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Notizie 16-31 marzo 2019


Rabbino capo: ai non ebrei non dovrebbe essere permesso di vivere in Israele

Rav Yitzhak Yosef
Il rabbino capo sefardita di Israele, Yitzhak Yosef, ha detto che i non ebrei non dovrebbero vivere nella terra di Israele se non rispettano una serie di sette leggi imposte dal giudaismo.
"Secondo la legge ebraica, i gentili non dovrebbero vivere nella terra di Israele", ha detto Yosef sabato in un sermone. "Se un gentile non accetta di assumere le sette leggi di Noè, dovremmo mandarlo in Arabia Saudita. Quando arriverà la vera e completa redenzione, questo è ciò che faremo ".
L'unica ragione per cui ai non ebrei era ancora permesso di vivere nello stato ebraico era il fatto che il Messia doveva ancora arrivare, disse. "Se la nostra mano fosse ferma, se avessimo il potere di governare, è quello che dovremmo fare. Ma il fatto è che la nostra mano non è ferma e stiamo aspettando il Messia", ha aggiunto.
Yosef ha aggiunto che i gentili che accettano di accettare le leggi di Noahide - un codice morale di base che include divieti di negare l'esistenza di Dio, bestemmie, omicidi, rapporti sessuali illeciti, furti e mangiare da un animale vivo, nonché un requisito per istituire un sistema legale - sarà permesso di rimanere nella terra e svolgere ruoli riservati ai gentili al servizio degli ebrei.
Come il suo defunto padre, il leggendario rabbino Ovadia Yosef, Yitzhak Yosef ha suscitato polemiche con le sue dichiarazioni. Due settimane fa ha detto che gli israeliani dovrebbero uccidere terroristi armati di coltello che minacciano la vita senza timore della legge.
"Se un terrorista si presenta con un coltello, è comandato [dalla legge ebraica] di ucciderlo", ha detto Yosef alla sinagoga Yazadim di Gerusalemme.
"Non dovresti avere paura", ha insistito, citando l'antica esortazione rabbinica, "Colui che viene per ucciderti, si alza per ucciderlo [prima]."
Yosef quindi ammonì gli israeliani a non preoccuparsi di ciò che suggeriva fossero le vicissitudini di giudici o generali. Di fronte a un aggressore armato, "Non iniziare a preoccuparti che qualcuno ti porti all'Alta Corte di Giustizia, o che qualche capo dello staff [dell'IDF] dirà diversamente".
Ha continuato a mettere in guardia contro l'uccisione di un terrorista che non rappresentava più una minaccia, tuttavia, dicendo che il Messia non ancora arrivato era l'unico arbitro che poteva condannare a morte un nemico non minaccioso.
All'inizio del 2015, il rabbino è uscito con forza contro gli smartphone e ha raccontato un incidente in cui immergeva un tale dispositivo in acqua.
Quando il telefono squillò durante una lezione che stava consegnando, Yosef disse al suo proprietario, uno studente, di portare una ciotola d'acqua, disse. "Andò a portare una ciotola d'acqua e la mise sulla scrivania. L'ho messo dentro, è gorgogliato e sparito. Il telefono era sparito ", ha ricordato.

(Politicamente scorretto, 31 marzo 2019)



La «Marcia del milione» a Gaza. Ma un anno dopo sono 40mila

GAZA CITY - Quattro manifestanti palestinesi sono stati uccisi durante gli scontri con l'esercito israeliano in corso lungo la barriera difensiva tra Gaza e lo stato ebraico in occasione del "Land Day" e del primo anniversario della "Marcia del Ritorno". Doveva essere, secondo il leader di Hamas Ismail Haniyeh, la «marcia del milione», ma ieri vicino alle barriere si sono radunate 40mila persone.
   Il primo palestinese ucciso, secondo fonti del ministero della Sanità della Striscia di Gaza, è Adham Nidal Saqr Amara, di 17 anni, che sarebbe stato «colpito al volto». L' altra vittima è Tamer Abou al- Kheir, pure lui di 17 anni. La Croce Rossa palestinese ha riferito che altri 33 palestinesi sono stati feriti. Di questi, riferisce l' agenzia Wafa, 16 sono stati colpiti da proiettili veri, 4 da pallottole di gomma, 10 da schegge. Decine gli asfissiati dai gas lacrimogeni. Il ministero della Salute di Gaza ha riferito pure dell'uccisione di un 20enne, Mohammed Saad, mentre partecipava nella notte di venerdì a scontri molto vicino al confine. In tarda serata la notizia di una quarta vittima. Ieri pomeriggio, secondo l'esercito israeliano, dei «facinorosi hanno tirata pietre e dato fuoco a copertoni di gomma. Inoltre, sono state tirate granate e esplosivi contro la barriera difensiva. La maggior parte dei dimostranti è nei pressi delle tende». La giornata ha un alto valore simbolico per il concomitante 43o anniversario del "Giorno della Terra', in ricordo dei sei palestinesi uccisi in Galilea nelle proteste contro la confisca delle terre arabe nel 1976.
   Questo il bilancio a un anno dall'avvio della Grande Marcia del ritorno, la manifestazione organizzata da Hamas il 30 marzo del 2018 e che da allora, ogni venerdì, vede protestare centinaia di palestinesi alla barriera di confine tra Striscia di Gaza e Israele: oltre 195 palestinesi uccisi dalle forze armate israeliane, tra cui 41 minorenni; circa 29mila feriti, tra cui sette mila da colpi d'arma da fuoco e 6.500, secondo Msf, ancora in attesa di cure nella Striscia di Gaza. Nello stesso periodo un soldato israeliano ha perso la vita.
   La settimana che si conclude è stata segnata da altissima tensione dopo il lancio di un razzo lunedì all'alba caduto a nord di Tel Aviv, ferendo 7 persone. Israele ha risposto bombardando la Striscia dalla quale sono continuati a partire razzi e palloni incendiari. Una delegazione egiziana sta mediando per evitare che la situazione precipiti.

(Avvenire, 31 marzo 2019)


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Palestinesi in marcia contro Israele. Stavolta a distanza di sicurezza...

di Angelo Zinetii

Erano 40 mila i manifestanti palestinesi radunati lungo il confine della Striscia di Gaza con Israele in occasione del primo anniversario della Grande Marcia del Ritorno. Lo ha riferito l'esercito israeliano, precisando che la maggioranza di loro è rimasta lontana dalla barriera, evitando così scontri e violenze con i soldati dello Stato ebraico. Dopo l'altissima tensione dei giorni scontri, una delegazione egiziana sta lavorando per trovare un accordo tra le parti ed evitare l'escalation. Israele ha chiesto che le manifestazioni siano pacifiche, in cambio di misure significative che possono migliorare le condizioni di vita nell'enclave palestinese.
   Si parla dell'autorizzazione all'ingresso di fondi del Qatar per 40 milioni di dollari. Inoltre, sarebbe stata concordata l'estensione della sovvenzione per il carburante fino alla fine del Ramadan, lo sviluppo della centrale elettrica, l'istituzione di un bacino idrico, l'allargamento della zona di pesca fino a 12 miglia, la consegna di medicine, la costruzione di una zona industriale a Kerem Shalom e l'impiego da parte dell'Onu di 20 mila dipendenti invece di 6 mila. Insomma minimi incentivi alla produttività e tante sovvenzioni "a pioggia".
   Gli accordi non hanno evitato che ci fossero tre vittime tra cui il 17 enne palestinese, Adham Nidal Sakr Amara, è stato ucciso al confine dopo che nella notte un altro manifestante, un 21 enne, era rimasto ucciso.
   Gli arabi si sono radunati per celebrare il primo anniversario della Grande Marcia del Ritorno contro il blocco israeliano di Gaza e per il diritto a tornare nella terra da cui i palestinesi sono fuggiti o da cui sono stati cacciati dopo la creazione di Israele nel 1948. La giornata ha un alto valore simbolico anche per il concomitante 43esimo anniversario del 'Giorno della Terrà, in ricordo dei sei palestinesi uccisi in Galilea nelle proteste contro la confisca delle terre arabe nel 1976. È stato anche indetto uno sciopero generale.
   La settimana è stata segnata da altissima tensione dopo il lancio di un razzo lunedì mattina all' alba che è caduto a nord di Tel Aviv, ferendo 7 persone. Israele ha risposto bombardando l'enclave palestinese dalla quale sono continuati a partire razzi e palloni incendiari.
   
(Libero, 31 marzo 2019)


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Gaza - Grande marcia al confine con Israele

di Fiamma Nirenstein

Per ora non è guerra: i feriti sono alcune decine, un morto dalla parte palestinese. La giornata di pioggia, freddo, il sole bianco dietro le nuvole e sabbia che aleggia nel cielo del Medio Oriente, poteva essere sanguinosa. Israele ha passato il sabato festivo in attesa. Hamas ha deciso che poteva accontentarsi dei suoi 40mila dimostranti, uomini donne e bambini tutti ammassati, anche dopo le improvvise rivolte interne dei giorni scorsi, ai suoi comandi. La scena ha mostrato i leader Ismail Haniye e Yahya Sinwar baldanzosi insieme ai loro militanti. E adesso è tutto nelle mani di una riluttante delegazione egiziana che sabato ha tenuto ferma Hamas e ieri è andata a parlamentare con Israele. Certo il presidente Sisi non si fida di Hamas, parte della Fratellanza Musulmana che lo odia: ma la mediazione ha un valore internazionale evidente.
   Il 9 qui ci sono le elezioni, Netanyahu vuole evitare che scoppi una guerra, e per l'Egitto la competizione vincente con lo sponsor di Hamas, il Qatar, gli mantiene il ruolo di primato diplomatico. Hamas ha dato il via al round di scontri lunedì. Bombardando alle fondamenta una casa di Moshmoret nel centro di Israele e poi seguitando coi missili ogni notte; Israele ha risposto bombardando Gaza, stando però attenta a non creare situazioni estreme in cui Hamas, in bilico a causa della sua permanente crisi economica, dovesse vendicarsi con grandi attentati. Così Sinwar ha voluto suggellare il nuovo round dimostrando il suo controllo: ha portato sul confine la gente da almeno 38 cittadine della striscia con autobus, auto, mezzi di fortuna. Una massa enorme punteggiata di rosso, il servizio d'ordine che aveva avuto l'indicazione di indossare quel colore guidava drappelli all'assalto e alla ritirata. Il «Giorno della Terra» è stato celebrato insieme a un anno dall'inizio dalla invenzione strategica di Sinwar, «La marcia del ritorno», che ha usato gli aquiloni incendiari per bruciare centinaia di ettari e terrorizzare i cittadini. Poi sono tornati i missili. Ieri i gruppi di militanti si staccavano con bandiere ed esplosivi, coltelli e pietre gruppi che a un segnale correvano verso il recinto di sicurezza. Di là rispondevano con soldati, tiratori scelti, unità speciali, carri armati e mezzi corazzati. Nelle prossime ore si capirà se la relativa calma di ieri è gestibile da Hamas mentre la gente protesta per la miseria e l'oppressione. Le forze militari restano all' erta. Hamas ha missili che possono colpire Israele, e la popolazione chiede di essere difesa.
   
(il Giornale, 31 marzo 2019)


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Marcia di Hamas con tre vittime, ma la mediazione egiziana funziona

di Francesca Paci

La mediazione egiziana sembra aver funzionato e per il momento la "Marcia del milione", convocata da Hamas per celebrare il prima anniversario della "Grande marcia del ritorno", è finita con un bilancio che avrebbe potuto essere assai peggiore. Tre palestinesi uccisi, tra cui due 17enni, e almeno 300 feriti durante gli scontri con l'esercito israeliano schierato massicciamente al confine di Gaza ma, data la tensione dopo il razzo lanciato martedì alla periferia di Tel Aviv e i successivi raid aerei di rappresaglia, si temeva l'escalation. In realtà, nonostante la chiusura delle scuole ordinata da Hamas per incoraggiare la partecipazione, i numeri (Israele parla di 40 mila persone) appaiono di molto inferiori rispetto alle stime della vigilia.

 Date incandescenti
  Era stato proprio l'Egitto a farsi pontiere in una sorta d'implicito patto tra i belligeranti in vista di una prossima tregua: da una parte Hamas, oltre a fermare il lancio di palloncini incendiari e razzi, avrebbe dovuto contenere le proteste (cosa che ha fatto con un servizio d'ordine in gilet arancione incaricato di tenere la gente a 300 metri di distanza dalla barriera di confine); dall'altra il Cairo garantiva l'impegno israeliano a un allentamento del blocco alla pesca, un incremento dei camion ammessi attraverso il valico merci di Kerem Shalom e una maggiore fornitura di elettricità. La data del 30 marzo era incandescente anche perché sovrapponeva diversi piani: la ricorrenza della marcia del ritorno, con cui i palestinesi rivendicano le proprietà di famiglia per i discendenti dei rifugiati del '48 e che in un anno ha fatto 200 vittime (tra cui un cecchino israeliano); la richiesta della fine del blocco imposto da Israele ed Egitto che, secondo le agenzie umanitarie, grava molto sulle condizioni misere dei 2 milioni di abitanti di Gaza; il ricordo degli scontri sanguinari del 30 marzo '76; la necessità di Hamas di riaffermare la presa sulla Striscia dove da settimane i giovani senza lavoro né futuro mordono il freno, manifestando contro l'occupazione, ma soprattutto contro il proprio governo. E, last but not least, la campagna elettorale in vista del voto de19 aprile, in cui Netanyahu si gioca ruolo e prestigio. I prossimi giorni diranno quanto pesi la «soddisfazione» dichiarata da fonti diplomatiche israeliane per la giornata «calda ma meno violenta del passato». Hamas, i cui capi Ismail Haniyeh e Yahyia Sinwar erano al confine, fa sapere di aver altre richieste, tra cui la questione dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane. L'Egitto vigila.

(La Stampa, 31 marzo 2019)


Mentre il papa visita il Marocco, la piccola comunità ebraica guarda con un calmo orgoglio

RABAT - Suzanne Harroch parla e canta in ebraico-marocchino, una lingua di una comunità ebraica un tempo prospera che contava circa 300.000 - una delle più grandi nel mondo musulmano.
Suzanne Harroch, una cantante ebrea marocchina posa per un ritratto nella sua casa a Rabat, in Marocco, 29 marzo 2019.
Oggi, lei e suo marito sono due dei 2.500 ebrei rimasti in Marocco, una comunità che sta invecchiando e diminuendo anche se gode del riconoscimento costituzionale e della protezione.
"Mi identifico prima marocchino, poi ebreo", ha detto la mamma di tre a casa sua a Rabat in vista della visita di Papa Francesco, che gli ebrei hanno accolto come un'opportunità per evidenziare uno status che dicono essere unico nel mondo musulmano.
Sabato scorso, leader ebraici si sono uniti ai rappresentanti cristiani in prima fila in occasione di due eventi presieduti dal papa e da re Mohammed VI sul dialogo interreligioso.
La costituzione del Marocco 2011 riconosce il costituente "ebraico" come componente dell'identità nazionale. Gli ebrei nel Regno del Nord Africa hanno i loro tribunali, il codice di famiglia e le scuole e persino un museo del patrimonio ebraico sostenuto dallo stato.
A differenza di molti ebrei marocchini, che partirono per Israele, Europa e America negli ultimi sei decenni a causa della povertà e dell'incertezza politica, Harroch e suo marito decisero di rimanere.
"Il Marocco è il posto in cui appartengo. Mi sento al sicuro qui ", ha detto Harroch, che ha lavorato come direttore dell'hotel fino al suo recente pensionamento. Suo marito è anche ebreo e lavora come medico che serve la comunità musulmana.
Ora dedica il suo tempo a cantare in ebraico-marocchino come parte di un gruppo musicale composto da musicisti musulmani che la aiutano a scavare in profondità nell'antica eredità ebraica del paese.
La comunità ebraica marocchina risale all'epoca romana e per secoli gli ebrei hanno servito la corte reale come ambasciatori, diplomatici, ministri e consiglieri.

(YouFOCUS.TV, 31 marzo 2019)


Parole ebraiche scritte in punta di pennello

di Giulio Busi

Dopo la mostra d'inaugurazione, nel 2017, su I primi mille anni dell'ebraismo italiano, con Il Rinascimento parla ebraico il Museo Nazionale dell'Ebraismo italiano e della Shoah di Ferrara, diretto da Simonetta Della Seta, affronta uno dei periodi più importanti della storia culturale della nostra Penisola. Il Rinascimento è senza dubbio un'epoca decisiva per la creazione dell'identità italiana, sia per l'ineguagliata creatività artistica sia per il valore simbolico e per l'influsso esercitato sull'intera costruzione storica e intellettuale, al di qua e al di là delle Alpi.
   È una stagione, quella rinascimentale, che accoglie in sé esperienze multiple: incontri, scontri, momenti armonici e brusche cesure. Non a caso, nella storiografia più recente, si parla talvolta di "Rinascimenti", per sottolineare queste sfaccettature della vita intellettuale alle soglie della modernità. Il laboratorio plurale del Rinascimento ha parecchio da insegnare anche al nostro presente, sempre più multiculturale. Non perché la storia si ripeta, e il passato possa essere imitato. Ma perché una società aperta deve sapersi interrogare sulle radici molteplici della propria vitalità. Il Rinascimento parla ebraico racconta questa stagione attraverso un dialogo. Da una parte ascoltiamo la voce della società maggioritaria cristiana, con la fitta rete dei centri maggiori, delle corti, delle città e degli stati territoriali in serrata competizione tra loro per il primato politico, economico, artistico. L'altra voce che cogliamo, in tutta la sua forza ed espressività, è quella degli ebrei italiani. Con la loro storia già lunga alle spalle, la diffusione ormai capillare sul territorio, con la propria forte autonomia e con la spinta a partecipare al comune slancio di rinnovamento.
   Gli ebrei, durante il Rinascimento, c'erano. In prima fila, attivi e intraprendenti. E hanno contato parecchio. Certo, hanno preso, imitato, riprodotto. Ma hanno anche dato, influenzato, ispirato.
   Sebbene l'ebraismo abbia rappresentato un elemento costitutivo del panorama rinascimentale, non è stato finora messo sufficientemente in luce il carattere complessivo del confronto tra la rinnovata tradizione cristiana e l'identità giudaica in Italia. Se infatti l'ambito maggioritario ha diffuso parecchi dei propri modelli formali, l'ebraismo ha saputo penetrare a sua volta nella cittadella dell'arte, della letteratura e della filosofia umanistiche e dare così al Rinascimento italiano alcune cadenze originali e inimitabili.
   Ricostruire oggi un simile intreccio di reciproche sperimentazioni significa innanzitutto riconoscere il debito della cultura italiana nei confronti dell'ebraismo ed esplorare i presupposti ebraici della civiltà rinascimentale.
   Senza enfasi, e senza retorica. Creatività non significa sempre armonia. Né accettazione priva di traumi. Si danno così conto degli episodi di intolleranza, delle contraddizioni, dell'esclusione sociale e delle violenze. Il Rinascimento va compreso nelle sue ombre non meno che nelle molte luci. E un simile atteggiamento critico è ancor più necessario quando si affronta la storia del gruppo ebraico, impegnato nella difficile difesa della propria specificità.
   Curiosità reciproca, contatti quotidiani, persino amicizia. Sarebbe un errore sopravvalutarla, questa parte più chiara, e fare dell'Italia del Rinascimento un'isola felice e idilliaca. Ma è altrettanto parziale non volerla vedere, la compenetrazione tra cultura ebraica e cristiana. Anzi, non vederla, è quasi impossibile, almeno per chi abbia occhi per guardare. Basta scorrere i dipinti dei grandi maestri della pittura italiana dell'epoca, per accorgersi che i soggetti ebraici, e la stessa lingua santa, sono messi in bella evidenza, risaltano in primo piano. E non nelle opere minori. Sono i grandi a sciorinare davanti ai fedeli in chiesa, e ai ricchi committenti nei palazzi e nei castelli, un ebraismo antico, autorevole, quasi sempre rispettato e preso a modello. Giotto, Beato Angelico, Cosmè Tura, Ghirlandaio, Mantegna, Carpaccio, Michelangelo, Raffaello. Non sono tutti i nomi di quest'albo dell'ebraistica in punta di pennello (e di scalpello), ma bastano per capire con chi si ha a che fare. Tra fine Duecento e inizi Cinquecento, l'ebraismo entra nel cuore della creatività artistica, in alcuni dei più importanti centri intellettuali della Penisola. Firenze, Ferrara, Mantova, Venezia, Roma sono gli scenari di uno studiarsi reciproco, che porta gli umanisti cristiani a raccogliere libri ebraici e a immergersi nella lingua santa, spesso grazie all'aiuto e all'amicizia dei dotti ebrei. L'arte non è che un segnale, splendido, di quello che avviene negli studi degli eruditi, e anche nelle corti dei potenti del Rinascimento. Proprio le corti sono un luogo d'incontro per eccellenza. Lì gli ebrei sono di solito accolti e ben visti. Prestatori, medici, mercanti, svolgono un ruolo non secondario di sostegno economico, di consulenza, e persino d'intrattenimento. Volete un altro elenco, questa volta di principi, di filosofi, di letterati? Lorenzo de' Medici, Federico da Montefeltro, Isabella d'Este, Giovanni Pico della Mirandola, Angelo Poliziano. Tutti patroni, collezionisti, studiosi, appassionati di cose ebraiche. È a Pico che si deve la scoperta del misticismo ebraico, e il suo inserimento nel canone della sapienza umanistica. Certo, non tutti sono d'accordo con questa corsa all'ebraico. Le Conclusiones, pubblicate da Giovanni Pico nel 1486 e tutte pervase dai misteri del misticismo ebraico, vengono prima proibite e poi bruciate per ordine di papa Innocenzo VIII. La qabbalah cristiana, appena nata, è subito in odore di eresia.
   Nel campo della pittura, la mostra ferrarese propone ai visitatori opere in cui la lingua santa è al centro dell'immagine, e documenta un interesse che si fa fondamentale spunto artistico. Abbiamo così due pannelli di Stefano di Giovanni, detto il Sassetta, con Elia ed Eliseo, in abiti carmelitani, che esibiscono un cartiglio con il loro nome in chiare lettere ebraiche. c'è la Natività della Vergine, realizzata da Vittore Carpaccio per la Scuola degli Albanesi a Venezia, con una tabella in ebraico e il mistero di un arcano simbolismo. c'è la Sacra famiglia e la famiglia del Battista, lo splendido dipinto voluto da Andrea Mantegna per la propria cappella funebre in Sant'Andrea a Mantova. Qui Giuseppe reca una fascia su cui è scritta, in ebraico, la parola av, "padre". Vi sono, infine, due Dispute di Gesù con i dottori al Tempio, del ferrarese Ludovico Mazzolino, che verso il 1520 fa della lingua ebraica un segno distintivo di riconoscimento. Il Rinascimento parla ebraico con i suoi slanci, le zone buie e le contraddizioni. E con tutta la forza della sua creatività.

(Il Sole 24 Ore, 31 marzo 2019)



«Non v’illudete!»

Non sapete che gl'ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non v'illudete: né fornicatori, né idolatri, né adùlteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né oltraggiatori, né rapaci erediteranno il regno di Dio. E tali eravate alcuni di voi; ma siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e mediante lo Spirito del nostro Dio.
Dalla prima lettera dell'apostolo Paolo ai Corinzi, cap. 6

 


Gaza, quando le vittime sono anche i carnefici

di Niram Ferretti

Quarantamila sarebbero gli arabi-palestinesi residenti a Gaza che si sono adunati dietro la barriera che separa l'enclave costiera da Israele a un anno di distanza dalla cosiddetta Marcia del Ritorno. La zona è altamente presidiata dall'esercito israeliano. I media internazionali sono tutti in attesa che ci scappino molti morti (finora ce ne è stato solo uno), per organizzare la solita canea mediatica contro lo Stato ebraico.
   Si è parlato poco invece delle recenti proteste all'interno della Striscia, contro il regime jihadista che la governa con pugno di ferro dal 2007. Proteste sopite subito, ovviamente.
   Francamente non nutro alcuna simpatia per chi protesta. Hamas lo hanno votato liberamente nel 2006. Lo hanno voluto. Non ha invaso la Striscia da un altro paese. Dopo quasi dodici anni di cura islamica il regime ha arricchito i suoi capetti (copione abituale) e ridotto sul lastrico buona parte della popolazione. Ma attenzione, la colpa è di Israele, dell'embargo, embargo che si limita a impedire che nella Striscia entrino armi e materiali che possano essere usati per costruire i tunnel. Quanto successo abbia l'embargo si è visto.
   Israele ha lasciato definitivamente Gaza nel 2005. Da allora ci sono stati diversi conflitti di varia intensità con il gruppo terrorista, nel 2008-2009, nel 2012 e nel 2014, senza contare, naturalmente le numerose azioni terroristiche compiute da Hamas in modo massiccio durante la Seconda intifada.
   Hamas sopravvive in virtù dei finanziamenti dell'Unione Europea, del Qatar e dell'Iran. Israele permette che continui ad esistere per due motivi molto semplici. Il primo è che una operazione capillare per rimuoverlo implicherebbe necessariamente la morte di un numero non irrisorio di soldati israeliani, e, a quel punto, Israele dovrebbe nuovamente rioccupare la Striscia, cosa che non intende assolutamente fare. Il secondo è che un'azione del genere provocherebbe una condanna pressoché unanime a livello mondiale, con l'eccezione, oggi, degli Stati Uniti.
   Dunque non ci sono soluzioni? No, ci sono. Distruggere completamente le infrastrutture militari di Hamas è possibile, così come è possibile eliminare progressivamente i vertici dell'organizzazione. Omicidi mirati, come ai vecchi tempi.
   Hamas è interessato unicamente a detenere il potere nella Striscia. Sa benissimo di non potere competere militarmente con Israele, ma sa altrettanto bene di potere lucrare sulle tregue per ottenere denaro, e poi, una volta esaurito, riprendere a minacciare.
   In altre parole, Hamas sa che per continuare ad esistere può contare soprattutto sulla benevolenza di Israele.

(Italia Israele Today, 30 marzo 2019)


Gaza: 'Land Day', manifestanti diretti al confine

La manifestazione per il 'Land Day' o 'Giorno della Terra' - indetta da Hamas ad un anno esatto dall'inizio della 'Marcia del Ritorno' per la rottura del blocco a Gaza - è iniziata nella tarda mattinata al termine delle preghiere nelle moschee.
   I fedeli sono saliti su autobus diretti verso il confine con Israele. A Gaza City, e nelle altre città della Striscia, tutte le attività commerciali ed educative sono intanto paralizzate da una giornata di sciopero, proclamata da Hamas per consentire alle masse di partecipare alla manifestazione odierna, che si prefigge di essere la più imponente degli ultimi mesi.
   Nei pressi del confine sono state erette tende dove i dimostranti troveranno cibo, corrente elettrica e reti Wifi per i loro telefoni.
   Alla manifestazione è arrivato anche il capo di Hamas Ismail Haniyeh: su twitter lo si vede contornato dai dimostranti. Secondo i media, è giunta sul confine con lo stato ebraico anche la delegazione egiziana che in questi giorni ha fatto la spola tra la Striscia e Israele per mediare tra le parti in modo da riportare la calma.
   Da parte sua il ministero degli interni di Hamas ha avvertito i dimostranti che dovranno tenersi ad almeno 300 metri dalle postazioni militari israeliane, per garantire la propria incolumità. Il ministero ha anche consigliato loro di non rispondere a chiamate telefoniche di sconosciuti, che potrebbero provenire dall'intelligence di Israele.

(tvsvizzera, 30 marzo 2019)


Voglio vivere: l'urlo soffocato della gioventù contro Hamas

Nelle zone più povere la disperazione per l'aumento dei prezzi supera la paura delle bastonate. E intanto si rischia un' altra guerra con Israele.

di Davide Frattini

DEIR EL BALAH (Striscia di Gaza) - «Mi chiamo Merei Abu Sarnra. Puoi scriverlo, tanto qui il nome è come non averlo, gli animali hanno più diritti», Deve restare a letto per un altro mese, la gamba spezzata dalle bastonate, disteso a fumare e rimuginare, a rivedere sul telefonino i video di quel pomeriggio: la gente che scende per la via principale di questo villaggio palestinese e urla slogan semplici come semplice suona la richiesta «Vogliamo vivere».
   E' pretendere troppo, almeno secondo i fondamentalisti che spadroneggiano a Gaza da dodici anni. I miliziani sparano in aria per disperdere la folla, prendono a sprangate, entrano nei palazzi a frantumare le finestre e l'orgoglio. Succede qui a Deir El Balah, si ripete a Bureij, Iabalya, Rafah: le zone più povere, dove la disperazione supera la paura delle botte e delle torture. Le proteste cominciate a metà marzo sono andate avanti per dieci giorni, il fiume delle prime manifestazioni lentamente prosciugato dalla repressione.
   L'80 per cento delle famiglie nella Striscia dipende per sopravvivere dagli aiuti delle Nazioni Unite, la disoccupazione è al 53 per cento, quella giovanile raggiunge il 70. Più che l'appello lanciato su Facebook a spingere gli abitanti in strada sono stati gli aumenti dei prezzi: il pane, i pomodori, le sigarette costano il doppio e tutti sanno che è colpa anche delle tasse volute da Hamas.
   Gli organizzatori hanno tra i 22 e i 27 anni e continuano a provarci. Ibrahim non è più tornato a casa da due settimane, dorme da chi lo ospita e gli lascia caricare il computer per aggiornare la pagina simbolo della ribellione. «I cortei ripartiranno, ma è difficile. Appena un piccolo gruppo si forma, irrompono gli sgherri di Hamas», racconta. In totale hanno arrestato un migliaio di persone, gli ultimi sono stati rilasciati da poco, il rischio di guerra con Israele ha spostato la tensione.
   «Ho 29 anni, sono senza lavoro, che cosa devo fare?», chiede Merei. Restare chiuso in casa, rimanere zitto: è quello che gli ha ordinato la polizia politica dopo averlo liberato, cinque giorni in una cella con altre settanta persone. «Non mi hanno neppure dato il referto medico, devo pagarmi tutte le medicine». Per il ministero della Sanità non è successo niente, nessun documento ha registrato il passaggio dei feriti negli ospedali.
   I burocrati del regime aggiornano con costanza solo le liste dei loro «martiri», i 195 morti e i quasi 7 mila feriti centrati dai proiettili dei cecchini israeliani. Oggi il gruppo che controlla la Striscia celebra l'anniversario di questa sua Grande marcia. I generali dei servizi segreti egiziani hanno mediato fino all'ultimo perché il conflitto non diventi totale, dopo che lunedì scorso un razzo palestinese ha colpito una casa a nord di Tel Aviv e i jet israeliani hanno bombardato la Striscia.
   Il governo di Benjamin Netanyahu ha ordinato all'esercito di ammassarsi attorno a questa scatola di sabbia: chiede che i cortei restino lontani dalla barriera, che Hamas fermi i lanci di aquiloni e palloncini armati di bottiglie incendiarie, in sostanza che il confine ritorni alla calma relativa di un anno fa. Yahiya Sinwar e gli altri capi dell'organizzazione stanno cercando di alleggerire l'embargo, sanno di non poter più imputare la miseria solo al controllo sui valichi imposto da israeliani ed egiziani.
   Il poster appeso al muro ritrae Osama Al Kahlout che stringe le mani ai notabili di Hamas. Lo festeggiano per una foto scattata durante la Grande marcia. Osama di lavoro fa il giornalista e vive a Deir El Balah. Questa volta non lo hanno premiato: ha trasmesso le proteste in diretta su Facebook, la violenza delle brigate Ezzedin Al Qassam, qualcuno con indosso la mimetica, la maggior parte in borghese, il volto coperto dal passamontagna nero: «Poche ore dopo hanno fatto irruzione nel mio appartamento, mi hanno picchiato e trascinato giù per le scale, trattenuto per tre giorni. Il ministero degli Interni ha negato che i dimostranti fossero in carcere. In qualche modo è vero: siamo stati buttati nelle celle delle Brigate».
   Assieme a lui c'erano due avvocati,raccoglievano le testimonianze, cercavano di documentare gli abusi, anche loro sono stati malmenati e portati via dai soldati irregolari di Hamas.
   Le organizzazioni locali per la difesa dei diritti umani hanno condannato gli attacchi contro i manifestanti e smontato la teoria complottista che accusa i rivali del Fatah, la fazione del presidente Abu Mazen, di fomentare la rivolta: «Le manifestazioni erano pacifiche, bisogna garantire la libertà di espressione». L'organizzazione internazionale Human Rights Watch accusa i fondamentalisti di «repressione brutale»: «Chi osa criticare viene detenuto anche per poche ore. Picchiato, minacciato, terrorizzato: deve imparare a non infastidire il potere».

(Corriere della Sera, 30 marzo 2019)


Riscoprire l’ebraismo lungo il Danubio

di Michele Migliori

 
Nel contesto della cooperazione Territoriale Europea (ETC), il programma Transnazionale della Regione Danubiana ha deciso di finanziare un progetto volto alla riscoperta ed alla promozione del patrimonio culturale ebraico nella regione danubiana. Saranno ben nove le città in otto diversi paesi a poter usufruire dei circa due milioni di euro di fondi europei vincolati alla realizzazione di programmi che abbiano come scopo quello di rendere maggiormente accessibile la storia e la cultura ebraica nelle rispettive realtà.
   A fare da capofila come leader del progetto si trova la città di Szeged, conosciuta in italiano anche col nome di Seghedino, nell'Ungheria meridionale, mentre gli altri centri partecipanti sono: Timisoara (Romania), Galati (Romania), Murska sobota (Slovenia), osijek (Croazia), Subotica tserbta), Kotor (Montenegro) e Banja Luka (Bosnia-Erzegovina). Il comune denominatore di queste città non è rappresentato solamente dalle dimensioni urbane mediopiccole, dal simile background culturale, e dai medesimi obiettivi turistici, ma anche dal fatto che, da sempre, la mancanza di fondi strutturali ha fatto sì che il patrimonio ebraico tangibile di queste realtà si deteriorasse, e che quello intangibile si perdesse.
   Un altro fattore che accomuna le città partecipanti al progetto europeo riguarda l'esiguo numero di persone di religione ebraica che ancora oggi vi risiedono. Questi centri, che un tempo contavano diverse migliaia di ebrei, sterminati durante la Shoah o costretti ad emigrare durante i regimi comunisti, oggi non hanno che un vago ricordo di questa presenza, perlopiù testimoniata da un edificio di culto, o da un cimitero ebraico nella periferia cittadina. Ad esempio, nella stessa Szeged, nella quale si trova la quarta sinagoga più grande d'Europa, si stima che siano solo poche centinaia i membri della locale comunità ebraica, a Subotica appena 200, a Banja Luka poche decine, mentre Murska Sobota non ne ha più nemmeno uno.
   Anche per questo motivo, il progetto in questione, intitolato "Rediscover" (Riscoprire), non si limiterà a ristrutturare o valorizzare le tante sinagoghe, cimiteri ebraici e memoriali presenti nei centri urbani delle città partecipanti, ma si focalizzerà sul patrimonio ebraico intangibile di questa regione. Infatti, se da un lato città come Szeged e Subotica vantano ancora oggi meravigliose attrazioni culturali legate alla presenza ebraica nei rispettivi centri, dall'altro piccole realtà come Banja Luka o Murska Sobota, dove poco o niente è rimasto in seguito alla Shoah, non possono che investire sul patrimonio intangibile legato all'ebraismo locale. Pertanto, l'obiettivo principale del progetto è quello di studiare e rivitalizzare il patrimonio intellettuale ebraico che si cela nelle nove città che hanno aderito al piano. Tramite la creazione di progetti creativi, lo scopo degli organizzatori è quello di far risaltare elementi quali la cucina, la letteratura, e la vita di tutti i giorni, da integrare, laddove possibile, al patrimonio culturale ebraico tangibile. Il progetto verrà implementato fino al 2021, anno in cui si prevede il lancio definitivo dell'itinerario turistico.
   
(Pagine Ebraiche, aprile 2019)



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Da Szeged a Padova, la cultura che valica i confini

 
Una delle più belle sinagoghe d'Ungheria si trova a Szeged (Seghedino), città nel sud del paese, vicino al confine con Serbia e Romania. Come si racconta in queste pagine, Szeged è stata scelta come città capofila per un progetto europeo di recupero della storia ebraica della regione danubiana e un piccolo esempio di questo legame porta il nome di Immànuel Löw (1854-1944). Figlio del celebre rabbino reform Leopold Löw, questi seguì le orme del padre e nel 1878 fu scelto come rabbino capo della sua città, Szeged appunto. Membro del Parlamento ungherese, orientalista, storico dell'arte, è ricordato per aver contribuito ad alcune edizioni del dizionario biblico di Wilhelm Gesenius e di quello aramaico di Carl Brockelmann. Nel 1920 fu accusato di aver fatto dichiarazioni contro il nuovo governatore ungherese Miklòs Horthv. che una volta salito al potere aveva preso diversi provvedimenti per colpire la minoranza ebraica. Löw fu imprigionato per 13 mesi ma continuò a lavorare imperterrito, in particolare dedicandosi alla sua opera più nota tra gli esperti, Die Flora der Juden ("Le piante degli ebrei"), che tratta delle varie piante citate nelle fonti ebraiche con particolare attenzione alla letteratura rabbinica.
   Scritta in tedesco, l'opera, divisa in quattro volumi, è stata pubblicata tra il 1924-1934 ed è disponibile presso la Biblioteca Nazionale di Israele, che ha ricordato la figura del rabbino ungherese in un articolo di un suo archivista, Shaul Greenstein.
   Löw è ricordato in molti testi come un oratore eccezionale, una dote, racconta Greenstein, ereditata dal padre: "Il rabbino Leopold Löw è stato il primo rabbino a tenere discorsi alla sua congregazione in ungherese e il primo ad introdurre la lingua ungherese nella preghiera ebraica. Era un rabbino importante le cui decisioni influenzarono la politica dei governi austriaco e ungherese. Suo figlio Immànuel ereditò questa sua affinità per il parlare in pubblico". Entrambi i Löw intrattennero rapporti con grandi personaggi del mondo ebraico dell'epoca: alla Biblioteca Nazionale d'Israele è ad esempio conservato il carteggio, in francese, tra Löw senior e Isaiah Luzzatto, figlio di Samuel David Luzzatto - Shedal. Di Immànuel Löw invece ci sono le lettere con Aharon Aharonson, celebre botanico nonché tra i fondatori di N.I.L.I., gruppo sionista che faceva opera di spionaggio per la Gran Bretagna contro l'impero ottomano; l'orientalista, esperto di Islam e accademico tedesco Theodor Nöldeke; con il geografo Nathan Shalem e il botanico Ephraim Hareuveni. Una collezione di scritti che racconta come, anche nella difficoltà di comunicazione dei primi del Novecento, la cultura ebraica fosse profondamente interconnessa, valicando confini e tradizioni. Da Szeged fino a Padova.

(Pagine Ebraiche, aprile 2019)


Golan israeliano: l'Ue dovrebbe seguire la linea degli Usa

Lettera a "il Giornale"

Gentile Caputo, con il riconoscimento della sovranità di Israele sulle alture del Golan, Trump invita gli schieramenti di destra in Europa a sostenere la destra israeliana. I tempi sono maturi per una politica estera di forte chiarimento internazionale sull'identità di Israele. È un momento decisivo per l'Italia per smarcarsi politicamente dalle ambiguità geopolitiche della Francia! È il momento giusto per costruire una destra europea coerente e leader nel Patto Atlantico. È doveroso almeno il dibattito, su questo tema: non possiamo sempre far finta di non vederlo, l'ltalia può dare un contributo importante di svolta alla dialettica politica in Medio Oriente.
Michele Castellarin
Udine




La presidenza Trump ha modificato radicalmente, con due iniziative come lo spostamento dell'ambasciata a Gerusalemme e il riconoscimento della sovranità israeliana sul Golan, la politica mediorientale degli Stati Uniti. Entrambe si ispirano al principio che la guerra del 1967 ha, come tutte le guerre della storia, modificato definitivamente i confini dello Stato ebraico e che, con buona pace dell'Onu (e purtroppo anche della Ue) dopo 52 anni non ha senso continuare a ignorarlo. La geopolitica della regione ha subìto una profonda evoluzione in questo mezzo secolo. La Siria, unico Paese arabo a essere ancora formalmente in guerra con Israele, è precipitata nel caos e difendere la sua sovranità sul Golan quando il governo, che oltretutto è legato a filo doppio con Mosca e Teheran, controlla appena la metà del suo territorio è abbastanza assurdo. I Paesi arabi, storici paladini della causa palestinese e di una Gerusalemme spaccata in due, hanno perso interesse e oggi puntano soprattutto a una pacifica convivenza, se non proprio a una collaborazione sotto traccia con Israele, con cui hanno in comune l'arcinemico Iran. Nessuno crede più seriamente nella soluzione «due popoli, due Stati», che è stato per decenni il mantra di tutte le diplomazie, perché si è rivelata irrealizzabile a causa delle rigidità israeliane e delle divisioni tra i palestinesi. Sarebbe tempo che non solo le destre europee, più sensibili alla svolta di Trump, ma tutta l'Ue prendesse atto di questi mutamenti e aggiornassero la loro politica. Lei suggerisce che l'Italia abbia un ruolo in questo riallineamento, ma temo che con la confusione che regna nel campo gialloverde anche in materia di politica estera questo sia alquanto difficile. Basti dire che alla Farnesina, per un ministro degli Esteri abbastanza filoisraeliano, Moavero, abbiamo un sottosegretario pentastellato, Di Stefano, visceralmente filopalestinese.

(il Giornale, 30 marzo 2019)


Il riconoscimento del Golan ripristina il principio che l'aggressione non deve essere premiata

Senza distinzione fra guerre offensive e guerre difensive, il diritto internazionale finisce col tutelare l'aggressore a scapito dell'aggredito.

Quando il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha riconosciuto la sovranità israeliana sulle alture del Golan, gli esperti di politica estera si sono lamentati del fatto che stava demolendo un principio fondamentale dell'ordine mondiale: che un territorio non può essere acquisito con la forza. Speriamo che abbiano ragione perché quel principio, in questo modo formulato, lungi dallo scoraggiare le aggressioni, in realtà le premia.
   Il problema è che quel principio, come viene attualmente interpretato, non fa alcuna distinzione tra guerre offensive e guerre difensive. Sicché per un aggressore, iniziare una guerra diventa quasi privo di costi (assumendo che non gli importi nulla di mandare al massacro i suoi stessi cittadini, come per lo più i regimi arabi hanno ampliante dimostrato). Infatti, se vince ottiene gli obiettivi che si era prefissato, quali che fossero; se perde, la comunità internazionale farà pressione sulla sua vittima perché restituisca qualunque territorio abbia conquistato nel corso degli scontri: garantendo in questo modo all'aggressore che non dovrà fare nessun prezzo in termini territoriali....

(israele.net, 29 marzo 2019)


La trappola di Gaza

di Ofer Sachs
Ambasciatore d'Israele a Roma

Il prossimo 9 aprile 5 milioni di israeliani saranno chiamati ad eleggere i membri della 21esima legislatura della knesset. Ebrei, musulmani e cristiani, arabi israeliani, drusi, bahai e nuovi emigrati, tutti, sceglieranno chi tra i candidati in corsa possa meglio rappresentare i loro interessi. In quella che sembra essere una delle più avvincenti competizioni elettorali degli ultimi anni, forse l'unica nella regione, tra i tanti temi in discussione, quello della sicurezza giocherà certamente un ruolo cruciale.
   Il recente lancio da parte di Hamas di razzi sulla popolazione civile israeliana in cui sono rimasti feriti i componenti di una famiglia israeliana, ha nuovamente alzato il livello di tensione sul fronte Sud di Israele. Fronte che nell'ultimo anno ha visto continui episodi di aggressione da parte di Hamas, terreno di scontro di una strategia del terrore più ampia. Dal marzo 2018 infatti, data in cui l'organizzazione terroristica che opprime la striscia di Gaza ha indetto la cosiddetta "Marcia del Ritorno", sono stati più di 2.200 attacchi contro Israele e la sua popolazione, oltre 1.200 missili diretti verso i centri abitati, sparatorie e attacchi con coltello, investimenti con le automobili e incendi dolosi che hanno provocato la distruzione di più di 8 mila acri di terra coltivata in Israele.
   Oggi ricorre l'anniversario dall'annuncio della marcia e i capi di Hamas hanno spinto la popolazione a raccolta lungo il confine con Israele, con il chiaro intento di ingannare l'opinione pubblica mondiale presentando l'iniziativa come spontanea e pacifica per coprire il vero obiettivo strategico: fare il maggior numero di danni, creare caos e spargere il terrore tra le comunità israeliane che vivono al ridosso del confine, serrando le fila interne verso il nemico giurato di sempre e forzando Israele ad una reazione decisa che gli farebbe riguadagnare il consenso perduto.
   Gli eventi di questo marzo infatti mettono in risalto la brutalità di Hamas, non solo contro gli israeliani, ma soprattutto nei confronti dei "suoi" stessi cittadini. Come documentato dai video circolati in rete e sfuggiti alla censura di Hamas, gli abitanti di Gaza, stanchi della corruzione e delle violenze, hanno provato a protestare contro il regime ottenendo in cambio botte, arresti e altro terrore. I civili di Gaza sono tenuti in ostaggio dalle organizzazioni terroriste islamiche radicali, vittime di un regime che controlla Gaza come una roccaforte militare, un trampolino di lancio di razzi e un deposito di armi urbano.
   A motivare la spregiudicata mossa di Hamas nel tentativo di far esplodere una nuova fase di conflitto con Israele concorrono dunque diversi fattori geopolitici e contestuali, fra tutti, la perdita degli ingenti investimenti nelle infrastrutture del terrore, campi di addestramento e tunnel, il progressivo ritiro di supporto da parte delle potenze regionali come l'Egitto, il durissimo scontro fratricida con l'Autorità Nazionale Palestinese e l'urgente interesse nel condizionare le imminenti elezioni israeliane.
   Indipendentemente dal verdetto delle urne israeliane, dovesse essere ancora Netanyahu a guidare il governo, o l'ex Capo di Stato Maggiore Benny Gantz, qualsiasi leader di Israele si troverà costretto ad operare in una situazione lose-lose. L'inazione e un atteggiamento passivo nei confronti delle continue aggressioni da parte dell'organizzazione islamica, metterebbe a serio rischio la sicurezza della popolazione israeliana, al contrario, un possibile intervento a Gaza, per quanto mirato ai soli obiettivi militari, metterebbe a rischio la popolazione palestinese di cui Hamas si fa scudo.
   Tutti, rappresentanti dei governi e chiunque abbia a cuore la stabilità della regione mediorientale, dovrebbero dunque impegnarsi a non cadere nella trappola della manipolazione degli eventi da parte di Hamas e non offrire più alibi a chi ricorre al terrore e cerca la distruzione di Israele.

(L'HuffPost, 29 marzo 2019)


Hamas e Israele: ultimo scontro?

di Niram Ferretti

Dopo quasi dodici anni di cura Hamas, la Striscia di Gaza si trova in una condizione estrema con il 70% della popolazione che dipende dai sussidi assistenziali e il 60% che si arrangia con meno di due dollari al giorno. Ogni mese Hamas raccoglie circa 28 milioni di dollari in tasse dai residenti della Striscia. Una parte cospicua delle tasse raccolte viene utilizzata per i salari dei membri dell'organizzazione mentre un'altra parte viene utilizzata per la fabbricazione di razzi e tunnel. Da quando, nel 2007 Hamas prese il potere a Gaza estromettendo Fatah dal suo controllo, si calcola che sia stato investito qualcosa come un miliardo di dollari nella infrastruttura militare, fondi che avrebbero sensibilmente contribuito a sollevare dai disagi la popolazione dell'enclave costiera, ma le priorità sono state altre. Le recenti manifestazioni di piazza a Gaza contro il gruppo jihadista, costola palestinese dei Fratelli Musulmani, sono state represse con la violenza.
   La stampa internazionale ne ha parlato poco, evitando di amplificare troppo la cosa, visto che non poteva essere incolpato Israele. La favola nera della colpa israeliana per la condizione disastrosa della Striscia, interamente imputabile a Hamas, è una delle più inossidabili della propaganda contro lo Stato ebraico, nonostante l'evidenza sia lì, chiara e nitida a smentirla. L'embargo israeliano ed egiziano sulla Striscia è infatti limitato non ai beni di prima necessità, ma a materiali che potrebbero essere utilizzati per la costruzione di tunnel e soprattutto per evitare l'ingresso di armi a fini terroristici.
   Nell'anniversario della cosiddetta Marcia del Ritorno, la manifestazione inscenata da Hamas l'anno scorso il 30 marzo allo scopo di rilanciarsi dopo essere caduto in un cono d'ombra, copertura ideale per tentare di sabotare la barriera divisoria di confine tra Israele e Gaza, l'organizzazione terroristica si prepara nuovamente a calamitare su di sé l'attenzione internazionale. Israele è all'erta, e alla viglia delle elezioni nazionali che si terranno il 9 aprile prossimo, ha cospicuamente militarizzato la zona.
   La realtà, nella sua brutalità, conferma ciò che è ovvio. Hamas sopravvive in virtù dei finanziamenti che prevengono dal Qatar, con l'approvazione di Israele, e da quelli che gli vengono dall'Iran. La presa sulla Striscia è garantita da un regime che si basa sulla minaccia, la delazione, la violenza, la pubblica e sommaria esecuzione di chi viene accusato di essere una spia sionista. L'unico obiettivo che ha il gruppo è quello di continuare a mantenere il potere cercando di rappresentarsi come l'avanguardia della resistenza all'"occupazione" israeliana, occupazione, che per Hamas, riguarda l'intera area geografica su cui sorge Israele, come specificato dal suo Statuto del 1988, in cui è scritto che la Palestina tutta è una perenne dotazione islamica.
   Risolvere il problema Hamas, per Israele significherebbe prendere possesso nuovamente della Striscia lasciata definitivamente nel 2005, cosa che, evidentemente non è nel suo interesse. Dunque si procede in un circolo vizioso in cui Hamas colpisce, Israele risponde, si giunge a una tregua momentanea, Hamas ottiene i fondi per andare avanti, e poi si ricomincia.
   E' questa la ragione per la quale lo scorso novembre, il Ministro della Difesa, Avigdor Lieberman, si dimise dal gabinetto Netanyahu, dopo l'ennesima escalation con Hamas, perché avrebbe voluto da parte di Israele una maggiore risolutezza nella gestione del problema. Il che non significa, necessariamente, la rioccupazione di Gaza, con un costo molto alto dal punto di vista militare, ma una più incisiva azione, intesa a distruggere una buona volta per tutte le infrastrutture militari e soprattutto eliminare i vertici dell'organizzazione.
   Nessuna guerra è stata mai vinta senza la resa o la capitolazione dell'avversario.

(Progetto Dreyfus, 29 marzo 2019)


Il ministro emiratino: "Ora dobbiamo parlare con Israele"

di Francesca Paci

Che Israele e una parte dei Paesi del Golfo condividano l'ostilità nei confronti dell'Iran e di fatto giochino nella stessa metà campo in un modo impensabile nel passato è sotto gli occhi di tutti. Ma da qui a rivendicare un'alleanza che possa precludere a un riconoscimento politico, dopo decenni di sostegno retorico alla causa palestinese, la strada è lunga. Basti pensare che il quarantesimo anniversario del trattato di pace tra Anwar al-Sadat e Menachem Begin sta passando pressoché in silenzio in Egitto, l'unico Paese arabo insieme alla Giordania a intrattenere relazioni diplomatiche ufficiali con Israele.
   Per questo l'endorsment al cambio di passo attribuito dal quotidiano di Abu Dhabi« The National» al ministro degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti, Anwar Gargash, suona forte.
   «Con il senno di poi, quella araba di non avere rapporti con Israele fu una decisione molto sbagliata», avrebbe affermato Gargash in una sorta di mea culpa piuttosto inusuale, soprattutto in un momento i cui i Paesi del Golfo, Emirati compresi, esprimono posizioni molto dure nei confronti della scelta americana di riconoscere la sovranità israeliana sul Golan strappato alla Siria nel '67.
   Il ragionamento del ministro emiratino è che se davvero si vogliono
aiutare i palestinesi le relazioni tra arci-nemici devono mutare, perché decenni di silenzio hanno complicato la ricerca di una soluzione (tra i tanti piani dimenticati giace anche l'Iniziativa di pace araba del 2002) e perché «bisogna distinguere tra avere un problema politico e mantenere aperti i canali di comunicazione».
   Sullo sfondo ci sono i cambiamenti piccoli e grandi in corso nella regione. Il mese scorso, il consigliere e genero di Trump, Jared Kushner, è volato nel Golfo - dove oltre alle basi militari c'è un perno importante della politica di difesa statunitense - per raccogliere consenso intorno al piano di pace israelo-palestinese proposto da Washington. Ma già un anno fa un sottosegretario israeliano aveva visitato la Grande Moschea di Abu Dhabi anticipando di fatto la sortita di ottobre in Oman del premier Netanyahu, la prima del genere. Si procede a passi incerti. Quando settimane fa l'atleta israeliano Shatilov conquistò l'oro alle Olimpiadi della ginnastica di Doha, i media qatarini ignorarono tanto la sua bandiera quanto l'inno nazionale «Hatikvah», E però, anche per questo, le parole di Gargash, che si attende un aumento degli accordi bilaterali e delle visite politiche fanno notizia. La sua idea è che, con buona pace della soluzione «due popoli, due Stati», la strada sia tracciata: «Continuando così entro 15 anni vedremo gli stessi diritti in un solo Stato». -

(La Stampa, 29 marzo 2019)


Focus Israele e Palestina: inter campus agli occhi dei protagonisti

"Uomo di pace" in terra di conflitti, Buma Inbar è al fianco di Inter Campus dal 2013

'I governi firmano i trattati, le persone fanno la pace.' Questa è una delle massime di Buma Inbar, israeliano di 72 anni, di origine polacche, che dal 2013, insieme a Ghetton, è attivo nel Progetto Israele e Palestina con un ruolo speciale, che lui stesso si è dato, 'Uomo di pace'. Una vera e propria missione la sua che dal 1995, anno in cui perse un figlio nel conflitto in Libano, lo assorbe a 360 gradi. La tragica perdita lo portò a lasciare il mondo del lavoro per occuparsi delle 'popolazioni coinvolte' - così definisce i due popoli che abitano questa terra di conflitti e dolori - e ad occuparsi di attività sociali e di pace. 'Mi dedico in modo indipendente, senza legami con nessuna associazione, collaborando con le persone che come me vogliono fare la pace. Così passo dalla raccolta delle olive nei territori palestinesi, al supporto a malati palestinesi che vengono a curarsi in strutture ospedaliere in Israele, al mio contributo ai bambini di Inter Campus.'
   Grazie a Buma i bambini palestinesi possono passare i check-point e andare a giocare con gli altri bambini a Gerusalemme e a Tel Aviv. È lui che procura i permessi, è lui che li accompagna in pullman ai tornei e - quando si può - è lui che li porta al mare, allo zoo, a fare quelle cose che piacciono tanto ai bambini specialmente se è la prima volta che le fanno! È sempre Buma che ci accompagna, durante le nostre visite, nel villaggio palestinese dove lavoriamo e ci spiega, ci racconta, ci mostra la Palestina con il suo sguardo critico e allo stesso tempo costruttivo. 'In attesa e con la speranza che l'occupazione finisca, è importante fare qualcosa' ci dice sempre. 'E Inter Campus ha fatto e può fare molto. Perché è un'entità terza. È una realtà italiana. Non coinvolta, super partes, perfetta per essere un valido strumento di pace. Il mio compito è aiutarvi a trovare nuovi partner palestinesi e coinvolgere più bambini!'

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Ci confida che tiene il libro di Inter Campus sul suo comodino, 'Inter Campus è un progetto unico al mondo. Conosco bene i vostri valori e anche se a volte posso non essere allineato con tutta la vostra direzione, credo che non ci siano parole per descrivere quello che fate qui!' Buma ci saluta con una delle sue frasi piene di positività: 'Grazie alla palla rotonda facciamo e faremo bene alla terra rotonda.'

(Inter Official Site, 29 marzo 2019)


I tormenti del Labor israeliano che sa dire solo no e non trova un'offerta elettorale nuova

Nel sondaggi per il voto del 9 aprile, la sinistra è in affanno. Perde elettori di centro, non convince sui temi sociali e nemeno sulla sicurezza.

di Rolla Scolari

C'erano le bandiere d'Israele, i fiori, i sorrisi del giorno di festa. I sostenitori del Labor israeliano hanno votato a febbraio in tutto il paese alle primarie, e gli stessi vertici del partito sono rimasti stupiti dall'alta affluenza, al 56 per cento. "Il Labor sarà la sorpresa" delle elezioni anticipate del 9 aprile, ha detto pochi giorni dopo il leader, Avi Gabbay.
   Il timore di molti nei ranghi della sinistra israeliana è che la "sorpresa" non vada però nella direzione auspicata da Gabbay. I sondaggi da mesi anticipano uno scenario faticoso per i laburisti: quando va bene, concedono loro dieci seggi, come in queste ore. E' un numero basso per il partito che fu di David Ben Gurion, Golda Meir, Shimon Peres, Yitzhak Rabin, soprattutto se paragonato ai 30 seggi di Kahol Lavan, Blu e Bianco, il movimento del principale avversario del premier Benjamin Netanyahu, Benny Gantz, e i 28 della destra del Likud.
   La campagna per il voto di aprile è diventata l'ultimo capitolo di una inesorabile discesa verso l'irrilevanza della sinistra israeliana: Netanyahu è l'antagonista che ne ha accelerato la caduta. Benché il procuratore generale abbia da poco, e a campagna elettorale già in corso, deciso di chiedere l'incriminazione del premier per corruzione, il primo ministro cerca l'ennesima rielezione.
   Il crepuscolo dei laburisti è iniziato in realtà molto prima dell'era Bibi, già nel 1977, quando Netanyahu non aveva neppure cominciato la sua carriera politica. Il Labor israeliano, "non è un partito qualsiasi", scriveva Anshel Pfeffer sul quotidiano lìberal Haaretz, quando iniziavano a emergere sondaggi impietosi per la sinistra. Il Labor è il partito che ha fondato lo stato, controllando società, economia, sindacati, media, cultura, e governando fino a quel 1977. "Da 40 anni, da quando il Likud di Menachem Begin ha messo fine al suo ininterrotto potere, il Labor non ha saputo reinventarsi", scrive Pfeffer, come se avesse esaurito il proprio ruolo storico, quello di costruire le fondamenta nazionali.
   Così, questa caduta nei sondaggi del partito - HaAvoda, in ebraico - ha origini antiche, anche se, con i dovuti distinguo, fa parte di una più vasta e globale crisi della sinistra. In Israele, perde elettori al centro, si affanna su temi sociali senza convincere, e non convince sulle questioni centrali di sicurezza. Gli accordi di Oslo firmati negli anni '90 con i palestinesi e spina dorsale della strategia politica, sociale e di sicurezza della sinistra non hanno portato la pace in medio oriente. E ora in un paese che da anni slitta a destra, "di sinistra" è diventato un appellativo che i politici temono. Il premier accusa il suo unico credibile rivale, l'ex capo di stato maggiore Benny Gantz, che si allarga al centro, d'essere di sinistra. L'alleanza tra il militare e l'ex presentatore di talk show, Yair Lapid, ha scardinato gli equilibri elettorali, e creato per la prima volta in anni una reale minaccia per Netanyahu. Gantz si difende dalle accuse di "essere di sinistra" con il jingle musicale della sua campagna: "Non ci sono più una destra e una sinistra, c'è soltanto Israele prima di tutto".
   Il più potente risultato del partito laburista israeliano negli ultimi 25 anni sono stati gli accordi di Oslo, con i quali c'è stato un cambiamento radicale, ci dice Sefy Hendler, professore all'università di Tel Aviv ed editorialista di Haaretz. Quella firma "ha portato tanto in Israele, con un'apertura al mondo di cui il paese ha beneficiato anche a livello economico. Molti israeliani, però, hanno imputato l'inizio della stagione degli attentati alle scelte della sinistra. Da allora, chi insiste nel fare la pace con i palestinesi è sanzionato alle urne, e questo Netanyahu lo sa bene: Bibi dice d'essere la barriera contro i rischi di Oslo e le debolezze della sinistra". Se da una parte l'agenda della destra israeliana è chiara -la difesa del paese a ogni costo, l'amicizia con il presidente Donald Trump, una diffidenza verso negoziati, quella della sinistra resta confusa, spiega Hendler: "Sì, sono per l'ambasciata americana a Gerusalemme, ma ... Sì, è difficile fare la pace con i palestinesi, ma ... La sinistra cerca un nuovo posizionamento, e non è un problema soltanto israeliano. Che cosa dice la sinistra francese: siamo per o contro i migranti, difendiamo il lavoro o non lo difendiamo? L'estrema destra europea è molto più chiara: per Trump, contro Bruxelles".
   In Israele è tutto più complicato, perché c'è un conflitto e la maggior parte dei paesi della regione non riconosce formalmente l'esistenza del vicino. Il laburisti israeliani sono influenzati dalla crisi globale della sinistra, dall'affaticamento dei liberali. La differenza, però, con Europa e America, è quella tra una questione teorica e una esistenziale, ci dice Lilac Sigan, autrice ed editorialista del giornale Ma'ariv. "Si tende a dimenticare che Israele è circondato da paesi ostili: a quelli con cui abbiamo buone relazioni non piacciamo, gli altri non ci vogliono qui. Non possiamo essere troppo teorici. In molti in Israele quando sentono parlare i politici di sinistra pensano: 'Ma di che cosa state parlando?' Tutti vorremmo essere più morali, tutti vorremmo la pace, ma occorre parlare di quello che si vede, della realtà. E la realtà sono i razzi nel sud da Gaza, le minacce dal nord. Se Oslo è fallito, il ritiro da Gaza nel 2005 non ha funzionato, la sinistra deve cambiare agenda: non ha sviluppato un'idea per la pace in 25 anni, a parte dire che la destra è troppo militarista. La sinistra a un certo punto ha perso la propria ideologia per strada". E proprio in risposta al lancio di razzi da Gaza, l'esercito ha bombardato all'inizio della settimana postazioni del gruppo islamista palestinese, Hamas. Il timore di manifestazioni palestinesi durante il prossimo fine settimana lungo la barriera al confine con la Striscia ha portato a un dispiegamento di forze israeliane nel sud. Netanyahu, a pochi giorni dal voto, non può permettersi né un nuovo conflitto né concessioni a Hamas, scrive la stampa locale. E cerca la mediazione dei generali egiziani per mantenere a Gaza la situazione sotto controllo.
   Dal 1977 a oggi, i laburisti hanno governato pienamente soltanto due volte: quando hanno candidato due ex militari, Rabin nel 1992, ed Ehud Barak nel 1999. In Israele ancora oggi si vince alle urne sulla questione della sicurezza. L'unico candidato che preoccupa Mr Security Netanyahu è il generale Gantz, sapientemente alleato con altri due militari, l'ex ministro della Difesa Moshe Ya'alon e l'ex capo di stato maggiore, Gabi Ashkenazi. "In Israele, puoi parlare di economia e temi sociali soltanto se hai una credibilità sulla sicurezza", dice Sìgan. E' una ricetta che Netanyahu, cui è dato il merito d'aver rafforzato l'economia nazionale, conosce bene.
   E per alcuni, come Gadi Taub, storico e autore, docente all'università Ebraica di Gerusalemme, la sinistra israeliana "se fosse onesta dovrebbe dire che non può fare molto differentemente da Netanyahu: la ricetta economica della destra di Bibi funziona, e la sinistra non ha molto altro da offrire. La Siria è al collasso, non possiamo permetterei un confine con l'Iran, la Russia alle nostre porte non è una buona notizia. Anche su questo la sinistra non ha molto altro da aggiungere alla visione strategica del premier: ha perso la sua ragione d'essere. Questa però non è la sua fine: ai laburisti serve una batosta per connettersi a una nuova realtà".
   
(Il Foglio, 29 marzo 2019)


La piccola Gerusalemme

Viaggio nel Diciassettesimo arrondissement di Parigi, dove vive la più grande comunità ebraica d'Europa. L'antisemitismo, l'alyiah interna e un mantra che sa di fiducia e speranza: "Qui ci sentiamo sicuri".

Murielle Gordon-Schor, vicesindaco, ci racconta come sarà il centro sull' ebraismo che verrà inaugurato a giugno Per clientelismo elettorale, la maggioranza dei politici prende troppe precauzioni nel denunciare l'antisemitismo di origine islamica"

di Mauro Zanon

 
La sinagoga di Parigi in stile Art Nouveau in rue Pavée
PARIGI - All'inizio degli anni Ottanta, erano soltanto due i ristoranti kosher del Diciassettesimo arrondissement di Parigi, e le famiglie di confessione ebraica erano poche decine. E' sempre stato un posto tranquillo in cui abitare, ma all'epoca gli ebrei preferivano altre zone della capitale francese per vivere appieno la propria religione: il Sedicesimo, a sudovest della capitale, e il Marais, il quartiere ebraico per eccellenza. "Quando gli ebrei sono arrivati in Francia dopo la guerra, come i miei nonni, si sono stabiliti quasi tutti nel Marais. Gli altri si sono divisi tra il Sedie esimo e la prima periferia di Parigi", dice al Foglio Murielle Gordon-Schor, vice sindaca del Diciassettesimo arrondissement in quota Républicains (Lr). Suo padre è nato in Romania, sua madre in Francia, ma si sono incontrati e innamorati a rue des Rosiers, nel cuore del Marais, lì dove, il 9 agosto del 1982, la comunità ebraica fu vittima di uno dei più terribili attentati antisemiti della storia recente: al ristorante Jo Goldenberg, un ordigno esplosivo e una raffica di mitra fecero 6 morti e 22 feriti. "L'attentato di rue des Rosiers, fatto due anni dopo l'attacco terroristico contro la sinagoga di rue Copernic (4 morti e 46 feriti, ndr), ha spezzato la serenità della comunità ebraica parigina", dice Murielle Gordon-Schor. E' stata una data spartiacque per molti ebrei che, come lei, hanno deciso progressivamente di spostarsi a ovest della capitale: di fare un"'Aliyah interna".
   "lo sono arrivata nel Diciassettesimo nel 1983. Lavoravo come dentista ad Avenue Niel e tra i miei pazienti c'erano molti nobili di religione cattolica. Poco a poco, i nomi sono cambiati: sono arrivati gli Asimov e i Pevsner e attorno al mio studio, negli anni Novanta, c'erano già quattordici ristoranti kosher", racconta la vice sindaca. Oggi, il Diciassettesimo arrondissement ospita la più grande comunità ebraica di Francia e d'Europa, ed è stato ribattezzato "La piccola Gerusalemme". "Qui abitano più di 45 mila ebrei", afferma la vice sindaca, indicando la rue Jouffroy D'abbans come il cuore della vitalità ebraica dell'arrondissement. Qui la maggioranza dei negozi è kosher, per le strade si notano diverse kippah e qua e là si sentono dei "Shalom". "E' come stare nella bambagia. Forse i nuovi arrivati hanno perso in termini di superficie, ma sicuramente hanno guadagnato in termini di serenità", spiega Garry Lévy, proprietario della macelleria kosher Berbèche.
   A pochi metri dal suo negozio, c'è la libreria Beit Hassofer, che vende testi e oggetti di culto ed è molto frequentata dagli abitanti del Diciassettesimo. Particolarmente apprezzato è anche Charles Traiteur. "E' la miglior pasticceria kosher di Parigi", dice una signora appena uscita dal negozio, e racconta di essersi trasferita da qualche anno a nord ovest della capitale per ritrovare la tranquillità di quando era più giovane. "Prima abitavo nel 93 (il numero amministrativo corrispondente al dipartimento Seine-SaintDenis). Ma ora, per una famiglia ebraica non è più possibile abitare lì".
   Nelle ultime settimane, hanno fatto molto rumore alcune dichiarazioni di Eric Zemmour. In diretta sul canale televisivo Lei, il giornalista del Figaro ha affermato che nelle scuole pubbliche del Seine-Saint-Denis, dipartimento a maggioranza arabo-musulmana oggetto lo scorso autunno di un'inchiesta choc di due cronisti del Monde, "lnch'Allah" (Fayard), "non ci sono più bambini ebrei". "Purtroppo è vero ciò che dice Zemmour", dice Murielle Gordon-Schor, citando l'esempio coraggioso di François Pupponi, sindaco socialista del comune di Sarcelles (Seine-Saint-Denis), che a differenza dei suoi compagni di partito sta cercando di combattere il radicalismo islamico. Una recente inchiesta del Parisien ha rivelato che anche le sinagoghe del 93 si stanno svuotando (una ha anche chiuso per mancanza di fedeli), e sempre più francesi sono costretti a fuggire dall'est e dalle banlieue multi etniche perché "colpevoli di essere ebrei". "Il nuovo antisemitismo viene dall'islam radicale", spiega la vice sindaca, ricordando la recente opera collettiva "Le nouvel antisémitisme en France" (Albin Michel), dove il filosofo Pascal Bruckner indica questo nuovo male che non si vuole chiamare con il proprio nome. "Per clientelismo elettorale, la maggioranza dei politici prende ancora troppe precauzioni nel denunciare l'antisemitismo di origine islamica. La verità è che a Barbès (quartiere multietnico vicino a Montmartre, ndr), e in molte altre zone dell'est parigino, non si può più passeggiare con la kippah, e che le periferie sono diventate pericolose per gli ebrei a causa degli islamisti", dice Murielle Gordon-Schor. Nel Diciassettesimo, invece, dove i piccoli commerci si incastrano armoniosamente tra gli imponenti edifici haussmanniani, "mi sento al sicuro. Qui, in questo momento, i francesi di confessione ebraica non hanno paura e si sentono protetti. Mi chiedo però come sarà il futuro, non solo in Francia ma in tutta l'Europa. Chissà in che mondo vivranno i miei figli. Sono appena rientrata da Amsterdam e in alcune zone ho trovato la stessa drammatica situazione che si vive in molte zone di Francia. Penso sempre alle nuove generazioni e non sono affatto tranquilla".
   Le ultime cifre ufficiali sugli episodi di antisemitismo mostrano che nel 2018 c'è stato un aumento del 74 per cento rispetto al 2017: 541 atti antisemiti. "Sono cifre spaventose", commenta Murielle Gordon-Schor, legate al radicalismo islamico, all'importazione delle tensioni del conflitto israelo-palestinese, ma anche alla diffusione di tesi complottiste che sembravano sepolte e invece sono tornate a bussare alla porta della nostra epoca. L'assassinio di Sarah Halimi, dottoressa in pensione accoltellata e gettata giù dalla finestra al grido di "Allah Akbar", e l'omicidio efferato di Mireille Knoll, superstite della Shoah, hanno segnato profondamente la comunità ebraica francese. "Quando si dice che gli autori di questi omicidi sono solo dei 'pazzi squilibrati', dimenticando che hanno gridato 'Allah Akbar', non sono d'accordo. Bisogna finirla con la psichiatrizzazione di queste persone. Ci sono dei motivi ideologici dietro questi atti", sottolinea la vice sindaca, prima di aggiungere: "Molti di questi giovani vengono mandati nelle scuole coraniche clandestine e non in quelle della République: significa che non c'è volontà di integrarsi. Mio papà, invece, quando è arrivato in Francia, si è inginocchiato e ha baciato la terra". Murielle Gordon-Schor è anche vicepresidente del concistoro israelita di Parigi e la madrina del Centre européen du judaisme, il più grande centro europeo dedicato alla cultura e all'identità ebraiche che sarà inaugurato il prossimo giugno. "Mi sono impegnata molto per questo progetto, che ha una storia lunga vent'anni. Fu Jean Tiberi (sindaco chirachiano del comune di Parigi dal 1995 al 2001, ndr), durante l'ultima riunione del consiglio comunale sotto la sua gestione, a concedere il terreno per far sorgere questo centro", spiega. Situato tra Boulevard de Reims e rue de Courcelles, l'edificio di 4.900 m. si sviluppa su sette piani e ospiterà una grande sinagoga concistoriale. "Doveva aprire già lo scorso anno, ma i lavori per realizzare gli spazi interni hanno richiesto più tempo di quello che pensavamo", dice, e aggiunge: "Mi occuperò della parte culturale, cercando di organizzare proiezioni e incontri con registi importanti". Tra questi, anche suo cugino, Radu Mihaileanu, autore del bellissimo "Le concert", David di Donatello nel 2010 come miglior film dell'Unione europea. "Vorrei lanciare anche un salone del libro e ho già preso contatti con banditori d'arte per organizzare delle vendite all'interno del centro", dice. La presenza di questo spazio renderà ancora più attrattiva quella che in molti hanno già definito la "nuova Terra Promessa esagonale".
   
(Il Foglio, 29 marzo 2019)


Giorgio Avigdor, il fotografo-architetto. Tra paesaggi urbani e cultura ebraica

di Paolo Morelli

Per oltre sessant'anni ha fotografato il suo Piemonte, poi l'Italia e il mondo, osservando le vie delle città, i palazzi, i dettagli architettonici, scoprendo le trasformazioni urbanistiche e immortalando anche qualche volto della moda, come Valentino. Giorgio Avigdor, 87 anni, è scomparso venerdì nella sua casa di Cannes, dalla quale spesso si spostava a New York per lavoro. Ma il maestro della fotografia è nato a Torino nel 1932, dove stamattina alle 10, al cimitero israelitico di corso Regio Parco, si terranno i funerali. In città studiò architettura al Politecnico con Carlo Mollino, ed è in quagli ambienti che entrò in contatto con l'architetto Roberto Gabetti. Mentre quest'ultimo iniziava il suo percorso come docente universitario, prima come assistente di Scienza delle costruzioni e poi come «aiutante» dello stesso Mollino, nacque uno stretto legame professionale con Avigdor. Il fotografo e l'architetto, infatti, approfondirono insieme i celebri lavori torinesi di Alessandro Antonelli, ed è proprio con i suoi scatti di paesaggi urbani che Avigdor riuscì, grazie alla pubblicazione su diverse riviste, a documentare i cambiamenti della città. Proseguì poi in questa direzione, anche grazie al riconoscimento ottenuto nel 1973, con la mostra «Entrate a Torino», che presentò una sua ampia serie fotografica sulle periferie e sull'industrializzazione della città.
   Cinque anni più tardi entrò alla Biennale di Venezia nella mostra collettiva intitolata «Dalla parte dei fotografi», cui partecipò con una serie realizzata tra Goro e Gorino, nell'area ferrarese del Delta del Po. Più delle architetture e dei paesaggi, però, Giorgio Avigdor ha poi preferito concentrarsi sulla vita delle persone negli ambienti urbani, come con il lavoro «Vita e cultura ebraica» del 1983, considerato fondamentale nella sua evoluzione artistica, dedicato agli aspetti della vita quotidiana del mondo ebraico in Piemonte. Infine New York, città frequentata assiduamente a partire dal 2000, alla quale ha dedicato uno degli ultimi lavori «N.Y. 2014», che fu esposto a Torino cinque anni fa.

(Corriere Torino, 29 marzo 2019)


Missili israeliani su Aleppo

Mentre il Consiglio di sicurezza dell'Onu respinge la decisione di Trump sul Golan

DAMASCO - Sette persone sono morte a seguito di un attacco missilistico che ha colpito la provincia settentrionale di Aleppo. Si tratterebbe in particolare di militari iraniani e milizie alleate, di stanza nei pressi di un deposito di armi. Secondo Damasco, che sarebbe comunque riuscita a intercettare alcuni dei missili, responsabile dell'attacco è Israele. «Secondo quello che gli iraniani sanno, Israele ha attaccato la notte scorsa», è stato il laconico commento radiofonico del ministro israeliano dell'intelligence Yisrael Katz, che funge anche da responsabile degli esteri. L'Osservatorio siriano per i diritti umani e altre fonti precisano che i sette uccisi si trovavano nei pressi dell'aeroporto militare di Aleppo quando è avvenuto, nella notte, il raid. Sul versante diplomatico continua invece un difficile confronto sul Golan. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha respinto la decisione del presidente degli Stati Uniti, Donal Trump, di riconoscere la sovranità di Israele sulle Alture del Golan.
La posizione è stata espressa durante una riunione di emergenza chiesta dalla Siria e ha visto la condanna unanime da parte di tutti i membri del Consiglio di sicurezza, ad eccezione degli Stati Uniti che hanno votato a favore.
   Il rischio, ha detto il Consiglio di sicurezza dell'Onu, è di creare ulteriore instabilità regionale e di danneggiare l'ordine internazionale.

(L'Osservatore Romano, 29 marzo 2019)


Ancora razzi da Gaza. Israele all'Onu: «Il Golan prima l'ha usato la Siria adesso ci prova l'Iran»

Il leader di Hamas, Ismail Haniyeh: «Sabato partecipate alla marcia da un milione» di palestinesi. Una vittima in Cisgiordania.

di Elena Molinari

NEW YORK - Altro giorno di alta tensione fra Israele e Hamas, dopo che nella notte due razzi sono partiti dalla Striscia di Gaza verso la vicina città israeliana di Ashqelon. Intanto il Consiglio di sicurezza dell'Onu discuteva del riconoscimento da parte degli Stati Uniti della sovranità israeliana sulle alture del Golan.
   La tregua - di cui aveva parlato Hamas - non si è vista: durante la notte, da Gaza sono partiti altri razzi, subito intercettati. I caccia dell'Aviazione israeliana hanno bombardato obiettivi del gruppo islamico nel sud dell'enclave palestinese. L'esercito israeliano ha ribadito che considera Hamas - che governa de facto la Striscia - responsabile di tutta l'attività militare che arriva dalla zona, e si è detto pronto a «intensificare la sua attività se necessario». L'escalation è iniziata lunedì, quando un razzo lanciato dalla Striscia ha centrato un'abitazione in Israele, ferendo sette persone. Israele ha risposto attaccando cinquanta obiettivi militari, e inviando rinforzi militari a ridosso della Striscia. «L'occupazione israeliana ha avuto il messaggio», ha detto ieri il capo di Hamas, Ismail Haniyeh, congratulandosi con le fazioni palestinesi «per aver agito nel fermare l'arroganza israeliana». Quindi ha fatto appello al popolo palestinese a «partecipare alle marce da un milione di persone nel "Land Day"»: le manifestazioni indette per sabato. Benzina sul fuoco in un momento di tensione altissima in tutti i Territori: ieri negli scontri con l'esercito vicino a Betlemme (Cisgiordania), è rimasto ucciso un giovane infermiere volontario palestinese.
   A New York intanto il Consiglio di Sicurezza si riuniva, su richiesta della Siria, per discutere del Golan. I Paesi europei hanno già ribadito di «non riconoscere la sovranità di Israele sui territori occupati dal giugno 1967, comprese le Alture del Golan», ma ieri l'ambasciatore israeliano all'Onu, Danny Danon ha rivendicato il diritto dello Stato ebraico di controllare le Alture: «Per 19 anni, la Siria ha usato il Golan come posizione avanzata contro Israele, e oggi è l'Iran che vuole mettere i suoi soldati sul confine del Mar di Galilea. Israele non lo permetterà mai, ed è giunto il momento per la comunità internazionale di riconoscere che il Golan rimarrà sotto la sovranità israeliana».

(Avvenire, 28 marzo 2019)


In Israele la grotta di sale più lunga del mondo

 
La grotta di Malham si trova nel cuore del monte Sodoma, all'estremità sud-occidentale del Mar Morto, in territorio israeliano. Vi si accede calandosi per diverse decine di metri, in uno scenario scolpito da fiumi carsici e inondazioni, che hanno depositato strati di sale, lungo diverse ere geologiche, nel punto più basso della Terra.
   Questa grotta, scoperta negli anni Ottanta, è stata rimisurata di recente dagli speleologi del Centro di Ricerca dell'Università di Gerusalemme, che hanno avuto una conferma straordinaria: è la grotta di sale più lunga del mondo.
   "Non è solo la più lunga, ma è anche l'unica al mondo che supera i dieci chilometri di lunghezza - spiega Boaz Langford, ricercatore al Centro di Ricerca dell'Università di Gerusalemme - È incredibile, cambia l'intero ordine di grandezza delle caverne di questo tipo".
   Inerpicandosi lungo passaggi stretti e tra conformazioni di sale dalla forma quasi aliena, i ricercatori hanno scoperto una vera cattedrale sotterranea, che hanno ribattezzato "la sala matrimoni". Intorno, c'è una ventina di altre aperture tutte da esplorare.
   "Abbiamo datato i livelli superficiali di questa grotta, che risalgono a 7mila anni fa. Non è molto in termini geologici, anzi questo ne fa una delle grotte più giovani, e interessanti del mondo", dice il ricercatore israeliano Amos Frumkin.

(euronews, 28 marzo 2019)


Bacos, comandante eroe che rifiutò di abbandonare i passeggeri ebrei ai terroristi di Entebbe

Netanyahu
L'omaggio del premier israeliano, che nel blitz per liberare gli ostaggi perse il fratello
I ricordi del pilota
«Ho combattuto contro i nazisti, il genocidio è un orrore che nessuno di noi ha dimenticato»

di Stefano Montefiori

PARIGI - «Per tutto il volo ho avuto la pistola puntata alla testa. Se provavo a voltarmi, il terrorista mi faceva sentire la canna fredda sul collo». Michel Bacos era il pilota e comandante del volo Air France da Tel Aviv a Parigi che il 27 giugno 1976 venne dirottato da terroristi tedeschi e palestinesi. Arrivati a Entebbe, in Uganda, i terroristi decisero di separare gli ebrei dai non ebrei per liberare questi ultimi. Il comandante Bacos si rifiutò di lasciare i passeggeri tenuti ancora come ostaggi e rimase con loro fino all'ultimo.
   Michel Bacos è morto a 95 anni nella sua casa di Nizza, dove aveva vissuto a lungo con la moglie, e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu lo ha ricordato come «il comandante eroe». «Non ha abbandonato i passeggeri ebrei e israeliani anche se i dirottatori gli avevano offerto questa possibilità. È rimasto con loro e ha condiviso tutte le loro sofferenze, fino a quando i soldati israeliani sotto il comando di mio fratello Yoni riuscirono a liberarli». Yoni Netanyahu, fratello maggiore del premier, fu l'unico soldato d'élite israeliano a morire durante il blitz. In suo onore l'operazione, che in origine si chiamava Thunderbolt (tuono), venne ribattezzata Operazione Jonathan.
   «Durante la prigionia a Entebbe a un certo punto i terroristi ci annunciarono che una parte dei passeggeri sarebbe stata liberata», ha raccontato tre anni fa il comandante a Nice Matin. «Io dissi ai miei che il nostro dovere era di restare. Furono tutti d'accordo, senza eccezioni. Fa parte delle tradizioni: l'equipaggio non abbandona i passeggeri, fine della discussione». Ieri il sindaco di Nizza Christian Estrosi ha reso omaggio al comandante: «Michel ha avuto il coraggio di non cedere all'antisemitismo e alla barbarie, ha fatto onore alla Francia». In un'altra delle sue rare interviste, a Lph Info, Michel Bacos ha parlato anni fa di quel che ha provato quando ha visto i terroristi che separavano gli ebrei dagli altri: «I passeggeri ebrei erano abbattuti, e li capisco. Quel che stava accadendo era molto inquietante. Durante la guerra ho combattuto agli ordini del generale De Gaulle, contro i nazisti. Il genocidio è un orrore che nessuno di noi ha dimenticato».
   Il volo Air France partito da Tel Aviv come previsto aveva fatto scalo ad Atene per prendere altri passeggeri, compresi due tedeschi e due palestinesi. Tra loro c'era Wilfried Bòse, terrorista della Rote Armee Fraktion e braccio destro del terrorista Carlos.
   «Nella cabina di pilotaggio sentiamo qualcuno gridare, chiedo all'ingegnere meccanico, Jacques Lemoine, di andare a vedere. Lui si trova davanti un uomo con una pistola in una mano e una granata nell'altra». Bòse lo getta a terra e gli mette una pistola sulla tempia. «Con il copilota Daniel Lom abbiamo alzato le mani e supplicato "No please, no please". Sono passati due minuti interminabili». L'ingegnere fu risparmiato e Bose prese il microfono per annunciare: «Sono il vostro nuovo comandante, l'aereo ora si chiama Haifa». L'Airbus venne fatto posare a Bengasi, in Libia, poi ripartì alla volta di Entebbe, in Uganda, governata dal dittatore Idi Amin Dada.
   Il raid di Entebbe, condotto da un centinaio di soldati israeliani del reparto d'élite Sayeret Matkal, è passato alla storia. Rimanevano da liberare 106 ostaggi (i passeggeri con passaporto israeliano o cognome ebraico, e l'equipaggio). Tre ostaggi, Jean-Jacques Mimouni, Pasco Cohen e Ida Borochovitch, rimasero uccisi durante il blitz; una donna di 73 anni ricoverata in ospedale, Dora Bloch, venne uccisa, subito dopo, per rappresaglia. Jonathan Netanyahu perse la vita, come pure una ventina di soldati ugandesi e i sette terroristi. Centodue ostaggi su centosei ritrovarono la libertà. Michel Bacos ha ricevuto la Legion d'Onore ma ha sempre rifiutato di essere chiamato eroe. «Gli eroi sono quelli che hanno rischiato la vita per liberarci».

(Corriere della Sera, 28 marzo 2019)


L'IsraAID in soccorso del Mozambico colpito da un terribile ciclone

 
E' emergenza umanitaria in Mozambico dopo il terribile ciclone Idai che si è abbattuto sulle coste del Paese. Centinaia le vittime, un numero imprecisato di persone ancora disperse e decine di migliaia di sfollati che hanno bisogno di tutto.
Di fronte a questo scenario, si è immediatamente attivata la principale ONG umanitaria israeliana, IsraAID, che ha inviato una squadra di Emergency Response in Mozambico.

 Il team dell'IsraAID
  L'IsraAID ha inviato un team di risposta alle emergenze di 10 persone il 20 marzo e altri gruppi di aiuto umanitario israeliano sono partite nei giorni successivi.
In collaborazione con le autorità locali e altre organizzazioni di soccorso, gli israeliani hanno distribuito generi di prima necessità, erogato un primo soccorso psicologico e aiutato a ripristinare l'accesso all'acqua potabile.

Il portavoce di IsraAID, Ethan Schwartz, a ISRAEL21c ha detto:
"Siamo arrivati in Mozambico in una situazione difficile. A Beira la maggior parte degli edifici, incluso l'ospedale, hanno subito danni ai tetti, molti alberi sono caduti e molte strade non sono in ottimo stato. Al di fuori della città, la situazione è ancora più cupa, con ampie zone ancora sotto l'acqua e inaccessibili via terra. Migliaia di persone sono bloccate. Abbiamo incontrato molte persone che hanno perso la maggior parte o tutto quello che hanno, compreso l'accesso regolare al cibo e all'acqua, e ora stanno cercando di raccogliere i pezzi".
Il 25 marzo, l'IsraAID ha incontrato famiglie che avevano perso la casa e si trovavano in un rifugio temporaneo nella più grande scuola della città, Samora Machel.
Naama Gorodischer, direttore dei programmi di IsraAID e capo della missione in Mozambico, ha evidenziato:
"Fino a ieri, la scuola fungeva da rifugio temporaneo per le famiglie di Buzi - una delle aree più colpite. La direttrice della scuola ha dedicato tutto il suo tempo ad assicurarsi che le famiglie sfollate fossero al sicuro e curate fino a quando non sono state trasferite in un nuovo campo costruito dalle autorità locali".
L'IsraAID ha anche inviato un team medico di medici volontari e infermieri dello Sheba Medical Center, che è arrivato la sera del 26 marzo.

(SiliconWadi, 28 marzo 2019)


L'Unione Europpea si dissocia da Washington: «Il Golan non è di Israele»

Riunito il Consiglio di sicurezza dell'Onu

«La posizione dell'Unione europea per quanto riguarda lo stato delle alture del Golan non è cambiata. In linea con il diritto internazionale e le risoluzioni 242e497 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, l'Unione europea non riconosce la sovranità israeliana sulle alture occupate del Golan». E' quanto ha affermato l'Alto rappresentante dell'Unione europea, Federica Mogherini. Nei giorni scorsi il presidente Usa, Donald Trump, aveva detto di riconoscere il diritto di Israele di avere la sovranità sulle Alture del Golan.
Per provare ad allentare la tensione è stato riunito il Consiglio di Sicurezza dell'Onu su richiesta della Siria, per discutere del riconoscimento da parte degli Stati Uniti della sovranità israeliana sulle alture del Golan. A comunicarlo è stata la missione israeliana al Palazzo di Vetro.

(Il Messaggero, 28 marzo 2019)


Proteste in Siria contro Trump e il riconoscimento di Israele sul Golan

Bandiere israeliane in fiamme, manifestazione ad Aleppo

Bandiere israeliane in fiamme, manifesti con il volto di Trump al rogo. Proteste per le strade di Aleppo, in Siria, per denunciare il riconoscimento da parte di Washington della sovranità israeliana sulle alture del Golan.
"Siamo qui per dichiarare il nostro categorico rifiuto di questa folle decisione da parte di Trump - afferma Ahmed Sheikh Said, avvocato - e per dire che l'unica polarità prevalente ai tempi dell'Unione Sovietica è terminata, così come l'era dell'esclusività americana e delle decisioni americane".
Per il presidente degli Usa, Donald Trump, invece, il riconoscimento statunitense della sovranità di Israele sulle alture del Golan è "appropriato" perché il Paese ha bisogno di difendersi.

(askanews, 27 marzo 2019)


Bruciano la bandiera di Israele manifestando l'intenzione di distruggerlo e protestano contro Trump che sostiene il diritto di Israele a difendersi. Quale diritto? Israele non ha diritto ad esistere, come potrebbe avere diritto a difendersi? M.C.


Il vicepresidente della Regione Lombardia in visita in Israele

Pannelli solari prodotti a Nerviano/Mi sulla sonda israeliana 'Beresheet'. Allunaggio l'11 aprile

 
Il vicepresidente Fabrizio Sala in Israele
YEHUD (Israele) - Il vicepresidente di Regione Lombardia e assessore alla Ricerca, Innovazione, Università, Export e Internazionalizzazione delle imprese Fabrizio Sala ha visitato oggi l'Israel Aerospace Industry e il centro di controllo Beresheet a Yehud, in occasione della missione istituzionale che sta svolgendo in Israele.
"Le nostre imprese dell'aerospazio hanno bisogno sempre più di sbocchi sui mercati esteri e siamo pronti ad affiancarle nei percorsi di Internazionalizzazione" ha detto il vicepresidente.

 Componentistica 'made in lombardy' apprezzata nel mondo
  "Stiamo lavorando per creare opportunità di collaborazione con paesi come Israele, con una tecnologia sofisticata e un'alta capacità innovativa - ha aggiunto - e lavoriamo per creare una sinergia tra imprese e istituzioni anche internazionali per realizzare satelliti e progettare navicelle spaziali con la nostra componentistica, ricercata in tutto il mondo".

 Pannelli solari lombardi sulla sonda israeliana
  Israele si appresta a diventare la quarta nazione a fare allunare un proprio veicolo automatico. L'agenzia spaziale israeliana ha infatti da poco sviluppato la sonda Beresheet che atterrerà sulla Luna il prossimo 11 aprile. Una navicella che contiene anche parti lombarde, i pannelli solari sono stati realizzati da Leonardo Company a Nerviano.

(Regione Lombardia, 27 marzo 2019)


Nessuna tregua: altri razzi su Israele

Netanyahu ammassa truppe al confine e avverte Hamas: «Pronti a entrare nella Striscia».

di Elena Molinari

NEW YORK - Non è durata molto la calma in Israele, dove ieri sera, dopo poche ore di tregua, sono tornate a suonare le sirene d'allarme. Mentre l'Onu, da New York, chiedeva moderazione alle parti e condannava l'attacco missilistico lanciato lunedì da Hamas contro Tel Aviv, dalla Striscia di Gaza partivano nuovi razzi in direzione della regione israeliana di Sha'ar HaNegev, e il premier Benjamin Netanyahu si diceva pronto a «entrare a Gaza» per dare «una risposta molto, molto forte» al gruppo islamico, A sostegno delle sue parole, il premier e ministro della Difesa inviava ulteriori forze di fanteria e artiglieria al confine con la Striscia e richiamava i riservisti. Netanyahu non ha mai riconosciuto il cessate il fuoco proposto dall'Egitto e annunciato lunedì da Hamas, e nella notte ha ordinato di continuare i raid dell'aviazione sul territorio palestinese. Intanto al Palazzo di Vetro, nel corso di una riunione d'urgenza del Consiglio di sicurezza, il coordinatore speciale Onu per il processo di pace in Medio Oriente, Nickolay Mladenov, sollecitava i Quindici a condannare i lanci indiscriminati da parte di Hamas, uno dei quali ha distrutto una casa nei pressi di Tel Aviv, e metteva in guardia dal rischio di un nuovo conflitto. «I razzi sparati da Gaza nelarea di Tel Aviv sono un'escalation molto seria e una provocazione - ha sottolineato Mladenov durante la riunione -. Gli ultimi giorni hanno portato sull'orlo della guerra ancora una volta, e un nuovo conflitto avrebbe conseguenze devastanti per la gente di Gaza e ripercussioni regionali». Di qui l'invito a tutte le parti a esercitare «la massima moderazione poiché la situazione rimane estremamente tesa».
   L'ambasciatore israeliano all'Onu, Danny Danon, si aspettava di più dai colleghi. Sottolineando che il razzo da Gaza a Israele «non è stato un incidente, ma un attacco diretto e deliberato», ha chiesto al Consiglio una condanna chiara e inequivocabile di Hamas e la definizione del gruppo come «un'organizzazione terroristica». Sebbene la risposta di Israele non lasci per ora prefigurare l'esplosione di una nuova guerra, Netanyahu ieri ha avvertito di essere preparato a «fare molto di più, tutto quello che è necessario per difendere il nostro popolo e il nostro Stato». Il premier ha parlato in collegamento video con la conferenza dell' Aipac di Washington (American Israel public affairs committee), alla quale era atteso, ma che ha dovuto saltare per ritornare in patria e rispondere all'attacco. Davanti alla platea della principale lobby ebraica negli Stati Uniti, Netanyahu si è detto orgoglioso della democrazia israeliana, dove nessuno è un cittadino di seconda classe.
   Netanyahu ha poi risposto implicitamente alla deputata democratica Usa Ilhan Omar, che aveva suscitato aspre polemiche rilanciando la tesi secondo la quale l'influenza degli ebrei suoi governi stranieri è dovuta alle loro generose donazioni. Per il premier, «alcuni non capiranno mai perché la vasta maggioranza degli americani, ebrei e non ebrei, sostiene Israele: non è per i soldi, è perché condividono i nostri valori».
   Ai runici dell'Aipac, Netanyahu ha anche assicurato che «Israele non lascerà mai le Alture del Golan», la cui annessione da parte di Israele è stata riconosciuta dal presidente Donald Trump l'altro ieri. I Paesi europei membri del Consiglio di Sicurezza hanno però ribadito di «non aver cambiato posizione e di non riconoscere la sovranità di Israele» sul Golan.

(Avvenire, 27 marzo 2019)


A Gaza la tregua è già rotta. E Netanyahu è tra due fuochi

Il premier a 13 giorni dal voto combattuto tra l'azione di terra e le critiche dello sfidante Gantz: «Traditore». Tra raid disastrosi e accuse sanguinose Israele di nuovo di fronte a un bivio

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - «Tregua? Quale tregua? - chiede triste una donna al telefono dalla sua casa di Sderot - Ne ho contate sette di tregue nell'ultimo anno e ho contato invece decine di sirene durante quest'ultima nottata ... » Tregua? Quale? Quella che Hamas ha dichiarato dalle 3 di notte quando ormai gli elicotteri Apache avevano attaccato bombardando l'ufficio (vuoto) di Ismail Haniyeh, e avevano fatto a pezzi diversi depositi militari. La gente d'Israele è esasperata a tredici giorni dal voto del 9 di aprile. I missili ormai hanno colpito metà del Paese, dal confine con Gaza fino al centro di Israele e più a Nord. Questo è un Paese piccolo e vulnerabile, a portata di missili di Hamas finché il suo territorio diventa zona a portata dei missili degli Hezbollah. In queste ore i suoi carri armati e i suoi mezzi corazzati sono ammassati sul confine con Gaza. Ma il Paese non è militarista: sulle reti sociali è diventato virale un video che mostra una famigliola che gioca con le sue due bambine piccolissime alla «festa del rifugio», che è tutto adornato di orsacchiotti e festoni. Le pupe col pigiamino ridono mentre il padre le rassicura che quei bum che si sentono sono solo un gioco, e un donna madre piange di nascosto poco lontano.
   Benjamin Netanyahu ha lasciato a Washington, il tappeto rosso e la firma storica che riconosce la sovranità di Israele sul Golan. Trump gli ha regalato la penna con cui ha firmato il riconoscimento, un portafortuna di cui Bibi ha bisogno. Appena arrivato inseguito da mille accuse è andato direttamente al ministero della Difesa, per incontrare tutti gli esperti e i militari. Ma non ha presentato soluzioni, promesse e tantomeno tregue. Netanyahu sa che con Hamas si può solo bloccarla con la forza senza però cadere nella trappola degli scudi umani che Hamas usa per catturare il consenso internazionale, e aspettare la prossima puntata. Nessuno crede in Israele che la tregua durerà più di qualche ora: lo provano gli inviti continui di Hamas ad attaccare gli ebrei (la tv trasmette una canzone che invita a farli a pezzi), l'atmosfera di vittoria che si respira a Gaza, i preparativi presso il confine dove Hamas celebra un anno dall'inizio degli scontri con gli aquiloni incendiari.
   Siamo ancora agli inizi mentre invece la campagna elettorale è agli sgoccioli, e i suoi toni sono sanguinosi, micidiali, irreparabili, e non si capisce che cosa succederà se le due maggiori forze politiche, il Likud di Netanyahu e Azzurro e bianco di Benny Gantz, fossero costrette a collaborare più avanti: le offese volate fra i due non sono offese politiche ma dichiarazioni di disgusto, di totale disistima. A partire dall'accusa di non aver saputo difendere i cittadini dall'odio armato di Hamas, di non averlo fermato prima che colpisse ancora. Di certo Hamas battuta in tre guerre si ripresenta sempre come un'idra dalle mille teste, e di certo Netanyahu non dimentica che nell'ultima guerra ha dovuto contare 73 morti.
Bibi promette una durissima risposta, ma per ora sta attento a non creare una situazione che si svilupperebbe solo in un ingresso delle truppe di terra. Gantz critica Netanyahu dall'alto della sua posizione di ex capo di Stato maggiore, ma sta molto attento a non perdere il voto della sinistra pacifista. Dice lo stesso di Netanyahu, ma criticandolo. Ma al di là della guerra Gantz e i suoi si sono avventurati a definire il primo ministro «un traditore», per i sottomarini tedeschi comprati in passato, e nelle sue parole e quelle dei suoi compagni, fra cui altri due ex Capi di Stato Maggiore, si legge un risentimento, che straripa. Il Likud usa invece senza pietà la notizia che il telefonino di Gantz sia stato violato dal regime iraniano e che quindi potrebbe ricattarlo. E si critica il carattere incerto e poco portato alle interviste di Gantz, che balbetta e perde il filo di fronte agli intervistatori tv.
   Chi vincerà? Difficile che il premier voglia avventurarsi in una guerra adesso, rischioso per il risultato elettorale; ma se non reagisce come la gente chiede, rischia di perdere voti. Il dilemma è grande, e non è piacevole pensare quanto il destino di un paese come Israele possa essere legato a quella di un'organizzazione terroristica come Hamas.

(il Giornale, 27 marzo 2019)


Il sindaco di Sderot: "Noi resistiamo. È Hamas che sta perdendo"

Gadi Yarkoni
Nel Sud d'Israele hanno riaperto le scuole ma molti genitori hanno deciso di non mandarvi per il momento i propri figli. Almeno il 30 per cento dei ragazzi del Consiglio regionale di Eshkol, tra le aree più colpite dai razzi di Hamas, sono infatti rimasti a casa a causa delle tensioni e scontri degli ultimi giorni tra Israele e Gaza. "È comprensibile e legittimo che dopo due giorni di tensione i genitori scelgano quello che pensano sia la cosa giusta per i loro figli" ha commentato Gadi Yarkoni, capo del Consiglio Regionale di Eshkol. "D'altra parte, molti genitori hanno mandato i bambini a scuola. La cosa importante è che almeno ci sia una possibilità di scelta per i genitori di mandare o meno i figli". Yarkoni ha sottolineato che "i residenti nelle vicinanze di Gaza sono vittime di una guerra di logoramento, il governo di Israele deve prendersi cura dei suoi cittadini, capirne l'angoscia qui e fare tutto il possibile per porre fine a questa situazione".
   L'emittente televisiva Kan, intanto, spiega che fonti palestinesi a Gaza hanno riferito che i servizi segreti egiziani sono ancora impegnati a garantire un cessate il fuoco e per stabilire intese per una tregua tra Israele e Hamas. Il movimento terroristico sarebbe disposto solo a bloccare il lancio di razzi e non, come chiede Israele, a fermare anche le infiltrazioni oltre la barriera di confine.
   Intanto un messaggio a Hamas lo ha voluto lanciare Alon Davidi, sindaco di Sderot, tra le città più bersagliate dai lanci dei terroristi di Gaza. In una lettera aperta in arabo indirizzata al capo di Hamas Ismail Haniyeh, Davidi sottolinea le differenze tra la sua fiorente comunità e la desolazione dell'enclave dal gruppo terroristico da oltre un decennio. "Ismail Haniyeh, non vedi che stai perdendo? Prendi tutti i soldi che ricevi dal mondo arabo e invece di usarli per il cibo, un'economia funzionante e un futuro per i residenti di Gaza, li sprechi nei tuoi tentativi fantasiosi di batterci". "È vero Haniyeh, le cose non sono semplici (anche qui). A volte è dura e mi spingerò fino a dire che stiamo soffrendo. Ma guarda i risultati del tuo comportamento…… Come appare Gaza rispetto a Sderot? Pensi di aver vinto, ma la realtà dimostra che hai perso di nuovo. Pensavi di trasformare Sderot in una città fantasma, ma noi siamo forti!". "Hai perso, - prosegue la lettera - i tuoi concittadini stanno perdendo e perderanno di più nel tempo a venire. È ora di cambiare rotta".
Sul fronte internazionale, si continua invece a discutere del riconoscimento del presidente Usa Trump della sovranità israeliana sulle alture del Golan. In queste ore gli Stati membri dell'Unione Europea hanno emesso una nota in cui respingono all'unanimità il riconoscimento e affermano che il cambiamento nella politica estera americana non è in linea con il diritto internazionale. "La posizione dell'Unione europea per quanto riguarda lo status delle alture del Golan non è cambiata", afferma il dipartimento degli affari esteri dell'UE. "In linea con il diritto internazionale e con le risoluzioni 242 e 497 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, l'Unione Europea non riconosce la sovranità israeliana sulle alture del Golan occupate". dr

(moked, 27 marzo 2019)


Dopo il razzo su Tel Aviv l'Eurofestival nella bufera

È allarme sicurezza. Roger Waters invita a boicottare l'evento. L'ospite Madonna ha un brano «inappropriato». Mahmood tra i favoriti

di Simona Orlando

Non sono solo canzonette. L'Eurovision Song Contest, il festival europeo di canzoni (per l'Italia parteciperà Mahmood, il vincitore di Sanremo con Soldi) in calendario dal 14 al 18 maggio a Tel Aviv, è nella bufera. La città due giorni fa è stata colpita da un altro razzo lanciato da Gaza, il terzo in dieci giorni, caduto a pochi chilometri dal Centro Congressi che ospiterà la gara, dove alcuni dei 41 concorrenti avevano appena finito di girare video promozionali. La situazione è decisamente tesa. Il premier Netanyahu ha promesso di reagire con forza e si teme un'escalation di violenza. La manifestazione, che attrae oltre 200 milioni di spettatori nel mondo, le delegazioni dei Paesi in gara e 1500 giornalisti accreditati (più di quelli che seguirono Obama e Papa Francesco), è a rischio?
Al Messaggero l'EBU, l'Unione Europea di Radiodiffusione, ha risposto così: «La sicurezza per noi è di primaria importanza. Lavoriamo con le autorità per salvaguardare il benessere di tutti. Continueremo a monitorare la situazione in Israele».

 La sicurezza
  Si va avanti, dunque, ma il quotidiano Haaretz lamenta problemi di sicurezza non risolti, e uno scaricabarile fra organizzazione e Ministero preposto. E un'edizione complicata, partita con lo scandalo fiscale della top model e presentatrice Bar Refaeli, il ritiro dell'Ucraina e della sua candidata Maruv (per i suoi rapporti con la Russia), e le organizzazioni locali che chiedono l'espulsione degli islandesi Hatari, band techno-punk-sadomaso filo-palestinese. Il timore è che usi il palco a fini politici, vietato dal regolamento e contrario allo spirito dell'Eurovision. Roger Waters invita a boicottare l'evento e lo stesso fanno gli artisti palestinesi con una lettera aperta. Madonna è l'ospite della finale (Rail alle 20.35, le semifinali su Rai4), in uscita con il singolo Indian Summer, ma il sito Ynet sostiene che la sua presenza traballi: tra le sue canzoni, ce n'è una inappropriata (si dice di natura politica) e avrebbe filmato uno spot che potrebbe creare controversie. Difficile crederci: ha chiesto e ottenuto 1,3 milioni, sborsati dal miliardario israeliano Sylvian Adams.

 Gli stranieri
  In genere sono 18 mila i visitatori stranieri, ma se ne aspettano 10 mila. I biglietti costano tanto perché KAN, la tv pubblica nazionale, ha pochi fondi dallo Stato. Al mercato secondario si vendono a più di mille euro. Gli hotel hanno prezzi alle stelle e l'idea di una tendopoli a Yarkon Park è naufragata. In quanto Paese fondatore, l'Italia è già in finale con Mahmood, già dato sul podio dai bookmaker. Il lato glamour-kitsch sarà materiale buono per la commedia di Netflix Eurovision, il resto è musica molto leggera che galleggia in un contesto geopolitico pesante, sotto lo slogan "Osate sognare".

(Il Messaggero, 27 marzo 2019)


Da meteora del Palermo a trascinatore dell'Israele: Eran Zahavi ora stupisce in Cina

 
Eran Zahavi
Un passato in Serie A e un presente in Cina. Eran Zahavi si prende le luci dei riflettori dopo la tripletta messa a segno con l'Israele nella gara vinta per 4-2 contro l'Austria. Il fantasista classe '87 proverà a trascinare la sua Nazionale ad una storica qualificazione agli Europei del 2020. Intanto Zahavi, che va a segno da 4 gare consecutive con l'Israele, stupisce anche nella Chinese Super League dove ha collezionato 61 gol in 73 presenze, diventando il 5o miglior marcatore di sempre - in coppia con Hanchao Yu - del campionato cinese.
   Eran Zahavi nasce il 25 luglio 1987 a Rishon LeZion in Israele. Muove i sui primi passi calcistici nelle giovali dell'Hapoel Tel Aviv dall'età di 6 anni per poi trasferirsi all'Hapoel Rishon LeZion, squadra della sua città natale, dal 2003 al 2005. La sua carriera professionistica inizia proprio con l'Hapoel Rishon, ma il cartellino resta di proprietà dell'Hapoe Tel Aviv. Nella prima annata gioca 17 partite di campionato mettendo a segno 2 gol, mentre nella seconda ed ultima annata in prestito, realizza 7 gol in 28 presenze. L'esperienza all'Hapoel Rishon LeZion si conclude con 45 presenze e 9 gol nella seconda serie israeliana. Nel 2008 torna a Tel Aviv e diventa un titolare. Il suo esordio con la maglia dell'Hapoel Tel Aviv arriva il 17 luglio 2008 nell'andata del primo turno preliminare di Coppa UEFA contro i sammarinesi dello Juvenes/Dogana vinto per 3-0. La prima gioia personale arriva il 28 agosto nella sfida vinta contro i serbi del Vojvodina. Nelle tre stagioni giocate con la maglia dell'Hapoel, Zahavi, vince anche un campionato d'Israele nella stagione 2009/10. Il bilancio con la maglia dei biancorossi conta 97 presenze condite da 25 gol. Questi numeri attirarono le attenzioni del Palermo e nell'estate del 2011 viene acquistato dal club rosanero per una cifra di poco superiore al milione e mezzo di euro. L'israeliano firma un contratto quinquennale con la squadra siciliana ma la sua avventura in Serie A dura solamente una stagione e mezza. Nella sua prima annata fa intravedere qualche lampo di qualità e il gol alla quarta giornata contro il Cagliari fa ben sperare tutta Palermo. Il secondo e ultimo centro con la casacca rosanero arriva all'undicesima giornata contro il Bologna. Da lì in poi qualche infortunio di troppo e qualche panchina, hanno fatto perdere continuità a Zahavi che, nella stagione seguente, non trova praticamente quasi mai spazio. L'avventura al Palermo si chiude a gennaio del 2013 con il suo ritorno in Israele, al Maccabi Tel Aviv per 250mila euro. Il ritorno in patria rivitalizza il fantasista classe '87 tanto da far registrare subito 7 gol e 3 assist nelle 16 apparizioni. Con la maglia del Maccabi il talento di Zahavi esplode definitivamente, vincendo 3 campionati israeliani di fila e piazzandosi in tutte e tre le occasioni al primo posto della classifica marcatori. I 117 gol nelle 153 presenze, valsero a Zahavi la chiamata in Cina del Guangzhou R&F nel 2016. Gli otto milioni di dollari sborsati dal club cinese furono subito giustificati dalle 17 reti messe a segno nelle prime 19 partite. Nella Super League cinese l'israeliano si trova subito a proprio agio e i successivi 50 gol, più 6 nella coppa cinese, ne sono la testimonianza. Ora Zahavi si gode la sua seconda giovinezza nel continente asiatico con la speranza di poter entrare ancora di più nella storia del calcio israeliano.
   Zahavi nasce come centrocampista offensivo, ma con il tempo ha occupato sempre di più il ruolo di trequartista o di prima punta. E' dotato di una buona visione di gioco, ed è in grado di servire i compagni con precisi assist. Alto 180 cm, è bravo con entrambi i piedi e molto capace nei dribbling. Nonostante il suo fisico non sia imponente e molto bravo anche nei colpi di testa e soprattutto nei tagli alle spalle della difesa avversaria. Il suo marchio di fabbrica è il tiro da fuori.

(afropedulla.com, 27 marzo 2019)


L'UE dovrebbe includere l'intera Hezbollah nell'elenco dei gruppi terroristici

di Deidre Berger (*)

Pochi Paesi sono restii ad aggiungere Hezbollah nella sua interezza all'elenco delle organizzazione terroristiche come la Germania. Sebbene Hezbollah sia una delle organizzazioni terroristiche più grandi e meglio armate del mondo, gli opinionisti tedeschi evitano di affermare l'ovvio, e insistono sulla finzione che Hezbollah sia un'organizzazione con spaccature tra un'ala "politica" e un'ala "militare".
Dietro al rifiuto di includere Hezbollah nella lista delle organizzazioni terroristiche dell'Unione europea c'è l'idea che chiudere le porte dell'Europa al gruppo terroristico destabilizzerà il governo libanese, che include Hezbollah al suo interno. Questa argomentazione trascura il fatto che Hezbollah sta già destabilizzando il Libano; è uno Stato all'interno di uno Stato, che controllo di fatto il sud del Paese.

 Teheran
  I politici tedeschi e dell'Ue rifuggono da questo passo anche perché porterebbe inevitabilmente a tensioni con l'Iran, che utilizza Hezbollah come un suo braccio teso. L'Ue sta cercando di evitare ulteriori complicazioni con l'Iran nel tentativo di salvare l'accordo sul nucleare iraniano. L'Europa, e l'Occidente nel suo complesso, non possono più farsi intimidire da queste minacce dell'Iran, come è successo spesso in passato. È tempo di affrontare la realtà. Come molte organizzazioni terroristiche, Hezbollah camuffa i suoi veri motivi pretendendo di essere un'associazione sociale. Eppure il suo emblema, un fucile armato, racconta i fatti come stanno. Anche in Libano, il gruppo non esita a usare la forza militare se vede i suoi interessi minacciati. Sotto gli occhi di Unifil Hezbollah ha ammassato un arsenale di oltre 100mila razzi puntati contro Israele, che rappresentano una minaccia strategica per la sicurezza dello Stato Ebraico. Allo stesso tempo, gli islamisti sciiti sono corsi in aiuto del regime assediato di Assad e hanno partecipato ai crimini del regime contro il proprio popolo, le cui vittime erano e sono ancora musulmani sunniti.

 Islamisti
  Le attività di Hezbollah non sono solo un problema regionale, ma globale, e lo sono da decenni. I membri di Hezbollah hanno effettuato l'attacco Mykonos del 1992 a Berlino e hanno commesso un attacco suicida a Burgas, in Bulgaria, che ha provocato la morte di sei turisti israeliani ferendone altri gravemente, nel 2012. Tuttavia, Hezbollah non è solo un'organizzazione terroristica globale, ma una rete criminale mondiale che opera nel traffico di droga. I profitti derivanti da queste attività criminali crescono anche in Germania. Inoltre, il nostro continente è un ricovero e un rifugio per l'organizzazione. C'è il pericolo che la Germania e l'Europa vengano utilizzate sempre più come un ambiente per preparare attacchi terroristici. Soprattutto nel caso di uno scontro diretto tra Israele e Iran o Hezbollah, si può presumere che il "Partito di Dio" attaccherà obiettivi ebraici e israeliani in questo o in altri paesi europei. Malgrado Hezbollah operi prevalentemente in maniera clandestina, le manifestazioni del Giorno di Al-Quds che si svolgono ogni anno sottolineano il carattere antisemita dell'organizzazione, le cui bandiere proclamano la distruzione dello Stato Ebraico di Israele.

 Ali
  Sebbene la recente messa al bando da parte del Regno Unito non cambierà questa manifestazione di antisemitismo, che si svolge anche annualmente a Londra, il divieto impedisce l'esibizione degli emblemi dell'organizzazione, come era consuetudine fino ad ora. A questo proposito, Berlino è davvero avanti, dato che la polizia ogni anno emette un divieto di esibire i simboli di Hezbollah dal 2016. Tutte queste attività dimostrano che Hezbollah è un'organizzazione terroristica e criminale molto pericolosa. L'idea che possa essere divisa in due ali distinte è pura fantasia. Questa distinzione dovrebbe essere eliminata, dato che in questo modo gli Stati dell'Ue non fanno altro che privarsi di efficaci misure di sicurezza. Finché i sostenitori continueranno a raccogliere denaro per scopi apparentemente benevoli, non possono essere perseguiti. Gli Stati dell'Ue non possono sapere dove vanno a finire questi soldi una volta che arrivano in Libano.
La Germania dovrebbe seguire gli esempi del Regno Unito e dell'Olanda. Perché mai la Germania, tra tutti i paesi, dovrebbe tollerare la presenza di un'organizzazione terroristica chiaramente antisemita che costituisce una minaccia per la vita ebraica e per lo Stato di Israele sul suo territorio? Sarebbe utile alla Germania, specialmente nel contesto del suo passato, prendere l'iniziativa ed aggiungere questa organizzazione antisemita all'elenco dei gruppi terroristici. La parola della Germania ha il suo peso; altri senza dubbio seguiranno il suo esempio. Questo passo sarebbe anche un contributo pratico nella lotta contro l'antisemitismo e la garanzia della sicurezza di Israele.

(*) Direttrice dell'ufficio a Berlino dell'Ajc - American Jewish Committee

(L'Opinione, 27 marzo 2019)


La soluzione a due stati è più una ricetta per la guerra che una condizione per la pace

di Ugo Volli

 
“Due stati / per due popoli / che vivano l’uno accanto all’altro / in pace e sicurezza”


Qualcuno anche in Israele ha ricominciato a parlare di una obbligatoria "separazione dai palestinesi" nella forma di "due stati per due popoli", dando per scontato che questa sia la premessa di quella pace che tutti in Israele vogliono. Nel resto del mondo questo tema dei "due stati" come formula della pace futura è sempre rimasto fra i luoghi comuni che nessuno pensa di sfidare. Ma siamo sicuri che la separazione di popoli che si contendono un territorio sia davvero la formula magica per farli convivere pacificamente?
   Dato che il tema è così importante, vale certamente la pena di ragionarci attentamente. Naturalmente nessuno è in grado di conoscere il futuro, per cui vi propongo due criteri. Il primo sono gli impegni dei protagonisti. Israele è certamente in grado di rinunciare a territori che controlla senza ritornare sui suoi passi. Lo dimostra chiaramente l'esempio del Sinai, abbandonato in seguito al trattato con l'Egitto e non più rivendicato. Ma i palestinesi/palestinisti? Bisogna partire dal fatto che in tutti i loro simboli che includono un riferimento geografico, nelle loro mappe, nei libri di testo, in televisione, nelle dichiarazioni dei politici, nei loro documenti fondativi si mostra esplicitamente che il loro scopo è prendere il potere su tutto il territorio "fra il fiume e il mare", senza distinzione fra l'Israele delimitato dalle linee di armistizio del '49 e quello attuale. Perfino il rifiuto di accettare Gerusalemme come capitale dice la stessa cosa: tutte le istituzioni dello stato hanno infatti sede ad ovest della linea armistiziale, ma questo per loro non conta. La domanda è allora: se ci fosse una pace a due stati, sarebbero disposti a una rinuncia solenne e definitiva a tutte le rivendicazioni sul territorio assegnato a Israele? Nelle trattative Israele ha sempre chiesto questa clausola "finale" fra le condizioni irrinunciabili e ha sempre ricevuto netti rifiuti. Ma senza di essa, è evidente che il conflitto continuerebbe solo con qualche cambiamento tattico ai danni di Israele: la "pace" sarebbe solo un armistizio svantaggioso. Così del resto la presentava Arafat, per esempio in un celebre discorso a Johannesburg, paragonando gli accordi di Oslo a un armistizio fatto da Maometto in condizioni di svantaggio, che poi il profeta ruppe appena lo trovò conveniente (il testo e la registrazione audio).
   C'è poi un altro modo di valutare l'ipotesi dei due stati, cioè l'esperienza. Accade in generale che due popoli in conflitto radicale anche religioso, si riappacifichino una volta separati da un confine? Vi è un esempio celebre e per molti versi simile a quello del conflitto arabo-israeliano, perché ad esso contemporaneo e regolato, in parte provocato dalla stessa potenza coloniale, la Gran Bretagna. Sto parlando di India e Pakistan, fondati con una separazione territoriale nel 1947. La divisione fu una terribile pulizia etnica: città prevalentemente indù come Lahore e tutta la valle dell'Indu, culla della cultura indiana, andarono al Pakistan, mentre l'India tenne territori prevalentemente musulmani, per esempio la stessa capitale Delhi. Nei trasferimenti morirono in milioni. Ma questo costo terribile produsse la pace? Per nulla: vi sono state quattro guerre vere e proprie nel '47-48, nel '65, nel '71, nel '99; due conflitti endemici, in Kashmir e sul Siachen, e un'ininterrotta attività terroristica proveniente dal Pakistan, che ha colpito pesantemente anche poche settimane fa. Al confronto, risulta molto più pacifica la relazione interna allo stato indiano fra indù e musulmani (che sono quasi il 15% ovvero 200 milioni). La separazione voluta dagli inglesi e dai musulmani è stata fonte di conflitto, molto meno la convivenza che voleva Gandhi.
   La stessa cosa, fatte le debite proporzioni, si può dire anche di Israele. Durante la guerra d'indipendenza (soprattutto per incoraggiamento degli eserciti degli stati arabi) e poi dopo il '67, un po' meno di un milione di arabi decise per la separazione, abbandonando i territori che formano lo stato di Israele. Alcuni di essi si sono integrati in vari stati, dalla Giordania al Libano, ai paesi del Golfo fino al Sudamerica, cosa che è riuscita loro facile anche perché in buona parte erano immigrati recenti dall'Egitto, dall'Arabia e dalla Siria. Altri hanno vissuto la condizione di profughi e sono stati spesso molto maltrattati (in Libano soprattutto per opera dei cristiani e degli sciiti locali, in Siria a causa della diffidenza del regime degli Assad). Una parte consistente dei loro discendenti oggi vive nei territori amministrati dall'Autorità Palestinese. Questi ultimi sono diventati la massa d'urto usata dagli ex emigrati che dirigono le istituzioni palestiniste. In altri termini, la gran parte del terrorismo arabo contro gli ebrei di Israele viene dai sudditi dell'Autorità Palestinese, separati da Israele. Molto meno , davvero molto meno terrorismo viene dal 17% degli arabi musulmani che non si sono separati e sono rimasti cittadini di Israele, circa un milione e mezzo di persone. Eppure questo numero non è troppo diverso da quello degli arabi che vivono in Giudea e Samaria.
   Le cause possono essere diverse, dal contatto personale alla presenza di un sistema di prevenzione e polizia più efficiente. Ma certamente conta l'instancabile propaganda condotta dall'Autorità Palestinese a favore del terrorismo e in prospettiva del genocidio degli ebrei. Non c'è ragione di pensare che se si costituisse un vero stato palestinese le cose cambierebbero. Anzi, la libertà d'azione delle forze di sicurezza antiterrorismo israeliane sarebbe per forza limitato e probabilmente il potere sarebbe prima o poi catturato da Hamas, gruppo esplicitamente terrorista. Insomma, anche se si considerano le cose dal punto di vista dell'esperienza, la soluzione a due stati assomiglia molto di più a una ricetta per la guerra, non per la pace.

(Progetto Dreyfus, 25 marzo 2019)


Razzo di Hamas su Tel Aviv. E da Israele offensiva su Gaza

Caccia israeliani in azione dopo l'attacco a un kibbutz dove viveva una famiglia: 7 feriti, tra cui tre bimbi. Critiche a Netanyahu: in molti vogliono la linea dura. In serata l'annuncio del «cessate il fuoco».

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Così Israele non può continuare dopo il bombardamento di ieri alle 5 di mattina sul centro di Israele, al kibbutz Mishmeret, vicino a Kfar Saba, 100 chilometri da Gaza, dopo che Tel Aviv è stata colpita solo 10 giorni fa: basta guardare ciò che è rimasto della casa della famiglia Wolf, le mura e il tetto a terra, l'interno tutto calcinacci compresi quelli che coprono il lettino di un bambino. Durante la sirena la nonna ha afferrato i nipotini salvandoli. Una svolta militare è nell' aria e già ieri sera è iniziata con un attacco degli Apache dal cielo: il bombardamento di Hamas è stato fatto per uccidere e gettare nel panico i cittadini di qualsiasi parte di Israele, sette persone della stessa famiglia sono all' ospedale, la nonna è ferita gravemente, il nonno, i genitori e tre bimbi da 6 mesi a 12 anni tutti ricoverati. In serata, però, l'annuncio di Hamas: cessate il fuoco grazie alla mediazione egiziana.
   Ma la scena mediorientale ieri aveva due sfondi lontani migliaia di chilometri: mentre alle cinque meno un quarto di sera, ora italiana, iniziava la risposta su Gaza, le riserve venivano richiamate, i rifugi del sud ma anche di Tel Aviv venivano aperti, le attività esterne venivano tutte sospese, il treno fermato, la Casa Bianca srotolava il tappeto rosso delle grandi occasioni per Netanyahu a Washington: Donald Trump ha riconosciuto ieri a nome degli Stati Uniti la sovranità israeliana sul Golan cancellandolo così dal potere di Assad e disegnandolo nella strategia di una grande guerra totale contro il terrorismo in cui gli Usa e Israele sono alleati.
   Doveva essere per Netanyahu solo un giorno di grande festa e anche di proficua campagna elettorale a due settimane dalle elezioni. Il riconoscimento, a 52 anni dalla Guerra dei Sei giorni, è fondamentale per la sicurezza di Israele, toglie al terrore una terrazza strategica su tutto il Medio Oriente. Negli anni da là sono stati lanciati innumerevoli guerre e attacchi terroristici ormai gestiti dagli hezbollah e dagli iraniani. L'assalto coi tank del '73, Guerra del Kippur, fu quasi fatale. Ieri gli Usa hanno finalmente cancellato la vacca sacra e pericolosa dei confini del '67. Tuttavia, anche se l'incontro con Trump è stato festivo e molto caloroso, fino a un inedito bacio di Bibi a Trump, l'ombra della guerra ha accompagnato l'incontro. Netanyahu subito dopo la conferenza stampa ha lasciato gli Stati Uniti per tornare alla sua casa che ribolle.
   L'attacco di ieri è una provocazione inaspettata: Hamas colpisce nell'ipotesi che Netanyahu non voglia fare la guerra prima delle elezioni. Ma stavolta Hamas, che ha i soldi del Qatar, l'appoggio militare dell'Iran, l'uso di massa dei lanciatori di palloni esplosivi, la furia religiosa di Yehie Sinwar e, sotto la cenere, subisce il lavorio sotterraneo di Abu Mazen che affamando la Striscia spera di portare le provocazioni di Hamas al punto che sia Israele a toglierlo di mezzo per lui, può avere esagerato. Non è un caso che tutti i suoi capi siano ormai nei sotterranei di Gaza (ieri sera nei raid colpito anche l'ufficio del leader, Ismail Haniyeh). Nelle risposte agli attacchi dei giorni scorsi Israele ha agito in modo contenuto, evitando di colpire le persone. Ma gli scudi umani vengono usati per coprire gli obiettivi militari e le rampe di lancio. Ieri le critiche a Netanyahu, a due settimane dalle elezioni, sono state sanguinose: la sua tecnica di contenimento senza radere al suolo Hamas o eliminare i suoi capi terroristi, il fatto che abbia lasciato entrare gli aiuti del Qatar, la scelta di non mettere, dopo tre guerre, gli «stivali a terra» mettendo la vita dei soldati israeliani a rischio è oggetto di durissimi attacchi.

(il Giornale, 26 marzo 2019)


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La tregua non ferma i razzi: nella notte combattimenti fra Israele e le milizie palestinesi di Gaza

Oggi il rientro di Netanyahu dopo l'incontro con Trump

Malgrado l'annuncio giunto da Hamas di un cessate il fuoco mediato dall'Egitto, sono proseguiti nella notte i combattimenti fra Israele e le milizie palestinesi di Gaza. Dalla Striscia - aggiorna la radio militare - sono stati lanciati verso Israele una sessantina di razzi che non hanno provocato vittime.
Israele, blitz aerei su Gaza dopo il razzo contro Tel Aviv. Trump riconosce la sovranità israeliana sul Golan
Da parte sua - aggiungono fonti militari - Israele ha colpito 15 "obiettivi terroristici". Nelle località israeliane vicino a Gaza le scuole sono tenute oggi chiuse, per ragioni prudenziali.
Nel frattempo il premier Benjamin Netanyahu - che ieri è stato ricevuto da Donald Trump in un incontro in cui il presidente Usa ha firmato una dichiarazione con cui riconosce la sovranità israeliana sul Golan - sta adesso rientrando in Israele, dove è atteso nella tarda mattinata.

(ANSA, 26 marzo 2019)


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Israele si vendica dei razzi da Gaza. Hamas delira: «Colpa del meteo»

di Glauco Maggi

Mentre il presidente Trump si preparava ad ospitare lunedì mattina il premier israeliano Benjamin Netanyahu alla Casa Bianca, i terroristi di Hamas sparavano un razzo dalla Striscia di Gaza centrando un edificio nel cuore di Israele ferendo sette civili. L'esercito di Gerusalemme ha preparato un'immediata risposta militare senza nemmeno attendere il ritorno in patria del premier, cominciando a bombardare varie sedi di Hamas, lasciate vuote dai militanti nella certezza della reazione israeliana. «Abbiamo visto diverse colonne di fumo alzarsi dal territorio di Gaza e contemporaneamente i militari israeliani hanno confermato di aver iniziato la controffensiva», ha raccontato Harry Fawcett di Al Jazeera sul confine tra Gaza e Israele. Il suono delle sirene ha svegliato i residenti dell'area di Sharon, a nord est di Tel Aviv, alle 5 del mattino, e poco dopo s'è sentita una forte esplosione che ha semidistrutto un palazzo residenziale nella comunità di Mishmeret. Le ambulanze subito accorse hanno trovato sette persone colpite più o meno gravemente: due uomini, due donne, due bambini e un neonato.
   Un portavoce di Hamas, anonimo, ha negato la paternità dell'azione parlando con la Agenzia France Press, e ha ipotizzato che la colpa dell'incidente poteva essere del «cattivo tempo».
   Netanyahu, che non ha voglia di scherzare quando c'è di mezzo la sicurezza del suo Paese, ha tenuto il previsto meeting con Trump ma è poi subito ritornato in Israele.
   Durante il colloquio alla Casa Bianca, il presidente americano ha firmato la proclamazione ufficiale in cui il governo Usa ha riconosciuto la sovranità israeliana sulle alture del Golan, l'area che l' esercito di Gerusalemme aveva conquistato strappandola alla Siria durante la Guerra dei Sei Giorni del 1967. Per Israele è l'ennesima prova che il legame con gli Usa «è indistruttibile»' come ha detto Trump congedando l'amico Netanyahu. L'assist della sovranità sul Golan, che aiuterà Bibi nelle imminenti e difficili elezioni politiche, segue il trasferimento dell'ambasciata Usa a Gerusalemme e la cancellazione del patto nucleare obamiano con l'Iran.

(Libero, 26 marzo 2019)


Ely Karmon, esperto di terrorismo: "Le elezioni del 9 aprile frenano Gerusalemme"

 
Ely Karmon
Netanyahu colpirà duro «ma senza provocare una guerra aperta, perché potrebbe costargli la rielezione al voto del 9 aprile». La sua strategia è di lasciare Hamas al potere a Gaza, senza distruggerlo del tutto, in modo da mantenere i palestinesi divisi e allontanare la possibilità della nascita di uno Stato palestinese. Per Ely Karmon, Senior Research scholar all'International Institute for Counter-Terrorism, è una scelta rischiosa: Hamas si è convinto che Israele «è meno forte e per questo continua ad alzare il tiro».

- Come si è arrivati sull'orlo di una nuova guerra?

  «L'escalation è in atto da un anno. Hamas ha cercato di penetrare in tutti i modi nel territorio israeliano, ha lanciato oltre 500 razzi, colpito con palloni incendiari o carichi di esplosivo, persino droni. Le forze di sicurezza sono riuscite a controllare le infiltrazioni ma sono stati meno efficaci contro gli ordigni. La reazione è stata contenuta e questo ha convinto Hamas che lo Stato ebraico è meno determinato. Dieci giorni fa, dopo il lancio di due razzi su Tel Aviv, l'aviazione ha colpito cento obiettivi ma non ha fatto neppure un ferito. Erano edifici vuoti. Non è stata una rappresaglia tale da scoraggiare i militanti».

- E ora?

  «Le Forze armate colpiranno con durezza, per più tempo. Ma Netanyahu vuole evitare una operazione di terra. Potrebbe costargli la vittoria alle elezioni. In realtà nessuno vuole una guerra aperta prima del voto. Ma dall'altro lato Hamas sta preparando per venerdì 29 marzo una "manifestazione da un milione di persone" per l'anniversario delle "marce del ritorno". Tutto può succedere».

- Che ha in mente Netanyahu?

  «Il suo obiettivo è lasciare Hamas al potere a Gaza e dividere i palestinesi in due entità, la Striscia e la Cisgiordania. In questo modo sono deboli, il governo può continuare la politica di espansione degli insediamenti. E la prospettiva della nascita di uno Stato palestinese è azzerata».

- E' una strategia vincente?

  «Il rischio è di ritrovarci un mini-Iran alle porte. Hamas si trova davanti a un malcontento crescente, nella Striscia ci sono state manifestazioni di massa, represse con durezza. Eppure Netanyahu lascia che il Qatar invii decine di milioni di dollari per tenerlo in piedi. Il governo dice che se distrugge Hamas a Gaza arriverebbe l'Isis. Ma i gruppi jihadisti ci sono già, ed è Hamas che ha lasciato che si impiantassero nella Striscia. E' una strategia controproducente, come quella per il Golan».

- In che senso?

  «Donald Trump ha riconosciuto la sovranità israeliana sulle Alture ma il prezzo da pagare è stato il ritiro americano dalla Siria. In questo modo si lascia Damasco ai russi e agli iraniani. Le garanzie che Putin ha dato a Netanyahu non sono eterne. A un certo punto i russi potrebbero cominciare a contrastare i raid sulle basi iraniane. Mosca si sta espandendo in Medio Oriente, ha un piede anche in Egitto, Libia, Yemen. La politica di Trump, a breve così favorevole a Israele, nel lungo periodo potrebbe esporla a gravi minacce».

(La Stampa, 26 marzo 2019)


Quel doppio standard sulle stragi

Smorzare sull'islamismo, vociare sulla Nuova Zelanda

Scrive Spiked (18/3)

I media occidentali hanno toccato un nuovo minimo", scrive Brendan O'Neill, direttore di Spiked. "Il gioco della colpa all'indomani della strage razzista in Nuova Zelanda è stato macabro e profondamente inquietante. I corpi dei 50 musulmani assassinati erano a malapena freddi prima che vari osservatori, attivisti e sinistrorsi nominassero e svergognassero quelle persone che 'gettano le basi' per questa atrocità. E a quanto pare include tutti, dagli agitatori di estrema destra, a qualsiasi editorialista di giornali mainstream che abbia suscitato interesse con una piccola critica nei confronti dell'islam radicale.
   Quello che abbiamo qui è uno degli sfruttamenti più cinici degli omicidi di massa negli ultimi anni: l'uso insensato e censurato di un barbaro assalto per regolare i conti politici e in alcuni casi personali. In seguito alla barbarie islamista in Europa e negli Stati Uniti negli ultimi anni - sia che si trattasse dell'omicidio di 86 persone con un furgoncino da 10 tonnellate a Nizza, o della morte di 90 fan del rock nel Bataclan a Parigi, o del bombardamento di giovani ragazze e dei loro genitori alla Manchester Arena -le istruzioni dei nostri superiori sono sempre state le stesse. Non arrabbiarti, dicono. N on esagerare con la minaccia del terrorismo, consigliano. E non osare suggerire che qualsiasi libro o idea, che sia il Corano stesso o gli opuscoli distribuiti nelle moschee più discutibili, abbia contribuito a questo attacco. 'Questi assassini non hanno nulla a che fare con l'islam', dice il mantra. Il nostro ruolo dopo il terrore islamista è quello di gestire la rabbia, deporre un fiore o due, e poi tornare alla nostra vita quotidiana. 'Non guardare indietro con rabbia', dice l'inno dopo Manchester. Questa volta la risposta non potrebbe essere più diversa. Ora siamo attivamente invitati a provare rabbia. Ora ci viene detto che dobbiamo cercare il materiale che ha ispirato questo individuo odioso e poi condannarlo e censurarlo. Ora ci viene detto che dobbiamo organizzarci contro il nuovo fascismo. Dopo il terrore islamico, l'istruzione chiave dei sedicenti guardiani di un pensiero morale corretto è che dovremmo dimenticare la politica e addolorarci. Ora ci viene detto di prendere sul serio il terrorismo, protestare fisicamente contro il nuovo odio: c'è già stata una protesta a Londra contro l'islamofobia e ce ne sarà una oggi a News UK, sede del Times e del Sun, tale è l'isterica stridula, censoria dei media opportunisti dell'orrore neozelandese".
   La cosa che più colpisce della risposta all'attacco in Nuova Zelanda è il doppio standard. "Non tutto il terrore è trattato allo stesso modo. Lo sappiamo ora. La parte giusta è molto più arrabbiata di quanto non sia mai stata riguardo a qualsiasi massacro islamista degli ultimi anni. Questo è il fascismo, a quanto pare, ma la morte di 86 persone che stavano celebrando la nascita della democrazia in Francia non lo è. Questo, in sostanza, è ciò a cui stiamo assistendo in risposta alla Nuova Zelanda: un riconoscimento tra alcuni osservatori e attivisti che questa atrocità razzista può essere utilizzata per migliorare la propria narrativa. Le atrocità islamiste, d'altra parte, danneggiano la narrativa. Questo è un modo agghiacciante per affrontare il massacro della vita umana. Ciò di cui abbiamo bisogno ora è la coerenza umanistica e un'analisi onesta e ponderata".

(Il Foglio, 26 marzo 2019)


Gli Stati Uniti di Trump riconoscono la sovranità israeliana sul Golan

Trump inverte decenni di diplomazia americana e firma il documento con cui riconosce la sovranità israeliana sulle Alture del Golan.

Lunedì il presidente americano, Donald Trump, ha firmato il documento con cui gli Stati Uniti riconoscono ufficialmente le alture del Golan come territorio israeliano, invertendo decenni di politica americana sul territorio conteso tra Israele e Siria e seguendo un annuncio fatto giovedì scorso su Twitter.
   In piedi, al fianco del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, in visita alla Casa Bianca perché avrebbe dovuto partecipare - a Washington - alla riunione annuale dell'Aipac, la principale organizzazione ebraica americana, Trump ha definito la sua decisione "storica". Lessico ripreso da Netanyahu. L'americano l'ha motivata dicendo che l'Iran e altri gruppi terroristici "continuano a fare delle Golan Heights un potenziale terreno di lancio per gli attacchi contro Israele".
   Israele prese il controllo delle alture del Golan nella Guerra dei Sei Giorni del 1967 contro i suoi vicini arabi e ufficialmente ha annesso il territorio nel 1981. Gli Stati Uniti e le altre nazioni, tuttavia, non hanno mai riconosciuto formalmente le Alture come territorio israeliano prima d'oggi, affermando che lo status doveva essere regolato nei negoziati tra i paesi coinvolti.
   Era una decisione che dovevamo prendere "decenni fa", ha detto Trump ai giornalisti mentre firmava la proclamation nella sala diplomatica della Casa BIanca. Il Prez ha citato l'attacco odierno del gruppo palestinese Hamas, che ha ferito sette persone nel centro di Israele, come il tipo di incidente che vuole impedire, dicendo "non vogliamo vedere un altro attacco come quello sofferto stamattina".
   Le alture hanno una valore strategico e tattico per Israele, non tanto per contenere attacchi come quello odierno, che è arrivato dalla Striscia di Gaza (dove si trova Hamas), ma per una questione ancora più importante, forse: controllare le attività in Siria, dove gli iraniani si sono rafforzati dando sostegno al regime di Damasco e hanno approfittato del caos della guerra civile per passare armi più tecnologiche a un altro nemico giurato dello stato ebraico, il gruppo combattente libanese Hezbollah.
   L'annuncio è una spinta notevole per Netanyahu, che tra due settimane dovrà pesare alle urne l'effetto prodotto dalle varie accuse di corruzione sul suo conto. Il primo ministro sta usando la vicinanza di Trump a Gerusalemme come un'arma elettorale -- sebbene Trump abbia inviato a Bibi anche segnali severi sull'esposizione nei confronti della Cina (qui l'articolo) — e lo stesso sta facendo Trump. Il premier lo rivende come un successo personale e un bene per il paese, dopo che con il suo predecessore Barack Obama era arrivato più volte ai ferri corti anche per una questione di scarsa empatia; l'americano lo usa per far leva su certe ambiguità degli avversari Democratici.
   Oggi Netanyahu si è presentato davanti ai giornalisti vestito come il Trump di ordinanza, camicia bianca e cravatta rossa, e ha ripetuto in faccia al presidente americano una cosa detta già nei giorni passati: "Israele non ha mai avuto un amico migliore di te". "È stato davvero importante per me venire qui alla Casa Bianca, e grazie", poi s'è congedato per via della crisi innescata dai razzi dalla Striscia.
   Prima che Trump firmasse il documento, Netanyahu aveva detto che le Forze di difesa israeliane (Idf) avevano iniziato a "rispondere con forza" all'attacco missilistico di Hamas e ha aggiunto che voleva tornare a casa per "guidare il popolo di Israele e i soldati di Israele". Trump ha detto che è un diritto di Israele difendersi (una dichiarazione simile è stata diffusa dalla Farnesina).
   Il ministero degli Esteri siriano ha condannato la decisione di Trump, affermando in una nota ai notiziari che "il riconoscimento di Trump è un flagrante attacco alla sovranità della Siria e alla sua integrità territoriale". Lo stesso ha fatto il presidente turco Recep Tayyap Erdogan, in rotta con Washington.

(formiche, 25 marzo 2019)


Decine di razzi lanciati da Gaza verso Israele

TEL AVIV - Una decina di missili sono stati lanciati dal nord di Gaza verso Israele. Poco prima, nelle zone a sud di Israele erano risuonate le sirene di allarme antimissile. I lanci fanno seguito agli attacchi israeliani sulla Striscia di Gaza, in risposta ad un razzo partito dall'enclave palestinese che ha colpito una casa israeliana e ferito sette persone.

(LaPresse, 25 marzo 2019)


Trump, Israele, la Cina e l'ambiguità democratica

Israele e Trump: l'Aipac, gli aiuti di Washington, il richiamo sulla Cina e il gioco politico per mettere i Democratici in difficoltà

di Emanuele Rossi

 
I due principali contender della corsa elettorale israeliana, il primo ministro uscente Benjamin Netanyahu e il suo rivale, l'ex generale capo dello Stato maggiore Benny Gantz (un'icona militare in un paese dove il militarismo è genetico), sono entrambi negli Stati Uniti per partecipare alla riunione annuale dell'Aipac. L'American Israele Public Affairs Committee è l'organizzazione socio-culturale e soprattutto lobbistica che promuove le relazioni tra Washington e Gerusalemme, che ha una forza tale da coinvolgere negli interventi a corredo della manifestazione il gotha della politica e del business world (ma anche della cultura) americani.
   Quest'anno il presidente Donald Trump ha lanciato un doppio chiaro messaggio agli israeliani anticipando l'evento. Giovedì scorso ha sparato uno di quei tweet distruptive che hanno fatto venir giù anni di politica diplomatica, annunciando che è giunta l'ora "che gli Stati Uniti riconoscano la piena sovranità di Israele sulle alture del Golan". È una posizione che spezza 52 anni di equilibrismo, che dal 1967 - anno in cui gli israeliani conquistarono le alture dopo aver vinto la guerra con la Siria - Washington cerca di mantenere su quel territorio tutt'ora conteso, ma militarmente occupato dall'esercito israeliano.
   La dichiarazione di Trump è un grosso appoggio a Israele, che sente la necessità strategica di controllare quell'area ancora di più adesso che le colline del Golan sono un avamposto per monitorare la Siria, dove l'Iran ha salvato il regime dalla guerra civile e ha ottenuto in cambio la possibilità di trasformare il paese in una piattaforma militare anti-ebraica (vedasi il rafforzamento delle postazioni siriana di Hezbollah, il gruppo libanese che non ha ancora chiuso il conflitto del 2006 contro Israele). Israele è piuttosto interessato alle conseguenze che le evoluzioni conclusive del conflitto siriano potranno avere sulla propria sicurezza nazionale, e anche per questo ha da anni avviato una campagna di bombardamenti mirati per disarticolare la logistica che gli iraniani hanno studiato per rinforzare gli Hezbollah e altri gruppi anti-ebraici.
   Sempre la scorsa settimana, in un altro messaggio di vicinanza magari eccessivo, il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, da Gerusalemme, quando una giornalista americana gli ha chiesto se Trump era stato mandato da Dio per salvare Israele e gli ebrei ha risposto: "È possibile". L'attuale Casa Bianca è, come dice Netanyahu, guidata dal "miglior amico di Israele", e Bibi dice questo anche perché il predecessore, Barack Obama, era uno che aveva allentato un po' l'amicizia con lo stato ebraico e soprattutto nutriva un'antipatia personale per il primo ministro.
   Trump invece ha spostato l'ambasciata a Gerusalemme (ossia ha riconosciuto la città santa capitale dello stato ebraico), ha ridotto sensibilmente i fondi all'Autorità nazionale palestinese, ora ha riconosciuto la sovranità israeliana sul Golan, e fin dall'inizio della sua presidenza ha ingaggiato la campagna anti-iraniana come strategia centrale per la politica mediorientale.
   Però, durante quello stesso viaggio, Pompeo ha anche messo in guardia gli alleati israeliani su un altro fronte delicatissimo. Il segretario ha chiarito che l'amicizia è forte ed è basata su radici profonde, ma se Israele non riduce la sua esposizione nei confronti della Cina, Washington potrebbe arrivare a riconsiderare uno dei pilastri sostanziali su cui quell'amicizia si basa: la condivisione di informazioni di intelligence con Gerusalemme.
   Ossia, il capo della diplomazia americana ha messo in chiaro in faccia davanti ai più stretti alleati statunitensi che la questione Cina è prominente. Gli Stati Uniti sono impegnati in un confronto globale con Pechino, e non possono accettare penetrazioni cinesi di vario genere nei sistemi nevralgici dei propri partner (per esempio all'interno del porto di Haifa, sede di appoggio della Us Navy, o nelle telecomunicazioni).
   Se l'appoggio sul Golan era un favore per il governo attuale (Netanyahu da tempo pressa su questo), e per le sue ambizioni di rielezione, la questione Cina è stata un richiamo diretto verso Netanyahu, che è colui che ha cercato di coinvolgere Pechino in Israele per sfruttare la logistica dei porti nel Mediterraneo - e su questo è piuttosto criticato da un settore dell'intelligence e dei militari, più vicini a Gantz.
   Trump gestisce il dossier Israele anche con un'attenzione interna: se la questione Cina riguarda la proiezione globale statunitense, e dunque un super-interesse nazionale, prendere certe traiettorie secche pro-israeliane ha il duplice obiettivo di rassicurare i Repubblicani (sempre su posizioni sioniste) e stanare i Democratici. Questo è un aspetto interessante: all'interno dei progressisti statunitensi la questione israeliana è vissuta con ambiguità. Ci sono i due principali leader del partito, la Speaker della Camera, Nancy Pelosi, e il capo al Senato, Chuck Schumer, che parteciperanno all'Aipac, ma c'è una cordata di nuovi e molto apprezzati Dem che non solo non vi prenderà parte, ma attacca quando può lo stato ebraico.
   Bernie Sanders, Beto O'Rourke, Kamala Harris ed Elizabeth Warren , i quattro principali concorrenti alle primarie democratiche, non parteciperanno all'Aipac, per esempio. Una di quelle che è considerata una stella nascente del Partito Democratico, la populista di sinistra Alexandra Ocasio Cortez, ha chiesto ai suoi sostenitori delle nuove donazioni per appoggiarla nella sua battaglia contro l'Aipac dicendo che "alcuni membri del Congresso si sono spinti talmente oltre da convincerci che le relazioni Usa-Israele sono indiscutibili, ma non è così che funziona il processo legislativo".
   L'altra neoeletta Rashida Tlaib, la prima palestinese alla Camera, è accusata di antisemitismo per via di alcune sue uscite. Un'altra ancora, Ilhan Omar, rifugiata somala arrivata come Dreamer ed eletta in Minnesota lo scorso novembre, il 10 febbraio retwittava il giornalista Glenn Greenwald (quello del Datagate) il quale a suo volta riprendeva Kevin McCarthy, leader delle minoranza repubblicana alla Camera, che chiedeva un richiamo per le posizioni troppo critiche contro Israele prese da Tlaib e Omar. Greenwald si chiedeva retoricamente come mai i leader politici repubblicani spendono molto tempo a difesa di un'altra nazione, Omar riprendeva il tweet e citava il Puff Daddy di "It's all about Benjamins baby", dove Benjamin è un doppio senso che richiama al nome del primo ministro israeliano Netanyahu e a Franklin, impresso sui Cento dollari, per questo i Benjamins sono i quattrini.
   Alla fine è stata la Speaker Pelosi a chiedere a Omar di scusarsi, perché aveva assunto posizioni antisemite di cui "non era a consapevole". Trump conosce questo bug tra i suoi rivali politica interni, e prova a infilarcisi dentro mentre guarda agli interessi nazionali americani: dice, finora senza giustificazione nei dati, che ci sarà un "esodo" di elettori democratici verso di lui, perché si sentono traditi dalle posizioni prese dai loro rappresentanti su Israele.

(formiche.net, 25 marzo 2019)


Israele, Bucarest rompe il fronte Ue. "L'ambasciata andrà a Gerusalemme"

La Romania è il primo Paese europeo a seguire la scelta di Trump. Netanyahu spera di convincere altre nazioni dell'Est

di Giordano Stabile

Viorica Dancila
La Romania segue Donald Trump e annuncia il trasferimento dell'ambasciata a Gerusalemme. È la prima breccia nel fronte europeo, mentre a Washington è in arrivo Benjamin Netanyahu per assistere alla firma dell' atto che riconosce la sovranità israeliana sul Golan. A frenare i successi del premier è arrivata una nota di Bruxelles' che precisa come la Ue abbia «sempre sostenuto la soluzione di due Stati, con Gerusalemme capitale di Israele e Palestina: la nostra posizione non è cambiata». Finora tutti si erano adeguati ma ieri, a Washington alla riunione annuale dell'Aipac, la premier romena Viorica Dancila ha annunciato: «Sposteremo l'ambasciata a Gerusalemme, capitale di Israele». Bucarest aveva già espresso questa volontà. Gli equilibri interni, con il presidente Klaus Iohannis contrario, avevano rimandato la decisione. Ora è il primo Paese europeo a farlo, Netanyahu spera che apra la strada a Est, a cominciare dall'Ungheria Resta l'opposizione di Bruxelles. Già a maggio, quando c'era stato il trasferimento di quella americana, l'Alto rappresentate Federica Mogherini aveva avvertito che non lo «considerava saggio» e che l'Ue non avrebbe seguito.
   A livello mondiale soltanto il Guatemala ha compiuto il passo, mentre l'Honduras si è tirato indietro. Ora potrebbe arrivare il sì del Brasile del nuovo presidente Jair Bolsonaro. In ogni caso Netanyahu ha il carniere pieno per quanto riguardai successi all' estero e il viaggio negli Stati Uniti assume toni trionfali, una spinta fortissima verso il voto del 9 aprile. Sulla scaletta dell'aereo, ha sintetizzato la sua politica personalistica: «Nessuno ha i rapporti con i leader mondiali che ho io: Putin, Modi, Bolsonaro, Abe, Xi ... ma il più importante è quello con il presidente americano».
   Oggi ci sarà uno show con Trump, con la firma dell'atto che riconosce il Golan come territorio israeliano, a 52 anni dalla vittoria nella Guerra dei Sei giorni. Il presidente Usa tira la volata all'alleato, ma incassa anche in casa. La mossa del Golan ha messo in difficoltà i leader democratici, alle prese con una base spostata più a sinistra, tanto che moltissimi candidati hanno disertato l'assemblea dell'Aipac, la più influente lobby proisraeliana negli States. L'amicizia di ferro con lo Stato ebraico significa cementare una grossa fetta dell'elettorato, specie evangelico, in vista delle presidenziali del 2020. Allo stesso modo gli avversari di Netanyahu hanno poco da obiettare. Lo sfidante Benny Gantz non è riuscito a presentare una proposta alternativa sulla questione palestinese. Un sondaggio ha mostrato ieri che il 42% degli israeliani vuole l'annessione della Cisgiordania, Netanyahu sembra condurre il gioco. Soltanto un colpo di scena negli scandali potrebbe metterlo in difficoltà. Il partito Kahol Lavan, Blu e Bianco, nato dall'alleanza fra Gantz e Yair Lapid, punta sulla riapertura del dossier sull' acquisto di sottomarini dalla Germania e ha pubblicato un pamphlet dove ipotizza addirittura «l'alto tradimento» del premier. Ma mancano pochi giorni e una svolta nelle indagini appare improbabile.

(La Stampa, 25 marzo 2019)


Razzo palestinese colpisce una casa vicino a Tel Aviv: è la prima volta che accade

 
La casa colpita dal razzo
TEL AVIV - Una casa è stata colpita questa mattina a nord di Tel Aviv da un razzo sparato da Gaza, poco dopo che erano suonate le sirene di allarme: lo ha riferito la radio militare israeliana, secondo cui ci sarebbero alcuni feriti, uno dei quali «in condizioni "medie"».
È la prima volta che la zona viene raggiunta da razzi palestinesi provenienti da Gaza; secondo la polizia, il razzo è caduto in una zona agricola a nord della città di Kfar Saba: l'edificio colpito ha preso fuoco.
Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, si trova negli Stati Uniti, dove si appresta a incontrare il presidente americano, Donald Trump: ieri, in un'intervista televisiva, aveva lanciato un nuovo monito, precisando che non esiterebbe a rispondere con la forza a eventuali attacchi di Hamas, malgrado l'imminenza delle elezioni politiche del 9 aprile.
Il ministero: l'Onu incoraggia i terroristi di Gaza
Via Twitter, il portavoce del ministero degli Esteri israeliano, Emmanuel Nachshon, ha parlato di «un atto di aggressione deliberato e pericoloso condotto da terroristi palestinesi, incoraggiati indubbiamente dalla compiacenza del consiglio delle Nazioni unite per i Diritti umani»; il riferimento è a una recente condanna a Israele, giunta appunto dall'organizzazione dell'Onu.

(Il Secolo XIX, 25 marzo 2019)


Gerusalemme-Tel Aviv, come muoversi in treno

Le ferrovie israeliane hanno annunciato che a fine anno il treno ad alta velocità raggiungerà la stazione ferroviaria Haganah di Tel Aviv, collegandola con Gerusalemme. Il progetto di unire le due città, come già ricordato in queste pagine, ha subito moltissimi ritardi (doveva concludersi nel 2008) ma prosegue. Ed è comunque possibile spostarsi in treno tra le due città già ora: si può infatti prendere il treno da qualsiasi stazione ferroviaria di Tel Aviv (Università, Savidor, HaShalom, Haganah) fino alla stazione ferroviaria dell'aeroporto Ben Gurion. Dopo di che si deve cambiare treno e prendere il treno veloce per Gerusalemme. Durata di questo tragitto, 22 minuti. Il costo del biglietto da qualsiasi stazione di Tel Aviv a Gerusalemme Yitzhak Navon è di 22 shekel e la durata totale del viaggio è di circa 40 minuti, a seconda della stazione di partenza. Per esempio, se si prende il treno all'Università di Tel Aviv ci vorrà 1 ora, ma se lo si prende da Haganah, ci vorrà quasi 40 minuti. Insomma il progetto completo non è ancora finito ma ci sono già dei collegamenti per facilitare la vita di turisti e pendolari.

(moked, 25 marzo 2019)


Il fascino dell'Est per Israele

Krastev spiega l'alleanza fra Visegrad e Netanyahu

dal New York Times (18/3)

Gli europei centrali sono attratti dall'Israele di Netanyahu come le persone di sinistra dell'Europa occidentale degli anni 60 e 70 erano ipnotizzate dalla Cuba di Fidel Castro", scrive Ivan Krastev. C'è della Realpolitik. "Israele è un attore razionale e come ogni attore razionale, vuole alleati. Netanyahu vede nei governi dell'Europa centrale potenziali difensori all'interno dell'Unione europea che potrebbero contribuire a smorzare le pressioni di Bruxelles sulla questione dei diritti umani di Israele. I suoi sforzi sono stati ripagati: Repubblica ceca, Ungheria e Romania hanno recentemente bloccato una dichiarazione dell'Unione europea che critica Washington sul suo piano di trasferire la propria ambasciata in Israele a Gerusalemme. Per i governi dell'Europa centrale, una relazione speciale con Israele è un modo per beneficiare della dinamica economia israeliana e del presidente Trump e della sua amministrazione pro Israele. Shlomo Avineri, il grande erudito liberal israeliano, una volta ha detto che mentre Israele è nel medio oriente, la sua politica è spesso dell'est europeo. Non è solo che l'ex Unione Sovietica è la prima fonte di emigrazione verso Israele e sta influenzando la politica del paese. Molti dei fondatori dello Stato ebraico provenivano dall'Europa centrale e orientale e la loro immaginazione politica era modellata dalla politica dei nuovi stati indipendenti emersi nella regione dopo la Prima guerra mondiale. Il sionismo sotto molti aspetti era l'immagine speculare della politica nazionalista - e spesso antisemita che dominava l'Europa centrale e orientale tra le due guerre mondiali. Ciò che attrae oggi i populisti dell'Europa orientale in Israele è il loro vecchio sogno: Israele è una democrazia, ma una democrazia etnica; gli europei dell'est immaginano i loro paesi come stati per polacchi, ungheresi o slovacchi. Israele ha preservato l'eroico ethos del sacrificio nel nome della nazione che i politici bramano per le loro società". Poi c'è la demografia. "Gli europei centrali e orientali vedono Israele come l'unica società occidentale che sta invertendo la tendenza del declino demografico. Nel momento in cui l'Europa dell'est è la regione più veloce in contrazione del mondo, il successo di Israele nel persuadere gli ebrei diasporici a tornare, e la sua efficacia nel convincere gli israeliani ad avere più figli, sembra un miracolo. I populisti dell'Europa orientale condividono anche la sfiducia di Netanyahu verso tutto ciò che appare post-nazionale o un accenno al cosmopolitismo [. .. l. Il fascino dei nazionalisti dell'Europa centrale verso Israele aiuta i loro sogni politici, ma rivela anche i loro limiti. Una chiave per la politica nazionalista israeliana e la sua resistenza alle pressioni internazionali è la tesi israeliana secondo cui il paese deve affrontare minacce esistenziali. Sì, a volte i politici israeliani sfruttano quelle minacce, ma le minacce sono reali. Lo stesso non si può dire dell'Europa centrale, che gode del periodo più pacifico nella storia. I leader populisti in Europa centrale vedono Israele come il modello di un piccolo stato sovrano ed eroico. Ma è il sogno di una vita normale piuttosto che una fantasia di sacrificio eroico che alla fine motiva la maggior parte dell'Europa dell'est. In altre parole, è più facile ammirare Israele che persuadere le proprie società a emularlo".

(Il Foglio, 25 marzo 2019)


Calcio - Euro 2020: Israele-Austria 4-2

L'Israele ha battuto 4-2 l'Austria in un match giocato ad Haifa, valido per la seconda giornata del girone G delle qualificazioni agli Europei del 2020. Agli ospiti, che passano in vantaggio nei primi minuti, non basta la doppietta dell'ex Inter, Marko Arnautovic (ora al West Ham), dal momento che un'altra vecchia conoscenza del calcio italiano fa addirittura meglio. L'ex Palermo Eran Zahavi (ora al Guangzhou R&F) realizza una tripletta, mentre e' Dabbur a siglare la quarta rete. Finisce 4-2 e grazie a questo successo Israele si porta in testa alla classifica con 4 punti, restano a 0 gli austriaci.

(la Repubblica, 24 marzo 2019)


Trump firmerà domani un decreto di riconoscimento della sovranità israeliana sul Golan

Il ministro degli Esteri israeliano Yisrael Katz: "Le relazioni tra Israele e Stati Uniti non sono mai state più strette".

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump firmerà domani un documento con il quale riconosce la sovranità israeliana sulle Alture del Golan. Lo ha annunciato su twitter il ministro degli Esteri israeliano Yisrael Katz, dopo che nei giorni scorsi lo stesso Trump aveva fatto sapere di essere pronto a questo nuovo passo diplomatico in favore dello Stato ebraico.
"Domani - ha scritto Katz - il presidente Trump, alla presenza del premier israeliano Benyamin Netanyhau, firmerà un ordine per riconoscere la sovranità di Israele sulle Alture del Golan. Le relazioni tra Israele e Stati Uniti non sono mai state più strette".
Giovedì scorso era stato lo stesso Trump con un tweet ad annunciare la decisione di riconoscere la sovranità israeliana sul Golan, aprendo la strada a polemiche nella comunità internazionale che non ne riconosce l'annessione.
Secondo alcuni, inoltre, l'iniziativa americana potrebbe costituire un pericoloso precedente per altri territori come la Crimea, annessa nel 2014 dalla Russia che per questo si è vista imporre dure sanzioni dall'Occidente.
Un cambiamento significativo nella diplomazia Usa si era già registrato dieci giorni fa quando il dipartimento di Stato, nel suo rapporto annuale sulla situazione dei diritti umani nel mondo, ha definito le Alture del Golan come territori "controllati da Israele", rispetto alla precedente dicitura "occupati da Israele". Netanyahu aveva accolto con gioia la notizia, per la quale da tempo faceva pressioni su Washington, sottolineando che "in un momento in cui l'Iran cerca di usare la Siria come piattaforma per distruggere Israele, il presidente Trump riconosce con coraggio la sovranità israeliana sulle Alture del Golan. Grazie!".

(RaiNews, 24 marzo 2019)


Addio a Rafi Eitan, la leggenda del Mossad che catturò Eichmann

Aveva 92 anni, partecipò alla guerra d'indipendenza e fu poi ufficiale degli 007. Ha condotto centinaia di operazioni segrete. Rivlin: combattente fedele alla missione

di Elena Loewenthal

 
Rafi Eitan
Ieri al tramonto, appena uscito il Sabato ebraico, la notizia è apparsa sulla seguitissima pagina Facebook del Presidente Rivlin: «Ci ha lasciati un combattente coraggioso il cui contributo alla sicurezza dello stato d'Israele sarà ancora tale per molte generazioni a venire. Rafi era un combattente nell'anima, fedele alla missione e alla sua verità. Quest'oggi chiniamo il capo alla sua memoria, con profonda gratitudine e non meno ammirazione ci congediamo da lui».
   Rafi Eitan, morto ieri a novantadue anni, era l'uomo simbolo del Mossad, oltre che grande amico personale del Presidente. Definirlo «la spia» per antonomasia dei leggendari servizi segreti israeliani è però estremamente riduttivo. Rafi Eitan è stato ben di più, e il Mossad è stato ben altro che un sistema di raccolta di informazioni: questa istituzione ha al tempo stesso formato e servito il paese nei suoi momenti cruciali. I suoi eroi non erano dei fascinosi playboy in smoking che saltavano fra i tetti, e nemmeno pistoleri dal grilletto pronto: non avevano - e non hanno - nulla di ciò che segna l'immaginario tradizionale dello 007.
   Men che meno l'aveva Rafi Eitan: un ometto minuto dal viso rotondo e gli occhiali con le lenti spesse, appena avvizzito dall'età, dall'aria mite e financo un poco fragile. La voce vagamente tremula, il sorriso ironico e la prontezza della battute: tutto era ancora intatto malgrado l'età. Lo si può vedere e ascoltare in un documentario a puntate sul Mossad, ora sulla piattaforma Netflix.

 La spia delle spie
  Rafi Eitan era la «master spy», come si direbbe in ebraico, la «spia delle spie»: centinaia di operazioni portate a termine, anche se la più famosa resterà la cattura di Eichmann. «É stata una delle più semplici», raccontava con un'ombra di sorriso, «magari fossero state tutte così: incroci un uomo per strada, gli metti una mano sulla spalla, gli placchi la testa, ed è fatta». Naturalmente non andò proprio così, ma certo già nel 1960, ai tempi della cattura del criminale nazista dopo una lunga caccia in Sudamerica, Rafi Eitan ne aveva già viste tante.

 La Resistenza e la guerra
  Era nato a Ein Harod, un kibbutz al nord di Israele, in una famiglia di immigrati russi, aveva frequentato la scuola agricola e per un certo periodo anche la London School of Economics, prima di aderire al Palmach, il movimento di Resistenza armata agli inglesi che nel 1948 diventerà l'esercito del neonato stato ebraico. Rafi Eitan aveva partecipato fra il resto a un'operazione per liberare un gruppo di profughi ebrei, sopravvissuti alla Shoah, rinchiusi dal governo mandatario britannico al campo di raccolta di Atlit. Nel corso della Seconda Guerra Mondiale aveva inoltre collaborato a una serie di operazioni legate all'immigrazione clandestina degli ebrei dall'Europa nella Palestina mandataria. Poi combatté nella guerra di Indipendenza d'Israele, 1947-1948, nel corso della quale rimase ferito.

 Imprenditore e politico
  Era un grande soldato, ma non era soltanto un soldato. È stato un uomo di spicco del Mossad, certo, e un politico, un ministro e consulente governativo su temi del terrorismo e naturalmente dell'intelligence. Ma era anche un uomo d'affari. RafiEitan aveva dalla sua una intelligenza strabiliante, e soprattutto una capacità di intuizione formidabile. Incarnava un eclettismo «strategico» che è stato fondamentale per la costruzione dello stato ebraico, e non solo sul piano della sicurezza e della raccolta di informazioni necessaria alla sicurezza stessa. Perché c'era qualcosa che animava tutti questi uomini, e forse lui più di tutti, che li rendeva instancabili ma soprattutto «creativi» nel contesto delle operazioni condotte, qualcosa che era una sorta di impulso morale: salvaguardare Israele, tenere al sicuro quel popolo che così tanto aveva visto e patito. La cattura di Eichmann non era tecnicamente «necessaria» alla sopravvivenza d'Israele. Era un dettato di giustizia, tanto per gli ebrei quanto per il resto del mondo. Rafi Eitan la portò a termine perché sentiva di doverlo fare, e sapeva di esserne capace - malgrado la quantità di imprevisti, intoppi e difficoltà oggettive.
   È stato, insomma, un uomo eccezionale. Una figura mitica che ha sempre preferito restare non tanto nell'ombra misteriosa della spia da cinematografo, quanto in quella di una normalità che tale non era affatto. Incrociandolo per via, tanto a Buenos Aires quanto a Tel Aviv, non l'avresti mai detto, che lui era quello che era.

(La Stampa, 24 marzo 2019)


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Così andò la cattura del nazista Eichmann

L'operazione avvenne nel 1960, quando il tedesco venne individuato quasi per caso in Argentina. Subito scattò l'operazione del Mossad che inviò a Buenos Aires Rafi Eitan, mettendolo a capo di una squadra composta da altre sette persone, accuratamente scelte fra un gruppo di 250 spie a disposizione. Gli otto iniziarono a lavorare esclusivamente sul caso, pianificandolo nei minimi dettagli fino a che non entrarono in azione e catturarono Eichmann, all'oscuro di tutto.
   Come molti altri nazisti, Eichmann aveva "mangiato la foglia" ed era riuscito a scappare in Argentina al termine della seconda guerra, fuggendo così alla cattura e al processo di Norimberga. La sua scoperta avvenne quasi per caso: nel 1960 il figlio di Eichmann rivelò la vera identità del padre alla ragazza che stava frequentando all'epoca; a quel punto la giovane spifferò il tutto al padre che era un ebreo sopravvissuto all'olocausto e che avvertì seduta stante il Mossad, i servizi segreti israeliani, considerati già all'epoca i migliori nel loro campo. Eitan organizzò quindi la cattura e il rapimento di Eichmann, che avvenne per strada, e il successivo trasferimento in Israele. Subito dopo l'arresto il nazista venne trasferito in Israele, e nel 1962, dopo due anni di prigionia, venne condannato a morte colpevole di crimini contro l'umanità. L'uomo venne quindi impiccato e il suo cadavere bruciato, poi le ceneri disperse nel Mediterraneo: in questo modo il governo israeliano evitò che qualcuno potesse fare della tomba di Eichmann un reliquario.
   «Rafi è stato uno degli eroi dei servizi segreti israeliani, svolgendo innumerevoli azioni a sostegno della sicurezza di Israele», ha detto Benjamin Netanyahu, primo ministro israeliano.

(ilsussidiario.net, 24 marzo 2019)


Il MEIS di Ferrara analizza il dialogo tra cultura ebraica e cristiana

 
Andrea Mantegna, «La Sacra famiglia e famiglia del Battista», Basilica di Sant'Andrea, Mantova.
Dal 12 aprile al 15 settembre 2019 sarà ospitata presso il MEIS di Ferrara la mostra dal titolo Il Rinascimento parla ebraico, curata da Giulio Busi e da Silvana Greco. L'esposizione intende analizzare un aspetto importante per la storia culturale dell'Italia: la presenza degli ebrei e il dialogo culturale con la cultura cristiana.
   In occasione della rassegna saranno esposti capolavori come la Sacra famiglia e famiglia del Battista (1504-1506) di Andrea Mantegna, la Nascita della Vergine (1502-1507) di Vittore Carpaccio e la Disputa di Gesù con i dottori del Tempio (1519-1525) di Ludovico Mazzolino, Elia e Eliseo del Sassetta, dove compaiono significative scritte in ebraico. Manoscritti miniati ebraici, di foggia e ricchezza rinascimentale, come la Guida dei perplessi di Maimonide (1349), l'Arca Santa lignea più antica d'Italia, mai rientrata prima da Parigi, o il Rotolo della Torah di Biella, un'antichissima pergamena della Bibbia ebraica, ancora oggi usata nella liturgia sinagogale.
   Nel Rinascimento gli ebrei erano presenti e attivi a Firenze, Ferrara, Mantova, Venezia, Genova, Pisa, Napoli, Palermo e ovviamente Roma. Il MEIS racconta per la prima volta questo ricco e complesso confronto, grazie anche alla coinvolgente scenografia concepita dai progettisti dello studio GTRF di Brescia.
   Analizzare questo dialogo significa riconoscere il legame della cultura italiana con l'ebraismo ed esplorare i presupposti ebraici della civiltà rinascimentale. Inoltre significa riconoscere che questa compenetrazione ha comportato anche intolleranza, esclusione sociale e violenza. Attraverso questa mostra, il Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah di Ferrara vuole costituire un ulteriore capitolo del racconto dell'ebraismo italiano (dopo quello sui primi mille anni, oggi trasformato in prima parte del percorso permanente) e testimoniare il dialogo complesso ma possibile, talvolta fruttuoso, tra minoranza e maggioranza.
   L'esposizione è organizzata dal MEIS, con il patrocinio del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, della Regione Emilia-Romagna, del Comune di Ferrara e dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane - UCEI.

(Finestre sull’Arte, 24 marzo 2019)


Domani Netanyahu a Washington

GERUSALEMME - Il presidente statunitense, Donald Trump, ospiterà la prossima settimana alla Casa Bianca il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu. Lunedì, 25 marzo, è previsto un incontro di lavoro tra Trump e Netanyahu, mentre martedì 26 marzo è prevista una cena. Le parti discuteranno degli interessi e azioni condivisi in Medio Oriente di Israele e Stati Uniti. La visita, annunciata mentre si trovava nello Stato ebraico il capo della diplomazia Usa, Mike Pompeo, avviene a circa tre settimane dalle elezioni israeliane, previste il 9 aprile.

(Agenzia Nova, 24 marzo 2019)


Preghiera ebraica, un mondo da capire

di Giulio Busi

Il Salmo 51 (50 nei LXX) fa della lode e della preghiera un dono divino: «Schiudi le mie labbra, affinché la mia bocca annunzi la tua lode». Se non è il Signore ad aprirci le labbra, queste rischiano di rimanere sigillate, incapaci di proferire un'espressione sincera, autentica. Persino le chiavi della parola ci vengono affidate solo temporaneamente. Non le possediamo da sempre, e non le avremo in eterno. Ed è per questo che dobbiamo farne buon uso. Abbiamo il dovere di cercare, capire, agire. E, nell'ebraismo, anche quello di pregare. Questo libro, profondo e utile, di Haim Fabrizio Cipriani, esplora il mondo della preghiera ebraica. Lo fa con molta competenza, giacché Cipriani conosce approfonditamente la tradizione rabbinica. E con almeno altrettanta partecipazione, che viene all'autore dall'impegno come rabbi in diverse comunità ebraiche, in Italia e in Francia.
   Il lettore che abbia poca familiarità con l'orizzonte giudaico troverà forse, di primo acchito, qualche difficoltà. Le traduzioni dal testo della Bibbia ebraica, frequenti e puntuali, sono tutte assai letterali, e cercano di preservare le peculiarità espressive dell'originale. Allo stesso modo, i rinvii ai maestri della filosofia, dell'esegesi e della mistica sono molti e densi. Sono però difficoltà benefiche. Costringono a uscire dai propri limiti culturali e dalle abitudini inveterate, per addentrarsi in usanze antiche e sapienti. Se si volesse riassumere, in una sola frase, il senso della ricerca di Cipriani, si potrebbe forse definire la preghiera come uno slancio verso l'unità. L'unicità del Dio d'Israele, affermata dal fondamentale Shema, che nel primo versetto ripete Deuteronomio 6. 4, e recita: «Ascolta Israele il Signore è nostro Dio. Il Signore è uno». Ma anche l'unirsi di chi prega all'insieme della collettività e al più generale fluire del reale.
   La preghiera può essere un ritorno, l'anelito a un'armonia perduta o comunque da riscoprire, giorno per giorno. Cipriani ricorda l'uso, menzionato già nel Talmud babilonese (Berakot 13b ), di coprirsi gli occhi durante la menzione dell'unità, nello Shema. Certo, è un modo per meglio concentrare l'attenzione, senza distrazioni esterne. Ma è anche un gesto che serve «a proteggersi dalla visione di un mondo apparentemente lacerato e basato sull'opposizione, che potrebbe portare alla negazione dell'unità e della coerenza che lo attraversa ... "dai cieli più elevati alle viscere della terra"». È questa una lettura mistica, come avviene del resto spesso nel libro. Un misticismo non di maniera o strumentale. Piuttosto, i richiami agli insegnamenti hasidici, anche a quelli ricevuti personalmente dall'autore, servono a dare ulteriore spessore al serrato confronto con gli insegnamenti del passato. «Schiudi le mie labbra». Solo allora, parlandoti e cercandoti, potrò forse trovare me stesso.
"Schiudi le mie labbra, le vie della preghiera biblica ebraica", H.F. Cipriani, Giuntina, Firenze, p. 421, € 20

(Il Sole 24 Ore, 24 marzo 2019)



Gesù nel Getsemani

Poi vennero in un podere detto Getsemani; ed egli disse ai suoi discepoli: «Sedete qui finché io abbia pregato». E prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò ad essere spaventato ed angosciato. E disse loro: «L'anima mia è oppressa da tristezza mortale; rimanete qui e vegliate». E andato un poco innanzi, si gettò a terra; e pregava che, se fosse possibile, quell'ora passasse oltre da lui. E diceva: «Abba, Padre! ogni cosa ti è possibile; allontana da me questo calice! Ma pure, non quello che io voglio, ma quello che tu vuoi». E venne, e li trovò che dormivano, e disse a Pietro: «Simone, dormi tu? non sei stato capace di vegliare un'ora sola? Vegliate e pregate, affinché non cadiate in tentazione; ben è lo spirito pronto, ma la carne è debole». E di nuovo andò e pregò, dicendo le medesime parole. E tornato di nuovo, li trovò che dormivano perché gli occhi loro erano aggravati; e non sapevano che rispondergli. E venne la terza volta, e disse loro: «Dormite pure oramai, e riposatevi! Basta! L'ora è venuta: ecco, il Figlio dell'uomo è dato nelle mani dei peccatori. Alzatevi, andiamo; ecco, colui che mi tradisce, è vicino».

Dal Vangelo di Marco, cap. 14

 

Gaza si ribella: "Vogliamo vivere, basta miseria". E Hamas reprime la protesta

TPI News ha parlato con un attivista che fa parte del "14th March Movement", un movimento nato dal basso che si ribella alle condizioni di vita nella Striscia.

di Futura D'Aprile

"Vogliamo vivere": è questo lo slogan che da dieci giorni viene scandito dagli abitanti della Striscia di Gaza e che tanta diffusione sta avendo anche sui social.
Era dal 2007, anno in cui il governo della Striscia è passato nelle mani di Hamas, che non si vedevano proteste di tale portata nell'enclave palestinese.
I gazawi sono scesi in strada per esprimere tutta la loro frustrazione contro le terribili condizioni di vita nella Striscia dietro la spinta del neonato movimento "14th March Movement", fondato tra gli altri dall'attivista Moumen al-Natour* che TPI è riuscito a contattare.
"Non stiamo manifestando contro Hamas nello specifico. Noi, in qualità di cittadini, vogliamo una vita migliore. Le proteste", ci spiega al-Natour "sono iniziate il 14 marzo e si sono svolte in maniera pacifica. Siamo davvero in tanti".
"Le persone chiedono una vita migliore, che non sia fatta solo di guerra e distruzione. Vogliamo un lavoro, stipendi migliori e che le tasse vengano ridotte".
Hamas, che dal 2007 controlla la Striscia, ha però reagito in maniera violenta contro le proteste, attaccando i manifestanti con manganelli, lanciando contro di loro lacrimogeni e arrivando anche a sparare in aria per disperdere le folle. Inoltre decine di giornalisti e attivisti sono stati arrestati.
"Hamas ha reagito violentemente contro chi sta manifestando pacificamente, il che rende ancora più complicato giungere ad una soluzione. Tanti giornalisti sono stati attaccati e le loro telecamere sono state distrutte", racconta l'attivista al-Natour.
"Quello che chiediamo è un'unità nazionale e la fine delle sanzioni che hanno aggravato la crisi umanitaria a Gaza. Le proteste finiranno solo quando le condizioni di vita nella Striscia miglioreranno".
Hamas ha cercato di sminuire la legittimità del movimento nato dal basso affermando che dietro le proteste vi sia l'Autorità nazionale palestinese (ANP) del presidente Abbas, la forza politica che governa i Territori palestinesi.
Gli organizzatori delle proteste intanto hanno diffuso un comunicato in cui chiedono alla Comunità internazionale di aiutare la popolazione di Gaza a voltare pagina dopo "12 anni di distruzione e ingiustizia causata dalle divisioni politiche [tra Hamas e ANP, ndr]".
"É giunto il momento per i cittadini palestinesi di protestare contro la violazione di ogni diritto umano e le politiche che hanno reso la situazione nella Striscia di Gaza invivibile", si legge nel messaggio pubblicato in inglese.

 La situazione a Gaza
  Secondo i dati della Banca Mondiale, l'economia nell'enclave palestinese controllata da Hamas è "in caduta libera", la disoccupazione giovanile raggiunge il 70 per cento e l'Onu ha affermato che entro il 2020 la Striscia diventerà "assolutamente invivibile".
A pesare sulle condizioni di vita dei gazawi è anche l'embargo che Israele ed Egitto hanno imposto sulla Striscia e che impedisce il passaggio di persone e beni attraverso i confini.
A scatenare le proteste è stato anche l'aumento del costo dei beni di prima necessità, ormai triplicati, il blocco del pagamento degli stipendi dei dipendenti pubblici nella Striscia da parte dell'Autorità palestinese e il taglio degli aiuti umanitari stanziati dagli Stati Uniti.
Hamas, considerato un gruppo terroristico da Unione Europea, Stati Uniti e Israele, controlla la Striscia di Gaza dal 2007 dopo averla sottratta al rivale Fatah, partito dominante all'interno dell'ANP.

(TPI News, 23 marzo 2019)


Stop ai selfie all'interno di Auschwitz: "Offensivi verso vittime dell'Olocausto"

Foto in posa sui binari, selfie vari e con didascalia a dir poco irrisorie. Il Museo del campo del più famoso campo di concentramento nazista dice 'basta'.

di Biagio Chiariello

 
 
Il Museo del campo del più famoso campo di concentramento nazista, Auschwitz, si è visto costretto a criticare su Twitter l'atteggiamento di molti visitatori di scattarsi una fotografia in equilibrio sui binari del treno. In un post pubblicato mercoledì, l'istituzione ha chiesto ai visitatori di rispettare la memoria del luogo dove sono state uccise oltre un milione di persone. "Ci sono luoghi migliori per imparare a camminare in equilibrio rispetto a quello che simboleggia la deportazione di centinaia di migliaia di persone verso la loro morte". Nel cinguettio viene comunque precisato che le foto non saranno vietate e ha invitato gli utenti a visitare l'account Instagram del museo per capire in che modo si possono fare scatti "rispettosi" della memoria delle vittime.
Il post su Twitter ha ricevuto migliaia di like dal momento della pubblicazione. Gli utenti dei social media si sono detti scioccati dal comportamento dei visitatori che condividono queste foto. "Andare ad Auschwitz non è come andare ad un Luna Park". In molti hanno chiesto un divieto totale di selfie nel sito del patrimonio mondiale dell'UNESCO, visitato da due milioni di persone all'anno. Dozzine di autoscatti postati sul campo vengono pubblicati sui social media ogni settimana, la maggior parte da adolescenti e teenager. Tra le tante, un utente su Twitter ha pubblicato una foto di uno dei suoi amici col pollice all'insù accanto ai letti a castello, dove fino a dieci prigionieri sarebbero stati stipati in un piccolo blocco di legno. E la didascalia: "Quando sei ad Auschwitz alle 7 ma hai un progetto alle 9".

(fanpage.it, 23 marzo 2019)



Lombardia - Incontro con l'ambasciatore israeliano per ricerca e innovazione tecnologica

"Si stringe sempre di più la collaborazione e l'alleanza tra la Lombardia e Israele nel campo del trasferimento tecnologico per i temi di ricerca e innovazione. Israele è un partner importante per Regione Lombardia perché stiamo portando avanti progetti significativi che andranno a migliorare la vita dei cittadini lombardi. La missione che faremo dal 25 al 28 marzo va in questa direzione per rafforzare la collaborazione e sviluppare importanti progetti insieme".

Lo ha detto il vicepresidente della Regione Lombardia Fabrizio Sala spiegando il senso dell'incontro con l'ambasciatore dello Stato d'Israele in Italia, Ofer Sachs, in previsione della missione istituzionale prevista dal 25 al 28 marzo per una serie di appuntamenti importanti che rafforzano la collaborazione tra Regione Lombardia e Stato d'Israele.
   Lunedì 25 marzo, durante l'evento MedinIsrael, il vicepresidente Sala terrà un discorso sull'Healthy Aging che sarà il focus dell'edizione 2019 del Premio internazionale 'Lombardia è Ricerca'. Nel corso della missione, Fabrizio Sala avrà modo di visitare anche il campus universitario Technion di Haifa, sede di numerose facoltà, e tra le prime 40 al mondo in ambito scientifico e tecnologico.
   Sarà anche l'occasione per incontrare i vertici del gruppo Intel che stanno portando avanti, come peraltro sta facendo Regione Lombardia, progetti innovativi nel settore Automotive con uno sguardo al mondo Driverless. Durante la missione istituzionale Regione Lombardia conoscerà da vicino le più importanti realtà sanitarie in Israele, come il Rambam Hospital di Haifa e l'Ospedale Holy Family Hospital di Nazareth, gemellato con la nostra eccellenza 'Ospedale San Gerardo' di Monza.

(Giornale Metropolitano, 23 marzo 2019)


«Golan a Israele»: Trump twitta. Scoppia l'ira di Siria, Iran e Russia

Netanyahu incassa alla vigilia della partenza per gli Usa

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Il Golan è una terrazza sul Medioriente, una montagna di basalto alta mille metri da cui puoi minacciare tutta Israele in un colpo solo, è uno stato d'animo di continua avventura e insicurezza oggi trasformato in una zona di coltivazioni e natura per circa 25mila fra israeliani e drusi in una quarantina di comunità. La capitale, Katzrin, è nei testi che parlano del Secondo Tempio. Ma per i siriani odierni, la memoria storica è quella del Villayet nell'impero Ottomano, e poi del protettorato francese degli anni '20 e '30. Solito Medioriente. Un passato conteso, un presente di scontro. Da tempo il Golan israeliano è pastorale: è un terrapieno di pascoli, antiche rovine, nuove cittadine, vigne in cui Israele produce fra i vini migliori del mondo. Ma, se in mano nemiche, sarebbe in gioco tutto il Medioriente nel rischio di un'invasione iraniana e di hezbollah sostenuta da Assad, contemplata da lontano da Putin. Probabilmente è questa la considerazione strategica che ha spinto Donald Trump a dichiarare che deve appartenere a Israele. Perché sulla parte siriana del Golan, Iran e Hezbollah stanno stabilendo le roccaforti di un attacco strategico al nemico più odiato. Questo, visto dagli Usa, distrugge anche ogni eventualità che la conclusione del conflitto siriano si trasformi in una situazione di equilibrio.
   Dalla parte israeliana, quella che Israele occupò durante la Guerra dei 6 Giorni nel 1967 difendendosi dall'attacco siriano concertato con Nasser, il confine contiene l'ammassarsi del più pericoloso fra tutti i rischi conosciuti insieme all'Isis ormai sconfitto: l'imperialismo sciita condito dalla dittatura siriana. Dunque il presidente americano nel suo stile bizzarro e controverso (si dice che Mike Pompeo, in visita in Israele, sia stato preso di sorpresa) ha twittato la sua intenzione di riconoscere il Golan come parte d'Israele. Una decisione presa alla vigilia del viaggio di Netanyahu, in piena campagna elettorale, che domenica vola negli Stati Uniti per un discorso all'Aipac, la maggiore organizzazione della massa potente e divisa degli ebrei americani.
   Ricorda il generale Avigdor Kahalani, un eroe della guerra del Kippur del 1973 in cui Israele fu presa di sorpresa, come il Golan fu la piattaforma critica su cui all'improvviso si avventarono 470 tank siriani, che vennero respinti con la forza della disperazione dai 150 carrarmati israeliani, a prezzo però della strage di centinaia di soldati. Nel '67, quando la zona fu conquistata, Kahalani era già di stanza sul Golan, e ricorda come anche allora l'attacco fu siriano. Chi scrive, ragazzina volontaria al Kibbutz Neot Mordechai in alta Galilea, ricorda come i Mig spuntavano per bombardare da dietro le alture. I residenti della zona oggi sono rassicurati da una legge dell'81 per annettere il Golan e impedisce di abbandonarlo se non con un referendum.
   Adesso le reazioni sono svariate e tutte molto prevedibili: i siriani respingono con sdegno, i russi sperano che la cosa resti a livello di un tweet, Erdogan, al solito promette fuoco e fiamme, le altre capitali mediorientali reagiscono molto debolmente ormai abituate alla rassicurante presenza israeliana, e la Mogherini con l'Unione europea non perde un'occasione per schierarsi contro Israele in nome della superviolata legge internazionale. Che l'abbia violata Assad o l'Iran di stanza in Siria non sembra importare molto all'Ue. Eppure lo sa anche lei che sotto le alture del Golan si accalcano i feriti, gli esuli, le famiglie cacciate da Assad sperando che una delle pattuglie di Israele, come fa, li raccolga nottetempo e li porti per curarli e assisterli, dalla sua parte.

(il Giornale, 23 marzo 2019)


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Golan, prudenza dei Paesi arabi sulla decisione di Washington

di Giordano Stabile

Paesi arabi quasi in silenzio, l'Iran che non alza la voce più di tanto e soltanto la Turchia a difendere con decisione «l'integrità territoriale» della Siria dopo la decisione di Donald Trump di riconoscere la sovranità israeliana sul Golan. Damasco ha reagito con moderazione, ha condannato il «pregiudizio» americano a favore di Israele, ribadito che le Alture resteranno «siriane e arabe». La realtà è diversa. Anche se la riconquista dell'altipiano è stata la bandiera nazionalista degli ultimi 52 anni, in questo momento i problemi principali sono la ricostruzione, le forniture di carburante, il recupero degli altri territori che ancora sfuggono al governo.
  Il Golan può attendere, anche per gli Stati arabi. La Lega Araba ha condannato il gesto di Trump come «illegale», l'Egitto ha ribadito che le Alture «sono territorio siriano» e sulla stessa linea si è espressa la Giordania. Ma la questione non ha acceso le piazze. I media, persino quelli dei Paesi amici di Assad, hanno reagito con freddezza, mentre il Consiglio di Cooperazione si diceva «dispiaciuto» per la scelta di Trump. Damasco ha ricevuto poca solidarietà perché il suo ritorno nel consesso arabo è ancora controverso, le ferite della guerra civile, e regionale, sono ancora fresche.

 Turchia, Iran e Ue contrarie
  Il colpo di mano trumpiano, che sarà ufficializzato settimana prossima durante la visita a Washington di Benjamin Netanyahu, è quindi arrivato nel contesto favorevole. E ieri la Casa Bianca ha potuto rivendicare anche la distruzione dell'Isis in Siria, «spazzato via al 100 per cento». A preoccuparsi di più sono gli europei. Francia e Germania non accettano il riconoscimento, Parigi ha sottolineato che «viola la legge internazionale». Ma al momento gli unici alleati di Assad, oltre alla Russia, rimangono l'Iran, che ha definito il gesto «inaccettabile», e la Turchia, che ha avvertito come la decisione «spinge la regione sul baratro di una nuova crisi». I Paesi arabi sono prudenti. Soprattutto il Libano, dove è atterrato ieri il segretario di Stato Mike Pompeo. Anche il Paese dei Cedri rivendica un pezzetto di Golan, le cosiddette fattorie di Shebaa, ma teme molto di più un'altra controversia territoriale, quella sulle acque al confine con Israele, sopra promettenti giacimenti di gas. Pompeo ha offerto la sua mediazione ma ha avvertito che "Hezbollah ruba al popolo libanese le sue risorse e i suoi sogni" e quindi va allontanato dal governo.

(La Stampa, 23 marzo 2019)


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Il Golan non è la Crimea

di Clemens Wergin

Donald Trump ha di nuovo spostato le coordinate della politica mediorientale degli Stati Uniti e vuole riconoscere le alture del Golan come parte di Israele. E subito si scatena una tempesta di indignazione. Gli Stati Uniti avrebbero offerto un pegno di negoziato senza contraccambio, pensano alcuni. Altri vedono una palese violazione delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell'ONU. E teste fini come l'ex ministro degli esteri svedese Carl Bildt credono addirittura che gli americani avrebbero fornito ai russi una giustificazione per l'annessione della Crimea. Ma le situazioni di Crimea e Golan non potrebbero essere più diverse. L'Ucraina aveva concesso ai russi un accesso a lungo termine al porto strategicamente importante del Mar Nero in Crimea - e tuttavia fu invasa dai russi senza alcuna ragione. Il fatto che una parte delle alture del Golan sia in mani israeliane, invece, ha ragioni completamente diverse. È il risultato di numerose guerre di aggressione arabe in cui le alture del Golan sono state usate più e più volte per invadere il territorio israeliano.
   Chiunque sia indignato dal riconoscimento americano di questa realtà dovrebbe tornare indietro nella storia. Sì, Trump ha chiaramente spostato la posizione degli americani, mettendo in discussione lo status quo. Ma perché dovrebbero essere sempre e solo gli iraniani, i siriani e gli Hezbollah a spostare lo status quo sul confine israelo-siriano? La Siria ha permesso al nemico mortale israeliano dell'Iran di entrare nel paese, permettendo a Teheran di stabilire installazioni militari a breve distanza dal confine israeliano. Questa è un'azione molto più dura di un semplice atto simbolico, come ora sta progettando Trump.
   Se a un certo punto dovessero esserci nuovi negoziati per un trattato di pace tra Israele e Siria, questi non falliranno certamente a causa del riconoscimento americano del Golan. L'ostacolo più grande sarebbe quello di trovare una maggioranza nella Knesset per l'abolizione della legge sull'annessione. Ma questo è esattamente ciò che diversi primi ministri israeliani avevano promesso in negoziati segreti con la Siria prima della guerra civile siriana. Quindi, se entrambe le parti sono d'accordo su uno scambio territoriale per la pace in futuro, allora gli americani sicuramente non silureranno questo, anche se ora riconoscono la sovranità di Israele sul Golan.
   In effetti, Trump invia un messaggio importante ai siriani e ai palestinesi: il tempo non è dalla vostra parte e il mondo non aspetterà per sempre, fino a che voi abbiate superato il vostro complesso di Israele.

(Die Welt, 23 marzo 2019 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


Il rabbino Tranquillo apprezzato dai Papi

di Marco Roncalli

Per Attilio Milano è stato il rabbino più espressivo prodotto dal ghetto di Roma lungo tre secoli. Per la Jewish Encyclopedia la sua vicenda si è identificata con la storia degli ebrei romani tra '600 e'700. Per non pochi autori è stato la più alta autorità dottrinale cercata da ebrei italiani e stranieri, comunità e singoli, fiduciosi nelle sue decisioni equilibrate. Parliamo di Tranquillo Vita Corcos, ricca famiglia di origine spagnola, studi talmudici e scientifici, in un primo tempo occupatosi di medicina e di affari, poi - dal 1702 alla morte nel 1730 - rabbino capo di Roma: un maestro apprezzato dai pontefici del suo tempo (Clemente XI, Innocenzo XIII, Benedetto XIII), eppure, trascurato dalla storiografia sull'ebraismo.
   A Corcos, alla sua personalità, al suo ruolo culturale e politico, Marina Caffiero dedica ora un profilo che viene presentato il 28 marzo alle 17.30 presso il Museo ebraico di Roma, dal rabbino capo Riccardo Di Segni e dallo storico dell'arte Alessandro Zuccari. II titolo dell'opera, ll grande mediatore. Tranquillo Vita Comos, un rabbino nella Roma dei Papi (Carocci, pagine 156, euro 16,00), è azzeccatissimo, dovendo Corcos la sua notorietà di grande difensore dei diritti degli ebrei, anche alla fiducia conquistata attraverso rapporti solidi intrattenuti con autorità politiche, culturali, ecclesiastiche. Rapporti tesi a mediare fra intenti e interessi diversi, ad ottenere vantaggi e alleanze durevoli, anche a costo di dissimulazioni e riduzionismi dogmatico-dottrinali finalizzati a far passare religione ebraica e cristiana, più affini di quanto possibile. Insomma quella esercitata da Corcos nella città dei Papi fu davvero «un'arte della mediazione» sin qui sottovalutata dagli storici. Se ne ha la riprova analizzando i memoriali rimasti (per lo più stampati addirittura dalla Camera Apostolica, e dunque con l'approvazione papale, circolanti nel mondo ebraico e cristiano, italiano ed europeo), una serie di scritture redatte in situazioni disparate (in cui si cercava il suo parere, la soluzione di dubbi, il rispetto dei diritti). Testi che spiegano quanto basta per chiarire quella natura "negoziale", "pattizia", caratterizzante i rapporti tra ebrei e cristiani ancora in Antico Regime, sino a metà '700. Questo il nodo periodizzante nella continua evoluzione delle istituzioni ecclesiastiche e della loro normativa, in direzione di una crescente intransigenza antiebraica, dimostrata ad esempio dalla politica conversionistica ad oltranza, anche se sarà l'800 a segnare l'età della vera svolta negativa.
   Di grande interesse le pagine dedicate alle strategie di Corcos nei suoi interventi sia di denuncia dei predicatori più violenti, sia di difesa degli ebrei dalle temibili accuse di omicidio rituale. La sua confutazione delle malevole rappresentazioni della ritualità ebraica, si accompagnava alla preoccupazione di presentarne versioni accettabili, senza tracce di superstizioni, impronte demoniache, esoterismi. E tuttavia, anche per Corcos, scandagliando gli scritti, non si può non vedere la coesistenza di una visione razionalista ed una legata alla Kabbalah. Modernità e mistica di un leader dell'ebraismo italiano.

(Avvenire, 23 marzo 2019)


Gli Stati Uniti mettono in guardia Israele dal fare affari con la Cina

WASHINGTON - Il segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, ha avvertito ieri che Israele rischia di compromettere la cooperazione con gli Stati Uniti in materia di intelligence, se non porrà limiti alla sua cooperazione economica e tecnologica con la Cina. "Voglio assicurarmi che ogni paese sia del tutto consapevole riguardo le minacce poste dalla Cina, e che comprendano che gli Stati Uniti dovranno trarre a loro volta le conseguenze", ha detto Pompeo nel corso di una intervista concessa a Channel 13, durante la sua visita ufficiale a Gerusalemme. Negli scorsi anni Israele ha affidato alla Cina una serie di contratti e appalti pubblici, incluso quello da 2 miliardi di dollari per la gestione del Porto di Haifa, dove opera anche la Marina Usa. Il governo israeliano ha avviato una revisione di questo specifico affare alla fine dello scorso anno, proprio in risposta alle pressioni di Washington. Pompeo ha fatto esplicito riferimento ai "rischi reali" posti da Huawei Technologies, il colosso cinese dell'elettronica per le comunicazioni al centro del conflitto per il primato tecnologico tra Usa e Cina. "Se certi sistemi (prodotti da Huawei) finiranno in determinati luoghi", ha avvertito il segretario di Stato, sarà "difficile" per gli Stati Uniti lavorare a fianco di Israele in aree come la condivisione dell'intelligence e la co-locazione di infrastrutture di sicurezza.

(Agenzia Nova, 22 marzo 2019)


Una proposta egiziana per migliorare concretamente le condizioni di Gaza

Ci sarebbe già il consenso di Israele, ma tutto dipenderà dalla disponibilità di Hamas e Olp a rinunciare alle armi in cambio di sviluppo e benessere.

Una nuova proposta egiziana prevedrebbe la smilitarizzazione della striscia di Gaza in cambio dell'abolizione dal parte di Israele ed Egitto del blocco di sicurezza attualmente in vigore, unita a una serie di progetti internazionali per migliorare la situazione concreta nell'enclave costiera palestinese. Lo hanno riferito ufficiali delle forze di sicurezza egiziane e alti funzionari palestinesi a Gaza e Ramallah citati giovedì da Israel HaYom.
Secondo il nuovo piano, le organizzazioni palestinesi sotto la guida di Hamas, o di un'organizzazione-ombrello che raccogliesse tutte le fazioni attive a Gaza, resterebbero responsabili degli affari interni nella striscia attraverso l'uso dei meccanismi di sicurezza già in atto. Il piano consentirebbe che rimanessero a Gaza solo alcune armi leggere da utilizzare essenzialmente per scopi di ordine pubblico e sicurezza interna. Si tratterebbe di un numero di armi limitato e strettamente monitorato....

(israele.net, 23 marzo 2019)


Antisemitismo. Olanda, padre e figlio accoltellati ad Amsterdam

L'antisemitismo non sta risparmiando neanche l'Olanda, paese da sempre considerato ideale per una vita serena e tranquilla.

Ad Amsterdam è andata in scena un'aggressione antisemita ai danni di Martin e Sharon Colmans: padre e figlio che sono stati pugnalati al mercato Albert Cuyp dal vicino di bottega Tarik, venditore di narghilè e altri accessori per fumatori. I due sono finiti in ospedale, il padre con ferite lievi mentre il figlio con ferite al braccio, al petto e alla schiena.
Chi è Tarik? E come mai ha aggredito i due congiunti ebrei?
Tarik è un egizio che vive ad Amsterdam, da cui si è allontanato per qualche tempo negli ultimi mesi. Al suo ritorno, tutti hanno notato il suo cambiamento: testa rasata, assiduo lettore del Corano e soprattutto un atteggiamento coi vicini di mercato che denotava un odio sconosciuto negli anni precedenti.
Tarik aveva l'intenzione di uccidere: il grosso coltello utilizzato ne è la prova e solo grazie all'intervento di due coraggiosi marocchini che l'aggressione non si è trasformata in tragedia.
Quanto accaduto ad Amsterdam è arrivato in un momento di estrema riflessione per gli ebrei in Olanda, dove nel 2018 si è registrato un aumento delle aggressioni di stampo antisemita di quasi il 20% rispetto all'anno precedente.
A rivelarlo è la stata la ONG, CIDI, secondo cui i casi di antisemitismo noti sono 230, dei quali 95 verificatesi sul web.
In Inghilterra il leader dei Labour Jeremy Corbyn non smette di riversare odio contro Israele e gli ebrei.
In Francia gli episodi di antisemitismo non si contano più, tanto che molti ebrei francesi hanno lasciato il paese.
In Germania i rigurgiti nazisti stanno preoccupando il governo di Berlino.
In parte del Belgio è stata abolita la macellazione kosher.
In Italia ci sono politici che invocano falsi storici per attaccare gli ebrei.
Il clima d'odio sta imperversando in tutta Europa e quando la situazione è questa sono spesso gli ebrei a esser messi sul banco degli imputati…

(Progetto Dreyfus, 22 marzo 2019)



Onu: ennesima condanna di Israele e assoluzione di Hamas. L’Italia si è astenuta

"Oggi abbiamo assistito all'ennesima occasione in cui il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite ha tradito il suo mandato, cedendo alla manipolazione di Hamas": lo dichiara l'Ambasciatore d'Israele in Italia, Ofer Sachs, commentando la risoluzione di condanna per le violenze al confine tra Gaza e Israele. Nella nota, l'Ambasciatore esprime "amarezza rispetto all'astensione italiana", accanto a quella di altri stati membri, nel voto del Consiglio.
"A quattordici anni dal ritiro israeliano dalla Striscia - prosegue la nota diffusa dall'Ambasciata di Israele - cinquantamila militanti di Hamas continuano a vessare la popolazione locale insistendo con l'agenda del radicalismo islamico. Siamo incoraggiati dal fatto che la stragrande maggioranza dei paesi democratici abbia deciso di non sostenere questa cinica ipocrisia, ciononostante, crediamo che al fine di creare un cambiamento sostenibile nelle attività di questo Consiglio, gli Stati membri, compresa l'Italia, debbano fare molto di più e per questo, non possiamo ignorare la nostra amarezza rispetto all'astensione italiana. Il governo di Israele e le forze armate continueranno a difendere la sovranità del territorio e la sicurezza dei propri cittadini".

(Shalom, 22 marzo 2019)


Con un tweet, il presidente americano riconosce la sovranità di Israele sul Golan

di Daniele Raineri

NEW YORK - Con uno di quei tweet che fanno alzare il livello di allerta nelle basi americane sparse per il mondo, giovedì il presidente americano Donald Trump ha scritto che "dopo 52 anni è tempo che gli Stati Uniti riconoscano la piena sovranità di Israele sulle alture del Golan, che sono di importanza strategica per la sicurezza dello stato di Israele e per la stabilità della regione". Le alture del Golan occidentale furono conquistate da Israele durante la guerra del 1967 contro la Siria e furono annesse qualche anno dopo. Sono senz'altro strategiche, perché rappresentano una posizione sopraelevata e privilegiata in caso di combattimenti e sono sempre più importanti adesso che la Siria è diventata vassalla dell'esercito iraniano e del gruppo libanese Hezbollah, che sono nemici acerrimi di Israele (lo era già vassalla, ma dopo l'aiuto ricevuto durante la guerra civile è diventata totalmente dipendente, è una piattaforma militare per le operazioni iraniane). Se Israele non occupasse militarmente le alture del Golan, i suoi nemici potrebbero affacciarsi da esse e guardare il territorio israeliano dall'alto verso il basso.
   Di fatto, Israele esercitava già la sua piena sovranità sulle alture del Golan e la dichiarazione di Trump non modifica il quadro militare e di sicurezza. Modifica il quadro politico. Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, da tempo faceva pressione sull'Amministrazione perché facesse questo passo e la settimana prossima potrà ringraziare di persona Trump durante la visita ufficiale a Washington prevista per lunedì e martedì. "Non c'è miglior amico di Trump", ha detto ieri. Il riconoscimento americano della sovranità israeliana sul Golan aiuterà Netanyahu alle elezioni del 7 aprile, come del resto lo aiuta già in generale il sostegno offerto da Trump - con cui una gran parte dell'elettorato israeliano è in sintonia. Il presidente americano ha spostato la sede dell'ambasciata americana a Gerusalemme, riconoscendola anche di fatto come capitale dello stato di Israele, e ha tagliato i fondi americani per l'Autorità nazionale palestinese. Adesso il riconoscimento della sovranità israeliana sul Golan farà molto arrabbiare il cosiddetto "asse della Resistenza" formato da Iran, Hezbollah e Siria - che però già considerano, specie i primi due, la guerra per cancellare Israele come un dovere esistenziale. Un problema legato al tweet di Trump è semmai che l'America è nel mezzo di un grande ritiro dal medio oriente e dalla Siria, quindi arriva in un momento in cui gli americani stanno di fatto lasciando più scoperto Israele, perché ritirano i soldati americani dalla Siria orientale.

(Il Foglio, 22 marzo 2019)


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La svolta di Trump: "Le alture del Golan sono di Israele"

Occupate nella guerra dei Sei Giorni e annesse nel 1981. La mossa Usa aiuta Netanyahu in campagna elettorale.

di Giordano Stabile

Alla sua maniera, su Twitter, il presidente americano Donald Trump annuncia il riconoscimento dell'annessione israeliana del Golan e suggella il patto di ferro anti-Iran con Benjamin Netanyahu, ora proiettato verso una nuova vittoria elettorale. «Dopo 52 anni - scrive il presidente americano - è tempo di riconoscere la sovranità israeliana sulle Alture, di importanza decisiva per la sicurezza di Israele e la stabilità regionale». Per Netanyahu, che ha subito chiamato Trump al telefono, è una decisione «coraggiosa» che «cambia la storia». È il caso di dirlo. Per la prima volta lo Stato ebraico vede riconosciuta una sua annessione unilaterale.
  Netanyahu coglie una vittoria strategica in grado di proiettarlo verso un quarto mandato dopo le elezioni del 9 aprile, nella veste di «miglior difensore della sicurezza», in grado di riuscire dove i precedenti leader hanno fallito, perché il riconoscimento arriva «mentre l'Iran utilizza la Siria come piattaforma per distruggere Israele». Il premier incassa quindi il massimo dal rapporto privilegiato con l'inquilino della Casa Bianca, dopo il trasferimento dell'ambasciata americana a Gerusalemme.

 Il colpo di scena
  Il colpo di scena è stato preparato dalla visita sulle Alture del senatore repubblicano Lindsey Graham, e poi dall'arrivo del Segretario di Stato Mike Pompeo che ieri, in un altro gesto di rottura, è andato in visita al Muro del Pianto in veste ufficiale, per poi presentarsi con Netanyahu in conferenza stampa dopo l'annuncio di Trump. Il leader israeliano ha parlato con enfasi «di nuovo miracolo del Purim: 2500 anni fa gli iraniani cercarono di distruggere Israele, senza riuscirci, oggi ci provano di nuovo ma falliranno».
  Le Alture del Golan sono state conquistate da Israele nel giugno del 1967 e annesse nel 1981. Nessun Paese ha mai riconosciuto l'annessione. La Siria e gli Stati arabi fanno riferimento alla risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, che condanna «l'acquisizione di territori con la forza». In base alla 242 le Alture sono state al centro dei tentativi di arrivare a un trattato «di pace in cambio di terra», come quello del 1979 fra Israele ed Egitto. Gli israeliani considerano però il Golan incedibile, tanto più ora, dopo che la guerra civile in Siria ha proiettato i Pasdaran iraniani e le milizie sciite fino alla frontiera.
  Netanyahu ha chiesto a Vladimir Putin di fare pressione su Teheran perché ritiri le sue forze. Poi ha cercato di convincere Trump a lasciare i soldati statunitensi in Siria, per contrastare il «trinceramento iraniano». Alla fine ottiene la massima garanzia: le Alture sono un baluardo naturale che rende impossibile un attacco di terra verso la Galilea. Può quindi indossare i panni del «comandante in capo» e rivendicare la vittoria strategica di fronte al principale rivale, il generale Benny Gantz, finora appaiato nei sondaggi ma non in grado di replicare con una mossa altrettanto forte.

 La protesta di Mosca
  Restano da valutare le conseguenze internazionali. La Russia ha fatto sapere che non accetta «mosse unilaterali» anche se potrebbe essere interessata a uno scambio, poco probabile, con l'annessione della Crimea. I più preoccupati sono i palestinesi. Temono di perdere gran parte dei Territori, specie dopo che il dipartimento di Stato ha cambiato la definizione non solo del Golan ma anche della Cisgiordania, non più «occupati» ma «sotto controllo israeliano», forse il preludio a nuove concessioni a Israele. Per il negoziatore capo Saeb Erekat la decisione di Trump porterà a «una destabilizzazione e uno spargimento di sangue nella regione».

(La Stampa, 22 marzo 2019)


Cipro, Grecia e Israele: "Gas Mediterraneo per sicurezza e diversificazione"

Al summit trilaterale (con la presenza degli Usa) sostegno all'EastMed

Il vertice a Gerusalemme
I Governi di Stati Uniti, Israele, Grecia e Cipro "accolgono con favore le recenti scoperte di gas nel Mediterraneo orientale e il suo potenziale a contribuire alla sicurezza e alla diversificazione energetica". E' la dichiarazione diffusa a Gerusalemme al termine della sesta trilaterale tra Israele, Grecia e Cipro, cui ha partecipato il segretario di Stato Usa Mike Pompeo.

(Quotidiano Energia, 21 marzo 2019)


Inaugurato un gasdotto a Gerusalemme

GERUSALEMME - La società israeliana Israel Natural Gas ha inaugurato un gasdotto a Gerusalemme, alla presenza del ministro dell'Energia e delle infrastrutture idriche, Yuval Steinitz, e del sindaco Moshe Lion. L'infrastruttura, estesa 34 chilometri, è costruita con tubi di 18 pollici di diametro. Il costo di edificazione è stato di circa 290 milioni di shekel (circa 70 milioni di euro). Il gasdotto è costituito da due tronconi e per entrare in funzione dovrà attendere il completamento dell'impianto di riduzione della pressione. Il gas sarà distribuito dalla società Rotem a partire dal 2020.

(Agenzia Nova, 21 marzo 2019)



Milano - Pure in Comunità ebraica ora tira aria di «moderati»

Presentate le liste, favoriti sono i «tradizionalisti». E al candidato della sinistra non dispiace Salvini

di Alberto Giannoni

MILANO - Tira aria di vittoria «moderata» anche nella Comunità ebraica, al voto per eleggere gli organi interni che hanno compiti di governo essenziali sulla sinagoga ma anche su servizi come scuole e residenza per gli anziani.
   La Comunità, relativamente giovane, oggi conta circa cinquemila iscritti. Il 19 maggio va alle urne per rinnovare il Consiglio, che a sua volta eleggerà giunta e presidente: il capolista della lista vincitrice. Quattro anni fa, nei voti vinse la lista di area «tradizionalista» Wellcommunity, ma nei seggi fu un sostanziale pareggio, che impose un governo «bipartisan» con due co-presidenti. Al termine di una coabitazione molto «fair» ma altrettanto problematica, i due co-presidenti uscenti - Raffaele Besso e Mila Hasbani - si ricandidano alla guida delle rispettive compagini (i «progressisti» ora si chiamano «Milano ebraìca»], Un «sistema elettorale» rivisto in senso maggioritario ora mette al riparo da pareggi. Ma prima ancora della riforma, stavolta a garantire un vincitore netto potrebbe essere il voto degli aventi diritto. I «laici» si sono da poco ricompattati - si parlava di 2-3 liste - ma le previsioni danno unanimemente per favorita «Wellcommunìty», che presenta come testa di lista un terzetto di candidati probabilmente destinati a rivestire le cariche di presidente, vice e portavoce. Rispettivamente Besso ( ex manager, già rigoroso assessore al bilancio), Luciano Bassani (medico molto stimato nel piccolo mondo della Comunità) e Davide Romano, noto per le battaglie contro l' antisemitismo. Ex assessore alla Cultura, Romano si è dimesso circa un anno fa, dopo il caso delle grida jihadiste in piazza Cavour: era stato «sfiduciato» dalla sinistra interna per aver dichiarato a titolo personale che non avrebbe partecipato alle celebrazioni della Giornata della memoria con l'intenzione di lanciare un segnale contro il silenzio seguito agli slogan antisemiti gridati nel corso della manifestazione convocata da filopalestinesi e animata dai centri islamici il 9 dicembre 2017.
   Il pericolo dell'antisemitismo è giustamente avvertito con grande urgenza. E non solo l'antisemitismo di estrema destra, che in Europa ha assunto le orrende sembianze del nazismo. Oggi è sempre più sentita la minaccia delle nuove «ondate» antisemitismo. Secondo un report dell'Ue, il 38% degli ebrei italiani ha avuto esperienza dell'antisemitismo di estrema sinistra, e il dato scende al 28% per la percezione dell'antisemitismo di estrema destra, mentre la «molestia» o l'odio proveniente da «musulmani estremisti» è percepito dal 20% degli ebrei italiani (il 30% degli europei). In una Comunità ebraica in buona parte composta da persone e famiglie provenienti dai paesi arabi, spesso fuggite a persecuzioni, pogrom o espulsioni, la questione è particolarmente sentita. Anche su questi temi si gioca la sfida elettorale, e su questi temi l'area «moderata» è considerata più «affidabile». Inoltre i tradizionalisti sono anche storicamente considerati attenti alle ragioni di Israele e alla sua sicurezza.
   Più sfumati i collegamenti con la politica nazionale e gli schieramenti partitici. È noto che Besso è da sempre amico del governatore Attilio Fontana, ma d'altra parte la Lega oggi è considerata uno dei partiti più filoisraeliani, e anche l'avversario di Besso, Hasbani, non disdegna video e interventi puramente politici di Matteo Salvini o della leader Fdi Giorgia Meloni, tanto da condividerli su facebook.

(il Giornale, 22 marzo 2019)


Elezioni in Israele. Gantz è primo ma vincerebbe la coalizione di destra

È quanto dicono i sondaggi sul voto del prossimo 9 aprile

Nonostante le polemiche sul presunto hackeraggio del cellulare da parte dell'Iran, Benny Gantz e il suo partito 'Blu-Bianco' sono ancora in testa ai sondaggi sul voto del prossimo 9 aprile in Israele. Lo indicano due distinte indagini svolte da canali tv.
Gantz è in risalita dopo la flessione dovuta alla vicenda hackeraggio: il primo sondaggio assegna a 'Blu-Bianco' 32 seggi contro i 27 del Likud del premier Benjamin Netanyahu. Il secondo 31 contro 29.
Ma a rendere difficile la situazione, sono le alleanze: entrambi i sondaggi danno in testa nel voto quella di destra con a capo Benjamin Netanyahu a scapito di quella di centro-sinistra guidata da Gantz e dal suo alleato Yair Lapid.
Se così fosse il mandato a formare il nuovo governo spetterebbe all'attuale premier. Da notare che i due sondaggi danno risposte diverse sulle preferenze degli intervistati sul prossimo premier: uno sceglie Netanyahu, l'altro Gantz.

(tio.ch, 21 marzo 2019)


Hamas ha fatto arrestare centinaia di dimostranti a Gaza

Protestavano contro l'aumento del costo della vita

di Giovanni Galli

Hamas ha represso con la violenza la contestazione sociale a Gaza. Centinaia di persone che manifestavano per il costo della vita sono state arrestate. La tensione è cominciata il 18 marzo con le forze di sicurezza di Hamas in abiti civili a controllare l'ordine pubblico nella Striscia di Gaza agonizzante dopo 12 anni di blocco egiziano-israeliano. Un fenomeno imprevisto ha debuttato a Jabaliya che il movimento islamista armato prova a eliminare a colpi di manganello. Dal 14 marzo migliaia di persone hanno partecipato a manifestazioni pacifiche per denunciare il costo della vita. Il movimento lanciato su Facebook ha un grido di battaglia: «Vogliamo vivere», secondo quanto ha riportato Le Monde. Non è diretto contro Hamas, nessuno slogan osa farlo, ma mira a questa fazione che l'ha ben capito.
Nessuno conosce il bilancio degli arresti e dei feriti, una cappa di piombo è caduta sul territorio. «Le autorità non tollerano nessuna voce critica soprattutto se si tratta di movimenti sociali», ha detto a Le Monde Hamdi Shaqqura, direttore aggiunto dell'Ong Palestinian center for Human Right. «Nei giorni precedenti i primi raduni sono stati arrestati decine di giovani identificati come promotori sui social. I giornalisti sono stati picchiati perché le autorità non vogliono nessuna copertura mediatica di questi eventi. Gli unici video sono stati quelli dei partecipanti, immediatamente ripresi sui social israeliani. «La gente ha paura perché Hamas non mostra alcuna pietà. È un movimento dittatoriale, che vuole controllare tutto e poco importa se si tratta di morti di fame», ha detto a Le Monde Reem Bouhaisi, 37 anni, impiegata della Ong Women's Affair Center. «Le fazioni non sono nelle nostre azioni», ha detto Khaled S., 27 anni, laureato, senza lavoro, tra gli iniziatori della contestazione e già più volte arrestato da Hamas per un totale di due anni di prigione per le sue critiche su Facebook. I manifestanti non vogliono la caduta del governo, ma il rispetto dei diritti elementari. Chiedono che vengano annullate le tasse sui prodotti importati. Hamas», ha detto a Le Monde, «è responsabile della situazione catastrofica come l'Autorità palestinese». Hamas, invece, accusa i manifestanti di essere teleguidati da Ramallah e la riconciliazione fra le fazioni è nell'impasse totale.

(ItaliaOggi, 21 marzo 2019)


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Gaza e il tradimento di Hamas

Repressione interna. Sono state imposte nuove tasse, i gazawi sono alla fame e i 15 milioni al mese del Qatar non si sa che fine facciano.

di Fabio Scuto

GERUSALEMME - Per quattro giorni di fila migliaia di giovani della Striscia di Gaza sono scesi in strada per protestare contro le terribili condizioni di vita. Un movimento apolitico, nato sul web sotto il segno # We Want to Live. I ragazzi della Striscia si sono scontrati con una brutalità e una violenza inimmaginabile della polizia di Hamas, del suo Mukkhabat in abiti civili, dei miliziani delle Brigate EzzedinAl Qassam, il braccio armato del movimento islamista. Le dimostrazioni a Jabalya, a Deir al Balah, a Khan Younis, a Rafah, sono state disperse con i proiettili veri sparati in aria, bastoni, spranghe e spray al peperoncino. Indeterminato il numero dei feriti. I poliziotti di Hamas sono entrati anche in diverse abitazioni per sequestrare e distruggere i video girati con i telefonini dalle finestre che mostravano i mezzi violenti usati per sedare le proteste. Oltre 500 dimostranti sono stati arrestati ed erano talmente tanti che nell'abitato di Shejaya è stata sequestrata la scuola Al Hashimiya e trasformata in posto di polizia.
   I ragazzi del movimento We Want to Live respingono ogni affiliazione politica, non stanno prendendo di mira nessun partito in particolare, ce l'hanno con le politiche disumane di tutte le parti coinvolte a Gaza. La lista comprende al primo posto le nuove tasse di Hamas, la crisi economica e le sanzioni dell'Autorità nazionale palestinese, il blocco di Israele, le divisioni interne palestinesi. I ragazzi hanno semplicemente voluto urlare: ne abbiamo abbastanza, di tutto. We Want to Live è anche una pagina Facebook con decine di migliaia di follower. È piena di testimonianze, foto e video di questi giorni. "Perché il figlio 20enne di un capo di Hamas ha tutto; casa, macchina e soldi e la gente comune nemmeno un pezzo di pane?", chiede Adina nel suo post. "Hamas ha ereditato la politica di oppressione di Israele", chiosa Mohammad. "Tutti hanno il diritto di opporsi a chiunque li punisca, li torturi. Ogni persona ha il diritto di dire "siamo stanchi di tutto questo", scrive Hafez.
   Negli ultimi 12 anni - da quando comanda Hamas nella Striscia - ci sono state tre guerre devastanti e ogni tipo di commercio si è via via sgretolato per il blocco israeliano. È la crisi economica a preoccupare, nella Striscia vivono 2 milioni di persone, oltre 1 milione dipende per vivere dagli aiuti Onu. "In passato la povertà non ha mai raggiunto il livello della fame - dice Samir Zaqout, vicedirettore del Centro Al Mezan per i diritti umani - oggi non posso più dirlo: a Gaza siamo sicuramente alla fame".
I leader, i funzionari e gli attivisti di Hamas hanno deliberatamente propagandato fake news: le proteste sono spinte dall'esterno, "controllate da Israele e l'intelligence dell'Anp" per far cadere la "resistenza palestinese". I manifestanti sono stati bollati come suicidi, drogati, traditori e i "loro complici delle Ong per i diritti umani" come "spie pagate dal nemico".
   Non è la prima volta che a Gaza si protesta contro il carovita e la crisi economica che lascia a casa il 56% della forza lavoro (il 70% degli abitanti di Gaza ha meno di 18 anni), e coloro che uno stipendio ce l'avrebbero lo prendono a rate perché le casse delle banche sono vuote. Ufficialmente i 15 milioni di dollari al mese mandati dal Qatar come aiuto umanitario - di cui Israele consente il passaggio - non è chiaro che fine facciano, certamente Hamas paga prima i suoi uomini e poi i dipendenti pubblici. La natura della protesta è la prova delle crepe nel regime e Hamas ha timore che il suo potere stia gradualmente svanendo. Il gruppo islamista non è del tutto sicuro che dopo la dura repressione sarà ancora in grado di arruolare le masse per le marce di protesta che si svolgono da 40 settimane ogni venerdì lungo la barriera di confine con Israele. L'invito via web a tutti i sostenitori di We Want to Live è di disertare le proteste contro Israele il venerdì lungo il confine e lasciare soltanto gli attivisti di Hamas a vedersela con l'IDF.
   Il paradosso di Gaza è che in altre circostanze, Israele sarebbe soddisfatto di questa situazione e la vedrebbe come una prova del successo del blocco che potrebbe portare alla caduta degli islamisti. La crisi che Hamas sta vivendo preoccupa invece Israele e il suo premier Benjamin Netanyahu. C'è bisogno di un partner che si assuma la responsabilità di gestire la Striscia, fermare una disintegrazione che potrebbe portare a un conflitto armato su larga scala alla vigilia delle elezioni con il caos di milizie che si contendono queste sabbie. All'improvviso si scopre che gli scontri alla barriera di Gaza ogni venerdì rappresentano una minaccia marginale, rispetto al rischio di default del governo di Hamas e le sue conseguenze.

(il Fatto Quotidiano, 21 marzo 2019)


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Non c'è da incolpare Israele. La rivolta a Gaza contro Hamas non fa notizia

di Giulio Meotti

ROMA - Ieri dalle parti di Israele è arrivata una notizia finita sui principali giornali europei: l'uccisione del terrorista palestinese che ad Ariel due giorni prima aveva assassinato un soldato e un rabbino israeliani. Fiocca sempre un titolo, quando c'è da far fare a Israele la figura dell'"oppressore" e dell'"occupante". I titoli non arrivano invece per quello che sta succedendo dentro Gaza da un paio di settimane. Hamas sta reprimendo le più grandi manifestazioni nei suoi dodici anni di dittatura, con migliaia di palestinesi che scendono in piazza per protestare contro le condizioni di vita.
   Hamas ha arrestato dozzine di manifestanti, ha picchiato gli attivisti e represso violentemente i media locali che coprivano i disordini. "Queste proteste sono le più grandi, le più lunghe e le più violente in termini di repressione di Hamas", ha detto Mkhaimar Abusada, professore di scienze politiche all'Università al Azhar di Gaza. Gli islamisti, al potere a Gaza dal 2007 dopo un colpo di stato contro l'Anp, hanno arrestato mille persone. Hamas ha poi rilasciato una dichiarazione "rifiutando l'uso della violenza e della repressione contro qualsiasi palestinese per aver esercitato il suo legittimo diritto di espressione". Le marce al confine con Israele erano così "spontanee", come le hanno definite i media di tutto il mondo, che negli ultimi venerdì non si sono svolte. Perché Hamas era impegnato a reprimere la sua stessa popolazione che aveva convocato per quasi un anno al confine con Israele. L'inviato delle Nazioni Unite, Nickolay Mladenov, ha condannato la "campagna di arresti e violenze" da parte delle forze di sicurezza di Hamas. A causa delle carenze finanziarie, Hamas ha aumentato le tasse sulle sigarette e su altri beni importati. I pomodori hanno triplicato il prezzo, mentre molti altri beni di base come il pane sono aumentati. Osama Kahlout, un giornalista con sede a Deir Balah a Gaza. stava trasmettendo le proteste su Facebook quando agenti di Hamas hanno fatto irruzione e lo hanno picchiato. Al grido di "vogliamo vivere", i palestinesi hanno protestato contro il gruppo terroristico islamico chiedendo "lavoro, uguaglianza, dignità e libertà". Hamas ha risposto attaccando uomini, donne e bambini. Simbolo della protesta è una donna, ripresa in un video diventato virale: "I figli dei leader di Hamas hanno case e jeep e macchine, possono sposarsi, mentre la gente comune non ha niente, neanche un pezzo di pane".
   Di Khaled Meshaal, capo di Hamas per vent'anni, si stima una ricchezza personale di 2,6 miliardi di dollari depositati in conti del Golfo Persico. Ci sono seicento milionari a Gaza. Uno è il capo di Hamas, Ismail Haniyeh, che ha comprato una villa a Rimai, quartiere ricco di Gaza City. Anche il suo vice, Mousa Abu Marzouk, ha una fortuna personale. Hamas ha speso 120 milioni di dollari in armi e tunnel dal 2014. Avrebbe potuto costruirci 1.500 case, 24 mila letti di ospedale, sei cliniche mediche e tre impianti per l'acqua. L'unica elettricità che i palestinesi hanno a Gaza gliela passa Israele e l'Anp si rifiuta di pagare le bollette. Anziché i tunnel, i palestinesi avrebbero potuto scavare pozzi per cercare l'acqua. E anziché usare l'elettricità per fabbricare i missili da lanciare su Israele, avrebbero potuto usarla per costruirci un impianto di desalinizzazione. Col Piano Marshall, l'America distribuì sessanta miliardi di dollari (rapportati al cambio attuale) all'Europa ricostruendola dopo la Seconda guerra mondiale. Secondo la Banca Mondiale, dal 1994 a oggi i palestinesi hanno ricevuto 31 miliardi di dollari in aiuti. Soldi finiti in terrorismo. E ora a Gaza, come in Iran, la popolazione chiede conto ai regimi. Quando vedremo articoli di giornale, proteste di piazza e flotille contro "l'occupazione di Hamas"? Sarà un giorno epocale.

(Il Foglio, 21 marzo 2019)


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Gaza, ma non è quello che sembra

Se qualcuno si aspetta che le manifestazioni contro Hamas in corso a Gaza possano portare a una svolta contro la dittatura islamista e a un cambio di potere che punti a una forma democratica di governo, si sbaglia di grosso. Non è quello che chiedono i manifestanti

Calma, chi si affretta a vedere nella rivolta contro Hamas in corso nella Striscia di Gaza una rivolta del popolo contro anni di dittatura islamista che ha ridotto alla fame milioni di persone, potrebbe scambiare fischi per fiaschi.
E' vero che la gente se la sta prendendo con l'elite al comando a Gaza, il che vuol dire protestare contro Hamas, ma i manifestanti non stanno chiedendo la fine della dittatura islamista, almeno non direttamente, la gente chiede più soldi, cioè una redistribuzione più equa del denaro distribuito dal Qatar.
Già, il denaro del Qatar, è questa la molla che ha scatenato le proteste viste in questi giorni nella Striscia di Gaza, una specie di boomerang inaspettato per tutti.
Quel denaro è andato esclusivamente ai membri di Hamas. Nemmeno un dollaro di tutti quei milioni è finito a chi non ha denaro per comprare il cibo.
I manifestanti non chiedono la fine del regime, non chiedono lavoro, non chiedono infrastrutture che pure sono state finanziate dalla UE, dall'Onu e dallo stesso Qatar. No, i manifestanti chiedono un po' di denaro....

(Rights Reporters, 18 marzo 2019)



Maledirò chi ti diminuirà

di Marcello Cicchese

L'Eterno disse ad Abramo: «Vattene dal tuo paese, dal tuo parentado e dalla casa di tuo padre, nel paese che io ti mostrerò. Io farò di te una grande nazione e ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai una benedizione. Benedirò quelli che ti benediranno, e maledirò quelli che ti malediranno. E in te saranno benedette tutte le famiglie della terra» (Genesi 12:1-3).

Questi tre versetti della Genesi possono essere considerati l'incipit di tutto il programma di redenzione di Dio. Soffermiamoci in particolare sulla frase:

"Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò quelli che ti malediranno".

Nell'originale ebraico, per indicare la benedizione in questo testo si usa sempre lo stesso verbo: ברך (barak), mentre per indicare la maledizione sono usati verbi diversi: il maledirò di Dio viene espresso con il verbo ארר (arar) mentre il malediranno degli uomini viene reso con il verbo קלל (qalal).

La cosa merita attenzione. Riportiamo allora i primi versetti della Bibbia in cui compare il verbo "arar".
    Genesi 3:14 - Allora Dio il Signore disse al serpente: «Poiché hai fatto questo, sarai il maledetto fra tutto il bestiame e fra tutte le bestie selvatiche! Tu camminerai sul tuo ventre e mangerai polvere tutti i giorni della tua vita.»
    Genesi 3:17 - Ad Adamo disse: «Poiché hai dato ascolto alla voce di tua moglie e hai mangiato del frutto dall'albero circa il quale io ti avevo ordinato di non mangiarne, il suolo sarà maledetto per causa tua; ne mangerai il frutto con affanno, tutti i giorni della tua vita.»
    Genesi 4:11 - «Ora tu sarai maledetto, scacciato lontano dalla terra che ha aperto la sua bocca per ricevere il sangue di tuo fratello dalla tua mano.»
Come si vede, sono tre devastanti maledizioni con cui Dio colpisce, nell'ordine, il serpente, la terra e l'omicida.

Riportiamo poi i primi due versetti della Bibbia in cui compare il verbo "qalal".
    Genesi 8:8 - Poi mandò fuori la colomba per vedere se le acque fossero diminuite sulla superficie della terra.
    Genesi 8:11 - E la colomba tornò da lui verso sera; ed ecco, aveva nel becco una foglia fresca d'ulivo. Così Noè capì che le acque erano diminuite sopra la terra.
   Il verbo "qalal" qui viene tradotto con l'italiano diminuire, che in questo contesto non ha alcun sinistro significato morale ma indica soltanto l'abbassamento del livello dell'acqua.
   In senso morale invece il verbo viene usato poco più avanti per rappresentare l'atteggiamento di Agar verso Sara dopo il concepimento di Ismaele:
    Genesi 16:4 - Egli [Abramo] andò da Agar, che rimase incinta; e quando si accorse di essere incinta, guardò con disprezzo la sua padrona.
L'espressione "guardò con disprezzo la sua padrona" vuol rendere il senso di una traduzione che letteralmente sarebbe "fu diminuita ai suoi occhi la sua padrona". La serva in un certo senso "diminuì" la sua padrona perché cominciò a guardarla dall'alto in basso. Le parti si erano invertite: prima la padrona stava in alto e lei in basso, adesso la padrona sta in basso e lei in alto. E tutto questo senza che nulla sia cambiato nei fatti, ma soltanto "ai suoi occhi". La fertile serva egiziana cominciò a guardare la sterile padrona ebrea con disprezzo, o forse soltanto con compatimento, che è la stessa cosa.
   E' chiaro che con femminile intuito Sara non ci mise molto a capirlo. Conosciamo il seguito della storia: Sara va dal marito e gli dice che da quando Agar si è accorta di essere incinta, "io sono diminuita ai suoi occhi". E poiché la cosa non è sopportabile, invoca il giudizio dell'Eterno. Cosa che poi avviene, come si trova scritto nel seguito del racconto.
   Il testo in questione di Genesi 12 potrebbe allora essere tradotto così, rispettando la figura retorica del chiasmo usata nell'originale:

Benedirò quelli che ti benediranno, e quelli che ti diminuiranno io maledirò.

Applicando queste parole al popolo d'Israele, discendenza etnica di Abramo, se ne deduce che per cadere sotto la tremenda maledizione di Dio (arar) non è necessario essere antisemiti militanti: è sufficiente diminuire (qalal) Israele ai propri occhi. Basta tenere nei confronti di Israele un atteggiamento simile a quello di Agar verso Sara: un intimo senso di superiorità, un latente disprezzo che può assumere forma di compatimento quando le cose gli vanno troppo male, un'avversione inespressa che emerge soltanto in occasioni particolarmente vistose, un disinteresse totale che si trasforma in antipatia quando viene disturbato e provoca lo sbuffo: "ma sempre questi ebrei, proprio non se ne può più!"
   Nella maggior parte dei casi la maledizione di Dio non è percepita come tale, anche perché può avere diverse gradazioni di intensità e tempi che la rendono irriconoscibile agli occhi di chi non è attento alle vie di Dio. Ma è tremendamente reale, perché Dio è una Persona seria: quello che dice, lo fa. Non è come i nostri governanti.
   Le cose non cambiano in ambienti genericamente cristiani. "Diminuire" Israele ai propri occhi con una varietà di argomenti che si presentano come biblici è un fatto che avviene con naturalezza anche tra evangelici, ed esprime quella superbia da cui l'apostolo Paolo (Romani 11:13-32) vuole mettere in guardia i gentili che per grazia di Dio arrivano a credere nel Messia d'Israele come loro Signore e Salvatore. E se la superbia non è riconosciuta come tale, allora non si è più in grado di riconoscere che i tanti problemi che affliggono singoli e comunità possono essere aggravati dalla mancanza di una benedizione che avrebbe dovuto esserci, ma non c'è. E questo è già una forma di maledizione.

(Notizie su Israele, 21 marzo 2019)

 


L'ultimo lembo di Israele

La Galilea è una terra collinare, punteggiata di villaggi che nel fine settimana si riempiono di turisti. L'ultima guerra contro il vicino Libano risale al 2006, ma la tensione resta alta. Hezbollah fa proclami minacciosi, l'esercito israeliano costruisce muri. In mezzo, la linea Blu tracciata dall'Onu.

di Davide Frattini

 
Le foglioline grigioverdi coprono le colline della Galilea che si alzano senza fretta dal Mediterraneo verso il confine con il Libano. Gli arabi le chiamano zaatar e gli ebrei eizov: è una varietà di maggiorana e finisce in quell'insalata di controversie, contese e nostalgie territoriali che è il Medio Oriente. I botanici l'hanno battezzato Origanum Syriacum, un nome che supera i confini e ricorda l'epoca in cui era possibile viaggiare senza barriere tra queste terre del Levante, per quattrocento anni sotto il dominio degli ottomani poi sconfitti e sostituiti per un trentennio dai britannici.
  L'albergo della famiglia Lishansky è stato costruito in stile Bauhaus sulle macerie della casa voluta dal capostipite Joseph, che aveva lasciato l'Ucraina ed era diventato agricoltore su queste montagne. Seminava false identità e raccoglieva informazioni. Come l'Origanum serpeggiava dal piccolo villaggio di Metula verso Damasco, si mimetizzava - lui ebreo - tra i turchi e gli arabi, origliava segreti da passare ai britannici durante la Prima guerra mondiale in cambio della promessa ai gruppi ebraici di un futuro Stato. Operò da pendolare della clandestinità fino a quando non fu scoperto e giustiziato.
  Adesso le finestre azzurre e blu del palazzotto bianco - poche camere gestite dai discendenti di Joseph - riflettono i trattori al lavoro nei campi di mele verso il Libano. Anche dall'altra parte si dissoda la terra ma, ha scoperto l'intelligence israeliana, non solo per piantare. Le serre, il movimento di camion, servono a camuffare gli scavi sotterranei di Hezbollah. Le gallerie non sono troppo lunghe: da Metula i cubi bianchi di Kfar Kila sono ben visibili senza bisogno di binocoli militari, le auto con targa libanese passano a qualche centinaio di metri. Così tre mesi fa l'esercito ha lanciato un'operazione sul fronte nord per scovare e distruggere i tunnel, per disinnescare con il tritolo la minaccia proclamata da Hassan Nasrallah, il leader del movimento libanese sciita e filo-iraniano: «Nella prossima guerra invaderemo e conquisteremo parte della Galilea». I cunicoli dovrebbero servire alle truppe ìrregolari - nella lista nera dei gruppi terroristici stilata dagli americani e dagli europei - per sbucare in mezzo ai kibbutz appoggiati sulla Linea Blu: è il colore delle Nazioni Unite che hanno tratteggiato sulle mappe questo confine d'armistizio tra due Paesi tutt'ora nemici.
  L'ultimo conflitto è durato trentaquattro giorni tra il luglio e l'agosto del 2006. Il Mondiale di calcio vinto dall'Italia era finito da tre giorni, quando un commando di Hezbollah ha assaltato un convoglio israeliano con granate e colpi di mortaio, tre soldati uccisi e due portati via, anche loro quasi sicuramente morti subito.
  Le Jeep blindate si stavano muovendo lungo il reticolato tra Zarit e Shtula, altri villaggi di contadini e allevatori, questa zona è famosa per i formaggi di capra.
  I piccoli ristoranti e gli zimmer, la versione locale delle pensioncine a conduzione famigliare, in queste settimane si preparano all'alta stagione, gli israeliani arrivano dalle città nei fine settimana per camminare sui sentieri circondati dai fiori o passeggiare tra le memorie di un Paese che qua attorno ha sempre battagliato ancora prima di nascere. Cent'anni fa I bisnonni dei soldati di Tsahal pattugliavano queste zone vestiti come gli arabi. Turbante, tunica e fucile a tracolla, 108 uomini e donne avevano deciso di mettersi insieme nella squadra Beit HaShomer - tra i fondatori il secondo presidente israeliano Yilzhak Ben Zvi - per proteggere gli insediamenti dei primi pionieri. Durante la guerra di tredici anni fa, le loro foto sbiadite, appese nel museo di Kfar Giladi, non hanno protetto I dodici riservisti dell'esercito colpiti In pieno da un razzo mentre si riposavano all'ombra dei muri a secco del kibbutz: nell'accampamento improvvisato erano in attesa di ordini, di tornare in prima linea tra i villaggi libanesi, l'esercito era penetrato fino al fiume Litani, la stessa area adesso monitorata dai soldati di Unifil, in missione di pace per le Nazioni Unite.
  È nella natura della Galilea che David Grossman manda a ripararsi la protagonista di A un cerbiatto somiglia il mio amore (Mondadori), cominciato a scrivere - ha raccontato il romanziere israeliano - «nel maggio del 2003, sei mesi prima che mio figlio maggiore Yonathan finisse il servizio militare e sei mesi prima che suo fratello più giovane Uri fosse arruolato». In mezzo a questi boschi si rifugia anche Grossman per qualche settimana, isolato dal mondo, non dal dolore: Uri resta ucciso il 12 agosto del 2006 nelle ultime ore del conflitto in Libano, il suo carrarmato distrutto mentre cerca di soccorrere un altro blindato. Finita la shiva, i sette giorni di lutto ebraico, ricomincia a lavorare al libro. E parte. «Non potevo esimermi dall'accompagnare i miei personaggi. Sono andato nel punto più a nord, nel silenzio, accompagnato solo dal piacere degli incontri occasionali con i gitanti».
  La scogliera a Rosh Hanikra venne traforata daì britannici per unire l'Haifa oggi israeliana alla Beirut oggi libanese. Cento chilometri di ferrovia adesso impossibili da percorrere: il museo sotterraneo proietta sulle rocce delle grotte la storia della prima guerra combattuta da Israele, della dinamite usata nel 1948 per far saltare la galleria e chiudere la via d'accesso agli eserciti arabi che assaltavano lo Stato appena nato.

(Corriere della Sera, 21 marzo 2019)


Proteste a Gaza. «I figli dei leader di Hamas hanno tutto, il popolo palestinese niente»

Centinaia di palestinesi hanno protestato per la mancanza di lavoro e le disastrose condizioni di vita contro il governo guidato dal gruppo terroristico. Che ha risposto con arresti e violenze.

Il 70 per cento dei giovani di Gaza è senza lavoro. Non stupisce perciò che i palestinesi scendano in piazza per protestare contro le terribili condizioni di vita. Ma non accade spesso che lo facciano, come negli ultimi giorni, per denunciare le politiche di Hamas.

 Vogliamo lavoro, uguaglianza e libertà
  A partire da giovedì centinaia di manifestanti riuniti nel collettivo "Movimento della marcia del 14 marzo", al grido di «Vogliamo vivere», hanno protestato contro il governo guidato dal gruppo terroristico islamico chiedendo «lavoro, uguaglianza, dignità e libertà»: «Non vogliamo cambiare il sistema politico», ha dichiarato su Facebook uno degli organizzatori, Moumen al-Natour, «non siamo un movimento politico. Vogliamo solo il rispetto dei nostri diritti».
Hamas ha risposto attaccando violentemente uomini, donne e bambini, inclusi giornalisti e attivisti per i diritti umani, e sparando in aria per disperdere la folla. Decine di persone, riporta la Bbc, sono state arrestate mentre le loro case sono state perquisite.

 ONU denuncia «arresti e violenze»
  Nickolay Mladenov, coordinatore speciale Onu per il processo di pace in Medio Oriente, ha condannato «la campagna di arresti e violenze da parte di Hamas. Il popolo di Gaza soffre da molti anni e protestava per le drammatiche condizioni dell'economia, chiedendo un miglioramento della qualità della vita nella Striscia. È loro diritto farlo senza temere ripercussioni».
Hamas ha accusato l'Autorità palestinese dominata da Fatah per aver fomentato le proteste, oltre che Israele ed Egitto. Tel Aviv e Il Cairo impongono un blocco economico alla Striscia da quando Hamas, dopo essere entrato nel 2006 in un governo di unità nazionale con Fatah, ne ha preso il pieno controllo con la forza nel 2007. Da allora, entrano nella Striscia solo un quarto delle merci e dei beni rispetto a prima. Il gruppo terroristico si è visto costretto ad aumentare tasse e prezzi per gestire il territorio
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 «Hamas ha tutto, il popolo niente»
  Simbolo della protesta è diventata una donna, ripresa in un video diventato virale su internet. Mentre manifesta nel centro di Gaza, afferma di avere un marito e quattro figli, tutti senza lavoro: «I figli dei leader di Hamas hanno case e jeep e macchine, possono sposarsi, mentre la gente comune non ha niente, neanche un pezzo di pane».

(Tempi, 20 marzo 2019)


Purim, la festa della sconfitta anche militare dell'antisemitismo

di Ugo Volli

Purim Holiday
Questa sera gli ebrei di tutto il mondo festeggiano Purim, una delle pochissime date ebraiche che non ricordano eventi biblici ma fatti della storia ebraica relativamente recenti, cioè successive all'esilio babilonese. E' anche una festa che non ha equivalenti nel cristianesimo ed è generalmente poco capita, scambiata a causa della sua allegria per una specie di "carnevale ebraico". In realtà si tratta di una celebrazione importante, che ha un suo lato religioso centrato sul "nascondimento" della presenza divina (il nome adottato dell'eroina della festa, l'ebrea Hadassah che diventa regina Ester, una parola che probabilmente viene dalla lingua persiana, può essere letto come un'allusione all' "ester panim", il nascondimento del volto divino, che viene minacciato nel libro del Deuteronomio come punizione per i peccati collettivi del popolo). E la meghillà, il rotolo su cui obbligatoriamente dev'essere letta la storia, va completamente dispiegato, cioè aperto, reso visibile. Il senso religioso della festa verte dunque sulla presenza divina nella storia, che è segreta, nascosta dietro l'apparenza del caso (il nome Purim significa "tirare a caso"), ed è compito del fedele portarne alla luce l'azione. Numerose tracce rimandano a questa dialettica fra invisibile e rivelato, provvidenza e contingenza.
  Ma è anche importante anche una lettura storico-politica della festa. Alla corte di Serse, più o meno ai tempi delle guerre fra Greci e Persiani, gli ebrei sono bene integrati e restano nella diaspora anche se qualcuno sta cercando di ricostruire uno stato ebraico in Terra di Israele, sull'esempio di Esdra e Nehemia. Al potere giunge un visir antisemita, Haman, che suggerisce al re un genocidio, usando un'argomentazione che è un classico dell'antisemitismo e che ancora si sente risuonare in questi giorni in Europa:
  "Vi è un popolo separato ma anche disseminato fra i popoli di tutte le province del tuo regno, le cui leggi sono diverse da quelle di ogni altro popolo e che non osserva le leggi del re; non conviene quindi che il re lo tolleri." (Ester, 3: 7)
  Insomma gli ebrei pensano solo a loro stessi, non sono leali al paese cui appartengono, sono pericolosi, vanno eliminati. Non è solo il discorso di Hitler, ma anche quello attuale di molti antisemiti fra i democratici americani, i laburisti inglesi e molti nella sinistra di tutt'Europa. Haman ottiene dal re un decreto che lo autorizza al genocidio.
  Grazie a una vicenda piuttosto romanzesca, in cui agiscono i meriti dei due protagonisti ebrei, Mordechai che ha sventato un colpo di stato contro il re e Ester che ha conquistato il suo affetto nascondendo la sua identità ebraica fino al momento decisivo, la congiura viene sventata. Il re non annulla il decreto precedente, ma autorizza gli ebrei a difendersi con le armi. Essi lo fanno con successo e sconfiggono militarmente i loro persecutori, provocando gravi perdite.
  Questa storia è diventata un modello per la resistenza ebraica al genocidio. Ester ottiene dai saggi di Israele che la sua storia entri nelle Scritture e che la vicenda sia celebrata da una grande festa; ella poi diventerà il modello cui si ispireranno gli anusim (che di solito sono chiamati con il nome insultante dato loro dai persecutori: marrani) che resisteranno alle conversioni forzate dell'Inquisizione tenendo segreta la loro identità e fede per generazioni.
  Anche gli antisemiti sono consapevoli del senso di resistenza di Purim, Lutero, che voleva bruciare tutte le sinagoghe con gli ebrei dentro, disse una volta che il libro biblico che odiava di più era quello di Esther. Alla fine del processo di Norimberga, condotto all'esecuzione capitale, l'antisemita più monomaniaco fra i capi nazisti, Julius Streicher, gridò che la sua condanna era "Purim 1946".
  Festeggiare Purim nei modi tradizionali, ascoltare la lettura della Meghillà rumoreggiando quando sono citati i nemici di Israele, bere fino a non riuscire a distinguere fra le parole "benedetto Mordechai" e "Maledetto Haman", com'è prescritto nel Talmud, indossare le maschere e fare festa non è folklore, come il libro di Ester non è una favola per bambini o una commedia ellenistica, secondo quel che hanno preteso alcuni critici. La festa ha una lezione teologica profonda, ma anche una politica importante: finché dura l'antisemitismo gli ebrei devono sapersi difendere con l'intelligenza e con la forza, e soprattutto mantenendo la loro unità ed essendo solidale con chi combatte per loro. Oggi questo ruolo è dello Stato di Israele, dei suoi servizi di informazione e delle sue armi. A chi esita ad appoggiarli fino in fondo, bisogna ripetere quel che disse Mordechai a Ester quando ella esitava a prendere dei rischi per sventare la congiura di Haman:
  "Non pensare di salvare solo te stessa fra tutti gli ebrei, per il fatto che ti trovi nella reggia. Perché se tu in questo momento taci, aiuto e liberazione sorgeranno da un altro luogo; ma tu perirai insieme con la casa di tuo padre. Chi sa che tu non sia stata elevata a regina proprio in previsione d'una circostanza come questa?"
  Anche gli attuali ebrei di corte (o di partito, o dei media) "odiatori di sé" farebbero bene a capire che se non si impegnano a difendere il loro popolo e magari si mimetizzano con gli antisemiti, la salvezza per Israele verrà senza di loro, ma non si salveranno certo grazie alla loro acquiescenza.

(Progetto Dreyfus, 20 marzo 2019)


Shoah, “Irving non entri nei campi di sterminio”

Israele ha chiesto all'ambasciatore polacco di vietare la visita del negazionista britannico alle strutture istituite dai nazisti
Israele ha chiesto alla Polonia di non far entrare nel paese lo storico britannico negazionista David Irving che dovrebbe visitare prossimamente i campi di sterminio istituiti dai nazisti durante la guerra in territorio polacco occupato.
In una lettera inviata all'ambasciatore polacco in Israele Marek Magierowski, il ministro della Diaspora Naftali Bennett ha detto che "viste le ripugnati affermazioni e le oltraggiose menzogne di Irving sulla storia della Shoah, è chiaro che intenda usare questa opportunità per diffondere altre false e corrosive narrative".
"Così facendo - ha proseguito Bennett - senza dubbio causerà grave offesa alla memoria delle vittime della Shoah e a tutto il popolo ebraico e al tempo stesso attizzerà il già acceso fuoco di odio e antisemitismo di cui siamo testimoni nel mondo oggi".

(la Regione, 20 marzo 2019)


Ricercatori costruiscono un biosensore per isolare le cellule staminali leucemiche

 
Un team di ricercatori dell'Università di Tel Aviv ha ideato un nuovo biosensore in grado di isolare e colpire le cellule staminali leucemiche, le più maligne di tutte le cellule leucemiche esistenti.
Tutte le cellule staminali possono moltiplicarsi, proliferare e differenziarsi. Comprendere come le cellule staminali leucemiche sono regolate è diventata un'area importante della ricerca sul cancro.
Il gruppo di ricerca è guidato dal dottor Michael Milyavsky del Dipartimento di Patologia presso la Sackler School of Medicine dell'Università di Tel Aviv.
L'esclusivo sensore geneticamente codificato del team e la sua capacità di identificare, isolare e caratterizzare le cellule staminali leucemiche è descritta in uno studio pubblicato il 31 gennaio su Leukemia.

 Il dott. Milyavsky in una intervista al JewishPress.com afferma:
"La ragione principale del triste tasso di sopravvivenza dei tumori del sangue è la resistenza intrinseca delle cellule staminali leucemiche alla terapia. Ma solo una piccola parte delle cellule leucemiche ha un alto potenziale rigenerativo, ed è questa rigenerazione che si traduce in una recidiva della malattia. La mancanza di strumenti per isolare specificamente le cellule staminali leucemiche ha precluso lo studio completo e il targeting specifico di queste cellule staminali fino ad ora".
Fino a poco tempo fa, i ricercatori oncologici utilizzavano marcatori sulla superficie della cellula per distinguere le cellule staminali leucemiche dalla maggior parte delle cellule tumorali, con un successo limitato.

 Spiega il dott. Milyavsky:
"Esistono cellule staminali tumorali nascoste che esprimono marcatori di superficie differenziati nonostante la loro funzione di cellule staminali. Questo permette a quelle cellule di sfuggire a terapie mirate. Etichettando le cellule di leucemia solo sulla base del loro carattere staminale, il nostro sensore riesce a superare i problemi basati sul marker di superficie. Riteniamo che il nostro biosensore possa fornire un prototipo per gli sforzi oncologici di precisione per colpire le cellule staminali leucemiche specifiche del paziente per combattere questa malattia mortale".
Gli scienziati israeliani sono stati anche in grado di dimostrare che le cellule staminali leucemiche sensibili al sensore sono sensibili a un noto ed economico farmaco per il cancro chiamato 4-HPR (fenretinide), fornendo un nuovo biomarker per i pazienti che possono trarre beneficio da questo farmaco.

 L'uso del sensore e i farmaci
  Infine il dott. Michael Milyavsky ha osservato:
"Usando questo sensore, possiamo eseguire una medicina personalizzata orientata agli schermi dei farmaci mediante la codifica delle cellule di leucemia di un paziente per trovare la migliore combinazione di farmaci in grado di indirizzare sia la leucemia alla rinfusa, sia le cellule staminali leucemiche al suo interno. Siamo anche interessati allo sviluppo di geni killer che possano sradicare specifiche cellule staminali leucemiche in cui il nostro sensore è attivo".
I ricercatori israeliani stanno ora studiando quei geni che sono attivi nelle cellule staminali leucemiche nella speranza di individuare eventuali bersagli da colpire con il trattamento farmacologico.

(SiliconWadi, 20 marzo 2019)


Israele - Spot col profumo "Fascismo"

Fa discutere un video in cui la ministra della Giustizia Ayelet Shaked si spruzza un profumo chiamato "Fascismo" per denunciare gli avversari di sinistra che, a suo dire, vorrebbero indebolire il sistema giudiziario. Nello spot Shaked si irrora di profumo e un narratore sussurra i suoi obiettivi: riforma giudiziaria, separazione dei poteri, limitazione della Corte Suprema. "Per me - dice Shaked - sa di democrazia".

(il Fatto Quotidiano, 20 marzo 2019)


Medio Oriente: la difficile partita a scacchi sulla Striscia di Gaza

Quella che si gioca in queste ore a Gaza è una vera partita a scacchi giocata però da più giocatori con interessi diametralmente opposti. E alla fine un accordo tra Israele ed Hamas potrebbe essere una scelta obbligata per non consegnare la Striscia di Gaza nelle mani degli Ayatollah iraniani.
   
Quella che si sta giocando sulla Striscia di Gaza è una difficile e complessa partita a scacchi giocata però da più giocatori e non da soli due competitori come sarebbe logico aspettarsi da questo magnifico gioco di strategia.
Non ci sono infatti solo Israele e Hamas a giocare la partita di Gaza. Prima di tutto c'è l'Egitto, parte in causa fortemente interessata a calmierare la situazione. Poi c'è l'Autorità Nazionale Palestinese che in teoria dovrebbe rappresentare tutto il mondo arabo-palestinese e non solo quello che vive in Giudea e Samaria. Infine c'è l'Iran, interessato a che la Striscia di Gaza rimanga un fronte aperto per Israele e che gli israeliani non trovino alcun accordo a lungo termine con Hamas....

(Rights Reporters, 20 marzo 2019)


Il cellulare di Gantz spiato dagli iraniani il caso scuote Israele

di Davide Lerner

La notizia che il leader dell'opposizione israeliana Benny Gantz sarebbe stato spiato dai servizi segreti iraniani, tramite l'hackeraggio del suo telefono cellulare, ha aperto un caso che da giorni domina la campagna in vista delle elezioni del 9 aprile. Secondo il giornalista Amit Segal, due ufficiali dello Shin Bet, i servizi di sicurezza interna, avrebbero informato l'ex capo dell'esercito e sfidante di Netanyahu dell'attacco cyber iraniano proprio nei giorni in cui era impegnato nel lancio del suo nuovo partito. L'ufficio di Gantz non smentisce, ma sottolinea che il leader del partito "Blu e bianco" non era più a capo dell'esercito da 4 anni quando le spie iraniane avrebbero avuto accesso alle informazioni del suo cellulare. Gantz stesso ha ribadito più volte che, trattandosi di un periodo in cui non rivestiva ruoli pubblici, nessuna informazione sensibile o pericolosa per la sicurezza di Israele sarebbe stata sottratta. Fonti del partito "Blu e bianco" considerano sospetto il tempismo con cui la notizia è stata diffusa, mettendo in imbarazzo Gantz a poche settimane dal voto. Siccome i servizi di sicurezza interna dello Shin Bet rispondono al primo ministro, cioè Netanyahu, il sospetto è che la notizia sia trapelata dagli ambienti della sua campagna.

(la Repubblica, 19 marzo 2019)


La popolazione protesta a Gaza. Ora trema il governo di Hamas

L'Onu ha condannato con forza la violenta reazione decisa da Hamas ai danni dei moti popolari

di Gerry FredaMar

 
 
Proteste a Gaza contro Hamas    
In questi giorni, numerose manifestazioni anti-Hamas hanno iniziato ad avere luogo in tutta la Striscia di Gaza.
   I media israeliani hanno subito evidenziato le dimensioni "imponenti" dei cortei di protesta organizzati ultimamente e, contestualmente, hanno sottolineato la portata "storica" di questi ultimi. Secondo gli organi di informazione, era dal 2007 che l'enclave palestinese non vedeva manifestazioni con un così alto tasso di partecipazione popolare. Ad organizzare le proteste è stato il neonato 14th March Movement, fondato dall'attivista Moumen al-Natour.
   I cortei sono stati promossi dal movimento in questione al fine di reagire alle drammatiche condizioni economiche imposte finora ai civili dalla leadership di Hamas. I manifestanti accusano i governanti della Striscia di avere aumentato tasse e prezzi dei generi alimentari nonché di avere aggravato la disoccupazione, portandola a un tasso del 70%.
   Al grido di "Noi vogliamo vivere", i partecipanti alle proteste stanno quindi esortando i vertici dell'organizzazione estremista a essere maggiormente sensibili verso i problemi quotidiani della gente. I dirigenti di Hamas, responsabili di avere varato misure di austerità ai danni degli abitanti di Gaza e di vivere "nel lusso sfrenato".
   Per il momento, la formazione anti-sionista sta rispondendo con estrema durezza alle iniziative del 14th March Movement. Ad avviso della stampa israeliana, centinaia di partecipanti ai cortei, per lo più attivisti per i diritti umani e giornalisti indipendenti, sarebbero stati arrestati dalle forze di sicurezza. La polizia di Gaza, inoltre, avrebbe impiegato contro i manifestanti lanci di lacrimogeni e raffiche di proiettili. La reazione di Hamas ai moti popolari si è anche sviluppata sul piano propagandistico, accusando la formazione rivale Fatah e il governo Netanyahu di sobillare i civili.
   Il pugno di ferro varato dai governati della Striscia è stato pubblicamente condannato da Nickolay Mladenov, inviato speciale Onu per il processo di pace in Medio Oriente. L'alto funzionario del Palazzo di Vetro ha infatti accusato la formazione politica palestinese di mettere in atto una "brutale repressione" del diritto dei singoli a manifestare e a criticare i rispettivi governanti. Quanto allo Stato ebraico, i media locali hanno ripetutamente associato i cortei in questione alla fine dell'influenza di Hamas sulla popolazione di Gaza, mentre l'esecutivo Netanyahu, tramite il viceministro degli Esteri Tzipi Hotovely, ha commentato gli eventi in corso nell'enclave auspicando una rapida fine del "regime terroristico di Hamas".

(il Giornale, 19 marzo 2019)


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A Gaza Hamas reprime le manifestazioni della popolazione

E i media italiani tacciono

L'inviato delle nazioni Unite per il Medio oriente, Nickolay Mladenov, ha condannato la repressione violenta di Hamas delle manifestazioni pacifiche nella Striscia di Gaza. Da giovedì 15 marzo centinaia di palestinesi manifestano in diverse località contro l'aumento del costo della vita in questa zona controllata dal gruppo terroristico.
Come riporta il sito francese Le Monde Juif, decine di persone, fra cui giornalisti e membri di organizzazioni della difesa dei diritti dell'uomo sono stati fermati, mentre le forze di sicurezza hanno represso violentemente le manifestazioni.
«Condanno fortemente la campagna di arresti e la violenza utilizzata dalle forze di sicurezza di Hamas contro i manifestanti, fra cui donne e bambini, in questi tre giorni a Gaza», ha dichiarato Mladenov in un comunicato.
«Sono particolarmente preoccupato dall'attacco brutale dei giornalisti e degli impiegati della Commissione indipendente per i diritti dell'uomo così come le perquisizioni nelle case -, ha scritto l'emissario dell'Onu -. Il popolo di Gaza, che soffre da molto tempo, protesta contro la disastrosa situazione economica ed esige un miglioramento delle condizioni di vita nella Striscia di Gaza. È loro diritto manifestare senza temere le rappresaglie».

 La disperazione della gente
  Intanto comincia a circolare qualche video (pochi, proprio per la repressione di Hamas) che documenta la disperazione della popolazione di Gaza, affamata e ridotta alla miseria dall'inefficienza del gruppo al governo. "I figli dei capi di Hamas girano in macchine di lusso, mentre io ho 4 figli senza lavoro", denuncia una donna in un video fatto circolare dall'attivista arabo per i diritti dell'uomo Heshmat Alavi, che sul suo profilo Twitter sta documentando quello che sta accadendo, denunciando l'Iran che finanzia Hamas.

(Bet Magazine Mosaico, 19 marzo 2019)


Montichiari, sciatori da Tel Aviv

Nel deserto dell'aeroporto D'Annunzio di Montichiari dove il traffico passeggeri è in costante declino, l'atterraggio di un airbus decollato da Tel Aviv, non è passato di certo inosservato. Il volo è al servizio degli israeliani che decidono di trascorrere le vacanze invernali nelle località sciistiche bresciane. L'airbus è arrivato direttamente dallo scalo di Tel Aviv «Ben Gurion», il principale snodo del traffico aereo di Israele. La comitiva dei passeggeri è salita poi sui pullman diretti in Valcamonica e nelle altre località turistiche bresciane. Come accade in presenza di un obiettivo sensibile nell'ottica di possibili attentati terroristici, i controlli di sicurezza sono stati rigorosi. Dopo una pausa tecnica l'airbus è ripartito per Tel Aviv con a bordo i turisti di ritorno dalle settimane bianche.

(Brescia Oggi, 19 marzo 2019)


Mostra sull'infanzia al Museo Ebraico di Bologna

Opere di oltre cinquanta artisti italiani e israeliani

Quaderno di esercizi: "La divisa di Piccola italiana"
Il Museo Ebraico di Bologna ospita dal 19 marzo al 20 maggio la mostra 'Unforgettable childhood -L'infanzia indimenticabile', a cura di Ermanno Tedeschi. Il progetto - già proposto a Matera, Ravenna e Tel Aviv - raccoglie pitture, sculture, fotografie, disegni realizzati da più di cinquanta artisti italiani e israeliani sul tema dell'infanzia.
Nell'esposizione coesistono diverse forme espressive ma con un denominatore comune: l'essere umano, rappresentato con sfaccettature diverse, dal concetto dell'infanzia e del gioco, come momento di vita quotidiana, al tema della maternità. Tra i materiali e le tecniche usate sughero, tessuti, nastro adesivo, acciaio, ferro e legno. Tedeschi, dopo l'esperienza come gallerista in Italia e all'estero, continua l'attività in modi e con strumenti diversi: "L'obiettivo - dice - è quello di essere un sarto dell'arte che cuce su misura progetti per spazi pubblici e privati, un nuovo percorso per essere più in sintonia con le mutate sensibilità del mondo dell'arte".

(ANSA, 19 marzo 2019)


Arriva a Milano la mostra "I giovani ricordano la Shoah"

Al Memoriale i lavori degli studenti sul tema

ROMA - Si inaugura domani al Memoriale della Shoah di Milano la mostra "I giovani ricordano la Shoah", che raccoglie i lavori più interessanti realizzati dagli studenti che hanno partecipato al concorso nazionale organizzato ogni anno dal Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca in collaborazione con l'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. L'esposizione, allestita negli spazi della Biblioteca del Memoriale (ingresso in piazza E. J. Safra, 1 - già Ferrante Aporti, 3), sarà visitabile gratuitamente fino al 10 aprile, dalle 10.00 alle 14.30, dalla domenica al giovedì. Il concorso "I giovani ricordano la Shoah", giunto alla diciottesima edizione, è rivolto agli studenti delle scuole del primo e secondo ciclo di istruzione, con il fine di promuovere lo studio e l'approfondimento della Shoah, e dei temi ad essa correlati, nelle scuole italiane. L'iniziativa coinvolge ogni anno migliaia di insegnanti e studenti. Gli autori dei lavori più meritevoli, a seguito del giudizio di una Commissione congiunta MIUR-UCEI, sono premiati ogni anno dal Presidente della Repubblica in occasione del Giorno della Memoria, in una cerimonia al Palazzo del Quirinale.
La mostra ha finora toccato Roma, Berlino, Bari, Firenze Torino, Ferrara, Pisa e Palermo, ottenendo un notevole riscontro di pubblico, in particolare scolaresche che possono trarre utili spunti per i percorsi didattici. La varietà e la qualità dei lavori esposti, è molto ampia e mostra come un tema così delicato e complesso possa essere sviluppato attraverso diverse tecniche artistiche e multimediali: lavori grafici e pittorici, cartelloni, disegni a mano, collage, quadri ad olio, installazioni, album di vario genere e dimensioni, "valigie della memoria", cortometraggi, ma anche pregevoli lavori di ricerca storico-documentale - talvolta supportati da documenti inediti - che molti istituti hanno prodotto negli anni, spesso legati alle vicende del proprio territorio. I temi sviluppati sono vari: le ricostruzioni di testimonianze, la lacerazione del tessuto sociale conseguente alle leggi razziali del '38, le forme di resistenza ebraica e civile alla dominazione nazista, il ritorno dai campi di sterminio e la necessità della trasmissione della memoria di quanto accaduto, il negazionismo, il processo di Norimberga, i Giusti tra le Nazioni e fatti di attualità relativi a nuove forme di razzismo e discriminazione. È infatti importante segnalare che negli ultimi anni gli studenti hanno dimostrato una particolare attenzione verso nuove forme di intolleranza nei confronti del "diverso".

(ANSAmed, 19 marzo 2019)


Attentato in Cisgiordania

Le turbolenze interne nella Striscia e il timore di nuove violenze dopo il lancio di razzi da Gaza verso Tel Aviv, giovedì - secondo l'esercito israeliano un errore durante un'esercitazione -, arrivano a poche settimane dalle elezioni del 9 aprile In Israele. La tensione è salita ieri anche in Cisgiordania, quando un terrorista palestinese ha accoltellato, uccidendolo, un soldato lungo una strada nei pressi dell'insediamento israeliano di Ariel. L'uomo ha poi sottratto al militare morto il fucile, utilizzandolo contro automobili di passaggio, e ferendo due persone, prima di scappare. In serata le forze dell'ordine israeliane erano ancora sulle tracce del fuggitivo. Il premier Benjamin Netanyahu ha detto d'essere «fiducioso» nell'operato della sicurezza nel catturare «i terroristi». Da Gaza, Hamas e Jihad islamico hanno lodato l'attentatore, ma non rivendicato l'attentato, facendo temere per la ripresa di una stagione di attacchi armati di «lupi solitari» palestinesi, come tra 2015 e 2016.

(La Stampa, 18 marzo 2019)


La Corte Suprema Israeliana dice no alla candidatura di Ben-Ari

Michael Ben-Ari, leader del partito di destra 'Otzma Yeudit'
La Corte Suprema israeliana ha bocciato la candidatura di Michael Ben-Ari, leader del partito della destra radicale 'Otzma Yeudit', alle prossime elezioni del 9 aprile a causa della sua ideologia anti araba e della sua istigazione.
La Corte - con una sentenza che ha visto 8 voti a favore e 1 contrario - ha accettato una petizione che chiedeva il bando dalle elezioni di Ben-Ari, rovesciando una precedente decisione del Comitato centrale elettorale che aveva invece approvato la settimana scorsa la sua candidatura.
La Corte ha potuto contare sull'opinione favorevole dell'Avvocato Generale dello Stato Avichai Mandelblit che ha messo in luce la lunga storia di "grave ed estremo razzismo" di Ben-Ari.
'Otzma Yehudi' - che ha fatto un accordo elettorale con il premier Benyamin Netanyahu - concorrerà al voto ed è ritenuta un'erede delle idee del rabbino estremista Meir Kahane, la cui ideologia - hanno ricordato i media - è stata messa fuori legge in Israele.

(tvsvizzera.it, 18 marzo 2019)


Shlomo Simonsohn (1923-2019)

di Ariel Viterbo

Il mondo accademico israeliano e la comunità degli studiosi di storia degli ebrei in Italia hanno perduto lo scorso giovedì uno dei loro massimi esponenti, il professor Shlomo Simonsohn dell'Università di Tel Aviv. Nato nel 1923 a Breslavia, che ancora si chiamava Breslau e faceva parte della Germania, si trasferì con la famiglia in Eretz Israel nel 1933, laureandosi poi in storia all'Università Ebraica di Gerusalemme. Già dal suo dottorato, concluso a Londra nel 1952, si avvicinò alla ricerca nel campo della storia degli ebrei in Italia, scrivendo una tesi su Leone Modena. La sua carriera accademica si compì interamente all'Università di Tel Aviv, nella quale cominciò ad insegnare storia ebraica nel 1955, proprio all'avvio dell'ateneo. Oltre all'insegnamento ricoprì numerosi incarichi accademici e pubblici, fra i quali quello di Direttore della Biblioteca Centrale, fondatore e direttore dell'Istituto di ricerca sulla diaspora (Diaspora Research Institute), Decano della Scuola di Giudaistica (School of Jewish Studies), Rettore dell'Università, cofondatore e membro del Consiglio Direttivo del Museo della diaspora (Bet hatfutsot). Ufficiale nell'esercito israeliano, combattè in tutte le guerre dal 1948 al 1973. Nel corso della sua carriera ricevette numerosi premi e riconoscimenti, fra i quali il titolo di Commendatore della Repubblica italiana e la laurea honoris causa dell'Università di Bologna.
   Difficile esagerare la centralità e l'importanza della sua opera nel campo della ricerca sulla storia degli ebrei in Italia, dall'antichità alla prima emancipazione. Dopo la tesi su Modena, del quale pubblicò due opere inedite, affrontò la storia degli ebrei a Mantova, studiata in un libro uscito in ebraico nel 1962-1964 e in inglese nel 1977, opera tuttora fondamentale e paradigmatica nella sua rigorosità e ampiezza. Ma il contributo fondamentale di Simonsohn alla ricerca fu senz'altro la fondazione nel 1979, nel quadro dei rapporti bilaterali con l'Italia, del progetto di ricerca Italia Judaica, da lui diretto fino alla sua scomparsa. Il progetto, nel quale Simonsohn coinvolse numerosi studiosi italiani e israeliani, comprende quattro sezioni: The Documentary History of the Jews in Italy, serie di volumi nei quali sono pubblicati, con rigorosi apparati scientifici, i documenti sulla storia degli ebrei in Italia dal periodo antico alla fine del diciottesimo secolo, documenti rintracciati negli archivi pubblici italiani; la Biblioteca italo-ebraica, una bibliografia di tutti gli studi per la storia degli ebrei in Italia, con la quale proseguì l'opera di precedenti studiosi come Attilio Milano e Aldo Luzzatto; il Lessico storico geografico degli ebrei in Italia, una sorta di enciclopedia su tutte le località nelle quali vissero gli ebrei in Italia, disponibile oggi online; infine i convegni internazionali di studio, svoltisi in Italia e in Israele.
   Della Documentary History of the Jews in Italy sono usciti trentatrè volumi, più della metà dei quali, quelli sugli ebrei del Ducato di Milano e della Sicilia, curati personalmente da Simonsohn. Il grande insegnamento alla base di questi volumi e dell'intero progetto Italia Judaica è che per scrivere di storia occorre raccogliere tutti i documenti esistenti, confrontarsi con tutta la ricerca precedente, inserire i materiali nel contesto più ampio possibile e solo alla fine di questo sisifico lavoro, provare a trarre le conclusioni. Così la vasta monografia di Simonsohn sugli ebrei in Sicilia (Tra Scilla e Cariddi: storia degli ebrei in Sicilia) è uscita (in tre lingue: italiano, ebraico, inglese) solo nel 2011, al termine della pubblicazione di diciassette volumi di documenti.
   In parallello e quasi come complemento al lavoro sugli ebrei in Italia, Simonsohn curò anche una serie di otto volumi nei quali pubblicò i documenti papali riguardo gli ebrei, dall'anno 492 al 1555: The Apostolic See and the Jews. Anche in questo caso, la monografia seguì la pubblicazione dei documenti.
   Con Simonsohn se ne va uno dei maggiori protagonisti della ricerca sulla storia degli ebrei in Italia, ideatore e promotore di numerose e importanti iniziative in questo campo, guida e maestro di coloro che si avventurarono e si avventureranno nei sentieri dello studio della nostra storia. Sentieri che Simonsohn, con meticolosa pazienza e rigorosa precisione, ha reso più agibili.

(moked, 18 marzo 2019)


Quei missili sparati da Gaza su Israele dicono molte cose

di Ugo Volli

Giovedì scorso due missili iraniani Fajir sono stati sparati da Gaza su Tel Aviv, arrestati dal provvidenziale sistema Iron Dome. Era la prima volta dal 2014. L'aviazione israeliana ha replicato subito colpendo un centinaio di obiettivi militari in Gaza, senza però provocare vittime: una mossa di serio avvertimento che derivava dalla valutazione poi pubblicata dallo stato maggiore per cui i lanci erano stati "un errore", o più probabilmente l'iniziativa di terroristi di basso livello, senza l'indicazione della dirigenza di Hamas. Infatti non vi sono state risposte alla rappresaglia israeliana e addirittura Hamas ha impedito i soliti assalti di massa alla frontiera che da un anno vanno in scena tutti i venerdì. L'episodio sembra dunque chiuso. Ma insegna alcune cose interessanti. In primo luogo non è vero che Israele abbia perduto la sua deterrenza su Hamas, come si è affrettato a dichiarare Gantz facendo eco da sinistra alle critiche che a Netanyahu erano state fatte la scorsa crisi dall'estrema destra. La gestione oculata delle crisi da parte del governo e dell'esercito israeliano è ancora capace di contenere i terroristi senza affrontare i costi politici e umani di un'operazione militare. La seconda lezione è che i terroristi possono ancora minacciare il centro di Israele grazie ai rifornimenti e all'appoggio che fornisce loro l'Iran. Hamas, come Hezbollah, agisce come un distaccamento mercenario per gli ayatollah. La terza lezione è la dimostrazione pratica che le manifestazioni del venerdì sono totalmente controllate da Hamas e fanno per te del suo arsenale, come i razzi e il terrorismo "popolare" in Israele. La quarta lezione è che Abbas e la sua Autorità Palestinese non hanno alcun controllo su Gaza; chi ha qualche influenza sulla situazione della striscia è l'Egitto, che vi agisce in accordo con Israele e al contrario il Qatar, in proprio e come strumento dell'Iran.

(Shalom, 17 marzo 2019)


Nuova Zelanda - La Federazione ebraica ricambia la gentilezza verso la comunità musulmana

Quando un uomo armato ha ucciso 11 persone in una sinagoga a Pittsburgh l'anno scorso, le comunità musulmane della zona hanno raccolto centinaia di migliaia di dollari per le vittime. Ora la comunità ebraica di Pittsburgh sta contraccambiando la gentilezza dopo un massacro in due moschee in Nuova Zelanda.

La Nuova Zelanda piange dopo che un uomo armato ha aperto il fuoco venerdì a due moschee nella città di Christchurch, uccidendo almeno 50 persone e ferendone a dozzine. Le autorità della nazione hanno detto che l'attacco terroristico è stato effettuato da un uomo che ha pubblicato un manifesto razzista online.
Dopo la sparatoria di massa, la Federazione ebraica di Greater Pittsburgh ha istituito un fondo per le vittime. "Purtroppo siamo tutti troppo familiari con l'effetto devastante che una sparatoria di massa ha su una comunità di fede", ha detto Meryl Ainsman, presidente del consiglio della Jewish Federation of Greater Pittsburgh. "Siamo pieni di dolore per questo insensato atto di odio: che quelli che sono stati feriti guariscano rapidamente e pienamente, e che i ricordi delle vittime siano per sempre una benedizione".
Proprio come dopo le riprese di ottobre alla Sinagoga dell'Albero della Vita, fedi e culture diverse si sono unite nel dolore e nella solidarietà. L'anno scorso, la campagna di crowdfunding "Muslims Unite for Pittsburgh Synagogue" ha raccolto più di $ 200.000 per aiutare le vittime del tiro.
"Siamo solidali con la comunità musulmana di Christchurch, a Pittsburgh e in tutto il mondo", ha affermato la Federazione ebraica.

(CNN, 17 marzo 2019)


Un israeliano è stato ucciso in un attacco compiuto da un palestinese in Cisgiordania

 
Un portavoce dell'esercito israeliano ha detto che domenica c'è stato un attacco vicino all'insediamento israeliano ad Ariel, in Cisgiordania, nel quale è stato ucciso un cittadino israeliano. Altre due persone sono state ferite in maniera seria.
L'assalitore, che l'esercito israeliano ha identificato come un uomo palestinese, è riuscito a scappare e al momento è ancora ricercato. Le forze di sicurezza israeliane hanno bloccato l'accesso alle cittadine palestinesi vicine al luogo dove è avvenuto l'attacco e hanno messo in piedi blocchi stradali per cercare di arrestare l'assalitore. I media palestinesi scrivono che l'esercito israeliano ha fatto un'operazione vicino alla cittadina di Burquin, a nord di Ariel, e che c'è stata una sparatoria. Per ora non si hanno altre informazioni al riguardo.
Secondo la ricostruzione dell'esercito israeliano, l'assalitore avrebbe accoltellato e ucciso un uomo verso le 10 di questa mattina al centro commerciale di Ariel. Poi gli avrebbe rubato la pistola, con la quale avrebbe sparato contro alcuni veicoli che passavano nella zona, ferendo altre due persone.

(il Post, 17 marzo 2019)


Argentina: arrestati due iraniani con falsi passaporti israeliani. E' allarme

Inquietante episodio in Argentina dove una coppia di iraniani che viaggiava con falsi passaporti israeliani è stata arrestata dalle autorità. Oggi ricorre l'anniversario dell'attentato all'ambasciata israeliana di Buenos Aires che nel 1992 fece 29 morti e 242 feriti e per questo è stato alzato il livello di allarme.

Una coppia di iraniani è stata arrestata in Argentina con l'accusa di essere entrati nel paese con passaporti falsi probabilmente con finalità terroristiche, ipotesi rafforzata dal fatto che oggi ricorre l'anniversario dell'attentato all'ambasciata israeliana di Buenos Aires che nel 1992 fece 29 morti e 242 feriti.
I due iraniani sarebbero Sajjad Naserani, 27 anni, e Mahsoreh Sabzali, 30 anni, arrestati la scorsa settimana dopo essere entrati in Argentina con un volo proveniente dalla Spagna usando due passaporti falsi intestati a Netanel e Rivka Toledano anche se l'ID del passaporto in realtà corrisponde a una coppia franco-israeliana di nome David e Brigitte Assouline....

(Rights Reporters, 17 marzo 2019)



Per entrare nella gloriosa libertà dei figli di Dio

Io ritengo che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria che dev'essere manifestata a nostro riguardo. Poiché la creazione aspetta con impazienza la manifestazione dei figli di Dio; perché la creazione è stata sottoposta alla vanità, non di sua propria volontà, ma a motivo di colui che ve l'ha sottoposta, nella speranza che anche la creazione stessa sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella gloriosa libertà dei figli di Dio. Sappiamo infatti che fino a ora tutta la creazione geme ed è in travaglio; non solo essa, ma anche noi, che abbiamo le primizie dello Spirito, gemiamo dentro di noi, aspettando l'adozione, la redenzione del nostro corpo. Poiché siamo stati salvati in speranza. Or la speranza di ciò che si vede, non è speranza; difatti, quello che uno vede, perché lo spererebbe ancora? Ma se speriamo ciò che non vediamo, l'aspettiamo con pazienza.

Dalla lettera dell'apostolo Paolo ai Romani, cap. 8


 


Lucca, imbrattata la targa dedicata all'allenatore ebreo

La firma di un gruppo della curva, il sindaco: «Fascisti». L'offesa a Erbstein «La sua famiglia è rimasta molto legata alla nostra città. Chi ha commesso questo sfregio alla memoria deve vergognarsi»

di Simone Dinelli

LUCCA - Una macchia nera realizzata con una bomboletta spray e due adesivi con la scritta «Lmg», sigla che sta per «La meglio gioventù», gruppo di ultras della Lucchese. E quanto apparso nella notte fra venerdì e sabato sul cartello che indica la piazza intitolata a Erno Erbstein, nelle vicinanze del palazzetto dello sport.
   Un gesto che ha fatto letteralmente infuriare il sindaco Alessandro Tambellini, che in un duro post sulla sua pagina Facebook ha parlato senza mezzi termini di «vergogna» attaccandone gli autori e in generale la frangia di estrema destra presente nella parte più calda del tifo rossonero. Erbstein era un allenatore ungherese entrato nella storia del calcio a Lucca per aver preso — negli anni Trenta — la squadra in Serie C e averla portata fino alla Serie A, dove le fece conquistare anche un settimo posto a pari merito con l'Ambrosiana Inter.
   La promulgazione delle leggi razziali — Erbstein era di origini ebraiche — lo costrinse però a lasciare la città nel 1938 assieme alla famiglia per poi spostarsi dopo la Seconda guerra mondiale in Piemonte, dove avrebbe trovato la gloria sportiva del Grande Torino e la morte nella tragedia di Superga del 4 maggio 1949. Nelle scritte sul cartello della piazza che porta il suo nome Tambellini ha visto dunque un messaggio politico: «Estrema destra strisciante — tuona il sindaco — gente che inneggia al duce e al fascismo e che occupa una parte della curva della Lucchese, senza però conoscere la storia gloriosa della squadra per cui tifa. Erbstein, oltre a rappresentare uno dei migliori testimoni di quella scuola ungherese del calcio che ha portato innovazione e avanguardia, è l'allenatore che ha condotto la Lucchese ai massimi livelli, facendola diventare in quegli anni una delle squadre più forti d'Italia».
   «Erbstein — prosegue il primo cittadino — amava Lucca, Così come la ama la figlia Susanna. Furono costretti a lasciare la città e l'Italia a causa delle leggi razziali, passare tutto il peggio possibile a causa del fascismo e del nazismo, per poi tornare e rinascere, più forti e orgogliosi. Più forti e orgogliosi della vigliaccheria, dell'ignoranza, dell'odio. Più forti e orgogliosi di una bomboletta spray o degli adesivi che vorrebbero cancellare il loro nome. Vergogna».
   Da parte del gruppo «La meglio gioventù» non è arrivato alcun commento ufficiale sul gesto, anche se diversi tifosi sui social hanno cercato di smontare il caso spiegando come sotto agli adesivi degli ultrà fosse già presente un adesivo di colore giallo, riconducibile a una squadra di calcio lucchese di Terza categoria — la Trebesto —. Nel novembre del 2017 esponenti del gruppo di maggioranza dell'amministrazione Tambellini avevano manifestato la volontà di intitolare la curva Ovest — quella ultras — proprio all'allenatore magiaro. Altre voci della città avevano chiesto che gli venisse dedicato l'intero stadio, ma per adesso non se ne è fatto nulla.

(Corriere fiorentino, 17 marzo 2019)


Antisemitismo in crescita nei Paesi Bassi

di Nathan Greppi

 
Ebrei al campo di concentramento nazista di Vught per commemorare i bambini ebrei lì imprigionati durante la seconda guerra mondiale
Martedì 12 marzo il CIDI, una ONG ebraica olandese, ha pubblicato un rapporto secondo il quale gli episodi di antisemitismo nei Paesi Bassi, dove vivono circa 30.000 ebrei, sono cresciuti nell'ultimo anno.
   Secondo Algemeiner, nel 2018 gli insulti e le aggressioni di stampa antisemita sarebbero aumentati del 19% rispetto all'anno precedente. In totale, sarebbero 135 gli episodi, ai quali si aggiungono 95 casi di antisemitismo su internet. Secondo il CIDI risulta che molti ebrei olandesi abbiano subito ingiurie da colleghi da lavoro, compagni di scuola e vicini di casa. "Il più drastico aumento è stato registrato in incidenti che coinvolgono persone a loro vicine," si legge nel rapporto. "In questa categoria l'aumento è del 67% rispetto all'anno scorso (da 24 nel 2017 a 40 nel 2018)." Il rapporto sottolinea il fatto che questo genere di casi è arrivato al suo numero più alto degli ultimi 10 anni.
   È emerso anche che "solo il 25% di chi ha risposto (al sondaggio) in Olanda denuncia episodi di antisemitismo alla polizia, ad altre agenzie governative o a ONG come il CIDI." Si legge inoltre che "il 41% di tutti gli episodi di discriminazione (in Olanda) riguardano l'antisemitismo." In molti casi avvengono anche durante le partite di calcio, quando è facile sentire allo stadio la parola "Jood" (ebreo) usata in senso dispregiativo.
   Per contrastare il fenomeno, il CIDI chiede che i nuovi immigrati nel paese vengano educati sulla storia della comunità ebraica locale, in quanto spesso vengono da paesi mediorientali dove l'antisemitismo è molto diffuso. Il CIDI ha concluso il rapporto con queste parole: "Quando l'antisemitismo si manifesta - per strada, a scuola, su internet - è importante che le persone lo denuncino apertamente. Non dobbiamo considerare l'antisemitismo una cosa normale."
   L'Olanda non è l'unico paese europeo dove l'antisemitismo è aumentato nell'ultimo anno: in Francia, ad esempio, gli episodi sono aumentati del 74% rispetto al 2017, mentre in Germania sono aumentati del 60%. Nel Regno Unito, invece, il numero è salito del 16%.

(Bet Magazine Mosaico, 15 marzo 2019)


Milano - Torna a fiorire il Giardino dei Giusti

di Cristina Carpinelli

«Vedendo come sono i lavori mi chiedo se non ci sarebbe stata bene qualche polemica in meno» così il Sindaco di Milano Sala inaugurando il giardino dei Giusti del mondo a Milano. Il riferimento è al blocco dei lavori voluto dal ministero dei beni culturali e anche alle molte tensioni createsi attorno alla comunità ebraica. Un'inaugurazione che ha portato a celebrare i nomi di Istvan Bibo, intellettuale ungherese, coscienza critica della nazione sulle collusioni del Paese con il nazismo , Simone Veil, ebrea francese sopravvissuta alla Shoah, prima donna Presidente del Parlamento europeo, Wangari Maathai, attivista e ambientalista keniota, prima donna africana a ricevere il Premio Nobel per la pace, Denis Mukwege, medico congolese, da anni dedica la sua vita ad assistere le donne vittime dello "stupro come arma di guerra" Premio Nobel per la Pace nel 2018.

(Radio24, 17 marzo 2019)


Gaza: tv, cessate il fuoco Hamas-Israele

Grazie alla mediazione dell'Egitto. Manca conferma da parte Israele

Grazie alla mediazione egiziana Hamas e Israele hanno raggiunto un cessate il fuoco a distanza di 12 ore dai primi lanci di razzi contro Tel Aviv e il sud del paese. Lo dice la tv israeliana Kan - riferita da Times of Israel - riprendendo notizie simili apparse sui media palestinesi. Non c'e' al momento conferma da parte di fonti ufficiali israeliane.

(ANSA, 16 marzo 2019)


Dopo i razzi su Tel Aviv mediazione egiziana fra Israele e Hamas

di Vincenzo Nigro

In piena campagna elettorale, con l'intero Paese impegnato a seguire la battaglia politica fra il premier uscente Benjamin Netanyahu e lo sfidante Benny Gantz, giovedì notte Israele è arrivato ancora una volta a un passo da una nuova guerra con Hamas. I due razzi lanciati da Gaza erano diretti verso Tel Aviv. Sono atterrati senza fare danni in aree disabitate. Ma lo choc è stato grande: dal 2014, l'anno in cui infuriò l'ultima guerra con Hamas, non erano più arrivati razzi nella capitale economica del Paese. Per ritorsione Israele ha colpito 100 obiettivi di Hamas nella Striscia, postazioni che erano tutte state abbandonate dai miliziani per cui non ci sarebbe stata nessuna vittima. Ieri mattina una tregua di fatto è stata annunciata da media che avevano parlato con fonti dell'intelligence egiziana. Gli egiziani erano già dentro Gaza, impegnati nell'opera di mediazione fra Israele e il movimento palestinese islamico. I giornali israeliani hanno riferito la versione secondo cui i 2 missili sarebbero stati lanciati per errore, forse erano sotto manutenzione. Gantz, l'ex generale che sfida Netanyahu nel voto del 9 aprile ha detto che Israele ha «perso la capacità di deterrenza nei confronti di Hamas». L'alternativa però sarebbe stata una guerra adesso, a 3 settimane dal voto.

(la Repubblica, 16 marzo 2019)


Quei piatti italiani nati nei ghetti degli ebrei

Tortelli di zucca, orecchiette con cime di rape, sarde in saor e altre delizie sono frutto di contaminazioni con la cucina giudea. Numerose ricette sono state messe a punto nelle corti medievali. Perfino il cacciucco avrebbe avuto la benedizione di un rabbino.

I limiti posti da Paolo IV su carne e pesce all'origine dei carciofi fritti Della carbonara due versioni: con carne di manzo o zucchine e grana

di Giancarlo Saran

 
Le sarde in saor sono nate nel ghetto di Venezia. Arricchite con uvetta e pinoli, sono diventate il simbolo della Festa del Redentore
L'Italia è un Paese dalla lunga storia, frutto di contaminazioni con culture diverse. È curioso notare come molte elaborazioni, che noi diamo per acquisite, abbiano una matrice ebraica. In Piemonte questa presenza è stata importante, con la vicina Lomellina lombarda. Matrice comune l'allevamento dell'oca, con diverse elaborazioni arrivate sino a noi, anche se ormai il salame d'oca di Mortara, nel suo disciplinare Igp, prevede anche l'utilizzo della carne suina. Altra specialità il collo ripieno, che si può trovare in diverse varianti. Nella pianura lombarda i tortelli di zucca sono l'orgoglio di ogni campanile, eppure anche qua c'è lo zampino ebraico. I Gonzaga vollero per le loro cucine il meglio dei cuochi europei. Molti di questi erano giudei i quali, unendo alla tradizione della pasta sfoglia la loro cultura con la zucca protagonista, fecero sì che questa preparazione si diffondesse poi nel territorio.
  A Venezia è sorto il primo ghetto europeo, nel 1516, e se a questo aggiungiamo gli importanti commerci di spezie con le rotte orientali, ci si spiega l'origine di molti piatti, a iniziare dalle sarde in saor (conservate sotto cipolla per l'alimentazione dei marinai in navigazione), ma arricchite con uvetta e pinoli, che incontreremo anche nelle carote sofegae. La tecnica del saor poi si diffuse anche a radicchio, zucca, scampi. Sarde in saor che lo storico Bepo Maffioli ricorda come simbolo della Festa del Redentore, la terza domenica di luglio. Oca protagonista anche a Nordest, con le gribole (la pelle d'oca fritta) intrigante contraltare ai ciccioli suini. Ma è lungo l'elenco dei piatti con la benedizione del rabbino, quali ad esempio in bigoli in salsa (con sardine e cipolla) o l'oca in onto, grande classico della bassa padovana. Zucca protagonista, fritta o desfada (una crema con zucchero e pinoli), per non parlare della suca baruca, una zucca marina di Chioggia, protagonista di un episodio delle Baruffe Chiozzotte di Carlo Goldoni.
  Scendendo lungo la costiera adriatica una tappa d'obbligo è a Ferrara, le cui storie del ghetto sono state rese immortali dalle vicende dei Finzi Contini, raccontate da Giorgio Bassani. Qui troviamo lo storione del Po, le cui uova erano diventate oggetto di culto, in epoca rinascimentale raccontate da Cristofaro di Messisbugo, cuoco degli Estensi, e riprese poi, negli anni Trenta, da Benvenuta Ascoli, della Nuta, con bottega nel ghetto ebraico. Erano talmente ricercate da far concorrenza al più blasonato caviale ed esportate pure all'estero. Dopo varie peripezie la ricetta è giunta ai giorni nostri, come ben raccontato in un bel libro da Michele Marziani. La particolarità era che queste uova venivano cotte nel forno a fuoco bassissimo, sì da acquisire un intrigante retrogusto di nocciola. Un'altra storia curiosa è quella della spongata, o torta degli ebrei, tibuia, con capitale Finale Emilia. Un impasto di farina, burro e parmigiano. Era uno dei segreti custoditi con orgoglio dalle famiglie ebraiche, sino a che tale Mandolino Rimini, nel 1861, si invaghì di una ragazza cristiana. La famiglia di lui, contraria alle nozze, lo allontanò di casa e lui sostituì il grasso d'oca con il burro divulgando la ricetta della tibuia a tutto il territorio. Il foie gras d'oca è un patrimonio culinario che si ritrova in tutta la dorsale Nord appenninica, tanto da arrivare sino ad Ancona, dove si dice fosse complice d'alcova tra Giacomo Casanova e una fascinosa bellezza ebraica del luogo.
  Scendendo in Puglia altra sorpresa. Qui le orecchiette con le cime di rapa sembra siano dovute a una riuscita contaminazione portata da ebrei provenzali nel medioevo. Uno dei simboli del cibo di strada siciliano è il pani cà meusa (il panino con la milza). Al tempo gli ebrei palermitani che lavoravano nei macelli non venivano pagati con moneta, ma con avanzi delle interiora. Da lì a inventarsi la golosità da passeggio il passo fu breve. A Roma c'è la più antica comunità ebraica del mondo occidentale. Con l'editto del 12 luglio 1555 Paolo IV istituì il ghetto, cui giunsero anche comunità in fuga dalla penisola iberica e dalla Sicilia. Molte le limitazioni. Era proibito l'uso di carni ricercate e anche sul pesce i paletti erano stretti. Far di necessità virtù divenne un imperativo quotidiano. Ecco allora affermarsi piatti senza tempo, come i carciofi alla giudia, la cui irresistibile croccantezza è dovuta ad un doppio passaggio in olio bollente, ma anche le melanzane fritte, le triglie alla mosaica (con uvetta e pinoli), gli aliciotti con l'indivia, il baccalà alla romana, fritto e ripassato in salsa di pomodoro e, ancora, la pasta e broccoli con il brodo di arzilla (razza), l'agnello alla giudia, con carciofi e fave. Ma era con le frattaglie che si conciliava il gusto con le penitenze imposte: ecco allora la milza in padella, le animelle con i ceci, la trippa con l'agliata. E pure sui dolci non si scherzava: su tutti il tortolìcchio, considerato afrodisiaco, con mandorle, miele, anice e arancia e, ancora, la pizza di Beridde, con uvetta, frutta secca e candita e la nocchiata, una sorta di torrone di noci, mandorle e nocciole fritte nel miele.
  Risalendo in Toscana il riferimento va a Livorno che, nell'Ottocento, diventò la più importante comunità ebraica nazionale. L'unica città che non volle mai istituire un ghetto, tanto è vero che vi giunsero molte famiglie in fuga dalle miserie romane. Baccalà protagonista, classico l'abbinamento con i fagioli. Alici a scapece, minestra di lenticchie, di contaminazione romana il pasticcio di cervella e carciofi. Il cuscussù è una rielaborazione frutto dell'arrivo di comunità in fuga dalla Sicilia che, a loro volta, avevano assimilato il cous cous arabo, cui venne aggiunto il locale rosmarino. Mirabile l'ode dedicata da Angiolo Oliviero, con un passaggio che la dice lunga: «Onde sentor d'Etruria / io colgo nel sapore dei deserti». Rosmarino anche in un'altra leccornia locale, i panini ramerini. Pare che lo zampino giudeo sia presente pure nella nascita del cacciucco, originariamente solo una zuppa di merluzzo, cui in seguito vennero aggiunti ingredienti non kosher, crostacei e molluschi: ecco che la comunità locale rispose arricchendolo con pomodoro e aromi vari.
  Passando dalla costa tirrenica alla Toscana interna è un tripudio dolciario. Si potrebbe iniziare con Ortensio Lando che già a metà del Cinquecento segnalava come Jacob di Consiglio, il più importante banchiere ebreo di Siena, inviava del marzapane a Cosimo dè Medici, quale omaggio identificante che ben sottolineava, al ricevente, la qualità del donatore. Ma poi troviamo il biancomangiare, con latte di mandorle e riso o la pignoccata, con pinoli e cedro candito. Dna giudaico che incrociamo in preparazioni entrate stabilmente nei manuali di cucina: dallo scapece, pesce fritto poi marinato in aceto con spezie e aromi, al carpione, dove prima avviene la marinatura in salamoia con aceto, e poi la frittura. L'amatriciana (alla giudea) la si può gustare usando la carne di manzo al posto di quella di maiale e facendo un fioretto saltando il formaggio. Così pure la carbonara, rielaborata in due varianti. La si può servire bassari (a base di carne) sostituendo la pancetta con carne secca di manzo, uova e non formaggio, oppure halavi (di latte), carburata di grana e usando le zucchine fritte al posto della pancetta.

(La Verità, 16 marzo 2019)


Iran sta conducendo esercitazioni militari con droni nello Stretto di Hormuz

Il Corpo delle guardie della rivoluzione islamica (IRGC) sta effettuando un'esercitazione militare presso lo Stretto di Hormuz, per testare decine di droni RQ-170, di manifattura iraniana, di cui alcuni armati.
Tale modello di velivoli è stato prodotto su esempio degli US Sentinel, alcuni dei quali vennero catturati dalle forze iraniane nel 2011 in prossimità del confine con l'Afghanistan, presso la città iraniana di Kashmar. Si tratta dell'esercitazione Towards al-Quds 1.
La notizia è stata divulgata dall'agenzia di stampa nazionale ISNA, la quale ha specificato che si tratta della prima volta in cui Teheran conduce una simulazione impiegando un numero così alto di droni. Come riferito da generale Amir Ali Hajizadeh, della divisione aerospaziale delle guardie iraniane, l'Iran possiede la flotta di droni da guerra più grande della regione. Tali velivoli a pilotaggio remoto possono volare per oltre 1.000 km per colpire il loro obiettivo.
Si tratta della terza esercitazione militare che l'Iran compie dall'inizio del 2019. La prima è avvenuta nel mese di gennaio ed ha coinvolto 12.000 truppe. La seconda simulazione, invece, ha avuto luogo il 21 febbraio, data in cui la Marina iraniana ha effettuato l'esercitazione Velayat 97, su larga scala, nello Stretto di Hormuz e nel Mare dell'Oman, conducendo quello che al-Jazeera English ha definito "una dimostrazione di forza nel bel mezzo delle crescenti tensioni nella regione con gli Stati Uniti".
Per la prima volta, le manovre militari hanno compreso il lancio di missili da un sottomarino. Nei giorni precedenti, il presidente Hassan Rouhani aveva inaugurato il sottomarino Fateh che, secondo l'esercito iraniano, è capace di lanciare missili da crociera ed è equipaggiato con torpedoni e un sistema di precisione. È altresì in grado di rimanere sott'acqua per oltre 5 settimane.

(Sicurezza Internazionale, 16 marzo 2019)


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