA NELLA LEGA ARABA
  Ma Damasco, forte dell’appoggio fondamentale del Qatar che ne ha perorato la causa, è riuscita nell’intento di rientrare, almeno in parte, nella Lega Araba dalla data di oggi. Le delegazioni di Damasco, sospese dalla Lega da 12 anni, verranno quindi reintegrate partecipando a tutte le riunioni sulle quali vigilerà una commissione di collegamento ministeriale composta da Giordania, Arabia Saudita, Iraq, Libano, Egitto e dal segretario generale della Lega. Il tutto al fine di raggiungere una soluzione globale alla crisi siriana che affronti tutte le sue conseguenze, con passi “concreti ed efficaci” secondo la metodologia del “passo dopo passo” e in linea con la risoluzione numero 2254 del Consiglio di sicurezza.  Nella dichiarazione della Commissione, le parti si sono impegnate a preservare la sovranità, l’integrità territoriale e la stabilità della Siria sulla base della Carta della Lega araba, e di continuare e intensificare gli sforzi volti a uscire dalla crisi.
  Il punto focale sarà quello del 19 maggio prossimo quando è previsto il vertice della Lega in Arabia Saudita

(ofcs.report, 8 maggio 2023)

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La Siria riammessa nella Lega Araba. Una vergogna per il mondo arabo

La Siria è stata riammessa alla Lega Araba 11 anni dopo la sua sospensione a causa della violenta repressione del governo delle proteste pro-democrazia nel 2011, che ha portato allo scoppio della guerra civile siriana.
  In una riunione dei ministri degli Esteri presso la sede della Lega Araba nella capitale egiziana Il Cairo, domenica (7 maggio), si è concordato di “riprendere la partecipazione delle delegazioni del governo della Repubblica Araba Siriana alle riunioni del Consiglio della Lega degli Stati Arabi”.
  Il segretario generale della Lega Araba Ahmed Aboul Gheit ha inoltre dichiarato ai giornalisti che il presidente siriano Bashar al-Assad potrebbe partecipare al prossimo vertice della Lega Araba in Arabia Saudita se invitato e se vorrà partecipare.

• La risoluzione del conflitto siriano è una “questione graduale”
  Nella dichiarazione rilasciata dopo il voto di riammissione della Siria, che secondo quanto riferito non è stato unanime, la Lega Araba ha affermato che la “risoluzione del conflitto siriano è una questione graduale”, di cui la riammissione della Siria al gruppo è solo un primo passo. La dichiarazione ha aggiunto che la Lega Araba sostiene l’integrità territoriale della Siria e il “ritiro di tutte le forze straniere” dal Paese.
  Da parte sua, il ministero degli Esteri siriano ha dichiarato di aver ricevuto la decisione della Lega “con grande attenzione” e ha chiesto “una maggiore unità e partnership araba”.
  Stati Uniti e Regno Unito hanno tuttavia criticato la mossa. Un portavoce del Dipartimento di Stato americano ha dichiarato che la Siria non meritava di essere reintegrata, ma ha aggiunto che gli Stati Uniti sostengono il desiderio della Lega Araba di risolvere la crisi siriana.
  Nel frattempo, il Ministro degli Affari Esteri, del Commonwealth e dello Sviluppo del Regno Unito, Lord Ahmad, ha dichiarato che il Regno Unito rimane “contrario all’impegno con il regime di Assad” e ha affermato che il Presidente Assad continua a “detenere, torturare e uccidere siriani innocenti”.

(Rights Reporter, 8 maggio 2023)

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Cosa si celebra a Lag Ba’omer?

di Donato Grosser

Nel Tamud babilonese (Yevamòt, 62b) è raccontato: “Disse r. Akivà: se uno ha studiato Torà da giovane, la studi anche da vecchio; se ha avuto discepoli da giovane, ne abbia anche da vecchio, come è detto: "Semina di mattina, ecc.". [Così fece r. Akivà sul quale è raccontato che] aveva dodicimila coppie di discepoli nel territorio da Gevat ad Antipatris [in Giudea], e morirono tutti in un breve periodo di tempo, perché non si trattavano con rispetto reciproco. E il mondo era senza Torà finché r. Akivà andò nel meridione a insegnare Torà ai maestri che si trovavano là. Questo secondo gruppo di discepoli era composto da r. Meir, r. Yehudà, r. Yosè, r. Shim’on e r. El’azar ben Shamua’. E questi furono coloro che risollevarono allora lo studio della Torà. Le dodicimila coppie di discepoli morirono nel periodo che va da Pèsach a Shavu’ot.
  R. Shlomò Zevin (Belarus, 1888-1978, Gerusalemme) in Ha-Mo’adìm Be-Halakhà (360) scrive che una delle prime fonti che indicano Lag Ba’omer (il 33esimo giorno da quando si inizia il conteggio dello ’omer) come giorno speciale è r. Menachem ben Meir detto Meiri (Perpignano, 1249-1315). Il Meiri nel suo commento Bet Ha-Bechirà al trattato Yevamòt, afferma che ha una tradizione ricevuta dai Gheonìm di Babilonia che Lag Ba’omer è il giorno nel quale i decessi dei discepoli di r. Akivà cessarono. Per questo motivo di Lag Ba’omer non si digiuna [né si dicono suppliche nelle tefillòt quotidiane].
  R. Tzidkiyà Anau di Roma (XIII sec. E.V.) nella sua opera halachica Shibbolè Ha-Lèket (cap. 235) scrive: “In alcuni luoghi vi è l’usanza di non tagliare i capelli da Pèsach fino a Lag Ba’omer e così pure di non andare a nozze perché in quei giorni morirono di un’epidemia i discepoli di r. Akivà.
   Nello Shulchàn ‘Arùkh (cap. 493) r. Yosef Caro (Toledo, 1488-1585, Safed) scrive: “Vi è l’usanza di non andare a nozze tra Pèsach e Shavu’ot fino a Lag Ba’omer perché in quel periodo morirono i discepoli di r. Akivà”. Viene menzionata anche l’usanza di non tagliare i capelli, ma nulla più. Non si parla affatto di eventi tenuti a Meron come avviene ai nostri giorni.
  Una delle prime fonti che citano Meròn come destinazione di Lag Ba’omer è il commento ‘Atèret Zekenìm allo Shulchàn ‘Arùkh (cap. 493), citato da r. Zevin . L’autore scrive che vi è un’usanza in Eretz Israel di andare accanto alle tombe di r. Shim’on bar Yochai e di suo figlio El’azar nel giorno di Lag Ba’omer. R. Chayìm Vital (Calabria, 1543-1620, Damasco) in Perì Etz Chayìm (Sha’ar Sefiràt Ha‘omer, cap. 7) scrisse che vide il suo maestro (R. Yitzchak Ashkenazi detto Arì Hakadòsh) che andò lì con moglie e famiglia e vi stette tre giorni.
  R. Zevin aggiunge che quando gruppi di persone iniziarono ad andare a Meron di Lag Ba’omer per celebrare l’anniversario della morte di R. Shim’on Bar Yochai e a visitare il luogo dove è sepolto, ci furono importanti autorità halakhiche che espressero le loro riserve. Tra questi vi fu l’autorevole r. Moshè Schreiber (Francoforte,1762-1839, Bratislava) che nella sua opera di responsi Chatàm Sofèr (Y.D., 233) scrisse che non era opportuno stabilire un mo’ed in un giorno nel quale non avvenne alcun miracolo e di cui non si parla nel Talmud. E le astensioni dal digiunare e dal fare discorsi funebri sono usanze per le quali non si sa l’origine. Un’altra fonte critica delle celebrazioni fatte a Meròn per Lag Ba’omer fu r. Yosef Shaul Nathansohn (Galizia, 1808-1875, Lwow) autore dell’opera di responsi Shoèl u-Meshìv. R. Nathanson scrisse che nel giorno della dipartita di un giusto è appropriato digiunare e non farne una festa. Nonostante le critiche vi furono anche autorità rabbiniche che giustificarono l’usanza di festeggiare Lag Ba’omer come giorno della dipartita di r. Shim’on Bar Yochai. L’autore dei responsi Shem Ariè scrisse che si fa festa a Lag Ba’Omer per celebrare il fatto che R. Shim’on Bar Yochai morì di morte naturale e i Romani non riuscirono mai a catturarlo. Al giorno d’oggi Lag Ba’omer a Meron è diventato per molti, specialmente per i chassidìm, un giorno di celebrazione.

(Shalom, 8 maggio 2023)

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“Cara Italia, per tornare ad avere figli, impara da Israele, pieno di bambini”

Sul Catholic Herald, uno scrittore cattolico riflette sulle ragioni culturali (e non economiche) della carestia demografica europea.

Ho avuto quattro figli nel corso degli anni, quindi sono stato in molti parchi giochi. Potrei scrivere un libro sui parchi giochi migliori e peggiori nel sud-est di Londra. Quello che ho notato da quando ho avuto il mio primo figlio 13 anni fa è che in questi giorni sono spesso l’unica madre al parco giochi. Quando ho avuto il mio primogenito, c’erano un sacco di mamme, papà e baby sitter con i loro piccoli che salivano gradini e si lanciavano giù dagli scivoli, ma ora di solito sono da sola”. Così Laura Persins sul Catholic Herald. “Può essere inquietante e mi ricorda il film ‘I figli degli uomini’. Quel film (basato sull’omonimo libro) contiene una scena di una scuola e di un cortile fatiscenti e abbandonati. Il film ritrae un mondo, una distopia, dopo che c’è stato un crollo della fertilità globale causato dall’impossibilità delle donne di avere figli per una ragione sconosciuta.
  L’Occidente non è stato colpito da una malattia improvvisa che ha causato l’infertilità totale e tutto il dolore che ne consegue. L’Occidente ha scelto liberamente un busto per bambini. Si prevede che 23 nazioni, tra cui Spagna e Giappone, vedranno la loro popolazione dimezzarsi entro il 2100. È risaputo che il Giappone, ad esempio, sta fissando un abisso senza figli. Il primo ministro giapponese Fumio Kishida ha recentemente affermato che il Giappone sarebbe “sull’orlo della disfunzione sociale” se la situazione attuale continua.
  L’ultimo shock è arrivato dall’Italia cattolica dove “le nascite sono scese a un nuovo minimo storico, sotto le 400.000 nel 2022”, secondo Reuters. Tutti i paesi europei sono uguali, dal sud cattolico ai paesi nordici liberali. Tutti i tassi di fertilità sono al di sotto del livello di sostituzione.
  Ma cosa sta causando questo calo dei tassi di natalità e può essere invertito? Alcuni dicono che fattori economici hanno causato il declino e che se ci fosse più sostegno per le famiglie, avrebbero più figli. Sebbene i fattori economici siano un problema, penso che sia più un cambiamento culturale. C’è stata una rivoluzione nel nostro sistema di valori e oggi l’Occidente non dà più valore ai bambini. Ad esempio, il Lussemburgo ha le politiche di assistenza all’infanzia più generose secondo uno studio di The Economist, ma ha ancora un tasso di fertilità di 1,38, classificandosi al terzo posto tra i paesi europei. Credo che non importa quanto denaro un governo dedichi alla bassa fertilità, è improbabile che causi cambiamenti a lungo termine. Le culture europee hanno iniziato a dare più valore all’individuo e meno alla famiglia.
  Per vedere il contrasto in questo approccio bisognerebbe andare in Israele, l’unico tipo di nazione occidentale che ha tassi di fertilità superiori a quelli di sostituzione. Non solo perché le famiglie ebree ultraortodosse hanno effettivamente cinque o sei figli, ma anche perché gli ebrei laici hanno lo stesso numero di figli che avevano gli europei negli anni ’60 e ’70. Il baby busto causerà problemi reali come pensioni non finanziate, assistenza sanitaria e ogni sorta di altri problemi economici. Ma il vero problema di avere meno figli è che senza figli oggi non ci saranno famiglie domani».

(ITALY24, 8 maggio 2023)

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Dalla Miriam di Israele alle Miriam dei Vangeli (1)

L’autore di “Miriam, un personaggio profetico” inizia con questo articolo un’altra serie di studi in cui collega la Miriam dell’A.T. all’insieme delle Marie del N.T., tra cui in particolare la madre di Gesù.

di Gabriele Monacis

I nomi di persona nella Bibbia racchiudono sempre in sé un significato. Si pensi a tutti quei nomi di persona che riportano il nome di Dio (יה o אל) alla fine o all’inizio del nome stesso, come Yehoshua – il nome di Giosuè in ebraico – o Elisha – il nome del profeta Eliseo. Questo significato intrinseco di un nome, a volte, può essere illuminante per comprendere come la trama del racconto biblico si evolve, come un dito che indica al lettore la direzione verso cui guardare mentre prosegue nella lettura.
  Si prenda ad esempio il nome Mosè, che significa “tratto dalle acque”, e si pensi a come il significato di questo nome ritrovi un senso, quasi un suo completamento, nel giorno in cui, proprio sotto la guida di Mosè, fu Dio a trarre il popolo di Israele dalle acque del mar Rosso, molti anni dopo il giorno in cui il piccolo Mosè fu tratto dalle acque del fiume Nilo per mano della figlia del faraone.
  Anche nel Nuovo Testamento, i nomi possono essere una vera e propria rivelazione di ciò che Dio farà attraverso quella persona. È il caso, ad esempio, di Gesù; al quale venne dato questo nome prima che nascesse. Perché, disse l’angelo a Maria sua madre, sarà Lui a salvare il suo popolo dai propri peccati.
  Ed è proprio sul nome Maria che qui ci si vuole soffermare; non tanto per il suo significato etimologico, non del tutto chiaro per altro, quanto per la sua alta frequenza nel Nuovo Testamento. Volendo infatti parlare di Maria dei Vangeli, la prima domanda da farsi sarebbe questa: sì, ma Maria quale?
  Infatti, non solo la madre di Gesù portava questo nome, ma anche Maria di Magdala, colei che per prima vide Gesù risorto; Maria di Betania, che insieme a sua sorella Marta e suo fratello Lazzaro, erano legati a Gesù da un legame di amicizia.
  Questo per citare le Marie che forse si ricordano più facilmente, ma non sono le uniche. C’è ancora Maria di Cleopa, che l’evangelista Giovanni riporta vicino a Gesù quando questi era sulla croce (Giovanni 19:25). Leggiamo anche di Maria madre di Giacomo e Giuseppe, che assistette alla sepoltura di Gesù, come raccontato dall’evangelista Marco (Marco 15:47). Potrebbe addirittura essercene ancora una, la sesta. Si tratta di una non meglio specificata “altra Maria” dall’evangelista Matteo (Matteo 27:61 e 28:1). Insieme a Maria Maddalena, questa “altra Maria” fu presente alla crocifissione di Gesù, per poi andare a vedere la tomba di Gesù il giorno dopo il sabato.
  Cinque diverse Marie nei Vangeli. Addirittura sei se si vuole considerare l’“altra Maria” come una Maria diversa da Maria di Cleopa o da Maria madre di Giacomo e Giuseppe. Un numero considerevole, davanti al quale viene da chiedersi: ma perché così tante Marie? C’è forse qualche significato implicito legato a questo nome così frequente?
  Il Nuovo Testamento è considerato Parola di Dio da chi scrive, allo stesso livello del resto della Bibbia scritta in ebraico. Pertanto, un numero relativamente alto di donne che portano lo stesso nome può essere considerato a tutti gli effetti un atto intenzionale da attribuire alla Parola di Dio, e non il frutto di una mera coincidenza legata all’omonimia del caso. E allora, trattandosi appunto di intenzionalità della Scrittura, verso quale direzione il lettore dall’occhio attento dovrebbe guardare?
  Una precisazione sull’origine del nome Maria può aiutare a rispondere a questa domanda. Il nome femminile ebraico che veniva dato alle bambine, evidentemente non era Maria, bensì Miriam. Maria è la traduzione in italiano della versione greca Mariam (Μαριαμ) che si trova nella traduzione dei Settanta dell’Antico Testamento per indicare Miriam, la sorella di Mosè. È verosimile che le famiglie in terra di Israele ai tempi di Gesù fossero solite dare nomi di origine ebraica ai propri figli; se, come per il caso di Miriam, questi nomi erano tratti dall’Antico Testamento.
  Ecco, dunque, un possibile collegamento che il Nuovo Testamento fa con l’Antico attraverso le storie delle diverse Miriam. Riporta il lettore all’omonimo personaggio dell’Antico Testamento, la sorella di Mosè. Attraverso questo nome comune a molte Miriam e tramite il ruolo di rilievo di alcune di queste Miriam nella vita di Gesù, l’intera Sacra Scrittura – Antico e Nuovo Testamento insieme – intende costruire un ponte tra la Miriam dell’Antico e la Miriam del Nuovo Testamento.
  Oltre al nome in comune, queste donne del Nuovo Testamento hanno anche un ruolo narrativo che le accomuna: è attestato nei Vangeli che esse furono testimoni oculari della morte, della sepoltura e della risurrezione di Gesù. Fatta eccezione per Maria di Betania, non menzionata negli ultimi frangenti della vita di Gesù, di tutte le altre Miriam è esplicitamente detto che erano presenti ad almeno uno degli eventi cruciali della sua vita sulla terra: quando morì, quando fu sepolto e quando risuscitò. La madre di Gesù, presente ovviamente alla sua nascita, era con lui anche nel momento della sua morte in croce. Maria di Magdala fu addirittura presente a tutti questi tre eventi cruciali.
  Perché questa alta frequenza di Miriam presenti nei momenti chiave della vita del Messia è alquanto significativa? Per spiegarlo, si immagini di costruire un personaggio femminile immaginario, anch’esso di nome Miriam, che raccolga tutte le esperienze reali, fisiche e spirituali, che hanno avuto le Miriam dei Vangeli. Ecco, una Miriam del genere, seppure ideale ma risultato dell’unione delle testimonianze oculari di donne reali, sarebbe stata con Gesù praticamente per tutta la sua vita, dalla sua nascita alla sua resurrezione, passando per svariati momenti di normale quotidianità. Per dirla con parole semplici, accanto a Gesù era frequente trovare almeno una Miriam.
  Un personaggio femminile del genere, con queste caratteristiche, potrebbe impersonificare molto bene il popolo di Israele stesso, il popolo che diede i natali al Messia, all’interno del quale egli crebbe e diventò uomo, popolo dal quale assorbì la lingua, le abitudini e la cultura. Popolo in mezzo al quale non solo visse, ma anche morì e risuscitò.
  Per il Nuovo Testamento, dunque, Miriam non è soltanto il nome ebraico della madre del Messia, o di altre donne che in qualche modo erano vicine a Gesù. Ma è anche un personaggio che rappresenterebbe molto bene il popolo di Israele, il popolo del Messia.
  Se questa affermazione potrebbe risultare esagerata, si consideri ciò che fa l’autore dell’Apocalisse, uno dei libri del Nuovo Testamento. L’evangelista Giovanni scrive così in Apocalisse 12:1-6

    1 Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle. 2 Era incinta e gridava per le doglie e il travaglio del parto. 3 Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso. [...] 4 Il drago si pose davanti alla donna che stava per partorire per divorare il bambino appena nato. 5 Essa partorì un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro, e il figlio fu subito rapito verso Dio e verso il suo trono. 6 La donna invece fuggì nel deserto, ove Dio le aveva preparato un rifugio perché vi fosse nutrita per milleduecentosessanta giorni.

I personaggi di questi versetti sono tre: una donna, evidentemente dall’alto valore simbolico visto che è vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle. Questa donna partorisce un maschio e poi scappa nel deserto. Suo figlio maschio è il secondo personaggio. Il terzo è il dragone, che vuole divorare questo figlio maschio appena nato. Questo figlio è senz’altro il Messia, in quanto è destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro. Quindi la donna che lo partorisce è la madre del Messia, che secondo il Nuovo Testamento è Miriam, la madre di Gesù. Questa donna è la stessa che fugge nel deserto per rifugiarsi ove Dio le aveva preparato un rifugio perché vi fosse nutrita per milleduecentosessanta giorni.
  Secondo molti commentatori del libro dell’Apocalisse, questa donna che trova rifugio nel deserto per un certo periodo rappresenta il popolo di Israele negli ultimi tempi. Giovanni, dunque, in modo del tutto naturale, afferma che la madre del Messia e il popolo del Messia sono la stessa persona. È dunque in linea con la Scrittura considerare Miriam come il personaggio che rappresenta meglio il popolo di Israele.
  Il rifugio preparato da Dio nel deserto per Israele, di cui si parla in Apocalisse 12:6, ci riporta a Geremia 31:2, un versetto già commentato (vedi il primo articolo di “Miriam, un personaggio profetico”, che parla delle promesse di Dio per il futuro di Israele.

    Così dice l'Eterno: «Il popolo scampato dalla spada ha trovato grazia nel deserto; io darò riposo a Israele».

Come già detto in quell'articolo, il profeta Geremia annuncia che Israele vedrà un nuovo esodo, come quello dall’Egitto. Ci sarà nuovamente una situazione in cui Israele scapperà dalla spada – come quella degli egiziani – e troverà rifugio nel deserto, dove Dio proteggerà Israele, come già successo ai tempi del primo esodo. Nel versetto 4 del capitolo 31, il profeta Geremia aggiunge delle promesse a Israele da parte del Signore.

    Io ti riedificherò e tu sarai riedificata, o vergine d'Israele. Sarai di nuovo adorna dei tuoi tamburelli e uscirai in mezzo alle danze di quelli che fanno festa

Come già notato nel primo articolo, è significativo che Geremia riporti alla mente dei suoi ascoltatori la storia dell’esodo; non solo con la promessa del rifugio nel deserto, ma anche tramite le parole “tamburelli” e “danze”, proprio le stesse che il libro dell’Esodo usa per raccontare di Miriam, sorella di Mosè, che si pose alla guida delle donne di Israele per guidarle nella lode al Signore. (vedi Esodo 15:20).
  Sembra proprio che il Nuovo Testamento, iniziando con il racconto di molte Miriam nei Vangeli e finendo con l’Apocalisse, voglia riprendere in mano un discorso rimasto in sospeso nell’Antico Testamento: quello del valore profetico del personaggio di Miriam. La testimonianza oculare delle diverse Miriam nei Vangeli e l’identificazione della madre del Messia con Israele nell’Apocalisse, spingono il lettore a porsi questa domanda: in che modo la Miriam del Nuovo Testamento è la continuazione della Miriam dell’Antico Testamento? In quali termini l’una è l’adempimento del valore profetico dell’altra?
  Proveremo a rispondere a questa domanda nelle prossime occasioni.

(1. continua)
(Notizie su Israele, 7 maggio 2023)


 

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Legittimando l’estrema destra, Netanyahu ha messo in crisi la democrazia israeliana

Congelata la questione palestinese, per il disinteresse dei paesi arabi, il premier ha abbandonato il suo tradizionale liberalismo pur di salvarsi dai processi. Ma ha dovuto cedere peso elettorale e potere a partiti xenofobi e suprematisti ebraici altrimenti marginali, spaccando il Paese.

di Carlo Panella

Per la prima volta nella storia di Israele giovedì scorso l’estrema destra è scesa in piazza riuscendo a mobilitare decine e decine di migliaia di persone, secondo Le Monde addirittura duecentomila. Una manifestazione imponente, mai vista, di coloni e di simpatizzanti dei partiti di destra – ma mancavano i supporter dei partiti religiosi – ha avvolto la Knesset a Gerusalemme per chiedere a gran voce che riprenda subito l’iter delle riforme della giustizia che Bibi Netanyahu ha sospeso sotto la pressione di una immensa e contraria mobilitazione di piazza e nel paese dei laici e della sinistra.
  Si è avuta così un’immagine plastica, concreta, preoccupante del muro contro muro, della divisione profonda e partecipata dalle due parti che sta sconvolgendo la vita e l’immagine stessa del popolo in Israele.
  Di fatto è finita una lunga fase che – pur nel cambio di leader e di leadership ha visto Israele sviluppare una politica unitaria – tendente a allacciare legami con più Paesi arabi possibili (prima l’Egitto, poi la Giordania infine con gli Accordi di Abramo gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein, il Sudan e il Marocco) e di congelare di fatto la questione dei Territori occupati.
  Alle spalle e di fronte l’irresponsabile avventurismo della leadership palestinese, che nel 2000 a Taba con Yasser Arafat rifiuta la restituzione del novantacinque per cento delle zone d’occupazione per far partire subito dopo l’orrida e ovviamente perdente Intifada delle Stragi. Avventurismo palestinese irresponsabile duplicato nel 2005 quando Ariel Sharon restituisce senza condizioni la Striscia di Gaza e Hamas innesca una guerra civile con al-Fatah e la trasforma in uno sterile bunker lancia razzi invece che nel primo nucleo di uno Stato palestinese florido e in pace con Israele.
  Congelata la questione palestinese – nel pieno disinteresse del mondo arabo ormai teso soprattutto a fare affari con la un tempo odiata “Entità Sionista” – negli ultimi trent’anni Israele è cresciuto vorticosamente su sé stesso sul piano tecnologico, economico e militare. Si è illuso che fosse possibile, secondo la battuta di Ehud Barak, vivere con forza e gioia al riparo di un muro: al di là facciano quello che vogliono. Unico pericolo, l’atomica iraniana, ma lontano, e comunque contrastato da inaspettati alleati come i sauditi.
  Ma, a riprova che la Storia ama i percorsi tortuosi e le beffe, questo status quo di un Israele che aveva congelato la questione palestinese è stato interrotto da un banale procedimento penale che ha coinvolto un uomo, Bibi Netanyahu. Questi, dopo quattro elezioni perse nell’arco di due anni, ha evocato il Golem, e per vincere finalmente la Knesset e rendere inefficace un’eventuale condanna ha compiuto il gesto che nessun leader israeliano, neanche il più estremista di destra, aveva mai osato compiere: ha dato piena legittimità politica alla destra fascista e xenofoba, e ha portato al governo ceffi come Itamar Ben Gvir e Bezael Smotrich che si autoproclama “fascista”. Senza la legittimazione di Netanyahu, questi due personaggi e i loro minipartitini avrebbero continuato la loro vita grama e marginale di sempre, modello Casa Pound per intenderci.
  Ma ora, titolari di ministeri importanti e con più del dieci per cento dei voti complessivi alla Knesset, i leader dell’estrema destra fascista e parafascista hanno innescato un fenomeno eversivo che sta travolgendo lo stesso apprendista stregone Netanyahu: puntano direttamente all’annessione della Cisgiordania a Israele e considerano gli arabi, anche gli arabi israeliani, una feccia da estirpare. E non a parole: Bezael Smotrich ha tentato – fallendo per un pelo – di effettuare un sanguinoso pogrom contro il villaggio arabo di Huwara.
  Questa è la vera posta in gioco dietro la riforma della giustizia che il governo Netanyahu vuole imporre: togliere ogni autonomia alla magistratura per colonizzare senza più ostacoli la Cisgiordania e schiacciare con una repressione sanguinaria arabi israeliani e palestinesi.
  Di fatto, l’occupazione militare israeliana della Cisgiordania dal 1967 a oggi ha corrotto la democrazia di Israele, vi ha introdotto un virus di sopraffazione nei confronti degli arabi, un suprematismo ebraico da sempre marginali ma ora dotato di grande forza politica, amministrativa e di governo per colpa delle dissennate scelte di Netanyahu. Un virus suprematista paradossalmente rinvigorito da una inqualificabile dirigenza palestinese: da una parte la Anp di Abu Mazen capace solo di sviluppare corruzione spinta e inefficienza, e dall’altra una Hamas che vive nel mito irraggiungibile di distruggere Israele e intanto sviluppa un’economia di contrabbando, corruzione e traffici sotto il tallone di ferro della legge islamica.
  Contro questa deriva suprematista ebraica e i dissennati progetti del governo nei mesi scorsi, come si sa, si è levata una mobilitazione popolare così massiccia e una reazione dentro le Forze Armate che ha costretto Netanyahu a sospendere i progetti di riforma della giustizia. Una reazione tale e talmente compatta da aver fatto precipitare nei sondaggi i partiti della coalizione di governo da sessantaquattro a cinquantadue seggi. Ma ora alla piazza laica e democratica si contrappone una piazza suprematista e xenofoba. Una lacerazione e una tensione mai viste dentro Israele.
  L’apprendista stregone Netanyahu che ha abbandonato il suo tradizionale liberalismo pur di salvare sé stesso dai processi deve decidere a quale piazza dare ragione. Una scelta drammatica, forse esiziale per la stessa democrazia israeliana. Una scelta che può essere evitata solo da una manovra di Palazzo: un accordo di governo al ribasso tra il Likud, il Partito di Netanyahu e Unione Nazionale di Benny Gantz con conseguente espulsione dal potere dei partiti di Itamar Ben Gvir e di Bezael Smotrich. L’unica democrazia del Medio Oriente vive ore cruciali.

(LINKIESTA, 6 maggio 2023)

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Shai Cohen dirige l’ufficio di collegamento di Israele in Marocco -

L’Ambasciatore Shai Cohen faceva parte della delegazione che accompagnava il Ministro dell’Economia e dell’Industria israeliano, Nir Barkat, in visita in Marocco.
  L’ufficio di collegamento israeliano in Marocco ha annunciato la nomina di Shai Cohen a nuovo capo della missione diplomatica israeliana a Rabat. Questo è secondo un tweet pubblicato dall’ufficio mercoledì sera.
  Secondo l’ufficio, Shai Cohen faceva parte della delegazione che ha accompagnato il ministro israeliano dell’Economia e dell’Industria, Nir Barkat, che ha incontrato il suo omologo, Ryad Mezzour.
  La stessa fonte ha sottolineato che “le due parti hanno discusso del progetto di creare imprese economiche in Marocco e dei mezzi per rafforzare la cooperazione economica tra i due Paesi”. -
  Nir Barakat ha anche visitato, martedì, l’International Agricultural Show di Meknes, in Marocco. Va notato che non sono stati fatti commenti agli amici delle autorità marocchine su quanto menzionato nel tweet dell’ufficio di collegamento israeliano. -
  Lo scorso aprile, l’ufficio di collegamento israeliano in Marocco ha annunciato la fine della missione del suo capo, Alona Fisher, senza annunciare un successore. Fischer è subentrato all’ex capo ufficio David Govrin lo scorso settembre.
  Il 10 dicembre 2020, Israele e Marocco hanno annunciato la ripresa delle loro relazioni diplomatiche, dopo la loro sospensione nel 2000.

(DayFR Italian, 6 maggio 2023)

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Audizione a Montecitorio di Amir Ohana, Presidente Knesset

Martedì alle 14.15 in diretta webtv

Martedì 9 maggio, alle ore 14.15, presso la Sala del Mappamondo di Montecitorio, le Commissioni riunite Esteri di Camera e Senato svolgono l’audizione del Presidente della Knesset israeliana, Amir Ohana.
L’appuntamento sarà trasmesso in diretta webtv.

(Stampa Parlamento, 6 maggio 2023)

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Chi è Noa Kirel, la cantante che rappresenta Israele all'Eurovision Song Contest 2023

A soli 22 anni, ma con già una carriera musicale e da attrice avviata alle spalle, l'artista si esibisce nel corso della nona performance della prima serata della competizione

Noa Kirel
Attrice, popstar e giudice a Israel's Got Talent e Music School: Noa Kirel ha esordito con il singolo Medabrim a soli 14 anni e, ora che ne ha 22, è stata scelta dall'Israeli Public Broadcasting Corporation (Ipbc/Kan) come rappresentante di Eurovision Song Contest 2023. La cantante si esibisce durante la prima semifinale, che si terrà a Liverpool nella serata del 9 maggio e la sua sarà la nona performance della serata. Unicorn è il titolo del brano, scritto da Doron Medalie, May Sfadia, Noa Kirel e Yinon Yahel con musica a cura di Doron Medalie, May Sfadia, Noa Kirel e Yinon Yahel, che Noa Kirel eseguirà sul palco.Tra i riconoscimenti che sono stati conferiti nel corso della sua carriera, ricordiamo il Best Israeli Act e agli Mtv Europe Music Awards e si è esibita davanti a 35mila persone a Tel Aviv. Nonostante la giovane età, Kirel ha anche già fatto esperienza come conduttrice televisiva: nel 2017, infatti, a soli 16 anni, la cantante ha partecipato al programma Lipstar, in onda sul canale kidZ.

(zazoom, 6 maggio 2023)

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Safer to Wait: i bambini non devono correre rischi con le vaccinazioni per il Covid

La campagna Safer to Wait, lanciata nel 2021, è nata dalla seria preoccupazione che principi medici e scientifici consolidati – tra cui il consenso pienamente informato per i genitori, attente valutazioni rischio/beneficio, il principio di precauzione e l’immunità naturale – venissero abbandonati nel favore dell’applicazione generalizzata di un nuovo prodotto farmaceutico ai bambini. Un prodotto con dati sulla sicurezza a breve termine molto limitati e nulli a lungo termine.
  Il nostro obiettivo era fornire ai genitori i fatti medici che venivano ampiamente ignorati dal nostro governo, dai media e dagli organismi sanitari. Abbiamo esortato alla prudenza e apparentemente i genitori erano d’accordo con noi. L’assorbimento del vaccino Covid per i bambini nel Regno Unito è rimasto solo all’11% per i 5-11 anni. Safer to Wait rimane impegnato a proteggere la salute dei bambini. Per quanto riguarda i farmaci, le cure mediche e gli interventi, continueremo a valutare attentamente i dati, fornire informazioni equilibrate e considerare tutti i rischi e i benefici.
  Comprendiamo anche che l’assistenza sanitaria reale e sostenuta non arriva necessariamente in una siringa. Raccomandiamo di aiutare i bambini a esplorare altri modi per sostenere la loro salute e rafforzare la loro resilienza.
  I bambini NON devono correre rischi. Fino a quando l’OMS non affronterà le importanti preoccupazioni sopra delineate, il nostro messaggio rimane: è più sicuro aspettare.
  L’OMS afferma: “Dobbiamo agire ora per recuperare i milioni di bambini che hanno perso i vaccini durante la pandemia, ripristinare la copertura vaccinale essenziale almeno ai livelli del 2019 e rafforzare l’assistenza sanitaria di base per fornire l’immunizzazione”.
  Una sfida importante per l’OMS sarà sicuramente la perdita di fiducia negli organismi farmaceutici e sanitari dal 2020.
  Negli ultimi anni sono diventati evidenti molteplici conflitti di interesse all’interno degli organismi di regolamentazione che approvano i vaccini e delle ONG internazionali che guidano la politica sanitaria. Inoltre, sono sorti seri interrogativi sull’accuratezza e la trasparenza della comunicazione dei dati sui test sui vaccini, con miliardi di dollari in gioco per le aziende farmaceutiche coinvolte.
  Non sorprende quindi vedere un aumento della cosiddetta “esitazione vaccinale”. Mentre l’OMS, le Nazioni Unite e altri possono dare la colpa di ciò all ‘”aumento di informazioni fuorvianti”, a noi sembra la risposta ragionevole e razionale a quello che è un sistema ovviamente rotto e irrimediabilmente corrotto.

(Presskit, 6 maggio 2023)

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Israele contro Israele: come si risolverà lo scontro tra tribù?

di Anna Balestrieri

Il conflitto nel paese tra le quattro (e mezzo?) società che non comunicano tra loro, le tribù di Israele di Rivlin, si fa sempre più marcata ed evidente.  A questo tema è stato dedicato l’ultimo numero di Limes. Un’occasione di confronto nata dai 75 anni dell’indipendenza di Israele, in un incontro dell’Associazione Italia Israele di Milano e di Lech Lechà (già intervenuti all’evento del 9 dicembre sul post-elezioni in Israele, patrocinato dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.

Dopo una breve introduzione di Davide Assael, presidente di Lech Lechà la parola è passata a Lucio Caracciolo, direttore di Limes, che ha delineato un quadro geopolitico che vede il “graduale ma evidente disimpegno degli Stati Uniti dalla regione mediorientale”, con un progressivo avvicinamento tra Russia ed Emirati per assorbire l’impatto delle sanzioni antibelliche. L’ultimo numero della rivista mensile è dedicato ai diversi modi di leggere Israele e la storia delle sue tribù, dall’interessante analisi delle strutture scolastiche come primo stadio di separazione tra haredim, secolari, sionisti religiosi ed arabi/drusi al significato cruciale della riforma della giustizia, punto di rottura insanabile in uno stato egualitario e democratico così come Israele è concepito nella diaspora. La crisi per Caracciolo non è originata dalla contestazione della riforma, bensì dall’assenza di costituzione.
  Evocando la metafora di Danny Trom: «Lo Stato di Israele assomiglia a quel bambino in bicicletta che nel momento in cui si chiede come faccia a stare in equilibrio smette di pedalare, s’impanica e cade. Forse lo prevede, evita di pensare e continua a pedalare. Volta lo sguardo e smette di pensare ogni volta che è spinto a pensare che cosa stia facendo. L’assenza di costituzione, la predilezione per il bricolage e gli arrangiamenti provvisori in guisa di soluzione, la presupposta reversibilità di ogni iniziativa” sono la dimostrazione che probabilmente “Israele (r)esiste perché rifiuta di identificarsi e che lo sforzo di farlo potrebbe ucciderlo” (Limes 2023/3, 32). Questa sensazione di provvisorietà intrinseca al paese, è secondo Caracciolo, la magia e la tragedia di Israele.
  L’interpretazione del direttore di Limes, che sottolinea la radice ottomana di Israele, è stata apprezzata dal demografo Sergio Della Pergola, esperto analista politico. La voce dell’emerito della Hebrew University è giunta ai 200 partecipanti alla conferenza direttamente da Gerusalemme, a pochi passi dalla Knesset, dove duecentomila manifestanti esprimevano il loro appoggio alla riforma, con interventi del ministro della Giustizia Levin e di Smotrich. La “destra piena” di Bibi è tuttavia tutt’altro che omogenea. I sondaggi evidenziano un movimento tettonico sia all’interno del Likud, sia nella fetta decisiva dell’elettorato composta dalla destra nazionale e costituzionale e dai sionisti religiosi orfani di Bennett. Le prove in vista per la maggioranza parlamentare che non è più maggioranza di strada non sono poche, prime fra tutte: un bilancio da approvare entro fine maggio e la riforma della legge sull’arruolamento per i giovani haredim, che richiede il diritto di prevalenza del parlamento sulla corte suprema, poiché la corte suprema subito l’annullerebbe.
  Della Pergola paragona le diverse figure che bramano potere alle cavallette delle makkot, le sciagure che colpirono gli ebrei nel deserto che ricordiamo nel seder di Pesach.  Il servo che diventa re, ricorderà Rav Michael Ascoli da Haifa, nella tradizione ebraica è fonte di governo ingiusto e sopraffattorio. Il problema non è quindi la riforma della Corte suprema, bensì quella del parlamento, a causa di uno sbilanciamento dei deputati per regione. E svela gli altarini: “Meno noto è il fatto che dietro la riforma si trovi un centro studi finanziato da circoli ultraconservatori e libertari americani, il Kohelet Policy Forum. I testi delle leggi proposte sono stati elaborati dai giuristi di Kohelet e poi adottati dai politici. Ma il Forum ha un programma più vasto che comprende fra l’altro la privatizzazione selvaggia dell’apparato dello Stato e una normativa più restrittiva nelle leggi che regolano l’immigrazione in Israele. La base teorica del Kohelet Policy Forum è interessante e preparata da persone competenti, accompagnata da un’aggressiva promozione con il supporto efficiente dei social media, ma fuorviante e settaria se analizzata attentamente. Di questa ingerenza il pubblico non è consapevole. In realtà la Corte suprema, di cui si vogliono ridurre i poteri, è stata finora un importante strumento di bilanciamento ed equilibrio di un sistema pieno di lacune legislative. La posta in gioco è alta. Si tratta, ricorda il professore, di “decidere se in Israele tutti i cittadini siano uguali di fronte alla legge: la maggioranza governativa di oggi risponde no a questa domanda”. Maggioranza che si propone come assoluta interprete dell’ebraismo, che in verità non impone affatto questo principio, bensì “proietta enormi valori di giustizia e di equità e di attenzione ai diritti delle persone e dei deboli” e non propugna “che gli uomini sono superiori alle donne, che gli ebrei sono superiori agli arabi, che gli straights sono superiori ai gay”. Ed è ancor più indegno che a farci la morale siano personaggi come Ben Gvir, che è andato ad offendere la memoria dei caduti ai cimiteri militari in occasione di Yom ha Zikaron pur non avendo mai fatto il servizio militare.
  Nel saluto della comunità ebraica di Milano di Milo Hasbani (presidente della Comunità ebraica di Milano), si è confermata la crisi di fiducia in Netanyahu nella diaspora. “Se Israele è stato ebraico deve capire anche cosa vogliono gli ebrei”, ha ricordato Della Pergola.
  La chiosa di rav  Ascoli è sprone al superamento dell’incapacità dialettica tra le tribù. La protesta alla riforma lo ha visto assistere a ragazzi dell’HaShomer Hatzair che applaudivano Lieberman, come a manifestazioni anti-riforma capeggiate dal rabbino capo della yeshiva di Gush Etzion. Difendere la democraticità e la laicità dello stato non è “di sinistra”.
  La Speranza nel presidente israeliano Isaac Herzog e nella prevalenza del buon senso è stata la cifra fondante dell’incontro.

(Bet Magazine Mosaico, 5 maggio 2023)

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Al Meis in mostra la storia di sinagoghe e cimiteri ebraici in Italia

di Jacqueline Sermoneta

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Allestita fino al 17 settembre 2023 negli spazi del Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah (MEIS), a Ferrara, la mostra “Case di vita. Sinagoghe e cimiteri in Italia”, a cura di Andrea Morpurgo e Amedeo Spagnoletto. L’esposizione si focalizza, in modo innovativo e originale, non solo sugli aspetti architettonici, rituali e sociali di sinagoghe e cimiteri ebraici, ma anche sul rapporto tra luoghi sacri e i cambiamenti avvenuti in Italia, in oltre due millenni di storia dell’ebraismo italiano.
  “Il nostro è un ritorno ad un tema molto caro per il museo: il concetto di casa – ha spiegato il Direttore e curatore Amedeo Spagnoletto – Le sinagoghe, infatti, non sono unicamente destinate alle preghiere ma sono vere e proprie case della comunità, mentre il titolo della mostra prende in considerazione il nome con cui vengono designati i cimiteri nel mondo ebraico, Battè Chaim, ossia Case di Vita. Questi due luoghi, pur con le loro differenze, custodiscono da millenni le esistenze, le storie, i percorsi identitari. A differenza delle dimore private, in questi spazi l’autorappresentazione passa dalla dimensione del singolo a quella comunitaria e, proprio per questo, nella concezione ebraica diviene eternamente viva”.
  Il percorso espositivo, grazie alla storia delle architetture, racconta i diversi momenti della presenza ebraica in Italia: “Affrontare il tema delle architetture ebraiche – sinagoghe e cimiteri – significa confrontarsi con spazi d’identità, in grado di restituirci un affascinante intreccio di racconti e memorie che è parte integrante e inscindibile della storia del nostro Paese”, ha detto il curatore Andrea Morpurgo.
  Progetti architettonici, oggetti familiari e documenti provenienti da archivi statali e comunità ebraiche permettono di ricostruire le tappe evolutive delle sinagoghe e dei cimiteri ebraici. Fra gli oggetti esposti, un mahazor (formulario di preghiere) della seconda metà del XV secolo dell’area emiliano-romagnola per la prima volta in mostra, l’Aron ha-Qodesh di Vercelli, armadio sacro per i rotoli della Torah, prodotto in area piemontese nel XVII secolo all'epoca dei ghetti. E ancora, dopo l’Unità d’Italia, i progetti per la costruzione di nuove monumentali sinagoghe nelle principali città italiane, fra cui la Mole Antonelliana, che doveva originariamente ospitare il tempio israelitico.
  Anche l’evoluzione dei cimiteri ebraici in Italia rappresenta una chiave di lettura nel rapporto che si era istaurato tra gli ebrei italiani e coloro che erano al potere nelle diverse epoche. Lo stesso rito di sepoltura ebraico destava interesse e curiosità: a tal proposito, in prestito dal Musèe du Louvre per la mostra, il dipinto del pittore Alessandro Magnasco un “Funerale ebraico” del 1720. Tra le opere anche una colonna funeraria di Yehudah Leon Briel del 1772 e un prezioso seggio ligneo rivestito in bronzo che il banchiere e senatore Ugo Pisa commissionò nel 1887 allo scultore Mario Quadrelli per il reparto Israelitico del Cimitero Monumentale di Milano.
  “Il nostro auspicio – dice il Presidente del MEIS Dario Disegni - è che attraverso questa mostra i visitatori possano riscoprire le città italiane sotto una nuova luce, apprezzare luoghi dalla bellezza ancora nascosta ai più, aprire nuove porte della conoscenza e ritrovare ancora una volta (e più vicino di quanto si creda!) un pezzo della propria storia”.
  Numerose iniziative, insieme alla mostra, coinvolgono la città di Ferrara. E' possibile, in via eccezionale, visitare le tre sinagoghe della città e il cimitero ebraico di via delle Vigne. All’interno del catalogo della mostra in italiano e in inglese, edito da Sagep, i contributi dei più importanti storici dell’architettura e dell’ebraismo.
  L’esposizione ha ricevuto la Medaglia del Presidente della Repubblica e gode del sostegno del Ministero della Cultura, degli Enti Partecipanti - Regione Emilia-Romagna, Comune di Ferrara e Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e dell’Ente Sostenitore Intesa Sanpaolo. È patrocinata dalla Fondazione per i Beni Culturali Ebraici in Italia e dalla Comunità Ebraica di Ferrara e realizzata con il contributo della Fondazione Guglielmo De Lévy, TPER, Hera, CoopAlleanza 3.0, AVIS e Fondazione Bottari Lattes.

(Shalom, 5 maggio 2023)

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Da Giorgio Ascarelli a Enrico Bassani, i presidenti ebrei che fecero il calcio

di Adam Smulevich

Scriveva Giuseppe Pacileo, decano dei giornalisti partenopei: “Dal lontano passato del calcio napoletano emerge una figura che ogni appassionato della maglia azzurra deve considerare indimenticabile: Giorgio Ascarelli. Egli non può essere altrimenti definito che un mito”.
  Sa infatti di mito “quel nome, molto più che non altri ancora più lontani nel tempo, per la dimensione e la compiutezza realizzata a pro del calcio napoletano in periodi di stupefacente brevità”. Mitico anche, aggiungeva il giornalista, “per quella sorta d’aureola del martirio che gli regalarono, sebbene postuma, l’anormalità idiota delle leggi razziali e la normalità ignobile dell’umana ingratitudine”. Era il suo modo per denunciare quanto quel nome, il nome del fondatore e primo presidente del Napoli, fosse stato dimenticato. Una “umana ingratitudine” che ha finito per dissipare nel ricordo ciò che questo grande imprenditore e filantropo ebreo aveva fatto per la collettività locale. Dotandola di una squadra di calcio, di uno stadio di proprietà e soprattutto di molte strutture sociali all’avanguardia.
  Napoli è in festa per il terzo scudetto, conquistato ufficialmente ieri sera anche se nell’aria già da mesi. Ed è un’impresa per la quale per primo gettò le basi proprio Ascarelli, fondando il nuovo club nell’estate del 1926 e proiettandolo fin da subito ad alti livelli. Era la sua ambizione, anche se non poté goderne più di tanto gli effetti vista l’improvvisa scomparsa, avvenuta nel marzo del ’30, all’età di 36 anni. Un lutto cittadino e un rimpianto che da Napoli abbracciò l’Italia intera. Non sul Mattino, ma sulla Gazzetta dello sport fu scritto: “Non è il dirigente che si commemora con la solita parola buona, con la lode mesta e accorata che è di prammatica. La figura di Ascarelli è così gigantesca, è così varia e notevole per i diversi aspetti ch’essa richiama alla memoria, che la penna si sente ora troppo impari al suo compito immenso e pare non sappia far altro che lasciar stridere sulla carta il dolore che è dentro”.
Video aggiunto da NsI
Si era nell’ottavo anno dell’Italia fascista. Otto anni dopo l’antisemitismo di Stato avrebbe cancellato tutto quello che Ascarelli aveva fatto nella sua breve ma intensa vita, relegandone la figura sempre più ai margini. Nella grande festa scudetto che si protrarrà inevitabilmente per settimane, l’occasione per fare memoria di questa straordinaria personalità. E di una stagione non solo sportiva che vide numerosi dirigenti ebrei “fare” la storia del calcio italiano.
  Contemporaneo di Ascarelli era Renato Sacerdoti, tra i fondatori della Roma e suo secondo presidente. In politica la pensavano diversamente: simpatizzante del socialismo Ascarelli, pienamente a suo agio con la camicia nera Sacerdoti. Ciò, oltre a una precedente conversione al cristianesimo, non lo mise però in salvo dalle leggi razziste che colpirono anche lui e i suoi cari. “La sua diabolica furberia, fondata sull’attitudine tipicamente ebraica a corrompere con il denaro le persone per spingerle a delinquere e ad addossarsi le responsabilità di delitti ai quali non avrebbero forse mai ricorso senza le circostanze che li hanno avvicinati all’odioso giudeo, è stata vinta dalla sagacia della polizia italiana” esulterà il Popolo d’Italia, l’organo del fascismo, annunciandone l’arresto negli stessi giorni in cui l’antisemitismo veniva istituzionalizzato da Mussolini e dai suoi sodali. Seguiranno mesi travagliati, una condanna al confino, il ritorno nella capitale dopo il crollo del regime, la necessità di nascondersi dopo l’occupazione nazista di Roma. Fino al ritorno nel mondo del calcio, che vide come una personale rivincita rispetto a chi l’aveva costretto a farsi da parte. Cantava la curva della Roma, nel mitico inno Campo Testaccio (l’impianto dei primi sogni e successi): “Semo giallorossi e lo sapranno tutti l’avversari de st’artranno. Fin che Sacerdoti ce stà accanto, porteremo sempre er vanto, Roma nostra brillerà”. Una strofa oggi rimossa, ma eloquente per cogliere il suo peso nelle vicende quasi centenarie del club. Di cui sarà di nuovo presidente negli anni Cinquanta, dotandolo tra gli altri del talento di un campione come Alcides Ghiggia. “Solo tre persone sono riuscite a zittire il Maracanã: Frank Sinatra, papa Giovanni Paolo II e io” raccontava il campione nato a Montevideo, gongolando al ricordo del “Maracanazo”. Quando, con un suo goal, aveva messo in ginocchio il Brasile nel Mondiale casalingo già dato per vinto.
  Da non dimenticare anche il nome di Raffaele Jaffe, di professione insegnante, che a inizio Novecento aveva fondato il Casale Football Club. Un’epoca pionieristica segnata dalla vittoria di un clamoroso scudetto da parte della squadra monferrina, negli stessi giorni in cui l’Europa sprofondava nel baratro di una guerra mondiale come conseguenza dell’attentato di Sarajevo. In quei giorni però a Casale si parlava soprattutto dell’impresa dei ragazzi di Jaffe, vittoriosi nella doppia finale contro la Lazio. E “ragazzi” non è un termine improprio, visto che l’ossatura dell’undici titolare era formata dagli studenti del Leardi in cui questo austero prof infiammatosi d’improvviso per l’arte pedatoria insegnava. Anche Jaffe, come Sacerdoti, si convertirà in seguito al cristianesimo. Ma i provvedimenti antisemiti del ’38 raggiungeranno anche lui, costringendolo alle dimissioni da preside dell’istituto Lanza. Arriveranno poi giorni ancora più duri: l’arresto per mano fascista, il trasferimento a Fossoli, la deportazione ad Auschwitz-Birkenau (da dove, ormai 67enne, non farà ritorno). La Fondazione Cdec di Milano conserva un suo epistolario. Decine sono le lettere alla moglie, cui in prossimità del trasferimento in lager chiederà: “Voglio che tu sia sempre la donna forte che ho conosciuto, che ho ammirato adorandola e che è stata per lunghi anni il faro luminoso della mia esistenza. Spera come spero io, e prega il cielo perché un giorno si possa ancora essere riuniti nella nostra casetta, angelo mio. Tu devi essere coraggiosa, anche al di là dei limiti delle tue forze”.
  Poco nota è la storia di Enrico Bassani, il padre di Giorgio, che fu presidente della Spal dal 1921 al 1924. Sotto la sua guida il sodalizio estense raggiunse il punto più alto della sua storia, la semifinale nel torneo 1921-22. In origine anche Bassani senior fu attratto dal fascismo, salvo poi discostarsene nettamente dopo il delitto Matteotti. L’ultimo anno, e forse non è un caso, della sua presidenza. Periodo di cui non sopravvivrà nessun cimelio, nella casa di famiglia spogliata di quasi ogni traccia antecedente la persecuzione. Solo un angelo di gesso (L’anzulon) accoglierà il ritorno dei Bassani nella loro proprietà.
  Molti altri ancora sono i segni ebraici nel calcio italiano degli albori. Nel solo Veneto, una delle regioni più ricche di storie, da menzionare è il contributo del preside del Regio Istituto Tecnico Giuseppe Orefice che fu tra quanti, nel 1902, diedero vita al Vicenza calcio. Un posto nella leggenda spetta senz’altro anche al barone Giorgio Treves De’ Bonfili, fondatore nel 1910 del Padova. E a Davide Fano, fondatore del Venezia, che nacque nel contesto della Trattoria Corte dell’Orso. Treves De’ Bonfili era quel che si suol dire un eclettico: primo presidente, primo allenatore e persino, all’occorrenza, anche calciatore.
  Un po’ più a Nord, nel primo dopoguerra, l’ebreo Leo Brunner affiderà la guida della Triestina a un giovane allenatore cresciuto nel rione di San Giacomo. Sarà l’artefice di un’impresa, la prima di tante, portando la squadra della città giuliana al secondo posto della graduatoria (seconda solo al Grande Torino). Il suo nome era Nereo Rocco, il “Paron”. Una carriera formidabile che prenderà il via proprio nel segno di quell’intuizione.

(moked, 5 maggio 2023)

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Allarme del ministro israeliano della Difesa: “L’Iran ha uranio per fabbricare cinque bombe nucleari”

"Il progresso iraniano e l'arricchimento al 90 per cento potrebbero provocare ulteriore tensione nella regione

L’Iran ha arricchito abbastanza uranio per creare cinque bombe nucleari. Lo ha detto il ministro della Difesa di Israele, Yoav Gallant, ad Atene all’omologo greco, Nikolaos Panagiotopoulos. “L’Iran non sarà soddisfatto da una sola bomba nucleare. Finora, l’Iran ha ottenuto materiale arricchito al 20 per cento e al 60 per cento per cinque bombe nucleari”, ha detto Gallant, aggiungendo: “Il progresso iraniano e l’arricchimento al 90 per cento sarebbero un grave errore da parte dell’Iran e potrebbero provocare ulteriore tensione nella regione”.Gallant ha ribadito che Israele non permetterà all’Iran di continuare i suoi tentativi di costruire una roccaforte in Siria.

(Agenzia Nova, 4 maggio 2023)

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La crisi dell’high-tech israeliano si aggrava con centinaia di licenziamenti in un solo giorno

“C’è una profonda crisi nell’high-tech israeliano, in parte dovuta alla crisi globale, ma in parte a ciò che sta accadendo nel Paese”, ha dichiarato Boaz Dinte, Managing General Partner del fondo VC Qumra Capital.

L’industria high-tech israeliana ha vissuto un'altra giornata difficile. Corning ha annunciato la chiusura del suo centro di sviluppo in Israele e il licenziamento di decine di dipendenti, l’azienda medtech israeliana Healthy.io, fondata dall’imprenditore Yonatan Adiri, ha licenziato circa 70 dipendenti, che rappresentano un terzo della sua forza lavoro, e il gigante dei giochi Unity, che ha acquisito IronSource nel 2021 per circa $4,4 miliardi di dollari, ha annunciato una terza tornata di licenziamenti, che comprende decine di dipendenti dell’azienda in Israele.
  Sebbene il ridimensionamento delle aziende faccia parte di un fenomeno mondiale, in Israele si aggiunge l’incertezza dovuta al potenziale colpo sulla riforma della giustizia che il governo sta cercando di legiferare. All’inizio di questa settimana, l’Israel Innovation Authority ha inviato un severo documento di posizione al Ministro della Scienza e dell’Innovazione, Ofir Akunis, in cui avverte che l’incertezza politica in Israele potrebbe causare gravi danni all’industria high-tech locale.
  Boaz Dinte, Managing General Partner del fondo di venture capital Qumra Capital, ha parlato relativamente agli ultimi licenziamenti e del contesto imprenditoriale. “Parlo con gli investitori negli Stati Uniti e parlano di una tendenza al risveglio”, ha detto. “Tutta la Silicon Valley è occupata in questi giorni da investimenti in aziende legate al mondo della ChatGPT e all’intero spazio che la circonda. In Israele c’è una stagnazione totale. C’è una profonda crisi nell’high-tech israeliano, in parte dovuta alla crisi globale, ma in parte a ciò che sta accadendo nel Paese”.
  La tendenza più preoccupante nel contesto dell’industria tecnologica locale è la chiusura dei centri di sviluppo. La chiusura del centro di Corning è la terza nelle ultime settimane. È stata preceduta dalla chiusura del centro di sviluppo del gigante dei giochi EA, che ha licenziato decine di dipendenti, e della società di archiviazione cloud Dropbox, che ha anch’essa licenziato decine di dipendenti. Inoltre, Amazon ha recentemente licenziato decine di dipendenti in Israele in seguito alla chiusura del progetto “Halo”, e anche Meta ha licenziato circa 100 dipendenti in Israele.
  La chiusura dei centri di ricerca e sviluppo fa parte di un fenomeno molto diffuso in tempi di crisi, poiché non sono significativi per le società madri. Nei tre casi – di EA, Dropbox e Corning – i tre centri impiegavano al massimo centinaia di dipendenti e non facevano parte delle loro attività principali. Il centro di sviluppo di Corning è uno dei più grandi e antichi in Israele ed è stato creato sulla base dell’azienda MobileAccess, che Corning Global ha acquistato nel 2011 per circa 180 milioni di dollari. Nell’ultimo anno l’azienda ha subito diversi licenziamenti, l’ultimo dei quali ha riguardato circa 100 lavoratori.
  Ora l’azienda, che ha una capitalizzazione di mercato di circa 26 miliardi di dollari, ha deciso di chiudere completamente il centro e di licenziare tutti i dipendenti.
  Oltre alla chiusura dei centri di sviluppo dei giganti internazionali, diverse aziende israeliane hanno segnalato licenziamenti significativi: Rapid, fondata dall’imprenditore Iddo Gino, ha licenziato metà dei suoi dipendenti la scorsa settimana, poco dopo aver annunciato la partenza di Gino, che sarà sostituito dal direttore finanziario. Anche l’azienda medtech israeliana Healthy.io, fondata dall’imprenditore Jonathan Adiri, ha annunciato il licenziamento di circa 70 dipendenti, che rappresentano un terzo dei suoi dipendenti, insieme all’annuncio del completamento di un round di raccolta fondi di 50 milioni di dollari.
  I licenziamenti fanno parte di un piano di lavoro volto a rendere l’azienda redditizia, condizione necessaria per il completamento del round di finanziamento. La difficoltà dell’azienda a raccogliere fondi riflette le sfide che devono affrontare molti imprenditori che cercano di raccogliere nuovi capitali, soprattutto nelle fasi di crescita. Itay Rand, partner del fondo di venture capital 10D, ha dichiarato: “Vediamo la paralisi ovunque. Nell’ultimo trimestre abbiamo avvertito la paralisi anche nei primi round. Ci rendiamo conto di quanto sia difficile ora raccogliere fondi come è stato fatto negli ultimi round. In molte aziende di questo tipo c’è stagnazione. La FOMO del mercato è passata e non c’è concorrenza per le operazioni”.
  Yonatan Sela, partner del fondo di venture capital Square Peg, non è dello stesso avviso. “Oggi ho firmato un nuovo accordo e un altro accordo di follow-up. Il ritmo è molto più lento per i fondi e per le aziende. Dal punto di vista delle aziende, ciò che è cambiato è la velocità dei round e il valore delle aziende. Il problema principale è nelle aziende nei round avanzati, a partire dalla Serie B, dove il mismatch con il 2021 è più acuto e dove ci sono molte aziende che, anche se hanno raggiunto gli obiettivi ambiziosi che si erano prefissate, non riescono a giustificare il valore, il che causa il rinvio della raccolta fondi o la ricerca di soluzioni creative per evitare una rivalutazione dell’azienda”.
  Dinte di Qumra sottolinea un altro problema che gli amministratori delegati delle aziende devono affrontare: “Hanno un altro compito in testa: il coinvolgimento nella protesta contro la riforma. Questo consuma energia. Inoltre, molte nuove società sono registrate all’estero, il che è un duro colpo”. Secondo l’avvocato Atir Jaffe, dello studio legale Pearl Cohen, oggi le aziende devono concentrarsi sulle vendite e sulla redditività e non cercare di massimizzare il valore dell’azienda: “Gli imprenditori che possono rimandare le assunzioni lo faranno”, ha osservato.

(Israele360°, 4 maggio 2023)

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Israele: svelato il sottomarino autonomo BlueWhale

La società statale israeliana Israel Aerospace Industries fa sapere che il sottomarino senza pilota ha già condotto migliaia di ore di operazioni sommerse e autonome

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La società statale israeliana Israel Aerospace Industries (Iai) ha annunciato oggi di aver sviluppato un nuovo grande veicolo subacqueo autonomo, un drone sottomarino soprannominato BlueWhale (Balena blu). Secondo Iai, il sottomarino senza pilota ha già condotto migliaia di ore di operazioni sommerse e autonome. L’azienda afferma che BlueWhale utilizza sistemi radar ed elettro-ottici per rilevare obiettivi marini e costieri. È inoltre dotato di capacità sonar per rilevare sottomarini con e senza equipaggio, nonché mappare le mine navali. Il sottomarino autonomo può svolgere una parte significativa delle operazioni di un sottomarino con equipaggio, per periodi di diverse settimane, a costi e manutenzione minimi, senza la necessità di operatori a bordo.
  Come i sottomarini con equipaggio, BlueWhale effettua la raccolta di informazioni segrete sopra la superficie del mare, può rilevare sottomarini, bersagli sottomarini e raccogliere informazioni acustiche, nonché cercare e rilevare mine navali sul fondo del mare. BlueWhale è dotato di un albero telescopico, come il periscopio di un sottomarino con equipaggio, alto diversi metri, su cui sono montati radar e sistemi elettro-ottici per il rilevamento di bersagli marini e costieri. Utilizzando un’antenna di comunicazione satellitare sull’albero, i dati raccolti possono essere trasferiti in tempo reale ai posti di comando, in qualsiasi parte del mondo, in mare o a terra. BlueWhale ha dei sensori per garantire il suo transito sicuro sott’acqua o vicino alla superficie.

(Agenzia Nova, 5 maggio 2023)

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Israele apre una nuova ambasciata in Turkmenistan. E inizia un avvicinamento con il Niger

di David Fiorentini

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Il treno degli Accordi di Abramo non si ferma più e aggiunge un nuovo vagone al convoglio. Seguendo il vento della distensione tra molti paesi a maggioranza islamica con Israele, il Ministro degli Affari Esteri israeliano Eli Cohen si è recato in visita in Turkmenistan per aprire la nuova ambasciata israeliana (a sinistra nella foto con il Ministero degli Esteri del Turkmenistan Berrdiniaz Matiev. Credits: Shlomi Amsalem/GPO).
  Situato in Asia Centrale, il paese ha una rilevanza particolarmente strategica vista la sua vicinanza con l’Iran. La nuova ambasciata infatti è situata a soli 16 chilometri dal confine iraniano e rimpiazzerà l’ambasciata temporanea aperta circa dieci anni fa.
  Nel corso degli anni, alti funzionari di Israele e Turkmenistan hanno scambiato varie visite istituzionali, firmando accordi di cooperazione principalmente nei settori del commercio e dell’energia, ma di recente anche in materia di salute e difesa informatica. Inoltre, Ishmael Khaldi, il primo ambasciatore beduino di Israele, ha già assunto il suo incarico nella capitale turkmena Ashgabat alcune settimane fa.

• GLI USA CERCANO DI AVVICINARE IL NIGER A ISRAELE
  Nel frattempo, da una parte all’altra del mondo, si registrano segnali molto promettenti anche in Niger, dove da poco il Segretario di Stato Anthony Blinken ha completato una visita ufficiale.
  Durante la sua permanenza l’alto funzionario americano ha parlato con il presidente Mohamed Bazoum invitandolo caldamente a prendere parte agli Accordi di Abramo, per un futuro di prosperità e avanzamento per il proprio paese.
  Successivamente, Blinken ha aggiornato Cohen sugli sviluppi di tale trattativa, in una teleconferenza a cui si è unito l’alto diplomatico nigerino Hassoumi Massaoudou. In tale sede, in ottica di una distensione delle relazioni bilaterali, Cohen ha suggerito di invitare il Niger al prossimo Negev Forum, di cui fanno parte Stati Uniti, Israele, Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco ed Egitto.
  Israele ha mantenuto relazioni diplomatiche non ufficiali con il Niger fin dagli anni ’60, ma sono state interrotte nel 1973 a seguito della Guerra dello Yom Kippur. I due paesi hanno rinnovato le relazioni di base solamente nel 1996, dopo la firma degli Accordi di Oslo tra Israele e l’OLP. Un disgelo durato però solo pochi anni, fino a quando il Niger ha nuovamente interrotto le comunicazioni ufficiali nel 2002, durante l’ondata di terrorismo palestinese passata alla Storia come Seconda Intifada.
  Tuttavia, il miglioramento dei legami diplomatici con l’Africa è diventato un punto focale della recente amministrazione del primo ministro Beniamin Netanyahu, avviando un vasto iter che finalmente sembra iniziare a dare i suoi frutti.
  Israele si sta inoltre impegnando per normalizzare i legami con Mauritania e Somalia.

(Bet Magazine Mosaico, 4 maggio 2023)

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Il Ministro Bernini e il Ministro israeliano Akunis alla Farnesina

Internazionalizzazione dei Centri di Ricerca Pnrr e collaborazione scientifica al centro dell’incontro

Il Ministro dell’Università e della Ricerca, Anna Maria Bernini, e il Ministro israeliano dell’Innovazione, Scienza e Tecnologia, Ofir Akunis, si sono incontrati oggi alla Farnesina. Il bilaterale si è concentrato sui temi della ricerca e, in particolare, sui cinque Centri Nazionali di Ricerca italiani creati grazie alle risorse del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, sull’ulteriore attuazione dell’Accordo di cooperazione industriale, scientifica e tecnologica tra Italia e Israele, sulla partecipazione di Israele ad Horizon Europe, sulla cooperazione nel settore idrico e dell’agri-tech e sulla candidatura italiana ad ospitare Einstein Telescope.
  Al termine del bilaterale i Ministri hanno incontrato i responsabili dei cinque Centri Nazionali di Ricerca. Hanno partecipato all’incontro il Direttore del Centro Nazionale per la Mobilità Sostenibile, Ing. Gianmarco Montanari, l’Amministratore unico del Centro Sviluppo di terapia genica e farmaci con tecnologia a RNA, Prof. Rosario Rizzuto, il Presidente dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e della Fondazione ICSC Centro Nazionale di Ricerca in High Performance Computing, Big Data and Quantum Computing, Prof. Antonio Zoccoli, il Rettore dell’Università degli Studi di Napoli Federico II e Presidente della Fondazione Agritech, Prof. Matteo Lorito, il Presidente del CNR e rappresentante del Centro Nazionale delle Ricerche e del National Biodiversity Future Centre, Prof. Maria Chiara Carrozza, ed il Presidente della Conferenza dei Rettori Italiani (Crui), Prof. Salvatore Cuzzocrea.
  Al Ministro Akunis sono state illustrate le caratteristiche, i progetti, le partnership e le potenzialità di ogni Centro, che a sua volta raccoglie Università, Enti e organismi pubblici e privati di ricerca e imprese. “L’incontro di oggi è stata un’occasione importantissima per la ricerca italiana. I cinque Centri Nazionali creati grazie al PNRR hanno tutte le carte in regola per rendere più competitivo e avanzato il sistema scientifico nazionale. Il nostro obiettivo è quello di farli crescere, anche nei rapporti con l’estero, e renderli sostenibili anche dopo il 2026. E sono certa che il processo di internazionalizzazione dei Centri Nazionali sarà fondamentale per il consolidamento delle relazioni scientifiche tra Italia e Israele”, dichiara il Ministro Bernini.
  I due Ministri hanno condiviso, quindi, l’obiettivo di stringere una forte cooperazione per sviluppare sinergie nell’ambito della ricerca scientifica e dell’innovazione, connettendo i cinque Centri italiani con Università e Centri di ricerca israeliani, non tralasciando le numerose ulteriori iniziative che stanno arricchendo sempre di più il panorama scientifico ed accademico italiano. Anche grazie alla collaborazione di partner come Israele, l’Italia lavora per dar vita ad un network di relazioni internazionali avanzate in cui la sostenibilità delle iniziative finanziate tramite le risorse del PNRR svolgerà un ruolo chiave ben oltre il 2026.
  “Israele e Italia, due grandi Paesi ricchi di storia e cultura, insieme avranno un futuro luminoso”, ha dichiarato il Ministro Akunis. “Le relazioni bilaterali, risalenti alla nascita di Israele 75 anni fa e da sempre eccellenti, sono ora più forti che mai. Non è un caso che l’Italia sia tra i primi Paesi che ho scelto di visitare dalla mia nomina a Ministro: considero la cooperazione bilaterale su scienza e innovazione estremamente importante e sono qui per approfondirla e ampliarla. In particolare, dobbiamo collaborare su progetti congiunti di ricerca nei settori watertech, agritech, bluetech, energia, big data, quantum computing, AI e spazio. Ed essendo Israele e Italia accomunati da condizioni ambientali simili, la nostra cooperazione deve mirare a rispondere alle sfide climatiche comuni”. Il Ministro Akunis ha invitato il Ministro Bernini a visitare Israele per far progredire la collaborazione tra i Ministeri, anche in vista del summit intergovernativo (G2G) che si terrà in Israele entro la fine dell’anno.  
  Infine, in merito alla questione delle infrastrutture, il Ministro Bernini ha aggiornato il Ministro Akunis sulla candidatura italiana a ospitare l’Einstein Telescope, per realizzare in Sardegna il più grande rilevatore di onde gravitazionali al mondo. Il progetto – la cui candidatura è supportata dal premio Nobel e premio Wolf per la fisica Giorgio Parisi – ha un potenziale straordinario per i settori della meccanica di precisione, metallurgia, sensoristica sismica e dell’intelligenza artificiale.

(Oggi Scuola, 4 maggio 2023)

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Uccisi i terroristi di Hamas che avevano sterminato una famiglia ebrea

Due palestinesi accusati di aver ucciso Lucy Dee e le sue figlie Maia e Rina in un attacco con armi da fuoco nella Valle del Giordano avvenuto il mese scorso sono stati uccisi dalle truppe israeliane giovedì mattina nella città cisgiordana di Nablus insieme a un terzo uomo armato, anch’esso palestinese.
  In una dichiarazione congiunta, l’agenzia di sicurezza Shin Bet, la Polizia e le Forze di Difesa Israeliane hanno affermato che le truppe sono entrate nella Città Vecchia di Nablus per arrestare Hassan Katnani e Ma’ad Masri, i terroristi di Hamas che avrebbero compiuto l’attacco mortale del 7 aprile.
  I membri dell’unità antiterrorismo d’élite Yamam della polizia hanno circondato la casa dove si pensava si nascondessero i due terroristi. Secondo i media palestinesi, le forze hanno sparato un missile a spalla, in una tattica nota come “pentola a pressione”, per stanare i sospetti ricercati. Alcuni resoconti hanno anche affermato che un drone in miniatura ha volato contro l’edificio.
  Secondo il comunicato intorno alla casa si sono verificati scontri armati e i due terroristi sono stati uccisi insieme a un altro uomo armato, Ibrahim Hura, che li aveva aiutati a nascondersi, ha dichiarato il comunicato.
  Le forze israeliane hanno anche sequestrato tre fucili d’assalto dall’interno della casa, ha aggiunto la dichiarazione.
  I media palestinesi hanno pubblicato un filmato di quelli che, secondo loro, erano tre corpi recuperati dalla casa. Il Ministero della Sanità dell’Autorità Palestinese ha confermato che tre uomini sono stati uccisi negli scontri.
  I tre membri della famiglia Dee avevano la doppia cittadinanza israelo-britannica e vivevano nell’insediamento cisgiordano di Efrat, a sud di Gerusalemme, dopo essersi trasferiti in Israele circa otto anni fa.
  Gli uomini armati palestinesi hanno aperto il fuoco contro l’auto delle vittime vicino all’insediamento di Hamra, nella Valle del Giordano settentrionale, mentre si stavano dirigendo a nord per un viaggio a Tiberiade il 7 aprile. Il veicolo si è schiantato sulla carreggiata dell’autostrada e i terroristi hanno sparato di nuovo contro l’auto a distanza ravvicinata. Le figlie, Maia di 20 anni e Rina di 15 anni, sono state dichiarate morte sul posto, mentre Lucy, 48 anni, è stata portata in ospedale in condizioni critiche ma è morta tre giorni dopo.

(Rights Reporter, 4 maggio 2023)


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Netanyahu, 'regolati i conti con gli assassini' della famiglia Dee

Premier, 'chi ci attacca paga un prezzo'

TEL AVIV - "Questa mattina abbiamo regolato i conti con gli assassini di Lucy, Maya e Rina Dee".
Lo ha detto il premier Benyamin Netanyahu aggiungendo: "il nostro messaggio a coloro che ci danneggiano, e a coloro che vogliono farci del male, è che ci voglia un giorno, una settimana o un mese, potete essere certi che regoleremo i conti con voi.
Non importa dove cerchi di nasconderti: ti troveremo. Chi ci attacca - ha concluso ringraziando le forze di sicurezza per la loro operazione a Nablus - ne pagherà il prezzo".

(ANSA, 4 maggio 2023)


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Le figlie di Lucy Dee ascoltano il battito della madre dalla paziente che ha ricevuto il suo cuore

di Luca Spizzichino

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Martedì scorso, in un momento estremamente toccante, Keren e Tali, figlie di Lucy Dee, hanno sentito il battito del cuore della madre nel petto di Lital Valenci, che da cinque anni soffriva di una grave insufficienza cardiaca.
  La famiglia di Lucy, la donna assassinata il mese scorso insieme a due delle sue figlie dal terrorismo palestinese, ha incontrato anche altri due pazienti che sono stati salvati grazie agli organi della signora Dee, che sono stati trapiantati prima della sepoltura.
  "Ero così commossa quando ho saputo da chi stavo ricevendo il cuore. Avevo letto di Lucy Dee e di che donna incredibile fosse” ha detto alla stampa Lital Valenci, madre di due figli.
  Anche Keren e Tali Dee hanno parlato di questa esperienza. "È stato commovente incontrare Lital e le altre persone. Abbiamo perso tanto, ma siamo confortati dal fatto che tante famiglie siano state salvate da un dolore simile", ha affermato. "Nessuno può capire com'è perdere una madre e due sorelle contemporaneamente, tuttavia sentire il battito del cuore di mia madre è stato confortante", ha aggiunto Tali.
  “Erano tutti commossi quando Keren e Tali hanno sentito il battito del cuore della loro madre”, ha ammesso il Prof. Dan Aravot, che ha eseguito il trapianto di cuore e ha supervisionato la guarigione di Valenci. “Parliamo spesso del recupero fisico dopo un trapianto, ma c'è sempre una componente emotiva che ne deriva. È stato molto importante per Lital incontrare la famiglia, condividere con loro le sue condoglianze e quanto sia grata di avere il dono della vita e vedere i suoi figli crescere grazie a Lucy Dee”.
  La famiglia anglo-israeliana ha incontrato anche Mordechi Elkabetz, 51 anni, che ha ricevuto uno dei reni di Lucy e Daniel Geresh, 25 anni, che ha ricevuto il suo fegato. Elkabetz aspettava da sette anni un trapianto di rene. Il quarto paziente, Ahmed Suliman, 38 anni, che ha ricevuto il secondo rene, non ha potuto partecipare alla riunione, ma ha comunque inviato una targa con versetti della Bibbia come tributo a Lucy Dee.

(Shalom, 4 maggio 2023)

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Europa e Israele: un rapporto complesso che rifugge da schematismi

di Giorgio Gomel

L’ articolo “Israele -Palestina: il cambio di paradigma che l’Unione europea continua a ignorare” condanna atti e atteggiamenti dell’Unione europea che giudica anacronistici rispetto al sostegno della soluzione “a due stati” del conflitto israelo-palestinese. Al di là delle disfunzioni e debolezze oggettive costitutive della politica estera della Ue e finora irrisolte – regola dell’unanimità, meccanismi complessi che inibiscono il passare dalla sfera delle dichiarazioni a quella dell’azione operativa, ecc. – trovo il ragionamento sotteso errato, tutto fondato su asserzioni apodittiche circa la natura “coloniale” di Israele o il suo nascere da un colonialismo d’insediamento.
  Molto vasta è la dottrina che informa tale tesi, ma la inficia il fatto che diversamente da altri casi del genere – Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda, il sionismo e la nascita 75 anni fa dello stato di Israele in quella terra – Eretz Israel o Palestina – non è il prodotto di coloni europei che lasciano le terre di origine esportando con sé nelle nuove cultura, lingua, interessi, protesi al sostituire o “convertire” gli indigeni, bensì di ebrei che fuggono dall’Europa con la sua storia infame di esclusioni e persecuzioni antisemite e rigettano quella Europa, la sua cultura, la sua lingua, il suo razzismo.

• Sionismo e identità nazionale palestinese
  Il conflitto che attanaglia i due popoli da oltre cent’anni contrappone due movimenti nazionali che rivendicano un diritto di autodeterminazione su uno stesso lembo di terra. Un embrione di identità nazionale palestinese si formò proprio negli anni Venti del secolo scorso poco dopo gli inizi dell’immigrazione ebraica. I due popoli sono accumunati anche dalle ironie della demografia: circa 7 milioni di ebrei e un analogo numero di arabo-palestinesi abitano il territorio compreso fra il mare Mediterraneo e il fiume Giordano.
  Il sionismo è stato il movimento di liberazione nazionale del popolo ebraico: gli ebrei si affermarono soprattutto nell’Est europeo come gruppo etnico, non più come comunità religiosa, anelante a fuggire dall’antisemitismo e a diventare una nazione “normale” dopo secoli di esilio e persecuzioni; ma quella terra era abitata da altre genti – arabi – , sudditi dell’impero ottomano e poi britannico, che col tempo e anche in virtù del confronto duro con il nazionalismo ebraico acquisirono una coscienza di nazione come palestinesi.
  Ai palestinesi il sionismo apparve come un movimento di stranieri colonizzatori cui bisognava resistere. Ancora oggi per la loro psicologia collettiva che ha vissuto l’insediamento degli ebrei in Palestina come un’ingiustizia è difficile accettare le conseguenze di questi eventi, cioè l’esistenza legittima dello Stato d’Israele. A molti di loro gli ebrei appaiono ancora come una realtà transeunte nella “umma” musulmana , o una comunità religiosa, non un popolo, cui riconoscere il diritto a un proprio stato. Tardivamente, almeno nelle istanze ufficiali, lo riconobbero, con gli accordi di Oslo del 1993.

• Un accordo difficile
  Certamente un’occupazione di 56 anni non è più un fatto temporaneo; non è più un elemento di trattativa, come negli anni successivi alla guerra del 1967 e fino agli accordi di Oslo del 1993, per uno scambio fra territori e pace. Sotto la pressione del movimento dei coloni e dei partiti di destra che lo sostengono l’espansione degli insediamenti, la confisca di terreni anche di soggetti privati palestinesi, rendono un futuro di due stati indipendenti e in rapporti di buon vicinato più difficile e la realtà emergente nei fatti di uno stato unico con diritti diseguali più vicina. Eppure la soluzione “a due stati” resta l’unica possibile, forse con correttivi di tipo confederale – su cui vi sono proposte solide in ambito sia accademico che politico -; detta soluzione esige la spartizione concordata di quella terra contesa.
  L’accordo dovrà riguardare lo “status finale” e comprendere: i confini fra i due stati, lo status di Gerusalemme, capitale fisicamente unita ma amministrativamente divisa dei due stati, il ritiro di 100-130 mila coloni dei 450 mila che abitano in Cisgiordania escludendo quindi quelli i cui insediamenti saranno oggetto di scambio di territori con lo stato di Palestina, il ritorno di una parte dei rifugiati palestinesi nel loro futuro stato tranne un numero limitato già negoziato nel 2000 a Camp David e Taba che potrebbe trasferirsi nello stato di Israele.
  La forza egemonica dei partiti di destra e lo spostamento profondo avvenuto nella società israeliana verso posizioni etno-nazionaliste sono anche una conseguenza nefasta della strada nichilista imboccata anni fa dai palestinesi: l’esplodere della violenza terroristica contro civili israeliani negli anni 2001-05; l’inutile guerra di guerriglia mossa da Hamas dalla striscia di Gaza, il rigetto da parte di Abu Mazen delle offerte positive del governo Olmert nei negoziati del 2008 che dischiuse la porta alla premiership di Netanyahu e da allora ai governi del Likud con i partiti religiosi con esso alleati.

• Status quo e prospettive
  Lo status quo non è tollerabile, come dimostrano le esplosioni ricorrenti di violenza e le stesse violenze inter-etniche scoppiate nel 2021 fra ebrei ed arabi cittadini di Israele. Soprattutto il ripetersi di una guerra distruttrice con Hamas nella striscia di Gaza, le aggressioni contro civili israeliani all’interno del paese o sulle strade Cisgiordane, la debolezza endemica dell’Autorità palestinese e l’emergere di formazioni palestinesi militarizzate ad essa opposte, dimostrano che il costo della non-pace è enorme e l’illusione che i palestinesi accettino il perdurare di un’occupazione umiliante è pericolosa per lo stesso Israele.
  Nel governo attuale l’ideologia dominante predica l’annessione in parte o toto della Cisgiordania. Non sono solo gli oltre 400 mila coloni negli insediamenti in Cisgiordania a rendere la soluzione “a due Stati” più difficile nei fatti; anche una vasta parte della società preferisce che i palestinesi restino “invisibili” dietro il muro di separazione.
  Secondo inchieste d’opinione appena poco più di un terzo degli israeliani sostiene convinto una soluzione “a due stati”, il 19% opta per uno stato unico, democratico ed egualitario, il 15% propugna l’annessione piena dei territori senza diritti politici per i palestinesi. In questa grande incertezza, la spinta dei governi israeliani è stata quella di mantenere lo status quo, senza un’annessione formale ma espandendo gli insediamenti e i loro residenti. L’impulso fattivo di Stati Uniti ed Ue dovrebbe essere invece quello di spingere la leadership israeliana verso la soluzione “a due stati”, con un programma di incentivi e sanzioni; gli stessi accordi di normalizzazione conclusi con gli Emirati e il Bahrein, oltre a facilitare l’integrazione di Israele nella regione, possono agire sull’opinione pubblica del paese al fine di spingerla in favore di una soluzione negoziata del conflitto.

(Affari Internazionali, 4 maggio 2023)
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Il tentativo di soluzione proposta dall'autore assomiglia agli storici tentativi di soluzione del problema della quadratura del cerchio. Senza ricorre allo "schematismo" indicato dalla Bibbia, il problema di Israele nella sua terra non si risolve. M.C.

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Stramezzi mostra in aula la guida di cura pre-Speranza 

“Il più grande scandalo dell'era moderna"

Tante delle cose che stanno emergendo, dalle chat #AIFA volte a non pubblicare i dati scomodi sui vaccini, alle terapie domiciliari ignorate per oltre due anni, hanno raggiunto gran parte della popolazione, ma meno certi palazzi in cui si decidono i destini di quest'ultima. L'#InternationalCovidSummit è in questo senso forse il primo precedente a #Bruxelles in cui c'è un vero confronto: a lavori iniziati parlano in aula medici e specialisti che all'improvviso si sono visti eretici agli occhi di molti. Due anni dopo, la dimostrazione che non lo sono mai stati c'è stata, ma ora la chiarezza su quanto accaduto in Italia tra il febbraio e il maggio 2020 deve essere fatta e divulgata.
  La conosceva, l'aveva vista forse davanti ai suoi occhi Andrea Stramezzi, quando nel bel mezzo del primo lockdown si era precipitato a salvare il papà di un amico. Supplicò la polizia di lasciarlo passare, "aiutatemi a salvargli la vita". Successe coi metodi di sempre, "o quello sarebbe stato il mio ultimo paziente Covid".
  Poi le offese e le prese in giro. Gli sproloqui e la gogna mediatica a favore di telecamera, che forse la consapevolezza in medici come #Stramezzi, l'hanno affinata.
  Così come certi documenti scomodi, perché dei frammenti di quei maledetti mesi sono rimasti. Ad esempio queste linee guida precedenti alle indicazioni del governo di qualche giorno. Le ha mostrate a Bruxelles Stramezzi stesso:

• E’ una cosa importante, dirimente
  Queste linee guida sono del 27 marzo 2020. Fatte dall'azienda sanitaria locale - quindi dall'ospedale - Papa Giovanni XXIII, il primo colpito in Italia, e quindi forse in Europa.
  Le linee guida pubblicate prevedono azitromicina e idrossiclorochina a casa. Poi, in caso di Covid serio, ricovero, magari cortisone ed enoxaparina. Sapevamo già tutto il 27 marzo 2020. Fino ad allora avevamo avuto solo 600 morti in Italia, degli altri 190mila morti la responsabilità è di chi ha ignorato le terapie precoci domiciliari e il plasma iperimmune del dottor De Donno. Questo sapendo che l'autorizzazione dei vaccini a mRNA sarebbe stata condizionata in emergenza al fatto che non esistessero le cure, altrimenti non avrebbero potuto autorizzarli. 
  Il più grande business della storia Occidentale, la più grande mistificazione che un giorno, presto o tardi, sarà considerato non solo il più grande scandalo dell'era moderna, ma il più grande genocidio del secolo, poiché oltre alle cure negate e la complicità dei media mainstream e delle riviste scientifiche, alcuni potenti hanno sfruttato la paura e causato perdite infinite. Questo pur sapendo che il Covid si cura con terapia domiciliare precoci, semplici e poco costose.
  I vaccini sono quindi inutili, esistendo le cure. I vaccini sono inefficaci. Non prevengono contagio e malattia, visto che tutti i virus a #RNA messaggero mutano continuamente, e lo sappiamo da sempre.
  I vaccini sono dannosi e i moltissimi casi di eventi avversi saranno la sfida della medicina dei prossimi anni. Questo #Parlamento Europeo, che ringrazio per l'invito, non potrà non tenerne conto, o la storia lo condannerà".

(Radio Radio TV, 3 maggio 2023)
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Dunque la diffusione dei "vaccini" a mRNA poteva essere autorizzata solo se non fosse emerso che contro il covid esistevano altre cure. La parola d'ordine data ai medici dunque suonava più o meno così: nessuno si azzardi a curare i malati fuori dai protocolli imposti perché se poi quelli guariscono non si può più dire che i vaccini sono indispensabili. Cosa inaccettabile per le multinazionali farmaceutiche venditrici di vaccini. E per contrastare i dubbi che potevano sorgere nella popolazione, il mezzo usato è classico: la paura. Chi per un motivo, chi per un altro, chi in una posizione, chi in un'altra, tutti, assolutamente tutti dovevano essere impauriti. Così molti sono letteralmente morti di paura, nel senso che è stata la forza di questa paura a impedire che tante morti fisiche e morali potessero avvenire senza destare indignazione. Qualcuno ha detto che si dovrebbe istituire un nuovo processo di Norimberga per consegnare alla giustizia i criminali responsabili. Ma il processo non si farà, perché come nel caso del nazismo i corresponsabili attivi e passivi sono troppi, quindi non si riuscirebbe a trovare sufficienti testimoni di accusa. In particolare, chi per paura del ridicolo o della gogna mediatica non ha osato dire a suo tempo la verità che già appariva chiara, oggi per paura dello stesso ridicolo che gira in senso inverso preferirà rinchiudersi in un indignitoso silenzio e confondersi tra la folla. M.C.

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È tregua tra Israele e terroristi palestinesi dopo ore di violenza

Israele e i gruppi terroristici di Gaza avrebbero concordato un cessate il fuoco mercoledì mattina all’alba, dopo una giornata di violenze scatenate dalla morte di un importante membro della Jihad islamica palestinese durante uno sciopero della fame in una prigione israeliana.
  Le due parti hanno concordato una tregua che è entrata in vigore prima dell’alba, secondo quanto riportato da diverse fonti che hanno citato fonti palestinesi.
  L’accordo è stato mediato da funzionari dell’Egitto, del Qatar e delle Nazioni Unite.
  Una sirena di allarme è suonata vicino alla comunità israeliana mebet magarridionale di Nir Am poco dopo l’inizio del cessate il fuoco. Non sono stati segnalati feriti o danni né è stata confermata l’esistenza di un lancio di razzi.
  Le Forze di Difesa Israeliane hanno dichiarato che, dopo una valutazione della situazione, hanno deciso che gli abitanti delle comunità confinanti con la Striscia possono tornare alle loro abitudini.
  Il Consiglio regionale di Eshkol, che confina con Gaza, ha annunciato che le scuole saranno aperte come di consueto.
  Il cessate il fuoco è stato annunciato circa 24 ore dopo che il Servizio carcerario israeliano ha annunciato la morte di Khader Adnan, del Jihad islamico palestinese, dopo uno sciopero della fame di 86 giorni.
  Adnan era stato arrestato con l’accusa di terrorismo ed era in detenzione in attesa di processo.
  Poco dopo l’annuncio della morte di Adnan, quattro razzi sono stati lanciati da Gaza, senza causare feriti. In risposta, i carri armati dell’IDF hanno colpito un posto di osservazione di Hamas vicino al confine.
  Martedì pomeriggio e sera, i terroristi di Gaza hanno lanciato altre decine di razzi e colpi di mortaio verso Israele. La maggior parte è stata intercettata dal sistema di difesa aerea Iron Dome, è atterrata in aree aperte o è caduta a terra all’interno di Gaza. Cinque hanno però colpito aree urbane nel sud di Israele, secondo la polizia.
  Uno dei razzi ha colpito un cantiere edile nella città di Sderot, ferendo gravemente un cittadino straniero di 25 anni e ferendone leggermente altri due, secondo il servizio di emergenza Magen David Adom.
  I tre, che presentavano ferite da schegge, sono stati portati al Barzilai Medical Center di Ashkelon. In un comunicato successivo, l’ospedale ha dichiarato che le condizioni del ferito grave sono migliorate e che le sue condizioni sono moderate.
  Una telecamera di sicurezza ha registrato un razzo che ha colpito un’area residenziale vicino ad Ashkelon.
  La cosiddetta “Sala operativa congiunta” di varie fazioni terroristiche palestinesi nella Striscia di Gaza si è assunta la responsabilità degli attacchi missilistici.
  In una dichiarazione di martedì pomeriggio, il collettivo, che comprende sia Hamas che la Jihad islamica, ha affermato che gli attacchi sono stati una risposta alla morte di Adnan.
  I gruppi terroristici hanno lanciato almeno 37 razzi contro Israele nel corso della giornata.
  A parte il fuoco dei carri armati nelle prime ore del mattino, l’IDF si è astenuto dal rispondere immediatamente al lancio di razzi.
  Il governo del Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha però subito forti pressioni per una rappresaglia, in gran parte provenienti dall’interno della sua stessa coalizione.
  Il tasso di approvazione del blocco di destra è diminuito da quando è tornato al potere quattro mesi fa, promettendo di ripristinare la sicurezza, solo per essere accolto da una serie prolungata di attacchi terroristici palestinesi mortali e da tensioni sulla sicurezza su altri fronti. Anche la spinta della coalizione a rivedere il sistema giudiziario è stata ampiamente impopolare, secondo i sondaggi, e ha provocato proteste massicce e prolungate in tutto il Paese.
  Martedì sera, l’aviazione israeliana ha iniziato ad effettuare attacchi aerei contro obiettivi terroristici di Hamas in risposta ai razzi.
  In un comunicato, l’IDF ha dichiarato che i jet dell’aviazione hanno preso di mira una serie di siti appartenenti al gruppo terroristico di Hamas.
  Gli obiettivi includevano un campo di addestramento di Hamas; un’altra base che ospitava un sito di produzione di armi, un impianto di produzione di cemento e un sito di addestramento; un sito per i commando navali del gruppo; e un tunnel usato da Hamas nel sud di Gaza.
  “L’attacco infligge un duro colpo alla capacità di Hamas di fortificarsi e armarsi”, ha dichiarato l’IDF.
  I media palestinesi hanno riferito che sono state udite esplosioni nel nord e nel centro di Gaza.
  Sempre secondo alcuni media palestinesi un uomo è stato gravemente ferito in un attacco aereo contro un sito appartenente ad Hamas. Le autorità di Hamas non hanno fornito alcuna conferma immediata.
  Qualche ora dopo, l’IDF ha annunciato un’altra serie di attacchi aerei contro obiettivi simili di Hamas a Gaza.
  Le sirene hanno continuato a suonare nelle comunità israeliane vicino al confine con Gaza fino alle prime ore dell’alba di mercoledì, fino a poco prima dell’annuncio del cessate il fuoco.
  L’IDF ha detto che stava indagando sugli allarmi. Non sono stati confermati lanci di razzi, né sono stati segnalati feriti o danni.

(Rights Reporter, 3 maggio 2023)

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Israele-Gaza, regge la tregua dopo i missili della notte

GERUSALEMME – Dopo una notte di fuoco, pare reggere la tregua raggiunta fra Israele e i gruppi armati palestinesi di Gaza, che ha visto oltre cento razzi lanciati dalla Striscia contro il territorio israeliano. Un’escalation che ha causato diversi feriti, tra cui un muratore straniero che lavorava in un cantiere nella cittadina di Sderot, con Israele che in risposta ha colpito diversi obiettivi militari nell’enclave, causando secondo il Ministero della Sanità di Gaza una vittima.

• LA MORTE DI KHADER ADNAN
  L’impennata nelle tensioni era cominciata ieri mattina, in seguito alla morte di Khader Adnan, il leader della Jihad Islamica deceduto in una prigione israeliana dopo 86 giorni di sciopero della fame. Adnan, 45 anni, originario della cittadina di Arrabeh vicino a Jenin era considerato colui che aveva trasformato lo sciopero della fame dei prigionieri i palestinesi in uno strumento di lotta contro Israele, digiunando nel 2012 per 66 giorni di fila – all’epoca il più lungo sciopero della fame mai registrato da parte di un prigioniero palestinese. Nel corso della sua carriera l’uomo era stato arrestato almeno una decina di volte dalle autorità israeliane, l’ultima a febbraio, accusato di appartenenza a un’organizzazione terrorista, supporto e incitamento al terrorismo.
  Finanziata per la maggior parte dall’Iran, la Jihad Islamica – classificata come organizzazione terrorista anche a Ue e Usa – ha la sua base principale a Gaza, ma registra una presenza forte anche in Cisgiordania. Dopo la morte di Adnan, Jihad e Hamas – che governa Gaza – hanno giurato vendetta, decidendo anche di coordinare le proprie mosse.

• I MISSILI NELLA NOTTE
  Secondo il portavoce dell’esercito Daniel Hagari, durante l’escalation il sistema di difesa aerea Iron Dome ha intercettato 24 dei razzi lanciati contro il territorio israeliano, pari al 90% degli attacchi diretti verso aree popolate, mentre altri 48 colpi sono finite in aree disabitate, 14 all’interno della Striscia, 11 in mare e altri sette sono caduti in luoghi non identificati. "Dobbiamo capire di più sul razzo che ha colpito il cantiere", ha detto Hagari.
  Dal canto suo, l’esercito israeliano ha centrato 16 obiettivi legati ad Hamas e alla Jihad Islamica, inclusi due campi di addestramento, una fabbrica di armi e un tunnel. “Abbiamo colpito tutto ciò che volevamo colpire,” ha sostenuto Hagari.

• IL CESSATE IL FUOCO
  Nel corso della notte, Israele e i gruppi di Gaza hanno poi concordato un cessate il fuoco mediato da Egitto, Qatar e Nazioni Unite, che è entrato in vigore alle quattro ore locali e, con l’eccezione di un ulteriore allarme antiaereo nel sud di Israele per un razzo lanciato verso le cinque e mezza, pare reggere.
  “Congratulazioni al popolo palestinese e alle forze di resistenza che sono state fedeli all'eredità di Khader Adnan”, ha commentato Hamas in una nota. “Le forze di resistenza non esiteranno ad adempiere al loro dovere in tutte le aree, con particolare attenzione a Gaza”.
  Gli analisti concordano che tanto Israele quanto i gruppi armati palestinesi avevano interesse ad assicurarsi che il conflitto si concludesse rapidamente, ma che allo stesso tempo la situazione rimane tesa e pronta a riaccendersi.
  In Israele, la notizia della tregua ha ricevuto aspre critiche all’interno della maggioranza di governo, con il leader del partito di estrema destra Otzma Yehudit (“Potere ebraico”) Itamar Ben Gvir – che ricopre anche il ruolo di Ministro della Sicurezza Nazionale – che ha annunciato che i suoi parlamentari oggi boicotteranno i lavori della Knesset per protestare contro la “debole risposta” contro Gaza. 

(Bet Magazine Mosaico, 3 maggio 2023)

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Israele, il partito del ministro Ben Gvir minaccia Netanyahu

“Risposta debole ai razzi da Gaza, boicottiamo ogni iniziativa alla Knesset”.

Tenere unite tutte le anime del nuovo governo israeliano guidato da Benjamin Netanyahu appariva una sfida tutt’altro che semplice fin dalla sua costituzione. In quattro mesi ci sono state le provocazioni, le dimostrazioni di forza e le dichiarazioni shock dei rappresentanti più estremisti alle quali il premier ha dovuto far fronte, nella maggior parte dei casi rifugiandosi nel silenzio. La morte in carcere di uno dei leader della Jihad Islamica, Khader Adnan, ha però dato il via a uno scontro interno al governo: la risposta di Tel Aviv ai razzi lanciati da Gaza, secondo il partito Otzma Yehudit, guidato dal ministro per la Sicurezza Nazionale, Itamar Ben-Gvir, sarebbe stata “troppo debole”. Così, come riporta il Jerusalem Post, la formazione ha annunciato il boicottaggio di tutte le iniziative governative alla Knesset.
  La reazione del Likud, il principale partito della coalizione guidato proprio da Netanyahu, è stata immediata: i deputati Ofir Katz e David Amsalem hanno detto a Ben-Gvir che la sua condotta è “inaccettabile”, come riporta Walla News. Il timore della formazione è che, mancando l’appoggio dei parlamentari di Otzma Yehudit, alcuni provvedimenti possano saltare: la formazione esprime infatti sei rappresentanti nel Parlamento israeliano e senza di essi la coalizione di governo ha una maggioranza risicata, 58 esponenti contro 56 delle opposizioni.
  A far scattare l’opposizione del partito ultranazionalista è stata la decisione delle Forze di Difesa israeliane (Idf), nella mattinata del 3 marzo, dopo una notte di allarmi e lanci di razzi dalla Striscia, di far riprendere normalmente le attività nelle comunità israeliane al confine con Gaza, comprese le scuole, senza che rimangano in vigore misure speciali di sicurezza. “La risposta lassista dell’Idf rimanda al prossimo round che danneggerà le vite dei nostri figli, dei residenti al confine con Gaza e del Sud che ha riposto in noi la sua fiducia”, ha tuonato il deputato Almog Cohen. Mentre il suo compagno di partito e anche lui membro della Knesset, Yizhak Kroyzer, ha chiesto a Israele di non restituire il corpo di Adnan all’Autorità nazionale palestinese fino a quando Tel Aviv non riceverà in cambio i corpi di Oron Shaul e Hadar Goldin, uccisi durante l’operazione Margine di protezione del 2014.
  Anche il sindaco di Sderot, Alon Davidi, ha criticato la risposta del governo: “La realtà è che il governo israeliano adotta una politica di concessione dell’immunità ai terroristi, una politica permissiva per la quale pagheremo un prezzo quest’estate. Hamas e la Jihad Islamica hanno fatto ciò che volevano, l’hanno fatto la scorsa settimana e continueranno in futuro. Questa è una politica fallimentare. I leader terroristi devono essere eliminati. Sembra che qualcuno abbia firmato un accordo sottobanco secondo cui l’Idf non li ucciderà”.
  Ad aumentare la preoccupazione dell’esecutivo anche il fatto che le proteste si levano non solo dal partito di Ben-Gvir. Un altro rappresentante delle formazioni al governo, Zvi Sukkot di Sionismo religioso, ha manifestato il proprio disappunto su Twitter: “L’equazione con Hamas non è stata ancora cambiata, la debolezza ha portato altra debolezza e quando il terrorismo dal Nord e nella Samaria settentrionale non riceve un duro colpo, quel messaggio arriva in tutti i settori. Eppure, questo è l’unico governo degli ultimi decenni che ha la possibilità di alterare radicalmente questa terribile equazione”.
  Adesso la questione torna di nuovo in mano a Benjamin Netanyahu. Il premier non può permettersi l’ennesima crisi di governo che lo esporrebbe, di nuovo, ai procedimenti giudiziari che lo riguardano. Così dovrà di nuovo trovare una mediazione, se non addirittura cedere di fronte alle pretese dell’ala più estremista del suo governo.

(il Fatto Quotidiano, 3 maggio 2023)

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Musica e vino in Sinagoga

Può il vino raccontare la storia di un popolo attraverso la musica? Beh, certamente l’alcool in molte culture è sempre stato una fonte di ispirazione (anche in senso letterale) delle migliori canzoni e, al contempo, ha caratterizzato la vita degli uomini, spesso interessando il loro rapporto col sacro, visto che il potere inebriante del vino ha la capacità di privare gli spiriti del freno della ragione per portarli in una dimensione più eterea.
  Nasce da queste premesse in “Vino very tanz”, in scena al Complesso Ebraico di Casale Monferrato domenica 7 maggio, alle ore 17.30. Uno spettacolo che è, allo stesso tempo, un concerto di canti e testi legati alla tradizione ebraica, ma arrangiati nello spirito della world music, e un viaggio enologico nella tradizione kasher, con tanto di degustazioni delle migliori etichette in commercio. 
  Rimanendo sulla parte musicale in Vicolo Salomone Olper ci saranno i musicisti del Progetto DAVKA di Maurizio Di Veroli, un gruppo di tradizioni e confessioni diverse, riuniti nella diffusione della cultura ebraica. Capace di eseguire una musica che veicola i valori di una tradizione che si perde nei secoli, ma anche di intrattenere in modo molto vivace, combinando melodie antiche, ritmi moderni e brevi spiegazioni in quelli che chiamiamo “viaggi virtuali nella tradizione” 
  “Ci piace molto la fusion”, dichiarano e, facendo un accostamento con il gusto, si può proprio dire che hanno trovato pane per i loro denti: in ogni parte del mondo la cucina ebraica mischia i prodotti locali con le regole della kasherùt e le proprie tradizioni. Ma c’è un elemento che una buona tavola ebraica non disdegna mai ed è la presenza di bevande alcoliche, soprattutto negli ambienti chassidici. I brindisi tra discorsi sulla Torà e studi mistici sono da sempre incentivati da un bicchiere. Non a caso la tavolata di studio si chiama Fahrbrengen (dall’Yiddish portare lontano). E il vino caratterizza tutta la vita ebraica, sia nei riti che nelle feste. Anche se, proprio per i costumi pagani ad esso legati, è sempre stato considerato una bevanda controversa e vista dai Maestri sia con rispetto che con sospetto. Nasce così l’esigenza di utilizzare solamente i vini kasher (permessi, adeguati) che solo dopo attento controllo e trattamento possono accompagnare l’ebreo nella sua quotidiana esperienza, spirituale e non.
  Il programma del concerto è una raccolta di brani delle varie tradizioni dell’ebraismo, tutte sul tema del vino. Questa deliziosa bevanda diventa così un comun denominatore, capace di narrare la propria indispensabile presenza in ogni aspetto della vita ebraica.
  Ingresso libero – per informazioni 0142 71807 www.casalebraica.org

((Il Monferrato, 3 maggio 2023)

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“Mercanti e stracciaioli nel Ghetto di Venezia”: la Serenissima e gli ebrei in una mostra di tessuti

di Michelle Zarfati

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Dal 2 maggio al 30 agosto in Campo di Ghetto Novo, si ripercorre la storia del più antico ghetto della storia grazie ad una nuova esposizione collocata nello spazio Ikona Gallery. La mostra, voluta dalla Comunità Ebraica di Venezia, è stata realizzata con il Museo Ebraico e con Opera Laboratori. Lo spazio espositivo getta uno sguardo sulla storia e sulla vita del ghetto di Venezia attraverso un viaggio nel tempo a ritroso verso la Repubblica Serenissima del 1516. La mostra è stata curata da Marcella Ansaldi, direttore del Museo Ebraico di Venezia e nasce per celebrare un importante restauro conservativo offerto da Opera Laboratori e realizzato dal Laboratorio di restauro tessile diretto da Carla Molin Pradel. “Con Opera Laboratori abbiamo avviato una collaborazione illuminata e preziosa che, con questa mostra di preziosi tessuti legati alla liturgia ebraica e ora restaurati nei loro laboratori fiorentini, presenta il primo frutto di un percorso culturale che porta a conoscenza del pubblico opere d’arte finora rimaste nascoste nei depositi museali” ha dichiarato Dario Calimani, presidente della Comunità ebraica di Venezia che ha inaugurato la mostra ieri assieme alla direttrice, allo staff di restauratori e a Beppe Costa presidente di Opera Laboratori. “Quando si pensa al Ghetto di Venezia e alla vita quotidiana che si svolge al suo interno, si stenta a immaginare il fervore artistico della città in pieno Rinascimento: Gentile e Giovanni Bellini, Carpaccio, Tiziano, Tintoretto, Veronese, solo per citare dei colossi, ritraggono scene della Torah e talvolta rappresentano gli ebrei, senza mai apparentemente incontrarli o conoscerli – ha aggiunto Marcella Ansaldi - Vittor Carpaccio quando ritrae Venezia e il suo splendore, pare estraneo all’operazione socio-economica, ma soprattutto umana, che la città sta vivendo in quegli anni: la fondazione del Ghetto”.
  Un racconto che si nutre di tutta la bellezza dei manufatti tessili, narrando proprio attraverso gli oggetti la storia del primo Ghetto della storia. Un mestiere, quello dell’artigiano, che affonda le sue radici nel 1400 quando, nel sestiere di Cannaregio, fiorirono attività artigianali, tra queste quella dei Testori da seda, cioè dei tessitori di sete. A metà del Settecento Venezia contava circa 795 tessitori, di cui l’84% vive nel sestiere di Cannaregio. Lo stesso stretto angusto Ghetto era chiuso da ogni lato da botteghe di Testori, i tessitori cristiani. E sebbene agli ebrei non era permesso tessere, molti di quelli artigiani ricevevano ordini dagli ebrei del Ghetto di Venezia. L’esposizione ripercorre le vicende dell’affascinante ghetto veneziano incrociando la ricercatezza dei tessuti preziosi esposti per la prima volta dopo un restauro unico nel suo genere.

(Shalom, 3 maggio 2023)

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I ‘bambini’ di Sciesopoli tornano a Selvino per onorare il luogo dove tornarono alla vita

L’evento del 2015 per i 70 anni di Sciesopoli
Come già accaduto nel 1983 e nel 2015, arriveranno nei prossimi giorni a Selvino alcuni degli ospiti di Sciesopoli (dal 1945 al 1948) e le famiglie dei bambini orfani ebrei scampati alla Shoah, che fra il 5 e il 9 di maggio parteciperanno ad attività ed eventi legati alla colonia in cui fra il 1945 e il 1948 furono ospitati 800 bambini scampati alla Shoah.
  Saranno circa 60 persone provenienti per la maggior parte da Israele ma anche da Gran Bretagna, USA e Canada; tra questi anche 5 persone che allora erano bambini (‘Bambini di Sciesopoli’): Moshe Aran, Zvi Pelts Dotan, Israel Droblas, Michael Weisbach e Nitza Sarner Zeiri.
  Nitza è la figlia di Moshe Zeiri, soldato della Brigata Ebraica che fu il direttore della colonia in quegli anni; all’età di 6 anni, insieme alla madre Yeudith raggiunse il padre e così conobbe molti dei bambini che passarono da quel luogo di rinascita.
  Moshe Aran è un ebreo nato nel 1931 che nel 1945 lasciò la Romania occupata dai russi per emigrare in Eretz Israel ed arrivò a Sciesopoli della quale ricorda soprattutto il corso di falegnameria perché, nei loro mesi di permanenza, tutti dovevano imparare un mestiere; la nave che lo portava in Palestina si arenò ad Haifa e lui rimase per 1 anno nel campo profughi di Cipro prima di raggiungere la Terra Promessa; in Israele è poi diventato pilota d’aereo e proprio nell’Aeronautica Militare ha conosciuto sua moglie. Moshe era una delle circa 80 persone che vennero a visitare Sciesopoli nel 1983.
  Zvi Pelts Dotan proviene da una città nel sudest della Polonia che durante la guerra venne prima occupata dai nazisti e poi dall’Armata Rossa; la sua famiglia venne deportata in Siberia dove visse in un lager fino al 1941 quando venne liberata per raggiungere il Kazakistan dove visse fino al termine della guerra; nel loro viaggio verso Israele passarono da Salisburgo e Milano; poi Zvi, con i fratelli Dov, Yitzhach e Yossi e la sorella Rivka, arrivò a Sciesopoli che gli apparve come un paradiso; di quel periodo si ricorda soprattutto il fatto di aver imparato a leggere e a scrivere in ebraico. È tornato a Selvino già nel giugno del 2018, insieme a figli e nipoti.
  Anche Israel Droblas proviene dalla Polonia; suo padre venne ucciso dai nazisti e lui, con fratelli e sorelle rimase nascosto presso alcune famiglie di contadini; alla fine della guerra con un gruppo di altri ragazzi attraversò a piedi le Alpi fino ad arrivare a Selvino; del suo soggiorno a Sciesopoli ricorda l’atteggiamento caloroso degli abitanti di Selvino ed il viaggio a Milano per vedere alla Scala “Aida” ed il giorno dopo “Carmen”.
  Michael Weisbach ha dei ricordi molto vaghi di Sciesopoli perché aveva solo 6 anni quando vi giunse; ricorda la neve, di aver mangiato delle arance provenienti dalla Palestina e di una piccola chiesa lì vicina; quando circa 13 anni fa sua figlia Keren lo convinse a tornare a Sciesopoli, ritrovò e riconobbe con grande emozione quella piccola chiesa.
  Il soggiorno in Italia durerà 5 giorni nei quali sono previste varie attività ed eventi: una visita a Bergamo Alta (sabato 6 maggio) per testimoniare il loro affetto verso questa città: nell’aprile del 2020 l’Associazione Children of Selvino (la cui presidente Miriam Bisk, figlia di 2 istruttori a Sciesopoli, sarà presente a Selvino durante l’incontro) ha donato circa 8.000 euro all’Ospedale Papa Giovanni XXIII; un’altra visita (lunedì 8 maggio) al Museo della Stampa di Soncino, dove venne stampata nell’aprile 1488 la prima Bibbia Ebraica completa.
  Gli avvenimenti principali avverranno però nella giornata di domenica 7 maggio: al mattino dapprima la visita al Mu.Me.SE, il Museo Memoriale di Sciesopoli Ebraica, inaugurato nel novembre del 2019 all’interno dell’edificio del Comune; quindi nella Sala Consigliare, il Comune di Selvino consegnerà ai 5 Bambini presenti la Cittadinanza Onoraria che venne conferita a tutti gli ex bambini nel gennaio 2021; al termine della cerimonia verrà presentato in anteprima il libro Aspettami e tornerò – Epistolario di Moshe Zeiri che contiene una parte delle numerose lettere che Moshe e sua moglie Yeudith si scrissero tra il 1943 e il 1946, prima appunto che lei lo raggiungesse a Selvino insieme a Nitza; le lettere sono state tradotte dall’ebraico in italiano da Chiara Camarda che già ne aveva tradotte alcune per il libro di Sergio Luzzato I bambini di Moshe.
Nel pomeriggio appuntamento a Sciesopoli che aprirà i cancelli a questi importanti ospiti che hanno un legame particolare ed unico con questo luogo; ci sarà la Montanara, il Corpo Musicale di Selvino, altri musicisti e i ragazzi dell’Hashomer Hatzair di Milano per festeggiare questo ritorno alla Casa di Sciesopoli.
  Martedì 8 invece alla mattina verranno piantati, nel Parco del Castello, 6 alberi dedicati ai 5 Bambini presenti e ad Anna Sternfeld Pavia, membra italiana dell’Associazione Children of Selvino, recentemente scomparsa e nipote di Mario Pavia, l’ingegnere ebreo di Torino che, insieme al collega Gualtiero Morpurgo, allestiva le navi che partivano dalla Liguria con destinazione la Terra Promessa. Nel pomeriggio, prima del ritorno nei luoghi di provenienza, è prevista invece una visita al Memoriale della Shoah di Milano.
  Da ricordare anche che durante i 5 giorni sarà possibile visitare, nell’atrio del Comune, la mostra “I disegni dei bambini di Terezin”, a cura dell’Associazione Figli della Shoah.

(Bet Magazine Mosaico, 2 maggio 2023)

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I2U2: Israele, India, USA e UAE ampliano le relazioni economiche con un nuovo memorandum

di David Fiorentini

Crescono e si fortificano i ponti tra l’Oriente e l’Occidente, sulla scia degli Accordi di Abramo e di altre fruttuose relazioni bilaterali, Israele, India, USA e Emirati Arabi Uniti approfondiscono i loro legami economici.
  Dopo aver creato il forum I2U2 nell’ottobre del 2021, i quattro paesi hanno intrapreso vari percorsi di cooperazione, in particolare in temi di acqua, energia, trasporti, spazio, salute e sicurezza alimentare. Proprio lo scorso febbraio, i delegati delle quattro nazioni si sono riuniti a Dubai per discutere di sicurezza alimentare, elaborando soluzioni per fronteggiare la crisi dovuta all’invasione russa dell’Ucraina.
  Adesso, il Business Council UAE-India, il Business Council UAE-Israele e il Business Council US-UAE hanno firmato un Memorandum of Understanding per approfondire la collaborazione tecnologica e del settore privato tra le quattro nazioni. I paesi hanno concordato di organizzare una serie di eventi in India, Israele, Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti con i principali funzionari governativi per attirare l’attenzione pubblica sull’iniziativa I2U2 e sensibilizzare maggiormente la comunità imprenditoriale sul suo potenziale.
  Il memorandum d’intesa è stato annunciato a Washington nel corso di un evento a cui hanno partecipato il sottosegretario di Stato americano Jose Fernandez, il vice capo missione indiano negli Stati Uniti Sripriya Ranganathan, il vice capo missione israeliano negli Stati Uniti Eliav Benjamin e l’ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti Yousef Al Otaiba.
  “Siamo lieti di partecipare a questa iniziativa importante e di vasta portata, che metterà in contatto la business community in modo da promuovere una cooperazione più forte tra i Governi degli Stati Uniti, degli Emirati Arabi Uniti, dell’India e di Israele”, ha dichiarato Dorian Barak, presidente del Business Council UAE-Israele. “Il commercio è la base più solida per un fruttuoso coinvolgimento con I2U2, che sta emergendo come un importante pilastro dell’integrazione economica regionale”.

(Bet Magazine Mosaico, 2 maggio 2023)

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Siria: attacco israeliano all’aeroporto di Aleppo, un morto e sette feriti

Già nella mattinata di sabato, 29 aprile, le Forze di difesa israeliane avevano scagliato missili contro un deposito di munizioni del movimento sciita libanese Hezbollah, all’interno dell’area dell’aeroporto militare di Al Dabah

E’ di un soldato siriano morto e di sette feriti, tra i quali due civili, il bilancio dell’attacco sferrato dalle Forze di difesa israeliane (Idf) attorno alle 22:35 di ieri, in prossimità di Aleppo, nel nord della Siria, che ha messo fuori uso l’aeroporto internazionale della città. Lo ha riferito l’agenzia di stampa siriana “Sana”. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani (Sohr), organizzazione non governativa con sede a Londra, ma con una fitta rete di contatti sul campo, l’attacco delle Idf ha preso di mira l’aeroporto internazionale e l’aeroporto militare di Aleppo, nel nord della Siria, e contro i laboratori della Difesa situati in prossimità di Al Safira, nelle campagne della città.
  Già nella mattinata di sabato, 29 aprile, le Idf avevano scagliato missili contro un deposito di munizioni del movimento sciita libanese Hezbollah, all’interno dell’area dell’aeroporto militare di Al Dabah, nelle campagne di Homs, nella Siria orientale. Il tentativo di reazione della contraerea siriana aveva quindi provocato l’incendio di una pompa di benzina nelle vicinanze. Quattro combattenti di Hezbollah erano rimasti feriti.

(Nova News, 2 maggio 2023)

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Israele: muore in prigione leader della Jihad Islamica. Razzi da Gaza

Quattro razzi sono stati lanciati da Gaza martedì mattina, mentre Israele si preparava a una potenziale escalation dopo che Khader Adnan – un alto leader del gruppo terroristico palestinese della Jihad islamica – è morto mentre era in custodia israeliana dopo uno sciopero della fame di 86 giorni.
  Le Forze di Difesa Israeliane hanno dichiarato che tre razzi lanciati intorno alle 6:30 hanno fatto scattare le sirene nella zona intorno al Kibbutz Sa’ad e sono atterrati in aree aperte.
  Non sono stati lanciati missili intercettatori Iron Dome e non sono stati segnalati feriti o danni.
  Poco dopo, un colpo di mortaio lanciato dalla Striscia è atterrato vicino alla barriera di sicurezza, ha dichiarato l’IDF. Non sono suonate sirene perché il proiettile era diretto verso un’area non popolata.
  Khader Adnan è stato trovato privo di sensi nella sua cella nella prigione di Nitzan, nella città centrale di Ramle, prima dell’alba di martedì. È stato portato al Centro medico Shamir, fuori Tel Aviv, e sottoposto a tentativi di rianimazione, ma è stato dichiarato morto in ospedale. A riferirlo è stato il servizio carcerario israeliano.
  L’establishment della difesa si sta preparando a una potenziale escalation di violenza sulla scia della morte di Adnan. Ci si aspettava inoltre che l’IDF risponda all’attacco missilistico.
  In una dichiarazione, la Jihad islamica palestinese ha avvertito che “l’occupazione pagherà il prezzo della morte di Adnan” e ha chiesto uno sciopero generale in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.
  “La sua morte sarà una lezione per le generazioni. Non abbandoneremo questa strada finché la Palestina rimarrà sotto occupazione”, ha dichiarato il gruppo terroristico.
  Il gruppo terroristico di Hamas, che controlla la Striscia di Gaza, ha dichiarato che “l’occupazione ha la piena responsabilità della morte di Khader Adnan”.
  Il portavoce di Hamas, Hazem Kassem, ha descritto la morte di Adnan dopo 86 giorni di sciopero della fame come una “esecuzione a sangue freddo da parte dei servizi di sicurezza israeliani” e ha avvertito di un’escalation.
  “Il popolo palestinese non lascerà passare sotto silenzio questo crimine e risponderà di conseguenza. Il percorso della rivoluzione e della resistenza si intensificherà”, ha affermato.
  Kassem ha anche criticato la comunità internazionale, affermando che “sta a guardare e non sostiene i prigionieri palestinesi, incoraggiando così l’occupazione a continuare i suoi crimini”.
  L’Autorità Palestinese ha chiesto un’indagine internazionale sulla morte del prigioniero e ha dichiarato che presenterà una denuncia alla Corte Penale Internazionale.
  Il primo ministro dell’Autorità Palestinese Mohammad Shtayyeh ha definito la morte di Adnan un “assassinio deliberato”.
  Adnan, 45 anni, è stato arrestato a febbraio nella sua città natale di Arrabeh, nel nord della Cisgiordania vicino a Jenin, per sospetta appartenenza a un gruppo terroristico, sostegno a un’organizzazione terroristica e incitamento alla violenza.
  Una fonte della sicurezza israeliana ha dichiarato che Adnan “non era un membro anziano, non era un leader e non stava scontando una condanna a vita”.
  “Ha iniziato uno sciopero della fame e si è rifiutato categoricamente di ricevere cure mediche, mettendo in pericolo la sua vita”, ha aggiunto la fonte.
  Adnan era stato incriminato ed era tenuto in custodia fino alla fine del procedimento legale contro di lui.
  Ha iniziato lo sciopero della fame subito dopo l’arresto, il 5 febbraio, rifiutandosi di sottoporsi a controlli medici o di ricevere cure durante la detenzione.
  Il trattamento e le condizioni dei detenuti per terrorismo, spesso indicati come prigionieri di sicurezza, sono un punto critico del conflitto israelo-palestinese.
  La settimana scorsa, la moglie di Adnan, Randa Mousa, ha dichiarato all’AFP che il prigioniero era detenuto nella clinica del carcere di Nitzan.
  “Rifiuta qualsiasi sostegno, rifiuta le visite mediche. È in una cella con condizioni di detenzione molto difficili”, ha detto. “Si sono rifiutati di trasferirlo in un ospedale civile e di permettere al suo avvocato di visitarlo”.
  Un medico del gruppo Physicians for Human Rights Israel ha visitato Adnan in prigione all’inizio di questa settimana e ha avvertito che “rischiava una morte imminente”, chiedendo che venisse “trasferito con urgenza in un ospedale”.
  Il gruppo ha dichiarato che Adnan “faticava a muoversi e a mantenere una conversazione di base, apparendo pallido, debole, esausto e pericolosamente emaciato”, secondo una dichiarazione rilasciata lunedì.
  L’ultima detenzione di Adnan è stata la sua decima nel sistema carcerario israeliano. I funzionari israeliani hanno dichiarato che è stato detenuto complessivamente 13 volte.
  Adnan è stato a lungo accusato di essere un portavoce della Jihad islamica e negli ultimi anni è stato arrestato più volte e ha scontato diverse pene detentive in relazione alle sue attività per il gruppo.
  Dopo il suo arresto, avvenuto il 5 febbraio, Adnan è stato incriminato per attività a favore della Jihad islamica. Per questo motivo, è stato trattenuto in attesa del processo. L’udienza era stata fissata per il 10 maggio.
  In precedenza, Adnan aveva iniziato quattro volte lo sciopero della fame per la sua detenzione, anche per un arresto avvenuto nel 2018. In quel caso, era stato condannato per essere stato un membro attivo del gruppo terroristico sostenuto dall’Iran, dopo essersi dichiarato colpevole in un patteggiamento.
  Nel 2012 ha iniziato uno sciopero della fame di 66 giorni per protestare contro un periodo di internamento.
  Nel 2015 è rimasto senza cibo per oltre 50 giorni dopo un altro arresto.
  È stato arrestato per sospetta attività terroristica anche nel 2019.
  Il ministro della Sicurezza nazionale di estrema destra Itamar Ben Gvir ha assunto il controllo delle carceri israeliane quando è entrato in carica a dicembre e ha spinto per una gestione più rigorosa dei prigionieri di sicurezza. Il suo ministero supervisiona anche la polizia e la polizia di frontiera.

(Rights Reporter, 2 maggio 2023)

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Israele, Iran, Arabia Saudita e Stati Uniti. Parla Bobo Craxi

di Giuseppe Basilico

- On. Bobo Craxi, verto l’intervista su Israele, Iran, Arabia Saudita e Stati Uniti. Il Governo di Israele approva costituzione Guardia nazionale. Lei da cittadino occidentale che percepisce?
  Percepisco che sia una manovra tutta interna al sistema di sicurezza del paese. Esiste un problema di carattere generale di difesa di Israele ed esso è riservato all’esercito che non a caso colpisce al di fuori dei propri confini. Poi c’è un problema di sicurezza nuovo dettato dall’insorgenza della popolazione araba che ormai mal sopporta il carattere teocratico dello Stato israeliano come abbiamo visto nei recenti scontri alla moschea di Gerusalemme nel mese sacro di Ramadan.

- Le sottolineo un dettaglio nella costituzione Guardia nazionale. Al contempo l’esecutivo ha approvato un finanziamento di circa un miliardo di shekel (circa 250 milioni di euro) per la Guardia, riducendo di 1% il budget di altri ministeri. Potrebbe essere preso come modello per l’attuale governo Meloni?
  L’organizzazione dell’ordine pubblico del nostro paese è affidato al corpo di polizia ed anche a reparti dei carabinieri. Il primo fu smilitarizzato a suo tempo. Il secondo si riferisce al ministero della Difesa ma si coordina con le prefetture sono corpi che non rispondono direttamente al potere politico e, salvo infiltrazioni, hanno dato prove democratiche di tutto rispetto.

- Sappiamo che c’è un profondo e indissolubile legame tra Israele e gli Stati Uniti. E’ fatta di costante cooperazione in sicurezza, intelligence, difesa, economia. Ho la sensazione che ci sono molti disaccordi a livello politico, che riguardano diverse questioni come l’Iran, la questione palestinese e questa volta sulla riforma della giustizia che lascia Joe Biden perplesso?
  Non bisogna immaginare che Stati Uniti ed Israele siano un corpo unico. Tutto l’Occidente democratico ha considerato Israele un paese che nasceva culturalmente nella visione liberale e democratica. Dopodiché ci sono dispute territoriali e le difficili relazioni con i paesi arabi confinanti che Israele tende sempre di più a gestire in una logica nazionale. Il periodo di campagna elettorale é sempre l’occasione per svincolarsi dalle amministrazioni americane impegnate in vicende interne.

- Il primo ministro Benjamin Netanyahu dichiara che Israele è un Paese Sovrano che prende le decisioni per volontà del popolo e non sulla base di pressioni che arrivano dall’estero, incluso i migliori amici. Non le sembra di sentire le stesse parole pronunciate dall’ex Guida suprema dell’Iran l’ayatollah Ruhollah Khomeini nel 1979?
  Mi sembra un’orgogliosa affermazione di indipendenza nazionale. Così sarebbe naturalmente se le vicende di quell’area non generassero un’interdipendenza con altri Stati e su diversi terreni. Quello della Sicurezza ma anche quello dello sfruttamento delle risorse energetiche. Su questo terreno Israele avrebbe dovuto adottare una linea di orientamento più aperta generando una grande area di sviluppo e di pace.

- Yossi Kuperwasser è un esperto di intelligence e sicurezza israeliano. Dichiara che Pechino approfitta di quella sensazione che c’è a Riyad, dove i sauditi credono di non poter fare troppo affidamento sugli Stati Uniti che sono meno impegnati verso la sicurezza regionale. Lei essendo un politologo di lungo corso, si ritrova sulla stessa analisi geopolitica di Yossi Kuperwasser?
  I sauditi cercano di interpretare la nuova fase mondiale che si è aperta. La fine della globalizzazione senza guida politica genera la necessità di aprirsi anche verso coloro che erano considerati nemici.
È una specie di dopo guerra quello che si sta generando nel Golfo e. per ora le potenze dell’area si annusano e cercano innanzitutto di convergere laddove gli interessi sono coincidenti. La mano di protezione occidentale si allenta nel momento del quale sono più fragili sul piano interno anche le nostre democrazie. Riverbero delle diverse crisi economiche.

- L’accordo tra Iran e Arabia Saudita mediato dalla Cina di Xi Jinping ne è una dimostrazione percettibile?
  In assenza di un nuovo ordine le alleanze sono circolari, secondo me è prematuro sostenere che vi sia un cambio di spalla nel sistema delle alleanze dei paesi del Golfo. Esistono convergenze su molti terreni se ci si riferisce alla Cina, quel che è certo che l’influenza americana ne subisce un colpo ma nulla può essere considerato stabile e permanente quando si tratta di politica internazionale. La Cina sembra sostituire tuttavia ad una politica aggressiva come quella sovietica un soft Power che rappresenta il tentativo di qualificare il nuovo polo della divisione mondiale.

- In questo momento la presenza russa in Siria e i rapporti economici tra Pechino e gli attori geopolitici del Golfo Persico riducono l’atteggiamento predominante di Washington?
  Non c’è dubbio che ci troviamo di fronte ad un ridimensionamento della strategia americana che è seguita al 2001. La Cina in fondo sta raccogliendo i frutti di una posizione assai duttile quando gli americani mossero l’arma militare in Iraq. All’epoca i cinesi non ebbero alcun dubbio nel sostenere politicamente le ragioni del colosso americano violato sul suo territorio. In una fase di riorganizzazione dei rapporti con il mondo arabo e assolutamente naturale che un grande player economico che sviluppa nuova tecnologia e produce nuove prospettive economiche si rivolga alle potenze medie di quell’area.

- Dall’altra parte abbiamo Mosca, stretto collaboratore di Tehran, non ha facilitato le trattative con gli occidentali?
  Quella di Mosca è sempre stata una politica che fondava sull’hard Power il proprio baricentro. Finita la suggestione dell’internazionalismo comunista Putin si è limitato a mantenere rapporti di influenza fondati innanzitutto sulla sua potenza militare. Quest’ultima naturalmente sta venendo meno visti i risultati della guerra, tuttavia coi paesi confinanti ha mantenuto ottimi rapporti, c’è una grande presenza musulmana in Russia e questo fa sì che loro interesse sia interno ed esterno.

- Chiudo con l’ultima domanda. L’accordo tra Arabia Saudita e Iran non pone fine alla scontro?
  Non bisogna mai dimenticare che sottostante a quello scontro vi sia una profonda divisione di carattere religioso. L’Arabia Saudita è la sede della Mecca e l’Iran possiamo considerarlo un paese di riferimento per tutto il mondo sciita. Non sono questioni da poco. Il fatto che vi sia un nuovo appeasement (pacificazione) nei rapporti può generare quantomeno il raffreddamento di alcuni conflitti, un canale di comunicazione diretto che può avvantaggiare qualche soluzione. Questo lo vedremo d’altronde come ho detto all’inizio si tratta di nuovi posizionamenti di fronte a nuovi scenari che includono innanzitutto lo sviluppo economico in aree dove prevalente sul piano dello sfruttamento delle risorse è stato interesse occidentale. Questo deve essere il vero fronte di preoccupazione perché sebbene non infinite le fonti petrolifere esse continuano ad essere fondamentali per tutto il pianeta. In questo senso vedo un indebolimento occidentale ma non l’estromissione dell’Europa e dell’America nei rapporti con questi paesi.

(Avanti!, 2 maggio 2023)

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Uno sguardo alla misteriosa comunità ebraica dell'Afghanistan

di Michelle Zarfati

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Tra pochi mesi, con l'inaugurazione del nuovo edificio della Biblioteca Nazionale di Israele, saranno presentati per la prima volta documenti storici appartenenti alla comunità ebraica perduta dell'Afghanistan.
  I rari documenti, che faranno parte della nuova mostra permanente, sono stati acquisiti dalla biblioteca a causa della situazione dell’Afghanistan dopo il primo dominio talebano. "Ciò che distingue questi documenti è che sono arrivati dall'Afghanistan e rappresentano la vita di una comunità ebraica di cui semplicemente non sapevamo nulla” dice il dott. Yoel Finkelman, curatore della collezione Judaica presso la Biblioteca Nazionale di Gerusalemme.
  Nell'anno 586 a.C., il Primo Tempio fu distrutto da Nabucodonosor, il re di Babilonia, e dal suo comandante dell'esercito Nebuzaradan, che conquistò Gerusalemme ed esiliò gli ebrei a est. Durante quel periodo, gli esuli ebrei migrarono dalla Terra di Israele nell'area che ora è l'Afghanistan, un importante centro commerciale lungo la Via della Seta, con alcuni mercanti ebrei che accumulavano grande ricchezza.
  L'età d'oro degli ebrei nella regione si è probabilmente conclusa nel XIII secolo d.C. quando Gengis Khan e i mongoli conquistarono l'area e sistematicamente tutto sulla loro scia, comprese le comunità, le proprietà e persino la documentazione storica. Tuttavia, due archivi sono stati conservati per quasi mille anni vicino alla città di Mian in Afghanistan, uno dei quali apparteneva a un mercante ebreo di successo di nome Abu Nasr ben Daniel.
  "Probabilmente era una specie di patriarca di famiglia", dice il dott. Finkelman. "Ha documentato chi gli doveva dei soldi e chi doveva versare l'affitto che si pensa li ricevesse per le sue proprietà. Ha anche conservato i testi ebraici. La collezione comprende molti documenti, alcuni scritti in antiche lettere persiane e arabe, ma ci sono anche documenti in ebraico e persino in arabo ebraico". Il Dr. Finkelman osserva inoltre che "la collezione acquisita dalla Biblioteca Nazionale di Israele include anche un archivio non ebraico con un carattere amministrativo locale, che conserva ricevute, accordi e registri. Era un ufficio che fungeva da ufficio contabile. Questo ci permette di saperne di più non solo sulla vita ebraica, ma anche sui mestieri e la cultura di quel periodo.
  Gli ebrei erano, ovviamente, una minoranza in quella zona, e la maggior parte dei residenti erano musulmani che parlavano e scrivevano in persiano antico. I documenti consentono però ai ricercatori di conoscere quella cultura antica.
  David Blumberg, della direzione della biblioteca, spiega che a seguito della devastazione causata da Gengis Khan e dal suo esercito nel 1221, non c'è quasi nessuna documentazione della lingua e della cultura persiana e araba nella regione. "La rara e importante collezione è stata acquisita con il sostegno della William Davidson Foundation e del Fondo Haim and Hanna Solomon, e la mostra sottolinea il ruolo della Biblioteca Nazionale di Israele come centro culturale internazionale", ha concluso Blumberg.

(Shalom, 2 maggio 2023)

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Effetti avversi: diamo dignità ai danneggiati da vaccino anti Covid-19

Chi di noi, portato ad assumere un farmaco, può non essere interessato a conoscere gli effetti indesiderati che quel farmaco potrebbe generare?

di Maurizio Federico*

Pochi giorni fa è stata lanciata su Change.org una raccolta di firme finalizzata a spingere gli attuali decisori politici a finanziare un programma nazionale di ricerca per studiare gli effetti non desiderati dei vaccini anti-Covid-19.

• IN ITALIA 50 MILIONI DI VACCINATI
  Per cercare di arginare la diffusione del virus SARS-CoV-2, poco meno di cinquanta milioni di persone solo in Italia sono state inoculate con preparati farmacologici di ultimissima generazione che, per scelta delle autorità sanitarie a livello globale, sono stati anche distribuiti alla popolazione mondiale ma senza prima aver passato tutti i canonici test su efficacia e sicurezza.
  Fuori dalla diatriba sul se, quanto, e a chi abbiano giovato questi vaccini, ora un numero di persone che hanno aderito a questa profilassi denunciano la comparsa e la persistenza di effetti non desiderati anche gravi. E, sicuramente in più di un caso, molti non hanno neppure fatto in tempo a denunciarli.
  Questi vaccini anti-Covid-19 hanno generato una serie variegata di effetti non desiderati, inutile nasconderlo. Lo certifica, per esempio, il governo USA, non precisamente un organismo complottista, sul suo sito VAERS laddove riporta in gran dettaglio le sintomatologie degli effetti avversi registrati, nonché le statistiche anche correlate ai diversi lotti dei vaccini distribuiti.

• IN GERMANIA SONO STATI GIÀ AVVIATI STUDI SU SCALA NAZIONALE
  Recentemente poi il Ministro della Salute tedesco Karl Lauterbach ha rilasciato una intervista piena di buon senso e di umiltà, di fronte ad un giornalista che lo incalzava con modi anche severi (l’esatto contrario di ciò che siamo abituati a vedere nelle nostre televisioni), Intervista in cui prende atto pubblicamente del problema, prospetta aiuti mirati ai colpiti da vaccino, e annuncia che in Germania sono stati già avviati studi su scala nazionale per capire cosa possa essere successo agli sfortunati cittadini tedeschi.
  E qui da noi? Personalmente sin dal dicembre 2022 ho sollecitato sull’argomento gli attuali decisori del Ministero della Salute. Ho ripetutamente fallito. Questo mi ha ora spinto a rivolgermi alla platea dei cittadini attraverso una iniziativa intrapresa da un cittadino siciliano, Stefano Cardella, che ha lanciato la petizione e la relativa raccolta di firme sul sito Change.org.
  Districandomi nel dibattito in buona parte intossicato che è girato e gira ancora attorno al Covid-19, cercherò di analizzare i motivi per cui una persona può essere spinta a non appoggiare una iniziativa del genere, iniziativa che a prima vista anche al soggetto meno attrezzato culturalmente può sembrare ovvio appoggiare.

• PERCHÉ DIRE NO A UNA RICERCA SUGLI EFFETTI AVVERSI
  Partiamo con l’escludere l’interlocutore marcato da cinismo, ignavia, indifferenza e egoismo, tratti che purtroppo segnano molti caratteri umani, e contro i quali non esistono né argomenti né medicine valide. Ipotizziamo quindi di essere in presenza di un interlocutore disposto ad ascoltare.
  Un primo argomento che spesso gli scettici espongono riguarda la piccolissima percentuale di effetti avversi in relazione alla platea dei vaccinati. Ammessa questa argomentazione, anche una percentuale solo dello 0,01% di effetti avversi gravi, così come denunciato pubblicamente dal ministro Karl Lauterbach, porterebbe su una platea di più di 40 milioni di italiani vaccinati a più di 4.000 eventi avversi gravi.
  Uno Stato come quello italiano che presenta come un fiore all’occhiello la ricerca e la cura contro le malattie rare (quelle, per definizione, che colpiscono 1 persona su 500.000/1 milione), perché allora ignorerebbe questa platea di (almeno) 4.000 danneggiati gravi?
  I quali, ricordiamolo sempre, erano persone sane prima della vaccinazione ed hanno seguito alla lettera le indicazioni che lo Stato stesso ha fornito loro in tema di profilassi anti-Covid-19?
  Altro argomento: così si mina la fiducia su questi vaccini e sui vaccini in generale. Ora, sappiamo benissimo che i ricercatori hanno testato questi vaccini (o, per meglio definirli, pro-farmaci) in maniera insufficiente, segnatamente riguardo gli effetti non voluti a medio e lungo termine. Conosciamo anche la dimensione enorme della platea che li ha ricevuti.

• DIBATTITO INTOSSICATO SULLA PANDEMIA
  Ma chi di noi, portato ad assumere regolarmente un qualsiasi farmaco, può non essere interessato a conoscerne gli effetti indesiderati che (molto) eventualmente questo farmaco può generare, in modo tale da poter preparare possibili contromisure? Sapere che professionisti del campo sono impegnati a studiare i meccanismi di possibili effetti avversi non può che aumentare la fiducia nel farmaco e in chi lo propone.
  Mi sono anche imbattuto, per esempio da parte di familiari di elevato spessore culturale, in chi afferma che promuovere studi del genere significa legittimare no-vax e complottisti di ogni genere. Personalmente considero queste affermazioni come la più alta esemplificazione dell’intossicazione ideologica a cui è arrivato il dibattito intorno alla pandemia. Ci vuol poco a realizzare che i danneggiati da vaccino sono compresi tra coloro i quali hanno aderito alla campagna vaccinale. E il complottismo piuttosto si alimenta con la pervicacia a nascondere i fatti invece che indagarli, capendo cosa e quanto ci sia di vero.
  Altro argomento evergreen: mancano le risorse. Non più di qualche giorno fa il Ministro Fitto ha denunciato in Parlamento l’incapacità dell’Italia a spendere circa 20 miliardi di Euro derivanti dai fondi PNRR. Inutile argomentare oltre.
  Quindi, se escludiamo cinismo, ignavia, indifferenza ed egoismo, è veramente difficile trovare una ragione per non supportare una iniziativa a livello statale rivolta a ricercatori indipendenti e mirata a capire attraverso studi scientifici i meccanismi attraverso i quali questi vaccini anti-Covid-19 hanno generato effetti indesiderati.
  La richiesta in tal senso ufficializzata dalle firme di migliaia di cittadini potrà spingere le autorità italiane a imitare quelle tedesche. Non c’è motivo confessabile e/o argomentabile perché continuino a rifiutarsi.
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* Dr. Maurizio Federico
   National Center for Global Health
   Istituto Superiore di Sanità

(RomaIT, 2 maggio 2023)

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Israele si interroga sul riavvicinamento tra Iran e Arabia Saudita

In Israele il riavvicinamento tra i due paesi è stato visto come una battuta d'arresto degli sforzi dello Stato ebraico per creare legami più stretti con Riad.

di Francesco Paolo La Bionda

Arabia Saudita e Iran hanno siglato lo scorso 10 marzo un accordo mediato dalla Cina per ristabilire le relazioni diplomatiche, interrotte nel 2016, e riaprire le rispettive ambasciate entro due mesi. La decisione segna una prima e inaspettata inversione di tendenza nell'inasprimento della rivalità avvenuto tra le due potenze regionali mediorientali, divise da questioni dottrinali e politiche. La dichiarazione congiunta alla stampa rilasciata a margine della firma ha affermato che le relazioni ravvivate tra i due paesi "porteranno allo sviluppo della stabilità e della sicurezza regionale e aumenteranno la cooperazione tra i paesi del Golfo Persico e del mondo islamico per affrontare le sfide esistenti".

• IL DIBATTITO IN ISRAELE TRA PREOCCUPAZIONI E OPPORTUNITÀ
  In Israele il riavvicinamento tra i due paesi è stato generalmente visto come una battuta d'arresto degli sforzi dello Stato ebraico per creare legami più stretti con Riad, con cui ancora oggi permangono relazioni diplomatiche solo ufficiose, nonostante molti si aspettassero una normalizzazione come avvenuto con Emirati Arabi Uniti e Bahrein nel 2020 grazie agli Accordi di Abramo.
  Alcune voci tuttavia vedono più opportunità che problemi in questo inaspettato sviluppo: Efraim Halevy, che in passato è stato direttore del Mossad e capo del Consiglio nazionale di sicurezza israeliano, in un'intervista rilasciata alla CNN il 15 marzo, ha affermato che il governo israeliano non dovrebbe guardare in modo pregiudiziale all'accordo. Per Halevy anzi l'esecutivo dovrebbe cercare di capire quali fattori abbiano reso possibile il riavvicinamento tra i due rivali e sondare discretamente se ci siano margini anche per smorzare le tensioni tra Israele e l'Iran.
  Il 22 marzo invece il quotidiano online Axios ha pubblicato un articolo nel quale cita estensivamente un alto diplomatico israeliano, lasciato anonimo, secondo cui i tori del pubblico israeliano riguardo all'accordo sarebbero esagerati, in quanto il riavvicinamento all'Iran non interferirà con le relazioni tra lo Stato ebraico e l'Arabia Saudita, citando a riprova il fatto che anche gli Emirati si siano riavvicinati a Teheran senza per questo tornare sui propri passi nella relazione con Gerusalemme.
  Inoltre, secondo la fonte, Israele potrebbe beneficiare indirettamente di una possibile fine della guerra in Yemen, in cui sauditi e iraniani sostengono fazioni opposte. Poiché il conflitto è una delle principali cause di attrito tra Riad e Washington, per via delle numerose vittime civili causate dai bombardamenti dell'aviazione saudita, una sua fine porterebbe a un miglioramento delle relazioni tra i due governi e dunque faciliterebbe a sua volta una possibile normalizzazione diplomatica tra Israele e Arabia Saudita.

• LA QUESTIONE SIRIANA
  Un altro elemento di valutazione per Israele si è poi aggiunto ai precedenti quando il 23 marzo l'Arabia Saudita ha riallacciato i rapporti diplomatici anche col regime siriano, annunciando la riapertura della sua ambasciata a Damasco. Sin dall'inizio della guerra civile nel paese, Riad aveva sempre osteggiato Bashar Al-Asad, anche in virtù del forte legame tra il dittatore e l'Iran, che è diventato un vitale fornitore di armi e truppe per Damasco. Tuttavia nel mondo arabo si è progressivamente fatta strada in tempi recenti l'idea che non si possa raggiungere una soluzione al conflitto senza trattare col regime.
  Israele è impegnato da anni a contrastare la minaccia della penetrazione iraniana in Siria e all'aviazione dello Stato ebraico sono stati attribuiti numerosi attacchi aerei contro infrastrutture e uomini dei pasdaran schierati nel paese. A Gerusalemme si dovrà quindi valutare se questo ulteriore riavvicinamento saudita a un precedente rivale comune sia più un problema o un'opportunità.

(Bollettino della Comunità Ebraica di Milano, maggio 2023)

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Israele, i primi 75 anni

Il 14 maggio 1948 nasceva lo Stato ebraico, realizzando il sogno di Herzl e dei tanti che vedevano in quella patria la fine di crudeli persecuzioni. Ma era anche l’inizio di un nuovo e lungo conflitto col mondo arabo. Tra guerre, lotta al terrore e primati economici e tecnologici, così è cresciuta l’unica democrazia del Medio Oriente.

di Enrico Franceschini

Theodor Herzl in Palestina nel novembre del 1898
Immaginiamo un suono di cornamuse. È la sera del 14 maggio 1948. Sta per nascere lo Stato di Israele. Nelle antiche strade della Città Vecchia, la struggente melodia annuncia la partenza dei soldati britannici, che hanno occupato Gerusalemme per trent'anni. Alle finestre delle abitazioni o sulle soglie delle sinagoghe, vecchi dalle grandi barbe bianche osservano la sfilata militare. I loro antenati hanno visto partire molti altri occupanti: assiri, babilonesi, persiani, crociati, arabi, turchi. Ora tocca agli inglesi. Quando l'ultimo distaccamento di soldati giunge davanti all'arco di una casa in pietra, il plotone si arresta. Un ufficiale bussa al portone, gli apre il rabbino Mordechai Weingarten. "Dall'anno 70 dopo Cristo fino a oggi, nessuna chiave di Gerusalemme è stata nelle mani degli ebrei", dice l'ufficiale. "Oggi è la prima volta in quasi venti secoli che il vostro popolo ottiene questo previlegio". E gli consegna la chiave della porta di Sion, una delle sette porte della Città Santa. Il rabbino risponde: "Che tu sia benedetto, o Iddio che ci hai concesso di vivere questo giorno. Accetto questa chiave in nome del mio popolo". Ma mentre l'ufficiale britannico fa dietrofront e scendono le luci del crepuscolo, un nuovo rumore, sordo e minaccioso, subentra al suono delle cornamuse: il crepitio della fucileria. Ancora una volta Gerusalemme sta per diventare un campo di battaglia. Le sue mura apparterranno soltanto a chi saprà conquistarle.

• L’ANNO PROSSIMO A GERUSALEMME
  L'episodio raccontato da Dominique Lapierre e Larry Collins nel libro Gerusalemme! Gerusalemme! fotografa l'inizio di un conflitto durato fino ai giorni nostri, attraversando l'intera storia del moderno Stato di Israele, che in questi giorni compie 75 anni di vita. Una storia le cui radici partono dall'Antico Testamento, il libro che narra l'esodo del popolo ebraico fino alla Terra Promessa e, tra il 900 e l'800 avanti Cristo, l'avvento del regno di Israele di re Davide e re Salomone. Quel testo costituisce anche la prima parte della Bibbia dei cristiani, ma i primi padri della Chiesa, nell'ardore di convertire le masse pagane, si sforzarono di sottolineare la differenza che separava la nuova fede dal giudaismo, piuttosto che metterne in evidenza i legami: tacendo che Gesù era ebreo e che l'Ultima cena è una celebrazione della Pasqua ebraica. In seguito, gli imperatori romani convertiti condannano gli ebrei alla segregazione. L'Impero di Bisanzio li mette fuori legge. Gli Stati europei negano loro il diritto alla proprietà. Nel 1215 la Chiesa di Roma li obbliga a portare un marchio per distinguerli dalle altre razze. I re di Francia e Inghilterra sequestrano i loro beni. In Russia viene coniata una parola che diventerà di uso comune per descrivere i massacri di comunità ebraiche: pogrom. Poi viene l'Olocausto. Soltanto nel 2000, durante il suo pellegrinaggio a Gerusalemme, papa Giovanni Paolo II afferma che gli ebrei sono "i fratelli maggiori" dei cristiani, porgendo pubbliche scuse per il ruolo della Chiesa in venti secoli di antisemitismo.
  Poco più di cent'anni prima dello storico viaggio di Wojtyla in Terra Santa, l'ingiusta condanna di un ufficiale francese di origine ebraica mette in moto la resistenza a questo odio millenario. Tra la folla che assiste alla degradazione di Alfred Dreyfus nel cortile della École Militaire di Parigi, nel 1894, c'è un giornalista viennese, anch'egli un ebreo assimilato, cioè perfettamente integrato nella società del suo Paese, fino a quel momento indifferente a questioni di razza e di religione. Si chiama Theodor Herzl. Quel giorno capisce che il vulcano dell'antisemitismo non si sarebbe mai spento e gli ebrei avrebbero potuto sopravvivere solo diventando una nazione. Rientrato a Vienna, due anni dopo pubblica il manoscritto Lo Stato ebraico e fonda il movimento sionista, dal nome del monte Sion che sorge al centro di Gerusalemme. Per duemila anni gli ebrei della diaspora disseminati a ogni angolo della terra hanno pregato con l'invocazione: "Se ti dimentico, Gerusalemme, che mi si mozzi la mano destra!"; e a ogni Pasqua, hanno ripetuto la promessa solenne di ritrovarsi "l'anno prossimo a Gerusalemme", il desiderio di tornare a casa, prima o poi, nonostante ogni ostacolo. E quale poteva essere la loro casa? Dopo varie ipotesi, i sionisti scelgono la terra degli avi, la Terra Promessa dell'Antico Testamento, da dove non se ne erano mai andati del tutto: nel momento in cui Herzl assiste all'umiliazione di Dreyfus, trentamila dei cinquantamila abitanti di Gerusalemme sono ebrei.
  Sotto le pressioni del movimento sionista, nel 1917 il ministro degli Esteri britannico Arthur Balfour dichiara che il governo di Sua Maestà "considera favorevolmente la creazione di un focolare nazionale per il popolo ebraico in Palestina", all'epoca una colonia del Regno Unito. L'annuncio moltiplica l'immigrazione ebraica nella regione. Gli arabi cominciano ad aggredire gli ebrei, con i quali fino ad allora avevano vissuto in relativa armonia. Gli ebrei si difendono e aggrediscono a loro volta gli arabi. È una lenta, progressiva guerra civile. Durante la Seconda guerra mondiale il Gran Muftì di Gerusalemme, Mohammed Said Haj Amin al Husseini, più alta autorità religiosa islamica nella Palestina britannica, si rifugia a Berlino, appoggia la Germania nazista, incontra Hitler, pensando che la vittoria tedesca libererà il suo popolo di due nemici in un colpo solo: gli ebrei e i britannici. 

MAPPA - Mandato britannico
Ma i nazisti perdono la guerra, Hitler si suicida, il Muftì fugge e una terribile scoperta contribuisce a rafforzare l'idea di un "focolare nazionale ebraico": l'orrore dell'Olocausto. Si profila così una soluzione "salomonica": dividere la Palestina britannica fra i due litiganti. Il pomeriggio del 29 novembre 1947 i rappresentanti di 56 Paesi delle neonate Nazioni Unite si riuniscono a New York per votare la risoluzione numero 181. Essa prevede che una terra due volte più piccola della Danimarca, cinque volte meno popolosa del Belgio, venga spartita formando due Stati distinti, uno per gli ebrei e uno per gli arabi. Il 57 per cento del territorio verrebbe assegnato agli ebrei, sebbene fino a quel momento siano più numerosi gli arabi. Il Muro del Pianto, il Santo Sepolcro e la Moschea della Roccia, luoghi santi delle tre religioni monoteistiche, dentro le mura della Città Vecchia di Gerusalemme, sarebbero sotto controllo internazionale. La risoluzione passa con 33 voti favorevoli, tra cui quelli di Stati Uniti e Unione Sovietica, 13 contrari e 10 astenuti. Le delegazioni arabe lasciano l'aula per protesta. Si lamentano di essere chiamate a pagare un prezzo per la cattiva coscienza dell'Europa nei confronti dell'Olocausto: perché non sono gli Stati europei a offrire agli ebrei una terra, visto che sono loro ad averli sterminarti nei lager? Scoppierà una guerra, avverte il rappresentante arabo, cugino del Gran Mutfì che aveva abitato nella Berlino di Hitler, e gli eserciti dell'intero mondo arabo getteranno a mare gli ebrei.

• LA GUERRA PIÙ LUNGA

"David Ben Gurion proclama la dichiarazione di indipendenza dello Stato di Israele a Tel Aviv
Alla mezzanotte del 14 maggio 1948, David Ben Gurion pronuncia la dichiarazione di indipendenza. La nuova nazione si chiamerà Israele, dice il suo fondatore, dal termine biblico che appare nel libro della Genesi, quando Dio cambia nome a Giacobbe chiamandolo appunto Israele, capostipite degli israeliti, la stirpe che governerà la Terra Promessa. Qualcuno ritiene che la dichiarazione d'indipendenza debba indicare le frontiere del nuovo Stato, seguendo il tracciato indicato dalle Nazioni Unite. Ben Gurion dissente. Considera quelle frontiere in più punti indifendibili, nella prospettiva ormai evidente di una conflittualità prolungata con gli arabi. Del resto, afferma, gli arabi hanno respinto il compromesso sulla partizione. "Lo Stato che proclameremo al termine della guerra - conclude - non nascerà da una risoluzione dell'Onu, bensì da una situazione di fatto".
  Gli eserciti di cinque Paesi arabi attaccano gli ebrei, ma a prevalere sono questi ultimi, meglio armati e più determinati. Quando le due parti proclamano il cessate il fuoco, Israele si ritrova con uno Stato più ampio del territorio che le avrebbe assegnato il Palazzo di vetro, pur senza riuscire a prendere la Città Vecchia di Gerusalemme. In quella che gli ebrei chiamano la loro "guerra d'indipendenza", e che gli arabi chiameranno "nakba", la tragedia, Israele ha avuto più di 6mila vittime fra soldati e civili: in proporzione, più morti di quanti ne ebbe la Francia nella Seconda guerra mondiale. Alle migliaia di perdite arabe vanno aggiunti 700mila palestinesi costretti a evacuare le zone conquistate da Israele: finiranno in campi profughi sparsi per il Medio Oriente. Restano in mano araba, tuttavia, Cisgiordania e Gaza: per i successivi vent'anni, la prima apparterrà alla Giordania e la seconda all'Egitto. Ma i governi di Amman e del Cairo non le offrono ai palestinesi, affinché ne facciano una patria: le tengono per sé.
  Otto anni dopo scoppia un'altra guerra, per il possesso del canale di Suez, nazionalizzato dall'Egitto: alleate degli inglesi, le forze israeliane avanzano verso il Cairo, finché l'America ferma tutti per evitare un conflitto con l'Urss. I Paesi arabi cercano di prendersi la rivincita nel 1967, mobilitando i propri eserciti alla frontiera, ma Israele lancia un formidabile attacco preventivo: distrugge a terra tutta l'aviazione nemica, penetra in territorio avversario a Sud e a Nord. In appena sei giorni la guerra è finita. Un leggendario generale israeliano con la benda all'occhio, Moshe Dayan, guida le operazioni insieme al capo di stato maggiore Yitzhak Rabin. Quest'ultimo riceve il compito di dare un nome al conflitto, come riconoscimento della sua eccezionale abilità strategica. Circolano varie proposte: la Guerra del coraggio, la Guerra della salvezza. Rabin sceglie la Guerra dei sei giorni, evocando i sei giorni della creazione secondo la Bibbia. La guerra, in effetti, ha ricreato Israele, che si allarga all'intera penisola del Sinai, a tutta la Cisgiordania, alle alture del Golan, al confine con la Siria e alla Città Vecchia di Gerusalemme. La foto di due parà israeliani che guardano commossi il Muro del Pianto diventa emblematica: lo Stato ebraico ha di nuovo quel che resta del tempio di re Salomone. Ma oltre che della terra, Israele si impadronisce dei milioni di arabi che la abitano. Per rafforzare il controllo sui palestinesi sconfitti e ostili, il governo israeliano approva la costruzione di insediamenti civili in Cisgiordania e Gaza: le "colonie ebraiche", come verranno chiamate dalla comunità internazionale, che l'esercito protegge con strade speciali e posti di blocco. Nei Territori occupati, come da allora la diplomazia internazionale definisce Cisgiordania e Gaza, comincia così a crescere un sentimento che fra il '48 e il '67, quando facevano parte di Giordania ed Egitto, era debole o carente: la determinazione palestinese ad avere uno Stato. Trascorrono altri sei anni e, nella guerra dello Yom Kippur, scatenata dai Paesi arabi con un attacco a sorpresa nel giorno più sacro del calendario religioso ebraico, Israele per alcuni giorni rischia di soccombere: quindi contrattacca e, con un altro generale, Ariel Sharon, benda sulla fronte per una ferita, arriva a 100 chilometri dal Cairo.
  Nel 1982, il medesimo Sharon guida gli israeliani fino a Beirut per mettere fine alle incursioni dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina capeggiata da Yasser Arafat, così costretto a rifugiarsi a Tunisi: una milizia cristiano-maronita alleata di Gerusalemme massacra i palestinesi dei campi profughi di Sabra e Shatila, senza che Sharon intervenga, secondo alcuni con la sua complicità.
Piano ONU 1947
Israele nel 1949
La guerra del '48, la guerra del '56, quelle del '67 e del '73, l'invasione del Libano nel 1982, negli anni 90 la prima Intifada, la rivolta palestinese con le pietre, nei primi anni Duemila la seconda Intifada, i terroristi kamikaze alle fermate dei bus, poi le guerre contro Gaza, dopo il ritiro israeliano dalla Striscia nel 2005, e avanti così, fra attentati e rappresaglie, fino ai giorni nostri. Tutte insieme fanno la guerra più lunga che il mondo moderno abbia conosciuto. Ed è una guerra fra nemici che si contendono lo stesso claustrofobico spazio: nel punto più stretto, all'altezza del Ben Gurion, suo unico aeroporto internazionale, Israele è larga appena 12 chilometri.

• IL PROCESSO
  Negli anni in cui ho vissuto in Israele, dal 1997 al 2003, mi è capitato di incontrare persone con i numeri sul braccio: il marchio di identificazione che i nazisti imprimevano ai prigionieri dei campi di concentramento. Vederli sorridere, giocare con un nipotino in un parco, mangiare un piatto con gusto al ristorante, mi trasmetteva un senso di meraviglia e ammirazione. Non solo erano riusciti a sopravvivere all'orrore più grande conosciuto dall'umanità, ma avevano anche saputo rifarsi una vita, apparentemente normale. Che forza e che coraggio straordinario ci volevano! Ma non c'è stato sempre un sentimento di ammirazione e di orgoglio, in Israele, per i superstiti della Shoah. Da un lato, alcuni provavano la vergogna di essere sopravvissuti: perché io sono vivo e i miei familiari, amici, compagni di sventura sono morti? Dall'altro lato, i sionisti che si erano lasciati alle spalle la buia Europa dei ghetti per costruire un proprio Stato nella luce della Terra promessa mediorientale non si riconoscevano negli ebrei trucidati nei lager: i pionieri che avevano forgiato con la zappa e con il fucile uno stato indipendente sentivano di appartenere a un nuovo tipo di ebrei. "Pecore al macello" è stata a lungo l'espressione per identificare le vittime della Shoah: quasi ci fosse una qualche loro corresponsabilità nello sterminio, una mitezza, come quella delle pecorelle, che aveva impedito di ribellarsi. È una falsa immagine, smentita da tanti resoconti sulle ribellioni di partigiani ebrei contro i nazifascisti durante la Seconda guerra mondiale.
  Ma niente ha cambiato la percezione della Shoah in Israele e nel mondo come il processo del 1961 a Adolf Eichmann, il criminale di guerra nazista responsabile del trasporto degli ebrei nei lager, catturato dal servizio segreto israeliano in Argentina, trasportato clandestinamente in Israele e lì processato, condannato, impiccato: l'unica condanna a morte eseguita nei 75 anni di esistenza dello Stato ebraico. La cattura e il processo di Eichmann hanno infatti messo sul banco degli imputati non soltanto il nazismo, come aveva già fatto il Processo di Norimberga ai gerarchi del Terzo Reich, bensì l'antisemitismo in quanto tale: un antisemitismo che poteva avere anche i modi e il volto in apparenza pacifici di un uomo che per difendersi diceva "Io non odio gli ebrei, ho soltanto eseguito gli ordini". Quella che la filosofa Hannah Arendt, in un reportage per il New Yorker diventato proverbiale, descrisse come "la banalità del male". Nel 2012, sessant'anni dopo il processo, il Mossad organizza al Museo del Popolo Ebraico di Tel Aviv una mostra sulla cattura dell'architetto dell'Olocausto. "Fino al processo di Eichmann, in Israele nessuno parlava apertamente degli orrori dell'Olocausto", ammette Ahinoam Armoni, direttore del museo. "Molti sopravvissuti tacevano, perfino con i propri figli. La cattura e il processo sono stati come l'apertura di una diga per noi. Io stesso sono cresciuto dicendomi: non sono un ebreo, sono israeliano. Di colpo, da quel momento, siamo stati in grado di confrontarci con la nostra storia".

• VIVERE CON IL TERRORISMO  

La folla in una città israeliana ascolta alla radio il processo ad Eichmann
Bisogna trascorrere un po' di tempo nello Stato ebraico per comprendere cosa significhi vivere sotto una continua minaccia. Durante la Seconda Intifada, ogni volta che andavo a cena fuori, sceglievo se possibile un tavolo nella parte più isolata del ristorante, quella con meno clienti, dove un possibile terrorista suicida avrebbe avuto meno interesse a farsi esplodere o a nascondere una bomba, in modo che i miei familiari ed io avessimo una chance in più di salvarci. Piccoli accorgimenti di vita quotidiana, che a chi vive in un'altra realtà sembrano un peso insopportabile: ma gli israeliani hanno imparato a conviverci. Nessuna nazione al mondo ha dovuto affrontare la minaccia del terrorismo tanto a lungo. Attacchi avvenuti non solo sul proprio territorio, ma ovunque nel mondo si trovassero cittadini e possibili bersagli israeliani o ebraici. Ci sono stati attentati contro sinagoghe, aerei, navi, sedi diplomatiche e di aziende, fermate dei treni e degli autobus, ristoranti, bar, discoteche, supermarket, centri commerciali o semplicemente strade affollate di uomini, donne e bambini, come avvenuto quest'anno alla vigilia di Pasqua, quando un turista italiano è stato ucciso da un terrorista sul lungomare di Tel Aviv. Per la stessa ragione, nessun altro Paese ha accumulato una esperienza simile nel combattere il terrorismo.
  Uno degli attacchi terroristici più eclatanti è quello lanciato da un commando palestinese alle Olimpiadi di Monaco del 1972, in cui muoiono 11 atleti israeliani. Sia pure con riluttanza, la premier Golda Meir autorizza l'Operazione Furore di Dio, per individuare e uccidere i responsabili dell'attentato, dovunque si trovino. Dopo il processo a Eichmann e la vittoria nella Guerra dei Sei Giorni, un senso di euforica sicurezza si era diffuso per Israele, come se i fantasmi del passato, l'antisemitismo, l'Olocausto, fossero vinti per sempre. L'attentato di Monaco fa precipitare di nuovo gli israeliani nello sconforto. Anche per questo Golda Meir ordina una risposta esemplare. Fra le missioni affidate alle forze speciali e al Mossad, c'è quella di uccidere tre palestinesi a Beirut. Un commando israeliano sbarca in Libano. Li guida un pluridecorato ufficiale di nome Ehud Barak. Molti anni dopo, quando Barak è già un ex primo ministro, gli domando se davvero quella notte a Beirut, per non farsi riconoscere, lui e i suoi compagni si erano travestiti da donna.
  "Certo, non è qualcosa che si può dimenticare, sa?", mi risponde. "Voglio confidarle una cosa. Quando fui nominato capo di Stato Maggiore delle forze armate israeliane, una delle nostre donne-soldato, con i gradi di tenente, mi accolse nel mio nuovo ufficio per illustrare come funzionavano le comunicazioni. Le chiesi come si chiamava di cognome e rispose: "Romano". Domandai se era parente di Yossef Romano, uno degli atleti israeliani trucidati dai terroristi palestinesi alle Olimpiadi di Monaco. "Sono la figlia", rispose. Erano ebrei di origine italiana, come suggeriva il nome. Suo padre, un campione di sollevamento pesi, aveva tentato di disarmare i terroristi, era stato uno dei primi a essere ucciso e il suo corpo mutilato fu lasciato sul pavimento dell'appartamento in cui si trovavano gli israeliani, come monito agli altri membri della squadra di non provare a ribellarsi. Ebbene, in quel momento avrei voluto abbracciare la soldatessa, la figlia di Romano, dirle che ero stato io a fare giustizia degli assassini di suo padre. Ma all'epoca il mio ruolo in quella missione era ancora coperto dal segreto di Stato e dunque tacqui".
  I critici dell'operazione Furore di Dio la condannano come una campagna di assassinii politici, resa ancora più problematica, in un episodio in Norvegia, dall'uccisione della persona sbagliata. Ricorda Aron Yariv, un generale israeliano a capo dell'operazione: "Mandare un commando a uccidere era moralmente accettabile? Questo può essere discutibile. Ma era politicamente necessario? Assolutamente sì. Non avevamo altra scelta, se volevamo provare a impedire che azioni del genere si ripetessero a oltranza". Eppure, il terrorismo non si spegne. A ogni palestinese assassinato da Israele, risponde un attentato. Quattro anni dopo il massacro alle Olimpiadi, un commando palestinese compie un'azione altrettanto clamorosa, dirottando a Entebbe, nell'Uganda del feroce dittatore Idi Amin, un aereo della Air France partito da Tel Aviv con 248 passeggeri a bordo, in gran parte ebrei. Il raid di Entebbe per liberarli verrà ricordato come un'epica "missione impossibile". I commandos israeliani riportano a casa quasi tutti gli ostaggi, senza subire perdite, tranne una: il comandante della missione. Si chiama Yonatan Netanyahu. Anche suo fratello minore Benjamin entrerà nelle forze speciali. Diventerà il primo ministro più longevo nella storia di Israele.

• IL PECCATO ORIGINALE

I vincitori del Nobel per la pace Yasser Arafat, Yitzhak Rabin e Shimon Peres a Oslo nel 1994.
Se azioni deterrenti e raid eroici non possono estirpare il terrorismo, come fermarlo? Una delle mie prime interviste come corrispondente da Israele è con Shimon Peres, all'epoca ex premier, ex ministro degli Esteri, ex braccio destro di Ben Gurion: "L'Antico Testamento descrive la decisione di Eva di accettare la mela dal serpente come il peccato originale, il peccato da cui tutto discende e di cui l'uomo deve eternamente mondarsi per guadagnare il perdono divino", mi dice il grande statista. "Ebbene, anche noi ebrei abbiamo un peccato originale da scontare: quando Herzl, il teorico del sionismo, pronunciò il suo famoso slogan, secondo cui "un popolo senza una terra" andava verso "una terra senza un popolo", ometteva il fatto che su quella terra c'era un altro popolo, il popolo palestinese. Molto altro è accaduto da allora, distribuendo torti e ragioni da entrambe le parti del conflitto. Ma per riparare il nostro peccato originale, c'è un solo modo: dare una terra anche ai palestinesi".
  Il tentativo di liberarsi del peccato originale inizia nel 1979, con una stretta di mano tra due leader: l'egiziano Anwar Sadat e l'israeliano Menachem Begin sanciscono l'accordo di Camp David, dal nome della residenza di campagna del presidente degli Stati Uniti, Jimmy Carter, che ne è il mediatore. Si tratta di una "pace fredda", ovvero non calorosa, ma è lo stesso una svolta: il più importante Stato arabo riconosce il diritto di esistere di Israele. Begin e Sadat vincono il Nobel per la pace. Ma il 6 ottobre 1981 il presidente egiziano viene assassinato da militanti islamisti contrari alla sua storica decisione. Passa un decennio prima che il cammino della pace riprenda, con il "processo di Oslo", sostenuto dal presidente Bill Clinton nel 1993, un ciclo di trattative segrete fra israeliani e palestinesi nella capitale norvegese che porta a un'altra stretta di mano: quella tra Rabin e Arafat alla Casa Bianca. La loro intesa prevede la creazione di territori sotto diretto controllo palestinese in Cisgiordania e a Gaza, la cooperazione fra i servizi di sicurezza israeliani e palestinesi per combattere il terrorismo e il progetto di dichiarare entro cinque anni uno Stato palestinese che viva in pace e sicurezza reciproca accanto a Israele.
  Come Begin e Sadat, anche Rabin e Arafat ottengono il Nobel per la pace, insieme all'altro autore dell'accordo, il ministro degli Esteri israeliano Peres. Sul prato della Casa Bianca, l'ex generale Rabin cita la Bibbia: "La terra del latte e del miele non deve diventare la terra delle lacrime e del sangue. La pace si fa tra nemici, non tra amici". Come Sadat, il leader israeliano paga con la vita il suo gesto: due anni più tardi viene assassinato a Tel Aviv da un estremista ebreo contrario alla pace. Nel discorso alla Casa Bianca in cui ne annuncia la morte, Bill Clinton appare commosso come se avesse perso un fratello e un modello: "Il mondo ha perso uno dei suoi più grandi uomini", dice il presidente americano. "Un guerriero per la libertà della propria nazione. Un paladino per la pace della propria nazione. Per mezzo secolo, Yitzhak Rabin ha rischiato la vita per difendere il proprio Paese. Oggi, ha dato la vita per difendere la pace. E la pace sarà l'eredità che ci lascia".
  Per un po' sembra vero. Le elezioni in cui forse il laburista Rabin sarebbe stato rieletto sono vinte dal suo avversario Netanyahu, leader del Likud, il partito della destra israeliana, che sconfigge a sorpresa il premier a interim Peres, ma anche Netanyahu all'inizio tratta con Arafat, firmando due accordi con il presidente dell'Autorità Palestinese. E dopo qualche anno la storia si ripete, non solo nel segno della tragedia ma pure nella speranza. In Israele si dice che soltanto un ex generale può realizzare veramente la pace e il destino disegna le stesse circostanze che esistevano prima dell'assassinio di Rabin: Netanyahu perde le successive elezioni, al suo posto diventa primo ministro Barak, ex generale, ex ministro della Difesa, nuovo leader del Labour, il capo del commando che travestito da donna aveva ucciso tre palestinesi a Beirut, l'ufficiale più decorato al valore nella storia di Israele. Al summit di Camp David, nell'estate del 2000, Israele offre ad Arafat uno Stato indipendente in Cisgiordania e a Gaza, con Gerusalemme Est come capitale (la Città Vecchia con i luoghi santi sarebbe stata sotto gestione congiunta) . L'unica questione su cui Barak non cede è il "diritto al ritorno" dei palestinesi che vivono da generazioni nei campi profughi del Medio Oriente: perché dovrebbero tornare dopo 52 anni nelle città israeliane, osserva, visto che ora avranno un proprio Stato in cui stabilirsi? "Accetti questa offerta, Abu Ammar", dice ad Arafat, chiamandolo con il suo nome di guerra, l'ambasciatore saudita a Washington. "La accetti ora o rimpiangerà per sempre di non averlo fatto". Parole profetiche.
  Arafat si impunta sul diritto al ritorno, la trattativa fallisce, Barak non viene rieletto primo ministro, al potere torna il Likud, scoppia una nuova Intifada, stavolta non con pietre tirate dalle fionde ma con kamikaze palestinesi che si fanno saltare in aria in mezzo ai civili israeliani, a Gaza prendono il potere i fondamentalisti di Hamas in contrapposizione con l'Olp in Cisgiordania e la pace si allontana. Due anni prima di morire, Arafat mi appare spento, in un'intervista nel suo quartier generale a Ramallah: "Se non sarò io a vedere uno Stato palestinese, lo vedrà mia figlia". Ma finora non lo ha visto nemmeno sua figlia: nonostante qualche altro tentativo di dialogo, l'occasione perduta del 2000 genera due decenni di lacrime e sangue. Altri conflitti danno l'impressione che quello israeliano-palestinese non sia più la priorità in Medio Oriente: la guerra in Iraq nel 2003; il sedicente Stato terrorista dell'Isis; l'allarmante programma nucleare iraniano. Gli accordi di Abramo, firmati tra Israele e quattro Paesi arabi durante la presidenza Trump, dimostrano come quelli siglati in precedenza da Egitto e Giordania che il mondo arabo è disposto a fare la pace con lo Stato ebraico anche senza avere risolto la questione palestinese. Promessa due volte, da Iddio agli ebrei, quindi dagli ebrei almeno in parte agli arabi, la terra fra il Giordano e il Mediterraneo rimane al centro di un secolare conflitto.
  Fino alla sua morte, nel 2016, Peres ripete un ammonimento: "Se non daremo uno Stato ai palestinesi, ci saranno solo due possibilità, o non saremo più uno Stato ebraico, perché gli arabi saranno la maggioranza della popolazione, o non saremo più uno Stato democratico, perché quegli arabi non avranno diritto di voto". Esiste una terza opzione, quella di Netanyahu, che sembra optare per mantenere a tempo indeterminato lo status quo. Ma in Israele, come in Europa e negli Usa, molti non sono d'accordo con lui. "Fino a quando continua questa situazione, il nostro Paese va condannato per il sistematico abuso dei diritti dei palestinesi", scrive sul Jerusalem Post Gershon Baskin, un giornalista israeliano che ha collaborato alla nascita del processo di pace. "Nella situazione attuale, il nostro Stato pratica una nuova forma di apartheid: due popoli che vivono nella stessa terra con diritti legali diversi. Chi dice queste cose viene bollato come antisemita, ma io mi limito a criticare il mio governo". Anche questo israeliano così critico verso Israele però aggiunge: "Mettere fine all'occupazione e dare ai palestinesi i loro legittimi diritti nazionali sarebbe più facile, se i palestinesi mettessero in ordine la loro casa politica, avessero un governo invece che due, facessero libere elezioni, avessero una leadership nuova, giovane, dinamica e composta anche di donne". Insomma, ci vorrebbe un miracolo, anzi una serie di miracoli: ma quando cammini per la Città Vecchia di Gerusalemme ti pare di seguire le orme di Abramo, di Gesù, di Maometto. La Terra Santa è la terra dei miracoli, della fede che non si spegne mai, nemmeno nei momenti più bui.

(la Repubblica, 1 maggio 2023)

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Duecento bambini del Regno Unito canteranno una magnifica versione dell’Adon Olam per l’incoronazione di Re Carlo III

di Marina Gersony

La comunità ebraica del Regno Unito si sta preparando per l’incoronazione di Sua Maestà Re Carlo III con grande entusiasmo. Per rendere omaggio al sovrano, circa 200 bambini provenienti da cinque scuole ebraiche del Regno Unito si sono riuniti per registrare una nuova versione della tradizionale canzone ebraica Adon Olam, accompagnati da un ensemble musicale ucraino che ha partecipato alla realizzazione del programma. Questo evento, che avrà una vasta copertura mediatica in tutto il mondo, è stato organizzato con grande cura e attenzione per i dettagli.
  In questi giorni il Coronation Choir della United Synagogue – l’Unione delle sinagoghe ortodosse britanniche – ha registrato la suggestiva versione dell’antico canto ebraico, composta da Stephen Levey e arrangiata da Mendy e Israel Portnoy, noti come i Portnoy Brothers. Queste iniziative ebraiche celebreranno la cerimonia di incoronazione del Re e contribuiranno a rendere questo evento indimenticabile per tutti coloro che vi parteciperanno o che lo seguiranno.
  Adon Olam – che come ogni ebreo sa, significa “Signore eterno” o “Signore dell’Universo” – è un inno potente che fa parte della liturgia ebraica quotidiana e sabatica dal XV secolo e che parla di D-o sia in termini cosmici che come presenza personale nella nostra vita. Secondo la tradizione sefardita e nelle sinagoghe inglesi, Adon Olam viene cantato alla fine dei servizi liturgici dello Shabbat e delle Festività ebraiche durante le preghiere mattutine, mentre gli ebrei ashkenaziti lo cantano alla fine dei servizi serali nelle stesse occasioni, e tutti lo cantano alla Vigilia dell’Espiazione (Kol Nidre).
  Secondo quanto riferisce il Town&Countrymag, il rabbino capo d’Inghilterra, Ephraim Mirvis e sua moglie Valerie, soggiorneranno a Clarence House la notte prima dell’incoronazione di Re Carlo per osservare lo Shabbat e assistere comunque all’incoronazione. I coniugi dormiranno nella residenza del re in modo da poter partecipare senza violare lo Shabbat.
  L’incoronazione avverrà presso l’Abbazia di Westminster, una chiesa reale: mentre molte interpretazioni ortodosse della legge ebraica sostengono che gli ebrei non dovrebbero entrare nelle chiese, la massima corte rabbinica di Londra ha stabilito negli anni ‘70 che i capi rabbini possono farlo se la loro presenza è richiesta dal monarca.
  Secondo il Telegraph , «il rabbino capo celebrerà anche lo Shabbat che si terrà durante il fine settimana dell’incoronazione con le comunità locali». Non va infine dimenticato che in passato c’è stata un’altra incoronazione caduta durante lo Shabbat nella storia moderna: l’incoronazione del re Edoardo VII, sabato 9 agosto 1902, prevista inizialmente per giovedì 26 giugno 1902, ma due giorni prima, gli era stata diagnosticata l’appendicite.
  Anthony Broza, CEO di Wienerworld, società di distribuzione musicale che ha partecipato alla realizzazione del coro dei bambini, ha commentato: «Wienerworld è molto orgogliosa di collaborare con la United Synagogue, i fratelli Portnoy e 200 giovani voci per produrre e distribuire questa nuova composizione di Adon Olam di Stephen Levey in onore dell’incoronazione». Ha quindi aggiunto: «Re Carlo III è sempre stato un fedele amico personale della comunità ebraica. Ci auguriamo che questa nuova registrazione di Adon Olam funga da ulteriore riconoscimento dell’affetto della comunità per la Royal Family e della nostra gratitudine per il fatto che gli ebrei possano osservare i loro costumi e tradizioni in modo sicuro e aperto nel Regno Unito».
Ha dichiarato a sua volta Jo Gross, CEO della United Synagogue: «Mentre il mondo è cambiato radicalmente da quando siamo stati fondati nel 1870, due costanti durante i nostri 153 anni di storia sono state la recitazione ogni settimana nelle nostre sinagoghe della Preghiera per la Famiglia Reale e la conclusione dei nostri servizi con Adon Olam. La United Synagogue è quindi lieta di celebrare l’incoronazione di Re Carlo III con questa nuova versione grazie a Wienerworld. Adon Olam è spesso cantato dai giovani membri della nostra comunità, quindi siamo particolarmente lieti di aver riunito circa 200 bambini delle nostre scuole ebraiche per esibirsi con i fratelli Portnoy. Speriamo che vi piacerà ascoltarlo e cantarlo durante lo Shabbat dell’Incoronazione e oltre!».
  Come si legge nel testo in calce al video su Youtube della Prima trasmessa il 28 aprile 2023 che conta già 27.870 visualizzazioni mentre scriviamo, i Portnoy Brothers fanno musica insieme da tempo immemorabile. La loro musica spazia in molti generi e il loro album più recente No Complaints (registrato tra Nashville e Gerusalemme) è entrato nella TOP 10 della classifica Billboard Heatseekers e presenta un duetto con Alex Clare. Hanno anche condiviso il palco con Idan Raichel e Ivri Lider e si sono esibiti, tra l’altro, con la Jerusalem Symphony Orchestra.
  Infine una curiosità: Questa di Re Carlo III sarà  l’incoronazione di molte fedi e di molte lingue. Il futuro sovrano, desideroso di dimostrare di poter essere una figura unificante per tutti nel Regno Unito, sarà incoronato in una cerimonia che per la prima volta includerà la partecipazione attiva di fedi diverse dalla Chiesa d’Inghilterra.
  Leader buddisti, indù, ebrei, musulmani e sikh prenderanno infatti parte a vari aspetti dell’incoronazione, ha detto sabato l’ufficio dell’Arcivescovo di Canterbury, rivelando i dettagli di un servizio descritto come un atto di culto cristiano che rifletterà la società contemporanea.
  La cerimonia includerà per la prima volta anche vescovi donna, oltre a inni e preghiere cantati in gallese, gaelico scozzese e gaelico irlandese, oltre che in inglese.
  Adon Olam sarà pubblicato come singolo su tutte le piattaforme di streaming e download insieme a un video su tutti i canali dei social media, con i proventi devoluti in beneficenza.

(Bet Magazine Mosaico, 1 maggio 2023)

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Israele, scoperta la bussola di un combattente dell’Haganah

di Jacqueline Sermoneta

FOTO
Ritrovata una bussola in ottone, risalente a 75 anni fa, in un sito a sud-ovest di Gerusalemme, dove, nel 1948, furono uccisi 35 combattenti dell’Haganah. Il luogo fu teatro di un sanguinoso scontro, noto nella storia d’Israele come la ‘battaglia dei Lamed-Heh’ – in ebraico, 35- durante la Guerra d’Indipendenza. Secondo quanto riferisce l’Israel Antiquities Authority (IAA), la bussola apparteneva proprio a uno di questi uomini.
  La storia del prezioso ritrovamento inizia il 16 gennaio 1948, quando un gruppo di combattenti dell’Haganah, la principale organizzazione militare ebraica prima della fondazione dello Stato d’Israele, partì per consegnare aiuti e rifornimenti a quattro kibbutzim di Gush Etzion, a sud di Gerusalemme. Prima dell’arrivo a destinazione, il convoglio militare fu intercettato e attaccato dagli arabi. Dopo uno scontro durato un giorno intero, tutti i 35 membri dell’Haganah, ormai senza munizioni, furono uccisi e mutilati. Alla fine della guerra, i loro corpi furono seppelliti nel cimitero del Monte Hertzl, a Gerusalemme.
  Oltre alla bussola, rinvenuti alcuni bossoli di mitragliatrice Bren. Secondo gli archeologi, uno di questi proiettili ha colpito la bussola, appartenuta probabilmente al comandante del battaglione Danny Mass o a uno dei due combattenti Yitzhak Halevi o Yitzhak Zevuloni.
  "Questo studio archeologico è diverso da qualsiasi altro - ha detto Eyal Marko dell'IAA, autore della scoperta insieme a Rafael Lewis dell'Ashkelon Academic College e dell'Università di Haifa. "Sebbene siano passati 75 anni dal massacro dei 35 uomini, qui ci sono i loro volti e i loro nomi. – hanno spiegato gli studiosi, come riporta il JNS - C'è una familiarità quasi personale con ognuno dei combattenti. Proviamo a fare la ricerca nel modo più scientifico possibile ma è molto difficile staccarsi dall'aspetto emotivo”.
  Il direttore dell'IAA Eli Eskosido ha aggiunto che “la toccante ricerca riconduce a momenti agghiaccianti della battaglia dei ‘Lamed-Heh’ e mostra che l'archeologia può essere utilizzata come strumento per comprendere eventi storici non solo del lontano passato ma anche di quello più recente”.
  In ricordo delle vittime della battaglia, nell'agosto del 1949, un gruppo di ex membri dell’unità d'élite Palmach (acronimo di “battaglioni d’assalto”) dell'Haganah ha fondato il kibbutz Netiv HaLamed-Heh, nella Valle di Elah.

(Shalom, 1 maggio 2023)

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