I piani terroristi dell’Iran contro israeliani e dissidenti in Europa
Non solo l’atomica: con i suoi agenti e i suoi sgherri Hezbollah, il regime di Teheran rappresenta una continua minaccia alla sicurezza e alla libertà in Occidente.
Dopo la notizia che due uomini sono stati arrestati in Grecia con l’accusa d’aver progettato attentati a un luogo ebraico, vale la pena riepilogare il contesto più ampio in cui si inseriscono le minacce del regime iraniano in tutta Europa. Quelle che seguono sono le dieci recenti trame aggressive ordite dell’Iran in Europa. Per le sue attività e i suoi intrighi ad ampio raggio, l’Iran utilizza sia agenti propri che gruppi gregari come Hezbollah. Le trame aggressive iraniane risultano aumentate negli ultimi anni, e ora sembra esserci maggiore attenzione da parte dell’Europa sulle attività dei gruppi legati al regime di Teheran....
Con l'avvicinarsi della festa Pesach, una delle domande più frequenti riguarda la dimensione dell’uovo, una componente importante del piatto del Seder e metro di misura per la quantità di matzà che bisogna mangiare. Secondo uno studio fatto dal prof. Zohar Amar dell'Università di Bar-Ilan, è emerso che nel periodo del Talmud le uova erano più piccole rispetto a quelle odierne.
Il risultato emerso dallo studio, in lingua ebraica, è stato pubblicato sulla rivista scientifica Jewish Studies Internet Journal (JSIJ) col titolo “Egg measurement in the light of ancient reality”. Il professor Amar, esperto di flora e fauna antiche, ha esaminato le 15 uova più antiche e ben conservate mai trovate dentro e fuori Israele. Queste sono un reperto archeologico molto raro, infatti, a causa della loro delicatezza e fragilità, le uova sono generalmente difficili da conservare.
Le prime prove esaminate dal professore sono state grandi gusci d'uovo del periodo del Primo Tempio scoperti durante gli scavi della Città di Davide. Per affinare la ricerca sono state studiate anche uova risalenti al periodo romano e al Medioevo. Queste uova, completamente intatte, si sono conservate perché rinvenute in fosse settiche e liquami.
Secondo i risultati dello studio, le uova di gallina sono diventate una parte significativa del paniere alimentare solo durante il periodo ellenistico-romano e le loro dimensioni all'epoca erano diverse rispetto a quanto si pensasse fino ad ora. Inoltre le analisi di Amar delle fonti storiche hanno rivelato che il volume medio delle uova in tutti i periodi era compreso tra 40 e 44 centimetri cubi, inferiore a quello accettato dalla legge ebraica.
Questi dati possono portare quindi a importanti implicazioni halakhiche. Infatti, varie decisioni sono determinate in base alle dimensioni di un uovo e di un'oliva. Se si mangia un pezzo di pane delle dimensioni di un'oliva, si dovrebbero dire le benedizioni dopo i pasti. A Pasqua, si dovrebbe mangiare un minimo di due pezzi di matzà delle dimensioni di un'oliva. Le misure della grandezza di un uovo equivalgono a due olive.
Fino alla metà del XX secolo il volume delle uova è stato relativamente piccolo. La loro taglia e il loro volume sono aumentati solo nelle ultime generazioni, in seguito all'allevamento intensivo delle galline.
“Sembra che abbiano iniziato a ipotizzare le misurazioni del volume basate sulle uova solo quando sono diventate un prodotto relativamente comune nel V periodo romano”, ha affermato Amar. Nell’articolo Amar ha messo a confronto la dimensione effettiva dell'uovo così come ci è nota dalle fonti scritte e con i reperti archeologici di epoche diverse, principalmente dal periodo romano-bizantino, dal Medioevo e il periodo relativo allo sviluppo dell'industria avicola nei tempi moderni.
“Al giorno d'oggi sono accettati diversi metodi di calcolo per la misura delle uova in guscio. Sono cambiati in modo significativo nel corso delle generazioni fino alla metà del XX secolo. Solo da allora si è verificato un certo cambiamento nel loro volume dovuto all’allevamento di razze di polli da uova” ha spiegato.
Storia di due piazze, una populista in Francia e una democratica in Israele
La manifestazione nonviolenta contro Netanyahu ha avuto successo perché difende il carattere laico, democratico e liberale dello Stato ebraico. Mentre la violenza diffusa a Parigi per protestare contro la riforma delle pensioni è all’insegna del populismo più sfrenato e declamatorio.
La piazza di Israele ha vinto, si è imposta e ha costretto Bibi Netanyahu a cedere. La piazza della Francia invece non vincerà ed Emmanuel Macron non annullerà affatto la sua riforma delle pensioni. È di importanza fondamentale mettere a fuoco le ragioni che hanno portato a risultati così divergenti su un tema cruciale: quanto la democrazia rappresentativa, il Parlamento, il governo debbano e possano oggi cedere alla piazza, alla protesta di massa. Le ragioni della vittoria – temporanea – della piazza israeliana su Bibi Netanyahu sono complesse. La prima e determinante è che la piazza israeliana non solo è immensa – poco meno del 10 per cento della popolazione ebraica – ma che le sue ragioni e i suoi obbiettivi hanno spaccato il Palazzo, addirittura hanno convinto buona parte delle Forze Armate e di Sicurezza, alla base e ai vertici. Questo, nell’unico paese al mondo, Israele, in cui non c’è alcuna distinzione tra esercito e popolo, perché tutti – tranne gli ortodossi – le donne in prima fila, si fanno carico in prima persona della sicurezza armata della comunità nazionale. La seconda ragione della vittoria della piazza israeliana, che è tutt’uno con la prima, è l’obbiettivo della mobilitazione: difendere il carattere laico, democratico e liberale dello Stato ebraico contro un Netanyahu che in preda alla brama di potere – e per salvarsi dalle sentenze – ha dato legittimità, voce, potere, addirittura controllo sulle forze di polizia, a una minoranza para-fascista, razzista, che intende sottomettere i laici israeliani e gli arabi tramite la contestata riforma della giustizia a un potere ebraico-religioso arrogante e totalitario. La terza ragione è che questa immensa mobilitazione è non violenta – insignificanti gli scontri con la polizia – nel paese che più al mondo conosce la violenza di una guerra con gli arabi e di un terrorismo jihadista che si trascinano da un secolo. Così, con questa forza, la mobilitazione attiva di metà e più del paese (molti sono i manifestanti che hanno votato Likud) ha spaccato il governo, la maggioranza, ha convinto i vertici militari, del Mossad e dello Shin Bet e addirittura il ministro della Difesa, braccio destro di Netanyahu e persino l’avvocato che difende Bibi in tribunale. Determinante la minaccia di non presentarsi per protesta alla chiamata di addestramento di 37 sui 40 piloti della squadriglia aerea 69, il cuore dell’aviazione israeliana, determinante per la difesa e l’offesa bellica, a cui può essere affidata la missione di attaccare i reattori nucleari iraniani. Da qui il successo della mobilitazione israeliana, anche se il prezzo che Netanyahu ha pagato alla destra estrema di governo per farle accettare la sospensione della riforma della giustizia è enorme – la formazione di una Guardia Nazionale civile agli ordini di Itamar ben Gvir – che rischia di incubare una violenza sfrenata contro la piazza stessa e contro gli arabi. Non troviamo nessuna di queste caratteristiche invece nella infiammata piazza francese. Innanzitutto perché l’obbiettivo, la gestione e la sua stessa violenza diffusa sono all’insegna del populismo più sfrenato e declamatorio. Si rifiuta la riforma delle pensioni in nome di principi astratti e velleitari – incluso il rifiuto del valore positivo ed emancipatorio del lavoro – in spregio voluto e dichiarato di ogni principio di realtà. Il sistema pensionistico francese attuale è semplicemente insostenibile dal punto di vista economico, questo è il punto centrale, ma questa viene considerata una inezia ininfluente dalla piazza, da sindacati e da Jean Luc Mélenchon. Per costoro, che difendono i 62 anni di età pensionabile non conta nulla che la Francia spenda per le pensioni il doppio della media dei paesi OCSE e che la media europea pensionabile sia di 64,4 anni. Populismo puro di sinistra, verbalismo, velleitarismo. Non solo, pesa nella sconfitta della piazza francese la complicità implicita (da parte dei sindacati) ma anche esplicita da parte di alcuni sindacalisti, come il popolare Olivier Mateu, con una esagitata violenza di piazza volutamente eccitata da un Jean Luc Mélenchon che incita apertamente all’insurrezione e che sbraita «la République c’est moi!». Non stupisce dunque che al rifiuto maggioritario della riforma espresso dai sondaggi, non corrisponda affatto una spaccatura del Palazzo, del governo, della Presidenza. Quando Emmanuel Macron dice con fermezza «la folla non ha alcuna legittimità» sa di avere con sé tutte le istituzioni, senza incrinature: un governo compatto, i poteri forti della Francia, le forze di sicurezza e le Forze Armate con lui, contro la piazza incendiaria. Per questo può dire «assumo la mia impopolarità», perché non una delle istituzioni della République si è incrinata a fronte della violenza di piazza. Risultato: la mobilitazione proseguirà sotto la guida dei sindacati Cfdt e Cgt e di un Jean Luc Mélenchon ebbri di velleitarismo populista, ma è destinata a esaurirsi a fronte di nessun risultato ottenuto. Il tutto, va detto, mentre l’unica a conquistare un dividendo politico dalle follie della piazza francese è Marine Le Pen, sempre più forte per le difficoltà e l’impopolarità di Emmanuel Macron e per la reazione di buona parte dell’opinione pubblica alle follie gauchistes dei sindacati e delle migliaia di casseurs di piazza, Black Bloc, in testa. Al contrario, in Israele, le difficoltà e la battuta d’arresto subite ora da Netanyahu incrinano la sua maggioranza parlamentare, indeboliscono il suo esecutivo, lo isolano sulla scena internazionale (ha dovuto subire umilianti richiami dall’Amministrazione Biden) e possono addirittura sfociare – si vedrà, il quadro è ancora fluido – in elezioni anticipate. Due piazze, due paesi, ma un unico tratto comune: il populismo di sinistra e di destra. Impotente quanto violento il primo in Francia, sconfitto il secondo in Israele.
A Nicotera istituzioni ed esperti di ebraismo: «Calabria terra di accoglienza e multiculturalità»
Nella cittadina costiera si è tenuto un convegno nell'ambito del progetto "Jewish Calabria". Presenti tra gli altri gli assessori regionali Varì e Gallo, il vicepresidente Unione comunità ebraiche italiane Disegni e il ricercatore del Censis De Rita.
Continua il percorso di riscoperta della Calabria delle sue radici ebraiche che questa volta ha fatto tappa a Nicotera, presso la sala consiliare comunale dove, nell’ambito del progetto Jewish Calabria, si è tenuto il convegno “Calabria, culla dell’accoglienza e del dialogo interculturale”. Un’iniziativa organizzata dal giornalista Klaus Davi, che ha tenuto in particolare a sottolineare l’ampia partecipazione delle istituzioni locali, evidenziando che «assessori regionali e sindaci non hanno fatto mancare la loro presenza. È un chiaro segnale che la Calabria, a partire dal presidente Occhiuto, punta molto sulla riscoperta delle sue radici ebraiche». Il governatore, la cui presenza era stata annunciata, non era presente. A fare gli onori di casa, il primo cittadino del centro costiero vibonese Giuseppe Marasco il quale ha sottolineato con orgoglio che «uno degli aspetti più suggestivi della città è sicuramente dato dal fatto che a Nicotera convissero nell’alto medioevo genti che praticavano ben tre religioni diverse, il rito latino il rito greco e quello ebraico, dando così vita ad un esempio di tolleranza religiosa e di multietnicità che oggi, in questo Mediterraneo che molto spesso da ponte diventa barriera e persino teatro di morte, potrebbe fare scuola». Marasco ha quindi parlato delle iniziative portate avanti negli anni per valorizzare la Giudecca nicoterese e dei rapporti intessuto con i massimi rappresentanti dell’ebraismo italiano – da ultimo la cittadinanza onoraria alla presidente Unione delle comunità ebraiche italiane Noemi Di Segni. Quindi l’annuncio: a maggio aprirà a Nicotera il primo Centro studi sull’ebraismo in Calabria. Numerosi gli interventi, tra cui: Rosario Varì, assessore regionale allo Sviluppo economico; Gianluca Gallo, assessore regionale all’Agricoltura; Anton Giulio Grande, presidente della Calabria film commission; Michele Comito, consigliere regionale; Corrado L’Andolina, presidente della provincia di Vibo Valentia; Fortunato Salvatore Giordano e Pantaleone Mercuri, sindaci rispettivamente di Mileto e Limbadi. Presente anche Giulio Disegni, vicepresidente Unione comunità ebraiche italiane (Ucei) che ha sottolineato come «questa regione, almeno da un anno, ha costruito un percorso per raccontarsi come terra di accoglienza e multiculturalità. Purtroppo la presenza ebraica, con radici antiche, è stata cancellata. Ma tutti qui riconoscono come questa cancellazione abbia rappresentato una perdita in termini culturali, economici, sociali e per questo c’è un grande impegno nel cercare di recuperarla e valorizzarla e inserirla in un più ampio lavoro di lotta al pregiudizio. Si tratta del terzo appuntamento legato all’ebraismo organizzato in Calabria e la risposta è stata molto positiva, con la presenza di molti giovani a cui raccontare il passato ebraico del territorio». Un passato che è anche un presente, come hanno poi sottolineato il consigliere con delega alla Cultura di Nicotera, Giuseppe Leone e Roque Pugliese, delegato della neonata Sezione di Palmi della Comunità ebraica di Napoli e referente per l’intero territorio calabrese. «A Nicotera c’è la più grande e meglio conservata giudecca della Calabria e vogliamo raccontare la storia di questa presenza – ha spiegato Leone – e il convegno odierno rappresenta una tappa di questo impegno che proseguirà a maggio quando inaugureremo il primo Centro studi di cultura ebraica della regione. Un elemento che si va ad aggiungere ai progetti per recuperare il patrimonio ebraico locale – ha spiegato invece Pugliese – che ha proseguito dicendo che «è nostra intenzione far rivivere questo passato perché la Calabria è piena di tesori connessi all’ebraismo, di giudecche, di tradizioni, di inflessioni dialettali. La Sezione di Palmi e la sua costituzione ufficiale sono un tassello di questo recupero e della multiculturalità calabrese. L’obiettivo è proseguire nel far rinascere qui la vita ebraica». Ad animare poi il dibattito – al quale hanno partecipato gli studenti del Liceo e dell’Itis di Nicotera – sono stati poi gli interventi di Giulio De Rita,ricercatore Censis; Filippo Callipo, imprenditore e presidente della Callipo Conserve alimentari Spa; Maurizio Cannatà, direttore del Museo Archeologico di Vibo Valentia; Nicolò Bucaria, docente universitario e autore del libro “Sicilia Giudaica”; Ilario Nasso, giudice del tribunale di Vibo Valentia; Cesare Moscati, rabbino capo della comunità ebraica di Napoli. Sul passato ebraico del Meridione si sono infine concentrati gli interventi di Carmelo Zaffora, autore di Le Confessioni di Abulafia e del responsabile della comunicazione esterna della casa editrice Rubettino, Antonio Cavallaro. «In una giornata in cui si parla di recupero straordinario della storia ebraica nel Sud Italia, – ha affermato Zaffora – vale la pena ricordare un personaggio poco noto al grande pubblico: Abraham ben Samuel Abulafia, considerato uno dei maggiori studiosi della Kabbalah dell’epoca medioevale, che ha vissuto gli ultimi suoi anni in Sicilia e che purtroppo non è ricordato. Il mio romanzo storico vuole essere un piccolo tributo in questo senso». Di “impronte dimenticate” hanno invece parlato anche Giuseppe Campagna, docente dell’Università degli studi di Messina e Benedetto Ligorio, docente dell’Università La Sapienza di Roma, ricostruendo, ha spiegato il primo, «quanto diffuso fosse l’ebraismo sul territorio calabrese e quali legami e flussi migratori vi fossero in Sicilia» prima della cacciata del XVI secolo». La prossima tappa sarà a maggio a Bisignano, nel Cosentino.
(ilVibonese, 28 marzo 2023)
Si avvicina il mese di aprile, durante il quale festeggeremo la sconfitta dei regimi autoritari, e la liberazione non solo del nostro Paese, ma anche di tutte le persone prigioniere e oppresse nei campi di concentramento di metà Europa, gran parte delle quali appartenenti a famiglie di religione ebraica. Le forze statunitensi entrarono nel campo di concentramento di Buchenwald, vicino a Weimar in Germania, l’11 aprile 1945, pochi giorni dopo che i Tedeschi avevano cominciato ad evacuarlo, ed assicurarono la libertà a più di 20.000 prigionieri; giorni dopo esse giunsero anche nei campi di Dora-Mittelbau, Flossenburg, Dachau e Mathausen. Le forze britanniche nello stesso mese entrarono in diversi campi di concentramento nel nord della Germania, tra i quali Neuengamme e Bergen-Belsen, vicino a Celle, e vi trovarono ben 60.000 prigionieri, 10.000 dei quali però morirono nelle settimane successive, per la malnutrizione e le malattie. Così aveva termine per gli Ebrei contemporanei la Shoah, ovvero l’’Olocausto in quanto genocidio degli ebrei, in ebraico שואה che significa letteralmente “catastrofe, distruzione”, che ha trovato ragioni storico-politiche nel diffuso antisemitismo secolare. Negli anni che vanno dal 1933 al 1945 la deportazione e lo sterminio nei campi di concentramento provocò la morte di 4-6 milioni di Ebrei, la cifra esatta non è ricostruibile a causa della sciatteria con la quale vennero registrate le generalità dei prigionieri in ingresso, ed anche a causa dell’imprecisione delle anagrafi di alcuni degli Stati di residenza dei deportati. Quello che però a volte dimentichiamo, è che la deportazione perpetrata negli anni a noi più vicini è stata soltanto la più recente, perché nei secoli precedenti gli Ebrei in quanto tali dovettero subirne molteplici. Domani è il giorno 31 di marzo, ed è proprio l’anniversario della decisione con cui il Re e la Regina di Spagna stabilirono l’espulsione degli Ebrei dal territorio del loro Regno, con un conseguente esodo di un grande numero di persone, circa 40.000 (o addirittura 150.000-200.00 secondo le stime meno recenti, ma il conteggio è sicuramente difficile ancora oggi) cittadini spagnoli che dovettero abbandonare le loro case e le loro imprese, per spargersi per ogni dove in Europa, ove spesso subirono ulteriori persecuzioni e diaspore. Un giorno terribile dunque, fu quel 31 marzo del 1492, quando Ferdinando II d’Aragona e Isabella I di Castiglia, subito dopo aver conquistato il Regno musulmano di Granada, emisero il Decreto dell’Alhambra che imponeva l’espulsione di tutti gli Ebrei dal Paese. Però già nel 1478 Ferdinando e Isabella avevano istituito l’Inquisizione, volendo insieme al clero spagnolo liberare il Paese dagli “eretici”, ossia da tutti coloro che seguissero culti e praticassero religioni diverse dal cristianesimo cattolico. Gli ignominiosi “pogrom” ante litteram, ossia le sommosse sanguinose contro gli Ebrei, considerati capri espiatori del malcontento popolare (ante litteram perché il termine “pogrom” fu coniato con riferimento alle repressioni antisemite avvenute, talvolta col consenso delle autorità, in Russia tra la fine del sec. XIX e l’inizio del XX), e le leggi antisemite avevano inoltre caratterizzato la Spagna cattolica per oltre un secolo prima dell’Ordine dell’Alhambra, causando morti e conversioni che già prima di tale decreto avevano notevolmente ridotto la popolazione ebraica spagnola. Infine, dopo avere già costretto gran parte della popolazione ebraica spagnola a convertirsi, la Chiesa e la Corona si impegnarono ad “estirpare” coloro che, pur formalmente convertitisi per evitare l’espulsione, si sospettava praticassero l’ebraismo in segreto: e lo fecero nella gran parte dei casi con metodi estremamente violenti. D’altra parte, sarebbe stato proprio Tomas de Torquemada (nato a Valladolid il 14 ottobre 1420, morto ad Avila il 16 settembre 1498), il religioso spagnolo ricordato come il primo grande Inquisitore dell’Inquisizione spagnola, priore del convento domenicano della Santa Cruz di Segovia e confessore dei sovrani cattolici, a chiedere ad Isabella di Castiglia e Ferdinando II d’Aragona di espellere tutti gli ebrei, prima ancora che questi emettessero finalmente l’ordine il 31 marzo 1492. I risultati dell’Editto dell’Alhambra furono drammatici, ad onta della bellezza di quello che per i turisti è ormai solo una affascinante attrazione, un capolavoro architettonico da fotografare più volte. Agli Ebrei fu dato tempo fino alla fine di luglio del 1492 per lasciare il Paese, con la conseguente vendita frettolosa – o meglio svendita – di molte delle loro terre e dei loro beni ai cattolici a prezzi fallimentari, tirati facilmente verso il basso a causa della estrema situazione di debolezza dei venditori. Molti si convertirono al cattolicesimo pur di rimanere in Spagna, alcuni continuando a praticare la loro religione in segreto, altri invece aderendo genuinamente, anche se non liberamente, al cattolicesimo. Le stime sono difficili, ma gli studiosi moderni (in particolare, lo storico Michael Lynch) ritengono che siano emigrati circa 40.000 ebrei, mentre le stime più antiche parlano di diverse centinaia di migliaia. Molti morirono nel tentativo di mettersi in salvo e, in alcuni casi, i rifugiati pagarono i capitani spagnoli per assicurarsi il viaggio verso altri Paesi per poi essere però gettati in mare: affrontando dunque odissee analoghe, attraverso il Mar Mediterraneo, a quelle degli odierni migranti che attraversano l’Africa sfuggendo alla fame e alle persecuzioni, per poi cadere nelle mani di briganti e nocchieri senza scrupoli. Mentre l’Impero Ottomano accolse con favore l’afflusso di Ebrei spagnoli, molte altre nazioni in Europa li trattarono con la stessa crudeltà degli Spagnoli: sebbene il Portogallo fosse per essi una destinazione popolare, anche ovviamente per la sua notevole vicinanza alla Spagna, i suoi governanti emisero infatti cinque anni dopo un Editto simile a quello dell’Alhambra. L’anno del decreto dell’Alhambra fu anche l’anno in cui Cristoforo Colombo, navigando per conto della Spagna, “scoprì” le Americhe, segnando così l’inizio di due secoli di sforzi spagnoli per imporre il proprio cattolicesimo ai suoi importanti possedimenti coloniali. Dopo il decreto dell’Alhambra la Spagna non ha mai più avuto una popolazione ebraica significativa: secondo le stime più recenti la popolazione ebraica in Spagna è attualmente inferiore allo 0,2%. Vero è che la Spagna ha formalmente revocato il decreto dell’Alhambra soltanto nel 1968, però all’inizio degli anni 2000 sia la Spagna che il Portogallo hanno concesso agli Ebrei sefarditi il diritto di rivendicare la cittadinanza dei Paesi che avevano espulso i loro antenati quasi sei secoli prima. Infatti, il Paese iberico il 3 ottobre 2015 ha approvato una legge con cui ha previsto la concessione della cittadinanza ai discendenti degli ebrei sefarditi, cacciati nel 1492: la gran parte delle richieste di cittadinanza sono pervenute, secondo la Federazione della Comunità Ebraica di Spagna, dal Marocco, dalla Turchia e dal Venezuela. A tutti i discendenti delle vittime della Shoah e dei pogrom del 1492, in qualunque parte del mondo essi vivessero, è stato concesso un termine di tre anni per richiedere il passaporto spagnolo, la cittadinanza, e il diritto di vivere e lavorare nell’Unione Europea. Speriamo che i popoli che ancora oggi sono costretti a fuggire dai loro paesi, a causa della guerra o di politiche scellerate di selezione della razza o dei nuclei nazionali, non debbano aspettare anch’essi più di cinque secoli per vedere finalmente ristabiliti i propri diritti.
Tra dissapori vecchi e nuovi, le relazioni tra Biden e Netanyahu si fanno sempre più fredde
di Giovanni Panzeri
“Lo voglio dichiarare chiaramente: non possono continuare su questa strada” ha affermato il presidente statunitense Joe Biden martedì 28 marzo, riferendosi alla crisi scatenata in Israele dal recente piano di riforma del sistema giudiziario, “spero che il primo ministro agisca in modo da trovare un sincero compromesso, ma è una cosa che rimane da vedere”.
Biden ha poi nettamente negato le voci riguardanti un possibile invito di Netanyahu alla Casa Bianca, affermando che “non è previsto nel prossimo futuro”. Questo sarebbe un segnale rilevante, scrive il Times of Israel, perché interromperebbe quella che da anni era diventata quasi una tradizione diplomatica. La risposta di Netanyahu non si è fatta attendere, ed è stata altrettanto decisa: “Israele è uno Stato sovrano, governato dal suo popolo e non da pressioni esterne” ha dichiarato il primo ministro israeliano “comprese quelle che vengono dai nostri più stretti alleati”, rimarcando comunque che l’alleanza tra le due nazioni è “indistruttibile”. L’amministrazione americana si è poi mossa ufficialmente per tentare di abbassare il livello di tensione, ma il recente sfogo del presidente statunitense è solo il segno più evidente di una lunga serie di divergenze tra i due leader.
• Una relazione non idilliaca Dissapori che emergono ad esempio dalle accuse di “debolezza” lanciate all’amministrazione Biden a causa della recente normalizzazione delle tensioni tra Arabia Saudita e Iran, ma che forse erano già evidenti nell’ultima campagna elettorale statunitense, durante la quale Netanyahu non ha mai nascosto la sua netta preferenza per una vittoria dell’allora presidente Trump. Un’antipatia, secondo il New York Times, nata già nel 2015, al tempo dell’accordo sul nucleare tra Usa e Iran. Inoltre la vicenda va inserita nel contesto di una crescente distanza tra la comunità ebraica americana e il governo israeliano, generata proprio dal piano di riforma giudiziaria. “Non vogliamo interferire” ha detto Biden nella stessa occasione “ma conoscono la mia posizione, la posizione degli Stati Uniti e quella della comunità ebraica americana”.
• Reazioni americane e israeliane La dichiarazione di Biden è stata subito attaccata dall’opposizione repubblicana, a cui hanno fatto eco le proteste dei sostenitori del governo israeliano. Come riportato da algemeiner, mentre il ministro israeliano Miki Zohar accusava Biden di essere “vittima di fake news”, Yair Netanyahu, figlio del primo ministro, e il senatore repubblicano Ted Cruz hanno usato i social per accusare il governo statunitense di finanziare le proteste. Accuse fortemente negate dal dipartimento di stato USA. Dal canto suo invece il leader dell’opposizione parlamentare israeliana Yair Lapid ha sottolineato come “per decenni gli USA sono stati i più stretti alleati di Israele. Questo governo, il più estremo nella nostra storia, ha distrutto quella relazione in tre mesi”.
«Arabo israeliani minaccia interna». L’idea di Ben Gvir è una milizia
Domenica il ministro della Sicurezza nazionale chiederà al governo Netanyahu di approvare il progetto della nuova forza di sicurezza: 2000 uomini ai suoi ordini. Protestano i cittadini arabi e le ong per i diritti umani.
GERUSALEMME - Si ferma, per poco, l’iter per la riforma giudiziaria e già ne parte un altro per realizzare il progetto più desiderato dal ministro israeliano della Sicurezza nazionale, il suprematista Itamar Ben Gvir. Domenica il ministro chiederà al governo di approvare la costituzione di una Guardia nazionale forte di 2.000 membri che risponderà direttamente a lui. Si tratta in sostanza della milizia personale di Ben Gvir, leader del partito Otzma Yehudit e discepolo del rabbino razzista Meir Kahane, che il premier Netanyahu ha promesso lunedì scorso allo scopo di puntellare la maggioranza di estrema destra religiosa che rischiava di andare in frantumi dopo la sospensione della riforma della giustizia. La Guardia nazionale, spiega Ben Gvir, avrà il compito di affrontare il «crimine nazionalista», il «terrorismo» e di «ripristinare il governo dove necessario». In poche parole, avrà come compito primario quello di sorvegliare gli arabo israeliani, i palestinesi cittadini di Israele che Ben Gvir considera un «nemico interno». È opinione diffusa che bersaglio principale del ministro Ben Gvir siano i palestinesi nei Territori occupati e che la sua ascesa al potere sia avvenuta grazie ai voti dei coloni israeliani in Cisgiordania. Invece il consenso a Ben Gvir, seppur garantito anche dai coloni, proviene dagli israeliani ebrei delle periferie urbane, delle aree marginali di Israele, dalle cittadine sperdute del Neghev e da religiosi ultraortodossi convertiti al nazionalismo. Porzioni di popolazione ebraica che hanno abbracciato l’estremismo di Ben Gvir perché si percepiscono minacciate dalla crescita demografica araba e dai progressi che gli arabo israeliani hanno fatto nelle professioni, nell’istruzione e più in generale nella società malgrado le politiche sfavorevoli dello Stato. «Temo non poco le conseguenze della nascita di questa milizia, perché Ben Gvir non ha mai nascosto di vedere nei cittadini palestinesi un male da debellare, anche con la forza. Due anni fa è stato molto chiaro su questo punto», dice al manifesto la giornalista Lubna Masarweh riferendosi alle dichiarazioni fatte da Ben Gvir durante le violenze dell’aprile-maggio 2021 tra ebrei e arabi innescate dalla minaccia di espulsione per 28 famiglie palestinesi di Sheikh Jarrah (Gerusalemme Est). In quei giorni, in particolare a Lod, Ramle, Haifa e altre città miste, gli scontri tra ebrei e arabi causarono alcuni morti e decine di feriti. Per la destra fu una «insurrezione araba contro lo Stato» e Ben Gvir, che faceva la spola tra Lod e Sheikh Jarrah, affermò che l’accaduto imponeva l’adozione di misure drastiche per porre fine alla «illegalità» in Galilea, nel Negev – dove le comunità beduine si oppongono allo sfollamento – e nel resto di Israele. Se il progetto, come è probabile, sarà approvato dal governo, Ben Gvir istituirà un comitato composto da rappresentanti dell’ufficio del primo ministro, della polizia e di vari ministeri per formalizzare le competenze, le aree operative della Guardia nazionale e la sua composizione. Proprio ieri i palestinesi in Israele – e nei Territori occupati – hanno commemorato con raduni e cerimonie il 47esimo anniversario del Giorno della Terra (30 marzo 1976) in cui sei arabo israeliani furono uccisi dalla polizia durante le proteste contro la confisca di terre arabe da parte dello Stato. Il prossimo 15 maggio sono previsti altri raduni per la Nakba (Catastrofe), il giorno in cui sono ricordate le centinaia di migliaia di palestinesi cacciati con la forza o fuggiti dalla loro terra durante le fasi che portarono alla nascita dello Stato di Israele. Secondo alcuni in futuro la Guardia nazionale impedirà questo tipo di manifestazioni che, come ha spiegato in passato Ben Gvir, danno sfogo al nazionalismo palestinese e sfidano la natura ebraica dello Stato e la sua sovranità. In allarme non è solo la minoranza araba in Israele. Preoccupazioni giungono anche da esponenti politici dell’opposizione e dalle ong per la difesa dei diritti umani. Noa Sattath, direttrice dell’Associazione per i diritti civili in Israele (Acri), insiste che la nuova forza sarà schierata contro i palestinesi di Israele. I collaboratori del ministro della sicurezza lo smentiscono e spiegano che la Guardia nazionale combatterà i criminali ebrei come quelli arabi.
Tel Aviv è ancora tra le principali città in cui si realizzano start-up
di Michelle Zarfati
Nonostante le recenti turbolenze economiche, Tel Aviv è ancora una delle principali città di "unicorni" (start-up valutate 1 miliardo di dollari). A rivelarlo è un nuovo rapporto condotto dal Comune di Tel Aviv-Yafo in collaborazione con la società di ricerca olandese Dealroom.
Secondo il rapporto, che si concentra sul coinvolgimento e la promozione dell'ecosistema tecnologico della città, Tel Aviv-Yafo è al 5° posto al mondo nella produzione di aziende unicorno, con il 76% delle start-up fondate a Tel Aviv che scelgono di rimanere e operare nella città.
Inoltre, secondo il rapporto, Tel Aviv-Yafo è al 3° posto tra tutte le città della regione EMEA per gli investimenti totali in capitale di rischio raccolti nel 2022. Non solo, il valore delle start-up di Tel Aviv è ora di 393 miliardi di dollari, 3,5 volte di più rispetto al 2018. Soltanto nel corso dello scorso anno le start-up con sede a Tel Aviv hanno raccolto 6,9 miliardi di dollari, quasi due volte di più rispetto al 2020. Il settore cyber è l'industria in cui sono state investite le somme più alte — per un valore di 1,7 miliardi di dollari — e il settore sanitario è uno dei in più rapida crescita, con un aumento del 33%.
"Congratulazioni alla nostra città. Sono orgoglioso del fatto che Tel Aviv-Yafo si sia classificata così in alto. Queste sono le conquiste della democrazia, della libertà e dei diritti umani, che portano alla straordinaria creatività e ai risultati dell'industria hi-tech locale nell'ultimo anno - ha detto il sindaco di Tel Aviv-Yafo Ron Huldai. "Non dobbiamo dimenticare proprio nel periodo attuale, in cui la democrazia in Israele è in crisi, che l'industria hi-tech è fiorita soprattutto grazie a valori come la libertà e la parità di diritti”.
Da ora il Tempio Or Yehuda di Roma si aggiunge ai luoghi ebraici italiani che hanno a disposizione un defibrillatore. Questo grazie al progetto “Datti una mossa dagli una scossa” realizzato dall’Associazione Amici di Magen David Adom Italia ETS con il contributo dei fondi della raccolta Otto per mille dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. “Sappiamo che i defibrillatori sono strumenti importantissimi. Intervenire nei primi minuti in casi di aritmia può salvare la vita al paziente”, spiega a Pagine Ebraiche il medico Cesare Efrati, presente all’inaugurazione del nuovo defibrillatore al Tempio Or Yehuda. L’impegno del Magen David Adom è importante, aggiunge, perché contribuisce a realizzare “presidi a disposizione di tutta la cittadinanza. Il 118 viene infatti informato della presenza dei defibrillatori in modo da poterli adoperare in caso di necessità”. In diverse sinagoghe e Comunità ebraiche italiane è stato fatto lo stesso, con l’obiettivo di costruire di una vera e propria rete in cui è possibile trovare questi indispensabili apparecchi salvavita. All’inaugurazione al Tempio Or Yehuda era presenta anche l’assessore UCEI Davide Jona Falco e la presidente della Comunità ebraica di Roma Ruth Dureghello.
Il progetto, rileva ancora Efrati, rappresenta una delle iniziative degli Amici del Magen David Adom. “Sono impegnati anche nel promuovere raccolte fondi a favore del Magen David Adom in Israele. Il ruolo di questo servizio è essenziale perché dà assistenza a migliaia di persone”. Si tratta di una realtà che rappresenta un modello nell’intervento di emergenza. “Fanno corsi di formazione in molti paesi: in Italia ad esempio è stato fatto all’Università Tor Vergata. Ma sono anche impegnati nei soccorsi in diverse aree del mondo. In Turchia ad esempio ha mandato delle sue squadre per il terremoto”. Un impegno da tenere a mente, rileva Efrati, “quanto si tratta di portare avanti nelle nostre Comunità raccolte benefiche”.
Inizio 2023 a gonfie vele per l’Israele, che vede l’Italia saldamente al quinto posto fra i mercati incoming globali. “Già a gennaio e febbraio abbiamo assistito a una buona ripresa, con numeri vicini a quelli del 2019, che è stato per noi un anno record”. Così ha esordito Kalanit Goren Perry, consigliere affari turistici Ambasciata di Israele e direttrice dell’Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo in Italia, in occasione della recente Bmt a Napoli.
Alta la domanda da parte dei tour operator e delle agenzie di viaggio, e con oltre 100 voli settimanali da tutta Italia, l’ente del turismo sta investendo in una campagna di incentivazione televisiva, audio e digitale concentrata su Gerusalemme e Tel Aviv.
“Sono due città molto diverse l’una dall’altra e ognuna offre esperienze uniche. Poi sono sempre di più le richieste di soggiorni alla scoperta dei lati più genuini ed autentici del Paese come per esempio il nostro deserto, che è una regione meno conosciuta dal mercato italiano. Sono molti i circuiti che combinano escursioni e soggiorni nel deserto con visite alle città, ai luoghi storici di pellegrinaggio e naturalmente al nostro mare. Mi auguro quest’anno di vedere arrivare almeno 300.000 visitatori italiani”.
Biden apre una crisi tra Usa e Israele. E De Santis si infila in vista delle urne
Netanyahu durissimo dopo la richiesta di frenare la riforma della giustizia: «Non accettiamo delle pressioni, neanche da Paesi amici», E, nella stessa amministrazione dem, sono molte le voci critiche sull'uscita di Joe.
di Stefano Graziosi
E’ uno scontro politico durissimo quello esploso, nelle scorse ore, tra Joe Biden e Benjamin Netanyahu. Il presidente americano è andato all'attacco della riforma giudiziaria, promossa dal premier israeliano. «Spero che Netanyahu lasci perdere», ha detto l'inquilino della Casa Bianca. «Come tanti strenui sostenitori di Israele, sono molto preoccupato», ha proseguito, per poi aggiungere: «Non possono continuare su questa strada». «Si spera», ha continuato, «che il primo ministro agisca in modo da cercare di elaborare un vero compromesso, ma resta da vedere», Quando gli è poi stato chiesto se abbia intenzione di ricevere Netanyahu alla Casa Bianca, Biden ha risposto: «No, non nel breve termine». La replica del premier israeliano non si è fatta attendere. «Conosco il presidente Biden da oltre 40 anni e apprezzo il suo impegno di lunga data nei confronti di Israele», ha affermato. «L'alleanza tra Israele e Stati Uniti è indissolubile e supera sempre le differenze occasionali tra di noi», ha continuato, per poi aggiungere: «Israele è un Paese sovrano che prende le sue decisioni per volontà del suo popolo e non sulla base di pressioni dall'estero, anche da parte dei migliori amici». Secondo fonti ascoltate dal Times of Israel, la presa di posizione di Biden avrebbe «sorpreso» vari esponenti della sua stessa amministrazione: segno, questo, del fatto che - come su molti altri dossier internazionali - l'attuale governo americano risulta internamente diviso. La stessa testata ha inoltre riferito che, sulla base di pareri raccolti all'interno del Likud, Netanyahu non sarebbe granché impensierito dai commenti del presidente americano. Il premier israeliano considererebbe infatti Biden politicamente debole e starebbe probabilmente già scommettendo sulla vittoria di un candidato repubblicano alle elezioni presidenziali statunitensi del 2024. Non è quindi forse un caso che Ron DeSantis si recherà in Israele a fine aprile. «In un momento di relazioni inutilmente tese tra Gerusalemme e Washington, la Florida funge da ponte tra il popolo americano e quello israeliano», ha dichiarato il governatore della Florida al Jerusalem Post. Pur non essendosi ancora ufficialmente candidato, DeSantis è considerato uno dei contendenti più seri per la nomination presidenziale repubblicana del 2024. Il suo viaggio israeliano potrebbe quindi avere un duplice significato. Se il governatore punta ad accrescere la sua credibilità internazionale in vista della sfida elettorale, Netanyahu vuole far capire a Biden di non temere le sue pressioni, puntando su altri interlocutori politici. D'altronde, pur potendo contare anche su alleati all'interno del Partito democratico, l'attuale premier israeliano ha sempre trovato nei repubblicani la propria principale sponda politica negli Stati Uniti. Netanyahu fu, non a caso, uno stretto alleato dell'allora presidente Donald Trump (sebbene quest'ultimo non gli abbia successivamente perdonato il fatto di essersi congratulato celermente con Biden per la vittoria elettorale nel novembre del 2020). Come che sia, l'entrata a gamba tesa del presidente americano sulla riforma giudiziaria di Netanyahu offre almeno due spunti di riflessione. Primo: Biden ha commesso un'evidente ingerenza, intromettendosi in quello che, comunque la si possa pensare nel merito, è un problema tutto relativo alla politica interna israeliana. A pensar male, verrebbe quasi da credere che l'inquilino della Casa Bianca abbia voluto cercare di destabilizzare un premier, Netanyahu, con cui in passato ha spesso avuto rapporti tesi (si pensi solo al dossier iraniano). Secondo: non è detto che questa mossa non possa ritorcersi contro lo stesso Biden. Da quando costui è arrivato alla Casa Bianca, l'influenza statunitense sul Medio Oriente è diventata sempre più traballante. Il tentativo, ancora in corso, dell'attuale presidente americano di rilanciare il controverso accordo sul nucleare con l'Iran ha isolato Israele e spinto i sauditi progressivamente tra le braccia di Russia e Cina. Con il risultato che Pechino ha recentemente mediato la distensione diplomatica tra Riad e Teheran, mentre Mosca ne sta mediando un'altra tra la stessa Riad e Damasco. Non solo. Secondo indiscrezioni riferite dalla stampa giapponese, la recente intesa tra sauditi e iraniani prevedrebbe anche il sostegno da parte di Riad dell'accordo sul nucleare con l'Iran: un accordo che costituisce da sempre una minaccia alla sicurezza di Israele. Mosca e Pechino, insomma, rafforzano la propria influenza sul Medio Oriente, mentre Washington non riesce più a toccare palla. Anziché quindi cercare di rilanciare i rapporti con Gerusalemme, Biden si sta mettendo ancora di più con le spalle al muro. Una situazione diametralmente opposta a quella lasciata in eredità da Trump, che aveva creato un asse di ferro con Israele e Arabia Saudita, per isolare Teheran e costringerla a rinegoziare radicalmente l'intesa sul nucleare. Un vantaggio che la disastrosa politica mediorientale di Biden ha ormai irrimediabilmente perduto.
Una vecchia battuta attribuita a Golda Meir lamentava del fatto che di tutto il Medio Oriente, Mosè avesse condotto il popolo ebraico nell’unico fazzoletto di terreno sfornito di risorse petrolifere. Oggi quella battuta non sarebbe più attuale: non si è trovato il petrolio sul territorio di Israele, ma a partire dal 2009 sono stati scoperti nel mare prospiciente diversi giacimenti di gas, che coprono ormai tutto il bisogno energetico del paese e permettono inoltre una cospicua esportazione in Egitto, Giordania e in direzione dell’Europa. Non si tratta semplicemente di una risorsa economica importante in più per l’economia israeliana, ma di un fattore strategico notevole. Che l’approvvigionamento di idrocarburi potesse essere usato come un’arma fu un’invenzione della lega araba, quando in concomitanza con la guerra del Kippur (ottobre 1973), estese il boicottaggio che da sempre aveva usato contro Israele, nell’ambito del rifiuto di ogni rapporto commerciale con lo stato ebraico, a tutti gli stati che avevano relazioni normali con esso, e dunque dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti. Ne seguì una crisi economica con un forte aumento dell’inflazione, contrastata con la politica dell’austerità (fra cui le famose domeniche a piedi anche in Italia) che si concluse solo dopo un paio d’anni. Per chi si fosse dimenticato la lezione, la recente aggressione russa all’Ucraina è anch’essa affiancata da parte russa con l’uso dell’arma energetica. Dunque la disponibilità di idrocarburi è un aspetto importante dell’autonomia sostanziale di ogni paese.
Quel che si è scoperto gradualmente negli ultimi due decenni è che i fondali di tutto il Mediterraneo orientale sono ricchi di gas. Si valuta che vi si trovino mille miliardi di metri cubi (una famiglia italiana media consuma oggi meno di 1000 metri cubi l’anno). Poco meno del dieci per cento di queste ricchezze si trova nella zona economica esclusiva che si estende al largo della coste israeliane. Il resto è distribuito fra Egitto, dove vi è il giacimento più vasto di tutti, Libano, Siria, Turchia, Cipro e Grecia. Ma le perforazioni dei pozzi di gas sul fondo marino richiedono tecnologia avanzata e grandi investimenti (il che a sua volta esige tranquillità politica e sociale), sicché oggi Israele è il paese di gran lunga più avanzato dell’area nello sfruttamento di queste risorse. Complessivamente, nei primi sei mesi del 2021 nei giacimenti israeliani di Leviathan e Tamar sono stati prodotti 10,85 miliardi di metri cubi di gas.
A loro volta queste risorse sono però ragione di conflitti. In un mare tutto sommato ristretto come il Mediterraneo le zone economiche esclusive (che secondo le convenzioni internazionali possono estendersi per 200 miglia, oltre 300 chilometri) facilmente si sovrappongono e devono essere definite mediante accordi. Israele l’ha fatto con Cipro, ma ha subito attacchi e minacce dal Libano, in particolare dai terroristi di Hezbollah, fino a un recente accordo patrocinato dagli Stati Uniti e molto discusso nello stato ebraico, perché cede una parte della zona in cambio di compensazioni economiche. Vi è un conflitto aperto su questo tema fra Turchia e Cipro, che essa ha invaso e in parte occupato cinquant’anni fa.
Un altro tema di conflitto è il modo di trasportare il gas in Europa, che ne ha bisogno. Israele propone un gasdotto (Eastmed) attraverso Cipro, la Grecia, l’Italia; l’Egitto propende per la liquefazione del gas (che già Israele gli fornisce a questo scopo) e il trasporto via nave. La Turchia vuole che il gasdotto passi attraverso il suo territorio evitando i nemici ciprioti e greci. La speranza è che queste risorse siano ragione di collaborazione e non di guerra e che inoltre esse siano sfruttate con parsimonia ecologica, dato che si tratta di giacimenti grandi ma non infiniti e certamente rinnovabili. Israele lo sa e si comporta di conseguenza.
Vaccini Covid: gli Stati pagano la ricerca, Big Pharma incassa
Stati Uniti ed Europa hanno investito trenta miliardi nei farmaci contro la pandemia: le multinazionali solo 16, hanno realizzato profitti per oltre 90 e possono alzare i prezzi. I risultati di un’indagine commissionata dalla commissione europea al professore della Statale di Milano, Massimo Florio.
di Gloria Riva
Trenta miliardi. È questa la cifra che gli Stati, Usa e Unione Europea in primis, hanno speso per finanziare la ricerca e lo sviluppo dei vaccini. Mentre le case farmaceutiche, che si sono arricchite vendendo i risultati di quegli investimenti pubblici, hanno messo di tasca propria solo 16 miliardi per la ricerca e sviluppo. A posteriori, nei due anni successivi all’inizio della pandemia, le principali multinazionali farmaceutiche Pfizer, BioNTech, Moderna e Sinovac hanno registrato profitti per circa 90 miliardi di dollari dalla vendita di vaccini e farmaci contro il Covid-19. È questo il dato emerso da uno studio commissionato dal Parlamento Europeo e dalla Commissione speciale sugli insegnamenti da trarre dalla pandemia ai docenti di Scienze della Finanza dell'Università di Milano, Massimo Florio, Simona Gamba e a Chiara Pancotti del Center of Industrial Studies, Csil. Trenta miliardi sono stati investiti dal pubblico, senza tuttavia avere alcuna voce in capitolo sulle decisioni economiche fondamentali e costretti, oltretutto, a sottostare a qualsiasi variazione di prezzo stabilita dalle multinazionali: al punto che, in base all'indagine della Corte dei Conti Europea, il Vecchio continente ha speso altri 71 miliardi per 4,6 miliardi di dosi di vaccino, con contratti di acquisto anticipato. Si tratta, di fatto, della spesa più onerosa per il bilancio europeo di tutti i tempi. Lo studio del professor Florio ha dimostrato «la forte prevalenza del rischio finanziario assunto dal pubblico, cioè dai cittadini, rispetto al privato nella produzione dei vaccini contro Covid-19. Un rischio a cui non ha corrisposto un potere di decisione sui prezzi e sulla distribuzione, con gravi oneri per l’interesse collettivo». Si tratta di una realtà del tutto diversa dalla narrazione secondo cui i risultati ottenuti con i vaccini si devono soprattutto agli investimenti “a rischio” assunti dalle imprese farmaceutiche, perché assunti ancor prima di sapere se i vaccini funzionassero o meno. Per i nove vaccini esaminati dallo studio, la ricerca ha stimato che le imprese hanno realizzato investimenti di cinque miliardi di euro per ricerca e sviluppo e di undici miliardi per investimenti produttivi prima di avere certezza di vendita, per un totale di 16 miliardi. A fronte di essi, dall’esterno, in quasi completa provenienza dagli Stati, sono arrivate alle imprese sovvenzioni a fondo perduto di nove miliardi per ricerca e sviluppo, con un'enorme variabilità fra imprese riceventi , e ventuno miliardi di advanced purchase agreements, cioè degli accordi di acquisto prima dell’autorizzazione dei vaccini stessi, per un totale di 30 miliardi. «Quindi la maggior parte del rischio finanziario che ha consentito la realizzazione dei nove vaccini esaminati è stata assunta dal settore pubblico, non dalle imprese» ha commentato Fabrizio Barca, co-coordinatore del Forum Disuguaglianze e Diversità, che continua: «Questo dato nega, in primo luogo, che gli elevatissimi extra-profitti realizzati dalle imprese farmaceutiche nella vendita dei vaccini siano in qualche misura giustificati dal rischio di mercato da loro assunto. Addirittura, per alcune multinazionali i profitti sono stati di svariate decine di miliardi. Mentre, un rischio due volte maggiore è stato assunto dagli Stati, con mezzi delle persone contribuenti (di oggi e di domani). Ma a fronte di tale rischio gli Stati non hanno esercitato la funzione di governo e controllo delle decisioni di prezzo e distribuzione che competono a chi si assume la maggioranza del rischio». Quei soldi avrebbero potuto essere spesi diversamente, ad esempio i governi avrebbero potuto investire sul rafforzamento dei sistemi sanitari pubblici. Una distorsione che rischia di aggravarsi ulteriormente nell’immediato futuro, visto che Moderna e Pfizer hanno annunciato di volere quintuplicare il prezzo a dose portandolo a circa 100 dollari dagli attuali 20, e che l’immunizzazione dura solo pochi mesi. Per cui si ricomincerà a dover pagare un conto illimitato. Per di più, argomenta lo studio, senza che i fortissimi differenziali di prezzo fra i diversi vaccini siano accompagnati da alcuna valutazione delle differenze nella loro efficacia. «È evidentemente necessaria una forte correzione di rotta per affrontare in tutt’altro modo i possibili sviluppi dell’attuale pandemia e ogni simile emergenza», argomenta Massimo Florio, che è docente di Economia alla Statale di Milano e membro del Forum DD, che continua: «La scelta sin qui compiuta dall’Unione Europea non va in questa direzione, ma conferma la logica delle sovvenzioni pubbliche in attività di ricerca e sviluppo su cui gli Stati non hanno voce. Occorre un intervento pubblico europeo per prevedere e affrontare le prossime pandemie e per altre emergenze già visibili. In campi cruciali per la salute, serve la messa a punto di farmaci, vaccini, diagnostica e altri rimedi, da offrire ai cittadini come beni comuni: con ricerca e sviluppo anche in collaborazione con imprese private, ma mantenendo fermamente sotto controllo pubblico la proprietà intellettuale e le decisioni strategiche su tutto il ciclo dell’innovazione biomedica e del farmaco in quei campi». Lo studio argomenta che nell’immediato è necessario normare a livello Europeo la condivisione delle decisioni di prezzo e distribuzione fra privato e pubblico in relazione all’entità dei rispettivi investimenti. A regime, la strada appropriata è quella di avviare la costruzione di un’infrastruttura pubblica, come quella proposta nello studio precedente Biomed Europa, svolto dagli stessi economisti per lo Science and Technology panel del Parlamento Europeo, a partire da una idea maturata già nel 2019 nel ForumDD.
(L'Espresso, 30 marzo 2023) ____________________
«La maggior parte del rischio finanziario che ha consentito la realizzazione dei nove vaccini esaminati è stata assunta dal settore pubblico, non dalle imprese». Al maggior rischio finanziario del settore pubblico rispetto a quello delle multinazionali farmaceutiche si può aggiungere il totale rischio legale degli Stati in caso di malattie o morti provocate dai vaccini. Il solo rischio che possono subire le multinazionali del farmaco è la diffusione di notizie "allarmanti" sugli effetti collaterali che potrebbero indurre la popolazione a non avere più fiducia nei vaccini e gli Stati a non comprarne abbastanza. Ma anche per parare a questo pericolo le multinazionali possono usare gli Stati usando armi come informazioni menzognere, corruzione, minacce. E se non basta ancora. messa in opera delle minacce. Quello che è successo fino ad ora potrebbe ripetersi in forma peggiore. Si legga Obbligo vaccinazioni per docenti, ATA e dirigenti scolastici: dalla polio al morbillo. Per il Comitato Nazionale di Bioetica “E’ questione etica”, basato sul Piano Nazionale Prevenzione Vaccinale presentato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri pochi giorni fa. M.C.
La FIFA cancella la Coppa del mondo Under-20 in Indonesia per le proteste contro la partecipazione d’Israele
di Pietro Baragiola
Appena 8 settimane prima dell’inizio del Campionato mondiale di calcio Under-20 2023, la federazione internazionale calcistica (FIFA) ha deciso di togliere all’Indonesia i diritti di ospitare il torneo. Questa decisione improvvisa è stata presa in risposta alle continue proteste che avevano preso luogo in questi giorni in Indonesia per cancellare la partecipazione della nazionale di calcio israeliana. L’Indonesia, con i suoi 277 milioni di abitanti, è il paese con la più grande maggioranza islamica del mondo e i mussulmani costituiscono l’87% della sua popolazione, da sempre contraria a costruire una relazione diplomatica con Israele. Ciononostante, quando questi continui contrasti hanno spinto la FIFA a prendere la decisione iniziale di cancellare i sorteggi delle squadre partecipanti previsti per venerdì 31 marzo sull’isola di Bali, diversi rappresentanti dell’associazione calcistica indonesiana PSSI (Pesatuan Sepakbola Seluruh Indonesia) hanno tentato disperatamente di trovare una soluzione diplomatica a questa situazione, ben sapendo che un loro eventuale fallimento avrebbe potuto portare all’esclusione dell’Indonesia da tutti gli eventi sportivi futuri organizzati dalla FIFA.
• FIFA 2023 Inizialmente prevista per il 2021, la 23° edizione del Campionato mondiale di calcio Under-20 organizzato dalla FIFA era stata rinviata al 2023 a causa della pandemia del COVID-19. Questa sarebbe stata la prima edizione ospitata dall’Indonesia che avrebbe registrato la sua seconda ufficiale partecipazione a questo campionato biennale dopo la sua fondazione nel 1977. Il 2023, dunque, si era presentato come un’ottima occasione di crescita per l’Indonesia sia dal punto di vista sportivo che economico. Secondo le previsioni confermate dal magazine online The Algemeiner, la FIFA avrebbe dovuto rivelare il 31 marzo sull’isola di Bali le 24 nazioni partecipanti al campionato che avrebbe avuto luogo tra il 20 maggio e l’11 giugno, spostandosi attraverso 6 città indonesiane. Domenica 26 marzo però, a soli 4 giorni dalla data stabilita, la FIFA ha ufficialmente cancellato il sorteggio delle squadre senza annunciare una data sostitutiva. L’associazione PSSI ha provato a far luce sull’accaduto e, nonostante non abbia ricevuto una motivazione ufficiale dalla FIFA sul perché di questo gesto, crede tutt’ora fermamente che la decisione sia dipesa dal fatto che il governatore di Bali, Wayan Koster, è riuscito a convincere il Ministero dello Sport e della Gioventù ad impedire alla nazionale israeliana di competere sulla sua isola. Per tragica ironia, questa sarebbe stata la prima edizione del Campionato mondiale di calcio Under-20 in cui Israele è riuscita ad essere ammessa. Incurante di ciò, il governatore Koster ha spiegato che le sue azioni devono essere considerate una conferma della posizione del governo indonesiano a favore della causa palestinese.
• INDONESIA CONTRO ISRAELE Questa non è la prima volta che il governo indonesiano mostra la propria opposizione nei confronti di Israele sul campo sportivo internazionale. L’Indonesia è stata una dei tre paesi con maggioranza mussulmana ad aver abbandonato le qualificatorie della Coppa del mondo del 1958 per evitare di giocare contro Israele che, come risultato, ha vinto i round di qualificazione dell’area Asia-Africa senza nemmeno scendere in campo. Inoltre, nel 1962, durante la quarta edizione dei Giochi Asiatici, l’evento sportivo quadriennale tra i migliori atleti del continente asiatico, Israele fu costretta a ritirarsi dalla competizione dopo che l’Indonesia, scelta come paese ospitante, si è rifiutata di permettere ai giocatori israeliani i visti di viaggio. Questi conflitti sono degenerati con il passare degli anni fino a culminare la scorsa settimana quando centinaia di persone sono scese in piazza nella capitale indonesiana di Jakarta per protestare contro la partecipazione di Israele alla Coppa del mondo Under-20, agitando bandiere palestinesi, indonesiane e striscioni con le scritte “Palestina libera” e “Israele è il nemico dell’Islam”. Tra la folla sbracciante echeggiavano grida violente come “Israele, vattene dalla Coppa del mondo” e cori che cantavano “Allahu Akbar”. Una delle organizzazioni responsabili della protesta è stata la PA 212 che da sempre cerca di aumentare i suoi seguaci diffondendo il clima di terrore secondo il quale l’esercito israeliano sarebbe responsabile di atti di indicibile crudeltà in Palestina contro civili, madri e bambini.
• SALVARE IL CALCIO INDONESIANO Arya Sinulingga, membro del comitato esecutivo del PSSI, teme che l’Indonesia subirà pesanti sanzioni disciplinari dato che le autorità indonesiane, tra cui il governatore Koster, avevano aderito ai requisiti di partecipazione della FIFA molto prima che il paese venisse scelto per ospitarne il campionato. “Noi del PSSI stiamo cercando di salvare il football indonesiano” dichiara Sinulingga, spiegando che la FIFA potrebbe arrivare ad isolare il calcio indonesiano dal resto del mondo. Per risolvere il prima possibile questa situazione il presidente del PSSI, Erick Thohirwill, ha tentato di negoziare con il Ministero degli Affari Esteri indonesiano e con il Ministero dello Sport e della Gioventù, in modo da trovare una soluzione che separasse una volta per tutte lo sport dalla politica. Già in passato il governo indonesiano aveva provato a prendere il controllo della federazione calcistica locale e questo era costato al paese l’esclusione da tutte le partite organizzate dalla FIFA tra il 2015 e il 2016. Anche quando l’Indonesia si era rifiutata di fornire alla squadra israeliana i visti necessari durante la quarta edizione dei Giochi Asiatici del 1962, il paese è andato incontro a pesanti ripercussioni venendo escluso dalle Olimpiadi di Tokyo del 1964. Dopo la conferma ufficiale da parte della FIFA di rimuovere all’Indonesia i diritti di ospitare il Campionato del mondo, la squadra nazionale indonesiana ora rischia di essere esclusa da tutti gli eventi calcistici futuri, non riuscendo così a qualificarsi alla Coppa del mondo del 2026 e subendo perdite economiche pari a triliardi di rupie. Secondo Thohirwill, infatti, sarebbero più di 500.000 i cittadini indonesiani (giocatori, coach, arbitri e membri di associazioni sportive) a trovarsi senza lavoro se l’industria del calcio in Indonesia dovesse chiudersi definitivamente. “Stiamo facendo il possibile per trovare una soluzione e salvare il calcio indonesiano che tutti noi amiamo” conclude Arya Sinulingga, ma potrebbe essere troppo tardi.
Il vero detonatore della crisi israeliana è stato rappresentato dalle dimissioni del ministro della Difesa, Yoav Gallant. E non è un caso. Il dicastero in questione è importante in tutti i Paesi, ma in Israele lo è ancora di più. Quando si nomina un governo, l’opinione pubblica nello Stato ebraico è curiosa di conoscere, prima di ogni cosa, chi va ad occupare l’incarico di ministro della Difesa. Il perché è facilmente intuibile: Israele vive in uno stato di guerra perenne dalla sua nascita, ogni cittadino è chiamato a difendere il territorio e la leva è obbligatoria. Vi è quasi una commistione perfetta tra lo Stato e l’esercito. Quando Netanyahu ha indotto alle dimissioni Gallant, la gente è scesa in massa in piazza. Non tanto in difesa del ministro, quanto del ministero. Impossibile accettare, per buona parte dell’opinione pubblica, che un titolare della Difesa venga fatto fuori solo perché ha espresso pareri contrastanti a quelli del premier. Nella fattispecie, Gallant aveva consigliato pubblicamente a Netanyahu di ritirare la sua riforma della giustizia. Ma c’è di più. Così come riferito da molti media israeliani, Gallant ha preso le distanze da quella legge perché ha fiutato l’aria che tirava nell’esercito: molti uomini in divisa, nelle ultime settimane, hanno iniziato a manifestare insofferenza verso la difesa a oltranza della riforma.
• Il cruccio della politica israeliana: mantenere l’unità dell’esercito Nel suo discorso di lunedì, in cui ha annunciato il congelamento della riforma, Netanyahu ha fatto più volte riferimento a un preciso concetto: evitare di spaccare il Paese. Il primo ministro si è accorto di non avere dalla sua parte una fetta importante di opinione pubblica. E, al contempo, di avere fuori dai suoi uffici un Paese paralizzato da scioperi e manifestazioni. Ma non sono state le proteste a oltranza degli oppositori a fargli cambiare repentinamente idea. Se Netanyahu in poche ore è passato dal licenziare Gallant al congelare la sua riforma, è perché proprio l’ex ministro ha paventato al capo dell’esecutivo una situazione molto grave all’interno dell’esercito. I media israeliani hanno infatti parlato di rapporti in cui diversi riservisti, specialmente negli ultimi giorni, sono stati presenti in piazza al fianco dei manifestanti. Impossibile non vedere in un contesto del genere possibili gravi problemi per la tenuta dell’esercito. Non sono pochi i post sui social o gli sfoghi sui quotidiani di riservisti che, di fronte al rifiuto di Netanyahu di ritirare la riforma, hanno palesato l’idea di non rispondere alla chiamata dell’esercito. A questo, occorre aggiungere anche le perplessità di molti generali sull’ostinazione del governo ad andare avanti con la riforma nonostante la forte opposizione di migliaia di cittadini. Consapevole della situazione, Gallant ha preso posizione contro il progetto politico di Netanyahu. Quest’ultimo prima lo ha licenziato, poi non ha potuto fare altro che prendere atto delle preoccupazioni dell’ex ministro. Avere riservisti che non si presentano in caserma o generali perplessi, vorrebbe dire assistere a prime spaccature tutte interne all’esercito. E se in Israele è spaccato l’esercito, vuol dire che è spaccato l’intero Paese. Circostanza per l’appunto con cui lo stesso Netanyahu ha dovuto fare i conti.
• Il peso dell’esercito nelle prossime mosse dell’esecutivo Il ritiro della proposta di riforma ha generato prime ore di quiete in Israele dopo la tempesta. I sindacati hanno proclamato lo stop agli scioperi, uffici e centri commerciali sono stati riaperti, nelle piazze sono scomparsi capannelli di manifestanti e rudimentali barricate simboli degli scontri dei giorni scorsi. Adesso però occorre capire quanto durerà l’attuale “pax“. Maggioranza e opposizione hanno promesso dialogo sulla riforma, sotto la supervisione del presidente Herzog. Ma la presenza di membri dell’ultradestra all’interno dell’esecutivo e le distanze tra le parti, potrebbero far sembrare quella di adesso come una semplice tregua. Molto quindi dipenderà anche dall’atteggiamento dell’esercito. L’esecutivo monitorerà gli umori di generali e riservisti e, probabilmente, deciderà in base a questo. Un elemento che potrebbe dare agli uomini in divisa un forte peso nelle future decisioni. Ponendo quindi i militari quasi come dei “guardiani” della democrazia israeliana e del dialogo tra le varie parti politiche. Prima ancora dei diritti accordati dell’opposizione e dell’architettura istituzionale del Paese, potrebbe essere l’esercito il vero garante dell’equilibrio. E forse, in un contesto politico costituito da maggioranze risicate e ricorso sistematico ad elezioni anticipate, prima o poi c’era da aspettarselo.
Israele ha lanciato con successo il satellite spia Ofek-13 nello spazio, segnando una pietra miliare significativa nella capacità del paese di monitorare lo spazio. Questo nuovo satellite di osservazione fornirà immagini di alta qualità all’esercito israeliano, migliorerà le sue capacità di intelligence e consoliderà la sua posizione all’avanguardia nella tecnologia spaziale.
• Conferma del successo nella nuova era della sorveglianza Mercoledì mattina, il Ministero della Difesa israeliano ha annunciato il successo del lancio del satellite spia Ofek-13, segnando una svolta nella capacità di monitoraggio spaziale del Paese. Questa nuova generazione di sistemi di avvistamento fornirà immagini di alta qualità all’esercito israeliano.
• Capacità avanzate in orbita E il ministero della Difesa ha sottolineato, in un comunicato ufficiale, che “Ovek 13 è un satellite di sorveglianza con capacità avanzate”. Una volta in orbita, verranno effettuati test approfonditi per garantire la sua “integrità strutturale” e valutarne le prestazioni. Il lancio è stato effettuato dal lanciatore Shavit nel centro geografico di Israele, provocando un forte boato che è stato udito dai residenti nelle vicinanze.
• Cooperazione e sviluppo nel campo dello spazio La Visual Intelligence Unit 9900 dell’IDF, l’Air Force e altri rami dell’IDF sono stati coinvolti nello sviluppo del satellite, guidato dal Servizio Spaziale del Ministero della Difesa. Israel Aerospace Industries ha guidato il progetto, mentre le società di difesa Tomer e Rafael hanno prodotto i motori a razzo.
• Storia di successo spaziale Dal lancio del primo satellite israeliano, Ofek-1, nel 1988, il paese ha compiuto progressi nello sviluppo di satelliti da ricognizione, compreso il lancio riuscito nel 1995 di uno che potrebbe riprendere l’immagine della Terra. Ofek-16 è stato lanciato nel luglio 2018 e quell’anno ha ricevuto il più alto riconoscimento per la sicurezza di Israele. I satelliti sono sotto il controllo della direzione dell’intelligence militare dell’esercito israeliano.
• Leadership nel campo dell’intelligenza spaziale Israele si è posizionato come leader nella raccolta di informazioni con la sua flotta di satelliti di ricognizione specializzati. Anche l’Iran ha fatto progressi in questo campo, riuscendo finalmente a mettere in orbita un satellite spia nel 2020, dopo anni di tentativi falliti.
Nel 2023, Israele è l'unica democrazia occidentale con un tasso di fertilità relativamente alto. Il numero di nascite ebraiche-israeliane nel 2022 (137.566) è stato superiore del 71% rispetto al 1995 (80.400), mentre il numero di nascite arabe-israeliane nel 2022 (43.417) è stato superiore del 19% rispetto al 1995 (36.500), come riportato dal Bollettino mensile dell'Ufficio centrale di statistica israeliano (ICBS) del febbraio 2023. Il tasso di fertilità (numero di nascite per donna) delle donne ebree laiche in Israele ha una tendenza al rialzo negli ultimi 25 anni. In generale, il tasso di fertilità di Israele è il più alto dell'OCSE : con un valore di 2.9 figli, è quasi il doppio del tasso del Canada di 1.5 figli. I tassi di fertilità di Israele sono più strettamente allineati con i suoi vicini mediorientali - Giordania, Siria ed Egitto - ma è un valore anomalo tra i paesi sviluppati con economie avanzate, popolazioni istruite e alta partecipazione femminile alla forza lavoro. Gli ultra-ortodossi in Israele hanno un tasso di fertilità estremamente alto, oltre 6.6 figli mentre il tasso di fertilità arabo è sceso a tre, da un valore di 9.3 figli, incredibilmente alto nel 1960. In Israele, le donne ebraiche israeliane, che sono seconde solo all'Islanda nella partecipazione al lavoro, vedono una correlazione diretta positiva tra l'aumento del tasso di fertilità, da un lato, e un aumento dell'urbanizzazione, dell'istruzione, del reddito, dell'integrazione nel mercato del lavoro e dell'età del matrimonio, dall'altro. La tendenza demografica ebraica positiva è ulteriormente rafforzata dall'immigrazione, che consiste nella aliyah (immigrazione ebraica dopo la diaspora) e dalla contrazione dell'emigrazione: da 14.200 emigrati nel 1990 a 10.800 nel 2020 (mentre la popolazione è raddoppiata), che è superiore alla media di 7.000 emigrazione netta annua negli ultimi anni. Il premier Bennett nel 2021 aveva sviluppato un piano per riportare 500.000 ebrei dagli Stati Uniti, dal Sud America e dalla Francia nel prossimo decennio per stabilirsi nel paese e sostenere così lo sviluppo demografico ed economico di Israele. Tutto ciò si riflette sul numero degli abitanti che nel 2022 ha raggiunto un nuovo record. Sono 9.7 milioni i residenti di Israele nel 2022, con una popolazione in crescita del 2.2% su base annua. La crescita è in parte dovuta all’invasione russa in Ucraina: sono arrivati circa 73.000 nuovi immigrati, il 58.1% dei quali dalla Russia e il 21.3% dall'Ucraina. Nel 2021, il numero di immigrati era di circa un terzo: 25.000.
Il caos interno generato dalla contestatissima riforma della giustizia promossa dal governo di estrema destra israeliano mostra anche alcune crepe nello storico rapporto privilegiato tra Tel Aviv e Washington. Mentre le piazze israeliane manifestavano chiedendo lo stop al provvedimento e l’estrema destra, invece, incalzava il primo ministro minacciando di togliere l’appoggio al governo, anche l’amministrazione americana ha lanciato il suo messaggio ai principali alleati mediorientali: “Non si può continuare su questa strada”. Nella mattinata di mercoledì, però, arriva la risposta decisa del premier Benjamin Netanyahu: “Israele è un Paese sovrano che prende le decisioni per volontà del popolo e non sulla base di pressioni dall’estero, comprese quelle dei migliori amici“. Il nuovo attrito tra i due esecutivi non fa altro che sottolineare il cambio di rotta nei rapporti bilaterali avvenuto col passaggio di consegne alla Casa Bianca tra Donald Trump e Joe Biden. Dopo un periodo di difficoltà da parte di Tel Aviv, dovuto alla maggior equidistanza voluta da Barack Obama nei rapporti con lo Stato ebraico e con la Repubblica Islamica dell’Iran, con il tycoon si era tornati a una strategia americana nuovamente schiacciata sulle posizioni israeliane, col supporto anche dell’Arabia Saudita, con l’obiettivo di ricacciare Teheran nell’isolamento che aveva caratterizzato la presidenza di Mahmud Ahmadinejad. Da quell’impostazione sono nati la rottura dell’accordo sul nucleare di Teheran, gli Accordi di Abramo, la decisione di spostare l’ambasciata americana a Gerusalemme e molti altri provvedimenti che seguivano lo stesso trend. Trend che ha appunto conosciuto uno stop quando nello Studio Ovale è arrivato Joe Biden, con Washington che, almeno nelle dichiarazioni ufficiali, è tornata a lanciare avvertimenti a Tel Aviv riguardo alle azioni più radicali e controverse, dall’uccisione della reporter di al-JazeeraShireen Abu Akleh, a Jenin nel maggio scorso, fino, appunto, a questa nuova proposta di legge che limita di fatto il potere giudiziario delle corti israeliane assoggettandolo in parte a quello politico. “Come molti forti sostenitori di Israele – ha dichiarato Biden citato dai media – sono molto preoccupato. Si spera che il premier agisca in modo da cercare di trovare un vero compromesso ma resta da vedere”. Poi, il capo dell’amministrazione Usa ha anche escluso che “nel breve termine” possa esserci una visita del primo ministro d’Israele negli Stati Uniti. Entrambi, comunque, hanno anche provato a evitare che il botta e risposta potesse generare un’escalation nei rapporti diplomatici che avrebbe danneggiato entrambi gli esecutivi. È stato proprio Netanyahu, con una nota diffusa dal suo ufficio, a ricordare che i rapporti col presidente americano vanno avanti “da oltre 40 anni e apprezzo il suo impegno di lunga data nei confronti di Israele”. L’alleanza con gli Usa, ha continuato, “è indissolubile e supera sempre i disaccordi occasionali tra di noi. La mia amministrazione è impegnata a rafforzare la democrazia ripristinando il giusto equilibrio tra i tre rami del governo. Equilibrio che stiamo cercando di raggiungere attraverso un ampio consenso”. Allo stesso modo, Biden parlando dall’aeroporto di Morrisville (North Carolina) aveva escluso di voler in qualche modo “interferire” nelle faccende interne di Israele: “Non vogliamo interferire. Non stiamo interferendo. Sanno la mia posizione e quella dell’America. Conoscono la posizione dell’ebraismo Usa”.
Riforma della Giustizia: Netanyahu prende tempo, rimanda l’approvazione e apre al dialogo
Bisogna evitare una guerra civile”. Si fermano gli scioperi ma le proteste continuano.
di Giovanni Panzeri
“Se c’è la possibilità di evitare una guerra civile aprendo al dialogo io, come primo ministro, darò al dialogo una seria possibilità” ha affermato Netanyahu in un discorso alla nazione durante la nottata di lunedì 27 marzo, spiegando la decisione di rimandare l’adozione della riforma all’apertura della sessione estiva della Knesset. “Passeremo comunque la riforma, con cambiamenti necessari al sistema legale – ha continuato – ma proveremo a raggiungerli tramite un ampio consenso”. La dichiarazione è giunta dopo ore di febbrili negoziati interni alla maggioranza di governo e solo pochi giorni dopo la rimozione del ministro della difesa Yoav Galant, che aveva chiesto di fermare temporaneamente la riforma con il supporto di alcuni parlamentari del Likud. Netanyahu ha comunque condannato senza mezzi termini le proteste, che durano ormai da 12 settimane, senza precedenti nella recente storia israeliana, e che durante la giornata di lunedì e nel weekend hanno raggiunto il culmine, con centinaia di migliaia di cittadini nelle strade e la minaccia di uno sciopero generale prolungato in vari settori chiave, dalla sanità agli aeroporti. Sulla decisione ha inoltre sicuramente avuto un peso determinante il rifiuto sempre più esteso del servizio militare da parte dei riservisti dell’esercito, in caso di approvazione della riforma. Mentre le minacce di sciopero sono rientrate in seguito alle dichiarazioni del primo ministro, i manifestanti hanno dichiarato che le proteste non si fermeranno. “Non ci fidiamo di Netanyahu” spiegano gli organizzatori delle proteste “ha già dato prova di non essere affidabile. Le proteste finiranno solo quando la legislazione sarà definitivamente messa da parte”.
• Tensioni nella maggioranza e nelle strade La decisione di fermare, almeno temporaneamente, il processo legislativo ha incontrato, in un primo momento, la ferma opposizione del ministro per la sicurezza nazionale Ben Gvir, e di altri membri del governo. Opposizione venuta meno, secondo il Times of Israel e Channel 12, solo dopo l’assicurazione che si tratta di un ritardo temporaneo, volto a prendere tempo e calmare le acque, e la promessa della costituzione di una nuova “Guardia Nazionale” da porre sotto il controllo diretto di Ben Gvir. I più accesi sostenitori della riforma hanno inoltre dato vita per la prima volta a una serie di contro-proteste, che fanno temere la possibilità scontri tra i manifestanti delle opposte fazioni.
• La reazione delle opposizioni In seguito alla dichiarazione del primo ministro, il presidente israeliano Herzog ha telefonato ai leader delle due parti, offrendo la sua residenza ufficiale come luogo d’incontro per un negoziato. I leader delle opposizioni hanno accolto la possibilità di dialogo e selezionato le loro squadre di negoziatori. Benny Gantz, il leader di Unità Nazionale, ha accolto la dichiarazione del primo ministro “con il cuore aperto” sperando nella possibilità di un serio dialogo. Il leader dell’opposizione nella Knesset, Yair Lapid, è stato più cauto: “se la legislazione è veramente stata fermata siamo pronti per negoziare in serietà” ha affermato il leader di Yesh Atid “non ci fidiamo di Netanyahu, ci preoccupano i report secondo cui ha assicurato ai suoi che non si sta realmente fermando ma sta solo cercando di calmare la situazione.”
(Bet Magazine Mosaico, 28 marzo 2023)
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Il più grande sperpero di capitale politico della storia di Israele
La destituzione del ministro della difesa Gallant ha portato al culmine un crollo sorprendentemente rapido e totalmente auto-inflitto della destra israeliana.
di Haviv Rettig Gur
La destra israeliana si è messa nei guai. Aveva i suoi argomenti su un eccessivo potere della Corte Suprema e ne era ben convinta. Li portava avanti da decenni. Ora che si ritrova improvvisamente al timone di una coalizione interamente di destra che nessuna formazione di centro o di sinistra è in grado di far cadere, credeva di avere la sua grande occasione. Il governo ha prestato giuramento alla fine di dicembre e il 4 gennaio il ministro della giustizia Yariv Levin ha annunciato la grande riforma della giustizia. L’opposizione, lo sapevano tutti, avrebbe gridato e sbraitato. Le vecchie élite non avrebbero assistito in silenzio al loro rimpiazzo. Ma alla fine la frustrazione, alimentata per tre decenni dagli eccessi della magistratura ed ora trasformata in feroce determinazione, avrebbe visto prevalere la coalizione. Questo era il piano. Poi tutto ha cominciato ad andare storto. Non è stata la solita storia. Certo, degli ex giudici si sono effettivamente infuriati al momento previsto. Studiosi di diritto hanno firmato petizioni. Ma la coalizione di destra aveva pronte le sue risposte. La Corte Suprema israeliana – diceva – si era dilatata ben oltre qualsiasi cosa paragonabile in Occidente. Su una serie di questioni aride ma fondamentali – il potere della Corte nel vagliare le nomine alla Corte stessa, l’allargamento dei soggetti che possono farvi appello, l’ampliamento delle competenze e così via – la Corte israeliana non esercitava, come diceva la vulgata di destra, “una dittatura giudiziaria”, ma certamente costituiva un caso unico nel mondo democratico. Appariva del tutto ragionevole e legittimo cercare di arginarla, e in effetti un tempo la questione era oggetto di un serio dibattito fra studiosi sia di destra che di sinistra. Per due lunghi mesi, la destra non ha capito gli eventi. La strategia pareva semplice: strappare velocemente il cerotto senza battere ciglio né tentennare. Il problema principale, credevano Levin e il suo collega di riforma Simcha Rothman, sarebbe stato piuttosto Benjamin Netanyahu, che ha sempre preferito la quiete rispetto ad azioni dirompenti e controverse. Così venne presa la decisione: nessun dibattito, nessuna disponibilità a trattare fino alla fine dell’iter legislativo allo scopo di ridurre al minimo le occasioni per un possibile sfaldarsi della destra. Il ministro della giustizia Levin si è rifiutato di rilasciare interviste. Sono stati lanciati appelli all’opposizione perché negoziasse, ma negoziare su cosa? Levin si è rifiutato di rallentare la marcia a tappe forzate verso l’approvazione della proposta originaria di riforma, che era estrema anche stando ai suoi stessi autori (quando ne parlavano off the record, ovviamente). Ma la metà del paese che non aveva votato i partiti della coalizione ha visto nella versione estrema il vero obiettivo del governo, non una posizione tattica iniziale in vista del negoziato su una versione più moderata: in effetti, non si negozia la demolizione della democrazia rispettando la frenetica tabella di marcia dei demolitori. Ancora a metà febbraio, un personaggio di alto livello strettamente coinvolto nella riforma mi diceva: “Non è ancora il momento di scendere a compromessi”. Le prime proteste, gli appelli anche da parte di sostenitori della riforma giudiziaria a moderare, a spiegare, ad affrontare seriamente la crescente sensazione nelle strade che si trattasse di un vero e proprio assalto alla democrazia, venivano tutti respinti dagli strateghi politici della destra. Le vecchie élite, sostenevano, sono semplicemente furibonde perché si vedono portare via l’osso. Quando la destra politica iniziò a capire la portata del suo errore era ormai troppo tardi. È successo in momenti diversi per persone diverse, intensificandosi nell’ultimo mese fino a raggiungere vette notevoli la scorsa settimana, quando anche appassionati sostenitori della riforma giudiziaria – di questa riforma giudiziaria – hanno iniziato a inveire contro il governo. “Un’auto-immolazione come questa da parte della destra non si vedeva da queste parti da molto tempo”, ha scritto nel fine settimana l’editorialista di destra Sara Haetzni-Cohen, capo del gruppo di attivisti My Israel. Pur definendo la riforma “una delle iniziative legali e politiche più importanti e significative che la destra abbia messo sul tavolo da molti anni”, Haetzni-Cohen si è poi rivolta impietosamente contro il governo che aveva fino ad allora lealmente sostenuto. “Salta fuori che la coalizione di destra che abbiamo eletto e per la quale abbiamo pregato non capisce la portata del momento – ha scritto – Quasi ogni giorno ci ritroviamo con un’ennesima proposta di legge idiota o un’imbarazzante dichiarazione pubblica prodotta da questa coalizione. Continua ad allungarsi l’elenco dei disegni di legge gretti ed egoistici, il cui scopo è solo preservare il potere o servire interessi limitati. La legge sui doni [che consentirebbe regali incontrollati a dipendenti pubblici], la legge detta francese [che renderebbe immune il primo ministro dall’azione penale], la legge contro le registrazioni [che vieterebbe ai giornalisti di pubblicare registrazioni di politici senza consenso], la legge Deri [che consente a politici condannati di prestare servizio come ministri], la legge sul Dipartimento investigativo della polizia [che indebolirebbe la supervisione della polizia in caso di violenze degli agenti], la legge per prendere il controllo della Commissione elettorale centrale, la legge sul Muro Occidentale [che prevedrebbe condanne detentive per le donne vestite in modo non abbastanza morigerato nel luogo sacro di Gerusalemme], la legge sul lievito [che consentirebbe agli ospedali di vietare il cibo non kosher durante la Pasqua ebraica] e altro ancora”. Una lunga litania di accuse, quella di Haetzni-Cohen: “Ci sono proposte di legge che sono populiste al punto da essere davvero pericolose, come quella sull’immunità per i soldati che in realtà consegnerebbe i nostri migliori figli e figlie nelle mani della Corte dell’Aia. Sembra che tutto venga fatto con leggerezza, con superbia e con arroganza, guidati dal capriccio e dal desiderio di avere i titoli dei mass-media per un momento. Parlamentari che abbiamo eletto per portare il cambiamento e un nuovo messaggio ci hanno procurato principalmente imbarazzo”. Conclude Haetzni-Cohen: “Sono imbarazzata, perché per quanto io creda in questa riforma, in questa correzione, nel potere che deve tornare ai nostri rappresentanti eletti, c’è un limite a quanto posso spiegare il loro comportamento idiota e irresponsabile alla Knesset. E sai una cosa, cara coalizione? Ne ho abbastanza. Non voglio più difenderti quando mi metti in imbarazzo, non voglio sostenere le iniziative irresponsabili che ti permetti di proporre senza capire che ogni tuo piccolo movimento crea all’esterno ondate di protesta e di disgusto”. Si tratta di uno stato d’animo che è sembrato improvvisamente impadronirsi della destra. Alcuni hanno parlato di una “gara di follia” fra legislatori. Altri hanno sottolineato che forse non basta criticare semplicemente l’impressione che ne deriva, ma anche la sostanza. Tra i 141 progetti di legge avanzati dalla coalizione (all’ultimo conteggio), c’era quello che consentirebbe perquisizioni di polizia in abitazioni private senza mandato, quello per nominare altri 12 deputati della coalizione oltre ai 120 parlamentari eletti consentendo alla coalizione di ignorare del tutto l’opposizione parlamentare, quello per dare al partito al governo il controllo sulla Commissione elettorale centrale (visto dall’opposizione: un assaggio di ciò che potrebbe passare se la Corte fosse immobilizzata ndr). E tutto questo non c’entra con lo scossone giudiziario, la cui versione più estrema e problematica era ancora nel registro della Knesset fino a un paio di settimane fa, e anche dopo è stata attenuata solo lievemente. Per essere una coalizione che ribadiva a tutti che la sua riforma intende promuovere più democrazia, sembrava che si facesse di tutto per convincere del contrario chiunque tranne i più devoti sostenitori. Nessuno sa veramente cosa abbia in mente Benjamin Netanyahu. Ha una lunga e illustre storia di decisioni politiche serie e di successo e di opinioni e impegni ampiamente liberali. Ma ha anche insistito per tre lunghi mesi sul fatto che è lui che “ha entrambe le mani sul timone” di questo governo, che ne è lui responsabile con il pieno controllo della situazione, che è lui che avalla tutto ciò che accade. Netanyahu è anche la forza principale dietro ad alcuni dei progetti di legge più preoccupanti, come la “legge sui doni” promossa a spron battuto nella Commissione economica della Knesset e che consentirebbe regali quasi incontrollati e letteralmente anonimi a funzionari pubblici e politici. E’ un disegno di legge senza dubbio ad personam, che consentirebbe a Netanyahu, già facoltoso di suo, di tenere i 270mila dollari che gli sono stati dati da un defunto cugino. Il fatto che il disegno di legge stia avanzando più velocemente di quasi ogni altro punto all’ordine del giorno della coalizione, di fatto più velocemente di gran parte della stessa riforma giudiziaria, indica un nuovo tipo di Netanyahu. Il Netanyahu, in effetti, che molti hanno visto all’opera nell’improvviso licenziamento, domenica, del ministro della difesa Yoav Gallant, il Netanyahu che ha sistematicamente sventrato la democrazia interna e le istituzioni del Likud e che ora non tollera disaccordi nei ranghi del partito. Se Netanyahu ha davvero il controllo, sta diventando sempre più difficile – e non solo per l’opposizione – intravedere il vecchio Netanyahu liberale, sepolto sotto tutto questo caos. È curiosamente difficile cercare di capire quanti israeliani sostengano effettivamente la riforma giudiziaria. Nei sondaggi le stime del livello del sostegno vanno dal 17% (in un sondaggio del fine settimana che interpellava sulla specifica riforma attualmente promossa dal governo) fino al 90% che emerge da sondaggi interni della destra e che sembrano aver giocato un ruolo nella pianificazione strategica e nella presentazione della riforma da parte del governo a gennaio. A quanto pare, il modo in cui si pone la domanda produce risposte radicalmente diverse. Detto questo, è possibile azzardare uno schema di base dell’opinione pubblica israeliana: una maggioranza significativa sembra sostenere un qualche tipo di riforma giudiziaria, ma una maggioranza significativa si oppone a questa specifica riforma promossa dal governo. Ad esempio, in un sondaggio del fine settimana del giornale economico Globes solo il 17% ha dichiarato di sostenere la riforma così com’è, mentre il 25% ha dichiarato di sostenere “alcuni dei suoi elementi” e il 43% si è detto completamente contrario alla riforma. È poi evidente che nell’opposizione c’è molta preoccupazione e mobilitazione. Alla domanda se avessero partecipato personalmente a una manifestazione di protesta, ben il 19% degli intervistati ha risposto di sì: vale a dire un israeliano su cinque. Solo il 2% degli israeliani ha dichiarato di aver partecipato a tutte le proteste settimanali, ma la maggior parte (il 15% di tutti gli intervistati) dice di aver partecipato da una a quattro volte. In altri termini, le proteste che raccolgono settimanalmente circa 200.000 persone (in varie città) rappresentano almeno cinque volte più manifestanti nella popolazione generale. È stato in questo contesto tumultuoso, con una base di attivisti di destra sempre più amareggiata e convinta che il governo, più che l’opposizione, abbia creato questo scompiglio, e di fronte a un crescente movimento di protesta a cui già partecipa attivamente un quinto della popolazione, è in questo contesto che Netanyahu ha estromesso il suo ministro della difesa a causa del suo appello a sospendere l’iter di approvazione della riforma (per ragioni di sicurezza del paese ndr). È stato il catalizzatore che ha rivelato quanto potesse crescere il movimento di protesta. Twitter in ebraico ha iniziato a riempirsi di nuove voci: persone di destra, elettori del Likud, persino sostenitori delle riforme, improvvisamente stanchi del governo e disposti a prendere posizione. E la cosa ha avuto quasi immediata ripercussione nella sfera politica. “Abbiamo pagato un prezzo pesante” ha lamentato Miki Zohar, del Likud, per “non aver spiegato” la riforma. Reso cauto dalla sorte di Gallant, Zohar non ha chiesto un congelamento, ma ha esortato a sostenere Netanyahu se dovesse decidere per un congelamento. L’idea che il governo, e non la “sinistra” o gli “anarchici” accusati da Netanyahu, fosse responsabile del disastro è diventata improvvisamente ovvia per tutti. “Dobbiamo ammettere onestamente che abbiamo preso la direzione sbagliata – ha detto il ministro per gli affari della diaspora Amihai Chikli, del Likud – Il nostro errore non è nella urgente necessità della riforma, che è più necessaria ora che mai, ma nella sua attuazione”. Il ministro dell’economia Nir Barkat, pure lui del Likud, ha espresso un concetto simile: “Sosterrò il primo ministro nella decisione di fermarsi e riconsiderare. La riforma è importante e la faremo, ma non a costo di una guerra civile”. Alcuni opinionisti di destra tra i più favorevoli sono giunti alla stessa conclusione. E ora dove va la destra israeliana? Ha annunciato un drammatico cambiamento dell’ordine costituzionale del paese come si dichiara una guerra. Ha promosso una guerra-lampo nel corpo di un paese profondamente diviso, annunciando a gran voce l’intenzione di abolire basilari tutele liberali. È partita con una versione estrema della sua riforma, che alcuni dei suoi stessi sostenitori ora sostengono fosse una mera tattica ma che in pratica avrebbe vanificato la Corte Suprema e smantellato la maggior parte dei pesi e contrappesi del sistema politico. Non ha aperto un dibattito, non ha dato ascolto, non ha cercato di convincere contrari e dubbiosi fino a quando la partita era molto avanti, finché non si è spaventata per i contraccolpi. Finché era troppo tardi. E ha fatto tutto questo in un paese dove i sondaggi rilevano un ampio sostegno a una qualche versione della riforma giudiziaria (ma non questa). Mai nella storia del paese, così tanto capitale politico e un successo elettorale conquistato con tanta fatica sono stati così rapidamente e ampiamente sperperati. Ogni minuto trascorso dal 4 gennaio è stata una corsa testa a testa tra la precipitosa fuga in avanti legislativa di Levin-Rothman-Netanyahu e l’emorragia del capitale politico della destra. Tutto è ancora in alto mare. Nessuno sa esattamente dove approderanno le cose. Ma non importa chi vince la gara: il danno causato dagli ultimi tre mesi di follia e arroganza non sarà rapidamente riparato. (Da Times of Israel, 27.3.23)
Netanyahu rallenta per le proteste: rinviata la riforma della giustizia
Davanti agli scontri che hanno incendiato Israele e alla sfilata di 600.000 persone, il premier cede: «Evitiamo la guerra civile». Ma il piano per limitare la Corte suprema è solo rimandato all'estate. Sollievo a Washington.
di Giorgio Gandola
Paese paralizzato, riforma congelata. Dopo settimane vissute nel magma incendiario della protesta, il governo di Israele mette il freno a mano e decide di fermare la riforma della giustizia, motivo scatenante dei moti (ieri 600.000 persone in piazza e due manifestanti entrati alla Knesset) che hanno portato disordini e scontri con la polizia in tutte le città, ma soprattutto a Tel Aviv. Se ne riparlerà dopo la pausa della Knesset per la Pasqua ebraica, ma la pausa di riflessione potrebbe far slittare all'estate ogni decisione, tempo utile per placare la fibrillazione che ha scosso nel profondo la democrazia israeliana. Ieri Benjamin Netanyahu ha chiuso la partita: «Rinvio la riforma per favorire il dialogo. Non lascio spazio a una minoranza di estremisti pronta a lacerare il Paese, che usa violenza, appicca il fuoco, fomenta la guerra civile e fa appello alla disobbedienza». Università e aeroporti chiusi, sindacati sul piede di guerra, trasporti al collasso. Se il tema scatenante dello scontro politico è la riforma della giustizia, che il primo ministro Netanyahu e i suoi alleati di destra intendono portare avanti con lo scopo di «limitare le derive insulari della Corte suprema» (la casta giudiziaria dipinta come un'isola), il motivo dell'ultimo incendio è la cacciata del ministro della Difesa, Yoav Gallant, del suo stesso partito, il conservatore Likud. Quest'ultimo ha apertamente criticato non tanto la revisione del sistema giudiziario, ma la volontà di imporre a spallate le novità con il risultato di esacerbare gli animi, incrinare la tenuta sociale e soprattutto creare un diffuso malumore dentro l'esercito. Il cuore del problema è la Corte suprema, monolite granitico e irriformabile, centro di potere che rappresenta il contrappeso istituzionale del governo (in un Paese senza Costituzione) ma che altrettanto spesso ne diventa l'alternativa politica. Per superare lo scoglio, la riforma prevede la nomina governativa di parte dei giudici, esattamente come accade negli Stati Uniti, dove non esiste il pericolo di derive autoritarie. Storicamente l'apparato giudiziario di vertice è inviso ai coloni nei Territori e agli ebrei ortodossi, per lo stesso motivo: spesso annulla o rende inapplicabili leggi del Parlamento democraticamente eletto, schierandosi di fatto con le opposizioni. Un problema non da poco per l'esecutivo e in questo caso per Netanyahu, che pure ha espresso un forte sostegno alla magistratura. La sua posizione è indebolita dal coinvolgimento personale in alcune inchieste (frode, abuso d'ufficio); è gioco facile per la sinistra indicarlo come responsabile di leggi ad personam per sfuggire al salvifico lavacro del sistema giudiziario. «Non ho cambiato la mia opinione», ha spiegato recentemente alla Cnn. «Penso che abbiamo bisogno di giudici forti e indipendenti. Ma indipendenti non significa schierati e sfrenati, ciò che è successo qui negli ultimi 25 anni». Qualche similitudine con una penisola a noi ben nota si può azzardare. A costituire un campanello d'allarme assoluto è stata l'adesione alla protesta di parte dei militari, il nervosismo delle gerarchie, il rifiuto dei riservisti di rispondere eventualmente a chiamate d'emergenza. Addirittura la contrarietà del Mossad; alcuni ex capi si sono espressi contro le riforme, facendo sapere che la divisione radicale sul tema sta danneggiando la sicurezza nazionale. Forse per la prima volta un popolo abituato a compattarsi contro i nemici esterni si trova a fare i conti con lacerazioni così forti all'interno. Lo scenario ha indotto il ministro Gallant a uscire allo scoperto e il premier a licenziarlo per evitare di trasformarsi in un'anatra zoppa. Il forte attrito fra due amici ha creato una situazione surreale nella consueta narrazione del mainstream progressista. Essendo Gallant un eroe di guerra, vicecomandante di Tsahal, protagonista delle operazioni in Libano nel 2006 e comandante in capo dell'Operazione Piombo fuso contro i terroristi di Hamas nella Striscia di Gaza (2009), quello che fino all'altroieri veniva dipinto come un falco si è improvvisamente trasformato in uno Spartacus, che si mette di traverso sulla strada del «perfido Bibi», Puro folclore mediatico. Il rinvio della legge non annullerà le proteste, ma potrebbe far rientrare gli eccessi. Ed è stato accolto «con favore» dalla Casa Bianca, come si è appreso in serata. L'accordo è stato raggiunto fra il premier e il leader della destra, Itamar Ben Gvir, nonché ministro per la Sicurezza nazionale, convinto sostenitore della riforma, in cambio della creazione della Guardia nazionale, nuovo corpo sotto le dirette dipendenze del suo ministero. Una pausa di riflessione potrebbe essere utile, questa volta l'approccio muscolare del premier ha creato forti spaccature. Secondo un sondaggio dell'Israel democracy institute, il 72% degli israeliani chiede che si raggiunga un compromesso. «Comunque andremo fino in fondo», ha promesso Netanyahu. Sarà un'estate calda.
(La Verità, 28 marzo 2023)
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Rinviato il processo legislativo della riforma giudiziaria
Netanyahu: “Non possiamo avere una guerra civile”
di Luca Spizzichino
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato che rinvierà le votazioni finali della riforma del sistema giudiziario dopo oltre 11 settimane di proteste di massa.
Netanyahu ha aperto la sua dichiarazione paragonando il conflitto intorno alla riforma giudiziaria alla storia del Giudizio di re Salomone. "Entrambe le parti nella disputa nazionale rivendicano l'amore per il bambino, l'amore per il nostro Paese. - ha affermato il premier israeliano - Sono consapevole dell'enorme tensione che si sta accumulando tra le due parti della Nazione, sono attento al desiderio di molti cittadini di alleviare questa tensione”.
“Ma c'è una cosa che non sono pronto ad accettare: c'è un'estrema minoranza pronta a fare a pezzi il nostro paese” ha sottolineato, condannando chi "usa la violenza, appicca incendi, minaccia di danneggiare funzionari eletti, incita alla guerra civile”.
"Non sono pronto a fare a pezzi la nazione. Non stiamo affrontando nemici - stiamo affrontando fratelli. E dico qui e ora: non può esserci una guerra civile. Siamo nel bel mezzo di una crisi che mette in pericolo l'unità fondamentale tra di noi” ha aggiunto Netanyahu, che ha aperto alla possibilità di negoziati per cercare di raggiungere un accordo di più ampio respiro. "Quando c'è un'opportunità per i colloqui, io, in qualità di primo ministro, mi prendo una pausa per i colloqui. Insistiamo sulla necessità di apportare le necessarie modifiche al sistema giudiziario e daremo l'opportunità di risolverle con un ampio consenso”.
"Pertanto, ho deciso di sospendere la seconda e la terza lettura della legge in questa sessione della Knesset, per dare il tempo di raggiungere lo stesso ampio accordo sulla legislazione durante la prossima Knesset. In un modo o nell'altro, realizzeremo una riforma che ripristinerà l'equilibrio perduto tra le autorità, preservando e persino rafforzando i diritti dell'individuo" ha concluso.
Immediate le reazioni di Benny Gantz e Yair Lapid, leader dell’Opposizione. Il capo del partito Machanè HaMamlachtì ha accolto con favore la decisione del primo ministro dicendo: "Meglio tardi che mai". “No alla guerra civile, no alle divisioni, sì all'accordo e al dialogo" ha affermato Gantz che ha deciso partecipare ai negoziati presso la residenza del Presidente.
Invece Lapid ha espresso dubbi sulla genuinità della decisione di Netanyahu, aprendo comunque al dialogo, affermando che questo deve concludersi con una costituzione.
"Se la legislazione si ferma davvero, in modo genuino e totale, siamo pronti ad avviare un vero dialogo presso la Residenza del Presidente", ha affermato il leader dell’Opposizione.
“Dobbiamo sederci insieme e scrivere la costituzione israeliana basata sui valori della Dichiarazione di Indipendenza. Dobbiamo lasciare che il presidente determini un meccanismo per il dialogo e confidare in lui come mediatore equo” ha aggiunto.
A seguito dell’annuncio di Netanyahu, sia il sindacato Histadrut che i consigli locali hanno annullato le loro ampie proteste previste per domani. Tuttavia, gli organizzatori della protesta anti-riforma hanno affermato che ci saranno manifestazioni fino a quando il piano non sarà completamente demolito.
(Shalom, 27 marzo 2023)
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Dopo la sospensione della riforma giudiziaria. che accade ora?
di Ugo Volli
• La pausa dei lavori parlamentari
La sospensione dell’iter legislativo delle prime leggi della riforma della giustizia in Israele, su cui ha riferito su Shalom Luca Spizzichino, non è un annullamento o una rinuncia. La Knesset, il parlamento israeliano, lavora come quello americano e parzialmente anche il nostro per sessioni intervallate da periodi di ritiro che corrispondono alle festività religiose e civili. La sessione invernale si conclude fra pochi giorni, poi ci sarà Pesach, la pasqua ebraica, Iom haShoà che ricorda il genocidio dei nazisti, le due giornate accoppiate di Iom haZicharon, per la commemorazione dei militari israeliani caduti in guerra e delle vittime del terrorismo, e Iom ha Azmaut, la festa dell’indipendenza sempre molto allegra e particolarmente sentita quest’anno perché ricorre il settantacinquesimo anniversario della fondazione di Israele. E infine Shavuot, la festa religiosa solenne che ricorda la rivelazione del Sinai. Le sessioni parlamentari ricominceranno insomma fra più di un paio di mesi. E con esse sarà di nuovo all’ordine del giorno il problema della riforma giudiziaria, giudicata urgente da tutti i membri della maggioranza e non solo da loro.
• Il problema delle trattative
Nel frattempo però la politica non cesserà di lavorare. Se la pressione congiunta della piazza, dei media, dell’amministrazione Biden e da ultimo dei sindacati rischiava di dividere il governo ed è riuscita a sconfiggerlo nell’intenzione annunciata di approvare le prime leggi della riforma durante questa sessione parlamentare, ora tocca all’opposizione il rischio di dividersi. Era certamente facile contrastare la maggioranza con slogan sul colpo di stato e il rischio per la democrazia (che non sono stati mai neppure lontanamente reali), ma ora che la sua pre-condizione per iniziare una discussione sulla riforma, cioè la sospensione del processo legislativo, è stata accettata, essa deve fare delle proposte per entrare nel negoziato. E non è affatto detto che le sue posizioni siano chiare e condivise. Il leader del partito nazionale Gantz, per esempio, ha detto di essere disposto a negoziare in buona fede e aveva già dichiarato di accettare lo schema di mediazione del presidente di Israele Itzhak Herzog. Su tutti e due questi punti Yair Lapid, capo del partito più grande dell’opposizione, sembra meno disponibile e non lo è per nulla Marav Michaeli che guida il partito socialista. Vi sono poi settori dei manifestanti ancora più estremi. Certamente un ruolo importante nella discussione dovrebbe spettare al presidente Herzog, che però si è già esposto prendendo posizioni vicine a quelle dell’opposizione, il che rende difficile un ruolo di mediazione attivo.
• Gli obiettivi politici
In generale la sospensione dell’iter delle leggi e il ritorno di un negoziato fra maggioranza e opposizione rischia di rendere le cose più complicate proprio per quest’ultima. Essa dovrà infatti decidere quali sono gli obiettivi cui intende condurre il movimento con cui ha forzato la Knesset a interrompere un processo legislativo perfettamente regolare dal punto di vista giuridico. Vorrà impedire l’approvazione non solo della riforma giudiziaria, ma di tutte le leggi su cui si è impegnato l’attuale governo? Chi governerà allora il paese? È concepibile che dei manifestanti che sono stati numerosi ma pur sempre una piccola minoranza del paese, pretendano di sostituire il parlamento nelle scelte politiche? Che democrazia sarebbe questa? O l’obiettivo è di far cadere il governo e andare a nuove elezioni? A parte il fatto che il governo ha saputo mantenere la sua unità anche nella difficile e controversa scelta della sospensione dell’iter della riforma, anche se in qualche modo fosse costretto a dimettersi e si arrivasse in autunno a una sesta elezione nel giro di quattro anni, anche i sondaggi più favorevoli all’opposizione non prevedono una maggioranza alternativa che non comprenda i partiti arabi più estremisti, quelli che hanno dimostrato solidarietà con gli attentati terroristi degli ultimi mesi. E dunque si riproporrebbe il problema che ha fatto cadere il penultimo governo, quello presieduto da Bennett e poi da Lapid: l’impossibilità di convivenza nella maggioranza di nazionalisti arabi ed ebraici, un partito guidato da ex generali israeliani e un altro da chi rifiuta lo stato di Israele, laicisti antireligiosi e fedeli del Corano.
• La crisi politica continua
Insomma la questione dei problemi politici di Israele non è affatto risolta. Anche perché il terrorismo resta un pericolo molto attivo, l’Iran è sempre più armato e vicino all’atomica anche grazie all’appoggio russo, l’amministrazione americana vede con fastidio ogni gesto di indipendenza dello stato ebraico. E in più ci sono le ferite della ribellione di questi giorni che non saranno facili da sanare. I riservisti delle forze armate che hanno rifiutato per motivi politici i periodici richiami in servizio, per esempio, potranno ora rientrare senza che il rapporto di fiducia fra loro e i comandi siano incrinati? Certamente Israele, per non perdere la propria credibilità nella regione, che è un elemento di sicurezza fondamentale, dovrà agire con decisione. E toccherà anche alla minoranza consentirlo. Ma comunque due o tre mesi passano in fretta e poi si riproporrà la questione della riforma giudiziaria, probabilmente senza che le trattative portino a un accordo. Insomma la crisi politica, purtroppo, non si è affatto conclusa con il discorso di Natanyahu sulla sospensione. Anzi, la vera partita inizia adesso. E il vecchio leader, forse, lungi dall’essere sconfitto, ha trovato una via per ribadire la sua leadership.
Terroristi palestinesi ospiti all’Università di Città del Capo
Ma la direzione rinnega la responsabilità del gesto
di Pietro Baragiola
In occasione della settimana israeliana dell’Apartheid (IAW), la sera di lunedì 20 marzo, l’associazione studentesca di solidarietà palestinese PSF (Palestine Solidarity Forum) ha invitato i membri dei gruppi terroristici islamici Hamas e PIJ (Palestinian Islamic Jihad) a rivolgersi agli studenti dell’Università di Città del Capo. Come viene raccontato dal giornale ebraico sudafricano South African Jewish Report, durante l’evento, tenutosi in un’aula decorata con bandiere di Hamas e Hezbollah, Nasser Abu Sharif del PIJ e Khaled Qadomi di Hamas hanno avuto modo di collegarsi in diretta dall’Iran per incontrare i loro giovani sostenitori. Nonostante l’assurdità dell’episodio abbia inevitabilmente scatenato le ire di molti, l’Università di Città del Capo ha risposto alle lamentele affermando che, trattandosi di un evento ospitato da un’associazione studentesca, la direzione non ha alcuna responsabilità diretta sui fatti accaduti. Con queste parole però l’università non vuole prendere neanche in considerazione l’impatto che la presenza di questi relatori ha avuto sugli studenti del campus, ebrei e non, che si sono subito mossi per denunciare l’accaduto.
• Email senza risposta Erin Dodo, presidentessa dell’Unione Sud Africana degli Studenti Ebraici (SAUJS), ha risposto in maniera decisa ai fatti del 20 marzo: “I due relatori sono conosciuti per una lunga serie di crimini atroci compiuti insieme alle loro organizzazioni e in prima persona. Accoglierli nella vita del campus rende l’Università di Città del Capo un posto dove violenza e discriminazione sono incoraggiate”. Dodo ha fatto tutto il possibile per impedire ai relatori di parlare davanti agli studenti e racconta come la sua associazione e il PSF si siano incontrati con il dipartimento degli affari studenteschi per pianificare gli appuntamenti e gli ospiti che avrebbero partecipato alla IAW. Ciononostante, il PSF ha volontariamente omesso di citare la partecipazione dei due relatori, entrambi rappresentanti di organizzazioni della Repubblica Islamica dell’Iran. “Questo atteggiamento va espressamente contro l’accordo di rivelare con anticipo i relatori degli eventi” afferma Dodo che, la sera del 20 marzo, ha telefonato personalmente a uno dei responsabili del dipartimento di affari studenteschi per informarlo dell’accaduto, ricevendo come risposta la richiesta di inviare alla direzione dell’università un’email contenente tutte le sue preoccupazioni, con la promessa che sarebbero state ascoltate. Nell’email in questione Dodo ha elencato ogni singolo attacco terroristico rivendicato dal PIJ, spiegando come quest’organizzazione abbia etichettato gli ebrei come “nemici da uccidere”, una frase che in un campus universitario può avere un effetto devastante sulle giovani menti coinvolte. La presidentessa del SAUJS ha aspettato a lungo dopo l’invio dell’email ma, tutt’ora, non ha ricevuto alcuna risposta da parte della direzione dell’università. Daniel Bloch, direttore esecutivo del SAJBD (South African Jewish Board of Deputies), ha contattato a sua volta il vice-cancelliere dell’università, il professor Daya Reddy, con due email: la prima il 20 marzo per impedire che l’incontro con i relatori avvenisse e la seconda la sera dopo, il 21 marzo, esprimendo le proprie preoccupazioni sull’evento avvenuto. Nonostante il Professor Reddy abbia affermato che la questione fosse sotto osservazione, Bloch aspetta ancora una risposta.
• I crimini di Hamas e del PIJ Per aggiungere sale alla ferita l’evento del 20 marzo si è tenuto nello stesso momento in cui, nell’ospedale Ichilov di Tel Aviv, veniva a mancare Israeli Or Eshkar, il cittadino ebreo di 39 anni rimasto ferito da un attacco terrorista del gruppo Hamas. L’uomo stava recandosi ad un matrimonio con gli amici Rotem Mansano e Michael Osdon quando i tre furono colpiti da una sparatoria architettata dal terrorista islamico Mutaz Salah al-Khawaja. Nonostante Mansano e Osdon siano ora in via di guarigione, Or Eshkar, dopo 11 giorni di eroica lotta per la sopravvivenza all’Ichilov Hospital, si è spento la sera del 20 marzo. Tragico pensare che in quello stesso momento nell’Università di Città del Capo il PSF stava tenendo una veglia per i martiri, durante la quale alcuni studenti avevano persino coperto i loro volti con le sciarpe mostranti il logo di Hamas, lo stesso gruppo responsabile della morte di Or Eshkar. “Il SAJBD di Città del Capo è sconvolto da questo evento. Comprendiamo che la responsabilità sia stata nel fallimento del PSF di garantire i 7 giorni di preavviso richiesti per presentare l’identità dei relatori, ma, tuttavia, siamo ancor più delusi del fatto che la direzione del campus abbia scelto di non rispondere alle nostre preoccupazioni e di permettere che l’evento procedesse senza intoppi” spiega la presidentessa del SAJBD di Città del Capo, Adrienne Jacobson. Jacobson vuole sottolineare come il relatore rappresentante del PIJ, Sharif, sia noto per aver incitato atti di violenza contro Israele e per aver usato termini atroci contro i cittadini ebrei.Il PIJ è tutt’ora la più radicale organizzazione terrorista che opera in Palestina, responsabile di attentati molto violenti (come l’attacco missilistico del 12 novembre), mentre Hamas incita all’omicidio degli ebrei in tutto il mondo. Entrambe queste organizzazioni sono state giudicate come terroristiche dai governi di molti paesi, tra cui: l’Australia, il Canada, l’Europa, Israele, il Giappone, il Regno Unito e l’America.
• L’Università: “Non siamo responsabili” È impossibile non notare che, nonostante stia continuando a rinnegare le proprie responsabilità, è stata proprio l’Università di Città del Capo che, trascurando il compito di far rispettare i suoi principi a sostegno dei diritti umani, ha permesso al PSF di violarli. Questo, purtroppo, è solo uno dei molti episodi di antisemitismo riscontrati negli ultimi anni nei campus universitari di tutto il mondo. Rolene Marks, portavoce della Federazione Sionista Sud Africana (SAZF), con l’obiettivo di salvaguardare la vita nei campus universitari ha invitato la direzione dell’Università di Città del Capo ad unirsi nel condannare il comportamento del PSF, volto all’incitamento della discriminazione e annientamento del popolo ebraico. Nonostante ciò, l’unica risposta della direzione dell’università a riguardo di questo evento è ancora quella che il suo ambasciatore, Elijah Moholola, ha rivolto al South African Jewish Report: “Non siamo responsabili di quali relatori vengano invitati agli eventi ospitati da associazioni studentesche, le quali sono autonome. Tuttavia ricordiamo che l’università non sostiene i punti di vista dei relatori ospitati”.
Il cimitero ebraico di Berlino a Weißensee: uno dei più belli e dei più grandi d’Europa
Il Jüdischer Friedhof Weißensee, il cimitero ebraico di Berlino, è un luogo suggestivo nel cuore di una piccola foresta urbana, dove l’atmosfera è sospesa e il verde evoca un senso di pace e raccoglimento. Come una sorta di labirinto questo cimitero, che è il più grande d’Europa, guida i passi dei visitatori su un sentiero che si snoda tra tombe, colonne e mausolei monumentali. Ha inoltre il vantaggio di non essere molto affollato, perché dista un po’ dal centro cittadino.
• Il cimitero ebraico di Weißensee: antiche tombe in una foresta urbana
Sono più di 100.000 le tombe ospitate in questo luogo, che nacque nel 1880 perché nel precedente cimitero di Schönhauser Allee non c’era più posto. Le tombe recano quasi tutte date antecedenti alla Prima Guerra Mondiale e spiccano quelle di diversi berlinesi noti, come il compositore Louis Lewandowski (1821-1894), il pittore Lesser Ury (1861-1931), il politico sociale Max Hirsch (1832-1905), lo scrittore ebraico Micha Josef Bin Gorion (1865-1921) e gli editori Samuel Fischer (1859-1934) e Rudolf Mosse (1843-1920). Altre tombe si segnalano per la loro particolare bellezza, come quella delle famiglie Lewinsohn e Netter, risalente al 1893 e ispirata dall’eleganza fiorita dell’art nouveau. Se vi fate dare una mappa all’ingresso del cimitero, la trovate proprio all’intersezione tra le file IIA, IIB, IIG e IIH (come riportato anche dalla guida “Soul of Berlin: A Guide to 30 Exceptional Experiences”, di Thomas Jonglez).
Proprio all’entrata, si trova un memoriale che commemora le vittime della Shoah. Su una lapide si legge “Ricordate per sempre cosa ci è successo. Dedicato alla memoria dei nostri fratelli e sorelle massacrati (1933-1945) e ai vivi, che raccoglieranno l’eredità dei morti. La comunità ebraica di Berlino”. Tutto intorno, ci sono delle pietre sistemate a forma di cerchio su cui sono incisi i nomi di tutti i grandi campi di concentramento Dietro l’aiuola circolare si trova la Trauerhalle (Sala del lutto), edificata da Hugo Licht nel 1880 e celebre per la sua straordinaria acustica. A destra dell’ingresso principale, nell’angolo nord, si trova invece un luogo di sepoltura per circa 90 rotoli della Torah, che furono danneggiati nel 1938, durante la terribile “Notte dei Cristalli”. Il cimitero contiene anche un settore in cui sono presenti le urne con le ceneri di persone morte nei campi di sterminio, nonché lapidi che commemorano i morti che non hanno una tomba propria. Proprio accanto, c’è un monumento che onora i soldati ebrei caduti durante la seconda guerra mondiale. Una targa commemora infine Herbert Baum e il suo gruppo di membri della resistenza antinazista.
• Cenni storici: dal buio dell’era nazista alla Germania divisa
Durante il nazismo, diversi ebrei si nascosero in alcuni dei mausolei del cimitero, nel tentativo di sfuggire alle persecuzioni. Nel cimitero di Weißensee venivano inoltre segretamente sepolti gli ebrei che vivevano illegalmente a Berlino, nascosti allo sguardo delle autorità. Negli anni del Muro, la comunità ebraica dell’est era davvero esigua e questo fece sì che solo nel 1970 il parlamento di Berlino Est decidesse di attribuire al cimitero lo status di memoriale culturale e storico. Recentemente, vi si sono svolti lavori di restauro.
• Alcuni consigli, se vuoi visitare il cimitero ebraico
Un’indicazione: agli uomini potrebbe essere richiesto il capo coperto e per questo all’entrata sono messe a disposizione alcune kippah, che possono essere prese in prestito. Una volta che ci si trova nell’area, se il tempo e la stagione sono favorevoli, è infine possibile anche raggiungere la bellissima spiaggia di Oranksee o fare una passeggiata attorno ai laghi di Weißensee e Obersee, approfittandone per mangiare o bere qualcosa nei diversi caffè aperti di recente. Consigliabile anche l’esperienza di uno show serale presso il Theater im Delphi, che sorge, come nuovo centro per diversi tipi di performance artistica e culturale, all’interno dell’edificio che ospitava il leggendario cinema muto Delfi, aperto nel 1929.
(il Mitte, 24 marzo 2023)
Netanyahu caccia un ministro. Israele in piazza contro di lui
di Fiamma Nirenstein
Quando si tocca l'esercito, le cose si fanno drammatiche fino nel profondo dell'anima di ogni cittadino d'Israele: è qui che si gioca la vita del Paese assediato da molti nemici, qui che il Paese conosce il suo maggiore livello di emozione e di unità perché i figli di tutti i cittadini servono, vivono, muoiono insieme per trentadue mesi, qui i sentimenti più importanti hanno la loro sede per ogni famiglia. È con questa tensione che stanotte destra e sinistra di nuovo si sono scontrati in piazza, e Tel Aviv si è rovesciata urlando per le strade e marciando fino sotto casa di Netanyahu a Gerusalemme.
Oggi per protesta resteranno chiuse le università. Il partito di maggioranza di cui è leader Benjamin Netanyahu rischia di spaccarsi; ma proprio su questo Netanyahu era obbligato, per conservare il suo ruolo, a prendere la decisione che ha annunciato alle 8 di sera. È allora, quando ha annunciato che aveva deciso di escludere dal governo il ministro della Difesa Yoav Gallant, che si è spalancata la notte più agitata negli uffici del governo, alla Knesset, nelle case e nelle caserme. Lo ha fatto dopo ore di riflessione: Gallant due giorni fa, mentre Bibi era a Londra, ha preso il palcoscenico per dichiarare che informazioni drammatiche sul pericolo per la sicurezza di Israele, molto aumentate dal rifiuto a servire dei piloti e di altre unità impegnate nella rivolta, suggerivano che si debba fermare del tutto la riforma della giustizia. Ma dichiarava tuttavia di crederci. Gallant e Netanyahu, molto amici da sempre, si erano incontrati prima della partenza di Bibi per Londra giovedì scorso. Il primo ministro gli aveva comunicato la sua intenzione di tenere un discorso a reti unificate con la sua forte richiesta di colloquio e concordia fra le parti e la determinazione di portare avanti una parte della sua riforma. Gallant, su richiesta, aveva concordato di aspettare il suo ritorno per parlare.
Poi, ha anticipato. Gallant ha soprattutto indicato la minaccia: è molto vicina, ha detto, e una delle cause nell'indebolimento è l'allargarsi del movimento dei refusenik nell'esercito. Un dato grave, shoccante, mai verificatosi prima nella storia di Israele. Gallant ha chiesto di bloccare tutto in nome di questo: ma è stata una denuncia di debolezza che Netanyahu non poteva accettare, da Gallant, il suo ministro. Il suo essere un uomo di tradizione militare tutta d'un pezzo l'ha portato a rivelare la preoccupazione del pericolo in modo inusuale, e l'ha unita all'annuncio di rinunciare alla linea del governo. Adesso c'è chi dice che, allontanando Gallant, Netanyahu mette l'esercito, cui egli è legato, in situazione di ancora maggiore debolezza. Ma è anche del tutto logico che non potesse più affidarsi a un ministro che, avendo all'inizio del fenomeno evitato di reprimere il fenomeno della disubbidienza come richiesto dalle leggi militari, adesso esternava la sua incapacità a contenerlo. Già due personaggi di primo piano del Likud come il presidente della commissione Esteri Yuli Edelstein e il ministro David Bitan hanno dichiarato che Gallant ha ragione, il partito dà segni di crepe; Yair Lapid come al solito copre Netanyahu di insulti, e non ne mancano per chi lo sostiene e potrebbe divenire il prossimo ministro della Difesa, l'ex capo dello Shabbach, Avi Dichter. Ormai sull'ipotesi della sua candidatura lo inseguono le maledizioni della piazza. I toni sono esasperati e furiosi, Netanyahu ha voluto dimostrare che la sua strategia non conosce debolezze. A New York si è dimesso il console Asaf Zamir in segno di protesta contro Netanyahu.
(il Giornale, 27 marzo 2023 - ore 06)
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Riforma ritirata, proteste e rischio crisi di governo: ora Israele è nel caos
Sono ore politicamente drammatiche in Israele. L'ultima notte è trascorsa tra proteste, disordini e scontri in molte città. Tutto è partito quando il premier Benjamin Netanyahu ha licenziato il ministro della Difesa, Yoav Gallant. Quest'ultimo aveva pubblicamente consigliato, poche ore prima, il ritiro della riforma della giustizia. La stessa al centro da settimane di un tira e molla tra maggioranza e opposizione. Con il licenziamento di Gallant, arrivato nel tardo pomeriggio di domenica, Netanyahu ha fatto la sua scelta: andare avanti con la riforma, non permettendo strappi interni alla maggioranza. Contestualmente, anche la piazza ha però fatto la sua di scelta: inasprire la protesta. Sono state organizzate manifestazioni in tutto il Paese. Israele questa mattina si è risvegliato nella più totale incertezza: alle ore 10:00 il premier doveva parlare alla nazione, ma il discorso è stato rinviato. Forse, come sottolineato dal Times Of Israel, per via dei timori dei partiti di estrema destra sul ritiro della riforma. Ipotesi quest'ultima paventata nelle ultime ore.
• LE PROTESTE DELLA SCORSA NOTTE Il licenziamento del ministro della Difesa ha fatto da detonatore delle proteste. A Tel Aviv, lì dove il ministero ha la sua sede principale, in migliaia sono scesi in piazza. Bandiere israeliane e bandiere della pace hanno fatto da scenario nelle vie limitrofe all'edificio. I manifestanti hanno urlato slogan contro Netanyahu e, al tempo stesso, hanno chiesto il reintegro di Gallant. All'ex ministro è andata la solidarietà della gente scesa in piazza a Gerusalemme, davanti la residenza privata di Gallant. Yair Lapid, il leader dell'opposizione, ha parlato di "scelta coraggiosa" da parte del rappresentante del Likud, lo stesso partito di Netanyahu. Per i manifestanti, la detronizzazione di Gallant è stata vista come un ulteriore attacco alla democrazia. Una tematica già presente nelle proteste dei giorni scorsi. La piazza, formata da militanti dell'opposizione, studenti, associazioni e sigle sindacali, ha sempre ritenuto già dal primo giorno la riforma della giustizia come un attacco alla divisione dei poteri, all'indipendenza della magistratura e quindi alla tenuta dell'ordinamento democratico di Israele. Forse è soprattutto per questo che il licenziamento di Gallant ha provocato una reazione molto importante. A Tel Aviv, così come a Gerusalemme, ad Haifa e in tutte le città israeliane le strade sono state percorse da migliaia di cittadini. In alcuni casi ci sono stati scontri con la polizia per via degli incendi appiccati ai cassonetti. Anche se la situazione è rimasta complessivamente sotto controllo.
• PAESE PARALIZZATO DAGLI SCIOPERI Ma le dimissioni forzate del ministro della Difesa, hanno provocato reazioni anche all'interno del quadro politico israeliano. Netta la presa di posizione da parte del presidente della Repubblica, IsaacHerzog. "Per il bene del Paese e dell'unità consiglio il ritiro della leggenone", ha scritto in una nota il capo dello Stato.In Israele il presidente ha un ruolo rappresentativo, non può intervenire nei processi legislativi, ma può ovviamente consigliare la via più opportuna al governo in carica. Le parole di Herzog hanno quindi messo Netanyahu con le spalle al muro. Il presidente della Repubblica peraltro sta seguendo da vicino la situazione. I media locali hanno annunciato l'annullamento dei suoi impegni previsti oggi, compresa la partecipazione a un iftar, la cena di fine digiuno durante il mese sacro del Ramadan. Un appuntamento a cui Herzog aveva annunciato la presenza come gesto di attenzione alla comunità musulmana israeliana. Il premier deve adesso fronteggiare molteplici prese di posizione contrarie alla riforma. Anche il suo avvocato difensore, Boaz Ben Zur, si è schierato contro la proposta di legge. "Viene molto difficile difendere il mio cliente in questa situazione", ha dichiarato alla stampa locale. Una grana non indifferente per Netanyahu, visto che i suoi avvocati sono impegnati nella sua difesa dalle accuse di corruzione in un processo iniziato due anni fa. La vera insidia però arriva dai sindacati. A partire da questo pomeriggio, è stata indetta una giornata di mobilitazione generale. Hidrasut, la principale sigla sindacale israeliana, ha minacciato di bloccare l'intero Paese. Possibile una serrata nei centri commerciali, così come l'astensione da lavoro nelle principali fabbriche del Paese. Ma già in queste ore si vedono le conseguenze delle mobilitazioni: dalle 10:00 di questa mattina l'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, il principale in territorio israeliano, funziona a singhiozzo. Molti aerei sono rimasti a terra, decine di voli sono stati cancellati. A partecipare agli scioperi sono anche i medici. Ad annunciarlo sono stati i sindacati di base della sanità israeliana. Da qualche ora, l'attività degli ospedali procede a rilento e sono garantiti solo i servizi base e indispensabili. É la prima volta che il sistema sanitario locale risente di scioperi e mobilitazioni.
• SI VA VERSO IL RITIRO DELLA RIFORMA Alla luce di una situazione potenzialmente fuori controllo, Netanyahu avrebbe deciso di ritirare la riforma. Lo hanno riferito i principali media israeliani. Stamattina era previsto un suo discorso alla nazione, ma tutto è stato rinviato. Questo perché, secondo il Times Of Israel, dopo l'annuncio dato dal premier agli alleati di governo sul ritiro della riforma, in molti hanno iniziato a minacciare una crisi di governo. A partire da Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, i leader di Sionismo Religioso. Sarebbero loro ad aver lanciato un ultimatum al premier: senza riforma, la maggioranza salterebbe. Dunque, Netanyahu ha preso altro tempo per decidere. E, probabilmente, lavorare per un delicato compromesso. Nel frattempo però proprio le organizzazioni e i partiti di estrema destra si starebbero mobilitando per delle contro manifestazioni. La tensione è quindi molto alta: le strade delle città israeliane potrebbero diventare terreno di scontro tra sostenitori e detrattori della riforma. La polizia è allerta: agenti in tenuta anti sommossa sono chiamati a evitare sul nascere contatti tra le varie fazioni in piazza.
(il Giornale, 27 marzo 2023 - 0re 11)
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Netanyahu licenzia il ministro della difesa: Israele a rischio “guerra civile”
di Sofia Tranchina
Domenica 26 marzo i manifestanti hanno invaso le strade dopo la scelta del primo ministro Benjamin Netanyahu di licenziare il ministro della difesa Yoav Gallant. Gallant aveva espresso la propria preoccupazione in merito alla riforma giudiziaria in procinto di essere votata, e ha sollecitato un accordo di compromesso con l’opposizione. «Invece di ascoltare Gallant e convocare il gabinetto, Netanyahu ha scelto la strada di tutti i dittatori, mettere a tacere le voci», ha twittato Avigdor Liberman, leader di Yisrael Beytenu ed ex ministro della difesa. A sostituirlo potrebbe essere il ministro dell’Agricoltura Avi Dichter. I partiti Shas, United Torah Judaism, e Otzma Yehudit hanno rinnovato il loro incontestato sostegno a Netanyahu. Quando l’ufficio del primo ministro ha diffuso la notizia che Netanyahu aveva deciso di trasferire Gallant dal suo incarico, alcuni manifestanti si sono riuniti nel Moshav Amikam per sostenere il ministro della difesa fuori dalla sua abitazione, chiedendogli di non cedere alle pressioni e non rinunciare alla sua opposizione. Quando alle ore 22.00 è arrivata la notizia dell’effettivo licenziamento, i manifestanti si sono diretti verso Kaplan street, andando a bloccare l’autostrada principale di Ayalon da entrambi i lati. Secondo un rapporto di Channel 12 le persone in strada, che sventolavano bandiere israeliane gridando «non abbiamo paura!», «Bibi vai a casa» e «democrazia o rivolta!», ammontavano a centinaia di migliaia. Hanno anche appiccato un fuoco in mezzo alla strada, finché la polizia è ricorsa ai cannoni ad acqua per disperdere la folla. Alcuni estremisti alla guida di autoveicoli hanno cercato di investire i manifestanti: in particolare a Gadera uno di loro è rimasto ferito. A Raanana, i manifestanti hanno sfondato le barricate della polizia arrivando davanti alla casa del parlamentare del Likud Danny Danon, mentre a Kiryat Ono hanno protestato contro il presidente dell’Histadrut Arnon Bar David. Il leader del partito di unità nazionale Benny Gantz, predecessore di Gallant come ministro della difesa, ha affermato che Israele sta affrontando un «pericolo chiaro, immediato e tangibile» per la sua sicurezza. Il presidente Isaac Herzog ha supplicato il governo di abbandonare la sua revisione giudiziaria oppressiva e di sostituirla con un quadro per la riforma consensuale, ma, come scritto dal Times of Israel, le parti non hanno avviato colloqui diretti. In protesta al licenziamento di Gallant, un gruppo universitario ha annunciato uno sciopero generale a partire da lunedì mattina: «Noi, capi delle università di ricerca israeliane, presidenti, rettori e dirigenti, interromperemo gli studi in tutte le università di ricerca israeliane a partire da domani mattina, mentre continua il processo legislativo che mina le fondamenta della democrazia israeliana e mette in pericolo la sua esistenza. Chiediamo al primo ministro e ai membri della coalizione di interrompere immediatamente la legislazione e di avviare immediatamente i colloqui per raggiungere uno schema concordato e di massima». Secondo quanto riferito da Channel 12, Netanyahu avrebbe infine deciso di valutare in mattinata se sospendere la revisione giudiziaria, ma il ministro della Giustizia Yariv Levin ha minacciato di dimettersi se lo farà, mentre il ministro dell’Economia Nir Barkat ha dichiarato il proprio sostegno: «il popolo di Israele ha la precedenza su tutto. Sosterrò il primo ministro nella decisione di fermarsi e tracciare un nuovo corso; la riforma è necessaria e la realizzeremo, ma non a prezzo di una guerra civile».
Riportiamo la prefazione dell'ultimo libro di Fulvio Canetti
Il manoscritto Esilio e Redenzione nasce dall'incontro avvenuto a Roma tra Samuele Perugia e Fulvio Canetti, da cui emerge una convergenza di intenti sulla tragedia della Shoà. Nel tentativo di saldare insieme memoria storica e testimonianze personali, da cui potrebbe nascere anche un genere letterario nuovo, vengono alla luce le difficoltà incontrate da Lello (Samuele) nel dare risposte esaurienti ai quesiti emersi durante il loro dialogo. Ecco gli interrogativi:
1 - Perché i nazisti volevano liquidare il popolo ebraico dalla storia del mondo? Di certo la volontà di commettere un genocidio non è prerogativa specifica dell'universo nazista - afferma Lello - se ricordiamo il recente genocidio degli Armeni da parte dei Turchi. Tuttavia nella storia non esistono casi assimilabili alla "soluzione finale" progettata dal Nazismo contro gli ebrei, che hanno saputo integrarsi e assimilarsi come parte integrante nel popolo tedesco. La spiegazione razionale che Lello riporta è quella dei pregiudizi antigiudaici del mondo cristiano, facendo intravedere un'interpretazione escatologica che sfugge alla nostra ragione.
2 - Perché il colonnello delle SS Kappler chiese alla Comunità di Roma cinquanta chili d'oro per scongiurare la sua deportazione? Secondo alcuni cabalisti, Kappler, in questa richiesta, venne ispirato dal demone del male. Il parametro 50 (lettera Nun dell'alfabeto ebraico) nella tradizione cabalista corrisponde alla luce, in questo caso "oscura", che fu una prerogativa dell'universo nazista. Lello non accettò questa interpretazione e da partigiano combattente, aggiunse qualcosa su cui riflettere. Sua madre Emma era contraria a consegnare quei 50 chili d'oro ai Nazisti. Sarebbe stato opportuno da parte dei Dirigenti, prendere subito contatti con la Resistenza romana in modo da utilizzare quell'oro raccolto per acquistare armi e combattere insieme l'occupazione nazista di Roma. Decisione questa che venne fatta abortire dagli ebrei benpensanti della Comunità, nell'ingenua speranza che il carnefice sarebbe stato di parola.
3 - Perché il genocidio degli ebrei, e avvenuto senza alcuna reazione? A Lello che aveva combattuto nelle formazioni partigiane Liberty, apparve inconcepibile lasciarsi massacrare, senza opporre alcuna resistenza. I dirigenti della Comunità ebraica, accettarono per buone le promesse di Kappler, scegliendo di pagare in cambio della vita. Alla raccolta dell'oro partecipò anche il Vaticano, con una piccola quantità d'oro, che venne a suo tempo restituita. Secondo la visione di Lello, il Vaticano avrebbe dovuto opporsi a una tale richiesta, sapendo che i nazisti non avrebbe fatto sconti agli ebrei.
4 - Perché la vergogna del Negazionismo? Lello infine mette il dito nella piaga. Questa infame ideologia continua a negare la tragedia umana della Shoà, sostenendo che il genocidio del popolo ebraico, è un'invenzione dei Sionisti, per favorire la nascita della Nazione ebraica. La politica del Negazionismo, sponsorizzata dalla galassia razzista e antisemita, vuole in realtà attraverso la menzogna liquidare Israele, e imporre la propria ideologia liberticida nel mondo.
«Io putiniano? Sì, come il Papa. Eppure la pace è possibile...»
Il fisico: «La soluzione per uscire dalla guerra c'è, ma prima bisogna uscire dalla logica del "padrone del mondo". L'Occidente dimentica l'orrore provocato dalle sue bombe».
di Giulia Cassaniga
Poesia della fisica. Il nuovo libro di Carlo Rovelli si intitola Buchi bianchi, è il suo Quinto per Adelphi, ed è un «bollettino dal fronte» dello studio di un fenomeno che il fisico teorico italiano ha affrontato negli ultimi anni .... Coinvolge la natura quantistica del tempo e dello spazio, la ragione della differenza fra passato e futuro», ed è già vertigine. In centotrenta pagine Rovelli, fondatore dell'équipe sulla gravità quantistica all'Università di Aix-Marseille in Francia, racconta cosa sono i buchi neri che pullulano nell'universo e i loro «elusivi fratelli minori», bianchi. Un libro divulgativo? Non solo, anche questa volta.
- Pagina uno, cita Albert Einstein. «L'esperienza. più bella che possiamo avere è il senso del mistero. E' l'emozione fondamentale [...]. Chi non lo sa e non può più meravigliarsi, è come morto». Una ricerca, Rovelli, che la accompagna da sempre? "Sì. Il mistero per me è la consapevolezza della nostra limitatezza, dell'immensità di quanto non sappiamo, ma anche della nostra sete di andare oltre quel che siamo. E pure quell'emozione profonda che ci prende di fronte a ciò che va al di là del nostro semplice sapere».
- Ho letto che quando scelse di studiare fisica fu una scelta «un po' così». «Da ragazzo mi incuriosiva tutto».
- C'erano pure le poesie, a piacerle. Hanno a che fare sempre con il mistero? "Sì, perché spesso i poeti hanno strumenti per dire qualcosa che di solito non sappiamo come dire. Per allargare lo spazio del dicibile, per portarcì un po' più in là. Oppure anche solo per ricordarci di tutto quanto sfugge al nostro quotidiano universo di discorsi».
- C'è chi poi incontra la fede. «Non è mai entrata nella mia vita come risposta. Da ragazzo ho frequentato comunità di giovani che vivevano la fede anche intensamente, e mi sono molto interrogato. È stato un periodo di ricerca, attorno a me e dentro di me. Poi piano piano mi sono reso conto che quell'esperienza non era la mia».
- Secoli di interrogativi sul rapporto tra fede e scienza ... «Conosco bravissimi scienziati che sono religiosi, di tante religioni diverse. La maggior parte degli scienziati che conosco, tuttavia, non sono religiosi. Non si occupano di religione. Penso che la pratica della scienza allontani molte persone dalla religione per un motivo che è opposto a quello che si dice di solito».
- «La scienza fornisce tutte le risposte». «Ma non lo fa. È il contrario. La scienza abitua a mettere in dubbio le risposte tradizionali. Molti che vivono nella scienza trovano poco convincenti le risposte tradizionali date nelle religioni. Le persone religiose che più hanno avuto influenza su di me sono quelle con meno certezze».
- Anni di studi e di ricerca. Libri tradotti in 40 Paesi e uno che diventa persino un film: sta per uscire "L'ordine del tempo" con la regia di Liliana Cavani. «E' stato bellissimo. Ho appena visto una prima versione del montaggio del film, in anteprima, e mi sono commosso alle lacrime. II film non è veramente tratto dal libro, è solo ispirato dal libro. Ma parla del senso della vita...
- Ha sempre avuto lo sguardo rivolto al cielo o c'è stato un momento decisivo? «Ricordo un momento molto preciso in cui mi sono detto: "E se provassi a diventare un fisico teorico?" Era alla fine della mia università. Chissà se ha influito il fatto che al liceo mi ero innamorato di una ragazza che, ahimè. era innamorata di un altro ... e questo altro ... si occupava di fisica teorica ....».
- Ora i buchi bianchi. Sempre andare oltre. E «quella felicità sottile ma pervasiva di aver avuto un'intuizione su come potrebbe funzionare» quando è nata? «È nata in diverse fasi, come tutte le idee. Un passaggio importante, di cui non parlo nel libro, è stato discutere con una giovane collega che poi, da tanti anni, è diventata la compagna della mia vita. Con lei ci siamo resi conto che la stella che sprofondando su sé stessa dà origine al buco nero può poi rimbalzare e riesplodere. Poi c'è stata la seconda fase, che racconto: capire come questo possa accadere in maniera compatibile con la geometria dello spazio e del tempo che caratterizza i buchi neri».
- La questione "tempo" non è facile da comprendere per noi profani. «Difficile spiegarlo. Ci provo in una sola riga: la struttura del tempo è molto più complicata e interessante che il semplice passare delle ore misurato da un orologio».
- So che ha viaggiato molto. «Sì. A 14 anni sono andato in Francia a trovare Frère Roger a Taizè: personaggio straordinario, profondamente sincero, non certo uno da ipocrisie e belle parole. A 15 sono andato da solo in Sicilia. A 16 in autostop da solo, da Parigi a Sofia. E via via. Mi piace incontrare gente, imparare cosa c'è lontano da qui. Mi piace anche essere da solo. Si incontra gente più facilmente».
- Si scopre anche che non sempre è come si racconta? «Ricordo un ragazzo. in Bulgaria. Si chiamava Lachezar Kuntchev, ma non so come si scrive. L'avevo incontrato a Parigi e mi diceva che il comunismo è meraviglioso. Io gli dicevo che il comunismo è orrendo, e lui diceva "vieni a vedere". Così ci sono andato»,
- E..? «Quello che più mi ha stupito è che da lui. nella Bulgaria sovietica. si dipingeva l'Occidente a tinte foschissime: la propaganda anti occidentale era fortissima e piena di falsità. Egualmente però, la propaganda antisovietica da noi era fortissima e piena di falsità. Sofia era tutt'altro che l'orrore che si dipingeva. Era pacifica e serena. È stata un'esperienza che mi ha fatto molto riflettere. Oggi siamo di nuovo in conflitto con la Russia, e la propaganda, da una parte e dall'altra, è tornata feroce e, sono convinto, altrettanto esagerata».
- L'hanno inserita nella lista dei putiniani. Prima reazione? «Mi consola che anche papa Francesco sia nella lista. E tutta la Cina, l'India, l'America del Sud, l'Africa, e buona parte dell'Asia ... Stupisce che Putin sia così popolare. In fondo ha scatenato una guerra devastante: com'e che il mondo è pieno di putlniani lo stesso? Fa pensare, no?»
- Come mai la narrazione è diversa? «Quando c'è un conflitto, chi è coinvolto si radicalizza e ci si concentra solo sui torti altrui. L'Occidente si e coinvolto direttamente nella guerra in Ucraina e ne fa una narrazione a senso unico. Il resto del mondo, che è molto più vasto, ne vede la cornpiessità, i vari lati. Giustamente, a mio parere, considera come priorità la fine della carneficina, non la sfida a fare chi è più gorillone dell'altro, come stanno facendo Occidente e Russia».
- Esiste un "pensiero unico" occidentale? Qual è l'antidoto? "Non credo che ci sia un pensiero unico. Penso che il mondo sia pieno di gente che pensa in tante maniere diverse, Ci sono momenti, come ora, in cui Paesi in guerra, come di fatto siamo, scatenano istintivamente una sfrenata propaganda di guerra, in cui il nemico viene demonizzato. Si parla solo dei misfatti del nemico. Le bombe russe devastano l'Ucraina e ammazzano civili. Invece le altrettante bombe che manda l'Occidente non fanno male a nessun civile. Ma anche nel nostro Paese, forse metà della popolazione non ci crede molto a questa propaganda di guerra ...
- Non c'è quindi «o bianco o nero»? "II problema delle guerre è uscirne. Per uscirne, o si cerca una ragionevole via di uscita, come succede quasi sempre, oppure si va al conflitto totale, come abbiamo fatto nella Seconda Guerra Mondiale, cioè con 70 milioni di morti. un terzo del pianeta in macerie e bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. E' questo che vogliamo? In più oggi non ci sono due bombe atomiche: ce ne sono decine di migliaia e molto molto più devastanti».
- E come se ne esce? Una strada c'è? «Ma certo: la risoluzione Onu 2202, gli accordi di Minsk. La recente proposta cinese. Di soluzioni ragionevoli ce ne sono. Immediata cessazione delle ostilità, referendum controllati dall'Onu nelle zone contese, accordo che la Nato ritiri basi ostili troppo vicine al confine russo, la smetta di fare esercitazioni simulando attacchi atomici contro la Russia e torni a essere quello per cui è nata: un'alleanza difensiva. Di soluzioni ragionevoli ce ne sono infinite».
- Eppure ancora ... «Sono tutte impossibili finché la vera questione resta la questione di chi sia il padrone del mondo».
- Uno scienziato che parla di guerra. Lo fece anche Einstein, con un filosofo, Bertand Russel. «Nel 1914, quando tutti in Europa gridavano "guerra! guerra!", Einstein ha firmato un manifesto che diceva sostanzialmente: "Non facciamo gli stupidi, questa guerra non ha senso". Dopo due ravvicinate guerre mondiali, il suicidio dell'Europa, e 100 milioni di esseri umani ammazzati, ora ci si volta indietro e si pensa ... beh, forse aveva ragione».
- La classe politica italiana è in grado di avere un pensiero all'altezza di queste sue aspettative? «Temo che i politici siano troppo presi dalla difesa delle loro posizioni nelle battagliette quotidiane, per avere il coraggio di guardare l'interesse di tutti più in generale. Spesso - per esempio in America - si inizia una guerra perché così si indebolisce l'opposizione interna e si ricompatta il Paese. In Italia i politici hanno sempre paura che se hanno contro gli Usa vengono sbattuti via».
- Anche oggi? «Il governo ha preso voti dicendo che avrebbero reso l'Italia più indipendente, e appena al potere si è più asservito agli Stati Uniti dei precedenti. Purtroppo non è colpa di nessuno. Ognuno difende sé stesso. Sono grato al Papa, che continua a ricordare che esistono valori più alti dell'immediato tornaconto, e che esiste un interesse comune, cruciale per tutti. Potremmo magari anche essere ragionevoli, qualche volta.
(La Verità, 27 marzo 2023) ____________________
Il riferimento positivo al Papa probabilmente dipende dal fatto che lo scienziato, da irreligioso come si proclama, non è interessato voler conoscere la verità su quello che si dice e si fa negli ambienti pontifici, ma è contento di sapere soltanto che, per "valori più alti dell'immediato tornaconto" anche il Papa è contrario al proseguimento di questa guerra. E' da sottolineare inveceil riferimento di Rovelli al manifesto di Einstein del 1914: "Non facciamo gli stupidi, questa guerra non ha senso". Non è pacifismo universale, è semplice buon senso. A cui si oppone la stupidità, molto più che la cattiveria, di molti commentatori. Ed è desolante vederla diffusa anche e proprio tra gli intellettuali. Non tutti, naturalmente, come si vede dall'esempio di Rovelli, ma certamente molti, troppi. Troppi sono gli "scemi di guerra". Forse è dovuto a quella particolare reazione dell'anima chiamata "dissonanza cognitiva". Quando a un intellettuale gli si apre il dubbio, sollecitato da altri, di aver sostenuto con fini argomenti una tesi che assolutamente non sta in piedi, per lui fare marcia indietro è molto difficile, perché rinfacciare a un intellettuale di aver difeso una palese stupidità è peggio che incolparlo di aver commesso un crimine. Onore quindi a scienziati come Carlo Ravelli, perché chi cerca onestamente la verità nel campo in cui si trova "non è lontano dal Regno di Dio" (Marco 12:34) , secondo la parola di Colui che disse: "Io sono la verità" (Giovanni 14:6). M.C.
Il Signore è la mia luce e la mia salvezza; di chi temerò? Il Signore è il baluardo della mia vita; di chi avrò paura?
Quando i malvagi, che mi sono avversari e nemici, mi hanno assalito per divorarmi, essi stessi hanno vacillato e sono caduti.
Se un esercito si accampasse contro di me, il mio cuore non avrebbe paura; se infuriasse la battaglia contro di me, anche allora sarei fiducioso.
Una cosa ho chiesto al Signore, e quella ricerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per contemplare la bellezza del Signore, e meditare nel suo tempio.
Poich'egli mi nasconderà nella sua tenda in giorno di sventura, mi custodirà nel luogo più segreto della sua dimora, mi porterà in alto sopra una roccia.
E ora la mia testa s'innalza sui miei nemici che mi circondano. Offrirò nella sua dimora sacrifici con gioia; canterò e salmeggerò al Signore.
O Signore, ascolta la mia voce quando t'invoco; abbi pietà di me, e rispondimi.
Il mio cuore mi dice da parte tua: «Cercate il mio volto!» Io cerco il tuo volto, o Signore.
Non nascondermi il tuo volto, non respingere con ira il tuo servo;tu sei stato il mio aiuto; non lasciarmi, non abbandonarmi, o Dio della mia salvezza!
Qualora mio padre e mia madre m'abbandonino, il Signore mi accoglierà.
O Signore, insegnami la tua via, guidami per un sentiero diritto, a causa dei miei nemici.
Non darmi in balìa dei miei nemici; perché sono sorti contro di me falsi testimoni, gente che respira violenza.
Ah, se non avessi avuto fede di veder la bontà del Signore sulla terra dei viventi!
Spera nel Signore! Sii forte, il tuo cuore si rinfranchi; sì, spera nel Signore!
Israele: è la crisi più grave della storia dello Stato Ebraico
I nemici di Israele non possono che gioire delle profonde divisioni interne allo Stato Ebraico<
Durante il suo incontro con il Primo Ministro avvenuto giovedì, il Ministro della Difesa Yoav Gallant ha avvertito Benjamin Netanyahu che non voterà a favore del disegno di legge per affermare il controllo politico sul Comitato di Selezione Giudiziaria del Paese se sarà portato al voto la prossima settimana nella sua forma attuale. Lo hanno riferito alcune fonti. Senza citare le fonti, Channel 12 ha detto che Gallant ha ammonito che se il disegno di legge – un elemento centrale della revisione giudiziaria del governo – non sarà emendato o non sarà raggiunto un compromesso con l’opposizione nei prossimi giorni, egli non sosterrà la legislazione e si asterrà o voterà attivamente contro. Secondo le stesse fonti tuttavia Gallant non ha intenzione di dimettersi dal suo incarico, nonostante le sue obiezioni. Netanyahu ha chiesto al ministro di concedergli qualche giorno per cercare di risolvere la crisi in corso, e Gallant ha accettato. Secondo quanto si apprende, Gallant avrebbe programmato per giovedì una conferenza stampa in cui avrebbe chiesto pubblicamente di fermare la legislazione, a causa delle sue forti preoccupazioni per i profondi danni alla coesione dell’esercito, dato che un numero crescente di riservisti avverte che non presterà servizio se la democrazia israeliana sarà danneggiata. Nir Dvori di Channel 12 ha detto che il ministro ha presentato al premier un quadro “molto preoccupante” sullo stato delle forze armate e sulla situazione della sicurezza di Israele, affermando che la minaccia di un crescente rifiuto non è più limitata ai riservisti, ma potrebbe estendersi ai soldati di leva e agli ufficiali di carriera. Gallant avrebbe fatto notare al premier che le previsioni funeste del Capo di Stato Maggiore dell’IDF Herzi Halevi sulle divisioni sempre più profonde all’interno della forza di difesa del Paese si sono finora rivelate veritiere. Secondo il New York Times Halevi ha avvertito i leader del governo che l’esercito è sul punto di ridurre la portata di alcune operazioni a causa del gran numero di riservisti che si rifiutano di presentarsi in servizio. Dopo che giovedì si è diffusa la notizia della prevista conferenza stampa di Gallant, e prima che la rimandasse, il ministro è stato accolto da un fiume di critiche da parte di altri membri della coalizione, compresi i membri del Likud, che si sono rivolti ai social media per escoriarlo per quello che hanno dipinto come un tradimento degli elettori di destra e una capitolazione nei confronti dei manifestanti anti-governativi. Il partito di estrema destra Otzma Yehudit ha lanciato una bordata diretta contro Gallant, affermando che si è “allontanato dal campo della destra” e sta cercando di imbrogliare gli elettori. “A differenza di altri, io non ho ancora rinunciato alle mie priorità”, ha dichiarato a Canale 12 Gallant. “Prima lo Stato, poi l’IDF. A mio avviso, la cerchia ristretta del primo ministro non ha interiorizzato la grave situazione della sicurezza”. Fonti non ben specificate hanno affermato che il deputato del Likud Yuli Edelstein e potenzialmente altri hanno preso in considerazione la possibilità di esprimere una chiara opposizione alla revisione nella sua forma attuale, e potrebbero farlo se Gallant parlasse. Al momento, il governo sta portando avanti i suoi piani legislativi. Netanyahu ha detto in un discorso giovedì sera che avrebbe ammorbidito alcune parti della revisione in corso, ma ha anche detto che voterà per approvare la prossima settimana il disegno di legge per mettere le nomine chiave della Corte Suprema, compresa la sua presidenza, direttamente sotto il controllo della coalizione. Non è ancora chiaro quando si terrà il voto, anche se dovrebbe avvenire martedì. Gli oppositori della revisione del sistema giudiziario hanno tracciato una linea di demarcazione su questa proposta di legge, affermando che essa politicizzerà il tribunale, eliminerà i controlli chiave sul potere governativo e causerà un grave danno al carattere democratico di Israele. Venerdì i leader della protesta hanno annunciato una “settimana di paralisi” senza precedenti in tutto il Paese, con proteste di massa a Tel Aviv e Gerusalemme. La revisione del sistema giudiziario è stata accolta con crescente allarme e obiezioni da parte di personalità di spicco dell’opinione pubblica, tra cui il presidente, giuristi, imprenditori, economisti premiati con il Nobel, importanti funzionari della sicurezza e molti altri. Questa settimana alti funzionari del Ministero delle Finanze hanno messo in guardia da danni profondi e duraturi all’economia se le modifiche passeranno nella loro forma attuale. “Stiamo entrando nella settimana più fatidica della storia di Israele”, hanno dichiarato venerdì i leader della protesta in un comunicato. Questo governo distruttivo sta facendo a pezzi la nazione e sta smantellando l’esercito e l’economia”. “Di fronte al tentativo di trasformare Israele in una dittatura, milioni di persone scenderanno in piazza per difendere lo Stato di Israele e la Dichiarazione di Indipendenza”, si legge nella dichiarazione. “Ogni cittadino che vuole vivere in una democrazia deve scendere in piazza e opporsi alla dittatura a tutti i costi”. Netanyahu ha anche dichiarato giovedì che, a causa della crisi, avrebbe d’ora in poi ignorato l’accordo sul conflitto di interessi del 2020 che gli vieta di partecipare alla revisione in virtù del processo per corruzione in corso, e si sarebbe impegnato a fondo nella legislazione in corso, profondamente controversa. L’annuncio di Netanyahu è arrivato poche ore dopo l’approvazione da parte della Knesset di una legge che lo mette al riparo dalla rimozione dall’incarico per aver violato i suoi limiti. In un vero e proprio confronto con il primo ministro, il procuratore generale Gali Baharav-Miara ha informato Netanyahu che aveva violato l’accordo sul conflitto di interessi e che qualsiasi ulteriore coinvolgimento da parte sua nella revisione giudiziaria della coalizione sarebbe stato “illegale e contaminato da un conflitto di interessi”. Venerdì sera, mentre il primo ministro si trovava a Londra, un alto funzionario israeliano che viaggiava con Netanyahu ha dichiarato ai giornalisti che non c’era “alcun conflitto di interessi”. “In una delle peggiori crisi che la nazione abbia mai visto, è inconcepibile che il primo ministro rimanga in disparte”, ha dichiarato. Il funzionario ha insistito sul fatto che il primo ministro “sta cercando qualsiasi strada, qualsiasi partner per un compromesso sulla revisione.” Ieri, parlando a Channel 12, l’ex ministro della Giustizia Gideon Sa’ar del partito di unità nazionale, ha detto di aver consigliato di “non disprezzare la lettera del procuratore generale”. “Chiunque agisca in conflitto di interessi sta violando la legge. Sarà esposto a un’indagine penale… e all’oltraggio alla corte”. Per quanto riguarda lo stato dell’opposizione interna al Likud all’avanzamento della legislazione, Sa’ar ha detto che “ci sono alcune persone nel Likud che capiscono cosa sta accadendo al Paese”. “Faccio appello a tutte queste persone – a Yoav Gallant, a Yuli Edelstein, a Nir Barkat, ad altri nel Likud che so che si preoccupano e capiscono la situazione… Non potranno rimanere dove Bibi sta portando il Paese… ma possono fermarlo, possono prevenire un terribile disastro”. I funzionari dell’ufficio del leader del partito di unità nazionale Benny Gantz, un membro chiave dell’opposizione che è stato anche ministro della Difesa e capo dell’IDF, hanno detto giovedì che ha tenuto colloqui con i deputati della coalizione del Likud e dei partiti ultraortodossi, compreso Gallant, nel tentativo di prevenire danni irreversibili alla democrazia e alla guerra civile, e di mantenere la sicurezza del Paese e della sua economia. Gantz ha sottolineato loro che fermare la revisione del sistema giudiziario è fondamentale per porre fine alla crisi.
(Rights Reporter, 25 marzo 2023)
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Serve un pompiere
Nel partito di Netanyahu si cerca chi possa sbloccare il paese.
Il recalcitrante ministro Levin
di Micol Flammini
ROMA - Lunedì si è tenuta una riunione interna del Likud, il partito del premier israeliano Benjamin Netanyahu, e il clima descritto dai media che avevano fonti interne non era rilassato. Molti parlamentari del Likud erano a disagio proprio con l’argomento che sta dividendo il premier e la piazza, che ieri ha annunciato una “settimana di paralisi”: la riforma della Giustizia. Gli esponenti del partito che avevano sollevato l’argomento si rivolgevano con insistenza a un uomo, che di questa riforma è tra le menti, e il quale potrebbe avere l’autorità e la posizione per rivederla. Tiravano nel mezzo della discussione il ministro della Giustizia Yariv Levin, chiedendogli di spiegare cosa potrebbe succedere se la Corte suprema decidesse di ribaltare la norma che conferisce più potere alla maggioranza per nominare i giudici. Israele va incontro a un blocco giudiziario e politico, e gli uomini del premier, che lo accompagnano da decenni, all’interno di questo blocco stanno scomodi e non è confortante vedere Netanyahu arrivare a Londra tra le proteste ed essere accolto dal premier inglese con un discorso-ramanzina sui princìpi democratici. Secondo uno degli ultimi sondaggi, il Likud rimane il partito più votato e questo dato stride con la furia della piazza. Alcuni uomini del premier temono però che più si andrà avanti con la riforma, più cresceranno i disagi e più il Likud ne farà elettoralmente le spese.
Levin è uno dei ministri guardati con speranza e anche con diffidenza, è il mentore del premier per tutto quello che riguarda le questioni della Giustizia e anche legali, è un avvocato e molto del malcontento nel Likud è rivolto a lui, colpevole, secondo alcuni, di aver chiuso quella riforma con troppa fretta, di averne parlato senza cercare un confronto, di averne fatto innamorare Netanyahu senza prospettargli le evidenti criticità. Il pasticcio nasce da Levin, che non è l’unico autore della riforma, e vista la sua influenza sul premier ci si aspetta che a risolverlo sia proprio lui, che molti riconoscono più come abile linguista – parla fluentemente l’arabo e ha pubblicato un dizionario – che come attento uomo di legge. Difficile che il Likud si spacchi sulla questione della riforma della Giustizia, ma si preferisce mediare prima di arrivare al voto. Levin e Netanyahu finora hanno dimostrato poca sensibilità per il dissenso interno ed esterno, poca voglia di ascoltare le critiche di chi pur partiva dal loro punto di vista: il sistema dei poteri in Israele è sbilanciato a favore della magistratura e va riequilibrato. Levin ha iniziato la sua carriera nel Likud, era giovanissimo quando è diventato portavoce della sua fazione studentesca e dopo molta militanza fu proprio Netanyahu a dargli il suo primo incarico centrale: era il 2008 e i due già battagliavano contro la Corte suprema. Ora il ministro è considerato da tanti l’autore di un fallimento, di un polverone destinato a portare poco di buono o di utile: nel governo passato alla Giustizia c’era Ayelet Shaked, del partito di destra Yamina, che senza trambusto riuscì a far nominare due giudici del suo schieramento rimescolando la composizione della Corte.
Si cercano figure in grado di spegnere il fuoco, di trattenere il premier e giovedì c’è stato un moto di dissenso da parte del ministro della Difesa Yoav Galant, che si trova a dover gestire gli scioperi gravissimi dentro all’esercito. Dopo un colloquio con il premier, le tensioni si sono calmate, Bibi è andato davanti alle telecamere a dire che garantirà una revisione equilibrata. In pochi gli hanno creduto, gli israeliani sono scesi in strada e al Likud insistono: l’equilibrio deve iniziare da Levin.
Le troppe guerre da cui deve guardarsi lo stato ebraico
Gli israeliani sono lacerati da una furibonda diatriba interna mentre incombono da tutte le parti minacce alla loro stessa esistenza.
Quanti conflitti simultanei può gestire un piccolo paese? Israele, la cui superficie è più piccola di quella di Gibuti e la cui popolazione è inferiore a quella del Cairo, potrebbe trovarsi a scoprirlo presto.
La minaccia più seria è rappresentata dai capi del regime iraniano, che continuano ad avanzare verso lo sviluppo di armi nucleari che darebbero loro i mezzi per mettere tutti sotto ricatto e conseguire il loro obiettivo apertamente dichiarato: lo sterminio di Israele e degli israeliani. Durante una recente visita in Germania, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato che “Israele farà ciò occorre a Israele” per difendersi, come ha fatto negli ultimi 75 anni. Poiché nessun altro stato della regione ha la volontà né la capacità di opporsi a Teheran, un numero crescente di paesi arabi ha capito che l’esistenza di Israele è funzionale ai loro interessi. Il più importante di loro, l’Arabia Saudita, non ha formalizzato questo riconoscimento, ma i suoi rapporti con gli israeliani sono diventati più stretti. All’inizio di questo mese, tuttavia, c’è stato un annuncio inaspettato: le relazioni diplomatiche tra Riad e Teheran verranno ristabilite. L’accordo è stato mediato dai governanti cinesi, che intendono sostituire gli Stati Uniti come potenza più influente in Medio Oriente e, col tempo, in ogni parte del mondo. Ciò non significa che ora i sauditi si fidino dei loro vicini sciiti jihadisti. Significa che tengono le carte coperte, incerti su chi si dimostrerà l’attore più forte negli anni a venire....
All'inizio di quest'anno, la chef e ristoratrice Reena Pushkar ha ricevuto il Pravasi Bharatiya Samman dal presidente Draupadi Murmu e dall'EAM S. Jaishankar. Conosciuta come la "regina del curry", Reena Pushkarna ha introdotto Israele nella cucina indiana e possiede la catena di ristoranti indiani più iconica del paese, Tandoori. Reena e suo marito Vinod sono nel settore da quasi quattro decenni e gestiscono ristoranti in Israele e anche a Singapore. Nel 2003, hanno fondato PRESKO Food Industries, producendo "cibo indiano kosher". Indiano globaledà uno sguardo al viaggio straordinario di Reena e ai suoi contributi al soft power dell'India in Israele.
• Thaalis al pollo tikka All'inizio, Ichakdana, il primo ristorante indiano di Israele, che prende il nome dal famoso film di Raj Kapoor, Sri 420, rimasto vuoto, notte dopo notte. Erano i primi anni '80 e nessuno conosceva l'India o il suo cibo vegetariano. Invece, i clienti si sono riversati nel ristorante mediorientale accanto, per gli spiedini e le grigliate. In effetti, quel posto era così pieno che il personale si fermava a Ichakdana per prendere in prestito tavoli e sedie. I proprietari di Ichakdana, Reena e Vinod Pushkarna, insistettero. Lentamente, la comunità indiana ha saputo del posto e ha iniziato a entrare di notte, portando con sé i propri transistor per ascoltare i loro successi preferiti di Bollywood. Prima che se ne rendessero conto, stavano prendendo in prestito tavoli e sedie dal locale accanto.
Un anno dopo, hanno aperto Tandoori, che è diventato una leggenda a Tel-Aviv. Reena sapeva che gli israeliani avrebbero adorato i "chicken tikkas e Nargisi koftas". Ha persino distribuito porzioni gratuite e ha astutamente fatto sedere i suoi amici vicino alla finestra, così i passanti avrebbero pensato che il posto fosse pieno. Era il 1984. Il locale divenne così popolare che occupò la hall del Commodore Hotel - era un luogo vivace, pieno di musica e balli di Bollywood - Reena portava artisti professionisti dall'India per esibirsi. La fama di Pushkarna crebbe esponenzialmente e nel 1990 entrò un ospite molto speciale: il primo ministro Benjamin Netanyahu, che era al primo appuntamento con Sara Ben-Artzo, la donna che avrebbe poi sposato. Si sono seduti a un divanetto d'angolo, quel divano verde, "Tavolo n. 8", lo chiama Reena. È stato anche l'inizio di un'amicizia che dura tutta la vita: Netanyahu e sua moglie sono ancora clienti abituali di Tandoori Tel-Aviv. “Lo sapevo ma non l'ho detto a nessuno”, dice il Indiano globale. In realtà, è stato Netanyahu a spifferare tutto quando il primo ministro Narendra Modi è venuto in visita. Quella sera, i due leader si sono incontrati a casa di Netanyahu per cena e Reena Pushkarna era stata invitata a preparare il pasto speciale. Durante la serata, Netanyahu ha detto a Modi: “Vorrei dirti un segreto. Il mio primo appuntamento è stato a Tandoori Tel-Aviv. Ha avuto un tale successo che ho invitato di nuovo Reena Pushkarna e i suoi chef per creare quella serata magica con l'India". Oggi Reena Pushkarna e suo marito gestiscono otto ristoranti indiani e sette fast food a Gerusalemme, Tel Aviv e Herzliya Pituach. Reena è anche la persona di riferimento quando una delegazione indiana viene in visita. Ogni visita richiede fino a un mese di preparazione, dall'approvvigionamento delle spezie alla creazione di menu conformi alle "kashrut", le leggi ebraiche in materia di cibo. Nel 2011 si è espansa a Singapore, aprendo Pita Pan a Marina Bay Sands, un ristorante mediterraneo tutto vegetariano.
• Il suo Cordon Bleu
Reena è nata nel 1958 da padre sikh e madre ebrea irachena. Nel 1975, non molto tempo dopo il suo sedicesimo compleanno, si sposò con il ventenne Vinod Pushkarna. "Era un marinaio, che ho incontrato per la prima volta quando avevo 20 anni", ha detto. Vinod era nella Marina Mercantile e quando divenne Capitano nel 12, Reena si unì alla sua vita marinara. “Durante i nove anni a bordo, come tutte le mogli dei marinai, anch'io sono stata sola. Il mio interesse per la cucina è diventato il mio "Nove anni di Cordon Bleu". Gli chef di diversi paesi mi hanno fatto imparare le loro cucine”. Lungo la strada, la coppia decise di volersi trasferire in Israele e nel 1977 aprì Ichakdana, dove servirono chaat e thaalis vegetariani. Gli affari sono stati una lotta, finché Reena non ha convinto il marito ad aprire un locale non vegetariano. “Mi occupavo della cucina, soddisfacendo le preferenze degli ospiti, progettando la mia cucina, formando i miei chef, l'arredamento del ristorante e così via. Ma logistica e affari, l'ho lasciato felicemente a lui ", lei dice. Nel 2003, Reena e Vinod fondarono PRESKO Food Industries, che produceva cibo indiano kosher. A questo punto, i viaggiatori zaino in spalla israeliani si stavano riversando in India e la cucina era ben nota. PRESKO stava fornendo pasti all'esercito israeliano, alla forza indiana di mantenimento della pace alle alture del Golan, alla El Al Airlines, alla Korean Air, alla Air India, alla Unilever e in tutto il mondo: i Pushkarnas erano entrati nella grande lega. Anche i due figli della coppia, Sarina e Kunal, hanno dato una mano. "Sarina, che è anche la mia migliore amica, ha iniziato a lavorare nei nostri ristoranti dall'età di 14 anni", Reena dice. Sarina, che ora è sposata con tre figli, vive a Singapore e ricopre il ruolo di direttore associato, Global Media Communications, Marina Bay Sands. Kunal ha anche vissuto a Singapore per la maggior parte del decennio prima di tornare in Israele per lavorare nella catena Tandoori e lanciare la sua impresa, Tika Pika.
• Storia della tabulazione La visita di Benjamin Netanyahu ha dato il via a Tandoori. Nell'ottobre 2015, l'ex presidente indiano ha visitato Israele su invito del presidente Reuven Rivlin. Due anni dopo, il Primo Ministro Narendra Modi è sbarcato a Tel Aviv, diventando il primo Primo Ministro indiano a visitare Israele. E Reena Pushkarna era presente in ogni occasione, in qualità di chef e ambasciatrice non ufficiale della cucina indiana in Medio Oriente. Non è tutto. Il famoso 'tavolo numero 8' al Tandoori Tel Aviv è stato anche testimone dei colloqui di pace di Oslo nel 1993, i colloqui di pace tra Israele e Palestina facilitati dalla Norvegia. Qualsiasi funzionario designato in India inizia il suo incarico con una visita a Tandoori o Kohinoor. Reena è stata anche un membro della prima visita in India del Primo Ministro israeliano, durante la quale è stata presentata come "l'indiana più amata e rispettata in Israele, che ci ha insegnato tutto il significato del cibo indiano". Celebrità come l'asso del direttore d'orchestra indiano Zubin Mehta, l'attore Sophia Lauren, l'ex primo ministro israeliano Yizhak Rabin e il presidente Shimon Peres hanno mangiato al Tandoori. "Sono orgogliosa della mia eredità", osserva Reena. “Il mio è stato uno sforzo per connettere le persone e nel processo, sono stato anche testimone di tutte le pietre miliari nell'evoluzione dei forti legami tra India e Israele. È anche l'orgoglio della comunità indiana in Israele: nel 2023, ha ricevuto le congratulazioni da Kobbi Shoshani, console generale di Israele a Mumbai, che ha detto: "Per me e mio padre, sei stato il Gusto dell'India per molti anni".
• Promuovere il soft power indiano Reena è stata anche un pilastro integrale delle relazioni culturali indiane in Israele. Facilita e abilita le produzioni di Bollywood nel paese ed è stata riconosciuta nel 2004 dalla Camera di commercio israelo-asiatica. È anche presidente onorario del consiglio centrale delle organizzazioni ebraiche indiane di Israele, convocatrice del capitolo israeliano degli amici d'oltremare del BJP e membro del consiglio dell'Associazione di amicizia indo-israeliana.
Uno sguardo all’uso dei droni da parte di Israele e al loro impatto sul Paese
Negli ultimi anni, Israele è diventato famoso per il suo uso avanzato della tecnologia dei droni per rafforzare la sua sicurezza e garantire la sicurezza dei suoi cittadini. Nell’ultimo decennio, l’uso dei droni da parte del governo israeliano è diventato uno strumento vitale per i servizi di difesa e di intelligence della nazione e ha avuto un impatto importante sul panorama geopolitico. I droni sono stati utilizzati da Israele dall’inizio degli anni 2000, quando i servizi militari e di intelligence del paese hanno iniziato a utilizzarli per operazioni di sorveglianza e ricognizione. Da allora, l’uso dei droni è diventato sempre più comune nel paese, con il governo israeliano che li utilizza per una varietà di scopi, dal pattugliamento delle frontiere e il monitoraggio dell’attività nemica al targeting di SOSPETTI militanti. L’uso dei droni da parte di Israele ha avuto un innegabile effetto sul panorama geopolitico. Per cominciare, ha permesso a Israele di mantenere un alto livello di sicurezza e sorveglianza, nonché di rispondere alle minacce in modo rapido e preciso. Inoltre, i droni hanno consentito a Israele di lanciare attacchi mirati su sospetti militanti, spesso con danni collaterali minimi o nulli. Inoltre, i droni hanno anche consentito a Israele di rimanere relativamente isolato dalle potenziali ripercussioni delle sue operazioni militari. Utilizzando i droni per effettuare attacchi, il paese è in grado di condurre queste operazioni senza rischiare la vita dei suoi soldati e cittadini. Questo, a sua volta, ha permesso a Israele di rimanere in gran parte illeso dalla condanna internazionale per le sue azioni nella regione. Infine, anche l’uso dei droni da parte di Israele è stato una fonte di grande progresso tecnologico. Investendo pesantemente nello sviluppo della tecnologia dei droni, il paese è stato in grado di rimanere all’avanguardia del settore e sviluppare alcuni dei modelli di droni più avanzati al mondo. L’uso dei droni da parte del governo israeliano ha avuto un enorme impatto sul panorama geopolitico e il continuo investimento del paese nella tecnologia non mostra segni di rallentamento. Man mano che i droni diventano sempre più comuni nella regione, è probabile che il loro uso continuerà a plasmare il panorama geopolitico negli anni a venire.
• Esaminando i pro e i contro del programma israeliano sui droni Israele è uno dei principali utilizzatori mondiali di droni militari e il programma del paese è stato oggetto di accesi dibattiti. I sostenitori del programma lodano la sua efficacia nel fornire informazioni e assistere in operazioni militari mirate. I critici, tuttavia, sottolineano le implicazioni etiche e legali dell’uso diffuso dei droni. Qui esaminiamo i pro e i contro del programma di droni di Israele.
- VANTAGGI Il vantaggio principale del programma di droni israeliano è la sua efficacia nel fornire informazioni e aiutare nell’esecuzione di operazioni militari. I droni sono in grado di svolgere missioni di sorveglianza in luoghi troppo pericolosi per gli aerei con equipaggio. Possono anche essere usati per colpire sospetti terroristi senza mettere a rischio il personale. I droni forniscono anche preziose informazioni all’esercito israeliano. L’aereo senza pilota può raccogliere informazioni su potenziali bersagli, consentendo ai militari di pianificare operazioni più efficaci.
- SVANTAGGI I critici hanno sollevato preoccupazioni etiche e legali sull’uso dei droni. La tecnologia consente attacchi su sospetti terroristi senza mettere a rischio il personale, ma non è priva di rischi per civili innocenti. È noto che i droni causano vittime civili, il che solleva interrogativi preoccupanti sull’uso della tecnologia. Inoltre, l’uso dei droni da parte dell’esercito israeliano ha suscitato critiche da parte di altri paesi, i quali sostengono che la tecnologia viola il diritto internazionale. Alcuni paesi hanno accusato Israele di utilizzare droni per eseguire esecuzioni extragiudiziali, il che costituisce una violazione delle leggi internazionali sui diritti umani.
- CONCLUSIONE Nel complesso, il programma israeliano sui droni presenta sia vantaggi che svantaggi. Il programma è stato efficace nel fornire informazioni e aiutare nelle operazioni militari, ma ha anche sollevato preoccupazioni etiche e legali. In definitiva, l’uso dei droni è una questione complessa che richiede un’attenta considerazione.
• Analizzando il successo del programma israeliano sui droni nel raggiungimento dei suoi obiettivi di sicurezza Il programma di droni israeliano è ampiamente riconosciuto come una delle iniziative di sicurezza di maggior successo e innovative al mondo. Negli ultimi anni, il programma è diventato parte integrante della strategia di difesa del Paese, consentendo a Israele di rilevare e rispondere alle minacce in modo più rapido ed efficace che mai. Ma cosa rende questo programma così efficace e in che modo ha aiutato Israele a raggiungere i suoi obiettivi di sicurezza? Per cominciare, il programma ha consentito a Israele di identificare e rispondere a potenziali minacce in modo più rapido e accurato. Fornendo una visione completa del campo di battaglia, il programma ha consentito a Israele di acquisire una migliore comprensione dei suoi nemici e delle loro intenzioni, consentendo al paese di adottare misure proattive per prevenire potenziali attacchi e rispondere rapidamente in caso di attacco. Ciò è stato particolarmente importante di fronte a un nemico sempre più sofisticato, capace di lanciare attacchi a sorpresa. Inoltre, il programma ha consentito a Israele di monitorare e controllare il proprio spazio aereo in modo più efficiente. Con sensori avanzati e capacità radar, il programma ha consentito a Israele di rilevare e intercettare qualsiasi potenziale minaccia aerea in modo tempestivo. Ciò è stato particolarmente utile per difendersi dalle minacce provenienti dalla Striscia di Gaza e da altri territori ostili. Infine, il programma ha consentito a Israele di ridurre le vittime civili durante le operazioni di combattimento. Fornendo informazioni in tempo reale sul campo di battaglia, il programma ha consentito a Israele di prendere di mira obiettivi militari in modo più efficace, riducendo al minimo il rischio di vittime civili. Ciò è stato particolarmente importante per prevenire un’escalation della violenza nella regione, nonché per proteggere la reputazione internazionale di Israele. Nel complesso, il successo del programma di droni israeliano nel raggiungere i suoi obiettivi di sicurezza è evidente. Fornendo una visione completa del campo di battaglia, consentendo un controllo più efficace dello spazio aereo e riducendo le vittime civili, il programma ha consentito a Israele di proteggere i suoi cittadini e mantenere un ambiente sicuro.
• Esplorare le implicazioni sui diritti umani dell’uso dei droni da parte di Israele L’uso dei droni da parte dell’esercito israeliano è stato oggetto di un crescente controllo negli ultimi anni, a causa di una crescente preoccupazione per le loro potenziali implicazioni sui diritti umani. I droni sono veicoli aerei senza equipaggio azionati da telecomando e stanno diventando sempre più un’arma chiave nella guerra moderna. Sebbene offrano vantaggi militari in termini di furtività e precisione, sollevano anche seri interrogativi etici su come possono essere utilizzati senza violare il diritto umanitario internazionale e i diritti umani. In particolare, i droni utilizzati dall’esercito israeliano sono stati collegati a morti e feriti civili, nonché ad accuse di crimini di guerra e violazioni del diritto internazionale. Dal 2014, le forze di difesa israeliane (IDF) hanno utilizzato i droni per eseguire uccisioni mirate di sospetti militanti, nonché per condurre operazioni di sorveglianza nei Territori palestinesi occupati. L’uso di droni da parte dell’esercito israeliano solleva una serie di preoccupazioni sui diritti umani. Innanzitutto, ci sono preoccupazioni circa l’accuratezza degli obiettivi e la capacità dell’IDF di distinguere tra combattenti e civili. Ciò è particolarmente preoccupante data la densa popolazione dei Territori palestinesi occupati, dove le vittime civili sono fin troppo comuni. In secondo luogo, c’è la questione della responsabilità. Poiché i droni sono senza equipaggio, è difficile ritenere coloro che li utilizzano responsabili di morti e feriti civili. Questa mancanza di responsabilità può anche contribuire a una “cultura dell’impunità”, che potrebbe portare a ulteriori violazioni dei diritti umani. Infine, c’è la questione della trasparenza. L’IDF è stato criticato per la sua mancanza di trasparenza quando si tratta del suo uso di droni, e questo ha sollevato preoccupazioni su come viene utilizzata la tecnologia e quali garanzie sono in atto per garantire il rispetto dei diritti umani. Alla luce di queste preoccupazioni, è chiaro che l’uso dei droni da parte dell’esercito israeliano ha gravi implicazioni per i diritti umani. Sebbene la tecnologia offra innegabili vantaggi militari, deve essere utilizzata in modo responsabile e in conformità con il diritto internazionale. Inoltre, è essenziale che coloro che utilizzano i droni siano ritenuti responsabili di eventuali vittime civili o violazioni dei diritti umani. Solo allora sarà possibile valutare correttamente il pieno impatto di questa tecnologia sui diritti umani.
• Valutazione dell’impatto del programma droni israeliano sui paesi vicini Israele è stato un leader nello sviluppo e nell’uso della tecnologia dei droni e il suo programma sui droni ha avuto un impatto significativo sui paesi vicini. Negli ultimi anni, Israele ha aumentato il suo uso di droni per pattugliare i suoi confini e proteggere i suoi cittadini da potenziali minacce. Ciò ha portato a una diminuzione del numero di infiltrazioni, nonché a una riduzione del numero di vittime subite da cittadini israeliani e palestinesi negli scontri al confine. L’uso di droni da parte di Israele ha anche avuto un impatto sulla situazione della sicurezza nei paesi vicini. In Siria, ad esempio, i droni israeliani sono stati utilizzati per monitorare l’attività militare e fornire informazioni su potenziali minacce all’esercito israeliano. In Libano, i droni israeliani sono stati utilizzati per monitorare l’attività di Hezbollah, nonché per effettuare attacchi mirati contro il gruppo. I droni israeliani sono stati utilizzati anche per effettuare sorveglianza e attacchi aerei nella Striscia di Gaza, con conseguente diminuzione del numero di attacchi lanciati da Hamas. Ciò ha contribuito a ridurre il livello di violenza nella regione e ha fornito una misura di sicurezza sia per i cittadini israeliani che palestinesi. Infine, i droni israeliani sono stati utilizzati anche per monitorare le attività di gruppi terroristici nella penisola del Sinai e in altre parti del Medio Oriente. Fornendo informazioni sui movimenti di questi gruppi, i droni israeliani hanno contribuito a ridurre la minaccia rappresentata da queste organizzazioni. Nel complesso, l’uso di droni da parte di Israele ha avuto un impatto significativo sui paesi vicini. Ha contribuito a ridurre il numero di infiltrazioni e scontri transfrontalieri, nonché a fornire informazioni su potenziali minacce terroristiche. Inoltre, ha contribuito ad aumentare la sicurezza dei cittadini israeliani e palestinesi.
Il premier difende la riforma sulla giustizia e si dice pronto a una "soluzione"
di Fiamma Nirenstein
GERUSALEMME - Benjamin Netanyahu ha ripreso il palcoscenico, dopo che è passata la legge che lo difende dalla possibilità per cui, se avesse trattato della legge sulla giustizia, avrebbe potuto essere destituito perché la Corte Suprema glielo aveva proibito. È rientrato sulla scena con un breve discorso di richiesta d'ordine: ho promesso di essere il Primo Ministro di tutti i cittadini, e manterrò ha detto. E dopo aver riaffermato la fede di tutto il Paese, a destra e a sinistra, nella democrazia («qui non ci sono né traditori né fascisti») ha da una parte difeso la sostanza della proposta di legge, che andrà avanti, ma ha promesso anche una «soluzione», impegnandosi a «calmare gli animi» e a «ripristinare l'unità», per evitare «una frattura nel Paese». La proposta - ha detto - è identica, quanto a composizione del Giudiziario, agli Usa, alla Nuova Zelanda, al Canada, ovvero con una composizione mista in cui «giudice non elegge giudice» ma il sistema è misto con la politica: qui non ci sono né traditori, dice, né fascisti. Siamo tutti appassionati della nostra democrazia e di Israele. E poi con i toni dei grandi discorsi ha ripetuto più volte che non si toccheranno i diritti di nessuno «ebrei e non ebrei, uomini, donne, lgtbq, di qualsiasi idea ed etnia e che prendeva su questo un impegno personale. Ha invitato anche a riprendere la discussione e ha segnalato diversi punti su cui c'è spazio per incontrarsi.
Se accadrà, è difficile dire. Ci sono folle infuriate che vedono adesso il loro momento e più di questo lo hanno convinto a parlare a tutta Israele le riunioni col ministro della Difesa Johav Gallant, deciso a chiedere un intervallo nella discussione sulla legge, e più ancora coi capi di Stato Maggiore e dei servizi segreti. Un Paese assediato come Israele non può permettersi crepe nell'unità sostanziale di popolo e di esercito mentre si profilano pericoli imminenti e gravi. Ognuna delle due parti si sente padrone della parola «democrazia», da settimane usata come una clava: chi ha perso le elezioni è forte della immensa presa sulla piazza, fiera dell'elitismo della venerabile tradizione ashkenazita del kibbutz; chi ha la maggioranza rivendica la forza parlamentare e quella ideologica popolare sefardita e conservatrice.
La spaccatura è oggi un abisso pauroso e Bibi ha tentato il recupero senza arrendersi: una resa gli procurerebbe una grande spaccatura anche nel suo schieramento. Bibi ha fatto un passo verso l'opposizione perché ha le carte per farlo: anche questa dà segni di stanchezza e di perplessità. Bibi deve difendere tuttavia la sua maggioranza, quando la parte più conservatrice dei ministri Bezalel Smotrich e Ben Gvir viene disegnata dalla sinistra come una specie di nemico pubblico che secondo i dimostranti vuole colpire al cuore i diritti delle donne, dei gay, delle minoranze.
Anche il riemergere dal nulla del progetto di legge dell'importante capo del «Partito della Torah» Moshe Gafni, che proibisce di propalare in Israele la figura di Gesù, ha creato una fama di intolleranza che crea non pochi guai. Il problema maggiore è quello dell'invito all'ambasciatore d'Israele negli Usa a giustificare la legge che permette di tornare a vivere in un insediamento sgomberato. Biden, l'alleato più importante per Israele, ha già detto più volte che il governo deve ripristinare la fiducia popolare. Una critica pesante a Bibi che deve fronteggiare i rischi per la vita dei cittadini prima di tutto. Il mese di Ramadan che inizia è lo spazio ideale per una terza Intifada e forse una guerra: nelle ultime 24 ore si sono avute tre attacchi a fuoco, e così è continuamente, gli Hezbollah tornano a minacciare in nome dell'Iran e Nasrallah ride della debolezza di Israele. Lo sciopero dei piloti degli aerei da combattimento e di altre unità scelto ha certo colpito più di ogni altra cosa. Questo mentre fra le manifestazioni che bloccano il Paese, si sono visti assedi alle case dei leader conservatori. Netanyahu ha giocato ieri sera la carta della sua leadership: senza di lui, il Paese è certo privo di una guida sicura. Molte uscite pazzesche tipo quella di Olmert ex primo ministro che chiede ai capi di stato straniero di cancellare ogni rapporto con Israele, o Lapid che non smette di prevedere l'avvento del fascismo, non sono condivise da gran parte dei manifestanti. La porta è aperta.
(il Giornale, 24 marzo 2023)
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Netanyahu interviene per la prima volta sulla riforma per la giustizia
• UNA GIORNATA IMPORTANTE E DIFFICILE Ieri è stata un’altra giornata difficile nella politica interna israeliana, tutta assorbita dal confronto sulla riforma della giustizia proposta dalla maggioranza. Gli oppositori della riforma hanno continuato le manifestazioni in tutto il Paese, cercando di stabilire una “giornata della paralisi”: hanno bruciato pneumatici sulle strade di accesso al porto di Ashdod, manifestato in molte località, bloccato come al solito le principali arterie di scorrimento di Tel Aviv e si sono anche spinti nel vicino sobborgo di Bnei Berak, tutto abitato da charedim, cioè dalla popolazione religiosa che la stampa occidentale chiama “ultraortodossa”, uno dei bersagli della protesta. Con una mossa di grande effetto, gli charedim hanno accolto i dimostranti cantando e danzando e offrendo loro cibo e bevande.
• MINACCE DI DIMISSIONI Per tutta la giornata si sono susseguite voci di minacce di dimissioni nel governo. Il ministro della difesa Gallant, che aveva chiesto di sospendere il percorso legislativo della riforma giudiziaria per la preoccupazione del rifiuto che un certo numero di riservisti delle forze armate ha opposto ai richiami per esercitazioni come adesione alle proteste, minacciando le dimissioni, ha annunciato una conferenza stampa per la sera, dove probabilmente aveva intenzione di annunciarle. Il ministro della giustizia Levin ha comunicato che in caso di blocco della riforma si sarebbe dimesso lui. Netanyahu ha prima incontrato Gallant convincendolo a rinunciare alle dimissioni e poi alla conferenza stampa; poi ha visto anche Levin e infine ha tenuto in serata un discorso alla nazione.
• IL PROBLEMA DEL CONFLITTO DI INTERESSI Finora Netanyahu si era astenuto dall’intervenire pubblicamente sulla riforma perché questo gli era stato proibito dal Procuratore Generale Gali Baharav-Miara sulla base di un accordo fatto col precedente procuratore generale Manderblit in cui Netanyahu, sotto processo da alcuni anni per alcuni controversi episodi di abuso di potere, si impegnava a non intervenire nell’amministrazione della giustizia, per esempio la nomina dei giudici. La Corte Suprema aveva decretato che Netanyahu, essendo imputato ma non condannato, aveva diritto a diventare primo ministro, se fosse stato nominato a questo ruolo. Gali Baharav-Miara aveva però interpretato estensivamente l’accordo, proibendogli anche di partecipare alla discussione molto generale e politica sulla riforma, con la minaccia implicita di dichiararlo “incapace” di svolgere il suo ruolo ed estrometterlo, interpretando in maniera molto estensiva una clausola di legge che regola le situazioni in cui il primo ministro per ragioni di salute non può svolgere il suo ruolo, come era accaduto ad Ariel Sharon dopo un ictus nel 2006. La Knesset (il parlamento unicamerale israeliano) ha però approvato l’altro ieri un emendamento alla legge che sposta il potere di dichiarare inabile il primo ministro dal procuratore generale alla Knesset, svuotando la minaccia di Baharav-Miara, che comunque ha stamattina scritto una lettera a Netanyahu per contestargli la violazione del suo ordine.
• CHE COSA HA DETTO NETANYAHU In un discorso emozionato e molto deciso il primo ministro ha annunciato che da oggi si sarebbe personalmente occupato della questione e ha difeso la riforma come un’estensione della democrazia e non un suo rifiuto. Ha detto fra l’altro: “Abbiamo un paese e dobbiamo fare di tutto per proteggerlo dalle minacce esterne, e da uno strappo irreparabile dall'interno. Non possiamo permettere che nessuna controversia, per quanto acuta, metta a repentaglio il nostro futuro comune. Non solo dobbiamo respingere la violenza e il bullismo, dobbiamo anche respingere e condannare l'istigazione. Gli oppositori della riforma non sono traditori, e i sostenitori della riforma non sono fascisti. Una stragrande maggioranza dei cittadini israeliani, in tutto l'arco politico, ama il nostro paese e vuole proteggere la nostra democrazia”.
• IL DIBATTITO “Abbiamo opinioni divergenti - ha continuato Netanyahu -. I sostenitori della riforma pensano che qui non ci sia vera democrazia e che ciò che mette in pericolo la democrazia sia una Corte Suprema ‘onnipotente’ che entra in qualsiasi questione e gestisce effettivamente il paese. D'altra parte, chi si oppone alla riforma pensa che ciò che metterà in pericolo la democrazia siano la Knesset e un governo che potrà agire senza freni e senza vincoli, danneggiando i diritti individuali. Un normale regime democratico deve occuparsi di queste due questioni. Deve garantire il governo della maggioranza, e nel processo deve preservare i diritti dell'individuo. Per garantire questo, e per prevenire la divisione del popolo, la riforma giuridica della democrazia deve rispondere a queste due esigenze fondamentali. Al fine di evitare una scissione, ciascuna parte deve prendere sul serio le rivendicazioni e le preoccupazioni dell'altra parte - e chiedo di farlo ora”.
• IL PROGETTO “Quindi alla luce di queste preoccupazioni stasera dico: credo che sia possibile introdurre una riforma che risponda a entrambe le parti. Una riforma che ristabilisca l'equilibrio adeguato tra i poteri dello stato - e invece mantenga, e di più, non solo mantenga, ma sviluppi - i diritti individuali di ogni cittadino del paese. Il modo migliore per ottenere una riforma del genere, è il dibattito in modo da raggiungere il più ampio consenso possibile. Purtroppo, finora i rappresentanti dell'opposizione si sono rifiutati di partecipare a questa discussione. Quasi tre mesi sono stati sprecati per questo rifiuto. Spero che questo cambi nei prossimi giorni. Sto lavorando per trovare una soluzione Sono attento alle preoccupazioni dell'opposizione. Notate che abbiamo già apportato modifiche alla legge relativa alla commissione per la selezione dei giudici, per rispondere alle preoccupazioni dell'opposizione. La legge che verrà portata la prossima settimana per l'approvazione della Knesset è una legge che non prende il controllo dei tribunali, ma lo bilancia e lo diversifica. Apre le porte della Corte Suprema al pubblico, a vasti settori, che fino ad oggi gli sono stati evitati da decenni. Ora voglio rispondere specificamente a una preoccupazione centrale sollevata dall'altra parte. So che c'è il timore di una organizzazione schiacciante e illimitata, che darebbe a qualsiasi piccola maggioranza della Knesset la possibilità di scavalcare qualsiasi decisione del tribunale. Voglio dirlo chiaramente. Questo non succederà. Al contrario, intendiamo e intendo tutelare i diritti dell'individuo. Garantiremo i diritti fondamentali di tutti i cittadini israeliani - ebrei e non ebrei, laici e religiosi, donne, LGBT. Tutti quanti - nessuna eccezione. Tutta la legislazione sarà vincolata da questi principi. Non lo dico astrattamente, intendiamo approvare una legislazione esplicita in questo senso. Amici miei, lo dichiaro: farò di tutto, di tutto, per calmare gli spiriti e per conciliare la spaccatura. Perché siamo fratelli”. La forza della leadership di Netanyahu è ancora molto grande in Israele, ma raccoglie anche grandi opposizioni. Vedremo se questo intervento, che ha certamente intenzioni concilianti, riuscirà a far partire un dibattito costruttivo.
Israele, passa la legge salva-Netanyahu: proteste e scontri, almeno 70 arresti
Il capo dell'esecutivo potrà essere ora rimosso solo per impedimenti fisici o mentali e con il voto favorevole del 75% del suo governo. Il premier è sotto processo con tre capi di imputazione. Migliaia in piazza contro la riforma.
di Rossella Tercatin
GERUSALEMME - Approvata alle prime luci dell'alba dalla Knesset la legge per impedire che un primo ministro in carica possa essere dichiarato inadatto a svolgere le sue funzioni e quindi rimosso attraverso una decisione della Corte Suprema. Una legge che mira a salvaguardare la posizione del premier Benjamin Netanyahu, che si trova sotto processo per diversi capi di imputazione tra cui corruzione e abuso d'ufficio, dichiarando che il capo dell'esecutivo può essere rimosso solo per impedimenti fisici o mentali e con il voto favorevole del 75% del suo governo, o in caso di suo rifiuto, del 75% dei parlamentari. "Come ladri nella notte, la maggioranza ha approvato ora una legge ad personam oscena e corrotta," il commento del capo dell'opposizione Yair Lapid. "Ancora una volta, Netanyahu si preoccupa solo di se stesso". La legge è stata portata alla terza lettura alla Knesset (quella necessaria per l'approvazione definitiva) a tempo record, secondo la maggior parte degli analisti, per via dei timori della coalizione di governo che Netanyahu potesse essere costretto a un periodo di aspettativa dalla sua carica durante il dibattito relativo alla riforma giudiziaria.
• Il conflitto di interessi del premier Per via dei suoi processi, infatti, già nel 2020 il leader israeliano ha ufficialmente sottoscritto un impegno ad evitare qualsiasi coinvolgimento sul tema per evitare di trovarsi in conflitto di interessi. L'attuale governo però, insediatosi alla fine di dicembre, ha posto la riforma della giustizia al centro dell'agenda, presentando diverse proposte legislative per cambiare radicalmente l'equilibrio tra i poteri dello stato, in una riforma che è considerata da vasti settori della società israeliana come una minaccia al carattere democratico del Paese. Dal canto suo invece, l'esecutivo sostiene che i cambiamenti - che prevedono il quasi azzeramento dei poteri della Corte Suprema di passare al vaglio le leggi approvate dal Parlamento e un ruolo preponderante della coalizione di maggioranza nel nominare i giudici - sono necessari per porre fine a quello che molti considerano un eccessivo attivismo dei tribunali. Da settimane centinaia di migliaia di israeliani stanno protestando contro la riforma, con la società che appare sempre più spaccata. Netanyahu però è rimasto ai margini del dibattito, lasciando il ruolo chiave nel promuovere l'agenda del governo al Ministro della Giustizia Yariv Levin, la cui intransigenza nel portare avanti la riforma ha lasciato stupiti anche molti dei suoi compagni di partito (il Likud, lo stesso di Netanyahu).
• Proteste e arresti Secondo molti analisti, la legge passata nella notte potrebbe consentire al primo ministro di intervenire maggiormente nel dibattito senza temere di venire sospeso dal suo ruolo per aver violato l'impegno preso nel 2020. Nel frattempo la giornata è stata ancora una volta caratterizzata da proteste in tutto il Paese, in quello che è stato proclamato come "il giorno della paralisi" con manifestazioni in oltre sessanta località. Nel tardo pomeriggio si registrano diversi tentativi di bloccare strade principali in varie città con la polizia che in alcuni casi ha usato gli idranti e altri metodi per disperdere la folla. Oltre una settantina i manifestanti arrestati.
(la Repubblica, 24 marzo 2023)
L’ecosistema delle startup di Tel Aviv è al secondo posto in Europa
Tel Aviv è la sede del quinto maggior numero di unicorni al mondo; è al terzo posto al mondo per gli investimenti in cybersecurity, con startup che raccoglieranno 1,7 miliardi di dollari nel 2022
Tel Aviv ha conquistato il secondo posto come hub tecnologico per le startup con il più alto valore d’impresa, dopo Londra e prima di Parigi, trasformando la città in uno degli ecosistemi in più rapida crescita al mondo, come emerge da un nuovo rapporto compilato da Dealroom mercoledì. Le startup tecnologiche di Tel Aviv vantavano un valore aziendale combinato di 393 miliardi di dollari nel 2022, secondo solo a Londra tra le città europee, mediorientali e africane, quinto in Asia e Oceania e settimo nelle Americhe. Dal 2018, l’ecosistema delle startup di Tel Aviv è cresciuto di 3,5 volte in termini di valore, più velocemente di Bay Area, New York, Pechino, Londra e Parigi nello stesso periodo di tempo. Il rapporto include 2022 dati relativi sia alle startup fondate nell’area di Tel Aviv che hanno mantenuto il loro centro di attività principale (HQ) lì, sia a quelle che hanno trasferito il loro HQ al di fuori di Tel Aviv. Per questo motivo, i risultati sono antecedenti alla diffusa agitazione sociale per la revisione del sistema giudiziario operata dal governo nelle ultime settimane, che ha spinto numerose startup e aziende tecnologiche israeliane a trasferire i propri fondi e investimenti all’estero per timore di ripercussioni economiche e politiche. Le startup con sede a Tel Aviv hanno raccolto 6,9 miliardi di dollari in investimenti di capitale di rischio nel 2022, un importo inferiore agli 8,8 miliardi di dollari attratti nel 2021, ma quasi doppio rispetto a quello raccolto nel 2020. Secondo il rapporto, la città si colloca al terzo posto in termini di investimenti totali in capitale di rischio nella regione EMEA nel 2022, dopo Londra e Parigi e davanti a Berlino. I fondi raccolti dalle startup tecnologiche israeliane si sono quasi dimezzati nel 2022, scendendo a 15,5 miliardi di dollari, secondo i dati di Start-Up Nation Central (SNC), un’organizzazione no-profit che segue l’industria tecnologica israeliana. Il calo degli investimenti non è un fenomeno esclusivo di Israele ed è in linea con quanto sta accadendo nella Silicon Valley, dove gli investimenti in aziende tecnologiche sono diminuiti del 40%. Anche la cybersecurity è un punto di forza dell’ecosistema di Tel Aviv: le startup che si occupano di cybersecurity hanno raccolto 1,7 miliardi di dollari, costituendo quasi il 20% del totale degli investimenti in venture capital nel 2022 e posizionando la città al terzo posto nel mondo per gli investimenti in cybersecurity, dietro solo alla Bay Area e a New York, e davanti a Londra e Pechino. Tra le startup, Talon Cybersecurity ha raccolto 100 milioni di dollari in un round di finanziamento di Serie A ad agosto per le sue soluzioni di sicurezza per i team ibridi, e Perimeter, società di sicurezza di rete e cloud, che ha raccolto 100 milioni di dollari in un round di finanziamento di Serie C a giugno. Mentre la flessione dei mercati finanziari ha portato a un calo della maggior parte dei round di investimento nel corso del 2022, i finanziamenti VC alle startup di Tel Aviv in fase iniziale e media sono rimasti piuttosto stabili, attirando 3,2 miliardi di dollari, secondo il rapporto di Dealroom. “Tel Aviv è in grado di attrarre una percentuale di finanziamenti early-stage da parte di investitori internazionali molto più alta rispetto alla media EMEA e notevolmente superiore a Londra, Parigi e Berlino”, si legge nel rapporto. “Nel complesso, questa performance ha contribuito a rendere Tel Aviv uno dei poli tecnologici più resistenti dell’area EMEA, più resistente di Londra e Stoccolma e subito dopo Parigi”. Complessivamente, Tel Aviv si è classificata all’ottavo posto a livello mondiale per quanto riguarda i finanziamenti early-stage e al sesto posto per quanto riguarda i round di breakout stage. L’anno scorso, le startup della città hanno raccolto più del doppio della media da investitori statunitensi (27% contro la media dell’11%). Gli investitori statunitensi sono stati più attivi a Tel Aviv che negli altri hub tecnologici dell’area EMEA. “Tel Aviv si è trasformata da città importante a città prioritaria per molte grandi società di venture”, ha dichiarato Adam Valkin, amministratore delegato della società di venture capital statunitense General Catalyst. “Cerchiamo i fondatori più interessanti in tutto il mondo, e una quota crescente di loro proviene da Tel Aviv”. General Catalyst ha investito in aziende israeliane, tra cui Rapyd, società di fintech, Aidoc, produttore di software basati sull’intelligenza artificiale, Superplay, startup di giochi, e Apiiro, startup di cybersicurezza.
• GLI UNICORNI DI TEL AVIV Tel Aviv è anche la sede del quinto maggior numero di unicorni al mondo, con 95 unicorni nel 2022, di cui 75 sono diventati unicorni dal 2018, secondo il rapporto. Gli unicorni sono startup che hanno raggiunto una valutazione di 1 miliardo di dollari. I risultati del rapporto hanno mostrato che molti unicorni con sede e fondazione a Tel Aviv, come Iron Source e Gett, hanno allevato nuovi talenti imprenditoriali, mentre gli ex dipendenti se ne vanno per fondare altre startup a Tel Aviv e all’estero. Per ogni unicorno prodotto da Tel Aviv, più di quattro startup aggiuntive sono fondate da persone provenienti da aziende da miliardi di dollari, note anche come startup di seconda generazione. Inoltre, il 76% di queste nuove startup ha scelto di rimanere e costruire le proprie attività a Tel Aviv. “La combinazione unica di DNA imprenditoriale, numero record di fondatori ripetuti e talenti tecnici di livello mondiale a cui attingere, rende Israele resistente”, ha dichiarato Davor Hebel, managing partner di Eight Roads Ventures. “Israele è passata dall’essere una ‘nazione di startup’ a una ‘nazione di scale-up’ e mentre un tempo ci si aspettava che le principali startup di Tel Aviv uscissero attraverso una vendita ad acquirenti strategici, ora il loro obiettivo è quello di costruire grandi aziende multimiliardarie quotate in borsa”.
Torino, una marcia per ricordare Emanuele Artom, partigiano ebreo: "No all'intolleranza"
di Pier Francesco Caracciolo, Daniele Solavaggione
Torino è tornata a riflettere sui fenomeni di intolleranza e sugli strumenti più adatti per combatterli. Lo ha fatto ieri mattina, in occasione della tradizionale marcia in memoria di Emanuele Artom, partigiano ebreo ucciso il 7 aprile 1944, all’età di 28 anni, dai nazifascisti. Un’iniziativa organizzata dalla Comunità ebraica di Torino, giunta quest’anno all’ottava edizione, cui hanno partecipato 200 studenti delle scuole torinesi. Tutti insieme, alle 11, sono partiti dal binario 17 della stazione di Porta Nuova, dove sorge una lapide in memoria dei deportati, e da qui hanno raggiunto a piedi l'area pedonale in piazzetta Primo Levi, di fronte alla Sinagoga, nel quartiere San Salvario.
«Il tema di questa edizione è la responsabilità civile: occorre un rinnovato e forte impegno della società in difesa di quei valori di giustizia e libertà per cui la migliore gioventù diede la vita». A dirlo è stato il presidente della Comunità ebraica, Dario Disegni. «Viviamo - ha aggiunto - in un periodo in cui vediamo nubi minacciose all'orizzonte, con forti venti di intolleranza».
A questa riflessione si è unito il sindaco di Torino, Stefano Lo Russo. A suo dire, «occorre un intervento capillare e diffuso che serva a dare ai ragazzi gli strumenti per essere sentinelle dell'antirazzismo». Ha aggiunto: «Dobbiamo dire con forza e coraggio che è la cultura che deve trionfare, ricordando che la libertà e la democrazia non sono acquisite per sempre».
«Oggi ricordiamo un ragazzo normale che ha fatto una scelta da vero eroe»: così il vicepresidente del Consiglio regionale del Piemonte e presidente del Comitato Resistenza e Costituzione, Daniele Valle. Lo ha detto evidenziando anche l'importanza di «studiare la storia, ma anche studiare chi in quella storia era dalla parte del giusto chi da quella sbagliata».
Anche secondo il presidente provinciale dell'Anpi, Nino Boeti, «oggi più che mai è impellente fare cultura». Il prefetto Raffaele Ruberto, invece, ha sottolineato che «purtroppo lo spettro delle discriminazioni è sempre dietro l'angolo: dobbiamo compiere ancora molti passi importanti di civiltà».
«Le multe ai no vax sono annullate». Ma sui tempi dei rimborsi è mistero
Il ministero sta inviando le lettere con cui si comunica che le sanzioni non avranno corso. Però alle Entrate non ci sanno dire quando verranno restituiti i soldi a chi nel frattempo li ha versati: «Che differenza fa?»
di Patrizia Floder Reitter
Qualche utente l'ha messo sui social: «Ricevuta più di un mese fa, senza aver fattonessuna opposizione». Stiamo parlando della comunicazione dell'annullamento d'ufficio «in autotutela», dell'avviso di addebito della sanzione di 100 euro per gli over 50 che al 15 giugno 2022 non risultavano in regola con gli obblighi vaccinali. Dall'entrata in vigore della legge n. 199/2022, ovvero dal 31 dicembre dello scorso anno, i termini di pagamento sono stati sospesi fino al prossimo 30 giugno ma, come La Verità ha più volte riportato, le cartelle continuano ad arrivare creando non poca agitazione . Adesso, sembra che il ministero della Salute abbia deciso di «correggere» il proprio operato, segnalando che il procedimento sanzionatorio «non avrà ulteriore seguito e non sarà necessario, da parte dell'interessato, effettuare alcun pagamento», Questo è quello che si legge nei documenti già recapitati, e che portano la firma di Giuseppe Viggiano, direttore generale della digitalizzazione, del sistema informativo sanitario e della statistica del ministero che oggi fa capo a Orazio Schillaci. L'annullamento d'ufficio, per ragioni di interesse pubblico così da «evitare un contenzioso e il conseguente dispendio di risorse umane e finanziarie», era stato previsto dalla legge 241 del 7 agosto 1990, articolo 21-nonies. Riguardava i provvedimenti amministrativi illegittimi, che secondo l'Agenzia delle entrate - Riscossione possono essere dovuti a errore di calcolo o di persona, a errore sul presupposto dell'imposta, a «sussistenza dei requisiti per fruire di deduzioni, detrazioni o regimi agevolativi, precedentemente negati», per citare alcuni dei casi più frequenti di illegittimità che giustificano l'autotutela. Nelle comunicazioni che stanno arrivando, si fa riferimento all'acquisizione «di ulteriori informazioni, da cui risulta l'insussistenza dell'inadempienza dell'obbligo vaccinale», forse perché il destinatario della sanzione era invece vaccinato o era esentato, o come conseguenza del congelamento del pagamento fino al prossimo 30 giugno. Abbiamo chiesto al ministero della Salute lumi in proposito, ma la questione deve essere apparsa irrilevante e non abbiamo ottenuto risposta. Stessa domanda posta anche all' Agenzia delle entrate - Riscossione, già al corrente del provvedimento di annullamento come informa il direttore generale Viggiano, è caduta nel vuoto. Anzi, eravamo curiosi di sapere se sono state avviate le procedure di rimborso, indicate qualora «l'avviso di addebito sia già stato pagato». L'Agenzia di Ernesto Maria Ruffini non lo sa, «le stiamo elaborando», rispondono. «Ma che differenza fa», aggiungono, «se così ha scritto il ministero della Sanità vorrà dire che faremo i rimborsi». Magari qualche brava persona, ingiustamente punita solo perché non vaccinata o in quanto non poteva inocularsi un farmaco anti Covid per motivi di salute, vorrebbe sapere se quei «soldini», se quella cifra che ci viene detta «di poco conto», verrà accreditata in tempi non vergognosamente lunghi. Dovrà attendere, ignorando le modalità con cui verranno restituiti i 100 euro di ammenda non dovuta. E che continua ad arrivare, nelle case di molti italiani aver 50, sotto forma di cartella di pagamento che però non doveva più essere notificata a partire dal primo gennaio 2023. Prima, infatti, erano state inviate le comunicazioni dell'avvio del procedimento amministrativo (Caps), ma quando partono le cartelle di pagamento significa che il procedimento è concluso. «La notifica è uno degli atti facenti parte della irrogazione delle sanzioni. Non è difficile immaginare che l'intento, sia proprio quello di "mandare fuori termine" da un punto di vista processuale la difesa giudiziaria dei destinatari, per obbligarli poi al pagamento dopo il 30 giugno», osserva l'avvocato Mauro Franchi. Aggiunge: «E scorretto da un punto di vista legale e sostanziale, perché degrada le persone da cittadini a sudditi, in aperta violazione della Costituzione», Ricordiamo infatti, che proprio il ministero della Salute ha confermato che non c'è congelamento del procedimento di opposizione davanti al giudice di pace. Quindi, indipendentemente dalla data di spedizione delle cartelle, bisogna opporsi entro 30 giorni dalla notifica dell'avviso di addebito. La legge non è stata chiara a riguardo, l'interpretazione data dal ministero potrebbe essere messa in discussione proprio da un giudice di pace ma anche questo atteggiamento di non chiarezza conferma il disinteresse, se non il perdurare dell'ostilità per i cittadini che non hanno voluto il vaccino anti Covid.
Diplomatici britannici a Gerusalemme partecipano a una maratona palestinese contro Israele
È polemica per la partecipazione di diplomatici britannici a Gerusalemme a una maratona organizzata dall’Autorità palestinese e palesemente contro Israele. Diplomatici che hanno preso parte all’evento podistico, indossando magliette con una mappa della “Palestina” che si estende dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo, cancellando di fatto lo Stato d’Israele. Tra questi anche il vice console generale Alison McEwen. Ogni possibile fraintendimento (a essere buoni) è stato spazzato via da un tweet con la foto incriminata e questo testo: “TeamUK si è unito a migliaia di corridori palestinesi e internazionali nell’incredibile Maratona Palestinese per sostenere la #libertà di movimento per tutti i palestinesi. Grande energia dai corridori partecipanti e un messaggio importante da sottolineare”. Eh sì, perché la corsa è stata presentata con lo slogan “Libertà di movimento”. Troppa libertà da parte dei diplomatici del Regno Unito, che sono stati denunciati dall’UKLawyers for Israel (UKLFI) per violazioni del codice del servizio diplomatico alla direzione consolare del Foreign Office del Regno Unito (FCDO). Caroline Turner, amministratore delegato di UKLFI, ha dichiarato: “Riteniamo che i rappresentanti diplomatici che indossavano la maglietta violassero il codice del servizio diplomatico dato che indossavano un logo che cancellava Israele e sostenevano apertamente un evento gestito da qualcuno con una lunga storia di sostegno al terrorismo e che a quanto pare detesta ebrei e sionisti”. A organizzate la maratona, come detto, è stata l’AP, ma ancora più precisamente nella persona di Jibril Rajoub, un alto funzionario di Fatah con una lunga storia di sostegno al terrorismo e per aver paragonato gli israeliani ai nazisti, nonché sospeso dalla FIFA nel 2018 per attacchi contro Lionel Messi, campione dell’Argentina che aveva in programma una gara amichevole in Israele prima dei Mondiali. Incitamento al terrorismo e squalifica, un curriculum di un personaggio, che non dovrebbe avere il sostegno di alcun diplomatico, soprattutto facente parte di un paese così importante. E invece…
Medio Oriente: alta tensione tra israeliani e palestinesi alla vigilia del Ramadan
Cresce la tensione in Israele, Cisgiordania e nella Striscia di Gaza alla vigilia del mese sacro islamico del Ramadan che avviene quest’anno in concomitanza con la Pasqua ebraica (5-13 aprile). La Knesset, il parlamento monocamerale israeliano, ha recentemente abrogato la “legge sul disimpegno” del 2005 nel nord della Cisgiordania, una mossa che spiana la strada al ritorno dei coloni in quattro insediamenti, distrutti e poi evacuati da Israele 18 anni fa in concomitanza con il ritiro dalla Striscia di Gaza. L’abrogazione faceva parte degli accordi di coalizione per l’istituzione dell’attuale governo guidato da Benjamin Netanyahu. Eppure, si tratta di un cambio di scenario rispetto a poche settimane fa, quando lo Stato ebraico si era impegnato a non creare nuove unità di insediamento per quattro mesi e a non approvare qualsiasi nuovo avamposto per sei mesi in un incontro tenuto ad Aqaba, in Giordania, a cui avevano partecipato rappresentanti del regno hascemita e di Israele, Territori palestinesi, Egitto e Stati Uniti. Il rinnovato clima di tensione tra israeliani e palestinesi, peraltro, segue l’accordo per il ripristino delle relazioni diplomatiche tra Iran e Arabia Saudita mediato dalla Cina, un’intesa che a detta degli esperti è destinata ad avere profonde ripercussioni in Medio Oriente e non solo. Come spiega il quotidiano israeliano “The Times of Israel”, il nuovo provvedimento abroga le clausole della legge sul disimpegno che hanno impedito fino ad ora agli israeliani di ritornare nell’area in cui un tempo si trovavano gli insediamenti di Homesh, Ganim, Kadim e Sa-Nur. Le quattro comunità sono state le uniche colonie della Cisgiordania a essere sgomberate durante quello che viene definito il disimpegno da Gaza circa 18 anni fa. Si tratta di luoghi simbolici per i sostenitori degli insediamenti, che hanno considerato un’ingiustizia quanto avvenuto nel 2005 durante il governo di Ariel Sharon. L’abrogazione della legge si applica solo a quelle aree, precisa “The Times of Israel”. Ad ogni modo, il capo del comando centrale delle Forze di difesa israeliane (Idf) dovrà firmare un ordine militare che consenta agli israeliani di rientrare in queste zone e legittimare i propri avamposti. Dopo l’abrogazione della “legge sul disimpegno” del 2005, il ministro delle Missioni nazionali, Orit Strock, il presidente del Consiglio regionale di Shomron (organizzazione che riunisce gli insediamenti israeliani nella Cisgiordania occupata) Yossi Dagan e altri leader dei coloni hanno subito visitato Homesh sotto scorta delle Forze di difesa israeliane (Idf): erano ben 18 anni che non avveniva una cosa del genere. Come riferisce il sito web di approfondimento giornalistico “Al Monitor”, con sede a Washington, la legislazione consentirà ai coloni di tornare negli avamposti demoliti, ma non di ricostruirli. Il testo della legge è stato infatti “ammorbidito” per non includere la ricostruzione degli insediamenti. In teoria, quindi, i coloni che vivevano in quei luoghi prima del” disimpegno” del 2005 non recupereranno alcun diritto sulle proprietà delle terre evacuate. Di fatto, però, gli israeliani potrebbero avviare una colonizzazione selvaggia senza aspettare una legge “ad hoc” in tal senso. Tale sviluppo comporterebbe la presenza di ingenti forze di sicurezza israeliane nella Cisgiordania settentrionale, aumentando gli attriti e le tensioni con la popolazione palestinese locale. E’ opportuno precisare che per applicare la nuova legge in Cisgiordania è necessaria la firma del genarle Yehuda Fuchs, comandante del comando centrale e responsabile delle forze israeliane in Cisgiordania. Secondo i media dello Stato ebraico, la firma verrà apposta solo dopo che le Idf avranno condotto una valutazione delle implicazioni per la sicurezza, dunque non prima della fine del Ramadan che inizia proprio domani, 23 marzo. Intanto, però, la decisione della Knesset ha attirato le vibranti proteste del gruppo anti-occupazione Peace Now: “Il ritorno dei coloni nel nord della Cisgiordania rappresenterà un enorme fardello per la sicurezza e un fulcro della violenza dei coloni. Questa decisione aprirà anche la strada alla creazione di molti altri avamposti in un’area che ora è quasi interamente palestinese. Oltre al colpo di Stato giudiziario, è in atto anche una rivoluzione messianica”. Come prevedibile, i portavoce ufficiali dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) e del gruppo islamista Hamas, al potere nella Striscia di Gaza, hanno immediatamente condannato la decisione della Knesset. Il portavoce dell’Anp, Nabil Abu Rudeineh, ha dichiarato che “l’approvazione da parte della Knesset di una legge che consente di ricostruire quattro insediamenti in Cisgiordania viola tutte le risoluzioni dell’Onu, soprattutto la numero 2334, che considera illegali tutte le colonie in tutti i territori palestinesi”, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa palestinese “Wafa”. Il governo israeliano, ha aggiunto Abu Rudeineh, ha intenzione di sfidare il diritto internazionale e si adopera per vanificare gli sforzi per evitare l’intensificazione del conflitto e per alleviare le tensioni”. Il portavoce dell’Anp, quindi, ha chiesto alla comunità internazionale, soprattutto agli Stati Uniti, di esercitare pressioni sul governo israeliano e di obbligarlo a porre fine alle sue politiche unilaterali, che contrastano con gli accordi finora raggiunti. Da parte sua, il portavoce di Hamas, Jehad Taha, ha espresso l’aspra condanna da parte del movimento dell’abrogazione della “legge sul disimpegno”. Secondo Hamas, infatti, questo permetterà un ritorno nelle “colonie illegali” israeliane in Cisgiordania e, successivamente, un’espansione della colonizzazione, preparando il terreno per la “giudaizzazione dei territori palestinesi”. Taha, quindi, ha definito l’abrogazione della “legge sul disimpegno” come “un crimine” che “ribadisce il fascismo delle autorità di occupazione israeliane”, anche perché è stata votata dopo l’incontro sulla sicurezza israelo-palestinese di Sharm el Sheikh, del 19 marzo. Pertanto, Taha ha esortato l’Anp a interrompere ogni forma di cooperazione in materia di sicurezza con lo Stato di Israele, invitando al contempo la comunità internazionale ad “assumersi le proprie responsabilità per porre fine agli abusi e alle politiche razziste dell’occupazione coloniale, che contrastano con il diritto internazionale e con le principali risoluzioni dell’Onu”.
Pesach è alle porte ed è tempo di Bsisa, ovvero il rito di buon auspicio che arriva da lontano, dalle case degli ebrei libici che ogni anno ridanno vita a questa tradizione la sera di Rosh Chodesh Nissan. La Bsisa ormai è diventata un “must” della Roma ebraica. Shalom assieme al Centro di Cultura Ebraica vi propone questo “piatto” preparato da una coppia d’eccezione: Chef Ruben e Dina Hassan. Un incontro e amichevole scontro tra uno chef romano doc e una signora tripolina che di cucina e tradizioni libiche la sa lunga.
Un video che ci racconta da vicino una usanza che gli ebrei libici ripetono in molte occasioni gioiose: l’inaugurazione di una casa, di un’attività, il matrimonio, bar e bat mitzvà e brith milà.
Indonesia - Proteste per la partecipazione di Israele ai Mondiali di calcio Under 20
Striscioni con la scritta “Palestina libera” o “Israele è il nemico dell’Islam” sono stati esposti da poche decine di indonesiani, scesi in piazza a Giacarta per manifestare contro la partecipazione di Israele ai Mondiali di calcio Under 20, in programma dal 20 maggio all’11 giugno prossimo. Una delle organizzazioni responsabili della protesta è stata PA 212, il cui portavoce Buya Hussein ha fatto uso della solita e stancante narrativa palestinese, secondo cui Israele:
“Non solo colonizza, ma tratta i nostri fratelli e sorelle in Palestina in un modo molto spaventoso e barbaro. L’esercito israeliano non ha solo ucciso le persone che stanno combattendo, ma anche civili, madri e bambini in atti di ferocia e crudeltà”.
La prima domanda da porre a Hussein sarebbe quella di spiegarci di cosa sia la Palestina per lui. Se un luogo fisico esistente o un’entità astratta che nella sua speranza andrebbe a sostituire lo Stato d’Israele, di fatto cancellandolo. La seconda è spiegarci quali siano questi “atti di ferocia e crudeltà” contro “madri e bambini”. Una retorica fatta di slogan e forma e inesistente sostanza, che però è molto utile per incitare le folle. L’idea alla base della manifestazione promossa contro Israele ha visto la risposta dello stesso governo indonesiano che, nonostante non abbia relazioni diplomatiche formali con Gerusalemmee sia sostenitore della causa palestinese, ha dichiarato che la squadra di calcio dell’Under 20 israeliana potrà disputare la competizione. Israele, quindi, giocherà i Mondiali di calcio Under 20. Siamo estremamente curiosi di sapere cosa potrebbe succederà qualora la squadra israeliana arrivasse nelle prime posizione, le modalità del cerimoniale e della premiazione. Sarà molto difficile che Israele possa aggiudicarsi una medaglia, ma se Buya Hussein sogna la Palestinaperché noi non potremmo sognare una vittoria mondiale?
(Progetto Dreyfus, 22 marzo 2023)
«La probabilità che un anziano muoia dopo il vaccino è elevata». Però l'Aifa insabbiò la notizia
Nuovo scoop di «Fuori dal Coro»: Magrini fece rimuovere da un report la frase «la probabilità di decesso in un anziano vaccinato è elevata». Sulla sicurezza dei sieri un funzionario avvertiva: «I fragili rientrano nelle popolazioni non studiate». Ma venne ignorato.
di Marianna Canè
Il muro di bugie raccontate durante questi tre anni di campagna vaccinale inizia a perdere pezzi, che crollano come macigni dirompenti portando alla luce la verità, quella verità che fa male proprio ai nostri anziani, i primi che dovevano essere protetti dal contagio del Covid-19. Eppure quando era partita la campagna per vaccinare soprattutto i fragili, non si aveva nessuna prova della reale efficaciadi quelle punture. Ieri sera [altro ieri] a Fuori dal Coro, su Retea, sono stati mostrati dei documenti esclusivi, alcuni riguardavano proprio l'efficacia dei vaccini contro il Covid per i soggetti fragili: gli anziani e gli immunodepressi. Per i più deboli la vaccinazione è sempre stata fortemente raccomandata più e più volte anche in tv da note virostar come Bassetti, Crisanti e Burioni che quasi perdevano la voce per decantare la capacità di proteggere e la sicurezza di quei sieri. Peccato però che i documenti esclusivi interni dell'Aifa mostrano un quadro completamente diverso. A gennaio 2021, quando le vaccinazioni erano iniziate da una manciata di settimane, arriva una notizia preoccupante dalla Norvegia: 23 anziani muoiono dopo la dose di vaccino. Alla nostra Agenzia del farmaco si scatena il panico, c'è chi comincia a fare domande sulla pericolosità della puntura e così gli alti funzionari si interrogano sulla necessità di dover pubblicare delle risposte per tranquillizzare proprio quegli anziani che in quelle ore stavano facendo la fila per la dose, fidandosi della scienza e degli appelli. E così un funzionario scrive: «Sarebbe necessaria una Faq sui decessi. Cerchiamo di mettere qualcosa insieme». Una Faq, ossia una risposta, una spiegazione di quelle morti in Norvegia, da pubblicare sul sito dell'Agenzia, in cui non ci deve essere nulla di allarmante. Inizia uno scambio di note in cui si cerca di far passare il messaggio nella maniera più tranquillizzante possibile. Uno degli esperti ad un certo punto si lascia candidamente scappare, questa frase: «La probabilità di osservare un decesso in un anziano vaccinato da poco è elevata». Una frase troppo forte e decisamente molto esplicita che irrita proprio l'allora direttore generale Nicola Magrini che risponde piccato a pochi minuti di distanza riscrivendo la frase e commentando: «A me ancora genera un po' di ansia e nervosismo leggerlo ... quindi suggerirei di renderlo impeccabile nell'arco delle prossime 48-72 ore». Insomma non si può dire che gli anziani vaccinati possono morire, la linea da seguire ad ogni costo, anche ignorando palesemente la realtà, è che i vaccini sono molto sicuri. E proprio collegandosi alla sicurezza dei sieri, un altro esperto propone la frase: «Nella sua fase iniziale la campagna di vaccinazione ha l'obiettivo di proteggere, oltre agli operatori sanitari, proprio le persone più anziane e i soggetti fragili per condizioni di salute nei confronti delle quali i vaccini in uso hanno dimostrato una elevata efficacia».
Ma quella frase non corrisponde alla realtà e viene cancellata. L'elevata efficacia per i soggetti fragili non esiste, perché non esistono gli studi che la dimostrano. Nel documento interno dell' Aifa del 15 gennaio 2021, mostrato in esclusiva nel programma condotto da Mario Giordano, si vede chiaramente la frase cancellata, ma vi è di più. L'esperto dell'Agenzia spiega il motivo di quel depennamento, scrivendo persino la frase in rosso: «Attenzione! I pazienti fragili rientrano nelle popolazioni non studiate». Ed allega a riprova della sua affermazione una parte dello studio Pfizer, quello con cui la casa farmaceutica ha ottenuto l'autorizzazione all'immissione in commercio, in cui si legge chiaramente nella sezione dedicata alla sicurezza: «Informazioni mancanti: uso nei pazienti fragili con co-morbilità come diabete, problemi cardiovascolari, problemi neurologici; uso in pazienti con malattie autoimmuni o infiammatorie». Questa è la verità, all'Aifa erano consapevoli che si stavano vaccinando i soggetti più fragili, quelli più ad alto rischio, senza avere alcuna certezza dell'efficacia e della sicurezza dei vaccini. Ma non vogliono e non possono dirlo. Per cui alla fine prendono questa decisione che non lascia spazio ad interpretazioni: «Non conviene stuzzicare il can che dorme e quindi per ora non si esce con niente». E infatti quel documento non sarà mai pubblicato. Dunque sembra che la nostra Agenzia del Farmaco agisca in questa maniera: per tranquillizzare nasconde le informazioni, preferisce mettere tutto a tacere. Anche perché lo fa in un altro caso clamoroso, mostrato ieri sera[altro ieri] in prima serata su Retea, Vi ricordate le rassicurazioni sugli effetti avversi? Le virostar minimizzavano costantemente la presenza di danni da vaccino con frasi come: «Sono pochissimi, una minima parte». Come se il fatto che l'essere pochi togliesse la legittimazione e il diritto alla cura. Peccato che anche i dati che venivano pubblicati erano filtrati per evitare di dare dei segnali preoccupanti. Nella bozza del quarto report sulla sorveglianza dei vaccini pubblicato dall' Aìfa, doveva essere inserito il dato delle reazioni avverse dopo la seconda dose del vaccino Astrazeneca, ben 2.011. Un numero molto alto rispetto agli altri vaccini, Pfizer ne aveva 348, Moderna 121. Una funzionaria pone subito il problema e scrive: «Forse non lo riporterei neanche». Come viene risolta la situazione? Semplice: dal report pubblicato quel dato sparisce . E non è tutto. Il 18 gennaio 2021, sempre a inizio campagna vaccinale, l'Aifa manda una circolare a tutte le Regioni, spiegando le modalità da usare per pubblicare i report regionali delle reazioni avverse. I centri di farmacovigilanza territoriali si attivano, compilano i propri report e li mandano, come da protocollo, in approvazione all'Agenzia stessa. L'Emilia Romagna manda il suo, e nell'inserto compilato dall'Ausl di Bologna, si legge: «Il tasso di segnalazione regionale è 1.000 su 100.000 dosi», molto più alto rispetto a quello nazionale di 729 segnalazioni su 100.000 dosi, tanto che nelle stesse riflessioni degli esperti che hanno compilato il report locale viene definito un «alto tasso di segnalazione» e ancora «dato di segnalazione rilevante». Cifre alte che è preferibile non rendere note al pubblico, tanto che l'Aifa risponde scrivendo: «Tali rapporti devono essere utilizzati esclusivamente per uso interno [ ... ] raccomandiamo che non vengano divulgati». Eppure la stessa Aifa aveva mandato pochi giorni prima le indicazioni per la pubblicazione. Strano no? Chissà se anche questa decisione sia stata presa per via di quel dato così alto sottolineato dalla scritta: «Altotasso di segnalazione [ ... ] dato di segnalazione rilevante».
(La Verità, 22 marzo 2023)
Pazienti anziani lasciati da soli nei reparti, legati ai letti perché non c'era sufficiente personale per poterli assistere, «accompaqnati» a morire nei casi più disperati. È quanto rivelano a Panorama alcune infermiere che, in pandemia, lavoravano negli ospedali o nei centri vaccinali. Dove, affermano, si somministravano anche sieri scaduti.
Gli anziani venivano legati al letto. L'ordine era entrare nelle stanze Covid il meno possibile. In tanti sono morti così. Senza il conforto di una persona cara. In solitudine». Marina non fa più l'infermiera. Ha smesso. Le era diventato insopportabile eseguire ordini che lei ritiene «disumani». «Ero come una carceriera. Mi sentivo impotente». La sua testimonianza non rientra nelle oltre duemila pagine, depositate le scorse settimane dalla Procura di Bergamo sulla gestione dei primi giorni di pandemia in Val Seriana. Arriva dopo quell'indagine. E alla sua, si stanno aggiungendo altre testimonianze (queste denunce, da convalidare, sono andate in onda nella trasmissione Fuori dal Coro di Mario Giordano). «L'ordine era fare più dosi di vaccino possibile. Anche quando erano scadute» confessa Emilia, mentre ci mostra le boccette vuote del vaccino Comirnaty, prodotto dalla Pfizer, prese all'hub vaccinale.
Dopo l'inchiesta di Bergamo hanno deciso di raccontare «la loro verità» su quanto sarebbe accaduto in alcuni ospedali, e centri vaccinali, durante l'emergenza Covid. Ci sono voluti mesi per guadagnare la loro fiducia. In cambio hanno chiesto l'anonimato. E qui sono identificate da nomi di fantasia. Le loro testimonianze potrebbero portare all'apertura di ulteriori indagini. L'incontro con Marina ha una data e un luogo: Lombardia, marzo 2023. Per tutto il tempo non ha smesso di tormentarsi le mani. «Ho lavorato nei reparti Covid, di terapia subintensiva e intensiva. Le persone che arrivavano in ospedale erano già in condizioni disperate, perché erano state a casa, per giorni e giorni, trattate solo con "paracetamolo e vigile attesa". Ma una volta qui, somministravamo loro antibiotici, cortisone, eparina. E allora mi chiedevo, perché quei medicinali non venivano dati prima, nel loro domicilio?».
Marina prosegue: «Poi sono cominciati ad arrivare gli anziani dalle Rsa e dalle Case di riposo» ricorda Marina. «Ci era vietato di restare nelle stanze se non per i trattamenti strettamente necessari. I medici neppure entravano a visitarli. Così dovevamo legarli al letto. Ricordo ancora i loro occhi disperati, pieni di paura». Marina parla anche dei protocolli di cura utilizzati. «Il plasma dava buoni risultati, ma a un certo punto non è più arrivato. Abbiamo cominciato gli antivirali. Con il remdesivir si verificavano pesanti effetti collaterali. Anche i medici hanno scritto alla direzione sanitaria. Ci rispondevano che era il protocollo. Però era mia, la mano che li somministrava. Confesso che qualche volta, di nascosto, l'ho sostituito con soluzione fisiologica». Il racconto di quei mesi in corsia si fa ancora più drammatico. «Spesso non c'erano posti letto in terapia intensiva. E allora bisognava fare una scelta, dando la preferenza alle persone più giovani. Quelli di 70 e 80 anni restavano fuori». E che cosa succedeva?, chiediamo. Marina risponde a fatica. «Se si aggravavano troppo, non si poteva far altro che "accompagnarli". Si attuava un protocollo. Con farmaci appositi, morfina e sedativi, e si lasciava che le persone insomma ... morissero». E quanti malati ha visto accompagnare alla morte? domandiamo. «Tanti» risponde seccamente. Sarebbe stata praticata quindi una sorta di eutanasia?
La vicenda rivelata da Marina trova riscontri in ciò che denunciano alcuni familiari. Francesco Pirazzoli, 71 anni, viene ricoverato in un ospedale in provincia di Ravenna il 5 marzo 2021. «Lo avevano lasciato a casa, per 11 giorni, senza mai visitarlo. Non sono venuti neppure i medici dell'Usca» accusa sua figlia Cristina. «E entrato il 5 marzo, non hanno provato nemmeno a curarlo. E’ morto il giorno dopo». «Sono stati usati due medicinali, morfina e Propofol, che insieme inducono rapidamente al coma, fino all'arresto respiratorio» spiega Barbara Balanzoni, consulente tecnico della famiglia. «Lo stesso esito fatale è stato quello del signor Carlo, in un ospedale in provincia di Milano. Era stato ricoverato il 13 luglio 2020 per una polmonite anche se il tampone per il Covid era negativo. Nel giro di pochi giorni gli è stata fatta un'infusione di morfina e midazolam. E deceduto quattro giorni dopo il ricovero».
In entrambi i casi, i giudici per le indagini preliminari hanno deciso di non archiviare. In Italia la legge è chiara: l'eutanasia «attiva» è assimilabile all'omicidio volontario (come da articolo 575 del Codice penale). L'unico consenso alla «morte dolce», in caso di fine vita, può darlo solo il malato. O il suo tutore legale. Nessun altro. Neppure in situazioni di emergenza. «Io non ho dato alcun consenso» ripete Serena Marongiu. Sua nonna Maria viene ricoverata in ospedale, in provincia di Bologna, nel dicembre 2020. Le sue condizioni non sono gravi ma a un certo punto i sanitari avvertono che la situazione è precipitata. «Abbiamo chiesto di portarla a casa, non c'è stato nulla da fare» aggiunge Serena. «La scheda Istat dice che è deceduta di polmonite da Covid. Ma l'hanno portata a morire. Le hanno dato Propofol e morfina. Ora la cartella clinica è in mano a un avvocato. Voglio sapere la verità». Ci spostiamo in un'altra regione del Nord per incontrare Emilia. Anche lei è un'infermiera, è stata responsabile di alcuni centri vaccinali. «A un certo punto il governatore della Regione ci ha detto che dovevamo ricavare una settima dose. Anche se le direttive ministeriali erano di estrarne al massimo sei per fiala. Per farlo, ci hanno dato siringhe di massima precisione. Dovevamo diluire di più il prodotto. Invece che con 1,8 millilitri di soluzione fisiologica, lo allungavano con 2. Ma così il vaccino era meno efficace. Io non lo somministravo». A riprova, mostra le mail inviate dalla Regione alle farmacie che poi rifornivano i centri vaccinali. Perché nessuno si è opposto?, chiediamo. «Perché hanno usato tutti infermieri richiamati dalla pensione» risponde Emilia. «Ognuno di loro guadagnava tremila euro al mese, oltre alla pensione. Facevano a gara a chi era più veloce a estrarre la settima dose. A un certo punto si e iniziato a vaccinare con sieri scaduti» accusa l'infermiera. «Hanno cambiato le etichette sui flaconcini. L'ordine era di terminare quelli scaduti, prima di cominciare con quelli aggiornati, che erano già arrivati». Quanti effetti avversi ha visto? «Molti, malori e reazioni allergiche. Alcune anche gravi. Ma non bisognava dirlo».
Anna invece è infermiera in una Residenza sanitaria assistenziale friulana. «All'inizio ci avevano detto che i vaccini andavano conservati a meno 80 gradi. Ma da noi la catena del freddo non è stata mai rispettata» rivela. «In pieno agosto, le colleghe del distretto partivano con le dosi e andavano casa per casa con una borsa frigo da campeggio. La cosa più sconcertante è che, dopo il giro mattutino, quando non riuscivano a esaurire le dosi, venivano nella mia Rsa e ci chiedevano i nominativi dei pazienti ai quali somministrarle. Io mi sono sempre domandata a quanti gradi erano state tenute quelle provette». Poi mostra i fogli di autorizzazione del consenso informato al vaccino di cui è venuta in possesso. Al posto delle firme, a volte ci sono soltanto delle croci. «Spesso a farle erano le badanti» dice. Alcune autorizzazioni vengono dalla Casa di riposo. Anna abbassa lo sguardo. «Più di una volta è capitato di trovarli nel letto, quei poveri anziani. Erano morti così, soli, con il respiratore ancora attaccato alla bocca».
(Panorama, 22 marzo 2023)
L’inflazione annuale israeliana è scesa al 5,2% a febbraio, ha dichiarato l’Ufficio centrale di statistica, in calo rispetto al 5,4% di gennaio, ma con un ritmo più rapido del previsto, che metterà ulteriormente sotto pressione la Banca d’Israele affinché aumenti nuovamente i tassi di interesse il mese prossimo.
L’indice dei prezzi al consumo (CPI), una misura dell’inflazione che tiene conto del costo medio dei beni domestici, è aumentato dello 0,5% a febbraio, superando le aspettative degli analisti che si aspettavano un aumento dello 0,3% e portando l’inflazione annuale degli ultimi 12 mesi al 5,2% dal 5,4% di gennaio. Gli analisti si aspettavano un tasso annuale del 5%. A febbraio, gli aumenti hanno riguardato il costo di frutta e verdura fresca, che è salito del 3,8%, le spese per la cultura e l’intrattenimento, che sono aumentate dello 0,9%, i trasporti, che sono saliti dello 0,5%, e le abitazioni, che sono aumentate dello 0,4%. Questi aumenti sono stati compensati dal calo dei prezzi dell’abbigliamento e delle calzature, scesi del 3,3%, e delle comunicazioni, scese dello 0,4%, secondo l’ufficio statistico. Gli affitti per il rinnovo dei contratti sono aumentati del 4,4% e quelli per i nuovi inquilini del 7,5%. Sebbene l’inflazione di febbraio sia scesa al livello più basso da ottobre, il tasso rimane ben al di sopra dell’obiettivo di prezzo del governo, compreso tra l’1% e il 3%. Questo nonostante le misure adottate dalla Banca d’Israele per contenere l’aumento dell’inflazione. Nell’ultimo anno, la banca centrale ha aumentato costantemente il tasso di interesse di riferimento dal minimo storico dello 0,1% dello scorso aprile, nel tentativo di ridurre la crescita dei prezzi. A febbraio, la Banca d’Israele ha aumentato i tassi di interesse per l’ottava volta consecutiva, aumentando il tasso di riferimento di 50 punti base al 4,25%, il livello più alto dal 2008. Il comitato di politica monetaria della Banca d’Israele annuncerà la sua decisione sulla prossima manovra dei tassi di interesse il 3 aprile. “Siamo assolutamente determinati a riportare l’inflazione al suo obiettivo e se questo significa continuare ad aumentare i tassi, che è il nostro strumento principale, è quello che faremo”, ha dichiarato il governatore della Banca d’Israele Amir Yaron alla CNN in un’intervista rilasciata martedì. “Abbiamo un’economia fiorente, in parte grazie alla crescita e agli investimenti nel settore dell’alta tecnologia, che consentono di aumentare i consumi e la spesa”, ha detto Yaron. “Questo significa che ci vorrà un po’ più di sofferenza, probabilmente, per riportare l’inflazione al suo obiettivo”. “Il nostro compito di far scendere l’inflazione oggi comporta un dolore e in Israele comporta un dolore diretto perché molti dei mutui sono legati direttamente al tasso di interesse della banca centrale”, ha detto Yaron. Il capo economista della Bank Leumi, Gil Bufman, si aspetta che la banca centrale aumenti i costi di prestito di 25 punti base – 50 punti base all’inizio di aprile, in parte anche in base a quanto le banche centrali di tutto il mondo aumenteranno i tassi durante la prossima settimana. “L’inflazione in Israele, che difficilmente sta rallentando, comincia ad apparire insolita rispetto ad altri Paesi, dove l’inflazione sta diminuendo e questo si rifletterà nel continuo aumento del tasso di interesse della Banca d’Israele, anche dopo che le banche centrali di tutto il mondo avranno già completato il percorso di rialzi dei tassi”, ha scritto Bufman in un rapporto di ricerca dopo la pubblicazione dei dati dell’IPC. Bufman prevede che l’inflazione continuerà a mantenersi al di sopra del 5% nei prossimi mesi, e vede l’inflazione nei prossimi 12 mesi vicina al 4%, spingendo la Banca d’Israele a continuare ad aumentare i tassi di interesse nei prossimi mesi fino a circa il 5% e oltre, soprattutto se l’indebolimento dello shekel continuerà. Nel frattempo, il governatore della banca centrale ha anche messo in guardia dal pericolo di un rallentamento troppo precoce dei rialzi dei tassi. “Sappiamo dal passato che se ci si ferma troppo presto l’inflazione può tornare con prepotenza e quindi prevedo che, almeno in tutto il mondo, vedremo i tassi continuare a salire e lo faranno ancora per un bel po'”, ha ammonito Yaron. Nel 2022 l’economia israeliana ha registrato un’espansione del 6,5%, più lenta rispetto alla rapida espansione dell’8,6% del 2021. Il prodotto interno lordo è aumentato del 5,8% annualizzato e destagionalizzato nel quarto trimestre del 2022, superando le aspettative degli analisti. Nel 2022, la crescita media tra i Paesi OCSE è stata del 2,8%. “Israele ha avuto una grande performance economica negli ultimi due anni”, ha detto Yaron. “Stiamo per raggiungere una crescita economica del 3% nel 2023 e la speranza è di tornare al 3,5% nel 2024”.
Il Codex Sassoon, la più antica copia completa della Torah oggi esistente, è arrivato in Israele: da domani mattina sarà possibile ammirarlo, fino al 29 marzo, al Museo del Popolo ebraico ANU di Tel Aviv. Grandissima è l’attesa, in poche ore tutti i biglietti di accesso disponibili sono stati assegnati. L'ultima esposizione del Codex Sassoon, che prende il nome dal collezionista, filantropo e uomo d’affari che lo acquistò nel 1929 per 350 sterline inglesi, l'equivalente oggi di circa $ 28.000, è avvenuta al British Museum di Londra nel 1982, l’attuale proprietario è Jacob (Jacqui) Safra.
Dopo ANU il Codex sarà visibile a Londra, Dallas e Los Angeles per poi giungere a New York ed essere battuto all’asta il 16 maggio.
La datazione del Codex, secondo Sotheby’s, precede di quasi un secolo il Codice di Leningrado, la prima Torah completa. Il Codice di Aleppo, conservato all'Israel Museum di Gerusalemme, è più antico del Codex Sassoon, ma quasi due quinti delle sue pagine sono mancanti.
“Il Codex Sassoon contiene note masoretiche di studiosi del primo Medioevo, annotazioni, trascrizioni, commenti e registrazioni di proprietà. Occupa da tempo un posto venerato e leggendario nel pantheon dei documenti storici ed è innegabilmente uno dei testi più importanti e singolari della storia dell'umanità», ha affermato Richard Austin, responsabile del dipartimento libri e manoscritti di Sotheby’s. Per stimare il prezzo base d’asta di 30 milioni di dollari, Austin ha spiegato che un comitato di esperti ha iniziato a discutere la cifra due anni fa. Ha preso in considerazione il costo di produzione di oltre 100 pelli di animali, l'accurata grafia di un singolo scrittore e il suo valore storico monumentale. Si è anche tenuto conto delle due precedenti vendite record di documenti storici: il Codice Leicester, un manoscritto di Leonardo da Vinci acquistato da Bill Gates nel 1994 per 30,8 milioni di dollari e la vendita nel novembre 2021 per 43,2 milioni di dollari della prima stampa della Costituzione degli Stati Uniti
Sharon Mintz, senior Judaica specialist di Sotheby's commentando lo straordinario valore dell’opera ha detto: “il Codex Sassoon costituisce un punto di svolta critico nel modo in cui percepiamo la storia della parola divina nel corso di migliaia di anni. È una testimonianza rappresentativa di come la Torah ha influenzato i pilastri della civiltà- arte, cultura, diritto, politica- per secoli.
Israele non dà armi a Zelensky, Netanyahu spiega la posizione di Gerusalemme
La visita ufficiale del premier israeliano Netanyahu in Germania è stata l'occasione di chiarimento sulla posizione fredda del suo governo rispetto alle richieste di Zelensky.
• LA VISITA UFFICIALE IN GERMANIA Il primo ministro israeliano Benjamin “Bibi” Netanyahu ha fatto tappa a Berlino nel corso del suo tour di visite ai colleghi europei. Dopo Macron e Meloni il 16 marzo ha incontrato il cancelliere tedesco Olaf Scholz. Nella conferenza stampa congiunta che è seguita, i due leader hanno risposto alle domande - talvolta scomode - dei giornalisti. Netanyahu ha dovuto affrontare domande sulla situazione interna di Israele, molto calda in questo momento a causa delle forti polemiche sulla riforma giudiziaria. Ma a parte questo tema e poi le dichiarazioni formali, di rito, sull’amicizia fra i due Paesi e sull’appoggio alla causa ucraina, Netanyahu ha spiegato le ragioni della posizione di Israele, spesso considerata di fatto neutrale.
• LE RAGIONI DI ISRAELE Il premier ha detto che per alcuni Paesi europei la decisione di inviare armi a Kiev può essere stata relativamente semplice, ma che per Israele, invece, la situazione è piuttosto complessa. Il quadro attuale del Medio Oriente, infatti, costringe Gerusalemme a tenere conto di altri attori sul campo come la Siria e il suo alleato che è proprio la Russia. Le sue esigenze di difesa dalla minaccia iraniana portano Israele a compromessi con Mosca sul sorvolo dei cieli siriani, in cambio dell’astensione dall’assistenza militare all’Ucraina. Quello che gli europei percepiscono come un accordo cinico, è in realtà una necessità di sopravvivenza, spiega Netanyahu.
• LE PRESSIONI INTERNE ED ESTERNE I tre governi di Gerusalemme che si sono succeduti al potere dal febbraio del 2022 hanno dovuto subire critiche sia interne che internazionali, ma sono rimasti fermi sulla linea tracciata dagli interessi geopolitici di Israele nella sua regione. Esponenti politici sia di maggioranza che di opposizione si sono uniti nel chiedere che Israele faccia di più per Kiev, metta a disposizione i suoi armamenti e non si limiti all’assistenza umanitaria. Anche da Washington la pressione della lobby filo-ucraina si è fatta sentire, ma non ha spostato la posizione iniziale di Israele.
In occasione della fiera Defense and Security Equipment International (DSEI) a Tokyo (15-17 marzo), il Ministero della Difesa israeliano ha inaugurato il suo primo padiglione nazionale in Giappone. Il DSEI mette in contatto Governi, eserciti, industrie e l’intera filiera della difesa e della sicurezza su scala globale. Grazie a una serie di preziose opportunità di networking, all’accesso a informazioni esclusive e speciali dimostrazioni dal vivo, i partecipanti a DSEI potranno condividere esperienze uniche e conoscere le più recenti innovazioni nel campo della tecnologia militare. DSEI Japan, con oltre 10000 partecipanti e quasi 200 aziende provenienti da 66 Paesi, è il luogo in cui l’industria della difesa globale incontra quella giapponese, sostenendo l’approvvigionamento delle attrezzature più recenti, sviluppando relazioni internazionali e generando nuove opportunità commerciali e partnership tra il Giappone e il mondo. La SIBAT, la Direzione per la cooperazione internazionale del ministero della Difesa, ha guidato una folta delegazione di 14 compagnie israeliane leader del settore. Tra gli avanguardistici e futuristici strumenti presentati si possono annoverare i veicoli aerei senza equipaggio, i sistemi missilistici, le tecnologie di comunicazione e di puntamento e altro ancora. “Siamo felici di partecipare alla fiera della difesa DSEI e di inaugurare il primo padiglione nazionale israeliano in Giappone, che rappresenta un ulteriore passo avanti nell’approfondimento della nostra cooperazione in materia di difesa”, ha dichiarato a JNS il direttore della SIBAT, il Brig. Gen. (riservista) Yair Kulas. “Nonostante la distanza fisica tra Israele e Giappone, condividiamo molte similitudini in quanto nazioni orientate alla tecnologia e all’innovazione. Le industrie israeliane della difesa che partecipano al convegno portano qui le loro uniche soluzioni, molte delle quali sono le più importanti al mondo nel loro genere”, ha aggiunto.(Bet Magazine Mosaico, 22 marzo 2023)
Traute Lafrenz, l’ultima sopravvissuta tra i membri della resistenza antinazista della Rosa Bianca, è morta all’età di 103 anni negli USA, dove viveva dal 1947, a Charleston, nella Carolina del Sud. A divulgare la notizia della sua morte è stata il 6 marzo scorso la Fondazione della Rosa Bianca, che ha voluto rendere omaggio alla sua “coraggiosa resistenza e testimonianza duratura”.Durante la Seconda Guerra Mondiale, infatti, Lafrenz distribuiva volantini contro Hitler nella Germania allora nazista, invitando le persone a sollevarsi contro il regime. Secondo la fondazione, Lafrenz incontrò Hans Scholl – uno dei fondatori del gruppo antinazista della Rosa Bianca insieme a sua sorella Sophie Scholl e Christoph Probst – nell’estate del 1941, quando era una studentessa di medicina. Accortasi presto del coinvolgimento di Scholl nella produzione dei volantini contro il regime di Hitler, volle subito prendere parte all’attività della resistenza. I volantini del gruppo, che citavano spesso Goethe, Aristotele, Lao Tzu, Schiller e la Bibbia, sollecitavano la resistenza passiva e il sabotaggio del progetto nazista. La Rosa Bianca ebbe però vita breve e non contò mai più di qualche dozzina di membri, la maggior parte dei quali erano giovani e idealisti. Nel febbraio del 1943 Hans e sue sorella Sophie Scholl vennero arrestati e decapitati nella prigione di Stadelheim in Baviera, insieme ad altri oppositori al regime. Nell’aprile dello stesso anno, anche Lafrenz cadde nelle mani della Gestapo, la polizia segreta nazista, e fu condannata a un anno di carcere per “complicità”. Poco dopo il suo rilascio, fu nuovamente arrestata dalla Gestapo ad Amburgo. Lafrenz trascorse due anni in quattro prigioni naziste prima della sua liberazione nell’aprile 1945. In seguito, emigrò negli Stati Uniti nel 1947, dove completò gli studi di medicina e dove sposò Vernon Page, un oculista. La coppia ha avuto quattro figli. La famiglia si è poi trasferita a Chicago, dove Lafrenz ha diretto la Esperanza Therapeutic Day School per bambini svantaggiati. Dopo la morte del marito nel 1995, si è trasferita nel ranch di sua figlia Renee in South Carolina. In occasione del suo centesimo compleanno nel 2019, il presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier l’ha elogiata come “un’eroina della libertà e dell’umanità”. È stata inoltre insignita dell’Ordine al merito tedesco, un’alta onorificenza civile. Lafrenz fu una delle poche persone che “di fronte ai crimini dei nazisti, ebbe il coraggio di ascoltare la voce della sua coscienza e di ribellarsi contro la dittatura e il genocidio degli ebrei”, ha spiegato Steinmeier. Centinaia di scuole e strade ora portano il suo nome e nel 2003 è stata nominata la quarta tedesca più amata della nazione, dietro Konrad Adenauer, Martin Luther e Karl Marx.
(Roba da donne, 13 marzo 2023)
Netanyahu rivede la riforma della giustizia: le proteste proseguono
di Tommaso Dal Passo
Il primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato il 20 marzo un ammorbidimento del suo piano di revisione del sistema giudiziario, ma l’opposizione ha detto che continuerà a contestare la legislazione presso la Corte Suprema, ponendo le basi per una resa dei conti costituzionale. Il pacchetto di riforme voluto dalla coalizione religioso-nazionalista di Netanyahu ha scatenato settimane di manifestazioni di piazza senza precedenti in Israele e all’estero, e ha suscitato preoccupazioni tra gli alleati occidentali che vedono una minaccia all’indipendenza del sistema giudiziario israeliano. Dopo aver discusso della crisi con il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden, Netanyahu ha dichiarato che avrebbe rinviato la maggior parte dei disegni di legge, ad eccezione di quelli che scuotono il sistema israeliano di selezione dei giudici, che vuole siano ratificati prima della pausa del Parlamento il 2 aprile. Questa legge è stata sottoposta il 19 marzo a modifiche da parte di una commissione di revisione della Knesset che ridurrebbero la probabile maggioranza dei membri della coalizione in una commissione che esamina le nomine dei giudici. In una dichiarazione con i partner della coalizione, Netanyahu ha descritto la sua revisione come una “mano tesa a chiunque abbia veramente a cuore l’unità nazionale e il desiderio di raggiungere un accordo”. L’opposizione di centro-sinistra ha rifiutato: «Questo è un progetto per un’acquisizione ostile del sistema giudiziario», ha detto il leader dell’opposizione Yair Lapid in un commento televisivo. «Nel momento in cui passerà la modifica del Comitato per le nomine giudiziarie, faremo ricorso alla Corte Suprema». Gli studiosi di diritto hanno temuto che la spaccatura all’interno della società israeliana sulla revisione, che secondo Netanyahu riequilibrerà i rami del governo, si aggraverà in modo catastrofico se si chiederà alla corte suprema di rovesciare la legislazione che limita i suoi poteri. Nel corso della conversazione telefonica di domenica, Biden ha dichiarato che sosterrà un compromesso sulla revisione giudiziaria e ha incoraggiato i controlli e gli equilibri, nonché la creazione di un ampio accordo, secondo quanto riferito dalla Casa Bianca. Netanyahu ha rassicurato Biden sulla salute della democrazia israeliana, secondo l’ufficio del primo Ministro. In precedenza, il disegno di legge prevedeva che la commissione comprendesse tre ministri del governo, due parlamentari della coalizione e due personalità pubbliche scelte dal governo, con una maggioranza di 7-4 voti. Nella sua versione modificata, il disegno di legge prevede che la commissione sia composta da tre ministri del governo, tre parlamentari della coalizione, tre giudici e due parlamentari dell’opposizione. Questo potrebbe rendere la maggioranza del governo più sottile e meno sicura: 6-5, riporta Reuters. Il disegno di legge emendato stabilisce inoltre che non più di due giudici della Corte Suprema possono essere nominati con un regolare voto di gruppo in una determinata sessione della Knesset. Qualsiasi altra nomina dovrà essere approvata da un voto di maggioranza che includa almeno un giudice e un legislatore dell’opposizione tra i membri della commissione di selezione. Le manifestazioni che hanno già scosso il Paese hanno raggiunto le forze armate, normalmente apolitiche, nonché le forze di sicurezza. Netanyahu ha anche affrontato la censura della coalizione.
Israele: il parlamento abroga la legge sul disimpegno del 2005 nel nord della Cisgiordania
Si tratta di una mossa che spiana la strada alla ricostruzione di quattro insediamenti, distrutti e poi evacuati da Israele 18 anni fa in concomitanza con il ritiro dalla Striscia di Gaza
Con solo 31 voti favorevoli e 18 contrari, la Knesset, il parlamento monocamerale israeliano, ha abrogato nella notte la “legge sul disimpegno” del 2005 nel nord della Cisgiordania, con una mossa che spiana la strada alla ricostruzione di quattro insediamenti, distrutti e poi evacuati da Israele 18 anni fa in concomitanza con il ritiro dalla Striscia di Gaza. Per il quotidiano israeliano “The Jerusalem Post”, con l’abrogazione della legge “Israele ha fatto la storia”, e la mossa potrebbe rappresentare il primo passo per il ritorno a Gaza. Come spiega “The Times of Israel”, la legge abroga le clausole della legge sul disimpegno che hanno impedito fino ad ora agli israeliani di ritornare nell’area in cui un tempo si trovavano gli insediamenti di Homesh, Ganim, Kadim e Sa-Nur. Le quattro comunità sono state le uniche colonie della Cisgiordania a essere sgomberate durante quello che viene definito il disimpegno da Gaza circa 18 anni fa. Si tratta di luoghi simbolici per i sostenitori degli insediamenti, che hanno considerato un’ingiustizia quanto avvenuto nel 2005 durante il governo di Ariel Sharon. L’abrogazione della legge si applica solo a quelle aree, precisa “The Times of Israel”. Ad ogni modo, il capo del comando centrale delle Forze di difesa israeliane (Idf) dovrà firmare un ordine militare che consenta agli israeliani di rientrare in queste zone e legittimare i propri avamposti.
Israeliani e palestinesi si sono accordati per adottare misure che riducano le tensioni e le violenze durante il Ramadan
In un incontro avvenuto domenica in Egitto, i rappresentanti di Israele e Palestina si sono accordati per adottare misure che riducano le tensioni e le violenze durante il Ramadan, il mese sacro per la religione islamica, che comincia questa settimana. Non sono stati forniti molti dettagli sull’accordo: in un comunicato congiunto si parla dell’istituzione di «un meccanismo per frenare e contrastare la violenza». L’impegno più concreto è quello di Israele a interrompere per quattro mesi l’istituzione di nuovi insediamenti (le cosiddette “colonie”) nei territori palestinesi: è però visto più che altro come simbolico e non è ancora chiaro se riuscirà ad avere gli effetti sperati. Israele ha infatti recentemente approvato la costruzione di migliaia di nuove case nei territori palestinesi, ed è probabile che non avesse in previsione di approvarne altre nell’immediato futuro. Un incontro simile, con simili dichiarazioni, si era tenuto lo scorso 26 febbraio in Giordania ed era stato immediatamente seguito da nuovi episodi di violenza. L’incontro di domenica si è tenuto a Sharm el-Sheikh, sul mar Rosso, alla presenza di rappresentanti statunitensi, egiziani e giordani. I palestinesi sono in gran parte musulmani e il Ramadan è un periodo generalmente molto delicato: negli ultimi anni per esempio sono stati frequenti gli scontri tra polizia israeliana e palestinesi intorno alla moschea al Aqsa di Gerusalemme. Le preoccupazioni sono molte soprattutto perché negli ultimi mesi gli scontri sono stati molto tesi e violenti, soprattutto in Cisgiordania, territorio considerato palestinese dalla comunità internazionale ma occupato di fatto da Israele. Nell’ultimo anno le forze israeliane hanno arrestato migliaia di palestinesi in Cisgiordania e ne hanno uccisi più di 200, mentre negli attacchi palestinesi contro gli israeliani sono morte circa 40 persone.
Impressionante temporale a supercella si abbatte a Gaza
di Marco Castelli Meteorologo
Un minaccioso temporale a supercella si è abbattuto il 20 Marzo 2023 nella zona di Gaza in Palestina. Il cielo si è oscurato nell'arco di pochi minuti, con a seguito un forte acquazzone associato a violente raffiche di vento ed un sensibile calo termico.
Così le donne del KKL-JNF plasmano il futuro delle foreste di Israele
di Michelle Zarfati
In occasione della Giornata internazionale della donna all'inizio di questo mese, il KKL-JNF ha messo in evidenza alcune delle sue donne leader che stanno contribuendo a plasmare il futuro delle foreste di Israele. Il futuro sembra luminoso per queste donne del Keren Kayemet L'Israel-Jewish National Fund (KKL-JNF), che dopo moltissimi anni ha finalmente nominato come presidente una donna. Fondato nel 1901, il KKL-JNF ha piantato oltre un quarto di miliardo di alberi in Israele nel secolo scorso. A dicembre, Ifat Ovadia-Luski è stato nominata a capo dell'organizzazione. “Dopo più di 120 anni una donna è stata nominata a presiedere l'organizzazione", ha detto Ovadia-Luski. "Penso che la mia nomina possa mandare un messaggio al popolo di Israele. Questa è una decisione storica".
Un sondaggio pubblicato da Moody's Analytics ha mostrato che le donne hanno ancora molta strada da fare per quanto riguarda il ricoprire ruoli esecutivi. Secondo la ricerca, in tutto il mondo le donne detengono solo il 23% di tutte le posizioni senior. Tuttavia, in Israele il quadro non sembra essere più roseo. Sebbene le cifre esatte riguardanti il posto di lavoro nel suo complesso siano difficili da trovare, nell'alta tecnologia le donne assumono meno di un quarto dei ruoli dirigenziali, ha mostrato un recente rapporto sulla diversità dell'ecosistema israeliano delle startup. Per quanto riguarda il KKL-JNF, quasi il 40% dei suoi dipendenti sono donne e Ovadia-Luski spera di aumentare ulteriormente questa cifra, soprattutto a livello dirigenziale.
"Ci sono donne al KKL-JNF in posizioni senior, ma c'è tanto da fare per migliorare", ha riferito. "Abbiamo bisogno di più donne a livello dirigenziale. Credo che questo aiuterebbe a far progredire l'organizzazione". Ovadia-Luski dirige anche il dipartimento di lingua e cultura ebraica presso l'Organizzazione sionista mondiale e in precedenza è stata amministratore delegato del Likud mondiale. "Farò di tutto per garantire che le donne assumano sempre più posizioni chiave al KKL-JNF", ha detto. Tra le donne dell'organizzazione che già ricoprono ruoli centrali c'è Anat Gold, che gestisce la regione centrale del KKL-JNF, oltre a 200 lavoratori di un'ampia varietà di discipline, tra cui forestali, ingegneri e scienziati. "Essere un field manager è una sfida e a molte donne oggi piace", ha detto Gold a The Media Line.
Un'altra figura di spicco dell’associazione è Karine Bolton, direttrice delle relazioni internazionali, che sta contribuendo a far avanzare gli accordi tra Israele e altri paesi in tutto il mondo. “Le relazioni internazionali e il cambiamento climatico sono estremamente importanti, soprattutto per la nostra organizzazione", ha riferito Bolton. "Penso che questo sia il futuro. Il nostro mondo è ora un villaggio globale e dobbiamo lavorare insieme per risolvere le sfide che ci stanno di fronte. Penso che questo sia ciò che il KKL-JNF sta portando avanti e sono felice di farne parte". L'unità di Bolton coordina tutte le relazioni internazionali all'interno dell'organizzazione e ha partner in tutto il mondo che promuovono progetti e memorandum d'intesa (MOU). "Abbiamo una delegazione che verrà qui a giugno dai paesi mediterranei e sembra che avanzeremo accordi bilaterali con loro, in particolare con la Grecia", ha detto Bolton. Come Gold, Bolton ha sottolineato che un numero crescente di donne si è unito ai ranghi del corso forestale dell'organizzazione.
Da parte sua, Ovadia-Luski spera che la sua storica nomina incoraggi altre donne a perseguire posizioni di alto livello nel loro posto di lavoro. "È importante trasmettere il messaggio che noi donne possiamo lasciare le nostre zone di comfort e le gabbie dorate in cui a volte ci troviamo, e puntare in alto", ha detto Ovadia-Luski. "Possiamo essere noi a prendere le decisioni non solo coloro che aiutano chi prende le decisioni. Possiamo essere in grado di far tutto, se lo vogliamo”.
Riforma giudiziaria in Israele: i possibili scenari nell’immediato futuro
Restano poche speranze di arrivare a un compromesso prima della pausa pasquale dei lavori della Knesset
di Mati Tuchfeld
A una decina di giorni dalla fine della sessione invernale della Knesset, il 2 aprile, e l’inizio della pausa dei lavori per la Pasqua ebraica, ecco sei possibili scenari su come potrebbe evolvere la controversa vicenda della riforma
I disegni di legge vengono approvati in seconda e terza lettura, provocando una crisi costituzionale. La prima possibilità è che la coalizione di governo confermi il suo secco rifiuto dello schema di compromesso proposto del presidente Isaac Herzog e ignorando gli appelli per la trattativa, che giungono non solo dai manifestanti ma anche dall’interno del Likud, continui a promuovere imperterrito il primo pacchetto di progetti di riforma giudiziaria, portandoli all’approvazione finale entro due settimane. I disegni di legge possono contare sulla maggioranza dei voti parlamentari (che in questo caso non corrisponde alla maggioranza dell’elettorato nel paese ndr) ed è probabile che verrebbero approvati. Tuttavia, una volta trasformati in legge, non è ancora chiaro come reagirebbe la magistratura. La Corte Suprema potrebbe decretarne la cancellazione. In linea teorica, proprio in forza della nuova legge la Knesset potrebbe annullare la sentenza della Corte, la quale a sua volta potrebbe respingere l’annullamento in forza della vecchia legge visto che considererebbe cancellata quella nuova: il che innescherebbe un corto circuito istituzionale senza precedenti. La legislazione viene congelata, innescando una crisi di coalizione. Un altro possibile scenario è che la coalizione ceda alle pressioni e sospenda l’iter di approvazione della riforma fino a dopo la pausa di Pesach dei lavori della Knesset, aprendo la porta a trattative con l’opposizione come segno di buona volontà e disponibilità al dialogo. Una tale decisione, caldeggiata dall’opposizione ma fortemente osteggiata dai fautori della riforma, potrebbe spingere alle dimissioni il ministro della giustizia Yariv Levin, che capeggia il processo di riforma, innescando una crisi all’interno della coalizione di governo. Anche le fazioni ultra-ortodosse non sono interessate a sospendere l’iter legislativo poiché la legge sulla coscrizione obbligatoria (e sull’esenzione dalla leva degli ultra-ortodossi) sta per essere sottoposta all’approvazione della Knesset ed è probabile che verrebbe respinta, come le precedenti, dalla Corte Suprema (la riforma darebbe alla Knesset la facoltà di annullare la cancellazione ndr). La coalizione modifica la legislazione. Un’altra possibilità è che la coalizione di governo porti avanti la riforma giudiziaria, ma modificandone unilateralmente la formulazione in alcune parti per mitigarne il carattere divisivo e conflittuale. Si tratta di un’eventualità probabile, di cui hanno parlato nei giorni scorsi sia il primo ministro Benjamin Netanyahu che politici a lui vicini, visto che il ministro Levin e i partiti ultra-ortodossi insistono per completare l’approvazione del primo pacchetto prima della pausa dei lavori e che, d’altra parte, nessun politico dell’opposizione è disposto a trattare una formula di compromesso se non viene prima fermato l’iter di approvazione. Le proteste si intensificano. Se la coalizione dovesse portare avanti la riforma così com’è attualmente formulata, c’è la possibilità che le proteste aumentino e si intensifichino, con tutti i rischi del caso. Ai tanti gruppi sociali che si sono finora espressi contro il disegno di riforma nella sua forma attuale, potrebbe aggiungersi il grande sindacato Histadrut che potrebbe dichiarare la riforma dannosa per i lavoratori e bloccare l’economia. Dal canto loro, anche gli imprenditori potrebbero decidere manifestare in modo organizzato. In uno scenario del genere, il governo dovrebbe fare i conti con le ricadute, modificando sostanzialmente i disegni di legge oppure agendo in altro modo per porre fine a sciopero e agitazioni. L’approvazione della riforma viene sospesa a causa di un’escalation nella sicurezza. Un altro sviluppo che potrebbe impedire al governo di procedere con l’approvazione dei disegni di legge prima della Pasqua ebraica è un’escalation sul piano della sicurezza, un’eventualità sempre possibile nelle condizioni in cui vive Israele. Al persistente stillicidio di attentati palestinesi e alla sempre incombente minaccia iraniana si è aggiunto il recente l’attentato esplosivo compiuto allo svincolo di Megiddo, nel nord del paese, da un palestinese di Hamas penetrato dal Libano con il beneplacito di Hezbollah (gravemente ferito un 21enne arabo-israeliano ndr). Alti funzionari dell’establishment della difesa israeliana, tra cui lo stesso ministro della difesa Yoav Galant, hanno fatto capire che Israele non potrà non reagire, pur sottolineando di non essere in alcun modo interessati a un’escalation (oltretutto a pochi giorni dall’inizio del Ramadan, un periodo sempre ad alto rischio attentati ndr). Tuttavia le cose potrebbero andare fuori controllo, come accaduto in passato in casi del genere, e ciò potrebbe avere un impatto diretto sulla riforma giudiziaria consentendo a Netanyahu di sospenderla senza che Levin si dimetta e che le fazioni ultra-ortodosse si ritirino dalla coalizione. La pausa a sua volta renderebbe possibile una trattativa con l’opposizione. Ma resta chiaro che nessuno in Israele si augura mai un’escalation sul piano della sicurezza. Viene riproposto lo schema del presidente. Un’ultima possibilità è che il progetto di compromesso avanzato dal presidente Herzog, sebbene già bocciato dalla coalizione di governo, venga in qualche modo ripreso e possa portare a una sorta di accordo tra coalizione e opposizione. Lo stesso Herzog, dopo aver illustrato la sua proposta, ha affermato che non si tratta di uno schema definitivo, quanto piuttosto di una base per colloqui che potrebbero svilupparsi se solo entrambe le parti fossero interessate a farlo.
Israele, proteste. Netanyahu non ci sta: dura presa di posizione del primo ministro contro gli oppositori
Sabato scorso sono scesi in piazza contro il suo governo di destra 200.000 manifestanti. Le critiche mosse all’esecutivo in carica dall’ex direttore del Mossad, che parla inoltre di un possibile futuro diverso approccio nei confronti dell’Iran. Intanto, nel pomeriggio di domenica in Cisgiordania un israeliano è stato gravemente ferito dai colpi di arma da fuoco esplosi da un terrorista.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha fatto pervenire la propria risposta alle vigorose proteste dell’opposizione nel corso del consiglio dei ministri che ha avuto luogo ieri, dichiarando di «non accettare l’anarchia da parte di chi lancia appelli a bloccare le arterie, alla disobbedienza, a versare sangue nelle strade e ad attaccare figure pubbliche». Egli ha quindi espresso insoddisfazione nei riguardi di coloro i quali sono preposti al mantenimento dell’ordine pubblico: «Mi aspetto dal capo della polizia – ha egli affermato – che faccia rispettare la legge, che impedisca le violenze e la ostruzione di strade; inoltre, mi aspetto dallo Shin Bet e dalla magistratura che agiscano con determinazione contro gli incitatori all’uccisione di ministri e deputati, nonché di quella del premier e della sua famiglia. In merito non si deve chiudere un occhio».
• LA REPLICA DI «BIBI»
Netanyahu ha altresì criticato il capo di stato maggiore di Tsahal, affermando di aspettarsi che «combatta con vigore contro quanti si rifiutano di prestare servizio nelle forze armate», poiché, ha aggiunto, «lo Stato non può tollerare questi fenomeni». In Israele, centinaia di riservisti appartenenti a unità di élite e dell’intelligence (come quelli che si occupano di cybersecurity) hanno infatti deciso di non svolgere il loro lavoro in segno di protesta nei confronti della politica dell’esecutivo in materia di riforma Giustizia nel timore di una messa in discussione della democrazia nel Paese. Si tratta della messa in pratica di una minaccia ventilata nelle scorse settimane, che vede protagonisti quasi settecento militari riservisti tra ufficiali e sottufficiali, sia dell’intelligence militare (Aman) che di Shin Bet e Mossad.
• LA CONTESTAZIONE DEI MILITARI
«Interrompiamo oggi il nostro servizio – ha reso noto all’emittente radiofonica pubblica “Kan” una fonte degli organizzatori della protesta, il “Capitano Alef”, nome di fantasia dell’anonimo portavoce – ma saremo felici di tornare a svolgerlo nel momento in cui la democrazia in Israele sarà al sicuro». È evidente il livello di polarizzazione raggiunto nel Paese, che registra addirittura la contrapposizione di ampi e strategici settori della Difesa e della Sicurezza. «Si tratta di persone che in molti casi rischiano la vita per garantire la sicurezza di Israele», ha al riguardo dichiarato Efraim Halevy, ex direttore del Mossad, nel corso di un’intervista rilasciata alla giornalista della CNN Christiane Amanpour, nel corso della quale ha sostenuto la posizione dei militari che minacciano di non prestare servizio se la riforma della Giustizia dovesse venire varata.
• IL NETANYAHU DI IERI E QUELLO DI OGGI
«Netanyahu dice che non c’è motivo di rifiuto – ha aggiunto Halevy -, ma in realtà i motivi del rifiuto ci sono tutti. Credo che il Benjamin Netanyahu di oggi non sia più quello che ho conosciuto quando mi nominò a capo del Mossad. Sono addolorato per questo, tuttavia non posso accettare che possa continuare a guidare il Paese». Nel corso della medesima intervista egli ha avuto modo di affrontare anche altre spinose tematiche, quali le violenze compiute dai coloni ebrei a Huwara in reazione all’assassinio di due ragazzi ebrei perpetrato alcune ore prima. Huwara, la stessa località dove nella giornata di ieri si è verificato un altro grave episodio di violenza, quando un terrorista palestinese che ha aperto il fuoco su un’autovettura in transito ferendo gravemente una persona, l’ex marine statunitense David Stern.
• UN NUOVO APPROCCIO NEI CONFRONTI DELL’IRAN?
Halevy ha anche fatto cenno alle dinamiche in atto a livello internazionale, con il riavvicinamento dell’Arabia Saudita all’Iran mediato dalla Cina Popolare. «Dovremmo rinvenire modi e mezzi per cercare di analizzare questi nuovi sviluppi al fine di comprenderne il senso, inoltre, anche se sia giunto il momento per Israele di cercare una politica diversa nei confronti dell’Iran», con intelligenza e discrezione nel tentativo di trovare una soluzione. «Non so se esiste una concreta possibilità – ha concluso Halevy -, ma questi sono i fatti (…) forse potremmo orientarci a un approccio diverso al conflitto israelo-iraniano».
Paesi più felici al mondo: Israele è al quarto posto della classifica, l’Italia al 33°
Israele è il quarto paese più felice del mondo, secondo il World Happyness Report delle Nazioni Unite sulla felicità, pubblicato proprio nel giorno della Giornata mondiale della Felicità. E per il sesto anno consecutivo, la Finlandia è al primo posto, seguita da Danimarca e Islanda. In generale, i paesi nordici ottengono tutti un punteggio elevato sui criteri utilizzati dal rapporto per giungere alle sue conclusioni: aspettativa di vita sana, PIL pro capite, sostegno sociale, bassa corruzione, generosità all’interno di una comunità in cui le persone si prendono cura l’una dell’altra e hanno la libertà di prendere le decisioni chiave della vita. Israele sale quindi al quarto posto quest’anno, salendo dal nono posto dello scorso anno. Anche Paesi Bassi (#5), Svizzera (#8), Lussemburgo (#9) e Nuova Zelanda (#10) sono nella top 10, mentre l’Italia si piazza al 33° posto, perdendo due posizioni dall’anno scorso e posizionandosi subito dopo la Spagna e prima del Kosovo. Il Paese più infelice al mondo, dilaniato dalla guerra e controllato dai Talebani, è invece l’Afghanistan, che chiude la classifica dei 137 Paesi analizzati, mentre si posiziona appena prima il Libano, colpito da una crisi economica senza precedenti e da una profonda instabilità politica. In questi Paesi, secondo lo studio, l’aspettativa di vita è di oltre cinque punti in meno rispetto ai dieci Paesi più felici al mondo. Nella classifica di quest’anno, la Russia è al settantesimo posto e l’Ucraina al 92esimo. Secondo il rapporto, la gentilezza in tutto il mondo è superiore di circa il 25% rispetto al livello pre-pandemia. “La benevolenza verso gli altri, soprattutto nell’aiutare gli estranei, che è aumentata drasticamente nel 2021, è rimasta alta nel 2022”, ha detto in una nota John Helliwell, uno degli autori del rapporto, in un’intervista alla CNN. E la felicità globale non ha sofferto durante i tre anni della pandemia di Covid-19. “Anche durante quegli anni difficili, le emozioni positive sono rimaste due volte più prevalenti delle emozioni negative e i sentimenti di sostegno sociale positivo due volte più forti dei sentimenti di solitudine”, ha detto Helliwell in una nota.
• L’INDAGINE Lo studio pubblicato dalla Rete delle soluzioni per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite si basa sui dati di sondaggi globali condotti su persone in oltre 150 paesi. I paesi sono classificati in base al loro livello di felicità in base alla loro valutazione media della vita negli ultimi tre anni, in questo caso dal 2020 al 2022. Il rapporto identifica le nazioni più felici, quelle in fondo alla scala della felicità e tutte quelle intermedie , così come i fattori che tendono a portare a una maggiore felicità.
Kaynan Rabino, vicepresidente di Vision Ventures, sezione della Ted Arison Family Foundation che opera nel no profit, e organizzatore del Good Deeds Day, ha visitato Roma per vedere da vicino la Giornata delle buone azioni organizzata dal Centro Servizi Volontariato Lazio (CSV) con il Villaggio di Insieme per il Bene Comune e in collaborazione con Run Rome - The Marathon. Rabino fa parte della fondazione dal 2003. In passato è stato anche CEO di Ruach Tovà (Spirito Buono), principale organizzazione israeliana di promozione del volontariato. Per conoscere meglio il mondo del volontariato, in particolare all’interno della società israeliana, Shalom ha incontrato Kaynan Rabino.
- Ieri, insieme con la maratona, a Roma si è celebrato il Good Deeds Day. Come è nata questa iniziativa? È nata nel 2007, ma dobbiamo fare un passo indietro, al 2003, quando è nata l’organizzazione Ruach Tovà, un centro di volontariato che connette le persone che vogliono aiutare con le associazioni. Ma sentivamo che mancava qualcosa che portasse energie, spirito, consapevolezza, e che soprattutto portasse persone che non si erano mai affacciate al mondo del volontariato. Shari Arison, una donna d'affari e filantropa in Israele, pensò al concetto delle buone azioni, un piccolo atto di bene che fai per qualcun altro, anche un semplice sorriso. Tuttavia era necessario pensare a un rebranding del volontariato, associando il fare del bene al divertimento. Fare volontariato infatti non deve essere qualcosa di pesante, fare del bene deve essere divertente. Ecco perché i colori del Good Deeds Day e tutto il branding mettono felicità. Nel 2007 abbiamo fatto partire il progetto in Israele, al quale parteciparono circa settemila persone. Ad oggi il Good Deeds Day è presente in 110 dieci paesi e vede la partecipazione di milioni di persone. Solo nello Stato Ebraico l’anno scorso hanno aderito in oltre due milioni.
- Qual è il contributo della sua associazione per l’edizione romana che si è tenuta ieri? Abbiamo contribuito portandogli il concept. Quando ho incontrato per la prima volta le persone qui a Roma, non avevano idea dei grandi eventi come il Good Deed Day. Non esisteva l’idea di fare una fiera che riunisse tutte le associazioni, le ONG e i volontari. Abbiamo portato inoltre il brand e tutto il linguaggio del “fare del bene” e far parte di qualcosa di internazionale.
- Parliamo di volontariato in Israele. Quante organizzazioni esistono in Israele? Con quante è in contatto la sua organizzazione? Se consideriamo le NGOs e le nonprofit, in Israele ci sono circa 30mila organizzazioni. Mentre per quanto riguarda tutte quelle associazioni di volontariato per le persone svantaggiate e cose del genere, allora sono circa 6mila. Ruach Tovà è in contatto con circa l’80 percento di queste. Il nostro obiettivo è diventare un centro nazionale di volontariato, vogliamo rappresentare tutte le organizzazioni, e attraverso il nostro sito web vogliamo rendere facile per le persone fare volontariato.
- Quante persone aiuta Ruach Tovà a trovare un progetto di volontariato? Oggi colleghiamo oltre 100mila volontari all'anno in modo diretto. Secondo uno studio fatto con il Volunteer Council of Israel, la maggior parte dei volontari ha tra i 35 ei 45 anni. Inoltre, dobbiamo aggiungere ai numeri di prima ulteriori centomila persone provenienti dalle aziende. Infatti sempre più società danno tempo ai loro dipendenti per andare a fare volontariato.
- Qual è il ruolo del volontariato nella società israeliana? Perché è così importante? Prima di tutto credo che questa sia una domanda che vale non solo per Israele, ma anche per il resto del mondo. Le organizzazioni di volontariato svolgono un ruolo molto importante nella società civile, infatti nessun governo può fare abbastanza per le persone che hanno bisogno di aiuto. Anche il miglior governo del mondo non può aiutare tutti. Le associazioni come le nostre devono collaborare con lo stato e far fronte ai problemi che abbiamo. Questo vale soprattutto per un paese come Israele, che è molto giovane. Oggi il 60 o il 70% del budget del welfare in Israele va alle ONG e i loro progetti per la società civile. Finanziando queste organizzazioni, si costruisce un grande sistema, perché il governo alla fine è limitato, ha molte risorse, ma non può offrire tutti i servizi.
- Vision Ventures fa parte della Ted Arison Family Foundation, una delle tante organizzazioni filantropiche che aiutano anche lo stato ebraico. Qual è il ruolo della filantropia? Rispetto alle organizzazioni di volontariato, la filantropia è un po' diversa, si basa sulle risorse. Ci sono alcuni filantropi che hanno anche la capacità di fare servizi o cose del genere, ma sono casi particolari. Il ruolo del filantropo è finanziare nuove iniziative per affrontare le sfide che abbiamo. Tuttavia, le fondazioni filantropiche non possono agire da sole, devono collaborare con gli altri attori: il governo e le aziende. Nessuno può farlo da solo, anche la persona più ricca del mondo.
- Secondo lei, con la grande crisi che stiamo affrontando, come il cambiamento climatico, la guerra in Ucraina e negli ultimi anni anche il COVID, è cambiato il modo di fare volontariato? Se sì, come? Penso che solo il COVID abbia davvero cambiato il volontariato, aprendo a un modo completamente nuovo di farlo: il volontariato da remoto. Ciò che erano prima progetti piccoli, come il mentoring, ora sono diventati più grandi. Oggi abbiamo molte lezioni online su Zoom, per esempio una persona dall'Europa può insegnare a qualcuno in Africa. Mentre per quanto riguarda le grandi crisi come il cambiamento climatico e le guerre, in particolare in Ucraina, non è cambiato molto, si sta migliorando il modo di affrontarle e nel lavorare con le partnership. Per esempio in Ucraina abbiamo aiutato il Maghen David Adom e United Hatzalah, che hanno costruito ospedali da campo, mentre in Turchia abbiamo aiutato il gruppo di Ricerca e Soccorso.
L'ultimo caso è quello del britannico Sunak: con la sua azienda investì su Moderna, da premier fa incetta di dosi. Da Baric a Topol, così gli scienziati vengono finanziati.
di Maddalena Loy
I medici indipendenti sono pochi e, guarda caso, sul Covid hanno idee controcorrente
Negli Usa Fauci fa affari con i sieri che raccomanda. E la sua ricchezza raddoppia
La notizia del premier britannico Rishi Sunak socio fondatore di Theleme, unodei maggiori investitori dell'azienda farmaceutica Moderna, non è la prima né l'ultima segnalazione di conflitto d'interessi. C'è un medico - disinteressato - in sala? L'autorevole epidemiologo dell'Università di Stanford John loannidis, già 12 anni fa, scrisse che nella classe medica «i conflitti di interesse abbondano e influenzano i risultati». Gli scienziati davvero indipendenti sono ormai una chimera: secondo il Lown Institute, oltre l’80% di medici e ricercatori riferisce relazioni finanziarie con l'industria farmaceutica, legalizzate ma inappropriate. «L'industria adatta i progetti per soddisfare le sue esigenze», scriveva loannidis; le riviste scientifiche forniscono alle autorità sanitarie le cosiddette «evidenze», che consentono l'adozione di alcune misure sanitarie anziché altre. «L'oligopolio delle riviste ad alto impatto ha un effetto distorsivo sui finanziamenti, sulle carriere accademiche e sulle quote di mercato», spiegava loannidis. Da allora il fenomeno è diventato «sistema». Nel Regno Unito, è stato il premier Rishi Sunak a finire nel mirino dei media per il caso Theleme. Sunak, uno degli uomini più ricchi del pianeta ed ex analista di Goldman Sachs (che è azionista di Moderna), è stato socio fondatore e dirigente di Theleme Partners, importante investitore di Moderna che è stata finanziata con 500 milioni di dollari. Il valore delle sue azioni è salito alle stelle nel 2020, quando sono usciti i vaccini di Moderna, ~ si è quadruplicato nel 2022. E’ stato il rapporto pubblicato a febbraio 2023 a scatenare l'attenzione dei media, rivelando che Theleme ha guadagnato 109 milioni di sterline, 65 milioni in più rispetto all'anno prima. Sunak aveva lasciato l'azienda nel 2013, Theleme ha comunicato che «ha cessato di avere qualsiasi interesse finanziario nei fondi». Ma il premier britannico sembra non aver interrotto i rapporti con la società: nel 2020, quando era Cancelliere dello Scacchiere (ministro delle Finanze), ha assunto proprio un partner di Theleme, John Sheridan, come consulente al ministero. Nella sua dichiarazione sui conflitti d'interesse, Sunak ha inoltre affermato di aver affidato il suo patrimonio a un blind trust, rifiutandosi però dì rivelare di quali beni fosse costituito, e Theleme è registrata nelle Isole Cayman, paradiso fiscale che non rende pubblici i registri aziendali. Poco dopo, il governo britannico ha fatto il suo primo ordine di vaccini Moderna per 5 milioni di dosi. I conflitti d'interesse sono molto diffusi negli Usa, dove hanno sede le maggiori aziende produttrici di farmaci a mRna, Pfìzer e Moderna. I rapporti tra esperti e aziende sono cosi intensi che un ente statunitense, il Lown Institute, ha vergato la «Lown List degli esperti sanitari indipendenti dall'industria farmaceutica» realizzata grazie a un pool di giornalisti investigativi. Esaminando la lista degli scienziati indipendenti, compaiono i nomi di alcuni esperti che La Verità ha consultato spesso durante la pandemia: il professor Ioannidis - che pur avendo un h-Index uguale a quello di Anthony Fauci, ha assunto posizioni radicalmente diverse rispetto al consigliere scientifico della Casa Bianca - l'epidemiologo dì Stanford Jay Bhattacharya, Vinay Prasad, epidemiologo all'Università della California, Cari Heneghan, epidemiologo ad Oxford, Tom Jefferson, autore della Cochrane Collaboration, e Stefan Barai, epidemiologo alla John Hopkins. Sarà un caso, ma tutti questi esperti hanno manifestato grandi perplessità sulle misure anti Covid adottate negli Stati Uniti e in Europa - lockdown, sicurezza ed efficacia dei vaccini, mascherine, vaccinazione di massa - e tutti hanno subito violenti attacchi da parte della comunità scientifica e accademica, che oggi, dopo la pubblicazione dei documenti secretati in pandemia, sembrano finalmente rientrati: evidentemente non avevano torto, più probabilmente non avevano interessi. Dei conflitti d'interesse del consulente della Casa Bianca Anthony Fauci è stato scritto. Il National Institute of Health (Nih) è l'Istituto Superiore di Sanità americano, dove Fauci ha prestato servizio per 38 anni, come direttore del Niaid. L'Istituto ha concesso quasi 123 milioni di dollari in grants al microbiologo dell'Università del North Carolina Ralph Barie (dati 2021) per studiare i coronavirus a Wuhan. Il 12 dicembre 2019 Nih/Niaid, Moderna e Barie hanno siglato un accordo «confidenziale» di 153 pagine in cui risulta che Barie ha ceduto i suoi brevetti per i «candidati vaccini mRna contro il coronavirus sviluppati e di proprietà congiunta di Niaid/Nih di Fauci e di Moderna». Non è curioso che lo stesso Fauci, civil servant e influente promotore della vaccinazione anti Covid dì massa, sia coinvolto in contratti che riguardano brevetti e royalties di questi stessi farmaci? Nel frattempo, il patrimonio personale di Fauci è aumentato: nella sua disclosure sui conflitti d'interesse, di ben 96 pagine, risulta che i suoi beni siano passati dai 5 milioni del 2019-2021 ai 12,6 milioni attuali, attraverso investimenti, royalties, compensi e premi. Fauci risulta inoltre proprietario di cinque patenti (brevetti) per medicinali; l'immunologo ha dichiarato di aver ceduto le royalties in beneficenza, ma quando il senatore Rand Paul gli ha chiesto conto dei dettagli, lui ha dichiarato di non essere tenuto a rispondere. Nella lista degli scienziati finanziati da privati figura anche il professor Eric Topoi, guru del nostro Roberto Burioni. Il cardiologo americano è fondatore e direttore dello Scripps Research Institute, che percepisce più che generosi finanziamenti pubblici (oltre 6 miliardi di dollari in poco più di 10 anni dal Nih di Fauci e Collins) ma anche privati: è lautamente foraggiato dalla Bill & Melinda Gates Foundation (Bmgf), che gli ha sovvenzionato quasi 30 progetti, anche sul Sars-Cov-2, A proposito di Bill Gates: molti enti pubblici, gli stessi che autorizzano le vaccinazioni, accettano finanziamenti dai privati, tra i quali spicca il nome del «filantropo» americano. La Medicines and Healthcare products Regulatory Agency (Mhra, l'Aifa inglese) ha beneficiato di 980.000 sterline da Gates, e lo stesso Istituto Superiore di Sanità italiano ha ricevuto finanziamenti dalla Bmgf per quattro progetti. Grazie alla dottrina Gates, i governi si sono parzialmente ritirati dai loro oneri in materia di salute pubblica e hanno consegnato il controllo della sanità mondiale al privato Gates che, non a caso, è il secondo finanziatore dell'Oms dopo gli Usa. Il «sistema» ideato dal miliardario consiste, banalmente, nel pagare tutti, pubblici e privati. L'impianto dei vasi comunicanti tra pubblico e privato si dispiega nell'istituzione di svariati «enti di cooperazione» la cui natura è ibrida, come ad esempio il Global Fund e la Gavi Alliance, che ha l'obiettivo di assicurare «immunizzazione per tutti»: lanciata nel 2000 grazie alla Bmgf, finanzia le agenzie di salute pubblica grazie all'Amo (Advanced Market Committment for vaccìnes), un fondo i cui donatorì sono Regno Unito, Canada, Norvegia, Russia e Italia, oltre alla Bmgf. Grazie a questo sistema Bill Gates ha penetrato da un lato l'industria farmaceutica, dall'altro gli enti pubblici che acquistano, con i soldi dei contribuenti, farmaci e vaccini. Nello sterminato database dei grants concessi dalla Bmgf ci sono le maggiori industrie farmaceutiche (Moderna, Pfizer, ma anche Merek, Gilead, Novartls ... ) e pure enti pubblici come la Fda e il Niald di Fauci, il Jcvi britannico, l'Mhra e l'Iss, università come l'Imperial College (sui cui modelli sono stati decisi i lockdown) e aziende private: non manca praticamente nessuno.
(La Verità, 20 marzo 2023)
Partecipa anche la Giordania, assente Hamas; in Siria operazione speciale contro un comandate di Jihad
di Caterina Maggi
L’Autorità Nazionale Palestinese ha confermato che sarà presente al meeting di oggi a Sharm El-Sheikh , in Egitto. L’incontro, con al centro il tema della sicurezza in Israele e nei territori occupati di Cisgiordania durante il Ramadan, vedrà la partecipazione anche della Giordania. Presenti come mediatori, oltre ovviamente al governo egiziano, anche gli Stati Uniti. Non ci saranno invece rappresentanti del partito irredentista di stampo islamista Hamas, che controlla Gaza. L’Anp ha dichiarato che intende difendere i diritti dei palestinesi nel corso dell’incontro. “Parteciperemo all’incontro per difendere i diritti del nostro popolo palestinese: alla libertà e all’indipendenza” ha scritto su Twitter infatti il segretario dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) Hussein Al-Sheikh. Che ha aggiunto “parteciperemo anche per chiedere di cessare le continue aggressioni israeliane contro di noi e di fermare tutte le misure e le policies che violano il nostro sangue, la nostra terra, i nostri beni e il nostro credo”. Giovedì scorso, Al-Sheikh aveva incontrato Hady Amr, delegato speciale degli States sulla questione palestinese, nella capitale della Cisgiordania, Ramallah. Mentre le autorità palestinesi si erano già incontrate il mese scorso in Giordania con quelle israeliane. Secondo il ministero della Salute palestinese, confermato da fonti internazionali, più di 80 palestinesi, tra militanti di Hamas e civili, sono stati uccisi dal fuoco israeliano dall’inizio di quest’anno. Sono invece 14 gli israeliani assassinati in attentati su suolo israeliano, per lo più rivendicati da Hamas e Jihad, ma anche dalla neonata formazione Fossa dei Leoni. Intanto un comandante del gruppo militante islamista Jihad, costola oltranzista del partito Hamas, è stato ucciso in Siria in un raid di agenti israeliani. Le brigate Al-Quds, braccio armato di Jihad, hanno scritto in un dispaccio che Ali Ramzi al-Aswad, 31anni, è stato ucciso in “un assassinio codardo con proiettili sparati dalla mano nel nemico sionista” in riferimento a Israele. Non ci sono per ora commenti da Tel Aviv sulla vicenda. La famiglia di al-Aswad era parte dell’ondata di profughi fuggita da Haifa con il 1948, conosciuto in Israele come la fondazione dello Stato ma dal mondo arabo come la Nakba, “Catastrofe”. Ha abbracciato la causa di Jihad in un campo profughi siriano dove la sua famiglia si è insediata.
Proseguono le proteste contro le riforme legali proposte dal governo, la polizia a fatica è riuscita a mantenere separate le due opposte fazioni politiche.
Manifestanti israeliani di entrambe le fazioni politiche si sono affrontati a Tel Aviv nella tarda serata di sabato, mentre le unità di polizia erano impegnati nel tentativo di tenerli separati. Le tensioni si sono fatte sentire, in quanto le proteste contro le riforme legali pianificate dal governo di destra guidato da Benjamin Netanyahu hanno scatenato settimane di manifestazioni e occasionali disordini nel Paese. Gli israeliani sono scesi in piazza per l’undicesima settimana consecutiva, contro i piani del governo di destra di Benjamin Netanyahu di rivedere il sistema giuridico del Paese. I manifestanti sostengono che i cambiamenti proposti minano la democrazia del Paese limitando il potere della Corte Suprema. Netanyahu e i suoi alleati sostengono che il piano è necessario per limitare quelli che, secondo loro, sono i poteri eccessivi di giudici non eletti. La protesta principale nella città centrale di Tel Aviv ha attirato decine di migliaia di persone sabato. I sostenitori del governo, alcuni dei quali indossavano maschere per non essere identificati, hanno scambiato insulti con i manifestanti antigovernativi. Alcuni portavano cartelli con scritto “Traditori di sinistra”.
Netanyahu esorta il Capo di Stato maggiore a contenere la protesta dei riservisti
A partire da oggi oltre 700 ufficiali hanno interrotto il loro servizio come volontari
Il primo ministro di Israele, Benjamin Netanyahu, ha invitato il Capo di Stato maggiore delle Forze di difesa israeliane (Idf), il generale Herzi Halevi, a contenere l’ondata di proteste portate avanti da centinaia di militari della riserva delle Idf contro la riforma della giustizia voluta dal governo. Lo ha reso noto il quotidiano israeliano “Hareetz”, secondo il quale a partire da oggi oltre 700 ufficiali, in particolare della Divisione operazioni speciali dell’intelligence militare e delle unità di guerra informatica, hanno interrotto il loro servizio come volontari. “Mi aspetto che il Capo di Stato maggiore militare e i capi dei rami dei servizi di sicurezza combattano con forza il rifiuto di prestare servizio”, ha detto il premier israeliano, sottolineando la necessità di “ripristinare l’equilibrio tra discrezione e responsabilità affinché siano preservati i diritti fondamentali dei cittadini israeliani, senza eccezioni”. “Uno Stato che desidera esistere non può tollerare tali fenomeni e non lo tollereremo neanche noi”, ha spiegato il premier durante una riunione del governo.
Il governo di destra guidato da Benjamin Netanyahu è accusato di voler portare avanti una riforma della giustizia che limita drasticamente i poteri della magistratura e darebbero al governo il controllo sulla nomina dei giudici. L’esecutivo Netanyahu sostiene che tali cambiamenti siano necessari per frenare una magistratura attivista, mentre l’opposizione e gli organizzatori delle proteste vedono la riforma come una minaccia fondamentale per i controlli e gli equilibri democratici di Israele che metteranno in pericolo la protezione delle minoranze, favoriranno la corruzione e danneggeranno l’economia.
Se è vero che l’accordo raggiunto a Pechino tra Iran e Arabia Saudita apre a cambi di scenario regionali — per esempio su dossier come lo Yemen e il Libano — è anche vero che uno dei Paesi che sente più direttamente quanto accaduto come una questione di interesse nazionale è Israele. Gerusalemme sta cercando di aprire i contatti con Riad — tramite una facilitazione americana complessa ma non impossibile. Contemporaneamente sta cercando di capire come muoversi con l’Iran — vedendo lo sviluppo del programma nucleare e l’attività di espansione delle milizie sciite regionali come due minacce esistenziali derivanti dalla Repubblica islamica.
• NARRAZIONI E INTERESSI Una maggiore stabilità politica in Libano e una ricostruzione degli equilibri in Yemen potrebbe facilitare lo sviluppo economico nelle sottoregioni del Mediterraneo orientale e del Mar Rosso, aree di interesse diretto per Israele, entrambe oggetto di importanti investimenti regionali dal 2020 — come per esempio la costruzione dell’I2U2, la partnership tra Israele, Emirati, Usa e India. Allo stesso tempo l’intesa simboleggia la prima uscita pubblica per la Cina nel nuovo ruolo diplomatico nella regione che Xi Jinping progetta anche come parte del forcing narrativo sulle iniziative strategiche globali pianificate. La Cina potrebbe sostituirsi alla Russia come grande potenza alternativa agli Stati Uniti nel Mediterraneo allargato, approfittando anche dell’indebolimento di immagine prodotto dall’invasione dell’Ucraina. Ciò solleva interrogativi sulla fiducia dell’Arabia Saudita nella capacità degli Stati Uniti, e in parte di Israele, di contenere e scoraggiare lo sviluppo nucleare dell’Iran e di proteggere il Regno da quello che percepisce come un accerchiamento iraniano.
• NUOVI EQUILIBRI, VECCHIE DINAMICHE “Da quando gli Stati Uniti hanno abbandonato l’accordo sul nucleare iraniano nel 2018, si è verificata una certa convergenza strategica tra i rivali regionali di Teheran. Gli Accordi di Abramo del settembre 2020 sono stati per esempio espressione, in parte, di un allineamento strategico più aperto tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein. Si ritiene che l’Arabia Saudita, o almeno il principe ereditario Mohammed bin Salman, sia favorevole a una collaborazione più stretta con Israele nel limitare il programma nucleare iraniano e nel resistere attivamente alla sua espansione regionale”, sottolinea Brandon Friedman del Moshe Dayan Center dell’Università di Tel Aviv con Formiche.net. Una domanda che l’accordo della scorsa settimana solleva sia a Washington che a Gerusalemme è proprio se l’Arabia Saudita crede ancora che gli Stati Uniti e Israele possano affrontare la marcia dell’Iran verso le armi nucleari. Per il governo di Benjamin Netanyahu non può essere un fattore di poco conto se si considera il valore che il primo ministro dà alla normalizzazione con Riad. Netanyahu ha detto spesso, da ultimo in un’intervista rilasciata a Repubblica in occasione del suo incontro con la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, di voler trovare un accordo diplomatico con l’Arabia Saudita: “Credo certamente che l’accordo di pace tra noi e i sauditi porterà a un accordo con i palestinesi”, ha detto toccando un tema infuocato in patria. “Ciò che si teme è che i sauditi si stiano chiedendo se gli Stati Uniti e Israele siano troppo preoccupati dalla politica interna israeliana e dall’escalation del conflitto con i palestinesi per contenere adeguatamente i progressi nucleari dell’Iran”, spiega Friedman. Ossia: i sauditi ritengono che, davanti a distrazioni israeliane e americane, forse sia meglio fare un accordo con l’Iran che tolga Riad dalla linea di fuoco? “In Israele, c’è chi sostiene che l’accordo con l’Iran dimostri che i sauditi ritengono che la convergenza strategica con Israele, simboleggiata dal discorso della rete di difesa aerea del Medio Oriente nell’estate del 2022, sia un peso eccessivo ora che Israele è sommerso da una crisi politica e da un’escalation del conflitto con i palestinesi. La notizia che il sovrano degli Emirati Arabi Uniti Mohammed bin Zayed ha deciso di congelare le acquisizioni di prodotti per la difesa da Israele alla luce dei recenti sviluppi interni in Israele sembrerebbe rafforzare questa linea di argomentazione”, aggiunge il docente dell’Università di Tel Aviv.
• I RAPPORTI NEL GOLFO NON SONO A SOMMA ZERO L’accordo solleva anche un’importante questione pratica per la cooperazione tattico-strategica saudita-israeliana. “Negli ultimi anni, è stato riferito che Riad è disposta a consentire a Israele di utilizzare lo spazio aereo saudita per effettuare un eventuale attacco militare contro il programma nucleare iraniano. Il nuovo accordo, tuttavia, sembra precludere questo tipo di cooperazione. Si potrebbe persino sostenere che la decisione dell’Iran di rinnovare i legami con l’Arabia Saudita sia un espediente per mettere un cuneo nell’allineamento strategico tra Israele e i rivali arabi dell’Iran nel Golfo”, aggiunge Friedman. Tuttavia, per quanto noto tra le condizioni per la normalizzazione delle relazioni con Israele, i sauditi hanno insistito su una garanzia di sicurezza americana e sull’aiuto degli Stati Uniti nello sviluppo di un programma nucleare civile. “Ciò suggerisce che Riad sta perseguendo strategie multiple e sovrapposte per far fronte alle sfide di sicurezza regionale a breve, medio e lungo termine. Forse più di ogni altra cosa, ciò che questo accordo simboleggia per l’Arabia Saudita è il desiderio di essere meno dipendente da una grande potenza per la sua protezione, mentre cerca di auto-rafforzarsi e diventare una potenza globale e regionale più indipendente”, ha scritto l’esperto israeliano in una recente analisi per il Middle East Institute della University of Singapore. La decisione di Riad di rinnovare i legami con Teheran è indubbiamente un colpo per gli sforzi di Israele di aumentare la pressione internazionale e regionale contro l’Iran in un momento in cui questa stava aumentando a causa dello stallo dei colloqui sul nucleare, della fornitura di droni alla Russia e della repressione delle proteste interne. Tuttavia, l’accordo non ostacola necessariamente una futura normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele – anche e le possibilità potrebbero essere in parte limitate dall’attuale politica israeliana nei confronti dei palestinesi. E probabilmente l’intesa non dissuaderà Israele dall’intraprendere azioni militari in futuro. Piuttosto, come ricordato da Raz Zimmit dell’INSS di Tel Aviv in un commento per Ispi, quanto accaduto a Pechino evidenzia che “il rapporto tra Iran, Stati del Golfo e Israele non è un gioco a somma zero”.
Giovedì un uomo che passeggiava nei pressi del villaggio moldavo di Zgurita, un tempo dimora di una vivace comunità ebraica, si è imbattuto in un ritrovamento particolare: una scatola con scritte in ebraico. Il tutto è accaduto mentre stava esplorando i resti di una casa abbandonata. L’uomo si è prontamente rivolto al Keren Kayemeth Le Israel Eurasia, una filiale del Fondo nazionale ebraico (JNF), per sapere qualcosa in più sull'origine del contenitore.
È stato scoperto infatti che il contenitore era una scatola di raccolta fondi risalente agli anni '20, che apparteneva ad una comunità ebraica che fu in gran parte spazzata via dalla Shoah. La Fondazione Tel Hai, scritta sopra la scatola ritrovata, era un fondo che si impegnava nella raccolta e distribuzione di denaro per il movimento sionista revisionista, con particolare attenzione alla promozione dell'insediamento nella Terra di Israele.
JNF ha acquistato la scatola dal residente moldavo e l'ha portata in Israele, dove sarà esposta in varie mostre in tutto il paese. Sembra che il box appartenesse alla comunità ebraica di Zgurita, composta all’epoca da circa 2.500 persone. Si trattava di un insediamento agricolo rumeno molto attivo prima della Seconda guerra mondiale. Il villaggio fu bombardato durante la guerra, causando la fuga di molti dei suoi residenti nelle foreste. Tuttavia, la maggior parte degli abitanti ebrei fu catturata e con ogni probabilità deportata o eliminata.
Abraham Greenside, presidente della World War II Veterans Alliance è uno dei pochi ebrei di Zgurita che è riuscito a sopravvivere alla guerra, ha infatti detto di avere molti ricordi di scatole come quella rinvenuta. "Ho un ricordo d'infanzia di una scatola adornata con un Magen David, si trattava di un box JNF blu che aveva un posto d'onore nella nostra sala da pranzo, quasi ogni famiglia aveva una scatola simile. Ogni tre mesi, la gente arrivava per aprire il contenitore e trasferire i fondi in un insediamento da qualche parte nella Terra d’Israele. Da bambini, tutti sognavamo di trasferirci lì", ha ricordato l’uomo. "Quando JNF mi ha contattato in merito al ritrovamento, mi sono sentito davvero felice della scoperta. Sono lieto di sentire che finalmente si può fare qualcosa di concreto per preservare questo importantissimo pezzo di storia" ha concluso.
"Rallegratevi continuamente nel Signore. Ripeto: Rallegratevi. La vostra mansuetudine sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino. Non angustiatevi di nulla, ma in ogni cosa fate conoscere le vostre richieste a Dio in preghiera e supplicazione, accompagnate da ringraziamenti. E la pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù" (Filippesi 4.4-7).
"Rallegratevi", non preoccupatevi", sono esortazioni che ricorrono spesso nella Bibbia. Ma quando ce le diciamo l'un l'altro, non sempre ottengono l'effetto voluto. Se con troppa disinvoltura e leggerezza ricordiamo a chi è triste e preoccupato che il cristianodeve essere sempre allegro e non deve preoccuparsi, rischiamo di aggiungere al peso che il fratello sta portando anche il peso della cattiva coscienza. Ma è una nostra congenita abilità, quella di trasformare ogni aspetto della grazia liberante di Dio in espressioni di legalismo opprimente. D'altra parte, c'è anche il rischio di considerare lo stato di preoccupazione come un aspetto del tutto normale e naturale della vita dell'uomo. "Dobbiamo imparare a convivere con le nostre paure", dice qualche persona "saggia" di questo mondo. Il che è come dire che dobbiamo imparare a convivere con i nostri peccati. Perché è ovvio che chi si tiene stretto al suo peccato, dovrà anche abituarsi a vivere in compagnia delle sue paure. Le preoccupazioni possono perfino diventare un segno di distinzione. Se uno non ha niente di cui preoccuparsi, vuol dire che non vale niente e non conta niente. "L'operaio e l'impiegato, dopo le loro otto ore di lavoro, se ne vanno a casa e non pensano più a niente", dice il proprietario d'azienda,"ma io spesso non chiudo occhio tutta la notte pensando ai guai della ditta". "Se i poveri sapessero quante preoccupazioni danno i soldi, non ci invidierebbero tanto", dice il miliardario tormentato dal pensiero dei suoi capitali che non sa dove investire. Le preoccupazioni possono anche servire a giustificare i nostri comportamenti di fronte a noi stessi e di fronte agli altri. Se ho tanti motivi per essere preoccupato, si può ben capire perché sono così nervoso e mi comporto in modo così strano. L'uomo preoccupato deve essere compreso, tollerato, compatito. E così alcuni si aggrappano ai loro problemi colle unghie e coi denti, e non li mollano più nemmeno per tutto l'oro del mondo. Ma dal vangelo sappiamo che le ansiose preoccupazioni della vita sono come le malattie, e come le malattie sono espressione di peccato, anche quando non si tratta di peccato personale. In Gesù Cristo, Dio ha detto il suo "no" al peccato, alla morte, alla malattia. Quindi anche le preoccupazioni devono essere tenute sotto il "no" di Dio, per quanto ci sembrino giustificate e inevitabili. Una parola di grazia che Dio ha continuamente ripetuto ai suoi servitori nel corso della storia della salvezza, e che per la prima volta rivolse ad Abramo, suo amico, è: "Non temere".
"Non temere, o Abramo, io sono il tuo scudo, e la tua ricompensa sarà grandissima" (Genesi 15.1).
"Non temere": questa è la parola che dobbiamo rivolgerci l'un l'altro, con l'autorità che ci viene dalle promesse di Dio. Ma dobbiamo ricordarci che è una parola di grazia e non una bacchettata sulle dita. Se diciamo a qualcuno "Non temere", dopo non dobbiamo aggiungere dentro di noi: "Vergognati, stai temendo!" Se siamo vicini a qualcuno il cui cuore vacilla, non serve a molto descrivergli la sua miseria: probabilmente la conosce fin troppo bene. E neppure serve "vacillare con lui": cadere in due non è molto più divertente che cadere da soli. Se il nostro fratello corre il rischio di dimenticare le promesse di Dio, noi dobbiamo ricordarle anche per lui; se il nostro fratello è tormentato dalla voce del tentatore che gli ripete: "A che vale la tua fede?", noi dobbiamo essere per lui la voce di Dio che dice: "Spera nell'Eterno! Sii forte, il tuo cuore si rinfranchi, sì, spera nell'Eterno!" (Salmo 27.14). Se Dio rivolge ai suoi servitori la parola: "Non temere", è perché sa che, come strumenti di Dio, essi si troveranno coinvolti nella lotta contro il male. E in questa lotta capiterà di aver paura. Ma è proprio nel mezzo di questa paura che arriva la parola di Dio "Non temere", ed è un'ancora di salvezza. Quando l'ansietà avrà stretto il cuore e annebbiato i pensieri, il servitore del Signore sarà quasi costretto a ricordare la parola di Dio eaggrapparsi ad essa. Subito dopo che l'Eterno ebbe rinnovato il suo patto con Abramo e questi ebbe udito la consolante parola: "Non temere", la Bibbiadice che "sul tramontar del sole, un profondo sonno cadde sopra Abramo; ed ecco uno spavento, un'oscurità profonda cadde su lui" (Genesi 15.12). Prima di ricevere nuova luce ed essere condotto nelle vie di Dio, lo strumento del Signore viene destabilizzato, privato della sua sicurezza e della sua capacità di discernimento, per essere costretto ad appoggiarsi soltanto sulle promesse di Dio. Gesù stesso, prima della morte, fu "spaventato e angosciato";la sua anima fu "oppressa da tristezza mortale" (Marco 14.33-34). Il Figlio di Dio stava per essere lasciato, senza difese, nelle mani degli uomini. Almeno in questo caso sappiamo per certo che l'angoscia di Gesù non era dovuta a qualche sua colpa personale. Ma proprio l'esempio di Gesù ci dice che l'ora della preoccupazione è anche l'ora della tentazione. Come la malattia ci indebolisce nel corpo, così l'ansietà ci indebolisce nella mente e nel cuore. L'avversario approfitta della debolezza della nostra carne per sferrare un attacco alla nostra fede. Proprio per questo, il momento della preoccupazione deve diventare un momento di preghiera. Non preoccupatevi, dice Paolo ai Filippesi, ma chiedete, supplicate, ringraziate (Filippesi 4:6-7) Dobbiamo chiederein modo preciso, senza rimetterci troppo presto a una generica "volontà di Dio". Se preghiamo nel nome di Gesù, sappiamo che Dio ci ha già accettati come interlocutori. Egli è curioso di sapere che cosa vogliamo da Lui, perché è anche sulla base delle nostre richieste che Egli forma la sua volontà. Dobbiamo supplicare, cioè dobbiamo dimostrare che le cose che chiediamo ci stanno veramente a cuore; dobbiamo perseverare, insistere, invocare il Signore se necessario "con gran grida e lacrime", come fece Gesù (Ebrei 5.7). Il nostro rapporto con Dio sarà forse tempestoso, ma sarà anche un reale colloquio con Lui, e non con il nostro avversario, come sarebbe invece se continuassimo a rimuginare i nostri pensieri ansiosi. E il Signore ci ascolterà sempre, anche se, essendo un Dio che parla, oltre che ascoltare chiederà che stiamo attenti a capire quello che ha da dirci attraverso le sue risposte, forse inaspettate. Dobbiamo ringraziare, perché solo così ci poniamo sul piano della grazia, nella consapevolezza che in Cristo abbiamo già ricevuto tutto ciò di cui abbiamo bisogno, prima ancora che glielo chiediamo. Quello che invece non dobbiamo fare, è proprio quello che quasi sempre facciamo: cioè cominciare a pensare efare progetti. L'uomo autonomo, padrone della sua vita, pensa e progetta. Pensieri e propositi concorrono a dirigere la sua vita. E quando questa gli sfugge di mano e rifiuta di farsi governare, inevitabilmente sopraggiunge la preoccupazione ansiosa. L'uomo cerca allora di uscirne fuori ricorrendo a nuovi pensieri e nuovi propositi, ma la cosa funziona solo per poco tempo. L'avversario ha buon gioco a tenere l'animo sempre in sospeso tra speranza e paura. Se la preoccupazione è un attacco sferrato alla mente e al cuore dell'uomo, è vano sperare di venirne fuori con pensieri e progetti: l'unica via d'uscita sono le preghiere, le suppliche e i ringraziamenti. Come nella malattia il corpo deve essere lasciato a riposo, così devono riposare pensieri e propositi nell'ora della preoccupazione. La mente e la volontà dell'uomo non sono state create per agire sotto l'impulso della paura, ma sotto quello dell'amore. Non deve quindi essere la paura a muovere i nostri pensieri e influenzare le nostre decisioni. La paura deve sconfiggersi da sola spingendo l'uomo a stringersi ancora di più al suo Dio.
"Nel giorno della paura, io confido in te" (Salmo 56.4).
Le preghiere che si rivolgono a Dio nei momenti della preoccupazione possono essere fatte alla luce della consolante promessa che Paolo ricorda ai Filippesi:
"E la pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù" (Filippesi 4.7).
L'uomo che aveva cercato invano di ottenere la sua pace con le sue opere, cioè mettendo in moto i suoi pensieri e i suoi propositi, riceve la confortante assicurazione che la pace di Dio gli viene data in dono. Questa pace "sorpassa" ogni intelligenza, il che significa che è fuori della portata di ogni umano pensiero. Non possiamo sperare di raggiungere la pace di Dio attraverso i nostri pensieri, ma, al contrario, è la pace di Dio che "custodisce i nostri cuori e i nostri pensieri in Cristo Gesù". L'uomo il cui cuore e la cui mente sono custoditi dalla pace di Dio, è un uomo che vive in sé stesso la vittoria di Dio sul male, e quindi può spandere la pace di Dio intorno a sé. Non saranno più le circostanze esterne a determinare il suo equilibrio, ma sarà il suo equilibrio in Dio a permettergli di riportare equilibrio alle cose intorno a sé. Non avrà più bisogno di spiare ansiosamente il tempo e le circostanze per sapere se l'oggi e il domani gli porteranno pace, perché la sua pace risiede saldamente nelle mani di Dio, e niente e nessuno potranno mai scuoterla e farla vacillare.
Come cerva che, assetata,
brama un limpido ruscel
così afflitta e contristata,
l’alma mia si volge al ciel.
E Ti cerca, o Dio d’amor,
e ti narra il suo dolor,
ed aspetta la parola
che conforta, che consola.
Ma tu tardi, e allor mi chiede
dei nemici Tuoi lo stuol:
«A che vale la tua fede?
il tuo Dio ti lascia sol!».
Ed il dubbio notte e dì
in me penetra così,
che resister più non giova
al torrente della prova.
Alma mia, non dubitare,
ma confida nel tuo Re,
quand’Ei sembra più tardare,
non temere, Egli è con te.
L’ora attesa alfin verrà
che vittoria ti darà
e all’Iddio tre volte santo
scioglierai di lode un canto.
Cosa cambia per Usa e Israele nel Golfo? Risponde Fontenrose
L’esperta, già a capo del desk Golfo al Consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca, commenta l’intesa mediata da Pechino: “Non riduce in alcun modo il ruolo di Washington nella regione. Tel Aviv non deve temere contraccolpi sulla normalizzazione con l’Arabia Saudita”.
La Cina è il Paese che ha “venduto” ad Arabia Saudita e Iran gli “strumenti per combattersi e ne è uscito in qualche modo come un paciere”, spiega Kirsten Fontenrose, nonresident senior fellow della Scowcroft Middle East Security Initiative presso l’Atlantic Council di Washington DC, nel 2018 senior director per il Golfo nel Consiglio per la sicurezza nazionale della Casa Bianca di Donald Trump. Dunque, la Cina “è il vincitore di questo accordo” per la ripresa delle relazioni diplomatiche fra Arabia Saudita e Iran, interrotte dal 2016. Riad e Teheran continueranno a essere rivali, però.
- Come mai? L’accordo non è una partnership, ma un patto di non aggressione. Nessuna delle due parti è scesa a compromessi per siglarlo. E sebbene sia un segnale positivo della loro volontà di ridurre le tensioni, non dovremmo avere troppe aspettative.
- Cosa dovremmo aspettarci, invece? Possiamo aspettarci che i sauditi rimangano purtroppo delusi. L’Iran ha riarmato gli Houthi da quando il cessate il fuoco è scaduto lo scorso autunno. In questo modo gli Houthi possono riprendere gli attacchi contro l’Arabia Saudita e l’Iran può sostenere una negabilità e quindi di non aver violato l’accordo.
- Che effetti ha questo accordo sul ruolo degli Stati Uniti nella regione? Questo accordo non riduce in alcun modo il ruolo degli Stati Uniti nella regione o l’importanza delle relazioni con gli Stati Uniti per l’Arabia Saudita. In realtà, l’Iran era disposto a fare questo accordo solo perché sperava di aumentare le distanze tra Riad e Washington e di spingere gli Stati Uniti fuori dal Golfo, uno degli obiettivi politici apertamente dichiarati da Teheran. Questo non accadrà.
- E per Israele nella prospettiva dell’allargamento degli Accordi di Abramo? Israele non deve temere che questo accordo riduca le possibilità di normalizzare le relazioni con l’Arabia Saudita. Le due priorità del Regno sono assicurarsi contro le minacce iraniane e rafforzare la propria economia. Gli accordi con Israele e con l’Iran sono fondamentali per la prima. Ma l’Iran non può contribuire in modo significativo alla seconda, mentre Israele sì. E qualsiasi pressione iraniana per non perseguire relazioni con Israele sarà completamente ignorata da un principe ereditario concentrato sugli obiettivi di sviluppo.
- Esiste uno spazio d’azione per l’Europa in questo contesto? L’Europa dovrebbe incoraggiare la distensione. Per essere particolarmente utile, l’Europa potrebbe chiarire a Teheran che qualsiasi attacco all’Arabia Saudita dall’Iraq o dallo Yemen con munizioni fornite o sostenute dall’Iran sarà considerato dall’Europa una violazione dell’accordo.
Israele, l'intelligenza artificiale per identificare chi soffre di gioco patologico
Una startup israeliana brevetta un sistema che utilizza l'intelligenza artificiale per identificare i giocatori che soffrono di gioco patologico analizzando i loro comportamenti abituali. Come aiutare gli operatori a rilevare potenziali dipendenze dal gioco tra i loro utenti? La soluzione arriva da Israele, e precisamente dalla startup Optimove, a cui si deve l'ideazione di un sistema che utilizza l'intelligenza artificiale per analizzare i comportamenti abituali dei giocatori online. Tale tecnologia, già adottata da diverse società internazionali, permette di riconoscere gli schemi di approccio al gioco, il numero di ore, diurne e notturne, che l'utente trascorre sulla piattaforma, l'attitudine a "inseguire le perdite", e sulle base di tutti questi aspetti assegna a ciascun utente una classificazione in base al suo comportamento. Se viene riconosciuta una potenziale dipendenza dal gioco, il giocatore riceverà meno materiale promozionale sulla piattaforma, mentre si moltiplicheranno i messaggi che incoraggiano a ridurre le scommesse, fare delle pause e cercare un aiuto professionale. "L'algoritmo che abbiamo sviluppato raccoglie dati da molte fonti, comprese le transazioni precedenti, i giochi su cui si concentra lo scommettitore, l'analisi delle interazioni con il servizio clienti e altro ancora", sottolinea Jonathan Inbar, direttore dei servizi strategici di Optimove. "E necessario analizzare la persona, perché la stessa scommessa può essere fatale in un caso, e irrilevante in un altro". Per capire queste piccole differenze e attuare una politica efficace di contenimento dei rischi per la prevenzione del gioco compulsivo quindi la soluzione può arrivare proprio dall'intelligenza artificiale, sempre più diffusa nella nostra quotidianità.
Ma qual è stato il fattore scatenante dell’effetto Israele? La “fame” (un mix potete di necessità e volontà) di evolvere per non estinguere, che ha a sua volta alimentato una politica volta all’innovazione, di cui oggi Israele è uno dei leader mondiali
Nel 1827, Alessandro Manzoni si era recato a Firenze per risciacquare i panni in Arno, sottoponendo alla definitiva revisione linguistica quello che sarebbe diventata una delle opere cardine della letteratura italiana: “I promessi sposi”. Se il mastodontico autore italiano fosse stato un manager del Terzo Millennio, probabilmente i panni li avrebbe risciacquati in Israele che, dal 2009, ha acquisito lo status di Startup Nation, con una densità d’innovazione paragonabile soltanto a quella della Silicon Valley. Se lo si “pesa” in termini di estensione territoriale, Israele è un piccolo Paese, con una popolazione vicina ai dieci milioni di persone e poche risorse naturali. Infatti, il suo esodo dall’essere “piccolo” a “gigante”, si è innescato passando da un’economia prevalentemente agricola e manifatturiera ad un sistema basato sull’innovazione tecnologica in ogni ambito, capace di produrre ricchezza e valore, attraendo investitori e imprese straniere. Da imprenditore, il nostro Manzoni sarebbe probabilmente stato parte della compagine del viaggio studio in Israele sul trasferimento tecnologico recentemente organizzato dalla SEAC di Trento, azienda italiana leader nei servizi partecipata da Confcommercio, con il coinvolgimento di Ascom Bra nella persona del direttore Luigi Barbero. Tutti a risciacquare i panni nell’ecosistema israeliano, fatto di Open Innovation, forte orientamento all’interconnessione fra le persone, efficace collaborazione fra pubblico e privato e presenza di capitali di tutto il mondo. Proprio Tel Aviv, a fine 2022, è diventata base di un hub congiunto dedicato all’innovazione secondo l’intesa tra A2A e il fondo di investimento tecnologico israeliano Sibf. Obiettivo primario? Favorire la condivisione di know how ed expertise per la valutazione delle reciproche opportunità di investimento in startup, sia italiane che israeliane, con un forte focus sul tema della transizione ecologica. Ma qual è stato il fattore scatenante dell’effetto Israele? La “fame” (un mix potete di necessità e volontà) di evolvere per non estinguere, che ha a sua volta alimentato una politica volta all’innovazione, di cui oggi Israele è uno dei leader mondiali. E qual è, allora, il substrato che ha reso possibile la costruzione di questo processo di innovazione? Prima fra tutti, c’è l’unicità dello Stato, che ha da sempre rapporti ostili i “vicini” di casa, ma che ha imparato molto più che a difendersi, diventando un modello di integrazione e civiltà con le sue oltre settanta etnie e tre grandi religioni. Valorizzando le diversità, ha già vinto la sfida per sopravvivere e per crescere economicamente, stimolando continuamente le persone a trovare – o creare – soluzioni, dalla convivenza alla gestione d’impresa. L’innovazione e la tecnologia lo strumento per realizzare tutto questo in un contesto di diversità, tolleranza e talento. Poi c’è il fattore anagrafico: Israele è un paese giovane, sotto tutti i punti di vista, e questo permette a tutti gli attori dell’innovazione (scuola, associazioni di categoria, istituzioni, ecc.) di non ingessarsi in pratiche consolidate. Inoltre, un sistema educativo che funziona e la leva obbligatoria improntata allo sviluppo di competenze tecnologiche e manageriali (tre anni per i ragazzi e due per le ragazze) stimolano il piacere della cultura e l’istinto imprenditoriale, tanto che Israele sale al terzo posto sul podio dei Paesi più istruiti al mondo. Evolversi per non estinguersi. Per Israele, essere sempre un po’ più avanti dei Paesi vicini, è una questione di sopravvivenza. Così facendo, la multiculturalità diventa il paracadute naturale di una straordinaria apertura internazionale che si concretizza nella grande propensione a collaborare con partner esteri per realizzare progetti innovativi.
Il tutto condito da azioni pubbliche mirate di supporto: lo Stato, infatti, finanzia la ricerca come nessun altro al mondo (4,54% del PIL investito in ricerca contro poco più dell’1% dell’Italia - dati 2019). Pubblico e privato sanno collaborare e marciare nella stessa direzione. Con questi presupposti, il welfare aziendale non potrebbe non essere molto sviluppato. La “fede” nell’innovazione stimola le aziende a creare un ambiente vivibile, divertente e motivante, investendo tempo e risorse per il benessere e la felicità dei lavoratori. D’altronde, “l’innovazione aperta è un gioco dalle mille sfaccettature”, ci rammenta Alexander Osterwalder, co-autore di Business Model Generation. Non esiste, dunque, un proiettile d’argento nell’arena dell’Open Innovation, ma molteplici approcci e modelli complementari mirati a obiettivi e orizzonti di innovazione diversi. E l’Italia, come se la gioca questa partita? Secondo l’ultimo rapporto annuale realizzato da Mind The Bridge, le aziende del Bel Paese sono sempre più aperte al modello dell’Open Innovation. A dispetto di questa incredibile propensione al cambiamento, sono davvero pochissime quelle che riescono ad attuarlo in maniera concreta ed efficace. Cosa fa da freno? Alla domanda specifica, il limite principale percepito dagli imprenditori intervistati riguarda la scarsità di risorse finanziarie (soprattutto per le società con meno di cinque dipendenti). Come facilmente prevedibile, fa poi capolino la sempre maggiore complessità burocratica nel partecipare a bandi pubblici che mettono a disposizione capitali di partenza importanti. Purtroppo, la categoria dei credenti, ma non praticanti per via di questi due grandi ostacoli, è proprio quella delle PMI - piccole e medie imprese, che costituisce di loro la spina dorsale dell’industria italiana ed europea. Risultato di questa analisi è che è l’identità stessa dell’Open Innovation a imporci un cambiamento significativo di visione: dopo l’era del modello unico e verticale, scatta quella dei modelli complementari multipli. Non a caso, sempre più aziende italiane mettono piede nei principali centri dell’innovazione, aprendosi a forme di collaborazione mai sperimentate prima. Silicon Valley e Israele rimangono i principali bacini di questa pesca al progresso economico, ma prima di tutto culturale. Prendiamo gli imprenditori della Silicon Valley: raramente mantengono il controllo della propria start-up dopo le exit, ma reinvestono continuamente il loro capitale finanziario, la loro esperienza, la loro rete di contatti e la loro conoscenza nella creazione di nuove imprese, in una sorta di “imprenditorialità seriale” che caratterizza il mindset (mentalità) di questa terra unica nei modelli di business. Mentre la Silicon Valley si fa forza nel “patto di sangue” tra università e imprese (mantenendo il mercato statunitense come riferimento), l’effetto WOW di Israele vive nel perfetto allineamento di interessi tra startup, imprese, multinazionali, Governo e scuola (università). Ciascuno mette qualcosa in più (investe) e ottiene di più. Una mentalità che, ad oggi, guida anche le scelte delle persone, oltre a quelle delle aziende. Perché in uno Stato, come in un territorio, in un’azienda o in una famiglia, la chiave del successo sta proprio qui: nel raggiungere insieme ciò che ciascuno vuole raggiungere. Direbbe Manzoni: “Un matrimonio che s’ha da fare”, per un buon oggi e un domani migliore.
Al Complesso Ebraico di Casale Monferrato una mostra per gli ebrei di Salonicco
Domenica 19 marzo, alle 16, nel Complesso Ebraico di Casale Monferrato in vicolo Salomone Olper si inaugura la mostra storico- documentaria: “Ebrei di Salonicco 1492-1943 – La diplomazia italiana e l’opera di rimpatrio”.
La mostra, allestita in Sala Carmi, è realizzata dalla Fondazione Casale Ebraica ETS in collaborazione con il Museo Ebraico di Bologna e curata da Franco Bonilauri, Vincenza Maugeri e Giacomo Saban (z’l’). L’inaugurazione sarà introdotta da Daria Carmi, Curatrice del Museo dei Lumi ci Casale.
Il percorso espositivo illustra uno spaccato della presenza ebraica a Salonicco, città che è stata per secoli uno straordinario crogiolo di etnie e di culture; annessa alla Grecia nel 1912, aveva conservato la propria impronta cosmopolita, con una persistente maggioranza di popolazione ebraica, la cui presenza si datava dalla metà del XV secolo, quando divenne una delle mete dell’espulsione degli ebrei sefarditi dalla penisola iberica.
L’esposizione si incentra poi principalmente sulla singolare vicenda del salvataggio degli ebrei italiani a Salonicco nel 1943, grazie all’azione dei Consoli italiani Guelfo Zamboni e Giuseppe Castruccio.
Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, gli ebrei salonicchioti di nazionalità italiana erano alcune centinaia. Nell’aprile del 1941, a Salonicco venne firmata la resa dell’esercito greco alle forze nazifasciste.
Nel 1943, il Console italiano Guelfo Zamboni – oggi iscritto a Gerusalemme nell’elenco dei “Giusti tra le Nazioni” – e il suo successore Giuseppe Castruccio organizzarono la tradotta che mosse da Salonicco nella notte del 15 luglio, consentendo la fuga degli ebrei italiani verso Atene, zona di occupazione controllata dal Regio Esercito italiano, sottraendoli all’atroce destino dello sterminio ad Auschwitz.
L’ingresso è gratuito, la mostra sarà visitabile fino al 16 aprile negli orari e modalità di apertura del Complesso Ebraico. Informazioni su www.casalebraica.org, tel. 014271807.
Il ministro della Salute tedesco Karl Lauterbach, che una volta ha affermato che la vaccinazione contro il COVID-19 è priva di effetti collaterali, ha ammesso la scorsa settimana di essersi sbagliato, affermando che le reazioni avverse si verificano al ritmo di una dose su 10.000 e possono causare “gravi disabilità”. Il 14 agosto 2021, Lauterbach ha dichiarato su Twitter che i vaccini non hanno “alcun effetto collaterale”, mettendo ulteriormente in dubbio il motivo per cui alcuni tedeschi si sono rifiutati di vaccinarsi contro il COVID-19. Durante un’intervista a “Heute Journal” della ZDF il 12 marzo, Lauterbach è stato intervistato dal giornalista Christian Sievers sull’affermazione fatta nell’estate del 2021. Lauterbach ha risposto che il tweet era “fuorviante” e una “esagerazione” che aveva fatto all’epoca, notando che “non rappresentava la mia vera posizione”.
• Vaccini Covid-19 L’osservazione di Lauterbach sugli eventi avversi da vaccino è arrivata dopo che la rete tedesca ha trasmesso un segmento di diversi tedeschi che sono stati gravemente feriti dopo aver ricevuto l’iniezione, tra cui una ginnasta di 17 anni che in precedenza aveva gareggiato nei campionati tedeschi di ginnastica artistica prima di essere ricoverata in ospedale per più di un anno poco dopo aver ricevuto la seconda dose del vaccino COVID-19 della BioNTech. “Cosa dice a coloro che sono stati colpiti da lesioni da vaccino?”. Sievers ha chiesto a Lauterbach. “Quello che è successo a queste persone è assolutamente sconcertante, e ogni singolo caso è uno di troppo”, ha risposto Lauterbach. “Onestamente mi dispiace molto per queste persone. Ci sono gravi disabilità, alcune delle quali saranno permanenti”. Steve Kirsch, direttore esecutivo della Vaccine Safety Research Foundation, non è d’accordo con Lauterbach, ma ha elogiato il ministro della Salute per aver fatto “progressi” quando ha confrontato la sua ultima osservazione con i suoi precedenti commenti sulla sicurezza e l’efficacia del vaccino COVID-19. “Il vero tasso di avversi gravi è il numero di casi che si verificano ogni giorno.
• Cause legali in corso “Il numero di segnalazioni di casi individuali al mese ha raggiunto il picco nel dicembre 2021 ed è proseguito fino all’estate”, secondo l’agenzia federale, che dipende dal Ministero della Salute tedesco. Nonostante questi risultati, il sito web del Ministero della Salute del Paese afferma, al 16 marzo, che “i vaccini moderni sono sicuri e gli effetti avversi si verificano solo in casi sporadici”. Poiché il tema delle lesioni post-vaccino ha iniziato a essere trattato più diffusamente da alcuni media tedeschi, sono iniziate le cause legali contro BioNTech e anche contro altri produttori del vaccino COVID-19. I produttori di vaccini, come Pfizer e Moderna, godono dell’immunità da responsabilità se qualcosa va involontariamente storto con i loro vaccini, il che li pone in una posizione legale molto forte. “È vero che nell’ambito di questi contratti UE, le aziende sono state ampiamente esentate dalla responsabilità e che quindi la responsabilità ricade sullo Stato tedesco”, ha detto Lauterbach.
• Curare post vaccinazione Tuttavia, nonostante ciò, il ministro della Salute ha osservato che sarebbe una buona idea se le aziende biofarmaceutiche “mostrassero la volontà di aiutare” le persone colpite da eventi avversi ai vaccini, soprattutto a causa dei loro profitti esorbitanti. Lauterbach ha detto che la priorità ora è facilitare la cura di coloro che soffrono di sindrome post-vaccinazione. Ha aggiunto che sta “negoziando con la commissione per il bilancio” per lanciare un programma per aiutare i feriti. “È qualcosa che dobbiamo portare a compimento, è un obbligo, e metterebbe in rete gli esperti del settore in modo tale da aumentare le probabilità di una buona terapia in Germania”, ha detto.
Fallisce la mediazione di Herzog. Si va alla resa dei conti e alla spaccatura
Il presidente d’Israele Isaac Herzog ha presentato la sua proposta di compromesso per sostituire la radicale riforma della giustizia promossa dal governo Netanyahu. Ha invitato entrambe le parti a “non distruggere il paese”, ma piuttosto a cogliere l’opportunità di “un momento costituzionale formativo”. Herzog ha anche messo in guardia da “una guerra civile”. I leader dell’opposizione, Yair Lapid e Benny Gantz, hanno accolto il piano di Herzog, respinto dal premier Benjamin Netanyahu. “Gli elementi centrali della proposta del presidente Herzog perpetuano semplicemente la situazione esistente e non portano il necessario equilibrio tra i rami, questa è la sfortunata verità”, ha detto Netanyahu in visita ieri a Berlino. Questa dovrebbe essere l’ora più bella di Assaf Sagiv, uno dei principali pensatori conservatori di Israele e ideologi della coalizione di governo. Dopotutto, un governo di destra potrebbe attuare ciò che Sagiv predica da anni. Ma è spaventato e non è il solo. Anche il Kohelet Policy Forum di destra invita alla cautela su una riforma che ha aiutato a scrivere e ispirare.
Israele è dunque nell’impasse più totale. Sembra di rivivere l’atmosfera degli Accordi di Oslo che spaccarono in due il paese. Yitzhak Rabin e il suo architetto di quegli accordi, Shimon Peres, cercarono di mettere in atto un cambiamento radicale, epocale, senza costruire consenso a loro sostegno. Oggi si ritiene acclarato che il “peccato originale” degli Accordi di Oslo fu quello di essere stati negoziati in gran segreto e poi, all’improvviso, adottati come una politica senza possibilità di ritorno.
Si può essere favorevoli o contrari alle riforme giudiziarie proposte, ma non c’è dubbio che esse costituiscono un tentativo di cambiare la società israeliana e lo stato ebraico, creatura fragile e da irrigare in un ambiente ostile, ha bisogno di tutte le cure possibili per evitare una lacerazione a dir poco onerosa. Conflitti, disordini, slogan incendiari, paralisi del paese. Almeno per ora.
Il Foglio, 17 marzo 2023)
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Riforma giudiziaria: il governo di Netanyahu rifiuta il compromesso. E Israele affronta ancora le proteste
di Giovanni Panzeri
Nel corso della giornata di giovedì 16 marzo, come succede ormai da più di due mesi, migliaia di cittadini israeliani si sono riversati in strada per protestare contro la riforma del sistema giudiziario, in quella che definiscono un’“escalation contro la dittatura”. Ma le proteste di questo giovedì, secondo il Times of Israel, si possono anche leggere come una reazione al netto rifiuto opposto dal governo al piano di compromesso presentato dal Presidente Herzog. La proposta in questione, definita da Herzog il “piano del popolo”, include alcuni elementi della riforma ma “protegge la democrazia e preserva l’indipendenza del sistema giudiziario, assicurando il rispetto dei diritti di tutti i cittadini Israeliani”. “Chi pensa che una guerra civile non sia possibile, non ha idea della situazione in cui ci troviamo” ha dichiarato il presidente Herzog, esortando le parti ad accettare il compromesso “siamo a un soffio dall’abisso”. Il suo piano si è tuttavia subito scontrato con la ferma opposizione del governo. “La proposta del presidente non è stata formulata in accordo con la maggioranza, e i suoi contenuti centrali non fanno altro che riproporre la situazione attuale” ha dichiarato il primo ministro Netanyahu, in visita a Berlino, “insomma, non apportano i cambiamenti necessari a garantire un vero equilibrio tra le istituzioni”. Gli hanno fatto eco le dichiarazioni dei rappresentanti della coalizione di governo che, senza giri di parole, hanno definito il piano di Herzog “unilaterale, di parte e inaccettabile”. Il piano ha invece riscontrato l’approvazione, non priva di remore, dei leader di opposizione che, durante una conferenza stampa congiunta, hanno condannato il rifiuto del governo. “Il governo ha rifiutato il piano senza prendersi neanche il tempo di studiarlo” ha affermato Yair Lapid, leader di Yesh Atid “Non è ciò che avremmo voluto, ma è un compromesso che ci permetterebbe di convivere. In una guerra civile ci sarebbero solo perdenti”.
Netanyahu: siamo una democrazia liberale viva e lo rimarremo
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu, in conferenza stampa con il cancelliere tedesco Olaf Scholz, ha promesso che "non arretreremo di un millimetro" sulla democrazia.
"Siamo una democrazia liberale e lo rimarremo". Lo ha detto il premier israeliano Benyamin Netanyahu in conferenza stampa con il cancelliere tedesco Olaf Scholz a Berlino. "La democrazia israeliana è forte e viva e su questo non arretreremo di un millimetro".
"Ci sono critiche alla riforma della giustizia. Ma non sono giuste. Israele ha una giustizia indipendente. Ma una giustizia indipendente non è una giustizia onnipotente", ha evidenziato il premier israeliano davanti ai media in Cancelleria.
"Posso andare contro le accuse solo dimostrando il contrario nei fatti", ha continuato Netanyahu, sottolineando ad esempio di voler "liberalizzare l'economia" del paese. "Noi rafforzeremo i diritti umani, i diritti delle donne e della comunità Lbgtqi", ha aggiunto.
"Da buoni amici di Israele osserviamo con attenzione e, non lo nego, anche molta preoccupazione" la riforma della giustizia in Israele, ha detto da parte sua Scholz.
"Il nostro auspicio è che Israele resti una democrazia liberale. Abbiamo sentito queste parole e per noi questo è importante. Una democrazia offre sicurezza non solo per la maggioranza, ma anche per le minoranze. Vedremo come le cose si sviluppano. Sono fiducioso che riuscirà e questo è anche il mio auspicio", ha rimarcato il cancelliere rispondendo alla domanda se la sicurezza di Israele sia per la Germania "ragione di Stato in modo incondizionato". Incalzato di nuovo sul punto, Scholz ha ripetuto: "Certo, la sicurezza di Israele è ragione di Stato per la Germania".
Quanto all'Iran, Netanyahu ha ribadito che "dobbiamo evitare che (...) abbia le armi atomiche". "Israele farà tutto il necessario per difendersi", ha avvertito. Anche il cancelliere ha citato la questione, dicendosi altrettanto preoccupato dell'arricchimento dell'uranio.
Israele ha una mappa contro l’Iran: va dall’Ucraina all’Asia centrale
di Davide Cancarini
MILANO - Maestra nello sviluppare apparati difensivi – basti citare il sistema antimissile Iron Dome – Israele ha deciso di approvare la fornitura all’Ucraina di strumentazione anti-drone. Come riportato dal portale Axios, il via libera sarebbe arrivato a metà febbraio e la diffusione della notizia ha portato alcuni funzionari israeliani a sottolineare la natura prettamente difensiva del sistema oggetto dell’intesa. Al di là di queste precisazioni, l’obiettivo è supportare Kyiv nel contrasto ai droni iraniani che Mosca sta utilizzando sul teatro ucraino. Quello compiuto dallo stato ebraico è un passo importante: non solo dal punto di vista militare, ma anche e soprattutto da quello del confronto sempre più serrato con l’Iran.
Confronto senza esclusione di colpi: Israele sta infatti anche per inaugurare una propria rappresentanza diplomatica stabile in Turkmenistan. Di per sé la notizia sembrerebbe interessante solo per i sovietologi più accaniti, ma in realtà ha una valenza geopolitica notevole. Ricchissimo di gas naturale, il Turkmenistan possiede infatti una caratteristica inestimabile agli occhi dello stato ebraico: condivide un confine con l’Iran lungo quasi 1.200 chilometri e la capitale, Ashgabat, si trova a soli 20 chilometri dal territorio iraniano.
Ecco spiegata quindi l’enfasi con cui l’annuncio dell’imminente apertura dell’ambasciata permanente – che sarà la rappresentanza diplomatica israeliana più vicina di sempre al confine iraniano – è stato dato ai media ebraici. A confermare ulteriormente la rilevanza della mossa, il fatto che Eli Cohen, ministro degli Esteri israeliano, sarà presente in Turkmenistan all’inaugurazione, la cui data ufficiale non è ancora stata comunicata. Il quotidiano Israel Hayom ha sottolineato il fatto che l’apertura è un chiaro messaggio inviato da Gerusalemme a Teheran circa il ruolo crescente che Israele gioca nella regione nel suo complesso, a tutto svantaggio dell’influenza della repubblica islamica. Cohen ha invece tenuto una posizione più vaga, dichiarando la rilevanza della relazione bilaterale tra Israele e Turkmenistan e il fatto che lo sbarco diplomatico ad Ashgabat si inserisce nella più ampia strategia israeliana rispetto alle repubbliche dell’Asia centrale.
Del progetto si parla da quasi quindici anni. Nel maggio 2009, Israele indicò il nome di Reuven Dinel come ambasciatore senza sede ufficiale, proposta accolta con fortissime proteste da parte della repubblica islamica a causa del presunto passato del funzionario di agente del Mossad. Nel 2013, finalmente la prima nomina: Shemi Tzur divenne infatti rappresentante diplomatico non residente ad Ashgabat.
Allargando lo sguardo al contesto regionale, la notizia relativa alla sede diplomatica segue di pochi giorni l’indiscrezione riportata da Haaretz secondo la quale l’Azerbaigian, l’altro paese confinante con l’Iran in cui Israele dispone di un’ambasciata, sarebbe disposto a consentire a Gerusalemme di utilizzare il suo territorio nel caso in cui il minacciato attacco agli impianti nucleari iraniani si concretizzasse. La cooperazione militare tra lo stato ebraico e quello azero è infatti significativa e si è ulteriormente intensificata dopo le ultime tensioni in Nagorno-Karabakh. La corsa alla crescita del peso regionale negli scorsi mesi ha visto però anche l’Iran battere un colpo: a metà 2022 Teheran ha infatti inaugurato in Tagikistan un sito per produrre i droni Ababil-2 – apparecchi non troppo sviluppati ma economici, flessibili e dal facile utilizzo – ufficialmente destinati alle forze armate tagiche. Anche in questo caso, però, la realtà sembra risiedere altrove. Lo sbarco produttivo sul territorio del paese centro asiatico servirebbe infatti alla repubblica islamica come scudo per proteggere la sua capacità militare, considerando che difficilmente Gerusalemme si spingerebbe a colpire un sito in Tagikistan. La partita tra Israele e Iran è incalzante e l’Asia centrale, così come l’Ucraina, è un fronte di confronto non più così secondario.
L’accordo Iran-Arabia Saudita non è una sconfitta di Israele
di Ugo Volli
• I PROTAGONISTI
E’ passata una settimana dall’accordo di ristabilimento delle relazioni diplomatiche fra Iran e Arabia Saudita e non vi è stata finora una sufficiente attenzione della stampa internazionale per questo evento, che pure è molto significativo. I due protagonisti sono infatti i più potenti stati musulmani del Medio Oriente. L’Iran ha circa 90 milioni di abitanti, un esercito forte, un progetto di armamento atomico quasi realizzato, grandi giacimenti di materie prime fra cui il petrolio, una popolazione avanzata e ben istruita, anche se protagonista di una resistenza accanita contro la dittatura degli ayatollah; e infine è il centro culturale e religioso dell’Islam sciita. L’Arabia ha circa 36 milioni di abitanti, i maggiori giacimenti petroliferi del mondo, una grande ricchezza accumulata. Con i luoghi santi della Mecca e di Medina esercita una grande influenza su tutto l’Islam, in particolare quello sunnita ed è al centro del sistema regionale di alleanze che si estende dall’Egitto agli Emirati, dalla Giordania al Sudan. L’Arabia è alleata tradizionale degli Stati Uniti, l’Iran è loro nemico dalla vittoria della rivoluzione di Khomeini nel 1978-79 e attualmente è legato alla Russia da un patto militare che ha permesso ai russi di rifornirsi di armi e soprattutto droni in cambio della fornitura di aerei avanzati SU35 all’Iran.
• L’ACCORDO
I due paesi, da decenni in disaccordo, avevano rotto le relazioni diplomatiche cinque anni fa, in seguito agli attacchi missilistici dei ribelli yemeniti Houthi, armati e diretti dall’Iran, contro campi petroliferi, aeroporti e perfino la capitale saudita. Ora hanno deciso di riaprire le rispettive ambasciate e probabilmente di tentare di collaborare sul piano finanziario e industriale. Non si tratta certamente di un’alleanza, ma della normalizzazione di una delle faglie di estrema tensione in Medio Oriente. Come ha sottolineato su Shalom Pietro Di Nepi, l’accordo è stato stretto con l’aiuto, anzi a quanto pare dopo una forte insistenza della Cina, che ha interessi nei due stati, è loro grande cliente per le forniture petrolifere e sta anche aprendo basi militari all’ingresso del Mar Rosso nell’ambito del suo sforzo di penetrazione in Africa. Il successo della Cina consiste soprattutto nell’aver mostrato di essere la potenza determinante nella regione, nonostante lo sforzo degli Stati Uniti, che risale ai tempi di Obama, di trovare un accordo con l’Iran, senza perdere del tutto il ruolo di protettore dell’Arabia. Di fatto le mosse americane dopo le due “guerre del golfo” sono state percepite nella regione come un ritiro progressivo, in qualche modo una sconfitta strategica: anche se restano truppe americane in diversi stati del Medio Oriente e vi sono alleati importanti, fra cui innanzitutto Israele, non sono più chiari gli obiettivi strategici americani nella regione, le forze impiegate diminuiscono e la garanzia sugli alleati è sempre meno credibile. E’ così che si è aperto lo spazio per la Cina, che è il vero avversario strategico degli Usa.
• IL SENSO DELL’ACCORDO
In Medio Oriente qualcuno ha presentato l’accordo come se isolasse Israele e fosse dunque una vittoria dell’Iran. Non è così. Nella regione l’Arabia è il capofila degli stati che vogliono mantenere la calma geopolitica, l’Iran è il principale fomentatore di rivolte e il solo vero imperialista. Ha truppe in Libano, Siria, Iraq, Yemen e sostiene movimenti sovversivi in questi stati e anche negli Emirati, in Bahrein, a Gaza, in Giudea e Samaria e perfino in Arabia. Si è dato spesso esplicitamente lo scopo di abbattere i regimi sunniti filo-occidentali (e naturalmente di distruggere Israele) e ha incoraggiato i suoi satelliti Houthi ad attaccare l’Arabia dallo Yemen. Anche le navi petroliere provenienti dai porti arabi sono state spesso attaccate dalle “guardie rivoluzionarie” iraniane nel Golfo persico e nell’Oceano indiano: una serie di attacchi che hanno certamente danneggiato l’industria petrolifera saudita. L’accordo attuale implica certamente la sospensione, se non la rinuncia, a questi atti di ostilità, un ritorno alla calma che dev’essere stato garantito ai sauditi dalla Cina, la quale perderebbe la faccia se intervenissero ulteriori provocazioni iraniane. Dunque bisogna pensare che gli accordi limitino l’aggressività politica dell’Iran e garantiscano l’Arabia. Bisognerà vedere se l’estremismo che caratterizza la politica degli ayatollah permetterà che questi vincoli tengano; ma non risulta che l’Arabia abbia promesso nulla in cambio della calma.
• E ISRAELE?
Gli stessi osservatori che presentano l’accordo erroneamente come una vittoria dell’Iran tendono a sostenere che si tratta di una sconfitta per Israele e in particolare della fine degli accordi di Abramo. E’ improbabile che le cose stiano in questi termini. La diffidenza nei confronti dell’Iran, che è uno dei motivi (non il solo) degli accordi di Abramo, ha ragioni geopolitiche e di orientamento religioso che vanno ben al di là della ripresa delle relazioni diplomatiche. Fra Israele e gli Emirati vi è ormai una collaborazione economicamente importantissima, che potrebbe estendersi anche all’Arabia e all’Oman. E infatti, quasi in contemporanea con l’accordo, sono state rese note delle condizioni che l’Arabia Saudita ha chiesto agli Usa per entrare anch’essa nell’accordo con Israele. Si tratta di una garanzia di sicurezza, di vendita di armi ecc. Non si sa come l’amministrazione Biden, nemica della Cina ma alleata assai fredda di Israele, abbia risposto a questa apertura, ma certo il tema sul tavolo è l’estensione degli accordi, non la loro chiusura. Israele peraltro non ha la dimensione né la vocazione per garantire la sicurezza dell’Arabia. E però altre voci dicono che potrebbe essere prossima un’azione militare di Israele con l’appoggio degli Usa per evitare che l’Iran attivi l’armamento nucleare cui ormai è vicinissimo. In questo caso l’atteggiamento dei paesi arabi del Golfo sarebbe probabilmente di condanna verbale ma magari di appoggio logistico alla distruzione delle forze più pericolose del nemico tradizionale. Ma su questo nessuno salvo i protagonisti può nutrire certezze.
Da Israele all’Ucraina sistemi anti-droni, probabile anche quelli anti-aerei
Per la prima volta, Israele sarebbe pronta a fornire all’Ucraina tecnologia anti-drone. In copertina Gerusalemme.
Secondo il portale d’informazione Axios, fonti dei governi sia israeliano che ucraino avrebbero confermato che Israele sarebbe pronta a fornire per la prima volta all’Ucraina tecnologia anti-drone. I sistemi prodotti, dalle industrie militari Elbit e Rafael, che l’Ucraina potrebbe ora acquistare sono tra i più avanzati nel bloccare e abbattere i droni, dispongono di una portata di circa quaranta chilometri e posizionati nei pressi di centrali elettriche o simili le rendono praticamente inattaccabili E’ dall’inizio dell’invasione russa, cioè dal 24 febbraio 2022, che Kiev ha chiesto a Gerusalemme armamenti e tecnologia di difesa antiaerea. Lo Stato ebraico, finora non aveva mai accolto la richiesta, preferendo fornire solo assistenza umanitaria. Nonostante abbia sempre condannando l’invasione russa, Israele infatti non ha mai voluto alienarsi Mosca sia perché controlla i cieli siriani, sia perché in Russia vivono centinaia di migliaia di ebrei e Israele teme ritorsioni del Cremlino. Negli ultimi mesi qualcosa è cambiato. Soprattutto da quando si è appreso che l’Iran – che Israele considera il suo peggior nemico e la più grande minaccia alla sua incolumità – rifornisce Mosca di droni. Benjamin Netanyahu, tornato al potere sembra aver cambiato la politica israeliana verso la guerra. Secondo Axios, il Ministero della Difesa ucraino non sarebbe entusiasta dell’offerta. Kiev, infatti è in grado di intercettare tra il 75 e il 90% dei droni. “Ciò di cui abbiamo veramente bisogno è un sistema difensivo contro i missili balistici“, avrebbe dichiarato. Fonti dei servizi riferirebbero di una riunione tenuta da Netanyahu con le alte sfere militari martedì scorso. Una riunione che sembra abbia sbloccato la fornitura di sistemi di difesa anti-aerea, in cui gli israeliani sono i primi al mondo, ed altri aiuti militari.
Il Rabbino Capo ashkenazita di Israele David Lau, nel suo viaggio per le comunità ebraiche d’Europa, ha fatto tappa a Roma, dove ieri sera ha tenuto una lezione al Tempio Maggiore. Il messaggio che ha voluto lanciare è stato chiaro: si può essere in disaccordo, ma alla fine il popolo ebraico deve rimanere unito.
Il rabbino è stato accolto dal coro della scuola ebraica Vittorio Polacco che ha cantato il salmo “Shir hama'lot. Beshuv H. Et shivat Zion Hayinu kecholmim”. Partendo da questa preghiera Rav Lau ha voluto fare una riflessione su quale sia il significato di uno Stato ebraico. “Ci sono state diverse discussioni rispetto a ciò. A volte anche con espressioni intolleranti e volgari” ha affermato.
Riconducendo la sua lezione al luogo in cui si è svolta, spiegando come proprio nella comunità di Roma, nata dopo la distruzione del Bet HaMikdash, “conseguenza dell’odio gratuito tra fratelli”, sia importante “ricordare che si può essere in disaccordo, che è bene discutere, ma non si può mai oltrepassare il principio del rispetto e del riconoscimento dell'altro”.
“Per Aman eravamo un popolo disperso e sparso, ma poi dopo tre giorni ha ricevuto una risposta rispetto a questa sua affermazione” ha proseguito ricordando la festa di Purim. “Ester domanda a Mordechai di riunire per tre giorni tutti gli ebrei per far digiuno e per pregare nonostante fosse la vigilia di Pesach. Mordechai sa che la situazione è molto critica, quindi fa qualcosa di molto particolare, proclama, come fatto incredibile, un digiuno per tre giorni: il 14, il 15 e il 16 di Nissan”.
“Il popolo ebraico era disperso e sparso in vari posti, però era unito nell'adeguarsi e adempiere a quella che era la decisione del leader del tempo, Mordechai” ha affermato Rav Lau che ha sottolineato inoltre che “ogni comunità osserva i suoi minhagim, ma nelle questioni fondamentali tutte si uniscono e si adeguano ad un comportamento, così come è avvenuto nel caso di Mordechai, che con la sua decisione in realtà smentisce Aman. Dimostra che rispetto alle cose e alle idee fondamentali tutti gli ebrei si uniscono adeguandosi ad un comportamento unico”.
“Possiamo discutere, possiamo avere opinioni differenti, Israele è uno stato democratico, ma per quanto riguarda le questioni ebraiche ci deve essere una decisione unica e irrevocabile. Nell'azione ci deve essere unità” ha aggiunto il Rabbino Capo di Israele.
Successivamente Rav Lau si è voluto soffermare su Pesach, che festeggeremo tra poco più di tre settimane. “Ci sono molte cose che facciamo durante quella sera e che sono sotto il segno del quattro: beviamo quattro coppe di vino, facciamo quattro domande, parliamo di quattro tipi di figli e anche altre cose” ha affermato. “Questo perché D. ha fatto quattro promesse prima che uscissimo dall'Egitto e sono: ‘Io vi farò uscire dal dall'Egitto, vi salverò dalla schiavitù, vi redimerò e vi porterò nella terra’. In corrispondenza di queste quattro promesse, beviamo quattro coppe di vino” ha spiegato il rabbino che ha voluto ragionare su una halachà legata ai quattro bicchieri di vino. “Per quale ragione non si può interrompere tra la terza e la quarta coppa? Le prime tre hanno a che vedere con il principio dell'uscita dall'Egitto. Mentre la quarta coppa ha a che vedere col motivo: essere il popolo di D.”
“E osservando lo Stato di Israele, possiamo dire con attenzione che il motivo per cui abbiamo questo merito è di essere il popolo ebraico. Siamo fortunati ad aver visto la realizzazione di questo sogno e di questa promessa e speriamo presto di poter vedere la realizzazione con i nostri occhi del ritorno del Signore a Gerusalemme. E in questa strada ritorneremo a confermare la semplice verità: Am Israel Chai LeOlam Vaed. Il popolo di Israele vive per sempre” ha concluso.
Sicurezza ed efficacia: la verità emerge sui vaccini
Il Comitato Ascoltami porta i danneggiati in 15 banchetti di altrettante città italiane. Lo scoop di Fuori dal Coro sull'inefficacia degli inoculi nascosta da Aifa svela la verità dei vaccini spacciati per scienza. Sicurezza ed efficacia erano i capisaldi della campagna vaccinale e stanno crollando.
Sicurezza ed efficacia erano i due capisaldi della campagna vaccinale. Sul fatto che gli inoculi anti covid non avessero controindicazioni e che servissero allo scopo per cui sono stati creati e messi in commercio per via sperimentale non dovevano esserci dubbi e chi provava a mettere in discussione questi due capisaldi ha rischiato il linciaggio. Ebbene, il tempo sta lentamente restituendo la verità su questo grande imbroglio mondiale che in Italia è stato imposto con particolare virulenza e accanimento con lo strumento del Green pass. Oggi parlare di sicurezza dei vaccini è un vero e proprio falso storico, con la mole di effetti avversi e morti inaspettate registrate. E anche il mito dell’efficacia, secondo il quale siamo usciti dalla pandemia grazie ai vaccini, si sta lentamente sgretolando grazie ad un’inchiesta giornalistica di Fuori dal Coro, che tira in ballo direttamente Aifa, l’ente preposto alla sicurezza del farmaco e della farmacovigilanza. Due fatti di cronaca degni di nota ci aiutano a capire come le colonne della sicurezza e dell’efficacia si stiano sgretolando. Il primo è un’iniziativa unica e ha a che fare con la sicurezza. I danneggiati da vaccino sono stati a lungo silenziati, resi Invisibili, dal nome del fortunato docufilm che con un tam tam spontaneo e mai cavalcato dalla stampa, sta facendo conoscere in tutt’Italia questo dramma con sale sempre piene di persone. Silenziati, inascoltati, curati con fastidio, i danneggiati da vaccino ci sono ancora e dopo essersi riuniti nel Comitato Ascoltami (alla cui nascita la Bussola ha contribuito raccontando le storie dei primi che hanno avuto il coraggio di mettere fuori la testa dal loro letto di dolore) sono pronti per un’iniziativa di piazza coraggiosa.
L’appuntamento è per sabato 18 marzo in 15 piazze italiane dove verranno allestiti banchetti informativi sulle reazioni avverse da vaccino. Da Asti a Verona, passando per Torino, Milano, Roma e Napoli. Silvia Vernò, è assieme a Federica Angelini, una delle fondatrici del Comitato e alla Bussola spiega l’iniziativa di sabato: «È la prima volta che organizziamo banchetti simultanei su più piazze – spiega -. In ogni gazebo ci saranno sia danneggiati iscritti al Comitato che hanno subito reazioni avverse, ma anche amici del comitato, vaccinati e non, ma che hanno deciso di aiutarci pur non avendo subito effetti avversi. Insieme daremo informazioni con personale sanitario e legale che ha accettato di seguirci». La presenza di personale non danneggiato, ma che condivide la battaglia per la verità, le cure e l’ascolto dei danneggiati da vaccino, è forse la cifra più importante di questa iniziativa: durante la campagna vaccinale abbiamo assistito ad una sorta di “guerra civile” che ha diviso i cittadini tra vaccinati e non vaccinati, tra responsabili e irresponsabili. Ebbene, il fatto che si ritrovino ora tutti uniti in questa battaglia per la verità, prossimi a chi soffre maggiormente, è la prova che gli italiani sono decisamente migliori dei politici che con ferocia hanno provato a dividerli. L’idea del comitato è quella di creare rete tra le persone: «Una rete di solidarietà – prosegue Vernò – che è quello che ci è mancato in questi anni. In tanti di noi siamo abbandonati al nostro dolore e sapere di non essere soli ci dà sostegno e aiuto». Saranno presenti anche due petizioni: quella per la causa che il Comitato sta portando avanti presso la Corte Europea dei diritti Umani (Cedu) e la petizione rivolta al governo nella quale si fanno anche richieste concrete tra cui l’istituzione di una commissione d’inchiesta sui vaccini, un’indagine retrospettiva, una farmacovigilanza attiva e la creazione di un codice esentivo specifico per sospetto evento avverso che consenta ai danneggiati di poter svolgere esami e accertamenti senza doversi dissanguare economicamente, come a tantissimi è ormai successo. Inoltre la creazione di ambulatori specifici in ogni regione per l’analisi dei casi e lo stanziamento di fondi ad hoc per la ricerca. Obiettivo, dunque, farsi conoscere e raccogliere adesioni, perché «tanti sono ancora i danneggiati che non sono usciti allo scoperto e non hanno chiesto aiuto». Per fare questo, il personale aiuterà anche i nuovi iscritti che si presenteranno a compilare la scheda per la segnalazione all’Aifa, primo passo verso il riconoscimento del danno da vaccino, il cui iter legale è ancora lungo e accidentato. Come dimostra lo scoop di Fuori dal Coro, la trasmissione Mediaset condotta da Mario Giordano (QUI). La giornalista Marianna Canè, nel servizio andato in onda martedì, ha svelato in esclusiva gli scambi e-mail tra numerose Asl italiane e i vertici di Aifa. Si tratta di materiale che risale all’inizio della campagna vaccinale e che dimostra come l’efficacia del vaccino fosse già pesantemente compromessa. La Canè ha raccontato di dirigenti Asl che comunicavano numerosi casi di reinfezioni di pazienti vaccinati, ma riammalatisi di covid e di come per tutta risposta i vertici Aifa consigliassero di insabbiare questo effetto indesiderato della campagna vaccinale perché avrebbe contraddetto le indicazioni dell’Ema. Materiale compromettente per l’Aifa su cui non sarebbe irrituale che una Procura provasse a fare luce, perché farebbe venire meno il primo requisito dell’Agenzia del farmaco che è quello della farmacovigilanza. In buona sostanza, le Asl comunicavano in molti casi l’inefficacia dei vaccini che venivano spacciati per efficaci nel prevenire il virus e l’Aifa faceva orecchi da mercante perché la campagna non poteva arrestarsi. Un comportamento, se le mail dovessero trovare riscontri ulteriori e nuovi casi, che mostrerebbe, esattamente come accaduto con l’inchiesta di Bergamo le cui carte sono emerse in questi giorni, che si è spacciato per verità scientifica una precisa esigenza politica basata su una narrazione che oggi si sta svelando come falsa e strumentale. Nel frattempo danneggiati ed esclusi dal lavoro hanno pagato il conto più salato di questa follia.
(La Nuova Bussola, 16 marzo 2023)
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A proposito di vaccini, rassicuranti parole per i novax ultracinquantenni
Circa un mese fa mia figlia, anche lei novax della prima ora, ha ricevuto dal Ministero della Salute un "Avviso di addebito" in cui il Ministero la informava di aver erogata a suo carico "LA SANZIONE AMMINISTRATIVA PECUNIARIA DI EURO 100 (CENTO,00)" in quanto "risulta che Lei ha violato l'obbligo di vaccinale di cui all'art. ecc. ecc.". Sono entrato per conto suo nel sito dell'Agenzia Entrate e Riscossioni, ma ho trovato che sul suo conto non c'era alcun debito da saldare. In famiglia abbiamo consigliato di aspettare. Qualche giorno fa sono tornato nel sito e cercando meglio ho visto che effettivamente non c'era alcunché da pagare, ma per il semplice fatto che il debito di 100 euro, che pure compariva, risultava già saldato. Escludo nel modo più categorico che mia figlia sia andata a pagare a mia insaputa, dunque se ne deve dedurre che la violazione non è stata annullata, ma semplicemente estinta da qualcun altro. Chi sarà? Il Ministro della Salute Schillaci? Il Ministro delle Finanze Giorgetti? Il Presidente del Consiglio Meloni? Non si sa. Ma in ogni caso, a chi dovesse vedersi arrivare un simile "Avviso di addebito" con minacciosi inviti a pagare si possono rivolgere rassicuranti parole di conforto: su con la vita, qualche buonanima pagherà! M.C.
L'antisemitismo ritorna? No, non se n'è mai andato
L’ostilità nei confronti del mondo ebraico si può tradurre in atteggiamenti aggressivi; e in alcuni casi si manifesta parallelamente alla crisi economica e sociale del nostro tempo
La sorpresa con cui il mondo dell’informazione accoglie ogni nuovo sbuffo di espressioni antisemite nell’Italia contemporanea non cesserà mai di stupirmi. La settimana scorsa altri due episodi, in verità prevedibili e non molto significativi: una scritta su un muro di Ferrara che indica come “ebreo” un negozio, facendo il verso ai ben noti cartelli che dopo il 1938 si videro affissi per opera di alcuni esercenti particolarmente rispettosi della legislazione antisemita decretata dal regime fascista. E a Viterbo una scritta in cui si augura neppure troppo velatamente alla neosegretaria del Pd Elly Schlein di fare la stessa fine riservata dal nazismo a milioni di ebrei in Europa. Titoloni sulla stampa e online, interviste radiofoniche e televisive, allarme generalizzato sul “ritorno” dell’antisemitismo in Italia. Mi spiace dover puntualizzare ancora una volta che purtroppo l’antisemitismo in Italia (e nel resto del mondo) non ha alcuna necessità di ritornare: non se n’è mai andato. Da decenni ormai i continui sondaggi quantitativi segnalano la presenza di una percentuale di cittadini che varia fra il 10 e il 12% che sono considerati “antisemiti puri”. In termine tecnico significa che costoro non si limitano a esprimere una generica antipatia verso tutto ciò che ha a che vedere con il mondo ebraico, ma sono invece attivi e aggressivi. Parliamo di milioni di persone, uno su dieci. Un’altra percentuale variabile, assai più ampia, si esprime in maniera negativa solo se sollecitata in ambiti specifici: ostilità religiosa, oppure solo generico razzismo, o ancora applicazione di linguaggi antisemiti nel trattare del conflitto israelo-palestinese. La relazione annuale 2022 appena pubblicata dall’Osservatorio antisemitismo della Fondazione Cdec segnala dati in lieve crescita, collegati in maniera strutturale alla crisi sociale, economica e politica che si sta vivendo in Italia in questi anni. La crisi sanitaria pandemica – che ha compreso limitazioni alle libertà personali – il disagio sociale determinato dalla crisi economica, l’emergenza ambientale e infine l’esplodere della guerra in Ucraina hanno fortemente accresciuto il senso di paura e insicurezza nella nostra società. In questo contesto le retoriche cospirazioniste e la ricerca continua di capri espiatori si sono fortemente accresciute, facilitate dalle piattaforme social che amplificano in maniera considerevole la circolazione di idee e linguaggi. Si tratta di elementi che sono tutti da secoli strutturali del linguaggio antisemita, per cui non si riesce proprio a capire dove mai potrebbe risiedere il concetto di sorpresa. Facciamocene una ragione: l’Italia è un paese in cui l’antisemitismo è una presenza costante. Lo vediamo nell’uso continuo del termine “ebreo” (o anche “rabbino” o altro ancora) in termini dispregiativi e negativi. Allo stadio ogni domenica le curve della Lazio o dell’Inter o della Juventus o del Verona echeggiano di slogan antisemiti urlati da centinaia di persone senza che nessuno muova un dito. L’accusa ai cosiddetti “poteri forti” di determinare in maniera antidemocratica e segreta le sorti politiche della nazione sono sempre associate all’operato di finanzieri ebrei (Soros, Rothschild ecc.). Gli ebrei finiscono così col diventare i “nemici”, gli “estranei” per eccellenza. E poco importa se si fa notare che gli ebrei in Italia non sono per nulla estranei, ma sono una presenza costante e costitutiva della civiltà di questo Paese da oltre due millenni. La distanza fra la realtà storica e la narrazione retorica dell’antisemitismo rimane abissale, e il linguaggio politico che ne deriva diviene un vero e proprio pericolo per la democrazia. Si può fare qualcosa per evitare questa deriva? Certamente, si fa già molto e tanto resta da fare. L’Italia si è dotata di una Strategia nazionale di lotta all’antisemitismo nominando un coordinatore nazionale e attivando una serie di percorsi virtuosi, a partire dall’intervento nell’educazione. Sono state scritte e vengono diffuse in maniera capillare delle Linee guida di contrasto all’antisemitismo nella scuola, sono attivi numerosi progetti europei che studiano i modi di intervenire nella formazione di diverse categorie (forze dell’ordine, giornalisti, magistrati, insegnanti), si stringono accordi per individuare strumenti giuridici capaci di contrastare il fenomeno. Si insiste molto, inoltre, sullo sviluppo di una conoscenza diretta e ampia della civiltà ebraica: conoscere gli ebrei in carne e ossa, le loro usanze e tradizioni, sembra essere uno degli strumenti più efficaci per contrastare in maniera continua nel tempo la diffusione di retoriche antisemite che presentano un’immagine distorta e falsa della realtà ebraica. Personalmente non nutro molte speranze su un futuro esaurirsi del fenomeno. L’antisemitismo si è rivelato una componente fondamentale dei linguaggi politici moderni (lo abbiamo visto recentemente in Ucraina o nell’assalto a Capitol Hill a Washington, nel passato i fascismi e anche il comunismo ne hanno fatto ampiamente uso) e l’azione di contrasto diventerà probabilmente un’attività necessaria e continua nel tempo. Molto credo si possa fare in particolare lavorando nell’ambito del dialogo interreligioso, consci che proprio una lotta agli estremismi presenti in ogni confessione può rivelarsi uno strumento particolarmente efficace e di lunga durata. Contrapporre l’incontro allo scontro dovrà essere in futuro la scelta necessaria, che si rivelerà un buon antidoto alla diffusione dei linguaggi d’odio.
(Riforma.it, 16 marzo 2023)