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Notizie 16-31 marzo 2022


Bennett ai cittadini: "Se avete armi portatele con voi"

Lo ha detto il premier rivolgendosi ai cittadini israeliani all'inizio della riunione di governo sugli attacchi terroristici subiti dal Paese in questa settimana
  Aprite gli occhi. Chiunque abbia la licenza di portare un'arma, questo è il momento di avere l'arma con sè." A dirlo è stato il premier Naftali Bennett rivolgendosi ai cittadini israeliani all'inizio della riunione di governo sugli attacchi terroristici subiti dal Paese in questa settimana.
  Il premier ha anche annunciato la creazione di una nuova unità denominata 'Brigata della Guardia di Frontiera' a cui, ha affermato, saranno assegnati incarichi "strategici".

(sky tg24, 31 marzo 2022)

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Se negli equilibri (fragili) d'Israele irrompe l'Isis spargendo sangue

di Fabio Nicolucci

Parafrasando Agata Christie, se un atto terroristico è solo un atto terroristico, e due atti terroristici sono solo una coincidenza, tre atti terroristici in dieci giorni in Israele sono una prova. La prova che è in atto un fenomeno più profondo - e più preoccupante- di semplici processi di radicalizzazione individuali. Scelta dei tempi e dei luoghi, escalation nelle modalità - e conseguentemente nella letalità - cosi come le stesse storie e identità personali dei terroristi, indicano come dentro la profonda frattura tra Stato d'Israele e la sua minoranza araba - che l'anno scorso, innescata dalla scintilla della contesa su Sheik Jarrah è esplosa in una rivolta etnica e in una guerra di 11 giorni a Gaza - si è purtroppo inserito l'Isis. Con un'agenda politica che prescinde dal conflitto israelo-palestinese, strumentalizza il profondo disagio sociale ed economico più che politico della minoranza arabo israeliana, e sembra invece puntare su dinamiche tutte interne all'organizzazione e alla sua agenda globale.
  In una settimana, infatti, ci sono stati tre attacchi dentro Israele. Il primo è avvenuto il 22 marzo scorso a Be'ersheva, sonnolenta cittadina nel deserto del Negev, a maggioranza beduina. Qui un lupo solitario si è avventato sulla folla fuori da un centro commerciale con la sua macchina ed un coltello, uccidendo quattro persone prima di essere ucciso da un conducente di autobus. Mohammed Abu al-Kiyan era un israeliano di origine beduina, ed era stato in carcere quattro anni e mezzo dal 2015 per essersi unito all'Isis e aver tentato di raggiungere lo Stato Islamico in Siria.
  Il secondo attacco, nella città costiera di Hadera domenica 27 marzo, è stato molto più complesso. I terroristi erano almeno due, Ayman and Ibrahim Ighbariah, due cugini arabi israeliani della città a prevalenza araba di Umm al Fahm nel cosiddetto "triangolo arabo" in Galilea, ed erano già noti per la loro vicinanza all'Isìs - uno dei due aveva scontato anche mesi di prigione per aver cercato di andare nello Stato Islamico attraverso la Turchia - e sicuramente dotati di addestramento specifico. A guardare i video dell'attacco, infatti, si nota la loro calma e determinazione anche in situazioni di stress, quando individuano due giovani soldati - un ragazzo e una ragazza - che scendono da un autobus e li uccidono, ne prendono le armi, le caricano con le molte munizioni specifiche per gli Ml6 di cui sono dotati i soldati israeliani e che si erano preventivamente portati insieme a tre pistole e 6 coltelli, e cominciano a sparare all'impazzata. Casualità vuole che due poliziotti della polizia di frontiera, dunque molto addestrati, stessero pranzando lì vicino : intervengono subito, uccidendo i due e impedendo un vero e proprio massacro.
  L'attentato viene ufficialmente rivendicato dall'Isis con la sua agenzia di stampa ufficiale Amaq. Martedì sera 29 marzo, il terzo episodio. Un ventiseienne palestinese, Diaa Hamarsheh, illegalmente in Israele spara con un mitra nella folla. Era stato nel 2013 sei mesi in prigione come militante di Fatah, ma le modalità del gesto - non è semplice portare un mitra dentro Israele per un palestinese - e la scelta del luogo fanno presupporre una radicalizzazione pro-Isis proprio in prigione. Prima di essere ucciso riesce ad uccidere 5 persone, tra cui un poliziotto israeliano cristiano, Amir Khoury. Che dunque vi sia una regia politica dell'Isìs dietro questa catena di attentati, non ce lo dice solo la rivendicazione ufficiale dell'Isis per quello di Hadera, la prima dal 2017. Ma anche la scelta dei tempi. Il primo a Be'ersheva avviene qualche giorno prima del summit proprio nel Negev tra Israele e 4 stati arabi e gli Usa, per allargare e rafforzare i rapporti nel quadro degli Accordi di Abramo.
  Il secondo - quello rivendicato ufficialmente- avviene nel giorno stesso del vertice.Un vertice che, seppur oscurato dalla Guerra in Ucraina, è comunque non solo un problema in più per l'Isis ma anche una perfetta occasione per riguadagnare la necessaria visibilità sul palcoscenico globale.
  Una visibilità sempre necessaria, ma ancor più in questa fase di riorganizzazione. L'Isis infatti, dopo la caduta dello Stato Islamico, si sta riorganizzando per quella che potrebbe essere la quinta ondata del progetto jihadista globale, di solito organizzate in decadi : anni '80, anni '90 secolo scorso, 11 settembre, e gli anni dieci del nuovo secolo. Che vedono appunto il sorgere e l'egemonia dell'Isis nel jihadismo a scapito di Al Qa'ida, con l'ascesa - e la caduta - dello Stato Islamico.
  Ora, il progetto dell'Isis continua. E secondo la strategia di baqa' wa tamaddud (radicarsi e espandersi, ndr), si sta espandendo anche in altre aree - il Sahel in primo luogo - e riorganizzando, su basi meno unitarie e globali. Per la prima volta l'Isis ha rivendicato in Mali un'azione come «provincia del Sahel» e non più la generica provincia dell'Africa dell'Ovest. Alla ricerca di legittimazione meno globale e più locale, magari su base nazionale. Lo stesso potrebbe essere la tendenza in Israele, dove la crisi della minoranza arabo-israeliana apre varchi al radicamento del terrorismo globalista, e la concomitanza del Ramadan, della Pasqua e del Giorno della Terra - che avviene ogni dieci anni - sono un palcoscenico ideale per ripartire anche nel Levante. La cattiva notizia è che si potrebbe trattare di un progetto a medio-lungo termine. Quella buona è che è meno probabile un'escalation o una guerra come l'anno scorso all'inizio del Ramadan il prossimo sabato.

(Il Mattino, 31 marzo 2022)

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«Israele impegnato a salvare gli ebrei ucraini in pericolo»

Intervista a Dror Eydar (Ambasciatore d'Israele)

di Giuseppe Crimaldi

ROMA - «Per i terroristi la nostra unica colpa è semplicemente quella di esistere. I nemici d'Israele, con i loro attacchi contro i civili inermi, credono di avere la meglio e di riuscire a perseguire il loro disegno più nero: farci scomparire dalla cartina geografica. Vigliacchi. Ma noi reagiremo, colpo su colpo contro il terrorismo. La nostra risposta non potrà che essere quella della forza. Li colpiremo e li sconfiggeremo». Dror Eydar, ambasciatore dello Stato d'Israele in Italia, parla con "Il Mattino" e commenta a caldo l'ultimo bagno di sangue scatenato dalla ferocia terroristica che ha causato cinque morti alle porte di Tel Aviv. Bilancio tragico: 11 vittime in tre attentati, solo nell'ultima settimana.

- Chi c'è dietro questa nuova ondata di violenza?
  «Potrei dire Isis, Hamas, il Fronte di liberazione della Palestina, ma al di là delle facciate sono tutti la stessa cosa. Vigliacchi che uccidono civili inermi. Ci avviciniamo alle festività del Ramadan, della Pasqua ebraica e di quella cristiana, ed eccoli che tornano a colpire. E lo fanno, ancor di più, puntualmente quando Israele fa dei passi di pace importanti tesi a normalizzare i rapporti con alcuni Paesi arabi, in virtù degli "Accordi di Abramo"».

- Si va verso una nuova escalation di violenza?
  «Abbiamo innalzato al massimo i nostri livelli di sicurezza, e a questi vili ricordiamo che noi siamo un popolo eterno, sempre pronto a difendere il nostro ritorno a casa dopo un lungo esilio. Siamo tornati nella nostra terra non per scappare, ma per combattere, proprio come fece Giacobbe contro Esaù. E l'Europa tenga bene a mente il suo recente passato, perché l'indottrinamento di certi leader fanatici religiosi ha finito per armare la mano anche nel Vecchio Continente: e ricordi sempre che dietro la folle ideologia dei terroristi c'è un rischio non solo per noi israeliani, ma anche per l'Occidente intero. Perché noi restiamo l'avanguardia dell'Europa».

- Intanto a 3000 chilometri da Roma si combatte un'altra guerra. Quali sono le vostre aspettative? C'è ancora spazio per una mediazione di Israele tra Russia e Ucraina?
  «Per arrivare alla pace non ci sono mai tentativi inutili. Israele ha fatto e sta continuando a fare la sua parte, anche oggi mentre il tavolo degli accordi si svolge ad Istanbul. Noi abbiamo la Russia alle porte, ai nostri confini con la Siria. E il nostro primo obiettivo resta quello di mettere in sicurezza gli ebrei ucraini, e forse anche molti di quelli che vivono in Russia. Anche il Papa - che pure si è schierato fermamente contro questa guerra - potrebbe avere un ruolo fondamentale, e i suoi sforzi tesi a fermare il conflitto sarebbero un grande gesto di pace: immaginate, con la sua autorevolezza riuscirebbe a fermare le ostilità. Ne sono sicuro».

- Da un lato lo spettro della Terza Guerra Mondiale. Dall'altro il riemergere del terrorismo islamico. Ancora una volta la figura di Israele assume un ruolo centrale.
  «Vuole sapere chi siamo noi? Siamo quelli che, mentre c'è chi sparge ancora sangue innocente a casa nostra, realizziamo concretamente l'idea biblica della condivisione del bene. Il bene che fa progredire, che è vita, che non è tragedia, ma speranza. Con fatti concreti: per questo a Napoli il prossimo 17 e 18 maggio metteremo a disposizione del vostro Paese, dell'Italia, e di altre nazioni la nostra tecnologia volta alla soluzione di sfide globali. Napoli ospiterà una conferenza sull'agritech».

- Di che si tratta?
  «Il numero di nuove start-up legate alla tecnologia climatica è aumentato vertiginosamente in Israele nel 2014, raggiungendo il 9 per cento del suo totale nel 2020. Nell'ambito della creazione di soluzioni alle sfide globali, il maggior numero di aziende punta a sistemi energetici puliti, mobilità e trasporti sostenibili. Parliamo di ricerche avanzate sulle proteine alternative, la bioedilizia, le tecniche contro ogni spreco di cibo. Ma anche dei sistemi di irrigazione senza sprechi, e della desalinizzazione dell'acqua, per non dire dell'utilizzo dei satelliti per la mappatura del suolo, dei sistemi di irrigazione e fertilizzazione e per ciò che noi definiamo "agricoltura di precisione"».

- Chi saranno i protagonisti di questo Forum?
  «Porteremo a Napoli 40 aziende israeliane di avanguardia in materia di energia pulita, risorse idriche, rispetto dell'ambiente. Tre temi caldissimi per il pianeta. E condivideremo con Confagricoltura e con l'Università Federico II informazioni e una cooperazione capace di rafforzare l'economia globale. Ringrazio per questa opportunità il sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi, che ha fermamente creduto nel nostro progetto, dal quale scaturiranno nuovi posti di lavoro, crescita e prosperità, oltre ad una nuova tutela della natura, del clima e della diversità ecologica».

- Lei ultimamente ha visitato molte regioni italiane. Che idea si è fatto del nostro Paese?
  «L'Italia ha molte affinità con Israele. Anche nelle problematiche legate al futuro sempre più legato ad uno sviluppo sostenibile. Sono appena rientrato dalla Sicilia, dove ho appreso della desertificazione che è una piaga che sembra affliggere molte altre regioni, anche del Nord e di Paesi che si affacciano sul Mar Mediterraneo. Problematiche che noi israeliani abbiamo affrontato già molti anni fa, riuscendo ad ottenere significativi e rivoluzionari risultati. In Israele grazie alla ricerca iniziata dai nostri pionieri nei kibbutzim, e poi portata avanti dalle start up, siamo riusciti a far fiorire persino il deserto».

(Il Mattino, 31 marzo 2022)

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Biden e Johnson vogliono rovesciare Putin: niente pace, la guerra va avanti

Nonostante un avvicinamento tra le parti, anche i colloqui di Istanbul si sono conclusi con un nulla di fatto: il sentore è che Washington e Londra vogliano che il conflitto vada avanti fino alla caduta di Putin.

di Alessandro Cipolla

Due indizi fanno una prova: gli Stati Uniti e il Regno Unito più che per un accordo di pace sembrerebbero fare il tifo per un prosieguo della guerra tra Russia e Ucraina, nella convinzione che la resistenza di Kiev alla fine possa portare alla caduta di Vladimir Putin.
   In principio sono state le parole di Joe Biden a far sorgere i primi pensieri: “Putin è un macellaio e un dittatore, non può restare al potere”. Nonostante gli smarcamenti non solo di Emmanuel Macron, ma anche del suo segretario di Stato Antony Blinken, il presidente americano non ha voluto in qualche modo ritrattare le sue parole “esprimevo il mio sdegno”, sottolineando poi di non ritenere che la sua frase possa aver complicato le trattative di pace.
   Da quando è iniziata la guerra, la Casa Bianca con una precisione svizzera ogni volta che le trattative diplomatiche hanno fatto dei timidi passi in avanti, puntualmente ha alzato il livello della tensione anche evocando i rischi di attacchi nucleari o chimici.
   A fornire il secondo indizio è stato poi Boris Johnson, o meglio il Times che ha rivelato quello che sarebbe il reale pensiero di Downing Street: “La strada più sicura verso una soluzione accettabile è che l’Ucraina prevalga militarmente sulla Russia, l’Occidente non deve farsi sedurre dai discorsi di Mosca su accordi di pace, ma fornire a Kiev gli strumenti per finire il lavoro”.
   Del resto un accordo di pace tra Russia e Ucraina in qualche modo andrebbe a rafforzare la posizione di Vladimir Putin, anche se nulla sarà più come prima dopo l’invasione.
   Ecco perché a Stati Uniti e Regno Unito potrebbero non dispiacere un prolungamento della guerra, nella convinzione che questa sia la via più percorribile per arrivare al grande obiettivo: far cadere lo “Zar” dal suo trono di Mosca, magari attraverso una congiura intestina.

(Money.it, 31 marzo 2022)
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La strada più sicura per arrivare alla terza guerra mondiale o come minimo allo sfacelo dell'Europa continentale è permettere a Stati Uniti e Regno Unito rinfocolare la guerra aizzando l'Ucraina contro la Russia illudendola di poter vincere. Viva la guerra! Dove sono andati gli arcobaleno? M.C.

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Addio a Evelyne Aouate, leader della comunità ebraica di Palermo

Inseguì il sogno di una sinagoga in città e fondò l'Istituto di studi ebraici

di Claudia Brunetto

Evelyne Aouate
Il sogno di una sinagoga a Palermo che considerava la sua città da oltre sessant'anni non è riuscita a realizzarlo. Ma c’è da scommettere che altri lo faranno per lei. Tutte le persone che in questi anni ha riunito in una vera comunità con la sua “intelligenza del cuore”, come amano dire gli amici. Evelyne Aouate, rappresentante della comunità ebraica della città e presidente dell’Istituto siciliano di studi ebraici da lei fondato negli anni Novanta, è morta a 81 anni, dopo aver combattuto per metà della vita contro un cancro “senza mai perdere la voglia di fare”, dice la figlia Paola Valentino.
   “Ha tessuto solidi rapporti con le persone di origine ebraica e con gli studiosi della cultura ebraica di tutta Italia. La sua casa di via Wagner, sede dell’istituto siciliano di studi ebraici, era un punto di incontro irrinunciabile per tanti. La sua città era Palermo e a Palermo voleva realizzare la sua sinagoga per tutta la comunità ebraica. Un luogo di preghiera che manca. Ma non ci è riuscita, nonostante le tante battaglie per trovare le risorse per ristrutturare l’Oratorio di Santa Maria del Sabato, in vicolo della Meschita, che l’arcivescovo Corrado Lorefice aveva messo a disposizione”, racconta la figlia.
   Aouate, nata in Algeria ma come tanti ebrei del suo Paese costretta a rifugiarsi con la famiglia a Parigi, è arrivata per la prima volta a Palermo a 18 anni in occasione di una vacanza estiva. Si è innamorata subito della città e di quello che sarebbe diventato suo marito.
   “Da allora non lasciò mai Palermo. Ha aperto la “Gigi boutique” in via Principe di Villafranca che ha fatto storia. Da allora mia madre ha vestito le donne di questa città”, racconta Paola che con la sorella Marinda gestisce l’atelier “Le.Gi di Valentino” in via Ruggero Settimo, avviato dai genitori.
   Il sindaco Leoluca Orlando che nel 2017 le ha conferito la Tessera preziosa del mosaico della città ha ricordato le motivazioni di allora: “Evelyne Aouate rappresenta la storia dell'ebraismo, del suo essere collegato a tanti luoghi e del suo essere fedele a una tradizione millenaria. Con l'Istituto di studi ebraici la comunità ebraica non soltanto custodisce e promuove il ricordo della storia degli ebrei in Sicilia e al loro apporto alla nostra comunità, ma è anche luogo e strumento di promozione dell'incontro fra le diverse religioni monoteiste in una prospettiva ecumenica, in sintonia con la tradizione e la storia di Palermo e della Sicilia”.
   Per le persone di origine ebraica della Sicilia, ma non solo, e per tanti studiosi dell’ebraismo è stata un punto di riferimento. “Abbiamo riscoperto insieme una pagina di storia ebraica della Sicilia – racconta Miriam Ancora che con Aouate aveva fondato l’Istituto siciliano di studi ebraici – Abbiamo riscoperto e ricordato le varie feste ebraiche a cominciare dal Chanukka, la festa delle luci celebrata allo Steri. E poi, ovviamente, c’era il grande progetto della sinagoga, grazie all’arcivescovo Lorefice che ci ha messo a disposizione l’oratorio". 
   I funerali saranno celebrati venerdì alle 11,30 nella sezione acattolica del cimitero dei Rotoli dove Aouate ha voluto la sua tomba. “Era la nostra forza, la sua positività e il suo spirito di accoglienza non avevano eguali”, dice la germanista Rita Calabrese. 

(la Repubblica, 31 marzo 2022)

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Nuova ondata di terrorismo in Israele

Caratteristiche, cause e possibili mezzi di contrasto

di Ugo Volli

• L’ondata
  L’attentato di ieri sera a Bnei Barak (cinque israeliani assassinati) è il terzo in una settimana, dopo quello di Beer Sheva il 22 marzo (quattro uccisi) e quello di Hedera (2 morti). Oggi c’è il sospetto di un nuovo attacco a Gerusalemme, vicino al mercato di Mahane Yehuda. Ormai non si può più parlare di attacchi isolati, è chiaro che è in corso un’ondata terrorista, che purtroppo rischia di continuare, anche grazie all’effetto di imitazione che spesso questi crimini inducono. Ma anche al fatto che tutte le fazioni palestiniste li hanno approvati e festeggiati. A Gaza, ma anche a Jenin da dove veniva uno degli ultimi attentatori, a Tulkarem e altrove, nei quartieri arabi vi sono stati danze, canti, offerte di dolciumi ai passanti.

• Le caratteristiche comuni
  Tutti i tre gli attentati sono avvenuti entro i limiti storici di Israele, quelli stabiliti nel ‘48; non nei territori che i nemici di Israele definiscono occupati, cioè la Giudea e Samaria e Gerusalemme vecchia. Tutti sono stati realizzati con la partecipazione di arabi israeliani. Due su tre hanno comportato l’uso delle armi da fuoco, che i palestinisti negli ultimi anni avevano invece usato poco, per discostarsi dall’immagine del terrorismo e lanciare quella della “resistenza popolare”. Tutti però sono stati compiuti da terroristi singoli con armamenti individuali, senza una grande organizzazione attiva, a differenza degli attentati con le cinture esplosive di vent’anni fa. Due su tre almeno sono stati rivendicati dall’Isis, che non aveva avuto finora un ruolo rilevante nel terrorismo palestinista e che sta evidentemente cercando di installarsi in Israele.

• Le preoccupazioni
  Queste caratteristiche comuni inducono gravi preoccupazioni, anche al di là del lutto e della tragedia delle vite stroncate. La presenza di terroristi arabi con cittadinanza israeliana fa pensare che gli episodi di violenza di massa, veri e propri pogrom omicidi, di cui si erano resi responsabili gruppi di arabi israeliani a Lod, Acco e in altre località durante l’ultima operazione a Gaza, non siano stati episodi isolati, ma che ci sia ancora il rischio di una sollevazione violenta di parti della minoranza araba in Israele e il tentativo dei palestinisti di innescarla. L’arrivo dell’Isis, che certamente ha quadri militari ed esperienza di guerriglia, è un’altra preoccupazione. E colpisce il fatto che i tre episodi non siano stati prevenuti dai servizi di sicurezza (Shabak e polizia) israeliani, che evidentemente non hanno più le antenne di una volta e hanno perso concentrazione sul terrorismo occupandosi molto di compiti estranei come la prevenzione del Covid o addirittura di lotta politica contro Netanyahu e i “coloni estremisti”. Vi è stata nell’esercito un’attenzione legale meticolosa a prevenire ogni abuso dell’autodifesa, che ha forse fatto abbassare la guardia. Si è forse creduto che la presenza al governo di un partito arabo avrebbe frenato il terrorismo e questo non è accaduto. Zone importanti del paese (il Negev, parti della Galilea, parti della “zona C” della Giudea e Samaria, sotto amministrazione israeliana secondo gli accordi di Oslo) sono stati lasciati all’iniziativa palestinista, spesso appoggiata praticamente dalla diplomazia europea.

• Le ragioni dell’ondata terroristica
  I palestinisti non hanno mai rinunciato al terrorismo e non hanno mai riconosciuto immunità neppure all’Israele nei limiti precedenti al ‘67. Dunque per loro il terrorismo è normale, anzi è un compito eroico che premiano con onori e denaro. Ma perché colpire proprio ora? La ragione principale è il tentativo di riguadagnare l’attenzione del mondo. Fra gli sviluppi degli accordi di Abramo e la guerra in Ucraina la questione palestinese è stata ridimensionata a quello che è: un problema secondario nella politica internazionale che coinvolge un numero abbastanza piccolo di persone e un territorio limitato. Questo è intollerabile per i palestinisti, abituati a essere considerati la fonte di ogni problema e di pretendere perciò l’appoggio del mondo. Il terrorismo serve soprattutto a far parlare di sé. La seconda ragione, che si sovrappone alla prima, è che Israele oggi gode i dividendi della politica di Netanyahu, continua a stringere le proprie relazioni con i vicini arabi, guida la resistenza all’imperialismo iraniano, ha un notevole successo internazionale, politico oltre che economico e tecnologico. E questo rende furiosi i palestinisti che vorrebbero solo distruggerlo e si vedono traditi dai loro fratelli arabi. Vi è poi il finanziamento e l’appoggio iraniano a ogni attività terrorista contro Israele. Infine vi è la debolezza e la confusione di un governo che non riesce ad applicare politiche univoche anche nel campo essenziale della sicurezza.

• Che cosa attendersi ora
  Dobbiamo sperare che i servizi di sicurezza israeliani riescano a prevenire nuovi attentati. Ma non sarà facile. Nel settore arabo vi è abbondanza di armi da fuoco (oltre naturalmente ai mezzi di attacco universalmente diffusi, coltelli, sassi, bottiglie Molotov, automobili con cui investire i nemici). Vi è anche molta criminalità non abbastanza contrastata, e un’abitudine diffusa all’illegalità, anch’essa spesso tollerata. Gli obiettivi prescelti da questa ondata terrorista non sono militari, ma civili e dunque sparsi dappertutto. Le modalità operative sono semplici ed efficaci: basta sparare nel mucchio. Certamente è necessario far ripartire delle politiche di sicurezza efficaci, individuando di nuovo le fonti di pericolo e lavorando per isolarle.

(Shalom, 30 marzo 2022)


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Ci scusi Mr. Abbas, anche questo terrorista percepirà il vitalizio?

di Franco Londei

Quello di ieri è il terzo attentato islamico avvenuto in Israele in pochi giorni, anche se la matrice questa volta sembra essere diversa.
   I primi due sono stati rivendicati in maniera attendibile dallo Stato Islamico, questo sembra invece legato al terrorismo palestinese.
   Hamas e Jihad Islamica palestinese ne hanno fatto subito vanto e ieri sera nel villaggio natale del terrorista, a Ya’bad vicino a Jenin, in dozzine sono scesi in strada per festeggiare distribuendo anche dolcetti.
   Il presidente dell’Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas (Abu Mazen), ha condannato l’attentato che ha provocato cinque morti e diversi feriti.
   È rarissimo che ciò accada ed è già qualcosa, tuttavia il Presidente della Autorità Palestinese non ha spiegato se anche questo terrorista (i suoi famigliari) potranno godere del lauto compenso che tocca sotto forma di vitalizio alle famiglie dei terroristi uccisi mentre compiono attentati contro cittadini israeliani, quello che Abu Mazen considera una forma di walfare.
   È importantissimo saperlo subito perché se anche in questo caso il governo palestinese provvederà a ricompensare il terrorista allora le parole di Abu Mazen non valgono nulla e sono parole false.
   E siccome il partito arabo Ra’am è nel governo di Israele, sarà necessario che siano proprio gli arabi a controllare che questo non avvenga. Perché è facile fare dichiarazioni di forma per far calmare le acque, per poi cancellare tutto sottobanco e garantire il premio alla famiglia del terrorista.
   Abu Mazen lo deve dire con chiarezza e subito che nessun attacco terroristico contro cittadini israeliani verrà premiato dalla Autorità Palestinese. Meno che meno quello di ieri.
   E siccome i vitalizi dei terroristi vengono pagati con il denaro che l’Unione Europea invia all’Autorità Palestinese, questa volta anche la UE ha il dovere di vigilare perché questa pratica è una vera e propria taglia sui cittadini israeliani che l’Unione Europea deve smettere di finanziare.

(Rights Reporter, 30 marzo 2022)

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Ritorna “Israel Calling”: il mini Eurovision made in Israele. Il prossimo 5 aprile

Oltre 20 delegazioni dell’Eurovision 2022 arriveranno in Israele il prossimo 5 aprile per una visita di quattro giorni. Tra le tappe anche Gerusalemme e Tel Aviv. In programma un Eurovision promo concert presso Menora Mivtachim Arena, Tel Aviv il 7 aprile.

di Mariella Belloni

Il mini evento promozionale dell'Eurovision, "Israel Calling", che coinvolge decine di Paesi europei, ha avuto grande successo tra gli artisti e le loro delegazioni nelle passate edizioni tanto da diventare un evento significativo per mettere in mostra gli artisti dei paesi partecipanti all’Eurovision. Inoltre, l’evento Israel Calling ha dato a Israele ampio lustro sui media tradizionali e i social di tutta Europa, creando dei veri e propri ambasciatori per Israele tra gli artisti in visita.
  Il Ministero del Turismo d'Israele ospita i concorrenti e i giornalisti accompagnatori, nonché i principali influencer dei vari Paesi che caricheranno sulle loro pagine social contenuti dalla loro visita in Israele. Il Ministero li ospita e li guida nel loro tour che comprende Tel Aviv, Gerusalemme, il Mar Morto e molto altro, tutto documentato a favore di milioni di follower.
  Israel Calling, iniziativa della nota produttrice israeliana Tali Eshkoli, si svolge con la collaborazione del Ministero del Turismo di Israele, il Ministero degli Affari Esteri, il Ministero di Gerusalemme e del Patrimonio e il Comune di Tel Aviv-Yafo che ospiterà l’evento principale.
  Il culmine della visita sarà il 7 aprile, con una extravaganza musicale davvero unica: un mini Eurovision con esibizioni dal vivo per il pubblico israeliano alla Menora Mivtachim Arena di Tel Aviv-Yafo trasmesso in diretta sui canali social di tutta Europa. Lo spettacolo includerà anche le canzoni degli artisti che si esibiranno all'Eurovision 2022 a maggio in Italia.
  Il Ministro del Turismo israeliano Yoel Razvozov ha dichiarato: "Dopo due anni difficili, è arrivato il momento di tornare alla normalità, di ospitare eventi internazionali e di ridare vita all'industria del turismo in Israele. Un evento come questo significa la rinascita dell'industria turistica israeliana che ha bisogno di certezza e continuità, ed è anche l’opportunità per mostrare al mondo la bellezza del nostro paese, la sua cultura e tutto il meglio che abbiamo da offrire ai turisti."
  L'ideatrice e produttrice di Israel Calling, Tali Eshkoli ha affermato: "Sono entusiasta ancora una volta di portare in Israele un grande evento internazionale, con artisti, delegazioni e giornalisti da tutta Europa che vengono qui per un evento promozionale in vista dell'Eurovision 2022 e per conoscere il nostro eccezionale paese. Li accoglieremo calorosamente e siamo felici di avere la possibilità di rendere indimenticabile la loro esperienza. Sono lieta di produrre Israel Calling, soprattutto dopo i recenti concorsi di Miss Universo ed Eurovision, per continuare a mostrare al mondo che Israele è un posto meraviglioso, diverso da qualsiasi altro, perfetto per ospitare produzioni internazionali, per invitare gli artisti ad esibirsi di fronte ad un pubblico caloroso e accogliente e per promuovere i nostri valori. Bentornati in Israele!"
  E in occasione di Eurovision 2022: in bocca al lupo alla squadra israeliana e... naturalmente anche a quella italiana!

(Comunicati-Stampa.Net, 30 marzo 2022)

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Una cabinovia urbana Doppelmayr per l’università di Haifa in Israele

Ad Haifa, circa 20.000 studenti e pendolari possono ora utilizzare ogni giorno una funivia Doppelmayr per raggiungere l'università. La nuova cabinovia a 10 posti Rakavlit va dal terminal centrale di treni e autobus HaMiFratz al Technion, il più grande centro di ricerca israeliano, al campus dell'Università di Haifa. Come parte del sistema di trasporto pubblico, la funivia fa risparmiare ai passeggeri fino a 25 minuti e offre un accesso diretto al loro posto di lavoro e di studio.

La nuova cabinovia
La nuova cabinovia per l'Università di Haifa è la prima funivia urbana in Israele ed è parte integrante della rete di trasporto pubblico. Comprende sei stazioni - tre delle quali saranno inizialmente usate come stazioni di entrata e uscita - e va dal terminal centrale dei treni e degli autobus "HaMiFratz" al Technion, il più grande centro di ricerca di Israele, e al campus dell'Università di Haifa. I passeggeri coprono il percorso di circa quattro chilometri sul Monte Carmelo in poco meno di 20 minuti - senza ingorghi e con una vista unica sul mare. La funivia fa risparmiare fino a 25 minuti in ogni direzione. 20.000 passeggeri al giorno possono utilizzare la cabinovia che è in funzione dalla mattina alla sera per un massimo di 19 ore.

• Hub di trasporto per ottimizzare il comfort dei passeggeri
  La stazione a valle della cabinovia fa parte dell'hub di trasporto multimodale "HaMiFratz". Gli autobus urbani, gli autobus interurbani, il bus rapid transit (BRT) "Metronit" ed i treni si incontrano qui. Nel 2018, HaMiFratz è stato modernizzato con l'obiettivo di rendere le operazioni più efficaci e semplificare i trasferimenti per i passeggeri. La funivia è una parte integrata del sistema di trasporto pubblico della città e è un altro passo verso un sistema di trasporto multimodale e accessibile ad Haifa. I passeggeri possono quindi utilizzare il loro biglietto del trasporto pubblico anche per viaggiare in funivia.  L'hub di mobilità HaMiFratz non solo offre ai passeggeri un servizio di trasporto multimodale in treno, autobus e funivia, ma è anche sede di uno dei più grandi centri commerciali di Haifa, il "Lev Hamifratz Mall" - noto anche come Cinemall. 

• Highlight per gli amanti dell'architettura
  Il campus universitario non è solo la destinazione dei circa 18.000 studenti dell'università e dei 15.600 studenti del Technion e dei loro dipendenti, ma anche di numerose persone interessate all'architettura. Questo perché il grattacielo universitario "Eshkol Tower" è stato progettato nel 1962 dall'architetto brasiliano di fama mondiale Oscar Niemeyer. La nuova telecabina rende ora ancora più facile e comoda la visita dell'edificio. 

• Impianti a fune urbani ad Haifa
  Haifa ha scoperto da anni gli impianti a fune come mezzo di trasporto pubblico. La funicolare Carmelit-Haifa è stata originariamente costruita negli anni '50 ed è stata completamente ristrutturata da Garaventa nel 2018 dopo un incendio. Corre completamente in galleria ed è quindi spesso chiamata la metropolitana di Haifa. Il sistema, lungo 1,8 chilometri, ha un totale di sei stazioni ed è anche parte della rete di trasporto della città e integrato nel sistema tariffario.

(Informazione.it, 30 marzo 2022)

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Il mio «no» al falchi

Posto che l'attacco di Putin va condannato, si può provare ad articolare un ragionato dissenso rispetto alla narrazione dominante Perché questo conflitto sarà pagato dall'Europa. E l'Italia di Draghi, che si è accodata ai falchi, dovrebbe essere più prudente.

di Marcello Veneziani

Ma qual è in sintesi il motivo del tuo, del vostro dissenso riguardo alla guerra in corso e alla vulgata dominante in Occidente? La richiesta mi è giunta da alcuni studenti liceali. Provo a riassumerlo in dieci tesi, che non pretendono di essere verità perentorie ma interpretazioni differenti. Vorrei che fossero accolte almeno come dubbi per leggere diversamente il corso degli eventi e non appiattirsi su quel che impone o somministra la Fabbrica del Consenso. Ma con una doppia premessa: l'attacco russo all'Ucraina va comunque condannato, in modo netto; la pietà e il soccorso alle popolazioni ucraine sono sacrosanti.
  1. L’America di Biden non lavora per la cessazione del conflitto ma per la sua perpetuazione, perché il suo scopo non è salvare l'Ucraina ma eliminare Putin. Gli attacchi continui a Putin - criminale di guerra, macellaio - uniti al rifornimento di armi imposto anche agli alleati, servono in realtà a prolungare, aggravare e allargare il conflitto, incattivire la Russia e far sentire Putin braccato e pronto a usare le armi della disperazione. Biden fa rimpiangere Trump alla Casa Bianca
  2. I danni procurati alla Russia con le sanzioni e le ritorsioni provocano almeno gli stessi danni all'Europa e all'Italia e in prospettiva ci portano verso un'economia di guerra dagli esiti drammatici. Perché le misure antirusse non ricadono minimamente sugli Stati Uniti ma sui suoi alleati; così come la crisi geopolitica è sofferta dall'Europa e non certo dagli Usa, per la loro lontananza
  3. Se non circoscriviamo il conflitto e non lavoriamo per la sua rapida cessazione, rischiamo di subire una crisi economica, energetica e poi sociale senza precedenti, perfino peggio di quella prodotta dal Covid. E’ necessario attivare tutti i mediatori possibili per una soluzione negoziale, partendo dalla stessa disponibilità espressa da Zelenskij a rendere l'Ucraina zona neutrale, non incardinata nella Nato
  4. Il riarmo dell'Europa, la costituzione di un esercito europeo e l'aumento delle spese militari, potrebbero anche essere una necessità; ma farlo alle dipendenze strategiche e militari della Nato e degli Usa, su loro input e in fondo con le loro finalità, che non coincidono con gli interessi europei, è una sciagurata follia
  5. Putin non minaccia l'Europa e l'Occidente ma l'attacco all'Ucraina può avere due chiavi di lettura, anche intrecciate: nella peggiore delle ipotesi, Putin vuole ripristinare la Grande Russia e l'Unione Sovietica annettendosi l'Ucraina, come del resto è stato negli ultimi tre secoli ed è giusto ostacolare questo proposito; nella migliore delle ipotesi vuole impedire che l'Ucraina diventi spina nel fianco e base militare della Nato puntata contro la Russia. E su questo va intavolata la trattativa. Ma in entrambi i casi il proposito di «attaccare l'Europa» non esiste
  6. I precedenti di questa guerra sono il golpe in Ucraina del 2014, la persecuzione della minoranza russa, lo strisciante revanscismo nazista, l'installazione di laboratori biochimici e centri di addestramento Usa sul territorio ucraino, l'annuncio delle basi militari Nato, oltre che l'ingresso dell'Ucraina in Europa. Che questi motivi siano diventati pretesti per l'aggressione di Putin è possibile; ma non toglie che siano fondati
  7. Se Putin è criminale di guerra lo è almeno quanto i vari presidenti statunitensi e britannici che hanno fatto bombardare città, ospedali e scuole e ucciso popolazioni civili e bambini in Iraq, in Libia, nello Yemen, in Siria, in Serbia, in Kosovo, e in tante altre località. Uccidendoli a volte anche in tempo di tregua con l'embargo ai medicinali e ai generi di prima necessità
  8. Lo spartiacque tra il bene e il male secondo il metro americano, non è la democrazia, la libertà, la tutela dei diritti civili, ma la convenienza strategica. Gli Stati Uni ti non hanno alcuna remora di avere nella Nato il turco Erdogan, un autocrate come Putin, e di avere come tradizionale alleato l'Arabia Saudita in cui i diritti civili sono calpestati
  9. I pericoli che minacciano l'Occidente sono quattro: a) l'espansione globale dei cinesi, la conquista di interi continenti e l'esportazione del loro modello nel mondo; b) l'espansione demografica e migratoria dell'Islam in un Occidente svuotato di nascite e di valori; c) il suicidio assistito dell'Occidente stesso in preda al nichilismo, alla perdita di vitalità, alla vergogna per la propria civiltà. d) La volontà di onnipotenza degli Usa che con i Dem vogliono essere l'Impero del Bene e i gendarmi del mondo che decidono i diritti o gli stati canaglia sulla base dei loro interessi, generando reazioni in tutto il mondo
  10. A differenza di alcuni partner europei che sono recalcitranti e critici verso gli imperativi di Biden, l'Italia di Draghi e dei Dem è il paese che più si è allineato ai Falchi, auspica l'invio di nostre armi e soldati, l'eliminazione di Putin in quanto criminale di guerra. E la grancassa di tv e media, nella loro ossessione monotematica, come ai tempi della propaganda di guerra, si è conformata e non ammette dissensi. Una linea che tradisce la tradizione politica di prudenza e di trattativa che ha caratterizzato l'Italia e la nostra Repubblica, guidata da Moro, Andreotti, Craxi. Avere in tempo di guerra un alto commissario euro-atlantico a Palazzo Chigi anziché un leader politico, ci sta esponendo a questi effetti
  Questi sono i motivi del nostro ragionato dissenso. Chi conclude che siamo filoPutin o è in malafede o è un cretino. Amiamo la verità e siamo per l'Italia, per l'Europa e per un mondo equilibrato, pacifico e multipolare.

(La Verità, 29 marzo 2022)
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A queste osservazioni si può aggiungere che Israele avrebbe tutti i motivi per desiderare che questa guerra finisca il più presto possibile, ma anche su questo argomento, come sul covid, sembra che in Italia, in ambito ebraico e tra gli amici di Israele, si sia verificata un’insolita confluenza di giudizio fra destra sionista e sinistra globalista. Si capiscono le cautele di chi governa in Israele, molto meno le sicurezze di chi osserva dall’esterno. M.C.


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Israele e Marocco firmano accordo storico per scambi economici-militari

di Antonio Mazzeo

Si rafforza l’industria aeronautica militare e civile del Marocco grazie all’assistenza tecnica e finanziaria di Israele. Il 23 marzo è stato sottoscritto un accordo di cooperazione “storico” tra il ministro dell’Industria e Commercio marocchino Ryad Mezzour e il presidente del board dei direttori di IAI – Israel Aerospace Industries, Amir Peretz.
  “Il Memorandum è parte dell’implementazione della Dichiarazione di collaborazione Marocco-Israele fermata a Rabat il 22 dicembre 2020, con cui  i due paesi hanno espresso la volontà di promuovere una cooperazione bilaterale dinamica e innovativa nel campo dell’investimento tecnologico”, riporta il sito specializzato Israeldefense.
  In particolare l’accordo prevede che le autorità governative del Marocco e i manager dell’holding industriale-militare-finanziaria israeliana diano il via a programmi di promozione nel settore della stampa tridimensionale (3D printing) e di produzione di parti interne di cabine, motori e aerostrutture, nonché la realizzazione nel paese nordafricano di un centro di ricerca e sviluppo ingegneristico per la fornitura di componenti aeree all’industria nazionale marocchina, grazie all’assistenza e alla consulenza tecnica di IAI – Israel Aerospace Industries.
  Il governo marocchino ha spiegato ai media che l’accordo con gli israeliani risponde alle “priorità di promuovere la formazione avanzata, l’occupazione e la produzione nazionale, così come la ricerca e l’innovazione”.
  “Quella che abbiamo sigillato è una partnership strategica per entrambi i Paesi”, spiega il ministro Ryad Mezzour. “Essa apre la strada a una collaborazione vincente nell’industria aerospaziale. Fa leva sull’esperienza di IAI e sulle competenze tecnologiche della nostra piattaforma aerospaziale e rappresenta un motore di crescita per gli investimenti e lo sviluppo in questo settore industriale altamente avanzato”.
  Per il gruppo israeliano il memorandum con il Marocco costituisce un ulteriore passo per rafforzare la propria presenza nel mercato continentale africano. “Sono convinto dell’incredibile potenziale che oggi esiste in Marocco e siamo solo all’inizio”, enfatizza il massimo dirigente di IAI, Amir Peretz. “Insieme daremo vita a team che trasformeranno la nostra visione in realtà. Le industrie israeliane e il Marocco promuoveranno e commercializzeranno insieme progetti nell’industria aerea”.
  Nel corso della loro permanenza in Marocco, la delegazione di IAI si è recata pure in visita al complesso industriale di Nouaceur (nella regione di Casablanca-Settat) dove vengono effettuati i lavori di manutenzione e aggiornamento dei velivoli aerei, e all’IMA, l’Istituto per le Professioni Aeronautiche di Casablanca.
  A metà febbraio il quotidiano finanziario Globes di Tel Aviv, citando fonti della Difesa israeliana rimaste anonime, ha reso noto che le forze armate del Marocco e i manager di IAI avrebbero raggiunto un accordo per l’acquisto di alcuni sistemi di difesa d’area “Barak MX ADS” per un valore di 500 milioni di dollari.
  Secondo IAI, il “Barak MX ADS” è un sistema missilistico “in grado di difendere contro minacce aeree multiple e simultanee, come ad esempio missili da crociera, droni, elicotteri, provenienti da fonti e distanze differenti”. Del sistema missilistico esistono modelli differenti: il “Barak MRAD” che ha un raggio operativo di 35 km; il “Barak LRAD” di 70 Km; il “Barak ER” di 150 km. “Essi sono supportati da radar di diversa portata e configurazione”, aggiunge IAI. “Tutte le sue componenti (il Battle Management Centre, i lanciatori con gli intercettatori e i radar) possono operare da infrastrutture permanenti o essere montate a bordo di camion e trasferite in siti operativi temporanei”.
  Oltre al sistema missilistico “Barak”, il Marocco è intenzionato ad acquistare dalle industrie aerospaziali israeliane anche una partita di droni kamikaze (velivoli senza pilota armati di bombe ed esplosivi che si fanno esplodere al momento dell’impatto con l’obiettivo) del tipo “Harop”. L’“Harop” è un aereo senza pilota di piccole dimensioni (è lungo 2,5 metri), ma può trasportare un carico di esplosivi di 20 kg e volare per sette ore consecutive sino a 1.000 kilometri di distanza.
  In occasione della visita in Marocco del ministro della Difesa israeliano, Benny Gantz, il 23 e 24 novembre 2021, dopo la normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi nell’ambito dei cosiddetti Accordi di Abramo, sarebbe stata presa la decisione di realizzare in due stabilimenti industriali marocchini la produzione di minidroni e velivoli senza pilota auto esplodenti, sempre con know how e tecnologie di IAI – Israel Aerospace Industries e della controllata BlueBird Aero Systems.
  Nel corso degli incontri con le autorità di Rabat – secondo quanto riportato dalla società dì intelligence israeliana “JaFaJ” che monitora il Medio Oriente e il Nord Africa – il ministro Gantz avrebbe offerto la propria disponibilità a interloquire con l’amministrazione USA per facilitare la vendita al Marocco dei cacciabombardieri di quinta generazione F-35 e di altri sistemi d’arma avanzati, come risposta al riarmo della vicina Algeria che sta negoziando con la Russia l’acquisto di una partita di caccia Su-57 “Felon”.
  Ulteriori commesse militari tra Marocco e Israele potrebbero essere favorite con l’agreement di cooperazione economica firmato lo scorso 20 febbraio in occasione della visita a Rabat del ministro dell’Economia di Israele, Orna Barbivay. Nel 2021 il valore degli scambi commerciali tra i due paesi ha superato i 70 milioni di dollari.

(Africa Express, 29 marzo 2022)

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L'Italia del villaggio globale dell’Imtm in Israele

L’Italia partecipa a Imtm fino al 30 marzo, la principale fiera dedicata all’industria turistica dell’area mediterranea orientale che si tiene in Israele con l’obiettivo di creare una solida rete di collaborazioni. Il Bel Paese con Enit è presente con uno stand di 72 metri quadrati con le Regioni italiane per sostenere le eccellenze nostrane e illustrare l’offerta turistica 2022. Al taglio del nastro il Ministro del Turismo Massimo Garavaglia e l’Ad Enit Roberta Garibaldi. “L’Italia è un forte attrattore per i viaggiatori israeliani.
   Nell’anno prima della pandemia gli israeliani hanno speso per un periodo di soggiorno in Italia oltre 109 milioni di euro. Dati che ci invogliano ad accrescere e personalizzare l’offerta sempre di più” dichiara il Presidente Enit Giorgio Palmucci. Secondo l’Ufficio Studi Enit su dati Banca d’Italia, gli arrivi turistici da Israele sono stati 222mila, per un totale di oltre 944mila notti.
   Circa il 42% viene per vacanza, e la ragione principale è visitare le città d’arte (32,4%); Il 6,6% si reca in visita a parenti e amici e l’8,5% viene per motivi di lavoro, soprattutto per congressi (6,2%). Il centro Italia è l’area geografica preferita: qui si concentra il 70,4% dei viaggiatori e il 50% della loro spesa turistica. Alberghi e villaggi turistici sono le tipologie di alloggio preferite, il 38,5% delle notti totali viene trascorso in queste strutture. Assai diffuso è pure il pernottamento presso parenti e amici(24,7% delle notti).
   Il 40,5% dei viaggiatori ha un’età compresa tra i 25 e 34 anni; a seguire la fascia 35-44 (32%). Il periodo preferito per una vacanza in Italia è tra luglio e ottobre: luglio ed agosto accolgono il 23,1% dei viaggiatori, quota che sale al 35,4% tra settembre e ottobre. La durata media del soggiorno è di 4 notti per una spesa media giornaliera di 115 euro.

(Sardegna Reporter, 29 marzo 2022)

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Ora per l’Isis l'obiettivo è Israele. I servizi in allerta

Rivendicati gli assalti di Beersheva e Hadera. Lo Stato Islamico recluta cittadini arabo-israeliani nel Negev e in Galilea.

di Rossella Tercatin

GERUSALEMME - Due attacchi in meno di una settimana, sei morti, altrettanti feriti e una domanda pressante per leader, apparati di sicurezza e cittadini: Israele deve cominciare a preoccuparsi per la minaccia dello Stato islamico?
   Ispirato alla teologia fondamentalista salafìta, l'Isis salì alla ribalta nel 2014-2015, quando arrivò a governare su vaste porzioni di Iraq e Siria. Negli anni, suoi affiliati hanno compiuto sanguinosi attacchi in tutto il mondo. Nel 2019 però il cosiddetto Califfato aveva già perso praticamente tutti i territori conquistati e anche gli attentati compiuti in nome della sua ideologia si erano radicalmente ridotti.
   Pure Israele in passato aveva fatto i conti con la minaccia dello Stato islamico. Alcuni arabo-israeliani erano stati arrestati per i loro legami con l'Isìs, ma la situazione è sempre rimasta sotto controllo.
   Almeno fino alla settimana scorsa, quando un beduino proveniente dalla cittadina di Hura già fermato in passato per la sua militanza nell'Isis ha ucciso quattro persone a Beersheva. L'attacco era stato considerato dalle autorità il disegno di un lupo solitario. Ma domenica, due arabo-israeliani di Umm el-Fahm, anch'essi già noti alle forze di sicurezza, hanno aspettato che i passeggeri scendessero da un autobus a Hadera e cominciato a sparare. Alla fine il bilancio è stato di due vittime - diciannovenni che servivano nella Polizia di Frontiera - e quattro feriti.
   Le popolazioni beduine, sparse in molti stati medi orientali e prive di una specifica identità nazionale hanno spesso rappresentato un obiettivo per i reclutatori dell'Isìs. Nei centri beduini del Negev Islam radicale alti tassi di criminalità sono molto comuni. Umm el-Fahrn invece è considerata la base del cosiddetto Movimento islamico del nord, gruppo islamista messo al bando da Israele.
   «Non mi sorprende che gli attentatori provenissero da due aree dove l'ideologia estremista è diffusa.. dice a Repubblica Arik Rudnitzky esperto di studi mediorientali del Moshe Dayan Center presso l'Università di Tel Aviv. «D'altra parte però i movimenti islamisti di queste zone hanno una dottrina molto diversa da quella dell'Isis e per questo è raro che i loro affiliati cambino bandiera». Secondo Rudnitzky gli attentati, per quanto preoccupanti, sono ancora da considerare eventi isolati, nonostante il livello di sofisticazione dimostrato dai terroristi.
   Anche Efraim Inbar, presidente del Jerusalem Institute for Strategy and Security concorda. «Non credo che al momento ci troviamo di fronte a un'emergenza su vasta scala», dice.
   Entrambi gli analisti sottolineano che l'intelligence dovrà interrogarsi su come sia stato possibile che individui già schedati abbiano potuto agire indisturbati e impedire che accada in futuro.
   Proprio su questo il governo già si è mosso, mettendo in stato di allerta tutti gli apparati di sicurezza almeno fino all'inizio di maggio, quando Israele festeggia il giorno dell'Indipendenza.
   Le preoccupazioni infatti non arrivano solo dall'Isìs, ma anche dai gruppi terroristici della regione. Hamas e la Jihad islamica hanno lodato gli attentati, «nonostante rimangano anch'essi organizzazioni molto diverse dall'Isìs. nota Rudnitzky.
   Nel 2021, le tensioni salite alle stelle durante il Ramadan portarono a un nuovo conflitto tra Israele e Gaza. Uno scenario che quest'anno, con il mese sacro dell'Islam che parte sabato, si vuole a tutti i costi evitare.

(la Repubblica, 29 marzo 2022)

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La Germania adesso scopre la paura. Pensa allo scudo anti missile di Israele 

Il cancelliere Scholz apre al sistema. In arrivo da Washington sei aerei per la guerra elettronica e altri 240 soldati per la Nato.

di Daniel Mosseri

BERLINO - Come si dice Iron Dome in tedesco? La versione inglese della «cupola di ferro» è certamente quella più nota. Un nome nella lingua di Shakespeare per un sistema associato invece a Israele. Nel Paese mediorientale l'apparato terra-aria per intercettare e abbattere missili a corto raggio - ossia lanciati da una distanza compresa fra i 3 e i 72 chilometri - è operativo ormai dal 2011. La cupola di ferro (kipat barzel in ebraico), è stata scelta dal governo a seguito della Seconda guerra del Libano (2006), durante la quale i terroristi di Hezbollah esplosero 4mila razzi Katiuscia dal confine Nord uccidendo 44 persone. Anche l'anno dopo Israele conobbe una gragnuola da 3.200 razzi Qassam, in un crescendo fino ai missili Grad, esplosi questa volta dagli islamici di Hamas dalla Striscia di Gaza.
  L'ombrello antimissile, un sistema che permette agli israeliani di individuare e intercettare in aria i razzi sparati dai propri vicini di casa, fa gola anche ai tedeschi. È stato lo stesso cancelliere Olaf Scholz a spiegarlo all'emittente tedesca Ard. «Dobbiamo essere consapevoli del fatto che abbiamo un vicino pronto a usare la violenza per far valere i propri interessi», ha affermato il leader socialdemocratico. La violenza sul fronte orientale al pari dei missili russi che dalle navi sul Mar Nero arrivano a colpire anche Leopoli, non lontano cioè dal confine fra Ucraina e Polonia, hanno creato un senso di inquietudine presso i tedeschi. Dallo scoppio della guerra fra Mosca e Kiev oltre un mese fa, Scholz ha fatto inversione a U rispetto alla tradizionale linea di apertura e amicizia alla Federazione Russa: messi i sigilli al gasdotto diretto russo-tedesco Nord Stream 2, ha scelto di guidare la rinascita della Germania anche sul piano militare dopo decenni di ruggine che ha corroso i velivoli e i blindati della Bundeswehr. Fra i 100 miliardi appena stanziati a favore della Difesa nazionale, il cancelliere ne vorrebbe dunque dedicare almeno un paio all'istallazione di un Iron Dome sui cieli tedeschi.
  Berlino importerebbe una versione intermedia fra la cupola di ferro e la «fionda di Davide», un altro frutto degli ingegneri israeliani, calibrata sui missili con gittata fino a 5.500 km. «Il sistema israeliano Arrow 3 è una buona soluzione -, ha dichiarato alla Bild, Andreas Schwarz, relatore socialdemocratico del comitato Difesa in seno allo Commissione Bilancio del Bundestag - Potremmo anche estendere l' Iron Dome ai nostri Paesi vicini. In questo modo, giocheremmo un ruolo chiave nella sicurezza dell'Europa». Nella Germania post-bellica il Parlamento e non il governo ha sempre l'ultima parola in tema di Difesa, ma la via di Scholz verso l'ombrello missilistico è in discesa. Parlando da Israele, dove si trova insieme a una delegazione tedesca, la presidente della Commissione Difesa, la liberale Agnes Strack-Zimmermann, ha osservato come «un acquisto debba essere fatto molto rapidamente, ma anche discusso seriamente». Nulla osta anche dal presidente della Cdu Friedrich Merz: «È una risposta strategica che vale la pena considerare di fronte alla latente minaccia tramite la Russia anche al nostro Paese». Qualche riserva l'ha espressa Roderieh Kiesewetter, responsabile Difesa dello stesso partito, secondo cui non è la Germania ma i Paesi Nato confinanti con la Russia ad avere bisogno di uno scudo spaziale. Bild ha scritto che i cieli tedeschi potrebbero essere protetti da incursioni missilistiche già a partire dal 2025. Intanto il Pentagono annuncia l'invio in Germania di 6 aerei della Marina specializzati in guerra elettronica, insieme a 240 militari per rafforzare il fianco est della Nato.

(il Giornale, 29 marzo 2022)

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Via al gasdotto Poseidon. Correrà parallelo al Tap con il metano da Israele

Tre anni per finire l lavori: l'obiettivo è ridurre la dipendenza da Mosca per gli approvvigionamenti

Via libera degli Usa: riparte il progetto di Edison e della greca Depa nel Mediterraneo Un collegamento di 1.900 km per portare in Italia 10-12 miliardi di metri cubi di gas

di Francesco G. Gioffredi

LECCE - Riparte il progetto EastMed-Poseidon. L'obiettivo è noto, il percorso non facilissimo. La rotta conduce nuovamente nella Puglia, fianco sud-orientale degli equilibri energetici e porta d'accesso per le infrastrutture strategiche. "L'altro gasdotto" (rispetto al Tap) è autorizzato da un decennio, ma il cantiere non è stato mai avviato. Ma ora la fame di gas dell'Europa e dell'Italia, la necessità di diversificare le fonti d'approvvigionamento e i nuovi intrecci internazionali impongono di battere qualsiasi strada. A tal punto da far tornare in ballo il progetto: oltre 1.900 chilometri, gas pescato dal Bacino Levantino nel Mediterraneo orientale (tra Israele, Egitto e Cipro), 10-12 miliardi di metri cubi di gas all'anno con possibilità di raddoppiare la capacìtà, approdo italiano a Otranto. Cioè circa 20 chilometri più a sud del Tap, che nel 2021 ha trasportato in Italia 7,2 miliardi di metri cubi. Utili, preziosi, ma evidentemente non sufficienti. Poseidon consentirebbe di attutire il colpo dello choc energetico, .sul medio periodo. Ecco, il punto però è anche nei tempi: tre-quattro anni per completare il cantiere, fanno sapere da Edison - una delle due gambe di Igi Poseidon (la società del tratto greco-italiano) insieme con l'ellenica Depa. E i lavori di costruzione devono cominciare entro l'ottobre 2023 e terminare due anni dopo, come scandisce l'ultima deroga all'autorizzazione, firmata dal ministro Roberto Cingolani. Un provvedimento che ha consentito al progetto di non evaporare nel nulla, stritolato da delicati equilibri internazionali. Pur senza mai uscire dall'elenco dei "Progetti di interesse comunitario".

• LA VIRATA
  Nel frattempo, attorno al gasdotto è decisamente cambiato il clima. La spia più evidente è stata la decisa virata degli Stati Uniti, in appena due mesi: prima ha velatamente espresso riserve, poi ha riaperto la partita. A gennaio, quando la polveriera russo-ucraina doveva ancora deflagrare, l'Ambasciata Usa in Grecia aveva fatto sapere tramite un comunicato ufficiale di «rimanere impegnati a collegare fisicamente l'energia del Mediterraneo orientale all'Europa», ma di voler «spostare l'attenzione sugli interconnettori elettrici in grado di supportare sia il gas che le fonti di energia rinnovabile». Una bocciatura, insomma. Da un lato perché gli Usa sono, e saranno, rilevanti esportatori di Gnl in Europa e in Grecia, Paese-cerniera del gasdotto. E dall'altro per non intaccare i delicati equilibri della regione mediterranea ed evitare di alimentare tensioni con la Turchia in acque contese. Poi, !'invasione russa in Ucraina ha scombinato gli equilibri e reso cruciale qualsiasi metro cubo di gas che non fosse russo. Inducendo così gli Usa a riposizionarsi: «Dopo gli ultimi sviluppi, daremo uno sguardo nuovo a tutto», ha riferito Andrew Light, Affari Esteri del Dipartimento per l'Energia. Che ha poi aggiunto: «Non si tratta soltanto della transizione verde, ma anche della transizione via dalla Russia».
   Israele intanto si ritaglia un ruolo cruciale e smussa i rapporti con la Turchia, per spianare la strada al progetto, nell'ambito di un sistema mediterraneo di gasdotti interconnessi. Proprio nei giorni scorsi Mario Draghi ha analizzato: «L'Europa è ormai consapevole della necessità di accelerare sulla diversificazione delle fonti di gas naturale e sulla produzione di energia rinnovabile. La sponda Sud del Mediterraneo avrà un ruolo fondamentale in questo processo».
   A che punto è il progetto? Da Edison fanno sapere che è stato confermato «tecnicamente ed economicamente fattibile». Entro la fine dell'anno saranno completate le attività di design e sviluppo, con successiva decisione finale d'investimento. E i contratti per la fase realìzzativa sono stati negoziati e potrebbero essere assegnati a breve. L'area d'approdo sarà presto bonificata e caratterizzata, il sito non e distante da un elettrodotto. E fin qui niente barricate sul territorio o comitati del "No" pronti a ostacolare l'opera, come è accaduto con il Tap.

(Il Messaggero, 29 marzo 2022)

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Già cinquemila gli immigrati nello Stato ebraico

In fuga da Kiev

GERUSALEMME - Duba Govgritz, classe 1921, in Ucraina è nata, vissuta e invecchiata attraversando la Shoah, il comunismo e la sua caduta, l'inizio del nuovo millennio. Ma dopo l'invasione russa, non ha avuto dubbi: quando le hanno offerto la possibilità di essere evacuata in Israele ha accettato. «Sento che questo, lo Stato di Israele, è l'unico luogo e il più sicuro per il popolo ebraico», ha dichiarato sbarcando a Tel Aviv.
   Govgritz è una delle migliaia di nuovi immigrati che dall'inizio del conflitto sono arrivati nello Stato ebraico, conosciuti come olim - da aliyah, che letteralmente significa "ascesa" e indica coloro che si trasferiscono in Israele in base alla Legge del Ritorno, la quale consente a chi ha almeno un nonno ebreo di ottenerne la cittadinanza. Fino a questo momento sono circa 5mila gli ucraini giunti nel Paese e altrettanti si trovano negli hotel messi a disposizione dall'Agenzia ebraica in vari Paesi europei in attesa di partire. La previsione è che se ne aggiungeranno diverse migliaia già nelle prossime due settimane.
   L'Agenzia - ente semigovernativo che si occupa proprio di favorire l'immigrazione in Israele - calcola che siano circa 200mila i cittadini ucraini che avrebbero diritto all’aliyah. Ad arrivare finora sono stati anziani, famiglie, molti lavoratori dell'industria high-tech. Così in gruppi Facebook come "Olim in tech" si moltiplicano le iniziative per metterli in contatto con aziende ben felici di assicurarsi dipendenti con competenze elevate. D'altronde Israele ha già sperimentato l'impatto positivo dell'arrivo di migliaia di professionisti altamente qualificati dall'ex Urss. Dopo il crollo della Cortina di Ferro gli olim furono centinaia di migliaia, tra cui moltissimi medici, ingegneri e scienziati, un flusso che cambiò profondamente il Paese - e andò a costituire uno dei propulsori fondamentali alla sua straordinaria crescita economica. Ora qualcosa di simile potrebbe ripetersi, anche perché il governo israeliano prevede una cospicua aliyah pure dalla Russia.
   In Israele, i nuovi immigranti ricevono un alloggio temporaneo, un sussidio mensile, la possibilità di frequentare un corso di ebraico gratuito. - R. T.

(la Repubblica, 28 marzo 2022)

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Il vertice storico inizia in un luogo simbolico: nel deserto israeliano del Negev

di Aroldo Calabresi 

È iniziato un incontro con i ministri degli Esteri di quattro paesi arabi nel deserto israeliano del Negev. È la prima volta che ministri di Egitto, Marocco, Emirati Arabi Uniti (Emirati Arabi Uniti) e Bahrain si incontrano in Israele per una visita ufficiale. Anche il Segretario di Stato americano Blinken si è unito.
   L’incontro si svolge in un luogo simbolo del deserto: il Kibbutz Sde Boker, dove è sepolto il primo primo ministro israeliano David Ben Gurion. Ben Gurion è considerato in Israele il padre del paese. Il programma di stasera è una cena comune, e domani ci sono i colloqui ufficiali e una conferenza stampa.Non è detto che dal Vertice scaturiranno decisioni o misure concrete. Ma per Israele, il solo fatto che questi colloqui abbiano luogo è una spinta diplomatica. Qualche anno fa, il vertice sarebbe stato inimmaginabile. Il premier israeliano Naftali Bennett ha già parlato di una “giornata storica”.
   Fino a poco tempo, Emirati Arabi Uniti, Bahrain e Marocco non avevano relazioni diplomatiche ufficiali con Israele, a causa del conflitto tra Israele e i palestinesi e della continua occupazione israeliana del territorio palestinese. Le cose sono cambiate nel 2020, quando gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain hanno firmato i cosiddetti Accordi di Abraham con Israele, mediati dall’allora presidente degli Stati Uniti Trump. Il Marocco seguì nello stesso anno. L’Egitto ha fatto pace con lo stato ebraico nel 1979.

• Iran importante argomento di discussione
   I colloqui si svolgono in gran parte a porte chiuse in un albergo, ma è chiaro che l’Iran è uno dei principali temi di discussione. I vari partecipanti hanno in comune di considerare il regime iraniano come la più grande minaccia nella regione. L’incontro può quindi essere visto come un segno di unità e cooperazione degli ancora giovani alleati nei confronti dell’Iran.
   Israele e gli stati arabi del Golfo condividono i timori che l’Iran stia progettando di sviluppare armi nucleari. L’Iran afferma di perseguire solo obiettivi pacifici con il suo programma nucleare, a cui Israele ei suoi alleati non credono. I paesi sono quindi diffidenti nei confronti degli sforzi degli Stati Uniti per raggiungere un nuovo accordo con l’Iran sulla riduzione del programma nucleare iraniano in cambio dell’allentamento delle sanzioni economiche. Un tale accordo sarebbe nel frattempo a portata di mano, i negoziatori hanno detto questa settimana.

(HamelinProg, 27 marzo 2022)


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Un segnale di emergenza. La conferenza inedita fra i ministri degli esteri di quattro stati arabi, Usa e Israele

di Ugo Volli

In queste ultime settimane i meeting diplomatici che coinvolgono Israele si succedono a ritmo frenetico: l’incontro fra Herzog e Erdogan ad Ankara; il vertice fra Al Sisi, Bennett e il principe ereditario, in realtà il vero governante degli Emirati, Mohammed bin Zayed; gli incontri in Bahrein e in Marocco; le dichiarazioni dell’erede al trono e uomo forte dell’Arabia Mohammed bin Salman, per cui Israele non è più un nemico ma un potenziale alleato. E ora l’incontro record del Negev, che è iniziato ieri ed è ancora in pieno svolgimento, in cui sono a confronto i ministri degli esteri di Israele, Usa (che si sono già visti ieri per preparare la conferenza), Egitto, Emirati, Marocco, Bahrein: in sostanza l’asse principale della Lega Araba. Niente del genere si era mai visto prima; di solito quando questi paesi si consultavano, lo facevano per opporsi a Israele e a ogni ipotesi di normalizzazione dei rapporti.
  Che questa situazione costituisca una rivoluzione per il Medio Oriente lo si vede anche dalle reazioni rabbiose e sanguinose del terrorismo, che dopo aver assassinato quattro israeliani pochi giorni fa a Beer Sheva, ieri ha ucciso altri due israeliani a Hedera. Sono città israeliane ben dentro la linea verde: prima la capitale del Negev, città in piena crescita economica e tecnologica, e ora la località industriale a metà strada fra Tel Aviv e Haifa, sede di un’importante centrale energetica e di un desalinizzatore, a due passi dalla località turistica e residenziale forse più prestigiosa di Israele, Cesarea. Conta anche il fatto che gli assassini erano cittadini arabi israeliani, legati molto probabilmente all’Isis più che ai movimenti palestinisti.
  Per quanto orribile e sanguinosa, la risposta terrorista non è però in grado di mettere in dubbio la rivoluzione diplomatica. Anche perché essa non è motivata solo da buona volontà, desiderio di pace, speranza di consenso popolare, ma da un fattore fondamentale in ogni azione politica, la paura per un nemico comune che minaccia tutti. In questo caso l’Iran, che sovverte lo Yemen e l’Iraq, ha attaccato a varie riprese l’Arabia e il Bahrein usando movimenti satelliti, sta facendo sforzi giganteschi per costruire una macchina bellica aggressiva ai confini di Israele. Ma soprattutto lavora in maniera accelerata alla costruzione di un arsenale nucleare che le darebbe una forza di dissuasione pari a quella delle grandi potenze.
  Come ha scritto il generale Yossi Kuperwasser, già direttore del Ministero degli Affari Strategici di Israele, “secondo il rapporto pubblicato il 4 marzo 2022 dall'Agenzia internazionale per l'energia atomica (AIEA),l'Iran ha già accumulato: 33,2 kg di uranio arricchito ad un livello molto alto del 60% (contro i 17,7 kg di novembre 2021); 182 kg di uranio arricchito ad un livello elevato del 20% (contro i 113 kg di novembre 2021); e circa 1.278 kg di uranio arricchito fino a un livello del 4,5% utilizzato per alimentare le centrifughe di arricchimento al 20% e al 60%. Il tasso di arricchimento è aumentato negli ultimi mesi da circa 4,9 kg di uranio arricchito al 60% al mese a 5,7 kg al mese. L'Iran gestisce già industrialmente centrifughe avanzate di diversi tipi, e quindi, se deciderà di arricchire questo uranio a livello militare (oltre il 90%), ci vorranno solo tre settimane circa per produrre 25 kg, cioè una quantità di uranio sufficiente per il primo ordigno nucleare esplosivo. Dopodiché, ci vorranno altre due settimane per produrre la quantità necessaria per un secondo ordigno esplosivo nucleare. Entro quattro mesi, l'Iran potrebbe avere abbastanza uranio arricchito a livello militare per quattro ordigni esplosivi nucleari.”
  Nella conferenza stampa tenuta prime dell’apertura della conferenza del Negev dal ministro degli esteri israeliano Lapid e dal segretario di stato americano Blinken, i due ministri hanno detto che i loro paesi sono d’accordo nella volontà di impedire all’Iran l’armamento atomico. Solo che Blinken (e Biden) credono che il modo di farlo sia il rinnovo degli accordi che daranno all’Iran centinaia di miliardi di dollari e la rinuncia alle sanzioni non solo contro lo stato ma anche contro i singoli terroristi e anche le loro organizzazioni, come le “guardia rivoluzionarie”. Si tratta di un’illusione, se non proprio di un inganno. E’ vero che il nuovo accordo chiederà all’Iran qualche sacrificio iniziale , ma, spiega ancora Kuperwasser, “in cambio della rinuncia dell'Iran alla maggior parte del suo uranio arricchito attuale, che lo allontanerebbe leggermente dallo status di stato alla soglia del nucleare, esso potrà continuare a sviluppare il suo programma nucleare senza timore di azioni punitive. Entro due anni potrà riprendere il funzionamento delle centrifughe avanzate. Due anni dopo, sarà in grado di aumentare senza limiti la quantità di uranio arricchito a un livello basso e, entro nove anni, sarà in grado di arricchire l'uranio a qualsiasi livello e in qualsiasi quantità, ottenendo così la capacità di produrre una grande quantità di armi nucleari.”
  Tutto questo è al centro degli incontri e in particolare della conferenza odierna. Gli stati presenti, anche a nome degli altri minacciati (in prima luogo l’Arabia) chiederanno a Blinken di rinunciare all’accordo che giudicano pericolosissimo per la loro sicurezza e gli diranno, probabilmente, quel che ha già detto Israele: che non si considereranno legati ad esso, cioè che sono pronti a prendere iniziative militari dirette e indiretta contro l’Iran anche quando avrà firmato il nuovo accordo. Gli faranno presente che il principale beneficiario del nuovo accordo non saranno gli Usa o l’Europa ma la Russia. Insomma faranno tutte le pressioni possibili. E’ improbabile che riescano a smuovere la ferma decisione ideologica dell’Amministrazione Biden. Ma si presenteranno come un fronte unito, deciso a far pesare il loro valore strategico ed economico, per esempio riguardo al petrolio, diventato di nuovo strategico in seguito alla guerra in Ucraina. Che riesca a trovare una soluzione o che fallisca, com’è più probabile, questa conferenza segna l’inizio di una nuova era in Medio Oriente. Che deriva purtroppo non dalla volontà di pace ma dalla minaccia di un’aggressione atomica.

(Shalom, 28 marzo 2022)

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Scoperta maledizione ebraica risalente a 3.200 anni fa: ‘Scoperta sensazionale

L’iscrizione conferma come gli Ebrei fossero in grado di scrivere già nel tredicesimo secolo prima di Cristo.

di Angelo Petrone

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Una straordinaria scoperta archeologica sul Monte Ebal ha fatto luce sul primo periodo dell’insediamento ebraico in Israele confermando come l’antico popolo parlasse già effettivamente la lingua ebraica 3.200 anni fa. Ad essere portato alla luce è stato un pannello di piombo piegato contenente la prima scrittura ebraica mai scoperta e coincide con una definizione biblica del Monte Ebal che veniva descritta come la “Montagna delle maledizioni” in cui i leviti minacciavano chi non osservava gli insegnamenti della Torah. Per Gershon Galil, ricercatore dell’Università di Haifa, la scoperta rappresenta uno “spartiacque nella ricerca sulla Bibbia“ aggiungendo come, prima della nuova scoperta, la più antica iscrizione conosciuta risalisse al decimo secolo avanti Cristo. La nuova scoperta rappresenta un “colpo di grazia verso tutti i negazionisti della Bibbia che affermavano che nel XIII secolo a.C. gli Ebrei non fossero in grado di leggere e scrivere e dunque non fossero in grado di scrivere la Bibbia. Perciò sostenevano che la Bibbia fosse stata realizzata molto più recentemente; in epoca persiana o ellenistica“.
   Sul pannello c’è scritto: “Maledetto, maledetto, maledetto, maledetto da Dio Y-H-W, maledetto certamente morirai“. Secondo Galil si trattava di un lavoro sofisticato: “Chi è in grado di scrivere un testo con strutture chiastiche può scrivere quasi tutto. Ad oggi non siamo in grado di rivelare tutte le informazioni portate alla luce perché richiedono una peer review e una pubblicazione accademica“. In ogni caso la scoperta riveste un’importanza rilevante perché le maledizioni del Monte Ebal combaciano con il racconto in Devarim (capitolo 27) sulla cerimonia che si ebbe nell’area dopo che gli Ebrei entrarono in Israele.

(Scienze Notizie, 27 marzo 2022)

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Donne israeliane e palestinesi chiedono di rilanciare i colloqui di pace

Sono centinaia che si incontrano al Mar Morto per invitare i leader politici a lavorare per la pace.

 di Khaled Abu Toameh

Centinaia di donne israeliane e palestinesi si sono incontrate venerdì sul Mar Morto per incoraggiare i loro leader ad avviare negoziati verso un accordo politico che garantisca un futuro di libertà, pace e sicurezza per entrambi i popoli.
   Le donne israeliane erano rappresentate da Women Wage Peace, il più grande movimento di base in Israele con 50.000 membri registrati. Il movimento ha ottenuto uno status consultivo speciale presso le Nazioni Unite e lavora per promuovere soluzioni politiche con i palestinesi.
   Le donne palestinesi erano rappresentate da un movimento chiamato Women of the Sun, fondato lo scorso luglio. I suoi membri provengono da diverse parti della Cisgiordania, da Gerusalemme est e dalla Striscia di Gaza.
   Si sono incontrati a Neve Midbar Beach, all’estremità settentrionale del Mar Morto.
   Negli ultimi mesi, le donne israeliane e palestinesi hanno tenuto una serie di incontri e formulato una “piattaforma comune”, che riflette le sensibilità di entrambe le parti e ne rispetta i bisogni, le sfide e le capacità.
   LA MARCIA DELLA SPERANZA, organizzata da Women Wage Peace, è arrivata la scorsa settimana alla Residenza del Primo Ministro a Gerusalemme. (credito: MARC ISRAEL SELLEM/Jerusalem Post)
   I due movimenti affermano di non essere affiliati a nessun particolare partito politico.
   “Crediamo che la maggioranza delle persone delle nostre nazioni condivida il nostro desiderio reciproco. Pertanto, chiediamo ai nostri leader di ascoltare la nostra chiamata e di avviare prontamente colloqui e negoziati di pace, con un impegno risoluto a raggiungere una soluzione politica al lungo e doloroso conflitto, in un lasso di tempo limitato”, hanno proclamato le donne nella loro piattaforma.
   “Chiediamo ai popoli di entrambe le nazioni – palestinesi e israeliani e ai popoli della regione – di unirsi al nostro appello e dimostrare il loro sostegno per la risoluzione del conflitto”, hanno scritto. “Chiediamo ai nostri leader di mostrare coraggio e visione per realizzare questo cambiamento storico, a cui tutti aspiriamo. Uniamo le mani con determinazione e collaborazione per riportare la speranza ai nostri popoli”.
   Nel prossimo anno e mezzo, le attiviste israeliane e palestinesi hanno in programma di organizzare una serie di attività congiunte per dimostrare la forza di entrambi i movimenti.
   “Ci auguriamo che questa partnership tra Women of the Sun e Women Wage Peace sia il primo passo verso una pace e una sicurezza giuste per porre fine alla guerra e alla distruzione. Vogliamo vivere in modo rispettoso e pacifico”, ha affermato Aaisha Faras, una delle fondatrici e leader di Women of the Sun.
   “Oggi è avvenuto nientemeno che un evento storico. È iniziato con un piccolo gruppo di coraggiose donne palestinesi, che in breve tempo sono riuscite ad arruolare oltre 1.000 sostenitori. Giovani donne e donne anziane che, insieme a noi, hanno deciso di smettere di tacere e di creare un altro percorso”, ha detto Yael Admi, una delle fondatrici e leader di Women Wage Peace, riassumendo l’evento.
   “È giunto il momento per una leadership coraggiosa per creare una realtà di pace e un futuro diverso per i nostri figli”.

(Rete israeliana ISM. 28 marzo 2022)

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Nel giorno della paura

di Marcello Cicchese

GIACOMO cap.4

  1. Ed ora a voi che dite: Oggi o domani andremo nella tal città e vi staremo un anno, e trafficheremo, e guadagneremo;
  2. mentre non sapete quel che avverrà domani! Che cos'è la vita vostra? Poiché siete un vapore che appare per un po' di tempo e poi svanisce.
  3. Invece di dire: Se piace al Signore, saremo in vita e faremo questo o quest'altro.
  4. Ma ora vi vantate con le vostre millanterie. Ogni simil vanto è cattivo.

LUCA cap.12

  1. E disse loro questa parabola: La campagna d'un certo uomo ricco fruttò copiosamente;
  2. ed egli ragionava così fra se medesimo: Che farò, poiché non ho dove riporre i miei raccolti? E disse:
  3. Questo farò: demolirò i miei granai e ne fabbricherò dei più vasti, e vi raccoglierò tutto il mio grano e i miei beni,
  4. e dirò all'anima mia: Anima, tu hai molti beni riposti per molti anni; riposati, mangia, bevi, godi.
  5. Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa l'anima tua ti sarà ridomandata; e quel che hai preparato, di chi sarà?
  6. Così è di chi accumula tesori per sé, e non è ricco in vista di Dio.

MATTEO cap.6

  1. Perciò vi dico: non siate in ansia per la vostra vita, di che cosa mangerete o di che cosa berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito?
  2. Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutre. Non valete voi molto più di loro?
  3. E chi di voi può con la sua preoccupazione aggiungere un'ora sola alla durata della sua vita?
  4. E perché siete così ansiosi per il vestire? Osservate come crescono i gigli della campagna: essi non faticano e non filano;
  5. eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro.
  6. Ora se Dio veste in questa maniera l'erba dei campi che oggi è, e domani è gettata nel forno, non farà molto di più per voi, o gente di poca fede?
  7. Non siate dunque in ansia, dicendo: "Che mangeremo? Che berremo? Di che ci vestiremo?"
  8. Perché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; ma il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose.
  9. Cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno date in più.
  10. Non siate dunque in ansia per il domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno.


Sono qui presentati tre modelli di atteggiamento davanti al domani: l'intraprendente, il  previdente e l'ansioso. I primi due sono attivi (e instabili), il terzo è passivo (e stabile).
  L'intraprendente si attiva oggi  a costruirsi, con lavoro e impegno, il suo domani, che per lui coincide con l'eternità. Perché nel suo progetto il domani è sicuro; non rientra tra le possibili varianti che il domani non ci sia: nel suo programma il domani è un'eternità di lavoro. Ma il lavoro finisce quando il lavoratore svanisce, ricorda Giacomo. E questo accade quando così "piace al Signore".
  Il previdente invece si attiva a conservare per il domani quello che oggi per lui è più che soddisfacente. Non si tratta di lavorare sodo per ottenere quello che ancora non ha, ma di riuscire a mantenere quello che oggi gode come frutto del suo lavoro di ieri. Assicurando opportunamente i grandi beni finora raccolti, il domani per lui sarà un'eternità di riposo. Ma Gesù gli fa capire che per lui l'eternità potrebbe cominciare oggi, e non essere quel riposo che si aspettava.
  Il terzo infine non sa che fare. A lui sembra di essere già entrato nell'eternità, che per lui è un incubo. Anche se adesso sta ancora bene, il suo affannoso pensare lo immerge in quel mostruoso domani che staziona nella sua mente. E che è stabile. Non si modifica, non si evolve. Che fare? Niente. Perché tanto non c'è niente da fare. Solo disperarsi.
  Ma certamente non era questa la conclusione a cui Gesù voleva che si arrivasse.
  Osservando attentamente le preoccupazioni dei tre esemplari, si può notare che sono tutte collegate alla pura e semplice sopravvivenza: guadagnare o assicurare ricchezza, mangiare bere vestire. Dunque sono bisogni primordiali, problemi di vita e di morte, non turbe da psicoanalisi. Ma il problema che tutti e tre affrontano è in sostanza lo stesso: il domani. I primi due trovano conforto nell'illusione di risolverlo facendo qualcosa, mentre il terzo, che forse ha fatto anche lui qualcosa ma senza riuscire a quietarsi nell'illusione, si trova immerso nella sofferenza della paura, che diventa stabile proprio perché non si vedono cambiamenti che potrebbero farla cessare.
  La paura del domani è una sofferenza particolare. Proviene da bisogni primordiali, che però non riguardano il presente, quindi non si possono gestire con risultati immediatamente visibili. Se soffro perché oggi ho fame, posso mettermi a cercare il cibo da qualche parte e ottenere il risultato di trovarlo e sfamarmi; ma se soffro perché temo di non riuscire a trovare il cibo domani, che cosa posso fare per lenire questa mia sofferenza? "Pigliate 'na pastiglia, sient' a mme", consigliava Carosone in una delle sue insuperabili canzoni, uscita quando cominciavano a circolare i primi psicofarmaci. Ma non è questo il rimedio che Gesù propone. Anche perché non è affatto un rimedio.
  "Non ci resta che pregare", dice allora il devoto. Sembra una soluzione, ma se si prega solo per vincere la paura, si può fare l'amara scoperta che non funziona. Perché la preghiera non ha lo scopo di vincere la paura. A chi è in ansia perché non sa se domani riuscirà a mangiare bere e vestirsi Gesù non dice "pregate", ma "cercate". Che cosa? "Il Regno di Dio e la sua giustizia". E che significa? chiederà qualcuno. Al che si può rispondere: per prima cosa cerca di capire quello che significa, perché se non  sai nemmeno capire il significato delle parole di Gesù, come puoi pensare di ottenere pace da quelle parole? Se invece lo hai capito, mettilo in pratica con atti di ubbidienza che esprimano la tua ricerca del Regno di Dio. Resta ancora la sensazione emotivo-viscerale della paura? E' il momento di mostrare la propria fiducia nella promessa contenuta nella seconda parte delle parole di Gesù: "... e tutte queste cose vi saranno sopraggiunte". Si può essere aiutati da una semplice parola della Scrittura:

    "Nel giorno della paura, io confido in te" (Salmo 56:3).

Nel giorno dell'umana sensazione di paura, metti in pratica la tua fede agendo come se non ci fosse e lasciati guidare nelle tue scelte concrete dalla parola di Dio. Non ti è immediatamente chiaro quali siano le indicazioni da trarne? Allora cerca. Cerca di capire qual è la giustizia che si pratica oggi nel Regno di Dio. Sì, anche oggi, perché Dio non ha smesso di regnare per il fatto che non si fa vedere. Non è detto che questo sia facile; o meglio, non è difficile, ma il fatto è che da una ricerca della verità fatta in uno spirito di verità, cioè con sincerità integrale, potrebbe venir fuori un risultato sgradevole all'umana natura: una di quelle conclusioni che portano a pensare che, alla fine, rinunciando ad appoggiarsi sulla fede sarebbe  tutto più semplice.
  "Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia", sono parole di Gesù che in campo evangelico sono state troppo spesso spiritualizzate e rese anche un po' bigotte. Il Regno di Dio è là dove si esprime la sovranità di Dio; il suo campo non è soltanto lo spirito del singolo o la comunità credente;  e la sua  giustizia non coincide con la giustificazione di colui che crede. E' un invito alla fede proprio nei momenti in cui sono in gioco problemi primordiali di vita collegati alla paura del domani.
  Gesù qui invita a cercare, non a ubbidire, come fa in tanti altri casi. Si cerca qualcosa che non si ha, o non la si trova, o non la si conosce. Questo significa che con quella parola Gesù si rivolge a persone che mancano di qualcosa, non necessariamente per propria colpa, ma di cui hanno assolutamente bisogno per vivere. L'invito a cercare è ripetuto più volte nella Scrittura:

    "Cercate l'Eterno e la sua forza; cercate continuamente la sua faccia" (Salmo 105:4)
    “Cercate l'Eterno, mentre lo si può trovare; invocatelo, mentre è vicino” (Isaia 55:6)
    "Cercate e troverete, picchiate e vi sarà aperto" (Matteo 7:7)

Gesù invita a cercare il Regno di cui Egli è il Re con tutte le sue prerogative, e la sua giustizia in tutte le sue forme. Chi crede nella Scrittura come parola di Dio ha qui, subito, qualcosa da fare. E se dice che non capisce che cosa significhino quelle parole, la prima cosa da fare è cercare di capirle. Con tutte le proprie forze, come si fa quando si cerca qualcosa che ha conseguenze di vita o di morte. E poi dica ad altri quello che ha trovato.

   Diciamo adesso qualcosa su ciò che ha favorito oggi, qui in Italia ma non solo, la diffusione patologica della paura del domani, perché cercare di capire la Parola di Dio significa anche tentare di metterla a confronto con quello che realmente accade qui ed ora.
  Partiamo dal fatto che la preoccupazione di non riuscire a sfamarsi è sempre paura della morte. Alla morte non c'è rimedio umano; per questo l'ansietà per un domani che si presenta nero diventa stabile: lo stato di morte non cambia, non si evolve.  Si può dunque dire con sicurezza che ogni sforzo fatto con il preciso e principale scopo di vincere la paura, non fa che aumentarla. La paura si autogenera. Se è la paura che mi spinge a cercare un rimedio alla paura, alla fine mi  accorgerò che essa è aumentata.
  Tutto questo si applica in pieno all'attuale politica vaccinale.
  Negli ultimi due anni l'autorità civile ha seminato paura a piene mani tra i cittadini, col pericolo del virus prima e con la minaccia di punizioni dopo. Sopraffatti da questa sovrabbondante seminagione di paura, i cittadini si sono in gran parte docilmente sottomessi alle più bizzarre, irragionevoli e vessatorie disposizioni.  Ma nei cittadini sottomessi con lo strumento della paura, nuove forme di paura si sono generate e si susseguono continuamente, alimentate da annunci contraddittori o manifestamente falsi, prescrizioni confuse e previsioni inventate. La paura  indotta da minacce di sanzioni e provvedimenti disciplinari ha accompagnato ben presto quella sanitaria e tutte e due sono confluite in quella finanziaria. Da ultimo si è presentata la paura militare, anche questa seminata con sollecitudine tra la popolazione con reboanti annunci militareschi.
  La cosiddetta "cabina di regia" che guida il nostro paese ha mostrato di non essere minimamente preoccupata degli effetti deleteri che ha sulla popolazione un simile modo di amministrare il bene pubblico con metodi che spaventano, prima ancora che punire; e tutto fa pensare che proprio questo si voleva ottenere: fare della paura uno strumento di governo.
  E fino ad ora la cosa sembra riuscita.
  Ma un governo che fonda il suo potere sul fare paura, soprattutto quando essa è sostenuta e diffusa col sostegno della menzogna, è un'autorità che si trova sotto un diretto influsso diabolico.
  Questo deve essere tenuto ben presente non per motivi "politici", cioè per favorire l'una o l'altra parte nel gioco per la conquista del potere, ma per motivi squisitamente spirituali, cioè attinenti alla fede nella Parola di Dio, e più precisamente nelle parole di Gesù qui sopra riportate e commentate.
  Se mi accorgo che l'ansia che mi avvinghia dipende in modo stretto dalle conseguenze che possono avere su di me le decisioni del governo; se mi accorgo che molte di queste decisioni calpestano elementari principi di giustizia; se mi accorgo che queste decisioni si appoggiano su evidenti, verificate e ripetute menzogne; se mi accorgo che queste menzogne non sono le consuete bugie che si scambiano i potenti nella gara per arrivare al governo ma costituiscono un blocco di menzogna su cui si basa  l'intero complesso del potere, allora devo chiedermi a quale "re", cioè  a quale autorità sovrana, mi viene chiesto di sottomettermi; e qual è la "giustizia" che vige in questo "regno".
  E forse arriverò alla conclusione che il vero "re" che guida le decisioni di fondo di questo governo è il "padre della menzogna", il quale "è stato omicida fin dal principio e non si è attenuto alla verità, perché non c'è verità in lui" (Giovanni 8:44).
  Questo spiega sia l'abbondanza di menzogne sempre più sfacciate con cui si vorrebbero convincere i cittadini della "giustizia" delle decisioni prese, sia la paura che esse incutono in tutti, in chi non le osserva come anche in chi le osserva, perché il vero legislatore è omicida, quindi pronto ad agitare la minaccia della morte, che come sappiamo sta alla base di ogni paura.
  Se la paura del domani è provocata in me da quello che ordina l'autorità civile, devo chiedermi chi sta regnando su di me e se è giusto che questo avvenga. Chi ubbidisce per paura a un governo che vuole far paura si muove già su un territorio che si trova sotto il governo di colui che "è stato omicida fin dal principio".
  Come accade per ogni dipendenza dal regno dell'occulto, si può essere liberati da una simile schiavitù soltanto ricorrendo alla persona di Gesù, l'unico che ha potuto "distruggere con la sua morte colui che aveva il potere sulla morte, cioè il diavolo, e liberare tutti quelli che dal timore della morte erano per tutta la loro vita soggetti a schiavitù " (Ebrei 2:14-15).

(Notizie su Israele, 27 marzo 2022)



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L'allarme da Israele: scoperta la variante Omicron 3

Omicron 3 è un incrocio delle subvarianti BA.1 e BA.2. Al momento non si può delineare il profilo di aggressività della mutazione.

di Gerry Freda

Dopo la variante Omicron del Covid e dopo anche la mutazione Omicron 2 di quest'ultima, il mondo sembra in procinto di affrontare Omicron 3. L'annuncio è stato dato da Israele, dove è stata rinvenuta la subvariante denominata per esteso Omicron BA.3. Gli effetti di quest'ultima sulla pandemia nel Paese mediorientale sono ancora da valutare, ma lo Stato ebraico sta già facendo i conti con un aumento dei positivi indotti dalla già nota Omicron 2.
   Ad annunciare la scoperta in Israele della terza mutazione del Covid è stato Salman Zarka, capo del comitato governativo di lotta al virus, e ha anche aggiunto che il soggetto infettato da Omicron 3 sarebbe, ad oggi, l'unico caso confermato in territorio nazionale di paziente contagiato dalla subvariante incriminata.
   Le informazioni su Omicron 3, che è un incrocio delle subvarianti BA.1 e BA.2, sono al momento, ha evidenziato Zarka, ancora insufficienti per delineare il profilo di aggressività della mutazione in questione. Omicron 3, hanno quindi ricordato i media israeliani, era stata messa sotto osservazione dall'Organizzazione mondiale della Sanità già a gennaio, quando descrizioni della nuova subvariante erano state diffuse dagli scienziati sudafricani.
   La scoperta di Omicron 3 in Israele potrebbe cambiare il cronoprogramma delle riaperture immaginato dal governo Bennett. Il condizionale però è d'obbligo perché allo stato attuale non ci sono evidenze in questo senso. Nello Stato ebraico si sta da giorni sì registrando un aumento delle infezioni ma la causa è la già conosciuta Omicron 2. Per questo le autorità di Gerusalemme hanno appena deciso di rinviare di un mese ogni ulteriore allentamento delle limitazioni anti-contagio. Allo stesso tempo, l'esecutivo sta mettendo a punto una nuova campagna di vaccinazione, per iniettare la quarta dose a tutti gli ultrasessantenni.

(il Giornale, 26 marzo 2022)

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Kiev è delusa: la Nato ci ignora. Israele ci aiuta

Kiev è «molto delusa» dal vertice della Nato che si è svolto a inizio settimana, perché si aspettava che l'Alleanza atlantica dimostrasse più coraggio ed attuasse misure aggiuntive per contrastare la Russia. L' ammissione arriva direttamente dal capo dell'ufficio di Volodymyr Zelensky, Andriy Yermak. «Ci aspettavamo alcune decisioni audaci, invece si sono comportati come se non ci fosse una guerra».
   Torna però in primo piano l'ipotesi che Israele possa essere una «delle sedi prioritarie» per ospitare un incontro tra il presidente ucraino Volodyrny Zelensky e quello russo Vladimir Putin. All'incontro (su Zoom) con i giornalisti israeliani. Le autorità di Kiev, ha detto, «sono rimaste colpite da quanto siano profondamente consapevoli della situazione i funzionari israeliani e in particolare il primo ministro Bennett. Pensiamo che sia davvero intenzionato e disposto a fare tutto il necessario per portare la pace nella nostra terra e fermare la guerra».

Libero, 26 marzo 2022)

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Il vertice in Israele cambia gli equilibri del medio oriente

Le conseguenze geopolitiche della guerra

di Youssef Hassan Holgado

ROMA - Qualche anno fa sarebbe stato impossibile vedere seduti allo stesso tavolo, in Israele, i ministri degli Esteri di Emirati Arabi Uniti, Marocco, Bahrein e il segretario di Stato americano Antony Blinken. Sono tutti attesi nel paese in questo fine settimana, ma Blinken, come ha annunciato la Casa Bianca, sarà impegnato anche in un tour fino al 30 marzo e visiterà Cisgiordania, Marocco e Algeria.

• Le questioni sul tavolo
  Al centro dell'incontro, che si terrà nelle giornate di domenica e lunedì ed è presieduto dal primo ministro Bennett, c'è anche la guerra in Ucraina. Il leader israeliano è tra i più attivi nel campo delle mediazioni e dal 24 febbraio a oggi ha avuto diversi colloqui telefonici con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e il presidente russo Vladimir Putin che ha anche incontrato a Mosca.
   Durante l'incontro si parlerà anche di approvvigionamento energetico visto che nelle scorse settimane gli Stati Uniti hanno chiesto agli Emirati Arabi Uniti, così come ad altri paesi del Golfo Persico, dì aumentare la loro produzione petrolifera per far fronte alla crisi energetica provocata dalla riduzione delle importazioni di gas russo in Occidente.
   Sul tavolo delle discussioni il Marocco, invece, porterà le sue preoccupazioni sul rallentamento della produzione del grano, visto che come Tunisia ed Egitto gran parte delle sue riserve arrivano dai due paesi in guerra.
   Inevitabilmente uno dei dossier più delicati è quello che riguarda l'accordo sul nucleare iraniano attualmente in discussione a Vienna. Israele ed Emirati Arabi Uniti si oppongono ma le trattative tra Washington e Teheran procedono spedite. Il governo di Tel Aviv è preoccupato che l'Iran venga accontentato su diverse richieste, tra cui c'è anche quella della rimozione dalla lista delle organizzazioni terroristiche le Guardie della rivoluzione islamica, impegnate in diversi scenari di guerra dalla Siria allo Yemen. Un ex diplomatico israeliano citato dal New York Times afferma che durante il colloquio si parlerà anche di quello che è accaduto nel maggio del 2021 quando le tensioni a Gerusalemme, scoppiate a sheìkh Jarrah nel mese di Ramadan, hanno portato a un conflitto tra Gaza e Israele. L'obiettivo è evitare che possa riaccadere uno scenario simile il prossimo mese, visto che quest'anno la Pasqua si svolgerà in concomitanza con il Ramadan mese sacro per i musulmani che inizia il 2 aprile.

• L’altro incontro
  Nella giornata di ieri il re della Giordania Abdullah II ha ospitato il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi, il primo ministro iracheno Mustafa al Kadhimi e il principe ereditario di Abu Dhabi, Mohammed bin Zayed Al Nahyan, nella città di Aqaba.
   Secondo quanto riporta il Washington Post era presente anche un alto funzionario saudita. L'incontro si è focalizzato sulla risposta dei paesi arabi alla crisi alimentare ed energetica. Il 22 marzo a Sharm el Sheìkh. in Egitto, il generale al Sisi ha ospitato, in uno storico incontro, il premier israeliano Naftali Bennett e il principe ereditario di Abu Dhabi. Negli Emirati Arabi Uniti ha fatto visita il 18 marzo il presidente siriano Bashar al Assad, il più fedele anche se meno potente alleato di Vladimir Putin nell'area. Sintomo che le relazioni diplomatiche tra i due paesi si stanno normalizzando dopo la visita del ministro degli Esteri emiratino avvenuta lo scorso novembre a Damasco. Si tratta del primo viaggio di Assad, accusato anche di aver commesso diversi crimini di guerra, in un paese arabo dall'inizio della guerra civile scoppiata nel 2011. La situazione preoccupa anche gli Stati Uniti, che temono la riabilitazione del presidente siriano.
   La regione del medio oriente è in fibrillazione: la guerra in Ucraina, gli Accordi di Abramo siglati nell'autunno del 2020 e la crisi energetica stanno dando vita a una nuova era.

(Domani, 26 marzo 2022)

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I ministri degli accordi di Abramo in Israele

Emirati Arabi Uniti, Bahrain e Marocco invitati con il segretario di Stato Usa

Il segretario di Stato americano, Antony Blinken, e le controparti di Emirati Arabi Uniti, Bahrain e Marocco si ritroveranno per due giorni in Israele per quello che è già considerato un incontro storico. A fare gli onori di casa, a partire da domani e fino a lunedì, sarà il ministro degli Esteri israeliano, Yair Lapid.
   Emirati Arabi Uniti, Bahrain e Marocco sono i tre Paesi a maggioranza musulmana che, nel 2020, hanno normalizzato le relazioni con Israele, siglando i così detti Accordi di Abramo, sponsorizzati dall'ex presidente americano Donald Trump. L'Amministrazione di Joe Biden vorrebbe estenderli ad altri Stati.
   Durante la sua visita in Medio Oriente, Blinken discuterà con la controparte israeliana del suo tentativo di mediazione tra Russia e Ucraina. Il premier Naftali Bennett ha cercato un equilibrio difficile, esprimendo sostegno al popolo ucraino, senza però condannare l'invasione russa.
   Il segretario di Stato Usa affronterà anche il nodo del negoziato sul nucleare con l'Iran. Israele, fortemente contrario all'accordo del 2015 tra Teheran e le potenze mondiali del «5+1» (Cina, Russia, Regno Unito, Francia, Germania, Stati Uniti), ha accolto con favore la decisione di Trump di ritirarsi unilateralmente dall'intesa. E ora mette in guardia contro il suo ripristino, avvisando che non se ne sentirà vincolato.
   Israele conduce regolarmente attacchi aerei su quelli che ritiene essere obiettivi militari iraniani ostili nella vicina Siria. Tali raid devono essere coordinati con la Russia, che è intervenuta nella guerra civile siriana nel 2015 al fianco del presidente Bashar Assad.
   Blinken incontrerà anche il presidente palestinese Mahmoud Abbas in Cisgiordania e si recherà in Algeria e Marocco dove incontrerà il principe ereditario di Abu Dhabi. G.D.D.

(Il Sole 24 Ore, 26 marzo 2022)

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Maratona, trionfo ucraino a Gerusalemme

L’abbiamo seguita fin dal suo arrivo a Gerusalemme e quindi anche fino all'arrivo della Maratona in terra d'Israele, qui dove l'ucraina Valentyna Veretska ha trionfato. In 2 ore, 45 minuti e 54 secondi, Valentyna ha coperto il tracciato di Gerusalemme e all'arrivo ha esposto due bandiere: quella israeliana e quella ucraina. «Ho corso per l'Ucraina - ha detto-. Ho pensato tutto il tempo alla mia famiglia, a mio marito arruolato nell'esercito (che è anche il suo coach) che sta combattendo e agli amici. Questo mi ha aiutato, perché sapevo che correvo anche per loro.
   Sapevo che dovevo dare il massimo, perché la mia voce fosse sentita.
   Dedico la vittoria al mio popolo».
   Una dedica speciale anche alla figlia di 10 anni che l'ha seguita in questa avventura di rifugiata. Tra i 25mila partecipanti alla tradizionale Maratona israeliana, 11mila gli atleti giunti dall'estero a Gerusalemme e tra questi, assieme a Valentyna, hanno corso 40 profughi ed immigranti. Il sindaco di Gerusalemme, Moshe Lion, ha ribadito anche ieri, quanto sarebbe felice se la sua la città potesse ospitare un giorno, non lontano, i negoziati di pace fra russi ed ucraini. È quello che spera Valentyna e tutti i suoi connazionali in Israele: «Questa maratona - conclude la Veretska - è come se avesse riacceso una luce, spero che le cose cambino e mi auguro di aver reso fieri di me tutti i miei connazionali che stanno lottando contro l'invasore russo».

(Avvenire, 26 marzo 2022)

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Continuano i colloqui tra Bennett e Zelensky: Israele possibile garante per la pace

di Luca Spizzichino

Continuano senza sosta i colloqui tra il Primo Ministro israeliano Naftali Bennett, il presidente ucraino Zelensky e quello russo Vladimir Putin. Nel corso di questa settimana si sono intensificati in vista dell'arrivo in Israele questo sabato del Segretario di Stato americano Anthony Blinken.
   L'Ucraina ha più volte ribadito la possibilità di avere Israele come paese garante per un accordo di pace con la Russia, con Gerusalemme come sede per i negoziati per porre fine alla guerra.
   Volodymyr Zelensky ha dichiarato di aver parlato giovedì con Bennett, nonché con il primo ministro britannico Boris Johnson e il presidente lituano Gitanas Nauseda.
   "È necessario cercare la pace", ha dichiarato Zelensky nel discorso quotidiano che ha rivolto al suo popolo dall'inizio dell'invasione russa del suo Paese il 24 febbraio.
   Il presidente ucraino sin dall'inizio del conflitto ha chiesto aiuto alla comunità internazionale, chiedendo assistenza umanitaria, armi e l'imposizione di sanzioni globali alla Russia. Ha anche chiesto ai leader mondiali di aiutare l'Ucraina ad arrivare ad un cessate il fuoco. Quattro paesi sono stati i più attivi: Israele, Francia, Germania e Turchia. Putin ha parlato mercoledì con i leader di tutti e quattro i paesi.
   Il capo di stato maggiore di Zelensky, Andriy Yermak, recentemente ha parlato con giornalisti israeliani in una videochiamata. Durante questo incontro ha affermato che Israele potrebbe essere "uno dei garanti di un importante trattato internazionale che fornirebbe chiare garanzie di sicurezza" per il suo Paese.
   "Un tale accordo prevede un ampio elenco di paesi - potenziali garanti. Pertanto, stiamo tenendo consultazioni separate con ciascuno di questi paesi per incontrarci in seguito", ha dichiarato Yermak.
   L'Ucraina, ha aggiunto, "ha relazioni molto cordiali, amichevoli e speciali con Israele". Affermando inoltre di aver apprezzato gli sforzi di mediazione di Israele.
   "Siamo stupiti di quanto profondamente i funzionari israeliani, incluso il primo ministro Naftali Bennett, siano consapevoli della questione. E crediamo che il Premier israeliano sia davvero determinato a fare tutto il necessario per portare la pace nella nostra terra e porre fine alla guerra" ha concluso il Capo di Stato Maggiore ucraino.

(Shalom, 25 marzo 2022)

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Colloquio Biden-Draghi, impegno a sostenere Ucraina

Lo afferma la Casa Bianca

Biden + Draghi
NEW YORK - Joe Biden ha parlato, a margine dei lavori del G7, con il premier Mario Draghi di Russia e Ucraina. Lo afferma la Casa Bianca, sottolineando che i due leader hanno discusso l'impegno condiviso per continuare a ritenere la Russia responsabile per le sue azioni in Ucraina e per sostenere il governo e la popolazione.

(ANSA, 25 marzo 2022)
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Nella foto: Draghi prende ordini da Biden


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Putin, mireremo Paesi Ue con missili Usa

Se Usa dovessero dispiegare i missili di medio raggio in Europa

Se gli Usa dovessero dispiegare i missili di medio raggio in Europa, la Russia sarebbe costretta a prendere di mira i paesi che li ospitano.
L'avvertimento è stato lanciato dal leader russo Vladimir Putin in conferenza stampa con il premier Giuseppe Conte a Mosca, dopo che Donald Trump ha annunciato il ritiro dal trattato Inf.
"Se tutto sarà smantellato - ha detto il presidente russo - non ci sarà nessun limite e non ci resterà che la corsa agli armamenti".

(ANSA, 25 marzo 2022)
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Come avevamo detto: Draghi vuol mettere l'Italia sotto il tiro dei missili di Putin

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Dieci anni fa la strage alla scuola ebraica di Tolosa. Nulla è più come prima

Metà della comunità ebraica è fuggita.

di Giulio Meotti

ROMA - La mattanza durò venti secondi. Sul marciapiede che costeggia la scuola Ozar Hatorah di Tolosa, il 19 marzo 2012, le macchine rallentano, si fermano, gli studenti escono e le auto ripartono. Mani che si salutano, baci che volano. "A stasera". Le prime gocce di pioggia. Poi quello scooter. Gabriel e Arié Sandler si voltano. L'uomo, Mohammed Merah, punta l'arma contro Jonathan. E spara. Li uccide. Yaacov Monsonego esce dalla scuola e vede la figlia, Myriam, morire sotto i suoi occhi. "Non voglio fare un paragone tra l'Olocausto e questo attentato, anche se ci sono innegabili somiglianze: nel 1940 furono fucilati degli ebrei; anche nel 2012 ... ".
   Così scrive Jonathan Chetrit nel suo libro "Toulouse, 19 mars 2012". Il racconto di un sopravvissuto sul primo grande attentato islamico in Francia, rievocato nei giorni scorsi da Emmanuel Macron, Nicholas Sarkozy e Francois Hollande che si sono ritrovati alla scuola ebraica di Tolosa (è andato anche il presidente israeliano Herzog).
   La comunità non si è mai ripresa. Dagli anni 90, più di diecimila residenti ebrei di Tolosa, la metà della comunità, hanno lasciato la "Città Rosa". Il movimento è cresciuto dopo il massacro alla scuola ebraica. Molti di loro hanno fatto la loro "aliyah", che consiste nell'emigrare in Israele. Eva Sandler, vedova di Jonathan e madre di Arie e Gabriel, partì per Gerusalemme con il figlio più piccolo. Idem per Jennifer, la sorella di Jonathan, e la sua famiglia. Alla scuola secondaria Ozar Hatorah, all'inizio dell'anno scolastico, erano iscritti 140 bambini, rispetto ai 200 dell'anno scolastico precedente. Un'intera generazione di giovani tra i tredici e i venti anni è fuggita da Tolosa. Come la figlia più giovane di Erick Lebahr, che frequentava la quinta elementare a Ozar Hatorah ai tempi dell'attacco. E' partita per Israele a diciotto anni e metà della sua classe non vive più a Tolosa. L'attacco alla scuola ebraica ha avuto l'effetto di un detonatore: quattromila ebrei, quasi un terzo della comunità, hanno deciso di lasciare la Francia, molti per Israele. Claire Lagadic, giornalista del quotidiano La Dépéche, ha rivelato che Fettah Malki, l'uomo che ha armato Mohamed Merah, vive ancora nel quartiere Izards a Tolosa. Il terzo uomo coinvolto negli attentati è stato condannato a quattordici anni di carcere insieme ad Abdelkader Merah, il fratello del terrorista, ma i reati non sono stati classificati come terrorismo, così Fettah Malki ha potuto beneficiare delle riduzioni di pena.
   Il presidente della comunità ebraica, Arié Bensemhoun, ha consigliato ai giovani di lasciare la città, dove, secondo lui, non possono più praticare apertamente la loro religione senza paura. "Incoraggio i giovani a fare aliyah o ad andare dove possono vivere senza la paura di ciò che potrà accadere loro l'indomani". Il vicesindaco di Tolosa e unico ebreo del Consiglio comunale, Aviv Zonabend, ha detto che il popolo ebraico in Europa è senza speranza. Intanto Samuel Sandler, ingegnere aeronautico e capo della comunità ebraica di Versailles, il padre di Jonathan e il nonno di Gabriel e Arié, ha annunciato la registrazione della sinagoga della sua città nell'elenco dei monumenti nazionali: "La mia sensazione è che la nostra comunità scomparirà tra venti-trent'anni. Non voglio che la nostra sinagoga venga distrutta o, peggio, usata per scopi illegittimi".

Il Foglio, 25 marzo 2022)

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Il Presidente della regione Sicilia incontra l'ambasciatore d’Israele

Progetto istituzione in Sicilia di un Politecnico di alta formazione post-lauream

“Lo Stato di Israele ha acquisito una grande competenza nell’ambito della tecnologia innovativa applicata all’agricoltura, con tecniche all’avanguardia di irrigazione e depurazione delle acque a cui siamo fortemente interessati per combattere il fenomeno della desertificazione che avanza in Sicilia”. Lo ha detto il presidente della Regione, Nello Musumeci, durante l’incontro con l’ambasciatore d’Israele, Drod Eydar, ricevuto a Palazzo D’Orléans. All’incontro con il diplomatico erano presenti l’avvocato Alice Anselmo, membro del direttivo dell’associazione di amicizia Italia-Israele di Palermo e l’assessore regionale per le Attività produttive, Mimmo Turano.
  Il governatore e l’alto diplomatico si sono intrattenuti per oltre un’ora nella Sala degli Specchi, soffermandosi sui progressi compiuti negli ultimi anni nel Vicino e Medio Oriente sulla strada del dialogo, della pace e degli scambi economici tra lo Stato di Israele ed alcuni Paesi arabi. Ci si è trovati concordi sulla opportunità di collaborazione in materia di gestione delle risorse idriche in agricoltura, che vede lo Stato di Israele all’avanguardia nel mondo. Si è parlato anche del progetto di istituzione in Sicilia di un Politecnico di alta formazione post-lauream, che metta insieme le quattro università isolane con quelle degli Stati del Bacino del Mediterraneo.
  Il presidente ha annunciato anche “la disponibilità del governo regionale a finanziare il restauro della Sinagoga di Palermo, importante traccia ebraica risalente a diversi secoli fa, in segno di amicizia e per il recupero di un luogo di culto di grande valore storico”. L’impegno a favore della comunità ebraica locale è stato molto apprezzato dal diplomatico, rimasto anche “particolarmente colpito dalle bellezze architettoniche siciliane e dalla vegetazione isolana, molto simile a quella della Terra Santa”.
  L’ambasciatore Eydar ha infine rivolto l’invito al presidente Musumeci a partecipare alla prossima conferenza mediterranea su innovazione tecnologica in agricoltura ed energia, in programma il prossimo maggio a Napoli, invito accolto con piacere dal governatore dell’Isola.

(Day Italia News, 24 marzo 2022)

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Israele. Legami con Mosca e Kiev. Ma davvero può mediare?

Il Paese si trova nel perfetto incrocio geopolitico del conflitto: i giovani amano Zelensky e ne esaltano le radici ebraiche, i governi tengono in considerazione la pressione di 12 milioni di cittadini originari dell'ex Unione Sovietica.

di Davide Frattini

L' appartamento al 17 di via Pinsker resta vuoto da cinque anni, da quando Mina Yuditskia Berllner è morta quasi centenaria e ha lasciato in eredità quella stanza e mezzo nel centro di Tel Aviv a un vecchio allievo dei tempi in cui insegnava il tedesco ai liceali dell'allora Leningrado. Di fatto l'ha restituita a Vladimir Putin.
   Gli emissari del leader russo l'avevano cercata dopo la visita in Israele - a metà del secondo mandato presidenziale - e l'avevano guidata in un giro immobiliare, un regalo da parte del suo scolaro riconoscente. Mina, immigrata qui nel 1973, aveva scelto la strada tranquilla intitolata a Leon Pinsker, tra i fondatori del movimento sionista nell'impero zarista, riseppellito a Gerusalemme tra gli onori ma morto ad Odessa, il porto sul Mar Nero in queste settimane sotto bombardamento per ordine di quello studente «taciturno e disciplinato». Non lontano c'è il più trafficato viale Ben Yehuda: porta il nome dell'intellettuale che spolverò l'ebraico della Bibbia per trasformarlo in una lingua moderna ad uso quotidiano. Era nato in quella che oggi è la Bielorussia, dominata dal despota Viktor Lukashenko, vicino rumoroso dell'Ucraina e alleato del Cremlino.
   Per questa Storia e per questa toponomastica della memoria, per i contatti mai interrotti con le comunità ebraiche nell'Europa orientale, per l'immigrazione negli anni Novanta accelerata dal crollo dell'Unione Sovietica e ripresa dopo l'invasione russa del 24 febbraio, gli israeliani si trovano all'incrocio geopolitico di un conflitto che, in chilometri, avrebbero potuto considerare lontano. Il premier Naftali Bennett ha parlato più volte al telefono con Putin e con Volodymyr Zelensky, il presidente ucraino sotto assedio, ed è volato a Mosca per un colloquio di tre ore con lo Zar.
   Durante la festa di Purim celebrata la settimana scorsa, qualche ragazzo - il maglione verde militare, il ciuffo nero e la barba non rasata punteggiata a matita - ha voluto onorare con il costume da carnevale quello che per i giovani israeliani è ormaì diventato un eroe ebreo. Zelensky ha enfatizzato le sue radici per rispondere alla propaganda putiniana - «vogliamo denazificare l'Ucraina» - ed è per questa ragione che, forse, pretende molto da Israele fino al punto di definirla «l'unica democrazia in grado di condurre i negoziati».
   Una decina di giorni fa sulle mura della Città Vecchia a Gerusalemme sono state proiettate la bandiera ucraina e quella russa. Insieme. Solo le proteste hanno oscurato un'equidistanza che anche Bennett cerca di mantenere, pure tra le pressioni interne di quel milione e duecentomila israeliani originari dell'ex Urss. Equilibrismo in parte dovuto al suo ruolo di mediatore, in parte autoimposto: dal 2015 il governo ha bisogno di Putin e del suo beneplacito alle incursioni dei jet contro gli avamposti iraniani in Siria, dove i russi sono intervenuti per garantire la permanenza al potere del dittatore Bashar Assad e dove manovrano la contraerea più avanzata che protegge le loro basi. «Il che ci mette in una sorta di situazione da nazione baltica», commenta Yair Lapid, il ministro degli Esteri.
   Anche all'ingresso della più antica sinagoga di Leopoli - il resto fu dissacrato dai nazisti ottant'anni fa - la comunità ha celebrato Purim. Il rabbino ha letto i passaggi dal Libro di Ester, il racconto degli ebrei di Persia scampati allo sterminio pianificato dal malvagio Aman. Dopo il tramonto le stanze sono tornate a essere un rifugio dal pericolo dei missili russi.

(Corriere della Sera, 24 marzo 2022)

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Il suicidio dell’Europa, le armi e il suo silenzio 

di Donatella Di Cesare

La parola Occidente, in questi giorni così spesso evocata, ha un significato articolato nelle diverse epoche. Non indica un sistema di valori, una forma politica, un modo di vivere. Occidente è l'orizzonte a cui guardavano i greci: la costa italiana, il continente europeo, una futura epoca nella storia del mondo. Nel periodo tra le due guerre mondiali i filosofi hanno pensato il destino dell'Occidente non come un tramonto, bensì come un passaggio: nel buio della notte europea non c'era solo morte e distruzione, ma anche la possibilità di salvezza. L'Occidente era l'Europa, l'Europa era l'Occidente. In questa prospettiva, che oggi - con un giusto accento critico - si direbbe eurocentrica, ciò che era oltre l'Atlantico, Inghilterra compresa, non era occidentale. 
   Dopo il 1945, il baricentro della Storia passa dal continente europeo a quello americano. Anche la parola "Occidente" cambia significato designando l'American Way of Life, lo stile di vita americano e tutto ciò che, tra valori e disvalori, porta con sé. L'Europa si uniforma, più o meno a malincuore. Se non altro per non perdere il nesso con l'Occidente di cui è stata sempre il cardine. 
   Quel che avviene in questi gravissimi giorni, dietro il millantato nuovo scontro di civiltà, è un'autocancellazione dell'Europa, che rinuncia a se stessa, alla propria memoria, ai propri compiti. Il 2022 segna l'ulteriore, definitivo spostamento, l'apertura di una faglia nella storia del Vecchio continente. L'Europa tace, sovrastata dai tamburi di guerra dell'Occidente atlantico, a cui sembra del tutto abdicare. L'algida figura di Ursula von der Leyen, questa singolare, inquietante comparsa, che spunta di tanto in tanto per annunciare "nuove sanzioni alla Russia", compendia bene in sé un'Europa cerea e spenta, incapace di far fronte a una crisi annunciata. Possibile che dal 2014 non si sia operato per evitare il peggio? Possibile che tra dicembre e febbraio non esistesse un margine per impedire l'invasione? Possibile vietarsi l'autorità di mediare per la pace? Si tratta di una vera e propria catena di errori politici imperdonabili, di cui i cittadini europei dovranno nel futuro prossimo chiedere conto a chi ora ha ruoli decisionali. Come se non bastasse, il silenzio fatale dell'Europa è squarciato dalle sguaiate provocazioni di Boris Johnson, il promotore della Brexit, e dalle temerarie parole di John Biden, forse uno dei peggiori presidenti americani. 
   Il suicidio dell'Europa è sotto gli occhi di tutti. Ed è ciò che ci angoscia e ci preoccupa. Perché riguarda il futuro nostro e quello delle nuove generazioni. D'un tratto non si parla più di Next Generation Eu - nessun cenno a educazione, cultura, ricerca. All'ordine del giorno sono solo le armi. C'è chi applaude a questo, inneggiando a una fantomatica "compattezza" dell'Europa. Quale compattezza? Quella di un'Europa bellicistica, armi in pugno? Per di più ogni Paese per sé, con la Germania in testa? Non è questa certo l'Europa a cui aspiravamo. In molti abbiamo confidato nelle capacità dell'Unione, che aveva resistito alle spinte delle destre sovraniste e che sembrava uscire dalla pandemia più consapevole e soprattutto più solidale. Mai avremmo immaginato questa deriva. La faglia che si è aperta nel vecchio continente, in cui rischia di precipitare il sogno degli europeisti, è anche la rottura del legame che i due Paesi storicamente più significativi, la Germania e Italia, hanno intessuto con la Russia. Chi si accontenta di ripetere il refrain "c'è un aggressore e un aggredito", ciò che tutti riconosciamo, non si interroga sulle cause e non guarda agli effetti di questa guerra. C'è una Russia europea oltre che europeista. Nella sua storia la Russia è stata sempre combattuta tra la tentazione di avvicinarsi al modello occidentale e il desiderio di volgersi invece a Est con una ostinata slavofilia, testimoniata, peraltro, nell'opera di Dostoevskij. Durante la Rivoluzione bolscevica prevalse l'apertura per via dell'internazionalismo. Se Stalin cambiò rotta, la fine dell'impero sovietico segnò il vero punto di svolta. In quella situazione caotica andò emergendo la corrente nazionalistica che aveva covato sotto la cenere. Putin è il portato sia di questo nazionalismo, fomentato anche dal pensatore dei sovranisti Aleksandr Gel'evi Dugin, sia di una frustrata occidentalizzazione. Ma a chi gioverà una Russia isolata, ripiegata su di sé, rinviata a orizzonti asiatici? 
   In un'immagine suggestiva che ricorre in Nietzsche, in Valéry, in Derrida, l'Europa appare un piccolo promontorio, un capo, una penisola del continente asiatico. Nessuno ha mai potuto stabilire dove sia il suo confine a Est. Ma certo ha sempre avuto il ruolo di testa, di cervello di un grande corpo. È stata il lume, la perla preziosa. Ci chiediamo dove sia finita. 

(il Fatto Quotidiano, 24 marzo 2022)
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“Mai avremmo immaginato questa deriva”, dice l’autrice che, come molti altri, non aveva capito che l’ardore antisovranista non andava a favore di un’immaginaria Europa, ma serviva a colpire residui di sovranità nazionale a favore di un globalismo finanziario internazionale mercificato, corrotto e disgregatore non solo delle unità nazionali, ma di ogni aggregazione sociale, storica, familiare che abbia radici culturali e quindi sia di ostacolo all’espansione di questo nuovo flagello mondiale che, come Attila, “dove passa lui non cresce più neanche un filo d’erba”. Il nostro mediocre capo di governo è una semplice pedina di questo gioco; il suo grado di autonomia decisionale è pari a quello dei commessi in un grande magazzino. Rinfocola la guerra invitando la nazione a parteciparvi e lo dice in mezzo all’applauso allucinante dei parlamentari. Se da Vicenza, per esempio, dovessero partire armi per combattere i russi, nessuno si sorprenda se poi per impedirlo Putin ci invia qualche missile a domicilio. La guerra è guerra. E noi siamo con gli ucraini senza se e senza ma, come dice il nostro capo-regia di governo, quindi se muoiono loro, gli ucraini, bisognerà pur far vedere in qualche modo che siamo pronti a morire anche noi. E i parlamentari lo faranno. Lo faranno al grido di “Viva la Nato!” M.C.

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Israele si è rifiutato di vendere Pegasus all’Ucraina

Sembra quasi che l’inchiesta dei due giornali tenda a colpevolizzare Israele piuttosto che a spiegare ai lettori i motivi delle scelte israeliane

di Paola P. Goldberger

Secondo quanto riferisce il Guardian, Israele si sarebbe rifiutato di vendere lo spyware Pegasus all’Ucraina nel timore della reazione che avrebbe avuto la Russia se lo avesse scoperto.
  È quanto viene alla luce da una inchiesta condotta dal giornale britannico in collaborazione con il Washington Post, i quali affermano che la prima richiesta ucraina per ricevere lo spyware Pegasus risale al 2019.
  Nonostante Pegasus venga commercializzato da una azienda privata (NSO group) sembra che lo Stato israeliano riesca in qualche modo a vietare la vendita di questo potentissimo mezzo ad alcuni stati e/o regimi, anche se poi si scopre che ne sono in possesso regimi come l’Arabia Saudita o stati poco “chiari” come la Polonia che lo ha usato per spiare membri dell’opposizione.
  Fatto sta che, secondo i due grandi giornali, Israele avrebbe proibito al NSO Group di vendere Pegasus all’Ucraina privandola di fatto di un potentissimo mezzo di spionaggio che avrebbe anche potuto evitare il conflitto.
  Non è chiaro se, al contrario, la Russia ne sia entrata in possesso. La logica sin qui adottata da Gerusalemme e la politica di vendita del gruppo NSO direbbero che questo non sia possibile, tuttavia in molti il dubbio serpeggia.
  I motivi per cui Israele non ha venduto armi o mezzi come Pegasus all’Ucraina sono stati ampiamente spiegati, lo stesso dicasi riguardo i motivi per cui non può andare contro la Russia.
  Sembra quindi che l’inchiesta dei due giornali tenda più a colpevolizzare Israele piuttosto che a spiegare ai neofiti i motivi di determinate scelte politiche e strategiche.
  Una cosa simile era successa con la richiesta, sempre da parte ucraina, per il sistema Iron Dome, cioè quel sistema che difende (benissimo) Israele dagli attacchi missilistici e che solo lo Stato Ebraico e gli Stati Uniti posseggono e ne conoscono i segreti. In quel caso poteva venire meno la sicurezza stessa di Israele ed è per questo che anche in quel caso Gerusalemme non ha accettato la richiesta ucraina.

(Rights Reporter, 24 marzo 2022)

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A Salonicco la marcia silenziosa per ricordare gli ebrei deportati

di Jacqueline Sermoneta

Sotto lo slogan “Mai più Salonicco-Auschwitz” oltre 2mila persone hanno partecipato, domenica scorsa, alla marcia silenziosa in ricordo del primo treno che, 79 anni fa, da Salonicco condusse 2.800 ebrei ai campi di sterminio nazisti.
   Come riporta il Jpost, la manifestazione è stata organizzata dal Comune di Salonicco insieme alla Comunità ebraica e a tre università locali. Tra i presenti, la Presidente della Grecia Katerina Sakellaropoulou, il vicepresidente della Commissione Ue Margaritis Schinas, il sindaco di Salonicco Konstantinos Zervas e Michel Gourary, direttore dell'European March of the Living.
   La marcia silenziosa è iniziata dal quartiere ebraico per arrivare alla vecchia stazione ferroviaria della città, da cui il 15 marzo del 1943 partì il primo convoglio verso Auschwitz.
   “Solo se tramandiamo la conoscenza storica alle nuove generazioni, se preserviamo la memoria, se sentiamo come nostri il dolore e la sofferenza delle vittime, se comprendiamo che la Shoah è un’eredità storica universale - ha affermato la presidente Sakellaropoulou – saremo in grado di difenderci da un nuovo assalto dell’odio, che, anche se si presenta in altre forme, è pur sempre minaccioso e ripugnante”.
   Inaugurato anche un dipinto murale nella città greca di Patrasso, su iniziativa di Artists 4 Israel in collaborazione con Combat Antisemitism Movement (CAM), in onore di due “Giusti fra le Nazioni”: il sindaco di Zacinto Loukas Karrer e il metropolita Dimitrios Chrysostomos, che salvarono gli ebrei nel 1943 durante l’occupazione nazista, mettendo a rischio la propria vita.
   Kleomenis Kostopoulos, autore del dipinto murale, ha commentato: “I murales sono una delle forme di espressione e di comunicazione contemporanea più importanti negli spazi pubblici. Oggi più che mai dobbiamo rivisitare la nostra storia in Grecia, portandola in piazza e mostrandola”.
   “Oltre a commemorare le deportazioni – ha detto Sacha Roytman Drawta, Ceo di CAM – dobbiamo ricordare anche i Giusti tra le Nazioni che hanno rischiato la propria vita per salvare gli ebrei durante la Shoah. È fondamentale riconoscere e aumentare la consapevolezza delle azioni di coloro che sono stati al fianco del popolo ebraico per incentivare la lotta contro l’odio e il male odierno”.

(Shalom, 24 marzo 2022)

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Attacco in Israele: 4 morti. Esultano Hamas e Jihad islamica

Attacco da parte di un cittadino arabo-israeliano del Negev che ha accoltellato quattro persone nel centro di Beer Sheva.

di Mauro Indelicato

Torna l'incubo attentati in Israele. Un uomo arabo-israeliano ha assaltato alcuni passanti con un coltello a Beer Sheva, quarta città più grande del Paese e “capitale” delle regioni meridionali caratterizzate dal deserto del Negev, di cui tre le donne. L'assalitore è stato poi raggiunto e ucciso. Non da un poliziotto, bensì da un autista di autobus che aveva capito il pericolo e che ha usato l'arma che aveva in dotazione.
   Beer Sheva è sempre stata una città tutto sommato tranquilla sul fronte terrorismo. Rispetto a Tel Aviv e Gerusalemme è più lontana rispetto ai confini più caldi con Gaza e Cisgiordania. Anche durante l'intifada degli anni 2000 da queste parti gli attacchi sono stati minori a confronto di altre grandi città di Israele.
   C'è però un confine non dichiarato che spesso ha messo ugualmente paura agli abitanti di Beer Sheva. Intorno a questo grosso centro riferimento di chi abita nel Negev, abita una comunità di arabi-israeliani appartenenti a comunità non riconosciute dallo Stato. Si tratta di beduini del deserto che hanno impiantato attorno Beer Sheva diversi villaggi senza autorizzazione del governo.
   Da anni le comunità lottano per essere riconosciute e ricevere quindi tutti i servizi essenziali previsti dallo Stato. Lotte politiche ma a volte degenerate in tensioni piuttosto violente. L'attentatore di oggi era proprio un arabo-israeliano proveniente da uno dei villaggi non riconosciuti.
   È arrivato a Beer Sheva e ha prima ucciso una donna in una stazione di benzina, poi ha volutamente travolto un ciclista nel centro della città e infine, dopo essere sceso dalla sua auto, ha accoltellato nel mucchio uccidendo altre due donne.
   In totale sono quindi quattro le vittime, di cui tre donne. L'attentatore stava poi per continuare nella sua scia di morte su un autobus. Qui l'autista ha capito le cattive intenzioni e lo ha inseguito fino a un vicino parcheggio. Quando il cittadino arabo-israeliano gli si stava scagliando contro non ha esitato a usare la pistola che deteneva regolarmente in dotazione.

• Israele sotto attacco?
  Lo Stato ebraico adesso si chiede se quello di oggi è un attentato di origine islamista oppure se ha a che fare con il contesto di tensione relativo agli arabo-israeliani del Negev. Ad ogni modo l'episodio ha destato non poca impressione e commozione in tutto il Paese.
   Anche perché si è trattato del terzo assalto all'arma bianca in appena quattro giorni. In precedenza altri attacchi del genere, compiuti a Gerusalemme, per fortuna non avevano provocato vittime. La paura è palpabile: il premier Naftali Bennett non ha fatto mistero di temere una nuova escalation terroristica alla vigilia della Pasqua ebraica. Una ricorrenza che quest'anno coincide grossomodo con l'inizio del ramadan, il mese sacro dei musulmani.
   Intanto da Gaza sia la Jihad Islamica che Hamas esultano per l'attacco. Non una vera rivendicazione, ma l'espressione comunque di un appoggio sia all'ultimo attentato che a future nuove azioni terroristiche.

(il Giornale, 23 marzo 2022)


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Beduino uccide quattro israeliani Lista araba: «Non è la nostra strada»

L'uomo noto per il sostegno all'lsis.

di Michele Giorgio

È di quattro uccisi, tra cui due donne, il bilancio dell'attacco di ieri pomeriggio a Beersheva, nel sud di Israele, compiuto a coltellate e con un'auto lanciata contro i passanti da un beduino con cittadinanza israeliana. L'uomo è stato fermato da un autista di bus che gli ha sparato diversi colpi d'arma da fuoco ferendolo mortalmente. L'attacco- con il bilancio più alto di vittime israeliane da diversi anni a questa parte - è avvenuto in un centro commerciale e una stazione di servizio.
  Stando alla ricostruzione fatta dalla polizia, l'aggressore, Mohammad Abu al Qi'an, 34 anni di Hura, ha prima accoltellato una donna nella stazione di servizio, poi è salito su un'auto e ha investito un uomo in bicicletta. Abbandonata l'auto, ha accoltellato un uomo e una donna prima di essere colpito e ucciso. Abu al Qi' an era stato arrestato nel 2015 e condannato a tre anni di carcere per aver diffuso materiale dello Stato islamico tra gli studenti della scuola in cui insegnava. Nel 2016 ha ammesso di aver costituito una cellula segreta dello Stato islamico e di aver pianificato di lasciare Israele con il pretesto di un pellegrinaggio alla Mecca ma con il vero obiettivo di unirsi all'Isis in Siria. Arthur Chaimov, l'autista che l'ha ucciso, ha raccontato di aver pensato in un primo momento a un incidente d'auto: <<A un certo punto ho visto qualcuno vicino a un veicolo con un coltello. Sono sceso dal veicolo, ho preso la mia arma e mi sono avvicinato. Gli ho detto più volte di mettere giù il coltello. Ha detto di no e quando è venuto verso di me con il coltello in mano, gli ho sparato». Il primo ministro Naftali Bennett lo ha elogiato.
  «ll civile che ha sparato al terrorista ha mostrato determinazione e coraggio ed evitato altre vittime. Agiremo con mano forte contro coloro che compiono atti di terrore», ha scritto su Twitter. Condanne anche dal capo dello Stato Isaac Herzog e da tutti i membri del governo, incluso il partito arabo islamista Ra'am che ha condannato l'attacco e fatto le condoglianze alle famiglie delle vittime affermando che «i cittadini arabi rispettano la legge e denunciano chiunque usi la violenza». Ra' am ha invitato tutti in Israele «a mostrare responsabilità e a promuovere la tolleranza».
  Il leader della Lista araba unita, Ayman Odeh, ha espresso choc per l'attacco dicendo che «la violenza non è la nostra strada e dobbiamo condannarla con tutte le nostre forze».
  Il fronte Hadash, a maggioranza comunista e parte della Lista araba, ha scritto in un comunicato che l'attacco a Beersheva «non rappresenta la giusta lotta degli arabi del Negev contro l'espropriazione delle loro terre e l'oppressione». E ha ammonito la destra estrema israeliana dall'usare l'accaduto «per accendere un fuoco razzista contro i cittadini arabi. Non deve essere consentito di sfruttare l'omicidio di persone innocenti per istigare altra violenza». A nome della destra più radicale ha replicato Bezalel Smotrich (Sionismo religioso) sostenendo che «l'estremismo nazionalista tra gli arabi israeliani è una bomba a orologeria» e ha chiesto al governo di usare la «mano pesante» e «zero comprensione e zero tolleranza».
  Un altro deputato di destra estrema Itamar Ben Gvir (Otzma Yehudit) nei giorni scorsi aveva annunciato la formazione di un corpo di vigilantes, Sayeret Barel, per «proteggere gli ebrei nel Negev». A Gaza il movimento islamico Hamas e il Jihad islamico hanno accolto con favore l'attacco di Beersheva descrivendolo come una «reazione ai crimini di Israele».

(il manifesto, 23 marzo 2022)

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Investimenti sui microchip, missione di Giorgetti in Israele

In agenda incontri con le imprese tech del Paese e le ministre dell'Energia e dell'Industria. Sul tavolo anche i dossier Tlc e gas

di Serenella Mattera

ROMA - Passa da Israele la partita italiana per il mercato dei semiconduttori. Giancarlo Giorgetti affronterà il dossier con i vertici di Tower Semiconductor, società che ha già investito 500 milioni ad Agrate Brianza. Nel primo weekend di aprile il ministro dello Sviluppo economico sarà a Gerusalemme e Tel Aviv, su invito della ministra dell’Economia e dell’Industria, Orna Barbivai, per una serie di incontri istituzionali. Vedrà la ministra dell’Energia Karine Elharrar, dialogherà con venture capitalist, startupper e grandi player come Telecom Italia Sparkle, si confronterà con rappresentanti israeliani del mondo dell’innovazione.  Ma soprattutto proverà a rilanciare l'impegno del governo sul fronte della produzione nazionale di microchip, dopo le tensioni con il collega Vittorio Colao per aver visto sfumare l'opportunità di un grosso investimento di Intel nel nostro Paese.
  Giorgetti arriva in Israele forte di una connotazione filoatlantista mai abbandonata, neanche negli anni in cui la Lega di Matteo Salvini si mostrava più vicina alla Russia di Vladimir Putin, una posizione che oggi crea più di un problema al segretario leghista. Dello scorso ottobre una missione negli Stati Uniti per allacciare relazioni con l'amministrazione Biden e tessere il filo di potenziali investimenti nel nostro Paese, dalla farmaceutica Moderna al colosso dei microprocessori Intel. Ora, nei giorni dell’invasione russa in Ucraina, con il governo di Naftali Bennett impegnato in un difficile tentativo di mediazione tra Kiev e Mosca, Giorgetti va a Gerusalemme per consolidare le relazioni tra i governi, ma anche per affrontare le emergenze economiche, a partire dall’energia. L’urgenza di superare la dipendenza dal gas russo torna infatti ad accendere l’attenzione sull’Eastmed pipeline, il progetto da sei miliardi per la costruzione di un gasdotto per portare il metano da Israele all’Europa, passando per Cipro e Grecia, verso il quale in passato anche Roma aveva mostrato interesse ma che sembrava accantonato dopo una frenata degli Usa all’inizio di quest’anno.
  Quanto al fronte industriale, Giorgetti ha in agenda non solo sabato 2 aprile un colloquio con la ministra israeliana dell'Economia, ma anche incontri con i vertici di aziende come Telecom Italia Sparkle, che ha una fortissima presenza a Tel Aviv, e con imprenditori italiani e player israeliani. Centrale è poi l'appuntamento, fissato per domenica 3 aprile, con i vertici di Tower Semiconductor, società di recente acquistata da Intel. Si parlerà della produzione di microchip, un dossier che il ministro dello Sviluppo economico considera cruciale per il futuro dell'industria italiana, per la necessità di ridurre la dipendenza dalla Cina su una componente essenziale a diversi settori, a partire da quello dell'auto. Intel ha promesso in Italia investimenti fino a 4,5 miliardi, per 1500 posti di lavoro nell'assemblaggio finale di chip e microchip, nell'ambito di un impegno in Europa da 80 miliardi: troppo poco, secondo Giorgetti, deluso dalla scelta della società americana di portare in Francia e Germania la gran parte dell'investimento. Di qui il tentativo di andare oltre, per non rischiare di restare tagliati fuori da un mercato in forte sviluppo. Per sviluppare la tecnologia dei microprocessori e l'investimento in nuove applicazioni industriali di tecnologie innovative, il governo ha creato un fondo da 150 milioni nel 2022 e 500 milioni l'anno dal 2023 al 2030. Quanto ai semiconduttori, si punta a far crescere la produzione di STMicroelectonics, società italo-francese partecipata dal ministero dell'Economia che ha due stabilimenti. Tower Semiconductor ha già investito 500 milioni nell'impianto di Agrate Brianza, dove si lavorano fette di silicio da 300 millimetri di diametro. L'obiettivo di Giorgetti, in asse con il collega Daniele Franco, è ora quello di rafforzare il sito di Stm a Catania, dove il ministro dello Sviluppo sarà nelle prossime settimane, anche con un investimento pubblico. L'incontro con la società israeliana guarda in quella direzione.

(la Repubblica, 23 marzo 2022)

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La fine della presenza ebraica in terra d’Islam, un dibattito

di Nathan Greppi

Se oggi gran parte dei membri della Comunità Ebraica di Milano sono originari del Medio Oriente e del Nord Africa, ciò è dovuto principalmente alle persecuzioni con le quali nel secolo scorso furono costretti a lasciare in massa paesi dove vivevano da generazioni. Ma quali sono stati i fattori che hanno portato a ciò? Riguarda solo la nascita d’Israele o le radici sono più profonde? Di questo si è parlato domenica 20 marzo in un dibattito su Zoom organizzato da Kesher, intitolato L’esodo silenziato degli ebrei dai paesi arabi. L’incontro è stato moderato da Davide Romano, il quale ha specificato che il tema riguarda anche gli ebrei nei paesi islamici non arabi, come l’Iran e la Turchia.
   Il semiologo Ugo Volli, esperto di storia ebraica, ha illustrato il contesto storico mostrando una serie di mappe e slide: dalle prime, si vede come ai tempi in cui gli arabi si espansero fino a dominare gran parte dell’area mediterranea, tra l’anno 632 e il 750, molti ebrei vivevano in quelle terre da almeno 1000 anni. In particolare, nel 750 c’erano fiorenti comunità ebraiche che andavano dagli angoli più remoti della Persia alla Penisola Arabica, dalla Siria fino alla Spagna sotto dominio arabo.
   Successivamente, ha mostrato i dati della scomparsa di quelle comunità ebraiche nei paesi arabi dal ‘900 ad oggi, a causa di persecuzioni crescenti o di vere e proprie espulsioni di massa: in Siria c’erano 30.000 ebrei nel 1943, oggi sono una ventina; in Libano erano 20.000 nel 1948, oggi circa un centinaio; in Egitto nello stesso arco di tempo sono passati da 75.000 ad un centinaio, mentre in Libia e in Algeria, che nell’anno della nascita d’Israele ospitavano rispettivamente 38.000 e 140.000 ebrei, oggi non sembra essere rimasto nessuno. Presenze ebraiche che si possono ancora contare sulle migliaia, per quanto di gran lunga inferiori rispetto al passato, sono rimaste solo in Turchia, Iran, Tunisia e Marocco.
   Gli ebrei fuggiti da Tripoli, che nel 1931 erano il 25% di tutta la popolazione locale, una volta giunti nel nostro paese hanno dato un forte contributo all’ebraismo italiano: nella comunità di Milano sono tripolini il rabbino capo Rav Alfonso Arbib, il segretario generale Alfonso Sassun e il presidente Walker Meghnagi. Proprio Meghnagi è intervenuto raccontando come la sua famiglia sia scappata dalla città libica nel 1965, perché il padre era stato minacciato dai Fratelli Musulmani: “Ciò che non perdono è l’averci strappati le nostre radici, le nostre amicizie e tutto ciò che era Tripoli per noi,” ha spiegato.
   David Meghnagi, docente di psicanalisi all’Università di Roma Tre ed esperto di storia degli ebrei nel mondo arabo, ha illustrato vari esempi significativi dell’importanza che ha avuto la presenza ebraica nei paesi islamici nel corso dei secoli: è in arabo che Maimonide ha composto nel 1190 La Guida dei Perplessi, e nella Sicilia sotto dominio arabo vi fu una vasta produzione cabbalistica, di cui i principali manufatti rimasti oggi sono conservati a Parma; mentre nella Scuola medica salernitana, istituita nel IX secolo, ci fu un importante cooperazione tra studiosi ebrei, musulmani e cristiani.
   Tuttavia, questo rapporto presentava luci e ombre: nel Maghreb, all’arrivo degli arabi la presenza cristiana venne quasi completamente spazzata via, ad eccezione dell’Egitto. Inoltre, gli ebrei spesso subivano divieti e soprusi in quanto dhimmi, ossia sudditi che in quanto non musulmani erano considerati di livello inferiore. Meghnagi ha puntato il dito, oltreché verso l’odio covato dagli arabi che non hanno mai accettato il fatto che gli ebrei si liberassero dalla condizione di dhimmi, anche contro le istituzioni israeliane, che negli anni ’50 e ’60 inizialmente ignorarono le ragioni degli ebrei appena espulsi da quei paesi.
   Verso la fine dell’incontro è stato mostrato il documentario del 2005 The Forgotten Refugees, diretto dal regista israeliano Michael Grynszpan e proiettato in inglese con una traduzione simultanea in italiano a cura dell’interprete Manuela Olivier. Venivano alternate immagini d’archivio con interviste ai testimoni delle persecuzioni antiebraiche e delle fughe avvenute ad esempio in Iraq, nonché ad alcuni loro discendenti che cercano tutt’oggi di tramandarne le usanze.

(Bet Magazine Mosaico, 23 marzo 2022)

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Bennett e Mohammed Bin Zayed volano da Al Sisi per parlare del conflitto e di Iran

L'incontro in Egitto

Le conseguenze della guerra in Ucraina e il possibile accordo tra l'Iran e gli Stati Uniti sul nucleare preoccupano Israele ed Emirati, due ex avversari in Medio Oriente. Il premier israeliano, Naftali Bennett, e il principe erede al trono emiratino, Mohammed Bin Zayed al Nayan, sono volati in Egitto, ieri, per incontrare il presidente al Sisi. AI centro dei colloqui l'Iran ma anche l'impatto del conflitto russo-ucraino sui mercati. Nei giorni scorsi gli Emirati e l'Arabia Saudita hanno resistito alle richieste occidentali di aumentare la produzione di petrolio per contenere l'aumento dei prezzi.

(la Repubblica, 22 marzo 2022)

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Il neonazismo in Ucraina esiste davvero, ma questo non giustifica Putin

Per motivi storici, legati al nazionalismo, l'Ucraina ha un problema serio con l'estremismo antisemita di destra, non ancora risolto. Ma per la Russia è solo una scusa

Il 10 marzo dell’anno scorso il Simon Wiesenthal Center, organizzazione per i diritti umani che effettua ricerche sull’Olocausto, scrisse al sindaco di Ternopil, città dell’Ucraina occidentale, per protestare contro la decisione del consiglio comunale di intitolare il nuovo stadio di calcio a Roman Shukhevych, collaboratore ucraino dei nazisti, tra i responsabili del massacro di decine di migliaia di ebrei e polacchi durante la seconda guerra mondiale. «Comprendiamo che vogliate onorare chi combatté contro i sovietici, ma non potete trasformare Shukhevych in un eroe nazionale», si leggeva nell’appello, rimasto lettera morta.

• «Il neonazismo esiste in Ucraina»
  Shukhevych è a tutti gli effetti un eroe nazionale in Ucraina ed è un segno del fatto che il problema dell’estremismo di destra, che in alcuni casi sconfina nel neonazismo, «è esistito ed esiste ancora in Ucraina», come dichiarato al New York Times da Eduard Dolinsky, direttore generale del Comitato ebraico ucraino. Questo non giustifica in alcun modo la retorica di Vladimir Putin, che con la scusa di «denazificare» l’Ucraina ne sta massacrando il popolo con una guerra di cui dovrà assumersi tutte le responsabilità. Ciò non toglie che antisemitismo ed estremismo di destra sono un problema serio in Ucraina, per quanto minoritario e notevolmente ridotto rispetto al 2014.
   Le radici sono innanzitutto storiche. Già durante la guerra (1917-1920) tra la Repubblica popolare ucraina e i bolscevichi, una figura di spicco dell’Ucraina indipendente, Symon Petliura, fu accusato di avere un ruolo nei pogrom in cui furono uccisi soprattutto dalle truppe ucraine 40 mila ebrei. Per quanto la storiografia non si sia schierata in modo unanime circa il suo ruolo, Petliura, onorato da diversi monumenti nella parte occidentale del paese, fu paragonato ai nazisti da Hannah Arendt.

Antisemiti e assassini glorificati come «eroi»
  Il leader nazionalista Stepan Bandera, nel tentativo di ricostituire un’Ucraina indipendente, collaborò con i nazisti quando Hitler invase l’Unione Sovietica. Il teorico dell’Organizzazione degli ucraini nazionalisti, che giurò fedeltà ad Adolf Hitler, istituì l’Esercito degli insorgenti ucraini (Upa), che collaborò al massacro di decine di migliaia di polacchi ed ebrei.
   L’ambasciatore israeliano in Ucraina, Joe Lion, si disse «scioccato» nel 2018 quando l’esecutivo di Leopoli dichiarò il 2019, in occasione del centodecimo anniversario della nascita di Bandera, «l’anno di Stepan Bandera». Lion scrisse: «È incomprensibile la glorificazione di coloro che furono direttamente coinvolti in crimini orribili antisemiti. L’Ucraina non dovrebbe dimenticare i crimini commessi contro gli ebrei».

Il problema è esploso nel 2014
  Monumenti dedicati a Bandera, Negrych, Shukhevych, Stetsko, Polyanskiy, Riznyak e molti altri nazionalisti – che combatterono per un’Ucraina indipendente e si macchiarono di crimini orrendi – sono comuni soprattutto nell’Ucraina occidentale. Anche il Parlamento nazionale, oltre a quelli locali, li ha spesso glorificati alimentando la teoria russa secondo cui oggi Kiev è governata da neonazisti antirussi.
   Il problema del “neonazismo” ucraino è esploso poi nel 2014: secondo alcune stime del Guardian, un terzo dei manifestanti durante la rivoluzione dell’Euromaidan, che portò alla cacciata del presidente Yanukovich, e la quasi totalità dei cosiddetti gruppi di autodifesa erano affiliati a Svoboda, il partito ultranazionalista e xenofobo il cui primo nome era Partito social-nazionale ucraino, e ad altri gruppi estremisti.

Il battaglione Azov e la guerra nel Donbass
  Nel primo governo post-Yanukovich ben quattro ministeri erano in mano a Svoboda e in Parlamento sedevano personaggi come il fondatore del Centro di ricerca politica Joseph Goebbels, che definì l’Olocausto «un periodo luminoso» della storia umana, come ricordato da Foreign Policy. Alle prime elezioni guadagnarono anche alcuni seggi organizzazioni politico-militari estremiste come Battaglione Azov/Corpus nazionale, Pravy Sektor, C14 che fanno sfoggio di simboli nazisti e che nonostante siano stati ormai integrati nell’esercito nazionale, in molte città dispongono di squadroni che pattugliano le strade, come riportato da Reuters.
   Il battaglione Azov, uno dei più temuti dai russi, comprende tra i 2.500 e i 10 mila effettivi armati ed è quello che riconquistò la città di Mariupol quando i separatisti filorussi formarono le repubbliche separatiste di Lugansk e Donetsk. La loro costante presenza nella guerra per il Donbass che prima dell’invasione di Putin ha insanguinato l’Ucraina, facendo in otto anni 14 mila morti da entrambe le parti, e l’incapacità di Kiev di smantellarlo o di farlo rientrare completamente nei ranghi dell’esercito è tra le tante ragioni per cui gli accordi di Minsk sono sempre falliti.

La popolazione ucraina rigetta i neonazisti
  Se dunque il riferimento a tendenze antisemite e neonaziste in Ucraina, con evidenti radici storiche antirusse, non è campato in aria da parte di Putin, affermare come fa il presidente della Russia che Kiev è in mano ai neonazisti non risponde a verità. Alle ultime elezioni, infatti, i partiti di estrema destra non hanno conquistato seggi in Parlamento e la maggioranza della popolazione ucraina secondo i sondaggi non ne approva l’operato.
   Come fatto notare da molti esperti, inoltre, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky è ebreo, la comunità ebraica dell’Ucraina ha un consistenza numerica importante ed è rinata dalle ceneri della seconda guerra mondiale in modo sorprendente. Il Parlamento ucraino ha inoltre approvato l’anno scorso una legge per inasprire le pene contro chi si macchia di atti antisemiti e dunque nessuna seria convivenza con gli estremisti può essere imputata al governo di Kiev.

La propaganda dell’Occidente non aiuta
  Proprio perché la retorica di Putin è distorta, i governi occidentali non dovrebbero darle forza sorvolando sul fatto che un problema con estremismo di destra e antisemitismo esista in Ucraina, cadendo nel negazionismo. Ancora meno dovrebbero permettere a Facebook di autorizzare i loro utenti a glorificare i neonazisti. Imbarazzante, infine, che la portavoce della Camera americana, la democratica Nancy Pelosi, abbia salutato Zelensky con il grido delle truppe di Bandera: «Slava Ukraini! Gloria all’Ucraina». Così non si fa che alimentare la propaganda russa.
   Le pagine Facebook e Twitter di Dolinsky, dove il direttore generale del Comitato ebraico ucraino testimonia ogni giorno le minacce di morte che riceve e la glorificazione del nazionalismo antisemita ucraino, dimostra che un problema c’è. Ma in alcun modo questo problema giustifica la sanguinaria invasione russa dell’Ucraina.

(Tempi, 22 marzo 2022)

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Vladimir Putin, "neuropsichiatra travestito da interprete": Israele, missione segreta a Mosca

"Un neuro-psichiatra travestito da interprete per capire se Vladimir Putin sia pazzo o meno". Marta Dassù, direttore di Aspenia, ex viceministro degli Esteri ed esperta di geopolitica, ospite di Omnibus su La7 rivela un retroscena per certi versi sconvolgente sulla visita diplomatica del premier israeliano Naftali Bennett a Mosca, per capire le intenzioni del Cremlino sull'Ucraina. 
   "Per gli israeliani qualsiasi paragone con la Shoah è infondato, non ha senso e lede la loro esperienza storica - commenta la Dassù le parole, fuori luogo, del presidente ucraino Volodymyr Zelensky ai deputati della Knesset -. Per il resto, Israele è uno dei tanti attori esterni che cercano di provocare una mediazione. Mi diceva un amico che nel viaggio di Bennett da Putin di alcuni giorni fa, Israele si è portato dietro un neuropsichiatra travestito da interprete per capire fino a che punto Putin stia agendo razionalmente. La conclusione è che Putin effettivamente agisce razionalmente, secondo una convinzione profonda che ha assunto quei tratti messianici e imperiali che abbiamo visto. Il riferimento non è tanto all'Unione sovietica ma all'esperienza zarista".
   Israele, sottolinea la Dassù, "si è messa nella testa di Putin, e ora cerca di agire da mediatore e difendere i propri interessi. Il suo interesse principale è far sì che la Russia continui ad assicurare il suo ruolo nella trattativa sul nucleare iraniano, il problema centrale per Israele". Oltre a Israele, c'è la Turchia come mediatore esterno: "Ankara - conclude la Dassù - non vuole che il Mar Nero diventi un mare russo, e quindi cerca di fermare la guerra al punto in cui è arrivata oggi".

Libero, 21 marzo 2022)

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La risposta di Bennett a Zelensky

di Luca Spizzichino

È arrivata la risposta del primo ministro israeliano Naftali Bennett al discorso di Zelensky alla Knesset. Infatti il Premier ha definito il modo in cui Israele ha trattato la guerra nel suo paese "sensibile e generoso" dopo che il presidente ucraino ha accusato Israele di non aver fatto abbastanza.
   "Israele ha fornito aiuti umanitari all'Ucraina sin dall'inizio della guerra", ha affermato Bennett, aggiungendo che lo Stato ebraico ha "affrontato la complessa crisi con comprensione e responsabilità, bilanciando una gamma di diverse considerazioni".
   La dichiarazione del Primo Ministro è arrivata dopo che gli alti ministri del governo si sono indignati per le dichiarazioni Zelensky, ritenendo che il presidente ucraino abbia sminuito la memoria della Shoah durante il suo discorso di ieri alla Knesset, il Parlamento israeliano.
   "Continueremo, insieme ad altri paesi, a cercare di porre fine alla guerra", ha affermato Bennett. “C'è ancora molta strada da fare perché ci sono questioni controverse, alcune delle quali fondamentali. Di recente ci sono stati progressi tra le parti, ma i divari sono ancora molto grandi", ha aggiunto.
   Bennett ha dichiarato di comprendere la sofferenza del popolo ucraino, tuttavia la Shoah non deve essere paragonata a nulla. "Il suo paese e il suo popolo sono in una guerra molto dura", ha detto Bennett. “Molte centinaia di morti, milioni di profughi. Non riesco a immaginare cosa significhi essere nei suoi panni. Tuttavia, personalmente credo che la Shoah non dovrebbe essere paragonato a nulla", ha dichiarato.
   Infatti, il leader ucraino durante il suo discorso ha tracciato parallelismi tra l'invasione russa dell'Ucraina, iniziata il 24 febbraio, e l'ascesa al potere del partito nazista tedesco, ed ha inoltre paragonato le attuali vicende alla “soluzione finale”.
   "Il 24 febbraio passerà alla storia come un giorno di tragedia in Ucraina due volte: per l'Ucraina, per gli ebrei, per l'Europa e per il mondo intero" ha detto Zelensky.
   Nel suo discorso video notturno però Zelensky sembra essere tornato nei suoi passi e ha ringraziato Bennett per il suo ruolo di mediatore. “Il primo ministro di Israele, il signor Bennett, sta cercando di trovare un modo per tenere colloqui. E noi siamo grati per questo. Siamo grati per i suoi sforzi, in modo che prima o poi inizieremo ad avere colloqui con la Russia, possibilmente a Gerusalemme", ha detto Zelensky, secondo una traduzione di Reuters..

(Shalom, 22 marzo 2022)

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“Zelensky non vuole la pace, ecco il vero obiettivo del presidente ucraino”

La verità di Paolo Liguori

Caro Piero, tutti mi chiedono: “Ma chi la vuole questa guerra?”. Le condizioni per trattare c’erano dieci giorni fa e ci sono anche oggi ma non se ne parla ancora per altri giorni. Perdite di tempo in cui ci sono morti, feriti, dolori, lutti ed emigrati. Putin sappiamo benissimo cosa vuole: lui ha attaccato, ha fatto partire una guerra, quindi sappiamo che è l’avversario, il nemico. Come lo vogliamo chiamare, lo chiamiamo, ma certamente è l’aggressore.
   Di Zelensky invece non abbiamo capito quasi nulla. Io però in questi giorni ho capito una cosa che mi sembra abbastanza ovvia. Zelensky sta girando il mondo ma non chiede la pace, non vuole la pace. Chiede: la guerra mondiale, l’ha chiesta con la no-fly-zone, dice ‘Partecipate anche voi, non lasciateci soli’. Poi sta lottando per un suo personale interesse, il nobile interesse, il Nobel per la pace. Zelensky vuole avere il Nobel per la pace.
   D’altra parte tu mi dirai: “Ma questo Nobel per la pace tu lo puoi dare a uno che ha armato il suo popolo per fare la guerra? Beh, l’ha avuto Obama, presidente degli Stati Uniti che aveva inventato i droni che uccidono a distanza così ‘non dobbiamo più perdere soldati americani, perché noi già da alcuni uffici nel Texas con i satelliti possiamo uccidere in tutto il mondo’, in quel momento in Medio Oriente, in Siria, nella Striscia di Gaza, dove si vuole. Allora se ha vinto il Nobel un Presidente che uccideva con i droni, potrà vincere anche questo Nobel Zelensky che gira nei parlamenti con un copione che alla terza-quarta volta ho capito e mi è stato chiaro: va al Congresso americano e dice ‘Noi siamo come voi l’11 settembre’, va al Parlamento tedesco e dice ‘Noi siamo come voi col muro di Berlino’, è andato in Israele a dire ‘Noi siamo come voi durante l’Olocausto’. Naturalmente Israele è insorta perché gli è sembrata una colossale stupidaggine.
   Qual è l’obiettivo? L’obiettivo è avere armi, ma per avere armi non si può avere il Nobel per la pace. Ma io credo che lui si sia autocandidato, non alla pace ma al Nobel per la pace.

(il Riformista, 21 marzo 2022)

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Addio al rabbino Kanievsky, un milione di persone al suo funerale

Il più grande della storia dello Stato ebraico

di Luca Spizzichino

Ieri pomeriggio un milione di persone si sono riversate nelle strade di Bnei Brak per dare l'ultimo saluto al rabbino Chaim Kanievsky, venuto a mancare venerdì pomeriggio all'età di 94 anni. Solamente nel 2013 accadde un evento del genere a Gerusalemme, quando circa 800.000 persone hanno affollato le strade e i vicoli di Gerusalemme per il funerale di Rabbi Ovadia Yosef.
  Leader della comunità ortodossa israeliana “haredi”, era definito dai suoi seguaci il “Principe della Torah”. Figlio di un grande rabbino e discendente di dinastie rabbiniche, Kanievsky è stato la maggiore autorità spirituale della comunità ultraortodossa in Israele e nel mondo, specie della corrente litaita-ashkenazita. Fondamentale fu durante la fase più acuta della pandemia il suo invito a vaccinarsi definendo i vaccini “una manna dal cielo”.
  Il corteo è iniziato intorno a mezzogiorno da casa del rabbino, con centinaia di agenti di polizia che hanno accompagnato il carro funebre al cimitero di Zichron Meir nel sobborgo prevalentemente ultra-ortodosso di Tel Aviv. Infatti, per mantenere l’ordine ed evitare che si ripetesse un incidente simile a quello del Monte Meron, il governo ha chiamato circa 3.000 agenti, con il supporto della Search & Rescue Unit dell’esercito israeliano.
  Rav Gershon Edelstein, 98 anni, considerato l'erede di Kanievsky, ha affermato che non c'è nessuno che possa eguagliare il livello di influenza di Kanievsky "qui e in qualsiasi altra parte del mondo". Il figlio del rabbino, Shlomo Kanievsky, invece lo ha definito "senza precedenti nella sua generazione" e ha elogiato la sua dedizione allo studio della Torah e ad incoraggiare i giovani ultraortodossi a dedicarsi allo studio a tempo pieno.
  "Insieme a tutto il popolo ebraico in Israele e nella diaspora, piangiamo, soffriamo e siamo sbalorditi la perdita del grande rabbino 'Gaon' Chaim Kanievsky” ha detto il rabbino capo ashkenazita di Israele David Lau. "Il popolo ebraico ha perso il rabbino più grande della sua generazione, i cui insegnamenti, preghiere e benedizioni sono stati parte integrante di tutto in Israele per decenni", ha sottolineato.
  Anche il mondo della politica ha ricordato il grande Rav. Il presidente Herzog, durante la visita alla scuola ebraica Ohr Torah a Tolosa, luogo dell'attacco terroristico nel 2012 in cui furono assassinati Jonathan, Arié, Gabriel e Myriam, ha parlato al presidente Macron del defunto rabbino, e della sua importanza per il popolo ebraico e l'intero Stato di Israele. “L'amore per la Torah, la sua umiltà, la sua modestia e la sua guida spirituale, mancheranno per sempre alle yeshivot e a tutto il popolo ebraico”.
  "La morte del rabbino Kanievsky è una grande perdita per il popolo ebraico", ha affermato il primo ministro Naftali Bennett. "Il suo nome sarà ricordato come una parte importante della storia della Torah del popolo di Israele”. Benjamin Netanyahu, ha ricordato come “la casa del rabbino Kanievsky a Bnei Brak è stata un luogo di pellegrinaggio per migliaia di persone assetate delle parole che uscivano dalla sua bocca, in cerca di una sua benedizione o di un consiglio”. L’ex Premier, andato rendere omaggio al rabbino, è rimasto bloccato per oltre un'ora a casa di Kanievsky a causa dell'intenso affollamento nell'area.

(Shalom, 21 marzo 2022)

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Il discorso di Zelensky irrita Israele.«Scandaloso confronto con la Shoah»

La propaganda e il messaggio al parlamento di Gerusalemme. Kiev unifica i canali tv in una piattaforma.

DAVANTI ALLA KNESSET
«Putin mira alla soluzione finale: vuole annientare il mio popolo come Hitler cercò di fare con gli ebrei»
STRATEGIA COMUNICATIVA
Domani è previsto l'intervento al Parlamento italiano: probabilmente citerà la lotta partigiana

«Putin come Hitler, vuole annientare il nostro popolo, come i nazisti tentarono di fare con gli ebrei», denuncia Volodymyr Zelensky parlando via zoom alla Knesset, il Parlamento di Israele. li premier ucraino ha pronunciato ieri pomeriggio un discorso emotivo, ma senza perdere il controllo.
  Nel suo tour mediatico, da Londra, a Berlino, a Washington, ha cercato aiuti concreti, anche militari, e Gerusalemme è una tappa vitale: «Nessun altra democrazia al mondo è più adatta a ospitare un incontro per giungere a una soluzione del conflitto», aveva detto nei giorni scorsi. E lo stesso Putin sembra disposto a incontrare Zelensky in Israele.
  «Come Hitler, ha continuato ieri, a Mosca si evoca la 'soluzione finale', parole che non dovrebbero più essere pronunciate. Putin vuole cancellare il popolo ucraino, per questo oso paragonare la nostra storia alla vostra». Ma il paragone ha comunque irritato gli israeliani.
  La tragedia della Shoah non ha confronti, non può essere paragonato all'invasione russa. Non avviene un genocidio. Zelensky è ebreo, ma nei due anni al governo a Kiev non lo aveva mai ostentato. Il ministro delle comunicazioni, Yoaz Hendel, ha commentato: «Sosteniamo gli ucraini con il cuore, ma la terribile storia della Shoah non può essere riscritta. La comparazione con gli orrori della Shoah e con la 'soluzione finale' è scandalosa». Da quando Putin ha invaso l'Ucraina, Zelensky ha accentuato il suo ebraismo. E a Gerusalemme, sia pure con misura, si è presentato anche come ebreo, tra la sua gente. In Ucraina vivevano 2,8 milioni di ebrei, oggi sono rimasti meno di 50mila, dopo le stragi compiute dai nazisti. Il suo bisnonno e due zii sono stati uccisi nei lager nazisti. In ogni sua tappa, apparendo in video con la maglia dell'esercito, Zelensky ha fatto appello alla storia.
  A Londra ha citato Shakespeare e Winston Churchill, a cui i media lo paragonano, che spinse gli inglesi a resistere. Al Bundestag, a Berlino, ha cercato di suscitare i sensi di colpa dei tedeschi, ricordando il nazismo. A Washington, ha detto: «In Ucraina viviamo un undici settembre da tre settimane». Combatte anche una guerra mediatica, tra nemici e alleati, e ieri ha unificato tutti i canali tv in una «piattaforma di comunicazione strategica», 24 ore su 24. Il controllo su ogni notizia è vitale.
  Sabato, alla vigilia del discorso di Zelensky alla Knesset, Anatoly Viktorov, l'ambasciatore russo in Israele, ha avuto un incontro teso con Mickey Levy, il presidente della Knesset: Israele, ha ammonito, non deve perdere il suo equilibro, e parteggiare per Kiev.
  Zelensky aveva chiesto di poter parlare a Yad Vashem, il mausoleo della Shoah, un luogo che avrebbe avuto un enorme impatto mediatico. Nelle sale, si ricordano anche gli ebrei massacrati in Ucraina, dai tedeschi e anche dai russi, e dalle milizie naziste ucraine, ma il premier israeliano Naftali Bennet non ha esaudito il desiderio di Zelensky. Israele ha legami con l'Ucraina e con la Russia, ha ricordato, e cerca di mantenersi neutrale. Su 9,4 milioni di abitanti, oltre un milione sono di origine russa.
  Bennet si è tenuto in contatto costante per telefono sia con Zelensky sia con Putin, e il 5 marzo è volato a Mosca dove ha avuto un colloquio di tre ore al Cremlino. Israele installerà un ospedale di campo in Ucraina vicino alla frontiera con la Polonia, e finora ha accolto oltre diecimila profughi ucraini.
  La richiesta del premier ucraino di parlare a Gerusalemme ha creato imbarazzo. Impossibile rifiutare l'invito, ma Israele vuole conservare il suo ruolo equidistante tra le parti. Bennet aveva obiettato che la sala plenaria della Knesset era di fatto impraticabile, trasformata in un cantiere per i lavori in corso.
  Alla fine, i deputati hanno ascoltato l'ospite dalla sala più piccola di una commissione, e senza microfoni per evitare interruzioni.
  Domani mattina alle undici, Zelensky via zoom parlerà infine a Montecitorio. È probabile che farà appello agli italiani ricordando la lotta partigiana contro i nazisti, i deboli che osano sfidare il nemico più forte e alla fine prevalgono.

((Nazione-Carlino-Giorno, 21 marzo 2022)
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Su "Israele.net" di tre giorni fa compare un articolo dal titolo: "Come mai i propagandisti di Putin si atteggiano a vittime come “nuovi ebrei”?" Adesso sono gli ucraini ad essere presentati come "nuovi ebrei" dal propagandista Zelensky, personaggio ambiguo sotto molti aspetti, di cui certo non possono vantarsi né gli ucraini né gli ebrei. M.C.

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Bennett rallegra gli sposi in... Bahrein

Non capita tutti i giorni che il Primo Ministro di Israele invii la sua benedizione e un regalo di nozze a una coppia nel Golfo Persico.

Durante la sua visita di stato in Bahrein il mese scorso, il primo ministro israeliano Naftali Bennett ha incontrato studenti e giovani imprenditori locali. Il Primo Ministro ha avuto un dialogo aperto e franco con i giovani sulla futura cooperazione tra i due Paesi, durante il quale Basham al-Tatan, un manager dei sistemi informativi presente all'evento, ha fatto un invito al Primo Ministro, dicendogli che fra una settimana si sposa. Il primo ministro Bennett è stato felice di sentire questo, si è congratulato con lui e gli ha dato qualche consiglio per una vita insieme di successo : pazienza e rispetto.
   Basham si è sposato questa settimana perché il matrimonio è stato posticipato a causa della sua futura moglie che si è ammalata di coronavirus.
   Il Presidente del Consiglio ha inviato alla giovane coppia una scatola di cioccolatini e fiori dorati, allegando un biglietto di auguri con la sua firma personale. Sulla cartolina, il Primo Ministro ha scritto: "Auguro agli sposi tutto il meglio per il loro matrimonio e amore, felicità e salute per il resto della vostra vita. Cordiali saluti – Naftali Bennett”.
   Gli sposini sono stati toccati dal gesto e hanno ringraziato l'ambasciatore israeliano in Bahrein, Eitan Na'eh, che ha portato loro i regali di Bennett. "Grazie mille. ci è piaciuto molto Mia moglie è molto felice. Ho condiviso una foto del bouquet con mia mamma e lei apprezza molto il gesto", ha scritto il giovane bahreinita, che in seguito ha inviato anche a Bennett un biglietto di ringraziamento.
   Il premier Naftali Bennett: "Un piccolo gesto può rafforzare il ponte tra i popoli e portare una nuova pace. Credo fermamente nel nostro rapporto con gli Stati del Golfo ed è stato un grande piacere poter rendere felice una coppia di sposini novelli”.

(israel heute, 21 marzo 2022 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Gli israeliani sono felici? Ecco cosa dice il World Happiness Report

Israele si classifica al nono posto tra i paesi più felici al mondo. A valutarlo il World Happiness Report, la pubblicazione annuale delle Nazioni Unite, prodotta in collaborazione con Sustainable Development Solution Network.
   In classifica lo Stato ebraico supera la Nuova Zelanda ma è battuto per un solo punto dalla Norvegia. Rispetto agli ultimi anni Israele ha migliorato la sua posizione: nel 2021, infatti, ha occupato l’11mo posto e nel 2020 il 14mo. Anche la diffusione del Covid-19 ha inevitabilmente giocato un ruolo rilevante nel rapporto sulla percezione della felicità: tutto il mondo continua a fare i conti con ciò che ha prodotto la pandemia, che ha sconvolto la società in tutti i settori.
   I dati di valutazione si basano su diversi fattori: il PIL pro-capite, il sostegno sociale, l’aspettativa di vita, la libertà nelle scelte di vita, la generosità e la corruzione.
   A dominare la classifica i Paesi del Nord Europa: la Finlandia è il paese più felice al mondo e si aggiudica il primo posto per il quinto anno consecutivo. Sul secondo e sul terzo gradino del podio si assestano, rispettivamente, la Danimarca e l’Islanda. La Svizzera arriva quarta, seguita dai Paesi Bassi, Lussemburgo, Svezia e Norvegia. In ultima posizione, come lo scorso anno, l’Afghanistan.

(Shalom, 20 marzo 2022)

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La guerra in Ucraina riapre le porte al gasdotto Eastmed

Ora anche gli Usa possono dare l’ok alla pipeline tra Israele e Italia.

di Francesco De Palo

Dopo averlo bloccato alcune settimane fa, gli Usa potrebbero presto fare retromarcia sul gasdotto Eastmed e dire sì alla lunghissima pipeline da Israele a Melendugno: l’infrastruttura da 1.300 chilometri oggi servirebbe come l’aria al versante euromediterraneo per diversificare l’approvvigionamento energetico europeo e limitare la dipendenza dalla Russia, solo in parte compensata dal Tap.
  È stato il sottosegretario americano agli Affari Esteri del Dipartimento per l’Energia, Andrew Light, ad ammettere che forse con troppa fretta Washington aveva retrocesso il gasdotto a infrastruttura non prioritaria dicendo pubblicamente che “dopo gli ultimi sviluppi, vedremo tutto con un aspetto nuovo”. Un mese fa c’era stato un vigoroso ‘no’ da parte della Casa Bianca perché gli Usa esportano molto gas naturale liquefatto (gnl) proprio in Grecia, nell’isola-deposito di Revithoussa, e a breve anche nel nuovissimo deposito di Alexandroupolis. Addirittura il Dipartimento di Stato, in un paper ufficiale, aveva sostenuto di preferire le interconnessioni elettriche in grado di sostenere sia il gas che le fonti di energia rinnovabile, alimentando la vulgata circa scelte poco lungimiranti in tema energetico da parte dell’amministrazione Biden.
  Ma dopo le vicende belliche che stanno impattando sull’approvvigionamento dei Paesi interessati come Israele, Cipro, Grecia, Italia, risulta chiaro a tutti che non potrà essere solo con più gnl americano che si risolverà la partita del fabbisogno europeo. Mentre è più funzionale avallare per il Mediterraneo orientale un nuovo gasdotto dopo il Tap.
  Le firme sul progetto del gasdotto risalgono al 2016, quando i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo avevano intuito che i volumi del Tap sarebbero serviti solo in parte a rendere il Vecchio Continente più autonomo rispetto alle forniture russe. Sino al 2021 ci sono stati alcuni progressi, come gli studi tecnici realizzati dal costruttore Poseidon (con una partecipazione alla pari al 50% della greca DEPA, a sua volta partecipata da Snam, e dell’italiana Edison) o come la creazione del Forum Emgf, una sorta di Opec del gas a cui prendono diplomaticamente parte tutti i Paesi interessati, ovvero Italia, Egitto, Giordania, Israele, Cipro, Grecia e Autorità Nazionale Palestinese. Assenti Libano e Turchia per le note tensioni rispettivamente con Israele, Grecia e Cipro. Ultimo membro ad aggiungersi è stato la Francia, mentre tra gli osservatori figurano Usa, Unione europea e Banca Mondiale.
  Il progetto, del valore di 6 miliardi di euro, era stato inizialmente avversato dalla Turchia che lo considerava un atto ostile dal momento che persiste la diatriba con Cipro e Grecia per lo sfruttamento della zona economica esclusiva nelle acque rivendicate da Ankara. Ma è di tutta evidenza che, dinanzi a una ricalibratura mondiale delle alleanze e delle forniture, anche Recep Tayyip Erdoğan sarà indirizzato a una posizione meno intransigente nei confronti degli altri partner, sia interni che esterni alla Nato.
  Nelle intenzioni dei promotori, il gasdotto Eastmed oltre a sfruttare i giacimenti copiosi presenti al largo di Israele ed Egitto, avrebbe dovuto coagulare una nuova pax mediterranea sul gas, assicurando al contempo forniture e sicurezza all’intera macro regione. Sul punto si registra la lettera che la vicepresidente del Parlamento europeo, Pina Picierno del Pd, ha inviato al governo Draghi assieme ad altri esponenti dei dem per chiedere a Chigi di riconsiderare il gasdotto in questione.

(il Fatto Quotidiano, 20 marzo 2022)

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Il mio servo Giobbe (12)

di Marcello Cicchese

Riflessioni sul libro di Giobbe

CAPITOLO 31

  1. Oh, avessi pure chi mi ascoltasse!... ecco qua la mia firma! l'Onnipotente mi risponda! Scriva l'avversario mio la sua querela,
  2. ed io la porterò attaccata alla mia spalla, me la cingerò come un diadema.
  3. Gli renderò conto di tutti i miei passi, a lui mi avvicinerò come un principe!

Con queste parole Giobbe presenta la sua sfida conclusiva a Dio, che nel suo cuore probabilmente era stata già pensata prima che arrivassero gli amici. Dopo una settimana di silenzio, quello che gli amici hanno sentito uscire dalla sua bocca sono parole di maledizione. Hanno cercato con ripetuti interventi di fargli cambiare opinione, ma non ci sono riusciti, né in realtà potevano riuscirci, perché anche quando rispondeva alle parole insinuanti degli amici, il pensiero di Giobbe era sempre rivolto a Dio nelle sue risposte: avrebbe voluto che ci fosse Lui a sentire e si decidesse a parlare, a dire che cosa aveva da rimproverargli. Si può immaginare  Giobbe che presenta a Dio un'arringa di questo tipo:
  "Tu mi colpisci in modo feroce e tutti pensano che io abbia commesso chissà quale misfatto, ma non mi hai detto e non mi dici ancora qual è il mio torto. Non mi hai ripreso personalmente come tuo servitore, perché allora mi svergogni davanti a tutti senza ch'io abbia la possibilità di difendermi? Indicami i miei torti, spiegami i tuoi motivi, ascolta le mie ragioni. Ti ho chiesto e supplicato più volte di poter parlare con te, ma tu non rispondi. Allora metto per iscritto le possibili trasgressioni che avrei potuto commettere e ti chiedo di indicarmi chiaramente quali sono le infrazioni che ho commesso. Ti renderò conto di tutti i miei passi. Scrivi. Metti per iscritto le tue accuse. Io saprò come difendermi".
  A questo punto Giobbe forse è convinto di aver "incastrato" Dio. Ha presentato una formale richiesta scritta: "... ecco qua la mia firma", come se fosse una raccomandata con ricevuta di ritorno. A una richiesta presentata in questa forma la risposta è obbligatoria: "L'Onnipotente mi risponda", scrive infatti nel suo documento, usando la terza persona come per dare più ufficialità alla sua domanda.
  Si presenta davanti all'Onnipotente come un accusato davanti a un tribunale, e in quanto tale considera suo diritto poter conoscere gli elementi di accusa. Chiede che l'atto di accusa contro di lui sia formulato in forma scritta: "Scriva l'avversario mio la sua querela".   Se Dio non lo fa, l'ingiusto è Lui.
  A questo punto interviene Elihu. Qualcuno pensa che i capitoli da 32 a 37, che contengono il suo intervento, siano un'interpolazione successiva, un'aggiunta non necessaria alla trama del libro. Non accettiamo questa tesi, ma indubbiamente sembrerebbe che il discorso fili molto bene senza quei capitoli, perché il capitolo 31 termina con una richiesta perentoria di Giobbe, formalizzata in terza persona: "L'Onnipotente mi risponda!" (31:35); e il capitolo 38 comincia con le parole: "Allora l'Eterno rispose a Giobbe dal seno della tempesta e disse..." (38:1).  Sembra proprio un botta e risposta, confermando implicitamente che l'oggetto del libro è il contrasto fra Dio e Giobbe, non il problema della sofferenza umana.

CAPITOLO 38

  1. Allora l’Eterno rispose a Giobbe dal seno della tempesta, e disse:
  2. Chi è costui che oscura i miei disegni con parole prive di senno?
  3. Orsù, cingiti i lombi come un prode; io ti farò delle domande e tu insegnami!
  4. Dov’eri tu quand’io fondavo la terra? Dillo, se hai tanta intelligenza.

Nella sua requisitoria contro Dio, Giobbe si è fatto sempre più ardito, e al punto in cui è arrivato è convinto che per lui non c'è più speranza, che non ha più niente da perdere. Ormai ha capito quello che Dio vuole fare:

    "Ecco, egli m’ucciderà; non spero più nulla; ma io difenderò in faccia a lui la mia condotta!" (13:15)

Dio ha deciso di ucciderlo, e lui ha deciso di difendere se stesso fino alla fine. E lo farà "in faccia a lui", a fronte alta, diremmo noi. Si è preparato bene al confronto col suo avversario come davanti a un ipotetico tribunale:

    "Ecco, io ho disposto ogni cosa per la causa, so che sarò riconosciuto giusto". (13:18)

Quella di Giobbe dunque è un'autentica sfida a duello. Non a colpi di pistola, come nel Far West, ma a colpi di domande, come nell'aula di un tribunale. Dio accetta la sfida, e cavallerescamente invita il suo avversario a prepararsi al duello: "Orsù, cingiti i lombi come un prode; io ti farò delle domande e tu insegnami!" (38:3).
  Giobbe ha già fatto le sue domande, adesso tocca a Dio fare la sua prima. E quella che fa è micidiale: "Dov’eri tu quand’io fondavo la terra?" Fine del duello.
  Un ipotetico arbitro avrebbe potuto già assegnare la vittoria. Per abbandono. Che risposta infatti avrebbe potuto dare lo sfidante a quella domanda? Ma Giobbe resta lì, come un pugile in mezzo al ring, obbligato a subire una serie impressionante di colpi in forma di domande sempre più incalzanti del suo avversario : "Hai tu mai comandato in vita tua al mattino? ... Sei tu penetrato fino alle sorgenti del mare? ... Hai tu visto le porte dell'ombra di morte? ... Hai tu abbracciato con lo sguardo l'ampiezza della terra? ... Sei tu entrato nei depositi della neve? ... Sei tu che stringi i legami delle Pleiadi? ... Sei tu che al suo tempo fai apparire le costellazioni? E così avanti per due capitoli. Alla fine dei quali Dio s'interrompe e chiede allo sfidante:

    "Il censore dell'Onnipotente vuole ancora contendere con lui? Colui che censura Dio ha egli una risposta a tutto questo? (40:2).

A questo punto lo sfidante capisce in quale situazione si è andato a mettere, e molto volentieri porrebbe fine allo scontro:

    "Allora Giobbe rispose all’Eterno e disse: ‘Ecco, io sono troppo meschino; che ti risponderei? Io mi metto la mano sulla bocca. Ho parlato una volta, ma non riprenderò la parola, due volte... ma non lo farò più" (40:3-4).

Giobbe riconosce la superiorità del suo "avversario" e spera di potersi ritirare, ma non gli è concesso, perché quello che ha riconosciuto è ancora troppo poco. Dio allora non si ferma e interpella di nuovo lo sfidante.

CAPITOLO 40

  1. L’Eterno allora rispose a Giobbe dal seno della tempesta, e disse:
  2. Orsù, cingiti i lombi come un prode; ti farò delle domande e tu insegnami!
  3. Vuoi tu proprio annullare il mio giudizio? condannare me per giustificare te stesso?

Si confrontino le domande con cui Dio fa partire i due round. La prima volta Dio chiede a Giobbe: "Dov’eri tu quand’io fondavo la terra?" La seconda volta: "Vuoi tu proprio annullare il mio giudizio? condannare me per giustificare te stesso?" Alla fine del primo round Giobbe riconosce la superiorità del suo avversario e assicura che non ci proverà più a sfidarlo. Ma non basta. Elihu aveva detto che Giobbe "riteneva giusto se stesso anziché Dio" (32:3); allora Dio adesso chiede a Giobbe se vuole confermare questa dichiarazione,  cioè  giustificare se stesso e condannare Dio. A questo punto Giobbe cede del tutto e ammette di aver voluto "oscurare i disegni di Dio con parole prive di senno". Riconosce dunque non soltanto la sua inferiorità quanto a potenza, ma anche la sua superbia nel pensare di essere superiore a Dio quanto a senno e giustizia.
  Il duello fra Dio e Giobbe finisce qui. Lo sfidante perde per abbandono; lo sfidato  non si gloria della sua vittoria e non umilia l'avversario sconfitto. Il testo non dice che Dio perdona, e neppure dice il contrario: la questione con Giobbe viene velocemente archiviata
  L'aspetto che anzitutto colpisce nei quattro capitoli dal 38 al 41 è il fatto che Dio parli con Giobbe "faccia a faccia" come poi farà in quella forma soltanto con Mosè (Esodo 33:11). Dio comincia a parlare a Giobbe tra tuoni e fulmini, "dal seno della tempesta" (38:1), quando Elihu è alla fine di un discorso sempre più incalzante con cui ammonisce minacciosamente Giobbe: "Bada che la collera non ti trasporti alla bestemmia" (36:17).
  Questo parlare di Dio tra tuoni e fulmini si ripete nella Bibbia quando Dio scende sul monte Sinai e consegna al popolo le "dieci parole" del suo patto. Ai piedi del monte il popolo è atterrito, ma "Mosè parlava, e Dio gli rispondeva con una voce" (Esodo 19:19), legittimando in questo modo Mosè come suo servitore e intermediario presso il popolo.
  Qualcosa di simile fa Dio anche qui. La tempesta con tuoni e fulmini con cui manifesta la sua gloria e vuol far percepire la sua autorità, non la sente solo Giobbe, ma anche gli amici con cui stava questionando. L'intervento di Dio serve allora a mettere le cose a posto con tutti. Parlando pubblicamente "faccia a faccia" con Giobbe, Dio da una parte dà una raddrizzata al suo servitore e dall'altra ne conferma la posizione di preminenza rispetto a tutti i suoi pari, perché di lui Egli parla come "il mio servo Giobbe", dunque uno che risponde a Lui, non ad altri.
  Dopo aver messo a posto Giobbe, Dio si rivolge ai suoi amici: poche parole, ma sorprendenti.

CAPITOLO 42

  1. Dopo che ebbe rivolto questi discorsi a Giobbe, l'Eterno disse a Elifaz di Teman: 'L'ira mia è accesa contro te e contro i tuoi due amici, perché non avete parlato di me secondo la verità, come ha fatto il mio servo Giobbe.
  2. Ora dunque prendetevi sette tori e sette montoni, venite a trovare il mio servo Giobbe e offriteli in olocausto per voi stessi. Il mio servo Giobbe pregherà per voi; ed io avrò riguardo a lui per non punir la vostra follia; poiché non avete parlato di me secondo la verità, come ha fatto il mio servo Giobbe'.
  3. Elifaz di Teman e Bildad di Suach e Tsofar di Naama se ne andarono e fecero come l'Eterno aveva loro ordinato; e l'Eterno ebbe riguardo a Giobbe.
  4. E quando Giobbe ebbe pregato per i suoi amici, l'Eterno lo ristabilì nella condizione di prima e gli rese il doppio di tutto quello che già gli era appartenuto.

In un'ottica antropocentrica, quello che si poteva rimproverare ai tre amici era di non aver saputo provare empatia per lui,  di non essersi sentiti amorevolmente coinvolti  nella sua pena, di aver accresciuto il suo dolore caricandolo di complessi di colpa per presunti peccati nascosti; e alla fine, davanti alla sua caparbia resistenza, di aver espresso giudizi di condanna contro di lui.
  Nel testo biblico  invece non si rimprovera ai tre amici di aver parlato male di Giobbe, ma di non aver parlato bene di Dio. Più precisamente: di non aver parlato di Dio "secondo la verità". Aggiungendo poi: "come ha fatto il mio servo Giobbe". Dunque è il rapporto con la verità su Dio che distingue Giobbe dai suoi amici. Non è una diversità di comportamento morale, ma di posizione storica e di giudizio teologico. Giobbe è stato messo da Dio in una posizione che lo pone come maestro di altri perché ha con Dio un rapporto particolare. "Io invocavo Dio ed egli mi rispondeva" (12:4), dice agli amici che lo accusano; e non si limita a difendersi, ma li rimprovera per il rapporto che hanno con Dio, prima che con lui.

CAPITOLO 13

  1. Ascoltate, vi prego, quel che ho da rimproverarvi; state attenti alle repliche delle mie labbra!
  2. Volete dunque difendere Dio parlando con menzogna? Sostenere la sua causa con parole di frode?
  3. Volete aver riguardo alla sua persona? E costituirvi difensori di Dio?
  4. Sarà un bene per voi quando egli vi scruterà a fondo? Credete di ingannarlo come s'inganna un uomo?
  5. Certo egli vi riprenderà severamente, se nel vostro segreto avete dei riguardi personali.
  6. La sua maestà non vi farà sgomenti? Il suo terrore non piomberà su di voi?

Giobbe ha avuto un rapporto di conoscenza amorosa con Dio, un rapporto vero, dovuto alla sua particolare posizione di servitore. Il crollo della Reggia di Uz ha fatto crollare il pensiero che Giobbe aveva di Dio, e il crollo di Giobbe ha fatto crollare il pensiero che avevano di lui gli amici. Nel contrasto che vedono esserci tra Dio e Giobbe, i tre osservatori scelgono di stare dalla parte del più forte, non per motivi di giustizia e verità, ma per convenienza e paura. Ma attenzione, dice Giobbe agli amici,  "se nel vostro segreto avete dei riguardi personali", Dio se ne accorgerà e "vi riprenderà severamente".
  Ed è quello che poi avviene: la punizione arriva, ma non è troppo severa: è umiliazione. Agli amici che chiedevano a Giobbe di umiliarsi davanti a Dio, Dio chiede a loro di umiliarsi davanti a Giobbe: dovranno offrire un olocausto in sua presenza, ad espiazione dei loro peccati.
  Tutti dunque, Giobbe e amici, sono costretti a percorrere il proprio tratto di vergogna, ma in modi diversi: a ciascuno il suo. Giobbe ubbidisce a Dio pregando per gli amici affinché siano perdonati;  come farà poi Abrahamo, che pregherà per  Abimelec affinché lui e la sua casa siano guariti: "E Abrahamo pregò Dio, e Dio guarì Abimelec, la moglie e le serve di lui, ed esse poterono partorire" (Genesi 20:18). In entrambi i casi Dio informa la parte su cui potrebbe cadere la punizione che questa potrà essere evitata per la preghiera del suo servo. Si paragonino infatti questi due versetti:

    "Il mio servo Giobbe pregherà per voi; ed io avrò riguardo a lui per non punire la vostra follia" (Giobbe 42:7)
    "Or dunque, restituisci la moglie a quest'uomo, perché è profeta; ed egli pregherà per te, e tu vivrai"(Genesi 20:7).
Anche da qui si intuisce che questo libro è preistoria israeliana: Giobbe è trattato da Dio come un profeta, al pari di Abrahamo. La sua posizione come servo di Dio viene qui confermata in quanto testimone del sacrificio di espiazione e intercessore della grazia di Dio per il perdono ai peccatori.
  Manca in questo finale Elihu. Che fine ha fatto? Di lui non si parla più perché è entrato nella vicenda soltanto come emissario di Dio per il compimento del suo proposito; quindi a lui Dio non ha niente da dire, tanto meno da rimproverare.
  Infine a Giobbe, che poteva pensare di essere parte lesa, mentre invece il vero offeso era Dio, viene chiesto di pregare per i suoi amici, per una piena riconciliazione fra di loro. Soltanto dopo la preghiera per gli amici, Giobbe riottiene una gloria doppia di quella di prima.

CAPITOLO 42

  1. L'Eterno benedisse gli ultimi anni di Giobbe più dei primi; ed egli ebbe quattordicimila pecore, seimila cammelli, mille paia di buoi e mille asine.
  2. Ebbe pure sette figli e tre figlie;
  3. e chiamò la prima, Colomba; la seconda, Cassia; la terza, Cornustibia.
  4. In tutto il paese non c'erano donne così belle come le figlie di Giobbe; e il padre assegnò loro un'eredità tra i loro fratelli.
  5. Giobbe, dopo questo, visse centoquarant'anni e vide i suoi figli e i figli dei suoi figli, fino alla quarta generazione.
  6. Poi Giobbe morì vecchio e sazio di giorni.

Il lieto fine non piace agli intellettuali, religiosi e non. Ricordiamo infatti quello che dice in proposito il teologo protestante Samuel Terrien:
  «Dopo una visione di Dio così alta come quella dei capitoli precedenti - dobbiamo proprio dirlo - il racconto della ricompensa finale di Giobbe non è altro che una digressione fuori luogo con un tocco di volgarità.»
  A lui fa eco il teologo cattolico Gianfranco Ravasi:
  «Disturba non poco vedere quest'uomo che ha sfidato Dio, che è penetrato nel mistero, che ha cercato in tutti i modi di caricare su di sé quasi tutta la gamma del soffrire e del dolore e che è diventato quasi un vessillo della sofferenza umana, concludere alla fine la sua esistenza come uno sceicco orientale, sotto le sue tende che volano al vento, mentre, dimentico dei figli che ha perso e delle disgrazie precedenti, banchetta e si gode la nuova numerosa famiglia e il bestiame che popola il suo orizzonte restaurato.»
  Ma la Bibbia non è un'antologia di favole. Per chi è convinto della verità storica dei racconti biblici, i fatti descritti nel libro di Giobbe sono credibili almeno quanto i prodigi di Mosè per la liberazione di Israele dalla schiavitù d'Egitto. Prendere o lasciare, non è lecito gustare la Bibbia "à la carte".
  Togliere al libro di Giobbe l'epilogo sarebbe come togliere ai Vangeli i capitoli che parlano della risurrezione di Gesù, perché il tema centrale che accomuna la storia di Israele e quella di Gesù è la risurrezione dai morti. Di questo parlano, in forma di parabola storica, sia il libro di Giobbe, sia il libro di Giona.

CAPITOLO 19
  1. Ma io so che il mio Redentore vive, e che alla fine si ergerà sulla polvere.
  2. E dopo che la mia pelle sarà distrutta, so che nella mia carne vedrò Dio;
  3. proprio io lo vedrò; coi miei occhi io lo contemplerò, e non un altro. Le mie viscere si struggono in me.

Il mio Redentore vive, questa dichiarazione, riportata nel famoso Alleluia del Messiah di Händel, esprime la certezza confusa, ma comunque presente, che il rapporto d'amore vissuto da Giobbe con Dio non potrà essere spezzato neppure dalla morte del corpo. "Le mie viscere si struggono in me" è una frase che rivela il desiderio intenso - unito a una certezza umanamente inspiegabile ("io so") - di ritrovare quel rapporto d'amore che aveva sentito come vero e adesso sembra spezzato. Poco prima agli amici che lo affliggevano aveva detto (capitolo 19):

  1. Ma se proprio volete insuperbire contro di me e rimproverarmi la vergogna in cui mi trovo,
  2. allora sappiatelo: chi m'ha fatto torto e m'ha avvolto nella sua rete è Dio.
  3. Ecco, io grido: "Violenza!" e nessuno risponde; imploro aiuto, ma non c'è giustizia!
  4. Dio mi ha sbarrato la via e non posso passare, ha coperto di tenebre il mio cammino.
  5. Mi ha spogliato della mia gloria, mi ha tolto dal capo la corona.
  6. Mi ha demolito pezzo per pezzo, e io me ne vado. Ha sradicato come un albero la mia speranza.
  7. Ha acceso la sua ira contro di me, mi considera come suo nemico.

Dio "mi considera come suo nemico". Ma perché? Questo è il fatto che Giobbe non riesce a capire. Si vede rigettato da Dio,  considerato come suo nemico, ma non riesce a sua volta a pensare a Dio come nemico. La sua concezione della giustizia lo richiederebbe, ma il rapporto d'amore che ha vissuto lo impedisce.
  A questo punto, il paragone con Giona diventa ancora più stringente. Se Giobbe nella sua esperienza si è sentito avvolto nella rete di Dio, Giona si è visto circondato dalla corrente del mare, sommerso dalle onde e i dai flutti mossi da Dio:

    "Tu mi hai gettato nell’abisso, nel cuore del mare; la corrente mi ha circondato, tutte le tue onde e tutti i tuoi flutti mi hanno travolto. Io dicevo: Sono cacciato lontano dal tuo sguardo! Come potrei vedere ancora il tuo tempio santo?” (Giona 2:3, 4).

Ma poi aggiunge:

    “Le acque mi hanno sommerso; l’abisso mi ha inghiottito; le alghe mi si sono attorcigliate al capo. Sono sprofondato fino alle radici dei monti; la terra ha chiuso per sempre le sue sbarre su di me; ma tu mi hai fatto risalire dalla fossa, o Eterno, mio Dio! Quando l'anima mia veniva meno in me, io mi sono ricordato dell'Eterno, e la mia preghiera è giunta fino a te, nel tuo tempio santo.” (Giona 2:5-7)

Sia Giobbe che Giona hanno fatto un'esperienza di morte e risurrezione. E non è forse questa la caratteristica specifica della storia del popolo d'Israele? che è anche l'esperienza fatta dal suo Messia?
  Ribadiamo allora, sinteticamente, alcuni punti chiave che hanno guidato lo studio di questo libro e ne costituiscono il quadro conclusivo.

• In negativo:
  1. Giobbe non rappresenta il generico uomo che soffre nei suoi rapporti con uomini e cose (posizone umanistica);
  2. Giobbe non rappresenta il generico uomo religioso che soffre nei suoi rapporti con Dio (posizione moralistico-spirituale).

• In positivo:
  In quel particolare periodo della storia dell'umanità, Giobbe è il servo del Signore che sperimenta, per esclusiva volontà di Dio e nella sua posizione di fedele servitore, un processo di abbassamento fino alle soglie della morte e di vittorioso rialzamento ad una pienezza di vita e di benedizione.
  La serie di riflessioni qui presentata termina con la proposta, per chi è convinto, di fare di questa esposizione il punto di partenza di un serio esame del posto che deve occupare il libro di Giobbe nell'insieme della rivelazione biblica e del ruolo che svolge la figura di Giobbe nel piano di salvezza di Dio.

(12) fine

(Notizie su Israele, 20 marzo 2022)


 
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Il rischio di Israele
    
''Non abbiamo detto agli ucraini di arrendersi". Intervista a Nahum Barnea

di Giulio Meotti

ROMA - Qualche giorno fa il premier israeliano, Naftali Bennett, avrebbe raccomandato al presidente ucraino Volodymyr Zelensky di accettare l'offerta di Vladimir Putin di arrendersi per metter fine alla guerra. Lo ha riportato il Jerusalem Post citando fonti del governo di Kyiv. "Bennett ci ha detto di arrenderci. E noi non abbiamo alcuna intenzione di farlo. Sappiamo che l'offerta di Putin è solo l'inizio", spiegavano le fonti ucraine al Jerusalem Post. Nahum Barnea, il più famoso giornalista d'Israele, firma del quotidiano Yedioth Ahronoth, liquida questa ricostruzione come infondata. "Israele non ha detto agli ucraini di arrendersi" dice Barnea al Foglio. "Non abbiamo neanche questo potere".
   Dunque, secondo Barnea, "il premier dello stato ebraico non ha il diritto né il potere per dare al presidente ucraino Zelensky raccomandazioni su cosa fare. Noi passiamo dei messaggi. Il governo ucraino ha interesse a mobilitare chiunque possa verso la loro causa. Sicuramente Bennett ha passato a Zelensky i messaggi di Putin tradotti dal nostro ministro di origine ucraina, Zeev Elkin".
   Israele è stato comunque criticato molto per una certa neutralità nel conflitto (niente sanzioni alla Russia, ritorno degli oligarchi, colloqui diretti con Putin, una risoluzione all'Onu non votata e niente invio di armi a Kyiv). "Israele da una parte ha una sensibilità e un interesse in gioco in Ucraina" ci dice Barnea. "Mezzo milione di israeliani è arrivato dall'Ucraina negli anni Novanta. Si tratta di un grande gruppo che pesa anche politicamente nella società. Poi c'è la storia, e da Golda Meir a Levi Eshkol tanti nostri grandi politici erano di origine ucraina. Facciamo poi parte dell'occidente e il 99 per cento di noi ha gli stessi sentimenti che avete voi in Italia sull'invasione russa. Israele ha però anche un interesse a cooperare con la Russia perché in Siria abbiamo un equilibrio delicato, Israele opera contro l'Iran e la Russia ha una importante presenza militare in Siria. Cinquemila ucraini sono arrivati in Israele grazie alla legge del ritorno. Israele più di altri è attivo in termini umanitari in Ucraina, ora c'è un grande ospedale israeliano in Ucraina".
   Israele non si tira indietro nella mediazione. "Ma sono entrambe le parti, ucraina e russa, che volevano che il premier israeliano mediasse. Realpolitik, che in questo momento è fatta propria da ucraini, russi e americani. Quindi è la strada da percorrere e Israele ha cercato di farlo". Ma anche Israele corre un rischio. "Il pericolo è che Israele sia criticato per tendere verso una parte. Ma noi non siamo molto importanti in questo momento. Ma possiamo uscirne indeboliti se americani e russi ci vedano come broker non onesti. Israele è in una condizione speciale oggi, è l'unico paese dell'occidente che ha la volontà di combattere, contro l'Iran. E l'Ucraina vorrebbe le armi e il cyber degli israeliani. Ma noi non possiamo dargliele. Quando gli aerei israeliani attaccano gli iraniani in Siria, i russi potrebbero abbattere i mezzi israeliani. Questo se tagliassimo le relazioni sull'Ucraina. Ci sono duemila chilometri che separano Russia e Israele, ma al nostro confine settentrionale i russi sono a un metro da noi". Cosa aspettarsi dal conflitto? "Non ha senso per Putin finire questa guerra senza un accordo internazionale, perché il suo problema sono le sanzioni che uccidono l'economia russa. Quindi penso che andremo verso un accordo. E parte dell'Ucraina sarà annessa dalla Russia".

Il Foglio, 19 marzo 2022)

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La guerra non è mai come sembra

di Gerardo Coco

Le guerre finiscono in due modi: con la diplomazia o con montagne di cadaveri. Se si è contrari a qualsiasi tipo di negoziato con Mosca per portare la pace, allora si vogliono i cadaveri. Nessun sforzo è stato infatti compiuto verso una seria negoziazione per la pace ma solo verso un’escalation senza precedenti, il che si adatta perfettamente ai programmi preesistenti degli Stati Uniti contro la Russia di cui in seguito accenniamo. Se si vuole continuare a urlare che Vladimir Putin è un despota sanguinario, allora si continui pure così, ma non si finga di essere contro la guerra e a favore della pace. Condannare Putin è la cosa più facile e meno coraggiosa che chiunque nel mondo occidentale può fare in questo momento. Ciò che è molto più difficile è prendere una posizione coraggiosa riguardo al ruolo dell’Occidente nel portare avanti questa guerra.
   L’Occidente e i suoi media hanno demonizzato la Russia e questa è stata la strategia per sostenere lo sforzo bellico. Sono riusciti a convincere la gente a odiare Putin per poi attribuire l’odio a tutto il popolo russo. D’altra parte il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky si è comportato come Saddam Hussein che faceva circondare i civili da armi pesanti per garantire che il maggior numero venisse ucciso e dunque, diffondendo filmati, per rappresentare il nemico come malvagio. In Ucraina contro Zelensky c’è comunque dissenso che però la stampa occidentale non riporterà mai. Il presidente ucraino ha messo a rischio il suo popolo ignorando il protocollo di Minsk del 2014 che mirava a porre fine alla guerra nella regione del Dombas in Ucraina. Ma la propaganda occidentale lo ha presentato come un eroe che combatte il malvagio orso russo. Ma se Putin, avesse voluto, avrebbe già da un pezzo asfaltato l’Ucraina come l’Occidente ha fatto con l’Iraq.
   Stiamo molto attenti alla tifoseria acritica. Questa non è una partita di calcio o un videogioco. Zelensky riceve miliardi da tutto il gas russo che scorre in Europa attraverso l’Ucraina e ha messo a rischio il suo intero paese a beneficio delle compagnie petrolifere ucraine in modo da tagliare fuori la Russia dal rifornimento all’Europa. Si è comportato come Barack Obama che nel 2013 voleva invadere la Siria per impedire alla Russia di costruire un gasdotto per rifornire l’Europa, appoggiando, invece, la costruzione di quello del Qatar. La soluzione di questo conflitto sarebbe stata di consentire al Donbas di avere un voto democratico e di abbandonare la pretesa sulla Crimea che storicamente è sempre stata russa, non ucraina. Il popolo ucraino starebbe dunque morendo per cosa? Per mantenere il Donbas e la Crimea occupati da una popolazione russa? Ma Zelensky ha negato alle province che dal 2014 chiedono il separatismo, ogni diritto di voto per l’indipendenza, perché quelle aree sono ricche di petrolio ed è stato spinto dalle compagnie petrolifere ucraine a riavere la Crimea dove c’è un’enorme riserva di gas che sostituirebbe la Russia come fornitore di energia per l’Europa. Niente di tutto questo viene riportato dalla stampa mainstream.
   Non si deve poi ignorare che tutto questo conflitto non è iniziato qualche settimana fa. È iniziato nel 2014, quando l’Ucraina ha rovesciato il presidente dell’Ucraina, il filorusso Viktor Janukovyč, democraticamente eletto nel 2010, l’anno in cui il parlamento votò per abbandonare le aspirazioni di adesione alla Nato. La sua rimozione fu un colpo di stato che dette inizio al movimento separatista nel Dombas che ha poi portato al protocollo di Minsk, mai finalizzato.
   L’attuale conflitto è direttamente il risultato della guerra per procura dietro le quinte contro la Russia iniziata proprio nel 2014 quando scoppiò il “Maidan”, una serie di manifestazioni sempre più violente, a Kiev e altrove. Il violento rovesciamento di Yanukovich e Il massacro di Maidan rappresentato dai media occidentali come una rivoluzione popolare, è stato sceneggiato dai neo conservatori e dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, rappresentato da Victoria Nuland che, negli ultimi 30 anni, ha guidato la politica estera americana passando da un disastro all’altro. Dal 2003 al 2005 la Nuland ha contribuito a pianificare sia la guerra per rovesciare Saddam Hussein in Iraq, sia ad attuare il “cambio di regime” e rovesciare Mu’ammar Gheddafi in Libia, tentando poi di fare lo stesso in Siria con Bashar al-Assad.
   Gheddafi, Saddam e Assad sono stati demonizzati, come oggi avviene con Putin, per giustificare l’invio di armi agli insorti e rovesciare i governi. Servendosi dello stesso schema, la Nuland ha lavorato duramente per rovesciare Yanukovich vantandosi pure di aver finanziato nel 2003 con miliardi di dollari, la rivoluzione colorata ucraina avvalendosi delle quinte colonne statunitensi, le ong politiche, utilizzate per organizzare proteste, fomentare rivoluzioni e promuovere l’agenda geopolitica americana all’estero. Ora il presidente Joe Biden ha nominato la Nuland nuovo sottosegretario per gli affari politici affinché continui l’infinita politica di manipolazione e di guerra statunitense. E infatti gli Stati Uniti, oltre ad aver finanziato il battaglione ucraino di estrema destra Azov, che si vanta di essere nazista, hanno pure permesso che 450 combattenti di Al Qaida arrivassero in Ucraina per combattere contro le forze russe. Perché a questi estremisti arabi viene consentito combattere per l’Ucraina? Ai vecchi tempi, ci veniva detto che Al Qaida era l’organizzazione terroristica più malvagia dell’intero pianeta e ora è alleata dell’Occidente!
   Mentre i media mettono il bavaglio a chi non odia abbastanza la Russia, non sembrano avere problemi con il fatto che il burattino dell’occidente Zelensky sia affiancato da nazisti e terroristi islamici. Anzi, continuano a far finta che l’America e l’Europa promuovano i valori di pace e libertà quando in realtà i loro obiettivi sono offensivi e non difensivi e si stanno inventando qualsiasi cosa per sostenere la guerra, come hanno fatto con le armi di distruzione di massa in Iraq che non sono mai esistite.

(l'Opinione, 19 marzo 2022)
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Si può soltanto aggiungere che l'Occidente che si vorrebbe difendere dalla "barbarie" russa è l'Impero della Menzogna. Vince e governa chi sa mentire meglio al popolo. Per governare con efficacia l'importante è che il flusso di menzogne dell'odio popolare sia indirizzato sempre contro un solo nemico principale per volta. Fino a poco fa l'obiettivo principale erano i novax, adesso quest'odio può essere trasformato in semplice noncuranza e l'odio viene indirizzato contro un altro obiettivo: i russi. Anche nella Germania hitleriana c'erano i russi come obiettivo di odio, ma prima di loro c'erano gli ebrei. Per l'Occidente di oggi in questo momento il nemico principale sono i russi, ma gli ebrei stiano in guardia: l'odio popolare incontrollato non si sa mai come va a finire. O meglio, si sa dove spesso va a finire. M.C.

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Valichi con Cisgiordania e Gaza rimarranno aperti durante festività ebraica

Per la prima volta in cinque anni Israele non chiuderà i valichi della Cisgiordania ai palestinesi durante le vacanze di Purim, iniziate mercoledì sera, secondo quanto riferito dai militari.
   Le chiusure sono una pratica standard durante la festa nazionale ebraica di Purim, in quella che i militari affermano essere una misura preventiva.
   Le misure israeliane comprendono la chiusura di tutte le strade principali, la creazione di posti di blocco militari e l’intensificazione della presenza dell’esercito, nonché la chiusura di tutti i valichi intorno alla Striscia di Gaza, rafforzando ulteriormente l’assedio.
   I militari affermano che tutte queste azioni abusive e oppressive contro i palestinesi siano necessarie come mezzo per “assicurare le celebrazioni dei coloni”.
   Tuttavia, in una dichiarazione fornita al Jerusalem Post, l’Unità del portavoce dell’esercito ha affermato: “Secondo una valutazione della sicurezza della situazione […], è stato deciso di non imporre una chiusura generale alla Giudea e alla Samaria [Cisgiordania occupata] e di non chiudere i valichi verso la Striscia di Gaza durante le vacanze di Purim”.
   “La decisione sarà riesaminata durante le vacanze, alla luce di eventi e sviluppi”, ha aggiunto la nota.
   Il Purim viene celebrato ogni anno il 14 del mese ebraico di Adar, che generalmente cade nel tardo inverno o all’inizio della primavera.
   La decisione di non imporre una chiusura è stata presa a seguito di una riunione tra l’esercito d’occupazione [così lo chiama Hamas, NsI], il servizio israeliano d’intelligence – lo Shin Bet – ed i soldati, durante la quale hanno accolto la raccomandazione, accettata anche dal ministro della Difesa Benny Gantz.

(Infopal, 19 marzo 2022)

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Israele agli Usa: «I Pasdaran restino nella lista nera»

«Ci rifiutiamo di credere che gli Usa vogliano togliere la loro designazione di organizzazione terrorista delle Guardie Rivoluzionarie iraniane», meglio noti come Pasdaran.
   Lo hanno denunciato il premier Naftali Bennett e il ministro degli Esteri Yair Lapid, ricordando che è «un'organizzazione terrorista che ha ucciso migliaia di persone, americani inclusi». «La lotta al terrorismo - hanno continuato - è globale, una missione condivisa dell'intero mondo. Crediamo che gli Usa non vogliano abbandonare i loro più stretti alleati in cambio di vuote promesse da parte di terroristi».
   «Troviamo difficile credere» - hanno concluso - che la decisione arrivi in cambio di una promessa di non colpire gli americani». L'annuncio (chiesto come contropartita dall'Iran) dovrebbe arrivare dopo la firma - data ormai per imminente - di Teheran del protocollo per il rientro nel Trattato sul nucleare.

(Avvenire, 19 marzo 2022)

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Israele può essere il ponte tra i due paesi in guerra 

Gli storici rapporti con Russia e Ucraina potrebbero creare una posizione favorevole per il premier Bennett, che ha già incontrato sia Putin sia Zelensky. 

di Aldo Cazzullo 

C’è un unico leader che in questi giorni ha incontrato sia Vladimir Putin sia Volodymyr Zelensky, trattando con loro da pari a pari, non perché sia equidistante, ma perché riconosciuto da entrambi come interlocutore autorevole: è il premier israeliano Naftali Bennett. 
   La mediazione israeliana non è soltanto una significativa pista diplomatica; è una suggestione politico-culturale preziosa, in un quadro oscuro come quello dell'aggressione russa all’Ucraina. 
   Israele è un piccolo Paese, ma dal grande prestigio militare; e questo per i russi è molto importante. I veterani dell'esercito sovietico ricordano con ammirazione le guerre arabo-israeliane, quando erano schierati con gli arabi, e furono testimoni della furia guerriera di Tsahal - in particolare delle truppe guidate da Ariel Sharon, che nella guerra del Kippur passarono il canale di Suez sulle zattere sotto i bombardamenti a tappeto dei Mig21 - e anche della spregiudicatezza dell'intelligence (gli uomini di Aman, i servizi militari, intercettarono e diffusero i dispacci razzisti con cui i consiglieri russi si informavano della rotta egiziana durante la guerra dei Sei Giorni: «I negri scappano». Il Cairo non gradì). 
   Israele può essere un ponte tra i due Paesi in guerra, l'aggressore e l'aggredito, e non solo perché quasi un milione di israeliani è di origine russa, e quasi mezzo milione ha radici ucraine. Zelensky- lo ha ricordato Fiamma Nirenstein sul Giornale - è ebreo. La leggendaria Golda Meir era nata a Kiev. Volodymyr Zabotyns'kyj, uno dei padri del sionismo - e dell'Irgun, formazione di spietati combattenti per l'indipendenza dagli inglesi - era di Odessa. Nell'Irgun militava anche un giovane bielorusso di Brest-Lltovsk, Menachem Begin, che sarebbe stato il primo leader della destra israeliana a diventare capo del governo - e a fare la pace con l'Egitto -; mentre nella banda Stero combatteva un altro giovane bielorusso di Ruzany, Icchak Jaziernicki, divenuto premier con il nome di Yitzhak Shamir. Se è per questo, il primo presidente nella storia di Israele, Chaim Weizmann, era nato a Motal, vicino a Brest-Lltovsk, e parlò per tutta la vita ebraico con accento russo. Lo stesso Sharon era figlio di ebrei bielorussi. E l'uomo-chiave della svolta nella politica israeliana, che ha mandato Netanyahu e il Likud all'opposizione, è il ministro della Difesa Avigdor Lieberman, leader del partito degli israeliani russofoni, che però è nato in Moldavia: suo padre Lev, soldato dell'Armata Rossa, cadde prigioniero dei tedeschi; sopravvissuto ai lager, fu mandato da Stalin in Siberia. 
   Il cuore di Israele batte per l’Ucraina; ma la mente di Israele sa che non può rompere con Putin, le cui truppe - e i cui missili - sono in Siria, dall'altra parte delle alture del Golan. Putin è (o era) amico personale di Zeev Elkin, ministro israeliano dell'Edilizia, che è di Kharkiv, la città martire. E ha un buon rapporto con il rabbino capo di Mosca, rav Berei Lazar, che invano l'ha implorato di non fare la guerra, e ha lanciato ora un nobile appello: «Ogni giorno riceviamo informazioni dai nostri colleghi, i rabbini in Ucraina, su ciò che sta accadendo là. Sentiamo il dolore dei nostri fratelli, di tutti i cittadini dell’Ucraina, non importa a quale religione appartengano. Incoraggio tutti a pregare per la pace. Ma questo non basta. HaShem si aspetta da noi che ogni persona credente faccia tutto il possibile per salvare vite umane» (HaShem, in ebraico il Nome, è ovviamente Dio. In sostanza il rabbino si propone anch'egli come mediatore). 
   Ma l'interesse di Israele per la questione russo-ucraina non ha solo motivazioni spirituali o culturali. Un'escalation nucleare sarebbe esiziale per lo Stato ebraico. Pur disponendo della deterrenza atomica, e anzi proprio per questo, uno dei punti della dottrina militare e politica israeliana è evitare che l'arma nucleare proliferi e possa essere usata. Se il tabù sarà violato, Israele si sentirà meno sicura. Perché la Russia è in teoria la protettrice dell'Iran, che sogna la Bomba proprio per usarla contro Gerusalemme. Ma quando gli aerei israeliani sorvolano la Siria per volare nei cieli iraniani, i russi non muovono un dito. Se il prestigio militare e il know-how diplomatico di Israele servissero a disinnescare la mina russoucraina, sarebbe un successo storico, che nell'ottica dello Stato ebraico lenirebbe anche la ferita della questione palestinese, rimossa ma pur sempre aperta. Anche se Biden non è Obama, e - complice la caduta di Netanyahu - coltiva con Israele rapporti decisamente più distesi di quelli dell'ultimo presidente democratico. 

(Corriere della Sera, 17 marzo 2022)

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L’oscurantismo verso la Russia ci annienterà

Mentre la narrazione a senso unico e i guerrafondai da salotto gettano benzina. sul fuoco, l'Italia va incontro a una crisi devastante. Le sanzioni sono infatti un boomerang che condanna la nostra economia. E compromettono per sempre le relazioni con il Cremlino. 

di Silvana De Mari 

In guerra la prima vittima è la verità. Ognuna delle parti in causa sta evidentemente facendo propaganda. Questo il motivo per cui ascoltare una sola delle due parti è la ricetta perfetta per il disastro, anche perché impedisce di accorgersi che in tutti i conflitti, con pochissime eccezioni, non ci sono solo in gioco due contendenti, ma anche altre entità che hanno interesse a buttare benzina sul fuoco e a danneggiare entrambi, addirittura a sacrificare cinicamente migliaia di vite incentivando la guerra. 
   E’ evidente, a chiunque non sia in malafede, che lo stesso Occidente che ha ottusamente ignorato le violenze che dal 2014 hanno insanguinato le regioni russofone dell'Ucraina, nutre la volontà di destabilizzare la Russia impedendo un negoziato che per essere accettabile deve permettere a tutti di salvare la faccia. L'impressione è che molti siano assolutamente disposti a sacrificare il popolo ucraino, del quale in realtà non importa niente a nessuno, malamente definito un popolo di badanti e amanti da una giornalista della tv pubblica. Le condizioni elencate per il cessate il fuoco, vale a dire il riconoscimento della Crimea, il riconoscimento delle repubbliche del Donbass e la neutralità dello Stato ucraino, sono accettabili e vale la pena di accettarle immediatamente. E’ stato impressionante assistere a come l'Occidente abbia cortesemente ignorato 14.000 morti. Come un Occidente che ha fatto la guerra contro il nazifascismo abbia serenamente sorvolato sulle svastiche del battaglione Azov, sulle violenze inaudite ai civili, l'assassinio del giornalista Andrea Rocchelli che ne aveva raccontato gli orrori. E’ stato impressionante vedere come l'Occidente pacifista ritenga di risolvere i conflitti inviando armi a una delle parti in causa. E stato impressionante vedere come l'Occidente abbia rinnegato in pochi istanti tutte le regole decenti della guerra. Le regole decenti della guerra ci dicono che i canali devono restare aperti. Lo sport, l'arte, la musica, la letteratura, i libri per ragazzi, il gatto alla competizione sono canali che devono restare aperti. Il divieto di partecipare alle Olimpiadi ad atleti disabili che si sono preparati per quattro anni, le violentissime aggressioni a cittadini di origine russa nelle strade e a studenti di origine russa nelle scuole, il blocco di artisti, cantanti dimostra una sola cosa: il terrore di ascoltare la verità, che qualcuno pronunciasse parole come massacro di Odessa, per esempio, oppure missili nucleari a quattro minuti da casa mia, oppure svastica, oppure battaglione Azov. Ho provato una vergogna infinita ascoltando le parole con cui quello che dovrebbe essere il ministro degli Esteri del mio Paese ha insultato il presidente della Federazione russa. Sono parole ignobili e oltre che ignobili sono ridicole, immensamente ridicole, e hanno trasformato l'Italia in una nazione ridicola che non sarà mai più invitata a un tavolo di trattative. Il ridicolo avvolge l'Italia. Abbiamo spezzato le reni alla Russia portando il carburante a un costo tale che non possiamo che diventare una nazione irreversibilmente miserabile, che sarà definitivamente annientata dal dover restituire i soldi che abbiamo preso a prestito per sperperarli in vaccini o cosiddetti tali, in regole di allontanamento dal lavoro che hanno distrutto l'economia e nell'assistenza a profughi che non spettano a noi (non confiniamo né con l'Ucraina né con la Nigeria) e che incentiviamo ad aumentare, sia noi che l'Europa, facendo tutto il possibile per incarognire la guerra. 
   Con l'aumento del prezzo del carburante dobbiamo implementare il nostro vocabolario e imparare la parola stagflazione, che fonde due termini antitetici, stagnazione e inflazione. L'inflazione in genere favorisce la ripresa economica. La stagnazione stabilizza la moneta. Noi riusciremo ad averle entrambe, come è successo alla Germania dopo il trattato di Versailles, come è giusto che sia, perché anche noi abbiamo perso una guerra. Abbiamo perso le elezioni, permettendo di andare al governo a una classe politica che non è inadeguata, è perfettamente adeguata a distruggerci. Se anche, come non è impossibile, la guerra finirà domani o la settimana prossima, la situazione italiana non migliorerà di nulla perché le dichiarazioni del ministro Di Maio e gli atti di Draghi ci mettono in una pessima condizione rispetto alla Russia, che non avrà più rapporti con noi. 
   Dichiarare il capo di Stato di un'altra nazione un animale o peggio è un atto di guerra, ed è stato affidato a un giovane gravemente impreparato, già venditore di bibite, che non ha la capacità di rendersene conto. Le sanzioni sono un atto di guerra. Sequestrare i beni a cittadini russi danneggerà l'economia della Costa Smeralda, ed è un atto di guerra, oltre a essere un atto di assoluta illegalità che prepara la strada a tutti noi. Come già successo in Canada, potremo continuare a possedere beni, che ingenuamente riteniamo nostri, fino a che non sgarriamo. 
   Le università Bicocca e Luiss si sono impegnate in una strenua guerra a chi è il più ridicolo del reame. Forse vince la Bicocca. La Luiss ha fatto censura politica, come peraltro fanno le università del mondo da anni. Le università ormai sono il luogo dell'assassinio del pensiero libero. La Bicocca ha fatto centro anche per il livello di cultura chiedendo di affiancare a Dostoevskij anche scrittori ucraini. Per anni è stata una festa andare alla Fiera del libro per ragazzi di Bologna. Ho ascoltato bellissime conferenze. Ho tenuto bellissime conferenze. Era una fiera piena di colori, piena di storie, piena di speranze. 
   Sono diversi anni che non vado più. La Fiera del libro di Bologna è diventata sempre più piatta, sempre più assurdamente noiosa, rinchiusa in un conformismo totale. La parola inclusione è stata ripetuta fino alla nausea. La letteratura per ragazzi purtroppo è sprofondata di nuovo nel suo dannato vizio del conformismo più becero. La letteratura per ragazzi è stata imbarazzante sotto Hitler, è stata imbarazzante sotto Stalin, è stata imbarazzante sotto Mussolini. Adesso di nuovo imbarazzante. Predominano gli studi di genere, una boiata pazzesca, vale a dire la menzogna che maschi e femmine siano simili, intercambiabili, che senso sia un'opinione e i cromosomi non debbano avere più importanza nelle decorazioni sulle torte di compleanno. 
   Ora, dopo aver squittito la parola inclusione in maniera ossessiva, dopo averti spiegato che osare avere il senso del peccato è un crimine contro l'umanità, la Fiera del libro di Bologna caccia gli autori russi e si affianca al linciaggio del russo che in quanto russo è malvagio, dando quindi la sua santa benedizione al linciaggio degli studenti russi che si affiancano ai non vaccinati nel ruolo del dannato. Torniamo alla prima vittima della guerra, la verità, che deve essere celata perché nessuno faccia caso a chi ci sta guadagnando veramente. Il progetto del Gran Reset che, come dai suoi stessi propugnatori enunciato, aveva guadagnato una formidabile spinta dalla «sfortunata» pandemia, causata da un virus ingegnerizzato chissà da chi e curata a tachipirina e vigile attesa chissà perché, riceverà impulso ancora maggiore dalla sfortunata guerra voluta dall'orso messo con le spalle al muro, con il sacrificio del popolo ucraino, spinto all'atroce ruolo del kamikaze da un presidente che ha dato il meglio di sé quando ballava con i tacchi a spillo, di quello europeo che ne uscirà ammaccato, e di quello italiano che ne uscirà annientato. Ci saranno interruzioni di approvvigionamento che non distruggeranno non solo l'industria, ma anche l'agricoltura e soprattutto l'allevamento. Saremo miserabili e mangeremo insetti ma, ci assicurano, felici.

(La Verità, 17 marzo 2022)

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Meghillà di Ester, la pergamena che racconta il ruolo delle donne nella cultura ebraica

Meghillà di Ester
Nel 1767 una ragazza di soli 14 anni scrisse di suo pugno l’intera Meghillà di Ester (un brano della Bibbia che si legge in occasione delle Festività di Purim e che racconta le vicende del popolo ebraico nella Persia di Assuero, 5 secoli prima dell’Era Cristiana).
  Un’impresa non facile già per un adulto perfino ai nostri tempi, figuriamoci per una ragazzina così giovane, rinchiusa in un misero ghetto, come quello di Roma, e per di più in un periodo nel quale quasi la totalità delle donne nel mondo era analfabeta.
  La giovanissima si chiamava Luna Amron ed era la figlia dell’eminente filantropo Yehuda Amron. Nel 1776 sposò a Livorno Jacob Di Segni, anch’egli di origini illustri. A rivelare l’importanza della famiglia di provenienza è il sigillo formato da due scudi con un leone e una mezza luna apposto in cima al rotolo. In fondo allo stesso è invece riportata la firma “Luna Tama” seguita dal nome del padre e dalle benedizioni che si recitano al termine della lettura. Tuttavia non è chiaro se la ragazzina si occupò solo del testo o anche delle illustrazioni.
  La meghillà è composta da due pergamene unite fra loro, montate su un asse di legno intarsiato e riportanti 21 colonne, contenenti a loro volta 19 righe ciascuna. La prima membrana è decorata sul lato destro con grandi motivi floreali, mentre la cornice raffigura quattro archi ornati da rami e fiori e appoggiati su cinque colonne marmoree. Il tutto è sormontato da silhouette stilizzate rappresentanti Hamman che conduce Mordechai a cavallo preceduti da due trombettisti e seguiti da altri 4 uomini.
  A rendere pubblica l’esistenza della meghillà è stata la Kedem Auction House, una casa d’aste di Gerusalemme, specializzata in oggettistica ebraica, che l’ha messa in vendita alcune settimane fa, partendo da un prezzo base di 10 mila dollari.
  Il rotolo riveste un’importanza notevole poiché è un’ulteriore dimostrazione dell’ampia diffusione della cultura (ma anche dell’arte) nella popolazione ebraica, e del ruolo che le donne ricoprivano all’interno di essa.
  È anche, però, un documento prezioso a causa della sua rarità, poiché esistono soltanto altre due meghillot (plurale di meghillà) italiane scritte da donne: la prima da Hanna figlia di David Joseph Piperno nel 1840 e l’altra, rinvenuta nella collezione Bragisnky, da Estellina, figlia del capitano Menachem da Venezia nel 1564.
  All’estero sono invece note altre meghillot di Ester, sempre opere di mani femminili, tra le quali vale la pena ricordare quella scritta dalla figlia di David Oppenheim (1664-1736), rabbino capo di Praga che ne permise la lettura (secondo alcune fonti, infatti, un testo biblico scritto da una donna non sarebbe valido per questo scopo).
  Nel Febbraio dello scorso anno alla Libreria Nazionale israeliana fu donata un’altra rara e preziosa pergamena, presumibilmente redatta nella Penisola Iberica nel quindicesimo secolo, e che risulta quindi essere al momento una delle meghillot più antiche di cui si abbia conoscenza.
  Meron Eren, co-proprietario della casa d'aste Kedem (che, fra l’altro, ha venduto recentemente una lettera di Albert Einstein scritta nel 1939 nella quale denuncia l’antisemitismo nell’ambiente accademico americano) ha osservato che "la cosa così bella di oggetti antichi come questi è che ci offrono uno scorcio affascinante di come la storia ebraica sia intrecciata con la legge ebraica.
  Sono passati circa 250 anni dal giorno in cui questo rotolo è stato scritto, ma il messaggio che contiene rimane più rilevante che mai”.

(Agenzia Nova, 17 marzo 2022)

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Israele e il Giappone ribadiscono la loro cooperazione nella ricerca sull’innovazione agricola

Israele e il Giappone hanno convocato la 9a riunione del comitato misto per la cooperazione, la scienza e la tecnologia lo scorso 2 marzo, per discutere di cooperazione bilaterale e delle direzioni future nel campo dell’innovazione agricola.
   Per Israele, il dott. Michal Levy, scienziato capo ad interim e vicedirettore generale senior per l’innovazione agricola, ha evidenziato che il Fondo congiunto per la ricerca agricola, che dal 2017 funge da eccellente piattaforma per sostenere l’attività di ricerca di esperti di entrambi i paesi, ha prodotto grandi risultati e ha un grande potenziale per fungere da catalizzatore per l’attuazione dell’Agenda ONU 2030.
   Entrambe le parti hanno discusso la possibilità di mantenere i finanziamenti attuali ed esplorare modi per accelerare la cooperazione bilaterale Israele-Giappone nel campo della ricerca e dell’innovazione agricola.

(L'Edicola del Sud, 16 marzo 2022)

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Israele scende in campo nella mediazione tra le parti. Lotta all’antisemitismo

Sempre più adottata la definizione dell'IHRA

di Michelle Zarfati

Sono 37 le nazioni che finora hanno approvato la definizione operativa di antisemitismo dell'IHRA, l'International Holocaust Remembrance Alliance. Uno studio appena pubblicato dal Kantor Center for the Study of Contemporary European Jewry dell'Università di Tel Aviv e dal Combat Antisemitism Movement (CAM) mostra che 865 istituzioni in tutto il mondo hanno adottato definitivamente l'IHRA Working Definition of Antisemitism dal 2016. Questo rapporto rappresenta l'elenco più completo sulle adozioni di questa definizione.
   Una vasta gamma di organizzazioni internazionali, governi nazionali, comuni, ONG, università, club sportivi, società e altri gruppi hanno adottato la definizione di antisemitismo IHRA come quadro guida per le loro politiche contro l'odio antisemita. La definizione, non giuridicamente vincolante, insieme ai suoi 11 esempi esplicativi, è stata adottata all'unanimità dai 31 Stati membri dell'IHRA nel maggio 2016.
   "Con il marcato aumento dell'antisemitismo negli ultimi anni, è divenuta necessaria una definizione universalmente accettata" ha spiegato Sacha Roytman Dratwa, CEO di CAM. "Dobbiamo delineare chiaramente i confini dell'odio e dell'incitamento contro gli ebrei, perché per troppo tempo sono stati gli stessi antisemiti ad averli definiti - ha continuato Dratwa - Esorto coloro che si oppongono a questa definizione di studiare più approfonditamente questo elenco e imparare come i governi, le imprese, la società civile e le comunità religiose di ogni estrazione in tutto il mondo si siano uniti nell'usare la definizione dell'IHRA come barometro per misurare e combattere le forme contemporanee di antisemitismo”.
   Solo nel 2021, 200 istituzioni hanno adottato o approvato la definizione in tutto il mondo, quasi 1/4 (23,1%) del totale dall'inizio della definizione. Finora, nel 2022, hanno optato per l’adozione altri 20 enti.
   “L'ondata di adozioni nel 2021 dimostra chiaramente che esiste già un costante consenso sulla definizione operativa di antisemitismo dell'IHRA, creata da accademici, esperti e attivisti. Speriamo quindi che sempre più paesi e istituzioni si uniranno quest'anno” ha condiviso la professoressa Dina Porat, direttrice fondatrice del Kantor Center e consulente accademica di Yad Vashem. “Senza una definizione universalmente accettata di antisemitismo, la lotta contro quest’ultimo rischia di essere molto più difficile da portare avanti”.
   Complessivamente, 37 paesi, inclusa la maggior parte delle democrazie occidentali, hanno adottato la definizione: 28 stati membri dell'IHRA, quattro stati osservatori della medesima associazione e cinque nazioni non affiliate. Dopo Stati Uniti, Canada, Germania, Regno Unito e Francia, nel 2021 si sono aggiunte l’Australia, l’Estonia, il Guatemala, la Polonia, la Corea del Sud e la Svizzera, seguite dalle Filippine nel 2022. Ben 320 enti governativi non federali (compresi enti regionali, provinciali, statali, provinciali e comunali) hanno adottato la definizione, di cui 39 nel 2021 e 13 finora nel 2022. In Europa, questo ha incluso le principali capitali nazionali, come Londra, Parigi, Berlino, Madrid e Vienna.
   L’analisi di CAM e del Kantor Center mostra che quando un paese adotta la definizione operativa di antisemitismo dell'IHRA a livello nazionale, le autorità locali, le organizzazioni e le istituzioni educative seguono l'esempio in maniera rapida. Il Regno Unito, infatti, è stato il primo paese ad adottare ufficialmente la definizione nel dicembre 2016 e, alla fine del 2021, anche la maggior parte degli istituti di istruzione superiore e delle autorità locali del paese si sono mosse in tal senso. Lo scorso ottobre, l'Australia ha adottato la definizione e da allora numerose città, stati, partiti politici e ONG australiani hanno fatto lo stesso.
   La definizione operativa di antisemitismo dell'IHRA rappresenta sempre di più un pilastro fondamentale nelle strategie governative per la lotta contro tutte le forme di antisemitismo contemporaneo. Si prevede che il ritmo crescente di adozioni in tutti i settori e strati della società continuerà negli anni a venire, elevando lo status della definizione come la definizione più ampiamente accettata di odio contro gli ebrei; con sempre più entità che si rivolgono ad essa mentre cercano di combattere l’antisemitismo in maniera significativa ed efficace.

(Shalom, 17 marzo 2022)

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Israele scende in campo nella mediazione tra le parti

Scende in campo Israele nella mediazione tra Russia e Ucraina con negoziati che dovrebbero tenersi a Gerusalemme. La notizia è stata riportata dal 'Jerusalem Post' dopo una settimana di lavori diplomatici condotti dai vertici israeliani, al termine dei quali il primo ministro Naftali Bennett avrebbe consigliato al presidente Zelensky di accettare le condizioni della Russia: in particolare la distruzione dei monumenti alla memoria del collaboratore nazista Stepan Bandera e l'arresto di tutti i neonazisti.
   Molti osservatori concordano sul ruolo che Israele potrebbe giocare come mediatore, sia per ragioni politiche, sia soprattutto per ragioni culturali-religiose. Al centro di questo tentativo, il patrimonio ebraico dei due contendenti e quello russo del mediatore. In Ucraina vivono infatti decine di migliaia di ebrei, il che fa del Paese la sede di una delle più grandi comunità ebraiche del mondo.
   Su Wikipedia Russa intanto - segnalano alcuni siti - sarebbe già nero su bianco il progetto Heavenly Jerusalem, un progetto a lungo termine il cui obiettivo è formare uno stato ebraico all'interno dell'Ucraina sui territori delle sue cinque regioni meridionali: Odessa, Dnipropetrovsk, Zaporozhye, Kherson e Mykolaiv. Ra.Vi.

(Lavoro, 16 marzo 2022)


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Da Israele una possibile mediazione. Sotto le bombe

di Jean Valjean

Non solo Cina. C'è anche Israele tra i Paesi che possono svolgere una mediazione possibile per convincere il presidente russo Putin a sedersi a un tavolo e trattare con il presidente ucraino Zelensky. Ieri il ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid ha avuto «una lunga e positiva conversazione» con il suo omologo ucraino Dmytro Kuleba. E nello sforzo diplomatico di Israele quella di ieri è soltanto la tappa più recente. Prima del colloquio telefonico Lapid-Kuleba, lo scorso 5 marzo c'era stato il viaggio a Mosca del primo ministro israeliano Naftali Bennett e il suo incontro con Vladimir Putin. A questo si aggiunga l'annuncio, due giorni fa, che Israele non permetterà alla Russia di bypassare «le sanzioni occidentali».
   Il ruolo che può svolgere Israele in un tentativo di pace tra Russia e Ucraina ha, oltre le cronache, pure due aspetti geopolitici interessanti. Israele non vuole in nessun modo che il conflitto in Ucraina contagi o cambi la situazione in Siria e il tavolo dove si sta discutendo della questione del nucleare iraniano. Due situazioni, queste, dove il ruolo della Russia pesa. Altro aspetto, non secondario, riguarda poi Israele come simbolo. Israele è la dimostrazione fisica, geografica e storica che un Paese in inferiorità numerica può riuscire a vincere sui propri vicini, assai più numerosi, anche grazie al sostegno dell'Occidente. L'Ucraina non potrà mai diventare un Israele d'Europa ma la storia israeliana è una dimostrazione che il numero non fa la forza. Almeno non sempre.

(La Ragione, 16 marzo 2022)


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Perché Israele è nella posizione migliore per fare da mediatore tra Russia e Ucraina

di Jonathan Pacifici*

Lunedì mattina, ore 9 .00, Hotel Waldorf Astoria di Gerusalemme. Microsoft sponsorizza il primo evento del nuovo Made in Jerusalem Investor Club. Assieme a me tanti colleghi dirigenti dei più importanti fondi di venture capitai attivi in città. Microsoft sta aprendo un nuovo centro di innovazione nella capitale israeliana e vuole fare rete con i fondi attivi in città. E un'ottima occasione, dopo due anni di pandemia, per rivedere tanti amici e colleghi. Saluto il mio amico Levy che sta parlando fitto in russo con un altro fund manager. Non è una scena inusuale. Negli anni 90 Israele ha assorbito circa un milione di ebrei provenienti dall'ex Unione Sovietica (all'epoca attorno al 20% della sua popolazione). Si calcola che circa il 30% arrivava dall'Ucraina. Oggi alla terza generazione la comunità russofona è non solo perfettamente integrata nel paese, ma è una componente fondamentale della sua locomotiva economica, il comparto tecnologico. Di più, secondo molti, proprio l'immigrazione di tecnici e scienziati sovietici ha contribuito in maniera sostanziale al fiorire della Startup Nation.
   Facciamo un giro di presentazioni e l'amico di Levy dice: «Avrei voluto parlarvi dei nostri investimenti, ma nelle ultime settimane mi sto occupando principalmente di aiutare i profughi che arrivano dall'Ucraina. Abbiamo il dovere di aiutarli a integrarsi nel paese ma anche nell'ecosistema tech, chiunque vuole dare una mano sa dove trovarmi». L'esposizione dello Stato d'Israele nel conflitto in Ucraina non si ferma alle vicende della comunità ebraica, dalla quale ci aspetta un'immigrazione di 100.000persone. La sera prima il mio vicino, figlio di immigrati russi e pneumologo infantile dell'Hadassah di Gerusalemme, parte con una delegazione dell'ospedale per il confine ucraino per dare assistenza ai profughi. Nelle stesse ore il governo di Gerusalemme delibera lo spiegamento di un ospedale militare da campo in territorio ucraino. Molte delle aziende tech israeliane si sono dotate negli ultimi anni di centri di sviluppo in Ucraina facendo forza sulle elevate competenze locali e la facilità linguistica. Solo la quotata Wix, il gigante made in Israel dei siti web, aveva alla vigilia del conflitto oltre 1.000 dipendenti in Ucraina. Prima che l'aeroporto di Kiev venisse chiuso, con un'operazione in stile militare, l'azienda ha spostato in Polonia e Turchia i propri dipendenti e le loro famiglie. E non è un caso isolato. In milioni qui hanno parenti, amici, colleghi o conoscenti esposti al conflitto. Questa familiarità si somma con l'imperativo morale di stare dalla parte della libertà, della democrazia e della tolleranza. Quando il presidente ucraino Volodymyr Zalensky chiama il premier israeliano Naftali Bennett al telefono sa che sta parlando con il capo del governo di uno dei pochi paesi per i quali l'elemento morale va oltre il politically correct di Bruxelles.
   Se non si capisce questo non si capisce la forza del gesto di Bennet che, in pieno Shabbat (il Sabato ebraico durante il quale è tassativamente proibito viaggiare, salvo che per salvare vite umane), prende un aereo e si presenta a Mosca. Qui c'è l'altra faccia della medaglia. Nonostante sia uno dei principali alleati degli Stati Uniti, Israele è sempre stato percepito dal presidente russo Vladimir Putin come un interlocutore serio, pragmatico e affidabile. Putin ha dichiarato in più di un'occasione che la Russia non può non prendere in considerazione l'enorme comunità russofona di Israele. Quando la Russia dispiega le sue truppe in Siria, l'ex premier Benjamin Netanyahu si invita a Mosca e disegna assieme a Putin i meccanismi per evitare lo scontro tra unità russe e israeliane. Nasce la red line tra il Cremlino e Gerusalemme che diventa presto qualcosa di più.
   Ai numerosi incontri tra Netanyahu e Putin partecipa sempre come traduttore il ministro israeliano Ze'ev Elkin. Nato a Kharkiv, in Ucraina, Elkin è diventato uno dei politici internazionali con il maggior numero di «ore Putin». E sempre Elkin che accompagna Bennett al Cremlino per provare a fermare una guerra nella quale ha parenti e amici sotto le bombe a Kharkiv. Per certi versi la posizione di Elkin, ebreo ucraino, ministro d'Israele, che gode della fiducia di Putin è emblematica della situazione nella quale si trova Israele. Davanti a un Occidente smarrito Zelensky sa esattamente cosa fa quando chiede a gran voce un vertice con Putin a Gerusalemme. E chiaramente presto per sapere se la mediazione israeliana avrà successo, certo è però che la crisi ucraina rappresenta un punto di svolta per la proiezione globale del soft-tech-power israeliano. Chissà cosa avrebbe detto Ben Gurion…
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* Presidente del Jewish Economie Forum e General Partner di Sixth Millennium Venture Partners

(MF, 16 marzo 2022)

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Israele dichiara lo stato di emergenza a seguito di cyberattack sui siti web del governo

Israele ha dichiarato lo stato di emergenza dopo che un attacco informatico ha paralizzato diversi siti web del governo. Diversi esperti nella nazione ebraica affermano che dietro l’attacco ci sono attori iraniani, che si ritiene sia il più grande contro il paese.
   Il governo israeliano ha rilasciato la dichiarazione dello stato di emergenza il 14 marzo, con diversi siti web del governo chiusi a causa dell’attacco. I siti Web interessati includono quelli dei ministeri dell’interno, della salute, della giustizia e del welfare insieme a quello dell’ufficio del primo ministro. I siti colpiti sono diventati accessibili dopo un’ora, ha aggiunto Gerusalemme. Il ministro delle comunicazioni del paese Yoaz Hendel ha affermato che i funzionari stanno “lavorando duramente” per riparare i danni causati dall’attacco informatico ai siti del governo.
   Una dichiarazione del Ministero delle Comunicazioni ha dichiarato: “Sono state effettuate operazioni da società di comunicazione al fine di restituire il servizio il prima possibile, e  sta gradualmente tornando. Il ministero continuerà a monitorare la situazione in piena restaurazione”.
   Il monitor Internet globale NetBlocks ha confermato l’attacco informatico a Israele in un tweet: “È stata registrata un’interruzione significativa su più reti fornite dalle principali società israeliane [internet] i fornitori Bezeq e Cellcom mentre le autorità di difesa del paese e la National Cyber Directorate dichiarano lo stato di emergenza”.
   Alcuni giorni prima della dichiarazione di emergenza, il Ramat Gan Diamond Exchange (RGDE) ha avvertito le società di commercio di diamanti di un attacco informatico “insolito e grave”. Lo scambio di gioielli con sede nella città di Ramat Gan, situata a est di Tel Aviv, ha esortato le aziende associate in una dichiarazione dell’11 marzo a disconnettere qualsiasi sistema informatico connesso a Internet durante il fine settimana. (Correlato: i globalisti stanno pianificando un attacco informatico? Israele, il FMI guida la simulazione in 10 paesi di un grave attacco al sistema finanziario globale.)
   RDGE ha aggiunto che l’israeliano Direzione nazionale cibernetica aveva avvertito di un grave attacco e il suggerimento era conforme alle linee guida dell’autorità. La direzione ha appoggiato la dichiarazione di RGDE, affermando di aver attirato l’attenzione sui “tentativi di attacchi informatici contro le aziende impegnate nel campo dei diamanti” e ha invitato le aziende “ad adottare misure preventive per prevenire danni”.

• Israele punta il dito contro l’Iran
  Nonostante la mancanza di rapporti di conferma sulle identità dei cattivi attori, diversi esperti in Israele hanno indicato l’Iran come il probabile colpevole. La nazione ebraica e la repubblica islamica sono impegnate da anni in una guerra informatica.
   Il CEO di Konfidas, Ram Levi, ha riferito di un grave attacco al provider di servizi mobili israeliano Cellcom. Il capo dell’azienda di sicurezza informatica ha successivamente dichiarato che l’Iran era responsabile del problema tecnico. Prima di fondare Konfidas nel 2013, Levi è stato segretario dell’Iniziativa informatica nazionale israeliana guidata dall’ex primo ministro Benjamin Netanyahu.
   Nel frattempo, l’ex funzionario della sicurezza Rafael Franko ha esplicitamente nominato il gruppo di hacker affiliato all’Iran Black Shadow come gli autori degli attacchi informatici dell’RGDE. Ha anche avvertito gli israeliani di intensificare la loro preparazione per qualsiasi attacco informatico che potrebbe arrivare. Secondo Franko, i nemici di Israele effettuano spesso attacchi informatici durante la festa della Pasqua.
   Anche i media israeliani hanno concordato con gli esperti, con almeno un giornalista che ha esplicitamente nominato la repubblica islamica come l’autore del reato. Anna Ahronheim, corrispondente militare e della difesa per il Posta di Gerusalemme ha twittato: “Attacco informatico su larga scala contro i siti web del governo israeliano, incluso il primo ministro e i ministeri dell’interno, della salute, della giustizia e del benessere. Tutti i siti web sono inattivi. Sospetto: Iran.
   A gennaio, il Inviare ha scritto che Israele ha visto un aumento del 92% degli attacchi informatici mentre il resto del mondo ha visto solo un aumento del 50% tra il 2020 e il 2021, con una media di 925 attacchi informatici a settimana. Citando i dati della società di sicurezza informatica Check Point con sede a Tel Aviv, ha aggiunto che Israele è stato preso di mira più frequentemente di Stati Uniti, Francia, Giappone e Germania durante il suddetto periodo.
   L’attacco informatico ha preso di mira principalmente gli istituti di istruzione e di ricerca, seguiti da enti governativi e militari e fornitori di servizi Internet.

(Natural News, 16 marzo 2022)

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