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Notizie 1-15 marzo 2022


Il jet di Abramovich è tornato in Russia dopo un volo in Israele e Turchia: ecco perché

di Leonard Berberi 

Un Gulfstream G650ER riconducibile a Roman Abramovich ha volato tra Mosca, Tel Aviv e Istanbul negli ultimi due giorni e ha trasportato in almeno due dei tre viaggi l’oligarca russo sempre più braccato dalle sanzioni dell’Unione europea assieme ad altri miliardari connazionali. È quanto si evince da un incrocio dei dati disponibili sui siti di tracciamento dei velivoli e di foto e video realizzati all’aeroporto «Ben Gurion» in Israele. Dalla fine di febbraio gli aerei russi o quelli gestiti dai russi non possono solcare i cieli dell’Unione europea dopo l’invasione dell’Ucraina.

• Il motivo del viaggio
  Non è chiaro se Abramovich si sia recato nello Stato ebraico per affari, per trovare un posto più sicuro oppure per discutere con i vertici del governo israeliano impegnati in prima linea nelle trattative per fermare la guerra in Ucraina. L’unica certezza è che il velivolo — che ha un prezzo di listino di circa 55 milioni di dollari — è tornato nel cuore della notte a Mosca, completando così il suo tour. Ma Abramovich potrebbe essere sceso a Istanbul oppure essere tornato nella capitale russa.

• Le immagini nascoste
  Alcune immagini diffuse da Sky News e dall’agenzia Reuters — scattate da chi era presente in sala — mostrano Abramovich aggirarsi lunedì in quello che viene identificato come l’aeroporto di Tel Aviv. Una migliore analisi mostra che in realtà l’oligarca si trovava al Fattal Terminal, la struttura dove transitano i passeggeri dei voli privati, separata da quella dei voli di linea. Con una giacca a vento, la mascherina e un aspetto dimesso Abramovich — che ha un passaporto anche portoghese e israeliano — è stato poi accompagnato verso il jet privato.

• I movimenti
  Il velivolo utilizzato, usato spesso dal magnate russo, è immatricolato LX-RAY e ufficialmente appartiene alla società Global Jet Luxembourg che noleggia gli aerei privati ai clienti più facoltosi. Il 12 marzo il Gulfstream ha effettuato la tratta Istanbul-Mosca Vnukovo e una dozzina di ore dopo è ripartito per Tel Aviv. Il 14 marzo è decollato da Israele con destinazione Istanbul e poi si è diretto verso Mosca dopo una sosta di poche ore.

• La posizione di Israele
  Da giorni Usa e Unione europea fanno pressione su Israele — che non ha chiuso i cieli alle compagnie russe — perché non diventi un posto dove aggirare le sanzioni imposte. Ma secondo il sito Times of Israel il governo locale non ha ancora adottato provvedimento in questa direzione tanto che, racconta Canale 12, i ministri non avrebbero ancora iniziato a discutere cosa fare con gli oligarchi russi. In ogni caso un panel di funzionari della Banca centrale d’Israele ed esponenti dell’esecutivo dovrebbero incontrarsi presto per fissare i paletti per i miliardari russi.

• La flotta del magnate
  Sono almeno sei i mezzi — tra aerei ed elicotteri — attribuiti ad Abramovich, al netto delle imbarcazioni. Il velivolo più famoso, un Boeing 787-8 Dreamliner con la configurazione vip — che risulta sempre sotto la gestione di Global Jet Luxembourg ed è registrato in Olanda — ha dato il suo ultimo segnale il 4 marzo, all’aeroporto di Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, dopo aver effettuato in giornata un Dubai-Mosca-Dubai. Da quel momento non ha più spiccato il volo.

(Corriere della Sera, 15 marzo 2022)

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Attacco hacker ai siti web del governo, il peggior nella storia dello Stato d’Israele

di Luca Spizzichino

Il peggior attacco informatico nella storia dello Stato d’Israele. I siti web del governo israeliano sono andati offline per oltre un'ora a causa di un grave attacco informatico lunedì sera, hanno detto i funzionari. Il tutto avvenuto proprio mentre Bennett parlava al telefono con Putin.
  Obiettivi di questo "vasto attacco informatico" sono stati i siti Web del governo, afferma una dichiarazione dell’ufficio del ministro delle comunicazioni Yoaz Hendel, che ha tenuto una valutazione con gli esperti del ministero.
  Gli utenti che tentavano di accedere a siti con estensioni gov.il non sono stati in grado di farlo. Solamente dopo un’ora i siti sono tornati lentamente a tornare online.
  "Le operazioni sono state eseguite dalle società di comunicazioni al fine di restituire il servizio il prima possibile e il servizio sta gradualmente riprendendo", ha affermato il ministero delle Comunicazioni. "Il ministero continuerà a monitorare la situazione fino al completo ripristino", ha aggiunto.
  Secondo i media israeliani la Direzione nazionale informatica ha dichiarato lo stato di emergenza per studiare l'entità dei danni causati dal "massiccio" attacco informatico. Secondo le valutazioni riportate nei quotidiani, i siti sono stati rimossi tramite un attacco denial-of-service, un attacco informatico in cui si fanno esaurire deliberatamente le risorse di un sistema informatico fino a renderlo non più in grado di erogare il servizio ai client richiedenti. Tuttavia, la causa non è stata confermata dal governo.
  I funzionari del ministero non hanno detto immediatamente chi c'era dietro l'attacco, ma sempre secondo i media, questo attacco proviene dall’Iran. Infatti da anni lo Stato ebraico e il regime degli Ayatollah sono coinvolti in una guerra cibernetica, che, sebbene in gran parte silenziosa, occasionalmente riemerge in superficie.

(Shalom, 15 marzo 2022)

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Israele in allarme: gli USA si sono arresi all’Iran?

Il silenzio americano sull’attacco iraniano al consolato di Erbil è l’ennesimo segnale di arrendevolezza di Washington nei confronti di Teheran

di Franco Londei

Attaccare con un lancio di missili la sede diplomatica di un altro Stato, come ha fatto domenica mattina l’Iran con il consolato americano in Kurdistan, è una cosa gravissima, paragonabile ad un atto di guerra.
   Eppure gli Stati Uniti non hanno detto assolutamente niente, nemmeno un tiepida protesta nonostante la rivendicazione dell’attacco da parte dei guardiani della rivoluzione iraniana (IRGC).
   Secondo gli iraniani nella sede diplomatica americana di Erbil, nella regione autonoma del Kurdistan iracheno, c’era una base d’addestramento del Mossad e il silenzio americano, secondo gli Ayatollah, confermerebbe questa tesi.
   Le IRGC ieri hanno affermato di aver attaccato la “base del Mossad” come risposta all’uccisione di due ufficiali iraniani avvenuta nei pressi di Damasco a seguito di un attacco aereo attribuito a Israele.
   Ora, a Gerusalemme sono a dir poco basiti dalla non risposta americana, dalla pressoché totale apatia seguita a questo gravissimo atto di guerra da parte di Teheran.
   In questi giorni sono volati a Washington il direttore dello Shin Bet Ronen Bar, il vice capo di stato maggiore dell’IDF Herzi Halevi e infine il capo dell’intelligence dell’esercito israeliano, il Magg. Gen. Aharon Haliva.
   I tre hanno avuto incontri di altissimo livello durante i quali hanno esposto agli americani le prove raccolte dalla intelligence israeliana in merito a quello che stanno facendo gli iraniani, compreso fomentare rivolte dei palestinesi per destabilizzare Israele.
   Ma soprattutto il Mossad ha raccolto prove in merito al fatto che mentre a Vienna si sta per concludere un accordo sul nucleare iraniano, gli Ayatollah procedono come treni verso la bomba, cioè verso il punto di non ritorno.
   Ed è proprio a causa dei colloqui di Vienna che probabilmente gli Stati Uniti hanno taciuto sul grave attacco alla loro sede diplomatica di Erbil.
   Come fece a suo tempo Obama quando fermò le indagini su Hezbollah per concludere il primo accordo sul nucleare iraniano (JCPOA), anche questa volta si sacrifica tutto pur di arrendersi agli iraniani.
   Nessuno a Gerusalemme mette in dubbio la lealtà americana verso Israele, tuttavia sembra di essere tornati ai tempi bui di quando alla Casa Bianca c’era Barack Obama, solo che al posto di Benjamin Netanyahu adesso c’è Naftali Bennet. Netanyahu venne “superato” da Obama, speriamo che Bennet risolva qualcosa perché veramente l’arrendevolezza americana nei confronti dell’Iran è pericolosissima per Israele.

(Rights Reporter, 15 marzo 2022)

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Israele-Turchia: le dimensioni di un possibile disgelo

di Muriel Di Dio

La storica visita del presidente israeliano Isaac Herzog ad Ankara riaccende le speranze sul disgelo delle relazioni diplomatiche tra Israele e Turchia. Uno sguardo al passato e uno al presente per comprendere fattibilità e potenzialità di un ritorno alle origini.

• Una visita storica
  Dopo diversi mesi di contatti a distanza, ha avuto luogo l’incontro ufficiale tra il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan e quello israeliano Isaac Herzog. Che ci fosse aria di cambiamento nelle relazioni tra i due paesi era stato ampiamente ammesso da entrambi i capi di stato, ma che questo incontro porti all’effettivo pieno ristabilimento delle relazioni bilaterali è tutto da vedere.
   Dall’ultima visita di rango così alto compiuta da Israele in Turchia erano passati quasi 15 anni, allora nel 2008 era stato per ultimo Ehud Olmert a mettere piede in suolo turco. Il 9 marzo Herzog ha potuto finalmente visitare Ankara e incontrare il suo omologo turco per discutere in modo preliminare del riavvicinamento diplomatico tra Israele e Turchia, nonché di numerosi dossier di interesse comune.
   Nonostante l’intento ufficiale della visita non fosse quello di annunciare la reinstallazione degli ambasciatori dei due paesi nelle rispettive capitali di dislocazione, i presidenti hanno dichiarato che si stanno impegnando a portare le relazioni bilaterali a un livello più alto e che si trovano in accordo in merito. 
   Questa potrebbe essere dunque una fase di discussione preliminare, premessa alla stesura di un nuovo capitolo delle relazioni Ankara-Tel Aviv, in grado di riportare il sereno dopo anni di raffreddamento.

• Origini e sviluppi delle relazioni bilaterali israelo-turche
  Le relazioni bilaterali tra Israele e Turchia sono state formalizzate nel 1949, quando a seguito della nascita dello stato di Israele, la Turchia – in veste di primo stato a maggioranza musulmana a farlo-, ha riconosciuto l’esistenza di Israele. La prima missione diplomatica turca a Tel Aviv era già aperta nel 1950.
   Benché vi siano stati numerosi ups and downs e declassamenti durante i decenni, fin da principio si è trattato di una cooperazione solida e proficua che non è mai scivolata nell’effettiva rottura tra i due paesi. Alcuni eventi che nel corso del ‘900 hanno scosso il rapporto sono stati per esempio la crisi di Suez del 1956 e l’annessione di Gerusalemme Est da parte di Israele nel 1980. 
   L’alleanza con la Turchia ha fatto parte per anni per Israele della cosiddetta “Dottrina della periferia”, ovvero la strategia di politica estera che prevedeva lo sviluppo di alleanze strategiche con stati musulmani non arabi del Medio Oriente, al fine di contrastare l’opposizione araba inizialmente molto unita intorno alla questione palestinese. 
   Gli anni ’90 possono essere considerati gli anni d’oro, il commercio e il turismo, così come lo scambio di tecnologie rappresentavano terreno vantaggioso; favorevoli si erano dimostrate persino le pressioni militari e istituzionali domestiche in entrambi gli stati. Al contempo si trattava di anni in cui una fine al conflitto israelo-palestinese era parsa più vicina e le speranze nei confronti della cosiddetta “Soluzione dei due stati” erano ancora vive.
   Dossier che ha costituito a lungo terreno di cooperazione è stato quello iraniano. La minaccia della Teheran post-rivoluzione e le preoccupazioni concernenti l’instabilità regionale in Medio Oriente hanno unito saldamente fino ai primi anni 2000 i due governi, che hanno in quello stesso periodo tuttavia, iniziato a scontrarsi su altri fronti.
   Un primo deterioramento è avvenuto con la guerra a Gaza nel 2008 e un secondo quando Erdogan ha cercato un ruolo nel conflitto israelo-palestinese accusando pesantemente e pubblicamente Israele al WEF di Davos nel 2009 per le sue azioni contro i palestinesi.
   Tra i motivi di deterioramento vi sono state anche le critiche mosse negli anni da Tel Aviv nei confronti della Fratellanza Musulmana e più di recente i disaccordi emersi rispetto ad argomenti come: la questione curda, la guerra in Nagorno-Karabakh, le diatribe concernenti il gas nel Mediterraneo orientale, o ancora il riconoscimento USA di Gerusalemme capitale, gli Accordi di Abramo e il supporto turco ad Hamas.
   Nel mezzo di queste numerose questioni, il congelamento delle relazioni bilaterali effettivo si è avuto nel 2011, anno in cui Israele ha visto il suo ultimo ambasciatore in Turchia e Ankara ha richiamato il proprio inviato da Tel Aviv. A fare montare la tensione e produrre il declassamento dei legami diplomatici tra i due paesi fu ufficialmente l’incidente alla nave “Mavi Marmara” o “Freedom Flotilla” (battente bandiera turca) a largo di Gaza.
   La visita di Herzog dei giorni scorsi si inserisce dunque in questo contesto di stallo, interrotto da un breve tentativo fallito di ristabilire i legami diplomatici e ritrovare la normalizzazione nel 2016.

• Interessi in comune e attrattività del disgelo
  Secondo quanto trapelato a seguito dell’incontro tra Erdogan e Herzog, oltre a porre le basi per l’inizio di un processo di riavvicinamento, sono stati discussi numerosi altri punti, tra cui la cooperazione energetica, la sicurezza regionale e internazionale e gli interessi economico-commerciali.
   In termini di benefici e attrattività, un revival dei legami mai interrotti ma solo “messi in pausa” interessa entrambe le parti. Sia il governo israeliano che quello turco sanno di poter beneficiare considerevolmente dal potenziale riavvicinamento e cercano di portare l’opinione pubblica dalla loro parte.
   Inoltre, come è parso chiaro nelle ultime settimane, sia Israele che Turchia si trovano ad occupare una posizione complessa nei confronti della guerra in Ucraina. Entrambi i paesi si sono proposti per, e hanno iniziato nel caso della Turchia, la mediazione, avendo bene in mente che la loro amicizia con Putin contrasta fortemente con le loro attitudini ideologiche e militari.
   Per analizzare gli interessi nella normalizzazione dei legami diplomatici, nonché i potenziali sviluppi e progressi in questo senso dobbiamo considerare tre dimensioni ugualmente fondamentali: interna, regionale e internazionale.

• La dimensione interna
   Sul fronte interno turco, il presidente Erdogan, conscio delle riserve anti-israeliane del suo popolo e del peso dell’opinione pubblica, ha cercato negli ultimi mesi di mitigare senza grande successo le pressioni pro-palestinesi. Nonostante l’attitudine autoritaria del presidente, il parere dei cittadini e la solidarietà nei confronti della Palestina non sono qualcosa che può essere semplicemente messo da parte o ignorato. Per lo stesso Erdogan la questione palestinese ha costituito per anni una battaglia prioritaria, un cambio di rotta repentino non sarebbe facilmente accettato.
   Un peso ancora maggiore nel contesto turco è indubbiamente ricoperto dall’attuale crisi economica e dalla mancanza di investimenti stranieri, che fa preponderare il governo di Ankara verso un avvicinamento ad attori come gli Emirati Arabi Uniti, l’Egitto e ovviamente Israele.
   Nelle speranze di Erdogan, come di Herzog, vi è quella di incrementare il commercio bilaterale entro l’anno. La visita di una delegazione turca composta da oltre 100 uomini d’affari a Tel Aviv di pochi giorni fa lo dimostra.
   Infine, la Turchia sta cercando di costruire una politica estera più coerente e salda, basata su scelte pragmatiche che gli permettano di sentirsi meno isolata nel contesto regionale, così come internazionale. Il vacuum che in questo senso ha caratterizzato le scelte del governo turco guidato dalle pressioni militari deve essere ora colmato da scelte meno ideologiche e più utilitaristiche, nonché pragmatiche. 
   Sul fronte israeliano, nonostante anche qui si debba fare i conti con delle pressioni interne provenienti soprattutto da parte dei gruppi religiosi, una possibile normalizzazione con la Turchia non è demonizzata.  Sulla scia degli Accordi di Abramo il paese spera in un risvolto diplomatico positivo ulteriore e si affida ora alla figura di Naftali Bennet, ben diversa dal suo predecessore.
   Bennet, pur senza illudersi in termini di fiducia rispetto alla Turchia di Erdogan, ha puntato molto sulla sua strategia di politica estera per conquistare una percezione più bonaria di Israele nella regione. 
   Gli sforzi verso la Turchia, con cui il rapporto di fiducia è leso da anni ne sono la dimostrazione. Allo stesso modo catturare un po’ di fiducia da parte dei suoi stessi cittadini grazie a progressi diplomatici interessanti è un ulteriore incentivo.

• La dimensione regionale
  Molto importante sia per Ankara che per Tel Aviv è anche la dimensione regionale: entrambi gli attori temono l’Iran, hanno interessi in Siria, cercano partenariati commerciali ed energetici fruttuosi e vogliono intensamente porre fine al loro isolamento.
   Oltre all’interesse individuale, vi è una dimensione esterna fondamentale ulteriore. Nella regione mediorientale ci sono stati negli ultimi anni grossi progressi in termini di stabilità, nonché tentativi di riavvicinamento tra rivali.
   Una deescalation generale è attesa, nonché desiderata da molti. Sia Israele che Turchia osservano e si rendono partecipi di questa tendenza, che per esempio per lo Stato ebraico ha significato importanti nuovi successi diplomatici come gli Accordi di Abramo.

• La dimensione internazionale
  Anche nella dimensione internazionale l’isolamento turco ha un certo peso, così come lo hanno la guerra in Ucraina e l’equilibrio tra potenze. Il ruolo di mediatore che la Turchia sta avendo non potrà che influenzare la celerità con cui si procederà a un effettivo incremento della cooperazione.
   Sia Israele che Turchia devono mantenere un atteggiamento solo limitatamente scontroso nei confronti di Putin e valutare bene il peso delle loro alleanze strategiche. In aggiunta, il conflitto avrà un intenso impatto economico su entrambe le realtà e oramai ridurre la dipendenza dal gas russo sembra un imperativo per tutti.
   Proprio in proposito Erdogan ha parlato del possibile albore di una “nuova era” in cui Israele e Turchia collaborino al trasporto di gas naturale israeliano in Europa, rilanciando un’idea emersa molti anni fa poi naufragata.
   Un’altra questione spinosa da considerare è quella del Mediterraneo orientale e delle diatribe concernenti il gas naturale proveniente dalle acque a largo di Cipro. Israele ha già in passato evitato di migliorare i suoi legami con la Turchia per paura di danneggiare l’alleanza strategica raggiunta nello stesso periodo con Grecia e Cipro.
   Prima dell’incontro con Erdogan, Herzog si è premonito di visitare entrambi i paesi al fine di trasmettere un messaggio conciliante e assicurare che gli stretti legami con Israele sarebbero stati mantenuti.

• Conclusioni
  Non è facile cercare di prevedere se questa fase preliminare di contatto e scambio di visite porterà effettivamente alla normalizzazione delle relazioni bilaterali tra Israele e Turchia.
   Sebbene vi sia positività intorno alla storica visita e ci sia interesse da parte di entrambi i paesi verso la buona riuscita dei colloqui, permangono diverse perplessità e rimangono inconsiderati alcuni altrettanto importanti fattori.
   In primis si era già parlato anche l’anno scorso del possibile riavvicinamento e i tempi per l’organizzazione dell’incontro si sono dilatati parecchio. Per quanto sia chiaro che dopo anni di gelo non potrà cambiare tutto grazie ad una singola visita, si era già vociferato mesi fa di un possibile allontanamento di Hamas dalla Turchia al fine di avvicinare Israele che non è mai avvenuto.
   Oltre a queste promesse apparentemente ancora non mantenibili vi è il più generico supporto che il governo turco ha dimostrato negli anni nei confronti dell’organizzazione militante. Tra questo e le spinte domestiche propalestinesi sembra alquanto improbabile che Erdogan decida di mischiare completamente le carte ad un anno dalle nuove elezioni.
   Ultima ma non meno importante è la spesso trascurata questione dell’arrivo del Ramadan arabo e in particolare per la comunità palestinese. L’evento provoca puntualmente dissapori e, nei casi peggiori, scontri come quelli avvenuti lo scorso anno a Gerusalemme. Anche il buon passaggio del mese sacro islamico potrà dunque intervenire positivamente o negativamente sulla faccenda. 
   Per quanto utile per entrambi, il disgelo tra i due paesi sembra passare attraverso una strada ricca di ostacoli, che sia Tel Aviv che Ankara non riusciranno a superare probabilmente nel breve periodo. A medio termine è tutta un’altra cosa, il disgelo non solo è discusso, ma anche voluto da entrambi i governi.

   (IARI, 14 marzo 2022)

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L'ipotesi di Israele (ma ci sono ostacoli)

GERUSALEMME - Le guardie del corpo gli ordinano di seguire il soldato passo per passo. Al giornalista di Haaretz viene illustrato che ricalcare le orme è il modo più sicuro per evitare di saltare su una delle mine antiuomo nei corridoi che portano alla stanza di Zelensky. All'inviato del quotidiano di Tel Aviv il presidente spiega perché fin dall'inizio abbia incitato gli israeliani a condurre la mediazione tra lui e Putin: «Tra i fondatori di Israele c'erano molti ebrei ucraini che hanno portato in Medio Oriente la loro storia e il desiderio di costruire un grande Paese. Così ha senso che siate voi a provare». Lui stesso ebreo, spera che i colloqui possano avvenire proprio a Gerusalemme (i russi sembrano non escluderlo) e attraverso l'ambasciatore ucraino - scrive Walla - ha chiesto di poter intervenire via schermo dalle sale di Yad Vashem. Per ora Dani Dayan, presidente del memoriale dell'Olocausto, si è rifiutato perché teme che «l'evento diventi politico» e «vengano fatti paralleli tra l'invasione dell'Ucraina e la Shoah». Dayan ha tagliato i rapporti ( e il flusso di milioni in beneficenza) con Roman Abramovich, l'oligarca colpito dalle sanzioni internazionali.
   All'interno del governo israeliano il ruolo di poliziotto cattivo (per il despota Putin) è ricoperto da Yair Lapid, il ministro degli Esteri. Che dalla Romania ripete: «L'attacco russo è senza giustificazione». E spinge per accogliere un numero maggiore di ucraini anche non di origine ebraica: «Abbiamo il dovere morale». Pure gli Usa pretendono di più da Naftali Bennett, che tiene aperti i canali con Zelensky: hanno parlato dell’ipotesi Gerusalemme. Il tentativo di mediazione non è ritenuto sufficiente, soprattutto se accompagnato dalla necessità strategica di non irritare Putin e perdere il suo via libera alle incursioni contro le postazioni iraniane in Siria Washington vuole che il governo imponga le punizioni economiche agli oligarchi con doppia cittadinanza volati in Israele. «Non diventate l'ultimo paradiso protetto per i soldi sporchi che finanziano le guerre di Putin», avverte Victoria Nuland, sottosegretaria di Stato.

(Corriere della Sera, 14 marzo 2022)

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La guerra fra Russia e Ucraina vista da un esperto israeliano

Intervista a Zvi Magen, ex ambasciatore di Israele a Mosca e Kiev

di Ugo Volli

Molti si sono meravigliati del coinvolgimento di Israele in una possibile mediazione nella guerra fra Russia e Ucraina. Dopo due settimane di battaglie, il primo ministro israeliano Bennett è il solo politico occidentale ad aver incontrato di persona Putin e parlato ripetutamente con Zelenski. È dunque molto importante capire il punto di vista di Israele sugli sviluppi di questa vicenda. Shalom ne ha parlato con un esperto, l’ambasciatore Zvi Magen, che ha rappresentato Israele tanto a Kiev fra il 1993 e il 1997 che a Mosca, dove ha guidato l’ambasciata fra il 1998 e il 1999. Magen ha anche lavorato nel servizio segreto militare e ha presieduto il centro interdisciplinare di Hertzliah. Oggi fa parte dell’Istituto per gli Studi sulla Sicurezza nazionale dell’Università di Tel Aviv. Insomma si può dire che esprima il punto di vista della comunità di intelligence israeliana.

- Ambasciatore, come valuta l’invasione russa dell’Ucraina?
  “Bisogna partire dal fatto che, dal punto di vista di Putin, questa non è una guerra della Russia all’Ucraina, ma alla Nato. L’Ucraina è naturalmente la vittima dell’invasione, ma il nemico contro cui si batte Putin è la Nato. Conquistare l’Ucraina o ridurla in uno stato di sottomissione per lui ha senso soprattutto per bloccare la Nato e diminuire la sua influenza e possibilità di azione”.

- Sì, ma poi la guerra si fa sul territorio ucraino, contro le forze dell’Ucraina.
  “Il punto è proprio questo: gli sviluppi sul terreno ucraino sono la ragione della difficile posizione di Putin in questo momento. Il suo scopo era chiaramente di conquistare la capitale e di cambiare il governo in fretta, mettendo la Nato di fronte al fatto compiuto di un rovesciamento della situazione strategica in Europa orientale. Ciò non è accaduto. Le truppe russe sono ancora bloccate sulle città di confine. Sono avanzate, ma molto lentamente e a prezzo di dure perdite. Ciò ha fatto sostanzialmente fallire il piano di Putin”.

- Sembra che però la Russia prosegua la sua azione.
  “Sì, l’invasione prosegue; ma bisogna tener conto che Putin è sotto forte pressione. Vi sono almeno tre fronti. Uno è quello militare vero e proprio, con la resistenza ucraina che Putin evidentemente non si aspettava. Un secondo è la pressione internazionale, le sanzioni, che colpiscono molto pesantemente l’economia russa. Il terzo fronte è quello interno alla Russia e soprattutto alle sue élites. Non solo vi sono state proteste di piazza del tutto inconsuete in una situazione come questa. Anche gli oligarchi, i detentori del potere finanziario, si sono visti personalmente colpiti e fanno pressione perché la guerra finisca e si ristabilisca la normalità economica. Vi sono anche tensioni all’interno dei gruppi più vicini a Putin, per esempio fra i servizi segreti, che a quanto pare non erano favorevoli alla guerra e il vertice delle forze armate, che non riesce a ottenere i successi previsti. Subito prima della guerra Putin ha ricevuto anche una lettera di alcuni alti ufficiali che si dicevano contrari all’invasione. Insomma l’opposizione c’è e Putin non può andare avanti a lungo in questa situazione”.

- E dunque, di fronte a questa situazione bloccata, in cui le truppe russe non riescono a ottenere progressi decisivi, che cosa accadrà? Alcuni in Europa temono la possibilità di una guerra nucleare. 
  “Le armi atomiche in genere non servono per essere usate ma per esercitare pressione su nemici e opinione pubblica. Non c’è dubbio che Putin abbia usato questa minaccia, ordinando pubblicamente l’allarme delle forze nucleari. Ma questo non vuol dire che intenda usarle davvero. Mi sembra un’ipotesi non realistica”.

- Qual è la prospettiva attuale, dunque?
  “Il fatto fondamentale è che siano partiti i negoziati. Non solo si è avuto un primo incontro, ma poi ce ne sono stati altri due a livello piuttosto alto. E ora si prospetta una trattativa diretta fra i due ministri degli esteri. Certamente le posizioni delle due parti sono molto dure e ultimative, ma in un negoziato fra stati in guerra succede sempre così. Il fatto è che è in corso un processo negoziale e che c’è la volontà di proseguirlo. Bisogna pensare che entrambe le parti sono interessate a raggiungere un accordo”. 

- Lei è ottimista… 
  “No, sono realista. Vi sono forze che spingono in questa direzione. Anche se naturalmente in parallelo ai negoziati la Russia continua a bombardare, a uccidere. E anche se la Nato vuole che la Russia sia danneggiata abbastanza da questa avventura da non avere l’intenzione di riprovarci”.

- In questo quadro, qual è l’importanza della mediazione di Bennett?
  “Putin non ha scelto Bennett ma Israele, il solo stato democratico con cui può avere un rapporto non antagonistico. La ragione non sta nelle delle capacità personali di mediazione di Bennett. Putin ha scelto Israele perché è l’interlocutore che gli si addice di più in questo momento. Israele è l'unico stato democratico occidentale che non si è esposto, mantenendo relazioni con tutt’e due le parti e che quindi può fare da tramite nella trattativa, riportare credibilmente le sue posizioni a Zelenski e viceversa. Ciò è certamente molto utile, in questa fase”

- Questa mediazione o funzione di comunicazione di Israele potrà avere effetti positivi sulla trattativa  sul nucleare iraniano, che è il tema più importante oggi per Israele? 
  “Sono due questioni del tutto distinte. Israele non fa parte dei negoziati di Vienna, dove sia gli Usa che la Russia puntano a ristabilire un accordo con l’Iran, e ha espresso più volte le sue esigenze di sicurezza. Per il momento non vi è alcuna connessione fra le due trattative, sono completamente separate”.

(Shalom, 14 marzo 2022)

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Così il Covid ha cambiato l’innovazione in Israele. Risponde Dror Bin

Intervista con Dror Bin, amministratore delegato dell’Autorità per l’innovazione di Israele, che spiega come l’ecosistema dell’innovazione nel Paese ha saputo reinventarsi per soddisfare le esigenze presentate dalla nuova realtà globale segnata dal Covid.

di Gabriele Carrer

La pandemia ha incoraggiato l’innovazione in molti Paesi diversi. Come ha reagito Israele, che ha l’innovazione nel suo Dna? Ne parliamo con Dror Bin, amministratore delegato dell’Autorità per l’innovazione di Israele.

- Quali settori ne sono stati maggiormente interessati da questo fenomeno in Israele?
  Negli ultimi due anni, dopo lo scoppio della pandemia, l’ecosistema israeliano dell’innovazione ha dovuto ripensare il corso del suo funzionamento e fare gli aggiustamenti necessari per soddisfare le mutate richieste e circostanze di questa nuova realtà. Di fronte a questa avversità, l’high-tech israeliano ha dimostrato qualità come l’agilità, l’approccio multidisciplinare e il pensiero fuori dagli schemi, permettendo a molte aziende high-tech e startup di adattare le loro tecnologie, sviluppi e prodotti per soddisfare le esigenze presentate dalla nuova realtà globale.
   L’industria high-tech israeliana sarà il motore dell’uscita di Israele dalla crisi. Ciò è dovuto alla debolezza dell’economia ereditata con la sua uscita (ammaccata) dalla crisi pandemica e al consolidamento di diverse tendenze significative dell’high-tech e dell’economia che stanno attualmente convergendo e che saranno dominanti nel corso del prossimo decennio.

- Quali?
  La domanda globale di tecnologia porterà a una continua domanda di prodotti e servizi high-tech israeliani, che attirerà investimenti nella tecnologia e nell’imprenditoria israeliana. L’accelerazione della digitalizzazione in seguito alla pandemia ridurrà il vantaggio esistente per i concorrenti, rafforzando così le capacità delle aziende israeliane e la loro presenza in Israele, con un aumento del numero dei loro dipendenti. Il trend di crescita iniziato in Israele nell’ultimo decennio sarà accelerato, in parte a causa del fatto che la crescita delle aziende ha effetti estesi sull’ecosistema e sta creando un’infrastruttura di crescita di cui beneficeranno molte altre aziende. I cambiamenti strutturali nel mercato dei capitali e l’inizio di una strategia d’investimento nella tecnologia e nell’economia digitale accelereranno gli investimenti, specialmente nelle fasi di espansione (dove sono richiesti grandi capitali).

- Come è cambiata la ricerca sulle tecnologie sanitarie?
  L’Autorità guarda costantemente alle aree in cui Israele ha un vantaggio relativo e che presentano un potenziale di crescita e alti ritorni per l’economia. Tre anni fa, l’Autorità ha identificato la bioconvergenza come il possibile prossimo motore di crescita di Israele. Essa fonde le scienze della vita con diverse tecnologie della matematica, dell’ingegneria e delle scienze fisiche e computazionali. Abilitata dai progressi nella genomica, nella terapia genica, nel sequenziamento del Dna, nell’intelligenza artificiale, nei big data, nelle nanotecnologie e nella biologia sintetica, la bioconvergenza sta aprendo un percorso olistico verso innovazioni notevoli nel trattamento, nella terapia, nella scoperta e nella consegna, nella medicina rigenerativa, nella diagnostica e nelle attrezzature farmaceutiche e mediche. La pandemia ha solo rafforzato il ruolo essenziale di questa nuova area come avente il potenziale di portare nuovi e avanzati strumenti per affrontare la pandemia – da nuovi modi di previsione, diagnosi e rilevamento della pandemia attraverso la terapia avanzata, pharma e attrezzature mediche abilitate da bioconvergenza.

- Nel campo dei semiconduttori, vediamo molti Paesi, e anche l’Unione europea con il suo recente Chips Act, impegnati in una sorta di coordinamento statale per affrontare la crisi della produzione. È questa la strada giusta da seguire?
  La recente crisi globale dei semiconduttori è un evento che riguarda il settore commerciale. In questa fase, con i cui grandi segmenti del settore high-tech in Israele che sono basati sul software (cyber, fintech, eccetera) questa situazione non è attualmente molto problematica e non crea una situazione acuta che colpisce negativamente l’economia israeliana. Non è tale da richiedere un coinvolgimento del governo.

- Non c’è il rischio che tra 10 o 20 anni ci troveremo di fronte a un panorama industriale fortemente dipendente dalle sovvenzioni pubbliche? Quali ripercussioni potrebbe avere sulla cooperazione e l’innovazione?
  Per Israele, un Paese geograficamente piccolo, lontano dai grandi mercati globali e con poche risorse naturali, l’innovazione è diventata il bene nazionale più prezioso, cruciale per la prosperità economica. Come disse Shimon Peres, il nostro amato presidente, nel 2016: “In assenza di beni naturali, abbiamo trovato il bene più grande di tutti, il bene umano, che è molto più ricco di qualsiasi altro bene. Ci permetterà di trasformare il nostro paesaggio, da paludi e deserti in patria fiorente”. Per portare avanti il suo spirito imprenditoriale radicato, Israele ha stabilito un ecosistema unico di innovazione, dove il governo fornisce misure normative per rafforzare le infrastrutture per l’innovazione e spinge il settore privato a investire nell’innovazione attraverso vari incentivi. Il settore militare contribuisce un pool di personale qualificato con esperienza pertinente e il mondo accademico vanta alcune delle migliori istituzioni per l’istruzione e la ricerca scientifica in tutto il mondo.
   Il partenariato pubblico-privato unico di Israele permette ad entrambi i settori di raggiungere la prosperità che non avrebbero mai potuto ottenere separatamente. Autorità per l’innovazione di Israele, un ente pubblico indipendente, arricchisce l’innovazione del settore privato migliorando, non sostituendo, gli investimenti del settore privato. La vera innovazione viene con un alto rischio intrinseco e potenziali fallimenti del mercato. Investendo in quelle aree rischiose o nelle fasi iniziali che il capitale privato probabilmente non toccherebbe mai, le sovvenzioni condizionate dell’Autorità per l’innovazione di Israele assicurano che gli investitori del settore privato abbiano spazio per partecipare in modo da poter sostenere pienamente l’azienda quando si muove verso fasi meno rischiose. In questi casi, l’Autorità riceve le royalty dai progetti di successo e solo fino al livello di sovvenzione previsto, incoraggiando così l’invenzione di tecnologie dirompenti che verranno a rimodellare il nostro futuro.

- Nei mesi scorsi, Israele ha firmato un accordo con l’Unione europea per collaborare al programma di ricerca scientifica Orizzonte Europa. Quali sono le opportunità economiche e scientifiche?
  Il programma quadro dell’Unione europea permette ai partecipanti israeliani di prendere parte al più grande programma di ricerca e innovazione del mondo e di godere della collaborazione in una vasta area di settori come tecnologie quantistiche, spazio, scienze della vita, clima industriale e molti altri. Questa collaborazione è sostanziale sia per gli istituti di ricerca accademici che per le aziende in Europa e in Israele. I partecipanti israeliani ottengono l’accesso all’infrastruttura di ricerca allo stato dell’arte, la collaborazione con l’istituzione leader, l’accesso al mercato eccetera. Quelli europei hanno accesso all’innovazione e all’eccellenza scientifica israeliana, al mercato, al know-how e altro ancora. Questo partenariato va avanti da 25 anni e porta un grande valore a entrambe le parti.

- Sempre più aziende israeliane si trasformano in “unicorni”. È finita per Israele la fase della “Start Up Nation”, è iniziata quella della “Scale Up Nation”?
  L’high-tech israeliano ha continuato a battere record di investimenti anche durante la crisi Covid-19. Parallelamente alla maturazione dell’industria, il numero di nuove startup sta diminuendo bruscamente, il numero di seed round è stagnante, e il budget dell’Autorità per l’Innovazione è stato eroso. Quando si cerca di discernere le varie ragioni per il tasso di declino delle nuove startup israeliane, è importante notare che il declino del numero di nuove aziende che vengono create ha preceduto il declino del numero di aziende che hanno chiuso e il minor numero di investitori. Di conseguenza, vale la pena esaminare anche l’attività imprenditoriale.
   Negli ultimi anni sono aumentati anche gli investimenti in startup più mature e in fase avanzata. Stiamo iniziando ad assistere alla crescita degli unicorni israeliani. Queste startup sono il prodotto di aziende esistenti che hanno ormai raggiunto la maturazione. Sebbene sia un fenomeno gradito, la maturazione del settore solleva la questione se il calo del tasso di nuove aziende israeliane stia causando l’inizio di un problema di “imbuto”: il numero di nuove startup in crescita e in sviluppo in Israele è sufficiente a sostenere gli attuali livelli di attività imprenditoriale e tecnologica del Paese?

- Che risposta si dà?
  Considerando l’importanza del settore high-tech per l’economia israeliana, un forte calo nel numero di nuove startup è un rischio troppo grande. Alla luce del cambiamento nel mix di aziende del settore high-tech, l’Autorità sta attualmente esaminando quali strumenti di supporto e quali cambiamenti politici sono necessari, sia all’Autorità in particolare che nei dipartimenti governativi in generale, per assicurare che Israele continui ad essere sia una nazione di startup che di aziende in crescita.

(Formiche.net, 13 marzo 2022)

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Comunicato Edipi: Dipartita del Presidente Ivan Basana


Carissimi, il nostro amato presidente Ivan Basana si è addormentato con il Signore ieri pomeriggio. E’ superfluo dire quando ci mancherà e il vuoto che lascia, ma possiamo fare buon tesoro dei suoi insegnamenti, soprattutto impegnarci a  continuare il suo lavoro per Israele, sostegno ai fratelli Messianici in Eretz Israel e gli insegnamenti alle chiese su quanto riguarda la comprensione della Chiesa nel piano che Dio ha per Israele.
Il funerale si svolgerà alle 11:00 di venerdi’ 18 marzo 2022 presso la Sala del Commiato del Cimitero Maggiore di Padova con seguente seppellimento in terra. Solo in caso di mal tempo, capienza massima max 40 persone
Molti hanno chiesto se era opportuno mandare i fiori o altro, la famiglia Basana preferisce invece dei fiori, per chi lo desiderasse inviare una donazione a:
La Fionda di Davide, un’organizzazione di volontariato, senza fini di lucro, per la tutela dei bambini fin dalla loro prima adolescenza, realizzando attività favorevoli al loro benessere fisico, mentale e spirituale, associazione molto cara e sostenuta da Ivan Basana
Di seguito le info per donazione

BANCA UNICREDIT 
Associazione La Fionda di Davide
c/c  400315208
IBAN  IT 66 T 02008 39331 000400315208
POSTA
C/C 92102003
IBAN IT 17 P076 0103 2000 0009 2102 003
Per il servizio Paypal clicca qui
Servizio Gofound  leggi qui https://gofund.me/9667cca1

(Edipi, 14 marzo 2022)

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Israele: lo scandalo dei Gentili

Questo articolo è stato scritto più di trent'anni fa, all'inizio della guerra del golfo. Erano anche allora tempi critici. Come viene detto nell'articolo, "quando i fatti veramente critici della vita e della storia bussano alle nostre porte, se siamo cristiani dobbiamo smettere di parlare con gli uomini e rimetterci ad ascoltare Dio".

di Marcello Cicchese

"Il giorno del giudizio": così titolava in prima pagina un grande quotidiano nazionale il 16 gennaio 1991, il primo giorno dopo la scadenza dell'ultimatum dell'ONU a Saddam. E il giorno dopo, quando l'attacco americano era ormai cominciato, il titolo era: "L'inferno su Bagdad". Un immaginoso linguaggio biblico dunque: dopo il giudizio, l'inferno. In realtà, il giorno del giudizio e l'inferno saranno ben più terribili; ma è vero che certi fatti sono destinati ad assumere un valore inquietantemente parabolico, a costituire una forma di avvertimento per tutti. Forse Gesù potrebbe dirci: "Pensate che gli Iracheni siano più peccatori di tutti gli altri? No, vi dico; ma se non vi ravvedete, tutti similmente perirete".
   A parte le colorite e paraboliche espressioni giornalistiche, e pur non sapendo ancora che cosa sarà accaduto nel mondo quando queste righe saranno lette, non si può negare che gli avvenimenti politici internazionali hanno subito negli ultimi mesi un'accelerazione e un cambiamento di qualità che ha spiazzato molti commentatori "laici". Dopo essere venuti a mancare i consueti punti di riferimento della contrapposizione est-ovest, anche i ragionamenti e le previsioni basate su razionali considerazioni di interessi e rapporti di forza mostrano la loro scarsa aderenza ad una realtà che appare sempre più sfuggente, più irrazionale. Il linguaggio dei politici diventa sempre più religioso; i riferimenti a Dio o agli oroscopi si fanno sempre più frequenti. Forse gli uomini diventano più consapevoli del fatto che i destini fondamentali dell'umanità intera e di ogni singola persona non sono così saldamente nelle loro mani. Come cristiani potremmo rallegrarci di questa recuperata consapevolezza dei limiti umani, se non sapessimo che quando l'uomo è deluso nelle sue presuntuose aspettative, diventa facile preda di torbide e morbose speranze soprannaturali. E' quello che sta avvenendo, e che, forse, continuerà ad avvenire in futuro in misura sempre maggiore.
   Ma come cristiani dobbiamo ricordare a noi stessi e agli altri che Dio, e non altri, è il limite dell'uomo; Dio, e non altri, è l'unica, vera speranza dell'uomo, come singolo e come collettività. E non un dio qualsiasi, ma il Dio che ci viene presentato dalla Bibbia, "l'Iddio di Abrahamo, di Isacco e di Giacobbe", "il Padre del nostro Signor Gesù Cristo".
   Questo è vero anche per i fatti politici internazionali. Lo sapevamo, ma forse ce l'eravamo un po' dimenticato. Alcuni di noi hanno pensato che fosse sufficiente maneggiare concetti generali come pace, giustizia e libertà per contribuire positivamente al miglioramento delle relazioni fra gli uomini e fra le nazioni. Su questa base, è chiaro, si possono trovare molti ben intenzionati compagni di strada; ma alla fine, quando i fatti veramente critici della vita e della storia bussano alle nostre porte, se siamo cristiani dobbiamo smettere di parlare con gli uomini e rimetterci ad ascoltare Dio. Perché Dio non ci ha lasciato in appalto i concetti di pace, giustizia e libertà perché ci costruissimo sopra, in splendida autonomia, le nostre torri di Babele: Dio resta il sovrano degli uomini e delle nazioni; e, staccati da Lui, i nostri più nobili concetti diventano ben presto idoli ghignanti.

• Lo scandalo di Israele
  Un elemento indicativo del modo di intendere il rapporto fede-politica sta nell'atteggiamento che assumiamo nei confronti del popolo e della nazione di Israele. Davanti alla questione di Israele si verifica quale posto occupa la rivelazione biblica nei nostri generali e "naturali" concetti di pace, giustizia e libertà.
   Si può assumere una posizione ostile a Israele per motivi religiosi, rispolverando la concezione del "popolo deicida", tradizionalmente cattolica ma non priva di adesioni negli ambienti protestanti "storici" del passato. E' una concezione ormai abbandonata, anche se non si sa bene se per motivi biblici di fondo o per una generica inadeguatezza ai costumi della nostra epoca.
   Molto più diffusa, anche perché più presentabile nell'odierna società occidentale, è una posizione di benevola indifferenza: Israele è stato, prima di Gesù, il popolo di Dio, ma ormai ha esaurito il suo compito, che è stato assunto dalla chiesa cristiana nelle sue forme istituzionali variamente intese. La conseguenza è che Israele, adesso, è una nazione come tutte le altre, che non merita particolari attenzioni, né positive né negative.
   E' una posizione che ha la caratteristica di essere comune, almeno nelle sue conseguenze pratiche, a cristiani e a laici. E per essere più precisi: a esponenti particolarmente tolleranti e aperti delle due categorie. Anche molti ebrei "liberals" sarebbero ben contenti di vedere diffondersi questa concezione, stanchi come sono di sopportare il peso della nomina di "popolo eletto", sempre esposta a trasformarsi rapidamente in quella di "popolo maledetto". Con questa concezione si possono applicare a Israele i generali concetti di pace, giustizia e libertà, e restare convinti che di più e di meglio non si può fare.
   Ma le cose non stanno così. Israele è e resta un popolo diverso. E questa diversità dà un enorme fastidio a un gran numero di persone, probabilmente anche a molti Israeliti.

• La "parentesi ebraica" della lettera ai Romani
  Se si legge attentamente la lettera di Paolo ai Romani, ci si accorgerà che i famosi tre capitoli 9, 10 e 11 in cui si parla del problema di Israele non sono affatto un inciso, una parentesi storica all'interno di un trattato di teologia sistematica. Al contrario, sono il culmine di una trattazione che ha per oggetto il piano di salvezza di Dio nella storia e quindi non può in alcun modo sfuggire alla domanda più naturale che si poteva porre un ebreo che predicava Gesù come Messia: come si armonizza questa salvezza che viene dai Giudei con il rifiuto di Gesù del popolo giudeo?
   Forse la nostra lettura dell'epistola ai Romani è condizionata dalla polemica di Lutero con la chiesa cattolica. Lutero, in contrasto con l'insegnamento tradizionale della chiesa, "scoprì" che l'uomo è salvato per grazia e non per opere. Lo insegnò con passione e coerenza, e ne subì le conseguenze che sappiamo. Ma la domanda a cui risponde il monaco agostiniano Lutero non è la stessa a cui risponde l'ebreo fariseo Paolo. Lutero risponde, sulla base del Nuovo Testamento, alla domanda angosciosa dell'uomo medioevale: come posso andare in cielo? Paolo invece risponde, sulla base del Vecchio Testamento e con l'illuminazione dello Spirito Santo, alla domanda: qual è l'opera di salvezza che Dio sta compiendo sulla terra? Chi vuol rispondere a questa domanda, soprattutto se è un ebreo convertito, s'imbatte inevitabilmente nel problema di Israele. Dall'inizio (1:16) alla fine (15:7-12) Paolo ha presente e intende spiegare il posto riservato a Giudei e Gentili nell'opera di salvezza di Dio. Anche il contrasto che presenta tra le opere e la fede non assomiglia a quello relativamente moderno tra le opere religiose del cattolico devoto e la fede personale del protestante giustificato per grazia: il contrasto è tra le opere della legge mosaica, di cui il depositario è il popolo d'Israele, e Cristo, che è "il termine della legge, per essere giustizia ad ognuno che crede" (10:4). La contrapposizione non è tra cattolici e protestanti, ma tra i Giudei che non hanno conseguito la giustizia perché l'hanno cercata attraverso la legge, e i Gentili che invece l'hanno conseguita perché l'hanno cercata attraverso la fede in Cristo (9:30-33).
   Ecco allora la domanda: "Dio ha dunque reietto il suo popolo?" (11:1). Se i Giudei hanno rifiutato il Messia, non sarà naturale pensare che Dio ha rifiutato il suo popolo. Conosciamo la risposta di Paolo: "Così non sia". E in questo contesto espone un "mistero", cioè il fatto che "un indurimento parziale s'è prodotto in Israele, finché sia entrata la pienezza dei Gentili; e così tutto Israele sarà salvato" (11:25-26).
   Senza scendere in questa sede in particolari esegetici, e senza sentire il bisogno di prendere posizione sul modo preciso e sulla successione temporale in cui dovrebbero svolgersi gli avvenimenti della fine riguardanti Israele, chi scrive ritiene, sulla base della Bibbia e insieme a molti altri cristiani del presente e del passato, che la funzione del popolo di Israele nella storia della salvezza non sia terminata con la distruzione del tempio di Gerusalemme. Dio, che "ha rinchiuso tutti nella disubbidienza per far misericordia a tutti" (11:32), dopo aver fatto misericordia ai Gentili che sono stati disubbidienti quando erano senza legge, farà misericordia ai Giudei che sono stati disubbidienti quando, per la loro legge, hanno rifiutato il Cristo che era "il termine della legge". Dio vuole che "tutto Israele", cioè Israele come un tutto, come nazione, sia salvato, cioè riconosca la grazia e la misericordia che si è manifestata nella "radice di Isai" (Isaia 11:10), nel Messia annunciato dai profeti del Vecchio Testamento e apparso nella persona di Gesù di Nazaret.
   Dio vuole inoltre che le "nazioni" riconoscano che "la salvezza viene dai Giudei", e quindi che siano costrette a riconoscere la sovranità di Dio, il quale per compiere la sua opera di salvezza universale ha scelto un popolo "secondo il suo proponimento", cioè senza dover rendere conto a nessuno dei motivi della sua scelta. A loro, agli Israeliti, "appartengono l'adozione e la gloria e i patti e la legislazione e il culto e le promesse; dei quali sono i padri e dai quali è venuto, secondo la carne, il Cristo, che è sopra tutte le cose Dio benedetto in eterno. Amen" (9:4-5).

• Le conseguenze per noi
  Se le cose stanno così, il popolo di Israele è il luogo in cui la sovranità di Dio su tutti gli uomini si manifesta in forma politica. Anche se siamo abituati a parlare di "nazioni sovrane" e di "diritto internazionale", verrà il momento in cui gli uomini dovranno riconoscere che Dio è l'unico sovrano e Dio è l'autentica fonte del diritto. Questo si vedrà chiaramente nel giorno del giudizio; ma fin d'ora Dio vuole esprimere la sua regia della storia universale facendoci sapere come vuole guidare un popolo particolare: il popolo d'Israele, il suo popolo.
   Naturalmente, Dio sovraintende ai destini di tutti i popoli, ma su di loro non ci ha lasciato rivelazioni specifiche. Può essere comprensibile allora che, per giudicare la condotta delle nazioni, ci serviamo di concetti generali come pace, giustizia e libertà, così come riusciamo a concepirli. Ma nel caso del popolo d'Israele ci troviamo di fronte a un intoppo: quando valutiamo la condotta del popolo che Dio ha scelto siamo costretti a chiederci se i nostri concetti di pace, giustizia e libertà sono ben intonati sul diapason della sovrana volontà di Dio. Nella valutazione politica di Israele siamo spodestati della nostra pretesa autonomia di giudizio e siamo costretti a ricercare il giudizio di Dio. E se Cristo è stato un intoppo per Israele, Israele è un intoppo per i Gentili.
   E' per volontà di Dio che, proprio dopo un diabolico tentativo di sterminio, gli Ebrei hanno ottenuto che si formasse lo Stato d'Israele. E' per volontà di Dio che molti Ebrei si sentono spinti da alcuni decenni a ritornare sulla loro terra. Sì, la loro terra, perché al di là di ogni diritto internazionale noi cristiani dobbiamo dire che quella è la loro terra, perché Dio, a cui "appartiene la terra", l'ha data a loro e non ci ha mai comunicato di aver trasferito quella terra ad altri. Gli Ebrei ne sono stati cacciati fuori per un certo tempo, ma è stato Dio a farlo, non i Romani; ed è Dio che li ricondurrà in quella terra, senza che nessuno potrà impedirlo, per portare a compimento i piani di misericordia e di giustizia che Egli ha predisposto. Giudei e Gentili dovranno riconoscere, da posizioni diverse, che c'è un solo Dio che dirige la storia: "Io sono l'Eterno, che esercita la benignità, il diritto e la giustizia sulla terra" (Geremia 9:24).
   Tutto questo vuol forse dire che gli Israeliti sono particolarmente "buoni", che le loro azioni sono sempre "giuste" e vanno sempre prese come espressione della natura morale di Dio? Sono domande che dal pagano ci si può aspettare, ma non da chi ha familiarità con la Bibbia. Assomigliano molto alle obiezioni che l'uomo di buon senso solleva quando nel Nuovo Testamento si legge che "le autorità sono da Dio".
   Per portare avanti i suoi piani, Dio sceglie degli uomini e delle nazioni. Naturalmente noi vorremmo che ci presentasse la giustificazione, che si sottoponesse alle nostre obiezioni, che ci persuadesse dei buoni motivi che l'hanno portato a quella scelta. Per il fatto stesso che avanziamo questa pretesa, non succede quasi mai che Dio ci convinca. Allora solleviamo obiezioni e cavilli con i quali cerchiamo di trasportare Dio sul banco degli imputati. Ma a chi si lagna dell'imperscrutabilità delle scelte di Dio, Paolo risponde:

    "Piuttosto, o uomo, chi sei tu che replichi a Dio? La cosa formata dirà essa a colui che la formò: Perché facesti così?" (Romani 9:19).

Stranamente, proprio i calvinisti, che fanno di questo passo un fondamentale sostegno alla perniciosa dottrina della predestinazione alla salvezza e alla perdizione, in nome di una proclamata sovranità di Dio, trascurano di sottolineare che l'argomento specifico di questo passo è il popolo di Israele, e che in esso si deve riconoscere, storicamente, la sovranità di Dio che sceglie senza che nessuno possa dirgli: che fai? E proprio negli ambienti calvinisti la considerazione del posto che dovrà occupare Israele negli avvenimenti della fine è stata sempre negletta e incompresa.
   Dio ha scelto il popolo d'Israele per portare, attraverso Gesù Cristo, la salvezza a tutti coloro che credono in Lui. Dopo l'"indurimento parziale" del popolo eletto, che il Signore ha trasformato in un canale di benedizione per i pagani, Dio porterà a compimento il suo progetto di "riammissione" (Romani 11:15) di Israele, e lo farà usando anche i peccati e le ingiustizie degli uomini, ivi comprese quelle del suo popolo. E' dunque una pericolosa presunzione anche il voler difendere per partito preso le singole azioni del popolo di Israele come se, essendo il popolo scelto da Dio, non potesse che fare azioni giuste e buone. In questo modo si corre il rischio di scontrarsi con Dio stesso, il quale giudicherà i peccati del suo popolo, lo chiamerà a renderne conto, e lo inviterà al ravvedimento e alla fede in Gesù Cristo.
   Ma se dobbiamo stare attenti a non assumere il ruolo di avvocati di Dio mettendoci a difendere anche quello che forse Dio stesso condanna, tanto più dobbiamo stare attenti a non assumere il ruolo di nemici di Dio, giudicando e trattando il popolo che Egli ha scelto come se non l'avesse scelto. Quando siamo tentati di applicare al popolo di Israele i nostri consueti parametri di giustizia, dobbiamo renderci conto che, davanti a quel Dio che ha scelto quel popolo, noi non sappiamo neanche da che parte stia la giustizia. La giustizia che invochiamo per giudicare quello che Dio permette si rivolterà contro di noi, perché si vedrà che gli ingiusti e i peccatori siamo noi, non solo in tanti aspetti della nostra vita normale che neppure immaginiamo, ma anche e proprio nella proclamazione di una nostra visione della giustizia che non sa tener conto della giustizia di Dio. Quando ci sentiamo spinti a parlare di giustizia davanti a fatti condotti da Dio di cui non capiamo nulla, meglio sarebbe che facessimo come Giobbe, che rispondendo a Dio disse:

    " Ecco, io sono troppo meschino; che ti risponderei? Io mi metto la mano sulla bocca" (Giobbe 40:4).

Come si fa a dire queste cose, non dico ad un antisemita o a un nemico dichiarato del popolo d'Israele, ma anche a un equilibrato benpensante che vuole rispettare i diritti di tutti, anche del popolo d'Israele? Dove troveremo i ben intenzionati compagni di strada che, pur essendo increduli, si trovano d'accordo con noi cristiani? Non è possibile. Israele è sempre stato e resta tuttora uno spartiacque, uno scomodo ingombro su tutti i piani, teorico e pratico: un ingombro che ha una sola ragione profonda: il fastidio che l'uomo ha di Dio. Del resto, il Signore l'aveva detto a Israele, attraverso il profeta Zaccaria:

    "Chi tocca voi, tocca la pupilla dell'occhio mio" (Zaccaria 2:8).

E quando uno ha un nemico, non c'è tentazione più grande di quella di mirargli agli occhi...
   Può darsi che questo fastidio di Dio, che nella storia passata si è espresso in periodiche forme di persecuzione contro gli Ebrei, faccia mettere presto d'accordo le nazioni contro lo Stato d'Israele, naturalmente in nome di una superiore giustizia che gli uomini si illudono di avere. Può anche darsi che questo non avvenga subito, ma sarà bene che i cristiani si preparino. E' già significativo il fatto che oggi intere popolazioni invochino a gran voce lo sterminio di Israele senza provocare orrore e sdegno come in un recente passato. Si direbbe quasi che alcuni lo considerino soltanto una colorita e un po' sconveniente espressione di animosità. Ed è anche significativo che dei capi di Stato possano mettere esplicitamente questo progetto nei loro programmi, provocando in alcuni commentatori soltanto acute analisi socio-economiche sui motivi che possono aver spinto questi governanti ad annunciare e perseguire tali progetti, per alcuni versi un po' discutibili.
   Un suono particolarmente lugubre hanno poi gli accorati appelli pacifistici di Giovanni Paolo II, sui quali anche una parte della sinistra politica italiana si è puntellata. Gli Ebrei diffidano istintivamente della chiesa cattolica romana, e hanno le loro ragioni: non è senza significato che lo Stato del Vaticano non abbia ancora riconosciuto lo Stato di Israele. La chiesa cattolica sostiene che, dopo la venuta di Gesù Cristo, Dio ha indicato un'istituzione visibile e un centro geografico intorno a cui ruota la sua opera di salvezza e di governo del mondo: l'istituzione è la chiesa cattolica e il centro geografico è Roma. Di questo però non c'è traccia nella Bibbia. La chiesa di Dio non ha bisogno di un centro geografico, perché si raduna nel nome di Gesù adorando il Padre" in spirito e verità" (Giovanni 4:24). Tuttavia, anche se non è necessario e non esiste un centro geografico che esprima l'unità della fede in Cristo, nella Bibbia c'è un solo nome di città che ha significato anche per i cristiani, che tornerà al centro dell'attenzione mondiale negli ultimi tempi, ed è usato addirittura per indicare la realtà eterna e gloriosa che Dio introdurrà dopo il ritorno di Gesù: Gerusalemme.

    "... e mi mostrò la santa città, Gerusalemme, che scendeva dal cielo d'appresso a Dio, avendo la gloria di Dio" (Apocalisse 21:10).

La scelta illegittima di un'altra "santa città" su questa terra, cioè Roma, porterà inevitabilmente al conflitto. Anche se di questo gli Ebrei increduli non sono ancora coscienti, la loro diffidenza verso l'istituzione religiosa romana è pienamente giustificata. Se Israele è uno scandalo per i Gentili, lo sarà tanto più per i Gentili religiosi.

• Qualche possibilità concreta
  Che si può fare, in concreto? Anzitutto, tacere. Almeno quando non si è sicuri di poter fare qualcosa di meglio. Non c'è bisogno di affannarsi a difendere tutto quello che fa lo Stato d'Israele; anzi, non è proprio il caso, se non si hanno più che valide e obiettive ragioni. Dobbiamo ben guardarci dal "sostenere la causa di Dio con parole di frode" (Giobbe 13:7). Ma dobbiamo ancor più evitare di partecipare a tutti quei "distinguo" con cui, alla fin fine, si arriva a parlar male del popolo di Israele, sempre, naturalmente, per superiori motivi di "giustizia". Il nostro compito è quello di dare gloria a Dio rispettando i piani che Egli sta compiendo per il suo popolo, anche quando non li capiamo, lasciando a Lui il diritto e il compito di castigarlo, correggerlo, salvarlo "di una salvezza eterna" (Isaia 45:17). Nei confronti di Israele i cristiani dovrebbero esercitarsi in quella pratica biblica che è il "rendere onore", il che significa, quanto meno, astenersi dal giudizio, sapendo che Dio lo ha riservato a Sé stesso.
   Possiamo poi manifestare simpatia e accoglienza per tutti gli Ebrei, che, con buone ragioni, si sentono minacciati ogni volta che la nazione d'Israele è in una situazione delicata. Dobbiamo farlo per motivi cristiani, e non genericamente umanitari. Sia ben chiaro che questa simpatia non implica l'odio per la parte avversa. Sempre per motivi cristiani, dobbiamo cercare di "vivere in pace con tutti gli uomini" (Romani 12:18). Ma l'accoglienza e la simpatia che sul piano personale dobbiamo dare a tutti, non sarà uguale per tutti: non si tratta di intensità, ma di qualità. La differenza non dipende dalle nostre valutazioni, dalle nostre scelte o dalle nostre simpatie: dipende dalla volontà di Dio, che dobbiamo e vogliamo rispettare. Il tentativo di spiegare la nostra posizione cristiana sarà una testimonianza "per il Giudeo e per il Greco".
   Infine, ci compete l'obbligo della preghiera. Dio eseguirà comunque i suoi piani, per Israele, per la chiesa e per il mondo; ma Egli permette che la forma dei suoi progetti sia determinata anche dalle preghiere dei credenti. Possiamo fare molto per alleviare le sofferenze, accorciare i tempi della prova, sostenere l'opera di predicazione del vangelo di Gesù Cristo anche tra i membri del popolo d'Israele. Non perdiamo questa potente possibilità che Dio ci ha data, tanto più che nella Bibbia lo troviamo scritto:

    "Pregate per la pace di Gerusalemme!" (Salmo 122:6).

(da “Credere e Comprendere”, febbraio 1991)



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«Effetto Putin». Il nuovo gasdotto da Israele e Gaza arriverà in Puglia

Scoppia la pace tra Gerusalemme e Ankara: si tratta su pozzi e tracciati

di Marisa Ingrosso

Fino al 24 febbraio, il gasdotto EastMed-Poseidon che, dall'offshore di Israele e Gaza, dovrebbe arrivare in Puglia, a Otranto, era dato per spacciato. C'erano tutte le autorizzazioni così come l'appoggio di Unione europea e Paesi interessati dal tracciato, però c'erano anche una serie di ostacoli. Per esempio, sin da quando è stato presentato, 6 anni fa, sono state avanzate perplessità sulla sostenibilità economica: 1.900 chilometri di "tubo", in buona parte sottomarini (tra Cipro Sud e Creta si raggiungono i 2.960 metri di profondità) per un costo - da rivedere al rialzo - di 6,2 miliardi di dollari e una portata fino a 20 miliardi di metri cubi annui. Sono anche sorte dure dispute geopolitiche che hanno quasi portato a una guerra tra la Turchia (esclusa dal tracciato) e la Grecia e che hanno fatto spuntare nel Mediterraneo delle "spinose" Zone economiche esclusive (come quella Ankara - Tripoli). Lo stesso gas, come ideale veicolo della transizione energetica, è stato avversato dagli ambientalisti: le perdite lungo la catena di distribuzione - affermano - rilasciano metano nell'atmosfera e la sua molecola è più dannosa per l'effetto serra di quella di anidride carbonica. Poi è arrivato il Covid che ha "spento" la domanda, cioè la fame di gas dell'Europa. Ma, sopra ogni cosa, il colpo più duro a EastMed-Poseidon è arrivato - sembra incredibile a pensarci oggi - da Washington. Lo scorso 10 gennaio, scegliendo il basso profilo di un paper dell'Ambasciata Usa ad Atene, Cipro e Israele, l'amministrazione Biden ha reso noto che l'America non garantiva più il supporto al progetto, ufficialmente perché ha deciso di puntare sullo sviluppo di energia da fonti rinnovabili. La decisione ha annichilito i programmi dei cointeressati a vario titolo, ovvero Italia, Grecia, Egitto, Israele, Cipro, Libano, Giordania e Autorità palestinese e ha rafforzato oltre modo proprio la posizione di Mosca.
   Con questo "retroterra" e con il Belpaese che importa dalla Russia il 48% dei 75 miliardi di metri cubi di gas annui consumati - attraverso i tre gasdotti collegati l'Urengoy-Pomary-Uzhgorod (che passa per l'Ucraina), il Transgas e il Tag-Trans Austria Gas (Snam) - si arriva al 24 febbraio e alle cannonate russe su Kiev. Il prezzo di gas e petrolio esplode e i gasdotti russi diventano un'arma del Cremlino anche contro le sanzioni occidentali. Correre ai ripari, trovare nuovi fornitori di gas, è però arduo perché servono infrastrutture di respiro geopolitico, con investimenti pesanti e su tempi medio-lunghi.
   Con la pistola del gas russo alla tempia, l'Italia per far andare le fabbriche e riscaldare le case deve riuscire a recuperare quasi 40 miliardi di metri cubi annui. Oltre alle soluzioni "orizzontali" (più carbone, più rinnovabili), restando sul fronte gas Roma sta cercando di accelerare sui rigassificatori, come quello di Porto Empedocle e Brindisi, poiché queste infrastrutture consentono di trattare approvvigionamenti che arrivano da ogni dove, dal Qatar come dagli Usa, ma - spiegano fonti qualificate - hanno una capacità di 8-10 miliardi di metri cubi. Si punta anche a raggranellare qualche altro volume riaprendo pozzi nazionali, chiusi da 5 anni. Il Tap che sbocca a Melendugno (Lecce), è evidente a tutti che è vitale ma si sta arrivando ora a lO miliardi di metri cubi. Come spiegano fonti Tap, anche velocizzando al massimo, per arrivare a raddoppiare quella capacità ci vogliono 405 anni. E, ad ogni buon conto, si parla pur sempre di gas che arriva dall' Azerbaijan, un Paese più che amico della Russia.
   Visto che per "diluire" il rischio Paese bisogna differenziare e che l'instabilità euroasiatica continuerà prevedibilmente a tenere alti i prezzi, ecco che per dirla con le parole del chief executive di Chevron, Michael Wirth - ci sono le condizioni per rimettere in pista EastMed-Poseidon. Uno dei maggiori ostacoli, cioè la contrarietà della Turchia, pare stia trovando una composizione in queste ore grazie a un grande ex amico o, se si preferisce, un grande ex nemico:
   Israele. Questo giovedì, il presidente israeliano Isaac Herzog ha compiuto la prima visita di un funzionario di alto livello dello Stato ebraico in Turchia dal 2008. Una visita «storica». Pure Ankara riceve gas dalla Russia (Blue Stream e TurkStream). Pure Ankara ha bisogno di differenziare le fonti energetiche. Israele ha il gas. E allora? E allora coinvolgere la Turchia nell'infrastruttura, mettendo a sistema la sua rete di gasdotti, per chiudere il cerchio dei collegamenti sia con l'Europa sia tra Mediterraneo orientale e Nord Africa, diventa una chance allettante. Washington permettendo.

(La Gazzetta del Mezzogiorno, 12 marzo 2022)

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Per amore della vita

di Antonio Saccà

Quanto sta accadendo nella guerra odierna, gli atteggiamenti che vengano assunti sono talmente sbalorditivi da ritenere che si voglia quel che si dice di non volere o che abbiamo dei gruppi dirigenti incongruenti, possibili entrambe le situazioni. Sarebbe disonorevole, indegno scendere a patti con la Federazione russa? La Federazione russa è così degradante, talmente infrequentabile che pur di spazzarla e purificare il pianeta vale una guerra mondiale in epoca atomica con una potenza atomica, non la guerra mondiale come nel passato, quindi i paragoni con il passato non sono appropriati. Bisogna commisurare ai vantaggi gli svantaggi, mai al di là dell’onore, morire con dignità vale massimamente che una vile esistenza! Al dunque: le parti russofone dell’Ucraina, sarebbe una ferita straziante tornassero alla Russia invece di continuare una guerriglia muta e delittuosa che ha reso più vittime di quelle dell’odierna guerra tanto gridata? Sarebbe una offesa alla sovranità dell’Ucraina? E perché? Si tratta di luoghi di un Paese che apparteneva alla Russia prima e all’Unione Sovietica, dopo! Si trascura che questi luoghi, questi popoli da secoli sono intrinseci.
   La Federazione russa non sta rivendicando Napoli, ma popoli che fino a pochi decenni trascorsi erano uniti alla Russia, popoli avvinti, lingua, cultura, religione. Gli scrittori ucraini sono immedesimati alla Russia, il massimo scrittore ucraino, Nikolaj Gogol’, è dai russi considerato generatore della narrativa russa, ed oltretutto si formò a San Pietroburgo. Ma dico solo un nome. Insomma, è come sostenere che la Sicilia non ha nulla a che vedere con l’Italia perché per secoli fu separata dalle altre regioni. Non è questa la maniera di percepire la Storia. Vi sono “aree di civiltà”. Aree di civiltà inscindibili. Ma poi, quale nazione accetterebbe una nazione accanto, una nazione oltretutto in gran parte, come detto, fraterna, che le si schierasse contro? Abbiamo guerreggiato con Paesi lontanissimi per questo timore e la Russia non dovrebbe reagire contro una nazione prossima che si vuole rendere nemica! La Russia non invase Lettonia, Estonia, Lituania, non la acerrima Polonia, ostilissime, vicinissime, ma avere per nemica l’Ucraina, russofona in ampie zone, innestata in mescita storica, ma chi l’accetterebbe, con missili nucleari e laboratori per guerre batteriologiche sotto casa! C’è un limite alla tolleranza, ed al timore. Che la Russia subisse alcuni Paesi vicinissimi alla Russia ostili significa che la Russia dovrebbe sopportare anche l’inimicizia armata dell’Ucraina! Mi riferisco alla elementare logica difesa-offesa, a quanto viene definita sicurezza nazionale.
   Pare che anche la Russia ne debba tenere visto che la detengono tutte le nazioni. Non si vuole concedere qualcosa, minimamente, alla Russia? Deve essere sconfitta? Il braccio di guerra vita-morte? La pace con dei riconoscimenti di esigenze russe sarebbe una sconfitta per l’Occidente? Se poniamo la questione in tale logica si perverrà alla guerra estrema! Essere dialettici, ragionevoli, cogliere le esigenze vicendevoli, diversamente si paleserà che effettivamente si vuole l’Ucraina contro la Russia. Perché se non la si vuole contro la Russia, fermiamo la guerra e si stabiliscano patti di neutralità dell’Ucraina. Si dice: sarebbe una vittoria della Russia. Certo, è una vittoria della Russia se si voleva l’Ucraina contro la Russia ma se si voleva l’Ucraina neutrale non è una vittoria della Russia. Si replica, ma la Russia non doveva invadere uno Stato sovrano! Certo, ma se l’invasione ha lo scopo di rendere neutrale l’Ucraina e siamo d’accordo di volerla neutrale perché in questi anni non avete pattuito la neutralità dell’Ucraina? Ma come, avete lo stesso scopo e non lo eseguite? Se non lo eseguite non(non) avevate lo stesso scopo! Si dice: l’Ucraina è uno Stato sovrano, e può scegliere. Giusto. Ma la Russia è uno Stato sovrano che si difende da un nemico alla schiena e che si organizza contro. Sicurezza nazionale.
   Di Paesi neutrali ce ne sono tanti, Paesi che cercano di ritornare alla madrepatria tantissimi, ma qualcuno può concepire la Crimea, il Donbass in Ucraina, avviliti a morte da ucraini che credono ancora di combattere i comunisti e di avere per consorti la Germania nazista! È la realtà. Allora, senza maschera: si pretende la sconfitta della Russia, eliminare questa Presidenza nazionalista, volgere la Russia ad Occidente, utilizzare le materie prime russe per l’Occidente (ma su quest’ultimo aspetto ci sono dubbi, si scatenerebbe una lotta intraoccidentale)? Niente da dire, se si giocasse a carte scoperte, niente da dire. Sarebbe un nuovo orientamento della storia russa, anzi l’orientamento successivo alla catastrofe comunista quando la Russia si aprì all’Occidente e l’Occidente la divorava a basso costo. Ho conoscenza diretta di quegli anni, ne scrivo anche per questo, congressi in Russia, convegni in Italia, intellettuali, politici di livello vicini a Eltsin, ho scritto un libro di colloqui con personalità russe, facevano i capitalisti, l’iniziativa privata, il libero mercato, di fatto vendevano la Russia.
   Conosco bene la Russia, ha un’anima europea, potentissima europeista, ma si ritiene la vera civiltà Cristiana, Ortodossa, erede dell’Occidente bizantino, se posso usare questa combinatoria che sembra contraddittoria ma non lo è, giacché il tutto viene dalla Grecia. La secolarizzazione tecnocratica non attecchisce facilmente in Russia, civiltà coltissima, devota all’arte ed al sacro. La Russia ha perfino ancora radicamenti contadini, immersi nella natura naturale, per dire, almeno fino ad oggi non si consegna al transgenico, alla natura da laboratorio. La cultura “alta” è rispettatissima. Vedere i fedeli assistere alle liturgie che durano interi giorni con folle in piedi, baci alle icone amatissime, devozione ai sacerdoti, ai monaci, incensi, canti da strabiliare, paramenti da uccelli cangianti del Madagascar, la ritualità greco bizantina è incarnata nelle piccole città, città sante che vivono la storia millenaria, i Cremlini, le pareti delle chiese fitte di tempeste iconiche, i teatri assiepati, danze rare, mai vista gente che legge tanto, e libri che valgono. Sì, è una Russia alquanto vecchia, alquanto arretrata, non aggiornata alla nostra desacralizzazione, non del sacro religioso ma dell’altro sacro, il sacro dell’arte e della cultura. Il punto vero della questione non è la guerra. Orrenda.
   Ma che civiltà vogliamo. Se l’Occidente crede di dover salvare l’umanità espandendo il transgenico ed il robotico mettendo a coperchio la mascheratura della democrazia, è finita. La nostra vittoria è una sconfitta, per noi. Vinceremmo perdendo. Ci contenteremmo di una libertà ormai oltretutto orientata millimetricamente dai mezzi di comunicazione. Rischiamo di avere una illusoria libertà ed una effettiva società robotico transgenica. Dovremmo ricostruire la libertà dandole una sostanza non solo il nome o il semplice dirsi liberi, pluralistici. La libertà deve sostanziarsi di civiltà, arte, cultura. Se si considera che mettiamo in un canto la cultura russa, dico la cultura, dall’oggi al domani, questo non è esercizio di libertà, significa che per noi la cultura non vale, la “nostra” cultura, perché la cultura è l’aria che respiriamo ovunque, passiamo la vita a leggere, scrivere, amare persone ed opere di millenni più che fossero viventi, e giunge il taglia erbe e fa deserto. Significa che noi in noi ci distruggiamo. Non bastasse la negazione di altre etnie anche noi diventiamo nemici della nostra cultura. Che società stiamo proponendo? Non intendo uscire dal terreno culturale, lo ripeto, la Russia è indispensabile alla cultura, alla salvezza della cultura.
   Ma, tanto per dire, la Cina accetterebbe un crollo della Russia ed una Russia occidentalizzata contro la Cina? Per capire. Forse il pianeta è stretto a contenere varietà sociali ed istituzionali. Forse qualcuno crede di poter agguantare il pianeta. Forse i sistemi democratici non dovrebbero democratizzare il pianeta a forza. Forse la Russia dovrebbe evitare di considerarci satanici e consentire maggiore libertà. Forse la Cina non dovrebbe comprarsi il mondo ed accettare il dissenso. Forse la guerra non è la via di uscita per risolvere queste contingenze. Piuttosto, è certezza. La guerra è la via di chi si vuole uccidere. Ma che è accaduto, non amiamo la vita? Se amiamo la vita un accordo avverrà. Con dignità. Per amore della vita. Chi ama vivere ama far vivere. Parole? Ma non c’è altro.

(l'Opinione, 11 marzo 2022)

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Cosa sappiamo sui laboratori biologici ucraini denunciati da Russia e Cina

di Walter Ferri

Zhao Lijian, portavoce del Ministero degli Esteri cinese, ha sollevato l’attenzione su un’ennesima insidia presente sul territorio ucraino, quella dei centri di ricerca biologica, centri che potrebbero facilmente cadere nelle mani di malintenzionati. Nello specifico, stando alle parole di Zhao, sui territori contesi sarebbero presenti ben 26 biolab collegati per vie traverse al Dipartimento della Difesa statunitense, dettaglio che certamente non mette in buona luce le manovre della Casa Bianca.
   Il diplomatico di Beijing non ha mancato di chiedere spiegazioni a Washington, tuttavia perplessità affini sono state sollevate anche dagli stessi senatori americani, i quali hanno indagato lo stato delle cose scomodando la Commissione delle relazioni estere. In tale sede, Victoria Nuland, Segretaria di Stato, ha parzialmente confermato le voci di corridoio, evitando accuratamente di scendere nei dettagli.
   «L’Ucraina ha centri di ricerca biologici, il che solleva preoccupazioni legate al fatto che le truppe e le forze russe possano voler assumere il controllo delle strutture», ha dichiarato Nuland. «Per questo motivo stiamo lavorando con gli ucraini per capire come possano prevenire che i materiali di ricerca finiscano nelle mani dell’esercito russo, qualora questi si avvicinasse».
   Cosa ci sia dentro a quei laboratori, difficile a dirsi. Formalmente, le carte rivelano che gli USA abbiano deciso di sostenere attraverso il Department of Defense’s Biological Threat Reduction Program molteplici nazioni ex-sovietiche nell’ottica di sviluppare un programma di analisi di patogeni e tossine utile a contrastare epidemie «deliberate, accidentali o naturali». Uno scopo virtuoso che, accusano gli avversari politici, non è però necessariamente garanzia del mantenimento di un comportamento retto. 
   Come ci insegna il caso di Wuhan, questo genere di biolab custodiscono informazioni estremamente sensibili, quindi non è raro che i Governi preferiscano fornire risposte vaghe a domande specifiche e la trasparenza viene abbandonata in favore di un’omertà che finisce immancabilmente con il fomentare dubbi. La presenza dei laboratori di ricerca in Ucraina è stata dunque sfruttata negli ultimi anni da Russia e Cina per intavolare narrative pungenti, le quali sono state più recentemente abbracciate anche dagli influencer dell’alt-right statunitense, primo tra tutti da quell’Alex Jones noto per InfoWar.
   Quello che sappiamo è che già nel 2020 la Security Service of Ukraine (SBU), l’Intelligence ucraina, aveva etichettato l’esistenza di biolab stranieri in terra ucraina come “fake news”, esplicitando che le strutture in questione fossero da considerarsi in tutto e per tutto in mano a Kiev, quindi strettamente sorvegliate dal Ministero della Salute locale e gestite in conformità alle leggi nazionali.
   Una rassicurazione che certamente non è stata accolta dalla Russia, la quale, attraverso la portavoce Maria Zakharova, sta iniziando a intavolare una lettura dei fatti il cui scopo è suggerire che i laboratori in questione stessero creando armi biologiche coltivando peste, antrace e colera. A distanza impossibile stabilire se questa denuncia poggi su basi o se possa essere una strategia diplomatiche sostanzialmente analoga a quelle adottate in passato dagli Stati Uniti per invadere l’Iraq, ovvero assicurare l’esistenza di pericolosi armamentari in realtà inesistenti per giustificare l’azione militare.

(L'INDIPENDENTE, 10 marzo 2022)

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Gli invisibili

"E' la legge", dice un cittadino trasformato in agente dell'ordine quando impedisce a un altro cittadino di esercitare i suoi diritti civili perché non ha il green pass. "Ho soltanto eseguito gli ordini", dicevano gli imputati al processo di Norimberga, e non erano sempre ordini che chiedevano di portare qualcuno nelle camere a gas. Per fare in modo che i cittadini non solo arrivino a compiere ingiustizie su altri cittadini senza sentirsi a propria volta ingiusti è necessario che siano abituati a far rispettare ordini anche non molto gravi ma che siano soprattutto irrazionali, inutili, ridicoli e arrechino del male a chi è costretto a osservarli. Più irrazionali e stupidi sono, più presto gli esecutori si abitueranno a non farsi domande sul loro conto per non chiedersi se da quella stupidità sono stati infettati, e accetteranno senza rimorsi che in conseguenza dei loro ordini c'è gente che sta male. Qualcuno anzi comincerà a provarci gusto. M.C.

• CACCIATA DALL'ORATORIO NEL SILENZIO

Sono una donna di 40 anni, con un marito bravo e in gamba, mamma di due figli, in attesa di una bambina e con un lavoro a tempo pieno. Ho vissuto una gravidanza terribile, caratterizzata solo dall'ansia che ho provato, costantemente in attesa delle decisioni del governo riguardo all'imposizione forzata dei vaccini e all'alienazione dei diritti fondamentali dell'uomo. Un episodio tra i tanti. A settembre ho iscritto la mia bambina di 5 anni a un corso di ginnastica. Erano i primi giorni del green pass per le palestre e onestamente non avevo colto che l'obbligo si applicasse anche a me, in quanto io semplicemente entravo in oratorio, all'aperto, e poi sulla porta del corridoio che conduce alla palestra cambiavo le scarpe a mia figlia. La signora che tiene il corso mi ha chiesto il documento, le ho detto che l'avrei avuto la volta successiva. A quel punto mi ha aggredita: dovevo uscire dall'oratorio (eravamo all'aperto), mi avrebbe subito riportato fuori dalla palestra la bambina che, entusiasta, era già corsa dentro. L'ho pregata di lasciar stare mia figlia, di non toglierle serenità. Le ho fatto presente che poteva chiedermi il green pass per l'accesso alla palestra, ma non per il cortile dell'oratorio. A quel punto ha chiamato l'aiutante del parroco e ha fatto ripetere anche a lui che io lì senza green pass non potevo stare. Ha puntualizzato che non potevo nemmeno entrare al bar dell'oratorio. Ho risposto a entrambi che nulla di ciò che dicevano era vero. Potevo stare all'aperto, potevo consumare al bar senza sedermi... Mi sono sentita vessata e umiliata in quella che dovrebbe essere la casa di Dio. Quale Dio? Le altre mamme del corso di ginnastica hanno assistito a tutta la scena tenendosi a distanza. Non una parola in mia difesa, né in quel momento né dopo. Distanza e silenzio.
Federica Azin

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• SOSPESA DALL'ORDINE ANCHE SE NON LAVORO PERCHÉ IN MATERNITÀ

Sono una ragazza di 27 anni, incinta al settimo mese del mio terzo figlio. Ho altri due bambini di 3 anni e mezzo e 1 anno e mezzo. Quello che mi preme di più è far vivere loro nella maniera più normale possibile, sperando che possano non ricordarsi di tutto questo. Sono piccoli e io e mio marito spesso ci diciamo che siamo fortunati a non aver a che fare con quello che è la scuola italiana in questo momento tra tamponi, mascherine e quarantene. Abitiamo in una zona di confine e i bambini vanno a scuola all'estero, cosi mi è permesso accompagnarli. Nel nostro Comune infatti non solo non è possibile accompagnare il bambino dentro la struttura senza il pass, ma il sindaco ha pure emanato un'ordinanza che sanziona le maestre che si avvicinano alla porta ad accogliere gli alunni.
   Io ho timore a uscire da sola con loro perché sono allo stremo delle forze e non posso neanche rifugiarmi al caldo in un bar a prendere qualcosa da mangiare. Io e mio marito cerchiamo di far svolgere loro qualche attività sportiva e musicale soprattutto perché non perdano la socialità in questi momenti fondamentali per il loro sviluppo, senza perderci d'animo quando siamo costretti ad abbandonare qualcosa come l'acquaticità in piscina. Io accuso molto il fatto di non poter fare qualche attività sportiva per poter star meglio fisicamente (e di spirito) da donna incinta. Purtroppo è la seconda gravidanza che vivo durante la pandemia. Qualche giorno fa sono rimasta sconcertata quando mi sono recata in un bar per prendere da bere da asporto e ho chiesto di recarmi in bagno. Mi è stato concesso come eccezione, ma la barista mi ha chiaramente detto che per ordine del prefetto doveva negare l'accesso ai bagni ai non possessori del pass. In ultimo, sono professionista sanitaria e proprio in questi giorni mi sto scontrando con l'Ordine, il quale mi ha comunicato che procederà alla mia sospensione nonostante io sia in maternità e dunque non stia lavorando, ma vista la mia qualifica sono in ogni caso soggetta all'obbligo. Tutto ciò ha su di me delle conseguenze psicologiche molto pesanti e stressanti che proprio non si addicono alla mia condizione, ma non mollo. Mi vergogno di essere italiana, spero di poter restituire ai miei figli un futuro degno di questo nome.

Lettera firmata

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• I VECCHI AMICI MI HANNO AUGURATO IL RICOVERO

Sono la mamma di due ragazzi, uno di 14 anni e l'altra di 13. Mio figlio per tutto il mese di gennaio non è potuto andare a scuola perché non gli era permesso salire sul treno, in quanto non in possesso del super green pass. È potuto tornare solo perché in famiglia abbiamo preso il Covid e ora ha il certificato. Ha comunque perso moltissime ore di scuola e l'anno ormai risulta compromesso. Mia figlia non poteva fare sport o andare in palestra perché non vaccinata. Ha problemi cardiaci quindi non eravamo sereni a vaccinarla. Nonostante questo, la pediatra mi ha esplicitamente detto che se si fosse ammalata di Covid non avrebbe voluto saperlo e di non chiamarla, perché non l'avrebbe curata in quanto non vaccinata. Ovviamente, abbiamo cambiato medico. Guarita dal virus ho purtroppo sentito pensieri cattivissimi di molte conoscenti vaccinate sulla nostra situazione. Ci disprezzano perché secondo loro dovevamo essere ricoverati in terapia intensiva.
   In questo periodo sento tantissima cattiveria e ignoranza di persone che credevo normali riversarsi addosso a chi ha deciso liberamente di non vaccinarsi. Non so quando questa follia discriminatoria cesserà, ma l'Italia non esiste più. Vietano a cittadini sani di entrare nei luoghi pubblici, vietano a persone sane di lavorare, pur essendo chiaro che i vaccinati si ammalano comunque. Tutti i giorni mi sembra di vivere in un incubo.
Francesca Colombo

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• GLI ADOLESCENTI NON TOLLERANO QUESTA INGIUSTIZIA

Sono il padre di una ragazza di 12 anni. Ormai non può più frequentare gli allenamenti e le partite della sua squadra, perché anche per il suo sport è richiesto il green pass da vaccino o da guarigione. È superfluo sottolineare che è in ottima salute e che questo, nell'Italia di oggi, sembra essere un pesante fardello. È una situazione talmente ingiusta da diventare insostenibile. Tutto ciò ha influito sul suo stato d'animo. La sua volontà di tornare a giocare a pallavolo è andata incontro a risposte fredde e intrise di burocratese da parte della sua società e al silenzio assordante della Federazione a cui ho scritto. La chiusura e l'accettazione di uno stato di profonda ingiustizia sono diventate parte del suo vivere, tanto che ormai è consapevole di non poter fare quasi nulla. Dopo gli iniziali divieti che riguardavano i cinema, ora l'impedimento è arrivato fino al non poter salire su un autobus o non poter praticare sport.
   La sua speranza è poter rientrare dopo il 31 marzo, ma sa benissimo, come me, che tutto questo potrebbe proseguire e senza una valida ragione. In pratica è stata decretata la sua esclusione dalla vita sociale. Da parte mia, faccio il possibile organizzando qualche gita in bicicletta o al parco con un pallone, ma non è la stessa cosa. Non posso sostituire le sue amiche e compagne di squadra. In quasi 50 anni di vita non avevo mai visto un tale livello di discriminazione da parte delle istituzioni ai danni dei più giovani.
Giuseppe Placidi
Gli invisibili

(La Verità, 12 marzo 2022)

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Israele si prepara ad accogliere gli ebrei in fuga da Russia e Ucraina

A mobilitarsi per soccorrere chi è in fuga non sono state solo le autorità, ma anche i privati.

di Rossella Tercatin

GERUSALEMME - Un'ondata migratoria come non si vedeva dall'inizio degli anni Novanta, quando si disintegrò l'Urss. Con la guerra in Ucraina, Israele stima che potrebbero essere fino a 100mila gli arrivi e non solo dal Paese teatro dei sanguinosi combattimenti ma anche dalla Russia. "Le conseguenze della guerra si stanno facendo sentire anche da noi. In Israele finora abbiamo accolto centinaia di rifugiati", ha dichiarato il premier Naftali Bennett, che ha sottolineato come rappresentare un porto sicuro per gli ebrei in difficoltà rappresenti "il cuore della ragion d'essere" di Israele. Nello Stato ebraico, la "Legge del Ritorno" consente a quanti hanno almeno un nonno ebreo, i loro coniugi e chi si converte all'ebraismo di ottenere la cittadinanza. Con il crollo della cortina di ferro, sono stati oltre un milione a trasferirsi, in maggioranza proprio dalla Russia e dall'Ucraina, un esodo che ha cambiato profondamente il volto del Paese.
   Dopo il picco nel 1990 e 1991, con rispettivamente 185mila e 150mila immigrati, gli arrivi divennero poi alcune decine di migliaia per poi calare a meno di 10mila a metà degli anni Duemila. Dal 2014 però i numeri hanno ricominciato a crescere, complici anche la guerra nel Donbass e le sanzioni contro Mosca. Infatti, fatte le debite proporzioni, anche la vita in Russia si appresta a complicarsi. L'economia del Paese versa da anni in grave difficoltà e dopo l'invasione la situazione è precipitata rapidamente, con il rublo in caduta libera. Per chi ha la possibilità di ottenere la cittadinanza, Israele rappresenta la porta dell'Occidente, un passaporto con un appeal ben diverso da quello russo, la possibilità di fare carriera e di non lasciare il proprio futuro in balìa di Putin.
   Nel frattempo, il governo si è messo in moto per facilitare gli arrivi dall'Ucraina, i più urgenti. L'Agenzia ebraica, l'ente pubblico che si occupa di immigrazione, ha mandato i suoi rappresentanti in Polonia, Romania, Moldova e Ungheria, affittando centinaia di stanze d'albergo per ospitare i profughi in attesa di partire per Israele. A mobilitarsi per soccorrere chi è in fuga non sono state solo le autorità, ma anche i privati. Così, in una villetta di Ashdod opera una war room di volontari per raccogliere richieste di aiuto da israeliani rimasti bloccati in Ucraina e altri profughi che hanno l'obiettivo di raggiungere Israele. In Ucraina sarebbero tra i 50 e i 200mila gli abitanti che potrebbero aver diritto a emigrare in Israele in base alla Legge del Ritorno, in Russia alcune centinaia di migliaia. Il Ministero dell'Interno concederà 25mila permessi di soggiorno a cittadini ucraini al di fuori della cornice della Legge del Ritorno.

(la Repubblica, 11 marzo 2022)

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Visto da Israele

“Da Gerusalemme provo rabbia e rassegnazione”. Intervista a Yossi Klein Halevi

di Giulio Meotti

ROMA - “Provo un misto di rassegnazione, frustrazione e vergogna”. Parlando così con il Foglio, Yossi Klein Halevi, fra i maggiori intellettuali israelo-americani, autore di Letters to My Palestinian Neighbor, senior fellow allo Shalom Hartman Institute di Gerusalemme e columnist del New York Times, sintetizza il suo sentimento sulla guerra in corso in Ucraina.
   “Rassegnazione, perché come israeliano capisco che non abbiamo molte possibilità. Abbiamo la Russia al nostro confine settentrionale e ci serve Putin quando attacchiamo le basi iraniane. Abbiamo cercato di prevenire il totale accerchiamento di Israele da parte delle forze iraniane e i loro proxy, Hamas a sud, Hezbollah a nord. E quindi non possiamo esprimere completamente quello che vorremmo dire. Il governo israeliano ha sostenuto la risoluzione contro la Russia all’Onu. Il ministro degli Esteri Yair Lapid ha condannato la Russia. Ma il primo ministro Naftali Bennett non lo ha fatto. Hanno giocato a poliziotto buono e poliziotto cattivo. E non vedo altre scelte”. Poi c’è la frustrazione. “Perché c’è un paese in una situazione in cui potremmo trovarci noi, l’Ucraina, e c’è l’ironia tragica di un presidente ebreo che guida la lotta, Zelensky”.
   “E tuttavia lo stato ebraico ha dovuto cercare un compromesso su una questione fra le più chiare dalla Seconda guerra mondiale”. Infine, la vergogna, dice al Foglio Yossi Klein Halevi. “Vergogna per il fatto che Zelensky ci chieda assistenza militare e di scegliere una linea più chiara e vergogna perché noi non possiamo onorare la sua richiesta nel suo momento più disperato. L’ironia per noi israeliani è che la sovranità nazionale ci avrebbe liberati dalla paura del principe e del nobiluomo, come avveniva nel Medioevo. Il sionismo ci ha liberati dall’umore del nobiluomo. E quello che vediamo in Ucraina è la versione contemporanea del nobiluomo”.
   Secondo una ricostruzione del principale quotidiano israeliano, Yedioth Ahronoth, “Israele ritiene che la palla del negoziato sia nelle mani ucraine; la questione è se si debbano accettare i termini di Putin. ‘Israele, da parte sua, non intende fare pressione su Zelensky affinché li accetti’, hanno affermato i funzionari a Gerusalemme. ‘Non saremo Neville Chamberlain’, ha detto un funzionario israeliano, riferendosi all’ex primo ministro britannico noto per la sua firma dell’accordo di Monaco il 30 settembre 1938, in cui furono ceduti i Sudeti della Cecoslovacchia alla Germania nazista guidata da Adolf Hitler”.
   In Europa non ci si rende conto delle implicazioni di un’eventuale rottura totale dei rapporti fra Israele e la Russia. “Se rompessimo con Vladimir Putin, la prenderebbe sul personale. Prende tutto sul personale. Proteggerebbe le basi iraniane con i missili russi. E inizierebbe a trattarci come un nemico. Questa è la paura nella comunità di intelligence israeliana oggi sull’Ucraina. Nathan Sharansky ha scritto che l’occidente ha consentito alla Russia di prendersi la Siria e ora l’occidente è arrabbiato con noi perché non mostriamo il coraggio che l’occidente non ha mostrato. Israele non è impressionato dall’occidente e ci rifiutiamo di essere giudicati da loro”.
   E l’Europa, che sensazioni trasmette? “Stiamo vedendo Chamberlain che si atteggia a Churchill in Europa, ma riguarda anche Biden e l’America. La decisione di escludere alcune banche russe dallo Swift è metà Chamberlain e metà Churchill. La Polonia ha offerto i suoi aerei all’Ucraina, ma gli Stati Uniti hanno messo il veto. Dunque un momento molto strano per l’occidente. La buona notizia è che l’occidente ora è imbarazzato”.
   Ora cosa succederà? “Se Putin vince la guerra, perderà. Ci sarà la distruzione dell’Ucraina. Io penso che Putin non sopravvivrà a questa storia. Ci saranno militari russi che si sentiranno come un generale tedesco nel 1944. La situazione è diversa, ma anche simile. Neanche l’Unione sovietica era così esecrata nella Guerra fredda come la Russia oggi. Putin non uscirà vincitore da questa storia”.
   Yossi Klein Halevi dice che il tempo dei consigli è finito. “Non penso che come israeliano sia in una posizione per dare lezioni all’Europa. Devo abbassare la mia voce”.

Il Foglio, 11 marzo 2022)

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La visita del presidente israeliano Herzog in Turchia

di Luca Spizzichino

Una visita storica quella di Isaac Herzog, Presidente dello Stato d’Israele, in Turchia. Invitato personalmente mesi fa dal presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, il presidente Herzog ha affermato di essere “entrato in questo processo con gli occhi aperti e in piena collaborazione con il Primo Ministro Ufficio, Ministero degli Esteri, Consiglio di Sicurezza Nazionale e altri”.
   Il Capo di Stato israeliano è stato accolto con tutti gli onori: una guardia d'onore con 21 colpi di pistola, una cena di stato nel palazzo presidenziale e molto altro.
   "La mia visita in Turchia come ospite del presidente Erdogan è molto importante per la storia dei due paesi e dei due popoli", ha detto Herzog in una conferenza stampa ad Istanbul.
   Il viaggio di Herzog ad Ankara mercoledì è stata la visita di più alto livello di un funzionario israeliano da quando l'ex primo ministro Ehud Olmert è andato in Turchia nel 2008. Infatti il rapporto tra lo Stato ebraico e la Turchia negli ultimi anni ha visto numerosi alti e bassi. I due paesi una volta erano stretti alleati, ma il rapporto si è logorato sotto Erdogan. Nel 2010, dopo l’incidente della Mavi Marmara, le Cancellerie dei due stati hanno ritirato i rispettivi ambasciatori. Le relazioni sono migliorate per poi interrompersi di nuovo nel 2018 quando la Turchia, irritata dal trasferimento dell’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme, ha richiamato ancora una volta il suo ambasciatore, spingendo Israele a rispondere a tono. Da allora, non sono state ripristinate le due missioni diplomatiche.
   Herzog ha affermato che il processo di riallacciamento dei legami con Ankara è stato condotto "senza illusioni, ma riflette interessi bilaterali". Ha sottolineato infatti che ci sono molte questioni di interesse per entrambi i paesi che non sono politicamente coinvolte come il commercio reciproco, gli accordi energetici e la questione Ucraina-Russia, “in cui Israele e Turchia stanno entrambi cercando di aiutare e mediare tra i partiti."
   L’intenzione di riavvicinarsi ad Israele da parte della Turchia arriva in un momento storico in cui il paese è afflitto da problemi economici e sta cercando di porre fine al suo isolamento internazionale normalizzando i legami con diversi paesi della regione del Medio Oriente, tra cui Egitto, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita. Mentre al momento lo Stato ebraico gode di una forte situazione diplomatica nella regione. 
   "Ancora di più in questi giorni di guerra e di terribile tragedia in Ucraina, dobbiamo camminare sulla strada dei figli di Abramo, un'eredità di rispetto, accettazione e amicizia", ha detto Herzog.
   I due Capi di Stato hanno inoltre discusso la creazione di un meccanismo per prevenire eventuali crisi future che potrebbero sorgere tra i due paesi,  che sarebbe gestito dal direttore generale del ministero degli Esteri Alon Ushpiz e il consigliere senior di Erdogan Ibrahim Kalin. Le implicazioni pratiche dell'incontro tra Herzog ed Erdogan saranno prese in carico dal governo, e non dal presidente israeliano, che prevede di riferire al Primo Ministro Naftali Bennett, al Ministro degli Esteri Yair Lapid e ai membri del Gabinetto, ciò che si sono detti durante la visita.
   Il Presidente ha visitato giovedì mattina, a concludere il suo viaggio in Turchia, la sinagoga di Neve Shalom, nel cuore di Istanbul, che è stata presa di mira tre volte in attacchi terroristici, tra cui una sparatoria mortale nel 1986 in cui 22 persone furono uccise e attentati nel 1992 e nel 2003. I membri della sinagoga e i rappresentanti della comunità ebraica in Turchia hanno accolto il Presidente dello Stato ebraico con applausi gioiosi, i suoni dello shofar e la canzone “Shalom Aleichem”.
   La sinagoga ha dato a Herzog un'aliyah, l'onore di pronunciare le benedizioni sulla Torah, e ha recitato il Kaddish  per le persone uccise in molteplici attacchi terroristici alla sinagoga nella sua storia, oltre che per la madre, venuta a mancare pochi mesi fa.
   Il rabbino capo turco Isak Haleva ha ringraziato il presidente Herzog per "aver portato legami di pace e amicizia per Israele e la Turchia". "Questa visita è un evento storico", ha aggiunto.
   Il presidente e il rabbino capo hanno raccontato che il padre di Herzog, l'allora presidente Chaim Herzog, visitò la sinagoga nel 1992, in una cerimonia che celebrava i 500 anni dall'espulsione degli ebrei dalla Spagna. Infatti, molti ebrei trovarono rifugio nell'impero ottomano. Ma il legame tra il presidente e la Turchia è ancora più profondo, Herzog ha anche raccontato di quando suo nonno visitò Istanbul negli anni '40 per cercare di aiutare gli ebrei a fuggire dalla Germania nazista in Turchia. 
   Durante la visita di Herzog, la congregazione ha recitato la Preghiera per lo Stato di Israele e una preghiera per il governo turco. Mentre il presidente israeliano ha chiesto di  “pregare per la pace dei nostri fratelli e sorelle della comunità ebraica in Ucraina e di pregare affinché il Santo li protegga e li salvi da ogni affanno e angoscia”.
   A seguito della visita alla sinagoga Neve Shalom, il presidente e sua moglie, la First Lady Michael Herzog, sono saliti a bordo di un aereo per tornare in Israele.

(Shalom, 11 marzo 2022)

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Gli invisibili

La paura collettiva
stimola l’istinto del gregge
e tende a produrre ferocia
nei confronti di coloro
che non sono considerati
membri del branco.
            Bertrand Russell


• SIAMO TRATTATI COME DEI CRIMINALI RINCHIUSI IN CARCERE

In tanti siamo diventati invisibili. Prima eravamo persone, lavoratori, elettori. Oggi? Il no al vaccino ha azzerato la nostra storia. Ogni giorno che passa diventiamo sempre più socialmente evanescenti. Sono un'insegnante attualmente in congedo. Da quando è stato varato il famigerato decreto che ha imposto l'obbligo vaccinale sono a casa in congedo senza stipendio. Non potrò rientrare al lavoro, al termine del periodo di stop, perché non sono vaccinata. Per mesi ho potuto lavorare effettuando un puntuale tampone a pagamento ogni 48 ore. Improvvisamente però, dopo aver assicurato alle farmacie lauti guadagni per circa quattro mesi, il tampone non è più stato considerato uno strumento valido e affidabile. Quindi sono rimasta a casa da persona sana e non posso tornare a lavorare perché verrei sospesa senza stipendio.
   Nel diritto penitenziario una persona che si sia macchiata di un crimine deve essere giustamente considerata un essere umano nella sua interezza. Per questo deve ricevere cure e sostentamento, essere seguita sul piano psicologico, motivata, spinta a sviluppare le sue potenzialità anche in campo lavorativo ... Insomma si punta a favorirne la piena integrazione sociale. Torniamo al mio caso: io non ho diritto ad alcun emolumento. Vivo e lavoro (lavoravo) attenendomi alle regole di questa società; negli anni ho investito nella formazione, pagando regolarmente le tasse. Ho sempre cercato come genitore ed educatore di infondere il senso di responsabilità e di una partecipazione corretta alla vita sociale, ciononostante per me si prospettano solo privazione economica, mortificazione, vessazione psicologica, in definitiva un progressivo e inesorabile disinserimento dalla vita sociale e relazionale. Mi chiedo come sia possibile che persone, lavoratori ed elettori che hanno solo rifiutato un vaccino improvvisamente cessino di meritare di far parte di quella stessa società che anche loro hanno concorso a creare. Per i figli poi il no al vaccino si è tradotto in un no a ogni loro desiderio. Da un po' i loro desideri restano inespressi, perché tanto poi non si potranno realizzare concretamente: attività sportiva, musica, feste, uscite con gli amici, tutto è proibito. Forse è questo l'aspetto che più fa male. Forse potremmo chiedere al presidente dellaa Repubblica di tornare a essere il garante dei diritti di tutti.
Lucilla Vento

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• ALMENO MIA FIGLIA AMMIRA IL MIO CORAGGIO

Sono una docente di scuola media e da gennaio, dopo 22 anni di lavoro a tempo indeterminato, sono stata sospesa. Certo, questo momento pesa economicamente, poiché ho finanziamenti da pagare e la mia condizione economica è disastrosa. Il peso, però, diventa, con il passare dei giorni che scorrono uguali, un peso di natura morale. Ho lasciato in lacrime i miei alunni e ora ci sono troppi silenzi e troppi giudizi. Si, non sono vaccinata, perché sono allergica a ogni farmaco e non mi è stata data l'opportunità nemmeno di una verifica riguardo il mio stato di salute. Ho messo l'anima nel mio lavoro e anche quando la pandemia avanzava io ero dietro una cattedra, senza tirarmi indietro in nessun modo. So che nessuno mi aiuterà, perché sono invisibile ad amici e parenti, ma non a mia figlia che mi ammira per la mia forza e il mio coraggio.
Rosaria Andreozzi


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• RINUNCIO A UN BIMBO: NON VOGLIO NASCA IN QUESTA REALTÀ

Due anni fa, il progetto di vita mio e di mio marito stava prendendo forma. Poi è scoppiata la pandemia, incredulità tanta, paura mai. Non del virus sicuramente. Un'infezione alla tiroide blocca temporaneamente il nostro progetto di diventare genitori e inizio le cure, ma va bene cos. Con una pandemia in corso non ci dispiace prenderci un po' di tempo. Il 2020 è un anno meraviglioso alla fine dei conti, ci ritroviamo a lavorare da casa entrambi. Riscopriamo ancora di più il piacere di stare insieme, del tempo di qualità. Eravamo abituati a correre dalla mattina alla sera dietro ai mille impegni e progetti extra lavorativi che erano guidati dalla nostra ambizione e curiosità. Finalmente qualcuno aveva premuto il tasto «pausa» e stavamo riscoprendo passioni diverse, la natura, l'agricoltura, una modalità di vita più slow. Il vivere in campagna ha dato slancio al resto. Abbiamo avviato nuovi progetti, in linea con questa visione della vita. A quel punto aspettavamo con ansia la fine della pandemia per tornare anche a viaggiare e a fare alcune delle cose di prima che ci mancavano.
   Il 2021 ha stroncato le nostre aspettative. Sono arrivati i vaccini, eravamo fiduciosi che potessero aiutare i più anziani e fragili, abbiamo aiutato i nostri genitori a prenotare le loro dosi. Non vedevamo pericolo per noi, non abbiamo mai pensato di vaccinarci. Poi sono iniziati i pressing ed è cominciata la nostra diffidenza. L'introduzione del green pass dal 6 agosto 2021 ha dato certezza alla nostra paura. Da due mesi avevamo iniziato a cercare una gravidanza, con la morte nel cuore abbiamo scelto di fermarci.
   Non auguro a nessuno la sensazione di capire che non puoi fare nella tua vita quello che vuoi, perché il mondo in cui ti trovi è un posto in cui qualcuno cerca deliberatamente di metterti in pericolo e tu devi già salvaguardare te stesso, come puoi pensare di farci nascere qualcuno? Che vita lo aspetta? Sono passati sette mesi da quella decisione, inizialmente è stato un «aspettiamo» ... Poi è diventato «accettiamo che forse non succederà mai». È giusto pensare di aver paura che in ospedale ti possano trattare diversamente, che vogliano far del male a te o al tuo bambino perché non sei vaccinata? Perché sei al pari di una bestia, non meriti rispetto e sicuramente non meriti cure. E semplice pensare di essere lì da sola, perché a tuo marito non è permesso entrare e tu hai paura di non essere abbastanza per poter controllare tutto. Perché sono riusciti a fare questo, a farti aver paura di chi, come professionista, dovrebbe essere lì per tutelare la tua salute.
   I parenti ti vedono con disprezzo, i genitori ti disapprovano, gli «amici» spariscono. Il diritto di scelta è il più sacro principio dell'uomo libero e io sono nata libera. Per tutta la vita ho accettato compromessi grandi e piccoli, come tutti. Sono sempre stata una brava bambina, una brava studentessa, una brava cittadina. Poi un giorno ho rotto le righe. E sono diventata un'invisibile.
Emanuela Serboli
Gli invisibili

(La Verità, 11 marzo 2022)

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L'arduo dilemma di Bennett fra la Russia e l'Iran 

di Anna Mahjar Barducci 

GERUSALEMME - Nel conflitto fra Russia e Ucraina, che coinvolge tutto l'Occidente, Israele cerca di rimanere il più neutrale possibile. Gli Stati Uniti, da cui Israele dipende per la sua difesa, spingono il governo Bennett a prendere una posizione anti-Russia. Non è però semplice. La Russia mantiene in Siria la sua presenza strategica nel Mediterraneo, che non è disposta a cedere. Mosca ha infatti firmato un contratto di leasing di cinquant'anni per la base aerea di Hemeimeem e per la base navale di Tartus. Ingenti capitali sono già stati investiti per sviluppare questi due centri strategici. In cambio, la Russia si è impegnata a pagare il prezzo di combattere al fianco del presidente siriano Bashar Al-Assad contro i terroristi dell'Isis e l'opposizione siriana. Il regime di Assad è però anche sostenuto dall'Iran, che minaccia l'esistenza stessa di Israele. Peraltro, Mosca non ha avuto fino a oggi l'interesse ad allinearsi con Teheran (nonostante la Russia mantenga forti interessi economici con il regime degli ayatollah) contro Israele (che ha una popolazione di più di due milioni di persone di lingua russa, tanto che il presidente Vladimir Putin ha definito Israele come un Paese «russofono»), Negli ultimi anni fra Russia e Israele è stato osservato un tacito accordo che ha permesso allo Stato ebraico di bombardare indisturbato target iraniani presenti in Siria. Dal canto suo, la Russia non ha mai attivato il suo sistema di difesa aerea contro Israele e quest'ultimo si è impegnato a non colpire target siriani. Israele teme di rompere questo fragile equilibrio. Se lo Stato ebraico decidesse però di prendere delle nette posizioni contro la Russia sulla questione ucraina, Mosca non permetterebbe più a Israele di colpire basi e milizie iraniane e si potrebbe aprire un nuovo fronte di guerra sulle alture del Golan. Le conseguenze si farebbero sentire anche in Libano, dato che gli attacchi mirati israeliani hanno anche limitato il supporto iraniano a Hezbollah, prevenendo il trasferimento di capacità militari dalla Siria al Libano per lo sviluppo di un arsenale militare. 
   Il colonnello israeliano Daniel Rakov ha scritto che Israele deve continuare a mantenere un dialogo aperto con Mosca per salvaguardare la sua libertà d'azione militare e diplomatica in Siria, a prescindere dall’intensificarsi dello scontro militare e ideologico fra Occidente e Russia. Rakov ha inoltre notato che, mentre nella foto ufficiale della visita del presidente iraniano Ebrahim Raisi dello scorso gennaio i due leader erano seduti distanti all'ormai noto tavolo bianco lungo diversi metri, il premier israeliano Bennett è stato fotografato in una conversazione intima con Putin a Sochi. 
   Bennett si trova in una posizione difficile. Non vuole mettersi contro l'amministrazione Biden ma sa anche che non può permettersi il lusso di fare passi falsi e di mettere la Russia nella posizione di dover scegliere fra Israele e l'Iran.

(la Ragione, 10 marzo 2022)

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Iran: condannato attacco missilistico israeliano su Damasco. L’Idf alza i livelli di allerta

In conferenza stampa, il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Saeed Khatibzadeh, ha definito l’attacco “un atto criminale”

L’Iran ha condannato con forza l’attacco missilistico condotto lo scorso 7 marzo sulla capitale siriana Damasco dalle Forze di difesa israeliane nel quale sono morte quattro persone, tra cui due esponenti della Forza Qods, ramo del corpo dei Guardiani della rivoluzione iraniana, meglio noti come pasdaran. In una conferenza stampa, il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Saeed Khatibzadeh, ha definito l’attacco “un atto criminale” da parte di Israele, sottolineando che l’azione “non resterà senza risposta”. Per il portavoce del ministero degli Esteri iraniano “uno degli obiettivi dell’asse della resistenza nella regione” è dimostrare a Israele “che dovrebbe essere responsabile dei suoi crimini contro l’umanità”. Secondo i media siriani, le altre due persone decedute erano civili, ma in base a quanto riferisce l’Osservatorio siriano per i diritti umani (organizzazione non governativa con sede a Londra), appartenevano invece alle milizie siriane alleate dell’Iran. Nel raid sarebbero rimasti feriti anche altri sei miliziani iraniani.
   Il sito web legato ai pasdaran “Sepah News” ha identificato i due ufficiali uccisi come i colonnelli Ehsan Karbalaipour e Morteza Saeidnejad. Quello condotto il 7 marzo è stato il settimo attacco israeliano in territorio siriano dall’inizio del 2022 e avrebbe colpito un deposito di armi e munizioni vicino all’aeroporto di Damasco. Intanto, le Forze di difesa israeliane (Idf) hanno alzato il livello di allerta delle unità e dei sistemi di difesa nel nord del Paese, secondo quanto riferisce il quotidiano israeliano “Maariv”. L’allerta riguarderà principalmente i servizi di intelligence e i sistemi di difesa aerea con l’obiettivo di prevenire eventuali ritorsioni da parte dei gruppi armati alleati dell’Iran presenti nella regione.

(Agenzia Nova, 10 marzo 2022)

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Il vero senso della mediazione israeliana

di Andrea Forte

Continuare a monitorare se e quali satelliti delle grandi potenze si mobilitano per mediare nel conflitto in Ucraina resta un modo efficace di misurare la situazione. In questo senso è significativo il tentativo di mediazione di Israele, con il suo premier Naftali Bennet. Primo fattore di interesse è che il campo dei mediatori minori si allarga a livello extra-europeo. Vuol dire che si allarga anche il numero dei quadranti geopolitici che dovranno essere considerati nella risoluzione della partita in corso. Il giro da fare per capire il “fattore Israele” in questa crisi è uno dei più tortuosi, ma anche interessanti.
   Cosa comporta la presenza di Israele? Che leve ha? È la storia, prima ancora che le potenze coinvolte, a convocare Gerusalemme. Quel buio delle persecuzioni culminate con l’Olocausto. Sia ebrei russi che ucraini furono allora sterminati, sia ebrei russi che ucraini vivono oggi nei Paesi in lotta (ebreo è lo stesso presidente ucraino Zelensky), sia ebrei russofoni (un milione) che ebrei ucrainofoni (250 mila) vivono in Israele, tutti motivi per cui Israele mantiene un’equidistanza strategica. La storia però non è solo numeri, è soprattutto profondità, in questo caso dolorosa. Gli ebrei non emigrarono, è più corretto dire che fuggirono. È la storia delle Aliyah (pellegrinaggio o salita), ovvero della fuga verso la Terra Santa a partire dalle stragi del 1882. Questi perseguitati sono chiamati in Israele olim hadashim (nuovi arrivati).
   Giorni fa a Kiev i bombardamenti hanno colpito il memoriale di Babij Yar, che ricorda le 34.000 vittime ebraiche che tra il 29 e il 30 settembre del 1941 furono uccise dai nazisti e dai collaborazionisti ucraini (cosiddetto Olocausto dei proiettili). Ugualmente pochi giorni fa il presidente ucraino Zelensky ha fatto appello agli ebrei di tutto il mondo, affinché non rimanessero in silenzio di fronte all’invasione. Anche fosse solo per questo, Israele non poteva non farsi vivo, per dire ai propri cittadini e alle minoranze ebraiche dei due Paesi in guerra che questa volta la storia è diversa, perché nella storia c’è uno stato degli ebrei che li proteggerà.
   Passiamo all’aspetto strategico dell’interesse di Israele nella partita. Il suo principale alleato sono gli Stati Uniti, il suo principale nemico nella regione è l’Iran, con la sua (velleitaria) minaccia di estinzione atomica di Israele. Ora, sia gli Stati Uniti che l’Iran si accingono a firmare un accordo sul nucleare a Vienna, che in sostanza sospenderà la dotazione dell’atomica iraniana in cambio della sospensione della sanzioni anti-iraniane. Quindi principale amico e principale nemico di Israele si stanno per accordare, e il nemico è geograficamente più vicino dell’amico. Tanto più considerando che il nemico è letteralmente ai confini israeliani, essendosi installato in Siria a sostegno del regime di Bashar Assad (e tramite gli Hezbollah dal Libano). Nemico assoluto, vicinanza assoluta, e rischio bomba annesso…per sintetizzare. Ampliamo però lo sguardo. In questa partita c’è anche la Turchia, pesante rivale strategico dell'Iran. Un accordo sul nucleare dunque, se avvantaggia l’Iran, svantaggia la Turchia, e se svantaggia la Turchia avvantaggia la Russia, che ne è il vero grande avversario. Ecco che compare indirettamente uno degli attori della crisi. Svantaggia la Turchia perché l’accordo reintrodurrebbe l’Iran nelle dinamiche mondiali con nuova legittimità e ne rafforzerebbe la stessa presenza in Siria, laddove Siria va tradotto con sud della Turchia. Non solo, nell'accordo sul nucleare anche la Russia deve dare l’ok. Qui si deve però prima evidenziare il fatto che per Israele la Russia non è solo un Paese lontano, “indiretto”. Anche la Russia confina con Israele, poiché anch’essa è in Siria e anch’essa tiene in piedi il regime di Assad insieme all'Iran, è quindi una presenza diretta, ma ha sempre permesso a Israele di attaccare l’Iran sul posto. Analoghi beneplaciti in Siria li dà alla Turchia contro i suoi avversari curdi. Dunque l’abilità della Russia è stata di installarsi nell’agognato Mar (caldo) Mediterraneo, in una zona fondamentale per sganciarsi strategicamente dal contenimento della NATO ai suoi confini europei.
   Tradotto, Siria, in quanto sud Turchia, vuol dire anche sud della Nato. Il più grande risultato di Mosca in loco è quindi l’aggiramento del contenimento atlantista in Europa orientale… e in Ucraina! Eccoci arrivati anche all’Ucraina. Giro lungo, si gioca con più palloni e in più campi. Israele l’ha capito. Ora, Israele è consapevole dei suoi limiti e non ha più la forza di impedire la chiusura dell’accordo sul nucleare, ma questo non vuol dire che non possa piegarlo il più possibile a proprio favore. Poiché in un modo o nell'altro quest’accordo coinvolge la Russia, se vuole avvicinarla, deve inserirsi nelle sue dinamiche con la Turchia e l’Iran.
   Innanzitutto Israele è una potenza minore, massimamente, ma non assolutamente, autonoma. Vuol dire che Israele non è mai solo Israele, Israele è anche Stati Uniti, nella misura in cui ne è gli occhi e magari l’esecutore in Medio Oriente. Se Israele riuscisse a far male a Mosca, indirettamente favorirebbe Washington. La Russia lo sa. Che di respiro statunitense si tratta lo testimonia anche il fatto che Israele si muove anche nel Caucaso russo. Ad esempio coopera nella difesa (di fatto antirussa) con la Georgia da prima della guerra russo-georgiana del 2008. Lo fa per motivi strategici, non contro la Russia in sé, vuole premere da nord l’Iran. Per farlo definitivamente però non basta Tblisi, perché questa non confina direttamente con Teheran. Serviva, per colpire l’Iran, l’unico dei due Paesi caucasici che ci confinasse davvero a nord e che gli fosse anche ostile (e cioè filo-turco). Serviva dunque l’Azerbaigian, non certo l’Armenia, che dalla Turchia ha subito il primo genocidio del Novecento. Israele ha quindi inviato i suoi droni e missili per sostenere l’Azerbaigian contro l’Armenia nella guerra dell’ottobre 2020. L’Azerbaigian è tante cose, sciita come l’Iran (valore minimo), etnicamente turco (valore medio), estero vicino del Caucaso russo (valore massimo). Se l’Azerbaigian vince sull’Armenia, alleata dei russi e anti-turca, allora c’è un rischio che il valore medio (e turco) suddetto surclassi il valore massimo. Per questo sono intervenuti alla fine i Russi, ma la vittoria azera, dunque turca, dunque del rivale dei russi, c’è stata. Anche grazie a un Israele… Ed eccoci nel Caucaso, cioè a sud della Russia ed ad est dell’Ucraina...
   Ovviamente alla Russia non piace, tanto più che permette a Gerusalemme di bombardare il suo nemico numero uno in Siria, ma per Israele è troppo ghiotta l’occasione di vedere il Caucaso non come l’estero vicino russo, ma come l’occasione strategica di far male al nemico assoluto, come tetto dell’Iran, perciò utile a spostare la pressione direttamente ai suoi confini settentrionali, come quello lo fa con Israele dalla Siria. Facendolo inoltre Israele ha contribuito ad avvicinare ancor di più l’Azerbaigian alla Turchia, che vorrebbe disputare ai russi l’egemonia regionale.
   Ricapitoliamo il successo di Israele. Si posiziona a nord del nemico iraniano e ne rafforza l’altro avversario, la Turchia, a est. Minimo sforzo, grande tenaglia. Perché questo conta per la partita che qui interessa, cioè russo-ucraina? Perché, lo si diceva, nord dell’Iran è sud della Russia, e Israele non è mai solo Israele, è il braccio degli Stati Uniti.
   Se Israele sta diventando un problema, allora perché la Russia accetterebbe una mediazione israeliana? Ragioniamo in termini di potenza e rovesciamo il quesito. Cosa Israele può portare alla Russia nella mediazione?
   Israele è uno dei bracci degli Stati Uniti ed è dunque anche a nome loro che va a parlare con Mosca ed eventualmente va a garantire una via d’uscita proprio dal colpo che gli stessi Stati Uniti stanno dando all’economia russa. Sul tavolo non c’è un ritiro israeliano dal Caucaso, troppo vitale per Gerusalemme, ma sembra esserci la possibilità di non inserire l’Iran nel gioco delle sanzioni economiche anti-russe, lasciando un foro di ossigeno economico, necessario anche all’Iran, dopo anni di embargo. È una cosa che gli Stati Uniti possono garantire, proprio perché hanno la possibilità di metterlo nel piatto dell’accordo sul nucleare, che l’Iran ha assoluta necessità di concludere. Ciò rafforza l’Iran, ma non tanto da indebolire Israele. Per questo Israele accetta di mediare. Un doppio sbocco a Russia e Iran azzoppa inoltre la portata della vittoria turca nella guerra del Nagorno-Karabach, riducendola a mera tattica. La Russia potrebbe così anche ribadire il suo dominio nel Caucaso, dimostrando ancora a tutti che vale la parafrasi del detto, non svegliare il Caucaso russo che dorme. O meglio risvegliare, perché già nel 2008 la Georgia aveva provato ad alzarsi, ma la Russia l’aveva rimessa a letto e vedremo se dopo l’Ucraina vorrà finire con lei.
   Conferma quanto detto il fatto che lo stesso giorno dell'avvio di questo tentativo il segretario di Stato americano Antony Blinken si è recato al confine polacco-ucraino a parlare con il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba. Averlo fatto in contemporanea con la mossa israeliana sta dicendo una cosa molto importante agli ucraini, cioè che c’è un mandato americano a quella mediazione e che si può essere occidentali e stare nel campo occidentale, anche senza appartenere all’Unione Europea o alla Nato. Israele, che ha il massimo appoggio Usa senza stare nella Nato e nell’Ue, lo dimostra. Certo, non si può far entrare dalla finestra l’alleanza militare statunitense espunta dalla porta, ma partenariati, anche indiretti, possono esistere. Come a dire, in casa no, ma in giardino sì.
   Ugualmente poi vanno fatte tutte le distinzioni del caso. Israele non confina con un grande impero che vorrebbe inglobarlo, ma non per questo subisce minacce meno esistenziali. Praticamente ogni guerra che ha combattuto fino a pochi decenni fa era finalizzata alla sua estinzione, confina con movimenti che hanno per statuto il medesimo obiettivo e deve relazionarsi con una potenza regionale, l’Iran, il cui scopo, per carità retorico (retorico?), è anch’esso quello di farlo sparire dalla carta geografica. Ovviamente qualunque possa essere la formula, questa mediazione non serve a trovarla. Questa mediazione serve a creare un’atmosfera. Svezia e Finlandia non possono essere esempi sostitutivi di Israele, perché di fatto, anche se non di diritto, sono nella Nato. Non è dunque la Finlandizzazione il tipo di proposta geopolitica concreta. Può essere invece la maschera giuridica di un’israelizzazione, intesa come occidentalizzazione, senza appartenenze ufficiali. Verranno comunque vagliate varie forme di neutralità a respiro occidentale, appunto modello finlandese, oppure austriaco…
   A riprova di questa intenzione degli Stati Uniti verso l’Ucraina, c’è il fatto che il 7 marzo, Blinken ha incontrato il ministro degli esteri israeliano Yair Lapid in Lettonia. Incontrarsi in Lettonia. I Paesi baltici sono i falchi estremi del contenimento antirusso. Che il mandante della mediazione e il mediatore si incontrino nel campo duro della Nato il giorno dopo l’incontro di Blinken con Kuleba, serve a dire all’Ucraina che magari il suo Paese non starà ufficialmente nelle case occidentali, ma che un sostegno, pur dietro formule magari di neutralità, è confermato. E tranquillizza i Baltici stessi che il contenimento continua. Che sul piatto ci sia quest’offerta lo chiarisce lo stesso governo ucraino a fine giornata del 6… “Formule non Nato possono essere prese in considerazione”. Tutto questo basta per essere decisivo? No, perché il problema non è solo il campo, ma l’identità. Siamo qualcosa? Abbiamo diritto a esistere? E a scegliere? Queste sono le domande degli ucraini, non a se stessi, ma agli occidentali e ai russi.
   Si può allora affermare che il tentativo israeliano serve ad allargare le considerazioni ad altri quadranti, perché questa partita è talmente grossa che non sarà risolta in se stessa, ma tenendo conto che molte situazioni geopolitiche ne vengono scosse e bisogna prendere le misure di questo urto. Israele serve ad apparecchiare questi tavoli attorno al tavolo della trattativa sull'Ucraina.
   La mediazione finale avverrà dunque in una sala da pranzo con tanti tavoli, tanti attori invitati, tanti camerieri e soprattutto tanti conti da pagare. Israele non serve a decidere, ma a decifrare per decidere nuovi equilibri. La variabile sono gli ucraini. Sia i nemici che gli amici cercano di capire quale parte fargli recitare, se invitati o piatto. Loro stessi lo sanno, e sanno che l’unica finestra che ne aumenta le chances è che se piatto dev’essere, che la Russia si strozzi in una massacrante guerriglia di resistenza.

(Difesa Online, 10 marzo 2022)

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Lo storico incontro tra un rabbino di Milano e il sindaco di Trento (città maledetta per il popolo ebraico per cinque secoli)

Ieri è stato un momento storico per la città di Trento. Prima è stata riaperta quella che fino al 1475 (quando si è verificato uno dei primi pogrom d'Europa) era la sinagoga di Trento e poi è avvenuto l'incontro tra la massima autorità della città (tornata ''frequentabile'' dagli ebrei solo nel 1965) e il rabbino della comunità di Milano

TRENTO - E' stato un momento a suo modo storico quello vissuto ieri a Trento (e per Trento) grazie all'iniziativa del Rotary Club Trento (e di Riccardo Petroni che è stato l'organizzatore), della Voralberg Bank di Bolzano (proprietaria della cappella) e alla partecipazione de il Dolomiti. Prima sono state riaperte le porte di quella che fino al 1475 è stata la sinagoga della comunità ebraica del capoluogo, diventata la cappella del Simonino dopo che la città si è resa protagonista di uno dei primi pogrom d'Europa con lo sterminio dei suoi abitanti di religione ebraica e il conseguente marchio di ''città maledetta'' per tutto il popolo ebraico. Poi è stata la volta dell'incontro tra un rabbino, il Rav Joseph Labi di Milano, con la massima autorità di Trento, il sindaco Franco Ianeselli, per un momento conviviale e di scambio, reciproco, di pensieri, riflessioni, aneddoti.
   Un evento vero e proprio se si pensa che dal 1475 al 1965 nessun ebreo ha potuto mettere piede a Trento pena l'equivalente della cattolica scomunica (herem per gli ebrei). Il perché è ancora troppo poco noto (soprattutto in Trentino) ed è legato proprio a quella sinagoga di Trento che si trova in via Manci 67, all'interno di Palazzo Salvadori, dove si trovano gli uffici del nostro quotidiano, e che è stata visitata, ieri, prima dell'incontro con il rabbino, dai membri del Rotary e da molte autorità (dal sindaco Ianeselli all'assessora Monica Baggia, dal presidente del consiglio comunale Paolo Piccoli a Marcello Carli vicepresidente nazionale dell'Unione cristiana imprenditori dirigenti ed era presente anche il Fai con la delegata Fai Scuola Maria Luisa Brioli).
   La storia l'avevamo raccontata con l'aiuto dell'ex direttrice del Museo diocesano di Trento e curatrice della mostra L'invenzione del colpevole, Domenica Primerano e la riportiamo qui sotto affinché non venga dimenticato quel che è stato compiuto a Trento e quanto male è stato fatto, tutto partendo da una falsa accusa.  
   Nel 1475 Trento è una piccola città in cui vive una comunità ebraica piccolissima. Composta da circa 30 persone, da sole 3 famiglie, la comunità mantiene buoni rapporti con la popolazione. L'arrivo di alcuni predicatori francescani, su tutti del presbitero Bernardino da Feltre, rompe però l'equilibrio. “Smorbare la città dagli ebrei”, usurai e deicidi, diviene parola d'ordine destinata a far presa sulla popolazione tridentina. “Odio teologico e sociologico alimentano il boicottaggio delle relazioni con un nemico da cui bisogna guardarsi”, spiega Domenica Primerano, direttrice del Museo diocesano di Trento e curatrice della mostra L'invenzione del colpevole.
   “La costruzione dell'odio e della superstizione è la miccia che fa esplodere il caso di Simonino – continua – visto che ancor prima che avvenga il ritrovamento già si diffonde in città la voce che i responsabili siano gli ebrei. Lo loro case vengono sottoposte a perquisizioni, in cui non si trova nessun indizio di colpevolezza. Il ritrovamento del corpo del bambino nella roggia da parte di un esponente della comunità israelita fa scattare la denuncia del principe-vescovo Johannes Hinderbach”.
   È il 24 marzo del 1475 quando alla corte del vescovo si presenta un conciapelli. Cerca suo figlio Simone, dell'età di 28 mesi, dalla sera prima. Alla diffusione della notizia, una voce che comincia a girare in città non tarda a trasformarsi in una certezza cementata nella diffidenza e nella superstizione: il bambino è stato rapito dagli ebrei. Passano due giorni e il corpo di Simone viene ritrovato nella roggia della contrada del Fossato (attuale vicolo dell'Adige), proprio di fronte all'abitazione di una famiglia ebrea.
   8 esponenti della comunità sono immediatamente incarcerati. L'autopsia, quando il corpo si sgonfia, offre l'automatica conclusione. Il bambino è stato ucciso in un omicidio rituale. La gente accorre a vedere il corpo, si convince che sia morto non per annegamento ma per ferite inferte in un perverso rito religioso, nel sacrificio rituale attribuito dalla voce popolare agli ebrei. Deposto nella vicina chiesa di San Pietro, si aggiungono voci di miracoli che avvalorano la tesi del martirio subito.
   Il culto di Simonino prende vita parallelamente all'avvio del processo inquisitorio. L'uso della tortura ne determina gli esiti: i responsabili sono gli ebrei, il movente l'odio anti-cristiano. Ma se Hinderbach è certo della colpevolezza, da Innsbruck e da Roma s'avanzano perplessità sui metodi impiegati e sulla fabbricazione del culto. Tuttavia, una volta liberato, quest'ultimo rompe le frontiere territoriali. A distanza di pochi anni la dimensione del culto si diffonde a macchia d'olio, come testimoniato dagli affreschi di Spoleto.
   “Da Roma papa Sisto IV invia il messo apostolico – prosegue Primerano – e ne vieta il culto. Non era un caso locale che si creassero forme di devozione del genere. Il pontefice aveva uno sguardo diverso, la questione degli ebrei era delicata visto il ruolo che giocavano in molte città. Senza un'indagine non poteva dunque sposare l'ipotesi dell'omicidio rituale, e non a caso ci vorranno cent'anni per il riconoscimento del culto”.
   Cent'anni di gestazione - dal giugno 1475, quando il grosso della comunità ebraica, eccetto quelli già morti in carcere, viene messa al rogo, al 1588, quando Sisto V ne autorizza il culto – e il Concilio di Trento sarebbero stati necessari perché la Chiesa ne facesse un martire. La città di Trento ha il suo martire. Dal mondo ebraico si lancia il cherem, l'anatema sulla città che sterminò gli ebrei in nome dell'odio antigiudaico. Nessun appartenente alla religione di Mosè avrebbe più potuto abitare o far nascere i propri figli nella città maledetta.
   “Nel 1588 il pontefice beatifica Simonino – illustra la direttrice - ma nel mentre il culto si è già radicato. Assume un'enorme fama nonostante un breve del papa stabilisca la scomunica di chi lo adora. Da tutto il mondo arrivano pellegrini per visitare le reliquie esposte in una cappella della chiesa di San Pietro. I miracoli segnalati sono 129. La macchina attorno alla devozione del bambino è ben oliata, sul territorio cittadino compaiono così tre luoghi legati alla figura del 'Beato' Simonino. San Pietro, appunto, e poi due cappelle in corrispondenza della casa natale e pertanto del luogo da cui scomparve, e nell'attuale via Manci, nel luogo dove c'era la residenza degli ebrei, la sinagoga e quindi il luogo dove si sarebbe consumato l'omicidio rituale”.
   “Da questo luoghi passa la processione – prosegue – inaugurata nel 1589 con cadenza decennale e accompagnata da una rappresentazione teatrale del martirio. Per le vie di Trento sfilano 6000 persone, per dire di come fosse sentito questo culto. Si portano in processione l'urna con il corpo, gli stendardi, perfino gli strumenti di tortura indicati dagli ebrei durante gli interrogatori come quelli usati per sacrificare il bambino, tutto in custodie preziosissime. L'ultima verrà compiuta nel 1955, 10 anni prima dell'abolizione del culto”.
   E' solo nel 1965, infatti, che la devozione al Simonino subisce la decisiva frenata. I documenti del processo, su stimolo della studiosa delle comunità ebraiche Gemma Volli, vengono ripresi in mano da monsignor Iginio Rogger, docente di storia della Chiesa nel seminario diocesano. “Sono gli anni della riflessione sui rapporti tra Chiesa e religione ebraica – spiega Primerano – il caso del Simonino viene affidato alla perizia di un domenicano (Willehad Eckert) che, nella relazione finale, afferma come l'accusa non stesse in piedi, come la colpevolezza fosse stata determinata alla luce dei pregiudizi e dell'odio”.
   In concomitanza con l'uscita del decreto Nostra Aetate sui rapporti tra cristianesimo e altre religioni, il culto del “martire Simone” è abolito. Le reliquie vengono tolte da San Pietro – e portate in un luogo segreto - la cappella dedicata chiusa al pubblico, “tutte le opere messe in deposito al Museo Diocesano”. Le autorità ebraiche, da parte loro, fanno decadere la maledizione. Nel 1992 l'amministrazione cittadina decide di apporre una targa di fronte al luogo del ritrovamento. Trento, famosa per secoli come la “città del Simonino”, si riconcilia agli ebrei chiedendo perdono.

(il Dolomiti, 10 marzo 2022)

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Studio israeliano dimostra che il riciclo risale a 500mila anni fa

di Jacqueline Sermoneta

Il riciclo non è un fenomeno moderno ma risale alla preistoria. Già 500mila anni fa, infatti, i primi ominidi avevano la buona abitudine di riciclare strumenti di pietra, usati e scartati dai loro predecessori.
   A sostenerlo uno studio condotto dai ricercatori Bar Efrati e Ran Barkai del Dipartimento di Archeologia dell’Università di Tel Aviv (TAU), in collaborazione con Flavia Venditti dell'Università di Tubinga, in Germania, e Stella Nunziante Cesaro dell'Università La Sapienza di Roma. La ricerca è apparsa sulla prestigiosa rivista scientifica Scientific Reports, pubblicata da Nature.
   Il team di archeologi ha rinvenuto 49 strumenti di selce nel sito di Revadim, a sud d’Israele, luogo che, 500mila anni fa, era abitato dai cacciatori-raccoglitori per la presenza di abbondante fauna selvatica e di selce di buona qualità.
   Un elemento determinante, per identificare gli oggetti riciclati e comprenderne la loro storia, è l’esame chimico della patina che li riveste e che si forma sulla selce, quando viene esposta agli agenti atmosferici per un lungo periodo di tempo. Pertanto, uno strumento gettato via e rimasto intatto per decenni o secoli, ha accumulato uno strato di patina facilmente identificabile, diverso sia per colore che per consistenza da quello di un oggetto che ha subìto un secondo ciclo di lavorazione.
   L’analisi della patina degli strumenti ritrovati ha rilevato che molti di essi erano stati riciclati, dimostrando anche che gli oggetti, in una prima fase, venivano utilizzati per attività di taglio accurato, mentre, in una seconda fase, per la raschiatura (lavorazione di osso e pelli).
   Inoltre, durante il riciclo, gli strumenti erano rimodellati molto poco, cercando di preservare il più possibile la loro forma originale. “Sulla base delle nostre scoperte, possiamo affermare che l’uomo preistorico raccoglieva e riciclava vecchi strumenti perché ciò aveva un significato per lui – ha detto Ran Barkai – Lo strumento porta il ricordo dei suoi antenati o evoca una connessione con un determinato luogo”. “L’uomo ritocca il bordo a proprio uso, ma fa attenzione a non alterare la forma originale, in onore di colui che lo aveva forgiato per la prima volta, comprendendo che l’uso quotidiano poteva preservare, anzi avvalorare il ricordo” ha aggiunto il ricercatore.
   “I nostri antenati erano intelligenti, non ‘primitivi’ - ha detto Bar Efrati – e non erano così diversi da noi. Conoscevano l’ambiente circostante e sapevano come sopravvivere meglio di quanto facciamo ora noi con tutta la nostra tecnologia”. “Questo ci mostra che raccogliere e riciclare gli oggetti non è un’invenzione dei tempi moderni. È qualcosa che è radicato in noi, più di quanto possiamo immaginare” ha aggiunto Efrati.

(Shalom, 10 marzo 2022)

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Israele mediatore

Elkin, il ministro addetto a parlare con Putin e che ha un fratello sotto i missili in Ucraina

di Giulio Meotti

ROMA - “Eravamo laici, ma loro mi vedevano come un ebreo e mi gridavano ‘Jid’”. Zeev Elkin ricorda quando scoprì di essere ebreo a Kharkov, in Ucraina. Poi Elkin iniziò a studiare l’ebraico in segreto. Neanche i genitori lo sapevano. “Era proibito e pericoloso, avrebbero avuto paura per me”. A quel tempo, in Unione Sovietica si finiva in prigione per apprendere o insegnare l’ebraico. Poi emissari da Israele gli hanno dato tallit e tefillin ed Elkin ha iniziato a pregare. Sarebbe diventato il primo segretario di Bnei Akiva in Russia. La notte del 4 dicembre nel 1990, Elkin emigra in Israele.
   Nessuno sceneggiatore avrebbe potuto inventare questo copione. Sabato scorso, all’alba, subito dopo la preghiera mattutina dello Shabbath, il ministro dell’Edilizia e membro del gabinetto israeliano Zeev Elkin esce di casa nel quartiere Pisgat Ze’ev di Gerusalemme. Iniziava il viaggio più segreto della sua carriera. Con il premier Naftali Bennett, violando lo Shabbath, Elkin era diretto a Mosca per parlare con Vladimir Putin. Nello stesso momento in cui stava andando all’aeroporto Ben Gurion, la famiglia di Elkin in Ucraina fuggiva dalle bombe. Cinque ore dopo, Elkin si sarebbe seduto accanto al primo ministro israeliano di fronte all’uomo che stava bombardando suo fratello a Kharkiv.
   Arrivano messaggi contrastanti da Kiev su Israele. Gerusalemme è stata prima accusata dal governo ucraino di non disdegnare il denaro russo “sporco di sangue”, accettando pagamenti tramite il sistema russo Mir. Poi, ieri, il presidente ucraino Zelensky ha ringraziato il premier israeliano Bennett per la sua mediazione e “aver discusso la strada per mettere fine alla guerra”. Ieri Ben Caspit del Jerusalem Post ha scritto che il viaggio di Bennett a Mosca non aveva lo scopo di mediare. “Piuttosto, il viaggio aveva lo scopo di avere un’idea di quale fosse la posizione di Putin, quale fosse il suo stato d'animo e quali fossero le sue linee rosse, e riferirle all'occidente”. Hanno anche parlato di Siria e di nucleare iraniano.
   Israele non partecipa alle sanzioni occidentali contro la Russia ed è israeliano l’unico capo di stato andato a parlare tre ore a Mosca con Putin (ieri Bennett ha riparlato al telefono con Putin). Ci sono profondi legami fra Ucraina e Israele. Non soltanto Zelensky è ebreo, come 400mila ebrei che vivono nel paese e vengono dall’Ucraina molti padri fondatori d’Israele: primi ministri come Golda Meir, Levi Eshkol e Moshe Sharett, presidenti come Yitzhak Ben-Zvi ed Ephraim Katzir.
   Ieri il presidente israeliano Isaac Herzog è volato ad Ankara dal presidente turco Recep Tayip Erdogan, nella prima visita di stato dal 2007. La Turchia è l’altro fronte della mediazione sull’Ucraina. Ma non a tutti piace questo attivismo israeliano. Il ministro della Giustizia Gideon Sa'ar ieri ha detto: “Stiamo aiutando l’Ucraina con aiuti umanitari significativi, stiamo assumendo una posizione politica chiara, compreso il voto nei forum internazionali. Più rifugiati dall’Ucraina sono entrati in Israele la scorsa settimana rispetto a qualsiasi altro paese senza un confine con l’Ucraina... Non c’è motivo per il masochismo nazionale”. C’è chi teme una eccessiva esposizione in questo ruolo di mediatore in capo.
   Dall'inizio della crisi, tutti parlano di Zeev Elkin, il più grande esperto di Putin in Israele. Dal 2009 ha partecipato a tutti gli incontri di Putin con Bibi Netanyahu e la leadership israeliana. Non solo riunioni formali, ma tutte le riunioni limitate, anche a tre. Non aveva bisogno di interpreti, perché Elkin era l’interprete. Ha sentito Putin parlare nella sua lingua per centinaia di ore.
   Alla riunione di questa settimana del gabinetto degli affari esteri e della sicurezza, Elkin ha pronunciato un appassionato discorso, accusando il governo di cui è membro di non essersi preparato alle conseguenze della guerra in Europa perché non credeva che Putin avrebbe mai invaso. Il governo non ha elaborato piani di emergenza per districarsi in anticipo dalle popolazioni ebraiche delle quattro principali città ucraine e ora non è in grado di aiutarli a uscirne, ha accusato Elkin.
   Di Putin, l’ebreo di Karchiv ha detto: “Non sono uno dei suoi seguaci, perché la sua politica ha un prezzo, ma nelle nostre questioni è stato a nostro favore, anche grazie al suo rapporto speciale con Netanyahu”. Ora Israele deve fare i conti con il proprio realismo.

Il Foglio, 9 marzo 2022)

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Dietro l’attivismo negoziale di Israele c’è il rilancio del gasdotto Eastmed

Bennett lavora per la pace e per l'alternativa mediterranea alle riserve russe. In autonomia da Washington, che aveva affossato l'idea per favorire Nord stream 2. E trovando partner insperati, da Erdogan a Hezbollah.

di Bruno Dardani

Nel medio termine, la speranza si chiama Eastmed. La chiave di una nuova politica energetica europea (in primis italiana) a traenza mediterranea potrebbe essere uno Stato di Israele, meno Usa-guidato e pronto a gestire una nuova diplomazia mediorientale. Ciò spiega le mosse del premier, Naftali Bennett, il volo a Mosca e i contatti con Ankara. Tre date a questo fine sono tanto importanti quanto sottovalutate dai media.

  1. 3 dicembre 2021: il quotidiano israeliano Haaretz pubblica stralci di un'intervista che Hassan Nasrallah, il leader di Hezbollah, ha rilasciato a una televisione iraniana. Per la prima volta Hezbollah dichiara che stabilire il confine marittimo fra Libano e Israele è responsabilità del governo di Beirut, di cui Hezbollah non fa parte, dando teoricamente via libera alla ripresa dei negoziati Libano-Israele sui ricchi giacimenti mediterranei di gas, Leviathan 1 e Leviathan 2.
  2. 17 febbraio 2022: Israele approva l'apertura di una nuova rotta, che attraverso il deserto del Negev e il porto giordano di Aqaba, consenta di esportare già quest'anno dai 2,5 ai 3,5 miliardi di metri cubi di gas, nell'ambito di un rapporto di collaborazione Israele- Egitto, già in atto.
  3. Marzo 2022: fra pochi giorni una delegazione israeliana dovrebbe iniziare colloqui con il governo turco, proprio per una definizione congiunta della politica energetica e di sfruttamento del Mediterraneo, puntando a superare le contrapposizioni, che durano da almeno un anno, sull'estensione delle acque territoriali di Cipro.

Tre date che potrebbero segnare una svolta nella politica di approvvigionamento energetico, generando un'alternativa stabile e affidabile al gas russo: un'alternativa che Bennett ha fiutato, muovendosi per la prima volta in autonomia rispetto al grande alleato Usa e rilanciando Eastmed, il gasdotto sottomarino da 6,8 miliardi di dollari e di circa 1.200 chilometri, che su pressioni tedesche appoggiate da parte della politica Usa, era stato congelato a favore del Nord Stream 2 (Russia-Germania). Eastmed non dovrebbe solo collegare i giacimenti offshore di Israele con le coste pugliesi, trasportando sin dall'inizio più di 10 miliardi di metri cubi di gas, ma sarebbe anche la chiave di volta di un sistema di gasdotti mediorientali interconnessi che, attraverso Israele e Cipro, sarebbero in grado di soddisfare la domanda europea.
   Nello scorso mese di novembre, il dipartimento di Stato Usa aveva inviato il suo nuovo consigliere per la sicurezza energetica globale, Amos Hoehstein, in Israele per contenere le ambizioni di Gerusalemme, ma la guerra in Ucraina sta facendo saltare tutte le barriere erette dagli Usa e dai tedeschi e sta dando ragione a compagnie come Chevron e Exxon, che non hanno mai cessato di credere in Eastmed e che ora potrebbero prendersi una rivincita su Joe Biden.
   Già oggi infatti Israele sta facendo del gas un potente strumento di realpolitik in Medio Oriente. Con gli Hezbollah che, forse, accetterebbero anche un'intesa Libano- Israele che consenta al Paese dei cedri di uscire dalla crisi energetica ed economica che lo attanaglia, e con la stessa Siria, che sottobanco compra energia da Israele. Il quadro degli equilibri in Medio Oriente, già sovvertito dagli Accordi di Abramo fra Emirati e Israele, e in propensione con l'Arabia Saudita, potrebbe trasformarsi in modo più radicale se il dialogo avviato fra Turchia e Israele produrrà i risultati che i media israeliani pronosticano.
   «Possiamo utilizzare il gas naturale israeliano nel nostro Paese e, oltre a usarlo, possiamo anche impegnarci in uno sforzo congiunto per il suo passaggio in Europa», ha dichiarato recentemente il premier turco, Recep Erdogan.
   Frasi choc considerando la tensione che ha caratterizzato i rapporti Turchia-Israele negli ultimi anni, con reciproche accuse sul tema della politica e dei sostegni alle organizzazioni (in particolare Hamas) nei territori palestinesi, e le tensioni sul fronte siriano. Ma oggi la Turchia, con un vicino scomodo come l'Iran, fornitore di gas, e con una crisi economica gravissima, ha bisogno di crearsi un'alternativa per non rinunciare agli introiti derivanti dal transito del gas verso Occidente. E i venti sono cambiati in modo più radicale di quanto si voglia far credere: nel febbraio scorso, il giornale saudita Al Riyad ha pubblicato una mappa nella quale si evidenzia come la Gaza electricity distribution company importi gas dalla lsrael electric corporation e compri carburante dal West Bank, che a sua volta lo importa da Israele. Con la pace sul fronte Sud rafforzata dal rapporto con gli egiziani e con l'apertura di credito a Nord con Libano e Turchia, suscita quindi sempre minore sorpresa il ruolo che Bennett si è ritagliato anche nella guerra fra Russia e Ucraina.
   Di certo il gas (grazie anche a connessioni prima impensabili come quella realizzata a Arish nel Sinai, fra lo Israel gas pipeline e l'Arab gas pipeline, che garantisce approvvigionamenti di gas a Giordania, Libano e Siria, e con prospettive concrete di estensione di questa rete sino a Istanbul), sembra essere diventato la vera arma segreta di Israele: quella che attribuisce al Paese un ruolo di riferimento e connessione con l'Europa e l'Occidente, e quasi di rappresentanza di una platea sempre più ampia di Paesi sino a ieri ostili.

(La Verità, 9 marzo 2022)

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Israele-Turchia. Herzog,: le relazioni con Ankara sono importanti per la stabilità dell'intera regione

GERUSALEMME - Le relazioni tra Israele e Turchia "sono importanti per Israele, importanti per la Turchia e importanti per l'intera regione. E per la prima volta dopo molti anni, ci sarà una visita in Turchia". Lo ha dichiarato il presidente di Israele, Isaac Herzog, prima di decollare alla volta di Ankara.
   “Non saremo d'accordo su tutto e il rapporto tra Israele e Turchia ha certamente conosciuto alti e bassi e momenti non così semplici negli ultimi anni, ma cercheremo di riavviare i nostri rapporti e di costruirli in modo misurato e prudente, e con rispetto reciproco tra i nostri Stati”, ha dichiarato ai giornalisti. Il capo dello Stato ha aggiunto: "Sottolineo sempre che la mia visione è che ebrei, musulmani e cristiani vivranno in pace nella nostra regione in un modo che porterà loro prosperità e vite perfette".
   Herzog ha precisato che gli obiettivi diplomatici della sua visita sono completamente coordinati con il primo ministro, Naftali Bennett, e con il ministro degli Esteri, Yair Lapid. Il riferimento è alla mediazione tra Russia e Ucraina avviata da Israele sabato, 6 marzo, con la visita di Bennett a Mosca, dove ha incontrato il presidente russo, Vladimir Putin, e all'incontro di lunedì, 7 marzo, tra Lapid e il segretario di Stato statunitense, Antony Blinken, in Lettonia. Il viaggio di Herzog di oggi rappresenta la prima visita di alto livello di un funzionario israeliano da quella dell'ex primo ministro Ehud Olmert nel 2008. Turchia e Israele hanno vissuto uno stallo nelle relazioni diplomatiche nel 2010 a causa della morte di dieci persone sulla nave Mavi Marmara che trasportava aiuti a Gaza.
   Il presidente israeliano giungerà nel pomeriggio ad Ankara e terrà una serie di incontri con il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, che ospiterà anche Herzog e sua moglie Michal Herzog per una cena di stato. La visita di Herzog in Turchia giunge dopo quelle degli ultimi dieci giorni in Grecia e Cipro.

(Agenzia Nova, 9 marzo 2022)

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Gli invisibili

Finalmente abbiamo trovato il cattivo: Putin. Rispetto a lui ci sentiamo tutti più buoni: è l'effetto che fa vedere in azione la cattiveria degli altri su altri. Non però su di sé, perché in tal caso la cattiveria non genera bontà, ma altra cattiveria. Ma affinché ci sentiamo più buoni bisogna che la cattiveria di altri su altri sia grande, molto grande, e soprattutto spettacolare: deve tenere fissa l'attenzione di tutti. Perché le cattiverie usuali, quelle osservabili nella vita di tutti i giorni, quelle non vale nemmeno la pena di chiamarle cattiverie. Adesso abbiamo la guerra, i morti, le distruzioni, la mostruosità d Putin, che volete mai che siano i "disagi" provocati da un semplice lasciapassare imposto per il buon funzionamento della società? Riporteremo sotto qualche esempio di semplice, usuale, addirittura legale cattiveria istituzionale e sociale. Ma nessuno si distragga, forse non vale nemmeno la pena di leggerli, questi esempi, perché a leggerli potremmo perfino sentirci un po' meno buoni. E allora, che senso ha?

• COSTRETTA A CEDERE DA UNO STATO PRIVO DI DIGNITÀ

   Sono una docente di una scuola superiore della città di Pordenone. Premetto - perché ormai per avere diritto di cittadinanza appare questa l'unica premessa possibile - che non sono contro i vaccini. Anzi, quando lo Stato trionfante ha annunciato l'arrivo del nuovo vaccino per il Covid-19 ho gioito per tutte le vite che avrebbe potuto salvare. Mi dicevo, fin dall'inizio, che questo strumento sarebbe stato preziosissimo per gli anziani e i fragili ma che per me, che non ho ancora raggiunto i 40 anni, sarebbe stato solo un'opzione possibile. Nel frattempo avevo scoperto, grazie a un test sierologico, di aver contratto il virus, probabilmente l'anno prima, in forma pressoché asintomatica. Man mano che lo Stato introduceva mezzi ricattatori per costringere gli Italiani a vaccinarsi, l'assurdità della situazione diventava più evidente, anche perché, ben presto, è apparso chiaro che il siero non ferma la propagazione del virus.
   Eppure, nonostante tutto, l'accusa implicita era sempre la stessa: sei un'egoista che non accetta di sacrificarsi per il bene comune! Era il colmo: fin da bambina mi sono impegnata nel volontariato (in parrocchia, in carcere, tra i giovani), convinta che fosse mio dovere morale interessarmi agli altri e in quel momento, nella mistificazione del reale, apparivo un'opportunista o una parassita, come qualche politico ci ha definiti. Ho iniziato, così, come molti italiani, a privarmi di tante occasioni di vita sociale e dei miei hobby; da settembre, in quanto docente, ho cominciato il supplizio dei tre tamponi settimanali sempre credendo che fosse importante difendere il valore della libertà di scelta: il corpo è mio (e del buon Dio), non dello Stato. Dovevo lottare per quei principi che a scuola insegniamo ai ragazzi, come la tolleranza, la non discriminazione, l'inclusione, il rispetto della persona (quante parole belle, politicamente corrette, senza significato).
   Infine, è arrivato purtroppo l'obbligo vaccinale, prima per noi docenti. Del resto, l'obbligo per la scuola era un test utile per il governo al fine di saggiare l'effetto delle proprie riforme sulla popolazione. E giunta così la sospensione, nell'indifferenza quasi totale dei miei colleghi, dei miei studenti e delle loro famiglie (qualche buon samaritano però non è mancato). La propaganda ha fatto bene il suo mestiere: chi sceglie di non vaccinarsi è un reietto e ogni punizione che gli si infligge è più che meritata. E poi, tutto sommato, «si sta solo applicando la legge». Lo Stato mi privava del mio ruolo, raggiunto con tanti sacrifici, svolto sempre con dedizione e impegno, sulla base di verità pseudoscientifiche, nel silenzio complice della maggioranza. Nella sua logica perversa, lo Stato desiderava piegarmi, togliendo dalla mia vita, oltre allo stipendio, tutto ciò che nutre lo spirito: i desideri, le passioni, i sogni, le gioie, le relazioni. Ho atteso e sperato - lo ammetto, questa è l'assurda situazione in cui ci ha spinto questo Stato oppressore - di ammalarmi ma nulla è accaduto (forse c'entra l'immunità naturale?). Alla fine, ho dovuto scegliere tra il mio lavoro, i miei studenti e la resa. La resa a un ricatto vile, a una scelta sotto molti aspetti irragionevole, a una vera violenza morale e fisica a cui dovevo sottopormi per conservare il posto di lavoro. Proprio questo ho scritto nel modulo del consenso informato che ho consegnato nelle mani di un medico vaccinatore il quale, tra i tanti discorsi da copione, ha cercato di convincermi della necessità del vaccino, sostenendo che l'età media di quanti muoiono si attesta tra i 50 e 60 anni (certo, perché l'idea diffusa è che il no vax analfabeta non sappia nemmeno leggere un rapporto dell'Iss). Così sono tornata a scuola con tanta amarezza nel cuore, sapendo che avrei dovuto continuare la lotta ma che il prezzo da pagare, in termini psicologici, per me era troppo alto. Ho pensato, per questo, di aver perso parte della mia dignità. Ma, riflettendo meglio, posso affermare con certezza che è lo Stato, con i suoi rappresentanti, ad averla tragicamente smarrita.

Patrizia Console

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• DOPO LA PRIMA DOSE HO DOLORI GIORNO E NOTTE

   Sono la mamma di due ragazzi di 12 e 17 anni che per evitare discriminazioni a scuola, per continuare a fare vita sociale e per poter continuare a fare attività sportiva sono stati costretti a vaccinarsi lo scorso dicembre. Ho resistito il più possibile facendogli fare tamponi due o tre volte a settimana, ma ora il tampone non basta più. E assurdo costringere dei giovani a vaccinarsi quando i rischi superano largamente i benefici. Io (ho 43 anni) ho fatto la prima dose di Moderna a dicembre, ma purtroppo, da allora, ho costantemente, giorno e notte, dolore alla testa, collo, spalla e braccio sinistro. Sto facendo accertamenti e visite ma nel frattempo, non avendo fatto la seconda dose, non posso più andare da nessuna parte, nemmeno a comprarmi un paio di scarpe. Si tratta realmente di normalità?

Miriam Zanella

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• MIO FIGLIO DISCRIMINATO A SCUOLA NONOSTANTE LA SINDROME DI DOWN

   Ho un figlio di 13 anni affetto dalla sindrome di Down. Per lui la scuola è fondamentale, necessaria, non differibile. Ogni mattina aspetta i compagni per andare a lezione, per godere di uno spazio di autonomia da vivere con i suoi pari che lo adorano.
   La sera del 9 febbraio è arrivata una circolare della scuola che, in base alla normativa vigente, determina la didattica a distanza. I non vaccinati con tre dosi sarebbero stati a casa, mentre gli altri ragazzi, «protetti» dal siero, sarebbero potuti andare a scuola. Mio figlio, intuita la situazione dai nostri discorsi, ha reagito male. È scoppiato a piangere, sentendosi in colpa. Poi, c'è stata una scena straziante, che farebbe stringere il cuore a qualsiasi genitore. Ha preso il quaderno per fare i compiti, fermamente convinto di voler andare in classe e ha cominciato a gridare: «Scuola aperta, no chiusa. Faccio i compiti non voglio restare a casa.
   Un momento veramente difficile, che ha provocato in me un fortissimo senso di ingiustizia.
   Mi sono attivato per convincere tutti i genitori a non mandare i bambini a scuola e non partecipare alla Dad ma, come sempre, una minoranza non tanto esigua ha giustificato la scelta della scuola perché dettata dalla legge. Mio figlio ha passato una notte terribile fatta di paure, nervosismo, sfiducia. La mattina del 10 febbraio ho avvisato l'insegnante di sostegno che il bambino, per protesta, non si sarebbe collegato in Dad. Dopo mezz'oretta vengo contattato dalla scuola che mi invita a mandare il bambino a scuola perché per lui non vale la circolare discriminatoria di Patrizio Bianchi e Roberto Speranza. A quel punto mi sono arrabbiato ancora di più. Ci troviamo davanti alla discriminazione nella discriminazione. Contatto la preside, una bravissima persona, e litighiamo quando mi dice che hanno le mani legate, che devono applicare la legge. L'ho invitata a contattare l'Associazione presidi affinché prendano una posizione precisa su questo atto discriminatorio e manifestino il profondo malessere che serpeggia tra i ragazzi e le famiglie.

Giorgio Cantarella
Gli invisibili

(La Verità, 8 marzo 2022)

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Calamità nazionale

Ripresentiamo un articolo di ieri emendato da una imprecisione di termine e da una svista di battitura.

L'’Italia, oltre ad aver un ministro degli esteri che ha la finezza diplomatica di dare dell'«animale» a un capo di governo straniero in guerra, abbiamo un premier che si è affrettato a dichiarare un altro stato di emergenza nazionale e a farci diventare "nazione ostile" da chi sta muovendo le armi, quasi invitandolo a mettersi anche contro di noi. Ma che ne capisce, il nostro capo di governo, di politica internazionale? Il Parlamento poteva avere il tempo per discutere, soppesare i pro e i contra nell'interesse sia nazionale che internazionale, si sarebbero potuti esaminare vantaggi e svantaggi, avremmo potuto dichiararci in un primo tempo neutrali e cercare il modo migliore per arrivare a una soluzione concordata. No, in quattro e quattr'otto ha fatto tutto lui. Tutti, nazione e popolo, trascinati davanti al fatto compiuto.
   C'è da sperare che presto aumenti il numero degli italiani che considerano l'attuale premier un’autentica calamità nazionale. Questo tecnico dei soldi, che riesce continuamente a condizionare governo e parlamento con successivi aut-aut, sembra avere la deliberata intenzione di colpire e danneggiare in tutti i modi possibili la nazione che dovrebbe servire e invece vuole pilotare a modo suo dalla sua “cabina di regia”. Il mare è burrascoso, ma il pericolo maggiore per la nazione viene da chi sta al timone della barca.
   Noi credenti sappiamo che nulla si muove senza che Dio lo consenta, ma dobbiamo chiederci in che modo stiamo interpretando la volontà di Dio in questo momento. Qualcuno ha detto che quando qualcosa di grosso avviene nel mondo, il Signore sta a guardare per prima cosa come si comportano due entità: Israele e la vera chiesa di Gesù (non l'istituzione ecclesiastica). Noi credenti in Cristo, che cosa pensiamo di tutto questo? In che modo preghiamo? La Scrittura ci invita a pregare per le autorità, ma in che modo lo facciamo? come preghiamo? che cosa chiediamo? Preghiamo forse come i credenti degli anni '30, che ringraziavano il Signore per aver dato alla Germania un uomo come Hitler che li avrebbe salvati dai nemici sovietici? Siamo forse spinti anche noi a pregare affinché il nostro capo di governo ci salvi dai cattivi russi diventati adesso fin troppo religiosi? Speriamo che non sia così. Speriamo, anzi cominciamo a pregare, che il Signore liberi presto la nostra nazione dall'uomo che ora ci sta guidando. Draghi non è diventato Presidente della Repubblica, e c'è chi ha pregato perché fosse così. Chi sa pregare, preghi affinché la guida del governo passi al più presto in altre mani. Se questo non avverrà, sarà pur sempre un'indicazione, un avvertimento del Signore a prepararci a tempi molto duri. Tempi di calamità nazionale, che ciascuno dovrà affrontare seguendo la propria coscienza davanti a Dio. M.C.

(Notizie su Israele, 8 marzo 2022)

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Le tristi verità

di Marco Travaglio

Nella follia della guerra scatenata da Putin, dovevamo vedere pure questa: i generali che ragionano molto più e meglio dei politici e dei giornalisti. No, non parliamo di Figliuolo e delle sue memorie, ma del gen. Mario Bertolini, già capo del Comando operativo interforze e presidente dell'associazione parà, che alla Verità e al Messaggero dice cose molto simili a quelle dell'ex collega Fabio Mini sul Fatto. Per molto meno, chiunque altro passerebbe per anima bella pacifoide o, peggio, serva di Putin.
  1. Le armi all'Ucraina sono "un atto di ostilità che rischia di coinvolgerci" nella guerra, mai visto prima: "Bastavano le sanzioni, anche inasprite".
  2. Putin non è un pazzo né il nuovo Hitler: ''Voleva interrompere il percorso che avrebbe dovuto portare l'Ucraina nella Nato "per non perdere ''l'agibilità nel Mar Nero.
  3. Il governo italiano non conta nulla e Di Maio che dà dell"'animale" a Putin "ci taglia fuori da ogni trattativa", diversamente dalla Francia di Macron.
  4. Guai a seguire Zelensky sulla noflyzone, che"significherebbe avere aerei Nato sull'Ucraina e l'incidente inevitabile".
  5. I negoziati non sono un bluff, ma una "dimostrazione di buona volontà delle due parti".
  6. La sconfitta di Putin esiste solo nei nostri sogni e nella propaganda occidentale: la Russia s'è già presa l'Est, collegando Crimea e Donbass; "le grandi città al momento sono state risparmiate e non è partita la caccia a Zelensky" per "precisa volontà" di Mosca, che finora ha limitato al minimo "i bombardamenti dall'alto" per non moltiplicare le strategie non provocare un "intervento Nato"
  7. Putin non ha bombardato la centrale di Zaporizhzhia: "Non ho visto missili, ma bengala per illuminare gli obiettivi" degli scontri con gli ucraini lì vicino: le radiazioni avrebbero colpito pure il Donbass e la Russia, che le centrali vuole controllarle, non farle esplodere.
  8. Putin non vuole conquistare l'Europa né rifare l'Urss né "governare l'intera Ucraina', ma "trattare una ricomposizione": un regime fantoccio sull'intero Paese scatenerebbe anni di guerriglia antirussa.
  9. "La Russia vuol essere europea e noi non facciamo che schiacciarla verso Asia e Cina”.
  10. Un successo ucraino è, purtroppo, fuori discussione. I possibili esiti sono due: una vittoria russa dopo "una lunga guerra"; o un negoziato che i soli mediatori credibili - Israele, Francia, Cina e Turchia - possono favorire se aiutano le due parti a trattare con reciproche concessioni anziché "istigarle a proseguire" nella guerra.
Dire queste cose, con pacatezza e realismo, non sposta di un millimetro la condanna dell'aggressore russo e non leva un grammo di solidarietà agli ucraini aggrediti. Significa conoscere per deliberare e scongiurare altre inutili stragi.

(il Fatto Quotidiano, 8 marzo 2022)

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Dall’emergenza sanitaria a quella bellica: dritti verso la dissoluzione

Riportiamo questo comunicato di un'associazione che nasce in ambito cattolico con  l'intenzione di opporsi alle disposizioni di legge "che violano palesemente i diritti fondamentali delle persone" e calpestano "le stesse prerogative di sovranità giurisdizionale della Chiesa". Come evangelici non ci schieriamo a difesa della "sovranità della Chiesa", che nel passato spesso ha calpestato i "diritti fondamentali" di cittadini non cattolici, ma prendiamo atto che i cambiamenti di paradigma politici e sociali degli ultimi tempi hanno rovesciato i "rapporti di forza" e spesso sono proprio dei gruppi cattolici ad accorgersi prima di altri di certe aberrazioni della società civile e ad essere più sensibili. In ogni caso, quando una cosa giusta è detta, bisogna accoglierla perché è giusta, indipendentemente da chi la dice. Oggi è particolarmente difficile farlo perché la gente non è interessata alla verità ma agli schieramenti. "Dimmi come ti schieri e ti dirò come ti tratto", questa è la "saggezza" che viene insegnata oggi, in primo luogo dal nostro governo. Siamo dunque molto contenti che un articolo come questo sia stato pensato e scritto. NsI

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Esaurito il pretesto della pseudo pandemia, il Governo non eletto protrae lo stato di emergenza trasformandolo da sanitario in geopolitico, grazie alla crisi Ucraina, provvidenzialmente fomentata da Stati Uniti e UE.

È il DL 14 del 25 febbraio 2022 che, in spregio all’art. 11 della Costituzione, impone all’Italia di prender parte attiva al conflitto contro la Russia; decisione scellerata, che assesterà il colpo di grazia alla nostra economia, già devastata e che ci esporrà a ritorsioni belliche dalle conseguenze inimmaginabili.

Alcuni si sono chiesti come sia stato possibile che quello stesso popolo, fino a ieri atterrito da un’influenza, oggi non tema, anzi plauda alla prospettiva di una guerra che potrebbe degenerare anche in guerra nucleare.

Nel caos politico, in cui all’emergenza sanitaria si sostituisce, in maniera repentina, l’emergenza geopolitica, occorre riuscire a porsi qualche domanda. E bisogna oltrepassare la cortina fumogena che, con strabiliante tempestività, la grande comunicazione e l’intero apparato della pubblica opinione, ad iniziare dagli interventi governativi, hanno gettato su ciò che sta accadendo. Su questo, ci limitiamo a notare che ulteriori strappi sono stati apportati al nostro impianto costituzionale, dal momento che su questioni di politica estera di capitale importanza il primo a dover esprimersi e dare indicazioni e direttive è il Parlamento. Anche a livello di Unione europea è sorprendente ed estremamente pericoloso il precedente creatosi di un’istituzione che non ha una sua forza militare, né fa parte di una qualche alleanza, e che intervenga a favore di una delle parti. Insomma, se con l’emergenza sanitaria abbiamo assistito, allibiti ed impotenti, alla distruzione dell’ordinamento giuridico e degli assetti politici interni, ora stiamo assistendo, altrettanto impotenti, all’eversione del diritto internazionale e di quello di enti sovranazionali come la UE. Altrettanto sconvolgente è che lo stesso fenomeno di ipnosi di massa, che impedisce di vedere alcunché con chiarezza, si sta rapidamente riproducendo. Anche negli anni immediatamente precedenti la Seconda guerra mondiale, le diplomazie operavano intensamente ed anche se hanno fatto degli errori, hanno tentato a lungo di evitare il conflitto. Ora, invece, la logica del diritto internazionale e sovranazionale, e con esso le diplomazie, sono semplicemente azzerate.

Presi nelle maglie della propaganda, di un sistema informativo che sta riproducendo le metodologie martellanti ed ipnotiche usate per l’emergenza sanitaria, schiacciati dalle prospettive che la guerra può aprire e dalle sue facili strumentalizzazioni, è opportuno ricordare la famosissima sentenza: «et erit opus iustitiae pax» (Is., 32, 17), che si può tradurre: «la pace è l’opera della giustizia».

Il passo di Isaia prosegue «et cultus iustitiae silentium et securitas usque in sempiternum» (Is. 32, 18)[2],; il frutto del diritto, inteso come forma di vita, sarà il silenzio, la tranquillità e la disposizione di ascolto di Dio e la sicurezza perenne. Apparentemente tutte cose in linea con le ansie pacifiste dei nostri contemporanei ma in realtà virtù, atteggiamenti, modi di porsi di fronte al mondo ed ai suoi problemi profondamente diversi. Anche i punti di riferimento, i frutti della giustizia vanno capiti in modo molto diverso dall’assenza di violenza, dall’affermazione di condizioni di tranquilla cooperazione internazionale e del conseguente, auspicato benessere generalizzato.

L’opus iustitiae pax non è il fine della sterilizzazione delle spinte conflittuali o delle loro conseguenze distruttive. Quell’opus, insieme opera, lavoro e frutto, è perseguibile e sperabile solo come dilatarsi della verità nella vita degli uomini e nella società. Ma cosa può mai significare ciò, in un mondo che si è consegnato mani e piedi alla postverità, ossia alla percezione soggettiva dei fatti e, conseguentemente, alla menzogna ad ogni livello della vita e della comunicazione? Vivere nella postverità e nella giustizia immaginaria che ne è il corollario, significa in primo luogo dissociarsi dalla realtà e, proseguendo nel violentarla, avanzare la micidiale pretesa di abolirla. Siccome, però, qualcosa deve pur esserci, questo significa, ulteriormente, sostituire la realtà con un qualcosa di profondamente adulterato, con qualcosa che dice di essere reale, ma ne è il completo stravolgimento. Non è questo l’esito, se non obbiettivo dell’intero apparato istituzionale e comunicativo che tenta di silenziare completamente i fatti, per sostituirvi la sua narrazione? Vietando in maniera coercitiva, all’occasione anche violenta, ogni forma di dissenso?

Il problema, però, è che ora parlano le armi e qualcosa di reale, di molto reale, può uccidere gli esseri umani e lacerare le nostre società. Ma e di nuovo, cosa vuol dire, allora, che il frutto della giustizia è la pace e che la giustizia è strettamente legata al vivere nella verità? Non significa forse che bisogna farla finita con tutte le operazioni di mascheramento della realtà, cosa in cui eccelliamo sia come individui che come sistemi sociali? Non significa forse ritornare alla semplicità di saper ascoltare gli altri, di parlare senza doppi fini e, prima ancora, di reimparare la grande virtù dell’umiltà di fronte al mondo, agli altri, e prima di tutto, al nostro Creatore e Redentore? Crediamo davvero di poter riottenere la pace solo con tecniche di controllo dei rapporti di forza? E di controllo delle coscienze, ossia del loro addormentamento con l’ipnosi di massa e la promessa di aver mano libera nel coltivare vizi e violenze sconvolgenti nella nostra vita “privata”, ossia nel raggio di azione diretta della nostra libertà? Crediamo davvero che si possa perseguire un ordine che porti come suo frutto duraturo la pacifica convivenza tra gli uomini e le nazioni, assumendo come unica unità di misura l’economia finanziarizzata, ossia il profitto che galleggia sull’usura universale? L’abolizione della storia, che è un passaggio ed un punto di arrivo necessario di questo processo di violenza nei confronti della realtà, è necessaria perché solo chi è schiacciato interamente sul suo presente, ossia sui circuiti della sua immaginazione ed alla fine del suo egoismo, è pienamente dominabile e controllabile. Ossia quell’individuo emancipato da ogni divinità terrestre e celeste, è pronto per essere inghiottito e digerito dal nuovo ordine mondiale.

Non vediamo che l’abolizione della verità, con l’espulsione della giustizia e l’aborto di ogni autentica pace, conduce inevitabilmente al più efferato dei totalitarismi? Quello in cui l’uomo non potrà più nemmeno dire: io sono e sono perché quell’Unico che con piena verità ha potuto dire “Io sono” è diventato l’unico vero impresentabile clandestino della nostra epoca?

Insomma, vivere nella verità, fare della giustizia nella verità – Iustitia in Veritate – uno dei fari della nostra vita, richiede, con forza, di riprendere in mano le nostre coscienze, con tutti i loro limiti e il grande richiamo alla responsabilità che la coscienza sempre ci mette davanti. Ma quella coscienza si potrà riaprire alle proprie profondità, solo se accetterà che nel suo punto più profondo, e sopra quel punto, abita, indomabile, la Verità di Dio.

(IUSTITIA IN VERITATE, 3 marzo 2022)

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Il manifesto di Kirill

di Matteo Matzuzzi

ROMA - "Non c'è un'aggressione di Putin, ma la restaurazione di una civiltà russa che si era dissolta. Queste accuse sono il risultato della paura che la Russia si riaffermi come potere indipendente e che voglia difendere la propria identità". Così parlava in un'intervista al Foglio del 2017 Aleksander Dugin, il "Rasputin di Putin", l'ispiratore del disegno euroasiatico del Cremlino. Aggiungeva, Dugin, che
    "quando la Russia si è avvicinata all'occidente, abbiamo capito che l'Europa non era più se stessa, che era una parodia della libertà, che era decadente e postmoderna, che versava nella decomposizione totale. Questo occidente non ci serviva più come esempio da seguire, per cui abbiamo cercato un'ispirazione nell'identità russa".
Ecco, l'identità russa, un qualcosa di metafisico, come ha detto domenica nella sua omelia il patriarca di Mosca, Kirill. Niente mani tese agli ucraini suoi fedeli che lo implorano da giorni di intervenire per fermare i cannoni di Putin, niente disponibilità ad accettare un intervento della Santa Sede, con quel Papa che pure stima e con cui s'era abbracciato all'Avana nel 2016. Kirill non tenta di portare a più miti consigli il suo presidente, anzi: "Per otto anni ci sono stati tentativi di distruggere ciò che esiste nel Donbas. E nel Donbas c'è il rifiuto, un rifiuto fondamentale dei cosiddetti valori che oggi vengono offerti da chi rivendica il potere mondiale". Valori che per il Patriarca sono quelli del "consumismo eccessivo", della "libertà" che si traduce nel permesso di organizzare "parate gay". Chi si rifiuta, come i bravi fedeli del Donbas, diventa un paria internazionale, un estraneo. Per dirla con le parole di Dugin, "noi abbiamo il cristianesimo, voi il gender".
   Il manifesto di Kirill, dove la guerra diventa una battaglia per l'identità russa, spirituale e ideologica, rischia di fargli perdere l'Ucraina, che oggi dà la metà dei preti al Patriarcato moscovita e il 35 per cento dei fedeli. Kirill, uomo di profonda cultura, ha la responsabilità d'aver soffiato sulle braci dell'orgoglio russo, alimentando la deriva nazionalista che ha come fine il trionfo della Grande madre Russia, depositaria dei veri valori che contrastano con le derive che hanno annacquato l'occidente. Doveva essere il Patriarca che avrebbe avvicinato Mosca all'Europa, si è condannato a vestire i panni del cappellano del Cremlino. Capo di una Chiesa squassata tra l' orgoglio di un clero ipernazionalista e centinaia di preti che guardano ai morti per le strade ucraine e non vogliono più neppure ricordarne il nome nelle divine liturgie. "Oggi - ha detto domenica - i nostri fratelli nel Donbass, gli ortodossi, stanno soffrendo, e noi non possiamo che stare con loro". Più che la lodata "saggezza" di Bergoglio, ha scelto l'agenda di Dugin.

Il Foglio, 8 marzo 2022)
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Bergoglio è il volto religioso adatto per una società decadente e postmoderna, è comprensibile che un editorialista di un giornale come il Foglio ne lodi la "saggezza". Anche in questo caso, indipendentemente da chi la dice e dai suoi motivi particolari, è vero che l'Europa è una parodia della libertà, è decadente, postmoderna (la verità non c'è, la verità si costruisce), in uno stato avanzato di decomposizione. M.C.

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Trent' anni di errori ci hanno portato sull'orlo del baratro 

Troppo facile. Non basta dire "Putin è un pazzo".  La Rivoluzione di Ottobre e la guerra fredda sono state due lacerazioni: dopo il 1989 a una ricomposizione si è preferito un conflitto senza fine.

di Domenico De Masi 

Almeno quattro cose sono certe: il continente europeo sta subendo una guerra che rischia di diventare nucleare; solo un pazzo può avere scatenato un tipo di guerra che rasenta la possibilità di distruggere l'intero pianeta; i rapporti geopolitici impostati negli ultimi anni tra l'Europa, questo pazzo e il popolo che egli rappresenta non sono riusciti a scongiurare un esito così catastrofico; dunque, questi rapporti vanno profondamente modificati e non possono essere ridisegnati dagli stessi soggetti che li hanno concepiti e gestiti finora. 
   Se nel nostro mondo fosse pazzo solo Putin, tutti gli altri se ne sarebbero già disfatti e avrebbero smantellato l'intero arsenale atomico, anzi non lo avrebbero mai creato. Ma i pazzi rappresentano una percentuale ragguardevole del genere umano, cui va a sommarsi quella non meno cospicua degli imbecilli. Dunque occorre pianificare fin da subito nuovi rapporti geopolitici dell'Europa, tali da metterei a riparo costante dalla soluzione finale che stiamo costeggiando in questi giorni. 
   I rapporti geopolitici intrattenuti finora partivano dal presupposto che il nostro continente è stato liberato dal nazi-fascismo grazie agli americani; che l'America rappresenta il modello da imitare perché il più avanzato in democrazia; che la Russia rappresenta un corpo strutturalmente, storicamente, culturalmente, economicamente, politicamente estraneo all'Europa e, quindi, da osteggiare o almeno da isolare. In Italia, durante tutta la guerra fredda (12 marzo 1947-3  dicembre 1989), questa ostilità è stata leggermente mitigata dal fatto che il PCI era il più grande partito comunista d'Occidente.
   Fino alla caduta degli zar la Russia si sentiva intimamente europea e le interazioni erano intense: basti pensare che la costruzione del Cremlino è stata avviata dall'architetto bolognese Aristotele Fioravanti e i palazzi più belli di San Pietroburgo sono opera di due grandi architetti italiani come Domenico Trezzini e Bartolomeo Rastrelli. Le élites russe hanno sempre parlato francese; Lenin e Gogol hanno soggiornato a Capri; Chaikovskij a Roma e a Firenze; Stravinskij a Venezia, dove ora è sepolto. In Italia Dostoevskij, Tolstoj, Cechov e Nabokov sono noti non meno di Manzoni o di Moravia. Poi, dopo la rivoluzione bolscevica del 1917, gli atteggiamenti degli europei si sono polarizzati tra simpatia verso l'Unione Sovietica da parte delle sinistre, e ostilità da parte delle destre. 
   Dopo la Seconda guerra mondiale è calato il grande freddo e tutta la scena è stata occupata dagli Stati Uniti per cui abbiamo considerato nostro dovere sentirci in sintonia più con Carson City, capitale del Nevada, a 9.787 chilometri da Roma, che con San Pietroburgo a 2.926 chilometri. E l'alleanza atlantica ha obbligato l'Europa a fare proprie le geopolitiche decise unilateralmente dagli Stati Uniti, per suo preminente interesse. 
   Con la caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda, l'Europa avrebbe potuto profittare del periodo di evidente debolezza russa per porre fine ai rapporti bipolari e sostanzialmente ostili sostituendoli con rapporti multipolari e tendenzialmente collaborativi. Un nuovo atteggiamento culturale avrebbe dovuto tenere conto che la Russia ha dato un contributo determinante alla sconfitta del nazi-fascismo; che il modello americano presenta pregi da mutuare ma anche difetti da evitare (imperialismo, neoliberismo, consumismo, disuguaglianze); che la Russia rappresenta storicamente un paese organico all'Europa; che alla lacerazione avvenuta con la rivoluzione d'ottobre e poi con la guerra fredda possono seguire solo due sbocchi: o una ricomposizione sinergica o un conflitto senza fondo. Avere scelto questa seconda alternativa ci ha portato inevitabilmente alle soglie del baratro che l'umanità non aveva mai sfiorato prima. Continuiamo a ripetere che Putin è pazzo ma resta il fatto che gli uomini e gli strumenti da noi mobilitati per neutralizzarlo sono falliti benché la spesa militare della Nato sia quasi 17volte superiore a quella russa e i suoi membri siano passati dai 12 del 1989 ai 30 attuali. 
   Questa infame tempesta che si è abbattuta sull'Ucraina ha trasformato il popolo russo in incubo per tutti gli altri popoli. Ma quando questa follia cederà lo spazio politico necessario per impostare un nuovo rapporto tra Europa e Russia, allora occorrerà intraprendere una lunga marcia perché queste due grandi aree del mondo riconoscano gradualmente le proprie affinità, smussino pazientemente le proprie divergenze, uniscano generosamente le proprie risorse a cominciare da quelle culturali, confluiscano sinergicamente in un grande soggetto sovranazionale capace di porsi come mediatore e pacificatore tra Usa e Cina, che covano in seno i germi di un potenziale conflitto nucleare ancora più sciagurato di questo.

(il Fatto Quotidiano, 7 marzo 2022)

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Gli Usa creano un Afghanistan in Europa

Washington ripete gli errori del passato, la Ue gli va dietro. Armando gli ucraini, compresi mercenari e gruppi neonazisti, gli americani stanno ponendo le condizioni per un conflitto lungo e per la nascita nel cuore del continente di un movimento xenofobo e ultranazionalista . Che poi userà quell'arsenale contro di noi.

di Maurizio Belpietro

Prima che al Riotta di turno venga in mente di associarmi qualche movimento filo Putin, chiarisco subito di non essere mai stato a Mosca, né a San Pietroburgo o a Ekaterinburg. Per dirla tutta, non ho mai visitato la Russia, né mi è mai capitato di incontrare qualche emissario del Cremlino. Non conosco l'ambasciatore della Federazione sovietica o il suo incaricato d'affari in Italia e, per rassicurare qualche idiota che via Twitter si interroga su quali siano le nostre fonti di finanziamento, La Verità non ha mai preso soldi da qualcuno che non siano i propri lettori. Infatti, a differenza di altre testate, noi non percepiamo un euro dallo Stato italiano e siccome non siamo L'Unità non abbiamo mai neppure beneficiato di una lira da quello russo. L'Aeroflot, cioè la compagnia aerea moscovita, non fa pubblicità sul nostro giornale, né mi risulta che ci siano altre società riconducibili all' entourage del Cremlino che abbiano mai comprato un solo francobollo da appiccicare alle nostre pagine. Insomma, detto in poche ma chiare parole, noi non abbiamo nulla da spartire con Putin.
   In compenso, devo confessare che negli ultimi quarant'anni ho viaggiato in lungo e in largo per l'America, passando da una costa all'altra degli States e visitando anche i luoghi più remoti e sconosciuti e non solo New York, Los Angeles o San Francisco come fa la maggioranza dei miei colleghi. Inoltre, più di una volta ho incontrato gli ambasciatori degli Stati Uniti che si sono succeduti in Italia nel corso delle diverse amministrazioni. In sintesi conosco l'America più di qualsiasi altro Paese al mondo, Italia esclusa. Vi chiedete perché abbia deciso di raccontarvi dove trascorro le mie vacanze e perché lo faccia proprio ora, che non è neppure periodo di ferie? La risposta è semplice: pur amando gli Stati Uniti, non posso nasconderne gli errori, soprattutto quando sono macroscopici come quelli che sono costretto a registrare in questi giorni.
   Mi spiego. Leggo spesso commenti che accomunano l'invasione in Ucraina a quella in Afghanistan. Dunque secondo gli osservatori, la campagna di Putin contro Kiev sarebbe destinata a fare la fine di quella di Breznev contro Kabul. Ovviamente non sono un analista militare e non posso dire se l'opinione sia fondata oppure no. Certo, invadere un Paese grande il doppio dell'Italia e con 42 milioni di abitanti non è come occupare la Crimea e il rischio di una guerra dei vent'anni esiste, perché sottomettere un popolo non è cosa che possa riuscire neppure a un esercito armato fino ai denti come quello di Mosca. A maggior ragione se l'America e la Nato si danno da fare per sostenere la resistenza.
   A prescindere dai torti dalle ragioni delle due parti in campo, l'Occidente ha scelto di schierarsi in difesa di quella ritenuta più debole ossia di chi è stato invaso. infatti l'Italia e gli altri Paesi europei hanno deciso di inviare armi agli ucraini, anche se quasi sempre l'arsenale in omaggio è costituito da ferri vecchi, destinati a essere dismessi. Da recenti rivelazioni si è scoperto che l'America ha iniziato ad armare Kiev addirittura prima della fine dell'anno scorso, cioè quando la guerra non era ancora scoppiata. Non solo: Washington sarebbe pronta a cedere a Zelensky e compagni anche aerei militari, per consentire all'Ucraina di combattere ad armi pari contro la Russia. Premesso che non mi piace la guerra per procura e che se qualcuno deve difendere la libertà lo deve fare a viso scoperto, ciò che sta accadendo è molto chiaro: per difendere Kiev l'America sta rischiando di far scoppiare una guerra mondiale nel cuore dell'Europa. Anzi, forse una guerra nucleare, perché Mosca non è Kabul e nemmeno Bagdad dunque basta poco perché la situazione sfugga di mano.
   Ovviamente non è la prima volta che gli Stati Uniti provano a esportare la democrazia e anche a sostenere il cambiamento di governi al di fuori dei propri confini. Purtroppo mi tocca registrare che non sempre è finita bene. Non penso solo alla Siria, alla Libia e all'Egitto, dove la Casa Bianca ha fomentato le primavere arabe con i risultati disastrosi a tutti noti. Penso proprio all'Afghanistan, e non alla catastrofica fuga dell'esercito americano, che ha riconsegnato il Paese ai talebani, ma al sostegno militare che 42 anni fa gli Usa fecero arrivare a chi combatteva contro i sovietici. Anche allora si affidarono le armi alle truppe irregolari nella speranza che facessero la guerra ai russi per conto dell'Occidente. E in effetti gli studenti coranici, insieme con i signori della guerra delle diverse tribù afghane, alla fine sconfissero l'Armata rossa, costringendola al ritiro. Il problema è che, dopo aver combattuto, i talebani non deposero le armi che l'America aveva consegnato, ma rivolsero bombe e fucili contro chi li aveva addestrati finanziati. Ecco, questo è il punto. A prescindere da come andrà la guerra in Ucraina e chi tra Zelensky e Putin vincerà, gli Stati Uniti stanno facendo lo stesso errore che hanno già compiuto in Afghanistan, in Siria e in Libia. Regalano arsenali per abbattere o contrastare un regime poi si ritrovano nel mirino di quegli stessi kalashnikov e noi con loro. I talebani sono nati grazie all'America e così pure lo Stato islamico, perché Washington ha usato i fondamentalisti contro Assad. Ecco, ora noi rischiamo di far nascere un movimento xenofobo e ultranazionalista in Europa. Perché, nonostante l'Europa faccia finta di non vedere, al fianco degli ucraini sono schierati mercenari e gruppi neonazisti che con la libertà e il diritto all'autodeterminazione dei popoli non hanno nulla da spartire. Come ormai mi pare chiaro, per fermare i russi noi stiamo armando delle milizie che domani potrebbero rivolgere i loro lanciamissili contro di noi. Se così fosse, l'Ucraina sarebbe davvero un nuovo Afghanistan ma nel cuore dell'Europa. Anzi, con un fucile puntato contro il cuore dell'Europa.

(La Verità, 7 marzo 2022)

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«Ormai è chiaro: il Covid è usato per una svolta autoritaria»

Il docente di diritto internazionale: «Società democratiche trasformate da propaganda e paura. Con la scusa della guerra l'acquiescenza tornerà buona per altre restrizioni»

di Alessandro Rico

La politica - e la maggioranza di governo - cominciano a svegliarsi: non più limitato alla Lega, il fronte di chi chiede l'abolizione del green pass anche sul lavoro si è allargato ai 5 stelle, dopo le sortite del leader, Giuseppe Conte. Ma tra tira e molla sulle regole da applicare ai profughi ucraini e road map per le riaperture che, diceva Mario Draghi prima che scoppiasse la guerra nell'Est, doveva essere diffusa a giorni e invece latita, siamo ancora al palo. Ne abbiamo parlato con il professor Luca Marini, che insegna diritto internazionale alla Sapienza di Roma ed è stato vicepresidente del Comitato nazionale per la bioetica. Attualmente, presiede l'European centre for science, ethics and law (Ecsel).

- Professore, in Francia, la prima a inventare il green pass come requisito per accedere ai luoghi pubblici, il certificato salterà il 14 marzo. In Italia, dal primo, per i turisti stranieri sono scattati gli allentamenti delle regole anti Covid. E c'è chi chiede che i profughi ucraini siano esentati dall'obbligo di super green pass. Ma i diritti dei cittadini italiani?
   «Non sono sicuro che tutti gli italiani siano consapevoli del fatto che il Covid è stato gestito mediante strumenti politici e non sanitari, né che siano consapevoli della reale portata discriminatoria degli strumenti utilizzati, in grado di colpire oggi chi ha scelto di non vaccinarsi e domani chi non farà ciò che il governo chiederà di fare. In queste condizioni, è difficile avere coscienza dei propri diritti o del rischio di perderli».

- E stato detto che il lasciapassare potrebbe introdurre surrettiziamente un sistema di credito sociale. È il lato oscuro della logica della «premialità», peraltro lodata dai vertici del sistema sanitario, come il coordinatore del Cts, Franco Locatelli?
   «Si, c’è il rischio che molti pretendano di far valere i privilegi derivanti dallo status di vaccinato o di titolare del green pass, magari anche a discapito di chi ha scelto di non vaccinarsi o di non esibire il cosiddetto lasciapassare verde: ovviamente dimenticando che domani potrebbero essere loro a essere discriminati. Da questo gioco esce "privilegiato" solo chi sceglie di azzerare capacità di analisi e spirito critico ed esce vincente solo chi governa, con buona pace dei principi su cui si fonda la società democratica e lo stato di diritto».

- Ritiene che quello che è successo da agosto 2021 in avanti possa rappresentare un precedente? Come dire: oggi c'è un certificato per premiare chi si vaccina e punire i renitenti, domani per premiare i cittadini ecologicamente virtuosi e punire quelli che lasciano un'eccessiva impronta ecologica ...
   «Aggiungerei l'evoluzione del conflitto in Ucraina e l'eventuale, futuro coinvolgimento diretto dell'Italia, che giustificherà - oltre alla proroga della durata delle Camere e quindi al mantenimento dello status quo politico-parlamentare - razionamenti di varia natura».

- Ad esempio?
   «Energia, cibo, acqua. Razionamenti che saranno in grado di premiare, come abbiamo detto, chi è più obbediente e remissivo».

- Il tema del green pass si riallaccia alla spinta sull'identità digitale Ue e all'integrazione con il fascicolo sanitario online. Lei vede il rischio di una «eternalizzazione» del certificato verde e di una stretta del controllo digitale esercitato sui cittadini.
   «La prospettiva è proprio quella che io chiamo "digitalizzazione estrema" della vita dei cittadini, che poi altro non è che l'ultimo anello della catena che si chiude al collo di tutti noi, ma ancor più di chi ha utilizzato compulsivamente e acriticamente gli strumenti della tecnologia della comunicazione. Nei confronti di questi ultimi ha ancora buon gioco chi presenta la digitalizzazione come totem di progresso e di modernità: ma è evidente che siamo di fronte al tramonto della favola della tecnologia al servizio dell'uomo».

- Si è detto che la carta verde non violava diritti e libertà, perché era l'equivalente della patente per l'auto,
   «È un paragone capzioso e fuorviante. È come dire che per essere titolari e per esercitare diritti fondamentali, perché immanenti nella natura umana, c'è bisogno di una licenza. di un permesso dello Stato. Se si consolidasse e si estendesse questo approccio, si avallerebbe la concezione contrattualistica dei diritti umani e si finirebbe per aprire la porta, in prospettiva, a derive eugenetiche e transumaniste».

- A cosa si riferisce?
   «Quali caratteristiche dovranno avere i nascituri per venire al mondo? O tutti noi, per restarci? E per avere istruzione e lavoro, assistenza e previdenza? Questo è ciò che si cela dietro il green pass fondato oggi sull'obbligo vaccinale, domani chissà su cosa, e chi ha sdoganato questo approccio ne è ben consapevole».

- L'obbligo surrettizio di vaccinarsi è compatibile con la Costituzione?
   «Direi che non si tratta più di un obbligo surrettizio, visto che la vaccinazione è ormai espressamente obbligatoria, secondo evidenze medico-scientifiche quanto meno curiose, per gli appartenenti a determinate categorie professionali e per i cittadini al di sopra di una determinata età».

- Però, appunto, ci garantiscono che è tutto costituzionale.
   «Andrebbe ricordato che l'articolo 32 della Costituzione non si limita a stabilire che nessuno può essere sottoposto a un trattamento sanitario obbligatorio se non per legge, che ovviamente dovrebbe essere il Parlamento ad adottare e non il governo, ma aggiunge che una legge del genere, se anche fosse adottata, non potrebbe violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana. E non ritengo, ma questa è la mia opinione di studioso, che il meccanismo introdotto dal green pass sia compatibile con il dettato costituzionale».

- La questione dell'obbligo per alcune professioni è stata portata all'attenzione della Consulta. Pensa che si aprirà una stagione di demolizione, a colpi di sentenze, dell'intera impalcatura che abbiamo costruito durante l'emergenza?
   «Ho seri dubbi al riguardo, visto l'orientamento espresso dai vertici del Consiglio di Stato e della Corte costituzionale. Ovviamente mi auguro di sbagliare».

- Già da qualche settimana, peraltro, parecchi scienziati confermano che il certificato Covid è stato uno strumento politico. Solo Walter Ricciardi continua a definirlo una garanzia di schivare le infezioni. E' normale dibattito tra esperti, o il consulente del ministro della Salute sta coscientemente mentendo agli italiani?
   «Dovrebbe chiederlo al dottor Ricciardi».

- Anche le giustificazioni offerte dal governo sono state ondeggianti. All'inizio, Mario Draghi aveva tirato fuori la storia della «garanzia» anti contagio; poi, si è cominciato ad ammettere che il green pass era un obbligo surrettizio; a un certo punto, il sottosegretario Andrea Costa ha detto addirittura che è servito a costringere gli italiani a fare tamponi e a favorire il tracciamento.
   «Ritengo che alla natura e alla valenza sanitaria del green pass abbia creduto solo chi professa una fede cieca nella scienza e nella medicina, oltreché nel governo in carica».

- Ora si discute di una eliminazione graduale del green pass, a partire, in realtà, da attività - come i locali all'aperto - per cui all'inizio non era nemmeno previsto. Perché, nonostante l'arrivo dei vaccini e l'alto tasso di «compliance», abbiamo avuto - e manterremo ancora a lungo - le regole più stringenti del mondo?
   «Perché, come diceva Churchill ottant'anni fa, siamo il ventre molle dell'Europa».

- Alcuni importanti filosofi, come Massimo Cacciari e Giorgio Agamben, da tempo lanciano l'allarme sullo stato d'eccezione perenne. Condivide i loro moniti? Ormai la cifra della politica è il governo per emergenze?
   «Sono sempre di più le persone che fanno fatica a credere che il Covid non sia stato un pretesto per trasformare in senso autoritario società liberali e democratiche. E sono sempre di più le persone che faticano a credere che la gestione del Covid non abbia fatto leva su quegli elementi che la teoria classica pone alla base del totalitarismo».

- Quali?
   «Ideologia, in questo caso il primato della medicina; propaganda, in questo caso pro vaccino; scienza, in questo caso ridotta a scientismo; e terrore, in questo caso di un virus e di una malattia su cui sono state celate molte verità, come sta emergendo ultimamente».

- Che soluzioni intravede?
   «Poche. Nessuna di natura politica, vista l'acquiescenza finora dimostrata dal Parlamento e dai partiti alla deriva in atto: in queste condizioni, rispondere secondo logiche politiche vuol dire soffocare sul nascere il dissenso e farsi assorbire, più o meno consapevolmente, dal sistema».

- Ci rassegniamo?
   «Ho più fiducia nel risveglio della consapevolezza individuale e collettiva e nella rifondazione delle basi culturali ed etiche della società. Con un gruppo sempre più nutrito di colleghi stiamo lavorando in questa direzione».

(La Verità, 7 marzo 2022)
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Certi intellettuali «liberal» ormai sono andati troppo avanti nel difendere o accettare l’obbligo del lasciapassare verde governativo con nobili motivi di responsabilità sociale per acconciarsi a fare la figura degli allocchi. Potranno mai ammettere di non aver capito niente? Sono abituati a essere sempre quelli che capiscono prima e un po’ più degli altri. Libertà conculcata? No, forma superiore di libertà. Diritti civili cancellati? No, concessioni più equamente distribuite. Risultato: silenzio. Si passa oltre, ci sono cose più importanti. Adesso poi c’è la guerra… Se i novax ultracinquantenni non possono lavorare in fondo è colpa loro. Basta vaccinarsi, e il problema è risolto.


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Cacciari sulla caccia ai putiniani

Il filosofo sbotta dopo la lista di proscrizione vergata su Repubblica: “È pensiero demenziale”.

Non ci sta, Massimo Cacciari, a finire nella lista di proscrizione dei “putiniani d’Italia”, quel lungo elenco redatto da Gianni Riotta su “Repubblica” per esporre al pubblico ludibrio chiunque si discosti minimamente dall’analisi unica geopolitica dei fatti ucraini. Ti poni degli interrogativi sui limiti della Nato in questo crocevia storico? Sei al soldo di Mosca. “Lo scriva così come glielo dico: Gianni Riotta è un c…”, replica Cacciari intervistato al “Fatto”. “Si è bevuto il cervello”.
   Per il filosofo quello che oggi abbonda sulle scrivanie dei giornali e delle “intelligenze” occidentali non è tanto il “pensiero unico”, che sarebbe pure una “cosa seria”, ma il “pensiero demenziale”. “Articolare un ragionamento, discernere, comprendere senza piangere né ridere – che è la regola di ogni buona filosofia – è diventato impossibile. Viviamo un’epoca di emergenza perenne, nella quale è tutto bianco o tutto nero. Provare a discernere è sempre più rischioso. In certi paesi si finisce in galera, in altri, se ci si avventura oltre l’opinione comune, ci si becca un Riotta”.
   In fondo Cacciari, prima filosofo stimatissimo a sinistra, ormai è diventato una sorta di paria. Un profeta in terra straniera da quando, insieme a Giorgio Agamben, ha osato opporsi al martellante conformismo sul covid, sulle sue regole e sui suoi green pass. Ieri lo stato di emergenza, oggi la guerra: il risultato non cambia.
   E pensare che riguardo Putin, Cacciari ritiene che “abbia commesso un errore strategico pazzesco”. Perché “una cosa è la Crimea o impostare una discussione in sede diplomatica sulle repubbliche indipendenti, un’altra cosa è questa tragica invasione in stile sovietico”. Un “errore colossale” che rischia di farci cadere in un conflitto mondiale e che “nasce da una debolezza personale di Putin”. Perché allora il filosofo è finito nel tritacarne con l’accusa di intelligenza col nemico?
   Ecco la risposta. “Penso sia chiaro a chi è dotato di memoria storica – spiega Cacciari – che queste sciagure, come quelle in ex Jugoslavia e Cecenia, ormai ignorate, derivano dal fatto che l’Occidente e l’Europa abbiano rinunciato ad avere una strategia dopo la vittoria della Guerra Fredda. Invece di limitarsi a osservare il disgregamento dell’Unione Sovietica, occorreva allora un’azione diplomatica, politica e culturale per governare questo processo, che riguardava e riguarda l’Europa da molto vicino. Non abbiamo fatto assolutamente niente. Anzi sì: abbiamo bombardato Belgrado”. In sintesi: pure l’Occidente ha le sue colpe.
   Anche Alessandro Orsini, professore della Luiss, ritiene che molte delle colpe di questo conflitto siano da imputare anche ad una errata azione geopolitica dell’Ue. E pure lui infatti è finito a “processo”, sia sui media che al Senato Accademico. Perché ormai non basta affermare, come fa Cacciari, che “l’Ucraina va sostenuta senza se e senza ma“: se ti permetti di far notare che “bisogna far capire alla Russia che si è pronti a sedere a un tavolo per risolvere le questioni controverse”, ammettendo “i nostri limiti e i nostri ritardi”, allora finisci con l’essere considerato un “putiniano”. Traditore dell’Occidente.

(Nicola Porro, 5 marzo 2022

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Gli scienziati israeliani hanno reso possibile la coltivazione dei tartufi del deserto

di Luca Spizzichino

I tartufi, si sa, sono in assoluto tra i cibi più rari e ricercati del mondo culinario. In Israele i ricercatori di Ramat Negev hanno scoperto come coltivare in mezzo al deserto una particolare specie di tartufo, chiamato per l’appunto “tartufo del deserto”.
   Ci sono oltre 40 specie di tartufo in tutto il mondo e condividono tutte un problema comune: possono prosperare solo in condizioni meteorologiche molto specifiche. Tuttavia, gli imprenditori di tutto il mondo stanno gareggiando per capire come coltivare l'oro dei funghi, poiché si stima che il settore crescerà fino a quasi $ 6 miliardi nei prossimi due decenni.
   E in Israele, sebbene non sia storicamente noto come centro per la produzione di tartufo, non si sono lasciati sfuggire l’occasione di scoprire come si coltiva il raro tartufo del deserto, famoso in tutto il Medio Oriente e nel Nord Africa. Questa specie può essere trovata solo vicino alle radici di un arbusto specifico e può costare dai 50 ai 200 dollari al chilo.
   Per migliaia di anni è stata una prelibatezza popolare, soprattutto tra le antiche comunità ebraiche durante le festività pasquali.
   "In Israele, gli unici che trovano i tartufi sono le tribù beduine locali", ha detto a i24NEWS Ofer Guy, uno scienziato di Ramat Negev, nel sud dello Stato ebraico. Per secoli è stato un mistero la provenienza dei tartufi, ora non più grazie al risultato raggiunto dai ricercatori israeliani nel deserto del Negev.

(Shalom, 5 marzo 2022)

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Il mio servo Giobbe (11)

di Marcello Cicchese

Riflessioni sul libro di Giobbe

Per qualcuno il libro di Giobbe dovrebbe cominciare nel primo versetto del capitolo 3: "Allora Giobbe aprì la bocca e maledisse il giorno della sua nascita" e terminare nell'ultimo versetto del capitolo 31: "Qui finiscono le parole di Giobbe". Il prologo e l'epilogo sono considerati contorno favolistico; e anche il successivo intervento di Elihu appare ridondante e superfluo. E' la conclusione inevitabile di una lettura antropocentrica del libro. L'immagine di un fiero contestatore di Dio e dei suoi ottusi paladini sollecita la hybris dell'uomo che si compiace della sua piena autonomia in tutti i campi.
   Il centro della questione si trova invece, come nel caso di Giona, nel problematico rapporto fra Dio e un suo servitore. In entrambi i casi il servitore si trova in disaccordo con la scelta di Dio perché non la capisce; è spinto a distaccarsi da Lui, ci prova, ma non ci riesce, perché Dio non glielo permette. E il modo in cui Dio lo fa è "meraviglioso", in senso letterale: desta meraviglia e pone interrogativi. Interrogativi che non sembrano trovare piena risposta all'interno dei due libri, che per questa ragione appaiono tronchi, privi di ciò che potrebbe dare loro una soddisfacente spiegazione. Ma è così per l'intero Antico Testamento, che si può paragonare a un romanzo giallo in cui manchi l'ultimo capitolo. L'intreccio è interessante, ma mancando il finale, le proposte di soluzione dell'enigma si accumulano senza che se ne trovi una decisiva e convincente.
   Anche la chiave interpretativa del libro di Giobbe non potrà essere trovata se si trascura il capitolo finale del romanzo giallo. In poche parole, come abbiamo già detto: non si può capire il libro di Giobbe se non si capiscono i Vangeli. E anche se questo collegamento richiede un impegnativo lavoro che qui si potrà soltanto abbozzare per accenni, quello che si può sicuramente dire è che il nocciolo del libro non si trova nel problema della sofferenza umana. E' del tutto fuorviante proporre agganci psicosociali con la realtà umana.
   Esaminiamo allora come riprende il racconto nel capitolo 32, dopo che Giobbe ha smesso di parlare.

  1. Quei tre uomini cessarono di rispondere a Giobbe perché egli riteneva se stesso giusto.
  2. Si accese allora contro Giobbe l'ira di Elihu, figlio di Barakel, il Buzita, del clan di Ram,  perché egli riteneva giusto se stesso anziché Dio.
  3. Anche contro i suoi tre amici l'ira sua si accese, perché non avevano saputo trovare la risposta, sebbene condannassero Giobbe.

Terminato l'acceso dibattito teologico fra i quattro, in questi tre versetti viene posto il vero problema che non ha trovato ancora risposta: la giustizia. Si noti la differenza tra i versetti 1 e 2. Secondo i tre amici, Giobbe riteneva se stesso giusto agli occhi di Dio, mentre secondo loro non lo era e non voleva ammetterlo. L'avevano invitato dunque più volte a modificare il suo atteggiamento e a rimettersi a posto con quel Dio che insieme avevano conosciuto, onorato e servito. Ma non ci erano riusciti: Giobbe non avvertiva di doversi pentire del suo passato. "Rifarei tutto come prima", avrebbe potuto dichiarare, come si dice qualche volta per proclamare la propria innocenza.
   Elihu invece ha capito che per Giobbe il problema non è il suo comportamento, ma quello di Dio. Respinge l'accusa di essere stato un "malvagio servitore", di avere infranto le regole di servizio. Quindi se quello che gli è arrivato addosso è una punizione, l'ingiusto è Dio. Gli argomenti degli amici non potevano toccarlo; i due discorsi si muovono paralleli in senso contrario e non possono incontrarsi: nessuna delle due parti poteva convincere l'altra.
   Elihu si arrabbia con entrambe le parti: con Giobbe, perché aveva capito dove voleva arrivare; e con gli amici, perché non avevano capito niente.
   "Ma io vorrei parlare con l’Onnipotente, avrei voglia di ragionar con Dio" (13:4), dice Giobbe agli amici che non sanno rispondergli perché non lo capiscono. Avrebbe voluto che ci fosse almeno un intermediario fra lui e Dio, ma non lo vede: "Non c’è fra noi un arbitro, che posi la mano su tutti e due!" (9:33).
   E Dio, senza che Giobbe se ne renda conto, glielo concede: è il giovane Elihu, il quale comincia subito ad attirare l'attenzione dell'accusato non mettendosi dalla parte dei suoi contestatori. Anzi li rimprovera: "Nessuno di voi ha convinto Giobbe, nessuno ha risposto alle sue parole" (32:13) si sentono dire i tre anziani amici dal giovane Elihu, che probabilmente nessuno di loro conosceva.
   "E' proprio così, questi non hanno capito niente", avrà detto Giobbe in cuor suo. Poi però sente dire da Elihu che "Dio soltanto lo farà cedere, non l'uomo" (32:13); e chi doveva cedere evidentemente era proprio lui. Ma se soltanto Dio avrebbe potuto farlo cedere, perché Elihu continua a parlare? In fondo anche lui è un uomo. Ma è un servo di Dio, costituito in questa occasione come suo portavoce. Il suo compito è simile a quello del gregario che in una gara ciclistica tira la volata al capitano per fargli vincere la gara. E Dio la vincerà, la gara. Riuscirà a far cedere il testardo che nessun uomo aveva potuto convincere; ma il suo servo deve preparargli il campo. Elihu è Dio in incognito, come Gesù con i discepoli sulla via di Emmaus (Luca 24:13-35).
   Dopo un preambolo di presentazione, Elihu  comincia il suo discorso in modo deciso e autorevole.

CAPITOLO 33

  1. Adesso ascolta, o Giobbe, il mio dire, porgi orecchio a tutte le mie parole!
  2. Ecco, apro la bocca, la lingua parla sotto il mio palato.
  3. Nelle mie parole è la rettitudine del mio cuore; le mie labbra diranno sinceramente quello che so.
  4. Lo Spirito di Dio mi ha creato, e il soffio dell'Onnipotente mi dà la vita.
  5. Se puoi, rispondimi; prepara le tue ragioni, fatti avanti!
  6. Ecco, io sono uguale a te davanti a Dio; anch'io fui tratto dall'argilla.
  7. Spavento di me non potrà quindi coglierti, e il peso della mia autorità non ti potrà schiacciare.
  8. Davanti a me tu dunque hai detto (e ho udito bene il suono delle tue parole):
  9. "Io sono puro, senza peccato; sono innocente, non c'è iniquità in me;
  10. ma Dio trova contro me degli appigli ostili, mi considera suo nemico;
  11. mi mette i piedi nei ceppi, spia tutti i miei movimenti".
  12. Ecco, io ti rispondo: "In questo non hai ragione"; poiché Dio è più grande dell'uomo.
  13. Perché contendi con lui? Egli non rende conto dei suoi atti.
  14. Dio parla una volta, e anche due, ma l'uomo non ci bada;
  15. parla per via di sogni, di visioni notturne, quando un sonno profondo cade sui mortali, quando sui loro letti essi giacciono assopiti;
  16. allora egli apre i loro orecchi e dà loro in segreto degli ammonimenti,
  17. per distogliere l'uomo dal suo modo di agire e tenere lontano da lui la superbia;
  18. per salvargli l'anima dalla fossa, la vita dalla freccia mortale.
  19. L'uomo è anche ammonito sul suo letto, dal dolore, dall'agitazione incessante delle sue ossa;
  20. quando egli ha in avversione il pane e lo ripugnano i cibi più squisiti;
  21. la carne gli si consuma e sparisce, mentre le ossa, prima invisibili, gli escon fuori;
  22. egli si avvicina alla fossa, e la sua vita a quelli che infliggono la morte.
  23. Ma se, presso di lui, c'è un angelo, un interprete, uno solo tra i mille, che mostri all'uomo il suo dovere,
  24. Dio ha pietà di lui e dice: "Risparmialo, che non scenda nella fossa! Ho trovato il suo riscatto".
  25. Allora la sua carne diviene più fresca di quella di un bimbo; egli torna ai giorni della sua giovinezza;
  26. implora Dio, e Dio gli è propizio; gli dà di contemplare il suo volto con gioia e lo considera di nuovo come giusto.
  27. Ed egli canterà tra la gente e dirà: "Avevo peccato, pervertito la giustizia, e non sono stato punito come meritavo.
  28. Dio ha riscattato l'anima mia dalla fossa, e la mia vita si schiude alla luce!"
  29. Ecco, tutto questo Dio lo fa due, tre volte, all'uomo,
  30. per salvarlo dalla fossa, perché su di lui splenda la luce della vita.
  31. Sta' attento, Giobbe, dammi ascolto; taci, e io parlerò.
  32. Se hai qualcosa da dire, rispondimi, parla, perché io vorrei poterti dare ragione.
  33. Se no, tu dammi ascolto, taci, e t'insegnerò la saggezza».

La prima differenza fondamentale fra gli amici di Giobbe e Elihu è che i primi accusano Giobbe per quello che avrebbe fatto nel passato, mentre Elihu attacca Giobbe per quello che dice nel presente. Prende infatti in attento esame le sue parole: "Davanti a me tu dunque hai detto ...", sottolineando il fatto di essere testimone di quello che lui ha detto.
   E per avvertirlo della precisa responsabilità che si sta prendendo, aggiunge: "... e ho udito bene il suono delle tue parole" .
   Poi  ripete quello che Giobbe ha precisamente detto: "Io sono puro, senza peccato; sono innocente, non c'è iniquità in me". Dicendo questo però Giobbe non voleva in primo luogo scusare se stesso, come gli amici pensavano, ma accusare Dio, come invece Elihu ha capito. Il resto di quello che ha detto lo fa capire chiaramente: "ma Dio trova contro me degli appigli ostili, mi considera suo nemico; mi mette i piedi nei ceppi, spia tutti i miei movimenti".
   Ecco dunque l'accusa chiara contro Dio. E questo è precisamente il nocciolo del libro di Giobbe: il contrasto, in un tempo storico ben preciso, tra Dio e un uomo da Lui scelto e dichiarato come suo servitore. Come nel libro di Giona.
   Nel suo progetto redentivo di "riconquista della terra", Dio forma il suo esercito e costituisce i suoi ufficiali. Accade ogni tanto che qualcuno di questi ufficiali non si comporti secondo gli ordini ricevuti o non sia d'accordo con la strategia del Capo Supremo. Sorge allora un problema di "politica interna", cioè di rapporto tra Dio e il suo servitore. Nel caso di Giobbe, come in quello di Giona, la natura del contendere sta nel modo in cui bisogna trattare il nemico.
   Per Giona il nemico sono i pagani niniviti, che non devono essere perdonati;  quindi non riesce ad accettare quello che Dio vuol fare con loro. Per Giobbe invece il nemico vero è Satana, ma lui non lo sa e nella sua percezione il nemico è il male che commettono gli uomini nella loro cattiveria. Come servitore che "teme Dio e fugge il male" (1:8), Giobbe si è sempre applicato a combattere il male con tutte le sue forze, esercitando l'autorità che Dio gli ha data (29:1-25). Che significato può avere allora quella mazzata caduta addosso a lui, fedele servo di Dio, senza nessun preavviso, nessun rimprovero, nessuna spiegazione, nessuna conclusione prevista? Ecco dove sta l'enigma, sia per lui che lo viveva allora, sia per noi che lo leggiamo adesso.
   Se questo è il vero centro del libro, se si tratta di politica interna di Dio con evidenti conseguenze su quella estera, l'unico modo per tentare di capirne i meccanismi è rivolgersi alla rivelazione stessa che Dio ne fa, cioè la Bibbia.
   Si deve dire anzitutto che questo contrasto "interno" al progetto di Dio nasce da una spinta proveniente dall'esterno: la richiesta di Satana. E questo dovrà essere approfondito. In ogni caso, Dio acconsente. Senza avvertire il suo servitore, senza prepararlo. Errore tattico? Spazio concesso improvvidamente al nemico? Ovviamente no: doveva essere così. Satana, che è molto esperto di questioni giuridiche eterne, sapeva che nella legislazione di Dio la sua richiesta è giuridicamente legittima, quindi l'ha fatta. Accondiscendendo alla richiesta di Satana, Dio dunque non ha ubbidito ad altri che Se stesso.
   E di mezzo c'è andato Giobbe. All'oscuro di tutto. Ma anche questo doveva procedere così. Per Satana la richiesta era un'azione di guerra contro Dio, per Giobbe doveva essere un test di fedeltà al suo Signore. E in un test, come nel caso dei compiti in classe, l'esaminando è lasciato solo. Anche Gesù dovette superare un test all'inizio del suo ministero: quaranta giorni da solo nel deserto, senza cibo, attorniato da bestie selvatiche, senza nessuno con cui scambiare due parole ad eccezione di Satana, le cui proposte costituivano appunto il documento che Gesù doveva esaminare per esprimere il suo giudizio e fare la sua scelta. Solo dopo che l'esame fu superato a pieni voti, Dio mandò degli angeli a servire Gesù (Matteo 4:11). Satana, avendo ormai sparato tutte le sue cartucce, si allontanò, ma, come dice il Vangelo, "fino ad altra occasione" (Luca 4:13).
   A proposito, dove stava Satana mentre Giobbe litigava coi suoi amici? E' una buona domanda, servirà per studiare l'andamento del test, che in realtà costituisce il centro della discussione su questo libro.
   Quello di cui possiamo essere certi è che il candidato ha superato la prova. Lo dimostra chiaramente l'epilogo, che proprio per questo non può essere assolutamente tralasciato.
   Ma quando è avvenuto il superamento del test? Ci sono due possibili risposte:
   1) alla fine dei due attacchi espliciti di Satana, quando Giobbe accetta da Dio anche il male (2:10);
   2) alla fine delle parole di Elihu, quando dice: "[Dio] non degna di uno sguardo chi si presume savio" (37:24).
   Nel secondo caso l'aspetto positivo di Giobbe sta nel fatto che ha accolto la strapazzata di Elihu senza dire una parola, cosa che con gli amici non aveva mai fatto, anzi li aveva ridotti al silenzio. Con Elihu invece le cose sono andate diversamente. Dopo avergli impartito una prima sonora lezione, Elihu si rivolge a Giobbe in tono secco: "Sta’ attento, Giobbe, ascoltami; taci, ed io parlerò. Se hai qualcosa da dire, rispondimi, parla, perché io vorrei poterti dare ragione. Se no, tu dammi ascolto, taci, e t’insegnerò la saggezza" (33:31-33). E' la voce di Dio. E Giobbe non apre più la bocca.
   E' preferibile la prima delle due tesi, ma il portare argomenti a favore dell'una o dell'altra richiede una riflessione sui testi biblici che in ogni caso è legittima e produttiva.

(11) continua

(Notizie su Israele, 6 marzo 2022)


 
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L’incubo dell’Ucraina è l’incubo di Israele

Non ci sono stati fraintendimenti nelle intenzioni di Putin sull’Ucraina come non ci sono fraintendimenti sulle intenzioni degli Ayatollah iraniani in merito allo Stato Ebraico

Oggi ho ascoltato sconcertato e sconsolato le parole del Presidente Ucraino il quale denunciava come l’Ucraina fosse stata lasciata sola dalle “grandi potenze democratiche”.
   «Questa mattina difendiamo il nostro Stato da soli. Come ieri, le forze più potenti del mondo stanno guardando da lontano» ha detto Zelenskyj.
   Zelenskyj si chiede a cosa servano le sanzioni se gli aerei russi volano nel cielo ucraino e i militari russi calpestano il suolo dell’Ucraina.
   Queste poche drammatiche parole del Presidente ucraino mi hanno fatto pensare all’Iran e a Israele. Mi sono chiesto cosa succederebbe se l’Iran – appoggiata da Russia e Cina – attaccasse in qualche modo Israele.
   Mi sono chiesto se anche lo Stato Ebraico subirebbe la sorte dell’Ucraina, costretto a combattere da solo contro forze preponderanti e lasciato solo dalla solite “grandi potenze democratiche”.
   Oddio, in fondo sta succedendo dato che le “grandi potenze democratiche”, tra le quali oltre all’America anche Russia e Cina, stanno firmando un documento che faciliterà l’Iran nella sua inarrestabile corsa alla bomba atomica.
   Mi sono chiesto se Israele può ancora contare sull’appoggio americano. E non sto parlando di appoggio diplomatico, che do per scontato, ma parlo di appoggio militare.
   Può ancora Israele contare sull’appoggio militare americano dopo la fuga dall’Afghanistan e prima ancora dal Kurdistan? Può Gerusalemme contare su Washington dopo l’Ucraina? Ma soprattutto, può Israele contare sull’America dopo quello che uscirà da Vienna?
   Temo fortemente che non andremo lontani da una situazione simile a quella dell’Ucraina e che Israele verrà lasciato da solo.
   Non è la prima volta che lo Stato Ebraico viene lasciato da solo. È nato lasciato solo. Ma questa volta di fronte ha un nemico perfido che usa il terrorismo come arma offensiva e si appoggia a gruppi terroristici per raggiungere i propri obiettivi.
   L’accerchiamento dell’Ucraina è molto simile a quello che sta subendo Israele. Ambedue sono avvenuti nella quasi indifferenza generale mentre chi accerchiava dichiarava apertamente le proprie intenzioni.
   Non ci sono stati fraintendimenti nelle intenzioni di Putin sull’Ucraina come non ci sono fraintendimenti sulle intenzioni degli Ayatollah iraniani in merito allo Stato Ebraico.
   Eppure sembra che sia tutto normale e quando quelle [dichiarate] intenzioni vengono messe in atto tutti fingono di stupirsi, anche se sono anni che dicono quello che vogliono fare.
   Sembra di vivere in quell’incubo dove vedi crollare tutto, urli a squarciagola per avvisare gli altri ma nessuno ti sente.
   Ecco, l’Ucraina è la realizzazione di quell’incubo che non voglio si realizzi per Israele, perché è inutile essere una potenza militare e persino nucleare se in mezzora puoi ritrovarti i Guardiani della Rivoluzione alle porte di Gerusalemme.
   È vero, queste sono sfide già affrontate [e vinte] da Israele, ma questo nemico è subdolo, si è garantito l’appoggio internazionale e quando riterrà di essere pronto cercherà in ogni modo di mettere in pratica quello che da anni urla ai quattro venti: distruggere Israele.

(Rights Reporter, 5 marzo 2022)


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Minacce da Teheran e ricordi della Shoah. Così Israele si è ritrovato in una tenaglia

Zelensky accusa Bennett: troppo tiepido nella solidarietà a Kiev In realtà gli aiuti sono ingenti, ma la scelta non è stata facile, Gerusalemme rischia la vendetta di Mosca che l'ha protetta in Siria.

di Fiamma Nirenstein

«Non ho visto Bennett avvolto nella bandiera ucraina». Zelensky, disperato e deciso a utilizzare la solidarietà ebraica che gli spetta, ha aperto nei giorni scorsi un fronte di critica verso Israele. Non fa abbastanza, ha detto, chiedendo al premier Bennett di mediare fra lui e Putin. Zelensky ha anche lanciato un commovente appello agli ebrei del mondo intero chiedendo di aiutarlo. D'altronde, l'unico fronte su cui può vincere contro un nemico infinitamente più forte è purtroppo quello della solidarietà.
   Venerdì 25 febbraio Israele non si era astenuto sul voto alla bozza di risoluzione Usa al Consiglio di sicurezza Onu, comunque destinata a non passare per il veto russo. Al contrario, mercoledì scorso, Israele ha addirittura co-sponsorizzato la risoluzione di condanna dell'Onu. Cos'è accaduto nel frattempo? Israele ha scelto fra il cuore e la mente e ha deciso per quella cosa strana che si chiama «essere dalla parte giusta della storia». Ma non è stato facile, perché Israele è in un'autentica tenaglia.
   Dal 2015, dopo la fuga di Obama, i russi si sono presi la Siria, salvando Assad e fornendo un riparo agli iraniani e a Hezbollah. Di fatto, quindi, Israele confina con la Russia, ed è grazie all'accordo con Putin che quel confine non è un inferno. Senza, Israele non potrebbe neutralizzare le basi militari e missilistiche e i trasporti di uomini e armi che i suoi peggiori nemici compiono a pochi chilometri da Gerusalemme, e Israele sarebbe bombardata ovunque dal confine.
   Parallelamente, gli Stati Uniti richiedono oggi a Israele uno schieramento assoluto: dalla Guerra dei Sei Giorni gli Usa sono il maggiore referente strategico, nonché un partner militare e un finanziatore. Un prezzo però c'è: l'associazione di Israele agli Usa nella mentalità comune è costata non poco sul piano ideologico, suggerendo che Israele sia il «piccolo Satana» al servizio di quello grande, colpevole di imperialismo e malefatte mondiali. Ma l'alleanza è vitale. La Cnn, pilastro dell'informazione antisraeliana, ha ripetuto che Israele non si univa la blocco antirusso; per molti si sarebbe anche rifiutato di fornire il sistema missilistico Iron Dome a Kiev, cosa impossibile per i tempi lunghissimi e l'indispensabile assenso americano. Il governo è restato in equilibrio con un gioco delle parti fra Naftali Bennett e Yair Lapid, ministro degli Esteri, ma oggi ogni leader israeliano condanna in ogni discorso Putin: il sentiero della prudenza era troppo stretto anche se vitale, soprattutto quando entra in gioco il nucleare.
   Israele ha un reattore a Dimona, inoltre Putin è alleato dell'Iran, osservato speciale ai colloqui di Vienna, dove la minaccia nucleare di Teheran rischia di passare sotto traccia. Eppure Israele ha scelto di condannare la Russia, dove tra l'altro vivono un milione di ebrei. E di farlo nonostante il pesante ruolo degli ucraini nella Shoah, dall'eccidio di Babyn Yar ai nazionalisti di Stephan Bandera che collaborarono con i tedeschi. Tuttavia Israele oggi aiuta gli ucraini in ogni modo: Putin è imprevedibile, ma l'Ucraina oggi ha le stesse ragioni per cui Israele resta democratica anche quando è in guerra.

(il Giornale, 5 marzo 2022)


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La tenaglia

di Marcello Cicchese

Anche "Notizie su Israele" si trova tra le morse di una tenaglia. Già da un po' di tempo. Da quando si è posto il dilemma: difendere Israele o combattere la menzogna? E' cominciato col Covid-19. Da un certo momento in poi Israele è stato dapprima vittima, poi propulsore della menzogna vaccinale. Tutto quello che si muove intorno a virus e rimedi costituisce un oscuro impasto di mezze verità e intere menzogne che si solidifica in una grande MENZOGNA che trasforma discutibili e parziali risultati positivi nella "verità" governativa. Arrivati a questo punto, la MENZOGNA può trasportare tutti da qualsiasi parte. Anche Israele. Che su questo piano non è difendibile.
   Adesso è passata in primo piano la guerra Russia-Ucraina. Quello che si fa vedere dai media sono bombardamenti, distruzioni, morte. Nessuno può approvare queste cose, ma Israele e i suoi amici sanno che le distruzioni e i morti palestinesi provocati da Israele che i media facevano vedere erano autentici, ma la selezione e la lettura che ne facevano i media alimentava la menzogna contro Israele. E anche se non si vuole paragonare gli ucraini con i palestinesi, i metodi usati per diffondere menzogna sono gli stessi.
   Adesso abbiamo un Capo di governo che con decreto ministeriale ha messo la nazione in guerra, ed è lo stesso presidente che con una serie di menzogne sempre più sfacciate e colpi di mano sempre più pesanti sta mettendo in ginocchio la nazione. Le notizie diffuse dai media filogovernativi sono ormai a priori prive di credibilità. Anche quando dovessero contenere spezzoni di verità, sono inaccettabili e devono essere rifiutate, se non si vuole cadere nella malia della menzogna organizzata.
   Il discorso da fare su Israele si complica proprio perché la comunità ebraica italiana ha accolto, sembra all'unanimità, la narrazione pro-vaccino governativa e ora quella filoucraina. E' un adeguamento così totale e acritico che sinceramente mette in imbarazzo chi scrive.
   Per Israele la cosa è più difficile, e da quello che abbiamo letto anche per i commentatori italiani pro-Israele. Israele ha scelto l'Occidente, ma Netanyahu, che ha avuto il torto enorme di far dettare le linee antipandemia dalle multinazionali farmaceutiche, era per il resto un politico vero, e sapeva giostrare fra le potenze nazionali. I suoi successori no. L'attuale governo israeliano assomiglia un po' a quello italiano: un'ammucchiata di forze contrastanti tenute insieme dal semplice desiderio di restare a galla, sorretta una misura fuori del normale di tatticismi, finzioni e menzogne. Adesso Israele sembra non poter far altro che consegnarsi mani e piedi a un Occidente a guida statunitense che però è ormai un Occidente marcio, nella politica, nei costumi, nel modo di pensare. "Israele siamo noi" è il titolo di un libro di Fiamma Nirenstein, e in quel noi pensava naturalmente all'Occidente laico, liberale e progressista, in contrasto con un Oriente religioso, autoritario e arretrato. Ma non è vero che Israele appartiene all'Occidente, e non è vero che costituisce la linea di difesa contro la barbarie religiosa dell'Oriente. Netanyahu, appoggiandosi a Trump, aveva incrinato questo dualismo schematico con gli Accordi di Abramo; Bennett non potrà appoggiarsi a Biden, e se ci proverà, se vorrà appoggiarsi all'America come nel passato fece Israele con l'Egitto, potrebbero arrivargli da Putin parole come quelle che Sennacherib, re d'Assiria, fece arrivare a Ezechia, re d'Israele: "Ecco, tu t'appoggi sull'Egitto, su questo sostegno di canna rotta, che penetra nella mano di chi vi s'appoggia e gliela fora; tal è Faraone, re d'Egitto" (2 Re, 18:21). E tale è Joe Biden, Re d'America: un sostegno di canna rotta.
   Per Israele riprendono tempi difficili fra le nazioni. Ha già perso il primato mondiale ottenuto con le vaccinazioni, e potrebbe avvicinarsi il tempo in cui il mondo arriverà a "scoprire" un'altra volta che al fondo di tutti i guai ci sono loro, gli ebrei. E più precisamente: Israele. Questo potrebbe accadere quando qualcuno farà notare che gli ebrei ucraini, a differenza degli altri, sono potuti scappare nella loro "vera" patria, mentre gli altri hanno dovuto cercare rifugio in patrie altrui. Non è vero? Sì, è vero, ma la forza della MENZOGNA potrebbe trovare il modo di inventare qualche colpa da attribuire agli ebrei come sottosocietà ucraina e a Israele come nazione.
   Qui la menzogna si può collegare con i vaccini. I media filogovernativi, tutti pronti ad appoggiare le misure coercitive del governo in fatto di vaccini, si sono gettati a pesce sulle notizie che riportavano novax vestiti da ebrei nei campi di sterminio. Il fatto in sé è esecrabile, ma giustifica questo tutto lo spazio scandalizzato che se ne è dato sui media? Era davvero un fatto pericoloso? E tutta la prontezza a offendersi in modo sdegnato degli ebrei italiani è stata una reazione intelligente? Non viene il sospetto che tutto questo clamore mediatico pieno di indignazione potrebbe avere altri scopi, tutti rientranti nella politica della menzogna? Certo, non si può fare un paragone tra l'ebreo che si avvia alla camera a gas e un ragazzo (o una ragazza, altrimenti si potrebbe essere accusati di offesa al gender) a cui si vieta di andare in discoteca. Certamente no. Però altri paragoni di discriminazione tra cittadini e esempi di revoca di diritti sociali si potrebbero fare. Perché non si fanno? Non si conoscono? Allora ne riporto qui uno, soltanto un esempio.
    «Orgogliosa di essere invisibile, è così che mi sento. Over 50, sospesa dal lavoro dopo 35 anni nella stessa azienda da sana e praticamente impossibilitata a fare qualsiasi cosa, sono felice di avere la possibilità di non cedere al ricatto perpetrato da questo governo. Mi dispiace per loro ma «l'offerta che non potrai rifiutare» molti di noi, con fatica, la stanno rifiutando. Siamo dalla parte della ragione perché un governo che discrimina i suoi cittadini, da cui però continua a pretendere le tasse, è un abominio. Dell'ostracismo sociale non mi importa nulla perché chi lo mette in pratica non vale neanche mezzo pensiero. La sola cosa che mi dispiace è che, per la prima volta, mi vergogno di essere italiana, vorrei essere nata altrove e sto pensando di scappare da questo Paese. E di questo ringrazio anche tutti quei connazionali che girano la testa dall'altra parte o la mettono sotto la sabbia.»
    Cristina Lotito
Altri esempi si possono trovare nei pdf allegati a queste pagine. Sono casi che aumentano ogni giorno. Il rischio è che la gente si abitui e li consideri come uno dei tanti elenchi di persone in difficoltà, e magari potrebbero dire che i profughi che stanno arrivando si troveranno in situazioni ben peggiori. Si tenga però presente che i casi elencati non sono frutto di guerre o calamità naturali, perché sono tutti causati da precise scelte di governo. Sono casi che potrebbero essere tutti evitati se non ci fossero certe disposizioni di legge. E se anche ora ci sono, potrebbero essere cancellate. Perché non lo si fa? Perché non lo si chiede? C'è qualcuno che ha sottoposto questi casi all'attenzione, per esempio, della senatrice Liliana Segre? Se qualcuno di peso dicesse qualcosa, forse qualcosa potrebbe cambiare. Ma fino ad ora nulla è avvenuto.
   Termino sottolineando alcune parole della nostra connazionale riportate sopra: "... mi vergogno di essere italiana... E di questo ringrazio anche tutti quei connazionali che girano la testa dall'altra parte o la mettono sotto la sabbia". Forse almeno in questo qualche analogia col passato si potrebbe trovare.

(Notizie su Israele, 5 marzo 2022)

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Gli invisibili

• PER ESERCITARE DEI DIRITTI NATURALI RISCHIO LA SALUTE
   Sono una ragazza di 29 anni, una mamma, una studentessa che da mesi cerca di ritrovare un minimo di serenità, dignità e libertà. Non sono vaccinata e non posso usufruire di quei diritti naturali che la legge mi garantisce dalla nascita. Sono mesi che cerco un medico che tuteli la mia salute, ma no, non c'è. I miei dubbi rispetto alla vaccinazione sono cominciati nel luglio scorso. A causa di un problema cardiaco, ho iniziato una terapia, che da lì a poco ho necessariamente sospeso per reazioni avverse che potevano coinvolgere una persona su 100.000. Avendo sviluppato problemi neurologici gravi ho espresso i miei dubbi sulla vaccinazione al mio medico di famiglia, che mi ha rimandato al parere del medico vaccinatore. Quest'ultimo, dopo avermi aggredito per aver espresso dubbi sul siero, una volta spiegata la situazione, mi ha detto che non mi avrebbe vaccinata visti i precedenti e che l'avrebbe fatto solo se la vaccinazione mi fosse stata espressamente prescritta, non rilasciandomi però alcun tipo di esenzione. Ho chiesto a chi mi sarei dovuta rivolgere ma senza ottenere risposta. Ho parlato con molto medici, farmacisti, operatori sanitari di qualsiasi tipo: nessuna risposta, nessuno sa cosa fare. Il mio medico pochi, giorni fa, ha nuovamente lasciato a me la responsabilità di scelta, «vaccinati o se non sei sicura vai avanti con i tamponi». Io non cerco responsabili, so che i medici rischiano molto, ma noi pazienti non siamo più assistiti, non è la nostra salute a essere primario interesse del medico, a oggi c'è un vero e proprio conflitto d'interessi.
   Personalmente non ho paura del vaccino in quanto tale, è un farmaco. Purtroppo però non essendo una terapia non potrei sospenderlo in caso di reazione avversa. È proprio di uno Stato di diritto tutto questo? Devo mettere a rischio la mia salute per poter usufruire dei miei diritti fondamentali? Vi pongo queste domande perché a oggi non so darvi risposta.
Valeria Rucci

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• HO VISTO MORIRE I MIEI GENITORI ATTRAVERSO UN TABLET
   Ho 50 anni. Avendo deciso, pensando fosse una libera scelta, di non vaccinarmi, ho dovuto rifiutare diverse proposte di lavoro e sono stata costretta a percepire una Naspi esigua, dopo più di 30 anni di contribuzione e di pagamento regolare e difficoltoso delle tasse. Ho tre figli di cui due ancora a carico. Sono confinata su un'isola e impossibilitata negli spostamenti pubblici nella stessa perché non mi posso permettere l'acquisto di un'auto. Sono scandalizzata dalla deriva di scelte politiche, oltre che discriminanti, stigmatizzanti e totalitarie. Ho subito due lutti negli ultimi sei mesi, sono mancati i miei genitori, vaccinati nonostante i dubbi su un siero che non era da somministrare a loro, pluripatologici. Li ho visti morire attraverso un tablet e da soli, con l'impossibilità materiale di far sentire giuridicamente la mia e la loro voce. I miei figli non vaccinati sono discriminati, non possono prendere un autobus per recarsi a scuola, frequentare un'attività sportiva, ricreativa e formativa, recarsi in biblioteca, teatro, cinema, bar o altre attività aggregative e socializzanti. Sono spaventata ed esausta nel richiedere cure che, vista la mia patologia, hanno bisogno di un riscontro fuori dall'isola che è sempre più difficile da ottenere.
Adelaide Mereu
Gli invisibili

(La Verità, 5 marzo 2022)

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La prima ricostruzione storica del “Lodo Moro”

Come la politica ha venduto gli ebrei italiani al terrorismo palestinese

di Ugo Volli

Sono passati quattordici anni dalla clamorosa intervista al quotidiano israeliano Yediot Aharonot, in cui Francesco Cossiga svelava che gli ebrei italiani erano stati “venduti” dai governi italiani ai terroristi palestinesi, in cambio di un’immunità del territorio italiano, che poi in effetti non si realizzò mai appieno.
   Il “lodo Moro” come fu chiamato questo accordo, rimase però materia politica e giornalistica, ma finora non era mai stato fatto oggetto di un lavoro storico: un fatto di per sé significativo, perché esso spiega molti episodi di terrorismo, dall’assalto alla Sinagoga di Roma che fece molte decine di feriti e uccise un bambino, Stefano Gay Tachè, alla strage della stazione di Bologna, dagli attacchi a Fiumicino ai sequestri dell’Achille Lauro.
   Ora però è uscito uno studio abbastanza ampio di una storica accreditata, Valentine Lomellini, intitolato per l’appunto Il lodo Moro. È un libro che va letto con molta attenzione, perché nasce dallo studio delle carte riservate della Presidenza del Consiglio, del Ministero degli esteri, e di fonti dei servizi segreti, nonché di diplomazie straniere (Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti).
   Lomellini non ha evidentemente gran simpatia per Israele, tant’è vero che lo nomina un paio di volte con la sineddoche diffusa nel giornalismo ma fattualmente sbagliata di “Tel Aviv”, mentre sistematicamente nomina i movimenti palestinisti come “Resistenza palestinese”, o addirittura “la Resistenza”. Non segue le tracce, ormai largamente accreditate, dei legami fra palestinismo e servizi segreti del blocco dell’Est, accredita la tesi giustificazionista di un Arafat moderato ma impotente che non riesce a frenare le “frange estremiste” della “Resistenza”. Lomellini assume chiaramente il punto di vista delle sue fonti e solo raramente si interroga sulla legittimità dei loro pretesi obiettivi di “difesa del territorio nazionale” a spese di alcuni cittadini italiani di serie B, gli ebrei…
   Ciò nonostante, dal libro emerge che “più che di lodo Moro, bisogna parlare di ‘Lodo Italia’, nel senso che vi collaborarono i politici democristiani (non solo Moro, ma Andreotti, Taviani, Rumor…) e socialisti, con l’appoggio pieno della sinistra, ma anche la magistratura, concedendo libertà provvisorie immediate ai terroristi che regolarmente fuggirono, la Presidenza della Repubblica (Leone che concesse la grazia a terroristi che non si riusciva a rilasciare altrimenti), i servizi segreti, la diplomazia. Lomellini riporta addirittura un’indiscrezione proveniente da “ambienti del Ministero degli Interni” che attribuiscono a quello degli Esteri il pagamento di un cospicuo mensile alla “Resistenza”.
   L’altro elemento che emerge è il fatto che non si trattò di scelte emergenziali, ma di parte di una sistematica politica filoaraba e anti-israeliana che mise l’Italia in contrasto non solo con Israele ma anche con gli alleati europei e gli Usa. Insomma la liberazione degli assassini che avevano dirottato l’Achille Lauro non fu un colpo di testa di Craxi, ma l’applicazione di una politica cento volte ripetuta. E così probabilmente anche la sospensione della protezione di polizia al Tempio di Roma, prima di un attentato che era stato annunciato. Per i terroristi arabi l’Italia era un rifugio, una base, un passaggio sicuro, un luogo dove agire senza rischi contro i loro nemici, in primo luogo gli ebrei. È una storia da ricordare e su cui meditare.

(Bet Magazine Mosaico, 4 marzo 2022)

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Israele nel mezzo

Fra aiuti all’Ucraina e rapporti con la Russia, Gerusalemme è nel guado. Parla Kuperwasser

di Giulio Meotti

ROMA - “Israele vuole essere dalla parte giusta della storia, l’Ucraina, ma allo stesso tempo non vuole distruggere il suo rapporto e coordinamento con i russi e le loro forze in Siria, che aiutano molto Israele a non finire nei guai”. Parlando con il Foglio da Kyiv, Ron Ben Yishai, il più importante giornalista del maggiore quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, da quarant’anni decano dei corrispondenti militari (immortalato nel film “Valzer con Bashir”, è l’unico giornalista che abbia visitato il reattore nucleare vicino a Damasco dopo che era stato distrutto da Israele), sintetizza così la posizione di Gerusalemme sulla guerra in Europa. “Allo stesso tempo, moralmente, Israele sostiene l’Ucraina ed è contro l’attacco ingiustificato da parte della Russia su un paese indipendente. Israele non vende armi all’Ucraina, ma dispositivi protettivi. Ieri ho incontrato un soldato ucraino, che quando ha saputo che ero israeliano, mi ha mostrato il suo giubbotto antiproiettile prodotto da noi”. Il giorno in cui la Russia ha invaso l’Ucraina, il primo ministro israeliano, Naftali Bennett, non ha citato la Russia nemmeno una volta. Ha pregato per la pace, ha chiesto il dialogo e promesso sostegno ai cittadini ucraini. Bennett ha lasciato al ministro degli Esteri, Yair Lapid, il compito di criticare Mosca in una dichiarazione separata. C’è poi stata una prima astensione su un voto di condanna all’Onu (Israele in seguito ha votato con le altre democrazie).
   Dopo le richieste del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, Bennett si è offerto due volte di mediare fra Russia e Ucraina, e i funzionari israeliani hanno fatto la spola tra le controparti russe, ucraine e americane: “Una mediazione che potrebbe aver contribuito alla decisione dell’Ucraina di incontrare i funzionari russi al confine bielorusso-ucraino”, come scrive Ronen Bergman sul New York Times. Domenica, Bennett è stato anche uno dei primi capi di stato a parlare con Putin. Benjamin Netanyahu ha detto al governo di stare “calmo” sulla Russia. C’è a chi non piace tanto equilibrismo. Zelensky ieri ha criticato l’attendismo del premier israeliano. Barak Ravid di Axios ha parlato con alcuni ufficiali dell’Amministrazione Biden, che gli hanno rivelato: “Abbiamo detto agli israeliani che questo è il momento di decidere cosa è giusto e cosa è sbagliato”. Nathan Sharansky, che guidò il dissenso dei refusnik ebrei in Unione sovietica, ha invitato il suo governo ad assumere una “posizione morale chiara”. Il rabbino capo dell’Ucraina, Moshe Azman, ha fatto appello al rabbino capo russo, Berel Lazar, vicino a Putin, perché condanni la guerra. Yossi Kuperwasser del Jerusalem Center for Public Affairs è uno dei più noti esperti israeliani di sicurezza, passato dall’esercito dove ha diretto la ricerca alla direzione del ministero degli Affari strategici. “A Israele il presidente ucraino ha chiesto di intervenire come mediatore”, ci racconta Kuperwasser. “Se possiamo contribuire a mettere fine a questa tragedia, lo faremo. Questa invasione russa deve essere condannata, per questo abbiamo votato contro i russi all’Onu, ma allo stesso tempo non c’è soltanto la condanna, ma bisogna trovare un modo per fermarla, per motivi umanitari e perché non vogliamo un confronto con la Russia, che è presente in Siria, dove ci sono Hezbollah e l’Iran. E Israele ha bisogno della sua libertà di movimento. Dobbiamo mantenere il coordinamento con i russi in Siria. Facciamo parte dell’occidente, del mondo libero, ma siamo anche in una situazione complessa. Sia gli americani sia i russi capiscono la nostra posizione”.

Il Foglio, 4 marzo 2022)

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La telemedicina israeliana in soccorso dei rifugiati ucraini

Assistere i rifugiati ucraini attraverso la telemedicina. Questo l’obiettivo di Israele, che offre aiuto ai profughi che hanno necessità di cure mediche a distanza grazie all’utilizzo di dispositivi altamente avanzati.

di Jacqueline Sermoneta

A questo scopo, lo Sheba Medical Center, il più grande ospedale d’Israele, ha attivato il programma ‘Sheba Beyond. Your virtual hospital’.
   A Chisinau, capitale moldava vicino al confine con l’Ucraina, è presente un medico dello Sheba e numerosi volontari, che sottopongono ad esami clinici i rifugiati ucraini, utilizzando sistemi ad alta tecnologia di fabbricazione israeliana. Grazie a questi dispositivi i pazienti riescono ad interagire direttamente con i medici in Israele. Il team Sheba fa parte di una delegazione inviata dall’organizzazione israeliana di soccorso United Hatzalah.
   “Ho curato tutti – ha detto il prof. Gadi Segal, direttore di telemedicina interna allo Sheba – Gestanti, uomini, donne e anziani affetti da seri disturbi a causa del lungo viaggio per arrivare al confine. E poi ci sono i bambini e i pazienti cronici, che hanno bisogno di esami del sangue urgenti. Tutti sono assistiti a distanza dallo Sheba Center”.
   A causa della diffusione del Covid-19 Israele ha implementato l’assistenza sanitaria: “Durante la pandemia abbiamo appreso come la telemedicina possa rivoluzionare la medicina. Ora la stiamo utilizzando per curare i rifugiati – ha aggiunto Segal – Abbiamo superato confini e distanza. Siamo in grado di dare precise diagnosi cliniche e consulti a pazienti in zona di guerra, anche in prima linea”.
   Uno dei sistemi utilizzati è il dispositivo a ultrasuoni portatile per la diagnosi prenatale della PulseNmore, che permette di controllare lo stato di salute del bambino, trasmettendo le immagini direttamente al Dipartimento di Ostetricia e Ginecologia dell’ospedale.
   TytoCare, la piattaforma All-in-one del settore sanitario, basata sull’Intelligenza Artificiale, consente di eseguire esami clinici completi di cuore, pelle, orecchie, gola, addome, polmoni, oltre al rilevamento della temperatura corporea e della saturazione di ossigeno nel sangue.
   Rilevante anche la funzionalità wireless del sistema di Biobeat Medical Technologies, grazie al quale sono monitorati i principali segni vitali dei pazienti, che vengono visualizzati in tempo reale.
   "Sentivamo l'obbligo morale di fornire sul campo la tecnologia e l'esperienza dei medici e degli specialisti dello Sheba Medical Center, al fine di aiutare i rifugiati", ha affermato Sarit Lerner, responsabile del programma ‘Sheba Beyond’.

(Shalom, 4 marzo 2022)

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Israele mediatore. Teme ricadute su Siria e nucleare

Invece di sposare in pieno la linea americana, il paese guidato da Naftali Bennett sceglie di essere moderato sull'invasione dell'Ucraina. In gioco ci sono gli interessi sul fronte settentrionale.

di Davide Lerner

ROMA - «Non ho memoria di un'altra guerra in cui Israele fosse considerata un interlocutore e potenziale mediatore da entrambe le parti in conflitto», dice da Gerusalemme un ex alto funzionario del ministero degli Esteri israeliano. «Il nostro primo ministro sente Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky e si fa portatore dei loro messaggi. Se questo calcolo strategico andasse a buon fine la conseguenza sarebbe un successo diplomatico che non mi pare abbia precedenti». Il prezzo da pagare è una minore sintonia con gli Stati Uniti «È vero, non seguiamo alla lettera la linea degli americani, siamo più cauti; ma sono sicuro a Washington apprezzino questo nostro ruolo, che sta già aumentando il nostro prestigio a livello internazionale», dice.

• IL CONFINE SIRIANO
   Il "calcolo strategico" è determinato soprattutto dalla presenza dei russi in Siria «Abbiamo l'esercito russo sulla frontiera settentrionale, con jet, un po' di fanteria e sistemi di difesa anti aerea, oltre a qualche carro armato e veicoli blindati», dice l'ex dirigente israeliano, alludendo al ruolo di protettore assunto dal Cremlino presso il regime di Bashar al Assad a Damasco. È quella che il ministro degli Esteri Yair Lapid prima della guerra aveva definito "una situazione un po' baltica", sintetizzata così: «Abbiamo una specie di frontiera con la Russia». Sono anni che Israele conta sul tacito benestare di Mosca quando colpisce, con i suoi raid aerei, bersagli iraniani, siriani, oltre che della milizia libanese Hezbollah Si tratta di un vantaggio a cui non vuole rinunciare. Gli interessi fanno da contrappeso al giudizio morale sull'invasione.

• GLI EBREI IN RUSSIA
   Ma la Siria non è l'unico dei fattori che hanno portato Israele a mantenersi prudente, gravitando soltanto negli ultimi giorni verso condanne un po' più in linea con le democrazie occidentali. Ariel Bulshtein, un punto di riferimento delle destre israeliane per tutto ciò che riguarda l'ex Urss, consigliere in passato in particolare di Avigdor Lieberman e Benjamin Netanyahu, sottolinea quanto incida anche la preoccupazione per gli ebrei che tutt'ora risiedono in Russia. La questione non riguarda tecnicamente Israele ma «c'è una silente consapevolezza che basterebbe solo una decisione personale di Putin e la situazione degli ebrei in Russia potrebbe velocemente deteriorarsi, le loro libertà messe a rischio».

• IL NUCLEARE
   C'è infine la questione dei negoziati sul nucleare con l'Iran, in corso a Vienna. Netanyahu, ora leader dell'opposizione dopo oltre dodici anni al governo, ha chiesto che attenzione ed energia della politica si concentrino su Teheran piuttosto che su Kiev. «Ho sentito troppe dichiarazioni inutili e previsioni fasulle negli ultimi giorni, sfortunatamente. Chiedo al governo di essere più responsabile e di parlare meno di cose delle quali non si dovrebbe parlare. E concentrarsi piuttosto sulla vera minaccia esistenziale alla nostra sicurezza: il ritorno a breve dell'Iran a un pericoloso accordo nucleare. Su questo Lapid e Bennett non dicono e non fanno nulla». Nel frattempo a Tel Aviv la Russia si ritrova al centro anche della kermesse delle start up del tech, la Cybertech Global TL V 2022 conference. Nadav Zafrir, un ex capo dell'unità 8.200 dell'esercito israeliano, quella specializzata in "signal intelligence" da cui poi nascono la moltitudine di aziende private leader mondiali nel settore, ha messo in guardia sul potenziale cyber dei russi.
   «Non sappiamo cosa accadrà, ma sappiamo che probabilmente i russi hanno, escludendo l'occidente, gli strumenti cyber più sviluppati, sul piano difensivo ma anche offensivo. Potrebbero impedire agli occidentali di estrarre gas naturale, oppure stabilire che, siccome sono stati esclusi dal sistema Swift, allora nessuno deve poterlo usare, e intervenire per metterlo fuori uso».

• GERUSALEMME
   Difficile dire se questo aspetto influenzi la politica di Bennett, che giovedì ha partecipato alla conferenza sul tech. Ma sicuramente per il premier, uno dei pochi leader ad aver parlato con Putin dopo l'inizio dell'offensiva, è stato gratificante discutere giovedì con Zelensky la proposta di Gerusalemme come sede delle trattative per un cessate il fuoco. La domanda è se possa mantenere la sua "terza via" nonostante l'aumento della pressione degli americani, sempre più insofferenti verso il gioco delle parti con cui si astiene dal criticare la Russia, lasciando al ministro degli Esteri, Yair Lapid, il ruolo del poliziotto cattivo (anche lui però è stato criticato per non avere citato Mosca nel tweet di condanna del bombardamento del memoriale dell'Olocausto di Babi Yar). William Cohen, un ex segretario della difesa degli Stati Uniti d'America, ha detto alla Cnn che malgrado il suo «conflitto d'interessi» Israele «deve prendere una decisione, se stare con i russi oppure con gli Usa e l'occidente».
   Persino il repubblicano Lindsey Graham, che è considerato fra i senatori il più vicino a Israele, si è fatto sentire. «L'Ucraina ha chiesto a Israele il sistema (di difesa antimissilistico) Stinger, e pare gli sia stato risposto di no. Allora io ora alzo la cornetta e li chiamo. Ne ho titolo perché noi ci siamo dati da fare quando c'era da aiutare Israele con Iron Dome», ha detto. Proprio sulla cessione dell'Iron Dome, la tecnologia che permette di abbattere i missili in arrivo, Zelensky aveva ricevuto il no di Israele.

(Domani, 4 marzo 2022)

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Gli oligarchi scappano col tesoro. La nuova terra promessa è Israele

Raffica di sanzioni, almeno 30mila manager pronti a chiedere la cittadinanza: temono di perdere i loro patrimoni.

IL SALASSO
I 22 uomini più ricchi della Russia hanno già perso oltre 80 miliardi dall'inizio dell'anno
LA FUGA DEI PAPERONI
Aerei e yacht si possono spostare, ma far uscire altre ricchezze è difficile.

Gli oligarchi russi fanno le valigie. Gli ultra-ricchi moscoviti, spina dorsale del sistema politico-economico che circonda il satrapo del Cremlino, sentono il fuoco sotto i piedi. 122 oligarchi che fanno parte dei 500 individui più ricchi del mondo, infatti, hanno perso complessivamente 83 miliardi di dollari dall'inizio di quest'anno, in base ai calcoli del Bloomberg Billionaires lndex. E le perdite si sono concentrate soprattutto nelle ultime due settimane, da quando Vladimir Putin ha lanciato l'invasione dell'Ucraina. Le azioni delle società russe quotate a Londra, dal produttore di combustibili Novatek al produttore di acciaio Severstal, hanno perso oltre metà del loro valore solo dall'inizio di questa settimana, dopo l'inasprimento delle sanzioni. Oltre alle perdite cartacee, le sanzioni ora stanno iniziando a colpire anche le loro vite private. Sfrecciare nei cieli d'Europa con il Gulfstream è diventato impossibile, dopo che l'Ue e il Regno Unito hanno bandito gli aerei di proprietà russa dal proprio spazio aereo, e a scorrazzare con il mega-yacht per i mari europei si rischia il sequestro, mentre la stagione degli acquisti discreti di immobili di lusso a Londra e Parigi volge al termine, con le nuove leggi che richiedono ai proprietari esteri di rivelare la propria identità.
   Perfino la neutrale Svizzera ha impedito l'ingresso a 5 oligarchi vicini a Putin e ha deciso di chiudere anche il proprio spazio aereo a tutti i voli dalla Russia. I primi a essere colpiti direttamente dalle sanzioni dell'Ue sono stati il magnate dei metalli Alisher Usmanov, gli investitori immobiliari Mikhail Fridman e Petr Aven e il magnate del metallo Alexei Mordashov. L'Airbus A340 di Usmanov è decollato lunedì da Monaco e ha lasciato lo spazio aereo dell'Ue verso il Mar Nero per una destinazione sconosciuta.
   Il milionario russo-israeliano Roman Abramovich, presente fra l'altro al tavolo dei negoziati tra Mosca e Kiev, ha rinunciato al controllo del Chelsea pochi giorni fa e punta a trasferire «My Solaris», il suo yacht di 140 metri, dal porto di Barcellona in acque libere da sanzioni. Stessa sorte è toccata già ad «Eclipse», l'altro gioiello dell'imprenditore, attualmente ormeggiato al sicuro nei Caraibi. Lo yacht del tycoon Vagit Alekperov, presidente di Lukoil, è stato individuato giorni fa mentre navigava dalla Spagna in direzione Montenegro. Un ordine di fuga sarebbe arrivato anche a Trieste: il magnate russo Andrey Melnichenko avrebbe comunicato al comandante del mega panfilo «Sailing Yacht A», ricoverato da metà gennaio nell'Arsenale triestino per la manutenzione, di spostare nel più breve tempo possibile l'imbarcazione.
   Aerei e yacht si possono spostare, ma far uscire altri asset può diventare più difficile. I consulenti israeliani specializzati in questo tipo di operazioni per gli oligarchi ebrei sono sommersi di lavoro. «La fuga dalla Russia in questi giorni è folle, molto superiore all'ondata che abbiamo visto dopo l'annessione della Crimea nel 2014. Non si tratta solo degli oligarchi di prima linea, ma anche di ricchi uomini d'affari che non hanno nulla a che fare con la politica, ma hanno paura di perdere i propri soldi per l'avventurismo di Putin», spiega Eli Gervits, fondatore di uno studio di avvocati che rappresenta molti ultra-ricchi di origine russa in Israele. Gervits valuta che ci siano circa 30mila milionari decisi a chiedere la cittadinanza israeliana, con in tasca almeno 30 miliardi di dollari. Ma in questo momento le banche hanno bloccato l'ingresso di capitali provenienti dalla Russia e non sono disposte ad aprire nuovi conti per chiunque abbia un'affinità con il Paese di Putin. La fuga da Mosca diventa sempre più difficile.

(Nazione-Carlino-Giorno, 4 marzo 2022)

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Il linguaggio dei media è identico. Ed è sempre vietato interrogarsi sui risultati

di Boni Castellane

La giornalista specializzata in reportage di guerra dalla Ztl dice che bisogna affamare i russi fino a quando non cacciano Vladimir Putin. La commozione per i bambini ucraini è talmente tanta che non gliene rimane neanche un po' per i bambini russi. Dopo due anni di menti mobilitate dallo stato d'emergenza il duro ma necessario principio del «peggio per te» trova nella guerra in Ucraina un morbido nido nel quale posarsi. Ha ragione Joe Biden: o le sanzioni o la guerra mondiale ma l'impressione è che questa volta si tratti di qualcosa di diverso. Le sanzioni esistono da sempre, nel mondo moderno furono applicate numerose volte, sono attualmente in vigore contro vari Stati «meritevoli di punizione», sono la versione moderna dell'assedio medievale. Questa volta però arrivano dopo due anni di pandemia, di stato d'emergenza e di retorica bellica. All'archetipo dell'untore risvegliato ad arte per combattere i colpevoli del Covid, si è affiancato velocemente e senza destare alcuna sorpresa l'archetipo del nemico, cioè una sua amplificazione trascendentale. Dopo due anni di «caccia al sorcio», di «no vax ridotti a poltiglia» e di «disagi fisici e psicologici», sentire il ministro dell'economia francese Bruno Le Maire dire che «ci apprestiamo a distruggere l'economia russa» spinge i più ad annuire soddisfatti così come hanno per due anni applaudito a ogni decisione presa dai virologi.
   I risultati? Guardare ai risultati è da disfattisti: quando c'è un'emergenza - e questa volta c'è davvero - bisogna obbedire e non farsi troppe domande. Certo dividere il mondo in due blocchi contrapposti escludendo la Russia dal sistema di pagamenti Swift e obbligandola a vendere il gas alla Cina, che paga attraverso un suo sistema di pagamenti autonomo, è una scelta che desta più di una perplessità in molti analisti ma l'analisi degli scenari internazionali è troppo complessa. Invece l'analisi dei comportamenti dei media, quella è possibile ed è sotto gli occhi di tutti. L'interrogativo che sorge nasce dal vedere applicate alla Russia in senso esteso - deliziosi a tal proposito i veri democratici che vanno a insultare i bambini russi all'uscita della scuola russa di Milano - le categorie che per due anni sono state affilate, temprate, provate, valutate, esibite per i no vax. Nella mente di molti, Putin è oggi moralmente il capo dei no vax e il fatto che in Ucraina sia vaccinato il 30% della popolazione è un dato che non viene nemmeno processato dalle loro menti. E nel vedere applicate le sanzioni economiche, l'isolamento dal contesto internazionale, l'interruzione dei rapporti, la censura dei media russi, la chiusura degli spazi aerei anche ai voli civili - tutte misure che, giuste o sbagliate, sono legittime in uno stato di guerra - appare ancora più assurdo, irrazionale, inaccettabile il fatto che per due anni la stessa retorica, le stesse misure, gli stessi comportamenti siano stati riservati a una parte di popolazione colpevole soltanto di seguire la definizione di «vaccinazione» e di «obbligo vaccinale» da sempre sostenute dalla scienza e dalle istituzioni. La scelta di alcuni genitori di non vaccinare i propri bambini, definiti da alcuni incauti esperti «serbatoi di virus», è stata considerata da molti come un vero e proprio atto di guerra, una scelta di malvagi aggressori contro dei buoni inermi.
   Nel vedere ora una guerra vera in Europa non si può non constatare che la narrazione bellica nei media e nella mentalità diffusa non è nient'altro che l'estensione del dominio della lotta al Covid. Perché la verità è che per due anni molti democratici Stati occidentali, Italia in primis, hanno deciso, nella piena sospensione delle procedure democratiche, di imporre sanzioni prima a tutto il Paese attraverso i lockdown e poi a una parte di popolazione attraverso il green pass e l'obbligo vaccinale per lavorare. Justin Trudeau in Canada è arrivato al blocco dei conti correnti per coloro che protestano, alle multe e al carcere per coloro che li hanno sostenuti attraverso donazioni di denaro, cioè ha applicato ai suoi cittadini le misure che oggi l'Occidente applica ad uno Stato invasore.
   L'uso della forza, la violenza, la costrizione, così come l'archetipo del nemico, sono parti inalienabili della vita umana, però per cortesia adesso non mandate i virologi in televisione a spiegare che Putin è il virus del mondo.

(La Verità, 4 marzo 2022)

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Gli invisibili

Si consiglia di leggere attentamente queste testimonianze e quelle contenute nel pdf allegato. Nessuno dica che non sapeva quello che sta accadendo a molti cittadini in conseguenza di certe leggi volute dal Leader Maximo con l'approvazione del suo governo. Leggi irragionevoli che riescono a non sollevare indignazione nella popolazione per il diffuso rimbecillimento sociale che si è ottenuto con il magistrale uso dei media filogovernativi. Si può ringraziare giornali come "La Verità", che diffonde le testimonianze di queste vittime del vaccino e ospita articoli di persone che scrivono con la loro testa, non con quella del governo. M.C.

• DOPO LA PRIMA DOSE SONO COMPARSI PROBLEMI DI UDITO

Vorrei raccontare cos'è successo a mio marito e a me in seguito alle vaccinazioni. Prima dose (Pfizer): il giorno dopo iniziamo a sentire un senso di ovatta alle orecchie. A nulla sono servili sciacqui e gocce, abbiamo speso una cifra folle nel tentativo di risolvere il problema. Seconda dose (Pfizer): ci viene chiesto se abbiamo notato effetti avversi. Entrambi lamentiamo il problema alle orecchie. Come se non avessimo neppure parlato ci viene inoculato il vaccino. Il problema si aggrava: mio marito si trova a dover convivere con l'acufene. lo, dopo un episodio di otite acuta, sono diventata improvvisamente e completamente sorda dall'orecchio sinistro, mentre in quello destro persisteva il senso di ovatta. Il mio medico ha negato potesse trattarsi di un effetto avverso della vaccinazione e mi ha prescritto antidolorifici e mucolitici. Dopo un mese, la situazione era immutata. Sentivo crepitii e rumori strani. Poi improvvisamente torno a sentire bene, anzi troppo: ogni minimo rumore mi rimbomba nella testa, il minimo sussurro pare lanciato da un megafono e mi trovo costretta a isolarmi. Il dottore a quel punto mi consiglia di consultare un otorino. Dalla radiografia risulta un accumulo di catarro attaccato al timpano. Udito nella norma. L'otorino sentenzia: il problema è stato causato dalle due vaccinazioni fatte a troppo breve distanza, 21 giorni. Naturalmente tutto detto solo a voce. Come da accordi, chiamo il mio dottore e gli spiego tutto. Lui dice: «Non è possibile! Tra una vaccinazione e l'altra bastano 15 giorni!», In sostanza vengo trattata da bugiarda e visionaria. L'otorino mi prescrive altri farmaci dal risultato pari a zero, ma dal costo esorbitante. Dopo due mesi, vista l'inutilità, smetto di prenderli.
   Ora mi trovo ad avere dolori forti alle orecchie, vertigini, senso di stordimento, nevralgie alla parte sinistra di viso e testa. Tutto questo si aggrava notevolmente in presenza di più persone che parlano anche a bassa voce, oppure di rumore: sono costretta a pregare chiunque mi rivolga la parola di farlo a bassa voce. Naturalmente mi rifiuto di fare la terza dose, mentre a mio marito viene imposta pena la perdita del lavoro. Come da prassi gli viene chiesto se avesse riscontrato problemi con le prime due vaccinazioni. Lui risponde: sì, acufene. Il dottore sbotta dicendo: «Non è possibile! Non è nella casistica!», mentre un collega insorge: «Certo che il problema alle orecchie è tra gli effetti collaterali». Intanto altra inoculazione. Ora, a seguito della terza e speriamo ultima dose, l'acufene è peggiorata, un fischio persistente e continuo, giorno e notte.

Laura Zoccarato (Sanremo)

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• COSTRETTO A CEDERE E A FIRMARE UN CONSENSO FARSA

Tra i settori che hanno maggiormente sofferto a causa dell'epidemia, o meglio delle misure adottale nel tentativo di contrastarla, c'è senz'altro quello scolastico. Sono un insegnante di liceo e questa è la mia esperienza: circa un anno fa, di fronte al caos, alle contraddizioni e alle opacità che hanno caratterizzato la campagna di somministrazione del vaccino Astrazeneca alla mia categoria, decisi di assumere una posizione attendista e prudente. Dapprima ciò non comportò alcuna discriminazione a mio danno; presto, tuttavia, iniziarono gli attriti e le incomprensioni con amici, colleghi e parenti, che si sorprendevano - taluni, addirittura, si indignavano - di quella che ai loro occhi era una mancanza di senso civico. Eppure, più passava il tempo, più era chiaro che il vaccino non garantiva affatto l'immunità, mentre si palesavano effetti collaterali preoccupanti, talora anche letali. Messo da parte Astrazeneca, fu il turno di Pfizer e Moderna; ma anche qui, scelsi la prudenza. Intanto, però, la pressione sociale e la campagna di pubblica denigrazione contro gli insegnanti renitenti alla puntura si faceva sempre più aggressiva, assumendo inauditi toni da inquisizione. Stavo semplicemente esercitando un mio diritto- garantito dall'articolo 32 della Costituzione - eppure ero consideralo alla stregua di un terrapiattlsta o peggio. Dopo un'estate passata interamente in città, in una solitudine quasi totale, è iniziato il nuovo anno scolastico, e con esso il calvario dei tamponi: uno ogni 48 ore, per poter continuare a insegnare. E stato un salasso economico, uno stress psicologico e anche una sofferenza fisica, perché non tutti i farmacisti avevano la mano leggera. Nel frattempo, lo stigma sociale diventava sempre più infamante, sebbene noi tamponati garantissimo la non contagiosità molto più dei colleghi vaccinati ormai da molti mesi.
   Poi giunse la notizia dell'obbligo. Passai un mese e più a tormentarmi nel dubbio e alla fine dovetti cedere: vuoi per la pressione familiare e sociale, vuoi per la prospettiva del danno economico, ma soprattutto per il dispiacere che mi procurava l'idea di lasciare gli alunni. E cosi mi sono sottoposto a un trattamento sanitario a cui - magari a torto, chi lo sa - non volevo affatto sottopormi, con la beffa di dover firmare un documento in cui sostanzialmente dichiaravo il contrario. Tranne uno strano formicolio alla gamba, durato per alcuni giorni dopo la prima dose e poi scomparso senza lasciar apparentemente traccia, non ho avuto nessun effetto collaterale. Questo però non scalfisce i miei dubbi: resta infatti la possibilità di danni a lungo termine, in relazione ai quali nessuno sa né può rassicurarmi pienamente, anzi mi è stato anche detto che su questo punto dovrei essere un po' fatalista. Alcuni miei colleghi, forse con maggior coerenza, hanno fatto una scelta diversa, che è costata loro la sospensione. Questo mi riempie di tristezza e di indignazione. Sono gli stessi sentimenti che suscita in me il fatto di dover lavorare in una scuola che ormai è stata trasformata in qualcosa di intermedio tra un reclusorio e un ospedale, una scuola in cui il discorso sanitario e burocratico ha preso largamente il sopravvento sulla funzione didattica ed educativa che dovrebbe essere a essa consustanziale. Malgrado ciò, mi sforzo di fare il mio lavoro nel modo più degno e di non far pesare troppo la situazione agli studenti. Si arriverà cosi, tra una quarantena e un autoisolamento, alla fine dell'anno scolastico e, per quanto riguarda i ragazzi di quinta, all'esame di maturità. Quindi, il 28 luglio, il mio super green pass sarà scaduto.

Lorenzo Bergerard

Gli invisibili

(La Verità, 3 marzo 2022)

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Alla ricerca costante di un nemico. Il nuovo no vax è chi non si allinea

di Francesco Borgonovo

Forse occorre ricordarselo: non siamo in guerra. Vediamo cadere le bombe, sentiamo il lamento delle sirene antiaeree, osserviamo uomini e donne comuni che preparano molotov, bambino che scandiscono filastrocche patriottiche, abbiamo il conflitto a non troppi chilometri da casa e abbiamo deciso di inviare armi e munizioni. Ma non siamo realmente in guerra. Le bombe non cadono sulla nostra testa, i carri armati non sbriciolano il nostro asfalto, i proiettili non fischiano vicino alle nostre orecchie. Di fronte agli scronti ucraini, ciascuno di noi reagisce in modo differente. Qualcuno si spaventa terribilmente, altri s'infiammano d'ardore guerriero: in entrambi i casi si tratta di un'esperienza totalmente mediata. Non stiamo partecipando ai combattimenti, ci limitiamo a guardarli in tv e a leggerne sui giornali. Però sembra che molti - a partire dai politici - si siano convinti di essere davvero sulla linea del fronte.
   Il fatto è che non conosciamo la guerra vera (sono pochi, per ragioni anagrafiche, quelli che ne hanno fatto esperienza da bambini e ancora meno quelli che hanno combattuto), ma da un po' di tempo a questa parte, e in particolare negli ultimi due anni, ci siamo abituati a comportarci come se fossimo all'interno di un conflitto. Viviamo una guerra permanente e virtuale. Non spariamo, non moriamo in battaglia, ma la guerra ci avvolge completamente. E’ come se l'avessimo diluita, vaporizzata nell'aria.
   Come scrisse Massimo Cacciari, «la guerra individua, fa emergente il carattere-dèmone di un individuo contro l'altro». Niente di più vero: siamo alla ricerca costante di un nemico, ci e stato imposto un linguaggio binario del tutto simile a quello delle macchine. Buono da una parte, cattivo dall'altra; puro e impuro; luce e oscurità. Non importa che si discuta di immigrazione, sessualità, virus o geopolitica: prima si mette in atto la semplificazione totale (la divisione fra Bene e Male), poi si procede a imporla a ogni livello.
   Ecco perché il modo in cui affrontiamo politicamente e mediaticamente l'attuale conflitto ucraino non è poi tanto diverso da quello con cui abbiamo affrontato la pandemia.
   Abbiamo distinto i buoni dai cattivi, eliminando ogni sfumatura. Poi abbiamo militarizzato il linguaggio e l'informazione. Infine abbiamo spinto i cittadini a mobilitarsi pur sapendo che le loro azioni avrebbero potuto cambiare pochissimo (non possiamo far cessare il contagio né porre fine al conflitto, a prescindere da ciò che diciamo o facciamo). Soprattutto, abbiamo perseguitato presunti traditori, spie e sabotatori.
   In queste ore assistiamo a una feroce ondata di russofobia. Chiunque sia sospettato di intelligenza col nemico Putin viene accusato, censurato, bandito. Si cancellano i corsi su Dostoevskij, si impedisce l'ingresso ad artisti e scrittori in virtù dei loro passaporti, si prendono di mira i giornalisti che osano fornire una visione appena meno manichea del consentito. Tutto ciò, ovviamente, scatena una serie micidiale di contraddizioni anche grottesche. Molti di coloro che oggi vanno a caccia di russi sono gli stessi che, due anni fa, si preoccupavano di abbracciare i cinesi e ingozzarsi di involtini primavera al fine di fermare la «sinofobia» scatenata dall'arrivo del Covid.
   Quelli che hanno fatto di tutto per coprire le responsabilità cinesi nell'esplosione della pandemia sono gli stessi che oggi invitano ad abbattere l'orso russo, spingendolo inevitabilmente tra le braccia di Pechino. Soprattutto, chi si sbraccia per la libertà e la democrazia in Ucraina continua senza particolari sussulti ad approvare la discriminazione quotidiana e ormai intollerabile di alcuni milioni di italiani privi del green pass (sì: il lasciapassare è ancora in vigore, anche se lo ricordano soltanto coloro che ne sono sprovvisti).
   La brutalità con cui si perseguitano i «devianti» rimane sconvolgente. Un piccolo esempio. Il professor Giovanni Frajese, docente universitario di endocrinologia, il prossimo 10 marzo dovrà presentarsi al cospetto di una commissione dell'Ordine dei medici chiamata a decidere se prendere provvedimenti disciplinari nei suoi confronti. Il medico ha forse prescritto farmaci proibiti? Certo che no. Ha in qualche modo rifiutato di curare un paziente? Nemmeno. Si è limitato a esprimere alcune opinioni in una trasmissione televisiva. Il motivo per cui è stato segnalato è semplice: si è mostrato critico riguardo alla conduzione della campagna vaccinale, e ha espresso dubbi sulla vaccinazione dei bambini: tanto basta a mandarlo a processo (in senso lato). Anche qualora il professore avesse pronunciato castronerie (e non pare l'abbia fatto), vi risulta che altri medici siano stati convocati dall'Ordine in virtù di sfondoni catodici?
   Alcuni dottori che hanno sostenuto ripetutamente di fronte alla telecamere l'inutilità delle mascherine che ora sono obbligatorie, altri hanno deciso di rifiutare cure ai non vaccinati, altri ancora hanno utilizzato epiteti allucinanti nei confronti dei renitenti alla puntura. Ma per nessuno di questi si sono scomodate a tempo di record le commissioni disciplinari. Chi va al patibolo? Colui che devia dalla retta via, il sabotatore, il nemico interno che rifiuta la professione di fede.
   Se ci pensate, il meccanismo è lo stesso che viene applicato nei confronti di russi, russofili e presunti tali. Il cronista che si permette una valutazione considerata troppo «putiniana», il politico che rifiuta di definire Putin un «pazzo criminale»: la folla si scatena contro di loro, i colleghi li additano, i sedicenti buoni s'indignano e strepitano, ne chiedono la cacciata. Il russofilo, in sostanza, è il nuovo no vax. E va silenziato, insultato, colpito.
   Non potendo sparare su soldati in carne e ossa, si spara su Dostoevskij, così come si abbattono le statue dei «colonizzatori» o si sputa sulla memoria di premi Nobel defunti e «controversi». Costruiamo nemici posticci per non dover ammettere che i nostri primi nemici siamo noi.

(La Verità, 3 marzo 2022)

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La letteratura è l'ultima vittima della dittatura del Presente Unico

Come con il Covid. Vogliono imprigionarci  in un'ossessione. Mentre si cerca di uscire dall'emergenza che ha livellato per due anni pensiero e informazione, irrompe una nuova narrazione bellica che prosegue l'opera di omologazione delle coscienze.

di Marcello Veneziani

Vi prego, non fatevi imprigionare dal presente. Liberate la mente, pensate ad altro, fate altro, vivete altro. Quando la guerra o la pandemia si mangia ogni altro orizzonte comune della gente, sembra che nulla abbia più valore e senso se non l'Evento Unico e Tremendo che sta accadendo. Il Discorso è unico e vorrebbero pure renderlo uniforme. Ogni altro orizzonte è intruso e fuori tempo. Si spegne il passato, svanisce il futuro, si rattrappiscono altri mondi, altre visuali, altri campi vitali d'interesse. Siamo tutti concentrati, passivi, raccolti intorno a quel che sta succedendo a Est. Il presente si fa ossessivo e invasivo, occupa tutta la vita ed esaurisce il mondo delle relazioni, soprattutto pubbliche. Resta al più la sfera biologica, bere, mangiare, dormire, andar di corpo e poco altro.
   Quel che aggrava la riduzione del Tutto al quotidiano è l'applicazione del politically correct e della cancel culture al presente, con i suoi divieti e le sue meschinità. Esempio fresco: l'Università Bicocca cancella un corso su Fedor Dostoevskij di Paolo Nori con la scusa di voler evitare polemiche (divieto poi rientrato per le reazioni). Si censura la cultura e il passato per genuflettersi al presente. Quanta cultura tedesca o russa avremmo dovuto già cancellare con questa demenza retroattiva: dopo Hitler non c'è più spazio per Kant o Goethe, dopo Stalin non c'è più posto per Gogol e Tolstoj. Qual è la ratio di questa censura se non lo schiacciare ogni passato, ogni pensiero, ogni letteratura a oggi? Che nesso c'è tra la letteratura esistenziale di Dostoevskij e i missili su Kiev? La cultura dovrebbe essere al contrario, un modo per prendere le distanze, non scambiare la parte col tutto, vedere le cose al di là del frangente quotidiano, senza mai identificare un popolo, una storia, una letteratura con un capo o un apparato militare.
   Per non dire dei direttori d'orchestra licenziati, perché russi e dunque filorussi...
   Sono più di due anni che viviamo in questo modo, considerando irrilevanti tutti gli altri aspetti della vita, e negando che possa esservi uno spazio pubblico oltre quello, soprattutto televisivo, intorno all'Evento. L'unica Agenzia di riferimento, che batte l'agenda del tempo e la impone, è quella dei media, della tv in particolare, intesa come la nuova agorà, la piazza di tutti, mentre i social sono vie laterali e condotti periferici. È lì che si esercita il Grande fratello, ossia colui che detta l'importanza dell'Evento e il relativo taglio a cui conformarsi
   Con un perfetto cambio di guardia, proprio mentre Draghi annunciava la fine dell'emergenza, l'attacco all'Ucraina spostava le attenzioni globali su un altro centro d'interesse che monopolizza l'attenzione. Non si discute dell'importanza assegnata all'evento ma della sua ossessiva unicità che chiude ogni altro discorso prima di aprirlo. E non si chiede nemmeno, come pure sarebbe ragionevole, che il Grande fratello ci lasci altri spiragli, e lasci raccontare che intanto, mentre infuria la guerra a Kiev, accadono altre cose, il mondo ha altri problemi, altri orizzonti, altre memorie.
   Chiediamo, anzi imploriamo di tener desta l'attenzione sul resto della vita e non solo sul Fatto Unico; ciascuno adotti una strategia per ripararsi dal Diluvio universale, e riattivi i suoi circuiti d'interesse per altri ambiti vitali, sociali, culturali. Mai come oggi abbiamo bisogno di uscire dalla Cappa del presente.
   Abbiamo bisogno di riprendere a pensare a quel che accadde, cioè alla storia. Abbiamo bisogno di riprendere a pensare il mondo circostante, nelle sue varietà e differenze, i suoi ambiti espressivi e la polifonia di voci.Abbiamo bisogno di immaginare un avvenire diverso da quel che ci offre il Convento odierno, figurare cose diverse, proiettarci in altri mondi reali e favolosi, possibili e mitici, emozionali e logici.
   Hegel diceva che il quotidiano è la preghiera del mattino dell'uomo moderno. L'uomo d'oggi prega (e impreca) il quotidiano, e non ha altro dio fuori dal presente. Sento perfino gente dire che non riesce più a leggere un libro dacché vede le immagini dell'Ucraina: magari è un alibi da anime belle per la propria svogliatezza, perché a nulla serve restare concentrati su quelle immagini. Certo, leggere è meno importante di ripararsi dalle bombe o di combattere una guerra, ma qui stiamo parlando di spettatori inermi che a casa loro si lasciano paralizzare dalla visione di quelle immagini. C'è sempre qualcosa di più urgente nel mondo che leggere, studiare, fare arte, e tutto il resto. Anzi se consideriamo che si muore ogni giorno di fame e miseria, di guerra e di esodo, dovremmo cessare ogni altro interesse solo per concentrarci su questi temi permanenti e drammatici. Eppure trovi sempre il cretino che se stai scrivendo o parlando di temi storici, filosofici, artistici e sociali, obbietta che mentre tu discetti di questi argomenti, la gente muore. Demagogia demente, anche perché la riduzione dell'umanità a un Collettivo di Perenni Addolorati non migliora certo la situazione del mondo e peggiora sicuramente la vita dei medesimi e di chi è loro intorno.
   Insomma quello che mi preme dire è che non dobbiamo mai farci ipnotizzare dal presente come ci viene presentato dalle Fabbriche dell'Opinione e dell'emozione pubblica; ma saper stabilire una gerarchia di piani e di interessi che ci permetta di vivere il presente in un contesto più ampio, senza esserne assorbiti fino a svuotarci di ogni umanità. Dostoevskij non sta bombardando Kiev.

(La Verità, 3 marzo 2022)

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Il rabbino Ha-Kohen: "L'invasione russa dell'Ucraina è una buona cosa"

L'invasione russa dell'Ucraina ha un significato profetico? Abbiamo chiesto ad alcuni rabbini e leader religiosi israeliani come interpretano questi "segni dei tempi".

di Rachel Avraham

"Questa è una buona cosa", ha detto il rabbino Yomtov ha-Kohen a Israel Today. “Penso che questa guerra possa incoraggiare gli ebrei che sono ancora lì a fare aliya e venire in Israele. Quando il Messia verrà, dobbiamo vedere tutte le nazioni vivere in pace l'una con l'altra e le persone del mondo vivranno in pace con Israele. Affinché venga il Messia, tutti gli ebrei devono essere in Israele. Questa guerra farà venire qui gli ebrei. Ci sono molti modi per farli venire qui. Non vogliamo guerre e spargimenti di sangue in nessuna parte del mondo. Stiamo ancora aspettando il Messia, quando la pace sarà mondiale”.
   Allo stesso modo, il movimento Chabad ha anche rilasciato la seguente dichiarazione: “Preghiamo per la sicurezza dei nostri fratelli ebrei in Ucraina e di tutte le persone nelle aree colpite. Preghiamo per una soluzione pacifica di questo conflitto. Preghiamo affinché le persone colpite abbiano la forza e le risorse per superare questo momento difficile. E soprattutto preghiamo per il giorno in cui 'i popoli trasformeranno le loro spade in vomeri e non impareranno più la guerra'”.
   Il rabbino Tzi Welhem della comunità Chabad di Netanya ha detto a Israel Today che dietro i recenti eventi in Ucraina c'è la mano di Hashem (letteralmente il nome usato in riferimento alla santità di Dio): "Quello che sta accadendo nel mondo, che accade perché gli ebrei seguano la via di Dio. Dovremmo vivere in pace in modo da poter influenzare gli altri a vivere in pace e realizzare la salvezza. La salvezza arriverà solo quando ci sarà la pace nel mondo”.
   “È importante che ci sia pace. I conflitti tra persone e nazioni dovrebbero essere risolti. Questa è la via della Torah”. Tuttavia, Israele non dovrebbe schierarsi in questa guerra: “Ci sono ebrei che vivono sia in Ucraina che in Russia. Non dobbiamo schierarci, altrimenti gli ebrei potrebbero essere danneggiati”.
   Ma poi il rabbino Ha-Kohen ha aggiunto: "Una nazione può conquistare un'altra nazione, e questo va bene secondo la Torah. Le 70 nazioni del mondo possono dividersi come vogliono. Chi è più veloce e moderno può conquistarne un altro. L'unica terra che non può essere conquistata è la terra di Israele. Questo è proibito. Ma le altre nazioni possono fare quello che vogliono. Se sei debole, puoi perdere il tuo paese. Se la Russia ha conquistato l'Ucraina, non è una brutta cosa. Se la Russia conquista l'Ucraina, la Russia non espellerà gli ucraini dall'Ucraina. Applicheranno la legge russa in Ucraina, ma il popolo ucraino rimarrà nelle proprie case, nei luoghi di lavoro e nelle scuole. Non sarà come quando i romani distrussero il Secondo Tempio e ripulirono etnicamente il paese dagli ebrei. Quindi quello che i romani hanno fatto agli ebrei è stato male, ma non quello che la Russia farà agli ucraini".
   Il rabbino fa notare che dopo il diluvio Noè ebbe tre figli: Cam, Sem e Iafet. Hanno dato origine a 70 nazioni diverse, che a loro volta sono diventate le 193 nazioni che sono oggi membri dell'ONU. Alcune delle nazioni che oggi appartengono alle Nazioni Unite erano un'unica nazione in passato: “Ad esempio, la Bielorussia e la Russia erano la stessa nazione ai tempi della Torah. Ciò significa che le origini degli stati-nazione sovrani provengono da 70 nazioni, non 193. Tutte le 70 nazioni erano sparse per il mondo. Le parti occupate da queste nazioni cambiavano costantemente. Una nazione conquista costantemente un'altra nazione".
   Hillel Neuer, capo di UN Watch, ha affermato che l'ONU non è in grado di intervenire. “L'Ucraina è sotto attacco su vasta scala. Milioni di persone ora temono la morte, le ferite, la distruzione e la sottomissione. La storia dirà che il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha rifiutato di agire: o sessioni di emergenza, o risoluzioni, o commissioni d'inchiesta. Anche i loro relatori speciali tacciono”.
   Il rabbino Ha-Kohen sottolinea che le persone determinano il loro atteggiamento nei confronti dell'Ucraina esclusivamente in base ai propri interessi: “Non abbiamo il diritto di parlare e non sono affari nostri. Non piangono perché l'Ucraina è diventata parte della Russia. Pensano solo a se stessi, che sia nel loro interesse o meno. A loro non importa delle donne e dei bambini dell'Ucraina. Anche Israele ha interessi. Abbiamo molti russi qui e molti ebrei in Ucraina. Allora quali sono i nostri interessi? Hai interessi con questa parte o con un'altra parte?"
   Il rabbino Ha-Kohen dice: “Ci sono molti altri posti. La maggior parte non sa quali stati e tribù si trovino in Africa o in Asia orientale. Ci sono tanti popoli, lingue e nazioni. Ci sono migliaia di lingue nel mondo e migliaia di gruppi sociali". Ha aggiunto che circa il 16% della popolazione mondiale è cinese, ma sappiamo tutti così poco della Cina: "Ma se succede qualcosa a Sheikh Jarrah, lo sanno tutti. Tutti sanno dove sono Gerusalemme, Tel Aviv ed Hebron. Nulla è cambiato dai tempi di Abramo. Quando Abramo era in vita, i cananei rifiutarono il suo invito a credere in Dio. E oggi la comunità internazionale rifiuta lo Stato di Israele, come dimostrano le innumerevoli risoluzioni dell'Onu contro Israele».
   Molti rabbini pensano che Israele tenga troppo all'Ucraina. E alcuni temono che, condannando apertamente Putin, Israele possa rovinare i legami strategici critici con Mosca.
   "Non ti preoccupare troppo dell'Ucraina", dice il rabbino. "Non è un problema nostro. Mentre i Dieci Comandamenti proibiscono l'omicidio, la Torah consente di uccidere nelle guerre di autodifesa. Se hai un nemico che vuole ucciderti, puoi ucciderlo prima che lui uccida te. Va bene uccidere qualcuno che vuole ucciderti. Solo l'omicidio è proibito".
   A volte indicato come il "Guerriero druso d'Israele", Ayoob Kara è una figura di spicco nella comunità drusa israeliana. È stato ministro delle comunicazioni, dei satelliti e del cyberspazio in Israele sotto Netanyahu. "Le critiche alla Russia sono un altro errore quotidiano del Segretario di Stato Lapid che è vergognoso e dannoso per gli interessi di Israele", ha detto Kara a Israel Today. "Ci sono voluti anni per coltivare e creare fiducia nei russi, data la nostra assoluta lealtà verso gli Stati Uniti, di cui abbiamo bisogno per i nostri attacchi in Siria. È ora che il nostro governo si prenda cura di Israele e solo di Israele".

(Israel Today, 2 marzo 2022 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Russi e ucraini d'Israele, la guerra è in casa 

1,2 milioni gli israeliani provenienti dalle Repubbliche dell'ex Urss. Tra putiniani e non, le richieste al governo di Tel Aviv divergono 

di Michele Giorgio 

HAIFA - Il voto favorevole di Israele alla risoluzione dell'Onu di condanna della Russia è stato anticipato ieri alla stampa dal ministro degli esteri Yair Lapid. Nel governo israeliano è Lapid che da giorni spinge per una scelta di campo più netta, a favore di Kiev, che Tel Aviv non vuole fare per non incrinare i buoni rapporti con Vladimir Putin. Per Lapid, Israele deve condannare la Russia. 
   «Israele era ed è dalla parte giusta della storia. Abbiamo il dovere morale e l'obbligo storico di essere parte degli sforzi in corso», ha spiegato. C'è da sperare che il ministro senta anche il «dovere morale» di porre fine alla lunga occupazione militare israeliana dei Territori e di permettere a oltre cinque milioni di palestinesi di autodeterminarsi. 
   Le parole di Lapid comunque riflettono solo le scelte fatte dal governo Bennett. Ma in diverse città e aree del paese, la guerra in Ucraina è vissuta dagli 1,2 milioni di israeliani giunti negli ultimi trent'anni dai paesi della ex Urss, come un avvenimento proprio davanti alla porta di casa. Non a caso una delle prime ambasciate ucraine ad attivarsi in questi giorni con punti di reclutamento è stata quella in Israele, non si sa con quali risultati. 
   La zona di Sprinzak ad Haifa è popolata da israeliani «russi», come qui sono chiamati gli ebrei giunti dalla Federazione russa, dall'Ucraina, dalla Bielorussia e in minor numero da altri Stati della scomparsa Unione sovietica. Valija Radutsky, 54 anni, geometra, era un giovane quando nel 1993 con la famiglia lasciò Kharkiv per stabilirsi ad Haifa dove circa il 24% dei quasi 300mila abitanti sono «russi». Tanti ricordi lo legano al suo paese d'origine con cui mantiene contatti e amicizie. «Sono angosciato, non credevo che i russi potessero invadere l'Ucraina - dice - Ho amici lì e sono preoccupato per loro. Spero che Putin paghi a caro prezzo ciò che ha fatto. Prego perché finisca la guerra e non muoiano degli innocenti». Un suo amico, Alexi, 24 anni, nato e cresciuto in Israele, il paese d'origine dei suoi genitori non l'ha mai visitato ma, afferma, «l'Ucraina è dentro di me. Perciò provo rabbia e dolore per quanto sta accadendo». E lancia maledizioni a Putin. 
   Valija e Alexi rappresentano i sentimenti di buona parte degli israeliani «russi». La scorsa settimana, quando i primi reparti militari russi sono entrati in Ucraina, centinaia di manifestanti si sono radunati davanti all'ambasciata russa a Tel Aviv per sventolare bandiere ucraine e scandire slogan contro Putin. Non pochi «russi» chiedono che Israele assuma una posizione dura nei confronti di Mosca e di appoggio all'Ucraina e che mandi a Kiev non solo aiuti umanitari ma anche armi, un passo che, stando alle indiscrezioni, il governo Bennett non muoverà. «I russi stanno distruggendo un paese intero, è un disastro che pagano gli innocenti, (il governo israeliano) non può restare in silenzio, deve agire», esorta Petro Olisk, un carpentiere di Bat Galim, ai piedi del Monte Carmelo, giunto da bambino dall'Ucraina occidentale. Contro la cautela del governo si è schierato l'ex ministro Anatoli (Natan) Sharansky, dissidente ebreo ai tempi dell'Urss che chiede «una chiara posizione morale» contro Mosca. 
   Non sventolano bandiere e nemmeno tengono raduni i sostenitori delle ragioni della Russia. L'appoggio, spesso appassionato, a Putin lo esprimono sui social e in tv, entrando in polemica con il campo avverso. Si è fatta notare su Facebook Vera Veinberg, 36enne nata in Crimea annessa alla Russia nel 2014 e ora residente ad Eilat dove lavora come tour operator. Veinberg nei giorni scorsi ha scritto, scatenando polemiche a non finire, che «la Russia si è mossa con otto anni di ritardo e che ora sta punendo l'Ucraina» per i crimini che ha commesso nelle regioni separatiste. Il più famoso degli israeliani «russi» pro-Putin è il comico 46enne, Semion Grafman con decine di migliaia di follower su YouTube. Vive a Bat Yam ma è nato Dniepro. 
   Intervistato dalla tv Canale 13 ha precisato di essere ucraino e opporsi alla guerra. Quindi ha spiegato che «Israele colpisce in Siria ogni volta che l'Iran introduce armi lì e spero che ciò continui. In Ucraina, Putin sta facendo lo stesso». Per Grafinan gli Usa non avrebbero lasciato scelta a Putin. 
   Intanto l'Agenzia Ebraica riferisce che sono oltre 5mila gli ucraini ebrei pronti a fare l'aliya, ossia ad immigrare in Israele. Diversi l'hanno già fatto. Potenzialmente, ha aggiunto ieri Lapid, sono 180mila gli ebrei dell'Ucraina che avrebbero diritto, secondo la legge, a immigrare e a diventare cittadini dello Stato ebraico. Si spera che non finiscano poi nelle colonie nei Territori occupati, dove nei decenni passati si sono insediati tanti «russi».

(il manifesto, 2 marzo 2022)

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Gli invisibili

Sono questi i "valori" della società occidentale.

• LA PAURA DEL VIRUS CI HA TOLTO LA NOSTRA UMANITÀ

Ho 27 anni, studio filosofia e nel fine settimana faccio il cameriere per cercare di essere indipendente nel pagamento delle tasse universitarie e dei libri. I miei studi mi hanno consentito di sfruttare il mestiere che svolgo occasionalmente per ricavare delle informazioni «antropologiche». All'inizio, quando i più confidavano ancora in una qualche utilità della tessera verde, erano i clienti stessi a esigere una verifica della medesima. Verso fine novembre un signore di circa 60 anni si è addirittura alterato: nonostante il suo tavolo fosse a distanza di più di 4 metri dagli altri, voleva avere la certezza di essere tra persone vaccinate. Mi sono permesso di affermare che il green pass non è garanzia di immunità ma la risposta che ho ricevuto è stata brutale: «Lei deve far rispettare la legge! Se la legge dice questo, così dev'essere», Interessante questa affermazione. Mi sono chiesto: ma le leggi hanno origine divina o sono fatte da uomini? E gli uomini non conoscono l'errore? Ho dunque visto nella risposta del signore un'assenza di capacità critica e una coscienza resa sorda dal «rumore» mediatico.
   Qualche mese più tardi, intorno alla metà di gennaio 2022, versando del vino a un tavolo, ho sentito dire: «Sapete che Marco e sua moglie hanno preso il Covid? Ma gli sta bene, sono dei no vax!», Anche in questo caso, con le dovute maniere, mi sono permesso di affermare che avere il vaccino non è garanzia di immunità facendo l'esempio di mia sorella che, con due punture già fatte, era a casa con 39 di febbre da tre giorni. Ormai pensavo che la questione fosse chiara a tutti, dal momento che nel periodo natalizio c'è stata un'esplosione di infezioni che non ha fatto distinzione tra vaccinati e no, ma non era così. Il signore, stupito, ha esordito dicendo: «No, dici davvero? Ma siete sicuri che è Covid?». Avrei tanti altri esempi da riportare - come quello di un conoscente che mentre mi parlava fuori da un bar mi ha detto: «La vedi quella là? È una no vax: le ho detto che è meglio se passa lontano quando ci sono io» (la signora non può più andare al parco a chiacchierare con i suoi amici perché non la vogliono: le hanno tolto il saluto e si conoscono da 40 anni!). Mi chiedo: è più importante rispettare una legge o conoscere la verità? Obbedire in silenzio e con fiducia - accettando passivamente l'introduzione di tessere discriminatorie nella nostra vita · oppure lottare per valori più elevati? Per paura di un virus vale la pena rinunciare alla nostra umanità? Ormai non viviamo ma sopravviviamo e ci aggrappiamo egoisticamente a un'esistenza puramente biologica.

Nicola Fantini


• A UNA MADRE PUOI TOCCARE TUTTO ECCETTO I FIGLI

   Ho pensato a lungo prima di scrivere questa lettera, ero convinta che la mia pazienza riuscisse ancora a sopportare gli innumerevoli soprusi che da molti mesi si consumano nel nostro Paese, ma la misura ormai è colma e la brocca è piena. Dal 15 dicembre la categoria a cui appartengo e cioè quella dei docenti, è stata costretta, con un vero e proprio ricatto, a dover decidere se farsi vaccinare o continuare a lavorare. Ma per gran parte dell'opinione pubblica il «giorno della vergogna» è scattato solo il 15 di febbraio, quando anche gli over 50 sono stati sottoposti allo stesso ricatto. Nel frattempo molti docenti da due mesi circa sono già senza stipendio, puniti semplicemente perché hanno voluto esercitare il proprio diritto alla libertà. Questo mi ha fatto male, tanto, perché anch'io ho dovuto lottare contro me stessa per accettare un'imposizione che ormai, è evidente, non ha nulla di scientifico, perché questa benedetta certificazione verde non garantisce l'immunità e non preserva la comunità dal contagio.
   Ma non è questo ciò che mi ha fatto più male: non è aver subito gli sguardi sprezzanti di colleghi, amici e pure familiari che mi hanno considerata una aliena, una irresponsabile, questo l'ho superato, anche con le lacrime. Ciò che mi ha profondamente ferito e continua a ferirmi e farmi arrabbiare è la discriminazione subita dai ragazzi. Adolescenti e bambini perfettamente sani, per cui i genitori hanno ancora il sacrosanto diritto di decidere se un trattamento sanitario può far bene oppure no, trattati come appestali, come criminali. Parlo da mamma di tre ragazzi adolescenti, che, a detta di due deputate del Pd, hanno la «colpa» di avere genitori che hanno scelto di non vaccinarli. E' assurdo: non è ingiusta la certificazione verde, sono cattivi i genitori che decidono in piena libertà, visto che non c'è obbligo e non si sta trasgredendo a nessuna legge, di non farli vaccinare. E allora vai a mettere i figli contro i genitori, dopo aver messo ormai tutti contro tutti, dopo aver creato le categorie dei vaccinati buoni e dei non vaccinati cattivi.
   Ecco: a dicembre la mia famiglia si è ammalata di Covid, grazie a Dio in forma lieve: su cinque persone, quattro sono risultate positive, ma il più piccolo invece no. Perciò la mia famiglia adesso è nella situazione per cui quattro persone hanno il super green pass e una, colpevole di non essersi ammalata e di non essere stata vaccinata, è fuori dalla società. Per comprargli un paio di scarpe devo sperare che non ci controllino all'ingresso; se la sua classe avesse due positivi lui sarebbe l'unico a fare la Dad; sport, così importante in questa fase di crescita, assolutamente vietato perché per la società mio figlio di 13 anni, sano, sanissimo, è un pericolo. Nessuna possibilità di viaggiare sui mezzi pubblici, nessuna possibilità di festeggiare il suo compleanno in pizzeria, tutto questo nel silenzio e nell'accondiscendenza della maggior parte degli Italiani.
   Sono stanca: ho sempre insegnato ai miei figli e ai miei alunni che la verità va sempre protetta, che le proprie convinzioni, quando sono coerenti e fondate, devono essere difese a denti stretti, anche se intorno a te rimane il deserto; ho sempre insegnato che siamo fortunati a vivere in un Paese come l'Italia, dove la libertà è ancora un valore, o almeno lo era fino a qualche tempo fa; un Paese in cui l'accoglienza è il biglietto da visita. Ma ora sono stanca, non sono più disposta ad accettare nulla perché quando a un genitore vengono toccati i figli allora davvero la pazienza va a farsi benedire. Non entrerò nei negozi in cui mi verrà chiesto il green pass, non viaggerò con i mezzi pubblici, non farò weekend in albergo, l'economia con me non girerà e se questa follia continuerà ancora e verrà spacciata come «la nuova normalità» allora anche l'Italia non vedrà più né me né la mia famiglia: a volte in nuovi inizi possono essere rinascite.
Cristina Lanotte
Gli invisibili

(La Verità, 1 marzo 2022)

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Prima vittima israeliana in Ucraina

Padre di due figli è stato ucciso a colpi di arma da fuoco mentre si recava al confine con la Moldavia

Roman Brodsky, 42 anni, è il primo israeliano a morire nei combattimenti in Ucraina. Il ministero degli Esteri israeliano ha riferito ieri che lui, sua moglie e due figli facevano parte di un convoglio in viaggio da Kiev al confine con la Moldavia dopo che la sua famiglia in Israele lo aveva convinto a lasciare l'Ucraina.
  Roman Brodsky è stato ucciso a colpi di arma da fuoco a un posto di blocco a circa 84 chilometri a sud della capitale ucraina dalla milizia ucraina che lo ha scambiato per un militante russo. Anche sua moglie è stata ferita dagli spari ed è ancora in Ucraina con i suoi figli.
  Roman è emigrato in Israele all'età di 13 anni ma ha vissuto in Ucraina negli ultimi due anni e mezzo, dove ha lavorato come disc jockey. I suoi genitori vivono in Israele e sono stati informati del tragico incidente.
  Il ministero degli Esteri israeliano ha dichiarato: "Il ministero degli Esteri desidera porgere le sue più sincere condoglianze alla famiglia in questo momento difficile e continuerà a sostenerla nel miglior modo possibile".

(israel heute, 1 marzo 2022 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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La guerra assurda in Ucraina, vista da Israele

Operazione Esodo. Mentre da sei giorni osserviamo la guerra ai confini d’Europa, anche in Israele ci si confronta con il conflitto, in una terra che da sempre ha legami fortissimi con l’ebraismo.

di Angelica Edna Calo Livne

Shuli Davidovich, Capo della Divisione Religioni e Diaspora del Ministero degli Esteri israeliano fa il suo rapporto alla Tv davanti a milioni di telespettatori in apprensione: “Israele ha iniziato l’operazione esodo, abbiamo trasmesso messaggi e indicazioni in ebraico, russo, ucraino e arabo, tutti i cittadini israeliani verranno assistiti e condotti in Israele”.
  Vladislav Roitberg, consigliere speciale del Presidente Zelinsky intervistato dalla stazione 12 israeliana, parla in ebraico nell’intervista con Niv Raskin: “La Russia sta colpendo con tutta la forza, stanno usando tutte le armi del loro arsenale, per noi questa e’ una seconda Shoah. Ci sono perdite terribili dalle due parti. Non riesco a capire come i genitori mandino i loro figli a morire. Ringraziamo Israele e tutti coloro che nel mondo manifestano, appoggiano e sostengono”.
  Ron Gutman, giocatore israeliano di basket nella squadra di Odessa, racconta la sua fuga mostrando immagini di km di fila davanti al confine e racconta il suono delle sirene, la sorpresa, lo sgomento.
  I messaggi e le notizie sono contrastanti: alcuni dicono che Putin sta liberando l’Ucraina da una dittatura ma i cittadini di Kiev sono nei rifugi e invocano la pace…”Qual è la verità?” chiedo a Luciano Assin, membro del Kibbuz col quale pranzo ogni giorno in chadar HaHochel. “Non lo so”- mi risponde “Ma pensa a come siamo confusi noi con le informazioni che ci giungono dai media su chi attacca e chi è attaccato, su chi ha ragione e chi ha torto e come è difficile per chi ascolta i notiziari avere un’idea di cosa è vero o no quando c’è una guerra qui da noi”. Si, ora possiamo capire cosa succede nel mondo quando noi, in Israele, siamo nei rifugi e i nostri figli al fronte.
  Igor Begelman è il nostro vicino di casa, è arrivato a Sasa 30 anni fa da Kiev con sua moglie e due bambini con il progetto Bait Rishon baMoledet – La prima casa in patria. E’ una delle persone più simpatiche, più aperte e socievoli del kibbuz. Ieri sera è passato davanti a casa nostra, gli occhi bassi, le spalle strette…”Igor, come va? Notizie dalla tua famiglia?” Non ha neanche alzato gli occhi. Ha continuato a camminare chiuso nei suoi interrogativi, nelle sue incertezze, nel senso di impotenza che tutti noi sentiamo davanti a una guerra assurda che scoppia in piena pandemia, in pieno ventunesimo secolo, nella tragica consapevolezza che l’Umanità non impara nulla dalla Storia.

(Riflessi Menorah, 1 marzo 2022)

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L'emergenza eterna

    La cruda mia nemica,
    del mio dolor si pasce e si nutrica:
    perché talor sì pia,
    si volge al mio languire
    che parmi udirla dire:
    spera, ch'in breve finirà il tormento.

    E poscia in un momento,
    veggendomi contento,
    mi si mostra sì ria,
    ch'ancide il fior de la speranza mia.

    Ond'è forza ch'io dica:
    La cruda mia nemica,
    del mio dolor si pasce
    e sì nutrica.
Queste parole di un bel madrigale di Giovanni Pierluigi da Palestrina si applicano bene all'ultimo decreto del Drago. Nel madrigale lo spasimante innamorato è vittima del sadismo della donna amata che usa la sua forza di attrazione per tenerlo perpetuamente sulle braci tra speranza e disperazione.
  Il paragone che si può applicare a noi parte dalla frase: "Spera, ch'in breve finirà il tormento". Ce lo dicevano da Israele: "Finirà tutto bene". Lo cantavamo dai balconi, ci siamo scoperti patrioti e abbiamo cominciato a cantare tutti insieme "Fratelli d'Italia". Perché presto il tormento sarebbe finito. E infatti sembrava proprio così. In estate, al mare o in montagna, pensavamo proprio che l'emergenza fosse alla fine. "E poscia in un momento, veggendomi contento"..., al cader delle foglie autunnali sono cominciate a cadere ad una ad una anche le nostre speranze. Ma abbiamo tenuto duro, sopportando gli innumerevoli Dpcm che favorivano la socialità perché spingevano tutti, a casa o al lavoro o al bar, a intavolare accese discussioni sulla loro interpretazione. "Ma ch'avrà voluto dì..." era la frase con cui terminava sempre una simpatica trasmissione radiofonica di qualche anno fa.
  Ma poi è arrivato lui. Il Drago. E allora la nostra speranza è rinata: lui è uno che sa il fatto suo, lui "sa contare fino a mille", ha detto qualcuno. Sì, lui è uno che sa il fatto suo. Ma qual è il fatto suo? Senza dubbio sa tenere soggiogati i cittadini come quella giovane fanciulla: "Spera, ch'in breve finirà il tormento". Fra poco finirà il tormento del certificato che schiavizza, fra poco dichiareremo il tana libera tutti. "E poscia in un momento".... l'emergenza continua.
  Cominciando a venire meno l'emergenza sanitaria, in quattro e quattr'otto il Drago ne ha afferrata subito un'altra, perché lui sa il fatto suo, e ha cominciato a pensare a come si potrà fra poco mettere guinzagli nuovi e stringere un po' di più quelli vecchi. Perché lui sa il fatto suo; lui sa come si fa a tenere i suoi sottoposti sulla brace, premiandone alcuni, punendone altri, minacciandoli tutti, perché uno come lui, che ha ottenuto una posizione manovrando numeri che corrispondono a soldi, a cui solo per distrazione si poteva pensare che ci fossero anche attaccate persone la cui vita dipende anche da quei numeri, quando si è trovato di fronte una società di persone in carne ed ossa che desideravano prima di tutto vivere bene, ha pensato che per impedire che la loro smania di vivere bene non facesse tornare i suoi conti, l'unica cosa era di infondere nei sottoposti la pura e semplice paura di non riuscire a sopravvivere. E che rimanesse nelle sue mani la leva con cui si alza e abbassa il livello della paura.In modo da mantenere tutti sulla corda e impedire che lo disturbino mentre lui continua a contare i suoi numeri fino a mille, insieme ai suoi colleghi che si muovono in sfere più elevate, al di là del bene del male, del giusto e dell'ingiusto, del vero e del falso. Un piccolo uomo. Sa contare fino a mille. E basta.
Il Madrigale
Calmerlo 


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Il nuovo antisemitismo e l'elefante islamista nella stanza

Invocato quando non c’è, usato come clava propagandistica contro i nemici, da decenni l'antisemitismo sta attraversando una trasformazione che pochi analizzano, ma tutti vedono. La matrice principale della giudeo-fobia è islamica e non più di estrema destra.

di Stefano Magni 

C’è grande confusione sotto il cielo dell’antisemitismo. Invocato quando non c’è, usato come clava propagandistica contro i nemici (i russi, ad esempio, accusano gli ucraini di antisemitismo e neonazismo, anche se hanno eletto a gran maggioranza un presidente ebreo), l’antisemitismo aumenta in modo esponenziale nelle società occidentali, soprattutto dopo i due anni di pandemia. Si è soliti dare la colpa a chi era il più virulento antisemita nel XX Secolo: il nazista, il fascista, il nazionalista autoritario nelle sue varie declinazioni. Si va ancora a ricercare la radice dell’antisemitismo nel XIX Secolo, nei pogrom condotti dai cristiani, soprattutto ortodossi. E nei secoli dell’Età Moderna, per puntare ancora il dito contro la Chiesa Cattolica e l’Inquisizione spagnola. Ma, anche se i servizi nei Tg, ogni volta che si parla di antisemitismo, per riflesso condizionato, ci mostrano ancora le immagini di svastiche e teste rasate, siamo sicuri che sia ancora quella la matrice principale dell’odio contro gli ebrei?
  Almeno dagli anni della guerra al terrorismo, la cui fase più acuta è stata fra il 2001 e il 2008, gli intellettuali più liberi da pregiudizi in Francia, come Alain Finkielkraut, additavano un nuovo nemico: l’anti-giudaismo di matrice islamista (intesa come Islam politico) e le sue numerose connessioni con la sinistra massimalista. Nel nome dell’“antirazzismo”, soprattutto, si associa anche la retorica dell’antisionismo islamico, che si traduce automaticamente in antisemitismo: il bersaglio non è solo Israele, ma l’ebreo in quanto tale, ovunque si trovi. Gli attentati in Francia di matrice antisemita, come la strage nella scuola ebraica di Tolosa del 2012 e quella del Hyper Cacher di Parigi del 2015 (contemporanea al massacro dei redattori del giornale satirico Charlie Hebdo), sono di matrice islamica. Anche i delitti individuali, come il rapimento, la tortura e l’uccisione di Ilan Halimi nel 2006, più recentemente l’assassinio di Sarah Halimi nel 2017 (il cui assassino resta impunito perché ritenuto “non perseguibile”) e di Mireille Knoll nel 2018, sono stati tutti commessi da delinquenti comuni. Che però erano anche musulmani, si erano radicalizzati e hanno ucciso le loro vittime, esplicitamente perché ebree. Mireille Knoll, pugnalata e poi bruciata, in casa sua, da un vicino che conosceva, è una vittima che ha subito il passaggio di consegne da un antisemitismo all’altro: l’anziana donna, classe 1932, era sfuggita per miracolo alla retata dei nazisti del 1942. Ha trovato la morte nel secolo successivo, per mano di un giovane che ha aderito a un altro totalitarismo.
  A svelare l’esistenza di questo elefante nella stanza, che si stenta a vedere e condannare, da ultimo è Pierre André Teguieff, sociologo e storico francese. Da studioso della nuova destra, non nega affatto le matrici neonaziste e nazionaliste di parte dell’attuale galassia antisemita, ma nel suo nuovo saggio Sortir de l'antisémitisme? segnala, nella sua intervista rilasciata a Le Figaro, quella che è ormai la nuova tendenza universale dell’antisemitismo: "La grande trasformazione risiede nell’islamizzazione crescente della giudeofobia, attraverso lo spazio occupato dalla fine degli anni Sessanta da parte della 'causa palestinese', innalzata a 'causa universale' nel nuovo immaginario antiebraico condiviso ormai da musulmani e non musulmani. Dall'inizio degli anni Duemila, gli assassinii di francesi di confessione ebraica in quanto ebrei non sono commessi da estremisti di sinistra o di destra ma da giovani musulmani, spesso delinquenti o ex delinquenti, siano essi o no jihadisti in missione - come Mohammed Merah (lo stragista di Tolosa, ndr) o Amedy Coulibaly (autore del sequestro di ostaggi all’Hyper Cacher, ndr)".
  Se l’islamismo è la matrice principale, questo poi trova sponde occidentali, sia nell’estrema destra, sia nell’estrema sinistra. E in entrambi i casi, sfrutta il comune odio per Israele e il sionismo, quello che viene identificato nella loro mitologia complottista (comune ad entrambe le estreme) come la belva che domina il mondo, attraverso la finanza, i media, l’arte popolare (il cinema soprattutto) e l’infiltrazione nella politica. Una visione allucinata della realtà che si sposa benissimo con la demonizzazione religiosa dell’ebreo, da parte dei radicali islamici. Teguieff constata infatti che: "Mentre dalla fine degli anni Settanta del Diciannovesimo secolo alla metà del Ventesimo secolo la giudeofobia militante aveva abbracciato i presupposti della secolarizzazione e il razzismo scientifico, rompendo con l'antigiudaismo religioso di origine cristiana - da cui ha ereditato, tuttavia, la visione satanizzante del nemico -, in seguito è entrata nel vasto contro-movimento della de-secolarizzazione, ritrovando una base religiosa in un islam bellicoso che possiamo caratterizzare come un islam politico, che si nutre del risentimento e di una volontà di vendetta - contro gli ebrei e i 'crociati' - così come di un desiderio di conquista del mondo".
  L’Anti Defamation League, che ogni anno “fotografa” la diffusione del pregiudizio antisemita in tutto il mondo, nel 2021, come sempre negli ultimi decenni, ha pubblicato dei dati che confermano l’islamizzazione dell’antisemitismo. Il 49% degli antisemiti, in tutto il mondo, è di religione musulmana, contro il 24% di religione cristiana e il 21% fra gli atei (dato significativo per comprendere la tendenza nella sinistra massimalista). Dunque quasi la metà dell’antisemitismo in tutto il pianeta è di matrice islamica. Parlando di aree geografiche, la zona del mondo con la più alta concentrazione di antisemiti è il Medio Oriente allargato (incluso il Nord Africa) con il 74% di rispondenti al sondaggio che mostra di condividere i peggiori pregiudizi e paure contro gli ebrei. È un dato unico al mondo, se confrontato con il 34% in Europa orientale, il 24% in Europa occidentale e il 19% in America. Le nazioni da cui arriva la maggior parte degli immigrati musulmani in Francia sono, per altro fra le più antisemite del mondo, in assoluto. L’Adl rileva infatti la diffusione dell’ostilità contro gli ebrei all’87% in Algeria, 86% in Tunisia, 80% in Marocco, “solo” il 53% in Senegal.

(il Giornale, 1 marzo 2022)

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La rivoluzione ebraica nel nuovo libro di Emanuele Fiano

Figlio di un deportato ad Auschwitz, architetto, deputato del Pd, in "Ebreo", appena edito da Piemme, mette a fuoco l’identità di una comunità che tiene insieme gli ultraortodossi e Woody Allen. Tra stereotipi da combattere e una precisa idea di futuro.

di Michele Serra

L'identità ebraica, alla luce dalla grande varietà e disparità delle sue espressioni storiche, dal colono israeliano nazionalista all'intellettuale disincantato, dall'inestirpabile legame con le radici culturali e religiose a una rivendicata indifferenza soprattutto nei confronti delle seconde, è davvero molto complicata da definire. Ebrei sono Philip Roth e Woody Allen, ebrei gli haredim ultraortodossi di Gerusalemme, ditemi se esiste un nesso percepibile...
  Ciò che risulta evidente anche al profano è che la millenaria diaspora, culminata con il genocidio programmato dal nazismo, non è bastata a disperdere un seme culturale così tenace da sembrare indistruttibile. Un seme irriducibile a qualunque luogo comune o pregiudizio "razziale", compreso quello "buono" della cosiddetta superiorità ebraica: "gli ebrei sono più intelligenti". A quest'ultima, diffusa opinione, che rimanda a una differenza indimostrabile (antiscientifica, si direbbe con un termine molto di moda), Emanuele Fiano dedica alcune delle migliori pagine del suo libro Ebreo. Una storia personale dentro una storia senza fine.
  Il libro ha il pregio (e il coraggio) di calare nella storia privata dell'autore i tanti contenuti saggistici e bibliografici, come se ragionamenti e sentimenti, teoria ed esperienza fossero, gli uni senza gli altri, insufficienti a capire, e a farsi capire. Così, nel lungo racconto, il giovane Fiano, ancora adolescente, mette a fuoco il disagio della differenza non solamente di fronte allo spregio razzista manifestato da alcuni "sancarlini" (furono una sottospecie dei "sanbabilini"), ma anche quando, durante una visita medica, il dottore, scoprendo che Emanuele è circonciso, elogia, con intenzione benevola, la superiore intelligenza degli ebrei. Ottenendo, al contrario, un effetto di muto fastidio.
  Figlio di un deportato ad Auschwitz (unico scampato della sua famiglia), deputato del Pd, architetto, milanese e per anni dirigente della comunità ebraica della sua città, Fiano mette sul tavolo i tanti materiali del suo ebraismo assecondando un'idea di partenza, diciamo un'idea ordinatrice, che fa da filo conduttore all'intero racconto, dalle esperienze giovanili nei kibbutz socialisti alle letture adulte, dal doloroso rapporto con una memoria familiare straziata dalla Shoah al suo lavoro politico, dalla discussione sui testi sacri alla vita quotidiana di un italiano come tanti. L'idea è questa: dall'Illuminismo in poi - diciamo dall'inizio della modernità culturale - l'ebraismo in larga parte si è secolarizzato. E in virtù delle sue stesse radici religiose e culturali ha generato un pensiero al tempo stesso critico dell'esistente e ottimista sul futuro. Comunque teso a "non rimanere nella condizione che ti ha generato", a cambiare, migliorare, muoversi, mettersi in cammino.
  Accadde, nel Settecento, che il messianesimo della tradizione (l'attesa del Messia e della salvezza) "fu collegato all'idea del progresso eterno e del compito infinito dell'umanità di perfezionarsi". Al concetto di "redenzione", cioè del ritorno salvifico a un Regno passato, subentra quello di "progresso", un lungo cammino senza fine verso il futuro, verso condizioni umane più degne, libere dalla schiavitù. L'attesa messianica si trasforma "nel compito di realizzare la giustizia nella storia, un compito che ogni uomo deve assolvere in prima persona".
  Questa lettura dell'ebraismo trova evidenti argomenti a favore nell'impressionante numero di pensatori e leader politici ebrei che, a cominciare da Marx, hanno segnato la storia dei movimenti rivoluzionari e di liberazione. Lo stesso concetto di "liberazione" (ne parla anche Gad Lerner nel suo libro L'infedele, con accenti molto simili a quelli di Fiano) è impresso nell'identità ebraica quasi come un dovere, o un'investitura.
  La ricerca di territori dove trovare scampo, la fuga dalle persecuzioni, tutto ciò che Fiano chiama "il giogo del presente", non respingono verso il passato e verso la nostalgia, spingono verso il futuro e verso il mutamento. È la "futura umanità" del socialismo che si libera dalle proprie catene perché ha deciso, finalmente, di mettersi in viaggio. "Il viaggio - scrive Fiano - è l'immagine che più si addice a raccontare cosa sia l'esperienza ebraica".
  Fiano non pretende dogmaticamente "vera" questa lettura "di sinistra" dell'ebraismo, ma la sposa fortemente, anche come portato della sua esperienza individuale, fino a sostenere che "la matrice del pensiero ebraico è una matrice di progresso, chi non la interpreta così fa un torto alle nostre radici".
  A questa lettura molto politica dell'identità ebraica, Fiano affianca una lettura profondamente laica (mi permetto di definirla così) anche della tradizione religiosa e testuale. "Nell'ebraismo la dottrina non esiste e al suo posto c'è la discussione sui testi, l'accumulo indefinito delle chiose ai libri sacri, la riflessione che ai pensieri di chi è morto aggiunge quelli dei vivi". Questa concezione non dottrinaria dell'ebraismo è rivendicata spesso, se non soprattutto, da molti ebrei non ortodossi e non credenti, che rivendicano il metodo della confutazione, della discussione, del dubbio come matrice anti-dogmatica della cultura ebraica, e come veicolo formidabile di perfezionamento intellettuale (ahi, qui si rischia di ricadere nel mito della "superiore intelligenza" degli ebrei). Vengono in mente gli spettacoli di Moni Ovadia, il proverbiale umorismo ebraico (niente come lo humour necessita di un cortocircuito critico...), lo stuolo interminabile di talenti ebrei in campo artistico e intellettuale.
  E a costo di addentrarsi in un terreno minato va detto che sì, qualcosa di "diverso", nelle radici dell'ebraismo, deve pure esserci, visti i copiosi frutti nonostante persecuzioni e ghetti. C'è un "modulo pedagogico", come lo definisce Fiano, che dal libro dell'Esodo trascina e costringe chi lo adotta a non farsi mai bastare quello che è scritto, quello che già c'è. Come scrive David Bidussa a proposito del Talmud, "accanto a questi testi e intorno a questi testi rimane un margine di bianco considerevole. La cultura ebraica e l'ebraismo è esattamente quel margine bianco, ovvero è la possibilità e la plausibilità di aggiungere altri testi. Ovvero di continuare il testo".

(la Repubblica, 1 marzo 2022)

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