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Notizie 16-31 marzo 2021


Israele: le trattative per il governo influenzate dall'accordo tra Cina e Iran?

di Massimo Caviglia

In attesa del 7 aprile, quando il Presidente Rivlin affiderà l'incarico di formare il governo, fervono le trattative post elettorali tra i partiti israeliani per consentire al blocco anti-Netanyahu o alla coalizione favorevole al premier di ottenere la maggioranza. Dopo l'appoggio scontato al leader centrista Lapid da parte dei laburisti e dei socialisti del partito Meretz, oltre che dal leader di centro Gantz, è giunto anche l'ok del partito di destra di Lieberman e quello di Saar, ex Likud. Con i 7 deputati del terzo leader di destra Bennett la coalizione raggiungerebbe 64 seggi, 3 in più di quelli utili per la maggioranza in Parlamento. Netanyahu invece sembra avere ormai poche chances, nonostante l'ipotetico l'aiuto di Bennett, dato che il partito arabo Raam gli ha negato il suo appoggio. Il premier ha così tentato di offrire a Gideon Saar tramite il Likud qualsiasi posto desideri nel governo, sostenendo che sarebbe un trampolino di lancio nel dopo-Netanyahu, invece di rimanere schiacciato tra Gantz, Lapid e la sinistra.
   Ma "Bibi" sembra dare per scontato che Bennett e Saar tornino ad appoggiare un suo governo, mentre i leader dei due partiti di destra avevano promesso al proprio elettorato che avrebbero fatto di tutto per sostituire il premier. Avevano anche giurato che non avrebbero fatto parte di un governo insieme ai partiti arabi, il che renderebbe loro difficile supportare Lapid, a meno che gli islamisti di Raam e la Lista araba unita non forniscano solo un appoggio esterno. Inoltre Bennett vorrebbe ottenere il ruolo di Primo Ministro, mentre la coalizione preferirebbe indicare Lapid quale premier, ma alla fine potrebbero accordarsi su una rotazione a metà mandato. Però una notizia forse influenzerà le trattative di questi giorni: a Teheran i ministri degli Esteri di Cina e Iran hanno firmato un accordo di cooperazione militare ed economica per 400 miliardi di dollari. Teheran fornirà petrolio a Pechino a prezzi molto bassi per i prossimi 25 anni e la Cina realizzerà strade, porti e reti di comunicazione telematica. La componente militare includerà lo sviluppo congiunto di armi. Il progetto tende ad espandere l'influenza economica e politica della Cina, mentre l'Iran esce così dal tunnel delle sanzioni e acquista un partner autorevole con il quale gli Stati Uniti, ma soprattutto Israele, dovranno presto fare i conti.

(San Marino Rtv, 31 marzo 2021)


Quattro motivi per cui l'Iran non ha fretta di riattivare il JCPOA

Mentre le sanzioni volute da Donald Trump sembrano produrre i primi effetti, contrariamente a quello che si potrebbe pensare gli iraniani non hanno nessuna fretta di tornare ai colloqui sul JCPOA.

di Franco Londei

Questa settimana l'Iran ha annunciato che a causa delle sanzioni introdotte dalla Amministrazione Trump sarà costretto a chiudere la storica centrale nucleare di Bushehr, che produce elettricità, in quando impossibilitato a pagare le materie prime necessarie al suo funzionamento.
È la prima volta che Teheran ammette che le sanzioni americane funzionano, specialmente quelle che impediscono agli iraniani di avere accesso all'enormità di denaro derivante dalle vendite di petrolio passate e da quelle che potrebbero derivare dal futuro.
Se la situazione fosse normale gli americani dovrebbero gioire di questa notizia in quanto dimostrerebbe come l'Iran sia in tremenda difficoltà e che quindi pur di togliere le sanzioni sarebbe disposto a sedersi al tavolo delle trattative con gli Stati Uniti.
Ma non è così. Prima di tutto perché dopo tre anni di sanzioni durissime l'economia iraniana non è crollata come gli esperti credevano. Poi perché con il recente accordo con la Cina l'Iran ha sostanzialmente trovato il modo di aggirare le sanzioni.

 Il tempo gioca a favore degli Ayatollah
  Come detto più volte, arrivati a questo punto è molto difficile che l'Iran faccia marcia indietro e questo per quattro validissimi motivi.
Il primo è perché mentre le diplomazie cercano di trovare una soluzione diplomatica (ancora non sono riusciti nemmeno a organizzare un incontro preliminare), l'Iran continua spudoratamente a violare gli accordi e a produrre uraniano altamente arricchito al 20% e forse oltre. E intanto testa nuovissime centrifughe sempre più veloci.
Il secondo motivo è l'imminente scadenza dell'accordo tra l'Iran e l'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (AIEA), accordo che scadrà tra due mesi. Difficilmente Teheran lo rinnoverà e così gli ispettori della AIEA in Iran non potranno più entrare nemmeno in un bar.
Il terzo motivo sono le elezioni presidenziali che in Iran si terranno tra due mesi. È molto probabile, praticamente certo, che a vincerà saranno i falchi, quelli cioè più vicini al Grande Ayatollah Ali Khamenei che osteggiano qualsiasi accordo con gli Stati Uniti.
Il quarto motivo è che ogni giorno che passa consente agli iraniani di portare avanti e migliorare il loro programma balistico, l'arma più importante che hanno in questo momento.

 La guerra ombra tra Israele e Iran
  A tutto questo ci sarebbe da aggiungere un quinto elemento. I due paesi sono in guerra ormai da anni, anche se si tratta di una guerra ombra. Di recente questa guerra si è spostata anche sul mare con due navi israeliane attaccate dai pasdaran iraniani (vedere qui e qui) e diverse petroliere danneggiate dagli israeliani.
Recenti immagini satellitari dimostrano che i Guardiani della Rivoluzione (IRGC o pasdaran) stanno costruendo ben tre nuove navi da guerra per sopperire in parte alla loro inferiorità rispetto a Israele. Più tempo guadagnano gli iraniani con gli americani e più riusciranno a controllare militarmente la navigazione nel Golfo Persico.

(Rights Reporter, 31 marzo 2021)


Torino - Le scuse dopo il post antisemita. la Comunità ebraica ritira la querela

La consigliera 5Stelle Amore aveva pubblicato una vignetta e commenti a sfondo razziale. Insieme con la sindaca Appendino e il senatore Airola ha scritto una lettera: dispiaciuti, comprendiamo l'indignazione. L'avvocato Tommaso Levi: "È stata compresa la gravità dell'accaduto".

di Irene Famà e Bernardo Basilici Mennini

La consigliera pentastellata Monica Amore si scusa per un post antisemita che le è costato una denuncia per diffamazione aggravata dall'odio razziale. E la Comunità ebraica ritira la querela.
   Il mea culpa arriva con una lunga lettera firmata dalla consigliera comunale, certo, ma anche dalla sindaca Chiara Appendino e dal senatore del M5S Alberto Airola. Che sin dall'inizio avevano preso le distanze dalle posizioni della collega del movimento. Pochi giorni fa c'è stato anche un incontro di chiarimento con il presidente della Comunità ebraica di Torino, Dario Disegni. Lo scorso febbraio, la consigliera Amore aveva pubblicato su Facebook un collage di testate giornalistiche del gruppo Gedi accompagnato dalla caricatura di due uomini con naso pronunciato e Kippah e una addirittura con una stella di David sulla schiena e un coltello sanguinante. «Interessante» era stato il suo commento. Si era poi difesa parlando di «un errore», di «una svista». All'incontro, racconta chi ha partecipato, è di poche parole. A risolvere la questione sono la sindaca e il senatore.
   Nella lettera si ribadisce il «dispiacere» per una serie di «abiette immagini di antisemitismo risalenti alla propaganda nazista del Terzo Reich» e si conferma «l'impegno del Movimento 5 Stelle nel prendere posizione a fianco della Comunità ebraica e di tutti coloro che vengono discriminati, nel combattere con vigore questo diffondersi d'odio sempre più spesso a carattere antisemita. Siamo ancora profondamente dispiaciuti e capiamo perfettamente l'indignazione generata da un post contenente abiette immagini di antisemitismo. Oltre a ribadire le scuse per le ignominioso accaduto vogliamo passare ai fatti, perché sappiamo bene che la sofferenza provocata non può essere lenita, ma può essere alleviata da un risoluto impegno rispetto agli attacchi alla vostra Comunità».
   Una «presa di coscienza» dicono dalla Comunità ebraica, rappresentata dall'avvocato Tommaso Levi. La denuncia verrà ritirata e il caso archiviato. «La sottovalutazione della gravità di questi episodi», però, «derubricati spesso a disattenzioni o a ragazzate, rischia di creare una sorta di assuefazione, che finisce con il rappresentare un terreno quanto mai fertile per i fenomeni di antisemitismo, razzismo e intolleranza che stanno crescendo enormemente e in modo inquietante negli ultimi tempi». Amore, sottolineano dalla Comunità ebraica, «inizialmente ne aveva sminuito la gravità, dimostrando una mancata comprensione del ruolo». Ora sembra essersene resa conto.
   
(La Stampa - Torino, 31 marzo 2021)


Firmati protocolli d'intesa tra Comunità ebraica di Roma ed EUR SpA

Martedì pomeriggio è stato firmato un importante protocollo d'intesa, di durata triennale, tra la Comunità Ebraica di Roma e l'Eur SpA, una società attiva nella gestione e nello sviluppo immobiliare del quartiere dell'EUR. La stessa società lo scorso gennaio è stata promotrice del video-mapping monumentale al Palazzo dei Congressi, in occasione della Giornata della Memoria.
   Oggetto di questo accordo è l'impegno ad utilizzare gli immobili di Eur SpA per la promozione di attività e manifestazioni culturali riguardanti la valorizzazione del patrimonio culturale ebraico. Il tutto avvalendosi della collaborazione e delle consulenze culturali della Comunità Ebraica di Roma, il quale assicurerà tutto il materiale necessario per la progettazione delle varie iniziative.
   "Questo protocollo è frutto di un lungo lavoro durato quasi due anni, di conoscenza e confronto diretto con la Presidente Dureghello" ha detto il Presidente della Eur SpA Alberto Sasso, spiegando che l'idea era di "creare un ponte tra la Comunità Ebraica e la sua storia, ed Eur SpA e il quartiere dell'EUR".
   "Questo è un momento che io definisco straordinario, che speriamo sia propedeutico a tante iniziative culturali" ha aggiunto il Presidente Sasso. Anche l'Assessore alla Cultura della Comunità Ebraica di Roma Giordana Moscati, ha sottolineato l'importanza di questo accordo, spiegando inoltre che "ci sono già diversi progetti ed iniziative in cantiere in collaborazione con la Eur SpA" con l'obiettivo di promuovere la cultura ebraica mostrando "un ebraismo vivo e una comunità vivace".
   A firmare i protocolli d'intesa la Presidente Ruth Dureghello, il Presidente Alberto Sasso e l'Amministratore Delegato Antonio Rosati di Eur SpA. Presenti all'incontro, oltre all'Assessore alla Cultura, anche l'Assessore alla Memoria Massimo Finzi e la Direttrice del Centro di Cultura Ebraica Miriam Haiun.

(Shalom, 31 marzo 2021)


Antisemitismo e usi politici nel dibattito internazionale

di Simon Levis Sullam

Il 25 marzo 2021 è stata resa nota a livello internazionale la Jerusalem Declaration on Antisemitism (Jda), un documento sottoscritto da circa duecento studiosi e studiose in tutto il mondo che si occupano o si interessano di storia dell'antisemitismo, dell'Olocausto, degli ebrei e delle vicende mediorientali, soprattutto in rapporto a Israele e Palestina. Tra i firmatari compaiono alcuni dei più noti storici, scienziati sociali e intellettuali del nostro tempo, come Michael Walzer (Princeton), Aleida Assman (Costanza), Carlo Ginzburg (Ucla/Scuola Normale), Avishai Margalit (Gerusalemme), Ute Frevert (Zurigo), Sebastian Konrad (Berlino), Dirk Moses (Chapel Hill, Nc), Natalie Zemon Davis (Toronto), David Feldman (Londra) e A.B. Yehoshua (Gerusalemme).
  La Jda è il frutto di un'approfondita riflessione e discussione culturale e scientifica, condotta da un gruppo di lavoro che ha preso avvio oltre un anno fa presso il Van Leer Institute di Gerusalemme (da qui il nome della dichiarazione) ed è gradualmente cresciuto, circa l'attuale diffusione dell'antisemitismo nel mondo, particolarmente in alcuni contesti - ad esempio dell'Est Europa, ma anche francesi o statunitensi - dove l'antisemitismo negli ultimi anni è risultato in crescita fino al livello della violenza fisica, anche mortale. Il gruppo di lavoro ha analizzato e discusso i rapporti storici e contemporanei tra antisemitismo e razzismo, le relazioni tra questi ultimi e altre forme di discriminazione e intolleranza etnica, religiosa, xenofobica, sessuale ecc. Inoltre, la riflessione, nata a Gerusalemme ed estesasi poi ad accademici e intellettuali - ebrei e non ebrei - negli Stati Uniti e in Europa si è incentrata sul problema dell'uso pubblico e politico dell'accusa di antisemitismo.
  Questa riflessione ha portato all'elaborazione e alla finale stesura di un documento, la Jda appunto, che propone una definizione dell'antisemitismo in rapporto con il razzismo e con altre forme di discriminazione, offrendo una serie di riflessioni e suggerimenti circa l'analisi storica e contemporanea di questi fenomeni; ma anche rispetto al - e alla necessaria distinzione dal - uso crescente dell'accusa di antisemitismo, spesso formulata per screditarli o tacitarli, nei confronti dei critici dell'odierna politica di Israele in particolare verso i palestinesi (politica israeliana su cui per altro gli stessi sottoscrittori della Jda hanno spesso opinioni diverse tra loro, più o meno critiche dei governi israeliani, come pure più in generale non sono necessariamente in accordo sul conflitto israelo-palestinese e sulle sue auspicabili soluzioni: due popoli due Stati, uno Stato binazionale ecc.).
  I promotori e sottoscrittori della Jda sono giunti alla conclusione di trovarsi, rispetto al tema dell'antisemitismo e all'uso politico dell'accusa di antisemitismo, su posizioni piuttosto diverse e talora contrapposte a quelle espresse in un altro documento ufficiale, diffuso a livello internazionale negli ultimi anni, che ugualmente propone - ma, appunto, con differente prospettiva e approcci - una «definizione operativa» dell'antisemitismo. Si tratta dell'Ihra Definition of Antisemitism (versione italiana), formulata nel 2016 dall'International Holocaust Remembrance Alliance (Ihra): un network politico e diplomatico fondato nel 1998, che riunisce 34 Paesi tra cui Israele, Germania, Francia, Polonia e Italia, che si turnano alla presidenza del medesimo con propri rappresentanti diplomatici (nel 2018 l'Ihra è stata presieduta da un ambasciatore italiano).
  Sebbene i lavori dell'Ihra abbiano avuto l'approvazione - e la partecipazione attiva - di ragguardevoli personalità accademiche e del mondo della cultura internazionali, come ad esempio, in un convegno internazionale a Stoccolma nel gennaio 2000, lo storico della Shoah Yehuda Bauer (già presidente di Yad Vashem, il Museo dell'Olocausto di Gerusalemme), o il premio Nobel per la pace, lo scrittore sopravvissuto ad Auschwitz Elie Wiesel, l'Ihra Definition of Antisemitism presenta chiaramente, fin da una sua prima lettura, diversi aspetti problematici. Non tanto sul piano storico - a tutti sta infatti a cuore la memoria della Shoah, la lotta al negazionismo, oltre alla necessità di contrastare l'antisemitismo - ma rispetto agli esempi concreti che la dichiarazione reca dell'antisemitismo nelle sue forme contemporanee. La maggior parte dei casi di antisemitismo citati nel documento Ihra - sette su undici - non sono infatti esempi di offese antiebraiche né l'evidente espressione storica e attuale di pregiudizi religiosi o etnici nei confronti degli ebrei; ma sono in sostanza delle critiche alla politica dello Stato di Israele: critiche a Israele che di fatto - attraverso l'Ihra Definition of Antisemitism e gli esempi a essa collegati - sono indicate come posizioni o idee da condannare e contrastare in quanto «antisemite» in ambito sia politico sia legislativo e talora, conseguentemente, giudiziario.
  Questa definizione Ihra dell'antisemitismo - contrastata dagli studiosi riunitisi inizialmente a Gerusalemme ed espressisi ora nella Jda - non è quindi un mero documento o definizione di lavoro, un'analisi accademica o l'ennesimo memorandum diplomatico, ma è di fatto divenuta uno strumento politico utilizzato dalla diplomazia israeliana, da determinati gruppi di pressione ebraici particolarmente conservatori, e dalla destra filosionista (e antiaraba o anti-islamica) in difesa dello Stato ebraico. Essa ha inoltre ottenuto il consenso - anche grazie a pressioni, forme di moral suasion, o effettive convergenze politiche, culturali e ideologiche - di notevoli segmenti della diplomazia internazionale, di governi e Parlamenti. Fino a che l'Ihra Definition of Antisemitism è stata indicata da una risoluzione del Parlamento europeo del 2017 (che si può leggere qui) come da adottare ufficialmente da parte di tutti gli Stati membri: proponendo così, se non imponendo a tutti di riconoscere - e possibilmente stabilire per legge - un'equiparazione o addirittura un'equivalenza tra antisemitismo e critiche politiche allo Stato di Israele.
  Come hanno scritto alcuni degli autorevoli promotori della Jerusalem Declaration on Antisemitism - Aleida Assman, studiosa internazionalmente riconosciuta di problemi della memoria all'Università di Costanza; Alon Confino, noto storico dell'Olocausto, della storia tedesca e di questioni di metodo storico all'University of Massachuetts, Amherst; e David Feldman anch'egli storico e direttore dell'Institute for the Study of Antisemitism all'Università di Londra - l'Ihra Definition of Antisemitism è stata ed è «fonte di confusione» culturale e politica per i suoi usi e i suoi effetti distorcenti, che hanno «conseguenze paralizzanti sulla libertà di parola e di ricerca» e per di più «distraggono l'attenzione dai gravi pericoli dell'antisemitismo di destra».
  Altri colleghi coinvolti nella elaborazione e stesura della Jda - come Elissa Bemporad, studiosa di storia dell'antisemitismo russo e sovietico al Queens College e al Cuny Graduate Center di New York; lo storico di Harvard Derek Penslar, autorità mondiale sulla storia degli ebrei moderni e del sionismo; e lo stesso Alon Confino - in un articolo apparso online nella rivista «Forward» in coincidenza con la pubblicazione della Jda il 25 marzo 2021, hanno sottolineato inoltre che «sebbene non possa essere sottovalutato il pericolo dell'antisemitismo di sinistra, è chiaro che il maggior pericolo per gli ebrei proviene oggi dai gruppi della destra estrema e populisti».
  Questi stessi studiosi e studiose - assieme agli oltre duecento sottoscrittori della Jda - ritengono, soprattutto, che «la lotta contro l'antisemitismo è inseparabile da un contrasto complessivo di tutte le forme di discriminazione razziale, etnica, culturale, religiosa e di genere». E hanno ricondotto e fondato pertanto la Jda, fin dal preambolo della stessa, alla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948, alla Convenzione sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale del 1969, alla Dichiarazione del forum internazionale di Stoccolma sull'Olocausto del 2000, e alla Risoluzione delle Nazioni unite sulla memoria dell'Olocausto del 2005.
  La Jda - in contrasto con l'uso politico e diplomatico attualmente prevalente dell'Ihra Definition of Antisemitism - scrivono ancora Bemporad, Confino e Penslar, intende quindi «distinguere dibattito politico» (che ritiene legittimo e comunque inevitabilmente «duro e controverso», come quello sulle vicende mediorientali) «dal discorso e dall'azione antisemiti». Discorso e azione che ovviamente devono essere contrastati e denunciati in modo inequivocabile, purché essi tuttavia appartengano effettivamente alla tradizione ideologica e retorica antiebraica o dimostrino concretamente l'intenzione di ricollegarsi ad essa riproponendola.
  A differenza dell'Ihra Definition, la Jda non intende rappresentare un documento codificato, con valore legale o possibili utilizzi giudiziali o semi-giudiziali. Ma vuole essere uno strumento che contribuisca al «pensiero critico» e alla «discussione approfondita»: certo non quel «testo sacro» - dice ancora l'articolo apparso in «Forward» - che per alcuni anche in ambito governativo e diplomatico è divenuta l'Ihra Definition, mentre quest'ultima (ormai adottata da alcuni governi e Parlamenti), potrebbe - e anzi dovrebbe - essere più utilmente considerata un «documento vivente che necessita di evoluzione e miglioramenti».
  Gli stessi autori concludono infine - rappresentando le intenzioni dei sottoscrittori della Jda a nome dei quali scrivono - che tutti, ebrei e non ebrei, al di là delle diverse opinioni politiche, dovrebbero urgentemente unirsi attorno a valori e obiettivi comuni e condivisi come: «la lotta all'antisemitismo, il contrasto di ogni forma di odio, la difesa della libertà di parola, la protezione dei diritti umani di tutti senza eccezioni, la creazione di spazi inclusivi e sicuri di discussione e anche dissenso su Palestina e Israele». Secondo i suoi autori e sottoscrittori, la Jerusalem Declaration on Antisemitism intende rispondere a queste urgenti necessità etiche e politiche ed è pertanto un documento necessario per i nostri tempi, in cui la lotta all'antisemitismo dev'essere unita a quella al razzismo, all'islamofobia, e a ogni altra forma di discriminazione e intolleranza.

(il Mulino, 30 marzo 2021)


«Sebbene non possa essere sottovalutato il pericolo dell'antisemitismo di sinistra, è chiaro che il maggior pericolo per gli ebrei proviene oggi dai gruppi della destra estrema e populisti», dicono gli autori del documento. Può essere vero per quel che riguarda il pericolo fisico che corrono oggi gli ebrei come singoli nella diaspora occidentale, ma per quel che riguarda la realtà collettiva ebraica, che oggi ha la sua espressione politica più chiara nello Stato d’Israele, l’avvolgente universalismo moralistico di sinistra, che facilmente s’insinua anche tra gli ebrei, soprattutto intellettuali, costituisce un corrosivo tarlo ideologico ben più funesto dei rumorosi scoppi di rabbia omicida degli antisemiti di destra. M.C.


Libano, l'arma segreta di Israele contro Hezbollah è la "Ghost Force"

È un gruppo scelto di soldati di varie forze speciali. Il suo compito primario sarà stanare e neutralizzare i gruppi di fondamentalisti. A breve terrà una maxi esercitazione di un mese.

di Francesco Bussoletti

Israele ha un'arma segreta contro Hezbollah: la Ghost Force. La sua missione sarà dare la caccia alle cellule responsabili dei lanci di razzi dal Libano. L'impiego dell'unità è uno dei pilastri della nuova strategia che lo Stato Ebraico ha sviluppato per fermare gli attacchi dal Libano. La dottrina, come riporta il settimanale Makor Rishon, prevede che vengano inviate in territorio nemico forze di piccole dimensioni, ma con una grande potenza di fuoco e capacità. Quelle tradizionali, invece, si occuperanno di missioni difensive e di fornire supporto alle punte di diamante, come la "Ghost Force".
  È un gruppo scelto di soldati a livello di battaglione, creato recentemente e composto da operatori di varie forze speciali, dal Sayeret al Shayetet. L'unità dovrebbe diventare pienamente operativa nel prossimo futuro. Tanto che parteciperà a breve a una maxi esercitazione di un mese insieme agli altri assetti delle Israel Defense Forces (Idf) per migliorare il coordinamento con i colleghi delle altre specialità.
  Il suo compito primario sarà stanare e neutralizzare i gruppi di fondamentalisti. Inoltre, nel caso scoppi un nuovo conflitto con il Paese dei Cedri opererà oltre il confine come testa di ponte contro obiettivi mirati. Parallelamente, intanto, sta testando i nuovi equipaggiamenti e sistemi, che in futuro potrebbero essere distribuiti alle altre unità delle Idf.
  Fonti locali riportano che ne hanno già approvati 30 tra le centinaia adottati in via sperimentale: dai radar di battaglia ai droni di ultima generazione, passando per i sistemi di "illuminazione" dei bersagli. La tensione tra Israele e il Libano, infatti, sta rapidamente crescendo a seguito dei sempre più numerosi attacchi da parte di Hezbollah e risposte dallo Stato Ebraico. In aumento anche i tentativi di infiltrazione. L'ultimo è avvenuto solo un paio di giorni fa ad opera di due sudanesi, intercettati subito dai soldati delle Idf.
  C'è il rischio, quindi, di un'escalation, anche perché quanto sta accadendo ricorda molto gli eventi che causarono la guerra israelo-libanese del 2006. È stato lo stesso co-premier e ministro della Difesa israeliano Benny Gantz a ipotizzare una futura offensiva, parlando in una conferenza stampa la scorsa settimana. Gantz ha ricordato che in Libano ci sono migliaia di case in cui, oltre alle famiglie, sono ospitati anche i missili. "Abbiamo le mappe dei bersagli e piani di attacco pronti - ha sottolineato -, che continuiamo a implementare".
  L'ex capo di Stato Maggiore della Difesa ha aggiunto anche che ogni singolo edificio della lista nera è stato confermato come "minaccia" dopo verifiche sotto ogni punto di vista e che le forze armate sono pronte a combattere. In questo contesto un ruolo da protagonista sarebbe giocato proprio dalla Ghost Force.
  L'unità, operando all'interno delle linee nemiche, da una parte si occuperebbe di fornire le coordinate dei bersagli da colpire. Dall'altra, andrebbe "fisicamente" a cercare le cellule dei terroristi, le postazioni di lancio e i depositi di missili nascosti. Di fatto, si prospetta una vera e propria guerra, seppur mirata solo ad alcune aree circoscritte e a distanza. Ciò in quanto, a parte gli specialisti, ci sarebbe un impiego molto limitato di soldati grazie all'attività d'intelligence, alla tecnologia e alle munizioni di precisione.
  Resta, però, da capire come si comporteranno in quel caso i militari Onu di Unifil, attualmente guidati dal generale italiano Stefano Del Col. La missione dei caschi blu, infatti, è proprio vigilare che le due parti non entrino in contatto.
   
(la Repubblica, 30 marzo 2021)


Rivlin e la ricerca del prossimo Premier

Bisognerà attendere una settimana per sapere a chi il Presidente d'Israele Reuven Rivlin affiderà il complicato compito di formare una coalizione di governo. L'ufficio della presidenza ha infatti annunciato che la scelta del Primo ministro designato sarà annunciata il 7 aprile. Nei due giorni precedenti Rivlin incontrerà le delegazioni dei partiti eletti alla Knesset il 23 marzo scorso. Saranno incontri trasmessi in diretta su tutti i media nazionali, per cercare di garantire la massima trasparenza possibile in questa delicata fase politica.
   Il candidato più quotato ad ottenere l'incarico da Rivlin è il Primo ministro uscente Benjamin Netanyahu, che può contare sul successo del suo Likud. Con 30 seggi conquistati alle urne, è di gran lunga il primo partito alla Knesset. Dall'altro lato, la coalizione di Netanyahu ha bisogno di allargarsi per poter raggiungere la maggioranza. Al momento è ferma a 52 seggi. Ne servono ancora nove per arrivare alla fatidica soglia di 61 (su 120 totali in parlamento). E Rivlin non ha la certezza che Netanyahu sia in grado di ottenerli.
   Prima di tutto il leader del Likud ha bisogno dei voti della destra di Yamina, il partito di Naftali Bennett (7 seggi). Quest'ultimo si è proposto in campagna elettorale come Primo ministro e ora valuta le sue opzioni. Se scegliere un ritorno in un governo Netanyahu, per cui è stato più volte ministro, oppure optare per il blocco opposto. Gideon Saar, fuoriuscito dal Likud, condivide l'avversione di Bennett per Netanyahu e ha proposto a leader di Yamina un governo di rotazione assieme al centrista Yair Lapid (che porta in dote 17 seggi), sostenuto da una maggioranza eterogenea.
   Si andrebbe infatti a formare una coalizione che va dal falco Avigdor Lieberman alla sinistra laburista e del Meretz. Proprio da Meretz è arrivata una significativa apertura: "È molto naturale per noi raccomandare il leader di Yesh Atid, Yair Lapid. Bennett e Saar? Non stiamo escludendo opzioni che forse non avevamo immaginato prima", le parole di Tamar Zandberg, leader di Meretz.
   Sia Bennett sia Saar invece alcune opzioni le avevano escluse, almeno in campagna elettorale: in particolare, avevano escluso di far parte di una coalizione assieme ai partiti arabi (Raam e la Lista unita). D'altro lato, entrambi avevano anche promesso agli elettori di sostituire Netanyahu. In particolare Saar. Ora lui e Bennett dovranno decidere a quale promessa tengono di più.
   
(moked, 30 marzo 2021)


Israele: verso un governo senza Netanyahu

Benny Gantz lancia un appello agli altri partiti della coalizione anti-Bibi. Per farcela ha bisogno dei voti dell'islamista Mansour Abbas.

Un governo senza Benjamin Netanyahu. La carta sul risiko della formazione del prossimo governo israeliano l'ha lanciata Benny Gantz. Nell'appello pubblico ai leader degli altri partiti della coalizione anti Bibi - Yair Lapid, Gideon Saar, Avigdor Lieberman - il capo di Blu Bianco ha incluso anche Naftali Bennett, l'indipendente di destra che con i suoi 7 seggi è un ago della bilancia per ogni futuro esecutivo. Se Bennett accettasse, la composita coalizione anti premier potrebbe passare da 57 a 63 seggi, 2 in più dell'agognata maggioranza di 61 necessaria alla Knesset. "Mi rivolgo ai leader del 'Blocco del cambiamento' - ha detto - per riunirci al più presto in modo da poter formare un governo onesto e mettere fine al predominio di Netanyahu".
   L'esortazione di Gantz insieme agli altri contatti dei leader è il primo passo di un percorso per giungere ad un governo stabile in grado di evitare una eventuale quinta tornata elettorale resa possibile dal voto incerto del 23 marzo scorso. Come nei precedenti, anche l'ultimo risultato non ha incoronato un vincitore e non ha dato una maggioranza chiara a nessuno dei due blocchi in campo: sia quello di 'tutti contro Netanyahu', sia quello del premier. E tutti, se vogliono restare fedeli alle dichiarazioni pre-elettorali, hanno bisogno - sulla base di varie alchimie - dell'appoggio di Bennett e di Mansour Abbas, leader arabo islamista che ha 4 seggi ed è deciso a farli pesare. Un groviglio che ora Gantz tenta di sciogliere facendo il primo passo, memore a quanto sembra della precedente fallimentare esperienza in cui da leader dell'opposizione è andato all'accordo di governo con Netanyahu in nome della lotta all'emergenza covid.
   Toccherà adesso agli altri - dal centrista Lapid al nazionalista di destra Lieberman, al transfuga dal Likud Saar e allo stesso Bennet - rispondere e trasformare l'appello in pratica politica. L'occasione non è lontana: il presidente Reuven Rivlin - che il 31 marzo riceverà ufficialmente i risultati elettorali - vedrà lunedì 5 aprile tutti i partiti e chiederà loro chi ritengano possa e debba avere l'incarico. Lo stesso giorno a Gerusalemme è prevista la ripresa del processo a carico di Netanyahu, accusato di corruzione, truffa e abuso di potere. Una congiuntura che - secondo analisti - la dice lunga sulla crisi che attanaglia Israele da quattro voti in un biennio. Tempo 2 giorni e, il 7 aprile, Rivlin affiderà il mandato di formare il governo: il prescelto avrà 28 giorni - più eventuale proroga di altre due settimane - per formare un esecutivo e presentarsi alla Knesset. Quel giorno dovrà mettere all'incasso il sì di 61 deputati, poi sarà il nuovo premier di Israele.
   
(ANSA, 30 marzo 2021)


Ancora dopo anni in Europa non hanno capito che Israele non occupa Gaza

di Franco Londei

A me pare che l'antisemitismo stia prendendo altre furbesche forme che mirano direttamente non solo a minare la legittimità delle azioni israeliane, ma addirittura a coinvolgere le istituzioni internazionali nelle ormai numerosissime campagne anti-israeliane.

Israele non occupa Gaza. Ha lasciato la Striscia, non senza polemiche e dispiaceri, nel lontano 2005 e non vi è più tornato.
   Addirittura, quando Israele se n'è andato dalla Striscia di Gaza lasciò una vera e propria "miniera d'oro agricola", con serre coltivate e ricchissime di frutta e verdura, dotate di sistemi di irrigazione all'avanguardia e di ogni ben di Dio.
   Peccato che la prima cosa che fecero i palestinesi fu distruggere tutto quel ben di Dio. Mezza giornata dopo non c'era più niente in piedi.
   Non se le ricordano queste cose in Europa quando ancora parlano di "occupazione israeliana di Gaza".
   Rasmus Alenius Boserup, direttore esecutivo di EuroMed Rights, due giorni fa bacchettava i politici dell'Unione Europea perché "stanno a guardare immobili la Corte Penale Internazionale che apre una indagine sui crimini commessi dalla occupazione israeliana a Gaza senza dare alcun sostegno politico".
   Insomma, il nostro amico Rasmus vorrebbe che l'Unione Europea desse una copertura politica alle allucinazioni del Procuratore capo dell'Aia, Fatou Bensouda, la quale lo scorso febbraio ha deciso che, per sua iniziativa, la Giudea e Samaria (Cisgiordania) e la Striscia di Gaza rientravano sotto la sua giurisdizione.
   Non pago, continua a sostenere che la Striscia di Gaza sarebbe sotto la responsabilità israeliana in quanto "territorio occupato", confondendo un legittimo blocco unilaterale con una occupazione.
   La cosa ancor più strana è che nessuno parli di "occupazione egiziana" visto e considerato che pure gli egiziani praticano un legittimo blocco unilaterale delle merci.
   Anzi, se proprio vogliamo essere onesti, da Israele ogni giorno entrano a Gaza centinaia di camion di viveri e materiali vari, dall'Egitto non entra un moscerino.
   C'è un motivo per questa "disparità di trattamento" che non sia puro e semplice odio verso Israele? C'è un motivo per cui, nonostante siano perfettamente a conoscenza della verità, questi "illustri personaggi" continuano a sostenere che Gaza è occupata da Israele se non perché vogliono scatenare odio contro lo Stato Ebraico?
   A me pare di no. A me pare che l'antisemitismo stia prendendo altre furbesche forme che mirano direttamente non solo a minare la legittimità delle azioni israeliane, ma addirittura a coinvolgere le istituzioni internazionali nelle ormai numerosissime campagne anti-israeliane. E questo è davvero molto grave.
   
(Rights Reporter, 30 marzo 2021)


RCCL, Rotondo: "Boom di vendite in Israele"

di Giuseppe Focone

Primi di segnali di ripresa per il turismo arrivano anche dalle crociere, come ci ha confermato Gianni Rotondo general manager EMEA Region - International Representatives Offices Royal Caribbean International: "La fiducia dei consumatori nei viaggi sta aumentando con l'auspicato arrivo di nuovi dosi di vaccino da aprile e il conseguente atteso calo del numero di contagi e ricoveri. A Singapore abbiamo offerto la possibilità di navigare con noi a circa 50.000 ospiti da dicembre con una fascia di clientela sempre più giovane e una notevole percentuale in aumento di New to Cruise. Il nostro Net Promoter Score da quando abbiamo ripreso a navigare è più che raddoppiato rispetto agli anni precedenti, e questa è la dimostrazione di quanto il nostro prodotto stia riscuotendo successo. La domanda quindi c'è e sta solo aspettando di essere soddisfatta ed un'ulteriore dimostrazione è l'ottima performance di Odyssey of the Seas in Israele dove, dopo appena tre settimane dall'apertura delle vendite, abbiamo venduto più crociere ai residenti israeliani di quanto fatto in tutto il 2019".
   E per l'estate la compagnia è già pronta con 2 navi nel Mediterraneo a partire da giugno: "Le operazioni di Royal Caribbean - prosegue Rotondo - sono ripartite lo scorso dicembre con Quantum of the Seas a Singapore. Riprenderemo ad operare quest'estate nel Mediterraneo con Odyssey of the Seas, la nuova nata di classe Quantum Ultra, da giugno da Israele e con Jewel of the seas per un itinerario da Cipro per la Grecia da Luglio 2021. Abbiamo inoltre annunciato nei giorni scorsi la ripresa in giugno delle crociere ai Caraibi con Vision of the seas alle Bermuda e con Adventure of the Seas alle Bahamas con scalo nella nostra destinazione privata Perfect Day at Cococay. Inoltre le nostre nuove crociere dalle Barbados stanno suscitando un notevole interesse".
   
(ADVtraining, 30 marzo 2021)


Il sito del turismo di Israele si rinnova anche con la lingua araba

Dopo la firma degli storici accordi di Abramo, il sito del Ministero del Turismo di Israele rinnova la propria offerta linguistica per tutti coloro che vorranno prepararsi ad un viaggio in Israele. L'arabo figura ora infatti tra le lingue in evidenza per chi naviga sulle pagine del sito del Ministero del Turismo. Coinvolti in questa grande novità non solo la pagina ufficiale con le informazioni di viaggio, ma anche i profili Facebook e Instagram che promuovono la destinazione.
L'iniziativa, che va a raggiungere non solo la componente arabofona della società israeliana, ma un intero nuovo bacino di potenziali visitatori, va inserita in un contesto più ampio di normalizzazione dei rapporti tra Israele e gli Stati vicini, con l'obiettivo di lavorare insieme per ottenere collaborazione e distensione in Medio Oriente. Dopo Egitto e Giordania e Marocco recentemente anche gli Emirati Arabi e il Bahrein si sono uniti ai Paesi che oggi intrattengono formali relazioni diplomatiche con Israele, dopo la normalizzazione dei rapporti.
Ancora buone notizia per un Paese come Israele che, dopo aver recentemente annunciato le prime riaperture (anche ai turisti) dopo i difficili mesi della pandemia, si prepara a ripartire e a promuoversi in grande stile, tra esperienze spirituali, natura, sport e turismo urbano. Rivolgendosi ora anche ai suoi vicini di lingua araba.
Di seguito i link alle pagine coinvolte:
Web site: https://new.goisrael.com/eu/
Facebook page: https://www.facebook.com/visit.israel.ar
Instagram page: https://www.instagram.com/visit_israel_ar/

(La prima pagina, marzo 2021)


Le elezioni israeliane senza esito certo

di Cosimo Risi

La maledizione del 61 continua a colpire l'elettorato israeliano. Alla quarta tornata in due anni il partito di maggioranza relativa, il Likud del Premier uscente, non arriva alla metà più uno dei deputati alla Knesset: il fatidico numero 61.
   Deve allearsi con altri gruppi per formare una maggioranza.
   Bibi Netanyahu si rivolgerà anzitutto al partito Yamina di Naftali Bennett, già suo Capo Gabinetto e Ministro e ora avversario. L'alleanza potrebbe allargarsi ai partiti religiosi e persino al partito arabo Raam di Mansour Abbas. Il nuovo venuto della competizione intende appoggiare qualsiasi governo consideri le esigenze della numerosa collettività arabo-israeliana.
   Il centro-sinistra arretra in linea generale. La parabola di Benny Gantz è esemplare. Il rivale di Netanyahu alle ultime elezioni, e poi suo sodale nel breve governo di unità nazionale, esce ridimensionato. Lo stare insieme al potere gli ha compromesso le possibilità di rivincita.
   Netanyahu può intestarsi la vittoria. Le vicende giudiziarie che lo riguardano non intaccano la sua presa sull'elettorato. Sta vincendo la battaglia della pandemia. Con un'organizzazione mutuata dall'apparato militare, ha vaccinato buona parte della popolazione e liberato le persone alla vigilia del voto. Nel caldo precoce di Tel Aviv le strade e le spiagge si affollano. Torna la moda da noi in triste disuso: andare in giro senza mascherina o con la mascherina abbassata.
   Ha derubricato la questione palestinese da affare internazionale a domestico. E' la tattica del fatto compiuto riguardo agli insediamenti e alle annessioni. Al primo punto ha posto la minaccia esterna a Israele e alle potenze sunnite del Golfo: l'espansionismo dell'Iran. Teheran starebbe per dotarsi dell'arsenale nucleare in violazione del Piano d'Azione del 2015, s'infiltra nei paesi arabi con i movimenti amici e le milizie sciite in Iraq, Siria, Libano, Yemen, Gaza.
   Iran e Israele combattono un conflitto a bassa intensità, con scambi di attacchi nel Golfo Persico. Israele mina le navi iraniane con il carico di armi per le milizie sciite, l'Iran lancia un razzo sul mercantile di proprietà d'un armatore di Haifa. Il rischio escalation è alle porte. Lo Stretto di Hormuz è presidiato da una flotta internazionale cui si aggiunge una nave della nostra Marina Militare. In quel tratto passa buona parte delle forniture petrolifere d'Europa.
   Il rapporto di Netanyahu con Donald Trump era eccellente. Deve ricostruire quello con Joe Biden, i due si conoscono dai tempi di Barack Obama. Il nuovo Presidente gli ha telefonato solo un mese dopo l'insediamento alla Casa Bianca. A Biden preme ripristinare un rapporto con l'Iran dopo la denuncia del Piano d'Azione da parte di Trump. Teme che Israele reiteri le riserve verso l'accordo sul nucleare e trovi udienza al Congresso di Washington.
   Gli Stati Uniti lasceranno l'Ambasciata nella nuova sede a Gerusalemme e proseguiranno nel tessere la rete degli Accordi di Abramo per inserire il partner più pregiato: l'Arabia Saudita. I rapporti con il Principe ereditario si sono raffreddati dopo la pubblicazione del rapporto che lo collega alla morte del giornalista Khashoggi, nel Consolato saudita di Istanbul. Da protocollo, Biden si rivolge al suo omologo a Riad, il Re Salman, e non a Mohammed bin Salman. Questi è l'interlocutore privilegiato di Netanyahu nel Regno.
   In Palestina i riflettori sono puntati sulle elezioni presidenziali e legislative in programma a maggio, le prime dal 2006. I sondaggi danno Hamas alla pari se non in leggero vantaggio su Fatah. L'eventuale sua vittoria nell'insieme dei Territori palestinesi complicherebbe il quadro. Parte della comunità internazionale classifica Hamas come organizzazione terroristica.
   Il Presidente Rivlin dovrebbe conferire al Likud l'incarico di formare il governo. Netanyahu sarà chiamato all'ennesima prova di creatività e efficienza. Ecco allora che si rivolge a Raam perché entri in partita. Rompe così la tacita intesa fra i partiti ebraici di non condividere le responsabilità di governo con i partiti arabi. Se la mano è perdente, per ribaltare basta cambiare le regole del gioco.
   
(Salernonotizie.it, 29 marzo 2021)


Impiccate delle bambole in sinagoga svedese durante la Pesach, s'indaga per crimini d'odio

Negli ultimi anni, i membri della diaspora ebraica svedese sono stati bersaglio di molestie, bullismo e attacchi. Il Primo Ministro Löfven ha attribuito questo fenomeno in parte alla caduta nell'oblio della memoria dell'Olocausto e in parte all'immigrazione di massa dal Medio Oriente.

La polizia svedese sta indagando su un incidente nel quale un gruppo di bambole sono state impiccate in una sinagoga nella città di Norrköping.
  Insieme alle bambole, c'era anche un messaggio scritto, che è stato classificato come istigazione all'odio razziale.
"Questo si classifica come un crimine d'odio, che intende diffondere dichiarazioni che minacciano o opprimono gruppi etnici designati", ha riferito la portavoce della polizia Angelica Israelsson Silfver al quotidiano Expressen
  Al momento la polizia non ha identificato dei sospettati, ed è interessata a ricevere segnalazioni e aiuti.
Gli ebrei di tutto il mondo stanno celebrando la Pesach, la Pasqua ebraica di otto giorni che ricorda la liberazione dall'Egitto e l'esodo verso la Terra Promessa. A causa delle festività religiose, la presenza della polizia è stata intensificata nei luoghi di culto ebraiche e nei centri comunitari di Norrköping e in altre città svedesi.
  "Cerchiamo di avere un controllo extra", ha detto Angelica Israelsson Silfver.
  La comunità ebraica svedese affonda le sue radici nel XVII secolo. Con 20.000 persone, per lo più distribuite tra le più grandi città del paese, è tra le più grandi in Europa. Negli ultimi anni, i membri della diaspora hanno riportato di aver assistito a crescenti molestie, bullismo, attacchi e persecuzioni.
  Molti pensano che questo antisemitismo contemporaneo sia in gran parte un prodotto della migrazione di massa dei musulmani, che hanno portato atteggiamenti anti-ebrei dai loro paesi d'origine fino in Svezia. Lo stesso Primo Ministro Stefan Löfven ha attribuito questo fenomeno in parte alla memoria dell'Olocausto "che cade nell'oblio", e in parte all'immigrazione di massa dal Medio Oriente.
  Mentre, storicamente, l'antisemitismo in Svezia era in gran parte associato a gruppi di estrema destra e neonazisti, uno studio del 2013 ha scoperto che il 51% degli incidenti antisemiti in Svezia era collegato con estremisti musulmani. Un ebreo su quattro è stato perpetrato da estremisti di sinistra e solo il 5% è stato perpetrato da estremisti di destra o neonazisti.

(Sputnik Italia, 29 marzo 2021)


Il Museo d'Israele diventa interattivo con Juniper Networks

La soluzione basata sull'intelligenza virtuale Mist AI getta le basi per l'engagement digitale dei visitatori,

di Stefano Regazzi

Il Museo d'Israele di Gerusalemme, la maggior istituzione culturale del Paese e uno dei musei d'arte e archeologia più importanti al mondo, ha scelto le reti basate sull'AI di Juniper Networks. La soluzione permette di coinvolgere digitalmente i visitatori, con esperienze interattive wireless e personalizzate. Novità imperdibili per chiunque viaggi in Israele.
   Il Museo israeliano accoglie ogni anno 800 mila visitatori. Curiosi e appassionati che vengono a vedere reperti archeologici di tempi biblici e opere d'arte israeliane moderne, coprendo tutta la storia del Paese mediterraneo. La collezione comprende oltre mezzo milione di pezzi: un pezzo consistente del patrimonio culturale, tra cui ci sono perle come i Rotoli del Mar Morto.
   La direzione del Museo ha deciso di valorizzare questo patrimonio migliorando la connettività wireless e arricchendo l'esperienza digitale. Grazie alle reti Juniper Networks diventano disponibili esperienze su misura in base alla posizione nel museo. Inoltre, le nuovi reti WiFi permettono allo staff del Museo d'Israele di lavorare meglio e offrire un'esperienza migliore.
   La nuova rete wireless di Juniper Networks, basata su Mist AI, ha reso immediatamente possibili dei vantaggi per il Museo d'Israele:
  • Gestione rete più semplice. Il nuovo sistema permette di sviluppare strategie per l'engagment dei visitatori senza caricare il lavoro di supporto IT.
  • Access Point Wireless Juniper. Con tecnologie come il WiFi 6, i dipendenti possono collegarsi più rapidamente che mai. Ma con il virtual Bluetooth LE il museo può offrire un'esperienza intelligente basata sulla posizione dei visitatori, in modo che le guide virtuali e le attività digitali funzioni in automatico.
Inoltre Mist User Engagement potrà giocare un ruolo fondamentale per sviluppare ulteriori strategie digitali per i visitatori, sfruttando appieno il potenziale virtuale per offrire un'esperienza nuova e coinvolgente.

(techprincesse, 29 marzo 2021)


Israele festeggia la Pasqua ebraica e il ritorno alla vita dopo un anno di pandemia

di Sharon Nizza

TEL AVIV - In un momento di tregua dallo stallo politico delle ultime elezioni, in Israele questo weekend si è festeggiato il ritorno alla vita dopo un anno di pandemia. Le famiglie allargate hanno potuto festeggiare insieme la festività di Pesach, la Pasqua ebraica, iniziata sabato sera. "Festeggiamo la libertà dalla schiavitù d'Egitto e da quella di Zoom" è la battuta ricorrente. Quest'anno non si è dovuto rinunciare alle lunghe tavolate del Seder - la tradizionale cena che apre la festa, in cui gli ebrei leggono i testi che evocano l'esodo dall'Egitto - e le immagini della cerimonia desolata trascorsa un anno fa in solitudine sembrano il ricordo di un'altra era.
   A Gerusalemme la Chiesa Cattolica ha celebrato la domenica delle Palme con migliaia di partecipanti che hanno potuto unirsi alla tradizionale processione dal Monte degli Ulivi alla Città Vecchia, dando inizio alla Settimana Santa. Siamo ancora lontani dai numeri del passato, quando per l'occasione arrivavano turisti da tutto il mondo, ma è stato un momento importante "anche per cominciare a dare dei segni di normalità e soprattutto la fiducia in una ripresa della vita normale", ha detto il Patriarca Latino di Gerusalemme, Monsignor Pierbattista Pizzaballa.
   Superata la soglia del 50% della popolazione immunizzata con entrambe le dosi del siero Pfizer, il Paese festeggia anche il successo della campagna vaccinale che dimostra la sua efficacia nell'abbattere la curva dei contagi. A poco più di un mese dall'uscita dall'ultimo (terzo) lockdown e con un allentamento graduale delle restrizioni che ha portato all'apertura oggi di tutti i settori secondo le regole del "pass verde", l'indice del contagio si conferma in calo costante e si attesta oggi intorno allo 0,55. Calano drasticamente la mortalità (-85%) e i contagi (-86%). Ieri si sono registrati intorno ai 300 nuovi contagi quotidiani, mentre solo a inizio marzo la media quotidiana era di 2.500 nuovi positivi. Se si pensa che gennaio, con l'arrivo della variante britannica, era stato il mese peggiore dall'inizio della pandemia, con oltre 1.000 morti (6.183 dall'inizio della crisi), ancora a inizio marzo gli esperti si esprimevano con cautela rispetto alla ripresa della routine. Ma l'effetto della campagna vaccinazioni, iniziata il 20 dicembre e avanzata a passo spedito, si è dimostrata evidente di settimana in settimana e ora il governo annuncia che la settimana prossima - previa valutazione della situazione al termine della settimana pasquale - si discuterà dell'eliminazione delle mascherine quantomeno all'aria aperta.
   
La sensazione che il Covid appartenga al passato sembra già molto presente tra la gente: quasi 200 mila israeliani hanno visitato parchi naturali e siti archeologici nel weekend e le mascherine spesso erano un optional. Anche club e discoteche hanno ripreso l'attività e radunato migliaia di persone grazie al pass verde, che vincola l'ingresso a immunizzati e guariti in alcuni settori dell'economia come palestre, spazi chiusi nei ristoranti, alberghi, stadi, luoghi della cultura. Da una settimana è possibile accedere a questi esercizi anche presentando un tampone rapido, consentendo l'ingresso a non immunizzati e bambini sotto i 16 anni, che ancora non hanno accesso al vaccino.
   
La vita in Israele, insomma, sembra tornare più velocemente del previsto alla normalità. Se non ci saranno sorprese, il nuovo governo che verrà formato nelle prossime settimane potrà accantonare la curva dei contagi e concentrarsi ad abbattere la pandemia economica.

(la Repubblica, 28 marzo 2021)


La fede incrollabile dell'ebrea del '600

Reclusa, violentata, derubata dei figli; Pacifica Citoni non si piegò mai alla conversione forzata al cristianesimo La sua vicenda è stata ritrovata negli archivi della Comunità ebraica di Roma da Susanna Limentani. Eccola.

di Edoardo Sassi

Nulla le fece cambiare idea: non le prediche coatte, non le ripetute minacce, non le reclusioni. Nulla. Neanche il battesimo forzato dei due figli che le furono strappati per sempre dopo averglieli crudelmente mostrati un'ultima volta. E nemmeno la violenza carnale di cui fu vittima, da parte di un marito despota che invece, lui si era convertito al cristianesimo e che più volte tentò di «offrire» la moglie alla nuova fede.
   Nonostante tutto Pacifica Citoni, sposata Di Castro, giovane donna ebrea vissuta nella Roma della fine del XVII secolo, ebrea restò. E la sua storia - una storia di fierezza e resistenza inedita fino a oggi - è ora oggetto del libro di Susanna Limentani, Opporsi alla conversione. Un testo autoprodotto, che l'autrice, non una storica di professione, ha voluto scrivere con l'obiettivo di «restituire dignità e memoria a questa donna forte, tenace, ostinata, consapevole del prezzo da pagare per la sua condotta, ma determinata nel restare fedele alla sua identità religiosa».

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La vicenda di Pacifica, di cui ancora oggi si ignorano data di nascita e morte, prende l'avvio dal ritrovamento di un memoriale manoscritto, conservato presso l'Archivio storico della Comunità ebraica di Roma (Ascer), uno dei più importanti in Europa, dove si conservano documenti relativi al periodo compreso tra gli inizi del Cinquecento e il XX secolo, oltre a una biblioteca che i nazisti privarono di settemila preziosi volumi, scelti all'epoca uno a uno e mai più ritrovati.
   Ed è tra queste migliaia di documenti su false accuse di omicidio rituale, su battesimi forzati, sulle mille restrizioni e vessazioni cui era soggetta la popolazione ebraica durante il periodo del ghetto, istituito a Roma nel 1555 da Papa Paolo IV Carafa e durato fino al 1870-che Limentani ha «pescato» queste quattro pagine, rintracciate nel fondo «False accuse, battesimi forzati e catecumeni (1540-- 188o )».
   «Un documento totalmente inedito», confermano i responsabili dell'Ascer Silvia Haia Antonucci e Claudio Procaccia. E che aggiunge un tassello rilevante in un ambito di studi di settore - quello sulle conversioni coatte - caratterizzato da una vasta bibliografia, a partire dal volume di Marina Caffiero, Battesimi forzati. Storie di ebrei, cristiani e convertiti nella Roma dei Papi (Vlella, 2004).
   Il ritrovamento delle carte sulla drammatica vicenda di Pacifica - «il primo documento in assoluto su cui mi è caduta la mano, ma più che a un colpo di fortuna, ho quasi pensato che lei volesse mettersi in contatto con me», sorride Limentani - non è avvenuto del tutto per caso.
   Susanna è la discendente di un'antica famiglia assai nota a Roma, non solo nella Comunità ebraica. Un suo antenato, Leone, fondò nel 1820 la ditta, ancora oggi esistente, di vendita di porcellane, piatti, bicchieri. Suo padre, David, in contatto con Giovanni Paolo II di cui era fornitore, nel 2013 scrisse il libro Il cocciaro del papa. Storia di una famiglia di mercanti ebrei, dove raccontò anche il suo ruolo di «ambasciatore» nella prima visita di un pontefice nella Sinagoga di Roma, il 13 aprile 1986. Susanna però da adulta, oggi ha 55 anni, e con due figlie ormai cresciute, ai famigliari «cocci» - colorito termine romanesco con cui si indicano piatti e bicchieri - ha affiancato una passione per la storia. Qualche anno fa si è iscritta al corso di laurea in Studi ebraici dell'Ucei (Unione Comunità ebraiche italiane). E la fortunata scoperta del memoriale su Pacifica Citoni diventa prima oggetto della sua tesi, e ora, dallo scorso 8 marzo, quello della pubblicazione del libro, che sarà presentato il 6 aprile.
   La prefazione è firmata dalla sua professoressa, Micol Ferrara, che scrive: «Senza alcuna pretesa di esaustività, al contrario con grande umiltà, l'autrice ha investito tempo ed energie nel cercare di restituire dignità a Pacifica Di Castro. Come un'artigiana, nel senso più pregiato del termine, ha così seguito la storia di questa donna. Ne è risultato un lavoro di grande accuratezza, in una narrazione semplice e puntuale di luoghi e avvenimenti».

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Ed eccola, questa narrazione, per la quale in un primo momento Limentani aveva pensato a un romanzo: «Però ho subito capito che sarebbe stato un errore, io non sono una storica, tantomeno mi sento una scrittrice. La cosa più giusta era ricostruire la verità così come emersa dai documenti, senza aggiunte creative». Nella Roma di fine Seicento Pacifica Citoni è sposata con Samuel Di Castro. Vive nel ghetto, e come tutti i suoi correligionari è costretta dalle leggi pontificie a subire le persecuzioni del tempo. Samuel si converte al cattolicesimo, viene battezzato il 4 novembre 1694 ed esercitando la patria potestà fa battezzare anche i suoi quattro figli, i due avuti da un precedente matrimonio e i due - Angelo, sei anni, e Ricca, quattro - da Pacifica. Come accadeva, Samuel prese allora una nuova identità diventando Carlo Antonio Fadulfi. Era infatti ricorrenza che il garante al fonte concedesse il suo nome, e per Samuel a farlo fu probabilmente il cardinale Giuseppe Sallustio Fadulfi.
   Tra le tante opportunità offerte dalla Chiesa ai convertiti - non più residenza coatta, un lavoro, risorse materiali e privilegi, la fine di soprusi e vessazioni che andavano dai pagamenti di tributi fino ai colpi di frusta o addirittura al rogo nel caso di relazioni con cristiani - la potente macchina della strategia delle conversioni prevedeva anche che il neofita «offrisse» al favor fidei congiunti o perfino semplici conoscenti. Che in quel caso, dopo una semplice segnalazione, venivano prelevati e condotti, senza potersi sottrarre, nella Casa dei Catecumeni, fondata da Paolo III nel 1543, e in altre sedi preposte al prolungato lavaggio del cervello.
   È quanto accadde a Pacifica, vittima (anche) di un marito ossessivo, la quale iniziò un drammatico calvario tra la Casa dei Catecumeni nel rione Monti (oggi sede universitaria, ma l'odonimo di una strada all'angolo, via dei Neofiti, ne ricorda l'antica funzione), il Conservatorio della Clemenza e la Casa dei sostituti fiscali. Tutti luoghi di detenzione che per somma beffa gli ebrei erano costretti a mantenere con apposite tasse, e dove la donna fu condotta più volte, sempre resistendo alle «lusinghe» della nuova fede.
   Dal memoriale si evince anche la violenza carnale subita da Pacifica a opera di Samuel, il quale almeno in teoria, cristiano, non poteva avvicinare un'ebrea: « ... Ma con nuove invenzioni -vi si legge - estorse nuovo ordine di farla nuovamente carcerare supponendo falsamente che fosse di lui gravida e perciò fu condotta di nuovo e trattenuta più giorni lì [. . .] dove accedevano più mammarie».

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Quella violenza fu legata al sinistro fenomeno, noto agli storici, del «ventre pregnante»: le donne, segregate nove mesi, erano costrette a destinare alla Chiesa il neonato generato da una relazione con un cattolico o, è il caso di Pacifica, dalla violenza subita da un ex marito apostata. Pacifica, dalle ispezioni, non risultò incinta. Ciò non le impedì comunque di subire l'ultimo, crudele atto a opera di quel Crisante Cozzi, rettore della Casa dei Catecumeni, che la Storia ha restituito come feroce procacciatore di anime. Esasperato dalla resistenza della donna, durante l'ennesima quarantena le mostrò i due figli in un ultimo, vano tentativo di convertirla. Pacifica resistette. Tornò nel ghetto, senza più figli né marito ma orgogliosamente ebrea. Di lei, a oggi, si sono perse le tracce. Anni dopo, un caso simile, accaduto nel 1749, sarà narrato nel bel libro, ancora a cura di Marina Caffiero, Rubare le anime. Diario di Anna del Monte ebrea romana.

(Corriere della Sera - la Lettura, 28 marzo 2021)


Israele, ecco perché non ci sono i numeri per governare

di Tommaso Alessandro De Filippo

ROMA - Anche le ultime elezioni in Israele non hanno donato chiarezza quanto al prossimo futuro politico e geopolitico della nazione. Nessun blocco elettorale ha infatti raggiunto almeno 61 (numero minimo per poter governare) dei 120 seggi della Knesset. La consueta instabilità è anche dovuta alla necessità di mantenere una legge elettorale proporzionale. Avere maggioranze politiche laiche creerebbe infatti difficoltà sociali data la presenza di minoranze religiose ed ortodosse. Oppure, una maggioranza ebraica potrebbe provocare conflitti civili con la minoranza araba, nel caso dovesse escluderne ogni rappresentanza. In virtù della frequente ingovernabilità, possiamo provare ad immaginare i futuri scenari governativi e geopolitici dello Stato.
   In primis, è da considerare possibile che si ritorni alle urne per la quinta volta in poco più di due anni: nessuno dei due blocchi ha, ad oggi, la maggioranza e le due forze autonome (Yamina e Ra'am) sono troppo divergenti per poter confluire entrambe nella stessa coalizione. Inoltre, ogni alleanza attuale o futura potrà nascere esclusivamente sulla certezza di un percorso prestabilito, soprattutto in materia di politica estera.
   Dagli Accordi di Abramo alla nuova amministrazione Usa: Israele costretto a "rimodellarsi"?
   Il premier uscente Benjamin Netanyahu ha sviluppato nel corso dei suoi mandati degli accordi esteri che non da tutti sono stati condivisi. In particolare gli Accordi di Abramo, che promuovono pace ed accordi commerciali in Medio Oriente con Arabia Saudita e Bahrain, hanno provocato un acceso dibattito interno. Essi sono stati sanciti grazie all'intermediazione dell'amministrazione Usa di Donald Trump, al termine di anni di trattative. Tuttavia, alcune forze politiche (tra cui Yamina) hanno rimproverato al premier eccessiva arrendevolezza nella trattativa. Al di là delle relative posizioni sulle vicende mediorientali, appare chiaro come l'eventuale alleanza con queste fazioni richiederebbe una trattativa interna anche sugli Accordi stessi.
   Netanyahu li ha celebrati come il più grande risultato di politica estera della sua stagione. Tuttavia, con alleanze forzate da sancire e con la nuova amministrazione Usa in rapporti non necessariamente idilliaci con Israele, quest'ultimo potrebbe ritrovarsi costretto a rimodellare la sua politica. Infatti, ad oggi con Joe Biden ha interloquito telefonicamente solo una volta, anche in virtù della maggiore propensione delle amministrazioni dem al dialogo con l'Iran. Resta da osservare, oltre alle divergenze interne, proprio l'approccio estero nel prossimo futuro: una vicinanza strategica potrebbe arrivare da Mosca.
   Le due nazioni sono in buoni rapporti, dato anche che 1/3 della popolazione israeliana è proprio di origine russa. Le divergenze in politica estera delle due nazioni sull'approccio verso determinati contesti non hanno compromesso le relazioni diplomatiche. Non ci resta che osservare l'evoluzione politica di Israele che, almeno ad oggi, è ancora lontana dal ritrovo di una duratura stabilità governativa.

(l Primato Nazionale, 28 marzo 2021)


La guerra navale segreta fra Israele e Iran

Il 25 marzo una nave mercantile israeliana è stata colpita da un nemico sconosciuto mentre era in navigazione nel Mare Arabico. Non è la prima volta che accade, è solo l'ultima di una lunga serie di attacchi attribuiti all'Iran. E non è una guerra di corsa univoca. Anche l'Iran ha subito attacchi a 12 navi dal 2019, attribuiti a Israele.

di Gianandrea Gaiani

Non è la prima volta che mercantili e petroliere vengono colpite nel Golfo di Aden e nel Mare Arabico da misteriosi ordigni attribuiti da arabi, statunitensi e israeliani ai battelli iraniani, subacquei o di superficie (motoscafi o navi d'assalto camuffate da mercantili) dei Guardiani della Rivoluzione Islamica (pasdaran), ma l'esplosione che ha colpito il 25 marzo un mercantile battente bandiera liberiana e appartenente a un armatore israeliano rischia di determinare una ulteriore escalation nella crisi tra le due potenze mediorientali.
  Salpata da Dar es-Salam (Tanzania) il 21 marzo scorso e diretta in India, il porta container Lori è stato colpito da un missile (o da un siluro o da una mina?) nel Mare Arabico che ha danneggiato l'imbarcazione in modo non troppo grave e senza provocare feriti tra l'equipaggio. Il portavoce dell'armatore, la società XT Management Ltd. con sede ad Haifa, la nave avrebbe riportato danni lievi e starebbe continuando la navigazione senza particolari problemi. Il canale televisivo israeliano Channel 12 ha reso noto che, da una prima analisi, i sospetti sul possibile mandante del presunto attacco ricadrebbero su Teheran. "Come prevedibile - ha scritto l'agenzia Tasnim, vicina ai Pasdaran - i media sionisti hanno affermato, senza fornire alcuna prova, che la nave, diretta in India dalla Tanzania, è stata colpita dall'Iran".
  I due governi non hanno rilasciato dichiarazioni ma come è usuale che Israele non commenti i raid aerei effettuati da anni contro pasdaran, hezbollah e milizie filo iraniane in Siria o contro le navi iraniane nel Mar Rosso, è altrettanto probabile che l'Iran non rilasci valutazioni sulle misteriose incursioni navali che, con cadenza regolare, colpiscono mercantili nelle acque tra il Mar Arabico, il Golfo di Oman ed il Golfo Persico.
  Un mese or sono a sud dello Stretto di Hormuz, la nave di proprietà israeliana Helios Ray, battente bandiera delle Bahamas, era stata vittima di un'esplosione che aveva provocato danni. In quella occasione il premier Benjamin Netanyahu ha denunciato l'episodio accusando direttamente Teheran - che respinse ogni addebito - e il capo di stato maggiore Aviv Kochavi ammonì che le forze armate israeliane avrebbero agito "contro minacce vicine e lontane". Secondo gli esperti israeliani la tipologia dell'attacco sarebbe riconducibile al modus operandi dei reparti di incursori di Marina dei pasdaran, dotati di mezzi subacquei speciali e sottomarini tascabili. L'attacco ai mercantili israeliani rispecchierebbe la tecnica impiegata in una serie di attacchi sferrati contro alcune petroliere nel 2019 e le operazioni contro navi da trasporto messe in atto dall'Iran fin dagli anni Ottanta.
  La guerra segreta tra Israele e Iran è stata del resto combattuta senza esclusione da entrambe le parti. Il quotidiano Haaretz, riprendendo un articolo del Wall Street Journal, ha rivelato che negli ultimi anni decine di sabotaggi sono stati compiuti da agenti israeliani contro petroliere iraniane impegnate nelle forniture di greggio verso la Siria: attacchi che avrebbero colpito i finanziamenti iraniani destinati al potenziamento militare degli Hezbollah. Secondo il rapporto dall'inizio del 2019 lo Stato ebraico avrebbe preso di mira con mine ed altri tipi di ordigni che hanno coinvolto le sue forze speciali della Marina, almeno 12 navi dirette in Siria, per lo più petroliere o cargo sospettati di trasportare carichi di armi diretti in Siria per rifornire Hezbollah colpiti soprattutto nel Mar Rosso. Il Wall Street Journal valuta che tali attacchi abbiano l'obiettivo di interrompere il flusso di denaro che dall'Iran raggiunge le milizie sciite attive in Siria e Libano con incursioni che avrebbero avuto luogo non solo nel Mar Rosso.
  All'inizio di marzo, Teheran aveva puntato il dito contro Israele per l'attacco nel Mediterraneo orientale contro la nave commerciale iraniana Shahre Kord: secondo il portavoce della compagnia di navigazione IRISL, la chiglia del cargo era stata danneggiata da un oggetto esplosivo che aveva causato anche un piccolo incendio.
  Le nuove tensioni si verificano in concomitanza con una difficile situazione politica in Israele dove neppure l'ultimo voto ha permesso a Netanyahu di conquistare la maggioranza parlamentare sufficiente a governare e, in assenza di accordi già si paventa l'ipotesi di un ulteriore ricorso alle urne.

(La Nuova Bussola Quotidiana, 28 marzo 2021)


Il ruolo del Sudan nel processo di normalizzazione con Israele

di Lorenzo Villani

La rivoluzione del 2019 ha rappresentato un punto di discontinuità all'interno del processo di evoluzione sudanese e ha inaugurato una fase di rottura dal regime di Omar al-Bashir. L'incarcerazione di quest'ultimo, dovuta a motivi legati alla corruzione, segna il definitivo distacco da un regime dittatoriale sorto nel 1989 a seguito del colpo di stato contro il governo democraticamente eletto di Sadek al-Mahdi. In seguito agli anni di isolamento internazionale il Sudan inizia oggi ad affacciarsi sul panorama globale. Tuttavia il paese è privo di una visione complessiva che gli consenta di trovare un proprio spazio.
  La fase insurrezionale che ha concluso il secondo decennio del 21° secolo non ha portato, come molti speravano, ad un radicale ribaltamento degli equilibri interni. Ciò che ha fatto seguito a tale processo di cambiamento è stato solamente un governo di transizione. Esso, almeno formalmente, è tenuto a guidare il Paese nel controverso percorso di democratizzazione, con compiti legati quasi esclusivamente all'amministrazione e al mantenimento delle condizioni atte ad evitare un peggioramento della situazione economica.
  Eppure, alla luce dei molteplici aspetti controversi che affliggono il Sudan - quali il peggioramento della situazione economica e l'isolamento internazionale - l'esecutivo ha avviato una serie di misure vincolanti e finalizzate a restituire un nuovo volto al Paese e ad essere durature nel tempo.
  A tale proposito, sono diversi gli elementi in materia di relazioni internazionali che necessitano di esser presi in considerazione per comprendere il percorso di cambiamento del paese arabo-africano. Questo percorso, seppur nelle sue contraddizioni, mostra elementi singolari.
  Fra le molteplici componenti di tale mutamento, occorre menzionare quella relativa alla nuova politica internazionale inaugurata dal governo di transizione. Nello specifico, dopo decenni in cui il Sudan si è mostrato agli occhi degli interlocutori internazionali come uno degli Stati sostenitori del terrorismo, il Paese ha conquistato una prima normalizzazione in seguito all'accordo con gli Stati Uniti che sancisce la cancellazione dalla rispettiva black-list (nella quale si trovava dal 1993) in cambio del riconoscimento ufficiale dello Stato di Israele. Tale avvenimento è stato descritto da Abdalla Hamdok - il capo di governo sudanese - come "un ritorno nella comunità internazionale"[i]. Elemento che acquista ancora più rilevanza se si considera che l'uscita da tale black-list consente la possibilità per il Sudan di accedere a prestiti internazionali. Tuttavia questa decisione non è avvenuta in maniera silenziosa ma, anzi, rappresenta la più grande discontinuità se considerata in rapporto alla storia del Paese.
  Il coronamento di tale processo è rappresentato dalla visita ufficiale del Segretario di Stato americano, Mike Pompeo, a Khartoum, capitale del Sudan, nonché località di alto valore simbolico per i conflitti arabo-israeliani
  Storicamente, infatti, il Sudan si è da sempre distinto per il suo ruolo di sostenitore della causa palestinese, orientandosi così nella direzione del muqata'a, ossia il boicottaggio degli accordi negoziali con Israele.
  Non a caso fu proprio la capitale sudanese che, il 1° settembre 1967, ospitò il congresso fondatore del "fronte del rifiuto" a qualsiasi apertura nei confronti di Israele, nel tentativo di recuperare i territori persi nel corso della Guerra dei Sei Giorni[ii], sia in termini geografici sia diplomatici.
  Tutto questo è utile per descrivere la portata assai ampia di tale cambiamento. Il processo di normalizzazione promosso con gli Accordi di Abramo sostenuto da Stati Uniti e Israele mira ad una stabilizzazione nei rapporti geopolitici con tutti quei Paesi che, fino a poco tempo fa, si distinguevano per la loro vicinanza alla causa araba. Tutto ciò non va osservato da un'ottica che guardi i soli rapporti locali dei singoli paesi, bensì secondo una prospettiva che prenda in esame i rapporti continentali e, più in generale, globali. A rappresentare una fonte di preoccupazione in tale situazione è la crescente rilevanza del ruolo della Cina nel continente africano: in tal senso il processo di normalizzazione e di riconoscimento dello Stato di Israele è funzionale al consolidamento degli Stati Uniti sul continente africano[iii].
  L'accordo stipulato con Trump sembra rappresentare un momento di rottura dal regime islamico precedente. Tuttavia, al di là della componente governativa che si dichiara soddisfatta del lavoro svolto, sono numerosi i partiti e le forze politiche - alcune delle quali che hanno guidato l'insurrezione - a condannare la decisione assunta. Molti di questi, infatti, non si sono mai espressi sull'accordo o hanno addirittura condannato l'azione del governo di transizione, sostenendo che l'assunzione di una tale iniziativa non rientrava fra i compiti dell'esecutivo.
  Il processo appena descritto non è da intendersi unicamente come atto simbolico.
  Il Sudan, con la firma dell'Accordo di Abramo avvenuta il 15 settembre presso la Casa Bianca, inaugura una nuova fase di sviluppo che condurrà a rilevanti conseguenze sul piano internazionale quali, ad esempio, una ancora più netta polarizzazione degli equilibri politici nel continente. Non è difficile dedurre che lo scenario relativo agli equilibri geopolitici sia mutato rispetto a 20 anni fa, quando il mondo arabo si dichiarava unito nel sostegno della causa palestinese. L'impressione è quindi quella che la componente ideologica che si celava alle spalle del mondo arabo sia venuta meno, e che il vuoto da lei lasciato sia stato colmato da accordi internazionali di natura strumentale. Il sospetto è che il Paese africano, con una popolazione ridotta alla fame tanto da dichiarare lo "status di emergenza economica"[iv], sia in un certo senso divenuto vittima dei diktat di Trump che ha barattato l'eliminazione dalla lista dei Paesi sostenitori del terrorismo - e il conseguente riconoscimento internazionale - con l'avvio del processo di normalizzazione.
  Il Sudan non è il solo ad essere coinvolto in tale percorso, vi è anche il ruolo di ulteriori Paesi di spicco a rendere tale fenomeno ancora più rilevante quali, ad esempio, gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain L'avvicinamento di questi Paesi verso Israele è stato descritto da Salman El Herfi, ambasciatore della Palestina in Francia, come un atto mediante il quale questi ultimi hanno dimostrato di essere "più israeliani degli israeliani"[v].
  Al netto dei fattori presi in considerazione, emerge con chiarezza l'incertezza del futuro cui va incontro il Sudan. Un futuro caratterizzato, da un lato, dalla necessità di individuare una propria collocazione geopolitica e, dall'altro, dalla precarietà che ancora oggi è intrinseca al tessuto sociale e politico del Paese. Il processo di transizione democratica necessita di essere portato al termine. Dunque, trattasi di sfide che determineranno in maniera strutturale gli equilibri interni ed esterni della nazione e che sapranno condurre quest'ultima fuori dalla situazione di instabilità che si è determinata dalla caduta del regime di Omar Al-Bashir.
  1. U.S. lifts Sudan's designation as a state sponsor of terrorism, Max Bearak and Naba Mohieddin, The Washington Post, December 14, 2020
  2. Idylle entre les pays du Golfe et Israèl, Akram Belkaid, Le Monde Diplomatique, Dicembre 2020.
  3. Come cambiano gli equilibri nell'Africa della globalizzazione, Giuseppe Gagliano, Osservatorio Globalizzazione, 16 maggio 2019.
  4. Sudan declares an economic state of emergency, Morris Kiruga, The AfricaReport, 15 September 2020
  5. L'ambassedeur de Palestine tire à boulets rouges sur les Emirats, Armin Arefi, Le Point, 12 ottobre 2020.
(Limes Club Firenze, 28 marzo 2021)


In Israele trovati frammenti di un rotolo biblico di duemila anni fa

Eccezionale scoperta archeologica in Israele dove sono stati trovati frammenti di un rotolo biblico di duemila anni fa, il primo rinvenimento di questo genere dagli anni '50. Un team dell'Autorità israeliana per le Antichità (Iaa) che dal 2017 scava in alcune grotte nel deserto di Giuda ha trovato frammenti di un rotolo in greco del periodo di Bar Kokhba, l'uomo che nel Secondo secolo dopo Cristo guidò la terza rivolta giudaica contro l'impero romano. I frammenti, nascosti e protetti dai sedimenti di secoli, contengono testi dei profeti Zaccaria e Naum.

 Le altre scoperte
  In una diversa area dello scavo sono state fatte altre straordinarie scoperte: monete del II secolo dopo Cristo, il corpo mummificato di una bambina di 6000 anni fa e una cesta integra di 10.000 anni fa, la più antica del suo genere.

 Il precedente di Qumran
  L'area del ritrovamento dei frammenti non è lontana da Qumran, il luogo dove fra il 1947 e il 1956 furono ritrovati gran parte dei Rotoli del Mar Morto, circa 900 documenti tra i quali libri della bibbia ebraica e testi della comunità locale, probabilmente essena, considerato il più importante ritrovamento archeologico del ventesimo secolo. I rotoli del Mar Morto rappresentano la più antica testimonianza di un testo biblico, essendo datati tra il 150 avanti Cristo e il 70 dopo Cristo.

 La grotta dell'Orrore
  I frammenti dei rotoli presentati alla stampa sono stati trovati nella cosiddetta "grotta dell'Orrore", nella riserva di Naval Herver. La grotta si trova 80 metri sotto la vetta della collina, è fiancheggiata da gole e può essere raggiunta solo scendendo precariamente in corda doppia lungo la scogliera a strapiombo. Secondo gli archeologi, è stata usata quasi 2000 anni fa dagli ebrei in fuga dalle rivolte antiromane, seguenti alla distruzione del tempio di Gerusalemme. Nei frammenti, scritti in greco, gli esperti Israeliani hanno ritrovato e ricostruito 11 righe di testo del libro del profeta Zaccaria e un versetto da quello di Naum.

 Le monete della rivolta
  Nella stessa zona sono state trovate anche numerose monete risalenti alla rivolta di Bar Kochba, il "figlio della stella", recanti simboli ebraici come un'arpa e palme da dattero, e rinvenuti anche utensili come punte di freccia e di lancia, tessuti, sandali e persino pettini per pidocchi.

 La mummia di una bambina
  Nei presi della parete rocciosa della stessa grotta, gli archeologi hanno ritrovato lo scheletro parzialmente mummificato di quella che sembra una bambina, avvolta in un panno, posta in posizione fetale. Lo scheletro era coperto da un panno intorno alla testa e al petto, simile a una piccola coperta che sembra essere stata rimboccata "come un genitore fa con il figlio la sera", spiegano dall'Iaa. Sia lo scheletro che la fascia erano ben conservati. Uno studio preliminare di una Tac della bambina di 6000 anni fa, condotto dalla dottoressa Hila May dell'Università di Tel Aviv, suggerisce che aveva 6-12 anni.

 Il cesto più antico del mondo
  Un altro ritrovamento, attualmente senza pari in tutto il mondo, è stato scoperto in una delle grotte di Muraba'at nella Riserva di Nahal Darga: un enorme cesto intatto con un coperchio che era anche eccezionalmente ben conservato a causa delle temperature elevate e dell'estrema aridità della regione. Il cesto risale al periodo neolitico pre-ceramico, circa 10.500 anni fa e secondo gli esperti è il più antico mai ritrovato intatto e la sua importanza è quindi immensa. Il cestello aveva una capacità di 90-100 litri ed era apparentemente utilizzato per la conservazione. Il reperto fornisce nuovi affascinanti dati sulla conservazione dei prodotti circa 1.000 anni prima dell'invenzione della ceramica. Il cestino è tessuto con materiale vegetale e il suo metodo di tessitura è insolito. Quando è stato trovato era vuoto e solo la ricerca futura di una piccola quantità di terreno rimanente al suo interno aiuterà gli archeologi a scoprire per cosa è stato utilizzato e cosa è stato posto al suo interno. Gli scavi e i ritrovamenti annunciati sono cominciati per prevenire l'area dai saccheggi dei tombaroli e sono stati portati avanti anche con l'utilizzo di strumenti elettronici, droni e scanner laser.

(CorrierePL.it, 28 marzo 2021)


Pio XII e gli ebrei tra documenti e interpretazioni

Carte dall'Archivio storico vaticano

di David Bidussa

II libro di Johan lckx; direttore dell'Archivio storico della sezione per rapporti con gli Stati della Segreteria della Santa Sede, ricostruisce l'atteggiamento e i comportamenti della Chiesa dl Roma e delle chiese nazionali in Europa negli anni della Seconda guerra mondiale nei confronti della persecuzione contro gli ebrei. Ickx propone risposte interessanti, ma che a mio parere necessitano di altre ricerche o di nuove incursioni.
   Preliminarmente: Ickx utilizza per la sua ricostruzione una serie (la"Serie Ebrei"), che, scrive, è «una serie archivistica e un compendio di quasi tutti gli ebrei battezzati e non che hanno ricevuto aiuti» [p. 15]. Come si è formata questa serie? Che cosa vi confluisce e che cosa no? Saperlo aiuterebbe a capire sia come agiva la Segreteria vaticana, sia come ragionava (per esempio: perché quel caso?)." Questo è un problema, come è noto a qualsiasi dirigente di archivio. Riguarda non tanto la veridicità dei singoli documenti, ma la capacità probatoria del complesso archivistico proposto [come ha dimostrato 50 anni fa Claudio Pavone nel breve e denso saggio. Ma è poi tanto pacifico che l'archivio rispecchi l'istituto? in «Rassegna degli Archivi di Stato», 1970, n.1, pp. 145-149].
   In ogni caso, nella ricostruzione che propone Ida sono i documenti a dover parlare. Come? L'autore li fa parlare seguendo le note manoscritte a margine di quei documenti. Questo perché secondo Johan Ickx, e a mio avviso ha ragione, non è sufficiente pubblicare il testo del documento. Per giudicare occorre avere davanti il profilo di come prende corpo la decisione (per questo sarebbe importante sapere: perché quel caso? quando?) e poi l'azione ad essa conseguente.
   Questa procedura consente di illustrare il funzionamento della Segreteria vaticana e del suo staff, le sensibilità, le preoccupazioni, le tecniche di intervento. Una volta che si segua questa lettura, quei documenti raccontano e testimoniano delle difficoltà di un'azione di contrasto alle persecuzioni, pur nella consapevolezza dei propri limiti o della "via molto stretta" all'interno della quale si agiva. Questo vale per molti degli episodi che Ickx ricostruisce. Ne considero tre.
   Il primo riguarda la Romania [pagg. 98-133] dove la parte da difendere è prima di tutto quella fascia di popolazione ebraica convertita al cattolicesimo, anch'essa a rischio deportazione e nei confronti della quale si mobilita il nunzio Andrea Cassulo, ma che poco dopo diventa azione concreta e capillare dl salvataggio anche della minoranza ebraica in accordo con Angelo Roncalli (in quel periodo nunzio a Istanbul). Un'iniziativa complessivamente coronata da successo.
   Il secondo caso riguarda l'opera di contrasto in Slovacchia tra 1940 e1943 [pagg. 19-55] da parte della Segreteria di Stato che sostiene l'intervento del nunzio Giuseppe Burzio (il primo rapporto è del 7 agosto 1940), preoccupato del coinvolgimento di membri dell'episcopato nel governo filonazista e del loro appoggio alle politiche discriminatorie del regime. Vicenda che Ickx segue fino all'aprile, 1943, quando, rispetto ai 70mila iniziali, 20mila sono gli ebrei ancora presenti anche per l'intervento della Chiesa. Risultato che lckx valuta un successo. Quando la Slovacchia viene liberata, nel settembre 1944, di quei 20mila ne rimanevano 5mila scarsi, perché la deportazione continuò dopo l'aprile 1943. Perché allora fermarsi a quella data? Forse mancano i documenti. Non sarebbe interessante sapere perché?
   Il terzo riguarda come agire in Polonia e quali pressioni esercitare sul mondo politico del Terzo Reich, a partire da ciò che accade in Polonia tra 1940 e 1944 [pagg. 196-293]. In particolare fa riferimento al comportamento del Cardinal Cesare Orsenigo, nunzio a Berlino dal 1930 al 1945 e sul cui operato molto si è discusso; ai rapporti alterni che la Segreteria di Stato ha con le chiese protestanti che si muovono contro il nazismo. Tutti temi su cui Ickx entra con troppa cautela in questo suo libro.
   Un ultimo punto. Nelle pagine conclusive l'autore propone l'ipotesi di una continuità tra Pio XII e Giovanni XXIII: il corpo della Nostra Aetate e più in generale le linee culturali del Concilio Vaticano II, soprattutto in relazione al tema del confronto con il mondo ebraico, non rappresenterebbero un rovesciamento delle linee del papato di Pio XII, ma la loro realizzazione.
   Non lo considero improbabile e dunque non lo escludo a priori. Tuttavia, un atteggiamento di ostilità e di diffidenza nel confronti dell'ebraismo da parte della Chiesa è ancora forte, per esempio nelle valutazioni nel secondo semestre 1946 a proposito del pogrom antiebraico di Kielce in Polonia (4 luglio 1946) o di fronte alla nascita dello Stato di Israele nel 1948. Per cui mi chiedo: il laboratorio che porta alla Nostra Aetate, con il cambio radicale di registro - non più segnato dalla carità verso gli ebrei perseguitati, bensì da un rapporto culturale con l'ebraismo - quando inizia a prendere forma? Rispetto a quale evento o processo di confronto interno è possibile marcare un "prima" e un "dopo"?
   
(Il Sole 24 Ore, 28 marzo 2021)



Il segno del profeta Giona (1)

di Marcello Cicchese
    "E la parola dell'Eterno fu su Giona, figlio di Amittai, dicendo: "Alzati, va' a Ninive, la gran città, e grida contro di lei, perché la loro malvagità è salita alla mia faccia" (Giona, 1:1-2).
Con queste parole ha inizio un problematico libro della Bibbia che pone subito al lettore una domanda: come deve essere considerato? Che rapporto ha con la realtà? In molti casi la risposta probabilmente sarebbe: è una favola. Proprio come nel racconto della Genesi. Un serpente che parla, un pesce che inghiotte un uomo e lo risputa fuori vivo, che ci vuole di più per convincere il lettore a pensare che i racconti biblici sono in massima parte invenzioni della fantasia umana? Non per questo però devono essere disprezzati e rigettati - pensano i più aperti - perché il tramandarsi di certe narrazioni contribuisce al mantenimento di unità sociali bisognose di superiori riferimenti culturali condivisi.
  Ma che c'entra Dio in tutto questo? Alcuni, i più ben disposti verso il divino, concedono che sia Dio colui che suggerisce ad alcuni uomini da Lui scelti di creare favole istruttive per il buon andamento della società; altri invece sostengono che il personaggio stesso di Dio fa parte delle favole. In tutti i casi, come risultato si ottiene che non è proprio il caso di chiedersi qual è la realtà fattuale che sta dietro a quelle favole, perché quello che si deve fare è concentrarsi sul benefico effetto che possono avere su chi le racconta e chi le ascolta.
  Conclusione: la realtà siamo noi. Gli uomini. E non ce n'è un'altra. Il valore di una favola sta nell'effetto che il suo racconto può produrre sul nostro vivere sociale: se ci spinge ad essere più buoni va bene, altrimenti no.
  Un esempio di questo modo di usare la Bibbia come antologia di favole istruttive si può vedere nelle seguenti parole, trovate su internet, di un intellettuale ebreo :
    «La storia di Giona è speciale perché parla di un profeta che per primo ha cercato di "schivare" la sua missione, ma poi si pentì. Un altro punto speciale di Giona è che la sua missione non era quella di indirizzare il popolo d'Israele direttamente, o avvertire di ciò che sarebbe accaduto se non avessero riparato i loro modi. Il suo compito era quello di salvare la grande città di Ninive, i cui residenti non erano ebrei. Oggi, alla luce del crescente anti-semitismo, è più pertinente che mai riflettere sulla storia di Giona e il messaggio dietro di esso.
    Dio ordina al profeta Giona di avvertire gli abitanti della grande città di Ninive che avevano corrotto i loro modi di vivere. In altre parole, Giona deve avvertire loro che sono diventati così alienati ed egoisti che la loro società è insostenibile. Il compito del profeta è quello di condurre gli abitanti di Ninive lontano dal loro odio, in unità e amore per gli altri, altrimenti sarebbero stati tutti distrutti.
    Tuttavia, Giona decide di eludere il suo compito e parte per mare nel tentativo di fuggire.
    Proprio come Giona, noi ebrei, stiamo eludendo la nostra missione negli ultimi duemila anni. E tuttavia, non possiamo permetterci di continuare a eluderla. Abbiamo un compito. E' stato dato a noi quando Abramo ci ha unito in una nazione sulla base dell'amore per gli altri e della garanzia reciproca. Questo è quando abbiamo appreso che la nostra esistenza dipende dalla nostra unione e dall'essere un modello di unità per il mondo intero.»
L'autore dunque invita "noi ebrei" ad essere più buoni, a stare uniti, a volersi bene, in modo che anche gli altri possano imparare e fare altrettanto. Starebbe qui il valore della favola. Ma se fosse proprio vero che è dalla fratellanza fra gli ebrei che dipende la salvezza del mondo, la situazione sarebbe davvero disperata. Ma per fortuna quella dell'autore è soltanto una favola. Non quella biblica.
  L'invito generale ad essere più buoni sembra però che sia stato accolto dal mondo, con papa Bergoglio in testa, seguito da commissioni istituzionali che hanno ricevuto il compito di combattere l'odio in qualsiasi forma esso si presenti. Sta diffondendosi così nel mondo un asfissiante gas moralistico che dilaga e penetra in tutte le strutture della società. Ed è più minaccioso e dannoso del covid, perché se tutto dipende dagli uomini, se la salvezza di un mondo che oggi come mai prima si sente minacciato, dipende totalmente da noi, allora bisogna che tutti, assolutamente tutti, si comportino bene. E guai a chi non lo fa. E già si stanno mettendo a punto gli strumenti per distinguere i buoni dai cattivi. Con le dovute conseguenze.
  C'è però un altro modo di leggere la Bibbia, non come antologia di racconti istruttivi che inducano gli uomini a virtuosi comportamenti, ma in primo luogo come resoconto di fatti compiuti da Dio. In tutta la Scrittura sono sempre gli atti di Dio ad essere presentati per primi, e solo in un secondo momento si prendono in esame le reazioni degli uomini, discutendone il valore, l'importanza e le conseguenze. La lettura della Bibbia raccomandata è dunque fondata sulla fede in Dio, non sulle opere dell'uomo; è teocentrica, non antropocentrica.
  "Nel principio Dio creò il cielo e la terra". Punto. E' questo il solenne incipit biblico, e fino a qui esiste un solo personaggio: Dio. Tutto il resto è conseguenza di quello che ha voluto dire e fare quest'unico Personaggio.
  Andiamo allora all'inizio del libro di Giona. La traduzione della Nuova Riveduta suona così:
    "La parola del SIGNORE fu rivolta a Giona, figlio di Amittai, in questi termini..."
La traduzione più letterale qui scelta è:
    "E la parola dell'Eterno fu su Giona, figlio di Amittai, dicendo..."
Il termine ebraico tradotto con "parola" è davar, che come si sa indica anche "cosa" o "fatto", e qui si dice che la parola dell'Eterno fu su Giona, usando lo stesso verbo essere di dove si dice: "Dio disse: sia la luce, e la luce fu". Si potrebbe anche tradurre: "La parola dell'Eterno cadde su Giona...", per sottolineare il fatto che il messaggio è un oggetto inviato a Dio che è in cielo ed arriva ad un uomo che si trova sulla terra.
  Si può fare un esempio. Trovo nella mia cassetta delle lettere una busta su cui si vedono diversi timbri. Mi impressiono, leggo il mittente: Ministro dell'Interno. Qual è il primo fatto che attira la mia attenzione? Il mittente, ovviamente. Non avrei mai immaginato di poter essere oggetto di una così personale attenzione da parte del Ministro. I miei sentimenti si agitano confusamente, forse avrei preferito non averla tra le mani, una simile busta. La rimetto nella cassetta, ma mi accorgo subito che non serve: il messaggio del Ministro è lì (corrisponde al fu del racconto biblico), non c'è niente da fare: è un fatto immodificabile. Allora mi decido ad aprire la busta e leggo quello che dice (corrisponde al dicendo biblico) il messaggio. Contiene un'ingiunzione, un ordine perentorio a svolgere un certo servizio per la comunità che secondo la costituzione mi compete. Che fare? Il servizio non mi piace, ma l'ordine viene dall'alto. Devo decidere. Ho deciso. Mi imbosco e tento di evitare di essere preso dall'autorità cercando un luogo in cui non potrebbe raggiungermi. Potrei continuare così il racconto parlando di tutti gli espedienti che mi sono inventato e di tutte le peripezie che ho dovuto attraversare per non farmi prendere, ma alla fine chi mi ascolta vorrebbe sapere che cosa stava scritto in quella lettera, e perché il Ministro mi ha dato quell'ordine, e che cosa aveva intenzione di ottenere.
  Uscendo dall'analogia metaforica, si può davvero immaginare la parola rivolta dall'Eterno a Giona come un oggetto che cade dal Cielo sulla terra. Dio ha deciso: ha inviato un ordine a Giona; e adesso Lui sa che deve, come ha sempre dovuto fare con Israele, sobbarcarsi il compito di gestire la reazione, raramente docile e pronta, di chi ha ricevuto l'ordine.
  L'ordine che arriva a Giona è semplice e chiaro:
    "Alzati, va' a Ninive, la gran città, e grida contro di lei", perché la loro malvagità è salita fino a me" .
La discesa del plico dal Cielo sulla terra è stata provocata da qualcosa che è salito dalla terra al Cielo: la malvagità di Ninive. Ma può la malvagità salire dalla terra e arrivare fino al Cielo? Abituati come siamo alla concettualizzazione di termini morali, facciamo fatica a comprendere la concretezza dei termini biblici. Nella Bibbia si parla spesso di sacrifici di soave odore che salgono dalla terra al Cielo, conseguenza di atti di culto eseguiti in fiduciosa ubbidienza a Dio da parte del popolo. Potremmo allora pensare, estendendo l'immagine della salita, che l'odore delle infami perversità degli uomini salga dalla terra al Cielo e giunga alle narici di Dio non come un soave odore ma come uno stomachevole fetore.
  Qualcosa del genere deve essere accaduto con Ninive al tempo di Giona. Ed è proprio a Giona che Dio ordina di andare a Ninive per informarli che Lui conosce molto bene la loro malvagità. Tutto qui. Nient'altro, fino a questo punto. Nessuna minaccia, per il momento, tanto meno inviti al pentimento o promesse di perdono. Devono sapere che il Dio degli ebrei è arrabbiato con loro. Si regolino.
  E qui l'immagine della malvagità che sale dalla terra e giunge come disgustoso fetore alle narici di Dio e lo fa arrabbiare si applica molto bene, perché la Bibbia per indicare l'ira usa un termine che significa "naso" o "narici", quindi l'espressione "l'ira di Dio si accese" può essere resa letteralmente con "il naso di Dio si infiammò". Far sapere ai Niniviti che questa alterazione divina era provocata dal puzzo della loro malvagità non poteva lasciarli tranquilli.
  Resta aperta una domanda fondamentale: perché Dio ha agito così? Gli Assiri erano cattivi, certamente, una nazione canaglia si direbbe oggi. Ma da un Dio che vorrebbe vedere tutti gli uomini affratellati, come desidera tanto papa Bergoglio, ci aspetteremmo che si comporti così? Che senso ha scegliere per un incarico così importante uno qualsiasi, un perfetto sconosciuto privo di curriculum? Non aveva titoli, Giona, ma al capitano della nave su cui poi si imbarcò, che gli chiedeva informazioni sul suo conto, disse con chiarezza: "Io sono ebreo". Ma che c'entra tutto questo con la cattiveria degli Assiri? Se il problema del mondo è la mancanza di fratellanza fra gli uomini, a che serve un ebreo che va a sbandierare il suo Dio davanti a un altro popolo, minacciandolo di punizioni?

(1) continua

(Notizie su Israele, 28 marzo 2021)


 

Altra nave israeliana colpita nel Golfo. Arriva la Charles de Gaulle

Ancora una nave israeliana colpita nel Golfo Persico nella stessa zona dove a febbraio un'altra nave israeliana, battente bandiera delle Bahamas, era stata colpita e danneggiata.
Questa volta ad essere colpita è stata una portacontainer battente bandiera liberiana, ma di proprietà israeliana, di nome Lori.
   Anche in questo caso i dubbi che dietro all'attacco ci siano i pasdaran iraniani sono davvero molto pochi.
   Pochi giorni fa era emersa la notizia che anche Israele aveva attaccato e danneggiato alcune petroliere iraniane, senza tuttavia mai affondarle per non provocare gravissimi danni all'ambiente.
   Proprio in questo contesto e per garantire la libera circolazione delle navi nel Golfo Persico, ieri è arrivata ad Abu Dhabi la portaerei francese Charles de Gaulle.
   L'ammiraglia francese ha attraccato al porto Mina Zayed accompagnata da tre fregate e un sottomarino che rappresentano una notevole forza di persuasione e rientrano in un progetto multinazionale volto a garantire la sicurezza di navigazione nell'area, sicurezza messa a dura prova proprio dai Pasdaran iraniani.
   Una decina di giorni fa l'Iran aveva svelato una nuova città missilistica segreta proprio per dimostrare che poteva tenere sotto mira tutta la navigazione del Golfo Persico.

(Rights Reporter, 27 marzo 2021)


Una Pasqua di danza

Dall'Antico Testamento a oggi, movimenti e coreografie hanno costruito l'identità ebraica. Arriva Pèsach e si balla.

di Marinella Guatterini

Come forma di preghiera il Chassidismo educa i giovani, fin dalla tenera età, ad utilizzare il corpo per ogni tappa della vita. La storia di Moshe Efran, fondatore della Kol Demama Dance Company, e quella di Ohad, nato nel kibbutz Mizra, piena di svolte a gomito.
Nel Tanakh, che contiene i primi cinque libri dell'Antico Testamento, una dovizia di particolari descrive chi balla. In prima fila le donne. Le danze bibliche si trasformarono: il cerchio tradizionale, attorno a un luogo sacro, divenne, per mancanza di spazio, un semicerchio.

Arriva Purim e si balla; arriverà Pèsach, dalla sera del 27 marzo, e si ballerà. Parliamo in ostrogoto? Ma no! I due termini, più o meno famosi come shalom, che significa pace ma viene comunemente usato al pari di saluto, ci dice che ci troviamo in ambito ebraico. Una sfera in cui la danza e soprattutto il corpo nella sua accezione fisica e spirituale, è elemento identitario della tradizione. Lo assicura Elena Lea Bartolini De Angeli, esperta di Giudaismo ed Ermeneutica Ebraica presso diverse facoltà universitarie, autrice di testi, ma anche di molti seminari organizzati da "Lev Chadash", una comunità della "World Union for Progressive Judaism". L'assunto di partenza dell'empatica e fulva Elena Lea in "Danza ebraica o israeliana - La danza popolare nel farsi dell'identità del Paese" (Effatà,Torino, 2012) è che il popolo ebraico ha danzato e danza in continuazione nelle piazze e nelle case, nei templi e nelle sinagoghe a scopo liturgico, ma anche ludico e festivo. Noi facciamo una certa fatica nell'identificare le strazianti immagini dei corpi esangui e infine sterminati nei campi di concentramento con l'arte che più di ogni altra richiede forza muscolare, energia, e joie de vivre. Eppure, se ci fermassimo a queste immagini di morte non andremmo né avanti né indietro; invece il nostro viaggio parte dalla Torah e giunge, in estrema sintesi, alla variegata realtà della danza israeliana odierna, popolare e non, in omaggio all'imminente celebrazione di Pèsach, la Pasqua ebraica che celebra la figura di Miriam.
  Dopo il passaggio nel Mar Rosso la sorella di Mosè, cantò, ballò, suonò il tamburello e incitò le altre donne a imitarla. Distaccandosi dalle compagne, Miriam girava su se stessa, ma soprattutto ondeggiava come i flutti del mare: un movimento (detto shoqeling) non poco sensuale, consentito da una preghiera in cui il corpo è tutto sacro. Nel Tanakh, che contiene i primi cinque libri (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio) dell'Antico Testamento, ovvero la Torah più neviim (profeti) e khetibim (scribi) una dovizia di particolari descrive chi balla. In prima fila le donne, soprattutto quando arriva Davide. Non pensiate al ragazzetto pallido e pensoso che fa penzolare la testa di Golia, nell'ipnotica quanto struggente immagine del Caravaggio. Da giovane Davide era più che attraente: occhi verdi, viso incantevole, figura slanciata. Nelle danze estatiche e di adorazione si presentava seminudo: coperte le sole pudenda. Davanti all'Arca dell'Alleanza, invece, il monarca d'Israele nella seconda metà del X secolo a.C. è sempre possente ma in età matura: seguito dal popolo saltella a piedi uniti, a piedi alterni e rotea le braccia con forza ed energia. Quando finalmente l'Arca che conteneva le tavole della legge date da Dio a Mosè, trovò una casa in muratura a Gerusalemme, ecco apparire la danza a due cori: il tempio aveva due atri, uno per le donne, l'altro per gli uomini e i Leviti (sacerdoti) suonavano per entrambi. Fuori del luogo divino, la distinzione di genere si scioglieva in movimenti di gioia e corteggiamento. Per "Kippur" - ricorrenza, tuttora celebrata per purificarsi dai peccati, come i sacrileghi girotondi attorno al vitello d'oro, costruito durante l'assenza di Mosè, salito sul monte Sinai - le ragazze di Gerusalemme uscivano in abiti bianchi e ballavano il bakramim tra i vigneti.
  Ogni festa scomparve durante il lungo assedio romano di Gerusalemme e il conseguente crollo del tempio nel 70 d.C. Anzi morti e distruzioni portarono alla prima diaspora dei giudei e all'inizio di un fase storica di passaggio. Fase assai delicata, soprattutto in Europa, con il sopraggiungere di divieti rabbinici (niente più canti nelle sinagoghe), ma anche cristiani, per evitare, durante le celebrazioni di piazza, scontri tra ebrei e non ebrei. I primi, nell'Alto Medioevo, si riversarono nelle case e nei ghetti; diventarono maestri di ballo facendo nascere scuole aperte a tutti, in barba ai divieti, tra i quali mantennero quello legato ai balli di coppia, consentiti solo ai congiunti e con il tramite di fazzoletti o di guanti. Sembra di essere nell'odierno buio teatrale pandemico, per giunta solo in video-streaming…
  Le danze bibliche si trasformarono: il cerchio tradizionale, attorno a un luogo sacro, divenne, per mancanza di spazio, un semicerchio; con andamento per file parallele si saltellava ma cercando il cielo, in verticale. Gli ebrei più religiosi si muovevano con il supporto della voce, del battito delle mani, dello schioccare delle dita. Sino a che un geniale monaco cristiano, Guido D'Arezzo, s'inventò non solo il tetragramma, precursore del pentagramma, ma per ricordare le note musicali se le annotava sulle cinque dita. In un trattato di Juda ben Isaac del XIII secolo esiste una versione ebraica della "mano guidoniana", molto utile a chi non poteva usare strumenti musicali e rarità di una ricerca rivoluzionaria che appare tale al primo sguardo. Siamo ormai all'inizio del XV secolo: tra luci e ombre tutte le arti sembravano vivere un nuovo umanesimo. Che fanno gli ebrei? Diventano tra i più richiesti insegnanti di ballo presso le corti rinascimentali. Nell'epoca dei trattatisti italiani che si inventarono il proto-balletto, destinato a diventare ballet de cour dal Re Sole, in Francia e poi vero e proprio balletto, si impose Guglielmo Ebreo da Pesaro (1428-1484c.). Allievo del geniale Domenico da Piacenza, prestò servizio in molte corti italiane, fra le quali quella degli Sforza a Milano con il nome di Giovanni Ambrosio, dopo essersi fatto battezzare per agevolare la sua carriera. Nel 1463 scrisse un trattato, De pratica seu arte tripudii vulgare opusculum, che lo rese famoso nel mondo, nel quale insistette sull'arte del danzare rispettando però valori e norme etiche che mutuò sottotraccia dall'ebraismo. Conversione opportunista: nel suo trattato spiccano la Piva, il Salterello, il Passo doppio; per il trattatista da Pesaro la danza va oltre la danza in sé, è gesto di preghiera; ha un orizzonte etico e non d'intrattenimento. "Maniera, misura et virtute" è il suo motto.
  Intanto, accanto alle danze nobili, ormai prive della tradizionale improvvisazione a favore di codici e coreografie, il popolo ebraico e cristiano si riversa nelle piazze dei ghetti, soprattutto nel più antico e affascinante di questi, a Venezia: il "geto" (la parola ghetto deriva dal veneziano e indica uno spazio simile a una fonderia). Doveroso il ricordo dell'evangelista Marco: da Alessandria d'Egitto, trascinando con sé una comunità ebraica ancora libera da ogni tipo di apartheid sin dal primo secolo d.C. - edificò molte chiese lungo le coste adriatiche. Morì in circostanze misteriose, ma il suo corpo approdò nella Serenissima, ancora priva di un suo santo protettore. Vi siete mai domandati perché a Venezia vi sono tanti Marco: piazza, basilica, campanile e non solo? Prediletta, nelle piazze lagunari, era la festa di "Purim" (o festa delle sorti): si ballava per celebrare il coraggio di Estèr (dalla meghillà, il libro omonimo) che convinse Serse I, il re Assuero persiano, a non sterminare il popolo ebraico di cui lei era di nascosto, parte.
  Nelle scuole non più clandestine, fondate a Venezia nel 1443 ma pure a Parma nel 1466, tutto sembrava procedere a gonfie vele, sino al fatidico 1492. Gli ebrei furono cacciati da tutti i territori degli imperi spagnolo e portoghese e ripudiati con l'aiuto di una letteratura, almeno in Europa, di sicuro "alta", come quella di Christopher Marlowe o di Shakespeare che delinearono una figura di ebreo usuraio e falsario, creando un cliché difficile da estirpare. Marlowe scrisse nel 1589 "L'ebreo di Malta". Protagonista è Barabba (nome non scelto a caso), un cattivaccio assetato di ricchezze, violento, traditore cui viene riservata, alla fine della tragedia in cinque atti, la morte che si merita. Più ambiguo e sfuggente è il ben noto e rappresentato "Mercante di Venezia" (1596-1598): difficile però tacciare il Bardo di Stradfort-on Avon di antisemitismo. E' vero, l'ebreo Shylock coltiva la perversa idea di pretendere da un cristiano una libbra della sua carne in cambio del denaro prestato; ma il suo comportamento non viene letto da Shakespeare solo entro i consueti stereotipi: anche Skylock ha subìto i torti di una città di mercati dove il denaro equivaleva a potere, commercio, prestigio; a Skylock non restava che la sua puntigliosa richiesta, poi andata vana, e la "prigione" del suo ghetto.
  In questo clima, il ritorno alla danza non poteva che essere duro, puro, rivolto alla tradizione e mistico. Nella prima metà del Settecento nasce in Podolia, una regione dell'Ucraina, e si diffonde rapidamente in Polonia, in Russia e in quasi tutte le comunità dell'Europa orientale il movimento, tuttora in auge in Israele e in diaspora, dei Chassidim, (letteralmente pii o devoti). Uomini vestiti di nero e con cappello dal quale calano riccioli più o meno lunghi: questi ebrei ortodossi danzano molto, sempre divisi per genere, e si rifanno all'esoterismo della kabbalah (Cabala) . La circolarità delle loro danze non ha inizio né fine, in modo che possano entrarvi "le realtà divine"; le braccia sono appoggiate alla spalla di chi sta accanto per accentuare la forza della musica klezmer. Come forma di preghiera il Chassidismo educa i giovani, fin dalla tenera età, ad utilizzare il corpo per ogni tappa della vita.
  Molto lontani dall'ortodossia chassidica, anche se per lo più della stessa origine askenazita, sono gli ebrei che tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo si insediarono in Palestina (lo Stato d'Israele sarebbe nato nel 1948) e fondarono i primi kibbutzim. Questi cosiddetti "pionieri" furono per lo più intellettuali laici o poco osservanti, tesi a contraddire l'immagine dell'ebreo ricurvo, fragile, dal naso adunco e bruttino. Con un esprit comunitario e un ideale socialista, dissodavano un terreno arido e non venivano ricambiati in moneta bensì con i frutti del loro lavoro. Portavano con sé il bagaglio culturale dei loro paesi d'origine e molte danze popolari come la Hora rumena: veicolo di sentimenti e del vissuto quotidiano dove, in cerchio, tenendosi per mano, uomini e donne esprimevano la rinuncia alla "vita cittadina" per un ritorno alla natura. Con la nascita dello Stato d'Israele, i kibbutzim sarebbero potuti scomparire, invece sono oggi circa 250 e non si occupano solo di prodotti agricoli, ma tecnologici e manifatturieri. Le danze sono ancora perno della vita comunitaria, ma dal 1940 sono state ricondotte ai temi biblici e trasfigurate nei passi da intraprendenti donne come Gurit Kadman, Leah Bergstain, Gertrude (Gert) Loewenstein, Jardena Cohen, o Margaret Schmidt, discepola di Rudolf von Laban, il maggior teorico della danza libera: fuggita dalla Germania, nel 1925 approdò nel kibbutz Bet Alfa, dove inizialmente lavorò in lavanderia. Stupiti? Anche Amos Os, il grande scrittore scomparso nel 2018, a 15 anni andò a vivere nel kibbutz di Hulda, in seguito al suicidio della madre. Divenne la "barzelletta del kibbutz", ma poco alla volta il ricavato dei suoi libri compensò la sua inesistente vocazione agricola. Riconosciuta artista, Margaret, con altre coreografe come Rivka Sturman, si ingegnò nel reintrodurre con grazia tutta femminile e poesia vaporosa, gli antichi temi biblici nei balli dei kibbutzim. Esperimenti di successo portarono alla fondazione di festival come quello di Dalijjah, che anno dopo anno crebbe a tal punto da esigere un enorme anfiteatro naturale per contenere "il popolo che danza" e continuò a danzare dopo lo choc del ritorno in Israele dei sopravvissuti della Shoah e durante tutte le guerre e i conflitti con i Palestinesi, dopo l'assassinio di Rabin e sotto il governo di Netanyahu il cui soprannome quasi infantile, Bibi, poco si confà alla sua statura (sic!) politica.
  Oggi in Israele vive e prolifera, accanto al ballo sempre coltivato nelle piazze e all'aperto, una variegata e splendida danza contemporanea. Ha di certo ragione la Bartolini De Angeli quando asserisce che la seconda generazione danzante nel nuovo Stato fondato da Ben Gurion fu maschile. Ma questi coreografi non solo si divisero in fretta tra cultori folk e non, ma furono tutti allievi di coraggiose pioniere degli anni Quaranta, come Rami Be'er, prediletto dalla cecoslovacca Yehudit Arnon, fondatrice nel 1971 della Kibbutz Contemporary Dance Company che Rami ancora dirige. Invece, Moshe Efrati, scomparso l'anno scorso, ma fondatore della Kol Demama Dance Company, dovette tutto alla Bat-Dor Dance Company, co-fondata nel 1967 (ed esistita sino al 2006) dalla baronessa Bethsabée (Batsheva) de Rothschild e da Jeannette Ordman, una ballerina ebrea sudafricana. In una delle sue tournée, alla fine degli anni Ottanta, Moshe presentò una manciata di brevi danze dai temi biblici con un suo gruppo di danzatori udenti e non udenti. Chissà se riutilizzò la già citata "mano guidoniana" per far accalappiare ritmi e soprattutto note?
  Campionessa di tournée, coproduzioni, premi, focus e convegni fu però, almeno dal 1990 in poi la Batsheva Dance Company, altro frutto della generosità della figlia dei ricchi banchieri americani De Rothschild stabilitasi nel 1961 in Israele. Tre anni prima dell'apertura della Bat-Dor, la baronessa convinse l'amica Martha Graham a fondare una sorta di dépendance della sua scuola a Tel Aviv. La madre della Modern Dance accettò e giunse in Israele con una schiera di insegnanti. Con Martha si formò Ohad Naharin, vera autorità della danza contemporanea mondiale, inventore di coreografie meravigliose, di un metodo - Gaga che fa danzare anche le pietre per come libera il corpo da ogni inibizione - dal quale nacque un film di Tomer Heymann (2015), "Mr. Gaga", anima e corpo di un genio della danza, di portata internazionale. Storia lunga quella di Ohad, nato nel kibbutz Mizra (1952), e piena di svolte a gomito - ha lasciato la direzione della Batscheva per dedicarsi solo al suo estro artistico - e tuttavia emblematica. In alcuni suoi lavori dal titolo sempre uguale: "Minus" 1, 2, 3 e sino a 16, per ora - l'incipit è un semicerchio di danzatori vestiti in abiti neri, e cappelli vagamente Chassidim. Cantano in ebraico stando seduti, forse dal libro dei Salmi, e poi con foga si liberano delle giacche e iniziano a dar vita a progetti coreografici mai uguali ma che, senza varianti, terminano con una discesa, di nuovo di nero vestiti, tra il pubblico. In platea scelgono uomini e donne e con garbo li fanno ballare con loro sul palco. Inizio e fine vanificano la domanda di Elena Lea: danza israeliana o ebraica? Ma anche la distinzione tra ballo per tutti e per pochi. Ohad è l'uomo, ritroso e tormentato, che forse più di chiunque altro artista israeliano incarna la danza come identità ebraica della tradizione.

(Il Foglio, 27 marzo 2021)


In Israele campagna vaccinale modello, ma il Covid torna a fare paura

Più di 2mila contagiati in 24 ore. Torna l'incubo Coronavirus in Israele, Paese finora 'modello' per la sua campagna di vaccinazione ma che rischia di ricadere nella rete del virus. E questo, nonostante più della metà di israeliani sono stati vaccinati. I dati sono implacabili: ieri, 26 marzo, si contavano 832.894 contagiati dall'inizio della pandemia, ovvero +2.049 rispetto al giorno precedente. Un campanello d'allarme se si pensa che il 25 marzo l'incremento nelle 24 ore dei nuovi casi era stato +817, e il giorno prima, 24 marzo, +339. L'impennata della curva epidemica sembra essere attribuita a due principali eventi: le elezioni politiche nel paese svoltesi il 23 marzo e la partecipazione di circa 5mila tifosi allo stadio di Tel Aviv, dove il 24 marzo si sono affrontate le nazionali di calcio Israele e Danimarca.
   Ma osservatori, aggiungono anche la riapertura di molte attività commerciali. Ristoranti pieni, negozi affollati e persone che passeggiano nelle vie principali tra abbracci e baci. Tuttavia, nei locali ci sono ancora degli accorgimenti da applicare: i tavoli fuori sono distanziati di due metri mentre chi decide di consumare all'interno, deve presentare il certificato vaccinale. Una volta raggiunto il tavolo, ci si può togliere la mascherina solo quando si sta mangiando o bevendo. Eppure, come detto, la campagna vaccinale israeliana sta andando a gonfie vele. Il Paese, ricordiamo, conta poco più di 9,2 milioni di abitanti (quasi 1 milione in meno della Lombardia).
   Come comunicato dal ministro della Sanità nelle ultime ore, il 50.07 per cento degli israeliani ha ricevuto la doppia somministrazione, mentre il 55,96 per cento almeno la prima dose del vaccino. I primi, 50.07 per cento, (insieme all'8,7 per cento, stimato che è guarito dalla malattia) hanno già ricevuto il "Green pass" che permette loro di accedere a diversi locali pubblici. Dall'inizio della campagna vaccinale, rispetto al picco della terza ondata a metà gennaio, il tasso di mortalità giornaliero è calato dell'85 per cento, quello delle persone con una forma grave della malattia del 72 per cento e quello dei casi di positività dell'86 per cento.
   
(IL FOGLIETTONE, 27 marzo 2021)


'Fortunato d'Oro 2021' ad Andra e Tatiana Bucci, sopravvissute alla Shoah

L'Università Giustino Fortunato di Benevento ha conferito il Fortunato d'Oro 2021 ad Andra e Tatiana Bucci, sopravvissute alla Shoah. Le sorelle Bucci, deportate ad Auschwitz all'età di 4 e 6 anni e tra le ultime testimoni ancora viventi dell'Olocausto, hanno partecipato al Laboratorio universitario interdisciplinare "Shoah: memoria, didattica e diritto" attivo presso l'Università Giustino Fortunato di Benevento. L'evento ha riscosso tantissimo interesse con circa 3.500 persone che hanno seguito l'evento, tra utenti collegati sulla piattaforma in streaming e studenti collegati sul canale Youtube.
Il Fortunato d'Oro è un riconoscimento che viene assegnato ad esponenti del mondo della cultura e personalità che con la loro azione contribuiscono allo sviluppo e alla crescita del territorio nazionale e di quello in cui operano. Conferire il Fortunato d'oro a due straordinarie testimoni della Shoah "è stato per noi ricevere un premio dalle sorelle Bucci, con la loro partecipazione e la loro testimonianza" ha osservato il Magnifico Rettore Unifortunato, prof. Giuseppe Acocella. "Questo perché - ha aggiunto - l'Università ha l'obiettivo di trasmettere non solo nozioni ma anche sapere, cioè il progresso della condizione umana, e persegue lo sforzo di rendere migliori i giovani che attraversano l'esperienza universitaria".
   Tatiana e Andra Bucci furono catturate con i loro familiari nella casa di Fiume, per essere portate ad Auschwitz - Birkenau in Polonia. Le due sorelle sono sopravvissute perché furono scambiate per gemelle e quindi destinate agli esperimenti di Joseph Mengele, ma per fortuna non subirono sperimentazioni. Tatiana e Andra hanno raccontato di quando gli inviati di Mengele chiesero ai bimbi della loro baracca chi volesse 'andare dalla mamma', le sorelline dissero di no su suggerimento di una sorvegliante del lager. Con loro c'era anche il cugino Sergio, di 6 anni, che invece seguì le SS e non tornò più.
   Le due sorelle hanno ricordato come le dividessero all'arrivo, hanno ricordato le immagini vivide del campo, "della ciminiera da cui uscivano fumo e fiamme notte e giorno, dell'odore acre del fumo, della piramide di cadaveri". La testimonianza di Andra e Tatiana Bucci, ha aggiunto il rettore "è stato un evento per noi centrale perché ci ha riportato alla sfida tra il bene e il male che la Shoah ha introdotto nel '900. Perché è sfida tra bene e male quando bambini e bambine di 4 e 6 anni subiscono la barbarie della separazione dai genitori e una condizione di vita al freddo e al gelo. Per esempio mi ha colpito molto che la mamma ricordasse alle due figlie i loro nomi affinché non li dimenticassero, perché dimenticandoli spariva la loro storia. Questa grande battaglia tra bene e male è stata vinta dal bene, con il processo Norimberga e questo è tanto più importante dirlo ai giovani che stanno perdendo sensibilità. Quando il male viene chiamato bene non c'è speranza, cioè non si può distinguere più il male dal bene, generando un terribile equivoco". Preziosa anche la testimonianza di Mario De Simone, fratello di Sergio, nato dopo la morte del fratello ucciso dai nazisti.
   Il webinar è stato aperto dai saluti delle autorità, il sindaco Clemente Mastella, l'assessore del comune di Benevento Carmen Coppola, la senatrice Sabrina Ricciardi, e il dirigente USP Vito Alfonso; è stato introdotto dal Prof. Paolo Palumbo, Straordinario di Diritto ecclesiastico e canonico e Coordinatore del laboratorio UniFortunato sulla Shoah, e moderato dal prof. Aniello Parma, Aggregato di Diritto romano presso l'UniFortunato.

(NTR24, 27 marzo 2021)


Giornata dei Giusti dell'umanità, protagonisti gli alunni bojanesi

di Gianluca Caiazzo

BOJANO - Presso le classi dell'IISS di Bojano è stata commemorata la Giornata dei Giusti dell'umanità. La definizione «Giusto tra le Nazioni», è tratta dalla letteratura talmudica (trattato Baba Batra, 15,2). Infatti, il termine Gentile giusto è utilizzato nella tradizione ebraica per indicare i non ebrei che hanno rispetto per Dio. Il Parlamento italiano con la legge n. 212 del 20 dicembre 2017 ha istituito questa giornata con la finalità di mantenere viva e rinnovare la memoria di quanti, in ogni tempo e in ogni luogo, hanno fatto del bene salvando vite umane, si sono battuti in favore dei diritti umani durante i genocidi e hanno difeso la dignità della persona rifiutando di piegarsi ai totalitarismi e alle discriminazioni tra esseri umani. In particolare, la suddetta Legge individua nelle Istituzioni scolastiche le sedi privilegiate per l'educazione e la formazione per far conoscere alle giovani generazioni le storie di vita dei Giusti, a renderli consapevoli di come ogni persona debba ritenersi chiamata in causa, in ogni tempo e in ogni luogo, contro l'ingiustizia, a favore della dignità e dei diritti umani, in difesa del valore della verità. Agli alunni bojanesi è stato proposto un laboratorio di educazione civica "L'altra faccia della medaglia", coordinato dalla prof.ssa Italia Martusciello che è stato pubblicato a livello nazionale da Gariwo con la seguente motivazione: "Abbiamo deciso di pubblicarlo sul nostro sito, alla pagina educazione nella sezione i vostri contributi, per dare risalto al grande lavoro svolto e con la speranza che possa essere preso a modello dalle tante scuole che ci seguono". Inoltre agli studenti è stato anche proposto di adottare un Giusto tra le Nazioni, attraverso un certificato di adozione e l'impegno di custodire nella memoria il/la Giusto/a tra le Nazioni. E intanto nell'area verde dell'IISS di Bojano continua a crescere l'albero della memoria dedicato al compianto Giovanni Tucci, da poco scomparso. Al laboratorio di educazione civica hanno partecipato anche il prof. Daniele Muccilli e le professoresse: Berardina Spinelli e Stefania De Gregorio. Il percorso è stato particolarmente apprezzato anche dal Dirigente scolastico, Dott.ssa Antonella Gramazio.

(Il Quotidiano del Molse, 27 marzo 2021)


Il titolo di “Giusto tra le Nazioni” è stato introdotto da ebrei per essere assegnato a non ebrei che hanno fatto qualcosa di straordinario per salvare ebrei che venivano perseguitati proprio perché ebrei. Dunque tutto quello che si connette a questo titolo gira intorno al fatto che nel mondo ci sono ebrei. I quali hanno sempre avuto vita difficile in mezzo ai non ebrei, e quindi vogliono esprimere riconoscimento e gratitudine per quei pochi non ebrei che hanno fatto qualcosa di altamente rischioso in soccorso di ebrei in pericolo. Si può essere disinteressati a tutto questo, ma affiancare al titolo di “Giusto fra le Nazioni” quello apparentemente simile di “Giusto dell’umanità” serve soltanto a far sparire quella specifica particolarità che nel titolo ebraico era volutamente legata al fatto che nel mondo ci sono ebrei. Che molto spesso sono stati e sono ancora in pericolo. M.C.


Risultati elezioni Israele: ancora una volta maggioranza difficile

di Ugo Volli

Risultati elezioni Israele: ancora una volta maggioranza difficile. Per la quarta volta di seguito il sistema elettorale israeliano non è riuscito a dare una risposta chiara su come dare un governo al paese. Mentre scrivo ancora non è concluso lo spoglio e probabilmente i risultati finali si avranno solo dopo la pausa festiva di Pesach. Secondo l'ultimo conteggio che ho visto, il Likud (partito di Netanyahu) avrebbe ottenuto 30 seggi, Yesh Atid (centrosinistra, presieduto dall'ex star televisiva Lapid) 17, Shas (partito religioso sefardita) 9, I biancoazzurri di Gantz (centrosinistra) 8, i laburisti (sinistra) 7, Yamina (destra, presidente Bennett) 7, UTJ (religiosi askenaziti) 7, Yisrael Beytenu (il partito "russo" di Liberman, destra ma anti-Netanyahu) 7, La lista unita araba 6, i Sionisti religiosi 6, "Nuova speranza" (partito scissionista dal Likud, presieduto da Saar) 6, Meretz (estrema sinistra) 6 e Ra'am (partito religioso arabo di destra) 4.
   E' un quadro assai confuso e che può ancora mutare Ma alcune cose sono già chiare.
   La prima è che i risultati dipendono da pochissimi voti. Per i piccoli partiti, quattro o cinque in queste elezioni, il problema è superare la soglia del 3,25 %, cioè circa 200 mila voti: può essere questione anche di qualche centinaio di voti in più o in meno, di elettori dispersi o di astenuti. Chi passa la soglia ha almeno 4 deputati su 120; se restano sotto i loro voti sono perduti. Il che naturalmente può rovesciare la maggioranza parlamentare e trasformare i vincitori in vinti e viceversa. Questo è uno dei limiti del sistema elettorale attuale. Nessuna meraviglia che una volta di più i sondaggi abbiano clamorosamente fallito e anche gli exit poll siano stati smentiti.
   Un altro problema nasce dalla complessità politica. Questa deriva in parte dal personalismo della politica israeliana, in cui ogni leader o ogni gruppetto religioso o di provenienza geografica ha il suo partito, sicché non c'è mai stata nella storia di Israele la maggioranza assoluta di un partito e in genere i più grossi, come da tempo il Likud, si fermano al 30% o addirittura al 25% dei seggi, al massimo un paio superano il 10% e gli altri stanno ancora più giù. Sicché le maggioranze di governo si compongono mettendo assieme almeno cinque o sei partiti, ciascuno con le sue esigenze e condizioni.
   Ma la complessità viene anche dal fatto che nelle ultime elezioni si sono sovrapposte molte polarità diverse. Se si guarda a destra e sinistra, non c'è dubbio che l'elettorato israeliano sia schierato a destra (almeno per 70 deputati contro 50 e anche di più). Ma la destra non può facilmente costruire una maggioranza, perché a questa opposizione si sovrappone quella fra chi vuole conservare Netanyahu come primo ministro (52 circa) e chi lo vuole a tutti i costi eliminare, anche stando a destra (54) con un gruppetto di incerti o non impegnati in mezzo (Yamina, Ra'am). Poi c'è la questione etnica. Anche quando ci sarebbe una maggioranza di destra (esclusi gli anti-Netanyahu) oppure una di sinistra, entrambe dovrebbero essere realizzate includendo dei partiti che si definiscono arabi e sono tendenzialmente antisionisti; ma altri potenziali componenti di queste maggioranze (i sionisti religiosi, Israel Neitenu) non accettano di unire i voti con i loro. Infine c'è una contrapposizione forte sulla religione. La sinistra in generale è diffidente nei confronti dei religiosi, anche se alcuni sono più prudenti di altri a esprimere questo atteggiamento. Ma anche a destra vi sono antireligiosi molto violenti (Lieberman), e dunque l'apporto dei 22 deputati religiosi (o degli antireligiosi, che sono più o meno altrettanti) è sempre in dubbio.
   Queste complessità e in particolare l'incrocio fra la contrapposizione programmatica destra/sinistra e quella personale per o contro Netanyahu, ha bloccato la politica israeliana negli ultimi due anni, impedendo che si instaurasse un governo funzionante e costando al paese un prezzo molto alto in termini politici oltre che economici. Netanyahu è riuscito, con grande abilità a non sprecare le occasioni offerte dall'amicizia di Trump e dalla disponibilità di molti paesi arabi. Ma poteva fare molto di più, se non fosse stato regolarmente bloccato dai suoi avversari politici e giudiziari. Non resta che sperare che questa situazione si superi, per esempio con un governo di centrodestra dove convergano col Likud i partiti religiosi, la destra di Bennett e quella di Saar, e magari anche quella di Liberman. Ciò corrisponderebbe agli orientamenti fondamentali dell'elettorato. Ma è un risultato molto improbabile. Potrebbe esserci una maggioranza conservatrice anche con la destra pro-Netanyahu e l'appoggio esterno degli arabi religiosi di Ra'am. Ma anche questa è una strada stretta e difficile. La sinistra potrebbe arrivare a maggioranza mettendo assieme anche i dissidenti di destra (Liberman, Saar) e tutti gli arabi. Ma sarebbe una coalizione molto disomogenea dal punto di vista programmatico e politico. Insomma, è probabile che si arrivi a una nuova elezione. Meglio votare che non farlo, soprattutto in Medio Oriente, dove le lezioni oneste sono un bene rarissimo. Ma certamente cinque scrutini in due anni sono troppi e l'elettorato dà segni di stanchezza.

(Progetto Dreyfus, 27 marzo 2021)


Sabotaggi, roghi e missili Tra Israele e Teheran la guerra segreta nel mar Arabico

L’attacco di ieri a una petroliera di Haifa è solo l’ultimo episodio dello scontro


di Gianluca Di Feo

Una sfida esplosiva nell’oscurità. L’attacco contro una nave israeliana nel Mar Arabico fa temere un’escalation nel confronto con Teheran. La Lori, equipaggio scandinavo e proprietà di una società di Haifa, è stata centrata nella notte di martedì da un missile, che non ha causato vittime: il mercantile ha proseguito il viaggio verso l’India. L’aggressione però è solo l’ultimo capitolo di una guerra segreta, combattuta con raid di commandos nelle acque chiave del commercio mondiale. Poche settimane fa un altro assalto aveva portato la tensione alle stelle. Nella notte del 24 febbraio la Mv Helios Ray è stata squarciata da una mina magnetica, che ha perforato entrambe le fiancate a largo dell’Oman obbligandola a raggiungere il porto più vicino. La nave appartiene a un imprenditore di Tel Aviv e il premier Benjamin Netanyahu ha accusato direttamente l’Iran, che a sua volta ha negato qualsiasi responsabilità.
   Di fronte a questi colpi gli israeliani non sarebbero rimasti fermi. E avrebbero risposto con “the italian job”: gli incursori subacquei dello Shayetet 13, il reparto creato nel 1948 grazie all’esperienza bellica di Fiorenzo Caprotti, un veterano della X Mas monarchica. I commandos di oggi avrebbero usato la stessa tecnica degli assalti contro Malta e Gibilterra nel 1941: l’avvicinamento agli obiettivi di notte, cavalcando la versione moderna dei “maiali”, per poi applicare mine magnetiche sulle fiancate. Questi ordigni con inneschi a tempo adesso vengono chiamati “limpet” ma sono l’aggiornamento delle “mignatte” inventate dalla Regia Marina nella Seconda Guerra Mondiale.
   L’ultimo blitz sarebbe avvenuto due settimane fa. Le inchieste del Wall Street Journal e di Haaretz hanno però rivelato che dal 2019 ci sono state dozzine di azioni del genere: almeno sei nel corso del 2020. Nel mirino le petroliere che, violando l’embargo, garantiscono il finanziamento dei Guardiani della Rivoluzione, il braccio armato della teocrazia iraniana. In particolare, sarebbero state bersagliate le cisterne che riforniscono il regime di Damasco, permettendogli di sopravvivere alle sanzioni internazionali. Gran parte delle missioni sarebbe avvenuta al largo del Libano, alcune nel Mar Rosso: in diversi casi, i commandos dello Shayetet 13 non avrebbero impiegato esplosivi, limitandosi a sabotare eliche, timoni e altri apparati delle petroliere.
   In questa sfida degli abissi finora entrambi i contendenti sembrano avere pianificato azioni che provochino danni limitati, senza vittime o affondamenti. Una guerra a bassa intensità, rimasta letteralmente sommersa, senza rivendicare vittorie o denunciare sconfitte. Le notizie trapelano quasi sempre su canali online, come le foto del rogo a bordo della Shahr e Kord, una nave iraniana su cui è misteriosamente scoppiato un incendio davanti alle coste siriane. O come l’ultimo attacco missilistico contro la Lori, sul quale il governo Netanyahu ha evitato qualsiasi commento.
   I raid però richiedono forze speciali, sottomarini e equipaggiamenti sofisticati: sono prove tecniche di un vero conflitto, che vanno in scena nelle acque in cui transitano le risorse energetiche dell’intero pianeta. Già due anni fa nello Stretto di Hormuz, il passaggio chiave delle rotte di greggio, si è sfiorato lo scontro totale con due petroliere in fiamme dopo l’impatto con mine subacquee iraniane. Da allora viene pattugliato da una flotta internazionale, con la presenza di diverse marine occidentali: una missione a cui presto si aggiungerà una fregata italiana. Perché anche la nostra economia dipende dalla sicurezza di quei mari lontani.

(la Repubblica, 26 marzo 2021)


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Trump non c'è e l'Iran spara a una nave israeliana

Un missile di Teheran colpisce un cargo dello Stato ebraico. Ma gli americani non difendono i loro alleati dalle minacce.

di Mirko Molteni

Ieri la tivù israeliana Canale N12, ha riportato che una nave cargo israeliana è stata danneggiata nel Mare Arabico da un missile iraniano. Il bastimento non è affondato e sta proseguendo sulla sua rotta. E il cargo portacontainer Lori, battente bandiera liberiana e appartenente alla compagnia di navigazione ebraica Israeli XT Management, con sede ad Haifa. La nave era salpata il 21 marzo dalla Tanzania verso l'India, ed è stata squassata da un'esplosione mentre era al largo dell'Oman. La vicinanza all'Iran ha subito fatto pensare a un attacco da parte di Teheran, che ha sviluppato una serie di missili antinave, fra cui il Ghadir, con gittata superiore a 300 km. Il ministro della difesa Benny Gantz ha commentato: «Dobbiamo indagare, ma sappiamo che l'Iran cerca di colpire le infrastrutture e i cittadini israeliani».
   Sembra strano che un missile progettato per affondare navi militari abbia causato danni limitati, senza vittime fra l'equipaggio. La Lori è una nave da 100.000 tonnellate, lunga 228 metri e la sua mole può evidentemente incassare un colpo simile. Approderà come previsto in India, dove verranno effettuate le riparazioni. Ammesso sia stato un missile, dev'essere stato con più probabilità un missile da crociera, che cioè vola in orizzontale, radente a pochi metri sopra le onde, e che si schianta sulla fiancata, anziché un ordigno balistico, che colpendo dall'alto avrebbe potuto creare danni forse peggiori, perforando i ponti con la combinazione fra velocità e carica esplosiva. Non è un episodio nuovo in quella che pare una "guerra segreta" sui mari. Lo scorso 25 febbraio un altro cargo, la MV Helios Ray, nave inglese battente bandiera delle Bahamas, ma di proprietà del miliardario israeliano Abraham Ungar, è stata colpita nel Golfo dell'Oman da un ordigno che ha lasciato sulle fiancate due squarci larghi un metro e mezzo. Ungar è ritenuto «vicino a Yossi Cohen, capo del servizio segreto Mossad», secondo il canale israeliano
   
 Sauditi e Huthi
  La sua nave era salpata dal porto saudita di Dammam ed era diretta a Singapore, ma dopo l'attacco s'è ancorata a Dubai, nel porto Rashid, per le riparazioni. Allo stesso modo, l'Arabia Saudita, alleata di Israele nel fronte anti-iraniano, attribuisce agli iraniani e ai loro alleati sciiti yemeniti Huthi vari attacchi a petroliere dei loro clienti, per boicottare i commerci di Riad. Fra gli episodi più recenti, il 14 dicembre 2020, la petroliera di Singapore BW Rhine è stata centrata da un "barchino-bomba" nel porto saudita di Gedda. Da patre loro, israeliani e sauditi ribattono colpo su colpo, sullo sfondo della tensione dovuta al cambiamento di politica della Casa Bianca che ha riaperto la porta a trattative con Teheran e soprattutto non lascia più mano libera ai sauditi come con Trump.

(Libero, 26 marzo 2021)


Netanyahu in svantaggio, ma non vince nessuno

di Alessandro Perelli

Questa volta Bibi dovrà inventarsi qualche altra sua diavoleria, come quella della staffetta, poi non mantenuta, della legislatura precedente, per essere riconfermato Premier. I risultati delle elezioni di martedì scorso non sono ancora definitivi (mancano i voti dei soldati, degli ammalati di covid e degli ambasciatori esteri), ma con il 90% dei voti scrutinati si è verificata una situazione che vede la possibile coalizione con Netanyahu capo del Governo a 59 seggi e l'ipotetica nuova maggioranza dei partiti che non vogliono la sua riconferma, di svariato orientamento politico, a 61 seggi, maggioranza risicata con una Knesset, il Parlamento di Tel Aviv, che ne conta 120.

 Scrutinio ancora da finire
  Questo se il 10% dei voti non ancora conteggiato non cambierà la situazione presentando una sostanziale parità. La prima osservazione che balza agli occhi sarebbe quella che Benjamin Netanyahu non è riuscito nel suo prioritario intento: quello di assicurarsi la rielezione. Ciò anche se il suo partito, il Likud, è stato confermato come prima forza politica del Paese e la spaccatura avvenuta alla sua destra, provocata da Gideon Sa'ar, ha raccolto solo sei seggi. Neanche l'appoggio di Yamina, di Naftali Bennet, suo probabile alleato insieme agli scontati voti dei movimenti religiosi ultraortodossi gli sarebbe sufficiente.

 L'alleanza dei suoi oppositori troppo variegata
  Netanyahu finalmente fuori dai giochi dunque? Non è così. L'alleanza dei suoi oppositori risulta infatti troppo variegata politicamente per fare prevalere come unico motivo coagulante il rifiuto a rivederlo come Premier. In essa sono presenti i reduci centristi provocati dal disfacimento di Blu e Bianco con Yesh Adid di Yair Lapid che si è già proposto come nuovo leader forte dei suoi 17 seggi e Benny Gantz ridotto a otto deputati, ma anche partiti di estrema destra, laburisti, che hanno aumentato la loro presenza, estrema sinistra e gli arabi israeliani che dividendo la precedente Lista araba unita sono entrati in Parlamento con due partiti, Joint con sei seggi e Ra'am con cinque. Ed è proprio su questi ultimi, braccio dei Fratelli Musulmani, gli unici che per ora non hanno posto la condizione di non rieleggere Netanyahu, che potrebbero venire delle sorprese. Del resto il Capo del Governo israeliano , negli ultimi mesi, grazie anche al supporto di Trump ha compiuto passi decisivi con la ripresa delle relazioni diplomatiche con vari Paesi del Golfo e con il congelamento dell'annessione dei territori colonizzati nella valle del Giordano. Vedere nella maggioranza che lo riconfermerebbe Premier l'ultra destra religiosa e un partito arabo sarebbe per Netanyahu un colpo da prestigiatore, incredibile fino a poco tempo fa.

 Le carte di Bibi
  Ma questa non sembra l'unica carta in possesso di Bibi visto le enormi differenze ideologiche tra i suoi oppositori. Dopo aver resistito agli influssi negativi derivatigli dall'apertura del suo processo per corruzione, Benjamin Netanyahu si sta muovendo con la consueta spregiudicatezza e autorevolezza contando anche sul fatto che, in mancanza di una soluzione a lui favorevole potrebbero aprirsi le porte a nuove (le quinte di seguito) elezioni anticipate con la relativa stanchezza di tutti ma non di lui che avrebbe facile gioco a dimostrare ai cittadini israeliani che senza la sua guida il Paese è ingovernabile.

(Avanti!, 26 marzo 2021)


Elie Kligman, la promessa del baseball Usa che non gioca di sabato per rispettare lo shabbat

Il talentuoso lanciatore diciottenne è sui taccuini di molti scout. Ebreo ortodosso, si rifiuta di scendere in campo per rispettare i divieti prescritti dalla sua religione.

Ha tutte le carte in regola per puntare in alto, fino alla Major Leagu. Solo una cosa potrebbe frenare Elie Kligman, la sua devozione religiosa. Il diciottenne lanciatore del Cimarron-Memorial High School, high school di Las Vegas, è un ebreo ortodosso: mangia solo pietanze kosher, prega tre volte al giorno, ma soprattutto osserva lo shabbat. «Fino ad oggi il mio allenatore al liceo ha fatto in modo che non giocassi nei giorni per me proibiti», — ha raccontato lo scorso gennaio Elie, in un intervista al magazine di cultura ebraica Chabad. Come è noto, le prescrizioni prevedono che non si faccia alcuna attività dal tramonto del venerdì a quello del sabato. Non è detto che nel prosieguo della sua carriera, il giovane lanciatore troverà allenatori altrettanto comprensibili.

 Promessa
  Ma Kligman non è finito sui taccuini dei maggiori scout della Major League per i suoi usi religiosi. È un potente switch hitter, un battitore cioè capace di usare la destra contro i mancini e viceversa. Ed è anche un ottimo lanciatore, molto preciso, capace di chiudere interi inning senza subire punti. Recentemente è stato selezionato tra i migliori 175 giocatori di high school nel corso dell'Area Code Baseball Games, lo scouting promosso proprio dalla Mlb. Ha una carriera universitaria assicurata, ma può serenamente puntare al baseball professionistico. Tutti si chiedono, a cominciare dal New York Times che gli ha dedicato un lungo articolo, se non possa essere ostacolato dalla sua stretta osservanza dei dettami religiosi.

 Il padre agente
  Le prime difficoltà potrebbero nascere proprio al college, dal momento che gran parte delle partite sono programmate tra venerdì e sabato. Ma la famiglia Kligman e il giovane Elie sembrano determinati ad andare fino in fondo. Il padre del giocatore, avvocato e procuratore sportivo con un passato da catcher all'università, è impegnato a fare in modo che al figlio non sia preclusa alcuna possibilità per le sue scelte religiose: «Sei giorni su sette può fare tutto quello che fa un giocatore di baseball. E se college e Mlb non saranno disponibili a dargli una chance, faremo quello che potremo per far sì che ottenga ciò che gli spetta».

 Il modello Koufax
  Nel 1965 fece scalpore la decisione del leggendario pitcher Sandy Koufax, hall of fame e detentore di numerosi record, che si rifiutò di giocare una partita di world series con i suoi Dodgers nel giorno dello Yom Kippur. Ma Koufax giocava di sabato. Nato in una famiglia di ebrei ortodossi, Elie Kligman sul punto è stato molto chiaro: «Faccio alcune cose per il baseball e altre per la mia religione. Ma se la partita è il venerdì sera o il sabato pomeriggio, per me non ci sono dubbi, so cosa fare». Sottinteso, restare a casa e non giocare. «Il mio obiettivo è diventare il primo giocatore che osserva lo shabbat in Major League».

(Corriere della Sera, 26 marzo 2021)


Gli USA donano 15 milioni di dollari alle comunità palestinesi

di Giuseppe Gallinella

Gli USA hanno detto che stanno donando 15 milioni di dollari alle comunità palestinesi vulnerabili in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza per aiutare a combattere la pandemia COVID-19, una brusca inversione da parte dell'amministrazione Trump che ha tagliato quasi tutti gli aiuti ai palestinesi.
   L'ambasciatrice statunitense Linda Thomas-Greenfield ha fatto l'annuncio all'incontro mensile del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite in Medio Oriente, affermando che il denaro dell'Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale sosterrà gli sforzi di risposta "COVID-19 dei servizi di soccorso cattolici nelle strutture sanitarie e per le famiglie vulnerabili Cisgiordania e Gaza."
   Inoltre, ha detto, i fondi sosterranno gli aiuti alimentari di emergenza alle comunità bisognose a causa della pandemia.
   "Questo aiuto urgente e necessario è una parte del nostro rinnovato impegno per il popolo palestinese", ha detto Thomas-Greenfield. "Gli aiuti aiuteranno i palestinesi in estremo bisogno, il che porterà più stabilità e sicurezza sia agli israeliani che ai palestinesi".
   Sotto l'ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump, gli Stati Uniti hanno fornito un sostegno senza precedenti a Israele, riconoscendo Gerusalemme come capitale di Israele, spostando l'ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv, interrompendo le relazioni e tagliando l'assistenza finanziaria ai palestinesi. L'amministrazione Trump ha anche invertito la rotta sull'illegittimità degli insediamenti israeliani su terreni rivendicati dai palestinesi. Ha ripristinato circa un milione di dollari durante la pandemia dell'anno scorso.
   Subito dopo l'inaugurazione del presidente degli Stati Uniti Joe Biden, il 20 gennaio, la sua amministrazione ha annunciato che stava ripristinando le relazioni con i palestinesi e rinnovando gli aiuti ai rifugiati palestinesi, un'inversione del taglio di Trump e un elemento chiave del suo nuovo sostegno per una soluzione a due stati.
   Thomas-Greenfield ha affermato che i 15 milioni di dollari in aiuti sono "coerenti con i nostri interessi e i nostri valori e sono in linea con i nostri sforzi per sconfiggere la pandemia e l'insicurezza alimentare in tutto il mondo".
   Ha fatto l'annuncio mentre Israele attende i risultati finali delle quarte elezioni parlamentari di martedì in due anni. È stato ampiamente visto come un referendum sull'idoneità del primo ministro Benjamin Netanyahu a governare mentre era sotto accusa. Le sue prospettive di vittoria sono andate fuori portata giovedì, poiché il conteggio completo dei voti ha mostrato che Netanyahu e i suoi alleati di destra non raggiungono la maggioranza parlamentare. Anche i suoi avversari non hanno riunito la maggioranza della Knesset da 120 seggi.
   L'annuncio degli Stati Uniti segue anche un incontro virtuale del cosiddetto Quartetto dei mediatori del Medio Oriente - Stati Uniti, Nazioni Unite, Russia e UE - per discutere del rilancio del loro sforzo a lungo bloccato per convincere Israele e i palestinesi a negoziare due soluzioni statali al loro conflitto vecchio di decenni.
   Una breve dichiarazione dei quattro mediatori del Medio Oriente, noti come il Quartetto, ha affermato che gli inviati hanno discusso il ritorno "a negoziati significativi che porteranno a una soluzione a due stati, compresi passi tangibili per far avanzare la libertà, la sicurezza e la prosperità per palestinesi e israeliani, il che è importante nel suo diritto."
   Non ci sono stati colloqui di pace sostanziali tra Israele e palestinesi dal 2014 e le due parti sono ferocemente divise sulle questioni centrali del conflitto.
   Thomas-Greenfield non ha fatto menzione di una riunione del Quartetto, ma ha ribadito il sostegno di Biden per una soluzione a due Stati e ha detto che "gli Stati Uniti non vedono l'ora di continuare il loro lavoro con Israele, i palestinesi e la comunità internazionale per raggiungere una pace a lungo cercata in Medio Oriente."

(ilformat, 26 marzo 2021)


Gli Emirati volano a Tel Aviv dopo gli «accordi di Abramo»

di Francesco Giambertone

Da oggi la compagnia di bandiera emiratina Etihad effettuerà voli quotidiani verso Israele: dopo la normalizzazione dei rapporti stabilita la scorsa estate dagli «accordi di Abramo», questa mossa rafforza ancora i legami tra Abu Dhabi e Tel Aviv. Con l'annuncio dato a novembre l'azienda di trasporti comunicava che i voli di linea (a rischio rinvio fino all'ultimo: al massimo l'esordio può essere posticipato al 6 di aprile) «permetteranno ai cittadini degli Emirati di scoprire i siti storici, le spiagge, i ristoranti e la vita notturna di Israele». Non si tratta solo di una scelta diplomatica ma anche commerciale: Etihad ha risposto a Flydubai, la compagnia low cost che per prima nell'autunno 2020 aveva promesso le nuove tratte verso il Paese non più considerato ostile.

(Corriere della Sera - Sette, 26 marzo 2021)


Netanyahu resta "corto" di due seggi. Israele è appeso ai ricatti degli arabi

Ra'am con sei seggi diventa l'ago della bilancia della Knesset. Serve al premier vincitore, ma pure alla frastagliata sinistra.

di Fiamma Nirenstein

Il dottor Mansour Abbas, di professione dentista, uomo religioso, seguace dell'Islam anticomunista e anche antioccidentale, è grassoccio, ha la barba lunghetta, la voce dolce come una caramella al latte.
   E ha in mano il futuro governo di Israele. Se ci sarà, e se non si dovrà andare alle quinte elezioni. Il suo partito Ra'am dopo ore di incertezza ha superato lo sbarramento del 3,25 per cento che consente l'ingresso alla Knesset. E adesso eccolo qua con cinque parlamentari, ce l'ha fatta, e può determinare il futuro del Paese: «Senza di noi non è possibile qualsiasi governo, di destra con Netanyahu, o di sinistra con Lapid». Accetterà la corte di «chi è pronto a soddisfare le richieste sociali ed economiche del settore arabo-israeliano. Quando arriveranno le offerte le prenderemo in considerazione senza discriminare nessuno».
   Chi parla di lui ricorda che la sua ispirazione islamista punta innanzitutto allo spazio, al potere, proprio come fa la Fratellanza Musulmana, e che di Netanyahu o di Yair Lapid col blocco di sinistra in quanto tali, gli importa ben poco. Ma senza di lui nessuno dei due può arrivare a quei 61 seggi che nel parlamento di 120 consentono la maggioranza. Dopo il conto di circa il 90 per cento dei voti, e in attesa fino a venerdì sera delle 600mila doppie buste (soldati, malati, funzionari all'estero) che potrebbero modificare parecchio i risultati, Bibi, 30 seggi al Likud, controlla un blocco di 52 seggi; a questi si possono forse aggiungere, se lui accetta, gli eventuali sette seggi della destra di Naftali Bennet che lo porterebbero a 59. Il blocco di sinistra arriva a 56, una pletora molto differenziata che a sua volta vorrebbe Bennet che però si chiama Destra, e ha bisogno dei cinque dell'indispensabile Abbas.
   Il caos è sovrano, ma Netanyahu è deciso a far valere la sua forza nonostante la rabbia smodata di chi seguita a raccontare con lui un futuro di «oscurità e di razzismo» (parole di Yair Lapid) e ad affermare che se nel governo siederanno anche partiti religiosi e di destra come quello nazionalista-religioso di Betzalel Smotrich, Israele diventerà un Paese fascista. Ma i risultati parlano chiaro: l'unico blocco consistente è quello che parte dai 30 seggi del Likud, piaccia oppure no. Iran, virus, pace di Abramo, economia, queste sono le sue priorità. Il resto, ha scopi molto differenziati. Molti partiti di sinistra sono solo felici di essere sopravvissuti, come il Meretz, e di avere più voti del previsto, come il partito laburista (sette) o quello di Gantz (otto).
   Ma il miracolo l'ha compiuto di nuovo Bibi, dopo aver subito una vera e proprio secessione, quella di Gideon Sa'ar con sei indispensabili seggi del Likud nonostante gli elettori lo abbiano punito (era partito con 18). Adesso resta la questione di Bennet: accetterà di sedere al governo con Bibi? I due hanno una lunga e difficile storia comune. E tuttavia, il partito di Bennet non si chiama «Yemina»? Non risulta che sia diventato antiliberale in economia o postsionista. Bennet può forse sedersi con Yair Lapid e persino col Meretz per programmare un futuro senza Bibi, ma come se la caverà con i laburisti socialisti? Né la sua ispirazione personale potrà spingerlo fino ad accettare l'appoggio esterno della Lista Comune degli arabi antisionisti. Ore complicate ci aspettano ancora.

(il Giornale, 25 marzo 2021)


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Tra ultradestra e arabi le acrobazie di Netanyahu per formare un governo

Maggioranza difficile per il premier uscente che ha perso sei seggi. La tentazione di sottrarre deputati al partito dell'ex alleato Gantz

di Sharon Nizza

TEL AVIV - Con il 97% delle schede scrutinate, lo stallo della politica israeliana si delinea con maggiore chiarezza: un nuovo governo Netanyahu con il sostegno di Naftali Bennett non arriva a ottenere i 61 seggi necessari per comporre una maggioranza. Si fermano a 59, includendo anche la destra religiosa-nazionalista di Betzalel Smotrich (6 seggi), che porta per la prima volta nella Knesset anche Itamar Ben Gvir, "l'avvocato dei coloni", considerato estremista anche da molti settori del Likud.
   
Con 30 seggi e un distacco di ben 13 dal secondo partito (Yesh Atid di Yair Lapid, 17 seggi), Netanyahu è il vincitore di queste elezioni, ma, come nelle tre precedenti tornate elettorali degli ultimi due anni, se non riesce a mettere in piedi una coalizione, nel regno del proporzionale anche 30 seggi non sono la salvezza. E mettere su una coalizione dopo che negli anni si è fatto terra bruciata degli alleati, sembra un'impresa più ardua che mai.
   Mentre le quarte elezioni cadevano con un tempismo perfetto, con la campagna elettorale che coincideva con quella vaccinale, un eventuale ritorno alle urne in estate non è propizio: nel pieno della fase dibattimentale del processo al primo ministro che riprende il 5 aprile, e con l'effetto vaccini attenuato. Se poi, nonostante il successo riconosciuto in tutto il mondo della campagna inoculazioni, ha ottenuto 30 seggi - perdendone 6 a favore degli avversari di destra - non c'è nessuna garanzia di incassare una vittoria più netta. Quindi è critico trovare i 61.
   Lo scenario più discusso riguarda il sostegno a un governo Netanyahu da parte di Ra'am, il partito di Mansour Abbas, parlamentare arabo fuoriuscito dalla Lista Araba Unita proprio per sostenere una linea pragmatica che non precluda l'appoggio a un governo di destra. Gli exit poll non li avevano rilevati, mentre i dati reali li danno a 4 o 5 seggi. Qui resta difficile pensare alla convivenza tra il partito che raccoglie il voto islamico e la destra nazionalista che si oppone a qualsiasi dialogo con i palestinesi. Anche se la posizione pragmatica di Ra'am potrebbe sorprendere e al momento Abbas, che fa di tutto per essere l'ago della bilancia, dichiara che «non esclude chiunque non lo escluda». Su un'altra opzione lavorano ora gli emissari di Netanyahu, cercando disertori tra le opposizioni - per assurdo anche tra Blu e Bianco di Benny Gantz (8 seggi), con cui ha appena rotto l'alleanza di governo.
   Gli "anti Bibi" possono raggiungere una maggioranza mettendo insieme una coalizione dalla tenuta improbabile con partiti arabi, sinistra, nazionalisti laici e religiosi, in cui l'unico collante sarebbe la volontà di mandare a casa Netanyahu. Altra opzione: 15 seggi degli ultraortodossi si uniscono alla compagine avversaria a Netanyahu, senza arabi e senza Lieberman (l'unico che non siederebbe con i haredim). Un precedente c'è, quando Rabin nel '92 fece convivere i laicissimi di Meretz con i religiosi di Shas. Ma la vera speranza di Netanyahu è che venerdì, ultimato il conteggio di mezzo milione di schede di chi ha votato fuori dal proprio seggio, i due agognati seggi arrivino da lì.

(la Repubblica, 24 marzo 2021)


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«Islamici determinanti. Siamo pronti a sostenere chiunque ci ascolterà»

Chiediamo il riconoscimento degli insediamenti beduini considerati illegali. Se il Paese vuole Netanyahu, coopereremo con lui. Intervista a Abu Sahiban, membro del partito Ra'am.

di Sharon Nizza

«È un passo drammatico che si fonda su un principio: se vogliamo un cambiamento nella società araba, dobbiamo essere parte della soluzione e non del problema». Faiz Abu Sahiban, sindaco di Rahat, la più grande città beduina d'Israele e membro dell'esecutivo di Ra'am, racconta alcuni retroscena della scelta del partito islamista, che potrebbe decidere le sorti del prossimo governo dello Stato ebraico. «Dobbiamo essere parte integrante del processo decisionale, mettere sul tavolo la nostra agenda e trattare sulle questioni importanti per noi, in cambio del sostegno politico a qualsiasi coalizione».

- Cosa chiedete?
  «Abbattimento della criminalità, riconoscimento degli insediamenti beduini considerati illegali, piani regolatori, investimenti in educazione e infrastrutture».

- Perché avete deciso di staccarvi dalla Muskhtaraka, la Lista Araba Unita?
  «Non dipendiamo dalla destra né dalla sinistra, rispondiamo solo al pubblico arabo. Se la maggioranza del Paese vuole Netanyahu, non abbiamo problemi a cooperare anche con lui. Idem con Lapid. Non mettiamo veti. Volete il nostro sostegno? Perfetto, queste sono le nostre richieste».

- Il sostegno alla destra era una linea rossa?
  «Balad (uno dei quattro partiti della Mushtaraka) si oppone a qualsiasi trattativa. Che cosa ci state a fare nella Knesset? Siamo lì per portare un cambiamento da dentro, non per urlare da fuori. Per questo ora tutta la Mushtaraka ha preso solo 6 seggi».

- Non era iniziato tutto con la diatriba interna sulla votazione della legge contro le terapie di conversione degli omosessuali?
  «Ra'am rappresenta una società conservatrice, non possiamo sostenere quella legge. Era la nostra linea rossa. La loro linea rossa era il sostegno a Netanyahu. Due linee rosse hanno portato alla rottura».

- Potete considerare di unirvi ad un'alleanza che includa Ben Gvir?
  «Ben Gvir è un'estremista. Se non accetta le nostre richieste, vorrà dire che quella coalizione non farà per noi. Netanyahu deve decidere con chi stare».

- Raccomanderete Netanyahu alle consultazioni con il presidente?
  «Raccomanderemo chi ci darà le garanzie di occuparsi dei nostri problemi. Con i nostri seggi possiamo stabilire chi sarà il prossimo premier d'Israele, la decisione spetta a loro».

- C'è chi vi ha chiamato collaborazionisti, traditori della causa palestinese.
  «Siamo un unico popolo e siamo per la soluzione dei due Stati. Ma dobbiamo occuparci dei problemi della nostra gente qui. Non rinuncio al diritto di difendere i palestinesi per le vie consentite dalla legge, offriamo molto aiuto umanitario con la nostra rete di associazioni islamiche».

- Avete ricevuto condanne da parte della leadership palestinese?
  «No. Non intervengono nelle nostre questioni interne, come noi non interveniamo nelle loro. Rispettiamo la legge israeliana secondo la fatwa che stabilisce che una minoranza islamica in un Paese non musulmano deve rispettare la legge del luogo. Fa parte del principio della wasatia , la ricerca della via di mezzo. Come sta facendo Abbas alla Knesset».

- Siete i protagonisti di una svolta?
  «Non vogliamo altre elezioni, ma essere parte di un governo in cui possiamo fare la differenza. È l'inizio di una nuova epoca di accettazione e cooperazione».

(la Repubblica, 25 marzo 2021)


Test sui vaccini agli under 16, i risultati entro l'estate. Ma in Israele già li fanno

di Cristina Marrone

MILANO Gli Stati Uniti hanno pianificato di vaccinare gli adolescenti nell'autunno di quest'anno e pensano di procedere con i più piccoli all'inizio dell'anno prossimo. Nel Regno Unito il governo avrebbe intenzione di anticipare ad agosto l'immunizzazione dei più piccoli (tra i 6 e i 17 anni) non appena saranno disponibili i dati sulla sicurezza del vaccino AstraZeneca in questa fascia di età, attesi tra giugno e luglio. In Israele, dove la campagna vaccinale galoppa, 600 ragazzini tra i 12 e i 16 anni hanno ricevuto le prime dosi di Pfizer-BioNtech (autorizzato dall'Ema solo sugli over 16) senza aver riscontrato effetti collaterali gravi. A San Marino sono iniziate proprio ieri le vaccinazioni con Pfizer ai circa 700 ragazzi tra i 16 e i 18 anni residenti.
   E' chiaro che se ci si vuole almeno avvicinare all'immunità di gregge non può essere tralasciata la fascia pediatrica, che rappresenta un quarto della popolazione mondiale (in Italia gli under 18 sono appena il 17%). «Possiamo vedere la vaccinazione dei più piccoli sotto due punti di vista: per limitare la circolazione del virus all'interno della comunità e per proteggere bambini stessi, che seppur molto raramente possono sviluppare una malattia severa», commenta l'immunologa Antonella Viola, docente di Patologia all'Università di Padova che aggiunge: «Credo che poiché questa malattia può provocare strascichi a lungo termine anche tra i più piccoli andrebbero vaccinati», aggiunge.
   Le case farmaceutiche hanno avviato trial pediatrici, alcuni iniziati già nel novembre 2020. Moderna pochi giorni fa ha annunciato l'avvio di uno studio che testerà il suo vaccino dal 6 mesi agli 11 anni ed è iniziata la sperimentazione di fase 2-3 sui primi 6.750 bambini sani arruolati negli Stati Uniti e in Canada. In uno studio separato sempre Moderna sta già sperimentando il suo vaccino su 3.000 bambini di età compresa tra 12 e 17 anni e i risultati sono attesi entro l'estate. Anche Johnson e Johnson ha iniziato a testare il suo monodose sui ragazzi più grandi con l'obiettivo di sperimentarlo più avanti anche sui più piccoli e i neonati. Pfizer BioNTech sta testando il suo vaccino nei bambini di età compresa tra 12 e 15 anni e ha comunicato che passerà presto a classi di età più giovani. Quando potranno concretamente accedere al vaccino i nostri ragazzi? L'immunologa Viola fa una previsione: «Se tutto procede bene per la fine dell'anno potranno cominciare le vaccinazioni tra i ragazzini tra i 12 e i 18 anni, ma per i più piccoli bisognerà attendere di capire come andranno gli studi di sicurezza, verosimilmente entro il 2022».

(Corriere della Sera, 25 marzo 2021)


Cosa succede in Medioriente se Israele ha un governo debole

Un governo eterogeneo, o peggio ancora, nato già dimissionario è un passo falso nella strategia geopolitica israeliana.

di Lorenzo Zacchi

Per la quarta volta in meno di due anni Israele torna ad elezioni. In piena campagna vaccinale di massa, grande successo del Paese e del governo uscente, i cittadini israeliani sono chiamati a eleggere di nuovo il loro Parlamento.

 I primi risultati
  Con lo scrutinio dei seggi elettorali, che equivale a oltre il 90% dei voti totali, lo scenario non è troppo dissimile da quella che si può chiamare una fase di stallo. La strada per arrivare ai 61 seggi che garantiscono la maggioranza parlamentare è in salita, per entrambe le coalizioni. Benjamin Netanyahu e il Likud si assestano tra i 29 e i 31 seggi, in linea con gli exit poll della notte e con un risultato migliore di quanto preventivato nei sondaggi. Nuova Speranza, il partito nato da una fuoriuscita di esponenti del Likud e guidato da Gideon Saar, non ha confermato gli ottimi numeri dei sondaggi e sembra assestarsi sui 6 seggi. Interessante notare come la fuoriuscita di Saar non abbia indebolito il Likud, ma il Kahol Lavan (Blu e bianco) di Benny Gantz, che ha pagato l'accordo con Netanyahu nell'ultimo tentativo di dare un governo al Paese e le tante fuoriuscite in favore proprio del partito di Saar.
  Distanti, nei numeri, i partiti di opposizione: il secondo partito del Paese, Yesh Atid (guidato dal giornalista Yair Lapid), si assesta sui 17 seggi, circa la metà di quelli che prenderà il Likud. Nel blocco avverso a Netanyahu c'è quindi grandissima eterogeneità di temi, ma soprattutto grande frammentazione. Tale incompatibilità di interessi può rappresentare una importante forza propulsiva per la nascita di un nuovo esecutivo guidato dal Premier uscente.

 I possibili scenari
  Proprio su questa narrativa sembra spingere Netanyahu: nel discorso pronunciato nella notte a Gerusalemme, il leader di Likud ha sostanzialmente chiarito che l'unica possibilità di non andare a nuove elezioni è un esecutivo che passi da lui. Ha rivendicato il fatto di aver portato il partito a un risultato storico, con un distacco dalla seconda forza parlamentare che non si vedeva da decenni, ed ha ribadito l'importanza di assicurare un governo stabile a Israele: "Non pongo veti su nessuno ", ha detto, "perché lo stato di Israele richiede un governo stabile".
  Oltre alle alleanze scontate con le destre ortodosse, Netanyahu deve pescare tra i partiti che in campagna elettorale si sono schierati contro di lui. Se è improbabile pensare a un dietrofront di Saar (anche se in Israele si ipotizzano defezioni nel partito Nuova Speranza), che ha confermato anche nella mattina di non volersi alleare con il Premier uscente, meno difficile è ipotizzare un'alleanza con Naftali Bennett (ex ministro della Difesa con Netanyahu) di Yamina, partito di destra che ha conquistato 7 seggi. Nonostante l'aspro confronto in campagna elettorale, Bennet non ha mai negato in maniera netta la possibilità di una futura alleanza.
  La bussola dell'orientamento politico del nuovo governo, come dichiarato in mattinata dall'importante esponente del Likud Tzachi Hanegbi, rimane il "campo nazionalista", ma in caso questo perimetro non riesca a garantire una maggioranza solida, potrebbe presentarsi una nuova ipotesi. Hanegbi ha dichiarato al Canale 12 che "nella situazione attuale vediamo Mansour Abbas come una potenziale opzione". Abbas è il leader di Ra'am, che è riuscito a raggiungere la soglia di sbarramento per l'ingresso nella Knesset: un'alleanza con il partito arabo rappresenterebbe una rivoluzione, giustificata dal momento storico del Paese, ma difficile da far digerire agli esponenti del Likud. Dopo queste dichiarazioni in mattinata, alcuni politici del partito di Netanyahu si sono affrettati a bollare come "un grave sbaglio" questa ipotesi di trattativa, confermando le difficoltà di tale azione politica.

 I rischi geopolitici
  Quel che appare certo è che l'obiettivo di Netanyahu di avere uno stabile governo di destra è complicato e ai limiti dell'impossibile. Lo scenario regionale che l'amministrazione Trump ha lasciato in Medio Oriente è certamente favorevole a Israele, ma le prime mosse di Joe Biden, specialmente nei rapporti con l'Arabia Saudita e nella volontà dichiarata di tornare a un accordo con l'Iran, possono rappresentare un fattore di rischio per lo Stato israeliano. Un governo stabile in grado di dialogare con la nuova amministrazione Usa e di affrontare i delicati dossier regionali (un nuovo accordo Washington-Teheran, un potenziale nuovo governo conservatore in Iran, il raffreddamento dell'asse Usa-Arabia Saudita) rappresenta un imperativo vitale per Israele. La strategia di lungo termine è quella di mantenere il percorso tracciato negli ultimi 5 anni, che ha ridisegnato l'equilibrio regionale mediorientale. Un governo eterogeneo, o peggio ancora, un governo nato già dimissionario, è un passo falso nella strategia israeliana.

(Zazoom.blog, 24 marzo 2021)


Israele, programma di formazione per start-up italiane

L'Ambasciatore d'Italia in Israele, Gianluigi Benedetti, insieme al Presidente di Agenzia ICE, Carlo Ferro, è intervenuto mercoledì mattina all'apertura dei lavori delle giornate di formazione online rivolte alle 23 start-up risultate vincitrici del bando "Accelerate in Israel", programma che si propone di favorire la crescita a livello internazionale di start-up italiane attraverso un periodo di accelerazione nell'ecosistema dell'innovazione israeliana.
   "Grazie per aver accettato questa sfida, per aver scelto di dedicare parte del vostro business per sperimentare l'ecosistema dell'innovazione di Israele: vi assicuro che non sarete delusi dalla vostra scelta", così l'Ambasciatore Benedetti si è rivolto agli start-uppers collegati online dall'Italia. "Se volete trovare stimoli nuovi, aggiornati e futuribili - ha aggiunto - questo è il posto giusto per voi, probabilmente l'unico al mondo a essere così proiettato verso il futuro".
   Promosso dall'Ambasciata d'Italia in Israele e Agenzia ICE, Intesa Sanpaolo Innovation Center e la Camera di Commercio e Industria Israele-Italia, il bando offre alle start-up italiane l'opportunità di trascorrere un periodo di 10 settimane in Israele, dove saranno affiancati da due "acceleratori" d'eccellenza, Tech4Good e Eilat Tech Center.
   "Come giovani imprenditori, siete il prodotto di un sistema accademico di eccellenza e dovete essere orgogliosamente italiani nel mondo, soprattutto adesso, per dimostrare che l'Italia non si è mai fermata ed è pronta a ripartire. Vi aspettiamo presto in Israele!", ha quindi concluso l'Ambasciatore Benedetti, rivolgendo un sentito ringraziamento a tutti i partner del progetto, che fin dall'inizio hanno creduto fortemente in questa iniziativa.

(Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, 24 marzo 2021)


Ariela Piattelli è il nuovo direttore di Shalom

La Comunità Ebraica di Roma ha nominato come nuovo Direttore di Shalom Ariela Piattelli, che entrerà in carica ad Aprile. Nata a Roma, 44 anni, Ariela Piattelli ha collaborato con Shalom, con i quotidiani Il Giornale, Il Corriere della Sera e La Stampa, scrivendo principalmente di arte, storia, e cultura ebraica ed israeliana. Da oltre un decennio dirige EBRAICA - Festival Internazionale di Cultura, e il Pitigliani Kolno'a Festival - Ebraismo e Israele nel Cinema, prodotto dal Centro Ebraico Italiano Il Pitigliani. Piattelli ha collaborato con varie istituzioni ebraiche italiane, come promotrice e curatrice di eventi culturali.
   Piattelli succede a Giacomo Kahn alla guida della rivista, che ne era stato direttore dal 2006 ad oggi. Shalom, da oltre cinquant'anni il magazine della Comunità Ebraica di Roma, è considerato un punto di riferimento per la Comunità, un appuntamento mensile irrinunciabile per tutti i membri ed un'importante fonte di informazione sul mondo ebraico. Negli ultimi anni Shalom ha intrapreso un intenso processo di rinnovamento, affiancando alla tradizionale versione cartacea una vivace versione online, con la produzione di un web tg settimanale e di webinair su temi di interesse nazionale ed internazionale.

(Informa, 24 marzo 2021)


Netanyahu esulta: «Grandissima vittoria». Ma per il governo ha bisogno dell'ultradestra

Il Likud resta il primo partito. Una maggioranza è possibile solo con l'appoggio (probabile) dei nazionalisti di Bennett. Il rischio stallo.

di Davide Frattini

Gli israeliani sono tornati a votare per la quarta volta in due anni e Benjamin Netanyahu ha scommesso su questa data quando ha deciso di andare alla crisi di governo: non poteva essere sicuro che entro la fine di marzo la campagna vaccinale - di cui è stato l'artefice - sarebbe stata un successo. Invece il Paese ha riaperto e ha ripreso una vita quasi normale (i contagiati dal Covid-19 hanno votato in corsia o in locali protetti). Non è bastato a dargli una vittoria netta, almeno secondo i primi conteggi.
   Sono state scrutinate 3 milioni di schede, il 70 per cento del totale: il Likud ha per ora raggiunto i 31 seggi, un anno fa erano 36. Per tentare di formare il governo Netanyahu ha bisogno dei deputati conquistati da Naftali Bennett (tra i 7 e gli 8): il leader di Yamina (A destra) durante la campagna elettorale lo ha definito «un leader fallimentare» ma non ha mai escluso di entrare nella coalizione ed è già stato suo ministro. Il gruppo comprenderebbe anche gli ultraortodossi e politici estremisti con posizioni razziste e omofobe.
   Nella notte Netanyahu ha proclamato una «vittoria enorme»: «La gente ha dimostrato di volere la destra al potere ed è quello che le daremo». Eppure resta il rischio dello stallo politico, del pareggio e della necessità di un'altra elezione.
   La clessidra gigante installata in mezzo a piazza Rabin a Tel Aviv ha indicato lo scorrere delle ore e dei minuti fino alla chiusura delle urne. La sabbia cade e i politici sembrano presi dal panico tutti insieme: avvertono gli elettori di togliersi quella rimasta sui piedi dopo una giornata in spiaggia e di andare a votare. Perché l'affluenza è bassa (e lo rimarrà) e le coalizioni contrapposte sanno che per raggiungere la maggioranza anche i piccoli alleati devono riuscire a superare la soglia minima (3,25%) per entrare in parlamento.
   La corsa finale al grido «Oy Gevalt!» (in yiddish suona più o meno «Che paura») questa volta viene interpretata dal premier Benjamin Netanyahu, che ne è il maestro, cercando di spaventare i fedelissimi del Likud e della destra con l'immagine di autobus pieni di sinistrorsi convergenti verso i seggi. Ha scelto di evitare come spauracchio i partiti arabi, usati nelle scorse elezioni, perché potrebbero diventare utili e garantirgli l'appoggio esterno.
   Il blocco anti-Bibi è guidato da Yair Lapid (C'è un futuro: 17-18 seggi) e non può essere definito di centro-sinistra perché per avvicinarsi ai 61 deputati necessari ha bisogno di Gideon Sa'ar (fuoriuscito dal Likud in opposizione a Netanyahu): si fermerebbe a 51 (60-61 contando la Lista comune araba) e avrebbe di nuovo bisogno di Bennett, che dovrebbe accettare (improbabile) di allearsi con i laburisti e Meretz. I due partiti storici della sinistra, a rischio scomparsa, sono riusciti a salvarsi con 6-7 deputati a testa.

(Corriere della Sera, 24 marzo 2021)


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 Netanyahu vince ancora. Ma per governare la strada resta stretta

Dopo due anni rimane lo stallo politico. Decisivo Bennett. Si profila un quinto voto.

di Fiamma Nirenstein

Ancora non è svanito l'incubo delle quinte elezioni, i conti cambiano ogni minuto in questa lunga nottata. Ma si può dire che Netanyahu ha fatto il salto in avanti di due seggi che aveva richiesto agli elettori. Ha raggiunto i 33 seggi, secondo Canale 13, rispetto ai 30 previsti dai sondaggi. Yar Lapid, il capo dell'opposizione, si deve contentare di 16 seggi. L'insieme dell'eventuale coalizione di Netanyahu sarebbe di 54 seggi anche se i suoi fossero solo 31, e se il capo di Yemina, la destra, che finora pendeva un po' verso l'opposizione, adesso tornerà a casa, Netayahu avrà i 61 seggi per il governo. Gli errori sono possibili dato che 600mila schede circa saranno esaminate nei prossimi giorni. I partiti a rischio soglia di sbarramento hanno in parte superato l'esame, fra loro lo storico partito laburista guidato da una donna, Meerav Michaeli, è arrivato a 7 seggi, anche Bianco e Blu di Gantz ha recuperato fino a 8 seggi, e Meretz, il partito radicale, ha portato a casa 7 mandati.
   È la seconda volta che il Paese vota nell'era Covid, l'affluenza in genere è stata bassa, specie nel settore arabo, ciò che ha favorito i partiti piccoli diminuendo i voti necessari all'ingresso alla Knesset (sopra il 3,25%). Non c'è mai stata un'alternativa ideologico-politica: le accuse a Netanyahu, oltre all'incriminazione per corruzione giuridicamente fragile e usata come slogan primario e l'accusa del capo dell'opposizone Yair Lapid è di aver generato un'era «di oscurità e razzismo», sembrano essere state troppo astratte. Bibi è stato accusato di razzismo e persino di aver gestito male la crisi del Covid, causando 6mila morti. Alla cieca gli si è attribuita una visione bigotta e omofoba. Ma quando è andato al Muro del Pianto, pure i rabbini Ashkenaziti hanno indicato Betzalel Smotrich, il capo del Partito religioso sionista di destra come l'uomo da votare. Bibi è rimasto laico, non ha toccato le leggi, non risulta abbia pregiudizi sugli arabi, non ha mai fatto guerre, anzi ha fatto la pace con quattro Paesi islamici e l'economia si è salvata nella sostanza. E coi vaccini ha vinto la pandemia.
   La coalizione intorno a lui si è mostrata più rassicurante perché sembra un corpo capace di collaborare in modo stabile basandosi sulla cultura della tradizione ebraica laica o religiosa, e sulla sicurezza antiterrorista. La destra che unita dall'inizio avrebbe formato una coalizione stabile è stata erosa all'interno dall'antagonismo a Bibi. Così Gideon Sa'ar, con la kippah in testa e una forte propensione ad annettere i Territori, con la sua Nuova Speranza ha mirato a un governo con la sinistra di Yair Lapid, è caduto a 5 seggi. Il capo dell'opposizione di «C'è un futuro» Avigdor Lieberman, capo del Israel Beitenu, il partito di russi decisamente conservatore, antiarabo e antireligioso, da 5 e passato a 8 azzeccando probabilmente l'antipatia per i religiosi che ignoravano le indicazioni anti Covid.
   Bennett, il capo addirittura di Yemina (la destra), che tuttavia pur di prendere il posto di Bibi si è tenuto sul vago, facendo immaginare una coalizione con una rotazione a tre: Lapid, Sa'ar, Bennet e proponendosi come premier in una coalizione di destra, ha preso solo 7 seggi. Adesso vedremo se sarà più disponibile a tornare a casa.
   La fragile maggioranza di 61 è così labile che anche basta un movimento notturno, uno spostamento dovuto alle «doppie buste», che tutto cambia di nuovo. Il grande fronte anti Netanyahu è certamente ancora più agguerrito, cercherà gli errori, ed è probabile anche che da domani riempia di nuovo le piazze, specie quella davanti alla casa di Bibi. Quando le acque si saranno placate il presidente Reuven Rivlin comincerà le consultazioni, e qui non saranno poche le voci che a meno di un risultato netto, suggeriranno Lapid per formare il governo. Le prossime ore, ci diranno.

(il Giornale, 24 marzo 2021)


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Netanyahu avanti verso un governo con l'estrema destra

Likud in testa nei primi exit poll, al centrodestra 61 seggi. Tracollo per Gantz. Il premier esulta: "Vittoria gigantesca".

di Giordano Stabile

Benjamin Netanyahu vede la soglia magica dei 61 seggi alla Knesset, la maggioranza agognata e inseguita in quattro elezioni anticipate in meno di due anni. Gli exit poll, ieri sera, davano il suo Likud a quota 31 e soprattutto i quattro possibili alleati della destra nazionalista e religiosa a 30 deputati nel complesso. Quanto basta per formare il governo più spostato a destra nella storia di Israele e consegnare alla storia il premier più longevo dello Stato ebraico, con un sesto mandato. E pure spianare la strada a un "salvacondotto giudiziario" che gli eviti l'onta di una condanna per corruzione. E il premier ha subito cantato vittoria su Twitter: "Grazie israeliani! Avete dato al Likud e alla destra una vittoria gigantesca sotto la mia leadership. Gli israeliani vogliono sicurezza, salute, un'economia forte". Tutto un programma riassunto in poche battute. A permettergli di vincere una scommessa che sembrava impossibile sono stati due fattori. La fulminea campagna di vaccinazione, con oltre metà della popolazione immunizzata, record mondiale. E la frammentazione del centro e della sinistra. Il grande avversario delle ultime tre tornate, Benny Gantz, si è fermato a soli 8 seggi con il suo Kahol Lavan, un tracollo rispetto a un anno fa. L'altro centrista, Yair Lapid, ha visto il suo Yesh Adit crescere a 17 seggi ma in complesso il fronte dei moderati è in calo, perché la nuova formazione Tikva Hadasha, Nuova Speranza, nata da una scissione dal Likud dell'astro nascente Gideon Moshe Saar, si è fermata a 6 seggi. Più a sinistra Labour e Meretz raccolgono insieme 13 posti. Il blocco anti-Netanyahu si ferma così a 52, compresi i partiti arabi, che scendono da 15 a 8. L'affluenza è stata del 67,2 per cento, il peggior risultato dal 2009, e molto più bassa fra gli arabi.
  Tutto cospira a favore di King Bibi, anche la stanchezza dei cittadini chiamati alle urne in continuazione. Fatto sta che il suo blocco raccoglie, in base agli exit poll, 61 seggi. Ai 31 del Likud vanno aggiunti gli 8 di Shas, ultraortodossi sefarditi, i 7 di Yamina di Naftali Bennett, altri 7 di United Torah Judaism e altrettanti del gruppo di estrema destra Religious Zionism. E' una maggioranza sul filo, che lo spoglio definitivo, atteso per la sera di oggi, potrebbe ancora ribaltare. Ma se confermata porrebbe Netanyahu davanti a un solo ultimo ostacolo. Convincere Bennett a sostenerlo. Il leader della destra laica ha subito detto che il suo appoggio "non è acquisito", e non vede di buon occhio i religiosi, e soprattutto la nuova formazione Religious Zionism, nata dalle ceneri del cosiddetto Kahanismo, un movimento con accenti razzisti e omofobi, guidato dal controverso Itamar Ben-Gvir.
  Con una maggioranza naturale a portata di mano, però, il premier ha le carte, in nome della "stabilità", per convincere Bennett, che in campagna elettorale non ha mai escluso di poter entrare in un governo con lui, a differenza di Gantz, Lapid e Saar. Sulle annessioni in Cisgiordania, per esempio, Bennett si spinge più in là del Likud, e vorrebbe prendersi quasi tutti i Territori "in Samaria e Giudea". Mentre i "kahanisti" propongono addirittura di espellere "gli arabi sleali". In alternativa ci potrebbero essere i sette deputati di Israel Beiteinu di Avigdor Lieberman, più ostico però. I centristi avevano fiutato il pericolo. Mentre Gantz chiedeva di ritardare la chiusura dei seggi, Lapid e Saar avvertivano che una maggioranza così oltranzista avrebbe aperto le porte alla legge per attribuire l'immunità al premier e quindi proteggerlo dal processo per corruzione in corso. La settimana prossima ci dovrebbe essere una nuova udienza, e "King Bibi" conta di arrivarci con la corazza di un'investitura popolare. Inimmaginabile fino a pochi mesi fa.

(La Stampa, 24 marzo 2021)


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Di nuovo Bibi

In Israele il Likud è sempre e ancora il primo partito. Sono le alleanze il problema del superpremier.

di Micol Flammini

ROMA - Non è stato un voto soltanto su Benjamin Netanyahu, il premier che governa Israele dal 2009, è stato "qualcosa di più polarizzante. Chi dice sono pro Bibi o contro Bibi dà un giudizio sulla visione del mondo del premier", dice al Foglio Barak Ravid, che per il sito americano Axios cura una newsletter piena di notizie e storie da Tel Aviv. Gli israeliani sono tornati a votare per la quarta volta in due anni e il partito più votato rimane il Likud di Netanyahu che, secondo la media degli exit poll, avrebbe ottenuto 32 seggi sui 120 della Knesset. Yesh Atid di Yair Lapid è al secondo posto con 17 seggi, Yamina di Naftali Bennett, probabile ago della bilancia di queste elezioni, ha 7 seggi e Gideon Sa'ar, uscito dal Likud per sfidare il premier, soltanto 6. Meno di Benny Gantz, leader di Kahol Lavan ed ex alleato di Netanyahu sceso a 7 seggi, dai 33 dell'ultimo voto. Tutti rincorrevano il premier: qualcuno è pronto a formare con lui un governo "fortemente di destra", come lo ha definito Netanyahu; qualcuno è pronto a unirsi in un fronte anti Bibi, non è importante l'ideologia - Sa'ar e Lapid sono agli antipodi: l'importante è allontanare il premier. "Questi fronti hanno dominato il dibattito elettorale, sono scomparsi tutti gli altri temi: l'economia, la sicurezza, la questione palestinese": ieri da Gaza è stato lanciato un razzo contro la città di Beer Sheva, dove Netanyahu era in visita. Israele è un paese stabile, con una democrazia solida, delle istituzioni sicure e mantiene queste caratteristiche nonostante il ripetersi delle elezioni, nonostante le coalizioni traballanti che vengono giù di continuo e che hanno come unico elemento di continuità la premiership di Benjamin Netanyahu.
   Un paese in continua campagna elettorale che riesce in cose straordinarie, come l'organizzazione di una campagna di vaccinazione che tutto il mondo invidia. Secondo Ravid la pandemia ha danneggiato molto la popolarità di Netanyahu, i sondaggi mesi prima della crisi gli assegnavano 40 seggi: "Ha perso molti punti e la campagna di vaccinazione lo ha aiutato a tirarsi su, ma non quanto avrebbe voluto". Ravid è molto severo con il premier, il suo attaccamento alla carica è anche legato ai suoi guai giudiziari, è accusato di corruzione e abuso d'ufficio, "la politica per lui è diventata una questione personale". Oltre alla sua sopravvivenza, nell'agenda di Benjamin Netanyahu non mancano però anche i risultati. Oltre alla vaccinazione, la normalizzazione dei rapporti con Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Oman, altri ne seguiranno, e sono stati un risultato storico per gli israeliani, realizzato anche grazie al rapporto tra il loro premier e l'ex presidente americano. "Trump è stato una risorsa per Bibi, lo ha usato per ottenere favori grandi e piccoli. Il riconoscimento delle alture del Golan prima della prima elezione. La promessa di un trattato di difesa (che non si è fatto) prima della seconda. La presentazione del piano di pace prima della terza. Ora con Biden è più difficile e Netanyahu ha cercato altre relazioni da sfoggiare, come quella con l'emiro Bin Zayed, che però ha preferito tenersi fuori dagli affari elettorali".
   Israele, a guardare i risultati di ieri, continua a far fatica a immaginarsi senza Netanyahu, sarà abitudine, ma sarà anche fiducia. Una fiducia che, dopo Gantz, nessuno è più riuscito a incarnare. Per Barak Ravid però in qualche modo passa il messaggio sbagliato che sminuisce il paese, cioè quello secondo cui è un uomo a determinare la stabilità di Israele e non il paese a essere una democrazia solida. "Israele è un paese moderno con delle istituzioni forti che se un giorno Bibi dovesse perdere rimarrebbe in piedi. Chiunque abbia abbastanza sostegno per diventare il futuro primo ministro dopo Netanyahu potrebbe governare questo paese", che continua a oscillare tra stabilità e instabilità, un uomo forte e tanti appuntamenti elettorali.
   
(Il Foglio, 24 marzo 2021)


Covid, in Israele si studia un "vaccino in pillole": risultati incoraggianti

Il vaccino in pillole potrebbe facilitare il raggiungimento dell'immunità di gregge, dato che non richiede costosi metodi di conservazione.

di Gerry FredaMer

In Israele, dove le vaccinazioni anti-Covid vanno avanti a ritmi impressionanti, prosegue anche la sperimentazione di un "vaccino orale".
   Un'azienda locale, la Oravax Medical, sta infatti mettendo a punto a Gerusalemme un antidoto "in compresse", che ha già mostrato risultati promettenti nella fase dei test sugli animali. Dal punto di vista medico, si tratta di terapie proteiche che prendono di mira non solo la proteina spike, come i sieri Moderna e Pfizer, ma ben tre proteine strutturali del coronavirus.
   Nel dettaglio, la Orovax, creata dalla collaborazione tra la società israeliana Oramed Pharmaceuticals e l'americana Premas Biotech, ha ultimamente rivelato i dettagli del proprio vaccino orale dopo avere accertato che i test pre-clinici sugli animali hanno evidenziato che le pastiglie in questione hanno prodotto anticorpi dopo una sola dose. Di conseguenza, la ricerca sugli effetti che tale medicinale potrebbe produrre sugli esseri umani parte da presupposti incoraggianti.
   Il prodotto Orovax è costituito da una base di lievito, che lo rende molto più economico in fase di produzione, rispetto agli altri antidoti sul mercato, e dovrebbe determinare molti meno effetti collaterali sui soggetti a cui verrà somministrato. L'azienda, secondo quanto riportano i media israeliani, ha poi affermato che il vaccino dovrebbe fornire una buona protezione non solo contro il coronavirus originario, ma anche contro le mutazioni dello stesso, persino contro le più recenti. Sperimentandolo da subito sugli animali, la joint venture israelo-americana ha osservato che il vaccino favorisce lo sviluppo degli anticorpi rafforzando le immunoglobuline G (IgC) e A (IgA). In particolare, queste ultime sono fondamentali per il raggiungimento dell'immunità di lungo termine.
   I promotori del progetto Orovax hanno quindi descritto gli enormi vantaggi, in termini di immunizzazione di massa e di risparmio di costi, rappresentati dalla messa a punto di un siero in compresse. Non servirà, infatti, né il freddo estremo né altri sistemi di conservazione particolari, perché il vaccino in pillole sarà estremamente facile da produrre, trasportare, smistare e anche assumere. Nadav Kidron, amministratore delegato del gruppo Oramed, ha appunto dichiarato: "Un vaccino orale eliminerebbe diverse barriere per una distribuzione rapida e su larga scala, ridurrebbe i costi di distribuzione e consentirebbe alle persone di vaccinarsi da sole a casa".
   Lo stesso Kidron ha poi rimarcato che, grazie allo sviluppo di un vaccino orale, sarà più semplice raggiungere l'immunità di gregge nel Paese, garantendo contestualmente ai cittadini la comodità di immunizzarsi in casa propria con un prodotto davvero economico: "Mentre la facilità di somministrazione è fondamentale oggi per accelerare i tassi di inoculazione, un vaccino orale potrebbe diventare ancora più prezioso nel caso in cui diventi indispensabile il richiamo annuale come per il vaccino antinfluenzale standard".
   Oravax prevede di iniziare un nuovo e più approfondito studio clinico durante il secondo trimestre del 2021, mentre le domande di sperimentazione saranno presentate in diversi Paesi, oltre che negli Stati Uniti e in Israele: Stati Ue, Messico e nazioni africane.

(il Giornale, 24 marzo 2021)


Lavoro e Covid: stipendio a rischio senza vaccinazione

Respinto il ricorso dei sindacati per alcuni operatori sanitari 'no vax' che rifiutano il vaccino.

Il Covid ha cambiato il mondo del lavoro sotto ogni punto di vista, anche sotto l'aspetto del diritto al posto ed alla retribuzione. La conferma arriva da una sentenza del giudice di Belluno, che ha escluso il diritto alla retribuzione di alcuni dipendenti No Vax di due case di riposo, sospesi dal lavoro dopo aver rifiutato di vaccinarsi.

 Il fatto
  Tutto è iniziato nel febbraio scorso, quando alcuni dipendenti di due case di riposo nel Bellunese - due infermieri e otto operatori socio-sanitari - hanno deciso di non sottoporsi alla vaccinazione programmata dalle strutture in cui lavoravano.
  I dieci sanitari erano stati quindi sospesi dal lavoro e posti in ferie forzate dalla direzione delle due RSA. Sottoposti in seguito alla visita del medico legale, i dipendenti erano stati da questo dichiarati "inidonei al servizio" e quindi allontanati dal lavoro senza stipendio.

 La sentenza
  Il caso è approdato sul tavolo del giudice Anna Travia, che ha respinto le richieste dei dipendenti delle case di riposo, che reclamavano una libertà di scelta vaccinale garantita dalla Costituzione.
  Una tesi non condivisa dal giudice del lavoro, che ha ritenuto "insussistenti" le ragioni addotte dai ricorrenti, asserendo che "è ampiamente nota l'efficacia del vaccino", come dimostrato dal "drastico calo dei decessi fra le categorie che hanno potuto usufruire delle dosi, quali il personale sanitario, gli ospiti delle RSA ed i cittadini di Israele dove il vaccino è stato somministrato a milioni di individui".

 ISS conferma crollo contagi RSA
  L'ultimo rapporto dell'ISS pubblicato un paio di giorni fa conferma il successo dell'avvio della campagna di vaccinazione presso le strutture ospedaliere e le RSA.
  Il monitoraggio ha coinvolto 833 strutture, per un totale di 30.617 posti letto, di cui 345 strutture residenziali per anziani per un totale di 15.398 posti letto.
  Il tasso di positività, che aveva raggiunto un picco del 3,2% a novembre, a causa della seconda ondata, è sceso su livelli sovrapponibili o inferiori a quelli registrati nella prima settimana di ottobre (dello 0,6% nelle strutture residenziali per anziani e dello 0,5% in tutte le strutture residenziali. Un dato che risulta anche in controtendenza rispetto all'andamento dell'epidemia nella popolazione, che ha mostrato una recrudescenza nelle ultime settimane di febbraio e inizio marzo.

(QuiFinanza, 24 marzo 2021)


Vaccinare presto, vaccinare tutti. Come? Lezione da Israele

Scambio dati-vaccini con Pfizer e green pass per convincere i giovani: la virtuosa collaborazione tra governo e ricercatori.

di Matteo Motterlini e Piero Romani

Mentre la vaccinazione contro il Covid-19 in Europa stenta a decollare, frenata dai ritardi nelle consegne e da battute d'arresto come nel recente caso di AstraZeneca, in un piccolo stato sull'altra sponda del Mediterraneo le cose hanno preso tutt'altra piega. Israele, 34esima economia del mondo, con una popolazione inferiore a quella della Lombardia, prosegue con ineguagliata efficienza la sua corsa verso l'immunità di gregge. Forte di una contrattazione con le case farmaceutiche chiusa in tempi record, il paese dispone di una grande quantità di vaccini sul totale della popolazione. Chiave del successo negoziale è stato l'accordo sulla sperimentazione con l'americana Pfizer che, a fronte dell'accesso a una mole considerevole di dati, ha concesso un numero ingente di dosi. Vaccini in cambio di conoscenza! Si è soliti dire che i dati siano il nuovo petrolio: la pandemia ci presenta ora un caso eclatante. I risultati che sta ottenendo Israele non possono essere attribuiti a condizioni fortuite che l'hanno avvantaggiato, né trovano spiegazione meramente in termini medico-sanitari. Vanno invece cercate nella stretta e virtuosa collaborazione tra politica e mondo della ricerca, anche in ambiti solo apparentemente distanti come le scienze comportamentali, capaci di fornire soluzioni innovative in scenari mai affrontati prima.

 Un laboratorio a cielo aperto
  A circa tre mesi dall'inizio della vaccinazione, i dati forniti dall'Università di Oxford parlano chiaro: in Israele la metà della popolazione ha già ottenuto una copertura vaccinale completa, mentre l'Italia e i paesi dell'Unione Europea si attestano a un misero 3,5 per cento. Eppure non basta disporre di vaccini in quantità per ottenere in così breve tempo i risultati straordinari di Israele. Lo precisa una ricerca appena pubblicata su Nature Reviews Immunology ("Signals of hope: gauging the impact of a rapid national vaccination campaign"): l'impatto della campagna vaccinale sulla popolazione nel suo complesso dipende sì dalla percentuale di copertura sul totale degli abitanti, ma anche dalla distribuzione del vaccino tra diverse categorie e dagli effetti dell'interazione sociale tra le diverse fasce d'età sulla trasmissione della malattia. Anche i contagi in forte diminuzione non sono di per sé un'indicazione univoca e sufficiente per decretare l'efficacia della vaccinazione. Sappiamo infatti che il distanziamento sociale può abbattere la curva dei contagi e il governo israeliano ha imposto un terzo lockdown proprio nelle prime settimane in cui è iniziata la somministrazione di massa. Per capire se i vaccini stanno esercitando l'effetto desiderato su larga scala, pertanto, occorre confrontare la tendenza dei contagi e dei ricoveri suddivisa per fascia d'età. In Israele la popolazione sopra i sessant'anni conta attualmente un tasso di immunizzati superiore all'80 per cento, mentre nella fascia di popolazione che va dai 16 ai 59 anni le persone che hanno già ricevuto entrambe le dosi del vaccino sono solo circa il 20 per cento. La maggiore prevalenza di vaccinati tra i più anziani mostra inequivocabilmente il suo impatto: prima dell'inizio della campagna vaccinale la prevalenza dei contagi nelle diverse fasce era molto simile e i ricoveri interessavano maggiormente i più anziani, mentre ora la percentuale di over 60 che si ammala cala più velocemente che tra i giovani. Al punto che da inizio febbraio i ricoveri dei giovani superano stabilmente quelli dei più anziani. Un'ulteriore prova dell'efficacia della vaccinazione si può osservare tramite un confronto a livello regionale. Come in Italia, anche in Israele le diverse regioni si sono attivate più o meno velocemente. Questo ha permesso di confrontare gruppi di persone della stessa età cha hanno ricevuto il vaccino in tempi diversi, per constare che sia i giovani sia gli anziani che vivono nelle regioni che hanno iniziato prima la vaccinazione hanno registrato percentuali minori di contagio e di ospedalizzazione. Da queste prime analisi sui dati si evince come Israele sia diventato un vero e proprio laboratorio a cielo aperto, in cui le proposte dei ricercatori hanno trovato spazio di applicazione nelle politiche messe in atto su più livelli. Si consideri per esempio la sfida che Israele si trova ora ad affrontare nell'ultima fase della campagna di vaccinazione. L'allargamento della platea con la possibilità di vaccinare anche le fasce più giovani della popolazione si accompagna alla maggiore riluttanza dei giovani a vaccinarsi. Per questa parte della popolazione, infatti, la minor incidenza di casi gravi e l'inferiore mortalità rende i benefici diretti derivanti dalla protezione contro il Covid-19 meno salienti. Allo stesso tempo i benefici indiretti - seppure rilevanti - come la protezione delle categorie più vulnerabili, rischiano di non aver abbastanza forza per orientare la scelta nella giusta direzione. Che fare?

 L'uso delle scienze comportamentali
Il problema configura - in termini economici - un classico public goods game. Nel gioco dei beni pubblici un gruppo di persone deve decidere individualmente come allocare le proprie risorse. Ogni giocatore può decidere se investire parte del suo denaro nel bene comune. Le somme destinate alla collettività vengono moltiplicate per rappresentare la creazione di valore sociale, per poi essere redistribuite in egual misura tra i partecipanti a prescindere dal loro contributo. Benché lo scenario più vantaggioso a livello sociale sia quello in cui tutti contribuiscono, per ogni singolo giocatore è egoisticamente più conveniente non investire nel bene comune, risparmiando le proprie risorse pur beneficiando dalla contribuzione alla collettività degli altri giocatori. Riportando il "gioco" alla realtà della pandemia, l'immunità di gregge è il bene comune e la scelta individuale di vaccinarsi è il contributo a esso. Il rischio concreto è che molti giovani si comportino da free rider, ovvero che non contribuiscano al bene collettivo, sottraendosi egoisticamente al "costo" di vaccinarsi, sapendo che beneficerebbero comunque dell'immunità di gregge se a vaccinarsi fossero tutti gli altri. Per ovviare a questo e altri problemi che coinvolgono le decisioni dei singoli cittadini, Israele ha messo in campo una task force di esperti di scienze comportamentali provenienti dal mondo della ricerca privata - come Google e Facebook - e figure di spicco del mondo accademico come Dan Ariely, docente alla Duke University annoverato tra gli scienziati cognitivi più influenti al mondo. La collaborazione tra i ricercatori e il ministero della Salute ha portato alla creazione di un sistema di incentivi (non monetari, si veda il nostro articolo su il Foglio del 30 dicembre 2020), che fanno principalmente leva sull'allentamento delle restrizioni sociali - queste sì, estremamente salienti - per convincere i giovani a vaccinarsi. "Green pass", questo il nome dell'iniziativa, permette l'accesso per gli individui immunizzati a eventi sociali, culturali e sportivi, così come a palestre, hotel e ristoranti. Il green pass - il lasciapassare su carta e smartphone - garantisce inoltre l'esenzione dalla quarantena (la necessità di isolarsi per 10 giorni dopo il contatto con un caso confermato di Covid-19 o al ritorno da un viaggio internazionale). Anche tra coloro già intenzionati a vaccinarsi, gli incentivi potrebbero rivelarsi il pungolo giusto per superare la pericolosa tendenza giovanile a procrastinare, che spesso sta dietro al fallimento di tradurre le buone intenzioni in azioni concrete. Infine, e più in generale, nel tentativo di semplificare al massimo l'atto di vaccinarsi il ministero della Salute israeliano si è adoperato con ingegno, creatività e pragmatismo affinché ogni possibile ostacolo sia rimosso: per esempio, garantendo l'apertura dei centri di vaccinazione durante la notte, eliminando la necessità di pre-registrarsi, e addirittura istituendo centri per la vaccinazione nelle riserve naturali durante i fine settimana e offrendo piccole ricompense come bevande e pasti gratuiti. L'impegno intrapreso nel comprendere le caratteristiche della scelta, incluse le principali barriere pratiche e motivazionali che i cittadini devono affrontare per vaccinarsi, sta permettendo a Israele di creare ambienti decisionali in cui sarà sempre più facile fare la cosa giusta col minimo sforzo.

(Il Foglio, 23 marzo 2021)


Vacanze in Grecia per gli israeliani con Green Pass

di Paolo Castellano

Il Green Pass per farsi le vacanze in Grecia. Il 22 marzo, Israele ha raggiunto un accordo con il paese europeo per il riconoscimento dei certificati di vaccinazione rilasciati dal Ministero della Salute israeliano. L'intesa prevede inoltre un tetto di 10mila ingressi a settimana nei territori greci e l'esenzione di quarantene o test Covid-19 per gli israeliani che hanno ricevuto le due dosi di vaccino in patria.
   Dunque, lo Stato ebraico sta tentando di rimettere in moto il turismo partendo dagli accordi di reciproco riconoscimento vaccinale. Tuttavia, gli esperti israeliani hanno espresso preoccupazione per l'apertura del governo ai viaggi internazionali: i turisti stranieri potrebbero introdurre nuove varianti in Israele. Un timore fondato poiché al momento non si ha la certezza scientifica che il preparato Pfizer sia totalmente efficace anche su altri ceppi di Coronavirus.
   Ciononostante, lo Stato d'Israele procede spedito nella campagna vaccinale e conta di immunizzare i suoi 8 milioni di abitanti nelle prossime settimane. Tra le altre cose, in questi giorni migliaia di cittadini israeliani hanno potuto far ritorno in patria per votare alle nuove elezioni. Una sentenza dell'Alta Corte di Giustizia israeliana del 21 marzo ha bocciato il tetto dei 3mila ingressi all'aeroporto Ben Gurion deciso dal governo. I giudici hanno infatti stabilito che il rispetto dei diritti civili prevalga sulle restrizioni Covid-19 per i viaggi internazionali.
   Dal 25 gennaio, Israele ha adottato stringenti politiche sanitarie in materia di viaggia transfrontalieri. Ciò ha infatti comportato la chiusura degli ingressi per migliaia di persone che per vari motivi si trovavano all'estero. L'obiettivo del Ministero della Salute è stato quello di impedire l'arrivo di nuove varianti Covid nello Stato ebraico.
   Come riporta il The Times of Israel, finora Israele ha stipulato accordi sul Green Pass con Grecia e Cipro. Questi due paesi hanno inoltre creato a loro volta dei passaporti specifici per le vaccinazioni in modo da poter consentire ai propri cittadini di viaggiare da o verso lo Stato ebraico. Secondo la stampa israeliana, il governo di Benjamin Netanyahu avrebbe intavolato negoziati con un gruppo di paesi europei, compreso il Regno Unito di Boris Jhonson, e con alcuni paesi arabi.
   
(Bet Magazine Mosaico, 24 marzo 2021)


Israele: rifiuta il vaccino, il giudice dà l'ok alla sospensione dal lavoro

Il Tribunale del lavoro di Tel Aviv respinge il ricorso di un'insegnante di asilo contro il datore di lavoro: "Il diritto alla privacy della lavoratrice non è superiore al diritto alla vita degli alunni, dei genitori e del resto del personale, nonché al diritto del Comune a difenderli".

di Sharon Nizza

TEL AVIV - Un lavoratore che non presenta il certificato vaccinale o un tampone negativo, può essere sospeso. È la decisione del Tribunale del lavoro di Tel Aviv, che ieri ha respinto il ricorso di un'insegnante di asilo contro il datore di lavoro, che l'aveva sospesa il mese scorso. Il Comune dove lavora l'insegnante, come molti altri, ha infatti stabilito che il personale scolastico che non intende vaccinarsi deve presentare un tampone negativo. Il giudice ha stabilito che "il diritto alla privacy della lavoratrice non è superiore al diritto alla vita degli alunni, dei genitori e del resto del personale, nonché al diritto del Comune di difenderli".
   Va notato che in Israele non esiste ancora una legge che regolamenta la materia e il giudice ha esortato l'autorità legislativa a riempire il vacuum per non lasciare una questione così delicata a discrezione di precedenti giuridici. Per questo, il giudice ha anche stabilito che l'insegnate ha diritto a percepire lo stipendio per i giorni in cui non ha lavorato fino alla sentenza e, da questo momento, è invece sospesa utilizzando i propri giorni di ferie, ma non può essere licenziata.
   L'avvocato Naama Shabetai, che rappresenta il Comune, sostiene che si tratti di un "importante precedente con proiezioni su tutti i settori dell'economia". Stabilendo che, come alternativa al vaccino, è possibile presentare un tampone a settimana "il tribunale crea il giusto equilibrio tra il diritto dei lavoratori e il bene pubblico. Ogni lavoratore ha diritto di scegliere se vaccinarsi o meno, ma non può esimersi dall'assumere la responsabilità della propria decisione e non può caricare di questa responsabilità il datore di lavoro, che invece deve avere come obiettivo la protezione dei lavoratori e del pubblico".
   Nelle scorse settimane, dopo che una infermiera non vaccinata era risultata positiva portando all'isolamento di diversi pazienti e personale medico, l'ospedale Hadassah di Gerusalemme aveva costretto 80 lavoratori che non intendono vaccinarsi a prendere ferie obbligatorie. Al momento non ci sono stati ricorsi, ma è presumibile che, fino a quando non verrà formulata una legge ad hoc, la sentenza di Tel Aviv servirà da precedente giuridico per casi simili.
   Israele, con il 50% della popolazione vaccinata con entrambe le dosi di Pfizer, da un mese ha riaperto gradualmente tutti i settori dell'economia senza che i nuovi assembramenti abbiano causato un aumento dei contagi, che anzi, sono in calo costante. Alcuni servizi sono soggetti alla presentazione del pass verde, che consente l'ingresso solo a chi presenta il certificato di guarigione da Covid o il certificato di immunità, che si ottiene a una settimana dalla somministrazione della seconda dose. In questa categoria rientrano ristoranti (solo per gli spazi chiusi), palestre, hotel, eventi culturali e sportivi. Da ieri, è possibile anche accedere a questi servizi sottoponendosi a un test antigenico rapido: i risultati sono garantiti nell'arco di 15-30 minuti e il costo varia da i 10 ai 20€ a seconda della compagnia. Con questi test, ieri sono entrati allo stadio per la prima volta in un anno dei bambini sotto i 16 anni che ancora non possono essere immunizzati. Tuttavia, attualmente i tamponi rapidi - a differenza dei tamponi PCR - non sono sovvenzionati dallo Stato e "l'aspettativa è che le forze del mercato ne gestiscano il costo, come è accaduto con le mascherine", secondo Tomer Lotan, a capo della task force anti Covid che coadiuva il governo. La portavoce di Sofia, una delle compagnie di tamponi rapidi attive sul mercato, afferma che sono in trattativa con il ministero della Salute perché sovvenzionino i test rapidi almeno per le attività per l'infanzia, "dal momento che i bambini sono impossibilitati ad accedere al vaccino, non è giusto che le famiglie vengano penalizzate per questo".

(la Repubblica, 23 marzo 2021)


I vaccini trascinano Bibi, ma Israele rischia lo stallo

di Gabriele Rosana

Oggi le urne: la gestione del Covid premia Netanyahu, il voto è appeso agli indecisi Quarta volta alle elezioni in due anni: la prospettiva dell'ennesimo pareggio

 LE ELEZIONI
  I comprimari cambiano, ma lui è sempre lì. Benjamin Netanyahu, il premier più longevo della storia di Israele, è l'indiscusso protagonista delle nuove elezioni che si tengono oggi nel Paese: le quarte di fila in appena due anni. L'ennesimo ritorno alle urne, però, potrebbe non bastare per risolvere il nodo governabilità che da varie tornate tiene ormai ostaggio la Knesset, il Parlamento israeliano dove la ricerca di una maggioranza sembra essere diventato un rompicapo irrisolvibile. ';Re Bibi" è l'uomo da battere in una sfida molto polarizzata che vede da una parte i suoi storici alleati, e dall'altra quelli che escludono in maniera più o meno categorica una coalizione post-voto con il leader uscente. Due blocchi quasi esattamente alla pari (60 seggi a testa sui 120 totali) che potrebbero portare ancora una volta a una fumata nera e a un ricorso alle urne prim'ancora che la legislatura veda la luce.

 I SONDAGGI
  I conservatori del Likud, il partito di Netanyahu, sono primi nei sondaggi e dovrebbero ottenere una trentina di seggi, a cui si aggiungerebbero senza sorprese quelli dei partner della destra religiosa. Lo stesso premier, al potere da 12 anni, ha visto crescere l'apprezzamento personale nelle ultime settimane. Il solido consenso è dovuto in particolare al successo record di una campagna vaccinale condotta 24 ore su 24 e che ha fatto di Israele il primo Paese al mondo per somministrazioni in rapporto alla popolazione: ben oltre la metà dei 9,3 milioni di abitanti ha ricevuto almeno una dose anti-Covid. In piena campagna elettorale, ospite di una tv israeliana, l'amministratore delegato di Pfizer Albert Bourla aveva parlato di un "Netanyahu ossessivo": il premier lo avrebbe chiamato al telefono 30 volte per assicurarsi la fornitura delle fiale. Complici i numeri dell'immunizzazione, dopo il terzo lockdown il Paese guarda adesso a una parziale riapertura, anche in vista della stagione turistica (ma il "ritorno alla normalità" dipenderà dal Green Pass, il lasciapassare per i vaccinati che Israele ha da poco messo a punto).
   Nonostante le proteste all'uscita del tribunale in occasione dell'ultima udienza, il processo per corruzione e abuso di potere che vede Netanyahu imputato non avrebbe scalfito più di tanto la popolarità del premier, che dalla sua può vantare anche un successo in politica estera incassato negli scorsi mesi, quando alla Casa Bianca c'era ancora Donald Trump: là conclusione degli storici "Accordi di Abramo" che hanno aperto alla normalizzazione dei rapporti con vari Stati arabi.
   
 LA CARTA ARABA
  Proprio la carta araba, con un ministero dedicato, è una delle novità che Netanyahu sta giocando in questa campagna, dopo essere riuscito a rompere il fronte comune dei partiti arabo-israeliani e averne attratto uno, Ra'am, nella sua orbita. Se capaci di superare la soglia di sbarramento del 3,25% per entrare in Parlamento, i partiti minori come Ra'am saranno l'ago della bilancia per la formazione di una coalizione di governo con o senza Netanyahu. A mettere d'accordo l'opposizione c'è poco, oltre la comune avversione per "re Bibi", ma questo potrebbe bastare al candidato centrista Yair Lapid per riunire tutti gli anti-Netanyahu: la partita si gioca soprattutto a destra, e molto dipenderà da ciò che faranno ex pupilli e vecchi alleati del premier. Dalla sua, Netanyahu, non ha perso il gusto del bacio della morte: con lui (in improbabili coalizioni, come quella che è appena arrivata al capolinea) o senza di lui, gli altri passano, Bibi resta.
   
(il Messaggero, 23 marzo 2021)


Le elezioni di oggi in Israele. I numeri

Martedì 23 marzo, 6.578.084 elettori israeliani sono chiamati ad eleggere la Knesset (il parlamento), per la quarta volta in due anni. I 13.685 seggi elettorali aprono alle 7.00 e chiudono alle 22:00 (ora locale). Sono stati allestiti 409 seggi speciali ad uso esclusivo dei pazienti di covid-19 e 342 seggi speciali per i cittadini in quarantena perché entrati in contatto con qualcuno positivo al tampone. Inoltre, come di consueto, sono previsti seggi speciali per i risiedenti nelle case di riposo e le residenti nei centri di accoglienza per donne in pericolo, per i ricoverati in altre strutture di assistenza e per i detenuti. Allestiti anche quattro seggi speciali all'aeroporto internazionale Ben-Gurion per i cittadini i israeliani che arrivano nel paese il giorno delle elezioni. In tutti i seggi elettorali speciali il voto viene effettuato mediante il sistema detto delle buste doppie, che garantisce la segretezza. Le buste doppie vengono utilizzate anche dai diplomatici di stanza all'estero e dai membri in servizio nelle forze armate. Come di consueto, le buste doppie dei seggi speciali verranno aperte e scrutinate solo dopo che sarà terminato il conteggio delle schede in busta singola dei seggi normali. Lo scrutinio inizierà appena chiuse le urne, subito dopo le 22.00. A quell'ora (le 21.00 in Italia), le principali emittenti televisive pubblicheranno i loro exit poll. I risultati effettivi saranno annunciati non prima di mercoledì mattina e non oltre venerdì pomeriggio. I risultati finali verranno ufficialmente consegnati al presidente Reuven Rivlin il 31 marzo e potranno essere eventualmente contestati entro e non oltre il 14 aprile. La 24esima Knesset presterà giuramento martedì 6 aprile.

(israele.net, 23 marzo 2021)


«Sarà un'altra partita di poker. Al tavolo, arabi e ultraortodossi»

L'editorialista e scrittore Anshel Pfeffer: «Netanyahu è avanti. Ma sarà più difficile formare un governo. Poi, orfano di Trump, dovrà gestire il nodo palestinese».

di Fiammetta Martegani

Israele torna alle urne per la quarta volta consecutiva in meno di due anni. Sei milioni e mezzo gli israeliani chiamati a votare, durante un giorno feriale, in cui uffici sono chiusi, così come le scuole, che vengono adibite a postazioni elettorali. Sono stati predisposti 409 seggi speciali per persone positive al Covid e 342 per chi è in quarantena. Per loro è stato organizzato uno speciale sistema di taxi che li accompagna singolarmente. Sono inoltre previsti dei drive-through elettorali: si vota direttamente dalla macchina. Ci sono poi 38 seggi speciali nei reparti anti-covid degli ospedali. Il piano di vaccinazione sta dando i suoi frutti. Ed è proprio questa campagna, più che quella elettorale, che sta portando consensi al premier uscente Benjamin Netanyahu. Secondo gli ultimi sondaggi, ha una potenziale coalizione di 53 seggi, inclusi i partiti religiosi e il neo-partito islamico. Sul fronte opposto, guidato da Yair Lapid, i seggi in totale si aggirano attorno ai 50. Per formare un governo ne servono 61. Naftali Bennett, con gli 11 seggi di Yamina, si conferma ago della bilancia.



«Netanyahu è sempre riuscito ad adattarsi a tutti i cambiamenti interni alla società israeliana, e i suoi 30 anni di carriera politica ne sono una conferma. Lo farà anche ora». Anshel Pfeffer, editorialista e autore di Bibi - The Turbulent Life and Times of Benjamin Netanyahu, ritiene che anche questa volta il premier potrebbe cavarsela.

- Il Covid aiuta?

  Diciamo che Bibi si è aiutato da solo. Ha fatto fuori Benny Gantz, l'unico vero rivale degli ultimi dodici anni, dopo averlo forzato a entrare nella sua coalizione proprio per fronteggiare l'emergenza sanitaria. Poi ha tirato fuori dal cilindro il vaccino per tutti.

- La sconfitta di Donald Trump può avere riflessi e influenzare il destino di Netanyahu?

  Sicuramente. Bibi per quattro anni si è presentato agli occhi del mondo come il migliore amico del presidente degli Stati Uniti. Joe Biden, invece, nonostante sia un amico di Israele, non oserà mai spingere l'acceleratore come ha fatto il suo predecessore. Trump ha messo letteralmente in pratica quel che Netanyahu aveva in mente già dal 1993, quando nel suo libro A place among the Nation esplicitava la sua visione antitetica rispetto agli Accordi di Oslo. Secondo Bibi l'unico modo per promuovere una pacificazione del Medio Oriente è stringere rapporti diplomatici con gli alleati del Golfo, come è avvenuto con gli Accordi di Abramo, siglati con gli Emirati Arabi Uniti e con altri tre Paesi. Che hanno però lasciato fuori del tutto la controparte palestinese.

- Che ne sarà dunque dei palestinesi?

  La promessa delle annessioni è stata usata da Netanyahu solo per vincere le precedenti elezioni. Non c'è mai stato un piano concreto, sia perché sarebbe estremamente complesso a livello di sicurezza, sia perché Bibi è convinto che, con il passare del tempo, i palestinesi non saranno più una delle priorità dell'agenda internazionale. Quindi, fragili e delegittimati, si troveranno costretti ad accettare lo status quo di semi-autonomia.

- Cosa succederà in queste elezioni?

  Anche solo un seggio può fare una differenza enorme per far tornare i numeri necessari a creare un governo. Fino ad oggi Netanyahu è sempre stato in grado di mettere insieme una coalizione, ma quest'anno potrebbe essere più complicato. Soprattutto sarà più difficile portare dalla sua parte Naftali Bennett, il vero kingmaker di queste elezioni.

- Finora Bibi se l'è sempre cavata. Quale è il segreto del suo successo?

  La sua energia, che gli permette di combattere fino all'ultimo, tirando fuori l'asso dalla manica al momento giusto. Pur provenendo dalla vecchia élite israeliana, ha sempre dimostrato uno straordinario talento nel capire cosa vuole il suo elettorato. È il modello populista che spiega il successo, analogo, di Trump e Berlusconi. Ma ciò che fa di Netanyahu un leader indiscusso nella storia, non solo di Israele, è la sua capacità di tenere insieme l'impossibile. Per questa sua partita di poker, farà sedere allo stesso tavolo arabi ed ultraortodossi, in un casinó collocato nel bel mezzo del Medio Oriente.

(Avvenire, 23 marzo 2021)


La tradizione della Matzà dell'Eruv

Il racconto di Rav Riccardo Di Segni

di Donato Moscati

C'è una tradizione di Pesach nella comunità ebraica di Roma che in pochi conoscono ed è la realizzazione della Matzà dell'Eruv.
Rav Riccardo Di Segni ci ha raccontato le origini di questa tradizione che si è tramandata negli anni e che ha incuriosito i media israeliani.
"Tutto comincia con l'Eruv Hazerot (mescolanza) ovvero la possibilità di trasportare da una casa all'altra il cibo per lo Shabbat. Per farlo è necessario che le case siano nello stesso comprensorio, che sia circondato e che le persone che ne fanno parte si accordino nel condividere un alimento che si conservi a lungo, anche un anno. Il cibo ideale è la matzà. Ai tempi del Ghetto era più semplice fare l'eruv in quanto c'erano cancelli e mura che delimitavano l'area. Non è facile farlo ora nelle città dove abitiamo, per motivi architettonici ed organizzativi (ma qualcuno sta lavorando per farlo anche a Roma) ma abbiamo mantenuto la tradizione di fare questa matzà speciale che resti in "deposito". È una matzà dove si fanno dei buchi più grandi fatti con un punteruolo di legno ed allargati con le dita, una volta pronta si recita la formula (senza berakhà) al Bet Haknesset durante minchà che precede l'inizio di Pesach (quest'anno venerdì pomeriggio).
Alla vigilia di Pesach tra le cose che si fanno oltre al Bi'ur Chametz (bruciare il chametz) si prende la matzà dell'eruv dell'anno vecchio ed è tradizione buttarla nel Tevere. Rav Elio Toaff z'l' raccontava che era consuetudine conservare molto bene questa matzà in una stanza adiacente al Bet Haknesset. Sempre Rav Toaff z'l' raccontava che se qualcuno rompeva la matzà dell'eruv non arrivava alla fine dell'anno e che aveva saputo di due shammashim che avevano rotto questa matzà. C'è molta cura nel maneggiarla.
Tutti gli anni Pino Arbib organizza un gruppo di volenterosi che realizza la matzà dell'eruv ed anche quest'anno rispettando le norme anti Covid è stata fatta."

(Shalom, 23 marzo 2021)


Israele alle urne: rebus alleanze, ma la sfida resta su Netanyahu

Domani le quarte elezioni in due anni. Il premier punta al successo vaccini per restare al potere

di Sharon Nizza

TEL AVIV - Era nato come il governo della pacificazione nazionale, solo il 17 maggio scorso, ma ha avuto vita breve: domani gli israeliani sono chiamati nuovamente alle urne, per la quarta volta in due anni. Gli ultimi sondaggi fotografano ancora un Paese spaccato, come è stato per i tre round precedenti, in cui nessuna coalizione incassa la maggioranza di 61 seggi tra gli alleati. Tutto fa prevedere che si aprirà un'altra estenuante fase di negoziati tra i partiti, di incarichi affidati e rimessi, che potrebbe durare mesi, mentre quinte elezioni restano uno scenario reale.
Rispetto ai risultati del 2 marzo 2020, l'ultima volta in cui gli israeliani sono andati a votare, il grande perdente è Benny Gantz: l'ex capo di Stato maggiore sceso in campo solo nel 2019, attuale ministro della Sicurezza, da 33 seggi è sceso a 4. Non gli perdonano di essere venuto meno alla promessa di non sedersi con Benjamin Netanyahu, l'emergenza Covid non è stata un'attenuante.
   Netanyahu è lontano dal raggiungere 61 con gli alleati comodi (i partiti ultraortodossi) e per ottenere una coalizione stabile deve ancora contare sull'appoggio dei rivali dichiarati. Tra questi, Naftali Bennett, leader di Yemina, partito della destra nazionalista che per posizionarsi come ago della bilancia, si è separato dagli elementi più oltranzisti. Con i suoi 8-10 seggi, potrebbe essere determinante per qualsiasi futura coalizione, essendo l'unico dell'opposizione che non ha giurato "tutto tranne Bibi". Insieme a lui, anche Mansour Abbas, parlamentare fuoriuscito dalla Lista Araba Unita, che dice sosterrà chi gli offrirà di più. Ma Abbas è dato oscillante sui 4 seggi e soprattutto rimane da vedere se potrà davvero unirsi a una coalizione che potrebbe includere la destra religiosa nazionalista di Itamar Ben Gvir, "l'avvocato dei coloni" come lo chiamano, che per la prima volta sembra entrerà nella Knesset.
   Netanyahu è dato a 32 seggi, dall'anno scorso ne ha persi 4, che vanno a un nuovo rivale: Gideon Saar, fuoriuscito dal Likud, già ministro in passati governi Netanyahu. Con il suo "Nuova Speranza" è dato a 8-10 seggi. "C'è Futuro" di Yair Lapid, che l'anno scorso si era staccato dalla coalizione con Gantz per non sostenere il governo di unità nazionale, è il secondo partito, con 18 seggi, ma sia Bennet che Saar hanno dichiarato che non è il loro candidato premier. E questo rimane il grande vulnus del campo anti-Bibi che potrebbe pregiudicare una coalizione alternativa: frammentato, senza una vera ideologia collante se non quella di voler rimpiazzare il premier più longevo della storia del Paese.
   Netanyahu è invece un fiume in piena: la riconferma a primo ministro è critica con il processo che lo vede imputato per corruzione, frode e abuso d'ufficio, che entra ad aprile nella fase dibattimentale. Promette accordi di normalizzazione con altri quattro Paesi arabi, voli diretti Tel Aviv-Mecca per i pellegrini musulmani e non manca di ricordare come è grazie a lui che "il Paese torna a vivere" — slogan che il comitato elettorale gli ha vietato di usare perché "troppo identificato con la campagna vaccini del ministero della Salute". Con metà della popolazione immunizzata in tre mesi, la campagna vaccinale ha combaciato con quella elettorale: domani si voterà con ristoranti, spiagge, musei e bar sovraffollati come negli ultimi giorni. Netanyahu confida che, tra un caffè e un aperitivo, gli elettori non lo dimenticheranno.

(la Repubblica, 22 marzo 2021)


Israele - Oltre cinque milioni di vaccinati: ora riapre tutto

La metà della popolazione, 4,1 milioni di persone, ha già ricevuto la seconda dose e con essa un «patentino verde» che permette di entrare liberamente in ristoranti, bar, piscine e teatri. Da aprile, potrebbe cadere l'obbligo di portare le mascherine all'aperto.

Il quarto passo, quello della riapertura quasi completa. Israele brucia le tappe e aggiunge un altro tassello alla sua campagna di immunizzazione contro il virus. Da ieri, più posti disponibili nei ristoranti, nei cinema, nelle palestre. Perfino negli stadi, in base alla capienza delle strutture. Le limitazioni si allentano, gli esercizi commerciali potranno accogliere fino al 75% della loro capacità. È l'effetto di una azione rapida, capillare. «A metà aprile, copriremo il 90% degli israeliani vaccinabili», scommette Arnon Shahar, responsabile del piano vaccini nazionale.
   Poi toccherà ai guariti e infine agli under 16, per i quali mancano ancora le autorizzazioni. Mentre il resto del mondo è ancora alle prese con la vaccinazione dei più grandi, in Israele si pensa già ai circa 600.000 ragazzi tra i 12 e i 15 anni. «Avere il permesso di vaccinare i bambini sarebbe un passo ulteriore, un'onda continua. Fin quando non avremo coperto anche quella fascia, parlare di immunità di gregge è un esercizio ottimistico».
   Eppure, i numeri fanno una certa impressione: secondo gli ultimi dati forniti dal ministero della Salute, più di 5,2 milioni di israeliani hanno ricevuto almeno una dose del vaccino Pfizer, l'unico utilizzato. Di questi, 4,1 milioni hanno effettuato anche il richiamo. A oggi, quasi la metà della popolazione è immunizzata. «Facilità» è la parola che più ricorre tra i membri della squadra che ha organizzato la campagna vaccinale. «Tutti i nostri sistemi sono digitali, le 4 casse mutue in Israele hanno funzionato bene, su tutto il territorio», spiegano. Nel sistema messo a punto, tutto è già ampiamente noto alla popolazione: per avere un appuntamento è sufficiente prenotare attraverso un'applicazione esistente, già rodata.
   «Quando una cosa diventa difficile, le persone ci pensano su. E poi finiscono per non fare nulla», ragiona Shahar con la Verità, in uno dei rari momenti di calma della sua giornata. Il sistema proattivo non permette attese, i pazienti devono essere cercati: messaggi Whatsapp, email, tutto è utile pur di condurli nei punti vaccinali. «Gli ultraortodossi, che non hanno gli smartphone, li abbiamo contattati attraverso un sistema più classico, quello dei messaggi vocali», spiegano dalla task force vaccinale. Il 90% del piano è stato sviluppato sul territorio, coinvolgendo poco o nulla gli ospedali. Palestre, grandi aule, tensostrutture le soluzioni più utilizzate. «A Tel Aviv hanno tirato su un centro di vaccinazione in 3 giorni, nel bel mezzo della piazza principale, Kikar Rabin», racconta Gabriele Bauer, che in Israele gestisce un sito di informazione, Israel360.com. «Ad Haifa, nel nord del Paese, hanno scelto i palazzetti dello sport e gli ambienti fieristici», spiega Lia Spadoni, che lavora per una azienda hi tech. «Dopo la seconda dose, la cassa mutua mette a disposizione il patentino verde, con i dati anagrafici dei cittadini, le date delle due vaccinazioni e i numeri dei lotti somministrati».
   Il «semaforo verde», come lo chiama qualcuno da queste parti, è il lasciapassare verso la normalità. Con il patentino si può entrare praticamente ovunque: nelle sale interne dei ristoranti, alberghi, piscine e teatri. «Negli ultimi giorni via Dizengoff, una delle più vive di Tel Aviv, è tornata a riempirsi, le persone hanno ripreso a frequentare i locali», racconta Michelle Debaeh, receptionist al Dan Tel Aviv, uno degli alberghi più importanti della città.
   Secondo le intenzioni del governo, dalla prossima settimana potrebbero riaprire anche i disco club. C'è chi parla addirittura di un'abolizione dell'uso delle mascherine all'aperto per la fine di aprile, anche se al momento mancano i riscontri ufficiali da parte del ministero della Salute. «In Israele abbiamo capito che non possiamo lottare contro il virus con una sola arma, cioè quella del lockdown. Il lockdown fa male», prosegue Shahar. «È giusto bloccare la socialità per congelare la crescita dei contagi e per ridurre la mortalità, ma per arrivare a una soluzione vera l'unica strada è vaccinare». Uno dei prossimi passi, secondo i tecnici della squadra vaccinale, è l'esportazione del modello all'estero, per tornare a viaggiare oltreconfine.
   Il governo ha già firmato un accordo con la Grecia per riaprire i confini ellenici ai turisti israeliani vaccinati. All'orizzonte, i primi colloqui per fare altrettanto con altri Paesi, come Gran Bretagna e Italia. «Se vogliamo davvero ripartire, è necessario condividere l'enorme mole di informazioni raccolte. Credo sia fondamentale che il passaporto verde venga riconosciuto con facilità in molti aeroporti del mondo. Noi siamo pronti a fare altrettanto negli scali nazionali», confessa Shahar. Domani, intanto, Israele torna al voto. Si tratta delle quarte elezioni in appena due anni. I più maligni sospettano che l'accelerazione nelle riaperture sia stata impressa da Benjamin Netanyahu in persona, che si gioca una buona fetta della rielezione proprio sulla campagna vaccinale.
   Insomma, piuttosto che i sondaggi, chissà che in queste ore non sia più interessante leggere altri numeri per capire dove potrebbe andare il Paese: quelli dei nuovi immunizzati. A.Dlf.

(La Verità, 22 marzo 2021)


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Israele, primo paese post Covid

Come ha fatto lo stato ebraico a vaccinare così rapidamente la popolazione

La protezione della vita dei cittadini è un principio cardine del contratto sociale israeliano fin dalla creazione. La stessa avversione verso la perdita di vite umane che motiva la difesa israeliana. Molti arabi israeliani fanno avanti e indietro con la Cisgiordania, mentre i palestinesi si recano in Israele per lavorare. "Verranno vaccinati. Non solo per il loro bene, ma anche per il nostro".

Oltre il 55 per cento degli israeliani ultra sedicenni è stato vaccinato contro il Covid-19 a dodici settimane dal giorno in cui la prima dose è stata somministrata in diretta tv a un ammiccante Benjamin Netanyahu", scrive il giornalista Tunku Varadarajan sul Wall Street Journal: "Questo è il miglior tasso di immunizzazione al mondo ed è circa quattro volte superiore a quello americano. Per farmi spiegare le ragioni di questo grande successo, ho intervistato il coordinatore nazionale della campagna israeliana contro il Covid-19, Nachman Ash. Il sessantenne Ash, che è stato un medico nell'esercito israeliano, spiega che sta combattendo una 'guerra 24/7'. Come tutti i bravi militari, Ash è fiero delle sue vittorie ma si affretta a dare credito anche agli altri. Attribuisce il successo di Israele ai suoi leader politici, che hanno mostrato lungimiranza stipulando degli accordi in tempi record per ammassare le dosi di vaccino. I funzionari hanno avuto 'contatti diretti' con Pfizer, attraverso i quali hanno offerto alla compagnia un affare. Israele avrebbe avuto i vaccini in anticipo, e nelle quantità richieste, e in cambio Pfizer avrebbe avuto accesso ai risultati delle vaccinazioni.
  I dati reali corrispondono a quelli dei test clinici. 'Stiamo osservando circa il 95 per cento di efficacia nella prevenzione della malattia', dice Ash: 'Questi dati reali confermano i risultati della ricerca di Pfizer'. I programmi di vaccinazione hanno ridotto i tassi di infezione e dato forza a un paese che ha subìto tre duri lockdown nell'ultimo anno. 'Credo che in ognuna di queste circostanze il lockdown fosse assolutamente necessario'. Ash è profondamente in disaccordo con la Great Barrington Declaration, in cui un gruppo di epidemiologi ha proposto una 'protezione mirata' per le categorie vulnerabili, e la fine dei lockdown. 'No, no, no. Credo che questo sia un modo molto pericoloso di gestire la pandemia', dice Ash: 'Loro credono di fermare il contagio attraverso quella che io chiamerei 'l'immunità di gregge naturale', che si ottiene facendo infettare la gente. Ma questo è sbagliato, perché comporta la perdita di molte vite'. La protezione della vita dei propri cittadini è stato un principio cardine del contratto sociale israeliano fin dalla creazione dello stato. La stessa avversione verso la perdita di vite umane che motiva la difesa israeliana contro i missili di Hezbollah si riscontra nel suo approccio cauto e incrementale alla ripresa della normalità dopo la pandemia. Il paese sta scommettendo forte sui vaccini. 'Una volta che l'80 per cento della popolazione israeliana sarà vaccinata - spiega - saremmo vicini all'immunità di gregge'. Ash mi racconta i metodi - e i numeri - della campagna vaccinale israeliana con una soddisfazione silenziosa. Innanzitutto hanno vaccinato le categorie a rischio, e successivamente hanno proseguito in base alle categorie anagrafiche.
  Qualche settimana fa la portavoce di Ash ha annunciato che 3,1 milioni di israeliani hanno avuto entrambe le dosi mentre 5,1 milioni hanno ricevuto solamente la prima. L'86 per cento degli ultra cinquantenni ha ricevuto entrambe le dosi. I vaccini sono stati amministrati attraverso i Kupat Holim, le quattro organizzazioni di previdenza che sono il perno della sanità israeliana.
  Ciò che l'America e Israele hanno in comune è la forte presenza dei no vax. In Israele, tre gruppi sono particolarmente suscettibili alle fake news riguardanti il vaccino: gli arabi, gli immigrati dalla Russia e le giovani donne. Su richiesta del governo israeliano, Facebook ha rimosso dei contenuti in lingua ebraica 'volutamente mendaci' secondo cui il vaccino è un veleno designato per selezionare la popolazione e impiantare dei chip di tracciamento nei loro corpi. 'Alcune donne giovani', aggiunge, 'temono di perdere la loro fertilità. Tutto questo è infondato'. Ma il governo potrebbe avere svoltato con un altro gruppo - gli ultra ortodossi - che sono stati altrettanto ostili alle indicazioni del governo. 'Questi gruppi vengono influenzati dai loro rabbini - spiega Ash - e abbiamo avuto un confronto positivo con i rabbini riguardo alle vaccinazioni. Loro stanno incoraggiando le persone a fare il vaccino e questo è un buon segno'. La chiave è persuadere i capi di queste comunità che vaccinarsi è qualcosa di positivo. 'Non c'è altro modo, che si tratti dei gruppi ultra ortodossi o degli arabi', anche se con quest'ultimo gruppo la divisione non è su base religiosa: 'Lavoriamo con i sindaci e i leader locali. Loro riescono a veicolare il messaggio alla loro gente meglio rispetto a me'. Uno dei possibili strumenti per convincere la gente a vaccinarsi è l'introduzione di un certificato di vaccinazione. Gli israeliani possono scaricare un'app che verifica l'avvenuta vaccinazione o la guarigione dal Covid. Questo consente ai possessori dei certificati di entrare nelle palestre, negli hotel, nelle sale concerti e negli altri spazi a cui sarà vietato l'accesso a chi non è immune.
  Che ne è dei palestinesi? I critici di Israele dicono che non ha fatto abbastanza per loro. Ash risponde che l'autorità palestinese fa parte del programma Covax avviato dall'Organizzazione mondiale della Sanità per aiutare i paesi a basso e medio reddito, ma indica che ci sono stati dei contatti tra la sua squadra e gli amministratori nei territori palestinesi. Ash aggiunge che israeliani e palestinesi condividono 'un territorio molto piccolo, e molto interconnesso'. Molti arabi israeliani fanno avanti e indietro con la Cisgiordania, mentre i palestinesi si recano in Israele per lavorare. 'La pandemia ci unisce, sicuramente, e loro verranno vaccinati. Non solo per il loro bene, ma anche per il nostro'".

Traduzione di Gregorio Sorgi

(Il Foglio, 22 marzo 2021)


Israele - Le autorità possono impedire l'ingresso a scuola a chi non è vaccinato

Con un graduale ritorno alla normalità Israele, grazie a una campagna vaccinale veloce ed efficace, si conferma il paese apripista per alcune problematiche che potrebbero riguardare in futuro anche altri paesi in tema di vaccini. Le autorità locali israeliane possono impedire l'ingresso a scuola a insegnanti che non sono vaccinati e non presentano test negativi al contagio del coronavirus come ha stabilito il tribunale di Tel Aviv, respingendo il ricorso di una insegnante cui era stato chiesto di presentare un test negativo ogni settimana o vaccinarsi se voleva continuare a lavorare a scuola. Secondo i giudici, nell'attuale situazione la municipalità ha "il diritto e il dovere" di proteggere la salute degli allievi, i genitori e gli altri membri dello staff e ciò prevale sul diritto alla privacy dei singoli. Il tribunale ha anche esortato il Parlamento a legiferare in materia per chiarire la situazione. Si ripropone, come già avvenuto in Italia per i casi di operatori sanitari, il tema della obbligatorietà della vaccinazione per determinate categorie.
   Il tribunale ha discusso in particolare il caso di una assistente in un asilo nido che chiedeva - in ossequio al proprio diritto alla privacy - di essere ammessa al lavoro malgrado non si sia vaccinata contro il coronavirus e malgrado si rifiuti di sottoporsi a tamponi. Secondo il quotidiano Globes, la giudice del tribunale del lavoro di Tel Aviv Merav Kleiman ha riconosciuto in principio la legittimità della posizione della assistente, ma ha rilevato che al momento attuale essa non prevale sulla necessaria protezione dei bambini a lei affidati (che nel caso specifico necessitano attenzioni molto particolari) e dello staff dell'asilo. Di fronte a questo interesse reputato superiore, ha aggiunto, la richiesta alla dipendente di sottoporsi a tamponi settimanali "appare un inconveniente marginale". Intanto la donna continuerà a ricevere lo stipendio. La giudice ha infine lamentato che in merito la legge attuale ha una lacuna. Dovrebbe a suo parere essere colmata il più presto possibile "per chiarezza ed uniformità".
   Intanto è iniziata oggi in Cisgiordania la campagna di vaccinazione contro il Covid anche se per ora riguarda il personale medico, i malati cronici e gli anziani di oltre 75 anni. La ministra palestinese per la Sanità Mai al-Kailah, citata dalla agenzia di stampa ufficiale Wafa, ha spiegato che la situazione epidemiologica in Cisgiordania "desta preoccupazione". La Wafa aggiunge che fra i primi ad essere vaccinati è stato il presidente Abu Mazen (86 anni), ma non è chiaro se la sua inoculazione sia avvenuta ieri o all'inizio del mese quando furono vaccinati i membri del Comitato centrale di al-Fatah di oltre 65 anni. Le quantità di vaccini a disposizione dell'Anp in Cisgiordania sono limitate. Finora ha ricevuto 5.000 dosi di Moderna da Israele, 8.000 dosi di Sputnik dalla Russia e 64mila dosi di AztraZeneca e Pfizer dall'Organizzazione mondiale per la sanità, nel contesto del Progetto Covax. Ma un terzo di questa ultima fornitura è stato inoltrato a Gaza. Inoltre Israele ha provveduto a vaccinare oltre 100 mila manovali palestinesi della Cisgiordania impiegati nel proprio territorio, finora con una prima dose di Pfizer.
   Sempre oggi è scattato da oggi allo scalo Ben Gurion di Tel Aviv l'allentamento delle restrizioni per gli arrivi e le partenze degli israeliani. Secondo le nuove regole sono ammessi in tutto 8 mila passeggeri tra ingressi e uscite; allo stesso tempo, in vista del voto di martedì 23 marzo, non sono più necessari permessi speciali per il ritorno in Israele dei cittadini all'estero. Ogni rientro tuttavia - a parte vaccinati e guariti dal covid - deve osservare la quarantena obbligatoria a casa. Continuano intanto a scendere i nuovi contagi: ieri - riposo sabbatico - secondo il ministero della sanità sono arrivati alla cifra mai segnata finora di 285 con un tasso di positività all'1,7% su oltre 17mila tamponi. Anche il Fattore R - considerato decisivo ai fini della pandemia - scende segnando un inedito 0,63, il più basso dallo scorso ottobre. La campagna vaccinale prosegue a tutto ritmo: oramai ben oltre il 50% della popolazione ha avuto la prima dose e la percentuale di chi ha ricevuto la seconda è poco meno del 50%.

(il Fatto Quotidiano, 21 marzo 2021)


Netanyahu promette: «Voli diretti Tel Aviv-Mecca»

Passi avanti nei rapporti diplomatici tra Israele e Arabia Saudita. «Avremo voli diretti Tel Aviv-Mecca per i pellegrini musulmani israeliani», ha indicato il premier Benyamin Netanyahu in un'intervista alla Radio Militare. È bene ricordare che le due Nazioni sono state in conflitto nel 1967 nella guerra dei sei giorni, e che tuttora i sauditi chiedono agli israeliani un accordo di pace con i palestinesi.
   Ma c'è stato un lento riavvicinamento negli ultimi 10 anni tra i Paesi del Medio-oriente.
L'indice più evidente di un cambio nei rispettivi rapporti è il fatto che l'Arabia Saudita abbia permesso più volte il sorvolo del proprio spazio aereo a voli per o da Israele. Nel novembre dello scorso anno il premier Benyamin Netanyahu e il principe reale saudita Bin Salman ebbero un incontro segreto, insieme all'allora segretario di stato Usa Mike Pompeo, a Neom, smart city saudita non distante dall'Egitto sul Mar Rosso. Riad, la capitale saudita, che è l'unico scalo dal quale raggiungere poi La Mecca - non fa parte degli Accordi di Abramo raggiunti da Israele con i Paesi del Golfo, visto che la monarchia chiede come condizione preliminare del riconoscimento di Israele la firma di un accordo di pace tra lo stato ebraico e i palestinesi.

 Martedì le elezioni: le quarte in due anni
  Intanto, Benyamin Netanyahu sarà ancora una volta il candidato nelle elezioni israeliane che si terranno martedì. Questa volta Netanyahu punta molto sul successo della vaccinazione anti coronavirus e l'allaccio di rapporti diplomatici con Bahrein, Emirati e Marocco. In buoni rapporti con il leader russo Vladimir Putin, Bibi ha però perso il super alleato Donald Trump.
   Netanyahu è riuscito a depotenziare anche il suo principale avversario politico, il centrista Benny Gantz, che, dopo due elezioni inconcludenti, in seguito al terzo voto aveva accettato di entrare con lui al governo la scorsa primavera di fronte all'emergenza coronavirus. Ma la cooperazione fra i due non ha mai funzionato e Gantz, che prima aveva giurato di non governare mai con Bibi, è precipitato nei sondaggi. Ora si torna nuovamente alle urne, con Netanyahu premier ad interim.

(Il Messaggero, 21 marzo 2021)


Israele: stop ai limiti di ingresso negli aeroporti

I ministri del governo di Israele hanno votato per porre fine al tetto limitante il numero di cittadini autorizzati all'ingresso nel Paese. Fino ad ora, il numero massimo era di 3000 al giorno.

 Cosa prevedono le nuove ordinanze sugli aeroporti?
  I ministri del governo dello Stato di Israele hanno votato per porre fine a tetto che limita il numero di cittadini che possono entrare nel Paese. Fino ad ora, il numero massimo consentito dai decreti in vigore era di 3000 ingressi al giorno. La restrizione sugli arrivi agli aeroporti nazionali sarebbe già scaduta a mezzanotte. Nella giornata di mercoledì, l'Alta Corte di Giustizia aveva stabilito che si trattava di una legge incostituzionale.

 I ministri votano per la limitazione dei voli giornalieri dal Paese
  I ministri hanno tuttavia approvato una legge che stabilisce un massimo di voli giornalieri "alla capacità effettiva" dall'aeroporto. In una dichiarazione congiunta, la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministero della Salute hanno motivato la decisione con i requisiti di test e distanziamento sociale. I ministri d'Israele votano anche per decidere sull'abolizione del Comitato. Le nuove ordinanze rimarranno in vigore fino al 28 marzo. Intanto, il ministro del Turismo ha dichiarato che Israele riapre il confine con l'Egitto.

(periodicodaily.com, 21 marzo 2021)


Israele in overdose elettorale si prepara a un nuovo stallo

Un Paese ancora più frammentato si avvia martedì alle urne per la quarta volta in due anni I blocchi pro e contro Netanyahu restano alla pari. A decidere può essere Naftali Bennet. E si parla di un altro governo a rotazione.

di Fiammetta Martegani

TEL AVIV - A 48 ore dall'apertura dei seggi, mentre in Israele la campagna vaccinale avanza spedita - facendo dello Stato ebraico il primo Paese al mondo per percentuale di immunizzati -, quella elettorale, ormai la quarta in meno di due anni, procede stancamente, confermando, di nuovo, la spaccatura netta tra il fronte pro e quello contro Benjamin Netanyahu, primo ministro dal 2009, in corsa per il suo quinto governo consecutivo. I giornali parlano di overdose elettorale. E questa volta sarà ancora più difficile mettere assieme i numeri per formare un esecutivo, soprattutto perché il blocco dell'opposizione è diviso come mai. Mentre Bibi ha rinnovato l'alleanza storica con i partiti religiosi, le altre liste, per poter formare una coalizione, dovranno assemblare un puzzle i cui pezzi combaciano a fatica. Nel campo della destra, i sondaggi assegnano 11 seggi al partito di ispirazione religiosa Yamina, di Naftali Bennett, seguito dai laici di Nuova Speranza, la formazione di Gideon Saar, che si attesta sui 10 seggi, poi c'è il nazionalista laico Avigdor Lieberman con i 7 seggi del suo Ysrael Beitenu. Al centro, ma in grande difficoltà, l'ormai ex co-premier Benny Gantz, con il suo Blu Bianco fermo a 4 seggi, e Yair Lapid, leader di Yesh Atid, 20 seggi, attuale leader dell'opposizione assai temuto da Netanyahu. A sinistra, 6 seggi per i Laburisti di Merav Michaeli, 3 all'estrema sinistra Meretz di Nitzan Horowitz. Tra i partiti arabi, vengono assegnati 8 seggi alla Lista Araba Unita e 3 al nuovo partito islamico Raam: una formazione piccola (come Meretz, è ad alto rischio di non superare la soglia di sbarramento del 3,25), nata dalla frattura interna tra gli arabi, ma che potrebbe rivelarsi determinante. Spaccare il fronte arabo è stato uno degli obiettivi (raggiunti) di Netanyahu in questa campagna elettorale, perché i numeri del nuovo piccolo partito dissidente di Mansour Abbas potrebbero essere decisivi per confermare la sua leadership. La corsa per il premier resta però tutta in salita. Oggi gli vengono attribuiti 29 seggi. Sommati ai 15 dei due partiti religiosi, ai 4 della lista religiosa sionista e ai 3 di Raam si arriva a 51 in totale. Esattamente quelli del blocco anti-Bibi. Entrambi i fronti sono ancora lontani dal raggiungere i 61 seggi (su 120) necessari per governare alla Knesset. Sei sondaggi dovessero risultare accurati, tutto, di fatto, si giocherà dopo il voto del 23 marzo, e mai come questa volta il vero kingmaker sarà Naftali Bennett, ex alleato del premier (con cui ora è ai ferri corti) che nel corso di questi mesi non ha mai voluto chiudere accordi con nessuno, per poter tirare fuori all'ultimo l'asso dalla manica la proposta di un governo a rotazione.
   E' una formula che non ha funzionato con la precedente alleanza Netanyahu-Gantz. Ma che, di nuovo, potrebbe essere riproposta come l'unica possibile. Anche se a causa della frammentazione di questa ennesima tornata sono in molti a temere che queste elezioni non porteranno ad alcun risultato. Le quarte elezioni in meno due anni non sono ancora cominciate, e si pensa alle quinte.

(Avvenire, 21 marzo 2021)


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Israele al voto: ancora tutti contro Netanyahu

Il premier, in carica da 12 anni, punta su strategia anti Covid e pace di Abramo

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME. Tre giorni prima di andare alle urne, Israele vibra di incertezza, niente, nessuno sa prevedere come andrà a finire, se Bibi vincerà o perderà.
   I giornalisti non arrivano a frotte come al solito, è la quarta volta che si vota e la questione è sempre la stessa: Bibi. Non sarà breaking news se i suoi accaniti antagonisti non ce la faranno nemmeno stavolta. Ma il tempo martella anche i monumenti, e tutti sentono che al di là del risultato, martedì si gioca con la storia proprio per il personaggio in questione: è un'elezione che non ha niente di immediatamente politico, che non mette in discussione scelte pratiche, ma che mira all'essenza di un'epoca. Essa si incarna tutta in questo personaggio, di 71 anni, al governo da 12 consecutivi, 16 in totale da primo ministro.
   Benjamin Netanyahu intellettuale, figlio di Ben Zion, storico vicino a Jabotinsky, fratello di Yoni il comandante morto a Entebbe e lui stesso membro della Sayeret Matkal, unità militare eroica (come anche l'altro fratello Iddo), liberal conservatore, non religioso, senza propensione al post sionismo di moda oggi anche fra tanti ebrei. Sotto di lui non ci sono state guerre, ha portato a Israele il dono della vaccinazione anti Covid più riuscita del mondo, un'economia stabile, la pace di Abramo con quattro stati islamici, la sicurezza contro l'Iran. L'opposizione lo odia antropologicamente, un odio woke anti destra, una specie di grido anti oppressione come quello che si sente alle manifestazioni davanti a casa sua a Gerusalemme, anche ieri. Le accuse di corruzione volgono intorno al fatto che ha cercato di convincere un giornale a dargli una buona copertura, ma nessuno lo accusa di aver mai preso denaro. E allora? Allora la sinistra, i nemici che si è fatto in tutti questi anni, e sono tanti, parte dei religiosi e degli arabi che si sentono abbandonati e mal rappresentati sono furiosi, totalmente ipnotizzati: tutti fuorché Bibi, è lo slogan.
   Adesso, la questione ruota tutta intorno alla possibilità di costruire la coalizione di 61 seggi alla Knesset, che ne ha 120. Il Likud, il partito di Netanyahu, è di gran lunga il primo: gli ultimi sondaggi dicono che ha 30 seggi, mentre ne conta 19 il partito maggiore all'opposizione C'è un futuro, di Yair Lapid, un giornalista tv che non ha mai rivelato la sua linea e che solo ieri ha sfidato Bibi a un confronto. I partiti di destra sarebbero in vantaggio: Destra di Naftali Bennet ha 10 seggi, e tutti i partiti religiosi portano molto avanti il gruppo, ma per esempio l'ex Likudnik Gideon Saar che ha fondato Nuova speranza (8 seggi) giura insieme a Avigdor Lieberman (Israele casa mia, 8) che mai entreranno in una coalizione con Netanyahu, benché di destra.
   Dall'altra parte, Lapid, che in teoria arriva a 61, non sa su quanti amici potrà contare, perché parecchi partitini di sinistra, fra cui i Laburisti, potrebbero non superare il muro parlamentare del 3,25%. Anche il Partito di Benny Gantz, Bianco e blu, come Meretz, il partito radicale, sembrano cadere nell'inconsistenza. I partiti in via di sparizione potrebbero creare una cascata di voti sprecati. Alle precedenti elezioni l'8,5% dei voti sparirono dai radar. Netanyahu spera di aver allargato la simpatia o almeno l'interesse nel mondo arabo, e sembra funzioni. Al momento la dura insistente campagna anti Bibi che può contare su media compatti e instancabili, ha creato una situazione in bilico.
   Il desiderio anche di moderati come Saar o Bennet di sostituirlo è grande. Ma di fatto manca in queste elezioni un personaggio che si erga a vero antagonista del primo ministro. Nessuno, né Lapid né Bennet né Saar mostrano al momento la statura per guidare un Paese come Israele, sempre sul margine di eventi fatali. Quello che gioca contro Bibi tuttavia, e non va dimenticato da nessuno, è l'immenso potere del politically correct, dell'occasione cui non sarai invitato, del premio letterario o artistico o del ruolo cui non potrai ambire. Il tassista che mi riportava a casa qualche giorno fa, sentendo che non ero contro il premier ha esclamato. «Che sollievo, posso dire quello che mi pare finalmente. Allora ascolti: Netanyahu ci ha salvato dal Covid e fa la pace. Che c'è di più di questo?».

(il Giornale, 21 marzo 2021)


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Arabi per Bibi, la linea rossa è superata

I palestinesi cittadini d'Israele si dividono: dopo la frattura della Lista araba, il 25%voterà per partiti sionisti. II leader islamista Abbas ha lasciato la coalizione e ora pensa all'appoggio esterno al Likud.

di Michele Giorgio

GERUSALEMME - Nell'angolo del suo giardino ombreggiato da robusti alberi di limoni, Salwa, un'attivista di Haifa dei diritti della minoranza araba, risponde con riluttanza alle nostre domande sul destino che avrà la Mustarake, la Lista unita araba, alle elezioni del 23 marzo. «Nel giro di qualche mese è diventato tutto così precario, i nostri rappresentanti (alla Knesset) si sono divisi e tanti (arabo israeliani) dicono che non voteranno più per la Lista, anzi non andranno ai seggi elettorali...forse è una conseguenza della pandemia...», commenta con ironia.

 Uno sfogo comprensibile
  La Lista Unita, fronte elettorale dei palestinesi con cittadinanza israeliana, che alle elezioni del 2020 fa aveva ottenuto un ottimo risultato diventando un punto di riferimento anche per migliaia di israeliani ebrei stanchi della corsa al centro di Laburisti e Meretz, martedì rischia il tonfo e di scendere da 15 a 8-9 seggi. «La nostra gente — aggiunge Salwa — è stata ferita dalla frattura nella Lista unita. Mansour Abbas ha rotto con gli altri partiti arabi e ha oltrepassato una linea rossa che non credevamo fosse superabile da un palestinese».

 Mansour Abbas
  Un nome e un cognome che non dicono nulla all'estero. In Israele al contrario in questi giorni sono sulla bocca di tutti. Dentista residente nel villaggio di Maghar, deputato, islamista e leader del partito Raam, potrebbe passare alla storia della politica israeliana garantendo, sia pure con un appoggio esterno, al premier di destra Benyamin Netanyahu i seggi per formare una maggioranza di governo.
   Che Raam riesca, sganciato dalla Mustarake, a superare la soglia di sbarramento del 3,25% è una possibilità remota. Ma per la prima volta qualche giorno fa un sondaggio lo dava nella Knesset. Nella storia di Israele non sono mancate forze politiche arabe non nazionaliste che hanno appoggiato i partiti sionisti. Il Partito arabo democratico (ora si chiama Maan) per lungo tempo è stato una appendice dei Laburisti. Ma erano relazioni all'interno del centrosinistra. Invece Abbas vuole portare il suo partito islamista a un'alleanza concreta con la destra e con Netanyahu che pure nel 2018 chiese e ottenne l'approvazione della Knesset della legge fondamentale «Israele-Stato della nazione ebraica» che sancisce la cittadinanza di serie B degli arabo israeliani.
   Abbas spiega la sua «svolta» con l'urgenza di risolvere i problemi che affronta la minoranza palestinese in Israele (un milione e 900mila, il 21% della popolazione) dalla mancanza di risorse per i suoi centri abitati fino alla criminalità responsabile lo scorso anno di 95 omicidi (quest'anno già di altri 26). Il desiderio di Abbas «di affrontare i problemi» alleandosi con il più forte trova maggiore ascolto nei villaggi arabi più poveri.
   «Abbas non se ne rende conto ma ha solo fatto un favore a Netanyahu. Il primo ministro ha compreso come butta il vento e va in giro proclamando di essere un buon amico dei cittadini arabi. Ma fino a qualche mese fa li considerava pericolosi», ci dice la giornalista Nahed Dirbas. Così Netanyahu ora è noto anche come «Abu Yair», in arabo il papà di Yair, dal nome del suo primo figlio, e in campagna elettorale è andato in cerca di voti a Nazareth, Umm el Fahem e altri centri della Galilea.
   Secondo un sondaggio il 25% dell'elettorato arabo israeliano afferma che voterà per i partiti sionisti il 23 marzo e la metà di essi per il Likud. L'analista Wadie Abu Nassar non ha peli sulla lingua commentando le scelte di Abbas. «In questo paese gli islamisti — ci dice — sono alleati naturali della destra perché non accettano il programma progressista, specie nei diritti civili, degli altri partiti arabi».
   «Baladi», il mio paese, è un brano recente di una giovane e brava artista di Nazareth, Haya Zaatry, che in modo soft ribadisce l'identificazione dei palestinesi con la Palestina storica. Ma qualcosa cambia. A livello sociale, nella vita di tutti i giorni, malgrado le discriminazioni di uno Stato che dal 2018, anche per legge, «appartiene» alla maggioranza ebraica, è visibile un processo di integrazione di una porzione di arabo israeliani.
   A esprimerlo è, non a sorpresa, la classe media, professionisti e piccoli imprenditori, che vuole contare di più e guarda ai partiti sionisti. E non manca chi apprezza l'Accordo di Abramo, firmato lo scorso anno da Netanyahu con quattro paesi arabi, perché ricongiunge gli arabo israeliani con la parte di Medio Oriente da cui erano esclusi.
   Le elezioni di martedì diranno di più su questo fenomeno. «Per me è ancora di piccole dimensioni — afferma Wadie Abu Nassar — Contano piuttosto la delusione, la frustrazione di una minoranza ampia, che vuole pesare di più, ma senza rinunciare ai suoi diritti».
   
(il manifesto, 21 marzo 2021)


GB, picchi di contagi tra vaccinati AstraZeneca, ecco che succede

Ricerca pubblicata sul British medical Journal, il 41% dei neo vaccinati avrebbe tenuto comportamenti imprudenti ma prima che il corpo reagisca al vaccino occorrono tra gli 8 giorni e le due settimane

di Dario Raffaele

All'inizio di questo mese uno studio condotto dal Public Health England (Agenzia esecutiva del Dipartimento della Salute nel Regno Unito che opera dal 2013) sulla vaccinazione negli ultracinquantenni, pubblicato sul British medical journal, ha rilevato un aumento "notevole" delle infezioni da covid-19 nelle persone, immediatamente dopo aver ricevuto il vaccino AstraZeneca.
   Allo stesso modo, uno studio sul programma di vaccinazione in Israele, riportato a febbraio, ha riscontrato un picco simile. Lo studio ha osservato che l'incidenza giornaliera di nuovi positivi è approssimativamente raddoppiata dopo la vaccinazione ed entro l'ottavo giorno dalla stessa.
   Un sondaggio dell'Ufficio per le statistiche nazionali del Regno Unito, che esamina gli atteggiamenti e i comportamenti legati al coronavirus e alle vaccinazioni in Inghilterra, mostra perché questi picchi potrebbero verificarsi.
   Tra gli ultraottantenni che avevano ricevuto la loro prima dose di un vaccino nelle tre settimane precedenti, il 41% ha riferito di aver incontrato qualcuno diverso da un membro della famiglia, un operatore sanitario o un membro della loro bolla di sostegno in casa dopo la vaccinazione, infrangendo così le norme di blocco.
   Sarebbero dunque comportamenti imprudenti a fare innalzare il picco dei nuovi contagi in chi ha ricevuto il vaccino AstraZeneca. In sostanza sembra che molte persone "stiano abbassando la guardia prima che il vaccino abbia avuto effetto", ha detto James Rubin, professore di psicologia dei rischi per la salute emergenti al King's College.
   I ricercatori del King's College hanno notato poi che "l'avvertimento sull'effetto ritardato dell'immunizzazione non compare fino a pagina 7, penultima pagina, del foglietto illustrativo distribuito durante la vaccinazione. Ma potrebbero essere necessarie una o due settimane prima che il tuo corpo crei una certa protezione dalla prima dose di vaccino. Come tutti i medicinali, nessun vaccino è completamente efficace".
   Dunque la regola deve rimanere la stessa anche per i neo vaccinati: mantenere sempre le distanze di sicurezza, indossare correttamente la mascherina, lavarsi ripetutamente le mani. Almeno per due settimane dalla prima somministrazione. In attesa di ulteriori chiarimenti da parte delle istituzioni sanitarie competenti.

(Quotidiano di Sicilia, 21 marzo 2021)


Quella strana e sospetta lotta all'antisemitismo che non vuole difendere israele

di Ugo Volli

Nei giorni scorsi si è diffusa - soprattutto sui siti ebraici ma anche su qualche giornale e sull'Ansa - la notizia del rifiuto da parte del sindaco di Palermo Leolluca Orlando e di quello di Bologna, Virginio Merola, a partecipare alla conferenza "Mayors Summit Against Anti-Semitism" ("incontro mondiale dei sindaci contro l'antisemitismo"). La ragione è che la conferenza si basa sulla definizione di antisemitismo dell'IRHA (l'"Alleanza internazionale per la memoria dell'Olocausto") adottata ormai da moltissimi parlamenti nazionali, università, comuni e regioni, secondo cui fra l'altro è antisemitismo anche negare agli ebrei i diritti che appartengono a tutti i popoli, compreso il diritto a uno stato nazionale. Chi vuole la distruzione di Israele, o nega la sua legittimità storica, è dunque un antisemita. Questo naturalmente non piace ai palestinisti, che vorrebbero al contrario vedere riaffermato un loro "diritto al terrorismo". Essi hanno fatto pressione sui sindaci italiani perché si astenessero dalla conferenza. Nessuna meraviglia che Orlando abbia accettato il ricatto palestinista, anche se per giustificarsi ha diffuso una delle dichiarazioni più tartufesche e ipocrite mai lette nella politica italiana, che pure di ipocrisia è molto ricca, soprattutto rispetto a Israele: "Non parteciperò al summit - scrive Orlando su Twitter - ho grande ripulsa per ogni forma di antisemitismo, come ho grande rispetto per il popolo israeliano e grande rispetto per i principi e i diritti della legalità internazionale." Che rapporto c'è fra la prima frase della dichiarazione e il seguito lo può forse spiegare più uno psicanalista, certo non un politologo.
   Ricordiamo comunque che Orlando ha concesso la cittadinanza onoraria di Palermo a Marwan Bargouti, terrorista condannato per omicidi multipli e ha onorato nella sua città la flottiglia che mirava a portare aiuti ai terroristi di Hamas contro Israele. Dunque la "lotta" contro Israele gli sta benissimo, e non meraviglia affatto che non partecipi a un incontro in cui la si condanna. Più dubbi desta la posizione di Virgilio Merola, di cui non si conoscevano precedenti prese di posizione antisemite. Ma bisogna ricordare che, come Orlando, anche Merola è un sindaco sostenuto dalla sinistra, in particolare dal Pd "in dialogo con i 5 stelle". Evidentemente per costoro l'antisemitismo va rifiutato sì, ma solo a patto che non comprenda il rifiuto del terrorismo contro Israele. E' la vecchia storia: amore e rimpianto per gli ebrei morti nella Shoà, licenza di uccidere quelli vivi, almeno nella loro patria storica.

(Shalom, 21 marzo 2021)



La saggezza riguarda tutta la persona

Riflessioni sul libro dei Proverbi. Dal capitolo 4.
  1. Figlio mio, sta' attento alle mie parole,
    inclina l'orecchio ai miei detti;
  2. non si allontanino mai dai tuoi occhi,
    conservali in fondo al cuore;
  3. poiché sono vita per quelli che li trovano,
    salute per tutto il loro corpo.
  4. Custodisci il tuo cuore più di ogni altra cosa,
    poiché da esso provengono le sorgenti della vita.
  5. Rimuovi da te la perversità della bocca,
    allontana da te la falsità delle labbra.
  6. I tuoi occhi guardino bene in faccia,
    le tue palpebre si dirigano dritto davanti a te.
  7. Appiana il sentiero dei tuoi piedi,
    tutte le tue vie siano ben preparate.
  8. Non girare né a destra né a sinistra,
    ritira il tuo piede dal male.
Il maestro si rivolge adesso al discepolo invitandolo a prendersi cura di tutte le parti del suo corpo: vengono nominati gli occhi, la bocca, le labbra, le palpebre, i piedi e, soprattutto, il cuore. Naturalmente l'attenzione non è rivolta al funzionamento fisico di questi organi, ma alle relazioni spirituali che per mezzo di essi la persona può stabilire.

  1. Figlio mio, sta' attento alle mie parole,
    inclina l'orecchio ai miei detti;

    L'insistenza di questo maestro nel richiedere attenzione alle sue parole a qualcuno potrebbe apparire fastidiosa. Ma il fastidio che si prova nel sentirsi ripetere certe esortazioni è una chiara conferma che esse sono necessarie. L'orgoglio spinge l'uomo a voler ascoltare soltanto la propria stessa voce. La voce di un altro suona sgradevole quando comunica pensieri e giudizi che si scontrano con i propri, e la reazione più facile è quella di interrompere la comunicazione e smettere di ascoltare. Questo è particolarmente vero quando la voce è quella della Sapienza divina, perché essa comunica una parola "piena di grazia e verità" (Gv 1.14); ma "l'uomo naturale non riceve le cose dello Spirito di Dio, perché esse sono pazzia per lui" (1 Co 2.14) e quindi facilmente si chiude davanti a questa parola. Si capisce allora l'insistenza del maestro quando dice: Sta attento, non ti distrarre, inclina l'orecchio e non prestare ascolto ad altre voci.

  2. non si allontanino mai dai tuoi occhi,
    conservali in fondo al cuore;

    Se gli occhi sono da intendere in senso letterale, l'esortazione potrebbe significare che il discepolo era invitato a scrivere le istruzioni ricevute e a rileggerle periodicamente. In senso spirituale l'esortazione può essere intesa come un invito a scrivere sulla tavola del cuore (3.3) le parole di saggezza udite e a conservarle con cura in fondo al cuore affinché le indicazioni di vita in esse contenute siano in grado di guidare la condotta in ogni occasione.

  3. poiché sono vita per quelli che li trovano,
    salute per tutto il loro corpo.

    Le parole e i detti della sapienza sono trovati da coloro che li cercano. Non si tratta quindi di un caso fortunato, ma del compimento di una precisa promessa di Dio (2.1-5). E chi ha trovato le parole di saggezza provenienti da Dio riceve con esse la vita per l'anima e la salute per il corpo. Si tratta quindi di un dono che coinvolge tutta la persona nella sua dimensione spirituale e fisica. Il collegamento tra questi due aspetti della realtà è sempre presente nella Scrittura. Come la morte spirituale ha portato con sé la morte fisica con tutte le sue anticipazioni costituite da malattie e sofferenze, così la vita spirituale che Dio concede a chi ascolta e ubbidisce alla Sua parola di grazia porta con sé anticipazioni benefiche per la salute del corpo.

  4. Custodisci il tuo cuore più di ogni altra cosa,
    poiché da esso provengono le sorgenti della vita.

    Volendo dare una definizione schematica, si potrebbe dire che il cuore dell'uomo è la sede della sua volontà, mossa dagli affetti e guidata dall'intelligenza. Il cuore dunque è il centro della persona, ciò che fa di lui un essere unitario, capace di rispondere in modo responsabile a Dio, che è il datore della sua vita. Da esso dunque provengono le sorgenti della vita, perché soltanto rispondendo alla parola del suo Creatore e amandolo "con tutto il cuore" (De 6.5) l'uomo può ricevere la vera vita, che è vita eterna. Se dunque in 4.21 il discepolo era stato invitato a conservare le parole della sapienza di Dio in fondo al cuore, adesso viene esortato a custodire il suo cuore, cioè a proteggerlo da pensieri, sentimenti e propositi che potrebbero portarlo a contatto con realtà di peccato e di morte (Fl 4.8). Non si tratta, naturalmente, del cuore malvagio che l'uomo ha per natura (Mt 15.19), ma del "cuore nuovo" (Ez 35.26) che Dio dona a chi ascolta e riceve la Sua parola di grazia.

  5. Rimuovi da te la perversità della bocca,
    allontana da te la falsità delle labbra.

    Il discepolo viene invitato a ricevere nel proprio cuore le parole di sapienza provenienti da Dio, a conservarle con cura affinché non vengano disperse e a proteggere il proprio cuore dalla penetrazione di ciò che potrebbe corromperlo. I pericoli vengono da un uso non appropriato degli organi corporali con cui l'uomo si relaziona con il mondo esterno. Si comincia dalla bocca e dalle labbra, che stanno a indicare l'uso della parola. Dal proprio parlare deve essere allontanata non solo la falsità, ma anche la perversità, cioè quel modo di parlare contorto, nebuloso e oscuro che alla fine risulta sostanzialmente fraudolento e peggiore di una pura e semplice menzogna. "L'uomo da nulla, l'uomo iniquo, cammina con la falsità sulle labbra; ammicca con gli occhi, parla con i piedi, fa segni con le dita" (6.12-13).

  6. I tuoi occhi guardino bene in faccia,
    le tue palpebre si dirigano dritto davanti a te.

    Dopo la bocca e le labbra si passa agli occhi e alle palpebre. Alle osservazioni sul parlare seguono quelle sul guardare. Il punto centrale della raccomandazione è la dirittura, in un duplice senso. Il discepolo deve avere quella buona coscienza che gli permette di fissare dirittamente negli occhi il suo interlocutore senza deviare lo sguardo in altra direzione; e deve avere quella determinatezza che lo porta a guardare diritto davanti a sé il cammino che deve percorrere senza girarsi né a destra né a sinistra.

  7. Appiana il sentiero dei tuoi piedi,
    tutte le tue vie siano ben preparate.

    Viene infine il turno dei piedi. Bisogna fare attenzione a che non inciampino: è necessario allora appianare il loro sentiero (Is 40.3), cioè scorgere per tempo i possibili ostacoli e adoperarsi per rimuoverli. E' necessario poi che le vie siano ben preparate, e quindi solide, stabili, non aventi bisogno di continue modifiche perché ben radicate nella realtà.

  8. Non girare né a destra né a sinistra,
    ritira il tuo piede dal male.

    Sulla strada maestra (16.17) del bene si possono trovare asperità e impedimenti. Davanti a questi ostacoli il discepolo, invece di appianare il suo sentiero, potrebbe essere tentato di abbandonare la via e spostarsi a destra o a sinistra, su un percorso più facile e apparentemente parallelo. La sua intenzione potrebbe essere di fare una piccola deviazione al fine di evitare una difficoltà per poi rientrare il più presto possibile sulla vecchia strada. Risuona allora severa la voce del maestro: Non girare né a destra né a sinistra (De 5.32, 17.11, Gs 23.6), perché uscire dalla strada maestra significa posare il piede sul terreno del male. Ritira il tuo piede dal male (16.17), dice allora la voce della sapienza, perché "angusta è la via che conduce alla vita" (Mt 7.14).

    M.C.

 

Alle urne il 23 marzo. Israele al voto per la quarta volta

Supporter del Likud di Benjamin Netanyahu al mercato Mahane Yehuda di Gerusalemme - Ansa
Martedì prossimo Israele andrà alle urne per la quarta volta in meno di due anni. Ma, di nuovo, si prospetta uno stallo molto simile a quello che ha bloccato il Paese in questa sfinente (per gli israeliani) catena elettorale. Secondo gli ultimi sondaggi, il Likud di Benjamin Netanyahu è in risalita. Però i due blocchi, destra e sinistra, restano in sostanziale pareggio. L'esito del voto potrebbe dipendere soprattutto dalle scelte della destra di Naftali Bennett e del piccolo partito arabo scissionista Raam di Mansour Abbas. Se le proporzioni saranno confermate dalle urne, i possibili scenari sono tre: un governo di Benjamin Netanyahu a trazione totale di destra con i religiosi; un esecutivo misto destra e centro sinistra guidato ancora non si sa da chi; quinte elezioni questa estate. Il sondaggio pubblicato oggi dal quotidiano Maariv assegna al fronte Netanyahu 49 seggi (con il Likud in risalita a 30) e 57 a quello anti-premier rendendo decisivi Bennett con 10 seggi e Mansour Abbas con 4. Se entrambi andassero - ma non è detto - con Netanyahu, questi avrebbe 62 seggi, ovvero 1 in più della maggioranza di 61 su 120 alla Knesset e formerebbe il governo. Se invece Bennett optasse per il fronte anti-premier, questo passerebbe a 67: una maggioranza di altri tempi nel panorama politico israeliano odierno.
   Netanyahu è stato molto abile a corteggiare l'elettorato arabo, che costituisce il 17% dei 6,6 milioni di votanti. Arrivando a spaccare il fronte elettorale (a suo vantaggio). Grandi cartelloni con il volto di Bibi e scritte in arabo che invitano a votarlo sono comparse agli ingressi delle principali località arabe di Israele. E' una svolta decisa per il Likud: ancora nel 2015 il premier aveva lanciato un appello allarmato agli elettori ebrei a mobilitarsi per bilanciare il voto arabo, temendo che avrebbe spostato a sinistra gli equilibri politici del Paese. Invece, da gennaio Netanyahu si è recato ripetutamente in località arabe grandi e piccole (incluso un villaggio beduino) per spronare la popolazione a vaccinarsi. Un atteggiamento gli ha fatto guadagnare il soprannome arabo di "Abu Yair" (ossia il padre di Yair, suo primogenito). E adesso da Facebook "Abu Yair" Netanyahu lancia in arabo messaggi quotidiani in cui promette che se sarà confermato premier nominerà ministro un membro arabo del Likud.
   Nelle elezioni del 2020 la popolazione araba ha votato in modo massiccio (il 65% degli aventi diritto) conquistando alla Knesset 15 dei 120 seggi con la Lista araba unita, un'eterogenea coalizione di forze nazionaliste, marxiste ed islamiche. Ma, come in passato, è stata relegata all'opposizione. Adesso da quella lista è polemicamente uscito un esponente islamico, Mansour Abbas, che ha creato una formazione propria, Raam. Non esclude una cooperazione ad hoc con il Likud in cambio di benefici pratici per gli arabi israeliani. Per loro i problemi più assillanti sono le ripercussioni economiche della pandemia e una grave ondata di criminalità che ne è seguita.Netanyahu ha promesso che investirà nella società araba e che riporterà nelle sue città ordine, serenità e prosperità.

(Avvenire, 20 marzo 2021)


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Elezioni israeliane, "Io premier di tutti": ora Netanyahu corteggia il voto arabo

Viaggio a Umm al Fahm, roccaforte musulmana. Dopo la rottura della Lista araba unita, sarà un elettorato determinante nelle quarte parlamentari in due anni nel Paese.

di Sharon Nizza

UMM AL FAHM - A tre giorni dalle quarte elezioni in due anni, con metà della popolazione vaccinata, "l'indice R" in calo, ristoranti e spiagge sovraffollati, gli israeliani sembrano più occupati a riprendere le vecchie abitudini che a perdersi in dissertazioni politiche. Benjamin Netanyahu - 12 anni da premier, un processo pendente con accuse di corruzione e ancora 32 seggi attribuitigli dai sondaggi - ha puntato tutto sul successo dell'operazione vaccini e sugli Accordi di Abramo.
   Ma il vero colpo da maestro se l'è giocato con l'elettorato arabo, il 21% della popolazione. "Siamo tutti con te, Abu Yair", recita una mega insegna elettorale del Likud all'entrata di Umm el Fahm, roccaforte del Movimento islamico. Abu Yair, "il padre di Yair" - secondo l'uso tra gli arabi di appellare con il nome del primogenito - è nato come una battuta sui social, e Netanyahu l'ha adottato nelle innumerevoli comparsate nelle città arabe, per promuovere la campagna vaccinale accanto a quella elettorale.
   "Il premier di tutti", recita uno dei jingle in arabo del Likud. Una metamorfosi di cui si sottolinea il cinismo: nel 2015 lo stesso "Abu Yair" diceva "Il governo della destra è in pericolo, gli arabi accorrono in massa alle urne". Eppure, due seggi per il Likud potrebbero giungere martedì dall'elettorato arabo, secondo il sondaggista Thabet Abu Rass. "Sono elezioni senza precedenti: il voto arabo è corteggiato da tutti i partiti sionisti e potrebbe essere determinante per la nuova coalizione", ci spiega.
   Uno scenario che si è aperto con l'abbandono della Lista Araba Unita (Lau) da parte del parlamentare Mansour Abbas, che ha rotto un tabù affermando di essere disposto a sostenere il governo che più verrà incontro alle sue domande, a sinistra come a destra. Una linea che trova sempre più consenso e che deriva dalla "delusione per la mancanza di risultati dei parlamentari arabi, che si sono sempre ostinati a ridursi a opposizione", ci dice Jamal Alkirnawi, attivista per la promozione dell'occupazione nella società beduina. "Anche la nostra società vuole essere influente. Gli israeliani si spostano a destra e dobbiamo sapere dialogare con chiunque per ottenere fatti, non parole".
   Così Netanyahu è riuscito a frammentare il voto arabo: la Leu viene data in calo da 15 a 8 seggi, mentre Abbas si posiziona poco sopra la soglia di sbarramento con 4 seggi, che potrebbero risultare critici per passare eventuali leggi ad personam che tutelerebbero il premier sotto processo. In cambio, fondi per il contrasto della criminalità, approvazione di nuovi piani urbanistici, le piaghe che ora influiscono maggiormente sulle scelte elettorali dei cittadini arabi.
   I sussidi economici durante il Covid (compresi due round molto contestati di helicopter money) hanno contribuito a guardare ad "Abu Yair" come opzione, così come le nuove opportunità che si aprono ora con Emirati e altri Paesi musulmani con gli Accordi di Abramo, ci dice Mursi Hija, che coordina il forum delle guide turistiche arabe. "L'approccio di Abbas è coraggioso e interessante, ma mi riservo di vedere cosa porterà", ci dice l'avvocato Tawfeeq Jabareen, che per ora voterà Lau. Almeno fino al prossimo round, "che con questi ritmi, forse sarà già ad agosto".

(la Repubblica, 20 marzo 2021)


Come sarà il mondo dopo il Covid

di Mauro Indelicato, Sofia Dinolfo

  A distanza di un anno l'Italia è ancora pienamente dentro l'emergenza coronavirus. Gli italiani, stanchi e delusi dell'andamento della situazione, vedono molto lontano il ritorno alla normalità. Eppure ci sono parti nel mondo dove l'epidemia è stata messa alle spalle. In queste Nazioni è possibile osservare cosa vuol dire tornare alla vita di sempre. Israele è una di queste: qui le misure restrittive sono state tolte dopo il successo della campagna di vaccinazione. Ed ecco come la popolazione ha reagito.

 Le modalità d'azione in Israele
  Rapidità, chiarezza sulla validità dei vaccini e macchina organizzativa funzionante nel momento in cui sono stati accesi i motori. Questi sono gli elementi che hanno permesso a Israele di iniziare subito la campagna di vaccinazione con successo. Qui il Vax day si è tenuto prima che in Europa, il 20 dicembre scorso, con l'inoculazione delle prime dosi di vaccino. Gli esperti del settore hanno fatto ben comprendere alla popolazione l'importanza del vaccino nella lotta contro il Covid. Unico strumento capace di debellare la malattia, come dicono i rappresentanti del mondo scientifico, che può consentire il ritorno alla normalità. I cittadini hanno recepito il messaggio aderendo con spirito di entusiasmo e speranza. Ed ecco che le risposte si sono fatte attendere solo per poco tempo.
Dopo la fase di picco raggiunta il 17 gennaio scorso, la curva dei contagi ha iniziato piano piano a scendere: nella prima decade di marzo la media settimanale è stata quella dei 1800 casi. Il sorprendente risultato raggiunto è spiegato proprio dal numero delle vaccinazioni effettuate. Ad aver ricevuto entrambe ad oggi le dosi è stato infatti il 49.11% della popolazione, mentre a sottoporsi alla prima somministrazione è stato circa il 53% dei cittadini. Questa "copertura" ha creato un certo margine di sicurezza permettendo alla Nazione di mettere alle spalle la paura e prepararsi a tornare alla vita di prima.

 Il ritorno alla normalità
  Ad un anno dall'inizio della pandemia Israele assapora il senso della normalità. Qui, da qualche giorno, si ritorna a vivere senza il timore di imbattersi nel pericolo di incontrare sul proprio cammino il coronavirus. I numeri adesso sono dalla parte dei cittadini che possono riprendere le loro abitudini. La vita sociale ha iniziato a far sentire il suo rumore e con essa anche tutte le attività economiche. I ristoranti hanno riaperto le porte ai clienti con prenotazioni che addirittura hanno creato delle liste d'attesa anche di un mese. Nei locali ci sono ancora però degli accorgimenti da applicare: i tavoli fuori sono distanziati di due metri mentre chi decide di consumare all'interno, deve presentare il certificato vaccinale. Una volta raggiunto il tavolo, ci si può togliere la mascherina solo quando si sta mangiando o bevendo. Ma non solo, adesso per le famiglie è più facile spostarsi: i parenti in macchina possono viaggiare assieme senza limitazioni. Nelle strade sono tornate anche le bancarelle per i mercatini dopo mesi di assenza e adesso si può andare anche allo stadio.
Le mascherine all'aperto vengono ancora utilizzate ma il governo di Benjamin Netanyahu, il quale si sta preparando alle elezioni del 23 marzo, pensa già alla possibilità di togliere l'obbligo a partire dal prossimo mese di aprile. Al momento l'impatto con la normalità sta avvenendo in modo cauto ma senza togliere l'entusiasmo del risultato raggiunto. E visto che la "carta verde" si ottiene solo dopo una settimana dall'immunizzazione completa, per consentire a tutti di sentirsi sicuri e allo stesso tempo poter dare a ogni cittadino la possibilità di partecipare alla vita sociale, sono state istituite delle postazioni per i test rapidi davanti alle strutture pubbliche al chiuso.

 "La normalità? Una sensazione da brividi"
  "Finalmente ho potuto fare una passeggiata in centro e ho visto i locali pieni. Una sensazione davvero da brividi": a raccontarlo su InsideOver è Rebecca Mieli, giornalista che ha vissuto da Tel Aviv i mesi della pandemia. Dai suoi toni ben si comprende l'emozione dovuta al ritorno alla normalità: "Israele ha avuto un lockdown molto duro - ha proseguito nel suo racconto - i ristoranti erano chiusi da settembre. Oggi è impossibile trovare un posto senza prenotazione, c'è molta voglia di tornare a vivere". I mesi di chiusura sono stati difficili: "Anche perché - dichiara ancora Rebecca Mieli - in Israele quasi non esiste il concetto di restare a casa, specialmente a Tel Aviv dove la gente passa anche 12 ore in ufficio. C'è stata davvero molta sofferenza, ma al tempo stesso anche molta resilienza".
Nello Stato ebraico non sono mancate proteste contro il lockdown, così come non sono mancate difficoltà nel far rispettare le misure di contenimento soprattutto nelle comunità ultra ortodosse: "I controlli sono però stati rigorosi - ha aggiunto Rebecca Mieli - L'atteggiamento della popolazione molto collaborativo. Adesso c'è voglia di normalità". La gente non ha paura dell'infezione, il successo della campagna di vaccinazione ha dato fiducia in tal senso e nessuno ha voglia di rimanere indietro e perdersi le emozioni del ritorno alla vita di sempre: "Per strada - ha raccontato la giornalista - è un'esplosione di sensazioni positive. Soprattutto i ragazzi amano godersi il momento. Tolti i divieti, sto notando unicamente molta vita. Tel Aviv ad esempio è di nuovo piena di gente".

 In Italia vedremo le stesse scene?
  Le impressioni che sono arrivate da Israele potrebbero rappresentare un precedente incoraggiante anche per il nostro Paese. Dopo un anno intero di restrizioni e con un'emergenza ancora ben lontana dall'essere definitivamente superata, la vera paura per l'Italia riguarda la rassegnazione a una vita diversa da quella pre Covid. Con quindi la possibilità di vedere, anche quando verranno tolte le misure di contenimento, una popolazione incapace di riprendere in mano la normalità. Ma il caso israeliano per fortuna sta mostrando l'esatto contrario. Le scene osservate a Tel Aviv, potrebbero rappresentare l'esempio di come, una volta archiviata la pandemia, la società è in grado subito dopo di tornare ad una normale quotidianità, con la popolazione pronta a riprendersi i propri spazi di libertà.
È pur vero che sussistono importanti differenze tra Israele e Italia: "Qui - ha commentato Rebecca Mieli - la gente vive in uno stato di guerra perenne, una sensazione continua di accerchiamento che ha quasi imposto negli anni alla popolazione di pensare a godersi ogni singolo momento". Tra i trentenni che a Tel Aviv oggi possono tornare a godersi una serata al ristorante, c'è chi è cresciuto nei primi anni 2000 tra le misure di sicurezza anti terrorismo. Durante la seconda Intifada ad esempio, i genitori mandavano i figli a scuola su autobus diversi per il timore di attacchi kamikaze. Al contrario che in Italia, in Israele si è abituati alla sensazione di essere al centro di un conflitto. Tuttavia, lo Stato ebraico ha usi e costumi tipicamente occidentali e il fatto di essere già fuori dall'emergenza sanitaria lo ha posto come possibile esempio di quello che accadrà nei prossimi mesi in Europa, quando cioè finalmente i cittadini non dovranno più convivere con il morbo comparso in Cina nel dicembre 2019.

(Inside Over, 20 marzo 2021)


Lo Stato ebraico e la dissoluzione delle forze di sinistra

Il trauma: dopo l'omicidio di Rabin, il Labour ha ceduto il passo

di Gad Lerner

Una regola fatale avvilisce la sinistra mondiale fin dai tempi della Grande guerra: fra classe e nazione, vince sempre la nazione. Solo rare volte la fratellanza degli oppressi è riuscita a smentirla. La mancata soluzione dei conflitti fra gli Stati finisce per averla vinta sull'internazionalismo proletario. Un caso di scuola, a tal proposito, è la dissoluzione della sinistra israeliana. Merita di venir esaminato perché - nonostante la specificità del quadro mediorientale - presenta caratteristiche che potrebbero ripetersi altrove. Anche in casa nostra.
   Martedì prossimo si voterà in Israele perla quarta volta in due anni. Il sistema della rappresentanza politica si è frantumato. Sempre meglio votare che non votare, ma non è certo un bel segnale per la tenuta della democrazia. Tanto più che neppure stavolta emerge un'alternativa all"uomo forte" Netanyahu che ha interrotto la legislatura per restare aggrappato al potere. Ebbene, quand'anche Netanyahu non ce la facesse (improbabile), l'unica cosa sicura è che la sinistra israeliana resterà tagliata fuori dai giochi. Ridotta all'irrilevanza dal perpetuarsi del conflitto con i palestinesi e con il mondo islamico circostante. Il Labour, erede del partito socialista che riuniva i fondatori dello Stato d'Israele, da anni non raggiunge i16% dei voti. Alla sua sinistra, il Meretz oscilla intorno alla soglia minima del 3,5%. Irrilevanti, appunto. Eppure in Israele non mancano un'opinione pubblica progressista, una gioventù libertaria, autorevoli voci intellettuali laiche e pacifiste conosciute in tutto il mondo, Ong militanti dei diritti umani come B'Tselem e Breaking the Silence attive nella solidarietà con i palestinesi. Di più: nei suoi primi decenni di vita, lo Stato ebraico era permeato da esperienze comunitarie di modello socialista: forte presenza pubblica in economia, la realtà dei kibbutz, un'organizzazione sindacale potente, la sobrietà imposta come stile di vita della classe dirigente.
   Com'è potuto accadere che tutto ciò non trovi più traduzione in politica? Un peso decisivo, certo, l'hanno avuto le trasformazioni economiche e sociali, uno sviluppo capitalistico impetuoso,l'immigrazione dall'esteuropeoe dagli Usa, l'espansione del sionismo religioso messianico che ispira il movimento dei coloni nei territori occupati. Resta il fatto che la sinistra israeliana, intimorita e perfino disgustata da questi fenomeni, s'è autoimposta un limite nel contrastarli: non potendo condividere la visione aggressiva della sicurezza nazionale della destra (basta dialogo coi palestinesi, da tenere a bada grazie alla supremazia militare, economica e tecnologica), è come se la sinistra avesse rinunciato a un suo progetto alternativo di soluzione pacifica del conflitto. Dopo aver subito il trauma dell'assassinio di Rabin nel 1995, il fallimento degli accordi di Oslo con l'Anp, la scia di sangue del terrorismo islamista, il Labour ha preferito occuparsi d'altro, lasciando alla destra di gestire con la sua brutalità i destini del paese. Perfino il ritiro israeliano da Gaza, ultimo tentativo di distensione con i palestinesi, fu attuato nel 2005 dal "falco" Sharon. Alle elezioni successive, nel 2009, i laburisti guidati da Ehud Barak precipitarono per la prima volta sotto il 10%. E da allora a sinistra è stato tutto un succedersi di leader sempre più deboli, caratterizzati da quell'unico tratto comune: occuparsi di politica interna, di questioni economiche e sociali, lasciando alla destra le scelte strategiche. L'ultimo episodio di questa parabola discendente è stato addirittura spettacolare. Prima delle elezioni del marzo 2020 il candidato laburista Amir Peretz si fece tagliare i celebri baffoni davanti alle telecamere. Spiegò che lo faceva perché si vedessero meglio le labbra mentre pronunciava le parole: "Non andrò mai al governo con Netanyahu". Difatti, poco dopo, ne divenne il ministro dell'Economia. Ma il Labour nel frattempo era ridotto a tre seggi alla Knesset. Adesso gli è subentrata la giornalista femminista Merav Michaeli, meno screditata di Peretz, la quale preannuncia di essere pronta perfino ad alleanze innaturali con l'estrema destra se ciò consentisse la formazione di una maggioranza contro Netanyahu. Tutto è possibile? No. Un'ipotesi la sinistra israeliana l'ha proprio esclusa: quella di formare un'alleanza elettorale con la lista araba progressista, che pure avrebbe in Ayman Odeh un leader aperto al dialogo. Fra classe e nazione, vince sempre la nazione. La barriera etnica resta insuperabile e la sinistra arretra fin quasi a dissolversi.
   Certo, in Italia, come del resto in Francia e in altri Paesi europei, l'elettorato non vive il medesimo clima di guerra permanente. Ma la lezione israeliana ci ricorda che la sinistra può anche scomparire. Dalla politica, se non dalla società.
   
(il Fatto Quotidiano, 20 marzo 2021)
   
   

“Com’è potuto accadere...?” E’ la domanda angosciosa che si pongono gli intellettuali di sinistra (non importa se israeliani, italiani, americani o altro ancora) dopo che la realtà ha rifiutato di piegarsi alle loro intelligentissime analisi, seguite da imperiose indicazioni di marcia e trancianti giudizi su coloro che restano arretrati in posizioni definite genericamente di destra e indicati con aggettivi squalificanti come fascista sovranista razzista populista o altri epiteti che ne indichino la morale abiettezza. La realtà sfugge loro dalle mani e allora ... tanto peggio per la realtà. Meglio lasciarla da parte e cercare il prestigio. Perché, conclude l’autore, la sinistra può anche sparire dalla politica, ma non dalla società. E in società, tra simili del proprio livello, si può sempre trovare comprensione, consenso e applausi. M.C.


Nowruz e geopolitica: la minaccia iraniana in Medio Oriente, Europa e Italia

Si celebra oggi la festa del Nowruz, il capodanno iraniano. L'evento si inserisce in un quadro geopolitico funestato dalla minaccia del regime di Teheran

di Sara Garino

Si celebra oggi, 20 Marzo, la festa del Nowruz ("nuovo giorno"), ovvero il Capodanno iraniano, retaggio di una lunga tradizione persiana che conta almeno 3000 anni di Storia. L'evento, festeggiato da oltre 300 milioni di persone nel mondo e prodromo non solo della primavera ma di una nuova stagione che singoli e comunità auspicano migliore, si inserisce in un quadro geopolitico - specie quello del Medio Oriente - funestato dalla minaccia costante del regime di Teheran.
  Una minaccia che da tempo non si configura più come solo endemica, avendo esteso e penetrato il proprio raggio d'azione anche all'interno del continente europeo, grazie alle azioni e alla copertura dei cosiddetti "proxies", accoliti del regime iraniano. Fra questi figura l'organizzazione terroristica Hezbollah (il "Partito di Dio"), formazione islamista sciita transnazionale nata in Iran nel 1982 e ivi proclamata dall'ayatollah Khomeini.
  In Italia, una recente mozione approvata dal Consiglio Regionale della Liguria ha chiesto al Governo di riconoscere in toto Hezbollah quale organizzazione terroristica, dopo che per anni se ne è propugnata una sostanziale differenziazione fra "ala militare" combattente e "ala politica" dialogante (dicotomia, peraltro, smentita dagli stessi vertici della milizia). Una presa di posizione che dovrebbe allineare il nostro Paese agli altri partner europei, con Germania, Gran Bretagna (al tempo ancora membro dell'UE), Paesi Bassi, Estonia, Lituania, Repubblica Ceca, Slovenia e Austria già pronunciatesi in merito.
  E proprio presso l'Ambasciata iraniana a Vienna era di stanza Assadollah Assadi, il Diplomatico iraniano cui, all'inizio di febbraio, il Tribunale di Anversa ha comminato la pena di 20 anni di reclusione, per essere stato la mente organizzatrice del fallito attacco terroristico di Villepinte, in Francia, nel Giugno 2018. Un attacco in cui avrebbero potuto essere colpite oltre 100.000 persone, fra civili e membri delle istituzioni, tutti giunti nella cittadina vicino Parigi per assistere al raduno annuale del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana (NCRI), principale oppositore di Teheran.
  L'affaire Assadi rende l'idea di quanto le Nazioni europee siano vulnerabili, ed esposte alle azioni ostili dei servizi di intelligence e delle reti diplomatiche eterodirette dal regime degli ayatollah. Natan A. Sales, ex Coordinatore per l'Antiterrorismo del Dipartimento di Stato americano, ha infatti sconcertatamente rivelato come depositi, appartenenti a Hezbollah, di nitrato di ammonio (necessario per la preparazione degli esplosivi) siano stati scoperti e distrutti in Italia, Francia e Grecia, con il nostro Paese sede anche di significativi stoccaggi di armi.
  Una breccia assai pericolosa, che squarcia il velo sul pesante ruolo di infiltrazione giocato dall'intelligence iraniana e dai propri sistemi di attacco informatico e cyber, la cui virulenza si è parecchio intensificata nell'ultimo anno (con una pervasività triplicata dal momento dell'uccisione del Generale Qassem Soleimani, avvenuta a Gennaio del 2020). Il fantasma della CyberWarfare perpetrata da Teheran è dunque uno spettro concreto, reale e tangibile, volto a minare - come riportato nel 2019 da un report dell'intelligence americana - tanto le infrastrutture critiche degli U.S.A. quanto quelle dei Paesi alleati. Italia compresa.
  Un terzo aspetto dell'aggressività iraniana concerne il programma di riarmo e lo sviluppo accelerato di progetti spaziali, missilistici e nucleari. Teheran ha mai arrestato la sua corsa verso l'acquisizione di un più capillare ed efficace potenziale bellico, contravvenendo da una parte alla risoluzione 2231 delle Nazioni Unite sull'armamentario missilistico, dall'altra accelerando l'arricchimento dell'uranio fino al 20%, sebbene il Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA) del 2015 contemplasse un limite tassativo del 3,67%.
  Tirando le somme, l'Iran si configura dunque come primo Stato terrorista al mondo, fautore di una Politica fortemente repressiva del dissenso, sia in patria sia fuori dai suoi confini. Detiene la più numerosa e varia batteria di missili balistici del Medio Oriente e, insieme a Cina e Russia, ha le capacità tecnologiche e di intelligence per operare attacchi mirati sulle infrastrutture digitali strategiche delle potenze occidentali.
  Anche la Geopolitica contemporanea, tuttavia, può conoscere e anzi ha già conosciuto un proprio Nowruz: un nuovo giorno, una nuova primavera, rappresentata dalla stipula dei Patti di Abramo e dal consolidamento di un asse libertario che, all'oscurantismo delle minacce e della sopraffazione, ha provato a sostituire il perseguimento della pace nonché di relazioni amichevoli e costruttive.

(Affaritaliani.it, 20 marzo 2021)


Le compagnie aeree israeliane beneficeranno di $ 210 milioni di aiuti governativi

Le compagnie aeree israeliane riceveranno un piano di salvataggio dal governo per resistere alla crisi del coronavirus. Il governo sta pianificando accordi di acquisto di biglietti anticipati con le compagnie aeree per aumentare i ricavi. El Al è il primo a ricevere questo piano di salvataggio e ha visto il governo acquistare in anticipo biglietti per 210 milioni di dollari.
Secondo Reuters, Israele ha annunciato un nuovo pacchetto di salvataggio per le compagnie aeree in difficoltà del paese. Il pacchetto è stato a lungo atteso poiché il paese non ha fornito assistenza finanziaria diretta durante la crisi, offrendo invece solo prestiti garantiti dal governo. Questa volta, il governo offre salvataggi, ma con un problema.
Le compagnie aeree saranno salvate attraverso l'acquisto anticipato di biglietti per il personale di sicurezza dell'aviazione israeliana che deve viaggiare in diversi aeroporti. Ciò significa che il governo acquisterà centinaia di migliaia di biglietti in anticipo, aumentando le riserve di liquidità delle compagnie aeree e utilizzerà i biglietti nei prossimi due decenni per il personale di sicurezza che ha bisogno di viaggiare.

(Plato. Vertical Search. Al, 20 marzo 2021)


Vaccini, Israele conquista lo scettro ma cede i dati alle aziende

Il Paese e il "laboratorio del mondo". Record di immunizzazioni. E la gente torna in strada col Green Pass.

di Raffaella Vitulano

Se c'è un paese che viene spesso citato a modello per il numero di vaccini somministrati ai cittadini, questo è Israele. "Gli ultimi dati sono davvero incoraggianti: Israele prevede di tornare alla normalità o quasi a brevissimo e di raggiungere l'immunità di gregge quando arriverà a 7 milioni di cittadini vaccinati: probabilmente accadrà entro l'estate" spiega la professoressa Francesca Levi-Schaffer, immunofarmacologa dell'Università di Gerusalemme, citando l'annuncio del commissario israeliano per l'emergenza Covid, Nachman Ash.
   II dottor Ash, 60 anni, ha iniziato la sua carriera medica nel 1987 come medico di guerra nelle Forze di Difesa Israeliane. Prima di ritirarsi dal servizio, ha raggiunto il grado di generale di brigata . Seduto nel suo spartano ufficio a Lod, sostiene che sta combattendo una "guerra 24 ore su 24". Come tutti i buoni ufficiali è orgoglioso delle sue vittorie, ma attribuisce i successi di Israele ai leader politici. Israele è oggi il primo Paese al mondo per percentuale di popolazione immunizzata grazie ad una campagna vaccinale modello, che sta aprendo anche ai giovanissimi. II governo di Benjamin Netanyahu ha scelto Pfizer, con cui ha stretto un patto di ferro, ormai reso pubblico: milioni di vaccini a caro prezzo in cambio di dati. Israele è una macchina da guerra, un laboratorio per tutto il mondo. Un modello sia per la logistica sia per la velocità di esecuzione della campagna di vaccinazione. I numeri: 70,46 dosi ogni 100 persone; il 42,8% dei cittadini ha ricevuto la prima dose mentre il 27,7% entrambe.
   II modello sanitario israeliano si differenzia poi da quello dei Paesi europei per la digitalizzazione e la rapidità di esecuzione. I cittadini israeliani sono schedati su un sistema digitale con cui è più facile gestire le loro cartelle cliniche. In un webinar, il professor Shahar ha spiegato: "Non abbiamo intasato gli ospedali, i contagiati sono stati disposti nelle comunità o negli hotel, anche contro la loro volontà". Ad inoculare le dosi ci pensano poi paramedici e infermieri. Niente medici. Per il semplice motivo - spiega Shahar - che "è un lavoro molto stancante e i medici hanno già dei carichi di pressioni considerevoli negli ospedali". "Per Pfizer il nostro sistema così digitalizzato vale molto di più del pagamento dei vaccini in sé. Perché i milioni di dati che gli forniamo sono un database che loro potranno usare in futuro per la creazione di nuovi farmaci. Si tratta di un patrimonio immenso", aggiunge.
   L'amministratore delegato di Pfizer, Albert Bourla, condivide: "Ritengo che in questo momento Israele sia il laboratorio del mondo, perché stanno usando solo il nostro vaccino in tutto lo stato ed hanno vaccinato una gran parte della popolazione; possiamo quindi studiare sia l'economia che gli indici di salute".
   C'è chi contesta che i risultati dell'esperimento Pfizer-Israele siano incoraggianti: dati sul web raccontano che dopo mesi di una campagna di vaccinazione di massa il 76% dei nuovi casi di Covid-19 si riscontra sotto i 39 anni. Solo il 5,5% ha più di 60 anni. II 40% dei pazienti critici avrebbe meno di 60 anni. Quando la Nnb ha chiesto a Bourla se sia possibile infettare altri dopo aver ricevuto due dosi di vaccino, Bourla ha ammesso: "È qualcosa che deve essere confermato, e i dati del mondo reale che stiamo ottenendo da Israele ci aiuteranno a capirlo meglio".
   Al di là delle polemiche sull'efficacia del vaccino, il punto su cui molti media hanno insistito è un altro: il ministero della Sanità ha garantito di fornire alla casa farmaceutica tutti i risultati delle vaccinazioni. Aver trasformato Israele in un laboratorio preoccupa però le organizzazioni che lottano per la tutela della privacy: "Questa enorme quantità di informazioni può essere hackerata. A quel punto nessuno potrebbe controllare nelle mani di chi finirebbe e potrebbe essere sfruttata in futuro", spiega Tehilla Shwartz Altshuler, esperta dell'Israel Democracy Institute. Proprio una petizione presentata in tribunale da queste associazioni ha costretto il ministero della Sanità a rendere pubblico l'accordo con Pfizer, seppure con alcuni passaggi secretati: "L'obiettivo è analizzare i dati epidemiologici per determinare se l'immunità di gregge viene raggiunta dopo una certa percentuale di vaccinati". Per velocizzare le operazioni il documento sarebbe stato approvato senza il parere della commissione Helsinki deputata a definire le regole per le sperimentazioni mediche sugli esseri umani.
   
 Tel Aviv ha fatto leva sul prezzo si è accaparrata la fornitura Pfizer
  Tel Aviv ha giocato sul rialzo del prezzo del vaccino. Ma quanto costano? L'Europa sta pagando molto poco i vaccini, anche il 45% in meno, rispetto ad altri paesi che hanno finanziato la ricerca. E ha puntato su AstraZeneca perché il costo risulta inferiore di 7 volte rispetto a Pfizer e di 9 per Moderna. Il risultato è che le aziende "privilegiano" chi paga di più, come Israele, Sudafrica, Stati Uniti e la Gran Bretagna.
   Daniel Gros, economista tedesco, punta il dito contro gli errori dell'Unione europea: Bruxelles sui vaccini "ha lesinato" stanziando "solo tre miliardi di euro" a fronte dei 750 miliardi previsti per il Fondo di ripresa economica. Gli israeliani hanno pagato il prezzo più alto per i vaccini più efficaci: 23,50 dollari a dose a Pfizer e Moderna rispetto ai 14,55 per il primo e 12 per il secondo concordato con l'Unione europea. In dicembre Eva De Bleeker, sottosegretaria al Bilancio belga, aveva twittato i prezzi "segreti" concordati fra la Ue e le sei maggiori case farmaceutiche che producono i vaccini. Dopo poche ore il documento è stato cancellato.

 La Knesset approva la legge sul braccialetto elettronico
  La Knesset ha approvato la legge che consente l'uso del braccialetto elettronico ai fini del controllo della quarantena a casa per tutti coloro che arrivano nel Paese. La scelta ora è tra essere rinchiusi per due settimane in un hotel di quarantena amministrato dai militari o farsi ammanettare con il braccialetto che monitorerà ogni spostamento. Questo a meno che non si sia già in possesso del Green Pass, il passaporto vaccinale. Il dispositivo, che somiglia ad uno smartwatch, è prodotto da una società chiamata SuperCom, che in precedenza ha lavorato con i governi di diversi paesi su sistemi per tracciare e monitorare i prigionieri. Ordan Trabelsi, Ceo di SuperCorn, lo chiama piuttosto " un braccialetto della libertà perché non stiamo rinchiudendo nessuno, ma piuttosto dando loro l'opportunità di tornare a casa". Il braccialetto arriva nonostante una sentenza del tribunale richieda che l'agenzia di spionaggio nazionale del Paese, lo Shin Bet, debba rinunciare alla sorveglianza del tracciamento dei contatti Covid.

(Conquiste del Lavoro, 19 marzo 2021)


La Sera del Seder non siamo mai soli

Un anno fa, nel Seder della pandemia, ho scritto commosso queste righe. Quest'anno, grazie a D., in Israele possiamo tornare a celebrare assieme, ma in molti posti questo non è ancora possibile. A tutti coloro che anche quest'anno saranno lontani dai propri cari vorrei ricordare che la Sera del Seder non siamo mai soli. Ed augurare di cuore, l'anno prossimo a Gerusalemme.

di Jonathan Pacifici

Il segreto della sera del Seder è il suo ordine perfetto che trascende ogni epoca ed ogni luogo. La Sera del Seder non siamo mai soli.
Siamo con Jacov mentre si confronta con Labano e con le levatrici ebree che sfidano il Re d'Egitto.
Siamo con i nostri padri che impastano i mattoni, con Moshè ed Aaron mentre eseguono le piaghe e con i bambini sul mare che indicano attoniti la Presenza del D. d'Israele che apre le acque.
Facciamo il Seder con Moshè che racconta un anno dopo l'uscita ai figli che non c'erano, ci apparecchiamo con Giosuè al Seder di Ghilgal. Da millenni, ci sediamo alla Tavola di Rabbí Akiva a Benè Berak ed ascoltiamo affascinati Rabbí Elazar Ben Azarià, un diciottenne dai capelli bianchi.
Diciamo Pesach Mazà e Maror con Rabban Gamliel e contiamo le piaghe con Rabbí Josí HaGalilí e Rabbí Eliezer.
Le macchie di vino sulla nostra Hagadà sono di un bicchiere rovesciato nel medioevo da un bambino che cercava l'afikomen alla tavola di Rashí.
Il charoset sul nostro Maror è stato impastato da Don Isaac Abravanel mentre scappava dalla Spagna. Le nostre azzime sono state cotte secondo le stesse scrupolose regole dal Nord
Africa alla Siberia, mentre regnava Cesare, Carlo Magno o Napoleone.
Le domande dei nostri figli e nipoti, e di quelli che verranno ancora dopo, sono state già formulate alle pendici del Sinai.
Le musiche di ogni comunità, le pietanze e le usanze di ogni famiglia non sono che un anello in una catena senza fine che lega ogni tavola del Seder in ogni epoca ed ogni luogo.
Anche quest'anno siederemo assieme al Baal Shem Tov ed il Rambam. Assieme a Sforno e Radak. Ascolteremo il Kidush del Gaon Di Vilna e guarderemo l'Arí HaKadosh spezzare le azzime.
Baavur zè asà Hashem lí bezetí miMizraim. Per via di ciò che fece il Signore a me quando Io uscii dall'Egitto. Non facciamo tutto ciò perché siamo usciti dall'Egitto, siamo usciti dall'Egitto perché facciamo tutto ciò come insegna il Bet Halleví.
Non c'è un prima e un dopo nella Torà.
Anche quest'anno, soprattutto quest'anno, chiusi in casa assieme ai padri del Pesach d'Egitto, saranno i nostri bambini a rispondere al Faraone che domanda:
'Chi è il Signore?'.
"Uno è Iddio che in Cielo è, Uno fu e Uno è"

(Il Corriere Israelitico, 19 marzo 2021)


Gli Usa «resettano» il piano per Israele e Palestina. Cambia poco

Un «no» a testa: stop ai sussidi ai prigionieri politici e all'espansione coloniale

di Michele Giorgio

GERUSALEMME - Si chiama «The U.S. Palestinian Reset and the Path Forward», il presunto piano — al momento non è molto di più di un promemoria — con il quale l'amministrazione Biden intenderebbe, stando al giornale emiratino The National che ne ha ottenuto una copia, cestinare l'Accordo del secolo, la «soluzione di pace» per israeliani e palestinesi presentata poco più di un anno da Donald Trump.
   Per ora una sola cosa è certa. Biden vuole mettere fine ai quattro anni di scontro frontale tra Trump e l'Autorità nazionale palestinese e ripristinare i rapporti con il presidente Abu Mazen. Si è già impegnato a riprendere l'assistenza economica all'Anp e a fine marzo dovrebbe annunciare una donazione di 15 milioni di dollari per l'acquisto di vaccini per i palestinesi. Ha anche segnalato di voler riaprire il consolato statunitense a Gerusalemme, però senza fare marcia indietro sul riconoscimento della città come capitale di Israele fatto da Trump nel 2017.
   Questo ipotetico piano comunque rimarrà nel cassetto nei prossimi mesi. Gli israeliani andranno di nuovo al voto tra meno di una settimana per eleggere la Knesset e anche stavolta, secondo gli ultimi sondaggi, i numeri non consentiranno una rapida formazione di una maggioranza di governo.
   Ci sono anche le elezioni palestinesi — legislative e presidenziali per l'Anp rispettivamente il 22 maggio e il 31 luglio e per il Consiglio nazionale dell'Olp ad agosto — che forse avranno esiti sgradevoli per Washington. Il movimento islamista Hamas ha le carte in regola per bissare la vittoria delle legislative del 2006 e questo potrebbe portare a una replica del boicottaggio e isolamento totale del governo e del parlamento dell'Anp che attuarono Usa, Ue e Israele. A maggior ragione se le presidenziali non riconfermeranno Abu Mazen alla guida dell'Anp.
   La bozza citata dal The National — preparata da Joey Hood, assistente per il Vicino oriente del segretario di Stato Blinken — afferma che il fine degli Stati uniti è «far avanzare libertà, sicurezza e prosperità sia per gli israeliani che per i palestinesi» nel quadro di una soluzione a due Stati basata «sulle linee del 1967 con scambi di terre concordati e accordi sulla sicurezza e sui profughi». Contiene critiche alle attività israeliane di colonizzazione e intima all'Autorità nazionale di annullare i sussidi ai prigionieri politici palestinesi in carcere in Israele e alle loro famiglie, in accoglimento della posizione del governo Netanyahu che vede nel sostegno ai detenuti una «istigazione al terrorismo». Suggerisce inoltre di revocare l'etichettatura «Made in Israel», voluta da Trump a fine mandato, sui prodotti delle colonie ebraiche, costruite nella Cisgiordania palestinese, destinati al mercato americano.
   Il promemoria statunitense è una minestra riscaldata che punta a riportare Abu Mazen al tavolo delle trattative con Israele senza precondizioni. Ammesso che Netanyahu o un altro primo ministro israeliano — che si prevede sempre di destra — siano disposti a considerare una soluzione diversa dai cantoni in cui sono ora chiusi i palestinesi in Cisgiordania e Gaza.
   
(il manifesto, 19 marzo 2021)


La Francia accusa l'Iran: responsabilità sulle capacità nucleari

di Giuseppe Gallinella

Il presidente francese Emmanuel Macron ha esortato l'Iran a smettere di esacerbare le tensioni con le potenze mondiali rafforzando le sue capacità nucleari e ha invitato Teheran ad agire in modo responsabile.
"L'Iran deve smetterla di aggravare una grave situazione nucleare con un accumulo di violazioni dell'accordo di Vienna", ha detto giovedì Macron, riferendosi all'accordo firmato dall'Iran per limitare la sua forza nucleare.
"È in gioco la sicurezza dell'intera regione. L'Iran deve compiere i gesti previsti e comportarsi in modo responsabile ", ha detto Macron, parlando a fianco del presidente israeliano Reuven Rivlin.
Ha detto che Parigi continuerà a lavorare per rilanciare un processo credibile per porre fine alla crisi.
"Ciò significa un ritorno al controllo e alla supervisione del programma nucleare, ma anche all'integrazione - come chiediamo dal 2017 - del controllo dell'attività missilistica balistica iraniana".
Francia, Germania e Regno Unito hanno tentato invano di convincere l'Iran a tornare a rispettare l'accordo nucleare del 2015 firmato con le potenze mondiali.
Ma dopo che l'ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump si è ritirato dall'accordo, ufficialmente noto al Joint Comprehensive Plan of Action, e ha reimposto le sanzioni all'Iran, il regime ha ripetutamente infranto le regole dell'accordo .
Il successore di Trump, Joe Biden, è disposto a rimuovere le sanzioni fintanto che l'Iran rispetta l'accordo del 2015, ma Teheran ha chiesto prima che le sanzioni vengano ritirate.
Le tre potenze europee stanno cercando di portare gli Stati Uniti e l'Iran al tavolo dei negoziati per colloqui informali in un primo passo verso il rilancio dell'accordo, che ha revocato le sanzioni internazionali su Teheran in cambio di freni al suo programma nucleare.
Macron ha anche suggerito un nuovo approccio al Libano, dove la Francia ha contribuito a guidare gli sforzi per salvare il paese da una profonda crisi finanziaria e politica, ma senza alcun risultato.
"Il tempo della prova di responsabilità sta volgendo al termine e nelle prossime settimane ci sarà bisogno, in modo molto chiaro, di cambiare approccio e metodi perché non possiamo lasciare il popolo libanese dallo scorso agosto nel situazione in cui si trovano", ha detto.

(ilFormat, 19 marzo 2021)


L'Haggadah di Pesach dei bambini con il criceto Jonathan

di Lia Tagliacozzo

Ci apprestiamo - con maggior fatica del solito - alla preparazione di Pesach, la Pasqua ebraica, che inizia il prossimo 27 marzo, 15 di Nissan del calendario ebraico. Per il secondo anno di seguito il Seder, la cena inaugurale della festa, vedrà le famiglie separate e divise e - tra zona rossa e pulizie - la stanchezza, anche emotiva, minaccia uno dei momenti fondativi dell'esperienza ebraica. Invece, anche quest'anno, possiamo e dobbiamo dedicare tempo e attenzione alla preparazione dei più piccini e, ad aiutarci, giunge una nuova, minuscola, Haggadah: piccina per spessore di pagine ma piena di colori e di contenuti. Si tratta infatti di un volume lucido e a prova di impazienza infantile che racconta - con pochissime parole e completamente disegnato - il Seder interamente illustrato per i più piccini. Il Seder spiegato proprio nel suo significato basilare di 'ordine': così nell'"Haggadah dei bambini" le varie fasi sono illustrate con una piccola guida d'eccezione, il cricetino Jonathan, Jonny per gli amici, che mostra le azioni da compiersi nell'ordine corretto. Anzi si comincia ancora prima del Seder con la ricerca del chametz che Jonny esegue con cura e attenzione, al buio, con un candela in mano. Poi Jonny brucia il Chametz e mostra come è composto il piatto del Seder e prosegue ovviamente dal Qaddesh fino all' Hallel nirtza'. Le illustrazioni - ricche di colori e di particolari - indicano con precisione di volta in volta l'azione da compiersi in modo che anche i bambini più piccini possano comprenderla. Le parole che accompagnano i disegni, veri protagonisti del volume, sono pochissime: la prefazione di Susanna Sciaky, presidente nazionale dell'Adei Wizo - l'organizzazione che ha voluto e promosso il volume. La presentazione di Rav Benedetto Carucci Viterbi ricorda che "Pesach, secondo una creativa interpretazione filologica dei Maestri della tradizione rabbinica, significa anche 'la bocca che parla'. E' attraverso la bocca del narratore della Haggadah - il padre, la madre, l'anziano, il sapiente, chiunque sia in grado di farlo - che si ricostruisce l'evento dell'uscita dall'Egitto e se ne approfondiscono i significati, ogni anno diversi e moltiplicati". Ma raccontare e indurre a fare domande non è facile "si devono cercare e trovare - prosegue Carucci - strade nuove, creative e diverse, per stimolare la curiosità, per trasmettere saperi e valori e per riportare la bocca a parlare". Questa nuova Haggadah dei bambini propone quindi una via nuova e sollecita proprio l'incontro dell'adulto narrante e del bambino intorno al "ordine" di Pesach e alle azioni del cricetino Jonny.
   A ideare, firmare e illustrare questa nuova Haggadah è Giovanna Micaglio Ben Amozegh: una lunga esperienza di letteratura per l'infanzia, responsabile scuola e bibliopoint dell'Istituzione Biblioteche di Roma, autrice di due volumi per bambini autistici. Edita da Belforte editore la "Haggadah di Pesach dei bambini" ha un solo brano del Seder scritto per esteso: ovviamente Ma Nishtannà, dove le domande del bambino più piccolo inaugurano "una sera diversa da tutte le altre sere" per una Haggadah diversa da tutte le altre.
   
(Shalom, 19 marzo 2021)


Roma - Caffè Greco: pronti al confronto con l'Ospedale Israelitico

L'Antico Caffè Greco si dice pronto al confronto con l'Ospedale Israelitico. I vertici della struttura sanitaria da anni chiedono di rivedere il canone d'affitto dello storico locale. L'ospedale è diventato Covid Hospital per la pandemia nella sede alla Magliana. «II Tribunale di Roma - spiegano da Antico Caffè Greco Srl - nel novembre 2017, ha convalidato lo sfratto, ma lo ha subordinato all'autorizzazione del Ministero dei Beni Culturali, autorizzazione sino ad oggi mai concessa, in quanto farebbe venir meno il vincolo apposto dal Ministero». E ancora: «Se l'Ospedale Israelitico vuole avviare un tavolo di confronto lo faccia alla luce del sole; se si vuole il dialogo siamo disponibili, se si vuole continuare per la via giudiziaria continueremo a far valere le nostre ragioni». Spiegano che «esiste un proprietario delle mura e un proprietario della licenza di esercizio con tutti gli annessi, l'Antico Caffè Greco srl».

(Il Messaggero, 19 marzo 2021)


Israele: elezioni vicine, ma manca la maggioranza

Manca poco alle elezioni in Israele e finora nessun partito possiede i numeri per governare. Netanyahu sa che un eventuale successo dovrà passare attraverso gli arabi.

di Nello del Gatto

A una settimana dalle elezioni politiche in Israele, le quarte in due anni, ancora nessun partito o coalizione, secondo gli ultimi sondaggi diffusi nel Paese, ha la maggioranza per governare. Sondaggi che però riservano sorprese: se da un lato il Likud del premier Benjamin Netanyahu perde consensi rispetto al numero di seggi conquistati nell'ultima elezione di aprile, Netanyahu risulta vincente in tutti gli scontri diretti per il premierato. Ma, per arrivarci, dovrà realisticamente lavorare molto diplomaticamente per assicurarsi sostegni anche da suoi acerrimi nemici. Ma la politica, e la storia recente di Israele lo ha dimostrato, riserva sempre sorprese e nonostante il crollo di consensi al suo partito e i problemi non irrisori di politica internazionale, Netanyahu dovrebbe farcela.

 Gli ultimi sondaggi
  Secondo gli ultimi sondaggi diffusi da Channel 12 e Channel 11, il partito di Netanyahu è salito a 30 seggi, dopo aver toccato 26 seggi, in discesa rispetto ai 36 ottenuti lo scorso marzo. A settembre del 2019, il Likud era arrivato a 32 seggi mentre nelle elezioni precedenti di aprile dello stesso anno, aveva ottenuto 35 seggi. Colpisce quindi il calo del partito, che paga la fuoriuscita di un pezzo grosso come Gideon Sa'ar, per molto tempo considerato il delfino di Netanyahu, e che con il suo neonato partito New Hope si attesta sui 10 seggi. Improbabile che questi possa sostenere il più longevo premier nella storia di Israele, per un altro mandato. L'unica possibilità per Netanyahu pare essere ottenere l'appoggio di Naftali Bennet, l'ex Ministro della Difesa che ha rotto in passato con Netanyahu e che è a capo della coalizione di destra Yamina. Channel 12 gli dà 10 seggi, ma Channel 11 al partito di Bennet assegna due seggi in più che, uniti a quelli dei partiti religiosi Shah e United Torah in Judaism, farebbero arrivare questo gruppo a 62 seggi, uno in più della maggioranza dei 120 parlamentari della Knesset, necessari per ottenere l'incarico.
Ma è tutto molto precario e i numeri differiscono, seppur di poco, in maniera sostanziale, perché l'acquisto o la perdita di un seggio potrebbe determinare la maggioranza. Lo stesso problema ce l'hanno anche i partiti di destra che si oppongono a Netanyahu, da quello di Sa'ar a quello dei russofoni guidati da Avigdor Liberman. Anche qui, con l'appoggio di Bennet, non si riuscirebbe ad arrivare alla maggioranza.

 Il centrosinistra
  Fuori dai giochi, almeno di improbabili accordi e sorprese, il gruppo di centrosinistra. Se infatti il partito Laburista, che però non è sicuro, come non lo è l'altro partito di sinistra, Meretz, di superare la soglia di sbarramento del 3,25%, ha annunciato che sosterrà il candidato centrista Yair Lapid e il suo Yesh Atid, questi, raggranellando tutto, arriverebbe a 58 seggi. Lapid, ex giornalista, è stato il fondatore, insieme a Benny Gantz, della coalizione Blu e Bianco ed è diventato il capo dell'opposizione quando l'ex generale ha accettato di entrare nel Governo con Netanyahu e di cadere nella trappola del premierato a turno. Allo stato attuale, Gantz è fuori da qualsiasi gioco e Lapid deve contare sul supporto di tutti, in chiave anti Netanyahu. Anche della lista araba, che lo stesso premier ha contribuito a scindere. Dai quattro partiti originari, tre sono rimasti compatti contro Netanyahu, mentre uno, Ra'am, si è detto disponibile a sostenerne un nuovo Governo del Likud se questi si impegna veramente nel migliorare le condizioni di vita degli arabi-israeliani. Proprio per questo, Netanyahu ha indirizzato più volte la sua campagna elettorale e le sue visite alle città a maggioranza araba. Ma Ra'am si è resa disponibile a sostenere anche Lapid, mentre gli altri partiti arabi non vogliono sentire assolutamente parlare di un altro Governo Netanyahu.
Intanto, alla domanda su chi fosse più adatto a essere il Primo Ministro, il 37% degli intervistati ha risposto Netanyahu, il 21% Lapid, il 10% il capo di Yamina Naftali Bennett e il 9% Gideon Sa'ar, il capo di New Hope. Il successo di Netanyahu deriva dal fatto che sono in molti quelli che considerano buona la sua gestione della pandemia.

 L'appoggio degli arabi
  Netanyahu sa che il successo passa attraverso gli arabi e così ha cercato di fare di tutto per accreditarsi verso i Paesi arabi. La settimana scorsa sarebbe dovuto volare negli Emirati Arabi Uniti, la prima visita dopo la firma l'anno scorso degli accordi di Abramo, ma ha dovuto rimandare la visita per un problema con la Giordania. Questa infatti, dopo che la delegazione del principe ereditario si era vista rifiutare l'ingresso da Israele al confine per la presenza di più agenti di scorta con conseguente ritorno indignato ad Amman, ha impedito il sorvolo dello spazio aereo agli aerei israeliani. Cosa che poi ha fatto anche Israele sul proprio spazio aereo per gli aerei giordani. Netanyahu ha quindi annunciato, dopo che la visita è stata cancellata quattro volte, che sarebbe andato giovedì negli Emirati, ma da Abu Dhabi hanno espresso tutta la loro irritazione perché considerano la visita uno spot elettorale di Netanyahu e non vogliono essere trascinati in questa contesa.
Venerdì saranno pubblicati gli ultimi sondaggi e martedì sarà l'Election Day, che non promette, ancora una volta, stabilità al Paese.

(Eastwest, 18 marzo 2021)


L'enigma dei vaccini per Israele

di Meir Ouiziel

Se oggi Israele, con il record di inoculati in rapporto alla popolazione, è diventato il Paese a cui il mondo guarda come modello di efficienza nell'affrontare la campagna vaccinale, diventa oggi sempre più chiaro come questo Paese possa essere un caso studio rispetto a un altro fenomeno: il rifiuto di farsi vaccinare.
   Cosa succede in un Paese dove ci sono vaccini illimitati, ma ci sono residenti che non ne approfittano?
   Il fatto che Israele sia in cima alle classifiche mondiali per vaccinati per numero di abitanti (attualmente il 55% della popolazione ha ricevuto la prima dose e il 47% anche la seconda) ha dell'incredibile, specie se paragonato ad altri Paesi industrializzati.
   Nella situazione attuale, per cui in Israele non c'è penuria di vaccini e chiunque sopra i 16 anni, cittadini e residenti, può essere inoculato velocemente, va dunque chiesto come sia possibile che non si sia già arrivati alla vaccinazione della totalità degli aventi diritto.
   L'opposizione al vaccino si presenta quindi come il grande enigma del comportamento umano: nonostante gli sforzi della scienza per trovare una soluzione che metta fine alla pandemia e quelli del governo per procacciarsela, ancora tutto può essere minato a causa delle scelte di alcune persone. Mentre il 75% degli ultrasessantenni si è già vaccinato, vediamo molta più esitazione tra i giovani.
   L'antico detto ebraico "chiunque salvi una vita, salva il mondo intero" di certo racchiude il senso del valore della vita che caratterizza la società israeliana. Ma tutto questo non sarebbe stato possibile se non ci fosse stata la disponibilità di vaccini che sta permettendo a Israele di essere il laboratorio mondiale di questa impresa di massa. Va quindi riconosciuto al premier Netanyahu di aver identificato con largo anticipo l'urgenza della campagna acquisti dei vaccini.
   I dati indicano che la maggior parte dei titubanti si trovano tra gli arabi e gli ultraortodossi, ma il fenomeno non riguarda solo le minoranze: l'opposizione al vaccino trova spazio in tutti i settori, comprese le fasce più agiate della popolazione. Conviene quindi guardare a Israele per capire se, nel momento in cui vi sarà disponibilità vaccinale di massa ovunque nel mondo, sarà proprio il comportamento umano a minare gli sforzi per l'immunizzazione.
   Secondo dati condivisi dal ministero della Salute israeliano con Repubblica, tra il 10 e il 20% della popolazione locale si oppone al vaccino anti Covid, per diverse ragioni. Ci sono quelli che temono possibili effetti collaterali, altri che "non vogliono inserire un elemento estraneo nel proprio corpo" (slogan particolarmente in voga tra i vegani), e quelli che credono alle teorie cospirative per cui il vaccino vuole creare mutazioni nel nostro Dna (e c'è chi risponde "probabilmente sarebbe un bene nel vostro caso…"). C'è chi si oppone per una questione di principio: perché lo Stato trasmette dati - seppur anonimi - alla Pfizer.
   E poi chiaramente ci sono i no-vax, indipendentemente dalla malattia in questione. Uno di questi è il medico Arieh Avni, la cui licenza è stata da poco revocata dal ministero della Salute perché si è scoperto che forniva certificati vaccinali falsificati. Non lo faceva per soldi, ma per pura ideologia. Avni ha persino fondato un partito che concorrerà - senza alcuna chance - alle elezioni del 23 marzo. Un gruppo di israeliani si è persino rivolto alla Corte penale internazionale dell'Aja per opporsi alla campagna vaccinale in corso.
   Se Israele andrà avanti a questo ritmo di vaccinazioni, in un mese la pandemia potrebbe essere superata. Perché ciò accada, è necessario che almeno il 75% della popolazione sia inoculata. Considerato che oltre il 25% della popolazione israeliana ha meno di 16 anni (l'età minima per ricevere il vaccino Pfizer attualmente), ogni percentuale di oppositori al vaccino rischia di allontanare il Paese dall'obiettivo di raggiungere l'immunità di gregge.
   Quindi, proprio mentre sembra che stiamo intravedendo la luce alla fine del tunnel, la domanda che sorge spontanea è: riuscirà il comportamento imprevedibile degli esseri umani a vanificare gli sforzi della scienza?

(la Repubblica, 18 marzo 2021 - trad. Sharon Nizza)


"Sentenza della Corte Suprema israeliana, un fallimento per tutti"

di Rav Alberto Moshe Somekh

"Con il rinnovamento della vita ebraica in Terra Santa vi era la speranza di un rinnovamento del potere creativo di entrambe: halakhah e aggadah… Eppure oggi molte guide spirituali, la cui cultura e il cui zelo pur evocano rispetto, non si rendono conto che alcune delle loro decisioni contengono un elemento di eresia pan-halakhica" ("Rassegna Mensile di Israel", 39/2, febbraio 1973, p. 91).
   Con queste parole, a suo tempo definite profetiche, Abraham Joshua Heschel si rivolgeva al 22° Congresso Sionistico Mondiale a Yerushalaim nel gennaio 1972, pochi mesi prima della sua morte. Peccato che l'autore, uno dei più grandi esperti di Midrash dell'ultimo secolo, non fosse osservante: Heschel insegnava etica e mistica ebraica in prestigiosi istituti del mondo riformato (Hebrew Union College) e conservative (Jewish Theological Seminary) americano e, di fatto, lo rappresentava.
   Voglio confrontare questo testo con la recente sentenza della Corte Suprema israeliana che riconosce agli effetti civili le conversioni effettuate dai rabbini reform in Israele. Non è questo che un ulteriore passo verso il pieno riconoscimento di un rabbinato alternativo nella società israeliana. Attribuire il problema a un vero o presunto strapotere della Corte Suprema e quindi a un difetto nell'ordinamento statale è riduttivo e forse anche pericoloso. Qualcuno ha addirittura chiesto come contropartita di introdurre il principio che i giudici siano eletti dal popolo. A parte il fatto che non è detto di poter contare sempre su una maggioranza a noi favorevole, che il potere giudiziario resti indipendente dalla volontà popolare è una tutela della democrazia anziché no. Per non finire come con certi uomini politici italiani che sognano di poter tutelare i propri capricci invocando un controllo sui giudici!
   Il fenomeno di cui parliamo è ormai evidente non solo nei tribunali, ma anche in altri ambienti non meno influenti come l'accademia. Agli studenti delle facoltà scientifiche in Israele il curriculum richiede di frequentare anche alcuni corsi di cultura umanistica, detti avnè pinnah (lett. "pietre angolari"). Ciò è di per sé un bene, nella misura in cui questi insegnamenti si prefiggono di formare non solo degli scienziati, ma prima di tutto dei cittadini. Il problema è che l'impostazione di questi corsi, per lo più di cultura ebraica, è spesso molto lontana dalla visione del mondo dell'ebraismo tradizionale. La simpatia di molti professori per la riforma è palpabile, come se l'Università volesse di proposito legittimare una coscienza umanistica nazionale che sostituisca quella della yeshivah.
   Parliamo dunque di un problema non solo istituzionale, ma culturale e identitario: la società israeliana, sotto questo profilo, mostra di essere in crisi non meno della stessa Diaspora. Le ragioni sono a mio avviso almeno tre. Anzitutto la perdita di credibilità del rabbinato ufficiale, che non ottiene più lo stesso rispetto nel vasto pubblico. Per carità, questo problema è in realtà sempre esistito, ma non nelle proporzioni odierne. Fatto culturale? Semplice incapacità di comunicazione, o c'è dell'altro? Le parole di Heschel richiedono qualche riflessione da parte nostra. La seconda ragione è legata al progressivo interessamento dell'ebraismo riformato al sionismo, che un tempo era poco o nullo. Oggi i magnati americani della riforma investono in Israele soprattutto forze economiche e pretendono un riconoscimento. Ma l'aspetto più grave è a mio avviso il terzo. Un tempo la riforma era costituita da ebrei che volevano sembrare non ebrei, oggi è l'inverso: si tratta di non ebrei che vogliono apparire come ebrei. Quand'ero bambino il matrimonio misto era per lo più visto come un'irregolarità anche da molti non osservanti. Oggi il fenomeno è talmente dilagante che tutti vogliono naturalizzare coniugi e figli nel senso etimologico del termine: chiedono cioè che essi siano accettati come automaticamente ebrei per natura, come se niente fosse.
   Ciò non è possibile. Il rabbinato riformato, che per lo più indulge a questo fenomeno, finge di non riconoscere che il matrimonio misto non è solo severamente proibito dalla halakhah, ma anche dalla tanto rimpianta aggadah. Sfido io gli eredi e successori di Heschel a trovare una qualsivoglia fonte midrashica non dico a giustificazione, ma semplicemente a comprensione di questo fenomeno. La cultura ebraica è una cultura rigorosamente endogamica e questo fattore pesa sulle scelte di molti correligionari, ormai anche in Israele. Liberi di scegliere, naturalmente, ma senza pretendere di voler garantire la continuità ebraica a ogni costo.
   La sentenza della Corte costituisce a mio avviso un fallimento di tutti. Nella società israeliana la volontà di abbattere una "discriminazione" ne creerà di fatto un'altra: quella, odiosa, fra ebrei di serie A e ebrei di serie B. Fuori da Israele sarà senz'altro oggetto di imitazione in molte Comunità della Diaspora, spingendo alla legittimazione di un rabbinato alternativo anche dove questo non era finora riconosciuto. Ciò accelererebbe la loro fine, soprattutto di quelle realtà piccole per le quali ci si illude di ritenere più adatta proprio questo tipo di soluzione.
   Come affrontare il problema? Per il matrimonio misto esiste l'opzione del Ghiyur ka-Halakhah, compiuto al cospetto di un tribunale rabbinico osservante e riconosciuto da tutti. Ma soprattutto occorre intensificare l'educazione ebraica dei giovani nei valori tradizionali, rappresentati sia dalla halakhah che dalla aggadah. Occorre saper trasmettere loro quei valori che li invoglino a distinguere, come si diceva una volta in Italia, fra il "din" (ebraismo autentico) e il… "comodin".

(moked, 18 marzo 2021)


Acqua: in Israele desalinizzazione a gas

Israele abbatte i costi della desalinizzazione, utilizzando giacimenti di gas metano, scoperti nel mediterraneo. I giacimenti israeliani di Leviathan e Tamar, permetteranno di fronteggiare la sempre maggiore richiesta di acqua, visto anche l'aumento della popolazione, e la desertificazione del territorio, garantendo un enorme risparmio.
Ne parla Giora Shaham, direttore generale dell'attività governativa di Israele per le risorse idriche e le acque reflue, in occasione della Giornata Mondiale dell'acqua del prossimo 22 marzo. L'autorità è l'organismo governativo, indipendente, responsabile della regolamentazione e della gestione del settore idrico israeliano, che decide sul prezzo dell'acqua per il consumatore.
"Nelle età passate, come oggi, la mancanza di acqua è stato un catalizzatore per lo sviluppo di progetti - afferma Shaham - nello scorso secolo la popolazione nel Medio Oriente è cresciuta rapidamente e le risorse idriche non sono sufficienti. E' una situazione di crisi e il pensiero e l'innovazione sono stati rivolti a risolvere questa situazione. Il primo e più importante passo è stato disconnettere il tema acqua dalla politica", poi si sono definite le reali necessità di acqua, stabilito dove costruire gli impianti, infine, calcolati i costi totali, necessari a portare l'acqua ai rubinetti delle case, investimenti, costi manutenzioni e tempi di realizzazione.
La scoperta del gas nell'area del mediterraneo rende il tutto molto più conveniente rispetto all'utilizzo di elettricità, si è infatti passati da un costo di 1,2 dollari per metro cubo (mc) a una spesa di 40-44 cent di dollaro per mc. Naturalmente, vanno combattuti gli sprechi, ridotte le perdite (non si riconosce alle compagnie più del 7% di perdite) e riutilizzate le acque reflue depurate.

(AGC Greencom, 18 marzo 2021)


L'arabo israeliano che ha demolito le menzogne alle Nazioni Unite sulle vaccinazioni d'Israele

Yoseph Haddad: "Sono fiero di essere arabo e israeliano; sostenere che la politica di vaccinazione di Israele è razzista è uno sfacciato tentativo di diffamare il mio paese"

L'attivista arabo israeliano Yoseph Haddad ha appassionatamente preso le difese di Israele durante la sessione di martedì del Consiglio Onu per i diritti umani dopo che i rappresentanti di Iran, Qatar, Autorità Palestinese e altri ne avevano violentemente attaccato la politica di vaccinazione anti-coronavirus accusando lo stato ebraico di attuare una strategia razzista.
"Qualsiasi tentativo di sostenere che la politica di vaccinazione di Israele è razzista è uno sfacciato tentativo di diffamare Israele e distogliere l'attenzione dalla corruzione di alcuni paesi che siedono in questo Consiglio" ha affermato Haddad, che è direttore di "Together - Vouch for Each Other" (Insieme - Garantirsi l'uno l'altro), un gruppo fondato nel 2018 da giovani arabi israeliani (cristiani, musulmani, beduini e drusi) impegnati a imprimere un cambiamento nella comunità arabo-israeliana spronandola ad adottare un atteggiamento costruttivo nei confronti della società israeliana e del paese....

(israele.net, 18 marzo 2021)


Com'è la nuova vita "normale" di Israele, campione di vaccini

Circa metà della popolazione è già stata vaccinata. Riaprono bar, ristoranti, piscine, concerti, locali Ma non è tutto come prima. Alcune attività sono in bancarotta e senza passaporto vaccinale si è tagliati fuori.

di Francesca De Benedetti

ROMA - Ci si abbraccia di meno anche quando si potrebbe farlo, e se per caso ci si trova a fare una fila davanti a un negozio, viene spontaneo mantenere il distanziamento». Ariel Avriel Sheffer con il suo racconto fa da guida nella Tel Aviv che si schiude. «i ristoranti, i caffè, i pub, hanno riaperto. Io e il mio partner stiamo andando al ristorante con amici che non vedevamo da molto. Due settimane fa, dopo un anno, siamo tornati in piscina Domenica scorsa abbiamo fatto la nostra prima gita fuori porta; e pensare che nell'ultimo anno abbiamo dovuto rinviare la vacanza che avevamo programmato per almeno tre volte...».
   Ora alcune cose sono tornate come prima della pandemia, altre invece proprio no. «Io sono un insegnante di inglese e faccio lezioni private un po' di persona, un po' via zoom, perché i genitori dei miei piccoli allievi sono prudenti; io sono vaccinato, i bambini no». Molte cose vanno avanti in digitale, il rientro in ufficio «non è così rigido, c'è chi prosegue nel lavorare da casa»: un ibrido di vecchie abitudini e di nuove. Quella di comprare online, che ha fatto la fortuna di Amazon durante il Co vid-19, non è svanita. Intanto «anche se i negozi riaprono, c'è chi non ha superato la crisi e ha smantellato l'attività: il 30 per cento circa delle botteghe». Come la Greg Lane fine arts gallery, una galleria d'arte nota in città: «Ci siamo appena stati per comprare un regalo e abbiamo scoperto che non rialzerà le saracinesche». Continuerà però le vendite via web.
   
 Una svolta a metà
  Prima di questa boccata d'aria, gli israeliani avevano passato in lockdown per Covid-19 un totale di 139 giorni. Secondo il database dell'università di Oxford, questo numero è superiore a qualsiasi altra nazione al mondo, mentre la Johns Hopkins University ha trovato in Israele un altro primato: questo autunno era il paese con più nuovi contagi pro capite. Se ora comincia a riaprire è perché è molto avanti con le vaccinazioni. A oggi, oltre la metà della popolazione — cinque milioni di persone, il 55,9 per cento del totale — ha ricevuto il vaccino e quasi un abitante su due — il 46,1 per cento —non solo la prima ma anche la seconda dose. Un numero esiguo a confronto, e cioè 5mila dosi, verrà destinato da Israele agli operatori sanitari della Cisgiordania; per ora ne sono arrivate 2mila. La rapidità nella vaccinazione segna un brusco cambio di passo, che Yuval Noah Harari, lo scrittore e storico israeliano, paragona alla situazione nel Regno Unito Harari scrive che entrambi i paesi hanno commesso gravi errori all'esordio della pandemia; la Gran Bretagna è quarta al mondo per numero di decessi in rapporto alla popolazione, Israele è settima per numero di contagi. «Per uscire da questo disastro il paese ha stretto un patto "vaccini in cambio di dati" con la multinazionale americana Pfizer. L'accordo con l'azienda farmaceutica prevede che entro fine marzo tutti gli israeliani dai 16 anni in su siano stati vaccinati; hanno cominciato gli operatori sanitari e gli ultrasessantenni, mano a mano anche i più giovani hanno ricevuto il vaccino. Una rapidità che altri paesi sognano, e che è dovuta in parte al prezzo che questo governo è stato disposto a pagare (più del doppio o il triplo che in Usa e in Ue, dice il Washington Post, mentre alla Knesset risulta che il governo abbia già pagato 660 milioni alle aziende farmaceutiche). Un fattore determinante è anche il consenso a fornire i dati sanitari dell'intera popolazione a Pfizer, in sostanza l'intero paese è un caso di studio sull'andamento delle vaccinazioni. Il governo precisa che vengono forniti solo dati aggregati, ma le perplessità rimangono; Harari ad esempio scrive che «concedere un quantitativo così ampio di dati di valore solleva perplessità sia sul fronte della privacy che del monopolio dei dati, in mano a una sola azienda. Dimostra inoltre che i dati dei cittadini sono oggi uno dei più preziosi asset statali».

 Passaporto ed elezioni
  Il ministro della Salute israeliano ha annunciato che dopo due settimane dall'iniezione della seconda dose, la mortalità per Covid-19 cala del 98,9 per cento, l'ospedalizzazione del 98,9, le forme gravi della malattia del 99,2, rispetto a chi non ha ricevuto il vaccino. Proprio come Boris Johnson, anche Benjamin Netanyahu punta tutto sulle vaccinazioni, riapre in fretta il paese e spera che alle elezioni parlamentari del 23 marzo, la quarta tornata elettorale in soli due anni, tutto ciò attutirà i fallimenti precedenti. Perciò non solo il paese riapre, ma nonostante vaccinarsi non sia obbligatorio, il sistema appena introdotto del "passaporto verde digitale" costituisce un incentivo, se non un obbligo di fatto. Dal 7 marzo hanno riaperto imprese, ristoranti, alberghi, palestre, e ci si può spostare all'interno del paese ma tutta questa libertà è condizionata dal possesso di un passaporto che certifica che si è vaccinati o guariti dal Covid 19. «Posso andare al ristorante, ma se voglio stare dentro e non all'aperto, devo esibire il mio codice QR», dice Ariel Avriel Sheffer. Vale anche per un lavoratore che voglia entrare in mensa. Israele riapre, sì, ma a chi ha il codice scaricato sul cellulare. Le richieste per il documento "libera tutti" sono state così massicce che il sito del governo all'inizio si è bloccato e che c'è già chi prova a smerciarne di falsi online. Lo scopo dichiarato del passaporto è incentivare le vaccinazioni, ma il confine con l'obbligo in questo caso è labile. A inizio marzo il parlamento ha autorizzato lo stato a passare ai comuni i nominativi di chi ha rifiutato il vaccino, tanto che sui giornali israeliani si è parlato di "caccia alle streghe". La Confindustria locale ha anche commissionato un parere legale per capire se in Israele un'impresa può licenziare chi non si vaccina L'esito? Positivo.

 Fragile normalità
  «Al momento le vaccinazioni procedono rapide, ma bisogna vedere cosa succederà quando si arriverà al nocciolo duro di persone che il vaccino non lo vogliono», dice Assaf Patir, economista alla Hebrew University. Un sondaggio pubblicato in Israele da Channel 12 dice che un quarto degli israeliani non ha alcuna intenzione di farsi vaccinare, fra questi, il 41 per cento teme gli effetti collaterali. Questo è soltanto uno dei punti interrogativi sul ritorno effettivo alla normalità. Patir nota che «sicuramente chi vaccina prima si troverà avanti nella ripresa economica rispetto a chi va lento, ma siamo comunque interdipendenti gli uni dagli altri se il turismo non riparte, se la domanda bassa negli altri paesi frena le nostre esportazioni, ne risentiremo anche noi». Proprio l'impennata nell'export di diamanti, che sono un bene rifugio, hanno consentito al paese di contenere al 2,4 per cento il calo del Pil nel 2020. Nel picco dell'epidemia un israeliano su tre era senza impiego e «non basta riaprire perché il mercato del lavoro torni alla normalità». Patir lamenta che il governo abbia preso misure «non abbastanza mirate, bisognava sostenere maggiormente i settori più colpiti dalle chiusure. Molti dirigenti del Tesoro si sono dimessi proprio perché non ascoltati a sufficienza». Alcuni locali sono andati in bancarotta e non riapriranno. I ristoratori che hanno alzato le saracinesche si sono sentiti dire da molti ex dipendenti che finché dura l'indennità di disoccupazione (fino a giugno) non rientreranno. Online continua una parte delle attività: «Questo semestre continuiamo a fare lezione online, e anche l'anno prossimo penso che si userà zoom molto più che prima del Covid», dice Patir. Sua madre e sua sorella venerdì sono andate al primo concerto dopo molto tempo. La vita torna quella di prima? Rina Corem, pensionata, vive a Beer Tuvya e dice che «vedo gli amici, faccio pilates, ma mi mancano i miei cari». Corem ha parte della famiglia tra Berlino e New York vorrebbe andare a trovare le nipotine a Manhattan per la Pasqua ebraica, ma «andare all'estero è ancora così complicato, e pure rientrare». Da martedì si può atterrare da qualsiasi paese, per votare, ma comunque in non più di 3mila persone al giorno. «Se arrivano varianti dall'estero, rischiamo di mandare al diavolo i miracoli fatti con le vaccinazioni», dice il ministro della Salute. La normalità pare appunto un miracolo.

(Domani, 17 marzo 2021)


Israele, trovati nuovi frammenti biblici dei rotoli del Mar Morto

La scoperta in una grotta a 80 metri di profondità: si tratta di traduzioni in greco dei Libri dei profeti Zaccaria e Naum. La corsa contro il tempo per battere i tombaroli.

di Davide Frattini

GERUSALEMME - La chiamano la grotta dell'Orrore perché per raggiungerla bisogna scendere giù nel baratro con le corde doppie per ottanta metri, circondati dalle pareti di roccia ocra e dal silenzio del deserto.
   È l'operazione di salvataggio di un pezzo di Storia attuata dagli archeologi israeliani nell'area dove settant'anni fa alcuni pastori beduini trovarono per caso i Rotoli del Mar Morto. Anche questa volta tra le scoperte più importanti sono venti frammenti biblici, traduzioni in greco dei Libri dei profeti Zaccaria e Naum, solo la parola usata per indicare Dio è scritta in ebraico.
   Dal 2017 va avanti questa corsa contro il tempo per proteggere il tempo passato. L'Autorità per le antichità israeliana deve raggiungere le centinaia di grotte e anfratti prima dei tombaroli che perlustrano tra le sabbie in cerca di reperti da rivendere al mercato nero. «Il governo deve capire che abbiamo bisogno di investimenti per proseguire in queste ricerche - spiega il direttore Israel Hasson -. Dobbiamo riuscire a portar via tutti i resti possibili prima dei saccheggiatori. Sono manufatti e ritrovamenti di valore inestimabile».
   Gli archeologi hanno recuperato anche un cesto di canne intrecciate vecchio di oltre 10 mila anni: ipotizzano che fosse usato per la conservazione viste le grandi dimensioni tra i 90 e i 100 litri. L'aridità e le temperature molto alte del deserto hanno conservato e mummificato un cadavere, molto probabilmente di una bambina tra i 6 e i 10 anni, avvolto in un tessuto e depositato nelle grotte attorno a 6 mila anni fa.
   Le monete con i simboli dell'arpa e della palma da datteri testimoniano invece del periodo in cui la popolazione ebraica si rivoltò contro il dominio romano (tra il 133 e il 135 dopo cristo). L'insurrezione guidata da Bar Kochba riuscì a mantenere il controllo sui territori a ovest del Mar Morto - le basi per gli attacchi erano proprio le grotte - fino alla soppressione da parte delle legioni.

(Corriere della Sera, 17 marzo 2021)


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Frammenti biblici di 2000 anni fa ritrovati in Israele

Erano nella «Grotta dell'Orrore». Scritti in greco. Una scoperta importante

di Aldo Baquis

Noto per la sua assoluta siccità, il deserto di Giudea ha riconsegnato a un team di studiosi israeliani tesori inestimabili custoditi da millenni nelle sue grotte, a breve distanza da Masada e dal mar Morto. Nella cosiddetta «Grotta dell'Orrore» sono stati rinvenuti frammenti di Rotoli biblici di duemila anni fa tratti dal Libro dei profeti minori.
   Molto vicino sono state recuperate lettere del condottiero ebreo Shimon Bar Cochbà, ribellatosi nel 132 d.C. all'Imperatore Adriano. Ci sono anche monete dell'epoca, un pettine in legno (con i resti millenari di un pidocchio) e la suola intatta di un sandalo indossato da un bambino ebreo figlio di rivoltosi. E ancora, all'esterno della «Grotta dell'Orrore», lo scheletro mummificato di una bambina vissuta 6.000 anni fa. Il deserto ha conservato intatto anche un canestro vecchio di 10 mila anni.
   All'origine di queste eccezionali scoperte, ha spiegato il Dipartimento israeliano per le antichità, c'è stata la decisione del 2017 di scandagliare sistematicamente 400 grotte della zona - in un'area complessiva di 80 chilometri - per recuperare il possibile, dopo che per decenni erano state abbandonate alla mercè di ladri di reperti. Si è trattato di una operazione logistica complessa e rischiosa perché la maggior parte delle grotte si affacciano su speroni rocciosi e l'accesso è possibile solo ricorrendo a funi e ad acrobazie. Utile si rivelata inoltre la utilizzazione di droni.
   La «Grotta dell'Orrore» deve il suo nome al ritrovamento al suo interno, negli anni Sessanta, degli scheletri di una trentina di combattenti di Bar Cochbà, morti di inedia dopo che soldati romani si erano accampati su una altura vicina per impedire loro la fuga. Là sono stati trovati frammenti in greco dei libri di due profeti, Zacharia e Nahum. In laboratorio è apparso poi che erano stati tracciati un secolo prima della rivolta. Il testo differiva a volte da altri brani dei due profeti apparsi altrove. Fra le parole in greco ne spiccava una in ebraico: il nome di Dio.
   Fuori dalla «Grotta dell'Orrore», dietro una lastra, era nascosto da sei millenni lo scheletro mummificato di una bambina di età apparente di 6-12 anni in posizione fetale. Era stata sepolta in una nicchia, e coperta delicatamente con un tessuto preservatosi nel tempo. Vicino c'era la grotta di Yehoshua Ben Galula, comandante della rivolta al Herodion, il maestoso palazzo di Erode alle porte di Betlemme. Qui c'erano lettere scritte da Bar Cochbà che tradivano uno stato di difficoltà.
   Secondo Avi Cohen, direttore Ministero di Gerusalemme e della tradizione, «i frammenti dei testi biblici, le monete e gli altri reperti dell'epoca del secondo Tempio di Gerusalemme confermano le radici della storia ebraica in questa regione. Ma hanno anche importanza per il mondo intero». La ricerca nelle grotte del deserto proseguirà ancora. Ma il Dipartimento delle Antichità ha già fatto un accorato appello agli appassionati di non provare a raggiungere da soli quelle grotte perché rischierebbero la vita.

(La Gazzetta del Mezzogiorno, 17 marzo 2021)


L'Iran vola verso la bomba atomica sotto gli occhi della AIEA

di Maurizia De Groot Vos

Un rapporto della AIEA svelato ieri dalla Reuters mostra come l'Iran stia installando nuovissime centrifughe per l'arricchimento dell'uranio nella centrale di Natanz. E ancora c'è chi vuole trattare con gli Ayatollah
Un rapporto della AIEA (Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica) tenuto sin qui riservato rivela che l'Iran ha messo in opera nuovissime e velocissime centrifughe per arricchire l'uranio.
Si tratta di 174 centrifughe IR-4 altamente avanzate di ultimissima generazione installate nel sottosuolo della centrale nucleare di Natanz.
A riferirlo ieri è stata la Reuters che è venuta in possesso del rapporto stilato dagli ispettori della AIEA dopo la loro ultima visita in Iran.
Questa sarebbe l'ennesima violazione degli accordi sul nucleare iraniano perpetrata da Teheran dopo che gli Stati Uniti si sono ritirati dal JCPOA.
Secondo uno storytelling molto diffuso tra coloro che vorrebbero riaprire i colloqui con l'Iran, si tratterebbe "solo" di un metodo usato da Teheran per fare pressione sulle grandi potenze affinché vengano tolte tutte le sanzioni e ripristinato il JCPOA originale.
In realtà l'Iran sta letteralmente volando verso la bomba atomica e lo sta facendo a tale velocità da spiazzare pure gli ispettori dell'Agenzia per l'Energia Nucleare.
Natanz è il principale sito iraniano per l'arricchimento dell'uranio. Lo scorso anno una esplosione attribuita a Israele distrusse buona parte della centrale.
In pochi mesi però gli iraniani sono tornati ad arricchire l'uranio e adesso con le nuove centrifughe lo faranno ad una velocità molto superiore di quanto non facessero prima dell'esplosione.

(Rights Reporter, 17 marzo 2021)


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L'Iran e la bomba nucleare: cosa succederà?

di Giorgia Calò e Ariela Di Gioacchino

Lunedì 15 Marzo La Europe Israel Press Association (EIPA),ha deciso di dedicare uno spazio al dibattito sulla politica nucleare iraniana, in un webinar dal titolo Iran's Nuclear Program & It's Regional Policies in the Spotlight: Challenges & Opportunities.
   Tre esperti da tre diversi paesi: USA, Israele e Iran a riflettere sulle sfide e le opportunità del programma nucleare iraniano e le sue politiche regionali: Sima Shine da Israele, Senior Research Fellow presso l'Institute for National Security Studies (INSS) e vice direttore generale del Ministero degli affari strategici israeliano, responsabile proprio del fascicolo iraniano. È entrata nel ministero dopo aver servito come vice capo per gli affari strategici del Consiglio di sicurezza nazionale israeliano e dopo molti anni di servizio all'interno della comunità di intelligence israeliana, dove ha diretto la divisione di ricerca e valutazione del Mossad. Al Mossad si è poi occupata della produzione di valutazioni sia giornaliere che periodiche su questioni mediorientali e internazionali.
   Kasra Aarabi (britannico-iraniano), Analista di Estremism Policy Unit presso il Tony Blair Institute for Global Change. Ha lavorato come ricercatore e coordinatore per il gruppo parlamentare della Camera dei Comuni del Regno Unito sull'Iran e come ricercatore di politica estera per l'ex ministro degli esteri britannico Jack Straw, dove si è concentrato su questioni relative al Medio Oriente.
   Aarabi è stato anche testimone esperto in più di trenta casi federali contro l'Iran e professore di ricerca presso l'Istituto per gli studi strategici nazionali della National Defense University, nonché economista senior presso il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale.
   Infine Patrick Clawson (USA), autore di oltre 150 articoli sul Medio Oriente; giornalista e opinionista: ha pubblicato sul New York Times, il Wall Street Journal e il Washington Post.
   Tema centrale Iran e accordi nucleari: cosa accadrà nel futuro?
   In questo momento gli Stati Uniti stanno imponendo delle sanzioni al governo iraniano per non aver rispettato gli accordi, ma come ha intenzione di agire il governo di Biden, in vista della formazione del nuovo governo iraniano?
   I tre esperti si sono confrontati, analizzando le possibili prospettive, tra cui un rinnovo degli accordi sul nucleare tra Iran e Usa, oppure l'accrescersi di una tensione che non gioverebbe nessuna delle due parti.
   Sebbene Israele non sia favorevole ad una ripresa degli accordi, sembra che questa sia, almeno per ora, la soluzione migliore, purché sia previsto in futuro un dialogo tra Usa e Israele per stabilire un piano duraturo.
   Un focus sul ruolo delle milizie del Corpo delle Guardie della Rivoluzione islamica nell'intervento di Kasra Aarabi, che analizza a fondo le dinamiche di questi gruppi che stanno indottrinando gruppi di sciiti e che desiderano proiettare i loro ideali oltre i confini dell'Iran, raggiungendo persino Israele.. E questo è il pericolo più grave che l'Iran si trova ad affrontare in questo momento, secondo il ricercatore, in quanto questo gruppo mette in discussione il concetto di Stato-Nazione e sta acquisendo un ruolo sempre più centrale all'interno dello Stato.
   "In questo momento la questione Iran non è una priorità per Biden" sostiene invece Clawson, "mentre Obama aveva a cuore la questione della non proliferazione, per Biden non è così: l'intento del nuovo presidente americano è quello di riallacciare i rapporti con l'Europa , perciò la questione Medio-Oriente passa in secondo piano".
   Un webinar che ha affrontato l'attuale rapporto tra Iran e USA e quali sono le prospettive future, in vista delle elezioni in Iran e dell'avvento del nuovo presidente americano: la possibilità o meno della ripresa degli accordi nucleari, la pericolosità delle milizie del Corpo della Rivoluzione islamica e di quanto questi giochino un ruolo sempre più influente all'interno del Governo e la questione Medio Oriente, che per il Presidente Biden, passa in secondo piano rispetto all'American Rescue Plan e alla ripresa dei rapporti con Cina ed Europa.
   
(Shalom, 16 marzo 2021)


Israele festeggia la sconfitta del virus

di Fiamma Nirenstein

Il miracolo della vaccinazione, come nella storia ha eliminato il vaiolo, la difterite, il tetano, la polio, porterà alla liberazione dal Covid.
   Questo succede oggi in Israele, e deve essere di grande incoraggiamento per il mondo. Israele ha perso 6mila persone; da un picco di 79 perdite al giorno a gennaio adesso siamo a 16 morti al giorno. Non è finita, ma cala ogni giorno. Da dicembre, accolti dal primo ministro letteralmente trepidante, gli aerei di Pfizer e Moderna hanno portato i flaconi gelati all'aeroporto Ben Gurion e subito una macchina determinata, inventiva, si è messa in moto fra errori e stalli (le celebrazioni dei religiosi, il sospetto dei villaggi arabi). Ma come durante la guerra dei Sei Giorni, Israele ha colpito per primo e ha vinto l'esercito composito del terribile nemico: «Trenta volte mi ha chiamato, sì, letteralmente. Mi ha travolto il suo atteggiamento ossessivo», sorride il ceo Pfizer Albert Bourla. «Una volta gli ho detto Primo ministro sono le tre di notte. Mi ha spiegato - dice Bourla - perché Israele era il Paese più adatto per la missione del vaccino: né grande né piccolo, 9 milioni di abitanti, servizi sanitari capillari, organizzazione ferrea, deciso alla sopravvivenza». Gliel'ha spiegato Benjamin Netanyahu stesso, mentre dalla tv mostrava come si indossa la maschera, come ci si lava le mani, implorando di rimanere a casa per tre lockdown.
   Israele è stata ossessiva negli ordini e nelle multe anche se le manifestazioni si sono moltiplicate, il personale incaricato ha agito come una madre italiana, l'esercito ha mobilitato le reclute. Nel distribuire le dosi, dopo la scala per età, si rispondeva sempre «sì». E così oggi Tel Aviv balla per le strade, va al ristorante e al teatro con la patente verde. Esagera, anche se la prudenza è ancora indispensabile. Già si progetta l'eliminazione delle maschere ed è permesso, all'aperto, riunire cento persone. Al ristorante e al teatro si progetta la verifica rapida per chi non ha patente. Gli aeroporti sono ancora semichiusi, ma in Grecia, a Cipro e in Georgia si può andare in vacanza...
   Certo, non si assiste alla sparizione del virus per magia, ma allo storico evento della vittoria del vaccino. Giorno dopo giorno, dal 20 di dicembre si è vaccinato il 90% degli ultra cinquantenni, il 51 fra i 16 e i 19 (gli allievi delle scuole), il 69 fra i 20 e i 29, il 46 fra i 30 e i 39 e l'81 fra i 40 e i 49. Sono 4,2 milioni che hanno ricevuto ambedue i vaccini, 5,1 milioni la prima dose. L'Rt è sceso allo 0,76 e il tasso di positività è caduto al 2,4%.
   Funzionerà? Dipende dal buon senso oltre che dalle varianti: il carattere israeliano ha più inventiva e chutzpa, la speciale impudenza per cui Netanyahu chiamava Bourla alle 3 di notte. Ma Israele ha un ruolo di leader mondiale nella vicenda: lo dimostra l'attenzione dei media; l'alleanza con vari stati europei per progettare una strategia futura; la distribuzioni dei propri vaccini in altri Paesi; i vaccini ai palestinesi. Il giorno del mio vaccino, ho avvertito in modo molto diretto il senso di missione storica nell'ambulatorio, la comune costruzione della salvezza. Che sia subito anche in Italia.

(il Giornale, 16 marzo 2021)


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Israele è già ora il «rosh hagoim»?
  • Il miracolo della vaccinazione ... porterà alla liberazione dal Covid.
  • Questo succede oggi in Israele, e deve essere di grande incoraggiamento per il mondo.
  • Certo, non si assiste alla sparizione del virus per magia, ma allo storico evento della vittoria del vaccino.
  • Israele ha un ruolo di leader mondiale nella vicenda: lo dimostra l'attenzione dei media
  • Il giorno del mio vaccino, ho avvertito in modo molto diretto il senso di missione storica nell'ambulatorio, la comune costruzione della salvezza.
Dichiarazioni altisonanti, quasi di tono biblico, quelle di Fiamma Nirenstein nell'articolo che precede. E' un inno alla capacità dell'uomo di pervenire alla "comune costruzione della salvezza" accettando il ruolo di Israele come "leader mondiale nella vicenda" dopo che si è compiuto sulla sua terra "il miracolo della vaccinazione" che profeticamente "porterà alla liberazione dal Covid". Il senso della "missione storica" di Israele è stato "avvertito in modo molto diretto" dalla giornalista nell'ambulatorio il giorno del suo vaccino.
   Si proclama dunque, in un linguaggio profetico, la leadership di Israele nella guerra, dichiarata fin d'ora vittoriosa, che attualmente coinvolge l'intero pianeta.
   Trattandosi di profezia, sia pure in forma laica, si giustifica allora la domanda: Israele è già ora il «rosh hagoim»? Che significa? si chiederà qualcuno. L'autrice lo sa molto bene. Ma per tutti è bene chiarire che «rosh hagoim" è un'espressione che compare nella Bibbia e significa «capo delle nazioni». Dunque sta proprio scritto che Israele è il capo delle nazioni? si chiederà allarmato qualcuno. Sì, sta scritto. E dove? Nel libro del profeta Geremia. Ma in che contesto, a quale proposito? chiederà giustamente chi vuole fare verifiche testuali.
    כי כה אמר יהוה רנו ליעקב שמחה וצהלו בראש הגוים
    השמיעו הללו ואמרו הושע יהוה את עמך את שארית ישראל


    Così parla l'Eterno: «Innalzate canti di gioia per Giacobbe e mandate grida per il capo delle nazioni; proclamate, cantate lodi e dite: O Eterno, salva il tuo popolo, il residuo d'Israele (Geremia 31:7).
Ma a chi è rivolto questo invito? A tutti i popoli, alle "isole lontane" che rappresentano i gentili:
    O nazioni, ascoltate la parola dell'Eterno, e proclamatela alle isole lontane, e dite: 'Colui che ha disperso Israele lo raccoglie, e lo custodisce come un pastore il suo gregge' (Geremia 31:10).
Si tratta dunque di una parola profetica che annuncia per Israele un futuro di gloria a cui parteciperanno con gioia le altre nazioni, ma sarà Dio a far entrare nella storia questo futuro, non certo l'opera dell'uomo. E sarà Dio che stabilirà Israele come «capo delle nazioni», ma dopo che tutto il programma di salvezza e giudizio sarà compiuto, per Israele prima e per tutti gli altri dopo.
   Suona male dunque la presentazione di un Israele trionfante che si mette a capo di un programma di salvezza per tutto il mondo. Anticipare i tempi con le proprie forze e solo per i propri scopi è altamente rischioso per tutti, in primo luogo per Israele. "Io però non credo in Dio, quindi il discorso non m'interessa", dirà qualcuno. Il discorso comunque però non è chiuso, perché se la cosa interessa Dio, prima o poi interesserà anche quel qualcuno. M.C.

(Notizie su Israele, 16 marzo 2021)


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