Antisemitismo, in Francia l'affaire Dreyfus è ancora attuale
Il ministero della diaspora israeliano: "E' la nazione più pericolosa per gli ebrei"
di Veronica Di Benedetto Montaccini
Attacchi ai centri ebraici, minacce per strada ai passanti e intimidazioni quotidiane agli studenti. Sono queste le notizie che quotidianamente provengono dalla Francia. L'ultimo fatto di cronaca riguarda due giovani ebrei con la Kippà, il copricapo tipico, picchiati e minacciati di morte nella periferia nord-est di Parigi, a Seine Saint-Denis. Il 25 febbraio scorso è stata aperta un'inchiesta secondo la quale "si tratta a tutti gli effetti di un'aggressione antisemita". Sono molte, negli ultimi anni, le situazioni del genere. Cavalcando quest'onda e ritirando fuori uno storico odio, Marine Le Pen sull'antisionismo sta costruendo parte della sua campagna elettorale.
Solo l'ultima delle tante.
Due giovani di religione ebraica, 29 e 17 anni, mentre erano alla guida di un'automobile sono stati insultati dagli occupanti di un'altra auto: li hanno costretti a fermarsi al grido "sporco ebreo, ti ammazzo". Una volta fermi, gli aggressori sono stati raggiunti da altri complici che hanno malmenato i due ragazzi. Il padre dei due giovani, Armand Azoulay, è il presidente della comunità ebraica della vicina Bondy e ha parlato di "una violenza di una bestialità incredibile". In Italia non siamo abituati a questo tipo di aggressioni mirate contro il mondo ebraico, mentre in Francia sta crescendo tantissimo. Secondo il CRIF (il Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche in Francia) è "un fenomeno che va guardato con attenzione e non sottovalutato. Per le ripercussioni che può avere e per l'annullamento della memoria storica. Stiamo facendo di tutto perché i 470mila ebrei residenti in Francia vivano normalmente".
I populisti, novelli "odiatori" degli ebrei.
Marine Le Pen, leader del partito di estrema destra Front National, ha detto che sarebbe meglio per gli ebrei (e i fedeli di altre religioni) non esporre i simboli del loro culto, come la kippà. Le sue dichiarazioni avevano scatenato polemiche anche perché, nella stessa intervista televisiva, Le Pen affermava che con lei all'Eliseo i cittadini israeliani e gli altri extraeuropei, a eccezione dei russi, non avrebbero potuto mantenere la doppia cittadinanza, essendo dunque costretti a scegliere tra quella francese e quella, in questo caso, israeliana.
Con questi slogan Le Pen sottintende la denuncia di una "doppia fedeltà tipica dell'ebreo" che è la radice concettuale più profonda dell'antisemitismo del '900, con implicito rimando ai Protocolli dei Savi di Sion. Un grande calcolo politico quello del FN: Le Pen eccita oggi i più profondi sentimenti di diffidenza razziale nei confronti degli ebrei, che sono parte costituente del bagaglio storico del sanfedismo così radicato nella Chiesa francese e nell'elettorato moderato e centrista.
La percezione dei francesi delle comunità musulmane e ebraiche a confronto.
L'Ipsos, l'Istituto di sondaggi francese, ha portato avanti un'inchiesta durata 18 mesi. Mirava a capire come i cittadini dell'Esagono percepiscano le due comunità, e anche come queste ultime si percepiscano tra loro. I risultati fanno paura: l'odio nei confronti delle due comunità è pressoché identico.
Se il 54% delle persone pensa che l'immigrazione impoverisca il paese, il 29% dichiara di aver avuto problemi a relazionarsi con la comunità magrebina. Dall'altra parte, ne vengono fuori pregiudizi antisemiti e inquietudini crescenti. Il 56% dei francesi (1 su 2) considera gli ebrei ben integrati, ma tante sono le dichiarazioni di chi li vede "con molto potere", "troppo più ricchi rispetto ai francesi". Il 41% pensa che "sono troppo presenti nei media", il 60% considera "la comunità ebraica responsabile del crescente antisemitismo". Percezione finale? Il 13% della popolazione francese intervistata, una persona su 10, dice che "ci sono troppi ebrei in Francia!". Altro lato della medaglia: secondo il 92% degli ebrei "negli ultimi cinque anni l'antisemitismo in Francia è sicuramente aumentato".
Una nazione più pericolosa per gli ebrei.
L'ex ministro degli Esteri francese, Bernard Kouchner, ha dichiarato che l'antisemitismo è una "tradizione francese", creando non poche polemiche. La vecchia Francia dei livore antisemita eccitato dall'affaire Dreyfus delle riviste La Croix degli agostiniani e Études dei gesuiti, riemerge e trova una rappresentanza politica, a dimostrazione che la fuga di 8 mila ebrei francesi in Israele negli ultimi due anni ha ragioni ben più serie della paura per i pur insopportabili e concreti atti di razzismo materiale. Alain Granat è il direttore di Jewpop.com, un magazine online nato come sito di cultura ebraica e diventato ora luogo di dibattito politico multi religioso è molto allarmato per ciò che sta succedendo: "E' un problema globale di tutta la Francia. Va oltre l'antisemitismo. La Le Pen cerca da tempo di accarezzare l'elettorato ebraico, ma utilizzando proprio il ricatto della paura, del rischio delle aggressioni in banlieue per esempio. Queste ultime aggressioni sono più preoccupanti di quelle del 2005 perché nel frattempo le periferie sono state completamente abbandonate. Se dovesse vincere il Front National molti ebrei faranno le valigie, non solo per l'antisemitismo, ma anche per ragioni economiche: la Francia piomberebbe infatti in una crisi nera".
Tempo fa un rapporto del ministero della Diaspora israeliano ha definito "la Francia la nazione più pericolosa per gli ebrei". L''Affaire Dreyfus, il maggiore conflitto politico in Francia dal 1894 al 1906 (nato in seguito all'accusa di tradimento mossa all'innocente capitano di origine ebraica Dreyfus) è ancora del tutto attuale.
(OFCS.Report, 15 marzo 2017)
Il sarto di Gaza che vende le kippah agli israeliani
Ignora le proteste e porta il lavoro nel campo profughi di Shati
Gaza - Un palestinese confeziona kippah
Nella travagliata economia di Gaza, un sarto del misero campo profughi Shati è riuscito ad individuare un nuovo filone di export e adesso è in grado di offrire lavoro alla sua gente. L'uomo, riferisce il sito 'Gazapost', si chiama Muhammad Abu Shanab - 61 anni - e di recente si è specializzato nella produzione di 'kippah', il copricapo degli ebrei religiosi.
In passato l'industria locale di sartoria ha conosciuto periodi di prosperità durante i quali era in grado di sopperire alle necessità di Gaza e di esportare in Paesi arabi ricchi di risorse, fra cui quelli del Golfo. Poi il blocco della Striscia e anche la concorrenza di prodotti tessili provenienti dall'Estremo Oriente e dalla Turchia hanno messo in ginocchio il settore. Trovatosi a corto di idee - ha spiegato Abu Shanab a 'Gazapost' - ha telefonato ad un suo vecchio conoscente in Israele, di nome Avi. Così è nata l'idea di produrre a Gaza i copricapo per gli ebrei religiosi in Israele e negli Stati Uniti. "Avi mi ha spiegato - ha detto Abu Shanab - che per produrre le kippah non è necessario essere ebrei. Bisogna però essere persone di fede, e pure di animo".
"Queste richieste - ha aggiunto Avi - escludono a priori la produzione cinese", nella convinzione che la popolazione di quel Paese sia generalmente atea. Abu Shanab ha replicato che l'Islam rispetta invece tutte le fedi, inclusa appunto quella mosaica. Tanto è bastato per mettere in moto le macchine e adesso nel campo profughi di Shati - lo stesso dove abita Ismail Haniyeh, il numero due di Hamas - si producono 200 kippah al giorno. Per il mercato Usa vengono realizzati modelli particolari, chiamati 'Milmush'. Il prezzo è economico: otto dollari al pezzo.
Non tutti, nel suo rione, hanno apprezzato l'iniziativa. A breve distanza dalla sua sartoria ci sono infatti i resti di una moschea abbattuta nel 2014 dal fuoco israeliano e qualcuno trova inopportuno "lavorare per gli israeliani". Ma Hamas non ha avuto niente da obiettare ed Abu Shanab ha aggiunto di non essere interessato ad addentrarsi in questioni politiche: la sua prima preoccupazione, ha spiegato, è di dare lavoro ai disoccupati.
La notizia che kippah smerciate in Israele possano essere 'Made in Gaza' - riporta il sito ebraico Kikar ha-Shabbat - ha destato sorpresa fra gli ortodossi israeliani, ma finora nessuna obiezione. Al contrario. Fiutando le potenzialità economiche del ricorso ad una manodopera di poche esigenze, uomini d'affari israeliani stanno adesso verificando con Abu Shanab se sia in grado di produrre a prezzi ragionevoli anche le nere palandrane tipiche degli ebrei ultraortodossi: potenzialmente un mercato di centinaia di migliaia di persone. L'inaspettata sintonia fra persone di fede dalle due parti della barricata viene adesso vista come un messaggio di speranza: modesto, ma forse anche promettente.
(ANSA, 15 marzo 2017)
Baseball: Mondiali, finita la favola di Israele
La nazionale 'cenerentola' eliminata dalla squadra giapponese
La squadra israeliana di baseball e' stata eliminata oggi dai Campionati del mondo, nei quarti di finale, dopo essere stata sconfitta dalla compagine giapponese - una delle piu' forti al mondo - per 8-3. Lo riferisce il sito Ynet. In precedenza, la poco quotata squadra israeliana era riuscita a sconfiggere Corea del Sud, Taiwan, Olanda e Cuba.
Ynet aggiunge che oggi i giocatori israeliani sono riusciti a tener testa ai giapponesi per circa due ore, ma poi si sono dovuti arrendere alle superiori capacita' dei rivali.
(ANSA, 15 marzo 2017)
Arte del ricamo in Palestina
A cura dei Giovani Palestinesi d'Italia.
L'arte del ricamo palestinese è considerata uno dei più importanti patrimoni dell'arte popolare tramandata di generazione in generazione e simbolo dell'identità nazionale palestinese.
L'arte è ancora fortemente presente tra i palestinesi, nonostante la proliferazione di capi di abbigliamento alla moda. Per la donna palestinese il ricamo è diventato uno stile. E' solita decorare ogni parte della casa con un pezzo di stoffa ricamato, creare quadri artistici, borse, abiti e così via. Inoltre nonostante l'arte del ricamo sia un'identità nazionale, ogni città ha un suo stile, ha un suo modo nell'abbinare i colori; ciò si nota soprattutto nel classico e tradizionale abito palestinese: il Thob.
La donna palestinese è solita indossare il Thob quotidianamente e in qualsiasi occasione, a cambiare magari sono gli elementi decorativi e i colori. Il Thob di una donna di Gerusalemme è diverso da quello di una di Jenin, un thob in base alla regione può essere decorato su più "'Oruq" ovvero una sorta di "venature", una sorta di strisce verticali decorate con diversi motivi. Queste "strisce" possono essere di diverse grandezze, principalmente di 3: da 1 a 5 punti; da 6 a 16, da 20 in poi. I motivi decorativi possono essere: tulipani e foglioline, da frutti e alberi di ciliegio, file di rose, figure geometriche
Oggi il thob è solito indossarlo soprattutto nelle grandi occasioni, rimane tuttora un abito alla moda, raffinato ed elegante.
(Infopal, 15 marzo 2017)
Arte di ricamo di gran valore, costumi indubbiamente graziosi, ma dovè la nazione di cui dovrebbero essere segno d'identità? Saprebbero raccontarne la storia, i Giovani Palestinesi dItalia? M.C.
La politica dei 'due Stati' non è la soluzione, secondo Israele
Secondo un think tank israeliano 'gli aiuti internazionali alimentano economia della violenza
«Una reintegrazione nel territorio Giordano è imperativa per gli abitanti arabi dell'Autorità Palestinese. Solo tornando a essere cittadini giordani potranno sfondare il muro alle esportazioni della Cisgiordania costruito dalle lobby giordane». È in sostanza la tesi sostenuta da un articolo pubblicato dal BESA (Begin-Sadat centre for strategic studies), un think tank israeliano. Il professor Hillel Frisch, autore dell'articolo, esclude dunque una 'soluzione a due Stati' che «porterebbe a un'economia di violenza».
Basandosi su dati della Banca Mondiale, il paper compara la situazione economica delle aree palestinesi con quella degli Stati vicini: la popolazione della 'west bank' vanta un PIL pro capite e un'aspettativa di vita molto simili a quelle della limitrofa Giordania. Situazione diversa si ha a Gaza (secondo gli standard della World Bank la maggior parte della popolazione fa parte della classe medio-bassa, contro la prevalenza della classe media in Cisgiordania), territorio più povero, ma in cui l'aspettativa di vita resta comunque più alta di quella del confinante Egitto. Se si confrontano i dati, la situazione di Gaza è anche migliore di quella in Paesi come l'India, e diverse regioni dell'Africa.
Frisch evidenzia come la diversa 'percezione' sia causata da quella che lui definisce 'propaganda': in altre parole, e per citare testualmente l'articolo «la povertà in Etiopia non fa notizia, quella a Gaza sì». Il relativo benessere di Gaza e dei territori dell'Autorità Nazionale Palestinese (PA) sarebbe alimentato da una grossa mole di aiuti da parte di ONG, istituzioni, Governi e Chiese. L'articolo, però, sottolinea come questi fondi siano spesso usati per attività che non beneficerebbero la cittadinanza. Si parla, citando la testimonianza di Yossi Kuperwasser, ex-capo ricercatore per l'IDF (Israel Defense Forces), di terroristi riscattati, traffico d'armi, attività criminali «aiuti economici che in contesti di conflitto alimentano direttamente e indirettamente la violenza».
Gli aiuti finanziari fungono da grosso incentivo per il terrorismo. Il quadro completo illustrerebbe come territori della PA, per colpa di quest'enorme flusso finanziario, non sarebbero in grado di costruire una solida economia funzionante. Per Frisch, istituzioni come l'Unione Europea sarebbero ormai vittima di un ricatto mentale che le porterebbe a credere che questi aiuti finanziari siano l'unico modo per arginare la violenza politica e terroristica che altrimenti le autorità palestinesi scatenerebbero su Israele. La nascita di uno Stato Palestinese, secondo l'articolo, peggiorerebbe questa situazione.
L'analisi dell'articolo dipinge una situazione piuttosto grigia per l'economia dei territori della PA: il rapporto tra import e export di PA e Giordania è pari a 107 milioni di dollari di importazioni dallo Stato limitrofo e 60 milioni di esportazioni da parte delle aree palestinesi. Nonostante la vicinanza, infatti, solo il 7% delle esportazioni dei territori sotto la PA sono indirizzate verso la Giordania. Questo rapporto influisce negativamente anche sulla capacità dei palestinesi di esportare prodotti verso i ricchi 'Stati del Golfo'. Le restrizioni sono incoraggiate, tramite intensa attività di lobbying, proprio dai 'competitor' in Giordania. La soluzione 'dei due Stati', secondo Frisch, esaspererebbe questa già grave situazione, fornendo alla PA ulteriori incentivi al ricorso alla violenza e alla lotta armata, come 'risorsa' per ottenere gli aiuti esteri che oggi drogano la sua economia. La soluzione, in sostanza, sarebbe dunque quella di una maggiore integrazione dei territori della PA nello Stato giordano.
(L'Indro, 15 marzo 2017)
Kadima, da Pellestrina fino alla Terra promessa
Tre imbarcazioni cariche di sopravvissuti della Shoah partirono 70 anni fa verso lo stato d'Israele.
di Vettor Maria Corsetti
Kadima
VENEZIA - La vicenda richiama subito alla mente "Exodus", il kolossal sulla genesi dello Stato di Israele diretto nel 1960 da Otto Preminger e interpretato da Paul Newrnan, Eve Marie Saint e Lee J. Cobb, Se non fosse che qui le navi non sono una ma tre. E il loro porto di partenza nel 1946, 1947 e 1948 non fu Cipro ma Pellestrina, con un carico complessivo di 1.305 ebrei sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti nell'Europa dell'est, e disposti a tutto pur di raggiungere la Palestina.
A 70 anni dal viaggio di "Kadima" ("Avanti"), la seconda di queste tre navi della speranza e della volontà, l'organizzazione Keren Hayesod Italia in collaborazione con la Comunità ebraica di Venezia, ha organizzato proprio a Pellestrina, il 26 marzo alle ore 10, la prima celebrazione di questa storia mai del tutto raccontata. "Kadima" salpò da Pellestrina il 5 novembre 1947 con 794 persone a bordo: ebrei che dopo le persecuzioni razziali, le deportazioni e i campi di sterminio non avevano più una casa o una patria. E aspiravano a crearne una in Palestina, allora sotto mandato britannico, secondo quanto previsto dalla dichiarazione Balfour e facendo proprie le rivendicazioni dei movimenti sionisti.
Entrati in Italia da Tarvisio, furono tutti aiutati dall'organizzazione clandestina "Bricha", operante a stretto contatto con la Brigata ebraica e l'Haganah. E da Ada Sereni, l'infaticabile coordinatrice di tanti esodi via mare sotto il naso degli inglesi. Che a tal fine teneva aperto un ufficio a Milano, ovviamente soggetto a copertura. E utilizzava un'azienda agricola di Magenta come centro di prima accoglienza e per la formazione dei futuri lavoratori nei kibbutz. Spentasi nel 1998 all'età di 92 anni, il suo ricordo è indissolubilmente legato a quello del marito Enzo, non meno straordinaria figura di scrittore, partigiano, sionista, fondatore di kibbutz e sostenitore della coesistenza tra ebrei e arabi, scomparso nel campo di concentramento di Dachau dopo la cattura da parte dei tedeschi.
Il viaggio di "Kadima" durò solo pochi giorni, perché il 15 novembre fu scoperta da un aereo della Royal Air Force. Una nave britannica la costrinse a fare rotta verso Haifa, da dove i suoi passeggeri furono trasferiti nei campi d'internamento ciprioti. Analoga la sorte di "Wingate" e "Lamed-Hey-35 eroi", partite il 14 marzo 1946 e il 17 gennaio 1948 sempre da Pellestrina, con 238 e 273 persone. Che, nonostante l'internamento a Haifa e a Cipro, raggiunsero più tardi la Palestina per essere parte attiva nella nascita di Israele. "Tra i sopravvissuti alla Shoah, molti ancora si commuovono al ricordo degli aiuti e della solidarietà e simpatia manifestate nei loro confronti da tanti italiani a Venezia, Bari, Otranto, La Spezia, Genova e Formia", sottolinea lo storico Yehoshua Amishav. Che nella medesima circostanza, oltre a rendere omaggio al premier Alcide De Gasperi "per la sua disponibilità a chiudere un occhio, se non tutti e due, davanti all'emigrazione clandestina ebraica", precisa come durante le sue ricerche sulle partenze da Pellestrina sia emersa anche la settecentesca villa Friedenberg a Mestre, "utilizzata nel dopoguerra da "Bricha" come centro d'accoglienza degli ebrei in attesa d'imbarco. E per tragica ironia, impiegata in precedenza come luogo di detenzione temporanea degli ebrei destinati ai campi di sterminio".
E ora si cercano i testimoni dell'epoca
Alla cerimonia del 26 marzo a Pellestrina è già prevista la partecipazione di testimoni diretti del viaggio di "Kadima", Ma gli organizzatori si propongono di fare di più. E a tal fine, lanciano un appello rivolto a quanti, in isola o più genericamente a Venezia, potrebbero avere conservato il ricordo della partenza di questa e delle altre due navi. O della presenza in città dei loro passeggeri. "Siamo convinti dell'esistenza di persone che, seppur oggi molto anziane, potrebbero fornire informazioni molto utili sui fatti di Pellestrina, oppure essere depositarie di testimonianze più generali sull'emigrazione clandestina da Venezia e dintorni dei sopravvissuti alla Shoah - spiega Yebosbua Amishav, già diplomatico presso l'Ambasciata israeliana in Italia, appassionato di studi storici e tra i promotori dell'evento -. L'apertura dell'indirizzo e-mail navekadima74@gmail.com è stata pensata per loro. Pertanto, chiunque abbia conservato la memoria di quei viaggi è pregato di farsi avanti".
(Il Gazzettino, 15 marzo 2017)
«L'arma segreta di Israele contro il terrore è il coraggio quotidiano dei suoi cittadini»
Alcuni estratti dell'intervento di Fiamma Nirenstein sul libro «Lessons from Israel's response to terrorism», pubblicato in Israele e presentato oggi anche in Italia, dedicato ai suggerimenti che lo Stato ebraico può dare all'Europa per vincere la guerra contro il terrore.
di Fiamma Nirenstein
Il 7 marzo 2002 alle 1,30 Shlomi Harel, 23 anni, cameriere per fare un pò di soldi dopo la tzava, un orecchino a sinistra e due bulloni a destra, il tatuaggio sul braccio e i capelli a spine, vede un giovane grassoccio che discute con la guardia sulla porta del Cafè Cafìt, a Gerusalemme, pieno centro, Emek Refaim. Ha imparato nell'esercito come si fa a identificare una persona che non lo voglia: lo si fa chiaccherare. Gli chiede tutto quello che gli viene in mente: «Dove vai, chi sei, cosa vuoi». Quello risponde solo «non parlo ebraico» in ebraico. «L'ho spinto senza violenza ma con tutto il mio peso verso l'angolo. Non pensavo a niente». Shlomi mi ha raccontato che il ragazzo sudava e balbettava. Il pubblico si appiattisce terrorizzato. «Kmo machina, come una macchina gli ho tolto lo zaino dalle spalle. Mi è caduto, si è aperto, ho visto i fili ... Ho avuto fortuna, non è esploso. Ho raccolto lo zaino da terra, l'ho portato nel vicolo. Pensavo: se salta ora ci faccio la figura del cretino perché moriamo tutti lo stesso. Fra eroe e cretino, il confine è quasi nulla. Ma ho anche pensato: meglio che muore uno solo, se ci riesco, piuttosto che tanti ... c'erano decine di persone al caffè».
Questa è l'arma più importante di Israele contro il terrorismo: la sua gente, i cittadini. Il trenta per cento dei terroristi sono stati neutralizzati da civili, passanti di tutte le età e condizioni sociali, giovani in blue jeans, ragazze con gli shorts o con la divisa, intellettuali di Tel Aviv e religiosi con i riccioli laterali. Uno di questi ha addirittura usato la sua busta porta-tefillim come prima arma per colpire l'accoltellatore. Un altro l'ha annichilito tirandogli in testa la chitarra che stava suonando, un altro con l'ombrello, un altro ancora con il bastone del selfie: c'è chi gli ha tirato una sedia addosso, chi l'ha spruzzato di spray col pepe, e chi infine, aveva un'arma e gli ha sparato. Pochissimi se la son data a gambe levate, quasi tutti sono rimasti per salvare qualcuno in pericolo o si sono buttati nella mischia per bloccare il terrorista (...)
Shlomi è erede ancestrale dello spirito che salva Israele dal terrore, dalla fuga, dal vivere sotto l'insegna della paura: che gli consente, in breve, di sopravvivere felicemente. Shlomi è elastico e adattabile, e non è viziato. Perché? Perché agisce in lui la resistenza appresa nei secoli che ha consentito la sopravvivenza del popolo più perseguitato della Storia, lo ha salvato dalla depressione, lo ha reso creativo; che dopo i pogrom e le persecuzioni lo ha spinto, invece che a farsi da parte, a rimettersi al centro della storia con l'attaccamento alla patria antica-nuova del popolo ebraico. L'idea del valore della propria patria e del proprio popolo, poco diffusa in Europa dove l'autofustigazione è costume corrente, dell'idea che ci sia qualcosa da difendere che vale davvero la pena consente oggi di essere il numero uno nella lotta al terrorismo. Lo spirito di disciplina che la vita spartana e militare inducono per tre anni e poi nel servizio di riserve anche nei ragazzi più viziati, più bon vivant, più gaudenti (e ce ne sono tanti) consente di ritrovare, nonostante un dissenso micidiale fra le varie parti politiche e religiose, un'unità niente affatto scontata (come si vede in Europa) di fronte alla lotta e anche una buona forma fisica (...)
Ci sono molti episodi veri in cui un soldato di Israele si butta su una bomba per salvare i suoi compagni. È un eroe in cui convivono l'idea di vita tranquilla, l'irrisione per la pompa e la retorica e l'eroismo: se Shlomi non fosse stato pronto ad afferrare la bomba, come centinaia, migliaia di altri eroi silenziosi, Israele non esisterebbe più.
(il Giornale, 15 marzo 2017)
In giro per Gerusalemme con le auto driverkss di Mobileye, nuovo gioiello di Intel
di Daniel Mosseri
GERUSALEMME - Dal 1999 al 2007 hanno sperimentato senza mai vendere un singolo prodotto; lunedì sono stati rilevati da Intel per 15,3 miliardi di dollari, nell'acquisizione più costosa nel settore tecnologico di Israele. Incontrando la stampa nella loro sede a due passi dalla città vecchia di Gerusalemme, i dirigenti di Mobileye non tradiscono eccitazione: il futuro non ha tempo da perdere, business as usual. Grazie ai suoi sensori, l'azienda israeliana fondata nel 1999 da Amnon Shashua, professore di Informatica all'Università ebraica di Gerusalemme, e dal suo socio Ziv Aviram è diventata leader globale dei sistemi di guida assistita, semiautomatica e automatica. Mobileye produce uno dei migliori sistemi Adas (Advanced Driver Assistance System) al mondo. L'Adas è un sistema di sensori che si monta sull'automobile e monitora il traffico davanti a noi, distinguendo ostacoli e (s)oggetti in movimento, avvertendoci se un pedone sta attraversando la strada in modo distratto o se l'auto davanti sta frenando di colpo. L'elaborazione avviene nel giro di millisecondi e l'allerta arriva prima ancora che si accendano gli stop della macchina che ci precede: se non freniamo in tempo, la nostra auto lo farà per noi. Lo stesso vale per il colpo di sonno: un forte bip e una frenata ci salveranno.
"Gli automaker che lavorano con noi sono Zl", spiega il direttore Vendite & Business development, Lior Sethon. Sono quasi tutte le principali case produttrici a eccezione di Daimler e Toyota. A tutti Mobileye offre un bene intangibile che permette però risparmi colossali: la sicurezza. Statistiche alla mano, Sethon ricorda che il 93 per cento degli incidenti automobilistici è provocato dall'uomo. "Da quando usiamo gli smartphone mentre siamo al volante va anche peggio". Ecco spiegata la spesa folle del gigante di Santa Clara: Mobileye promette di abbattere le collisioni fra mezzi su gomma dell'80 per cento. I risparmi sono evidenti: meno vittime, meno danni, meno spese dall'ortopedico e dal carrozziere, e meno ingorghi; ma soprattutto minori spese assicurative. Sethon illustra un futuro a portata di mano, perché se l'auto senza pilota è in programma per domani, il sistema Adas "è già installato su 15 milioni di veicoli". Da novembre 2016 in Israele il sistema è obbligatorio su tutti i mezzi al di sopra delle 3,5 tonnellate. "A Taiwan il governo copre il 49 per cento dei costi di installazione mentre a Singapore la copertura è del 70". Negli Stati Uniti la National HighwayTraffic Safety Administration ha recentemente suggerito al legislatore di rendere i sensori Mobileye obbligatori "come i seggiolini e le cinture di sicurezza". In Europa invece esistono forte resistenze culturali all'innovazione. "Né Herr Muller né il signor Rossi comprerebbero l'Adas spontaneamente, perché sono convinti di guidare bene", osserva Sethon. Se il futuro ha in serbo auto più sicure, resta il problema del presente. A Mobileye sanno che la vita media di un'automobile in Europa è di undici anni e non si può obbligare centinaia di milioni di cittadini a comprare un'auto avveniristica. Una soluzione c'è: "Adas può essere installato anche su auto del 2002". In questo caso il sistema è solo passivo ma i suoi bip ci danno due secondi per frenare in tempo. "E i rischi di collisione scendono del 60-80 per cento". I costi per l'installazione si aggirano attorno ai 900 euro.
Non è per questo, però, che Intel ha messo mano al portafogli: il colosso dei chip guarda già alle auto driverless dotate di tutti i sistemi di automazione sviluppati da Mobileye. Bmw ha intenzione di metterne 40 su strada già entro la fine di quest'anno. I sensori "intelligenti" hanno un campo di azione a 360 gradi e sono in grado di elaborare non solo velocità, distanza, traiettoria e dimensioni degli altri mezzi ma anche "di interpretare il comportamento degli altri veicoli. Non importa se alla guida c'è un altro computer, una nonnina o un giovane aggressivo", sottolinea Sethon. Con una cautela in più. "La società moderna concepisce come un umano alla guida possa uccidere un altro essere umano, ma a una macchina questo non sarà permesso. Mai".
Conclusa la conversazione, è il momento di provare l'auto automatica. Shalom, una delle sette persone autorizzate da Mobileye e dal ministero israeliano dei Trasporti a testare le auto driverless, ci porta a fare un giro. L'auto, un'Audi equipaggiata con i sensori di ultima generazione, scivola morbida sotto le mura di Gerusalemme volute da Solimano il Magnifico. Per passare da una modalità di guida all'altra, Shalom usa una levetta accanto alle frecce. "Per adesso facciamo così", spiega, "ma un domani credo che non ci saranno né volante né leve". E come si farà a guidare senza computer? "Non credo che sarà più permesso", risponde. "Senza computer è troppo pericoloso".
(Il Foglio, 15 marzo 2017)
L'asse di ricerca e conoscenza che collega Torino ad Haifa
di Fabrizio Assandri
The Technion, Haifa
Pomodori che crescono anche senz'acqua e innovative tecniche di lotta ai tumori. Sono tra i progetti attivati dall'Università all'interno dell'accordo con il Technion, l'istituto di Haifa. L'accordo è in scadenza ad aprile, sarà rinnovato automaticamente dato che non è passata la linea del boicottaggio. È un'intesa di massima: non prevede a priori progetti concreti, che vengono invece stilati dai singoli dipartimenti. È stato avviato nel 2014, con la visita congiunta dei due rettori, Gianmaria Ajani e Marco Gilli, del Politecnico ad Haifa: un istituto che collabora con una delle reti di startup più avanzate del mondo, seconda forse solo alla Silicon Valley. In particolare, un fattore di interesse per gli atenei torinesi è, secondo Ajani, che il Technion mette insieme l'area di ricerca sulla medicina e sulla tecnologia, che invece a Torino sono divise.
Modello avanzato
Un esempio delle collaborazioni attivate dopo l'accordo è il progetto sui meccanismi molecolari di progressione dei tumori: il dipartimento di Oncologia torinese, con il professore Federico Bussolino, e la facoltà di Medicina del Technion con il professor Neufeld, portano avanti ricerche di base sul ruolo di particolari molecole nel processo delle metastasi. Studi che hanno un'antica origine. Vent'anni fa lo stesso dipartimento di Oncologia scoprì un sistema molecolare formato da proteine coinvolte nello sviluppo del sistema nervoso centrale.
La ricerca
Ma i progetti con il Technion, che sorge nel parco in cui c'è l'obelisco di Calatrava, sono molto vari. Un focus di ricerca è sull'adattamento della coltura del pomodoro alla siccità e ai cambiamenti climatici. Il progetto partirà il 1 giugno, ha un valore di sei milioni di euro e coinvolge 25 partner: fa parte del programma europeo Horizon 2020 ed è coordinata da Andrea Schubert dell'Università di Torino. Studierà come ridurre fino al 40 per cento l'uso dell'acqua per far crescere i pomodori, diminuendo anche i fertilizzanti. C'era stato anche un lavoro congiunto per Expo, per fare un congresso sul tema dell'acqua.
Un altro progetto, che prevede una collaborazione allargata, tra una cinquantina di partner, tra cui il Technion, è il consorzio Eit Food, di cui l'università è l'unico membro italiano, e ha ottenuto un maxi finanziamento dall'Unione Europea per studiare il cibo del futuro. A partire dalla dieta mediterranea come modello base per un'alimentazione sana. Complessivamente, il progetto avrà 400 milioni dall'Ue nei prossimi sette anni. Tra i partner ci sono anche realtà come Nestlé e Pepsi-Co. Dall'ateneo hanno sempre precisato che gli accordi non riguardano tecnologie militari. Ma per gli studenti e professori contrari all'accordo anche le ricerche in campo civile, come quelle sull'acqua, vengono usate da Israele per opprimere i palestinesi e per questo vanno boicottate.
Il Politecnico, terzo partner dell'accordo, sostiene di non avere al momento progetti strutturati e nati ad hoc dopo la firma. Ma l'interesse c'è: il rettore Gilli ha più volte visitato Israele annunciando anche l'intenzione di creare un incubatore per start-up misto tra le due nazioni. E anche se non con il Technion, i due atenei portano avanti diversi progetti con vari istituti israeliani, ad esempio i dipartimenti di Agraria e Biotecnologie.
(La Stampa, 15 marzo 2017)
La resistenza ebraica contro la Shoah
Si dice spesso che è mancata una ribellione israelita attiva alle deportazioni naziste, ma non è del tutto vero. Anzi, l'opposizione armata nacque nel ghetto di Varsavia.
di Piero Del Giudice
Ad ogni «Giorno della memoria», alle manifestazioni rituali nelle scuole, si ripete la domanda da parte di studenti e anche di insegnanti: «Perché non si sono ribellati?», intendendo i milioni di ebrei deportati al lavoro forzato e allo sterminio dai soldati del Terzo Reich e, almeno dopo la «carta di Verona» del 14 novembre 1943, dai fascisti italiani. L' editoria cerca di far fronte al quesito senza rimettere mano alla non poi così breve bibliografia della rivolta ma in fretta e per scorciatoie, come per l'improbabile racconto di resistenza Il partigiano Edmond di Aharon Appelfeld (Guanda, pagine 332, euro 19,00) e poco altro. La risposta alla domanda sulla passività del popolo ebraico nella Shoah non può che essere articolata.
Il progetto di sterminio del popolo ebraico che via via si definisce ha una serie di fasi prima della deportazione: lo stigma, la separazione sociale, l'espulsione dalle istituzioni, l'esproprio dei beni, la limitazione di movimento, la limitazione territoriale, il ghetto ... Marek Edelman (Varsavia 1919-2009) - ancora in camice bianco nell'incontro del 2004, cardiologo en amateur nell'ospedale di Lodz era quell'anno l'ultimo comandante in vita della rivolta armata del ghetto di Varsavia (18 aprile-13 maggio 1943). Antisionista capo della componente armata del Bund nell'insurrezione, diceva in proposito: «Non è vero ciò che raccontano o fanno vedere nei film: persone che protestano, si lamentano, piangono, urlano. No. Era una massa di persone rassegnate che saliva sui treni per Treblinka, dalla Umschlagplatz. La violenza della sopraffazione è un elemento che distrugge l'uomo non solo fisicamente ma anche psicologicamente, moralmente. E la fame è un alleato prezioso della sopraffazione. Per convincere gli ebrei a partire i tedeschi distribuivano anche tre chili di pane e marmellata. Dicevano "Se danno da mangiare, vuol dire che ci portano a lavorare, non a morire". E c'erano lunghe file per farsi mettere sui convogli».
L'isolamento sociale e culturale degli ebrei è la condizione determinante, il progetto nazista di dominio sociale è una piramide con alla base gli ebrei. Yuri Suhl, nell'antologia della resistenza ebraica Ed essi si ribellarono (Mursia, 1969) elenca in una pagina accorata forze e associazioni ostili agli ebrei, schierate nell'assedio del ghetto durante l'insurrezione: «La polizia polacca, con la sua cupidigia, che dà la caccia agli ebrei nascosti nella parte ariana, li ricatta spremendo loro immense cifre e poi li consegna alla Gestapo; al suo fianco bande di ricattatori, i cosiddetti szmalcovniki, si acquattano alle porte del ghetto, in attesa di piombare addosso ai poveri disgraziati che fuggono dagli incendi, dai gas e dalle pallottole dei tedeschi. Li inseguono, li derubano e poi li costringono a rientrare nel ghetto in fiamme, violentano le donne, denunciano e consegnano alla Gestapo. Estorcere danaro agli ebrei, infondere paura nei loro cuori, non dare loro pace, farli uscire dai nascondigli, collaborare con i nazisti, tutto ciò diventa una nuova fonte di guadagno e un nuovo genere di passatempo per la" gioventù dorata" composta da giovani di ideologia nazista e dalla piccola e media borghesia che brama insediarsi nei negozi, entrare nei commerci e nelle professioni abbandonate dagli ebrei ormai annientati».
E poi la piramide si ripropone sia nel campo concentrazionario - qui le pagine di Se questo è un uomo di Primo Levi - sia nel ghetto, dove al culmine c'è la polizia ebraica con i suoi lunghi bastoni e lo judenrat, l'amministrazione ebraica autonoma a controllo tedesco. Su questo infatti Edelman: «C'è un periodo di alcuni mesi, dall'ottobre del 1942 fino all'insurrezione, in cui io e due-tre amici abbiamo la responsabilità di tutta la popolazione ancora viva nel ghetto. Noi eravamo il potere reale. Lo judenrat, l'amministrazione e la polizia ebrea che collaborava con i tedeschi, esisteva ufficialmente, ma non contava più nulla. Eravamo noi gli amministratori del ghetto. La popolazione ascoltava noi, aspettava le nostre istruzioni e ci ha consegna to la propria vita». Noi chi? «I comandanti della insurrezione. Eravamo cinque, Mordechai Anielevich il comandante generale, io il più anziano - avevo 22 anni - tra tutti e cinque avevamo 110 anni». L'importanza dell'insurrezione del ghetto sta nel fatto che viene indicata, a tutti, l'unica via possibile alla sopravvivenza e all'umano riscatto: «Non si tratta più della "questione ebraica" ma dell'indicazione di come l'Europa deve comportarsi. Non c'era ancora stata in nessuna città d'Europa la lotta armata di resistenza ai tedeschi. La lotta militare urbana partigiana è iniziata nel ghetto diVarsavia, ed è passata dall'altra parte del muro di Varsavia». Per ridurre vieppiù a riflessione e ragionamento l'accusa di "passività" sollevata contro la popolazione ebraica in Europa, va detto che tutto il continente è in sostanza nazifascista - direttamente o per tramite di amministrazioni quisling. Vie di fuga e ribellioni si animano e si accendono sì, ma dentro un continente che è un campo chiuso, un perimetro murato in cui, almeno nei primi anni Quaranta, si è radicato il nazifascismo. E tuttavia: «I polacchi dovettero anche rendersi conto che il genocidio antiebraico, solo sino a un certo punto accuratamente nascosto, si sarebbe potuto assai presto estendere agli stessi polacchi e a tutti gli slavi. Apparvero sentimenti di solidarietà mai prima conosciuti in quella misura» (Storia della resistenza in Europa di Giorgio Vaccarino, Feltrinelli 1981).
Per queste nuove fraternità e per gli spazi - come nelle pianure russe - si anima la lotta partigiana di formazioni e bande ebraiche. In proposito si legga Se non ora, quando? ancora di Primo Levi, romanzato sì, ma anche di cronache e fatti reali. Nello spazio chiuso da filo spinato la macellazione continua. Né la attenuano le lagne del ministro del lavoro del Terzo Reieh, Albert Speer: «Si uccidono troppi prigionieri» invece che dirottarli al lavoro forzato. Treblinka, Sobibor si ribellano. Treblinka di Jean François Streiner (Mondadori 1966) è il libro inchiesta sulla rivolta del campo (2 agosto 1943). Rivolta e fuga sulla spinta dell'insurrezione del ghetto e perché il campo sta per essere liquidato e, con esso, i residui prigionieri.
C'è una vicenda raccontata in Treblinka. Il giovane Choken evade dal campo nascosto in un trasporto di vestiti e beni depredati ai prigionieri. Fuori non trova che distruzioni, il villaggio ebreo di Stoczek che lui conosce è disabitato, case bruciate, la porta della piccola sinagoga divelta e l'interno devastato: l'Aron Hakodesh, l'armadio dove si custodiscono i rotoli della Torah, profanato. Il giovane evaso non può altro se non tornare nel ghetto da cui è stato deportato. Qui nessuno vuole e può ascoltare i suoi racconti sul campo di sterminio. Partecipa all'insurrezione e poi, di nuovo deportato, finisce nelle camere a gas di Treblinka.
(Avvenire, 15 marzo 2017)
Perché il nostro destino dipende da Trump
di Esor Ben-Sorek
da The Times of Israel
Il presidente americano, Donald Trump, ha emesso un severo avvertimento ai nostri leader e alla Chevra nella Knesset per quanto riguarda l'espansione degli insediamenti e l'annessione di Giudea e Samaria (West Bank). E questo nonostante la sua amicizia con Israele che però, è bene ricordarlo, ha il suo prezzo. Prezzo che Donald richiederà il pagamento per intero. E' pura follia la tesi "Israele può fare ciò che vuole; siamo uno Stato sovrano ". Sovrano, sì. Totalmente indipendente, no.
Facciamo affidamento su gli Stati Uniti per la maggior parte delle nostre esigenze di sicurezza. Facciamo affidamento su di loro per difendere la nostra causa all'Onu. Facciamo affidamento su di loro per lo sviluppo economico. In breve, non osiamo sfidare il presidente degli Stati Uniti.
Una soluzione a due stati non è qualcosa che si sogna, non è qualcosa che volevamo. Ma una soluzione un solo stato è suicidio nazionale. Il sionismo sarebbe morto e il nostro amato Stato di Israele finirebbe con l'essere popolato da una maggioranza araba. Potremmo avere, un presidente arabo e un primo ministro arabo.
Trump può essere un buon amico o un pessimo nemico. I nostri estremisti di destra sostenitori pro-coloni devono stare molto attenti nel proporre richieste. Il potere non sta nelle nostre mani, ma nelle mani del presidente degli Stati Uniti.
Io non sono un profeta, né figlio di profeta. Ma profetizzare che the Donald non deciderà sull'Ambasciata americana a Gerusalemme prima di maggio è facile. Trump è dalla nostra parte, almeno per il momento. Ma sarebbe sbagliato credere che noi siamo la sua priorità numero uno. Prima vengono Corea del Nord, Iran, Ucraina, i rapporti con Putin, l'Obamacare, le riforme fiscali, la ricostruzione delle infrastrutture e poi maybe poi si ricorda del suo impegno per il nostro piccolo Stato ebraico.
Noi siamo David. Trump è Golia. E la nostra slingshot, la nostra fionda non è molto efficace. Il compito di Naftali Bennet e Yehuda Glick è di controllarsi, di mantenere la lingua. Israele deve tenere la speranza viva, ma farlo con diplomatici israeliani colti istruiti, non come gli ebrei del ghetto.
In un confronto Israele contro Donald, se si tratta di questo, non ci può che essere un solo vincitore. E purtroppo, non sarà israeliano.
(Italia-Israele, 14 marzo 2017)
Torino, no del senato accademico al boicottaggio contro il Technion di Haifa
Solo i rappresentanti degli studenti votano a favore dell'iniziativa filopalestinese. Ajani accolto all'uscita da grida "Vergogna, assassini".
di Jacopo Ricca
L'Università di Torino dice no, tra insulti e tensioni, alla proposta di cancellare gli accordi con il Technion di Haifa, l'ateneo israeliano finito nel mirino del movimento filopalestinese per il boicottaggio accademico. Dopo una lunga discussione, dai toni pacati, il Senato Accademico ha bocciato, con il solo voto favorevole dei cinque rappresentanti degli studenti, la mozione presentata una settimana fa dal Consiglio degli Studenti e appoggiata anche da una sessantina di docenti..
Il rettore Gianmaria Ajani, che si è schierato per il mantenimento degli accordi, è stato accolto all'uscita nel loggione del rettorato di Torino dalle accuse di essere un assassino: "Con questo voto siete complici del massacro dei palestinesi. Vergogna" sono le grida dei manifestanti del collettivo Progetto Palestina che hanno atteso l'esito del voto in presidio. Fin dal primo pomeriggio alcune decine di manifestanti si erano trovati nel cortile del rettorato per una manifestazione con le musiche del gruppo del Concerto dal balconcino. "L'attività accademica è libera e questa libertà va difesa e ribadita - ha spiegato Ajani - Il perimetro di civiltà democratica in cui dobbiamo muoverci è questo. Dobbiamo creare le condizioni perché ogni individuo che opera in questa istituzione possa portare avanti in libertà piena la sua ricerca e la sua didattica".
In senato è intervenuto anche un gruppo di manifestanti, tra cui una studentessa italo-palestinese che ha ribadito le posizione a favore del boicottaggio: "Avevate la possibilità di dare un segnale importante a Israele e al popolo palestinese e l'avete sprecata" ha detto alla fine.
(la Repubblica, 14 marzo 2017)
Israele - Presto al via perforazioni simultanee in blocchi Leviathan 5 e 7
GERUSALEMME - Il consorzio per lo sfruttamento del giacimento di gas israeliano Leviathan ha annunciato l'avvio imminente e simultaneo delle perforazioni di Leviathan 7 e Leviathan 5. Il consorzio ha notificato oggi alla Borsa di Tel Aviv di aver destinato 71 milioni di dollari per l'avvio delle perforazioni di Leviathan 7. L'annuncio di oggi segue l'approvazione della decisione finale d'investimento nel giacimento avvenuta lo scorso 23 febbraio. L'annuncio dello sfruttamento di Leviathan 5 era stato dato alla fine del 2016. Le operazioni di perforazione concomitante permetteranno di risparmiare sui costi ed ottimizzare le operazioni, come indicato dalla società statunitense proprietaria del giacimento, la Noble Energy. Per le operazioni di perforazione verrà usata la piattaforma Advantage Atwood, che attualmente è in uso presso il vicino giacimento Tamar 8, le cui operazioni dovrebbero concludersi nelle prossime settimane. Le perforazioni di Leviathan 7 avverranno circa 120 chilometri ad ovest di Haifa, la cui profondità del fondale è di circa 1.630 metri. Le riserve di gas si trovano circa 3,5 chilometri sotto il fondale. Le operazioni di perforazione avverranno in tre fasi. Gli strati che verranno perforati risalgono al periodo dell'Oligo-Micene, più di 25 milioni di anni fa. L'operazione di perforazione simultanea di Leviathan 7 e Leviathan 5 ci consentirà di ottenere ulteriori informazioni sulle riserve del giacimento Leviathan ed il suo potenziale, ha dichiarato l'amministratore delegato di Delek Drilling e Avner Oil and Gas, Yossi Abu. Le perforazioni consentiranno inoltre di verificare il potenziale aggiuntivo delle risorse di gas dell'intero bacino davanti alle coste israeliane, ha chiarito Abu. Lo scorso 23 febbraio, Avner Oil e Delek Drilling, partner di Noble Energy nello sviluppo del giacimento israeliano Leviathan, hanno annunciato alla Borsa di Tel Aviv di aver approvato la decisione finale d'investimento nel progetto offshore. Noble si è assunta un impegno da 3,75 miliardi di dollari per la prima fase di sviluppo del giacimento, al termine di due mesi di trattative. Secondo quanto riferisce la stampa israeliana, prima di approvare la decisione finale d'investimento, la compagnia Usa si sarebbe assicurata che il contratto per rifornire la Giordania di 3 miliardi di metri cubi di gas l'anno per un periodo di 15 anni andasse avanti. Lo sviluppo del giacimento include la realizzazione di quattro pozzi, una piattaforma e un gasdotto di collegamento con la costa israeliana in grado di rifornire fino a 12 miliardi di metri cubi di gas l'anno allo Stato ebraico, alla Giordania e all'Autorità nazionale palestinese. I contratti siglati finora riguardano forniture pari a 4,5 miliardi di metri cubi l'anno, ma i partner del Leviathan sperano di ottenerne altri in futuro. Avner Oil e Delek Drilling, che hanno entrambe il 22,67 per cento delle quote del Leviathan, hanno firmato un accordo per un prestito da 1,75 miliardi di dollari con un consorzio di banche guidate da JP Morgan e Hsbc. Noble Energy detiene invece il 39,66 per cento del giacimento e Ratio Oil il restante 15 per cento. Lo scorso 23 febbraio Il ministro dell'Energia e delle Infrastrutture israeliano, Yuval Steinitz, ha commentato la notizia affermando che lo sviluppo del Leviathan avverrà sotto la sua supervisione. "Avremo profitti in termini di entrate per lo Stato, aria più pulita per noi e i nostri figli e maggiore sicurezza energetica - ha detto Steinitiz -. La decisione finale di investimento da parte di Noble e dei suoi partner mette fine alle proteste di chi si è opposto all'accordo sul gas cercando di bloccarlo. Se continuiamo ad andare avanti in modo responsabile e con determinazione, potremo scoprire nuovi giacimenti e posizionare Israele come un importante operatore del mercato dell'energia per i nostri vicini in Medio Oriente e in Europa". Il responsabile di Noble Energy in Israele, Bini Zomer, ha detto che negli ultimi due anni lo Stato di Israele ha fatto "passi da gigante per stabilire le condizioni necessarie per consentire alle compagnie energetiche di fare investimenti nello sviluppo delle risorse naturali del paese. Israele sta raccogliendo i frutti di questi sforzi. Lo sviluppo del progetto Leviathan è un'altra pietra miliare nel raggiungimento della sicurezza energetica e porterà benefici nella qualità dell'aria e della salute dei cittadini israeliani - ha aggiunto Zomer - che inoltre potranno godere dei profitti governativi" derivanti dalla distribuzione del gas. Zomer ha detto inoltre che l'obiettivo è distribuire la prima fornitura di gas del Leviathan entro la fine del 2019. La scoperta del giacimento energetico, che contiene riserve stimate pari a 450 miliardi di metri cubi di gas naturale, risale al 2010.
(Agenzia Nova, 14 marzo 2017)
Tel Aviv, camera di lusso ricavata in una ex torre del bagnino
ROMA - Inaugurata a Tel Aviv una camera d'albergo extra-lusso in una ex torre di guardia di bagnino, lungo la principale spiaggia della città israeliana. Finestre con vista sul mare, vasca idromassaggio, vengono forniti al cliente kit per la toilette.
(askanews, 14 marzo 2017)
Torino, la nota della Comunità ebraica
"Università, la libertà della ricerca prevalga sull'oscurantismo"
Tra i vari punti all'ordine del giorno della odierna riunione del Senato Accademico dell'Università di Torino anche una proposta presentata dal Consiglio degli Studenti in cui si chiede l'interruzione dei rapporti di collaborazione tra l'ateneo stesso e il Technion di Haifa (nell'immagine).
Approvato a larga maggioranza dal Consiglio studentesco - 16 voti favorevoli, cinque contrari - il documento chiede all'ateneo torinese "di prendere pubblicamente posizione contro le violazioni per parte israeliana della legislazione internazionale e della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, di non intessere relazioni con tutti quei soggetti, pubblici o privati, che contribuiscano o traggano beneficio dalle violazioni della legislazione internazionale da parte israeliana e dai loro contatti con le forze armate israeliane".
A tal proposito il Consiglio della Comunità ebraica torinese ha approvato ieri e all'unanimità il seguente testo, inviato al magnifico rettore dell'Università: "La Comunità ebraica di Torino esprime la sua viva preoccupazione per l'ipotesi che il Senato Accademico, convocato per domani, martedì 14 marzo, deliberi l'interruzione dei rapporti di collaborazione scientifica tra l'Università degli Studi di Torino e il Technion di Haifa. Siamo fiduciosi che i principi della libertà della ricerca e della cooperazione tra istituzioni accademiche dei Paesi democratici, che da sempre ispirano l'Università di Torino, prevalgano sull'oscurantismo di chi intende isolare le libere e avanzate istanze della ricerca scientifica e della cultura espresse dalla società israeliana".
(moked, 14 marzo 2017)
Si è proprio sicuri che questi interventi siano utili? Se il Senato Accademico approverà la richiesta del Consiglio studentesco, lintervento sarà stato inutile, e se la respingerà, sicuramente qualcuno dirà che hanno subito la pressione degli ebrei. Unaltra volta potrebbero arrivare esternazioni da parte della comunità musulmana o altre ancora, e i docenti universitari alla fine potrebbero anche essere irritati da queste forme di pressione indebita. M.C.
Israele avanza in Europa con l'aiuto della Croazia
di Laris Gaiser
Organizzato quest'anno in collaborazione con la Nato e sotto il patronato del presidente della Repubblica di Croazia, la scorsa settimana ha avuto luogo a Zagabria il Security Forum dedicato al tema della sicurezza delle infrastrutture critiche. Per discutere della difesa e dello sviluppo della resilienza di tutti quei sistemi che sono fondamentali per il nostro vivere quotidiano, nonché per il funzionamento dell'economia, sono stati invitati all'evento numerosi esperti di sicurezza, di politica internazionale e di intelligence dell'aerea euro-mediterranea e degli Stati Uniti.
Lo scenario
In uno scenario internazionale che vede accrescere di giorno in giorno l'importanza dei Balcani - regione geopoliticamente. instabile per antonomasia - come snodo d'infrastrutture critiche provenienti dai diversi punti cardinali, la Croazia ha voluto portare i rappresentanti di ben venticinque Paesi intorno ad un unico tavolo affinché si parlassero in maniera franca di guerra ibrida e delle criticità che giornalmente i loro governi devono affrontare nel gestire la sicurezza delle infrastrutture.
Le reti di telecomunicazione, distribuzione e trasporto sono oggi quasi tutte collegate al mondo cyber e pertanto sottoposte a pesanti tentativi di penetrazione gestiti da gruppi di hacker che cercano o di inabilitarne o danneggiarne il funzionamento in modo da provocare gravi danni ai Paesi sottoposti agli attacchi. La stabilità delle relazioni internazionali e del mercato globale dipende moltissimo dalla capacità di comprendere e contenere il fenomeno in atto.
I partecipanti alla conferenza son parsi unanimi nel concordare che strutture complesse quali le infrastrutture critiche possono essere attaccate con successo, soprattutto nel mondo cibernetico, solamente da gruppi ben organizzati e cospicuamente finanziati. Tali premesse portano alla logica conseguenza che la guerra cibernetica, quella seria, è generalmente da ascriversi a gruppi criminali sponsorizzati dagli Stati ed è questo uno dei motivi per cui molti Paesi stanno ufficialmente dichiarando lo spazio cibernetico quale dominio della difesa unitamente a quello aereo, terrestre e navale.
A Zagabria è stato presentato, destando l'interesse del pubblico, il recente decreto sulla Cyber sicurezza con cui il governo Gentiloni ha aggiornato il decreto Monti del 2013 portando la gestione della tematica sotto l'ombrello del Dipartimento informazione per la sicurezza, ovvero nel cuore dei nostri servizi segreti.
L'Italia
Giudicato positivamente il dettato della norma è parso a molti degli esperti in linea con le esigenze di coordinamento e gestione orizzontale delle informazioni riscontrate anche in altri Paesi.
Se il Security Forum di Zagabria ha rappresentato per alcuni il luogo ideale per analizzare in maniera informale le questioni di sicurezza internazionale, ci sono stati anche Paesi, quali Israele e Croazia, che hanno colto l'occasione, attraverso i loro rappresentanti, per informare il pubblico della loro visione del mondo. Seguendo lo sviluppo delle infrastrutture critiche Israele desidera connettersi sempre più con l'Europa, passando da Cipro e dalla Grecia. L'interconnessione Euroasiatica per il trasporto di energia elettrica, la cui realizzazione dovrebbe partire entro il 2019, permetterebbe a Tel Aviv di diventare un attore «fisicamente» presente in Europa Centrale. La stabilità e la sicurezza della regione diventano quindi interesse strategico per Israele, la cui ambasciatrice a Zagabria nel suo discorso ha garantito il massimo sostegno al Security Forum anche in futuro. Sull'onda della riconosciuta importanza della regione, la Croazia conferma invece la sua volontà di proporsi come perno dello sviluppo e della collaborazione per i Paesi rinchiusi nel triangolo tra il Mar Baltico, il Mar Adriatico ed il Mar Nero. La Strategia dei «Tre Mari» è la visione di politica estera con la quale Zagabria desidera divenire una media potenza, ovvero il Paese di riferimento per le questioni di sicurezza della regione capace di gestire per procura le volontà di Bruxelles o Washington in un'area storicamente votata a fare da cuscinetto tra le pressioni delle elite occidentali e di quelle moscovite.
Date le premesse, il Security Forum di Zagabria è destinato nei prossimi anni a consolidare la propria importanza proponendosi come una delle rarissime conferenze in cui oltre a questioni generali possano essere discussi, dagli esperti d'intelligence, anche importanti questioni di dettaglio.
(La Verità, 14 marzo 2017)
Israele e la squadra inventata dal nulla, pazzi per il baseball, orgoglio e identità
Un Paese con tre soli campi ma ha già battuto big come Sud Corea, Taiwan e Cuba La chiave? Le radici e le origini degli americani. Un'altra vittoria e sono in semifinale. E in panchina c'è Mensch, il tradizionale pupazzo.
di Francesco Mimmo
Mensch
NEWYORK - Mazza, guantone, stella di David sul cappello. E una strana mascotte: un pupazzo con baffi e cappello nero. Israele è l'outsider del baseball, passato da Cenerentola a possibile semifinalista alla sua prima apparizione in una competizione mondiale.
Quattro vittorie di fila, che hanno suscitato curiosità, poi interesse e passione sportiva e persino un dibattito su radici e eredità culturale tra Israele e Stati Uniti. Non senza polemiche. La squadra, infatti, è molto più di un outsider. Il baseball in Israele praticamente non esiste, i praticanti sono un migliaio e i campi solo tre. Era già una sorpresa che si fosse qualificata per la prima fase della World BaseballClassic. Ora, addirittura, spera nelle semifinali dopo aver battuto squadre blasonate come Corea del Sud, Taiwan, Olanda e soprattutto Cuba, potenza del baseball, che ha superato con un 4-1 nel mini-girone dei quarti di finale a Tokyo.
Il 2016 dei miracoli sportivi è finito (Leicester, la promozione del Crotone, la Champions di volley a Casalmaggiore). Israele è come la Giamaica del bob, scriveva la stampa americana dopo la prima vittoria. Come ha fatto, allora, la 41a nazionale del ranking mondiale, data 200 a 1, ad andare così avanti?
Intanto la World Baseball Classic non è il campionato mondiale ma una competizione internazionale di alto livello, alla quale molti dei migliori professionisti delle leghe americane non partecipano per paura di infortuni o disinteresse. Poi, a ben vedere, la nazionale di Israele non è composta da dilettanti allo sbaraglio. La maggior parte sono professionisti, con passaporto americano, che la federazione ha deciso di schierare alla sola condizione che potessero giustificare legami familiari anche molto lontani. Così Israele si è trovata a poter mandare in campo un lanciatore sotto contratto nella Major League Usa, un ex professionista con 15 anni di carriera in America, che aveva sì appeso il berretto al chiodo, ma solo pochi mesi prima di cominciare l'avventura. E diversi altri giocatori con carriere di tutto rispetto nelle leghe minori a stelle e strisce. C'è un solo giocatore con passaporto israeliano in squadra.
Anche l'allenatore, Jeny Weinstein, è americano. Nato nel '43 a Los Angeles da genitori immigrati ebrei, ha cominciato ad allenare negli anni Sessanta e ha accumulato un bel po' di esperienza come coach nei college e nello staff tecnico della nazionale Usa. Proprio lui è l'animatore di questa spedizione: «Il nostro obiettivo è promuovere il baseball in Israele». Un obiettivo che sembrava decisamente lontano all'inizio del torneo. Le prime tre partite non sono neanche state trasmesse in tv. Il ministro dello Sport, Miri Regev, ha candidamente ammesso in un'intervista di non sapere neanche che Israele avesse una nazionale di baseball. Il premier Netanyahu, invece, ha mostrato subito attenzione con un tweet di complimenti. Ma lui ha vissuto a lungo negli Usa. Un popolare commentatore sportivo aveva paragonato i giocatori agli sprinter con passaporto dei paesi arabi: mercenari. Per di più con la colpa di sottolineare stereotipi della cultura ebraica ormai lontani da un paese moderno come Israele.
Poi sono arrivate le vittorie e qualcosa è cambiato nella percezione pubblica. La partita con Cuba è arrivata finalmente sugli schermi. L'attenzione mediatica è cresciuta, anche grazie ai giocatori. Due in particolare. Ty Kelly, terza base con una parentesi nei Mets, ha dichiarato di avere riscoperto le sue radici religiose e ha imparato qualche parole di ebraico. Cody Decker pare invece aver ereditato lo humour yiddish. È lui che si è inventato la mascotte "Mensch on a bench" (Mensch come l'uomo d'onore della tradizione ebraica, in panchina). Un pupazzo in abiti tradizionali. Una ditta ne ha prodotto uno a misura d'uomo che accompagna sempre la squadra - che gli offre vino e "gefillte fish", piatto tradizionale della Pasqua, come portafortuna - e viaggia in aereo con i giocatori (sul volo da Seul a Tokyo le hostess hanno preteso che indossasse la cintura). Finora Mensch on the bench ha portato fortuna: ancora una vittoria e si vola alle semifinali di Los Angeles.
(la Repubblica, 14 marzo 2017)
Lezioni israeliane
Il Foglio pubblica oggi ampi stralci del capitolo riservato a prevenzione e intelligence contro il terrorismo che fa parte del libro "A shared enemy: a shared defence. Lessons from Israel's respanse to terror", che sarà presentato domani alla Camera. L'autore di questo capitolo è il generale israeliano Yossi Kupewasser, direttore del Project an Regional Middle East Developments al Jerusalem Center, ex direttore generale del ministero per gli Affari strategici e capo della divisione ricerche dell'Intelligence militare dell'esercito israeliano.
Da un punto di vista di sicurezza naziona- le, la battaglia contro il terrore è innanzi- tutto una battaglia d'apprendimento
La condivisione dell'intelligence è cruciale per un'azione preventiva. Vale anche senza contatti a livello diplomatico
La lotta al terrore prevede anche una formazione culturale dei cittadini e di chi si occupa di dare i primi soccorsi
Il successo di una strategia antiter- rorismo si misura analizzando cinque elementi fondamentali
La lunga esperienza di Israele nella lotta al terrore lo ha portato a comprendere che il terrore è una strategia che costituisce una significativa minaccia alla sua sicurezza nazionale, anche se la maggior parte del tempo si presenta come un'azione a bassa intensità, con un impatto e un danno limitato. Questa comprensione è stata assimilata in modo graduale, dopo un lungo periodo di tempo, nel corso del quale Israele ha agito contro la minaccia come se fosse strategica, cercando al contempo di convincersi che non lo fosse. Per molti anni, soprattutto mentre la convenzionale minaccia militare da parte delle milizie arabe metteva a repentaglio la sua sopravvivenza, Israele si è riferito al terrore come a un pericolo secondario, usando l'eufemismo "minaccia alla sicurezza corrente" per concettualizzarlo.
Dal punto di vista della sicurezza nazionale, la battaglia contro il terrore è innanzitutto una battaglia di apprendimento. I risultati di questa battaglia dipendono dalla qualità dell'apprendimento da entrambe le parti. Prima riusciremo a comprendere il modo di pensare dell'altro campo - e con esso gli aspetti consequenziali della logistica e della tattica dei cambiamenti che potrebbero essere adottati, come risultato di un mutamento della cornice entro la quale la battaglia ha luogo, e della sua comprensione dei mutamenti nella nostra strategia - meglio sarà. Basandoci su questa comprensione, è chiaro che la risposta strategica alla minaccia del terrore era ed è tuttora l'abilità di convincere il terrorista che il loro è un modo di agire futile. Gli israeliani devono dimostrare ai loro avversari di essere determinati a continuare a costruire e a proteggere il loro progetto - lo stato-nazione democratico del popolo ebraico; che sono profondamente convinti che il sionismo sia giusto e giustificato; che i valori in cui credono sono nobili e valgono lo sforzo e la lotta necessari a difenderli; e che la loro causa gode di un sostegno internazionale. Allo stesso tempo, gli israeliani devono mostrare di poter trovare un modo per minimizzare il danno che viene inflitto loro tramite il terrore e, in questo contesto, indebolire le capacità dei terroristi.
Una giustificazione più profonda e malvagia per il terrore
I palestinesi non si limitano a usare il terrore come arma principale, in questa battaglia: il suo uso è di per sé una deliberata manifestazione della differenza culturale che vogliono enfatizzare. Attraverso l'uso del terrore, i suoi proponenti e attuatori cercano di recapitare il messaggio che non desisteranno da questo metodo finché non raggiungeranno il loro obiettivo, perché nella loro cultura, a differenza di quella israeliana e occidentale, la vita non è un valore sacro. Piuttosto lo sono l'onore e il sacrificio e, dunque, il diritto internazionale - fondato sui valori occidentali - a loro non si applica. Questa logica si traduce poi in slogan come "Aspiriamo a una morte onorevole più di quanto voi aspiriate alla vita", e riferendosi a Israele unicamente come ad una "tela di ragno" facilmente distruggibile. Nei fatti, però, anche se questa retorica dovrebbe rappresentare i valori di una cultura che promuove il terrore come sublime sacrificio per una nobile causa, giustificando l'uccisione indiscriminata di civili innocenti, la realtà è che la società che si presume sostenga questa politica è assai meno determinata nell'attuarla. Quando il pubblico si rende conto che le conseguenze di questa politica impediscono il raggiungimento di altri obiettivi, come può esserlo uno standard di vita migliore, inizia a farsi delle domande. Queste tensioni implicite causano continue frustrazioni, che possono talvolta tradursi in un cambio di politica, almeno temporaneo. L'effettivo apprendimento da parte del movimento sionista, e più tardi da parte di Israele, e lo spirito di determinazione dei sionisti ha reso possibile per Israele il superamento delle continue ondate di terrore, spesso negando ai palestinesi una vittoria strategica. Occasionalmente i palestinesi sono riusciti a raggiungere certi obiettivi provvisori, soprattutto quando si sono trovati di fronte una leadership israeliana debole, una comunità internazionale ingenua e disinformata e un pessimo abbinamento tra l'obiettivo palestinese di estirpare il sionismo e l'impulsivo desiderio israeliano di concludere un accordo di pace prematuro con gli arabi, palestinesi inclusi.
Ne è risultato che i palestinesi considerano ancora il terrore come uno strumento vitale ed efficace per perseguire i propri obiettivi di medio e lungo termine. Ciononostante, sebbene fino al 1974 abbiano presentato il terrore come l'unico modo per "liberare la Palestina", da allora alcuni palestinesi si sono preparati a impiegare altre forme di azione, tra cui le negoziazioni diplomatiche, e hanno adottato un gergo di pace, solitamente a uso esterno, nel contesto del loro "Paradigma delle due fasi". Lo sbilanciamento tra i gruppi terroristici e Israele (o qualsiasi altro stato occidentale nel mirino del terrore) si riflette, tra le altre cose, nei diversi modi in cui essi interpretano un successo o un fallimento operativo e strategico. I terroristi potrebbero interpretare come un successo il mero verificarsi dell'atto terroristico che ha un impatto, a prescindere dal successo degli attacchi nell'infliggere perdite al loro nemico. Ovviamente sanno che danni maggiori equivalgono a un impatto maggiore e che se riuscissero a battere in astuzia il loro nemico, conquisterebbero ulteriori punti strategici. Israele (o ogni altro stato occidentale), d'altra parte, deve stabilire come scopo operativo la prevenzione di tutti gli attacchi terroristici. Questo fatto potrebbe distorcere il significato di vittoria nelle attuali guerre terroristiche o anti terroristiche che Israele sta combattendo. Il mero successo dei terroristi nel ferire Israele o sopravvivere alle sue controreazioni viene presentato dagli stessi come una vittoria divina, nonostante Israele consideri il perpetrarsi di qualunque attacco come un fallimento, tattico o operativo che sia.
Israele giudica i risultati a un livello strategico: Israele ha raggiunto i suoi obiettivi in confronti specifici? Il successo si misura sul alcuni interrogativi: se Israele ha restaurato la propria deterrenza, se ha rassicurato i propri cittadini riguardo alla sicurezza di lungo periodo, se ha ottenuto una calma duratura tra gli attacchi terroristici, e se in qualche caso i terroristi sono stati costretti a cambiare la loro strategia nel complesso. In molti casi, Israele ha raggiunto gli obiettivi che si era prefissato e può dire di aver avuto successo, anche se ha subito numerosi attacchi terroristici.
La "competizione sull'apprendimento" è molto importante in ogni tattica operativa che le organizzazioni terroristiche palestinesi e libanesi utilizzano contro Israele. Ogni volta che una certa tattica viene adottata da un gruppo terroristico, Israele studia un modo per difendersi contro la sfida specifica e costringe i suoi nemici ad arrendersi. Come regola, i terroristi hanno bisogno di tempo per sviluppare una nuova tattica, e Israele ha bisogno di altro tempo per sviluppare una contromossa.
Con l'apprendimento, Israele ha sviluppato le sue pratiche di lotta al terrore in una varietà di aspetti che nel suo complesso comprende una strategia onnicomprensiva per combattere il terrore: prevenire e sventare attentati, deterrenza, reazione e resilienza.
La prevenzione si fonda su cinque aspetti concreti.
Uno: l'intelligence
Israele ha studiato meticolosamente il comportamento e la logica coltivati dal pensiero terroristico e il loro conseguente modus operandi. Così Israele ha sviluppato varie competenze su tutti gli aspetti dell'intelligence in modo da seguire le attività dei terroristi e arrivare a sventare e prevenire molti attentati con anticipo. Israele ha anche compreso, relativamente di recente, che dal momento che il terrore non bada ai confini, allo stesso modo è necessario sviluppare collaborazioni tra diversi sistemi di intelligence (quelli che riguardano la realtà locale, quelli internazionali, e la polizia d'intelligence) per fondere tutte le informazioni utili a prevenire attacchi terroristici. Ha anche realizzato che la collaborazione deve andare oltre Israele stesso e deve comprendere anche le intelligence straniere, incluse quelle che appartengono a paesi con cui Israele non ha relazioni diplomatiche. La collezione di informazioni di intelligence è fatta nel rispetto delle leggi, ma dando la priorità alla prevenzione di attacchi più che alla privacy, laddove compaiano contraddizioni tra questi due principi.
Due: protezione
Israele ha sviluppato una serie di protocolli robusti, che in molti casi sono il frutto di un processo di apprendimento in seguito ad alcune operazioni fallite. Per esempio, dopo i tentati dirottamenti di aerei israeliani, Israele ha adottato un piano di protezione sofisticata dei propri aeroporti e degli aerei civili. La stessa cosa vale per la protezione dei centri commerciali, della costa, delle sedi israeliane o ebraiche in giro per il mondo e altri obiettivi strategici. In caso di necessità, Israele ha utilizzato anche metodi di "profiling" in questo contesto.
Tre: operazioni militari
Le operazioni militari giocano un ruolo importante nella protezione dei checkpoint, dei confini, delle barriere di difese, in modo da evitare l'ingresso di terroristi. Quando ci si trova di fronte a una minaccia che non può essere controllata in altro modo, Israele usa operazioni militari per sventare attentati, sulla base delle informazioni di intelligence acquisite. Ci possono quindi essere arresti quando è possibile, e blitz preventivi quando gli arresti non sono possibili. Per mettere a punto queste operazioni militari, Israele ha sviluppato varie competenze, come munizioni, unità di soldati vestiti da palestinesi in modo da poter arrivare agli arresti senza essere scoperti o individuati prima. Una delle lezioni più importanti che abbiamo compreso riguarda il fatto che la presenza militare è necessaria nelle aree in cui i terroristi preparano i loro attacchi: senza, la prevenzione diventerebbe invero difficile.
Quattro: condizionare i tentativi di costruzione degli attentati.
Gli sforzi dei terroristi non possono essere sempre sventati, ma Israele ha adottato una politica per rallentare il più possibile questi tentativi, con interventi proattivi che impediscono ai terroristi di armarsi. Questo ha portato a una serie di operazione nei territori e oltre, e anche al blocco navale di Gaza che ha negato ai terroristi la possibilità di ottenere e utilizzare armi avanzate.
Cinque: consapevolezza pubblica
Ogni israeliano è sempre in allerta per individuare minacce potenziali e sa che cosa deve fare ogni volta che riconosce l'esistenza di tale minaccia. Per esempio, un bagaglio abbandonato cattura immediatamente l'attenzione di qualcuno.
La reazione è basata su questi elementi:
Uno: operazioni militari
Israele è sempre in stato di alta allerta per reagire militarmente o con la polizia a qualsiasi tipo di attacco terroristico. Le forze di sicurezza israeliane intervengono quasi immediatamente e sono in molti casi capaci di salvare vite. Israele ha sviluppato unità speciali, capacità e tecniche per assicurarsi un intervento efficiente. Ma Israele usa anche la sua capacità d'intelligence e militare per reagire in una maniera precisa contro i suoi nemici; Israele ha messo perfettamente in chiaro che nessuna forma di terrorismo è immune dalla punizione, che sia compiuto materialmente o semplicemente incitato. Allo stesso tempo, Israele si impegna molto più di ogni altro paese per cercare di minimizzare i danni non intenzionali che le azioni militari potrebbero provocare alle persone non coinvolte.
Due: reazione difensiva.
Israele ha sviluppato una quantità di strumenti che consentono di reagire difensivamente quando è attaccato da una organizzazione terroristica. L'esempio più famoso è Iron Dome (il sistema antimissile) che consente di intercettare missili e razzi.
Tre: attività legale.
La legge e il sistema legale israeliani sono adeguati alla necessità di combattere i terrorismo e punire quanti incitano il terrore o lo compiono. fornisce inoltre la base legale per le operazioni militari contro il terrorismo. Tra le altre cose, la legge, che è basata in gran parte sulla legge prevalente durante il Mandato britannico, consente al governo di mettere fuori legge le organizzazioni coinvolte nel terrorismo. Le agenzie di sicurezza israeliane potrebbero in via temporanea detenere i sospetti con detenzione amministrativa se c'è la possibilità che mostrare prove in tribunale riguardanti il loro coinvolgimento con il terrorismo potrebbe danneggiare le nostre capacità d'intelligence. Israele, ovviamente, aderisce alla legge internazionale e alla legge sui conflitti armati e alla legge umanitaria.
Quattro: resilienza.
L'abilità di sopportare un attacco terroristico o una campagna di terrore e di recuperare in fretta è una capacità nota della società israeliana. Con una lunga storia di attacchi terroristici, gli israeliani purtroppo hanno ormai capito che il terrore è parte delle loro vite e che a volte la prevenzione e la reazione al terrore non riescono a garantire sicurezza assoluta. Ma quando capita una situazione di questo genere, il governo e la popolazione sono ben addestrati e capaci di mantenere l'ordine e una routine giornaliera normale. Il sistema educativo, la polizia, gli agenti di primo soccorso, e il Comando del fronte domestico dell'esercito (quando necessario) hanno sviluppato una capacità speciale nel preparare la popolazione, aumentare i suoi livelli di resilienza e operare sistemi che provvedano alle necessità del pubblico. Questo erode considerevolmente l'impatto strategico del terrorismo.
Cinque: deterrenza.
Modellare il pensiero del nemico riguardo alla risposta attesa al prossimo tentativo di attacco terroristico in modo da convincere il terrorista ad astenersi dal compierlo è sempre un obiettivo critico dell'attività israeliana di antiterrorismo. Ovviamente, tutto ciò che è stato menzionato sopra riguardo la prevenzione, la reazione e la resilienza sono elementi che contribuiscono alla creazione della deterrenza, ma al di sopra di questo il sistema di punizione ha un ruolo significativo nella deterrenza del prossimo terrorista. Di recente, Israele ha ripreso in questo contesto la pratica di demolire le case dei terroristi. Anche la politica gioca un ruolo importante nel costruire la deterrenza. L'impegno a non consentire al terrorismo di ottenere un vantaggio strategico è un elemento chiave in questo ambito, e con pochissime eccezioni (soprattutto negli accordi per il rilascio di israeliani rapiti) è stato tenuto dai governi israeliani.
Un altro elemento importante nella strategia generale è gestire la radicalizzazione - sia la sua prevenzione sua la deradicalizzazione di quanti sono già indottrinati. Israele tenta di mobilitare la comunità internazionale per mettere pressione ai palestinesi affinché pongano fine al loro indottrinamento all'odio e alla programmazione della mente dei palestinesi a sostenere e compiere atti di terrorismo fin da giovani. Oltre a questo, Israele cerca anche di fare in modo che i palestinesi abbiano migliori standard di vita in base all'idea discutibile che se i palestinesi hanno una vita migliore, saranno meno inclini ad adottare posizioni radicali e a sostenere il terrore. In realtà, non c'è prova che esista una tale connessione. L'indottrinamento all'odio è troppo profondo e ha poco a che fare con quello che fa Israele, ma con la sua vera esistenza e con ciò che rappresenta. Per concludere, a strategia complessiva di antiterrorismo di Israele è un approccio a tutto tondo che è stato sviluppato per tentativi. Capire gli obiettivi e la strategia del nemico e il contesto in cui opera ed essere abbastanza agili da adottare risposte adeguate ha consentito a Israele di diventare il leader mondiale nella lotta contro il terrorismo.
(Il Foglio, 14 marzo 2017)
"Boycott Israele", il germe antisemita degli intellos
A ispirare l'appello di 60 docenti dell'Università di Torino contro l'accordo con il Technion di Haifa è l'atavico pregiudizio di certa sinistra verso il diritto all'autodeterminazione degli ebrei. L'analisi del semiologo Ugo Volli.
di Stefano Rizzi
"Sono antisemiti. Loro magari pensano di non esserlo, ma lo sono"
"Sono antisemiti. Loro magari pensano di non esserlo, anche se qualcuno in passato ha fatto battute su Israele che mettono in dubbio questa inconsapevolezza. Ma lo sono". Ugo Volli, ordinario di semiotica del testo all'Università di Torino, appartiene dalla nascita alla comunità ebraica di Trieste (dove è nato nel 1948), si occupa da sempre di ebraismo ed ha assunto, in passato, anche posizioni critiche come quella verso l'atteggiamento "conservatore" del rabbino Riccardo Di Segni su omosessualità e unioni civili. Alcuni anni fa si presentò in aula insieme a un'altra docente avvolto nella bandiera israeliana per denunciare l'intolleranza di cui erano oggetto per il loro sostegno a Israele. Nel pieno della polemica suscitata dalla presa di posizione di una sessantina di docenti dell'ateneo torinese (e della maggioranza del consiglio degli studenti) chiede al rettore Gianmaria Ajani di annullare gli accordi con il Technion di Haifa la scuola tecnologica israeliana contro cui da oltre un anno è partita una campagna di boicottaggio con l'accusa di sviluppare tecnologie che avrebbero conseguenze negative sui palestinesi, Volli smaschera i colleghi anti-Israele, ma ne ridimensiona pure parecchio il peso. "Dei sessanta che hanno firmato l'appello, tolti precari e pensionati, di professori veri ne resta meno della metà e una ventina su 1.800 docenti sono una percentuale irrisoria. Ma non per questo trascurabile visto il messaggio che lanciano" premette nel colloquio con lo Spiffero dove ritorneranno spesso termini come "antisemiti, "estremisti" e "noecomunisti". L'altra premessa che Volli formula riguarda proprio il rapporto tra atenei e questioni politiche internazionali: "Non mi risultano boicottaggi verso università russe, così come nei confronti di istituti statunitensi come l'Mit, che pure ha legami con il Pentagono. Per contro si chiede di recedere dall'accordo con una delle università tra le prime cinquanta al mondo, quando per trovare la prima italiana bisogna arrivare a quota duecento o giù di lì, che non riguarda assolutamente materie strategiche o legate agli armamenti". Il riferimento è palese e riguarda le ricerche che l'ateneo torinese condivide con il Technion sulle coltivazioni agricole, la ricerca sul cancro e le analisi in medicina. "Insomma non è una fabbrica di guerra. Ma questo appare ininfluente a chi assume una posizione ideologica che ricorda quel che accadde 80 anni fa in Germania. Con una differenza: non ci troviamo di fronte a neonazisti o neofascisti, ma a neocomunisti per i quali resiste la dottrina di Stalin e la difesa, a prescindere, di qualunque cosa rappresenti la sinistra. E se serve a questo scopo, si attacca lo Stato di Israele, gli ebrei, si diventa antisemiti". Spesso pensando di non esserlo, come osserva Volli, sia pure aprendo a qualche possibile consapevolezza. "Ad ispirare questo appello, questo movimento nell'università sono sostanzialmente due intellettuali: uno è lo storico Angelo D'Orsi, l'altro è Gianni Vattimo di cui si ricorda una frase pronunciata anni fa". Volli si riferisce a quando il filofoso del pensiero debole e dalla fortissima passione per la Cuba castrista disse, scatenando una ridda di critiche: "Non ho mai creduto al Protocollo dei Savi di Sion, ma ci sto ripensando". Vattimo anche per fronteggiare le accuse di aver ammantato (sia pure in chiave provocatoria) di possibile verità uno dei più clamorosi falsi della storia, usato a piena mani dall'antisemitismo, in seguito precisò di non essere antisemita, ma antisionista. Non è tuttavia quell'uscita improvvida a far muovere accuse di antisemitismo da parte dei Volli: "È, piuttosto un neocomunismo militante che li spinge ad esserlo, credendo o comunque sostenendo di non esserlo". Un atteggiamento che il professore di semiotica pare rilevare e trovarlo in una "incapacità da parte di settori della sinistra torinese di evitare una degenerazione di una solida e meritoria tradizione antifascista. Nella città dove si sono formati intellettuali e personalità di spicco della sinistra e dell'azionismo, si è tuttavia incancrenita, sia pure e per fortuna in parte assai residuale, una cultura che non ha capito che il mondo cambiava. Lo si è visto - ricorda Volli - anche negli anni bui del terrorismo, quando a Torino al contrario di città come Milano o Genova non è stata altrettanto forte la reazione verso fenomeni come quello dell'autonomia". Oggi, alla vigilia di una decisione che appare probabile verso il diniego da parte del rettore alla richiesta avanzata dai sessanta docenti, Volli riconosce all'università torinese "e in primis allo stesso rettore, di aver tenuto la barra salda e un atteggiamento corretto, difendendo la legalità e tenendo ben separati il piano scientifico da quello politico". Ricorda come "sia Piero Fassino, sia Sergio Chiamparino e molti altri esponenti della sinistra abbiano assunto da subito, da quando un anno fa si incominciò con questo attacco al Technion, posizioni chiare e di estrema intelligenza e correttezza. Detto questo, va ammesso che esiste una parte residuale di una certa sinistra che continua a pensare che non bisogna avere nemici a sinistra, anche se le idee e le proposte non sono giuste. Lo si vede anche rispetto al movimento No Tav, che pure spesso assume atteggiamenti violenti. E la vittoria del M5s a Torino può essere letta, in parte, come conferma di questa tesi". Nell'attesa della decisione, prevista per domani, da parte del rettore sull'appello dei sessanta, Volli li descrive come "relitti abbandonati al loro destino su una spiaggia di una storia che non c'è più".
(Lo Spiffero, 13 marzo 2017)
Intel acquista l'israeliana Mobileye, leader della guida autonoma per l'auto
Si parla di 14-15 miliardi di dollari
Intel scommette sulle auto senza guidatore. Il colosso Usa comunica il raggiungimento dell'accordo per acquistare l'israeliana Mobileye per 15,3 miliardi di dollari. Intel paga quindi 63,54 dollari per ogni azione Mobileye, con un premio del 34% rispetto alla chiusura di venerdì. Mobileye produce chip per auto autonome già in uso e sta lavorando per mettere la tecnologia al centro dell'auto senza guidatore del futuro.
Mobileye - valore di mercato sui 10.5 miliardi di dollari - è stata fondata nel 1999 a Gerusalemme ed è specializzata in tecnologia per auto autonome
In un post su Facebook, il premier Benyamin Netanyahu ha definito l'acquisto da parte di Intel dell'azienda israeliana Mobileye per le auto autonome "fonte di orgoglio nazionale". "Congratulazioni", ha aggiunto poi Netanyahu.
(ANSA, 13 marzo 2017)
Omicidio Moro: il ruolo dei palestinesi e del Libano
di Monica Mistretta
Never Hammad, rappresentante dell'Olp in Italia negli anni '70
"Anche se sono in corso ulteriori ricerche emerge chiaramente la centralità del ruolo dei movimenti palestinesi nella vicenda Moro".
Si esprime così la seconda relazione della Commissione d'inchiesta sul sequestro e l'omicidio di Aldo Moro, presentata il 21 dicembre 2016 dal presidente Giuseppe Fioroni. Tante le ragioni di questa centralità, prima, durante e dopo il sequestro.
Prima del sequestro, perché il 17 febbraio 1978, un mese prima dei fatti di via Fani, il colonnello Stefano Giovannone, capo centro del Sismi a Beirut, comunicava di aver ricevuto informazioni dal leader del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp), George Habbash, in merito a un'operazione programmata da terroristi europei in Italia. "Da non diramare servizi collegati Olp Roma" scriveva chiudendo l'informativa Giovannone.
Durante il sequestro, perché la relazione parla di una vera e propria trattativa per il rilascio dell'ostaggio che aveva come intermediari i palestinesi. In un appunto del direttore del Sismi, Giuseppe Santovito, datato 28 aprile 1978, risulta che Nemr Hammad, rappresentante dell'Olp in Italia, aveva chiesto di essere ricevuto da Cossiga, allora ministro dell'Interno. La trattativa con i palestinesi aveva raggiunto i massimi vertici istituzionali.
Ancora. Durante il sequestro, perché come scriveva la giornalista Graziella De Palo, misteriosamente scomparsa in Libano nell'80 insieme al collega Italo Toni, già nel 1978 circolava la tesi che la strage di via Fani fosse stata compiuta con armi italiane destinate all'Egitto e "rientrate per vie tortuose in Italia".
Dopo l'omicidio Moro, perché, come puntualizza la relazione, in seguito il rapporto tra il nostro Paese e i movimenti palestinesi si rimodellò e le "Brigate Rosse realizzarono traffici d'armi tra Libano e Italia, ottenendo un'apertura di credito che ha probabilmente a che fare con i fatti avvenuti durante il sequestro". Il riferimento alla vicenda del "Papago" è chiaro: secondo le dichiarazioni fatte nel 1982 dell'ex brigatista Sandro Galletta ai Carabinieri, nell'estate del 1979 Mario Moretti, capo delle Br, a bordo della barca a vela "Papago" avrebbe imbarcato un carico d'armi direttamente da una motobarca libanese con equipaggio palestinese in prossimità del porto di Tripoli, in Libano. Di qui, con il carico, avrebbe fatto rientro in Italia.
Jawad Yassine è stato per anni il responsabile dell'ufficio stampa dell'Autorità Nazionale Palestinese (Anp) a Roma: dalla fine del 1979 fino al 2010. Ma si trovava già in Italia dal 1976: lavorava presso l'ufficio della Lega Araba a Roma. Dal 1979 è stato in stretto contatto con Nemr Hammad. Jawad ricorda che l'incontro tra Hammad e Cossiga di cui parla l'appunto di Santovito ci fu. "L'incontro c'è stato e sono diventati amici" ricorda. "In seguito Hammad ebbe anche un incontro con Spadolini, all'epoca in cui era presidente del Consiglio: ma fu uno scambio informale, in un ristorante, perché Spadolini non voleva riceverlo ufficialmente".
Jawad si ricorda anche del colonnello Stefano Giovannone: "l'ho visto presso l'ambasciata italiana a Beirut quando chiesi il visto per l'Italia e poi di nuovo a Roma quando ho chiesto il permesso di soggiorno".
- Jawad, a te risulta che durante il sequestro Moro Yasser Arafat fosse in contatto con il colonnello Giovannone a Beirut?
"Arafat non aveva bisogno di parlare con Giovannone. Parlava direttamente con Andreotti. Sicuramente a Beirut Arafat chiese alle organizzazioni palestinesi se sapevano qualcosa sul sequestro Moro. Escludo, però, che qualche organizzazione palestinese avesse legami con le Br. Noi palestinesi eravamo a conoscenza del fatto che le Br avevano contatti non solo con i paesi dell'est ma anche con i servizi segreti dell'ovest: per questo non ci fidavamo di loro. All'epoca ci furono perfino alcuni giornali arabi come "As-Safir" e "Al-Hayat" che cercarono di analizzare i rapporti delle Br con americani e britannici. C'erano tanti sospetti su di loro. I nostri giornali parlarono del coinvolgimento di Gladio nel sequestro e omicidio di Aldo Moro".
- Ma allora come ci spieghiamo l'episodio del Papago di cui parla un ex brigatista?
"Si tratta di accuse false. Posso solo dire che all'epoca del sequestro Moro gli italiani si misero in contatto con Arafat. Ma le armi non avevano a che fare con il "Lodo Moro". Questi rapporti con le Br non avrebbero giovato alla causa palestinese. L'Olp sapeva che non aveva appoggi presso i paesi arabi. Per questo aveva bisogno dei paesi europei. Le domando: quando nel 1982 Arafat venne cacciato dal Libano, quanti l'accolsero? Dovette rifugiarsi in Tunisia. Avevamo bisogno dei paesi europei. L'accordo che chiamate 'Lodo Moro', c'era con tutti i paesi europei: noi palestinesi non dovevamo toccare gli interessi di nessuno all'interno dell'Europa. In cambio, gli europei non dovevano aiutare gli israeliani in Europa e in Libano".
- C'è una coincidenza che dà da pensare: il sequestro Moro avviene il 16 marzo 1978. Due giorni prima, il 14 marzo, inizia l'Operazione Litani: gli israeliani entrano nel sud del Libano per allontanare dal confine con Israele le organizzazioni armate palestinesi. Cosa ne pensa?
"Arafat sapeva che prima o poi gli israeliani sarebbero entrati in Libano. Già nel 1978 parlava dell'invasione israeliana che avverrà effettivamente nel 1982".
- Chi erano i migliori amici dei palestinesi in Italia?
"Andreotti, Berlinguer, Craxi e sicuramente Aldo Moro".
Ecco, Jawad dice una cosa che nessuno ha detto fino a oggi: in cambio della protezione da attacchi terroristici, gli europei non avrebbero dovuto aiutare gli israeliani non solo in Europa ma anche in Libano. Questi erano i termini del "Lodo Moro" con i paesi europei. Il Libano è un tema ricorrente nella vicenda Moro. Tra l'altro, c'è un successivo appunto del direttore del Sismi, Santovito, che la relazione della Commissione Moro non cita.
Ne parla il giornalista Gian Paolo Pelizzaro nel suo libro "Libano. Una polveriera nel Mediterraneo". Il 2 maggio 1978, prima dell'omicidio Moro, Giuseppe Santovito trasmette al capo di Gabinetto della presidenza del Consiglio dei ministri, professor Vincenzo Milazzo, una nota in cui dichiara che il 15 marzo, il giorno antecedente al sequestro di Moro, il servizio israeliano aveva segnalato che un gruppo di terroristi della forza speciale di Fatah si era diretto a Cipro a bordo di un mercantile e che il medesimo gruppo avrebbe avuto il compito di "attuare un'azione autonoma contro obiettivo sconosciuto". Il Sismi ritenne che la segnalazione degli israeliani poteva essere messa in relazione al rapimento di Moro. Furono fatte ricerche e fu individuata a Marina di Carrara una nave libica battente bandiera cipriota che era arrivata dalla Siria il 15 marzo ed era entrata in porto il 16. La nave fu perquisita il 21 marzo, ma non si trovò nulla. Ripartì per Beirut tre giorni dopo.
- Beirut, ancora Beirut
Il Libano e i palestinesi erano indubbiamente al centro delle attività dei servizi segreti italiani per la liberazione di Aldo Moro. E Jawad adesso ci ha detto una cosa fondamentale: secondo gli accordi del Lodo gli europei non avrebbero dovuto collaborare con gli israeliani in Libano.
Il sequestro Moro avviene due giorni dopo l'entrata dell'esercito israeliano nel paese. Forse Jawad ci ha messo sulla pista giusta.
(ArticoloTre, 13 marzo 2017)
Bosnia-Israele: incontro fra i presidenti Ivanic e Rivlin
Il P r e s i d e n t e d e l l a B o s n i a - E r z e g o v i n a , D r . M l a d e n I v a n ic, c o n i l p r e s i d e n t e R e u v e n R i v l i n , a G e r u s a l e m m e
SARAJEVO - La società contemporanea deve mantenere la stabilità delle comunità multietniche come quelle presenti in Bosnia e in Israele. E' quanto hanno convenuto oggi dal presidente israeliano Reuven Rilin e dal presidente di turno della presidenza tripartita bosniaca Mladen Ivanic durante la visita di quest'ultimo a Gerusalemme. Secondo la nota dell'ufficio di Ivanic, è stato inoltre constatato che "i rapporti bilaterali tra i due paesi sono buoni con molto spazio per promuoverli ulteriormente". La delegazione bosniaca, che comprende anche il ministro degli Esteri Igor Crnadak e Elvir Camdzic, rappresentante dell'esponente musulmano nella presidenza Bakir Izetbegovic, incontrerà nel corso della visita anche il premier Benjamin Netayahu e il ministro della Difesa Avigdor Lieberman.
(Agenzia Nova, 13 marzo 2017)
Alto rappresentante per i negoziati internazionali Usa in visita a Gerusalemme
di Marco Ricciardi
Il rappresentante speciale del presidente Usa Donald Trump per i negoziati internazionali, Jason Greenblatt, giungerà in Israele oggi, tre giorni dopo la telefonata di Trump al presidente dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) Mahmoud Abbas per tentare di sbloccare il processo diplomatico in Medio Oriente. Greenblatt incontrerà il presidente israeliano, Reuven Rivlin, ed il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, a Gerusalemme. Domani si recherà, invece, a Ramallah per incontrare Abbas. Tra i componenti della delegazione Usa in Medio Oriente, Yael Lempert, che ha mantenuto il portafoglio di Consigliere per la sicurezza nazionale alla Casa Bianca gia' ricoperto durante la precedente amministrazione Usa dell'ex presidente Barack Obama. La questione della costruzione degli insediamenti israeliani nei Territori palestinesi sarà uno dei temi principali al centro dei colloqui fra la delegazione Usa ed i funzionari di Gerusalemme.
L'obiettivo è ritornare al Congresso con una comprensione maggiore dell'eventuale spostamento della rappresentanza diplomatica, annunciato da Trump durante la campagna elettorale. La leadeship palestinese e quella giordana hanno sottolineato, per non dire 'minacciato', che lo spostamento dell'ambasciata Usa provocherebbe un'escalation di violenza sia in Israele che nei Territori palestinesi.
Lo scorso 8 marzo il capo del Comando Usa per l'Europa, il generale Curtis M. Scaparrotti, aveva incontrato i vertici delle Forze di difesa (Idf) israeliane. Al centro dei colloqui con il capo delle Idf, il generale Gadi Eisenkot, questioni legate alla sicurezza regionale e nazionale, tra cui la Striscia di Gaza. Si tratta della prima visita di un rappresentante di spicco delle Forze armate Usa da quando si è insediato Trump. In concomitanza, il ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman, si è recato nei giorni scorsi a Washington, dove ha incontrato il vice presidente, Mike Pence, il segretario alla Difesa, James Mattis e il segretario di Stato Rex Tillerson.
(l'Occidentale, 13 marzo 2017)
Start up tecnologiche, il modello israeliano
Esperti a confronto per provare a immaginare un futuro che è già adesso gestione classica passaparola
di Carlo Baroni
MILANO - Della tecnologia gli israeliani hanno fatto una risorsa. Di più, una forza. Al punto da essere diventati uno dei Paesi leader nel campo dell'innovazione ambientale. Di «Tecnologia israeliana, una porta per il futuro» si parlerà in un convegno, organizzato dal Kkl, domenica 19 marzo alle 17 al Palazzo della Regione Lombardia, in piazza Città di Lombardia 1. Ospitati dall'assessore regionale all'Ambiente, Energia e Sviluppo sostenibile della Regione Lombardia Claudia Maria Terzi, interverranno l'esperto di start up scientifiche e tecnologiche in Israele, Erez Tsur e il ministro per gli Affari commerciali Natalie Gutman-Chen. Un evento che va sul solco dell'esperienza di Israele ad Expo Milano 2015, con l'innovativo padiglione sul modo di coniugare agricoltura e modernità.
(Corriere della Sera, 13 marzo 2017)
Berto l'edicolante. Twitter
di Mario Pacifici
Berto non ama guardarsi indietro.
La vita è quello che è, pensa, ed ognuno la campa come può. Corri, ti barcameni, ti arrangi e alla fin fine ti guadagni ciò che ti compete. O almeno ci provi, dal momento che la vita gioca a volte con i dadi taroccati, distribuendo successi e sciagure senza soppesare né meriti né colpe. Inutile recriminare ad ogni modo, specie quando ormai ti avvicini al traguardo. Hai giocato le tue carte e conservi ancora qualche fiches da puntare. In fondo non ti è andata male. Nessuno ti ha buttato fuori dal tavolo.
Poi capitano quei giorni in cui la depressione ti assale e allora diventa difficile tenere ferma la razionalità dei pensieri. Entri in labirinti fatti di bilanci amari e ti perdi in riflessioni che ti lasciano stordito. Ti guardi intorno e cogli solo la solitudine che ti circonda.
Beh, deve essere stato in uno di quei giorni che Berto ha varcato la linea rossa che si era imposto con draconiana fermezza. Ma certo, si dice, perché no? e acquista d'impulso uno smartphone di ultima generazione.
Ora è lì come un bambino davanti al suo balocco, il giorno di Natale. Apre la confezione con religiosa attenzione e in un attimo è colto da quell'attrazione feticistica che cento volte ha irriso nel suo prossimo. Quel piccolo parallelepipedo è lì, di fronte a lui, nero e misterioso come la pietra lunare di Kubrik, foriero di inimmaginabili sorprese.
Esita prima di accenderlo, ma si fa forza e salta il Rubicone. Ora la nera ossidiana dello schermo si apre alla luce e ai colori e Berto si lascia adescare da quel mondo digitale da cui si sente al tempo stesso attratto e minacciato.
Non lo sa ancora, ma la dipendenza si è già insinuata in lui e si dirige inesorabile verso i gangli essenziali del suo essere. Passano i giorni e quell'alieno dal volto amico entra in simbiosi con lui e ne diviene parte. È con lui, sempre. Lo assiste, lo aiuta, lo informa, lo intrattiene e Berto, inconsapevole, lo ricambia: è per lui il primo pensiero la mattina, quando ancora assonnato lo ghermisce dal comodino per farsi aggiornare su ciò che lo attende. E poi durante il giorno non se ne separa mai. Meteo, politica, spettacoli, sport, traffico, mezzi pubblici
Ma come diavolo si faceva, prima?
Berto non saprebbe darsi una risposta ma ad ogni modo non ci pensa neppure. L'alieno è lì, con lui pronto a rispondere ad ogni domanda e ad assisterlo per ogni esigenza. Cosa potrebbe chiedere di meglio.
È questa la dipendenza che temevo? si chiede. Davvero non sapevo di cosa parlavo!
Poi gli capita di cogliere qualche segnale che in altri tempi lo avrebbe allarmato. Roba da poco. Una volta cerca un posto dove acquistare un buon Tiramisù e dopo, per una settimana, viene bombardato dalla pubblicità di ogni genere di pasticceria. Un'altra volta cerca da Decathlon una tuta e Google non la finisce più di proporgliene di ogni genere. Ma guarda che combinazione, pensa senza darci troppo peso.
Del resto sta già seriamente riflettendo sul suo rapporto con l'alieno. Bello ma un po' passivo. È sempre lui che guida il gioco, pensa Berto. Io leggo, ascolto, mi informo ma non è così che dovrebbe funzionare. Se internet è democrazia, perché mai io ne devo rimanere ai margini? Avrò pure il diritto di dire la mia! Detto fatto, apre un account su Twitter, @EdicolaBerto. Ora ho una voce anch'io pensa e si mette a twittare ad ogni piè sospinto. All'inizio twitta di attualità e mette nero su bianco le riflessioni cui è indotto dalla lettura dei giornali. Ma poi, a poco a poco, emergono i suoi interessi. Twitta di Israele e di ebrei, di minacce e di antisemitismo, di Iran, di Siria, di Hamas, di Hezbollah. Dice la sua e in men che non si dica ha centinaia di followers.
Berto se ne compiace. Per la prima volta nella vita, tanta gente condivide e apprezza i suoi pensieri, ma non fa in tempo a gustare quell'effimero successo che già scopre con disgusto l'altra faccia della medaglia: insulti, minacce, beceri slogan antisemiti. È uno spettacolo spudorato. Nella vita reale gli antisemiti e i razzisti si mimetizzano dietro i fraintendimenti e i doppi sensi ma qui, nel modo virtuale, coperti dai niknames, sparano a zero senza remore né vergogna.
In sessant'anni Berto non si è mai imbattuto in qualcuno che gli sputasse in faccia i suoi pregiudizi antisemiti. Li ha colti, li ha letti fra le righe, li ha riconosciuti nelle mezze frasi, dette e non dette. Ma il razzismo del mondo reale non si manifesta alla luce del sole: striscia piuttosto nel sottobosco dell'ignoranza e si camuffa per non infrangere quella barriera di political correctness, messa a guardia di un tabù sociale poderoso. E nessuno può professarsi antisemita, senza porsi fuori del coro, in un limbo di sociale reprimenda.
Quella barriera sociale si frantuma invece nel mondo virtuale dove in piena libertà emergono le frustrazioni di una marmaglia indecente, pronta a sventolare gli stereotipi dell'odio, del pregiudizio e dell'avversione razziale.
Berto è confuso, ma sa cosa fare. Userà Twitter per combattere e smascherare quei cialtroni nostalgici, per controbattere i loro slogan, per rendere loro la pariglia.
Inizia a twittare ma si accorge presto che è fatica sprecata. Quella non è gente che va per il sottile o che accetta un contradditorio: quella è gente che ti insulta e ti banna, lasciandoti con un palmo di naso. Quella è gente persa nei propri osceni ideali e refrattaria ad ogni tentativo di dialogo.
E allora?
Berto non vuole arrendersi. Ora che ha una voce, non vuole tacere.
Gli occorre un po' di tempo ma alla fine trova la sua strada. Si batterà contro le maschere e i camuffamenti che consentono all'antisemitismo di farsi gioco di qualunque tabù sociale. Mostrerà le connessioni fra antisionismo e antisemitismo. Mostrerà l'insipienza dell'Onu, la doppiezza di Abu Mazen, l'odio viscerale di Hamas, e accenderà i riflettori sulle manipolazioni che accompagnano ogni dibattito su Israele. E ancora, si batterà contro la fandonia dell'apartheid e contro i boicottaggi mostrando il vero volto di Israele e i suoi straordinari contributi al progresso. Ecco, si, ora ha una voce e sa per cosa usarla. Controinformazione, si diceva ai suoi tempi, negli anni sessanta. Farà controinformazione rimpiazzando con internet il ciclostile. All'improvviso è meno solo. La depressione può aspettare, lui adesso ha qualcosa da fare.
(Shalom, marzo 2017)
Kado: Il caricabatterie più sottile al mondo. Intervista al CMO Yariv Ganor
Per il nostro giro di interviste ad imprenditori israeliani oggi la redazione di siliconwadi.it ha contattato il CMO di Kado, Yariv Ganor.
La startup israeliana Kado Thin Technologies ha creato il più sottile caricabatterie mobile del mondo che può essere inserito in un portafoglio, al fine di liberare le persone dal portarsi sempre dietro fili e cavi.
1. Siete una startup israeliana che ha sviluppato Kado, il caricabatterie mobile più sottile al mondo: In cosa consiste questa tecnologia e quali passi la hanno condotta al successo? Kado è una società Thin-Tech, che ha come obiettivo fissare nuovi standard nel campo della conversione di potenza. La nostra tecnologia, in attesa di brevetto, si basa su un nuovo modo di ricarica che ci permette, per esempio, di produrre caricabatterie per telefoni delle dimensioni di una carta di credito, con uno spessore di soli 5 mm. Abbiamo già implementato la nostra tecnologia proprietaria per produrre un caricabatterie per pc portatili che ha uno spessore di soli 8 mm. Abbiamo anche ricevuto diverse proposte dai grandi brand e leader in vari settori per esplorare le applicazioni della nostra tecnologia ultra-sottile nei loro prodotti.
2. Siete una azienda israeliana: Qual è la differenza nel coltivare una startup nell'ecosistema israeliano rispetto a farlo negli altri paesi? La cultura israeliana è molto orientata a sostenere iniziative personali. A volte si sente che è proprio parte del nostro DNA. Portare nuove idee, migliorare quelle esistenti, ricercare partner per lo sviluppo di innovazioni o di infrastrutture per farle nascere - questa è solo una parte della nostra vita quotidiana. Il multiculturalismo, gli eventi quotidiani impegnativi, l'esperienza imprenditoriale e anche il servizio militare, contribuiscono a creare terreno fertile per il pensiero creativo che richiede una realizzazione pratica.
3. Indicaci 3 aggettivi che meglio descrivono un uomo d'affari che vuole entrare a far parte di questo innovativo ecosistema israeliano. Per fare i primi passi in questo campo frenetico è necessario prima di tutto essere audaci. Ci sono un sacco di ostacoli là fuori, occorre tirare fuori il coraggio. Quindi, è necessario avere la flessibilità per gestire le diverse esigenze di business, il mutevole timing di sviluppo e gli inevitabili alti e bassi. Infine, è necessario avere "testa tra le nuvole e i piedi per terra" per assicurarsi che l'idea prenda vita e che si possa tradurre in un qualcosa di innovativo e rilevante.
4. Yariv, dove sarete tu e Kado tra 5 anni? Kado è stato svelato solo 2 mesi fa e ha già ricevuto tante grandi risposte da parte dell'industria, della stampa e dai consumatori. Onestamente, è travolgente. Siamo consapevoli che la nostra tecnologia ha tanto da offrire e desideriamo di sfruttarla al meglio. 5 anni è un sacco di tempo in questo mondo sempre più connesso, e ci piacerebbe vedere Kado come la rivoluzione che trasformerà gli standard delle ricariche.
(SiliconWadi, 13 marzo 2017)
Giordania, la folle esultanza per il killer liberato
Giubilo per l'uscita di cella anticipata di Ahmed Daqamseh che uccise sette bimbe israeliane. Si dà ascolto all'odio popolare verso Israele per compiacere le opinioni dei più estremisti.
di Fiamma Nirenstein
È difficile non domandarsi in che cosa consista la pace fra Giordania e Israele firmata nel 1994 da Rabin e re Hussein quando si vedono le scene di entusiasmo della famiglia e della gente, i canti, gli slogan di odio e le caramelle per la liberazione di Ahmed Daqamseh, l'assassino di 7 bambine israeliane e feritore di altre 7, liberato anzitempo. Irbid suo paese natale, a nord di Amman, benché l'uomo sia stato rilasciato domenica alle due di notte, gli ha dedicato un'accoglienza trionfale. L'assassino giordano uccise col mitra d'ordinanza 7 bambine israeliane in gita ed è appena stato rilasciato con cinque anni di anticipo sui 25 anni che secondo la condanna all'ergastolo (sempre pari a 25 anni) avrebbe dovuto ancora trascorrere in carcere.
È l'incessante situazione di ambiguità e di sostanziale odio popolare che anche in un Paese in pace con Israele si seguita ad alimentare per compiacere l'opinione più bassa, sempre turbata dalla miseria e dall'estremismo, quella che certo con contribuisce al futuro di quello di uno dei Paesi meglio governati e meno estremisti grazie alla monarchia ashemita.
Mahmed Daqamseh era di guardia sul confine giordano insieme a altri militari in una bella giornata di marzo del 1997, la pace era vecchia di tre anni. Fu una tragedia scatenata dall'odio e dalla ribellione proprio alla pace: in un luogo scenografico, chiamato «Isola della Pace» a Naaraim sul fiume Giordano al confine fra i due Paesi, una classe di ragazzine di 13 anni si godeva la libertà della gita scolastica. Daqamseh impugnò il fucile e ne uccise sette ferendone altrettante. Chi scrive, che era stata all'Aravà per la pace, non può dimenticare lo choc di Israele, e neppure quello giordano: lo stesso re Hussein, un uomo di fascino e carisma speciale, venne in Israele per chiedere scusa e si mise in ginocchio visitando la famiglia Badayev che aveva perso la sua Shiri.
Quei tempi sono passati, la generazione degli Hussein e dei Mubarak che sembrava avere la convinzione della indispensabilità di una pace con Israele sembra aver fatto posto a un mondo spaventato, ossessionato dalla paura del terrorismo e quindi prono alle esigenze populistiche che lo possano tuttavia contenere o indirizzare lontano. Fatto sta che già nel 2013 una petizione firmata da 110 membri del parlamento giordano su 150 chiedeva la liberazione di Daqamseh, e la stessa cosa aveva fatto lo stesso ministro della giustizia Hussein Mjah nel 2011, tanto che Israele chiamò per un colloquio l'ambasciatore a Tel Aviv. Daqamseh ieri è stato messo in libertà, e i canti di gioia e la distribuzione di caramelle hanno festeggiato l'odio popolare anti israeliano che si esprime spesso tramite le proteste dei sindacati e delle organizzazioni professionali a ogni contatto fra israeliani e giordani, la mancanza di ogni stimolo a viaggi e contatti di turismo o studio. Questo è dovuto alla presenza di più di un 50% della popolazione che è di fatto palestinese, e alla crescita dell'integralismo sunnita terrorista che ha chiazzato il Paese di attentati. Questo porta le classi dirigenti a scaricare la paura dell'estremismo creandosi una verginità anti israeliana: è ancora vivo il trauma del pilota giordano bruciato in una gabbia dopo essere catturato in azione con le forze della coalizione anti Isis, e nel 2014 l'attacco finito nel castello di Karak che fece 10 morti. Ma è valida la domanda: può la Giordania combattere il terrrorismo dell'Isis se perdona quello che uccide 7 bambine per mano di un suo soldato?
(il Giornale, 13 marzo 2017)
Morto Adolfo Perugia, partigiano ebreo
Contribuì a liberare Roma dai nazisti. Il rabbino Di Segni: determinato e tenace la sua testimonianza non va dimenticata.
È scomparso nella notte di Shabbat (il sabato ebraico) Adolfo Perugia, partigiano ebreo che aderì alla Resistenza nel 1944 insieme al Fronte della Gioventù Antifascista. Nato a Roma nel 1931, contribuì a liberare la città dove era nato partecipando alla guerra di Liberazione. Presidente dell'Associazione Nazionale Miriam Novitch, Perugia è stato per la Comunità Ebraica di Roma e per la città intera una figura importante nella conservazione della memoria. «Una scomparsa particolarmente dolorosa per l'impegno profuso costantemente nel ricordare i valori dell'antifascismo - affermano il Rabbino Capo Riccardo Di Segni e la presidente della Comumtà ebraica di Roma Ruth Dureghello - Perugia è stato un uomo determinato e tenace la cui testimonianza non deve essere dimenticata. Che sia il suo ricordo di benedizione».
Il cordoglio
Cordoglio per la morte di Perugia è stato espresso dal comitato provinciale dell'Anpi, l'Associazione nazionale dei partigiani. «Di famiglia ebrea antifascista, quindi doppiamente perseguitata, nel '38, a 7 anni, fu espulso dalle scuole pubbliche per le leggi razziali. A causa dell'antifascismo familiare gli fu proibita anche la scuola ebraica - ricorda l'Anpi in una nota -. La sorella Virginia, espulsa dall'ospedale dove era ricoverata morì poco dopo. Nel '44, giovanissimo, militò nella formazione del Fronte della gioventù per l'indipendenza nazionale e per la libertà con Eugenio Curiel fino alla liberazione di Roma. Perugia ha costantemente e tenacemente operato per conservare la memoria e i valori dell'antifascismo».
(Il Messaggero, 13 marzo 2017)
Riham, 19 anni, comica a Gaza. «Fare ridere è una cosa seria»
La gag della poliziotta per svelare il sessismo della società (e di Hamas). Gli oltranzisti hanno minacciato lei e la famiglia. Lo show ha raggiunto 100mila abbonamenti e 17 milioni di visualizzazioni su Youtube
gestione classica passaparola.
di Davide Frattini
Riham al Kahlout
Riham
GERUSALEMME - Riham al Kahlout scherza su tutto tranne che sulla sua voglia di far ridere. I genitori l'hanno costretta a iscriversi alla facoltà di Legge, non credono nella carriera di comica, anche se i ruoli per una ragazza a Gaza non mancano: i fondamentalisti preferiscono vedere un uomo indossare la parrucca e il velo che una donna interpretare una donna.
Così Riham a 19 anni affronta la paura del palcoscenico e quella degli oltranzisti. Hanno minacciato lei e la famiglia che per ora la sostiene l'accusa è quella di dare scandalo, una giovane da sola in mezzo a un gruppo di maschi. Sono gli altri attori di uno show satirico che da cinque anni viene trasmesso su YouTube, ha raggiunto quasi 100 mila abbonati e 17 milioni di visualizzazioni.
A Gaza dove i semafori sono sempre spenti dalla mancanza di elettricità e gli autisti accesi dalla frenesia del traffico, le barzellette sui vigili possono diventare perfide. A Gaza dove le famiglie vivono accalcate in poche stanze, un matrimonio combinato può trasformarsi in farsa amara perché i tre cugini vogliono sposare la stessa ragazza (e lei ha scelto un altro). Riham e poche altre come Serine al Barkooni, 21 anni hanno scelto di mettere in ridicolo la società maschilista che le circonda.
In una scenetta è Riham la poliziotta (nella realtà non ne esistono) che non riesce a gestire l'incrocio perché tutti si fermano a guardarla, i colpi di clacson come apprezzamenti. «Quello che mi deprime di più dice al domenicale britannico Observer sono i commenti su YouTube. Quelli che mi attaccano non ammettono di essere sessisti e allora mi accusano di non saper recitare. "Mandatela a casa" scrivono. Io non mollo, il mio sogno è che le donne siano libere di essere quello che vogliono».
Nella Striscia schiacciata tra Israele e il Mediterraneo, il mestiere di giullare è pericoloso anche per gli uomini. Adel Meshoukhi è stato arrestato l'11 gennaio, ogni giorno la madre si è presentata alla prigione di Ansar per chiedere che fosse rilasciato, l'hanno tenuto per due settimane. Quel filmato in cui per un minuto e mezzo Adel urla a squarciagola «elettricità, elettricità, elettricità...» per finire «basta con Hamas» è stato visto in poco tempo da 150 mila persone, troppe per i miliziani islamisti. Troppe e su una questione troppo sensibile: per mesi il gruppo al potere ha garantito solo tre ore di energia al giorno per i 2 milioni di abitanti.
Per ragazze come Serine, laureata in Comunicazione all'Università Al Azhar, continuare a recitare è una forma di ribellione, voler impersonare l'umorismo nero che sbeffeggia la crisi economica e la miseria a Gaza il 60 per cento dei giovani è disoccupato è considerato vera insubordinazione. Il titolo del suo show «Nuvola estiva» ricorda i nomi in codice delle operazioni militari israeliane («Piombo fuso» è stata chiamata dai generali quella tra luglio e agosto del 2014) ma le critiche sono soprattutto per Hamas, l'organizzazione che spadroneggia nella Striscia da quando sette anni fa ha strappato il controllo all'Autorità palestinese.
«Non sono pronta ad accettare dice al giornale online Al Monitor il ruolo tradizionale destinato alle donne, aspettare un marito che ti scelgono i genitori. Se interpretassi drammi, sarebbe più accettato dalla gente. Qui sono convinti che la satira guasti la femminilità».
(Corriere della Sera, 13 marzo 2017)
Gaza adesso esporta le kippah: agli israeliani!
Cosa c'è di più gustoso di un fallimento epico del movimento internazionale che cerca in tutti i modi di screditare, danneggiare e colpire lo stato ebraico?
Uno delle consuetudini più simpatiche, per chi visita per la prima volta Israele, consiste nell'acquistare una kippah, il famoso copricapo ebraico. Le kippot sono disponibili ovunque e per tutte le tasche. Nei luoghi sacri, come il Muro Occidentale di Gerusalemme, sono prestate gratuitamente in occasione della visita; ma vale la pena di comprarne una nei tanti negozietti dei vicoli della capitale per portarla a casa come ricordo di questa straordinaria esperienza.
Succede talvolta che la produzione domestica è insufficiente a soddisfare la domanda; sicché Gerusalemme si rivolge all'estero, da cui importa una parte considerevole delle kippah. Fin qui nulla di strano, se non fosse che una parte di esse proviene dalla vicina Striscia di Gaza. Proprio così: in un campo profughi di al-Shati, assurto due anni fa agli onori della cronaca, le macchine lavorano incessantemente per produrre kippot che saranno vendute al vicino Israele.
È il massimo del paradosso, e mai ci si potrebbe immaginare che un territorio governato dai terroristi di Hamas possa collaborare economicamente con i vicini israeliani; ma la crisi fa miracoli. La qualità della manifattura è apprezzata, e la prossimità riduce drasticamente i costi di trasporto.
Le kippot giungono in Israele transitando dal valico di Kerem Shalom, attraverso il quale tutti i giorni generi di prima e seconda necessità raggiungono dallo stato ebraico l'enclave palestinese (il valico egiziano di Rafah essendo invece quasi sempre chiuso, creando non pochi disagi alla popolazione palestinese). La fabbrica in questione, situata per ironia della sorte vicino alla casa natale di Ismail Haniyeh, ex leader di Hamas, da' lavoro ad una cinquantina di dipendenti, e produce dalle 5 alle 10 mila kippah al mese. L'economia porterà la pace? chi lo sa, dopotutto un vecchio adagio sostiene che dove passano le merci non passano gli eserciti...
Speriamo che i boicottatori non se ne accorgano. Per i bene dei palestinesi, s'intende...
(Il Borghesino, 13 marzo 2017)
Mandorlo in Fiore. Il ''Tempio d'oro'' quest'anno va a Israele e Palestina
Si è conclusa ieri ai piedi del Tempio della Concordia con l'assegnazione del "Tempio d'oro" a Israele e Palestina la 72esima edizione del Mandorlo in Fiore. Evento a cui hanno partecipato davvero in tanti e che ha mostrato, ancora una volta, la bellezza e l'importanza dell'unione tra i popoli.
di Jona Dante
Per cultura e folklore, ma prima ancora per la fratellanza, sono stati i gruppi folk di Israele e Palestina a vincere ieri in ex equo il ''Tempio d'oro'' a conclusione della 72esima edizione del Mandorlo in Fiore. A vincere è stato dunque il messaggio di pace che da sempre è il cuore della kermesse più amata dagli agrigentini, messaggio che è stato lanciato quest'anno da due popoli che da tempo vivono in una situazione di conflitto.
L'evento conclusivo del festival ha avuto luogo ieri nella Città dei Templi ed è iniziato di buon ora. Già a partire dalle ore 9.00 una gran folla ha cominciato ad accorrere verso Porta di Ponte. La sfilata lungo le vie cittadine, complice anche un bel tempo molto invitante, ha visto partecipe un immenso corteo.
Location del gran finale è stata però la Valle dei Templi. Nel primo pomeriggio il tempio della Concordia ha fatto da spettatore all'esibizione finale dei gruppi alla quale è seguita la premiazione. Molto apprezzati sono stati i gruppi stranieri, ma non si sono dimostrati da meno i gruppi italiani. Quelli siciliani in particolare hanno omaggiato e dichiarato amore per la nostra tradizione folkloristica, riscuotendo molto favore da parte del pubblico.
Palestina e Israele però hanno letteralmente ''sbancato'', convincendo anche la sezione provinciale dell'Assostampa di Agrigento che ha deciso di assegnare loro la targa di premiazione dell'edizione 2017 del premio ''Ugo Re Capriata'' ''per il valore simbolico che la loro unione durante la medesima kermesse può rappresentare sotto un profilo internazionale''.
Cala il sipario dunque sulla 72esima edizione del Mandorlo in Fiore, la prima organizzata dall'Ente Parco Archeologico.
(Sicilia TV, 13 marzo 2017)
*
Concluso il 72o Mandorlo in Fiore: vincono Israele e Palestina.
Da Agrigento un messaggio di pace e fratellanza
di Marcella Lattuca
Sono i gruppi di Israele e Palestina a vincere la 72^ edizione del Mandorlo in Fiore.
Da Agrigento, dal tempio della Concordia, un importante messaggio di pace e fratellanza. Palestina e Israele "insieme" che alzano al cielo, mano nella mano, il "Tempio d'Oro".
Due paesi che si sono ritrovati, in armonia, a condividere un momento di gioia uniti ai piedi del tempio della Concordia, da sempre sinonimo di pace tra i popoli. Una kermesse quella della festa del Mandorlo in Fiore 2017, tanto attesa e che decreta l'inizio della bella stagione, che verrà senza dubbio ricordata anche per il fiume di gente che si è riversato sulla via sacra proveniente da ogni parte della Sicilia e non solo.
Una immagine che resterà per sempre negli annali di un Mandorlo in Fiore che quest'anno ha avuto un importante significato "simbolico". Una festa che, al di là del folklore, rappresenta sempre più quell'icona di un messaggio da irradiare nel mondo: pace e concordia.
La squadra di Israele
"Diversità" che si incontrano e che nel segno dell'amore fra i popoli rendono più bella questa festa di antiche tradizioni. Una festa "internazionale" che, per la prima volta, quest'anno ha perso la dicitura di "Sagra". Probabilmente non solo nel nome, ma anche nell'idea di una "festa" che deve essere una "festa" dell'unione fra i popoli. A consegnare il premio è stato il sindaco di Agrigento, Lillo Firetto che dal tempio della Concordia ha voluto rilanciare forte il messaggio di pace e di fratellanza tra i popoli.
Premiati anche i gruppi locali del Val d'Akragas, Fiori del Mandorlo e Gergent. Appuntamento al prossimo anno.
Dipendenti e insegnanti Unrwa ricoprono alte cariche in Hamas e fanno propaganda antisemita on-line
Muhammad Abu Nasr, che si presenta sul suo profilo Facebook come insegnante dell'Unrwa, ha postato la foto di un "balilla" palestinese con arma collo, sovrapposta alla bandiera palestinese e affiancata dal simbolo di Hamas
Un palestinese di Gaza impiegato ad alto livello nell'Unrwa, l'agenzia Onu per i profughi palestinesi, è stato eletto nel politburo di Hamas. Uno dei 15 membri dell'ufficio politico dell'organizzazione terrorista islamista palestinese eletto lo scorso 13 febbraio risulta infatti essere Muhammad al-Jamassi, un ingegnere dipendente dell'Unrwa, stando a quanto riportato dal Meir Amit Intelligence and Terrorism Information Center. Dal 2007, Jamassi ha già ricoperto diverse posizioni all'interno di Hamas, fra l'altro nel dipartimento pubbliche relazioni del gruppo e in enti di beneficenza affiliati. Ma Jamassi attualmente presiede anche il Consiglio del Dipartimento di ingegneria dell'Unrwa a Gaza, e supervisiona tutti i progetti infrastrutturali dell'agenzia Onu nella zona....
(israele.net, 8 marzo 2017)
Baseball, nessuno li conosce ma loro vincono
"Il baseball fa presa sui fan per due elementi principali. Come molti altri sport, ha grande eleganza e c'è l'eroismo individuale. Come bambino americano sei ipnotizzato da entrambi. Da ragazzo giochi a baseball per tutta l'estate, per tutto il giorno, fino a sera, fino a quando c'è abbastanza luce per vedere la palla. Poi, come un adulto, lo guardi e lo segui per il resto della tua vita, ancora come fossi un bambino". Questa la descrizione del baseball da parte di Philip Roth, il celebre scrittore ebreo americano, che in diversi libri racconta la sua fascinazione per un gioco che in Italia non trova lo stesso successo. Così come accade in Israele, dove i bambini non crescono a pane e baseball, ma guardano calcio, basket, judo, fino al football americano ma dello sport tanto amato da Roth sanno molto poco. Eppure Israele, per la prima volta nella sua storia, sta sbalordendo tutti al World Baseball Classic, infilando vittoria dopo vittoria: nelle scorse ore ha battuto la quotata Cuba, dopo aver già surclassato Corea del Sud, Taiwan e Olanda. La cenerentola delle squadre sta impartendo lezioni a squadre che hanno una tradizione alle spalle, che hanno un tifo che le segue. Perché? Perché la squadra è formata per la maggior parte da ex professionisti ebrei americani e non ci sono sabra a vestire la casacca blu e bianca. Sono loro che stanno trascinando un team che fino a una settimana fa era 41esimo nel ranking mondiale a una sorprendente scalata verso il vertice del baseball: Israele ora si gioca i quarti di finale in quella che è la più importante competizione per nazionali di questo sport.
Come scrive il Washington Post, la maggior parte degli israeliani con tutta probabilità non sapeva nemmeno di avere una squadra nazionale di baseball e neanche conosce le regole del gioco. Strike e fuori campo sono parole sentite nei film americani ma nulla più: sono circa 1000 le persone che in Israele ci giocano. Nel 2007 degli ebrei americani avevano cercato di fondare la Israel Baseball League. Il progetto ha avuto vita breve: una stagione e tutto è finito nel dimenticatoio.
Ora i fari si sono riaccesi grazie alle impreviste vittorie della nazionale in giro per il mondo: i giocatori sono tutti ebrei americani (tranne due che sono nati in Israele) e hanno preso la nazionalità israeliana. I critici li hanno definiti come dei mercenari (alcuni hanno visitato il paese per la prima volta solo pochi mesi fa) e nemmeno il ministro dello Sport Miri Regev sembrava a conoscenza della loro esistenza. "Sono il ministro dello Sport ma non pretendo di sapere chi sia ogni giocatore o ogni squadra", le parole della Regev alla radio dell'esercito israeliano. Jerry Weinstein, coach della nazionale, ha spiegato che questa potrebbe essere l'occasione per far uscire dall'ombra questo sport, che in Israele non ha grandi sostenitori. "Smettiamola di fingere che questi giocatori realmente rappresentano Israele, perché ho dei dubbi che qualcuno che non vive in un paese e che non lo ha mai visitato possa veramente sviluppare un affetto verso di esso", ha scritto su Yedioth Ahronoth Guy Leiba. "Non vi è alcuna differenza tra questi giocatori e velocisti africani che scelgono di rappresentare i paesi arabi per pochi dollari", la sua aspra critica. Il Forward, giornale ebraico americano, non è d'accordo: "si tratta di ebrei che si sono organizzati sotto una bandiera e un inno comune, credendo nel valore collettivo, gareggiando su un palcoscenico mondiale, trovando le proprie eccellenze e superando ogni probabilità". Una storia che suona familiare.
(moked, 12 marzo 2017)
Libero il killer giordano che uccise sette alunne israeliane
La Giordania ha rilasciato in nottata il soldato che nel 1997 in un attacco terroristico uccise sette ragazzine israeliane in gita scolastica all'Isola della pace a Naharyim, località di confine tra i due paesi. Lo riferiscono i media israeliani spiegando che Ahmad Daqamseh è ritornato nel suo villaggio di Idivir nel nord della Giordania. L'uomo - che all'epoca era un soldato - attaccò il 13 marzo del 1997 le alunne di una scuola di Beit Shemesh in gita nel luogo turistico. Ne uccise sette prima di essere fermato dagli altri soldati giordani. Benché passibile di pena capitale, fu condannato al carcere a vita (che in Giordania significa 20 anni di prigione) in quanto i giudici lo definirono instabile di mente. L'assassinio delle ragazze suscitò un immenso clamore in Israele e l'allora re di Giordania Hussein si recò personalmente nello Stato ebraico per rendere omaggio ai parenti delle vittime. Daqamseh è diventato un eroe dell'opposizione giordana, guidata da islamisti e nazionalisti.
(ANSA, 12 marzo 2017)
Sull'orlo dell'inizio. Quando il pop abbatte i confini
Idan Raichel protagonista di un live acustico con le canzoni di «At the edge of the beginning»
di Laura Martellini
Idan Raichel
ROMA - La sua idea è costruire ponti con la musica. «Le canzoni - ha detto - possono educare i giovani ad attraversare i confini per incontrare l'altro. E' possibile creare un collegamento se dall'altra parte c'è un'apertura: io so che in Siria e Iraq c'è gente disponibile, anche se terrorizzata dall'Isis». Idan Raichel, nativo di Tel Aviv, leader del collettivo Idan Raichel Project, torna a Roma, stavolta per offrire una differente visione di sé, «Piano songs»: mercoledì sarà all'Auditorium solo sul palco, al pianoforte acustico e al piano elettrico, ma suonerà anche le percussioni, il drum pad & looper e strumenti giocattolo delle sue due figlie piccole. Un modo di celebrare la recente paternità.
Idan affronterà un repertorio vasto, fra cui brani tratti dall'ultimo «At the edge of the beginning» in cui riflette sui cicli della vita, sulle relazioni umane e sui nuovi inizi. «Qualche volta si sente il bisogno di tornare alle cose semplici della vita»: così ha spiegato a proposito dell'album, molto essenziale. Un momento di riflessione per la star della musica globale. L'opportunità di fare il punto sul passato e pensare solo a ciò che è veramente rilevante per il futuro: l'importanza della vita, dell'amore con le sue sfumature, della famiglia.
Il concerto segue un preciso copione nelle diverse tappe: Idan ospita sul palco musicisti locali in ogni città, invitandoli ad unirsi a lui sulle piattaforme digitali prima di ogni data. È il suo stile, l'incontro a tutto campo, al di là delle provenienze e dei generi: con pop star americane come India. Arie, Dave Matthews e Alicia Keys, con la portoghese Ana Moura, con il francese Patrick Bruel, con Andreas Scholl in Germania e con il maliano Vieux Parka Tourée. Da quest'ultimo incontro è nato l'album del 2012 «The Tel Aviv session»: «Un chitarrista musulmano e un pianista ebreo, Mali e Israele unite di fatto mentre non c'erano rapporti diplomatici. Un chiaro esempio di cosa io intenda per potere della musica. Come andare alle mie radici mettendo insieme mondi diversi».
Ha incontrato anche l'Italia, nella lunga strada percorsa: Ornella Vanoni («un mito, è stato per me un onore») e Riccardo Sinigallia con il quale ha composto per Mina e Celentano «Amami amami». Più volte ospite a Roma del festival di letteratura e cultura ebraica, considera ogni ritorno entusiasmante: «Ammiro i vostri film, la musica, il cibo - ha raccontato -. Mi piacciono il folk e la tarantella! Penso che la musica italiana sia influenzata dai ritmi del mondo, e che al contempo sia in grado di far sentire la sua voce oltre i confini. Imparo molto dai vostri artisti emergenti».
(Corriere della Sera, 12 marzo 2017)
Tra Hamas e Israele finiscono le ostilità. Forse
Verso un movimento islamico indipendente, ad aprile l'assemblea del cambiamento. Gli alleati arabi chiedono una posizione più pragmatica e meno aggressiva.
di Michele Giorgio
GERUSALEMME - Israele ed Hamas possono arrivare, senza riconoscersi, a uno stato di non belligeranza a tempo indeterminato? I dubbi sono molti. Tuttavia da qualche tempo si registrano segnali interessanti che fanno ipotizzare un compromesso non dichiarato, utile agli interessi delle due parti. Il primo segnale è la calma relativa seguita alla distruttiva offensiva israeliana «Margine protettivo» dell'estate 2014. Certo proseguono i lanci sporadici di razzi palestinesi e i raid aerei israeliani. Ma è una tensione a bassa intensità, sotto controllo, che non lascia immaginare l'inizio di un nuovo ampio conflitto, nonostante a gestire la situazione siano due «falchi», il ministro israeliano della difesa Avigdor Lieberman e il nuovo capo di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar, uno dei fondatori dell'ala militare del movimento islamico.
Altri segnali sono la redazione in corso del nuovo statuto di Hamas più «moderato» (rispetto a quello annunciato il 18 agosto 1988) nei confronti di Israele e la proposta dell'influente ministro israeliano dei trasporti lsrael Katz per la costruzione davanti alle coste di Gaza di un'isola artificiale. Isola ( costo 5 miliardi di dollari) che dovrebbe ospitare un porto, un impianto di desalinizzazione e una centrale elettrica, per migliorare le condizioni di vita dei due milioni di palestinesi di Gaza che da più di 10 anni affrontano le conseguenze del blocco israeliano. L'idea a Gaza raccoglie interesse anche se Hamas non lo dice. A spiegare da qualche giorno il «Covenant» è Ahmad Yusef, in passato consigliere dell'ex primo ministro islamista Ismail Haniyeh. Hamas formulò il suo statuto nel 1988 poco dopo l'inizio della prima Intifada, quando era una organizzazione relativamente piccola, non ancora in contrapposizione aperta con l'Olp, e che il suo fondatore, lo sceicco Ahmad Yassin, non poteva certo immaginare forte militarmente, popolare e influente come oggi.
Yusef sostiene che il movimento islamico intende darsi uno statuto adeguato alla mutata realtà locale e regionale. Hamas non riconoscerà Israele, non lo farà mai spiega Yusef, ma intenderebbe proclamarsi «solo» contro il sionismo e non contro gli ebrei. Non c'è nulla di definito su tale punto ma questa possibilità, riferita da Ahmad Yusef, è stata confermata al manifesto da una fonte di Gaza, che vuole rimanere anonima, vicina ai vertici del movimento islamico.
«Hamas si percepisce ormai come una forza regionale, che deve tenere conto degli interessi e degli Stati arabi e islamici che lo appoggiano e lo finanziano» spiega la fonte «il Qatar e la Turchia (i maggior sponsor di Hamas, ndr) hanno rapporti con Israele e premono per cooptare il movimento islamico palestinese nell'alleanza sunnita che si è formata nella regione. Perciò chiedono una posizione più pragmatica e meno aggressiva nei confronti di Israele».
Per questo Hamas potrebbero rinunciare, almeno per un certo numero di anni, a «liberare tutta la Palestina» e proclamarsi a favore di uno Stato palestinese nei territori occupati da Israele nel 1967: Cisgiordania, Gaza, con capitale Gerusalemme Est. Non solo. «Nel nuovo statuto», aggiunge la fonte «Hamas si descriverà come un movimento islamico indipendente, non più parte della Fratellanza islamica egiziana, allo scopo di migliorare le sue relazioni con l'Egitto, l'Arabia saudita e gli Emirati, nemici dei Fratelli musulmani».
Le resistenze interne non mancano, soprattutto nell'ala militare. «I moderati comunque vinceranno, prevede la fonte, spiegando che «tra la fine di marzo e l'inizio di aprile la shura (assemblea di Hamas) nominerà l'esecutivo del movimento, che includerà dirigenti locali e in esilio, e il nuovo leader, con ogni probabilità Ismail Haniyeh favorevole alla svolta pragmatica». Nel frattempo sull'altro fronte Efraim Halevi, ex capo del Mossad, il servizio segreto israeliano, esorta il governo ad avviare un «dialogo diretto» con Hamas e il capo dello stato Reuven Rivlin dice di non essere contrario «a parlare con chiunque voglia dialogare», quindi anche gli islamisti.
Una posizione non condivisa dal premier Netanyahu. Per il momento c'è un'unica certezza: l'Anp e il presidente palestinese Abu Mazen sono fuori dai giochi.
(manifesto, 12 marzo 2017)
Baseball: sorpresa Israele ai Mondiali
ROMA - Israele continua la sua sorprendente serie di vittorie nel World Baseball Classic. Ieri a Tokyo ha battuto anche la blasonata Cuba per 4-1, esordendo al meglio nella pool E del torneo. Ed ora il sogno di approdare in semifinale non è così impossibile: potrebbe bastare un successo contro uno dei prossimi avversari, ovvero Olanda e Giappone. Israele, solo 41/a nel rank mondiale, è ancora imbattuta e sta smentendo l'etichetta di Cenerentola della competizione. Prima di Cuba, aveva già sconfitto Corea del Sud, Taiwan e Olanda nella pool A. La corsa della squadra israeliana è definita dai media una grande sorpresa se si pensa che nel Paese ci sono soltanto tre campi da baseball e un migliaio di giocatori. Nella pool D dello stesso torneo, ospitata però in Messico, è presente anche l'Italia, che dopo la vittoria a sorpresa sui padroni di casa giovedì scorso (10-9), ieri è stata sconfitta dal Venezuela (11-10). In testa al girone, con due successi su due, c'è Porto Rico, oggi avversario degli azzurri.
(Brescia Oggi, 12 marzo 2017)
Sulla grande muraglia di Erdogan contro i curdi
In viaggio lungo il muro di Erdogan che vuole cancellare i curdi. La barriera di cemento sigilla ormai cinquecento chilometri di confine tra Turchia e Siria. Qui il nemico sono i guerriglieri del Pkk
di Domenico Quirico
Era mattina, una mattina di primavera. Il tempo era bello, un sole giallo, vecchio, usato avanzava prudentemente nel cielo ancora un po' grigio. Nel ristorante «Friends» a Gaziantep le tre ragazze siriane cinguettavano allegre, beccuzzando enormi piatti di pollo fritto, scambiandosi i telefonini, tra ammicchi e risa di gioia. Una era particolarmente bella, elegante, ricca, con un raffinato velo Burberry.
Il mio itinerario in Turchia non poteva che iniziare qui: come sei anni fa, e allora furono viaggi notturni, bisbigli nel buio, incontri furtivi con sconosciuti appena intravisti, attese silenziose. Attraversare il confine siriano era difficile. Il chilometro più lungo della frontiera era a Khilis, a poca distanza dalla città. Da questa parte la Turchia. Dall'altra i ribelli e i soldati di Bashar Assad, la guerra infiniti orrori. Il mostro cruento svelava la sua faccia feroce. Uomini e donne hanno impiegato anni per percorrerlo e sono morti prima di toccare la meta, prima di diventare profughi.
Adesso i campi dei rifugiati in Turchia sono quasi vuoti, in compenso si sono riempite le città di siriani, due milioni settecentomila, quartieri interi, come qui a Karatash. Case strade negozi aiuole tutto nuovo, persino tra le rotaie del tram hanno steso una moquette verde per dare l'illusione dell'erba. Ma comunque si giri ti sembra di essere nella periferia provvisoria di una provvisoria città, luogo di tappa di un popolo stanco di andar pellegrino. Aggrappati al presente, temono l'avvenire.
Una vita tra visti e fughe
Poi nel ristorante è entrata un'altra giovane, anche lei siriana. Quante ne ho viste così: che si sentono ovunque di troppo, misurano il tempo in visti e la propria biografia in timbri. Non hanno fatto nulla di male ma sono certi di essere inseguiti. Si vede dagli occhi stanchi, dal passo svelto, dai vestiti sporchi, consunti. Sorridono timidamente: per farsi accettare. Chiedono scusa sempre, di essere lì, di disturbare, di togliere posto al sole. Si è avvicinata alle tre senza esitare. Ha scelto la più bella per parlarle, quella con il velo firmato. Si sono guardate per un lungo momento, come per misurare l'abisso che questi anni e il destino hanno scavato fra di loro.
La ragazza povera stringeva i denti come se trattenesse le lacrime le immagini le parole. L'altra, la ricca, ha fatto un gesto al cameriere che ha raccolto gli avanzi del pasto e li ha fatti scivolare in una borsa di plastica. Un leggero trasalimento, la ragazza attendeva a capo chino, il tacere in fondo alla preghiera, quando dopo aver invocato tratteniamo il respiro, tendiamo l'orecchio. Ha preso il sacchetto ed è uscita mormorando brevi parole.
L'ho seguita con lo sguardo. Ha attraversato il viale che taglia il quartiere. Il pudore infinito della povertà. Si è seduta sul marciapiede e ha iniziato a mangiare, svelta, gli avanzi. La Siria fuggiasca, lì, tutta intera: i ricchi che hanno avviato in Turchia una nuova vita, vivono in quartieri loro, a fianco dei turchi che non li amano, senza integrarsi. Ho visitato una scuola pagata dai ricchi uomini d'affari siriani che sono emigrati negli Usa e in Canada: computer e proiettori in ogni aula, la musica che accompagna la pausa tra le lezioni. Da far invidia ai loro coetanei italiani.
E poi gli altri ... Come sono simili, gli altri, a quelli che incontrai sei anni fa nei campi, chiusi a tutte le speranze, convinti che ciò che li aveva tenuti insieme da sempre si fosse per sempre spezzato per la decisione di qualche presidente o fanatico o per un nero destino; che tanto valeva partire o restare, in entrambi i casi non rimaneva che rinchiudersi in se stessi. E scaricavano davanti alle tende le loro robe e le portavano dentro, prendevano mogli figli vecchi e li portavano dentro.
Documenti in regola
Son passati sei anni e misuriamo in loro la nostra colpa: la guerra infuria e gli esseri umani continuano ad essere coloro che hanno i documenti in regola, non gli altri, quelli non sono i corpi vivi che ci stanno davanti ma stanno dentro le pratiche e gli incartamenti. Età, provenienza mezzi per vivere progetti di emigrazione, perchè siete qui, perché? Che ne sarà della Turchia, dell'Europa se tutta la Siria viene a stabilirsi qui dai rispondi! E voi rispondete: quante volte ho sentito, abbiamo sentito queste parole?
Al quartiere di «Iran bazaar» mi aspettano i bambini siriani, i bambini che lavorano nei laboratori del tessile. La porta di un edifico si apre, un bimbo viene mandato in avanscoperta dall'interno giungono voci e rumori confusi di macchinari. Ci guarda incerto: il padrone non c'è. Poi lui spunta dalle scale. Ci fingiamo imprenditori italiani del tessile che vogliono approfittare del crollo della lira turca per spostare una parte della lavorazione a prezzi stracciati. L'avidità cancella anche i sospetti, saliamo tra scale sbrecciate, resti di stoffa, immondizie, in un stanzone molti bambini qualche donna un paio di vecchi, tutti siriani, tagliano e lavorano in lunghe file di macchine da cucire. Camicine per neonati si allungano in interminabili mucchi. Il padrone, turco, ci offre condizioni vantaggiose: una lira e 50 turca per capo, è in grado di assicurarci mille capi al giorno ottomila la settimana. Farà lavorare i suoi piccoli operai su due turni senza sosta, un buon affare. I bambini, rannicchiati nei loro fagotti di cenci, non alzano nemmeno il capo per scrutarci, attenti ai gesti di tagliare e cucire e unire i lembi dei vestitini con il ritmo di una danza, con la devozione alla macchina che hanno davanti di un cane sulla tomba del padrone. Nel quartiere in ogni soffitta e sottoscala, basta scendere gradini sudici addentrarsi in antri scuri da medioevo, ci sono decine di laboratori come questo, dove sono sfruttati i piccoli fuggiaschi della rivoluzione siriana. Tutta la produzione viene poi spedita a Istanbul e all'estero. Altri bambini ti incrociano trascinando penosamente carretti di legno sovraccarichi di stoffe e vestiti diretti verso i magazzini.
Nei cinema proiettano trionfalmente «Il Reiss», film epopea sulla vita e la carriera del presidente Erdogan, un misto tra Victor Hugo e le mille e una notte: l'infanzia di povero, la persecuzione politica, il trionfo. Il sedici aprile si voterà per il referendum che ne rafforza i poteri, fino al 2029. I sondaggi danno favorito il no. Ma c'è tempo, mezza opposizione è in galera dopo il fallito golpe del 15 luglio, c'è lo stato di emergenza che vieta i comizi, e poi funziona la semplificazione eterna: o noi o il caos, se voti no aiuti i terroristi. Il mito ossessivo della congiura di forze oscure contro la Turchia, che solo Lui può fermare. Martellante universale efficacissimo. Va bene sempre, come sempre.
Lascio Gaziantep, mi attende un lungo viaggio verso Est: la porta d'Oriente, uno dei confini più delicati del mondo. Impossibile sbagliare strada, ti accompagna per centinaia di chilometri il Muro di Erdogan. Sembra solo una regolare linea grigia sulla pianura. Talora si avvicina alla strada fino a qualche centinaio di metri, talora si allontana: ma sempre ben visibile, definitivo, cementizio, invalicabile, con la sua corona di filo spinato. L'ha tirato su in breve tempo, un anno e mezzo, la «Toki», azienda edilizia di stato, la stessa che costruisce gli orribili quartieri che deturpano le città turche. Da cinquecento dovrebbe arrivare a mille chilometri di tracciato, da Hatay ad Akkari fino a chiudere tutto il confine per sbarrare la strada ai guerriglieri curdi del Pkk. Sono blocchi di cemento di due metri di spessore, altri tre metri, ogni trecento metri una torretta dove i soldati turchi staranno a guardia tutto il tempo come sentinelle medioevali sul parapetto del castello scrutando perennemente il deserto siriano. A distanze regolari postazioni zeppe di tutto l'armamentario delle guerre moderne dove, si dice, verranno poste mitragliatrici automatiche.
I bulldozer sono al lavoro, senza soste, per completare i tratti che ancora mancano. Gruppi di contadini a poca distanza con immensa fatica raccolgono pietra su pietra, per liberare la terra scura, grassa della Mesopotamia al lavoro e alla semente.
Propaganda di pietra
Ci lasciamo dietro l'Eufrate, Adyaman con i suoi enigmatici idoli di pietra e poi Urfa, che è città più araba che turca. L'immensità di questa pianura è inesorabile, crudele, infinita. Ovunque, innumerevoli, sopra le basse case le cupole delle nuove moschee come ombrelli spalancati. La propaganda di pietra del partito di Erdogan. Anche se qui non è l'islamizzazione che conta, più attenta come è alla facciata che alla sostanza, ma il vecchio nazionalismo, ombroso e orgoglioso. Nella zona curda ci cadi dentro, di colpo: con la parlata della gente che il turco o ignora o corrompe come se fosse lingua esotica, straniera. E con l'apparire delle scritte bilingui, regalo del breve periodo di tregua tra Erdogan e la minoranza detestata. Tregua dai mille sottintesi in cui ognuno sperava di giocare l'altro, e sfruttarlo. I curdi: l'eterno problema dei turchi. Non l'Europa, la democrazia, la laicità, la Siria: i curdi.
A Musaybin agli angoli delle case, sulla via, i forni collettivi dove le famiglie cuociono il pane, uguali a quelli che vide Senofonte, nelle strade passano cavalli al galoppo, nei caffè vecchi curdi giocano a carte in silenzio. C'è la sicurezza di cose vecchie e stabilite, mestieri antichi: come un fabbricante di culle legno, tutte eguali da tempo immemorabile, l'artigiano degli zoccoli e quello dei setacci. Ma gli uomini, ti accorgi, ragionano sottovoce e stanno a guardarsi aspettando di udire nell'aria lo scoppio di qualche fucilata di guerra. In città l'ultimo rastrellamento risale ad appena sette giorni fa. Si combatte e duramente nei villaggi intorno, per punizione, raccontano, bruciano le case e uccidono il bestiame. Per tagliare i rifornimenti e vendicare la collaborazione con i «terroristi».
Ecco Cizre, la nostra meta, per riprenderla ai curdi hanno dovuto bombardarla con i carri armati, sottoporla a sette mesi di coprifuoco totale, almeno duecento persone sono morte per mancanza di cibo, di acqua e medicine. Il coprifuoco è ancora in vigore dalle ventitrè alle cinque del mattino. Soldati e poliziotti hanno diritto a un soprassoldo per restarvi di guarnigione. Un terrorista ucciso venne trascinato per le vie legato a un blindato, meccanizzato lo strazio di Achille al corpo di Ettore.
Mi indicano pieni di orgoglio cittadino, uno spiazzo, strani tumuli di pietra anneriti da fuoco: lì Noè secondo la leggenda costruì l'arca per salvare l'uomo dal diluvio. Incastri che non riescono tra passato e presente. Il Tigri scorre lento, indifferente, quasi il vigore di una osservanza e di una storia immutabile.
«Abbiano fatto seicento prigionieri, non uno è rimasto in vita,l'hanno pagata i terroristi!».
A capo curvo il velo chiuso sul mento da un pizzo bianco, nascoste in implacabili tabarri neri le donne scivolano in strada in chiuso gruppo con una strana leggerezza di andare. Vestono come nel vicino Iraq; alla frontiera di Harbur mancano pochi chilometri. Le sfiorano senza rallentare i convogli dei blindati che pattugliano incessantemente le strade. Agli incroci dei quartieri più irriducibili bambini fanno strani gesti al passaggio dei mezzi militari e di qualche auto civile: le sentinelle.
«Sono tutti traditori, questi, hanno aperto le porte per far passare i terroristi da una casa all'altra, da un cortile all'altro. Ma li abbiamo fottuti questi figli di cani». A un incrocio altri bambini armati di mazze spaccano i rottami di una casa abbattuta per estrarne il ferro: come in una miniera. Lavorano metodici, lenti, in una nube di polvere grigia.
Tutti bambini.
«Qui mandano gli agenti più pazzi di tutta la Turchia, quelli che rifiutano di indossare il giubbotto antiproiettile, che si gettano in ogni mischia».
Sui muri solo qualche scritta ribelle è sfuggita alla censura dell'intonaco: «Fotti la Turchia!». Rispondono, invece scintillati, le scritte di poliziotti e soldati: «La Turchia è qui!».
Saliamo su un rilievo che domina la città, una delicatissima luce blu avviluppa le montagne intorno. Celano quasi violette contr'ombra, con gelide nevi, le terre di oltrefrontiera dove i curdi hanno saldo in mano il potere e lo stanno allargando. Da lì ti accorgi di ampie chiazze vuote di edifici, il fondo del terreno ha il grigio del cemento come un inspiegabile eczema edilizio. Sono i quartieri irriducibili, li hanno rasi al suolo.
(La Stampa, 12 marzo 2017)
Barletta - "Mio padre era Giorgio Perlasca": coinvolgente incontro con il figlio Franco
Figura e ruolo di Giorgio Perlasca, un uomo che, pressoché da solo, nell'inverno del 1944-1945 a Budapest riuscì a salvare dallo sterminio nazista migliaia di ebrei ungheresi
BARLETTA - Nella serata di venerdì' 10 marzo, presso la Sala Rossa "Palumbieri" del Castello, il Rotary Club di Barletta, presieduto da Sabino Montenero, ha incontrato Franco Perlasca, che ha presentato il libro "Mio padre era Giorgio Perlasca".
Serata eccezionale e coinvolgente, aperta a tutta la cittadinanza, fortemente voluta dal Rotary Club di Barletta che ha affrontato e trattato da varie angolazioni, nella Sala Rossa" del Castello di Barletta, gremita di pubblico motivato ed interessato, un focus particolare sulla figura e il ruolo di Giorgio Perlasca, un uomo che, pressoché da solo, nell'inverno del 1944-1945 a Budapest riuscì a salvare dallo sterminio nazista migliaia di ungheresi di religione ebraica inventandosi un ruolo, quello di Console spagnolo, lui che non era né diplomatico né spagnolo, bensì un "magnifico impostore".
Dopo aver salutato e ringraziato tutto il pubblico intervenuto, gli ospiti e i soci presenti- tra cui gli Assessori Giuseppe Gammarota per il Turismo e Patrizia Mele per la Pubblica Istruzione, il delegato Confindustria BAT Sergio Fontana, le autorità militari e scolastiche del territorio, il dott. Nicola Barile per il suo collegamento prezioso con la famiglia Perlasca e la socia Nuccia Cafagna per il raccordo organizzativo finalizzato alla realizzazione dell'evento, il Presidente del Rotary Club Sabino Montenero con l'ausilio di Serena Sguera brillante moderatrice , entrano subito in empatia con il relatore Franco Perlasca e sua moglie Luciana visionando un filmato che orbita intorno al concetto di GIUSTO in cui, a detta del figlio , vengono abbinati 3 concetti: 1o le testimonianze del protagonista Giorgio Perlasca, 2o le testimonianze dei sopravissuti e 3o la contestualizzazione dal punto di vista storico.
UOMO GIUSTO semplicemente perché riteneva d'aver fatto il proprio dovere, nulla di più e nulla di meno. Per la prima volta dopo quasi 45 anni, il racconto del figlio Franco: " Pochi sapevano di quell' uomo, nato a Como nel 1910, forte sostenitore del partito fascista fino al 1938, cioè fino alla promulgazione delle leggi razziali e all' alleanza con Hitler. Pochi sapevano di come questo sconosciuto si finse un diplomatico spagnolo e rilasciò salvacondotti falsi salvando la vita a 5.200 ebrei. Molti di più, forse, visto che ogni documento valeva per un intero nucleo famigliare. Il Talmud racconta di come ogni generazione abbia 36 giusti. Uomini da cui dipende la salvezza dell'umanità. Uomini umili chiamati all' azione e che, dopo aver svolto il proprio compito, tornano nell' ombra dell' anonimato. «Mio padre era uno di questi, La mia famiglia, per quasi mezzo secolo, è rimasta all' oscuro di tutto. « Mio Padre raccontava piccoli episodi dell' Ungheria, di quanto aveva visto. Ma non avremmo mai immaginato, io e mia madre, che fosse un protagonista della Storia».
Poi, nel 1988, l' arrivo dei coniugi Lang a casa nostra Il racconto coinvolgente di Luciana: "Già nel 1987 il muro di Berlino stava virtualmente cedendo e l' Ungheria sentiva arrivare la libertà. Il regime allentava la morsa e le persone tornarono a pensare all' occupazione, alla guerra, alla memoria. Così, queste donne ebree misero insieme i pezzi, si fecero aiutare dalle ambasciate israeliane e arrivarono a casa nostra. In realtà la sua storia non era così sconosciuta".
Straordinaria narrazione dell'impresa di Giorgio Perlasca, con stimolanti interventi del pubblico presente visibilmente commosso dalla proiezione di uno spaccato di storia totalmente autentico in cui l'assassinio è legge di stato e il genocidio parte di un progetto politico. Al termine, il figlio Franco Perlasca e sua moglie Luciana ci hanno regalato una testimonianza non "istituzionale" ma profondamente vera, aprendosi al racconto di particolari personali, aneddoti privati come solo le persone vere sanno fare.
Il Presidente del Rotary Club di Barletta Sabino Montenero, ad ultimazione lavori, ha ringraziato calorosamente Franco e Luciana Perlasca per la loro partecipazione, che oltre a fornire un contributo eccezionale ai lavori della memoria storica, ha illuminato la platea travolta dalla grandezza di questo straordinario personaggio.
(Barlettalive.it, 12 marzo 2017)
La storia di Ester, esempio per le donne, raccontata in Sinagoga
Un incontro per valorizzare la Sinagoga di Alessandria non solo come luogo spirituale, ma anche come luogo di dibattito culturale
Mi piace
ALESSANDRIA - Domenica 12 marzo alle 17, il Circolo Provinciale della Stampa organizza, presso la Sinagoga di Alessandria (Via Milano n.7), la conferenza dal titolo "Ester - nella giornata di Purim, un esempio per le donne di oggi".
L'evento ricorda dei fatti accaduti in Persia circa 2500 anni fa, durante il regno di Assuero. Haman, perfido consigliere del re, voleva sterminare tutti gli ebrei del regno. La regina Ester allora decise di digiunare tre giorni, invocando l'aiuto di Dio, prima di recarsi dal re della Persia e ottenere la grazia in favore del suo popolo. La donna, che era diventata moglie del re nascondendo la sua origine, intercesse presso suo marito e gli ebrei vennero salvati. Per ricordare il digiuno venne istituito il giorno di Ta'anit, che varia a seconda dell'anno, commemorato dagli ebrei proprio osservando il digiuno, durante il quale ci si astiene da cibo e bevande, compresa l'acqua, che diventa l'espressione tangibile di un pentimento, un modo per ricordare un lutto, oppure un mezzo di forte supplica per qualche preghiera particolare da rivolgere a Dio.
Interverranno la Dott.ssa Vittoria Acik, medico e scrittrice; il Dott. Fabio Tirelli, psicoterapeuta e studioso di Scienze Tradizionali; Barbara Rossi, esperta di linguaggi cinematografici ed infine, Fausta Dal Monte, giornalista. Con questo appuntamento, si intende valorizzare la Sinagoga di Alessandria non solo come luogo spirituale, ma anche come luogo di dibattito culturale. L'iniziativa è organizzata in collaborazione con Associazione SpazioIdea, Officina Città Solidale, la Comunità Ebraica di Torino - sezione di Alessandria e La Voce della Luna.
(RadioGold, 12 marzo 2017)
Trump a Abu Mazen: «La pace è possibile, è il momento»
Il capo della Casa Bianca telefona al presidente dell'Autorità nazionale palestinese e lo invita a Washington. E da Ramallah: «Dimostra coraggio, il viaggio sarà molto presto»
«La pace» fra israeliani e palestinesi «è possibile». Lo ha detto il presidente Donald Trump nel colloquio telefonico con Abu Mazen, sottolineando che la pace deve essere negoziata direttamente fra le due parti. «Gli Stati Uniti lavoreranno con la leadership israeliana e palestinese» perché «una soluzione» non può essere imposta. Trump ha invitato Abu Mazen alla Casa Bianca e da Ramallah un portavoce dell'Autorità nazionale palestinese, Nabil Abu Rdeneh, ha spiegato che il viaggio dovrebbe avere luogo «molto presto».
«È tempo per un accordo»
«Il presidente Trump - fa sapere la Casa Bianca in una nota - ha espresso la personale convinzione che la pace sia possibile e che sia giunto il tempo per arrivare ad un accordo tra le parti. Ha inoltre sottolineato che un'intesa garantirebbe a israeliani e palestinesi la pace che è loro dovuta e avrebbe ripercussioni positive sulla stabilità dell'intera area e del mondo intero». Trump ha rassicurato Abu Mazen sul fatto che gli Stati Uniti non prenderanno parte nella contesa, che l'accordo dovrà essere frutto di negoziati diretti tra Ramallah e Gerusalemme e che l'amministrazione americana farà quanto possibile per lavorare con entrambe le parti per il raggiungimento dell'obbiettivo.
«Trump onesto e coraggioso
«Noi siamo pronti a confrontarci con il presidente Trump e con il governo israeliano al fine di riprendere i negoziati - ha detto ancora Rdeneh -. Se gli israeliani sono pronti, il presidente Abbas ha già impegnato se stesso nella direzione di un accordo di pace». Dall'Anp arriva anche un apprezzamento al capo della Casa Bianca: «Il presidente Trump è un uomo onesto e si dimostra molto coraggioso nel volere questo accordo». Da parte di Israele non c'è stata ancora alcuna reazione.
Gli ultimi tentativi di mediazione statunitense erano falliti nel 2014. La telefonata è il primo contatto formale tra gli Usa e l'Anp dopo l'insediamento della nuova amministrazione ed è considerata molto importante nel segno di un'equidistanza tra le parti che nelle settimane scorse era sembrata venir meno dopo i dubbi espressi dallo stesso Trump sull'opzione dei due Stati che aveva fatto ipotizzare uno sbilanciamento americano a favore di Israele. Anche l'annuncio di uno spostamento dell'ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme aveva fatto parlare di una svolta americana sulla questione mediorientale. Ma già nei giorni scorsi la Casa Bianca aveva espresso contrarietà all'ipotesi di annessione di alcuni dei territori occupati della Cisgiordania evocando una crisi diplomatica.
(Corriere della Sera, 11 marzo 2017)
*
Cosa cambia dopo la telefonata a sorpresa fra Donald Trump e Abu Mazen
di Marco Orioles
A un mese circa dal caloroso incontro alla Casa Bianca tra Trump e il premier israeliano Netanyahu, il presidente Usa ha parlato al telefono col presidente dell'Autorità nazionale palestinese Abu Mazen. Una conversazione durata 20 minuti che ha risollevato le speranze di un "deal" sulla contesa territoriale più longeva della storia recente. La telefonata è culminata con l'invito a Washington per Abbas, che non ha nascosto il proprio entusiasmo. Sembra decollare dunque l'iniziativa dell'amministrazione Trump, intenzionata a smuovere le acque e a sigillare uno storico accordo tra le parti riottose.
Il processo di pace si era bruscamente interrotto nel 2014, anche per l'evidente irritazione di Obama per la linea inflessibile di Gerusalemme. Obama non nascondeva la propria antipatia nei confronti di Netanyahu, portando le relazioni tra i due paesi al minimo storico. L'avvento di Trump sembrava in principio destinato a mettere la pietra tombale sulla prospettiva dei "due Stati per due popoli", la linea storica di Washington e l'unica prospettiva considerata accettabile da una comunità internazionale che non perde mai l'occasione di attaccare Israele e di coccolare i palestinesi. In campagna elettorale The Donald aveva annunciato che, se eletto, avrebbe trasferito da Tel Aviv a Gerusalemme l'ambasciata Usa, una mossa ritenuta pericolosamente provocatoria.
Per ricoprire l'incarico di proprio rappresentante diplomatico in Israele, Trump ha inoltre scelto un avvocato favorevole alla politica degli insediamenti ebraici nella West Bank, altra benzina nel fuoco. Infine, Trump ha indicato nel genero Jared Kushner, suo consigliere alla Casa Bianca, come colui che avrebbe gestito il dossier della Terra Santa: Kushner è ebreo. Tutti questi segnali hanno suscitato allarme, così come l'abbraccio tra Netanyahu e Trump di febbraio e le clamorose dichiarazioni del neo-presidente secondo cui la soluzione dei due Stati poteva anche essere abbandonata ove israeliani e palestinesi decidessero altrimenti: "Due stati, uno stato, quel che va bene alle parti per me è ok", fu la bomba esplosa dall'ugola incendiaria del magnate newyorchese.
L'impressione di un netto sbilanciamento di Trump verso Israele fu però presto smentita da una dichiarazione ufficiale che esortava Israele a non perseverare con i controversi insediamenti, perché passibili di complicare il processo di pace. Trump lo disse direttamente, anche se cortesemente, a Netanyahu nella conferenza stampa a margine dell'incontro a Pennsylvania Avenue. Mentre Trump discuteva con Netanyahu, il capo della Cia Mike Pompeo incontrava Abu Mazen a Ramallah, in un evidente tentativo di rassicurazione.
Ora arriva il primo colloquio diretto tra il presidente degli Stati Uniti e il suo collega palestinese, un altro segnale in controtendenza che evidenzia l'approccio più equilibrato della Casa Bianca. Saranno i prossimi mesi a rivelare se l'agognata pace sarà raggiunta con il sostegno di un presidente amico di Israele ma non per questo ostinato a chiudere gli occhi di fronte alle responsabilità della storia.
(formiche.net, 11 marzo 2017)
«Israele è un tumore maligno»
«E come tale va estirpato», ha detto Khamenei, la guida suprema siriana a un summit a Teheran. «Dalla striscia di Gaza sarà sferrato l'attacco risolutivo».
di Daniele Capezzone
Ayatollah Ali Khamenei
Il 21-22 febbraio scorsi, nel silenzio pressoché totale dei media occidentali, si è tenuta a Teheran la sesta conferenza internazionale sull'Intifada palestinese. Non un evento minore o clandestino, ma un appuntamento organizzato in pompa magna dal regime iraniano, con 700 delegati da decine di paesi: tra i partecipanti, esponenti siriani, libanesi, iracheni, parlamentari di numerosissimi paesi africani, il vicepresidente del parlamento russo, più figure chiave del terrorismo mediorientale, da Hamas a Hezbollah, passando per la PIJ (Palestinian Islamic Jihad).
Come accade in circostanze simili, la conferenza è stata l'occasione per discorsi non improvvisati, ma strategici e di fondo da parte dei vertici di Teheran, dalla guida suprema Khamenei al presidente Rouhani, che qualcuno in Occidente si ostina ancora a descrivere come un moderato. A presiedere la conferenza è stato chiamato Larijani, che ordinariamente guida un organo chiamato dal regime, con macabra ironia, comitato per i diritti umani.
E' bene lasciare spazio alle citazioni, che parlano da sé. Kazem Jalali, portavoce della conferenza, ha denunciato la disattenzione del mondo islamico rispetto alla questione palestinese, e ha attaccato frontalmente i paesi che desiderino intrattenere con Israele relazioni normali. Al contrario, a suo avviso, la causa palestinese dovrebbe essere al primo posto dell'agenda panaraba, e anzi dovrebbe unificare il mondo musulmano - al di là delle sue differenze - contro il «regime sionista».
Tra le organizzazioni terroristiche, il rappresentante della PIJ Ramadan Abdallah Shalah ha elogiato la «resistenza» (cioè, appunto, l'attività terroristica) nella Striscia di Gaza, e, in un crescendo estremista, ha attaccato la stessa Autorità nazionale palestinese che, a suo dire, anziché sostenere adeguatamente la «resistenza», lavorerebbe per non nuocere a Israele.
Obama Hamdan, qualificato come capo delle relazioni esterne di Hamas, ha lungamente elogiato il «terrorismo di popolo» e l'«eroismo» dei giovani palestinesi. Ha chiesto un'escalation nella resistenza, e un generalizzato supporto con armi e mezzi per l'attività terroristica nella Striscia di Gaza, che deve divenire base per la resistenza.
Il vicesegretario generale di Hezbollah, Naim Qassem, ha annunciato che la Palestina sarà «liberata» e avrà per capitale Gerusalemme.
Ma veniamo ai discorsi delle figure chiave del regime iraniano. La guida suprema Khamenei, nel suo speech d'apertura, ha definito «sacro» l'obiettivo della «liberazione di Gerusalernme».
I palestinesi non hanno altra scelta se non quella di tenere accese le fiamme della battaglia contro Israele, definita testualmente un «tumore maligno», che va quindi estirpato. La lotta deve continuare - ha annunciato - fino alla completa «liberazione» della Palestina, ponendo fine all'illegittima esistenza del regime sionista». Nessun compromesso è dunque possibile per Khamenei. E qui la guida suprema ha a sua volta attaccato i «collaborazionisti», cioè i «cospiratori» che, trattando con i nemici, minano la causa palestinese.
Anche Rouhani ha insistito su questo punto, ammonendo contro il tentativo di Israele di normalizzare le relazioni con il mondo musulmano. Israele è un «fake regime», e tiene in ostaggio alcuni del leader occidentali. Nessuna mediazione è dunque accettabile per il mondo musulmano. Ho finora trascritto le parti essenziali del report in modo asciutto, perché mi pare che le citazioni siano autoesplicative.
Resta spazio per due sole considerazioni. La prima è relativa al tragico errore della presidenza Obama, che, attraverso l'Iran Deal, ha legittimato il regime di Teheran, offrendo una sponda internazionale a chi ha, come obiettivo esplicito, la cancellazione di Israele dalla faccia della terra.
È auspicabile che l'amministrazione Trump denunci quell'accordo, lo disconosca, e ne capovolga l'impostazione. E sarebbe utile che molti dei critici di Trump non applicassero un doppio standard intellettualmente poco onesto: sparare rumorosamente sulla nuova presidenza, e invece tacere sugli errori dell'amministrazione Obama.
Purtroppo, proprio il generale arretramento obamiano (una specie di ritiro morale, di withdrawal occidentale, insieme politico e culturale) ha creato un vuoto che è stato opportunisticamente sfruttato sia dal terrorismo sia dai player autoritari (Iran e Russia in testa), increduli del regalo ricevuto, quello di potersi presentare come major powerbroker, come «risolutori di problemi» in Medio Oriente e in altri teatri decisivi.
La seconda considerazione riguarda l'Italia. Chi scrive ha presentato in Parlamento, da mesi, un pacchetto di interrogazioni a cui il Governo si rifiuta di rispondere. Parliamoci chiaro: nel silenzio e nel plauso di gran parte delle opposizioni, il Governo Renzi prima e il Governo Gentiloni poi si inchinano a Teheran.
Non si tratta solo della ben nota gaffe delle statue incartate a Roma per non turbare - con i nudi - l'ospite Rouhani, ma di un insieme impressionante di collaborazioni militari, navali, politiche, e perfino sul terreno giudiziario e sanitario. Uno scenario opaco, tutto da chiarire. Tutto ciò da parte di esecutivi (e opposizioni) che costantemente dichiarano la propria amicizia verso Israele.
E così nei giorni pari si dichiara vicinanza a Gerusalemme, mentre in quelli dispari ci si inchina al naziislamismo di Teheran. Non è politica estera: è un comportamento da Pulcinella.
Nessuno silluda, quando arriverà il momento anche la nostra Italia offrirà Israele, e con essa gli ebrei, in pasto ai suoi nemici. Gli esperti stanno già lavorando agli argomenti giustificativi: nel 38 era la difesa della razza, oggi è la difesa della pace. M.C.
(ItaliaOggi, 11 marzo 2017)
Hamas diventerà un filo più moderato?
Il movimento politico-terrorista palestinese sta per approvare un nuovo programma dopo quasi trent'anni, con diverse concessioni.
Grafico che riassume le nuove posizioni di Hamas
Nei prossimi mesi Hamas, il gruppo politico-terrorista di stampo islamista che governa la Striscia di Gaza, diffonderà un nuovo programma politico più moderato di quello attualmente in vigore, introdotto nel 1988 e fra le altre cose dichiaratamente antisemita. Le modifiche sono state anticipate dal giornale arabo con sede a Londra Asharq al Awsat e da diversi giornali israeliani, e successivamente confermate da alcuni funzionari di Hamas al New York Times.
Fra le modifiche più importanti - e che ammorbidiscono vecchie posizioni più intransigenti - ci sono il riconoscimento dei cosiddetti "confini del 1967?, la base di molti negoziati per la pace fra Israele e Palestina, e una presa di distanza dai Fratelli Musulmani, il gruppo politico di cui Hamas era "rappresentante" in Palestina nei suoi primi anni di vita. Fra i nuovi punti però non c'è il riconoscimento ufficiale dello stato di Israele, posizione che invece è stata adottata più di vent'anni fa da Fatah, il partito "moderato" che assieme ad Hamas è fra i più popolari in Palestina e che da anni è il principale interlocutore internazionale sui temi che riguardano i palestinesi.
Il documento non è ancora stato introdotto ufficialmente: sarà approvato probabilmente alla fine di marzo o all'inizio di aprile, quando Hamas concluderà un ciclo di elezioni interne. Un funzionario della branca politica di Hamas ha spiegato ad Haaretz che il nuovo programma non conterrà posizioni "nuove" in assoluto, ma sviluppate negli ultimi anni dalla dirigenza. Gli stessi dirigenti però hanno sottolineato la rilevanza di alcune modifiche: Taher el Nounou, un portavoce di Hamas a Gaza, ha spiegato al New York Times che il documento chiarisce che «non combattiamo gli ebrei in quanto ebrei: la nostra lotta è solamente diretta a chi occupa la nostra terra». Anche la citazione dei confini del 1967 è notevole, anche perché è un riconoscimento indiretto del fatto che alcuni territori palestinesi possano appartenere a Israele (che nel vecchio programma è considerato il nemico da espellere dalla Palestina).
I punti relativi all'Egitto servono probabilmente a compiacere il governo egiziano di al Sisi, che per ragioni politiche quattro anni fa ha messo fuorilegge i Fratelli Musulmani. Avere buoni rapporti con l'Egitto è fondamentale, per Hamas: è il paese con cui la Striscia confina a sud, e con cui già in passato ci sono stati problemi di gestione della frontiera.
Più in generale, come hanno spiegato al New York Times alcuni funzionari di Hamas e analisti, il documento sembra avere come obiettivo quello di ridurre l'isolamento internazionale del movimento. Hamas è considerato un gruppo terrorista da buona parte del mondo occidentale - compresa l'Unione Europea e gli Stati Uniti - e nonostante stia cercando da anni di rappresentarsi come una forza più istituzionale rispetto al passato, dispone ancora di un potente apparato di sicurezza e di una branca militare (che Fatah ha sciolto ormai da decenni). E sebbene abbia ridotto di molto gli attentati contro Israele rispetto al passato, non li ha totalmente accantonati: l'attentato al centro commerciale Sarona di Tel Aviv, avvenuto nel giugno del 2016, è stato compiuto da due membri di Hamas e celebrati su Twitter da Ismail Haniyeh, dirigente di Hamas che è stato per breve tempo primo ministro palestinese ed è considerato il futuro capo del movimento.
Per questo e altri motivi - come l'elezione dell'ex capo dell'ala militare a leader del movimento a Gaza - diversi analisti ritengono che la volontà di diventare una forza "moderata" debba ancora essere realmente dimostrata.
(il Post, 11 marzo 2017)
Profondamente colpita e turbata dalla notizia della proiezione di "Israele, il cancro"
Lettera al Direttore di NewsBiella
Gentile Direttore, sono stata profondamente colpita e turbata dalla notizia della proiezione del film antisionista "Israele, il cancro", con relativo sostegno dell'Anpi e la presentazione dei promotori e dell'autrice.
Proiezione e conferenza organizzata a Biella contro lo Stato d'Israele definito cancro. Il cancro è una malattia che bisogna debellare e distruggere ad ogni costo. Associarla allo Stato di Israele mi fa pensare a quella Shoah a cui anche l'Italia ha contribuito. Vorrei così puntualizzare alcuni fatti riguardo l'ossessione contro Israele, che tra l'altro è l'unica democrazia del medio oriente ed è l'unico Paese in cui i cristiani possono vivere, lavorare e far suonare le loro campane in pace e sicurezza. L'ONU ha un intero reparto che si occupa dei palestinesi, ma non ha un reparto che si occupi dei missili illegali della Corea del Nord, non ha un reparto che si occupi della sovvenzione iraniana al terrorismo né dei missili balistici che invia, né ha un reparto che si occupi di Bashar al Assad che ha ammazzato centinaia di migliaia di suoi cittadini. È vero che i palestinesi si sono abituati a fare i profughi da 69 anni e da allora vivono a spese della comunità internazionale, ciò nonostante mi pare sia esagerato. In un mondo dove l'antisemitismo si rinforza, questo genere di conferenze e presentazioni non vanno sottovalutate. È chiaro che servono solo a seminare odio e a rendere gli approcci più difficili. Ciò nonostante Israele continua a offrire al mondo innovazione tecnologica e progresso. Molti Paesi, fino a poco fa nemici, hanno cambiato opinione e ora riconoscono che Israele è un elemento stabilizzante nel medio oriente. Checché ne pensino coloro che pregano e ne invocano la distruzione!
(NewsBiella, 11 marzo 2017)
Se questa è Torino
Nella città di Primo Levi, universitari e intellettuali si fanno "carnefici" di Israele. Benvenuti nella capitale del boicottaggio dello stato ebraico.
Ugo Volli: "Gli intellettuali qui seguono il motto 'mai nemici a sinistra', che li porta a essere complici degli estremismi
Scarpe contro il pupazzo di Peres, proteste contro i ballerini israeliani, seminari su "ricordare Auschwitz per ricordare la Palestina"
Odifreddi e D'Orsi che chiedono una "Norimberga per Israele", l'attacco alla "docente sionista", il caso del Museo della Resistenza
Luca Ricolfi: "Domina la retorica dei palestinesi come 'gli ultimi', mentre gli israeliani sono un popolo senza cuore"
di Giulio Meotti
Quando, un anno fa, 350 docenti, ricercatori e assegnisti delle università italiane lanciarono un appello per il boicottaggio di Israele, in particolare dell'Università Technion di Haifa, ben 61 di loro provenivano dall'Università di Torino. Un anno prima, erano stati gli antropologi a produrre un manifesto simile per ostracizzare i colleghi israeliani. E anche in quel caso, molte firme arrivarono dall'Università di Torino. Città "impegnata", città antifascista, ma che spicca oggi in Italia per molte campagne contro lo stato ebraico, dal suo corpo studentesco, da molti suoi docenti, da tanti suoi intellettuali. Torino sembra diventata la capitale italiana del boicottaggio di Israele.
Nei giorni scorsi, l'Università di Torino è stata la prima (e finora unica) in Italia a votare ufficialmente una mozione di boicottaggio di Israele, sostenuta a maggioranza (sedici favorevoli e cinque contrari) dal Consiglio degli studenti. Chiedono che il rettore, Gianmaria Ajani, "receda agli accordi attualmente in vigore con il Technion" entro aprile. Nell'ottobre del 2015, quando Politecnico, Università di Torino e il Technion di Haifa tennero il loro primo incontro di interscambio al Campus di Agraria di Grugliasco, le contestazioni furono dure e a colpi di slogan osceni:
"Ladri di terra, criminali di guerra" fu la scritta sullo striscione sfoderato da un gruppo di studenti che riuscì a interrompere l'incontro. Adesso la mozione di boicottaggio dovrà essere votata dal Senato accademico e dal consiglio d'amministrazione, ed è la prima a essere approvata da un organo istituzionale di un ateneo italiano. Nel testo si sostiene che "lo stato di Israele abbia deliberatamente colpito obiettivi civili e si sia reso responsabile di crimini di guerra durante l'attacco condotto nell'estate 2014 contro Gaza". E gli studenti sposano la campagna di Bds, cioè boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele e le sue istituzioni. Nelle stesse ore, l'Associazione nazionale partigiani della Valle Elvo annunciava la proiezione del documentario "Israele, il cancro" di Samantha Comizzoli. L'Unione delle comunità ebraiche italiane con la presidente Noemi Di Segni ha scritto al Presidente nazionale dell'Anpi Carlo Smuraglia per chiedere che l'associazione degli ex partigiani impedisca a una propria sezione di patrocinare la proiezione "di un film di una nota attivista antisionista e antisemita". Torino e il Piemonte fermentano di episodi simili.
Un mese fa, in occasione della Giornata della memoria, il campus universitario Luigi Einaudi di Torino aveva tenuto un seminario dal titolo: "Ricordare Auschwitz per ricordare la Palestina". "All'Università di
Ci sono professori e studenti che hanno trovato nell'antisraelismo una base propagandistica. A Tori- no c'è questa tradizione per cui l'intellettualità adotta il motto di 'non avere mai nemici a sinistra', essere sempre complici e tolleranti verso le manifestazioni dell'estre- ma sinistra.
Torino ci sono docenti, come Gianni Vattimo, che tuonano con una politica antisraeliana, e ci sono gli autonomi forti fra gli studenti, entrambi hanno capito che una mobilitazione antisraeliana possa essere
fonte di affermazione", racconta al Foglio Ugo Volli, semiologo di fama che insegna all'Università di Torino, dove spicca come una voce fieramente filoisraeliana. Quel Gianni Vattimo che ha paragonato Israele al nazismo e che ha chiesto di armare i gruppi palestinesi. "Ci sono vecchi rapporti fra i No Tav e le organizzazioni filopalestinesi più estreme", dice Volli. "Ci sono docenti, come Angelo D'Orsi, e una base tradizionale di sinistra, forte fra gli scienziati politici e gli antropologi, e che hanno fatto una serie di iniziative contro Israele. Non esiste una base di consenso nel corpo docente, anche se è tradizionalmente
di sinistra. Ci sono i ciellini, che sono minoranza, gli autonomi, e gli studenti indipendenti ex Pd. E' del tutto improbabile che il Senato accademico adotti la mozione di boicottaggio. Questi professori e studenti hanno trovato nell'antisraelismo una base propagandistica che considerano conveniente. A Torino c'è questa tradizione per cui l'intellettualità adotta il motto di 'non avere mai nemici a sinistra', essere sempre complici e tolleranti verso le manifestazioni dell'estrema sinistra. Succedeva anche con le Brigate Rosse: a Torino ci fu uno scarso rifiuto da parte del mondo intellettuale della violenza terroristica. L'Università di Torino ha avuto più docenti che si sono rifiutati di firmare il giuramento di fedeltà al fascismo, cinque su quattrordici, è una cultura costruita attorno al mito della grande fabbrica, dell'impegno e dell'intellettualità. Negli anni delle Brigate Rosse ero a Milano: l'uccisione di Carlo Casalegno generò poco sdegno a Torino. Questa cosa in altri posti fu rapidamente superata alla fine degli anni Settanta. Oggi si ha l'impressione che lottare contro il capitalismo all'Università di Torino vada ancora bene. Quando ci fu il G7 a Torino e ci furono scontri, il rettore chiuse l'università per due giorni, il mio dipartimento 50 a 1 votò contro la chiusura 'repressiva' del rettore. Quell'uno ero io. Il fatto che ci sia un appoggio per i No Tav violenti, nella stampa e nell'università, che persino un meteorologo come Mercalli ne parli, che Erri De Luca venga ad appoggiarli, questa ideologia si rovescia su Israele come simbolo ai loro occhi dell'imperialismo capitalista. Questa cosa è pura ideologia di facciata, con scarso riferimento alla realtà. Io non ho mai avvertito un pericolo personale, una discriminazione, eppure questa bandiera porta loro titoli di giornali. E' un gioco di rappresentazioni, non credono di bloccare la ricerca israeliana".
Ma è un gioco che dovrebbe preoccupare le autorità in città. Due settimane fa, l'ateneo torinese aveva fatto notizia per un altro caso simile. "Rinuncio a fare ricerca per boicottare l'università di Tel Aviv e Israele". Questa la decisione di una giovane ricercatrice, Ilaria Bertazzi, che dopo il dottorato ha rifiutato la proposta di continuare a studiare le energie rinnovabili perché il progetto prevedeva la collaborazione con atenei israeliani. "Mi è stato proposto un contratto di collaborazione all'interno di un progetto finanziato dal fondo europeo Horizon 2020", ha spiegato dalla pagina del Collettivo universitario autonomo di Torino.
Qualche anno fa, in una intervista al quotidiano israeliano Maariv, uno studente israeliano, Amit Peer, disse che a Torino alcuni studenti universitari di origine ebraica preferivano celare la propria vera identità per
Alcuni studenti universitari di ori- gine ebraica preferiscono celare la propria vera identità per timore di sfottò o contestazioni violente. Molti studenti di nazionalità italiana preferiscono o celare l'identità, o far credere che il cognome non sia ebreo.
timore di sfottò o contestazioni violente. "A me personalmente non è accaduto mai nulla di serio - affermò Peer - ma conosco parecchi studenti di nazionalità italiana che preferiscono o celare l'identità, o far credere che il cognome non sia ebreo, ma provenga da etnie simili". Quando Amos Oz, scrittore e pacifista israeliano, andò a parlare al Teatro Regio, attivisti di "Free Palestine" lo contestarono come intellettuale "organico alla politica militare di Tel Aviv contro i palestinesi". I movimenti di Oz a Torino furono seguiti da una schiera di agenti di polizia che impedirono che si verificassero incidenti. In città spesso si verificano episodi di aperto antisemitismo.
Come quando al "Festival della cultura alternativa", promosso da centri sociali e autonomi al Parco Ruffini, per un euro si potevano tirare scarpe contro la sagoma del compianto presidente israeliano Shimon Peres, che teneva in mano una Stella di David. Proteste hanno cercato di fermare l'esibizione della compagnia israeliana di danza Batsheva nell'ambito del festival Mito Settembre musica. Davanti al Teatro Regio, in piazza Castello, una "contromanifestazione" venne organizzata da artisti e militanti del boicottaggio antisraeliano. Dissero che la Batsheva Dance Company "è finanziata dal governo di Israele e quindi svolge un ruolo di ambasciatrice culturale dell'occupazione e dell'apartheid". A maggio la protesta antisraeliana ha preso di mira il Torino Gay&Lesbian Film Festival. Attivisti dei comitati pro Palestina hanno manifestato davanti al cinema Massimo, che ospitava la kermesse. Protestavano contro la presenza, nel concorso cinematografico, di diverse pellicole di Israele.
Nel luglio 2014 Piero Pelù, nell'ambito del Traffic Free Festival, fece una dedica per la "Palestina libera!", mentre sul palco di piazza San Carlo veniva accolto un rappresentante dei comitati per il boicottaggio di Israele. Un anno fa, nell'aula magna del rettorato dell'Università di Torino, si tenne il seminario organizzato dal dipartimento di Lingue e letterature straniere moderne, in cui si parlò della questione israelo-palestinese. Protagonisti i docenti Michelguglielmo Torri e Diana Carminati. Fabrizio Ricca, capogruppo della Lega Nord al consiglio comunale, parlò dell'Università di Torino come "carnefice di Israele". Carminati, autrice di "Boicottare Israele", è stata tra i docenti in prima linea per boicottare i rapporti delle università torinese con gli istituti israeliani.
Nel marzo 2015, Carminati aveva tenuto già un incontro al campus universitario Einaudi dal titolo "Il progetto del sionismo per un colonialismo d'insediamento in Palestina". Uno degli intellettuali e docenti torinesi protagonisti di queste battaglie, il celebre storico azionista Angelo D'Orsi, ha lanciato un appello a favore di "una Norimberga per Israele", dopo quella che definì "l'infame aggressione a Gaza" (evidente il paragone fra lo stato ebraico e il nazismo). Anche Diego Fusaro, giovane docente torinese, parla di Israele come di uno stato che commette un "genocidio" contro i palestinesi. E un altro intellettuale torinese, il matematico Piergiorgio Odifreddi, in alcuni post su Repubblica ha scritto, fra l'altro: "Si sta compiendo in Israele l'ennesima replica della logica nazista delle Fosse Ardeatine".
Questo livore antisraeliano non è nuovo fra gli intellettuali torinesi. Ne fece sfoggio Natalia Ginzburg, autrice di numerosi articoli sulla Stampa contro lo stato ebraico fra il 1972 e il 1982, in quel fatale lasso di tempo fra la guerra del Kippur e la guerra del Libano. Un altro grande intellettuale, un torinese d'adozione come Italo Calvino, in una lettera datata "Torino, 1968" e mai dibattuta in Italia, rispondeva così a un giornalista giordano, Naouri Amman, in cerca di un editore italiano per gli scritti dei terroristi palestinesi in carcere:
"In noi europei il trauma della persecuzione dei palestinesi ha una speciale risonanza, perché i loro
A un anno dalla Guerra dei sei giorni, Calvino accusa gli ebrei israeliani di essere i nuovi nazisti: "Che le vittime del passato siano diventate gli oppressori di oggi è un fatto angosciante. Mi dispiace che nessuno ne parli".
attuali persecutori hanno sofferto le persecuzioni sotto il nazismo". Siamo a un anno dalla Guerra dei sei giorni, e Calvino accusa gli ebrei israeliani di essere i nuovi nazisti: "Che le vittime del passato siano diventate gli oppressori di oggi è un fatto angosciante. Mi dispiace che nessuno di questi poeti ne parli".
Ci sono docenti torinesi, come Daniela Santus, che hanno subito non poche contestazioni per le loro idee anticonformiste su Israele. La bacheca dell'Università di Torino è stata decorata da proteste contro la "Santus sionista". Quando invitò a parlare Elazar Cohen, vice-ambasciatore israeliano a Roma, la lezione poté regolarmente svolgersi soltanto grazie agli agenti di polizia. Fuori dallo studio di Daniela Santus sono comparse scritte "Palestina libera" e i muri di tre palazzi universitari sono stati ricoperti da collage di sue foto fuse con quella di Netanyahu.
Tre anni fa, una mostra ambiziosa del Museo della Resistenza in corso Valdocco, ha mostrato un video a flusso continuo con le principali capitali occidentali, da Parigi a Londra, e sullo sfondo "il muro" d'Israele. L'Arco di Trionfo messo in ombra dal fence israeliano in cemento. Nella mostra si parlava anche di Sabra e Shatila, la strage del 20 settembre 1982, in Libano, in cui furono uccisi centinaia di palestinesi per mano dei falangisti libanesi. Nella didascalia della mostra di Torino si leggeva che "diverse centinaia di rifugiati palestinesi furono massacrati nei distretti di Sabra e Shatila dalle forze armate israeliane tra il 16 e il 18 settembre". Mistificazione storica. Come Israele scompare e Gerusalemme diventa "città della Palestina" al Museo d'arte orientale di Torino, dove un anno fa un convegno, con la benedizione di comune e regione, glissava sull'esistenza di Israele, mentre il Santo Sepolcro e il Monte degli Ulivi venivano descritti "in Palestina".
Certi episodi succedono soltanto a Torino. Come quando, nel gennaio 2014, l'organizzazione antisionista Collettivo Boicotta Israele distribuì volantini antisemiti davanti al conservatorio dove si svolgeva un concerto organizzato dalla Comunità Ebraica di Torino per la Giornata della Memoria. Era la vignetta antisemita del marocchino Abdellah Derakaoui vincitrice del concorso dedicato alla Shoah indetto nel febbraio del 2006 dal regime iraniano, in cui si vede Auschwitz dipinto nella barriera antiterrorismo di Israele. Senza dimenticare quando nel 2008 Torino fece una figura penosa durante la Fiera del Libro, ospite d'onore Israele, e la città proliferava di eventi contro lo stato ebraico.
Paradossale, infine, che Torino abbia una delle comunità ebraiche in Italia più critiche di Israele. Un fenomeno messo in luce da Emanuel Segre Amar, a lungo vicepresidente della comunità ebraica torinese e
fondatore del Gruppo sionistico piemontese: "Oggi, come ben noto, ci sono tre fonti di antisemitismo: a quello tradizionale della chiesa e della destra (il primo solo parzialmente superato, il secondo presente, o
Emanuel Segre Amar: "Oggi ci sono tre fonti di antisemitismo: a quello tradizionale della chiesa e della destra si assommano quello del mondo musulmano e quello della sinistra, oggi pericolosamen- te prona verso gli immigrati e la 'cultura' dei loro paesi".
almeno dichiarato apertamente soprattutto da persone di bassa cultura), si assommano quello portato dal mondo musulmano, dove è tradizionale (basta leggere i libri di Georges Bensoussan o ascoltare l'imam Chalghoumi), e quello della sinistra, oggi pericolosamente prona verso gli immigrati e la 'cultura' dei loro paesi", dice Segre Amar al Foglio. "Torino, città che perse le proprie caratteristiche antiche (nobiltà e mondo contadino avevano insieme plasmato una regione tranquilla) nel momento della grande immigrazione operaia portata dalla Fiat, si è completamente trasformata e la sinistra ha soppiantato quella maggioranza liberale del dopoguerra. Come nel periodo fascista si doveva essere fedeli al Partito, così vale oggi, e, se non si segue questa regola aurea, si rimane fuori da tutto, cariche, cattedre e onori. Quale è la percentuale degli uomini pronti a combattere per i propri convincimenti sapendo di correre tale rischio? La stessa Comunità ebraica vuole aggrapparsi al mondo della sinistra nonostante tutte le realtà che dovrebbero farle capire i pericoli insiti in tale atteggiamento; oggi come sotto il fascismo vale, in fondo, la stessa logica. E gli ebrei a Torino ragionano come i loro concittadini".
"Qui è un misto di 'follemente corretto' tipico delle università, come a Oxford dove volevano abbattere la statua di Cecil Rhodes, di antisemitismo, ovvero una componente innata di ostilità verso gli ebrei, e di retorica dei palestinesi come 'gli ultimi', per cui i palestinesi sono il popolo oppresso dalla parte della ragione e gli israeliani sono un popolo spietato senza cuore", dice al Foglio Luca Ricolfi, anche lui docente a Torino e intellettuale di primo piano in città. Ricolfi si è occupato di terrorismo palestinese quando ha scritto per le edizioni di Oxford il capitolo di un libro su Israele e il terrorismo palestinese. "Fu allora che compresi dove stava la ragione e il torto". Ricolfi ha una spiegazione culturale sul perché di tanto odio per Israele. "Israele è l'unica società occidentale in cui il collettivo conta più dell'individuo, il modello opposto è la Scandinavia. In Israele, il noi prevale sull'io. Oscuramente, per ignoranza e per malafede, in occidente si sentono gli israeliani come estranei, diversi, per cui non saranno mai come noi europei".
E' forse allora da un giudizio prepolitico, morale, esoterico quasi, che nasce l'odio per Israele, che l'oscuro, irrazionale, primitivo appello alla sopraffazione degli ebrei prevale ancora una volta, contro ogni logica, contro ogni progresso. Così a Torino, città pacifista e antifascista, l'alba della pace per gli ebrei israeliani deve rimanere ben al di sotto dell'orizzonte.
(Il Foglio, 11 marzo 2017)
"Jerusalem Post": la Corea del Nord è una minaccia per Israele
GERUSALEMME - La Corea del Nord rappresenta una minaccia concreta, e solo apparentemente remota, alla sicurezza di Israele: a sostenerlo è un'analisi del quotidiano "Jerusalem Post", che ricorda gli stretti rapporti tra Pyongyang e Teheran. Pyongyang, scrive il quotidiano, ha rivestito un ruolo centrale nello sviluppo del programma nucleare iraniano, e potrebbe addirittura agire "come estensione clandestina" delle operazioni di Teheran, consentendo a quest'ultima di aggirare i vincoli dell'accordo sottoscritto lo scorso anno con le maggior potenze mondiali. Le prove delle relazioni sotterranee tra i due paesi, ammette il quotidiano, sono scarse, ma due ex ufficiali dell'intelligence israeliana - il tenente colonnello Refael Ofek e Dr. Dany Shoham, del Centro per gli studi strategici Begin-Sadat, "sono vicini a ricostruire le connessioni necessarie la reale profondità" delle relazioni. Tra gli elementi sottolineanti dai due esperti, ci sono le notevoli somiglianze esibite dai missili sviluppati dai due paesi per veicolare testate nucleari.
Con la crisi recentemente innescata dal lancio dei missili nel Mar del Giappone, scrive il quotidiano, Pyongyang potrebbe danneggiare Israele erodendo la credibilità degli Stati Uniti, che hanno reagito con durezza alle provocazioni nordcoreane, ma faticano a elaborare una risposta concreta. Quel che sembra certo, però, è che la Corea del Nord continua a rappresentare una minaccia di carattere non soltanto regionale: come riferito dal "Wall Street Journal" questa settimana, infatti, le nazioni Unite stanno indagando sui tentativi del regime nordcoreano, lo scorso anno, di vendere clandestinamente metalli di litio necessari alla miniaturizzazione delle testate atomiche.
(Agenzia Nova, 10 marzo 2017)
Tel Aviv: al via la corsa ad ostacoli nel fango
di Carlo Torriani
Migliaia di persone per la prima volta prenderanno parte il 24 marzo all'Hayarkon Park di Tel Aviv per partecipare alla famosa corsa a ostacoli nel fango, denominata MUD DAY.
Si tratta di un evento di fama internazionale all'insegna dello sport estremo che si svolge in 4 paesi e che finora ha riunito più di 200.000 concorrenti, i cosiddetti Mud Guy che dovranno completare una corsa di 13 km sfidando 23 ostacoli tra cui anche acquatici, strisciando sotto fili di ferro, tuffandosi in piscine di acqua gelata immersi in un mare di fango dove forza, resistenza mentale e fisica sono messe a dura prova. Molto prezioso e importante è il lavoro di squadra dove più dell'80% degli iscritti parteciperà in team.
Per la realizzazione dell'evento sono previsti l'impiego di 400 metri cubi di acqua, 60 tonnellate di paglia, un milione di cubetti di ghiaccio, 1.200 tonnellate di fango, 96 metri quadrati di strutture in legno e 80.000 chilometri di nastro adesivo. Inoltre sarà costruita una pista per i partecipanti amatoriali che prevede metà percorso rispetto all'originale (7 km e 11 ostacoli) e una pista per i più piccoli: The Mud Kids per bambini dai 7 ai 12 anni.
Per l'occasione verrà creato un apposito "villaggio" che sarà non solo il punto di partenza e di arrivo della gara, ma pure un luogo in cui intrattenersi durante il giorno con musica, birra ghiacciata, cibo in quantità e allenamenti vari.
L'offerta di Tel Aviv, città di mille volti, è sempre dinamica dove si alternano eventi sportivi come la maratona svoltasi recentemente nonché incontri culturali e turistici per soddisfare le esigenze di ogni tipologia di turista e viaggiatore.
Da segnalare che Tel Aviv è considerata la città dei record: con le migliori spiagge del Vicino Oriente e con la miglior città al mondo per l'offerta di cucina vegetariana e vegana. Insieme all'altra straordinaria eccellenza di Israele, Gerusalemme, Tel Aviv risulta perfetta anche nella formula city break con un motivo in più per essere visitata, ha dichiarato Avital Kotzer Adari, direttore dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo in Italia.
(Mondopressing, 10 marzo 2017)
Una mentalità diffusa
di Pierluigi Battista
Dunque, non c'è che da ribadire la domanda: come mai l'ostilità, l'indignazione, il furore sono tutti indirizzati contro le presunte abiezioni della storia sionista e israeliana e non suscitano reazioni nemmeno lontanamente paragonabili nel resto del mondo, e nella spaventosa storia del Novecento?
A me sembra che in questa «dismisura» non c'entri la storia, così come si è effettivamente svolta, ma il modo in cui funziona una mentalità diffusa. Diffusa anche al di là degli steccati ideologici più conosciuti e ovvi. Diffusa, intendo dire, pure in ambienti e tra persone che non appaiono particolarmente sensibili ai richiami di un terzomondismo perenne, di un antiamericanismo di maniera, e che non sono certo scossi da brividi di sdegno all'udire parole riprovevoli per un terzomondista doc, come «imperialismo», «capitalismo», «Occidente». Diffusa come un marchio appetibile, una divisa alla moda che fa indossare la kefiah palestinese come un accessorio attraente in grado di trasmettere a chi la indossa la sensazione di fare la cosa giusta, di segnalare l'adesione a una causa buona e commovente. Diffusa dove un'antica giudeofobia di matrice cristiana non ha ancora, malgrado svolte conciliari e ammirevoli impegni papali, smaltito le sue scorie millenarie: come si evince dalle rozzezze con cui, anche tra molti vescovi, viene liquidata la questione sionista ricorrendo a luoghi comuni vestiti da argomenti teologici.
Diffusa però, in Italia e in Europa, anche in una borghesia «perbene» e autocontrollata che mai pronuncerebbe una parola scortese o irriverente nei confronti degli ebrei e della cultura ebraica, ma nello stesso tempo ammicca compiaciuta a ogni severità riguardo lo Stato che storicamente gli ebrei hanno conquistato. Che dice di adorare l'ebreo della Diaspora (quello ancora oggi quantitativamente più numeroso nel mondo, peraltro), ma non l'ebreo guerriero specializzato nell'uso delle armi. Marc Chagall o Woody Allen, ma non Moshe Dayan. Che adora Elie Wiesel quando ricorda in lacrime, custode della memoria, le vittime della Shoah ma non quello, troppo politicamente esposto, che accampa diritti religiosi e storici sulla città di Gerusalemme. [...]
Un simile, plateale abbandono degli ebrei si giustifica solo con quella mentalità diffusa che ha fatto in questi anni e in questi decenni del Palestinese non un'entità storica, ma l'incarnazione, il paradigma, il simbolo della Vittima. L'emblema del reietto, la sintesi di tutti i «dannati della Terra». Il popolo per antonomasia che carica su di sé tutte le sofferenze, le atrocità, le angherie che i popoli oppressi subiscono. Un simbolo che necessariamente conduce al suo contrario, all'altro protagonista di questo dramma più cosmico che storico, più ideale che reale e concreto: la figura, l'incarnazione, il paradigma del Persecutore. E se ha preso piede una colossale sciocchezza sulla vittima di «ieri» che si trasforma nel carnefice di «oggi» è perché tu, voi antisionisti avete trovato motivo di rassicuranti certezze in questa rappresentazione grottesca del Bene e del Male che si scontrano in una contesa universale, dove la vittoria dell'uno non può che comportare la rovina dell'altro.
Sottrarsi a un tale tossico incanto manicheo è molto difficile. Così come è molto difficile confutare un istinto, una fede irriflessa e impermeabile alla smentita dei fatti. Ma, al contrario, non dovrebbe essere molto difficile capire le conseguenze catastrofiche che questo teatrale e arbitrario accostamento dell'ebreo alla figura immonda del Persecutore riverbera velenosamente su tutti gli ebrei, quelli della Diaspora e i sabra di Israele, senza distinzioni stavolta. Invece è in questo legame malato che prende forza e prepotenza la sovrapposizione sempre più frequente tra antisionismo e antisemitismo. Trasformare l'ebreo nel malvagio «sionista» non lo sottrae alla perversione morale di un marchio infamante, anzi carica tutta la vicenda ebraica di quello stesso marchio infamante.
Non capire tale nesso, caro amico antisionista, non spezzare questa micidiale catena che identifica il «nuovo» ebreo israeliano con la figura eterna del Persecutore, risveglia prepotentemente lo spettro dell'antisemitismo e gli dà nuova linfa, nuovo vigore, nuove giustificazioni, nuovi veleni. Fare di Israele la figura crudele della storia contemporanea indica l'«ebreo» come responsabile delle peggiori nefandezze, riversando l'odio sul nuovo mostro contro cui è legittimo rivoltarsi. Davvero nuovo? No, quello solito, quello di sempre.
Israele paese di spirito, vino e prodotti della terra
di Paolo Nucci
Spiritualità, avventura e tradizioni. Tradizioni fatte di usi, costume, ma anche di profumi, sapori unici e prodotti della terra che si mostrano in tutto il loro splendore come eccellenze assolute. Israele un po' come la nostra casa, la Toscana. Una terra affascinante e miracolosa, la le più floride al mondo.
Il nostro è un viaggio esclusivo, vero, nel cuore di questo prezioso patrimonio. Iniziamo così, il primo giorno, come di consueto la mattina. Subito si assaggiano le specialità enogastronomiche locali. Buonissime. Siamo a Tel Aviv, in una giornata di nebbia, e partiamo in un lungo viaggio verso il deserto del Negev. Dopo un'ora di strada siamo circondati da un piccolo paese che man mano che scorrono i chilometri, si fa sempre più spoglio e arido.
Superiamo la città di Be'er Sheva (letteralmente significa sette pozzi), città del sud di Israele, la più grande del deserto del Negev, e ci fermiamo a Karmei Yosef alla storica e importante cantina "Bravdo" dove viene prodotto vino certificato "kasher".
Dentro il deserto del Negev, non puoi non sostare alla fattoria Kornmehl, dove Daniel e la sua famiglia vivono allevando capre e producendo ottimi formaggi che, insieme a tante altre specialità, propongono nel loro ristorante allestito in due cabine a picco sull'altopiano. La vista da quassù è mozzafiato. Meravigliosa e imperante che mostra uno squarcio di Israele davverno unico e affascinante.
Ci troviamo in località Ramat Negev e scopriamo l'antica città di Avdat, una volta importante centro con la sua "via delle spezie" e quindi ci fermiamo a Makhtesh Ramon, spettacolare punto d'osservazione con un enorme cratere e sede del centro di storia naturale e geologia. La sera arriva e lo scenario è dai colori scuri, ma tenui. Si sembra avvolti in un quadro dalla bellezza elegante e misteriosa. È di nuovo il momento di mangiare e alla fattoria Carmel Avdat degustiamo i loro vini, prodotti da vitigni coltivati su terreni completamente rocciosi, grazie all'acqua che si poggia sulle rocce. Una vera specialità mondiale che riesce grazie a una tecnica di lavorazione che si può trovare solo in questo pezzo di terra di Istraele.
La notte è buia nel deserto. Il silenzio è spezzato da una piccolo brezza ventosa. Ma gli interminabili spazi di solitudine non ti fanno sentire indifeso. Anzi, lo spettacolo è unico in questi bungalow isolati nel deserto di Negev. Dormire così è più bello, perché sai che domani, al sorgere del sole, c'è un'altra pagina tutta da scrivere. Una pagina ricca di immagini e sensazioni che soltanto un paese ricco di magia e mistero come Israele può regalarti.
La conoscenza del vino in Israele sembra risalire a circa 5000 anni fa ed ebbe un suo periodo di splendore nell'era Bizantina e Romana per poi cessare completamente sotto il dominio musulmano in quanto l'alcool fu bandito per motivi religiosi. Fra il XII e il XIII secolo ci sono stati vari tentativi di reimpiantare le viti ma con le difficoltà date dai terreni aridi e sassosi del deserto era più semplice importarlo dall'Europa.
Per produrre vino in Israele si dovette aspettare fino alla fine del 1800 quando il Barone Edmond De Rothschild proprietario del Chateaux Lafite di Bordeaux finanziò la creazione della cantina Carmel per poter produrre vino "kasher" da distribuire agli ebrei in tutto il mondo. All'inizio questo vino era di bassa qualità e destinato principalmente a scopi religiosi poi, dal 1982 con la creazione di vigneti sulle alture del Golan si è arrivati allla produzione di ottimi Merlot, Cabernet Sauvignon, Bordeaux etc
Certificazione "kasher"
Per avere la certificazione kasher il vino deve essere prodotto seguendo le regole alimentari scritte nella Torah e fondamentalmente sono che le vigne devono essere tenute a riposo un anno ogni sette e che tutto il processo di lavorazione e imbottigliamento deve essere effettuato da persone di religione ebrea ortodossa. La produzione di vino in Israele è divisa fra 5 grosse aziende vitivinicole che producono l'80% del vino israeliano (circa 30 milioni di bottiglie di qui 5-6 milioni vengono esportate principalmentee in USA per le comunità ebraiche e il resto consumato in patria) e circa 150 "boutique winery" che sono principalmente a conduzione familiare e producono al massimo 100.000 bottiglie l'anno da destinare esclusivamente alla vendita diretta in azienda o presso piccoli negozi. Visitare queste piccole cantine e prendere parte alle loro degustazioni è una cosa assolutamente da non perdere durante una vacanza in Israele.
Bravdo - boutique winery
E' una "boutique winery" nella città di Karmey Yosef. Il fondatore e proprietario è Zory Arkin che, sui terreni di famiglia destinati storicamente ad altre coltivazioni, ha iniziato a impiantare vitigni e produrre ottimi Chardonnay e Shiraz. La produzione di questa piccola azienda è completamente certificata "kasher" e seguita in ogni suo passo da personale di religione ebraica ortodossa che ne garantisce la genuinità.
Carmey Avdat - farm
Questa piccola azienda è stata fondata da Hannah e Eyal Izrael sulla "Wine Route" nel deserto del Negev dove 1500 anni fa esistevano gli insediamenti agricoli sulla "Rotta delle Spezie" che gli arabi percorrevano per portare i loro prodotti verso l'Europa. Su di un terreno completamente roccioso, nel 1998 sono state impiantati i primi vitigni di Cabernet Sauvignon e Merlot, ma solo nel 2005 è arrivata la prima produzione di vini e adesso, nei sei ettari di vigneti, vengono prodotti ottimi Cabernet Sauvignon, Merlot, Barbera, Chardonnay oltre a un delizioso vino da dessert che non ha niente da invidiare al ben più famoso Porto. In queste zone completamente desertiche, che offrono inverni secchi ed estati molto calde, esiste da sempre il problema dell'irrigazione dei vigneti che i produttori hanno superato con un sistema ereditato dagli antichi contadini e che consiste nell'erigere piccoli cumuli di pietre sul terreno in modo che l'umidità dell'aria della notte, quando cala a terra, va a sciogliersi sulle pietre creando acqua che poi cola sotto le pietre e dentro il terreno sottostante.
(Must Review, 10 marzo 2017)
Biblisti italiani a convegno contro "l'ebraismo ambiguo"
Esclusiva del Foglio. Incontro a Venezia sulla religione ebraica dagli effetti "degeneranti". Protesta dei rabbini: "È antisemitismo".
di Giulio Meotti
ROMA - Dall'11 al 16 settembre a Venezia, l'Associazione biblica italiana organizza un convegno con studiosi italiani ed europei che sembra uscito dalle ombre del primo Novecento. "Israele popolo di un Dio geloso: coerenze e ambiguità di una religione elitaria". Niente meno. L'Associazione, riconosciuta dalla Cei, di cui fanno parte esponenti del clero cattolico e protestante, 800 studiosi e professori di cultura laica e che il Papa ha salutato a Roma lo scorso settembre, discuterà delle "radici di una religione che nella sua strutturazione può dare adito a manifestazioni ritenute degeneranti". Degeneranti? L'ebraismo avrebbe come conseguenze spesso il "fondamentalismo" e l'"assolutismo". "Il pensarsi come popolo appartenente in modo elitario a una divinità unica ha determinato un senso di superiorità della propria religione", recita il programma veneziano. Non si è fatta attendere la risposta, durissima, dei rabbini italiani. Giuseppe Laras, già rabbino capo di Milano e presidente emerito dell'Assemblea rabbinica italiana, ha scritto ai vertici dell'Associazione biblica, denunciandone le posizioni, ma senza ottenere risposta. "Sono, ed è un eufemismo, molto indignato e amareggiato!", scrive Laras nella lettera che il Foglio anticipa qui. "Certamente, indipendentemente da tutto, ivi incluse le possibili future scuse, ripensamenti e ritrattazioni, emergono lampanti alcuni dati inquietanti, che molti di noi avvertono nell'aria da non poco tempo e su cui vi dovrebbe essere da parte cattolica profonda introspezione: un sentore carsico di risentimento, insofferenza e fastidio da parte cristiana nei confronti dell'ebraismo; una sfiducia sostanziale nella Bibbia e un ridimensionamento conseguente delle radici bibliche ebraiche del cristianesimo; un abbraccio con l'islam che è tanto più forte quanto più si è critici da parte cristiana verso l'ebraismo, inclusa ora perfino la Bibbia e la teologia biblica". Secondo Laras, "questo programma dell'Associazione biblica italiana è la sconfitta dei presupposti e dei contenuti del dialogo ebraico-cristiano, ridotto ahimé da tempo a fuffa e aria fritta. Personalmente registro con dolore che uomini come Martini e il loro Magistero in relazione a Israele in seno alla chiesa siano stati evidentemente una meteora non recepita, checché tanto se ne dica". Questa teologia ha conseguenze politiche, dice Laras: "La causa dell'instabilità del medio oriente e dunque del mondo sarebbe Israele (colpa politica); la causa remota del fondamentalismo e dell'assolutismo dei monoteismi sarebbe la Torah, con ricadute persino sul povero islam (colpa archetipica, simbolica, etica e religiosa). Ergo siamo esecrabili, abbandonabili e sacrificabili. Questo permetterebbe un'ipotesi di pacificazione tra cristianesimo e islam e l'individuazione del comune problema, ossia noi. E stavolta si trova un patrigno nobile nella Bibbia e un araldo proprio nei biblisti". D'accordo con Laras i principali rabbini italiani, a cominciare da Roberto Della Rocca, responsabile dell'educazione nelle comunità ebraiche italiane. "Non voglio fare il processo alle intenzioni", dice al Foglio il rabbino capo di Milano, Alfonso Arbib. "Ma o è uno scivolone o è qualcosa di preoccupante. Sono argomentazioni teologiche usate nel passato come arma antiebraica: il Dio vendicativo degli ebrei, il Dio della giustizia contrapposto al Dio dell'amore, usate come propaganda antiebraica. Quando si usano argomentazioni del genere a noi si alzano le antenne. La chiesa cattolica nel dialogo ebraico-cristiano ha superato queste argomentazioni. Sembra che ora vengano riprese. L'idea dell'ebraismo elitario che si sente superiore è stata usata nel passato in maniera preoccupante. E' chiaramente il sospetto che si voglia avere una ricaduta sull'attualità, su Israele". D'accordo con Arbib il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, che al Foglio dice: "O è una cosa fatta con piena coscienza e quindi gravissima, oppure non si rendono conto. Non è solo una analisi teologica, biblica, ma un discorso che si presta a essere contestualizzato al medio oriente, con implicazioni micidiali in politica". Alla stesura della lettera di protesta dei rabbini ha partecipato anche un laico, David Meghnagi, docente a Roma Tre, esperto di didattica della Shoah e membro dell'Unione comunità ebraiche italiane. "Sono convinto che il convegno sia l'indice che dentro la chiesa, fra gli intellettuali e gli studiosi, gli elementi di marcionismo che l'hanno corrotta non sono stati superati", dice Meghnagi al Foglio. "E sono presenti anche nella cultura laica che legge la Bibbia. Lo si vede negli interventi di Eugenio Scalfari su Repubblica, la contrapposizione fra il Dio veterotestamentario e quello del Nuovo Testamento. Nel 1990, alla prima giornata dell'amicizia fra ebrei e cristiani della Cei, mentre piovevano i missili su Tel Aviv da parte dell'Iraq, mi si avvicina un vescovo e mi dice: 'Lo sa quanta fatica noi cristiani facciamo per nobilitare il Vecchio Testamento?'. Il linguaggio cristiano rispetto agli ebrei presenta diverse patologie, compresa la valutazione degli ebrei come popolo decaduto, di cui si eredita la primogenitura. Solo dopo la Shoah c'è stata una rivalutazione. Nella cultura più ampia di molti laici e democratici ci sono pregiudizi che arrivano da questa visione". Ecco allora che in tante, troppe guerre, Israele finisce per diventare "il nuovo Erode" e i palestinesi "il nuovo Gesù". "Siccome non viviamo nel vuoto, la scelta di privilegiare questa riflessione si incontra con una teologia palestinese e di matrice cristiano-orientale, che trova ascolto nei movimenti pacifisti e terzomondisti, che tende a vedere l'attuale contrapposizione in medio oriente come la riedizione su più vasta scala della violenza del Dio biblico, l'ebraismo della carne contrapposto allo spirito, i valori della terra contro quelli dello spirito", conclude Meghnagi. "Vorrei citare un articolo di Gianni Baget Bozzo uscito sul Manifesto sulla guerra di Israele come violenza biblica, o quello di Scalfari su Repubblica che parlò del Dio della vendetta. Lo si vede anche nelle vignette di Forattini. E' un elemento che è passato nella cultura attraverso la demonizzazione del sionismo, la falsa innocenza della diaspora rispetto allo stato-nazione ebraico da esecrare".
(Il Foglio, 10 marzo 2017)
Netanyahu incontra Putin a Mosca per discutere la crisi siriana
Un incontro quello che si è tenuto oggi a Mosca tra il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e Vladimir Putin per discutere soprattutto della crisi siriana, ma anche del conflitto israelo-palestinese, del ruolo dell'Iran e la stabilità della regione.
Nel corso dei colloqui Il premier israeliano ha anche evidenziato l'importanza del contributo russo nella lotta al terrorismo islamista.
(euronews, 10 marzo 2017)
Il primo ministro israeliano incontra il ministro degli esteri inglese
Le tematiche affrontate nell'incontro, avvenuto mercoledì 8 marzo, sono state la soluzione dei due Stati, il commercio tra i due paesi e gli insediamenti israeliani in Palestina.
Nell'accogliere Johnson, Netanyahu ha affermato di non vedere l'ora di tornare a Londra per celebrare il centenario della Dichiarazione di Balfour, documento che ha gettato le basi diplomatiche per la creazione di uno Stato ebraico.
Il ministro degli esteri inglese ha fatto presente che il primo ministro, Theresa May, e il resto del governo del Regno Unito sono "convinti sostenitori di Israele". "Quello che vogliamo vedere è uno stato israeliano in pace con i propri vicini", ha dichiarato Johnson, poco dopo un incontro con i funzionari palestinesi a Ramallah. "La politica del mio governo è a favore di una soluzione a due Stati, che è quello che vorremmo concorrere a realizzare, per quanto possibile. Ovviamente, vogliamo contribuire a rimuovere gli ostacoli alla pace". Egli ha poi affermato che Israele ha "il diritto assoluto di vivere in sicurezza, e il popolo di Israele merita di essere protetto dal terrorismo. Questa è la nostra priorità assoluta". Gerusalemme e Londra collaborano in vari ambiti per "garantire la stabilità di tutta la regione", ha dichiarato Johnson. "Naturalmente, dobbiamo anche cercare di rimuovere gli ostacoli alla pace e al progresso, un esempio sono gli insediamenti".
Il ministro degli esteri ha poi affrontato più nello specifico le relazioni che legano il suo paese e Israele, al fine di negoziare un nuovo accordo di libero scambio, in seguito alla decisione dello scorso anno di lasciare l'Unione europea. Netanyahu ha risposto affermando che lui e Johnson sono d'accordo "sulla maggior parte delle questioni, ma non su tutte". Il primo ministro ha spiegato che la ragione per cui in 100 anni non si è raggiunta la pace non dipende dagli insediamenti. "È il persistente rifiuto di riconoscere l'esistenza di uno Stato nazionale per il popolo ebraico. Se si vuole risolvere la questione, bisogna andare al cuore del problema".
(Sicurezza Internazionale, 10 marzo 2017)
Dichiarare che si vuole la pace, e che si è sostenitori di Israele, e che si è per la soluzione a due Stati, e che gli insediamenti sono un ostacolo alla pace, è un elegante modo per annunciare che ci si schiera contro Israele. Naturalmente per lodevoli motivi: perché Israele è un ostacolo alla pace. E possibile che a un atteggiamento simile ci arrivi prima o poi anche Trump. M.C.
Israele, sotto il sole di un nuovo rinascimento
Dopo la seconda Intifada, a partire dal 2010 è iniziata una ripresa che ha visto sorgere nuovi musei, riqualificare aree degradate con hipster e musica a tutto volume.
di Micaela De Medici
First Station, la più antica stazione di Gerusalemme
Un candore luminoso si sprigiona dalle mura di Gerusalemme nell'aria tersa del tramonto. Si riverbera dagli edifici in pietra calcarea e, per contrasto, si fa ancora più intenso durante l'ora blu, quando il giorno scivola nel crepuscolo. Per questo la chiamano "la città d'oro". Un'eredità di migliaia di anni fa, quando le case venivano costruite con la pietra bianca proveniente dal monti vicini, eredità raccolta nel 1921 da Herbert Samuel, Alto Commissario della Palestina durante il Mandato britannico, che rese obbligatorio ricoprire di questo materiale anche le nuove costruzioni Chi arriva a Gerusalemme non può non avvertirne, prepotente, il fascino. Città santa per le tre grandi religioni monoteiste - ebraismo, cristianesimo e islam -, luogo di difficili convivenze e di conflitti, qui più che altrove il legame tra passato e presente resta forte e denso di significato. Per rendersene conto, basta camminare per le vie della Città Vecchia che si estende su un'area di circa un chilometro quadrato, circondata dalle mura fatte costruire nel 16mo secolo da Solimano il Magnifico e divisa in quattro quartieri - ebraico, armeno, cristiano e musulmano. A pochi passi l'uno dall'altro convivono architetture che recano l'impronta di storie e culture differenti: il Muro Occidentale, dove gli ebrei offrono le loro preghiere infilando frammenti di carta nelle fessure tra le pietre; la Via Dolorosa, percorsa da Gesù per arrivare al Golgota, e la basilica del Santo Sepolcro; la Cupola della Roccia, santuario islamico completato nel 691. d.C. sul Monte del Tempio.
Un cambio di ritmo
Sarebbe però riduttivo pensare a Gerusalemme solo nella sua valenza sacra. In realtà, dopo una battuta d'arresto negli anni successivi al 2000 (quando esplose la Seconda Intifada), a partire dal 2010 la città è stata protagonista di una vera e propria rinascita, tutt'ora in corso. Una rinascita che passa attraverso musei, festival, spazi creativi, hub destinati all'innovazione, senza dimenticare la riqualificazione di aree fino a pochi anni fa dismesse o degradate, trasformate oggi in vivaci luoghi di shopping e di ritrovo, animati dalla mattina fino a tarda notte. Un esempio di questa metamorfosi è il Machane Yehuda Market, coloratissimo mercato dove, di giorno, ci si perde tra montagne dl generi alimentari di ogni tipo, dalla frutta secca ai falafel, dalle verdure alla chellah, il pane dello Shabbat; di notte, invece, lo "shuk" - come viene chiamato in modo informale - si anima di una folla di giovani, buongustai, hipster e turisti che tirano tardi nei localini con la musica a tutto volume. Un percorso analogo è quello che ha portato la First Station, ex stazione ottomana, la più antica della città, inaugurala nel 1892 con il primo treno che collegava Jaffa a Gerusalemme, a trasformarsi in un centro di cultura e svago dove hanno trovato posto ristoranti, bar e caffè, spazi per la musica dal vivo e giostre per bambini, nonché un mercato a chilometro zero.
Un nuovo linguaggio
Il processo di valorizzazione urbana ha coinvolto anche la Anna Ticho House e la Hansen House, entrambe risalenti al XIX secolo: la prima, un tempo residenza privata dell'oftalmologo Abraham Ticho e di sua moglie Anna, artista, ospita oggi esposizioni d'arte e fotografia e un caffè-ristorante sulla terrazza, la seconda invece, ex ospedale destinato ai malati del morbo di Hansen, è stata riconvertita in un centro culturale che ospita mostre, festival e residenze per artisti. Meta irrinunciabile per gli appassionati di architettura contemporanea è poi il Van Leer Institute, centro di studi e ricerche interdisciplinari (numerose le attività aperte al pubblico), risultato di un attento lavoro per ridisegnare il campus in armonia con i tre edifici originari degli Anni 60: una sorta di omaggio alle strutture storiche, "reinterpretate" attraverso un nuovo Linguaggio contemporaneo, nel quale le linee orizzontali e la luce che entra dalle enormi vetrate si fondono perfettamente con il verde che li circonda.
(Corriere della Sera - Sette, 10 marzo 2017)
Focolare ebraico si prepara al dopo-Netanyahu
Indette le primarie. 'Bennett candidato a premier'
Sospinto da una serie di successi politici, il leader dei nazionalisti di Focolare Ebraico Naftali Bennett (attuale ministro dell'istruzione) ha indetto a sorpresa elezioni primarie da tenersi nel suo partito già ad aprile. Bennett - ha scritto su twitter la compagna di partito Ayelet Shaqed (ministra della giustizia) - ''e' il nostro candidato alla carica di premier, una volta giunta a termine l'era di Netanyahu''. In una intervista radio, la Shaqed ha affermato di avere lei stessa le carte in regola per fungere un giorno da primo ministro.
Alla Knesset Focolare ebraico - un partito vicino al movimento dei coloni - dispone oggi di otto seggi su un totale di 120. Eppure i suoi dirigenti (caratterizzati da un notevole dinamismo) hanno maturato la sensazione di aver molto accresciuto i sostegni popolari. In queste settimane sono riusciti fra l'altro ad imporre al governo la propria visione sulla controversa legge della 'regolarizzazione' delle colonie e a far accettare la nomina nella Corte Suprema di alcuni giudici ritenuti conservatori.
(ANSAmed, 9 marzo 2017)
I bambini ci guardano. E ci insegnano molto
di Filiberto Molossi
E'successo a Vercelli, profondo Nord, 46 mila anime nel Piemonte delle risaie, quelle dove un tempo faticavano e cantavano le mondine.
E' successo qui, in una scuola media. Un istituto intitolato a un signore che prima ha fatto la guerra e poi, a suo modo, un pezzetto di storia: Sandro Pertini. La circolare della preside non ammetteva dubbi: via gli stranieri dalle classi. Fuori tutti, con effetto immediato: che mica abbiamo tempo da perdere. L'hanno letta i prof ai propri alunni, nelle cinque classi di terza della scuola: la direttiva imponeva che i ragazzi (una ventina in tutto) con uno o entrambi i genitori stranieri venissero trasferiti in un'aula apposita. Lezioni separate: e poi a giugno due esami in più. Uno «per dimostrare la conoscenza della lingua» e l'altro sulla «cultura italiana». Firmato: Ferdinanda Chiarello, dirigente scolastica.
E allora, in quel preciso momento, quando gli alunni stranieri, a capo chino, si sono alzati e hanno fatto per uscire, è successa una cosa meravigliosa. Una roba incredibile, di quelle che succedono solo nei film: ma quelli belli sul serio. Gli altri ragazzi, gli italiani, hanno detto no: hanno alzato la voce, hanno gridato allo scandalo, si sono ribellati ai loro professori. Alcuni hanno minacciato di andarsene da scuola, altri hanno chiesto di potere seguire i compagni stranieri nell'«aula-ghetto», altri ancora hanno detto che avrebbero chiamato il ministero per protestare. Non solo: c'è chi ha impedito fisicamente che i ragazzi stranieri lasciassero la classe e chi invece ha telefonato a casa alla preside (assente perché ammalata) chiedendole se si era bevuta il cervello. Il caos. Poi, infine, la verità: era solo un esperimento, una (consentitemi: geniale) provocazione. Una simulazione organizzata in previsione della «Giornata dedicata alla memoria dei giusti»: i ragazzi con i genitori stranieri sapevano, gli altri invece erano all'oscuro di tutto. Una lezione sul campo: e sulla pelle di tutti.
«E' inutile parlare di inclusione - ha poi spiegato la Chiarello - se non la si fa davvero». Una storia che dimostra due cose importanti. Anzi, fondamentali. Innanzitutto che, nonostante a qualcuno faccia comodo sostenere il contrario, nelle nostre scuole ci sono ancora presidi e docenti davvero in gamba. E in secondo luogo che in giro, là fuori, c'è qualcuno molto meglio di noi: i nostri figli. Che non perdono tempo a riversare insulti razzisti sui social contro un'eurodeputata di colore, che non alzano muri o barricate alla sola «minaccia» dell'arrivo di tre profughi affamati, che non dividono il mondo tra italiani e stranieri, ma sanno, al contrario, che siamo tutti sulla stessa barca. Sono gli stessi che a differenza dei loro genitori non strepitano o perdono la testa se durante una partita di calcio un avversario gli fa fallo e magari l'arbitro, mannaggia a lui, nemmeno fischia: loro, semplicemente, si rialzano e continuano a giocare. Hanno 13-14 anni ma , in molti casi si dimostrano più maturi degli adulti: per loro, il vicino di banco è semplicemente un compagno di classe. Qualunque sia il suo nome o il colore della sua pelle. «Nella nostra scuola, ha detto la preside - non ci sono ragazzi stranieri, ci sono solo ragazzi». Che vanno a lezione: ma soprattutto sono capaci di darle.
(Gazzetta di Parma, 9 marzo 2017)
Israele in controtendenza, Venture Capital in piena espansione
Il Venture Capital israeliano è in piena espansione nonostante il declino globale. Il 2016 non è stato un anno particolarmente di successo per il mercato globale dei capitali di rischio, ma ciò non si può affermare per Israele.
Infatti ciò che è emerso dal 2017 OurCrowd Global Investor Summit, che si è recentemente tenuto nella capitale israeliana, Israele è nettamente in controtendenza: "C'è un paese che ha stravolto questa tendenza, e questo paese è stato di Israele", ha detto Jon Medved.
Medved, il CEO di OurCrowd, si è rivolto ai partecipanti del summit spiegando che mentre i mercati azionari di tutto il mondo hanno visto un grande successo nel 2016, questa crescita è stata meno evidente nel panorama globale del Venture Capital. Eppure Israele è riuscito a maturare 4,8 miliardi di dollari in investimenti tecnologici con una crescita del 120% nel corso degli ultimi tre anni.
Nonostante si tratti di un settore il cui futuro è difficile da proiettare, Medved non rifugge dal fare previsioni. Secondo il CEO, in Israele ci sono settori che si distinguono per un eccellente sviluppo nei prossimi 3 anni tra cui:
Apprendimento automatico;
Tecnologia spaziale;
Tecnologia agricola;
Salute digitale;
Tecnologia sportiva;
Droni;
Robotica e guida autonoma.
Con l'evento OurCrowd nella capitale, il sindaco di Gerusalemme Nir Barkat ha parlato di come il comune sia desideroso di consolidare il suo ruolo come leader globale di tali sviluppi tecnologici.
Sin dai tempi biblici, ha spiegato Barkat, la città è un hub per l'innovazione:
Gerusalemme è la città più innovativa del mondo, il centro del mondo, una filosofia inclusiva che tiene tutti insieme.
Agli occhi del sindaco, i motori economici per la crescita della città di oggi sono i settori high-tech, la cultura, così come le scienze della vita e la forte collaborazione tra l'Università Ebraica di Gerusalemme e l'Hadassah University Medical Center.
(SiliconWadi, 9 marzo 2017)
Emergenza antisemitismo negli Usa, la Knesset decide di intervenire
di Roberto Zadik
Ultimamente sembra proprio che l'atmosfera per gli ebrei americani sia decisamente preoccupante tanto da spingere nientemeno che i membri del Parlamento israeliano a intervenire su questo argomento. Continuano le minacce antisemite in vari Stati del Nuovo Continente e secondo il sito Ynet il deputato del partito guidato da Herzog, Zionist Union, Nachman Shai, 70 anni, avrebbe spinto i suoi colleghi a pronunciarsi su questa emergenza dopo che martedì, secondo le ultime notizie, una serie di intimidazioni sarebbero pervenute alle Comunità ebraiche di varie zone tanto da costringerle a prendere drastiche misure di sicurezza come l'evacuazione di alcuni centri comunitari locali.
Una situazione davvero molto grave a causa della quale, sempre stando a quanto diramato dal sito, tutti i cento senatori del governo americano avrebbero chiesto al Governo Federale di aumentare i controlli e lo stato di allerta. A questo proposito Shai Nachman ha detto "Abbiamo assistito a dozzine di tremendi incidenti recentemente avvenuti, come vandalismo, profanazione dei cimiteri e crescenti aggressività verbali. Nel discorso di Shai non mancano affondi critici e frecciate. "Nonostante la nostra lunga militanza nella difesa delle comunità ebraiche minacciate" ha sottolineato durante un'intervista via mail all'agenzia di stampa Tapnit Press "quando questo accade in America restiamo in silenzio. Invito il governo israeliano a mettere in pratica il ruolo teorico di leader del mondo ebraico sostenendo le comunità ebraiche americane. Dobbiamo difenderli, come loro ci hanno difeso molte volte".
Il discorso è stato tenuto martedì mattina durante la tempestosa seduta parlamentare indetta dal Comitato per l'Immigrazione, l'Integrazione e gli Affari della Diaspora riguardante i recenti fenomeni americani. Una settimana iniziata in maniera molto agitata con una svastica ritrovata sulla porta della sinagoga in Ohio mentre sempre in questo tormentato periodo sono stati profanati i cimiteri ebraici a Brooklyn, Philadelphia, Rochester e Saint Louis e circa una dozzina di centri comunitari in 12 stati hanno ricevuto una marea di allarmi bomba, più o meno una novantina, da gennaio a oggi.
Anche Avraham Neguise del Likud ha espresso la sua preoccupazione: "per molti anni c'era la percezione che l'America fosse il posto più tollerante al mondo e che ospitasse senza problemi, etnie e religioni. Ma la situazione sembra molto cambiata". Vari politici e giornalisti hanno cercato possibili collegamenti fra questi episodi e la retorica di Donald Trump. A questo proposito un altro deputato della Knesset,Tamar Zandberg, ha sottolineato come non si possano "ignorare i collegamenti fra questi fenomeni e l'elezione di un presidente xenofobo. Purtroppo l'alleanza politica fra America e Israele ci spinge a chiudere un occhio sull'odio".
Su questo si è pronunciata anche l'Adl (Anti Defamation League) che ha denunciato le campagne razziste nei campus americani, dove, secondo l'indagine di questo organismo, movimenti come "Identity Europa" e "American Renaissance" sono stati "molto sostenuti dalle elezioni del 2016". Secondo l'Adl l'antisemitismo non è una novità in America ma è cominciato durante l'amministrazione Obama e stando ai loro dati già nel 2015 si registravano fenomeni di antisemitismo con un incremento del 3 percento rispetto all'anno precedente.
Nonostante questo, il presidente Trump ha recentemente condannato gli attacchi antisemiti con una serie di dichiarazioni favorevolmente accolte dal Presidente israeliano Reuven Rivlin.
(Mosaico, 8 marzo 2017)
Il ministro Calenda atteso a Gerusalemme ad aprile per discutere del gasdotto East-Med
GERUSALEMME - Il ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, è atteso in Israele ad aprile per discutere del gasdotto East-Med con il ministro dell'Energia israeliano Yuval Steinitz. Lo riferisce il sito web informativo israeliano "Lphinfo" edito in lingua francese. L'incontro avviene a poco più di un mese dal colloquio avvenuto a Roma lo scorso 2 marzo tra Steinitz e Calenda. Il gasdotto porterebbe in Italia il gas del giacimento offshore Leviathan, passando attraverso le acque di Cipro e Grecia. Il progetto dovrebbe essere realizzato dalla società italiana Edison, controllata dalla francese Edf, in collaborazione con la greca Depa. La partecipazione di Calenda ad un incontro per discutere del gasdotto East-Med in Israele è stata confermata anche dal ministro Steinitz in un'intervista al quotidiano italiano "La Stampa". Nel corso della visita in Italia di inizio marzo, Steinitz ha incontrato anche il ministro degli Esteri, Angelino Alfano, e alcuni parlamentari italiani, tra cui il presidente dell'Associazione interparlamentare di Amicizia Italia-Israele, guidata dall'onorevole Maurizio Bernardo, presidente della Commissione finanze della Camera. Il ministro israeliano ha incontrato inoltre deputati e senatori delle Commissioni Attività produttive e del bilancio di Montecitorio e Palazzo Madama.
(Agenzia Nova, 9 marzo 2017)
Israele al top. E gli ex militari fondano start up
L'anno scorso il i 5% degli investimenti mondiali in security è finito a Israele. Ciliegina sulla torta: un consorzio si è aggiudicato 2,2 miliardi per proteggere le Olimpiadi di Rio.
TEL AVIV - Virus, malware, tv che si trasformano in cimici. Lo scenario della sicurezza digitale non offre molti spazi all'ottimismo. Ma c'è chi, come Israele, ha da tempo capito che proprio queste minacce possono essere monetizzate.
La chiave di volta è il modello formativo, con i migliori talenti informatici che vengono selezionati fin dai tempi del liceo, indirizzati all'università verso le facoltà scientifiche e tecnologiche e poi assorbiti dalle forze armate, in unità dedicate, per i due-tre anni obbligatori di leva. Una volta terminato l'apprendistato possono poi fondare le loro compagnie private. Così facendo, ha spiegato all' Agi Nadav Zafrir - cofondatore e ad del Team 8, per 25 anni nei ranghi delle forze armate israeliane, di cui gli ultimi dieci alla guida della leggendaria unità 8200, l'élite dell'esercito, dedicata alla lotta contro i nemici nella Rete - Israele «ha trasformato un costo per l'economia (la leva obbligatoria, ndr) in una spinta».
Da questo ecosistema quasi unico al mondo sono nate centinaia di start up, di cui molte acquisite dai colossi tecnologici mondiali.
Nel 2016, dati ufficiali, il 15% degli investimenti privati mondiali in sicurezza digitale sono finiti in aziende israeliane. Le start up del settore sono tra 450 e 500 e ogni anno se ne aggiungono 40-50. Secondo il Velino, il 25 per cento delle start up israeliane che si occupano di sicurezza informatica sono state create da veterani delle unità tecniche e tecnologiche dell'esercito. Il 22 per cento da hacker e il 18 per cento da imprenditori del settore della lnformation Security. Un'altra analisi che indica la maturazione dell'industria nazionale in questo settore è rappresentata dall'aumento delle dimensioni medie di ogni investimento: nel 2016 l'investimento medio è stato di 9,3 milioni di dollari con un incremento del 17% rispetto all'anno precedente. In particolare, i settori cue si occupano di sistemi di protezione e i controllori industriali hanno registrato un ottimo successo rispetto agli anni passati, con le quattro migliori aziende che insieme hanno ottenuto finanziamenti per 55 milioni di dollari. Un trionfo che proprio l'anno scorso è stato coronato dalla classica ciliegina sulla torta: oltre trenta società del consorzio israeliano capitanato dalla Isds (Intemational Security Defense Systems, società israeliana) si sono aggiudicate il maxi appalto da 2,2 miliardi di dollari per garantire la cyber sicurezza delle Olimpiadi di Rio.
«La grandezza fisica del Paese non ha limitato il suo potere nella cyber technology», ha sottolineato in febbraio il premier Benjamin Netanyahu alla CyberTech, una delle fiere più importanti a livello globale per quanto riguarda le nuove tecnologie, di Tel Aviv. Il rischio, ha aggiunto, è semmai una «sovraregolamentazione: una volta imposta, si ostacola lo sviluppo dell'industria cybertecnologica».
(Nazione-Carlino-Giorno, 9 marzo 2017)
«Israele, il cancro». Diventa un caso il patrocinio Anpi al film antisemita
Proiezione in una scuola di Biella. Protestano le Comunità ebraiche italiane. La replica dell'associazione nazionale dei partigiani: «Una sezione non si identifica con noi»
di Goffredo Buccini
Un film dal titolo infame si aggira per l'Italia. E si trasforma in una cartina di tornasole sulla confusione mentale di un pezzo della sinistra nostrana, a cominciare dall'Anpi, la benemerita associazione dei partigiani. Si chiama «Israele, il cancro» la pellicola di Samantha Comizzoli, attivista già arrestata e rimpatriata nel 2015, così devota alla causa palestinese da augurarsi che lo Stato dalla Stella di David possa «sprofondare all'inferno». E racconta, parole della regista, «l'occupazione nazista israeliana della Palestina». Non esattamente un punto di vista sereno sul conflitto più drammatico del Medio Oriente da settant'anni a questa parte."
L'appello ai vertici
La Comizzoli sostiene che il suo film spaventi noi sepolcri imbiancati perché «crudamente oggettivo». E, per dimostrare la propria oggettività, lancia sin dal trailer su uno schermo nero la seguente frase: «L'effetto del mostro Israele sulla mente delle vittime, il popolo palestinese». Seguono le fasi della «malattia» che progredisce come una metastasi, appunto: soldati di Tsahal che spianano i mitra su palestinesi indifesi, giovani palestinesi costretti su sedie a rotelle, braccia palestinesi mozzate in ospedale, rivolte palestinesi basate su gran scritte di protesta contro il famigerato Muro. Infine la domanda: «Come vincere il cancro Israele?». E la ricetta: «Non ho paura di Israele, la mia pietra fermi i loro proiettili!», proclama una nonnina lanciando in aria il sasso della prossima Intifada. Intendiamoci: solo un cieco può negare le sofferenze dei palestinesi. Ma negare quelle degli ebrei non restituisce la vista. Settant'anni di terrorismo antisemita, massacri di civili israeliani sugli autobus e nei locali, il lavaggio del cervello ai «martiri» e alle loro famiglie, i missili hezbollah sui kibbutz di confine, una guerra di sopravvivenza che dal 1948 lo Stato israeliano deve combattere solo per restare sulle cartine geografiche: nel «cancro Israele» tutto questo non pare compreso. Ora, che un film simile possa essere proiettato in una scuola sia pure fuori orario di lezione (era in programma per domani al «Quintino Sella» di Biella) è già un'idea bizzarra. Ma che possa godere addirittura del patrocinio della locale sezione dell'Anpi (la «Valle Elvo e Serra»), è sconcertante. L'happening antisemita viene bloccato dalla Provincia, che sulle scuole è competente. Ma la presidente delle comunità ebraiche italiane, Noemi Di Segni, scrive il suo sdegno a Carlo Smuraglia: «Fatto gravissimo». Il presidente dell'Anpi nazionale le risponde con molta cautela: «Una sezione non si identifica con l'Anpi... manifestazioni di disprezzo e odio ritengo non servano mai a nessuna causa». Non «servono», e basta? È la stessa grande cautela con cui ancora l'anno scorso Smuraglia ha derubricato a «piccola macchia» la consueta, vergognosa contestazione del 25 aprile contro la Brigata Ebraica (pur ammonendo che «chi non accetta gli ebrei ignora la storia», e ci mancherebbe).
La mutazione dell'associazione
Tanti equilibrismi si spiegano anche con la mutazione genetica dell'Anpi, decisa al congresso di Chianciano del 2006 per ovvi motivi di anagrafe e sopravvivenza. L'associazione si è aperta a sinistra, riguadagnando nei tre anni successivi trentamila iscritti tra i «giovani antifascisti», schiudendosi a istanze nobilissime della nostra democrazia ma accentuando anche il suo carattere di fazione (la guerra di liberazione fu viceversa unitaria e sfociò non a caso nel Cln): un marchio prezioso, insomma, che può coprire però identità diverse. Una di queste identità appartiene a quella sinistra che tra una democrazia pur imperfetta come Israele (addirittura di originaria ispirazione socialista) e le dittature o le teocrazie che la circondano sceglie sempre le seconde, in nome di uno stantio riflesso antiamericano (appoggio peraltro, quello Usa, nient'affatto scontato alla nascita dello Stato kibbutziano). Il percorso tutt'altro che clandestino del film della Comizzoli ben ci descrive questo milieu. Dall'esordio, quasi due anni fa, in una prestigiosa sala comunale nella Napoli di de Magistris, al passaggio a Recanati (ancora sala comunale, sindaco pd) e via via in circoli Arci e ancora con l'appoggio di sezioni locali Anpi. Neppure stavolta l'Anpi locale demorde: il film, annuncia il sito biellese, si proietta comunque domani, stessa ora, ennesimo circolo Arci. L'odio non «servirà», come dice Smuraglia, ma è una droga potente: difficile smettere.
(Corriere della Sera, 9 marzo 2017)
*
Israele, il cancro e l'Anpi
Perché gli ex partigiani volevano trasmettere questo "documentario"?
"Israele - Il Cancro". La pellicola è spiegata così dai loro stessi artefici italo-palestinesi: "L'occupazione nazista israeliana della Palestina si rivela nel suo aspetto peggiore: l'occupazione della mente. Come un cancro mangia piano piano il cervello delle persone: cancerogenesi-diffusione del tumore-cure palliative-metastasi-eutanasia-fine". Come immaginasse questa "fine" è stata la stessa regista, Samantha Comizzoli, a spiegarlo: "Mi auguro che Israele sprofondi nel nucleo della terra e che quindi l'inferno torni da dove è venuto, all'inferno". Materiale del genere prolifera in questo tempo di grande e rinnovata ostilità verso il popolo ebraico. La domanda è un'altra: perché l'Anpi, l'Associazione nazionale partigiani, lo voleva trasmettere nelle scuole biellesi? Bene ha fatto la provincia di Biella a revocare il permesso all'Anpi di proiettare quel film nelle scuole. In un primo momento, l'associazione partigiani della Valle Elvo aveva chiesto e ottenuto ospitalità negli istituti scolastici del territorio. L'Unione delle comunità ebraiche italiane con la presidente, Noemi Di Segni, ha così scritto al presidente dell'Anpi Carlo Smuraglia per chiedere che l'associazione impedisse a una propria sezione di patrocinare la proiezione di un film di "una nota attivista antisionista ed antisemita" in una scuola. L'Anpi non è nuova a simili "incidenti". A Milano, un dirigente dell'Anpi, Mario Petazzini, ha accostato Gaza ed Auschwitz. Smuraglia dovrebbe vigilare un po' meglio sulle sezioni della sua associazione nel territorio. O non si lamenti, poi, di chi considera l'Anpi non soltanto anacronistica, ma perfino nociva in casi come questi.
(Il Foglio, 9 marzo 2017)
Israele, destra e sinistra fanno pace in nome della cannabis
Con un voto bipartizan il parlamento di Tel Aviv depenalizza l'uso della marijuana. Lo Stato ebraico è il secondo distributore mondiale di "erba" terapeutica.
Solo un miracolo poteva mettere d'accordo la destra e la sinistra in Israele. Il miracolo si chiama marijuana. Domenica infatti, un voto bipartisan ha depenalizzato l'uso della cannabis. Attenzione però, siamo ben lontani dalla legalizzazione: chi verrà trovato fumando uno spinello in pubblico infatti rischierà una multa di 1000 shekel, ossia 270 dollari, non proprio bruscolini, ma comunque meglio che finire in carcere o rischiare un processo penale. Al secondo richiamo la multa sarà di 500 dollari, al terzo richiamo ci sarà la riabilitazione e la possibile confisca della patente, e solo la quarta volta (bisogna proprio cercarsela!) si rischieranno conseguenze penali.
Il denaro che il governo israeliano guadagnerà multando i distratti fumatori verrà impiegato nell'educazione e riabilitazione. "Se siamo favorevoli o meno all'uso di marijuana è secondario" dichiara Ayelet Shaked, Ministro della Giustizia del governo Netanyahu, "Importante è non trattare chi ne fa uso come un criminale e che Israele non chiuda gli occhi di fronte ai cambiamenti globali che avvengono sull'uso e gli effetti della cannabis".
In tutto il mondo sono circa 20 i Paesi pionieri che stanno cambiando e riadattando le proprie leggi: otto Stati in America, Olanda, Messico, Repubblica Ceca, Portogallo, Spagna e Costa Rica sono alcuni di questi.
"È un momento importante, ma non il finale del cammino" spiega Tamar Zandberg, del partito di sinistra Meretz.
Israele è tra i leader mondiali nella ricerca scientifica sugli usi medici e terapeutici della cannabis, ricerca incoraggiata dall'ultra ortodosso Ministro della Salute Yaakov Litzman. Gli esperti credono che ulteriori aperture del governo potrebbero creare una mega industria di cannabis e Israele diventare uno dei più grandi esportatori di marijuana, con introiti di centinaia di milioni di dollari.
Il ministero dell'Agricoltura ha già costruito, fuori Tel Aviv, serre per due milioni di euro per aiutare gli scienziati a creare la prima banca genetica al mondo che permetta di registrare i brevetti per i trattamenti. Il professor Raphael Mechoulam, che negli anni 60 aveva isolato i principi attivi della cannabis, continua ancora oggi, a 86 anni, a studiare la pianta nel laboratorio biochimico di Hadassah. "La cannabis è un tesoro farmacologico ancora da scoprire, finchè non è possibile garantire la propiretà intellettuale le case farmaceutiche tentennano a fare investiment" racconta Mechoulam.
Di fatto Israele, con 400 chili al mese, è il secondo paese, dopo Stati Uniti, nella distribuzione della cannabis terapeutica. I pazienti che nel 2015 ne hanno fatto un uso terapeutico sono 23mila, ma molti di più sono i consumatori, in un paese in costante tensione per una guerra che dura da più di sessant'anni.
Barba lunga grigia, kippah sulla testa, completo nero da ortodosso, Yaakov Litzman risponde cauto alle prime interviste dopo il voto favorevole alla depenalizzazione della cannabis: "Non sono certo che la mia gente, i miei elettori siano proprio contenti per ciò che ho fatto. Ma se devo attenermi strettamente a come posso aiutare persone malate che soffrono, allora penso di aver fatto la cosa giusta".
(Il Dubbio, 9 marzo 2017)
Che questo articolo sia comparso su un giornale che ha titolo Il Dubbio è significativo. Resta infatti il dubbio che si tratti davvero di un passo avanti, Nel titolo si dice che in Israele destra e sinistra fanno pace..., e le persone che oggi Israele deve temere di più sono quelle che parlano di pace. Parlano, appunto. Nel Vangelo Gesù chiama beati i facitori di pace (Matteo 5:9), non i parlatori di pace. E quando uno sta male, non vuole sentire chi gli parla di guarigione, ma sapere fiduciosamente allopera chi sa fare quello che si deve fare per portare la guarigione. Per il momento quello che si vede è un gran giro di quattrini. La penalizzazione delluso della marijuana mirava a proteggere la salute del cittadino, la depenalizzazione serve a incrementare le casse dello Stato e a favorire una mega industria di cannabis. Soldi, sempre soldi. Per Israele questa non è una buona pubblicità. M.C.
I mandorli, i templi e il folk internazionale. Ad Agrigento arabi e ebrei sfilano insieme
di Gianni Bonina
Agrigento - La Valle dei Templi
Dall'altra parte del Mediterraneo, sotto il cielo algerino, Albert Camus ancora bambino trascorreva all'aperto i giorni più rigidi dell'inverno nella certezza che «una notte, una sola notte fredda e pura di febbraio, i mandorli della Valle dei consoli si sarebbero coperti di fiori bianchi». Da questa parte dello stesso mare, in un'altra Valle, quella dei templi, notti altrettanto fredde continuano a replicare lo stesso mistero della natura: un prodigio di cui si accorse anche Omero e prima ancora la dea Atena che dell'infelice Fillide fece un mandorlo che fiorisse all'abbraccio del suo Acamante.
E chissà se fu nella stessa notte in cui Camus era appostato che il federale fascista di Naro Alfonso Gaetani conte d'Oriseo scoprì nella Valle del Paradiso l'identico miracolo (una fioritura in pieno inverno e tutta in una notte) e tanto ne rimase incantato da pensare a una celebrazione nei modi di un inno a Demetra e Kore elevato ali' annuncio della primavera. Venne però fuori una sagra (da Naro portata ad Agrigento ora sono ottant'anni precisi), perché la mandorla agrigentina soprattutto nella varietà del "Tuono", ma pure degli altri cultivar, è tanto un dolce quanto un frutto, buona perciò per farci scorpacciate in allegra compagnia.
E "sagra" continuano oggi tutti a chiamarla, anche se Ente parco e Comune parlano solo di "Mandorlo in fiore", sennonché del godereccio la kermesse agrigentina non ha più niente, tolti il "laboratorio del gusto" di domani sera e la "Mandorlara" che si è avuta sabato scorso lungo la Via sacra sotto forma di degustazione guidata e che tornerà domani e sabato. Piuttosto è una festa, che è fatta di festival: il più atteso dei quali, il Festival internazionale del folclore (giunto alla 62esima edizione e a coronamento di quello bandistico e dell'altro dei bambini del mondo), entra nel vivo proprio oggi e fino a domenica, quando sarà consegnato il "Tempio d'oro" al migliore gruppo, colorerà la città e la Valle dei templi delle sue variopinte coreografie e delle fantasmagorie di uno spettacolo a metà tra sarabanda e mirabilia: come a evocare l'hermitage di antiche Panatenee trasposte in un'Akragas immortale che offre ancora i suoi templi a fare da proscenio perché lo spirito irenico della "più bella città dei mortali" lasci fiorire al pari dei mandorli una cultura della pace della quale il Festival del folclore è ogni anno il florilegio. Sicché nel segno del mandorlo, divenuto qui un ulivo simbolo di fratellanza, vale quanto un Nobel riuscire a fare sfilare insieme i gruppi folk di Israele e della Palestina.
Ma dire folclore è forse restrittivo giacché Agrigento raduna in questi giorni, sotto il tripode olimpico dell'amicizia e nei fumi iridescenti della Fiaccolata, un'internazionale del patrimonio immateriale dell'Unesco che è un tripudio di civiltà, una «nobilitazione culturale», come l'ha chiamata il sindaco di Agrigento Calogero Firetto, nella quale musica, canti e balli di ogni angolo del mondo riecheggiano e volteggiano tra i mandorli e i templi facendo di Agrigento una grande Wunderkammer e forse una nuova Babilonia.
(la Repubblica - Palermo, 9 marzo 2017)
... e forse una nuova Babilonia. Chissà. Forse.
Ebrei di tutto il mondo, contatevi
Nel 2015 Israele e Stati Uniti si confermano fulcri dell'ebraismo mondiale, mentre diminuisce la presenza ebraica nell'Ue. I problemi tassonomici. I numeri della diaspora. In patria non sono solo arabi e ultraortodossi a fare figli.
di Sergio Della Pergola
All'inizio del 2015, la popolazione ebraica mondiale era stimata in 14.310.500 persone1. La popolazione mondiale totale è stimata in 7,3 miliardi, dunque gli ebrei costituiscono meno del 2‰ degli abitanti del globo. Il grafico 1 illustra i cambiamenti nel numero totale di ebrei in Israele e nel resto del mondo, comunemente definiti come «diaspora», tra il 1945 e il 2015. Nel 1945, dopo le tragiche perdite umane della seconda guerra mondiale e della Shoah, la popolazione ebraica era stimata in 11 milioni e ci sono voluti tredici anni per aggiungere un milione, arrivando a dodici. Sono stati necessari invece quarant'anni per aggiungere un altro milione (da 12 a 13). Mentre dal 1970 e per quasi vent'anni l'ebraismo mondiale stagnava, una certa ripresa demografica si è registrata nei primi quindici anni del XXI secolo, riflettendo soprattutto l'incremento demografico in Israele. Ci sono voluti infatti altri quattordici anni per salire di un altro milione (da 13 a 14) e questa tendenza continua al momento attuale. La popolazione ebraica mondiale non ha recuperato le dimensioni che possedeva alla vigilia della seconda guerra mondiale (16,5 milioni) e ci vorranno diversi decenni perché ciò avvenga, se mai accadrà.
(da Limes, marzo 2017)
Sgominata la rete che fabbricava armi in Cisgiordania
GERUSALEMME - L'esercito israeliano ha sgominato una rete per la produzione di armi e munizioni in Cisgiordania. Il gruppo riusciva a fabbricare armi assemblando pezzi che riceveva via posta da tutto il mondo ordinandoli su internet. I controlli dei servizi segreti israeliani, iniziati lo scorso ottobre, hanno prima monitorato i movimenti bancari dei componenti della rete. Con un blitz della polizia e dell'esercito israeliano sono stati fermati 9 palestinesi nel campo profughi di Balata, a Nablus e sequestrate numerose armi. Il gruppo non aveva un posto unico dove assemblare i pezzi ma ogni membro lavorava in modo autonomo.
(Agenzia Nova, 9 marzo 2017)
Parashà della settimana: Tetsavè (Ordinerai)
Esodo 27:20-30:10
- Nella parashà di Tetsavè viene ordinato da Moshè ai figli d'Israele di offrire olio di oliva vergine per alimentare il lume nel tabernacolo. L'olio che viene usato per l'accensione della Menorah deve essere di prima spremitura, vergine e non mescolato, in quanto la luce del Candelabro simboleggia la saggezza della Torah che non deve essere mescolata con idee di idolatria. In più lo schiacciamento delle olive rappresenta la fatica nello studio della Torah che non basta solo una semplice lettura di questa, dovendo sempre essere studiata con costante diligenza.
Vengono descritti gli abiti che devono indossare i sacerdoti e in particolare gli abiti del gran Sacerdote. Quale legame esiste tra l'offerta di olio e i vestiti sacerdotali? Un midrash paragona questi abiti ad uno stoppino, che immerso nell'olio ne farà scaturire la luce nascosta al suo interno. Perché questa similitudine? Difatti la luce nascosta all'interno dell'olio viene resa manifesta dallo stoppino, allo stesso modo del sacerdote, che attraverso la sua veste fa uscire la santità durante il servizio (seder avodà) nel Tempio di Gerusalemme. La funzione del sacerdote (cohen) è quella di trasmettere la luce nascosta nella Torah come lo stoppino che rende manifesta la luce celata nell'olio.
"Farai confezionare per Aron, tuo fratello, vestimenti sacri, segno di dignità e magnificenza" (Es.28.2). Il mantello (meyl) del gran Sacerdote è considerato dalla tradizione orale un mezzo per espiare il peccato della calunnia. Difatti il suo colore azzurro ricorda il cielo (timore di D-o) e il mare, a cui sono stati posti dei confini come alla lingua dell'uomo, i cui confini (denti e labbra) impediscono alla maldicenza di uscire con facilità.
La tradizione orale parla anche degli abiti in rapporto al bene e al male. Adamo che aveva un abito luminoso, dopo il peccato prende un abito di pelle. Giacobbe indossò gli abiti di Esaù per ricevere la benedizione da Isacco e la tunica di Giuseppe che fu motivo di gelosie e discordie tra i fratelli. L'abito attraversa la storia biblica nei suoi momenti decisivi e la sua santificazione avviene per opera del sacerdote. Ma attenzione! In lingua ebraica la parola beghed (abito) può significare anche traditore (boghed) se diversamente vocalizzato. Questo sta a significare che spetta agli uomini di portare abiti e renderli santi con il loro giusto comportamento.
Moshè rabbenu
La parashà di Tetsavè è la sola parashà a partire da quella di Shemot dove il nome di Moshè non viene menzionato. Perché in questa parashà che riguarda le regole dei sacerdoti il suo nome non compare? Il Baal Haturim offre due spiegazioni per tale mancanza. Una prima di questa può essere legata al peccato del vitello d'oro quando Moshè chiede a D-o di togliere il proprio nome dalla Torah se non avesse perdonato il popolo d'Israele. Una seconda è dovuta alla reticenza di Moshè ad accettare la sua missione di liberare il popolo dalla schiavitù d'Egitto. Difatti di fronte ai dubbi di Moshè il Signore gli dice: "Aronne tuo fratello, il Levita, ti aiuterà" (Es.4.12).
E' un'allusione che Aronne dovrà restare "levita" ma a causa delle titubanze di Moshè nell'agire egli diventerà sacerdote. Secondo la tradizione orale Moshè è l'uomo del rigore (din) mentre Aronne è l'uomo della misericordia (hesed). In realtà Moshè non è stato tale per la sua reticenza ad accettare la missione da compiere. Pertanto quando il Signore D-o comanda, anche se può sembrare difficile oppure illogico, l'uomo deve aver fede nella sua Parola ed agire. Moshè avrebbe dovuto accettare senza riserva la missione affidatagli da D-o senza tergiversare e per questa ragione il sacerdozio gli è stato tolto.
Un paragone esplicativo a riguardo si può fare con la parashà di Lech-lechà (Gen. 14.18). Melchisedek re di Salem, che era sacerdote, benedisse Abramo dicendo: "Benedetto tu sia Abramo dal D-o Altissimo . e benedetto sia il D-o Altissimo che ha consegnato nelle tue mani i tuoi nemici" Rashì fa notare l'inversione dei termini nella benedizione, mettendo prima Abramo e poi D-o. Per questa mancanza a Melchisedek venne tolto il sacerdozio e dato in eredità a Israele. F.C.
*
- I capitoli da 25 a 31 dell'Esodo non sono, come abitualmente si pensa, la prima parte della legge di Mosè a cui in seguito si aggiungono altre parti fino ad ottenere un tutto omogeneo. Non c'è omogeneità tra quello che Dio dice a Mosè sul Sinai nei primi quaranta giorni e quaranta notti, in una situazione di pace tra l'Eterno e il popolo, e quello che dice dopo che il patto è stato rovinosamente violato dal popolo. In questo momento Dio dice a Mosè come vuole che sia vissuto il rapporto d'amore tra Lui e il popolo nella casa che sta per essere costruita.
Una vita matrimoniale ben preparata
Dopo aver dato istruzioni su come dovrà essere il mobilio della casa (gli arredi del tabernacolo), il Signore stabilisce regole di comportamento in famiglia (consacrazione dei sacerdoti, ordine nell'esecuzione dei sacrifici). Tutto questo non è un complicato insieme di norme da osservare scrupolosamente al fine di ricevere alla fine un attestato di buona condotta; qui il Signore vuole indicare la via da percorrere per vivere un rapporto d'amore profondo e stabile.
La creatura però ha un unico modo per vivere intimamente un rapporto d'amore con il Creatore: l'adorazione. Qualcuno dirà che non basta, che bisogna aggiungervi l'ubbidienza; questo è vero, ma solo in parte. E' così perché nella nostra fragilità umana, tendenzialmente menzognera, corriamo sempre il rischio di illuderci di star adorando Dio, mentre invece stiamo soltanto facendo quello che più ci piace. Ma alla vera adorazione non c'è nulla da aggiungere, perché chi adora Dio "in spirito e verità" (Giovanni 4:24) è talmente pago di quello che vive da non prendere nemmeno in considerazione l'idea di lasciarsi attrarre da ciò che non è Dio. Le regole stabilite per i sacerdoti e i sacrifici non sono dunque norme "cerimoniali", ma binari lungo i quali deve procedere ed esprimersi quella particolare forma d'amore tra creatura e Creatore che si chiama adorazione.
Attenzioni particolari
Nel preciso momento storico in cui ora si trova Israele, dopo l'uscita dall'Egitto, il rapporto di comunione tra Dio e il popolo, anche dopo la firma del patto, richiede particolari attenzioni. Da una parte, le forme della convivenza devono far risaltare che si tratta di un rapporto d'amore. Quindi, sebbene possa sembrare strano, anche nella severa legge mosaica si parla di "cuore". Dio chiede offerte per la costruzione del tabernacolo da coloro che sono disposti "a fargliele di cuore" (Es. 25:2), come espressione d'amore per Lui. D'altra parte, ad Aaronne Dio chiede di indossare un pettorale con dodici pietre su cui sono incisi i nomi delle dodici tribù d'Israele: "Così Aaronne porterà i nomi dei figli d'Israele incisi nel pettorale del giudizio, sul suo cuore, quando entrerà nel santuario, in ricordo perenne davanti all'Eterno" (Es. 28:29). Con questo si mette in evidenza che il rapporto tra Dio e il Sommo Sacerdote all'interno del santuario esprime l'amore perenne del Signore verso il suo popolo, verso tutte le sue tribù, una per una.
Ma Dio è santo e l'uomo è peccatore, la vicinanza tra i due richiede dunque particolari attenzioni. Si potrebbe pensare a norme igieniche: l'uomo è spiritualmente sporco, quindi prima di presentarsi a Dio deve lavarsi. Si può capire allora che i sacerdoti debbano simbolicamente sottoporsi a pratiche di purificazione prima della consacrazione (Es. 29:4); e che debbano lavarsi mani e piedi nella conca di rame prima di entrare nella tenda di convegno (Es. 30:19-20). Ma i sacrifici di sangue, gli scannamenti di animali, in che modo possono purificare gli uomini e agevolare il loro rapporto con Dio? Ripugna all'uomo laico moderno il pensiero che, per motivi di buon funzionamento sociale, Dio prescriva a Israele di scannare agnelli due volte al dì, uno la mattina e uno la sera. Eppure è così (Es. 29:38-42).
Una questione di vita o di morte
Da tutta la Bibbia emerge sempre, da Adamo in poi, che il rapporto fondamentale tra Dio e l'uomo è una questione di vita o di morte, non di semplice istruzione pedagogica. La creatura non può dire "no" al datore della vita e continuare a vivere. Ma proprio questo è avvenuto all'inizio della storia umana. Il primo uomo, e in lui tutta l'umanità che ne è discesa, ha detto "no" al Creatore, e in questo modo ha contratto con Dio un debito di vita che si può espiare soltanto con la morte.
Nel suo rapporto con Israele, Dio inizia a far capire che per i suoi obiettivi di redenzione Egli può decidere di caricare temporaneamente questo debito su altri. Ma in ogni caso qualcuno deve pagare. Per ora Dio ha deciso di imputare questo debito di vita ad animali innocenti. A questo alludono infatti i sacrifici ordinati ai sacerdoti, con i vari significati a cui si riferiscono. Ma la storia continuerà.
Tuttavia, se si leggono attentamente questi capitoli, si può riconoscere in essi uno stile diverso da quello presente in altre parti del Pentateuco, dal Levitico in poi.
Mancano quei tratti truculenti in cui si vede un Dio infuriato che minaccia giudizi devastanti su un popolo recalcitrante e ribelle. Qui siamo ancora all'interno del patto che Dio ha fatto col popolo perché voleva fare di lui, "fra tutti i popoli", il suo "tesoro particolare" (Es. 19:5). Al popolo dunque Dio ha fatto una vera e propria proposta di matrimonio, e il popolo ha risposto "sì". Il matrimonio è stato celebrato, e adesso si trovano tutti all'interno di questo "sì". Ecco perché i capitoli di questa parashà non sono immediatamente accostabili a quelli che seguono: in questo momento Dio parla e si muove come uno che si aspetti di veder presto compiersi il suo desiderio di vivere in mezzo agli uomini, in un rapporto di comunione con il suo popolo che rientri nei canoni della sua giustizia.
Per questo, anche il sacrificio dell'agnello del mattino e di quello della sera diventa alle sue narici "un sacrificio di soave odore", perché annuncia l'incontro che subito dopo il Signore avrà col suo popolo:"... sarà l'olocausto quotidiano offerto per generazioni all'ingresso della tenda di convegno, davanti all'Eterno, dove io vi incontrerò (yaad, יעד) per parlare con te. Lì incontrerò (yaad) i figli d'Israele e la tenda sarà santificata dalla mia gloria" (Es. 29:42-43).
Dunque è l'incontro che il Signore vuole sottolineare con le sue istruzioni: incontro prima con Mosè, poi con i figli d'Israele. Poco più avanti dice in modo chiaro qual è il vero scopo di tutto il suo agire e ordinare:
"Abiterò (shakan, שכן) in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio. Ed essi conosceranno che io sono l'Eterno, il loro Dio, che li ho fatti uscire dal paese d'Egitto per abitare (shakan) in mezzo a loro. Io sono l'Eterno, il loro Dio" (Es. 29:45-46).
Dio dunque non ha fatto uscire il popolo dall'Egitto per far piovere su di loro un manuale di istruzioni etiche, ma per venire ad abitare in mezzo a loro. L'abitare insieme naturalmente ha le sue regole, ma se uno dei due lascia l'abitazione, chi rimane potrà accontentarsi delle regole? M.C.
"Gli scrittori abbiano il coraggio di parlare di islam". Intervista a Sansal
''Perché gli scrittori tacciono sull'islam? Troppo famosi e ricchi da compromettersi la reputazione"
di Giulio Meotti
ROMA - "La letteratura e le arti non stanno svolgendo un ruolo di primo piano nella lotta contro la barbarie". Quando due giorni fa Boualem Sansal, massimo scrittore algerino vivente, in un'intervista alla France Presse ha attaccato il ceto letterario cui appartiene, reo ai suoi occhi di tacere sull'islam, di parlare sempre d'altro, non aveva letto l'inserto culturale di Repubblica. R2 ha appena lanciato il nuovo romanzo di Pieter Aspe. "Giallista belga da due milioni di copie", Aspe torna con il commissario Van In, "di fronte a dei terroristi che si immolano facendo scoppiare discoteche piene di ragazzi, sgozzano pedofili, sequestrano e uccidono laici brutalmente. Non sono islamici però, ma cattolici fondamentalisti". Sensazionale.
Sansal, "l'Orwell algerino", l'autore del romanzo "2084" (Gallimard) e in precedenza di "Le serment des barbares", invita gli scrittori, gli artisti, gli intellettuali a mobilitarsi contro il pericolo islamista. "Il fondamentalismo islamico è una novità nel campo europeo e già contamina e corrompe i suoi valori, dimostrando come sia estremamente pericoloso", dice Sansal al Foglio. "Spetta agli intellettuali e agli scrittori smontarne i meccanismi e spiegarli alla gente". Ma i letterati tacciono. "Solo una piccola minoranza è impegnata. La paura, le minacce scoraggiano gli altri a mobilitarsi e ad aggiungere la loro voce. E' un peccato. Gli scrittori dovrebbero, con la loro mobilitazione, incoraggiare le persone a resistere contro i predicatori, sostenendo i paesi di origine contro questo fondamentalismo. Vi è una certa urgenza, perché l'Europa è in una posizione di debolezza e di disgregazione, e questo incoraggia i fondamentalisti islamici a raddoppiare i loro sforzi e l'aggressività per tirarla giù completamente. La stampa deve porre le domande, invece è indifferente o complice".
Ma dove sono i romanzi? Dove sono i Le Carré e i Ludlum, i Fleming e i Clancy, i Forsyth? Il numero di quelli che trattano del terrorismo islamico è così basso che non se ne ricorda nemmeno uno. Prendiamo John Le Carré, il maestro delle spy story, l'autore della "Spia che venne dal freddo" e altri bestseller. L'islam radicale non figura mai nei suoi libri, Le Carré preferisce facili nemesi come le case farmaceutiche ("The Constant Gardener"), le multinazionali, i big del petrolio, Israele, i servizi segreti occidentali, Bush e Blair. Nick Cohen, giornalista liberal, sul mensile Standpoint ha accusato Le Carré di "affettazione più deplorevole degli intellettuali occidentali", ovvero "la convinzione che l'occidente è l'unico nemico che valga la pena di combattere". In questo Le Carré è stato maestro di "centinaia, probabilmente migliaia, di scrittori che hanno preso la strada di Le Carré e descritto i mali dell'occidente e la cricca della Cia. Non riesco a sfuggire alla sensazione che essi sono codardi".
"Quando i Clancy, i Forsyth pubblicarono i loro bestseller, l'America e il Regno Unito erano gli amici e i difensori dell'islam, dell'Arabia Saudita, del Qatar", continua lo scrittore algerino Boualem Sansal al Foglio. "Oggi sono troppo famosi e troppo ricchi da voler compromettere la loro reputazione e immagino che abbiano paura di ricevere la fatwa di morte come Salman Rushdie, o che i loro editori li abbiano sconsigliati dall'affrontare questo argomento troppo controverso". Intanto, avverte Sansal, è l'islamismo a prendere sul serio le idee. Lo aveva capito Tahar Djaout, ucciso nel maggio del 1993 dagli islamisti ad Algeri. Il romanzo che aveva appena finito di scrivere poco prima della morte, "L'ultima estate della ragione", parla di un libraio, Boualem Yekker, in una città dominata da fondamentalisti islamici la cui smania per il potere è pari alla loro paura e all'odio per la creatività e la bellezza. I libri forniscono a Boualem un'àncora di salvezza, almeno per un po'. I fondamentalisti islamici vedevano negli scrittori come Djaout, e oggi in Sansal, i messaggeri dell'occidente e della cultura secolare. Per questo uccisero Laadi Flici, scrittore e medico; Abdelkader Alloula, commediografo e ammiratore di Goldoni, o Youcef Sebti, il poeta surrealista.
"Come il nazismo e lo stalinismo"
A gennaio, parlando alla Fondazione Varenne, Sansal ha scioccato il pubblico presente: "La Francia è già sulla strada dell'islamizzazione da parte di un islam importato, arcaico, brutale, settario, infernale e opportunista". "Il sistema islamico, come tutti i sistemi totalitari, afferra l'individuo come si fa in un computer, ne cancella la memoria per fargli il lavaggio del cervello e poi ci iscrive un nuovo software che controlla tutte le funzioni come se ne fosse il direttore spirituale", conclude Sansal nell'intervista al Foglio. "L'esperienza dimostra che è anche molto veloce: si è visto come giovani normali in poche settimane, mesi, si staccano dalle loro comunità, dalle loro famiglie, dai loro amici, per immergersi in un mondo nuovo radicalizzato, diventando un jihadista, un attentatore suicida. Gli intellettuali hanno una grande responsabilità in questa evoluzione, non hanno capito l'ascesa dell'islam radicale e, quando finalmente lo hanno capito, non hanno avuto il coraggio di combatterlo. Hanno fallito nella loro responsabilità storica intellettuale. Essi dovrebbero recuperare oggi, mobilitarsi per agire energicamente. Dovrebbero creare sinergie con gli intellettuali di tutti i paesi, perché l'islam radicale è globale. Nella sua guerra totale contro il mondo moderno, l'islam radicale ha dovuto adattare i suoi metodi all'ambiente, ha approfondito tutti i sistemi totalitari che sono esistiti nel XX secolo: lo stalinismo, il fascismo, il nazismo. L'islam radicale riduce a zero la capacità degli uomini di pensare, di decidere, di inventare. E li uccide nella loro responsabilità, nella loro famiglia, nella loro cultura, ne fa dei meri esecutori".
(Il Foglio, 9 marzo 2017)
Egitto: ergastolo per nove persone accusate di spionaggio a favore di Israele
IL CAIRO - Una corte egiziana ha condannato all'ergastolo sei persone, tre di nazionalità egiziana e sei israeliani, per spionaggio a favore dello Stato ebraico. Lo riferisce il quotidiano "al Youm al Sabea", precisando che la Corte penale di Arish ha messo fine oggi "al grande caso del tradimento" iniziato nel 2013 e nel quale sono coinvolti anche quattro funzionari dell'intelligence militare israeliana. Solo due imputati erano presenti oggi all'udienza del tribunale il cui verdetto è irrevocabile, ma può essere impugnato davanti alla Corte di cassazione entro 60 giorni. Il caso è noto come "Ovadia Network", dal nome del funzionario dell'intelligence israeliana Danny Ovadia, accusato dal Cairo di avere un ruolo importante nella rete di spionaggio.
(Agenzia Nova, 8 marzo 2017)
Gli Usa lavorano "a stretto contatto" con Israele per frenare lespansione degli insediamenti
GERUSALEMME - Il portavoce del dipartimento di Stato Usa, Mark Toner, ha dichiarato ieri, durante la sua prima conferenza stampa, che il dipartimento è impegnato con la Casa Bianca a mettere a punto una nuova politica in Medio Oriente, e che Washington si mantiene in "stretto contatto" con Israele per giungere a un arresto delle politiche di espansione degli insediamenti ebraici in Cisgiordania. La prima domanda rivolta a Toner dai media israeliani ha riguardato i rapporti pubblicati nel mese di gennaio secondo cui l'amministrazione Trump avrebbe ordinato al dipartimento di Stato di riconsiderare, ed eventualmente revocare, lo stanziamento da 220 milioni di dollari destinato all'ultimo minuto dall'amministrazione Obama all'Autorità nazionale palestinese. Il portavoce ha replicato di non essere al corrente di alcuna misura adottata a tal proposito dal dipartimento. In risposta alla domanda sulla politica degli Stati Uniti in materia di insediamenti israeliani in Cisgiordania sotto il presidente Donald Trump, Toner ha ricordato le parole pronunciate dal presidente Usa un paio di settimane fa, durante la visita del premier israeliano Benjamin Netanyahu: in quell'occasione, Trump aveva chiesto a Tel Aviv di "sospendere per un certo periodo" l'espansione degli insediamenti.
(Agenzia Nova, 8 marzo 2017)
Il gasdotto sottomarino Israele-Italia sarà il più lungo del Mediterraneo
Il ministro Steinitz: "A inizio aprile incontro Calenda per far decollare il progetto"
di Roberto Giovannini
Sarebbe uno dei gasdotti sottomarini più lunghi del mondo; per costruirlo ci vorrebbero almeno quattro-cinque anni, costerebbe almeno sei miliardi di euro, e porterebbe circa 12 miliardi di metri cubi di gas naturale israeliano dai pozzi dei giacimenti offshore al largo di Gaza e di Israele - ma anche quello cipriota - verso la Grecia e l'Italia. Del progetto di gasdotto chiamato EastMed è venuto nei giorni scorsi a parlare con le autorità politiche e i possibili partner industriali il ministro israeliano dell'Energia, Yuval Steinitz. Che al termine dei colloqui con Carlo Calenda, responsabile dello Sviluppo economico, con Angelino Alfano, titolare degli Esteri, con l'amministratore delegato di Snam Marco Alverà e con un gruppo di parlamentari a Montecitorio, si è detto particolarmente fiducioso sulla possibilità che nel giro di poco tempo il gasdotto passi dai tavoli dei progettisti alla realtà. «All'inizio di aprile - ha detto il ministro Steinitz - incontrerò in Israele i miei colleghi ministri di Italia (Calenda, ndr), Grecia e Cipro per far decollare il progetto».
Si tratta di un gasdotto che oltre al suo significato economico ne ha uno di tipo geopolitico e strategico. EastMed, che dovrebbe convogliare verso l'Europa le risorse del giacimento offshore Leviathan, dovrebbe essere realizzato da Edison, l'azienda italiana controllata dalla società francese Edf, in collaborazione con la società greca Depa. Il gasdotto riceverebbe anche il gas naturale dei giacimenti offshore a Sud di Cipro, e sbarcherebbe in un primo momento nel Peloponneso, in Grecia, garantendo il fabbisogno energetico ellenico più un potenziale destinato alle esportazioni. Ma Leviathan - di proprietà della società Usa Noble Energy, un fattore che ha sollevato grandi polemiche politiche in Israele, tra le proteste dei partiti di opposizione contrari all'assegnazione a privati di un bene strategico - è molto grande e ricco di gas. Come molto promettenti sono i giacimenti vicini in corso di rilevazione e di perforazione, tutti situati nell'area marittima economica di Israele. Gaza e l'Autorità palestinese non dispongono di una Eez, anche se molti pozzi sono vicini alla costa dell'enclave controllata da Hamas.
Dunque da un lato Israele deve trovare un modo efficiente e relativamente poco costoso per esportare il gas, non facendosi tagliare fuori dal gas egiziano, individuato a suo tempo dall'Eni in quantità eccezionali. Ad esempio, realizzando un altro gasdotto sottomarino, più piccolo, in direzione della Turchia, paese strategicamente fondamentale nell'area e privo di gas o petrolio. Dall'altro, dice Steinitz, «l'Italia e l'Europa hanno interesse a garantirsi un altra fonte di approvvigionamento di gas, a parte quello proveniente dalla Russia o quella in corso di esaurimento dal Mare del Nord. Israele è un partner energetico serio e affidabile».
Di qui l'interesse strategico dei due paesi a realizzare EastMed, prolungandolo però dalla Grecia fino all'Italia. «Realizzare il gasdotto tra Israele e Italia, attraverso Cipro e la Grecia - afferma il ministro israeliano - è uno dei nostri obiettivi, considerati i giacimenti di gas naturale del nostro paese e il fabbisogno che servirà all'Europa e all'Italia in particolare nei prossimi anni. Come ho spiegato ieri al ministro Calenda, il progetto è ambizioso e contiamo di portarlo a termine in 4-5 anni coinvolgendo anche i privati». Steinitz chiede alle aziende italiane del settore - come Snam, ad esempio - di inserirsi nel progetto e nell'attività di trivellazione e sfruttamento dei giacimenti offshore.
Va ricordato che dovrà essere l'Unione Europea a esaminare e dare il via libera al progetto EastMed; sempre Bruxelles dovrà fornire un finanziamento per la fase di sviluppo ingegneristica di un'opera particolarmente ambiziosa. «Con Calenda - puntualizza Steinitz - abbiamo affrontato anche il tema delle relazioni in ambito industriale, tra cui l'uso del gas nei trasporti, e la possibilità per le aziende italiane di entrare in nuovi settori del mercato israeliano e nuove forme di collaborazione anche a livello di start up dei due Paesi. Le possibilità sono molto promettenti».
(La Stampa, 8 marzo 2017)
Lo zoo che salvò gli ebrei
di Andrea Tarquini
La villa nello zoo di Varsavia dove decine di ebrei trovarono rifugio durante la Seconda Guerra Mondiale
A volte uno zoo può diventare luogo della Memoria. Accade a Varsavia, dove recentemente la villa in stile Bauhaus che ospitava il direttore del giardino zoologico, Jan Zabinski, e sua moglie, Antonia Zabinska, e gabbie per animali pregiati sotterranee dello zoo stesso divennero l'ultimo rifugio della salvezza per molti ebrei durante l'occupazione nazista. I coniugi ne salvarono almeno tra cento e trecento, e anni fa furono insigniti dallo Yad Vashem del titolo di Giusti tra le nazioni. Una mostra li ha ricordati, ospitata in quella semplice ma bella villa bianca, la vivace Varsavia borghese ne vantava tante prima dell'aggressione nazista. Antonia prese per prima l'iniziativa: quando vedeva ebrei camminare nello zoo non lontano dalla villa, cantava un'aria di un'operetta di Offenbach. Divenne il suo segnale. Singoli, poi a piccoli gruppi, furono nascosti nei sotterranei. La scultrice ebrea Magdalena Gross ringraziò regalando alla villa belle sculture di animali. Jan e Antonia poi riuscirono a salvarli in tempo. Tinsero loro di biondo i capelli, li aiutarono a fuggire. Se le SS, la Gestapo, l'Ufficio Centrale per la sicurezza del Reich li avessero scoperti, sarebbero andati incontro alla morte più orrenda. Invece sopravvissero alla guerra, sempre schivi e riluttanti a ogni onore. Eroi polacchi, Varsavia e Israele oggi li ricordano. In tempi di solidarietà e coraggio spesso scarsi nel mondo.
(la Repubblica, 8 marzo 2017)
Camicie brune liberal
Linciaggio scampato per il guru conservatore Murray nel college del Vermont. Una brutta storia.
di Giulio Meotti
ROMA - Siamo nel Vermont, riserva indiana socialista (lo stato di Bernie Sanders) e della controcultura progressista. Una associazione studentesca del Middlebury College, gloria dell'umanesimo che esiste dal 1800, aveva invitato a parlare Charles Murray, studioso dell'American Enterprise Institute autore di saggi importanti contro il welfare state, che il New York Times magazine ha definito "The Most Dangerous Conservative". L'ottantenne studioso finirà quasi linciato, nel punto più basso per la libertà accademica e di espressione che si ricordi.
450 laureati del Middlebury College avevano firmato una lettera per protestare contro l'invito rivolto a Charles Murray, l'autore della "Curva a campana", celebre apologia dell'intelligenza come motore della società che gli aveva attirato le accuse di "razzismo". Gli studenti hanno fatto il resto.
Quando Murray è salito sul palco, quattrocento studenti gli hanno rivolto le spalle e scandito slogan come "razzista, sessista, anti gay", coprendolo di insulti. La contestazione è durata venti minuti, fino a quando Murray è stato portato in un'altra stanza, in modo che Allison Stanger, docente di Politica ed Economia, lo potesse intervistare in streaming, Quando Murray e Stanger sono usciti, sono stati attaccati da un gruppo di manifestanti. Lei è stata tirata per i capelli e portata in ospedale, poi manifestanti sono saliti sul tetto dell'auto di Murray, fino a che la polizia non è riuscita a scortarlo via. "Ciò che è accaduto sembrava una scena di 'Homeland"', ha detto Stanger, "piuttosto che una serata in un istituto di istruzione superiore". Le organizzazioni dei diritti civili, come il Southem Poverty Law Center, ci avevano messo del loro, tacciando Murray di "nazionalismo bianco". Non era la prima volta che Murray veniva contestato nei campus.
Due anni fa al college Azusa gli fu impedito di prendere la parola, ma non si arrivò all'aggressione. Fu sufficiente annullare l'incontro. Il presidente del college Middlebury, Lauri e Patton, ha chiesto scusa a Murray, sostenendo che "i college delle arti liberal sono luoghi ideali in cui le differenze vengono messe in mostra". Troppo facile. Perché come racconta il New Yorker, questi college sono in prima linea nel censurare opinioni discordi e nell'annullare proprio quelle "differenze". L'Amherst College ha eliminato il nome di Lord Jeffrey Amherst come mascotte per le sue vedute poco progressiste sugli indiani d'America. Studenti e professori allo Scripps College, una scuola femminile di arti liberal in California, hanno impedito di parlare alla segretaria di stato Madeleine Albright, definita "criminale di guerra".
Eugene Volokh, che scrive sul Washington Post, riferendosi al caso Middlebury parla di "camicie brune". Lo stesso Murray, in un post sul sito dell'American Enterprise Institute, parla di "teppisti intellettuali che prenderanno il controllo dei campus", aggiungendo:
"Quando la maggioranza degli studenti ha paura di parlare perché sanno che una minoranza si accanirà su di loro non è più una città universitaria intellettualmente libera. Sono pessimista. Quello che è successo lo scorso giovedì ha il potenziale per essere un disastro per l'istruzione americana".
(Il Foglio, 8 marzo 2017)
BDS e LGBT
due lobby simili nei metodi
due movimenti simili negli obiettivi
Israele è il terzo miglior paese al mondo per crescere i figli
Se avete intenzione di trasferirvi per andare a vivere all'estero, questa classifica potrebbe esservi utile. Israele è uno dei migliori paesi al mondo per creare una famiglia e crescere dei figli.
Internations, la più grande rete al mondo di persone che vivono e lavorano all'estero come espatriati, ha valutato Israele al terzo posto su una lista di 19 migliori paesi per crescere una famiglia.
Al primo posto compare la Finlandia ed al secondo la Repubblica Ceca.
Appena dietro Israele, al quarto e al quinto, compaiono rispettivamente Austria e Svezia. Gli altri paesi, in ordine decrescente, sono stati: Norvegia, Australia, Taiwan, Belgio, Germania, Francia, Polonia, Paesi Bassi, Lussemburgo, Sud Africa, Singapore, Filippine, Messico e Corea del Sud. Il Regno Unito e gli Stati Uniti non erano sulla lista.
L'indagine ha valutato 43 diversi aspetti della vita all'estero su una scala da 1 a 7. Uno dei sottoindici è il Family Life Index, un indice che valuta la vita familiare classificando i paesi in base ai loro risultati in queste sotto categorie:
Disponibilità di assistenza all'infanzia e all'educazione;
Costi di assistenza all'infanzia e all'educazione;
Qualità dell'istruzione;
Benessere familiare, così come le opzioni per l'infanzia e l'istruzione.
Quest'anno, è stata aggiunta una ulteriore domanda per quanto riguarda le attività per il tempo libero per i bambini.
Israele è salita di un posto rispetto all'indagine dello scorso anno. Secondo il sondaggio, l'81% dei genitori espatriati si sono dichiarati "felici per le opzioni che Israele offre per l'infanzia" con un impressionante 84% che ha dichiarato "soddisfazione generale". Secondo l'Ufficio centrale di statistica israeliano, nel 2016, ci sono state circa 1,96 milioni di famiglie in Israele nel 2014, rispetto all'1,65 milioni del 2005. La dimensione media di una famiglia di Israele nel 2014 è stato di 3,7 persone.
(SiliconWadi, 8 marzo 2017)
Haaretz: Abu Mazen non è il partner ideale di Israele o Egitto
GERUSALEMME - Nelle ultime settimane sono aumentate le tensioni nel più grande campo profughi palestinese in Libano, quello di Ein el Hilweh a Sidone, e la causa immediata dell'escalation ancora non è chiara: secondo l'analisi del quotidiano israeliano "Haaretz", che passa in rassegna i canali d'influenza dell'Autorità palestinese, vi sono 20 diverse fazioni che operano nel campo, le più importanti affiliate a Fatah, Hamas e la Jihad islamica. La sicurezza dell'area è affidata a un Comitato congiunto di tutte le fazioni, sotto il comando di Munir al Maqdah, vicecomandante delle forze di sicurezza nazionali palestinesi in Libano. Al Maqdah è fedele al presidente dell'Autorità palestinese, Mahmoud Abbas, e riceve 250 mila dollari al mese per assicurare l'attività di Fatah nel Consiglio delle forze di sicurezza nazionali. Ai primi di gennaio, tuttavia, l'Anp ha deciso di sospendere gli stanziamenti, sulla scia delle critiche all'operato di al Maqdah, una decisione che lo ha portato ad annunciare il ritiro di Fatah dal Comitato di sicurezza congiunto. La decisione di Abbas di congelare gli aiuti sarebbe stata presa a causa del fallimento di al Maqdah di soffocare l'attività dei sostenitori dell'ex leader di Fatah, Mohammed Dahlan, rivale di Abbas, nel campo profughi.
Il conflitto tra Dahlan e Abbas non è una novità, scrive "Haaretz", e sta precipitando in una guerra di successione in cui sono coinvolti con varie parti l'Egitto, l'Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e la Giordania. Secondo l'analisi, l'Egitto e Israele non considerano Abbas un partner. Tuttavia, mentre Israele dichiara specificamente che Abbas non è un partner ufficiale per un processo di pace, l'Egitto non lo ritiene capace di realizzare le proprie aspirazioni politiche in Palestina. Secondo l'analisi, in una situazione in cui Abbas e il primo ministro d'Israele Benjamin Netanyahu non dialogano e con l'amministrazione Trump che non mostra alcuna disponibilità a mettersi in gioco in Medio Oriente, l'Egitto vuole almeno trarre qualche beneficio da Gaza, dove Il Cairo ha influenza grazie alla sua capacità di rafforzare o indebolire Hamas attraverso il controllo del valico di Rafah.
(Agenzia Nova, 7 marzo 2017)
Il livello delle acque del Mar di Galilea più basso da 100 anni
20 centimetri sotto livello accettabile per siccità regionale
Da cento anni il livello delle acque del Mar di Galilea non è mai stato così basso.
L'allarme è stato lanciato da Amir Givati dell'Autorità delle acque israeliane, secondo cui "la situazione è seria. Il lago ha il più basso livello del secolo". La più grande riserva naturale di acqua di Israele è 20 centimetri al di sotto di quello che gli esperti considerano accettabile ed è stata superata "una linea rossa".
La causa prima è la mancanza di piogge che rende sempre più grave la situazione. "La siccità regionale - ha spiegato Givati - ha effetti sull'intero Medio Oriente".
(ANSAmed, 8 marzo 2017)
Le mappe sulla presenza ebraica in Europa oggi e prima del nazismo
L'uso delle mappe all'epoca dei media digitali è senz'altro aumentato. I vantaggi sono l'immediata fruizione e rappresentazione di una notizia, in alcuni casi anche la maggiore chiarezza.
Uno degli esempi più evidenti la vediamo nelle mappe che illustrano la presenza di una popolazione o di una etnia. E' il caso di quelle, create dal Memoriale americano dell'Olocausto e riprese da Vividmaps, sugli ebrei in Europa.
In particolare si tratta della differenza tra la presenza prima del nazismo, nel 1933, e il 2015. 82 anni in cui vi è stato l'Olocausto e poi la creazione dello Stato di Israele, che ha attirato l'immigrazione di ebrei di tutto il mondo.
Le differenze sono enormi come possiamo vedere. Con interessanti eccezioni c'è stato lo sradicamento di quella che era una comunità enorme. Soprattutto nell'Est Europa.
Ma il nazismo è stato il principale ma non l'unico motivo di questa desertificazione.
Mappe dell'ebraismo in Europa. La Francia unica eccezione
Quella che colpisce di più è la situazione polacca. Da 3 milioni di ebrei nel 1933 si è passato a 3200. Una estinzione che si è consumata nei campi di concentramento in cui quasi senza eccezioni sono finiti tutti gli israeliti del Paese. In nessuno Stato è accaduto qualcosa di simile. Subito dopo vi è la Russia. Nell'allora URSS vi erano 2.525.000 ebrei, ora sono in Russia 183 mila.
Qui non è stato solo il nazismo a provocare questo crollo, ma anche la massiccia emigrazione in Israele dopo il 1990. Circa un milione di persone fecero infatti l'Aliya, e ora nello Stato Ebraico costituiscono una comunità molto influente.
Lo stesso è accaduto per gli ebrei provenienti dall'Ucraina.
Decimazioni comunque anche in Romania, da 980 mila a 9300. In Germania naturalmente, da 565 mila a 117500. Qui negli ultimi anni comunque la comunità ebraica è aumentata e si è rivitalizzata.
Non come in Francia, dove è cresciuta e di molto rispetto agli anni '30. Da 225 mila a 467 mila. La metà rispetto ad alcuni decenni fa comunque, a causa dell'emigrazione in Israele in seguito alla percezione di un certo antisemitismo nel Paese.
L'aumento era comunque avvenuto negli anni '60 con l'arrivo di molti ebrei dalle ex colonie di Marocco, Algeria e Tunisia.
Quasi invariata la presenza di ebrei nel Regno Unito, vicina a 300 mila.
In Italia si è passati da 48 mila a 27 mila. I morti nell'Olocausto furono relativamente pochi, ma l'emigrazione in Israele ha influito. Al contrario dell'Ungheria, in cui oggi vi è solo il 10% degli ebrei di allora, e qui ancora una volta c'entra Adolf Hitler.
(Easy News, 7 marzo 2017)
Biella - Ritiratata la concessione della sala scolastica per la proiezione di "Israele il cancro"
Dal Vicepresidente UDAI, Alessandro Bertoldi, riceviamo la seguente comunicazione:
Carissimi Amici,
a seguito del mio, nostro, comunicato sulla proiezione di "Israele il cancro" in una scuola di Biella, oggi, dopo avermi chiamato, la Presidenza della Provincia di Biella ha emesso il comunicato che trovate qui di seguito, revocando la sala già concessa per la proiezione della Commizzoli.
Ci tenevo a condividere con voi questo nostro, piccolo, ma grande successo contro l'ennesimo orribile attacco ingiustificabile a Israele. Speriamo segua anche la presa di distanze dell'ANPI che aveva patrocinato l'evento.
A seguire il comunicato della Provincia.
Alessandro Bertoldi
Comunicato Stampa del 7 marzo 2017
A seguito della richiesta di utilizzo di locali all'interno degli istituti scolastici, ricevuta dall'ANPI Valle Elvo, e relativa alla proiezione di un documentario, che notoriamente rappresenta avvenimenti e fatti in modo oggettivo, gli Uffici Provinciali hanno provveduto al rilascio della concessione, come di prassi, per le aule scolastiche a disposizione dell'Ente proprietario al di fuori delle ore curricolari.
Solo dagli organi di stampa si è potuto aver modo di prendere conoscenza della proiezione di un film in luogo del documentario enunciato. Caratteristica del film è quella di narrare fatti e avvenimenti interpretati secondo il pensiero del regista, a differenza di un documentario che, invece, rappresenta una testimonianza a scopo informativo o istruttivo di luoghi o avvenimenti, senza aggiunta di elementi interpretativi. La presa visione della locandina, recuperata in rete, e mai trasmessa dal richiedente, che riporta quale titolo "israele, IL CANCRO" fa presumere, considerato l'accostamento dei due termini, una rappresentazione dei fatti assolutamente di parte e non oggettiva.
"Gli Istituti Scolastici - ha affermato il Presidente - non sono il luogo deputato ad ospitare eventi che possano rappresentare un pensiero di parte su argomenti di rilievo politico, che vanno affrontati in altre sedi, purché sia garantita la presentazione dei fatti e/o avvenimenti in modo oggettivo e super partes. Ho dunque ritenuto opportuno, oltreché corretto, revocare la concessione di utilizzo dell'aula scolastica concessa dal Responsabile".
E' una notizia che riportiamo con grande piacere e ringraziamo il Vicepresidente UDAI, Alessandro Bertoldi, di avercela tempestivamente comunicata.
(Notizie su Israele, 7 marzo 2017)
WBC: Israele sorprende ancora, con potenza sconfigge anche Taiwan!!
Arriva la seconda vittoria del team israeliano in questo WBC e quindi a sorpresa nel POOL A di Seul per ora sono al comando e con quasi certa qualificazione al secondo turno.
Dopo la vittoria di ieri, con punteggio basso e in equilibrio, oggi hanno dominato nel successo contro Taiwan (Chinese Taipei), sconfiggendoli per 15-7, con attacco molto prolifico e reparto dei lanciatori taiwanesi che ha sofferto parecchio, fin dal 1o inning. Di fatto già nella prima ripresa mettono subito in chiaro la loro forza, mettendo a referto un big-inning da quattro punti, colpendo duramente lo starter taiwanese, Chun-Lin Kuo, che non termina neanche la ripresa in questione, con l'ingresso di Kuan-Yu Chen.
Il fuori campo del catcher Ryan Lavarnway da due punti fissa il punteggio sul 6-0 al 3o inn. e i primi punti della nazionale taiwanese arrivano nella parte bassa del 6oinn., che segnano tre punti.
Ma nella ripresa seguente i battitori israeliani riescono a creare altro big-inning segnando ben cinque punti, complice anche errore difensivo degli avversari e parziale che va sull'11-3.
Gli ospiti allungano ancora nel punteggio, con un altro punto siglato all'8o inn. e nella parte alta del 9o arriva anche il 3-run shot di Nate Frieman, che porta i suoi al massimo vantaggio di 15-3.
Nella parte bassa i taiwanesi non ci stanno e con caparbietà riescono a segnare ben quattro punti, fissando così il finale sul 15-7 e arriva così altro storico successo israeliano, dominando molto in attacco mettendo a segno ben venti valide e risultando anche efficace dal monte di lancio.
(Baseballmania, 7 marzo 2017)
Scontro Raggi-Comunità Ebraica. "Stop alle iniziative contro Israele!"
Infuriano le polemiche per le proiezioni anti Israele previste nel cinema romano a gestione
La giunta di Virginia Raggi e la Comunità Ebraica sono di nuovo ai ferri corti. Dopo le accese polemiche e il conseguente annullamento del convegno antisionista previsto in Campidoglio qualche giorno fa, ecco arrivare un'altra controversia a riaprire la voragine che divide l'amministrazione Raggi dagli Ebrei romani.
La questione è sempre la stessa: le iniziative della settimana dedicata "all'Apartheid Israeliana" giunta alla tredicesima edizione, organizzata in tutto il mondo e quest'anno in programma a Roma. A capo della rassegna di eventi in programma, il movimento BDS (Boicotta, Dinsivesti, Sanziona), fautore di una lotta senza quartiere a Israele in chiave pro-palestinese, favorendo per l'appunto azioni di boicottaggio, blocco d'investimenti e sanzioni contro lo Stato ebraico.
Nell'ambito della Settimana in questione, per il 14 e 15 marzo prossimi venturi sono previste alcune proiezioni cinematografiche promosse dal BDS, al Nuovo Cinema Aquila, nel V Municipio presieduto dal grillino Giovanni Boccuzzi.
Il Pd, per mano del consigliere municipale Alessandro Rosi, si è già espresso qualche giorno fa al riguardo con un comunicato: «Consideriamo questa manifestazione unilaterale e chiediamo pertanto al presidente Boccuzzi di voler ritirare la concessione di utilizzo del Nuovo Cinema Aquila perche' contraria, tra l'altro (come affermato dallo stesso presidente dell'Assemblea capitolina, Marcello De Vito) allo spirito dell'articolo 1 dello Statuto del Comune di Roma"». E il Gruppo Consiliare del Partito Democratico ha presentato una mozione urgente chiedendo al Municipio, V che gestisce temporaneamente il cinema Aquila, di revocare la programmazione del 14 e 15 marzo dedicata al boicottaggio di Israele, ricordando che lo stesso Presidente Mattarella l'ha giudicato inammissibile.
Nella mozione, che verrà discussa venerdì in sede di Municipio V, viene chiamato in causa il presidente dell'assemblea capitolina Marcello De Vito, che al momento delle polemiche sul convegno definì tali manifestazioni contrarie all'Art. 1 di Roma Capitale, mentre l'ex vicesindaco Daniele Frongia, ora Assessore allo Sport, chiamato ad argomentare sui suoi legami con il movimento BDS, aveva preferito trincerarsi nel silenzio così come la sindaca Raggi che, guarda un po', il 14 e 15 marzo sarà impegnata nel suo tour americano e quindi lontana da Roma e dalle polemiche.
Gli ebrei romani sono quindi di nuovo sul piede di guerra, spalleggiati dal Pd, e insieme sono determinati a fermare le due giornate antisioniste. Cosa deciderà la giunta capitolina questa volta? Dopo le varie diatribe con gli Ebrei avvenute nell'Ottavo Municipio, da cui provengono Daniele Frongia e Salvatore Romeo e presieduto da quel Paolo Pace vicino alla Raggi che rischia di essere sfiduciato perfino dai suoi stessi consiglieri, e la bufera scatenata dalla programmazione di un convegno anti Israele in Campidoglio poi scongiurato, si prospettano ennesime giornate di fuoco per l'amministrazione pentastellata.
E con la sindaca impegnata Oltreoceano, potrebbe scoppiare un incendio difficilissimo da domare.
(Affaritaliani.it, 7 marzo 2017)
Il 7 marzo 1572 e gli "stimati più acconci alla dimora della Nazione Ebrea"
di Maura Martellucci e Roberto Cresti
SIENA - Il 7 marzo 1572 la commissione incaricata dal collegio di Balia di scegliere in Siena i luoghi "stimati più acconci alla dimora della Nazione Ebrea" termina il suo lavoro e individua alcune strade adatte per formare il ghetto: si trattava del Fondaco di Sant'Antonio in Fontebranda, di un'area vicino a via di Calzoleria e delle Donzelle, di una parte di via Salicotto e della zona detta "ristretto di San Martino", che peraltro era già abitata da famiglie ebree.
Alla fine, quest'ultima fu giudicata ideale per ospitare il ghetto. Il 15 marzo 1572 il Governatore, in una lettera al Granduca, si diceva d'accordo: il luogo prescelto è "molto comodo e vicino alla Piazza pubblica, c'è in mezzo una piazza, commodità d'acque, da fare botteghe e con poco tempo altri comodi"; insomma era "quasi per ciò accomodato". Le case, poi, possono essere affittate agli ebrei, dato che prima "le più" erano date "a meretrici o persone di bassa mano". Anche a Siena, dunque, si sceglie di costruire il ghetto in una zona centrale ma malfamata al fine di risanarla e viene demandato agli stessi ebrei il compito di provvedere alle opere necessarie alla recinzione dell'area che era compresa tra la Via di Salicotto e la Via di San Martino, con il Vicolo delle Scotte, del Luparello, del Rialto. Il ghetto vene definitivamente aperto solo nel 1859.
(Siena News, 7 marzo 2017)
"A Biella 'Israele. Il cancro' con patrocinio ANPI, un fatto inaccettabile e vergognoso"
A seguire una nota di Alessandro Bertoldi, Vicepresidente nazionale di UDAI - Unione di Associazioni pro Israele, con la quale viene presa posizione sulla proiezione in un Istituto scolastico, patrocinata dalla Sezione ANPI di Biella, della pellicola: "Israele. Il cancro".
"Israele. Il cancro, è questo il vergognoso titolo del documentario girato nel 2014 da un'attivista filopalestinese e in procinto di essere presentato a Biella il prossimo 10 marzo, ma fatto ancor più grave: la presentazione della vergognosa pellicola di propaganda antisemita si terrà in una scuola e riporta, come da locandina allegata, il patrocinio della sezione locale dell'Associazione nazionale partigiani italiani.
Il filmato, dal titolo agghiacciante e vergognoso, palesemente antisemita ed istigatore all'odio, è stato girato a Gaza nell'estate del 2014 durante l'inizio dell'operazione militare israeliana «Margine Protettivo», avviata per indebolire il terrorismo palestinese e difendere Israele dai frequenti attacchi, è uno strumento criminale di propaganda dell'odio contro Israele e gli ebrei. Filmato nei confronti del quale le istituzioni repubblicane dovrebbero esprimere i più forti sentimenti di condanna senza indugio alcuno invece che consentirne la diffusione.
Esprimo i più severi sentimenti di sdegno e condanna per quanto sta per accadere a Biella e auspico si levi un coro tra i rappresentati politici ed istituzionali locali contro questa iniziativa che istiga l'odio contro un Paese ed un Popolo.
Nel corso delle presentazioni che si sono tenute in passato la stessa attivista, che nel 2016 è stata fermata in Israele nel corso di una manifestazione, quindi arrestata e infine espulsa dal Paese, ha parlato dell'operazione militare come un'autentica «occupazione nazista israeliana della Palestina», parole violente che vanno oltre la faziosità e che accusano il popolo ebraico di essere come i carnefici di cui sono stati vittime appena 70 anni fa.
Ciò che troviamo ingiustificabile è come una scuola e l'Anpi possano ospitare e patrocinare l'evento, specie non potendo non sapere che la notorietà dell'attivista filo-terrorista deriva dall'immagine diffusa l'anno scorso dalla stessa che la ritraeva davanti a un forno mentre inneggiava con un gesto alla morte dei tre soldati israeliani rapiti in quei giorni a Gaza.
Tutto quanto sta per accadere a Biella è già accaduto l'anno scorso a Recanati ed è inaccettabile, ingiustificabile e pericoloso. Sono necessari imminenti chiarimenti e le più rapide scuse ufficiali dell'Istituto scolastico nei confronti dello Stato d'Israele. Non possiamo accettare che fatti come questo avvengano nel nostro Paese ed in particolare in luoghi sacri per la formazione dei futuri cittadini italiani, come le scuole.
Chiediamo con forza all'Amministrazione comunale e alle istituzioni coinvolte, come al direttivo nazionale ANPI, che prendano le distanze da quel filmato e riconoscano il gravissimo errore cercando di porvi rimedio, infine che la Questura e la Procura della Repubblica competenti intervengano quanto prima d'ufficio aprendo un fascicolo per verificare, se come crediamo, si sono verificati i reati di istigazione all'odio razziale e di vilipendio di Stato estero."
(NewsBiella, 7 marzo 2017)
La Russia assisterà Israele nella sorveglianza dei suoi confini settentrionali
MOSCA - Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, discuterà nel corso della sua prossima visita ufficiale in Russia di un rafforzamento della cooperazione tra Mosca e Tel Aviv nel contesto della crisi siriana. Tel Aviv chiederà la condivisione delle informazioni relative ai movimenti di Hezbollah e delle forze regolari siriane in prossimità dei suoi confini settentrionali. Secondo quanto riferito da una fonte informata al quotidiano "Izvestija", durante la visita di Netanyahu verranno discusse anche forme di interazione tra militari russi ed israeliani nelle aree adiacenti al confine tra Siria e Israele. "La parte israeliana desidera avere un maggiore accesso alle aree di proprio interesse, ed effettuarvi liberamente operazioni di monitoraggio", ha dichiarato ad "Izvestija" una fonte diplomatica-militare russa. A giorni è prevista la visita del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a Mosca, volta a discutere con la leadership russa della situazione in Siria e della crescente cooperazione tra Damasco e Teheran.
(Agenzia Nova, 6 marzo 2017)
Ambasciata Usa a Gerusalemme: "Entro maggio l'annuncio di Trump"
Il deputato repubblicano Ron DeSantis ha assicurato che "il presidente manterrà la parola"
di Francesco Volpi
Ron DeSantis
Accelerata degli Stati Uniti verso lo spostamento dell'ambasciata americana in Israele, da Tel Aviv a Gerusalemme. Entro maggio, ha detto il parlamentare repubblicano Ron DeSantis al sito ultraconservatore "Breibart News", l'annuncio arriverà direttamente da Donald Trump.
DeSantis - che insieme alla delegazione ha incontrato il premier Benjamin Netanyahu e deputati israeliani - ha anche indicato come possibile sede della nuova rappresentanza diplomatica la struttura del compound del Consolato Usa a Gerusalemme che si trova ad Arnona nella parte sud della città all'interno della zona ebraica delimitata dalla linea armistiziale del 1949, ma ad un passo del quartiere palestinese di Jabel Mukaber. Un edificio in potenza "già pronto all'uso" e dotato di maggiore sicurezza rispetto all'ambasciata di Tel Aviv, ha spiegato DeSantis.
L'indicazione di maggio come scadenza del possibile trasferimento non sembra casuale: in quella data si celebreranno in Israele i 50 di Gerusalemme capitale riunificata dello stato ebraico dopo la Guerra dei 6 giorni del 1967. Lo spostamento dell'ambasciata americana da Tel Aviv, previsto da una legge del 1995, è stato finora rallentato dai presidenti Usa, Barack Obama compreso. La deroga a questa legge scade però proprio a maggio. "Molta gente - ha dichiarato il parlamentare repubblicano a Breitbart - ha pensato che la cosa si sarebbe fatta in un giorno solo. E quando non è avvenuto, la stessa gente ha detto. 'Bene (Trump) non lo farà. Non manterrà la sua parola'". Ma DeSantis ha subito aggiunto che "Trump ha dato prova di essere un uomo di parola" e che pertanto "non firmerà la deroga per l'ambasciata stessa", come fatto da Obama. "Del resto - ha proseguito DeSantis - abbiamo già il nostro ambasciatore, David Friedman, sul posto. Così io penso che questo è quello che succederà".
Il parlamentare del Likud (il partito di Netanyahu) Yehuda Glick che ha incontrato la delegazione Usa capitanata da DeSantis ha fatto appello affinchè la promessa fatta in campagna elettorale da Trump sia mantenuta. "E' tempo - ha sottolineato - che il presidente rispetti l'impegno e la legge approvata dal Congresso nel 1995". La reazione palestinese non si è fatta attendere. Ziad Khalil Abu Zayyad, portavoce di Fatah, partito del presidente Abu Mazen ha ammonito la delegazione Usa sulla necessità "di comprendere che spostare l'ambasciata Usa a Gerusalemme non solo farà esplodere la situazione in Palestina ma l'intera regione". Una reazione giunta poche ore prima che il premier Netanyahu chiedesse, e ottenesse, la cancellazione a Jatt, villaggio arabo-israeliano a nord di Tel Aviv, dei cartelli stradali che indicavano "via Arafat". "Non possiamo permettere che nello Stato d'Israele - ha motivato durante il consiglio dei ministri - siano dedicate strade in ricordo di uccisori di israeliani o di ebrei".
(In Terris, 6 marzo 2017)
La tragedia del BDS: dilaga la disoccupazione fra i palestinesi
Sul volto di Haytam lo sconcerto è evidente. Si capisce benissimo che sta cercando di metabolizzare ciò che ha appena appreso. Per Haytam l'occupazione è tutto: gli consente di vivere e di sostenere i suoi bambini. Senza di esso, non riesce ad immaginare che ne sarebbe della sua famiglia. Haytam è palestinese, e gli sono stati appena comunicati gli sforzi profusi per sabotare fino alla chiusura la fabbrica in cui lavora, situata nella cittadina israeliana di Ariel.
A minacciare di chiusura questa azienda non sono i proprietari. Ne' tantomeno le autorità. L'incitamento in tal senso giunge dagli Stati Uniti, dove da una diecina d'anni in alcuni università studenti e docenti antiisraeliani fanno pressione affinché sia sospesa la collaborazione con gli atenei israeliani. Dicono che lo fanno per assecondare le richieste della società palestinese. Mentre lo rivelo ad Haytam, scorgo dallo sgomento nei suoi occhi che la rivendicazione è grottesca....
(Il Borghesino, 6 marzo 2017)
Il ministro israeliano Steinitz al CeraWeek di Houston
GERUSALEMME - Il ministro dell'Energia israeliano, Yuval Steinitz, parteciperà al CeraWeek, forum internazionale che a partire da oggi riunirà a Houston (Stati Uniti) esponenti a vario titolo del settore dell'energia, oltre a funzionari governativi, sviluppatori di tecnologia e finanziatori. Steinitz prenderà parte al panel "Breakfast and Strategic Dialogues", previsto il prossimo 8 marzo. Nel corso della sua permanenza negli Usa, il ministro dell'Energia israeliano incontrerà gli omologhi di Regno Unito e Canada, secondo quanto riferisce il sito "lphinfo.com". Sono previsti, inoltre, colloqui con i rappresentanti delle grandi compagnie energetiche presenti all'evento. Il ministro parlerà del mercato energetico israeliano ed il potenziale per gli investimenti nel settore. Steinitz è giunto negli Usa dopo essersi recato a Roma, dove la scorsa settimana ha incontrato il ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, ed il ministro degli Esteri, Angelino Alfano. In Italia potrebbe giungere il gas israeliano del bacino del Levante, attraverso la costruzione del gasdotto East-med che dovrebbe attraversare Cipro e la Grecia. A gennaio si è svolta una riunione a Bruxelles tra funzionari di Israele, Italia, Cipro e Grecia per discutere del progetto East-med. Tra i progetti di Gerusalemme, vi sarebbe la costruzione entro il 2020 di un gasdotto verso la Turchia.
(Agenzia Nova, 6 marzo 2017)
*
Con Israele intesa sul metano per l'a.d. della Snam
Alverà incontra il ministro israeliano Steinitz. Tra i temi anche gli sviluppi del gasdotto Tap
Il ministro dell'Energia, delle Infrastrutture nazionali e delle risorse idriche dello Stato d'Israele, Yuval Steinitz, ha avuto un colloquio con l'amministratore delegato di Snam, Marco Alverà.
Durante l'incontro, fissato nell'ambito degli incontri istituzionali tenuti dal ministro israeliano a Roma, sono stati discussi i possibili scenari di sviluppo in ambito energetico e, in particolare, nel settore delle infrastrutture gas.
Attraverso la quota del 20% detenuta nel gasdotto Tap, Snam è impegnata nello sviluppo di nuove rotte di approvvigionamento con un focus particolare sul Corridoio Sud, destinato a trasportare verso la Penisola e il continente europeo i flussi provenienti dall'Azerbaigian a partire dal 2020 e in futuro potenzialmente anche altri quantitativi di gas dai bacini dell'area mediorientale.
Steinitz e Alverà si sono dati appuntamento per un nuovo meeting che si terrà prossimamente a Tel Aviv.
(gazette, 6 marzo 2017)
Ma a che serve Israele?
Questo testo è stato presentato come premessa per una conferenza avente come titolo Dio abiterà con gli uomini. Non pretende di essere unesposizione esauriente del posto di Israele nel piano di redenzione biblico; non è la soluzione del problema Israele, ma vuol essere un tentativo di rendere più biblico il modo stesso di porsi il problema.
di Marcello Cicchese
Dopo aver predicato in una chiesa evangelica, durante il pranzo comunitario, mentre stavamo a tavola piacevolmente conversando, un fratello mi rivolse a bruciapelo questa domanda: "Ma perché Dio ha voluto scegliersi un popolo particolare?" Restai un po' pensieroso, e alla fine rinviai la risposta. Non sapevo da che parte cominciare e, soprattutto, non sapevo quando avrei potuto finire. Gli argomenti non mi mancavano, solo che sarebbe stato necessario partire un po' da lontano, almeno dal capitolo 12 della Genesi, e non fermarsi prima di essere arrivati al capitolo 22 dell'Apocalisse.
Ci pensai spesso in seguito. Il fratello, in fondo, aveva posto in modo chiaro e diretto una domanda che probabilmente molti altri non osavano fare neppure a se stessi.
E' normale che in certi ambienti evangelici qualcuno si ponga questa semplice domanda, perché chi si avvicina alla comunità riceve un messaggio più o meno come questo: tu sei un peccatore come me e come tutti gli uomini; se muori in questo stato, sei dannato e vai a stare eternamente insieme al Diavolo; se invece ti ravvedi e credi in Gesù come tuo personale Salvatore, sei salvato e vai a stare eternamente insieme a Dio; se accetti il messaggio della salvezza e ti converti, fino a che resti sulla terra dovrai cercare di comportarti bene e annunciare anche ad altri la possibilità di essere salvato.
Che ad un incredulo, all'inizio del suo interessamento, arrivi un messaggio come questo, può andare bene, perché corrisponde effettivamente a ciò che la Bibbia dice. I problemi sorgono quando l'insegnamento con il tempo rimane sostanzialmente questo, allargandosi soltanto di poco rispetto al nocciolo iniziale.
Ed ecco allora la semplice domanda che qualcuno può porre: ma che c'entra Israele in tutto questo? Se la venuta di Gesù in terra, la sua morte e la sua risurrezione, servono soltanto a dare a me e a te e a tutti gli altri che credono la possibilità di scampare dalle fiamme dell'inferno, che bisogno c'era di far intervenire quel "popolo di collo duro" che ha dato un sacco di problemi a Dio e agli uomini, con tutte quelle ribellioni, quelle guerre, quelle carneficine che per secoli hanno punteggiato la sua storia? Perché non far cominciare tutto con la notte di Natale, così dolce, così poetica? Perché non attenersi al cosiddetto "Simbolo Apostolico" che dovrebbe tenere uniti tutti i cristiani: "Credo in Dio, Padre onnipotente ... e in Gesù Cristo, suo unico Figlio, il quale fu concepito di Spirito Santo, nacque da Maria Vergine, ecc." Qui non c'è nessun popolo. E se una volta c'era, sarebbe meglio scordarselo.
Paganesimo religioso
L'essenziale di ogni religione pagana può essere riassunto così. Gli uomini vivono sulla terra sotto lo sguardo indagatore della divinità. Se si comportano bene, ricevono aiuto e sostegno durante la vita terrena e alla fine, se superano l'esame, sono accolti nel cielo dalla divinità. Se invece si comportano male, ricevono castighi e correzioni durante la vita terrena e alla fine, se non superano l'esame, sono gettati nell'inferno a far compagnia al diavolo.
La predicazione evangelica certamente si differenzia da questo schema, ma in che cosa? Quando si tratta di religioni che non siano quella cristiana o quella ebraica, la differenza è posta innanzitutto nella divinità: si tratta di un altro dio, cioè di un idolo. Quando invece si ha a che fare con ebrei o sedicenti cristiani, la differenza che si sottolinea è soprattutto quella tra opere e grazia. Non si può essere salvati osservando rigorosamente una qualche legge, sia essa mosaica o cristiana, ma soltanto per grazia mediante la fede in Gesù Cristo, "che è stato dato per le nostre offese, ed è risuscitato per la nostra giustificazione" (Romani 4:25).
Tutto questo è vero, ma è tutto qui? Se così fosse, la domanda di partenza rimarrebbe: "Ma a che serve Israele?"
Sentirsi spinti a fare questa domanda, anche in forma più "teologica", non significa soltanto avere idee poco chiare su una dottrina specialistica e non fondamentale del patrimonio di conoscenze di un cristiano; significa non aver capito qualcosa di essenziale della natura e dell'opera di quel Dio in cui si dice di credere per la propria salvezza personale. Considerare poco interessante una cosa di cui Dio invece si è sempre interessato e continua appassionatamente ad interessarsi, espone chi fa queste considerazioni alla domanda: ma in quale Dio hai creduto?
Leggendo attentamente la Bibbia, tutta la Bibbia, e non soltanto parti accuratamente selezionate di essa, si potrebbe scoprire che la differenza sostanziale tra messaggio cristiano e religioni pagane non sta nelle condizioni a cui devono sottostare le singole anime per poter salire dalla terra al cielo.
Sono innumerevoli le barzellette sulle anime che dopo la morte lasciano la terra e salgono in cielo, dove trovano un san Pietro che stabilisce, dopo aver accertato che possono entrare, quale dev'essere il posto a loro assegnato. Molti pensano che, a parte l'aspetto burlesco delle nuvolette su cui andranno a stare le anime dei buoni, ci sia in tutto questo un fondo di verità: i buoni lasceranno ad uno ad uno la terra e saliranno in cielo ad abitare eternamente con Dio. La realtà biblica invece è diversa.
Il messaggio della Bibbia
«Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il primo cielo e la prima terra erano passati, e il mare non c'era più. E io, Giovanni, vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, che scendeva dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. E udii una gran voce dal cielo, che diceva: «Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini! Ed egli abiterà con loro; e essi saranno suo popolo e Dio stesso sarà con loro e sarà il loro Dio». (Apocalisse 21:1-3)
Nel Nuovo Testamento la traduzione "tabernacolo" compare soltanto nella lettera agli Ebrei e nell'Apocalisse, perché lì si fa riferimento all'Antico Testamento. In tutti gli altri casi in italiano il termine è tradotto con "tenda", e la sua radice è la stessa del verbo "abitare". Una traduzione più efficace dunque potrebbe essere: «Ecco l'abitazione di Dio con gli uomini! Ed egli abiterà con loro». Nel Nuovo Testamento il verbo greco tradotto con "abitare", che come già detto ha la stessa radice di "tabernacolo", è usato soltanto nell'Apocalisse e una sola volta nel Vangelo di Giovanni:
"La Parola è stata fatta carne e ha abitato per un tempo fra di noi, piena di grazia e di verità" (Giovanni 1:14).
Dio dunque vuole venire ad abitare con gli uomini, e ha manifestato questo suo desiderio per la prima volta al popolo d'Israele, quando sul monte Sinai disse a Mosè di costruirgli un santuario. E non soltanto gli diede l'ordine di costruirlo, ma gli disse anche per quale motivo lo voleva e con quale obiettivo aveva fatto uscire il popolo dal paese d'Egitto:
«Abiterò in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio. Essi conosceranno che io sono l'Eterno, il loro Dio, che li ho fatti uscire dal paese d'Egitto per abitare in mezzo a loro. Io sono l'Eterno, il loro Dio» (Esodo 29:45-46).
Si confrontino queste parole con quelle dell'Apocalisse riportate sopra e con la citazione del Vangelo di Giovanni: forse allora le domande su Israele, anche se continueranno ad esserci, non saranno più le stesse di prima.
In poche parole, mentre le religioni pagane presentano un movimento di ascesa di singole anime (scorporate) verso l'abitazione in cielo della divinità, il piano di salvezza biblico presenta un Dio che scende (corporalmente) verso gli uomini per abitare sulla terra in mezzo a loro.
Ma per poter essere in mezzo agli uomini, questi devono formare una società, un popolo.
Il primo popolo in cui questo ha cominciato ad avvenire è il popolo d'Israele.
(Chiamata di Mezzanotte, n. 1/2 2017)
I cessate il fuoco che Netanyahu accettava, Hamas violava e il Controllore di stato non vede
Non è dai giuristi né dal balletto delle accuse reciproche che Israele può apprendere come migliorare la propria difesa
La striscia di Gaza è controllata da un'organizzazione terroristica con una piattaforma antisemita che prevede l'annientamento degli ebrei. La comunità internazionale ha cercato più volte di raggiungere un qualche tipo di accordo con questa organizzazione. Il tentativo più rilevante è stato fatto dal Quartetto Onu, Unione Europea, Stati Uniti e Russia, ma non è servito. Hamas ha sempre rifiutato.
Hamas infatti preferisce l'industria della morte - razzi e tunnel terroristici - rispetto allo sviluppo del benessere. Agisce esattamente come le altre organizzazioni jihadiste internazionali. Tutto ciò che producono è distruzione. Ogni tanto subisce un colpo, accumula nuove energie per oliare gli ingranaggi dell'industria della morte, e trascina Israele in un nuovo round di combattimenti....
(israele.net, 6 marzo 2017)
Dai bhutanesi ai papuani, le "occupazioni" che il mondo ossessionato da Israele ignora
Perché si organizzano "settimane dell'apartheid" soltanto contro Israele? E perché l'Onu non aiuta i profughi (veri) di altri paesi?
dal Jerusalem Post (27 /2)
Ora ho una nuova cosa di cui preoccuparmi: la povera gente di Papua Occidentale. Beh, qualcuno deve pur preoccuparsi per loro e sembra che non ci siano tante persone disposte a farlo". Inizia così il piccolo saggio di Liat Collins sul Jerusalem Post, primo quotidiano israeliano in lingua inglese. "Ammetto che non avevo nessuna idea della loro situazione prima di questa settimana, quando il Jerusalem Post ha pubblicato uno stimolante editoriale di Adam Perry sotto il titolo 'I dimenticati di Papua Occidentale'. Perry, un ebreo britannico, ha cominciato a fare ricerche sui conflitti nel mondo dopo aver visto un servizio televisivo su una manifestazione di circa 50 persone davanti all'ambasciata dello Sri Lanka che protestavano contro le torture e le uccisioni di migliaia di tamil. Il giorno dopo si è imbattuto in una manifestazione anti-israeliana nel West End di Londra dove decine di migliaia di persone si erano radunate per protestare contro un raid aereo israeliano 'che ha distrutto alcune case e ucciso tre persone'.
'Ho iniziato a indagare gli altri conflitti nel mondo e le situazioni critiche dei diritti umani trascurate o totalmente ignorate a causa delle politiche di potenza alle Nazioni Unite e dell'ossessiva passione dei mass-media per Israele', spiega Perry, che nel corso di un periodo di lavoro in Australia si è interessato sempre più al movimento per l'autodeterminazione del popolo di Papua Occidentale. Al quale farebbe certamente comodo un po' di pubblicità. Rimando all'articolo di Perry per tutte le informazioni, ma qui provo a riassumere. Papua Occidentale è la metà ovest dell'isola di Nuova Guinea, al confine con la nazione indipendente di Papua Nuova Guinea, circa 250 chilometri a nord dell'Australia. Dopo secoli di colonizzazione olandese, nel 1961 a Papua Occidentale venne promessa l'indipendenza. Due anni più tardi, mentre il mondo occidentale guardava da un'altra parte, l'Indonesia prese con la forza il controllo dell'area, che risulta ricca di risorse naturali, tra cui l'oro. 'Dal 1963 - scrive Perry - circa 500.000 abitanti di Papua Occidentale, più di un quarto della popolazione, sono morti per mano delle brutali forze d'occupazione indonesiane: dati convalidati da diversi studi e da gruppi per i diritti umani (tra cui l'International Association of Genocide Scholars e la Yale Law School), Le uccisioni quotidiane, le torture e le detenzioni senza processo a opera dall'esercito e della polizia indonesiani proseguono senza conseguenze e con scarsissime condanne'.
La storia degli sfortunati abitanti di Papua Occidentale mi ha ricordato il destino della perseguitata minoranza indù del Bhutan. Nel maggio 2010 ho scritto a proposito della misera condizione dei circa 100.000 profughi bhutanesi di origine nepalese, cacciati dal regno per essersi rifiutati di vivere secondo le tradizioni buddiste che lo governano. Da allora, solo di rado mi sono imbattuta in qualche fonte che dia notizie sulla loro situazione. Per qualche perversa ragione i rifugiati bhutanesi non sono considerati materia per titoli da prima pagina, e neanche da pagina interna. La loro situazione è resa ancora più sinistra dal fatto che il principale motivo di celebrità del regno himalayano del Bhutan è che ha ideato l'indice di felicità interna lorda: una misura del benessere psicologico. Come sottolineai all'epoca, perlomeno i palestinesi hanno imparato l'arte delle pubbliche relazioni: quante persone hanno mai sentito parlare di questa minoranza bhutanese? E chi prende sul serio l"oppressore' quando capita che sia buddista anziché ebreo? Accusare gli ebrei per questioni di miseria e profughi è pratica così diffusa da sembrare la norma. Ma incolpare i sorridenti e pacifici buddisti è tanto lontano dal bon ton quanto il Bhutan è lontano da Tel Aviv.
Nel 2015 l'Alto Commissario Onu per i rifugiati ha annunciato con orgoglio che era riuscito a reinserire oltre 100.000 profughi bhutanesi dal Nepal in paesi terzi, da quando è partito il programma nel 2007. Sono cifre impressionanti per chiunque abbia dimestichezza con i dati dell'Unrwa, l'agenzia delle Nazioni Unite preposta a occuparsi esclusivamente di profughi palestinesi: i quali godono dello status unico al mondo di 'profughi perpetui ed ereditari'. Naturalmente le risorse che vengono spese per perpetuare all'infinito lo status di profughi dei palestinesi potrebbero essere utilmente impiegate per aiutare profughi ben più recenti, molti dei quali musulmani vittime di islamisti in luoghi come la Siria, l'Iraq, l'Afghanistan, la Somalia, il Sudan e la Nigeria, tanto per citarne alcuni. Papuani occidentali e bhutanesi non buddisti non sono soli nelle loro sofferenze, e nemmeno nell'essere ignorati da gran parte dei mass-media mondiali e degli attivisti internazionali. Secondo un rapporto della Reuters dello scorso 9 febbraio, potrebbero essere più di 1.000 i musulmani rohingya uccisi dalla repressione dell'esercito in Myanmar (Birmania, per i lettori più anziani). Il rapporto cita due alti funzionari delle Nazioni Unite, appartenenti a due diverse agenzie che operano in Bangladesh, dove negli ultimi mesi si sono rifugiati quasi 70.000 rohingya. I due funzionari erano preoccupati che il mondo esterno potesse non aver pienamente compreso la gravità della crisi in corso nello stato di Rakhine del Myanmar. Evidentemente essere una minoranza musulmana perseguitata da una maggioranza buddista genera una tale confusione che il liberal medio occidentale preferisce ignorare del tutto il problema. Molto più sicuro demonizzare Israele e considerarlo l'origine di ogni male. Dubito che nel prossimo futuro verranno organizzate nella vostra città delle 'Settimane contro l'apartheid del Myanmar'. Mi sa che anche i papuani occidentali dovranno aspettare a lungo. Le cosiddette 'Settimane contro l'apartheid d'Israele', invece, si sono diffuse in circa 225 città di tutto il mondo, e durano molto più a lungo dei sette giorni che implica il loro titolo: ma la parte del titolo che implica l'esistenza di un 'apartheid' in Israele è una menzogna molto più grande".
(Il Foglio, 6 marzo 2017)
Lanciato il primo nanosatellite israeliano per la ricerca scientifica
Un nuovo nanosatellite, il primo per il mondo accademico israeliano, è stato recentemente lanciato nello spazio per condurre missioni scientifiche per conto dell'Università Ben Gurion.
BGUSAT è il risultato di un progetto congiunto di cinque anni tra l'Università Ben Gurion, l'Israel Aerospace Industries Ltd. e il Ministero della Scienza, Tecnologia e Spazio.
Il satellite, è poco più grande di un cartone del latte, pesa solo cinque chilogrammi ed è dotato di telecamere innovative che possono fotografare una vasta gamma di fenomeni atmosferici e un sistema di guida che permette agli operatori di scegliere le aree di ricerca da una stazione di terra.
I ricercatori saranno in grado di posizionare il satellite per catturare una varietà di immagini da diverse angolazioni.
È la prima volta che una qualsiasi università israeliana avrà accesso ai dati provenienti da un nanosatellite per scopi di ricerca, secondo quanto diramato da una dichiarazione congiunta della BGU, IAI e dell'Agenzia spaziale israeliana. Questa missione permetterà ai ricercatori israeliani dell'Università Ben Gurion e dell'Università di Tel Aviv di studiare alcuni dei più interessanti fenomeni scientifici.
La costruzione del satellite è iniziata due anni fa presso la divisione spazio dell'IAI.
I nanosatelliti sono un nuovo strumento per la ricerca scientifica accademica, che consentono studi economicamente accessibili per il mondo accademico.
Dal momento che i nanosatelliti sono più economici, offrono un'arena più grande per l'innovazione spaziale, dice la nota.
Il colonnello Ofer Doron, capo dell'IAI's MBT Space Division, ha sottolineato che questo nuovo progetto "apre il mondo dei nanosatelliti a nuove e diverse missioni scientifiche. [ ] Per la prima volta, si ha un computer con una potenza simile a quelli destinati a satelliti più grandi, ma sviluppato specificamente per nanosatelliti".
Studenti e ricercatori israeliani hanno lavorato sul BGUSAT sotto una varietà di punti di vista, come l'ingegneria del software, ingegneria elettrica, scienze planetarie, ingegneria industriale e di gestione e altro ancora.
Dopo il lancio del satellite, l'Agenzia spaziale israeliana ha stanziato un ulteriore milione di shekel per finanziare la ricerca futura sulla base dei dati ricevuti dal satellite ed ha inviato gli atenei a presentare le proprie proposte. Le università di Ben Gurion e di Tel Aviv hanno già presentato una proposta congiunta per studiare l'airglow o luminescenza notturna della Terra.
(SiliconWadi, 6 marzo 2017)
La dittatura del gender. La grande lobby del pensiero unico
"Uguaglianza", come "omofobia", una parola ricattatoria usata in modo capzioso. Ci chiedono di adeguarci alle idee degli anni 60 e di deprecare quello che c'è stato prima. John Waters è un grande scrittore anticonformista e da due anni vive sotto linciaggio mediatico per essersi opposto ai matrimoni gay nella sua Irlanda. Formidabile j'accuse contro i tribunali del popolo e quel pensiero unico che ha ucciso la libertà d'espressione.
John Waters, giornalista e scrittore irlandese, "agnostico non praticante", è stato uno dei protagonisti della batta- glia contro il Sì al referendum sulle nozze gay. Columnist dell'Irish Time per 24 anni, lo ha lasciato quando ha avver- tito anche nel giornale l'ostracismo culturale nei suoi confronti.
Esprimere una visione eterodossa in certi ambiti significa rischiare la serenità e la reputazione.
Omofobia", parola truffaldina, concepita per demonizzare critici e nemici e metterli sotto silenzio.
di John Waters
Quando ho iniziato a fare il giornalista, trentacinque anni fa, la democrazia era intesa come qualcosa che aveva a che fare con la conversazione. Uno dei compiti principali dei media era quello di favorire il dialogo fra persone con idee diverse. Era una visione molto differente da quella di oggi, dove lo scopo finale è la facilitazione di un accordo fra le parti, come se lo scopo di una discussione fosse portare tutti a dire le stesse cose. Allora, la chiave di un dialogo era l'argomentare stesso: tirare fuori le forze e le debolezze delle varie opinioni per vedere se la prospettiva degli altri poteva avere una qualche influenza sui propri processi mentali. Era diffuso il senso che tutto questo fosse vitale per la democrazia, e che la gente ne avesse bisogno tanto quanto aveva bisogno dei libri e delle poesie.
Era anche piacevole. Tutti amavano assistere agli scontri fra opinioni divergenti. Era divertente. La conversazione era la linfa vitale della comunità umana, non era un ostacolo al progresso ma la sua stessa essenza.
Tutto questo sta cambiando. Di certo sta cambiando nel mio paese, l'Irlanda, e sta cambiando vistosamente anche negli Stati Uniti, in Inghilterra e in altri posti che conosco bene. Le conversazioni sincere sono guardate con sospetto. Molti fra quelli con le visioni più radicali circa la direzione in cui la nostra società dovrebbe andare obiettano all'idea di doversi confrontare con chi non è d'accordo con loro. Esprimere una visione eterodossa in certi ambiti significa rischiare la vita, la serenità e la reputazione. I media, che un tempo incanalavano il disaccordo democratico, sono diventati la corte suprema del politicamente corretto, dove gli imputati subiscono processi pubblici per aver infranto il marxismo culturale che ci governa.
Ho subito il mio processo tre anni fa quando, all'approssimarsi del referendum sul matrimonio gay in Irlanda, una drag queen di nome "Panti Bliss" mi ha chiamato omofobo in televisione, dicendo che stavo
Per diverse settimane sono stato esposto al linciaggio. Mi sono figurato l'immagine di una stanza piena di attivisti gay che sputano email velenose contro i presunti nemici della loro felicità. Un'auten- tica industria del fango.
cercando di distruggere la sua felicità, senza tuttavia offrire nessuna prova a sostegno della tesi. "Omofobia", si capisce, è una parola truffaldina. Non ha un significato oggettivo chiaro se non quello che ha assunto all'interno della nostra cultura. E' stata inventata dagli attivisti lgbt come strumento di lotta, concepito per demonizzare nemici, critici e oppositori in modo da escluderli e metterli sotto silenzio. L'Oxford English Dictionary definisce "fobia" una "paura o un disprezzo estremi verso una cosa specifica". Lo stesso dizionario definisce "omofobia" una "intensa avversione per l'omosessualità e gli omosessuali". La parola ha anche la connotazione di una quasi-fobia verso gli omosessuali che può indicare il fatto che il soggetto stesso sta cercando di sopprimere l'attrazione verso il suo stesso sesso. Variazioni della parola "omofobia" sono usate dagli attivisti gay come strumento di censura, per imbrattare gli oppositori della loro opinione o delle loro richieste con una macchia che non può essere ripulita da nessuna risposta ragionata, una macchia che costringe anche gli altri al silenzio. Chiamare qualcuno omofobo non significa soltanto demonizzarlo e perciò metterlo a tacere, significa considerare le sue argomentazioni come radicate esclusivamente nell'odio o nella paura, cosa che dispensa dal rispondere ragionevolmente a ciò che dice.
Quando ho capito che si trattava di una calunnia calcolata, ho risposto con una lettera dell'avvocato in cui chiedevo al network televisivo di ritirare le accuse e scusarsi. Si sono aperte le porte dell'inferno. Per diverse settimane sono stato esposto al linciaggio di attivisti lgbt pagati da un'organizzazione "filantropica" americana con un misterioso ma profondo interesse nelle vicende del mio paese.
L'aspetto più immediato e notevole di questa ricaduta è la pioggia di email che sono cominciate ad arrivare, crescendo in intensità nella notte, salvo poi calare. Ogni mattina mi svegliavo con la casella piena di fango. Quella che segue è una selezione casuale che rappresenta il livello generale di veleno, analfabetismo e mancanza di immaginazione.
"Sei un fottuto omofobo". "Sei un cretino omofobo". "Abbi la decenza di scusarti con Panti, e poi sparisci dalla faccia della terra". "Fottiti, indegno pezzo di merda. E cazzo anche tu sei brutto forte. Tagliati quei
Per due anni, fino al referendum del 2015, il mio paese è stato vittima dello stupro culturale della propaganda. Il modello irlandese delle nozze gay è il gold standard attraverso cui ogni paese sarà misurato in termini di tolleranza.
capelli unti, cretino omofobo". "John Waters è un cretino omofobo". "Prendi i tuoi capelli unti e crespi e mettiteli nel tuo culo pieno di odio, stronzo". "Lei è un fanatico. E le chiedo gentilmente di ammazzarsi". "Vai a fare in culo e muori orrendo idiota che brandisce la Bibbia, i giovani di questo paese ricorderanno per sempre il tuo odio ideologico e le tue giravolte per difendere una istituzione fanatica". "Da giovane eterosessuale mi fai venire il voltastomaco con il tuo altezzoso complesso di superiorità. Non dimenticarti che anche tu come tutti noi devi tirarti giù le mutande e cagare, testa unta".
"Ciao John, volevo soltanto dirti che tutti in Irlanda pensano che sei un bastardo". "Sei una macchia di piscio secco". "Potresti giustificare il fatto che tu meriti più diritti di una coppia gay?". "Ho incontrato autisti di taxi che almeno avevano il coraggio di ammettere che erano razzisti. Tu non sei soltanto un bullo ma anche un codardo". "Addio omofobo professionista!". "Fai alla progressista Irlanda un favore e abbandona il giornalismo, sei uno scandalo per il mio paese". "Sono sicuro che tu e i tipi omofobi come te non freneranno i desideri della maggioranza degli irlandesi ancora per molto".
E così via.
Dopo alcuni giorni ho notato dei pattern. Le email di rado contenevano accuse specifiche, solitamente s'ispiravano e ricalcavano quelle già inviate. In nessuna di queste si vedeva il tentativo di aprire una discussione. Ricevo molti messaggi critici, a volte offensivi, ma di solito tendono a essere legati a qualcosa che ho scritto o detto, anche se a volte gli autori mi hanno frainteso oppure hanno sentito soltanto voci di seconda mano. Queste email, invece, erano fatte interamente da insulti. Arrivavano in ondate dopo il tramonto fino alle prime ore del mattino, a volte venti o trenta al giorno. Raramente ne ricevevo prima di mezzogiorno e talvolta l'intero malloppo della giornata arrivava dopo le dieci di sera. Poi ho notato qualcosa di ancora più strano. Alcuni giorni non ricevevo alcuna email, e pensavo che si fossero fermate. Il tardo pomeriggio successivo, però, ne ricevevo una solitaria e pensavo: non sarebbe interessante se ne ricevessi una ventina di queste prima di mezzanotte? Puntualmente succedeva. E' accaduto molte volte. Un mercoledì ricevevo venti email, il giovedì nessuna, il venerdì altre venti, anche se nel frattempo il livello di attività, commenti e interventi nel dibattito era rimasto invariato.
Mi sono figurato l'immagine di una stanza, da qualche parte nelle viscere della città, piena di attivisti gay che sputano email velenose contro i presunti nemici della loro felicità, magari fermandosi per un attimo per scambiare qualche idea su nuove formule e insulti, un'autentica industria del fango che lavora in modo febbrile per la causa della giustizia e della pace.
Lo tsunami sui social media è stato replicato sui media mainstream, con molti dei miei "colleghi" che ne approfittavano per regolare vecchi conti. Alla fine ho dato le dimissioni dall'Irish Times, per il quale ho lavorato per 24 anni, dopo aver scoperto che un presunto collega e amico si era unito alla festa dell'odio, twittando con uno pseudonimo, Thomas59. Quando ho avvertito il mio direttore di questa violazione dei principi fondativi della nostra azienda, mi ha ignorato.
La cosa davvero strana è che fino a quel momento non avevo detto quasi nulla in pubblico sul matrimonio gay, a parte domandare un paio di volte perché i politici fossero così interessati a questa non-
Quello che osserviamo, anestetiz-zati, non è solo una presa di potere da parte di un movimento non rappresentativo, ma la sospensione stessa della democrazia e la distruzione dei suoi pilastri principali. Le nozze gay, ultima portata di un menù di "diritti progressisti" che hanno tentato di rovesciare la realtà.
questione mentre si rifiutavano con decisione di affrontare temi che avevo sollevato per anni, come il caos del sistema famigliare, la discriminazione dei padri nel sistema giudiziario e l'assenza di ogni riconoscimento dei diritti naturali di un padre non sposato nella legge irlandese. Non solo non ho attaccato la felicità di Panti Bliss, ma non ho nemmeno contestato il matrimonio gay in pubblico. Ero scettico sulla questione, fino a un certo punto, con certe motivazioni, con alcune riserve ed eccezioni, dunque non totalmente contrario. Ero pronto ad aspettare e a considerare qualunque proposta sarebbe stata messa sul tavolo.
Credo di essere diventato un bersaglio per quattro ragioni.
Si sapeva che ero cattolico, e dunque si presumeva che avessi una visione cattolica e tradizionale del matrimonio, e probabilmente anche dell'omosessualità.
Negli ultimi anni ero stato esplicito in un paio di casi in cui avevo fatto notare l'ipocrisia di certi giornalisti liberal e altri in casi che riguardavano omosessuali famosi. In uno di questi, si era scoperto che un noto poeta aveva avuto una relazione sessuale con ragazzi minorenni in un paese straniero. In un altro, un politico gay aveva dato un'intervista in cui suggeriva che l'Irlanda era troppo chiusa sugli abusi ai minori, e avrebbe dovuto guardare con più favore all'idea della relazione fra uomo e ragazzo, come avveniva nell'antica Grecia.
In quanto attivista dei diritti dei padri all'educazione dei figli, ho contestato un precedente referendum, nel 2012, che con la scusa di estendere i diritti dei bambini ha trasferito i diritti dai genitori allo stato. Eravamo una manciata dalla parte del No contro l'intero sistema parlamentare irlandese e i media. Siamo partiti con il consenso a cifra singola, abbiamo chiuso al 42 per cento, e probabilmente avremmo vinto se avessimo avuto un'altra settimana o giù di lì.
Mi sono espresso in particolare in favore del diritto dei cittadini di difendere ogni elemento della Costituzione così com'era, poiché rappresentava, fino a una riforma referendaria, la volontà del popolo. Era già diventato chiaro a quel punto che coloro che volevano il matrimonio gay non intendevano esporre i loro argomenti, ma desideravano che la loro proposta fosse accolta per acclamazione.
Per due anni, fino al referendum del maggio 2015, il mio paese è stato vittima dello stupro culturale della propaganda, foraggiata dai fondi stranieri, con l'obiettivo di condurre un raid predatorio sulla nostra definizione costituzionale del matrimonio, della famiglia e del ruolo dei genitori. Siamo stati assaliti con il bullismo emotivo e con i ricatti morali, ridotti a capri espiatori, siamo stati in parte persuasi e in parte costretti a introdurre una forma di matrimonio gay che è la più estrema di tutto il mondo. Poiché era una nazione fortemente cattolica, l'Irlanda è stata indicata dalla lobby gay internazionale come la nazione-
Il matrimonio gay, accompagnato dai diritti d'adozione e dalla legit- timazione di potenziali pretese sui figli di altri, non poteva non avere conseguenze per altre categorie di cittadini. Una lunga storia che fa capo alla diffusione del "marxismo culturale".
trofeo la cui caduta potrà essere usata nel mondo come un grimaldello per scardinare altre nazioni meno devote. Quelli che in Irlanda minacciavano di presentare qualche ostacolo per questa agenda politica sono stati presi di mira per assicurare che il trofeo potesse essere catturato con il minimo sforzo. Il modello irlandese del matrimonio gay è il gold standard attraverso cui ogni paese nel mondo sarà misurato in termini di tolleranza e progressivismo. Come risultato del passaggio dell'emendamento, abbiamo introdotto nella Costituzione un dispositivo che non soltanto permette ai gay di sposarsi, ma implicitamente afferma che non c'è differenza costituzionale fra una coppia fatta da due uomini o due donne e una coppia fatta da un uomo e una donna.
Il caso di Panti Bliss certamente ha avuto l'effetto di espormi. Dopo aver visto il modus operandi del branco lgbt sono diventato sempre più certo che avrei dovuto oppormi in tutti i modi ai loro tentativi di costringere l'elettorato irlandese ad adeguarsi al loro pensiero. Quando ho visto l'emendamento, mi sono deciso.
A una prima lettura, la formulazione dell'emendamento appariva relativamente innocua. Diceva: "Il matrimonio può essere contratto da due persone in conformità della legge senza distinzione di sesso". Questa stesura dimessa s'attagliava alla tattica della lobby gay di presentare la questione come legata ai "diritti umani", identica, dicevano, alla storica campagna per l'uguaglianza dei diritti dei cittadini di colore negli Stati Uniti.
Non è forse nemmeno necessario osservare che il paragone è totalmente fasullo. L'estensione della piena cittadinanza ai neri negli Stati Uniti era un fatto di vera "uguaglianza", perché si accordava con i principi fondamentali che riguardano la dignità di ogni persona umana e possono essere rispettati senza alcuna diminuzione dei diritti di altre persone. Non c'era perciò una ragione valida per cui l'uguaglianza non fosse così definita e messa in pratica, cosa che ha messo in luce che c'era effettivamente stata in precedenza una negazione gratuita e incredibile dei diritti umani.
Le stesse condizioni non si applicano alla richiesta della comunità lgbt sul matrimonio gay. Non contenti di un semplice decreto con cui gli omosessuali avrebbero potuto formare un'unione civile oppure accedere a una categoria dedicata del matrimonio, chiedevano che l'Irlanda riscrivesse il manuale della natura umana per soddisfare le loro richieste di "uguaglianza". L'emendamento in realtà era un colpo di mano, l'usurpazione di un istituto che è appartenuto esclusivamente a coppie che, come minimo, avevano la possibilità teorica di procreare. Inoltre, il matrimonio gay, qualora accompagnato dai diritti d'adozione e dalla legittimazione di potenziali pretese sui figli di altri, non poteva non avere conseguenze per altre categorie di cittadini. Estendendo i pieni diritti di genitori alle coppie gay, la società irlandese avrebbe accettato una radicale diluizione dei diritti concessi ai genitori. Ciò era inevitabile, perché l'emendamento era stato messo nell'articolo della nostra Costituzione che si occupa non soltanto del matrimonio ma anche della famiglia e dei diritti dei genitori. Il risultato - una bomba costituzionale - è che non ci sarebbe più stata alcuna protezione costituzionale per le funzioni procreative complementari di uomini e donne, e nessun riguardo particolare per le connessioni biologiche verso i loro figli.
La riforma è stata venduta grazie all'uso furbo delle parole, specialmente la parola "uguaglianza", come nella formula "referendum sull'uguaglianza del matrimonio". La Costituzione irlandese stabiliva già che
Una nuova formula per la famiglia. Ma trattando allo stesso modo sotto la Costituzione una coppia di uomini o di donne, non si sarebbe potuto evitare di abolire lo status legale della connessione biologica fra un genitore e un figlio come criterio della genitorialità.
tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge, ma lasciava anche spazio alla possibilità di differenze in quanto a capacità e funzioni. Un autobus è uguale a un treno? Due uomini che legalmente possono essere definiti "uguali" a un uomo e una donna con dei figli possono essere considerati una "famiglia"? "Uguaglianza", come "omofobia", è una parola ricattatoria che è stata usata in modo capzioso per costringere le persone a cambiamenti che inevitabilmente avrebbero distorto diritti che generazioni di irlandesi hanno dato per scontati.
Dobbiamo chiarire una cosa: il matrimonio gay non è stata una spontanea manifestazione di interesse verso un "diritto umano" o un "diritto civile" trascurato. Se fosse stata una di queste due cose, uno si sarebbe potuto aspettare di trovare una lunga storia di campagne e argomenti ragionati che risalgono a decenni or sono, cosa che chi è in favore dell'emendamento cerca di farci credere. Se uno si prende il tempo per andare a spulciare gli archivi di un qualsiasi giornale progressista che in tempi recenti si è espresso con decisione in favore di questo "diritto" - e con la stessa decisione ha condannato chi non si adegua - difficilmente troverà un solo articolo sul tema fino a circa cinque anni fa. Troverà un'analoga assenza nei discorsi dei politici che di recente si sono schierati sull'argomento e si sono prodotti in condanne di chiunque non accetta la loro definizione di "illuminismo".
Il matrimonio gay è soltanto l'ultima portata di un menù di "diritti progressisti" che hanno tentato di rovesciare la realtà. Viene dopo la "affirmative action", il diritto di scegliere e la teoria del gender nella lista delle tematiche ordinatamente allineate nelle agende politiche delle società occidentali, senza che si sentisse il bisogno di una discussione pubblica. Questi trend contemporanei hanno una lunga storia che fa capo alla diffusione del "marxismo culturale" in Germania e America ottant'anni fa. Nella versione breve, basta sottolineare che queste idee sono entrate nel mainstream della cultura occidentale negli anni Sessanta, quando si sono trasformati nell'implicita ideologia del movimento "peace and love" e dei rivoluzionari del 1968. La nostra cultura è arrivata a credere che gli anni Sessanta sono stati la Rivoluzione Finale, la prima sequenza della Fine della Storia. Da lì in avanti, niente del pensiero e dell'immaginazione umana necessita di essere cambia drasticamente. Tutto ciò che è richiesto è che sintonizziamo la nostra civiltà sulle idee e gli ideali degli anni Sessanta e deprechiamo quello che c'era prima. E' la perfetta sintesi di un'idea totalitaria: una cosa che è già stata scritta per il futuro e che non è esposta alle modifiche dell'uomo, come se il futuro fosse una città che è già stata costruita e non ci resta che trasferirci con tutti i nostri averi.
Le ideologie degli anni Sessanta ci hanno fornito un altro codice per il controllo e l'oppressione dello spirito umano, altro che controcultura. Gli obiettivi degli "idealisti" degli anni Sessanta sono la materia oscura della società consumistica moderna, alimentano una concezione dei diritti e della uguaglianza che in cambio spinge il sistema economico in avanti verso qualunque cosa pensa di andare. Matrimonio gay,
L'idea che esiste una categoria fondamentale del matrimonio, definito come un esclusivo impegno fra un uomo e una donna, aperto a una nuova vita e impegnato nella cura e protezione dei figli, è stata deposta in una tomba giuridica.
utero in affitto, cambiamento dei valori della vita famigliare, identità frammentate: tutte queste sindromi generano attività che devono essere monetizzate, mentre coloro che ne sono soggetti diventano più docili alla distrazione e all'anestesia. Il fatto che la lista di richieste sia intrinsecamente contraddittoria non è per loro un'obiezione: chiedere, per esempio, le quote rosa e allo stesso tempo invocare l'eliminazione delle oppressive identità di genere. In realtà, i guru del marxismo culturale insegnavano che creare confusione e contraddizioni era una cosa buona e necessaria.
Per via della persistente ripetizione, ci siamo abituati all'idea che tutti questi concetti sono sintomi della libertà. La lista di queste richieste "liberali" è tenuta insieme non da un impegno per i diritti umani o per gli interessi di un gruppo, e nemmeno dalla preoccupazione per qualunque impulso umano, ma dal desiderio di conformarsi a un'agenda sociale radicale piena di obiettivi "cool", e che perciò hanno il beneficio di dipingere coloro che li appoggiano in modo virtuoso, mentre i critici sono retrogradi e reazionari. La rivoluzione degli anni Sessanta è precipitata nella quasi totale assurdità, eppure rimane in gran parte accettata senza critiche in una cultura che è stata persuasa che è possibile eludere la stessa natura umana.
Questo illumina alcune delle molte surreali dimensioni dello pseudodibattito che ha preceduto il voto in Irlanda. A livello superficiale, la gente ha trattato il referendum come una cosa serissima e importante, ma dentro di sé molti si domandavano: da dove viene questa cosa? Di cosa parla? Perché succede? Come ha fatto una piccola minoranza della società irlandese a imporre la sua volontà all'intero establishment politico, quando molte cause hanno grosse difficoltà ad arrivare a un dibattito parlamentare? Perché improvvisamente ci è stato chiesto di considerare controverse cose che ci erano sempre apparse ovvie, cose che per milioni di anni non abbiamo sprecato un minuto a riflettere, ad esempio: davvero un bambino ha bisogno di suo padre e sua madre? La preside e il lattaio non potrebbero andare altrettanto bene? E il pompiere e il lattaio? In Irlanda, nella prima metà del 2015, degli adulti avevano conversazioni di questo tenore in radio e in televisione, per settimane e settimane.
Nel corso della campagna, il governo irlandese ha detto che l'emendamento era una semplice aggiunta alla forma esistente di matrimonio, e che non aveva conseguenze sui figli né sulla definizione costituzionale della famiglia. Una cosa disonesta e folle. L'aggiunta di una nuova formula nell'articolo 41 della Costituzione, intitolata "la famiglia", era destinata a modificare le disposizioni di quella sezione e a influenzare i significati della clausole esistenti, così che il potenziale impatto sui diritti espliciti e impliciti sarebbe stato imprevedibile anche per gli avvocati più esperti. L'articolo 41 della Costituzione irlandese comincia così: "Lo stato riconosce la famiglia come prima e fondamentale unità naturale della società e come una istituzione morale dotata di diritti inalienabili e imprescrittibili, antecedenti e superiori al diritto positivo". Qualcuno davvero immaginava che un voto per il Sì potesse cambiare il significato costituzionale di parole come "naturale", "primario", "fondamentale", "antecedente" e "superiore"? La lobby del Sì e il governo hanno ignorato queste obiezioni e si sono rifiutati di rispondere a qualunque domanda specifica riguardo a questo ovvio pericolo. La parola "naturale" in quel contesto si riferiva chiaramente al fatto che
In questo nuovo clima, la leader- ship politica e la risposta del pubblico alle questioni politiche più calde hanno più a che fare con le aspirazioni nella sfera personale che con la natura e i bisogni della società: come vuoi che i tuoi pari ti vedano.
la famiglia fino a quel momento era stata principalmente definita come una madre, un padre e i figli, con i figli nati dalle funzioni biologiche complementari dei due genitori. Era ovvio che se questo concetto veniva mischiato con l'idea che un uomo e un uomo, o una donna e una donna, dovessero essere trattati allo stesso modo sotto la Costituzione, non si sarebbe potuto evitare di abolire lo status legale della connessione biologica fra un genitore e un figlio come criterio della genitorialità. I genitori naturali non avrebbero avuto diritti speciali su altri adulti che reclamavano la paternità o la maternità degli stessi bambini con altre motivazioni - ad esempio, il compagno gay di uno dei due genitori biologici. Nel caso di un contenzioso, una madre o un padre non avrebbero potuto invocare diritti speciali facendo leva sulla biologia, e le stesse parole "madre" e "padre" avrebbero dovuto con ogni probabilità essere abolite. In altre parole, c'era un'invisibile costituency i cui diritti erano enormemente minacciati dall'emendamento, ma i politici disonesti e i giornalisti ideologicamente corrotti avevano negato a questa costituency il diritto a una opportuna discussione su questi temi cruciali. Agli elettori è stato semplicemente detto che avevano il dovere di estendere "l'uguaglianza" alle coppie gay, sono state loro ricordate le intolleranze del passato verso gli omosessuali e gli è stato chiesto come si sarebbero sentiti se i loro figli fossero gay. Non sono stati invitati a giudicare l'emendamento nel contesto dell'ambiente costituzionale, oppure a sostenere una discussione su come questo avrebbe potuto esprimersi nella pratica.
L'effetto dell'emendamento, in termini culturali, nel tempo includerà anche lo spostamento della protezione legale dei figli dai genitori naturali a un concetto nuovo di genitorialità definito non dalla biologia ma da uno strumento giuridico - l'affidamento - che sarà totalmente nelle mani dello stato e delle sue agenzie, e sarà tolto ai genitori per motivi non chiari né obiettivi, tutto ciò in un procedimento condotto a porte chiuse da un tribunale segreto. Così, l'essere genitori si trasformerà inesorabilmente in una questione sanzionata dallo stato, il quale si arrogherà la funzione di ratificare le relazioni fra genitori e figli secondo il loro status legale. Fra gli effetti collaterali di questo cambiamento va considerato anche la cosiddetta "genitorialità psicologica", ovvero il ruolo dell'educazione e della cura, il contatto quotidiano e l'interazione, la compagnia messa in relazione alla parentela biologica; ciò che, in altri termini, può rendere un'entità non biologica capace di superare le pretese di un genitore naturale semplicemente guadagnando una prossimità al bambino attraverso circostanze come, per esempio, lo sviluppo di una relazione con uno dei genitori naturali.
C'è anche una conseguenza più grave. L'atto sponsale, l'unione sessuale di un uomo e una donna, non può avere alcuna rilevanza legale. L'idea che esiste una categoria fondamentale del matrimonio, definito come un esclusivo impegno fra un uomo e una donna, costruito attorno all'idea della loro unione coniugale, aperto a una nuova vita e impegnato nella cura e protezione dei figli, è stata deposta in una tomba giuridica, per sempre.
E' importante sottolineare che questo è l'obiettivo ultimo della lobby lgbt. Nonostante possa apparire, in alcune circostanze e contesti, che si voglia accontentare di molto meno che di questa totale trasformazione della legge famigliare, non si tratta che di una tattica. E' il "metodo salame", procedere una fetta per volta, per ottenere tutti i guadagni incrementali possibili nella prima ondata, per poi capitalizzare chiedendo come mai i gay hanno avuto accesso alle unioni civili oppure a una versione minore del matrimonio ma senza godere, per esempio, dei diritti di adozione. La lobby lgbt tornerà sempre alla carica chiedendo qualcosa in più, fino alla vittoria definitiva.
Negli ultimi giorni della nostra campagna, una persona con una vista di falco ha richiamato la mia attenzione su un documento piuttosto sconvolgente nascosto nel sito di "Yes, Equality", il gruppo che
Imposta alla nostra società una antropologia ricreata, tesa al trasferimento della custodia della realtà umana da Dio agli uomini. L'essere genitori si trasformerà inesorabilmente in una questione sanzionata dallo stato.
coordinava la campagna in favore dell'emendamento. Questo documento non soltanto confermava le nostre peggiori paure circa la reale intenzione della lobby del matrimonio omosessuale, ma andava molto oltre quanto noi stessi avessimo osato pensare nel descrivere le implicazioni di ciò che chiedevano e che presto avrebbero ottenuto. Si trattava di un paper scritto nel 2009 da un'accademica femminista e lesbica intitolato Feminism and the Same-sex Marriage Debate. In sostanza, questo documento articolava un'argomentazione diretta alle femministe più estreme che rimanevano contrarie all'istituto stesso del matrimonio, dicendo loro che era arrivato il momento di abbracciare il matrimonio gay in nome dell"'uguaglianza".
Recita il paper: "Il matrimonio fra persone dello stesso sesso rovescia gli assunti biologici e culturali 'naturali' riguardo alla riproduzione e alla famiglia. Ha il potenziale per sovvertire e ribaltare la concezione storica e le implicazioni del matrimonio. Così facendo, avrà sradicato delle sue tradizioni l'ideologia e il mito romantico del matrimonio che è stato a lungo criticato dalle femministe".
Con questo abbiamo avuto infine la conferma delle segrete intenzioni almeno dei più agguerriti e militanti elementi della lobby lgbt e del loro caravanserraglio - quegli attori che hanno preso la questione del matrimonio gay dal nulla e l'hanno portata al centro del dibattito pubblico. Il matrimonio gay non è parte di un programma rivoluzionario di libertà, è un cavallo di Troia che porta nel cuore della civiltà moderna un nuovo concetto della vita famigliare. Non implicava tanto la valorizzazione dell'omosessualità per la difesa degli omosessuali, ma fingeva una preoccupazione per l'uguaglianza per ripudiare e smantellare i concetti e le strutture che avevano permesso alle società umane di essere coese da quando i primi uomini hanno preso a muoversi sulla faccia della terra. L'obiettivo non era soltanto l'uguaglianza ma la sovversione del modello normativo della riproduzione e della vita famigliare, il rovesciamento dell'ordine naturale (va notato che la parola "naturale" è significativamente messa fra virgolette nella citazione sopra) e la distruzione del "mito romantico" del matrimonio.
Se qualcuno dalla fazione contraria all'emendamento avesse espresso una critica di questo tipo sulle reali intenzioni della lobby gay, è probabile che i giornali avrebbero messo le loro dichiarazioni nei titoli di prima pagina, accompagnate da dure reazioni della parte del Sì e dalle solite accuse di omofobia. Invece, nonostante io abbia letto il passaggio citato durante diversi dibatti televisivi, non una parola è stata pronunciata o scritta su questo nei media irlandesi. I giornalisti si sono semplicemente voltati dall'altra parte, e così facendo hanno ammesso, infine, che non erano più giornalisti ma tirapiedi ideologici al servizio di un progetto radicale per alterare il vero significato del più centrale e sacro fra gli istituti umani e per ridefinire il significato dell'uomo in relazione alla natura.
Ciò a cui abbiamo assistito in Irlanda nel 2015, e ciò che gli altri paesi occidentali stanno affrontando uno alla volta, non è meno di un attacco al significato e alla struttura dell'edificio umano. E' anche un sintomo di una civiltà in decadenza, non tanto per le ragioni solitamente addotte (la degenerazione culturale), quanto perché la preoccupazione per una cosa arcana come il matrimonio gay è indicativa del livello di noncuranza e tracotanza che già di per sé è problematica per la civiltà umana. Una delle chiavi è quello che lo scrittore Ron Inglehart chiama "post materialismo", con il quale non intende una società post consumista. La società post materialista è il culmine della deriva iniziata negli anni Sessanta, che ha le sue radici nell'illuminismo e nello sviluppo della società tecnologica, che ha liberato l'umanità dal lavoro manuale e gli ha permesso di vivere senza muscoli né sudore.
Il post materialismo funziona così: quando le persone non devono occuparsi di rispondere ai propri bisogni elementari hanno più tempo per concentrarsi su problemi periferici, ad esempio come le loro
Il matrimonio omosessuale è un cavallo di Troia che porta nel cuore della civiltà moderna un nuovo concetto della vita famigliare. Una profonda intolleranza mascherata da liberalismo.
opinioni e i loro gusti possono aggiungere valore alle loro identità costruite. In Modernisation and Postmodernization, Inglehart dice che è impossibile prevedere, basandosi sugli indicatori economici, quali temi sono più attinenti alla politica delle varie società in un particolare stadio dello sviluppo. Ai post materialisti, dice, importa meno che ai loro genitori dell'autorità, della tradizione e delle istituzioni tradizionali, sono più tolleranti verso le differenze e mettono l'identità personale in cima ai loro indicatori per la soddisfazione e il successo. Chiaramente qui tolleranza, come la parola uguaglianza, ha un significato diverso da quello originario. In un passato non molto lontano, tolleranza significava non interferire con le convinzioni che contraddicevano le proprie, ma sotto la dispensa contemporanea del politicamente corretto e del marxismo culturale, questo ha lasciato posto a una profonda intolleranza mascherata da liberalismo, che postula che tutto vada tollerato a eccezione delle idee di chi è in disaccordo con ciò che viene proposto.
In questo nuovo clima, la leadership politica e la risposta del pubblico alle questioni politiche più calde hanno più a che fare con le aspirazioni nella sfera personale che con la natura e i bisogni della società: come vuoi che i tuoi pari ti vedano, come le tue opinioni ti presentano agli occhi degli altri. Nelle nostre culture "liberali" le opinioni su questioni pubbliche si sono in qualche modo scollegate dalla convinzione o dall'analisi, diventando etichette delle identità, come t-shirt o tagli di capelli. La gente usa le filosofie o le posizioni politiche per farsi bella, completando così i loro vestiti e le loro automobili ("Guardami! sono un vegetariano filo palestinese che legge il New York Times! "; "Questo ateismo secolarizzato e pro choice mi fa il culo grosso?"). Il menefreghismo alimentato da sei decenni di prosperità e relativa pace ha reso la maggior parte dei nostri popoli incapace di immaginare che qualcosa di terribile possa accadere al loro mondo; perciò, non c'è bisogno di essere coscienti del contenuto fattuale dei temi politici, che semplicemente offrono il tessuto consunto per questo abito ideologico. In questo schema, odiare gli omofobi è importante almeno tanto quanto sostenere il matrimonio gay.
Questa analisi in larga parte spiega il successo della spinta per il matrimonio gay, che è davvero la sintesi dell'insensatezza degli anni Sessanta. Spiega perché, negli ultimi quattro o cinque anni, cose che non erano mai state considerate urgenti sono state innalzate ai primi posti dell'agenda, principalmente attraverso la persistenza dei media nel metterli in cima alla loro lista delle priorità. E' stata imposta alla nostra società una antropologia ricreata, tesa al trasferimento della custodia della realtà umana da Dio agli uomini - per la verità non tanto agli uomini, quanto a certi uomini. Siamo di fronte a una forma di suicidio culturale della specie, uno smantellamento di ogni cosa da cui la sopravvivenza dell'umanità dipende.
E' tempo che il mondo capisca la natura radicale di ciò che è proposto, la repentinità con la quale queste cose sono atterrate nello spazio pubblico di tutte le società occidentali, il veleno e la spietatezza mostrata dagli avvocati di questi cambiamenti e la loro insistenza sul fatto che le società non sono autorizzate ad avere dibattiti esaustivi prima di prendere le decisioni che loro impongono. Quello che osserviamo, anestetizzati, non è solo una presa di potere da parte di un movimento non rappresentativo, ma la sospensione stessa della democrazia e la distruzione dei suoi pilastri principali, inclusi i parlamenti, i media e in certi casi anche i tribunali. Alla fine, questi fenomeni sono di una gravità tale da rendere il matrimonio gay una questione secondaria. Una grave corruzione della legge famigliare e delle sue protezioni, ma in fondo soltanto la caparra di un tributo che contiene ben più inquietanti implicazioni per la razza umana.
(Il Foglio, 6 marzo 2017)
Israele, scoperto dolmen gigante. Il mistero delle incisioni
In Galilea, nei campi del kibbutz Shamir, trovata una tomba in pietra risalente a 4 mila anni fa. Sul «soffitto» presenta dei graffiti che non hanno eguali nella regione.
di Davide Frattini
GERUSALEMME Una pietra gigante che pesa cinquanta tonnellate, circondata per 20 metri di diametro da altri massi disposti intorno a cerchio. In queste settimane i prati della Galilea stanno fiorendo, il grigio del basalto è colorato dai primi germogli, lo scenario è diverso da quello che devono aver visto i costruttori di quattromila anni fa.
Gli archeologi sono convinti che la siccità, il freddo e la carestia abbiano spazzato via dal Levante le civiltà della prima Età del Bronzo. Eppure la scoperta del dolmen nei campi del kibbutz Shamir ha convinto gli studiosi che la catastrofe possa aver risparmiato alcune popolazioni: non hanno lasciato città o altri reperti, ma l'operazione monumentale indica che la società doveva essere organizzata in gerarchie. «Hai bisogno di radunare abbastanza gente, nutrirla, alloggiarla, devi essere in grado di progettare la struttura e costruirla. E ci vuole un capo, qualcuno che ordini a tutti che cosa fare. Un lavoro imponente che ha modificato il profilo del panorama, ha completamente cambiato la struttura del terreno», spiega il professor Gonen Sharon, autore della scoperta, al giornale online «Times of Israel».
La pietra più grande è incisa all'interno, sul soffitto del dolmen: linee rette che arrivano al centro di un arco, «un disegno unico per il Medio Oriente», spiega Uri Berger dell'Autorità israeliana per le antichità. Sotto sono stati trovati i resti di un uomo, una donna e un bambino, circondati da offerte come vasi di ceramica e pietre colorate da inanellare nelle collane. Il significato dei simboli resta misterioso, sono però considerati un altro segno che i popoli di queste regioni tra Israele, il Libano, la Giordania e la Siria non sono balzati indietro nel tempo tornando alla pura vita nomade. Sulle colline della Galilea sono sparsi 400 dolmen, non imponenti come quello scoperto da Sharon, e 5.600 sono stati individuati nel Golan, le alture catturate ai siriani dall'esercito israeliano cinquant'anni fa, durante la guerra dei Sei giorni.
(Corriere della Sera, 6 marzo 2017)
Netanyahu a Mosca il prossimo 9 marzo, focus su ruolo Iran in Siria
GERUSALEMME - Il premier israeliano Benjamin Netanyahu solleciterà la Russia ad impedire agli iraniani di condurre operazioni vicino al confine con Israele. Lo ha dichiarato oggi lo stesso capo del governo israeliano intervenendo durante una riunione del Consiglio dei ministri nella quale ha esposto alcuni temi al centro dell'incontro con il presidente russo Vladimir Putin previsto il prossimo 9 marzo a Mosca. Secondo quanto riferisce il quotidiano israeliano "Jerusalem Post", il premier spera di raggiungere alcune "intese specifiche" con Mosca per impedire all'Iran e alle milizie appoggiate da Teheran di aprire una base permanente nei territori siriani al confine con lo Stato di Israele. Netanyahu ha inoltre aggiunto che l'incontro vedrà anche la possibilità di avviare nuove disposizioni tra Russia e Israele in merito alla Siria, soprattutto dopo i colloqui di pace tra opposizione e governo siriano avvenuti nelle ultime settimane nella capitale kazaka Astana e a Ginevra.
(Agenzia Nova, 5 marzo 2017)
Ambasciata Usa in Israele, "entro maggio sarà spostata a Gerusalemme"
"Entro fine maggio il presidente Donald Trump annuncerà lo spostamento dell'ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme". Il passo in avanti in una questione che rischia - come più volte ammonito da parte dei palestinesi e del mondo arabo - di avere conseguenze imprevedibili, è stato rivelato al sito americano ultraconservatore 'Breitbart News' dal parlamentare repubblicano Usa Ron DeSantis che ha guidato ieri ed oggi a Gerusalemme una delegazione di rappresentanti del Congresso per verificare le condizioni e le possibili ricadute della mossa.
DeSantis - che insieme alla delegazione ha incontrato il premier Benyamin Netanyahu e deputati israeliani - ha anche indicato come possibile sede della nuova ambasciata la struttura del compound del Consolato Usa a Gerusalemme che si trova ad Arnona nella parte sud della città all'interno della zona ebraica delimitata dalla linea armistiziale del 1949, ma ad un passo del quartiere palestinese di Jabel Mukaber. Un edificio in potenza "già pronto all'uso" e dotato di maggiore sicurezza rispetto all'ambasciata di Tel Aviv, ha spiegato DeSantis.
L'indicazione di maggio come scadenza del possibile trasferimento non sembra casuale: in quella data si celebreranno in Israele i 50 di Gerusalemme capitale riunificata dello stato ebraico dopo la Guerra dei 6 giorni del 1967. Lo spostamento dell'ambasciata americana da Tel Aviv, previsto da una legge del 1995, è stato finora rallentato dai presidenti Usa, Barack Obama compreso. La deroga a questa legge scade però proprio a maggio.
"Molta gente - ha dichiarato il parlamentare repubblicano a Breitbart - ha pensato che la cosa si sarebbe fatta in un giorno solo. E quando non è avvenuto, la stessa gente ha detto. 'Bene (Trump) non lo farà. Non manterrà la sua parola'". Ma DeSantis ha subito aggiunto che "Trump ha dato prova di essere un uomo di parola" e che pertanto "non firmerà la deroga per l'ambasciata stessa", come fatto da Obama. "Del resto - ha proseguito DeSantis - abbiamo già il nostro ambasciatore, David Friedman, sul posto. Così io penso che questo è quello che succederà".
Il parlamentare del Likud (il partito di Netanyahu) Yehuda Glick che ha incontrato la delegazione Usa capitanata da DeSantis ha fatto appello affinchè la promessa fatta in campagna elettorale da Trump sia mantenuta. "E' tempo - ha sottolineato - che il presidente rispetti l'impegno e la legge approvata dal Congresso nel 1995".
La reazione palestinese non si è fatta attendere. Ziad Khalil Abu Zayyad, portavoce di Fatah, partito del presidente Abu Mazen ha ammonito la delegazione Usa sulla necessità "di comprendere che spostare l'ambasciata Usa a Gerusalemme non solo farà esplodere la situazione in Palestina ma l'intera regione". Una reazione giunta poche ore prima che il premier Netanyahu chiedesse, e ottenesse, la cancellazione a Jatt, villaggio arabo-israeliano a nord di Tel Aviv, dei cartelli stradali che indicavano 'via Arafat'. "Non possiamo permettere che nello Stato d'Israele - ha motivato durante il consiglio dei ministri - siano dedicate strade in ricordo di uccisori di israeliani o di ebrei".
(L'Huffington Post, 5 marzo 2017)
Israele vista con gli occhi di chi sta per partire
di Georgia Casanova
Quando a gennaio mi hanno proposto di fare uno studio su Israele per comparalo all'Italia, ho realizzato che della società israeliana poco sapevo, se non quello che la storia ci ha insegnato e quello che i telegiornali trasmettono. In realtà quello che hanno trasmesso in passato, visto che l'attenzione mediatica negli ultimi anni si è spostata su altri "conflitti" e questioni. Un cambio non di poco conto, come vedremo tra poco.
Mi sono - quindi - chiesta cosa volesse dire preparare un viaggio in Israele agli occhi delle persone che mi conoscono. Pur sapendo che ormai Israele sia considerata una meta turistica abbastanza nota e quasi di routine dai viaggiatori esperti, quanto le informazioni che abbiamo influenzano l'immaginario condiviso?
Ho osservato la reazione della gente per un paio di settimane e una cosa è certa: Israele non lascia indifferenti, come il quadro Guernica di Picasso, muove emozioni profonde. Da una parte l'immagine di Israele assume il significato di "guerra perenne",di conflitto di religione e di occupazione richiamando l'enorme sacrificio della gente e dei popoli originari, ma anche l'idea di prefazione del "potente" e la forza della ribellione ad un destino scritto da altri. Dall'altra parte,la sua valenza storico spirituale, quale luogo di culto, terra santa e culla della spiritualità occidentale, che rende Israele il "punto zero" delle religioni monoteiste.
Ma c'è ancora una visione diversa, quella che vede Israele come luogo di vivacità economica e di sviluppo. Nel 2016, con un PIL in crescita per il tredicesimo anno di fila, Israele si assesta al 25o posto dei paesi industrializzati OCSE, e Tel Aviv diviene una delle mete turistiche e di divertimento, 24h su 24h, soprattutto giovanile. Questa è l'idea di Israele che mi è stata rimandata dai miei "più giovani" amici e conoscenti. Di quella fetta di popolazione meno esposta al boom mediatico, culturale e politico proprio degli anni '80 e '90 sul conflitto "israelo-palestinese".
Che ciò sia un caso? Io credo di no.
A differenza dei più giovani, nei quarantenni ed oltre di mia conoscenza sembra predominare l'immaginario di un paese "a rischio" se non pericoloso e per alcuni politicamente criminale. La spinta emotiva dettata dall' immaginario collettivo è ancora più evidente quando si affronta l'argomento "Israele oggi e la sua società", molti degli adulti non sanno che dire. Se poi si affronta il tema invecchiamento della popolazione e dei rapporti intergenerazionali, la questione si fa ancora più buia: quasi che gli israeliani, visti nei loro abiti militari, non possano invecchiare.
Questo è il punto zero della riflessione: la società israeliana di oggi, vista e raccontata attraverso la mia esperienza di ricerca di tre settimane.
Ma perché fare un confronto tra Italia ed Israele?
La struttura demografica a prima vista non sembrerebbe simile: la popolazione anziana in Israele è poco più del 10% del totale, quasi la metà di quella italiana, e il numero di figli medi per popolazione femminile allo 3,8 è il triplo di quello italiano. Cosa quindi accomuna Italia ed Israele a tal punto da attirare l'attenzione della ricerca scientifica? La prevalenza per la cura familiare-domestico è uno dei fattori principali, così come la conseguente centralità della figura di chi presta la cura spesso informalmente (familiare o amico che sia), ma anche l'elevata presenza dei così detti "Grandi Anziani" over80 che come in Italia occupano una buona fetta della popolazione anziana, ne fanno un buon banco di confronto e di spunto per le politiche nazionali.
Nelle prossime settimane vi racconterò delle famiglie israeliane e del loro rapporto con l'invecchiamento grazie alle voci degli esperti, ma soprattutto vi racconterò del quotidiano della società israeliana, letta negli occhi della gente e sulle labbra di chi incontrerò. Venite con me.
(The Martian, 5 marzo 2017)
"Basta pregiudizi contro Israele, l'Onu si occupi di altri paesi"
L'amministrazione Trump rivedrà la posizione degli Stati Uniti all'interno del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite (UNHRC). Ad annunciarlo, Erin Barclay, vicesegretario di Stato Usa, citando "l'ossessione" dell'organizzazione internazionale per Israele. "Gli Stati Uniti sono profondamente turbati dalla costante e ingiusta attenzione che il Consiglio riserva a un paese democratico come Israele - le parole di Barclay pronunciate all'Assemblea dell'UNHRC a Ginevra lo scorso 1 marzo - A nessun'altra nazione è dedicato un intero punto all'ordine del giorno dell'agenda. Come può essere questa una priorità?". Il riferimento del vicesegretario Usa è al punto 7 dell'agenda dell'ente dell'Onu, dedicato appunto a Israele e al conflitto con i palestinesi. "L'ossessione per Israele è la più grande minaccia per la credibilità del Consiglio. - ha ribadito Barclay - Questa limita il bene che possiamo fare facendo diventare il Consiglio una parodia di se stesso. Gli Stati Uniti si opporranno a qualsiasi tentativo di delegittimare o isolare Israele, non solo in questa sede ma ovunque". Parole che hanno trovato l'apprezzamento, tra gli altri, del Congresso ebraico mondiale (World Jewish Congress) che ha inviato un messaggio a Barclay, ribadendo la necessità "di rimuovere l'articolo 7 dall'agenda permanente dell'organizzazione".
"Come organizzazione internazionale che rappresenta più di 100 realtà ebraiche di tutto il mondo, il Wjc è profondamente impegnato nella promozione dei diritti umani universali e del rispetto della dignità umana. Noi crediamo che il Consiglio dei diritti umani è uno strumento importante nell'ambito delle Nazioni Unite, ma siamo turbati e preoccupati dal fatto che questo Consiglio abbia perso la direzione e si sia fissato nel condannare Israele. Dalla sua istituzione, - sottolinea il Wjc - questo Consiglio ha approvato un numero record di risoluzioni di condanna di Israele: più di 65 risoluzioni, ovvero più della metà di tutte le risoluzioni specifiche fatte su di un singolo paese". Dall'istituzione ebraica internazionale fanno sapere che il loro impegno contro l'UNHRC continuerà fino a che il Consiglio non smetterà di prendere di mira Israele.
(moked, 5 marzo 2017)
Chissà se almeno su questo punto anche gli ebrei di sinistra diranno una parola di apprezzamento sullamministrazione Trump?
Turchia-Israele, delegazione di imprenditori turchi a Gerusalemme dal 14 al 17 maggio
ANKARA - Una delegazione di imprenditori turchi si recherà in visita in Israele dal 14 al 17 maggio prossimi. Lo riferisce il quotidiano turco "Hurriyet". Secondo quanto riferito dalla stampa di Ankara, Gerusalemme ha invitato il ministro dell'Economia turco, Nihat Zeybekci, a partecipare alla visita. La Turchia non ha al momento confermato la presenza del ministro. Nell'ambito del rafforzamento dei rapporti commerciali fra i due paesi, in seguito alla normalizzazione delle relazioni diplomatiche, avvenuta a giugno 2016, anche il ministro dell'Economia israeliano, Eli Cohen, quest'anno dovrebbe recarsi in Turchia. A maggio dovrebbe svolgersi una riunione della Commissione congiunta turco-israeliana, a cui dovrebbe partecipare il ministro dell'Interno turco, Suleyman Soylu.
Lo scorso 21 febbraio, il console generale israeliano ad Istanbul, Shai Cohen, ha annunciato che gli imprenditori turchi potranno ricevere visti triennali per recarsi in Israele, che consentono ingressi multipli. Entrambi i paesi si sono accordati per rafforzare i legami economici e rinnovare gli accordi scaduti, ha chiarito il diplomatico israeliano. Attualmente il volume degli scambi commerciali (import&export) ammonta a 4-5 miliardi di dollari, ha affermato Cohen. Secondo alcuni esperti il potenziale commerciale dei due paesi si aggirerebbe sugli 8 milioni di dollari, ha sottolineato il console israeliano ad Istanbul. Cohen si adopererà anche per eliminare i dazi imposti al commercio di frutta e verdura.
(Agenzia Nova, 5 marzo 2017)
Israele depenalizza luso della marijuana
Ayelet Shaked, Ministro della Giustizia di Israele
Ministro della Giustizia: una 'pietra miliare'
GERUSALEMME - Il governo israeliano ha approvato la depenalizzazione dell'uso della marijuana in Israele in base ad una proposta avanzata dal ministeri della sicurezza e della giustizia. La nuova norma - che dovrà ora essere approvata dal Parlamento - stabilisce che chi è colto, per la prima volta, mentre fuma in pubblico la sostanza, non sia più perseguito penalmente bensì multato. Il ministro della giustizia Ayelet Shaked ha definito il varo del provvedimento come "una pietra miliare. Migliaia di persone normali non saranno più considerate criminali".
(ANSAmed, 5 marzo 2017)
In Lituania minacce di morte contro una giornalista per un libro scomodo sulla Shoah
In Lituania il libro "I nostri" della giornalista Ruta Vanagaité, relativo al collaborazionismo dei lituani con le truppe della Germania nazista e al coinvolgimento nei rastrellamenti e nelle uccisioni degli ebrei, è stato bollato come "opera russa" che minaccia la sicurezza nazionale e la stessa scrittrice è stata minacciata di morte.
La Vanagaitè ha raccontato di aver deciso di scrivere un libro sulle atrocità compiute dai suoi connazionali durante la Seconda Guerra Mondiale dopo aver sentito una lezione che l'ha scossa in un seminario di storia lituana. E' nell'immaginario collettivo l'idea che la Lituania non abbia preso parte all'Olocausto, tuttavia nell'incontro è stata esposta un'altra versione: al vertice della piramide di uccisioni c'era il governo lituano e tutta la macchina dello Stato era coinvolta: dall'amministrazione pubblica alle forze di polizia.
"Ho cominciato a mettermi in contatto con molti storici ed ho visto che scrivono e dicono la verità, ma in modo molto astratto, nel classico stile accademico. Ho voluto scrivere la verità in un modo popolare, una verità scioccante affinchè venisse letta," - ha raccontato la giornalista.
Nelle sue ricerche la Vanagaitè ha scoperto che persino membri della sua famiglia erano coinvolti nell'Olocausto. Il marito di sua zia era un comandante di polizia, mentre suo nonno compilava gli elenchi di ebrei e attivisti sovietici che venivano poi trucidati. La scrittrice sperava che il suo parente non sapesse perché preparava quelle liste.
"Prima di saperlo, era un eroe per me, poi ha smesso di esserlo, dopo aver fatto queste liste, come premio, ha ricevuto due prigionieri di guerra sovietici dai tedeschi, che dovevano lavorare nel suo terreno," - ricorda la Vanagaité.
Secondo lei, nei battaglioni di polizia ci si arruolava su base volontaria: si poteva scegliere di non partecipare alle uccisioni. Di fatto non c'erano conseguenze in virtù di questa rinuncia: nel peggiore dei casi si passava una notte in prigione, oppure i tedeschi non davano l'opportunità di ottenere il denaro rubato nei saccheggi".
La giornalista è convinta che serva far sapere alla gente che gli oggetti di antiquariato che si trovano in casa potevano appartenere alle vittime dell'Olocausto. Racconta che i collaborazionisti dei nazisti non risparmiavano nessuno. I bambini venivano sepolti vivi o venivano loro fracassate le teste sugli alberi.
La pubblicazione del libro della Vanagaitè ha provocato clamore in Lituania. La scrittrice ha detto che la gente si è divisa.
Molti parenti e amici della giornalista l'hanno accusata di essere al soldo del "Cremlino e degli ebrei". La giornalista ha aggiunto che dopo la pubblicazione del libro ha perso la metà degli amici.
E' convinta che nelle lezioni di storia serva dire che alcuni lituani avevano collaborato con i nazisti.
"Bisogna distruggere i monumenti degli assassini. In quattro o cinque posti in Lituania ci sono monumenti dedicate a persone che hanno preso parte agli eccidi, anche in Bielorussia. Dopo la guerra hanno cominciato a lottare per l'indipendenza della Lituania. Ma nessuno si chiede quello che facevano prima" - ritiene la scrittrice.
(Sputnik, 5 marzo 2017)
Arabi contro ebrei
di Lucetta Scaraffia
Georges Bensoussan, Les Juifs du monde arabe. La question interdite,
Odile Jacob, Paris, pagg 166, €24,30
L'Europa deve affrontare una situazione nuova: la presenza di consistenti comunità islamiche e quindi una convivenza che non si annuncia facile. Così, come spesso accade, si cerca rassicurazione nel passato, cercando di fare emergere le prove di felici convivenze fra musulmani, cristiani ed ebrei, come nel frequente riferimento alla condizione idilliaca in cui sarebbero vissuti insieme nella Spagna islamica (al-Andalus ). Oppure si ricostruisce il passato dando per provata una buona convivenza fra ebrei e musulmani nei paesi arabi e nordafricani.
Non si tratta però di storia vera, perché «quando l'angoscia paralizza la ragione, la credenza vola in nostro soccorso» scrive lo storico Georges Bensoussan nel suo ultimo libro (Les Juifs du monde arabe. La question interdite), che ha suscitato aspre polemiche in Francia.
Basandosi sulle sue approfondite ricerche sulla vita degli ebrei nei paesi islamici, lo studioso di origine ebraica denuncia una verità ben diversa: la condizione degli ebrei è sempre stata quella di un popolo dominato, umiliato e angariato in paesi dove l'ostilità antiebraica era dominante. Gli ebrei erano sempre considerati stranieri, tanto che veniva loro impedito di imparare l'arabo scritto e di conoscere il Corano.
Una sorta di esilio interno, insomma, che ha scatenato massacri, violenze di vario genere, umiliazioni costanti. Non è certo stata la costituzione dello stato di Israele a rompere un'armonia secolare - sostiene Bensoussan - perché questo evento ha solo peggiorato una situazione già grave.
Gli ebrei sono stati considerati potenziali (ma spesso reali) alleati dei regimi coloniali, e quindi malvisti dai partiti nazionalisti arabi, anche se qualcuno di loro aveva preso parte alla lotta per l'indipendenza. A questa ostilità ha contribuito anche l'accesso all'istruzione, che l'Alliance Israelite Universelle con le sue scuole assicurava ai giovani ebrei, offrendo loro possibilità che non avevano i musulmani. In sostanza, scrive lo storico, «l'onnipresenza del terrore abita la storia di tutte le comunità ebraiche in terra araba».
Lo conferma la grande fuga degli ebrei dai paesi islamici (Marocco compreso) in direzione di Israele che ha caratterizzato la seconda metà del Novecento. In sostanza Bensoussan mette in dubbio che sia possibile per i musulmani accettare la parità giuridica degli ebrei, sia nei loro territori che in quelli di emigrazione, come in Europa.
Il libro ha suscitato grandi polemiche per il suo assoluto pessimismo e accuse di «istigazione all'odio razziale» o di islamofobia. Ma nella sua critica al mito dell'esistenza di un passato di utopica pace tra le religioni le ragioni ci sono, anche ben fondate. E tuttavia non può che lasciare perplessi l'assenza di qualsiasi riferimento alla presenza cristiana negli stessi luoghi e negli stessi periodi, perché la dinamica storica è sempre stata fra tre attori e non fra due.
Al termine della lettura rimane comunque una domanda: anche se l'ipotesi di una possibile convivenza è del tutto nuova, perché va ritenuta impossibile?
(Il Sole 24 Ore, 5 marzo 2017)
Negli Stati Uniti apprezzamento per ebrei e cattolici
WASHINGTON - Gli americani guardano con sempre maggiore positività e simpatia alle religioni. In particolare, e a dispetto dei gravi episodi di cronaca delle ultime settimane, sono gli ebrei, insieme ai cattolici, a raccogliere il maggiore consenso tra la popolazione statunitense. È quanto emerge da uno studio condotto dal Pew Research Center al termine di un anno elettorale in cui la politica è risultata particolarmente divisiva. Dal sondaggio, condotto dal 9 al 23 gennaio, viene dunque fuori che gli americani esprimono nei confronti delle religioni sentimenti più positivi oggi, rispetto a pochi anni fa. Solo il giudizio sui cristiani evangelici resta sostanzialmente invariato al 61 per cento rispetto all'analogo sondaggio del 2014. Mentre la valutazione per musulmani e atei, pur restando bassa, comunque sale rispettivamente dal 40 al 48 e dal 41 al 50 per cento. Gli americani esprimono invece maggiore apprezzamento verso i cattolici ed ebrei che si attesta attorno al 67 per cento. Intanto, da un altro studio effettuato dal Pew Research Center, risulta che, secondo proiezioni effettuate a partire dalla crescita prevista della popolazione soprattutto nei paesi asiatici, gli islamici sono destinati a diventare, nel 2070, il gruppo religioso più esteso. In quell'anno, il paese con il maggior numero di fedeli dell'islam sarebbe l'India.
(L'Osservatore Romano, 5 marzo 2017)
Campagne mirate per colpire Israele
di Lisa Palmieri-Billig (*)
Lisa Palmieri-Billig
Chi tra noi spera sinceramente in un futuro di pace per il Medio Oriente si sente obbligato ad agire per cercare di ottenere quel risultato. E siccome le mostruose violazioni dei diritti umani che avvengono in Siria, in Iraq, in Egitto, in Iran ecc. sembrano essere troppe, troppo abnormi, troppo devastanti per essere contrastate efficacemente, allora ecco che l'attenzione si rivolge all'unico Paese nel quale è possibile appellarsi impunemente alla libertà di parola, alla democrazia e ai diritti umani a sostegno delle battaglie etiche e morali.
Ciononostante, nel conflitto senza fine tra israeliani e palestinesi, la comunità internazionale non è riuscita a diventare o a essere considerata come un intermediario onesto da entrambe le parti in causa. Mentre le grandi diplomazie internazionali - come le Nazioni Unite, l'Unione europea, gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Francia sola - intervengono, si inventano iniziative e aderiscono a parole a una pace negoziata, continuano a susseguirsi tentativi falliti di portare avanti un processo di pace. A contribuire a questa escalation di sforzi inutili ci si mettono anche le operazioni di marketing contro Israele che si svolgono in varie città europee sponsorizzate da attivisti pro-palestinesi e anti-israeliani, tra cui la "Settimana dell'Apartheid" internazionale contro Israele, giunta alla 12esima edizione, che ha avuto luogo in questi giorni in varie città del mondo. Il nome della manifestazione - una plateale bugia - è un maldestro tentativo di creare un parallelo con il Sudafrica di anni addietro.
Eppure anche l'osservatore più superficiale dovrebbe ammettere che non c'è nessun "apartheid" in Israele. I cittadini arabi di Israele (che sono storicamente parte del popolo palestinese) siedono nel Parlamento israeliano e sono presenti in ogni aspetto della vita pubblica del Paese. Sono stati in passato e sono ancora deputati alla Knesset, sindaci di città e paesi, ambasciatori e funzionari nella diplomazia internazionale, studenti e professori nelle università, imprenditori e soci di aziende assieme ad israeliani ebrei, ecc.. E va ricordato anche che un giudice arabo israeliano è stato recentemente eletto a membro della Corte suprema israeliana.
Una conferenza intitolata "Gaza: rompiamo l'assedio" è stata giustamente cancellata dal Comune di Roma dopo che questo aveva per errore concesso i propri spazi per lo svolgimento della manifestazione. La città di Roma non può diventare complice di eventi bellicosi unilaterali, messi in piedi da sponsor privati e che servono solo a soffiare sul fuoco dell'odio invece di lavorare per una comprensione profonda e a mediare per una giusta soluzione. La "Settimana dell'Apartheid", dal 27 febbraio al 3 marzo, ha ospitato 30 eventi in 7 città: Bologna, Cagliari, Milano, Napoli, Roma, Torino e Trieste. Una settimana espressione del movimento "Bds" (Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni), concepito in origine come opposizione non violenta alla "occupazione", e che vide addirittura il sostegno di alcuni ebrei e israeliani di sinistra. Era un'azione contro la vendita di prodotti israeliani provenienti dai territori palestinesi (azione che tra l'altro
Il tentativo assurdo di censurare e boicottare studiosi israeliani della Technion, dell'Università di Tel Aviv, dell'Università Ebraica di Gerusa- lemme, ecc. non è solo un gesto antidemocratico e ottusamente anti-intellettuale, ma è anche auto-penalizzante, visto che proprio queste persone rappresentano le voci più aperte e liberali della società israeliana.
penalizzava anche i lavoratori palestinesi impiegati in quelle attività!), ma nella sua espansione è stata utilizzata anche per sostenere il rifiuto all'esistenza di Israele, scivolando in un latente antisemitismo nei campus universitari. Il tentativo assurdo di censurare e boicottare studiosi israeliani della Technion, dell'Università di Tel Aviv, dell'Università Ebraica di Gerusalemme, ecc. non è solo un gesto antidemocratico e ottusamente anti-intellettuale, ma è anche auto-penalizzante, visto che proprio queste persone rappresentano le voci più aperte e liberali della società israeliana, arabi (palestinesi) israeliani inclusi. La cosa ancora più assurda è che se i prodotti, la scienza e l'arte israeliana venissero seriamente messi al bando, allora gran parte dei passi avanti compiuti nella tecnologia, nella medicina e contenuti negli oggetti di utilizzo quotidiano, che hanno al loro interno componenti essenziali inventati e prodotti in Israele, dovrebbero essere gettati via. Bisogna dare credito al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ai molti rettori delle università italiane e ai sindaci delle città che si sono opposti senza il minimo dubbio (uno fra tanti Piero Fassino, l'ex sindaco di Torino che in molte occasioni ha insistito fermamente che la sua città rimanesse libera da questi eventi faziosi), e anche alla maggioranza degli studenti, grazie ai quali il movimento Bds non ha ben preso piede in Italia.
E veniamo a Gaza: la maggior parte dei fattori che continuano a ostacolare la risoluzione della dolorosa questione sono dovuti ai palestinesi stessi. Israele si è ritirata unilateralmente da Gaza dodici anni fa; Israele ha ceduto il controllo di Gaza all'Autorità Palestinese dodici anni fa. Ma neanche un anno dopo, Hamas prese il potere su tutte le organizzazioni di Gaza dopo un golpe violento contro l'Ap. Non è un segreto che l'enorme flusso di investimenti provenienti dalla Ue, dall'Onu, dagli Stati Arabi e dalle Ong internazionali verso Gaza, che dovrebbero servire a migliorare la vita dei civili palestinesi, viene largamente dirottato, se non quando nelle tasche di pochi, per l'acquisizione di materiali necessari a costruire missili e tunnel che vengono poi utilizzati da Hamas per attaccare i cittadini israeliani.
È comprensibile che molti abbiano a cuore la causa palestinese, ma i donatori internazionali peccano di grave mancanza di responsabilità quando si rifiutano di chiedere alle autorità palestinesi informazioni su
Nel cercare le responsabilità per la sofferenza del popolo di Gaza, gli organizzatori della "Settimana dell'Apartheid" e del movimento "Bds" puntano il dito solo su Israele e sugli insediamenti in particolare, ignorando completa- mente il ruolo spaventoso giocato dallo spietato governo di Hamas.
chi riceve e gestisce le tanto generose donazioni ricevute. Nel cercare le responsabilità per la sofferenza del popolo di Gaza, gli organizzatori della "Settimana dell'Apartheid" e del movimento "Bds" puntano il dito solo su Israele e sugli insediamenti in particolare, ignorando completamente il ruolo spaventoso giocato dallo spietato governo di Hamas, una dittatura che tortura e uccide i nemici al suo interno e che giustizia senza processo i membri del popolo palestinese accusati di tradimento.
E riguardo gli ostacoli a una pace negoziata, la comunità internazionale è totalmente incapace di affrontare il problema di riuscire a trovare nel popolo palestinese un interlocutore credibile che possa garantire in maniera convincente anche per il governo di Hamas a Gaza, che non ha mai cancellato dal proprio statuto lo scopo di "liberare" il territorio da tutti gli ebrei e di annientare Israele. Abbas è veramente capace di ergersi a garante per o contro Hamas?
Certo, la costruzione di nuovi insediamenti non ci avvicina a una soluzione del conflitto, ma bisogna anche ammettere che non è questo il problema principale. Il problema principale è che Gaza, governata col pugno di ferro di Hamas, è un territorio dove i diritti umani, l'eguaglianza e la libertà in tutti i loro aspetti così come li concepiscono i sistemi democratici, sono inesistenti; e che la coesistenza a fianco allo Stato Ebraico non è parte delle visioni possibili. Due democrazie che possano vivere fianco a fianco con il sostegno degli Stati limitrofi e della comunità internazionale sarebbero la soluzione ideale. Ma per raggiungere questo scopo è necessaria una calma diplomazia che operi dietro le quinte per un negoziato faccia a faccia tra le due parti, condotto da portavoce credibili e supportato da una comunità internazionale che possa disfarsi del cieco pregiudizio contro Israele e che affronti la complessa realtà, così ovvia a un osservatore imparziale e informato.
Ci sarebbe bisogno di uno sforzo coordinato internazionale per riportare le due parti al tavolo dei negoziati abbandonato dai palestinesi nel 2014 invece di fomentare l'odio con azioni unilaterali dirette contro Israele, che non fanno altro che aumentare l'animosità invece di avvicinare alla mediazione.
(*) Rappresentante in Italia e di Collegamento presso la Santa Sede dell'American Jewish Committee
(L'Opinione, 4 marzo 2017)
Milano - Aperitivo in concerto con Daniel Zamir Quartet
Il più importante e premiato musicista dello 'Jewish Jazz'
di Pierangela Guidotti
Daniel Zamir
MILANO - La stagione di "Aperitivo in Concerto" si chiude con un autentico evento: il primo concerto italiano di uno fra i più importanti sassofonisti viventi, un prediletto di John Zorn, il sopranista Daniel Zamir. E' un sassofonista/compositore del cosiddetto "Jewish Jazz", che unisce suoni jewish e jazz ad elementi di ethno e worlds music. Daniel Zamir è un genio che l'Italia non ha ancora scoperto. Questo sopranista israeliano, che elabora la tradizione ebraica all'insegna della più libera e disinibita improvvisazione, è stato per anni un segreto ben custodito, che solo il mitico compositore e sassofonista americano John Zorn ha saputo svelare, chiedendo a Zamir di realizzare alcune superbe incisioni per la sua casa discografica, la Tzadik. Le incisioni di Zamir sono gli album di jazz che hanno registrato in Israele il più grande successo di vendite e di critica di sempre, come "Amen" realizzato nel 2006, stesso anno in cui Zamir si è esibito con Sting durante la sua visita in Israele. Un concerto di Zamir è un evento irripetibile tanta è l'intensità estatica, una vera e propria trance, in cui egli sa immergersi e immergere gli ascoltatori.
Nato in Israele nel 1980, erede delle tradizioni yiddish più mistiche in cui la danza diventa strumento liberatorio di energie vitali, Zamir possiede le chiavi d'accesso a un mondo in cui l'improvvisazione è uno strumento di intensa ascesa spirituale. Raramente è dato ascoltare musica così poeticamente e teatralmente capace di creare uno spirito comunitario attorno a una capacità narrativa che ha l'epico piglio e il titanico accento dei grandi Profeti biblici ed è capace di comunicare una gioia irrefrenabile e liberatoria. Nel concerto di Milano, Zamir si avvale delle capacità non meno virtuosistiche del giovane ma affermato batterista Amir Bresler e da uno fra i più brillanti pianisti israeliani sulla scena internazionale, il grande Nitai Hershkovits, di cui si ricordano la lunga militanza nel trio del celebre contrabbassista Avishai Cohen e le collaborazioni con Daniel Zamir, Kurt Rosenwinkel, Avi Lebovich, Jorge Rossy, Greg Tardy, Charles Davis, Mark Guiliana, Zohar Fresco, Steve Davis, Diego Urcola e Robert Sadin. Zamir a soli 32 anni ha vinto il "Prime Minister Award" assegnato ad eccezionali compositori jazz, in assoluto il più giovane ad avere vinto questo prestigioso premio.
(MilanoPost, 4 marzo 2017)
Nuove tensioni tra Iran e Israele
Teheran fa la voce grossa con Israele: possiamo cancellarlo in sette minuti. A formulare la minaccia è stato Kamir Bour, definito come uno dei vertici della potente Guardia rivoluzionaria iraniana.
di Diego Minuti
Nel ribollente calderone della regione mediorientale basta uno stormire di fronde per fare salire la tensione e le parole attribuite da alcuni media arabi ad un alto esponente della Guardia rivoluzionaria iraniana non fanno altro che accrescere i timori per una pace che, nonostante tutto, sembra camminare sempre sul crinale della catastrofe.
A formulare la minaccia è stato Kamir Bour, definito come uno dei vertici della potente Guardia rivoluzionaria iraniana, nell'ambito di una dichiarazione di più ampio respiro relativa alla capacità di Teheran di difendersi da qualsiasi aggressione esterna e di ''rispondere con la stessa forza''.
Ma se l'esternazione di Bour poteva essere presa come una delle tante dichiarazioni da inserire nella normale dialettica politica della regione - in cui resta sempre difficile definire gli schieramenti e quindi anche la reale capacità di difendersi o offendere - quel che ha dato fondamento ai timori è stata l'affermazione che Teheran è in possesso delle mappe di tutti i siti strategici di Israele e quindi di essere capace di distruggerli in sette minuti e mezzo, affidando tale compito ai propri missili.
Non si tratta, stando a quanto attribuito a Bour, di una semplice ipotesi di studio, perché la Difesa iraniana ha già fornito ai capi delle forze armate, ai massimi livelli di responsabilità, ordini scritti nei quali vengono date le direttive per rispondere ad un attacco armato da parte della ''entità sionista''. Altri ordini sono stati impartiti ai capi delle amministrazioni comunali delle più importanti città iraniane per farle trovare pronte in caso di un attacco israeliano.
La chiusa delle dichiarazioni dell'esponente della Guardia rivoluzionaria iraniana è un inquietante corollario poiché allarga la platea dei Paesi che potrebbero essere coinvolti nella risposta all'ipotetico attacco da parte di Tsahal e della letale forza aerea che porta dipinta sulle carlinghe e sui vettori la stella di David:
''L'entità sionista -. ha concluso Bour - dovrà essere al corrente di questo, allo stesso modo che i suoi alleati''.
Signori, la pace è servita.
(globalist, 4 marzo 2017)
Aeroporto Fellini: al via i voli per Tel Aviv grazie 'Destination Romagna'
RIMINI - Da Rimini si volerà per Israele: AIRiminum 2014, società di gestione dell'Aeroporto Internazionale "Federico Fellini", accoglie la compagnia israeliana ISRAIR con i suoi voli in programma per il 7, 14 e 19 aprendo ufficialmente al nuovo mercato israeliano.
Questa prima operazione volta a sviluppare un nuovo mercato, lato incoming, si è resa possibile grazie al supporto di una serie di operatori privati, che insieme al gestore privato dell'aeroporto hanno ritenuto opportuno investire per l'intero territorio romagnolo. Per questo AIRiminum 2014 ringrazia tutti coloro che fin dall'inizio hanno aderito al "Club Destination Romagna", in particolare: gli hotel Touring, De Londres, Parco dei Principi, Villa Adriatica, Ascot, Cristallo, SoleBlu, Tilmar, Oxygen, Grifone, Genty, Luxor; Costa Parchi, San Marino Adventures e Valentino Bus.
Al contempo, insieme all'operatore turistico Destination Romagna, verranno effettuati, lato outgoing, i voli da Rimini a Tel Aviv per il 7 aprile e da Tel Aviv a Rimini il 19 aprile, operati da ISRAIR e prenotabili presso Destination Romagna (outgoing@destinationromagna.it) al costo di €120,00 per tratta. Inoltre, chi sceglierà di volare con ISRAIR potrà beneficiare di una tariffa speciale per il parcheggio dell'auto, pari a €1,00 al giorno. Per la prima volta Rimini avrà quindi un collegamento diretto con lo stato israeliano reso possibile grazie alla partecipazione proattiva dei soggetti coinvolti nel "Progetto Israele", avviato da tempo dal management di AIRiminum 2014.
"Siamo molto soddisfatti che il collegamento con Israele sia ora una realtà - afferma l'Amministratore Delegato di AIRiminum 2014 Leonardo Corbucci. I nuovi voli rappresentano il preludio di un progetto volto a costruire un ponte stabile tra la Romagna e Israele, che contribuirà a potenziare i flussi turistici tra i Paesi e a promuovere la Romagna come un mercato attrattivo per i turisti israeliani."
"Una realtà straordinaria per il turismo verso Israele - afferma il Direttore dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo Avital Kotzer Adari. Un volo che potrà consentire di vivere il periodo delle festività, ebraiche e cristiane, nella nostra terra coniugando in un unico viaggio i periodi appunto delle due Pasque, consentendo di vivere un'esperienza spirituale irripetibile. Israele sa davvero stupire e grazie ora alla politica degli Open Sky è nostra speranza che sempre le rotte come quella da Rimini possano crescere ed accrescere le connessioni verso la nostra meravigliosa Terra" ha concluso Avital Kotzer Adari.
(altarimini.it, 3 marzo 2017)
Milano - L'incontro del Keren Hayesod
Israele-Italia, progetti di futuro
"Net@ è un programma quadriennale di formazione doposcuola che offre ai giovani israeliani della periferie geografiche e socio-economiche conoscenze tecnologiche avanzate e promuove i valori sociali e doti di leadership". Un progetto importante, al centro dell'impegno del Keren Hayesod per Israele di cui si è parlato ieri a Milano in occasione dell'apertura della campagna di raccolta fondi in favore dell'organizzazione. Una serata che ha visto protagonisti diversi ospiti, con la partecipazione del mondo ebraico milanese così come di molte persone al di fuori della comunità: "tutti presenti qui per sostenere e dimostrare la propria amicizia a Israele", ha ricordato in apertura il presidente del Keren Hayesod Andrea Jarach. Tra i protagonisti della serata, in cui sono stati ricordati i tanti progetti promossi dall'ente, il vicesindaco di Milano Anna Scavuzzo, Yossi Vardi, considerato tra i padri della rivoluzione tecnologica israeliana, e l'ambasciatore d'Israele a Roma Ofer Sachs.
Quest'ultimo - introdotto da Jonathan Kashanian, presentatore della serata - ha ricordato l'incontro avvenuto proprio nei giorni scorsi nella Capitale tra il ministro italiano dello Sviluppo economico Carlo Calenda e il ministro israeliano Yuval Steinitz. I due, ha spiegato l'ambasciatore, hanno discusso in particolare delle risorse di gas, "un'opportunità per entrambi i Paesi e per tutta l'area. Sono anche contento di dirvi che pochi giorni fa la Giordania è stato il primo paese a ricevere rifornimenti di gas da Israele. Una notizia che fa ben sperare per il futuro della regione". Sachs ha ricordato come l'economia israeliana, trainata dal settore high tech, sia riuscita a fare passi enormi nel corso dei diversi decenni, superando quasi indenne anche la crisi economica del 2008. "Ma le sfide di domani sono soprattutto sul fronte sociale - ha spiegato Sachs, tenendo fuori la questione del conflitto - ci sono tre realtà su cui Israele si deve confrontare e che richiedono un cambiamento, le periferie, la comunità araba, gli ultraortodossi. Per ciascuna realtà è necessario provvedere a cambiamenti sul fronte dell'educazione per migliorarne la situazione e il progetto del Keren Hayesod va esattamente in questa direzione". Il vicesindaco Scavuzzo ha richiamato le tre parole tema della serata, Shalom, pace, Atid, futuro, e Haim, vita. "Milano può contare su una relazione intensa con Israele: è gemellata con Tel Aviv con cui condividiamo lo stesso dna di pace, vita e futuro. Un futuro a cui guardiamo con ottimismo forti di una democrazia che ci accomuna e del passato insieme".
(moked, 3 marzo 2017)
Stellari e simulazioni. Così Dana forma gli hacker d'Israele
Il nuovo campus della maggiore Shachar: «Vogliamo reclute che non abbiano schemi».
di Davide Frattini
Il Maggiore israeliano Dana Shachar
Il berretto è grigio come i vecchi telefoni perché per i primi hacker cornetta e modem erano la miccia che innescava gli attacchi informatici. La mostrina raggruppa i simboli delle forze di terra, mare e aria attraversati da un fulmine e circondati dagli anelli di un atomo. Come a dire: la nostra scienza vi proteggerà. Eppure le unità speciali per la cyber-guerra non puntano a reclutare piccoli sapientoni digitali, saper (già) programmare non è un requisito. «Per noi non basta che le ragazze o i ragazzi pensino fuori dagli schemi. Vogliamo giovani senza schemi», racconta la maggiore Dana Shachar, nel suo ufficio alla Kirya, il cubo bianco nel mezzo di Tel Aviv dove è concentrato il comando militare israeliano.
Sullo schermo del computer lascia scorrere i modelli in 3 dimensioni di quello che diventerà il campus-caserma, una accademia pronta prima dell'estate per addestrare i soldati ad affrontare il terreno di battaglia virtuale. Le pareti di vetro tra le stanze non vogliono ispirare la trasparenza dell'informazione, significa «piuttosto che tutti possono vedere tutto». Shachar vuole insegnare agli ufficiali dei carristi che i loro telefonini personali non sono sicuri neppure dentro a un tank, o che pigiare il tasto per il «check in» quando si entra in un ristorante durante la libera uscita, significa rivelarlo agli amici di Facebook ma anche a potenziali nemici.
«Nella dottrina tradizionale consideriamo ostili i Paesi con cui non abbiamo un trattato di pace commenta . Le tecnologie ampliano l'idea di nemico e le minacce: può essere un adolescente da solo nella stanza che vuol colpire Israele». Bersagliando di codice dannoso le sue strutture vitali, come il sistema informatico della compagnia elettrica tra i più attaccati nel Paese. «Direi quasi ogni giorno. Per convincere i comandanti di quanto sia pericoloso, abbiamo costruito una città simulata: mostriamo quello che potrebbe succedere se energia, treni, la Borsa venissero fermati allo stesso momento. Distruzione totale delle nostra economia».
Come ha spiegato Uzi Moskovitz, il generale che coordina i corpi C4I, al quotidiano britannico Financial Times: «Non ci sono regole, trattati o convenzioni internazionali. Sembrano gli esordi dell'aviazione militare: nella cyber-guerra siamo ancora alla fase del bombardamento a tappeto».Ehud Barak, il soldato più decorato della Storia di Israele, è stato tra i primi ministri della Difesa a enfatizzare la necessità di concentrare il budget bellico sulle trincee digitali, anche oggi che si è ritirato dal governo e dalla politica la matematica resta la sua passione. «Il nostro sistema è troppo difensivo, non possiamo aspettare e reagire solo agli attacchi», ha proclamato a una conferenza nel 2012. In realtà i programmatori israeliani sono considerati i responsabili, assieme agli americani, del virus Stuxnet che tre anni prima del discorso di Barak ha infettato i computer installati nelle centrali nucleari iraniane per rallentare il programma atomico voluto dagli ayatollah.
Gli studenti della maggiore Shachar si alternano nel ruolo di buoni e cattivi. «Durante un'esercitazione abbiamo simulato una sfida tra un gruppo in possesso della sceneggiatura segreta del nuovo Guerre Stellari e la squadra di pirati che doveva cercare di rubarla dal computer. Lasciamo liberi i ragazzi di cercare la strategia, vogliamo persone capaci di risolvere i problemi con creatività». La diserzione che la preoccupa di più è quella verso le aziende che aspettano questi genietti coltivati dall'esercito alla fine degli anni di leva obbligatoria: «È difficile competere con un'offerta da Google o altri grandi gruppi, con la prospettiva di fondare una start-up e diventare milionari. Per ora sono riuscita a convincere mio fratello più giovane, ha firmato per un altro periodo. Non resterà in divisa per sempre».
(Corriere della Sera, 4 marzo 2017)
Nikky Haley, volto Usa che rivoluzionerà l'Onu
Si chiama Nikki Haley ed è la nuova ambasciatrice americana all'Onu, È la donna che rappresenta lo scossone trumpiano alle Nazioni Unite: il suo debutto ha già incrinato lo status quo anti-israeliano.
di Fiamma Nirenstein
Nikki Haley
E' venuto all'inizio da una bella signora di origine indiana il segnale che l'Onu sarà per il governo americano di Trump un banco di prova politico rivoluzionario. L'Onu forse non sarà più quel coacervo di ingiustizie e ignavia per cui le persone ragionevoli si disperano, in solitudine, per la prepotenza, l'ignavia e l'irragionevolezza della maggiore assemblea internazionale del mondo. La nuova ambasciatrice all'Onu di Trump, magra, lunghi capelli lisci ad ala di corvo, ex vicegovernatore del Sud Carolina, si chiama Nikki Haley: naturalmente sbeffeggiata perché secondo i detrattori non capisce di politica estera ha fatto il suo debutto a metà febbraio, alla riunione informale del Consiglio di Sicurezza sul Medio Oriente, e ha invece dimostrato di capire benissimo come stanno le cose, e di non volere accettare lo status quo. In sostanza la Haley ha dichiarato che il peggior nemico degli Usa è il terrorismo, che il suo Paese saprà affrontarlo, e ha sfidato l'Iran dichiarandolo «stato sponsor del terrorismo». Riportando i contenuti della riunione, ha dichiarato di trovare «un po' strano» che il Consiglio di Sicurezza che dovrebbe discutere di come mantenere la pace e la sicurezza, non avesse affatto parlato di quante migliaia di missili gli Hezbollah abbiano illegalmente accumulato in Libano, o di quante soldi e armi i terroristi ricevono dall'Iran, e nemmeno si parlasse di come liberarsi di Assad, l'assassino del suo popolo o di come sconfiggere l'Isis. Invece, ha detto Haley, l'incontro era tutto maniacalmente concentrato sulla critica a Israele, l'unica democrazia del Medio Oriente. Io sono nuova da queste parti, ha detto Nikki, ma non faremo finta di niente di fronte a questo strano fenomeno, perché staremo di guardia per difendere Israele.
Mai la struttura concettuale che si è data l'Onu in questi anni è stata sfidata alle fondamenta da una presa di posizione così chiara: questo può portare importanti conseguenze politiche. Per esempio, la nuova commissione per combattere il terrorismo che vuole costruire il segretario Guterres non potrà avvalersi di membri che invece flirtano o addirittura sponsorizzano il terrore. Si ha un esempio di questo sistema nel Consiglio per i Diritti Umani gestito da 47 membri in gran parte violatori seriali dei diritti umani, e tutti dediti a fare di Israele un capro espiatorio.
Ma anche qui si fanno avanti importanti novità: è stato il deciso intervento della Vicesegretaria di Stato, Erin Barclay, in apertura della 34esima sessione dell'Unhrc a Ginevra che ha fatto ipotizzare un prossimo distacco degli Usa dalla organizzazione che conta fra i suoi membri l'Arabia Saudita che esegue condanne a morte per apostasia e adulterio, fustiga e amputa; la Cina che nega la libertà di parola, di religione, di associazione, e opera uccisioni extragiudiziali di dissidenti; l'Iraq che commette abusi seriali fino ali' assassinio e alle sparizioni. Barday per la prima volta nella storia ha accusato il consiglio di nutrire un'autentica «ossessione» che lo porta a condannare Israele in modo pazzoide. Israele ha subito 228 condanne dalla sua fondazione; l'Assemblea l'ha condannato 18 volte solo nel 2016, il consiglio di sicurezza 12. Neppure Iran, Siria, Iraq, Corea del Nord, Sudan, sommate insieme, stanno alla pari con lo Stato Ebraico.
Se da una parte gli Usa sceglieranno di andarsene e dall'altra diranno molto direttamente a Guterres che una commissione contro il terrorismo all'Onu non si può fare perché rischia di diventare un perverso rifugio concettuale, questo porterà all'Onu un'aria di sfida, un rinnovamento vero. Haley, la cometa, illuminerà finalmente quei corridoi sordi e grigi.
(il Giornale, 4 marzo 2017)
Betlemme, i graffiti di Banksy nell'hotel con vista sul muro
L'artista racconta nelle stanze dell'albergo il conflitto israelo-palestinese. Ha lavorato 14 mesi in segreto, mistero sulla sua presenza all'inaugurazione.
di Fabio Scuto
L'Hotel "con la peggiore vista del mondo"
Dipinto murale di Banksy che mostra un poliziotto israeliano e un palestinese che combattono a cuscinate in una camera dellHotel
BETLEMME - L' hotel con la peggiore vista del mondo spunta sul lato della strada appena oltrepassato il checkpoint israeliano sul Muro di sicurezza alla Tomba di Rachel che circonda la città.
Il suo nome è già un programma: «The Walled Off Hotel». È in un panorama di desolazione come recita il suo nome, case malconce intorno sono sovrastate da una massa di cemento alta 9 metri, dominata dalle torrette di guardia. Ma il Walled Off Hotel offre ai viaggiatori e turisti che si avventurano verso la collina che ospita la Basilica della Natività qualcosa di più sfuggente e sottile rispetto ai comfort offerti da altri hotel, niente spa, né set da bagno sofisticati. È un albergo che è nello stesso tempo protesta e arte, è l'ultimo lavoro dell'artista di strada più famoso del mondo, il britannico Banksy. Le sue nove stanze e la «suite», con le finestre che affacciano direttamente sul Muro di separazione eretto dagli israeliani nel 2002, sono decorate con opere di questo street-artist misterioso. La barriera che avvolge completamente la città è considerata dai palestinesi un furto della loro terra e ne soffoca il movimento, è già stata «riccamente» decorata dall'artista britannico nel 2007 e da altri street-artist con numerosi murales.
Il «clou», mostra con orgoglio il direttore Wissam Salsah mentre porta un gruppo di giornalisti in giro per l'hotel per questa «anteprima», è certamente rappresentato dalla stanza numero 3. Qui gli ospiti, dal prossimo 20 marzo quando aprirà i battenti ai primi clienti, dormiranno in un letto king-size sotto un murales che ritrae un palestinese con la kefiah e un agente della Border Police israeliana che si affrontano a colpi di cuscino in una nuvola di piume, nella classica visione dello street-artist britannico capace di mescolare nelle sue opere poesia e realtà con una falsa ingenuità. Lui, che custodisce da anni gelosamente il suo anonimato, forse c'era ieri mattina o forse no, mescolato fra giornalisti, curiosi e funzionari palestinesi che apparivano sinceramente sorpresi. Perché Banksy e il suo team hanno lavorato 14 mesi in segreto fra le mura di questo palazzetto, con discrezione sono stati cumulati materiali e realizzate anche delle installazioni. Come la nicchia che all'ingresso ospita a grandezza naturale Lord Balfour mentre nel 1917 firma la famosa dichiarazione. L'intero lavoro è stato visionato e approvato dall'artista inglese. Quando, resta un mistero. Un suo portavoce ha distribuito alcune note dove si spiega che l'hotel è un'impresa commerciale, una spinta per incoraggiare il turismo che negli ultimi anni è sceso progressivamente, nella città dove per i cristiani tutto è cominciato 2017 anni fa. Che l'hotel vuole favorire il dialogo fra le parti (palestinese e israeliana), attirare l'attenzione su una città che - perso parte del contatto con le campagne circostanti - ha puntato tutto sul turismo per sostenere la sua economia e attrarre visitatori e turisti, come il restauro della Basilica della Natività, dove il tetto stava per crollare.
Con Betlemme, Banksy ha sempre avuto un rapporto particolare. Era già passato di qui nel 2007, lasciando dietro di sé 6 opere, le più celebri delle quali sono la colomba con il giubbotto antiproiettile e la bimba che cerca di sorvolare il Muro con dei palloncini in mano. Poi l'anno scorso a Gaza sono comparsi altri quattro murales, uno dei quali dipinto sulla parte rimanente di una casa distrutta dalla guerra del 2014, con la dea greca Niobe rannicchiata sulle macerie, il suo nome: «Danno da bomba».
(La Stampa, 4 marzo 2017)
Quelle ong che odiano Israele
Chiedono all'Onu di inserirlo nella lista degli assassini di bambini.
Isis, i talebani, al Qaida e ... le Forze di difesa israeliane. Il Watchlist, consesso di ong che monitora il rispetto dell'infanzia in guerra, ha chiesto all'Onu di aggiungere l'esercito israeliano alla lista nera dei soggetti che colpiscono i bambini in guerra. Un anno fa, l'allora segretario Ban Ki-moon aveva tolto Israele dalla lista. Ma visto che mostrare un po' di decenza era troppo per l'Onu, si era preferito salvare anche Hamas, che i bimbi israeliani li prende deliberatamente di mira. L'inclusione di Israele alla lista potrebbe tradursi in sanzioni. L'idea che Israele sia uno stato "infanticida" ormai ha penetrato larghi segmenti dell'opinione pubblica. La professoressa Monika Schwarz-Friesel dell'Università Tecnica di Berlino ha analizzato dieci anni di lettere inviate al Consiglio degli ebrei in Germania e all'ambasciata israeliana a Berlino. Contengono dichiarazioni come questa: "L'assassinio di bambini si adatta alla vostra tradizione". La baronessa Ashton, da responsabile della politica estera europea, ha accostato i bambini ebrei uccisi a Tolosa ai bimbi palestinesi vittime nelle guerre a Gaza. Alla Royal Court di Londra, la regista Caryl Churchill, ha realizzato uno spettacolo in cui alcune madri israeliane raccontano la storia dello stato ebraico ai figli: "Non parlate dei bambini palestinesi assassinati dall'esercito israeliano". Il fotografo svedese Paul Hansen ha vinto il World Press Photo Award con la foto del funerale di due bambini palestinesi. E durante l'ultima guerra a Gaza, nell'estate del 2014, l'Independent ha scritto che Israele è "una comunità di assassini di bambini". L'antisemitismo è tornato di gran moda. E' un'orrenda piaga dilagante.
(Il Foglio, 4 marzo 2017)
E il rifugio divenne una trappola. La caccia agli ebrei nel Sudtirolo
Joachim lnnerhofer e Sabine Mayr ricostruiscono le vicende della Shoah in Alto Adige (Raetia).
di Isabella Bossi Fedrigotti
Joachim Innerhofer spiega i segreti della Sinagoga di Merano
Ruth Eckstein, Ilse Eckstein, Adalgisa Ascoli, Isidor Schlaf, Anna Blums, Riccardo Luzzato, Alfred Bermann, John Gitte rmann, Alfred Russo, Malwine Lehmann, Clemens Fraenkel, Alfred Gruen, Charlotte Landau, Felicitas Landau sono soltanto alcuni degli ebrei residenti in Alto Adige vittime della Shoah. La lunga lista, con la storia di ciascuno di loro, l'hanno ricostruita la storica Sabine Mayr e il giornalista, oggi direttore del Museo ebraico di Merano, Joachim Innerhofer, entrambi sudtirolesi; ne è risultato un volume di impressionanti dimensioni, ora tradotto in italiano (da Antonella Tiburzi) con il titolo Quando la patria uccide (Raetia).
È uno Spoon River, un immaginario cimitero dove giacciono circa 150 morti assassinati - tanti sono quelli dei quali gli autori sono riusciti a rintracciare la vicenda - intere famiglie cancellate o parti di esse, uomini e donne di tutte le età, bambini compresi: per ciascuno c'è una data di nascita, non sempre quella della morte e, quando c'è, segna per lo più l'anno 1943 o il 1944. Erano commercianti, avvocati, medici, imprenditori, industriali, albergatori, farmacisti, cantanti, attori, giornalisti, ma anche impiegati, sarti, infermiere, commesse. Molti immigrati negli anni Venti e Trenta da Austria, Germania e Cecoslovacchia, quando in quei Paesi l'atmosfera per i cittadini ebrei aveva cominciato a farsi pesante e l'Italia, quell'Italia dove, oltretutto, si parlava tedesco, sembrava un luogo attraente, ancora sicuro; molti altri lì radicati da tempo e perfettamente integrati, parte della classe dirigente, residenti per lo più tra Bolzano e Merano.
Del resto il Sudtirolo, per la sua bellezza, per il suo clima, era sempre stato destinazione non soltanto di vacanze, ma anche di lunghi soggiorni per illustri turisti austriaci e tedeschi di origine ebraica: si pensi a
Sigmund Freud, a Stefan Zweig, a Franz Kafka, alle famiglie Hofmannsthal, Rothschild e Bloch Bauer (Adele BB fu ritratta da Klimt nel famoso quadro rubato dai nazisti che lo Stato austriaco ha dovuto recentemente restituire agli eredi della gran dama viennese).
Una meta quasi ovvia era, dunque, il Sudtirolo per gli ebrei della Mitteleuropa. E questo nonostante l'antisemitismo serpeggiasse da secoli tra le popolazioni locali. Basti pensare, per esempio, che nel XIV e XV secolo è attestato un insediamento di ebrei a Bolzano prima che scomparisse poco dopo «sotto la pressione di condizioni intollerabili», come scriveva a suo tempo lo storico Aron Taenzer. Ma ancora prima un'invasione di cavallette, un forte terremoto e la peste del 1348 portarono a massacri di ebrei, accusati di aver avvelenato le fontane per sterminare le popolazioni cristiane. Gli episodi di violenza si susseguirono nei secoli secondo lo stesso, ben noto schema: s'invocava, come pretesto delle violenze, la difesa della vera religione, ma, in realtà, ammazzare i prestatori di danaro era il metodo più efficace per cancellare il debito. E per impadronirsi di terreni, case, negozi, imprese.
Nel secolo scorso gli ebrei altoatesini furono vittime sia del nazismo sia del fascismo. Le leggi razziali del 1938 tolsero loro i diritti e spesso anche la cittadinanza italiana, che fino allora li aveva in qualche modo protetti; e l'8 settembre del 1943, con la trasformazione della regione in Zona operazione Prealpi - in sostanza un'annessione alla Germania - segnò per loro il compimento della tragedia. Le tappe dei sommersi furono il tristemente noto lager di Bolzano, il campo di raccolta di Fossoli e poi Auschwitz, la destinazione finale.
Gli autori hanno rintracciato eredi, intervistato parenti, raccolto testimonianze, ricostruito storie. Ne esce il quadro di un vasto gruppo di cittadini colti, cosmopoliti, intraprendenti, che avevano notevolmente contribuito alla prosperità della zona, estirpati, eliminati, cancellati dalla terra che pensavano fosse heimat, cioè patria, casa, riparato paese natio.
(Corriere della Sera, 4 marzo 2017)
Pitigliano, nuove sfide nel futuro della "piccola Gerusalemme"
Nuove idee per la Pitigliano ebraica
Il futuro della Pitigliano ebraica, la "piccola Gerusalemme", al centro dell'incontro che la Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni e il Presidente della Comunità ebraica di Livorno Vittorio Mosseri hanno avuto nelle scorse (?) con il sindaco del comune toscano Pier Luigi Camilli. Un incontro nel segno della progettualità, per la valorizzazione e la tutela dell'immenso patrimonio culturale custodito a Pitigliano, dal complesso museale all'antico cimitero ebraico cittadino.
Una sfida, è stato sottolineato, che passa da un sempre più stretto coordinamento tra le istituzioni locali, la Comunità ebraica livornese, l'UCEI, il lavoro dell'associazione "La piccola Gerusalemme" guidata da Elena Servi. Al sindaco Camilli è stato inoltre illustrato il progetto UCEI dedicato agli itinerari ebraici e al virtual tour, che potrebbe presto interessare anche la realtà di Pitigliano.
(moked, 3 marzo 2017)
Al via le prime esportazioni di gas da Israele verso la Giordania
AMMAN - La società israeliana Delek Drilling ha avviato le operazioni di esportazione di gas dal giacimento di Tamar verso la Giordania. Secondo quanto riferiscono i media arabi, le esportazioni sono iniziate a gennaio. Non c'è stato un annuncio ufficiale, ma come riferito da una portavoce della società, si tratta delle prime esportazioni di gas nella storia di Israele. Le compagnie giordane Arab Potash e Bromine hanno firmato un accordo nel 2014, del valore di 771 milioni di dollari, con Delek per l'importazione di 2 miliardi di metri cubi di gas dal giacimento di Tamar nei prossimi 15 anni. La Giordania ha siglato un accordo di pace con Israele nel 1994 in base al quale è stato firmato il contratto per l'importazione di gas. Buona parte della popolazione, tuttavia, è ancora contraria a qualsiasi accordo di tipo economico con un paese che considera "nemico". Nei mesi scorsi centinaia di persone sono scese in piazza ad Amman per protestare contro l'accordo sull'importazione di gas da Israele. La protesta è stata organizzata dalle realtà sindacali e politiche che si oppongono al trattato di pace e che includono il partito islamista, principale forza dell'opposizione. la Giordania, tuttavia, ha poche alternative all'importazione di gas dallo Stato ebraico per soddisfare il suo fabbisogno interno.
A settembre scorso, Amman ha firmato un altro accordo con Israele per l'importazione di gas. I membri del consorzio per lo sviluppo del giacimento offshore Leviathan hanno firmato un accordo con la società elettrica giordana (Jordan National Electric Power Company - Nepco) per la fornitura di 4,5 miliardi di gas per un periodo di 15 anni. Il contratto ha un valore stimato di circa 10 miliardi di dollari. Secondo i termini dell'accordo, la società di marketing Nbl Jordan Marketing, di proprietà del consorzio Leviathan, fornirà gas alla Giordania una volta che verranno posizionate le condutture tra il regno hascemita ed Israele.
Lo scorso 23 febbraio, Avner Oil e Delek Drilling, partner di Noble Energy nello sviluppo del Leviathan, hanno annunciato alla Borsa di Tel Aviv di aver approvato la decisione finale d'investimento nel progetto offshore. Noble si è assunta un impegno da 3,75 miliardi di dollari per la prima fase di sviluppo del giacimento, al termine di due mesi di trattative. Lo sviluppo del giacimento include la realizzazione di quattro pozzi, una piattaforma e un gasdotto di collegamento con la costa israeliana in grado di rifornire fino a 12 miliardi di metri cubi di gas l'anno allo Stato ebraico, alla Giordania e all'Autorità nazionale palestinese. I contratti siglati finora riguardano forniture pari a 4,5 miliardi di metri cubi l'anno, ma i partner del Leviathan sperano di ottenerne altri in futuro.
Avner Oil e Delek Drilling, che hanno entrambe il 22,67 per cento delle quote del Leviathan, hanno firmato un accordo per un prestito da 1,75 miliardi di dollari con un consorzio di banche guidate da JP Morgan e Hsbc. Noble Energy detiene invece il 39,66 per cento del giacimento e Ratio Oil il restante 15 per cento. Il ministro dell'Energia e delle Infrastrutture israeliano, Yuval Steinitz, ha commentato la notizia oggi affermando che lo sviluppo del Leviathan avverrà sotto la sua supervisione. "Avremo profitti in termini di entrate per lo Stato, aria più pulita per noi e i nostri figli e maggiore sicurezza energetica - ha detto Steinitiz -. La decisione finale di investimento da parte di Noble e dei suoi partner mette fine alle proteste di chi si è opposto all'accordo sul gas cercando di bloccarlo. Se continuiamo ad andare avanti in modo responsabile e con determinazione, potremo scoprire nuovi giacimenti e posizionare Israele come un importante operatore del mercato dell'energia per i nostri vicini in Medio Oriente e in Europa".
Il responsabile di Noble Energy in Israele, Bini Zomer, ha detto che negli ultimi due anni lo Stato di Israele ha fatto "passi da gigante per stabilire le condizioni necessarie per consentire alle compagnie energetiche di fare investimenti nello sviluppo delle risorse naturali del paese. Oggi, Israele sta raccogliendo i frutti di questi sforzi. Lo sviluppo del progetto Leviathan è un'altra pietra miliare nel raggiungimento della sicurezza energetica e porterà benefici nella qualità dell'aria e della salute dei cittadini israeliani - ha aggiunto Zomer - che inoltre potranno godere dei profitti governativi" derivanti dalla distribuzione del gas. Zomer ha detto inoltre che l'obiettivo è distribuire la prima fornitura di gas del Leviathan entro la fine del 2019. La scoperta del giacimento energetico, che contiene riserve stimate pari a 450 miliardi di metri cubi di gas naturale, risale al 2010.
(Agenzia Nova, 3 marzo 2017)
Il ministro israeliano Steinitz: puntiamo sul gasdotto Eastmad
Progetto tra Israele e Italia tramite Cipro e Grecia
ROMA - "Realizzare il gasdotto Eastmad tra Israele e Italia, attraverso Cipro e la Grecia, e' uno dei nostri obiettivi, considerati i giacimenti di gas naturale" di Israele ed il fabbisogno in Europa e Italia nei prossimi anni. Lo ha detto il ministro israeliano dell'Energia, infrastrutture e risorse idriche, Yuval Steinitz, incontrando alla Camera una delegazione di parlamentari della associazione interparlamentare di Amicizia Italia-Israele guidata da Maurizio Bernardo, presidente della Commissione Finanze della Camera. "Come ho spiegato ieri al ministro Carlo Calenda, che sarà a inizio aprile a Israele - ha proseguito Steinitz secondo una nota - il progetto e' ambizioso e contiamo di portarlo a termine in 4-5 anni, coinvolgendo anche i privati. Siamo qui anche per chiedere il sostegno del Parlamento italiano". "Il progetto va realizzato il prima possibile - ha detto da parte sua Bernardo -. Siamo pronti, anche come associazione interparlamentare di amicizia, a fare la nostra parte, forti degli ottimi rapporti esistenti tra i due Stati". "L'Italia - ha osservato Ignazio Abrignani, vicepresidente Commissione Attivita' Produttive della Camera - sta andando verso la de-carbonizzazione. Il gas naturale serve per il fare un giusto mix con le energie rinnovabili. Siamo fortemente dipendenti dalla Russia, l'approvvigionamento anche da Israele sarebbe ideale".
All'incontro hanno partecipato anche deputati e senatori delle Commissioni Attività Produttive e Bilancio delle due Camere.
(ANSAmed, 2 marzo 2017)
I nemici di Israele affamano i palestinesi
Gli attivisti di Bds boicottano l'azienda ebraica Sodastream, che aveva aperto uno stabilimento in Cisgiordania. L'Unione europea si è prontamente accodata, Risultato: l'impianto ha chiuso, lasciando a casa 500 lavoratori locali. Ma ai fanatici ancora non basta.
Come risposta, l'ad ha scritto sui prodotti: «Fatto in Israele. Questo prodotto è realizzato da arabi ed ebrei fianco a fianco in pace e armonia»
Scarlett Johansson, ebrea per parte di madre, era stata scelta dall'azienda come testimonial. Per ripicca, la Ong di cui era membro l'ha fatta dimettere
di Costanza Cavalli
Scarlett Johansson durante la presentazione come testimonial di SodaStream
Probabilmente Daniel Birnbaum, amministratore delegato di Sodastream, ha letto Luigi Pirandello. Per la precisione, la novella La patente: il protagonista Rosario Chiarchiaro ha una faccia che induce le persone a credere che sia uno iettatore. Perseguitato a causa del suo aspetto, che non può cambiare, farà della ragione per cui viene respinto la sua identità, pretenderà anzi di avere la «patente». Superstizione e pregiudizio sono parenti stretti e anche per Birnbaum e la sua azienda, colosso israeliano di gasatori per acqua e bibite: la questione è l'etichetta, o meglio il «marchio», di essere israeliani Sodastream, infatti, da anni è sotto schiaffo da parte di un movimento filo palestinese, Boycott, divestment and sanctions (Bds), nato con lo scopo di fare pressione economica e politica su Israele perché abbandoni i territori occupati a Est di Gerusalemme. L'azienda, presente in 45 Paesi, è stata presa di mira per aver aperto un centro di produzione a Mishor Adumim, nel cuore della Cisgiordania, insediamento ritenuto illegale dalla comunità internazionale fin dalla Guerra dei sei giorni del 1967
Orgoglio
È nei giorni scorsi che Birnbaum ha fatto la sua mossa «pirandelliana»: ha fatto applicare alle sue macchine l'etichetta «Made in lsrael. This product is produced by arab andjews working side-by-side in peace and harmony». Ovvero: «Fatto in Israele. Questo prodotto è realizzato da arabi ed ebrei che lavorano fianco a fianco in pace e armonia». Come la patente di Chiarchiaro. « Vogliamo mandare un messaggio di orgoglio nazionale, nel momento in cui molti di noi in tutto il mondo sono costretti a nascondere la loro identità», ha dichiarato Birnbaum. Questa è la sfida: se gli avversari ci appiccicano al bavero la stella gialla dispregiativa di «giudei», noi ne facciamo una bandiera. Questa è l'ultima azione, in ordine di tempo, di una battaglia che è cominciata nel 2007 ed è culminata nella. decisione dell'Unione europea, l'11 novembre 2015, di permettere che sui beni prodotti nei territori occupati venisse applicata l'etichetta «made in West Bank» o «made in Gaza», certificando il diritto di boicottare Sodastream. Sodastream è nata nel 1903 in Gran Bretagna, si è conquistata il favore dell'upperclass inglese, regnanti inclusi, ed è approdata sotto la stella di Davide nel 1978. La sua storia moderna comincia nel 2006, quando viene comprata per 6 milioni di dollari da un fondo israeliano posseduto da Yuval Cohen, che assume Birnbaum, un vivacissimo manager a capo del ramo israeliano di Nike, perché si occupi del rilancio.
Nuovo manager
Birnbaum è una specie di Steve Jobs e i prodotti decollano, la rete si allarga a tutto il mondo, ma la maggior parte dei gasatori, piccoli elettrodomestici nati per essere utilizzati in casa, è fabbricata a Mishor. Lo stabilimento è una ex fabbrica militare in cui si producevano micce per razzi. O governo israeliano incoraggia le attività industriali nella West Bank con sgravi fiscali e incentivi e Birnbaum, che ha in mente un'isola di pace e di lavoro comune, conia il motto: «Qui trasformeremo le spade in aratri». Comincia ad assumere arabi e palestinesi, in poco tempo Sodastream diventa il più importante datore di lavoro nei Territori. In questa fabbrica, fornita di una moschea interna, arrivano a lavorare 1.300 operai: 500 palestinesi, 450 arabi israeliani e 350 ebrei israeliani. Considerando le famiglie, dà di che vivere a 6.000 persone.
I guai cominciano l'anno dopo, quando il successo attira l'attenzione dei gruppi di opposizione che cominciano una campagna di denigrazione che si intensifica negli anni, insistendo sull'illegalità dell'attività dell'insediamento.
Nel 2014 la questione arriva all'Ue: 17 Paesi si pronunciano sul divieto di importare beni prodotti da Israele nella West Bank. È un'indicazione pericolosa, che apre le porte a ogni sorta di post verità: presto il contagio ideologico si spande oltre i confini dell'Unione, fino al Giappone, la Nuova Zelanda e gli Stati Uniti.
L'attrice
L'azione del gruppo di opposizione sembra non avere limiti: all'inizio del 2014, l'attrice Scarlett Johansson, ambasciatrice di Oxfam, ong britannica che combatte la povertà, viene scelta come testimonial globale di Sodastream. L'associazione, vicina alle posizioni dei boicottatori, la costringe a scegliere: o l'azienda israeliana oppure Oxfam. La Johansson,ebrea per parte di madre, decide di dare le dimissioni dalla ong. Uno degli episodi più curiosi capita alla società che gestisce le mense all'università di Harvard. Un gruppo di studenti del College palestine solidarity committee e della Harvard islamic society si lamenta per la presenza di sistemi di filtraggio dell'acqua nelle sale da pranzo «griffati» Sodastream, ritenendo che avrebbero potuto offendere gli universitari palestinesi. L'università decide quindi che il marchio sarebbe stato rimosso dagli erogatori e che in futuro sarebbero stati comprati nuovi macchinari americani.Spiega Birnbaum: «La tecnica di questa guerriglia è semplice: gli attivisti chiedono un colloquio con i rivenditori, portano loro prove - false - dell'illegalità del nostro lavoro, fino ad associarlo a parole magiche come pulizia etnica e crimini di guerra. Nel frattempo, cominciano un bombardamento di lettere e di post sui social media. A volte arrivano a picchettare l'entrata dei negozi e si spingono fino a veri atti vandalici». Un esempio è quanto è accaduto al punto vendita di Brighton, in Inghilterra: per due anni è stato preso di mira due volte alla settimana. La polizia effettuò vari arresti, ma alcuni membri del Parlamento presero le parti degli oppositori. «È normale che un rivenditore, pur di stare tranquillo, finisca per non volerne sapere più di Sodastream», commenta Birnbaum.
Trucchi
In generale, Sodastream ha evitato di reagire alle provocazioni. Le azioni di boicottaggio, però, si sono fatte via via più intense, così l'azienda ha scelto di variare la sua politica commerciale, distribuendo nei Paesi più sensibili alla questione palestinese, per esempio quelli scandinavi, gasatori fabbricati in stabilimenti «non sospetti», così da evitare un crollo delle vendite. Birnbaum, il 24 febbraio 2014, in un'intervista a International Business Times ha dichiarato: «Di questa guerra fra arabi e israeliani mi sono stancato. A seguito delle pressioni dei rivenditori nordeuropei siamo stati costretti a vendere prodotti provenienti e marchiati dalle nostre fabbriche in Cina». Aggiungendo, sarcastico: «La madre dei diritti umani».
Sostituiti
Per sostenere la causa dello stabilimento cisgiordano, Birnbaum ha viaggiato per il mondo, ha parlato al Congresso Usa e ha partecipato a tutte le trasmissioni radio e tv possibili. A febbraio 2014, alla Bbc, ha perfino chiarito che la fabbrica non si trovava nei territori propriamente detti, ma nell'Area C, una zona franca creata con i palestinesi.
Ogni tentativo è risultato vano e, nello stesso autunno, Sodastream ha annunciato l'abbandono dello stabilimento di Mishor Adumim. Quando lo stabilimento ha chiuso, la quasi totalità dei palestinesi è stata licenziata. La produzione è stata spostata in una sede nel Sud d'Israele, nel deserto del Negev, a Lehavim.
Dei 500 lavoratori palestinesi, dopo una trattativa con il governo, solo 74 hanno potuto mantenere il posto di lavoro nella terra di Davide, «mentre», continua l'ad, «in Israele lo Stato non solo tollera la presenza di 30.000 lavoratori abusivi, ma ha approvato la concessione di nuovi visti d'ingresso a 20.000 lavoratori cinesi».
La nuova intifada
Poi, a causa dell'Intifada dei coltelli, cominciata nell'autunno 2015, Tel Aviv, preoccupata dal fatto che gli attentatori che colpivano i passanti ebrei per le strade - erano per lo più incensurati e ignoti all'intelligence, non ha rinnovato i permessi di lavoro per il 2016. Sodastream il 2 marzo dello scorso anno ha diffuso un video in cui Birnbaum fuori dallo stabilimento di Lehavim, saluta i 74 dipendenti in lacrime all'ultimo giorno di lavoro: «Non dimenticate tre cose: qui abbiamo costruito la pace; non odiate i soldati al check point, loro non odiano voi; il governo non ci ha supportato, ma io non abbandono questo ideale e non fatelo neanche voi». Il Boycott ha rivendicato la vittoria, «ma non è chiaro su chi o che cosa: non sull'azienda, che si è solo spostata, non sull'occupazione dei territori, né Israele ha perso granché, mentre centinaia di palestinesi hanno perso la loro fonte di sostentamento», ha scritto David Rosenberg sul Financial Times.
I conti
Dal punto di vista economico, dopo un primo momento in cui la quotazione in Borsa e i ricavi hanno subito una flessione, sia l'etichettatura sia le azioni di disturbo del Boycott, pare abbiano dato risultati modesti. Kristin Kindow, vice presidente del Moody's investment service, ha dichiarato a Forbes: «L'impatto di Bds è più psicologico che reale. Le sanzioni rischiano invece di colpire l'economia palestinese, più piccola e povera di quella israeliana, proprio come si è visto nel caso Sodastream». Un caso che pare sia destinato a non concludersi ancora, visto che il Boycott è già impegnato in una nuova campagna, questa volta rivolta ai beduini del Negev che Sodastream ha assunto per sostituire i palestinesi. La contesa, quindi, continua. E l'atteggiamento di Birnbaum rimane lo stesso, anche fuori dalla Cisgiordania: «Nei nostri stabilimenti fabbrichiamo la pace; e nel frattempo anche la soda».
(La Verità, 3 marzo 2017)
Per gli odiatori di Israele lobiettivo è chiaro: i palestinesi non devono assolutamente smettere di soffrire, perché hanno ricevuto dal mondo il compito di testimoniare della malvagità degli ebrei che costituiscono lo Stato dIsraele. Con la loro sofferenza devono mantere viva la fiamma del loro odio, e di quello di tutto il mondo, contro lo sfacciato Stato ebraico che si rifiuta di smettere di esistere. M.C.
Addio a David Rubinger lo sguardo sulla storia di Israele
È morto David Rubinger, il fotografo che con i suoi scatti aveva raccontato la storia di Israele. Aveva 92 anni. La fotografia più nota, quasi un'icona, è quella che immortala i soldati israeliani davanti al Muro del Pianto nella Guerra dei Sei Giorni del 1967 (foto a lato). Ma ce ne sono tante altre. Bellissimi i ritratti dedicati ai padri fondatori, spesso colti in momenti di relax. In uno Ben Gurion fa la verticale sulla spiaggia, in un altro Golda Meir imbocca suo figlio. Rubinger ha catturato tutto: le guerre, i kibbutz, gioie e lutti. Anche Giovanni Paolo II al Muro del Pianto. Era nato in Austria nel 1924, da dove era fuggito per le persecuzioni naziste. Aveva anche preso parte alla guerra di liberazione con la Brigata Ebraica. Nel 1997 aveva ricevuto il Premio Israele, la più alta onorificenza dello Stato.
(la Repubblica, 3 marzo 2017)
Israele, il diritto internazionale e il ricorso alle forze militari di terra
GERUSALEMME - Il quotidiano "Jerusalem Post" dedica un approfondimento alle implicazioni legali del ricorso israeliano alle forze armate di terra, e le critiche della Nazioni Unite a pratiche adottate dalle forze israeliane come il lancio di missili senza testata esplosiva a mo' di colpi d'avvertimento ("roof knocking"). Noam Neuman, direttore del dipartimento di diritto Internazionale delle Forze di difesa israeliane, ha fornito proprio di recente un punto di vista su come l'esercito determini i propri obblighi di diritto internazionale in situazioni complesse che richiedono l'impiego di forze terrestri. Parlando a una conferenza dell'Hebrew University promossa dal Minerva Center, Neuman ha sottolineato che mentre la maggior parte del diritto internazionale contemporaneo dibatte circa l'impiego della forze aeree e dei droni, Israele si trova a far fronte a criticità di natura differente. Neuman ha illustrato diversi strumenti che compongono l'armamentario dell'Esercito israeliano - come granate, fucili d'assalto e carri armati - e le sfide legali specifiche poste da ciascuno di essi in relazione a sfide particolari, come le irruzioni in edifici privati e la bonifica di trappole esplosive. Il funzionario ha illustrato anche i dettagli di pratiche come l'irruzione e l'occultamento tramite fumogeni: tutte pratiche che costituiscono la base dell'addestramento dei reparti di terra, ma che assumono una rilevanza e rischi particolari in teatri ad alta densità di civili come quelli in cui si trovano ad operare i militari israeliani.
(Agenzia Nova, 3 marzo 2017)
Giornata dell'udito - Premiata la scuola ebraica di Torino
Oggi è la "Giornata dell'udito", versione italiana dell'internazionale "World hearing day", indetto dall'Organizzazione Mondiale della Sanità. Un giorno nato per sensibilizzare sul tema della sordità, che questa mattina è stato celebrato anche presso il Ministero della Salute, alla presenza del Ministro Beatrice Lorenzin.
Nel corso della mattinata è stata illustrata la campagna di prevenzione "L'udito è uno strumento prezioso" ed è stato presentato il comitato scientifico dell'Associazione "Nonno ascoltami", che cura l'iniziativa nel nostro Paese. E, tra i protagonisti dell'incontro, ci sono state anche le Scuole ebraiche di Torino, il cui lavoro audiovisivo sul tema della sordità è stato proiettato di fronte al qualificato uditorio di rappresentanti delle istituzioni, studiosi ed esperti: un video che elabora i disegni e i pensieri che i bambini hanno espresso sulla sordità, e il rapporto con le persone da essa più colpite, i nonni e le nonne.
Il lavoro didattico delle Scuole ebraiche di Torino era stato infatti molto apprezzato nel corso della manifestazione "Nonno ascoltami", svoltasi a Torino (e in tante altre città italiane) il 9 ottobre scorso. Tanto da spingere l'omonima Associazione a chiedere alle Scuole ebraiche di realizzare un audiovisivo proprio sul lavoro dei ragazzi.
Le Scuole ebraiche paritarie di Torino, dirette da Sonia Brunetti e suddivise in scuole dell'infanzia e primaria Colonna e Finzi, e nella secondaria di primo grado Emanuele Artom, hanno trovato nell'iniziativa sulla sordità una grande assonanza con gli intenti formativi della scuola, che prevedono percorsi di educazione al benessere e alla salute, una particolare attenzione alla formazione scientifica e ai rapporti intergenerazionali.
A rappresentare le scuole ebraiche Laura Giulianati, mamma di un bambino che frequenta l'istituto, e coinvolta nell'associazione "Nonno ascoltami".
(moked, 3 marzo 2017)
La nuova dirigenza di Hamas e i rischi di instabilità nel Vicino Oriente
di Giuseppe Dentice
Ismail Haniyeh e Yahya al-Sinwar
Le elezioni interne ad Hamas iniziate nel gennaio scorso e volte a scegliere la nuova dirigenza al potere nella Striscia di Gaza hanno definito un ulteriore step nel processo di radicalizzazione politica che il gruppo islamista sta conoscendo da alcuni anni a questa parte. Infatti, la nomina di un nuovo leader considerato un "falco tra i falchi" e le ripercussioni che questa può comportare nello scenario politico palestinese potrebbe rappresentare altresì un'alquanto pericolosa sfida al quadro di sicurezza e di stabilità vicino-orientale.
Il 13 febbraio scorso il Comitato esecutivo di Hamas ha eletto a netta maggioranza Yahya al-Sinwar (anche noto come Abu Jamil o Abu Ibrahim) nuovo leader della medesima organizzazione islamista. Sinwar, già a capo delle Brigate Izz al-Din al-Qassam (l'ala militare di Hamas), è un militante anziano del gruppo, già Comandante del Munazzamat al-Jihad wal-Dawa (MAJD, gli apparati di sicurezza del movimento e uno dei tanti attivi a Gaza) e, negli ultimi anni, punto di raccordo con l'anima politica dell'organizzazione. Più volte arrestrato dagli israeliani, Sinwar era stato definitivamente catturato e condannato all'ergastolo nel 1988 per l'omicidio di un soldato israeliano. Nel 2011 era stato rilasciato nell'ambito dello scambio di prigionieri politici che aveva portato alla liberazione di Gilad Shalit, il caporale israeliano catturato da Hamas nel 2006 - pare da una cellula fedele a Sinwar - durante la guerra con il Libano, e alla scarcerazione di oltre un migliaio di militanti palestinesi. Nel 2015 gli Stati Uniti lo avevano inserito nella black list del terrorismo internazionale a causa delle sue posizioni oltranziste in merito al conflitto "infinito" con Israele. Anche alla luce di ciò, Sinwar è considerato da quasi tutti i media specializzati israeliani e statunitensi come un integralista e per certi versi un estremista persino all'interno di Hamas.
La nomina di Sinwar, che succede all'ex uomo forte di Gaza Ismail Haniyeh, a sua volta subentrante nei prossimi mesi nella carica di guida spirituale al posto di Khaled Meshaal - dimissionario e ormai fuori dai giochi di potere del gruppo dopo il suo esilio volontario in Qatar -, oltre a rappresentare una nuova svolta radicale interna al gruppo islamista, potrebbe definire un chiaro segnale di opposizione alla riconciliazione intra-palestinese con i rivali di Fatah. Nonostante i vari Vertici andati in scena dall'aprile 2014 in poi (ossia dall'ultimo tentativo di governo di unità palestinese) al Cairo, a Beirut e ad Amman nel tentativo di rilanciare la cooperazione tra le diverse anime palestinesi - non ultimo evidenziato dall'intesa raggiunta a Mosca nel gennaio di quest'anno, dove Hamas, Fatah e il Palestinian Islamic Jihad (PIJ) avevano trovato un accordo preliminare per rilanciare l'ipotesi di un esecutivo di unità nazionale -, oggi qualsiasi tentativo di riconciliazione intra-palestinese sembra essere un'effimera illusione, anche in virtù della continua "guerra fredda" in corso tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, fatta di arresti e defezioni reciproche sul terreno. Anche alla luce di ciò appare più probabile l'ipotesi di un rafforzamento dell'entità - politica e militare - di Hamas nella Striscia di Gaza, volutamente separata e/o isolata dalla leadership di Fatah in Cisgiordania, decretando di fatto l'esistenza di due soggetti politici palestinesi indipendenti, fattore che potrebbe indebolire ulteriormente il già fragile processo di pace con Israele.
L'elezione di Sinwar evidenzia inoltre il definitivo consolidamento delle Brigate al-Qassam ai danni della componente politica - come dimostrano la nomina di Khalil al-Haya quale numero due nella scala gerarchica dell'organizzazione e l'elezione degli altri membri provenienti dall'ala militare nel bureau politico. Lo scontro tra le due anime di Hamas è divenuto ormai palese e la sua origine deve essere rinvenuta nella scelta di Khaled Meshaal di impedire all'ala militarista del movimento di effettuare un attacco contro alcuni villaggi nel sud di Israele durante la guerra di Gaza del luglio-agosto 2014 ("Protective Edge"). Questo episodio ha segnato una frattura almeno all'apparenza insanabile, alimentata anche dalle critiche rivolte dalla cerchia di Sinwar all'allora ufficio politico di Hamas accusato di incapacità e inadeguatezza sia nei confronti delle condizioni di vita della popolazione locale gazawi - vessata da una perdurante crisi economica accentuata dall'embargo economico israeliano e dal ripetersi di conflitti all'interno dei territori della Striscia - sia in merito - a loro dire - alle deboli posizioni assunte dalla precedente dirigenza nei confronti della causa palestinese, che rischierebbe di essere appaltata in favore dei gruppi radicali ed estremisti, come ad esempio anche lo Stato Islamico (IS), proliferanti a Gaza e nel confinante Sinai egiziano.
Una situazione, questa, potenzialmente destabilizzante che potrebbe favorire - come in altri casi analoghi di forte instabilità e insicurezza nella regione - l'ascesa e l'affermazione di IS in loco, con ripercussioni geo-strategiche dirette negli equilibri del Vicino Oriente. È altrettanto evidente che la penetrazione ideologica di frange estremiste esterne alla Striscia suscettibili di orientare l'opinione pubblica locale verso posizioni sempre più radicali rappresenta di fatto una duplice sfida, politica e di sicurezza, al sistema di legittimità vigente promosso da Hamas. In questo senso, quindi, la nomina di Sinwar appare essere una scelta tattica e funzionale alla volontà del movimento di recuperare credibilità in termini di appeal nei confronti del proprio elettorato e di conservazione dei pur sempre delicati e fragili equilibri securitari che coinvolgono anche altri attori locali come Egitto e Israele, con i quali l'organizzazione islamista collabora in maniera ufficiosa e pragmatica con i compiti di controllore interno delle fazioni più radicali in funzione anti-IS e di guardiano delle frontiere tra Egitto e Gaza con l'obiettivo finale di evitare una saldatura transnazionale delle violenze contro i tre stessi attori coinvolti. Tale condotta però potrebbe subire una profonda revisione da parte della nuova dirigenza, favorendo al contempo una maggiore collaborazione, seppur non ufficiale, con IS a Gaza e il lancio di una nuova campagna retorica e militare a bassa intensità contro Il Cairo e Tel Aviv, con il rischio che un'eccessiva esasperazione dei toni e delle azioni violente in particolare nei confronti dello Stato ebraico possa aprire di fatto le porte ad un quarto conflitto in meno di un decennio nella Striscia, scenario di fronte al quale l'Egitto potrebbe peraltro presentarsi come spettatore più disiniteressato che non impegnato a salvaguardare l'antico protettorato gazawi.
In uno scenario sempre più complesso, polarizzato e mutevole, i cambi al vertice di Hamas potrebbero pertanto rappresentare un nuovo banco di prova per la stabilità e per la legittimità delle istituzioni locali, nonché per la tenuta dei delicati equilibri del Vicino Oriente.
(Paperblog, 1 marzo 2017)
iPhone 8 con realtà aumentata? Apple ha un team di 1.000 ingegneri
Arrivano da Israele nuove indiscrezioni sulle caratteristiche del prossimo cellulare top di gamma della Mela, che potrebbe integrare una fotocamera a infrarossi e un sensore 3D per mappare lo spazio circostante.
La prossima funzionalità dell'iPhone 8? Il supporto alla realtà aumentata. Secondo Business Insider, Apple avrebbe assoldato oltre mille ingegneri e li avrebbe "rinchiusi" in un laboratorio israeliano per condurre un progetto sperimentale sulla realtà aumentata. L'indiscrezione è stata ottenuta dalla testata dalla società Ubs Research, la quale ha sottolineato che le novità sarebbero in dirittura d'arrivo già sul modello di smartphone atteso per l'autunno. I dettagli sono scarsi: gli unici indizi trapelati sono una mappatura 3D visibile tramite fotocamera e un kit di sviluppo aperto ai creatori di applicazioni. Se i rumors dovessero trovare conferma (e lo si saprà soltanto alla presentazione dell'iPhone 8), vorrà dire che il prossimo top di gamma di Apple integrerà una fotocamera con funzionalità di riconoscimento facciale tramite infrarossi e un sensore 3D per mappare lo spazio circostante.
Specifiche che rispecchiano quanto reso noto a febbraio dall'analista Ming-Chi Kuo, di Kgi Securities, il quale ha sottolineato come la Mela sia "anni luce davanti ad Android in termini di algoritmi 3D, che renderanno i sensori 3D avanzati una caratteristica unica degli iPhone per almeno un paio di anni". Negli ultimi mesi Cupertino ha rilevato diverse startup tecnologiche impegnata nel campo della realtà virtuale e aumentata.
Tra queste spiccano Primesense e Realface, entrambe basate a Tel Aviv, in Israele, dove secondo gli ultimi rumors, l'azienda avrebbe avviato il progetto di ricerca con i mille ingegneri. Il mercato della realtà aumentata è uno dei primari interessi di Tim Cook, Ceo di Apple, il quale ha spesso definito la tecnologia come molto più promettente della realtà virtuale, ritenendola centrale per il futuro dei dispositivi elettronici.
A ottobre Cook aveva dichiarato a Buzzfeed che "la realtà aumentata avrà ancora bisogno di tempo per funzionare correttamente, ma credo proprio sia una cosa molto profonda", aggiungendo che l'interazione umana "non conosce sostituti": segnali che spingono proprio in direzione dello sviluppo di sistemi di realtà aumentata che, a differenza di quella virtuale, non proietta le persone in un mondo isolato.
(ictbusiness, 2 marzo 2017)
Emicrania, con un cerotto elettronico si «spegne»
Per lenire il mal di testa, o emicrania, si può ricorrere a un cerotto elettronico da portare al braccio, riducendo così il ricorso ai farmaci. Con una semplice scossa indolore, il cerotto può letteralmente 'spegnere' l'emicrania.
di Stefania Del Principe
L'emicrania si spegne con un cerotto
ISRAELE - Gli scienziari della Technion Faculty of Medicine di Haifa, in Israele, hanno sviluppato un cerotto elettronico che si può portare al braccio che può letteralmente 'spegnere' l'emicrania. Il congegno è in grado di dare sollievo a chi soffre di questi mal di testa, permettendo così di ridurre il riscorso ai farmaci, non esenti da effetti collaterali anche pesanti.
Stimolare il cervello
Secondo quanto riportato nello studio pubblicato sulla rivista Neurology, il dispositivo applicabile al braccio agisce per mezzo di una piccola scossa elettrica indolore. Questa va a stimolare il cervello e infine riduce l'intensità dell'attacco. Il meccanismo su cui si basa il sistema è detto 'modulazione condizionata del dolore', e si è rivelato efficace.
Lo comandi anche con il cellulare
Per questo studio i ricercatori hanno coinvolto 71 pazienti affetti da emicranie ricorrenti e frequenti. A questi è stato fornito il cerotto da applicare sul braccio e comodamente comandabile con lo smartphone tramite un'App dedicata. Non appena il paziente avverte l'arrivo dell'emicrania può attivare il cerotto (l'importante è farlo entro i primi 20 minuti dall'inizio dell'attacco). Dopo di che il cerotto inizia a fare il suo lavoro, che pare funzionare bene.
Ridurre i farmaci
I risultati dei test hanno mostrato che il cerotto funziona anche meglio dei farmaci. Se per esempio la stimolazione è attivata il prima possibile e viene ripetuta, maggiore è la riduzione del dolore e della crisi. In sostanza, i ricercatori ritengono che la stimolazione attuata dal cerotto elettronico sia altrettanto efficace rispetto alle tradizionali terapie farmacologiche. «Il prossimo passo - sottolinea il dottor David Yarnitsky, autore principale dello studio - sarà testare il cerotto in test clinici più ampi che coinvolgeranno quasi 200 pazienti».
(Diario Salute, 2 marzo 2017)
Aumentano le pressioni per l'annessione dell'insediamento di Ma'aleh Adumim
GERUSALEMME - La proposta di annettere Ma'aleh Adumim, un insediamento in Cisgiordania a est di Gerusalemme, dovrebbe essere presentata al Comitato ministeriale per la legislazione israeliano la prossima settimana, dopo numerosi ritardi. Sponsor del disegno di legge è un parlamentare israeliano del Likud, Yoav Kish, che aveva chiesto di sottoporlo al voto diverse settimane fa; la richiesta aveva incontrato l'opposizione del primo ministro Benjamin Netanyahu, riluttante a "viziare" in quel modo il primo faccia a faccia con il nuovo presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che ha incontrato a Washington lo scorso 15 febbraio. L'obiettivo di Kish, scrive il quotidiano "Haaretz", è di forzare il consiglio dei ministri a discutere la proposta, per poi giungere al dibattito parlamentare entro le prossime settimane. Il disegno di legge prevede l'estensione della giurisdizione israeliana all'insediamento di Ma'aleh Adumim, con la sua conseguente annessione alla zona contesa E1, che è stata aggiunta in passato al territorio comunale della città. L'area in questione ha una superficie complessiva di circa 12 chilometri quadrati. La comunità internazionale, come Washington, si oppone all'annessione dell'appezzamento, che isolerebbe il nord della Cisgiordania dal sud e priverebbe così dell'integrità territoriale un futuro Stato arabo palestinese.
(Agenzia Nova, 2 marzo 2017)
Quando il tallone d'Achille è il sistema scolastico
di Aviram Levy
Intervenendo a un convegno della confindustria israeliana, la governatrice della Banca centrale d'Israele Karnit Flug ha lanciato un nuovo campanello d'allarme sulla inadeguatezza del sistema scolastico israeliano. Quali sono le debolezze delle scuole israeliane e quali le conseguenze? Lo spunto è stato offerto da una domanda rivolta alla governatrice dall'uditorio, sul perché la banca centrale e il Ministero del Tesoro non adottano misure di stimolo all'economia, in un contesto in cui il prodotto cresce a ritmi soddisfacenti 13% l'anno) e la disoccupazione è contenuta ma il potere d'acquisto delle famiglie è basso e vi è una percezione diffusa che il benessere è scarso e concentrato in una piccola fetta di popolazione. La governatrice ha esposto la visione che è ormai di consenso tra le autorità di politica economica dei paesi sviluppati, ossia che politiche di stimolo (riduzione dei tassi d'interesse da parte della banca centrale o aumento della spesa pubblica da parte del Governo) hanno dei vincoli oggettivi (il fatto che i tassi sono vicini allo zero e la necessità di evitare deficit dei conti dello Stato) e comunque hanno effetti temporanei sull'occupazione e si traducono in aumenti dell'inflazione. Secondo la Flug, la chiave per aumentare in modo permanente il benessere della popolazione (in termini economici si tratta della produttività, ossia del prodotto annuo di ogni lavoratore) è quella di agire sul sistema scolastico, che rimane un tallone d'Achille dell'economia israeliana.
È un fatto poco noto che il sistema scolastico israeliano (istruzione primaria e secondaria, ossia elementari, medie inferiori e medie superiori) soffre di una duplice debolezza: da un lato un livello generale di preparazione degli studenti, specie nelle materie scientifiche, basso nel confronto internazionale (lo confermano i test PISA) dall'altro lato le forti disparità tra studenti di diversa estrazione socio-economica (Tel Aviv rispetto a Beer Sheva, per intendersi) e di diverse etnie (arabi e ebrei ultraortodossi sono le minoranze svantaggiate). Dalla qualità del sistema scolastico dipendono i percorsi lavorativi e il gradino sociale che gli studenti di oggi raggiungeranno domani e l'istruzione è divenuto uno strumento ancora più importante nell'epoca della globalizzazione e dell'accresciuta concorrenza delle economie emergenti. Sotto questo profilo ci sono alcune analogie tra Israele e l'Italia. Ma come si concilia, qualcuno obietterà, questa debolezza con il successo e la fama mondiale delle università israeliane nonché con la vivacità del settore delle alte tecnologie, fiore all'occhiello del paese e ad elevata intensità di manodopera qualificata? Come si spiega il paradosso? In primo luogo c'è una cesura tra scuole e università israeliane dovuta al fatto che le università da un lato ricevono ingenti finanziamenti pubblici e privati, dall'altro beneficiano della "fuga di cervelli" stranieri, un po' come le università americane. In secondo luogo il settore high tech rappresenta una nicchia e una piccolissima percentuale della popolazione e della manodopera israeliana, e purtroppo ha ricadute limitate sul resto del paese.
(Pagine Ebraiche, marzo 2017)
Elor Azaria ricorre contro la condanna
TEL AVIV - Il soldato Elor Azaria ha deciso di ricorrere in appello contro la condanna emessa il mese scorso dal Tribunale militare di Tel Aviv a 18 mesi di carcere per omicidio colposo, avendo egli ucciso un assalitore palestinese che giaceva a terra gravemente ferito.
Lo ha riferito radio Gerusalemme. Secondo i media, tre dei suoi avvocati difensori - che ritenevano ormai preferibile per Azaria l'ingresso in carcere e l'immediata richiesta di una grazia - si sono dissociati dalla decisione e hanno dato le dimissioni.
Azaria sarà dunque rappresentato in appello dall'avvocato Yoram Sheftel, un legale molto noto in Israele per essere riuscito nel 1993 ad annullare la condanna a morte di Ivan Demianyuk, un ucraino ritenuto essere stato un aguzzino del campo di sterminio di Treblinka.
Sheftel riuscì ad ottenere per lui l'assoluzione col beneficio del dubbio e la estradizione negli Stati Uniti, dove si ricongiunse con i familiari.
(tio.ch, 2 marzo 2017)
"Boicottare Israele". Gli universitari approvano la mozione
Primo caso in Italia. Il rettore: "Gli accordi con Technion non riguardano attività per l'uso militare delle tecnologie". Il documento sarà discusso dal Senato Accademico. Obiettivo Studenti si oppone.
di Jacopo Ricca
Gli universitari di Torino scelgono il boicottaggio di Israele e del Technion, l'università di Haifa finita più volte nel mirino dei militanti pro Palestina. Con una mozione dura, votata a maggioranza (16 favorevoli e 5 contrari), il Consiglio degli studenti ieri ha chiesto che il rettore Gianmaria Ajani «receda agli accordi attualmente in vigore con il Technion» entro la metà di aprile. La richiesta, che per essere valida dovrà essere votata da Senato accademico e consiglio d'amministrazione, è la prima ad essere approvata da un organo istituzionale di un ateneo italiano. Nel testo si sostiene, citando Amnesty International, che lo «Stato di Israele abbia deliberatamente colpito obiettivi civili e si sia reso responsabile di crimini di guerra durante l'attacco condotto nell'estate 2014 contro Gaza». E gli studenti sposano la campagna di Bds, cioè boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele e le sue istituzioni.
Un voto che arriva proprio nella settimana di sensibilizzazione sull'argomento organizzata dagli universitari del collettivo "Progetto Palestina" che da anni si battono contro questo tipo di accordi: «Siamo soddisfatti e speriamo che questo sia un primo passo e che anche altri atenei seguano questo esempio», commentano. Tra i sette punti approvati nella mozione, si chiede di stracciare la collaborazione con il Technion che già negli anni scorsi aveva suscitato polemiche, e contro cui sono state raccolte centinaia di firme tra docenti e studenti di molte università italiane. Ma si invita anche l'ateneo «a prendere pubblicamente posizione contro le violazioni per parte israeliana della legislazione internazionale e della Dichiarazione universale dei diritti umani e a non intessere più relazioni con tutti quei soggetti che contribuiscano o traggano beneficio dalle violazioni israeliane e dai loro contatti con le forze armate di quel Paese».
Il rettore Ajani conferma che se la presidente del Consiglio Studenti, Irene Raverta, porterà la questione agli organi centrali questa verrà discussa, ma ribadisce: «La cooperazione che abbiamo noi con il Technion è stata approvata dalla maggioranza di Senato e Cda e gli accordi stipulati non coinvolgono attività legate all'uso militare delle tecnologie, né la violazione dei diritti umani». Il tema potrebbe essere già calendarizzato nelle sedute previste tra un paio di settimane: «Il Technion è uno degli istituti più coinvolti nella progettazione di tecnologie usate contro il popolo palestinese - spiega Raverta, presidente espressione della lista di maggioranza Studenti Indipendenti - Abbiamo scritto la mozione con il coordinamento Studenti contro il Technion se fosse approvata dall'ateneo saremmo la prima università italiana ad assumere una posizione politica sul tema del conflitto israeliano-palestinese».
Di tutt'altra opinione Luca Scudeler, portavoce di Obiettivo Studenti che si è opposto alla mozione: «Boicottare una comunità accademica popolata da studenti nostri coetanei equivale ad isolarla, impedendo alle future generazioni di israeliani di crescere e portare un contributo diverso rispetto a quella attuale sul conflitto in atto».
(La Stampa, 2 marzo 2017)
«Il Technion è uno degli istituti più coinvolti nella progettazione di tecnologie usate contro il popolo palestinese», dice il capo degli studenti. Perché bisogna sapere che questi giovani idealisti hanno un amore sviscerato per il popolo palestinese, che evidentemente ai loro occhi appare essere, tra tutti i popoli, il più misero, il più oppresso, il più sfruttato, il più martirizzato su tutta la terra. Da chi? Ma dagli ebrei, naturalmente. No, questo forse lo contesteranno: non sono gli ebrei, ma lo Stato israeliano, che per loro è tuttaltra cosa. Loro sono antisionisti, non antisemiti. Lantisemitismo è di destra, dicono, è di gente come il Duce, il Führer, i naziskin, loro sono per la giustizia, non antisemiti. Forse in parte è vero, perché non è questa la loro caratteristica principale. Prima di tutto sono semplici, vacui ipocriti, fin troppo riconoscibili nella loro ipocrisia mentre si dilettano nei loro stupidi passatempi giovanili da movimento studentesco del terzo millennio. Come a quel tempo, non sanno né quello che dicono né quello che fanno. Ma sono presi in considerazione dallambiente circostante, perché a parlar male degli ebrei (oggi rappresentati da Israele) si ottiene sempre una buona audience. Provocano disastri? Loro non se ne accorgono e a loro non interessa. La parte dei giusti a buon mercato li appaga pienamente. M.C.
Il tocco di lvanka dietro le parole di Donald su antisemitismo, ambiente e minoranze
La figlia ha suggerito la linea morbida
Ivanka con il padre
NEW YORK - C'è la mano di Ivanka, finalmente notano diversi osservatori, dietro al nuovo tono scelto dal padre per il discorso al Congresso. La figlia di Trump avrebbe lavorato fino all'ultimo sul testo, insieme allo scrittore Stephen Miller, per assicurarsi che fosse meno cupo dell'Inauguration, e contenesse temi come la condanna degli atti di odio verso gli ebrei e le minoranze, la difesa dell'ambiente e le agevolazioni per le famiglie.
Ivanka non ha un ruolo ufficiale alla Casa Bianca, ma suo marito Jared Kushner è il consigliere «senior». Prima che Trump entrasse in carica, tutti si aspettavano che la coppia diventasse la sponda moderata dell'amministrazione, frenando gli impulsi personali di Donald, e soprattutto quelli degli altri collaboratori chiave come Steve Bannon. Finora però si erano visti pochi segni della loro presenza, tranne quando erano intervenuti per evitare che il nuovo presidente cancellasse le protezioni offerte ai gay da Obama. Jared e Ivanka, in sostanza, sembravano aver perso il braccio di ferro per l'influenza sul capo della Casa Bianca.
Il discorso di martedì sera conteneva tutta la sostanza delle idee di Bannon, ed è stato scritto dal suo braccio destro Miller, ma secondo il sito Axios lvanka ci ha lavorato fino all'ultimo e ha lasciato il segno. L'apertura con la condanna degli atti vandalici, le minacce contro la comunità ebraica, gli spari in Kansas contro gli immigrati indiani, sarebbe stata suggerita da Hope Hicks, direttrice delle comunicazioni della Casa Bianca che lavorava con lei. lvanka poi ha insistito sul tono ottimistico, e l'inclusione di temi come la salute delle donne, l'aspettativa pagata, l'aria e l'acqua pulita, anche se il padre ha appena cancellato le regole di Obama su questo punto. Ora si tratta di capire se è stato un caso isolato, oppure se lei e Jared hanno riconquistato l'orecchio di Trump spingedolo alla moderazione.
(La Stampa, 2 marzo 2017)
Nell'ebraismo. Le regole alimentari valgono come quelle etiche
di Elena Loewenthal
Se è vero che, come dice un adagio indiano, siamo quello che mangiamo, non lo è meno il contrario: mangiamo quello che siamo. La nostra identità si fonda anche sul nostro rapporto col cibo, sulle nostre passioni e i nostri tabù. Del resto, siamo anche quello che "non mangiamo": siccome la carne è debole e le tentazioni abbondano la privazione deve sempre avere un senso, uno scopo, una certa qual gratificazione.
E questo succede più che mai nell'ebraismo, perché a differenza di altre la fede d'Israele si fonda sull'assunto che essendo l'uomo fatto di materia e anima entrambe contano nella stessa misura Non c'è mai nell'ebraismo un rifiuto della fisicità, perché il corpo è un dono di Dio non meno dello spirito. Questo spiega, ad esempio, la vasta serie di norme relative alla vita materiale, a incominciare dai divieti alimentari, che nell'ebraismo non sono considerate secondarie rispetto alle supreme leggi etiche - come la fede in Dio o la pietà- e fanno invece parte integrante di una vita ebraicamente completa.
Vino buono e rigidamente kosher
In questo contesto anche la astensione dal cibo fa ovviamente la sua parte: nel calendario ebraico ci sono infatti alcuni digiuni. Ma questa pratica non ha un senso univoco di mortificazione attraverso la privazione. Il 9 del mese di Av (che cade fra luglio e agosto) è il ricordo dell'evento infausto per antonomasia: la distruzione del Tempio di Gerusalemme ad opera una volta dei Babilonesi e un'altra dei Romani, come se quel giorno fosse una sorta di nero gorgo della storia Il digiuno dei primogeniti precede la festa di Pasqua - cioè l'Esodo dall'Egitto - e celebra con trepidazione il fatto che Dio abbia risparmiato i primogeniti d'Israele durante l'ultima terribile piaga, subito prima di dare loro la libertà.
Ma il digiuno ebraico per eccellenza è quello del Kippur, cioè dell'espiazione: culmine del grande ciclo di feste con cui si inaugura l'anno - che di solito cade a settembre - questo digiuno suggella i cosiddetti "giorni tremendi" in cui l'individuo sta di fronte a Dio, ma soprattutto di fronte a se stesso e al prossimo, in attesa del giudizio. Kippur non è un momento di mortificazione e paura: è piuttosto un momento di bilancio morale e di attesa L'astensione totale dal cibo e dalle bevande, il divieto di indossare capi in pelle, accompagnano una giornata di preghiera ma anche e forse soprattutto di acquisizione di consapevolezza: cosa ho fatto di male in passato? In quelle ore Dio può perdonare i peccati commessi verso di Lui - sempre che siano riconosciuti e scanditi ad alta voce - ma non può farlo con quelli commessi verso il prossimo "umano". Nessuno, nemmeno l'Altissimo, può condonare per conto terzi. Dunque il Kippur è anche un momento fondamentale di bilancio "sociale", in cui è essenziale dirimere le questioni lasciate in sospeso: chiedere scusa a chi abbiamo offeso, impegnarsi a non commettere in futuro gli stessi errori del passato.
E il digiuno non è tanto il segno della mortificazione, non è fatto per umiliare il corpo e attraverso questo gesto cercare compassione: ci si astiene dal cibo per elevarsi, quasi per essere più leggeri, più vicini al cielo. Per ascoltare meglio la voce del prossimo e quella che viene di lassù, a indicarci la strada. Alla fine di questa giornata c'è un canto bellissimo, intitolato ''Neilah": le voci si levano quando la luce del giorno calante sfiora le fronde degli alberi più alti, appena prima che le porte del cielo si chiudano e con esse le pagine del Libro della Vita dove sono scritte le azioni di ciascuno. Siglato il bilancio del passato ci si apre a un futuro in cui, possibilmente, non commettere gli stessi errori.
(La Stampa, 2 marzo 2017)
Parashà della settimana: Terumah (offerta)
Esodo 25:1-27:19
- La parashà di Terumah (offerta) segue alla parashà di Mishpatim (leggi) in quanto prima di costruire la Casa di D-o bisogna costruire la Casa degli uomini sulla base della giustizia e della pace (shalom). E' da questo insegnamento della Torah che la civiltà occidentale si è allontanata nel sostenere il detto "Il mio regno non è di questo mondo". Rabbi Akivà affermava : "Il fondamento della Legge è quello di amare il prossimo come te stesso" comandamento questo che prepara la Redenzione dell'uomo (Gheullà) a cui seguirà la costruzione del Tabernacolo. La tradizione ebraica difatti chiama questo primo periodo "materiale", tempo del "Messiah figlio di Giuseppe". In questa fase si verificherà il ritorno degli esiliati con la formazione della Nazione ebraica. Seguirà una seconda fase "spirituale" del "Messiah figlio di Davide"con la ricostruzione definitiva del Tempio. E' scritto: "Essi mi faranno un Santuario ed I-o abiterò in mezzo a loro" (Es. 25.8).
I nostri Saggi (z"l) hanno fatto notare che il testo della Torah avrebbe dovuto scrivere "abiterò nel Santuario" e non in mezzo al popolo. Quale dunque il significato? Rabbi Haym di Volozin sosteneva che la Shekinà (Presenza Divina) risiede presso coloro che mettono in pratica i comandamenti della Torah. Il Tempio esteriore esiste solo in rapporto a quello interiore come il Signore ha profetizzato al re Salomone: "Se starai attento ad osservare i Miei statuti allora I-o manterrò la Mia parola data a Davide tuo padre e risiederò in mezzo ai figli d'Israele" (1Re 6.11).
La Torah dedica alla costruzione del Tabernacolo nel deserto del Sinài ben quattro parashoth intere (Terumà-Tezavè-Vayekel- Pequdè) e parte della parashà Ki-Tissà che studieremo in seguito, a D-o piacendo.
La nostra parashà descrive in modo dettagliato gli ordini di D-o dati a Moshè per la costruzione dell'Arca dell'Alleanza, la Tavola dei Pani, il Candelabro e l'Altare esterno di rame nel cortile del Tempio.
L'arca fatta con legno di acacia e ricoperta d'oro puro sia all'interno che all'esterno, contiene le tavole della Legge. Il suo coperchio (Capporet=Riparazione) e gli angeli cherubini presenti su questo, sono un unico blocco d'oro. Tra le ali dei cherubini parla il Signore a Moshè rabbenu in modo che quello che è in alto (D-o) scende verso il basso (uomo). L'Arca dell'Alleanza è stata costruita mediante misure "incomplete" per simboleggiare che lo studio e la comprensione della Torah non hanno un limite.
Tavola dei Pani
La tavola è il simbolo della dimensione terrestre. Dodici pani cotti sono posti sulla tavola che è posta nel lato Nord del Tabernacolo, da cui secondo la Tradizione ebraica giungono le benedizioni del Signore. La tavola vuol darci un insegnamento fondamentale: riuscire nella vita secondo gli insegnamenti della Torah. Nel Talmud è scritto: "E' più grande colui che trae profitto dal lavoro delle "sue mani" che colui che teme D-o". Per merito delle sue mani, mentre la sua testa e il suo cuore sono immersi nell'osservanza della Torah. Il verso 25.30 conclude: "E tu metterai dei pani di proposizione (facce) davanti a Me". Il pane che ha un volto simboleggia la riuscita nella vita materiale dovuta alla benedizione di D-o per l'uomo meritevole.
Il Candelabro
Il candelabro (Menorah) è uno dei simboli più misteriosi che si trovano nel Tabernacolo, perché con la sua forma contiene tutto il significato della Creazione. L'uomo della Torah (spirituale) e l'uomo della Tavola (materiale) trovano la loro unione nel candelabro che riunisce i suoi due poli. Per questo motivo il candelabro è fatto di un solo unico pezzo senza alcuna saldatura allo stesso modo della Torah che non può subire aggiunte né mancanze. Per arrivare ad una tale "unità" Moshè ha avuto bisogno dell'aiuto di D-o. Rashì riporta a riguardo un midrash in cui Moshè gettò una quantità d'oro nel fuoco, senza conoscere la forma del candelabro. D-o stesso compì il miracolo, dicendogli: "Così vedi, così fai".
L'altare
"Farai un altare di legno di acacia della lunghezza di cinque braccia e altrettanto in altezza, quadrato" (Es. 27.1).
Contrariamente a quanto si possa credere il luogo dove sorge l'altare è la parte più importante del Tabernacolo. Sopra di questo venivano sacrificati dai sacerdoti gli animali kasher come comandato da D-o.
L'offerta dell'animale simboleggia la riparazione dei peccati commessi dall'uomo e la sua vittoria sui propri istinti da indirizzare verso una riparazione (tikun olam) degli errori commessi. Perché l'altare esterno è fatto di rame? In lingua ebraica il rame (nehoschet) ha la stessa radice del serpente (Nahasch) il cui obiettivo è quello di "prendere e mangiare" senza mai "ringraziare" il Creatore per quello che concede. L'ideologia del serpente difatti è presente nella Storia nella nota espressione "Il tempo è denaro" con tutte le sue tragiche conseguenze. F.C.
*
- Il solenne patto di sangue tra Dio e il popolo è stato siglato. Nulla è più esattamente come prima. Sullo stesso monte, nello stesso punto in cui Mosè aveva visto il fuoco sacro ardere il roveto senza consumarlo, adesso il popolo vede "la gloria dell'Eterno abitare sul monte Sinai ... e l'aspetto della gloria dell'Eterno era agli occhi dei figli d'Israele come un fuoco divorante sulla cima del monte" (Es. 24:16,17).
Sei giorni rimane sul Sinai la gloria di Dio, coperta dalla nuvola; il settimo giorno "l'Eterno chiamò Mosè di mezzo alla nuvola" (Es. 24:16). Quando Dio aveva chiamato Mosè di mezzo al roveto ardente, gli aveva ordinato di non avvicinarsi; adesso invece, dopo la stipulazione del patto, le cose sono cambiate: "Mosè entrò in mezzo alla nuvola e salì sul monte; Mosè rimase sul monte quaranta giorni e quaranta notti" (Es. 24:18).
Il Signore aveva già detto a Mosè il motivo per cui l'avrebbe di nuovo chiamato: "L'Eterno disse a Mosè: Sali da me sul monte, e fermati qui; e io ti darò delle tavole di pietra, la legge e i comandamenti che ho scritti, perché siano insegnati ai figli d'Israele" (Es. 24:12). Dio dice: "Io ti darò...", dunque è questo il "dono della legge" di cui spesso si parla. Ma in che cosa consiste, esattamente?
Qual è il dono che Dio consegna a Mosè?
Il dono che Dio consegna a Mosè per il popolo in quei quaranta giorni e quaranta notti non è una generica Torah, ma l'insieme delle disposizioni contenute nei capitoli da 25 a 31 dell'Esodo. Il passo si conclude con queste parole: "Quando l'Eterno ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli dette le due tavole della testimonianza, tavole di pietra, scritte col dito di Dio" (Es. 31:18).
E' in questo preciso momento che avviene la consegna a Mosè del dono che Dio vuole fare al popolo. Che ne è stato, di quel dono? Dopo l'atto di consegna avverrà un fatto nuovo, di enorme gravità, che cambierà ancora una volta la natura del rapporto tra Dio e il popolo.
Le disposizioni che Mosè riceve da Dio nei primi quaranta giorni e quaranta notti che passa a digiuno sul monte Sinai non sono dunque da mettere in un unico fascio con la somma di ordini e precetti che Dio darà in seguito al popolo per guidarlo e tentare di imbrigliarlo. Come la stipulazione del patto matrimoniale ha cambiato radicalmente le cose, così, altrettanto radicalmente, cambierà le cose la successiva violazione del patto. Anche nella storia profana, sono i fatti che determinano le legislazioni, e quando i fatti cambiano, anche le legislazioni cambiano.
Un progetto di vita matrimoniale
Il "dono della legge" che Dio intende fare al popolo in questo preciso momento della storia è un insieme di istruzioni d'amore per vivere un rapporto di comunione in vista del progetto che il Signore vuole portare a compimento, secondo la promessa fatta ad Abramo.
Qualunque sia il progetto di vita che possa indurre un uomo e una donna a unirsi in matrimonio, è normale che i coniugi pensino ad avere una casa in cui possano abitare insieme e vivere i loro momenti di massima intimità. Si può dire allora che il tabernacolo che Dio ordina a Mosè di costruire è la "abitazione" (mishkan, משכן) in cui Egli vuole venire ad "abitare" (shakan, שכן) in mezzo al popolo.
"Mi facciano un santuario perch'io abiti (shakan) in mezzo a loro. Me lo farete in tutto e per tutto secondo il modello del tabernacolo (mishkan) e secondo il modello di tutti i suoi arredi, che io sto per mostrarti" (Es. 25:8-9).
Ma il progetto che aveva spinto il Signore ad unirsi in un patto col popolo d'Israele era di fare di lui "un regno di sacerdoti e una nazione santa (kadosh, קדוש)"(Es. 19:6). Per questo dunque la comune abitazione viene chiamata anche "santuario" (mikdash, מקדש).
Continuando nel paragone, si può dire che se il tabernacolo è la casa della coppia matrimoniale, il luogo santissimo, in cui si trova l'arca, è la camera nuziale:
"Nell'arca metterai la testimonianza che ti darò. Lì io mi incontrerò con te; dal propiziatorio, fra i due cherubini che sono sull'arca della testimonianza, ti comunicherò tutti gli ordini che avrò da darti per i figli d'Israele" (Es. 25:21-22).
Dio incontra Mosè nel luogo santissimo, e nel colloquio intimo con lui vive quel rapporto d'amore con il popolo che soltanto per sua iniziativa poteva cominciare e che adesso Egli vuole portare a compimento per la realizzazione del suo progetto.
Comunione e santità
Nelle disposizioni che Dio dà a Mosè per la costruzione e il funzionamento della casa comune, sono presenti come sottofondo, in varie forme, due aspetti ricorrenti: desiderio di comunione ed esigenza di santità. Secondo il suo progetto eterno, Dio vuole venire un giorno ad abitare stabilmente con gli uomini:
"Udii una gran voce dal trono, che diceva: Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini; Egli abiterà con loro, ed essi saranno suoi popoli, e Dio stesso sarà con loro e sarà loro Dio" (Apocalisse, 21:3).
E per la realizzazione del suo progetto, Dio ha deciso di cominciare con il popolo d'Israele. Su questo, nessuno può discutere.
Dio però è santo, e tutti gli uomini, da Adamo ed Eva in poi, sono peccatori. Non in un senso moralmente generico, ma in modo puntualmente teologico: sono in guerra con Dio, ribelli a Lui nel profondo del loro essere, anche quando pensano di essere religiosamente a posto.
Ma Dio ha preparato, e ha svolto, e tuttora svolge, un'opera di riconciliazione tra Lui e gli uomini basata su una sua iniziativa di grazia, da cui si aspetta una risposta di fiduciosa ubbidienza.
Naturalmente, a questo punto del programma, l'itinerario scelto da Dio ha ancora molte tappe davanti a sé, ma se ne possono riconoscere fin d'ora alcuni caratteri di fondo.
Dio gradisce offerte da coloro che sono disposte a fargliele "di cuore" (Es. 25:2).
Il luogo d'incontro intimo fra Dio e l'uomo avviene là dove è presente e riconosciuta la sua opera di espiazione del peccato. Mosè parla con Dio da sopra il "propiziatorio" (capporet, כפרת), termine che contiene la stessa radice di "espiazione" (cafar, כפר), da cui proviene anche il termine kippur.
E' certamente utile e istruttivo approfondire ogni aspetto delle particolari disposizioni che il Signore comunica a Mosè in quei quaranta giorni e quaranta notti, ma in ogni caso si deve tenere presente che i capitoli da 25 a 31 dell'Esodo si muovono in un contesto storico-salvifico diverso sia da ciò che precede, sia da ciò che segue. E' la storia sacra che determina l'etica sacra, non viceversa. M.C.
"È necessario abbandonare le posizioni squilibrate di questo Consiglio"
Lo ha detto la rappresentante Usa, Erin Barclay, alla riunione d'apertura del Consiglio Onu per i Diritti Umani
Gli Stati Uniti hanno velatamente minacciato di ritirarsi dal Consiglio Onu per i diritti umani se l'organismo non porrà fine alla sua incessante "ossessione" contro Israele. L'avvertimento è stato espresso al termine di un breve discorso tenuto mercoledì da Erin Barclay, vice assistente del Segretario di stato americano, alla seduta d'apertura della 34esima sessione del Consiglio, a Ginevra.
Dopo aver ribadito che l'impegno degli Stati Uniti per i diritti umani "è più forte che mai", Barclay ha aggiunto: "Malauguratamente troppe azioni di questo Consiglio non vanno a sostegno di questi principi universali. Anzi, li contraddicono. Affinché questo Consiglio abbia una qualche credibilità, per non parlare di efficacia, è necessario che abbandoni le sue posizioni squilibrate e improduttive. Nel momento in cui valuta i propri impegni futuri, il mio governo terrà in considerazione le azioni del Consiglio con un occhio particolare a una riforma che abbia lo scopo di realizzare più compiutamente la missione del Consiglio di proteggere e promuovere i diritti umani"....
(israele.net, 2 marzo 2017)
Anti-Israele in piazza, 20 denunce per mancato preavviso
Nonostante il passo indietro di Fassina (Si) sull'utilizzo della Protomoteca comunale per il convegno del movimento Bds che era stato, così, annullato alcuni sostenitori si sono riuniti in piazza del Campidoglio. Poi, però, è intervenuta la Questura che in un comunicato ha reso nota la scorrettezza dell'iniziativa:
«Una ventina di persone, nonostante la revoca della concessione della sala della Protomoteca si sono comunque presentate per manifestare in Campidoglio esponendo le loro argomentazioni. Tutti i partecipanti sono stati identificati dalla polizia scientifica e saranno denunciati per manifestazione non preavvisata».
(Fonte: Corriere della Sera, 1 marzo 2017)
Israele-Hamas, nuove tensioni a Gaza
L'esercito egiziano distrugge quattro tunnel al confine con la Striscia: cinque le persone ferite.
di Rosaria Sirianni
Le relazioni tra Israele e Hamas sono di nuovo in fermento. Lunedì l'aviazione israeliana ha colpito in due ore almeno cinque obiettivi militari del gruppo islamista palestinese, a seguito di un razzo sparato da Gaza nella notte di domenica scorsa, che ha raggiunto un'area agricola del Negev, nel sud di Israele. Cinque i feriti: tutti giovani inquadrati nelle forze di Hamas che presidiano le linee di frontiera di Gaza. Hamas e Israele si sono polemicamente scambiati l'accusa di essere responsabili della nuova escalation di tensione. Ma l'incidente, almeno al momento, sembra esser stato superato.
Nella Striscia, in previsione degli attacchi israeliani, diversi uffici governativi sono stati sgomberati. La stessa apprensione è stata avvertita fra le decine di migliaia di israeliani che vivono a ridosso di Gaza. Ma nessuno, secondo il ministro della Difesa di Tel Aviv, Avigdor Lieberman, vuole un deterioramento dell'equilibrio raggiunto con il gruppo islamista palestinese. "Non abbiamo intenzione - ha affermato Lieberman - di prendere alcuna iniziativa militare a Gaza. Ma non saremo neppure disposti ad accettare lanci sporadici di razzi. Consiglio ad Hamas di assumersi la responsabilità di quanto avviene e di calmarsi".
Ormai da anni, quella tra Israele e il gruppo islamista palestinese, non è una guerra aperta, ma uno scontro a bassa intensità. Se sul cielo di Tel Aviv veglia lo scudo invisibile dell'Iron Dome, il sistema di difesa antimissile dello Stato ebraico, il dedalo di tunnel sotterranei costruiti da Hamas che parte dalla Striscia di Gaza, resta ancora un territorio inesplorato e inaccessibile, che preoccupa non poco le Forze di difesa israeliane (Idf). Lo scorso venerdì, le forze armate egiziane hanno distrutto quattro tunnel al confine con la Striscia di Gaza. La notizia è stata diffusa giorni fa dal portavoce de Il Cairo, il colonnello Tamer al Rifae, sulla sua pagina Facebook.
Ma a preoccupare Israele, dopo Hamas, ci sono ormai da tempo anche lo Stato islamico e i suoi affiliati. Non a caso, lo Stato del Sinai, il gruppo terroristico egiziano legato ai miliziani di Abu Bakr al Baghdadi, nei giorni scorsi ha rivendicato il lancio dei due razzi Katyusha caduti lo scorso 20 febbraio nel sud di Israele, in risposta - secondo i media jihadisti - a un drone israeliano che avrebbe bombardato e ucciso cinque membri del gruppo nella regione del Sinai settentrionale. All'inizio di febbraio, lo Stato islamico aveva rivendicato la responsabilità di un secondo attacco: quattro razzi lanciati dal Sinai verso la città israeliana di Eilat. Tuttavia, nei giorni scorsi, il ministro della Difesa di Tel Aviv ha minimizzato la minaccia rappresentata dai terroristi attivi nella penisola del Sinai definendoli "dilettanti che decidono di mettere in piedi un esercito".
In un editoriale pubblicato dal quotidiano "Jerusalem Post" si legge che il lancio di razzi rappresenta "la reazione carica di nervosismo dello Stato islamico alle operazioni antiterrorismo attribuite a Israele nella penisola del Sinai". Negli ultimi due anni, infatti, l'intelligence israeliana avrebbe intrapreso una cooperazione sempre più stretta con l'Egitto per contrastare la destabilizzazione del Sinai da parte delle organizzazioni terroristiche. Questa cooperazione tra Tel Aviv e Il Cairo si basa, secondo il quotidiano locale, sugli interessi comuni dei due paesi, legati ad avversari condivisi: Hamas a Gaza e lo Stato Islamico nel Sinai.
In merito al gruppo islamista palestinese, degno di nota è il rapporto pubblicato lo scorso 8 febbraio sul sito "Investigative project on Terrorism", che evidenzia il doppio ruolo che Hamas gioca con l'organizzazione jihadista di Abu Bakr al Bagdadi. Il gruppo islamista palestinese che dal 2006 governa la Striscia, infatti, si muove all'interno del territorio in due direzioni: da un lato, è impegnato a combattere i gruppi salafiti attivi a Gaza per impedire che questi possano destabilizzare l'aerea e prenderne il controllo; dall'altro, invece, è intento a tessere relazioni con formazioni estremiste affiliate allo Stato islamico, già attive nel Sinai, per riuscire a ottenere un "rifugio sicuro" per i propri leader, in vista di un nuovo confronto militare con Israele.
Infine, secondo il rapporto, altro punto importante della strategia di Hamas, è riuscire a mantenere buone relazioni con Il Cairo, il quale pur essendo impegnato in una lotta contro il gruppo Wilyat Sinai, legato ai miliziani del Califfato e noto fino al 2014 con il nome di Ansar Beit al Maqdis ("i sostenitori della Città santa", ovvero Gerusalemme), periodicamente apre il valico di Rafah per consentire agli abitanti della Striscia di rifornirsi di beni di prima necessità e di ricevere cure mediche, proprio attraverso i tunnel scavati da Hamas che collegano i territori palestinesi all'Egitto.
(OFCSreport, 1 marzo 2017)
Ebrei in Cina e cinesi in Israele
Per celebrare il venticinquesimo anniversario delle relazioni tra Cina e Israele, l'università della Bar Ilan (di Ramat Gan, vicino Tel Aviv) ha allestito una speciale mostra sulle comunità ebraiche presenti nel Paese della Grande Muraglia. Attraverso le numerose fotografie e i filmati, viene raccontata la storia degli ultimi 150 anni, fatta di immigrazioni, salvataggi e ricchi scambi culturali. La dottoressa Danielle Gurevitch, organizzatrice dell'evento, ha spiegato che gli ebrei e i cinesi sono i popoli più antichi del mondo, che le due culture si sono sviluppate parallelamente e che hanno molto in comune: "Noi, nella moderna Israele, parliamo l'ebraico, la stessa lingua dei nostri antenati di cinquemila anni fa, esattamente come i cinesi hanno preservato il loro idioma. Abbiamo gli stessi valori: amiamo il nostro Paese, il nostro retaggio e i nostri filosofi. La saggezza di Confucio è frequentemente citata, così come quella di Maimonide e diamo molta importanza alla famiglia e all'istruzione. Sappiamo anche che il pensiero ebraico è apprezzato nell'Est asiatico e specialmente in Cina, per la sua creatività e il rigore scientifico"....
(Progetto Dreyfus, 1 marzo 2017)
Ondata antisemita in America. Decine di centri ebraici nel mirino
Escalation di minacce e atti vandalici in tutto il Paese
NEW YORK - Ormai sta diventando un'emergenza quotidiana. Una volta sono le minacce di attentati contro i centri ebraici e le scuole, un'altra gli atti di vandalismo nei cimiteri, ma quasi non passa giorno senza che negli Stati Uniti si registri qualche allarme. La comunità è preoccupata, anche perché a differenza dell'Europa, in America queste cose non succedevano spesso. L'Fbi sta indagando e la Casa Bianca ha condannato, dopo che da più parti si sono sollevate voci che attribuiscono questi incidenti al clima creato nel Paese dalla retorica e dall'elezione del presidente Trump.
L'ultima ondata c'è stata lunedì, quando 21 edifici sono stati evacuati dopo che qualcuno aveva minacciato di farli saltare in aria. Si trattava di 13 centri ebraici e 8 scuole in almeno 16 stati, dal New Jersey alla North Carolina, dalla Florida al Michigan. La sede di San Francisco dell'Anti Defamation League ha ricevuto una chiamata alle 4,20 del pomeriggio, che parlava di una bomba pronta ad esplodere: «È profondamente preoccupante - ha detto il ceo di Adl Jonathan Greenblatt - vedere questi atti di antisemitismo che allargano il loro obiettivo a sezioni sempre più ampie della comunità ebraica. Spesso infatti questi edifici ospitano gli asili, i centri per gli anziani, o le attività dopo scuola degli adolescenti». Anche i cimiteri sono stati vandalizzati, a St. Louis e Philadelphia. Secondo un calcolo ancora parziale, da gennaio ad oggi si sono verificati almeno 90 incidenti contro 73 luoghi, in 30 Stati americani e in Canada. Nessuna bomba è stata trovata finora, ma l'effetto è lo stesso: «I membri della nostra comunità - ha commentato David Posner della Jcc Association of North America - devono vedere uno sforzo concertato delle forze dell'ordine per individuare e catturare i responsabili, che stanno cercando di instillare ansia e paura».
Le minacce si ripetono spesso uguali, attraverso telefonate fatte con voci distorte, e raggiungono più volte gli stessi centri. Si potrebbe trattare di singole persone, o anche di soggetti mentalmente instabili, ma l'Fbi non esclude la partecipazione di gruppi. Secondo Heidi Beirich, direttrice dell'intelligence al Southern Poverty Law Center, «questo fenomeno è senza precedenti. Lavoro qui dal 1999, e non ho mai visto una serie di attacchi così, che puntano le stesse istituzioni nella stessa maniera».
Il numero dei gruppi dell'odio presenti negli Usa aveva raggiunto il picco di 1.018 nel 2011, il più alto degli ultimi 30 anni, ma nel 2016 è tornato a salire da 892 a 917. La ragione per cui il Southern Poverty Law Center collega questa impennata alla retorica di Trump, sta nel fatto che nei primi 34 giorni dopo la sua elezione sono stati registrati 1.094 incidenti. Non tutti erano diretti contro la comunità ebraica, ma ora è chiaro che sta diventando l'obiettivo.
All'inizio il Presidente non ha reagito, forse per evitare di confermare anche indirettamente i collegamenti con la sua elezione. Poi però la Casa Bianca ha condannato, e lo stesso Trump ha detto che questi atti sono intollerabili. Ora la chiave è nelle mani dell'Fbi, che sta cercando di individuare i responsabili, prima che le minacce si trasformino in azioni concrete. Quando lo farà, sarà possibile capire se il movimento che ha portato alla vittoria il nuovo presidente ha anche incoraggiato i gruppi dell'odio e della destra estrema a diventare più aggressivi.
(La Stampa, 1 marzo 2017)
La codificazione dell'antisemitismo
di Marcello Malfer (*)
Una nota recente della Commissione europea, forse passata in secondo piano, ci informa che la stessa ha deciso di inserire nel proprio sito ufficiale la definizione di antisemitismo. Definizione già adottata nel maggio 2016 a Bucarest dall'Intemational Holocaust Remembrance Alliance, ovvero la rete intergovernativa che comprende 31 Paesi, di cui 24 membri dell'Unione europea. Si tratta di una notizia che può essere accolta con soddisfazione; se, come si spera, la Commissione europea dovesse anche ufficialmente adottare tale definizione, rappresenterebbe un segnale ancora più concreto di impegno nella lotta all'odioso fenomeno.
Certo la definizione di antisemitismo, per come è stata formulata, appare alquanto scialba e banale, e nel leggerla si ha l'impressione che il fenomeno a cui si riferisce non sia poi così preoccupante. «L'antisemitismo a nostro parere è una certa percezione degli ebrei, che può essere espressa con manifestazioni retoriche e fisiche dell'antisemitismo e sono dirette a individui ebrei e non ebrei o ai loro beni, a istituzioni comunitarie e ad altri edifici a uso religioso e non solo».
Il testo adottato dalla Commissione europea contiene, oltre alla pur blanda definizione di antisemitismo, anche alcune importanti precisazioni. Una tra le più significative è che l'antisemitismo può comprendere anche gli attacchi sistematici allo Stato di Israele, concepito come collettività ebraica, e si forniscono diversi esempi di come tali accuse possano rappresentare, al di là di ogni legittima critica politica, delle forme di antisemitismo. Nel documento si puntualizza altre sì che le critiche rivolte a Israele, che sono simili a quelle mosse a qualsiasi altro Paese, non possono essere considerate antisemite.
Vale la pena ricordare a tal riguardo alcuni segni che possono definire l'antisemitismo: «Accusare gli ebrei in quanto popolo, o Israele in quanto Stato, di inventare o esagerare l'Olocausto»; «negare al popolo ebraico il proprio diritto all'autodeterminazione, cioè sostenere che l'esistenza dello Stato di Israele è un atto di razzismo»; «tracciare paragoni tra la presente politica d'Israele e quelle dei nazisti»; «ritenere gli ebrei collettivamente responsabili per le azioni dello Stato d'Israele»; «usare i simboli e le immagini associate all'antisemitismo classico (per esempio le accuse agli ebrei di deicidio) per caratterizzare il popolo ebraico, Israele e gli israeliani».
Questi pochi esempi appaiono decisamente utili, appropriati, pertinenti per definire il concetto. Diciamo anche che sarebbero tutte delle ovvietà, se non vivessimo in un mondo nel quale, per esempio, dei giudici di un tribunale tedesco possono tranquillamente sentenziare che incendiare delle sinagoghe non è antisemitismo, ma è critica alla politica dello Stato di Israele.
Particolarmente inopportuno, a mio avviso, il riferimento al trattamento sempre riservato allo Stato ebraico. Le parole pronunciate dal tribunale tedesco fanno una certa impressione e sembrano ricalcare, là dove si distingue il «trattamento speciale» tra lo Stato di Israele e il popolo ebraico, alcuni pronunciamenti già sentiti alle Nazioni Unite.
Con ottimismo quindi guardiamo al significato di questo piccolo grande passo e restiamo in attesa, con cauta fiducia, di ulteriori segnali nella direzione di un impegno che deve essere continuo, concreto e svolto a ogni livello educativo, culturale e politico. E, siccome del «trattamento speciale» fa parte anche il semplice parlare dello Stato di Israele, la cui morbosa sovraesposizione mediatica è anch'essa un sottoprodotto dell'antisemitismo, sarebbe forse utile che l'Europa d'ora innanzi si occupasse di Israele con maggiore consapevolezza. Parlandone, se possibile, con più obiettività, con più rispetto, con più equilibrio.
(*) Presidente Associazione trentina Italia-Israele
(Corriere del Trentino, 1 marzo 2017)
Rigurgiti di antisemitismo fin troppo tollerato
Perciò, caro idiota antisemita, non si odia né per scherzo né sul serio!
di Giuseppe Trapani
Ricordo che quando ero bambino, combinata la cavolata "involontaria", cercavo l'attenuante del «non l'ho fatto apposta» e sentivo dire da mia madre a seguito di un ceffone inevitabile che «bisognava pensarci prima e non esiste il fare senza pensare» poiché quando un atto è grave, niente scuse. Potessimo tutti dire la stessa cosa nei confronti dell'intollerabile "antisemitismo di ritorno" che lascia tracce inquietanti un pò ovunque senza che ci sia un minimo di indignazione.
Richiamo con un certo imbarazzo della scelta le ultime e clemorose situazioni: Ai primi di Febbraio un giudice ha prosciolto due tifosi laziali che nel 2013 a seguito di una denuncia della Digos avevano istigato i cori della curva al grido "giallo-rosso ebreo!" . Dopo tre anni e mezzo il Gup di Roma ha emesso una sentenza - le cui motivazioni sono uscite in questi giorni - nella quale ha ritenuto le espressioni "configurabili nell'ambito di una rivalità di tipo sportivo". Insomma, so ragazzi no? Rimaniamo nell'impalpabile mondo degli spalti e trasferiamoci a Montecatini Terme dove fu imbrattata la scritta (riferita alla squadra avversaria del Viareggio) "Viareggio Anna Frank" e che ha scosso e infignato la dirigenza del montecatini a tal punto che si è minacciato di ritirare la squadra se non si fosse tolta l'ignobile frase e dare seguito a pubbliche scuse da parte della tifoseria responsabile. E anche qui ascolti molti se ne escono con un banale "ma sono solo scritte no?
E la rete ci mette pure del suo: da ultimo la polemica si è scatenata in altre "arene" come quella dello shopping online. Lo Yad Vashem, il monumentale Memoriale dell'Olocausto di Gerusalemme, ha chiesto ufficialmente al gigante online di Jeff Bezos di bloccare la vendita di tutti i testi negazionisti che smentiscono la Shoah. Robert Rozett, direttore delle biblioteche dello Yad Vashem, ha detto di aver scritto direttamente a Bezos per "fermare l'odio". Per ora Amazon non ha ancora risposto in via ufficiale. Ma in passato, come ha dichiarato ieri alla Associated Press lo stesso Rozett, nei confronti di simili richieste il gigante del commercio online "ha più volte rifiutato di oscurare materiale offensivo in nome della libertà di espressione". E sempre su internet si è persino creata una "app" concepita - leggete bene - per individuare e indicare al pubblico ludibrio con nome e cognome i singoli ebrei da intimidire e forse colpire. Stava sullo store di Google Chrome, che si è affrettata a rimuoverla. Molti ebrei avevano deciso addirittura di sabotarlo e tuttavia resta il fatto che un minuscolo gruppo di farabutti riesce con un minimo sforzo a ottenere l'ascolto da un palcoscenico senza frontiere, senza controlli e senza confini. Ma è la rete no?
Come ci si sente quando, intorno a te, migliaia di persone intonano un coro razzista o antisemita? Cosa si prova quando compare uno striscione infame e non puoi fare niente per impedirlo?
Ci si sente uno schifo!
Mi è capitato varie volte allo stadio: da italiano, da cittadino, da ebreo, sentirmi offeso e impotente di fronte a quest'odio insensato e orribile. Talvolta erano i tifosi avversari, talvolta quelli della mia squadra (la Roma). Mi sono messo a litigare, se potevo.
Ora, ho sempre pensato che spargere questi semi dell'odio è soprattutto un atto di idiozia prima che criminale, è un vuoto della mente a causa del quale si viene affetti da accidia individuale e cattiveria collettiva, demoni ammantati di nuovi vestiti, e spesso giustificati come innocui sfottò o peggio ancora come satira, così come ci ricorda la storia italiana del periodo fascista .In questa cesura fra il dramma vissuto e il nostro presente apparentemente pacifico molti vivono nella narcosi di un silenzio assenso che butta nel cestino il passato. E si cela il pericolo - in questo gioco che assottiglia il valore dei gesti che si compiono - che tutto va bene e può essere giustificato. Odio e falsità vanno poi a braccetto come una dualità indivisibile e si nutrono a vicenda; e sugli ebrei con la scusa dei soliti clichè (lobby-potentati-multinazionali etc) si va avanti a colpi di offese con innumerevoli esempi che uno storico al di sopra di ogni faziosità come Paolo Mieli snocciolava già diversi anni fa, nel silenzio di molta stampa. Per alcuni risulterà esagerato ma credo che il disprezzo 2.0 (contro ebrei,migranti, omosessuali, neri etc) è molto più pericoloso e grave rispetto a decenni fa poiché striscia perfido fra un click e un altro salvo poi nascondersi dietro il non più ascoltabile "non l'ho fatto apposta! Jose Saramago ha scritto che noi siamo la memoria che abbiamo e la responsabilità che ci assumiamo. Senza memoria non esistiamo e senza responsabilità forse non meritiamo di esistere.
Perciò caro idiota antisemita, non si odia né per scherzo né sul serio!
(Lettera 43, 28 febbraio 2017)
La danza degli uccelli migratori nei cieli israeliani, turisti affascinati
Nei cieli israeliani in questo periodo gli uccelli migratori, che qui si radunano per passare l'inverno, creano degli incredibili effetti ottici, spostandosi in stormi. Il volo coordinato di migliaia di uccelli è impressionante: macchie scure riempiono il cielo per poi andarsi a posare su tutto ciò che è disponibile man mano che si avvicina l'imbrunire. Nella città di Beersheba accorrono numerosi turisti per ammirare questa incredibile magia della natura. Nonostante ciò rispetto a 20 anni fa, per ragioni sconosciute, il fenomeno ha visto un notevole decremento.
(La Stampa, 1 marzo 2017)
L'"omocausto" immaginario
Lettera al direttore di La stampa
Caro Direttore, la bella iniziativa denominata «Treno della Memoria», nata per portare studenti a conoscere i luoghi simboli dell'Olocausto del popolo ebraico con in testa Auschwitz, si è trasformata, a cura degli organizzatori, in «Omocausto», con treni Lgbt esclusivamente dedicati agli omosessuali e alle lesbiche che persero la vita nei campi di concentramento nazisti e nella presenza, in tutti i Treni della Memoria, di attivisti del Torino pride e del Puglia pride, «per formare tutti gli accompagnatori sui temi Lgbt e su una corretta terminologia di genere» e segnalare agli studenti una situazione di attuale discriminazione di cui sarebbero vittime i gay a Vienna, Budapest, Praga.
Ma la legge 2011 del 2000 ha istituito il Giorno della Memoria al fine di ricordare «la Shoah (Sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, con l'organizzazione di momenti di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati, militari e politici italiani nei campi nazisti». Per quanto riguarda la Germania nazista, nei campi di concentramento finirono, ognuno con un proprio simbolo, oppositori politici, massoni, sacerdoti antifascisti, lesbiche, omosessuali, zingari, vagabondi, etilisti, malati di mente, prostitute, testimoni di Geova: una tragica pagina di storia che non consente però di giocare con le parole inventandosi uno sfacciato e indecente paragone fra un immaginario «omocausto» e l'«Olocausto» con l'eliminazione scientifica di sei milioni di ebrei.
Non crede che siamo di fronte a un'ambigua forma, non di negazionismo, ma di subdolo revisionismo, che tende a rimettere in discussione l'unicità dell'Olocausto, estendendola a una molteplicità di altre situazioni da condannare con forza, ma che nulla hanno a che fare con la soluzione finale della questione ebraica immaginata da Hitler?
Sen. Carlo Giovanardi
(La Stampa, 1 marzo 2017)
Omocausto! Indecente.
Netanyahu criticato per la gestione della guerra a Gaza nel 2014
Il Premier israeliano Benyamin Netanyahu duramente criticato da un atteso rapporto del Controllore dello Stato Yosef Shapira sul modo in cui venne condotta a Gaza l'operazione militare contro Hamas, nel 2014.
Falla principale: la sottovalutazione dei tunnel sotterranei costruiti da Hamas. Al centro delle critiche anche l'ex-Ministro della Difesa Moshe Yaalon e l'ex-Capo di Stato Maggiore Beny Gantz. Netanyahu si era così difeso alla vigilia della pubblicazione del rapporto:
"Abbiamo attaccato duramente Hamas, uno dei colpi più duri che abbiano mai subito. Abbiamo ucciso un migliaio di terroristi di Hamas, colpito i suoi leader militari, colpito le sue fondamenta, abbiamo agito con forza, responsabilità e nella piena collaborazione tra il livello politico e quello militare. Mai un governo israeliano aveva seguito così da vicino e con piena informazione un'operazione del genere" aveva detto Netanyahu in conferenza stampa lunedì 27 febbraio.
Il rapporto critica in particolare la mancanza di preparazione a livello militare e la scarsa comunicazione tra intelligence e governo. In particolare, i bombardamenti israeliani non ottennero lo scopo, cruciale, di neutralizzare i tunnel usati da Hamas.
(euronews, 1 marzo 2017)
Una conferma che in Israele è possibile accusare il governo, a ragione o a torto.
Sharia sull'Ontario
Una legge in Canada per difendere l'islam dalle critiche. ''E' il ground zero della libertà d'espressione".
di Giulio Meotti
ROMA - Il Parlamento dell'Ontario si è portato avanti con il lavoro, senza aspettare l'approvazione della mozione a livello nazionale. La politica liberal Nathalie Des Rosiers ha introdotto la mozione che condanna l"'islamofobia". A favore il procuratore generale, Yasir Naqvi, musulmano, e la premier Kathleen Wynne, che "come lesbica sono stata dissuasa dal presentarmi dove c'era una grande popolazione islamica, ma ce l'ho fatta". Il Parlamento canadese approverà la M-103, la prima legge di un Parlamento occidentale che mette l'islam al riparo dalle critiche.
Un mese fa un estremista di destra era entrato in una moschea della città di Québec e aveva ucciso diversi fedeli musulmani in preghiera. Da allora, i liberal di Justin Trudeau hanno promesso nuovi strumenti per perseguire i crimini d'odio legati alla comunità musulmana. Anche a costo di cestinare la libertà di espressione e di parola. Una deputata liberal di religione musulmana e origini pakistane, Iqra Khalid, ha così depositato una proposta di legge che sta facendo molto discutere e approvata in prima seduta il 16 febbraio. Obiettivo della mozione di Khalid è combattere "il razzismo e la discriminazione religiosa sistematica" e in particolare "l'islamofobia". E come lo si fa? Mettendo un bel bavaglio a chiunque intenda esprimere opinioni critiche sull'islam. Ezra Levant, giornalista canadese molto esposto nella critica all'islam, ha già fatto sapere che lui non si piegherà a questa "intimidazione", assieme a parlamentari conservatori come Pierre Lemieux, Chris Alexander, Kellie Leitch e Brad Trost. I liberal hanno votato contro la mozione presentata dai conservatori che condannava "ogni forma di discriminazione religiosa", senza estendere una protezione privilegiata all'islam. "Il Canada è sul punto di approvare una mozione contro la libertà di parola che porterà il nostro paese a un passo dal sancire leggi sulla blasfemia islamica", ha detto Levant. "La M- 103 chiede al governo non solo di condannare l'islamofobia, ma anche di sviluppare un approccio per ridurla o eliminarla. Il governo canadese si prepara a far tacere chi critica l'islam". Nel 2005 l'Ontario consentì l'applicazione della legge islamica (sharia) negli arbitrati famigliari in casi come divorzi e custodia dei minori.
Pierre Lemieux, che è in corsa per la guida dei Conservatori, ha detto che "la mozione impone una speciale protezione per una religione", l'islam, escludendo le altre. Liberi di attaccare il giudeo-cristianesimo, ma per l'islam si devono indossare guanti bianchi. Barbara Kay è intervenuta con un'editoriale sul National Post, descrivendo il rischio di una supremazia della sharia che "considera blasfemia qualsiasi critica a Maometto". Il rischio è quello di introdurre il reato di opinione e di colpire chiunque dissenta. Sul Toronto Sun, Anthony Furey ha scritto che "l'islamofobia si trasformerà presto in un'espressione onnicomprensiva per silenziare chiunque critichi la religione. Perciò sarà applicata anche se questi denunceranno gli estremismi come la sharia e i gruppi come i Fratelli musulmani".
Durissimo anche Chris Alexander, ex ministro dell'Immigrazione, che ha definito la mozione il "ground zero" della libertà di espressione, "non solo per il Canada ma per il mondo intero". Il rischio è una proliferazione di casi come quello di Mark Steyn. L'Economist parlò di "polizia del pensiero" e di uno dei processi più inquietanti nella storia della libertà d'espressione. Autore del best seller "America alone", all'epoca numero uno delle classifiche canadesi, Steyn finì sotto processo a seguito dell'accusa di "islamofobia" rivoltagli dalle principali organizzazioni di musulmani canadesi sostenute da progressisti pro bono. Il testo incriminato di Steyn, "The future belongs to islam", era apparso sulla prestigiosa rivista Maclean's, per la quale scriveva Mordecai Richler, l'autore de "La versione di Barney" (Steyn gli è subentrato alla rivista). L'Ottawa Citizen chiese la chiusura di questi tribunali dei diritti umani "neo-maoisti". La scrittrice Natalie Solent si lamentò che "il Canada non è più un paese libero", mentre Steyn si difendeva dal vicino New Hampshire, dove si era trasferito. Attirato dal motto dello stato: "Vivi libero o muori".
(Il Foglio, 1 marzo 2017)
Israele e Arabia Saudita
di Giancarlo Elia Valori
Netanyahu e Saudi King Salman
In Siria, dal 24 Febbraio scorso, l'Iraq ha compiuto il suo primo bombardamento contro l'Isis, nell'area di Abu Kemal, ma il supporto tattico e informativo alle forze di Baghdad lo hanno dato Mosca e l'Iran, non gli USA, che pure hanno tacitamente permesso le operazioni.
Il che significa, peraltro, che Putin ha perso, per così dire, la pazienza e teme il nuovo frazionismo del potere a Washington, tra la Presidenza di Donald Trump e le agenzie di intelligence ormai schierate contro il nuovo Presidente; e quindi va avanti nelle sue operazioni in Siria con il sostegno dell'Iran e non, come prima era stato previsto proprio dai Servizi russi, con quello degli Stati Uniti.
E ancora, si suppone che gli USA non accettino il ruolo primario delle forze turche nella presa di Raqqa, la capitale del cosiddetto "califfato"; ma il ministro degli Esteri di Ankara Mevlut Cavusoglu, dopo la presa turca della città di Al Bab nel nord della Siria, ha annunciato che le forze armate turche continueranno le azioni verso Raqqa con il sostegno di Francia, Gran Bretagna, Germania, senza nemmeno citare gli USA.
Se quindi Washington sarà espulsa di fatto dal quadrante siriano, sarà irrilevante nel Grande Medio Oriente, se sarà effimera nel Grande Medio Oriente, l'America sarà del tutto marginale in Europa e, se Washington mancherà dall'Europa, non sarà un problema per la UE, che nemmeno se ne accorgerà, irrilevante anch'essa com'è, ma gli USA saranno comunque inesistenti nel Maghreb e in Asia Centrale.
Per la politica estera della UE, non sarà un pericolo l'assenza di Washington, la politica estera europea non esiste già nemmeno ora, figuriamoci in futuro-
Ma per la Russia e per la Cina significherà il "via libera" per la grande Eurasia programmata da Mosca e per la nuova Via della Seta, la Road and Belt Initiative, pensata da Pechino fin dal 2013.
In tutti e due i casi, si tratta della fine del nesso UE-USA come oggi lo conosciamo, ma a Bruxelles non se ne è ancora accorto nessuno, lasciamoli dormire.
E' proprio in questo contesto che va visto il rapprochement tra Israele e l'Arabia Saudita.
Tra il 21 e il 22 Febbraio scorsi, proprio mentre gli USA segnalano la loro debolezza in Medio Oriente e altrove, il capo dell'intelligence saudita, Khalid bin Ali al Humaidan, ha fatto visita, in gran segreto, sia a Ramallah che a Gerusalemme.
Al Humaidan, recentemente nominato nel ruolo di capo del principale servizio segreto del Regno saudita, non appartiene, ed è la prima volta che ciò accade, alla rete dei più importanti principi della famiglia Al Saud, i "sette Sudayri", ma emerge unicamente attraverso una brillante carriera militare.
I Servizi sauditi sono, infatti, molto preoccupati dal progetto, autorizzato poche settimane fa dalla Guida Suprema iraniana Ali Khamenei e anche dal Presidente di Teheran Rouhani, quello che gli occidentali definiscono stupidamente un "riformista", un progetto che le FF.AA. iraniane definiscono Prima Riyadh.
Si tratterebbe, per gli iraniani, di aggiungere altri 100 chilometri alla gittata dei loro SCUD-C e SCUD-D, che è oggi rispettivamente di 600 e 700 chilometri, per permettere al missile di raggiungere direttamente la capitale saudita.
L'operazione di Teheran è messa in atto, oggi, presso la base di Al Ghadi nell'area di Ganesh, a circa 48 chilometri dalla capitale della repubblica sciita.
Al Ghadi è a pochi chilometri da Hamadan, la base che Teheran ha concesso all'aviazione russa che, peraltro, è stata già abbandonata dall'aviazione di Mosca, con qualche rimostranza da parte dell'Iran, lo scorso agosto.
La strategia della repubblica sciita è quindi chiara: invece di accettare diversioni o multipli conflitti regionali per procura, Teheran colpirà subito e direttamente il regno saudita con una salva missilistica tale da bloccare i suoi centri decisionali e gran parte della sua economia.
D'altra parte, proprio il 4 Febbraio scorso gli Houthy, i ribelli sciiti dello Yemen, hanno attaccato con un missile di tipo Borkan (ovvero Vulcano 1) che possiede autonomia media di 800 chilometri, il campo saudita di Al Mazahimiyah, a 40 chilometri ovest di Riyadh.
Il Borkan 1 è un missile balistico tattico sviluppato sul modello dell'R-17 Elbrus sovietico, ma non è molto probabile che questo missile a media gittata e a propellente solido sia stato lanciato proprio dagli Houthy, piuttosto si tratta invece della prima prova iraniana del nuovo SCUD a gittata maggiorata.
Cosa mai avrà detto il capo dei Servizi sauditi ai dirigenti palestinesi riuniti a Ramallah?
Avrà certamente detto agli eredi dell'OLP di smetterla di rafforzare i loro legami con Teheran.
Hamas e le Brigate Al Qassam hanno, fin dal 2014, pubblicamente affermato il loro rapporto politico-militare con la repubblica sciita, anche se Hamas è una emanazione della Fratellanza Musulmana sunnita che, pure, è da sempre il nemico sunnita numero uno del regno degli Al Saud.
Se precedentemente Hamas aveva rotto con Teheran, nel 2012, nella fase della stupide "Primavere Arabe" e sostenendo la legittimità politica del presidente Hadi in Yemen; oggi Haniyeh, il capo di Hamas nella striscia di Gaza, vuole il rapporto preferenziale con l'Iran per il suo appoggio finanziario e militare, mentre svanisce quello saudita e degli Emirati.
E ciò avviene anche se i dirigenti di Hamas accetterebbero in prima istanza e preferenzialmente il sostegno del Regno.
Appoggio alla lotta palestinese che, però, oggi non arriva "per cause interne al regime di Riyadh", come dicono le nostre fonti nella Fratellanza Musulmana nei Territori Palestinesi.
Vi è già stato, peraltro, un incontro tra delegazioni iraniane e palestinesi a Bruxelles, a metà del mese di Febbraio 2017.
E' questo incontro che ha allertato l'intelligence saudita.
La delegazione iraniana era stata tutta nominata direttamente dal Presidente Rowhani, il "riformista", mentre quella palestinese era diretta da Jibril Rajoub, che probabilmente Mahmoud Abbas, il presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese, nominerà suo vice nei prossimi giorni.
Rajoub è "persona non grata" per la Giordania, è emerso come leader al Congresso di Al Fatah del 2016 a Ramallah, non può entrare nemmeno in Egitto.
A Gerusalemme, il capo dei Servizi sauditi avrà parlato invece delle questioni afferenti alla prossima conferenza sul Medio Oriente proposta da Trump e dal primo ministro israeliano Netanyahu nel loro ultimo incontro.
Ma qual è, comunque, il rapporto attuale tra Israele e le petromonarchie del Golfo?
Gerusalemme ha mandato, lo ricordiamo, la sua prima missione diplomatica negli Emirati Arabi Uniti il 27 Novembre 2015, ad Abu Dhabi.
Ovviamente, sia per gli Emirati Arabi Uniti che per l'Arabia Saudita il rapporto con lo stato ebraico è funzionale al contenimento dell'Iran, nemico acerrimo di entrambi.
Ma c'è l'economia e, soprattutto, la tecnologia evoluta, essenziale per la diversificazione economica delle petromonarchie sunnite.
Il Qatar ha perfino tentato di mettere recentemente in atto alcuni canali diplomatici non ufficiali con Israele, canali che erano stati interrotti dopo le azioni militari di Gerusalemme nella Striscia di Gaza del 2008-2009.
I sauditi e le altre petromonarchie del Golfo sono sempre meno interessate ai palestinesi, ma sempre più avide allora di tecnologia di punta israeliana, che gli USA o non hanno o non vogliono concedere.
Fin dalla Guerra dei Sei Giorni, la dirigenza dello Stato Ebraico giocava le concessioni ai palestinesi per diluire la minaccia che gli Stati arabi ponevano alla sua stessa sopravvivenza.
La diplomazia di Gerusalemme ha sempre usato, poi, il modello della normalizzazione dei rapporti con la Giordania del 1994 per proporre azioni similari con gli altri Paesi della Lega Araba.
E, negli anni, il sostegno del Qatar ad Hamas e dei sauditi all'intera area militare e politica palestinese è diventato sempre meno appassionato e rilevante.
Il motivo primario è la colossale corruzione che impera nei Territori, che impedisce di fare affari anche ai referenti sauditi e degli emirati; mentre l'equazione strategica di Riyadh è sempre più rivolta verso l'Egitto di Al Sisi, feroce nemico della Fratellanza Musulmana, piuttosto che verso Hamas, che della Fratellanza è il braccio armato palestinese e, quindi, direttamente operativo nel Sinai.
Oggi, il sostegno dei sauditi e degli Emirati ai Palestinesi è sempre più tattico e vago, salvo evitare che l'Iran si prenda tutto il fiorente mercato degli "aiuti" alle forze militari della Autorità Nazionale Palestinese.
Riyadh non vuole il rapporto sempre più stretto tra Mahmoud Abbas e gli iraniani, né peraltro vuole sostenere una lotta militare contro Israele; e qui si noti l'assenza di Re Salman Al Saud dalla riunione del 25 luglio 2016 in Mauritania della Lega Araba, summit incentrato proprio sulla questione palestinese.
Già oggi i prodotti ad alta tecnologia israeliani e le tecnologie evolute per l'irrigazione sono entrate nel Regno tramite compagnie "terze".
Nel 2011, alcune compagnie israeliane hanno venduto tecnologia militare per 300 milioni di Usd agli Emirati, mentre i membri del Consiglio di Sicurezza del Golfo utilizzano tecnologie prodotte dallo stato ebraico per mantenere la sicurezza nei loro pozzi di petrolio.
Nel 2009, Riyadh ha perfino testato le sue difese aeree per verificare l'eventualità di un attacco israeliano all'Iran lanciato dal suo territorio, mentre il 53% dei cittadini sauditi vede, e sono dati del 2015, l'Iran come minaccia primaria, mentre Israele è considerato il nemico n.1 solo dal 18% dei cittadini del Regno.
Peraltro, Israele ha pubblicamente sostenuto la concessione egiziana delle due isole nel Mar Rosso ai sauditi nell'Aprile 2016, mentre la correlazione strategica primaria che interessa ad Israele è quella che riguarda il contrasto saudita o comunque sunnita alla penetrazione dell'Iran nell'universo palestinese.
Aziende derivanti dallo spin off dei Servizi israeliani vengono utilizzate dai sauditi per scandagliare il deep web, mentre gran parte della cybersecurity, negli Emirati, è di derivazione israeliana.
Sei miliardi di Usd in infrastrutture per la sicurezza sono stati recentemente spesi, sempre dagli Emirati, utilizzando ingegneri dello stato ebraico e società riconducibili a imprenditori israeliani.
Il tramite principale di queste relazioni, almeno a livello governativo, è Ayub Kara, un arabo-israeliano di fede drusa che è oggi ministro presso il gabinetto di Netanyahu.
E' un uomo del Likud, che non si fa nessuna illusione sul fine strategico dei possibili "amici" di Israele nella regione mediorientale.
Il punto di partenza per le nuove reti tra Riyadh e Gerusalemme è il Red Sea-Dead Sea Conveyance Project.
Il "Canale dei due mari" porterà acqua potabile da Aqaba a Lisan, nel Mar Morto, acqua disponibile per la Giordania, per Israele e per i Territori Palestinesi, oltre a poter generare energia elettrica, si trova integralmente su territorio giordano e verrà finanziato dal governo di Amman e da alcuni donatori internazionali.
La costruzione dovrebbe iniziare l'anno prossimo, e Kara, in particolare, sostiene la valorizzazione del porto di Haifa per il trasporto delle merci verso l'UE e la Turchia, oltre a immaginare un ruolo per il porto israeliano verso l'Arabia Saudita e la Giordania.
Un altro progetto israeliano al quale i sauditi sono interessati è la vecchia pipeline del Mar Rosso, una vecchia rete di 50 anni fa, costruita in collaborazione con lo Shah iraniano, da Eilat fino ad Ashkelon.
Evita il canale di Suez ed abbatte quindi molti costi di trasporto e politici del petrolio verso l'Europa e gli USA.
L'anno scorso una corte svizzera ha però accordato all'Iran 1,1 miliardi di Usd per il mancato guadagno, ma Gerusalemme si rifiuta di pagare l'Iran, come è facile immaginare.
Altre aziende israeliane del comparto sicurezza hanno venduto agli Emirati sistemi integrati per il controllo delle reti e dei flussi di persone, sistemi che servono anche per la supervisione remota dei pellegrinaggi alla Mecca e a Medina.
Le nuove coordinate strategiche del Grande Medio Oriente, quindi, saranno da un lato la gestione iraniana delle minoranze sciite in Bahrein, Yemen, Afghanistan, Arabia Saudita e Siria, dall'altro l'apertura dei sauditi ad ogni nemico dell'Iran che sia nell'area.
Gli USA continueranno la loro fuoriuscita dal sistema mediorientale, i russi diventeranno i veri e unici broker del potere militare e degli equilibri nella mezzaluna fertile, Israele creerà, se non vi saranno prossime crisi militari ai suoi confini oltre quella siriana, il punto di riferimento sia di Mosca che del mondo sunnita, orfano di Washington.
L'Europa sarà, come oggi, irrilevante e priva di idee.